The Project Gutenberg eBook of Beatrice Cenci: Storia del secolo XVI

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Title: Beatrice Cenci: Storia del secolo XVI

Author: Francesco Domenico Guerrazzi

Release date: February 23, 2006 [eBook #17837]

Language: Italian

*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK BEATRICE CENCI: STORIA DEL SECOLO XVI ***

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BEATRICE CÈNCI

STORIA DEL SECOLO XVI
DI
F. D. GUERRAZZI

PISA A SPESE DELL'EDITORE

1854.

Questa Edizione è posta sotto la tutela delle leggi relative.—Per cui si avranno per contraffatti quegli Esemplari non muniti della firma dell'Editore.

Tip. Vannucchi.

A

MASSIMO CORDERO
MARCHESE DI MONTEZEMOLO, SENATORE DEL REGNO

_Non potendo in altro modo sdebitarmi dell'amicizia, che malgrado l'asprezza della fortuna e la malignità degli uomini, tu, nobile veracemente, mi conservasti, questo mio libro intitolo al tuo nome, e desidero tu lo abbi caro.—Sta sano.

Bastia, 20 novembre 1853

A TORINO.

Aff.mo Amico

F.D. GUERRAZZI

INTRODUZIONE

              Amoroso ti versa a raccontare
                 Questa storia di pianto, o pianto mio.
                                              ANFOSSI.

Io quando vidi la immagine della Beatrice Cènci, che la pietosa tradizione racconta effigiata dai pennelli di Guido Reni, considerando l'arco della fronte purissimo, gli occhi soavi e la pacata tranquillità del sembiante divino, meco stesso pensai: ora, come cotesta forma di angiolo avrebbe potuto contenere anima di demonio? Se il Creatore manifesta i suoi concetti con la bellezza delle cose create, accompagnando tanto decoro di volto con tanta nequizia d'intelligenza non avrebb'egli mentito a se stesso? Dio è forse uomo, per abbassarsi fino alla menzogna? I Magi di Oriente e i Sofi della Grecia insegnarono, che Dio favella in lingua di bellezza. La età ghiacciata tiene coteste dottrine in conto di sogni, piovuti dal cielo in compagnia delle rose dell'aurora: lo so. Serbi la età ghiacciata i suoi calcoli, a noi lasci le nostre immagini; serbi il suo argomentare, che distrugge; a me talenta il palpito che crea. I pellegrini intelletti illuminano di un tratto di luce i tempi avvenire; per essi i fati non tengono i pugni chiusi; su l'oceano dello infinito appuntando gli occhi della mente, scorgono i secoli lontani come l'alacre pilota segnala il naviglio laggiù in fondo, dove il mare si smarrisce col firmamento. A questi sogni divini, che cosa avete sostituito voi, uomini dal cuore arido? La verità, voi dite. Sia; ma la dottrina di cui ci dissetate è tutta la verità? È ella eterna, necessaria, invincibile, o piuttosto transeunte e mutabile? No; le verità che deturpano la creatura non formano la sua sostanza, del pari che le nuvole non fanno parte del cielo.—O giovani generazioni, a cui io mi volgo; o care frondi di un albero percosso dal fulmine, ma non incenerito, Dio vi conceda di credere sempre il bello ed il buono pensieri nati gemelli dalla sua mente immortale;—due scintille sfavillate ad un medesimo punto dalla sua bontà infinita—due vibrazioni uscite dalla stessa corda della lira eterna, che armonizza il creato.

Così pensando io mi dava a ricercare pei tempi trascorsi: lèssi le accuse e le difese; confrontai racconti, scritti e memorie; porsi le orecchie alla tradizione lontana. La tradizione, che quando i Potenti scrivono la storia della innocenza tradita col sangue, che le trassero dalle vene, conserva la verità con le lacrime del popolo, e s'insinua nel cuore dei più tardi nepoti a modo di lamento. Scoperchiai le antiche sepolture, e interrogai le ceneri. Purchè sappiansi interrogare, anche le ceneri parlano. Invano mi si presentarono agli occhi uomini vestiti di porpora: io distinsi dal colore del mollusco marino quello del sangue, che da Abele in poi grida vendetta al cospetto di Dio;—ahi! troppo spesso indarno. Conobbi la ragione della offesa: e ciò, che persuase il delitto al volgare degli uomini, usi a supporlo colà dove colpisce la scure, me convinse di sacrificio unico al mondo. Allora Beatrice mi apparve bella di sventura; e volgendomi alla sua larva sconsolata, la supplicai con parole amorose:

«Sorgi, infelice, dal tuo sepolcro d'infamia, e svelati, quale tu fosti, angiolo di martirio. Lunga riposa l'abominazione delle genti sopra il tuo capo incolpevole; e non pertanto reciso. Poichè seppi comprenderti, impetrami virtù che basti a narrare degnamente i tuoi casi a queste care itale fanciulle che ti amano come sorella poco anzi dipartita dai dolci colloquii, quantunque l'ombra di due secoli e mezzo si distenda sopra il tuo sepolcro.»

Certo, questa è storia di truci delitti; ma le donzelle della mia terra la leggeranno:—trapasserà le anime gentili a guisa di spada, ma la leggeranno. Quando si accosterà loro il giovane che amano, si affretteranno, arrossendo, a nasconderla; ma la leggeranno, e ti offriranno il premio che unico può darsi ai traditi—il pianto.

Ed invero, perchè non la dovrebbero leggere? Forse perchè racconta di misfatti e di sventure? La trama del mondo si compone di fila di ferro. La virtù nel tempo pare fiaccola accesa gettata nelle tenebrose latebre dello abisso. Fate lieta fronte alla sventura; per molto tempo ancora siederà non invitata alle vostre mense, e temprerà il vostro vino col pianto. Quando cesserete di piangere voi sarete felici. E giovino adesso le lacrime e il sangue sparsi; imperciocchè il fiore della libertà non si nudrisca che di siffatte rugiade. La virtù, disse Socrate, in contesa con lo infortunio è spettacolo degno degli Dei. Bisogna pure che sia così, dacchè troppo spesso se lo pongano dinanzi ai loro occhi immortali.

Pensoso più di te, che di me stesso, io piango e scrivo. Educato alla scuola dei mali, mi sono sacri i miseri. I fati mi avvolsero fino dalla nascita la sventura intorno alla vita come le fasce della infanzia:—la sventura mi porse con le mammelle rigide un latte acerbo, ma la sventura ancora mi ha ricinto i fianchi con la zona della costanza; per cui dentro il carcere senza fine amaro incominciai questo racconto, e dentro il carcere adesso io lo compisco.

Sopra la terra si levarono e si levano soli, nei quali la stirpe dei ribaldi, per celare il pallore del rimorso o della paura, s'imbrattano la faccia col sangue dei magnanimi, come gl'istrioni della tragedia di Tespi se la tingevano di mosto.—Lo ricordino bene le genti: quando l'amore di patria è registrato nel codice come delitto capitale—la tirannide allaga a modo di secondo diluvio.

Ma la storia non si seppellisce co' cadaveri dei traditi: essa imbraccia le sue tavole di bronzo quasi scudo, che salva dall'oblio i traditi e i traditori.

Nella sala grande di Palazzovecchio in Firenze, nella estremità della parete volta a tramontana havvi un quadro, dove scorgi un nano precursore del duca Cosimo dentro Siena, con un fanale acceso nella destra. Cotesta immagine è simbolo, o verità? Cotesto nano non è morto senza posteri: sceso da serie lunghissima di antenati, ha dovuto lasciare una discendenza che per ora non sappiamo quando sarà per cessare.

Al tramonto del sole alcuni uomini hanno guardato la propria ombra; e, vedutala lunga, si sono creduti grandi. Beati loro se fossero morti a mezza notte! Però non senza intendimento la fortuna gli ha conservati in vita: essi hanno insegnato che mille uomini mediocri, uno aggiuntato all'altro, non formeranno mai un grande uomo;—e molto meno un uomo di cuore.

Apolli di gesso vuoti, ma tristi; abietti, ma iniqui;—menzogna di divinità. Quando atterrarono in Alessandria la statua del Sole, trovarono la sua testa ricettacolo di ragnateli: quello che troveremmo nella vostra non so; quel che conosco di certo si è, che il vostro cuore racchiude un nido di vipere.

Le mani sono di Esaù, la voce è di Giacobbe, diceva Isacco; in voi, voce mani e anima tutto è di Augustulo; imperciocchè la debolezza si accoppii ottimamente con la crudeltà. Giuda senza rimorso, Claudii senza impero—uscite dalla mia mente per sempre.

Però mi contrista un pensiero, ed è: che dal mal seme presto o tardi nasce un frutto pessimo. O Creatore, tu che hai insegnato come il bene non sorga dai sepolcri,—disperdi, io ti scongiuro, il giorno delle vendette.

Verrà un dì, e verrà sento, in cui i miei conterranei daranno sepoltura onorata a questo corpo stanco accanto alle ossa paterne. Colà in quel monte, a capo della Terra ov'ebbi nascimento, la mia tomba vi appaia quasi una mano distesa per benedirvi. A me giovi la pietà vostra dopo la mia morte; io vi ho amato dal giorno che apersi gli occhi alla vita;—e quando condurrete i vostri figli al Santuario della Vergine, mostrando la mia lapide dite loro:

«Qui dentro riposa un uomo, che ebbe la fortuna nemica fino dall'ora che gli versarono sul capo l'acqua del battesimo; tutta la sua vita fu una lunga lotta con lei: ma le lotte con la fortuna assomigliano a quella di Giacobbe con l'Angiolo. Superato, non vinto, amò, soffrì e si travagliò del continuo pel decoro della Patria. Non provò amici popoli, nè principi;—-lo saettarono tutti. Dall'alto e dal basso gli lanciarono strali crudeli. Parte di vita gli logorarono le carceri, parte l'esilio. Prigioniero meditò e scrisse; libero si affaticò per la salvezza comune, e principalmente per quella de' suoi nemici od emuli. Invano la ingratitudine tentò riempirgli l'anima d'odio. Le acque dello affanno lasciavano ogni amarezza nel passargli sul cuore. Offeso gli piacque la potenza, e la ebbe per dimostrare col fatto, che tenne la vendetta passione di menti plebee; nè perdonava soltanto, ma (più ardua cosa assai) egli obliò.[1] La spada della legge, confidata nelle sue mani, non convertì in pugnale di assassino. Quando altro non potè fare, col proprio seno tutelò la vita di uomini che sapeva essergli stati, e che avrebbero durato ad essergli nemici. Il popolo un giorno lo ruppe come un giuoco da fanciullo; i potenti lo gittarono alle moltitudini insanite come uno schiavo nel circo delle fiere. Consumato nelle viscere, egli cadde sopra un mucchio di rovine e di speranze; e non pertanto, morendo, lasciava alle genti il desiderio di costumi migliori, e di tempi meno infelici. Le sue dita, con ultimo moto, segnarono per testamento sopra questa terra desolata le parole: virtù, libertà

NOTA

[1] «My curse shall be forgiveness». Byron, Child Harold, C. IV.

CAPITOLO I.

FRANCESCO CÈNCI

                    Per tutti i cerchi dello Inferno oscuri
                      Spirto non vidi in Dio tanto superbo.
                                                 DANTE

Non so se più soave, ma certamente simile alla Madonna della Seggiola di Raffaello avrebbe dipinto un quadro colui, che avesse tolto a imitare per via di colori il gruppo, che stava aspettando Francesco Cènci nella sala del suo palazzo. Una sposa di forse venti anni, seduta sopra i gradini di un finestrone, teneva al petto il suo pargolo; e dietro alla sposa un giovane di egregie sembianze, col volto basso, contemplava cotesto spettacolo di amore: egli solleva le mani giunte e alquanto piegate verso la spalla sinistra, per ringraziare Dio di tanta prosperità che gli manda. La sembianza e lo atteggiamento dimostrano come in quel punto lo commuovano tre affetti, che fanno l'uomo divino. Le mani erano a Dio, lo sguardo al figlio, il sorriso alla sposa.—Però la donna non vedeva cotesto sorriso, chè lei assorbivano intera i doveri e la dignità di madre. Il fanciullo sembrava un angiolo, il quale avesse smarrita la via per tornarsene in cielo.

Ma dall'altra parie della sala stava disteso sopra un pancone un uomo, che sembrava avesse fornito a Michelangiolo il modello di taluno de' suoi famosi crepuscoli. Appena mostrava il volto, celato sotto il cappello di larghe falde e conico di forma. La barba avea lunga, rabbuffata e grigia; la pelle, simile a quella che Geremia deplora nei figliuoli di Sion, tinta di cenere come il pavimento del forno[1]. Si avviluppava dentro un ampio tabarro: le gambe e i piedi, l'uno soprammesso all'altro, aveva calzati di sandali, giusta il costume degli uomini del contado di Roma. Forse egli era armato, ma teneva le armi nascoste; però che la Corte Romana, dopo papa Sisto V, procedesse molto rigidamente in simile faccenda.

Chiunque, in mezzo della sala, avesse posto mente prima al gruppo dell'amorosa famiglia e poi a quell'uomo, avrebbe ricordato il detto della Scrittura: divise le tenebre dalla luce[2].

Due giovani gentiluomini passeggiavano per la sala, taluni con veloci e talora con tardi passi, ricambiando parole a voce alta, o sommessa. Il primo aveva la pelle chiazzata di vermiglio come macchie di erpete; dalle pupille nere, luccicanti traverso i cigli infiammati, traluceva la ferocia, mescolata ad un certo smarrimento mentale: rari ed irti i capelli: sozzi i denti: il naso camuso e le guance flosce lo arieggiavano col cane da presa. Le vesti, comecchè nobilissime, erano scomposte: la parola usciva impetuosa e roca dai labbri riarsi: accenti impuri, cui forse natura per rendere più laidi volle accompagnati con fetido fiato: rotti e continui i moti delle spalle, dei bracci e del capo. Il delitto stava là dentro come un vulcano prossimo a prorompere.

L'altro poi era pallido, e di aspetto gentile: copiosa e ben composta la chioma bionda, tardo e mesto a guardare e a parlare: sovente distratto: qualche volta sospiroso: si fermava, trasaliva, la commozione interna svelava col tremito del labbro superiore, e coll'agitarsi degli estremi peli dei baffi. Le vesti, i nastri, le trine del colletto e delle maniche elegantissime. Chiunque lo avesse veduto avrebbe esclamato a prima giunta: costui sospira.

In tonacella senza ferraiolo, simile ad una gazza che inquieta ed obliqua saltella per casa, ecco un prete guizzare qua e là, dandosi la maggior pena del mondo per trarre a se l'attenzione degli astanti, o almeno di taluno fra loro. Egli favellava della state e del verno, del caldo e del freddo, della sementa e della raccolta, ma nessuno gli attendeva: talora domandava se in quel giorno avrebbe potuto avere la degnazione di parlare con sua Eccellenza il clarissimo signor Conte; tal altra a quale ora egli soleva levarsi, e a quale asciolvere; se costumava spendere molto tempo attorno alle mondizie della persona, e se tutti i giorni desse udienza;—era fiato gettato: nessuno gli rispondeva, però che gli sposi rimanessero estatici nella loro letizia; il villano paresse una statua di bronzo; il gentiluomo dal volto vermiglio lo avesse squadrato così di traverso, da mettergli i brividi addosso; il gentiluomo dal volto pallido lo fissasse come uomo piovuto dalle nuvole. Il povero prete stava per dare del capo nei muri: proprio per disperazione, di tanto in tanto apriva il breviario e leggeva; ma col sembiante di chi trangugia medicine amare: gli occhi gli sdrucciolavano giù per le pagine: avresti detto che avesse recato seco cotesto libro, come colui che va ad annegarsi si porta il sasso per legarselo al collo.

Il volto dello sciagurato prete, per ordinario tinto del giallo pallido dei mozziconi di cera avanzati al servizio dell'altare, quasi per impazienza si era fatto acceso: non poteva darsi pace che nessuno gli porgesse ascolto; e sì ch'ei meritava essere avvertito, non fosse altro per indovinare se avesse più logora la tonacella veste del suo corpo, o il corpo veste della sua anima: logori entrambi, amici vecchi fra loro, e, con rammarico grande del loro padrone, testimoni che nulla ha da durare eterno nel mondo.—

Il curato (dacchè il prete fosse proprio un curato) dopo aver fatto esperimento come non si verifichi sempre la sentenza della Scrittura «picchiate, e vi sarà aperto,» si era indirizzato per la terza o quarta volta a certo staffiere di sala, il quale sembrava finalmente disposto a dargli retta, quando il gentiluomo dalla trista figura chiamò con voce arrogante:

—Cammillo!

La natura dei servi è, che quando non hanno motivo peggiore per incurvarsi, obbediscono a cui comanda più superbo; e Cammillo staffiere, comecchè tra la famiglia ampissima dei servi non fosse dei più tristi davvero, tuttavolta, girando quasi per iscatto di molla su i talloni, mutò la faccia per le spalle davanti al prete; e, fatto arco della persona verso il gentiluomo, con voce ossequiosissima rispose:

—Eccellenza!

—Avrebbe il nobil Conte per avventura mal dormito stanotte?

—Non lo so—ma non credo. Gli furono portate parecchie lettere sul fare del giorno, massime di Spagna e del Regno:—potrebbe darsi, ma non lo so, che adesso stesse attorno a riscontrarle.

In questo punto un latrato infernale intronò le orecchie degli astanti: poco dopo si aprono con impeto furiosissimo le imposte della stanza del Conte, e ne prorompe fuori un mastino di enorme grandezza tra spaventato e inferocito.

Il villano, giacente accanto la porta, in meno che si dice amen è balzato su ritto; e, sviluppatosi dal tabarro, dà di mano a un pugnale largo, e lungo bene due palmi, atteggiandosi a difesa. La giovane madre si strinse il figlio al seno, cuoprendolo con ambe le braccia. Il padre si parò dinanzi al figlio e alla sposa schermendoli col proprio corpo. I gentiluomini si scansarono con fretta decente, come chi non vuole a un punto incontrare il pericolo, e non mostrar paura. Il curato poi si mise a fuggire.

Il cane, seguendo suo istinto, si avventa contro il fuggitivo, lo azzanna per gli svolazzi della tonaca, e gliene strappa un lembo; e gli faceva peggio, se due staffieri correndo non lo avessero trattenuto a gran pena afferrandolo pel collare. Il breviario era rotolato per terra. Il povero prete traeva dolorosi guai; e, stretto dalla medesima smania che spingeva lo ebreo Sylock a gridare «la mia figlia! i miei danari!», esclamava:

—La mia tonaca! il mio breviario!—

Il cane infellonito abbaiava più forte che mai.

Sopra la soglia apparve un vecchio. Questo vecchio era Francesco
Cènci.

Francesco Cènci, sangue latino dell'antichissima famiglia Cincia, annoverava fra i suoi antenati il pontefice Giovanni X, quel sì famoso drudo della bella Teodora, la quale per virtù di amore lo condusse vescovo prima a Bologna, poi a Ravenna, e finalmente lo fece papa. E come nel tempo, così era cotesta famiglia nel delitto vetusta; imperocchè, se la storia porge il vero, Marozia sorella a Teodora, intendendo torre a lei e al Papa amante il dominio di Roma, occupa proditoriamente la mole Adriana: invaso con molta torma di ribaldi il Laterano, uccide di ferro Piero fratello di Giovanni, e Giovanni stesso chiude in carcere; dove, o per veleno o altramente, rimase morto. Corre fama eziandio, che lo rinvenissero cadavere nel letto di Teodora; e la superstizione immaginò lo avesse strangolato il diavolo, in pena dei suoi delitti. Morte obbrobriosa a vita di vituperio!

Francesco Cènci possedè copiosissimi beni di fortuna, chè la sua entrata si stimò meglio di centomila scudi; la quale per quei tempi era infinito, ed anche ai nostri sarebbe non ordinario tesoro. Glielo lasciava il padre, che, tenendo il camarlingato della Chiesa sotto Pio V, mentre questi vigilava a rinettare il mondo dalle eresie, il vecchio Cènci attendeva a rinettargli dagli scudi l'erario: egregi entrambi nel diverso mestiere. Intorno al conte Francesco, male sapevasi che cosa si avesse a pensare: forse sopra alcun uomo mai corse così diverso il grido come sopra di lui. Chi lo predicava pio, liberale, mansueto e cortese: altri, all'opposto, lo dicevano avaro, villano e crudele. Fatto sta, che in conferma così dell'una come dell'altra fama potevansi addurre riscontri. Aveva sostenuto parecchi processi, ma n'era uscito sempre assoluto ex capite innocentiæ: molti però non si acquietavano punto a siffatti giudicati, e andavano sussurrando dintorno, che fino allora non avevano veduto mai la Ruota Romana condannare uomini ricchi per centomila scudi di rendita. Ma se la vita sua compariva al pubblico misteriosa, troppo palesemente ebbe a provarla senza fine spietata la sua misera famiglia, la quale per pudore, e molto più per paura, non ardiva profferire parola. La sua famiglia troppo bene sapeva com'egli si compiacesse immaginare trovati terribili, e quanto più paurosi, ed alla opinione dello universale contrarii, tanto a lui maggiormente graditi; e appena immaginati dovevano mandarsi ad esecuzione, e ad ogni costo; avesse a spendersi un tesoro, o commettere incendio, od omicidii. Il suo volere, era il lampo; il fare, tuono. Costumava (a tanto egli giunse di audacia!) tenere conto esattissimo dello speso in delitti; ed in certo suo libro di Ricordi si trovarono registrate le seguenti partite:—Per le avventure, e peripezie di Toscanella 3500 zecchini, e non fu caro. Per la impresa dei sicarii di Terni zecchini 2000, e furono rubati.—Viaggiava a cavallo e solo: quando sentiva il cavallo stanco scendeva, e comperavane un altro: se ricusavano venderglielo ei se lo toglieva, dando qualche pugnalata per giunta. Paura di banditi nol tratteneva da passare soletto le foreste di san Germano e della Faiola; e spesso ancora, senza punto posare, fu visto condursi a cavallo da Roma a Napoli. Quando appariva in un luogo, egli era certo che o ratto, o incendio, o assassinamento, od altro funestissimo caso stava per succedere. Forte fu della persona, e destro in ogni maniera di esercizii maneschi, così che provocava sovente i suoi nemici con soprusi e dileggi: ma di questi, palesi ne aveva pochi; chè lo temevano assai, e a cimentarsi con lui ci pensavano due volte. Conduceva in ogni tempo al suo soldo una masnada di bravi; il cortile del suo palazzo offriva infame asilo ad ogni maniera di banditi. Tra i feroci baroni romani ferocissimo.

Sisto V, che fu pontefice (ed avrebbe potuto anche essere carnefice) di Roma, certa volta invitati al Vaticano gli Orsini, i Colonna, i Savelli, i Conti Cènci, ed altri fra i più potenti dei nobili romani, dopo averli trattenuti alquanto in piacevoli ragionamenti si accostava agli aperti balconi, donde, volgendo gli occhi alla sottoposta città, disse ai circostanti: «O la mia vista, siccome suole per vecchiezza, è diventata fosca, o di qualche strano apparecchio vanno ornati stamattina i merli dei palazzi delle Signorie vostre eccellentissime: andate a riscontrare, e in cortesia fatemi assapere quello ch'è.»

Erano i cadaveri penzoloni dei banditi, che nei palazzi di cotesti signori riparavano. Il Papa aveva ordinato si prendessero, e tutti, senza misericordia, ai merli del palazzo s'impiccassero.

Francesco Cènci, per questo e per altri successi avendo ottimamente conosciuta la natura del Papa, reputò opportuno di tirarsi al largo; e finchè ei visse stette a Rocca Petrella, chiamata ancora Rocca Ribalda. Il serpe aveva trovato a mordere la lima.

Di persona, aiutante era molto; e, comunque in là con gli anni, pure bene di salute disposto; se non che, offeso nella diritta gamba, zoppicava. Copioso d'idee e facondo di eloquio, avrebbe acquistato fama di oratore egregio se glielo avessero conceduto i tempi e la lingua, che, ad ogni più leggiera alterazione inciampandogli fra i denti, lasciava adito alla voce come acqua rotta fra i sassi. Di laide sembianze non poteva estimarsi per certo; e non pertanto sinistre così, che giammai seppero ispirare amore, talvolta reverenza, troppo spesso paura. Se togli il colore dei capelli e dei peli, di neri mutati in bianchi; se alcuna ruga di più; se una magrezza maggiore, e una tinta più gialla e biliosa, il suo volto presentava la medesima aria della sua giovanezza. La fronte, mentr'ei posava, appariva segnata appena di una ruga non profonda quale o il rimorso o la cura sogliono imprimere; ma sì sfumata, leggiera, come l'amore descrive, esitando, con la punta estrema dell'ale sopra la fronte della bellezza che declina. Gli occhi, mesti per ordinario, colore del piombo simili a quelli del pesce morto, privi affatto di splendore, contornati da cerchi cenerini, e reticolati di vene violette e sanguigne—pareano cadaveri dentro casse di piombo. La bocca sottile perdevasi fra le rughe delle guance. Cotesto volto sarebbesi adattato ugualmente bene a un santo e ad un bandito: cupo, inesplicabile come quello della sfinge, o come la fama dello stesso Conte Cènci.

Della persona e dei costumi di lui parmi aver detto abbastanza: più tardi m'ingegnerò esporre uno studio psicologico intorno a questo prodigioso personaggio.

Il Conte la sera precedente erasi ritirato di buon'ora nelle sue stanze, insalutati moglie e figliuoli. A Marzio, che gli profferiva i consueti uffici, aveva risposto:

—Va' via: mi basta Nerone.

Nerone era un cane enorme di mole e di ferocia.—Così lo nominò il Cènci, meno in memoria del truce imperatore, che per significare, nel vetusto linguaggio de' Sanniti, forte, o gagliardo.

Coricato appena, prese a dare di volta pel letto: incominciò a gemere d'impazienza: a mano a mano la impazienza diventò furore, e si pose a ruggire. Nerone gli rispondeva ruggendo. Indi a breve il Conte, balzando dalle odiate piume, esclamò:

—Abbiano avvelenato le lenzuola!—Questo si è pur dato altra volta, ed io l'ho letto in qualche libro. Olimpia! Ah! mi sei fuggita, ma io ti arriverò:—nessuno ha da scapparmi di mano—nessuno.—Quale silenzio è questo accanto a me! Che pace qui in casa mia! Riposano:…—dunque non gli atterrisco io?—Marzio.

Il cameriere chiamato accorreva prontissimo.

—Marzio, riprese il Conte, la famiglia che fa?

—Dorme.

—Tutti?

—Tutti; almeno sembra, poichè ogni cosa sia tranquilla in casa.

—E quando io non posso dormire ardiscono riposare in casa mia?—Va', guarda se veramente dormono; oreglia alle stanze, in ispecie quella di Virgilio; sprangale pianamente per di fuori, e torna.

Marzio andò.

—Costui, continuava il Conte, sopra gli altri aborrisco; sotto quella superficie di ghiacciata mansuetudine non iscorrono meno veloci le acque della ribellione: aspide senza lingua, non però senza veleno. Quanto mi tarda, che tu muoia!—

Marzio, tornando, confermava:

—Dormono tutti, anche don Virgilio; ma di sonno travagliato, per quanto può giudicarsi dall'anelito febbrile.

—L'hai sprangata fuori?

Marzio col capo accennò affermativamente.

—Bene; prendi questo archibugio, sparalo traverso l'uscio della stanza di Virgilio, e poi urla con quanto hai di fiato nella gola:—al fuoco! al fuoco!—Così insegnerò a costoro dormire mentre io veglio.

—Eccellenza….

—Che hai?

—Io non le dirò: pietà del ragazzo, che pare ridotto in extremis….

—Continua….

—Ma la è cosa da mettere sottosopra il vicinato.

Il Conte, senza punto turbarsi, pose chetamente la mano sotto al capezzale; e, trattane fuori una pistola, la spiana improvviso contro il cameriere, che tramutò in volto per terrore, e con voce soave gli disse:

—Marzio, se un'altra volta invece di obbedire attenterai contradirmi, io ti ammazzerò come un cane:—-va'.

Marzio andò più che di passo ad eseguire il comando.

È impossibile descrivere con quanto terrore fossero destati le donne e il fanciullo. Balzano da letto, si avventano contro gli usci; ma non li potendo aprire urlano, pregano si dica loro lo accaduto, per amore di Dio aprano, dalla tremenda ansietà gli liberino. Nessuna risposta: spossati tornano a gittarsi sul letto, travagliandosi per un sonno affannoso.

Dopo forse due ore il Conte chiama di nuovo il cameriere, e lo interroga:

—Fa giorno?….

—Eccellenza no.

—Perchè non fa giorno?…

Marzio si strinse nelle spalle. Il Conte tentennando il capo, quasi per irridere se stesso della domanda strana, riprese:

—E quanto tarderà ancora a spuntare l'alba?

—Un'ora.—

—Un'ora!—Ma un'ora è un secolo, è una eternità per chi non può dormire, o mio… sta a vedere, che per poco non aggiungeva—Dio.—Dicono il sonno amico dei santi: se questo fosse, io avrei a dormire quanto i sette dormienti insieme! Che fare adesso? Ah! spendiamo questo avanzo di notte in qualche opera meritoria;—educhiamo Nerone.—

E ordinava a Marzio prendesse certo uomo di paglia, e lo portasse in sala dove mettevano capo le camere delle donne e del fanciullo: egli poi trasse Nerone in altra stanza, lo aizzò, lo inasprì, e poi, spalancato allo improvviso l'uscio, lo avventò contro l'uomo di paglia. Il cane, cieco di rabbia, si lancia a balzi contro il simulacro, e lo strazia latrando disperatamente. Il Conte traeva maraviglioso sollazzo a contemplare le prove di cotesta belva, e a Marzio, che gli si era accostato, così favellò:

—Questo è il figlio della mia predilezione, come disse la voce sul Giordano; e lo educo, a Dio piacendo, a difendermi dai nemici, ed anche dagli amici; in ispecial modo dai miei figli dilettissimi; dalla consorte più diletta ancora, ed anche un po' da te—e toccava la spalla al cameriere—mio lealissimo Marzio.

Così empita di spavento e di terrore la casa tornò alla stanza, dove la natura, vinta dalla spossatezza, lo costrinse a breve sonno e interrotto. Quando si alzò era torbido in vista.

—Ho fatto mal sonno, Marzio…. mi son sognato che stava a mangiare co' miei defunti. Questo denota morte vicina. Prima però ch'io vada a mangiare costà, bene altri, Marzio, bene altri mi avranno preceduto ad apparecchiarmi la tavola.

—Eccellenza, sono giunte lettere dal Regno per cavallari apposta….

Il Conte sporse la mano per riceverle. Marzio continuava:

—E di Spagna col corriere ordinario; le ho messe tutte sul banco dello studio.

—Bene: andiamo….

E sorretto da Marzio, accompagnato da Nerone, si avviava allo studio.

Sorgeva appena un magnifico sole di agosto, il quale tingeva in oro co' giovanetti raggi l'azzurro emisfero. Unica gloria, dacchè la viltà nostra ci ha tolto perfino quello, che sembrava a perdersi impossibile—il sentimento della nostra abiezione. Dio! Oh come grandi hanno da essere le nostre colpe e la tua ira, se nè pianto, nè sangue, nè nulla vale a fecondare sopra questa terra un fiore di virtù!

Il Conte si appressò al balcone, e, fissato il maestoso luminare, mormorò detti segreti. Marzio, letiziato a tanta bellezza di cielo e di luce, non potè trattenersi da esclamare:

—Sole divino!

A queste parole gli occhi del Conte, per ordinario spenti, corruscarono a modo di baleno dentro una nuvola, e gli avventò contro al cielo. Se è vero che Giuliano l'apostata lanciasse contro il cielo il sangue, che gli scorreva dalla ferita mortale, deve averlo gittato come quel guardo, e con quella intenzione.

—Marzio, se il sole fosse una candela, che soffiandovi sopra potesse spegnersi, la spegneresti tu?

—Io? Le pare, Eccellenza!—lo lascerei acceso.

—Io lo spegnerei.

Caligola aveva desiderato al popolo romano una testa sola, per recidergliela con un colpo; il Conte Cènci avrebbe voluto stritolare il sole. Povera creta! Se il sole si accostasse, la cenere della terra non occuperebbe spazio nell'universo.

Si assise al banco; aprì, e lesse una, due e tre lettere, pacato in prima, poi precipitosamente; al fine, scorsele tutte, proruppe con orribile bestemmia:

—Felici tutti! Ah Dio! tu me lo fai proprio per dispetto.

E chiuso il pugno, abbassò il braccio con quanto aveva di forza: caso volle che colpisse in mezzo alla fronte Nerone, il quale col muso levato e gli occhi pronti seguitava i moti del suo signore. Il cane diè un balzo di furore, poi irruppe contro la porta, ne spalancò le imposte, e fuggì via sbuffando. Il Conte gli mosse dietro richiamandolo, non senza aver prima con un suo riso amaro osservato:

—Vedi, Marzio, s'ei fosse stato un figliuolo mi avrebbe morso!—

NOTE

[1] «La nostra pelle è divenuta bruna come un forno per l'arsura della fame.» Geremia Lamentaz. V. n. 10.

[2] «E Iddio separò la luce dalle tenebre.» Genes. C. I. n. 4.

CAPITOLO II.

IL PARRICIDIO.

                    ……..tutta la Caina
                    Potrai cercare, e non troverai ombra
                    Degna più di esser messa in gelatina.
                                               DANTE.

Marzio invitò il gentiluomo dal volto chiazzato di sangue a passare nello studio del Conte. Questi attendevalo in piedi; e tostochè lo vide, con bella leggiadria di maniere lo salutò dicendo:

—Benvenuto, Principe; in che cosa noi possiamo avvantaggiare le comodità vostre?

—Conte, ho da parlarvi; ma qui dentro vi è uno di troppo.

—Marzio ritirati.

Marzio, inclinata la persona, usciva. Il Principe, andatogli dietro, si assicura se avesse chiusa diligentemente la porta; tira la tenda, e poi si accosta al Conte, che, maravigliando non poco di coteste cautele, lo invita a sedere, e senza far motto attende ad ascoltarlo.

—Conte! sarà Catilina adesso, che incomincerà la sua orazione ex abrupto. Però io vi dico ad un tratto, che estimando meritamente voi uomo di cuore e di consiglio, di mente e di braccio, a voi mi rivolgo per l'una e per l'altro, e spero mi sarete cortese di ambedue.

—Parlate, Principe.

—La svergognata mia genitrice, incominciò costui con voce velata, vitupera con sozze opere la casa mia ed anche un poco la vostra, pel vincolo di parentela che passa fra le nostre due famiglie. La età, invece di spegnere, riarde le sue aride ossa di libidine infame. Lo usufrutto ampissimo che gode, per disposizione dello stolido mio padre, sperpera fra turpi drudi:—per tutta Roma ne corrono le pasquinate:—vedo lo scherno dipinto sopra i volti della gente:—dovunque passi mi feriscono detti oltraggiosi…. il mio sangue ribolle nelle vene… il male è a tal ridotto, che non patisce rimedio, tranne…. Or via, ditemi, Conte, che cosa io mi debba fare.

—La clarissima donna Costanza di Santa Croce! Ma lo pensate voi? Orsù; se voi fate per giuoco, io vi consiglio a torre per lo scherzo argomenti meglio dicevoli; se poi favellate da senno, allora, figliuolo mio, vi ammonisco a non lasciarvi andare alle tentazioni del demonio, il quale, come padre di menzogna, conturba le menti con immagini false….

—Conte, lasciamo il diavolo a casa sua. Io posso mostrarvi qui le prove manifeste, ed obbrobriose pur troppo.

—Vediamo.

—Udite. Essa mi abbandona, per così dire, annegato nella miseria, mentre con l'entrate di casa tira su fanti e staffieri, e uno stormo dei loro figliuoli, che si sono annidati nel palazzo peggio che rondini;—me dal suo cospetto bandisce;—di me non vuol sentire favellare;—di me, Conte, intendete, di me che non mi sarei dato un pensiero al mondo dei fatti suoi, se si fosse comportata come madre benemerita verso figlio benemerente. E, per palesarvi ogni cosa di un tratto, ieri sera giunse a cacciarmi via di casa—dal mio palazzo—dalla magione dei miei illustri antenati.

—Avanti, ecci egli altro?

—E parvi poco?

—Mi pare anche troppo: e veramente, a confessarvelo in secretis, corre buon tempo che io mi sono accorto come la Principessa Costanza nutra per voi, Dio la perdoni, naturale avversione. Adesso fanno appunto otto giorni ch'ella mi tenne lungo proposito di voi….

—Sì?—E che cosa mai vi disse cotesta sciagurata di me?

—Metter legna sul fuoco non è da cristiano; però taccio.

—A quest'ora, Conte, lo incendio acceso dalle vostre parole è tanto, che poco più vi potete aggiungere;—e questo comprenderete di leggieri coll'ottimo vostro giudizio.

—Pur troppo! E poi il silenzio mi grava, imperciocchè le mie parole vi serviranno di governo, e v'impediranno di farvi capitare male. La signora Costanza dichiarò espressamente, alla presenza di parecchi insigni prelati e baroni romani, che voi sareste il vituperio della famiglia; voi ladro,—voi omicida—voi, soprattutto, bugiardo….

—Ella disse?—E al Santa Croce, diventato per rabbia come tizzo acceso, tremava la voce.

—E disse ancora, voi scialacquatore sciaguratissimo di ogni vostra sostanza; voi aver tolto a usura danari dai giudei sodandoli sul palazzo dei vostri illustri antenati, per cui ella ha dovuto riscattarlo del suo per fuggire la vergogna di andare ad albergare altrove;—disse avervi pagato più volte debiti, e voi commetterne quotidianamente dei nuovi, e più grossi, e più brutti che mai: voi giuocatore disperato; non darsi laidezza nella quale non vi siate ingolfato fino alla gola; di Dio spregiatore, e di ogni umano rispetto… Per ultimo, onde mettere il colmo alla brutalità vostra, aver preso a imbestialirvi col vino e con acqua arzente per modo, che spesse volte vi riportarono su di una scala malconcio della persona.

—Disse?…

—E a tanto essere arrivata la inverecondia della vostra vita, da non trattenervi la reverenza materna o il rispetto del luogo, di condurre nel palazzo dei vostri illustri antenati femmine di partito; con altre più infamie, che a rammentarle soltanto mi sento salire il rossore sopra la fronte….

—Mia madre?…

—Ed aggiunse ancora, reputarvi di ogni correzione incapace; e, per quanto al suo materno cuore riuscisse dolorosissimo, essere ormai decisa di ricorrere a Sua Santità perchè vi chiudesse in castello… a far visita allo Imperatore Adriano. In fè di gentiluomo cotesto si chiama starsi in prigione con ottima compagnia…

—Così ella disse?… Proseguiva a interrogare il Principe con suono strozzato, mentre il Conte rispondeva con la medesima voce acre ed irritante:

—O a Civita Castellana… a perpetuità.

—A perpetuità!—Propriamente ella disse a perpetuità?

—E presto;—e ciò dovere alla memoria onorata dell'inclito consorte, alla reputazione della prosapia clarissima, ai nobili parenti, alla sua coscienza, a Dio…

—Egregia madre! Non ho una buona madre io? esclamava il Principe con voce, che tentava rendere beffarda, quantunque male potesse celare lo insolito terrore.—E i prelati che cosa rispondevano eglino?

—Eh! voi sapete il precetto dello Evangelo? L'albero che non fa buon frutto va reciso… ed essi lo ripetono con tale una voce amorosa, che pare proprio v'invitino a bere la cioccolata.

—Or dunque, il tempo stringe più che io non credeva. Conte, suggeritemi voi qualche consiglio… io mi sento povero di partiti…. sono disperato….

Il Conte, crollando il capo, con voce grave rispose:

—Qui, dove scorre la fontana di tutte grazie, voi potrete attingerne a secchi pieni. Ricorrete a monsignor Taverna governatore di Roma, od anche, se avete danari molti e senno poco, al clarissimo avvocato signor Prospero Farinaccio, che farebbe a mangiar con l'interesse.

—Ahimè! non ho danari….

—Veramente senza danari vi potreste volgere ai colossi di Monte
Cavallo con maggior profitto….

—E poi la faccenda riuscirebbe contenziosa, ed io ho bisogno di rimedii che non muovano rumore…. e soprattutto spediti….

—E allora umiliatevi ai piedi beatissimi:—perchè avvertite bene, che nel corpo del Santo Padre ogni membro è beatissimo, e però anche i piedi et reliqua del Pontefice: lo predicano insignis pietatis vir, come Virgilio canta di Enea.

—Domine fallo tristo! Papa Aldobrandino nacque a un parto con la lupa dell'Alighieri, che dopo il pasto ha più fame di pria. Vecchio, spigolistro, e testardo peggio di un mulo delle Marche; cupido di far roba per arricchire i suoi consorti, da provarsi a scorticare il Colosseo. Anzichè ricorrere a costui mi getterei nel Tevere a capofitto.

—Sì, cessato il tenue sorriso ironico, riprese a dire turbato il Conte; sì, ora che penso, voi gettereste il tempo e i passi. Dopo il solenne fallo di aver dato favore alla mia ribelle figliuola contro me, sarà diventato più difficile ad ascoltare i lamenti dei figli contro i genitori. Chiunque voglia custodire illesa l'autorità, o spirituale o regia, bisogna che studiosamente conservi la patria potestà: tutte le autorità derivano da principio comune, nè puoi offendere l'una, senza che se ne risenta anche l'altra. Il padre e il re non hanno mai torto; i figli e i sudditi mai ragione. Donde viene in essi il diritto di lagnarsi, donde l'audacia di sollevare la fronte? Vivono perchè il padre li generò, vivono perchè il re gli lascia vivere. Guardate Ifigenia e Isacco; cotesti sono esempii della vera subiezione dei figli, come Agamennone, Abramo, Jefet della purezza della patria potestà. Roma si mantenne gagliarda finchè il padre ebbe diritto di vita e di morte sopra la sua famiglia. Quelle leggi delle dodici Tavole furono pure il benedetto trovato! Per esse, che cosa mai rappresentava la famiglia? La comunanza della moglie, dei figli e degli schiavi sottoposta al dominio assoluto del padre. Secoli di oro, e mi smentisca chi può, volsero per Roma quando poterono vendersi i figli sanguinolenti.

—Dunque?.. domandò il Santa Croce, sbalordito da cotesto impensato rabbuffo, lasciandosi cadere come disperato le braccia.

Il Conte Cènci, pentito per non aver potuto reprimere quello sfogo impetuoso dell'animo suo, si affrettò a rispondere:

—Oh! ma per voi è diversa la cosa.

Il Santa Croce, confortato da quelle parole, e più dallo sguardo paterno che gli volse il Conte, accosta la sedia; e, sporgendo in avanti la testa, gli sussurra dentro le orecchia:

—Aveva sentito dire… e si trattenne; ma il Conte, con maniera beffarda imitando i modi dei confessori, lo animava:

—Via, figliuolo, dite su!

—Mi avevano supposto che voi, Conte, come uomo discreto e prudente molto, eravate riuscito sempre… quando taluno v'infastidiva, torvi cotesto pruno dagli occhi con garbo maraviglioso. Versato nelle scienze naturali, voi non dovete ignorare la virtù di certe erbe, le quali mandano al paese dei morti senza mutare cavalli; e, quello che importa massimamente, senza lasciar vestigio di carreggiata sopra la strada maestra.

—Certamente è mirifica la virtù dell'erbe; ma come vi possano giovare io non comprendo davvero.

—In quanto a questo giova che voi sappiate, come la clarissima Principessa Costanza costumi prendere seralmente certo lattovaro per conciliarsi il sonno…

—Bene…

—Voi potete comprendere che tutta la quistione sta in un sonno breve, o in un sonno lungo;—un dattilo, o uno spondeo; una cosa da nulla, in verità—semplice prosodìa:—e lo scellerato si sforzava di ridere.

Misericordia Domini super nos! Un parricidio, così per cominciare. Elle sarebbono buone mosse per dio! Sciagurato uomo! e lo pensate voi? Honora patrem tuum et matrem tuam. E qui non vi ha cavillo, che valga, imperciocchè abbia detto così chi lo poteva dire lassù sul Sinai.

Il principe, ostentando fermezza, riprese:

—In quanto a pensarvi andate franco, chè io vi ho pensato delle volte più di mille: rispetto poi alle prime mosse, io vo' che sappiate non essere mica questo il primo palio che corro.

—Lo credo senza giuramento: e allora fatevi qua, e ragioniamo di proposito. L'arte di manipolare i veleni non si trova più in fiore come una volta: della più parte dei tossici stupendi, noti ai nostri virtuosissimi padri, noi abbiamo perduto la scienza. I principi Medici di Firenze si sono molto lodevolmente affaticati intorno a questo ramo importantissimo dello scibile umano; ma, se consideriamo la spesa, con poco buon frutto. Qui, come altrove, corre lo invitatorio del Diavolo: de malo in peius venite adoremus. Ecci l'acqua tofana; buona a nulla per un lavoro a garbo: cadono i capelli, si staccano le unghie, i denti si cariano, la pelle vien via a stracci, e tutta la persona si empie di luride ulcere—sicchè, come voi vedete, ella lascia dietro a se tracce troppo manifeste e diuturne. L'adoperò sovente la buona memoria di Alessandro VI; ma a lui poco importava si lasciasse dietro le tracce. Per me faccio di berretta ad Alessandro Magno; col ferro si taglia netto ogni nodo gordiano, e ad un tratto…

—Ohimè, il ferro! O che non lascia dietro a se traccia il ferro?

—Una volta ci era un re, e si chiamava Eduardo II, il quale avendo di se, o di altri un figliuolo, amoroso a un dipresso come voi, ebbe le viscere forate ed arse per suo comandamento, senza che ne rimanesse vestigio. Curioso trovato in fè di Dio![1] Ma chi vi consiglia di tenere nascosta la morte di donna Costanza? Anzi la dovete palesare, e voi dirvene apertamente autore.

—Conte, voi burlate….

—Non burlo io; anzi parlo del miglior senno che io mi abbia. Non avete voi mai letto le storie, almeno le romane?—Sì, le avete lette. Or bene; e a che pro leggete libri, se non ne fate vostro vantaggio per ben condurvi nel mondo? Rammentatevi la minaccia di Tarquinio a Lucrezia: egli, dove non gli assentisse la moglie di Collatino, le dichiarò l'avrebbe uccisa, e poi messo al fianco uno schiavo trucidato, pubblicando averla sorpresa nel turpe adulterio, e morta per giusto dolore della offesa fatta al parente, per vendetta della sacra maestà delle leggi; con altre più parole assai, che si costumano dagli uomini sinceri. Così voi, nè più nè meno, vi avete a ingegnare di cogliere in fallo la Principessa con qualche suo drudo, e ammazzateli entrambi. La gravità della ingiuria scusa la strage: nel Codice (non mi rammento la pagina, ma cercate e troverete) hanno ad essere leggi, che scolpano in questo caso il misfatto…

—Ma io, rispose il Principe visibilmente imbarazzato, non so bene s'ella si rechi in camera i suoi drudi.

—O dove volete, ch'ella li conduca?

—E poi, coglierli per l'appunto su l'atto reputo impossibile.

—O come mai! Le volpi si prendono sempre alla tagliola.

—No… a cotesto rischio di far le cose alla scoperta non voglio, anche potendo, avventurarmi io…

—Dite piuttosto, interruppe il Conte con maligno sorriso, dite piuttosto che i drudi di femmina sessagenaria voi gli avete nella immaginativa vostra pescati pel bisogno di trovare in altri le colpe, che scusino le vostre; dite, che la cagione che vi muove sta nel desiderio, che l'usufrutto di vostra madre cessi; nè in questo so darvi torto, imperciocchè conosca come i padri eterni facciano i figli crocifissi se non co' chiodi, almeno coi debiti;—il torto, che io vi do, è aver voluto prendervi beffe di un povero vecchio—e giucare meco dello astuto…

—Signor Conte, in verità io vi giuro…

—Silenzio co' giuramenti; io credo, o non credo; e i giuramenti mi danno aria di puntelli alle fabbriche, segno certo che le minacciano rovina: però a voi senza giuramenti non credo, e co' giuramenti anche meno.

—Deh! via non mi abbandonate.—E questo disse costui tanto avvilito, che parendo al Cènci avere ormai scosso a sazietà cotesto sacco di farina ria, e volendo dar fine al conversare, irridendo rispose:

O dignitosa coscïenza e netta, Come ti è picciol fallo amaro morso!

Andiamo, riprendete animo: Minor vergogna, maggior colpa lava. Però, a confessarvi il vero, non posso darvi consiglio che valga.—Ricordo aver letto come in altri tempi, in certo caso affatto simile al vostro, fosse veduto adoperare con ottimo successo questo argomento. Notte tempo appoggiarono al muro del palazzo una scala, che arrivava per l'appunto alle finestre della camera da letto della persona, o delle persone che si volevano ammazzare: s'involarono poi e si distrussero diligentemente alcuni arnesi di oro, e di argento, o altre masserizie minute per colorire la cosa, e dare ad intendere, che l'omicidio fosse commesso in grazia del furto: finalmente si lasciò la finestra aperta fingendo, che quinci i ladri avessero preso la fuga. In tal guisa si allontanarono i sospetti dalla persona a cui cotesta morte tornò utile; e lo erede ebbe fama di pio, ordinando funerali magnifici e copia di messe. Tuttavolta egli non si rimase qui, e volle acquistarsi eziandio nome di rigido vendicatore del suo sangue: e allora assediò la giustizia onde si facessero ricerche sottilissime; non rifinì mai di lagnarsi della oscitanza della Corte, e giunse perfino a promettere una taglia di ventimila ducati al denunziatore secreto, o palese del colpevole.—Così i nostri virtuosi padri ebbero in sorte di godersi in tempo utile il bene dei morti in santissima pace.

—Ah!, dandosi del palmo della mano su la fronte, esclamò il Santa Croce, voi siete pure il degno valentuomo, signor Conte! Io mi vi professo schiavo a catena. Questo appunto è il partito che mi sta proprio a taglio. Ma qui non è tutto; voi porreste il colmo alla beneficenza vostra e all'obbligo mio, se vi degnaste chiamare da Rocca Petrella qualcheduna di quelle brave persone, che incaricate di simili lavori…

—Di che lavori,—di che persone andate farneticando voi? La matassa è vostra; a voi sta trovare il bandolo per dipanarla; badate che il filo non vi tagli le dita. Noi non ci siamo visti, e non ci dobbiamo più rivedere. Da qui innanzi io me ne lavo le mani come Pilato. Addio, don Paolo. Quello che posso fare per voi, e farò, sarà pregare il cielo nelle mie orazioni ond'egli vi assista.

Il Conte si alzò per accomiatare il Principe; e mentre con modi cortesi lo accompagnava alla porta, andava ruminando fra se questi pensieri:—e poi vi ha taluno che sostiene, che io non avvantaggio il prossimo! Calunniatori! Maldicenti! Più di quello che mi faccia io è impossibile. Contiamo un po' quanti stanno adesso per guadagnare in grazia mia. Il becchino in primis; poi vengono i sacerdoti, che sono il mio amore; succedono i poeti per la elegia, e i predicatori per l'orazione funebre; seguita mastro Alessandro il giustiziere, e finalmente il diavolo, se diavolo vi ha.—Frattanto arrivati alla porta il Conte aperse l'uscio, e, licenziando il Principe col solito garbo pieno di urbanità, aggiunse con voce paterna.

—Andate, don Paolo, e Dio vi tenga nella sua santissima guardia.

Il Curato, udendo coteste parole, mormorò sommesso:

—Che degno gentiluomo! Si vede proprio che gli partono dal cuore.

NOTA

[1] Eduardo III, dopo aver preso la corona, fece trasportare suo padre Eduardo II al castello di Corff, e quinci a Bristol; ma i cittadini avendo fatto vista di volerlo liberare, Maltraverse e Gournay segretamente, nella notte, lo traslocarono al castello di Berkley. Considerando che le asprezze di ogni maniera non bastavano al vecchio Re, il Vescovo di Hereford, d'accordo con la Regina, mandò ai custodi un ordine sibillino, da interpretarsi in due maniere. Ecco l'ordine: Edwardum occidere nolite timere bonum est; il quale, giusta la diversa ortografia, poteva dire: Non temete uccidere Eduardo, ch'è buon partito;—ovvero: Non vogliate uccidere Eduardo, che la è cosa da temersi.—I custodi, secondo che naturale talento e diuturna pratica di ogni maniera di bassezza e d'infamia sogliono mai sempre in siffatti casi persuadere, intesero il peggio punto; quindi sorpreso il vecchio Re giacente nel letto, gli forarono gl'intestini con un ferro rovente passato traverso un corno bugio introdotto nell'ano. Il Vescovo e la Regina s'infiammarono in grandissima ira pel piacere di essere stati intesi per filo e per segno: i sicarii fuggirono. Uno di loro, il men destro, arrestato subito a Marsiglia, per non parere, ebbe ad essere impiccato: l'altro poi, più svelto, si ridusse in Germania, donde in capo a qualche tempo potè ottenere di ridursi incolume a casa sua.

Chroniques di Froissart. L. I. c. 23.

CAPITOLO III

Il Ratto

                    Ma tutto è indarno: chè fermata e certa
                    Piuttosto era a morir, ch'a satisfarli.
                    Poichè ogni priego, ogni lusinga esperta
                    Ebbe e minacce, e non potean giovarli,
                    Si ridusse alla forza a faccia aperta.
                                      ARIOSTO, Orlando Furioso.

Il Conte, dato uno sguardo nell'anticamera, accennando all'altro gentiluomo favellò:

—Signor Duca, favorite…

Il giovane dal pallido sembiante entrò nella stanza a guisa di smemorato: alla cortese proposta di sedersi o non intese, o non volle tenere lo invito. Solo, come se lo avesse colto la vertigine, con una mano si appoggiò al banco, e dalla parte più lontana del petto disciolse un sospiro lunghissimo.

—Che sospiri, quali affanni sono eglino questi? domandò il Conte con voce lusinghiera.—O come mai, alla età vostra, può avanzarvi tempo per farvi infelice?

E il Duca, con un suono che parve lene sussurre di acque, rispose:

—Io amo.

E il Conte, per dargli spirito, giocondamente soggiunse:

—È la vostra stagione, figliuolo mio; e fate ottimamente ad amare con tutta l'anima, ed anche con tutto il corpo: e se non amate voi, giovane e bello, o chi dovrebbe amare? Forse io? Vedete, gli anni mi piovono neve sopra i capelli, e mi stringono il cuore di ghiaccio. A voi parlano di amore e cielo e terra; a voi da tutta la Natura sorge una voce, che vi consiglia ad amare:

Le acque parlan d'amore, e l'ôra, e i rami, E gli augelletti, e i pesci, e i fiori, e l'erba Tutti insieme pregando ch'io sempre ami;

cantava quel dolcissimo labbro di messer Francesco Petrarca. Su, via, giovanetto, ella è cosa da vergognarsi questa? Predicatela dai pulpiti, banditela di sopra i tetti; chè buona novella è amore. Non si vergognava già confessare il Petrarca, che pure fu uomo grave e canonico, come amore lo avesse tenuto anni ventuno ardendo per madonna Laura mentre era in vita, e più dieci dopo che la si volava al cielo[1]. Misericordia! Amori erano quelli da disgradarne le querce. Nè per avere insegnato l'amore suo in mille rime si chiamava sazio, chè sul declinare degli anni desiderò averle fatte dal sospirar suo prima:

In numero più spesse, in stil più rare[2].

A santa Teresa, vedete, fu perdonato molto perchè aveva molto amato; e vi ha chi dice anche troppo. La stessa santa chiamava infelicissimo il diavolo; e sapete perchè? perchè non poteva amare. Amate dunque totis viribus; chè altramente operando offendereste la Natura, la quale è, come sapete, figliuola primogenita di Dio.

Il giovanetto, turandosi il volto con ambe le mani, e tratto un altro lungo sospiro, esclamò:

—Ah! disperato è l'amor mio…

—Non dite questo, che senza speranza non sono neppure le porte dello inferno. Ragioniamo. Vi sareste per avventura invaghito della donna altrui? Avvertite, che allora incontreremmo uno inciampo; anzi due; il marito prima, e poi il Decalogo. E' pare che quando Dio promulgò la sua legge sul Sinai, si sentisse forte corrucciato contro la sua figliuola Natura; però che, a dirla fra noi, nè più nè peggio potevano contrariarsi gli appetiti di lei. Non pertanto confortatevi di questo: che quanto il Decalogo proibisce il cuore permette.

—Oh! no, signor Conte, il mio è diritto amore.

—E allora sposatela in facie Ecclesiæ, per filo e per segno, secondo il sacrosanctum Concilium Tridentinum, e non mi venite…

—Dio sa se io lo farei; ma, ahimè! un tanto bene mi è tolto.

—E allora non la sposate.

—La donna, che amo, trasse troppo più che io non vorrei umilissimi i natali; ma se si consideri il portento delle forme leggiadre, o piuttosto l'altezza dell'animo, ella è in tutto meritevole d'impero…

Alma real degnissima d'impero, lo ha detto anche messer Francesco Petrarca; e se così è, e voi sposatela.

—Freddo cenere ed ombra, durerà in me questo amore eternamente.

—Di quanto tempo comporrete voi questa eternità? Nelle donne, secondo i computi più accurati, la eternità di amore dura una settimana intera: in alcune, ma rare, si prolunga anche un poco al secondo lunedì, e basta.

Il giovane, tanto era sprofondato in cotesto suo amore, che accorgendosi allora del modo beffardo col quale gli favellava don Francesco, diventato in volto vermiglio per vergogna e per dispetto, rispose:

—Signore, voi mi fate torto; sperava trovar consiglio;—mi sono ingannato—scusate;—e fece atto di andarsene. Ma il Conte ritenendolo, dolcemente favellò:

—Piacciavi rimanere, Duca; io vi ho parlato così per provarvi: ora troppo bene mi accorgo, che vi accende passione veemente davvero, e per avventura fatale. Versate il vostro animo nel mio; saprò compassionarvi, e, potendo, ancora sovvenirvi. Io ho sepolto i miei amori; sessanta e più anni gli associarono alla fossa, e cantarono loro il miserere: per me amore è memoria, per voi speranza; per me cenere, per voi rosa che sboccia; ma non pertanto ravviso nel mio cuore i segni della fiamma antica, e ragionando meco, bene potete ripetere i versi del Petrarca:

Ove sia chi per prova intenda amore, Spero trovar pietà, non che perdono:

Non ignara mali miseris succurrere disco; come disse Didone ad Enea, venuto da Troia a fondare Roma per la maggior gloria dei papi in generale, e di Clemente VIII in particolare.

Il Conte Cènci, malgrado la protesta, dileggiava; ma sarebbe stato difficile indovinare s'ei favellasse da senno o da burla, impercíocchè apparisse composto a gravità: solo stringeva gli occhi, e la pelle reticolata gli si aggrinzava dintorno come una nassa da pescare: le palpebre lungamente tremolavano: egli rideva con le pupille il riso della vipera.

—La fanciulla, che io amo, dimora in casa Falconieri. Quale per lo appunto sia il suo lignaggio io non saprei; ma comecchè la tengano in parte di congiunta dilettissima, pure appartiene a condizione servile.—Ahimè! Quando prima la vidi al Gesù, ornata di onestà e di leggiadria, io ne persi il sonno: ogni altra donna mi parve sozza e vile.

—Deh! parlate basso, Duca; guai a voi se le nostre superbe dame romane vi ascoltassero. Farebbero di voi una seconda edizione di Orfeo messo in pezzi dalle Baccanti, con note e appendici.

—Reputandolo facile amore, continuava il giovane infervorato, (e Dio sa se me ne prende rimorso) non trascurai veruno dei partiti che soglionsi usare per venire a capo degli amorosi desiderii. Me misero! Che queste male pratiche le devono di certo avere persuaso fastidio, e forse aborrimento di me.—Ella, chi sa, adesso mi odia;—e si fermava per timore di singhiozzare; poi con voce sommessa proseguiva: come mai devono aver suonato le vituperose proposte all'orecchio della castissima donzella?

E il Conte, riguardandolo attonito, pensava: più nuovo pesce di costui non vidi al mondo.

—I Falconieri, proseguiva il Duca, mi hanno fatto ammonire che io smetta dalla usanza di passare sotto il palazzo, però che la fanciulla non sia tale che io la debba condurre in moglie, nè quale ella possa consentire a diventarmi amica.

—E voi allora?

—Io scelsi il partito di chiederla in isposa…

—Non ci è rimedio: io avrei fatto come voi.

—Il mio parentado, appena venne avvertito del mio proponimento infuriò contro me, quasi fossi per commettere qualche gran sacrilegio; e chi mi chiamò a considerare la ingiuria del sangue, e chi la nobiltà della casa offuscata; taluno lo sdegno dei congiunti, tale altro la rabbia dei colleghi; sicchè con mille diavolerie mi hanno sconvolto il cervello in modo, che poco mancò che io non mi sia dato per perduto.

—Eh! la è faccenda seria; ed io avrei detto come loro….

—Ma quando Adamo zappava ed Eva filava dov'erano i gentiluomini?[3]

—Veramente; dov'erano? Io per me non lo so.

—Io vorrei che mi chiarissero in che cosa, noi gentiluomini, differiamo dai popolani. Forse noi non bagna la pioggia, o non riscalda il sole? Forse non ci toccano i dolori; la nostra culla non è circondata di pianto; il nostro letto di morte non è assediato dai singulti? Possiamo dire alla morte, come al creditore importuno, tornate domani? Dormiamo meglio l'ultimo sonno dentro un sepolcro di marmo, che il popolo sotto la terra? Io vorrei che mi chiarissero un po' se i vermi, prima di accostarsi a rodere il cadavere di un papa o di un imperatore, gli fanno di berretta dicendogli: si contenta, santità? si contenta, maestà? Il mio ducato semina, e raccoglie contentezze? Amore non toglie via ogni differenza fra gli amanti?

—Cosi è: Ogni disuguaglianza amor fa pari, dice il poeta. Qualche cosa di simile cantò con la solita eleganza il signor Torquato Tasso, nella sua favola boschereccia: ricordatevene Duca?

—Oh Dio! e che cosa volete che io mi ricordi? Io non ho più memoria, nè mente, nè nulla. Per pietà, umanissimo. Conte, voi che avete senno ed esperienza di mondo, siatemi cortese a indicare un rimedio a tanta molestia!

—Mio caro, riprese il Conte ponendo la mano familiarmente sopra la spalla del Duca, porgetemi ascolto. Voi avete ragione…

—Sì?…

—E i vostri parenti non hanno torto. Voi avete ragione, però che fumo di nobiltà non valga fumo di pipa[4]. I vostri parenti non hanno torto perchè essi vedranno, come io vedo, qui dentro l'artifizio di femmina, per disposizione naturale o per suggestione altrui, sparvierata. Non vi stizzite, Duca voi veniste a consultare l'oracolo, e i responsi si hanno ad ascoltare quantunque non garbino. Quella che sembra a voi ingenua ritrosia, a me pare repulsa studiata sul fondamento, che gli ostacoli irritano le passioni. Poichè le cose vietate tanto più si appetiscono, così conta per avventura la donna sopra l'ardore dell'animo vostro, onde precipitarvi colà dove ella vi aspetta. Insomma, qui apparisce la rete tesa per trarre guadagno dalla fiamma che vi accende. Umana cosa è amare; lasciarne vincere dai ciechi moti dell'animo appartiene ai bruti. Quando io era giovane, ed attendeva a siffatte novelle, non si badava così al minuto. Un gentiluomo come voi, quando lo prendeva capriccio di qualche bellezza plebea, la persuadeva con danari ai suoi piaceri. Se repugnava, e questo so dirvi che accadeva di rado, almeno ai tempi miei, rapivala. Se il parentado latrava gli si gettava un pugno di moneta in gola, e taceva; imperciocchè il volgo abbai, come Cerbero, per avere l'offa. Quando la donna diventava fastidiosa, e questo avveniva spesso, con alquanto di dote si allogava; nè di partiti si pativa penuria, sì perchè coteste creature compiacendo alle voglie di un gentiluomo non saprei vedere in che cosa disgradino, e sì perchè bocca baciata non perde ventura, ma si rinnuova come fa la luna….

Il Duca fece un gesto di orrore. Il Conte, imperturbato, sempre più insisteva:

—No, figliuolo mio, non disprezzate il consiglio dei vecchi: io delle cose del mondo ne ho viste assai più di voi, e so come le vanno ordinariamente a finire. Badatemi, in grazia: io vi propongo un partito di oro. Voi vi mettete, per così dire, a cavallo al fosso. In primis voi riducete in potestà vostra la ragazza; e qui sta il tutto, o almeno la massima parte, e voi avete a convenirne; e poi, caso che la vi riuscisse o Clelia, o Virginia, o la Pantasilea, e allora sposatevela in santa pace, e buona notte, e buona guardia. Se potete schivare cotesto scoglio del matrimonio, fatelo per quanto le forze vi bastino; avvegnachè, sacramento a parte, il matrimonio sia proprio la fossa dello amore; l'acqua benedetta lo spenge: quel che egli pronunzia, ed è come il vagito dello imeneo, è anche a un punto l'ultimo sospiro dello amore in agonia: il matrimonio nasce dallo amore come l'aceto dal vino[5]; oltrechè fuggirete la indignazione dei parenti, e le dicerie del mondo, che non è poco guadagno. Voi mi direte che e' sono morsi di zanzare, ed io ve la do vinta; ma quando le zanzare si avventano a migliaia vi conciano il viso, che Dio ve lo dica per me; e non possiamo trarre guai delle ferite ridicole e non pertanto moleste: i quali tutti fastidii un uomo discreto cercherà sempre, potendo, evitare.

—No, Conte, no; io vorrei darmi piuttosto di un coltello nel cuore…

—Adagio ai ma' passi; a gittarci via siamo sempre in tempo. Prima di prendere il male per medicina, considerate prudentemente il negozio. Voi vedete come la mia proposta vi presenti due casi, e al tempo stesso due modi di risolverli. Voi, con quel sano giudizio che vi trovate, governatevi a seconda delle circostanze.

—Ma e se la fanciulla mi prendesse in odio?..

—Vi rammentate l'asta di Achille? Ella sanava le ferite che faceva: così amore sana la piaga di amore; e la bellezza ha la manica larga per assolvere i peccati, che per virtù sua si commettono. Perdonerà, non vi affannate, perdonerà; o che ha da cominciare adesso il mondo a procedere per ritroso? Non vogliate cascare sul vergone come uccello di passo. Le donne, più che non credete, sovente vi mostrano il viso dell'uomo d'arme per provare il valore dello amante. A Sparta se il marito volea trovarsi con la moglie l'aveva a rapire; nè ho rinvenuto storici che raccontino, che le mogli se lo avessero a male. Ersilia forse non amò Romolo? Dobbiamo spaventarci di un ratto noi altri romani, che nasciamo dalle rapite Sabine?

Confuso il giovane, e aggirato da cotesti ragionamenti, si trovò come strascinato giù per un terreno sdrucciolevole. La cupidità cammina sempre con le tasche piene di cotone, per cacciarlo nelle orecchie alla coscienza onde non senta i suoi spasimi. Nel delirio della passione, il giovane, senza pure pensarvi, rispose:

—E come avrei a fare io? Io non sono uomo da questo. Da qual parte incominciare? Dove trovare uomini i quali volessero mettersi per me a cotesto sbaraglio?

Il Conte pensò, che il dabben giovane senz'altri conforti si sarebbe rimasto in mezzo alla via; e poi gli venne adesso alla mente cosa, che non aveva avvertito avanti; onde si affrettò di soggiungere:

—E gli amici che stanno a fare nel mondo? In questo bisogno posso molto bene accomodarvi io. se non m'ingannava la vista. Così favellando si accosta alla porta della sala, e, apertala, chiamò:

—Olimpio!

Il villano, come bracco che all'appello del cacciatore leva il muso, drizzatosi in piedi, rispose con disonesta famigliarità:

—Ah! vi siete accorto finalmente che ci sono in esto mondo, Eccellenza;—e brontolando soggiunse sommesso:—senza fallo vuol mandare qualcheduno in paradiso.

—Vien qua.

E Olimpio andò. Quando fu entrato nella stanza, per quella soggezione che anche i più impudenti plebei risentono dalla vista di arnesi e di stanze signorili, si trasse il cappello, e giù per le spalle gli cadde copia di chiome nere le quali, mescolandosi co' peli della barba, gli davano sembianza di un fiume coronato di canne, come sogliono effigiarlo gli scultori. Volto duro come intagliato in pietra serena: occhi sanguigni infossati sotto sopracciglia irsute, più che ad altro somiglianti a lupi dentro la lana; voce cupa e arrotata.

—Siamo sempre vivi, nè gli domandò il Conte sorridendo.

—Eh! proprio per miracolo di san Niccola. Dopo l'ultimo ammazzamento, che commisi per vostra Eccellenza…

—Che vai tu farneticando, Olimpio? Che ammazzamenti, o non ammazzamenti ti sogni?

—Trasecolo io? Per Cristo santissimo! di conto, ordine e commissione vostra;—e battendo con la larga mano il banco. aggiungeva: qui mi contaste i trecento ducati di oro, che non furono troppi;—ma tanto è; io me ne contentai, e non ci è a ridire sopra. Se presi poco, mio danno. Qui…

E siccome il Conte con le mani e con gli occhi ammiccava, che si rimanesse da mettere più parole intorno a cotesto fastidioso argomento,

—Oh! allora egli è un altro paro di maniche, proseguì imperturbabilmente costui; potevate avvertirmi a tempo. Io credeva che stessimo in famiglia, don Francesco; scusate. Per tornare ai miei montoni, il Bargello mi si era fasciato intorno alla vita più stretto della mia cintura; la corda ha rasentato più volte il mio collo, che la mia bocca la foglietta: vedete, tutti gli alberi mi parevano cresciuti in forma di forca. Adesso, in questo arnese, io quasi non ravviso più me stesso; epperò mi sono avventurato a ritornare, perchè l'ozio, vedete, egli è propriamente padre de' vizii: ed io, non avendo a fare più nulla, mi era perfino ridotto a lavorare. Se in questo mezzo tempo a qualche vostro nemico fosse cresciuta qualche gola di più, che non vi piaccia ch'egli abbia, siamo qua agli ordini di vostra Eccellenza.

E con la destra fece un atto orizzontale al collo.

—Tu arrivi, si può dire, come le nespole in ottobre; e vedrò così adoperarti a trarre un fuscello, dacchè travi per mano a quest'ora non ne abbiamo;—ma, te lo ripeto, egli è quasi un nonnulla, una eleganza del tuo mestiero,—tanto per rimetterti in filo.

—Udiamo, via.—E il masnadiero usando della terribile domestichezza che il delitto suol porre fra i complici, si mise a sedere. La gamba destra accavallò alla sinistra, e il braccio sinistro puntò sul ginocchio alzato; sopra la mano aperta appoggia la faccia, e quivi, con gli occhi chiusi, il labbro inferiore sporgente in fuori, parve atteggiato a profondo raccoglimento.

—Questo giovane gentiluomo, ch'è il clarissimo signor Duca di
Altemps…, incominciò a favellare don Francesco,

—Bè!—E senza schiudere gli occhi, appena fece il masnadiero un lievissimo cenno col capo.

—Ha concepito un furioso amore per certa fanciulla…

—Delle nostre, o delle vostre?

—E che so io? Una camerista…

—Nè nostra, nè vostra; notò Olimpio, alzando le spalle in atto di disprezzo.

—Ricercata di amore, si avvisa a starsi sul sodo. La proteggono i Falconieri, che se stessero a patrimonio come a superbia, a noi converrebbe far la sementa in mare. Ella ripara in casa loro, e questo le cresce baldanza; forse, e senza forse, vi sarà di mezzo qualche lussuria di prelato, la quale non ho voglia, nè tempo verificare adesso: comunque sia, ciò fa impaccio al signor Duca…

—Chi mi chiama?.. interrogò il Duca riscuotendosi a un tratto.

—Povero giovane, ve' come lo ha concio la passione! Giuoco, che voi non avete inteso parola di quanto abbiamo favellato fin qui Olimpio ed io?

Il Duca abbassava la faccia, e arrossiva.

—Per concludere, Olimpio, bisogna che tu la levi, e la porti colà ove ti verrà indicato.

—Comandate altro, Eccellenza?…

—Per ora no. Tu farai d'introdurti nel palazzo; e, non potendo altramente, scasserai qualche porta, o ferrata terrena. Se anche questo non ti riuscisse, ti aiuterai con una scala di corda…

—Azzittatevi; voi portate la febbre a Terracina. Il calzolaio, salvo vostro onore, non ha a passare la scarpa. Queste cose io so bene da me, con qualcheduna altra ancora che non sapete voi. Lasciatemi contare… Uno… due… tre… mi vi abbisognano quattro compagni.

—E tu li troverai…

—Bisognerà procurarci pistole e cavalli.—Quanto avete disegnato spendere intorno a questa impresa?

—Ma!—Non ti parrebbe abbastanza un cinquecento ducati?

—No, signore, non bastano. Fatta la parte ai compagni, levate le spese dei cavalli e delle armi, mi riviene una miseria.

—Orsù; non ci abbiamo a guastare fra noi. Vadano ottocento ducati, oltre le grazie e i favori grandi, che puoi sperare da me…

—Farò ammannire le carra per portarmeli a casa. Fatta la festa si leva l'alloro. Don Francesco, diamo un taglio a queste novelle; aspettate a pascermi di rugiada quando vi apparirò davanti in sembianza di cicala.—Dove ho da portare la ragazza?

—Nel palazzo del signor Duca, o in qualcheduna delle sue vigne, che t'indicherà…

—Ecco un granciporro, Eccellenza. Se la Corte prende fiato della cosa, i primi luoghi che verrà a perquisire saranno le dimore del signor Duca. Procurate dunque prendere a fitto, o farvi imprestare da persona segreta qualche vigna remota in città; ma meglio sarà torla a fitto, impiegandovi persona che non sia punto dei vostri…

Il Conte aveva guardato in faccia Olimpio, e sorriso in modo strano, quasi schernendolo di non essere stato compreso: poi erasi accomodato al banco, e posto a scrivere. Il masnadiero mosse al giovane Duca alcune interrogazioni brevi ed aspre. Questi rispondevagli a modo di smemorato: sentivasi travolto come foglia dal turbine: era caduto sotto la potenza del fascino, che alcuni serpenti pur troppo gittano sopra gli animali vicini: voleva protestare, si provava a fuggire, e non poteva. Quando gli sembrava esser prossimo a rompere lo incantesimo con lo aiuto di Dio, ecco affacciarglisi al pensiero la immagine dell'amata donna, ch'ebbra anch'essa di amore gli gittava le braccia al collo… Allora un diluvio di fuoco gli scorreva le vene; le arterie gli battevano così, che per poco non gli si spezzavano; e se il ratto fosse avvenuto subito, non gli sarebbe parso presto abbastanza. La gioventù, il desiderio e la speranza ordiscono tale una catena, dentro la quale l'anima onesta e appassionata spesso si dibatte, ma di rado la spezza; se poi vi si aggiungano eccitamenti, non è cosa umana potere resistere. Il cattivo genio aveva vinto, e il buono si allontanava cuoprendosi il volto con le ali. Il Conte, quantunque attendesse a scrivere, pure sentiva la vittoria del vizio su la virtù dello ingenuo giovane; sicchè soffermatosi ad un tratto, domandò sbadatamente:

—A quando la impresa?

—Facendo i miei conti, ormai vedo che fino a domani notte non ci posso entrare,—rispose Olimpio.

—Domani notte, eh! Ma tu non sai, che l'orologio a polvere, col quale la passione misura il tempo dello aspettare, è la sua fiaccola, di cui gitta le gocciole accese sul cuore del povero amante? Tu invecchi. Olimpio, nè sei più quel desso. Prima potevano stamparti sul viso: cito ac fidelis, ch'è la impresa delle Decisioni della sacra Ruota Romana, la quale impresa però non impedisce che le liti non durino quanto lo assedio di Troia, e sieno traditrici da disgradarne Sinone. Dunque dopo il trotto contentiamoci del passo: a domani. Brevi istanti appresso, piegando il volto verso il Duca, domandava di nuovo:

—Quantunque per natura io rifugga da ogni maniera di indiscreta curiosità, pure non posso resistere alla voglia di conoscere il nome della vostra innamorata. Vorreste essermi cortese di compiacermi, signor Duca?

—Lucrezia…

—Oh! Lucrezia. È par fatale, che queste Lucrezie abbiano a mandar sempre sottosopra i nostri cervelli romani. Questa volta però non farà cacciare i re da Roma: vi stanno i papi, e con bene altre radici, che Dio li prosperi, e con bene altre virtù, che non erano quelle di Tarquinio; e Rodrigo Lenzuoli basti per tutti.—La Italia può fare a meno piuttosto del sole, che del Papa; senza quelle benedizioni urbi et orbi non crescerebbero i baccelli.—E riprendendo a scrivere, quasi per eccesso di brio mormorava:—Crezia, Creziuccia, Crezina,—ardo per voi la sera e la mattina…—Terminato lo scritto, si levò in piedi dicendo:

—Olimpio, io mi figuro che tu abbia a recitare i tuoi rosarii; sicchè sarà bene che tu te ne vada. Avverti che non ti veggano uscire di casa mia; perocchè, quantunque tu sii meglio del pane, e onesto a prova di maglio, tu capisci bene che si possono avere amicizie migliori delle tue.—Marzio!

E Marzio comparve.

—Marzio, accompagna questo evangelista, per le scale di ritirata, all'uscio del giardino che sta sul chiasso. Addio; mi raccomando alle tue sante orazioni.

———

—Come va, compare?—mentre Olimpio andava, così, battendo sopra la spalla di Marzio, lo interrogò.

—Come piace a Dio,—rispose Marzio un po' duramente. E l'altro:

—Oe, che non mi ravvisate, Marzio?

—Io no…

—Guardatemi meglio, e vedrete che parrà a voi quello che pare a me.

—E che par egli a voi?

—Pare che noi saremmo un magnifico paio di gioie attaccati alle orecchie di donna forca.

—Olimpio, siete voi?

—Lo spirito della forca ci fa come lo aceto nel naso; rischiara lo intelletto, e richiama la memoria…

———

—Conte, prese a dire il giovane Duca esitando; io temo mostrarmi ingrato al consiglio ed aiuto vostri… e non pertanto sento non vi poter ringraziare. Dio… (ma io faccio male a invocare il suo santo nome in questa trista faccenda,—sarebbe meglio ch'ei non ne sapesse nulla). La fortuna dunque operi, che non vada a finire in pianto.

—E la fortuna è per voi; perocchè, come femmina, ella ama i giovani, e gli audaci. Se Cesare non passava il Rubicone, sarebbe diventato Dittatore di Roma?

—Sì; ma neppure gl'idi di marzo lo avrebbero veduto trucidato sotto la statua di Pompeo.

—Ogni uomo porta, nascendo, l'ascendente della sua stella. Avanti dunque. Voi non potete fallire, che vi sovviene copia di autori volgari, greci e latini. D'altronde perchè repugnate commettervi alla fortuna? Ella governa il mondo. Vedete Silla, che più di ogni altro seppe accomodare le differenze con la scure, le dedicò il bel tempio di Preneste.

E così confortando accomiatava il male arrivato giovane, il quale uscendo andava a balzelloni; tanto scompiglio gli avevano messo nella mente le parole del Conte, e le cose alle quali egli aveva assistito. Sentiva il male, presagiva peggio; ma ormai spinto sul pendio del misfatto, non sapeva ritrarsene. La passione, il boa feroce dell'anima, lo stringeva sempre più veemente, e soffocava in lui l'ultimo alito di virtù.

Il Conte, appena partito il Duca, recatosi in mano il foglio vergato poc'anzi leggeva, soffermandosi di tratto in tratto per ridere clamorosamente:

«Reverendissimo, et illustrissimo Monsignore.—La maggiore empietà, che abbia mai inquinato questa sede augustissima et felicissima della vera nostra religione, sta per succedere. Il duca Serafino D'Altemps, per compiacere a sfrenatissime voglie, trama rapire domani notte, armata mano, dal palazzo dei Falconieri la onesta fanciulla Lucrezia, camerista in casa dei prelodati clarissimi signori. Accompagnano il Duca, complici del delitto, tre o quattro dei più solenni banditi capitanati dal famoso Olimpio, cercato da due anni dalla Corte per ladronecci e assassinamenti, con la taglia di trecento ducati di oro. State su l'avvisato, che si tratta di gente usa a mettersi ad ogni sbaraglio, e il pericolo aumenta la fierezza.—Di tanto vi avvisa un osservatore del buon governo, e zelante dell'ordine, e della esaltazione di santa Madre Chiesa. Roma li 6 agosto 1598.»

—Va bene: la scrittura non può conoscersi per mia: questa fra un'ora sarà nelle pietose mani di monsignor Taverna.—La piegò, e la suggellò improntandovi sopra una croce, e scrivendovi: A Monsignore Ferdinando Taverna governatore di Roma.

—A tutto signore tutto onore: egli è Duca, e va proprio trattato da pari suo. A cotesta perla del Principe Paolo penseremo più tardi. E poi ci liberiamo da Olimpio, se pure non giunge anche per questa volta a scamparla. La rete è tesa nelle regole dell'arte; ma

Rade volte addivien, che alle alte imprese Fortuna ingiuriosa non contrasti.

NOTE

  [1] Tennemi Amore anni ventuno ardendo
       Lieto nel foco, e nel duol pien di speme:
       Poichè Madonna, e il mio cor seco insieme
       Salirò insiem dieci altri anni piangendo.

PETRARCA.

  [2] Se io avessi pensato, che sì care
       Fossin le voci dei sospir miei in rima,
       Fatte io le avrei dal sospirar mio prima
       In numero più spesse, in stil più rare.

PETRARCA.

[3] Durante la sommossa avvenuta in Inghilterra volgendo l'anno 1378 della Era volgare, Giovanni Ball predicava: gli uomini tutti discendere da uno stipite comune; uguali essere i diritti loro alla libertà, ed ai beni della terra; arnese di tirannide ogni maniera di distinzioni. La plebe infuriando cantava la canzone, di cui il concetto corrisponde alle parole del testo:

        When Adam delv'd, and Eve span
        Where was then the gentleman?

La pratica del comunismo ha preceduto di gran lunga la teoria. Il popolo in cotesta occasione, come sempre, chiese troppo; i possidenti, rappresentati allora dal Re, concessero quanto ei volle; e se più domandava, e più gli davano, rilasciando delle concessioni fatte patenti solennissime. Passata la burrasca il Re, ricercate in prima diligentemente le carte delle patenti le abolì, e ritolse ogni cosa; e quello, che parve duro in quel tempo, e non pertanto si è veduto ripetere perpetuamente, ricercò, e spense di mala morte i miseri popolani, che fidandosi in lui avevano posate le armi. Per modo che sembra oggimai doventato assioma nei rivolgimenti umani: chiedere troppo, e male; promettere tutto, e attender nulla; donde la necessità di nuove agitazioni. Vicenda perpetua di violenza, e di frode! E quando il popolo torna alla catena, se Salomone lo percuoteva co' flagelli Roboamo lo strazierà con li scorpioni. Tuttavolta varia apparve la ragione dei tempi: nei barbari, come vedete, i possidenti o privilegiati attesero a raccogliere i documenti, e distrussero questi molesti testimoni della frode: negli altri, celebrati civili, carte, documenti e giuramenti lasciansi stare: invece di sgombrarne la strada, par cosa più spacciativa saltarci sopra a piè pari, e tirare innanzi pel suo cammino. Se veramente siasi progredito, lascio che altri giudichi; però, in fatto di pudore, lo scapito è sicuro.

[4] Nel così detto Album di certa Marchesa Pallavicini di Genova io lessi scritto dalla mano della Marchesa du Devant, conosciuta nel mondo letterario col nome di Giorgio Sand, questo concetto: «Fumo di gloria non vale fumo di pipa.» Le pipe ed il tabacco, nei tempi della storia che raccontiamo, erano diventati assai comuni. Francesco Hernandez, medico e naturalista spagnuolo, lo introdusse primo in Europa. Dicono che Francesco Drake lo portasse in Inghilterra ai tempi del Cromwello; ma si trova eziandio, che il famoso cavaliere sir Riccardo Raleigh fumasse tabacco fino dal regno della Regina Elisabetta; e si aggiunge la storia del servo, il quale temendo prendesse fuoco il padrone mentre gittava fumo dalla bocca, andò cheto cheto per un bugliolo di acqua, e glielo rovesciò sul capo. Nicot, ai tempi di Caterina, ne portò la pianta in Francia; donde chiamasi nicotina il veleno, che se n'estrae, e figurò tanto funestamente nel processo Bocarmè. La pianta stessa nicoziana ebbe anche nome di erba tornabuona, perchè Niccolo Tornabuoni ne introdusse la coltivazione in Toscana nel 1570; ed erba della Regina, perchè Caterina dei Medici incominciò ad usarne la polvere: ma il nome rimastole è tabacco, da Tobasco paese ove prima la osservò l'Hernandez.

[5] «… il matrimonio deriva dallo amore, come l'aceto dal vino: bevanda sobria, acida, e dispiacevole». Byron, Don Giovanni. Canto III.

CAPITOLO IV

LA TENTAZIONE.

                     O male, o persuasore
                       Orribile di mali,
                       Bisogno……
                             PARINI, Il Bisogno.

Entrarono i giovani sposi. L'uomo baciò affettuoso la mano al Conte: la donna volle fare lo stesso; ma il fantolino, che teneva in collo, gittando uno strido glielo impedì. Fu caso quello, o piuttosto presentimento? L'uomo non conosce le arcane virtù della natura. Il Conte guardò fisso la donna; e vedendola maravigliosamente bella i suoi occhi si aggrinzirono, e le pupille mandarono un baleno.

—Chi siete voi, buona gente, e in che cosa posso accomodare ai bisogni vostri?

—Eccellenza, incominciò il giovane, o non mi ravvisa ella più? Io sono il figliuolo di quel povero falegname… si ricorda?.. rovinato, or fanno appunto quaranta mesi,… e se non era la sua carità egli si sarebbe gettato nell'acqua.

—Ah! ora me ne sovviene. Voi vi siete fatto uomo, garzone mio; ed il buon vecchio del padre vostro come si porta egli?

—Il Signore lo ha chiamato a se. Creda, Eccellenza, che il suo ultimo sospiro fu per Dio, e il penultimo per la sua famiglia e per lei:—non rifiniva mai di mandarle benedizioni, ed augurarle dal cielo tutte le prosperità, che da uomini possano desiderarsi maggiori.

—Dio lo abbia nella sua santa pace. E queste sono la moglie, e creaturina vostre?

—Per l'appunto, Eccellenza. Appena mia moglie è rientrata in santo, mi è parso bene di fare il mio dovere conducendola a renderle reverenza e offrirle grazie col cuore, perchè, dopo Dio, noi ripetiamo da lei la nostra felicità.

—Voi siete felici?

—Felicissimi, Eccellenza, se la memoria del perduto genitore non venisse di tratto in tratto a turbarmi;—ma i suoi anni erano molti, e morì come un fanciullo che si addormenti… Egli non aveva rimorsi su l'anima…. e le sue notti io le so dire ch'ei le dormiva tranquille… povero padre!—E sì dicendo si asciugava le lacrime.

—E voi, donna, vi sentite felice?

—Sì, prima la Vergine benedetta, e più che non si può immaginare col pensiero, o riferire con parole. Michele vuol bene a me; io lo voglio a lui; tutti e due ne vogliamo tanto e poi tanto a questo bello angiolo nostro. Michele guadagna da camparci, e ce ne avanza;—sicchè, Eccellenza, ella vede che non chiamandoci soddisfatti sarebbe proprio un mormorare contro la provvidenza di Dio.—Queste cose dicendo la donna appariva sfavillante.

—Voi siete dunque felici?—domandò il Conte per la terza volta con voce cupa.

—E si può dire in grazia sua, Eccellenza. Entrando in casa di Michele io ho appreso a venerare il suo nome. La prima parola che insegnerò al mio bello angiolo, sarà benedire il nome del caritatevole barone Francesco Cènci.

—Voi mi riempite il cuore di dolcezza, disse il Conte dissimulando la rabbia che lo soffocava; e per infingersi meglio baciava in fronte, e vezzeggiava il fanciullo:—buona gente! anime degne! Però quel poco, che io feci, non merita tante grazie; e a fine di conto, a noi altri favoriti con copia di beni corre obbligo grande sovvenire ai poverelli di Cristo. A che buono il danaro, se non per riparare qualche sventura? Havvene forse del meglio speso di questo? Non lo mettiamo a usura su le banche del paradiso, dove ci vien reso a mille contanti il doppio? Sono io dunque, carissimi, che devo ringraziarvi per avermi offerta occasione di fare del bene.—Qui tratta fuori una cassetta del banco, prese un pugno di ducati d'oro e gli offerse alla donna; la quale, fattasi in volto tutta vermiglia, andava schermendosi; ma il Conte insistendo, diceva:

—Prendete, figliuola mia, prendete. Voi mi avete fatto torto quando non mi avvisaste della nascita di questo bel putto; che toccava a me essergli compare. Compratevi una collana, e portatela al collo in espiazione del peccato commesso: guardate di farvi riuscire ancora un guarnelletto sfoggiato al fanciullino, perchè quantunque per bello ci passi il segno, pure sapete come dice il poeta?

Sovente accresce alla beltà un bel manto.

Io vo' che la gente, in vedendolo, esclami: oh avventurosa colei ch'ebbe così bel portato;—e il vostro cuore di madre esulterà.

La giovane madre dapprima sorrise; poi da quelle soavi parole, che le fioccavano sul cuore, si sentì conquisa, e pianse, senza però cessare il sorriso; come quando, in primavera, piove a un punto e risplende il sole, mentre le gocce cadenti disegnano in cielo l'arco maraviglioso, che noi reputiamo testimonianza del patto di pace fermato da Dio con gli uomini… E fosse pur troppo così!

—Continuate ad amarvi—prosegue il Conte con la voce solenne di un padre;—la gelosia non turbi il sereno dei vostri giorni; nè mai altra casa possa piacervi più della vostra: vivete tranquilli e nel santo timore di Dio. Qualche volta rammentatevi nelle vostre orazioni di me, povero vecchio, che non sono… oh! credetemelo, non sono quale vi appaio per avventura felice; (—e qui il Cènci di pallido, come ordinariamente egli era, diventò livido—) e se in alcun bisogno vostro penserete a me, siate persuasi che voi troverete viscere paterne.

I giovani sposi si chinarono per abbracciargli le ginocchia; ma egli nol volle consentire affatto, e con voce ed atti benigni gli rimandò con Dio. Passando per la sala essi non rifinivano mai di esclamare:

—Oh il pietoso signore! Il caritatevole gentiluomo!

Gli staffieri udendo simili parole sogguardavano l'uno l'altro facendo spallucce; ed uno fra loro, il più audace, sussurrò fra i denti:

—Che il diavolo si sia fatto cappuccino?

—Felici! felici!—ruggì Francesco Cènci dando libero sfogo alla collera male repressa;—e vengono a dirmelo proprio in faccia! Lo hanno fatto a posta per tormentarmi con la vista della loro contentezza! Questo giudico il più atroce insulto, che io mi abbia sofferto da un pezzo a questa parte!—Marzio! Va, corri tosto, e raggiungi Olimpio; riconducilo qui; affrettati, dico; se torni, prima che suoni l'Angelus, insieme con lui, ti do dieci ducati.—Io vi farò vedere se, senza piangere lacrime di sangue, uom possa venire a dichiarare in faccia al conte Francesco Cènci, ch'egli è felice.

In questo punto, e certo non gli fu ventura, ecco entrare pian piano il degno sacerdote: Omnes sitientes venite ad aquas, giubbilava dentro il cuor suo, comecchè stringesse in fascio i lembi della toga stracciata; ma da cotesta beatitudine lo trasse fuori il cupo brontolìo di Nerone. Il prete (tanto scordevole egli era delle ingiurie più triste!) si risovvenne allora del cane nemico, e parve la moglie di Lot quando si volse indietro a guardare lo incendio di Sodoma.

—Silenzio, Nerone!—Reverendo, accostatevi senza sospetto.

Il Prete, ripreso alquanto di coraggio, mosse qualche altro passo a sghembo come costumano i granchi; e, invitato a sedersi, si pose sopra l'angolo estremo della sedia, rannicchiato a modo di civetta sul canto del tetto.

—Parlate, Reverendo; sono ai vostri comodi.

—Ed io punto ai miei,—pensò il prete, ma non lo disse; e invece favellò:

—La fama…

Nerone udendo la voce del prete torna a brontolare, e il prete subito si drizza impaurito; sgridato il cane si riacqueta, e il prete si attenta da capo ad aprire la bocca. Badando sempre con occhio obliquo la bestia, che malediceva in cuor suo, egli riprese:

—La fama, che suona delle magnanime vostre imprese per tutto il mondo….

—E per Roma….

—Questo s'intende da se, caro lei, perchè Roma fa parte del mondo…

—E per questo appunto io lo diceva…

—E vi pareggia a Cesare…

—A quale dei due, Reverendo, a Giulio o ad Ottaviano?

—Questo non ispiega bene la fama; ma io mi figuro a quello che fece tanti regali al popolo romano in vita e in morte.

—E sapete voi perchè egli poteva donare tanto?

—Eh! mi figuro perchè ne aveva…

—Certo, ne aveva perchè gli rubò da tutto il mondo; e questo debito è cascato addosso a noi altri nipoti, e ci tocca a pagarlo con le usure, vi dico io…

—Ah! tocca a lei pagare i debiti di Giulio Cesare?

—E voi siete venuto qui in mia presenza a paragonarmi con cotesto insigne ladrone di provincie e di regni?…

Il Prete confuso malediceva l'ora, che gli venne in mente recitare una orazione di lunga mano composta: era meglio che avesse favellato, secondo il solito, così alla buona. Ah!—pensava—potessero farsi le cose due volte!—Poi tutto umiliato sussurrava…

—Perdoni, per lo amore di Dio… io non credeva… avendo tolto a imitare la orazione di monsignor Giovanni della Casa a Carlo V… che…

—Ascoltatemi, favellò il Cènci, deposto a un tratto il suono scherzevole, e assunto un cipiglio severo. Io sono vecchio, e voi più di me: però del tempo non ne avanza a me nè a voi: parlate dunque netto, e spedito. Tutte le cose lunghe mi vengono a fastidio,—anche la Eternità.

Il Prete, preso alla sprovvista, non sapeva da qual parte rifarsi; quel subito trapasso dal dolce all'agro lo aveva sbalordito: in oltre la ultima proposizione del Conte gli pareva mal sonante, ed eretica. Finalmente, come uomo a cui un buffo di vento sopraggiunga impetuoso a portar via le carte accomodate sul banco, parlò con tronchi accenti:

—Eccellenza… lei vede in me un prete… e per di più curato di campagna… La mia Chiesa rassembra proprio un crivello… l'acqua piovana scende giù dal tetto, e si mescola col vino delle ampolle… Un melogranato cotto in forno, a paragone della mia Canonica sdrucita, può figurarsi una pina verde… talora, quando piove, mi trovo costretto a starmi in letto coll'ombrello aperto, e non basta. Sa ella con che cosa mi tocca ad asciugarmi il viso?.. lo sa?

—No certo.

—Con Rodomonte.

—E ch'è egli questo Rodomonte?

—Il gatto della canonica; ma egli alla peggio la rimedia pei tetti; a me e a Marco, che non possiamo andare a procacciarcelo sul tetto, spesso manca il desinare e la cena; ed io sospiro, e Marco raglia.—Ho una tonaca sola… o piuttosto, come dice Cremete negli Autontimerumeni, ignaro se il suo figlio tuttora viva,—non saprei più dire se io l'abbia, o se io non l'abbia:—veramente ella era lustra da potermivi guardare dentro; ma alla fine con qualche rammendo poteva tirar su fino a dicembre… ed ora il cane di vostra Eccellenza miri come me l'ha concia!.. E sporgendo il lembo, la sua voce prendeva la intonazione dello stabat Mater dolorosa.

—Non pronunziaste voi il voto di povertà? Perchè vi lagnate di uno stato, che tanto si accosta alla perfezione? Ah! questa perfezione non vi piace; amereste meglio essere imperfetto con qualche migliaio di scudi di entrata, che perfetto, e più che perfetto in povertà? Prendetevela con l'Autore di questa grammatica, che voi altri preti non volete capire. Gesù Cristo vi ha predicato non essere i vostri beni sopra questa terra: guardate il cielo, e sceglietevi là il vostro campo; lo spazio, grazie a Dio, non manca. Ma voi fate orecchie di mercante, e dite in cuor vostro: la doppia è il Padre, la mezza doppia il Figlio, il terzo di doppia lo Spiritossanto, e credo fermamente che una discenda dall'altra.

Godete, Preti, poichè il vostro Cristo Dai Turchi e dai Concilii vi difende[1].

Vergogna, Reverendo; vergogna questo darsi continuo pensiero di cose mondane! Quando la Chiesa costumava calici di legno possedeva sacerdoti di oro; e questo dice san Clemente di Alessandria. Ora ch'ella ha calici di oro, i preti son diventati di legno:—e sapete voi, Reverendo, di quale legno? Del legno, che il santo Evangelo dichiara doversi recidere perchè infecondo, e gittare sul fuoco…

Il povero Curato sostenne cotesta bufera di male parole come un veterano la scarica delle palle nemiche; poi con un sospiro esclamò:

—Ah! san Clemente Alessandrino era un santo dottissimo; ma non credo che gli bisognasse stare a letto con l'ombrello aperto quando pioveva…

—Sia; patite difetto di cose necessarie alla vita? Ebbene, ricorrete agli opulenti prelati. Forse non ebbero assai? Ma che volete da noi, l'ultima stilla di sangue? Andate, picchiate ai palagi dei Vescovi; bussate alle porte degli Abbati… bussate, vi dico, e vi sarà aperto; chiedete, e vi sarà dato: pulsate et aperietur vobis, è stato detto da cui non può fallare.

—E' pare che cotesti dignitarii spesso si trovino per faccende fuori di casa, perchè io mi son provato a battere alle porte loro; ma vedendo che potevo rompermici le noccola prima che da qualcheduno mi venisse aperto, me ne sono rimasto.

—Voi, clero minuto, siete proprio gregge; e così sogliono chiamarvi i grassi prelati, perchè verso di voi si comportano da veri pastori. Infatti qual è la parte di pastore, per cui diritto vede, che seco voi non adoperino? Forse non vi mungono? non vi tosano? non vi arrostiscono scorticati, e vi mangiano?—Orsù, ardite ribellarvi contro la iniqua gerarchia: pubblicate al mondo in qual modo sopra un solo capo, o per simonia, o per patto di lussuria, o in modo altro più turpe, si cumulino benefizii, prebende e abbadie, le quali da un lato fanno preti oziosi, superbi, viziosi, e ribaldi; dall'altro poveri, vili, abietti, e ribaldi: palesate che le riforme dei Concilii non hanno riformato nulla: manifestate come questo tristo collegio d'ipocriti farisei ad altro non attende, che a impastar pane con la farina del diavolo. Costringete i parasiti a tenervi a parte della mensa, che lautissima da lungo tempo imbandiscono, e per lungo tempo ancora imbandiranno loro la ignoranza e la follia degli uomini.

Il Curato, atterrito da quel turbine di eresie, volse attorno gli occhi con riguardo, e poi sotto voce osservò:

—Eccellenza, per lo amore di Dio voglia rammentarsi che qui in Roma vi è una qualche cosa, come sarebbe il Santo Uffizio, e il castello Sant'Angiolo.

—Avete paura? Bene; ma se imparaste a tremare, apprendete ancora a soffrire. La pecora lecca la mano che le taglia la gola. Esempio sublime, e lodato meritamente, della perfetta obbedienza. O piuttosto, perchè disertaste voi la bandiera della natura? Perchè abbandonaste la vanga paterna per comandare dalla polvere? Quando voi preti vi allontanate dalla campagna vi piangono dietro le viti, e gemono i solchi. Tornate a lavorare l'altrui podere, servi fuggitivi. La terra vince di amore qualsivoglia tenerissima madre; ella vi nutre, ella vi veste, ella vi seppellisce: che cosa volete di più, indiscreti? Vi lagnate che la natura vi abbia diseredato: bugiardi! vi è mai forse mancata la terra? Dove stanno sepolte le migliaia di generazioni, che vi precederono? Sotto terra. A cui di voi, nascendo, madre natura non destina tre braccia di terra, e a taluno anche più?—A voi questa storia non garba. Il breviario pesa meno della zappa. Voi volete godere qui il paradiso, che agli altri promettete di là. Scalabroni, vi piace gustare senza fatica il mele raccolto dalle api? Ma le api adoprano l'aculeo per cacciar via i ladri; l'uomo non sa valersi del suo giudizio per liberarsi da voi altri. Ditemi un po', Reverendo, non vi pare che l'aculeo dell'ape, tutto bene considerato, meriti più pregio assai della ragione umana?—Orsù; vivete come vi aggrada, morite come vi piace, ma levatevi dintorno a me. Da me voi non avrete uno scudo. Da camparvi vi fu dato. Io non ho danaro per sopperire alle morbidezze vostre;—io non posso fare le spese ai vizii vostri; e voi ne avete più, che figli Giacobbe, quantunque un vizio costi più di tre figliuoli.

    Credete voi però, Sardanapali,
      Potervi fare hor femine, hor mariti,
      E la Chiesa hor spelonca, et hor taverna;
    E far tanti altri, ch'io non vo dir, mali,
      E saziar tanti, e sì strani appetiti,
      E non far ira alla lenta superna?
[2]

Il povero Prete era come colui, che, essendo lontano da casa, sorpreso da un rovescio di acqua nell'aperta campagna, piega le spalle, e sta a pararne quanta Dio ne manda. Però, percosso dall'abbominazione dell'ultimo rimprovero, levò gli occhi al cielo, e non potè trattenersi da dire:

—In quanto a Verdiana, Eccellenza, ch'è la fantesca la quale io tengo in casa, le giuro per Quello, che non vuol che giuriamo, ella è si antica, da potere aver portato sassi quando fabbricavano il Colosseo. Ma pare a lei, che un uomo della mia età e del mio carattere possa attendere a siffatte scostumatezze? Poh!

—Perchè no? Ossa vecchie e legna secche avvampano più presto.

………i' sarei preso ed arso Tanto più, quanto son men verde legno,

diceva messer Francesco Petrarca; e delle cose di amore il canonico Petrarca intendeva assai addentro, e più disonestamente, che non ci vuol dare ad intendere il vecchio peccatore—perocchè ei fosse dei vostri…

E il Prete, levando in alto le mani e il viso, esclamò pietosamente:

—Gesù! che cosa mi tocca a udire!

Il Conte Cènci con l'indice della mano destra all'improvviso descrisse un segno orizzontale sopra la fronte, quasi disegnasse mutare registro allo strumento, e con voce più mansueta riprese:

—Oh! non lo diceva mica per voi, povero sacerdote, che siete così attrito dallo stento, da assomigliarvi a san Basilio. Quando mi capitasse la voglia di palesare i fatti miei a qualcheduno, fate conto che non vorrei confessarmi ad altro sacerdote che a voi. Or via, tregua alle parole, Curato mio dolce. Quanto danaro vi abbisogna per restaurare chiesa o canonica, comperarvi una tonaca nuova per riparare la fellonia di Nerone, ed una mezza dozzina di asciugamani per lasciare in riposo la pelle di Rodomonte?

—Dirò… Verdiana ed io abbiamo fatto le mille volte il conto; ella su le fodere del lunario, io sopra i margini del breviario, e non ci siamo messi mai d'accordo; ch'ella dice più, ed io meno: ma io crederei che con un dugento di ducati ci si potrebbe incastrare.

—Dugento ducati! Misericordia! ma che sono eglino diventati prugnòli?

—E con meno non ci è propriamente a rimediarla,—riprese il Prete incrociando le dita delle mani e appoggiandosele alla pancia;—e noti, che ci aggiunterei una quarantina di ducati che conservo nello inginocchiatoio accanto al letto, e che mi costano da quarantamila digiuni non comandati.

—Uditemi, Reverendo; io non sono ricco abbastanza da accogliere la presunzione di restaurare la casa di Dio. Egli è padrone del buon tempo e del cattivo; e se lascia piovere in casa sua, segno è certo che l'acqua piovana gli piace. Io vi darò cento ducati, ma ad una condizione.

—E quale, Eccellenza?

—Che voi, insieme ai quaranta vostri, gli adoperiate unicamente a restaurare la canonica, corredarvi di masserizie necessarie, di asciugamani, di una tonaca per voi, ed anche di una veste per Verdiana…

—Mai no, Eccellenza, mai no; piacemi la casa risarcita, piaccionmi le masserizie, e la vesta per Verdiana mi piace assai più della tonaca mia; ma le cose del Signore hanno da andare innanzi ad ogni privata comodità. Su questo punto Verdiana ed io siamo di un medesimo cuore, e non ci patirebbe l'animo di fare nostro prò neppure di un bagattino, se non avessimo provveduto prima alla casa di Dio….

—Che cosa andate voi bestemmiando di casa di Dio? Ha egli mestieri di casa per ricovrarsi dalla pioggia, o dalla bruma della notte come noi altri? Casa di Dio è l'universo; sono le stelle, il sole, la luna, e tutto quanto vive, vegeta e cresce quaggiù. Tutto è Dio. In tutto penetra, da tutto emana la Divinità. Dio vuolsi adorare nelle magnificenze della natura, nelle opere dello intelletto, nella innocenza e nella sensibilità dell'uomo.

—Signor Conte, rispose il Curato mettendosi la destra sul cuore, e con dignitosa semplicità, io sono un uomo povero d'intelletto: credo quello che i miei padri credevano, e non cerco più oltre. Io so eziandio che lo spirito umano spesso si spinge temerariamente a tal punto, dove non comprende più nulla; e allora, fra il dubbio che tormenta e la fede che consola, parmi cosa savia attenermi alla fede.—

Queste schiette parole punsero sul vivo il Conte Cènci, il quale studiando dissimulare la ferita con la moltiplicità degli empii discorsi, si affrettò a replicare:

—Voi già, secondo l'usanza dei sofisti, ve la svignate fuori del seminato. Io non vi contrasto la credenza, ma il modo del credere. O come volete voi che a Dio incresca l'acqua piovana dentro la vostra parrocchia, poichè s'egli ve l'avesse a uggia sarebbe padrone di non la mandare? Egli ha creato l'acqua, e il fuoco altresì: ora, se quando è bagnato vuole asciugarsi, non ha a far altro che prendere con le molle uno degl'infiniti soli del cielo, e metterselo nel cammino. Può temere l'acqua Colui, che vi cammina sopra come se fosse un selciato? Egli che apre e chiude le cateratte dei cieli come fo io di questa cassetta?—Via, via, Curato mio, almeno confessatemi questo, che a lui nulla importa di nuvoloso, nè di sereno.—Ecco qua; questi sono ducati, e sfolgoranti… (—e qui preso un pugno di scudi d'oro, gli distendeva dinanzi agli occhi del prete—) io voglio che sieno vostri; a patto però, che gli spendiate solamente per voi e per Verdiana. Dio è ricco abbastanza per farsi le spese da se.

E sì favellando protendeva il viso tentatore come il Diavolo a santo Antonio. Il Prete covava la moneta con gli occhi, e da tutti i pori del corpo gli trasudava la cupidigia della miseria. Una molto terribile battaglia si combatteva in quella povera anima. Il Conte però, notando come il Prete girava nel manico, insisteva alacremente:

—E questa ultima ragione sopra le altre vi muova, che se voi non accettate il patto io gli ripongo in cassetta…

—Eccellenza!…

—Ma via, mettiamo da parte le ragioni che vi ho esposto: a voi non garbano, ed io non vi voglio chiudere il Limbo che vi aspetta. Non è egli vero, che voi dovete provvedere a due cose: alla chiesa ed alla canonica? Poniamo dunque che la chiesa sia santa; la canonica voi non impugnerete già che sia religiosa! Ora chiaritemi un po' come possiate commettere questo grossissimo peccato, incominciando dalla seconda piuttostochè dalla prima?—Voi troverete tanto cammino fatto nello adempimento dei vostri doveri. Non vi ostinate; ricordatevi che vi ha tal giusto, che per la sua giustizia perisce; e questo ha detto re Salomone…

—Eccellenza… veramente… in questa maniera… mi parrebbe… e nondimeno…

—Su, via, dunque; accettate, e promettete adoperarli unicamente per voi. Considerate, in grazia, quest'altro: se Dio è, come voi ed io crediamo, eterno, non gli dorrà aspettare quattro o sei anni, e potrei dire secoli. Se voi foste diverso da quello che siete, vi direi: facciamo un poco come lui, che non pensa mai a noi…—Sicchè; li volete, o non li volete?

—Ah signore! la tentazione è grande; ma io temo commettere un grossissimo peccato…

—Li volete, o non li volete?

—Ma mi lasci riflettere. Non è mica cosa da niente uno scrupolo di peccare, per un parroco che ha la cura delle anime…

—Ebbene; ponete tutto a debito dell'anima mia. Tanto io ho conto lungo col paradiso…—Ah! li prenderò…

L'angiolo dell'Accusa portò questo peccato alla cancelleria del cielo e lo registrò nel libro maestro delle colpe umane, senza che l'angiolo della Misericordia vi lasciasse cader sopra una lacrima, e ve lo cancellasse per sempre come sul pietoso giuramento dello zio Tobia.

—Ecco il danaro; promettete dunque?

—Prometterò.

—Ora avvertite di non mancare; manderò, o verrò io stesso a vedere se avrete attenuto il patto: se troverò altrimenti, guai! Mi chiamo Francesco Cènci, e basta.

Il Curato fra lieto e tristo intascò la moneta; e, profferte umilissime grazie, con copia di riverenze si allontanò dal male visitato barone.

———

Marzio tornava in compagnia di Olimpio. Ebbe Marzio la promessa mercede, ed ordinandolo il Conte si ritirò nell'anticamera.

—Che c'è egli di nuovo, Eccellenza?

—Ci sono altri centoquaranta ducati da metterti nella cintura…

—Voi mi volete far morire d'indigestione…

—Mi era parso, poc'anzi, tu ti partissi pessimamente soddisfatto, ed io ho voluto richiamarti perchè tu abbi la miglior giunta alla buona derrata.

—Questo è proprio un diluvio di tenerezza per me!

—Tristo cavaliere è colui, che non ha cura del suo cavallo; e non vi ha favore ch'io non mi mostrassi parato a farti, per torre via dal tuo cuore quella po' di ruggine che potresti avere concepito contro di me.

—Ruggine, io? Ma che vi pare, don Francesco; io vi ho voluto sempre più bene che al pane.

—Che si fa a morsi, eh? Vien qua, piacevolone, ch'ella è appunto una burla quella che ti propongo. I ducati, di che io ti diceva, già sono tuoi…

—Dove son eglino?

—Non manca altro, che tu le li vada a pigliare. Non torcere il muso. Hai tu veduto quel corvo di prete? Ebbene; io glieli ho donati secondo la tua intenzione. Ora hai da sapere come costui sia curato a santa Sabina, piccola chiesa lontana dall'abitato. In casa tiene una vecchia, un gatto, e, a quanto pare, un asino: faccenda agevole, e da compirsi stanotte. Troverai i danari dentro allo inginocchiatoio accanto al letto del prete.

—O perchè glieli donaste voi, se avevate in mente di ritorgli sì presto a quel poveraccio?

—Quando io pretesi insegnarti la maniera di entrare nel palazzo Falconieri, tu mi avvertivi non ispettare a me mescolarmi in simili bisogne…. te ne ricordi? Adopera dunque verso me la discretezza, che volesti io usassi teco.

—Avete ragione: non fa neanche una grinza. Volete, altro, don
Francesco?

—Ah! sì; un altro servizietto da poco. Conosci il falegname, che abita presso Ripetta? Quel desso, che rifece la casa co' miei danari?[3]

—Quel giovane, che stava dianzi in sala ad aspettare? Sicuro che lo conosco, e so dove sta di casa; perchè quando la faceste rifabbricare di nuovo andai a vederla, per ingegnarmi a spiegare su la faccia del luogo lo indovinello della vostra beneficenza.

—E non sono uso a fare del bene io? Ed anche adesso non ti benefico? Non aggiungere la ingratitudine agli altri tuoi peccati, perchè egli è quello che più dispiaccia all'angiolo custode.—Domani notte…

—Non posso servirvi: sono impegnato col signor Duca… non rammentate?

—Farò le tue scuse…

—Abbiate pazienza; l'onore del mestiere non permette che io manchi…

—Procurerò che egli ti dia licenza di propria bocca…

—Oh! allora va bene.

—Domani notte, dunque, t'introdurrai come potrai nella bottega del falegname. Prendi gli arnesi e i legni che troverai là dentro, ed alzane una catasta: poi mettivi sotto i fuochi lavorati, ch'io ti apparecchierò; e verrai per essi domani dopo l'Ave Maria, presentandoti alla porta del chiasso: accendili, e vientene via dopo aver chiuso di nuovo la porta della bottega. Avrai per questa opera pia cento ducati. Servi fedelmente, che in breve intendo farti ricco. In vero, dove potrei impiegare il mio danaro meglio che con te?—E tu devi convenirne meco. Allontanati per la via del giardino, e procura che nessuno ti veda all'andare, nè al tornare.

Olimpio obbediva.

———

Francesco Cènci rimasto solo, forte si stropicciava le mani in segno di profonda soddisfazione, e con parole rotte favellava:

—Stamane fu pasqua. Questo si chiama vivere davvero! Un parricidio tramato, un ratto ammannito, un furto ed uno incendio apparecchiati; poi i traditori traditi, e per giunta fatto cascare un santo. Finchè io sto in questo mondo il diavolo può andarsene in villeggiatura. Io sono il rovescio di Tito: costui gemeva se passava il giorno senza fare qualche bene: io arrovello se non ho commesso una ventina di mali. Tito!—Cerretano di umanità, gesuita del paganesimo! Giudea lo dica, e lo incendio spento dall'onda del sangue umano; e la moltitudine dei crocifissi, per cui mancava il terreno alle croci, o le croci ai corpi; e gli undicimila prigioni morti di fame; e le migliaia dei gettati alle belve in odio di avere difesa divinamente la patria[4]. Va, va, natura di stoppa, che non sapevi odiare, nè amare; piangendo lasciasti uccidere un milione e mezzo di uomini, e piangendo ti lasciasti strappare dal fianco la bella Berenice. Domiziano, tuo fratello, era fuso con bene altro metallo: cuore di acciaio; fronte di bronzo: immagine augusta di re. Il fulmine non sa distruggere cotesti semidei; se li tocca, li consacra. L'Apostata ti chiama belva d'imperatore[5]: belva tu, che andasti a farti scannare in Persia, mentre potevi condurre vita beatissima a Roma o a Bisanzio. A cui buona la vita se, dopo morte, i posteri non tremassero al nostro nome, e temessero vederci ricomparire, sbucati fuori della tomba, ad ogni tratto? Tutti rammentano il diluvio. La credenza di Dio si fonda sopra la paura, e quindi egli ebbe vittime di sangue. I tiranni si sono detti immagini del Dio di Mosè, che soffia con la sua propria bocca nel fuoco dello inferno; epperò furono temuti, ed ebbero anch'essi vittime di sangue, e tuttavia ne avranno. Se il Papa si fosse mantenuto ministro del Dio Agnello, a quest'ora lo avrebbero arrostito: le paterne viscere di Sua Santità si struggono di emulazione, perchè la piazza del Vaticano sia superata in meriti da quella di Vagliadolid. Il bene e il male tengono le mani dentro ai capelli della umanità; ma il bene glieli arriccia, il male glieli strappa. Io adoro la forza. Tutto è menzogna, tranne la forza: ella arroventa il suo marchio, ne segna alla gota le generazioni, e a furia di flagelli le disperde pel mondo:

Tremate, maledite, e obbedite: Così quaggiù si vive, E la porta del ciel si trova aperta![6]

Se mi fossi trovato alla battaglia, che gli Angioli ribelli combatterono contro Dio!—Dio! Dio!—Questa parola mi torna addosso come un tafano importuno, invano cacciato. Ma chi ha veduto questo Dio? chi gli ha mai favellato? Corrono oggimai cinquanta e più anni che io con ogni maniera di offese l'oltraggio, e la sua maledizione m'ingrassa i campi. Perchè mi creava egli così? Egli metteva le forbici sopra la pezza intera, e poteva tagliarmi a modo suo. E s'ei non mi creava, o perchè egli, Creatore, sofferse in pace che altri gli rubasse, e guastasse il mestiere? Anima mala: sono elleno anime malvagie le nostre? Sia; io per certo non ho ragionevole fondamento per impugnarle: ma non istava in facoltà sua farla buona, o cattiva? Poenituit! Sì? Se ei si pentiva, segno è certo ch'egli aveva sbagliato; e se sbagliò, perchè mai portiamo il peso dei suoi errori? E dove è allora la sua ogniscienza, dove la onnipotenza sua, dove lo infinito suo amore? Che penseremmo noi di cotesta femmina, la quale si avvisasse percuotere il suo figliuolo perchè lo ha partorito gobbo? E posto che egli abbia errato, come questo libro del mondo ci mostra palesemente ad ogni facciata; ma fosse poi buono davvero, secondochè ci danno ad intendere quelli che lo conoscono; o non poteva tirar di frego su l'uomo e la natura intera, e incominciare da capo? Meglio così, che impacciarsi in quel laberinto del riscatto, che a fin di conto non ha riscattato nulla. Egli fu nebbia: ha lasciato il tempo come lo trovò:—e se gli uomini prima andavano allo inferno di passo, ora ci vanno di corsa. Inferno! E sia; ed io vi andrò, per la ragione che la sentenza verrà profferita da chi è giudice e parte, e per di più senza appello. Tutti i giudici iniqui condannano senza appello. Deus autem fecit nos, non ipsi nos. Non importa: se l'anima è morta col corpo, mi piace; se sopravvive, anche di questo mi contento; a patto che non mi venga tolta la facoltà, da me fino a questo punto esercitata, di maledire per omnia saecula saeculorum; amen.

NOTE

[1] Questi versi, e taluni altri dei quali la citazione si omette, pronunziati da Francesco Cènci nel corso di questo Capitolo, appartengono a certo sonetto di Francesco Berni canonico fiorentino. Le anime timorate dei Gesuiti, per evitare gli scandali, provvidero che fossero applicate ai Luterani le sentenze dette dal Berni contra i Preti, conciando il sonetto così:

        Piangete, Luteran, chè il nostro Christo
        Cotanto vi odia, che non più si offende
        Del Turco, e l'errar vostro ognor si estende
        Per far lo stato vostro empio e tristo
: ec.

Questa mirifica trasformazione (d'altronde ordinaria nella fabbrica dei Gesuiti) occorre nella edizione delle Rime del Berni, fatta a Venezia nel 1627.

[2] PETRARCA, Sonetti.

[3] La inondazione del Tevere, a cui si allude, accadde al ritorno di Clemente VIII da Ferrara, ch'egli aggiunse ai dominii della Chiesa, il 23 dicembre 1598.

[4] Veramente io per me penso che pochi uomini al mondo sieno degni del vituperio e dello abbominio dei posteri quanto Tito, con quella maschera di umanità sul volto, e con la fama usurpata di benigno. Io desidererei che i miei compatriotti tutti leggessero la Guerra Giudaica di Giuseppe Flavio, onde imparassero, non dico a rispettare, ma ad ammirare i Giudei, combattenti per la indipendenza della patria contro la tremenda forza di Roma. Intanto mi sia lecito riportar qui una prova, dimostrativa quale e quanta fosse la umanità di Tito: «I soldati, per isdegno o per odio inchiodavano i dati loro nelle mani, e ciò in diverse maniere, per beffa; e attesa la moltitudine, ch'essi erano, mancava il terreno alle croci, e le croci ai corpi» (l. 5 c. 6). «I Romani tanta strage fanno nella presa di Gerusalemme, che allagarono di sangue tutta quanta la città fino ad ammorzarne molti luoghi compresi dal fuoco» (l. 6. c. 8). «Ora perchè i Romani erano stanchi di trucidare, e tuttavia compariva moltissima gente, Tito manda un bando, i soli armati e restii si uccidano, il rimanente si pigli vivo:—tutto il fiore cacciato nel tempio, e rinchiuso nel ricinto assegnato alle donne: per guardia vi pone i suoi liberti, e Frontone suo amico perchè sentenziasse di quale castigo fosse meritevole ciascuno. Egli dunque, i sediziosi tutti danna alla morte; i giovani, fatta una scelta fra i più grandi e avvenenti, li destina al trionfo; della moltitudine, i di là dai 18 anni inviolli per lavoranti in Egitto; ma li più furono da Tito stesso distribuiti per le provincie ad esservi nei teatri disfatti dalle bestie o dal ferro. Quelli che non varcavano la detta età furono venduti. Ma in quei giorni medesimi, in cui Frontone ne faceva la cerna, ne morirono undicimila di fame» (l. 6. c. 9). «Mentre Tito dimorava a Cesarea celebrò con gran pompa il giorno natale di suo fratello, aggiungendovi in onore di lui il supplizio di una gran quantità di Giudei; perciocchè il numero dei periti tra nel pugnare con le fiere, e di fuoco, e nel battersi insieme, sorpassò i duemila cinquecento!.. Indi Cesare venne a Berito, e qui ancora come innanzi disertò buon numero di prigioni.» (l. 7. c. 7). Ecco qual era il fratello di Domiziano, che la buona anima dello abate Pietro Metastasio ci dipinge nella Clemenza di Tito tenero così, da far piangere di passione quante femmine odono, o leggono. Io poi ho voluto riportare questi brani di Giuseppe Flavio, onde i poco versati nelle storie non si lascino sorprendere dalla reputazione di tali tiranni della umanità, e stieno in guardia contro le ipocrisie vecchie e nuove. Le parole nulla contano, e i fatti poco, dove non sieno continui, diuturni, e non diversi mai.

[5] GIULIANO, I Dodici Cesari,—DOMIZIANO.

[6] PETRARCA, Canzoni.

CAPITOLO V.

ANCORA DI FRANCESCO CÈNCI.

«A cagione del tuo cuore di ghiaccio, e del tuo ghigno di vipera; a cagione delle perfide tue iniquità, e per la ipocrisia della tua anima… pel piacere che trovi nel dolore altrui; per la tua fratellanza con Caino, io ti condanno ad essere il tuo proprio inferno». BYRON, Manfredo.

Di Francesco Cènci non dissi abbastanza. Così strano, complesso, ed anche mostruoso comparisce il suo ingegno da quanto fu esposto, e da quanto verrò esponendo nel corso della storia, che merita fermare il pensiero sopra di questo personaggio.

Non so se adesso; ma respiravasi un giorno per l'aere di Roma tale una ebbrezza, che toglieva l'uomo dalle consuete abitudini della indole umana. I fati ordinarono, che per un tempo tutto si presentasse costà fuori della consueta misura delle cose, e piuttosto immane, che grande. Chi più valoroso di Cesare? Chi più virtuoso di Catone? Chi o più politico di Augusto, o dissimulatore di Tiberio, o truce di Nerone, o stupido di Claudio? E, per non rammentare di soverchio nomi, chi più magnanimo degli Antonini? Le donne stesse toccano la cima della libidine e della castità, della perfidia e della fede. Lucrezia, Cornelia, Porzia, Arria, Eponina[1] ebbero nascimento nella medesima città che produsse Livia, Poppea e Messalina. Gli edifizi stessi, invece di essere dominati, pare che dominino il tempo: stanno; e malgrado le ingiurie dei secoli, e quelle più nocive assai degli uomini, non furono potuti disfare. Per la Europa, per l'Asia e per l'Affrica occorrono reliquie di questo popolo portentoso, come ossa di cadavere che abbia avuto il mondo intero per sepoltura. L'Aquila romana, logorando le ale nello immenso volo di conquista, ne sparse le penne per tutto l'universo. Roma gittò dalla cima del Campidoglio una rete di ferro sopra i viventi; più tardi tentò gittarne un'altra di credenze e di paura, e conquistarli di nuovo. I Papi all'ombra del Colosseo soltanto poterono concepire il pensiero di farsi re dell'anima. Quando consentirono a ridursi in Avignone diventarono davvero servi dei servi[2]. Il Papato nello schiaffo di Bonifazio VIII patì un oltraggio, dal quale sarebbesi rilevato difficilmente: pure anche Gesù l'ebbe, e non di manco vive e regna; ma il processo, che per paura sostenne si facesse alla memoria di Bonifazio il codardo Clemente V, fu ferita insanabile all'autorità pontificia.

Roma guerriera si avventa a modo di leone, e sbrana, o perdona la jena nemica: Roma sacerdotale seguita, come la fiera, i barbari alla lontana; ma il giorno della battaglia ella stende la mano sul bottino di guerra.—Roma galeata invia Proconsoli, che costringono i Re dentro un cerchio tracciato sul terreno; Roma mitrata invia frati con la testa scoperta e i piedi nudi a mettersi fra il taglio della scure del barbaro e i popoli oppressi. Perchè furono spediti cotesti frati? Forse per riparare i percossi sotto la veste di Cristo, o piuttosto per andare d'accordo, prima che la scure calasse, intorno alla parte delle spoglie e della carne? Lo dica la storia. Roma cade o come gladiatore combattente, o come rettile pestato: in ambedue i casi ella manifesta tremendo lo spirito di vita; imperciocchè, per quanto sia dato antivedere ad intelletto umano, essa non deva spegnersi, bensì trasformarsi. Il gladiatore cadde, allagò di sangue la terra, si rialzò, combattè ancora, e giacque quando le ultime gocce gli stillarono dalla ferita lente, pese, e rare come le prime della procella[3]. Il serpe tronco su le vertebre dura ad agitare le membra lacerate: gli basta vivere, quand'anche la sua vita non dovesse manifestarsi che con l'estreme convulsioni dell'agonia. La fiaccola romana, due volte accesa dalla destra dei fati, finchè le bastò la resina mandò di tratto in tratto vampa capace d'incenerire, o illuminare una generazione. Adesso Roma compie i suoi secondi destini: non avendo saputo, nè voluto gittare via la soma, che la incurva alla terra, ad ogni passo vacilla, ed accenna cadere. Chi fu una volta, e pretese sempre essere signore, deve sporgere limosinando la mano agli antichi suoi servi?—Temi i doni del nemico; esso si prostra, ma ridendo, ai tuoi piedi: egli venera l'autorità religiosa per tesserne un filo, e, attorto all'altro della autorità violenta, rinforzare le catene del mondo. Non trovando diritto sopra la terra, egli s'ingegna, mercè del Sacerdote, derivarne uno dal cielo. Napoleone rialzò il Pontefice perchè lo ungesse Imperatore e sparisse. Una macchina religiosa messa fuori in un giorno di festa e poi riposta, o distrutta. Quando Bonaparte prese in fastidio la sua vera, la sua gloriosa origine—quella del Popolo—evocò il Papato, come Saulle l'ombra di Samuele, onde gli fingesse origine divina. Se i diacci del settentrione non erano, adesso si troverebbero le chiavi della Chiesa in qualche museo con le altre spoglie fatte in guerra[4]. E così sempre avvenne dalla parte di Francia; talora si presentò come alleata, tal'altra come figlia devota: ella ha mentito sempre. Il suo grido è stato quello di Diogene esposto al mercato per esservi venduto schiavo: «chi vuol comprare un padrone?»

Ma così non può durare, nè durerà. Tutte le cose nostre hanno lor morte. Il dubbio aveva roso il tronco dell'albero, ora ha prodotto un frutto di odio; le genti lo hanno raccolto, e se ne sono saziate: staremo a vedere se i vassalli di Filippo il Bello, educati alla scuola di Voltaire, faranno rigermogliare all'antico albero frutti di vita. Errore fatale! Cesare che fu spento alla sprovvista, e Dionisio a cui consentirono prolungasse la vita con pane di obbrobrio, non morirono finalmente di pari morte entrambi?—Morirà Roma sacerdotale, non però la Chiesa di Cristo. Come il nostro Redentore, gittato lontano da se il coperchio del sepolcro proruppe fuori luminoso dei raggi della eternità, così la Chiesa lanciati nel fiume gli ornamenti terreni, che la fanno scambiare con la donna dell'Apocalisse[5], inebriata del sangue dei santi si porrà dinanzi alle generazioni avviandole su pel cammino del cielo.

Dal ribollimento portentoso della barbarie, che tenne dietro al naufragio della civiltà romana, non dovevano galleggiare due teste coronate, nè nuovi tormenti e nuovi tormentati: sibbene la Croce vincolo comune di popoli fratelli, benedizione a tutte le genti che vivono in pace nella terra dei loro maggiori. Se ad ogni modo il Padre dei fedeli voleva presentarsi incoronato, Cristo aveva insegnato di che cosa dovesse comporsi la sua corona; tutte le gemme del mondo non valgono una spina della corona di Cristo!—

Queste verità furono predicate ab antiquo dal senno italiano; ma comunque ripetute a sazietà, non riescono meno pericolose a cui le dice, nè meno odiate a cui le dovrebbe ascoltare, e non le ascolta. Molti dei nostri grandi, che le professarono, riposano adesso in Santa Croce sotto monumenti fastosi; se vivessero sarebbero travagliati in carcere; dove ora io mi trovo vicino a cotesto Tempio, sperando a mia posta nel sepolcro, se non fama, riposo.

Giudici e Sacerdoti affermano essere gravi errori cotesti; e non solo lo affermano, ma lo provano con le prigioni e gli esilii: a lasciarli fare brucerebbero ancora. Lo ammonimento: Amate la giustizia, o voi che avete a giudicare la terra, non trovò eco nei loro orecchi. Aghi calamitati vòlti sempre al polo della tirannide e dello errore, un giorno saranno a posta loro giudicati.—Beati quelli di cui il peso sarà trovato giusto in quel giorno!

Francesco Cènci fu alito corrotto di antico genio romano; alito latino uscito fuori da un sepolcro scoperchiato, ma pur sempre alito latino; ebbe indole indomata, talento schernitore, anima implacabile, e cupidità dello immane, del mostruoso, e del grottesco. Se fosse vissuto ai tempi di Giunio Bruto non solo avrebbe condannato i suoi figliuoli, ma, spingendo la violenza contro la natura oltre il possibile, gli avrebbe decapitati di propria mano. Fu vaghissimo di scienza, che poi, come Salomone, dileggiò, chiamandola vanità e travaglio di spirito; ovvero se ne giovò nella guisa, che i Sibariti adoperavano le rose come istrumento di morte. Ebbe ricchezze, e le profuse senza poterle distruggere. Con immensa potenza di sentire, pensare ed operare egli vide pararglisi innanzi le due vie del bene e del male. Breve, a cagione dei tempi, il cerchio del bene: qualche affetto domestico, facoltà di fondare chiese o monasteri, sollevare la povertà con la elemosina, che la perpetua; vita placida; morte oscura; memoria durevole quanto l'eco della voce del monaco, che ti canta il miserere per le navate della parrocchia.

Nè il secolo in cui viveva consentiva estendere le forze portentose dell'anima sua a prove maggiori: cotesti erano giorni di agonia per lo intelletto italiano; il cielo nostro vestiva la cappa di piombo degl'ipocriti di Dante, la quale permetteva a quelli che vegetavano sotto di andare in cento anni appena un'oncia. Nonostante si provò a operare grandemente; uomini e cose gli si strinsero intorno come la camicia di Agamennone, sicchè presto il bene gli venne in fastidio, poi gli parve abbietto, finalmente l'odiò. Si volse al male, e gli disse, come il Demonio,—sii il mio bene!—Gli piacque la parte di Titano, e gli parve magnifica audacia levare la fronte ribelle contro il cielo, e sfidarlo. Riposto nel male ogni suo desiderio, siccome ogni mezzo per salire in fama, lo amò col delirio dello ebbro e con l'ostinazione del calcolatore: oltrepassare le nequizie fino a lui conosciute immaginò che fosse trasportare altrove le colonne di Ercole, e scuoprire nuovi mondi: strinse vincoli di famiglia per la voluttà di lacerarli scelleratamente: coltivò affezioni più care per ispegnerle o sotto il soffio di un crudele scherno, o meno dolorosamente col pugnale: a Dio non credeva, ma lo sentiva come un chiodo in mezzo al cuore; e allora lo bestemmiava brutale a modo dell'orso, che morde lo spiedo che lo ha trafitto pensando sanare la piaga; empio miscuglio, insomma, d'Ajace, di Nerone e di bandito volgare, don Giovanni Tenorio è un frammento del suo carattere[6]. Visse tormento a se e ad altrui: odiò, e fu odiato; si nudrì di male, e il male lo uccise. Morì come forse avrebbe scelto morire; imperciocchè tanto erano giunte le sue scellerate passioni a soffocare la natura, ch'è lecito supporre, che sentendosi ormai grave di anni, e di forze più poco adattato a nuocere, almeno per lungo tempo, il suo truce spirito esultasse della strage del corpo nel pensiero, che varrebbe a precipitare nel sepolcro per via di sangue la sua intera famiglia. Io immagino vedere cotest'anima trista soffiare nei carboni che arroventarono le tanaglie, le quali straziarono le carni del suo figliuolo Giacomo; abbrivare la mazzola che gli ruppe le tempia; e a piene mani raccogliere il sangue grondante dalla scure che recise la testa dei suoi, per bagnarsene il petto come rugiada rinfrescante. E fermamente credo che sarebbe stata opera meritoria non pure disperderne la cenere pei quattro venti dalla terra, ma condannarne la ricordanza a perpetuo oblio, se il Consiglio divino non avesse posto la innocenza accanto al delitto, il vizio accanto alla virtù, il dolore al piacere, la luce alle tenebre;… e però le immanità sue non servissero a dimostrare quale e quanto bello angiolo di amore fosse Beatrice sua figlia, la più semplice, la più fiera, e la più infelice delle donzelle italiane.

Poichè giustizia mi muove a penetrare in cotesta antica sepoltura, io la scoperchio; sicuro di trovarvi la vergine sepolta, come già fu rinvenuto nelle catacombe romane il corpo di santa Cecilia[7] intatto, vestito di una veste bianca simbolo di purità; atteggiata a dolce riposo, con un nastro vermiglio intorno al suo collo di cigno:—cotesto nastro vermiglio è la traccia della scure, che recise un capo divino da un corpo divino!

NOTE

[1] Le donne ricordate sono note abbastanza, tranne Eponina ed Arria. Eponina fu moglie di Giulio Sabino. Ribellatosi costui contro Vespasiano Imperatore, fu vinto, e riparò dentro un sotterraneo; con lui si chiuse la consorte fedele, e quivi stettero dieci anni interi procreando ed allevando figliuoli. Scoperti, e tratti davanti a Vespasiano, non trovarono misericordia, al cospetto dello imperatore crudissimo, tanta fede e tanta miseria. DIONE CASSIO, Stor. l. 66.—Arria ebbe a marito Cecina Peto, uomo consolare. Questi essendo caduto prigione nella sconfitta che toccò Scriboniano, non osava darsi la morte, che Claudio imperatore gli aveva ordinato: allora la valorosa femmina, dopo avere tenuto al suo consorte discorsi adattati a ingagliardirgli il cuore, gli tolse dal fianco il pugnale, e quello appuntandosi al petto, con lieta faccia gli disse: «Mira, Peto, si fa così», e se lo immerse dentro; quindi subito estraendolo tutto fumante di sangue, glielo porse con dolce parlare: «Peto, non fa male! Non dolet, Pete!»; e così favellando moriva. Il marito, senza porre tempo fra mezzo, la forte moglie seguitava nella morte. PLINIO Jun. III. 16.

[2] Filippo Valesio minacciò far condannare come eretico dalla Università di Parigi Giovanni XXII. Benedetto XII piangendo confidava agli ambasciatori di Ludovico il Bavaro imperatore, che il medesimo Re Filippo gli aveva promesso fargli anche peggio che non fu fatto a Bonifazio VIII, se si fosse attentato a sciogliere dalla scomunica il Bavaro. MICHELET, Hist. de France, t. 3.—Più tardi forse, se me ne prende vaghezza, dimostrerò storicamente gli aiuti francesi sul Papato di qual gusto essi sappiano.

[3] Pellegrinaggio del Fanciullo Aroldo.—C. VI. st. 140.

[4] Due scrittori contemporanei, l'uno di maggior fama che merito (THIERS) l'altro di maggior merito che fama (FOSCOLO) hanno discorso, quegli nella Storia del Consolato e dello Impero, questi nei suoi Scritti politici, delle ragioni che persuasero a Napoleone il concordato con la Santa Sede. Chiunque ami conoscere a prova senno italiano a paragone di senno francese che cosa sia, può confrontare le considerazioni dell'uno e dell'altro scrittore. Thiers riporta come eco quanto piacque allo Imperatore dare ad intendere a cui ci volle credere. Il Foscolo penetra dentro al cervello del solenne e dissimulato politico, e mette in luce le vere ragioni che lo condussero a quel passo.

  [5] Di voi pastor s'accorse il Vangelista,
        Quando colei, che siede sovra l'acque,
        Puttaneggiar co' regi un dì fu vista.

                      DANTE, Inferno, C. XIX;

e Apocalisse, Cap. 17.

[6] Il signore STEHNDALL ha scritto, o piuttosto tradotto, un racconto volgare, che corre intorno ai casi della famiglia Cènci, aggiungendovi parecchie osservazioni di suo. Nel presentare, per così dire, la psicologia di questo immane uomo di Francesco Cènci, in qualche parte io me ne sono giovato; e ciò tanto più dichiaro volentieri, in quanto che noi altri italiani andiamo lieti palesare animo grato a cui mostra amare le cose nostre, e noi; come di altissimo disprezzo proseguiamo cui per maligna ignoranza si fa nostro detrattore. E veramente duole, ma duole assai, che la maggior copia di fatti alterati e di giudizii falsi e ridicoli intorno alle cose e agli uomini italiani muova di Francia. I tedeschi (e possano vergognarsene i francesi) come meglio informati, così procedono più giusti verso noi altri italiani.

[7] Io non mi posso astenere dal riportare qui un frammento della Storia della Scultura del Conte CICOGNARA, sia perchè in se stesso merita considerazione, sia perchè si versi appunto intorno alle arti dei tempi, nei quali successero i casi che noi raccontiamo: «La storia di queste arti presenta un convincimento di tale verità nella bellissima figura scolpita da Stefano da Maderno per la chiesa di Santa Cecilia in Trastevere; opera elegantissima, riuscita a quel modo malgrado la corruzione dei tempi, e che nessuno potrebbe mai credere eseguita dallo stesso artefice, che nella Cappella di Paolo V scolpì poi la storia di una battaglia…. Questa graziosa statua giacente rappresenta un corpo morto, come se allora fosse caduto mollemente sul terreno, con l'estremità bene disposte, e con tutta la decenza nello assetto dei panneggiamenti, tenendo la testa rivolta allo ingiù e avviluppata in una benda, senza che inopportunamente si scorga lo irrigidire dei corpi freddi per morte. Le pieghe vi sono facili, e tutta la grazia spira dalla persona, che si vede esser giovane e gentile, quantunque asconda la faccia; le forme generali e le belle estremità che si mostrano, danno a vedere con quanta grazia e con quanta scelta sia stata imitata la natura in quel posare sì dolcemente. Or dunque come poteva ciò farsi, se di tutti gli artefici, che abbiamo qui nominati, nessuno mai scolpì cosa che con questa potesse venire al confronto?…. Due ragioni evidentemente spiegano questo fenomeno nella storia dell'arte. La prima, che essendo stato trovato in quel tempo il corpo di santa Cecilia intatto in una cassa, ed atteggiato tal come si vede la statua, venne ordinato per buona ventura che lo artefice imitasse la giacitura del medesimo, cosicchè ponendosi il guardo al monumento, si vedesse tutta la somiglianza al corpo della vergine incorrotta, che Clemente VIII nell'anno 1599 fece riporre in una magnifica cassa di argento, dopo la miracolosa sua liberazione dalla podagra». Vol. VI. C. 2.—Così il corpo di santa Cecilia con la testa mozza fu trovato precisamente nell'anno in cui Beatrice Cènci ebbe recisa la sua.

CAPITOLO VI.

NERONE.

                    Fanciulla del dolore, o tu che sai
                      Piacere anco sepolta, e ricoperta
                      Dal silenzio di trecento anni, bella
                      Sai tornare alla idea come nel giorno
                      Che te lo Amor rapiva, o tu delizia
                      Dei racconti di queste itale care
                      Fanciulle, che spirar sai dalle stesse
                      Dipinte tele, onde l'occhio fatato
                      Dal tuo sguardo, in imago ancor ti cerca
                      Rediviva per Roma, abbi il mio pianto.
                                     ANFOSSI, Beatrice Cènci.

Era bella come il pensiero di Dio, quando mosse innamorato a creare la madre dei viventi:—era cara quanto i suoi ricordi. L'Amore con le mani di rosa delineò le curve soavissime del suo volto dilicato; ed appoggiandole il dito sul mento per contemplare la sua gentile fattura, vi lasciò la fossetta;—segno veramente di amore. La sua bocca rassomiglia un fiore testè colto in paradiso, tutto fragrante di divinità; la quale diffondendosi intorno alla persona fa reputarla non terrena creatura: così gli antichi cantarono, un senso di ambrosia rivelasse ai mortali la presenza di un Dio. I suoi occhi spesso cercavano il cielo, e lunga pezza ve li teneva fissi con immenso desiderio, sia per contemplare la patria, della quale ben presto tornerebbe cittadina; sia per iscorgervi spettacoli misteriosi rivelati a lei sola; sia, finalmente, che l'amata immagine materna quinci con la voce la chiamasse e co' cenni. Certo fra gli occhi della inclita fanciulla e lo emisfero nostro quando esulta sereno traluceva, dirò quasi, una parentela, imperciocchè entrambi apparissero formati col medesimo azzurro:—entrambi annunziassero la gloria del Creatore. Quando, declinandoli alla terra, ella considerava cosa o persona, gli apriva splendidi ed acuti per modo, che paresse dilatare l'anima e la intelligenza con quelli: allora chiunque le stava davanti, se non si sentiva innocentissimo di cuore portava frettoloso la mano sul petto, dubitando che lo involucro della carne non bastasse a celarle i pensieri riposti della colpa; altri poi per tenerezza lacrimava: per ogni dove li girasse l'aria diventava più chiara, il cielo più lieto. Se interveniva a balli notturni, ecco la luce delle fiaccole per virtù dei suoi occhi raddoppiava; le note armoniche sfavillavano più melodiose, e il piacere si versava a onde sopra i giovani capi. In qualunque punto del festino ella fosse scomparsa, la noia soffiava un alito ghiacciato sulla universale esultanza. La sventura certo aveva battuto le ale intorno cotesta fronte bianca di giglio; ma l'era venuto meno lo ardimento per lasciarvi sopra una traccia inamabile, e passò oltre. La preghiera dei mortali avrebbe potuto riposare su quella fronte, per librarsi quinci più pura verso il trono di Dio. Nei giorni giocondi, ahi rari!, della sua vita ella si compiacque talora sciogliere con giovanile baldanza il volume delle chiome bionde, e apporle al sole; quasi volesse instituire gara co' raggi di lui: ma il sole le circondava amoroso di tale uno splendore, che la gente tremava di reverenza e di piacere a riguardarla, reputandola una santa scesa dal cielo circonfusa dal nimbo radiato[1].

O Bellezza! Io dai primi anni ti ho alzato un altare nell'anima, dove ti sacrifico i più dolci dei miei pensieri;—pensieri che, me levando da questa creta mortale, mi avvicinano al Creatore di tutta bellezza; ma nè io ho parole, nè credo che veruno umano eloquio le possieda, capaci di significarti degnamente: se potessi appormi la carta sul cuore, e improntarla dei suoi palpiti, forse aprirei alle genti concetti non mai più uditi: però questo nè a me, nè ad altri fu concesso, e le mie immagini è forza che si rivelino incomplete, vaghe, e confuse; onde se la fantasia di chi legge non supplisce al difetto, io dispero farmi comprendere. Oh da quante catene è stretta quaggiù l'anima immortale!

Bellezza, Amore, voi eravate ai fianchi di Dio nel giorno della creazione; egli vi lasciò suoi primi vicarii sopra la terra. La bruttezza e l'odio vennero più tardi, faville scoppiate insieme dal primo fulmine che Dio avventò contro l'uomo, quando lo condannava allo affanno e alla morte. Il culto della Bellezza e dello Amore riconduce la nostra schiatta diseredata alla sua origine divina.

O Francesco Petrarca, tu che per prova intendesti amore; dopo tanti dolci concetti, con quale amaro liquore ti bagnò il labbro Calliope quando dettasti questi versi ingiocondi:

    Ei nacque d'ozio, e di lascivia umana,
      Nudrito di pensier dolci e soavi,
      Fatto signore e dio da gente vana?
[2]

E senza amore dove sarebbe adesso il tuo nome? L'Africa certo, e il dotto favellìo delle tue epistole non farebbero cercare il tuo volume. Tu saresti, come tanti altri scrittori, posto a modo di medaglia antica dentro lo scaffale, per informare chi avesse voglia di saperlo, che tu vivesti un dì. Se amore nasce da lascivia, o come avviene che nel muovere degli occhi onesti e tardi della tua donna tu vedevi il dolce lume, che ti mostrava la via che al ciel conduce? Se in cuore umano fuoco di amore poco dura dove occhio e tatto spesso nol raccenda, o come, dopo la morte, ti compariva Laura tutta accesa nei raggi di sua stella, e tu le muovevi pietose parole, ed ella or sì, or no pareva rispondesse; finchè, risensando dal mesto vaneggiare, dicevi alla tua mente:

     ….. tu se' ingannata;
    Sai che in mille trecentoquarantotto
      Il dì sesto d'aprile, in l'ora prima,
    Del corpo uscìo quell'anima beata?
[3]

Ah! se la terra avesse sepolto a un punto la bella vesta delle membra di Laura e la memoria del suo amore, i tuoi canti suonerebbero esercitazioni di gaia scienza, eco delle canzoni dei Trovatori, gemiti mentiti di cuore bugiardo; e se così fosse, io ti compiangerei perchè avresti tradito i posteri, e te.

Beatrice stava seduta sopra un verone del palazzo Cènci, che guardava il giardino: in grembo ella teneva un fanciullo, che dagli occhi, dai capelli, da tutte le sembianze appariva esserle fratello: ella gli accarezzava amorosa i capelli, e di tratto in tratto gli baciava la fronte. Il fanciullo riposa il suo capo sul seno della sorella, e affissa in lei le pupille immote, ma senza intenzione, a guisa di persona assorta nel pensiero di qualche cosa fuori di questo mondo. La infermità aveva appassito il fiore della giovanezza: la sua pelle era tenue, e candida di un bianco pallido e dilicato così, che i raggi del sole cadente gli tralucevano in vermiglio traverso le orecchia e le dita: talora sospirava, più spesso schiudeva la bocca con isbadiglio convulso: pareva un angiolo in pena. Beatrice sconsolata gli disse:

—A che pensi, mio diletto Virgilio?

—Penso, che sarebbe pure stata la grande carità non farci mai venire al mondo!

—Ah! Virgilio…

—E poichè a questo non trovo più rimedio, il meglio sarà uscirne presto.

—Uscirne! E perchè?

—E perchè restarci? Il mio cuore qui dentro è morto da tempo; e quando il cuore è morto, oh come pesa che gli sopravviva il corpo!

—Tu, si può dire, ti affacci appena, fratello, alla vita, e già favelli parole disperate; ciò non istà bene: vivi e rallegrati, perchè non sai quali rose educhi per te la fortuna.

—Rose! fortuna! Adesso la morte coglie i fiori per la ghirlanda della mia bara. La fortuna mi abbandonò quel giorno che perdemmo la madre…

—Ma noi non ci possiamo considerare orfani affatto: forse l'ottima signora Lucrezia non ci mostra viscere di madre?

—Sì, ma non è nostra madre.

—E poi non hai anche me, che ti amo tanto?

—Sì, sì, buona sorella, rispose il fanciullo gittandole le braccia al collo e piangendo dirotto;—ma nè anche tu sei la mamma mia.

—Ed oltre a me, ti mancano forse fratelli? Non hai tu padre?

—Chi padre?

Beatrice, atterrita dallo improvviso rimescolarsi del fanciullo a cotesta parola, si tacque. Solo, dopo lungo silenzio, con voce esitante soggiunse:

—Francesco Cènci non è per avventura tuo padre… e mio?

Il fanciullo abbassò il capo, chiuse gli occhi, fece delle braccia al petto croce, e con suono velato rispose:

—Sorella, guardami su la fronte alla radice dei capelli; vedi la cicatrice che vi porto?—La vedi?—Sai tu chi mi ha ferito?—Io non tel dissi fin qui; ma ora, che mi sento vicino a morire, io te lo posso confessare. Ripensando fra me come Francesco Cènci mi tenesse in dispregio, e sovente mi guardasse di traverso, nè a me parendo di meritarlo, un giorno, fattomi cuore, gli caddi davanti, e tentai prendergli la mano per recarmela alla bocca. Egli gridò: «va via, bastardo!» e mi diè così forte un pugno nel petto, che mi spinse giù a precipizio a percuotere col capo nello angolo dello armario, ch'ei tiene nel suo studio.—Francesco Cènci mi vide svenuto, e tutto intriso di sangue;—mi vide, e non mi rilevò.—Di qui la ferita; di qui la infermità, che mi consuma le viscere…

Beatrice rabbrividì, nè potè formare parola. Il fanciullo con passione crescente scuoprendo dalla manica un braccio scarno, e sporgendolo verso la sorella:

—Guarda, aggiunse, la traccia di questo morso. Sai tu chi me lo ha fatto? Nerone; e senti come. Un giorno io colsi in giardino una bella pesca, e dissi: andiamo ad offrirla al signor padre, che forse la gradirà. In questo pensiero mi avvio alla sua stanza, apro l'uscio, e vedo ch'ei legge. Timoroso di disturbarlo, mi accosto pian piano; quando Nerone mi si avventa addosso e mi morde il braccio:—io spasimava per dolore… mio padre rideva.

Il seno di Beatrice palpitava così, che parea volesse spezzarsi.

—E se Marzio non era, egli mi lasciava sbranare. Mira anche qui—e il fanciullo si spartiva i capelli al sommo del capo—vedi questa piazzetta? Manca una ciocca di capelli. Sai tu chi me gli ha strappati? Il padre mio. Poco dopo il colpo percosso dentro l'armario, col capo tuttora fasciato, preso dalla passione che mi affogava, mi presentai risoluto dal padre, e gli dissi: «Padre mio, in che cosa vi offesi? perchè mi odiate voi? Beneditemi in nome di Dio, benedite il figliuolo vostro, che vi ama». Egli, avvoltasi prima una ciocca dei miei capelli alle dita, mi rispose così;—senti bene, proprio così: «Se tu avessi il capo di zolfo, e le mie parole fossero di fuoco, io ti benedirei per bruciarti: va, vipera, perchè io ti odio tu devi odiarmi; io non so che cosa farmi del tuo amore, bastardo!» E tirò tanto forte, che mi parve tutta la pelle del cranio si distaccasse con immenso dolore: la ciocca dei capelli gli rimase in mano; ed infuriando, lo spietato, nella ira, come se egli soffrisse, non io, il dolore, soggiunse: «Io maledico te e i tuoi figliuoli, se mai arrivi a procrearne; possiate tutti vivere di miseria, nudrirvi di delitto, e morire di patibolo».—Ora, Beatrice, fammi grazia di dirmi un po' come posso desiderare di vivere io? Mia madre mi ha lasciato; mio padre mi ha maledetto: non è egli dunque meglio, che io muoia? Non dico il vero, sorella?—E qui il fanciullo singhiozzava convulso.

Cotesti dolori non potevano consolarsi. Beatrice lo sentì, e si tacque; la sua fronte si coperse di sudore, e le gocce succedendosi cadevano spesse come le lacrime dagli occhi dolenti. Poichè fu trascorso spazio lungo di tempo in silenzio affannoso, Beatrice, comprimendo la passione che le traboccava dall'anima, si provò a confortarlo con voce mansueta:

—Quietati, Virgilio, tu avrai colto il mal tempo…

—No, egli era tranquillo…

—Forse turbato da qualche cura segreta…

—No, egli era lieto;—dopo che il cane mi ebbe morso egli si pose a scherzare con lui… col cane, che stette per isbranargli il figliuolo!—Adesso anch'io non lo amo più… sai? Quando lo vedo m'entra il tremito nelle vene, e la sua voce mi dà il dolore di capo. Spesso con gli occhi della mente io vedo non lontano un luogo oscuro, dond'esce rumore di bestemmie e d'imprecazioni scellerate; e una voce irrequieta mi tintinna nelle orecchie: «Cotesta è la contrada dell'odio, tu sei aspettato colà». Io non vi voglio andare; io non voglio odiare persona… molto meno mio padre… piuttosto voglio morire.

Beatrice, tramutata nella faccia, si sentiva venir meno; ma con la forte volontà domando la natura, si vinse: levò gli occhi al cielo, si sforzò favellare, e non potè;—invece di parola, dalla gola attenuata mise un singulto. Soprastette alquanto, e poi con voce, che studiò rendere soave, disse:

—Virgilio mio, non disperiamo; ma supplichiamo l'Eterno onde voglia ispirare sensi più mansueti per noi nella mente del nostro genitore.

—O Beatrice! E pensi tu, che io non lo abbia supplicato? Oh quante volte l'ho fatto! La notte precedente al giorno in cui Francesco Cènci respingendomi da se mi ruppe la testa, io mi levai cheto da letto in camicia, scalzo, e me ne andai giù in cappella; dove, inginocchiato davanti la reliquia di santo Felice protettore della nostra famiglia, supplicai con tutto il fervore perchè l'anima del padre ammollisse, e lo persuadesse a ricambiare con un poco di amore lo svisceratissimo bene che gli portavamo noi. Vedi eh! come mi esaudirono i santi!

E trattenendosi alquanto sopra di se, poco dopo riprese:

—Ma un'altra preghiera conosco avermi esaudito Dio, e fu quando mi rilevai da letto, e per la seconda volta andai a prostrarmi davanti al Crocifisso miracoloso, e: Abbi misericordia, dissi, o divino Redentore, di me, e tu o mi dona lo affetto del padre, o richiamami alla tua pace. A queste parole Gesù piegò il capo, come per rispondermi: Sarai esaudito…

—Ci esaudirà tutti, inspirando benignità nel cuore del padre…

—Io so di certo che fu esaudita la seconda parte della preghiera, e non la prima; imperciocchè, quando mi ricondussi a giacere, una voce distinta mi chiamò: «Virgilio! Virgilio!» Mi alzai, apersi la porta, e non vidi persona; tornai a coricarmi, e la voce di nuovo gridò: «Virgilio! Virgilio!» Per questa volta io non mi era ingannato di certo, e risposi: «chi mi chiama?» E la voce: «Io ti chiamo dal paradiso». Eccomi pronto, mio Dio»; ma la voce: «No, la tua ora non è venuta ancora, ma si avvicina».

—Coteste sono immaginazioni che dà la febbre; su, via, non lasciarti rodere dalla tristezza; io ti voglio veder lieto…

—Perchè le chiami immaginazioni? Forse non si legge nella santa scrittura, che il Signore fece sentire la sua voce a Samuele? Anche ieri notte, tenendo gli occhi aperti, vidi a un tratto empirsi la stanza di luce, ed entrare una bellissima gentildonna vestita di celeste, tutta ingemmata, la quale essendosi fatta accosto al letto si curvò, pose il suo volto accanto al mio, mi baciò in fronte, e sparve: le sue labbra erano ghiacciate, e il freddo mi strinse il cervello. Vuoi sapere, Beatrice, a cui rassomigliava la gentildonna?—Rassomigliava al ritratto della signora Madre, che sta appeso in sala grande. Tutto mi parla di morte. Forse non sento che io manco a poco a poco, come candela giunta al verde? La vita mi fugge da tutti i pori. Guarda queste mani scarne, e bianche al pari del marmo; guarda queste unghie colore di viola; guardami qui in mezzo della fronte, e vedi il segno espresso ove ha deposto il suo bacio la morte.

E più non potè dire.

Un uccello in questo momento venne a riposare le stanche ale sopra il parapetto della terrazza: volgeva il capo in qua e in là, come sospettoso d'incontrare molestia; ma presto assicurato, si pose a saltellare—a beccare; finalmente parve fissasse il fanciullo; poi sciolse un dolcissimo canto, aperse le penne, e fuggi via.

—Oh, esclamava Virgilio, potess'io seguitarlo! Forse, chi sa!, egli conosce suo padre, e sua madre dall'aperta frasca tende lo sguardo ansiosa del suo ritorno. O madre mia! Beatrice, dimmi, dov'è nostra madre adesso?…

—Nostra madre?—È lassù in paradiso.

—Lo so, la sua anima alberga nella patria dei giusti; ma io vorrei conoscere in qual parte riposino le sue ossa. Sapresti tu indicarmelo, Beatrice? Il Conte Cènci non volle permettere mai, che mi conducessero a visitare il sepolcro di nostra madre…

Beatrice, studiando deviare il doloroso colloquio in obbietti alquanto meno tristi, si levò pronta per appagare il desiderio del fanciullo; e, postolo a sedere sul parapetto della terrazza, si prostese fuori col busto.

Il pianeta del giorno stava per tramontare, e mandava i mesti raggi dello addio a questa terra, che, sebbene infelice, gli è sì cara. Ogni digradare della luce presentava una nuova maraviglia: colori soavemente più languidi, come lo spirare dei suoni per la superficie delle acque. Le vette dei campanili, le cime dei monti, le nuvole lontane pareva si affaticassero a ritenere un palpito di raggio, in quella guisa stessa che i cari parenti, da balcone da loggia o da colle, sventolano al pellegrino che si allontana un panno bianco, finchè la sua forma non si confonda con la bruma della sera… Oh Dio! Egli è presso a sparire; gli occhi della madre, offuscati dalle lacrime, non lo distinguono più; ella se gli asciuga col velo per rimirarlo ancora:—adesso ella li tende più alacri che mai… ahimè! il suo figliuolo è sparito:—quando lo rivedrà? Voci misteriose mormoravano pel cielo e per la terra: dalle piante e dalle acque uscivano sussurri di gemiti segreti, eco di quelli che si diffusero lungo le marine alla morte di Cristo, e piangevano: Il gran Pane è morto![4]

Questa terra, anticamente mesta e vocale più di ogni altra, rivela il dolore del mondo al dileguarsi del sole. Nati gemelli nel giorno della creazione, essi spireranno insieme. Comecchè la terra sappia che il sole tornerà domane a portarle luce e calore, pure ella conosce ugualmente, che i giorni dalla mano del tempo cadono irrevocabili nello abisso della Eternità. Molto certamente hanno vissuto insieme prima che l'uomo nascesse, e molto vivranno ancora dopo che la nostra razza sarà scomparsa; passeranno secoli e secoli, avanti che si rompano sfasciati a rovinare in corsa disordinata per le miriadi dei mondi superstiti; ma ogni secolo come ogni minuto si avvicinano al punto, dove il Creatore per ogni cosa creata ha scritto: basta. Se l'uomo pensasse che questi eccelsi luminari, che queste belle luci di amore, portento delle notti serene, hanno a chiudere le palpebre nella morte; che tutto, anche le rocce di granito, ossatura della terra, ha da sformarsi… Se l'uomo, dico, a queste cose pensasse… atomo infelice balestrato dall'utero della donna nel seno della morte, tormenterebbe egli per essere tormentato?—O grano di sabbia maligno! tu ardisci perfino avventarti dentro gli occhi di Dio, e farli lacrimare di spasimo…—

Ma intanto questa bella e magnifica natura non può rimanere lungamente desolata; ed ecco non per anche il sole è scomparso da una parte dello emisfero, che dall'altra si affaccia la luna.—Benvenuta, amica delle anime afflitte; benvenuta, compagna dei nostri trionfi: anche vestiti della tua luce si mostrano maestosi alle genti il Campidoglio e il Colosseo; anche al lume dei tuoi raggi negli archi di Tito, di Costantino, di Severo, e nella colonna Trajana si vedono le immagini dei popoli vinti. Ahimè! Luna, che percorri frettolosa il cielo di Roma, tu non vedrai più nemici vinti, se non iscolpiti sopra i monumenti degli antichissimi capitani.

Nella notte, al chiarore di questa luna, quando Roma dorme più profondo il sonno dal quale sarebbe misericordia che non si destasse mai più, le larve dei famosi capitani scoperchiano le vetuste sepolture, e vengono silenziose a visitare la terra donde dettarono leggi ai re del mondo; la rupe, che seppero difendere; il luogo dove Cammillo vide la spada di Brenno gittata su la bilancia per aggravare il peso della nostra vergogna…: la vide, ma nessuno dei barbari passò i monti a raccontarlo alla sua moglie. All'alba si dileguano perchè odiano la vista dei viventi, e aborrono esser vedute piangere!—È fama che sul fare del giorno, quando i morti rientrano nelle antiche sepolture, si spanda lungo pei campi un gemito, che lamenta così: «Grande fu la gloria, ma l'abiezione è senza misura maggiore; e tu, o Re del mondo, e fino a quando?..»

La miseria di Roma vince la desolazione dei sepolcri. Beati i morti! Perchè ti chiami Città eterna?—Oh! rammenta, che ai tempi della tua antica religione tu credevi eterno anche il marito dell'Aurora.—Eterno, ma caduco, Titone venne in tanto odio di se, che reputò grazia somma dei Numi essere convertito nello stridulo animale, fastidio dei giorni di estate: fu un lieto giorno per lui quando potè scambiare la sua miserabile eternità con la vita di una cicala. Perchè ti chiamano Città eterna?—La religione, a cui tu credi adesso, t'insegna come vestirono Cristo con le insegne reali per vituperarlo più crudelmente. Dio nel suo furore sembra ti abbia condannato, pur troppo, ad una eternità… ma è quella del pianto.

Beatrice prostese il busto fuori del parapetto dicendo:

—Là, là oltre cotesti colli avvi una terra feconda, che la Madre nostra portò in dote a Francesco Cènci: ivi è una chiesa dedicata ai santi apostoli Pietro e Paolo. In cotesta chiesa, dentro un sepolcro di marmo—a mano diritta di coloro che entrano—lungo la parete giacciono le ossa della nostra madre benedetta.

E mentre, levato il braccio, additava il luogo acconsentendo con tutta la persona all'atto, fortuna volle che dal seno le uscisse una lettera e un medaglione, e cadessero giù nel giardino.

—Oh Dio, il mio segreto! urlò la giovane con grido straziante, divampando in volto per la vergogna.

Francesco Cènci, appiattato dietro un bosco di lauri, da gran tempo stavasi a contemplare coteste due creature fisso così, che pareva volesse avvelenarle col guardo. Appena egli ebbe visto cadere il foglio e il medaglione, si mosse frettoloso per prenderli; non tanto presto però quanto lo spronava il desiderio, che la gamba offesa gli arrecava impedimento. Beatrice lo scòrse costernata, e con suprema smania ripetè due volte:

—Il mio segreto! il mio segreto! La mia vita a chi mi salva il segreto!

Il fanciullo guardò lei, fattasi in volto del colore della morte,—e guardò il vecchio;—quindi risoluto, e pieno di ardimento, con disperato sforzo attaccandosi alle bozze sporgenti della terrazza, discese nel giardino, e pronto come il baleno ebbe ricuperato il foglio ed il ritratto.

—Vieni qua, urlava il vecchio rabbioso… vieni qua… portami cotesta roba…

E poichè Virgilio, fingendo non lo sentire, prendeva la via per tornarsene difilato a casa, il Conte imbestiando nel suo furore muggiva:

—Vipera maladetta! Portami il foglio… e tosto… Se ti raggiungo, ti strappo il cuore con le mie proprie mani.

Il fanciullo più, e più sempre affrettava il passo. Francesco, cieco d'ira,

—Nerone!—grida—Qua, Nerone… su… addosso… e con ambedue le —mani aizza il cane contro il figliuolo—addosso… addosso…

Il cane si slancia furiosamente, invano però; chè Virgilio quantunque avesse già percorso buon tratto di via, pure, sembrandogli sentirsi le zanne del mastino nelle vive carni, aveva messo le ali alle piante:—non fuggiva, volava. Salì i gradini a due a due; e con terribile anelito, estenuato di forze, giacque sul pavimento, depositando ai piedi di Beatrice la lettera e il ritratto. La fanciulla l'una e l'altro ripose precipitosa nel seno.

Poco dopo ecco il cane irrompere sopra la terrazza latrando: aveva gli occhi di brace: esalava il fiato fumoso. Beatrice, improvvida a qual partito appigliarsi, volge attorno lo sguardo, e scorge dentro una nicchia un trofeo di armi antiche posto ad ornamento della loggia: afferra una spada, e si pianta dinanzi al giacente fratello. Il mastino feroce a testa bassa si caccia oltre per isbranarlo: la fanciulla animosa, colto il destro, gli mena un colpo così potente, che penetrandogli il petto gli fende il cuore. Il cane si rotola nel proprio sangue, e traendo doloroso guaito spirò.

Sovrasta nuovo pericolo, e più grave. Francesco Cènci sopraggiunge tempestando, con lo stile alla mano: balbuziente per furore, egli grida:

—Dov'è la mala vipera? Morte di Dio! Chi mi ha ammazzato Nerone?…
Chi?

—Io.—

—Ebbene; anche tu… ma no, prima la vipera.—

E si china sul figliuolo per iscannarlo. Beatrice solleva la spada insanguinata, e, puntatala contro il petto di Francesco Cènci, con espressione impossibile a riferirsi dice:

—Padre… non ti accostare…

—Scellerata! Da parte; dico,—e si provava di arrivare il giacente.

Beatrice con voce tremendamente pacata ripetè:

—Padre, non ti accostare!

A cotesto suono, che conteneva a un punto una suprema preghiera ed una suprema minaccia, Francesco Cènci si ristette a contemplarla.

Dov'è la vergine dal dolce sembiante? Gli occhi di Beatrice, dilatati in guisa strana, pare che avventino fiamme: le narici aperte sussultano: le labbra compresse, il seno palpitante, i capelli sciolti le fremono dietro le spalle: la gamba sinistra ferma, e tesa in avanti; diritto il corpo; il pugno manco chiuso, e la destra accosto al fianco armata di spada con la punta in alto, in atto di ferire. Nè pittore mai nè scultore varrebbero ad effigiare cotesto portentoso simulacro, nè la parola lo può. La fanciulla appariva tale, da non sostenerne la vista: paragonarla al cherubino branditore di spada, che difendeva la porta dell'Eden dopo il peccato di Adamo, sarebbe dir niente; perchè come fosse quel cherubino noi non sappiamo: ella era quale si mostra anche oggi la vergine romana, quando rammenta che nasce del sangue di Clelia. Francesco Cènci ne rimase percosso; si pose estatico a contemplarla, lasciò calare la mano armata, gittò via lo stile; sentì per un momento placarsi l'anima. Beatrice anch'essa gittò lontano da se la spada. Il vecchio sporse verso di lei le braccia aperte, esclamando teneramente:

—Sei pur bella fanciulla!… Oh! perchè non mi ami?…

—Io?—Vi amerò… e gli si avventò al collo.

Il padre e la figlia si strinsero in religioso abbracciamento.

Ma il bene durava nell'empio vecchio quanto un baleno. Egli provava per un sentimento di umanità la paura stessa, che altri proverebbe per un rimorso. A un tratto ecco apparire i segni del parossismo del delitto: gli si corrugano gli occhi, le palpebre tremano di quel riso sinistro che faceva abbrividire; le palpa i capelli, il collo le stazzona e le spalle; baciolla e ribaciolla, e nello accostare la bocca al suo orecchio vi sussurrò dentro una parola…

Beatrice declina la faccia livida; si scioglie dallo amplesso del padre, si reca in collo il fratello giacente, e nel partirsi manda contro Francesco Cènci uno sguardo lungo—un fulmine di disprezzo—ch'ebbe potenza d'impietrire il sangue nelle vene a colui, che non temeva uomini, nè Dio.

Egli rimase lungamente immobile, chiuso dentro un profondo pensiero: colà nel suo spirito prese a imperversare una tremenda procella. Ma la voce del male vinceva il muggito dell'uragano; la voce del bene disperata era, e fuggitiva come quella del naufrago. Quali pensieri gli si avvolsero nella mente? Di che cosa dubitò? Che cosa statuì? Chi lo sa! Forse lo stesso Demonio, se si fosse affacciato a vedere lo inferno dell'anima di Francesco Cènci, avrebbe volto altrove impaurito la faccia. Però è da credersi, che in cotesta vertigine di maligni partiti egli si appigliasse al peggiore; conciosiachè battendosi forte della palma destra la fronte, digrignasse fra i denti:

«Or come va? Io, che presumerei comandare al giorno quando si affaccia all'orizzonte: «addietro! splenderai quando te ne darò licenza…» ecco io mi sento arrestare in mezzo del mio cammino da meno, che da un filo di paglia, dalla volontà di una fanciulla. Ahi sciagurata! Il vetro potrà egli resistere, sotto al martello del fabbro? Tutto ha piegato fin qui nella stretta della mia mano di ferro; e tu pure piegherai—o ti stritolerò ad un punto anima ed ossa.

NOTE

  [1] Ah! quella chioma
      Che la delizia fea già degli Amori,
      Che con le rosee dita all'aura spesso
      Spargeanla, allor che Beatrice lieta
      Nei più bei dì di sua bellezza, ai raggi
      La apponeva del Sole, e lo vincea.

ANFOSSI, Beatrice Cènci.

[2] PETRARCA, Trionfo d'Amore, C. I.

[3] Idem, Rime in morte di Madonna Laura. Son. 63.

[4] Il testo allude ad un fatto narrato da parecchi scrittori dell'antichità. Intorno alla fede ch'ei merita lasciamo che ogni uomo leggendo ne giudichi. La verità è, che Tiberio intendeva riporre Gesù Cristo fra li Dei, e ne mosse proposta in senato; e fu ventura che non ce lo volessero. Intorno al fatto lo riporteremo tal come lo racconta PLUTARCO, nell'opuscolo—degli Oracoli già cessati:—«Trovandosi il vascello del pilota Jamo presso alcune isole del mare Egèo, improvvisamente cessò il vento. Tutte le persone della nave erano ben deste e quasi tutte se la passavano bevendo insieme, allorchè tutto ad un tratto udirono una voce, che veniva dalle isole, e chiamava Jamo. Questi si lasciò due volle chiamare senza rispondere, ma alla terza finalmente non potè più resistere. Quella voce gli comandò, che appena foss'egli arrivato ad un certo luogo dovesse ad alta voce gridare, che il gran Pane era morto. Non vi fu alcuno che non rimanesse colto dallo spavento. Stavasi deliberando se Jamo dovesse obbedire; ma egli stesso conchiuse, che allorquando fossero giunti al luogo indicato, se eravi vento bastante per proseguire il cammino non era necessario dir nulla; ma che se fossero stati ivi trattenuti da troppa calma, era d'uopo eseguire l'ordine ricevuto. Non mancò infatti di sopraggiungere la calma nell'accennato luogo: ond'egli tostamente si diede a gridare ad alta voce esser morto il gran Pane. Appena ebbe terminato di parlare, da tutte le parti udironsi gemiti e pianti come di un gran numero di persone da tal nuova sorprese, ed afflitte. Tutti coloro ch'erano in nave furono testimoni di tale avventura: a poco a poco se ne sparsero le voci fino a Roma; e avendo lo imperatore Tiberio voluto vedere Jamo in persona, unì alcuni dotti per apprendere da loro chi fosse.»… Che poi il gran Pane fosse Gesù Cristo, vedilo in BOCCACCIO, Genealogia degli Dei, là dove parla del dio Pane.

CAPITOLO VII.

LA CHIESA DI SAN TOMMASO.

                             …..E Belzebub in mezzo.
                                     PETRARCA, Sonetti.

                «Tanto egli odiava questi suoi figliuoli, che aveva
                fatto nel cortile del suo palazzo una chiesa dedicata
                a san Tommaso, col solo pensiero di seppellirveli
                tutti».
                                        NOVAES, Storia.

La chiesa di san Tommaso dei Cènci, comecchè in parte mutata da quello che era, sta tuttavia. Lo dicono monumento vetustissimo, e già ebbe nome: De Fraternitate, ed anche in Capite Molae, o Molarum. Questa notizia ricavasi dal diploma di papa Urbano III ai Canonici di san Lorenzo in Damaso. La chiamarono poi in Capite Molarum come quella che sorgeva prossima al molino della Regola, là dove il Tevere rimase interrato fino dal 1775; e De Fraternitate, ed anche Romanae fraternitatis caput, forse perchè quivi fondarono la prima confraternita donde trassero in successo di tempo esempio e titolo le altre confraternite di Roma. Narra la fama, che il Cincio, vescovo di Sabina, nel 1113 ne consacrasse l'altare. Giulio III la concedeva in giuspatronato a Rocco Cènci nel 1554, con obbligo di restaurarla; cosa che, per essere soprappreso dalla morte, egli non potè adempire; laonde Pio IV nel 1565 spedì nuovamente la Bolla d'investitura a favore di Francesco Cènci figlio di Cristofano, imponendogli il medesimo carico; al quale egli soddisfece, secondo che attesta la seguente iscrizione poeta sopra i muri esterni della chiesa:

    Franciscus Cincius Christophori filìus
    Et Ecclesiae patronus, Templam hoc
    Rebus ad divinum cultum et ornatum
    Necessariis ad perpetuam
    Rei memorìam exornari ac perfici
    Curavit. Anno Jubilei 1575[1]
.

Quel marmo attestava a chiunque passasse quale, e quanta fosse la pietà di Francesco Conte dei Cènci!—Cosi quasi sempre riscontriamo sinceri gli epitaffi, le iscrizioni, le gazzette officiali, e le orazioni funebri dei cappellani di Corte.

La chiesa ha forma, a un dipresso, quadrata. Condotta di un miscuglio di ordine dorico, presenta cotesta sconcia depravazione dell'arte, che gli artisti costumano significare col nome di barocco. Contiene cinque cappelle; ha soffitto a crociere, dove anche nei giorni che corrono possiamo osservare l'arme dei Cènci, che fa per impresa campo squartato di bianco e di rosso, con tre lune rosse in campo bianco, e tre lune bianche in campo rosso.

All'altare maggiore si vede un quadro dipinto a olio della maniera del secolo sesto, o di poco anteriore: è di buona scuola, e rappresenta san Tommaso che tocca la piaga a Gesù. A sinistra dello altare stesso venerano un Crocifisso dipinto, opera del secolo decimo secondo, e a questo alludeva Virgilio nel suo colloquio con Beatrice.

Intorno a lui raccontami mirabilissime cose. Certo manoscritto antico conservato una volta, e forse anche adesso, nel Campidoglio (non però commesso alla custodia delle oche che salvarono la rupe Tarpeia), firmato da Giacomo Cènci, dichiara come il padre Guardiano in Araceli donasse la prefata devota immagine al medesimo Giacomo, e con giuramento gli affermasse avere davanti a quella più e più volte fatta orazione san Gregorio Magno: nè il buon padre Guardiano si fermava qui; che, proseguendo nella narrazione, attestavagli, cotesto Cristo avere usanza tratto tratto operare miracoli. Se anche di presente la immagine ritenga siffatta virtù, o se l'abbia trasferita in altre, come sarebbe la immagine di Nostra Donna di Rimini, che apre e chiude gli occhi, o l'altra di Tredozio, che piange a un punto e ride[2], io non saprei accertare per ora; ma quando prima sarò, se piace a Dio, liberato dal carcere, mi propongo raccogliere più ampie notizie, e ragguagliarne i miei devoti lettori. Quello però che conosco di certo si è, che il Cristo di san Gregorio Magno per tutto il tempo che durò la vita di Giacomo Cènci si ostinò a non fare miracoli; ed ecco come andò la faccenda.

Fra Brancazio, (tale era il nome del Guardiano di Araceli) senza che faccia nemmeno mestieri dichiararlo, non donava mica il Cristo per nulla; all'opposto egli imponeva al donatario: primo, che restaurasse a sue spese la facciata della chiesa dei reverendi Padri Francescani in Araceli, il che fu adempito; secondo a rifornire la sacrestia di pianete, piviali, dalmatiche, ammitti, roccetti e simili altri arredi, ed anche questo fu fatto; terzo a fondare una messa quotidiana perpetua all'altare di san Francesco con la elemosina di un ducato, ed anche la messa quotidiana fu fondata: e così i dabbene Padri, avendo trovato il terreno morvido, presero ad avviarsi alla casa di Giacomo spessi ed oscuri, simili in tutto alla schiera delle formiche quando s'imbattono in un mucchio di grano lasciato su l'aia, e non rifinivano mai di cavargli di sotto ora questo, ed ora quell'altro benefizio: dandogli ad intendere, che per quanto ei donasse, già non presumesse risarcire il Convento per la perdita inestimabile del Crocifisso, davanti al quale aveva pregato san Gregorio Magno; imperciocchè, senza contare il pregio del dipinto, ch'era pure d'illustre magistero, gl'infiniti miracoli che soleva operare procacciavano elemosine abbondantissime, e reputazione di santità al luogo e a chi l'abitava non meno proficua. Messere Giacomo Cènci, con tutto che santissimo uomo si fosse, preso nonostante da stizza per la pretesa improntitudine, certo giorno gli disse: «Padre Brancazio, che il Crocifisso di san Gregorio Magno alle sue mani abbia operato miracoli, sarà: lo dice lei, e non ho motivo per dubitarne; però dopo ch'è entrato nella mia cappella le posso giurare da gentiluomo di onore, che non ne ha fatti più». E il Frate, voltandogli bruscamente le spalle, gli rispose: «Mi rincresce dirglielo, spettabile signor Conte; ma questo è segno, che nè lei nè la sua casa sono degni di ricevere queste grazie.» E così messer Giacomo rimase saldato da fra Brancazio.

Di reliquie poi cotesta chiesa non pativa difetto, e tutti questi tesori ecclesiastici si conservavano dentro un'urna di marmo posta sotto l'altare maggiore. Lascio dei Santi di seconda qualità, chè troppo ci vorrebbe a favellare di tutti, e ricorderò soltanto la piegatura del collo di san Felice dove venne trafitto da un colpo di lancia in Calamina, ora detta Madapor, ed anche Città di san Tommaso, nella India: de pandone circa collum eius in percussione ipsius, come ne fa fede la iscrizione posta sopra la porta minore della medesima chiesa. Ma vedete dove quel benedetto Santo girava per cercare la morte, mentre questa è sicuro che sarebbe andata a trovarlo anche standosene quieto e tranquillo a casa sua![3]

Chiedo licenza ai miei lettori (i quali so che non me la negheranno) di passare sotto silenzio le altre cappelle; molto più che, gli assicuro io, non meritano speciale menzione. Non pertanto piacemi ricordare come la chiesa e le case dei Cènci fossero erette sopra le rovine del Teatro Balbo…

Una chiesa sopra un teatro! I secoli trapassano come i vetri dipinti della lanterna magica; il mondo è la parete dove si riflettono le immagini loro, e nel continuo passaggio le cose più strane si succedono senza dar tempo a compire un pianto, o un riso. Noi fabbrichiamo sopra i sepolcri dei nostri padri; le generazioni future s'impazientano di fabbricare su quelli di noi. Cenere sopra cenere; e l'universo si allarga e si feconda per queste incessanti alluvioni della morte. Dove gli umani sollazzavansi un giorno, oggi pregano; forse vi decapiteranno domani, domani l'altro danzeranno. La Fortuna, gittata via la benda, all'antica follia aggiunse la ebbrezza nuova; e, fatta Menade, percuote orribilmente un suo crotalo infernale, eccitando al ballo tondo Grazie, Furie, Satiri e Muse. Marte balla anch'egli; Nemesi co' flagelli di vipere batte la misura. E l'uomo presume mettere il chiodo a questa ruota, che affatica il cielo e la terra? Ah! ella è pretensione cotesta da far morire di riso lo stesso dio del Riso, il vecchio Momo.

Assicurano taluni, che quando la fede rimane vedova convoli facilmente a seconde nozze; e dicono ancora, che abbia dato il medesimo anello a parecchi mariti. Io per me mi astengo da simili argomenti, che putono di abbrustolito… per fuoco infernale di certissimo, e per fiamme di Santo Offizio non lo sappiamo per ora di certo, ma in breve lo sperano. Intanto i reverendi Padri Gesuiti s'insinuano piamente fra i Popoli ad apparecchiare i fornelli.—Quello, che a me pare poter dire, senza pericolo della salvazione dell'anima nell'altra vita e del Regio Procuratore in questa (però che si tratti di pretta storia) si è, che parecchi dei nuovi Numi s'introdussero nel tempio degli antichi; nè più nè meno come gli Austriaci, col biglietto di alloggio, in casa dei buoni borghesi toscani. Veteres migrate coloni! Molti altri inquilini dell'Olimpo di Giove migrarono con armi e bagaglio nel Paradiso di Santa Madre Chiesa; e, offrendo esempio da imitarsi agli uomini politici dei nostri tempi, voltato mantello continuarono a deliziarsi nel profumo delle adorazioni[4]. Anche su i riti accaddero, più che non si crede, transazioni, e per opera degli stessi Pontefici. Nè in ciò sembra che meritino punto biasimo, perchè, i più astuti scrittori affermano pericoloso stravincere, e doversi accettare qualunque accomodamento: basta che si assicuri un guadagno (pei Numi, bene inteso); però che, in quanto ai Sacerdoti, se ne stieno contenti a quello che loro invia la Provvidenza: e questo sanno tutti, insegnandolo il Vangelo di Cristo… Svergognati! Quando mai fu fatta penuria di moneta spirituale per acquistare beni temporali? Lo spirito, predicato più nobile della materia, in diritto le ha sempre ceduto nel fatto. La Chiesa, donna e madonna del Paradiso celeste, si accinse a cercare anche il terrestre. La investigazione non sembrava difficile. solo che avesse badato e perlustrare il paese che giace tra i fiumi Pisone, Ghilone, Hiddechel, e l'Eufrate[5]; ma non le venne fatto, o non potè trovarlo. Allora si mise con maggior profitto a cercarlo fra le spoglie di guerra dei Franchi e dei Normanni, o nelle transazioni tra l'Inferno (di cui è procuratrice del pari, o per lo meno ne tratta i negozii senza mandato) e il rimorso e la paura dei peccatori, perchè coll'oro si fanno anche arrivare l'anime in paradiso, come affermava Cristofano Colombo scrivendo a Ferdinando e ad Isabella cattolicissimi regnanti[6]; e così dicendo non iscuopriva l'America. Affermano eziandio, che la Chiesa per mettersi in possesso del Paradiso terrestre si avvantaggiasse a fabbricare carte false; ma queste sono cose che non si devono credere: almeno io non le credo. Nel mille predicavano i Chierici la fine del mondo, e nonostante ciò facevansi instituire eredi. I beni terreni di cui dovevano astenersi, tanto, all'opposto, piacquero loro, che pretesero ritenerli anche dopo la fine del mondo! Considerata a dovere questa clericale improntitudine, farà meno maraviglia l'avaro Ermocrate, che instituì erede se stesso.

Qui dentro, e mi si può credere, non vi sono biblioteche per comporre dotti discorsi; ed anche libri vi fossero, io non ho avuto tempo per leggerli: pure ricordo che in Roma, il tempio che fu di Vesta la Dea del fuoco, oggi è consacrato alla Madonna del sole; quello di Remo e Romolo gemelli, ai santi Cosimo e Damiano gemelli; l'altro della Salute, a Santo Vitale: su l'orlo del lago Numicio, dov'è fama che si precipitasse la sorella di Didone Anna Perenna, adesso si venera la cappella di santa Anna Petronilla: ed oggi ancora, a Messina nel giorno dell'Assunzione, come la Cerere sicula andava in traccia della sua figlia Proserpina rapita da Pluto, la Madonna, tratta in processione, va per le strade cercando il suo divino figliuolo: quando poi, dopo un lungo errare, le mostrano la immagine del Salvatore, ella trema, storna, e dodici uccelletti proromponle dal seno spandendo pel cielo la esultanza del suo cuore materno. Nel foro Boario, presso l'ara massima dove i Romani pronunziavano il giuramento solenne, ora sorge la chiesa di _santa Maria Rocca della verità. Il Panteon è diventato Santa Maria della Minerva. Qui fra noi, San Giovanni era il tempio di Marte: la Cattedrale di Pisa, il palazzo di Adriano fabbricato di ruderi di case e di tempii. Uno dei pilastri della parete esterna da mezzogiorno notai composto in parte d'un architrave di granito col nome di Cerere Eleusina. Del monte Soracte hanno fatto il monte Santo Oreste, e a canto la cassa di Santo Ranieri ho veduto una statua di Marte convertita in San Potito (il quale, insieme a Santo Efeso, fu solennissimo operatore di miracoli) con la lieve variante di torle dalla destra la spada, e sostituirvi un libro. I Gesuiti nell'Indie consentivano l'adorazione degl'Idoli si continuasse; solo a piè dei mostri ponessero o crocellina, o cuore di Gesù, o altro segno della religione nostra; anzi nella China giunsero perfino a velare la immagine di Cristo confitto in croce, per paura che i popoli si scandalizzassero di un Dio morto coll'ultimo supplizio: e Gregorio VII manda lettera a Santo Agostino apostolo della Brittania, con la quale lo conforta a sopportare i sagrificii di vittime co' riti pagani per acquistare a mano a mano terreno[7]. Gesù Cristo predicò non potersi servire a Dio ed a Mammone, e cacciò via risoluto i profanatori dal tempio. I suoi vicarii hanno proceduto più blandamente; bene o male abbiano fatto, ne renderanno conto al Mandante. A me basta aver detto la verità quando affermai, che i Chierici andarono corrivi anche troppo per acquistare impero… Ahi tristo aere del carcere! non mancherebbe altro, ch'ei mi facesse diventare teologo. Io mi affretto a tornare più che di passo alla storia, lasciando molte cose per via che furono dette, e che sono state dimenticate con iscandalo di tutti i professori del progresso umano.

La cappella di san Tommaso dei Cènci nel giorno dieci di agosto compariva parata a lutto: lungo le pareti pendevano lugubri gramaglie: da per tutto si vedevano ghirlande di fiori intrecciate con rami di cipresso: sette sepolcri di marmo nero scoperchiati aspettavano i morti, a guisa di bocche co' labbri aperti ansiose di bevanda: avevano tutti una iscrizione medesima, ed era questa:

Mors parata, vita contempta[8].

E più oltre un ottavo sepolcro sopra gli altri cospicuo, di marmo bianco finissimo, con quest'altra iscrizione:

    Si charitem, caritatemque quaeris
    Hinc intus jacent
    Non ingratus haerus
    Neroni cani benemerentissimo
    Franciscus de Cinciis hoc titulum
    Ponere curavit…..
[9].

In mezzo alla chiesa stava collocata una bara coperta di velluto chermisino ricamato di oro, cosparsa anch'essa di freschi fiori. Intorno alla bara ardevano sei ceri sopra candelabri d'argento lavorati con artifizio mirabile.

Un coro di preti, parati di pianete e di dalmatiche di damasco nero, aspettavano un morto per recitargli le ricche esequie. Nè stette guari, che si fecero sentire passi misurati; e poco dopo, alzata la tenda della porta laterale, comparve una barella portata da due uomini e da due donne.

Giacomo e Bernardino Cènci tenevano le stanghe davanti, le posteriori
Lucrezia Petroni e Beatrice.

Il morto era Virgilio. Dio aveva accolto la seconda parte della preghiera dello sventurato fanciullo: egli dormiva nella sua pace.

Seguivano alcuni servi di casa vestiti magnificamente a lutto, con torcie accese. Non senza dolore misto a maraviglia poteva osservarsi, come le vesti dei famigli fossero troppo meglio in punto, che quelle di Giacomo e di Bernardino: segnatamente di Giacomo, squallido così, da disgradarne il più povero gentiluomo di Roma. Scarmigliati aveva i capelli, lunga la barba, le maniche e il colletto luridissimi: portava bassa la faccia umiliata, la fronte aveva rugosa, le guance pallide e macilenti: dagli occhi accesi versava lacrime amare, e gli si vedeva il palpito del cuore di sopra il farsetto. Dal suo volto tralucevano due passioni contrarie: pietà, e rabbia male repressa. Bernardino anch'egli piangeva. ma così per imitazione, piuttosto che per impulso spontaneo; imperciocchè se non era diventato affatto stupido di cuore, la sua mente era ottenebrata dalla paura del padre, e dalla ignoranza di tutte le cose, nella quale costui compiacevasi conservarlo. Lucrezia, quantunque matrigna si fosse, lasciava l'adito al pianto:—però, essendo piuttosto pinzochera che devota, si rassegnava facilmente e presto; togliendosi le sciagure in pazienza, e attribuendo al santo volere di Dio ogni evento così buono come tristo della vita. Io per me lodo la costanza, ch'è quasi zavorra, la quale fa stare in equilibrio la nave nelle procelle della vita; credo ancora io, che delle cose che avvengono in giornata molte dovessero per necessità succedere: ma quando le idee religiose si adoprano a insugherire il cuore, allora cotesta insensibilità non è virtù; si rassomiglia troppo al vestibolo della morte: l'uomo, finchè vivo, ha da vivere con le sue passioni. Io so che alcuni chiamano le passioni venti contrarii alla vita serena, e jene e lioni e simili altri animali ruggenti, e cercanti cui si abbiano a divorare. Marco Antonio per le vie d'Alessandria fu visto seduto su di un carro tratto da lioni. Se le similitudini addotte sieno acconce, o no, poco importa conoscere; di questo si persuada la gente, che se l'uomo può domare le belve, e governare la procella, molto più potrà le passioni; egli ha da reggere, non lasciarsi impietrire.

Francesco Cènci condusse in moglie cotesta femmina appunto perchè gliela dissero tenerissima della religione, e perchè certa volta, avendo ella udito favellare della empietà di lui, aveva esclamato: «Signore! io terrei piuttosto maritarmi col diavolo, che col Conte Cènci[10].—Egli allora le si pose dintorno; finse costumi esemplari; frequentò chiese, imparò a piegare il collo, e a levare in molto commuovente maniera gli occhi e le mani al cielo: sopra tutto si mostrò largo donatore ai preti, degni guardaportoni del paradiso. Sapeva raccontare leggende dei Santi, discuteva della gratia gratis data, e della forma e della sostanza dei sacramenti meglio del Definitore sinodale dei Padri Francescani. La donna incominciò a credere lo avessero calunniato. In ogni caso, o non poteva essersi convertito? Non poteva avere la Beata Vergine impartito a lei la virtù di strappare cotesta anima dagli artigli del demonio? Oh! è così dolce, così altera cosa per donna devota guadagnare un'anima in contrasto col demonio, che, parlando generalmente, le femmine pie davvero non si contentano della prima conversione, che con lodevole zelo si affaticano per la seconda, e questa diventa impulso alla terza; e se durasse in loro la potenza come la volontà, non è da dubitarsi che sagrificherebbero la vita intera in opera tanto meritoria[11]. Tra per queste ragioni e i conforti dei parenti, le ricchezze grandi e la nobiltà di casa Cènci, la donna condiscese ad accettare il Conte Francesco per suo secondo marito.

Appena il Conte ebbe menato a casa Lucrezia, come per ischerzo, le disse: «Voi volevate maritarvi col demonio piuttosto che con me: io vi ho presa per provarvi che avevate ragione»;—e le tenne parola.

Ogni giorno le si poneva accanto su lo inginocchiatoio; e mentre ella recitava responsorii e rosarii, egli cantava versi osceni, od empii: ella sfogliava un libro di orazioni, ed egli le incisioni turpissime di Marcantonio Raimondi commentate da Pietro Aretino: si studiò sovvertire in lei ogni idea di religione e di morale, a empirle l'anima di dubbio e di paure; ma Lucrezia di coteste diavolerie non intendeva niente, e spesso non vi attendeva nemmeno. Talora, quando il tristo marito stanco di favellare taceva, incominciava ella, o riprendeva a recitare il rosario: per la qual cosa avvenne che Francesco Cènci, invece di aspreggiare altrui, se medesimo tormentasse; invece di spingerla alla disperazione mordesse le sue labbra di rabbia, e stesse per impazzare di furore. Riuscito invano questo partito, scelse altro disegno. Prese a costringerla di ascoltare i suoi quotidiani adulterii: nè ciò valendo punto a irritarla, empì la casa di cortigiane; non si astenne da parole e da atti capaci di offendere la sua dignità di donna e di sposa; ma ella con inalterabile dolcezza gli diceva: «Dio vi ravveda, e vi perdoni come io vi ho perdonato». Francesco non trovava maniera di commuovere cotesta fredda, ed ineccitabile natura. Spesso, acciecato dalla ira, ei la umiliò al cospetto dei servi; la bistrattò, la percosse; le fece patire penuria di vesti e di cibo; le fece portare in volto i segni di furore, peggio che bestiale. Tempo perduto: tutto ella soffriva con rassegnazione, tutto ella presentava al sacro cuore di Gesù in isconto dei suoi peccati. Francesco, per non darsi della testa nel muro, cessò di perseguitarla, essendosi (cosa a dirsi incredibile) più presto stancato il talento di tormentare in lui, che in lei la pazienza: ond'è che reputandola stupida, la lasciò da parte come natura morta, che non merita essere straziata nè blandita.

Beatrice sola non lacrimava; teneva gli occhi fitti sul morticino, e immemore seguiva i passi altrui con moto macchinale.

Quando giunsero al catafalco Beatrice si recò lo estinto fanciullo nelle braccia, ed ella fu che con le proprie mani ve lo acconciò sopra, gli assestò i capelli, gli pose sul petto il crocifisso, e il mazzetto delle viole; poi, remosso alquanto uno dei candelabri, con la faccia declinata nel palmo della destra appoggiò il gomito sul canto della bara, tenendo sempre fisso lo sguardo sul morto.

Un famiglio puntava Beatrice con gli occhi come due lingue di fiamma, e talora trasaliva: il famiglio era Marzio.

Oltre i quattro rammentati, nacquero a Francesco Cènci tre altri figli; Cristofano e Felice, ch'egli mandò a studio in Salamanca, e Olimpia. Questa fanciulla, che destra era molto ed animosa, non potendo più reggere alle paterne persecuzioni scrisse un memoriale, dove espose molto accomodatamente i carichi del padre suo; e poi, nonostante il carcere domestico nel quale si trovava ristretta, seppe così bene industriarsi, che lo fece pervenire nelle mani di Sua Santità, supplicandola che si degnasse collocarla in convento finchè non l'avesse provveduta di onesto matrimonio. L'accorta fanciulla delle infamie paterne rivelò le più credibili, e facili a verificarsi; delle altre tacque, avvisandosi che l'enormezze quanto più superano l'ordinario tanto meno si conciliano fede: sicchè le inverosimili, quantunque vere, screditano le verosimili; e pensò inoltre che un figlio, ricorrendo contro il padre per propria salvezza, non deve oltrepassare i termini del bisogno; imperciocchè, in questo caso, la difesa troppo ardente degenerando in offesa manifesta, faccia nascere il sospetto che l'accusatore sia condotto da odio snaturato contro il suo sangue. Il Papa pertanto, ammirando la moderazione della giovane, deliberò venire in soccorso di lei; e, fattala trarre dalla casa paterna e mettere in convento, non andò guari che la maritò col Conte Carlo Gabbrielli gentiluomo onoratissimo di Gubbio, a cui il Papa costrinse don Francesco Cènci sborsare conveniente dote. I ricordi dei tempi narrano come il Cènci, furibondo per questo successo, giunse perfino a promettere centomila scudi a chiunque, viva o morta, la odiata figliuola nelle sue mani riportasse: ma il Pontefice poteva troppo più di lui; ed anche per questa volta egli ebbe a mordere il freno. Non si potendo sfogare contro la fuggitiva, moltiplicò la rabbia della persecuzione contro ai figliuoli rimasti in casa; e tanto cotesto cordoglio gli cuoceva il riposto animo, che sovente, come Augusto quando ebbe perduto le legioni di Varo[12], fu visto aggirarsi per le camere del suo palazzo; e battendo palma a palma, od appoggiando la fronte febbricitante a qualche stipite, esclamava:

—Ahi! Papa, Papa, rendimi Olimpia. Principi, Preti, e Padri hanno a sostenersi ad ogni costo, e sempre, se vogliono mantenere l'autorità nel mondo reverita e temuta…

I Sacerdoti celebrarono gli ufficii divini con la esattezza dei nostri soldati quando fanno la carica in dodici tempi, e presso a poco col medesimo entusiasmo. Beatrice a nulla badò, nulla intese: solo quando il sacerdote asperse la bara di acqua benedetta, uno spruzzo dalla fronte del morticino le rimbalzò sopra la faccia. Rabbrividì, diventò più cupa, poi sospirò queste parole:

—Accetto lo augurio!

—Morire… non tocca a voi…

Tali accenti percossero improvvisi le orecchie di Beatrice, come se si fossero dipartiti dalla bara del morto: volse subito il capo, ma non vide alcuno prossimo a lei. La calca dei famigli e degli incappucciati si allontanò dalla chiesa seguitando i sacerdoti; poi a mano a mano quella dei cristiani accorsi dal vicinato. I Cènci rimasero soli col morto. Il popolo di buone viscere piange facilmente alle sventure altrui; ma dura poco, perchè le proprie gli consumano tutto il suo pianto, e qualche volta non basta.

Stavano tutti genuflessi, riposando il corpo sopra le calcagna, col capo dimesso, e le braccia, con le mani incrocicchiate, pendenti giù lungo le cosce. Beatrice sola, che non aveva lasciata un momento la pristina sua positura, scuote ad un tratto la testa, guarda con occhi torvi quei miseri, e con gesto imperioso esclama:

—A che piangete voi? Alzatevi! Sapete voi chi ci ha ucciso questo fratello? Lo sapete voi? Voi lo sapete, sì; ma tremate di pensarne perfino il nome dentro il vostro cervello. Quello, che non ardite pensare nel vostro segreto voi, io lo rivelerò a voce alta: lo ha ucciso suo padre… il padre nostro… Francesco Cènci.

I prostrati non si mossero, ma raddoppiarono i singhiozzi.

—Levatevi su, vi comando; qui ci vuole altro, che pianto! Bisogna provvedere alla nostra salute, e subito, se non vogliamo che nostro padre ci ammazzi tutti.

—Pace, figliuola mia, pace; che è peccato lasciarsi vincere dalla collera, rispose Lucrezia: vieni, inginocchiati anche tu, e sottomettiti al santo volere di Dio.

—Che dite voi, signora Lucrezia? Credete servire Dio, e lo bestemmiate. A sentirvi, Dio avrebbe creato l'acqua per annegarci, il fuoco per arderci, il ferro per tagliarci? Dove avete letto che il dovere dei padri sta nel tormentare i figliuoli, quello dei figliuoli nel lasciarsi tormentare?—Dunque non vi è limite, oltre il quale venga concesso di opporci? Qualunque ribellione è illegittima? La natura ha segnato le generazioni degli uomini col marchio in fronte: soffri, e taci? Vi ha qualche cosa peggio del parricidio? Ditemelo, perchè io conosco molte, ma per avventura non tutte le iniquità, che si commettono sotto il sole. Tre cose io comprendo che non si possono annoverare: le stelle nel firmamento, i pensieri maligni nel cuore dell'uomo, e le angosce dei disperati…; forse sono più… ditemelo. Signora Lucrezia, come amavate poco il povero Virgilio!…

—Come! non l'amava io? Questo caro figliuolo mi era diletto come se fosse nato di me.

—Davvero? Queste parole presto sono pronunziate, ma in fatto non è così. Amore di madre non s'immagina. Se voi lo aveste portato nelle viscere, se partorito con dolore, non piangereste, ruggireste adesso. Ma qual maraviglia se la voce del sangue non è più ascoltata dagli uomini, mentre non la intende neanche il cielo? Il grido di Abele oggi non arriverebbe più al cospetto del Vendicatore: perchè questo? Forse l'Eterno infastidito si tura le orecchie, o il grido del sangue si fece più fioco?—Ma se il cielo è diventato di bronzo, il mio cuore si mantiene di carne, e geme e freme e palpita come il cuore vergine di uno dei primi viventi… E voi, Giacomo, che pure siete uomo, o non sentite voi nulla qui dentro?—E la donzella si percosse il seno dal lato manco.

—O Beatrice, rispose una voce dal pavimento, e la profferiva Giacomo Cènci, io non sono più quello di prima: la parte migliore di me periva: io paio appena un'ombra, una memoria di me medesimo. Guardami… ti pare egli questo il sembiante d'uomo di venticinque anni? Che cosa posso io contro il destino? Mi sono dibattuto, più che non pensi, dentro la catena della necessità; l'ho morsa finchè non mi ha stritolato i denti; tu la vedessi! Ella è affatto nera pel mio sangue rappreso…

—Ma la mano trova un legno, ed ecco una leva capace a rovesciare una torre;—trova anche un ferro, ed ecco un martello per rompere, una spada per isgombrarci il cammino davanti; e poi l'amicizia moltiplica i capi e le mani…

—La sventura, sorella mia, è come una notte di dicembre; t'investe delle sue tenebre in guisa, che tu non vedi più alcuno, nè alcuno vede più te.

—Alza la voce nel buio; la conosceranno almeno i parenti: ho inteso dire che il peggior parente vale l'amico migliore.

—Vi sono sventure, come vi sono infermi a cui non vale virtù di senno, nè virtù di farmaco. Io non nego la pietà, la parentela, l'amore… io nulla nego; ma tutto in mano al potente diventa arme atta a percuotere, e in mano del debole diventa vetro per ferirlo. Contempla, sorella, quale e quanta sia l'abiezione a cui mi trovo condotto. Io non ho vesti per cuoprirmi; mi mancano perfino camicie: io non ho modo per curare la mondizie del corpo, di cui il difetto tanto umilia il gentiluomo. Ma questo sarebbe poco dolore se affliggesse me solo; ho quattro figli, e spesso mi manca tanto da sostentarli, non che d'altro, di pane. Dei due mila scudi annui, che il padre dovrebbe pagarmi per decreto del Papa, appena, ed a stento, mi dà la ottava parte; i frutti della dote di Luisa mi nega[13]; onde io sovente, tornando a casa, trovo i miei figliuoli nudi, la madre piangente, e tutti domandare del pane… Ah! che cosa posso darvi? Prendete, mangiate le mie carni. Sì, per Dio, le mie carni! egregio cibo, in verità, le mie carni estenuate dal digiuno, e riarse dalla febbre! Fuggo da casa mia per sottrarmi a cotesti gridi; ma la disperazione viene meco, e mi ricinge a mille doppi la vita con le sue spire orribili di serpe, mentre i suoi denti avvelenati mi mordono il cuore.

—Ma perchè non ricorriamo al Papa? Vi ricorse pure Olimpia, e con ottimo successo?

—E non vi ricorsi io? Mi prostrai ai suoi piedi; bagnai il pavimento di lacrime; pregai pei figli miei, per voi, ed anche per me: gli esposi a parte a parte le paterne enormezze; non gli nascosi nè anche le più riposte, e più infami; lo supplicai, per quel Dio che presume rappresentare in terra, a volerci prendere sollecito ed efficace riparo. L'austero vecchio non si commosse, non battè ciglio; mi pareva raccomandarmi alla statua di bronzo di san Pietro, di cui i piedi sono logori dai baci; e sempre freddi. Mi ascoltò con faccia di pietra; tenne ognor fitti nei miei gli occhi suoi grigi, e pesi come di piombo; poi pronunziò lento queste parole, che mi caddero su l'anima a modo di fiocchi di neve: «Guai ai figli, che manifestano le vergogne paterne! Cam per questo fu maledetto. Sem ed Jafet, che usarono reverenza al padre loro, furono all'opposto dilatati, e le loro generazioni abitarono nei tabernacoli di Canaan. Leggesti mai che Isacco mormorasse contro Abramo? La figlia di Jefet si ritirò forse su i monti per maledire suo padre? I padri rappresentano Dio in questo mondo. Se tu avessi tenuto reverente la faccia inclinata per adorare, non avresti veduto le colpe del tuo genitore, e non lo accuseresti: va in pace». E così favellando mi dimise dal suo cospetto. Ora tu lo vedi a prova: Olimpia adoperando gli argomenti medesimi potè trovare la via della grazia nel cospetto del Papa: io, invece, trovai quella della indifferenza, o dello sdegno: qui dentro vi ha un destino, che vuole così. Che cosa può l'uomo contro il destino?

—Può morire.

—Sì, eh! Ma tu non hai figli, Beatrice; tu non hai sposo, come ho io sposa amante, ed amata. Se non fossi padre, chi sa da quanto tempo avrebbero ripescato il mio cadavere ad Ostia; ma un giorno o l'altro, pur troppo! vedo che cotesta sarà la maniera di liberarmi da questa quotidiana, ed insopportabile disperazione. Davvero mi sembra nuotare a ritroso alla corrente di un fiume, e a mano a mano sento venirmi meno la lena alle braccia, e i piedi farmisi ogni ora più pesi.—Oh! tu sapessi, quando passo vicino al Tevere, come il fiotto dell'acqua, che si rompe per le pigne del ponte, mi pare che dica:—quanto tardi!—Ma certo in questo modo ha da finire… anche Beatrice me ne conforta… un sepolcro di acqua!

Beatrice alle parole di Giacomo aveva mutato colore più volte: una forza interna visibilmente la spingeva a parlare; pure si trattenne finchè, riassunta una mesta tranquillità, abbassò il capo, stese la mano verso Giacomo, e favellò pacata:

—La empietà allaga la terra come il diluvio universale!—Fratello, io ho profferito stolte parole… perdona, ed oblia.

—Ora sorgi… Chi troppo si curva alla terra, i suoi consigli si risentono di fango… Vieni, e sii uomo. Io nell'impeto del mio dolore diffidai della misericordia di Dio; egli mi ha perdonato, perchè sento scendermi su l'anima la serenità, foriera del buon consiglio…

—Tra l'altare e i sepolcri si congiura qui…?

Un brivido ricercò le ossa dei Cènci: volsero la faccia spaventata, e videro il vecchio Conte, come se fosse uscito fuori del pavimento, livido in volto, tutto abbigliato di nero, col tòcco vermiglio in capo secondo che allora costumavano i patrizii romani. La sembianza del fiero vecchio era quieta di paurosa tranquillità; impenetrabile e sinistra come quella della sfinge. Si restrinsero insieme, tacquero; non osarono levare gli occhi, nella guisa che gli uccelli, tacendo acquattati sotto le foglie, allo accostarsi del falco s'immaginano non essere veduti. Sola Beatrice gli stette ferma, e risoluta davanti.

—Testimoni i santi, egregi figli congiurano la morte del padre scellerato.—Fatevi oltre… chi vi trattiene, via? Di che temete? Quale può opporvi resistenza un vecchio inerme, e solo? Acconcio è il luogo… presente il Dio… preparato l'altare… pronta la vittima… dove avete, sciagurati!, il coltello?

E poichè tutti, presi da stupore, stavano muti, Francesco con voce pacata continuò:

—Ah! voi non osate… i miei occhi vi spaventano?… a veruno di voi basta il cuore per guardarmi in volto? Poveri figliuoli! Or via, se nol sapete, v'insegnerò io il modo per consumare il vostro disegno con sicurezza piena… con tutta la viltà di cui siete capaci. Quando la notte è cheta, e vostro padre… Francesco Cènci… insomma, io dormo… allora i miei occhi non vi metteranno spavento… cacciatemi presto presto un ferro ben tagliente—un pugnale bene appuntato da voi tra un rosario e un altro—qui—sotto la mammella manca… vedrete come penetra agevolmente. È un filo la vita del vecchio: anche la mano di un fanciullo… anche la zampa di questo ragnatelo (—e così favellando sollevò la destra del morticino, che poi rilasciò cadere con infinito disprezzo sopra la bara—) potrebbe tagliarlo.

E siccome alcuni, come inorriditi, si nascondevano la faccia, il Conte colla stessa orribile ironia riprese:

—Capisco… anche tacendo vi fate intendere. A voi la morte non basta… volete godere il frutto del vostro delitto. Sta bene, e a me pure importa l'onore della famiglia; nè per cosa al mondo sosterrei, che la mia stirpe rimanesse infamata con la pena… il delitto è nulla. Uditemi dunque… noi siamo fra parenti… non vedo alcuno, che ci possa tradire:—porgetemi una bevanda medicata… che faccia dormire… il regno della natura va copioso di piante che hanno siffatta virtù! O natura, alma parens, tu fino dai primi giorni della creazione producendo tante erbe venefiche presentisti i bisogni futuri, e i desiderii dei figli… come questi, che uscirono dal mio fianco amorosi, e dabbene… Provvidissima madre! Vedete… precipitarmi giù dai balconi, a meno che non fossero altissimi, io non vi consiglierei; avvegnadio il caduto di rado rimanga morto sul colpo, e la forza del dolore potrebbe allora strapparmi dalla bocca un segreto, che il cuore invano si affaticherebbe a nascondere.—Potreste ancora… sì, per san Felice patrono della nostra famiglia… questo parmi un partito veramente imperiale e reale;—potreste imitare il re Manfredi, il quale se non può celebrarsi affatto come un santo, nemmeno si può dire demonio, poichè Dante lo pone nel Purgatorio; e il fatto seguente ve lo chiarirà. Tardava a Manfredi eredare il regno della Sicilia, e allo imperatore Federigo suo padre non tardava punto morire: come si fa? La vita degli autori sta in contradizione con quella degli eredi. Vi ha chi fa professione di aiutare il parto: qual danno trovereste dunque ad aiutare la morte? Tutto sommato, chi sa se ringraziereste più la balia del primo, o la balia della seconda; e se la viltà non tenesse la bocca del sacco alla vita, la ragione non lascerebbe vincersi dalla disperazione per gittarla al diavolo:—ma via, mettiamo questo da parte… compatisco la vostra impazienza… e voi perdonatemi la mia prolissità; non fosse altro in grazia della lezione per liberarvene perpetuamente. Manfredi leggeva accanto al letto del padre; gli occhi del vecchio erano diventati gravi… si addormentò profondamente così, che un lieve alito ne svelava la vita… un alito capace appena di appannare un cristallo, di muovere una piuma… lembo estremo di ruscello, che si perde fra la sabbia… Il padre aveva torto a conservarlo; al figlio non correva obbligo di rispettarlo… insomma, un fiato come il mio… Manfredi prese un piumino di sotto al capo del padre, e glielo pose sopra… cosa, come vedete, di nessun momento… un moto a quo, come insegnano i grammatici; e poi saltò sul letto, e con ambedue le ginocchia gli compresse il seno, con ambedue le mani il piumaccio contro le narici e la bocca… e così stette finchè non ebbe perduto un padre che non gli premeva nulla, ed acquistato una corona che gl'importava moltissimo…

—Orribile! orribile! esclamò Beatrice.

—Orribile! ripeterono gli altri atterriti.

—E che vi spaventate voi? Voi temete scottarvi le dita co' tizzi dello inferno, e presumete sostenere le parti di demonii nel mondo? E non sapete, che per essere demonii bisogna nuotare scherzando sopra un mare di fuoco, e ridere fra i tormenti? Allora l'uomo si conosce valoroso di forbirsi le mani dal sangue come le labbra dal vino, e dire, anche al cospetto di Dio: «Non ho peccato». Farfalle!… presumete commettere il delitto a colpi di ale? Lasciate a me la rigida parte di Satana, perocchè io mi senta scellerato nella pienezza delle mie facoltà. Guardate questi sette sepolcri… io gli ho preparati per voi, per Olimpia, per Cristofano e per Felice… non vi trovate il mio perchè io voglio morire dopo di voi.—O Dio cui non conosco, e che non so se tu sia; dove ti piaccia avere uno adoratore di più, che ti confessi, quale ti vide Moisè, prepotente e geloso persecutore della quarta, e della quinta generazione di quelli che ti odiano—concedimi la grazia di potere assistere all'agonìa di tutti i miei figliuoli; chiudere loro gli occhi, e comporli in pace dentro questi sepolcri; e poi giuro da gentiluomo onorato di bruciare il palazzo, e farne un fuoco di gioia: e se questo tu non mi puoi concedere, ecco io consento morire prima di costoro, a patto che mi sia dato di sporgere la mano fuori dalla mia fossa, e strascinarveli dentro per morte sanguinosa. Ma tu non ascolti, e dormi su le piume celesti un sonno d'oro.—Provvederò da me stesso, e fie meglio così; perchè l'uomo, finchè il fiato gli dura, non deve commettere il pensiero delle sue vendette a nessuno—neanche a Dio.—Andate; liberatemi dalla vostra presenza.—Andate.

E con la mano fece segno respingerli da se: ma ad un tratto, mutato pensiero, accorse dietro Giacomo, e, afferratolo pel braccio manco, lo costrinse a tornare indietro; poi guardandolo fisso, accostato il suo al volto di lui, gli favellò:

—Tu ti sei lamentato, che non hai camicie:… infingardo! Va al sepolcro di colei che ti fu madre; scoperchialo, levane il lenzuolo dentro il quale venne avvolta, e portalo a tua moglie onde ne faccia camicie ai tuoi figliuoli: così potessero, come quella di Nesso, incenerirli tutti!—Tu le dirai che ne faccia avanzare due pezzi: uno per cuoprirti il viso quando morirai di mala morte, e l'altro per asciugarsi le lacrime,—se sarà così stolida di spargerne per tanto vile—tanto abietto—tanto schifoso uomo come sei tu…

—Per Dio! lasciatemi, Conte… urlava Giacomo tremando e fremendo, mentre adoperava gli estremi sforzi per isvincolarsi dalle mani del truce vecchio.

—No, io non ti lascerò finchè non ti abbia insegnato a procacciare quanto fa d'uopo al tuo bisogno. Vuoi pane pei tuoi figli? Portati a casa un pugno di cenere di tua madre, ed empine loro la bocca… i serpenti si nutriscono di terra. O piuttosto va, e porta la mia maledizione, di cui faccio loro dono irrevocabile inter vivos… tu la spargerai sopra i loro capi infantili… sta di buono animo, essa non cadrà su pietre, nè sopra spine… non torcere il viso… io ti dico la verità: è costume della nostra famiglia, che i figliuoli odiino il padre; dal diavolo nasciamo, al diavolo ritorneremo[14]; la maledizione, che avrai sparsa alla sementa, ti sarà resa moltiplicata a raccolta. Fra la tua moglie e te d'ora in avanti non corrano altre parole, che di obbrobrio e di rissa: ti respinga da letto, te lo contamini; ti diventi la vita un supplizio, la morte un sollievo…

E più diceva se Giacomo, con una violenta strappata liberando il braccio, non fuggiva turandosi con le mani le orecchie.

—Va… va—continuava il fiero vecchio;—invano ti chiudi le orecchie; le mie parole sono della natura delle stimate del mio serafico patrono San Francesco: bruciano le carni, forano le ossa….. dopo morte ancora se ne distingue il segno….

Lucrezia e Bernardino tutti tremanti si erano cacciati a corsa dietro a Giacomo; Beatrice rimase sola, immobile, a capo della bara.

—E tu non tremi?—le domandò il padre.

Beatrice senza rispondergli, volgendosi con pietosissimo atto a mani giunte verso l'altare, disse:

—Santissimo Crocifisso usate misericordia a quella povera anima…

—Stolta! Che parli tu di Crocifissi? Qui non vi è Cristo, nè Dio…

—Silenzio, vecchio; pensate che da un punto all'altro potreste comparire davanti il suo tribunale; ed egli solo… egli solo può perdonarvi, e salvarvi…

Il vecchio ridendo, come lo consiglia il suo fiero talento, digrigna:

—Vuoi tu avere una prova che non vi è Cristo, nè Dio? Eccola.—

E saliti i gradini dell'altare, forte percuotendo col pugno chiuso la tavola di marmo, proseguiva:

—Cristo, se sei sopra questo altare, consacrato da un vescovo che dicono, e che io non credo, santo, dinanzi al tuo ciborio, alla presenza della ostia dentro la quale ti confina la stupidità dei credenti[15], io ti rinnego dieci volte e cento: confesso il mio peccato di non averti offeso abbastanza fin qui, e mi propongo fermamente, d'ora in poi, offenderti in pensieri, in opere e in omissioni con tutti i sentimenti del corpo, tutta la forza della volontà, tutte le potenze dell'anima… Se sai, e se puoi, inceneriscimi:… io ti sfido a fulminarmi…—E qui piegava il collo sull'altare; e, trattenutosi alquanto, per bene tre volte gridò: non odi?—In fine levò audacemente il capo maledetto: le membra gli tremavano, non l'anima. Guardò la figlia: gli occhi grinzosi a mano a mano gli si stringevano, e ridevano il riso della vipera; si mosse minaccioso contro a lei, che lo aspettò senza battere ciglio, e con parole forsennate volubilmente favellò:

—Che cosa è Dio? Deus erat verbum: Dio è una parola—niente altro che una parola; e san Giovanni lo ha detto.—Questo morto non è morto (e con la mano percuoteva forte la fronte del morto figliuolo). Gli enti mutano forma, non si disperdono mai. La materia fu prima della creazione, e sarà dopo lo scioglimento del mondo. Da questo cadavere nasceranno migliaia di viventi, e, morti anch'essi, ne diverranno altri vivi: perpetua vicenda di vita e di morte, ecco tutto. La vera sapienza, o figlia del mio cuore, la vera sapienza, intendimi bene, consiste nel ricavare la somma maggiore di piaceri dalla forma che la natura ci destina attualmente.—Vieni, Beatrice, te sola amo… tu sei lo splendore della mia vita»…. te…

E più, e più sempre, invaso da diabolica insania, si accosta lo iniquo vecchio a Beatrice; e già la tocca, e già fa prova di gittarle smanioso le braccia al collo; quando la donzella dà indietro un passo inorridita, e forte spingendo la bara, esclama:

—Tra me e voi io pongo il vostro parricidio.—

La bara urlata si rovescia portando seco le ghirlande dei fiori, il morticino, e parecchi candelieri co' ceri accesi: i quali cadendo a rifascio addosso a Franceseo Cènci, ebbero virtù di stramazzarlo per terra. Il capo del cadavere percosse sul capo dei vecchio; la bocca fredda di quello si allacciò ai labbri di questo; i capelli biondi del giovanetto trapassato, e i capelli canuti del vecchio vivo, si confusero insieme;—la fiammella di un cero appiccò fuoco in cotesta chioma mescolata di vita e di morte; la vampa dilatandosi arde ad un punto la guancia e la tempia di Virgilio, e la guancia e la tempia del Conte: da entrambi usciva un leppo nauseabondo di carne abbrustolita; uno solo sentì lo spasimo. Il vecchio, scuotendosi come serpente calpestato, trafitto da angoscia ineffabile ruggiva:

—Il morto mi brucia!…

Con disperato sforzo il vecchio si liberò dal cadavere; giunse a mettersi a sedere; poi a stento in piedi. Oh quanto era orribile a vedersi Francesco Cènci! Le chiome arse, e tuttora fumanti; la guancia e la tempia gonfiate per la scottatura; le pupille rientrate tutte nel ciglio, sicchè degli occhi non si vedeva altro che il bianco chiazzato di sangue, e giallo in parte di colore bilioso: le membra tutte tremendamente convulse.

—Ah Francesco Cènci!—battendo i denti sussurrava costui;—voi avete avuto paura! Codardo! tu hai avuto paura. Una fanciulla e un morto mi hanno messo paura… adesso io vedo, che tu sei vecchio davvero!

Beatrice era scomparsa. Il vecchio brancolando si ridusse alle sue stanze, chiuso in pensieri di spavento e di sangue. [Blank page]

NOTE

[1] Francesco Cènci, figliuolo di Cristofano, attese a terminare questo tempio e corredarlo delle cose necessarie all'ornato ed al culto divino, come colui che n'era diventato il patrono. In memoria eterna del fatto. L'anno del Giubbileo 1575.

[2] Questi miracoli leggemmo riportati nelle gazzette dei nostri tempi: però mentre la fama di quelli operati dalla Madonna di Rimini si mantiene e si spande, si dilegua l'altra della Madonna di Tredozio. Io mi guarderò bene d'ingolfarmi in siffatte materie; e protestandomi parato sempre a ritrattarmi da qualunque opinione mal sonante, non posso astenermi da confessare, che talora sono venuto pensando tra me e me: «Dacchè alla Beata Vergine ha preso vaghezza di operare un miracolo, o non era meglio mandare qualche quattrino a Sua Santità, che ne ha tanto e poi tanto bisogno?» Capisco ottimamente anch'io, che in questi negozii non si può mettere mica la legge in mano ai santi; tuttavolta, favellando umanamente, bisogna convenire, che sarebbe stato più utile per gl'interessi della Chiesa avere scudi, che lacrime. Basta, speriamo sempre: quod differtur non aufertur.

[3] Queste notizie furono ricavate dal Tesoro Sacro del Cavaliere GIUSEPPE VASI, tomo II.

[4] Durante la mia prigionia l'arte di mutare vestito ha fatto notabilissimi progressi, e non poteva essere a meno. I sarti, per accomodarsi ai bisogni dei tempi, hanno inventato un vestito che si mette da due parti, ed è diverso il colore: così, laddove prima per mutare casacca bisognava almeno tornare a casa, adesso si può entrare nero nel primo uscio che si para davanti, ed uscirne rosso scarlatto. I sarti, nel presagio dei tempi, hanno fatto quanto Carlo in Francia: il punto sta nel vedere se il giuoco duri.

[5] Genesi, C. II.

[6] Lettera di Cristoforo Colombo a Ferdinando ed Isabella, dopo il suo quarto viaggio in America. NAVARETTE citato dal MICHELET, Storia dei Francesi, t. III. p. 106.

[7] HUME, Storia d'Inghilterra, t. I. p. 64. THIERRY, Storia della Conquista de' Normanni, t. I. p. 63.

[8] Apparecchiarsi alla morte è disprezzare la vita.

[9] Se grazia tu cerchi e carità, le troverai qui dentro. Francesco Cènci, non ingrato padrone, procurò si ponesse questa memoria al benemerente suo cane Nerone.

[10] Fu sparsa voce, che Lord Byron si comportasse verso la sua moglie Mibbank presso a poco come il Conte Cènci con la Lucrezìa Peroni. Nelle Conversazioni del capitano Medwin Lord Byron così si esprime intorno a questo argomento: «Mi accusano averle detto, salendo in carrozza, ch'io l'aveva sposata per dispetto, e perchè ella mi aveva rifiutato due volte. Comecchè io rimanessi, anzichè no, impermalito della sua repugnanza, o come meglio vi piaccia chiamarla, sono convinto che se avessi adoperato seco lei un linguaggio così poco gentile, per non dire brutale, Lady Byron mi avrebbe piantato in carrozza con la cameriera; ella non è donna da sopportare simili affronti». Lady Byron gode una triste celebrità per le angustie arrecate al suo inclito sposo: possano le mogli buone aborrire da questa sorta di fama!—La figlia di Lord Byron, viaggiando in Italia, visitò tutti i luoghi dove aveva albergato suo padre. Mi narrano ch'ella si recasse a Montenero, dov'egli stette prima di andare a Genova: vi si portò sola, accompagnata dalla sua pietà. Sua madre non le permetteva guardare il ritratto di suo padre, che teneva coperto di un velo nero come quello di Marino Faliero decapitato pro criminibus. La figlia si mostrò degna della magnifica invocazione dello Child-Harold, e la madre dell'allusione del personaggio Inez nel Don Giovanni. La figlia di Lord Byron presto moriva, la moglie tuttavia vive, ed è ragione; avvegnachè a viver molto, ammoniva certo Vescovo di buono umore, si richiedano principalmente due cose: stomaco buono, e cuor cattivo.

[11] «Mi chiedete se Lady Byron mi abbia mai amato? Ho già risposto a questa interrogazione. No: era di moda quando ella apparve nel mondo, ed io aveva fama di rompicollo, e di vagheggino: ora le femmine amano molto queste due maniere di uomini; ella mi sposò per vanità, e con la speranza di convertirmi, e d'incatenarmi ai suoi piedi». MEDWIN, Conversazioni di Lord Byron, p. 50.

[12] Fatto noto, che se ti piace puoi leggere in Svetonio, e lo merita perchè è bellissimo, come quello che dimostra lo stupore affannoso dell'ambizione resa sterminatamente presuntuosa dalla fortuna. I Tedeschi sterminarono due legioni di Romani ladroni antichi del mondo, che andarono ad opprimerli in casa loro, e fecero bene. Arminio, o Herman, uomo di guerra (donde il nome di Germani) generoso capo del popolo dei Cheruschi, a buon diritto forma adesso altero vanto della Germania. Popoli e re gli eressero statue, e di recente il Re di Baviera collocò la sua immagine nel Vaux-hall: poeti illustri lo celebrarono; Klopstock, il cantore della Messiade, fra gli altri (e veramente chi cantò le glorie del divino Redentore meritava dire le lodi dello eroe della indipendenza della patria): nè il prode Tedesco mancò d'illustrazione fra noi, che il gentilissimo Ippolito Pindemonte lo tolse a soggetto di nobile tragedia.

[13] La dote di Luisa Vellia, moglie di don Giacomo Cènci, fu di scudi diecimila, come si ricava dal chirografo del luglio 1600 col quale Clemente VIII conferisce facoltà a Monsignore Taverna di transigere le liti dei Cènci: et præsertim quod ejus dotem scutorum 10m. eidem Jacobo præsolutam usque modo recuperare minime potuit.

[14] Riccardo Cuore di Leone della iniqua sua stirpe diceva: «Non esse mirandum si de tali genere procedentes mutuo se infestent tanquam de diabolo revertentes, et ad diabolum transeuntes. BROMTON apud MICHELET, Storia dei Francesi, t. III p. 379.—Le infamie della famiglia dei Cènci, pur troppo in cotesti tempi comuni a parecchie famiglie d'Italia, assai si rassomigliano a quelle dei Plantageneti. La barbarie, o la società corrotta sogliono partorire i medesimi frutti. Onde non paia, che per noi la malvagità umana venga esagerata, leggasi la famiglia Plantageneta qual fosse, secondo che ci racconta il medesimo MICHELET nel luogo citato: «Fu casa piena di sangue, e di perfidia. Certa volta, che il re Enrico venne a conferenza co' figli suoi, i soldati loro trassero le armi contro di lui. I figli di Guglielmo il Conquistatore più di una volta nel paterno petto puntarono la spada. Folco aveva messo il piè sul collo al figlio debellato. La gelosa Eleonora, veemente e vendicativa come donna di paese meridionale, coltivò la turbolenza e la ribellione dei figli educandoli al parricidio. Questi figli, nei quali si mescolava il sangue di tante diverse razze normanna, aquitana e sassone, pareva riunissero, oltre l'orgoglio dei Folchi di Angiò e dei Guglielmi d'Inghilterra, tutte le opposizioni, gli odii e le discordie delle razze donde uscivano. Non seppero mai se derivassero da mezzogiorno, o da tramontana: quello che sapevano si era, che uno odiava l'altro, e il padre odiavano più di tutti. Riandando la genealogia loro incontravano in qualunque grado o stupro, o ratto, o incesto, o parricidio. Un santo uomo profetò all'avo di costoro, quando certa femmina rapita al suo consorte gli partorì Eleonora: «da voi non può nascere nulla di buono». Eleonora fu druda del padre di Enrico III, e i figli ch'ella ebbe da questo correvano pericolo di trovarsi fratelli del proprio padre. Intorno a lui citavano il detto di santo Bernardo: «dal diavolo viene, al diavolo ritornerà.» Riccardo, uno di questa stirpe, affermava altrettanto. Quando un Chierico con la croce in mano andò a scongiurare Goffredo di riconciliarsi col padre, e non imitare Assalonne: «E che? rispose il giovane, vorresti tu ch'io mi spogliassi del mio diritto di nascita?» A Dio non piaccia, signor mio, rispose il Sacerdote; io non voglio cosa, che vi apporti danno. «Tu non comprendi le mie parole, soggiunse il Conte di Brettagna; è destino della nostra stirpe odiarci, e veruno di noi renunzierà a questo retaggio». Correva certa tradizione popolare intorno ad una antica contessa di Angiò ava dei Plantageneti, la quale era questa: suo marito, dicevano, aveva notato che di rado andava a messa, e sempre usciva alle segrete: deliberò pertanto di farla tenere in quel punto da quattro scudieri: ma ella lasciò loro il mantello nelle mani, e volò via dalla finestra senza comparire più». Nei tempi in cui visse Francesco Cènci, per tacere di moltissimi fatti, Darnley re di Scozia ammazza Riccio in camera di sua moglie Maria Stuarda la quale adultera con Bothwell, e fa ammazzare il marito Darnley. Elisabetta commette ad Amia Paulet avvelenare Maria Stuarda; questa consente, che Elisabetta venga trucidata da Sauvage, ed altri sei gentiluomini. Enrico III fa scannare a tradimento il Duca, e il Cardinale di Guisa. Filippo II commetteva ad Antonio Perez suo ministro l'omicidio di Escovedo segretario di Don Giovanni di Austria; e basta. Ora quando i principi sono violenti, traditori, fedifraghi, qual maraviglia è mai che i sudditi gl'imitino? Il pesce incomincia a infracidire dal capo, dice il proverbio greco, e due esempii buoni fanno più profitto di una dozzina di ammonimenti.

[15] La empietà dei Cènci non era derivata da una sola setta, bensì partecipava di tutte, e ne aggiungeva di suo. Lo spregio dell'ostia sembra che lo imparasse dagli Albigesi, specie di Manichei di Linguadoca, i quali «annullavano i sacramenti della Chiesa così alla ricisa, che pubblicamente insegnassero: non correre divario alcuno fra l'acqua del battesimo, e quella del fiume; l'ostia del santissimo corpo di Gesù Cristo pane comune, insinuando alle orecchie dei semplici questa bestemmia orribile: che quando ancora il corpo di Gesù Cristo fosse stato grande come le Alpi, da lungo tempo l'avriano logoro tutti quelli che ne avevano mangiato ec. Estratto di un antico registro della Inquisizione di Carcassona apud MICHELET, Op. cit. t. III, p. 417.—Ma figlia del perverso pensiero del Conte Cènci era la empietà, che si affaticava stillare nell'animo di Beatrice, per vincere il suo errore da commettere incesto, come dal connubio del padre con la figliuola nascessero santi; anzi i maggiori santi, che sieno vissuti nel mondo, avere avuto per padre il proprio nonno. Manoscritto intorno alla scellerata vita, e miserabile morte del conte Francesco Cènci—presso di me—p. 2.

CAPITOLO VIII.

DISPERAZIONE.

                     Che fai? Che pensi? A che pur dietro guardi
                     Nel tempo, che tornar non puote omai,
                     Anima sconsolata!….
                     Cerchiamo il ciel, se qui nulla ne piace.
                                                     PETRARCA.

Il vento di scilocco umido e grave soffia dalla marina, spingendo contro Roma nuvole sopra nuvole, che si succedono paurose e sinistre come i cavalli dell'Apocalisse. Coteste nuvole sono pregne d'ira di Dio, però che portino in grembo la gragnuola, la malaria, e forse il fulmine per qualche testa consacrata. Intanto a quel soffio molesto i corpi s'indeboliscono, e s'irritano; le pareti e le masserizie grondano umidità; i capelli si attaccano giù alle guance; intorno al collo ti reca fastidio un senso di freddo sudore: le anime facilmente trascorrono alla ira, le parole suonano amare, le voci più dolci ci rabbrividiscono come il raschiare dei marmi, o il disanellare dei chiavacci:—invenzioni infernali! Stando chiusi ti opprime l'affanno; aprendo le finestre fogli, panni ed oggetti altri siffatti si aggirano a rifascio per tutta la casa; oltre la polvere fine che penetra nei capelli, nelle pieghe della camicia, e logora gli occhi. Durante simile notte, entro povera stanza si trattenevano ragionando moglie e marito: in mezzo a loro era posta una tavola rozza di legno bianco senza tingere, e su la tavola si consumava tristamente, a modo di tisico, una candela di sego, scarsa a rischiarare il luogo, e non per tanto bastevole a palesare scambievolmente le loro sembianze. Quelle dell'uomo erano abbattute; aveva il braccio steso su la tavola, e la mano giù penzoloni, come persona scorata; la donna attrita dai patimenti, ma con un tal quale piglio di fierezza romana, che in quel punto si faceva più manifesto, imperciocchè sembrasse aver udito o sofferto cose che l'accendessero tutta. Infatti con gesti e voce impetuosi ella diceva:

—No, voi non mi darete ad intendere queste scelleratezze mai… Ma che vi pare egli? fermerebbero il sole…

L'uomo era Giacomo Cènci, la donna Luisa Vellia. Giacomo, come avvertimmo, toccava appena gli anni ventisei; di persona era piuttosto grosso e corto, che no; ma adesso dimagrato fuori di modo. Crebbe alla scuola dei crucci paterni; e, male istruito nelle discipline gentili le quali hanno virtù di mansuefare il cuore, sarebbe per avventura, in forza del tristo esempio, riuscito poco dissimile dal padre, se lo amore non avesse inspirato tempestivamente nell'anima sua dolcissimo affetto. S'invaghì di Luisa leggiadra e valorosa fanciulla, ma di piccolo, quantunque agiato, lignaggio; ed ella gli corrispose non perchè appartenesse a potente famiglia, ma perchè lo sapeva fuori di misura infelice.

Così è, bisogna pur dirlo; non vi ha creatura che tanto si esalti pel sagrificio quanto la donna. Ente dilicato, di leggieri s'infiamma per tutto quello le apparisce generoso: per lei è gloria consolare i pianti altrui, e curare lo infermo di malattia disperata:—quando il medico e il prete lasciano il giacente, chi rimane intorno al suo guanciale? la donna. Ella fu sua gioia, forse anche dolore, in vita; ma nella sventura l'ebbe divina compagna; e dopo la sua morte, genuflessa accanto al letto, gli recita le orazioni dei defunti. La donna si allontana dal fianco dell'uomo ultima—anche dopo la speranza.—Il servo di rado sente affetto, che oltrepassi il giro della moneta del suo salario. Gli antichi finsero il dio del Commercio con le ali al capo e ai piedi: fecero male; perchè si sbaglia, almeno pei tempi che corrono, col dio dell'Amicizia:—questo alcione della sventura, appena vede sul confine dell'orizzonte il segno precursore della procella apre l'ale, e fugge via. Quante donne contemplate a piè della croce di Cristo, e quanti uomini? Per tre Marie contate un san Giovanni, solo. Che Dio mi perdoni, ma io sono forte tentato di riprendere d'ingratitudine il primo uomo che dipinse gli angioli adolescenti. Chiunque ricordi l'affetto religioso della madre, le cure amorevolissime della sorella, e i sospiri della fanciulla desiderata, e le ardenti consolazioni della sposa, di leggieri converrà meco che gli angioli hanno ad essere giovanette; e se mai ciò non fossero, bisognerebbe farle ad ogni modo. Non mica di bellezza procace, col riso lascivo, e l'occhio umido e sfavillante come le Uris di Maometto: cessi Dio questo turpe pensiero di continuazione di voluttà terrestre; ma semplici e schiette quale dipinse il Beato Angelico, con occhi bassi, con la tinta del pudore su le gote; sollecite a volare per soccorso colà dove un'anima, pure ora uscita dal suo carcere mortale, pende incerta a qual parte indirizzarsi per trovare la via del paradiso.

Se la causa della libertà e della religione vanta più uomini per combattere, ella ebbe troppe più donne per predicare, e per soffrire. Vergini, e liete di giovanezza, esultando tinsero le bianche rose delle loro ghirlande in vermiglio col proprio sangue. Sarebbe per avventura peccato, credere che uno sguardo di vergine cristiana, diffuso sopra le turbe mentre la scure vibrata per reciderle il collo fendeva l'aria, abbia convertito più gente alla fede di Cristo, che le prediche di san Giovanni Crisostomo? Se mai fosse peccato, io me ne confesserò.

Povere donne! Invano fra voi scelse lo Eterno il tempio del suo figlio Gesù; invano lo accompagnaste nella sua via di dolore; nulla vi giovò versargli sul capo il prezioso unguento; nulla il coraggio di asciugargli la fronte mentre lo traevano al supplizio. Senza pro vi fermaste sotto la croce a consolarne l'agonìa; lo riceveste nelle vostre braccia deposto, lo componeste nel sepolcro, e vi sedeste di contro a quello. Chi, se non voi, cercò di Cristo poichè fu morto? Chi, prima di voi, apprese la sua resurrezione per la bocca dell'Angiolo? Chi reputò degno Cristo di essere, dopo la sua morte, visitato da lui, se non voi altre donne?[1] Le migliaia di eroine martiri; la copia infinita delle pie monache; santa Orsola stessa con le sue undicimila vergini non valsero a procacciarvi rispetto, o almeno dimenticanza, davanti al consiglio spietatamente cupido e duramente ingrato dei nostri sacerdoti, quando Gregorio VII, aspirando allo impero del pensiero del mondo, intese a comporre una rigida armata di uomini, i quali ogni potenza dell'anima concentrassero a promuovere il concetto di Roma. Allora voi foste perseguitate senza pietà; nessuna bestia, o sozza o feroce, venne dai santi stessi vilipesa quanto voi create da Dio, perchè conobbe «non esser bene che l'uomo fosse solo[2]». San Piero Damiano correva forsennato le terre d'Italia chiamandovi: «esca di Satana, schiuma del paradiso, veleno delle anime, barbagianni, lupe, civette, mignatte, sirene, streghe, capezzali di spiriti maligni» con altre più cose, che si lasciano per lo migliore. È vero che il Santo non si curò risparmiarle; ma egli era santo, e le poteva dire: io, che non sono santo, per pudore devo tacerle[3]. Nè si rimasero agli obbrobrii; ma con ogni maniera di tormenti s'ingegnarono disertarvi. Chi non conosce la miseranda storia di Elgiva, sfregiata in volto da Odone arcivescovo di Cantorbery con ferro rovente, e poi uccisa col taglio doloroso dei garetti perchè amata troppo dal regio consorte, ed ella amante di lui così, che nè per minaccia, nè per prego sofferse di vivergli lontana[4]? I Preti potranno ordinare: vade retro, Satane, e saranno ancora ubbiditi; su ciò io non contrasto; ma alla Natura non si dice: addietro, perchè ella manda a gambe levate chiunque avverso le si para davanti.

L'uomo trovò nella colpa di Eva circostanze attenuanti; ad ogni modo gli piacque piuttosto esporsi perpetuamente alla tentazione, che rimanere privo della sua amabile tentatrice. La fiamma di amore, secondo la ragione del fuoco, divampò più gloriosa quanto più compressa. La donna di compagna diventò signora, e regina. Sedè giudice dei Tornei, presiedè le sfide di poesia, e le Corti di Amore. Un nastro della donna fu preferito a un capello di san Pietro[5]. Gl'illustri baroni di guerra, dopo il piacere di scavalcare emuli famosi, e mandarli vinti a rendere omaggio alla Dama dei loro pensieri, non n'ebbero altro più grato che ricevere buoni colpi di lancia o di spada, per sentirsi medicare dalle mani della donna diletta: questo pei laici. Se i chierici poi, impediti nei legittimi connubii, cercassero mescolarsi in amore alla spartita empiendo le famiglie di vergogna, e il mondo di scandalo, potrete domandarlo agli stessi scrittori di cose ecclesiastiche[6].

Le figlie della terra, che furono una volta cagione di peccato per gli Angioli[7], scalarono il cielo; e, più felici dei Titani, se non balzarono di seggio il sommo Giove, n'equilibrarono il culto. Maria fu salutata deipara, madre di Dio: a lei si volsero i cuori di tutti, appellandola con dolcissimi nomi; i buoni l'amarono per la sua bontà, i tristi per la sua misericordia: orgoglio delle vergini, esempio delle madri; a lei si volgono i marinari pericolanti invocandola stella del mare; a lei i cuori dolenti perchè consolatrice degli afflitti; a lei i colpevoli perchè avvocata dei peccatori. Non bastò sostenerla immacolata dopo il parto, ma la vollero immacolata da macchia originale unica tra i viventi; e il mondo, malgrado la opposizione di san Bernardo e dei Domenicani, volle credere così, e così sia[8]. Quante chiese occorrono consacrate al Padre Eterno, e quante a Maria? Davvero ella non volse mai in cuore pensieri, che non fossero tutti umiltà; pure è forza confessare, che poche preci s'innalzano a Dio se non per mezzo della consolatrice degli afflitti. Conoscete voi titolo di umana grandezza, che possa paragonarsi a questo? Il Sommo Sacerdote, geloso degli affetti del sacerdote, e tutto intento a impedire che si disperdessero in famiglia, mentre su questa terra vitupera, perseguita e calpesta la donna, consente poi che sia venerata regina dei cieli. Insano consiglio! In cielo e in terra la donna impera regina del cuore degli uomini.

Altre volte, (io lo rammento gemendo) agitato da cattive passioni, scrissi male parole contro le donne: me ne confesso colpevole, e me ne pento; cancellatele via: si abbiano per non iscritte; io le ritratto, e intendo farne, come ne faccio, ammenda onorevole. Se ad emendare il fallo abbisognasse presentarsi con la croce in mano e la corda al collo, mi chiamo parato a tutto; non mi tratterrebbe neppure replicare la penitenza dello imperatore Enrico III, quando Gregorio VII, prima di togliergli la scomunica, lo fece stare tre giorni a piedi nudi sopra la neve fuori dei muri di Canosa, mentr'egli si tratteneva dentro davanti al fuoco a ragionare con la Contessa Matilde. O secoli di oro pel Pontificato, deh! dove siete or voi?—Io intanto, per non menomare la grazia vostra, che spero avere recuperata intera, tacerò come il bene che ho detto delle donne non si trovi mica in tutte; anzi talvolta neppure nella medesima donna sempre: anche il cuore ha le sue tavole meteorologiche; ed ora fa sereno, ora nuvoloso, ed ora piove a dirotta. Altri dica, non io, come quando le donne furono giudici nelle Corti di Amore pronunziassero sentenze poco edificanti; a modo di esempio quella di Ermengarda contessa di Narbona, la quale dichiara che il marito divorziato può benissimo essere accolto Amante dalla sua moglie maritata ad un altro; e quella di Eleonora di Guienna, che decide non poter durare amore tra sposi, e doversi scegliere un secondo amante per provare la costanza del primo.—Molto meno riferirò il celebre parallelo fra la donna e Diana; con la sola differenza, in ultimo, che Diana porta la mezza luna sopra la fronte, e la donna la fa portare. Queste, ed altre simili novelle vanno cacciate via come tentazioni del demonio; la fede non ammette dubbio; e in fatto di femmine, ora che mi sento vecchio, io mi son reso credente. Sembrami tempo di tornare alla storia. E le amabili leggitrici mi perdonino la digressione: io ho peccato per colpa loro.

Dal matrimonio di Luisa Vellia con Giacomo Cènci nacquero a breve intervallo di tempo quattro figli, i quali dalle carte di famiglia ricavo avere avuto nome Francesco, Felice, Cristofano ed Angiolo. Vivevano nella via di san Lorenzo Panisperna dentro casa, lontana certo dallo splendore che desiderava l'alto lignaggio di Giacomo; pure una volta secondo i bisogni della famiglia con discreta convenienza fornita: ma Francesco Cènci, passata che gli fu la paura incussagli da papa Clemente VIII quando lo costrinse a somministrare al suo figlio 2000 scudi annui di pensione, e conoscendo come (quantunque egli stesse su l'austero) bene altra fosse la sua dalla mente di Sisto V, incominciò prima a stentargliela, poi a ridurgliela, e infine non gli dava quasi più niente; onde la famiglia vivevasi in angustia grande, stretta da ogni necessità.

Luisa comecchè molto soffrisse, e meno per se (come di leggieri può credersi) che per la famiglia, tuttavolta si aiutava come meglio le riusciva; mostrava ilare il volto al marito, e lo confortava a starsi di buona voglia, chè le cose si sarebbero mutate in bene. Dopo le nuvole apparisce il sole, ella gli diceva, e ogni giorno passa il peggio; nè a un modo solo può durare; con altri simili luoghi comuni che il labbro profferisce, e il cuore non crede: imperciocchè, pur troppo! la fortuna ghermisca l'uomo a' capelli, e lo strascini dentro la tomba, e non lo lasci se prima non lo abbia calcato bene nella fossa, e calpestato la terra sopra che lo copre. Le tribolazioni della animosa donna stavano tra Dio e lei: e sì che si sentiva scoppiare il cuore quantunque volte contemplava il suo nobile consorte tanto non pure dimesso, ma abietto di abbigliamenti; i figli quasi nudi, e talora affamati. Alle frequenti scosse la sua anima però si era non poco mutata; un senso di dubbio serpeggiava là dentro; soffocava non senza sforzo una voce di rimprovero, che suo malgrado vi sorgeva di tanto in tanto a riprenderla della sua troppa pazienza. Incominciava a pentirsi del sagrifizio sofferto: chi l'avesse osservata sottilmente poteva comprenderlo di leggieri dal volto, e dalla voce con la quale profferì le ultime parole.

Ma Giacomo, oppresso dalla tristezza, non aveva comodo a instituire coteste osservazioni, e:

—Luisa mia, soggiungeva in suono di mistero, bene altre… bene altre ne ha commesse costui… Senti… accostati, affinchè i bambini non odano.—

—E siccome ella repugnando non si accostava, Giacomo avvicinò la sua alla sedia della consorte.

—Tu hai da sapere, che la madre mia fu onesta quanto bella… angiolo mio, come te… Però se mantenne purissimo sempre alla fedeltà coniugale il suo cuore, tu capisci ch'ella non potè impedire che altri s'innamorasse di lei. Il signor Gasparo Lanci, nostro gentiluomo, ne concepì altissimo affetto; e procedendo meno discretamente che a bene avvisato cavaliere non convenga, pubblicò la sua passione stampando un funesto sonetto, che mi rammento benissimo, e diceva così:

    Posciachè amor per voi mi accese il core
      Forse di troppo a me onrata fiamma,
      Così di fuoco ho la sinistra mamma,
      Che non ho refrigerio al fiero ardore.
    Mi nutrisco di pianto, e di dolore;
      E bench'io mi consumi dramma a dramma,
      Mi restaura il calor, che sol m'infiamma;
      Così mi ancide, e mi ravviva amore.
    Virginia il guardo onde tanto arso fui
      Ei tanto fisso nella mente siede,
      Che non posso pensar se non a lui.
    Se da voi non impetro hormai mercede
      Cenere mi farà, chè non di altrui
      Si può smorzar l'ardor che ogni altro eccede
[9].

Questo sonetto, che può considerarsi come un crimenlese di poesia, forse fu assoluto dallo amore, non da mia madre. Il giorno dopo, che il signor Gasparo glielo ebbe mandato in dono impresso sopra mantino rosso, egli venne, secondo la usanza, a visitarla, assente Francesco Cènci. La signora madre tostochè lo vide si levò in piedi; e, fattagli reverenza, con voce alquanto alterata prese a favellargli così: «Carissimo signor Gasparo; dopo la pubblicità del suo sonetto, speravo che vossignoria comprendesse come una gentildonna onorata non potesse riceverla più oltre; e poichè il suo buon giudizio qui le ha fatto fallo, non posso risparmiarmi d'insegnarglielo di mia propria bocca». Poi, mossa a pietà del pallore del gentiluomo, con suono più dolce aggiungeva: «Che sia benedetto, signor Gasparo; ma perchè vossignoria offre a me uno amore che, sposa altrui, non potrei partecipare senza colpa; mentre presentato ad una fanciulla da par suo sarebbe prezioso, e la colmerebbe di giubbilo? Giri, di grazia, l'occhio intorno, e veda come Roma sia copiosa di fanciulle per bellezze e per costumi rarissime; dirizzi a qualcheduna fra loro le sue fiamme pregiate, e viva pure tranquillo che saranno accolte, come meritano, più che volentieri».

Il signor Lanci interdetto si sprofondava in inchini; la voce gli negava l'ufficio consueto, ma le lacrime gli sgorgavano dagli occhi. Però, siccome amore si pasce di sospiri, di pianto e di speranza, non per questo smetteva il costume di farsi vedere sotto il palazzo, pago di contemplare almeno la dimora della donna amata. Certo giorno, poco innanzi l'alba, udii sotto le finestre di camera mia parecchie voci, che gridavano: «Misericordia, Gesù!» Scesi subito per la via con la spada in una mano ed un torchietto nell'altra, e vidi presso l'arco di casa il corpo del signor Gasparo trapassato da un coltello che dalla spalla destra gli riusciva sotto la mamma sinistra, dove aveva cantato di sentirsi il fuoco. Ma questo è nulla. Mia madre, già logora dai sofferti dolori, diventò più trista pel caso avvenuto al signor Gasparo buona anima; parendole, come pur troppo era chiaro, che per cagione sua egli avesse incontrata la mala morte. Già anche prima di cotesta strage poco ella usciva di casa; adesso poi non si lasciò più veder fuori, vivendo ritiratissima tutta chiusa nelle sue afflizioni. Così travagliata da nuovi e vecchi dispiaceri decadde per modo, che a quanti conversarono con esso lei parve che ormai pochi giorni le rimanessero a dimorare sopra la terra: inoltre la voce della sua prossima morte veniva sparsa a sommo studio da Francesco Cènci, novellamente accesosi, piuttostochè d'amore, di furore per la Lucrezia Petroni nostra matrigna. Certo dì, quando reputò il tempo opportuno, Francesco Cènci, colto il destro che mia madre, seduta a mensa al suo fianco, volse il capo per chiamare uno staffiere, egli, pronto come la lingua dell'aspide, gittò una presa di polvere nel suo bicchiere. La madre bevve; e, provato un gusto amaro, ne rimproverò il credenziere. Il Conte premuroso si fece recar la boccia, saggiò il vino con accuratezza, e accertò parergli lo squisito alicante che sempre aveva trovato. Io già era per aprir bocca e dire della polvere, quando il Conte, troncatami la voce in gola con una occhiata tagliente, così prese a favellare soave: «Signora Virginia, non ve ne fate caso; allorchè ci sentiamo male disposti, la prima cosa che ci venga a fastidio è sempre il vino.» Quindi, senz'altro aggiungere, si levò da tavola. Tre giorni dopo alla medesima ora mia madre, che Dio abbia in pace, moriva; e senza imbalsamarla, per motivo della subita corruzione, ben chiusa dentro tre casse la trasportavano in fretta a lontana sepoltura.

Luisa aveva ascoltato questo racconto con viso arcigno, e a modo d'incredula. Finito ch'egli ebbe, così alla trista riprese:

—Io non vo' dire, che il Conte sia un santo. Dio me ne guardi! Ma questo perpetuo vituperare che voi fate vostro padre, non vi ha recato altro che danno…

—E come lo vitupero io?

—E' non fu per simili obbrobrii che Sua Santità, tenendovi figlio senza cuore e desideroso della morte del padre, vi dimise dal suo cospetto sconsolato?

—La buona fortuna di cotesto demonio è pari alla sua perversità.

—Vergogna!… Rammentate che discorrete di vostro padre, e i vostri figliuoli vi potrebbero sentire.

—E se sentissero, che mal sarebbe? È bene, anzi, che sappiano quanto lo avo loro sia diverso dal padre.

—Voi?—Ah! se fosse vero quanto raccontate del Conte, voi avreste comune con lui l'odio dei figli…

—L'odio dei miei figli! Luisa, sei folle stasera?—E Giacomo sollevò la testa come trasognato…

—Sì, sì—gittate finalmente l'argine prorompeva Luisa con traboccante passione—l'odio del vostro sangue: ecco le vostre creature che hanno fame, e voi non le sapete cibare di pane; eccole ignude, e voi non procacciate vestirle: di me non parlo. La casa, che già vi fu cara, adesso v'incresce; rado venite, torbido state, presto partite, e non vi prende pensiero alcuno di noi, che fra le angosce vi aspettammo intere notti invano…

—Luisa! l'anima, che potrebbe forse sostenere le vostre strida, non regge allo spettacolo del muto dolore della mia famiglia:—io non posso sopportare la vista di tanta miseria. Sposa mia, vuoi attribuirmi a colpa la soverchia tenerezza?

—Dite, Giacomo, la vostra lontananza profitta meglio ai figliuoli? Quando non vi veggono, piangono essi meno? La vostra assenza gli alimenta, li cuopre, li consola? Perchè lasciar me, povera donna, desolata, senza consiglio e senza soccorso? Non ci siamo congiunti per sollevarci scambievolmente? Perchè dunque voi fate portare la croce a me sola?

—Luisa hai ragione; ma non troverà perdono presso di te la mia tenerezza, e, se vuoi ancora, la mia pusillanimità?

—Uomo finto, e crudele… la tua tenerezza!… la tua pusillanimità!
E dove consumi la pensione di tuo padre?

—Ch'è questa furia? Non ti diss'io le mille volte, ch'ei me l'ha cessata, ed ora mi getta tre scudi, ora quattro come la elemosina al mendico importuno?

—Sì, eh!… la pensione ti ha tolta? Ti getta la elemosina di tre scudi o quattro! E le tue cortigiane, di', con che le mantieni? E i tuoi bastardi con che cosa gli nudrisci?

—Luisa tu deliri…

—Oh! di me nulla m'importa, vedi, perchè io tornerò a casa dei miei parenti; e quantunque abbiano provato la fortuna contraria, pure so che mi accoglieranno di cuore; e poi a me non duole guadagnarmi, lavorando, da sostentare la vita. Non ti rimprovero la mia bellezza sfiorata, la mia gioventù logora teco:—certo esco da casa tua troppo diversa da quello che io vi entrai… ma che importa? Siamo fiori, noi altre donne, troncati per gusto passeggiero; odorati, e gittati via. Io non ti auguro male, me ne guardi Dio!; che lo augurerei al padre dei miei figli…

—Luisa mia… deh! che nuova passione ella è questa? Ma parlami pacata… ascoltami…

Inutile;—tanto era possibile impedire con le mani che il Tevere straripasse quando è pieno, che reprimere cotesta fiumana di passione…

—Va in braccio di altra donna… va… tanto non troverai creatura che ti ami quanto ti ho amato io… Ma queste sono parole di donna, e tu non le hai a badare… attendi, ti scongiuro, a quelle altre, che sono di madre: Ti prenda pietà di questi sciagurati fanciulli… guardali in volto… guardami in volto,… e il cuore ti dirà che sono tuoi figli… sangue del tuo sangue… amali almeno quanto i figli che avrai avuto da altra donna: non li condannare a morire di fame. Il bimbo Angiolino, finchè ho potuto ho nudrito col mio latte… adesso, vedi, incomincia a mancarmi… O Vergine del pianto benedetta! Anche il latte mi si è inaridito nel seno… misericordia di una misera madre…

Giacomo girava gli occhi stralunati dintorno, e con quel suo profondo sbigottimento, anzichè dissipare, confermava i sospetti della moglie. Alla fine, come avvilito esclamò:

—Ah! chi mi avvelena il cuore della mia donna? chi divide la carne dalla mia carne? Quello che unì il volere di Dio discioglie la malignità di Francesco Cènci. Francesco Cènci, io ti sento qui dentro! Il tuo alito m'investe sottile, irreparabile, e mortale come il contagio… Luisa di', chi fu colui che mi calunniò al tuo cuore?—

—Calunnie! Quanti sono i colpevoli che si battono il petto dicendo: peccavi? E la collana comprata alla tua druda è calunnia? Calunnia ancora il guarnello di broccato d'argento al tuo bastardo? La casa rifabbricata al marito compiacente è ella calunnia?

—Se la passione non mi stringesse il cuore, in verità di Dio le tue parole mi farebbero ridere.—Basta via, Luisa; sono menzogne coteste…

—Menzogne, dici? Or via, leggi.

E trattasi un foglio dal seno, glielo gettò sopra la tavola. Giacomo lo spiegò, e lo lesse. Era una lettera anonima scritta di pessimo carattere in istile plebeo, con la quale si dava contezza a Luisa della infedeltà di suo marito con la moglie del falegname di Ripetta, e del gran profondere di moneta ch'ei faceva con cotesta femmina, acciecato nello amore di lei: la informava ancora averle il signor Cènci rifabbricato la casa, e provveduto il marito di danaro pei suoi interessi; non taceva dei gioielli preziosi e delle vesti sfoggiate donate alla donna; e di più ancora, e questa era stata la trafitta maggiore per l'anima della povera madre, da questo illecito commercio essere nato un figliuolo bellissimo, a cui Giacomo voleva il più gran bene del mondo. Sul dono del guarnello di broccato d'argento trattenevasi con maligna compiacenza.—

Giacomo rese con atto languido e lento il foglio alla consorte, e scuotendo mestamente la testa disse:

—E come mai Luisa, consorte mia, con quel buon giudizio che ti trovi, hai potuto prestar fede a così infame e stupido scritto?

—Perchè è vero—rispose la donna petulante con singhiozzo convulso.

—Luisa, e vorrai tu credere piuttosto al calunniatore a cui manca perfino il coraggio di manifestare il suo nome,—che può avere, ed ha certo mille fini ingiustissimi operando così proditoriamente; come alienarmi il tuo cuore, turbarmi la pace domestica, rapirmi l'unico bene che mi resta, l'amor tuo,—e non a me…..che ti amo come la pupilla degli occhi miei, che ti onoro come madre dei miei figli… e che questo ti affermo, e ti giuro su l'anima mia?

—Io credo più al foglio che a te, perchè il foglio dice la verità, e tu sei un bugiardo.

—Luisa, in miglior punto io vi ricordo lo insegnamento che presumeste testè darmi: avvertite che i vostri figliuoli non già possono ascoltarvi, bensì vi ascoltano, e che io sono il loro padre.

—Io te lo dico a posta in loro presenza affinchè imparino a conoscerti per tempo.

—Silenzio!—Donna—silenzio! Quanto andate fantasticando è falso; io ve lo giuro su la fede di gentiluomo onorato, e basta.

—Davvero, voi siete un gentiluomo senza macchia; vi avanza ad essere senza paura per rassomigliare al Cavaliere Bajardo! E quando a me e alla mia famiglia voi deste ad intendere come il consenso di vostro padre concorresse alle nostre nozze, non giuraste del pari su la fede di gentiluomo onorato?

Giacomo arrossì fino alla radice dei capelli, poi ridivenne pallido; all'ultimo disse con parole di amarezza:

—Veramente, colei per amore della quale commisi un fallo… non dovrebbe così severa rimproverarmelo;… allora la passione per voi mi tolse il senno…

—E adesso, che cosa vi toglie essa?—Insisteva sempre e più sempre la donna, improvvida a frenare l'animo acceso.—Giacomo inasprito duramente ordinava:

—Tacete…

—E se io non volessi tacere?…

—Troverei modo a chiudervi la bocca—io—.

—Tu troverai… oh! tu hai già trovato questo… Quando poniamo i nostri capi sul medesimo guanciale, chi sa quante volte hai pensato di farvi scomparire il mio!…

—Luisa!—

—Ora la serpe ha cacciato fuori il suo veleno. Uomo crudele! Non ti basta la vittima? Tu vuoi ch'essa taccia; non mandi un sospiro, che turbi la voluttà che senti della sua morte. Abbi almeno la cortesia degli antichi sagrificatori… incorona la tua vittima di fiori, e cuoprila di porpora…

—Ma taci una volta, per amore del tuo Dio…

—No… non voglio tacere io… no; io voglio parlare… voglio accusarti della tua empietà agli uomini e a Dio—traditore —mentitore… marrano.

Lo sdegno fece ribollire la passione nel petto di Giacomo già inacerbito dalla sventura così, che, come acqua per soverchio calore ribocca impetuosa dagli orli del vaso, egli proruppe cieco e tremendo. Cacciò la mano convulsa sotto il farsetto; ma, come piacque alla fortuna, aveva perduto il pugnale: aggirandosi per la stanza frenetico gli capitò uno di quei stocchi lunghissimi, taglienti da quattro lati, che si chiamavano verduchi[10], e impugnatolo si gittò cieco di furore contro la moglie.

Luisa presi in fretta i figli, si pose intorno i maggiori; il pargolo si recò al collo, e, caduta in ginocchio dinanzi al marito che le veniva incontro, senza battere palpebra disse:

—Nudriscilo del mio sangue, dopo che il latte mi è venuto meno… carnefice!—

Giacomo stette; come persona percossa sul capo traballò, gittò via lo stocco, e tese smanioso le braccia alla moglie; la quale volgendo altrove il volto esclamò:

—No… mai…

Allora Giacomo ricorse ai figli tutto smarrito, e con senso di tenerezza ineffabile scongiurava:

—Deh! figli miei, persuadete voi vostra madre che s'inganna; ditele che l'ho amata sempre, e l'amo. Voi almeno corrispondete al mio amplesso—venite al mio seno… consolatemi voi… che il mio cuore è inebriato d'infinita amarezza.

—No—tu hai fatto piangere mamma.

—Volevi tirare a mamma—va…

—Noi non ti vogliamo più bene, cattivo…

—Va via:—va via… gridarono a coro i tre fanciulli.

—Va via? Sta bene. I miei figli mi scacciano dal seno loro… mi bandiscono dalla mia casa—andrò.—Ma tu almeno,—soggiunse Giacomo volgendosi al fantolino che Luisa aveva riposto nella culla,—innocente creatura, che gli uomini non hanno ancora potuto avvelenare… tu che sentirai vergine il grido della natura, ricevi il mio amplesso, e tienlo come la unica eredità che possa lasciarti il tuo padre infelice.

Il bimbo, spaventato dal sembiante sconvolto e dagli atti concitati di lui, sollevò ambedue le manine facendosene schermo al viso, e mandando fuori strilli di paura. Giacomo si fermò—lo contemplò—piegò le braccia in croce sul petto, e con accento concentrato profferì queste parole:

—Ecco; il padre mi perseguita a morte—la moglie mi rinnega—i figli, mi scacciano—la stessa natura rovescia le sue leggi per me, e il fantolino mi abborrisce come cosa, che lo istinto gli addita malefica. A questi fati non dovrebbe mai condursi l'uomo… ed io soffersi valicarne il termine estremo! A modo di tronco in mezzo alla via, io mi attraverso alla vita dei miei, ingombro odiato e insidioso.—A che più stai, anima sconsolata? Ora la tua partita giova a me e ai figli miei:—un giorno gli educai sotto le mie fronde, adesso la mia ombra toglie loro il sole:… velenose sono le rugiade, che cascano da me:—andiamo;—devo benedirli, o no? Vorrei… e non ardisco… No… chè le mie parole potrebbero, prima di scendere sul capo loro, convenirsi in maladizione.—Vita acerba, morte miserabile, memoria aborrita.—Tu, Dio, queste cose vedi? Le vedi, e le consenti?—Tu hai rotto la canna inclinata… ed io mi chiamo vinto… oh! oh!

E così mormorando, con la morte nell'anima e le mani nei capelli, traendo dolorosi guai abbandona la casa. Chiunque lo avesse visto, e gli fosse pure stato nemico, avrebbe detto: «il Signore abbia misericordia di questo sciagurato!»

La moglie, sebbene la procella continuasse a scompigliare il suo spirito, sentiva levarsi in cuore un'aura mite foriera di pianto appassionato, mercè la spontaneità dello amore mostratole dai suoi cari figliuoli; e se per questo le venissero mille volte più cari non è da dire.

Vive nei genitori, io non dirò senza accorgersene, ma senza che lo confessino a se stessi, una emulazione nello affetto dei figli, la quale suole procedere ordinariamente così. Alle madri riesce farsi amare in preferenza del padre dalle femmine, ed anche dai maschi fino a tanto che si sentono deboli ed infermi; ma quando la vita rifiorisce in loro vigorosa, vaghi dei campi aperti o del fragore delle città, dalle madri mano a mano si scostano, e si avvicinano al padre. Ora i figli di Giacomo si trovavano nella età in che il bisogno gl'inclina meglio alle carezze, ed agli aiuti materni: quindi natural cosa era, che tutti per la madre parteggiassero.

Luisa non avvertì la partenza del marito, o, se pure l'aveva avvertita, poco le calse; sazia, per così dire, di amore filiale. I baci ardenti e le focose carezze che in quel punto riceveva, e più partecipava, le fecero obliare che il vincolo più forte di famiglia giaceva infranto. Ahimè! Quanto le costerà amaro il mal momento in cui ella, incauta, commise la sua anima in balìa di cieca passione!

NOTE

[1] Estratti dello Evangelo di san Matteo:

«Or quivi erano molte donne riguardando da lontano, le quali avevano seguitato Gesù nella Galilea ministrandogli». Cap. 27. n. 55.

    «Fra le quali erano Maria Maddalena, e Maria madre d'Jacobo, e
    d'Jose, e la madre, e i figliuoli di Zebedeo». Cap. 27. n. 56.

    «Or Maria Maddalena, e l'altra Maria erano quivi sedendo di
    rincontro al sepolcro
». Cap. 27. n. 61.

    «Or finita la settimana, quando il primo giorno della settimana
    incominciava a schiarire, Maria Maddalena e l'altra Maria vennero
    a vedere il sepolcro». Cap. 28. n. 1.

«Ma l'Angiolo fece motto alle donne, e disse loro: Voi non temiate, perchè so che voi cercate Gesù il quale è stato crocifisso». Cap. 28. n. 3.

    «E andate prestamente ai suoi discepoli, e dite loro, ch'egli è
    resuscitato dai morti. Cap. 28. n. 7.

    «Ed ecco Gesù venne loro incontro dicendo: bene state. Ed esse
    accostatesi gli presero i piedi e lo adorarono». Cap. 28. n. 9.

[2] Il Signore Dio disse ancora: E' non è bene, che l'uomo sia solo: io gli farò uno aiuto convenevole a lui». Genesi, C. II. n. 18.

[3] Oltre le urbanità riferite nel testo, san Piero Damiano favellando delle donne in generale, aggiunse: «Venite itaque, audite me scorta, postribula, volutabra porcorum pinguium, cubilia spirituum immundorum ec.» Si vede chiaro, che tra san Pier Damiano e monsignore Giovanni della Casa corre il tratto di parecchi secoli. E pare, che san Piero Damiano si reputasse nato da una zucca; non già da una donna. Le Signore, che avessero talento di sapere quello che le parole del Santo significhino, se le facciano volgarizzare da qualche studente tornato per le vacanze a casa.

[4] Nella Storia della Inghilterra di DAVID HUME (T. I. pag. 143 e seg.) leggiamo questo fatto atrocissimo, raccontato così: «Edvigo figlio di Edmondo, malgrado l'affinità, e senza ottenerne dispensa dalla Chiesa, sposa Elgiva. Di qui le sacerdotali ire. San Dunstano seduto al banchetto nuziale, visto il Re scomparire da mensa, gli corre dietro; e trovatolo ridotto nella segreta stanza con lei gli muove amaro rabbuffo, e lo rimanda a bere.—Dunstano per la temerità sua è sbandito. Odone arcivescovo di Cantorbery invade armata mano il palazzo reale, e sfregia con un ferro rovente il volto di Elgiva. Il Re, superato dalle mene pretesche, è costretto a divorziare la moglie. Elgiva risanata dalle ferite in guisa, che non le lasciarono traccia veruna, torna in Inghilterra. Odono arcivescovo le va incontro, la sorprende, e le taglia i garetti, onde in mezzo ad atrocissimi spasimi dopo alquanti giorni muore a Glocester.—Così avveniva ai Re poco obbedienti alla Chiesa: pei Re devoti e benigni la faccenda procedeva altrimenti. Edgardo rapisce, e viola Edita monaca. I Monaci se la passarono di leggieri; lo assolverono, imponendogli per penitenza di non mettersi in capo la corona durante lo spazio di sette anni.

[5] Alessandro II eccitando Guglielmo il Conquistatore alla impresa contro i Sassoni d'Inghilterra, gli mandò unitamente alla bolla d'investitura la bandiera benedetta, e l'anello di oro con un capello di san Pietro. THIERRY, Storia della Conquista d'Inghilterra, T. I. p. 269.

[6] Callisto papa invia in Inghilterra il Cardinale di Crema per bandire la necessità del celibato dei preti. Il Cardinale, convocato il Sinodo, fra le altre bellissime cose diceva: «essere empietà esecrabile che un sacerdote fosse tanto temerario di toccare il corpo di Gesù Cristo, uscendo dal lato di una bagascia (così egli chiamava, senza cerimonie, le mogli dei preti). Gli uffiziali di giustizia, mossi dalle istanze di alcuni ecclesiastici, ch'erano andati vigilando le azioni del predicatore, ruppero nella notte vegnente le porte dell'albergo del buon Cardinale, e lo trovarono giacente a letto con una femmina di partito. HUME, Storia d'Inghilterra, T. I. p. 368.

[7] «I figliuoli di Dio veggendo che le figliuole degli uomini erano belle, si presero per mogli quelle, che si scelsero d'infra tutte». Genesi, C. VI. v. 2.

[8] La Chiesa di Lione instituì il dogma della Immaculata Concezione nel 1134. San Bernardo le mandò una epistola, severamente ammonendola contro coteste nuovità (epistola 174). Il Concilio di Oxford, nel 1222, lo condannò. I Domenicani parteggiarono per San Bernardo, furono contrarii i Francescani. Giovanni XXII, sotto pena di scomunica, vietò a tutti i fedeli trattenersi in simile controversia.

[9] Raccolta di Sonetti col titolo: Per donne romane, rime di diversi—stampata in Bologna a quel tempo

  [10] _Voi che portaste già spada, e pugnale,
       Stocco, daga, verduco, e costolieri_.—BERNI.

     È voce affatto spagnuola. Verdugo in Ispagnuolo significa
     Carnefice

CAPITOLO IX.

IL SUOCERO.

                    …………il maligno
                    Che in lei strada sì larga aprir si vede,
                    Tacito in sen le serpe, ed al governo
                    Dei suoi pensieri lusingando siede:
                    E qui più sempre l'ira, e l'odio interno
                    Inacerbisce……

TASSO, Gerusalemme Liberata.

—Io mi vo' chiarire da me stessa, esclamò Luisa con gesto risoluto. Poi si acconciava alla meglio le vesti dimesse: trasse fuori della cassa una mantiglia di seta nera per avvilupparvisi dentro; e, raccomandati i fanciulli alla unica fantesca che teneva in casa, ammonendola più e più volte che non li perdesse di vista, se ne andò difilato al palazzo del suocero.

Giunta nell'anticamera notò come gli staffieri la sbirciassero sott'occhio, reputandola femmina di piccolo affare; e forse già stavano per straziarla con motteggi plebei, quando la gentildonna troncò a mezzo cotesti sguardi, e favellii villani; imperciocchè andando loro incontro, con signorile atteggiamento comandasse:

—Avvertite il Conte don Francesco, che donna Luisa Cènci sua nuora si è recata al suo palazzo per visitarlo… e che adesso sta aspettando in anticamera…

Ora sì che parve ai servi essere usciti dalla padella e saltati su la brace. Non sapevano se dovessero annunziarla, o no: l'un partito e l'altro pieno di pericolo. Tanto era arabico il carattere del padrone, che, se non la indovinavano, il meno che potesse andarne loro stava nel perdere il pane.

Il pane! Ago magnetico, che conduce più bestialmente delle stesse bestie l'armento dei figli di Adamo.

Il pane! Nutrimento quotidiano, che gli uomini o più infelici o più bassi dei bruti, troppo spesso non sanno procacciarsi senza delitto, o senza viltà.

Il pane! Sasso, che la necessità lega al collo ad ogni nobile sentimento per affogarlo nello inferno del male.—Certo fu grande la sapienza, che insinuò nella preghiera domenicale la domanda a Dio di somministrarci il nostro pane quotidiano; ma poichè la troviamo sovente inesaudita, gioverebbe grandemente aggiungervi queste altre parole: e se non puoi, o non vuoi darmi pane, dammi almeno la costanza per morire di fame senza viltà.

Intanto l'uomo non vuol morire di fame, e stende la viltà sul pane come burro; nè pare che gli turbi lo appetito, o gli guasti la digestione.

I servi più vecchi, ormai per tre quarti diventati carne di volpe, si restrinsero insieme per avvisare il da farsi, e fu il consiglio corto; imperciocchè uno di loro, ch'era stato cantiniere al Convento del Gesù in Roma, ammiccando degli occhi certo giovane staffiere preso da pochi giorni agli stipendii del Conte, di natura vanitoso anzichè no, profferisse la sentenza: «loda il folle, e fallo correre». A questo fine gli dissero:

—Ciriaco… da bello… tocca a voi:—vi lasciamo il campo di affiatarvi col padrone;—e poi voi siete giovane, e garbato—noi siamo vecchi, e dei modi che costumano oggi con le Signore non sappiamo niente… sicchè la presentazione della gentildonna vi spetta proprio de jure.

I vecchi servi tesero la insidia per malignanza, il giovane v'incappò dentro per vanità;—forse col concetto segreto di supplantarli un giorno nel favore del padrone. Tristi tutti, come per ordinario avviene della famiglia dei servi guidata sempre dallo iniquo istinto del pane.

—Eccellenza, inchinata la persona come il primo quarto di luna, parlò Ciriaco pervenuto al cospetto del Conte;—sta qui fuori certa gentildonna, la quale si annunzia per nuora della Eccellenza vostra, e desidera udienza.

—Chi, dite voi?—

Gridò il Conte dando un balzo sopra la sedia. Egli procedeva verso i servi con sembianze sempre severe: oggi poi comparivano paurose; molto più che teneva il volto avviluppato dentro fasce di tela, e nella guancia tumefatta sentisse acerbissimo il dolore della scottatura.

—La nuora di vostra Eccellenza…

Il Conte squadrava il servo con occhi così truci, ch'egli sentì venirsi addosso il freddo della quartana: pure, sostenuto dalla virtù del pane, e vie più curvandosi verso terra, soggiungeva Ciriaco:

—Quantunque non mi sia sfuggito d'occhio che la sua gente, per cento motivi uno più plausibile dell'altro, non va a genio di vostra Eccellenza…

—Voi avete osservato questo?

—Questo ed altro, perchè egli è proprio il mio gusto non lasciare nulla inosservato nelle voglie dei miei padroni per antivenire i desiderii loro; ciò nonostante mi parve villania rimandarla, attesa la riverenza della clarissima casa di cui la gentildonna afferma portare lo illustrissimo nome.

Don Francesco sorrise un tal suo riso di sdegno considerando come quel gaglioffo, a prova di lusinghe, s'ingegnasse insinuarglisi nel cuore; e poichè quegli ebbe posto fine al parlare, egli tenendogli gli occhi fitti nel volto così prese a dire:

—E qual cosa vi ha dato motivo di supporre che i parenti miei, ed in ispecial modo donna Luisa mia signora nuora, potessero riuscirmi molesti? Voi spiate gli andamenti dei vostri padroni, ed è gran male; voi interpretate alla rovescia le loro intenzioni, e questo è peggio. Andate dal mio maestro di casa; fatevi pagare l'annata intera, e spogliate la mia livrea;—stasera non avete a dormire in palazzo[1].

Il servo rimase come colui, che cercando sotto un albero rifugio dalla pioggia, sente cascarsi sul capo un ramo rotto dal fulmine; volle prostrarsi, s'ingegnò parlare, e così con voce e con cenni domandare mercede; se non che il Conte, mal sofferendo che il servo si trattenesse dopo il suo comando, con suono al quale era impossibile resistere aggiunse:

—Uscite…

—Ah! clarissima ed illustrissima donna Luisa,—diceva il servo con parole ardenti—vede… per aver fatto entrare vostra signoria tocca adesso uscire a me. Lascio considerare a lei se sia giusta. Io mi trovo proprio per le strade:—non dirò per colpa sua, Dio me ne guardi!; ma finalmente per renderle servizio mi capita addosso questo male:—veda un po' di ripararlo: mi raccomando a lei, gliene va di coscienza…

L'anima del servo, mezzo supplicando e mezzo rinfacciando, stretta dalla agonia del pane, si attaccava a donna Luisa (disprezzata poco anzi) come ultima àncora di speranza.

Luisa per vero dire sentì stringersi al cuore pel duro caso, e più per quel meschino; e stette in forse se dovesse andare oltre, o ritornarsene a casa; come quella a cui pareva avere avuto schiarimento abbastanza, ed essercene di avanzo: tuttavolta prevalse in lei il consiglio peggiore, ed entrò.

I vecchi servi furono attorno al compagno disgraziato, e sottilmente deridendolo gli medicavano la ferita con l'olio di vetriolo.

Luisa, con atto nè umile nè superbo, si fece accosto al banco dove il suocero l'aspettava in piedi; e poichè, ella per onorarlo come padre, voleva prostrarglisi davanti, egli non lo permise; ma rilevandola prontamente, con voce benigna favellò:

—No, figlia mia, io non ho le orecchie nei piedi. Non sia per rimprovero; ma la creatura umana non deve prostrarsi ad altri, che a Dio.

—Signor padre, poichè voi così benigno mi concedete il diritto di adoperare questo nome, permettete che innanzi tratto vi domandi perdono di non essermi mai presentata al vostro cospetto. Mi avevano assicurato che voi mi avreste bandita da casa vostra… questa onta, voi intendete, è insopportabile per una gentildonna romana…

—Certo, farvi moglie del mio figliuolo primogenito sul quale aveva riposto ogni mia tenerezza come ogni mio orgoglio,—senza pure impetrare il mio consenso,—anzi senza domandarmi la benedizione paterna:—ma che parlo di benedizione e di consenso? senza pur farmene un semplice motto,—parmi tale oblìo di ogni autorità,—tale un disprezzo di qualunque reverenza, che il cuore di un padre non può astenersi di gemerne profondamente. In quanto poi al cacciarvi dalla mia presenza, perdonate,—ma la mia nuora, come colei che sente essere gentildonna romana, dovrebbe sapere, che un barone romano non può mai mancare di cortesia verso una donna, anche quando potesse riuscirgli per avventura molesta…

E siccome Luisa, punta dalla sottile allusione al suo umile lignaggio, stava per rispondere con vivezza, l'astuto vecchio, che bene se ne accorse dal colore vermiglio che le si diffuse su per le guance, si affrettava soggiungere con voce soavissima:

—Molto più che avendo voi sortito onesti natali, e predicandovi la fama valorosa donna, io non avrei trovato ragionevole causa per oppormi a queste nozze. Neppure avrebbero fatto ostacolo le mediocri sostanze della vostra famiglia sia perchè la mia casa non ne abbisogni, sia perchè la fortuna faccia delle ricchezze come il mare delle acque, che ne cuopre e ne discuopre i lidi senza posa; e a me talentò sempre piuttosto virtù senza danaro, che dovizie con superbia, con malignità, o con istolidezza…

—Don Francesco, duolmi per iscolpare me dovere appuntare altrui; ma importa che sappiate come Giacomo, vinto dalla sua passione, m'ingannasse affermandomi, sotto parola di gentiluomo onorato, voi sciente e consenziente le nostre nozze: solo per certi particolari riguardi desiderare, che i nostri sponsali rimanessero per alcun tempo celati…

—Ed ecco come—esclamò il Conte percuotendo di forza con un piede il pavimento—il disprezzo del primo dovere di gentiluomo, ch'è la lealtà, conduce sempre in miserabili rovine. Voi pertanto foste ingannata; io tradito. Forse potrei riprendervi di soverchia facilità a credere;—forse potrei chiamare incauti i vostri parenti, e voi;—ma, in qualunque caso, qual colpa mai avrebbero i vostri figliuoli?

—Ed è appunto per questi, che pure sono sangue vostro, e devono continuare la vostra discendenza…

—E ne avete?…

—Quattro, e leggiadrissimi tutti—angioli d'innocenza e di beltà—rispose vivacemente Luisa mentre le pupille le sfolgoravano traverso due grosse lacrime, figlie dell'orgoglio materno…

—Com'è feconda la razza delle vipere!—pensò nel suo segreto il Conte
Cènci;—poi con labbra sorridenti riprese:

—Dio ve gli salvi…

—Padre mio le vostre parole mi ridonano gli spiriti. Ascoltatemi dunque, perocchè io sia venuta appunto per favellarvi dei vostri nepoti. Voi vedete in me una madre desolata, una vera madre del Pianto. Di me non parlo. Non badate a questo abbigliamento vilissimo, per cui divenni favola poco anzi dei vostri medesimi staffieri…..ma sappiate che i figliuoli miei, i nepoti vostri, non hanno vesti che bastino a cuoprire la loro nudità;—mancano spesso di pane per saziare la fame.—

E le lacrime d'orgoglio, che versava poco anzi liete e rare, si convertirono nella povera madre in pianto dirotto, e pieno di dolore.

—Come può essere questo? Certo io non vorrò negare di essermi mostrato sempre a Giacomo piuttosto scarso, che no; però che la esperienza mi avesse ammaestrato, com'egli crescesse nei costumi poco lodevoli in proporzione della facoltà ch'ei possedeva per alimentarli. La botte delle Danaidi fu favola, ma la prodigalità di mio figlio è vizio pur troppo irreparabile. A me repugnò sempre contribuire a renderlo peggiore di quello ch'ei sia. Mi ha ognora trattenuto dal mostrarmi largo soverchiamente con lui una sorte di rimorso, e il timore di doverne rendere un giorno conto a Dio. Se i nostri antenati non avessero fondato i fidecommissi, ed io non attendessi a imitarli in questa lodevolissima pratica, ma sapete mia cara Signora, e spettabile nuora mia, che io andrei pensoso—ma pensoso davvero intorno alla sorte dei vostri figli, e miei nepoti?—Nonostante ciò, mi sembra che con duemila ducati annui si possa provvedere alle necessità, ed anche alle comodità della vostra famiglia.

—Ma Giacomo afferma che voi gliela trattenete, e che gli gettate pochi scudi, così di tanto in tanto, piuttosto in segno di oltraggio, che in sollievo della sua miseria…

—Egli lo afferma? E forse anche lo giura con la stessa parola di gentiluomo onorato con la quale vi accertava me sciente, e consenziente del vostro matrimonio?—Io non vi giuro, perchè mi è stato insegnato che il parlare del Cristiano ha da essere: sì, sì; no, no…Ma ecco, chiaritevi di per voi stessa sopra i libri di casa (e preso un libro di ricordi lo aperse, glielo pose sott'occhio segnandole col dito diverse partite, che la nuora si astenne di leggere) se gli sia stata pagata, o no, la pensione pattuita. Poichè questo sciagurato riduce il suo genitore alla umiliazione di giustificarsi, le pietre stesse insorgeranno per fare testimonianza contro di lui.—Calunnia—e sempre calunnia ingiustissima; eppure non è la più trista delle colpe, che deva rimproverare a Giacomo il mio cuore paterno! Ma i miei dolori devono rimanere sepolti qua dentro. Ahimè! Francesco Cènci, quanto sei misero padre, ed infelice vecchio…Ahimè!—E si cuopriva con ambedue le mani la faccia.

Luisa alla venerabile sembianza, allo accento di uno affanno così profondo si sentiva commossa. Il perverso, sempre con voce di lamento, proseguiva dicendo:

—Potessi almeno trovare un cuore col quale sfogare la immensa amarezza dell'anima mia!…

—Padre mio!—Signor Conte…ed io pure sono madre e sposa infelicissima,—sfogatevi…noi piangeremo segretamente insieme…

—Egregia donna! Mia buona figliuola! No—no—la religione della moglie consiste nello stare attaccata come osso a osso all'uomo, che scelse a suo compagno nella vita:—però io devo astenermi dalle parole, e forse ne ho favellate troppe, chè potrebbero farvelo amare meno… O Giacomo! quanta notte di angoscia tu versi sopra gli estremi anni del tuo povero padre! Ecco mi è ignota la faccia dei miei nepoti—gentile orgoglio degli avi.—Noi potremmo vivere tutti sotto il medesimo tetto, uniti nella benedizione di Dio! Questo palazzo è troppo vasto per me; io lo percorro solitario, e assiderato; io, che dovrei specchiare le mie sembianze rinnuovate nelle sembianze dei miei nepoti—io, che dovrei riscaldarmi nelle loro carezze; tra i cuori nostri, che anelerebbero accostarsi, e le nostre persone sorge un muro di bronzo; e tu, sciagurato Giacomo, ne sei stato l'artefice!

Luisa, considerando la sembianza del vecchio tinta nella cenere dell'odio, temè avere aggravata soverchiamente la sorte del marito. Onde cauta si ritrasse domandando pacata:

—E tanto vi offendono, Padre mio, le colpe del vostro figlio, che la speranza di un meritato perdono non possa scendere mai dentro il vostro cuore paterno?

—Io lascio giudicarlo a voi. Vi rammenterò cosa, la quale per essere conosciuta universalmente mi dispensa da rinnuovarne l'acerbo racconto. E chi fu quegli che condusse Olimpia a dettare lo scellerato memoriale al Papa, per cui mi svelsero dalle braccia cotesta figlia traviata con tanta ferita al mio cuore, e danno della mia reputazione?—Giacomo.—Chi procurò che cotesto libello infamatorio pervenisse nelle mani di Sua Santità?—Giacomo.—Chi fu che, prosteso ai piedi del Vicario di Cristo, lo scongiurò con sospiri e con lacrime della mia morte?—Chi?—Un nemico, forse? L'erede di uno, a cui io avessi dato la morte?—No—Giacomo—l'uomo, che mi deve la vita…

—O Padre mio, deh! via, placatevi: forse vi riportarono di Giacomo più, e peggio di quello ch'ei dicesse o facesse. Il vostro antico senno conosce l'usanza pessima dei servi di mettere male del caduto in disgrazia presso il padrone, ingegnandosi di venirgli in grado coll'aggiungere legna al fuoco.—E se anche i falli del vostro figliuolo fossero gravi come voi dite, risovvengavi ch'egli è vostro sangue;—risovvengavi che il nostro Signore Gesù Cristo perdonò a coloro che lo avevano crocifisso, perchè non sapevano quello che facevano…

—Ma Giacomo sa troppo bene quello che si faccia. Ogni giorno egli cresce nella sua empietà:—ogni ora egli si affatica a togliermi la fama, e questo avanzo infelice di vita …—Ferocemente impaziente il figliuolo meraviglia della lentezza della mia morte, a cui crebbe le ali con tanti desiderii.—Senti, figlia mia; e se lo impeto gitta l'argine e trabocca, tu vogli perdonarmelo. Però questi orrori, io ti raccomando stieno fra Dio, me e te: soprattutto i miei nepoti gl'ignorino sempre, onde non imparino ad aborrire il padre loro.—Ora sono pochi giorni egli venne qui a pervertirmi Beatrice e Bernardino, persuadendoli perfidamente avere io procurato la morte di Virgilio; come se cotesto infelice fanciullo, per somma sventura sua e di me, non fosse colto dal male insanabile del tisico. Nè questo è tutto: giù nella Chiesa di san Tommaso, eretta dalla pietà dei nostri avi, e da me restaurata, mentre si celebravano esequie solenni all'anima del defunto figliuolo, convertita la bara in cattedra di abominazione, senza rispetto alla santità del luogo, ai sacri altari, alla religione del rito, al Dio presente, congiurava con gli altri traviati figliuoli e la consorte—la morte mia…—Tu fremi, buona Luisa?—Sospendi il tuo orrore, chè avrai a fremere di bene altre cose poi. Quando io, misero padre! mi faccio a piangere sul cadavere dell'angelica creatura, avanti tempo chiamata a vita migliore, io non so quale o nuova insania, o inaudita rabbia gli strascinasse… ecco mi rovesciano addosso il morticino… mi percuotono… mi feriscono… Guarda, figlia, di per te stessa, esamina… io porto impressi nel volto i segni del sacrilego attentato…

Qui si fermò come rifinito dall'atroce memoria; quindi, in suono di pianto, riprese a favellare:

—D'ora in avanti, quando mi verranno incontro i miei figliuoli… Giacomo sopra tutti… sai tu, che cosa mi toccherà a fare? Tentare se mi abbiano bene affibbiato il giaco… frugare se mi sia dimenticato il pugnale. Tra lui e me porre un cane fedele, che dal suo furore mi preservi la vita… Sì, un cane; poichè il mio sangue mi procede siffattamente nemico. Sfiduciato della razza umana, bene è forza che io cerchi la mia difesa fra le bestie:—anzi questo cane io aveva, e fedelissimo a prova… ed essi me lo hanno ammazzato di un colpo di spada nel cuore… truce presagio di ciò che riserbano al padre loro.—Già da qualche tempo m'invade un pensiero… che, nato sul mio doloroso guanciale, ha preso a impadronirsi di me come idea fissa… ed è se io debba permettere ch'essi consumino il parricidio, o piuttosto, troncando con le mie proprie mani questa misera vita, risparmiare in un punto a loro la infamia e la pena del delitto, a me il supplizio incomportabile di vivere. Ah! Signore, quanto è dura necessità questa di perdere l'anima loro, o la mia!

Qui piegata alquanto la faccia fissava certa lettera di Spagna, la quale gli porgeva notizia della morte che si presagiva imminente di Filippo II, da lui sopra ogni altro re ammirato, e nel suo segreto pensava:—lui avventuroso che prima di morire potè fare strangolare il figliuolo, e ne fu benedetto da Santa Madre Chiesa!—[2]

Intanto fu bussato pian piano all'uscio della stanza. Il Conte, rialzato il capo, con voce ferma ordinava:

—Avanti…

Comparve Marzio, il quale dopo qualche esitanza, veduta ch'ebbe la donna, favellò:

—Eccellenza… il tabellione…

—Aspetti. Fatelo passare nella stanza verde onde possa assettarsi a bell'agio…

—Eccellenza, egli mi ha commesso annunziarle, che faccende urgentissime lo chiamano altrove…

—Per dio! Chi è costui, che ardisce avere una volontà diversa dalla mia—e per di più in mia casa?—Quasi, quasi io sarei tentato fargli come a Conte Ugolino, e gittare le chiavi nel Tevere. Andate, e non gli permettete uscire senza il mio consenso…

La rabbia appena repressa con la quale il Conte fremeva queste parole, avrebbe fatto avvertito agevolmente chiunque vi avesse posto mediocre attenzione, della ipocrisia da lui adoperata nei suoi colloquii fin qui; ma Luisa teneva la mente rivolta altrove, e lunga ora stette col capo dimesso al pavimento come persona affatto avvilita, incapace a formare un concetto, o profferire una parola. Il Conte la sogguardò sospettoso, e poi riassicurato riprese:

—Però non mi diparto dal mio proponimento, che i figli non hanno a portare il peso delle iniquità paterne. Questa legge, severa troppo, venne mitigata dalla dottrina di Cristo… ed io sono cristiano. Voi mi cogliete nel punto in cui vado a ridurre ad effetto questa mia convinzione. Ho disposto instituire eredi delle mie facoltà libere i vostri figliuoli: pei fidecommissi sto sicuro perchè non possono essere ipotecati, molto meno alienati; dalle rendite dei fidecommissi in fuori altro non può sprecare Giacomo vostro, e dovrà suo malgrado rendere un giorno i fondi inalterati al maggiorasco. Voi nominerò amministratrice dei beni liberi; e spero, che dopo aver provveduto onoratamente alla famiglia, potrete avanzare tanto che valga a crescere il patrimonio. Io desiderava consultarvi in proposito; ma non poteva rivolvermi a mandarvi a chiamare, dubbioso se voi avreste tenuto lo invito. Ora poi che siete venuta spontanea, confesso che Dio vi ha proprio ispirata. Anche i ciechi dovrebbero vedere qui dentro il dito della Provvidenza.

Quantunque Luisa, come tutte le madri, sentisse maravigliosa compiacenza delle ottime disposizioni dell'avo a favore dei suoi figliuoli, pure, come donna virtuosa, non potè trattenersi da osservare:

—E la signora Beatrice, e don Bernardino?…

—Beatrice ha già stanziata la dote, sufficientissima a qualsivoglia gran dama. Bernardino ha da tirarsi innanzi per la prelatura, e Casa Cènci possiede in copia giuspatronati fra i più cospicui di Roma.

—E gli altri figli?

—Chi figli?…

—Don Cristofano e don Felice…

—Essi? Oh! essi, la Dio mercede, sono già provveduti, e non hanno bisogno di niente—rispose il Conte; e i suoi occhi si raggrinzarono, e la pupilla costretta mandò fuori un lampo di riso maligno…

—Don Francesco non mi muove curiosità, ma voglia di non comparire alla mia coscienza cupida del bene altrui, nello insistere a sapere come venne provveduto ai miei signori Cognati…

—Essi hanno sposato una potentissima dama che fa loro le spese, e come a loro le può fare, e le fa ad altri ben molti…—Di ciò, se vi piace, parleremo altra volta, donna Luisa, e con agio maggiore…

—Signor Conte, prima di lasciarvi—e donna Luisa esitò uno istante; poi amore di madre vincendo la donnesca alterezza, fattasi coraggio riprese:—io vorrei esporvi la causa, che mi persuase di venire a inchinarvi…

—Ditela…

—Se i miei voti saranno ascoltati in cielo voi vivrete anche cento anni; e i miei figli, intanto, stremi di tutto…

—Ah sono pure il solenne smemorato!—incominciò a dire don Francesco toccandosi lieve lieve il capo, e come se favellasse seco medesimo.—Povera donna! ha ragione.—Sopra il piatto di cotesto sciagurato ella non può fare assegnamento, dacchè ei lo spende fuori di casa con altra femmina che ama; con altri figli, che più dei legittimi formano la sua tenerezza…

—Come! come!—proruppe Luisa afferrando con ambedue le mani il braccio destro al suocero.—Dunque, don Francesco, lo sapete anche voi?

—Signora nuora—replicò il Conte con volto austero—io vo' che sappiate, il cuore d'un padre non essere meno geloso della fama dei figli, di quello che il cuore delle mogli nol sia per lo affetto dei loro mariti; ma nel naufragio di ogni onesto sentimento di Giacomo tutti dovevamo perdere… voi uno sposo… io un figlio.

—Luisa mandò un profondo sospiro.

—Ora uditemi, donna Luisa. Io vi somministrerò volentieri il danaro necessario ai bisogni della vostra famiglia; se non che intendo che voi vi leghiate con giuramento ad osservare certa condizione, che vi dirò. Io poi non esigo che voi v'impegniate a chiusi occhi; mai no: io vi dichiarerò la condizione, e la causa della medesima; onde se voi troverete, come non dubito, quella discreta, e questa tendente al bene dei vostri figliuoli, voi la giuriate con libertà e coscienza.

—Don Francesco vi ascolto.

—Voi altre buone femmine, comprese interamente da un solo amore, presto ponete giù l'ira che v'infiamma contro l'oggetto delle vostre legittime affezioni:—voi siete vele, che vi sgonfiate ad ogni lieve calare del vento… Oh! so bene io quanta virtù abbiano due lagrimette e un bacio a placare le più fiere procelle matrimoniali. Giacomo già parmi vederlo assoluto, e a mille doppii più amato da voi amantissima sposa: allora voi gli confiderete il danaro, e il modo col quale lo avete ottenuto da me; ed egli (lasciate fare a lui!) troverà bene la via di carpirvi la moneta;—ed io, invece che serva ad alimentare i miei nepoti, vedrò con dolore averla data ad alimentare i suoi laidi costumi. D'altronde io presagisco, che anche da questo atto trarrà argomento di calunnia contro di me: ed io non vorrei che un benefizio mi fruttasse nuove amarezze. Non paionvi sufficienti quelle che patisco? Sono indiscreto forse, se io procuro non crescerne il carico? Ora io desidero, che per cosa al mondo voi non gli riveliate possedere moneta; e molto meno poi la parte dalla quale vi viene. Sembravi questa condizione tale, che possa rifiutarsi da voi?

—No certo; voi mi consigliate perbene, ed anche senza condizione io mi sarei comportata nel modo che vi piacque indicarmi.

—Tanto meglio. Ecco qua una santa reliquia.—Così dicendo il Conte si trasse dal seno una crocellina di oro, e, presentatala alla nuora, aggiunse:—giurate per questa croce benedetta sul sepolcro del nostro Signore, per la salute dell'anima vostra, per la vita dei vostri figliuoli, che voi osserverete la promessa…

—Non fa mestiero di riti tanto solenni, rispose Luisa sorridendo a fiore di labbri:—ecco, io ve lo giuro…

—Sta bene: adesso togliete quanto vi aggrada; e sì dicendo aperse uno scrigno pieno di monete d'oro di varia ragione;—e siccome la gentildonna vergognando si peritava, il Conte insisteva:—ma prendete—prendete… sarebbe strana davvero, che tra padre e figlia si facessero tanti rispetti. Orsù, via, farò da me;—e riempita una borsa gliela consegnò. La gentildonna diventata vermiglia, lo ringraziava con un cenno affettuosissimo del capo.

—Prima però che prendiate commiato, mia cara signora nuora, udite un'altra parola…—perchè voi comprendete ottimamente come malgrado le ingiurie atroci con le quali Giacomo mi ha offeso—e continuerà pur troppo ad offendermi—egli sia sempre mio sangue.—Non vi stancate di tentare ogni mezzo per ricondurre cotesto traviato al mio seno… chiudete l'occhio alle sue infedeltà… soffrite gl'insulti… obliate ch'egli ha procreato altri figli, che non sono vostri;… che mentre ai legittimissimi vostri fa mancare le cose al vivere necessarie, prodiga ai figli naturali altrui—anzi adulterini—moneta, onde compaiano vestiti di broccatello di argento, e di oro… Perdonatelo, convertitelo, riconducetemelo insomma; le mie braccia stanno sempre aperte per lui…. il mio cuore sempre pronto a dimenticare ogni cosa in un amplesso sincero:—affaticandovi a ridonarmi un figlio voi ricupererete in un punto il padre ai figli vostri, lo sposo a voi. Oh se questo potesse accadere prima che i miei occhi si chiudessero!… Certo la mia vita non è stata altro che affanno, e già sta presso a cessare…. ma qualche volta accade che i giorni procellosi si rasserenino verso sera, e un raggio di sole languido, ma benedetto,—tardo, ma desiderato,—venga a salutare con uno addio di amico colui che sta per partire….

—Don Francesco, voi mi avete riempito così di maraviglia, di tenerezza e di gratitudine, che io non so in qual modo significarvelo con parole. Valga in difetto questo bacio, che io imprimo con tenerezza di figlia sopra la vostra mano paterna. Ma quantunque io senta che dei tanti benefizii, di cui mi avete colma, non sarò per potermene sdebitare giammai, pure vi supplico a degnarvi d'aggiungerne un altro—ed è: di compiacervi a raffermare quel famiglio, che voi avete licenziato per colpa mia…

—Egregia donna!—Non io, Luisa, ma voi gli rimettete il fallo; avvegnachè io lo avessi congedato a cagione della mancanza di rispetto con la quale mi aveva favellato di voi.

Qui agitava il campanello, e apparve uno staffiere di sala.

—Ciriaco.

Ciriaco veniva, umiliando il capo fino a terra.

—Ringraziate donna Luisa dei Cènci mia clarissima nuora, che vi permette rimanere graziandovi il fallo commesso. D'ora innanzi emendatevi, e siate più riverente co' vostri superiori.

—Mia buona padrona e signora, disse Ciriaco gittandosele giù di rifascio in ginocchioni davanti, Dio le ne renda merito per me e per la mia povera famiglia, che senza la sua carità si sarebbe ridotta ad accattare…. e non avrebbe pane…

Luisa gli sorrise. Don Francesco accompagnò lei, invano supplicante a rimanersi seduto, con onesta cortesia fino alla porta; e quindi tornando addietro con presti passi, pose una mano su la spalla di Ciriaco; e squadratolo con biechi sguardi gli favellò così:

—Non solo adesso tu te ne andrai di casa mia;—ma di Roma altresì,—ma da tutti gli stati Pontificii ancora,—e subito;—se domani io ti sapessi qui, penserò da me stesso al tuo viaggio. Va senza guardare indietro: io non ho la potenza di convertirti in istatua di sale; possiedo semplicemente quella di convertirti in morto. Mettiti un sigillo su la bocca, la paura di me nell'anima; se i piedi ti venissero meno, continua il tuo cammino con le ginocchia carponi. Tu, che hai avuto la pericolosa curiosità di esaminare i costumi del tuo padrone, avrai notato com'egli non manchi mai a quello che promette. Esci, e ricorda che Dio non si osserva, ma si adora; ed ogni padrone, pei suoi servi o sudditi, ha da essere un Dio.

Coteste minacce e cotesto piglio gettarono tanto avvilimento nel cuore al servo, che si partì ratto da Roma insalutata la propria famiglia. Ad ogni muovere di foglia gli pareva avere alle costole qualche bravo del Conte Cènci; nè si quietò il suo affanno finchè ei non fu di molte miglia lontano da Roma.

———

—Ai comandi di vostra Eccellenza, disse il Notaro (con la familiarità servile consueta alla gente di toga) entrando nella stanza…

Il Conte, con superbia magnatizia rispose:

—Vi ho chiamato, Sere, per consegnarvi il mio testamento olografo: stendete l'atto di recezione, intanto che mando per testimoni idonei: fate bene, e spedito.

I testimoni vennero, e s'inchinarono; l'atto fu celebrato, e i testimoni partirono, e s'inchinarono senza parole; impassibili, piuttostochè ad uomini somiglievoli ad ombre. Il tabellione mentre ripiegava i suoi scartafacci si sentiva proprio morire non isciogliendo il freno alla garrulità, vizio che aveva comune a tutti i suoi confratelli in protocollo.

—Per bacco!, proruppe il Notaro, io so che vostra Eccellenza non ama osservazioni, epperò mi sono affrettato a servirla di coppa e di coltello: tutta volta però mi pareva, che vostra Eccellenza non fosse in termini dirimpetto alla età per devenire a questo atto, et voluntas hominis ambulatoria est usque ad mortem; sicchè in tanto si raggiunge meglio lo scopo della testamentifazione, in quanto più si aspetta a farlo. Simili disposizioni patiscono della natura dei meloni, che stando molto colti senza mangiarli infracidano.

—L'uomo è egli padrone del domani? E gli uomini alla età mia si assomigliano agli ebrei nel giorno di Pasqua, col bastone in mano e i calzari in piedi pronti a partire. A me pareva non avere mai pace, finchè non avessi assicurato in modo fermo il destino dei miei figli e nepoti.

Il tabellione, che aveva un muso appuntato a modo di volpe, e il cervello eziandio, gli ficcò addosso due occhini lustri che parevano fatti col succhiello; e stringendo le labbra rise un tal sorriso di sorba acerba, che voleva dire: che con lui coteste lustre non valevano un lupino, e che quando al diavolo del Conte legavano il bellico, il suo andava ritto da se senza bisogno di ciuffolo.

—In quanto a questo poi, Eccellenza, osservò l'astuto notaro, non faceva mestiero che il suo cuore paterno si mettesse in ambasce, imperciocchè la legge provvidissima ripari a tutto. Sa ella, signor Conte, come noi altri, che ce ne intendiamo, si costuma definire il testamento? Atto illegittimo, col quale il padre di famiglia leva la roba a chi va.

Il Conte gli lanciò un'occhiata da tagliargli la faccia; ma il Notaro aveva mutato sembiante: adesso compariva semplice, come se egli avesse mosso coteste osservazioni più per dabbenaggine, che per malizia. Don Francesco non trovò a fare meglio, che imitarlo; sicchè con volto beato rispose:

—O guardate!… che mi troverò ad avere fatto un atto inutile? Ma utile per inutile non vitiatur, come mi pare che insegnate voi altri curiali; e poi, quando non avesse servito ad altro, avrà procurato a me il piacere di essermi trattenuto con voi, a voi il piacere di avere guadagnato qualche ducato…

E largheggiando, come suoleva, nella mercede, don Francesco si levò prontamente dintorno cotesto importuno scrutatore delle cose sue, che si allontanò strisciando come una serpe, e ripetendo col pugno pieno di moneta:

—Troppo generoso! sempre magnifico! Dio la mantenga sano, e verde.

Rimasto solo, il Conte così andava mulinando da se:

—Ora i Cènci non godranno più della mia eredità libera: ho diseredato tutti i miei figli, nel caso che qualcheduno sopravviva[3];—peraltro io farò in guisa, per quanto sta in me, che questo non avvenga. La causa della diseredazione è la principale delle quattordici indicate da Giustiniano. Le mie volontà saranno rispettate. Per dio! Se i miei nepoti non si conducessero a divorarsi le mani per fame, io risusciterei per istrozzare i giudici che sentenziassero a loro vantaggio… E poi ho istituito eredi luoghi pii, corporazioni religiose, e simili mani morte. Mani morte!—Chiedea mattoni, e gli portavan rena… che torre di Babele è mai questa? Ormai bisogna riformare la lingua. Mani morte! Ne furono mai vedute in questo mondo più vive a prendere, e più dure a ritenere? Avanzano i fidecommessi! Immenso tesoro! Ora come adopererò io per svincolarli, e disperderli? Bisognerà che io me la intenda col Cardinale Aldobrandino: costui prenderebbe anche lo inferno per raccattarvi cenere. Quale avarizia feroce! Trama di prete romano, e orditura di mercante fiorentino! Io credo fermamente, ch'egli abbia provato a trarre sangue dai sassi del Colosseo. Ma per levare ai lupi mi è d'uopo gettare alle jene… fiere contro fiere… dura necessità! ma sia;—purchè rimangano ignudi i miei figliuoli, venga anche il diavolo, e si vesta del mio mantello.—La onorevole figura che farebbe il diavolo, col mio mantello scarlatto trinato di oro! Nessuno presuma accusarmi di non aver lasciato sostanza ai miei figliuoli e nepoti, chè avrebbe torto. Come Timone lasciava agli Ateniesi il fico del suo campo onde vi si potessero impiccare a loro bell'agio, io lascio in retaggio ai miei discendenti il Tevere perchè vi si affoghino dentro[4].

NOTE

[1] Il Cardinale Dubois, ministro di Filippo d'Orleans durante la minorità di Luigi XV, vero tipo di dissolutezza e di furberia, aveva preso ai suoi stipendii certo cocchiere, il quale una volta si vantò, che quando il suo padrone usciva da qualche palazzo, egli, fissandolo in volto, dalla fisonomia di lui era capace indovinare se il Cardinale avesse causa di tenersi malcontento, o soddisfatto; e giuocava di più, di cogliere nell'argomento di cui egli avesse potuto tenere colloquio. Il padrone, saputo il vanto del cocchiere, lo mise alla prova; ed avendo trovato che più spesso che ei non avrebbe voluto costui dava nel segno, chiamatolo a se molto lo commendò della perspicacia sua; ma donatagli buona somma di danari, gli ordinò che uscisse più presto che di passo fuori di casa sua.—Racconta questo fatto, con altri curiosissimi, il sig. GIOIA nel suo Galateo.

[2] Quantunque la morte di Filippo II si prevedesse imminente, tuttavolta visse più di Francesco Cènci; conciosiachè questi venisse ammazzato nella notte dell'11 al 12 settembre 1598, e quegli morisse il 13 dei medesimi mese ed anno alle cinque di sera. Orribili furono i patimenti dello scelleratissimo re; egli di per se stesso, scrivendo al suo figliuolo Filippo III, li racconta: importerebbe assai che li conoscesse la gente; ma superando il documento lo spazio discreto d'una nota, è mestiero riservarlo a qualche altra opportunità.

[3] La diseredazione di Giacomo, ordinata dal padre suo Francesco Cènci, è cosa fuori di dubbio; avvegnadio si ricavi dal chirografo spedito da Clemente VIII a Monsignor Taverna, rammentato nelle note precedenti: «Francisci testamentum in quo Jacobum…… exeredavit, sive ejus successione privavit».

[4] PLUTARCO narra diversamente il caso di Timone il Misantropo. «Un giorno, egli dice, Timone si presentò alla bigoncia. Il popolo trasse ad ascoltarlo, ed egli favellò così: «Ateniesi, io possiedo un campo; adesso sto per fabbricarvi sopra una casa; in mezzo a quello sorge un fico bellissimo, dove parecchi dei miei concittadini presero la lodevole usanza di andarsi ad impiccare: ond'io (non volendo così repentinamente privarvi di un tanto benefizio) vi avviso, che se qualcheduno avesse voglia di fare questa faccenda si affretti perchè, da quanto avete sentito, non ha tempo da perdere».

CAPITOLO X.

IL CONVITO.

Cènci. «Benvenuti, amici e gentiluomini; benvenuti, principi e cardinali, colonne della Chiesa, che onorate il nostro festino con la vostra presenza … quando avremo ricambiato insieme un brindisio due, voi vorrete reputarmi carne e sangue come siete voi, peccatore invero; da Adamo in poi siamo tutti così; ma compassionevole, mansueto e pietoso».

SHELLEY, Beatrica Cènci.

È bello vedere il tremolio azzurro e di oro delle acque marine, però che esse abbiano senso d'amore, e voce fatidica.—Al raggio della luna, che di loro s'innamora, palpitano di piacere.—Parlano, quando si succedono come lacrime lungo le sponde, una lingua di pianto, composta dei gridi dei naufraghi raccolti per tutta l'ampiezza della sua superficie: pei liti del mare Egèo ripetono un lene lamento di lira, poichè Saffo immergendosi in coteste acque vi lasciasse la sua vita ed il suo amore.

È bello vedere il Sole prorompere nella magnificenza dei suoi raggi dai patrii colli, e accendere con uno sguardo la vita per la terra e pel cielo; ed è pur bello, affacciati da una balza, mirarlo quando tramonta, e lascia dietro a se una nebbia dorata, come un monile che donava alla donna dei suoi pensieri il cavaliere in procinto di partire per terre lontane; o nuvole tinte in porpora, quasi mantello reale consegnato alle ore sue ancelle prima di andare a giacere, per ripigliarlo al suo svegliarsi domani. Allora gli uccelli traversano rapidi i cieli chiamando la famiglia a raccolta, e raddoppiano il canto o per amore della luce che si spenge, o per paura delle tenebre che nascono: pei campi il tintinno dei campanelli raduna gli armenti alle stalle: dall'alto dei campanili la squilla con tocchi dolenti annunzia essere giunta l'ora delle gioie domestiche e delle memorie. Invano! Non tutti gli uomini amano il focolare di famiglia, e la preghiera pei morti; molti, all'opposto, spiano dallo spiraglio della finestra quando il giorno cessa, e respirano più liberi al calare della notte, però che i pensieri e le opere loro sieno di tenebre. Ed io, che pure non amo le tenebre, non rispondo alla chiamata. Qual è la stanza che mi attende? La cella del prigione solitaria, nuda, gelida, dove non odo altro che il gemito di qualche infermo, o l'agonia di un morente perchè fa parte d'un ospedale di condannati[1].

Sopra lo spalto dell'antica fortezza di Volterra contemplo i colli lontani di azzurri e lieti farsi neri e minacciosi, simili ad amici che ti abbiano tradito, o di beneficati che, giusta il costume, ti paghino il debito in moneta d'ingratitudine. Le nuvole, poco fa sfavillanti dei colori della madre perla, diventano fosche come i ricordi della passata felicità; si affacciano oscuri al travagliato dalla presente sciagura. Alcune vele bianche passano, e si perdono per la caligine del mare Tirreno a modo dei pensieri, che si sprofondano nel buio della meditazione. Il fiume antico della Cecina avvolgendosi con infinite curve per la campagna, par che fugga di perdersi nel mare, come la vita tenta ogni sforzo per sottrarsi alla morte irreparabile. Scorri, o fiume, più rapido dove ti spinge necessità di natura, e non trattenere con inani conati le tue acque,—perchè tutto incalza un fato supremo. Come rami di albero, o manipoli di paglia, sopra la tua corrente reami e popoli galleggiano sul fiume del tempo per traboccare nella Eternità.

Poichè tutto muore, deh! possa sovvenire a noi miseri il conforto di poter volgere nella fossa alla cenere, che ci sta accanto, queste parole: «Tu sei formata di ossa felici, non innocenti; godesti assai—fatti in là—e non usurparmi le lacrime di cui mi consolano i superstiti come me miseri—e come me pietosi. A Dio piaccia, almeno nei sepolcri, separare le ossa innocenti dalle ossa malvagie!»

Molte sono le cose che appaiono belle nel creato: o perchè veramente tali sieno per se stesse, o pei pensieri che suscitano; ma nessuna riesce più stupenda all'occhio del padre quanto la faccia dei suoi figliuoli. Gli occhi dell'uomo furono inebbriati, quando prima contemplarono le care sembianze della donna che adesso è madre dei suoi figli, e se ne rallegrano ancora; ma o lo splendore della bellezza si offuscò, o la virtù degli occhi decrebbe, avvegnadio egli possa di presente guardarla senza che l'anima dentro gli tremi;—ma la gioia, che nasce dalla vista dei figli, non viene mai meno. Come la sostanza odorosa che si ricava dal muschio per emanare di effluvii non diminuisce di volume o di peso, così lo affetto paterno non menoma la sua intensità. I figli sono la corona della vita dei padri; essi ci sopravvivono a modo del profumo che avanza dallo incenso consumato dal fuoco; essi vanno ai posteri messaggeri e testimonianza dello ingegno e delle virtù degli avi.—Amati, se non leggiadri (perchè la luce dell'anima rende gioconda qualsivoglia sembianza);—doppiamente amati se belli;—dilettissimi sempre se la Sapienza toccò con le ali infiammate le loro teste, o se ebbero, nascendo, meno benigno il raggio delle stelle, purchè virtuosi di cuore, e d'anima intemerata;—imperciocchè il grande intelletto sia grazia di Dio; ma la rettitudine è retaggio, che ogni creatura può, e deve comporre con le forze dell'anima propria».

———

Don Francesco Cènci aveva imbandito un sontuoso banchetto un festino reale in verità. Dentro vastissima sala, di cui la volta appariva dipinta stupendamente dai migliori maestri di cotesta età non ancora interamente corrotta, stavano dirizzate le mense. Intorno alla sala ricorreva un cornicione bianco e dorato, sostenuto a uguali intervalli da pilastri parimente bianchi frastagliati d'arabeschi di oro. Gli spazii da un pilastro all'altro erano coperti di specchi alti meglio che otto braccia; ma perchè l'arte, che allora fioriva a Venezia, non sapeva anche fabbricarli di un pezzo solo, erano connessi insieme in più frammenti; e per cuoprire le giunture con leggiadro trovato vi avevano dipinto amorini, e fronde, e frutti, e fiori, e uccellini di varia ragione, oltre ogni credere vaghissimi: otto porte andavano guarnite di portiere di broccato, di cui il fondo bianco di raso, gli orli in rilievo a fiorami di oro, in mezzo lo scudo gentilizio co' suoi colori bianco e vermiglio.

Tutto, insomma, appariva magnifico; stoffe, specchi e dipinti; se non che la pittura, di scuola bolognese, ostentava dovizia, non potendo oggimai più comparire bella nella sua semplicità.

La Pittura, toccato ch'ebbe con Raffaello il grado supremo della perfezione, decadde secondo il fato naturale di tutte le cose quaggiù. Però in talune la decadenza avviene inevitabilmente, imperciocchè abbiano perfettibilità definitiva; in tali altre, all'opposto, la decadenza è accidentale, essendo di perfettibilità indefinita. La poesia deve annoverarsi fra le seconde, la pittura fra le prime. La ragione poi della differenza parmi questa, che scopo della pittura essendo riprodurre in immagine gli oggetti, tanto più apparisce pregievole quanto meglio esattamente gli ritrae:

Morti gli morti, i vivi parean vivi; Non vide me' di me chi vide il vero [2].

Ma la poesia si feconda non solo dalla percezione fisica degli obietti, sibbene ancora da argomenti del pensiero, e dagl'impeti della passione. Irradiando gli occhi, il cuore e lo intelletto con iride perpetuamente screziata di moltiplici colori, fa sì che sempre varii e sempre inesausti si diffondano i suoni della lira immortale. Raffaello sta come Signore della Pittura, nè per ora alcuno seppe superarlo, e forse nol supererà giammai, essendo singolare la via che conduce a cotesta eccellenza. Molti poi scintillano astri maggiori del canto, però che i pellegrini intelletti nello sterminato firmamento della poesia possano percorrere il volo che il genio loro consiglia, e le ali sopportano.

Io non mi tratterrò a descrivere lo incanto, che nasceva dal profumo dei fiori e dallo sfolgorare dei torchi di cera bianca fitti su candelabri di argento ripercosso le miriadi di volte per gli specchi, pei vassoi, bacili, boccali, urne, vasi, statuette, grotteschi, e argenterie d'infinite ragioni ammirande per dovizia, e per lavoro stupende. I tempi di questo racconto non distano tanto da noi, che di simili masserizie chiunque ne avesse vaghezza non possa farne esame nei pubblici musei. Nelle case dei nostri patrizii adesso non se ne vedono più, o rare; però che le abbiano vendute allo straniero. Che cosa non venderebbero essi, i nostri patrizii, se trovassero il compratore? Presso a questo turpe mercato, benedetto… io sto per dire… sì, benedetto il saccheggio dello aborrito nemico! Il soldato ladro non ti porta via la speranza di ricuperare il mal tolto, nè il desiderio di adoperartivi con tutti i nervi; ma lo straniero che ti compra a patto le reliquie paterne ti compra a un punto un brano del tuo cuore, e tu gli vendi un pezzo di patria! La rapina dispone gli animi a libertà ed a vendetta; la vendita volontaria a servitù. Così gli Spartani punivano meno la violenza fatta alla vergine, che la seduzione[3]; e rettamente: imperciocchè con la violenza si contamini il corpo, con la seduzione il corpo a un punto e l'anima. Oggi nelle leggi è alla rovescia; prova fra mille, che la materia ha vinto lo spirito, e da per tutto se ne vedono segni manifesti.—

Ma io torno allo argomento; chè la mia tragedia desidera discorso non di suppellettili, sibbene di anime e di passioni.

———

Don Francesco, con la gentilezza che si addiceva al suo nobile lignaggio, e con la grazia che gli veniva dal suo spirito, accolse i convitati. Eranvi diversi di casa Colonna; eranvi i due Santa Croce, Onofrio principe Dell'Oriolo, e don Paolo di cui fu parlato sul principio di questa storia; eravi monsignore Tesoriere; e poco dopo vennero i cardinali Sforza e Barberini amici, o consorti di casa Cènci, con parecchie altre persone che non rammenta la storia; finalmente, dietro l'ordine del Conte, assisterono donna Lucrezia, Bernardino e Beatrice.

Beatrice vestiva a scorruccio. S'ella non avesse indossato cotesto abito a modo di protesta contra la gioia paurosa del convito paterno, sariasi sospettato che lo avesse fatto con accorgimento donnesco; tanto egli giovava a dare risalto al candore maraviglioso della sua pelle. Per tutto ornamento ella portava intrecciata nelle chiome bionde una rosa appassita, simbolo pur troppo degl'imminenti suoi fati.

—Benvenuti nobili parenti, ed amici: benvenuti eminentissimi Cardinali, colonne di santa madre chiesa, e splendore urbis et orbis. Se il cielo mi desse cento lingue di bronzo e cento petti di ferro, come invocava Omero, non li crederei bastanti a rendervi grazie per l'onore, che vi degnate compartire con la vostra presenza alla mia famiglia.

—Conte Cènci, la vostra inclita casa si trova così in alto locata, che davvero non abbisogna di altri raggi per isplendere lucidissima stella in questo cielo romano—rispondeva, giusta il costume dei tempi, concettosamente il signor Curzio Colonna.

—Voi, nel tesoro della vostra benevolenza, mi procedete parziale oltre il dovere, onorandissimo don Curzio: comunque sia, gran mercè dello amor vostro. Io, Signori miei, vi era quasi diventato straniero: temeva che il mio apparirvi dinanzi vi spaventasse, come di uomo tornato dall'antro di Trofonio; ma che volete? Me rodeva una immensa tristezza… l'iniquo male! Ed io, che provo com'egli trapani le viscere, l'ho portato sempre studiosamente chiuso nel petto, per tema che mi avvenisse come a Pandora quando aperse incautamente il vaso, e versò, senza volerlo, sul mondo la famiglia infinita dei malanni. La tristezza è la polvere sottile che solleva il vento di levante; da per tutto s'insinua, a tutto si attacca, e opprime di sgomento anime e corpi. Il malinconico, per causa più forte del lebbroso, ha da cacciarsi fuori dei tabernacoli d'Israele, e dai festini degli eredi di Anacreonte—io parlo per voi, chierici, a cui mi piace professare venerazione e rispetto: in quanto a voi altri laici, forse avrei proceduto senza cerimonie… ma no… ho pensato che se io aveva causa sufficiente a gittarmi via, alberi e fiumi per appendermi, od affogarmi mercè di Dio non ne mancavano; e non doveva pormi indiscretamente tra il sole e voi per abbuiarvi la vita.—Io poi non mi sono impiccato perchè, bene considerata la cosa, la morte è un brutto quarto di ora—e di più, su le cose che si fanno una volta sola, ho inteso sempre dire ch'è savio pensarci sopra due;—ma neppure volli contristarvi con la mia presenza. Adesso, che un filo di luce viene a rischiarare obliquamente il buio della mia anima, scoto la chioma da questa cenere; colgo anche una fiata—forse l'ultima—una rosa, e ve la intreccio dentro.—Certo durante il verno non si vorrebbe nudrire vaghezza di rose, nè il gentil fiore si educa in mezzo alla neve… pure in questa alma Italia, e ve ne fa prova Beatrice mia, in ogni stagione crescono le rose; e se non ne trovi nel tuo giardino, va in quello altrui, e coglile o strappale. Sì, strappale a forza; perchè, qual legge condannerà il vecchio che prima di morire ha involato una rosa in ricordo della gioventù spenta, e in conforto della vita che si spegne? Tanto varrebbe, che Sua Santità scomunicasse un moribondo perchè manda lo sguardo estremo alla luce che fugge. E tu, Beatrice, quale strana fantasia ti prese di mettere una rosa appassita nei tuoi capelli? Temi per avventura il paragone delle tue guance con le foglie della rosa fresca?—Cessa dalla paura, donzella;—tu puoi provocare siffatto genere di confronti, perchè sei nata a vincerli tutti.—

La fanciulla gli dardeggiò uno sguardo a guisa di saetta; egli lo ricevè stringendo gli occhi, e facendo sfavillare le pupille. Don Onofrio Santa Croce rispose:

—Noi siamo venuti, Conte, come parenti ed amici a prendere parte delle contentezze vostre; e bene mi auguro, che le abbiano ad essere grandissime; imperciocchè io non vi conobbi mai di umore sì gaio, da pretendere di emulare il buon vecchio di Teo.—

—Ed io ebbi torto a non procurarmi cotesto umore, Principe; e quello ch'è peggio, io me ne sono accorto tardi. La Parca,—voi lo sapete—o piuttosto non lo sapete—perchè voi altri eminentissimi Cardinali tenete queste storie in conto di eresie. Eminentissimi, rispettate i vinti; gli esuli ritornano, e la fortuna non ha inchiodato l'asse della ruota: anche Giove fu Dio, e conosce la via che conduce in paradiso. In trono o fuori, Dii e Principi sono cosa sacra; e non appartiene a Dii e a Principi insegnarne il disprezzo alle moltitudini. Assai queste lo imparano da se! E poi non v'incollerite mai contro chi crede troppo… prendetevela con chi crede poco;—perseguitate chi crede punto:—anzi io non arrivo a capire come mai vi siate legate le mani, restringendo a tre le persone delle quali va composto il vostro Dio—e mio;—dovevate instituire un palio fra chi credeva di più, e premio un milione di anni d'indulgenze per colui che giungeva primo.—

—Ma dove era io rimasto?—Attendete… alla Parca. Ora dunque la Parca ci fila giorni di lana nera, mescolati con altri pochi di colore di oro; il senno umano sta nel separarli: piangiamo nei tristi, esultiamo nei lieti, altrimenti convertiremo la vita in uno eterno ufficio da morti. Omnia tempus habent… e sebbene io non ammetta, col sapientissimo re Salomone, che possa esservi anche il tempo di uccidere, mi unisco al suo avviso quando dichiara tutte cose vanitas vanitatum, se togliete forse un bicchiere d'acqua pura quando siete assetati… a patto però che non sia della tofana, che fabbricano a Perugia, o dell'altra di cui sapeva il segreto il sommo pontefice Alessandro VI di santissima memoria.

Monsignor Tesoriere osservò maligno:

—Questa vostra giocondità—forse soverchia—è solita a manifestarsi così intemperantemente dalle persone che ella visita di rado: essa ritiene del febbrile; e in ciò tanto più mi confermo quando penso, che la morte contristava non ha guari la vostra casa.

—Ah! Monsignore, che cosa mi rammentate voi? Noi non ci possiamo lasciar cadere qualche memoria per terra, senza che un amico, importunamente pietoso, ve la raccolga e ve la restituisca dicendo: «Badate, v'è caduta un'amara rimembranza dal cuore; rimettetela al suo posto». E poi a veruno è lecito maravigliarsi di ciò, meno che a Monsignore, il quale nelle cose divine è quella cima di uomo che noi tutti sappiamo. Infatti non ho io imitato re David? Voi vedete, che io tolgo i miei esempi da buona famiglia; come lui, morto il figliuolo, ho esclamato «Digiunai, e piansi finchè visse» pensando: forse chi sa non me lo renda il Signore! Ora poichè è morto, perchè digiunerei io? Forse potrò revocarlo indietro? Io andrò sempre più verso di lui; ma egli non verrà più verso di me….[4]

La pelle di Beatrice a cotesta tremenda ipocrisia fremè di un brivido doloroso.

—Ma dunque, via, gridarono a coro tutti i convitati: toglieteci dall'ansietà. Ci tarda entrare a parte della vostra allegrezza con conoscenza intera.

—Nobili amici! Se voi aveste detto ci tarda soddisfare questa nostra curiosità, che ci arrovella, voi avreste favellato certamente più credibile, forse più sincero.—Comunque sia, voi vi affaticate invano; chè io non intendo guastare la mia buona notizia sopra corpi digiuni. Mai no; Iddio manda le rugiade a mattino e a sera sopra i calici dei fiori disposti a raccoglierle, non già a mezzogiorno sopra pietre riarse. Preparatevi prima co' doni di Cerere e di Bacco, come direbbe un poeta laureato, e poi udirete il mio annunzio, l'evangelo secundum Comitem Franciscum Cincium. A mensa, dunque; nobili amici, a mensa.

—Signora Lucrezia, sussurrò Beatrice nell'orecchio alla matrigna,—oh qualche terribile infortunio ci pende sopra la testa!—I suoi sguardi non ischizzarono mai tanta malignità quanto oggi. Egli rideva come la faina, quando ha cacciato i denti nella gola del coniglio per succhiargli il sangue.

—Dio mi perdoni; non so neppure io da che cosa provenga, ma le gambe tremano anche a me.

—Chi vi ha detto, signora madre, che mi tremino le gambe? A me le gambe non tremano, nè l'anima.—

E sedettero a mensa: il Conte Cènci a capo della tavola, secondo il costume, che allora correva, di dare al padrone di casa il posto più onorevole; a canto, distribuita a destra e a mancina, teneva la propria famiglia; succedevano poi i convitati come il maggiordomo li distribuiva, osservato il grado di dignità d'ognuno di loro. Squisite e moltiplici furono le vivande, tutte apprestate sotto fogge diverse; imperciocchè taluna presentasse l'aspetto del Colosseo, tale altra una galera: qua vedevi uno scoglio di carne di vitello combattuto da flutti di gelatina: una fortezza di marzapane tagliata aperse il varco a uccelli vivi, che spandendosi per la sala la riempirono di giulivi gorgheggi: da un pasticcio enorme uscì fuori il nano di casa vestito da papa, che dette gravemente ai convitati la benedizione apostolica, e fuggì via. Strani concetti insomma, o empii, secondo suggeriva al Conte la sua schernitrice natura: e ond'io non mi dilunghi soverchiamente, terminerò (per somministrare saggio di quanto osasse costui) narrando come non aborrisse rappresentare davanti Cardinali della Chiesa il simbolo della Eucarestia mercè una grossissima anatra lessa che teneva disposti intorno a se certi pavoncelli arrostiti, in modo da figurare il mistico Pellicano, che si apre il petto per alimentare i suoi figli col proprio sangue[5].

I bicchieri andarono in volta spessi, e veloci come la spola in mano del tessitore: bebbero di più maniere vini così nostrali come stranieri, cipro, greco, e soprattutto keres, alicante, ed altri vini di Spagna; perocchè i nostri padri, bene o male facessero, i vini spagnuoli educati sotto gli ardenti soli anteponevano ai francesi e ai renani, nati piuttosto dai sospiri, che dagli sguardi del pianeta della vita.

Poichè—per adoperare una espressione classica, la quale come sempre vale a dimostrare acconciamente il soggetto—ebbero sazio il naturale talento di cibo e di bevanda, i convitati, punti dalla curiosità, ad una voce esclamarono:

—Parvi egli tempo adesso di far cessare la nostra ansietà? Su, via,
Conte Francesco, manifestateci il motivo della vostra allegrezza!

—Venne il tempo—disse il Conte con voce solenne; poi, composto il volto ad austero atteggiamento, proseguì:—Però, miei nobili amici, vi supplico a rispondere innanzi a questa mia domanda:—Se Dio, scongiurato tutte le sere prima di adagiare le mie membra sopra le piume, e tutte le mattine aperti appena gli occhi alla luce—ardentemente,—lungamente per un voto, che sul capezzale lasciava, e sul capezzale io rinveniva:—se Dio, che udiva la mia preghiera raccomandata dai Sacerdoti in mezzo al santo sagrifizio della messa, dai canti delle vergini sacrate, dalle orazioni dei suoi poverelli:—se Dio, dopo avermi disperato di concedermi ascolto, allo improvviso, per un tratto della sua misericordia infinita, i miei desiderii oltre la speranza adempisse, non avrei, dite, ragione di esultarne io?—Se così fosse, com'è certamente, esultate, rallegratevi meco—perchè io sono uomo in tutta la pienezza della parola—felice!…

—Beatrice—figlia mia—sorreggetemi… ho paura….

—Aiutatevi, rispose Beatrice a Lucrezia, come potete… perchè io non posso… la testa mi va in giro, e tutti i convitati mi pare che nuotino nel sangue!

—O Dio! o Dio!, soggiunse la Lucrezia, mi prende il freddo nelle ossa come al venire della febbre quartana.—

—Immagino, nobili amici e parenti, che voi tutti sappiate, e se taluno lo ignora lo apprenda, prosegue il Conte,—nella chiesa di san Tommaso essersi fatti da me costruire sette sepolcri nuovi di marmo prezioso, per lavoro pregiati,—e poi pregai il Signore, che prima di morire mi concedesse la grazia di seppellirvi dentro tutti i miei sette figliuoli; e finalmente votai, che avrei abbruciato palazzo, chiesa, masserizie e arredi sacri come un fuoco di gioia.—Se fossi Nerone, avrei giurato incendiare Roma una seconda volta.

I convitati guardavano l'un l'altro piuttosto attoniti, che atterriti; poi miravano il Conte, vergognando per lui che si fosse lasciato prendere dal bere soverchio.—Beatrice teneva declinato su la spalla destra il volto, pallido come la rosa appassita che le pendea dai capelli. Il Conte infernale con maggior lena gridava:

—Uno già ve ne ho sepolto: due altri a un tratto, la Dio mercè, mi è dato seppellirveli adesso: due stanno in mia mano, ch'è quasi giacere nel sepolcro: ci avviciniamo al termine. Dio, che mi compartisce segni così manifesti del suo favore, vorrà certo, prima che io muoia, adempire al mio voto.

—O Conte! avreste bene dovuto scegliere argomento di scherzo meno lugubre di questo.

—Egli è pure il tristo vezzo ridere mettendo spavento!

—Rido io? Leggete….

E cavatesi dal seno alcune lettere, le gittò sopra la mensa.

—Leggetele…. esaminatele a bello agio;—chiaritevi di tutto; io ve le ho date apposta. Voi apprenderete come due altri dei detestati figli sieno morti a Salamanca[6]. Come sono eglino morti?—Questo a me non importa niente;—quello che mi preme moltissimo si è, che sieno morti, chiusi, e confitti dentro due casse di quercia come ho ordinato di fare.—Adesso pochi più scudi mi avanza a spendere per essi,—e questi spendo volentieri…. due ceri…. due messe…. se fossero carrette di calce viva, e le anime loro potessero restarne scottate…. io ne farei gettare sopra la fossa loro anche due mila. O Papa Clemente, che mi condannasti a pagare loro quattromila ducati di pensione annua, mi costringerai a pagargliela tuttavia? I vermini non ti porgeranno memoriale, no;—a suo tempo divoreranno anche te.—O pietoso Aldobrandino, vuoi tu farti vincere dal nepotismo anche pei vermi?—Onnipotente Dio! ricevi la espressione della mia profonda riconoscenza; tu esaltasti la mia anima non secondo i miei meriti, ma secondo i tesori della tua misericordia infinita.—

Monsignore Tesoriere, tremante di emozione, favellò:

—Deh! nobili Signori, non gli badate perchè la sua ragione si è sommersa nel vino, o maggiore sventura lo ha colto. Segno manifesto che egli mentisce, voi uomini cristiani abbiatevi in questo, che Dio non sopporterebbe ricevere simili ringraziamenti contro natura; e se fosse vero quello che trabocca fuori dai labbri di questo forsennato, Dio avrebbe fatto crollargli le volte sopra la testa.

—Ei non lo ha fatto per amore della pittura, che andrebbe perduta; e poi perchè ci siete voi, eminentissimi Cardinali, colonne di Santa Chiesa, che per sopportare cose gravi disgradereste Milone crotoniate. Sapete che Dio non sempre tira diritto; e talora mandando giù fulmini alla impazzata uccise il prete che celebrava messa, e risparmiò il ladro che rubava. Tesoriere, tesoriere! tu hai da esser lieto, che Dio guardi tanto alle mie parole quanto alle tue mani. Borsaiolo di santa Madre Chiesa, se per me giova ch'ei sia sordo, a te importa che sia cieco…. Ma quando ancora egli mi udisse, io l'ho avvezzato ad ascoltarne bene altre!

I convitati guardando il Conte pareva avessero provato gli effetti della vista di Medusa. L'odioso ospite, compiacendosi del terrore che inspirava, continuò esultante in faccia:

—A me importa soltanto, che i miei figliuoli sieno morti; forse a voi potrebbe premere eziandio conoscere il modo col quale furono morti. Favete aures. Felice, ch'era giovane religioso, stava certa sera a recitare molto devotamente il rosario nella chiesa della Madonna del Pilastro. La Mater misericordiae, per fargli capire che le sue preghiere erano esaudite da lei, gli lasciò cascare sopra la testa il trave maestro del soffitto, e gli troncò dolcemente il nodo del collo. Nella medesima sera, anzi pure, secondo che me ne scrivono, nella medesima ora, Cristofano fu ammazzato di coltello da certo marito geloso il quale lo tolse in cambio dello adultero, che in quel punto si teneva a sollazzo nelle braccia sua moglie. Per le quali cose, considerando il tempo, l'ora e il modo della morte uguali, io dichiaro eretico insanabile, e incorso nella scomunica maggiore chiunque fra voi presumesse temerariamente negare, che ciò sia avvenuto senza espresso consiglio della Provvidenza….

Beatrice, come se tutta l'anima avesse trasfusa negli occhi, con le pupille dilatate orribilmente lo guardava fisso: e il Cènci di tratto in tratto gittava uno sguardo obliquo sopra di lei, e cotesti raggi s'incontravano, si percuotevano, e corruscavano come ferri nemici cozzanti tra loro. Bernardino come assonnato nascondeva il capo nel grembo a donna Lucrezia, la quale con le gote lacrimose e le braccia aperte presentava la sembianza della Madonna dei sette dolori. Dei convitati alcuno, teso il pugno chiuso sopra la tavola, minacciava con fiero cipiglio; altri sporgeva il braccio e il dito accusatori contro il Conte: chi si mostrava incredulo; chi si turava gli orecchi; chi guardava pauroso verso il cielo, sospettando che qualche fulmine non iscendesse. Insomma nè tanti, nè tanto varii sono gli atteggiamenti effigiati da Leonardo da Vinci nella stupenda composizione del Cenacolo, quando il Signore profetizza: Amen dico vobis, quia unum vestri me traditurum est[7].

Primi furono i Cardinali e il Tesoriere, che si levarono, e dissero:

—Andiamcene! andiamcene! Salvatevi tutti, perchè l'ira di Dio non può tardare a rovesciarsi sopra questa casa di empietà.

Un sussurro inquieto—crescente come di vento foriero della tempesta,—un fremito mal represso ingombrarono dapprima la sala;—poi ad un tratto scoppiarono gridi d'obbrobrio e di rampogna, gemiti e pianti: finalmente, sopraffatti tutti da una medesima passione, gittavano da lungi con le mani contro lo iniquo Conte le maladizioni come si lanciano sassi per lapidare i sacrileghi.

—Fermatevi,—grida trucemente beffardo Francesco Cènci.—Che fate voi? Qui non vi ha scena, qui non vi sono spettatori; sicchè se pretendete recitare la tragedia, voi vi affaticate invano. Sta a voi, eminentissimi Cardinali, ostentare ribrezzo pel sangue? E perchè dunque, ditemi, voi vestite di rosso? Non forse perchè la macchia del sangue umano non si distingua sopra la vostra porpora? Via cerretani, che vendete Cristo come orvietano in fiera. Via Farisei, che se Cristo tornasse al mondo lo costringereste rifuggire per orrore nella Mecca a farsi turco. E voi, Principe Colonna, non vi affannate: io vi consiglio a calmarvi, perchè mi sono trattenuto quanto basta alla Rocca Petrella per conoscere i vostri detti e gesti; e se voi non lo sapete, io vi dirò che conosco più che non desiderereste di negromanzia, per avere potenza di far parlare certe sepolture e certi morti…. Voi m'intendete, Principe; e quel che mi hanno appreso sul conto vostro, ve lo bisbiglierò dentro l'orecchio.—Ora mi rivolto a voi, egregio amico monsignore Tesoriere:… io vi conforto a non dimenticarvi giammai, che io sono figlio di mio padre; e che mio padre, Dio lo abbia in pace, fu tesoriere; e in fatto di conti mi basta l'animo di tener fronte al primo computista della Camera apostolica. Avventuroso voi, Tesoriere, se altre faccende mi tengono distratto—non importa quali! Avventuroso voi se non mi avanza tempo, o mi prende vaghezza di condurre il nostro comune amico Cardinale Aldobrandino col filo di Arianna in mezzo al laberinto del tesoro. Tesoriere rammentati la donnola di Esopo, e trema di dover ripassare dal buco.—Coprite per altri il padule di erbe insidiose ond'egli, incauto, vi ponga il piede sopra, e sparisca quietamente.—ecclesiasticamente.—Io sono il cavallone fragoroso e spumante: bene posso spezzarmi dentro gli scogli della sponda; ma prima travolgo, e annego tutto quanto mi si para dinanzi. Rispettate il vostro signore; cadetemi ai piedi, e adoratemi.

I convitati con segni espressi di disgusto si avvicinano alle porte per abbandonare cotesta casa scellerata; ma il Conte Cènci gridava di nuovo:

—Nobili parenti ed amici, senza che io vi accomiati di casa mia non potete uscire. Deh! siatemi anche un momento cortesi della vostra compagnia.

Qui presa una tazza faccettata di tersissimo cristallo la empì fino al colmo di vino di cipro; e alzandola dicontro alla vivida fiammella delle torcie, sicchè parve l'avesse riempita di fuoco, in questa maniera favellò ad alta voce:

—O sangue della vite, che cresciuto ai raggi del sole scintilli e gorgogli alle fiammelle della luce come l'anima mia scintillò—esultò alla nuova della morte dei miei figli—oh! fossi tu il sangue loro maturato al fuoco della mia maledizione, e sparso in olocausto alla mia vendetta, io vorrei bevervi devotamente quanto il vino della Eucarestia; e propinando a Satana, dirgli: «Angiolo del male, prorompi fuori dello inferno; avventati dietro le anime di Felice e di Cristofano miei figliuoli prima che si avvicinino alle porte del paradiso, e rovinale giù nel pianto eterno, e tormentale con i tormenti più atroci, che mai abbia saputo inventare la tua diabolica immaginazione. Che se tu non sapessi trovarne di più, consultami: io confido suggerirti nuovi supplizii, ai quali la tua fantasia non arriva.—O Satana! alla tua salute m'inebrio in questo abisso di gioia. Nel mio trionfo trionfa!—Adesso, nobili amici e parenti, non ho più bisogno della vostra compagnia; se volete torre commiato da me, siavi concesso; e lascio in potestà vostra andare o restare, senza però donarvi resta, nè pallafreno[8].

—Costui, pei santi Apostoli, diventò pazzo furioso.

—Ah! che io lo reputai sempre perverso da far piangere gli
Angioli….

—Dite piuttosto da far digrignare i denti ai demonii…

—Ad ogni modo è una belva feroce, e bisognerebbe legarlo….

—Sì, bene…. legarlo…. leghiamolo….

Francesco Cènci, compita ch'ebbe la sua diabolica invocazione, si era posto a sedere placidamente, e con mollette di argento si recava alla bocca alcuni pezzi di treggèa masticandoli a suo grandissimo agio. Quando alcuni dei convitati con gesti minaccevoli gli si strinsero attorno, egli, senza neanche sollevare il capo, chiamò:

—Olimpio!

A quella chiamata uscì fuori il masnadiero, che lo astuto vecchio per ogni buon riguardo aveva tenuto celato, e seco lui apparvero bene altri venti compagni di sinistra sembianza, vestiti ed armati da bravi. Questi circondarono i convitati coi pugnali ignudi, aspettando il cenno del fiero Conte per far sangue.

Il Cènci si rimase alquanto continuando a mangiare treggèa, e compiacendosi a vedere la paura, che impallidiva tutti cotesti volti: poi si alzò da mensa, e recatosi in mezzo ai gentiluomini con lenti passi, si pose a guardarli stringendo gli occhi malignamente, e non senza riso favellando:

—Voi altri, che siete dotti, dovreste rammentarvi del festino apprestato da Domiziano ai Senatori[9]. Però, non dubitate, io vi prometto di non ordinare: fuori le frutta[10]. Incauti! E non sapete voi, che se il Cènci non è più come in sua gioventù ferro rosso, pure si mantiene rovente quanto basta da bruciare?—anzi più spesso l'uomo si scotta al ferro mezzo arroventato, che al ferro rosso:—notatelo bene. La mia vendetta si assomiglia alla lettera suggellata dei re. Una morte essa contiene di certo; quando, dove, e su cui scoppierà s'ignora. Lasciatemi in pace, e passato che abbiate cotesto limitare obliate tutto. Siavi l'accaduto come un sogno, che l'uomo aborre ricordarsi desto. Avvertite, la parola è alata: simile al corvo dell'Arca, non torna più addietro; ma si trattiene fuori spesso a pascersi di cadaveri, e qualche volta ne fa. Se poi vi dilettaste di sentirvi la gola mutata in canna da flauto—allora parlerete.—

I convitati a viso basso, quale fatto stupido per orrore, quale con la rabbia nell'anima, ma spaventati tutti, si dipartivano. Beatrice scossa la testa, e, come costumava, dalla fronte rigettatesi con impeto dietro le spalle le chiome, gli rampognava gridando:

—Codardi! Sangue latino voi! Voi figli degli antichi Romani? Sì, come i lombrichi sono figli del cavallo spento in battaglia! Un vecchio vi atterrisce? Pochi masnadieri vi agghiacciano il sangue? Voi partite… partite, e lasciate due deboli donne e un misero fanciullo in mano a costui… tre cuori palpitanti sotto gli artigli dello avvoltoio. Udiste? Ei non lo dissimula…—ci farà morire—e nonostante ciò—deh! gentiluomini, ponete mente alle mie parole, e intendete più che esse non possono… non devono dirvi—e nonostante ciò, egli è questo il minor male che io pavento da lui. Di voi altri Sacerdoti non parlo; ma voi, Cavalieri, quando cingeste la spada o non giuraste voi difendere la vedova e l'orfano?.. Noi siamo peggio che orfani… essi non hanno padre, noi abbiamo per padre un carnefice… rammentate le vostre figlie, nobili Cavalieri… rammentate le vostre figlie, Padri cristiani… ed abbiate pietà di noi… conduceteci a casa vostra.

—Giovanetta, il tuo dolore mi rende tristo, ma io nulla posso per te… rispose un convitato; e un altro:

—Aspetta, e spera. La speranza farà sbocciare anche per te le rose della contentezza.—Un Cardinale riprese:

—Se preghiere e voti, cara figliuola, potranno giovarti, noi non cesseremo di raccomandarti nelle nostre orazioni.

E gli altri via via profferivano di siffatte parole… gelide e lugubri come spruzzi di acqua benedetta gittati sopra la bara. I convitati si partirono, e parve loro di respirare liberamente sol quando uscirono all'aria aperta fuori del palazzo. Alcuno, allontanandosi, di tratto in tratto si voltava con lo affetto del marinaro,

Che uscito fuor del pelago alla riva Si volge all'acqua perigliosa, e guata.

Tutti sgombrarono la sala: rimasero don Francesco e Beatrice, e, non avvertito, anche Marzio; chè prossimo ad una credenza, faceva sembiante di attendere a raccogliere i vasellami di argento.

—Ora ti sei di per te stessa chiarita?—interroga Francesco Cènci Beatrice con labbra riarse.—Hai tu conosciuto l'aita di Dio quale sapore si abbia? L'aita degli uomini ti sembra da farne maggior capitale? Non importa, no, che tu bendi gli occhi a la giustizia affinchè non si commuova; lasciaglieli pure aperti… fa che ci vegga… non per questo essa si commuoverà. La forza è il diritto; il diritto e la forza nacquero gemelli ad un parto, ed abbracciati insieme. Io lo so; l'ho provato, e tutto giorno, e sempre io lo vedo e lo sento: il diritto è la forza.—Guarda per tutto, fanciulla, e tu vedrai come in cielo e in terra altro non ti rimanga rifugio, che nel mio seno: ricovrati qua dentro, e troverai l'asilo che Dio e gli uomini, sordi del pari e spietati, ti ricusano.—Se io ti ami immensamente, tu pensalo—da te in fuori, io odio tutto in cielo e sopra la terra. Abbandonati pure in balìa di me: tu cercheresti invano un altr'uomo che mi valga: io ho ereditato i doni di tutte le età. La gagliardìa della gioventù non mi abbandona ancora: in me il consiglio della età matura: in me la tenacità della vecchiezza… Amami dunque, Beatrice;… bella… e terribile fanciulla… amami.—

—Padre! se vi affermassi che vi odii, io non vi affermerei il vero; che io vi tema, neppure. Io vedo che il Signore ha creato in voi un flagello come la fame, la peste e la guerra, e questo flagello egli ha rovesciato sopra di me. Io piego, senza mormorare, la testa ai suoi misteriosi decreti; onde sfiduciata di ogni soccorso umano vie più mi accosto a Dio, e confido le mie sorti nella sua misericordia.—Padre, per carità uccidetemi!

Qui la desolata si prostrò davanti al Conte a braccia aperte, quasi aspettando il colpo.

Perchè Beatrice balza in piedi allo improvviso, e si avviticchia intorno alla vita del padre suo? Perchè con ambe le mani gli cuopre la testa? Perchè ha spinto fuori un grido di terrore,—ella che non teme niente,—il quale risuona di eco in eco nelle stanze più remote dello ampio palazzo?

Marzio, che inosservato era rimasto nella sala, udendo le parole che svelavano più apertamente il disegno infernale di Francesco Cènci, si era accostato pian piano tenendo nelle mani un vaso pesantissimo di argento; e, levate le braccia con quanto aveva di forze, accennò spezzargli il cranio;—e lo facea, perchè il Conte, improvvido, stava come tratto fuori di se a contemplare la divina fanciulla.

Don Francesco, commosso al grido e agli atti di Beatrice, levò involontariamente la faccia al cielo, e gli parve vedere, e vide certo, uno sfolgorìo balenargli su gli occhi…. Ah! fosse il fulmine tanto tardato di Dio? Cotesta idea durò quanto un lampo, ma comprese una eternità di tormento per quell'anima scellerata. Non per questo il fiero vecchio si scosse; e assicurato in breve, volse le torbide pupille dintorno a se e vide Marzio, che impassibile ordinava i vasi sopra la credenza.

—Marzio….. tu qui?

—Eccellenza!

—Tu qui?

—Agli ordini di vostra Eccellenza.

—Vattene.

Il servo inchinavasi; e partendo faceva un segno a Beatrice, quasi volesse significare: «Ah! perchè mai mi avete impedito?»

Ma Beatrice, durando in lei lo impeto di amore, stringe con forza sovrumana il braccio di don Francesco come per istrascinarlo, ed esclama:

—Vieni, sciagurato vecchio—tu non hai un momento da perdere: la morte ti cuopre con le sue ali. Vieni, la bilancia delle tue colpe precipita giù nello inferno.—Vesti il cilizio—vecchio!—Cuopriti i capelli di cenere….. tu hai peccato abbastanza. La penitenza è un battesimo ardente; ma il fuoco purifica più, e meglio dell'acqua. Se la tua prece non giungesse ad inalzarsi fino al trono di Dio, e minacciasse ricaderti sul capo in grandine di maledizione; io ti starò al fianco, e aggiungerò la mia, e saranno ascoltate insieme; ambedue accolte, o ambedue rejette. Che se ad ogni modo la giustizia vuole vittime di espiazione….. ecco, io volentieri offro la mia vita in riscatto dell'anima tua:—ma affrettati, vecchio… l'orlo della fossa è sdrucciolevole…. vecchio, pensa che te ne va della tua eterna salute….

Don Francesco stavasi ad ascoltarla sorridendo. Quando ella ebbe finito, con voce beffarda le rispose:

—Bene sta, mia diletta Beatrice;—tu sola puoi educarmi alle gioie celesti del paradiso… Verrò a trovarti stanotte…. e pregheremo insieme….

Beatrice lasciò cadere il braccio paterno. Coteste parole, e gli atti pieni d'infamia ebbero la maligna virtù di assiderarle ogni gentile entusiasmo, e respingerla nella dura realtà della vita. Ella quinci dipartivasi con faccia dimessa, gemendo queste parole:

—Perduto!—perduto! Oh, senza rimedio perduto!

Don Francesco si versava precipitoso un'altra tazza di vino, e la bevve di un sorso.[11]

NOTE

[1] Nel maggio del 1849, quando venni trasportato a Volterra, mi furono cortesi di offerirmi di logorare la mia vita a scelta; o nel maschio, dimora del Conte Felicini di scellerata memoria, o nell'ospedale dei condannati: scelsi l'ospedale. Un lieve assito, divideva le mie dalle celle degl'infermi, sicchè le notti mi riescivano fuori di modo affannose pei rammarichii, e pei gemiti dei giacenti; spesso anche pel rantolo degli agonizzanti. Una volta il moribondo, dibattendosi nelle estreme convulsioni, precipitò giù dal letto con orribile fracasso; al rumore del tracollo si svegliò la guardia che dormiva, e andò per dargli aiuto … ma il meschino di aiuto non aveva più bisogno: egli era spirato!

[2] DANTE, Purgatorio, Canto XII.

[3] SENOFONTE. Repubblica di Sparta, cap. IX.

[4] SAMUELE II. Cap. XII, n. 23.

[5] Il signore De Genè, trattando degli errori popolari che corrono intorno gli animali, deplora meritamente che la Chiesa abbia tolto per simbolo di cosa tanto solenne uno errore popolare. Di vero il Pellicano ha sortito dalla natura una specie di tasca appesa sotto il collo, nella quale ripone, e conserva i pesci che pesca: quando egli nudrisce i suoi piccoli figli se gli mette tutti dintorno al seno spingendo fuori della tasca il cibo in cima del becco, ch'è di colore vermiglio, ed in questo modo gl'imbocca: di qui l'errore popolare.

[6] Così narra la tradizione, che i figli di Francesco Cènci, Cristofano e Rocco, rimanessero spenti a Salamanca; ma a vero dire qui la tradizione va errata. A Salamanca furono mandati a studio, donde tornarono poveri, e male in arnese, avendoli il padre fatti rimanere privi di ogni provvisione. I Manoscritti ch'io possiedo insegnano, che Rocco rimase ucciso da un Norcino: altrove leggo Orsino, e Cristofano da un Paolo Corso. È notabile, e vuolsi ritenere per sicuro, quanto leggiamo nel Giornale dell'Arciconfraternita di San Giovanni decollato in Roma, libr. 16. car. 66. «I signori «Jacomo, e Bernardo dissero, che avendo inteso, che nella querela, o processo di homicidio commesso già nella persona del quondam Rocco loro fratello è imputato il nominato Emilio Bartolini alias Charagone gli danno la pace, e consentono per ogni loro interesse alla cassazione di detta querela… e tutto dissero fare per amore di Dio, et vogliono, che detta pace sia in tutto e per tutto nel modo, che l'hanno data a Paolo Bruno, et Amileone.»

[7] Nel refettorio del convento dei frati Domenicani in Milano, scrive l'EUSTACE, fu già il celebre Cenacolo di Lionardo da Vinci, considerato come suo capo d'opera. Soppresso il convento, la sala fu convertita in deposito di artiglieria, e la pittura diventò bersaglio dei soldati francesi per esercitarsi al tiro! Che di peggio avriano potuto fare i Croati? Miravano principalmente al capo del nostro Redentore, a preferenza degli altri. Lady Morgan, nel suo viaggio in Italia, smentisce questo fatto, assicurando avere ella cercato indarno traccia di simile profanazione: però poco oltre afferma, una porta essere stata praticata fra le gambe del Salvatore; ed ecco come andò la cosa. E' bisognava trasportare pei chiostri dalla cucina al refettorio la vivanda ai frati, e nel trasporto freddava. Per riparare a tanto disordine in pieno Capitolo venne maturamente deliberato si aprisse una porta, che metteva il refettorio in comunicazione con la cucina, la quale si trovava per l'appunto dietro la pittura di Lionardo. In questa guisa la Cena di Cristo venne guasta per amore del Desinare dei frati.—LADY MORGAN, L'Italia, T. I. p. 134.

[8] Costume antico degli ospiti, i quali al termine della festa o del convito donavano loro veste e pallafreno, e talvolta ancora danari; e riponevano in loro facultà restare, o andare; e questa era gentile formula di complimento.

[9] Domiziano invitò a cena i principali senatori e cavalieri di Roma, e gli accolse dentro una sala per le pareti, al soffitto, e sul pavimento parata tutta di nero. Nella sala sorgevano colonne funerarie, chiamate cippi, col nome impresso di ogni convitato, e sorreggenti fiaccole funerarie. Nè qui rimase il crudele giuoco. I padroni erano separati dai proprii servi, e invece loro comparvero giovani ignudi anneriti a modo di Etiopi; e tenendo in mano una spada sfoderata si posero silenziosi e terribili a intrecciare un ballo tondo intorno ai convitati, e poi ognuno di loro si recò presso al letto di un commensale per ministrargli. I cibi furono in tutto simili ai consueti a imbandirsi ai defunti nei funerali. Grande fu, ed è da credersi, la paura dei convitati; e Domiziano, per accrescerne lo spavento, favellava di gente trucidata e di stragi commesse per sollazzo del signore. Terminato il pranzo, con lieta cera accomiatò quegli sciagurati più morti, che vivi.—DIONE CASSIO in CUVIER. Storia degl'Imperatori Romani, lib. 17. § 2. Evidentemente questo racconto somministrava a Vittore Ugo la idea della scena dei cataletti nella Lucrezia Borgia.

[10] Fuori le frutta nei tempi passati significò ordine, di strage a tradimento, ed eccone il perchè. Alberigo dei Manfredi, Signori di Faenza, nella sua ultima età si rese frate Gaudente: egli fu tanto crudele e dispietato uomo, che venuto in discordia co' consorti, cupido di levarli di terra finse volere riconciliarsi con loro; e dopo la pace fatta li convitò magnificamente, e nella fine del convito comandò venissero fuori le frutta, le quali erano il segno dato a coloro, che gli avevano a trucidare. Adunque di subito saltarono dentro, e uccisero tutti quelli che frate Alberigo volle che morissero. LANDINO.—Una nota del Cod. Cass. ci fa sapere, che gli uccisi a tradimento furono due fratelli, Manfredo ed Alberghetto, nipoti del frate. Il BOCCACCIO ci afferma Alberghetto essere stato figlio di Manfredo, ed aggiunge, che, fanciullo com'egli era, assalito che vide il padre, corse a nascondersi fra la cappa di Alberigo, sotto la quale fu ucciso. Il DANTE nel Canto XXXIII dell'Inferno così ragiona di questo iniquo frate:

……..Io son frate Alberigo, Io son quel dalle frutta del mal'orto, Che qui riprendo dattero per figo.

[11] Suum unicuique tribuere. Parecchie idee dei discorsi tenuti nel presente capitolo da Francesco Cènci furono tratte dalla Beatrice Cènci di Shelley. Questo scrittore è mal noto in Italia: amico fu a Lord Byron: annegò nel Tirreno, recandosi a Genova su barca senza ponte: ne arsero il cadavere sulla spiaggia a Bocca d'Arno, presente Byron. Io lo conobbi; fu magro e piccolo, e dava nell'etico: metafisico, più che poeta; ma poeta ancora d'infinito valore.

CAPITOLO XI.

LO INCENDIO.

                    Satanasso (perchè altri esser non puote)
                      Strugge, e ruina la casa infelice.
                      Volgiti, e mira le fumose ruote
                      Della rovente fiamma predatrice;
                      Ascolta il pianto, che nel ciel percuote.
                                                          ARIOSTO.

Oh quanto fu gran dolore il caso, che incolse al misero falegname ed alla sua famiglia!—Moglie, marito e pargoletto dormivano tutti insieme nella medesima stanza sopra la bottega.

Dormivano….. ma un sogno spaventoso travagliava la moglie, e le parea che un mostro immane, con occhi infuocati, peloso nel corpo composto di nodi flessibili come il verme, e di ale scure a modo di vipistrello, le tenesse le branche deretane fitte nei fianchi e le anteriori nella gola, affaticandosi di strangolarla: tentava muoversi, la meschina, e non poteva: s'ingegnava gridare, e non le riusciva. In ultimo si voltò con supremo sforzo sopra un fianco: gli occhi sentiva gravi così, da non li potere schiudere; eppure la facoltà visiva l'era assorta dolorosamente da due globi di luce ora violetta, ora cerulea, come fiamma di spirito di vino. Le arterie delle tempie le battevano con ispasimo, non altrimenti che se fossero tese, e un demonio stringendole con pinzette infuocate si dilettasse a farle vibrare di angoscia. Nella gola durava un raschìo acerbo, quasi cagionato da arìsta di grano tranghiottita[1]: pure finalmente ella giunse a schiudere gli occhi, e vide per terra una rete di fuoco che trapelava fuori dalle commessure dei mattoni, e la stanza tutta appariva ingombra di fumo: insopportabile calore accendeva l'aria; quindi a poco a poco il pavimento si screpola, e dai vani aperti per la caduta dei mattoni ecco sbucar fuori lingue di fiamma, le quali dopo pochi secondi crescono in orribile incendio.

—Al fuoco! al fuoco!—grida la donna, girando attorno gli occhi spaventati; e si precipitava giù dal letto per prendere nella culla il suo figliuolino.

—Al fuoco!—risponde il marito esterrefatto; e così ignudo com'era corse all'uscio della stanza, e lo aperse. Schiuso l'adito, ecco il fuoco allagare la camera: già tutta la casa andava in fiamme: rifece i passi, con un braccio ricinse la vita alla moglie, con l'altro al figliuolo, e via di corsa si tuffa senza rispetto nel fuoco per guadagnare le scale. Le pietre degli scalini arroventate si spaccano strepitosamente: lo incendio nel piano terreno infuriava in vortici a mo' di turbine, e mandava un rombo come di uragano. I pannilini della madre e del figliuolo già avevano preso fuoco; ma la madre, comunque strascinata, tendeva sollecita le mani e andava estinguendolo su le carni del fantolino. I capelli dei miseri fumavano abbronziti; nei piedi, nelle braccia e nel viso essi pativano angosciose scottature.—Avanti! avanti! purchè possano giungere alla porta di casa!—Già vi stanno presso;—anche un passo, e la toccano;—l'hanno toccata…

Oh dolore! non la possono aprire:—la squassano; la scrollano; invano… l'avevano sprangata per di fuori.

Circondato da vortici di fiamma, il misero padre ansante in così orribile guisa, che stava per iscoppiargli il cuore dal petto, riprende fra le braccia il figlio…. la moglie lasciò stare…. si sentiva rifinito di forza…. Mugolando, improvvido di quello che si faccia, gira e rigira per l'andito;… poi, senza consiglio, si prova a risalire le scale.

La moglie gli trae dietro da vicino per modo, che dove egli alza il piede ella mette l'orma; e il marito sentiva dall'alito affannoso di lei rinfrescarsi l'aria infuocata dietro le spalle;—sempre schermendo dalle fiamme il figliuolo, e qualche volta il marito.

Questi rientra in camera… ma qui giunto sente mancarsi la lena ed il coraggio: gli balenano gli occhi nella morte, e barcolla per cadere; pure in quell'ultimo istante gli bastò l'animo di riporre il bambino nelle braccia della madre prima di spirare:—parole non potè profferirne….. solo con lo sguardo, lungo come quello della lampada prima di spengersi, rivelò una desolazione, che labbro non può dire;—una desolazione, che se avesse potuto manifestarsi avrebbe dichiarato così: Io non te lo raccomando, perchè tu non lo puoi salvare! Poi, squilibrato, correndo su le calcagna ei dette indietro quattro passi o sei, e percosse aspramente il muro tentando ghermirlo con le mani pendenti.

La mattina furono viste le impronte nere di sangue delle mani e dei piedi su la parete e sul pavimento.

In mezzo alle strette della necessità così avviene degli appetiti fisici come delle passioni dell'animo, che le più intense divorino le meno profonde; epperò la donna già più non bada all'uomo che le fu sì caro, ma con tutta l'anima circonda il corpo della sua creatura;—apre la finestra, e si affaccia.

I capannelli raccolti per la via videro una figura, in sembianza di Eumenide, disegnarsi in nero sopra un colore di fuoco, e n'ebbero compassione e paura.—Ella spinse fuori dalla gola un grido—uno solo—ma così desolatamente acuto, così stridentemente disperato e selvaggio, che le viscere degli spettatori si sentirono trafitte come da una spada.—Avrebbero voluto aiutarla, e ne consultavano i pratici; ma i vecchi, con la tremenda pacatezza romana, sporto il labbro inferiore, le braccia incrociate sul petto, guardavano obliquamente lo incendio, e dicevano: Non ci possiamo far nulla; acqua non basta; e, a meno di essere diavoli dello inferno, in coteste fiamme non si entra. Sapete, che cosa resta a fare? Vedere spengersi il fuoco da se, e poi suffragare quelle povere anime uscite dal mondo senza sacramenti.

Ora è da sapersi come Luisa Cènci, persuasa dalla gelosia, travestita da uomo erasi aggirata da più notti, ed anche in cotesta si aggirava intorno alla casa del falegname per sorprendere suo marito; ma fino a lì eranle tornate le speculazioni inutili. Nonostante ciò neppure per ombra piegava la mente al dubbio, che altri l'avesse tratta in inganno; ma sì piuttosto molinava coi suo cervello, che forse Giacomo non vi praticasse di notte, o che gli amanti convenissero altrove, o in quel momento fossero corrucciati: insomma; ingegnosa a trovare mille modi di tormentarsi con lo errore, anzichè consolarsi per la piana via della verità! Condizione tristissima degli uomini in generale, e delle donne in particolare, di compartire facilmente fede al male, e ritenere tenaci i concetti che si sono formati, comunque lesivi della propria dignità, o dannosi alla propria persona.

Ella pertanto accorse, come gli altri, richiamata dagli urli e dal chiarore dello incendio intorno alla casa;—e quando la ravvisò, il suo cuore ne sentì maravigliosa esultanza:—quello che dà la colpa, ella pensava, la giustizia ritoglie.—

Ella rimase immobile a contemplare il caso; e se col desiderio non attizzò coteste fiamme, nemmeno—sia lode al vero—ella le spense.

Prima che lo incendio si manifestasse nella sua indomita rabbia alcuni borghesi erano andati in traccia di corde e di scale, e già tornavano provveduti di una scala da paratori, trovata nella prossima parrocchia: l'appuntellarono al muro, e poi voltarono la faccia in su senza muoversi, perchè la copia delle fiamme irrompenti di sotto e di sopra chiariva disperata la impresa.

Ma quando la madre, sbucando fuori dal fuoco, e sorreggendo il pargolo con le braccia tese, gridò: salvatemi il figliuolo!—Oh! allora una persona—una persona sola—sentì sciogliersi il cuore, e questa fu Luisa Cènci. Tacque in lei la donna, e favellò la madre: fattasi di un balzo a piè della scala, così parlò con favella spedita:

—Orsù; breve è il tratto, non difficile la impresa; Romani, chi di voi salisce a salvarli avrà cento ducati d'oro.

E siccome nessuno mostrava muoversi, ella dinuovo:

—Cristiani… animo… via… a cui gli salva duecento ducati….

Nè anche questo premio bastò a scuoterli; chè la paura del pericolo superava la cupidigia. Luisa si trattenne un momento a pensare come non le rimanessero a disporre che altri cento ducati, i quali spesi non ne avanzava pure uno per suoi figliuoli; nè dal suocero forse avrebbe potuto per allora ottenere altro soccorso. Non importa, pensò il momento dopo; e con voce più forte, quasi volesse rimettere il tempo perduto, con raddoppiata prestezza gridò:

—Trecento ducati a cui gli salvi… trecento ducati d'oro, dico… trecento ducati servono per maritare due figliuole… Romani!—Nessuno si allenta? Sgombratemi davanti… davanti, dico… Cristo mi aiuti!

E leggiera come un uccello salì su per la scala, mentre le stanghe, appoggiate al muro su in cima, già abbronzite fumavano. Arrivata in prossimità della finestra, nel medesimo punto ella disse:

—Datemi… e le fu risposto:

—Eccovi il figlio.

Si erano indovinate. Madri entrambi, sapevano come supremo anelito pel cuore materno sia la salvezza della sua creatura. Scese. Un giovane popolano, vergognando che altri non si fosse mosso, si attentò a salire fino a mezza scala, raccolse il pargolo, e lo portò in luogo di salvazione.

E Luisa risalì mentre su per le stanghe delle scale scorreva la fiamma come lingua di vipera; cessava dove poneva la mano, ritornava più vivida appena levata. Giunta faccia a faccia della donna, che supponeva le avesse tolto lo amore del suo marito, tese valorosamente le braccia… le braccia a lei, che aveva stretto nelle sue il padre dei suoi figliuoli… l'altra vi si gittò delirante di affanno.

La Madre di Cristo contemplò dall'alto dei cieli cotesto amplesso, e si compiacque essere donna. Certo, non occhi umani nè celesti avevano veduto da secoli un tanto prodigio di carità.

Luisa stringe di forza la cintura della rivale, e scende…

—Presto, Luisa, chè la scala arde;… presto, Luisa, chè crepitano carbonizzati le stanghe, e i piuoli della scala. Oh Santa Vergine! perchè si ferma ella? Un secondo è funesto.—Immemore di se, immemore del pericolo imminente, immemore di tutto, non potè resistere alla cupidità immensa, che sentiva di guardare in volto la sua rivale al chiarore dello incendio, e conoscere se la superasse in bellezza.—Cuore di donna!

Quantunque ella apparisse stravolta orrendamente dal dolore e dallo spavento, i capelli avesse in parte bruciati e la pelle offesa da disoneste scottature, pure le sembrò, com'era, leggiadrissima.

—Ah, gridò, come è bella!—e vacillò su la scala.

Era giunta vicina a terra tre scalini, quando con orribile fracasso sprofondò giù il pavimento; le fiamme scomparvero, globi di fumo mescolati a miriadi di faville avvolsero la casa, la scala e le donne. Un urlo spaventoso echeggiò fino all'altra sponda del Tevere, chè reputarono coteste creature spente dal fuoco e dalla rovina.

Indi a breve ecco lo incendio, come l'orgoglio un momento umiliato, divampare più terribile di prima, e di mezzo alle fiamme uscire Luisa incolume con la donna nelle braccia.

Gridi di giubbilo, acclamazioni frenetiche ferirono il cielo:—chi è l'animoso giovane?—Non lo so.—Ricordati averlo visto mai?—Mai.—E sì che non ha barba in viso, e per uomo da tali fatti è piuttosto scarso di vita, che no. Viva il valente giovane, vero sangue latino.—E più alti sorgevano lo entusiasmo e gli applausi.

Il Signore ebbe misericordia della moglie del falegname, la quale tratta fuori di se non conobbe il fato lacrimevole del marito. Luisa sempre più infervorandosi nella sua generosità, siccome avviene ai buoni, non patì che la donna salvata fosse tratta all'ospedale; e risovvenendole di certa vedova sua casigliana, che le aveva raccomandato, capitando, di appigionarle due stanze, fece conto di accomodarla là dentro: molto più, che essendosi messa a risico di spendere per cotesta famiglia fino a trecento ducati, e trovandosi adesso ad averli risparmiati, pensava, che quando anche per condurre a fine la opera buona avesse dovuto impegnarcene attorno un centocinquanta, le ne avanzava l'altra metà pei fatti suoi.

E per mandare subito ad effetto la presa determinazione ordinò che stendessero la donna sopra un lenzuolo tratto fortemente dai lati da quattro uomini robusti, i quali si prestarono volonterosi a cotesto ufficio. Ella si recò in collo il bambino sorreggendolo col braccio destro, e chiese di alcuno che caritatevolmente sostenesse anche lei; però che le girasse il capo, e le paresse che di sotto i piedi le venisse meno la terra. Dalla folla stipata intorno a lei uscì un uomo membruto, ed aiutante della persona, coperto il capo, il collo e il viso di copia grande di capelli e di barba, vestito a mo' dei ciociari dei contorni di Roma.

—Prendete su!—egli disse profferendole il braccio con voce assai più commossa, che non lasciassero sperare le sue sembianze dure, e bronzate.—Appoggiatevi pur sopra, che reggerebbe la colonna trajana. Se non vi da fastidio, mi basta l'animo di portare voi e il putto ad un tempo.

—Lo credo. Dio ve ne renda merito. Basta così. Ora voi altri avviatevi pian piano in via san Lorenzo Panisperna a casa Cènci.

—Casa Cènci!—dando di un passo indietro esclamava il ciociaro.

—In che trovate motivo di maravigliarvi? Forse credete voi tanto straniera da casa mia la carità, da levarne stupore?—Che cosa vi dà, in grazia, diritto di pensare così, villano?

E siccome il ciociaro tentennava il capo e non rispondeva, donna
Luisa, come punta sul vivo, aggiunse:

—E se volete sapere chi fu che ardì salire la scala, mentre voi uomini rimanevate tutti immobili dalla paura,—io vi dirò che fu una donna; però che in me vediate la moglie di don Giacomo Cènci, e nuora del Conte don Francesco.

Il ciociaro adesso traballò visibilmente: con la manca si Strinse forte la fronte tenendovela per un pezzo, quasi volesse costringere le sensazioni e i pensieri a non prorompere fuori della testa.

Io non vi farò mistero dello essere di questo ciociaro. Voi, lettori miei, avete potuto chiarirvi a prova come io non ami la maniera sospensiva del raccontare; però, continuando a procedere per la via piana vi dirò a un tratto che il ciociaro era Olimpio, e i quattro pietosi reggitori i lembi del lenzuolo erano suoi compagni, e complici dell'orribile incendio. E non crediate già che sentimento alcuno d'ipocrisia gli sospingesse a cotesti atti, o astutezza per celarsi meglio; conciosiachè avessero commesso il delitto con tale accorgimento, da non lasciare luogo a sospetto che fosse avvenuto piuttosto per malizia, che per fortuna; ma proprio sinceri essi erano, ed esaltati dallo esempio magnanimo di Luisa. L'uomo, per quanto tristo egli sia, contiene sempre qualche parte di buono; e fra persone da arti lodevoli, o triste non assuefatte a contenersi, o a fingere, il trapasso dal male al bene, e ai modi di significarli avviene inopinato ed improvviso. Io non so se l'uomo nasca con anima prava. Questo si trova nelle Sacre carte, e santi Dottori della Chiesa lo hanno approvato; ma io ne dubito, e affermarlo decisamente non potrei. Solo parmi che dentro noi di queste due cose succeda l'una: o la bontà ricama sopra un velo di scelleraggine, o la scelleraggine ricama sopra un velo di bontà. Chi meno ha pratica di fare i conti con la sua anima, e si lascia più trasportare dai subiti moti del sangue forse sarebbe il migliore, se o la ignoranza troppa, o le abitudini inique, o gli stimoli altrui non gli chiudessero la via a ben fare, o in quella del male nol sospingessero.

Veramente, per sostenere questa sentenza, in me fa mestieri fede di bronzo; perchè uomo al mondo, io penso che non fosse mai scorticato vivo come me dal Popolo, il quale appunto argomenta poco, e sente molto.

Il Popolo, dopo avermi salutato amico e padre, ad un tratto mi disse vituperio; mi caricò di catene, e mi chiamò a morte! Con questi miei orecchi udii i figli del Popolo, che io mi studiai sempre, come potei meglio, onorare e avvantaggiare, allagando il Palazzo della Signoria spartirsi poca moneta al lume dei lampioni, e dire l'uno all'altro: «A te si perviene meno, perchè sei piccolo; nè ti è bastato il fiato a urlare quanto me MORTE! MORTE!»

Giuoco Roma contro uno scudo, che cotesta moneta e coteste istruzioni vennero da tali, che saranno stati a un punto fratelli della misericordia, guardie civiche, membri di mutuo insegnamento, e degli asili infantili… Oh come si allarga l'albero della ipocrisia sopra la terra, e l'aduggia tutta con l'ombra maledetta!

Avete ammazzato il cane—sussurroni!—Godetevi i lupi.

Povero Popolo! Tu hai perseguitato ben altri uomini, che non sono io. Dove giacciono le ossa di Giano della Bella e di Benedetto Alberti? Io non lo so: quelle dei Medici hanno sepolcro reale in san Lorenzo.—Dove riposeranno le mie? Chi può saperlo? Pure non ti chiamerò ingrato, nè maligno, come Dante; sebbene tu abbia perpetuata la voce, che correva ai suoi tempi:

Vecchia fama nel mondo ti chiama orbo,

Sarebbe carità percuotere il fratello perchè giace infermo? Questo argomento venne adoperato un giorno, e con ottimo successo; ma da un Russo, e con Russi[2]: ed io, per la grazia di Dio, nacqui italiano. Malattia d'ignoranza è più grave di malattia di corpo; e i popoli si hanno da sanare, non già maledire e percuotere.

Chiunque si apparecchia a travagliarsi pei suoi simili sappia che non riceverà altra mercede, che d'affanni. Prima assai di Prometeo lo avvoltoio divorava il cuore degli amici della umanità. Il destino dei mortali progredisce lento rotando come una macina immensa, e nel passare frange intelligenze e vite, lasciando dietro a se una traccia di polvere d'uomini. Cemento tremendo composto di particelle di cuore, di sangue e di lacrime, che vince in durezza lo stesso granito.

E se la morte fisica arriva precoce per gli anni, anche troppo tarda sopraggiunge per le cure rodenti, per le passioni che limano, e per gli occhi diventati ciechi nel contemplare una luce che consuma. Quando poi l'uomo sopravvive a se stesso, che cosa attende dal suo cervello e dal suo cuore? Ahimè! Una congestione, od uno aneurisma.

Noi siamo morti; ma dentro al nido composto d'odio, di vendetta e di vergogna mette l'ale adesso una generazione di aquile, destinate forse alla vittoria.

Invero la parola ha seminato abbastanza; ora tocca mietere, alla forza. Il pensiero può dare l'albero della scienza, ma l'albero della vita è per le mani gagliarde; e la libertà è la vita. Cessi una volta la generazione dei sofisti, e sorga la generazione dei guerrieri. I retori non hanno mai combattuto una battaglia. Maledetta la civiltà, che insegna a portare le catene come i monili da eunuchi. Bolzari, Odisseo, Colocotroni, ed altri molti eroi, che strapparono un lembo di terra dalle mani sanguinose del Turco, erano klefti.—Io ritorno alla storia.

La sconsolata vedova era tratta molto soavemente a casa di donna Luisa Cènci, la quale aveala preceduta insieme ad Olimpio; e con la sagace sollecitudine di cui le donne sole possiedono il tesoro, aveva già fatto apparecchiare il letto, e cera, e olio, e cotone sodo, e altri tali rimedii, che a quei tempi, e forse anche ai nostri, si reputano meglio efficaci per le scottature: mandò eziandio pel cerusico, e per una balia. Questa, per buona ventura, fu rinvenuta nella contrada, e venne subito. Udito il caso, e interrogata se si sentisse capace ad allattare la creaturina finchè la madre fosse risanata, la buona popolana rispose «magari!»; e senza altro invito prese il pargolo nelle braccia, e trattasi in disparte se lo recò alle mammelle.

La madre delirò tutta la notte ora piangendo sommessa, ora gridando disperatamente, secondochè alla sconvolta fantasia si affacciavano immagini pietose, o terribili. Il giorno appresso non istette meglio; il sopravvegnente ricuperò alquanto delle sue facoltà mentali, e subito cercò il figlio. Risposerle che le dormiva al fianco; volle muoversi, ma non potè, e con voce languida favellò di nuovo:

—Per amore della gran Madre di Dio non m'ingannate!

L'assicurarono con giuramento. Allora pianse: poi domandò del marito, e le dissero, con pietosa menzogna, giacersi malconcio assai della persona nell'ospedale, ma non senza speranza di guarigione.

Luisa, che travestita da uomo la vegliava del continuo, la confortò a tacersi, e a starsi di buono animo; avvegnadio da cotesto smaniarsi non gliene potesse venire se non che aumento di male, e ritardo del giorno desiderato di stringersi al collo il figliuoletto; ed ella allora non flato più.

Luisa aveva posto maraviglioso affetto alla desolata vedova, la qual cosa non ha da parere strana; chè siccome la offesa pei petti mortali somministra ragione per offendere, così il benefizio antico persuade il nuovo; e noi amiamo altrui meno pel bene che ci fa, che per le cure che ci costa. Se poi questo muova da costanza o da presunzione, o da altre buone o cattive qualità, io non saprei affermare: bene io so, che quantunque riesca arduo, più che altri non pensa, rinvenire la origine vera delle nostre azioni, il motivo non è quasi mai solo, ma complesso e attorto di fili forniti in parte dagli Angioli, e in parte dai demonii. Quale poi fosse la proporzione di questi fili nell'animo di donna Luisa non è dato giudicare; giova credere fossero angelici tutti; a me basti accertare, che ella amava cordialmente la vedova.

Se forte pungesse la donna il desiderio di conoscere i particolari del commercio, ch'ella supponeva avesse mantenuto seco lei il suo marito, non è da dire; ma la trattenevano dall'appagarlo molte considerazioni. E prima di tutto non le pareva onesto prevalersi dello stato di cotesta misera per istrapparle il segreto: poco cristiano, e meno che consentaneo alla generosità fin lì dimostrata da lei, tribolare, forse non senza danno della sua guarigione, la inferma per farla parlare; e finalmente avendo accolto un dubbio, comunque debolissimo, intorno alla verità dei suoi sospetti, amò piuttosto oscillare in cotesta incertezza, che disperarsi nella odiata realtà.

Ma non vi è misura che tanto presto si colmi, quanto quella della impazienza. Certo giorno ella sedeva accanto al letto della vedova. Angiolina, che tale parmi aver detto si chiamasse la vedova, contemplava il volto di Luisa con l'adorazione dei devoti verso le immagini miracolose, e mormorava per lei benedizioni e preghiere. Luisa la guardò fisso a sua volta; vide che le tornavano i floridi colori della salute per la faccia, le scottature non lasciavano segno veruno, e la donna ridiveniva bella più che mai fosse stata. Il cuore palpitò alla gelosa impetuosamente nel seno, e sorridendo un cotal suo riso amaro la interrogò:

—Ma sono io l'unico vostro protettore davvero?

—E chi volete che si prenda cura di una povera femmina come sono io, se non voi per vostra carità?

—E sì…. e sì che la memoria, io credo, non vi aiuta a rammentar bene le cose…. in questo momento.

—Ah! voi dite la verità, esclamò Angiolina, facendosi vermiglia come per vergogna di fallo commesso. Signore! O come possiamo, senza volerlo, diventare ingrati?

—Dunque…. tu hai un altro protettore?

—Un altro protettore, come voi dite, il quale ci ha beneficato assai….

—Sì, eh! E come si chiama egli?

—Egli?—Il Conte Cènci.

—Cènci? Cènci hai tu detto? Cènci?—gridò Luisa come se l'aspide l'avesse morsa nel cuore, e si tacque. Ma l'altra, secondo che la consiglia affetto, e il desiderio di ammendare il fallo involontario, aggiungeva appassionata:

—Cavaliere sopra quanti altri conobbi, eccetto voi, compitissimo e gentile. Per lui ci venne restaurata la casa, che, guasta prima dall'acqua, adesso ha distrutto il fuoco:—egli volle che io mi comprassi vesti sfoggiate,—orgoglio di una ora;—ed ebbi a toccare da lui solenne rimprovero perchè non lo scelsi compare del mio figliuolo.

Luisa si morse le labbra in modo che spicciarono sangue, e la interruppe con aspra voce dicendo:

—Basta!

E mentre per non tradirsi si allontanava a precipizio, combattuta da passioni diverse mormorava:

—Sfacciata! E nemmeno si rattiene da palesare la propria vergogna. Signore! Ma tu veramente comandi di allevare le serpi che ci mordono il cuore?

NOTE

[1] Questi sintomi angosciosi dell'asfissia io descrivo non già per sentito dire, bensì per averli provati. Ciò avvenne quando il signor marchese Cosimo Ridolfi, iniziatore in Toscana del reggimento costituzionale, investito di pieni poteri per sedare in Livorno una cospirazione, che non era mai stata, ordinò mi traessero a Portoferrajo con le mani incatenate nella notte dell'8 al 9 gennaio 1818, e quivi mi gittassero entro un sotterraneo del forte Falcone. Il sotterraneo era umido e freddo: io poi infermo gravemente di male d'intestini, ed estenuato di forze; sicchè mi lasciai andare semivivo sopra un lurido letto da soldato, che rinvenni in cotesta lurida buca. Il carceriere, o di proprio moto o per commissione altrui, mi portò un focone di brace accesa, ed uscì chiudendo la porta del sotterraneo, e la finestra munita di due inferriate, due graticole ed una impannata. Appena chiusi gli occhi incominciarono a travagliarmi i sintomi descritti nel testo: allora con ineffabili sforzi scesi dal letto, e strascinandomi carpone giunsi alla finestra, apersi la impannata, e sporsi la bocca tra i ferri per bere un sorso di aria pura… cioè quale poteva aversi traverso due inferriate e due graticole e piovuta dentro una chiostruccia che mi stava davanti. E poichè i posteri sappiano chente si fossero i Conti, i Baroni, e i Marchesi promotori delle libertà politiche in Toscana, e giudichino, dirò (cosa incredibile, e non pertanto vera): quattordici dei miei compagni d'infortunio furono gli uni sopra gli altri accatastati dentro un altro sotterraneo sterrato, che prendeva aria da un pertugio nel soffitto; un altro certa notte gridava dal sotterraneo, dov'era stato posto solo, lo salvassero perchè in procinto di affogare a cagione dei torrenti di pioggia che colà rovesciavansi; nè quinci venne remosso se prima il suo corpo non gli si gonfiò mostruosamente. Tale provai il signor Marchese Ridolfi: qual egli provasse me quando il popolo, contro lui infellonito, lo vituperava con ogni maniera di oltraggi, tentava appiccargli fuoco alla casa, e lo minacciava di peggio, ne porgono testimonianza i documenti ricavati dagli archivii dello Stato, e che appartengono al mio ministero. Io li ho pubblicati, e chi ne avesse talento può consultarli: a me basti dirne questo, che seppi e volli, assumendo il maestrato, attaccare qualunque passione privata al cappellinaio, e procedere con tutti imparziale; anzi se taluna parzialità mostrai, fu nel difendere coloro che più mi avevano offeso in generale, e il signor Marchese Ridolfi in particolare. Se io mi sia stato degnamente corrisposto, i discreti decidano. Piacemi unicamente avvertire, come allorquando i Signori del Municipio fiorentino, e la Commissione aggiunta si posero a capo della reazione, che confidarono governare, il mentovato signor Marchese scriveva lettere dalla Spezia, che intercettate furono rese pubbliche a Livorno, con le quali egli reputava onesto aizzarli contro di me; e quivi notai, tra le altre, queste espressioni: «non crediate «a b… f… galantuomini!» Concetto, e modo, ch'io ricisamente sostengo non degni di lui: di lui, che si diceva innamorato così della civiltà del Popolo toscano da anteporla alla virtù militare, per la quale avrebbe potuto rivendicarsi dal servaggio, e sostenere la sua libertà.

[2] Il CANTU, nella Storia di cento anni, narra di Souwarow il quale di tanto in tanto visitava gl'infermi soldati, e li curava così: se gli parea che fingessero, ordinava li bastonassero; se li reputava ammalati davvero, faceva amministrare loro sale, aceto, e non ricordo quale altra sostanza. In questa guisa i suoi ospedali militari stavano sempre vuoti.

CAPITOLO XII.

DELLO ASINO.

                    Sol l'Asino gentil, l'Asino fino
                    Lodar si debbe, e mi par che sia quello
                    Da scriverne in volgar, greco, e latino.
                                     GAB. SIMEONI, Cap. dell'Asino.

E Verdiana si era fatta venti volte alla finestra; altrettante si era posta ad annoverare i passi, che secondo i suoi calcoli la canonica distava da Roma. Scese sul prato; e comecchè tremolante su le gambe, si stese boccone, ed accostò le orecchie a terra per udire qualche lontano rumore, che le annunziasse il ritorno del Curato;—niente. Sorse, cantò le litanie, lo stabat Mater recitò dieci volte il rosario, e poi si spazientì.

—Oh! vedete, borbottava, quanto mai tarda quel benedetto uomo stamani…. ma che stamani? Ormai è passato vespro, e qui la minestra diventa tutta una pania. Io per me non so chi mi trattiene da desinare sola; e se poi giunge, e non potrà mangiare, suo danno. Ma forse sarà trattenuto da qualche faccenda…. o forse qualche malanno sarà capitato addosso a Marco (Marco era l'asino che cavalcava il curato)… od anche al povero reverendo. Ahimè! meschina, che cosa io vado immaginando? E perchè non potrebbe essere questo? Se male può incogliere a Marco, non ci è ragione perchè non possa succedere anche al curato. Santissima Vergine! pur troppo in fatto di disgrazie non corre differenza alcuna fra Marco e il Curato, e per tutti, o vogli uomini o vogli bestie, elleno stanno sempre apparecchiate come le tavole degli osti.

Qui tolse i suoi ferri dai quali pendeva una calza mezza fatta, e si mise a proseguirla con molta prestezza; ma chi l'avesse osservata poteva accorgersi di leggieri, che nella sua mente si formava un pensiero dolente come nei suoi occhi adagio adagio andavano crescendo due lacrime, e le lacrime e il pensiero proruppero in un medesimo punto; però che gittando smaniosa da parte e ferri e calza, esclamò:

—Sicuro eh! se qualche disgrazia fosse avvenuta a cotesto povero uomo, non avrebbe altrimenti bisogno di calze nè di solette…. E perchè non ne avrebbe più bisogno? o che forse tutte le disgrazie rendono inutili le calze?

E qui stesa la mano riprendeva i ferri, cacciandone uno dentro al bacchetto.

—E poi, proseguiva, o morto o vivo, le calze a qualcheduno saranno sempre buone…

Intanto riponeva in tasca il gomitolo del refe.

—Buone per qualche poverello di Dio,… ed anche per me…

Diciamolo a gloria del vero. Verdiana aveva pensato a se dopo il curato e la sua cavalcatura, dopo il prossimo, dopo di tutti; la sua carità si era estesa fin dove poteva estendersi, e dalla periferia ritornava al centro. Per altra parte col medesimo amore d'imparzialità dobbiamo aggiungere, che le sue mani non si erano mostrate mai tanto sollecite come quando ebbe avvertita la probabilità che le calze potessero rimanere per se.

Allo improvviso l'aria dintorno rintronò dei ragli di Marco. Verdiana corse alla finestra, e di là dalla siepe le comparvero entrambi i cari capi del Curato e dello Asino: non già che volesse mettere l'uno a fronte dell'altro; Dio ne liberi! Ma alla fine se al curato non potevano negarsi meriti grandi, anche l'asino aveva i suoi; e per di più il curato, come Marco, non aveva bevuto la luna.

Bevuto la luna? Così almeno crederono un tempo in casa del curato, e fuori; poi per le persuasioni di lui Verdiana incominciò a concepirne qualche dubbio; ma in quanto a Giannicchio non ci fu verso a farlo ricredere, e lo avrebbe giurato anche sotto la corda.

Giannicchio era un garzone più povero di Lazzaro; portava vesti di cui metà era mota, e l'altra toppe di ogni maniera, colore, e misura; una soprammessa all'altra come la calca degli accattoni si affolla su la punta dei piedi a sporgere la pentola alla porta del convento dove il cappuccino dispensa la minestra. Giannicchio era uno di quei poveri figliuoli, i quali dalla madre natura non hanno ricevuto altra benedizione, tranne uno schiaffo. Quanto si poneva a fare, tanto gli riusciva a traverso: se prendeva una stoviglia la rompeva; se correva per soccorrere, o urtava col capo nel muro, o andava a dare di cozzo nel naso della persona che intendeva sovvenire; a chiedergli acqua avrebbe portato fuoco. Il Curato affermò più volte, ch'egli doveva essersi trovato alla torre di Babele a fare da manovale. Nonostante ciò Giannicchio malanno, chè tale gli avevano appiccato nomignolo, era di così buona pasta, tanto serviziato e amoroso, che sempre stava per casa al curato, e da campare alla meglio ogni giorno rimediava.

Ora è da sapersi come fuori della canonica si trovasse un pozzo, e accanto al pozzo la pila da abbeverare le bestie, e lavare i panni. Certa sera Marco tornò tardi a casa perchè il Curato lo aveva imprestato al Dottore, al quale in quel giorno la cavalla erasi azzoppita dalla terza gamba; e fu deciso che ormai nessuno potesse salirvi sopra, senza la quasi sicurezza di fiaccarsi il nodo del collo. Nè Marco tornò solamente a casa tardi, ma vi tornò trafelato. Trivia rideva nel plenilunio sereno, come dice Dante, e vagheggiava il tondo disco nella poca acqua avanzata nel fondo della pila come una ricca dama si contempla, in difetto di meglio, dentro uno specchio da quattro soldi. Giannicchio menò Marco alla pila, e volgendo gli occhi in giù vide la luna. L'Asino assetato bevve avidamente fino all'ultima stilla l'acqua raccolta nella pila, e la luna scomparve. Allora Giannicchio, preso da maraviglia e da spavento, si dette a gridare che Marco aveva bevuto la luna. Tale era Giannicchio.

—O cari! o desiderati!—esclamava la buona Verdiana, e si affrettava affannosa verso l'Asino e il Curato. Abbracciò Marco pel collo nè più nè meno con lo affetto di Sancio Panza; baciò la mano al Curato, e lo aiutò a smontare. Siccome nella povera gente il dolore della perdita si fa sentire più acuto assai che la speranza del guadagno, io non saprei ridire quali, e quante suonassero le lamentazioni della Verdiana vedendo la tonaca lacerata, e le altre cose più riposte sotto in pessimo arnese, fatte manifeste in virtù dello strappo della tonaca: molto più che dal volto nuvoloso del curato le pareva potere argomentare, che il viaggio fosse riuscito indarno.

—Già m'immagino, incominciò Verdiana, che anche per questa volta avrà fatto fallo la promessa del chiedete, e vi sarà dato:—e intanto che andava forbendo il curato dalla polvere, continuava:—il santo Evangelo avrà inteso parlare della grazia gratis data, non già dei ducati del sole.

—Silenzio, Verdiana; non mormorate contro la Provvidenza, ch'è peccato; ho bussato, e mi fu aperto; ho chiesto, e mi furono dati cento scudi…

—Cento scudi! E allora facciamo i fuochi…

Il Curato sospirò; si pose a cena; poco mangiò, bevve meno, e rispose rade e tronche parole alle frequenti domande di Verdiana, la quale standogli attorno non rifiniva mai d'interrogarlo così:

—Vi sentireste per avventura incomodato, Reverendo?—Vi è forse accaduto qualche malanno in cammino?—Avete avuto paura?—Benedetto uomo, ma parlate! Volete che io vi faccia un po' d'acqua di salvia col miele…. o piuttosto un cotogno cotto nel vino…. o veramente lo pezzette di aceto sopra le tempie? Un senapismo…. un pediluvio…. un semicupio…. un cristeo?

—Ouf!—soffiò il Curato, e disse poi:—fate tutta questa roba per voi, Verdiana, se ne avete bisogno; sto bene, prima Dio, ed ecco i cento ducati…

—Ve' belli… belli! E' non hanno mica torto a tenerseli stretti coloro che li possiedono.

—Date retta, Verdiana, questi sono cento ducati; ma non bastano a gran pezza per la canonica, per le masserizie di casa, e per la chiesa…

—Pazienza! Rifacciamoci intanto dalla chiesa; alle altre cose il buon
Gesù provvederà…[1]

—Provvederà, sì; ma vedete bene, Verdiana mia, che se non prendiamo cura della canonica, un giorno o l'altro ci troveremo a nuotare in casa.

—Meglio nuotare noi in casa, che Cristo in chiesa.

—Sì; ma se il sacerdote annega, il servizio divino rimane interrotto con danno gravissimo dei parrocchiani.

—Già, in primis, non rimane interrotto per nulla, dacchè, e Dio vi faccia campare mille anni, morto un papa se ne fa un altro, come dice il proverbio; e poi in casa ci piove, è vero, ma non vi si nuota, nè vi si affoga, che io sappia…

—Sì; ma il savio Ippocrate insegna: principiis obsta sero medicina paratur; la quale sentenza sapete che cosa vuol dire, Verdiana? Vuol dire che se non si ripara in tempo, la buca diventa fossa. Inoltre la veste abietta fa cascare nello avvilimento chi la porta. Per colpa del sozzo servo talora venne in dispregio anche il padrone.

—Ma egli è troppo peggio, che prendano in odio il servo per la ingratitudine che mostra al suo signore; e pensate un po' voi di quale signore si tratta.

Al curato pareva giacere sopra la gratella di san Lorenzo, e sospirando ruminava fra se: come diascolo tutto ad un tratto è capitato tanto giudizio a Verdiana!—E Verdiana proseguiva:

—Io ho detto begli ai ducati, perchè davvero mi piacciono; ma non mi paiono più belli della mia coscienza, nè del mio obbligo, e molto meno poi del mio Gesù; chè se niente niente temessi che vi avessero a far prevaricare, vedete come io ne userei?—Verdiana ne prese due pugni, e mostrò volerli gittare fuori della finestra—io li butterei per granturco alle galline…

—Verdiana! Verdiana!—gridò il Curato abbracciando forte la fantesca a mezza vita, e respingendola addietro,—ma che siete spiritata?

Quante fossero le parole dette dalla Verdiana, e come pungessero acerbamente il Curato io tralascio; basti sapere, che il Curato piegò il capo e pregò mentalmente che se poteva farsi quel calice amaro, cioè Verdiana, fosse rimosso da lui; sospirò; si pentì ripetendo dieci volte l'atto di contrizione; deliberò rendere i ducati. Allo improvviso fissandoli, gli parvero i trenta danari di Giuda; e, spaventato dal fine di cotesto traditore, guardò tutto rabbrividito il fico dell'orto della canonica, e si scostò dalla finestra; ma nel punto in cui stava per darsi in balìa della disperazione, ecco balenargli un pensiero nella mente: esultò come Archimede, quando ebbe trovato il modo di conoscere se nella corona di oro avessero mescolato rame; si sarebbe per l'allegrezza dato un bacio, se con le labbra avesse potuto toccarsi le gote; e sollevando la testa umiliata, a mo' di cervo che ripresa lena continua la corsa, egli disse:

—Uditemi, Verdiana; voi avete parlato molto e male, Dio vi perdoni. E chi vi ha insegnato a pensare tanto tristamente del prossimo… di un curato… di me?… Parvi essere io stato, per tutto il tempo che vivete con me, cosiffatto uomo da meritarmi simili rabbuffi? E se nol fui, come da un punto all'altro di vino sarei diventato aceto? Uditemi. Dal campo ha da uscire la fossa. Io e Giannicchio scerremo gli embrici e i tegoli sani dal tetto della canonica, e gli adatteremo sul tetto della chiesa: alla canonica gli riporremo nuovi: potremo tagliare sei camicie alquanto lunghe, e quando ne occorrerà bisogno per chiesa aggiunteremo una striscia di trina a qualcheduna di quelle, e serviranno per camici: dalla coperta di cataluffo ricaveremo due pianete; una gialla, e l'altra faremo tingere in rosso; le lampade e le ampolline si adoperano così in Chiesa come in casa:—farò ancora raschiare, ritingere, riconficcare, insomma riporre a nuovo il Crocifisso che tengo accanto al letto, e per le feste lo esporremo in chiesa.

Il buon prete col suo cervello aveva armeggiato in questa guisa: il patto fatto mi obbliga a non impiegare nemmeno uno scudo in chiesa. Maladetto quel patto! Ma se tolgo le tegole e gli embrici dalla canonica impedisco che l'acqua coli in chiesa, e osservo la promessa: bene è vero, che così mi tocca a rifare il tetto alla canonica; sia: ma potrò sempre sostenere, che per la chiesa non ho speso un papetto. e rifiutare addirittura il danaro. Ma no… perchè se non accettava non poteva sguarnire la casa per addobbare la chiesa. Quando il lenzuolo è corto, il capo o i piedi hanno da restare scoperti. Dunque ho fatto benissimo… benone!

E contento di se, si voltava sul fianco sinistro. Oh curiosa! Qui trovava tutt'altra opinione: una voce, che pareva nascosta nel capezzale, lo rampognava così:—garbuglione, imbroglione, cavillatore, tu vorresti servire mezzo a Dio, mezzo a Mammone. Signor no; o tutti a Dio, o tutti a Mammone: qui non vi ha strada di mezzo. Sono questi gli esempii che ti porgevano il profeta Elisèo e san Pietro? La tua sorte sarà quella di Simone Mago, che salì per aria in virtù del diavolo, e cascò in terra per virtù di Dio fiaccandosi le gambe; o per lo meno quella di Ghehazi, quando diventò bianco da capo a piedi di lebbra[2]. Bella figura se ti presentassi in pulpito come maestro Biagio il molinaro! E che cosa direbbe Verdiana? Le offerte presentate senza il cuore puro vengono respinte dal cielo: informi Caino; e tu accettasti danaro con patto espresso di non adoperarlo nel servizio di Dio. Non è questo peggio della simonia, e della geezzia? Chi non adora Dio egli è già diventato servo del Maligno. Levati… levati e va al letto di Verdiana, e chiedile perdono; cotesta donna ha tanta carità da vendertene. Levati… torna a Roma, magari in camicia; rendi i ducati al Cènci, e digli: lasciatemi la mia povertà con la mia innocenza; ricchezza col peccato non è affare che mi garbi.—Ouf! che caldo, esclamava ad alta voce il curato; stanotte non mi riesce a prendere sonno; e dando un gran voltolone pel letto tornò sul lato destro. Da questa parte lo aspettava sempre il suo buon Genio, e:—consolati, gli mormorava soavemente dentro gli orecchi, perchè la intenzione giustifica la opera, e in questo mondo chi è savio si governa secondo il vento e la corrente; chè se Verdiana continuasse a darti fastidio, tu le potrai allegare lo esempio degli Ebrei, i quali prima di uscire dall'Egitto tolsero in prestanza i vasellami di oro e di argento degli Egiziani, e verosimilmente gli adoperarono nella fabbricazione dell'Arca: e le potrai citare eziandio il caso dei figliuoli di Giacobbe, i quali per vendicarsi della sorella rapita persuasero i Sichemiti a tagliarsi[3]… ma no… cosiffatti esempii non sono da raccontarsi a Verdiana… gliene racconterai un altro più accomodato… e più decente. Insomma la intenzione giustifica le opere, se non presso gli uomini, almeno presso a Dio.—Dunque ho fatto benissimo, benone! E a cui non piace mi rincari il fitto;—e si addormentò.

Egli era un bel pezzo che dormiva, quando allo improvviso gli venne rotto il sonno dalla testa da non so quale insolito rumore: balzò a sedere sul letto, e gli parve udire un lieve imprimere di orme sul pavimento; ond'egli ritenendo che il gatto di casa avesse inciampato in qualche masserizia, allungò un braccio fuori della sponda del letto, e presa una scarpa grave di chiodi di ferro e per le fibbie d'argento, la gittò dalla parte donde gli parve che il rumore muovesse; la scarpa colpì in pieno uno armario, che suonò come un tamburo, perchè era vuoto. Verdiana destatasi allo strepito, incominciò a strillare dalla stanza accanto:

—Reverendo, reverendo. Trista moneta è quella che disturba i sonni, e Dio le mandi il mal giorno, e il male anno: quando eravate più povero riposavate fino a giorno; adesso non dormite, nè lasciate dormire.

Il curato messe il capo sotto le lenzuola, e si turò le orecchia con le coperte per non udire cotesta persecuzione.

La mattina don Cirillo, quando si levò, guardò prima il cielo, e poi sott'occhio Verdiana; quello gli prometteva una buona, questa una trista giornata. Si pose a cantare a mezza voce matutino e le laudi, e prese a darsi grandissimo moto per provocare qualche parola amica; ma e' fu tutto uno: a colezione, così per rompere il ghiaccio, incominciò a domandare con disinvoltura il prezzo ora di questa, ora di quell'altra cosa, e poi bravamente, con un tratto da disgradarne ogni più arguto diplomatico, allo improvviso osservò, come per tanta roba centocinquanta ducati gli paressero pochi. Verdiana, colta alla sprovvista sul tasto delle biancherie, per le quali ogni buona massaia sente tanta passione, dimenticata la origine degli scudi, si pose a fare i conti con don Cirillo.—Questi, sebbene fosse non mediocremente istruito, pure di conti non sapeva nulla; onde la somma non tornava mai. Verdiana annoverava toccandosi i labbri con le dita, ma anch'ella in abbaco andava poco innanzi. Allora il curato divisò prendere i ducati, e separarli in tanti mucchii quante erano le cose da provvedere, giudicando ad occhio: propose, insomma, lo scacchiere[4].

Don Cirillo ebbe a congratularsi del trovato strattagemma, imperciocchè riuscisse a mansuefare l'umore della Verdiana, e a sollevare se stesso; chè la vista del danaro letifica il cuore dell'uomo. Di ciò porgono testimonianza gli stessi testoni di Clemente XII, dove si trova la leggenda: videant pauperes, et laetentur[5]. Ora i poveri vorrebbero introdurre nella leggenda una variante, intorno alla quale fin qui non se la sono intesa co' ricchi, e credo che vogliano stare ancora un pezzo prima d'intendersi. La variante consisterebbe nel surrogare habeant al videant; e certamente bisogna confessare che, non ostante la leggenda di Sua Santità, i poveri dalla sola vista del danaro non pare possano avere motivo di menare sterminata allegrezza.

E per mettere in pratica il consiglio, il curato si avviò alla camera seguìto da Verdiana, la quale gli andava dietro ripetendo:

—Vedrete che al conto, che fate voi, ce ne mancheranno una diecina… o una ventina.

—Ed io sostengo, ch'essi hanno a bastare,—e piegò la persona per sollevare il coperchio dello inginocchiatoio; ma ad un tratto si raddrizzò interrogando:

—Verdiana, che diamine mi diceste ieri sera?—Che la farina del diavolo se ne va in crusca?

—E' lo dicevo, perchè in gioventù sentii raccontare da un frate predicatore, che il Demonio fece il patto con un contadino di comprare la sua anima per mila scudi: sottoscritto il foglio e pagato il danaro, il contadino andò a casa col sacco; ma la mattina fu trovato morto nel letto, e il sacco pieno di carbone: così perse l'anima e i quattrini.

—State sicura, Verdiana, che questa moneta non mi viene da parte del diavolo, bensì da un fiore di gentiluomo romano: però io so una storia di scudi volati senza opera diabolica; e se a voi piace ascoltarla, io ve la racconterò.

—Giusto! ho tempo di ascoltar novelle! A mano a mano siamo a mezzo giorno, e non ho anche messo la pentola al fuoco…

—Ci è più di un'ora a mezzodì, Verdiana; e poi la è storia breve… storia, intendete bene, non novella…

—Via, fate presto, che io vi ascolterò.

Il curato appoggia i reni al saccone, e punta entrambi i piedi sul pavimento: poco oltre, davanti a lui, Verdiana stava ritta ad ascoltare: in mezzo ad essi era lo inginocchiatoio.

—Dovete dunque sapere, incominciò don Cirillo, che ci fu una volta un vecchio avaro, il quale quando del danaro prestato prendeva l'usura del cinquanta per cento gli sembrava regalarlo. Ora costui non volendo per la sua tristizia fare la spesa di un forziere di ferro, comprò una cassa da morto; la cerchiò da se, come seppe meglio, di bandelle di ferro, e vi adattò una vecchia serratura; poi la nascose sotto il letto, e di mano in mano andava a depositarvi la male acquistata moneta. Quantunque poco temesse di ladri, per essere casa sua guardata diligentemente, pure onde allontanare ogni sospetto quando mai pervenissero nella stanza, scrisse sopra la cassa «Hic est Christus Dominus meus»[6]: quasi volesse dare ad intendere che quella fosse una reliquia, e così rinforzare la debolezza della serratura con la reverenza della religione. La Provvidenza, certamente per punirlo della sua cattiveria, gli dava un figliuolo sprecone quanto egli era avaro, e bevone da vincere il palio con le spugne; giuocatore poi—da mettere su lanzichenetto in mezzo alla brace accesa; nè qui si fermava; che possedeva certe altre taccherelle, le quali, voi capite Verdiana mia, che le si vogliono tacere honestatis causa, et caetera. Se il vecchio spigolistro tenesse il figliuolo allo stecchetto non importa dire, e se questi lo avesse in fastidio importa dire anche meno. Il figlio spiando il padre, un giorno lo vide entrare in camera, chiudersi dentro, e, messo l'occhio al foro della serratura, vide ancora com'egli aprisse la cassa, e vi riponesse dentro buona quantità di danari. Al giuocatore venivano a un punto i sudori caldi e freddi addosso: appena il vecchio uscì di casa, ecco quel tristo con suoi ferri e grimaldelli arrovellarsi intorno ai serrami; aperti che gli ebbe si empiva le tasche, e prestamente si allontanava, non senza però avere scritto prima sotto la cassa questa altra iscrizione «Resurrexit, et non est hic»[7]; e così il malvagio vecchio imparò a sue spese a profanare i testi del santo Evangelo.

—E fosse finita qui!, aggiunse la divota Verdiana; ma il peggio tocca di là, e pochi ci pensano…

—Sicuramente; e quando se ne avvedranno sarà tardi… Dunque voi persistete a sostenere, che ne manca una diecina…

—O dieci… o venti…

—Ora lo vedremo… Io tengo per fermo, che devano arrivare…

E sollevò la predella… Il danaro era sparito.

Don Cirillo rimase giù curvo della persona, con la predella sollevata, la testa e il collo volti verso Verdiana. Verdiana chiuse gli occhi, e allungò ambedue le braccia con le mani giunte sul capo a sesto acuto: parevano colpiti da catalessi. Così stettero lungo spazio di tempo, senza dire parola, senza battere palpebra. Una molto acerba battaglia si combattè nell'animo di don Cirillo mentre tenne curvata la persona. In quel turbinìo di passioni grande era il dolore della somma perduta, grandissima la maraviglia di vederla sparita, ma fuori di misura più grande il rimorso di averla accettata a condizioni sicuramente non pie. Don Cirillo raddrizzandosi lentamente, parve avere vissuto dieci anni in un minuto: però senza amarezza alcuna disse alla serva.

—Verdiana mia, voi siete stata profetessa.

—O meschina me! non avessi mai parlato…

—E adesso, che cosa ci avanza a fare?—domandò il Curato dandosi della palma aperta sopra la fronte.

—Rassegnarci ai voleri di Dio…

—Donna, voi avete parlato una savia parola.—Però, e notatelo bene, Verdiana, qui dentro non ci ha a vedere il demonio. Queste orme polverose per la casa, la finestra che dà su l'orto rotta, e il rumore che stanotte ci ha desti, chiariscono apertamente che qualche ladroncello del vicinato ci ha fatti tristi. Dio gli perdoni, e possano cotesti danari giovargli meglio che a me.

Ma oh! come l'affanno di queste povere creature toccò il limite estremo quando, scese nella stalla, non rinvennero più neanche Marco! Di quali pianti non risuonò la canonica, di quali disperati guai? Marco co' più dolci nomi chiamavano, Marco invocavano, Marco dal cielo con ardentissime preci e con supplici voti chiedevano, e i campi intorno si sentivano risuonare: Marco! Marco!

Si univa al lamentevole coro anche Giannicchio, il quale provandosi consolare quel supremo dolore si era adattata al collo la cavezza dell'Asino, e postosi davanti alla mangiatoia, proprio nel luogo già occupato da Marco, andava dicendo così:

—Don Cirillo non piangete, Verdiana mia asciugatevi le lacrime;—io vi terrò luogo di Marco, vi servirò come Marco. Reverendo, quando vorrete andare a Roma io vi porterò a cavalluccio su le spalle comodamente come Marco.

Un'angoscia cupa subentrò, come avviene, allo affanno clamoroso; nè sembra che le consolazioni di Giannicchio trovassero grazia presso don Cirillo, nè presso Verdiana. Non si parlò di mangiare: non già che Verdiana omettesse apparecchiare; ma nel servire a tavola il Curato di tratto in tratto voltava altrove la faccia per non mostrargli qualche lacrima, che suo malgrado le scappava dagli occhi. Don Cirillo guardava fisso il piatto, ma non toccava la vivanda; o se pure ne prendeva un boccone con la forchetta per recarselo alla bocca, appena aveva alzato il braccio lo riposava, e poi con un grosso sospiro rimoveva da se intatta la pietanza. Ah pur troppo è amaro a inghiottirsi il pane bagnato di pianto! Don Cirillo si levò, scese, e si mise a sedere sopra il muricciòlo a destra della porta di casa; e per fare qualchecosa, si pose con un bastoncello a segnare di linee il terreno. Si vedeva chiaro che cotesti erano moti puramente macchinali, e il suo pensiero galoppava le mille miglia lontano di là; ma o sia che la passione non abbia sede particolare, o sia che le membra conservino spontanee il moto che in loro impresse lo affetto, fatto sta, che le mani del curato tracciarono su l'arena il profilo di Marco. Verdiana sul muricciòlo a sinistra guardava le galline,—le guardava; ma con le mani in tasca non udiva la costoro petizione collettiva, che domandava il solito sussidio di grano turco. Giannicchio seduto sotto il pagliaio piangeva, e si sfogava col pane dandogli tali morsi da far temere anche pel pagliaio, caso che il pane non gli fosse bastato.

Il pensiero del prete dopo avere viaggiato per diverse regioni, si fermò finalmente su Giobbe: considerò innanzi tratto ch'egli non aveva moglie, e questo gli parve un primo argomento di consolazione; poi pensò che non aspettava amici, e conobbe, che se uno solo di quei di Giobbe, o il Temanita o il Suhita, gli fosse cascato addosso sarebbe bastato a farlo gittare a capo fitto nel pozzo: e finalmente la coscienza questa volta, sgombra da passione, discorrendo schietta e senza garbugli, gli dichiarava ch'egli aveva commesso peccato grave contro Dio, e che doveva ringraziarlo di cuore se lo sottoponeva a cotesta ammenda leggiera: onde si levò da sedere con volto mestamente sereno rimanendogli dentro una umiliazione, la quale se avessimo voluto decomporre nei suoi elementi avremmo trovato per lo appunto: che per un quarto vi entrava il rimorso della mala accettata moneta; per un altro quarto la vergogna delle parole scandalose adoperate con Verdiana, e per una buona metà il dolore della perdita del povero Marco.

—Dio me lo ha dato, sospirò don Cirillo, Dio me lo ha tolto; sia fatta la volontà di Dio: pel peccato che ho commesso, la tua mano, o Signore, mi punisce soavemente.

Appena il buon curato aveva posto fine a coteste parole, come se la Giustizia divina soddisfatta volesse aprirgli di nuovo la fonte delle misericordie, ecco rimbombare dintorno per le valli e pei colli il raglio glorioso e trionfale, che pareva—o voluttà celeste!—ed era certo di Marco; e appena ebbero tempo di dirselo, che Marco, incoronato di verdi fronde la testa, scavalca secondo l'usato costume la siepe, e come saetta volante corre verso il padrone. O come incoronato? domanda il lettore, e aggiunge: queste le sono bizzarrie di romanziere. Sì signore, incoronato; e il come vi sarà detto poi. Intanto compiacetevi, signor lettore, meco di contemplare Marco incoronato; non dico di alloro perchè, voi lo sapete, di questo

…….rado se ne coglie Per coronare o Cesare o Poeta, Colpa, e vergogna delle umane voglie[8];

ma di varia maniera fronde corbezzolo, e quercia; e la quercia era pure nobile corona da stare a petto con l'alloro, imperciocchè nell'antica Roma si destinasse a colui che salvava in battaglia la vita a un cittadino romano, e si chiamasse civica. A questo pensa, lettore, e riponti in mente, che là dove si onora la virtù vera, supremo ufficio civico è salvare un cittadino in battaglia, e non tradirlo in pace.—Marco pertanto apparve con la corona civica, ed era un Asino.

Gli abbracciamenti, i baci, e i colpi lieti[9],

i risi, i pianti di tenerezza, i parlari confusi, e simultanei erano una pazza cosa. Marco anch'esso si sentiva commosso come gli altri; non affermerò che ancora egli piangesse e ridesse, quantunque con l'autorità di scrittori gravissimi io potrei sostenere anche questo, e la commozione interna egli manifestava con voce potente a superare ogni altro grido. Marco era il Lablache di cotesto coro. Don Cirillo lo liberò dalla sella e dalle bisacce, senza avvertire se fossero vuote, o piene. Giannicchio prima di tutto lo abbracciò e lo baciò; poi lo stregghiò, lo lavò, gli rinettò la coda dai pungitopi e dai pruni. Verdiana gli apparecchiò paglia fresca ed erbette; anzi volgendo gli occhi da un lato dell'orto vide un magnifico cavolo cappuccio, che pareva un senatore: stette fra due se lo dovesse serbare per una minestra di riso pel curato, o darlo a Marco; ma vinse amore per questo, e risolutamente lo svelse, lo lavò, e lo sminuzzò nella mangiatoia di Marco. Era il ritorno del figliuolo prodigo, ed ella uccideva la vitella grassa. Cotesto giorno, si può dire che l'Asino facesse pasqua.

E per Asino, bisogna aggiungere, che Marco ebbe in cotesta solennità convivale quasi gli stessi onori di papa Bonifazio VIII al banchetto della sua incoronazione; conciosiachè se lui servirono due re, l'Ungherese e il Siciliano, in regio ammanto, e la corona in capo, il Curato e Verdiana ministrassero a Marco. Vero è bene che il curato non vestiva il piviale; ma in compenso Giannicchio gli fece da coppiere, conducendolo alla pila dov'egli già bevve la luna. Sazio, non stanco, di mangiare, Marco sentì alfine il bisogno di riposarsi: egli veramente non disse: buona notte a nessuno; ma lo fece capire abbastanza stendendosi sopra la paglia, chiudendo gli occhi, e declinando il capo. Usciti dal presepio, il curato raccolse le bisacce; e questa volta essendo sgombro da passione, notò come pesassero gravissime, e v'immerse dentro la mano. Potere del mondo! Sognava, od era desto? Gli parve toccare moneta: le rovesciò per terra… scudi! ducati!—e quanti! Don Cirillo e Verdiana si stesero sul prato; e fatto cumulo del danaro, parve loro che fosse quattro e cinque volte tanto quello di prima. Oro, argento da mandare in visibilio ogni cervello sano: conta e riconta, vennero a capo di conoscere che dovevano essere circa quattrocento cinquanta ducati.

—Ora mi sembra, che c'incastri ogni cosa—disse don Cirillo; ma
Verdiana, alzando il dito, rispose:

—Egli è ben nostro questo tesoro? Badiamo, Reverendo, badiamo che Dio non ce lo abbia mandato per provarci una seconda volta.

—Verdiana, dapprima ho pensato come voi; ma poi mi sono persuaso che questo danaro ha da appartenere al ladro; egli non può essere qui del vicinato, ma sarà sicuramente qualcheduno dei banditi che bazzicano per la campagna. Ora voi capite, che renderlo a lui sarebbe peccato, e ai derubati impossibile. Io proporrei—e questo disse con esitanza—che per noi spendessimo un cento cinquanta di ducati, ed ogni rimanente per la chiesa, e pei poverelli di Dio;—sicchè faremmo restaurare ambedue i Crocifissi—quello di chiesa, e l'altro di canonica.

Parve che la proposta garbasse a Verdiana, perchè soggiunse senza obiezione:

—E lasceremo stare la coperta di cataluffo sul letto, e compreremo le pianete di bel damasco nuovo.

—E le camicie non trasformeremo più in camici.

—E i tegoli della canonica rimarranno alla canonica, e quelli della chiesa alla chiesa.

—È giusta; a Cesare quello ch'è di Cesare, a Dio quello ch'è di Dio.

—Ma ieri non aveva ad essere così…

—Non ci pensiamo più, via. Il Signore ha perdonato, e voi volete conservare amarezza? Verdiana, sareste meno misericordiosa del Signore?

—Me ne guardi Maria Santissima! Voi avrete due tonache nuove; una per la state di cammellotto, e l'altra pel verno di panno; e ancora due para di calzoni, perchè ieri… mi parve veh! di vedere quelli che portate ridotti in pessimo arnese…

—E voi due gonnelle; una di stame, e l'altra di lana.

—E le stoviglie?

—E gli asciugamani?

—Le stoviglie sono proprio necessarie—perchè, ora che ve lo posso dire senza affliggervi, avete a sapere, che da un pezzo in qua voi mangiate sempre nel medesimo piatto; e quando andavo in cucina io lo lavava presto presto, e ve lo riponeva su la tavola per modo, che non ve ne poteste avvedere.

—E con gli asciugamani lasceremo stare in riposo il gatto.

—O Signore, come siamo poveri! Io non me n'era mai accorta come adesso, che, avendo danaro da spendere, penso a provvedere le cose che mancano.

—Così è; il danaro fa come il sole; scuopre la miseria, e la rallegra.

—Ma a noi abbiamo pensato anche troppo.

—Giannicchio avrà di una stoffa sola la prima vesta, che abbia portata nel mondo.

—E Marco la cavezza nuova.

—Anzi… gran benedetta bestia è quel Marco!—e voi, Verdiana, la benedetta cristiana, perchè ambedue mi porgete occasione di fare un'opera buona. Veronica, la povera lavandaia, ha perduto il suo asino, ed ora se ne sta maninconiosa non sapendo a qual santo votarsi. Ella non può andare a Roma pei panni, e i suoi garzoni non guadagnano più il pane con la carretta. Orsù; datemi una ventina di ducati, che io me ne andrò senza porre tempo fra mezzo a consolare la desolata, e nello stesso viaggio menerò meco i suoi figliuoli, ed il suo cane perchè ci facciano un po' di guardia stanotte. Voi capite, Verdiana, che se il ladro venne pei miei danari, molto più si proverà a tornare pei miei e pei suoi; ed è bene ch'ei sappia, che quaggiù non tira vento buono per lui.

E come disse fece il dabbene don Cirillo; nè male gl'incolse essersi armato di provvidenza, imperciocchè durante la notte successiva il cane non cessò mai di brontolare e latrare: in seguito fu pace.

Marco diventò vecchio; e il Curato e Verdiana, com'è da credersi, non ringiovanirono certo. Un giorno il curato, dopo cena, levò la mano, secondo il suo costume quando voleva annunziare qualche solenne novella. Verdiana incrociò le mani sul petto per udirlo più raccolta. Giannicchio si rimase a mezza stanza con un piatto in mano che riportava in cucina, tenendo il corpo rivolto verso la porta e il capo indietro verso il curato per non perdere le sue parole. Don Cirillo incominciò così:

—I nostri antichissimi progenitori…

—Quanti anni sono?…

—Più di millanta…. ma non m'interrompete, Giannicchio…

—Mandarono in Grecia savii ed avvisati uomini perchè prendessero notizia delle leggi con le quali si governavano costà, essendo predicate dalla fama giustissime e religiosissime, per reggere con rettitudine pari questa nostra contrada…

—Ma Grecia non è paese di Turchi?

—Verdiana non m'interrompete… In cotesti tempi non si conoscevano Turchi… non sapete che io parlo di quando Virginio ammazzò la sua figliuola honestatis causa? I Greci pertanto come somministrarono ai progenitori nostri notizia delle ottime leggi, così dettero a noi esempio umanissimo del modo da praticarsi verso il nostro antico compagno Marco. Gli Ateniesi, dopo avere fabbricato un magnifico tempio, chiamato Ecatompedone, a Minerva, ch'era, come sarebbe a dire, una santa per cotesti tempi…

—O adesso, che cosa ne hanno fatto di cotesta santa?

—Giannicchio, non m'interrompete… i Greci affrancarono da ogni fatica gli Asini e i Muli che si erano travagliati intorno a quel lavoro, e li dichiararono signori e padroni di vagare e pascere dove meglio venisse loro talento; e si legge eziandio in certo libro stampato, come uno di cotesti Asini vivesse interi ottant'anni[10].

—Quasi quanto noi…

—Che maledetto vizio! Ma Verdiana non…

—Sarà stato un miracolo di santa Minerva…

—Ma Giannicchio non m'interrompete. Minerva non poteva operare miracoli—perchè adesso ella sarebbe, come dire, un diavolo.

—Come un diavolo? O a Roma non ci è pure Santa Maria della Minerva? Possibile che, secondo voi, vi fosse adesso una Santa Maria del diavolo?

—Ma Verdiana, per l'amor di Dio, lasciatemi parlare; queste altre cose vi spiegherò a suo tempo per filo e per segno…

—Purchè facciate presto…

Omnia tempus habent, cara mia; ogni frutto ha la sua stagione.

—Sì, ma ponete mente che noi abbiamo anni quanto lo Asino di Atene…

Don Cirillo, per liberarsi da cotesto fastidio delle interruzioni, male oggimai diventato incurabile in casa sua, precipitò il discorso, aggiungendo:

—Per le quali considerazioni ed esempii io propongo che si abbia a giubbilare Marco, facendogli le spese come buono e fedele servitore finchè a Dio piaccia di tenerlo fra noi.

E Verdiana di rimando:

—Sentitemi, don Cirillo, io non leggo libri stampati come leggete voi; ma la ragiono così: vecchi siamo anche noi, pure per la grazia di Dio non impediti in verun membro, o sentimento del corpo: però, finchè la Provvidenza ci mantiene destri, vuol dire, che secondo le facoltà nostre intende che qualche cosa facciamo. Tempo per riposarci, Reverendo, ce ne avanzerà anche troppo quando anderemo a dormire nel campo santo. Contro alla opinione di vostra Reverenza io dichiaro, che Marco essendo vecchio può affaticarsi nei lavori che convengono ai vecchi; non più sassi egli deve portare, nè mattoni, nè calcina; non più grano al molino, nè some di vino al mercato; non più il Dottore, ch'è più peso di tutte queste robe; ma gli basteranno molto bene le forze per portare erbe in Roma, e ritornare carico di qualche coserella che ci potesse abbisognare. Ciò lo conserverà sano, e a noi sempre gradito; perchè vedendolo ozioso a ingrassare, chi sa che non ci cadesse in disgrazia come un disutilaccio mangiatore di pane a tradimento.

—Verdiana, voi siete la erede vera della Sibilla Cumana.

Come poi successe il caso dell'Asino tornato, e del danaro cresciuto potranno sapere tutti coloro, i quali si compiaceranno leggere il veniente capitolo.

NOTE

[1] «E intorno al vestire non siate con ansietà solleciti: avvisate come crescono i gigli della campagna; essi non faticano, e non filano. E pure io vi dico, che Salomone stesso con tutta la sua gloria non fu vestito al pari di uno di loro». Evangel. di San Matteo, C. VI, nn. 28, 29.

[2] Il profeta Elisèo sanò Naaman dalla lebbra, e rifiutò qualsivoglia mercede. Il suo servo Ghehazi gli andò dietro, e, mentendosi messaggiero del profeta, si fece dare due talenti di argento, e due mute di vestimenti. Tornato a casa, il profeta Elisèo, consapevole della colpa del servo, gli disse: «la lebbra di Naaman si attaccherà in perpetuo a te, ed alla tua progenie»; ed egli se ne uscì dalla presenza di esso tutto lebbroso, e Bianco come la neve. Re, lib. II. c. V. n. 27.—Simone Mago voleva comprare da san Pietro i doni dello Spiritossanto, ossia la facoltà di operare miracoli: e non li potendo operare per virtù di Dio, s'ingegnò operarli con lo aiuto del diavolo. La leggenda narra che il Mago ne diventò tanto superbo, da sfidare san Pietro: da una parte e dall'altra si fecero parecchie prove, come successe fra Moisè e i Maghi di Faraone: finalmente san Pietro, che stava su lo avvisato di giuocare all'altro un bel tratto, di repente si levò per aria. Simone Mago lo volle imitare; e san Pietro, quando lo vide bene alto, con la sua maggior virtù operò che quegli cadesse in terra di sfascio, e si rompesse ambedue le cosce. Di qui nasce la differenza, che corre fra Simonia e Geezzia, peccati ecclesiastici: la prima è compra di cose sacre, e specialmente di ufficii di chiesa; la seconda è mercede di grazie operate. Questi peccati da molto tempo sono scomparsi dalla Chiesa; conciossiacosachè, come ognun sa, al giorno d'oggi tutto vi si faccia gratis, et amore Dei.

[3] Sichem figliuolo di Hemor violò Dina figliuola di Giacobbe; ma subito dopo si offerse parato a sposarla, in ammenda del fallo. I fratelli di lei gli risposero: «Noi non possiamo dare la nostra sorella ad un uomo incirconciso, però che il prepuzio ci sia cosa vituperevole: ma pur vi compiaceremo con questo, che voi siate come noi; circoncidendosi ogni maschio infra voi. Accettata la proposta, Hemor, Sichem e gli abitanti di Sichem si circoncisero; ma il terzo giorno, mentre essi erano nel dolore della operazione, Simeone e Levi fratelli di Dina gli sterminarono tutti». Genesi, Cap. XXXIV, n. 25. A qualcheduno è sembrato che gl'Israeliti, come popolo eletto, avrebbero potuto, e dovuto possedere qualche maggiore cognizione del giusto e dell'onesto.

[4] Milioni di uomini leggono, od intendono dire tuttogiorno dello scacchiere d'Inghilterra, di ministro dello scacchiere, e pochi, io penso, sanno perchè il tesoro della Inghilterra si abbia a chiamare scacchiere. Quando Alessandro Il lucchese, soprannominato il Papa lebbroso, o Papa accattone, donò il regno d'Inghilterra a Guglielmo il bastardo, gl'impose per patto, che andasse a prenderselo; e quei due grandi della terra si tesero le braccia per soffocare dentro cotesto abbracciamento un popolo intero: «Dum regnum et sacerdotium in nostrum detrimentum mutuos commutarent amplexos» (Chronic. Gervasii Cantorber. citata dal THIERRY). I Normanni dal trattare la piccozza in fuori, non sembra che sapessero fare guari altro; molto meno poi calcolare: onde per potere strigare le faccende presto, e bene, immaginarono una cassa divisa a scompartimenti, appunto uguale alla cassa che adoperano gli stampatori per riporvi i caratteri; e quivi dentro misuravano il danaro, come il grano, con lo staio. Di qui il tesoro inglese assunse, e conserva il nome di scacchiere. (THIERRY, Opus. cit. tom. I, p. 400 a 418).—Dai Normanni a Pascal e a Babbage, inventori della macchina pei calcoli, è mestieri convenire che la differenza è grande.

[5] «I poveri li vedano, e se ne rallegrino».

[6] «Qui è Cristo mio Signore».

[7] «Risorse, e non è qui».—Evang. S. Mathaei, Cap. 28.

[8] PETRARCA, Sonetti.

  [9] Gli abbracciamenti, i baci, e i colpi lieti
                 Tace la casta Musa, e vergognosa.

                          TASSONI, Secchia Rapita. C. VI.

[10] PLINIO, Stor. Nat. lib. 16. cap. 4.

CAPITOLO XIII

IL TRADIMENTO

                    Poichè si vide il traditore uscire
                      Quel che avea prima immaginato invano,
                      O da se torlo, o di farlo morire
                      Nuovo argomento immaginossi, e strano.

ARIOSTO, Orlando Furioso.

La notte era alta, e don Francesco Cènci se ne stava ridotto nel suo studio, leggendo con molta attenzione il libro di Aristotele intorno alla natura degli Animali; e ad ora ad ora si soffermava meditando, e notando sopra i margini con minutissima scrittura le riflessioni, che gli si affacciavano allo spirito. Ad un tratto batterono le due dopo la mezza notte: lo squillo percosse l'aria acuto come una domanda superba. Pareva che interrogasse: «chi ardisce vegliare in questo tempo di morte?»

—Veglio io, rispose don Francesco, ma senza pro. I misteri della natura si tentano invano.—Gira, rigira; io te lo do per giunta, se riesci a ritrovare la porta donde sei entrato.—Chi inventò a distinguere il tempo, che fugge in ore, in minuti e in secondi, io per me tengo che fosse uno dei peggiori tristi che mai abbiano vissuto nel mondo. Capisco ancora io che, viaggiando per Roma o per Napoli, l'uomo possa mettere il capo fuori della carrozza onde procurarsi il piacere di leggere sopra le colonne migliarie di quanto spazio ha accorciato il termine del suo viaggio; ma quando la città a cui ci avviciniamo è Necropoli, il Campo-santo, oh! allora vada allo inferno chi mi dice: «siamo per arrivare; ecco l'ultimo miglio!» Queste ore battute, allorchè sono passate ci percuotono come il rumore di un frammento di vita, che ci caschi da dosso per non ritornarci mai più. Forse in giovanezza, quando un orecchio tintinna pei sonagli che vi squassa vicino la follìa, e l'altro ronza d'inviti che vi sussurra dentro la bocca lasciva, il mal suono o non giunge, o giunge fioco. Adesso poi, nella età in cui mi sono condotto, mi pare che le ore scappino più veloci, come i fantini raddoppiano le sferzate all'ultimo giro del palio: Motus in fine velocior. Ora pertanto bisogna attendere con ogni studio… a che attendere? Tutto è contrasto, disordine e confusione nel mondo: noi siamo in guerra contro noi stessi. Io, che dai primi anni ho abbracciato un partito, e mi vi sono confermato con la riflessione, e ostinato con le opere;.. io pure, quando meno me lo aspetto, sento dentro di me uno spirito che discorda da me, e sempre contradice, e perfidia, e con lusinghe, o per forza vorrebbe strascinarmi in parte ove io non voglio andare: se fosse un occhio, o una mano ribelle potrei strapparlo, o tagliarla; ma come arrivare a mettere le mani addosso a questo spirito di rivolta?—Se però non posso strangolarlo, posso ben vincerlo. O spirito di rivolta, perchè ti consigli trattenere il torrente della mia volontà con i tuoi dicchi di ragno? Se tu sei un angiolo, da' retta a me, torna a casa tua perchè predichi al deserto; se demonio, vattene, non m'infastidire adesso: faremo i conti tutti in una volta. Beatrice pensò atterrirmi quando minacciava, che i posteri diranno di me: «ai tempi del profeta Natan i flagelli di Dio erano tre, poi diventarono quattro: fame, peste, guerra, e il Conte Cènci»; e nessun cortigiano mai trovò blandizie più piacenti con la sua lingua dorata.—E così fosse! Ma i posteri non sapranno neppure che tu sei vissuto. Tutto è vecchio, consumato; tutto casca a pezzi quaggiù. I nostri terribili genitori ci hanno divorato tutto; essi ci hanno diseredati persino della facoltà d'infamarci.—O Tiberio, o Nerone, o Domiziano, voi ci avete tolto il diritto di poterci chiamare scellerati.—Voi tuffaste la bocca nel fiume della lussuria e della ferocia mentre a noi avanzano poche stille per saziare la sete. Eppure io mi sentirei cuore e mente da superarli; e se la fortuna mi avesse dato uno impero, o il soglio pontificio, avrei così spigolato nel vostro campo, o Imperatori augustissimi, da non invidiarvi la raccolta. L'arte può supplire, ed anche superare la forza: vi sono diamanti i quali, sebbene piccoli, vincono con la limpidità della loro acqua gemme di mole maggiore. Peccato galoppa, galoppa; poca è la via che rimane… portami nello inferno di carriera serrata…

Un bussare precipitoso alla porta segreta interruppe il corso delle sue malvage riflessioni: credendo fosse Marzio venuto per qualche subito caso, si accostò in fretta, ed aperse. Olimpio anelante, col capo bendato di una tela sanguinosa proruppe dentro la stanza, volgendo il capo indietro come uomo che sospetti essere inseguito, e si gettò a sedere asciugandosi col braccio il sudore della fronte. Don Francesco, comecchè peritissimo a dissimulare, male poteva nascondere la sorpresa e il dispetto alla vista di costui; pure fingendo alla meglio, che potè, lo andava interrogando:

—E qual diavolo ti sbalestra in questo arnese, e in questa ora quaggiù? Tu sei ferito! Quale stroppio è egli accaduto?

—Traditi, don Francesco, traditi; ma giuro a Dio e agli apostoli Pietro e Paolo, che prima di morire io vo scannare quel brutto Giuda traditore, fosse anche mio padre.

—Traditi! E come può essere? Ma tu grondi sangue!

—Non vi badate; egli è un nonnulla, come sarebbe a dire una sopraccarta di pistolettata… la palla mi ha fregato la testa, e nulla più.

—Bene; dunque, Olimpio, accomodati a tuo grande agio, e narrami distesamente quello che ti avvenne.

—Stanotte correva la impresa di sua Eccellenza il Duca di Altemps, dalla quale mi sconsigliava una voce, che sentiva mormorare qui dentro… e se non era cotesto Asino dannato io aveva deciso di provare un po' se, adoperandovi i piedi e le mani, mi fosse riuscito tornare uomo dabbene, o lì per lì; ma nel più bello la secchia è ricascata nel pozzo. L'Asino sta fra me e il paradiso…

—Olimpio, tu hai sofferto nel capo; povero uomo! vaneggi.

—Per Dio! io non isvagello, don Francesco; dico la verità. Aveva compita la impresa del falegname, ma con una apostilla che non ci avevamo messa io nè voi; fu il diavolo in persona che fece bruciare quel disgraziato falegname.

—Certo fu il diavolo, che mise di fuori alla porta una spranga inchiodata per traverso.

—Cotesto feci io; ma vi giuro da bandito di onore, che non altro volli, che impedirlo di saltare subito fuori di casa, e destare tutto il vicinato per aiutarlo a spegnere le fiamme: io non credeva che i vostri fuochi lavorati ardessero così terribili; nè poteva supporre che il maestro perdesse il cervello, da aggirarsi per tutta la casa in fiamme prima di affacciarsi alla finestra. Insomma, io non credei, oh! non credei, che avesse ad uscirne tanto dolore.—Don Francesco, avete sentito il fatto di donna Luisa vostra signora nuora? Quanto ci corre tra noi e lei! Vero sangue latino!

—Anche questo conosco. Certo ella è valorosa femmina… ho io detto valorosa? Sì, e non mi disdico: ogni creatura ha le sue virtù; e se io non fossi Francesco Cènci, non vorrei essere altri che Luisa Cènci: in casa mia le donne superano i maschi di assai. Se i miei figliuoli avessero assomigliato a Olimpia, a Beatrice, o a Luisa; se il secolo paludoso avesse dato luogo ad acquistare fama con qualche onesto studio, con qualche atto o di mano o d'ingegno… forse allora… chi sa?… mi avrebbe preso vaghezza di altra strada;… ma adesso… non ci pensiamo più…

—A me parve, che mi si franasse il cuore; sentii cascarmi giù ogni tristezza, e piansi, piansi come un fanciullo. Per la prima volta pensai a mia madre quando mi nascondeva dietro la gonnella, e prendeva per se le busse che volea darmi mio padre;—pensai alla mia povera Clelia, quando mi aspettava alla fontana;—pensai all'oste di Zagarolo, che ha il vino tanto fresco nella estate;—alla corda di mastro Alessandro, tanto innamorata del mio collo… e veruno di questi cari ricordi m'intenerì tanto, quanto la famosa donna Luisa Cènci. Deliberai mutare vita, e doveva tagliare reciso; ma io volli lasciarvi lo addentellato, e mi sconciai.—Aveva fatto tanto male nel mondo, che pure bisognava attendere a ripararvi con qualche bene; ma il male potei fare da me solo, il bene no. Pensai ad acquistare i centocinquanta scudi del curato per farne dire tante messe per l'anima del maestro e degli altri che ho morti, i quali spero in Dio che non saranno per cagione mia in peggiore luogo che nel purgatorio, ed anche per provvedere alla meglio alla povera vedova; nè levarglieli mi pareva alla fin fine peccato perchè, a vostro dire, voi glieli avevate donati per burla; e per la parte ch'egli poteva averci di suo, la è cosa vecchia che lo accessorio seguita il principale. Mi travestii da accattone, esaminai diligentemente i luoghi, e nottetempo quatto quatto penetrai in casa, e m'impadronii del danaro. Nel ritirarmi entrai dentro un armario; il curato si sveglia, mi scambia pel gatto, e mi scaglia contro una scarpa, che parve una bombarda; ma non gli successe di cogliermi. Avevo notato come il degno sacerdote possedesse un Asino giovane e forte, e disegnai torglielo a imprestito per fornire più comodamente il cammino. Andai per esso: lo sciolgo dalla mangiatoia, gli metto la bardella, ed egli quieto; lo conduco allo aperto, ed egli sempre agevole: quando però si accorse che io volevo montargli sopra, prese a sparare calci da spezzare un monte di ferro. Ah! vuoi battaglia? e battaglia avrai, io dico. Egli calci, e calci io; egli morsi, ed io bastonate da levare il pelo: alla fine egli chinò gli orecchi, e sospirando chiese capitolare. Perdono ai vinti, purchè si lascino cavalcare. Io vi salii sopra, e ce ne partimmo insieme da buoni amici, come se neppure avessimo avuto contesa fra noi. Su lo albeggiare conobbi pendere dalla bardella le bolgette; e dandomi molestia la moneta che portava addosso, vi riposi dentro gli scudi del prete e i miei, che tra argento e oro formavano un valsente di trecento ducati, e più. Cresciuto il giorno io m'inselvai, disegnando rientrare in Roma su la bruna: dell'Asino pensava ormai potermi fidare… ma sì, vatti a fidare dell'Asino!—Però lo lascio andare a suo talento, poco curando ch'ei piegasse la testa a sterpare qualche fronda, o pascere erba. Giungemmo ad un rio assai copioso di acque a cagione di una serra da mandare il molino. L'Asino vi si tuffa dentro: io ritiro le gambe per non bagnarle: ad un tratto la terra si sprofonda sotto di me, l'Asino scomparisce, ed io mi ritrovo nell'acqua fino alla cintura. Il caso improvviso, il diaccio che mi corse per la persona, e più i pensieri che tenevanmi legata la mente, mi resero incapace a prendere su quel subito un partito che mi giovasse. Stendendomi sotto i piedi la bardella vi sbalzai sopra, e quinci spiccai un salto, che mi fece toccare la sponda opposta. L'Asino tristissimo, che si era lasciato andare a posta giù per liberarsi da me appena si conobbe scarico, si levò, voltò le groppe, e via come un cervo. Ahi! Asino giuntatore, Asino ladro!—Ripassai il rio, gli corsi dietro; non ci fu verso raggiungerlo; e' pareva Baiardo che fuggisse davanti Rinaldo[1]: saltava macchie, sbarattava fratte, menava tronchi e sassi; sicchè tenni allora, ed anche adesso io credo, gli fosse entrato il diavolo in corpo. Nella ventura notte, immaginando che l'Asino fosse tornato alla sua stalla, mi provai a penetrare di nuovo in casa al Curato; ma costui la faceva guardare da cani e da villani. E ora?—pensava tra me,—invece di guadagnare ho perduto, e non mi avanza più un baiocco per farne un bene, o un male: ed ecco come io mi trovai, quasi con la mano alla gola, strascinato nella impresa del Duca. Da una parte mi determinò il pensiero, che si trattava di bazzecola… un ratto di donzella!—Signore! e' ci hanno tanto gusto ad essere rapite! E poi coteste le sono faccende che si aggiustano, e il Duca parendomi acceso molto, chi sa che non la togliesse per sua legittima donna, e un giorno ella non me ne avesse obbligo grande? Dall'altra parte, come beneficare senza danari? Dalla impresa del Duca in fuori, non mi sovveniva sul momento altro partito per procurarmene. Chi si è dannato per femmine, chi per terre, o baronìe, chi per moneta: destino di Olimpio era, ch'ei si dannasse per un Asino…

Il Conte guardava sovente fisso in volto colui, immaginando dalla giocondità del racconto che Olimpio favellasse per burla; ma egli mostrava le sembianze compunte così, che venne di leggieri nella contraria sentenza. Olimpio pertanto continuò:

—E' non ci fu rimedio; mi presentai al Duca per concertare la impresa. Aveva studiato l'ora, i luoghi e le abitudini di casa: andammo quattro compagni; io cinque. Il Duca aspettava in istrada con la carrozza. Entrai nel cortile, e dissi al portiere: «Compare, fammi il servizio di chiamarmi su in casa la Crezia, e dille che venga abbasso, che Gioacchino l'aspetta per farle una ambasciata da parte di sua madre… e to' questo papetto per bere». Il portiere andò difilato, e i compagni s'introdussero presto presto nel cortile, ingegnandosi di nascondersi dietro le colonne del porticato. La ragazza scese di volo, cantando come una rondinella: in meno che si dice ave Maria la incamuffammo, e mettemmo in carrozza al Duca, il quale l'accolse a braccia aperte. Ordinai muovessero i cavalli, e noi scortavamo dietro: procedevamo di passo per non destare sospetto, e non incontriamo anima vivente. Ogni cosa va d'incanto, mi disse sottovoce un compagno; a me, pratico di simili negozii, pareva troppo bene, e non m'ingannava; perchè sul punto di sboccare dalla contrada eccoci venire incontro la Corte rinforzata. Sbigottirono gli altri, io—niente paura:—gira cocchiere, grido, e per questa volta corri alla disperata. Dannazione! Un nugolo di sbirri ci piove addosso anche da quest'altra parte. «Giovanotti, mastro Alessandro ha teso il paretaio e se non volete essere arrostiti bisogna rompere le reti; mano a' ferri». Detto fatto; e il Duca stesso scese di carrozza traendo bravamente la spada. Non lo stimava da tanto… O andate, via, a fidarvi delle acque quiete!—Ma gli sbirri non aspettarono che noi ci accostassimo per fare loro i nostri convenevoli, e ci pagarono uno acconto di archibugiate. Chi cadde, e chi rimase in piedi? Davvero io non poteva pensare agli altri, ed il buio era fitto. La beghina, trattasi il bavagliolo dalla bocca, si spenzolava fuori dello sportello della carrozza strillando: misericordia! come se avessimo voluto levarle la vita. La corte urlava anch'essa gridando: ammazza! ammazza! ed io zitto rasentava il muro, e menava colpi che non davano luogo neanche a un sospiro:—mi feci largo…. e via per quanto le gambe mi aiutavano. Andava premendo appena dei piedi la terra, perchè, come sapete, chi corre corre, ma chi fugge vola; e nonostante ciò due sbirri, certamente lacchè smessi, mi stavano alla vita come levrieri: l'ansare di costoro mi sollevava i capelli dietro le spalle, più volte mi strisciarono con le mani le vesti. Svolto un canto, e sempre via; ne svolto un altro, e un altro poi: incominciava a sentirmi il fiato grosso; ma essi pure erano stanchi, e uno più dell'altro, perchè non mi percuoteva uguale lo strepito delle loro pedate. Allora mi sovvenne la storia di Orazio il prode paladino; e parendo a me, che mi avessero accompagnato oltre il dovere, mi fermo, mi volto allo improvviso, e dico addio a quello che mi stava più addosso con una pistolettata in mezzo del petto. Costui girò tre o quattro volte come il cane che si corre dietro alla coda, e poi dette del naso in terra. L'altro capì subito che io intendeva prendere congedo da loro, ed a sua posta, prima di allontanarsi, mi sparò un saluto di un'oncia di piombo, la quale strisciandomi il capo mi ha toccato l'orecchio sinistro,—Non per questo cessai di correre: dopo buon tratto mi fermai speculando attorno per conoscere ove io mi fossi, e mi trovai per avventura presso alle vostre case. Tornare sopra la strada percorsa era perdermi, però che fino a questa parte mi venisse il rumore lontano del brulichìo del popolo commosso, come fanno le acque del Tevere nelle pigne di ponte Santo Angiolo. Decisi appigliarmi al partito, che la fortuna mi aveva posto avvisatamente davanti: mi arrampico su pel muro del giardino, e tentoni tentoni sono venuto fino a voi seguendo la via per la quale mi condusse Marzio… Ora, don Francesco, nascondetemi fino a domani notte perchè, con lo aiuto di Dio, conto tornarmene alla macchia.

Il Cènci, che attentissimo lo aveva ascoltato, gli domandò allora:

—E tu sei propriamente sicuro, che nessuno ti abbia veduto entrare qua dentro?

—Nessuno. Ma voi capite che la corte stando all'erta, su questi primi bollori è bene scansarla;—e poi qui in Roma io respiro un'aria di forca, che mi scortica la gola… davvero non mi si confà.

—E mi assicuri non averti conosciuto persona?

—Nessuno—nessuno. O non vedete, che io mi sono travestito da gentiluomo?

Infatti Olimpio aveva mutato abbigliamento.

—Sta' di buono animo; se la cosa va come tu dici, poco male ci è dentro.—Bisogna però provvedere con diligenza, perchè i servi non ti hanno a vedere; io non mi fido affatto di loro; sempre stanno con l'occhio aguzzo, e le orecchie tese: siamo circondati da spie: essi amano il padrone come i lupi l'agnello, per divorargli la carne.

—Come, neppure di Marzio vi fidate voi?

—Prima di rompersi egli era sano—dice il proverbio.—Così, così; ma io l'ho mandato in villa per faccende. Ti adatterai pertanto—(e vedi che io lo faccio più per te, che per me)—a starti per questo po' di tempo nascosto nei sotterranei del palazzo.

—Come sotterranei?

—Sotterranei, così per dire… Cantine, via; e tu ti troverai con onorevole, e gradita compagnia—quella delle botti;—io ti autorizzo a spillarle, e a bevere l'oblio dei mali finchè ti piaccia: a un patto solo però, che dopo bevuto tu rimetta lo zipolo al posto.

—Quando non si può avere meglio, accetto la stanza per la compagnia.

—Tu non vi starai da principe, ma neppure da bandito; troverai paglia in copia; in meno di un'ora ti porterò da mangiare, e lume, e certo mio unguento, che ti torrà dalla ferita ogni dolore. Possa io morire di mala morte, se in breve tu sentirai più nulla. Consolati, non tutte le imprese riescono a salvamento; non la fortuna, ma la costanza viene a capo di tutto. I Romani dopo la rotta di Canne venderono il terreno occupato dal campo cartaginese, e alla fine presero Cartagine.—Porgimi braccio… fa piano veh!—guarda non farti male—andiamo adagio.

E al buio lo condusse per infiniti avvolgimenti nei sotterranei del palazzo.

—Qui non mi trova neanche il demonio.

—Oh! per questo sta' securo, nessuno ti troverà!

—E poi nessuno sa, che io sto qua dentro.

—Nè mai lo saprà.

—A me basta, che la corte non lo sappia fino a domani l'altro; poi non me ne importa nulla.

—Abbassa il capo, e avverti di non urtare nella soglia… qua… da questa parte… entra..

—Entra!—disse Olimpio trattenendo il passo, mentre sentiva un'aria fresca e umida ventargli in faccia,—e don Francesco ridendo forte gli domandò:

—Sta a vedere, che tu hai paura!

—Io? No; ma penso che nei luoghi chiusi sappiamo sempre quando ci entriamo, non mai quando ne usciremo.

—Come! Domani notte,—tu lo hai detto.

—E se voi non veniste più per me?

—E qual profitto avrei dalla tua morte? Dove troverei un altro
Olimpio per servirmi di coppa e di coltello?

—Ma se non veniste?

—Tu urleresti. Le cantine sono presso la strada, e i passeggieri ti udrebbero.

—Bel guadagno! Dalla cantina Cènci sarei traslocato nelle carceri di
Corte Savella.

—Avverti, che io me ne andrei in castello per avere dato ricetto a un patriarca come se' tu.

—In questo, che dite, trovo qualche cosa di vero: per ogni buon riguardo lasciatemi la porta aperta.

Ed entrò; ma la porta girò sopra gli arpioni, e si chiuse a mandata.

—Don Francesco, come va che la porta si è chiusa?

—Vi ho inciampato non volendo.

—Portatemi presto il lume, e apritemi la porta.

—Ora vado per la chiave, e ritorno.

—E badate a non dimenticarvi del lume.

—Lume! Oh per lume non te ne mancherà, se non falla il detto: et lux perpetua luceat eis;—cantarellava il Cènci in suono di requiem allontanandosi con passi frettolosi.

—Pare impossibile!—aggiungeva poi tornato nella sua camera;—e costoro si vantano di sottile ingegno! Qual volpe mai non pose industria maggiore a fuggire la tagliola, di questo bandito?—Ora aspettami, Olimpio; tu puoi aspettarmi un pezzo; perchè se non viene voglia all'Angiolo di aprirti nel giorno del giudizio, io non verrò di certo. Tu imiterai nella morte lo epicureo romano Pomponio Attico, lo elegante amico di Cicerone. Pare che nel morire di fame si nasconda una certa voluttà; imperciocchè costui, sentendosi sollevato dalla dieta, volle continuare il digiuno fino alla morte; non gli parendo bene, poichè tanto cammino aveva percorso per andarsene fuori di questo mondo, rifare i passi per tornare indietro. Se non mi cascava addosso così improvviso, io avrei messo Olimpio in parte da potere osservare gli effetti di questa morte… Pazienza! Sarà per un'altra volta, se Dio mi assiste. Ormai io mi getto in braccio alla fortuna, perchè, considerata ogni cosa, meglio vale un grano di fortuna che uno staio di senno. In guerra, in amore e in negozii, nelle arti stesse governa assoluta la fortuna. Io aveva ordito una trama con filo di senno, e la fortuna me la rompe come fa delle reti il pesce cane; poi di sua propria mano lo riconduce in potestà mia, quasi dolce rimprovero di avere diffidato di lei: e sì che doveva rammentarmi il fatto di Arona quando il capitano Rense minò le mura, le quali per virtù della fortuna andarono in aria, e poi tornarono ad assidersi sopra gli antichi fondamenti come se mai fossero state smosse[2]. Sacrifichiamo pertanto un giovenco alla Fortuna, e una pecora alla Sapienza.—Addio, Olimpio, buona notte. Il mio saluto non suona strepitoso quanto quello del birro; il mio è più placido, ma più sicuro. Dormi in pace, Olimpio; ancora io ho sonno: io ti auguro un riposo uguale a quello dell'uomo innocente—uguale al mio.—»

Dei quattro masnadieri compagni di Olimpio tre rimasero morti sul luogo; il quarto, malamente ferito, nel trasportarlo allo spedale spirò per la strada. Il Duca anch'egli rilevò una palla nel braccio diritto, ma sopravvisse. Dopo lunga procedura, dove confessò pianamente ogni particolarità del fatto, tacendo quanto concerneva il Conte Cènci, il Papa stette in dubbio se avesse a condannarlo nel capo, o alle galere. Però le raccomandazioni, che il Duca aveva in Corte potentissime, e soprattutto la moneta largamente spesa tra i famigliari del palazzo, disposero il Pontefice a considerare la gioventù del Duca, la sua vita fino a quel punto incolpevole, la causa che lo spinse a mal fare prava sì non esecranda, e il non consumato delitto; per cui ebbe commutata la pena. Quale siffatta commutazione si fosse, io trovo, non senza sorpresa, nei Consigli di Prospero Farinaccio, che lo difese.—Fu inviato ad Avignone—governatore pel Papa!

Siccome le cose strane difficilmente si acquistano fede dove non vengano manifeste le cause che le rendono ordinarie, e naturali, così i ricordi dei tempi raccontano come Papa Clemente fosse condotto ad abbracciare simile partito dalla solenne avarizia che lo dominava, imperciocchè non assegnò stipendio di sorta alcuna al Duca; anzi lo aggravò di tante spese oltre a quella di sostenere la carica con la splendidezza conveniente a gentiluomo romano, che tra per queste e tra il danaro impiegato per liberarlo dalla condanna, la nobilissima casa D'Altemps ne sentì scapito tale, che indi in poi non si è più mai riavuta.

NOTE

[1] Nel secolo XVI era fra il popolo più familiare l'Ariosto che il Tasso. Montaigne nel suo Viaggio in Italia racconta avere udito, passando per le strade maestre, i contadini nei campi, che cantavano l'Orlando Furioso. Il partito clericale adoperò il Tasso contro lo Ariosto come l'acqua benedetta contro il diavolo; s'ingegnò parimente contro il Dante, e per un tempo vi giunse; nebbia che copre la montagna per un giorno, e passa. Vedi Lettere del Bettinelli, gesuita, contro Dante.

[2] Mémoires de MARTIN DU BELLAY, l. 2. f. 86. cit. da MONTAIGNE.

CAPITOLO XIV.

MONSIGNORE GUIDO GUERRA.

                    ……… Quello amico
                    Non chiama. Invoca un Dio, che l'abbandona
                    E la condanna a disperarsi. È desta,
                    E delira.

ANFOSSI, Beatrice Cènci.

Pallida, pallida, bianco vestita con una lampada nelle mani, Beatrice rassembra una vestale compagna di Eloisa, che muova per la notte sotto le volte del Paracleto a piangere sul sepolcro dell'amica defunta;—ella rade la terra con passi presti e fugaci come quelli della felicità nelle dimore dei figliuoli di Adamo.

Depone la lampada sul pavimento, apre guardinga una porta, si guarda sospettosa dintorno, e si slancia nel giardino.

Dove va a questa ora Beatrice Cènci, l'animosa fanciulla? Forse a vagheggiare il volume dei cieli, dove Dio ha scritto la sua gloria in caratteri di stelle?[1] Il cielo è ingombro di nuvoli neri, e l'aria mormora inquieta agitata dallo incubo della tempesta.—Fors'ella scende per non perdere alcuna delle meste note di cui l'usignòlo empie i silenzii della notte? Ma i tuoni squarciano i fianchi dello emisfero, e spaventano tutti gli animali che si stringono paurosi nelle caverne, o si appiattano sotto le fronde della foresta. La invoglia forse desìo del mormorare delle acque, che per la notte sembra un pianto arcano sopra le miserie degli uomini,—ora soltanto felici—ora perchè in balìa del sonno fratello della morte? Ma le acque flagellate dalla sferza del vento si arricciano come le vipere della testa di Medusa. Il riso della primavera, ch'è l'anima dei fiori, andò a rallegrare quella parte di mondo dove lo invita la gioventù dell'anno. L'autunno qui dona ai primi aliti gelati le sue foglie inaridite e gialle,—simile al vecchio avaro il quale sul letto di morte, tardamente liberale, spartisce il suo retaggio ai parenti accorsi all'odore del sepolcro—belve affamate, che divorano brontolando.

Ella viene, misera! in traccia di un astro, che la guidi per tenebre più buie del cielo di questa notte infernale. Ella viene a cercare un fiore caduto dai giardini celesti nell'anima umana—la speranza. Fiore troppo spesso appassito nel calice, prima che dalle aperte foglie mandi profumo:—fiore troppo spesso roso dal verme sopra lo stelo, sicchè colto appena lascia cadere tutte le sue foglie ludibrio dei venti, mostrando su la nuda corolla una goccia di rugiada infeconda,—lacrima di amarezza pianta dal disinganno. E perchè esiterò io a traccia di un fidato amatore.

E come, e quando ella sentiva amore? In qual modo l'amore potè mettere radice in cotesta anima desolata?—Sopra una roccia di granito incognita ad orma mortale, dove lo smergo si sofferma talvolta a riposare le ali, lieta e gentile io vidi ondulare la viola alla brezza del mattino. Chi portò lassù quel pugno di terra vegetale onde ricavasse nutrimento il fiore pudico? La Provvidenza;—che non volle creare deserto senza una fontana, alpe senza fiore, sventura senza conforto di consolazione.

Ed il suo amore era degno di lei. Monsignore Guido Guerra, secondo che ci vengono narrando le storie dei tempi, nato d'illustre lignaggio, fu grande e bello e di gentile aspetto; e, come Beatrice, di bionda chioma e di occhi azzurri. I costumi allora, io non saprei dire se più sciolti o meno ipocriti dei nostri, non si adontavano grandemente di prelati vaghi delle cose di arme, o di amore. Sovente i grandi dignitarii della Chiesa spogliavano l'abito clericale; le case delle amanti scalavano: cappa e spada vestivano; si trovavano nelle battaglie ad armeggiare; davano, o ricevevano di buone stoccate. I concilii non approvavano, anzi da tempo rimotissimo riprendevano acremente coteste pratiche; ma il costume vinceva i concilii. Il coadiutore dello Arcivescovo di Parigi de' Gondi, che fu poi cardinale di Retz, travestito da cavaliere si condusse notte tempo a visitare Anna di Austria reggente di Francia, e in pieno giorno comparve in corte con la daga sotto il roccetto; pel quale successo cotesta arme indi in poi acquistò il nome di breviario di monsignor coadiutore[2].

Però Beatrice, purissima donzella, avrebbe rifuggito da qualunque amore il quale non fosse stato laudabile in tutto; e sappiamo come cosa certa, che sebbene monsignore Guido Guerra usasse abito prelatizio, non fosse però vincolato con la Chiesa mediante voti, ed ordini sacri; sicchè spogliando la mantellina egli poteva condurre sposa quando meglio gli fosse piaciuto: possedè copia non mediocre di beni, e rimase unico figlio di madre vedova. Le storie ce lo dicono ancora fornito di sottile intendimento; destro a qualsivoglia opera avesse tolto ad imprendere, cultore delle buone discipline, e tanto avventuroso, che non aveva mai meditato disegno, che non gli fosse riuscito di portare a felice compimento. La fortuna parve volesse riunire sopra di lui, in due tempi separati, tutto il bene e tutto il male che per lei possa farsi, e ch'ella sperpera ordinariamente sopra molti capi di uomini con infinite, e continue alternative. La signora Lucrezia Petroni, consapevole di cotesto affetto, lo aveva favorito con ogni studio per la pietà grande che sentiva verso la fanciulla, la quale desiderava salvare dalle persecuzioni oscenamente feroci del padre, e vederla felice.

Nei brevi intervalli che don Francesco si allontanava pei suoi negozii da casa o da Roma, Guido, avvertito da messi fedeli, saliva tosto in palazzo, e visitate le donne, come meglio poteva le consolava. Quantunque avesse data, con giuramento, fede di sposo a Beatrice, pure godendo la grazia del Papa, e conoscendolo d'indole severa, e desideroso ch'ei non lasciasse lo stato ecclesiastico, dove gli prometteva amplissime promozioni, andava così trattenendosi accortamente di giorno in giorno, cercando il destro di scuoprire l'animo suo al Pontefice senza inimicarselo, e riportare l'approvazione di quello. Ma don Francesco dalle sue spie, fu informato dei disegni di monsignore Guerra, o forse gli sospettò soltanto; e questo gli bastò per ammonirlo, che cessasse da visitare la sua famiglia e deponesse ogni pensiero su Beatrice, se gli era cara la vita. Il nome del Conte Cènci dissuadeva i più audaci da accattare briga con lui, e chiunque avesse avuto inimicizia con esso non si sarebbe reputato sicuro neanche nel letto; ma è da credersi che monsignore Guido avrebbe sfidato le sue minacce, se la fama della fanciulla amata, che ad ogni caldo amatore deve tornare sopra tutte cose carissima, non lo avesse trattenuto da muovere scandalo: però la vedeva rado, ed alle accese voglie davano i male arrivati amanti scarso refrigerio di lettere, che, come avverte il Pope,

Trasportano un sospir dall'Indo al polo[3].

Chi, di voi che leggete, non ha, almeno una volta durante la sua vita, ricevuto simili lettere? Vi ricordate come le toccaste tremanti, come le spiegaste tremanti, e come impazienti d'indugio tentaste leggerle allo incerto albore del crepuscolo, o al fievole raggio della luna crescente? Vi rammentate come vi battessero le tempie, tintinnassero le orecchie, e per gli occhi vi girassero globi di atomi infuocati? Vi rammentate come con un baleno del guardo le percorrevate tutte, e poi rileggendole a bello agio parola per parola, riscontravate in molto tempo quello che avevate compreso in un attimo solo? Baciate e ribaciate ce le riponevamo in seno, rimedio di zolfo allo ardore che ci divorava; così lo incauto fanciullo Spartano, per nascondere la volpe se la riponeva nel seno.

Era a questo termine ridotta la condizione degli amanti, quando certa sera monsignore Guerra travestito passava sotto le finestre del palazzo Cènci: egli procedeva a testa alta, cercando scuoprire nella camera di Beatrice un lume, che gli sarà desiato più del faro al nocchiero nella notte di procella. Mentre si accosta all'arco dei Cènci, donde per mezzo della cordonata si arriva alla chiesa di san Tommaso, ecco che sente investirsi di fianco da un uomo che corre. Stette per rimanerne rovesciato; ma raffermatosi su le gambe afferrò il sopraggiunto pel collo, minacciandolo con voce sdegnosa. L'altro, appena parve riconoscerlo, disse:

—Zitto, per amore di Dio. Prendete questa lettera: vi viene da parte di donna Beatrice;—e svincolandosi da lui fuggì via.

Guido, diventato incauto per soverchia passione, si guardò attorno per iscorgere un lume, che in cotesta ansietà lo sovvenisse. In fondo all'arco, al termine della cordonata, gli occorse una lampada che ardeva davanti la immagine della Madonna. Senz'altro pensare colà si avvia, apre il foglio, e appena conosce i caratteri dell'amata donzella, tanto comparivano vergati con mano tremante. Lo scritto breve supplicava: per quanto amore portava a Dio, in quella stessa notte procurasse all'un'ora penetrare nel giardino, e l'attendesse nel boschetto degli allori. Se voleva non saperla morta, non mancasse.

Guardingo ripose la lettera, e si allontanò. Recatosi a casa tolse la spada, e una scala uncinata, e quando gli parve tempo opportuno uscì solo: pervenne sotto al recinto del giardino dei Cènci, lo scavalcò, ed attese celato nel luogo del convegno.

Di tratto in tratto Guido, tese le orecchie, credeva intendere stormire le fronde del bosco; muoveva un passo fuori del nascondiglio, girava gli occhi intorno, e non vedendo comparire persona si ritirava con un sospiro. L'ora indicata passò. Oh Dio! La sciagura, accennata misteriosamente nella lettera, sarebbe ormai senza rimedio accaduta? Sentì mancarsi, e si appoggiò a un albero vacillando.

Ma una voce lo riscosse: «Guido!—Beatrice!» La donzella stringe tremante la mano del suo amatore, che tremava come foglia sbattuta del lauro a cui si appoggiava; di repente Beatrice, come percossa da cosa che le mettesse incomportabile paura, dimentica del verginale ritegno gli si avvinghia alla vita, e sì favella a modo di delirante:

—Guido, amor mio, salvami.—Guido, conducimi via—subito—senza frapporre un minuto di tempo… qui il terreno mi brucia i piedi,… l'aria che respiro è veleno… Guido… andiamo.

—Beatrice!…

—Non parole… partiamo, ti scongiuro, prima che cessi il battere di occhio della occasione.—Se non mi vuoi sposa, non importa… mi riporrai dentro un convento… qualunque… anche in quello delle Clarisse, dove si mura la porta dietro alla votata;… ma salvami, ti comando, da questo luogo maledetto…

—Oh Dio, diletta mia, che cosa è mai questo furore?—Le carni ti scottano come per febbre.

—Qui… qui dentro ho la morte. Toglimi alla disperazione… alla dannazione eterna… Che cosa ho io? Immagina delitti, che fanno impallidire uomini di sangue… delitti, che drizzano i capelli sopra la fronte ai parricidi… che stringono le ossa di ghiaccio,—che fanno battere i denti come pel ribrezzo della quartana,—che impediscono il varco alla voce, e impietrano le lacrime:—immagina tutti i delitti, che la favola racconta della famiglia degli Atridi… che fanno balzare l'Eterno sopra il suo trono immortale, e stendere le mani al fulmine… che avvampano di vergogna le gote dello stesso demonio… immagina… immagina ancora… tu non troverai le infamie, che si tramano e si compiono in Roma—qui—dentro il palazzo dei Conti Cènci.

—Tu mi empi di terrore… ma parla… ma dimmi…

—E potrei dirle io, e tu ascoltarle? Se io le palesassi, tu vedresti il mio rossore rompere il buio della notte che ne circonda… io morirei di vergogna ai tuoi piedi. Ti basti saperne questo, che io vergine e gentil donzella romana… io dai cui labbri non uscì parola che vereconda non fosse,—io che non concepii pensiero il quale non potesse confidarsi all'Angiolo Custode… torrei vivere piuttosto la vita infame della cortigiana, che rimanere più oltre un'ora, un minuto dentro queste soglie, traboccanti della ira di Dio.—Misteri di orrore che non devono rivelarsi, nè possono.—

—Ma dove potrai venire meco così? Come farai a salire, ingombra dalle vesti? Aspetta a domani…

—Domani! Ahi sciagurato! forse è già tardi adesso.—Io non ti lascio… a te mi attacco come tanaglia infuocata… Via… via… corri, chè io ti tengo dietro.

—Sia dunque come vuoi; andiamo con lo aiuto di Dio…

—Insalutato il padrone di casa?—Questa non è cortesia… gridò una voce beffarda, e al tempo stesso un gran colpo di scure venne abbrivato contro la persona di Guido. Per buona ventura lui non colse, chè lo avrebbe fesso pel mezzo; ma dette in pieno nel tronco dello alloro presso il quale si trattenevano gli amanti, e lo recise non altrimenti che un giunco si fosse; rovinò il legno, e cadendo percosse, e disgiunse le mani per cui Guido e Beatrice stavano uniti.—Infausto auspicio di amore sventurato!

Guido fieramente commosso, non atterrito, errava tentoni per l'aere nero in traccia della mano di Beatrice, quando un fiero urto lo sospinse per molti passi lontano, e ad un punto un uomo gli fu sopra dicendogli con voce sommessa:

—Sconsigliato! fuggite, o siete morto. Io v'inseguirò per salvarvi—e poi a voce alta—Ah! traditore, non iscamperai… a te… to' quest'altra botta…

Per tutto il giardino confusi al fragore del vento si udivano gridi di contumelia, e terribili minacce. La voce stridula del Conte Cènci, come l'uccello di sinistro augurio, strillava continua:

—Carne!… carne!… scannatelo come un cane…

Guido correva stordito dal fiero caso: però, vergognando a un tratto di avere lasciato sola Beatrice esposta alla rabbia del terribile genitore, sebbene improvvido del come poterla aiutare, si ferma, volta di repente la faccia, e mette mano alla spada; ma prima che l'avesse potuta cavare lo raggiunge il persecutore, e gli dice:

—A che state? Per dio, perchè non fuggite?

—E la donzella?…

—Vi è chi veglia sopra di lei. Via—presto—voi non potete salvare lei, e perdete voi.—E lo spinse contro la scala, che gli tenne ferma onde fosse più destro a salire; poi menò un colpo così violento di daga nel muro, che la lama si ruppe in minutissime schegge mandando faville; aggiungendo urli, e sacramenti da far tremare le volte del cielo.

Ranchettando smanioso sopraggiunge don Francesco, e domanda:

—Dov'è l'ammazzato? Lumi, qua, lumi—che io possa vedergli le ferite;—lume, che io possa strappargli il cuore dal petto e sbatterglielo nel viso: dov'è l'ammazzato?

—Egli è fuggito—rispose dolente Marzio.

—Come fuggito! Non è vero; egli ha da essere qui… egli deve essere scannato. Fuggito! Ah! cani traditori… voi lo avete lasciato fuggire. Di chi mai fidarci? La mano destra fa da Giuda alla sinistra… e di te, Marzio,… di te da gran tempo sospetto… badati… chè i miei sospetti si traducono in punte di ferro…—Appena questa parola era volata, il Conte conobbe quanto incautamente l'avesse profferita; si morse le labbra per castigarle di averla lasciata fuggire, e ingegnandosi subito di ripararne gli effetti, con voce più mite soggiunse:—Marzio, tu da un pezzo in qua mi riesci meno diligente a servirmi: io non ti tengo:—quantunque se tu mi venissi a mancare mi parrebbe far senza una mano, pure amo meglio perderti, che provarti servo poco attento e poco fedele.

Parola detta, e sasso lanciato non tornano mai indietro. I rabeschi sul fodero e le cisellature sopra la impugnatura non rendono meno tagliente il filo del pugnale. La parola del Cènci si era immersa nel cuore di Marzio come pietra nell'acqua; ma la superficie turbata appena, ritornò piana, ed egli rispose in suono di lamento:

—Dite piuttosto, Eccellenza, che vi ha preso fastidio di me. Questa è la sorte comune dei servi. Non vi è inchiostro che valga a scrivere durevolmente nel cuore dei padroni la lunga, e fedele servitù. Per una volta che la fortuna ti tradisca, ecco là la ingratitudine che con la spugna cancella ogni cosa: pazienza!… domani mi torrò la vostra livrea.

Corre un proverbio trito che dice, che in pellicceria non vi sono altro che pelli di volpe, e dice bene; imperciocchè gli uomini presuntuosi confidino troppo nello ingegno, nella forza, o nella fortuna loro; onde avviene che spesso, quando meno e da cui meno se lo aspettano, si lascino avviluppare. Cesare non dubitò di Bruto, e fu spento. Enrico di Guisa credeva che Enrico Valesio non avrebbe ardito, nonchè ammazzarlo, guardarlo, e lo ammazzò. Il Cènci ebbe fede avere ingannato Marzio, e Marzio, come vedremo, ingannò lui.

—Marzio… che cosa sono le parole pronunziate nella ira? Vento che passa. Io ti tengo pel più leale servitore che io mi abbia, e adesso intendo provartelo.

Il Conte, accompagnato dai famigli che portavano torcie di bitume, si dava a cercare Beatrice, e in breve, gli venne ritrovata; dacchè percossa dall'accaduto si era rimasta immobile. Appena ei la vide riarse in lui il bestiale furore; onde abbrancatala forte nelle braccia, e squassandola rabbiosissimamente, incominciò a dirle con amaro sarcasmo:

—E tu se' la pudica, cui le parole di amore e di voluttà suonano incomprensibili come voci di lingua ignorata? E tu la casta, che custodisci il giglio che deve accrescere le glorie del paradiso? Svergognata!… ribalda!… tu accoglitrice di segreti amanti… provocatrice tu d'infami piaceri… non cercata ricerchi.—Dimmi, chi era costui col quale ti mescevi poco anzi in osceni abbracciamenti?

Beatrice lo guardava e taceva. Il vecchio, inviperito da cotesta calma, ed era stupidità, replicava urlando:

—Dimmelo, se non vuoi che io ti scanni;—ma persistendo Beatrice nel silenzio, colui preso da rabbia le caccia le mani entro i bei capelli, e glieli straccia a ciocca a ciocca; nè qui restando, imperversava a dirle vituperio quale mai non fu detto a rea femmina, e con isconce percosse pestarla pel seno, pel collo e per la faccia. Oh! per pietà volgiamo altrove lo sguardo; imperciocchè chi, senza fremito, potrebbe vedere la fronte dilicata e le guance solcate da profonde graffiature, e gli occhi divini gonfi di nere ecchimosi, e dal naso ammaccato scendere su i cari labbri un rivo di sangue, e miste col sangue insinuarlesi in bocca le lacrime? La rovesciò sul terreno, la strascinò per le chiome, e di tratto in tratto si riposava da quello strazio per cominciarne un altro—per conculcarla, ed essa sempre tacque; solo una volta le uscì dal profondo del petto una parola, e fu questa:

—È fatale!

—Sgombrate tutti di qua—ordinava il Conte ai famigli;—tu, Marzio, rimanti… Senti! aveva divisato darti in custodia costei, in prova della fede che in te ripongo… ma sarà meglio la guardi io stesso, onde ella non ti affascini… Tu va su nel mio studio; nel banco, nella prima cantera a mano destra, troverai un mazzo di chiavi; prendile, e portamele… Affrettati… va… e non se' tornato ancora?

Marzio, costretto a rimanere spettatore dolente dello iniquo caso, andò, e tornò in un baleno con le chiavi: egli rialza la donzella, e, interponendosi fra lei e il padre, finge spingerla aspramente davanti a se dentro i sotterranei.

Aveva Marzio lasciato di alcuno spazio lontano Francesco Cènci, quando un doloroso guaìto gli giunse agli orecchi, che lamentava:

—Morire così… senza pane, e senza sacramenti. Ah Conte traditore!…

Marzio conobbe come altri misteri di delitto rinchiudessero cotesti sotterranei oltre quelli che contemplava, e drizzò il volto dalla parte donde veniva la voce; ma Francesco Cènci sopraggiunge ansante in quel momento, e lancia contro il servo temuto uno sguardo pieno di bile e di sangue;—sprillo di veleno uguale a quello che getta il rospo inacerbito.

—Hai tu inteso un lamento?—interrogò il Conte.

—Lamento!

—Sì, come di anima in pena…

—Mi è parso… cigolìo di vento, che fa molinello in questi sotterranei…

—No… no… sono lamenti… perchè qui dentro tenne prigione il mio avo un suo nemico, e ve lo fece morire di fame. Indi in poi è voce, che nei sotterranei si veggano spettri; ed io ci credo…

—Domine aiutami! Io per me non entrerei qua dentro nè anche con l'Agnus Dei in tasca.

—E tu faresti bene. Apri quell'uscio, là… a destra… il terzo… cotesto… va bene.

—Marzio lo aperse, e il Conte vi cacciò dentro Beatrice con una impetuosissima spinta.

—Va' maledetta, tu proverai adesso di che sappia il pane della penitenza, e l'acqua del dolore.

Beatrice spinta dall'urto precipitò sul pavimento; nè tanto potè la misera aiutarsi con le braccia, che non desse con la bocca sopra un sasso sporgente, facendosi nuova ferita su le labbra: vinta dallo spasimo, svenne. Quando l'anima della desolata tornò agli uffici consueti della vita si alzò da terra; si trovò sola, in mezzo alle tenebre; onde sostenendo il corpo alla parete, meditò:

—Fatale! fatale! Dio mi ha abbandonata. Vivente alcuno non ardisce, o può aitarmi;—alcuno. Il destino mi rovina addosso come la volta di San Pietro. Oh! troppo vento adunato per rompere una canna; e poichè tuoi sono, o Signore, i furori della tempesta, non mi condannerai se al suo impeto io mi sono prostrata.—Guido… ahimè! anch'egli adesso sarà morto di certo… adesso ragionerà di me con Virgilio… ed entrambi mi aspettano. Deh! Guido, non m'incolpare della tua morte… ora, che senza vergogna io posso parlarti,—io ti chiarirò quanto immenso, quanto infinito fosse l'amore mio per te. Ma perchè, Dio ti perdoni, Guido, hai voluto unire il tuo destino al mio? Non ti aveva detto che i miei giorni scorrevano come acque di desolazione, le quali ovunque si spandano portano la morte? Non te lo aveva detto?… puoi negarlo? Oh! perchè io sono viva? E non posso morire? Dicono che noi non ci possiamo distruggere! No? L'anima deve sentire, soffrire, e non volere. Le generazioni umane hanno da essere onde, spinte dalla mano del destino a cuoprire e a scuoprire le rive del mondo senza volerlo, senza nè anche saperlo. Ed io sopporterei queste sorti, se non mi conoscessi seme di sventura nato a crescere in messe di pianto a tutti coloro che mi amano… Ecco, i miei anni si dilatano come i rami dell'albero maligno, che uccide lo sciagurato il quale si riposa alla sua ombra[4]. È carità sradicarmi pianta maledetta da questa terra, spegnermi torcia accesa nello inferno, che si consuma consumando… di cui ogni goccia infuocata suscita uno incendio? Ma l'anima!—E che? Dio vorrà tenerla a bersaglio del suo furore in questa vita e nell'altra? Dio, di misericordia per tutti, si ostinerà soltanto ad essermi persecutore finchè dura la eternità? E quando dovessi soffrire i tormenti dei dannati… supereranno forse quelli che io patisco in questa vita? Nello inferno almeno non sarò avvilita… dannata, non farò dannare altrui. Signore, io non ti accuso. Tu ponesti sopra le spalle del tuo figliuolo una croce di legno, ed egli vi cadde sotto tre volte; sopra le mie tu l'aggravasti di piombo… io non ho forza per sopportarla, e la getto per terra.—Abbia chi vuole quest'anima desolata… il patto della mia vita è troppo duro, ed io lo rompo.—

Così favellando, un desiderio inenarrabile di distruggersi le invase la mente; deliberata, con la morte dipinta sopra la faccia, l'anima traboccante di fredda disperazione si slancia di piena corsa contro il muro, e vi percuote la testa… Ahimè!—vacilla, apre le braccia, e cade irrigidita a piè della muraglia.

NOTE

  [1] Il mondo è libro dove il senno eterno
      Scrisse i proprii concetti
….
                                Fra TOMMASO CAMPANELLA.

Poesie scritte da lui durante la ventisettenne sua prigionia.

[2] È cosa universalmente nota, come i chierici nei tempi feudali fossero guerrieri. Carlo Magno avendo osservato che un vescovo, novellamente eletto da lui, invece di farsi accostare il destriero al muricciòlo, vi saltò sopra di un lancio così abbrivato, che per poco non cadde dall'altra parte, lo ritenne per suo compagno di arme. Le orazioni dei vescovi per ordinario finivano così: «fu buon chierico, e prode uomo di arme». In Allemagna furono deposti parecchi vescovi perchè poco valorosi. Il Vescovo di Ratisbona, combattendo per lo imperatore Ludovico il Bavaro contro gli Ungheresi, n'ebbe mozzo uno orecchio. Alla battaglia di Hastings, dalla parte dei Normanni, il Vescovo di Bayeux, fratellastro di Guglielmo il bastardo, dopo avere celebrato la messa allo esercito montò sopra un gran corsiero di guerra, e si mise alla testa della sua banda: dalla parte dei Sassoni combatterono l'Abbate d'Hida con dodici monaci, e vi rimasero tutti morti. Riccardo Cuor-di-leone guerreggiando contro Filippo re di Francia fece prigioniero il Vescovo di Beauvais della casa di Dreux. Il Papa avendolo reclamato come suo figliuolo, ricevè un giorno per parte di Riccardo la corazza del vescovo intrisa di sangue, con le parole dei figli di Giacobbe al padre: «guarda se questa è la vesta del tuo figliuolo». Non si finirebbe più con simili esempii. Nei tempi prossimi alla nostra storia il terribile Cardinale di Richelieu, vestito da cavaliere, andava a visitare la cortigiana Marion Delorme, e conduceva in persona l'assedio della Roccella contro gli Ugonotti. Il suo successore Cardinale Mazzarino, travestito parimente da cavaliere, recavasi notte tempo nelle stanze di Anna di Austria madre del re. Del Cardinale di Retz non importa parlare, dacchè ci rimangono le sue memorie per informarci dei suoi detti, e gesti. In Italia, circa a questi tempi, ebbe qualche celebrità Napoleone Orsini abate di Farfa, condottiero di ventura, che, dopo avere militato pei Fiorentini contro il Papa, tornato in grazia di questo, fu contro Firenze per sottoporla al giogo dei Medici.

[3] POPE, Lettera di Eloisa ad Abelardo—Il verso citato è tolto dalla versione italiana, fatta con assai bel garbo in terza rima dallo abate Conti.

[4] L'Upas di Giava, pianta che cresce nelle solitudini, e rara. I giavanesi n'estraggono il famoso upas tiente, col quale avvelenano di mortalissimo tossico le loro frecce. Le altre qualità attribuite a questo albero, come quella di far morire chi si addormenta alla sua ombra, alcuni naturalisti ritengono per favolose. Avvi un altro albero, che i francesi chiamano Mancinelliero, e noi Mancinella, a cui si attribuiscono le medesime qualità dell'Upas, credute dei pari esagerate. Eppure anche fra i nostri alberi se ne annoverano alcuni dei quali l'ombra è certamente funesta, come, per esempio, il noce.—DARWIN, Amori delle Piante.

CAPITOLO XV.

L'AMMAZZATA DI VITTANA.

«Vendetta ampia ed intera, che, simile al fuoco, distrugga tutto come in quel giorno in cui il mare morto agghiacciò le ceneri di due città».

BYRON, Marino Faliero.

Sarebbe pure stata pietà accogliere cotesta anima dolente, la quale, dopo il breve pellegrinaggio di sedici anni sopra la terra, non trovava altro asilo fuorchè nella ombra della morte! A Dio piacque altrimenti. Il volume delle chiome copiosissime ammortendo il colpo, impedì che riuscisse mortale. Quante ore nel miserrìmo stato ella durasse, male sapremmo dire: quando risensò si pose a stento a sedere là dove era caduta appoggiando le spalle al muro, immemore del luogo e del come vi fosse stata condotta. Con le mani si comprimeva dolcemente il capo e la bocca che le dolevano forte, e non sapeva il perchè. Ode profferire il suo nome; tende ansiosa le orecchie, e la chiamata si rinnuova: allora ricordò il racconto di Virgilio, quando gli parve che lo chiamasse sua madre; e la voce, che adesso ascoltava, aveva in se un suono misto di quella del fratello, e della materna. Tenne che per intercessione loro la misericordia divina l'avesse fatta salva dalla eterna dannazione, e consolata in questa idea si levò in piedi esultante; e, battendo palma a palma, con sentimento ineffabile di gioia esclamò:

—Gran mercè, Madre mia; gran mercè, Virgilio, amor mio: comparitemi davanti, via!… che io vi vegga!… Apritemi le braccia… io vi terrò stretti con amplesso eterno. Guido mio perchè non è con voi? Com'è morto giovane! Ma se viene qui con voi… con me, che sono sua sposa, non gli dorrà essere morto; ed io adesso potrò baciarlo. È vero, Madre, potrò baciarlo, anche al cospetto vostro, perchè è mio sposo?

Ma la voce facendosi sempre più prossima insisteva:

—Signora Beatrice… su, scuotetevi… non vi perdete di animo… O
Signora Beatrice, coraggio, sono io… è Marzio che vi chiama.

—Marzio! Questo nel mondo di là era il nome di certo fante, che mi voleva bene… egli fu, che voleva rompere il capo al Conte Cènci il giorno del convito… era delitto… ma la pietà di me lo aveva vinto:—preghiamo tutti Dio che lo perdoni; metta piuttosto il peccato sul conto mio, e lo faccia scontare a me nel purgatorio.

—Oh fanciulla mia! io temo, sì, che Dio mi castighi, ma per non averlo levato dal mondo.

—E adesso Marzio che fa? È morto egli pure? La fatalità, che usciva da me, provò ancora egli come fosse contagiosa? Ha imparato, misero, come ferisse mortale la jettatura dei miei occhi?

—Signora Beatrice non vaneggiate, per amore di Dio… tornate in voi stessa… aiutatevi… venite qua… udite… lo scellerato vecchio… il Conte Cènci, adesso dorme… volete voi che non si svegli più?

—Che parlate, Marzio? Io non ho compreso bene… qui nel capo ho come una nebbia…

—Colui, che vi generò per tormentarvi—quegli, che si dice vostro padre… quegli, che vivendo vi farà morire… volete voi che muoia… stanotte… fra cinque minuti?—La sua vita sta nel taglio del mio coltello.

—No, no—proruppe Beatrice, recuperando di subito la pienezza del suo intelletto—Marzio… guardatevene, per lo amore di Dio… io vi odierei… io vi accuserei. Viva, e si penta… egli si pentirà un giorno—forse.

—Pentirsi! Si sono mai veduti lupi a confessione? Io ve l'ho detto; egli vivrà, e voi morrete.

—Che importa? Non aveva forse io tentato morire? Quanto è grande dolore tornare a vivere! Marzio… mio fedele,—io non ho più lena… io vorrei dissetarmi nella morte. Hai tu mai sentito raccontare dei nostri antichi, i quali si tenevano attorno qualche amico o servo sviscerato, onde se la necessità imponesse uscire da questo mondo, con pietosa ferita gli uccidessero? Marzio,—io non chiedo tanto da te… portami solo un sugo di erba che abbia virtù di chiudere gli occhi ad una pace, che non ho mai goduto in vita.

—No, per l'anima santa di Anna Riparella; se io basto, vivrete. Sciagurata fanciulla! non vi lasciate cogliere dalla disperazione. In breve tornerò da voi; adesso mi è forza andare dal vostro orribile genitore… s'egli si svegliasse e noi sorprendesse, non vi sarebbe più luogo a scampo.—E si allontanava piangente, tanta pietà lo vinse vedendo il misero stato in cui si trovava ridotta Beatrice.—Tutto assorto in cotesto pensiero stava per uscire dai sotterranei, quando gli risovvenne del lamento udito nella notte decorsa; rifece prestamente i passi, ma non udì più nulla: allora prese a percuotere lieve lieve gli usci che gli si paravano davanti, ed ecco ad un tratto ricominciare il pianto più doloroso che mai.

—Ahimè! Muoio di fame—muoio di sete; così non aveva da essere… impiccato a suo tempo, andava bene; io ci aveva fatto il mio assegnamento sopra… ma confessato, e comunicato;—col cappuccino accanto… ogni cosa secondo le regole…

—Chi sei? Rispondi, e fa' presto…

—Eccellenza, oh! non lo sapete chi sono io? Apritemi, per carità, che io mi sento voglia di mangiarmi le mani…

—Rispondi breve, ti dico, o che io ti lascio.

—Sono un uomo che ha conto aperto con la giustizia; ma in verità per bazzecole… nel rimanente bandito onorato, e soprattutto fedele: mi chiamo Olimpio. Qui mi ha chiuso il Conte Cènci; da due giorni, credo, perchè qui non vedo quando sorge, nè quando tramonta il sole; promise tornare, e lo aspetto ancora. Deh! se tu sei cristiano battezzato dammi un po' d'acqua… un po' di pane… un po' di lume… in carità.

—Orribile! Far morire un cristiano di fame, e senza sacramenti! L'anima di cotesto scellerato è come l'inferno, di cui non si trova mai il fondo. Olimpio, per ora non posso aiutarti: abbi pazienza, presto tornerò per te; adesso mi manca la chiave.

—E voi chi siete?

—Sono Marzio.

—Tu sei venuto a godere della mia agonìa?

—Io non ho mai tradito nessuno; sta' di buon animo… addio.

—Una volta fra noi non ci tradivamo. Aspetterò… spererò… soffrirò in silenzio; ma deh! Marzio, torna presto se vuoi trovarmi vivo… ho fame… ho freddo… la sete mi consuma.

Il sangue acceso dalla ira, e il moto violento avevano gonfiato al Conte Cènci la gamba offesa per modo, che non poteva muoversi da giacere. Aveva chiuso gli occhi a torbido sonno; quando si svegliò si provava ad alzarsi, ma la doglia acerbissima non glielo concesse. Digrignava i denti per rabbia, e fra le bestemmie esclamava: e' mi bisognerà fidarmi di cotesto traditore! Allora chiamò Marzio, e questi accorse pronto e taciturno.

—Marzio, vedi se di te mi fido; prendi la chiave del carcere di
Beatrice, e portale pane e acqua….

—Altro?

—No… Marzio; mettiti addosso qualche santa medaglia per cacciare via gli spiriti, se mai ti apparissero. Dove qualche voce ti giungesse all'orecchio, non la badare; coteste sono illusioni del demonio: soprattutto scansa i sotterranei a mano manca … lì moriva di fame il nemico di mio nonno….

—Eccellenza, perchè non andiamo insieme?

—Non vedi, morte di Dio! che non posso muovermi?

—Se vostra figlia fosse ferita l'ho da medicare?

—No. Ma la credi ferita?

—Mi sembra, e la sua bellezza potrebbe rimanerne guasta.

—Io no voglio, per ora, che perda la sua bellezza; più tardi. Costà nell'armario vi è balsamo e terra sigillata[1]; se farà bisogno la medicherai.

Marzio s'impadronì destramente delle altre chiavi, chè quella del carcere di Beatrice aveva sottratto mentre il Conte dormiva, e ritornò nel sotterraneo.

—Signora Beatrice, tostochè la vide Marzio disse amaramente, ecco i doni che vi manda vostro padre; e levata la lanterna contemplò quella angelica sembianza insanguinata. Compresse un ruggito di sdegno, e quanto seppe meglio amorevole soggiunse:—venite qua—permettete che vi lavi il volto … vi faccio male?—Intanto le andava astergendo le ferite, le medicava con la terra sigillata, e gliele fasciava. Ahi! Dio, di tratto in tratto ripeteva, vedi tu queste empietà? E se le vedi, come puoi patirle?

Compita l'opera, Marzio riprese a dire:

—Fanciulla mia, eccovi i doni che vi manda colui, che chiamate vostro padre—pane ed acqua; io, contro il suo espresso divieto, vi ho aggiunto altri cibi; ma io davvero non so confortarvi a prolungare una vita, che supera ogni più crudele supplizio;—e quello che maggiormente mi trapassa il cuore è, che da ora in poi io non potrò giovarvi più in nulla, perchè—e qui la voce gli diventava fioca—oggi ho deliberato lasciare casa vostra.

—Beatrice declinò il capo come persona tanto sazia di affanno, che ormai, se sente, non sa più lagnarsi dello strale di nuovi dolori.

—Guido è morto, e tu mi abbandoni?

—E chi vi ha detto, che monsignor Guido sia morto?

—Vivrebbe forse?

—Vive, e sano e salvo.

Beatrice piegò la faccia sopra la spalla di Marzio; ve la tenne lungamente, poi sommessa gli disse:

—Guido vive, e tu mi abbandoni?

—Ma siete voi che abbandonate voi stessa. Sentite; io voglio confessarvi cosa, che non paleserei a mio padre se tornasse di là dai morti. Io sono entrato in casa Cènci per adempire un voto; e sapete voi qual voto? Quello di ammazzare il Conte Cènci. Le scelleraggini quotidiane di cotesto maledetto mi hanno sempre più confermato nel mio proponimento; perchè levandolo dal mondo, oltre a satisfare la mia vendetta, mi parrà acquistarne merito presso gli uomini e presso Dio. Ma poichè questo caso vi addolora, io nol commetterò sotto i vostri occhi: di più non posso fare per voi… non vi affaticate a parlare… nessuno potrebbe dissuadermi—nessuno; ciò che deve compirsi si compirà: di ferro ha ucciso, di ferro ha da morire… sono parole di Cristo.

—E come potè recarvi offesa il Conte? Quando veniste ad accomodarvi in casa, sua, io penso che voi gli eravate sconosciuto del tutto.

—Ma io conoscevo lui. Se mi avesse oltraggiato, se ferito, io avrei saputo perdonargli. Certo, gran peccatore sono; ma pure una volta ebbi cuore di cristiano. Egli mi ha ucciso l'anima, e mi ha lasciato la vita: ora io sono morto a tutto, tranne ad una cosa sola, e questa io vi ho detto. Sentite, veh! se io conosceva Francesco Cènci prima di entrare in casa sua; ciò non varrà a dimostrarvelo più iniquo, perchè in lui delitto più, delitto meno non conta; ma tratterrà forse su le vostre labbra le imprecazioni contro il suo uccisore. Io poco so di lettere; vi racconto così come mi porge il cuore, e voi potete credere a tutto come se fosse evangelo. Nacqui in Tagliacozzo; mio padre morì quando io era fanciullo, e mi lasciò selve ed armenti: mia madre cadde inferma, sicchè poco potè guardarmi. Crebbi; presto mi si misero attorno tristi compagni; mi avviluppai per ogni maniera di vizii come dentro un mantello; in breve, tra per danari rubatimi al giuoco, tra per le ingorde usure io venni al verde di ogni mia sostanza: con l'ultimo bicchiere di vino bevuto in casa mia gli amici bevvero l'oblio di me; sparirono col fumo dell'ultima vivanda; ma allo sparire di costoro comparvero altre genti, e furono i creditori; mi spogliarono di tutto, mi cacciarono di casa … spietati! di pieno giorno ebbi a caricarmi la mia povera madre sopra le spalle per trasportarla all'ospedale; i fanciulli maligni mi beffarono per la via; qualcheduno tirò sassi contro di me, e la inferma…. Iniqua stirpe è l'uomo!—Nè qui l'agonìa finisce: prima di arrivare all'ospedale mi circondano gli sbirri, mi tolgono dalle braccia la madre, la depongono in mezzo della strada, e me traggono in prigione. I creditori, non sazii di ogni mia sostanza, volevano anche bevermi il sangue:—udiva un singhiozzare soffocato… ed era mia madre che piangeva: mi voltai per consolarla, ma non la potei vedere perchè i miei occhi erano pieni di lacrime di sangue. Tentai parlare… neppure… sta bene.—

Marzio tacque alquanto; poi, asciugatosi il sudore dalla fronte, riprese:

—Ruppi la prigione, presi la macchia, mi vendicai di tutti. Al fanciullo, che gittò sassi contro mia madre, ruppi il cranio sopra una pietra; sta bene. Indi in poi segnai il calendario con la punta del mio coltello—ogni giorno fu un rigo di sangue: mi ardeva la pelle; il sangue ubbriaca peggio del vino. Dio giudicherà se io avrei potuto resistere al demonio, che prese possesso dell'anima mia; io non addurrò scusa; se merito pietà voglia perdonarmi, se no mi condanni; ma di quello che ho fatto, e dell'altro che intendo fare, io non so pentirmi… il compito che la vendetta ha posto in mano della morte non è ancora terminato; al mio rosario manca un paternostro—una testa di morto—quella del padre vostro. Nel regno faceva mal'aria per me; venni su quel della Chiesa, ed entrai nella compagnia di Marco Sciarra.

Quanto commisi da bandito non importa che voi sappiate; così non lo sapesse la Giustizia eterna! Un giorno di sabato, al tramontare del sole, seduto sopra una selce fuori le ultime piante della macchia, teneva le gomita appoggiate su l'archibugio, l'archibugio traverso alle ginocchia, e la faccia appuntellata ai pugni. Aspettava i compagni presso la quercia della Rocca Odorisi per fare le nostre preghiere della sera davanti alla immagine della Madonna attaccata alla querce, e metterci d'accordo su le faccende del domani. L'aria pareva una bocca di forno; il sole, che tramontava, aveva sembianza di un cuore insanguinato dentro un catino di sangue; i capelli lunghi mi si erano rovesciati su gli occhi; e, visti così traverso i raggi vermigli, apparivano anch'essi pieni di sangue come per certa infermità, della quale ho udito ragionare un compagno che ha dimorato un tempo nelle parti della Polonia[2]: me li tirai dietro le orecchie; invano. Tutte le cose mi si mostravano vermiglie: il cielo, i campi e gli animali; i tronchi degli alberi erano colore di rame, e le foglie, lucide di un verde smeraldo, riflettevano pure raggi di sangue: ebbi orrore di me! Fosse una itterizia di sangue!—Ho paura, mormorai; perchè sono solo? Oh avessi qui la compagnia di una creatura vivente per liberarmi dai miei terrori! In questo momento volgo attorno i torbidi sguardi, e vedo apparirmi davanti una sembianza angelica, signora Beatrice, proprio una Madonna staccata dal quadro, e venuta a rallegrare la terra… e poi… sentite… e non vi offendete, veh! meno ch'ella era un po' riarsa dal sole, e della persona di voi più poderosa assai… vi rassomigliava affatto: portava una mezzina sul capo, e veniva a prendere acqua dalla prossima sorgente. Io, senza pensarlo, mi rinvenni su le labbra il salus infirmorum delle litanie. Costei vedendomi vestito da masnadiero, ed armato, non soprastette, nè fece atto alcuno di viltà; e invero, di che cosa doveva ella temere? Contro la rapina la difendeva la povertà, contro la violenza la difendeva un cuore di Lucrezia, e lo stile attraversato alle trecce dei capelli: proseguì il cammino, e quando mi passò davanti, con voce di foglie novelle ventilate dai primi fiati di primavera, mi disse: la Beata Vergine vi consoli!—Non levai la faccia, non risposi; solo voltai gli occhi, e le tenni dietro finchè potei scorgerla. Allora, pensando al modo e al punto in cui mi era comparsa davanti, esclamai: il Signore ha pietà di te!—Ma poi, leggendo la storia dei misfatti commessi nel cielo e nella terra, che continuavano a parermi tinti di sangue, irridendo me stesso, aggiunsi: sì, certo, Cristo ha altro a fare, che prendersi cura di me.—E qui ecco la medesima voce, come lo arbusto messo dalla Provvidenza sul ciglio di una balza per salvare chi precipita, scendermi improvvisa sul cuore, ripetendo: la Vergine vi consoli!—Era la fanciulla che, attinta l'acqua, tornava a casa pel medesimo cammino. La sera successiva tornai alla Querce della Vergine, e la fanciulla venne consolandomi col solito saluto, e l'altra, e l'altra poi. Che vi dirò io più? Durare un giorno intero senza cibo sapeva, senza vederla no.—Passò un buon mese senza che nè la fanciulla nè io, per tempo ventoso o per pioggia, ci rimanessimo da convenire tutte le sere alla Querce della Madonna; e per tutto questo spazio di tempo ella a me non disse altro, che: la Vergine vi consoli! ed io a lei: Dio vi rimeriti, Annetta!—Ella aveva nome Annetta Riparella, ed era del paese di Vittana, figliuola di un pastore del contado. Certa sera, senza muovermi dalla selce dove stava seduto, con voce umile la chiamai: «Annetta, mettete giù la mezzina, se vi piace—e venite a sedervi presso a me, se non vi rincresce». Depose subito la mezzina, mi guardò fisso negli occhi, e con le sue pupille condusse le mie alla santa Immagine della Querce. Io intesi ch'ella con quel muto linguaggio volle significare: mi metto sotto la protezione della Madonna.—Allora io mi levai, la presi per mano, e, condottala davanti alla Immagine devota, le favellai così: «Annetta, dove andiamo noi?—Egli è vero, che camminiamo da un pezzo senza sapere dove dobbiamo riuscire?—La casa di mio padre abita gente straniera; su i campi, che furono miei, altri semina, ed altri miete. Di bene io nulla posso offerirti, e nulla ti offro. All'opposto, ascoltami attentamente perchè io non ti voglio ingannare: sopra la mia testa fu messa la taglia;—tutta l'acqua che hai attinto alla fontana non basterebbe a lavarmi le mani… non me le guardare, tu non vi puoi scorgere nulla; il sangue di cui vanno contaminate non possono vedere che i miei occhi, e quelli di Dio. Unendo la tua vita alla mia ti aspettano giorni di pericolo, notti di paura, tempi di patimento, e vita di vergogna. Ai figli, se mai ce ne desse la disgrazia, sai tu qual retaggio potrei lasciare io? Una camicia insanguinata. A te qual vedovile? Il nome di moglie dello impiccato.—Se do ascolto al mio cuore, vorrei che tu mi scegliessi per marito; se al mio giudizio, amerei che tu mi rifiutassi; però nè ti prego, nè ti sconsiglio: ho gittato i dadi, e accetto il tiro che mi manderà il destino: aprimi dunque schiettamente il tuo cuore, e non temere di recarmi offesa,—perchè, per questa Santa Vergine che ci ascolta, se desideri rimanere libera, io ti giuro che da questa sera innanzi tu non vedrai più la mia faccia.—«Marzio, rispose risoluta la fanciulla, conosco i vostri misfatti, e voi; e che da gran tempo io avessi scelto, pensava che i miei occhi ve lo avessero appreso: meglio con Marzio il dolore, che con altro allegrezza. Che cosa importa a me, che abbiano posto la taglia sopra la vostra testa? Se la giustizia vi cerca, noi ci nasconderemo insieme; se ci trova insieme, ci difenderemo; se ci prende, moriremo insieme. Ma non è di questa giustizia che il mio cuore si affanna; vi ha una giustizia, che non cercando trova; un occhio, che non chiude mai le palpebre sul peccato; e questa giustizia io vorrei che voi placaste, Marzio; quello che non può fare tutta l'acqua del fiume lo fa una lacrima sola,—la lacrima della penitenza». Così favellava Annetta semplice fanciulla, che ogni sua educazione aveva ricavata dallo amore che portava ardentissimo alla Madre di Dio. Mi sentii come rompere una ghiaia in mezzo del petto, e sommesso ripresi: «Annetta, io mi ti lego per fede di abbandonare i compagni quanto prima mi venga fatto, perchè lasciandoli allo improvviso sospetterebbero di tradimento, e al sospetto terrebbe dietro la morte mia;—molti essi sono, e potenti. Frattanto io giuro astenermi da ogni opera malvagia, e giuro ancora condurti per mia legittima sposa, e amarti sempre. E così dicendo mi trassi dal dito uno anello, che fu della madre mia; e accostatolo al volto della Immagine santa come per consacrarlo, lo posi nel suo soggiungendo: tu sei mia sposa.—«Io non possiedo anella, favellò Annetta; ma taglia una ciocca dei miei capelli, e conservala per promessa di unirmi in santo matrimonio con te». Trassi il coltello, ed ella piegò il collo; così feci, ma la mano mi tremò, e i capelli caddero, e il vento gli sparpagliò sopra la terra. Malaugurio era quello. Ella levò il capo, e sorridendo disse: «e tu tagliane un'altra, che importa? Tanto, se la ventura sarà buona ne ringrazierò Dio; se avversa, mi piacerà ugualmente; non ti ho detto che sono parata a tutto?»

Pochi giorni dopo, mediante spie fidatissime, pervenne notizia al signor Marco, come dal regno e dallo stato della Chiesa ci muovessero incontro grosse bande di armati per toglierci in mezzo, e prenderci a man salva. Il signor Marco, che quantunque dalla sorte maligna fosse ridotto alla condizione di capo-bandito, pure possedeva copiosamente le qualità che convengono a esperto uomo di guerra, mi spedì senza indugio negli Abruzzi a tenere di occhio la corte di Napoli, per sorprenderla in qualche imboscata. M'istruiva a parte a parte dei luoghi, e del modo da praticarsi; e mercè la virtù dell'ottimo capitano così riusciva fortunata la impresa, che non uno,—non uno sbirro rimase vivo per riportare a casa la nuova della sconfitta. Dopo dieci giorni di lontananza io ritorno: con qual palpito io mi avvicinassi alla Querce della Vergine lascio considerarlo a voi, che intendete a prova gli affanni dello amore.—A piè della querce trovai Annetta,—la trovai—ma ammazzata.

Aveva stracciati i capelli, le membra lacere, e le vesti; nel viso io le vidi le orme di piedi che l'avevano calpestata; un coltello fitto nel seno le trapassava il corpo fino dietro le spalle, e la punta per bene quattro dita stava conficcata nella terra….

Comprai un panno scarlatto; feci lavorare una bara di legno dorato; ve la riposi dentro con le mie mani, copersi coi fiori le lividure, e le ferite … come era mai bella anche morta!—e accompagnato dai popoli del contado, in mezzo al pianto universale, io stesso dava sepoltura al cuor mio: nel calarla giù nella fossa mi mancò il lume dagli occhi, e vi caddi sopra. Quando rinvenni mi trovai seduto in terra; la fossa era riempita, il prete mi sorreggeva piangendo, e alcune donne pietose mi consolarono piangendo. Mi alzai, e me ne andai senza profferire parola.

Ricercando seppi come da alcuni giorni il conte Francesco Cènci fosse venuto ad abitare la Rocca Petrella, che tra noi si chiama ancora Rocca Ribalda; le tracce di costui erano di sangue. Una voce nel cuore mi disse: egli è l'omicida. Presi a investigare più sottilmente il caso, e per relazione di un garzoncello pastore conobbi, che tutte le sere Annetta andava alla Querce della Vergine, e genuflessa si tratteneva lunga ora a pregare davanti la Immagine. Certa sera il garzone vide passare a cavallo un uomo, che alle vesti ed al portamento gli parve un barone. Costui fermò il cavallo, e stette a considerare la fanciulla finchè essa non ebbe terminata la preghiera: allora andatole incontro, parve che s'ingegnasse di entrare in colloquio con lei; ma essa lo aveva salutato, e tirato innanzi pel suo cammino. La sera successiva il garzone, stando nel medesimo luogo a pascere pecore, vide sbucare dal macchione due bravi, che sorpresa la giovane le bendarono gli occhi e la bocca, e lei, invano dibattentesi, strascinarono via. Il pastore aveva taciuto per paura, adesso parlava per guadagno; sicchè con diligenza ne cavai fuori informazioni precise su le vesti, e su le fattezze dei ribaldi. Presi a tenere di occhio alla ròcca; nella notte mi aggirava intorno alle sue mura come un lupo, nel giorno mi appiattava dietro le siepi, o su pei rami degli alberi. La ròcca stava chiusa come la cassa dello avaro. Ma un giorno si aperse, e ne uscì fuori un uomo, che ai panni riconobbi per uno dei bravi veduti dal pastore: procedeva cauto, e portava, come diciamo noi, la barba sopra la spalla; ma io gli piombai addosso a guisa di falco: egli era atterrato, sotto i miei ginocchi, ed io gli teneva le mani alla strozza, prima che avesse avuto tempo di sapere che cosa fosse.—Ti salverò la vita, gridai, se mi confessi come uccidesti la fanciulla della Querce. Livido dalla paura, egli mi narrò che il suo padrone Conte Cènci vista la fanciulla, e trovatala bella, concepì desiderio di averla alle sue voglie; però che a lui e ad un altro servo ordinava rapirla, e portarla nella ròcca, reputandola facile acquisto; ma vedendo che con la fanciulla tornavano corte le lusinghe, e le minacce non riuscivano meglio, e parendo al Conte di fare anche troppo onore a cotesta villana, era ricorso alle violenze, alle quali la fanciulla aveva risposto menando valorosamente le mani. Onde il Conte l'aveva presa pel collo, ed essa lui, e caduti per terra vi si erano rotolati dandosi a vicenda morsi e percosse. Alla fine la giovane, come più svelta, per la prima si levava in piedi, ed aveva dato di un calcio nel viso al Conte, dicendo: «Togli, vecchio ribaldo: se avessi avuto il mio stile, a quest'ora ti avrei scannato;—ma ti sta meglio un calcio;—fra giorni ha da tornare mio marito, e, per la Vergine benedetta, non avrò pace finchè non mi porti le tue orecchie in regalo». Don Francesco si levò a sua posta senza profferire parola; e prima che la disgraziata avesse potuto schermirsi l'arrivò con sì terribile coltellata, che la passò fuor fuori dalle spalle, ed ella cadde senza potere pur dire: Gesù, e Maria! Un singulto, e basta. Poi la pestò, in vendetta del calcio ignominioso, come si pesta l'uva. Venuta la notte ci comandò portassimo il cadavere a piè della Querce della Vergine, e noi lo portammo, perchè chi mangia il pane altrui ha da obbedire. Il Conte ci tenne dietro con la lanterna; e quando avemmo depositato supino il cadavere sopra la terra egli cavò il coltello, lo rimise dentro alla ferita, e pigiando forte ne conficcò la punta nelle zolle. «Quando verrà tuo marito, esclamò il Conte, tu gli racconterai ancora questo». Udendo ciò m'invase il furore, nemico sempre al buon fine dei concepiti disegni, e gridai al vassallo: «va dunque, avverti il tuo padrone che il marito di Annetta Riparella è ritornato, e che stanotte lo visiterà in casa sua com'è dovere». E non mancai alla promessa, perchè, sovvenuto dai più arrisicati fra i miei compagni, assaltai la ròcca, saccheggiai ed arsi il palazzo. Bruciai il covo, ma la volpe si era salvata. Il Conte non avendo forza da resistere, partì subito a precipizio; e tanta fu la fretta di cansarsi di là, che penetrato nella sua stanza io rinvenni sul tavolino una lettera a mezzo scritta[3]. Se mai un giorno andrete alla ròcca, voi potrete vedere i segni della mia vendetta impressi col fuoco sopra le muraglie. Che cosa mi avanzava nel mondo, e che cosa mi avanza adesso? Vendicarmi, e morire. Però avendo contato discretamente tutto il mio caso al signor Marco, egli lodommi molto nel partito preso, mi confortò a perseverarvi, e mi fece offerte da fratello; poi, comecchè malvolentieri, richiedendola io, mi dava licenza. Rasi i capelli e la barba, mutate le vesti mi ridussi a Roma, giurando per l'anima della defunta di temperare con la prudenza ogni intempestivo furore.

Mentre io stavo mulinando la maniera di entrare come famiglio in casa vostra, ecco la fortuna che volle favorirmi con istrano accidente. Andando per piazza di Spagna sento dietro di me un rovinìo, uno schiamazzo di voci, che gridavano: «alla vita, bada alla vita!»—Mi volto, e vedo una carrozza trasportata a furia da cavalli che avevano preso il morso co' denti. Il cocchiere, balestrato giù dal sedile, aveva percosso il capo sopra un piuolo, e giaceva col cranio aperto da un lato della strada; chi fuggiva, chi si affacciava alle finestre, chi su lo sporto delle botteghe, senza dare aiuto e senza neppure pensare a darlo; stupidi e spietati, per vedere soltanto come si sarebbero rotto il collo bestie e cristiani, e poi cavarne i numeri per giuocarseli al lotto[4]… Umana razza! Io mi gittai al morso di un cavallo; e quantunque per buono spazio seco mi strascinasse a furia, pure giunsi a fermarlo. Allora mise fuori dello sportello la faccia tranquilla e mansueta un barone di età matura, il quale, dopo avere commendato molto il mio coraggio, mi pregò a volermi presentare in giornata al palazzo del Conte Cènci.

Così è; io, nè più nè meno, mi era trovato a salvare la vita, senza saperlo, al mio atroce nemico. Non me ne dolsi, anzi me ne compiacqui; perchè se fosse morto in altro modo, che di ferro, e per le mie mani, mi sarebbe parsa vendetta rubata.

Il Conte mi accolse co' modi che si confanno a gentiluomo; prese contezza di me, e sentendo come io stessi ozioso per Roma, egli medesimo mi propose accomodarmi in casa sua.—Era quello che con tanto studio io cercava: certo il pellegrino non bacia tanto devotamente la Madonna della santa casa di Loreto, come io toccai le soglie di questo palazzo, col proponimento di circondare il Cènci di solitudine e di desolazione.—Diseredato di qualunque affetto, superstite ai cari figli, che io disegnava uccidergli con varia morte, orfano del cuore come aveva fatto me… quando la vita gli fosse riuscita di supplizio, la morte sollievo, conservarlo finchè i suoi polsi avessero sentito spasimo di agonìa; quando poi l'anima stupidendosi si fosse adattata alla sventura… allora precipitarla per via di sangue nel sepolcro sanguinoso dei suoi.

Un mostrarmi pronto ad eseguire ogni comando, un consigliare astuto, un proporre immaginosi trovati mi acquistarono mano a mano la sua confidenza, per quanto può fidarsi costui, che sempre, e di tutti e di se stesso diffida. Ora immaginate voi quale sorpresa fosse la mia, quando conobbi nessuno maggior piacere avrei potuto recargli come ammazzargli i figliuoli! Il suo odio snaturato vinse il mio; e dove pure io avessi continuato a portarvi rancore perchè generati dal suo sangue, o come avrei potuto tormentarvi più atrocemente di quello che si facesse vostro padre? Alla ira subentrò una pietà profonda per tutti, ed in ispecie per voi, signora Beatrice;… perchè per voi, povera fanciulla, ho concepito una tenerezza… uno amore sviscerato, che mi rammenta la buona anima della defunta, e mio malgrado mi sforza a lacrimare…

E, vinto dalla passione, Marzio fece atto di piegare le ginocchia davanti a Beatrice; se non che questa con mano pronta lo trattenne, dicendogli:

—Su, Marzio, levatevi; la polvere non ha da prostrarsi al cospetto della polvere, e noi tutti siamo polvere;—e poi soggiunse: Marzio, io vi raccomando di avvertire a quello che vi esce dai labbri;—ma con suono così dolcemente supplichevole, che Marzio non ne rimase per nulla mortificato.

—Gentil donzella, perchè volete impedirmi di genuflettermi davanti a voi? Le cose sacre si adorano in ginocchio, e voi pur troppo consacrò lo infortunio;—certo veruna creatura al mondo si rassomigliò, quanto voi, alla Madonna del Pianto. Non dubitate, no; voi da me non udirete parola di cui possano offendersi le vostre orecchie castissime:—voleva dire, che padre non possa favellare alla propria figliuola; ma lo esempio del Cènci mi ha trattenuto sopra i labbri il paragone. E perchè non dovrò amarvi io, se tanto mi rammentate la mia povera defunta? Ma la mia donna è morta, e il mio amore di amante fu sepolto con lei. Lo affetto che io sento per voi non è di devoto, di padre, e di fratello; e pure partecipa di tutti questi affetti insieme. Io so che voi siete amante riamata di monsignore Guido Guerra, e tengo in altissimo conto questo gentiluomo, come quello che ha collocato lo amore suo in così degna donzella. Più che non pensate, Marzio ha favorito i vostri legittimi amori. Incauti! Quante volte vi avrebbe sorpreso il vecchio maligno se io non era! Ultimamente, per la subitaneità del caso, se non potei prevenire monsignore Guido, io lo costrinsi alla fuga perchè ei repugnava abbandonarvi, e gli salvai la vita. Io gli mostrai che sè perdeva, e a voi non poteva dare soccorso: e gli promisi ancora di prendermi cura di voi, e manterrei la promessa, se voi non mi attraversaste; però ho statuito partirmi da casa vostra:—vi entrai per condurre a compimento la mia vendetta, ed ora mi è forza allontanarmi se intendo mandarla ad effetto. Da un lato, voi non volete che vi liberi dal perdutissimo vecchio; e quantunque io non possa renunziarvi la mia vendetta, pure, per rincrescervi meno, non voglio ammazzarlo sotto i vostri occhi; dall'altro considero che questa morte avvenendo qui in casa, il sospetto si aggraverebbe sopra voi innocenti; onde il meglio è che io mi allontani, perchè rimanendo non avvantaggio voi, e nuoccio a me. Signora Beatrice, se io vi supplicassi a conservare memoria di un uomo che non ebbe per voi altri sentimenti che di benevolenza e di ossequio; se vi pregassi a non odiarmi affatto, sarei forse troppo presuntuoso?

—Io ricorderò che volete uccidermi il padre:—quando sarete lontano penserò che mi potevate difendere, e che mi avete abbandonata.—Deh! lasciate vivere il Conte; i suoi anni sono molti… non lo mandate al giudizio di Dio; aspettate ch'ei ce lo chiami.

—La vostra voce è potente, ma non vince quella che mi rugge in petto. Impossibile! E non vedete espresso qui dentro il giudizio di Dio, poichè il mio proponimento soddisfacendo alla vendetta della donna, che amai tanto, porta salute a voi, sventurata donzella?…

—Il dito di Dio, Marzio, non iscrive i suoi consigli col sangue…

—Come no? L'Angiolo sterminatore lesse in Egitto la sentenza di Dio impressa su gli stipiti delle porte con nota di sangue: così almeno ho udito sovente predicare ai nostri sacerdoti. Voi vi dimenticate, Signora, che qui in Roma Iddio ebbe per suo vicario Sisto V; nè quello che regna, Clemente VIII, immaginate già ch'ei si abbia migliori viscere di lui.

—Io non so di sacerdoti; io so di Cristo, che riprova la legge di pagare dente per dente, e occhio per occhio, e vuole che amiamo quelli che ci fanno del male. Marzio, lasciate a Dio i suoi giudizii; quello che in Dio è giustizia, in voi sarà delitto.

—Ma come lasciarlo vivere?—esclamò Marzio percuotendosi la fronte, quasi si risovvenisse di cosa dimenticata;—ma non sapete ch'egli respira di strage? Vedete; se io rimanessi qui,—uno sciagurato avrebbe a morire di fame.

—Come di fame?

—Ahi, me meschino! Ragionando con voi si dimenticherebbe il paradiso… Povero Olimpio!… mentre io mi trattengo, tu conti i minuti con gli spasimi delle tue viscere affamate.

E così favellando prese in fretta la lanterna, il mazzo delle chiavi e il paniere deposto sul pavimento, e con veloci passi si avviò dall'altra parte del sotterraneo.

Beatrice, traendo a fatica la persona inferma, gli tenne dietro, curiosa di chiarire il truce mistero che si adombrava nelle parole di Marzio.

NOTE

[1] Presso la città di Mirina, nella isola di Lenno, sorge il colle dove gli antichi immaginarono cadesse Vulcano: il colle era sacro a Nettuno, e nei tempi vetustissimi vi s'inalzava una cappella consacrata a Filottete. Ogni anno vi saliva un sacerdote, il quale, fattivi i debiti sagrifici spargendo grano ed orzo, raccoglieva certa quantità di terra fulva, o giallo accesa; e postala sul carro la portava dal tempio giù alla pianura, e quivi col sigillo della dea Diana la suggellava. Questa era la terra lemnia, sacra, e sigillata, alla quale gli antichi attribuivano la virtù di saldare le ferite, arrestare i flussi sanguigni, preservare dai veleni, farli vomitare, guarire morsi di animali velenosi ec. Questa terra ai nostri giorni eziandio con gelosissima cura è conservata, e si sigilla col sigillo del Gran-Turco; poca ne portano in cristianità, dove s'incontra di rado. Galeno ne fa menzione nel libro IX, ove tratta delle facoltà dei semplici.—THOMASO PORCACCHI, Libro della descrizione delle Isole più famose del mondo, p. 140. Venetia, 1590.

[2] Plica polonica; malattia del bulbo dei capelli e dei peli. In questa malattia si osserva uno intrecciamento disordinato, una conglomerazione ed ingrossamento dei capelli o dei peli, accompagnati da nutrizione e sensibilità siffatte, che nel tagliarli grondano sangue con inestimabile dolore. Chiamasi plica a cagione dello intrecciamento, e polonica però che sia infermità quasi endemica della Polonia.—ALIBERT, Malattie della pelle, t. I.

  [3] Quando Napoleone, abbandonata l'Elba, giunse inaspettato e
    repentino a Parigi, il 20 marzo 1815, egli rinvenne lo studio del
    Re nel medesimo stato nel quale per la subitanea fuga lo aveva
    lasciato. Occorrevano su le tavole lettere incominciate e non
    finite, e talune di queste in contumelia di Napoleone medesimo.
    Questi, distolto da cure maggiori, fece metterle da parte, nè
    trovò tempo di occuparsene: per la qual cosa volle fortuna, che
    quando Luigi XVIII fece nuovamente ritorno alle Tuglierie
    ritrovasse tutto quanto gli apparteneva senza alterazione, o
    diminuzione di sorte alcuna.—LAS CASAS, Memoriale di Santa
    Elena, Cap. II. p. 167
.

[4] Il giuoco del lotto, nei tempi del nostro racconto, era stato funestamente inventato da Cristofano Taverna. La prima volta che se ne fa menzione è nel 9 gennaio 1448. Si proponevano alla vincita sette borse, dette della fortuna, e forse furono otto, donde il nome di giuoco dell'otto. In Genova fu instituito nel 1530. Clemente XI lo proibì. Innocenzo XIII aumentò 20 per cento su l'ambo, e 80 per cento sul terno. In Francia questo giuoco datava dal 1776: fu abolito nel 1793: riattivato nel 1797, venne soppresso nel 1836. In trentotto anni rese al Governo due miliardi! Adesso in Toscana crebbero il prezzo della giuocata, e diminuirono il premio della vincita.

CAPITOLO XVI

IL MEMORIALE.

«Per il che non potendo durare in così infelice vita prese la strada della sorella Olimpia, e mandò al Papa un buono e ben composto memoriale; ma o che quello fosse dato, o no, la sua ragionevole inchiesta non ebbe effetto, nè si è trovato in segreteria dei memoriali quando ne faceva bisogno mentr'era in prigione…» Manoscritto del tempo.

            Il vento ne portava le parole.
                                  PETRARCA, Sonetti

Beatrice tenne dietro a Marzio, il quale arrivato alla prigione di Olimpio lo chiamò a nome: non si sentendo rispondere, con molta ansietà gridava:

—Olimpio! Olimpio!

Una voce fioca rispose:

—Vattene via, malvagio traditore… liberami dalle tue tentazioni… mi acconcerò come potrò con Dio, per morire in pace…

Marzio schiuse la porta; e a tale debolezza era arrivato il masnadiere pel digiuno e per le tenebre, che il poco di lume della lanterna valse a ferirgli dolorosamente gli occhi, e a farlo traballare. Marzio lo sostenne, e lo indusse a bere alcun sorso di liquore cordiale, che aveva portato seco lui. Dopo brevi momenti di conforto riarse in Olimpio la rabbia della fame e della sete; come fiera si slanciò sul paniere, nè Marzio avrebbe potuto impedirlo s'egli non era ridotto in cotesto stato di debolezza. Marzio lo ammonì che se non faceva senno, scampato dal morire di fame lo avrebbe ucciso il cibo.

Beatrice attonita considerava il masnadiero, orribile a vedersi; imperciocchè i suoi lunghi capelli ingrommati gli pendessero giù dalle tempie come mignatte ripiene di sangue; il colore della faccia di bronzato era divenuto cenerino; le labbra nere; gli occhi verdi, e lucenti come vetro.

Riavutosi con discreta quantità di cibo e di bevanda, Olimpio così prese a favellare in mezzo al singhiozzo che lo assalse:

—Rinnegato! Cane di traditore! Marrano! Morire di fame, eh? Confessare senza corda non è di regola… il morto disseppellito ammazza il vivo: non m'importa… io voglio dire… bisogna che io mi sfoghi… Iniquo vecchio, tu volevi farmi tacere… lo capisco… ho ammazzato cinque per conto tuo—quattro di coltello, e l'ultimo, il falegname, bruciato… povero giovane!… bruciato come una talpa intrisa di acqua di ragia… Ah! ah! Requiem aeternam dona ei, Domine. E la sua moglie Angiolina?—Angiolo vero di nome e di fatto. Donna Luisa!—Santa Vergine, esaltatela voi!—Guarda te, se io sto propriamente giù in fondo del male!… ebbene; donna Luisa sta anche più su, in cima del bene.—Le fiamme della casa del falegname, il furto del curato, il ratto della Lucrezia—tutto commesso, tutto ordinato da lui;—io prestai la mano, egli la diresse:—infame mano! io ti taglierei, se non fosse la bocca che vuol mangiare. O bestie del campo, voi trovate da pascervi, noi no; quanti delitti per pane! La volpe aveva teso la tagliòla al lupo per mandarlo a dare dei calci al rovaio:—ora lo vedo espresso… tradimento di tradimento… partita doppia… bravo, per dio!—Ferito, inseguito dai mastini della corte, riparo qua dentro… allora il Conte disse: quest'uomo vuole essere nascosto; mettiamolo tre braccia sotto terra… meglio di così non può stare: ma bravo! E poi il Conte ha detto ancora: quest'uomo è cercato dalla giustizia; se fosse messo al martoro potrebbe pregiudicarsi con le sue confessioni; quando è morto, la corda non lo farà più parlare.—Marzio, da bere.—Non è egli uomo serviziato il Conte Cènci?—Per la Vergine sì.—Don Francesco, se questa è la ospitalità che riservate agli amici, e ai servitori vostri… in fè di Dio non vi scemeranno le entrate… no… da bere.

—Olimpio non affaticarti, taci; nudrisciti a bello agio… riposati… rifa' le forze… fra poche ore io verrò a levarti.

—Mai no, che non mi rinchiuderai più;—adesso ho fame e sete di aria: mi pare avere sul petto la cattedrale di San Pietro. San Pietro! Ho io rammentato San Pietro? Ebbene; io non mi fido neanche di lui che tiene sempre le chiavi in mano, perchè anch'egli patisce del mestiere, e le mette più in opera per chiudere che per aprire.

—Olimpio quietati; ormai tu vedi che fin qui non ti ho tradito.

—Il minuto che passa è forse mallevadore del minuto che entra? Una volta tra dodici apostoli appena si trovava un Giuda; adesso tra dodici uomini undici, sono traditori, e il dodicesimo un po' tarlato.—Se ho da morire… lasciami bere un altro bicchiere di vino, e andiamo; ma come devono morire gli eroi, e i banditi romani… a cielo aperto…

—Ribaldo! Ti pare che questa bottega porti insegna di traditore?—disse Marzio scuoprendosi con la destra la fronte;—ho promesso salvarti, e ti salverò: non vedi che tu barcolli come ebbro, e le tue ginocchia si urtano insieme? Il vino ti ha dato alla testa.—Adesso ci scuoprirebbero, e ammazzerebbero tutti e due.

—Ma colei, ch'è teco, che femmina è?—Non è la sua figlia?—O come ci entra teco?—proseguiva Olimpio fregandosi gli occhi.

—Veramente ella è la signora Beatrice; ma va sicuro che non venne qui per nuocerti.

—Poichè non posso rimediarla meglio mi fiderò… brutta parola è cotesta!—Marzio, siccome io ho veduto che tra gentiluomini e gente altra cotale, che va per la maggiore, si fa conto dei giuramenti e delle promesse quanto dei grilli dell'anno passato, così mi presumo che fra noi la faccenda sarà diversa perchè fra me, e te,—mi pare che ci corra quanto fra te, e me—misura giusta; e noi siamo villani. Marzio, io vorrei legarti con la promessa di un premio; ma la mia anima si trova ormai ipotecata al diavolo, e pel corpo tu avresti lite con mastro Alessandro. Se tu avessi qualche nemico, che patisse del male di angina…—e con la destra si toccò la gola.

Marzio alzò le spalle, quasi volesse dire: cotesto so molto ben fare da me. Allora Beatrice si attentò di favellare:

—Marzio vi salverà, non ne dubitate; ed io, in mercede, vi domando cosa che mi potrete donare molto agevolmente, e nella quale il guadagno sarà tutto per parte vostra. Voi mi avete a promettere, che uscendo da questo pericolo muterete vita.

—Oh Signore! che si può mutar vita come si muta la camicia? Io non ho imparato altro che maneggiare il ferro, e il ferro è fatto per ferire…

—Il ferro è fatto non per ferire il cuore dei fratelli, donde viene la morte; ma sì per lavorare la terra, ch'è sorgente di vita. Muta il tuo ferro in vanga, e la misericordia di Dio si distenderà fino a te…

Questa risposta Beatrice dava al bandito pacatamente, senza petulanza, e con voce soave per modo, che Olimpio, il quale per costume era solito piegarsi agli avvertimenti altrui a un di presso come un campanile al vento di primavera, sentì un non so che nello stomaco, che non capiva bene se dovesse attribuire alle parole udite, o al digiuno sofferto. Ci pensò sopra un pezzo, e non gli riuscendo bene a sciogliere il nodo, gli parve attenersi al più certo; onde concluse la sua meditazione dicendo: sarà il digiuno!

Tornando al carcere di Beatrice Marzio favellava:

—Vostro padre è una miniera di delitti; più se ne scava, e più se ne trova. Io, che pure non mi spavento per poco, quando mi affaccio a quel pozzo disperato rabbrividisco, e non comprendo più nulla. Voi dunque non volete consentire alla morte di lui; meglio così: conservatevi rosa bianca, e pura, quantunque, a parer mio, ove si tinga in vermiglio per sangue scellerato non perda pregio davanti agli uomini, nè davanti a Dio. State lieta però; i giorni della vostra schiavitù saranno meno lunghi di quello che voi poteste temere.

—Dio disperda lo augurio perchè so a qual patto sia la mia libertà; e, Marzio, se voi mi amaste davvero, come dite, se le mie angosce vi avessero toccato il cuore, ah! voi non persistereste a rendermi la femmina più desolata del mondo macchinando togliermi il padre…

—Dite un carnefice…

—Mio padre… però che da lui ebbi la vita, e per lui senta, e per lui spiri…

—Vi diè la vita per contaminarvela, o per togliervela.

—E sia così; ma se egli dimentica le parti di padre, dovrò io obliare quelle di figlia?

—No; dunque ognuno la sua parte: a me spetta quella di vendicatore.—Cessate… vi ripeto, Signora… voi vi affaticate invano; voi potreste trasportare più prestamente con le vostre mani gli obelischi di Papa Sisto fuori di Roma, che rimuovere me dal mio proponimento.

—Di voi non sono signora, di me sì.

—Nè io ve lo contrasto…

—Guardate, chè io mi dispongo ad avvertire il Conte ond'egli stia su lo avvisato.

—Avvertitelo. Non sarò io la volpe, che insidia la gallina:—prima di rovinargli addosso io ruggirò, perchè senta che il leone si accosta.

—Ma s'egli uccidesse voi?

—Ho sentito raccontare che, anticamente, nei giudizii di Dio era tratta una bara sola; uno dei due combattenti la doveva empire. Se la Provvidenza giudica delle cose umane, vi pare che debba essere io quegli che la riempirà?—Poche più ore mi avanzano a starmi qui in casa vostra:—avete nulla a raccomandarmi, signora Beatrice? Io per me niente sono; una moneta di rame; pure, se data di buon cuore al poverello, frutta una di quelle preghiere che fanno proprio diritta la via del paradiso.

—E notate ancora, che io vi attraverserò con ogni mia possa.

—Voi?

—Anche la formica salvò il colombo pungendo il piede allo arciere.—Ed ora che vi ho detto tutto questo, non vi sentite sdegnato meco, Marzio?

—Niente affatto. Non ve lo espressi pur dianzi? Ogni uomo è forza che fili la stoppa che gli pose in mano il destino. Forse, chi sa? Dove io vi avessi trovato diversa da quello che siete, vi avrei tenuta di maggior senno, ma vi avrei amata meno.

—Ebbene, Marzio, per favore estremo io vi chiedo lasciarmi per breve ora la lanterna, e recarmi quanto abbisogna per iscrivere.—Io non voglio omettere di tentare argomento alcuno di salute piuttosto per non avermi a rimproverare di negligenza, che per isperanza che io ne abbia: distenderò un memoriale a Sua Santità, supplicandola per le viscere di Gesù Cristo che provveda a me come fece a Olimpia. Questo parmi il partito migliore. La fuga con Guido, che immaginai esaltata dalla passione, io riprovo adesso: conosco che desterebbe scandalo; il torto sarebbe mio, e il mondo, ignaro delle cause che mi mossero, confonderebbe la mia deliberazione col volgare amore d'invereconda fanciulla, che sottomette la ragione al talento. Inoltre per cagione mia andrebbe guasto ogni disegno di Guido: sembra che a lui prema tenersi il Papa bene edificato, e tanto basta per amante discreta onde abbia a rispettare la volontà sua. Ogni via ultima di salute sta in questo, che Guido si adoperi a fare pervenire prestamente il memoriale al Pontefice, e ne ottenga risoluzione sollecita. Voi poi, per accendere Guido a non indugiare, gli confiderete quello, che io morirei di vergogna a palesare, non che ad altrui, a mia madre.—No… no… sciagurata! non gli dite nulla… promettetemi, Marzio, che non gli direte nulla.

—Farò come volete. Signora Beatrice, date ascolto: per me oggimai nulla temo perchè disposto a uscirmene infra brevi ore di qui, e perchè vostro padre non è tanto astuto che io non lo sopravanzi. Egli mi sospetta, ed i suoi sospetti si convertono in punte di ferro: egli lo ha palesato. La confidenza mostratami stamani è finta per ingannarmi: ad ogni modo non temo. Voi debole, inerme, inoffensiva, dovete troppo più paventare di me: io voglio farvi un dono, che ad ogni estremità possa giovarvi; egli vale quanto noi vogliamo che valga… Eccovi un coltello…

—Grazie; quando non mi rimanga altro scampo, con questo sarà più certa la morte…. e meno dolorosa…

—Or ora io vi porterò da scrivere; voi mettetevi subito alla opera. Io simulerò di nettare le mie pistole nel giardino: dove mai vedessi don Francesco piegare verso il sotterraneo per sorprendervi, io sparerò la pistola, come se avesse preso fuoco a caso: voi, avvertita dal colpo, spegnerete la lanterna, e nasconderete ogni oggetto, prima che il vecchio arrivi…

—Così farò. Addio…

Quando Marzio tornò in camera di Francesco Cènci lo rinvenne sempre giacente in letto, e, secondo ch'ei dava ad intendere, afflitto da dolori atrocissimi. Non senza maraviglia Marzio vide di qua e di là del capezzale due frati domenicani, che dal viso poco angelico, e meno serafico pareva ch'eglino pure andassero persuasi di non possedere grande aria di santità, imperciocchè tenessero i cappucci tirati giù sopra gli occhi. Il Conte ordinò a Marzio posasse le chiavi, e si ritirasse. Partito ch'ei fu, il Conte, ridendo, disse loro:

—Reverendi Padri, lo avete notato bene? Domani egli partirà per Rocca Petrella; le vostre paternità lo aspetteranno nel luogo che reputeranno più adattato, e voi me lo manderete allo inferno, o in paradiso (che in quanto a questo poco m'importa) con due palle traverso il corpo… avvertite, che quattro non guastano nulla: poi gli celebrerete due messe in suffragio dell'anima. Intanto prendete la elemosina;—e porgeva loro un gruppo di moneta.

—Eccellenza dormite fra due guanciali, che noi vi serviremo da pari vostro;—rispose uno dei frati.

—Anime elette! Anzi, per non dar luogo a svarioni, osservate questo mantello scarlatto; voi lo vedrete o addosso al vostro uomo, o davanti alla sella del suo cavallo.

—Oh! non fa al caso perchè io l'ho in pratica.

—Davvero? E come?

—Eccellenza ve lo dirò un'altra volta, perchè stando qui in Roma mi sembra camminare sopra la zolfatara… mi si bruciano le scarpe.

———

—Marzio, accompagnate coteste Reverenze. Padri, io mi raccomando alle vostre orazioni.

—La pace sia con voi.

—Amen.

Marzio accompagnò cotesti frati di cui lo strano aspetto era tale, da fare rabbrividire Cristo comunque crocifisso: tentò ficcare gli occhi sotto al costoro cappuccio, ma non gli venne fatto di bene ravvisarli: mentre stavano per uscire, uno di loro, voltandosi per salutare col solito ritornello la pace sia con voi, lasciò cadere un largo coltello; il quale raccolto prestamente da Marzio, fu con gesto umile presentato al frate dabbene.

—Reverendo Padre, vedete che vi è caduta la corona.

—Figlio mio, il Signore non vieta difendere la nostra vita dalle aggressioni degli scellerati; anche i santi lo hanno fatto.

—Sicuro!… Perchè per diventare santi non importa mica essere anche martiri. All'opposto, Padre, invece di scandalizzarmi, voi mi avete edificato per modo, che io supplico devotamente la vostra Reverenza a volere ascoltare la confessione di certo peccato, che mi pesa su l'anima.

—In questo luogo? Adesso?

—Ogni momento non è buono per salvare un cristiano? Forse Gesù rispondeva a coloro, che si voltavano a lui, venite domani? Padre, non mi rimandate sconsolato; vedrete, ella è cosa di pochi minuti; entrate in questa stanza terrena, e tutto andrà d'incanto.

E così dicendo lo prese a forza per le braccia per menarlo seco. Il frate non oppose resistenza, e, avvertito il compagno di attenderlo alquanto, entrò con Marzio nella stanza terrena.

—O Grimo, e' ti ho riconosciuto, sai…—disse Marzio levando risoluto il cappuccio al frate.

—Ed io te, Marzio… come ti sei avvilito! Chi ti avrebbe creduto capace di ridurti a fare lo staffiere…

—E tu frate?—Quali negozii ti chiamano qui dentro?

—Te lo dirò; ma tu, come servitore in casa Cènci?

—Per ammazzare il Conte assassino di Annetta Riparella, la fanciulla di Vittana.

—Ed io per ammazzare domani un certo Marzio, il quale penso che deva essere un po' tuo parente.

—Me?

—Come hai indovinato giusto! Ma io l'ho detto sempre, che tu contieni più seme di un cocomero.

—E tu lo farai?

—Ho riscosso il prezzo; e tu sai la regola di sicario onorato.

—In questo caso troverai giusto, che io ammazzi prima te.

—Niente affatto; vi è modo di aggiustare tutte le cose. Noi fummo compagni antichi nella banda del signor Marco, dove imparammo sempre onorati esempii di virtù; cane non mangia carne di cane: qualche volta, per rabbia, un occhietto di più, che ci facciamo, non guasta la buona amicizia; ma dietro la siepe mai: questo operiamo per conto dei Signori contro gli Signori perchè ci sono tutti nemici vecchi. Però quando si è ricevuto il prezzo dell'omicidio bisogna adempire il patto; altrimenti il nostro mestiere, come conosci al pari di me, scapiterebbe di credito e di avventori. Io mi sono legato per fede ad aspettare domani, su la strada per Ròcca Petrella, un uomo che porterà addosso o sul cavallo un mantello di scarlatto, e ammazzarlo. Io lo aspetto, egli non passa; il mio obbligo è soddisfatto, e posso tornarmene in buona coscienza alla macchia. Ti garba così?

—Eh! non ci è di male. E il tuo compagno chi è egli?

—Gli è figliuolo di Trofimo il molinaro. Vedi un po' come è cresciuto; ha fatto a occhiate: trovò la sua amorosa a discorrere con un giovanotto di Rieti, e gli accadde di scannarli tutti e due—una vera ragazzata:—saranno sei mesi che ha preso la macchia, e promette bene. Ora lasciami andare, e occhio alla penna perchè il vecchio è mastino di buona razza.

—C'ingegneremo, fra Grimo; non fosse altro per non fare torto alla reputazione della compagnia. Ma, senti, mi è venuto in capo una fantasia; dove mai mi occorresse bisogno di adoperarti (pagando, s'intende) con questo tuo garzone di belle speranze, dove avrei da cercarti?

—Alla osteria dell'Acqua ferrata, dove si prendono i muli per Rio freddo, tu troverai un ragazzo sordo e mutolo, che s'ingegna come stalliere; se gli dirai con garbo, e più sotto voce che potrai: su Monte Bove deserta è la via, forse avverrà ch'egli t'intenda, ed anche che ti risponda. In ogni caso egli mi farà sapere quello che tu vorrai da me. E per ora ego te absolvo.

Gli antichi compagni si separarono più amici di prima. Marzio tornò in camera al Conte, il quale, dopo avergli comandato certi servizietti, che quegli adempì con la solita diligenza, così prese a favellargli umanamente:

—Marzio; se io odio, ciò avviene perchè gli altri mi odiano; nè sopportare questa vita è lieve cosa, poichè, tranne te, tutti m'insidiano la vita, tutti agognano le mie sostanze. Io solo sto contro tutti; ma, come Orazio, non ho ponte dietro le spalle. I miei figli poi sopra gli altri mi abboniscono, spinti a questo da due ragioni, negli uomini potentissime: bisogno di vendetta, e cupidigia di averi. Una cosa m'inacerbisce, e consiste nelle forze che scemano, e nella perduta prestanza del corpo. È inutile dissimularlo; gli anni incominciano a pesare; onde io non vorrei ridarmi al caso del lione, che ebbe a sopportare i calci perfino dello asino. È prudenza uscire di teatro prima che spengano i lumi: ho deciso pertanto ritirarmi alla Rocca Petrella, feudo che possiedo su i confini del regno. Ne conosci le vie?

—Credo di sì. Si prende da Tivoli; e poi domandando si va a Roma, dice il proverbio.

—Domani, dunque, tu monterai a cavallo con nostre lettere pel castellano, e partirai per quella volta: colà, come persona pratica e sufficiente, tu invigilerai i lavori, che ordino per porre in assetto il castello; farai mettere nuovi serrami alle porte: intanto apparecchiami alcune stanze, e attendi a fare scomparire le tracce dello incendio…

—Incendio! dite voi? O che abbruciò la ròcca?

—I banditi, mentr'era poco guardata, me la saccheggiarono, ed arsero.
A quei tempi si riparava molto nei boschi circonvicini il signor Marco
Sciarra, e dove la sua banda passava ti so dire che non metteva più
erba…

—Ma io non udii mai che la banda del signor Marco ardesse, e guastasse…

—Accattai briga con uno dei suoi uomini per una follìa, che non meritava la spesa. Certa volta mi prese vaghezza di una villana, di una capraia, che so io?—Lo crederesti, Marzio? Costei ebbe ardimento di resistermi, e di minacciarmi la vendetta del suo marito. Siccome ella era devota della Beata Vergine dei dolori, io la resi simile affatto alla sua santa avvocata piantandole un coltello nel cuore. Il marito, o amante che fosse, prese la burla sul serio, e, aiutato dai compagni, mi fece il tiro di bruciarmi la ròcca.

—In verità egli ebbe torto. Al diavolo lo zotico, che non capiva l'onore che gli faceva un conte di contaminarsi con la sua villana.

—Ma!… tanto è, non la vogliono capire.—Orsù, mettiamo da banda queste freddure. Danari non importa che tu prenda teco; il castaldo deve avere riscosso a questa ora i canoni dei fittaiòli;—solo per amore mio porterai questo mantello, che ti dono; egli ti riparerà dalla guazza, dalla quale importa riguardarci bene.

—Eccellenza, un tabarro scarlatto trinato di oro, ma vi pare che sia abito conveniente per un povero vassallo come sono io?—E' mi parrebbe di fare la figura di uno dei re maghi.

—Chi dona considera la sua larghezza, non la umiltà di cui riceve; e poi anche di cotesta pasta si fabbricano baroni. Che cosa ti pensi che ci voglia, ai giorni nostri di decadenza, per mutare un contadino in conte? Un mantello rosso, e qualche migliaia di scudi. I titoli sono diventati le indulgenze dei Principi, e col miscuglio della piccola gente essi guastano la vera ed antica nobiltà; un giorno se ne avvedranno, e se ne pentiranno. A me non importa nulla. Intanto, Marzio, prendi il tabarro, e pei danari pensa che il Conte Cènci possiede tanto che basta per mutare quindici mendichi in principi romani; e rammenta ancora, che a patto che la mia roba non vada agli odiatissimi figli, io mi contento che si spartisca fra i miei servitori. Dunque o stanotte, o domani sellerai lo storno, che tra i miei cavalli è il più poderoso, e mettiti in cammino; io ti terrò dietro fra cinque giorni, o sei. Intanto rendimi le chiavi del sotterraneo: alla ribelle figliuola provvederò da me stesso.

Marzio gliele dette senza esitare, ma nel porgergliele pensò: Ribaldo vecchio! e non sai, che quando il tuo diavolo nacque il mio andava ritto alla panca?—E questo avvertiva perchè. come quello che industriosissimo uomo era, non aveva messo tempo fra mezzo, e con suoi arnesi saputo in breve ora ridurre altre chiavi, e adattarle alle serrature dei sotterranei.

Tolto commiato, fingendo apparecchiarsi al viaggio, si pose in guardia nella stanza terrena, dove metteva capo il corridore che riusciva alla porta dei sotterranei: quivi prese la valigia da trasportarsi sopra le groppe del cavallo; riguardò la briglia, le cinghie, la sella e le armi; e come se avesse rinvenute queste irrugginite pel non uso, con olio e smeriglio si tratteneva a polirle, stando sempre con l'occhio avvertito.

Al Cènci, quando parve tempo, persuaso sorprendere Beatrice con qualche foglio scritto da lei, o ricevuto di fuori mercè il soccorso di Marzio, cauto, ed obliquo a modo del gatto, strascinandosi a stento per via della sua infermità, s'ingegnava penetrare inosservato nella prigione di Beatrice. Marzio, appena con la coda dell'occhio lo vide comparire alla lontana, scattò la pistola, la quale sparando levava immenso rimbombo in cotesti luoghi chiusi. Lo astuto Conte penetra di un baleno la trama; freme in cuore, ma in volto non muta colore, non istringe sopracciglio: oggimai per cotesto segnale Beatrice era stata avvertita, e la sorpresa riusciva invano. Si appressava pacato a Marzio, e con ipocrita ingenuità gli diceva:

—Ma badaci, figliuol mio, un'altra volta; chè ti potresti guastare una mano.

—Figuratevi! gli è stato proprio casaccio. Restare inabile per tutto il tempo della vita preme ancora a me.—Lasciate però che io mi rallegri con voi, vedendovi così presto guarito della gamba da potere uscire da letto.

—Veramente cotesti buoni Religiosi, che tu hai veduto, mi avevano portato una reliquia capace di operare questo, ed altri miracoli; ma io non ho consentito che per me disturbassero Dio nello eterno suo soglio: mi attengo modestamente allo empiastro di malva. Io mi sento tutto altro che sanato; il bisogno di prendere un poco d'aria pura, il fastidio insopportabile di tenermi giacente in camera mi ha spinto a perigliarmi fino qua. Marzio porgimi il braccio, tanto che io possa un po' riconfortarmi qui allo aperto.

Marzio gli diè braccio; sicchè a vederli parevano i più amorevoli padrone, e servo, che da un pezzo in qua avessero rallegrato il mondo.

Io non so davvero qual pazzia sia questa dei poeti, di ricorrere alle bestie per paragone delle umane passioni. Vogliono dare ad intendere una immanità inaudita, ed eccoti in ballo la tigre, e, per di più, ircana: qualche grossissima ira fra due uomini arrabbiati, e, o Ariosto, o Tasso, o Tassoni, o Poliziano, o gli altri infiniti (imperciocchè questa similitudine io credo che pel molto uso caschi in pezzi) ti cantano

E si vanno a incontrar, non altrimenti Che due cani (o due tauri) furiosi, e d'ira ardenti.

Se due persone, che si aborrano fra loro, si dice: stanno d'accordo come cane, e gatto. Sicuramente che cane e gatto, se non fossero aizzati l'uno contro l'altro, starebbero d'accordo; ed io ho veduto una cagna allattare due gattini orfani: cosa da intenerire i sassi, e le Signore patrone degli Asili infantili. A che giova importunare le bestie che non possono renderci la pariglia, non componendo poemi, e non possedendo stamperie? Vi hanno forse rabbia, o ira, o ipocrisia bestiali che superino quelle dell'uomo? Questa creatura è pari a se stessa, a nessuna seconda; a molti facilmente prima. Se volete proprio dare idea di persone che si odiino con tutte le potenze dell'anima, dite piuttosto che si accordano come padrone e servo, e parlerete più dritto. Certo io non nego, che se i servi possedessero metà delle virtù che i padroni pretendono da loro, non vi sarebbe servitore che non meritasse avere al suo servizio una mezza dozzina di padroni; almeno tale era il parere di Figaro: ma per altra parte troppo spesso i servi così si mostrano o cupidi, o ingrati, che sarebbe risparmio grande di afflizione fare da se. Marzio e il Conte procedevano braccio a braccio, e si scambiavano parole di benevolenza.

—Vivono i tuoi genitori, Marzio?

—Sono orfano; parenti ho da averne di certo; però da gran tempo non udiva notizia di loro.

—E forse i luoghi ritengono qualche vestigio di fiamma antica?

—Fiamma!… Io la ebbi, ma me la spense il vento.

—Davvero! O narrami un po' questo caso.

—È breve; un potente barone se ne invaghì; costei fu temeraria tanto, da rifiutare l'onore che il barone volea farle; il barone la uccise, e la pagò secondo i meriti.

—Motivo forse di sospiri per quindici giorni. Il tempo rimargina presto le ferite.

—Non tutte; dentro alcuna si tronca il coltello, la carne vi cresce sopra, ma la ferita sanguina sempre.

—Marzio, la commedia della vita non si compone di un atto. Hai tu veduto ghirlande di un fiore solo? Sta' lieto; tu sei giovane, tu sei bello; un'altra volta, e due, e dieci tu potrai menare allegri balli con giovani leggiadre intorno ai fuochi di maggio. Io non pretendo che la sorveglianza dei lavori alla ròcca di tanto ti occupi, che tu non possa dare una corsa fino alla tua patria, che se bene mi rammento ha da essere Tagliacozzo, per ritrovare qualche sorriso di vita che dissipi ogni nebbia di sospiri di morte.

—Così farò, don Francesco, poichè me ne date licenza: vo' provare, se mi riesce, a scacciare un diavolo con un altro.

Dio eterno! Mentre si ricambiavano siffatte cortesie, i costoro colli, come sotto ad un medesimo giogo, andavano gravati dal pensiero dello scambievole omicidio: ed anche questo è un pregio, del quale gli uomini possono vantarsi superiori alle bestie. Il Conte dopo breve cammino tornando a dolersi del piede offeso, mostrò voglia di ricondursi in camera; e Marzio lo accompagnò, e lo sovvenne con amorosa assistenza.

Scesa la notte, quando a Marzio parve che tutti dormissero nel palazzo, con veloci passi s'incamminava al giardino: quivi assicurò al muro del recinto una scala; poi, aperte con le doppie chiavi le porte del sotterraneo, liberò Olimpio. Questi col cibo e col riposo aveva recuperato le forze, e con le forze lo acuto desiderio della vendetta, per cui era venuto nel proponimento di appiccare il fuoco al palazzo dei Cènci prima di abbandonarlo; nè Marzio ebbe a durare piccola fatica per contenerlo, e gli andava dicendo: si quietasse per ora; lui premere smisuratamente più atroce la necessità della vendetta; fra giorni egli ne trarrebbe del Conte una memorabile, e sicura; essere iniquo offendere tanti innocenti per colpa di un reo.

Poi si condusse al carcere di Beatrice; l'animò a fuggirsi seco lui, ma la rinvenne ferma nel suo proposito di sopportare quello che alla Provvidenza fosse piaciuto disporre di lei. Venutogli meno ogni argomento, prese il memoriale; la confortò come seppe, provò allontanarsi, tornò indietro: sentiva, nello abbandonarla, scoppiarsi il cuore come per morte. Finalmente a lei, che non cessava scongiurarlo deporre per lo amore di Dio ogni disegno di vendetta contro il padre suo, baciò, e ribaciò affettuoso le mani, e poi si allontanò con passi concitati esclamando: «Fatale! fatale!»

Olimpio si salvò per la scala del giardino; Marzio uscì dal palazzo montato sul cavallo storno, portando su le groppe di quello avvoltolato il mantello scarlatto trinato di oro.

CAPITOLO XVII.

IL TEVERE.

                Acque del Tebro, a voi sola è rimasta
                La grandezza di Roma.
                        ANFOSSI, Beatrice Cènci.

                Fu di Romolo la gente
                   Che il tridente
                   Di Nettuno in man gli porse.
                   Ebbe allor del mar lo impero,
                   Ed altero
                   Trionfando il mondo corse.
                         GUIDI, Il Tevere.

Ecco il Tevere! Le sue acque scorrono adesso come quando Roma vi si contemplava incoronata di tutte le sue torri. Questi flutti hanno trasportato sul dorso regni, repubbliche, imperii, e Popoli, e, più stupendo a dirsi! una generazione intera di Numi, mescolata con le foglie inaridite che il vento di autunno sparpaglia lungo le sue sponde. Ceneri di eroi, e ceneri di banditi; ceneri di papi, e ceneri di eretici furono sparse per la sua superficie, nè egli corrugò la fronte per le une più commosso che per le altre. Dentro ai suoi gorghi le statue di Giove e di Mercurio riposano in pace sopra il medesimo fango, a canto a quelle dei santi Pietro e Paolo. Tutto intorno a te rovina, tutto è mutato; tu rimani lo stesso, e teco il sole italico, che scherza con le fulve tue onde come con la criniera di un vecchio leone.

Leva la fronte, o Tevere. Ah! forse non tutti i numi abbandonarono ancora il cielo di Ausonia. Si danno fati, e quelli dei Popoli sono fra questi, che rinnuovano il caso di Anteo, il figlio della terra. Se un lauro un giorno, secondo che porge la fama, crebbe spontaneo sopra l'ara di Augusto astutissimo fra i tiranni[1], e perchè non potrebbe tornare a rinverdire sopra le tue sponde, che un dì gli furono come terra sua propria? Nudrito di lacrime, innaffiato di sangue, il sacro alloro spiegherà di nuovo i rami trionfali per l'aria purificata senza temere tempesta di cielo. La rabbia dei venti non cesserà di combatterlo; ma le fronde sbattute tale manderanno un rumore pel mondo, che i Popoli, atterriti, tremeranno che incominci l'agonìa del creato!

Oh! cresca l'albero divino, e possano i suoi rami circondare le tempie dell'uomo, che vinca così gli amici come i nemici in virtù; cresca, ma le sue fronde non s'intreccino più mai intorno alla spada del conquistatore per cuoprirne la punta mortale alla libertà dell'uomo.

Di rado gli occhi di Dio si voltano alla terra, contristati per la nostra viltà; tuttavolta quando ei ve li piega essi avvampano la creta, e ne fanno scintillare le anime di Cammillo e di Scipione. O Signore! declina i tuoi occhi, e vedi se vi ha vituperio uguale al vituperio nostro: suscita qui fra noi un'anima grande, che senta vera gloria essere quella di considerarsi particola della grande anima del mondo; un'anima buona, che sappia lo ingegno essere splendore della eterna tua faccia, riflesso nello intelletto umano per illuminare i giacenti nell'ombra della morte; un'annima feroce, che insegni ai violenti forza essere grazia dei cieli che solleva i caduti, e protegge i deboli. Una sola guerra è santa; e voi, fronde imperiture dello alloro divino, la vedrete: i destini vi serbano pel guerriero che combatterà queste battaglie, e pel poeta che le vestirà con la luce del canto. Noi, anime stanche, rose dalle cure ed estenuate dal dolore, che cosa ormai possiamo dare alla Patria? Augurii, e benedizioni:—gli ultimi fiori che cascano dalla sponda del letto dei moribondi!—Pure non li sdegnate… la benedizione di quelli che si soffermano su la porta dello infinito per riguardare con amore i superstiti è cosa santa, e porta buona ventura a cui la riceve devoto.

O Tevere! Tu vedesti un Popolo uscire dal fianco dell'aspro figliuolo dello amore, allattato dalle mammelle di una lupa, drizzarsi sul Campidoglio, e quinci, guardata intorno intorno la terra, stenderci sopra la mano, e dire: «è mia!» La Bolla imperatoria non fu simbolo di vanità per l'Aquila Romana; ella strinse veramente nei suoi artigli di ferro l'universo mondo.

Ma triste glorie furono coteste, e noi le abbiamo scontate. Vera gloria era quella quando una generazione di scheletri prorompendo fuori dalle antiche sepolture abbrancò con le nude ossa pugni di terra romana, e se ne faceva un cuore; drappellava il sudario di morte convertendolo in gonfalone di vita; chiamava un'aquila messaggera dei nuovi messaggi, e San Giovanni le inviava la sua, impaziente di percorrere di nuovo la terra con lo evangelo dei Popoli; supplicava da Dio una spada, e Cristo le poneva nelle mani la sua, che ha lama portentosa di luce. Oggimai sembrava che la nuova fortuna di Roma avesse indirizzato il volo a sicuro viaggio, perchè le sue parole suonavano: «libertà—amore».

Ahimè! Il sole sul nascere si chiuse dentro ecclissi infernale: da quel buio uscì un rumore, ed era della caduta di Roma nel suo vetusto sepolcro;—uscì eziandio una voce, che disse in suono di singulto: «anche tu, mia sorella?»

E quando il sole tornò a illuminare la terra di una luce squallida, fu vista tutta una generazione di redenti avviluppata nella sua bandiera come Cesare nella sua toga, quando, percosso dal proprio figliuolo, spirava l'anima sotto la statua di Pompeo. Il vessillo della fede, cadendo, si era tinto nel sangue dei martiri; la speranza, come colomba ferita, batteva le ale verso il paradiso.

Invero portenti sono eglino questi contro l'ordine naturale delle cose: chè Popoli rivendicati in libertà sieno scesi a immolare un Popolo libero… a maledire l'eco della propria voce; no, dopo il tradimento di Cristo redentore, la terra non rimase spaventata da parricidio più truce.

E sia che la fiammella della fiaccola ardesse minacciosa e stridente, doveva la Francia rovesciarla a terra, ed estinguerla? Chi avrebbe mai creduto che l'atteggiamento della Francia in Italia fosse quello, che gli scultori attribuiscono al Genio dei sepolcri? Vedetela; ella ha precipitato nella sepoltura un Popolo intero, l'ha chiuso con la lapide, e vi si è posta a sedere sopra ridendo un riso da folle.

E quando l'aria prese a rombare dintorno d'uno stridore di penne percosse, e torme di avvoltoi comparvero da occidente e da oriente, la Francia levò le ciglia un poco in su, e disse loro: «Uccelli di rapina dal becco acuto e dagli artigli taglienti, io ho ferito questo Popolo di ferita fraterna: non bastava togliergli il sangue, io l'ho privato della speranza: l'ho ricinto di due catene, e l'ho ricacciato nella tomba: quando lo lascerò ne suggellerò il coperchio co' sette sigilli della Repubblica, come il libro dell'Apocalisse[2]. Così confondendo cose, affetti, e sembianza di cose, il dubbio uccide l'anima, e l'uomo perde non solo la potenza, ma perfino il desiderio di vivere: andate, voi siete mal destri soffocatori di Popoli».

Allora gli uccelli di rapina, ripiegando le ale verso le contrade native, schiamazzavano per via:

«Gloria alla Francia soffocatrice sapientissima della libertà dei
Popoli!»

Bene stia. Intanto tu, o Francia, come la Scilla sicula, ti vai fabbricando intorno alla vita una cintura di cani[3].—Quando essi rivolgeranno contro i tuoi fianchi i loro denti, tu urlerai con immenso guaio: «aita! aita!»

Il mondo udrà cotesto grido, e si turerà le orecchie esclamando:

«Non le badiamo; però che le parole di Francia sieno vortici, dentro i quali scompariscono marinari e naviglio!»

In quel giorno un altro diluvio allagherà la terra, e l'antico patto dell'alleanza sarà distrutto.

O Tevere! I sogni della gloria sono passati per me: il cuore è sazio di passioni ardenti; egli non può più desiderare, ed imprecare nemmeno: adesso egli si compiace a fissare in faccia la morte. Quanti misteri di delitto stanno nascosti entro i tuoi gorghi, o Tevere! A me fu concesso penetrare là dentro, e interrogare le ombre che li traversano incorporee, e non pertanto visibili, come lo spettro di Cleonice la trafitta appariva a Pausania quando si affacciava su le acque[4]. Io li guardo, e vedo attraversarli un'ombra grande, e sento dietro gridarle:

«Gracco! Gracco!»

Quali passioni mossero lo infelice tribuno? Cupidità di potenza, o vaghezza di fama, o impeto d'ira, o vendetta di oltraggio patito? Tutto questo può darsi: ma la sua stirpe, e il censo, e lo ingegno, che pronto gli aveva dato natura, lui ponevano dalla parte degli oppressori, ed ei poteva, seduto al convito della forza, bevere la desolazione del Popolo. I Patrizii gli avevano detto:

«Scegli essere oppressore, o vittima».

Egli scelse la virtù, e lasciò loro il delitto[5]. Volontario si pose fra gli oppressi, e li difese con le parole e col sangue, finchè giacque col cranio spezzato dagl'implacabili Patrizii. Mani patrizie lo strascinarono per le vie latine: Patrizii quelli, che, col pretesto di porlo in parte dove non potesse più nuocere, lo gittarono trucidato fra i tuoi gorghi, o Tevere.

Usurpare, e mantenere con la violenza e con la frode una potenza che sono indegni di esercitare, e una sostanza che dovrebbe essere a molti comune, formano il polo verso il quale si appuntano perpetuamente i conati dei Patrizii.—Giano bifronte per essi cessò di essere favola: se il pericolo dei privilegi mosse dal Despota, ed eglino gli mostrarono faccia di Popolo; se dal Popolo, ed eglino gli mostrarono faccia di Despota. Nè furono contro i re Agide e Cleomene meno spietati ribelli, di quello che contro Caio e Tiberio Gracchi fossero spietati tiranni.

Che cosa importa affaticarci ad indagare adesso se con violenza, o con frode vincessero? Essi vinsero. Che cosa importa travagliarci a scuoprire se vincessero con la propria virtù, o con l'altrui? Essi vinsero, essi vinsero; e, temprato prima lo stile nel fiele del proprio cuore, scrissero col sangue della vittima una lunga calunnia, e la chiamarono storia, quasi consecrazione di un capo scellerato agli Dei infernali.

Le fiere, quantunque incatenate, si lacerano; gli schiavi, in difetto di spada, si percuotono con le catene che portano intorno alle braccia: il padrone allo spettacolo di cotesti osceni strazii sbadiglia, o ride; vivano o muoiano, oppressori ed oppressi, traditori e traditi, gl'imprigionati dentro una casa e gl'imprigionati dentro una città sono pari argomento di ludibrio per lui. Perchè, quando strisciavano nella polvere come serpi, a cui si rassomigliano per la insidiosa viltà, non furono calpestati? Fu creduto, che l'aspide avesse posto in oblìo il maligno talento di offendere alla sprovvista il calcagno dell'uomo, e fu errore.

Piacquero la fama gentile, e i modi magnanimi; e la fama venne conseguita, e i modi furono laudati, comecchè tardi. Si volle provare se cortesia vincesse tristezza, e la prova fu fatta; e sebbene costi cara, sarebbe fanciullesca cosa lamentarne adesso la spesa. I Patrizii si mantennero quali gl'incise sul bronzo della storia uno di loro, che se ne intendeva: «nella prospera fortuna superbi, nell'avversa abiettissimi, infami sempre»[6].

O sacro Tevere! Prima ch'io cessi di favellare con te, dimmi, chi mai vedesti errare sopra le tue sponde in traccia del cadavere di Tiberio Gracco?—Forse il Popolo, pel quale egli era morto? La madre Cornelia venne sola a chiedere che tu le rendessi il suo figliuolo.

Popolo! Popolo! Anima di sabbia dove un perpetuo amore scrive senza posa, e dove la eterna ingratitudine del continuo cancella, dov'eri allora che Cornelia errava muta lungo le tue rive in cerca del trucidato figliuolo? sussurrante nelle taverne della vile Suburra, fra le anfore di vino e i ceci fritti[7].

O cieco! e non ti sei accorto per mille prove come la farfalla della Occasione non sia della famiglia di quelle, che si ostinano a bruciarsi le ale dintorno ad un perfido fuoco? Ella passa, e va via; ma tu, o Popolo, non pure lasci passar via la occasione, ma strappi la fiaccola di mano all'uomo mandato da Dio per illuminarti, e tu stesso gliene accendi il rogo dove l'odio, che non perdona, lo condanna a morire. Il pentimento sopraggiunge a passo zoppo, grinzoso in vista, con gli occhi ciechi dal piangere dirotto come le preghiere di Omero[8]; però giunge sempre infallibile… e quando arriva, a che giova? Le tue tarde lacrime, o Popolo, hanno spento talvolta lo ultime faville della cenere del martire; ma esso non possiedono la virtù di riaccendere la fiamma nel corpo abbandonato dallo spirito.

E tu potesti un giorno, e forse ancora potresti, o Popolo, raccogliere la polvere, che Gracco morendo gittò contro il cielo, e crearne Mario[9], l'uomo di ferro trucidatore dei Patrizii; ma a Caio Mario subentra Caio Silla, l'uomo di acciaio trucidatore del Popolo, e la Patria muore con le vene aperte dalla empietà di tutti i suoi figli. Io pertanto levo gli occhi al cielo, e domando: dunque?

Ahi! Esperienza, sapientissima stolta, perchè sopra la siepe arida del passato vai tu cogliendo spine che ti pungono le dita? Chi sostiene vivere per inebriarsi di vendetta, viva; i suoi occhi vedranno quel giorno di sangue: chi poi dura, anima ingannata, a soffrire la rea temperie, e la empia compagnia per salutare l'alba della umana felicità, stringa la zona, e parta: i cuori delle presenti generazioni non sono che possano ospitarla.

———

Da molti giorni le domestiche mura aspettano invano Giacomo Cènci. Luisa, quantunque si sentisse sempre l'animo acceso dalla passione, pure lo impeto della ira principiava a declinare in lei: così cessato il vento continuano grossi marosi a percuotere il lido minaccevoli in vista, ma senza pericolo dei naviganti. La fierezza governava la gentildonna romana; però, non ostante cotesta passione, male si adoperava a imporre silenzio allo immenso affetto che sentiva pel suo marito. Le parole perfidamente generose di Francesco Cènci, che la buona moglie hassi con ogni supremo sforzo ad ingegnare per ricondurre sul diritto tramite il forviato consorte, contro l'aspettativa di lui le ritornavano alla mente come regole di dovere, e come rimprovero; e poi ella considerava che di queste due cose aveva ad essere per necessità accaduta l'una: o Giacomo aveva deposto giù dal cuore ogni affetto per lei e pei comuni figliuoli, o a Giacomo era incolto qualche grave infortunio; nè una spina pungeva la donna meno dolorosa dell'altra; e comecchè ambedue i successi non potessero stare insieme, pure ambidue la trafiggevano, così lacerando la maligna virtù della incertezza.—Per divertire, come poteva, il suo dolore ella prendeva cura straordinaria dei figli; poco si allontanava da loro; lo infante recavasi del continuo al seno, e lo cuopriva con tale impeto di baci, che quegli se ne spaventava e piangeva: ma troppo spesso le carezze dei più adulti, i sorrisi, ed anche il pianto del pargolo la trovavano col pensiero rivolto altrove, e talora eziandio, senza volerlo, le lacrime le bagnavano le gote. Quantunque persistesse a credere Angiolina prima radice del male che la travagliava, tuttavia, così persuadendole la sua natura generosissima, non rimetteva punto della sua carità verso di lei. Mentre così di pensiero in pensiero si tribolava, certa sera girò chetamente sopra gli arpioni la porta di casa, e allo improvviso comparve Giacomo.

Non disse parola, non salutò; si assise alla estremità d'una tavola di contro alla moglie, coprendosi la faccia con ambe le mani. Noi già lo vedemmo squallido, e male in arnese; e non pertanto adesso, oh come mutato da quello! Barba e chioma scompigliate; lordo di fango il cappello; i panni sordidi, e gli occhi infiammati nelle palpebre, e cenerini allo intorno. Luisa si sentì a un punto spaventata, e commossa. Siccome vediamo ordinariamente accadere che l'attenzione nostra, sopraffatta dalla piena del dolore, si fissi sopra un oggetto particolare, e si affligga per questo più che per motivi generali, così ella, considerando le mani sordide e i manichetti sozzi, sentì gonfiarlesi il cuore di un sospiro angoscioso.

Tolse pertanto il fantolino e se lo pose al petto, con la intenzione medesima con la quale il messaggero, là dove non arriva il suono delle parole, mostra da lontano l'olivo, o sventola un panno bianco in segno di pace. Tutto questo non valse a richiamare l'attenzione di Giacomo; il quale reputandosi tradito, piangeva, assorto cupamente, le speranze, la felicità e la benevolenza perdute. Levandosi a un tratto, squassandosi con le mani i capelli, esclamò con voce roca:

—A che sono venuto? Davvero, io non lo so.—Se si potessero gittare via dal cuore gli affetti come il carico dalla nave per iscampare dal naufragio!… ma se non se ne può far getto, bene è concesso sradicare dal seno affetti, e cuore. Tutto può tacere in un punto, e taccia.—Qui mosse per andare.

Luisa, con voce nè carezzevole, nè severa, disse:

—Il padre vorrà allontanarsi dai suoi figliuoli senza averli baciati?

—Dove sono, e chi sono i miei figliuoli? Quale di questi fanciulli farà testimonianza ch'egli nasce da me? Tutto si fonda sopra la fede: vetro fragilissimo! Ora come mi affiderei alla lingua della donna fraudolenta, di cui le parole sono lacci tesi per condurre al vituperio, e alla morte?

Luisa non sapeva che cosa avesse a capire in cotesto discorso, e se ne stava come trasecolata. Giacomo con ghigno amaro soggiungeva:

—Comprendo bene che un uomo, quale mi sono io, incapace di provvedere alla sussistenza della propria famiglia, ceppo sterile, e roso dagl'insetti; che suda da tutti i pori la maledizione di Dio… inutile, insomma, o funesto, deva ispirare disprezzo… e comprendo ancora, e provo come il disprezzo uccida lo amore, e generi l'odio. Ma perchè onestare con l'audacia il misfatto? Perchè convenire la propria colpa in sasso, e lapidarne lo innocente? Bastava, io credo, avermi preso a vile, cuoprirmi di vergogna, senza spingermi perfidamente contra un turbine di male parole, che a modo di polvere accecandomi gli occhi, m'impedisse vedere il vostro delitto.

—Giacomo, a cui favellate voi?

—State tranquilla, io non sono venuto qua per maledirvi; ma solo per dichiararvi che voi avete potuto gettare la disperazione nell'anima mia, non già ingannarmi. Adesso le parole bastano…—adesso, che si spandono come fumo di fiamma spenta… tutto è detto fra noi…—e di nuovo faceva atto di andare.

—Giacomo non partite; per la fede di gentiluomo onorato, non partite. Quando le parole, come la nuvola che contiene il fulmine, portano nella loro oscurità la distruzione della fama d'una creatura di Dio… oh! allora è obbligo chiarirle. Credete che sia vostro il segreto, quando mi avete fatto comprendere ch'egli cela il mio vituperio?

—Mi pare che a voi non ispetti dire questo, perchè le mie parole possono suonare oscure a tutti altri fuori che a voi. Volete il commento al mio testo? Ebbene; eccovelo pronto. Donde vi vennero queste masserizie? Chi provvide questa copia di robe al vivere non che necessaria, superflua?—In questa casa, è vero, io vi lasciai la miseria, e vi trovo l'abbondanza; ma io vi lasciai ancora un'altra cosa, che vi ricerco invano, ed è il mio onore.—Ora non hanno a procedere dal padre la povertà, e la larghezza dei suoi?—Chi sono i castaldi che hanno mietuto per voi? Dov'è il forziere donde prendeste la moneta? Certo non erano del vostro marito. Come si chiama colui che provvede ai bisogni vostri, e di queste creature? Dove si nasconde il cortese, che prende cura di voi più che io stesso? Perchè l'amico della mia famiglia teme di svelare la sua faccia a me?

—Giacomo, per onor vostro, pensate che voi oltraggiate una madre alla presenza dei suoi figliuoli…

—Ma essi che cosa sono mai se non che testimoni, i quali v'incolpano peggio delle mie parole?

—Un parente vostro… e mio… mi sovvenne; io non posso palesarvene il nome perchè mi sono vincolata a tacere. Io mi sento donna da vedere i miei figliuoli piuttosto morti di fame, che pasciuti di vergogna. Questi sospetti di viltà non mi toccano, e vuo' che sappiate, o Giacomo, che io mi sento pura quanto la madre vostra, che adesso è in paradiso.

—Ma e voi, contro la fede del vostro consorte che cosa potevate allegare, ditemi, tranne la perfida calunnia di una persona che nasconde il suo nome, e nonostante questo ricusaste credenza ai miei giuramenti, e alle mie lacrime? Ora come volete, che io chini la faccia alle nude affermazioni vostre? Anche a me furono porti avvisi segreti, e non pochi, ma a questi io non dava ascolto; sto ai fatti, che voi non negate, nè potreste negare. Ora io non dirò con quale giustizia, ma senno pretendete voi, che mentre ricusaste il giuramento del vostro signore e marito a smentire parole calunniose, io deva accogliere il giuramento vostro per giustificare fatti confessati ed evidenti?

—Giacomo… di quanto io vi rimproverava ho prove manifeste in mano; prove delle quali dubitare è impossibile… i vostri sospetti sono infamie… andate…

—Sta bene. Io non ho cuore, nè lena per garrire con voi.—Dopo ciò, senza minaccia, ma orribilmente tranquillo, le si accostò domandandole a voce sommessa: «Potrei io sapere, come in articulo mortis, se fra questi vi è alcuno che sia mio figlio?»

—Giacomo, voi avete parlato una stolta parola. Tutti sono figli vostri…

—Sì, certo, così va detto. Pater est quem justae nuptiae demonstrant; tale almeno dichiara lo jus civile, che fu fabbricato proprio qui in Roma; e il pretore mi condannerebbe a far loro le spese. Padre sono, ma per presunzione di diritto:—padre sono, ma buono per darsi alle bestie. Gran danno che non costumino più gli spettacoli dello anfiteatro Flavio! Non importa; in ogni luogo occorrono travi, alberi, e pozzi, e fiumi.—La sua voce si animava, e al pallore mortale sopra le sue guance subentrava un vermiglio febbrile, e proseguiva:

—Potrei vendicarmi! Ma quando la vendetta ebbe mai virtù di ridonare la perduta felicità? Misero, potrei rendervi misera:—ecco tutto! Il mio cibo nella vita è stato bastantemente amaro per farmi aborrire di tuffarlo per di più nel sangue. No… no… io non voglio vendicarmi… anzi dal cammino della vostra vita io mi torrò come un tronco, impedimento a cui passa… e voi proseguirete dove il cuore vi chiama. Non vi prego a rammentarmi perchè non me ne importa, e voi nol fareste; neppure v'invito ad obliarmi perchè me ne importa anche meno, e questo farete molto bene da voi. Doglia di morto dura finchè non si asciugano le lacrime, e queste si asciugano presto;—e pei mariti di rado si piange. Ma io ho amato queste creature, le ho credute parte di me, e doverle staccare adesso dalla mia affezione mi pesa… ve le raccomando, donna Luisa… se non posso considerarle nate da me, ricordatevi che sono nate da voi.—Certo in questa ora suprema mi sarebbe tornato di conforto grande accostare le labbra sopra una fronte, che fosse sangue mio. Le mie lacrime ormai non saranno piante più per nessuno; torneranno indietro a piangermi sul cuore… amare… gravi… ma brevi. Addio; vi desidero che gli anni vi passino senza rimorsi, e un nuovo marito degno della vostra fedeltà…

Luisa non aveva osato inacerbire la esaltazione di Giacomo con parole di contrasto, e di rampogna. Ora vedendo come gli s'infiochisse la voce, e quasi gli diventasse piangente,

—O figli… abbracciatelo… fategli sentire s'egli è vostro padre, disse affannosa accennando ai fanciulli…

I fanciulli, obbedienti alla parola materna, si mossero ad un tratto; e quale attaccandosi ai lembi della veste faceva prova di attirarlo verso la madre, quale gli stringeva le ginocchia, e quale s'ingegnava salire sopra una seggiola per poterlo abbracciare al collo. Giacomo, ridivenuto tranquillo, si sciolse da loro esclamando:

—Riparate al seno di vostra madre. Infelici! Non sapete che i Cènci avvelenano col fiato?… Addio… e addio per sempre.

E sparì. Il suono dei suoi passi s'intese precipitoso giù per le scale. Luisa si slanciò al balcone, e con la sua voce più lamentosa esclamò:

—Giacomo! Giacomo!

E lo ripetè più volte; ma Giacomo fugge in balìa della feroce passione che lo trasporta. Allora nella egregia donna l'amore vinse ogni risentimento, e, gittatasi addosso una mantiglia, proruppe fuori di casa in traccia del suo consorte. Ella aveva percorso diverse strade, quando tra per la fatica, tra per lo affanno sentendosi venire manco la lena, le fu forza sostare, e assidersi sopra il muricciòlo di un palazzo. Guardandosi poi attentamente dintorno conosce cotesta essere la dimora di monsignore Guido Guerra: levò gli occhi in su, e vide lume. Sapendo cotesto prelato familiare di casa Cènci, e di Giacomo intrinsecissimo, parve a lei che la Provvidenza l'avesse quasi per mano condotta colà; onde fattasi coraggio salì le scale, e, tenuto dietro allo staffiere, senza aspettare che l'annunziasse, penetrò nella stanza, e rinvenne Monsignore in compagnia di due uomini, uno dei quali le giunse noto, comecchè in quel subito non ricordasse in qual parte lo avesse incontrato: esitò un momento; ma poi, sospinta da smaniosa angoscia:

—O Monsignore, disse, voi che per bontà vostra portate amicizia a Giacomo mio marito, deh! per amore di Cristo, mandate gente a cercarlo per Roma, però ch'egli siasi partito da casa tutto infellonito, ed ahimè! dubito con sinistre intenzioni.

—Contro cui, donna Luisa?

—Contro se stesso; e temo forte, ch'egli abbia preso la volta del
Tevere.

—Misericordia! Su, Marzio, andiamo; voi, con parte dei miei staffieri, a manca; io, con l'altra parte, a destra del fiume. Olimpio, voi accompagnate donna Luisa.

Omesso ogni saluto, Guido, Marzio e gli staffieri si precipitano fuori di casa in traccia di Giacomo. Donna Luisa, andando a braccio con Olimpio, così prese a favellare:

—Il vostro volto non mi comparisce nuovo: ma, Santa Vergine! così ho sconturbato il cervello, che la memoria non mi regge… Ah! sì… me ne risovviene adesso… voi vi trovaste allo incendio della casa del falegname di Ripetta.

—Io?

—Sì, ed eravate di quelli che si affaticavano a sovvenire i desolati.

—Io non feci nulla, altro che male. A voi, egregia donna, tutto il merito… Voi siete una santa: viva la vostra faccia. Se la mia domanda non fosse indiscreta, ci sarebbe da sapere perchè vi mostraste travestita da uomo in quella maledetta notte? Perchè vi metteste a quel disperato cimento?

—Ve lo dirò mentre andiamo. La donna, che salvai, mi ha trafitto il cuore; ella ha ricoperto di lutto la mia famiglia, certo non lieta nemmeno prima, ma neppure desolata: che dove regna amore non si allontana mai la speranza. Quello, che Dio ha ordinato all'uomo di non separare, la sua mano ha diviso per sempre: insomma, ella mi ha rapito lo sposo… ed in cotesta notte mi aggirava per là, con la intenzione del lupo intorno alle stalle… voleva bevere il suo sangue, e mi pareva che questo solo potesse bastare a spegnere la mia rabbia. Mi percossero gridi disperati… comparve la donna col figliuolo al balcone;—non vidi più la esosa rivale, vidi la madre… pensai ai miei figliuoli, e mi precipitai per salvarla, però che Cristo mi favellasse dentro al cuore, e mi dicesse: perdona!

Olimpio udendo parlare donna Luisa ardeva, e agghiacciava. Si fruga con la mente dentro nell'anima per vedere se ci fosse luogo da deporvi una speranza di misericordia, e gli parve di no. Allora gemè dal profondo del cuore: così ricadono sul prigioniero le catene con romore disperato dopo i supremi sforzi per romperle. Nondimeno, siccome accanto alla fiamma della carità non vi ha cuore, comunque di selce, che non si riscaldi, Olimpio suo malgrado si sentiva commosso.

—Se io, incominciò a dire, se io potessi sperare che l'assoluzione mi salvasse, a nessuno io vorrei confessare i miei peccati tranne a voi, venerata Signora, e tra Dio, e me non desidererei mettere migliore mediatore di voi. Ma il libro della mia vita ho così empito di delitti, che l'Angiolo Custode non vi troverebbe più tanto di bianco da scrivervi sopra la parola misericordia con la più fina delle penne delle sue ali. Pazienza! E nonostante questo io mi confesserò, perchè se la mia confessione non può giovare a me gioverà a voi, e quindi io ve la faccio. Sapete voi chi incendiò cotesta casa? Io…

—Voi!

—Sapete chi portò al nobile vostro consorte la lettera perfidamente calunniosa, che forse lo ha tratto in furore? Io.—Sapete chi tutto questo ha immaginato perchè voi, e vostro marito vi odiaste?—Il conte Francesco Cènci. Egli si fregava tutto allegro le mani, e disse: è più facile che una rupe spaccata dal fulmine si riunisca, che la mia nuora torni ad amare Giacomo. Ho seminato l'odio, raccoglieranno la desolazione.

Donna Luisa si scioglie impetuosa dal braccio di Olimpio, e corre veloce così, che avrebbe vinto nella fuga il cervo: giunge a casa, irrompe nella stanza ove giaceva sempre inferma la povera Angiolina, e approssimatasi al suo letto palpitante e affannosa, la interroga:

—Donna, per quanto amore porti al tuo Dio, guarda di non mentire.
Conosci tu il Conte Cènci?

Angiolina, spaventata dalla costei vista, e non la ravvisando per gli abiti mutati, come quella che sempre l'era comparsa davanti in veste maschile, risponde:

—Chi siete voi? Che cosa volete da me?

—Io non rispondo, interrogo, soggiunse imperiosamente donna
Luisa—dimmi se tu conosci il Conte Cènci?

—Ma voi… sareste forse sorella del mio benefattore?

—Che t'importa cotesto?—esclama donna Luisa, percuotendo impaziente di un piede la terra;—o uomo, o donna, o demonio, non cercare da cui ti venga la vita. Rispondi… rispondi;—e ripercuoteva co' piedi il pavimento.

Angiolina, come sotto la pressione di un sogno tormentoso, diceva:

—Sì, lo conosco…

Lo conosci, eh! sciagurata, e questo è il figliuolo dei vostri amori? E sì discorrendo caccia le mani nei capelli del fanciullino, che sentendosi far male si mette a guaire…

—Lasciatemelo stare… in che cosa cotesta povera creatura vi ha offeso?

E, come a proteggerlo, ella si spendolava fuori del letto.

—Questo è figlio del peccato, e tu lo hai avuto dal
  Cènci…

—Dal Cènci? Signora, prosegue Angiolina prorompendo in pianto; conviene egli alle gentildonne straziare così la fama di una povera inferma? Io, sì, conosco un vecchio barone, che ha nome conte don Francesco Cènci; fu egli che beneficò il mio defunto marito, e questi mi condusse certa volta a ringraziarlo; egli volle donarmi danari, che io a male in cuore accettai, perchè, malgrado i suoi capelli bianchi e le parole benigne, qualche cosa gli traluceva negli occhi, che metteva spavento: da una volta in su io non l'ho più visto.

—Non di lui… non di lui ti domando, ma del suo figlio don Giacomo.

—Mi parve udire, che don Francesco avesse figliuoli; ma io non li vidi mai, nè so come si chiamino;—e questa risposta ella dette con tale una ingenua tranquillità, che le avrebbe creduto lo stesso apostolo del dubbio, San Tommaso.

—Non lo vedesti mai? Ne ignori il nome? Giuralo pel tuo Dio; giuralo per la tua anima, e coscienza… giuralo per questo Gesù redentore, che, dove tu spergiurassi, sappi che sconficcherebbe le mani di croce per maledirti in eterno.

E staccato un Crocifisso dal capo del letto, glielo poneva dinanzi agli occhi. Angiolina lo prese, lo baciò devotamente, poi glielo rese con atto pieno di dolcezza, chiedendole:

—Siete voi madre, Signora?

—E se non fossi madre avrei avuto cuore di avventarmi nelle fiamme per salvare te, e il tuo figliuolo?

—Voi? E vi chiamate?

—Donna Luisa…

—Moglie?

—Di Giacomo Cènci.

—Ah! Signora; comunque io sia femmina di scarso intelletto, pure comprendo che lingue malvage hanno ad avere messo scandalo di me. Ora uditemi. Santo è il nome di Dio, santo è quello del Redentore, sacre cose sono la coscienza e l'anima; ma io non giurerò per queste.—E messa la mano sul petto del caro pargolo, che le giaceva in culla accanto al letto, proseguiva così:—se io vi ho favellato parole di menzogna possa… in questo momento cessare di palpitare sotto la mia mano questo cuore del mio cuore…

Luisa, come donna tratta fuori di se,

—Ti credo… oh! ti credo, esclamava; e piegandosi sopra Angiolina, le prese con ambe le mani la testa, la baciò pei capelli, per la faccia, pel seno, senza avvertire punto come coteste scosse lei, non bene risanata, addolorassero. Angiolina, per istinto di virtù gentile, frenava appena i lamenti di angoscia che le cagionavano coteste procellose carezze.

———

Anche del cervello si conosce la carta topografica. Gall e Spurzheim vi hanno tracciato sopra le strade maestre, le provinciali, e quelle di sbiado; anzi perfino i viottoli, onde non si smarrisca chiunque abbia vaghezza di viaggiarlo per lungo e per largo. Venite qua, lettore; considerate questo cranio segnato: gittate l'occhio sopra l'ordine delle facoltà affettive, genere primo; alla lettera B troverete lo amore della vita, cioè subito dopo la lettera A che distingue la cupidità del cibo. Da questo esame ne scendono due conseguenze, la prima delle quali ha che fare col mio racconto, la seconda no. E la prima è, che l'uomo possiede le facoltà principali perfettamente pari a quelle dello avvoltoio; divora per vivere: alcuni hanno sostenuto ch'egli vive per divorare, ma non è del tutto vero. L'altra poi, che ci vuole più coraggio a non mangiare che a morire, è maggiore violenza alla natura. Giacomo da più giorni non gustava alcuno alimento, e lo istinto della vita così taceva in lui, che lo aveva preso irresistibile il desiderio della morte.

Quando ciò avviene, occhio di donna non guardò mai così dolce come il foro del teschio, nè labbra di ranuncolo sorrisero così voluttuose come le scarne mascelle. Quelli, nei quali dura lo istinto della vita, reputano acerbo il fato di coloro che si dettero la morte; mentre se questi potessero continuare ad appassionarsi per cosa terrena, sentirebbero immensa pietà per coloro che sono vivi. Rovesciato l'appetito delle cose, tutto quanto piace a cui vive rincresce ai consacrati alla morte: tutti i motivi che i primi trovano per restare, i secondi li trovano per partire: niente è mutato nell'ordine delle funzioni organiche; soltanto l'ago della bussola ha mutato polo: il sentimento si affaccenda a mandar fuori della esistenza desiderii ed affetti, come chi muta casa sgombra le sue masserizie; e quando il letto è in casa nuova, e il riposo delle lunghe tribolazioni nella fossa, noi ci andiamo con voluttuoso conforto a dormire.

Giacomo Cènci, quietato il primo impeto che gli fece abbandonare con tanta passione la famiglia, prese a camminare lento perchè egli fosse venuto nel proponimento di distruggersi non mica per impeto, sibbene per discorso d'intelletto, e quasi sommando le ragioni del vivere e del morire. Importa conoscere come Giacomo pervenisse alla medesima conseguenza per una via diversa da quella di Beatrice.

—Quantunque, ei discorreva fra se, io abbia fatto mille volte questo conto, pure, adesso che mi avvicino al momento di saldarlo, ripassiamolo per vedere se torna. L'uomo ha da considerarsi in tre maniere: riguardo al suo Creatore, riguardo alla città, e riguardo alla famiglia. Incomincio dalla famiglia, e in questa parte la ricerca ha da farsi così—per la famiglia propria, e per la famiglia dei parenti. In quanto a me la famiglia dei congiunti si riduce alla paterna, imperciocchè in quanto agli altri poco curano me, ed io niente loro. Ora è chiaro che mio padre mi odia con tutti i sentimenti dell'anima e del corpo, ed io per necessità mi trovo condotto a dargli frutto corrispondente al seme. Posto che le cose rimanessero a questo punto… oh quanto è incomportabile affanno dovere odiare il proprio genitore! Ma qui non si fermano: egli mi perseguita, m'infama, e mi travolge nella disperazione della miseria. Se la mia anima si accomodasse a questo carico, un giorno mi avverrebbe di contrastare ai cani le immondezze che gettano per le strade, o morire di fame sotto il portico di una chiesa. Se, all'opposto, l'anima deliberasse sferzare il destino, ecco mi trovo attraverso la strada la vita di mio padre, io la calpesto, e passo; che cosa mi aspetta dall'altra parte? Forse il patibolo, certo il rimorso, e la eterna dannazione. Luisa ha inchiodato il mio nome su la gogna, e vivere e soffrire sarebbe un prestare la marca del mio casato ai figliuoli che non nascono da me. Bel mestiere, per dio! I fanciulli m'inseguirebbero con gl'improperii per le vie; gli adulti mi tentennerebbero il capo dietro come a miserabile ribaldo. Potrei vendicarmi;—sì, alzare la mia vergogna come un gonfalone perchè possano vederla anche i più lontani. I tempi non somministrano campo ad atti generosi, nè a studii onesti. La Inquisizione aborre gente che sappia; ella vuole gente che creda: or via, da bravo; consuma qualche rubbio di grano; divora qualche quarto di bove; per uno che sei popola il mondo di quattro, o cinque, od otto infelici; accendi parecchi moccoli ai santi, recita alcune dozzine di rosarii, e muori. Ma no… ti si apre il cammino per farti degno di fama; con che? Con le armi forse? Ingiuria partorisce ingiuria; la maladizione scrive, e la vendetta legge. Con gli studii? Oh! questa è una via, che dalla ignoranza conduce diritto allo errore. Se ti mantieni ignorante, e tu cammini pel buio; se ti erudisci, l'anima si circonda col cilizio del dubbio. E poi, che cosa avvertirà i posteri del tuo sentiero nella vita? La lapide finchè le grappe la terranno su per la parete, o finchè i piedi non l'avranno logorata sul pavimento della chiesa. E ai posteri che cosa importerà di te? Importa a te dei tuoi avi? Non li conosci. Pei tempi che corrono, però, tu puoi scegliere tra la stupidità e la ferocia:—e se io non volessi essere stupido, nè feroce? Se io gitterò via questa vita, che mi tribola, Dio mi condannerà? Perchè?… Egli mi aveva concessa una tazza colma di esistenza, e grazie gli sieno; parte ne ho bevuta, e parte io rovescio a terra—facendone libazione agli Dei. La vittima quanto più cara, tanto più riesce gradita nell'alto; ora, che cosa a noi può essere più caro di noi stessi?—Così fantasticando egli giunse alle sponde del Tevere.

———

Il mormorio delle acque, per l'uomo che sta in procinto di annegarsi, percuote i sensi sublimati dalla morte imminente; vario, distinto, moltiplice a guisa degli effluvii che si spandono dalla famiglia infinita dei fiori. Su la cima delle onde gli si affacciano forme aeree che guizzano, scivolano, si tuffano, tornano a galla, si baciano abbracciandosi, o prendendosi per mano menano balli voluttuosi;—accolte nel cavo delle mani le chiare acque, gliele spruzzano in volto invitandolo con sorrisi e con cenni. È questa illusione di mente inferma, o gli elementi vanno abitati da spiriti misteriosi, che camminandoci al fianco ci sussurrano alle orecchie le buone, o le cattive determinazioni? Omero ci rappresenta dee e numi, invisibili consiglieri degli eroi. A Socrate sapientissimo pareva sentirsi un demone nel seno. Nelle sacre carte occorrono e pitonesse, e larve, e genii malefici, e angioli amorosi. Il Tasso porgeva ascolto al suo genio familiare. Sacrobosco insegnò le sfere sotto la luna andare popolate di spiriti, e Cecco di Ascoli, ai tempi dell'Alighieri, propagò siffatta dottrina. Milton favella di voci arcane, che si odono fra il cielo e la terra; al fato e ai genii prestarono fede Mozart, Napoleone, Byron ed altri infiniti, così antichi come moderni. Nella Irlanda, paese cattolico per eccellenza, non vi ha famiglia che non possieda una Bauskie, o spirito, di cui lo ufficio si assomiglia a quello della Nonna sanguinosa, e di Meleusina. Meleusina era una larva, che compariva sopra i torrioni del castello dei Lusignano, quando alcuno di cotesta casata doveva morire. Follìe!—Io non vi parlerò dei Mesmerismo, dello Illuminismo, e di altre cose siffatte, alle quali i nostri padri, dopo Voltaire e la Enciclopedia, posero piena credenza. Vi narrerò la cena di Cazotte, attestata da testimoni gravissimi. La rivoluzione di Francia si approssimava, e gli uomini destinati a sostenere in quella una parte distinta raccolti a mensa parlavano del regno della ragione, e della felicità universale. Cazotte torbido taceva. Interrogato circa alla causa della sua mestizia, rispose: «con gli occhi della mente prevedere orribili fatti»; e siccome il marchese di Còndorcet lo scherniva, egli gli disse: «voi, Còndorcet, vi avvelenerete per sottrarvi al carnefice». Scoppiano risa, e gridi giocondi. Cazotte continuando predice a Chamfort, che si taglierebbe le vene; a Bailly, a Malesherbes, a Boucher, che morirebbero sul patibolo.—Ma almeno saranno risparmiate le donne?—esclamò allegramente la duchessa di Grammont. «Le donne? Voi, signora, e bene altre dame con voi saranno condotte alla piazza della Giustizia con le mani legate dietro il dorso».—Per modo che voi non mi lasciate nemmeno il conforto di un confessore?—«Confessore! L'ultimo condannato che lo avrà, sarà—e dopo avere esitato un momento—sarà il Re di Francia». I convitati compresi da terrore si levarono; e, quasi per provocare presagi meno tristi, a lui, in procinto di partire, domandò la duchessa:—E a voi, profeta, qual destino riserbano i cieli?—Piegò la testa, e, meditato alquanto, rispose: «Nello assedio di Gerusalemme un uomo per sette giorni di seguito fece il giro delle mura gridando con voce di terrore: sventura a Gerusalemme, sventura! Il settimo giorno gridò: sventura a me! E al punto stesso un sasso enorme briccolato dalle baliste romane lo colse, e lo stritolò». Ciò detto salutava, e partiva; e come disse avvenne[10].

Non vi basta? Ebbene; eccovi uno esempio di caso recentissimo, accaduto durante la mia prigionia. Nel 17 maggio 1850 il Giornale dei Dibattimenti, dopo avere narrato che una larva bianca compariva alla casa degli Hohenzollen quando stava per succedere a qualche membro di cotesta famiglia alcuna sventura, assicurava correre voce, che nella notte del 10 aprile 1850 la dama bianca era comparsa nel castello di Berlino. La sentinella del reggimento imperatore Alessandro dei Granatieri gridò tre volte: «chi viva?» Non ottenendo risposta, insegue il fantasma con l'arme di contro al muro, dove ella sparisce. Nel 22 maggio successivo Sefeloge trasse una pistolettata al re Federigo Guglielmo mentre stava per partire alla volta di Posdam![11]

La ragione condanna simili fantasticherìe;—ma se la ragione condanna, la coscienza approva; e la ragione in balìa del sentimento è straccio di carta legato al piè di una rondine.

Inoltre, la ragione veramente condanna? Considerando la natura noi vediamo com'essa proceda non già per via di salti, ma gradatamente nelle sue creazioni: dai minerali, materia passiva e sterile, noi passiamo alle piante dove incontriamo un moto, una serie di sensazioni, una riproduzione, un palpito insomma di vita: poi ci occorrono le conchiglie e i coralli, e stiamo incerti se devansi annoverare nel regno animale, o vegetale: ancora, la transizione da specie a specie tra gli animali si opera per via di anelli intermedii; così l'anello mezzano, che unisce i volatili agli animali terrestri, viene rappresentato dallo struzzo; tra gli animali terrestri e gli acquatici si pongono gli anfibii; le scimmie stanno a cavallo sopra i confini della bestia, e dell'uomo. Ora se così apparisce graduato il passaggio negli enti rammentati, come avremo a supporre noi che rimanga vuota la immensa lacuna che passa fra gli uomini e le sostanze divine? Perchè le medesime sostanze divine non crederemmo varie fra loro? Dio non è diverso dagli Angioli? Gli Angioli non serbano tra essi gradi, e preminenze distinte? Le apparizioni possono nascere dalla nostra fantasia; tuttavolta la fede diversa professata senza interrompimento per tanti secoli da uomini di varia religione, di varia civiltà, e di vario intelletto, merita pure richiamare il pensiero dei filosofi. Se mi domandi: Quando avrai pensato, che cosa ti verrà fatto concludere? Io rispondo, che questa è un'altra cosa. La scienza è fuoco, l'anima farfalla, e la cenere troppo spesso il frutto dei pensamenti umani…

———

Giacomo Cènci, curvo il petto e le spalle, intendendo fissamente gli occhi nel Tevere, vide, o gli parve vedere emergere dal profondo una forma leggiadra di donna,naiade, ondina, o ninfa delle acque, e apparire vaga, indeterminata come la nostra immagine quando ci affacciamo per l'acqua commossa, e avvicinandosi a mano a mano farsi distinta[12]. Aveva le chiome cerulee stese giù per le guance e pel seno, stillanti gocce lucide dell'iride che scaturisce dalle gemme; la faccia del colore di perla, dai suoi occhi verde mare balenano sguardi i quali si appuntano dolorosamente negli sguardi del Cènci per modo, che gli pareva glieli abbacinassero; ma non sapeva staccarsene, sollecitandolo acuto una voluttà acerba, uno spasimo soave. Dalle labbra di corallo, mobili quanto i suoi occhi stavano fissi, usciva un suono che si diffondeva dolce su le acque, quasi note di armonica;—suono che Ulisse non seppe vincere altrimenti che turandosi gli orecchi con la cera.

—Benvenuto, ella mormorava, benvenuto l'amico segreto del mio cuore; vieni, io sono fresca, e tempero l'arsura nelle membra febbrili; vieni, io ti darò a bere l'acqua gelida, che non si attinge a fontane terrestri;—l'acqua di Lete, che procura l'oblìo. Se vorrai dormire io ti apparecchierò in questi miei umori un letto di aliche molle così, da infondere sonno nei corpi che non conoscono più riposo;—qui nel profondo tu albergherai in palazzi di carbonchio incrostati di zaffiri; sotto la volta delle acque non morde aura ghiacciata di verno, non affanna l'ardente Sirio; quaggiù viviamo dilettate porgendo le orecchie allo arcano mormorio che muove dalle cose, le quali si formano e si disformano perpetuamente nelle viscere del mondo. Noi, se ti piace, o diletto, spazieremo seduti sopra la schiena dei delfini per la superficie delle acque, o inseguiremo negli antri profondi i pesci che fuggono, e gli altri che si difendono combattendo con la spada, o con la sega;—io t'insegnerò a radere con la punta estrema dei piedi il fiore dell'onda, e a palpitare di voluttà con le acque quando i raggi della luna penetrano loro nelle viscere, e l'agitano con tremito di fosforo. Io mi accosto a te, tu accostati a me.—Scortese! Io, vedi, ti tendo le braccia; a me contesero i fati oltrepassare il confino delle onde: qui ti aspetto;—qui c'incontreremo;—e qui ti bacerò.

Il destinato allora sente un brivido nelle ossa; i piedi gli diventano piuma, e il capo piombo; cerca anelante le labbra della ondina, fende l'aria, tocca l'acqua, e la bacia. La ondina in quel punto solleva le braccia grondanti, lo avviluppa, e lo cuopre nel suo abbracciamento.

Il giorno appresso sopra la sponda desolata, fra un canneto, per la sabbia s'incontra un cadavere gonfio, pieno di arena i capelli, gli occhi e la bocca: la sua pelle mostra i colori delle erbe marine: gli occhi, comunque spenti, pare che cerchino sempre qualche cosa, nè mai si giunge a farglieli stare chiusi:—egli sembra morto di piacere… veramente il bacio della ondina gli ha dato la morte.—

Ma Giacomo Cènci sul punto di spiccare il salto fatale era tenuto forte da due mani sul parapetto, ed una voce nota lo chiamò:

—Forsennato! che fate voi?

Giacomo attonito levò un momento il capo, e poi lo ripiegò verso il Tevere. Ogni canto era cessato; le voci tacquero, la bella faccia della ondina disparve. Allora la sua anima, spinta fino allo estremo limite dello infinito, stornò aborrente agli uffici consueti della vita, e vide, o conobbe l'amico Guido Guerra.

—Oh! Guido…

—Sciagurato!—Tra commiserando, e rimproverando proseguiva monsignore
Guerra; e i vostri figliuoli?

Giacomo scosse le spalle, e non rispose verbo; lasciò condursi rifinito di forze come uomo senza volontà; solo quando si accorse mettere il piede sopra la soglia di casa sua, volto a monsignore Guerra gli favellò:

—Amico, se voi credete che io debba ringraziarvi, v'ingannate. A questa ora, voi non impedendo, io aveva letto il laus Deo della vita, chiuso il libro, e conosciuto com'era andata a finire: non bene, per dio, non bene; ma siccome potrebbe andare a concludere anche peggio, così mi contentava. A rischio di passare per ingrato, no, io non vi ringrazio.

Nello entrare in casa gli si presentò una vista assai strana.

«Temistocle, narra Plutarco, vedendosi perseguitato dagli Ateniesi e dai Lacedemoni, si gittò in seno a speranze dubbiose e difficili rifuggendosi ad Admeto re dei Molossi, dal quale era avuto in odio per certa repulsa superba fatta alle istanze di lui mentr'egli teneva la suprema magistratura in Atene. Pure Temistocle, temendo adesso più la nuova invidia dei suoi nemici che lo antico sdegno del re, determinò implorarne l'aita con modo singolare; imperciocchè presone il pargoletto figliuolo nelle braccia, si prostese supplicando davanti l'ara domestica; la quale maniera di pregare si reputava presso i Molossi solenne, e la sola che non potesse rifiutarsi»[13].

Così un uomo di sembianza sinistra, membruto a modo dell'Ercole
Farnese, tenendo nelle braccia il minore dei figliuoli di Giacomo
Cènci, verso di questo lo sporgeva supplichevole.

Cotesta squisitezza di affetto era facile che si dimostrasse da donna Luisa amante, e madre; ma come fosse caduta nell'animo ad Olimpio, natura tristamente salvatica davvero, non si saprebbe immaginare. Talora le api posero il favo del mele nella gola della fiera; ma ella è cosa tanto straordinaria, che Sansone ne fece argomento di enimma pei Filistei[14].

Ma il partito giovò ad Olimpio; che tenendo il fanciullo come il corno dell'altare, confessò pianamente a Giacomo tutte le sue colpe commesse per ordine del Conte Cènci al fine di distruggergli la pace domestica. Intanto il pargolo sollevava di tratto in tratto le sue manine, e tutto vezzoso rideva, sicchè Giacomo non seppe sdegnarsi contro Olimpio; il quale, colto il destro, posto nelle braccia del padre il fantolino, soggiunse:

—Ora, poichè col figlio vi ho portato la pace, in grazia di questa innocente creatura, che per me intercede, io vi supplico, signore, che mi vogliate perdonare.

Giacomo tacque, e girò gli occhi attorno torbido sempre, e sospettoso; se non che Luisa, indovinando quel muto linguaggio, trasse da parte Olimpio; e postasi genuflessa davanti al marito, così gli disse:

—Mio sposo, e signore; noi abbiamo scambievolmente dubitato della nostra fede. A me valga per iscusa considerare che dalla perfida lingua del serpente non seppe guardarsi neppure Eva, la quale, come uscita dalle mani stesse del Creatore, deve supporsi che fosse composta con perfezione maggiore di noi. Avendo conosciuto lo scellerato fine a cui mirava Francesco Cènci, e considerando gl'ipocriti non meno che tristi argomenti posti in opera da lui, io mi credo sciolta da ogni promessa giurata, e vi faccio manifesto come, mossa dalla disperazione, io me ne andassi dal suocero, gli esponessi lo stato della nostra famiglia, e lo supplicassi a soccorrere i miei figli desolati, che pure erano suo sangue. Di padre amoroso le parole furono e gli atti: a me, credula per passione, narrò una lunga storia dei vostri amori, e di danari profusi in lascivie, e negati ai figli, e mi sovvenne benignamente di trecento scudi, a patto che non vi palesassi da cui mi venissero: così, con perfido consiglio, a me dava ad intendere voi perduto dietro adultera pratica; a voi, che io a prezzo di vergogna procurassi agiato vivere a me, e ai nostri figli…

La donna con tanta veemenza, e prestezza aveva favellato fino a questo punto, che Giacomo non la potè interrompere. Qui però le troncava la voce dicendo:

—Cotesta posizione male conviene alla moglie di Giacomo Cènci. S'ella meritasse che il suo marito la rilevasse da terra, egli non le potrebbe dire: Luisa, il tuo posto è qui sul cuore del tuo Giacomo, che ti ha amata, e che ti ama tanto…

Si abbracciarono, e piansero lacrime di tenerezza. Lasciamo che sgorghino copiose, e soavi; forse chi sa se la fortuna appresterà più loro la occasione di versarne di piacere.

I figli, comunque fanciulletti si fossero, che il maggiore non arrivava ai sette anni, piangevano anch'essi di allegrezza, ed esultavano aggruppati in atti dolcissimi quali intorno al padre, e quali intorno alla madre. Monsignor Guerra e Marzio, quantunque li premesse urgente il bisogno di mandare ad esecuzione certo loro disegno, non ardivano turbare la santità degli affetti domestici. Olimpio, postosi a sedere in terra con le spalle appoggiate alla parete, quasi di soppiatto erasi di nuovo impadronito del fanciullino, e, ora sollevandolo ora abbassandolo, lo faceva ridere.

Davvero egli era oltre ogni credere vezzoso: rassomigliava al bambino Gesù dipinto dallo Albano, che dorme sopra una croce; e il figliuolo di Giacomo Cènci rendeva la pittura dello Albano anche per un altro motivo, imperciocchè la fortuna lo stendesse appena nato sopra una croce senza fine amara, come conosceranno coloro che vorranno proseguire la lettura di questa storia dolente.

Il bandito considerando cotesta fronte purissima richiamava invano col desiderio i giorni nei quali, egli fanciullo, forse destò nell'anima di cui lo guardava un simile affetto.—Quando glielo tolsero per rimetterlo nella culla gli parve sentirsi uscire di mano la ultima tavola, sopra la quale aveva confidato salvarsi dal naufragio.

NOTE

[1] Nello intento di adulare Ottaviano Augusto, gl'inviati di Tarragona gli referirono, un giorno, come sopra la sua ara fosse cresciuto un alloro (altri dicono una palma). Augusto, sdegnando essere tolto a compare di questa goffa piaggerìa, rispose: «Questo è segno espresso, che voi non vi curate sagrificare vittime in onor mio.» Vita di Ottavio Augusto, attribuita a Plutarco.

[2] «Poi vidi nella destra di colui, che sedeva sul trono, un libro scritto di dentro e di fuori, suggellato con sette sigilli». Apoc. Cap. V. n. 1.

[3] Scilla, racconta la favola, fu ninfa, e di lei innamorò Glauco dio marino; il quale non le potendo toccare il cuore ebbe ricorso a Circe maga, che gli compose certo suo filtro da mescolarsi con l'acqua della fontana dove la ninfa si bagnava. Scilla, entrata nel bagno, si trovò cangiata in mostro con sei bocche e sei teste, ed una cintura di cani le si cinse alla vita. (Odissea, lib. XII. v. 85 e segg. Eneide, lib. III. v. 424 e segg.) Il FLAXMAN, nelle sue composizioni della Odissea, rappresenta Scilla circondata da cani, e così pure si osserva negli antichi cammei. Questo vortice marino prossimo alla Sicilia, secondo che Pausania afferma (II. c. 34), col fragore delle sue acque imita i latrati dei cani.

[4] Dicesi che avendo Pausania, mosso da vergognoso appetito, mandato a prendere una fanciulla di Bisanzio, che aveva nome Cleonice, figliuola di genitori ragguardevoli e chiari, questi gliela lasciarono condurre da necessità costretti, e da tema; e che avendo ella pregato, prima di entrare nella stanza, che spento vi fosse il lume, inoltrandosi poscia all'oscuro, e tacitamente verso il letto in cui già Pausania dormiva, urtò non volendo nella estinta lucerna, e la rovesciò; e ch'egli destatosi con agitazione allo strepito, e sguainato un pugnale che teneva appresso, cominciò a dare dei colpi come se qualche nemico gli si facesse incontro, e ferì la giovane; la quale essendo morta per una tale ferita, mai più non lasciò poi riposare Pausania; ma frequentemente di notte gli appariva fra il sonno in forma di larva, e con impeto di collera gli diceva un verso eroico di questo significato

Va all'ultrice giustizia, che ti aspetta; Male assai grande è agli uomini la ingiuria.

Per un'azione siffatta male potendolo sopportare gli alleati, andarono insieme con Cimone ad assediarlo; ma Pausania se ne scampò fuori di Bisanzio, ed agitato, per quanto si racconta, da quel fantasma, rifuggissi ad Eraclea nel tempio Negromantico; e chiamando quivi l'anima di Clèonice, supplicavala di volere deporre lo sdegno: ella però comparitagli, disse che ben tosto liberato sarebbe da ogni male come giunto fosse in Lacedemonia; alludendo, com'è probabile, a quella morte, ch'era quivi per incontrare. PLUTARCO, in Vita Cimonis. Che poi questo spettro comparisse a Pausania ogni qual volta si affacciava alla superficie delle acque, si ricava dal Dizionario infernale alla parola Idromanzia.

[5] Semplice traduzione di due versi di Condorcet, giustiziato nella prima rivoluzione di Francia:

        Ils m'ont dit: choissis être oppresseur, ou victime.
        J'embrassai le malheur, et leur laissai le crime.

  [6] ………. in un col latte
        T'imbevvi io l'odio del patrizio nome;
        Serbalo caro; a lor si dee, che sono
        A seconda dell'aura o lieta, o avversa,
        Or superbi, ora umili, infami sempre:

disse il conte ALFIERI nella Virginia.

[7] Suburra che fosse lo diremo in latino, valendoci delle parole altrui: «Erat regio (Romae) in qua meretricium diversoria erant: quae ob id Suburranae dicuntur a poetis». Thesaur, ling. latin. t. IV.—In Roma poi vendevansi ceci e noci fritte, e di questo cibo assai si mostrava vaga la plebe. Nell'Arte Poetica di ORAZIO troviamo il verso 249, che dice:

Nec si quid fricti ciceris probat, et nucis emptor;

e nella Bacch. di PLAUTO l'altro, concepito:

Tam frictum ego illum redeam quam frictum est cicer.

  [8] «Imperciocchè anco le preghiere sono figliuole di Giove: zoppe,
    grinzose, e guerce degli occhi; e queste andando dietro la
    ingiuria la emendano. La ingiuria è gagliarda, e di piè fermo
    passa per tutta la terra offendendo, ed esse le tengono dietro, e
    medicano i di lei danni. Ora, chi rispetta le figlie di Giove
    allorchè gli si accostano, questo sarà vicendevolmente assai
    giovato da loro, ed esaudito quando ei prega; ma se alcuno le
    rigetta, ed ostinatamente le recusa, allora queste andando pregano
    Giove Saturnio che la ingiuria persegua colui acciocchè, offeso,
    paghi la pena della sua durezza». OMERO, Iliade, lib. IX.

  [9] «In ogni tempo, in ogni contrada i patrizii hanno perseguitato
    implacabilmente gli amici del popolo; e se per caso alcuno ne
    sorse nel grembo loro, sopra di questo particolarmente percossero,
    studiosi d'incutere spavento con la grandezza della vittima. Così
    periva l'ultimo dei Gracchi per la mano dei patrizii; ma giunto
    dal colpo fatale, lanciò un pugno di polvere contro il cielo
    prendendo in testimonio gli Dei immortali, e da quella polvere
    nacque Mario. Mario, meno grande per avere sterminato i Cimbri,
    che per avere abbattuto in Roma l'aristocrazia della nobiltà».
    MIRABEAU, Mémoires, t. V p. 256.

[10] LUIGI BLANC. Storia della Rivoluzione di Francia, t. II, lib. 3.

[11] Giornali del tempo, e segnatamente il Débats.

  [12] Quali per vetri trasparenti e tersi,
          Ovver per acque nitide e tranquille
          Non sì profonde, che i fondi sien persi,
        Tornan dei nostri visi le postille
          Debili sì, che perla in bianca fronte
          Non vien men forte alle nostre pupille.

                                     Paradiso Canto III.

[13] PLUTARCO, Vita di Temistocle. Il Visconte di Chateaubriand nelle sue Memorie, t.I. p. 290, scrive: «Quando un uomo domandava la ospitalità presso gl'Indiani, lo straniero incominciava il ballo del supplichevole. Un fanciullo toccava la soglia, dicendo: «ecco lo straniero!» Il capo rispondeva: «mettilo dentro». Lo straniero protetto dal fanciullo sedeva su la cenere del focolare. Le donne cantavano l'inno della consolazione … Questi usi sembrano imitati dai Greci. Temistocle presso Admeto abbraccia i Penati, ed il figliuolino dell'ospite. Ulisse in casa di Alcinoo implora Arete così: «nobile figlia di Resenore, dopo avere durato mali crudeli io mi prostro davanti a voi ec.». Compiute queste parole l'eroe si asside sopra le ceneri del focolare».

[14] Lo enimma dato da Sansone ai Filistei, diceva: «dal divoratore uscì il cibo, dalla forza venne la dolcezza»; ed accennava allo avere egli trovato un favo di mele nella bocca del lione morto. Giudici, C. IV.

CAPITOLO XVIII.

ROMA.

                    Or di tante grandezze appena resta
                      Viva la rimembranza; e mentre insulta
                      Al valor morto, alla virtù sepulta,
                      Te barbaro rigor preme, e calpesta.
                                               TESTI, A Roma

Giacomo Cènci convitato a mensa da monsignore Guerra si ridusse a casa tardi nella notte successiva; e se a donna Luisa quella sua dimora soverchia fu motivo di affanno, il suo giungere non la consolò meglio; imperciocchè egli si dimostrasse pensieroso e mesto: ricusò vedere i figliuoli; si astenne perfino da baciare, come soleva, lo infante; anzi al vagire di quello tramutò visibilmente nella faccia. Postosi a giacere lo travagliarono sogni tormentosi, e fu sentito lamentarsi dicendo; è morto! è morto! Allo improvviso si svegliò esterrefatto; girò attorno torbidi gli sguardi, e, vistasi la moglie al fianco, l'abbracciò stretto stretto come soverchiato da interna passione, esclamando non senza lacrime:

—Quanto era meglio che io avessi cessato di vivere!

—Ti penti forse essere tornato nel seno della tua famiglia che ti adora?—gli rispondeva la moglie affettuosissima.

—No, Luisa, no; Dio me ne guardi; e ciò nonostante, credimi, sarebbe stato meglio che io fossi morto… e lo vedrai.

—Luisa da femmina discreta tacque, attribuendo cotesto fastidio angoscioso alle commozioni passate; e confidò nel tempo, nelle sue cure, e nelle carezze dei figli per ricondurre la pace nello spirito agitato di lui.

In quella medesima notte si partirono da Roma Marzio ed Olimpio provveduti di molta moneta di oro. Cavalcavano due poderosi cavalli; e comunque camminassero senza sospetto d'incontrare per via cosa che fosse al loro andare molesta, pure procedevano muniti di armi pronte a far fuoco.

Scorsi alquanti giorni, don Francesco sentendosi bene della persona disposto, e del piede abbastanza rimesso, certa mattina, sul fare dell'alba, sveglia di repente la famiglia, e le ordina, che così come si trovava vestita scendesse.—Nel cortile Beatrice vide apparecchiati cavalli da sella, la carrozza, ed uomini di scorta; indizio manifesto di lungo viaggio. Dove il padre la menasse, per quanto tempo sarebbe rimasta lontana da Roma, questo fu quello ch'ella non gli domandò, nè alcuno della famiglia si attentò a richiederglielo.

Il Cènci aveva provveduto a tutto con la sua ordinaria solerzia. Non gli parendo bene avventurarsi co' soli famigli per le vie infami, che da Roma conducevano alla Rocca Ribalda, aveva stipendiato per alquanti giorni una mano di guardie campestri, che gli tutelassero il cammino. Altre volte egli aveva percorso le cinquantotto miglia che passano tra la città e cotesto feudo, in un giorno solo; ma adesso non vi era da contarci sopra, considerando da una parte la carrozza lenta a muoversi, e dall'altra le strade o sprofondate nella polvere, o dirotte pei poggi, e il caldo grande della stagione. Nei cariaggi il Conte aveva fatto riporre biancherie, argenti, di ogni maniera vettovaglie, e vini di più ragioni, fra i quali una fiasca di keres che aveva sopra la veste dipinta la data del 1550, raccomandando che ne avessero cura particolare.

Beatrice, prima di entrare in carrozza, indirizzandosi al Conte gli disse:

—Signor Padre, ho da parlarvi…

—Silenzio; salite…

E Beatrice, volgendogli supplichevoli le mani, di nuovo:

—Signor Padre, uditemi per lo amore di Dio… ne va della vita vostra…

Ma il Cènci, reputando coteste smanie sforzi per sottrarsi dallo aborrito viaggio, la cacciò di una spinta in carrozza, chiuse a chiave lo sportello, e fece abbassare diligentemente le cortine.

Dato il cenno della partenza don Francesco salì con gli altri a cavallo, e tutti si posero in via senza dire un fiato. Cotesta compagnia, più che di cavalcata viaggiatrice, aveva sembianza di associazione di qualche illustre defunto. Uscirono dalla porta di San Lorenzo, e tenendo sempre la strada Tiburtina giunsero a Tivoli.

Non poeta traversò la campagna romana senza cantare il tumulto degli affetti, e dei pensieri che destò nel suo animo la vista di tanti luoghi solenni per grandezza di antiche memorie, per decoro di fabbriche, e per desolazione moderna: solo che il cuore gli si commuovesse a pietà, spontanee e belle gli uscirono le parole dai labbri come le lacrime dagli occhi.—Nessuno ardì maledirci—nessuno—tranne uno solo, nato dalla gente che ha per costume di rompere la fede ridendo[1];—il quale non aborrì insultare un popolo fatto cenere per la vendetta del mondo congiurato a suo danno, per la maligna onnipotenza dei fati, e pel perpetuo tradimento dei suoi;—egli solo calpestava lo immane sepolcro oltraggioso e protervo; però che ci venisse dalla gente leggiera, farfalle insanguinate, astiosa del parlare, e della fama romana[2].

Non pittore traversò la campagna romana senza rapire a questo cielo qualche tinta azzurra e di oro per trasportarla sopra i suoi quadri, che indi furono divini. Dacchè Dio volle che l'aere di questo sepolcro si mantenga glorioso, e magnifiche sieno le aurore, e stupendi i crepuscoli. Le querce annose scuotendo le fronde al vento mormorano antichi misteri, e l'erba cresciuta sopra le fosse funerali spira voce fatidica.

Passerò io per la campagna romana senza gittarvi sopra uno sguardo di pittore, o di poeta? Le pagine immortali del Byron, del Goëthe, della Staël, del Montaigne, e di altri famosi antichi e moderni scrittori mi sbigottiscono forse? Oh! l'ala della immaginazione percuotendo contro i ferri della carcere si rompe, e gronda sangue. La musa, vergine mite, si arresta sul limitare della casa dei sospiri, e torce altrove lo sguardo. Levando gli occhi in alto io non incontro più la casta faccia delle stelle, che versano su l'anima luce, amore, e poesia. I campi aperti e il sole mi tornano alla mente affaticata dalla empia virtù della prigione, come le immagini dei ruscelletti del Casentino tormentavano maestro Adamo condannato a perpetua sete nello inferno[3].—Ma dalle mani di Dio escono spiriti tranquilli, che, a guisa di lago, compiaccionsi riflettere nella limpida superficie le sponde floride, i colli cerulei, i bianchi casolari, la parrocchia, il campanile, le croci del camposanto di campagna,—le gioie, insomma, di coloro che nascono inosservati come le foglie di aprile, e muoiono inosservati come le foglie di autunno. Ogni soffio leggiero da cima in fondo gli scompiglia, e la pace, rimane in essi sconvolta con la dolce armonìa. Altri poi, senza requie commossi, amano fare specchio di se alla faccia di Dio divampante fra i fulmini come l'oceano in tempesta: si nutriscono di procelle, e le corde di ferro delle loro arpe eolie non rendono suono se non le scuote il fulmine. Ora, quando pure la sventura non avesse inaridito il mio spirito come fa il sole della erba dei campi; quando pure il mio spirito non avesse rovesciata la sua fiaccola a guisa di genio al fianco di un sepolcro, perchè userei la sua forza ad evocare sopra le pianure antiche eserciti di combattenti, e agiterei con palpito nuovo i miei lettori sopra le vicende della pugna, e i pericoli di una gente, il cuore della quale cessò di palpitare da venti e più secoli? Perchè aprirei sommessamente le porte del tempio di Giano, di cui il cigolìo scuoteva un giorno le viscere della terra? Con qual consiglio popolerei la via sacra di carri, di cavalli, e di cavalieri armati lampeggianti ai raggi del sole? Perchè la ingombrerei di nuvole profumate, che si alzano dai turiboli d'oro, (—profumi, e vasi rapiti—) di sacerdoti, di vittime, e di re barbari incatenati? Perchè i nitriti di cavalli, e le grida dei cavalieri già da mille anni disfatti spaventeranno gli echi ormai usi da secoli a ripetere il salmo cantato dietro la povera bara del villano morto di febbre dal frate tremante pel ribrezzo della febbre? Scoperchiamo gli avelli, e interroghiamo le ossa dei sepolti in questa parte della campagna romana—gli Orazii, i Plauzii, gli Scipioni—: costringiamo anche Cestio,—anche Metella, entrambi i quali nascosero il mistero della loro vita sotto splendidi monumenti, lasciandoli ai posteri come uno enimma a indovinare—a narrarcelo intero. Io posso, per virtù di poesia, farvi vedere dalle gelide labbra dei morti scintillare parole come faville elettriche. E quando tutto questo potesse farsi, e quando tutto questo facessi, qual prò ne ricaverebbe la Patria? Forse dalla storia dei gesti antichi ricaverebbero argomento di forza i viventi? Ahimè! Dio si è ritirato da noi perchè la nostra ignominia supera la sua misericordia. Forse delle glorie antiche vorrò comporre un flagello nuovo per percuotere la moderna fiacchezza?—Tutti siamo rei. Vestiti di cilizio, col capo cosparso di cenere, prostesi a terra i Profeti lamentarono la desolazione di Gerusalemme: sopra i fiumi di Babilonia le vergini di Sion, sospesa l'arpa ai salici,—piangevano l'amara schiavitù:—più felici di noi perocchè lamentassero ad alta voce, e tutti i Giudei accompagnassero i mesti inni con i singulti! A noi è tolta perfino la libertà del pianto. Deh! sussurrate sommessi, onde per avventura il vostro ronzìo non rincresca allo straniero, e vi calpesti come i vermi della terra;—gemete sommessi, onde i vostri stessi fratelli non vi denunzino al giudice fratello, e questi vi mandi in prigione o per gli ergastoli, o a morte per amore dello straniero, che gli dà pane, titoli, e infamia.

Addio, cascate di Tivoli; invano il vostro Genio tenta abbagliarmi coll'iride, che mandano gli zampilli dell'acqua rotta su gli orli dello abisso:—voi non avrete gli onori di altri canti.—Addio, flutti pallidi dell'Aniene, consapevoli dei riti arcani degli Aborigeni; scorrete in pace per la morta campagna: io non vi domanderò se le stirpi andate degli Enotrii, degli Ausonii e degl'Itali fossero più o meno infelici di noi sopra questa terra, dove la mèsse, alimento dell'uomo, cresce per solchi pieni di morte; la vigna, letizia del cuore, per la costa riarsa del vulcano; la intelligenza, fra i pruni della superstizione; la virtù, sotto il taglio della mannaia. Ahimè! ahimè! Il fegato di Prometeo non è favola in Italia.—

Ma se sarebbe vanità rammentare glorie vetuste, mi giova tratto tratto soffermarmi nella via che percorrono i miei personaggi, e raccogliere gli amari pensieri che desta la vista di luoghi famosi per ricordanze lugubri. Il dolore è della famiglia dei cancri, e intende essere alimentato di carne, e della più sensibile del cuore umano. E non sapete voi, che la creatura può trovarsi ridotta in tale stato da mettersi con piacere le dita nella piaga, e lacerarla, e vederne, esultando, stillare fino all'ultima goccia il suo sangue? Catone, quando altro non gli fu dato, si strappò le viscere, e le battè nel viso alla fortuna, come costumavasi fare ai traditori.

Ecco da questo lato il campo di Marte, che fu podere di Tarquinio il superbo. Il Popolo, nel giorno della vittoria ne svelse le spighe mature, e le gittò nel Tevere;—i manipoli resistendo al corso delle acque sceme mescolaronsi con la terra, e ne composero l'isola sacra dedicata ad Esculapio, dio della Salute[4]. Ma quante volte il Popolo seppe rammentare, che i doni del tiranno si convertono in arsenico dentro le sue viscere? Tutti si stringono—ed io l'ho veduto, e lo vedo—tutti si stringono intorno alla tirannide a succhiare, come intorno alle infinite mammelle di Cibele. Vi aggrada cotesto umore? Succhiate, maledetti! A stille, e per mercede, vi si rende quello che a largo sorso fu bevuto dalle vostre vene.

Ecco la via Appia, che da Roma, traversando le paludi pontine, andava a Brindisi, reliquia di paterna grandezza rimasta come scherno delle nostre opere di un giorno. Lì presso contristano più moderne rovine, quelle di Anagni, dove fece naufragio il superbo concetto del Papato[5]. La guanciata di Sciarra Colonna sopra la faccia di Bonifazio VIII infranse irreparabilmente il triregno. Non essendosi aperta in quel momento la terra sotto i sacrileghi, come a Datan e a Core[6], il mondo dubitò che Dio stesse davvero (come gli s'imponeva credere sotto pena della eterna dannazione) col suo Pontefice. I colli di Roma non imitavano ancora il monte di Gerusalemme, dove si annidano le volpi[7]; qualche volta vi ruggiva anche il lione; ma da quel giorno in poi le chiavi di San Pietro,—le chiavi della Città Celeste—dall'avara viltà dei Sacerdoti furono sovente presentate ai Potenti della terra come chiavi di vinta città.

Ecco Ferentino, là dove è fama che Manfredi, impaziente di regno, calpestasse come uno scaglione la testa del padre Federigo per salire sublime. O corona! quanto hanno ad essere infernali i tuoi splendori, se un cavaliere sì degno non rifuggì acquistarti a prezzo di un parricidio!

Più oltre apparisce San Germano, dove i Pugliesi furono bugiardi a Manfredi per Carlo di Angiò; antica usanza di schiavi, che immaginano mutare stato perchè mutano soma. Si abbiano l'abbominazione dello antico signore, e il disprezzo del nuovo; chè troppo bene meritarono ambedue.

Da questa parte giacciono i campi Palenti, dove la stella scintillante della casa Sveva tramontò per sempre dentro un lago di sangue. Stella imperiale, la tua aurora fu vermiglia; il tuo mezzogiorno purpureo; il tuo tramonto sanguigno: nè quel colore fu ricavato dal mollusco dei mari di Tiro, bensì dalle vene degli uomini, che non ne mancano mai.

Volgiti al Mediterraneo; là, là è un piccolo castello, infame pel tradimento del giovane falco degli Hohenstauffen. Infelice Corradino! quantunque cresciuto alla preda, ci commuove il tuo fato di fiore reciso su l'aurora della vita. Tu almeno saresti stato leggiadro, ed animoso tiranno!—[8] Tu avresti sbranato, non leccato il sangue… E che cosa altro di meglio concessero le Eumenidi di fare al tiranno?

Poco oltre sorgeva un giorno Minturna; e lì Mario, trepidante per la sua vita, si nascose nel fango fuggendo coloro che lo cercavano a morte; e lì egli fugava col terrore dello sguardo il Cimbro omicida… Dio del cielo! allora ai nostri padri per fugare i barbari bastava la virtù di uno sguardo!—O Mario, che valsero i tuoi trionfi contro i Cimbri e i Teutoni, e che cosa valsero quelli del tuo fiero avversario Silla contro Mitridate? Andate perpetuamente maledetti, però che voi foste la rovina di Roma. Le discordie della plebe co' patrizii avvantaggiarono la repubblica finchè terminarono in leggi; ma quando il sangue cittadino scorse a rivi per le strade, e toccò il limitare dei tempii a guisa di onda commossa dagli Dei infernali; ma quando per la prima volta furono viste le spoglie di romani trucidati portate in trionfo insieme alle spoglie dei barbari, allora incominciò l'agonìa di Roma, e l'ombra invendicata di Annibale rise fin su la foce di Averno[9].

Dentro i sepolcri della proscrizione si generano i serpenti della discordia; il sangue chiama sangue da Abele in poi; e la Vendetta, tolti in prestanza dal Tempo l'orologio a polvere e la falce, guarda quello, e arrota questa: quando l'ora sarà giunta, popoli e genti cadranno come fieno mietuto:—anche la Morte ha da avere i suoi saturnali; e lo vedrete.

Volgiamoci all'Adriatico, poichè da questi luoghi si scorgono entrambi i mari; colà si levano ancora le torri di Ancona, le quali una volta rammentavano disperata difesa cittadina, ed esoso nemico respinto; oggi poi ricordano gemino stupro, e invendicato da gente, che si nutrisce di vergogna come di pane. Cesena richiama alla mente la strage nefanda ordinata dal Cardinale di Ginevra. Giovanni Acuto, soldato di ventura, sentì ribrezzo dello indistinto eccidio; ma il sacerdote furibondo urlava: «Sangue; io voglio sangue, e siano morti tutti»[10] O Cardinale, tu a buon diritto ti guadagnasti la porpora vermiglia.

Poco più oltre ecco Senigaglia, che dura famosa nel mondo pel modo tenuto dal duca Valentino, il truce bastardo di Alessandro VI, per ammazzare i Baroni della Romagna[11].

Così, sia che tu ti volga alla diritta, o alla sinistra sponda, i mari d'Italia gridano lungo i liti: tradimento!

Da Rocca Petrella guardando a oriente vedi le acque del lago Fucino: esse dormono adesso simili a quelle del mare morto. Un giorno furono piene di stridi feroci, di aneliti, e di stragi. Claudio, sazio delle morti del circo, qui volle letiziare i suoi occhi con lo spettacolo di una battaglia navale, e trovò tremila uomini, o piuttosto belve con la faccia umana, che consentirono a trucidare, e ad essere trucidati pel piacere dello Imperatore; nè già con ira, o imprecando sul capo di lui le furie, ma lieti e salutanti[12]. Così l'antica Roma ebbe più schiavi disposti a morire per la ricreazione di un tiranno, che Roma moderna cittadini per la libertà della Patria!

Basta.—Addietro visioni che spaventate l'anima agitandola.—Cessa una volta, spirito infermo, di scuotere davanti a te stesso la camicia insanguinata della umanità. Il gran Cieco inglese renunziò a dettare la storia della Ettarchia sassone sul fondamento, che tanto valeva scrivere quella degli avvoltoi; io avrei voluto sapere, che cosa gli fosse sembrato scrivere raccontando quella degli uomini[13].

Sopra tutto questo mare di rovine la basilica di San Pietro Vaticano con la sua croce in cima alla palla, pare che galleggi come l'arca di Noè.—Perchè non ha ella salvato il genere umano, e perchè non rinnuovò il patto dell'alleanza della terra col cielo?—Di cui è la colpa?—Un'altra volta forse lo dirò, non certo nuovamente, ma inutilmente sempre. La Esperienza, che scrive la storia, si assomiglia alle figlie di Danao affaticate a riempire le botti senza fondo. L'universo è un fiume, e la umanità spensierata sta sopra le sponde a guardare scorrere le acque: può egli l'uomo rammentarsi dei flutti dell'anno passato, o può farne suo vantaggio? Così passano gli eventi irrevocati dalla memoria, sterili di virtù.—

I miei personaggi da Tivoli seguitando la via Valeria si ridussero a Vicovaro, ove a cagione del caldo grande e della via malagevole ebbero a soffermarsi, e con quanto cruccio del Conte Cènci non è da dire, il quale invano tentò di spingersi innanzi. I cavalli trafelati non obbedivano a frusta nè a sprone. A vespro ripresero il cammino, e pervennero alla osteria della Ferrata ov'è mestiere lasciare le carrozze, e salire il monte su cavalli e su muli. Il Cènci scese, e chiamato l'oste lo interrogò se avessero dalla Petrella mandato somieri per prenderlo.

—Io non ho visto muli, rispose l'oste con faccia brusca.

—Ma non si trattenne qui, passando, un mio fante che ha nome Marzio?

—Non so di Marzio, e non ho veduto marzi, nè aprili.

Don Francesco aveva mosso codesta domanda ad arte per assicurarsi se fosse stato ucciso Marzio, e per infingersi ad ogni buon riguardo ignaro dell'omicidio; ma poichè l'oste nulla sapeva, gli parve bene simulare una gran collera, e bestemmiò Marzio, e la pigrizia dei servi a soddisfare gli ordini dei padroni, mostrandosi imbarazzato a procurarsi i trasporti; se non che l'oste, burbero sempre secondo il costume dei romani, gli osservò:

—A che serve imbestialirvi, Eccellenza? E quando avrete bestemmiato tutti i santi del paradiso, avrete fatto apparire muli e cavalli? Se voi altri signori ci levate ancora il privilegio della bestemmia, che cosa vogliate lasciare a noi, poveri vassalli, in fè di Dio io non saprei.—Il vostro fante non gli avrà trovati; sarà caduto infermo nella ròcca; non avrà pensato tanto prossimo il vostro arrivo; lo avranno ammazzato i banditi per la via, e che so io? Si danno tanti casi al mondo! Ad ogni male ci è il suo rimedio. Lasciate fare a me. Voi sapete, che oste viene da ospite; e se la fortuna non mi avesse sempre guardato in cagnesco, vorrei albergare la gente secondo i comandamenti degli Apostoli.

—Io credeva, rispose il Conte sorridendo, che oste derivasse da un'altra cosa…

—Da che?

—Da hoste, che vuol dire proprio nemico in lingua latina; ma forse avrò sbagliato. Ora sentiamo un poco che cosa vi avvisereste fare, ospite mio?

—Manderemo questo ragazzo qui su pei boschi dove stanno i carbonari. A questa ora le buche del carbone hanno ad essere fatte; sicchè i carbonari, un po' per usarmi cortesia, un po' per buscare qualche scudo, saranno contenti di venire fin giù, e condurvi alla Rocca Ribalda. Bisognerà che camminiate tutta la notte, perchè a un bel circa, poco più poco meno, prima di arrivarci saremo su le trentaquattro miglia.

—La strada è come quella del paradiso, che si vorrebbe fabbricata più larga per comodo di noi altri poveri peccatori. Ad ogni modo la luna si leva sul tardi, e agevolerà lo scendere e il salire.

—Ma perchè non aspettate domani? Qui troverei modo di ripiegarvi tutti… rammentatevi che abbiamo un collo solo.

—No, a me importa arrivare presto.

—E aggiungete, che domani per tempo avrete cavalli da pari vostro…

—No, manda pei muli dei carbonari…

—Farò come vi piace, Eccellenza; anche i muli portano a casa.

Il ragazzo bruno di carne, con occhi fissi di falco stavasene appollaiato sopra una catasta di legna, contento come su di un cuscino di velluto. Nel sembiante mostrava tale idiotaggine, da mettere ribrezzo in chiunque avesse avuto bisogno di alcun servizio da lui. Il Conte sdegnoso, guardandolo di traverso, gli diceva:

—Non hai inteso? A questa ora dovresti essere lontano un miglio.

—Non vi date fastidio, Eccellenza, chè sarebbe fiato perso. La povera creatura non vi può intendere; gli è sordo-mutolo di nascita, ma con quattro ammicchi vi sbrigo.

Il Conte, dubitando essere tolto a scherno, stava per dare tale un suo ricordo alla trista all'oste traditore, che se ne sarebbe rammentato per tutto il tempo della vita; ma questi incominciò ad armeggiare con le mani tanto, che parve avere fatto capire il ragazzo: se non che il sordo-muto sbadigliava stendendo le braccia, e con altri moti dimostrava repugnanza a partire. Allora l'oste, a guisa di perorazione, aggiunse al suo discorso un prenderlo per l'orecchio destro, e un trarlo giù dalla catasta dandogli al punto stesso un calcio solennissimo, che lo mandò a rotolare contro la porta. Da tutto questo il ragazzo potè comprendere, che si trattava di affare di premura.

Messi i cavalli in istalla scaricano le carra apparecchiando fardelli, e funi per adattarli a soma sui muli. Le donne e Bernardino furono fatti salire in una stanza al primo piano, e lì chiusi. Il Conte aggirandosi sospettoso, da per tutto spiava.

Il ragazzo corse buon tratto su per una viuzza: quivi si fermò, e voltatosi dalla parte della osteria stese la destra col pugno; chiuso in atto di minaccia, come costumano le scimmie quando le piglia il dispetto: poi spiccò un salto, e via, a modo di capriolo, per la costa del monte Santo Elia, che dalla Ferrata mena a Rio Freddo.

La salita, malagevole dapprima, incominciò a diventare aspra, e finalmente dirotta. Il ragazzo non aveva rimesso punto dello ardore, e balzando di greppo in greppo sembrava piuttosto volare che correre. Lasciamolo andare, ch'egli conosce la strada, e non si smarrirà di certo.

———

Colà dove il monte Santo Elia è più scosceso, sotto querce secolari che stendono largamente i loro rami sopra arboscelli, di mole minore, arde un magnifico fuoco. Su per coteste vette l'aria punge nelle notti di settembre, quantunque nei piani la caldura soffochi; e poi gli uomini, che vi stavano intorno, con atti diversi lo avevano acceso per vederci, e per compagnia. In quel punto pareva che la noia piovesse giù dagli alberi sopra i loro capi; imperciocchè taluno fischiasse supino tenendo ambedue le mani sotto la testa, il cappello tirato su la faccia, ed una gamba a cavalcioni dell'altra ripiegata lungo la coscia; tale altro aggomitolato dentro al tabarro si voltava ora di qua, ora di là, traendo di tratto in tratto un sospiro:—sovente in coro si alzava uno sbadiglio universale.

—Pericolo, che Marzio voglia convertirci?—favellò un bandito.

—Che cosa abbia inteso Marzio di fare io non lo so, rispose un altro; per me intendo, come siamo di patti, tenere fermo fino a domani: poi, quanto è vero San Niccola, diserto con arme e bagaglio.

—Su questi monti mandarci il vino a compito! Guarda! tutti i fiaschi stanno morti per la terra. Io vorrei vedere piuttosto uno sbirro, che un fiasco vuoto.

—E poi levarci anche i dadi!

—Le sono crudeltà da fare svenire Nerone.

—Quasi, quasi io mi sentirei tentato di recitare il rosario, Che ne dici, Orazio?

—Ella è una cosa come un'altra; per passare il tempo. Però avete torto marcio a lagnarvi, perchè domani termina il nostro debito; e se in questo frattempo non arriva nulla di nuovo, io m'immagino che saranno questi i primi danari guadagnati senza rimorso, come senza pericolo.

Orazio è un bandito alto di persona; di sembianze gravi, e, comunque sul declinare degli anni, bello sempre. La sua fronte e il suo cuore portavano impressi i solchi di tutte le passioni; adesso elle erano spente, ma le ceneri anche tepide facevano testimonianza dello incendio fumando. Il fodero durava più della lama. Orazio sopravviveva a se stesso. Fin lì erasi rimasto appoggiato a un tronco di leccio, col capo chino su i ginocchi, senza profferire parola. Lui salutavano i banditi poeta, medico, e legislatore della brigata. Interrogato rispondeva, richiesto consigliava; invitato, senza farsi troppo pregare cantava canzoni da lui composte, o raccontava strane vicende di lontani paesi; altrimenti, sempre taciturno, meditava sopra i suoi casi, che davvero molti, e varii la fortuna gli aveva apparecchiato davanti. Spirito fantastico, amante del maraviglioso, il quale spesso, invece di farsi cercare da lui, gli andava incontro. Vissuto in altri tempi, dove tre o quattro omicidii non guastavano, con la prestanza del braccio, e il valore del canto avrebbe avuto fama in corte di Provenza su qualsivoglia menestrello o barone uso a servire dame: adesso la miseria, che gli si era irrugginita addosso, la usanza vecchia di far giudicare le sue liti dal coltello che teneva al fianco, e finalmente il genio nativo lo avevano condotto alla macchia. Tale era Orazio.

—Ma la noia, Orazio, non conti nulla la noia?

—Io la conto moltissimo; ma ella è un cilizio che si attacca alla vita di tutti: imperatori e papi la portano cucita fra la camicia e la carne; e vorreste non sopportarla voi per quattro notti, o sei? Noi fummo pagati, e bene; e questo, che duriamo, non è troppo travaglio. Così mi fosse avvenuto sempre, che non mi sarei trovato ad avere a venti anni i capelli bianchi!

—Come bianchi! o non hai nera la barba?

—Ma i capelli sono bianchi.—E qui Orazio levò una specie di cuffia, che gli cuopriva la testa intorno intorno rasente le orecchie, ed i banditi conobbero per la prima volta, com'egli non avesse capello che non paresse filo di argento; i sopraccigli poi e la barba si conservavano nerissimi.—Da venti anni in qua io diventai canuto.

Domine in adiutorium meum, esclamò un vecchio bandito; tu non saresti mica parente del diavolo?

—Che io sappia, no.

—Qui dentro ci è della fattucchieria,—ripresero gli altri spaventati.

—Con licenza vostra, non ci ha che fare il Diavolo; ma un'Aquila grigia.

—O come un'Aquila?

E tutti gli si posero attorno. Orazio, sempre col capo scoperto, e godendo della paura dei compagni, che non cessavano di contemplare con maraviglia mista di terrore quei capelli bianchi, e quella barba nera, incominciò a parlare:

—Ve lo dirò; in mancanza di vino, un racconto vi piacerà sempre meglio dell'acqua; n'è vero? Il padre mio, boscaiolo, morì come visse povero quanto San Quintino, che suonava a messa co' tegoli. La mamma dopo la sua morte non ebbe più un'ora di bene, e, povera donna! cadde inferma di palpito di cuore. Il curato, che era uomo saputo, ci disse che cogliessimo certa erba, chiamata fu[14], la quale cresce per questi monti; ne spremessimo il sugo, e glielo dessimo a bere, che le avrebbe fatto bene; e come disse trovammo essere vero; ma fu, o non fu, quando la candela arriva al verde bisogna che si spenga; e la vecchia si spense: requiescat in pace. Amen.

E i banditi rispondevano:

Requiescat in pace.

—Nell'anno domini… aspettate che me lo ricordi… l'anno, che il terremoto mandò a terra il campanile di Santo Andrea… potevo avere a un bel circa venti anni, in giorno di venerdì andammo in tre fratelli al bosco per tagliare legna, e per cogliere un poco di erba fu. A venti anni costa poco salire, e noi ci arrampicammo pei dirupi del monte Terminillo. La neve ne cuopre quasi sempre la cima, ed in coteste solitudini altro non si udiva che stridi, e il rombo delle aquile arrabbiate per non trovare pastura. Arrivati proprio in vetta al monte, ecco ci comparisce davanti una figura umana immobile, come se fosse scolpita nel sasso. La credemmo il Diavolo, e ci segnammo devotamente secondo la regola; ma quella ferma.—Candido, il nostro maggiore, che aveva più seme in capo di una zucca, osservò, che avendo resistito al segno della santa croce diavolo non poteva essere; ed infatti diavolo non era; però poco meno. Costui, solo sopra quella cima, stava considerando giù in fondo di un precipizio tagliato a picchi sul fianco della montagna, un nido di Aquila. Noi gli si accostammo cautamente, per timore che scosso allo improvviso non pericolasse; nè egli ci avvertì. Io lo guardai: misericordia! che occhi maligni! Pareva proprio dipinto in viso dalla invidia col colore verdenero[15] dell'odio. Borbottava fra i denti:

«E' sono fuori di tiro, costà nessuno arriva a toccarli, e se ne stanno tranquilli come pontefici; in breve… ecco torneranno i genitori col cibo… e saranno tutti contenti;—i primi da me veduti, e rimasti felici!»

Qui volgendo il capo ci scòrse; noi lo salutammo, e gli domandammo qual fantasia lo avesse preso di avventurarsi sopra cotesti scavezzacolli, e se non temesse del capo-giro.

—Perchè volete voi sapere il mio segreto?—ci rispose turbato. Che —cosa importa a voi di me, a me di voi? Se siete banditi vi darò la —moneta che ho indosso, e andatevene col diavolo, che vi porti.

E noi lo avvertimmo, che per quel quarto di ora eravamo boscaioli e cacciatori, e che non avrebbe corso danno a mostrarsi meglio garbato.

—Sta bene; non volete acquistare come re, guadagnerete come servi; accostatevi qua… presso me… guardate laggiù…

—Dove?…

—In dirittura del mio dito… in quel fondo là… il nido dell'aquila?

Circondato di nebbia, si scorgeva appena un punto nerastro.

—Sì, lo vediamo.

Ed egli, teso sempre il dito, aggiungeva: «A cui di voi si sente capace di portarmi i tre aquilotti…»

—O come sapete, io interruppi, che ci hanno tre aquilotti nel nido?

—Perchè gli scorgo distinti con le piume saure dorate.—

Io pensai: s'ei non è il Diavolo, come ha detto Candido, per lo meno ha da essere suo cugino; però che io ci vedessi allora, e veda sempre, mercè santa Lucia, come un cacciatore; e non pertanto non mi bastasse l'animo di scorgere altro, che una macchia cenerina grande come un pugno.

«Chi di voi, continuava costui, mi riporta i tre aquilotti si godrà dieci ducati di oro».

Dieci ducati di oro! E' ci era da comprare un reame. Volevamo andare tutti: per metterci d'accordo facemmo il conto, e toccò a me.—Sciogliemmo le corde, che noi altri cacciatori di montagna costumiamo tenere cinte a più doppii intorno alla vita, ed annodatele insieme ci parve potessero bastare per giungere laggiù: mi calarono; con la sinistra agguantava la corda, con la destra stringeva la coltella tagliente meglio di un rasoio: arrivo al nido, lo stacco, me lo assicuro fra il braccio, e il costato. Gli aquilotti strillano,—sono sordo; gli aquilotti beccano,—gli lascio beccare: agito la corda, mi tirano su, ed incomincio a salire piano piano come una secchia: ogni cosa cammina d'incanto. Giunto a due terzi, e forse saranno stati anche i tre quarti, della salita, mi percuote un rumore di aria rotta violentemente a modo di turbine, e m'intronano stridi disperati. Il giorno diventa buio, e al tempo stesso due punte m'investono, di cui l'una mi straccia la pelle del capo, e l'altra mi fora il cappello, e se lo porta via; perocchè le aquile fossero due, maschio e femmina, e a quanto pare, come Gildippe ed Odoardo, amanti e sposi: per giunta poi, genitori degli aquilotti che portavo meco. Ambedue rivolsero il volo per piombarmi di nuovo a perpendicolo sul capo. Io non aveva mai visto aquile così sterminate. Santo Uberto mi aiuti! Quando mi vennero vicino menai colpi da disperato; ne giunsi una fra la spalla ed il collo, ma non la ferii bene; all'altra mozzai un quarto di ala: ma egli era nulla; si alzavano, si abbassavano, volteggiavano, mi ferivano nel petto, su le spalle, nei fianchi, si avventavano così ratte ad artigli spiegati contro i miei occhi, che davvero incominciai a pentirmi di essere disceso laggiù: però mi difendeva il molinello, che faceva stupendamente veloce con la coltella per tutta la persona. Pensate un po' voi se dovevano, o no, essere nuovi spettacoli un cristiano sospeso per l'aria, che girava girava come fuso che torce la canapa, col nido degli aquilotti in collo, giuocare di scherma incontro alle aquile, le quali con tutte le malizie loro s'ingegnavano lacerarmi, e lo abisso pieno di stridi degli uccelli, e di voci umane le mille volte ripetute dagli echi, di penne svolazzanti, di sangue grondante, e di furore. Nel voltare la faccia in su incontro la faccia dello sconosciuto sporgente dalla balza, che rideva mostrando i denti a guisa di lupo quando ha fame; mi si abbagliarono gli occhi, e un sudore diaccio mi corse lungo la spina… Santa Vergine! Quale orrore! Nel menare colpi io aveva per inavvertenza tagliata più che mezza la corda, già abbastanza sottile, la quale mi teneva sospeso… mi pareva che mi fosse, e certo mi era cresciuto il vedere; imperciocchè io distinguessi cedere, e disfarsi ad uno ad uno i fili della fune, e gli occhi taglienti dello sconosciuto segare con le pupille la parte rimasta salda. In quel punto sentii come darmi di un grosso picchio sul capo, rimpiccolire la statura, strizzarmi nelle costole, e diminuire di grossezza. Chiusi gli occhi, e vidi fuoco;—gli riapersi ben tosto, però che quattro graffi dolorosi nella fronte mi ammonissero che accorressi a difenderli, se non voleva che le aquile me li cacciassero di nido, come io aveva fatto agli aquilotti loro. I fratelli, temendo che io mi fossi abbandonato, non sapevano sovvenirmi in altra maniera, che gridando «coraggio, fratello! Orazio, da bravo!» e dando alla corda terribili squassi, per cui ogni momento più s'indeboliva…

Sono presso all'orlo dello abisso due… braccia… un braccio… tremendamente atterrito stendo una mano al ciglione, getto il nido, e con l'altra mi aggrappo convulso, e bene mi avvisai; imperciocchè i miei fratelli, appena ebbi mostrato il capo, lasciassero la fune, e fuggissero via urlando da spiritati: pure, come Dio volle, ne uscii a salvamento, e mi gettai avvilito sopra la neve. Lo sconosciuto con quei suoi occhi di vetro mi guardava curiosamente, e mi esaminava in silenzio il capo: strappommi tre o quattro capelli, se gli recò nel palmo della mano, sempre esaminando; li pose di contro alla luce, li tagliò, e finalmente ridendo mi disse «tu hai avuto paura». I fratelli intanto, riavuti dal primo stupore, si accostavano levando gli occhi al cielo, e a grande stento si persuadevano che io fossi quel desso di prima. I miei capelli, in uno istante di agonìa, di neri si erano mutati in bianchissimi[16].

Lo straniero con certi suoi argomenti ci dette ad intendere essere avvenuta naturalmente la cosa, che io non compresi allora; e molto meno saprei ridirvi adesso. Mentre favellava egli trasse di tasca un suo pugnaletto, e, senza punto cessare dalle parole, tagliò il capo agli aquilotti. Le aquile ferite, e spennacchiate non ardivano accostarsi a noi chè eravamo troppi, ed avevano già fiutata la polvere dei nostri archibugi[17]; però da lontano gittavano tali strida desolate, che fendevano il cuore. Colui, mozza ch'ebbe la testa all'ultimo aquilotto, ci disse:

«Orsù, miei bravi, volete voi guadagnare due volte tanto danaro di quello che avete avuto? Andate a rimettere questi tre aquilotti morti nel nido donde gli avete cavati. Non ho meco altra moneta; ma venite a Rocca Ribalda, ed io conte Cènci vi manterrò la promessa.»

A noi parve per quel giorno averne avuto d'avanzo; e poi, comunque bestie, le aquile avevano patito troppo strazio. Allora il barone si allontanò fischiando dall'altra parte del monte, senza nè darci, nè aspettare il saluto.

—E tutto questo che monta?—notò un vecchio bandito, che pareva nato a un parto col Caronte della cappella Sistina—O come hai provato, che tutto questo non accadesse per opera del demonio?

—Ma o non hai inteso, che il barone era il conte Francesco Cènci di
Rocca Ribalda?

—Bella ragione! Non poteva il diavolo aver preso la sembianza del Conte Cènci? E mettiamo il barone da parte; o le aquile e gli aquilotti non potevano essere demonii?

—Ma vedi il caparbio! Ho sempre sentito dire che il diavolo è un gran signore. Ora pensa s'egli avesse voluto prendersi briga di una povera creatura come sono io.

—Eh! un'anima poi pesa quanto un'altra nelle bilance del diavolo.

—E dodici fanno una dozzina.

—Ma, a caso, portavi addosso nessuna reliquia?…

—Che domande!—Sicuro, eh!—Avevo un breve con la orazione di Santo Brancazio contro le streghe; un cornino di mare per la jettatura; la medaglia di San Tebaldo, oltre ad un pezzo di lumen Christi in tasca…

—Tutto questo può bastare; ma per chi va pei monti è necessaria la medaglia di San Venanzio. Ricordatevene, figliuoli; il maligno, capite Orazio, il maligno s'ingegnava, farti morire senza sacramenti, e portarti diritto dentro lo inferno: di qui, figliuoli, chè posso essere padre a tutti voi altri, comprenderete quanto profitto sia all'anima vostra starvi vicini a santa madre chiesa. E poichè dianzi mi è venuto parlare di rosario, o che trovereste male; per ammazzare il tempo, recitarne una mezza dozzina? Ma che dico male? Non sarebbe tanto bene messo nel salvadanaio per il mondo di là?

Il vecchio bandito trasse fuori di tasca una immagine della Madonna, e la conficcò col coltello nel tronco di una quercia. Piegate le ginocchia, prese a dire molto devotamente il rosario. I compagni, o mossi dallo esempio, o per vera devozione, o per mille altre cause, che sarebbe ricercare soverchio, conciossiachè i nostri atti sieno mossi ordinariamente da un complesso d'incentivi, non già da una singola cagione, piegarono le ginocchia, e rispondevano al vecchio alternando pater nostri ed ave marie.

Se il diavolo fosse passato per di là si sarebbe dato al diavolo.

—Basta così, Ghirigoro, disse un bandito alzandosi; e mentre con le mani si poliva ambedue le ginocchia, aggiunse: ma sapete che il vostro dubbio intorno al diavolo mutato in due Aquile patisce, con reverenza, dello scemo!

—Scemo io?—E tu non sai, ignorante, che ventimila diavoli possono entrare dentro un lupino, ed un diavolo solo condire tutto un convento di frati Francescani? E non sai, che a salvarci dal diavolo non basta metterci a sedere nella piletta dell'acqua santa, e tenere un Cristo in bocca, chè tanto un foro per entrarci in corpo egli lo sa trovare, come neanche a Santo Antonio fece profitto averlo preso con le molle pel naso?

—Con le molle?

—Pel naso?

—Già!—rispose interrompendo il bandito—appunto con le molle pel naso…

—O sentiamo anche questa…

—La è chiara come l'acqua. Una volta il diavolo, per fare scappare la pazienza a Santo Antonio, si trasformò nello sgabello dove si metteva a sedere: eccoti, che il santo viene in cella, e subito va a leggere i libri di divinità; il diavolo gli scappa di sotto, e il santo a gambe all'aria. Un'altra volta si convertì in leggìo, e gli cascò sul naso rompendogli gli occhiali; e poi in cane, in gatto, e in donna; sebbene molti credano che quando il diavolo apparisce in forma di donna non si tramuti, ma che proprio vi sieno i Diavoli donne, o vogli dire le Diavolesse, e questo credo ancora io. Insomma; il maligno quante ne poteva immaginare, e tante gliene faceva; ma il santo, sempre con pace esemplare, lo prendeva per un orecchio, e lo ammoniva: «Diavolo, diavolo! ti par egli, che tu sia nato per gabbare un santo pari mio? Il mondo è grande, e possiamo starci tutti e due senza darci fastidio: va' pei fatti tuoi, e non mi rompere il capo». Poi lo metteva fuori di cella, e gli chiudeva l'uscio in faccia. Un giorno, che il nostro dabbene Santo Antonio si ammanniva a fare una bellissima meditazioncella sopra la moltiplicazione dei pani e dei pesci, inchiavacciò per bene la porta, e sul foro della toppa mise un pezzo di lumen Christi, sperando in questo modo avere la pace: ma e' furono novelle. Ad un tratto sente rodere, e con la coda dell'occhio vede il diavolo, che aveva cacciato il muso fuori da un buco scavato nella parete. Il santo, senza darsene per inteso, agguanta adagio adagio le molle del cammino, e poi in meno che non si dice amen si avventa sul diavolo, e lo prende per il naso. Il diavolo strillò… ma il santo sodo: il diavolo si provò in cima delle molle a trasformarsi ora in leone grande quanto il monte Terminillo, ora in serpente lungo un miglio; ma tanto non si usciva, e il santo lo tenne stretto fino a che non lo ebbe affogato dentro un orciuolo di acqua vite, conforme io stesso con questi miei propri occhi vidi, e verificai alla fiera di Tagliacozzo, dove un religioso di santissima vita me lo mostrò, e mi disse che il diavolo, prima di spegnersi nell'acqua arzente benedetta, aveva durato a friggere mezza ora e più come ferro arroventato[18].

—Come! tu vedesti un serpente lungo un miglio?

—Il diavolo era rimasto nella forma ultima, che aveva preso nelle sue tramutazioni. Quella del serpente non era stata l'ultima.

—Dunque, o che figura aveva egli?

—Quella di talpa lunga due palmi compresa la coda…

Uno scoppio immenso di risa proruppe da tutta la brigata, sicchè il vecchio ne rimase sconcertato. Preso da cruccio, si avviluppò nel tabarro brontolando:

—Già voi siete eretici; e un giorno o l'altro vi accorgerete voi, che cosa significhi fare i banditi senza un po' di religione.

NOTE

[1] Nella Storia delle Rivoluzioni d'Italia degli anni 1847-1848-1849 del GENERALE PEPE viene attribuito al Salviati. Veramente cosiffatta osservazione è troppo più antica; e troviamo nelle Storie di TITO LIVIO screditati i Galli, come quelli che costumavano: ridendo frangere fidem. Però nè antichi, nè moderni esempii nostrali mi avrebbero persuaso a muovere questa querela grave, ma pur troppo meritata da un Popolo necessario così alla dannazione come alla salute del mondo, laddove in opera parzialissima alla Francia io non leggessi queste parole, che ho citate altra volta: «I Galli si dilettarono di buona ora a gabbare, come dicevano nel medio evo. La parola per loro non aveva nulla di serio: promettevano, poi schernivano, e così terminava ogni cosa!» Tristo giuoco, nel quale hanno troppo più scapitato che guadagnato. Deh! che anche per cotesto Popolo grande il giorno del giudizio non venga dopo la morte!

[2] «Quando non ti possono far bene, tel promettono; quando te lo possono fare, lo fanno con difficoltà, o non mai: sono inimici del parlare romano, e della fama loro». MACCHIAVELLI, Della natura dei Francesi. Il detrattore nostro è LAMARTINE: di lui soventi volte mi dolsi, e mi dolgo; molto più che non emendò uomo di stato le colpe del poeta. Costui bandì impedire ogni intervento straniero a danno dei Popoli, i quali si rivendicassero in libertà; e poi nella sua Storia della Rivoluzione di Francia del 1848 sostenne, la Francia non potere in conto alcuno patire la formazione di uno stato grande fra l'Austria e lei. Vieta politica, scusabile forse ai tempi del cardinale Richelieu, ed ostentata dal poeta per figurare di saperne. La costituzione del 1848, composta sotto gli auspicii di questo poeta, statuì, il Popolo francese non dovere far mai guerra contro la libertà di verun Popolo, e l'Assemblea francese assunse la impresa contro Roma; e questa fu brutta sequela di bruttissime ed antichissime ingiurie. Qual maraviglia pertanto che altri non rispettasse questa costituzione, se tanto poco mostrarono rispettarla quei dessi che la fecero? Provammo la Francia sotto tutte le sue trasformazioni politiche; è lecito tuttavia confidare in lei?—La condizione nostra mi sembra piena di dubbiezza; conciossiachè se la Francia non ci aita, quale altro Popolo lo voglia, e lo possa io non saprei vedere: e per altra parte deve sperarsi che la Francia senta la vergogna, e il pericolo della sua decadenza, non meno che il bisogno di riunire in un fascio i Popoli occidentali, per opporli agl'intenti a cui mirano i Settentrionali con miracoloso accordo.

  [3] Gli ruscelletti, che dei verdi colli
          Del Casentin discendon giuso in Arno
          facendo i lor canali freddi, e molli,
        Sempre mi stanno innanzi, e non indarno,
          Chè la immagine lor vie più mi asciuga,
          Che il male ond'io nel volto mi discarno.

                                   DANTE, Inferno, C. XXX

[4] TITO LIVIO, Storie, lib. II. c. 2. DIONISIO DI ALICARNASSO, Antichità Romane, lib. V. c. 13.

[5] «Nell'anno 1616 passando di costà Leandro da Bologna trovò la città di Anagni tutta in rovina. Interrogati alcuni maggiorenti Anagnini intorno alla causa del soqquadro, questi gli narrarono come dal tempo della prigionia di Papa Bonifazio in poi non avessero avuto altro che sventure da piangere». Così il buon Monaco TOSTI, su la fede del CIACCONIO: Vita di Bonifazio VIII.—Questo monaco insigne propugnò, in varie opere dettate con fiore di lingua e singolare dottrina, le prerogative del Papato; al tempo stesso però egli si mostrava tenerissimo della Patria italiana: ciò bastava ond'ei non potesse più durare tranquillo, in Monte Cassino. Tanto, nella stagione che corre, la paura di non essere trovato abbastanza umile, ed obbediente dai suoi Protettori vince nel Pontefice il merito che monaco, o sacerdote possa avere acquistato appo la Chiesa: e i Padri Gesuiti cantano Osanna! Io non gli avrei mai creduti di così poca levatura, come li conobbi a prova.

[6] Numeri, Cap. VI.

  [7] Geremia, Cap. ultim. «Propter montem Sion quia disperiit,
    vulpes ambulaverunt in eo».

  [8] Per questi fatti vedi i capitoli storici della Battaglia di
    Benevento
.

[9] Siccome quel che il MACCHIAVELLO scrive intorno alle discordie dei cittadini avrebbe giovato assaissimo negli anni passati, se avessero voluto leggerlo, e meditarlo; e siccome, forse, potrebbe essere di utilità nei futuri, io qui lo riporto supplicando Dio che i miei lettori lo antepongano, come merita, al testo:

«Le gravi, e naturali nimicizie, che sono intra gli uomini popolari, ed i nobili causate dal volere questi comandare, e quelli non obbedire sono cagione di tutti i mali, che nascono nella città: perchè da questa diversità di umori tutte le altre cose, che perturbano le repubbliche prendono il nutrimento loro. Questo tenne disunita Roma, questo, s'egli è lecito le cose piccole paragonare alle grandi, ha tenuto divisa Firenze, avvegnachè nell'una, e nell'altra città diversi effetti partorissero. Perchè le inimicizie, che furono da principio in Roma infra il popolo, ed i nobili disputando, quelle di Firenze combattendo si disfinivano. Quelle di Roma con una legge, quelle di Firenze con lo esilio e con la morte di molti cittadini terminavano. Quelle di Roma sempre la virtù militare accrebbero, quelle di Firenze al tutto la spensero. Quelle di Roma da una ugualità di cittadini in una disuguaglianza grandissima quella città condussero; quelle di Firenze da una disuguaglianza ad una mirabile ugualità l'hanno ridotta. La quale diversità di effetti conviene sia da diversi fini, che hanno avuto questi due popoli, causata. Perchè il popolo di Roma godere i supremi onori insieme coi nobili desiderava, quello di Firenze per essere solo nel governo, senza che i nobili ne partecipassero combatteva. E perchè il desiderio del popolo romano era più ragionevole, venivano ad essere le offese ai nobili più sopportabili, talchè quella nobiltà facilmente, senza venire alle armi, cedeva: dimodochè dopo alcuni dispareri a creare la legge dove si soddisfacesse ai desiderii del popolo, i nobili nelle loro dignità rimanessero, convenivano. Dall'altro canto il desiderio del popolo fiorentino era ingiurioso, ed ingiusto, talchè la nobiltà con maggiori forze alle sue difese si preparava, e perciò al sangue, ed allo esilio si veniva dei cittadini. E quelle leggi, che poi si creavano non a comune utilità, ma tutte in favore del vincitore si ordinavano. Da questo ancora procedeva, che nelle vittorie del popolo la città di Roma più virtuosa diventava, perchè potendo i popolani nell'amministrazione dei Magistrati degli eserciti, e degl'imperii essere con i nobili preposti, di quella medesima virtù, ch'erano quelli si riempivano, ed in quella città crescendo la virtù cresceva la potenza. Ma in Firenze vincendo il popolo, i nobili privi dei magistrati rimanevano, e volendo riacquistargli, era loro necessario con il governo, con l'animo, e con il modo di vivere simili non solamente ai popolani essere, ma parere». Storie, Libro III.

[10] Roberto di Ginevra, cardinale legato, cercò scostare i Bolognesi dalla lega promettendo loro il perdono del commesso errore, ed il mantenimento della libertà, che avevano ricuperata, purchè obbedissero alla suprema autorità della Chiesa; e siccome i Bolognesi risposero: «Noi siamo apparecchiati a tutto soffrire, piuttostochè sottometterci di nuovo a persone di cui il fasto, la insolenza e l'avarizia abbiano fatto sì crudele esperimento», il Cardinale proruppe: «ed io non mi allontanerò da Bologna, finchè non mi sia lavati piedi e mani nel sangue loro».

«…Il legato obbligò Galeotto Malatesti ad aprirli la città di Cesena, da questo signore mantenuta in fede della Chiesa. La Murata, quartiere pochi anni prima difeso eroicamente da Marzia Ordelaffi, fu dato per istanza ai Brettoni; ma questi barbari vi si comportavano troppo peggio che in città vinta: rapivano robe, mogli, figlie, nè risparmiavano ai cittadini maniera veruna di strazii. Perduta la pazienza i Cesenati assaltano alla sprovvista i Brettoni, e ne ammazzano 300 nel 1.º febbraio 1377. Il Cardinale, presente al fatto, condannò i soldati, e promise perdono, purchè i Cesenati tornassero ad aprirgli le porte, ed essi così fecero: allora costui ordinò perfidamente si mettessero a morte tutti. Non contento di aizzare alla opera atroce i suoi Brettoni, chiamò ancora l'Acuto (Giovanni Aukwood—falcone in bosco) co' suoi Inglesi, che stanziava in Faenza, a far sangue; e siccome questo capitano non si sapeva risolvere a commettere tanta enormezza, «Sangue, urlava furibondo il Cardinale, io voglio sangue!» Durante la strage soventi volte fu udito gridare: «morte, a tutti!» SISMONDI, Storia delle Repubbliche italiane, tom. VII, p. 78.—L'Abbate Cistercense aveva già comandato, alla presa di Bezieres, si uccidessero tutti i terrazzani eretici, o no, che Dio poi gli avrebbe scelti a comodo nell'altro mondo: «Caedite eos, novit enim Deus qui sunt ejus». CAESAR HEISTERBAC, lib. V, p. 21.—Tali preti un giorno; quali adesso, vel dicano Roma e Romagna, e l'effemeridi loro truci, ed irrequiete eccitatrici agli odii, alle persecuzioni, alla servitù, ed al sangue. S'è giusto così, giudichi Dio.

[11] MACCHIAVELLO. Descrizione del modo tenuto dal Duca Valentino per ammazzare Oliverotto da Fermo, Vitellozzo Viletto, il signor Gianpagolo, e il Duca di Gravina Orsini.

[12] «Nel seccare, e dare la via al lago Fucino fece prima fare una battaglia navale. Ma gridando quelli che avevano a combattere: «sia il ben trovato lo Imperatore; ti salutano coloro, che stanno per morire» e avendo egli risposto: «ed a voi pure salute!» essi pensarono, che mediante cotesto saluto egli gli avesse licenziati dal mettersi in pericolo di vita, e non volevano combattere. Per la qual cosa egli stette un pezzo sopra di se pensando se avesse a mettere fuoco alle navi, o piuttosto tagliarli a pezzi.—Finalmente levatosi da sedere incominciò a correre intorno al lago balenando, e stando per cadere, tantochè egli li costrinse a combattere parte con le minacce, parte co' prieghi. Affrontaronsi insieme in cotesto spettacolo l'armata Siciliana, e quella di Rodi, dodici galere per banda, e nel mezzo del lago sorse un Tritone di argento, il quale suonava la trombetta.» SVETONIO, tom. II, p. 226.

[13] HUME. Storia d'Inghilterra, tom. I.]

[14] L'erba fu è propriamente la valeriana maggiore, o domestica, rimedio specifico per le palpitazioni del cuore.

[15] Ordinariamente la natura dipinge i malvagi con i colori dei serpi, e dell'erbe palustri. L'appellativo verdinegro è di regia origine, e fu circa a quei tempi inventato da Filippo II, il quale in cotesto modo designava l'Escovedo, segretario del suo fratello don Giovanni d'Austria, commettendone la strage a don Antonio Perez suo ministro. «Certo convendrà abrebiarlo de la muerte del Verdinegro antes que haga algo con que non seamos despues a tiempo, quel no deve de dormir ni descuidarse des sus costumbres. Acedlo y daos priessa ante que nos mate». Questo è un biglietto scritto da Filippo II di propria mano a don Antonio Perez, riportato dal signor MIGNET nella sua opera Antonio Perez e Filippo II, p. 70.—Tali erano le regie pratiche quando i principi volevano torsi davanti agli occhi un uomo increscioso: oggi si adopera diversamente: si chiamano sei, od otto paltonieri mascherati da giudici, e s'incumbenzano di finire l'uomo non abrebiando, bensì allungando, trapanando col diuturno carcere; uccidendo, insomma, il corpo mercè i dolori dell'anima. La morale, che presiede a siffatte giustizie, da Filippo in poi non è punto mutata; e chi ha vaghezza di conoscerla la può trovare esposta nel consulto del padre Diego de Chaves confessore del prelodato re Filippo II, al quesito, che gli mosse in proposito l'assassino Antonio Perez: «Lo advierto segun lo que yo entiendo de las leyes, que el principe seglar que tiene poder sobre la vida de sus subditos y vasallos, como se la pueda quitar por justa causa y por juyzio formado, lo puede hazer sin el, teniendo testigos pues la orden en lo de mas, y tela de los juyzios es nada por sus leyes, en las quales el mismo puede dispensar.—No tiene culpa el vasallo, que por sii mandado matasse a otro, que tambien fuere vasallo suyo por que se ha da pensar que lo manda con justa causa, como el derecho presume que la ay en todas les acciones del principe supremo». Vedi MIGNET, Opera citata, p. 66.—Le quali parole volte in italiano suonano così: «Vi ammonisco secondo la mia opinione intorno alle leggi, che il principe secolare il quale ha potere sopra la vita dei suoi sudditi e vassalli, come se la può prendere per giusta causa, e per via di regolare giudizio, così può torsela anche senza, essendo che le procedure giudiziarie nulla rilevino davanti i suoi comandamenti, potendo egli dispensare da quelle… Nè commette peccato il vassallo, che per ordine suo ammazzasse un uomo, che fosse pure vassallo di lui; conciossiachè si abbia a ritenere che il re comandi per giusta causa, conforme per diritto si presume che la giusta causa si contenga sempre in tutte le azioni del principe supremo.—Egregio re, più egregio ministro, egregissimo confessore! Secolo di oro, a cui sacerdoti e principi, stretti in fraterno abbracciamento, vorrebbero ricondurre la sviata umanità.

[16] Questo fatto successe in Sardegna a Domus nova nel 1839; con la differenza, che il cacciatore invece di andare pei nidi di Aquila, cercava quelli di Avvoltoio. Intorno a queste stupende, e subitanee trasformazioni di capelli, oltre gli esempii addotti in parecchie opere mie, il signor ALIBERT, nel vol. I. p. 180 delle malattie della pelle, narra di una donna bionda diventata nera dopo il travaglio del parto, e di altro individuo il quale per malattia tramutò i capelli bruni in rossi. Parla eziandio di capelli turchini, e verdi; questi si vedono frequentemente ai fonditori. Un tale Bichat imbiancò da un punto all'altro per cattive nuove. Perat moglie di Leclerc, citata a comparire davanti alla Camera dei Pari nel processo Louvel, incanutì nella notte. Si sono vedute barbe nere da un lato, e bianche dall'altro, come canuta una parte del capo soltanto. RAYER, Malattie della pelle, t. III. p. 81.

[17] Questa virtù di odorato in alcuni uccelli si nega: eppure non si può mettere in dubbio, che quando una bestia morta passa in istato di putrefazione, dalle parti più remote dell'orizzonte si vedono comparire punti neri, a mano a mano avanzarsi, e svelarsi alfine per corvi, o per avvoltoi, attirati dagli effluvii ch'emanano dalla carogna per divorarla. GENÈ, Errori popolari sopra gli animali.—Corvo ed Avvoltoio.

[18] Questo miracolo veramente non operò Santo Antonio, bensì San Dunstano abbate di Glaustenbury, e questa sua presa del diavolo con le molle tanto grande autorità gli compartì sul popolo, ch'egli ne trasse baldanza da imprigionare, e perfino uccidere la sua regina, senza che per ciò ei ne menomasse il credito. HUME, Storia d'Inghilterra, t. I.—Così sacerdoti, e re procedono concordi finchè si tratta immontonare il Popolo; immontonato che sia, si divorano fra loro; e la storia è lì aperta per dimostrarlo.

CAPITOLO XIX

LE FANTASIME.

                    Tra male gatte è capitato il sorco.
                                         DANTE, Inferno.

Appena il vecchio masnadiero aveva cessato di favellare, che una voce sonora e argentina rompendo i silenzii della notte, portò agli orecchi dei banditi questa canzone:

    Avventa le zanne,
      Atterra lecciòli,
      Nocciòli—corniòli,
      Fa il bosco tremar.

—Non vi muovete, disse Orazio ai compagni, che entrati in sospetto già già ammannivano le armi: egli è l'amico nostro; il sordo-muto della Ferrata: egli non possiede in questo mondo nulla, eccetto voce e miseria; e la prima voi non potete, e la seconda voi non gli volete togliere.

Infatti indi a breve comparve il garzone della Ferrata, il quale oltre la età scaltrissimo, aveva trovato il suo conto a fingersi sordo-muto, e idiota, e così prese a interrogarli:

—Marzio dov'è?

—Se ce lo insegni noi te lo diremo. Questa è l'ultima notte del nostro obbligo di aspettarlo; o viene in breve, o non verrà più: il meglio, che tu possa fare, è di attenderlo qui con noi.

—Questo è guaio grande: che importa pescare, se non si bada alla rete?

—Vien qua, fanciullo, e cantaci la tua canzone; intanto Marzio potrebbe venire.

—Oh! vi pare egli? Ella è una canzone composta da qualche montanino ignorante di questi luoghi;—pare proprio fatta con la piccozza.

—Che sia stata composta su questi poggi non ha da dubitarsi, interruppe Orazio con modo acerbo; ma che l'abbia fatta uno ignorante non è vero, brutta scimmia, perchè l'ho fatta io…

—Orazio… vi chiedo perdono… io non credeva…

—Credessi, o non, credessi, impara che non istà straziare, la canzone a cui la canta: veramente la mia poesia non vale la tua voce; ma ad ogni modo, senza i miei versi come sapresti far sentire i tuoi canti?

Il garzone, per torsi d'impaccio a rispondere, sciolse una nota limpidissima. Orazio non ebbe coraggio interromperlo, ed egli continuò:

    _Correte alle poste,
      Chè scende il cignale
      Non venne l'uguale
      Pei boschi a stormir.

    Avventa le zanne,
      Atterra lecciòli.
      Nocciòli,—corniòli,
      Fa il bosco tremar.

    Per setole ha stecchi,
      Ha fiamme per occhi:
      Nessuno mi tocchi,
      Grugnando egli va.

    Le belva percosse
      Del mostro allo strido,
      Disertano il nido,
      I figli, e l'amor.

    I colti devasta
      Così, che ai bifolchi
      Par corsa nei solchi
      La fiamma del ciel.

    Le macchie salvate,
      Ai campi accorrete,
      Battete—uccidete
      Quel verro crudel.

    La carne del verro,
      Un rubbio ben pieno
      Di gran saraceno
      Il premio sarà.

    La testa, e del tiro
      Si aspetta l'onore
      Al franco uccisore
      Del marzio cignal.

    E premio più caro
      Lo aspetta, del viso
      Di Clelia un sorriso,
      Baleno di amor;

    Di Clelia la bella,
      Che quale la mira
      Delira,—sospira,
      Più posa non ha._

—Eccoti un bacio, e uno scudo; disse Marzio uscendo da un macchione in compagnia di Olimpio. Iddio ti ha dato la grazia del canto come il raggio alle stelle—luminosa, e soave: io ti chiamerò l'usignòlo dei banditi.

Ma il giovanetto, lusingato dalle lodi, ricusò la moneta, e rispose:

—Marzio, io per danaro non canto; la voce mi fu data senza pagarla, ed io la dono, non la vendo: così mi sembra il canto più bello. Io ti servo per amore, e basta. Il nostro amico della Ferrata mi manda a dirti, che il Barone è giunto…

—È giunto?

—Certo, ed io l'ho visto; ha seco la moglie, i figliuoli, ed una scorta di guardie campestri, o masnadieri che sieno. Io vengo ancora a cercar muli dai carbonari perchè il vecchio non intende fermarsi, e vuole continuare il viaggio in questa stessa notte.

—Quanti di scorta?

—Dodici; ma non di queste bande: alla parlata paiono delle parti di
Toscana.

Presto furono in ordine i muli. Orazio, così ordinando Marzio, si tinse il viso e le mani di carbone; tolse la vesta di un carbonaro, e insieme col garzone menò le bestie alla Ferrata.

I banditi levarono il campo, e seguitando Marzio si ridussero al luogo predisposto alle insidie.

Arrivati i muli alla osteria don Francesco comandava li caricassero, e quando fossero in ordine lo avvertissero per partire. Non passò bene un'ora, che ogni cosa era in punto; ond'egli discese per esaminare se tutto fosse a dovere. Mentre da un luogo ad un altro si affaticava, un pipistrello investì con l'ale la lanterna che gli portavano davanti, sicchè l'uccello sbalordito gli cascò in mano; egli la scosse prontamente con un senso di ribrezzo gittando via la trista bestia, e notò:

—Cattivo augurio è questo, e prudenza vorrebbe sospendessi il partire… Qui l'oste, mostrando un viso di sasso—dove rompeva qualunque vergogna—soggiunse:

—Non vi faccia specie, Eccellenza, perchè il cattivo presagio viene compensato, anzi superato con uno buono…

—E quale?

—Caricando i fusti del vino, poco anzi, se n'è rotto uno… e siccome il vino sparso è allegria…

—Per avventura la fiasca dello keres, dove si leggeva il numero tinto di bianco?

—Non vi si leggeva nulla; state tranquillo, e fiasca non
  era.

—Andiamo a vedere un po' dove si è rotto…

—Giù in cucina…

—Vi sarà rimasto il guazzo…

—Eh! no, i mattoni lo hanno bevuto; anche i mattoni hanno voluto fare un brindisi a vostra Eccellenza…

—Ma questa casa parmi fabbricata almeno da un secolo addietro.

—Sicuramente; ma il pavimento è nuovo.

—Chi aveva ragione di noi altri due: tu, che facevi derivare il nome oste da ospite; od io, che lo desumeva da nemico?

—L'oste, a vero dire, interruppe il carbonaro, non fa razza da se; ma la natura lo ha messo nella grande specie, che dondola tra il somaro e il coccodrillo.

—Chi vide mai questi animali?

—Voi gli avete davanti, Eccellenza; questa razza è il popolo, che quasi sempre porta, qualche volta divora.

Don Francesco, percosso da coteste parole, prese la lanterna e la sollevò al viso del carbonaro. Orazio riconobbe lo sguardo verde, il riso maligno, la faccia di marmo del conte. Il Conte ravvisò i capelli canuti e le sembianze di Orazio, comecchè gli sembrasse assai prostrato dagli anni, e forse, come ei credeva, dai patimenti.

—Pare che noi non siamo conoscenze nuove, favellò il Conte; l'avventura dei capelli bianchi non è di quelle, che si possano leggermente dimenticare.

—È vero, i capelli bianchi non si dimenticano,—già si rammentano da se.

—Quantunque io vi conservi rancore per non avermi contentato a riportare gli aquilotti nel nido, pure, che siate uomo animoso non è da dubitarsi.—Mi duole che la fortuna non vi abbia sollevato; e se potessi, io le direi in viso che ha torto, e si vergognasse una volta.

Orazio, che incominciava a sentirsi venire i brividi addosso per la paura che gli metteva lo aspetto del conte, alle parole oneste tutto si riconfortò: gli piacque udire rammentare il caso del nido, e si profferse svisceratissimo al conte. Però Orazio accanto a don Francesco non era più quello di prima; il suo coraggio andava in fumo; e questo avveniva perchè, secondo una bella espressione dello Sterne, con molta ala di vela non aveva una oncia di zavorra; e imperterrito contro le palle, credeva alle streghe, temeva della jettatura, e senza le cinque o sei medaglie che portava appese al collo egli non si sarebbe attentato giammai di passare solo la notte.

Don Francesco, Orazio, e il garzone (ch'era tornato a fare da idiota, e a favellare con ammicchi) in compagnia di sei guardie campestri aprivano la caravana; in mezzo le donne, Bernardino, i servi armati e le bagaglie; dietro altre sei guardie chiudevano la comitiva.

Beatrice più volte si era affaticata ad accostare suo padre, più volte lo aveva supplicato con parole, o con cenni a porgerle ascolto: prima di uscire dalla osteria gli si era gittata in ginocchio davanti, e gli aveva detto:

—Signor Padre, non andate oltre, o siete morto… Marzio…

Ma il Conte a cui cotesto nome suonava delitto, e reputando eziandio le continue smanie della figlia come sforzi supremi a sottrarsi dalla imminente prigionia della Petrella, la ributtò con maniere acerbe, ed ordinò che la guardassero, e la impedissero di trascorrere dal luogo che l'era stato assegnato.

La notte diventò più buia, chè metteva un'aria, piena di nuvole a strappi, chiamata dai campagnuoli le pecorelle; e a mano a mano che salivano il fresco si faceva mordente; il vento zufolava per le fronde degli alberi: si cacciarono su per l'erta di Rio Freddo alternando discorsi, e avvertimenti di badare al cammino, che davvero meritava attenzione. Passato Rio Freddo, per la piana del Cavaliere pervennero a Rocca Carenzia. Di qui ripresero a salire, per una viuzza del Monte di Bove, fin sopra la cima, dove videro comparire la luna.

Quanto è diverso il primo quarto di questo pianeta dall'ultimo! Il primo rassomiglia una speranza, l'ultimo uno addio: gli uomini che videro di frequente il primo, bene pensarono a convertirlo in ornato della Diva dei boschi; quelli poi che più spesso contemplarono l'ultimo, ne fecero con migliore accorgimento lo attributo di Ecate, la Dea dello inferno. Chiunque ha contemplato la luna nelle varie sue fasi, per molte notti, ad ore diverse, comprende come possa essere stata salutata a ragione Dea degli amanti, e dei ladri. Le tenebre, non che ne fossero rischiarate, sembravano più triste; e il vento trasportando le nuvolette spesse, e più o meno dense, venivano ad alternarsi ora buio intero, ora mezza oscurità, ora splendida luce, che trasformavano stranamente e rendevano più terribile la faccia delle cose.

Potevano essere circa le due ore dopo la mezza notte, allorchè, traversata Rocca di Cerro per la via Valeria, rasentarono il taglio portentoso delle rupi di Tagliacozzo. Se avesse albeggiato, od anche fosse stata luna piena, quinci sariasi potuto distinguere la Rocca Ribalda; imperciocchè, passato alcun poca di valle, s'incomincia a salire il colle della Petrella, in cima del quale, sopra una rupe di pietra calcare giallognola, che si fa cenerina dalla ròcca.

Io co' miei viaggiatori ho percorso buon tratto della campagna; ma quantunque prossimo, non sono arrivato anche al termine del cammino: avanti dunque, chè pochi più passi rimangono.

La via che conduce alla Ribalda sopra la schiena del colle Petrella è aspra, rotta, e incassata in due ripe donde si rovesciano giù per le pareti pruni, e cespi di macchia cedua ove più radi, ove più folti. Nella stagione delle piogge il sentiero convertendosi in torrente, nè mai le acque giungendo, per la ripidezza dello scolo, a toccare la cima delle sponde che fanno loro di letto, ne avviene che il sentiero largheggi nella base, e si restringa in cima.

Quando il Conte Cènci con la sua compagnia entrò in questo cammino la luna si era appiattata dietro una nuvola nera, che viaggiava, a cagione della sua mole, più lenta delle altre, sicchè procederono quasi tentoni per un buon quarto di miglio. Allo improvviso la luna liberandosi dalla nuvola gitta un raggio obliquo, ed illumina la scena. Don Francesco alzando la testa vede sbucare fuori delle macchie una moltitudine di strane sembianze affacciate dal ciglione con gli archibugi tesi pronti a sparare. Non vi era scampo a resistere: a fuggire nemmeno, perchè l'erta dirupata rompeva la lena, e la china, oltre all'essere impedita dalla gente stipata dietro le spalle, non presentava intoppi minori. Coteste erano veramente forche caudine.

—Fermi tutti:—se muovete un passo siete morti!—

Così si fece sentire una voce dall'alto, come folgore che rumoreggi per le nuvole; e la compagnia si fermò.

I banditi, i bravi, e le guardie campestri, maniere di gente che assai rassomigliavano fra loro, come fu avvertito poco anzi, si mostravano quasi sempre osservatori fedeli della data promessa. Nè si creda già, che studio siffatto muovesse da sentimento generoso: tutto altro. Egli veniva dalla considerazione, che dove avessero mancato, cotesto loro mestiero diventava fallito; imperciocchè i Signori o avrebbero smesso le ribalderìe, che da loro si volevano mandate ad esecuzione, o avrebbero ricorso ad altri uomini e ad altri provvedimenti: sicchè essi ponevano nella sciagurata loro vita lo impegno medesimo, che il buono artefice mette a riportare un lavoro puntuale per mantenersi il credito e lo avventore. Indotte da questo, le guardie campestri di scorta al Conte Cènci non fuggirono; e il caporale, fattoglisi dappresso, gli favellò:

—Eccellenza, che abbiamo a fare?

—Il leone è caduto nella fossa…

—Se ci muoviamo ci ammazzano come cani senza difesa, e senza vendetta.

—Lo vedo; qui forza non vale. Entrate a parlamento; guardiamo se l'arte giova, e procurate capitolare co' banditi…

—Oe, gridò il caporale, da quando in qua cane mangia carne di cane?… Fin qui credeva, che dai confetti di piombo e dalle nozze di canapa in fuori non avessimo a correre altri pericoli…

E gli fu risposto:

—Parole corte. Noi non cresceremo il fascio delle legna al boscaiuolo. La scorta dei dodici uomini torni sopra i suoi passi senza essere svaligiata: depositi gli archibugi, che domani alla calata del sole ritroverà alla osteria della Ferrata. I lupi dello Abruzzo non dicono due volte: badati; la seconda parlano con la bocca degli archibugi.

—E la compagnia?

—Con essa abbiamo altri conti.

Le guardie campestri non istettero ad aspettare altre intimazioni, e si allontanarono senza profferire parola, fatto prima fascio delle armi.

—Il Conte Cènci passi alla coda della caravana;—intimò la medesima voce.

Il Conte, ostentando allegria, obbediva. Orazio lo seguitava, e lo intendeva favellare così:

—Semprechè nelle cose adoperai avarizia provai ogni successo a traverso:—doveva prendere cinquanta di scorta, ed avrei risparmiato un tesoro.—Cotesti gentiluomini, oltre la perdita delle bagaglie, chi sa quanto pretenderanno di riscatto!

Giunto alle spalle della caravana, quattro banditi saltarono giù dal ciglione; e siccome, malgrado il proponimento di andare per prova di arte, il naturale istinto spinse il Conte a metter mano al pugnale, appena fece l'atto si sentì stringere le braccia da due tanaglie di ferro. Sì volse irritato per vedere chi fosse, e riconobbe Orazio. Orazio, a cui cresceva forza la paura, che gl'incuteva il Conte.

—Ah! siete voi, cacciatore?

—Sono io…

—Pare, che il quarto d'ora del bandito sia venuto per te…

—Certo in questo punto smetto la parte del somaro, e prendo quella del coccodrillo….

—Guarda da legarmi; io non ti perdonerei mai questo oltraggio: impara, villano, a rispettare i gentiluomini.

—Ah! signore, perdonateci innanzi tratto perchè noi siamo ignoranti, e non sappiamo altro che guardare alle nostre sicurezze.—Questi quattro compagni sono scesi appunto per aiutarmi a legarvi…

—La comitiva, gridò la voce dall'alto, prosegua il suo cammino. Il
Conte Cènci ha da restare con noi.—

In questo punto un capo si affaccia per un momento all'orlo del ciglione. Beatrice, che era stata attenta a contemplare i varii casi che si succedevano, lo vide, lo riconobbe, e comprese pur troppo qui non trattarsi di sequestro per estorcere danari, siccome costumano ordinariamente i banditi romani e del regno: più terribile intenzione covava lì sotto, nè s'ingannava; perocchè lasciatasi andare giù dal cavallo si pose al fianco del padre, e incominciò a parlare di forza con la faccia levata in su:

—Il ragnatelo insidia la mosca con reti di bava, e se la porta nel buco per succhiarle il sangue. Voi non siete lupi dello Abruzzo, ma ragnateli di sotterraneo. L'aquila per l'aria vive di preda, e il leone sopra la terra; siate leoni, ed abbiatevi la preda: io non vi parlo di quanto portiamo con noi; questo è già vostro: intendo parlarvi del nostro riscatto. Chiedete; noi siamo pronti a pagarlo; chiedete quanto vi basti ad arricchirvi tutti, e a farvi stare contenti in casa vostra senza le cure della miseria, e il pericolo della forca… noi possediamo danari più che non potete immaginare; fissate voi i limiti del nostro riscatto…

—Beatrice, vaneggi? Per fare quello che suggerisci essi non hanno mestieri dei tuoi consigli… e sono capaci da non lasciarti neanche gli occhi per piangere…

—Tacete, Padre mio; voi non pensate qual pericolo vi pende sopra la testa: lasciatemi favellare.—Noi vi pagheremo questo tesoro, purchè lasciate che con noi venga il Conte: egli si legherà per fede a sborsarvi il danaro di qui a dieci giorni. Se non vi basta la sua promessa aggiungerò la mia, e la conformerò con giuramento; che dalla parte di mia madre mi vennero moneta, e gioie in buon dato. Se neanche questo vi basta, tenete me in ostaggio, e lasciate andare il Conte: io sono giovane e sana, egli vecchio ed infermo. Pensate alle vostre famiglie,—pensate alla contentezza di mangiar pane non immollato nel sangue… ai figliuoli che avete… a quelli che potrete avere… ai vecchi padri pieni di necessità… affamati davanti lo spento focolare…

—Via—interruppe una voce imperiosa; ma Orazio rispose:

—Lasciamola parlare: udiamo fino in fondo… che molte cose buone mi pare che le dica.

—Sentite, proseguiva Beatrice, se strascinate via il Conte voi ve lo troverete ammazzato fra le mani; voi non guadagnerete nulla, perchè quelli che vi hanno condotto non vogliono la moneta, ma il sangue di un povero vecchio;—e poco scampo vi rimarrà dalla forca, che le corti di Napoli e di Roma, mosse dalla fama del personaggio e dalle aderenze potenti, v'inseguiranno come lupi di macchia in macchia, e vi converrà morire di laccio, o di piombo. Dopo Sisto V, quale spelonca è rimasta ignota? Qual ròcca inespugnata?—Come finì il Cavaliere dei Pelliccioni? Impiccato. Come Marco Sciarra? Impiccato. Come il signor Duca di Amalfi? Impiccato; tutti impiccati comecchè potentissimi. Sappiate dunque adoperare la occasione che la fortuna vi mette fra le mani…

La fanciulla favellando caldamente incominciava a insinuarsi nello spirito dei banditi, in ispecie in quello di Orazio; e dove poco più le fosse stato concesso parlare gli avrebbe svolti tutti, se Marzio, comprendendo il pericolo, non avesse mandato Olimpio a qualche distanza a sparare lo archibugio. La botta empì di sospetto i banditi; e Marzio allora, per maggiormente spaventarli, gridò con quanto fiato aveva in gola:

—Maledetti! Egli è tempo questo da sentir cantare la calandra?…
Alla foresta! alla foresta!—La corte ci è sopra.

E Olimpio, correndo, urlava a sua posta:

—Salva… salva… la corte ci è sopra.

—Il Conte… portate il Conte…

A Beatrice toccò una spinta nel petto, che la mandò a percuotere con le spalle nella parete del cammino; e mentre, punto sbigottita, continuava a gridare:

—Udite… siete ingannati… cinquanta contro uno…, e tali altre parole, trassero seco loro il Conte; il quale persuaso che fosse negozio cotesto da comporsi a danaro, sopportava meno acerbamente lo affronto, volgendo già nel cupo animo mille disegni di vendetta crudelissima. Per quale via lo traessero i banditi a lui non fu dato di scorgere, però che a breve distanza, di costà gli ponessero la benda sopra gli occhi; e poi, scaltrito com'era in simili arti, capì che lo facevano avvolgere sopra se stesso per confonderlo, onde in qualunque evento non riuscisse a rinvenire più il luogo.

Allo improvviso gli parve essere rimasto solo; portò le mani alla benda, e non udendo voce alcuna che lo impedisse togliersela se la levò ad un tratto, e si trovò dentro una caverna spaziosissima. Senza indugiare un momento prese una lanterna lasciata appesa alla volta, ed esaminò sottilmente le pareti, il pavimento, e il soffitto; gli parve che le pareti e il pavimento in parte fossero vuoti, ed in vero erano; ma così bene chiusi con assi, che ogni via alla fuga conobbe disperatamente impedita.—Una tavola, qualche scranna, e un mucchio di foglie coperto di pelli erano i soli mobili che guarnivano il luogo. Don Francesco si pose a sedere, e più che pensava più si persuadeva, che se il riscatto non gli apriva le porte di cotesto sepolcro, qualunque altro modo per uscirne gli sarebbe tornato corto. Altre volte si era trovato ad andare prigione, ed anche vi aveva corso pericolo non piccolo, ma pure non si era mai sentito fiaccato come adesso; forse la età gli aveva sottratto alquanto della baldanza per cui fu temuto una volta, e forse anche un presentimento lo travagliava indistinto, e grave, che lo teneva sbalordito: insomma, non può dirsi che avesse paura, ma neppure il coraggio consueto lo sosteneva. Posizione maravigliosa per sentire le trafitte del dolore; imperciocchè da un lato manchi la forza per prorompere, e divertirci in mezzo alla procella dello sdegno, e dall'altro manchi la stupidezza, che ci rende insensibili ai colpi di ventura.

Dovevano essere passate parecchie ore dacchè ci si trovava chiuso là dentro, avvegnadio s'impadronisse di lui uno sfinimento che gli faceva desiderare qualche ristoro. I bisogni del nostro fisico si fanno sentire anche in mezzo alle tempeste dell'anima: il pane par cenere, il vino fuoco dentro lo stomaco, che li chiede con angosciosi strappamenti, e l'uomo è costretto a nutrire il cancro che lo divora. Stette un pezzo prima di risolversi a chiamare, però che alla sua fierezza pesasse chiedere la vivanda ai banditi; ma la natura urgendo, gli fu mestieri piegarsi a picchiare alla porta. Tocco appena l'uscio gli venne aperto, e subito comparve un garzoncello accorto, che con parole ossequiose, ma che pure svelavano un senso sottìlissimo di scherno, gli disse, che da buon tempo stava di fuori aspettando; non avere ardito prevenire la chiamata temendo disturbarlo nelle sue meditazioni; ed egli sapere essere il carcere luogo adattatissimo a meditare. Al Conte parve ravvisare il garzone, e veramente egli era il sordo-muto della osteria della Ferrata.

—Dimmi, fanciullo, come hai tu fatto a recuperare la favella?—domandò il Conte.

—Per virtù di Santo Andrea Avellino, il quale si diletta operare per queste parti di miracoli assai.

—Se io n'esco, pensò il Conte, furfanti, ve li darò io i miracoli di Santo Andrea Avellino. La rete è stata tesa da mano maestra; anche l'oste d'accordo… Ma dov'è Marzio? Non fosse rimasto ucciso?—Fosse una trama ordita da lui? Ah! potessi sapere che cosa avvenne di Marzio!

—Eccellenza, proseguì il garzone, se ha cosa da comandarmi rimango; altrimenti non vorrei riuscirle importuno…

—No, figlio mio; ti ho chiamato perchè tu veda portarmi un po' da mangiare…

—Subito, Eccellenza;—e andava.

—Senti, vieni qua; adesso fa giorno, o notte?

—Notte, perchè senza lumi qui non ci si vedrebbe.

—Non qui… ma fuori…

—Fuori è buio ugualmente. Se poi lassù faccia notte o giorno io non saprei informarne vostra Eccellenza, perchè per ora non mi concedono salire…

—Che parli tu di salire? A me non parve scendere venendo qua dentro.

—Vi è parso perchè è dolcissimo il pendìo, che mena nello interno della spelonca; ma avete da sapere, che ci troviamo delle miglia ben molte sotto terra.

Don Francesco vedendo essere preso a gabbo, dal petulante garzone gli vibrò tale uno sguardo, che per quanto costui fosse sfrontato non ebbe forza di sostenerlo, ed uscendo avvertiva:

—In un baleno torno col pranzo, che

Il nostro gregge e l'orticel dispensa Cibi non compri alla non parca mensa,

come dice il signor Torquato Tasso.

Questo baleno durò per così lungo spazio di tempo, che il Conte attribuendo la dimora a nuova malizia del garzone, sempre più s'inviperì contro di lui, e dispose dargli tale ricordo, che se ne potesse rammentare per un pezzo. Tornò alla fine il ragazzo simulandosi ansante come chi viene in fretta, e portò due candelieri di singolare fattura: erano due mani scarne, che reggevano le candele accese; i lini per imbandire la mensa, e di più ragioni vivande accomodate squisitamente, e in copia da bastare a dieci: dispose ogni cosa con accortezza sopra la tavola, procurando starsene lontano quanto meglio poteva dal conte.—Questi spiava il modo di mettergli le mani addosso; ma il garzone, svelto, si cansava a guisa di mosca sul muso dello alano, che gli svolazza fastidiosa ed assidua pel naso, per le orecchie, e per gli occhi; e quando sbuffando avventa le zanne fugge via, ed egli morde l'aria. Don Francesco allora, traendosi di tasca un ducato, gli disse:

—Vieni qua, figliuolo, come ti chiami?

—Chiamatemi come vi pare, Eccellenza…

—Ma un nome devi averlo; non ricevesti tu il battesimo?

—Sarà; sebbene avessi a trovarmici presente, pure non me ne ricordo… Ah! aspettate; ora sì che mi viene in mente; mi posero nome Onorato…

—Onorato! E' pare, che per metterti cotesto nome il tuo compare non consultasse l'astrologo.

—Così diceva ancora io; ed anche se prima di battezzarmi avessero sentito il mio parere, non avrei permesso simili bugiarderie.

—Va, tu mi piaci; siete tutti concettosi voi altri: prendi questo scudo, che te lo dono.

—Ed io non lo voglio…

—Perchè?

—Perchè non si deve accettare per limosina quello che possiamo pretendere per taglia.

—Ah! dunque anche tu vuoi taglieggiare il barone?

—Figuratevi ch'e' sia come carne di fagiano; tutti nella vita vogliono assaggiarne una volta.

—Anche tu vuoi taglieggiare il barone!

E si frugava in seno; ma il garzone presagendo la mala parata, di un salto toccò la porta, e si riparò dietro l'uscio.

—Prendi questo per taglia; e sì dicendo, il Conte scagliava il pugnale contro il ragazzo: questi lo schivò facilmente, e il ferro andò a piantarsi dentro la porta, dove, dopo avere alquanto tentennato, quietò. Allora sbucò fuori, lo staccò senza ira, e sporgendolo verso il conte gli disse:

—Io ve lo conserverò con diligenza, e spero in Dio potervelo rendere quando i miei superiori me lo concederanno.

Il Conte vedendo fallito il colpo, mormorò dispettosamente: ne anche un colpo mi riesce più ad assestare!—E si accostò alla mensa. Se la cura molesta non vi si fosse seduta accanto a lui, per certo il cibo gli sarebbe tornato accettissimo atteso la grande fame che lo travagliava: ad ogni modo prese a tagliare la vivanda, ed accostandosene alla bocca un frammento non potè trattenersi da esclamare «ho fame!…»

Nel medesimo punto, a breve distanza da lui, una voce lamentevole rispose «ho fame!..»

Gli parve illusione; ma nel sollevare lo sguardo ecco li, proprio seduto a mensa dirimpetto a lui, gli apparisce uno spettro pallido, lungo, orribilmente scarno, con occhi spenti a guisa di pesce morto, il quale, poichè l'ebbe fissato in volto, gli parve che presentasse, e presentava certo le sembianze di Olimpio. Il Conte, tenendo il braccio sospeso fra il desco e la bocca, prese a dire:

—Ch'è questo? Sono io diventato don Giovanni Tenorio, e voi, mio bello spettro, volete sostenere le parti del commendatore di Lojola? Ma io mi permetto osservarvi, che il Commendatore era stato invitato da don Giovanni, e voi venite spontaneo; la quale improntitudine sconviene altamente a spirito bene allevato: inoltre il Commendatore era di marmo, e voi di qual materia siete? Ad ogni modo, ben venuto signore spettro, e se vi garba mangiare, mangiate, che buon pro vi faccia.

Mirabile a dirsi! Appena ebbe il conte profferito coteste parole, che lo spettro, come se lo travagliasse quella terribilissima infermità, che i medici chiamano bulimo, o fame canina, si gittò frenetico sopra le vivande imbandite, e tutte le fece sparire in un battere di occhio, arraffando anche il piatto posto davanti al conte: nè qui fermandosi, ingolò tovagliuoli, e tovaglia; poi azzannò le stoviglie, e stritolandole co' denti ne trangugiava i pezzi[1]. Al conte, fra maravigliato e atterrito, non bastò l'animo di salvare nulla, nemmeno il frusto di carne fitto dentro la forchetta; ogni cosa divorò lo insaziabile vampiro: poi ridivenne immobile; e guardando fisso il conte, con la bocca aperta, e mostrando i denti ripetè:

—Ho fame!…

—Per la morte di Dio!—esclamò don Francesco, ostentando una baldanza che era lontana dall'animo suo,—che cosa ho a darti io?—-E scorto in un angolo della caverna certo fascio di paglia, lo spinse presso a cotesta belva dicendo:

—Prendi, divora…

E lo spettro divorò anche la paglia. Terminata che l'ebbe, tese come prima la orribile faccia verso il conte, urlando a bocca aperta:

—Ho fame!…

—Io non ho altro a darti… mangiati il cuore…

—Ho fame!… ho fame!… non il mio cuore, ma la tua carne io mangerò, cane, che mi hai fatto morire di fame…

E infuriando come belva rovescia tavola e lumi, e si avventa alla vita del conte: questi provò svincolarsi; sennonchè, sbattuto giù come sasso da forza irresistibile, si sentì mordere di rabbia sopra la spalla manca. Don Francesco, quantunque fieramente commosso, e rifinito dal digiuno, non per questo si abbandonava, chè il pensiero di rimanere divorato da cotesto cannibale gl'infondeva nei muscoli forza tetanica. Si rotolavano entrambi per terra mordendosi a vicenda, e ingegnandosi di stringersi alla gola: di tratto in tratto cacciavano urli disperati; si laceravano co' denti; si sgraffiavano con le ugne; si pestavano a pugni; l'anelito usciva fumoso dalle narici e dalla bocca; il cuore, tremante per tremendo palpito, minacciava scoppiare loro nel petto… orribile lotta era quella!

Ma la potestà non corrispondendo al volere, ormai il Conte stava per perdere conoscenza: radi, e compressi gli uscivano dalla gola i sospiri: negli estremi sforzi si dibatteva, quando fu udito strepito di catene, ed una voce che gridava:

—Il vampiro ha rotto la catena!

Al Conte parve, imperciocchè non vedesse distinto, che certe figure nere, e truci, con tronchi di pino accesi entrassero da più parti nella caverna staccandosi dalla parete, e gittandosi sopra la trista belva giungessero ad incatenarla con quattro catene, e tenendone i capi uno discosto dall'altro la strascinassero fuori della caverna. Egli stava sempre disteso sul pavimento; puntando la mano a terra gli riuscì, quantunque con isforzo, a mettersi seduto: ansava affannoso, grondava sudore, e sangue. Delle candele una era spenta, l'altra rovesciata; si provò a rimetterla dritta nel lugubre candeliere: forte sentiva dolersi la gola, la spalla, ed altre parti della persona. Volle richiamare la mente sopra coteste vicende, ma non gli successe: anche il cervello gli doleva informicolito, e davanti agli occhi gli andava in giro un diluvio di faville. Spossato dalla fatica, attrito dal digiuno e dal dolore, il Conte brancolando… a tentoni cercò il letto di foglie, e lo rinvenne. Il ribrezzo che gli si era fitto nelle ossa lo persuase a mettersi sotto le pelli; prese a sollevarle con mano tremante, quando una voce sepolcrale quinci uscendo incominciò a favellare così:

—Venga il desiderato… quanto mai tardasti! è tanto tempo che io ti aspetto vegliando!

Il Conte si drizzò su le ginocchia intendendo a quello che era, e vide un corpo umano ignudo con la faccia coperta da un bosco di capelli scarmigliati, e intrisi di sangue: in mezzo al petto gli usciva fuori un manico di pugnale, e dalla ferita aperta gli spicciava perenne un rivo di sangue.

—Sono la fanciulla di Vittana, proseguiva la voce: se io ti odiai una volta e' fu perchè aveva dato ad un altro fede di sposa; ma ora la morte mi ha sciolto dall'obbligo, e mi sono accorta dal dono, che mi facesti, e porto qui in mezzo del cuore, quanto tu sii più generoso amante.—Appressati, via… rimettiamo il tempo perduto… a me tarda inebriarmi di amore.

E l'aborrita figura, tese le braccia, a sè lo attirava con gesti provocanti. Il Conte rifuggiva inorridito, e con tutte le forze rimastegli la respingeva. Invano però; chè la femmina sottentrando lo ricinge alla vita duramente, e lo sforza a giacere. Ora se lo preme delirante contro il seno, e col manico del pugnale ammacca le costole e il petto del conte, che mugola pel nuovo spasimo, e poi lo bacia, e lo ribacia con le labbra ingrommate di sangue. In breve mani, seno, faccia, e capelli del conte grondano sangue: non poteva tenere gli occhi aperti e la bocca senza che se ne sentisse piovere dentro caldi ruscelli, e accecarlo, e soffocarlo. Finalmente il furore del succubo toccò il delirio; raddoppia ardentissimi i baci e i singulti, e così stringe spietato fra le braccia di ferro il vecchio conte, che questi sentendosi spezzare le ossa del petto, singhiozzando per la insopportabile angoscia venne meno.

Innanzi che lo intelletto tornasse a raggiargli nella testa, una confusione di strida e di guai dolorosi mista di fragore di catene gli percuote le orecchie. La pelle delle ciglia abbassata non basta a difendergli le pupille dal molesto bagliore. Apre finalmente gli occhi, e vede la camera in fiamme: balza atterrito sopra il letto, ed ecco in mezzo a cotesto fuoco comparirgli diversi sembianti in attitudini disperate, che urlavano in modo da intronare il cervello:

—Allo inferno! allo inferno! E dalla torma delle larve se ne staccò una tutta nera, se non che getti di fuoco palesavano gli occhi, il naso, le orecchie e la bocca: le rughe del volto erano segnate parimente da liste di fuoco. La larva appressandosi al conte levò la mano fiammeggiante in atto di maledire, e profferì queste parole:

—Io sono l'anima del falegname di Ripetta. Maledetto per la morte atroce, che mi hai fatto soffrire:—maledetto per lo affanno della mia moglie:—maledetto per la miseria di mio figlio:—mille volte maledetto per lo inferno dove mi hai precipitato, però che io morissi senza sacramenti, e la mia anima spirasse bestemmiando Dio.—

Il Conte, comecchè nel corpo si sentisse infranto da potere appena trarre il fiato, e nell'anima avvilito, pure per abito, più che per intenzione di scherno, favellò fiocamente:

—Poichè tu sei, per quanto io credo, il primo corriere che il diavolo manda in questo mondo, fa' di darmi notizie dello inferno…

—Le vuoi?… Porgimi la mano…[2]

E siccome il Conte nicchiava, la larva irridendo riprese:

—Ha paura il conte Cènci?

E quegli gliela porse. Allora la larva stese lo indice della destra, e lo appuntò in mezzo alla palma del conte. Come dalle torcie di bitume sorrette obliquamente gocciolano stille infiammate, le quali cadute sul terreno continuano ad ardere finchè non si consumino, così dal braccio della larva scaturirono bolle di sudore di fuoco, che stridendo si precipitarono giù pel dorso della mano, e pel dito sopra la palma del Cènci. Urlò questi; e non potendo sopportare l'ambascia, volle ritirare la mano per iscuoterne il fuoco, ma non potè; chè la larva gliela tenne ferma dicendo:

—Ricevi le stimate del demonio, vecchio ribaldo.

E il Conte, mugolando per l'insoffribile crucciato, svenne da capo.

—Non ne può più, esclamarono le larve; lasciamolo a mordere la terra;—e sì parlando si dileguarono con grandissimi scrosci di risa.

Umana, o divina, cotesta vendetta pungeva acerba davvero, e per quello che sembrava eravamo al principio…

Lungamente stette privo di sensi il mal capitato conte. Quando con un sospiro tornò in se si sentiva, a refrigerio delle angosce che durava, detergere da mano soccorrevole il sudore della fronte, e con abluzioni di acqua fredda temperare la vampa della febbre che gli ardeva le vene: aperse gli occhi, e gli apparve cosa più delle altre stupenda.

Beatrice, la sua figliuola, sedutagli al fianco sopra le foglie, che dopo avergli lavato la faccia e fasciato le ferite s'industriava a farlo rinvenire. Le sembianze angeliche della fanciulla spiranti pietà, e il dolce atto di amore avrebbero persuaso i più tristi e villani intelletti, lei essere mossa da impulso dolcissimo di carità; e non pertanto il Conte nell'anima malvagia immaginò subito che la sua figlia fosse complice dei suoi persecutori, e quivi venisse a rampognarlo dei casi passati, e a godere del suo trionfo. Beatrice, tostochè lo ebbe scorto ritornato in se stesso, gli si accostava all'orecchio, e con voce soave gli domandò:

—Vi sentite la forza di reggervi in piedi, Padre mio?

E siccome egli si apparecchiava a risponderle, ella prontamente soggiunse sommessa:

—Non parlate, no… accennate col capo.

Il Conte accennò sì. La fanciulla riprese:

—Signor Padre, bisogna che vi aiutiate con ogni sforzo;—qui ci vuole diligenza davvero, perchè io non solo dalla carcere intendo condurvi alla libertà, ma dalla morte alla vita.—

Potenti suonano sul cuore della creatura umana le parole di libertà e di vita; imperciocchè il Conte, malgrado gli acerbi patimenti, fosse tosto in piedi, esprimendo col moto di tutte le membra: «andiamo!»

Lasciata la caverna entrarono in una seconda molto più spaziosa della prima, e quivi, in mezzo alle masserizie rubategli sparse a rinfuso per terra, vide, al chiarore incerto di lumi ottenebrati da densa caligine, forse quindici o venti banditi addormentati quale steso sul pavimento, quale appoggiato alle tavole. Quantunque egli usasse infinito studio a camminare reggendosi sul braccio di Beatrice, pure, andando com'ebbro per la debolezza e il dolore, investì dentro una tavola, e rovesciò un vaso di terra, che cadendo si ruppe strepitosamente. Gelò di terrore, che taluno si muovesse; ma girando gli occhi intorno vide Olimpio e l'odiato garzone oppressi dal sonno, e vide eziandio la fiasca dello keres col collo rivolto in giù sopra la tavola.

—Ah! bevvero il mio vino medicato. Tardi si sveglieranno… qualcheduno mai più;—e lasciava il braccio di Beatrice.

—Dove andate, signor Padre?

—Lascia che ne ammazzi a conto almeno un paio:—e sì dicendo traboccava giù in terra, se le mani pronte di Beatrice nol soccorrevano.

—Badiamo a salvarci, per amore di Dio… vedete, che male potete reggervi in piedi;… e ripresolo pel braccio lo traeva seco.

Continuarono il cammino, e chiunque avesse potuto contemplarli avrebbe creduto vedere la pittura di Raffaello nelle logge Vaticane, rappresentante la liberazione di San Pietro dal carcere per opera dell'Angiolo. I banditi dormivano atteggiati come i soldati; bella, e divinamente benefica incedeva Beatrice uguale all'Angiolo. La testa del Conte talvolta, lo abbiamo già avvertito, sembrava quella di un santo: però, considerati i suoi meriti, era giusto che non a quella di San Pietro, sibbene all'altra di San Giovanni decollato si rassomigliasse.

Percorsa la caverna salirono una viuzza scavata nel masso parallela alla porta, e dopo piccolo tragitto riuscirono all'apertura, nascosta con diligente accuratezza sotto una folta macchia di pruni.—Soffiava su que' poggi una brezza matutina mordente assai, in ispecie per coloro i quali, come Beatrice e il Conte, uscissero da luoghi caldi, e fossero leggieri di vesti: di più il Conte aveva la febbre addosso, e non pertanto, assorti entrambi nel pensiero della fuga, o non la sentivano, o non la badavano. Il sole non si era anche levato, ma l'alba serena concedeva allungare la vista intorno alle cose circostanti, e a Beatrice venne fatto di scuoprire immediatamente un cavallo, che legato a un albero pascolava poco oltre i primi cespugli del bosco.—Andò; lo sciolse: mancava di arnesi atti a cavalcare, e ciò nonostante gradito sempre a cagione del padre, che poco a piedi poteva aiutarsi. Il Conte lo riconobbe pel cavallo ch'egli aveva raccomandato a Marzio; e sebbene a stento, pure, aiutato dalla figlia, gli riuscì salirvi: voleva ancora recarsi in groppa la donzella; ma questa considerando la debolezza sua, la febbre che lo consumava, le dolenti ferite, e il difetto di sella e di staffe per potersi sostenere, fece conoscere al padre ch'ella così sarebbe stata impaccio, e pericolo alla fuga.

Ella era molto compassionevole vista quella di una fanciulla delicatissima, con ogni maniera di barbari trattamenti tormentata dal padre, immemore adesso delle ingiurie patite, presaga, eppure improvvida degli strazii futuri, accesa di amore filiale guidare il cavallo per quei greppi; e punto badando se i sassi di cui andava aspro il sentiero ammaccassero i suoi morbidi piedi, avvertire poi che in essi il cavallo non inciampasse, e le ferite del vecchio infermo per isquasso repentino non s'inacerbissero.—Di tratto in tratto ella fissava il suo nello sguardo del genitore; non mica per averne grazie, ma per vedere se gli si sciogliesse punto la durezza del cuore, che a se e ad altri aveva fatto passare tanti giorni pieni di affanno. Il Conte, chiuso nei suoi pensieri, teneva gli occhi appuntati fissamente alla testa del cavallo, torbido, e sussurrante accenti brevi, e feroci. Egli, che tanto aveva offeso nel mondo, senza profondissima ira non sapeva concepire come altri avesse ardito di offenderlo, e mulinava fra se disegni spaventevoli di vendetta… Ora, come il terrore di provocare il conte Francesco Cènci non gli aveva trattenuti da mettergli le mani addosso?—Ah! qual supplizio di cotesti miserabili avrebbe mai potuto placarlo?

Già si accostavano al luogo dove accadde l'aggressione, quando, con maraviglia pari allo spavento, videro una mano di banditi sempre appostata, anzi pure con gli archibugi tesi occupare il sentiero. Beatrice agitata da affannosa ansietà si ferma, il Conte si riscuote, e, vista la mala parata, torna sopra i vecchi sospetti interrogando:

—Mi hai tu condotto qui per vedere la mia morte? Non era meglio lasciarmi uccidere dentro la caverna?

Beatrice solleva gli occhi al cielo, e sospira; poi abbandonata la cavezza del cavallo, che teneva in mano leggiera e spedita, corre colà dove vede comparire i banditi: ma prima assai di arrivare sul luogo intendendo lo sguardo, si fu accorta dello inganno; onde voltasi al padre lo confortava con voce e con cenni a venire risolutamente avanti.

—Venite sicuro, chè non vi è pericolo alcuno.

Il Conte, affidato dallo aspetto e dalle parole di Beatrice, e dall'altra parte considerando come nulla giovasse la diffidenza però che fosse tolta alla fuga ogni via, spinse oltre il cavallo, ed egli pure si fu accorto ben presto come i banditi, a fine d'incutere spavento, e per comparire quattro volte più numerosi di quello che veramente fossero, avevano disposti pali lungo il ciglione della via, e fasciati di paglia e di stracci, dando loro sembiante di banditi messi alla posta. Percorso il sentiero incassato riuscirono allo aperto, e al sicuro; però che, quando anche i banditi fossero stati in facoltà di farlo, non avrebbero osato appressarsi a giorno alto di tanto alla Rocca Ribalda popolosa di ben mille persone, di cui la più parte gagliarda per le quotidiane fatiche, e armata tutta di archibugi e di scuri.—Qui il Conte con accento severo ordinò a Beatrice:

—Dimmi con quale argomento tu potesti giungere fino a me.

—Signor Padre, non sarebbe meglio affrettare il passo adesso, e differire la storia a quando, ristorato dei patiti disagi, voi foste in termine di porgermi più pacala attenzione?…

—Tu… appena io manifesto la mia volontà, sei usa a contrapporre subitamente la tua… e sì… e sì che a questa ora avresti dovuto capire, che io aborro gli oppositori.—Obbedisci.—Nelle mie mani la gente ha da essere come morta…

—Obbedirò—rispose Beatrice levando gli occhi al cielo, quasi volesse dire: Signore, dammi pazienza.—Marzio, mentre io era in carcere, mi raccontò la pietosa strage della fanciulla di Vittana…

—Che? Come? Cosa favelli?

—Quando mi teneste chiusa in prigione nel sotterraneo del palazzo di
Roma, Marzio mi espose la morte di Annetta Riparella di Vittana…

—Avanti…

—E mi disse ancora lui esserle marito, voi avergliela ammazzata; epperò legarlo un giuramento, fatto sul corpo della defunta, di vendicarla nel vostro sangue. A questo fine essersi allogato in casa nostra; ma vista la vita infelicissima che voi ci condannate a condurre, l'odio suo contro noi essersi convertito in pietà, e non avere voluto commettere in casa l'omicidio di voi, secondo che aveva disegnato, per timore che noi ne fossimo incolpati, e ce ne venisse danno.

—E tu, sapendo questo, me lo hai taciuto?

—Signore! E come poteva dirvelo io?—In carcere, appena schiusa la porta mi gettavate lì acqua e pane, e volgevate crucciato le spalle…

—Ma se volevi, potevi…

—E quando? Sul partire, due volte io vi scongiurai ad ascoltarmi; voi mi cacciaste in carrozza, e, chiuso lo sportello, vi poneste la chiave in tasca. Alla Ferrata, lo rammentate, mi respingeste; per la via, ordinaste che non mi lasciassero trascorrere, e voi ve ne andaste lontano… come dunque aveva a fare io?

—Tu sempre ardisci avere ragione;—io ti dico che tu potevi avvisarmi:—chè se non partecipasti alla iniqua trama in cuore, almeno non desiderasti prevenirla. Continua…

—Marzio partì la notte, dopo avere posto in salvo Olimpio, che voi avevate condannato a morire di fame…

—Dunque vive costui?… Ah scellerati, come bene congiuraste a mio danno!… Continua…

—Al momento dello assalto procurai badare attentamente quello che accadeva, e malgrado la diligenza usata da Olimpio e da Marzio a mascherarsi…

—Marzio! Dunque nè anch'egli è morto?

—Io lo ravvisai tra i banditi; anzi guidatore dei banditi. Allora mi accorsi che non si trattava del vostro sequestro soltanto, ma della vita; e quindi il mio discorso, e le larghe promesse ai banditi perchè, tratti dalla cupidità a separarsi da Marzio, noi lasciassero andare. Riuscito il tentativo a vuoto, mi calai chetamente da cavallo e vi seguitai alla lontana, appiattandomi ora dietro a un tronco, ora dietro a un cespuglio: giunti che furono i banditi al taglio del dirupo di Tagliacozzo, ecco sparirmi di subito davanti agli occhi. Mi accosto studiando il passo, e trovo l'apertura, comunque coperta con diligenza di piante; scendo il corridore, che abbiamo percorso insieme, e ascolto uno schiamazzo confuso di bestemmie, e di scherni. Io non sapeva allontanarmi, e per altra parte non mi riusciva immaginare il modo di potervi sovvenire. In questa udii Marzio che ordinava a un bandito di prender gente, e avviarsi a Tagliacozzo; onde io mi ritirai di corsa, mettendomi di vedetta dentro una macchia. Uscirono parecchi masnadieri, e per molte ore rimasi appiattata; a notte fitta mi avventurai di nuovo nel sentiero che mena alla caverna; tesi l'orecchio, e non udii rumore alcuno; sporsi la faccia, e al chiarore moribondo delle lanterne vidi i banditi tutti addormentati; mi attentai entrare; palpitando muoveva in punta di piedi; scòrsi una porta, pensai che voi foste chiuso la dentro; levata la spranga apersi, e vi trovai svenuto sul pavimento. Dio ci ha dato visibilmente soccorso, e voi siete salvo.

—Sta bene, disse il Conte.—Intanto erano giunti alla ròcca. Don Francesco prima di porsi a giacere, premendo le angosce che lo travagliavano, chiamò alcuni dei suoi servi, e promise loro quattromila zecchini se gli avessero portato morti o vivi i banditi, che avrebbero potuto prendere a mano salva nella caverna di Tagliacozzo.

———

Dopo lungo sonno i masnadieri si svegliarono. Orazio fu il primo a dire:

—E' pare che abbiamo legato l'asino a buona caviglia: questo maledetto vino mi ha come impiombato il sangue nelle vene. Vediamo un po' che cosa si ha da fare del nostro prigione: a me sembra che quando avesse su l'anima anche il doppio dei peccati, ch'egli ha commesso, meriterebbe ormai assoluzione plenaria.

—Sì, rispose Marzio, egli è tempo che noi gli celebriamo la messa di requiem.

—Adagio ai ma' passi; prima del requiem bisogna cavargli di sotto qualche cosa, come sarebbe un ventimila ducati…

—Sicuramente, riprese Ghirigoro, lo strazio che ha sofferto basta; e non potremmo rinnuovarlo senza che ci restasse fra le mani.

—Davvero, continuò Orazio, io credo avergli sfondato lo stomaco col manico del pugnale, che mi ero adattato sul petto; ed anch'io mi sento indolenzito, perchè lo stringevo con rabbia, e con paura: ve' come sono concio da quella criniera di cavallo insanguinata; il sangue della vescica mi ha imbrodolato tutto, e mani, e seno, e braccia…

—Io ti so dire, riprese Olimpio, che senza le tue candele non saremmo venuti a capo di nulla; come mordeva il tristo vecchio! Per certo ha da avere il diavolo in corpo. Deh! Orazio, dì, o come hai fatto a comporre coteste tue infernali candele?

—E' sono segreti, che a me per impararli costarono spesa e fatica. Uno astrologo Armeno, in Venezia, per insegnarmi la ricetta volle che io gli contassi cinquanta ducati di oro…

—Non ti credevamo avaro, Orazio. Se pretendi essere rimborsato, ti renderemo i ducati; ma fra noi ogni cosa dovrebbe essere comune…

—Oh, io non l'ho detto mica per questo! Uditemi, dunque, e imparate. Cotesta chiamasi mano di gloria, e si compone così: taglisi primamente la mano sinistra allo impiccato, e avviluppatala dentro un pezzo di tela nuova ripongasi in un vaso di terra, e vi si lasci stare per quindici giorni coperta di balsamo di Arabia; poi ha da esporsi al sole leone tanto che si secchi. Le candele si fanno di grasso d'impiccato, di cera vergine, e di sesamo di Lapponia. Queste candele, messe fra le dita della mano di gloria, hanno la virtù di stupidire la gente a farla travedere con apparenze piene di terrore[3].

—E certo esse hanno istupidito anche noi, perchè io pure mi senta la testa tutta confusa…

—Sarà; ma io temo che quel vino di Keres, che abbiamo bevuto, fosse medicato…

—Se Marzio anch'egli faceva la sua parte sarebbe stata compita la festa:—dì, Marzio, perchè non sei venuto?…

—Io? Perchè mi prese un furore di stringergli il collo, e strozzarlo senz'altri argomenti; e così la mia vendetta non era piena, e voi rimanevate defraudati del riscatto.—Orsù, ormai mi tarda lo indugio: andate ad estorcere a quel dannato la moneta che volete; poi, secondo il patto, lasciatelo in mia potestà.

Qui si fecero a rinnuovare l'olio nelle lanterne, e si accostarono alla porta della prigione: trovarono la spranga levata; la prigione vuota.

Alzarono un urlo di rabbia, al quale dalla bocca della caverna rispose un grido di spavento. Entrò un bandito vacillando, che aveva rilevato una ferita nel fianco, e disse tutto angoscioso:

—Siamo sorpresi… fuori, o ci ammazzano come volpi nel
  covo.

I banditi afferrarono le armi, e si affrettarono a uscire dalla caverna.

Questo dialogo spiega i tormenti, che avevano fatto subire al Conte. La mano e le candele di gloria erano superstizioni, alle quali prestavano piena fede in cotesti tempi. Gli apparecchi per cura di Marzio disposti nella caverna, e il terrore avevano fatto credere paurosamente soprannaturale una scena da giocolieri.

NOTE

[1] Pur troppo anche questa malattia terribile travaglia la umanità! I pratici la distinguono in bulimo, cinoressìa e licoressìa. Il granatiere Tarare divorava un quarto di bove per giorno; in pochi minuti si trangugiò il desinare apparecchiato a ventiquattro operai: inghiottiva carboni, calcinacci, turaccioli di sughero, ciottoli, quanto insomma gli capitava sotto le mani; gli piacevano le serpi; mangiava i gatti vivi vivi, e dopo mezza ora ne vomitava il pelo. Essendo sparito dall'ospedale un fanciullo mentre egli vi soggiornava, caddero sospetti sopra di lui, che se lo fosse divorato; però lo cacciarono via. Morì nel 1799 di diarrea purulenta, che accennava putrefazione di visceri addominali. Vedi il DESCORET, Medicina delle passioni. Nel medesimo scrittore è da vedersi la storia di Anna Dionisia Lhermine, ammalata di fame canina. A me basti riferirne questo, ch'essendole caduto un tozzo di pane nella catinella mentre il cerusico la salassava, lo ritrasse, e se lo mangiò avidamente così com'era insanguinato; e che, presso a morire, ormai impotente a mangiare, pregò sua sorella che le mangiasse accanto al suo capezzale, perchè: «se il buon Dio non voleva ch'ella mangiasse più, potesse almeno morire col piacere di veder mangiare».

[2] Leggesi che a Parigi fu uno maestro, che si chiamava ser Lò, il quale insegnava logica e filosofia, ed aveva molti scolari. Intervenne che uno dei suoi scolari, tra gli altri acuto, e sottile nel disputare, ma superbo, e vizioso di sua vita, morì. E dopo alquanti dì, essendo il maestro levato di notte allo studio, questo scolare morto gli apparve: il quale il maestro riconoscendo, senza paura il domandò quello che di lui era. Rispose, ch'era dannato. E domandollo ancora il maestro, se le pene dello inferno erano così gravi come si diceva; rispose che infinitamente maggiori, e che con la lingua non si potrebbero coniare, ma che gliene mostrerebbe alcun saggio «……. Ed acciocchè la mia venuta a te sia con alcuno utile ammaestramento di te, rendendoti cambio di molti ammaestramenti che desti a me, porgimi la mano tua, bel maestro». La quale il maestro porgendo lo scolare scosse il dito della sua mano, che ardeva in su la palma della mano del maestro dove cadde una piccola goccia di sudore, e forò la mano dall'un lato all'altro con molto duolo e pena come se fosse stata una saetta focosa, ed acuta. «Ora hai saggio delle pene dello inferno» disse lo scolaro, e urlando con dolorosi guai sparì. Il maestro rimase con grande afflizione, e tormento per la mano forata ed arsa; nè mai si trovò medicina che quella piaga curasse, ma infino alla morte rimase così forata. Donde molti presono utile ammaestramento di correzione. E il maestro compunto, tra per la paurosa visione, e per lo duolo temendo di non andare a quelle orribili pene delle quali aveva il saggio, deliberò di abbandonare la scuola, e il mondo. Onde in questo pensiero fece due versi, i quali la mattina vegnente in iscuola davanti ai suoi scolari, dicendo la visione, e mostrando la mano forata ed arsa spose, e disse:

Linquo coax ranis,—ora corvis, vanaque vanis Ad loicam pergo—quae mortis non timet ergo.

«Io lascio alle rane il gracidare, ai corbi il crocidare, le cose vane al mondo; io m'incammino a logica tale, che non teme la conclusione della morte» cioè alla religione. E così abbandonando ogni cosa si fece religioso, santamente vivendo fino alla morte. PASSAVANTI, Specchio della vera Penitenza. Dist. 2. cap. II.

[3] Segreti del Piccolo Alberto. Lione, 1731.

CAPITOLO XX.

LA NOTTE SCELLERATA.

                    . . . . Con mano empia tentava
                    I misteri di amore in quelle membra,
                    Ma lo respinse un Dio che lei vegliava.
                    Il Dio che pura se la tolse in cielo,
                    Come quando ella uscìa dal suo pensiero.
                                        ANFOSSI, Beatrice Cènci.

Ecco come si ammenda il Conte Cènci.

Sparsa le bionde chiome, con la fronte volta al cielo, le braccia abbandonate, genuflessa sul pavimento sta Beatrice Cènci dentro una stanza della Rocca Petrella. Alla bellezza, e all'atto rassomiglia la inclita statua della Fiducia in Dio, nella quale lo Artefice della «terra dei morti» ha infuso un'anima, ch'egli stesso non aveva[1].

La stanza in cui si trova è una prigione:—ormai la sua vita sembra un tristo cammino, del quale le prigionìe sieno le colonne milliarie per distinguerne gli spazii. L'aspetto della stanza apparisce strano a vedersi: splendido è il letto per cortine ampissime di damasco, e cornici dorate; ricopre il pavimento uno arazzo rappresentante Enea, che ascolta i presagi maligni dell'arpia Celeno: sopra una rozza tavola di albero stanno vasi e bacili di argento: le pareti squallide, e tracciate col carbone dalle sentenze, che la tristezza, o l'ira, o il rammarico spremono dal cuore del carcerato… stille di essenza di angoscia, uscite fuori per la gran forza dello strettoio della necessità.—

Il cielo si contemplava per breve tratto traverso una ferrata, davanti alla quale il Conte Cènci, quel perfido ingegno, aveva fatto inchiodare uno assito a modo di tramoggia; sopra la tramoggia ordinò adattassero una graticola fitta di filo di ferro. Nè qui si fermava la vile crudeltà del Conte Cènci; chè col declinare del giorno procurava calassero sopra la tramoggia una ribalta circondata intorno da festoni di tela, togliendo a un punto la luce del cielo e l'aria, conforto supremo alle viscere straziate. La carcere allora pareva chiudere la bocca, ed ingoiare intera la sua vittima, come fece di Giona la balena[2].

Povera Beatrice! Il cielo, che tu amavi cotanto; il cielo, consapevole dei gentili pensieri dell'anima tua; il cielo, da cui attingevi conforto negl'ineffabili dolori; il cielo, che sovente chiamavi in testimonio della rettitudine del tuo cuore; il cielo, che desiderando contemplavi come la patria libera del tuo spirito divino, adesso o ti si mostra traverso le sbarre e le graticole di ferro, o ti si toglie affatto nella guisa, che Dio vela la sua faccia ai dannati nelle pene eterne dello inferno.

Il sole getta obliquo lo sguardo là dentro; i suoi raggi pesano, ed ei si affretta a ritirarli, quasi per paura che gli rimangano avvinti, e presi alla rete delle graticole[3].

Se durante la notte l'aria viene tolta a Beatrice, durante il giorno non gliela ministrano a larga misura; anzi sottile come il cibo dentro città bloccata. Se il Conte Cènci avesse potuto dargliela chiusa in un vaso senza mai sollevare la ribalta, oh come volentieri lo avrebbe egli fatto! imperciocchè gli ultimi casi lo avessero reso alquanto pusillanime; e quando la codardìa ha sussurrato nell'orecchio alla crudeltà: trema, non vi ha cosa o tanto assurdamente spietata, o tanto atrocemente ridicola, che queste rifuggano da mettere in opera.

Beatrice si affaticò sovente arrampicarsi fino alla parte superiore della inferriata, tentando quinci scuoprire o cima di albero o vetta di colle, che le fossero all'anima come un ricordo della bella natura: e quantunque tre, quattro volte e sei rimanesse delusa, non per questo cessò ritentare; perocchè sia amaro rassegnarsi alla perdita dell'aria, della luce, e della vista del creato, che Dio benigno concesse all'animale più abietto. Dotata d'anima di poeta, capace di rendere eco dalla sua più sottile e recondita fibra alle sensazioni del bello, almeno per le fessure s'ingegnò vedere i colli azzurri, le verdi vallate, il fiume, boa immenso delle acque, che serpeggia per la pianura, ma non le fu dato. Malignamente invidioso di quell'aura di refrigerio, il Conte più volte il giorno, e più sovente nelle ore matutine, mentre un po' di sonno le rinfrescava il sangue infiammato, mandò fabbri, che sospesi a corde aeree (non veduti da Beatrice) martellavano, conficcavano, ristuccavano, ristoppavano, calafatavano, tormentavano insomma con quel fragore continuo, che è proprietà dello inferno;—onde il capo l'era diventato come infranto, e in qualsivoglia parte, comecchè leggermente, lo toccasse si sentiva dolere per tutta la persona.

Oh quanto riso di cielo balena di là da coteste luride tavole, oh come la natura esulta nella sua bellezza oltre cotesto sozzo assito! Maledetta la mano, che si pone fra gli occhi dell'uomo e la natura! L'anima si strugge di desìo; e se vede trapassare un uccello, si posa sopra la sua ala e gli raccomanda di portare per lei un saluto ai cari parenti, e ai luoghi della sua infanzia.

O nuvoletta bianca, che traversi questo palmo di cielo che mi è dato fruire, io non vedrò quando arrivi a baciare la luna; o stella cadente, io ti ho veduto muovere, ma non posso vedere dove vai a finire; o foglia, che voli sopra l'apertura del mio carcere, dove terminerà di trasportarti il vento? Farfalla, le rose che desideri sono lontane di qui; io non vedrò quando, innamorata, tu accarezzerai con l'ale il tuo fiore diletto… No, viva Dio; per negare la vista di queste immagini non basta che la crudeltà e la paura avviluppino nello loro spire un'anima maligna, come i serpenti di Laocoonte; bisogna che al lurido sabbato dei suoi pensieri intervengano ancora la superstizione e la invidia: la prima, furia di fuoco che osò seppellire vive le tenere fanciulle, le quali, odiati i riti infecondi di Vesta, sagrificarono a Venere alma genitrice della Natura; la seconda, furia di ghiaccio che accecherebbe il genere umano, caccerebbe dal cielo l'occhio del Sole, vorrebbe insano anche Dio perchè essa è cieca, e folle.

Lo insetto dalle ali dorate penetrò in questo sepolcro di vivi, ma presto ne usciva cruccioso ronzando: «dalle cure del carcerato non si fa mèle, ma tossico». L'uccello per un momento ha posato i piedi sopra queste graticole; ma è fuggito via gittandovi dentro un pianto, come se intendesse dire in sua favella: «tu sei infelice, ed io non posso aiutarti».

Dentro il carcere, dietro la infame tramoggia, Beatrice invece di ricevere le impressioni esterne, e consolarsi contemplando, o ascoltando:—invece di blandire la memoria implacabile, e sopire la febbrile attività del pensiero riducendosi in condizione, più che potesse, passiva, ha dovuto all'opposto suscitare le fiamme divoranti della immaginazione; alimentare la ferita.

Ha sentito, quando sparisce l'allegrezza del giorno, e la crescente mestizia delle tenebre persuade ricorrere per consolazione alla Vergine dei cieli,—lontano lontano alternarsi il canto delle litanie dinanzi la immagine della Madonna dei Dolori, che sotto il suo gran manto celeste ripara tutto il genere umano (tranne quelli che fanno piangere), ma non ha potuto mescolarsi con le altre donne alla santa preghiera.—Lei percosse a vespro la voce rozza, ma lieve come l'aura dei poggi, della montanina, che riduceva a casa le capre, e non potè conoscere dall'alacrità degli occhi rivolti frequentemente in giro, dallo incesso irrequieto, dal simbolo dei fiori intorno al cappello se pei suoi amori correva la stagione dei sospiri, o quella delle lacrime.—Su l'alba udì scoppii di archibugi, e latrati di cani, e grida di uomini, e non potè seguitare lietamente curiosa le vicende della caccia, o sovvenire ai feriti, se i masnadieri avevano assaltato gl'improvvidi viaggiatori. La campana suonò invano alla messa; invano ai funerali: poca cura ci punge pei morti ignoti; e recitarci con le proprie labbra il de profundis è cura troppo molesta.—Per dio! A tale l'aveva ridotta il vecchio maligno, che ella veggente non sapeva che cosa farsi della luce degli occhi; ella viva non sapeva in che cosa adoperare la vita.—Ma tempi di ferro erano cotesti, e Francesco Cènci per cupa scelleraggine singolare, non raro.

Nè meno turbavano la desolata il passo della scolta, che per lo aperto verone le camminava sopra la testa, e il frequente gridare all'erta, e lo squillo della campana ogni quarto di ora,—conciosiachè noi tutti, è vero, sappiamo che il Tempo va e fa andare, cacciandosi davanti senza posa, e giorni e secoli verso la Eternità, a guisa di mandriano che affretta gli armenti al presepio quando minaccia tempesta;—ma starci seduti sopra la riva a vedere inerti sparire veloce il torrente della propria esistenza, è troppo acerbo travaglio. Nel tumulto della vita affetti, sensazioni e pensieri ci fanno dimenticare troppo più spesso che non conviene la fuga della nostra vita; ma nel carcere sentirsi misurare i minuti che passano dall'orma del carceriere sul capo, è supplizio che supera la immaginazione. Tu provi quanto tormenti acerbo il Tempo, allorchè deposta la falce prende la lima, e lento, continuo, implacabile ti sega il cranio; e quanto sia angoscioso contemplare speranze, ingegno, anima e corpo disfarsi in atomi, e cadere come limatura di ferro ai tuoi piedi.

Beatrice nel volgere gli occhi al cielo non prega, e non rampogna; sembra piuttosto che interroghi: «Dio! mi hai tu abbandonato?»

Le sue parole furono uguali alle estreme che profferì Cristo sopra la croce, prima di declinare il capo, e spirare.

Io conosco bene la mente selvaggia di uomini superbi, che le avrebbero risposto così: «E chi ti ha detto, folle, che Dio protegge, ed abbandona? Dio non abbandona, nè protegge. La forza misteriosa della sua azione, che si manifesta con la moltitudine delle cose create, getta assidua nello abisso pugni d'arena di oro, e cotesta arena sono stelle. Egli le costringe a moti diversi secondo la legge della loro durata. Se la polvere di questi mondi, animata o no, avvalla o s'inalza, seppellisce sotto di se lo esercito di Cambise[4], o si lascia arare, zappare, e si sottomette a produrre frutto: se piange, o ride, o sta immota superficie di camposanto: se si agglomera in mastodonte, o si sperpera in formiche: se si trasforma in penne di aquila, o nelle fibre inerti del tardigrado, egli non cura questo, e non lo può curare. Ai fini della natura basta che nulla giaccia infecondo, o si disperda sterilmente; poi, che aumentino mille avvoltoi, e diminuiscano dieci mila colombe poco le importa. Immensa macina che infrange reami ed acini, imperatori e lumbrichi per crearne nuovamente lupi, o pecore, od altri animali. La dottrina della trasmigrazione insegnata a Pittagora dai Sapienti di Egitto, una volta presa a scherno da insensati filosofi, è cosa tanto evidente, che sembra impossibile come possa essere stata impugnata. Difficile è spiegare quello che non si comprende, e non si può intendere; follìa disprezzare, o negare ciò che supera la nostra intelligenza; ma che il Supremo Fattore abbia a tenere conto, non che della specie, dello individuo, non sembra che possa dirittamente credersi. La natura recasi in mano l'universo, e lo soppesa; se torna il volume non le importa la forma.

«E poichè gli uomini sortirono questa vita e questa forma senza chiederle, e molti ancora senza desiderarle, perchè le non si possono rassegnare senza offesa della natura? Singolari ella fece le vie del nascimento, infinite quelle della morte; sicchè può ritenersi, che a lei piaccia la vertigine delle trasformazioni. Se gli orecchi nostri potessero udire la voce della natura, noi sentiremmo ch'ella predica sempre ai mortali: =Ospite, io non ti trattengo a forza alla mensa della vita; tra le bevande, che io ti appresto davanti, scegli quella che meglio ti talenta; e se ti piace l'oblìo, bevilo, e vattene=.

«Veramente, come se l'uomo non fosse presuntuoso abbastanza, gli hanno dato ad intendere, e la sua superbia glielo ha di leggieri persuaso, sentinella infedele non poter disertare il posto al quale la Provvidenza lo commise; lui essere re dell'universo; la favola di Atlante adombrare il simbolo dell'uomo chiamato a sostenere il mondo sopra le sue spalle. Il sole fu appeso nel firmamento per riscaldarlo, la luna per illuminarlo, le stelle per divertirlo nelle notti di estate.—Fin qui pazienza; le adulazioni da un lato, e la superbia dall'altro erano follemente innocenti; ma diventarono crudeli quando gli dissero: =tutte le creature che vedi furono fatte per te=. Allora il vanaglorioso spietato stese la mano sopra gli enti che hanno anima e sangue, e prese a vivere della loro morte, ed osò senza ribrezzo convertirsi in sepolcro palpitante.

«Ora questo vampiro nudrito di superbia s'irrita di ogni lieve sciagura, non vuole sopportare le infermità, aborre la morte. Cadono i cedri del Libano, caddero le querce secolari delle foreste druidiche; scomparvero città, popoli, imperi, e perfino rovine d'imperi. Nel cielo aprono, e chiudono del continuo le palpebre i pianeti, e questo verme petulante presume vivere eterno, e felice—satrapo della natura.—Mora come fa morire. Si rassegni al fato comune; torni senza mormorare alla terra donde è nato: polvere è, polvere ritorni».

O filosofo dalla mente selvaggia! io conosco questi argomenti, e il mio intelletto li comprende; ma questo cervello che pensa, questo cuore che soffre, tutto il mio ente, che si agita, non si appaga di sermoni e di sofismi. Poichè la natura infuse nell'uomo lo amore, anzi la smania della propria conservazione, non può averlo legato alla vita, come Cristo alla colonna, per dargli seimilaseicentosessantasei battiture. L'uomo ha diritto di essere felice, e nella natura si hanno a trovare facoltà per diventarlo; che se così non fosse, l'uomo avrebbe ragione di volgersi al cielo, e domandare: «Dio! perchè mi hai creato?»

E questa domanda umile tornerebbe assai più terribile al trono di Dio, che la minaccia di Encelado, o la ribellione di Lucifero.

Se tali fossero i pensieri, che tennero occupata la mente della donzella finchè stette genuflessa, io non saprei; ma certo doverono essere strazianti, però che quando si rilevò da terra come spossata lasciasse cadersi sul letto.

E il sonno le fu meglio amico della veglia.

Sognò il mare Jonio là dove il cielo e l'acqua sembra che vengano a contesa di limpidezza, di azzurro e di luce; imperciocchè se il cielo ostenta i suoi fuochi di stelle, le acque sfolgoreggiano di fosforo; e se il cielo si ammanta di nuvole di madre perla, il mare si vagheggia nel dorso dei suoi delfini dalle scaglie di mille colori: gli abitanti dei due elementi paiono colà bramosi di stringere parentela fra loro; lo smergo e lo alcione scendono a battere l'onda con le ale, e vi si posano in grembo come dentro al nido; all'opposto i pesci volanti si sollevano descrivendo leggiadre parabole nell'aria con le pinne verdi e dorate. Il Creatore volge uno sguardo al cielo, ed uno al mare; e vedendoli entrambi stupendamente belli, ride compiacendosi della opera sua: cotesto sorriso si spande dintorno, ed empie di allegrezza ogni cosa.

In mezzo al mare sorge il promontorio di Santa Maura, l'antica Leucade, come un'ara dedicata allo amore infelice. Quinci soltanto Saffo, la derelitta, spense nel mare sottoposto l'amore a un punto e la vita; e le acque memori nei pleniluni sereni lungo le spiagge ricurve si lamentano in suono di lira[5].

A lei parve trovarsi sopra cotesto scoglio sola, e abbandonata da tutti. Lungi di Sotto vedea le vergini oceanine intrecciare carole, e instituire giuochi per la chiara faccia delle onde. Di tratto in tratto le fanciulle a lei si volgevano, e lei chiamavano co' cenni onde ai loro cori si mescolasse. Allo improvviso un rombo di ale sopra il suo capo le fece levare gli occhi in alto, ed ecco apparirle, in sembianza di Amore in traccia della rapita Psiche, il biondo Guido, l'amico del suo cuore, che scendendo le tendeva le braccia: ella con impeto grande alzò le sue, e le loro labbra s'incontrarono…

Canova ritrovò la immagine di quel sogno quando scolpì il gruppo divino di Amore e Psiche.

Beatrice si desta: teneva tuttavia le braccia sollevate; ella le lascia cadere di peso su la coltre, e sospira. Crucciosa di essersi lasciata illudere da un sogno, si chiude sotto i lini; il seno candidissimo si affonda fra le piume, e i biondi capelli si spandono pei guanciali. Irridendo se stessa ella diceva:

—Misera! Ormai avresti dovuto imparare a prova come i contenti per te sieno sogni, le sole amarezze vere. Guido con braccia di carne potrà rompere la verga ferrea del destino?—E forse a questa ora gli sarà venuta in fastidio la vittima segnata dalla sventura. Poveretto! Io non lo vorrei mica biasimare: no davvero, perchè il contagio allontana il padre dal figliuolo, il marito dalla moglie, senza che per questo ne venga loro la taccia di cattivo cuore. Ora lo infortunio non s'insinua più inevitabile, e più fatale dello stesso contagio? Ed io come potrei in coscienza desiderare, o pretendere, ch'egli si sprofondasse giù nel precipizio, dal quale nè uomo nè Dio pare che possano, o vogliano salvarmi!—Volga il suo affetto su donna meno infelice di me, e sia sposo avventuroso… e padre… io glielo desidero… ah! no… sì—io devo desiderarglielo con tutta l'anima:—ma intanto ella bagnava l'origliere di molte lacrime involontarie.

Adesso si riprova a confortare col sonno lo spirito affaticato; invano però, chè agli occhi vigili sotto le chiuse palpebre apparisce muovere dalle lontane mura di Roma un punto oscuro, e avanzarsi, avanzarsi per piani e per colline come polvere sospinta dal turbine: cotesto punto nello accostarsi assumeva sembianza umana; si avviluppava dentro una cappa bruna; teneva il nero cappello abbassato su le ciglia: arrivato sotto la torre della Rocca Ribalda, ecco al raggio della luna mostrarsi tutto quanto egli era aitante e bello, e chiamarla con la mano. Il cuore con lo affrettare dei palpiti le aveva svelato chi fosse lo straniero.

Giù a piè del colle, accanto al torrente delle acque perenni dove la forra si chiude più ombrosa, mezzo celata tra le fronde degli olmi s'innalza una cappelletta ufficiata da certo santo Eremita, a cui veruno afflitto cuore ricorse mai invano. Egli, richiesto, consente ad unire in matrimonio Beatrice e Guido. Ella tende la destra, e maravigliando forte non essere prevenuta, chiede la destra di Guido; ma questi si ricusa, e la tiene nascosta sotto la cappa. Ella insiste: alla fine arriva a impadronirsene; la sente umida, e viscosa: ritira la sua spaventata, e se la vede, ahimè! intrisa di sangue: che sangue è questo? dimmi…. Guido sparì, sparì lo Eremita; ella si trova circondata da uno inferno di tenebre.

———

Un lieve tocco sospinge la porta; ecco si muove silenziosa sopra i cardini: prima il capo;—poi il petto;—finalmente tutta la persona apparisce di un uomo canuto, avvolto dentro ampia zimarra, col tòcco rosso sul capo.—È il Conte Cènci strascinato dal destino. Tende l'orecchio… ascolta… l'alito di Beatrice. Appoggia il corpo intero sul piede di dietro, muove cauto l'altro, e sempre va innanzi; si ferma in fondo al letto.

Beatrice ha chiuso gli occhi a sonno travagliato, e agitandosi irrequieta si è scomposta la chioma, che le sta vagamente sparsa pel seno divino.

Egli la guarda. La vista di forme così stupendamente leggiadre rallegra l'anima; chè rosa e donna, quanto meno si mostrano tanto più appaiono belle…

Che ardisce costui? Non basta, ed è anche troppo, vedere quel seno che palpita?

Prassitele scolpì due Veneri: una velata, l'altra ignuda. Quei di Gnido comperarono la nuda, modellata sopra le membra di Frine; per la qual cosa ritenendo ella più della cortegiana che della dea, venne laidamente contaminata, e la religione della divinità si dipartì dal simulacro; ma i cittadini di Coo acquistarono la Venere velata, sicchè n'ebbero fama di pii, e lunga si produsse la devozione pel tempio di loro. Quivi convennero tutti, giovani e vecchi; i primi perchè la vedevano pudicamente leggiadra; gli altri perchè leggiadramente pudica[6].

Il truce vecchio stende le scarne braccia, e trae a se cautissimo i lini. I tesori di coteste membra appaiono manifesti… di coteste membra, che lo stesso Amore avrebbe velato con le sue ale agli occhi di uno amante.

Cheta, cheta la porta della stanza torna di nuovo a volgersi sopra gli arpioni: entra un altro uomo, e si ferma:—guarda… stupisce… e non ravvisa il Conte al fioco chiarore del lume, che veglia fra loro, egli solo innocente. Il Conte lussuriando per ogni fibra, trema; gli occhi gli si aggrinziscono a modo di vipera: una striscia di fiamma di etico gl'imporpora il sommo delle gote; lascia cadersi giù dalle spalle la zimarra, e appaiono le pallide membra del vecchio… piega un ginocchio sopra la estrema sponda del letto, e delirante si curva protendendo le mani…

La grande rabbia di amore sconvolge l'anima di Guido; però che il nuovo venuto sia Guido: prima di volerlo si è trovato nella mano ignudo il coltello.—Il Conte intende un fremito alle spalle, e volge la testa. Guido ha scagliato dentro gli occhi del vecchio un baleno, ch'è morte. Il Conte atterrito lascia le tende, ma Guido lo arriva con uno slancio… lo ghermisce per le chiome incanutite nel delitto.—Il Conte apre la bocca con una contrazione convulsa… prega egli, o minaccia? Invano: il ferro fulminando gli squarcia la gola, gli rompe le arterie, e così profondo gli penetra nel petto, che non può profferire la parola.—Vacillò… rovinò… percosse aspramente sul pavimento gorgogliando dalle aperte fauci sangue a rivi, e un borbottìo confuso.—

Beatrice mette un gemito, apre languidi gli occhi… Dio del cielo! non è illusione adesso… gli ferma nel volto dello amante desiderato. L'Amore con le mani di rosa schiuse i suoi labbri al più gentile dei sorrisi—ma cadde su l'anima dello amante come sopra statua di bronzo… egli la fissò inferocito, e col pugnale grondante le accennò il caduto.

Il sorriso morì su i labbri di Beatrice siccome muore il bacio, che sul punto di svegliarci mandiamo ad una visione notturna. Pure la donzella non conosce ancora tutti i misteri di cotesta notte scellerata. Chi è mai quel caduto, e che fa? Egli tiene riversa sul terreno la faccia, non fiata, e scarso là giunge il raggio della lampada. Beatrice ha già mosso le labbra per interrogare; Guido ha scorto, comunque visibile appena, cotesto moto, e lo ha temuto… guarda lei… guarda il moribondo;—ella segue con gli occhi lo sguardo di Guido sul caduto,—poi torna a sollevarli su l'amante… egli è sparito…

Una luce funesta ha balenato su l'anima di Beatrice. Immemore del verginale decoro ella balza dal letto, e non rifugge, o non sente di lordare il piè nudo nel sangue, di cui è inondato il pavimento. Appoggia le mani su i capelli del moribondo,—gli volge la testa… è suo padre!—-

Egli agita lieve lieve la bocca nelle estreme convulsioni; i suoi occhi stanno orribilmente fissi nella immobilità della morte. Beatrice si rialza, come molla che scatti, con le braccia tese, curva alquanto della persona, impietrita di spavento: pareva percossa da catalessìa. Gli occhi del Conte si dilatano, si avvivano—mandano uno sguardo lungo—poi diventano colore del piombo… si spengono… è passato.

La mano della Necessità, di cui le dita erano rabbia, spavento, amore, furore, e pietà, tese orribilmente l'arco della intelligenza di Beatrice; e se non lo ruppe, lo stupidì. La fanciulla, immemore di se, stava ferma senza pensare, senza sentire.—Guido, come lo agita il demonio, scende tempestando le scale, traversa la sala dove si trovavano raccolti la signora Lucrezia, Bernardino, Olimpio e Marzio; e, scagliato lungi da se il coltello sanguinoso, grida:

—È morto!—È morto!

—Perchè non lasciaste a noi la cura di saldare i nostri conti vecchi col Cènci?—interrogava Olimpio.

E Marzio, freddo, soggiunse:

—Questo è caso da assicurarcene bene[7];—e s'incamminò verso la prigione.

—Singolare natura umana!—Marzio, capace di ammazzare il Conte con la medesima devozione con la quale avrebbe recitato il rosario, appena ebbe visto la nudità della donzella si ritrasse verecondo, scese, e ne avvisò sommesso la matrigna; la quale, superando il ribrezzo, si attentò di entrare nella stanza del delitto. Si fece presso a Beatrice; la chiamò a nome; la scosse; e non ottenendo da lei risposta alcuna, la ricoperse con la zimarra caduta al Conte, e presala per mano la trasse via. Ella lasciò condursi, non oppose resistenza alcuna al lavacro dei piedi insanguinati, alle fregagioni di aceto, allo adagiarla sul letto: guardava stupida, e non profferiva parola. Conobbero essere necessario cavarle sangue; ma non possedevano arnesi adattati, e il modo di adoperarli ignoravano: chiamare il barbiere parve pericoloso, e si rimasero.

Allora Marzio, secondo il suo feroce proponimento, entrò nella stanza seguitato da Olimpio, squassò per le chiome il cadavere, e tratto fuori lo stiletto glielo spinse dentro l'occhio sinistro finchè la lama vi potè affondare.

—Ora mi sono assicurato!

—Non ve n'era mica di bisogno, osservò Olimpio mettendo le dita nella gola squarciata del Conte—vedete mo' che buca!—Potrebbe uscirne l'anima anche in carrozza. Per un'anima questa è propriamente porta da cocchiere. Adesso pensiamo un poco, che cosa dobbiamo farci di costui;—e dette un calcio nel capo al cadavere.

—Portiamolo giù nel giardino, e mettiamolo sotto terra…

—Avete perso tutti il giudizio:—non basta seppellirlo; bisogna innanzi tratto farlo morire in maniera, che abbia senso comune.—Venite qua; prendetelo pei piedi; io lo prenderò pel capo, e trasportiamolo sul terrazzo che dà sul giardino: ho notato che questo terrazzo mena alle latrine, ed in parte manca di parapetto. Il povero gentiluomo, levatosi per certo suo bisogno, si era condotto notte tempo al destro senza lume… guardate che imprudenza! Forse si era aggravato di cibo a cena, e certo poi di vino più del consueto… Vedete la fatalità! disgraziatamente ha messo il piede in fallo, ed è caduto…

—Be', be', va d'incanto. Ma l'uomo cadendo da un'altura si rompe il collo, si spezza il cranio, e non riporta ferite operate da un ferro tagliente, ed acuto.

—Ed anche a questo è stato provvisto: lo getteremo sopra gli alberi; poi gli introdurremo la punta dei rami nelle ferite, e così basterà. Credete voi, o Marzio, che vorranno andare a cercare il nodo nel giunco? Chi è morto è morto, e salute a chi resta.

—Qualche volta i morti ritornano: però la proposta mi piace.

E come aveva suggerito Olimpio eseguirono appuntino.

Siccome quando donna Lucrezia, mediante una finestra terrena della rocca che mancava d'inferriata, mise dentro al castello Guido, Marzio ed Olimpio era notte fitta, e la famiglia giaceva tutta nel letto, non furono visti da persona viva; così deliberarono uscire per la medesima via com'erano entrati. Guido venuto a consultare sul modo di porre in libertà Beatrice, poichè si era trovato ad uccidere il Conte, decise partire senza indugio per Roma, Marzio e Olimpio s'incamminarono nella stessa notte ai confini del regno, per quindi ridursi in Sicilia, o a Venezia: ebbero di presente duemila zecchini, oltre la promessa di futuri favori e la grazia, che per la parte di casa Cènci e di monsignore Guerra non sarebbe loro venuta meno giammai.

Guido arrivato alla osteria della Ferrata ordinò gli sellassero subito il cavallo; la qual cosa essendo stata fatta secondo il suo desiderio, l'oste, che lo aveva osservato sottecchi con quei suoi occhi maligni, nel reggergli la staffa gli favellò:

—Oe, gentiluomo! Ieri l'altro mi diceste che andavate su alla Rocca Ribalda per farvi la villeggiatura del Settembre: o che vi siete mangiato in due desinari un mese intero? Misericordia! Questo è appetito!

—L'uomo propone, Dio dispone.

—Direi piuttosto, che siate andato a recitare qualche tragedia: avete fatto la vostra parte, ed ora tornate a casa.

~~Che intendete significare con queste parole?

—Nulla; se non che avete la manica del giustacore
  insanguinata…

Guido guardò atterrito la manica, e conobbe che l'oste diceva la verità; onde rivoltosi a lui, con mal piglio gli disse:

—Sareste voi il bargello di campagna?

—Mi maraviglio dei fatti vostri, gentiluomo. Io sono compare di un certo Marzio, che immagino voi dobbiate conoscere un poco; e faccio come da padre a questi poveri figliuoli del bosco: sono nemico naturale della miseria, ma onorato. Tutto questo ho voluto avvertirvi perchè, al bisogno, facciate caso dell'oste della Ferrata.

Guido entrò da capo nella osteria, e quivi troppo più tempo si trattenne di quello che fosse necessario a lavare il giustacore. Nel separarsi dall'oste egli gli strinse familiarmente la mano, e gli sorrise come se fosse stato suo domestico antico. Strane amicizie fa contrarre il delitto!

Il giorno seguente, che fu il dieci Settembre, la Rocca Petrella risuonò di pianti e di gemiti, i quali echeggiarono tanto più romorosi quanto meno sinceri. Gli abitanti del paese e i popoli del contado dintorno accorsero a frotte per vedere lo spettacolo. Il cadavere del Conte, non senza consiglio, fu lasciato lunga pezza confitto dentro i rami di un sambuco. Le comari del vicinato, stando in circolo intorno a cotesto albero con la faccia levata in su, contavano le più strane novelle del mondo. Chi diceva che quel vecchio peccatore, recandosi al Barlotto di Benevento per rendere obbedienza al diavolo, si era levato in aria a cavalluccio su di un manico di granata, il quale, come sapete, è cavalcatura ordinaria degli stregoni; ma sul più bello essendogli venuto di nominare Gesù, il manico di granata gli si era rotto fra le gambe precipitandolo a terra da un'altezza di quattro miglia e mezzo avvantaggiate. Altre poi sostenevano che fosse scaduto il termine della scritta, con la quale si sapeva di certo, ch'egli avesse venduto la sua anima al diavolo; e questi, come di giusta, gli era comparso per prenderne possesso. Confermava in questa opinione il vedere quel corpo appeso al sambuco, che, come la savina, il noce, ed altri alberi parecchi, è pianta consacrata allo spirito maligno: se non che a indebolirla usciva la levatrice della Petrella, la quale assicurava come andando fuori di casa per affari del suo mestiero aveva udito un grande scatenìo per l'aria, e tutti i gatti miagolare su i tetti, e poco dopo un barbagianni averle spento la lanterna con un colpo di ale:—cose tutte che stavano a significare, che qualcheduno in quel punto passava per aria. Insomma tornerebbe fastidioso di troppo raccontare tutte le novelle che solevano mettere fuori a quei tempi intorno a simili casi, le quali venivano credute non solo dalle femminucce e dalle genti grosse del contado, ma sì ancora da uomini dottissimi, e da giureconsulti di gran nome; dei preti non parlo perchè a figurare di crederci onde altri ci credesse era affare di mestiere, e ci trovavano il conto. Chi campa di grano semina grano, e chi d'errore vive non ischianta errore: e questo è chiaro. Poco oltre il cerchio delle comari occorreva un gruppo di uomini, in mezzo ai quali sembrava che facesse le carte il Curato, e tutti insieme stavano speculando, come diavolo mai cotesto corpo avesse potuto rimanersi così penzoloni per aria; ma ad interrompere coteste indagini importune sopraggiunse un servo da parte di sua Eccellenza la Contessa, che gl'invitava tutti a entrare in palazzo. Andarono, e trovarono donna Lucrezia inconsolabile, giusta il costume di tutte le vedove consolabili o no, la quale dopo favellato un pezzo, interrotta ad ora ad ora da lacrime, e da sospiri del miserando caso, ordinò al Curato apparecchiasse al defunto funerali quanto meglio sapesse magnifici, e corrispondenti alla nobiltà, e potenza della famiglia Cènci: invitò poi i montanari di convenire incappati alla ròcca per associare il morto, promettendo elemosine larghissime in sollievo delle povere famiglie, affinchè pregassero pace per cotesta povera anima.—Uscirono pertanto edificati della pietà di Sua Eccellenza, e per la strada non rifinirono di magnificare la mansuetudine e la benevolenza sue. Quando tornarono per levare il corpo del Conte lo trovarono non pure calato dal sambuco, ma chiuso, e confitto dentro due casse di rovere.

N O T E

[1] Lorenzo, o come fai A infonder nella creta L'anima, che non hai?

Versi stupendi della magnifica poesia di GIUSEPPE GIUSTI, intitolata la terra dei morti. Però, a vero dire, anima ebbe più lo interrogato Bartolini, che lo interrogatore Giusti. Questi con braccia di Sansone scosse il luttuoso edifizio della odierna società, e poi ebbe paura dei calcinacci che cascavano. Chi sa dire, non sempre sa fare.

[2] Di queste immanità io molta parte soffersi: et quorum magna pars fui… Qual fosse la causa del tormì e vista e luce, si legge in un libro stampato dal conte Guglielmo Digny. La Commissione, informata di certi segnali che si facevano da una villa, temè fossero per darmi avviso di quanto accadeva in giornata: chiarita meglio la cosa, seppe che in quel modo si ragguagliava della salute di uno infermo giacente in villa i suoi congiunti dimoranti alla città: non pertanto le truci precauzioni non si dismisero, anzi crebbero. Altro di cotesto libro non dico, e quello che ne ho detto è anche troppo per me.

[3] Ella è immagine del Redi, comecchè da argomento festoso io l'abbia trasportata a soggetto dolente:

        Sì bel raggio è un raggio acceso
            Di quel sol, che in ciel vedete,
            Che rimase avvinto e preso
            Di più grappoli alla rete.

                              REDI, Ditirambo.

[4] ERODOTO. Storie, lib. III, § 26.]

  [5] Ebbe in quel mar la culla,
          Ivi erra ignudo spirito
          Di Faon la fanciulla:
          E se il notturno zeffiro
          Blando su i flutti spira,
          Suonano i liti un lamentar di lira
.
                                FOSCOLO. Ode. All'amica risanata.

[6] PLINIO, Hist. Nat. lib. 36. c. V.]

[7] Roberto Bruce palesa in assemblea generale ai nobili scozzesi, quivi ragunati, il suo proponimento di liberare la patria: assentano tutti, tranne Cummin. Bruce indignato lo assalta nel chiostro dei Francescani, e lo lascia per morto.—Sir Tommaso Kirpatric, amico di Bruce, lo interroga se lo abbia ucciso; a cui quegli rispondendo—crederlo,—soggiunse: «Io voglio assicurarmene»; e andato colà dove giaceva, gli passò il cuore con la spada. La famiglia di Kirpatric in memoria di questa azione assunse per istemma una mano, che brandisce una spada insanguinata, con le parole: «Io voglio assicurarmene». HUME. Storia d'Inghilterra, tom. II.

CAPITOLO XXI.

IL MANTELLO ROSSO.

Ulrico. Non è il momento di dissimulare, o di perderci in vane parole. Io ho detto che il suo racconto è vero, e che egli deve essere ridotto al silenzio…..

Voi siete in credito col Governo: quello, che qui avviene, ecciterà leggermente la sua curiosità;—conservate il nostro segreto; abbiate un occhio vigile; non fate moti intempestivi, non parlate… Noi non avremo un terzo cianciatore, che stia in mezzo di noi. BYRON, Verner

—La partita è perduta; rimescoliamo le carte.

—Ma don Olimpio, osservava il biscazziere con una vocina agro-dolce, pensa mo che ti se' messo a giuocare un poco innanzi che suonasse l'ave maria della sera, e adesso mano a mano siamo all'ave maria della mattina;—ogni minuto, che passa, parmi proprio di stare su la gratella di san Lorenzo.

—Quando dianzi aprivi la bocca, ed io te la turava, con un ducato, ti sei rimasto da abbaiare, brutto Cerbero.—Per dio! ho perduto anche questa; a me le carte.

—Più della vostra moneta, avrei avuto caro che ve ne andaste via; da biscazziere onorato…

—Se tu puoi fare che queste parole stieno insieme, anche un minuto secondo… io… io ti dono la Sicilia di qua, e di là dal Faro.

—Sono ormai sette ore, ch'è scorso il termine assegnato dal bando del Vicerè; e se il bargello, che ha una vecchia ruggine meco, mi cogliesse in fallo, potrei andarmene più che di passo a gettarmi nel golfo con un pietrone al collo.

—Brutto Giuda Scariotte!—gridò Olimpio dando di un grosso pugno sopra la tavola, che fece rovesciare i fiaschi, e ballare i bicchieri, e gli altri arnesi di terra cotta, e di canna, ch'ebbero nome pipe[1];—tu mi mandi la jettatura sopra le carte… è andata anche questa; perdo a bocca di barile.

Il biscazziere poi, secondo il solito, aveva mentito; imperciocchè egli e il bargello stessero congiunti insieme come le dita di una medesima mano, sempre pronta a chiudersi per afferrare. Nessuna spia più puntuale, e precisa possedeva il bargello del biscazziere circa alle cose che accadevano dentro la sua bisca, potendo ancora intorno a quelle di fuori. Salario dello infame mestiero era la trasgressione impunita dei bandi sul giuoco: costume in quei tempi riprovato palesemente siccome anche ai nostri, e non pertanto in cotesti tempi di barbarie, come ai nostri di pretesa civiltà, messo in pratica alla sordina. Le belle leggi si rassomigliano ai tappeti di damasco, che si mettono fuori nei giorni di gala per ricuoprire le muraglie sudice. Le usanze pessime sotto le belle leggi continuano a camminare, perchè bisogna persuadersi che la Società può vivere benissimo con i vecchi abusi come l'uomo mastica anche coi denti guasti; e non è opera di un tratto di penna emendare i disordini che derivano dalla secolare corruttela degli uomini; e chi altramente si avvisa perde ranno e sapone: poi impreca la indomabile perversità umana, e si getta al disperato; mentre dovrebbe correggersi dello errore, e tornare da capo. Ma qui il discorso menerebbe per le lunghe, e non farebbe al caso; onde il meglio fia continuare il racconto.

Tabula rasa. Eccoli finiti tutti…

—Coraggio, don Olimpio: bisogna appellarci in seconda istanza; ti rifarai domani.

—Pei santi apostoli Pietro e Paolo! egli è un bel pezzo che io dico così; ma la fortuna ha preso ad accarezzarmi co' pettini da lino…

—Chi la dura la vince; e che tu possa durare ce lo provi tornando ogni giorno fornito di palle e di polvere: sicchè ho creduto, e credo, che a ricevere il galeone dal Perù siate due: tu, e il Re Filippo nostro signore, che Dio tenga nella sua santa guardia.

—Marzio bada a intronarmi quotidianamente negli orecchi che la mia parte è finita… e che i suoi mille zecchini toccano al verde…

—Mille, e mille fanno duemila. Ma sai, don Olimpio, osservò il biscazziere, che qui nel regno con duemila zecchini si compra un ducato? O come hai tu fatto a guadagnare tanti danari? Raccontaci un po' come gli hai tu acquistati.

Era troppo diretta la botta perchè Olimpio non sapesse schermirsene. Egli guardò un cotal poco alla trista il biscazziere negli occhi, e gli rispose:

—Mi vennero dalle prese quando combattevamo per la fede.

—Per qual fede? riprese il biscazziere; perchè, salvo onore, mi pare che tu debba esserti trovato co' Turchi più spesso che con i Cristiani. E in quali mari hai tu combattuto, don Olimpio?

—Oh! In tanti mari…

—Pure, quali?

Olimpio, stretto dalle domande insidiose, avrebbe dato agevolmente dentro a qualche scoglio, se uno dei giuocatori non fosse venuto casualmente in suo soccorso interrogando:

—O perchè non conduci teco questo tuo compagno don Marzio?

—Oh! Marzio se ne va per la maggiore; bazzica co' gentiluomini, e la trincia da duca, come se non avessimo menato vita insieme nelle foreste di Luco.

—Alla macchia, dunque—notava maligno il biscazziere appuntando il dito teso sopra la tavola—alla macchia dunque, e non sul mare tu facesti le prede.

—O al bosco, o al mare, che importa a te, brutto Giuda? Ah! tu vuoi fiscaleggiarmi?—rispose turbato Olimpio; e il biscazziere, che aveva paura di quel colosso, ritrasse indietro la voglia del sapere imitando la chiocciola, la quale tira a se le corna quando se le sente toccare.

La sera successiva Olimpio non si pose al solito luogo davanti la tavola del giuoco, sibbene in fondo della stanza col braccio piegato, e la faccia appoggiata alla mano aperta: cacciava fuori dalla bocca con irrequieta prestezza buffi su buffi di fumo, e il suo volto, già abbastanza sinistro, adombrato da cotesta caligine compariva più truce.

—Il galeone di Acapulco non è arrivato stasera?

—O perchè non hai condotto il tuo compagno don Marzio?

—Queste due domande andarono come due frecce a percuotere nel medesimo bersaglio: sicchè Olimpio sentendosi punto, dopo avere bestemmiato al corpo e al sangue, rabbiosamente favellò:

—Per avere addosso il mantello rosso gli pare essere il Conte Cènci, a cui lo ha rubato…

—To' consolati, disse il biscazziere mettendogli davanti un boccale di vino.

Olimpio lo vuotò di un tratto, e sospirando lo ripose su la tavola.

—Tu non mi vuoi bene, riprese il biscazziere, ed hai torto marcio; e per provartelo, se vuoi una dozzina di ducati da giuocarteli, e rifarti, io te gl'impresterò…

—E chi ti ha detto, che io non ti voglio bene? Anzi io te nè vo' più che al pane…

—E quel Marzio, che tu onori come tuo sopracciò, intanto ti bistratta, e ti nega danari…

—Figurati! Sai tu che cosa mi ha detto quando gli ho esposto che non avevo quattrini? Se sei povero, impiccati.

—Ti ha detto?

—Già! e che gli dicessi dove volevo andare; perchè se io prendeva a ponente, egli si sarebbe indirizzato per levante…

—Le sono cose da far piangere i sassi;—e il biscazziere beveva a fior di labbro, e poi profferiva il boccale a Olimpio, che se ne andava in fondo senza prender fiato—solite ingratitudini degli uomini: finchè hanno bisogno, ti fanno vedere Roma e toma; passata la festa levano l'alloro, e chi ha avuto ha avuto…

—Proprio così; ma!…

—Ed ora, che farai? Se potessi aiutarti fa capitale di me, e tu vedrai se per gli amici mi sento capace a entrare nel fuoco in camicia. Degli uomini bisogna dire come dei cavalli: alla svolta ti provo… beviamo…

—Beviamo!—rispose Olimpio; e dopo avere bevuto, ed essersi asciugato col dorso della mano la bocca, continuò:

—Non saprei. Se potessi far tenere sicuramente una lettera a Roma alla famiglia Cènci, sono certo che non mi mancherebbe soccorso… perchè bisognerebbe che mi soccorressero…

—Sì, eh?—incalzava il biscazziere, tenendo le orecchie tese a modo di lepre che abbia paura, e i muscoli della sua faccia si dilatavano come l'erba sul finire dello agosto per una scossa di pioggia: mostrava la gioia degli animali carnivori quando, nascosti fra i cespugli, vedono, o sentono accostarsi saltelloni la preda.

Nè era affatto vero, che Marzio avesse profferita la villana ingiuria contro Olimpio; tutt'altro: egli lo aveva con molta benevolenza chiarito come da più giorni fossero terminati i mille zecchini di parte sua, e come, parendogli urgente di levarsi entrambi dal regno, non poteva consentire ch'ei si lasciasse rubare per bische, o spendesse per taverne anche la moneta necessaria al viaggio; ma Olimpio mentiva scientemente, e fingeva un torto per farsi ragione: caso frequentissimo a succedere tra genti malvage; e, quello che sembra più strano, elleno stesse talora col credere alla propria bugìa arrovellano se non vengono satisfatte per ingiuria, che non hanno mai ricevuta.

Non pertanto a Marzio, ripensandovi su, parve non avere praticato da uomo di senno, ed essere pericoloso contendere con le passioni brutali di Olimpio, fuori di misura cresciute eziandio in mezzo alla corruttela di una grande città; onde deliberò andarlo a trovare, e raddolcirlo, finchè lo avesse tratto seco dal regno: proponimento che intendeva compire presto. Sapendo a quale bisca per ordinario si riducesse la sera, colà volse i suoi passi contando, come gli venne fatto, di rinvenirlo a posta sicura.

—Bisognerebbe!—riprendeva il biscazziere,—o che sono tuoi banchieri i Conti Cènci, Olimpio?

—Fa conto, che lo sieno…

—Ho capito, soggiunse il biscazziere, avresti forse mandato a dormire qualche nemico di casa?…

—Per questi lavori non si danno pensioni; chè anche qui, come costà, io mi figuro che i guastamestieri abbiano sciupato ogni cosa…

—O dunque?

—Egli è peggio… ma peggio di così… il segreto è qui dentro… e perchè il coperchio stia chiuso bisogna metterci sopra un tappo di argento…

—Sì?… E questo segreto tu me lo puoi confidare…

—Io so… chi ha ammazzato il Conte Cènci…

—Oh!—esclamarono a coro i giuocatori vedendo comparire in questo punto improvviso fra mezzo a loro un uomo di maniere cortesi avviluppato dentro magnifico mantello di scarlatto trinato di oro—ben venga don Marzio; egli si fa dei nostri…

Maravigliò non poco Marzio sentendosi chiamare a nome; e girando intorno gli occhi li fissò sopra Olimpio, che, torta appena la faccia, si volse nella prima posizione senza guardarlo, e brontolando di stizza.

—Mi piace di non giungere nuovo fra questi gentiluomini.

—Don Marzio, disse il biscazziere strisciandogli intorno a guisa di biacco, vuoi tu posare il tuo tabarro? In fè di Dio merita bene che tu gli abbia riguardo, perchè mi ha l'aria di una donazione causa mortis di qualche principe, marchese,—o per lo meno, conte.

Marzio guardò Olimpio una seconda volta, ma questi si rimase immobile. Marzio allora depose di buona grazia il mantello, e si assettò al giuoco. Siccome anch'egli andava esperto delle male arti dei giuocatori, e stava su l'avvisato, così la fu guerra tra corsale e pirata, dove non corrono altro che i barili vuoti. I giuocatori, avvezzi alle facili vittorie sopra Olimpio, per questa volta a mala pena poterono rimettere la spada nel fodero. Rimasto spazio convenevole di tempo, Marzio sentendosi più del solito in quella sera travagliato dalla tosse, che gli si era da parecchi mesi cacciata addosso, profferendosi che in seguito avrebbe frequentato la bisca, riprese il tabarro e andò via, lasciando Olimpio deluso nella sua aspettativa di essere pregato da un punto all'altro a fare la pace, ed accettare una quarantina di ducati per cotesta sera.—Marzio, considerando la bestiale rozzezza di costui, se n'era adontato, ed aveva risoluto risparmiarsi la mortificazione di blandirlo; andare a casa, e, fatto baule, scansarsi la mattina su l'alba da Napoli.

Olimpio quanto stette duro finchè sperò venire ricercato di pace, altrettanto cadde avvilito adesso che si vedeva negletto; per la qual cosa uscì con presti passi fuori della bisca, affrettandosi a raggiungere Marzio. Nè il biscazziere tenne i piedi in casa, e si cacciò dietro a costoro imitando il moto che fanno i corvi tarpati, i quali saltellano, saltellano di scancìo; poi ad un tratto si fermano, voltando il capo sospettosi di qua e di là, per tornare a saltellare a sghimbescio.

Marzio sentendosi camminare alle spalle con passi accelerati pose la mano sotto il farsetto afferrando il pugnale, e soffermandosi allo improvviso, con alta voce interrogò:

—Chi va là?

—Sono io, Marzio, non abbiate sospetto; non vi ho mica raggiunto a fine di male!

—O di male, o di bene, poco m'importa. Insomma, che cosa volete da me?

—Non v'incollerite; andiamo oltre, se vi piace, che ragioneremo a bello agio.

E proseguirono la via. Il biscazziere anch'egli, saltellando, si trasse innanzi.

—Ma vi par egli, incominciò Olimpio, che sia tratto da buoni compagni lasciarmi senza un baiocco da far cantare un cieco? Mi avete salvato da morire di fame per farmi poi morire di sete?

—Olimpio vi ho detto le mille volte, che quando vi piace veniate a casa mia chè il mangiare e il bere non mancano; ma che vogliate dar fondo anche ai miei pochi danari in vino, in giuochi, e in altri, che io non vuo' dire, più brutti vizii; questo è quello che io non vi consentirò mai. La vostra parte voi l'avete riscossa; io vi ho reso i conti, e vi ho mostrato, che io sono in credito meglio che di duegento ducati; nè voi lo avete potuto negare. Ora, qual diritto pretendete sopra i miei danari?

—Voi mi avete insegnato, che la mancanza di diritto pei banditi e pei soldati, ed anche pei grandi signori, non è buona ragione ond'essi si astengano, quando capita, da prendere la roba altrui.

—E sta bene; ma io parlava di diritto, e non di forza; ed io di forza ne ho quanta voi. Ora, quando le forze si bilanciano, voglionsi mettere le mani alla cintura, e aprire alla lingua l'uscio di casa.

—E la lingua non fa peggiore piaga delle mani? Dove hanno la loro forza l'aspide e la vipera?—L'uomo qualche volta rassomiglia l'aspide.

—Lasciate pure da parte il qualchevolta, e dite addirittura, che l'uomo si assomiglia all'aspide… ed io lo so, e l'ho provato.

—Specialmente nei luoghi dove, come in Napoli, governa un Vicario criminale con facoltà amplissima di scuoprire delitti concedendo taglie, e remissione di pena ai complici delatori…

—Di questa sorta vicarii ce ne ha per tutto il mondo; ma senza i delfini che menano perfidamente i tonni, le reti si tirano su vuote.

—E la disperazione voi sapete, Marzio, fa gli uomini spesso peggio che delfini; gli rende pesci-cani.

—Ho capito,—pensò fra se Marzio, e poi con voce blanda riprende: Olimpio, Olimpio! certe parole ho inteso dal biscazziere, che mi fanno temere forte non abbiate commesso qualche solenne imprudenza;—e allora saremmo rovinati io, e voi…

—Sì veramente! Nascemmo ieri…

—Non v'infingete, Olimpio, perchè potrebbe darsi che il segreto non fosse più mio nè vostro, e a me è toccato sempre rammendare i vostri strappi: pensate che ne va la vita.

Olimpio fece lì su due piedi un poco di esame di coscienza, e pur troppo conobbe che Marzio aveva ragione; però essendosegli cacciata addosso una bella paura, proseguì a parlare con tronchi accenti:

—Ora che mi risovvengo bene… davvero… Marzio mio… bisogna che mi aiutiate a raccattare una maglia… ma che volete? Avevo una stizza addosso!—Insomma… mi è sdrucciolato… giù dalla bocca… qualche cosa… da far credere… sospettare, che noi fummo insieme ad ammazzare il Conte Cènci…

—Burlate voi? Allora noi siamo perduti…

—No… dico da senno… ma quelli, che mi hanno sentito, paionmi tutte persone dabbene. Nondimeno, se io non avessi parlato… o se vi fosse modo a far sì, ch'essi dimenticassero… o alla più trista che non potessero più parlare…

—Come? Alle lettere si mette un sigillo di cera di Spagna: alle labbra conviene apporre un sigillo di piombo a mo' delle bolle di Sua Santità…

—Eh! potendo sarebbe la strada più breve… ed anche di ferro potrebbe fare al caso.

—Lo credo anch'io;—disse Marzio, e guardò sott'occhio Olimpio; ma gli parve ch'ei stesse su le parate: tese l'orecchio, e non sentì muovere alito nella contrada, imperciocchè faccia più rumore il polso di un tisico battendo, di quello che menasse il biscazziere co' suoi saltetti misurati. Intanto giunsero davanti a un tabernacolo della Madonna ove ardevano due lampade. Olimpio, che camminava a mano manca di Marzio, sollevò la destra per cavarsi il cappello davanti la devota Immagine; e Marzio, colto il destro, si volse improvviso sul fianco sinistro, e gli cacciò lo stile fino alla impugnatura nel ventre. Olimpio stramazzò gridando:

—Marzio, che fai?—O Santa Vergine, aiutami!

E Marzio gli fu sopra dicendo:

—Tu ti sei condannato da te, Olimpio, quando hai convenuto, che la bocca ciarliera vuole sigillo di ferro; e così piaccia a Dio, che a questa ora basti;—e mentre così favellava attendeva a finire con altre coltellate Olimpio. Sicchè parendo a Marzio ch'ei fosse vicino a spirare, asciugato prima lo stile sopra i panni del moribondo, si segnò davanti la Madonna dicendo:

—Di questo sangue dovrò rendere conto un giorno; ma tu, Madre di Dio, conosci se l'ho sparso per me; se così non faceva, costui avrebbe mandato in perdizione intere famiglie, ed una vergine, che nel dolore e nella bellezza ti assomiglia, se non nella gloria.—

E riprese il suo cammino come se davanti al tabernacolo avesse recitato il rosario, non già commesso omicidio. Brutto, ed infelicissimo miscuglio di devozione e di ferocia, pur troppo a cotesti tempi comune. Però giunto allo albergo ripose con diligenza vesti, danari, ed ogni suo arnese nella valigia; e quando la notte diventò più profonda, lasciato il saldo del suo debito sopra la tavola, levava il piede riducendosi a dormire in altro albergo, col proponimento d'imbarcarsi il giorno successivo all'alba sopra qualunque naviglio salpasse dal porto.—

Il biscazziere, che da lontano aveva sbirciato il caso, saltellò, saltellò secondo l'usato costume, frettoloso presso Olimpio; ma lo trovò spirante.

—Don Olimpio! Ti ha ammazzato don Marzio, eh? per paura che tu scuoprissi alla giustizia quella matassa dei Cènci, eh?—

E lo covava con tutta la persona avidamente curioso.—A vedere quel tristo ceffo e maligno a cotesta ora, al raggio obliquo della lampada sopra il moribondo, lo avresti detto il diavolo che stesse al varco per acciuffargli l'anima, e portarsela seco nello inferno.

Olimpio apre a fatica gli occhi gravi per morte, e, vista la faccia del biscazziere, gli richiude gemendo. Il biscazziere instava:

—Vendetta! Vendetta!—Se vuoi vendicarti, e lo vorrai certo, di don Marzio, svela a me ogni cosa, che io sono sviscerato del bargello; e prima che la tua anima sia arrivata (-qui si trattenne alcun poco, perchè gli veniva aggiunto naturalmente—allo inferno;—e sostituire paradiso non gli pareva che andasse a dovere: per la qual cosa si tolse d'imbarazzo con un mezzo termine, a modo dei diplomatici—)sia arrivata di là, ti sentirai l'anima di Marzio dietro le spalle.

Olimpio non vedeva più, ma sentiva ancora; sicchè acquistando un cotal poco di senso comune, nel punto in cui stava per separarsene eternamente conobbe il mal fatto, e si persuase della ragione di Marzio: mosse le labbra, e mormorò alcune sommesse parole.—Il biscazziere in ginocchioni, curvo, con ambe le mani appuntellate sopra il selciato della via, accosta avidamente l'orecchio alla bocca del moribondo per sentire i suoi detti. Invero egli potè ascoltarli, e furono questi:

—Brutto… Giuda… Scariotte.

Intanto il biscazziere, per la gran voglia di udire, aveva insinuato la estremità dell'orecchio fra i denti di Olimpio, che stringendoli senza sforzo potè mordergliela. Olimpio spirò, il biscazziere gridò; ed entrambi rimasero in atto, quegli di confidare, questi di accogliere un segreto. Recuperato ch'ebbe il suo orecchio dai denti del morto, il biscazziere prese a stropicciarselo piano piano per mitigarne il dolore; poi saltellò velocissimo, in guisa che parve radere la terra, in certo vicolo oscuro posto nel bel mezzo della città; e quivi senza adoperare cautela alcuna, poichè la notte, diventata profonda, non permetteva che lo potesse vedere persona, battè in modo particolare alla porta segreta praticata nella parte postica di un palazzo. La porta si aperse, e si richiuse guardinga, e quieta come la bocca della volpe che divora una gallina.

Alla dimane, prima che l'alba spuntasse, Marzio fu al molo; e non trovando per quel momento altro legno in procinto di prendere il largo, tranne una tartana la quale faceva vela pur Trapani, presto si aggiustò pel nolo col padrone; e già saliva la scala per mettersi in barca, e già era salvo, quando il mantello rosso gli cadde in mare. Bisognò che i marinari calassero il raffio per riperscarlo: non venendo loro fatto di agganciarlo subito, si riprovarono anche una volta e due. Mentre così perdono fatalmente tempo, ecco apparire alla lontana uno stormo di corvi, e piegare difilati contro la barca. Marzio con la sua vista acutissima aveva di già sbirciato il biscazziere; e questi, non meno sparvierato di lui, aveva scoperto il mantello rosso, e chi lo portava.—Marzio si affaccendò a gridare che lasciassero andare il malaugurato tabarro, e salpassero senza indugio; ma ormai era troppo tardi.

—Ferma la barca per ordine del Vicerè.—

La barca rimase come impietrita, e gli sbirri arrampicandosi giunsero in tempo ad afferrare Marzio per le falde giusto in quel punto, che stava per precipitarsi dentro al mare.

—Dio non vuole!—esclamò Marzio, e si lasciò legare senza contrasto. Per non fare accorrere gente, e non muovere rumore a cotesta ora matutina, gli sbirri, seguendo l'antico costume di operare le cose loro a chetichella, gli gettarono addosso il tabarro rosso dopo averne strizzato l'acqua, cuoprendogli così le braccia ammanettate. Due sbirri, uno di qua l'altro di là, lo accompagnavano in sembianza di servitori: gli altri seguivano alla lontana.

Il bargello, rimasto addietro sul molo, gridò:

—Oe della tartana!—Potete andare a buon viaggio.

———

—Eccellenza! gli sparvieri tornano con la cacciagione.

Così annunziava un servo, che al sembiante e agli atti partecipava dello sbirro, e del chierico. Queste parole, sussurrate traverso al foro della serratura dentro una alcova, ebbero virtù di sollevare un carcame di ossa e di cartilagini di sotto alle coperte; e di qua e di là dai lati del letto furono viste sbucare due persone, le quali, voltatesi le schiene appoggiate alle sponde si affrettavano a mettersi le calze, e cuoprirsi con qualche vesta le membra.

Da parte sinistra era un uomo lungo, magro, ossuto così, che quando ebbe tirate su le calze, le gambe vi sguazzavano dentro come flauti: aveva il volto giallo come olio da lumi, bucherellerato in guisa, che sembrava composto di cacio parmigiano; intorno agli occhi ricorreva un cerchio turchino, e gli occhi in mezzo lustri, ma privi d'intelligenza, e fissi come quelli del falco. Negli sforzi fatti tirando le labbra verso le orecchie, egli scoprì una immane rastrelliera di zanne donde sporgevano maiuscoli i due denti canini, i quali comprimevano il labbro inferiore anche a bocca chiusa. Aveva in testa un berretto bianco di tela, trinato, e legato con nastro di seta colore di fuoco: intorno al corpo gittò una zimarra di panno bianco soppannata di colore di rosa.

Dalla parte destra era una donna… donna? Sì, donna: i suoi capelli bianchi e neri le stavano arricciati, irti sul capo, come se tutta notte avessero litigato fra loro. Io non ho tempo, e manco voglia, di dipingere tutti i personaggi di questo racconto: molto più che se tu volessi, mio diletto lettore, formati idea precisa di questa creatura, non avresti a far altro che rammentarti il bassorilievo della morte del Conte Ugolino, attribuito a Michelangiolo. Al sommo del quadro apparisce la figura della Fame; torna a guardarla, e fa' il tuo conto che la mia donna ne avesse somministrato il modello allo scultore. Mentre l'uomo si vestiva in fretta così favellava:

—Carmina, cuore mio, questo negozio io spero che mi rimetterà in grazia del Vicerè. Anni sono, pei delitti che succedevano su i confini dalla parte della Chiesa egli voleva che bevessimo grosso; e se i misfatti non riguardavano proprio gli Spagnuoli, non ne avevamo nemmeno a parlare.—Chi sa? forse voleva ammonticchiarvi immondezze, per dare faccende alla granata di Sisto V: ora, ad un tratto, pretende che dobbiamo avere più occhi di Argo,—di quello Argo, sai, messo da Giove a guardare la vacca Io,—e più mani di Briareo; ma sono curiosi costoro! Quando dicono voglio, pensano avere fatto tutto. I fili della giustizia vanno tenuti sempre in esercizio; se tu li lasci troppo tempo inoperosi, quando li vuoi adoperare o si strappano perchè fradici, o irrigiditi non molleggiano.

—Gioia mia, bisogna ad ogni costo tornare in grazia del Vicerè; molto più che ho penetrato come quel tristo del vostro Collaterale s'ingegni supplantarvi con ogni maniera d'industria. L'ultima volta che il Vicerè venne alla vicaria, per maladetta sorte voi eravate uscito, e il Collaterale lo ufficiò fino all'ultimo scalino del palazzo; e quando e' fu per salire in carrozza gli si curvò davanti, come se volesse dirgli con tutta la persona: Serenissimo, mi dia la felicità di mettermi i piedi sul collo piuttostochè sul montatoio».—Cuor mio, se voi foste stato presente questo onore sarebbe toccato a voi, e avreste imparato ad abbassarvi quanto si deve, perchè in questo voi non siete perito tanto che basti.

—E disse proprio al Vicerè le parole, che mi avete riportato adesso, viscere mie?

—Gli disse! Così mi parve, dalla lontana, che gli dicesse,

—Ah! beato lui…

—E la vegnente domenica, quando incontrai alla messa quella brutta vecchia della sua moglie, mi passò da canto senza salutarmi,—e vidi che mi rideva per ischerno. Dunque, cuor mio, non risparmiate partito alcuno di rientrare in grazia al Vicerè: vuol gente prigione, e voi dategliela su la forca; la desidera impiccata, e voi fategliela trovare in cinque quarti.

—Che diavolo dite, dolcezza mia? I quarti non possono essere che quattro,—perchè avete a sapere, Carmina, che il boia… ma questo sarà per desinare… adesso bisogna che io mi affretti, che il bargello attende.—In quello poi che avete avvertito ci è del vero… ci è del vero, perchè se non fossero, a fine di conto, gente di male affare, non capiterebbero in mano alla giustizia.

—E quando anche, esempli grazia, non fossero gente di male affare, quando il Padrone vuole che tu strozzi, e tu strozza. Vicario mio la obbedienza è santa.

—Sicuro! Credono, i gaglioffi, che la Giustizia pesi a bilancia: è un errore: ella pesa a stadera, ed ha due romani come aveva due staia Burraschino il biadaiolo, che andò in galera per misure false.—Carmina, colomba mia, fa' di portarmi subito il cioccolatte e i biscotti, perchè tu intendi che stamani mi tocca a fare petto di bronzo; ed io ho provato, che se sto digiuno mi casca il cuore.

—Anima mia, andate al banco che vi accomodo in un baleno…

Il Vicario andò nella stanza dell'uffizio; si adagiò gravemente nel seggiolone, di cui la spalliera gli sopravanzava la testa un palmo avvantaggiato, e subito diè di piglio al campanello. Quasi nel punto stesso, da diversi lati si apersero due porte; da una entrò la moglie Carmina con la cioccolata e i biscotti; dall'altra il Bargello con Marzio ammanettato, e coperto col mantello rosso.

Carmina di dietro alla spalliera del seggiolone sbirciò Marzio, e le parve, come veramente era, bellissimo uomo, comecchè pallido, e scarno oltre il dovere. Però nel cuore suo di donna il capitale della compassione crebbe venticinque centesimi per cento, mentre in quello dell'uomo astioso per la medesima causa calò un franco intero.—Il male è più sensitivo del bene.

—Capitano!—chiamò il Vicario, e il Bargello gli si accostò con certa ossequiosa dimestichezza.—Capitano!—gli domandò il Vicario sommesso nell'orecchio—avete badato ad ammanettarlo con sicurezza?

Il Bargello spinse in avanti la mascella inferiore; e alzato il labbro di sotto, parve, mercè cotesto atto, che volesse dire:

—Ce ne fosse!

—E non vi è pericolo che quel ribaldo, con uno strettone?…—E il bargello ripetè il segno.

—Posso dunque vivere tranquillo?—continuava il Vicario.

—Nèh!—rispose il Bargello scuotendo forte la lesta—l'ho legato io…

Allora il Vicario, addentata del biscotto la parte intrisa di cioccolata e rimettendo l'altra nella tazza, mentre masticava da due parti incominciò a dire:

—Dunque siete voi quel malfattore empio e scellerato, che dopo aver fatto correre sangue il Tevere e gli altri fiumi degli stati di Santa Madre Chiesa, non ha rifuggito di perpetrare omicidii atrocissimi nei paesi felicissimi di Sua Maestà Cattolica il re Filippo nostro signore,… e segnatamente l'ultimo nella decorsa notte, io non so se più bestiale o sacrilego, davanti la immagine benedetta della Santissima Vergine?—Qui, dato un altro morso al biscotto prosegue—Santissima Vergine. Noi altri faremo vedere ai vostri tribunali di Roma, che meglio vale incominciare tardi e durare un pezzo, che incominciare presto e presto smettere. Se Papa Sisto in quattro ore prima di andare a mensa fece prendere, processare, e impiccare un dabben giovane spagnuolo, costumato e cristiano, che dallo avergli ammazzato in chiesa quel suo lanzo in fuori si poteva dire propriamente uno agnellino di latte[2]; noi altri, dico, mostreremo che queste, e più mirifiche cose sappiamo mandare a compimento nella metà manco di tempo.—E intanto alternava morsi, e parole; sicchè vedendo che terminato il cioccolatte era rimasto quasi intero un biscotto, rivolse di repente il suo discorso al biscotto, favellando così: «biscotto! biscotto! credi che non abbia più cioccolatte per inzupparti?—Carmina, speranza mia, gratificami col propinarmi un'altra tazza di cioccolatte!»

Carmina via come il vento, e, curiosa di non perdere sillaba dello interrogatorio, come se n'era andata ritornò veloce portando la cioccolata.

Il Vicario, guardando Marzio, prosegue:

—Se in corte di Roma passò di usanza la salsa di forche e di mannaie, che Pasquino apparecchiò per Papa Sisto, ora questa voglia è incominciata a venire a noi. Già, si sa, le cose buone fanno il giro del mondo…[3]

Adesso, mangiati tutti i biscotti, conobbe essergli rimasta alcun poco di cioccolata nella chicchera; onde apostrofando la cioccolata, esclamò: «cioccolatte! cioccolatte! credi forse che mi manchi biscotto per inzupparti intero?» Carmina, fede mia, va, e portami un altro biscotto per terminare questo insolente cioccolatte.

Carmina adesso prorompe fuori del suo riparo dietro la spalliera del seggiolone, e, mettendosi entrambe le mani su i fianchi, rispose:

—Ma vicario, cuor mio, s'intende acqua, ma non tempesta! Continuando di questo passo sarà mestieri portarvi la pasta reale a manovella, e il cioccolatte dentro al bugliolo; e poi abbiatevi riguardo alla salute, chè il cioccolatte, quando è troppo, guasta lo stomaco, e genera malinconia: basta per oggi, cuore del cuore mio dolce. Non sapete che lo imperatore Carlo V per lo abuso, che ne fece, diventò matto?[4]—s'intende acqua, ma non tempesta! Da un pezzo in qua, gioia mia, voi mi parete diventato uno struzzo…

—E voi, sapete che cosa mi parete diventata da un pezzo a questa parte? Una… una… là… una cicogna.

Inesplicabile cosa è pure questo nostro cuore! Marzio fino a quel punto, non badando ai discorsi del vicario, stava immerso nel pensiero di darsi la morte. Ora venendo ad un tratto a posare l'occhio consapevole sopra cotesti grotteschi sembianti, udendo il garrito della femmina, e la cagione del garrire, così forte si sentì preso dalla convulsione del riso, che proruppe in altissimo scroscio. Il Bargello, di cui le labbra stavano ordinariamente chiuse come le sue manette, non potè nemmeno egli trattenersi da ridere; ma frenato dalla paura si nascose dietro Marzio, e, mettendosi un pezzo di falda fra i denti, ebbe la buona sorte di non essere udito nè visto dal vicario. Se il Vicario venisse in furore non importa che io dica: tenne cotesto riso irriverente alla sua autorità, ingiurioso alla sua figura, alle sue parole offensivo, un crimenlese universale: insomma un delitto connesso, complesso, e per di più continuato[5]. Lasciata da parie la tazza della cioccolata (chè, degl'istinti dello animale di rapina, spenta la voracità prevaleva in lui la smania d'insanguinare gli artigli) con la bocca tutta ingrommata gridò:

—Ah! cane traditore, marrano! Tu ridi, eh? tu ardisci ridere davanti la veneranda maestà del Vicario della gran Corte criminale di Napoli? Or ora, aspetta, che ti farò ridere di miglior cuore, e con motivo più giusto: poichè ti vedo disposto al giuoco… sta lieto… io ti farò ballare co' borzacchini ai piedi e acconciature in capo, che sono una festa. Capitano Gaetanino, su, da bello, traducetemi questo furfantissimo nella stanza delle prove, e apparecchiate tutti gli arnesi quoad torturam preparatoriam usque ad mortem, col gran trespolo, la capra, i tassilli, le cordicelle, insomma ogni cosa, e per benino.

Senza compassione,—imperciocchè nel deserto dell'anima del bargello cotesto pozzo non venisse mai scavato,—o se scavato una volta, da tanto tempo lo aveva riempito, che qualunque traccia gli era ormai scomparsa perfino dalla memoria—senza compassione dunque, ma con tristezza, egli calcolò con quanti strappi angosciosi, con quanto stritolio di ossa avrebbe dovuto quel misero scontare il riso, forse ultimo, che gli era comparso sopra le labbra. Appena il Bargello e Marzio uscirono dalla stanza, il Vicario, vano quanto iniquo, si provava a scaricare la umiliazione sopra la moglie. A simile intento, con aria di rimprovero incominciò favellando alla donna:

—Carmina io ve l'ho detto le mille volte, che a voi non conviene entrare colà dove non vi spetta. Ora, vedete che cosa n'è avvenuto? Cotesto ribaldo, viscere mie, vi ha preso a scherno, mancandovi sconciamente di rispetto.

—Di me?—rispose la donna con profondissima convinzione.—In verità io credo che sbagliate, e ch'egli abbia riso di voi, cuore mio dolce.

—Di me?—Come di me? Egli ci avrebbe pensato due volte… e si alzò, appoggiandosi ai bracciuoli del seggiolone, mordendosi le labbra.

—Mi pare ch'ei non ci abbia pensato nè manco una, gioia mia: in quanto a me, la Dio grazia, non sono ancora tale;—e così favellando si volse ad uno specchio contornato di larga cornice di ebano appesa in cotesta stanza. Il vetro era verde, come per ordinario a quei tempi si fabbricava nelle officine di Murano a Venezia, e l'umido della muraglia, squagliato il mercurio, ne aveva fatta rifiorire tutta la foglia. La natura veramente con madonna Carmina si era comportata peggio che da matrigna: aggiungete gli anni, parecchie infermità, che non importa dire quali, e il matutino disordine; e, come se tutto questo non fosse anche troppo, il vetro traditore verde, e rifiorito, si mise a parteggiare pel vicario. Ella vi si contemplò dentro, e conobbe in coscienza di non poter sostenere il constrasto. Caso unico, io credo, così nelle antiche come nelle moderne storie: conciossiachè nelle femmine la vanità sopravviva alla bellezza come il fosforo dura a brillare nella notte anche dopo la morte della lucciola. Il Vicario uscì trionfante, però evitava la prova dello specchio: se vi si fosse sottoposto si sarebbe per avventura convinto, che Marzio aveva riso di ambedue.

Seduto davanti ad una lunga tavola, avendo dall'uno e dall'altro lato due notari, e alla sua presenza schierati tutti gli arnesi della tortura, lo egregio vicario ostentava la fierezza di Scipione Affricano, che monta al Campidoglio in mezzo alle insegne dei popoli debellati. Pende dai suoi cenni il boia, ed ai cenni del boia stanno attenti due valletti… così è: l'apice della gloria umana si tocca, e presto; per la infamia non vi ha scandaglio che basti. Inferno senza fondo è questo nostro civile consorzio: anche il carnefice ha i suoi subalterni.

Marzio stava costà come trasognato. Il Vicario gli lanciò addosso uno sguardo di sfida, quasi volesse dirgli: «or ora vedremo se riderai».

Un notaro intanto veniva interrogando il bandito sopra le sue qualità, e circostanze del misfatto, che gli avevano apposto. Cessate le domande, il Vicario le lesse; e fattone come un sunto per sovvenire alla sua memoria, volgendosi con mal piglio allo sciagurato favellò:

—A noi, mio bel gentiluomo. Marzio Sposito, io vi contesto che siete accasato e dalle carte processali largamente convinto: In primo luogo, che, in compagnia del vostro complice Olimpio Geraco, avete ammazzato barbaramente e con premeditazione l'illustrissimo conte don Francesco dei Cènci, gentiluomo romano, nella Rocca Petrella, situata nei confini del regno. In secondo luogo, che il mandato a uccidere voi l'aveste da tutti, o da taluno della famiglia di esso Conte Cènci. In terzo luogo, che in prezzo dell'omicidio vi vennero pagati zecchini duemila; dei quali mille per voi, e mille al predetto Olimpio. In quarto luogo, che voi vi rendeste debitore di furto rubando allo ammazzato Conte Cènci un mantello di scarlatto trinato di oro, statovi reperito addosso al momento dello arresto. In quinto luogo, che in questa decorsa notte avete ucciso proditoriamente il vostro complice Olimpio Geraco con istrumento tagliente e perforante, ammenandogli quattro colpi che hanno cagionato la morte pressochè istantanea del prefato Geraco. Sopra questi cinque punti, che vi ho letto a chiara voce, e che a vostra richiesta potranno esservi letti da capo, siete esortato a dire la verità confessandoli, previo vostro giuramento; e ciò non perchè la giustizia abbisogni punto di altri riscontri, ma per bene ed utile vostro così in questa vita come nell'altra, e per adempire al voto della legge che desidera simili ammonizioni, quantunque superflue. Lo eccellentissimo signor Notaio vi deferirà il giuramento.

Il notaio, seduto dal manco lato, prese un Cristo con tale garbo, che parve essere uno di quelli che si trovarono a crocifiggerlo, non già degli altri che lo calarono di croce, e gli suggerì la formula con queste parole:

—Dite: Io giuro sopra questa immagine rilevata di Gesù crocifisso…

—Io non giuro…

—Come non giurate, se giurano tutti?

—E tutti mentiscono. Vi pare ella cosa naturale, che un uomo spontaneo giuri il suo danno e la sua morte?…

—Ma avreste evitato lo esperimento,—osservò il Notaro.

—E che importa a voi s'egli intende provarlo?—interruppe il Vicario con viso acerbo.—Egli è nel suo diritto, e nessuno può toglierglielo. Sposito, voi volete esercitare lo jus che vi viene dalla legge, ed io vi lodo. Mastro Giacinto, tocca a voi…

Col garbo stesso col quale lo artefice industre si accinge a metter mano ad un sottile lavorìo, maestro Giacinto, ch'era il boia, secondato a maraviglia dai suoi valletti, spogliava in un attimo, legava, e traeva in alto per le braccia il meschino;

Marzio sofferse gli atroci spasimi senza mandare neanche un sospiro: solo quando adagio adagio lo calarono sul pavimento, il suo demonio gli sussurrò dentro gli orecchi: «a che stai?» E la memoria gli schierò, come traverso uno specchio, davanti lo spirito tutte le vicende della sua vita. Tradito dagli amici, perseguitato dagli uomini nelle più care affezioni, queste gli si erano convertite in flagelli dell'anima; le sue furie portavano faccia di amore. L'amore filiale lo fece bandito; lo amore di amante, perfido e dissimilatore; lo amore per Beatrice, omicida.—Di quale natura era questo ultimo amore? Egli non lo aveva saputo chiarire a se stesso, avvegnachè gli riuscisse sovente incominciare a volgere il pensiero ad Annetta e terminarlo a Beatrice, o viceversa: così errava l'anima sua dallo amore disperato allo amore impossibile, e dallo impossibile al disperato. La sua vita, in perpetua compagnia dell'aspra cura, aveva fatto come il ferro premuto su la ruota quando gira; si era consumata mandando faville. Non si sentiva più voglia di nulla. Diventa pure sazievole questo cammino mortale quando non sai dove, o perchè indrizzare le piante! Spesso, nel golfo di Napoli, steso per terra con le spalle appoggiate ad uno scoglio, stava per ore e ore a contemplare la pianura dei mari pien di svogliatezza, essendo che la cura corrosiva fosse più intensa per tenerlo assorto in se, che non leggiadro il golfo per sollevarlo con gioconde sensazioni. Gli si spossarono le membra; madide di sudore si sentiva sempre le mani e la fronte: una irritazione irresistibile ai bronchi lo constringeva a prorompere di frequente in nodi di tosse. Certo giorno, allo improvviso, gli si empì la bocca di umore viscoso, che sapeva di piombo;—attese allo spurgo… era sangue. Tremò da capo a piedi; corse allo specchio, e si guardò… Dio! che orrore! Quale mai rovina di se stesso! Il sangue gli si era fermato in breve spazio sul sommo delle gote, quasi raggio di sole che tramonta sopra la estrema vetta dei colli;—ultimo addio del giorno che muore. Molte volte, col filo di rasoio alla gola, o col focile della pistola alzato alla tempia, stette per troncare una vita di miseria e di colpa; ma si trattenne sempre, adombrando a se stesso la esitanza col desiderio di vedere prima Beatrice contenta: in verità poi cotesta esitanza nasceva dallo istinto animale di vita, aumentato in ragione della debolezza. Di Marzio era morta gran parte; molta vita e molto coraggio gli fuggirono dai pori del corpo col frequente trasudare. Cotesta prova, sebbene sostenuta con costanza, pure lo aveva abbattuto così, che desiderò come sommo bene la morte, e sollecita. Però, appena deposto a sedere, il Vicario ordinava:

—Tra un quarto di ora, mastro Giacinto, replicherai cum squasso: se frattanto volesse bere, dategli acqua e aceto; e sì dicendo faceva atto come di andarsene.

—Vicario!—chiamò Marzio con fievole voce, trattenendo le lacrime—se m'inducessi a confessare, potrei contare sopra una grazia?…

—Figlio mio, andandogli incontro premuroso, e ponendoglisi al fianco, il Vicario gli favellava dolcemente:—farò quello che posso: ti raccomanderò al Vicerè. Il signor Duca è magnanimo e cortese, e delle grazie donatore generosissimo.—Voi frattanto, ser Notaro, registrate che lo imputato ha proposto di confessare, ergo le accuse sono vere. Questo è un passo ormai acquistato al processo, e non si cancella più.—Dunque, figlio mio, dicevi?…

—La grazia, che domanderei, non è forse di quelle che immaginate voi…

—O dunque che cosa chiedi? Su, da bello, diletto mio; aprimi il tuo cuore intero, fa' conto di confessarti proprio a tuo padre.

—Confessati appena i miei falli, vorrei essere tratto subito a morte…

—Per questo non dubitare dell'ottimo cuore del Vicerè… e anche io ti aiuterò…

—Solo desidererei non fosse di corda, ma sì di scure… la morte mia…

—Se non vuoi altro!-interruppe maestro Giacinto, al quale non riuscì tacere, trattandosi di cose che toccavano tanto da vicino il suo mestiero—il Vicerè ha un'anima di Cesare in cosiffatte faccende…

—Silenzio!—gridò severamente il Vicario—non sono cose queste che ti riguardino…

—Mi pareva di sì… ma avrò sbagliato… perdonate,
  Eccellenza…

—Senti; in quanto alla prima domanda, di essere mandato subito a morte, statti allegro, che la prendo sopra di me; intorno alla seconda poi bisogna consultarne il signor Vicerè: non è mica piccolo privilegio quello di farsi tagliare il capo! Qui cotesto privilegio appartiene ai nobili, che ne vanno giustamente gelosi: però, carissimo mio, per satisfarti in tutto ne muoverò espressa domanda al Vicerè.

Il Collaterale, sopraggiunto in mezzo allo amoroso colloquio, attendendo sempre a dare la spinta al Vicario per farlo cadere,

—Clarissimo don Boccale, gli disse, questo arbitrio potete benissimo torvelo; perchè, chi vorrà riguardarvi così sul sottile le costure, quando con la sagacità e solerzia vostre andate acquistandovi meriti ogni dì più luminosi presso sua maestà il Re nostro signore?

La insidia del Collaterale consisteva in questo: che dove per vanità avesse il Vicario offeso i privilegi dei nobili, presagiva vedere scatenati contro tutti i Seggi di Napoli. Ma il Vicario non era pesce da prendersi a coteste vangaiuole; per la quale cosa asciutto asciutto gli rispondeva:

—Signor Collaterale, voi mi farete la garbatezza di attendere a somministrare consigli quando vi saranno richiesti.—Orsù… dunque, figliuolo mio, parla… che cosa hai da dire?

Marzio aveva declinato il capo sopra la spalla destra; e, chiusi gli occhi, gli sfuggivano dagli angoli grosse lacrime non piante, ma traboccate per la piena dell'angoscia…

—Or via, insisteva il Vicario, da bravo, figlio mio, confessa… confessa…

Marzo sembrava assopito, e non rispondeva. Allora il Vicario gli compresse la scapola destra con ruvidezza: quegli abbrividì, aperse gli occhi e domandò dolorosamente:

—Che cosa volete?

—Mantenmi la promessa, e confessa…

—Come! così presto? Dov'è il prete?

—Non si tratta qui della confessione sacramentale; questa farai più tardi, amor mio; si tratta della processale: ora il lampo, poi il tuono; un poco di rumore in appresso, e finalmente tutto finisce… sai?

—E che cosa ho io da confessare?

—O bella! Quello che dianzi ti ho letto, dilettissimo mio; vuoi che io te lo rilegga?

—Oh! no: sta bene, io merito la morte.

—Dunque confessa, via, e ratifica in tutte e singole le sue parti l'atto di accusa.

—Sì, come volete, purchè mi tolghiate presto di vita.

—Provati un poco, cuor mio, se ti riuscisse firmare il foglio: e voi altri fanulloni porgetemi una penna,… e che sia nuova, e ben temperata… tuffatela per bene nel calamaro… Prendi, Sposito, e se in vita non hai avuto buona indole, mostra almeno in morte un bel carattere. Signor Collaterale notate, di grazia, l'agudezza; se la risapesse il Duca, ch'è vago di bei motti, se ne andrebbe in visibilio.—Adagio… così… a modo… con tre dita… carino mio…

Ma le dita di Marzio, dolorosamente inerti, lasciavano andare la penna; ond'egli sbadigliando mormorava:

—Oh quanto sono più generosi gli omicidi nel bosco, che nel tribunale!… non posso firmare…

—Ma quel benedetto Giacinto poteva anche usare un poco più di carità nel dargli la corda!…[6] disse il Vicario volgendosi al boia in tuono di rimprovero.

—Che dite, nè! Eccellenza? Io l'ho trattato da sposo: se avessi a dare la corda a voi, non potrei condurmi con maggiore garbatezza.

Il Vicario, intento affatto in Marzio, non badò alla conclusione del discorso: andati a vuoto gli sforzi per farlo firmare, ordinò che chiudessero l'atto di accusa con le formule neccssarie per supplire al difetto della firma del prevenuto. Distese, firmate, bollate, e impolverate le carte se le pose diligentemente in seno, indirizzando la parola agli uscieri:

—Adesso abbiate cura di questo povero uomo: rammentatevi ch'egli è di carne battezzata come siete voi altri, e rammentate ancora che se la giustizia umana non lo può perdonare, molto bene può farlo la divina: onde, un giorno, chi sa? la sua intercessione potrebbe essere necessaria anche a noi lassù in paradiso: pensate al buon ladrone, e non vi dico altro. Confortatelo con vino, e confetto, e con brodo:—badate a non fargli mancare nulla… bisogna che viva.

Marzio era caduto nella consueta letargìa.

Per lo splendore di Dio! (e notate, che la esclamazione non è mia; bensì di Guglielmo il Bastardo) non vi pare egli caritatevole il vicario? Maisì e avvertite, che quantunque morto da due secoli e mezzo, io ho veduto, ed ho udito questo vicario, epperò mi attento a descriverlo. Il Vicario aveva posto amore a Marzio: gli voleva proprio un bene dell'anima per molte ragioni, una migliore dell'altra: per lui contava potersi presentare trionfalmente al Vicerè; per lui ricuperarne la smarrita grazia; per lui dare la spinta all'odiato Collaterale; per lui dimostrare la molta sufficienza sua; per lui trattenere il popolo nello spettacolo sempre gradito di una tragedia criminale; per lui somministrare subietto a far parlare di se tutto Napoli almeno tre giorni continui; per lui, finalmente, ottenere un ciondolo all'occhiello, ed aumento di paga. Per le quali considerazioni, e per altre, che non si dicono, importava assaissimo che Marzio vivesse—ma per morire sopra le forche! Di qui la tenerezza dello egregio Vicario per la conservazione del condannato.—Non vi pare egli caritatevole il mio vicario?

———

Il Vicario affrettandosi si presenta al palazzo di don Pietro Girone duca di Ossuna, vicerè di Napoli per Filippo III re di Spagna[7]. Nel trapassare per le anticamere egli, prima di tutto, con disgusto non piccolo osservò, come le guardie e gli staffieri non si affaccendassero punto ad annunziarlo, secondo che la gravità del caso gli pareva meritare: considerando poi, che non gli potevano leggere in faccia la grande notizia di cui veniva portatore, gli scolpava quasi da questo lato; sennonchè crescendo allora il malefizio del poco ossequio alla sua dignità in questa parte, gli aggravava al doppio di quello che gli aveva sollevati dall'altra. E se non lo volevano onorare come don Gennaro Boccale, pareva a lui che lo dovessero temere come l'uomo che avrebbe potuto mandarli da un punto all'altro alle forche: però gli staffieri del Duca, servi insolentissimi d'insolente padrone, lui non curavano, e molto meno temevano. Il Vicario consolava la sua vanità offesa volgendo la mente alla necessità di contenere con regolamenti opportuni la petulanza dei famigli dei grandi, per lo più meccanici, riottosi, e ribaldi; ma la suprema mortificazione lo aspettava nella ultima anticamera, dove, dopo avere pestato mani e piedi per essere introdotto dal Vicerè, trascorso spazio lunghissimo di tempo, durante il quale gli parve provare quei tormenti, che tanto spesso aveva applicato ai derelitti che gli capitavano nelle mani, si presentò un segretario per informarsi del suo bisogno. Il Vicario gli disse: negozii di suprema importanza: desiderare che gli fosse data licenza di conferire col serenissimo Vicerè. Il segretario oppose negozii di troppo maggiore importanza dei suoi tenere occupato il Vicerè, nè quindi potergli concedere udienza.

—Ma il negozio, per cui sono venuto, tocca urgentemente la sicurezza degli stati di Sua Maestà.

—Sì; ma vi ho detto che non può pareggiare mai la importanza di quello che tiene adesso per le mani il serenissimo Vicerè duca.

Il criminalista, con un ghigno derisorio, disse al cortigiano:

—Salvo onore, o come fate voi a indovinare il negozio che qui mi conduce?

E il cortigiano, con sorriso punto meno fino, pronto alla parata, rispose:

—Non conosco il vostro, sibbene quello del Vicerè, a cui pochi possono andare pari, superiore nessuno.

Ed il criminalista dall'arguta risposta si trovò capovoltato.

Ora ecco il negozio, che in quel momento teneva occupato il potentissimo Duca di Ossuna. Sua Eminenza il cardinale Zappata (quel desso donde nasce il proverbio, che predicava bene, e razzolava male) gli aveva mandato in dono da Madrid un magnifico pappagallo, ed egli si sollazzava con quello: non già che don Pedro fosse un perdigiorno; tutto altro: aveva fama di solertissimo nelle faccende di stato, e veramente era: ma tanto è, in quel momento gli era saltato per la testa il ticchio di divertirsi col pappagallo, e non voleva in cotesta ora essere infastidito. D'altronde l'arco sempre teso si rompe, ed un po' di sollievo giunge accettissimo agli spiriti più irrequieti.

E' fu mestieri che si rassegnasse il buon vicario ad esporre il motivo della sua venuta al segretario, il quale accolse il racconto con mediocre premura, e a mezzo discorso gli tolse le carte di mano, e, voltegli le spalle, disse: «ho capito!»

Il segretario entrò improvviso, e sorprese il Vicerè che insegnava al pappagallo… che cosa mai gl'insegnava? Una parola spagnuola, che verun gentiluomo vorrebbe profferire, e nessuna gentildonna ascoltare… quantunque, pronunziata dal pappagallo, ecciti la ilarità delle donne e talvolta ancora il rossore; sicchè esse si celano la faccia dietro al ventaglio,—talune per sentire, talaltre per fingere di sentire vergogna.

Questo don Pedro (sussurrava la fama) in fatto di costumi e di religione procedeva più rilasciato, che non consentivano cotesti tempi; e fra le tante si narra questa di lui. Visitando a Catania, in compagnia della Duchessa sua moglie, la chiesa di Sant'Agata, gli porsero a baciare le mammelle di cotesta santa, conservate con grandissima venerazione colà. Postesi pertanto in ginocchio, prima di baciarle si volse ridendo alla Duchessa, dicendole: «donna Caterina, senza gelosia»[8]. I preti lo predicavano infetto di eresia; e fra le altre accuse, messegli davanti al Re di Spagna, vi fu quella di seguitare i riti della religione maomettana. Al Vicerè increbbe essere colto in quel punto, e si voltò con cera sdegnata al segretario, che, pilota sagace di corte, vista la marina turbata, non sapeva a qual santo votarsi. Non gli soccorrendo consiglio migliore, si accostò al pappagallo; ma questo, impaurito, gli dette di becco nella mano, e gli stracciò la carne. Il segretario sotto voce mormorò:

—Benedetto prezzemolo! E a voce alta: magnifico, bellissimo pappagallo!…

Ma il Vicerè, stizzito, lo interrogò con voce severa:

—Ynigo, chi vi ha chiamato?

Il cortigiano, a sua posta stizzito, se la rifece col vicario rispondendo:

—Serenissimo! Il Vicario criminale, che, salvo onore, è più fastidioso del fistolo, tanto rumore ha mosso nell'anticamera urlando trattarsi della salute del Re e della sicurezza dello Stato, che mi fu forza, onde non irrompesse fino a Vostra Serenità, torgli queste carte di mano, e presentarvele per liberarvi dalle importunità sue.

—Sappiamo a prova, disse il Vicerè con signorile alterezza e porgendo là mano per ricevere le carte, negarsi a noi quello di cui gli altri uomini hanno copia;—un momento di riposo. Informate, don Ynigo.

—Serenissimo! Un bandito dello stato romano nella decorsa notte ha ucciso proditoriamente certo suo compagno presso il tabernacolo della Madonna del Buonconsiglio: arrestato stamane, confessava su i tormenti. Il Vicario, considerata la confessione spontanea, sarebbe di avviso si condannasse a morte senz'altra procedura, per frenare gli omicidi e i ladronecci, che incominciano a parere già troppi anche al signor Vicario.

—Ed è questo il motivo per cui mi siete piovuto in camera fragoroso e improvviso, come palla di bombarda briccolata in cittadella nemica?

—Serenissimo! si degni rammentare che la colpa non viene dalla palla, bensì da cui la manda.

—Voi non avete mai colpa, assomigliate gli assistenti dei sagrifizi di Giove, dei quali l'uno scaricava su l'altro il fallo del bove ammazzato; sicchè la pena toccava finalmente al coltello, che, innocentissimo, pagava per tutti.

Il cortigiano, per non far peggio, sorrise come estatico all'arguzia del motto. Il Vicerè blandito, prendendo una penna stava per firmare senz'altro la proposta del vicario; ma si fermò:

—Per Santo Yago! ella è cosa da nulla firmare uma sentenza di morte? Tra firmarla, e patirla una tal quale differenza ha da essere.—Passare di un tratto da un mondo dove risplende così luminoso il raggio del sole, ad un altro dove la cosa più chiara, che io possa comprendere, è un buio eterno… parmi un brutto passaggio in verità.—E qui intingeva la penna nello inchiostro.—Comprendo eziandio, aggiungeva, che deve riuscire più facile levare l'ancora da questa vita in un giorno di gennaio a Stokolma, che a Napoli in un giorno di aprile.—Alzatosi si approssimava al balcone, e, muovendo discorso al cielo, continuava:—Occhio del cielo, perchè apparisci sì bello ai nostri occhi, se poi dobbiamo così presto lasciarti? Il tuo raggio divino dovrebbe illuminare cose degne della sua divinità. La notte dovrebbe vedere i supplizii delle colpe che si commettono nel suo grembo, ed io non so con quale senno o giustizia il giorno ha da contristarsi col castigo del delitto, ch'egli non ha illuminato: l'uno e l'altro rimangano al buio…

Questi pensieri uscivano lambiccati dal cervello del Duca: imperciocchè non gli partissero mica dal cuore, ma gli ostentasse, quasi per far dimenticare al cortigiano la parola turpe con la quale in bocca lo aveva sorpreso educante il pappagallo: cotesti pensieri tenevano officio d'incenso bruciato intorno ai cataletti per vincere l'odore del morto. Avrebbe piuttosto desiderato sfogarsi a danno di qualcheduno, ma la fortuna non gli presentava l'orecchio. Intanto il pappagallo, per aumentargli la confusione e il maltalento, ripetè con voce sonora la oscenità imparata, e parve che di lui si prendesse a dileggio e della sua mentita filosofia. Allora si pose in fretta nuovamente a sedere, e per liberarsi dal testimone importuno si accinse a firmare.

—Che se il ribaldo merita commiato… via… lanciamolo nella eternità.—

Ma il pappagallo, o percosso dalla nuovità dell'oggetto, o cruccioso per non vedersi più vezzeggiare, con una beccata trasse la penna di mano al Vicerè.

Montezuma non vuole che muoia… o piuttosto Montezuma rimprovera il Vicerè di firmare proposte di morte senza pure esaminare le carte del processo. Il pappagallo ha ragione; il Vicerè torto. Grazie allo avvertimento, Montezuma. Se io fossi re, forse, chi sa? in premio dei lunghi ed onorati servigi, potrebbe darsi che un giorno tu ti trovassi premiato con una immagine di bestia come te; o di santo, e non posso dire come me; o con un bel mazzo di prezzemolo: ma invece, essendo io soltanto vicerè, ti darò un biscotto di Maiorca intero. Io ti rimanderei volentieri per consigliere allo Escuriale onde far conoscere allo Eminentissimo cardinale Zappata, che quanti gli escono di mano pappagalli io glieli rimando consiglieri.—

Don Pedro con molta accuratezza si pone a leggere, e tuttavia leggendo pensava a quello che fosse da farsi; imperciocchè è fama che i1 Duca di Ossuna fra le altre sue qualità possedesse quella di dividere contemporaneamente la sua attenzione sopra svariatissimi oggetti, come leggere una cosa, e pensarne un'altra; o pensare al tempo stesso a più cose; o conversare con varie persone udendo senza perdere sillaba, rispondendo a segno, e al punto stesso scrivere dispacci intorno a materie importantissime. Io ho detto facoltà, ma doveva dire vizio; conciossiachè questo abito alteri la virtù intelettuale, siccome il guardare strambo guata la visiva. Adesso, mentre leggeva meditando, conobbe: non correre più tempo opportuno di provocare il Papa; anzi con ogni maniera di riguardi doverselo tenere bene edificato, imperciocchè egli si fosse messo in braccio alla Francia assolvendo Enrico IV, e stringendo con quel regno vincoli antichi. Francia, cessata la guerra civile, presto tornerebbe più bella, e più gagliarda che mai, per la facilità maravigliosa che possiede a fare scomparire in un giorno le rovine di un anno; mentre, all'opposto, Spagna spirare, come Crasso, con la bocca piena di oro: le flotte, studio indefesso di dieci anni del re Filippo II, distrutte da un colpo di vento; i Paesi Bassi rimasti fitti a Spagna nel palato come l'amo al pesce cane; Germania avere teso sempre la mano per prendere, e mai per lasciarsi pigliare; consumato seicento milioni di ducati; cagionato la morte di venti milioni di uomini; empito di rovine e di odio il mondo, e della passata grandezza oggi rimanerle la superbia soltanto[9]. Formarsi a poco a poco il turbine contro la casa di Austria, di Germania e di Spagna. E al Papa, già sottratto dal dominio di Spagna, non doversi somministrare pretesto di odiarla, dacchè, baldanzoso a cagione del fresco acquisto di Ferrara, per poco che s'inciprignisse, era uomo a fare vive le sue pretensioni sul regno di Napoli; nè gli sarebbero mancati soccorsi francesi, nè i milioni di oro messi da Sisto V in castello parevano per anche reputi a fondo: Clemente VIII poi mostrarsi di natura meno bestiale di Sisto, e qualche termine di buona composizione potersi trovare con lui: d'altronde, come vecchio, dovergli piacere che i trambusti cessassero per fondare la grandezza di casa sua, nel che procedeva accesissimo, e per purgare gli stati della Chiesa dalle bande dei ladri che gì'infestavano. In tutti i paesi questo vediamo accadere ordinariamente dopo le guerre; e Roma aveva terminata pure ora la impresa di Ferrara, e in ogni tempo fu terreno classico pei banditi. Papa Aldobrandino in questa parte non mostrarsi punto meno severo del Montalto; rammentandosi il Duca ottimamente, come creato Cardinale dal medesimo, e conoscendolo a prova asprissimo e spietato, giubbilando esclamasse: avere pure alla fine trovato un uomo secondo il suo cuore![10] Ancora, oltre il piacere grande che avrebbe fatto al Papa porgendogli occasione di palesare al mondo la diligenza adoperata da lui per rimettere in assetto i suoi dominii, gli pareva cotesta essere matassa da doversi sbrogliare a Roma… e poi… e poi più di tutto gli piacque, ed anzi fu questa la ragione capitale, prendere da cotesto fatto occasione di mortificare il segretario che lo aveva sorpreso ad insegnare oscenità al pappagallo, e il vicario che lo aveva mandato. Così mescolato a molta scoria si cava l'oro dalla miniera, e per questa volta il destino folleggiando lo affinava.

—Don Ynigo; Montezuma, salvo onore, si mostrò troppo più acuto di voi quando mi ha persuaso a leggere carte che non avete letto, e che dovevate leggere voi. Questo è negozio appena incominciato, e si vorrebbe tagliare il capo del filo per perderne ogni traccia. Viva Dio, che prudenza sia questa io non so vedere! Bisognerà inviare questo uomo sotto buona scorta a Roma, accompagnandolo con lettere adattate a gratificarci l'ottima mente di Sua Santità. Esaminerete come, sebbene trattisi di misfatti commessi nella nostra jurisdizione, tuttavolta sembra che sieno stati preordinati di lunga mano da persone di alto affare dimoranti a Roma. D'ora in poi, signor Segretario, non mi farete rapporto veruno se non previa diligente lettura delle carte relative; e tenetevi per avvisato. In quanto al signor Vicario, mi sono accorto, recandomi io stesso alla vicarìa, che sta assente dallo ufficio troppo più spesso che non conviene per la importanza delle funzioni che esercita; mi pare oltre il dovere svagato; e certo poi la età gl'indeboliva il senno, che non ebbe mai troppo anche nei giorni migliori. Speditegli pertanto lettere di dispensa con la pensione che merita, sostituendogli il suo Collaterale, persona di proposito e manierosa. A noi così giovi sempre la fortuna come oggi, la quale ci ha risparmiato la firma di una sentenza di morte, e offerto adito a confermarci nella benevolenza del Sommo Sacerdote, del quale avranno compre mestieri i Principi savii, finchè vorranno durare a reggere con freno di autorità assluta li popoli soggetti.—

E tutto questo per essere stato sorpreso il Duca di Ossuna a insegnare una parola oscena al pappagallo! Ridere? Oh! se questo fosse tempo opportuno di ridere io vi condurrei nel buio dove si cova il destino dei popoli, e vi chiarirei come da cause più lievi, spesso meno oneste, e talora più burlevoli, derivassero guerre, rovine di stati, distruzioni di popoli, ed altri dei più funesti flagelli della umanità.

Il segretario si partì dal cospetto del Vicerè curvo come se lo avesse caricato con mille libbre di peso. Quando gl'impiegati ricevono una mortificazione si studiano rovesciarla sopra gl'inferiori; ella è come un sasso, che rotola finchè trova scalini; ma no, il paragone non mi sembra adattato; direi piuttosto, che la scintilla del malcontento, sprigionata nelle alte regioni, ricerca velocissima le parti più recondite delle segreterie, dove però si sperpera fra tanti, che sovente o non la sentono, o non la curano; e ad ogni modo tutti con una squassatina se la gittano via dalle spalle.

Il segretario annuvolato passò dinanzi al vicario impaziente, e gli disse torbo «aspettate!» Dopo venti, e più minuti il segretario, maggiormente torbo, ripassa per entrare nella stanza del Vicerè, e dice al vicario, maggiormente impaziente, «aspettate!» Il segretario dopo lunga ora esce dalla stanza del Vicerè, e al povero vicario, che non capiva più nella pelle per la rabbia, ripete per la terza volta torbidissimo «aspettate!»

Il capo del vicario aveva girato dall'uscio della stanza del Vicerè a quello della stanza del segretario, e da questo a quello come un girasole: alla fine, dopo inenarrabile agonia, esce per la quarta volta il segretario; e, messo fra le mani al vicario un plico suggellato, lo squadra di traverso, lo inchina, e senza dire un fiato sparisce.

—Ouf!—borbottò il Vicario,—questi Spagnuoli fumano come cammini: giuoco che costui al suo paese avrà suonato le campane in qualche convento, non cibando mai miglior vivanda che la broda dei frati; ed ora ci viene a squadrare dall'alto al basso… a fare lo idalgo, con noi—che abbiamo in corpo nobiltà quanta il re.—E questo mettermi in mano suggellato il plico, o che novella è?—Forse sarà segno di attenzione, e riguardo alla persona e alla carica:—deve essere così:—e allora io non troverei in ciò da biasimarli,—anzi gli lodo;—e correva via a gambe.

Prima di proseguire il racconto del mio Vicario bisogna che mi sbrighi del segretario. Ora vuolsi sapere come, tornato a casa, egli dicesse al figliuolo, che gli andava incontro tutto festoso: «Figliuolo mio, facciamo le nostre valigie e ritorniamo in Ispagna, perchè qui in Napoli l'aria non tira più buona per noi». Signore! rispose il figliuolo, che cosa vi è mai accaduto di nuovo? Avreste per avventura mancato di rispetto alla nostra santa religione? «Peggio, figliuolo mio, peggio». Avreste, ohimè! ucciso in duello qualche gentiluomo di corte? «Peggio». Per sorte, avreste ardito inalzare i vostri affetti fino alla Serenissima Viceregina? «Peggio ancora». Voi mi spaventate; ma che, dunque? «Ho sorpreso il potentissimo Duca di Ossuna sciupando il tempo a insegnare parole oscene al suo pappagallo». Misericordia! è finita per noi.—

Adesso torniamo al Vicario. Egli giunse ansante, bagnato di sudore alla vicarìa: si pose a sedere con il Collaterale al fianco, notari, e copisti; fece rientrare sbirri, valletti, carnefice, e vittima, che fu portata a braccia col capo spenzoloni giù come ubbriaco. Il Vicario levò le ciglia in su, e quando li vide tutti attenti passeggiò i suoi sguardi allo interno nella miseria del suo orgoglio, poi ruppe il suggello e si pose a leggere,

—Come? Come? qual tradimento si è questo?

—Che avvenne? Che fu? Che cosa è stato?—si udiva a coro replicare dintorno.

—Sono tradito peggio di Cristo;—e piangendo si coperse gli occhi con le mani.

Il Collaterale, che gli stava al fianco come lo jakal alla jena, gittò lo sguardo obliquo su le carte; e, vedendovi scritto il suo nome, con un baleno di malignità indovinò il mistero: onde in un punto, postergato ogni rispetto, allungò le mani bramose; ed arraffando le carte si accinse a leggerle, rovesciato il capo su la spalliera del seggiolone. Nel conoscere ch'era stato promosso alla carica di Vicario in luogo di don Gennaro Boccale fu per ispiccare un salto, prorompere in pazze risa, battere palma a palma, fare cose insomma da spiritato; ma si contenne, e, col collo torto più loiolescamente che potè, con un risolino sopra le labbra sottile quanto il filo del rasoio gli favellò:

—Avvocato Boccale (di secco in piano gli toglieva il titolo di Vicario) credete che mi sento proprio trafiggere il cuore per la vostra disgrazia; molto più che, dentro domani, avrei a pregarvi di lasciarmi sgombra la casa…

—Ed io credo che non vi devo credere nulla, signor Collaterale. Intanto io me ne vado per le scale: badate che voi, don Ciacchero, non abbiate un giorno a uscirne dalla finestra.—E sì dicendo don Gennaro si levò tutto infuriato; e allontanandosi dal palazzo col garbo di Scipione quando mosse in esilio, esclamava: «Ingrata vicarìa! tu non avrai la mia cappa».

Così a mannaia vecchia sostituivasi mannaia nuova, e i miseri accusati ebbero ad accorgersi ben tosto ch'era stata affilata di fresco, Intanto il Vicario novello leggendo oltre il dispaccio del Vicerè conobbe come la sentenza di Marzio non dovesse eseguirsi altramente, bensì avesse ad inviarlo sotto buona scorta a monsignore Governatore di Roma, la quale cosa egli fece con la diligenza consueta agl'impiegati nuovi, o nuovamente promossi, secondo il costume delle granate; e per la più parte di loro il paragone non è ignobile abbastanza.

Il licenziato Boccale ridottosi a vivere in altra casa, stette parecchi giorni smemoriato come se avesse ricevuto un picchio sopra la testa, e di ora in ora prorompeva in risa; ell'erano coteste le gocce grosse precorritrici della tempesta: per ultimo la tempesta scoppiò, e terribilissima, nella quale rimase annegata la sua intelligenza: del cuore egli aveva fatto getto da tempo immemorabile, e solo (infelice reliquia!) gli rimase a galla l'agonia di tormentare. Tutto periva in lui tranne la libidine di Vicario criminale, ed a ragione; conciossiachè cotesta qualità per conservarsi non abbisogni punto d'intendimento, bastando il solo istinto di belva. Nei feroci delirii fondò un'alta Corte di Giustizia istituendo offici di sbirro, accusatore, giudice, e boia; e tutte queste incumbenze, come se altrettanti benefizii semplici fossero, accumulò sopra il suo capo, risolvendo da matto quello che già era andato spesse volte per la mente dei savi: voglio dire, che componendo le rammentate cariche diverse specie simpatiche, e relative fra loro, amore di ordine persuadeva a classarle sotto la stessa famiglia, e amore di economia, a cumularle tutte sopra una medesima testa,—almeno in certi tempi e a certi luoghi.

Il licenziato don Boccale incominciò a processare i volatili del suo cortile: pretesti non gli mancarono, e, comecchè non sapesse col suo cervello matto distinguere gl'innocenti dai rei, nondimeno procedendo perfidamente a tastoni dichiarava, che tutti, o taluni avevano commesso il delitto; e poi, che tutti erano stati complici a farlo, o impotenti a prevenirlo; e finalmente, che il delitto non risultava già da uno o più fatti peculiari, bensì da una congerie di cose connesse, complesse, e per di più continuate; per le quali, e con le quali tutti come felloni, e di perfido cuore, invocato prima il nome santissimo di Lui, che sempre sta vicino a chi lo sa chiamare, tutti dannava irremissibilmente a morte. Di questo piccola cura prendeva donna Carmina, perocchè i giustiziati fossero da lei (che si era assunto il carico dell'Arciconfraternita della Misericordia) trasportati con ragionevoli intervalli nella pignatta, e quivi tenuti sepolti finchè non avessero fatto buon brodo. Quando i polli vennero meno, egli mosse terribilissima accusa contro Giordano cane di casa: certo da anni ben lunghi ei gli aveva badato le sue masserizie dai ladri; una volta ancora gli salvò la vita, ma invano; fedeltà e amore, e beneficii fatti lui non iscamparono dalla rabbia del giudice matto: egli ebbe a morire: e di questo anche poco increbbe a donna Carmina, anzi ci ebbe piacere, dacchè il cane fosse vecchio, e per di più aveva perduto un occhio. E poi, si sa, gli anni dei servi quando diventano troppi pei padroni, anche battezzati e cattolici, formano capo di delitto supremo; e di ciò fanno fede i coloni di certa parte di America, i quali con tranquilla coscienza accusano gli schiavi vecchi e disutili al Governo di non commessi misfatti, ond'egli gli ammazzi, e in parte ne rimetta il prezzo!

Morto il cane venne la volta della gatta, delizia di donna Carmina: se mai visse al mondo gatta incolpevole, proprio fu quella; dopo tanti anni di buona condotta le si potè imputare un errore solo: rubare un cacio fresco dallo armario[11]. Ahimè! Anche i santi cascano, e la tentazione superava le forze della gatta; non ebbe rispetto il fiero giudice alla fragilità del sesso, al naturale istinto, alla provocazione del cacio fresco, e al prolungato digiuno, dacchè resultava dagli atti, che da bene ventiquattro ore il povero animale era rimasto senza governo: ogni circostanza attenuante rigettò, e come rea di famulato qualificato da scalata, e colta in fragranti, condannò barbaramente a morte. Donna Carmina si gettò ai piedi dello inesorabile, supplicando con molte lagrime la grazia della gatta diletta; il giudice parve commuoversi, e rispose «vedremo»; di che racconsolata la donna, pensò poter vivere sicura. Ahi! sicurezza funesta. Un bel giorno levandosi da letto, la prima cosa che le si parò davanti agli occhi fu la gatta impiccata. Quantunque ella avesse l'anima e la vita assuefatte a spettacoli quotidiani di orrore, non resse a quello; ed irrompendo insana con furiosissima ira, empì di ululati la casa e la contrada; di atroci contumelie lacerò il consorte. Per colmo d'ingiuria, quando armata di coltello si fece a tagliare lo infame capestro, e riscossa la salma diletta dal patibolo comporla in sepoltura onorata, il giudice le si oppose risolutamente dicendo, che non si aveva a disturbare l'amministrazione della giustizia: rispettasse costei la veneranda maestà delle leggi; a quello che si attentava commettere ella avvertisse due volte, chè egli voleva, e sapeva adempire il suo dovere: fellonìa espressa essere il levare di su la forca lo impiccato; e ricordasse per suo governo, che chi spicca lo impiccato, lo impiccato impicca lui. Figuratevi come gli animi s'invelenissero! Gli antichi dolci appellativi mutaronsi in orrende minacce, e dalle male parole trascorsero in peggiori fatti: nè il Vicario uscì lieto dalla baruffa, che riportò il capo pelato, e la faccia in parte graffiata, in parte pesta. I vicini accorsi li separarono un po' con le parole, e un po' co' manichi delle granate; anzi più con questi, che con quelle; quindi fecero prova di ritornarli in concordia, e crederono esservi riusciti.

Ma il Vicario, rotto nelle turpi slealtà del suo mestiere, appena profferita la parola del perdono pensò, che se aveva perdonato come uomo, perdonare come magistrato non istava nelle sue facoltà; onde si pose a istruire segretissima procedura di lesa maestà, violenza pubblica, impedita amministrazione di giustizia, e offese qualificate contro il Magistrato nello esercizio delle sue funzioni; insomma rovesciò il sacco del codice criminale contro donna Carmina. Tutto questo bastava, e ce ne avanzava, per una condanna di morte: e così fu. Il giudice profferì sentenza capitale, e da quel giorno in poi ogni sua cura pose per mandarla ad esecuzione.

Certa notte, che donna Carmina dormiva placidamente, il buon marito le passò cheto cheto il laccio intorno al collo, e poi di un tratto la tirò su per le traverse del cielo del letto. Compita la opera riprese sonno tutto contento, e la mattina si mise a sedere sul letto aspettando che la Carmina si svegliasse, per godere della sua sorpresa nel trovarsi impiccata[12].

Lo trasportarono nell'ospedale dei pazzi dove un giorno, per ammazzare l'ozio, non potendo impiccare altri, impiccò se stesso alle inferrate della stanza.

Oh! si fosse impiccata con lui tutta la generazione dei Vicarii criminali.

NOTE

[1] Quantunque Francesco Hernandez di Toledo avesse incominciato a propagare in alcune parti della Europa, fino dal 1520, l'uso della pianta chiamata tabacco, dalla isola di Tabago dove prima la segnalò, tardi venne adoperata in Italia, e particolarmente nei luoghi marittimi; però a Napoli nella epoca del mio racconto, 1599, costumava assai, per la doppia ragione ch'egli era porto di mare, e sottoposto al dominio della corona di Napoli.

[2] Certo giovane spagnuolo con un colpo di bastone uccise un lanzo.] *[Sisto V comandò si giustiziasse, e subito. Il Governatore di Roma avendogli fatto osservare essere necessario il processo, Sisto, che aveva in uggia le ipocrisie della legge, rispose risoluto «volerlo morto prima di pranzo, ed il Governatore si spicciasse, però che egli si sentisse fame». E questa era ingenuità della ferocia. Ancora gli ordinò piantassero le forche in maniera, ch'ei potesse vederle dalla finestra: non volle concedere gli mozzassero la testa: dice volere onorare di sua presenza cotesta giustizia, e di vero egli stette a vederlo impiccare, e poi comandò mettessero in tavola, dacchè cotesto spettacolo gli serviva di salsa allo appetito. GREGORIO LETI, Vita di Sisto V, par. II.

[3] Nella occasione, di cui è proposito nella nota antecedente, Pasquino, satireggiando, finse portare un bacile pieno di forche, di ruote, mannaie, e catene. Interrogato ov'ei ne andasse con arnese siffatto, rispondeva: «a metterlo in tavola per la salsa di Sua Santità». LETI, loc. cit.

[4] Gli Spagnuoli appresero l'uso della cioccolata dagli Americani fino dalla conquista del Messico, ma lo tennero segreto per tutto il secolo decimosesto. Quale fosse la causa del geloso mistero ignoriamo: però Carlo V e Filippo II appena ne offersero qualche tazza ai sovrani loro fratelli, o cugini. Affermano che lo abuso di questa bevanda fomentasse nello imperatore Carlo V la nera malinconia, che lo condusse a cantarsi vivo le preghiere da morto. Forse l'essere nato da madre pazza contribuì alla sua tristezza troppo più dello abuso del cioccolatte. Nel 1640 questa bevanda diventò comunissima per tutta Europa: a Napoli però, come paese dependente dalla Spagna, assai prima di cotesta epoca si adoperava fra le persone agiate. Dei medici alcuni la celebrano come bevanda sanissima, atta a confortare i deboli e i vecchi; altri all'opposto, siccome suole, come dannosissima la maledicono. Linneo la chiama teobroma, o vogli cibo degli Dei.

[5] Le frasi, che occorrono distinte con carattere italico, appartengono ai documenti giudiziarii del miserabile processo per lesa maestà allo Autore, e sostenuto contro di lui, con fronte che vince ogni più duro metallo, durante gli anni 1849-50-51-52-53!

[6] Burleigh, nella sua dichiarazione del 1584, confessa essere stato costume dei tribunali inglesi applicare la torture ai prevenuti; ma che però facevasi con tutta carità cristiana! Quartierly Review, Agosto 1834—Delle condanne politiche d'Inghilterra—MARTINO DEL RIO va più oltre, ed afferma che «la tortura si dava alla persona denunziata per lo suo maggiore vantaggio, conciossiachè vi sia speranza, che vinta dai tormenti ella confessi il delitto, e così salvi l'anima; mentre se non la si pone alla tortura, ci è da temere che muoia senza confessione, e per conseguenza si danni»—ALBOIZE e MAQUET, Le prigioni più celebri della Europa, tom. VII, pag. 61.

[7] Vicerè di Napoli nel mese di giugno del 1599 andò il Conte di Lemos, e tenne lo ufficio fino alla sua morte, successa nel 19 ottobre 1621; lui morto surrogò il figlio don Francesco di Castro, e questo il Conte di Benavente; a Benavente fu sostituito don Pietro Fernandez di Castro conte di Lemos, e dopo lui venne don Pietro Girone duca di Ossuna. BALDACCHINI, Vita di Tommaso Campanella, p. 90.—Tuttavolta io trovo un Duca di Ossuna vicerè di Napoli nei tempi antecedenti al primo Conte di Lemos: questa carica durava tre anni; onde io ho ritenuto che fosse quel desso, che vi ritornò nel 1618. Ad ogni modo se avessi commesso anacronismo, mi verrà, io spero, di leggieri perdonato in grazia di aver fatto conoscere il cervello balzano di cotesto duca, il quale nella sua vita sperimentò gli estremi così della prospera come dell'avversa fortuna.

[8] Questo fatto ho letto narrato nella Storia di Venezia del DARU, che riporta eziandio le affettuose, e forti suppliche di questa egregia moglie in pro del marito, caduto in disgrazia della Corte di Spagna.

[9] Terribile insegnamento ai Principi, se lo volessero intendere, darebbero le avvertenza contenute nel testamento di Filippo II re di Spagna. Di loro, sia che vuolsi: al Popolo, cui è familiare cotesto personaggio per la terribile tragedia dell'Alfieri, non fia discaro conoscere come finisse quel pugno di polvere coronata, che per la potenza e per la voglia di operare il male fino dai suoi tempi venne salutato col nome di demonio meridiano. Nè vi ha pericolo che verun Gesuita la riprenda per lui, sostenendo esagerato il racconto, dacchè egli è desso che scrivendo ammonisce il figliuolo, il quale ben fu più imbecille, non già meno tristo di lui: «Una infinità di esperienze, travagli, fatiche, disegni, e pretensioni (la più parte inutili) mi hanno fatto conoscere (ma troppo tardi pel mio bene, e per quello dei miei popoli, e vicini) le cose necessarie al buon governo dei popoli…. di cui un giorno bisognerà rendere conto al Re dei re, davanti al quale sutterfugi, e cavilli non valgono, conoscendo le inclinazioni, i disegni, e i pensieri segreti degli uomini… tanti dolori, ed accidenti strani da tanti mesi mi assalgono, che sono diventato un supplizio a me stesso; onde io prego Dio, che dalla terra mi chiami al cielo usandomi quella misericordia che io ed i miei non usammo a tanti popoli, che ce ne richiedevano…» E venendo più particolarmente allo scopo di questa nota, odasi come cotesto sciagurato re continui: «Dopo avere aspirato a farmi imperatore del Nuovo Mondo, a conquistare Italia, domare i Paesi Bassi, farmi eleggere Re d'Irlanda, vincere Inghilterra con la più grande armata che mai siasi veduta, alla formazione della quale consacrai dieci anni di tempo, ed oltre a venti milioni di ducati, e Francia con le corruttele, mi trovo ad avere consumato trentadue anni di vita, più di seicento milioni di ducati in ispese straordinarie; cagionato la morte di venti milioni di uomini, spopolato provincie più vaste di quelle ch'io possiedo in Europa… di tutti i disegni, rovine, e fatiche appena ho acquistato il piccolo regno del Portogallo. Irlanda mi sfuggì per la indole salvatica dei suoi abitanti, le spiagge ardue, la dimora trista; Inghilterra, per fortuna di mare; Francia, per leggerezza francese; Lamagna, per astio dei miei parenti… Il tutto per volontà di Dio!!…»

Filippo II moriva divorato dai pidocchi. Possano i tiranni, e i tormentatori dei Popoli non fare mai miglior fine della sua: e possano i loro disegni non riuscire mai ad esito meno tristi di quelli di costui!—Questo documento si trova nelle memorie del duca di Sully ministro di Enrico IV, e viene riportato dal signore ARTAUD DE MOUTOR nella sua Storia dei Papi. Quantunque questa nota sia già lunga, tornerà, io penso, oltre modo piacevole ai lettori sapere come questo Re, cattolicissimo e colonna principale della Chiesa, sentisse degli Ecclesiastici:

«Aiutatevi nei vostri bisogni con l'entrate dei beni ecclesiastici; conciossiachè le troppe dovizie precipitino i Preti nelle delicature e nei piaceri, donde poi nascono l'empietà.

«Diminuite ecclesiastici, cortigiani, magistrati, e finanzieri perchè questa gente divora il grasso dei vostri dominii, e non porta frutto che valga… moltiplicate mercanti, artigiani, agricoltori, pastori, e soldati: i primi spendono poco, ed arricchiscono le provincie; i secondi le difendono.

«Abbiate quanti più potete voti in Conclave; pagate bene cardinali, elettori, e vescovi di Allemagna col mezzo dei vostri ministri, senza far passare i danari per le mani degl'Imperatori.

    «Ricevete in grazia, a qualunque patto i ribelli dei Paesi Bassi,
    purchè vi abbiano per principe: ad ogni modo fate pace con loro».

    Quali i suoi intendimenti politici sopra le altre parti di Europa
    si ricava dai seguenti ricordi:

«D'Italia e di Lamagna non vi date fastidio: questi paesi sono posseduti da troppi, e troppo diversi principi, i quali aborrendo deferire a cui fra loro è più degno, e governandosi con umori diversi, riesce difficile che si accordino.

«Dividete la Francia dalla Inghilterra».

[10] Sisto V inviò il cardinale Aldobrandino, poi Clemente VIII, in Polonia per la pace, e per rivendicare Massimiliano in libertà; le quali cose tutte gli vennero prosperamente condotte a fine. In cotesto viaggio egli tolse seco, e si valse della opera di Cinzio Passeri nipote ex sorore, che poi creò Cardinale nepote col titolo di San Giorgio. Sisto, per simili geste riputando assai lo Aldobrandino, frequenti volte esclamava «avere trovato alla fine un uomo secondo il suo cuore». LETI, Opera cit. parte II. l. 3.

  [11] «Imputar le si puote un error solo:
         Mangiarmi dall'armario un raveggiolo».
                           COTTA, Canzone in morte della Gatta.

[12] Questa mania di giudicare, e fare con le proprie mani giustizia, e non già sopra le bestie, bensì sopra gli uomini, fu per un tempo esercitata da Giovanni Tina ciabattino, di cui lessi la narrazione minuta nella Raccolta di Novelle antiche e moderne fatta per opera di Robustiano Gironi.

CAPITOLO XXII.

LA TORTURA.

Barbarigo «Egli non versò una lacrima.

Loredano «Due volte gridò.

Barbarigo «Un santo lo avrebbe fatto anche con la corona celeste davanti gli occhi, se fosse stato sottomesso a così barbara tortura; ma egli non chiese misericordia… quei gridi non avevano nulla di supplichevole; glieli svelse il dolore, e non furono seguitati da veruna preghiera». BYRON, I Due Foscari.

Beatrice amava il sole di autunno, i raggi del crepuscolo, e le ombre lunghe dalla parte di occidente. Spesso, in compagnia della cognata donna Luisa, che aveva appreso ad amare come sorella, e reverire qual madre, si piaceva aggirarsi per le strade di Roma seguita dall'uomo nero[1] e da due o più staffieri, giusta il costume delle patrizie romane. Certo giorno, andando esse, secondo il consueto, a diporto, riuscirono alla piazza Farnese: quinci proseguendo per la strada della Corte Savella giunsero nella via Giulia: a metà di questa gli occhi di Beatrice si fermarono sopra una fabbrica di apparenza lugubre; nera, vastissima, senza finestre od altre aperture tranne la porta, bassa per modo, che non fosse dato ad uomo passarla se molto non si chinasse con la persona[2].

Sopra lo stipite della porta un Cristo condotto in marmo di mezza figura apriva le braccia in atto di favellare all'ospite dolente, trasportato là dentro, queste parole: «Quando l'angoscia del patire ti vincerà, se sei innocente pensa a quello che, innocentissimo, io soffersi; se colpevole, considera che in qualunque momento tu mi volga il cuore pentito io tengo le braccia aperte per istringerti al seno».

Contristava il cielo un vapore umido dello scilocco, e l'aere denso uscendo dal Tevere investiva la fabbrica tutta; sicchè dalle buche, lasciate nelle pareti per inserirvi al bisogno le travature dei ponti, filtrava lo stillicidio in forma di aguglie. Beatrice stette a considerare cotesto lugubre edifizio; e saputo essere quello la prigione della Corte Savella, lieve percosse sul braccio alla cognata, e favellò:

—Non ti pare, che pianga?

—Chi?

—Cotesta carcere.

—Certo molte hanno da essere le lacrime che si piangono là dentro; e se si fossero fatta strada a sgorgare traverso i muri, io non me ne maraviglierei.

—E quelle erbe vetriole, che spingendosi per le commettiture delle pietre hanno trovato modo di sbucare fuori, non paiono le preghiere dei carcerati, che escono a stento da coteste mura?…

—Pur troppo paiono! E come coteste erbe rimangono attaccate alle pareti del carcere per esservi sbattute dal vento, o riarse dal sole, le preghiere si volgono invano al passeggero perchè ricordi chi geme là dentro, e ne senta pietà.

—Luisa! E quelle tasche, che attaccate a spaghi pendenti di sopra, ai muri scendono giù fin presso a terra, che cosa ci stanno a fare?

In questa ecco passare lì presso un plebeo romano dalla lingua mordace, e dagli atti petulanti, il quale avendo inteso la domanda della giovane, quasi invitato dalla onesta bellezza delle gentildonne, rispose:

—E' sono archetti tesi dai carcerati alla carità di passo; ma al tempo, che corre, la carità non si lascia chiappare più a volo, nè a fermo…

Ed un altro plebeo, sopraggiungendo, disse:

—Non è come la conti. Coteste tasche, eternamente vuote, stanno lì per dare immagine delle mammelle della carità dei Preti, con le quali allattano il povero popolo.

Le gentildonne rimasero contegnose a quei motti; e poichè si furono assicurate che nessuno le scorgeva, quanta moneta si trovavano addosso distribuita prima per coteste tasche, partirono.

—Non già la moneta, osservò Beatrice; bensì la idea, che altri pensa a te, e come può ti soccorre, deve tornare di consolazione grandissima ai derelitti. Nè si dica che il baleno non giova; perchè talvolta basta a illuminare la strada, e a ritrarre dallo abisso il pellegrino smarrito.

—Veramente, riprese donna Luisa, io comprendo quanto abbia a recare conforto in cotesto sepolcro di vivi conoscere come qualcheduno senta pietà di te… però non lo vorrei provare.

—Noi siamo foglie davanti al soffio della Provvidenza; ed io, qui presso a queste mura dolorose, imparo la ragione per la quale Gesù Cristo annoverò la visita dei carcerati fra le opere di carità fiorita. Guarda bene, e vedrai starsi sopra la porta del carcere la paura che respinge addietro il visitatore, e con labbra tremanti gli sussurra: va via, chè il giudice non ti sospetti complice del carcerato, e te pure imprigioni; sta l'abiettezza che, fatti i conti, trova che dall'albero cadente bisogna allontanarci, per tornare poi quando è caduto a farne provvista di legna da ardere; sta il rigore dalle viscere di pietra, il quale dissuade da sentire pietà dei colpevoli, perchè per lui l'uomo in carcere è reo, predica sempre meritata la pena, ed infallibile l'autorità; vi è… Ma ahimè! se io volessi rammentare tutte le fantasime, che stanno appollaiate su la porta del carcere minacciando da lungi i visitatori, sarebbe troppa impresa, e per di più fastidiosa; però non reca punto maraviglia se i carcerati passino ordinariamente la vita soli.

Così alternando malinconici ragionamenti si condussero a casa sul fare della sera. Don Giacomo con la famiglia erasi ridotto nello antico palazzo dei Cènci, e sotto questo tetto abitavano tutti, parte sicuri, parte paurosi, e Beatrice in cuor suo desolata; quantunque non lo desse a divedere, e presaga d'impenitente sciagura.

Alla veglia dei Cènci non manca mai frequenza di familiari e di amici per la parentela grande che aveva la casata, e la bella rinomanza di cortesia; ma stasera non si è veduto ancora comparire veruno, quantunque le due di notte fossero battute alla torre di nona. I convenuti s'ingegnano a tenere vivo il colloquio, ma soventi accade che la proposta rimanga senza risposta, e poco si prolungano i dialoghi penosi: il sollazzo diventa fatica; ognuno di loro desidera starsi solo in colloquio con l'anima sua; ma fatto silenzio, della propria solitudine impauriscono: allora si ode fragoroso lo spensierato folleggiare dei fanciulli, e rabbrividisce come uno scoppio di riso tra i funerali, sicchè ritornano con favelli scomposti a divertire l'affannato pensiero. Donna Luisa incomincia:

—Orsù, io mi accorgo che questa sera domina fra noi lo umore taciturno: prendiamo l'Orlando furioso, e proviamo sollevarci lo spirito con qualcheduna di coteste maravigliose fantasie.

—Io per me l'ho a noia per quel suo costume piuttosto discolo che facile, notò Beatrice; e per di più non mi garba quel fare leggiero: leggiamo invece, se vi piace, la Gerusalemme liberata.

—A me piace, soggiunge breve don Giacomo.

—Ma voi non la pensaste sempre a questa maniera; per parte mia non mi rimuovo, e come pensai altra volta penso anche adesso intorno a messer Ludovico: fantasie, superstizioni, stranezze, amori, battaglie, buone o ree passioni, pianto, riso, terra, cielo e inferno, tutto cantò quel benedetto ingegno: chi più di lui assomiglia alla natura sempre varia, e sempre bella? Vedetelo come nuvola di estate dondolarsi gaiamente fra gli aliti della sera, e ad ogni momento mutare di forma: guizza per un mare di piacere, e, a modo del delfino, ad ogni scuotere di squamme egli cambia colore. Parlando del poeta quasi mi pare diventare io pure poetessa, dacchè i suoi versi passando per la mia memoria vi scuotono l'ale pregne di poesia. Ditemi, in grazia, Armida forse non emula Alcina? Sì certo; ma in poema così solenne, come pretese comporlo il signor Tasso, cotesto colore sfacciato offende; mentre nei vispi canti di messer Ludovico diletta, e piace: arrogi che diavoli e streghe, incanti, e selve custodite da demonii femminini quanto mi talentano nell'Orlando, perchè davvero vi stanno come in casa propria, altrettanto nella Gerusalemme m'increscono. L'Ariosto parmi meglio avvisato del Tasso, perocchè il primo cotesti errori schermendo s'ingegni bandirli dalla mente del popolo; mentre il secondo favellando sul sodo, ve li conferma.—Ora nei poemi solenni il buon poeta deve valersi della religione depurata dagli errori vulgari, non già amministrate agl'ignoranti il male per medicina. Nel demonio abbiamo a credere, e Dio ci salvi dalle sue tentazioni; ma non dobbiamo nella maga Annida, e negli stregoni Ismeno ed Idraotte; anzi è peccato; onde io giudico ohe il signor Tasso, avendo in poema religioso accreditato queste favole malefiche, non abbia punto bene meritato della umanità.

—Poter del mondo! Luisa, ma sai che tu difendi il tuo
  Orlando

    Come orsa, che l'alpestre cacciatore
    Nella petrosa tana assalito abbia?

Io te la do vinta; leggiamo, se ti aggrada, la storia di Ariodante e di Ginevra.

—Leggiamola pure, soggiunse don Giacomo; comecchè quella di Olindo e
Sofronia mi paia troppo più mesta cosa…

—Ma noi non vogliamo malinconie, esclama donna Luisa; se di queste avessimo vaghezza non farebbe di bisogno uscire dall'Orlando. Sapreste voi indicarmi più pietoso racconto che quello di Brandimarte e di Fiordiligi, o l'altro di Zerbino e d'Isabella?

—Dirai bene, notò Beatrice; ma che vuoi tu? I casi di Olindo e di Sofronia m'invogliano al pianto come di fatto veramente successo; mentre le storie dell'Ariosto mi hanno l'aria di finissime immaginazioni: e poi, vedi, temo sempre che ad un tratto gli prenda il capriccio di farmi ridere;… ma via, leggiamo di Ginevra.

Donna Luisa, altera alquanto della riportata vittoria, andò a cercare il volume; e quello aperto, pose davanti a don Giacomo dicendo:

—Incominciate voi.

Don Giacomo appena vi ebbe gittato gli occhi sopra diventò pallido in faccia, e prestamente rispose:

—No… no… a voi tocca essere prima.

—Ed io incomincerò; ma aveva sbagliato: la storia non principia al Canto sesto, bensì al quinto; e sfogliato di alquante pagine il libro, prese con bella grazia a declamare dal verso Tutti gli altri animai che sono in terra, fino ai seguenti:

    Quel, dopo molti preghi, dalle chiome
    Si levò l'elmo, e fè palese e certo
    Quel che nell'altro canto ho da seguire,
    Se grato vi sarà la storia udire.

Ora basta, disse donna Luisa riposandosi; qualche altro sottentri.

—Deh! in grazia Luisa, la supplicava Beatrice, continua; chè con la tua voce deliziosa tu fai all'Orlando quel medesimo officio, che fa la bella vesta alla bellezza: Chè spesso accresce alla beltà un bel manto, per dirla col tuo Ariosto.

—Lingua dorata! E sì, e sì che avresti a sapere essere la lusinga peccato, ed anche dei grossi. Non in virtù delle tue lodi pertanto, bensì per lo amor che ti porto mi fia grato compiacerti in questa come in ogni altra cosa, ch'io possa.

Adesso come familiarissimo di casa, senza farsi annunziare, pone il piede su la soglia della porta della sala un giovane di bella sembianza, in abito prelatizio colore pagonazzo, dall'occhio azzurro, dalla chioma bionda: non salutò, ma quivi fermo e taciturno si pose a considerare quel gruppo di teste, maraviglioso argomento pei pennelli fiamminghi, che in quel tempo erano in fiore,

E donna Luisa, non avvertendo il sopraggiunto, con voce vibrata continuava:—Canto sesto.

    Miser chi male oprando si confida
      Che ognor star debba il maleficio occulto;
      Chè, quando ogni altro taccia, intorno grida
      L'aria e la terra stessa in ch'è sepulto:
      E Dio fa spesso che il peccato guida
      Il peccator, poichè alcun dì gli ha indulto,
      Che se medesmo, senza altrui richiesta,
      Inavvedutamente manifesta.

Il Prelato questo intendendo stette per ritirarsi inavvertito com'era venuto, ma gli parve malagevole farlo; e poi don Giacomo non gliene dette campo; però che alzata la testa lo vedesse, e gli gridasse:

—Ben venuto, Guido nostro…

—Qui si fa accademia: avvertite, di grazia, che in Roma non vanno a finire bene siffatte accademie letterarie; e Pomponio Leto informi[3].

—Non ci è pericolo, riprese don Giacomo; noi stiamo in famiglia, e per aggiungervi voi io spero che in famiglia rimarremo pur sempre.

—Questo con tutto il cuore desidero; e poichè in famiglia abbiamo a restare, piacciavi in cortesia, donna Luisa proseguire nella lettura.

Di vero nella famiglia Cènci consideravasi monsignor Guido Guerra come fidanzato della Beatrice: questa notizia andava per le bocche della gioventù romana, e lui chiamavano avventuroso, e al suo felice stato invidiavano: sapevanlo anche in corte; e il Papa lo sofferiva acerbamente sì perchè avesse posto la mira su Guido, conoscendolo sufficiente molto e di abito gentilesco, per inviarlo legato a qualcheduna delle Corti straniere; sì perchè egli non lo avesse prima richiesto del suo consenso, o per lo meno consultato; infine gli dava uggia quel sentirlo proclamare sposo, e vederlo con la mantellina addosso: conciossiachè uno dei punti più ardentemente combattuti fra Cattolici e Luterani fosse stato, e durasse ad essere, il celibato dei preti. Maffeo Barberini, cardinale di molto seguito, come intrinsecissimo di Guido, lo tenne avvertito di quanto buccinavasi in corte, ond'ei si governasse: e questi informatosi se il memoriale di Beatrice al Papa avesse avuto corso, e sentito che no, fu cauto di ritirarlo dallo ufficio, temendo che, capitato sotto gli occhi di Clemente, non valesse a suscitargli qualche sospetto nell'animo, già troppo per natura sospettoso.

Guido con leggiadra scioltezza si accostò alla Beatrice, e fece atto di prenderle la mano per recarsela alla bocca; se non che questa, invece di porgergliela, si levò risoluta in piedi accennandogli che la seguitasse. Ella lo condusse nel vano di una finestra, e l'ampia cortina li ricoperse completamente.

Però rimasero celati colà uno istante; un solo istante; tutto al più quanto un ferito a morte pone a raccomandare l'anima a Gesù e a Maria prima di spirare, e uscirono poi uno dopo l'altro, e tali nel volto da chiarire, che invece di avere stretto il laccio di amore, lo avessero rotto con violenza, e per sempre. Invero ognuno di loro sentivasi il cuore legato; ognuno di loro strascinava un tronco della catena, e nondimeno i capi erano stati infranti irreparabilmenle. Una parola di Beatrice l'aveva spezzata come colpo di scure: con lo stringere la mano dello uccisore del padre suo non si rendeva ella complice del parricidio? Questo aveva pensato, e questo nel brevissimo istante fu da lei al suo amatore significato.

Guido, percosso da sgomento, adducendo il pretesto di certo suo negozio che lo chiamava altrove, poco si trattenne, e come meglio poteva celando lo affanno si accomiatò. Donna Luisa accortasi della confusione del giovane, e attribuendola a qualcheduna di quelle brevi procelle, che agitando accrescono la fiamma di amore, disse scherzando:

—Beatrice, Beatrice! non essere tanto corriva a scartare il re di cuori; bada, che carta male scartata, spesso è partita perduta.

Monsignore Guido appena svolto il canto della contrada occorse in un suo fidatissimo servo, il quale veniva frettoloso in traccia di lui. Appena lo ebbe scorto, quegli gli disse:

—Monsignore l'eminentissimo Cardinale Maffeo ha mandato un donzello del Governatore al palazzo, affinchè adoperasse ogni diligenza per trovarvi, e consegnarvi questo paio di sproni[4].

—Sproni! E non ha egli soggiunto altro?

—Sì; ha soggiunto, che tornato l'Eminentissimo di campagna aveva trovato in palazzo monsignore Taverna che lo aspettava; e dopo essere rimasto chiuso lungo tempo con lui, l'Eminentissimo aveva aperto appena l'uscio della camera e dato gli sproni al donzello, dicendogli «subito a monsignore Guerra»; e poi era tornato dentro.

Guido soprastette alquanto a meditare; poi, come illuminato da subita luce, esclamò:

—Ho capito!

In casa Cènci protratta per qualche altro tempo penosamente la veglia, tacquero tutti. I fanciulli erano stati condotti a giacere, onde ne seguitava un silenzio profondo solo interrotto dal fruscìo delle tende seriche, agitate appena da una bava di vento. Ognuno desiderava separarsi, e, come avviene, a nessuno bastava l'animo di proporlo; quando ad un tratto si ode un rumore sordo… cresce… si distingue il calpestìo di molta mano di persone, e vi si mesce strepito di arme.

Don Giacomo si leva, preso da maraviglia e da spavento, incamminandosi verso la porta per ispecolare che nuovità fosse. Appena giunto a mezzo cammino, si aprono gli usci fragorosi, e un'onda di sbirri allaga non pure il luogo ove stavano convenuti i Cènci, ma anche tutta la casa. Alcuni rimasero sopra le soglie delle stanze cou le spade sguainate, per impedire lo accesso da un luogo ad un altro.

—Siete arrestati per ordine di monsignore Taverna, gridò certo uomiciattolo bistorto, che pareva un grimaldello; il quale postosi le mani sui fianchi, si dava aria da Sacripante.

—E perchè?—interrogò don Giacomo, con voce che invano ostentava sicura.

—Questo saprete, a suo tempo e luogo, nello esame. Intanto con vostra buona licenza…

Ma ciò diceva per ischerno; imperciocchè non avesse anche posto fine alle parole, che già con le impronte mani lo aveva frugato da capo a piedi. Assicuratosi per siffatta guisa ch'ei non portava addosso neppure il breve, lo interrogava beffardo:

—Avete armi sopra di voi?… Confessatelo addirittura, che sarà pel vostro meglio.

—Ma parmi, che ve ne siate chiarito con le vostre mani abbastanza.

Altri nel medesimo tempo, con pari diligenza e improntitudine maggiore, ricercavano Lucrezia e Bernardino, i quali sbigottiti lasciavansi fare, e piangevano. Certo sozzo, e avvinazzato sbirro si attenta stendere la mano sul seno della Beatrice; ma questa, prima che lo arrivasse, gli lasciò andare su la guancia un potentissimo schiaffo. Proruppero in risa i compagni, e taluno consolandolo gli disse:

—Guanciate di femmina non fanno sfregio.

—Canchero! Sgraffia la gatta, rispose il birro simulando allegria; e
Beatrice allora, senza sdegno, alteramente parlò:

—Persone infami non hanno diritto di mettere le mani addosso a gentildonna romana: mi chiamo pronta a seguitarvi dove comanda monsignore Taverna; ma voi procurate starvi lontani da me.

Nel punto stesso un altro sbirro, fetido di tabacco e di lezzo, pretendeva frugare donna Luisa, che lo guardava in molto truce maniera; senonchè il bargello lo ammoniva:

—Rimanti, Piero; chè non ho ordine per lei…

Intanto i fanciulli, desti al rumore, nelle contigue stanze spaventati piangevano, più degli altri il lattante; sicchè quinci usciva un suono, che percuoteva le anime di pietà e di dolore. Donna Luisa, tra lo amore di moglie e lo amore di madre perplessa, esitò uno istante; alfine cede al grido maggiore della natura, e muove ad acchetare i figli, e a porgere la mammella al pargolo. Uno sbirro leva la spada, e, puntatagliela al petto, grida:

—Non si passa.

Donna Luisa guarda fisso negli occhi lo sbirro, e così gli favella:

—Tu non puoi avere ricevuto comando d'impedire la madre di allattare il suo figliuolo. Ma se mai qualche Prete, la quale cosa non conosco, nè credo, chiuso ad ogni affetto di natura, ti dava questo ordine, gli dirai ch'egli è uno scellerato; tu, se l'obbedissi, saresti più scellerato di lui; ed io, se vi dessi retta, più scellerata di tutti. Largo alla madre che va ad allattare il figliuolo.—E risoluta allontana con la mano la spada, e passa oltre. Il birro attonito non ardisce fermarla.

Poichè la Corte ebbe rovistato ogni masserizia, frugato pei mobili e per ogni canto, e non rinvenuto cosa che le paresse buona ad assicurare, il bargello intimò la partenza.

—E dove ci conducete?—domandarono tutti ad una voce.

—Lo vedrete.

Donna Luisa adempiuto lo ufficio di madre, tornava a soddisfare quello di moglie. Accortasi dello abbattimento del marito preme l'angoscia, e si accosta a lui per dargli animo, ed abbracciarlo; senonchè lo sbirro, che prima l'aveva lasciata andare, quasi sdegnoso di avere sentito affetto, si pone fra il marito e lei, e, respingendola, in molto dura maniera le dice:

—Addietro; qui non venimmo a sentire piagnistei.

E cosa degna di considerazione grandissima come gli esecutori di giustizia, qualunque sia il nome col quale si appellino, e qualunque assisa essi vestano (chè l'abito e il nome nulla mutano al costume), per ordinario pacati, ed anche cortesi negli arresti dei volgari facinorosi, procedano poi con villana compiacenza nel mettere le mani addosso a persone di alto affare. Della quale diversità volendo indagare la causa, ci parve essere la seguente. Cotesta carnaccia non s'irrita contro i ribaldi come quelli che sono stoffa tagliata dalla sua medesima pezza, e perchè in certo modo eglino somministrino materia al mestiero professato da lei. Lo scultore percuote, e manda a schegge il marmo; il sarto frappa il panno e lo trapunta, e non per questo essi odiano il sasso, o la stoffa; anzi così fanno per amore della opera donde sperano ricavare guadagno ed onore. Gli sbirri ed i ribaldi assai si rassomigliano ai marchigiani, o vogliamo dire abitatori delle frontiere, i quali spesso passano da una terra nell'altra per bisogno o per vaghezza: così i primi si trovano ad essere sbirri perchè in quel quarto di ora non sono masnadieri, ed i secondi si trovano ad essere facinorosi però che in quel punto non sia loro toccato di fare da sbirri; e fra loro, tutto bene considerato, altra alternativa non corre. Epperò s'intendono molto più spesso che altri non pensa, e molte imprese di misfatti e di arresti si commettono fra loro di amore e di accordo: essi si corrispondono come l'eco alla voce, come il coltello alla guaina, come il cherico al prete. Inoltre usare qualunque umiliazione tornerebbe inutile, imperciocchè i ribaldi ogni loro sensibilità abbiano ridotta nelle braccia e nei polsi. Infatti tu non gli odi profferire altre parole, se non queste une: «Compare, non istringermi tanto forte!» Sarebbe proprio un dare del capo nel muro il tentativo di eccitare in costoro vergogna, o pudore. All'opposto quando la fortuna mette in mano allo sbirro, od altro arnese cotale un uomo dabbene, gli si allargano le viscere, e si rifà in un'ora del diuturno disprezzo nel quale venne saziato; il serpente invece di fango trovò finalmente da mordere vive carni, e infondere il suo veleno dentro vene che sentono. Percorri i tempi, e non troverai signorie peggiori di quelle dei servi fatti padroni; coteste appaiono, e sono i lupercali della feccia umana: a misura di carboni, essi pagano con moneta di ferocia le umiliazioni patite. Alla mota pare essere onorata quando, pesta dai piedi, schizza a deturpare la veste signorile. I rettori dei Popoli s'ingegnano tramutare, e travasare i berrovieri; in questo adoperano ogni arte, e sempre invano. I littori si assomigliano agli apparitori, gli apparitori agli sbirri, ai donzelli, ai fanti, e ad altri cotali antichi, moderni, e modernissimi cagnotti della polizia. Chi più ne ha, più ne metta; parenti sono tutti in vinculis. Cerca tra cento lupi il meglio, e forse lo troverai; non lo cercare fra costoro, che opera perduta sarebbe. Ogni potere ne abbisogna, e li mantiene e s'industria nobilitarli, e levarli a cielo. Egli è nulla: uno scarabeo, per raggio di sole che gl'illumini il groppone non diventa cavaliere. L'abito morale informa l'uomo, non già il materiale: sicchè, prendi il più degno soldato, e mettilo sbirro; non egli migliorerà il mestiero dello sbirro, bensì il mestiero guasterà lui: e questo è sicuro.

Ahimè! il soldato, il vecchio soldato convertito in birro!—Io per me, che estimai sempre, e tuttavia estimo il soldato il quale dura il travaglio degli aspri cammini, e serena nelle gelide notti, e gli ardenti soli sopporta, e per mille disagi si conduce a perigliare la vita per la Patria senza premio condegno nel presente, con premio incertissimo nel futuro; tenuto a vile, forse, e certo poi non curato trascorso il pericolo; io per me, dico, estimai questo soldato come divinità. E a lui vorrei che si dessero largamente i frutti della terra, avvegnadio, sua mercè, lo straniero non li colga; a lui le migliori stanze nelle città, che valse a difendere; a lui reverenza figliale, ed affetto… onde io quando incontro qualche vecchio soldato avvilito sotto la veste di sbirro, mi sento scoppiare il cuore dalla passione.

A voi, liberi uomini, tanta predilezione pei soldati infastidisce. Ma udite me, che parlo aperto; occorre speditissimo il rimedio per licenziarli: fatevi tutti soldati, come adesso fra gli Svizzeri, e come una volta (per poco) nelle Repubbliche del medio evo. Io vi avverto però, che per qualche ora bisognerà abbandonare le botteghe, e i fondachi; non registrare qualche sessione, o perdere lo sconto di qualche cambiale; udire più tardi se metta bene la vigna, o se la vacca sia pregna; forse (sagrifizio più duro!) mancare qualche sera alla veglia, o al teatro… bastavi l'animo a tanto? Se bastavi, e se sentite la necessità di vestire a corrotto finchè la servitù della Patria dura, licenziate gli eserciti stanziali; imperciocchè oltre la spesa strabocchevole, che sempre portano seco, le armi poste in mano a pochi se talora difendono la libertà, più spesso convertonsi in arnese di tirannide.—Privi di virtù civili e di virtù militari, che Dio vi benedica, o come mai presumete voi acquistare la libertà, ed acquistata serbarla?

—Voi voleste mietere, e non seminaste; voi non piantaste, e voleste raccogliere. E quando avreste seminato e piantato, avreste eziandio dovuto sapere che altra è la stagione del seminare, ed altra quella del mietere: che alla primavera non si domandano i frutti dello autunno, nè allo autunno i fiori della primavera; che i frutti bisogna, prima di coglierli, lasciare al sole perchè maturino; e colti anzi tempo guastano la pianta, e morsi allegano i denti. Io parlo a voi, che vi chiamate amici della libertà; però che altrove non sarei inteso, e forse chi sa se lo sarò da voi. Voi avvisaste, e per avventura avvisate anche adesso, tenere su ritta la libertà co' chiodi; però in cotesta guisa fannosi crocifissi, non già cittadini liberi. Per forza non si fonda libertà, come per forza non fondasi servitù: per forza si fa l'aceto. Quantunque volte sopra terreno non dissodato da forte, e generosa virtù tu pianterai con violenza la pianta della libertà, perderai irreparabilmente gli effetti della persuasione e della violenza: quella, perchè non bada alle parole, ma ai fatti; questa, perchè essendo proprietà di tirannide, comunque invocata dalla libertà, bisogna che a tirannide ritorni. Qui fo punto e torno agli sbirri: rispetto ai quali, quando hai meditato un pezzo, ti converrà concludere con la ragione dei gatti, che si tengono in casa per prendere i topi; o, se ti piace meglio, con quella delle passere, le quali Rougier della Borgerie raccomanda ai francesi suoi concittadini lasciar vivere in pace, imperciocchè se ogni anno divorano duegento milioni di libbre di grano, distruggano ancora centotrentasei bilioni, e quattrocento milioni d'insetti[5].

Misericordia Domini super nos! Chi avrebbe mai creduto che tanti insetti vivessero in Francia! Eppure ci vivono…

Nel cortile trovarono pronte diverse carrozze con le stoie abbassate; vi entrarono al sinistro chiarore di lanterne sorde, preceduti, fiancheggiati e seguiti dalla turba dei birri, e si avviarono al luogo destinato.

Guido vide passare il corteggio lugubre; ed avvertito dal popolo accorrente del caso, vinto dalla passione, stava sul punto di manifestarsi e di accorrere, se il buon servo, forte tenendolo per le braccia, non gli avesse detto:

—Monsignore, voi perdete, e loro non salvate… libero, giovate a voi e a loro.

Guido, represso in seno il gemere vano, esclamò:

—Ora staremo a vedere dove ne conduce la fortuna; e trasse verso casa sua. Giunto a breve distanza mandò innanzi per ogni buon riguardo il servo, a speculare se si vedesse gente di corte da cotesta banda. Tornato addietro, questi lo avvertì del no: ond'egli entrato nelle sue stanze scrisse lettera pietosissima alla madre sua, nella quale la ragguagliava della soprastante sciagura, e della urgenza di sottrarsi alle ricerche della giustizia senza perdita di tempo: la lettera stesse in luogo di abbracciamento, e di addio; in fortuna migliore sperasse; le avrebbe mandato sue nuove dal luogo ove prima giungesse; in qualunque parte capitasse, qualunque avventura fosse per accadergli, dopo Dio prima ella avrebbe occupato l'anima sua. Quindi mutati panni, e tolta seco quanto maggior copia potè di danaro, uscì dalla porta segreta del suo palazzo, disegnando guadagnare la campagna; nè andò guari, che s'imbattè in certa brigata di sbirri incamminata verso la sua contrada, la quale gli passò da canto, e così com'era travestito non lo riconobbe. Comprese pertanto il caso farsi grave davvero; licenziò il servo, e con cauti avvolgimenti si appressò alla porta Angelica; se non che rifece la via più che di passo, notando da lontano come gli sbirri, uniti ai gabellotti, quanti volevano varcare le porte minutamente esaminassero, e perquisissero. Ora vaga improvvido per le strade di Roma fantasticando di questo e di quell'altro partito, senza riuscire mai a capo di nulla; camminando ad occhi bassi, ecco lo percuote una luce che scaturiva dai sotterranei di un palazzo. Guardando traverso la inferriata vide intorno una tavola un gruppo di carbonai, che passavano il tempo, secondo che fecero i loro padri, ed i più tardi nepoti loro faranno, bevendo e giuocando, in onta agli sforzi poco lodevoli del Padre Matteo lo apostolo della temperanza.

Sì certo; poco lodevoli, e non mi disdico. O filosofi, che Dio vi tenga lontani dalle disgrazie, mi sapete un po' dire come voi non facciate altro che levare al Popolo, e a dargli non pensiate giammai? Malthus al Popolo contende i connubii; il Padre Matteo il bere; altri il giuocare. La suprema felicità a poco a poco ripongono nella privazione di ogni cosa. Apicio diventato gesuita non pubblica più libri de arte coquinaria, nè imbandisce le mense agli amici; solo la esercita per uso proprio, ed a finestre chiuse in casa sua.—Aristippo recita in bigoncia i sermoni di Zenone, che ha imparato a mente dopo il convito. Continuate, filosofi; in breve spero persuaderete il Popolo a risparmiare le vesti, e a cuoprirsi di foglie di fico come il primo Padre Adamo. La gaia vita che stanno per filarti queste Parche novelle, o Popolo! «lavorare, soffrire, e morire». Suonate le cornamuse, intuonate il peana a questi pellegrini Benefattori della Umanità. Davvero così appare fronzuto l'albero della felicità del Popolo, che merita bene andare potato dei rami rigogliosi. Noè, ch'era quel gran patriarca che tutto il mondo onora, e favellava col Creatore a tu per tu, per essersi inebriato una volta tagliò egli forse le viti? No certamente; annacquò il vino, e continuò a bere; conciossiachè il vino letifichi il cuore dell'uomo. Licurgo, pazzo melanconico, recise le viti; ma Bacco crucciato operò in guisa, che costui scambiando le proprie gambe pei tralci se le tagliasse di netto; e Bacco fece bene.

Guido si risovvenne allora dell'oste della Ferrata; e ricordando in quella stretta le parole di contrassegno, ch'ei gli aveva dato, scese improvviso nella grotta dei carbonari. Quivi costoro battezzavano quotidianamente il carbone con copia di mezzine di acqua; non mica per lavarlo dalla macchia del peccato originale, bensì perchè crescesse di peso: onesta pratica, che si costuma anche adesso; avvegnadio le cose buone una volta scoperte, ragion vuole che tanto presto non si dismettano. I carbonari, quantunque Guido comparisse senza usbergo fra loro, sbigottirono come il Pastore allo apparire di Erminia: senonchè Guido a rassicurarli incominciò:

—Viva San Tebaldo. e chi l'onora.

I carbonari si guardavano in viso irresoluti. Però uno di essi, cui tornarono a grado le sembianze di Guido, riprese:

—Lodato sia; ma la fatica del carbonaro è molta, il guadagno scarso.

—San Niccola protegge il carbonaro, e i suoi guadagni moltiplicano.

—Il carbonaro vive nei boschi, e lo circondano i lupi.

—Quando i carbonari faranno lega co' lupi scenderanno al piano dove pasturano gli armenti, e prenderanno le stanze dei pastori.

—Datemi il segno.

—Eccovi il segno.—E furono tre baci: uno in fronte, l'altro su la bocca, il terzo nel petto.

—Sta bene: voi siete dei nostri; non vi è che dire. Nondimeno mi pare strano, andando composta la nostra consorteria di gente disperata unita insieme dalla povertà, e dal bisogno di difenderci dai soprusi degli uomini potenti: basta, forse anche voi sarete dei perseguitati. Che cosa volete? Quale aiuto domandate? Ma innanzi tratto seguitatemi in luogo più riposto.

Guido pensava avere frainteso, dacchè in cotesta grotta non vedesse pertugio capace di condurre in altra parte: però rimase chiarito in breve, avendo i carbonari rimosso il cumulo del carbone, e sollevata dal pavimento una selce, che aperse lo adito a più basso, e segreto sotterraneo. Il carbonaro e Guido vi scesero per una scala a piuoli, e tosto egli intese riporre la selce, e sopra essa di nuovo ammonticchiare il carbone. In quella stanza si vedevano raccolte masserizie e argenterie di ogni maniera, e, giusta la empia profanazione di cotesta sorte di gente, vi ardeva una lampada davanti la immagine di San Niccola venerato come protettore dei ladri, e non meno solenne nemico dei birri. I carbonari stavano da tempo immemorabile legati co' banditi della campagna, e li servivano da fattori nelle città: taluni di loro esercitavano a un punto i due mestieri. La roba rapita trasportavano in città, e quivi gli argenti struggevano, e per interposte persone mandavano al conio: le merci affidavano a certi loro amici mercadanti di Civitavecchia e di Ancona, i quali soprammare le spedivano a Napoli, a Venezia, o in Levante; onde accadde talora che un gentiluomo veneziano ritrovasse presso qualche rigattiere del regno il suo mantello smarrito nella campagna romana, e un barone napolitano si vedesse servito alle locande di Verona o di Padova co' suoi pannilini, perduti passando per Terracina. Parecchi in questi onesti traffici avevano avanzato assai, e se ne sussurrava palesemente; ma la corte non li sapeva cogliere in fallo, e gli arricchiti non ne scemavano punto di credito; anzi in virtù del bene acquistato danaro procacciavano ai proprii figli illustri parentadi, e cariche insigni, ed onorificenze. I cittadini ne mormoravano otto giorni o dieci, non mica per istudio di virtù, bensì per astio di non poter fare altrettanto; poi tacevano; e quando incontravano di questa razza nobili erano i primi a scappucciarsi, e a chiamarli Eccellenze. I nobili antichi in palese ostentavano spregiarli; in segreto gli accarezzavano, e ne accattavano danaro: e così a quei tempi remotissimi camminavano le cose di questo mondo. Oggi poi la faccenda è diversa:

E s'egli è vero, il fatto nol nasconde.

Guido aperse al nuovo amico, che la fortuna gli parava davanti, il pericolo in cui si versava, e lo richiese di consiglio e di aiuto. Costume dei carbonari era muoversi due volte la settimana: quando veniva in città col carico una caravana, l'altra partiva per la campagna. Il carbonaio ristretto a favellare con Guido, giunto in quella medesima mattina, doveva partire dopo tre giorni da Roma a vespro, o verso l'ave Maria della sera.

Intanto costui in questa guisa ammoniva Guido:

—Domani manderò fuori delle porte qualcheduno dei nostri, per vedere se vi fossero nuovità. Voi vi raderete barba e capelli; vestirete i nostri panni, ed anche dei peggio: vi tingeremo con certe erbe la pelle, e v'insozzeremo con la polvere di carbone in maniera, che voi non ravviserete più voi stesso. Qui fra noi abbiamo un compagno che zoppica; egli v'insegnerà a imitarlo nella voce e negli atti. Domani, appena farà giorno, ve ne andrete con due somari a vendere carbone per la città: se vi chiamano per comprare, poche parole bastano; che le balle ragguagliano le duegento libbre, e il prezzo è fermo a mezzo scudo per balla: anzi potreste recare in bocca qualche pietruzza, fingendo masticare; in questa maniera le gote si gonfiano, e meglio rimanete trasformato. La gente vi torrà in iscambio dello zoppo; ad ogni modo si assuefarà alla vostra vista, e così spero, con lo aiuto di Dio, condurvi fuori a salvamento.

Siccome fra gente di simile natura i fatti abbondano più delle parole, in breve per opera del carbonaio Guido venne trasformato nella guisa ch'egli aveva detto; ed alla mattina il bellissimo fra i gentiluomini romani fu visto, in sembianza di laido carbonaro, aggirarsi per Roma vendendo carbone, recandosi in mano pane nero e cipolle, che fingeva masticare; di tratto in tratto gridava con accento aquilano, e ranchettava stupendamente. Tanto bene insegna, e in breve tempo, il pericolo!

Giunto il giorno prefisso i carbonari uscirono senza ostacolo di Roma, e Guido con essi. Per via occorsero nella squadra della corte, che tornava da perlustrare la campagna; e taluno di loro avendo interrogato il bargello, come fra gente amica si costuma, che nuove ci fossero, n'ebbe per risposta: «Uscimmo per caccia di pelo, ma ha fatto la BELLA; e a questa ora neanche caramella la pizzica».

———

Le carrozze che conducevano la famiglia Cènci fermaronsi. Aperta quella nella quale stava chiusa Beatrice, le venne ordinato di uscire; e mentr'ella, obbedendo al comando, poneva il piede sopra del montatoio, al chiarore vermiglio dei lampioni che il carceriere ed i serventi portavano, s'incontrò di faccia a faccia col Cristo di marmo, da lei poche ore innanzi avvertito sopra le porte del carcere della Corte Savella. Gli volse la desolata ambe le braccia, esclamando nella effusione del cuore:

—«Mio Dio, abbiate misericordia di me!»

E scesa, curvò la persona varcando la porta della prigione… vera forca caudina del pianto! Quando volse il capo per rivedere i suoi essi già erano tratti lontano, e tra lei e loro intercedeva un'onda di armati: come naufraghi divisi dalle onde si rimandarono scambievolmente il saluto con un grido, che rimbombò doloroso di corridore in corridore per cotesta immensa prigione.

A Beatrice fecero percorrere lunghi anditi, salire e scendere scale; poi in fondo di una stanza a volta apersero un uscio e la cacciarono là dentro: subito dopo richiusero l'uscio con impeto, trassero il catenaccio, a doppia mandata girarono la serratura, ed ella si trovò al buio in luogo freddo ed umido; inferno vero di vivi. Non mosse piede; da qual parte volgersi non sapeva: le tornarono a mente certe storie udite raccontare di trabocchetti, mediante i quali, a quei tempi meno ipocriti, non meno scellerati dei nostri, si toglievano di mezzo le persone, che non si ardiva condannare o perchè incolpevoli, e nondimanco odiate, o perchè troppo potenti. Ella ebbe paura, e si tenne ferma presso alla parete.

Allo improvviso ecco col solito strepito si spalanca il carcere, e irrompe dentro una turba di laida gente affaccendata a portare acqua, e taluni grossolani arnesi accomodati alle prime necessità della vita. Non le proffersero conforto, non le dissero parola; tornarono carcerieri e serventi com'erano venuti, chiudendo fragorosamente la porta.

Beatrice aveva scorto da qual parte stesse il pancaccio; colà si condusse tentoni, e sopra la estrema sponda inferiore si pose a sedere nello atteggiamento della statua della Scoltura che ammiriamo al sepolcro del divino Buonarroti; e quivi si rimase assorta in quiete dolorosa. Ad un tratto trasalì, percossa da orribile rovinìo sopra il capo: intende gli orecchi, e parle che muova da imposte chiuse e da catenacci violentemente tirati. Assicuratasi che non era per uscirne peggio, si acquieta; quando di nuovo venne schiusa la porta del carcere, e gente come la prima volta affaccendata recò pagliericcio, coperta di pelo, ed altri arnesi, e come la prima volta se ne andò villana, o feroce. Allora Beatrice giacque sul pagliereccio senza voglia di nulla, rifinita di forze, stupidamente impassibile; chiuse gli occhi, ma non dormì: il suo cuore era oppresso, e non trovava la via di sfogarsi, quantunque le lacrime le sfuggissero dalle palpebre non piante, ma chete chete, come vena di acqua che spicci di sotto a un sasso. La facoltà pensante, quasi sole senza raggi, le stava fissa nel mezzo della fronte inerte, e tuttavia ardente. In arroto di spasimo sentì per la intera notte un rammarichìo a mano a mano più fievole di persona che si doleva, e le parve ancora udire, e udì certo, le preci degli agonizzanti: nè punto s'ingannò, imperciocchè nella cella accanto alla sua in cotesta notte passasse a vita migliore uno sciagurato prigione per male di asma. Una malignità suprema, od una stupidità di mente da non temere paragone in terra o in inferno, aveva presieduto all'ordinamento di cotesta carcere; conciossiacosachè, quasi fossero poche le riferite tribolazioni, dieci battagli battessero nel bronzo, e più nel cranio della povera Beatrice, i mezzi quarti, i quarti delle ore, e le ore intere: nella dodicesima ora furono percossi centosessanta tocchi; e v'era da diventarne matti. Più tardi, quando Beatrice domandò per quale causa menassero così increscioso scampanìo, udì rispondersi placidamente: in primis, che così aveva ordinato il Soprastante delle carceri; e subitochè il soprastante l'aveva ordinato, la sua ragione ci aveva da essere; e poi, che in quanto al fracasso il soprastante aveva osservato che i detenuti ci si abituavano, e che le campane alla lunga la vincevano sempre sopra i nervi degli uomini. Nè qui finiva lo strazio: allorchè, dopo tormentosa vigilia, gli occhi di Beatrice incominciarono a chiudersi sul fare del giorno, tre campanelli presero a suonare a distesa, e subito dopo tenne loro dietro lo insopportabile strepito di trecento e più catenacci tirati, altrettante porte spalancate, e l'odioso fragore della moltitudine delle chiavi cozzanti fra loro. Quindi si levò una nenia lugubre di voci discordanti, le quali stridevano le litanie su la musica della sega scuffinata a suono di lima, o di marmo raschiato; e cessate le litanie, da capo i trecento usci chiusi, i trecento catenacci tirati, e lo squasso dei mazzi delle chiavi. Queste cose accadevano fra tenebre fittissime, per modo che Beatrice ignorasse se avesse perduto la vista, o se a buio perpetuo l'avessero condannata. A torla dal dubbio indi a breve la spaventa un rovinìo sul capo, e subito dopo un cotal poco di luce grigia si mise nel carcere. Recatasi, tra stupida e atterrita, a sedere sopra il giaciglio specola il luogo dove l'avevano rinchiusa: era una cella quadrilatera, lunga, e larga fra sei passi e sette, di soffitto altissima, terminata a cuspide ottusa: nella parte superiore aprivasi un pertugio sbarrato da grosse bande di ferro, donde però non si contemplava il firmamento, chè andava a sboccare in certa maniera di abbaino, il quale prendeva luce da una finestra per traverso. In cotesto macello di carne umana un meriggio di agosto appariva come un vespro nel mese di dicembre, e un vespro di dicembre come l'Ave Maria della sera nelle terre boreali. Allora Beatrice conobbe due cose essere senza misura nel male: lo inferno nella vita futura, e la perversità dell'uomo nello escogitare trovati capaci a tribolare il proprio simile nella vita presente. Piegò vinta la faccia pensando ai destini di questa razza feroce, la quale si vanta creata ad immagine di Dio[6].

Lei misera, che delibava appena il calice del dolore!

Più tardi le portarono pane nero, vino di agresto, e una broda nauseabonda ove galleggiavano frusti di carne grassa e di erbe. Si attentò ancora guardare in faccia i carcerieri. A quale razza di bestie spettassero costoro, chi lo può dire? Uno di essi rassomigliava al geroglifico egiziano, che presenta forma di uomo, e capo di sparviere; un altro pareva un pomodoro fradicio imbrattato di calcina, così lo aveva concio nella faccia l'erpete maligno inasprito dalla perpetua ubbriachezza: invece di occhi tu avresti detto che tenesse in fronte coccole di cipresso, tanto elli apparivano duri, e senza sguardo: gli orecchi poi erano un vero laberinto della pietà, dacchè i gemiti degli afflitti o vi si perdevano, o vi restavano divorati da bestia più crudele del Minotauro, voglio dire dall'anima malnata di costui. Di rado accade che nelle cose belle, per quanto leggiadrissime esse sieno, le parti armonizzino perfettamente tra loro; ma in questa trista carcere tutto accordavasi, così uomini come cose, con istupenda corrispondenza. Il brutto e il cattivo occorrono in natura troppo più copiosi del bello e del buono.

Come talora, per giuoco, facciamo passare sopra la buia parete una serie di figure spaventevoli o grottesche, in quel giorno davanti agli occhi maravigliati di Beatrice dovevano fare la mostra stranissimi aspetti. Preceduto dal solito scatenìo, mezza ora dopo che costoro erano spariti, ecco entrare nel carcere un uomo molto lindamente abbigliato, con certi orecchioni a guisa di conchiglia marina, camuso il naso, le labbra grosse e sporgenti in fuori come quelle della scimmia. Questi esaminò con diligenza le mura, il pavimento e lo spiraglio, e poi alla sfuggita sogguardò anche Beatrice, mostrando egli solo fin lì un'aurora boreale di compassione. Sul punto di uscire dalla cella fu udito favellare queste parole:

—Sana cotesta prigione non si può dire in coscienza, e per di più è buia: trasporterete il numero centodue al numero nove, e gli addobberete la stanza con mobili convenienti; pel trattamento gli somministrerete quanto desidera, già s'intende nei limiti della temperanza… Avete capito? Trasgredendo, due tratti di corda senza pregiudizio di pene maggiori. Avete capito?

Così anche la umanità assumeva faccia di ferocia, e di contumelia. Però Beatrice ritenne che cotesto personaggio, il quale in seguito conobbe essere il soprastante delle prigioni, si fosse soffermato a dare con voce alta cotesti ordini perchè giungessero a sua notizia, e ne prendesse conforto; ond'ella lo raccomandò al Signore, non le rimanendo altra via per manifestare la propria gratitudine.

Al soprastante fu inteso rispondere con un forte grugnito, il quale poteva apprendersi per un: «Illustrissimo sì».

Il traslocamento avvenne nel modo col quale fu ordinato, e Beatrice si ebbe nella nuova cella un tozzo di pane bianco, e un raggio di sole puro: con questi la creatura umana può vivere, o almeno aspettare che la scure o l'affanno la uccida.

Una volta la scure, perocchè la giustizia ferocemente sincera gavazzasse brandendo la spada; ai miei giorni lo affanno; avvegnadio, piegando ai tempi, anche la giustizia, educata in collegio dai Gesuiti, siasi fatta ipocrita: ma non dubitate, no, i suoi colpi per essere ammenati co' bastoni di arena non riescono meno mortali di quelli percossi con la piccozza. Il giudice del decimosesto secolo, sbrancato dalla razza dei tigri, con un colpo di granfia ti faceva scemo del capo, il giudice del secolo decimonono, se timore di Dio non lo soccorre, e paura d'infamia, a modo di serpe ingola poco a poco gì'improvvidi uccelli, sicchè tu glieli senti pigolare fin dentro lo esofago, e glieli vedi palpitare anche in mezzo del corpo. Con una botta in testa, nei tempi passati anima e corpo estinguevano; adesso il secolo civile ha ribrezzo del sangue; onde imparò ad acuire l'anima; e dopo averla per bene affilata su la cote della disperazione, se ne lava le mani, e lascia a lei la cura di traforarsi una uscita traverso le viscere del condannato: prima erano colli mozzi, oggi sono cuori rotti. Quale dei due fosse più caritativo argomento altri giudichi: gli antichi sistemi non ho provato; conosco i moderni, e so che i nervi delicatamente gentili dei nuovi pietosi si offendono della disperazione scarmigliata, e vogliono ch'ella appaia in pubblico co' capelli pettinati a statua; così anche al vizio più sozzo si apre la porta di casa, gli si augura la buona sera, alla veglia domestica si accoglie, purchè si ammanti di verecondia, e la virtù ha da smettere coteste sue superbe jattanze, che ci hanno fradici; matrona e meretrice formano un terreno di confino, dove la virtù e il vizio esercitano il contrabbando su gli occhi ai gabellieri della morale pubblica. Dolori, affanni e delitti s'inverniciano con la tinta della decenza. Per amore delle fibre sensitive delle femmine, e sopra tutto per amore di quelle degli uomini, bisogna piangere con ordine, ruggire armonicamente, agonizzare con arte; ogni lacero di anima, ogni crispazione del cuore ha da essere classata, e numerata. Tutto occorre ai giorni nostri con esattezza prodigiosa, e proprietà uguale; l'acqua del santo battesimo, e l'olio della estrema unzione; la cappa castagnola del frate francescano, e la camiciuola rossa del condannato allo ergastolo. Le prigioni appaiono eleganti; gli architetti s'ingegnano disegnarle vaghe a vedersi. Oh andate, via, a credere che sotto cotesti edifizi lustri, levigati, e inverniciati uomini dalla anima immortale s'inverminiscano di disperazione e di disagio!… Le gentili donne vengono a passeggiarvi la tetra noia, e la spietata vanità; passano come rondini fischiando qualche parola di filantropia, ed assicurano poi che le prigioni sono luoghi superbi, e d'incanto. Guai al misero che osasse temerariamente affermare, potersi condurre vita meno trista che in prigione; tenga in mente il fato di Orfeo, e il furore di umanità non agita meno violento il petto delle nostre gentildonne, di quello che per vino sentissero le antiche Menadi. Intanto il Promotore di tante belle cose, curvo il dorso come il primo quarto di luna, assapora il profumo delle lodi; e, tutto umile in tanta gloria, ponendosi una mano su la parte dove comunemente si crede che stia il cuore a pigione, esclama: «facciamo ogni sforzo perchè… compatibilmente alla loro condizione… i detenuti stieno con ogni riguardo… perchè alla fin fine anche i detenuti sono uomini… però la prigione, bisogna avvertirlo, non può essere paradiso…—Ma voi, lo interrompe un Diplomatico, signor Cavaliere (però che ai giorni nostri anche i Soprastanti sieno cavalieri) fate di tutto onde presto lo diventi; e questo affermo, perchè ho esaminato i vostri stabilimenti di dietro agli usci». Il Cavaliere, sospettoso, guarda il Diplomatico coll'occhio porcino; ma questi dura col volto impenetrabile come quello della sfinge; e costui, non distinguendo se lo lodi da senno, o gli dia la baia, sta in bilico: al fine, non sapendo che pesci pigliare, per torsi d'impaccio gli mostra i denti con un risolino agro dolce, che pare di gatto quando ha leccato l'aceto. O Ipocrisia, o gran Madre Cibele della moderna Divinità!

«Ma insomma, che modo di raccontare egli è questo? Voi fate, come le balie, un passo innanzi, e due indietro». Così parmi udire esclamare una mia gentile leggitrice, ed io le rispondo: «Gentil donzella, o donna, o quello che sarà; se non ti piace il traino, e tu smonta, che già non ti pregherò io a restarci su. Io scrivo per tale a cui le mie fermate non dorranno; all'opposto poche parranno, e troppo brevi: per questo mi affaticai nei giovanili anni miei, e per questo soffersi in quelli della virilità: certo ho servito un signor crudele, e scarso; ma pure è il solo, che sappia emendarsi, piangere, e amare; e questo è il Popolo: gli altri non vale il pregio servire».

Per tre dì Beatrice ebbe pace, se pace poteva dirsi quella; il quarto giorno verso nona le si presentarono nuove sembianze: erano due uomini vestiti di nero; uno rimase alquanto indietro, lo distinse poco; però le parve di cera acerba: l'altro bianco, con la fronte di porcellana e lo sguardo socchiuso, sembrava uomo compassionevole, almeno col sospirare frequente, e lo incrociare le dita di una mano in quelle dell'altra in atto di preghiera. Questi si palesò pel medico delle carceri, le mosse accurate domande circa la sua salute, la visitò attentamente, consultò il polso, il corpo le tentò con tatti onesti, poi si congratulò seco lei delle ben disposte membra, le offerse tabacco da una scatola che sul coperchio presentava bellamente miniata la immagine del sacro Cuore di Gesù; e confortandola a starsi di buono animo, che presto le sue miserie sarebbero terminate, aggiungeva: in quanto a se disponesse; poi, raccomandatala alla gran Madre di Dio, si allontanò.

—Ed anche questo pare uno dei buoni, esclamò Beatrice un po' consolata.

—Quantunque a prima giunta (diceva il medico nell'andito al notaro criminale, dacchè il suo compagno fosse appunto il notaro) io mi fossi benissimo accorto che non faceva mestieri, tuttavolta l'ho voluta esaminare con diligenza, perchè voi capite che la umanità deve andare innanzi ad ogni cosa… e l'anima preme…

—Capisco!… l'anima, e il corpo altresì… Diavolo! Sicuramente… e voi potete assicurarla, eh?

—Con certezza capace, capacissima a sostenere la tortura. I polsi battono regolarmente, ed escludo ogni indizio, comunque remotissimo, di gravidanza… sicchè vedete…

—Sicuramente; per formalità vi compiacerete, eccellentissimo signor Dottore, rilasciarmene il solito certificatino per metterlo in processo, e procedere con tutti i modi legali prescritti dai veglianti regolamenti.

—Volentieri, illustrissimo-signor Notaro; questi scrupoli vi onorano: bisogna pensare che un giorno i nostri posteri leggeranno questo processo, ed importa che veggano con quanta regolarità, e con quanto riguardo procedemmo pei sacri diritti della umanità…

—E della giustizia, Eccellentissimo, aggiungeva il Notaro; la Dio grazia non viviamo mica in tempi di barbari!

Anche a costoro pareva essere civili, e se ne vantavano. Il Notaro, col certificato dello Eccellentissimo in mano, s'incamminò verso la stanza degli esami.

Questa era una sala immensa, e forse un giorno servì per oratorio; da capo, sopra un rialto di legno, stava il banco dei giudici coperto di panno nero: nero il corame dei seggioloni: dietro il capo del Presidente pendeva dalle pareti un immane Cristo nero scolpito nel legno, il quale non avresti saputo dire se stesse lì per consolare, o per mettere spavento nei miseri condotti dinanzi a lui; tanto lo aveva scolpito truce il fiero scultore.

Siccome non si era per anche visto comparire nessuno dei giudici all'uffizio, il dabbene notaro, che poteva vantarsi l'ordine incarnato, si pose a dare sesto ad ogni cosa; accomodò i seggioloni con simetria, mise su la tavola davanti al Presidente il certificato del medico umanissimo, e l'orologio a polvere; ricollocò nel posto consueto i grandi candeglieri di ottone rinettando i torchietti di cera gialla dalle sgocciolature, e in mezzo a quelli il Cristo di bronzo, sopra il quale gli accusati e i testimoni giuravano di confessare la verità. Cotesto Cristo avevano più volte arroventato, e così offerto al bacio degl'inquisiti di eresia, onde, lasciandolo cascare a terra con paura, resultasse la doppia prova dello aborrimento loro pel Redentore, del Redentore pel loro. O Cristo, se non ti avessero inchiodato in croce, come non avresti menato le mani sentendoti tante volte, e tanto sconciamente spergiurare! Nè qui si rimase il metodico notaro, che volle eziandio ordinati i calamari e i quinterni; tagliò le penne; di più le guardò di contro alla luce per esaminare se le punte fossero pari e il taglio diritto, e le dispose a scala una accanto all'altra a guisa di frecce, pronte ad essere tratte contro San Bastiano legato al palo.

Poco oltre il banco un forte cancello di ferro separava questo spazio dalla rimanente sala, ed anche là si vedeva un altro uomo che apprestava gli ordigni del proprio mestiere, quasi per virtù di simpatia; e questo era mastro Alessandro, celebrato giustiziere di Roma. Mastro Alessandro appariva di membra proporzionato egregiamente; senza adipe, muscoloso come atleta, olivastro di pelle, o piuttosto bronzino; i capelli aveva ricciuti, e neri; le sopracciglia irte calanti su le palpebre in modo, che dai peli rabbuffati vedevi comparire la pupilla ardente come fuoco tra pruni; le labbra poi sottili, e compresse parte per natura, parte per la lunga abitudine di tacere: minutissime rughe gli attraversavano la fronte; se così fitto avessero solcato gli anni, o piuttosto lo interno avvoltoio non si sapeva, nè alcuno curava sapere; avvegnachè anche i suoi anni fossero mistero e parecchi vecchi prossimi alla decrepitezza narrassero di un mastro Alessandro carnefice ai tempi della loro puerizia: forse era stato suo padre, o suo nonno; ma il volgo lo credeva lo stesso uomo; e ciò gli accresceva la paura. Nello insieme però la sua faccia dimostrava durezza, non bestialità: tipo degenerato, ma pur sempre romano. Ci trattenemmo non senza ragione a descrivere così particolarmente mastro Alessandro, avvegnadio ricorresse in quei tempi il giustiziere spesso, quanto ai nostri ricorre il soprastante dei carceri solitarii. E il Soprastante dei carceri solitarii, se lo ricordino bene, è moneta con la effigie del Boia, tosata dalla Civiltà con una lima presa nella bottega della Ipocrisia.

Nella stanza erano ritti parecchi pali con un braccio traverso, e in cima a questo pendevano carrucole fornite di girelle di bronzo con funi adattate a tirar su pesi; in terra sparsi piombi da mettersi ai piedi per dare la corda con lo squasso, e tassilli, e canobbi, eculei, capre, imbuti, sgabelli da vigilia, aliossi, torcie bituminose, cordicelle di sverzino, fruste, flagelli con triboli in fondo, seghe con altri più arnesi; corredo che la Ferocia e il Vitupero dettero alla Giustizia quando la maritarono con lo Inferno. Mastro Alessandro li passava tutti in rassegna, li rimetteva in sesto; qualcheduno forbiva da certe macchie nere, che le vene umane vi avevano sprizzato vermiglie. Il notaro e il giustiziere, ognuno dal canto suo si apparecchiava a celebrare degnamente la solennità giudiziaria.

Intanto sopraggiunsero un altro notaro, e due giudici; i quali poichè si furono ricambiati gli onesti salutari, ed ebbero lungamente favellato del tempo, della stagione, della loro salute, e delle donne loro, Cesare Luciani creatura bruttissima, con un capo che pareva un corbello; di faccia verde, come composta di sego vieto e di verderame, disse che l'aria fresca gli aveva inacerbita la gotta, e la tosse; ed il notaro Ribaldella, che lo considerava suo protettore, gli raccomandò con voce lacrimosa, che per lo amore di Dio avesse cura della sua preziosa salute. Egli brontolando rispose:

—Lo faremo,—lo faremo, Giacomino;—e non può sapersi se questo dicesse o maravigliato, o impaurito, o soddisfatto che vivesse creatura al mondo la quale sentisse, o fingesse affetto per lui.

Un altro giudice (e questi passava per pietoso) così per la faccia vermiglio, che pareva un terzino di vino puro lasciato per dimenticanza sopra la mensa di madonna Giustizia, con occhi tondi, fissi, e stupidi come quelli di un tacchino, saltò su a raccontare come gli fosse toccato a vegliar tutta notte a cagione di un suo cane preso dalla colica, e:

—Che volete?—egli aggiunse—gli è questo il mio pecco; mi sento il cuore troppo tenero; proprio non era nato per fare il giudice criminale.

E il Ribaldella lusinghiero:

—Illustrissimo, chi non vuol bene ai cani non vuol bene manco ai cristiani.

—Certamente, Giacomino; stanotte (tra un nodo di tosse e un altro continuò a dire il giudice Luciani), stanotte furono commessi quattro omicidii, e sei furti. Stiamo su la traccia di certe streghe; e se mettiamo loro le mani addosso, io vi so dire che ne faremo un processo famoso. Questi processi, la Dio grazia, ogni giorno più spesseggiano, e presto ha da capitare qualche altro Giordano Bruno[7] da mandarsi alle fiamme. Io vi so dire, che non vidi mai più bel fuoco di quello che fanno i filosofi: sicchè, Giacomino mio, studiate impratichirvi presto, sapete. Il diavolo non manca mai di tagliare le legna al giudice che vuol fare bollire la pentola.

—Pare impossibile! Voi sapete tutto, siete informato di tutto;—non si sa come diavolo fate!—Eh! uomini istancabili come siete voi non ne nascono più,—astutamente osservò il Ribaldella. A cui il Luciani:

—È una passione che ho avuto sempre fin da piccino; ma, vedete, io pago in moneta di gotta la mia curiosità.

—Desiderate tabacco?—interruppe il notaro amico dell'ordine, il quale aveva nome Bambagino Grifi, e pavoneggiando mostrò una magnifica scatola.

—Stupenda! Superba!—esclamarono a coro i circostanti.—Questa è nuova di zecca. A quante siamo arrivati?

—Me ne mancano dodici per compire le trecentosessantacinque, dove mi fermerò. Lo Eminentissimo cardinale Evangelista Pallotta, per quanta industria ei abbia adoperato, è giunto a trecento solamente; e poi, salvo il debito ossequio, egli le compra a gatta in sacco, e, sto per dire, come le pentole, purchè appaiano di forma diversa; ma io, signori, no; laddove, non sieno tabacchiere storiche, e le non mi vengano profferte coi certificati autentici della loro celebrità, ancorchè fossero di oro e di argento non mi degnerei classarle in collezione[8]. Ne possiedo una… una sola, che non cambierei col bottone del piviale di gala di Sua Santità;—mi fate celia! Se ne serviva il glorioso imperatore Carlo Quinto nel convento di San Giusto, ed io potei acquistarla da un religioso di santa vita dell'ordine dei Girolamini in baratto del naso di Santo Serapione, devota reliquia conservata ab antiquo in casa dei Grifi. E questa qui, di cui vi credereste voi che fosse fattura? Sentite veh! nientemeno che di Benvenuto Cellini…

—Mastro Alessandro, avete insaponato la corda?—domandò il giudice
Luciani infastidito al carnefice, il quale col capo gli rispose di sì.

—Osservate, continuava il notaro Grifo esaltandosi, il portentoso magistero, e il sottile lavorìo di niello. E a chi immaginereste voi che fosse appartenuta? Io ve lo dirò di un tratto. A monsignore Duca di Guisa Enrico lo sfregiato, e la ebbi da certo padre Minore Osservante che a Blois gli diede l'olio santo, quantunque lo rinvenisse già spedito nell'altro mondo con la unzione di cinquanta tra spadate e colpi di alabarda. Adesso vi racconterò il modo col quale venni in possessione di tanto tesoro…

—Lo illustrissimo signor Presidente!—gridò un usciere spalancando la porta; e tutti, tacendo, si volsero a quella parte donde si affacciava il sole.

Ulisse Moscati si fece innanzi con passi gravi, e lenti. Cotesto suo incesso non procedeva da burbanzosa jattanza: malgrado il lungo esercizio della sua professione infelicissima, nello accostarsi al banco dei giudici egli erasi sempre mai sentito compreso da ribrezzo. Teneva il capo chino, e gli occhi intenti alla terra; gemendo nell'anima cercava colà gli oggetti della sua tenerezza, la moglie diletta e la figlia trilustre, che, seguendo da presso la madre in paradiso, lui aveva lasciato solo sopra la terra, e quando per gli anni già troppi sentiva maggiore necessità di consolazione. Di sembianze appariva duro, nè poteva fare a meno; ma sotto cotesta crosta di ghiaccio scorrevano le lacrime, le quali non piante tornavano amarissime ad allagargli il cuore. Per natura inchinevole alla pietà, ragioni di famiglia lo avevano costretto ad esercitare ufficio da cui repugnava; e così tra fare una cosa ed aborrirla erasi condotto a quella parte della vita, dove, spento il vigore dell'anima, l'abitudine tiene luogo di volontà: adesso gli mancava la forza per troncare il vecchio costume, e, come la più parte degli uomini spossati, lasciavasi menare dalla corrente dei casi esterni. Esitanza di voglie; inanità di affetti, sazietà di ogni cosa fastidioso il rendevano a se stesso e ad altrui: immenso sentiva il bisogno di pace, ma non sapeva dove trovarlo, nè donde gli potesse venire. Stato passivo, che una foglia caduta, una farfalla che voli, un suono improvviso, od altro simile avvenimento può determinare ad estrema risoluzione. Ebbe fama di giureconsulto valente per quei tempi, e lo fu; dacchè allora da per tutto, in ispecie, a Roma, far procaccio di sofisticherie scolastiche chiamavasi scienza.—Di vero. le lettere scarse e servili piacquero ai Preti; e quando nella universale ignoranza esse valsero a somministrare fondamento alle tenacissime, ed improntissime cupidità loro, giovandosi del credito e del decoro che le accompagnano, le molte e generose odiarono, come quelli che tremano del volo del pensiero, se prima, legatogli un laccio al piede, non ne abbiano la cima stretta in mano. Però i Sacerdoti nel buio universale tennero acceso un lampione che tanto lume spandesse dintorno, quanto bastasse a rischiarare loro il cammino: quando poi si levò sul mondo la luce, che deve illuminare tutti, si strinsero insieme smaniosi, e vi soffiarono su; la propria scienza infante usarono come verga, l'adulta altrui tentarono soffocare; invidia, e peggio. Così quando sorse il sole dell'universo, quello di Roma declinò al tramonto. La Umanità cammina a oriente, Roma a occidente; e ad ogni passo che muovono rendono la separazione loro più ampia, ed irrevocabile.

Salutati cortesemente i colleghi e gli ufficiali minori, il Moscati prese posto al suo seggio; dove essendogli per prima cosa caduto sott'occhio il certificato del medico intorno allo stato di salute di Beatrice, lo lesse due volte, poi pacato favellò:

—Pare dunque, che quante volte ne faccia di bisogno possiamo in coscienza sottoporre alla tortura questa sciagurata fanciulla.

—Sicuramente, rispose tossendo il Luciani,—addirittura…

—Dubito però che le si possa applicare legalmente, per avere l'accusata poco più di quindici anni. Su di che desidero sentire il vostro savio parere, Signori…

—Io per me sono chiaro, soggiunse il Luciani, e non ha luogo dubbio. Dirò nondimeno in tutta coscienza, e per convinzione, quello che sento per la verità. Se consideriamo il diritto, per comune consentimento troviamo stabilito come la età non faccia caso in atrocioribus; e poichè atrocissimo, e immanissimo è il parricidio, così con piena coscienza possiamo omettere in questo processo le regole della procedura ordinaria. Inoltre, Signori miei, la malizia nella femmina precorre di assai quella del maschio come la pubertà: di fatti, il gius dichiara pubere la donna agli undici anni, l'uomo a quattordici, nè la quistione della malizia già deve risolversi a ragguaglio degli anni, o per presunzione astratta, bensì in ragione della prova di fatto: per questo modo quei solenni giudici dello antico Areopago condannarono saviamente a morte il fanciullo ladro della corona di oro al tempio di Minerva, avendo saputo distinguere al paragone le fronde del vero lauro dalle fronde dell'oro; e per me penso, e voi tutti, signori Colleghi, ne andrete persuasi, che pravità maggiore di quella mostrata da questi scelleratissimi nella strage paterna difficilmente possa, non che trovarsi, immaginarsi. Se poi vogliamo attendere alla pratica vi occorrerà copia di casi, per cui conoscerete che la età non forma ostacolo; tra i quali piacemi ricordare quello che somministrò materia a Sisto Quinto, pontefice veramente grandissimo, di profferire auree parole. Monsignor Governatore faceva, col debito ossequio, considerare al Papa non potersi, com'egli desiderava, condannare a morte il giovane fiorentino, reo di resistenza alla corte in Trastevere, perchè non avesse la età stabilita dalle leggi. Se non gli mancano altro che anni, rispose quella bocca benedetta di Sisto Quinto, lo potete far morire addirittura, perchè noi gliene daremo dieci dei nostri[9].

E Valentino Turchi giudice collaterale, che presentava tutta la sembianza di un cane da macellaro con gli occhiali, affermando osservò:

—Ed io rincaro osservando, che non si trattava di caso
  atroce.

—Giustissima considerazione, soggiunse il vecchio Luciani, sentendo quasi rimorso per non averla aggiunta al suo discorso.

Il Luciani, secondo la giustizia di cotesti tempi, aveva ragione da vendere. Pur troppo la giustizia di oggi pare ingiustizia domani; anzi da un luogo all'altro essa muta, e tale si condanna a Firenze, che si assolve a Parigi. Di questo non vogliono rendersi capaci gli uomini che giudicano: e sì che se vi pensassero sopra ventiquattro ore del giorno non sarebbe abbastanza. Il Moscati non trovò da opporre cosa, che valesse; onde, abbassati gli occhi, ordinò:

—Conducasi la prigioniera Beatrice Cènci.

E venne condotta. Circondata da molta mano di sbirri, e fatta subito voltare con la faccia al banco dei giudici, ella non vide gli arnesi lugubri di cui era ingombra la sala. Gli astanti appuntarono cupidissimamente gli occhi in lei; e, percossi dalla sembianza divina, pensarono tutti come mai tanta perversità di mente potesse accompagnarsi con bellezza sì portentosa di forma. Tutti così pensarono, tranne due soli, i quali ebbero il coraggio di sospettarla innocente: e questi due furono il giudice Moscati, e il giustiziere Alessandro.

Il notaro Ribaldella prese tosto ad interrogarla intorno alle sue qualità, ed ella rispose nè timida, nè proterva, come conviene a persona che senta la dignità della propria innocenza.

—Deferite il giuramento: ordinò il Moscati.

E il Ribaldella, impugnato il Cristo con tale un garbo, che parve piuttosto volerglielo dare sul capo, che presentarglielo per compire un rito solenne, disse:

—Giurate.

Beatrice distesavi sopra la destra candidissima, così favellò:

—Giuro sopra la immagine del divino Redentore, che fu per me crocifisso, di esporre la verità perchè so, e posso dirla; se non potessi o volessi, mi sarei astenuta da giurare.

—E così aspetta la giustizia da voi. Beatrice Cènci, incominciò a interrogare il Moscati, voi siete accusata, e le prove in processo lo dimostrano sufficientemente, di avere premeditato la strage del vostro genitore conte Francesco dei Cènci, con la complicità della matrigna e dei fratelli vostri. Che cosa avete da rispondere?

—Non è vero.

E con tale ingenuo candore pronunziò queste parole, che, non che altri, San Tommaso si sarebbe chiamato vinto; ma il giudice Luciani brontolava fra i denti:

—Non è vero, eh?

—Accusata; v'imputano, e le carte del processo lo provano sufficientemente, voi avere, in compagnia dei predetti parenti vostri, conferito il mandato a uccidere il conte Francesco Cènci ai nominati Olimpio e Marzio banditi, con la promessa del prezzo in ottomila ducati di oro; di cui la metà subito, e l'altra metà dopo consumato il delitto.

—Non è vero.

—Adesso adesso vedremo se non è vero;—mormorava il Luciani, come se le tenesse il bordone.

—Siete accusata, e dalla procedura resulta provato sufficientemente, avere voi fatto dono, o dato per giunta di prezzo, al nominato Marzio un tabarro scarlatto trinato di oro, che fu già del defunto conte Francesco Cènci.

—Non è così. Il padre mio donò quel tabarro a Marzio suo cameriere, prima che da Roma si partisse per la Rocca Petrella.

—Siete accusata, e dalla procedura resulta abbastanza provato, avere voi fatto commettere la strage paterna alla Rocca Petrella il giorno nove di settembre dell'anno millecinquecentonovantotto, e ciò per comando espresso di Lucrezia Petroni vostra matrigna, la quale impedì che si commettesse il giorno otto per essere la ricorrenza della festa della Santissima Vergine. Olimpio e Marzio entrarono nella stanza dove giaceva il conte Francesco Cènci, al quale era stato precedentemente propinato vino coll'oppio; e voi, in compagnia di Lucrezia Petroni, Giacomo e Bernardino Cènci, attendevate nell'anticamera la consumazione del delitto. I sicarii essendo tornati indietro sbigottiti, voi gl'interrogaste, che cosa ci fosse di nuovo: alla quale domanda avendo essi risposto non sentirsi cuore a bastanza per ammazzare un uomo che dormiva, voi li rimproveraste con queste parole: «Come? se preparati non siete capaci di uccidere mio padre dormente, immaginate se ardireste di pur guardarlo in faccia se fosse desto! E per venire a questa conclusione voi avete già riscosso quattromila ducati? Orsù, poichè la codardìa vostra vuole così, io stessa con le mie mani ammazzerò mio padre, e voi non camperete molto». Per le quali rampogne e minacce i sicarii rientrarono nella stanza dove giaceva il conte Francesco Cènci, ed uno di loro postagli sopra l'occhio una gran ferla, l'altro gliela conficcò prima nella testa, e poi nel collo, donde accadde la morte del prefato conte. I banditi riscosso il saldo del prezzo si partirono, e voi, in compagnia dei fratelli e della matrigna, strascinaste il cadavere del trafitto genitore sopra una vecchia loggia, dalla quale lo dirupaste su di un albero di sambuco. Che rispondete?

—Signori miei, rispondo che domande di tante, e tanto orribili perversità vorrebbero volgersi più acconciamente ad un branco di lupi, che a me. Io le respingo con tutta la forza dell'anima mia.

—Siete accusata, e lo chiarisce il processo, avere voi consegnato alla donna Laurenza Cortese, cognominata la Mancina, un lenzuolo intriso di sangue perchè lo lavasse, ponendo mente di avvertire la curandaia provenire questo sangue da perdite copiose; e siete accusata altresì aver fatto uccidere Olimpio dal bandito Marzio, per paura che costui rivelasse il delitto alla giustizia. Rispondete.

—Posso io favellare?

—Anzi vi s'impone: favellate apertamente tutto quanto valga a chiarire la giustizia, e difendere voi dall'accusa.

—Signori! Che io non venissi educata a siffatti orrori, non importa che dica; vi parlerò ingenua come il cuore mi detta, e voi scuserete la insufficienza mia. Di poco oltrepasso i sedici anni; me educarono la santissima madre mia donna Virginia Santacroce, e donna Lucrezia Petroni femmina preclara per pietà; nè gli anni miei, nè gl'insegnamenti altrui persuadono a sospettare in me gli atroci delitti i quali appena s'incontrano nelle Locuste, ed in altre famose colpevoli, che pure mano a mano s'indurirono a misfare. Posto eziandio che la natura avesse voluto creare in me un prodigio di perversità, considerate, di grazia, come la indole atroce tanto non possa celarsi, che in parte almeno non trapeli, per così dire, novizia, prima che stampi profonde le orme nel sentiero della maledizione. Ora quale io mi sia stata, e come io abbia vissuto, vi sarà facile conoscere interrogando gli amici, i parenti, e i servi di casa. La mia vita è libro che si compone di poche pagine; svolgetelo, consideratelo attentamente, e tutto. Poi, se non prendo errore, mi sembra che per giudicare con discretezza le azioni umane faccia di mestieri avvertire le cause, che possono averle per avventura persuase. Qual fine pertanto immaginereste voi, che mi muovesse a così enorme delitto? Cupidità di averi? Ma la più gran parte dei beni di casa Cènci vincolati a fidecommisso credono al maggiorasco. Dei benefizii, delle prebende, e di uffici altri siffatti non si avvantaggiano le femmine. A me era ignoto, che il mio defunto genitore avesse per testamento disposto dei beni liberi a favore di luoghi pii: morendo di morte violenta ed improvvisa, doveva supporlo intestato; e da questi beni del pari, come femmina, mi avrebbero escluso le leggi. La mia sostanza mi viene dalla madre, che il padre non poteva tormi; e, tra doti e stradotali, ho sentito dire che sommi a quarantamila scudi: sicchè vedete, che avarizia non ci può entrare. Io non nego, anzi confesso, che mio padre mi facesse passare giorni pieni di amarezza, e… ma religione vieta ai figli volgersi addietro a riguardare la tomba paterna per maledirla, onde io mi astengo da mettere troppe, e non degne parole su questo: bastivi tanto, che volendo sottrarmi alle diuturne sevizie, e procurarmi meno tristo vivere, fra i cattivi partiti pessimo aveva da comparirmi quello del parricidio; imperciocchè oltre alla eterna dannazione dell'anima nell'altra vita, fosse pieno di rimorsi, di pericoli e di paura in questa. Non mi mancavano poi esempi domestici di pratiche riuscite prosperamente, le quali mi ammaestrassero il modo di tutelarmi dalle paterne persecuzioni. Olimpia mia maggiore sorella ricorse alla benignità del Santo Padre, e mercè umile memoriale ottenne le onorate nozze col Conte Gabbrielli di Agobbio: e di vero com'ella m'insegnò io feci, scrivendo una supplica, e la consegnai a Marzio affinchè mi usasse la carità di presentarla allo Ufficio dei memoriali…

—Sapete voi, che veramente la vostra supplica fosse presentata?

—Signor mio, io la raccomandai a Marzio onde fosse messa in corso.

—E perchè affidaste a Marzio commissione tanto importante?

—Ah! mio padre mi teneva chiusa; sicchè, tranne Marzio, in cui mio padre unicamente confidava, non mi era dato abboccarmi con altra persona in quel tempo.

—Proseguite.

—E supponete, che la natura m'avesse dato la ferocia, il padre il motivo, il diavolo la occasione per commettere il delitto, ditemi, potreste voi immaginare modo più assurdo per consumarlo di quello che finge l'accusa? Perchè adoperarvi il ferro? Con ottomila ducati possono facilmente procurarsi veleni che uccidono come il mal di gocciola, o disfanno come le febbri etiche, senza lasciare vestigio alle indagini della giustizia; ma che dico io, che possono procurarsi veleni? L'accusa suppone averli io procurati; nè solo procurati, ma propinati: dunque se versai al padre mio vino alloppiato per farlo dormire una notte, bastava aumentargli la dose perchè non si svegliasse mai più in questo mondo. A qual pro tante operazioni pericolose? A qual pro banditi? Perchè tanti complici, sovente traditori, sempre funesti? E soprattutto, qual bisogno, qual consiglio fu quello di chiamare a parte della congiura Bernardino, fanciullo di dodici anni? In che cosa poteva giovarmi costui, o piuttosto, in che cosa non doveva aspettarmi ch'egli non fosse per nuocermi? Se in casa Cènci viveva un lattante, anch'egli avrebbe tenuto per complice l'accusa; come se, tolto in fastidio il materno latte, con gridi e con minacce avesse chiesto nudrimento del sangue del padre? Assurdi paionmi questi, e sono. Don Giacomo quando avvenne il caso funesto trattenevasi in Roma, e di questo potrà somministrarvi buone testimonianze. Del tabarro vi dissi. Del lenzuolo può darsi; altre volte udii raccontarlo, ed aggiunsero la curandaia avere confessato che glielo consegnò una donna di trent'anni: ora nè io ho trent'anni, nè parmi dimostrarli; almeno non li dimostrava allorchè non era passata per tante tribolazioni; e il luogo dove si asserisce che la curandaia lo trovasse macchiato, esclude il sospetto che sgorgasse dal capo del giacente. O Signori! voi siete valentuomini, e pratichi di queste materie; onde io non dubito che sarete per ricusare fede a tante gagliofferie. A che il chiodo e il mazzuolo? I banditi vanno sempre armati oltre il bisogno di pistole e di pistolesi; pensate un po' se gli avessero lasciati quando venivano appunto per commettere omicidio! Bene trovo, che il chiodo venne adoperato per ammazzare Sisara; ma Giaele non faceva professione di sicario, nè ella aspettava il nemico nella sua tenda.—Perchè avrei strascinato io il cadavere, mentre uomini poderosi ne circondavano? Forse così persuadeva il bisogno? No certamente. Forse m'inviperiva ferocia d'istinto? Oh! Le cose fuori dell'ordine naturale non si suppongono; e moglie, e figlia che strascinansi dietro il corpo del marito e del padre come due volpi un coniglio, avrebbero mosso in un punto a riso e a ribrezzo gli stessi banditi. Se qui avete cuore,—e con una mano si toccò il petto;—se qui senno,—e coll'altra si toccò la fronte,—non pure cesserete angustiarmi l'anima sconsolata con simile accusa, ma vi guarderete di confondermi la mente col miscuglio di tante mostruosità.

E tutto questo pronunziava Beatrice speditamente, con tuono di voce, e garbo bellissimi; per la qual cosa gli astanti, con le braccia tese sopra i banchi, inclinato il corpo e sporgente la faccia, stavano in ammirazione: fino il notaro Ribaldella, con la manca ferma su i fogli e la destra sospesa in alto, era rimasto senza scrivere: fino l'auditore Luciani maravigliando aveva esclamato:

—Come s'impara presto alla scuola del diavolo!

—Io vi ammonisco, riprese il presidente Moscati, a mantenere la promessa di confessare la verità, e ad osservare la religione del giuramento; imperciocchè i vostri complici abbiano ormai palesato la colpa, e ratificato la confessione con la prova della tortura…

—Come! Dunque pel dolore dei tormenti non hanno abborrito di aggravarsi l'anima, ed infamarsi perpetuamente? Ah! La tortura non fa prova di verità…

—Non fa prova di verità la tortura?—proruppe furibondo il Luciani, incapace di contenersi più oltre; e levatosi mezzo da sedere, appoggiava le mani sopra i bracciuoli della sedia sostenendo il corpo tremante. Se avessero calunniato l'onore della consorte e delle figliuole sue non sarebbe salito a tanto furore.—Non fa prova di verità la tortura, che i giureconsulti tutti, nemine nemine discrepante, predicano la regina delle prove? Te ne avvedrai fra poco se la tortura abbia virtù di far confessare il vero…

Beatrice scosse il capo, come un mal vento glielo avesse bruttato di polvere, e continuò:

—Donna Lucrezia, già attempata, pingue, nudrita nelle delicature di poco animo, non prevedendo il male futuro, in grazia di sottrarsi al male presente si è condotta di leggieri a confessare il falso. Con Bernardino fanciullo non faceva mestieri tormento; per indurlo a confessare quanto da lui si voleva bastava un po' di treggèa. Giacomo poi da lungo tempo sente fastidio della vita; ed altre volte ha tentato gettarla, come peso troppo grave per lui. Tali sono quelli che provaste con la tortura, e presumete avere scoperto il vero?

—Non tutti questi furono i vostri compiici, soggiunse il Moscati.
Altri pure confessò.

—Chi dunque?

—Marzio.

—Ebbene; mi venga Marzio davanti, e vediamo un po' se ardisce sostenermelo in faccia. Quantunque io debba credere l'uomo capace delle più orribili cose, se da me non lo sento ricuso prestar fede a tanta iniquità.

—Ebbene; chiaritelo da per voi stessa…

—Ahimè!

E parve questo uno di quei sospiri, che rompono il cuore che lo esalò. Beatrice allora volse gli occhi, e vide quello che non aveva scorto prima, lo apparecchio degli arnesi infernali, e rabbrividì dal capo alle piante. A piè d'una forca stava Marzio, o piuttosto l'ombra di Marzio: la pelle gli s'informava dalle ossa, e, se togli gli occhi vitrei, ogni altra parte del corpo pareva morta in lui; avresti detto che lo avessero tratto colà per ispirarvi l'anima: egli tentò muoversi per gittarsi ai piedi di Beatrice, ma non potè mutar passo, e cadde su la faccia stramazzone per terra. Beatrice stette a considerarlo un istante bieca negli occhi; il piede irrequieto fece atto di calpestarlo; ma di subito l'ira le si converse in pietà, e chinò le braccia per sovvenirlo a rilevarsi.

—Dunque, con un filo di voce favellò Marzio, mia dolce signora, sono io sempre degno della vostra pietà? O signora Beatrice, abbiatemi compassione per lo amore di Dio; chè io sono misero… misero… ma misero assai.

—Marzio, perchè mai mi avete accusata? Che cosa vi ho io fatto, onde anche voi vi siate congiurato con gli altri per tormi la fama?

—Ah! conosco tardi la mano divina che mi percuote; tardi, che la innocenza sola può darci contentezza: io tenni altra strada, ed ecco mi trovo ad avere fabbricato, con la mia, l'altrui rovina: e di me pazienza; ma di tanti altri innocenti… oh!… Io ammazzai Olimpio temendo che la sfacciata scelleraggine di costui non vi offendesse, e mi è riuscito il contrario. Ma io giuro per quel Gesù che dovrà giudicarmi fra poco, che mai ebbi intenzione di nuocervi. Sazio di vita, logoro dalla infermità, lacerato dal rimorso dei commessi delitti, sbalordito dai tormenti, io nulla intesi di quanto mi lessero, e mi fecero affermare; confessai tutto quello che vollero, a patto che mi mettessero a morte, e subito: essi non mi tennero fede, e le mie parole hanno convertito in stiletti per piantarli nel cuore di creature innocenti…

—Signor Presidente, interruppe l'auditore Luciani, non penso io già che voi ci abbiate radunati per udire recitare egloghe fra Amarilli e Melibeo.

—Approvo l'assennatissima osservazione del meritissimo auditore
Luciani,—rincalzava per parte sua il giudice Valentino Turchi.

—Abbiate pazienza, Signori, gli ammoniva placido il Moscati, e rammentatevi che noi non siamo convenuti qui per sollazzarci: poichè sta in noi la terribile facoltà di troncar le parole con la mannaia, lasciamo ai miseri lo infelice sfogo del pianto.

—Per piangere non mancherà loro il tempo quando saranno tornati in prigione: se voi, signor Presidente, vi foste preso cura di voltare l'orologio a polvere, vi sareste accorto come sieno già passate due ore senza costrutto di nulla. Lo Stato per certo non ci paga onde in siffatta guisa noi scioperiamo… e continuando di questo passo, chiederei licenza di andarmene ad accudire a faccende di maggiore rilievo.

—Dio vi accompagni…

Ma il tristo non si giovò del commiato del Presidente; anzi parve accomodarsi con agio maggiore sopra la seggiola. Intanto il Moscati voltosi a Marzio gli disse:

—Accusato, rispondete breve: ratificate, o no, il vostro esame in confronto dell'accusata?

—Signori Giudici! oggimai il male, che voi volete farmi, sarà grave ma corto. Io conosco trovarmi presso a comparire davanti al tribunale di Dio, a cui non fanno di mestieri confessioni nè testimoni.—Tanto, voi potete scorciare il filo di questa mia vita; allungarlo no. Orsù; udite la verità come la conosce Quello che ha da giudicare me, ed anche voi. So bene queste essere le mie ultime ore, e chi sa come orribilmente dolorose!… non importa… benedette elle sieno, poichè per esse mi è dato porgere testimonianza della innocenza di questa divina fanciulla. Chi fosse Francesco Cènci molti di voi l'avrebbero a sapere, che si saranno trovati ad esaminarlo, e a giudicarlo per gl'immanissimi suoi misfatti.—I santi del suo calendario furono delitti uno più atroce dell'altro; suo passatempo pestare le leggi divine ed umane; a lui parve aver posto la natura i confini, dinanzi ai quali i più solenni scellerati si arretrano, solo per provare la sua empietà a saltarli. Tale fu il Cènci: e chi di voi lo ignora? Un giorno cotesto demonio mi fiatò accanto, e mi seccò il cuore.—Avete a sapere. Signori, che io aveva contratto le nozze con una fanciulla di Vittana… Annetta… dopo la Madonna Santissima, da me, povero orfano, adorata; ed ei me la rapì bella, fresca, e piena di vita… e me la rese… sì, me la rese; ma cadavere trasformato, con uno stile nel petto che la passava da parte a parte. Lo assaltai nella rocca, che, per le infamie commesse dentro le sue mura, ha titolo di Ribalda; e non ve lo trovando, detti il guasto alle case: quanto mi capitò sotto le mani arsi: su quelle pietre rimangono i vestigi delle mie fiamme. Lasciai il paese, sacramentando trarne vendetta di sangue sopra la sua famiglia e su lui. Mi ridussi a Roma, m'industriai a entrargli in casa, e vi riuscii: mi venne fatto altresì di guadagnare la sua grazia; con quali argomenti non importa dire… a rammentarli mi mettono ribrezzo; e neanche vi narrerò quello che egli mi confidasse… bastivi, che furono cose da sgomentarne lo stesso demonio. Colà, mentre studio portare a compimento la vendetta, conobbi lo inenarrabile affanno della sua famiglia. I figli odiava come nemici: Dio supplicava ed i Santi affinchè gli concedessero, prima di morire, la grazia di vederli tutti ammazzati. Andate nella chiesa di San Tommaso, e troverete i sepolcri ch'egli aveva fatto apparecchiare pei figli che bramava seppellirvi;—andate, e vedrete accanto ad un suo figliuolo sepolto… chi? un cane.—Una sola creatura amava… ho io detto amava? Ho detto male, e pure non saprei esprimermi diversamente: temo aver detto poco, e più non saprei dire senza cuoprirmi il volto per la vergogna… ma io non posso alzarmi le mani alla faccia… perchè voi mi avete fatto troncare i bracci dai tormenti.—Amava dunque Beatrice. Carceri, fame, battiture, e le peggiori assai corruttele, lusinghe, e immagini abbominevoli, tutto adoperò lo infame vecchio per contaminare questo angiolo di purità. Allora la compassione mi vinse per la infelice famiglia che io aveva giurato sterminare, ed in un giorno solo io impedii più delitti, che voi forse non avete giudicato in un anno. Quando giunsero al Conte Cènci di Spagna nuove della morte dei suoi figliuoli Rocco e Cristofano, gli bastò l'animo imbandire convito ai parenti e agli amici, dov'egli disse, e fece cose, che parve miracolo se Roma non sobbissasse: ricercatene i commensali; erano tra questi Cardinali di Santa Madre Chiesa, e Baroni cospicui. Quando la gente, cacciata via dal terrore, lasciò la sala deserta, egli, ebbro più di empietà che di vino, osò levare le scellerate mani sopra Beatrice. Cotesto sarebbe stato il suo ultimo giorno, però che io dietro le spalle di lui alzassi un vaso di argento per ispezzargli il cranio, se questa innocente, urlando, e riparandolo con le braccia, non lo avesse salvato. Mosso da lei con ardentissime preghiere di non attentare alla vita del padre, io non volli deporre la mia vendetta; ma determinai uscire di casa, e coglierlo altrove. Però il maligno vecchio mi aveva tolto in sospetto; e, fingendomi amore, m'inviava alla Rocca Petrella por apprestargli le stanze. Le stanze!—Già aveva innanzi spedito alla posta sicarii perchè mi ammazzassero, e intanto mi donava cortese il tabarro scarlatto trinato di oro; e comecchè io mi difendessi da accettarlo, non mi parendo dicevole al mio stato, egli volle che ad ogni patto io lo prendessi per preservarmi dalla influenza della malaria viaggiando per la campagna romana: così egli diceva; ma invero perchè il tabarro rosso servisse di contrassegno ai sicarii. Mi salvai dalle sue insidie, e le tesi a lui: raccolsi una mano di compagni; e quando mi credeva morto, lo feci prigione nel suo ultimo viaggio alla Ribalda, e lo trassi alle caverne di Tagliacozzo. Colà doveva morire; ormai pareva che ingegno, o potenza di uomo non valessero a salvarlo; e pure ei fu salvo. Bevemmo certo vino alloppiato, che il Conte si portava seco da Roma; e mentre eravamo immersi nel vino ci fu tolto di mezzo, comecchè io tenessi la chiave del suo carcere in tasca. E il suo liberatore chi fu? Eccolo; questa divina figliuola. Non per questo deposi il fiero animo, anzi sempre più mi arrovellai nella vendetta; ed una notte, avendo prima speculato cautamente il luogo, tolti meco due compagni, per una finestra del piano terreno, rotta la inferrata, penetrai nella ròcca: qui ci spartiamo a perlustrare la casa; uno dei miei compagni vede traversare un'ombra; si nasconde nel buio, e poi le tiene dietro alla lontana: l'ombra ascende le scale della torre, apre una stanza, ed entra: il mio compagno si affretta a seguitarla; tocca la porta, gli cede; sia che non volesse, od obliasse riservarla colui, che andava avanti stimandosi sicuro. In cotesta carcere il Conte Cènci teneva chiusa la figlia Beatrice in guiderdone della vita salvata… Dovrò io dire che cosa traeva costà l'empio vecchio?—No… ve lo dica il ribrezzo, che a voi, tutti padri, fa tremare le carni e le ossa… e il mio compagno gli si avventò sopra, e di coltello lo uccise, meno in grazia della mia vendetta, che per vendicare la natura; e fece bene: e chiunque fra voi sostenesse che non avrebbe operato altrettanto, io lo dichiaro qui, alla presenza di Cristo, più traditore di quello che gli diè la guanciata. Noi strascinammo il cadavere maledetto, noi lo precipitammo giù dalla loggia su l'albero di sambuco. La signora Beatrice fu desta al rumore del tracollo che fece il trafitto sul pavimento. Il lenzuolo rimase intriso nel sangue del Conte; ma nè ella il vide, nè ella lo diede alla lavandara, perchè cadde tramortita nella prigione; e quinci tratta semiviva, giacque più giorni in letto travagliata da fierissima convulsione. Olimpio ammazzai io, e come, e il perchè vi dissi… A Napoli confessai quello che vollero, per forza di tormenti… questa è verità… ogni altro menzogna… Ora di me fate quello che vi piace.—Intanto, concludendo, ringrazio di vero cuore Dio, il quale mi ha dato tanta lena da finire… perchè tornare da capo io non potrei… E ciò detto cadeva giù in terra un'altra volta, se mastro Alessandro, prontamente non lo soccorreva.

—Ditemi, signor Presidente, non ci sarebbe pericolo ch'ella lo avesse stregato?—sussurrò il Luciani, in aria di mistero, nell'orecchio al Moscati; e siccome questi fece spallucce senza rispondere motto, il Luciani continuò a brontolare:—Già… già… voi non credete a questo… vi pare novella… badate a non lasciarvi allucinare dai lumi tenebrosi del secolo, perchè io vi so dire ch'essi rischiarano un cammino solo, e questo è quello che mena dritto all'inferno.

Al Moscati acerbamente dolse la petulanza del Luciani: tuttavolta, sentendo mettere in dubbio la sua fede, imperciocchè in quei tempi credere nelle streghe fosse articolo di fede, come colui che piissimo uomo era si scosse, e domandò risoluto al Luciani:

—Signor Auditore, e per qual causa dubitate voi che io non creda alle fattucchierie? Io ci credo benissimo; ma qui non parmi che cada il caso.—Dunque persistete a ritrattarvi, accusato?

Marzio assentiva col capo.

—Tortura definitiva… non ci è rimedio, sempre pronto osservava il
Luciani; e Valentino Turchi ripeteva latrando:

—Non ci è rimedio; tortura definitiva.

Il Moscati, trattosi il fazzoletto di tasca, si asciugò il sudore dalla fronte; poi si volse al notaro, e gli disse:

—Notaro, ammonite lo accusato a non insistere nella sua ritrattazione… ammonitelo, che diversamente la legge vuole che venga esposto alla tortura definitiva… ammonitelo, tortura definitiva… che sia… e in caso di persistenza stendete il decreto.

—Il dabbene uomo queste proposizioni favellava singhiozzando, e il notaro per filo e per segno le ripeteva a Marzio; cerziorandolo inoltre, che tortura definitiva significava applicarlo ai tormenti usque ad necem; le quali parole latine, in lingua volgare suonavano fino alla morte. Marzio anche a questo assentì col capo, perchè ormai la lingua ingrossata gl'impediva la favella. Disteso, letto, e sottoscritto il decreto, il notaro Ribaldella, volto prima al Luciani, che alacre gli ammiccava con gli occhi, disse al carnefice:

—Tocca a voi.

Mastro Alessandro prese le braccia di Marzio; gliele tirò dietro la schiena; le soprammise una all'altra; le legò con un nodo in croce; tentennò il canapo per assicurarsi se scorresse spedito dentro alla carrucola, e poi, cavandosi il berretto, domandò:

—Illustrissimi, con lo squasso, o senza squasso?

—Diavolo! con lo squasso, s'intende, e co' fiocchi…—rispose il
Luciani, che non si poteva contenere in verun modo.

Gli altri affermarono assentendo col capo.

—Mastro Alessandro, sovvenuto da uno dei suoi valletti, trasse su piano piano Marzio. Beatrice inclinò la faccia sul petto per non vedere; ma poi fu spinta da uno interno moto ad alzarla.—Orribile! orribile!—Urlando si coperse gli occhi con ambe le mani… quel nudo ossame, stirato in truce atteggiamento metteva a un punto terrore e pietà. Il giustiziere, poichè ebbe fatto toccare a Marzio con le braccia tese in angolo sopra la testa la traversa della forca alta sei braccia da terra, si recò in mano il capo della fune, e lasciò andare. Marzio rovinò giù a piombo fino a quattro dita distante dal pavimento: tremendo fu lo squasso, e si sentirono scricchiolare le ossa, e stracciarsi i muscoli. Marzio spalancò gli occhi stralunati come se volessero schizzargli fuori dei cigli; aperse la bocca spaventevolmente mostrando tutti i denti, e un singulto secco gli chiuse la gola: subito dopo si sentì come un leggiero gorgoglìo, e dalla bocca aperta apparve una bolla d'aria, che scoppiando lasciò gocciare giù dagli angoli dei labbri bava sanguigna. In fede di Dio egli era stato uno dei più famosi squassi, che avesse saputo dare mastro Alessandro in vita sua: s'egli se ne compiacesse, o se ne dolesse, non poteva indovinarsi; stava duro, e taciturno a considerare l'opera sua.

—Su, mastro Alessandro, da bravo… agguantamelo con un altro squasso dei buoni,—appoggiate ambe le mani ai bracciuoli del seggiolone, e mezzo ritto con la persona, insisteva l'auditore Luciani.

—Non monta, Illustrissimo; l'ultimo squasso glielo ha dato la morte.

—Come? come? È morto?—imbestialito urlò il Luciani.—Perchè lo avete fatto morire voi? Perchè ha ardito morire costui prima di annullare la sua ritrattazione?

E siccome mastro Alessandro stringendosi nelle spalle non fece motto, il giudice instava:

—Vediamo,—proviamo se fosse sempre vivo; dategli una stretta co' tassilli—un po' di fuoco sotto le piante, per tentare se gli tornassero gli spiriti.

E si levava, quasi per aiutare mastro Alessandro; sennonchè il
Moscati, sdegnoso, lo tenne pel braccio esclamando di forza:

—Per dio! vi sovvenga della dignità del vostro ministero! Siete voi giudice, o giustiziere?

Ma il Luciani svincolò il braccio; e, padroneggiato dal bestiale suo istinto, si fece in fretta presso il carnefice, che teneva stesa la mano sul cuore di Marzio, e ansiosamente lo interrogò:

—Ebbene?…

—Illustrissimo ve l'ho già detto, egli è morto.

Allora il Luciani, pieno d'izza, voltando il discorso al cadavere lo rampognava:

—Ah mi sei scappato, furfante! Sei morto per giuntare la giustizia della confessione, e mastro Alessandro di cinquanta scudi di salario per impiccarti.—E quindi tornando al banco, con voce e gesti infelloniti di faccia al Moscati gridava:

—Su via, signor Presidente, battiamo il ferro quando è caldo: mettiamo a profitto lo sgomento che deve avere incusso il terrore nello spirito dell'accusata;—sentiamo un po' in qual nota canti costei a suono di corda;—e dardeggiava gli occhi contro Beatrice come lingua di vipera.

—Basta, ordinò severamente il Moscati; io regolo il processo: la seduta è chiusa;—e mosse per uscire.

Il notaro Grifo, vinto dal costume, si trattenne alquanto per nettare le penne; e ripostele frettoloso in bell'ordine, corse dietro ai giudici dicendo:

—Adesso terminerò raccontarvi, com'io acquistassi la tabacchiera del signor Duca di Guisa…

Beatrice, bianca come un lenzuolo da morto, tentennò per cadere; le labbra le diventarono pagonazze, e gli occhi suoi tremolarono smarriti; indi a breve scosse il capo, e lo rialzò a guisa di albero piegato dal remolino che passa; poi animosa andò incontro al cadavere di Marzio, gli stette davanti, lo guardò fisso, e favellò:

—Sciagurato! Tu non hai potuto salvarmi; ma ti perdono, e supplico Dio che ti perdoni. Tu hai peccato molto; ma hai amato, e patito anche molto. Tu non vivesti alla virtù, ma sei perito per la verità. Io t'invidio… chè la mia vita è tale, da portare invidia ai morti[10]. Adesso non posso dimostrarti l'amor mio (e sì dicendo stese lo indice e il pollice, li soprappose ai cigli del morto e gli chiuse gli occhi, ch'egli teneva sempre aperti in molto terribile maniera; poi trasse un pannolino e gli asciugò le labbra dalla bava sanguigna) in altro modo, che rendendoti questo ultimo ufficio, e te lo rendo di cuore.—Ciò detto si volse ai custodi, e con fermo sembiante riprese: ora torniamo al carcere.

Ma il fitto ribrezzo delle carni palesava la tremenda commozione dell'anima sua: le gambe le tremavano sotto, e ad ogni passo incespava per cadere. Mastro Alessandro trattosi il berretto di capo, e tenendosi lontano con doverosa distanza, così le favellò:

—Signora, io so che non mi potete toccare; così a Dio piaccia, che io non tocchi mai voi: voi avete bisogno di qualcheduno che vi sostenga; se me lo concedete io chiamerò tale, su cui vi appoggerete senza paura: di mala pianta nacque, e in carcere; e non pertanto è fiore, che può presentarsi alla Madonna… è mia figliuola.

E con un fischio prolungato chiamò: indi a breve fu vista comparire una fanciulla bella sì, ma bianca, bianca come voto di cera. Poveretta! ella sapeva essere nata alla sventura.

—Virginia, le disse il padre, da' braccio a questa Signora… è disgraziata quanto te.[11]

Beatrice fissata la fanciulla in volto, si sentì bene disposta verso di quella: quando poi intese che si chiamava come la madre sua. le sorrise mesta, e le si appoggiò sul braccio incamminandosi al carcere.

Mastro Alessandro avvisatamente dava cotesta terribile strappata di corda a Marzio, tentando farlo restare sul colpo; e come aveva immaginato gli riuscì, stante il miserabile stato in cui lo infelice si trovava ridotto: non mica per odio; all'opposto, per pietà. Onde costui morisse presto, e con meno patimenti, il boia mandava male una trentina di scudi; e per boia non era poco, anzi moltissimo: troppo più, che le pietose viscere, di un Soprastante di carceri umanitarii non gli potrebbero permettere; il quale per trenta scudi e un po' di seta tinta nel sangue di Santo Stefano venderebbe trenta Cristi, con la Beata Vergine per giunta; e se colmo la misura di un grano solo, il diavolo mi porti mentro che scrivo.

NOTE

[1] Le gentildonne, nei tempi che descrivo, non andavano mai sole per le pubbliche vie; bensì con marito, o parente; e, in difetto di questo, accompagnate da un servo di fiducia, il quale dal colore dei suoi abiti distinguevasi col nome di uomo nero.

[2] Le porte delle prigioni, almeno le principali, costumarono fabbricare basse; e tal'era anche la porta delle carceri di Firenze, oggi demolite, chiamate Stinche. Il BERNI giocondamente la descrive nel suo Capitolo in lode del Debito. Anche adesso non sono andate in disuso, e nelle prigioni umanitarie io le ho notate. Quale ne sia la causa, io non saprei: non certo quella di prevenire la fuga: forse, e senza forse, per un lusso di martirio. Devo ancora avvertire, che queste carceri non si espongono all'adorazione delle vezzose e tenere visitatrici: se ne avessero vaghezza, andando alle Murate, prigioni di Firenze, domandino le tenere visitatrici all'amabile Conduttore, e ne rimarranno edificate.

[3] Pomponio Leto, di casa Sanseverina, fu perseguitato da Papa Paolo II insieme col Platina, ed altri felicissimi Ingegni. Questo pontefice soppresse il Colleggio degli Abbreviatori, e si mostrò acerbamente avverso ad ogni maniera di lettere umane. VALERIANO, Della felicità dei letterati, PLATINA, nella Vita di Paolo II.

[4] Questa avventura degli sproni accadde in Francia nella strage di San Bartolommeo, e fu trovato di una dama cattolica per salvare il suo amante ugonotto. La riporta BRANTOME.

[5] Il signor Rougier de la Burgerie calcola, che in Francia sieno 10 milioni di passeri; che ognuno di loro consumi libbre 20 di grano, e così in tutti mette a perdita 200 milioni di libbre di quel frumento; ma perchè ogni passero per quattro settimane nutrisce la sua nidiata esclusivamente di insetti, ritiene che ogni coppia di passeri ne divori 26880, e così in tutti 136 bilioni, e 400 milioni: e siccome, anche passato tutto questo tempo, i passeri durano a pascere insetti, così non gli par forte portare a 300 bilioni questi enti nemici alla prosperità della Francia distrutti dai passeri. Però le passere si devono stimare come una seconda provvidenza di cotesto paese felicissimo: in quanto alla prima è posto preso.

[6] Dolcezze di carceri umanitario. Se taluno s'infastidisse leggerle, lo prego a pensare ch'io le soffersi, e di parecchie tacqui per non parere esagerato.

[7] Anco questo è anacronismo, però che Giordano Bruno fosse condannato al fuoco nel 17 febbraio 1600. Dicono che tanta infamia si commettesse in odio agli Spagnuoli, ed è scusa trista quanto la colpa. ARTAUD DE MOUTOR, gesuita laico che ha scritto la Vita dei Papi, nega risolutamente il fatto; senonchè, poche pagine dopo, accusa i Veneziani perchè lo consegnarono al Papa, e non ne proseguirono il processo a Venezia, sopportando così che la sentenza di cotesto filosofo venisse dettata dagli Spagnuoli. Bara coerenza di storico! Il medesimo scrittore si fa a confutare la opinione di coloro che affermano, il supplizio del fuoco inventato dai Cristiani contro gli Eretici; e dichiara com'esso ordinariamente si praticasse dai principi secolari in pena dei ladri e dei felloni alla patria ed al re, allegando gli esempii del Dante nostro, e di San Fruttuoso vescovo di Tarragona. Questi esempii non fanno punto al caso, dacchè altro sia inventare, ed altro imitare; e poteva darsi benissimo che cotesto supplizio, trovato dai sacerdoti cristiani, dai principi secolari venisse adottato: però se l'Artaud non ha ragione, mercè gli esempii suoi egli si appone al vero, e degli esempii avrebbe giovato meglio, a sostenere il suo assunto, quello che si legge nel libro VII della Guerra Giudaica di GIUSEPPE FLAVIO. Catullo, governatore della Libia Pentapolitana, trae partito da una sedizione di ebrei fuggita da Gerusalemme, per accusare gli ebrei più ricchi di Cirene. Gionata, capo dei ribelli, lo seconda nella calunnia; Catullo ne ammazza tremila. Chiamati poi a Roma, e chiarito il vero, Vespasiano condanna Gionata alle verge, e al fuoco. Catullo è rimandato assoluto; sennonchè colto da morbo insanabile, agitato dagli spettri, gli escono fuori le interiora, e muore.

[8] Il DESCURET nella Medicina delle Passioni referisce parecchi esempii piacevoli della mania delle collezioni. Uno raccolse tutti i bottoni della soldatesca dal 1789 al 1843; un altro in trent'anni raccolse i più celebri tappi di sughero; un ufficiale tutte le specie dei fagiuoli. Io ho conosciuto certo maggiore Chelardi, comandante di piazza a Livorno, il quale aveva completata la collezione del notaro Grifo, possedendo 365 tabacchiere di varia forma, e di vario pregio; e ciò, in difetto di ogni altro merito, gli procurava una tal quale celebrità.

[9] GREGORIO LETI, Vita di Sisto V, parte II, lib. I.

[10] «Signor, non mi abborrire S'io porto invidia ai morti»;

sono versi di un madrigale di M. Buonarroti.

[11] La donna, che servì Beatrice Cènci durante la sua prigionia, non si chiamava Virginia, bensì Bastiana; e questo si ricava dallo antico Estratto del Giorn. della Confraternita del S. Giovanni decollato a Roma, Liv. XVI, carte 66.—Fra le altre preghiere di Beatrice sul punto di morire leggiamo: «Vuole anco, che sia pagata Maria Bastiana quale l'à servita in questa sua prigionia, e nella carcere con molta carità, che oltre al suo salario ordinario le sieno dati scudi 40 di moneta, oltre anche quello, che lassa per testamento, e che tutto le lassa per amore di Dio».

CAPITOLO XXIII.

I GIUDICI.

                    Di nuova pena mi convien far versi.
                    . . . . . . . . . . . . . . . . . .
                    Chè dove l'argomento della mente
                      S'aggiunge al mal volere ed alla possa,
                      Nessun riparo vi può far la gente.
                                               DANTE, Inferno.

Ha la sventura un vento che la precorre, e chiamasi augurio: le anime pacate per mille indizii lo presentono, come gli uccelli lo approssimarsi del turbine: le altre poi, dalla vicenda dei quotidiani eventi perpetuamente commosse, non se ne accorgono, e la sventura le coglie subitanea e improvvisa.

Invano il giudice Ulisse Moscati chiudeva le orecchia alla voce interna, la quale insistente gli diceva: «tu getti via i passi». La voce tornava a sconfortarlo, e per la sua mente si avvolgevano pensieri simili a spettri, che in parte celino, e in parte palesino il minaccioso sembiante; nè egli osava interrogarli, e che si scuoprissero più palesemente aveva paura: tuttavolta, sciolto un grandissimo sospiro, e supplicato il cielo di uno sguardo, si avviò al palazzo Vaticano. Fattosi annunziare aspettò con pazienza per bene due ore, finchè il camerario del Papa gli partecipò che poteva entrare, e scortato da lui si trovò al cospetto del Sommo Pontefice.

Fosse per amore della vista, o quale altra causa più vera lo persuadesse, il candelabro appariva circondato da un cerchio di seta verde per modo, che dal busto in su la faccia di Clemente VIII non si distingueva, nè punto vedevansi Cinzio Passero e Pietro Aldobrandino cardinali nipoti, che stavano fermi in piedi dietro la spalliera della seggiola. Allora i Papi si assomigliavano tutti come le dita della stessa mano, stesa per molti secoli sul capo di parte non piccola del genere umano… e se per benedirlo, Dio onnipotente un giorno giudicherà. Adesso qualche maggiore differenza corre tra loro; non tanta però, che paiano nati di diversa famiglia: e tacendo degli altri per dire degli ultimi, Pio IX si mostrò tenerissimo delle libertà dei popoli; e della patia sua, la veneranda madre Italia, figlio amorosissimo: delle cose di religione poi studioso sì, ma non rigidamente zelatore, almeno sul principio del suo pontificato: all'opposto Gregorio XVI non versò in altro che in divinità, di cui fu maestro solenne; della libertà, e felicità dei figli suoi dilettissimi prendendo cura alquanto minore. Questi, per istringere il vincolo soave tra figli amati e il padre amante, chiamò uno straniero solo; quegli, per istringerlo più forte talchè in processo di tempo non avesse ad allentarsi più mai, ne chiamò quattro, e due ne conserva per aiutarlo a far portare al popolo romano quel dolce giogo, ch'è il suo amore: e se io dica il vero, la Civiltà Cattolica (dotto, pio, e soprattutto sagace diario dei Reverendi Padri Gesuiti) informi.

Clemente vestiva la mezzetta di velluto sanguigno ornata di ermellino, e il roccetto di trina finissima; il cappuccio pur di velluto rosso; la toga, le calze e le scarpe di seta bianca, e sopra queste ricamata la croce di oro. La luce dei doppieri spandendosi su la parte inferiore del capo del Pontefice metteva in rilievo un piede del servo dei servi, che, posato superbamente sul pulvinare di velluto vermiglio ornato di gallone e di nappe di oro, sembrava che comandasse a chiunque si accostava: baciami. Il giudice Moscati era troppo buon cattolico per non sentire cotesta voce; e comecchè per gli anni male egli si tenesse fermo su la persona, la vanità non consentì che l'altro si rammentasse caduco essere e mortale come lui, e gl'impedisse l'atto ignominioso: il Moscati cadde giù gravemente, e col capo venerando di canizie urtò nella gamba del Papa, il quale, malconcio da abituale podagra, forte se ne sentì trafitto; ma mordendosi il labbro compresse il lamento, finchè con voce acerba potè dire:

—Sorgete.

Il vecchio, appuntellata la tremula mano sul pavimento, non senza tornare a piegar le ginocchia più volte, giunse a raddrizzarsi sopra le gambe. Sorto, e ripreso lena, con ingenua franchezza egli aperse al Pontefice l'animo suo intorno al processo; della famiglia Cènci; lo chiarì della incertezza degl'indizii, espose la inverosomiglianza dei deposti, la età novella di alcuni fra gli accusati, i fatti non pure discordi, ma contrarii; e quantunque parecchie ne aggiungesse di suo, ripetè le considerazioni discorse da Beatrice; si avventurò eziandio a toccare (suprema audacia in cotesti tempo) delle prove dubbiose, che, a parer suo, nascevano dai tormenti; imperciocchè se Marzio aveva confessato in grazia della tortura, aveva ancora soppresso la sua confessione, ed era morto fra i tormenti in testimonianza di aver detto per ultimo la verità. I Cènci poi, tranne la donzella, un po' avevano confessato, un po' negato, dichiarando essersi accusati unicamente perchè costretti dalla forza del dolore: maravigliosa, egli aggiunse, essere la ingenuità di Beatrice, stupenda la efficacia dello eloquio, il modo di persuadere irresistibile, sicchè in quanto a lui giudicarla innocente. Queste cose avere voluto per debito di coscienza significare a Sua Santità, onde nel suo infallibile giudizio avvisasse quello che fosse da farsi pel meglio. Bernardino, fanciullo di dodici anni, avere sperimentato con la corda, e sentirsene al cuore un rimorso e uno affanno indicibili. Beatrice no, parendogli proprio commettere peccato mortale.

Mentre favellava il Moscati, i due Cardinali per quella mezza oscurità avvicendavansi sguardi simili a baleni precursori della tempesta, e il Papa anch'egli aggrottò i sopraccigli più volte; ma, per antico costume, a dissimulare e a simulare espertissimo, si contenne, e in suono di voce più pacato assai che di ordinario non soleva, commendò il Moscati della ottima mente sua, promise far capitale delle cose rapportategli, e, confortatolo con amorevoli parole a tornare il giorno veniente alla medesima ora, lo accomiatò impartendogli l'apostolica benedizione.

E il Moscati, pratico della temperie di corte, nonostante le singolari dimostrazioni di benevolenza, se ne andava col cuore più chiuso di quando ci era venuto: la voce interna, più incresciosa che mai, lo ammoniva aver gittato la opera e i passi: educato alla scuola della esperienza, ben egli sapeva come con gli uomini in generale, ma segnatamente co' Prelati, quanto il promettere si allunga si accorcia lo attendere, e le speranze nate in corte o su la pianta appassiscono, o, a modo del fiore di papavero, al primo soffio si spelano;—spiagge insidiose si provano le corti, dove mai tanto non fosti prossimo a naufragare come quando il cielo si mostra sereno, e il mare tranquillo.

Nonostante il presagio, l'uomo dabbene alla ora destinata andò, supplicando il Signore che almeno gli tenesse conto del buon volere. Accolto dai camerarii con insolito ossequio, lo resero avvertito attenderlo nelle sue stanze lo eminentissimo Cardinale San Giorgio, nipote di Sua Santità. I tristi auspicii sempre più si colorivano; ma l'uomo, che cosa può mai contro il fato? Certo quando ogni industria nostra per procurare alcun bene riesce invano, piccolo conforto è pensare che noi opera