The Project Gutenberg EBook of Storia dei musulmani di Sicilia, vol. II, by 
Michele Amari

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Title: Storia dei musulmani di Sicilia, vol. II

Author: Michele Amari

Release Date: September 17, 2014 [EBook #46888]

Language: Italian

Character set encoding: UTF-8

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STORIA
DEI MUSULMANI
DI SICILIA.


Proprietà letteraria.


STORIA
DEI
MUSULMANI
DI SICILIA

SCRITTA

DA MICHELE AMARI.


VOLUME SECONDO.

FIRENZE.
FELICE LE MONNIER.

1858.


SOMMARIO


[1]

LIBRO TERZO.

CAPITOLO I.

Al contrario della stanca società bizantina che sgombrava di Sicilia, la musulmana che le sottentrò, portava in seno elementi di attività, progresso e discordia. Nel primo Libro, toccammo gli ordini generali dei Musulmani, e come si assettarono in Affrica. Or occorre divisare più distintamente alquanti capitoli di lor dritto pubblico, e l'applicazione che sortirono appo la colonia siciliana.

Farem principio dal reggimento politico. Il dispotismo che prevalse con la dinastia omeîade, e si aggravò con l'abbassida, non era bastato ad opprimere le due aristocrazie, gentilizia e religiosa, tanto che non prendessero parte, secondo lor potere, alla cosa pubblica. Fecerlo in due modi; cioè con la interpretazione dottrinale della legge, e con lo smembramento dello impero: a che si è accennato, trattando dell'Affrica.[1] Secondo le teorie distillate per man dei dottori,[2] dagli eterogenei elementi della legge musulmana, [2] lo impero, era ormai, in dritto e in fatto, debole federazione di Stati, impropriamente chiamati province. Troviamo in Mawerdi, egregio pubblicista del decimo secolo, doversi tenere lo emir di provincia come delegato della repubblica musulmana, non del califo.[3] Ei veramente esercitava tutta l'autorità sovrana, fuorchè la interpretazione decisiva dei dommi.[4] Allo emir di provincia era dato:

Ordinare lo esercito, distribuire le forze nei luoghi opportuni, e fissare gli stipendii militari, quando non lo avesse già fatto il califo;

Vegliare all'amministrazione della giustizia ed eleggere i câdi e gli hâkem, magistrati simili al câdi nelle città minori;

Riscuotere tutte le entrate pubbliche, pagar chi di dritto su quelle, ed eleggerne gli amministratori;

Difendere la religione e la società;

Applicare le pene ad alcuni misfatti, nei limiti che appresso si descriveranno;

Presedere alle preghiere pubbliche, in persona o per delegati;

[3] Avviare e sovvenire i pellegrini della Mecca;

E, se la provincia stesse in su i confini, far la guerra ai vicini infedeli, scompartire il bottino ai combattenti e serbarne la quinta a chi appartenesse.[5]

Il popolo, dunque, di una parte del territorio musulmano costituita in provincia e governata da un emiro, non riconosceva il califo nè come legislatore nè com'esecutor della legge; non vedeva altra autorità che dello emiro; e costui, alla sua volta, non era tenuto ubbidire che alla legge ed alla propria coscienza; nè dovea rispettare il fatto del principe, fuorchè nel caso degli stipendii militari già determinati da esso. Il principe eleggeva e rimovea d'oficio l'emiro, come il câdi, senza poter dettare all'uno i provvedimenti, nè all'altro i giudizii; talchè tutta la amministrazione civile, militare, ecclesiastica e giudiziale si conducea come in oggi quella sola della giustizia negli Stati di Europa che abbiano magistrati amovibili ad arbitrio. Bene o male, era conseguenza logica della teocrazia. Se avvenia che il califo sforzasse lo emiro ad alcun provvedimento con minaccia di deposizione, ciò non costituiva norma d'ordine pubblico; era abuso di chi comandava e viltà di chi obbediva. Similmente il califo celava, quasi fosse colpa, [4] la vigilanza sua sopra lo emiro, affidandola al direttor della posta.[6] Alla effettiva autorità rispondeano le apparenze, e in particolare la cerimonia della inaugurazione, nella quale si prestava giuramento all'emiro non altrimenti che al califo.[7] La moneta, nei primi due secoli dell'islamismo, si coniava spesso col solo nome dell'emiro, per esempio di Heggiâg-ibn-Iûsuf in Irak, di Mûsa-ibn-Noseir in Affrica e Spagna, e di Ibrahim-ibn-Aghlab in Affrica.[8] Sì larga essendo la potestà legale del governator di provincia e impossibile di tarparla nei paesi lontani dalla metropoli, e stanziando in quelli la nobiltà armata, ognun vede con che agevolezza le province si poteano spiccar dall'impero, sol che le milizie parteggiassero per l'emiro; nel qual caso tornava inefficace la sola ragione lasciata al califo, cioè dargli lo scambio. Così nacquero le dinastie dei Taheriti in Persia, degli Aghlabiti in Affrica, dei Tolûnidi in Egitto e non poche altre. Cotesti novelli principi alla lor volta, se mandavano emiri nelle province conquistate, si trovavano rispetto a quelli nelle medesime condizioni e peggiori, che i califi verso di loro; [5] non avendo la dignità del pontificato, nè distinguendosi pur nel titolo dai governatori delle proprie colonie.

Le esposte norme di dritto pubblico si osservarono in Sicilia, infino ai tempi del tiranno Ibrahim-ibn-Ahmed, e se alcuno le trasgredì, furono i coloni più tosto che il principe. Gli emiri dell'isola facean da sè paci e accordi e scompartivano il bottino, a quanto si può spigolare tra gli aridi annali musulmani; nè si trovan vestigie di comando esercitato in Sicilia dai principi d'Affrica. Il titolo dell'oficio or si legge emîr, or wâli, e, nei primordii della colonia, sâheb; la qual voce par che denotasse il fatto d'una insolita autorità, e quasi independente, come dicemmo nel secondo Libro.[9] Men precisi indizii troviamo nelle monete. Tra le poche che ce ne avanzano degli Aghlabiti, due di argento portano il nome dello emiro siciliano insieme e del principe aghlabita, date di Sicilia il dugentoquattordici e il dugentoventi. Poi ne occorre una anche d'argento, del dugento trenta, ove leggonsi i simboli religiosi, il motto di casa d'Aghlab e la data di Palermo, senza nome nè dell'emiro nè del principe. In ultimo, un quarteruolo d'oro del dugentotrentatrè senza il nome della Sicilia nè del principe, ha ben quel dello emiro con la formola religiosa e il motto aghlabita. Di lì alla fine della dinastia, qualche moneta che si crede siciliana dalla fattura, senza che vi si legga Sicilia nè Palermo, offre il sol nome del principe Affricano.[10] Da [6] ciò si può conchiudere di certo che i primi emiri coniassero moneta; ma non che i successori non ne coniassero. D'altronde lo esercizio di tal dritto, che sarebbe assai significativo trattandosi di reami cristiani, poco monta negli Stati musulmani dei primi cinque secoli dell'egira, quando i califi lasciavan correre nelle monete, come dicemmo, il nome degli emiri di provincia; e i veri principi che sottentrarono ai califi ne lasciaron correre il nome; sì che passò in proverbio “è rimasa al tale la Khotba e la zecca” per significare un titolo senza potestà.[11]

Oltre la piena autorità esercitata dagli emiri di Sicilia, è da notar che sovente i coloni non aspettaron licenza dall'Affrica per rifar l'emiro, quando fosse venuto a morte, e sovente anco scacciarono gli eletti o confermati dal principe;[12] appunto com'era avvenuto in Spagna avanti il califato di Cordova, e in Affrica avanti gli Aghlabiti. A così fatta usurpazione li spingea l'assioma che lo emiro rappresentasse non il principe, ma il popolo musulmano; e altresì [7] la dubbia sovranità degli Aghlabiti, e la consuetudine allo esercizio di un dritto anteriore all'islamismo e non abrogato: cioè che tutta associazione di Arabi, grande o picciola, tribù o circolo, sempre scegliesse il proprio capo.

Le altre parti del civile ordinamento non occorre descrivere minutamente; sendo notissime, nè molto diverse da paese a paese. Con l'emiro pochi magistrati eran preposti alla esecuzione della legge. Cominciando dall'amministrazione della giustizia, si vedrà questa intralciata e sovente arbitraria. Decidea sempre un sol giudice; prendendo avviso legale da' muftî, assessori come noi diremmo. V'era un sol grado di giurisdizione; e quattro maniere di giudici con mal definita competenza. Primo giudice criminale il principe o l'emiro,[13] che poteva applicar le pene scritte testualmente nel Corano e non altre; ma al contrario, nella istruzione del processo, gli era lecito lo arbitrio che si negava al câdi. Nei misfatti di dritto divino[14] l'emiro decideva o delegava la causa; quei di dritto umano[15] eran conosciuti da lui o dal câdi, a chi si rivolgessero gli offesi.[16] L'emiro poteva alzar poi un tribunale straordinario chiamato dei mezâlim o diremmo noi de' soprusi, ov'ei sedea coi câdi, hâkim, giuristi, segretarii, testimonii e guardie; e sì decidea, con procedura eccezionale, su i richiami per casi qualunque, criminali, amministrativi e anche civili, quando la potenza dell'accusato avesse [8] tolto all'offeso d'ottenere giustizia ne' modi soliti.[17] Independente dallo emiro, il câdi nelle città maggiori e lo hâkim nelle altre, esercitava quella tutela delle persone incapaci e opere pie che appo noi va attribuita al pubblico ministero; e inoltre giudicava tutte cause civili e le criminali che richiedessero interpretazione di legge o fossero delegate dall'emiro; fuorchè le cause civili e criminali di minor momento, alle quali era preposto il mohtesib.[18] I parenti del profeta aveano magistrato speciale.[19] Infine il mohtesib esercitava la giurisdizione meramente esecutiva nelle cose civili, e nelle criminali quella che potremmo chiamare correzionale, se esattamente rispondesse alla definizione dei nostri codici; e al medesimo tempo era oficiale di polizia urbana ed ecclesiastica; vegliava ai mercati; alla giustezza dei pesi e delle misure; allo esercizio delle arti liberali o arti meccaniche o commercii, sì che non nocessero ai cittadini.[20]

Dopo ciò, poco rimane a dire dell'amministrazione [9] civile: della quale dapprima ebbe carico il mohtesib; ma l'oficio in alcuni Stati fu diviso, con diversi nomi; e rimase quel di mohtesib al preposto dei mercati.[21] La sicurezza pubblica, o sicurezza del despotismo, fu affidata, nelle capitali, a un prefetto chiamato per lo più sâheb-es-sciorta,[22] del quale v'ha ricordo negli annali della Sicilia musulmana;[23] e il nome rimase per lo meno infino al decimoterzo secolo, quando i capitoli del Regno di Sicilia chiamano Surta le pattuglie di polizia.[24] Il mohtesib, o come che si addimandasse, partecipava alle cure edilizie insieme col magistrato municipale propriamente detto, com'oggi l'intendiamo.

Scarsi quanto siano i ricordi che ci avanzan di cotesta parte di civile reggimento negli Stati musulmani del medio evo, pur non cade in dubbio la esistenza dei corpi municipali. Generalmente si appellavano gemâ', che suona adunanza; come sappiamo [10] del Kairewân sotto gli Aghlabiti;[25] di tutte le città d'Affrica nei primordii della dinastia fatemita[26]; del califato abbassida nel decimo secolo,[27] e fino ai nostri giorni delle cittadi e tribù dell'Affrica settentrionale.[28] Questo ordine, non istituito da legge scritta, era appunto novella forma del gran consiglio di tribù e di circolo, di che parlammo nelle istituzioni aborigene degli Arabi: e in vero non si potrebbe comprendere che i nomadi, fatti cittadini, avessero disusato quell'ordinamento, quando il novello lor modo di vivere lo rendea sì necessario, se non per trattare le cose politiche, certo per provvedere, con mezzi e volontà comuni, ai bisogni particolari della città. La gemâ' nelle popolazioni arabiche par sia stata composta dei capi di famiglie nobili, dei dotti, facoltosi e capi delle corporazioni di arti, le quali assimilavansi a famiglie e costituivano società di assicurazione reciproca nei casi penali: perciò questo corpo municipale somigliava in parte alla curia romana.[29] Non sappiamo se la sciûra, di che si fa menzione negli annali della Spagna musulmana,[30] sia la gemâ' sotto [11] altro nome, ovvero una deputazione della gemâ', un comitato esecutivo, diremmo oggi, il quale nei tempi ordinarii amministrasse i negozii del municipio deliberati dalla gemâ'; ma certo è che nei tempi torbidi reggeva le faccende politiche. Nei tempi ordinarii la gemâ' era richiesta, in difetto dell'erario, di provvedere, per contribuzioni volontarie di danaro o d'opera, alla costruzione o restaurazione degli acquedotti, delle mura, delle moschee cattedrali e al sovvenimento dei viandanti poveri. La richiedeva il mohtesib; poteva obbligarla il solo principe, e nel sol caso che la città fosse piazza di confini, onde, cadute le mura o dispersa la popolazione, ne sarebbe tornato pericolo a tutto il reame. La obbligazione, sempre era collettiva, non individuale: dal che ognun vede essere stata la gemâ' corpo morale, e vero municipio. Alla ristorazione delle moschee minori provvedeano quei circoli o quartieri che le possedessero; e trascurandosi da loro cotesto dovere, il mohtesib era [12] tenuto a farne memoria.[31] Ciò conferma il fatto che oltre il magistrato municipale della città ve n'era altri di quartiere o contrada;[32] istituzione necessaria nelle città musulmane, le quali, al par che le nostre del medio evo, eran divise in quartieri, abitati per lo più da nazioni o arti diverse.

Cotesti ordini dall'Affrica passarono senza dubbio nella colonia siciliana; onde v'ha memoria della gemâ' di Palermo, costituita come le altre a modo aristocratico; e pronta a trapassare alla usurpazione dell'autorità politica.[33] La riputazione dei giuristi che notai trattando dell'Affrica, va supposta necessariamente in Palermo, ove fiorirono nei principii del decimo secolo gli studii di dritto, secondo la scuola di Malek.[34] Contuttociò non apparisce in Sicilia l'umor di parti di cittadini e nobiltà militare, ond'erasi agitata l'Affrica nei principii del nono secolo. La concordia durava per esser fresco il conquisto; e perchè nobili e cittadini di schiatte orientali stanziavano la più parte in Palermo, uniti da interessi comuni, dalla gelosia contro il governo d'Affrica, e dalla brama di sopraffare i Berberi lor compagni nell'isola.

Pria di passare all'azienda son da esaminare i due ordinamenti economici della colonia dai quali dipendea principalmente la entrata e la spesa pubblica; cioè, il primo, la costituzione della proprietà [13] territoriale; il secondo, i ruoli militari. Molto si è disputato tra i dotti europei sul dritto di proprietà nei paesi musulmani; e manca nondimeno una verace e nitida esposizione di tal materia; ond'è forza ch'io mi provi ad abbozzarla. Premetto essere erronea la generalità, che si è troppo ripetuta e renderebbe superfluo ogni esame; cioè che tutti i terreni appartengano in proprietà a Dio, e per lui al pontefice principe.[35] Gli eruditi che trovarono tal paradosso, tolsero in iscambio di dichiarazione di dritto le frasi poetiche o teologiche, come voglia dirsi, frequentissime nel Corano: che Iddio è padrone del Cielo e della Terra, padrone dei Mondi, e via discorrendo. Al certo i Musulmani, ammesso un creatore, lo doveano tener signore di sue proprie fatture; ma pensavano ch'egli avesse lasciato il terreno, non altrimenti che l'acqua, l'aria, il fuoco, la luce, a utilità universale delle creature; non donatolo in particolare a Maometto, e molto manco ai pontefici che gli dovean succedere.

Tanto egli è vero non aver mai il Profeta presunto [14] sì strano dritto, che, secondo una tradizione sua, l'erba, unico prodotto del suolo nella maggior parte dell'Arabia, si tenne sì come l'acqua e il fuoco proprietà comune di tutti gli uomini.[36] Tali anco furono risguardati certi minerali agevoli a raccogliere, come sale, antimonio, nafta, antracite.[37]

Dal dritto nomade volgendoci a quello delle popolazioni stanziali, è manifesto che il Corano e la Sunna riconoscano la piena proprietà delle terre coltivate, al medesimo titolo che la proprietà mobile. L'una e l'altra maniera di facoltà va soggetta ad unica tassa: dieci per cento su i prodotti del suolo, e due e mezzo su la quantità degli armenti, moneta e altri beni mobili; la quale gravezza, ragionandosi nel primo caso su la rendita e nel secondo sul capitale, viene a ragguaglio, o torna più lieve su le terre che su gli altri capitali.[38] Maometto, imitando così le decime giudaiche, ne mutò lo investimento; e con sublime idea chiamò questa tassa sedekât o vogliam dire offerte di schietto animo, e zekât[39] che [15] suona purificazione: purificazione, dir volle, della colpa che ha il ricco lasciando morir di fame i poveri e mancar le entrate allo Stato. In vero tassa di poveri è questa, non men che pubblica contribuzione; andando tripartita per legge tra lo erario, i parenti del Profeta e i bisognosi, fossero orfanelli, viandanti, o altri.[40] Le proprietà esistenti, rispettate così dallo islamismo, si trasmetteano, al par che i beni mobili, per vendita, donazione o successione.

Quanto ai nuovi acquisti, Maometto non parlò che del legittimo per eccellenza: dichiarò che chiunque renda alla vita una terra morta, così esprimeva il dissodare un suolo inculto o fabbricarvi sopra, ne divenga padrone assoluto; sì che nè il principe nè altri possa togliergli il podere, finch'ei lo coltivi.[41] Nei [16] tempi appresso restaron dubbii, secondo le varie scuole, i limiti che potesse porre il principe a tal dritto di primo occupante; ma la sostanza del dritto non fu mai disputata; anzi si accordò la terra intorno il pozzo, a chi primo lo avesse scavato in terren deserto.[42]

Su le proprietà stabili rapite ai vinti, Maometto non fece provvedimento generale, perchè rado occorse ai tempi suoi; nè parlarne troppo ei potea, proponendosi di conciliare e amalgamare la nazione. Cominciati i conquisti fuori d'Arabia, Omar applicò al caso qualche esempio del Profeta, e l'ordine posto dal Corano al partaggio della preda; onde quattro quinte andavano divise ai combattenti e una quinta serbata a utilità pubblica, e sussidii a varie classi di persone.[43] Per tal modo furon divise alcune terre ai combattenti.[44] Ma, in quell'età eroica, gli Arabi si tediavan [17] di così fatta ricchezza. Tra il genio di correre a cavallo, combattendo, rubando e gridando Akbar-Allah; e tra abnegazione e ignoranza, alcuni giund rinunziarono alla repubblica la parte loro dei terreni; talchè, nella fertile provincia del Sewâd, Omar poneva in demanio tutti i poderi della dinastia regia di Persia, e dei privati che fossero morti o fuggiti.[45] Tal nuova usanza invalse in appresso; anche non volendolo le milizie, nell'animo delle quali i sentimenti poetici sempre più calavano alla prosa. Come i combattenti, oltre la quota del bottino, godeano stipendio su le entrate pubbliche; e come i conquisti erano da attribuirsi alla potenza comune dei Musulmani, anzi che alle armi di tale o tal altro esercito, così parve giusto, che i frutti perenni della vittoria si godessero dallo Stato: e indi più di raro si effettuò il partaggio dei quattro quinti delle terre.[46]

A ciò condusse anco il fatto che i paesi non si pigliavano quasi mai con la spada alla mano; ma per dedizione degli abitatori, assoluta o a patti: avvenendo che, dopo alcuna vittoria, intere province [18] si sottomettessero nell'uno o nell'altro modo; ovvero che gli abitatori si facessero musulmani prima dell'occupazione. Or, a mente del Corano, il principe disponeva ad arbitrio suo delle persone e roba degli Infedeli arresi a discrezione;[47] in caso di accordo i patti eran legge; e in caso di conversione le terre, secondo alcuni giuristi, rimaneano in libera proprietà ai possessori attuali; secondo altri, il principe scegliea tra questo partito e il sottometterle a tributo.[48] I principi, ad esempio di Omar, provvidero o stipolarono in tre diversi modi, intorno la proprietà territoriale degli Infedeli vinti. I demanii del governo scacciato e i poderi caduti nel fisco per morte, schiavitù o fuga dei possessori, divennero proprietà perpetua e inalienabile della repubblica musulmana; e teneansi in economia, o si davano in enfiteusi, per annua rendita, kharâg, come dissero vagamente gli Arabi, cioè quel ch'esce, quel che si cava dal podere.[49] Le altre terre lasciaronsi ai possessori infedeli, dove in piena proprietà, e però con dritto di alienare, ipotecare e disporre per testamento; e dove in dominio utile, ammettendo soltanto, com'e' pare, le successioni; in ambo i casi a condizione di pagare un tributo, che fu detto similmente kharâg. Questo, su le terre [19] di piena proprietà, tornava a tassa fondiaria, e cessava per conversione del possessore, o passaggio del podere in man di Musulmani; e su le terre di dominio utile era una maniera di censo, e durava in perpetuo.[50] La legge riconoscea, dunque: proprietà libera di Musulmani per possesso anteriore alla conversione, per dissodamento o fabbrica, e per partaggio al conquisto; proprietà piena di Infedeli, soggetta a kharâg eventuale; proprietà vincolata di Musulmani e Infedeli, soggetta a kharâg perpetuo; e finalmente enfiteusi di fondi demaniali. Altra origine di possessione territoriale non v'era. Il principe potea scompartire ai combattenti e abilitare chiunque al dissodamento; non mai concedere terreni gratuitamente; non essendo suoi proprii, ma della repubblica o dello esercito vincitore.[51]

Questo fu il dritto generale infino al decimo secolo dell'era cristiana. Nel fatto, erano già nati parecchi abusi in questa e quell'altra provincia: e dove si vedeano proprietà demaniali usurpate da privati,[52] dove, al contrario, par che i governi si sforzassero a confondere il kharâg eventuale e il perpetuo; e ad aggravare, come se fossero demaniali, i poderi tributarii [20] della prima o seconda delle classi dette di sopra: e non è dubbio che gli abusi crebbero col tempo; sopra tutto dall'undecimo secolo in poi, quando la schiatta turca dominò successivamente la più parte degli Stati musulmani, e vi istituì veri beneficii militari. Dopo dodici secoli, il viluppo cagionato da coteste vicende nella ragione delle proprietà, è stato assai difficile a penetrare; e si è corso rischio di scambiare il dritto con lo abuso, la eccezione con la regola, la ragion d'un paese con la ragione d'un altro: tanto più che la voce kharâg ha i varii significati che accennammo, e inoltre quello di censo dell'acqua dei canali mantenuti dallo Stato, con che si inaffiassero terre decimali, ossia di libera proprietà musulmana.[53] E indi è che i trattati usciti fin qui su tal materia, lasciano tanto a desiderare.[54] Quanto a [21] noi, ci basta saper le teorie ammesse da Mawerdi, un secolo e poco più, dopo il conquisto di Sicilia: e avremo compiuto il nostro debito dimostrandone coi fatti la osservanza, se non nella colonia siciliana, almeno in tempi vicini e paesi analoghi.

Nella quale investigazione occorre che al primo ordinamento della colonia d'Affrica (698) furono assoggettati al kharâg i Berberi non musulmani e gli abitatori cristiani di sangue fenicio, pelasgico o germanico,[55] e ne andarono esenti i Berberi musulmani; i quali sostennero tal franchigia con le armi (720 a 740), contro governatori troppo fiscali.[56] Da un'altra mano sappiamo che il governo dei califi, dando sesto alla Spagna nei principii del conquisto (720), divise parte delle terre ai soldati; parte ne serbò in demanio; e parte lascionne agli antichi abitatori, sotto [22] tributo:[57] nè è verosimile, anzi non è possibile, che siasi fatto altrimenti nell'Affrica propria, ond'eran mossi i conquistatori della Spagna, ed ove la colonia arabica tollerava sì poco il comando, non che i soprusi, dei califi. Ci accusa libera proprietà in Affrica il fatto che Ibrahim-ibn-Aghlab, emiro, comperava dai Beni-Tâlût (801) il terreno per fabbricare la cittadella d'Abbâsîa.[58] Dei poderi soggetti al kharâg non è mestieri allegar prove. Dei poderi demaniali, dhiâ, come chiamavanli, si fa menzione più volte negli annali d'Affrica.[59]

Ove si considerino i modi e il lungo spazio di tempo in che i Musulmani compieano il conquisto della Sicilia, non si metterà in forse che nascesservi tutte le maniere di proprietà discorse di sopra. Superfluo sarebbe a dire dei beni demaniali,[60] e di quei [23] rimasi ai Cristiani.[61] Quanto alle possessioni dei Musulmani, poichè se ne conoscon tante dopo il conquisto normanno,[62] non è mestieri, provare che esistessero innanzi; ma sì indagare se al tempo della dominazione musulmana ne fossero state delle decimali e delle tributarie; cioè proprietà libere o vincolate. Su di ciò non troviamo attestati positivi. Ma è verosimile, che non mancassero le terre decimali, acquistate sia per dissodamento, sia per partaggio. Le prime debbon supporsi rade e di poca estensione. Il partaggio fu al certo di maggiore importanza. Quantunque in Affrica fosse cominciata a seguirsi nel nono secolo la scuola di Malek, la quale attribuisce allo Stato le terre prese per forza d'armi,[63] pur non erano obbligatorie così fatte teorie, nè la scuola era riconosciuta da tutti i giuristi; e inoltre i principi aghlabiti, infino ad Ibrahim-ibn-Ahmed, poca o niuna autorità esercitarono su le milizie di Sicilia, le quali certamente amavano meglio il partaggio. Indi è da conchiudere che gli emiri pigliassero in demanio quando poteano, e, quando no, scompartissero i quattro quinti delle terre. Così credo si praticò alla resa di [24] Palermo; il cui territorio, e forse di gran parte della provincia, fu tolto ai naturali, per esser tutti o fuggiti o fatti schiavi.[64] E veramente a partaggio accennano le discordie che immediatamente seguirono, composte a mala pena dagli Aghlabiti.[65] La resa a discrezione o presura per forza d'armi, si rinnovò poscia in varii luoghi, onde dovea portare il medesimo effetto. Le possessioni decimali poteano anco nascer da quelle lasciate per avventura in piena proprietà a Cristiani i cui figliuoli avessero professato poi l'islamismo; chè moltissimi il fecero nel nono secolo in Val di Mazara, e nel seguente in Val di Noto e parte del Val Demone. Nondimeno, com'è incerta la stipolazione della piena proprietà, e come l'interesse del governo e degli antichi Musulmani si opponeva a lasciar godere la franchigia ai novelli convertiti, così non sapremmo supporre frequente un tal caso. Un cenno che ne danno le cronache nei principii dell'undecimo secolo, e che si riferirà a suo luogo, ne fa certi che i Musulmani dettivi Siciliani, fossero progenie degli antichi abitatori, ma non che il kharâg posto sopra di loro lo fosse stato allora per la prima volta: e però questo fatto non può dare argomento dell'indole della proprietà, se libera o vincolata.[66]

In ogni modo il conquisto musulmano cagionò profondo [25] rivolgimento nella costituzione e distribuzione della proprietà territoriale in Sicilia. I poderi dei Musulmani, originati da dissodamento o partaggio, doveano esser molti e non vasti; e a suddividerli conducea la legge delle successioni, la quale permette i legati infino a un terzo dell'asse ereditario, accorda parti uguali ai figli e metà di parti alle figliuole, e chiama all'eredità gli ascendenti, anche sendovi discendenti, e in mancanza degli uni e degli altri ammette i collaterali.[67] Spicciolavansi altresì le terre del demanio, affittate o censite per compartimenti.[68] Conferman la suddivisione della proprietà i moltissimi nomi arabici che rimaneano ai poderi nel duodecimo secolo, soprattutto in Val di Mazara, e ve ne rimangono tuttavia, i quali nacquero al certo dal detto rimescolamento; poichè le denominazioni topografiche son tenacissime, le antiche si smetton di rado per mutazione del possessore, le nuove nascon quasi sempre da suddivisione o aggregamento dei poderi. Così il conquisto musulmano guarì la piaga dei latifondi, la quale avea consumato la Sicilia fino al secol nono, e riapparve con la dominazione cristiana nel duodecimo.

Più vasto frutto della vittoria, più divisibile, e più congeniale alla maggior parte dei primi coloni di Sicilia, era lo stipendio militare. Godealo, in tutti gli Stati musulmani, il giund, ordine militare propriamente [26] detto; del quale farem parola, lasciando indietro le altre maniere di combattenti; cioè gli schiavi e liberti che alcuna volta si adoperavano come stanziali, e le plebi, le quali traeano volontariamente alla guerra sacra, partecipavano al bottino, e, finita la impresa, se ne tornavano a vivere di limosine o dure fatiche. Nel giund si scrissero un tempo tutti i Musulmani; poi, a misura che l'impero si allargò, i ruoli si ristrinsero, com'abbiamo accennato nel primo Libro. Quivi anco abbiam divisato le norme dei divani di Omar; le quali durarono e si modificarono al par di tante altre primitive istituzioni dell'islamismo. Nel nono secolo, gli Arabi prendean luogo tuttavia nei ruoli sopra le schiatte straniere; e queste tra loro secondo l'anteriorità della conversione: suddivisi gli Arabi, al par che gli stranieri, per tribù e parentele; le quali prendean grado secondo la consanguineità col principe; gli individui secondo la età. Ma ormai non entrava nel giund chiunque il chiedesse, solo i figliuoli di militari, quando fossero adulti, validi, buoni alle armi e senz'altro mestiere; di che giudicava il principe, e potea alsì ammettere uomini nuovi. Variava il soldo a giudizio anco del principe o dell'emiro, secondo i bisogni, che è a dire in ragion del numero dei figliuoli e degli schiavi, la quantità dei cavalli mantenuti e i prezzi delle vittuaglie in ciascun paese; ma in ambo i casi detti era limitato l'arbitrio dalla consuetudine universale e dalla potenza delle famiglie componenti il grosso delle milizie. Discendean esse in parte dall'antica nobiltà arabica; orgogliose di lor tradizioni, clientele, pratica e prontezza al [27] combattere.[69] Indi si vede che il giund era tuttavia, come dissi nel primo Libro, nobiltà armata, ordine aristocratico, temperato alquanto dalla monarchia.

Agli stipendii suoi era specialmente destinato il fei; cioè prestazioni permanenti degli Infedeli, fossero tributi collettivi delle popolazioni assicurate, o tributi individuali delle popolazioni soggette, chiamati gezîa, kharâg o decima delle merci, comprendendosi sotto la denominazione di kharâg il ritratto dei beni demaniali.[70] Nel primo secolo dell'egira, epoca di conquisti e franchige, gli Arabi avean fatto sì rigorosamente osservare lo investimento del fei, che il califo non ne metteva ad entrata altro che i sopravanzi; nè era lecito agli oficiali del tesoro d'incassare materialmente la moneta, se i notabili militari e civili che la recavano dalle province, non giurassero essere stati pria soddisfatti coloro che avean ragione su quelle entrate, specialmente le milizie.[71] [28] Cresciute poscia nel principato le forze e le brame, e abbassate le milizie per la istituzione degli stanziali, tanto pure avanzò delle costumanze antiche che il fondo degli stipendii non si menomò.[72] Si pagavano oramai in molte province, se non in tutte, per delegazione sul kharâg di un dato podere o territorio, secondo la somma registrata nel catasto, che s'agguagliasse a quella dello stipendio registrato nel ruolo militare. La delegazione, oltre il kharâg, si facea sopra altre entrate di fei. Chiamavasi iktâ'; taglio, come suona in lingua nostra.[73] Portava al governo risparmio delle spese e fatiche della riscossione; ma aggravava i contribuenti; corrompea le stesse milizie, mutate in torme di gabellieri e concussionarii privilegiati; e tornava alla fin fine a rovina dello Stato, per le infiacchite forze nazionali, le entrate distratte, i popoli spolpati, e gli sciolti legami tra le [29] milizie e la pubblica autorità. Tanto più che alle milizie l'iktâ' soleasi concedere a vita, e talvolta con sostituzione dei figliuoli; quantunque i giuristi dichiarassero nullo tal modo.[74] Sospetto che le concessioni per ordinario fossero state collettive in favore di un giund: naturalissimo e pessimo espediente. Che che ne sia, i beneficii militari, nati nella precoce decadenza della società arabica, aiutarono, con gli altri vizii, alla rovina di sua dominazione. La istituzione degli emiri di provincia primeggiò, come dicemmo, tra le cause che smembravano l'impero in reami: gli iktâ' cooperarono a rinnalzare l'abbassata aristocrazia e spingerla all'anarchia feudale; poichè le milizie divennero come forza privata dei capi loro; onde avvenne che alcuno occupasse il principato, o, peggio, che molti sel contendessero. Così fu in Spagna; così in Sicilia nello undecimo secolo.

Ordinato per tal modo che la entrata principale si applicasse al principale bisogno dello Stato, poco rimanea per le altre spese, che pur cresceano con lo incivilimento e con gli sforzi dei principi tendenti al potere assoluto. Più che in niun'altra parte di governo, apparisce nell'azienda il radical difetto della teocrazia musulmana. Il Corano avea provveduto appena al bilancio, com'oggi si dice, d'un misero governo di [30] tribù. Per soddisfare alle spese d'uno impero, convenne dunque cercare entrate fuor dalla legge; come fu appunto il kharâg statuito da Omar; e, quando nè anco bastò, forza fu di trapassare e legge e consuetudine. I giuristi allora, che si arrogavano il potere legislativo mediante le interpretazioni, si messero a tirar coi denti qualche capitolo del Corano e della Sunna per adattarlo ai bisogni attuali, o sostennero che non v'era modo. I principi posero balzelli a dispetto della legge e degli interpreti; e rasparon danaro qua e là, su la quinta del bottino, su la zekât, sul fei: su le quali entrate eran certi i dritti dello Stato, milizie, parenti del Profeta e indigenti, ma incerte le quote. Tolsero dal kharâg gli stipendii degli oficiali civili, oltre quei delle milizie; serbaronsi quel che lor piacea dei beni demaniali o ne concedettero a favoriti; talvolta consumarono il pan dei poveri, cioè la zekât e la quinta, in opere di utilità pubblica e di vanità pubblica e di vanità monarchica. Da ciò nacquero frequenti contrasti tra i principi e i giureconsulti; contrasti senza uscita legale, e però nocevolissimi: nè mai la finanza musulmana fu regolata da unico e vasto pensiero, nè adattata ai tempi, nè rassodata dal dritto.[75] In Sicilia i balzelli arbitrarii par che cominciassero nel decimo secolo, forse un poco avanti, sotto il regno di Ibrahim-ibn-Ahmed. Fin allora la quinta, e il fei, abbondanti per cagion della guerra, e la decima, bastavano ai bisogni della colonia [31] militare, non obbligata a mandar danaro in Affrica.[76]

Dopo gli ordinamenti è da ricercare quali generazioni d'uomini fossero venute a stanziare in Sicilia, sotto il nome di Musulmani. Scarseggiando così fatte notizie appo i cronisti, sarà uopo aiutarci coi nomi topografici relativi a schiatte o analoghi a quei d'altri paesi musulmani. Cotesta via d'induzione non ripugna alla sana critica; poichè i popoli musulmani, come tutti altri, usarono ripetere nelle colonie i nomi della madre patria; e fu tanto, che appo loro si compilò un dizionario apposta di omonimie geografiche.[77] Nondimeno la medesimità del nome può nascere talvolta da analogia di condizioni locali, verbigrazia Casr-el-Hamma, il “Castel dei Bagni,” che se ne trovava in Sicilia, in Affrica e altrove; o può venire da epoche più remote, da somiglianza casuale dei vocaboli, da altra origine ignota a noi: per esempio, in Sicilia stessa Segesta e Mazara, i quali nomi rispondono al Segestân, provincia della Persia, e a Mazar, villaggio del Loristân anco in Persia.[78] Sendo notissime nell'antichità quelle due città siciliane, la identità dei nomi porterebbe per avventura a confermare la origine orientale dei Sicani, e non sarebbe cagion di errore [32] quanto ai tempi musulmani. Ma l'esempio ci ammonisce vieppiù a stare guardinghi, e ricusare gli indizii di questa fatta che non trovino riscontro nelle vicende istoriche.

La diversità di schiatte della colonia siciliana è attestata da Teodosio monaco con parole enfatiche e pur veraci, là dov'ei sclama adunarsi in Palermo la genía saracenica dei quattro punti cardinali del mondo:[79] chè dovea trasecolare il prigion di Siracusa, passando dalla monotonia d'un capoluogo di provincia bizantina, al tumulto della crescente capitale: coloni e mercatanti viaggiatori; e, misti ai Siciliani, ai Greci, ai Longobardi, a' Giudei, Arabi, Berberi, Persiani, Tartari, Negri; chi avvolto in lunghe vesti e turbanti, chi in pellicce e chi mezzo ignudo; facce ovali, squadrate, tonde, d'ogni carnagione e profilo; barba e capelli varii di colore e di giacitura; ragunati insieme i sembianti, le fogge, le lingue, i portamenti, i costumi di tanti popoli abitatori dell'impero musulmano. I nomi di tribù ricordati nel Libro precedente, mostrano tra i coloni ambo le schiatte di Kahtân e Adnân e sopratutto la seconda.[80] Scendendo alle divisioni nate dopo l'islamismo, si ritrae che, oltre gli Arabi d'Affrica, [33] ve n'ebbe di Spagna;[81] fors'anco di Siria, Egitto e Mesopotamia.[82] V'ebbe al certo la progenie dei Khorassaniti e altri Persiani passati in Affrica nello ottavo secolo; e non fu di poco momento, vedendosi primeggiare tra i Musulmani di Palermo, nelle guerre d'independenza del decimo secolo, un Rakamuwêih, nome persiano, e la potentissima famiglia dei Beni-Taberi, oriunda del Taberistân; oltrechè nel territorio di Palermo trovansi i nomi topografici di Ain-Scindi,[83] [34] Balharâ,[84] e Ságana;[85] e, un po' più discosto, quei di Menzîl-Sindi e Gebel-Sindi,[86] i quali tutti van riferiti alle schiatte dello estremo oriente. I nomi dei luoghi, al par che gli avvenimenti storici, mostrano che gli Arabi, e altri popoli di Levante, tenessero le [35] parti settentrionali del Val di Mazara, nel quale, come il dicemmo, erano ristrette le colonie musulmane nel nono secolo. Palermo, fatta capitale dell'isola, era lor sede principale; e par che lungo la costiera quelle popolazioni si estendessero, verso ponente, infino a Trapani.

La schiatta berbera, com'è noto, accompagnò gli Arabi nel conquisto di Sicilia; sendone venute alcune tribù nell'esercito di Ased-ibn-Forât, altre col berbero spagnuolo Asbagh-ibn-Wekil, altre senza dubbio nelle varie espedizioni che successero, ed alla spicciolata. Fu parte non piccola della colonia; poichè potè sostenere lunga guerra civile contro gli Arabi. Occupò le regioni meridionali del Val di Mazara. E veramente tra una dozzina di nomi berberi, su la origine dei quali non cade alcun dubbio, la più parte si trova in quella regione, nel tratto che corre da Mazara a Licata.[87] Girgenti, guerreggiante [36] spesso contro Palermo e sempre rivale, era senza dubbio la città più importante, e come la capitale dei Berberi.

[37] La moltiplicità delle schiatte invelenì al certo molte querele private; si mescolò forse alle altre cagioni d'ira negli scambii degli emiri; ma non potea produrre tante fazioni, quante nazioni. Inoltre la progenie di Kahtân sembra pochissima in Sicilia innanzi i Kelbiti, che vennero nel decimo secolo. I Persiani par che dimenticassero la rivalità loro contro gli Arabi, già mitigata dal tempo in Affrica. Lo stesso avvenne agli altri sminuzzoli di schiatte orientali, troppo deboli per far parte dassè, interessati tutti a stringersi intorno gli Arabi di Adnân per soverchiare i Berberi.

Arabi e Berberi dunque: ecco la profonda, insanabile divisione della colonia siciliana. Tra gli uni e gli altri non era divario di condizione legale. Mentre in Affrica molte tribù berbere pagavano tuttavia il kharâg e rimanean prive degli stipendii militari, [38] per essere state sottomesse con la forza, in Sicilia le due genti, venute insieme a combatter la guerra sacra, vantavano uguale dritto ai premii della vittoria. Se non che, in fatto, gli emiri dell'esercito siciliano nascean di sangue arabico, al par che i principi aghlabiti; di sangue arabico o persiano i dottori, gli ottimati, la più parte dei cavalieri del giund; nè poteano smettere in Sicilia l'orgoglio e cupidigia da nobili; nè dimenticare la maggioranza della schiatta loro in Affrica. I Berberi poi non si tenean da meno di loro: conscii del proprio numero, valore, dritti d'islamismo e dritti di natura. Un moderno e sagace osservatore, il generale Daumas, notando il divario ch'è tra le istituzioni sociali degli Arabi e dei Berberi, e trattando particolarmente dei Berberi della Kabilia Grande, come chiaman la regione tra Dellys, Aumale, Setif e Bugia, ben ha dipinto quella nazione col motto di “Svizzera salvatica.” Cantoni e villaggi, al dir suo, fanno unità politiche; rannodansi tra loro per leghe più o meno durevoli: repubblichette democratiche, ove ognuno ha voce in consiglio; i magistrati elettivi, di breve durata e poca autorità; case nobili preposte sovente alle leghe, per ambito o riputazione, non per dritto; e, più che ai magistrati o ai nobili, si obbedisce ai marabuti, frateria che molto somiglia al monachismo del medio evo: la gemâ' rende ragione in materia criminale, non secondo il Corano ma con le antiche consuetudini del paese: l'omicida dichiarato fuor della legge; per gli altri delitti, pene pecuniarie, e non mai staffilate come appo gli Arabi. Pensa il lodato autore ch'abbian ordini analoghi le [39] altre popolazioni berbere dell'Algeria;[88] ed io aggiugnerei che, si eccettuino le tribù nomadi e alcuni periodi in cui tribù agricole, o leghe, si son governate a monarchia, e del resto si tengano le consuetudini di civile uguaglianza come osservate in tutta la schiatta berbera fin da tempi remotissimi.[89] Dopo il conquisto musulmano ne danno indizio quella generale inclinazione dei Berberi alle sètte kharegite; e lo spirito d'independenza della tribù di Kotâma a fronte dei califi fatemiti;[90] e i magistrati della medesima tribù e di Zenâta nell'undecimo secolo, analoghi a quelli di cui parla il generale Daumas ai dì nostri:[91] [40] che se talvolta sursero in quel popolo principi o dittatori, si ricordi tali usurpazioni avvenir più agevolmente negli Stati democratici che sotto l'aristocrazia. Da ciò si può conchiudere che le popolazioni berbere passate in Sicilia, e non soggette a principi loro, poichè ubbidivano agli aghlabiti, fossero informate dal genio d'uguaglianza che le dovea vieppiù alienare dagli Arabi, e rendere intolleranti dei signorili soprusi di quelli. Le inclinazioni economiche divideano alsì l'una dall'altra gente: gli Arabi oziosi, i Berberi industri; gli uni pastori di vassalli, poichè lor n'eran caduti in mano in vece di cameli e pecore; gli altri sempre agricoltori. Doveano dunque i primi bramar che si lasciassero le terre ai vinti siciliani; i secondi che le si dividessero. E bastava sol questa, se fosse mancata ogni altra cagione, a suscitar la guerra civile!

Dal detto fin qui si comprende la origine dei due movimenti diversi, che cominciarono ad agitare la colonia di Sicilia, entro mezzo secolo dalla fondazione sua. L'uno era sforzo della colonia a governarsi dassè; e risolveasi in contrasti tra la nobiltà palermitana e i principi aghlabiti, per la elezione dell'emiro. Appartenendo all'emiro quella piena autorità che abbiam detto, e non potendo cadere in mente del principe, nè dei coloni, nè dì niun Musulmano, di riformare la legge; ciascuna delle due parti [41] cercava a por mano alla esecuzione: fare esercitare l'oficio di emiro da uom suo, e a comodo suo. Racchiudeasi in cotesta contesa quella di finanza: se la colonia dovesse pagar tributo o no; poichè il principe non avea ragione, che nei sopravanzi, e all'emiro stava di trovarne o non trovarne. Indi il principe eleggea lo emiro, e i coloni lo scacciavano; o costoro coglieano un pretesto di nominarlo, e il principe lo rimovea; nè potea durar la quiete.

L'altro movimento era la lotta tra gli Arabi e i Berberi. Oltre il partaggio delle terre al quale accennammo, oltre le vendette private che degeneravano in vendette di tribù, nacque verso la fine del nono secolo una causa perenne di lite. A misura che compieasi il conquisto dell'isola, mancava il bottino e cresceva il fei, o vogliam dire rendita militare. Per caso intervenne al medesimo tempo che le armi della dinastia macedone sforzassero a uscir di Calabria i Musulmani, Berberi in gran parte, come cel mostrano i nomi dei capi. I Berberi dunque delle tribù più turbolente, quei che non amavano a vivere di agricoltura, doveano procacciar lo stipendio sul fei. Ma questo non si scompartiva, come il bottino, con legge immutabile e precisa, tra tutti i combattenti; anzi stava ad arbitrio tra dell'emiro e del principe; e gli Arabi potean pretendere che ne fossero esclusi gli stranieri, toccando a loro il primo luogo nei ruoli. Niun cronista fa motto di tal contesa; ma la non potea non accadere; e ce ne conferma il fatto che la Sicilia fu insanguinata per la prima volta in guerra [42] civile pochi mesi dopo il ritorno delle masnade che Niceforo Foca scacciò dalle Calabrie.[92]

Quei due movimenti si frastagliavan sovente, e il secondo cadde in acconcio al principe aghlabita che volle davvero soggiogare la colonia. Ricapitolando i fatti che narrammo nel Libro secondo, si scorge la lotta d'independenza principiata proprio alla fondazione della colonia palermitana; sopita da savii emiri di sangue aghlabita; ridesta verso l'ottocento sessantuno, come n'è indizio il frequente scambio degli emiri. Quel valoroso e nobilissimo Khafâgia, ucciso a tradimento da un Berbero, sembra cadesse vittima dell'altra discordia; se pur Arabi e Berberi non s'erano uniti per brev'ora contro le usurpazioni del poter centrale. Così fatta resistenza durava nei principii del regno d'Ibrahim-ibn-Ahmed, come il provano gli scambii degli emiri verso l'ottocento settantuno. Poi entrambe le divisioni divampano al medesimo tempo. Tra l'autunno dell'ottocento ottantasei e la primavera dell'ottantasette, gli Arabi del giund e i Berberi vengono al sangue: la nimistà loro, se non la aperta guerra civile, arde tuttavia per dieci anni, sì che viene a dettare lo scandaloso patto di torsi a vicenda dall'una e dall'altra gente gli statichi da consegnarsi ai Cristiani (894-895). Nello stesso decennio la tenzone della colonia col principe [43] arriva agli estremi: ribellione armata da una parte; dall'altra, repressione con le armi e fors'anco violazione della legge fondamentale che affidava all'emiro il governo della colonia. Perocchè il popolo di Palermo, mentre guerreggia la prima fiata contro i Berberi (886-887), mette ai ferri e caccia in Affrica lo emir Sewâda e gli dà lo scambio; tre anni appresso (890) combatton Siciliani contro Affricani, che è a dire contro le forze mandate dal principe; a capo di due anni un emiro rientra per forza in Palermo; e corsi pochi mesi, nel dugento ottanta dell'egira (893-894), l'emirato di Sicilia è conferito al gran ciambellano che stava accanto a Ibrahim, cioè la colonia è oppressa e spogliata di sue franchige, ovvero ha scosso il giogo; e di certo par che l'abbia scosso tra il novantacinque e il novantasei quando è fermata pace coi Cristiani.[93] Si scorge in cotesti travagli il doppio effetto della condizione politica dei popoli e delle passioni d'un uomo. La condizione dei Berberi rispetto agli Arabi, e della colonia rispetto alla madre patria, avea dato principio alle due tenzoni. Ibrahim-ibn-Ahmed le spinse al segno a che arrivarono negli ultimi anni del nono secolo. Per domar meglio la colonia di Palermo, aizzò i Berberi di Girgenti. Volle domar la colonia, perchè a questo il portava sua natura esorbitante e feroce; e per trarne danaro e adoperarlo all'altro disegno, d'abbattere e calpestare l'aristocrazia arabica in Affrica; il che ei fece sì bene, che distrusse la base della dinastia aghlabita, onde questa entro pochi anni crollò.

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CAPITOLO II.

Ibrahim-ibn-Ahmed non solamente avviluppò in questa guisa la condizione politica della colonia, e poi sciolse il nodo con orribile catastrofe, ma, non sazio di quel sangue musulmano, venne ei medesimo in Sicilia a sterminare gli ultimi avanzi de' Cristiani; prosegui la vittoria in Calabria; e minacciava tutta la terraferma d'Italia, quand'ei morì com'Alarico sotto le mura di Cosenza. Pertanto debbo dir di costui più particolarmente che non abbia fatto degli altri principi affricani. Il voglio anche perchè l'indole d'Ibrahim, sembra fenomeno unico nella storia morale dell'uomo, nè si può definir con parole, nè delinear con qualche tratto. Unico fenomeno parve a quei che il videro da presso; i quali, facendosi a spiegarlo e non trovandovi modo con la psicologia del Corano, ebbero ricorso alle teorie dei materialisti che già penetravano appo gli Arabi, miste alla filosofia greca; supposer quest'uomo invasato di non so che bile negra: malinconia, come la chiama tecnicamente Ibn-Rakîk.[94]

“Niun dee misfare fuorchè il principe. La ragione di questo è che, ove gli ottimati e i ricchi si sentan possenti nei beni della fortuna, uom non vivrà sicuro dalla loro insolenza e malvagità. Se il re [45] cessi di calcarli, ecco che si fidano; gli resistono; gli traman contro! In vero il succo vitale del principato è la plebe.[95] Il signor che lasciassela opprimere, perderebbe l'utile ch'ei ne ricava; ed altri sel godrebbe, rimanendo a lui il sol danno.”[96] Così parlava Ibrahim-ibn-Ahmed, vantandosi di abbattere la nobiltà arabica dell'Affrica: teorie e gergo molto ovvii, che rivelan sempre il tiranno di buona scuola. Sagacissimo fu veramente Ibrahim nelle cose di stato; uom di mente vasta e savia, quando non l'offuscava la sete del sangue. Ebbe genio alieno dalle scienze, dalle lettere e dalla poesia, ch'erano state in onore appo i suoi maggiori: e qualche versaccio ch'ei fece, come nato e cresciuto in una corte arabica, somiglia forte a quelli di Carlo d'Angiò, per la insipidezza e l'arroganza.[97] In fatto di religione si mostrò osservatore [46] del culto, più che delle pratiche di devozione; si ridea della morale quando non gli andava a' versi; ma era sopratutto intollerantissimo verso gli altri. Visse senz'amore, nè amicizia. Seguì voluttadi nella prima gioventù, e presto gli vennero a tedio; e allora incrudelì nelle donne più rabidamente che negli uomini; e le abborrì di strano e sospetto abborrimento. Violava in tutti i modi le leggi della natura.

A venticinque anni salì al trono per uno spergiuro. Mohammed, suo fratello, venendo a morte, lasciava il regno al proprio figliuolo bambino; commettea la tutela a Ibrahim; faceagli far sacramento di non attentar mai ai dritti del nipote, nè metter piè nel Castel Vecchio, ove quegli dovea soggiornare con la corte. E Ibrahim, nella moschea cattedrale del Kairewân, dinanzi gli adunati capi di famiglie di sangue aghlabita e i magistrati e notabili della capitale, giurollo solennemente; ripetè cinquanta fiate il tenor del giuramento, com'era usanza nelle cause criminali. Sepolto il fratello (febbraio 875), cominciò a regger lo Stato, ben diverso da lui, con somma forza e giustizia. Indi i cittadini del Kairewân a pregarlo di prendere a dirittura il regno: il che ricusò, pretestando suoi cinquanta giuramenti; e di lì a poco, noi sappiam come si fa, i buoni borghesi tornarono a supplicare più fervorosi, e Ibrahim non seppe dir no. Uscito di Kairewân alla testa del popolo in arme, occupava il Castel Vecchio; si facea gridar principe; e [47] prestare omaggio di fedeltà dai notabili d'Affrica e da non pochi di casa d'Aghlab. Con tutta la bruttura dello spergiuro e della commedia che servì a ricoprirlo, Ibrahim non va chiamato usurpatore. Il dritto di primogenitura non era allignato mai appo gli Arabi; la designazione del principe antecessore, era abuso; la investitura del califo, ormai vana cerimonia; e il popolo, che potea deporre ed eleggere, partecipò alla tumultuaria esaltazione non sforzato, forse mezzo raggirato e mezzo no. Gli umori delle città contro l'aristocrazia militare, ci persuadono che la cittadinanza abbia francamente parteggiato per Ibrahim.

Severi, ma di rigor salutare, i primordii del regno. Trattando sempre dassè le faccende pubbliche, Ibrahim cessò i soprusi degli oficiali e governatori di province: rendea ragione ogni lunedì e venerdì nella moschea cattedrale del Kairewân, ascoltando con pazienza i richiami, e provvedendo immantinenti; diè di sua persona esempii di astinenza e pietà; ristorò la polizia ecclesiastica; sgombrò le strade dei ladroni che le infestavano; assicurò il commercio, spense i violenti e gli scapestrati. Si narra di lui che obbligasse la madre al pagamento di un debito, minacciando di lasciarla tradurre dinanzi il cadi:[98] la madre, sola creatura umana rispettata da quel mostro. Attese molto alle opere pubbliche. A comodo dei cittadini, costruì un gran serbatoio d'acqua al Kairewân. [48] Per magnificenza e pietà innalzò una moschea cattedrale a Tunis; e aggrandì quella del Kairewân; aggiuntavi inoltre una cupola che poggiava su trentadue colonne di marmo. Circondò Susa di mura. Compiè su la costiera del reame una linea di torri e posti di guardia, ordinata a far segnali coi fuochi, sì che in una notte potea tramandarsi avviso da Ceuta ad Alessandria di Egitto.[99] Cotesta pratica antichissima era scesa con le tradizioni dell'impero infino ai Bizantini; i quali nella prima metà del nono secolo l'adoperavano a significare i tristi casi di lor guerre, da Tarso a Costantinopoli.[100] E v'ha ragioni da credere ch'e' se ne fossero avvalsi anco in Sicilia, e che quivi avesserla appreso gli Arabi d'Affrica.[101]

[49] Innanzi ogni altra opera pubblica, Ibrahim avea costruito una cittadella, centro di gravità della tirannide ch'ei macchinava: fortezza ove porre sua corte e ordinar novelli pretoriani per disfarsi degli antichi, i liberti di casa aghlabita, ridotti nel Castel Vecchio, stati fin allora padroni del popolo e del principe. Fece por mano a' lavori il dugento sessantatrè (23 settembre 876 a 11 settembre 877), in luogo discosto quattro miglia dal Kairewân e chiamato Rakkâda, “Sonnolenta” come suona appo noi.[102] Entro un anno, fornite le mura, innalzata una torre che addimandarono di Abu-'l-Feth,[103] Ibrahim inaugurolla con sanguinoso tradimento. Era avvenuto che i liberti del Castel Vecchio tumultuassero contro di lui per aver fatto morire un di lor gente: e allora, ito loro addosso per comando d'Ibrahim il popolo della capitale, i liberti, vedendosi sopraffatti, avean domandato e ottenuto perdono. Ma il dì che dovean toccar lo stipendio, Ibrahim li chiama alla torre di Abu-'l-Feth; li fa entrare a uno a uno; disarmare; incatenare: e diè mano [50] ai supplizii; ch'altri morì sotto il bastone, altri condannato a perpetuo carcere in Kairewân; altri bandito in Sicilia.[104] In luogo dei liberti, comperò schiavi in grandissimo numero; prima negri, poi anco di schiatta slava: li vestì; li esercitò nelle armi; ne fece un grosso di stanziali, valorosi, induriti alle fatiche;[105] massa di bruti della zona torrida e del settentrione disumanati dal servaggio e di più dalla disciplina. Così passarono i primi sei anni del regno; lodevoli del resto a detta di tutti i cronisti, i quali tenean forse necessaria la carnificina di Abu-'l-Feth. Poi sfrenossi a dar di piglio nella roba e nel sangue; peggiorando di anno in anno, come nota l'autore del Baiân.[106]

Perchè, non bastando le entrate ordinarie dello stato a spesare gli stanziali, le fabbriche e la guerra che sopravvenne (an. 880, 881) contro un principe d'Egitto della dinastia usurpatrice dei Beni-Tolûn, era strascinato Ibrahim ai maltolti. L'anno dugento settantacinque (888-889) battè nuova moneta d'argento, che, rifiutata dai mercatanti del Kairewân, diè occasione a tumultuarie rimostranze, imprigionamenti, sollevazione: e Ibrahim, al solito, restò di sopra. Donde facea coniare altri dirhem e dinâr decimali, com'ei li chiamò, perchè i primi d'argento e i secondi d'oro stavano in valore come uno a dieci; e tolse di mezzo le buone monete dell'impero [51] abbassida.[107] Oltre questo espediente di finanza, ponea nuove gabelle;[108] aumentava le tasse prediali e riscuoteale in danaro, non più in derrate;[109] richiedeva i cittadini che apprestassero a servigio dello Stato loro schiavi e giumenti; in cento modi li espilava per accumular tesori.[110]

A misura degli aggravii prorompean pure le sollevazioni; e a misura di quelle incrudeliva Ibrahim. Ne noterò solo i fatti rilevanti. Ribellavansi ricusando le tasse, l'anno dugentosessantotto (881-882), le [52] tribù berbere di Wuezdàgia, Howâra e Lewâta: ed erano oppresse, l'una da Mohammed-ibn-Korhob, ciambellano, le altre da Abd-Allah figliuolo d'Ibrahim, mandatovi con gran gente di giund, liberti, leve in massa, e ausiliarii forniti al certo da altre tribù berbere: sì fermo Ibrahim guidava tutti i cavalli del carro, poichè s'ebbe aggiustata in mano quella ferrea sferza degli schiavi stanziali.[111]

Poi surse in arme la colonia di Belezma, gente arabica della tribù di Kais, venuta la più parte nei principii del conquisto, e stanziata da parecchie generazioni in quella città, sul confin meridionale dell'odierna provincia di Costantina, in mezzo alla catena degli Aurès, donde teneva a segno la tribù berbera di Kotâma. Gli agguerriti Arabi di Belezma ributtarono Ibrahim, ito in persona a combatterli: ond'ei perdonò loro; attirò a Rakkâda, prima alcuni capi sotto specie di trattar faccende, poi, con altri pretesti, più numero di gente; lor diè splendide vestimenta, onori quanti ne vollero e alloggiamento in uno edifizio circondato di mura con una sola porta, nel quale settecento o mille cavalieri, chè tanti se n'erano accolti, se pur pensavano allo esempio dei liberti del Castel Vecchio, si fidavano al certo di affrontar chi che si fosse. E così ogni evento delle istorie avvera la sentenza del Machiavelli, che colui che inganna, troverà sempre chi si lascerà [53] ingannare.[112] Il dì che le altre soldatesche toccavan la paga, inebbriate di danaro, fors'anco di vino, Ibrahim le lanciava allo scannatoio ov'eran serrati i guerrieri di Belezma; i quali (893-894) valorosamente si difesero; e tutti perirono.[113] La pena di tal misfatto, come spesso accade, la pagò non Ibrahim, ma la dinastia; poichè, decadendo Belezma, la tribù di Kotâma imbaldanzì, e condusse al trono i Fatemiti.[114] Più pronto gastigo minacciava la sollevazione generale delle milizie arabiche, scoppiata immediatamente e rinnovatasi poi varie fiate; ma Ibrahim trionfò di tutti, mercè le mura di Rakkâda, la virtù militare del figliuolo Abd-Allah, e gli schiavi armati; dei quali accrebbe il numero; lor affidò la reggia; e pose capitani sopra di loro due schiavi, Meimûn e Rescîd. Accentrò al medesimo tempo Ibrahim grande autorità in persona di Hasân-ibn-Nâkid, nuovo suo ciambellano, capitan di eserciti, emir di Sicilia, e rivestito di altri oficii, scrive la cronica,[115] probabilmente le amministrazioni di finanza, e il tribunale dei soprusi nelle province sollevate.

Tra i casi di questa rivoluzione seguirono non più udite enormezze dei soldati regii, i quali, presa Tunis per battaglia, fecero schiavi tra i Musulmani, sforzaron le donne e sparsero gran sangue (893-894). Dato avviso della vittoria a Rakkâda per lettere legate [54] al collo dei colombi, Ibrahim rescrisse di caricare i cadaveri su le carra; mandarli a Kairewân; e condurli in giro per le strade. Comandò, non guari dopo (894-895), di mettere a morte i nobili della tribù di Temîm, ceppo di sua famiglia, e appendere i cadaveri alle porte di Tunis. Ministro di tai vendette era stato Meimûn, nominato dianzi, donde venne fieramente in odio a quei cittadini; ma Ibrahim, non prima n'ebbe sentore, che gli mandò, diremmo noi, un bell'ordine cavalleresco: all'uso di que' tempi collana d'oro e vestimenta di seta ricche d'oro, disegni e svariati colori; e il manigoldo in tanto sfarzo cavalcò trionfalmente in Tunis. Un anno appresso, fattevi rizzar nuove fortezze, vi andò a soggiornare il tiranno in persona;[116] meditando già la impresa di Sicilia, o parendogli Rakkâda mal sicura senza lo scampo del mare: o volle sfogare la superbia dell'animo suo sopra la città ribelle, prostratagli ai piè come cadavere.

Il medesimo anno della rivolta, Ibrahim allagò di sangue la reggia per sospetto di una congiura degli eunuchi e stanziali schiavoni contro la vita di lui e della madre:[117] dal qual tempo in poi, aspettandosi che alcuno dei tanti che tremavano trovasse modo ad ammazzarlo, per meglio guardarsi, consultò [55] astrologhi e arioli, nei quali ponea molta fede. Gli dissero dover morire di certo per man d'un piccino; se di statura o di anni, i furbi maestri nol discernean bene in lor arte: ond'egli visse in sospetto de' giovani paggi schiavoni; e se gliene venia veduto alcuno audace e fiero in volto, vago di maneggiar la spada, pensava tra sè: ecco l'assassino; e lo facea spacciare. Quando n'ebbe ucciso molti, temè la vendetta dei rimagnenti: onde li uccise tutti;[118] e tolse paggi negri in luogo dei bianchi; e non tardò a fare sgombero anche di quelli, l'anno dugento ottantotto (900).[119] Ma nel lungo suo regno i domestici eccidii sovente si rinnovarono e cominciaron prima della tirannide di fuori; bastando l'ira ad aizzarlo quanto il sospetto, e quanto l'uno e l'altra la gelosia. Aveva egli vietato sotto pene severe la vendita del vino a Kairewân; la tollerava a Rakkâda[120] in grazia forse dei suoi stanziali; e beveva egli stesso senza scrupolo nei penetrali dello harem. Or accadde che fattosi mescer vino da una donna, nei primi credo io del regno, e datole a tenere il fazzoletto di seta con che si asciugava le labbra, colei lasciosselo cader di mano, e un eunuco il trovò e nascose. Ibrahim non sapendo qual fosse costui, tutti i trecento eunuchi che avea fe' morire,[121] per seppellir forse con loro il segreto della regia intemperanza. Diversa cagione [56] ebbe la morte di sessanta sciagurati giovanetti ch'ei teneasi in palagio, e, calpestando più d'uno dei precetti di sua religione, ogni sera lor dava a ber vino, e poi non volea che troppo dimesticamente vivesser tra loro. Avutane spia, chiamolli dinanzi a sè; interrogolli, e confessando alcuni il fallo, e negandolo tra gli altri audacemente un fanciullo molto amato da lui, Ibrahim gli spezzò il cranio con una mazza di ferro: gli altri fece morire a cinque o sei il dì, tra soffocati nella stufa e arsi nella fornace del bagno.[122]

Nè men geloso in punto di religione, aggravò la vergogna degli dsimmi, come se non bastassero al suo zelo i segni esteriori di vassallaggio che si costumavano innanzi.[123] Comandò Ibrahim che portassero su le spalle una toppa bianca, con la figura, i Giudei d'una scimmia e i Cristiani d'un maiale; e che gli stessi animali si dipingessero in tavole confitte su le porte di lor case.[124] Il martirio ch'ei diè ai quattro Siracusani si è narrato di sopra, su la fede delle agiografie cristiane.[125] Non sappiam se sia dei martiri siracusani un Sewâda, di cui scrivon le cronache musulmane che proffertogli l'oficio di direttore della tassa fondiaria, se rinnegasse, e rispondendo egli che non barattava la fede, Ibrahim lo fece spaccare in due e sospender mezzo cadavere a un palo, mezzo ad un altro, l'anno dugentosettantotto dell'egira (891-892).[126] Tuttavia gli eretici dell'islamismo [57] poteano invidiare la condizione de' Cristiani. Dopo le stragi d'una battaglia, vinta sopra la tribù berbera di Nefûsa, l'anno dugentottantaquattro (897-898), Ibrahim interrogò un dottore che si trovava tra i prigioni: “Che pensi di Alì?” “Era infedele e però sta in inferno; e chi non dice così, andravvi con lui,” rispose il prigione; scoprendosi Kharegita a questo parlare. Il tiranno allora gli domandava se tutta la tribù di Nefûsa tenesse tal credenza, e saputo di sì, ringraziava il Cielo d'averne fatto macello. I prigioni, ch'eran cinquecento, se li fece recare innanzi a uno a uno: egli assiso in alto, tenendo in mano un suo lanciotto, cercava con la punta sotto l'ascella ove fosse il vano tra costola e costola dell'uomo,[127] e poi data una spinta, andava a trovar dritto il cuore, e facea passare un altro, finchè tutti gli trafisse. Così il Nowairi.[128] L'autore del Baiân scrive che i prigioni fossero trecento, ch'ei ne avesse fatto spacciar uno e poi trattogli il cuor con le proprie mani, e fattolo trarre agli altri, infilzati in una funicella i trecento cuori, e sospesi a festone su la porta di Tunisi.[129] Ambo le tradizioni bene stanno ad Ibrahim-ibn-Ahmed, e possono ammettersi insieme.

Innanzi tal pia scelleratezza, era ito Ibrahim a Tripoli (896-897), governata per lui da un suo cugin [58] carnale, Mohammed-ibn-Ziadet-Allah, uomo di egregii costumi, erudito, poeta e scrittore d'una storia di casa aghlabita: onde il tiranno ignorante l'invidiava fin dalla gioventù, ma adoperavale per averne bisogno. Il coperto odio divampò, quando il califo abbassida Mo'tadhed, risapendo le enormezze di Tunis, minacciò in parole, e secondo altri scrisse a dirittura a Ibrahim, ch'ei lo avrebbe deposto, e surrogatogli il cugino, specchio di virtù. Pertanto non contentossi Ibrahim d'ucciderlo; ma volle fosse appiccato il cadavere a un palo come di malfattore.[130] Somiglianti sospetti di Stato lo spinsero, prima e poi, a mandare a morte ciambellani, ministri, cortigiani, e un povero segretario, chiuso vivo nel feretro. Otto fratelli suoi proprii erano scannati al suo cospetto; un de' quali, obeso e infermo che non potea reggersi, implorava gli si lasciassero quei pochi giorni di vita; e Ibrahim rispose: “Non fo eccezioni;” e accennò il carnefice di percuotere. Abu-l-Aghlab suo figlio ebbe tronco il capo dinanzi a lui; dicesi per trame di Stato. Abd-Allah, maggior tra i figliuoli, erede presuntivo della corona, folgor di guerra che spezzava nei campi di battaglia i viluppi creati dalla tirannide del padre, Abd-Allah ubbidiente troppo, virtuoso, dotto, modesto, pur si sentiva ad ogni istante sul collo la scimitarra del carnefice.[131]

[59] Inviperiva Ibrahim ogni dì più che l'altro; ciascun misfatto tirandosene dietro parecchi; incarnandosi ogni vizio con l'uso e con la età; aggravandosi in lui l'atrabile, la monomania, la causa qual si fosse che lo portava al sangue; su la quale decida chi mai arriverà a penetrare l'arcano della umana volontà. Chi raccoglie i fatti, noterà due sintomi atrocissimi. L'un che costui nelle vittime segnalate per la costanza dell'animo, ricercava rabidamente il cuore, sede del pensiero secondo gli Arabi; quasi il tiranno volesse dar di piglio alla causa materiale di lor contumacia. Il disse ei medesimo a San Procopio vescovo di Taormina, mandandolo al supplizio (902).[132] Parecchi anni innanzi avea notomizzato il cuore di un altro valoroso, Ibn-Semsâma, suo primo ministro; il quale straziato di cinquecento battiture, non avea detto un ahi, nè s'era mosso; e a ciò, comandando Ibrahim di ucciderlo, s'era vantato di aprire e chiuder la mano tre fiate dopo recisogli il capo, e avea tenuto parola.[133]

L'altra orribilità mi sembra un'avversione, un dispetto, un'invidia ch'ei sentisse della perpetuità [60] della umana schiatta. Non dirò delle mogli e concubine che facea strangolare, murar vive, sparar loro il corpo, se incinte: e tuttociò senza lor colpa, forse senza gelosia. Lungo tempo così era vissuto, non parlando a donne fuorchè la madre, la Sîda che è a dir “Signora” come chiamavanla a corte. Costei, cercando ridurlo ad alcun sentimento umano, un dì che le parve di umor men tetro, gli appresentò due leggiadre donzelle, alle quali fe' recitare il Corano e cantar versi su la chitarra e il liuto. A che parendo si compiacesse il tiranno, rallegrato anco dal vino, la madre gli offrì in dono le due schiave; ei le accettò, e lo seguirono. Ed entro un'ora veniva alla Sîda lo schiavo fidato d'Ibrahim con una cesta ricoperta di ricco drappo. Trovò le due teste; e, gittando un grido, cadde svenuta; ma tornata in sè, le prime parole che profferì furono maledizioni sopra il figliuolo. Pur era serbata a veder maggiore empietà. Avea comandato Ibrahim di mettere a morte ogni figliuola che gli nascesse; e talvolta non avea aspettato che venissero alla luce. E la Sîda pur osava trafugare e far nudrire occultamente le bambine. Nell'età matura del figliuolo, coltolo un'altra fiata in velleità di clemenza, si provò a mostrargli le fanciulle cresciute come lune di bellezza, dice la cronica; e credette aver vinto quando gliele sentì lodare. Si fa allora più ardita; gli svela che son sua prole; gli rassegna i nomi loro e delle madri. Il tiranno uscì dalla stanza. Chiamato un suo negro “Meimûn,” dissegli, “arrecami le teste delle donzelle che tien la Sîda.” Il carnefice non si movea. “Obbedisci, sciagurato [61] schiavo,” ripigliava Ibrahim, “o ti farò andare innanzi, ed esse dopo.” E Meimûn tornò poco stante, avvolgendosi alle mani le sanguinose chiome di sedici teste, e le gettò a mucchio sul pavimento.[134] La critica non può mettere in forse coteste orribilità. Ancorchè noi le tenghiamo di seconda mano, è evidente la veracità degli scrittori primitivi, cittadini del Kairewân o d'Affrica al certo, e concordi tra loro, non avversi punto a casa aghlabita, vissuti in tempi vicinissimi e di cultura letteraria. D'altronde i misfatti narrati ben s'attagliano l'uno all'altro; e molti particolari che rivelano quell'istinto d'uom tigre, sono ricordati quasi con le medesime parole dai Musulmani e dai Cristiani, tra i quali il diligentissimo contemporaneo Giovanni, diacono napoletano.[135]

[62]

CAPITOLO III.

Contro lo scellerato signore s'era levata la colonia siciliana, Arabi e Berberi al paro; e da quattro anni tenean fermo, succedendo a lor posta i tumulti d'Affrica, quando, l'ottocento novantotto, non so per qual ribollimento di sangui o magagna d'Ibrahim, tornarono i Berberi ad assalire il giund. Vedendo fitti i coloni nell'assurdo intento di scuotere il giogo senza cessare di straziarsi l'un l'altro, Ibrahim, ridendosene, entrò di mezzo: scrisse ad ambe le fazioni ch'ei perdonerebbe, se tornassero alla ubbidienza, e che sarebbe contento a gastigare i capi soli; ch'erano, dei Berberi un Abu-Hosein-ibn-Iezîd, coi figliuoli; e del giund un Hadhrami, oriundo, come lo mostra tal nome, dell'Arabia meridionale. Affrettaronsi i sollevati a consegnarli di peso alle soldatesche affricane, di presidio, credo io, a Mazara: dalle quali furono imprigionati, imbarcati per l'Affrica, e quivi dati al supplizio. Il Berbero, per fuggirlo, bevve un veleno che di presente lo fe' morire; talchè non rimase ad Ibrahim che d'appiccare il cadavere al patibolo e scannare i figliuoli del suicida. Sfogò con nuovo argomento di tortura sopra l'Hadhrami. Fattoselo recare innanzi, disse a un carnefice pien di facezie, come tanti ve n'ha, che tentasse il condannato con motteggi e buffonerie: e quando il misero cominciava a sperarne salvezza e gli spuntava il riso in faccia, “No,” proruppe Ibrahim, “non è ora da burle:” e fe' cenno [63] al manigoldo; il quale a colpi di bastone lo ammazzò.[136]

Mandava poi Ibrahim a reggere la Sicilia un uom di sangue aghlabita, statovi emiro, com'e' sembra, una ventina d'anni innanzi, per nome Abu-Mâlek-Ahmed-ibn-Omar-ibn-Abd-Allah.[137] Con la riputazione del casato sperava il tiranno lusingare o tenere in rispetto i popoli; e con la imbecillità della costui persona si fidava governar la colonia a suo piacimento dall'Affrica. Ma le due inveterate discordie che sopra toccammo, non si poteano comporre sì di leggieri; e per giunta gli sdegni, i rancori, i rimproveri, che tengon dietro ad una rivoluzione repressa, fecer nascere nuove scissure. Donde l'anno ottocento novantanove, tante piccole fazioni, confusamente combattendo, empiean la Sicilia di sangue.[138] Per ovviare alla [64] debolezza di Ahmed, dicon le croniche, o piuttosto per domare la Sicilia nel solo modo che si poteva, Ibrahim vi mandò un esercito poderoso, capitanato dal proprio figliuolo Abu-Abbâs-Abd-Allah, vincitor dei ribelli d'Affrica.[139]

Salpò costui con centoventi navi da trasporto e quaranta da guerra, il ventiquattro luglio del novecento; arrivò a Mazara il primo d'agosto;[140] donde movea all'assedio di Trapani. A ciò l'esercito palermitano, ch'era uscito a far guerra contro que' di Girgenti, si ritrasse immantinente alla capitale; e inviò al campo [65] affricano il cadi e parecchi sceikhi, a protestare obbedienza verso il principe, e scusarsi, bene o male, dello assalto sopra Girgenti. Vennero al medesimo tempo messaggi di cotesta città a dolersi dell'esorbitanza dei Palermitani: e sufolarono all'orecchio di Abd-Allah, non si fidasse di quel popol contumace, senza legge nè fede, nè di sua simulata e frodolenta sommessione; e che, se volea pescare al fondo della magagna, chiamasse di Palermo il tale e il tale, e se ne chiarirebbe. Ed ei sì chiamolli: ma ricusarono; e tutta la città dichiarò che non andrebbero. Abd-Allah, a questo, ritien prigioni gli oratori palermitani, rilasciato il solo cadi; e poco appresso mandavi, a portar forse orgogliosi comandi, otto sceikhi affricani. Gli Arabi di Palermo a lor volta li imprigionavano; e risolveansi a tentar la sorte delle armi. Fu capo in questo periodo di rivoluzione un Rakamûweih, uom di nome persiano. Fu emir degli stolti, dice amaramente Ibn-el-Athîr che visse tre secoli appresso: contemporaneo del gran Saladino, scrittor non servile, incapricciatosi d'Ibrahim-ibn-Ahmed, per quella sua feroce severità. Perciò doveano parere savii ad Ibn-el-Athîr coloro che di queto si lasciasser divorare dalla tigre; perciò l'annalista metteva in non cale i dritti dei Musulmani, le sacre franchige calpestate da Ibrahim, valorosamente difese dal popol di Palermo!

Lascio indietro, perchè sembra error di compilazione, l'episodio narrato da un altro storico:[141] che i [66] Girgentini, dopo di avere stigato Abd-Allah, si unissero coi Palermitani contro di lui. Movea di Palermo il dì quindici agosto, alla volta di Trapani, lo esercito capitanato da un Mesûd-Bâgi.[142] L'armata d'una trentina di vele uscì non guari dopo: fu colta da una tempesta nella breve e difficile navigazione ch'è da Palermo a Trapani, onde la più parte dei legni perì; quegli scampati, senza potere altrimenti offendere il nemico, si ridussero a casa. L'oste intanto assaliva il campo affricano sotto Trapani: si combattea fieramente da ambo le parti con gran sangue, e rimaneva indecisa la vittoria. Ma il ventidue agosto, rappiccata dai Palermitani la zuffa, mantenuta con uguale fortuna infino a vespro,[143] prevalse in ultimo la esperienza di guerra di Abd-Allah, o il numero degli Affricani che arrivava al certo a quattordici o quindici mila nomini, se si risguardi ai centoventi legni che li avean portato. Abd-Allah, usando la vittoria, prese la via di Palermo su le orme del nemico; indirizzò a Palermo l'armata che aveva ormai libero il mare, e poteva assaltare la città e molestar anco l'oste che si ritraea. Lenti e minacciosi ritraeansi i Palermitani, [67] come quelli che sapean difendere patria e libertà; sì che fecero far al vincitore una sessantina di miglia in quattordici giorni; e al decimoquinto, che fu l'otto settembre, gli presentaron la terza battaglia. Pugnarono dieci ore continue dall'alba a vespro, in una delle due valli, credo io, che sboccano nell'agro palermitano a dritta e a sinistra di Baida.[144] Alfine menomati, rifiniti, sopraffatti, sbaragliaronsi fuggendo verso la città vecchia: gli Affricani da vespro a sera ferono orribil macello di loro; occuparono i sobborghi; saccheggiaronli,[145] a spreto della legge che vietava di por mano nella roba e nel sangue dei ribelli musulmani. Con tuttociò non si fa ricordo di enormezze come quelle di Tunisi, dalle quali rifuggia l'animo alto e gentile di Abd-Allah. Gli increbbe anco della battaglia, se ci apponghiamo al sentimento di tre versi, che improvvisò in Sicilia, forse quel dì stesso; nei quali, disgustato delle stragi, incendii e distruzioni, [68] quel prode, sospirando, pensava a qualche giorno tranquillo, vivuto nei giardini di Rakkâda, in mezzo alle sue donne e figliuoli.[146]

Palermo ingrossando di quartieri suburbani, stendeasi in questo tempo dalla parte di scirocco infino alla sponda dell'Oreto; da ponente ne saliva una catena di abituri per due miglia e più infino al villaggio di Baida, ossia alle falde dei monti: sobborghi sì importanti che racchiudeano da dugento moschee e però vi si debbon supporre a un di presso due quinti di tutta la popolazione palermitana.[147] Su quel vasto aggregato di ville da diletto ed umili case della gente industriale, torreggiava la città antica, afforzata di bastioni e di lagune, il Cassaro come l'appellarono gli Arabi, spaziosa cittadella di figura ovale che tenea quasi il mezzo dell'odierna città.[148] Occupati i sobborghi [69] dal nemico, i cittadini si difesero nel Cassaro per dieci giorni e stipularono un accordo; onde furono schiuse le porte ad Abd-Allah, il diciotto settembre. Per patto, o innanzi che si fermasse, grandissimo numero di cittadini con lor donne e figliuoli andavano a rifuggirsi in Taormina; Rakamûweih e i più intinti nella rivoluzione facean vela chi per Costantinopoli, chi per altri paesi di Cristianità, ove mai non potesse arrivare il braccio d'Ibrahim. Dopo lo sgombro, rimase pure uno stuolo di ottimati sospetti che Abd-Allah inviava al padre in Affrica; forse di quelli cui non v'era pretesto ad uccidere, poichè le croniche non parlan di supplizio loro. Così riluce per ogni verso la umanità del vincitore.[149]

Sì lunghe discordie non poteano ignorarsi dai Cristiani. Que' di Val Demone le aveano usato nella tregua dell'ottocento novantacinque, nella quale sembra entrato, allora o poi, lo stratego di Calabria; atteso [70] che Giovanni Diacono di Napoli dice provocata da cotesto accordo la guerra di Abd-Allah in quella provincia.[150] Nel medesimo tempo Sant'Elia da Castrogiovanni, ancorchè ottuagenario e infermo, si apprestava a ripassare in Sicilia, lusingato, forse richiesto, dall'imperatore Leone il Sapiente: Elia da Castrogiovanni, stato ausiliare di Basilio Macedone nel tentato racquisto dell'isola venti anni innanzi; e il vedremo tra non guari incoraggiare, a modo suo, all'estrema difesa il popolo di Taormina.[151] Vedrem anco novelli sforzi dei Bizantini: un patrizio e un presidio mandati a Taormina; grand'oste adunata a Reggio; armata venuta di Costantinopoli a Messina. I quali fatti mostrano ad evidenza che l'impero fe' disegno nelle guerre civili dei Musulmani e nel bisogno che avea di lui la colonia ribelle. Dopo la occupazione di Palermo, l'impero armò un poco; suscitò al riscatto le popolazioni cristiane dell'isola, alla guerra quelle di Calabria; trascinato egli stesso dai Musulmani rifuggiti a Taormina, a Costantinopoli e in Calabria, i quali speravano gran cose al certo e molte più ne diceano.

Abd-Allah, sapesse o no coteste pratiche, dovea combattere la guerra sacra, per dare sfogo agli agitati animi dei Musulmani di Sicilia, per soddisfare a sè stesso, alla opinione pubblica, al padre. Non tardò dunque a uscir di Palermo; cavalcò il contado di Taormina; svelse le vigne; molestò il presidio con [71] avvisaglie; e come l'inverno s'innoltrava, sperando ridurre più agevolmente Catania, città in pianura, la assediò; ma indarno. Perlochè, tornato in Palermo a svernare, apparecchiò più poderosi armamenti, e, abbonacciata la stagione, fe' salpare il navilio a' venticinque marzo del novecento uno. Egli con l'esercito andò a porre il campo a Demona; piantò i mangani contro le mura; le battè per diciassette giorni; ma risaputo d'un grande sforzo di genti che i Bizantini adunavano in Calabria, lasciò stare il presidio di Demona buono a difendersi e non ad offendere; e volò con l'esercito a Messina. Par che l'armata vi fosse ita innanzi, e che la città si fosse di queto sottomessa. Abd-Allah passava immantinenti lo stretto. Trovata l'oste sotto le mura di Reggio, un'accozzaglia dei presidii bizantini dell'Italia meridionale e di Calabresi che li abborrivano, i Musulmani la sbaragliaron col solo terrore, dice Giovanni Diacono. Mentre i fuggenti correano da ogni banda per la campagna, Abd-Allah irruppe senza ostacolo in città il dieci giugno. Le feroci genti sue cominciarono una strage indistinta: poi l'avarizia consigliò di far prigioni; che ne ragunarono diciassettemila, tra i quali fu tratto in carcere, come scrive Giovanni, il venerando vescovo dal crin bianco e dalla faccia colorita, spirante dolcezza. Immenso il cumulo della preda: oro, argento, suppellettili; rigorosamente custodito dai vincitori, continua il medesimo autore, e ben si riscontra con la legge musulmana che vieta di scompartire il bottino in territorio nemico. Vi si aggiunsero i tributi e presenti delle città vicine, le quali si affrettavano a [72] mandare oratori chiedendo l'amân; poichè Abd-Allah avea dato voce di volere stanziare a Reggio. Ma improvvisamente ei ripassa lo stretto, sapendo arrivata da Costantinopoli a Messina un armata greca; e la coglie nel porto; le prende trenta legni; fa diroccar le mura della città, per gastigo o cautela. Intanto traghettavano continuamente da Reggio a Messina le navi da carico, zeppe di roba e schiavi. Abd-Allah condusse di nuovo l'armata su le costiere di Terraferma; combattè altri nemici, forse gente dei duchi Franchi di Spoleto e Camerino, condotti ai soldi dell'imperatore di Costantinopoli. In questa impresa il principe aghlabita occupò, il venti luglio, una città di cui non ben si legge il nome, forse Nardò;[152] e si ridusse alfine con tutte le genti in Palermo, donde mandò nunzii al padre col racconto delle vittorie e il meglio del bottino. Fino alla primavera del novecentodue, quando andò a trovarlo ei medesimo in Affrica, Abd-Allah soggiornò nella capitale della Sicilia, reggendo i popoli con giustizia e bontà.[153]

[73] Corse fama in Italia che Ibrahim, intendendo dai messaggi del figliuolo la impresa di Reggio, prorompesse [74] in rampogne: “Non esser suo sangue, no, tener dalla madre, questo svenevole che s'impietosiva dei Cristiani e tornava addietro, principiate appena le vittorie! Se ne venisse dunque a poltrire in Affrica, chè egli, Ibrahim-ibn-Ahmed, andrebbe a mostrare ai nemici di Dio e degli uomini il valor vero della schiatta d'Aghlab.” A queste parole d'ira s'aggiugneano romori contraddittorii: che Abd-Allah segretamente sopraccorresse a corte per falso avviso della morte del padre; che Ibrahim vistoselo accanto, in luogo di incrudelire, gli rinunziasse il regno e ponessegli al dito il proprio anello.[154]

Così tra le fole si risapea la verità. Al dir d'una cronica araba, la verità era che richiamatisi i Musulmani di Tunis appo il califo abbassida Mo'tadhed-Billah delle enormezze che aveano a sopportare, e mostratogli che certe schiave che Ibrahim gli avea mandato in dono, fosser le mogli e figliuole loro, Mo'tadhed [75] inorridito si risovveniva d'essere pontefice e imperatore. Facea dunque sentire in Affrica, la prima volta da un secolo, i voleri del successor del Profeta. Significavali per un messaggiero; al quale Ibrahim volle farsi incontro in attestato di riverenza, contenendo i superbi movimenti dell'animo, con sì duro sforzo, ch'ei ne fu colpito di malattia biliosa, e costretto a sostare alla sibkha, o vogliam dire stagno salmastro di Tunis. Abboccatosi quivi segretamente con l'ambasciatore, promesse di ubbidire al califo; il quale per bocca di costui, senza comando scritto, gli ingiugnea di risegnare il governo al figliuolo Abd-Allah e rappresentarsi in persona a Bagdad.[155] Tanta modestia civile d'Ibrahim si comprenderà meglio, considerando ch'ei già sentiva crollare il trono aghlabita. Una sètta politica, delle tante che ne covavano sotto la teocrazia musulmana, s'era appresa alla forte tribù berbera di Kotâma; e scoppiava già in aperta ribellione, minacciando al paro il principato d'Affrica e il califato. In Affrica, Arabi e Berberi, ortodossi e scismatici, nobiltà menomata dai supplizii e plebe spolpata sotto pretesto di farle giustizia contro [76] i nobili, a una voce tutti maledivan l'Empio, come il chiamarono per antonomasia.[156] Minacciavalo di più, dall'Egitto, la dinastia dei Beni-Tolûn, potentissimi di ricchezze e d'ardire, imparentati col califo, usurpatori che per far più guadagno s'offrian sostegni alla legittimità. Sovrastandogli dunque novella guerra civile, complicatissima, spaventevole, senza speranze di uscirne vincitore, ei riformò il governo e abdicò, fingendo d'ubbidire al califo. Notevole è che un altro cronista, copiato o abbreviato nel Baiân, senza far parola del messaggio di Mo'tadhed, attribuisce a dirittura le riforme d'Ibrahim ai movimenti della tribù di Kotâma, e dice che allora ei volle farsi grato all'universale, e riguadagnare gli animi degli antichi partigiani di casa d'Aghlab.[157]

Pose il nome d'anno della giustizia al dugentottantanove dell'egira (16 dicembre 901 a 4 dicembre 902) che incominciava tra quelle vicende; abolì le gabelle; disdisse le novazioni nel modo di riscuotere le decime;[158] rimesse agli agricoltori un anno di tributo fondiario; liberò i prigioni di stato; manomesse i proprii schiavi; cavò dalli scrigni grosse somme di danaro e dielle ai giuristi e notabili di Kairewân per dispensarle ai bisognosi; ma ebberle, aggiugne un cronista, quei che men le meritavano e furono scialacquate.[159] Con ciò premurosamente scriveva ad [77] Abd-Allah di venire in Affrica; il quale, lasciato l'esercito in Palermo ai proprii figliuoli Abu-Modhar e Abu-Ma'd, andò in fretta con cinque galee sole.[160] Arrivato ch'ei fu, Ibrahim, del mese di rebi' primo (13 febbraio a 14 marzo 902), gli risegnava il principato. Quanto a sè, non potendo rimanere in Affrica nè volendo ire a Bagdad, scrisse al califo ch'ei si metteva in pellegrinaggio per la Mecca. Poi pretestò che convenia passare per l'Egitto, e che ei nol potea senza azzuffarsi coi Beni-Tolûn; onde inviò a Bagdad un'altra lettera: che ad evitare spargimento di sangue musulmano, vedi s'egli era contrito, e a compiere insieme i due precetti del pellegrinaggio e della guerra sacra, piglierebbe la via di Sicilia.[161] Forse agitava in mente il pazzo disegno di andare alla Mecca per a traverso i territorii di Cristianità, il Bosforo e l'Asia Minore, poich'egli non avea rinunziato al figliuolo la signoria di Sicilia, e pensò al certo al conquisto d'Italia, e in Italia parlò di quel di Costantinopoli.[162] Che che ne fosse, Ibrahim, sceso dal trono, parea rifatto altr'uomo. Dissepolti i suoi tesori e armerie, indossò a mo' degli anacoreti un cilicio tutto rattoppato; andò a Susa a bandire la guerra sacra. Di lì il sedici di rebi' secondo (30 marzo) parte per Nûba, castello in su la marina tra Susa e Iklibia (Clypea); ove fa la mostra [78] dei volontarii; li provvede d'armi e cavalli; dispensa venti dinâr a ogni cavaliero e dieci a ogni fante; e con loro fa vela per la Sicilia.[163]

CAPITOLO IV.

Il tiranno penitente trovò perdono e anche séguito in Sicilia. Sbarcato a Trapani[164] verso la fine di maggio[165] si messe a far gente: poi cavalcò alla volta di Palermo; giunsevi l'otto di luglio, ma, com'ei sembra, non entrava in città.[166] Comandando tuttavia da re non ostante l'abdicazione, Ibrahim alzò in Palermo il Tribunal dei Soprusi; deputò altri a presedervi; ed egli, intento anima e corpo alla guerra sacra, conduceva a soldo marinai, largheggiava stipendii a cavalieri; talchè tra gli Affricani che avea seco e i Musulmani di Sicilia che arruolò, messe in [79] punto un'oste poderosa. Il diciassette di luglio movea con quella sopra Taormina.[167]

Per fortezza di sito, numero di popolo, tradizioni, e monumenti, era ormai questa la capitale della Sicilia bizantina, degli aspri luoghi, cioè, tra l'Etna e la Peloriade, ne' quali un pugno d'uomini difendeva ancora il vessillo della Croce. Non potendo abbandonar costoro senza vergogna, Leone il Sapiente li aiutava com'ei sapea; che è a dire, poco, tardi, e strambo. Quel che conosciam di certo è che, sovrastando il pericolo pei notissimi appresti d'Ibrahim, Leone teneva i soldati dell'armata a Costantinopoli a fare i manovali nella fabbrica di due chiese e d'un monastero di eunuchi; e ch'avea già mandato a Taormina un presidio con Costantino Caramalo[168] e Michele Characto; dei quali il primo fe' mala [80] prova; e il secondo, inferiore in grado, non potè riparare, o almeno il diè a credere.[169] Al medesimo tempo Leone richiedeva Elia da Castrogiovanni di pregare per la salute dell'impero, dice l'agiografo, i fatti mostrano, di andare a Taormina; ov'egli, Siciliano, con la sua fama di santità, rozza eloquenza, e venerabile aspetto, prendesse due colombi a un favo, come pareva alla corte bizantina: incoraggiare cioè i combattenti; e mondarli dalle peccata, dalle quali fermamente si credea che venisse ogni sconfitta delle armi bizantine. Elia, ottuagenario, infermo, sostenuto in piè dall'indomabile costanza dell'animo, passava incontanente col fidato suo Daniele, di Calabria in Sicilia, sotto specie di venire a baciar le ossa di San Pancrazio, primo vescovo di Taormina; e si messe all'opera con impeto. Rinfacciava alla misera città non mancarle nessun peccato; rampognava Costantino che non sapesse ritenere i soldati dagli omicidii, oltraggi, gozzoviglie, dissolutezze; gli parlava d'Epaminonda e di Scipione, uomini di sì specchiati costumi da far arrossire i Cristiani di quei tempi corrotti; gli ricordava la temperanza e la continenza, come necessarie virtù di chi s'appresti alla guerra. Rincalzò, al solito, i savii consigli con la [81] macchina epica: vaticinò, e non era sforzo di profezia, il passaggio imminente del fier Brachimo Affricano; il guasto, la carnificina, l'arsione di Taormina. Giacendo infermo a casa del cittadino Chrisione, Elia diceva all'ospite: “Vedi; qui in questo letto si adagerà Brachimo vincitore: ed ahi quanta strage insanguinerà queste mura!” Un'altra fiata, andando per la piazza maggiore, s'alzava i panni a ginocchio, e richiesto del perchè, rispondea: “Veggo abbondare i rivi di sangue.” Poi girava le strade, in mutande,[170] stranamente avviluppato di catene; si poneva un giogo di legno sul collo: per lui non restò di sbigottire soldati e cittadini, se punto credeano a profeti viventi. Così la religione dei Bizantini sbagliava sempre il segno. Elia, fatto ludibrio della gente, non perdonò all'ultima cerimonia di scuoter la polvere da' sandali, uscendo dalla città; e come Ibrahim s'appressava, così egli navigò ad Amalfi.

Comparso il nemico, i difenditori di Taormina non si stetter chiusi entro le mura. Scendendo, com'e' sembra, alla marina di Giardini, presentarono la battaglia ad Ibrahim; virtuosamente la combatterono con gran sangue d'ambo le parti: e già le schiere musulmane balenavano; serpeggiava tra quelle un pensier di fuga; perdeasi al vento la voce d'un che aveva intonato per rincorarli le parole di lor sacro libro: “Sì che ti daremo segnalata [82] vittoria,”[171] quando Ibrahim lanciossi nella mischia. Volto a quel pio guerriero: “Perchè non reciti,” gli gridò, “cotesti altri versi: — Ecco due litiganti che disputano chi sia il Signor loro. Ma agl'Infedeli son apparecchiate vestimenta di fuoco e mazze di ferro: su le teste loro si verserà acqua bollente, da strugger viscere e pelle.”[172] E quando quegli ebbe fornito i due versi: “O sommo Iddio,” ripigliava Ibrahim, “di te disputiamo quest'oggi io e gli Infedeli;” e tornò all'assalto, caricando con essolui gli uomini più valorosi e di più alto consiglio; i quali fecer impeto che spezzò l'ordinanza nemica. Allora i Cristiani a fuggire sparpagliati; i Musulmani a inseguirli su per le vette dei monti, dicon le croniche, e in fondo ai burroni. Altri scampavano su le navi; e tra questi forse i due capitani bizantini. Altri riparavansi alla città; coi quali alla rinfusa salirono il monte ed entrarono i vincitori; e incalzaronli fino alla cittadella, Castel di Mola, come oggi s'addimanda, che sovrasta all'erta di Taormina da un'erta assai più scoscesa e superba, a distanza d'un miglio. Ibrahim pur tentò un colpo di mano: impaziente di far macello tra la popolazione che s'era messa in salvo nella rôcca, mentre le ultime schiere vi si ritraean combattendo. Girata intorno intorno la costa, sparsi i suoi d'ogni lato, Ibrahim scoprì un luogo ove gli parve ch'uom potesse inerpicarsi con mani e piè; e a furia di promesse cacciò su per quei dirupi un drappello de' suoi stanziali negri; i quali superaron [83] l'altezza, e a un tratto tuonarono agli orecchi dei guerrieri cristiani “Akbar Allah.” S'erano essi adagiati a prendere un po' di cibo, fidandosi nel sito inespugnabile; stanchi della sanguinosa giornata; tenendo guardie nei luoghi accessibili e negli altri no; quando li percosse il noto grido di guerra dei nemici. Scompigliati e confusi, non corrono a gittar a basso delle rupi quel pugno di schiavi, non a difendere la strada del castello. Ibrahim dunque, udito il segno de' suoi, salì senza contrasto con le altre schiere; spezzò le porte; e comandò l'eccidio. Era la domenica, primo d'agosto novecento due.[173]

Ibrahim efferatamente abusò questa vittoria. Alla prima fe' trucidare, con gli uomini da portar armi, anco le donne, i bambini, i chierici, cui la legge musulmana perdona la vita; fece porre fuoco alla città; dar la caccia ai fuggenti per le foreste di que' monti ed entro le caverne; addurre a sè i cattivi, perchè niuno di cui [84] potea comandare la morte non gli escisse di mano per umanità o avarizia altrui. Così, recatagli una gran torma nella quale si trovò Procopio vescovo della città, Ibrahim chiamatolo a sè: “Cotesti tuoi capelli bianchi” gli disse “mi ti fan parlare pacatamente. Se e' ti rendon savio, abiura la fede cristiana; e salverai la tua vita e di tutti costoro; e ti darò tal grado, che in Sicilia sarai secondo a me solo.” Procopio sorrise senza rispondere; e incalzandolo il Musulmano: “Ma tu non sai chi ti parla?” replicò. “Sì; l'è il demonio per bocca tua; e indi rido.” Onde Ibrahim volto agli sgherri comandava: “Sparategli il petto, cavategli il cuore, ch'io vo' cercarvi gli arcani di cotesta mente superba:” linguaggio del vero conio di Ibrahim. Il santo vecchio, dato al supplizio, finchè potè articolare la voce, imprecò contro il tiranno, confortò i compagni al martirio. Aggiugne Giovanni Diacono, autor della narrazione, che Ibrahim, furibondo a tal costanza, digrignando i denti, arrivò a chiedere che gli dessero a mangiar il cuore; e se non compì l'orrenda jattanza, fece scannare gli altri prigioni sul cadavere del vescovo, arderli tutti insieme, e alla fine della festa si levò mormorando: “Così sia consumato chi mi resiste.”[174]

[85] Lieve opera fu alla caduta di Taormina di ridurre il rimanente del Val Demone. Ibrahim, venduti i prigioni e il bottino, e spartito il prezzo tra' suoi, mandava quattro forti schiere; una col nipote Ziadet-Allah a Mico o Vico, fortissimo castello dentro terra, non lungi, credo io, dal Capo Scaletta;[175] l'altra col proprio figliuolo Abu-Aghlab, sopra Demona;[176] la terza capitanata dall'altro figliuol suo Abu-Hogir[177] sopra Rametta; l'ultima contro il castel di Aci[178] condotta da un Sa'dûn-el-Gelowi. Delle quali castella, le due prime, sendo state sgombrate già dai terrazzani alla nuova del caso di Taormina, fruttaron solo ai Musulmani [86] quel po' di roba che vi era rimasta. I cittadini di Rametta offrivano di pagar la gezîa; ma non lo assentì Abu-Hogir e volle gli abbandonassero la rôcca; e, avutala, la smantellò, quanto potea. Similmente que' d'Aci e delle rôcche e fortezze dei contorni, fattisi insieme a chieder patti, non ottennero altro che la vita, fors'anco la libertà delle persone: e uscendo dalle mura che avean sì lungamente e gloriosamente difeso, le videro diroccar dai nemici e gittarne i sassi in mare.[179] Pietro Diacono, monaco cassinese del duodecimo secolo, su quest'eccidio di Taormina fabbricò l'apocrifa narrazione accennata da noi nel primo Libro; nella quale affermò che Agrigento, Catania, Trapani, Partinico, Iccara, e le distrutte già parecchi secoli innanzi Cristo, Tindaro, Segesta, Solunto, [87] fossero ville della Badia di Monte Cassino, quando vennero di Babilonia e d'Affrica innumerevoli Saraceni capitanati da Ibrahim a rapir quei ricchi poderi, immolando le migliaia di frati che li tenessero.[180]

Ma pervenute a Costantinopoli le infauste nuove di Taormina, Leone gravemente se n'accorò, scrivon le cronache musulmane; e per sette dì, ricusava di cinger la corona, dicendo non star bene ad uom tribolato. Continuano a narrare che sorgea nell'universale il generoso pensiero di aiutare i Cristiani di Sicilia; ma che lo sturbò la voce che Ibrahim si apprestasse ad andar sopra Costantinopoli; onde Leone afforzava la capitale con un esercito e pur avviava forti schiere alla volta di Sicilia.[181] Il vero è ch'egli volle mandar danaro in Calabria per levar gente e assoldare i feudatarii longobardi o franchi che passassero in Sicilia. Lo ricaviamo dalle memorie bizantine che si accordano con le musulmane nella esposizione dei sentimenti, se non de' fatti. Leone condannò a morte il Caramalo per la viltà o tradimento suo a Taormina; e ai preghi del patriarca di Costantinopoli, commutò il supplizio in professione monastica: strana gradazione di pene in una età in cui la vita monastica, assomigliata [88] all'essere degli angioli, si tenea com'apice di perfezione cristiana![182] Vero altresì che si temesse a Costantinopoli l'assalto, sia d'Ibrahim stesso che minacciava di andarvi,[183] sia del rinnegato Leone da Tripoli di Siria; il quale con cinquantaquattro navi, armate in Siria stessa e in Egitto e rinforzate di Schiavoni, nei principii della state del novecento quattro, accennò alla capitale bizantina; fe' voltar faccia a due ammiragli; e, gittatosi sopra Tessalonica, entrovvi dopo tre giorni d'assalto il trentuno luglio.[184] Nell'occupazione [89] della quale città si narra un episodio che attesta e le cure di Leone il Sapiente a favor dei Siciliani, e la scempia guisa in che si mandavano ad effetto. Rodofilo eunuco e camerier dello imperatole, viaggiando con cento libbre d'oro destinate all'esercito che dovea mandarsi in Sicilia,[185] s'era intrattenuto a Tessalonica per faccende, o, com'altri scrive, per malattia da curarsi coi bagni; quando piombaron su la città i Musulmani di Siria e di Egitto. Allora ei metteva in salvo il tesoro, inviandolo in una provincia vicina; ma fatto prigione ei medesimo quand'entrò Leone da Tripoli, questi n'ebbe spia, gliene domandò conto, e, non credendo alla scusa che allegava, lo fe' morir sotto le verghe. Poi s'ebbe il danaro, minacciando d'ardere Tessalonica.[186]

Ibrahim-ibn-Ahmed non soggiornò a lungo tra le ruine di Taormina. Ragunate le schiere che avea mandato alle dette fazioni, marciò sopra Messina; stettevi due dì soli; e il ventisei di ramadhan (3 settembre) tra le preci, i digiuni, le luminarie del mese [90] santo e il fanatismo che ne crescea, valicò il Faro con tutto l'esercito. Attraversò l'ultima Calabria senza trovar nemici; sostò non lungi da Cosenza;[187] dove, traendo al campo ambasciadori delle atterrite città a chieder patti, Ibrahim li intrattenne alquanti dì; poi rispose nella insolenza della vittoria: “Tornate ai vostri e dite che prenderò cura io dell'Italia e che farò degli abitatori quel che mi parrà! Speran forse resistermi il regolo greco o il franco? Così fossermi attendati qui innanzi con tutti gli eserciti! Aspettatemi dunque nelle città vostre; m'aspetti Roma, la città del vecchiarello Piero, coi suoi soldati germanici; e poi verrà l'ora di Costantinopoli!”

Indi gli oratori a tornarsene frettolosi; e le città ad apprestarsi contro l'estrema fortuna: risarcir mura, alzare bastioni, far provigioni di vitto, ridurre ne' luoghi forti quanti arredi preziosi o derrate fossero nelle campagne. Il terrore giunse infino a Napoli. Tra gli altri provvedimenti, Gregorio console, Stefano vescovo e gli ottimati della città, deliberavano di abbattere il Castel Lucullano, come chiamavasi, a Capo Miseno: villa costruita da Mario; comperata e profusa di delizie da Lucullo; teatro di laidezze e domestici misfatti degli imperatori di Roma; vergognoso confino d'Augustolo che vissevi d'una pensione d'Odoacre (479); mutata poscia in monastero e monumento [91] sepolcrale di San Severino (496); afforzata di mura, occupata dai Musulmani di Sicilia (846): vera tavola cronologica delle rivoluzioni della società italiana per nove secoli. I Napoletani a ragione temeano che quelle moli non fossero occupate di nuovo dalle navi di Sicilia per intercettare la navigazione del golfo. Lavorarono dunque popolarmente per cinque dì a spiantarle e a cercar tra le tombe le ossa di San Severino che volean serbare con gli altri tesori in città; domandandole l'abate del monastero dello stesso nome a Napoli. Trovatele, o credutolo, ruppero tutti in lagrime di gioia: e il dì appresso, che fu il tredici ottobre, le sacre reliquie erano condotte in processione alla città; uscendo all'incontro i magistrati, il popolo e i chierici che salmeggiavano, come parlavansi due lingue a Napoli, chi in greco e chi in latino. Per una settimana gli animi s'agitavano tra così fatte effervescenze religiose e le male nuove di Calabria, quando, a soverchiarli di paura, scherzò nel firmamento non più vista moltitudine di stelle cadenti, la notte del diciotto ottobre, secondo Giovanni Diacono, del ventisette al dire del Baiân, o più fiate in quella stagione, come par che voglia significare Ibn-Abbâr. Aggiugne questi che si sparnazzavano a dritta e a manca a somiglianza di pioggia. Le innocenti asteroidi, o meteore elettriche, o che che fossero, chè la scienza per anco nol sa, passaron tosto in buon augurio, poichè San Severino, comparso in sogno, secondo il costume, a un fanciullo, mandò a dire ai Napoletani che nulla ne temessero e si fidassero in lui che li difendea nella corte del [92] Cielo.[188] Risaputasi poscia la morte di Ibrahim, non fu in Italia chi non credesse infallibilmente averne dato segno le stelle cadenti. Un Tedesco, più scaltro, pensò che questo fenomeno, non essendosi visto in Italia sola, dovea risguardar tutti i popoli, onde probabilmente era venuto a compiere una profezia ricordata nel vangelo di San Luca;[189] il che torna all'annunzio del finimondo aspettato tante volte in Cristianità. Gli Arabi d'Affrica, come se fossero stati meno superstiziosi, contentaronsi a chiamar quell'anno l'anno delle stelle: ond'ebbe tre nomi, notano i cronisti; [93] poichè Ibrahim gli avea voluto porre anno della giustizia e altri l'avea detto della tirannide. Ma niun Musulmano potea far grave caso delle stelle cadenti, sapendo dal Corano ciò che fossero appunto: demonii curiosi, fulminati dagli Angioli, quando s'appressan troppo ad origliare alle porte del Cielo.[190]

Non ostante sue minacce agli ambasciatori delle città, Ibrahim tardò a investir Cosenza. Ei che avea saputo maneggiare quell'esercito innumerevole e discorde,[191] in cui fermentavano tanti odii, era sforzato adesso di restare al retroguardo per una dissenteria mortale; e invano si studiava ad occultare suo pericolo con la tenacità dei tiranni. Pur fece dar mano all'assedio il primo ottobre; accampare le genti su le sponde del Crati;[192] fronteggiar tutte le porte di Cosenza dai suoi figliuoli o uomini fidati, con forti schiere; drizzare i mangani contro le mura: ma par ch'ei poscia non abbia potuto esercitare nè voluto delegare il comando, nè altri abbia osato pigliarlo. Per più di venti giorni dunque si scaramucciò con disavvantaggio degli assedianti; ai quali cadean le braccia, non più sentendosi reggere da quella feroce e ferma volontà del capitano. Aggravatoglisi il morbo, perduto il sonno, Ibrahim s'andò a chiuder tutto solo in una chiesetta;[193] ove spirò il sabato ventitrè ottobre, [94] a cinquantatrè anni di età, dopo ventisette anni di tirannide e sette mesi di penitenza; trapassato come un santo, guerreggiando la guerra sacra, disponendo di tutto il contante in limosine, degli stabili in opere pie. Non prima saputo ch'ei boccheggiava, i capitani dell'oste, adunatisi in segreto, cavalcarono alla tenda di Ziadet-Allah, figliuolo del suo figliuolo Abd-Allah, e instantemente il richiesero che si mettesse alla testa dell'esercito per ricondurlo in Affrica. Al quale segno d'ammutinamento, il giovane, pigro, dissoluto, vigliacco, scellerato senza il vigor dell'avolo, tentennò: volea scaricarsi del supremo comando sopra lo zio Abu-Aghlab; ma questi gli uscì di sotto. Capitanando dunque suo malgrado la ritirata, Ziadet-Allah aspettava che tornassero al campo le gualdane sparse intorno a far preda: accordava patti ai Cosentini che di nuovo ne avean chiesto, ignorando la morte d'Ibrahim: e poi con tutto l'esercito e le rapite ricchezze e le salmerie prendea la via di Sicilia; portando seco il corpo dell'avolo in un feretro. Dice uno scrittore cristiano che al ritorno gran parte delle genti perisse per naufragio. Giunto Ziadet-Allah in Palermo, secondo Nowairi e il Baiân fuvvi sepolto Ibrahim quarantatrè giorni dopo la morte, e innalzato un monumento su la sua fossa. Secondo altri, lo recarono al Kairewân: talchè s'ignora qual delle due terre sia profanata da quelle ossa.[194]

[95] La morte d'Ibrahim, avendo liberato l'Italia meridionale senza fatica degli abitatori, vi fu tenuta necessariamente opera del Cielo. Scrive Giovanni Diacono che mentre i Napoletani stavan tra sì e no su l'augurio delle stelle cadenti, venne a confermar la rivelazione di San Severino un prigione testè fuggito di Cosenza. Narrava questi a Gregorio Console di Napoli, che, dormendo Ibrahim nella chiesa di San Michele, gli era paruto di vedere un vegliardo di maestoso aspetto, il quale minacciato di morte dal tiranno perchè osava entrar nella stanza, gli scagliò un bastone che avea alle mani e si dileguò. Destatosi, ma pur sentendosi ferito al fianco Ibrahim, richiedea [96] di alcun prigion latino, e, addottogli il narratore, gli domandava se conoscesse il vecchio Pietro di Roma, o n'avesse mai visto la effigie; e saputo che lo si dipingea di grande statura, raso i capelli e la barba, ravvisò lo spettro del sogno, e in breve tempo gli s'ingangrenì la ferita.[195] Il biografo di Sant'Elia da Castrogiovanni toglie l'impresa a San Pietro per onorarne il suo protagonista; il quale, riparato ad Amalfi, tanto pregò con lagrime, digiuni e cilizii, che il fier Brachimo, mentre assediava Cosenza e pensava a Costantinopoli, venne a morte,[196] percosso non si sa come dalla orazione del sant'uomo. Un'altra tradizione italiana ripetuta da parecchi cronisti, senza macchina di iddii minori, lo fe' spacciare, all'antica, con una folgore.[197]

[97]

CAPITOLO V.

Non bastando ormai alla storia il classico quadro dei fatti e delle passioni umane, se non siano anco divisati gli ordini e le opinioni che nascono da sorgenti assai remote, forza è ch'io interrompa nuovamente la cronica di Sicilia, e torni addietro parecchi secoli, per rintracciare in Asia le cagioni del mutamento di dinastia che s'apparecchiava alla morte d'Ibrahim-ibn-Ahmed. Lo apparecchiava la setta ismaeliana, della quale mi fo ad esporre l'origine, l'indole, i progressi.

L'autorità dell'impero musulmano, si come portava sua natura mista, fu combattuta da tre maniere di nemici: le fazioni politiche, gli scismi religiosi, e le sètte partecipanti dell'uno e dell'altro. Fazioni chiamo quelle che agognavano a mutare il principe non le leggi; onde nè impugnarono durante la lotta, nè toccarono dopo la vittoria, quegli assiomi teologici e civili che costituivano l'islamismo ortodosso; cioè la fede che parea diritta al maggior numero. Parecchi Stati in fatti continuarono a rispettar come pontefice il califo, cui disubbidivano come principe. Fino gli Omeîadi di Spagna, con lor pretensioni di legittimità, esitarono per un secolo e mezzo a ripigliare il sacro titolo di Comandator dei Credenti, usurpato, dicean essi, dalla casa di Abbâs, ma pure assentitole dalla più parte dei popoli musulmani.

Al contrario nacquero di molte eresie, i cui settatori [98] non si proposero dominazione politica, nè vollero sostener le opinioni con la forza delle armi; ma la ragione o l'errore, la coscienza o la superbia dell'intelletto, li spinsero a propagar, dottrine diverse dalle sunnite; affrontando spesso la crudeltà dei principi, il furor della plebe, i disagi delle persecuzioni, la fatica d'una continua lotta, il pesante biasimo delle moltitudini. Svilupossi tal movimento tra la metà del primo e la metà del terzo secolo dell'egira, nella Mesopotamia e province persiane; nelle quali regioni e nel qual tempo la schiatta arabica, venendo a contatto con genti più incivilite, apprese le speculazioni dell'umano intelletto accumulate per sessanta secoli da panteisti, politeisti, dualisti, unitarii, razionalisti. Dettero materia agli scismi maomettani quelle tesi che gli uomini in tutti i tempi han proposto sì facilmente e poi sonvisi avviluppati come in laberinto di spine: la natura dell'Ente supremo; la influenza di quello sopra le azioni umane e però predestinazione, libero arbitrio, grazia; il merito della Fede e delle opere; i gastighi serbati, a chi peccasse nell'una o nelle altre; e via discorrendo. Su cotesti argomenti l'autorità sunnita s'era appigliata sovente al partito più ripugnante alla ragione. Basti in esempio il domma ortodosso della eternità del Corano, negata dai Motazeliti; i quali furono perseguitati; finchè, persuaso alcun califo abbassida, a lor volta divennero persecutori. Ma gli scandali, i tumulti, il sangue sparso per questa e altre liti teologiche, non portarono a rivolgimenti politici. Dei settantadue scismi che novera la storia ecclesiastica dei Musulmani, una ventina si mantenne [99] entro i detti limiti della disputa; come i Kaderiti sostenitori del libero arbitrio; i Geberiti dell'opera passiva dell'uomo; i Motazeliti che faceano eterna la sola sostanza della divinità; i Sefetiti che le accomunavano nella eternità i suoi accidenti o qualità; i pigri Morgii affidantisi tutti nella Fede; i Nizâmiti che negavano la libera volontà di Dio, e s'accostavano ai filosofi materialisti; e altre sètte i cui nomi e opinioni sarebbe superfluo a ripetere.[198]

Avviati ch'e' furono a libero esame, i pensatori musulmani non poteano trattenere il piè, che dalle eresie non passassero ai razionalismo. A ciò li condusse la serena luce della scienza greca, la quale cominciò a splendere nell'impero dei califi più presto che non si crederebbe. Qualche libro di filosofia era stato voltato in arabico dal greco e dal copto verso la fine del settimo secolo dell'era cristiana, primo dell'era musulmana, per opera di Khâled-ibn-Iezîd-ibn-Moa'wia, principe del sangue omeîade, soprannominato il filosofo della casa di Merwan.[199] Ma accelerato l'incivilimento dai Persiani che esaltarono la casa di Abbâs,[200] si diè mano a volgarizzare i pochi libri che avanzavano in Persia della letteratura indiana e nazionale dei tempi sassanidi; si pose maggiore studio a interpretare i libri scientifici dei Greci: [100] immenso beneficio che la civiltà riconosce dai califi Mansûr (754-755) e Mamûn (813-833), e da' costui ministri della schiatta persiana di Barmek. Le scienze greche penetrarono allora nella società musulmana per triplice via: di Siria, di Persia e dell'impero bizantino; perchè in quelle due province dei califi se ne serbavano le tradizioni e qualche scritto; e dalle province bizantine s'ebbero moltissimi libri per richiesta che ne fece Mamûn agli imperatori di Costantinopoli

Così fiorivano nella capitale abbassida, e poscia in altre città dell'impero, gli studii di medicina, astronomia, geografia, matematiche, storia naturale, logica, metafisica; e correano per le mani dei dotti le opere degli antichi filosofi, massime di Aristotile.[201] Vo dir di passaggio che quelle di Empedocle d'Agrigento o d'alcun suo discepolo furono anco studiate in Oriente; e che nei principii del decimo secolo un Musulmano di Spagna tentò di fondare con tai dottrine una scuola, la quale non resse alle persecuzioni.[202] La filosofia greca da una mano diè armi agli eresiarchi musulmani dei quali abbiam detto di sopra; dall'altra [101] mano fe' nascere varie scuole di liberi pensatori che combatteano, più o meno apertamente i principii d'ogni religione. Tali i Bâteni che presero il nome dal significato latente, o vogliam dire allegorico, supposto da loro nei libri sacri; ma alcuni arrivavano a pretto ateismo; per esempio, il cieco Abu-l-'Ala da Me'arra in Siria, il quale, in versi che parrebbero di Lucrezio, sferzava insieme Giudei, Magi, Cristiani, Musulmani; e conchiudea che l'uman genere va spartito in due: pensatori senza religione, e devoti senza cervello.[203] Le denominazioni delle scuole razionaliste [102] furono sempre confuse appo i Musulmani, tra per cautela degli adetti, sforzati a nascondersi sotto i misteri e gli equivoci di sètte men radicali, e tra per la ignoranza della comune degli uomini e la pronta calunnia dei devoti. Appiccaron costoro malignamente a tutti i liberi pensatori l'appellazione di zindîk, perch'era abborrita in persona dei comunisti persiani e fatta sinonimo d'empio, com'or si dirà. Quando poi suonarono sì terribili in Oriente i nomi d'Ismaeliani, Karmati, Drusi, Assassini, novelle sètte miste aiutantisi con le spiegazioni allegoriche, i devoti colsero il destro di gridarli a gran voce Bâteni; mettendo i filosofi a fascio con loro. E così è pervenuta la storia agli eruditi europei del nostro secolo; i quali, con loro preoccupazioni politiche e religiose, o non si sono accorti di quegli errori o non si sono affrettati a chiarirli. Indi si è esagerata la parte ch'ebbe la filosofia greca nelle sètte più odiose. Indi si è supposta tra varie sètte quell'analogìa di modi è d'intenti che di certo non ebbero.[204] E però è mestieri ch'io tratti questa materia più minutamente che non si addica a quadro generale; ma tra due scogli mi par meno male la digressione che l'errore.

Gran tratto innanzi i dissentimenti speculativi, s erano mostrate nell'islamismo le sètte miste d'eresia e di fazione; i due ceppi delle quali, suddivisi in rami secondo le opinioni accessorie, si chiamarono Khâregi e Sciiti. Il nome dei primi s'intese quando [103] il califo Othmân cominciò a falsare la democrazia musulmana. Difenditori della democrazia, i Khâregi eran uomini di schiatte arabiche, e non pochi tra loro rinomati per virtù, sapere e pietà.[205] Collegaronsi con gli ottimati religiosi[206] e coi partigiani di Ali; e tutti insieme spensero Othmân: se non che l'accordo di tre fazioni, sì diverse negli intendimenti loro, si ruppe alla esaltazione di Ali, prima che fosse abbattuto il terribile nemico comune, ch'era l'antica nobiltà, capitanata da Mo'awia-ibn-abi-Sofiàn. La parte più turbolenta degli ottimati religiosi levossi contro Ali; fu sconfitta nella giornata che chiamarono del Camelo; e i Khâregi tuttavia seguirono il vincitore su i campi di Seffein, ov'ei si scontrò con Mo'awia. Ma posate le armi per lo noto compromesso, i Khâregi spiccavansi da Ali, vedendolo sospinto da' suoi partigiani alla monarchia assoluta di dritto divino. A rintuzzare sì pericolosi principii d'usurpazione, i Khâregi immantinente bandiscono non necessario nella repubblica musulmana il califo; se talvolta il popolo creda espediente di nominarne, possa sceglierlo di qualunque schiatta e condizione, coreiscita o no, libero o schiavo; sia tenuto il califo a governare secondo certi patti fondamentali; declinando lui dalle vie della giustizia, il popolo possa deporlo, combatterlo, metterlo a morte. Quanto ad Ali, per rispondere all'apoteosi che ne faceano i suoi, i Khâregi a dirittura lo incolparono di peccato per l'accettato [104] compromesso; e poco stante, per cagion di questo o d'altri atti di governo, lo chiarirono infedele in religione; alfine pubblicamente lo maledissero, per avere, combattendo contro di loro, messo a morte gli uomini da portar arme, fatto bottino dei beni e menato in cattività le donne e i fanciulli: crudel rigore di guerra, lecito solo contro Infedeli e non usato da Ali verso gli altri nemici musulmani. Quest'ultimo fatto prova che Ali tenne i Khâregi non solo ribelli, ma sì eretici. E veramente quei loro assiomi sì precisi di sovranità del popolo, tornavano a scisma secondo le idee musulmane; e a scisma tornava, secondo le idee di tutti i popoli, il dichiarar peccatore e infedele un pontefice, e affermare che le peccata gravi portassero a infedeltà.[207] Del resto ognun vede quanto semplice, e, direi quasi, pratica sia stata cotesta eresia, nata dalla schiatta arabica, al paragon delle sottilità straniere. Sursero poi novelle sètte kharegite più feroci in lor teorie rivoluzionarie e più speculative e audaci in punto di eresia; come portava da una mano la rabbia della persecuzione e la coscienza della propria debolezza, dall'altra il miscuglio coi forastieri. Ognun sa che Ali cadea sotto il pugnale dei Khâregi e che due altri despoti in erba ne campavano a mala pena. Il ramo kharegita detto dagli Azrâkiti, che poi levò tanto romore in Oriente, disse infedele chi dissimulava in parole o in opere trovandosi in pericolo, e chi non correva alla guerra sacra, quella cioè di [105] lor setta contro ogni altra; e fe' lecito di uccidere fin le donne e bambini dei dissidenti; ma altri rami non arrivarono a tali estremi. Quanto alle leggi estranee alla contesa politica, gli Azrâkiti abolirono la pena di morte per stupro; altri permessero il matrimonio con la figliuola della propria figlia e con la figlia di fratello o sorella, e alsì il matrimonio di Musulmana con uomo infedele; nei quali punti di scisma traspariscon le dottrine persiane. Altre sentenze teologiche e casuistiche tolsero or dai Motazeliti or da altri eterodossi.[208] Segnalaronsi le sètte kharegite per indomito ardire contro la tirannide, sì nel campo e sì in faccia al supplizio. Per due secoli accesero atrocissime guerre nelle province orientali e in Affrica; e molte dure scosse dettero allo Impero; ma alla fine gli eserciti dei califi trionfaron di loro. Tanto ardua impresa ella era di ristorare la democrazia di Abu-Bekr e di Omar tra masse di popolo eterogenee, ignoranti, superstiziose; e tanto nocquero all'intento quei mezzi rabbiosi ed efferati, che al certo discreditarono e assottigliarono i Khâregi più che non li rinforzassero col terrore.

A un tempo con quei campioni della libertà erano comparsi i settatori più frenetici che abbian mai sostenuto l'autorità, gli Sciiti o Scî'i, come si dovrebbe scrivere, e significa Partigiani. L'erano di Ali. Teneano: il pontificato non procedere dalla comunità musulmana, nè potersi conferire da uomini; essere fondato su dritto divino, che il Profeta stesso non ebbe autorità di cancellare nè modificare; tramandarsi [106] il pontificato per successione di sangue e designazione del predecessore; appartenere evidentemente ad Ali e sua schiatta. In ciò si accordavamo a un di presso tutti i rami di setta sciita. Dissentivano su l'ordine della successione d'Ali. Inoltre i Kaisaniti, ramo sciita, compendiavano stranamente la religione nella assoluta obbedienza al pontefice.[209] I Gholâ, altro ramo,[210] scoprirono nei pontefici alìdi non so che ipostasi divina, non so che spirito trasmigrante da persona a persona, e vi fu chi sostenne, dopo la morte di Ali, ch'ei fosse salito in cielo per tornare al mondo quando che fosse a ristorar la giustizia, e che aspettasse passeggiando su i nugoli; e sentian la sua voce nel tuono; e vedean guizzare nelle folgori la frusta dell'immortal cavaliero. Principii filosofici, miti, pensieri, imagini, estranei tutti alla schiatta arabica; nei quali non è chi non raffiguri il sogno indiano delle incarnazioni, la superstizione tibetana del pontefice Iddio, e la trasmigrazion delle anime, e l'aspettativa del Messia, e un mito eroico di vero conio indo-europeo. Coteste merci straniere entrarono nell'impero musulmano coi liberti che avean prima professato magismo, sabeismo, giudaismo, cristianesimo, o alcuna setta di esse religioni; e veramente un liberto di Ali per nome Kaisân diè origine e nome al ramo sciita ricordato di sopra; un Giudeo rinnegato, per nome Abd-Allah-ibn-Saba, fu il primo dei Gholâ; e, vivendo Ali, aveva osato [107] dirgli “Tu sei tu” che volea significar “sei Dio.”[211] I barattieri che cercavano un capo di parte e gli sciocchi sì correvoli ad ogni maraviglia, avean trovato bello e pronto il soggetto del mito: Ali, cugino, fratello elettivo, genero, compagno dall'infanzia, e impavido difensore di Maometto; il guerriero dalla spada a due tagli, il quale mai non combattè uomo che nol vincesse; il novello Sansone che all'assalto di Khaibar avea schiantato la porta dai cardini e fattosene scudo; Ali nobilissimo, caritatevole, liberale, e con ciò ambizioso e leggiero. Indi l'apotéosi presto fu compiuta. Ali, che in su le prime avea lasciato fare, s'accorse della empietà alla quale il tiravano, e sbandì il giudeo Ibn-Saba;[212] poi, incalzandolo altri adoratori; inorridito, accese il fuoco e chiamò Kanbâr, come dicea poetando egli stesso, per significar che gli avesse fatto uccidere e ardere i cadaveri da quel suo liberto.[213] Ma la superstizione non si dileguò a tal esempio; non alla morte del semideo. La stirpe di Ali, atrocemente proscritta, forniva alla leggenda altre pagine spiranti tragica pietà: Hasan, avvelenato dagli Omeîadi per man della propria moglie, le perdona dal letto di morte; Hosein con un pugno di uomini fa testa a un esercito e cade, ultimo dei combattenti, tra i cadaveri dei congiunti, con un fanciullo figliuol suo trafittogli nelle braccia; i discendenti si segnalano, [108] quali per dottrina o valore, quali per pietà e rassegnazione, e per lo più son vittima anch'essi dei sospetti di Stato; il glorioso nome di Ali per sessant'anni è maledetto nella pubblica preghiera dell'impero. Pertanto la compassione dei popoli accresceva e infocava i partigiani della sacra schiatta, i quali le attribuivano novelli miracoli, e correano al martirio per ristorarla in sul trono; ma prevalendo sempre sopra di loro le armi dei califi, si ordinarono alfine in società segreta. Fuori da quella congrega, continuò il fanatismo delle moltitudini ad esaltare gli eroi di casa alida; sfogossi in sedizioni contro i Sunniti; e fino a questi dì nostri ardentissimo si manifesta in Persia e nelle popolazioni musulmane dell'India.

La società segreta che raccolse le forze popolari e le adoprò ad esaltare in Affrica i veri o supposti discendenti di Ali, ebbe origine da sodalizii più antichi. Esaminando i due elementi dei quali necessariamente si componea, cioè le dottrine e gli ordini, si trovano entrambi nella schiatta persiana. Le dottrine nacquero, o a dir meglio, presero forma propria e novella, nei principii dell'era volgare e in Persia; ove il magismo avea già cominciato ad ascoltare le teorie buddiste dell'Asia centrale, le avea trasmesso insieme con le proprie nell'Asia anteriore, e questa gli avea rimandato le une e le altre modificate dal cristianesimo. In fatti il gran riformatore della setta sciita, quegli che la ordinò in società segreta, seguiva tuttavia la scuola d'un eresiarca del secondo secolo, rimaso incerto tra il magismo [109] e il cristianesimo, Ibn-Daisân, o Bardesane, come chiamasi con forma siriaca: dottore ascetico e dualista, il quale immaginò l'uomo mediatore tra la Luce e le Tenebre.[214] Ma i Daisaniti sono stati confusi spesso coi Manichei, setta analoga che levò assai maggior grido. Mani, come ognun sa, non contento di recar da mero profeta un libro dettato dal Cielo, osò affermare con idea buddista e linguaggio cristiano ch'ei chiudesse in petto lo spirito paracleto o divin consolatore del vangelo; predicò in Persia, Tartaria e India una novella religione accozzata di varie altre, soprattutto di magismo e cristianesimo; dove, tra molte assurdità teologiche e molti ottimi principii di morale, insegnò aver tutti gli uomini uguale diritto al godimento dei beni e piaceri del mondo.[215] Spento Mani dai monarchi sassanidi (272), e costretti i discepoli [110] a rifuggirsi nella Transoxiana, ricomparvero dopo il conquisto musulmano in Khorassân e altre province dell'impero, e fino a Bagdad; ove se ne contava trecento nella seconda metà del decimo secolo. Or ignorati or perseguitati, e una volta (908-932) tollerati per intervenzione dei principi dell'Asia centrale,[216] i Manichei dell'impero musulmano ordinarono una gerarchia occulta, la cui sede era per Io più in Babilonia e nei tempi difficili la trasportavano ove poteano.[217]

Surse anche sotto i Sassanidi Mazdak,[218] sacerdote e teologo di scuola manichea; il quale, speculando novità su la teoria socialista del maestro, talmente la allargò, che ne venne a bandire il comunismo dei beni e delle donne e la licenza di soddisfare a ogni desiderio che non nuocesse alla persona altrui: esortando, del resto, i proseliti alla beneficenza, all'ospitalità, ad astenersi dall'uccisione e afflizione corporale degli uomini e fin degli animali. Per trent'anni (498-531 ) Mazdak sconvolgea l'ordine costituito in Persia: e. arrivò a impadronirsi della autorità pubblica e mettere in pratica alcuna di sue dottrine; finchè il principato e la nobiltà, uniti insieme, lo [111] spensero con uno spaventevole eccidio de' seguaci.[219] Le teorie, che sopravvissero, divamparon di nuovo, due secoli appresso, in quelle medesime regioni signoreggiate ormai dai Musulmani.

Perchè le sètte dell'antica religione dei Persiani, incoraggiate dall'antagonismo nazionale contro i vincitori, tentarono una serie di movimenti religiosi a insieme politici e sociali; nei quali apparisce sovente il lavoro di società segrete, e sempre vi primeggia la superstizione indiana dell'ipostasi. Volle dapprima un Khawâf, verso la metà dell'ottavo secolo, innestare il manicheismo sull'islam; e, denunziato, com'e' pare, da una setta rivale, fu messo a morte dal governatore musulmano a Nisapûr: se non che i suoi proseliti lo vider salire in cielo sopra un bel cavallo baio dorato, e lungamente poi aspettarono che tornasse giù a far vendetta.[220] Nel medesimo anno o poco innanzi, Abu-Moslim,[221] anch'egli del Khorassân, metteva in trono gli Abbassidi con una cospirazione, tramata sotto forme di società segreta: il quale ucciso poi a tradimento dagli Abbassidi (754), moltissimi uomini del [112] Khorâssan lo tennero non morto nè mortale; e formarono un novello ramo di setta Mazdakiana, che fa detto degli Abumuslimiti.[222] Un altro ramo si chiamò dei Rawendi; i quali pensarono adorar come iddio il califo abbassida Mansûr (758), ed egli molti ne imprigionò; gli altri apertamente sollevaronsi contro il nuovo lor nume.[223] Non andò guari che Mokanna, come l'appellarono gli Arabi dall'uso di andar coperto d'una maschera di metallo, spacciava in Khorassân che lo spirito di Dio, trasmigrando di profeta in profeta, e, poc'anzi, in persona d'Abu-Moslim, fosse venuto per ultimo ad albergare in lui; e raggirava i proseliti con tiri da saltimbanco; accendeali di fanatismo; resisteva alle armi del califo; ridotto allo stremo in una fortezza (776), dava la morte a sè e ai compagni.[224] Le quali repressioni non interruppero la propaganda occulta di tutte queste sètte del magismo, dei Zindîk, come furono detti, con voce generica che credesi derivata dal noto nome di Zend. Mehdi, di casa abbassida, fieramente li perseguitava (784-785); istituiva contro di essi un magistrato speciale detto il Preposto degli Zindîk,[225] e, nell'atto di mandarne alcuno al supplizio, esortava il figliuolo Hadi a continuare la proscrizione, succedendogli nel califato, [113] per essere i Zindîk, com'ei diceva, Manichei, scellerati che vietavano di mangiar carne, viveano in ippocrita astinenza, credeano a due principii Luce e Tenebre, praticavano schife abluzioni, permetteano il matrimonio con le figliuole e sorelle, e andavano rubando i bambini altrui per educarli al culto della Luce.[226] Il poeta Besciâr-ibn-Bord, cieco e vecchio di novant'anni, era stato messo a morte da Mehdi (782) nella medesima persecuzione, la crudeltà della quale par consigliata da sospetto di Stato, più che da fanatismo religioso.[227] Poi un Giân dewân[228] aspirò agli onori divini; tenne la fortezza di Bedsds[229] nell'Aderbaigiân; ebbevi adoratori e soldati; e spianò la via a Babek oriundo di Medâin, assai più terribile impostore. Perchè alla morte di Giân dewân, la moglie attestava ai partigiani aver visto raccogliere dal giovane Babek il soffio divino reso dal moribondo; ed essi, avendo mestieri d'un capo, credean queste e tante altre favole. Babek seguì necessariamente i dommi della trasmigrazion delle anime e della divinità dei ciurmadori antecedenti; seguì le dottrine comuniste di Mazdak, trascorrendo sino all'incesto; ma a quel vergognoso epicureismo aggiunse i furori dei Khâregi, il dovere di far guerra, la licenza di commettere guasti, rapine, omicidii sopra i seguaci d'altre credenze. La loro fu chiamata dagli Arabi la religione [114] del libertinaggio, e ai settatori dieron anco il nome di Khorramii, o diremmo noi gli Sfrenati. Traendo alle bandiere di Bâbek uomini rotti ad ogni scelleratezza, costui per venti anni (816-836) affrontò e sovente sconfisse gli eserciti abbassidi nelle regioni settentrionali della Persia, ove si dice abbia fatto incredibili carnificine. In ultimo, presagli la cittadella di Bedsds, inseguito, raggiunto in Armenia, condotto a Bagdad, messo ad orribili supplizii, li durò fino alla morte con fortezza da eroe.[230]

Non guari dopo cotesti estremi sforzi della schiatta persiana, veggiamo cominciare il movimento con altre forme nella schiatta arabica. Ne fu autore un Abd-Allah-ibn-Meimûn, detto il Kaddâh ossia l'Oculista, della gente di Kuzeh[231] presso Ahwâz nel Kuzistân, uom di setta deisanita al par che il padre, come sopra accennammo.[232] Meimûn avea promosso un novello ramo che prese nome da lui. Il figlio salì in maggior fama, per arte d'indovino e prestigii di fisica e destrezza di mano;[233] imbeccando alla gente che gli bastava l'animo di passare in un baleno da un capo all'altro del mondo; e s'indettò con astrologi [115] e intriganti e con qualche tardo discepolo di Babek e altri rottami delle sètte dei magi:[234] che par leggere le memorie di Cagliostro a quel congegno di scienze naturali, imposture d'ogni maniera e cospirazioni; a quel sì lontano scopo politico, pazientemente apparecchiato ai figli dei figli. Lo scopo di Abd-Allah sembra di far ubbidire, se non a sè medesimo almeno a sua gente e a sue dottrine, la schiatta vincitrice, invano combattuta con le armi persiane da Mokanna e da Babek. Perciò volle impadronirsi della fazione sciita, sì grossa e zelante e fin allora disordinata; volle innestar su quel robusto ceppo gli ordinamenti misteriosi dei Persiani; onde i capi della setta lo sarebbero stati anche di una gran parte della società arabica, e avrebbero rivoltato lo impero e mutato la dinastia. Tra gli Sciiti, come accennammo, si notavano varii rami, ciascun dei quali tenea legittima una diversa linea di imâm, o vogliam dire califi, del sangue di Ali; chi i successori di Mohammed figliuolo di Ali e di Hanefia; chi quelli di Hasan e chi di Hosein figli di Ali e di Fatima; e nella discendenza di Hosein si correa d'accordo infino [116] a Gia'far, detto il Verace (a. 765), ma poscia altri riconoscea Musa, quarto figliuolo lui, altri i figli d'Ismaele, secondogenito premorto a Gia'far: onde i partigiani di cotesta linea furon chiamati Ismaeliani.[235] Costoro par non avessero in pronto chi mettere in trono, poichè o spacciavan vivente tuttavia Mohammed figlio d'Ismaele, o favoleggiavano in sua stirpe una serie di imâm mestûr, o, diremmo noi, pontefici nascosi, che il volgo non dovea saperne nè anco i nomi. Per la comodità di tal mistero o per altra cagione che fosse, lo straniero Ibn-Kaddâh elesse a suoi disegni questo ramo della fazione sciita.

Dalla Persia meridionale venuto a Bassora, Ibn-Kaddâh comínciavi sue mene; scoperto indi e costretto a fuggire, tramutasi in Selamîa presso Emesa; vi compera poderi, e, infingendosi d'attendere all'agricoltura, va spacciando qua e là dâ'î, o vogliam dire missionarii, un dei quali, nel distretto di Cufa, indettava Hamdan-ibn-Asci'ath, soprannominato il Kirmit, uom di schiatta arabica, che parve ottimo strumento ad Abd-Allah. Ma l'Arabo, rubatagli l'arte, si fe' capo d'una setta novella che da lui si addimandò dei Karmati, o meglio direbbesi Kirmiti.[236] Dopo venti anni (899) levaron la testa in [117] Bahrein, provincia d'Arabia, ove la setta s'era agevolmente propagata tra fiera e libera gente, che poco temeva il califato lontano. Negli ordini loro si scerne il miscuglio delle superstizioni e dottrine persiane col genio independente della schiatta arabica: da una mano la ipostasi dello imâm, e novelle pratiche religiose, manichee anzi che musulmane; dall'altra qualche eccesso di comunismo mazdakiano e tutte le virtù e i vizii della democrazia kharegita. Sembrami error manifesto degli eruditi di noverare i Karmati tra gli Ismaeliani, coi quali non ebbero altra comunanza che le pratiche condotte e poi spezzate tra il Kirmit e Ibn-Kaddâh; nè altra somiglianza che di qualche forma e qualche mistero. Del rimanente correano per due vie opposte e come a due poli del mondo. Gli Ismaeliani, ritennero gli ordini di associazione segreta quando non n'era mestieri, dopo la esaltazione cioè della dinastia fatemita (910), e dopo la ribellione di Hasan-ibn-Sabbah ad Alamût (1090); nè disdissero mai il nome maomettano; e s'abbian promosso il dispotismo e la superstizione lo mostrano i lor discepoli Drusi e Assassini. I Karmati al contrario, non contenti di calpestare l'islamismo, si risero d'ogni domma e rito, e si tediarono di star nelle tenebre dell'associazione occulta: costituirono uno Stato libero e forse licenzioso; ebbero non principe semideo, ma capo politico, non altrimenti chiamato che Kabîr, ossia superiore; e talvolta, in luogo d'uno, ubbidirono a sei magistrati con titolo di sâid che suona signori, come que' della Mecca avanti Maometto [118] e delle nostre repubbliche del medio evo.[237] Ognun sa che i Karmati, per tutto il decimo secolo, fieramente combatterono dall'Arabia fino all'Egitto il califato abbassida e poi anco il fatemita; che sparsero fiumi di sangue; che presero la Mecca, e portaron via la sacra pietra nera della Caaba, per rivenderla a carissimo prezzo ai devoti Musulmani; e che da lor venne, in parte, la rovina dello impero musulmano.

La società segreta degli Ismaeliani per una trentina d'anni lenta camminò, sotto parecchi gran maestri della schiatta di Abd-Allah-ibn-Kaddâh, succeduti l'uno all'altro fino a Sa'îd-ibn-Hosein (874-883) il quale incalzò la propaganda in Persia, Arabia, Siria,[238] e par abbia compiuto l'ordinamento. Era stretta gerarchia: un dâ'î supremo, o gran maestro che noi diremmo; sotto di lui altri dâ'î di provincia e altri di distretti, città, villaggi, che ciascuno eleggeva il subordinato e non conosceva altri che costui e l'immediato [119] superiore. I dâ'î affiliavano. Una contribuzione forniva il danaro ai bisogni della associazione de' capi; e quando gittavan la maschera, teneano apparecchiata una fortezza, “Casa del Rifugio” la chiamavano in lor gergo; e quando regnarono, apriron adunanze pubbliche in una “Casa della Sapienza” ove il dâ'î leggea sermoni su i misteri e la morale. Tanto si ritrae con certezza storica. Sembra che abbiano avuto varii gradi d'iniziazione; dicono nove, dal primo vestibolo ai penetrali di un ultimo mistero, o piuttosto fin di mistero; cioè svelar che imami e religione e morale, tutto fosse una burla. Il dâ'î cominciava a tentare il neofito con dubbii sopra alcuni punti dell'islamismo; si facea giurar segreto e ubbidienza; lo conducea successivamente fino al grado di che gli parea capace: passando dalla confermazione dei dommi e precetti dell'islamismo, alla eredità dello imamato negli Alidi e nella linea d'Ismaele; alla dottrina dell'imam nascoso, noto al dâ'î supremo; alla spiegazione allegorica del Corano: e le allegorie si assottigliavano a mano a mano, e in ultimo si dileguavano nella incredulità. Ma quest'ultimo stadio parmi quello del Gran Maestro, il quale spacciando di tenere in serbo un Messia non potea veramente credere all'islamismo nè a religione che fosse al mondo. Gli altri gradi d'iniziazione delineano esattamente la piramide che si volea fabbricare: tutti i Musulmani alla base; sovrappostivi gli Sciiti; a questi i partigiani d'Ismaele; ad essi i dottori in miti manichei; e sul vertice la famiglia persiana d'Ibn-Kaddah.[239]

[120] Sa'îd-ibn-Hosein, di questa gente, tenea la fila della gran trama in Selamîa, quando Ibn-Hausceb, dâ'î del Iemen, pensò mandar nell'Affrica Settentrionale chi dissodasse il terreno, come diceasi nel gergo della setta. Lavoraronvi prima un Ibn-Sofiân, indi un Holwâni; alla morte del quale, Ibn-Hausceb gli surrogò uomo di maggior polso, che per antonomasia fu detto lo Sciita. Ebbe nome Abu-Abd-Allah-Hosein-ibn-Ahmed, da Sana'a nel Iemen; ardente partigiano degli Alidi; stato una volta Mohtesib, ossia magistrato di polizia, degli Abbassidi presso Bagdad; audace, dotto e pratichissimo d'ogni via coperta ed obbliqua. Con danari della setta, costui si reca (893) dal Iemen alla Mecca, a far proseliti tra gli Affricani che vi attirava il pellegrinaggio; e adòcchiavi, uno sceikh della gente di Kotâma e l'onorevole brigata che lo seguiva. Facendo le viste d'imbattersi per caso tra costoro, Abu-Abd-Allah si insinua, li tenta e comincia a fare e ricever visite; e conosciutili Ibaditi, setta kharegita, come dicemmo, a poco a poco si scopre anch'egli nemico dei califi: aver lasciato il servigio loro perchè nulla v'era di bene; voler vivere ormai spiegando il Corano ai giovanetti; amerebbe a farlo in Occidente, ove non gli parean disperate le sorti del popolo musulmano. Tra lusinghe e dotto parlare e apparenza di pietà, austerità e liberi sentimenti, si cattivò gli animi di quegli stranieri, sì [121] bene che il pregavano di accompagnarli in Affrica ed aprirvi scuola; ma non rispose nè sì nè no, lasciandosi trarre, quasi contro voglia, alle capitali dello Egitto e dell'Affrica; ove indagò profondamente le condizioni delle tribù berbere; e Kotâma gli parve proprio il caso. Allor, come vinto da' preghi dei Kotamii, accetta la ospitalità e gli oficii di imâm d'una loro moschea e di pubblico professore; ma ricusa lo stipendio; fa vedere ai più intrinsechi un gruppo di cinquemila dinâr; accenna alla sorgente misteriosa e inesauribile di quell'oro; alla sacra schiatta d'Ali; alle migliaia di migliaia che cospiravano per essa in tutta musulmanità; ai premii maravigliosi che dovea aspettarsi in questa vita e nell'altra chiunque aiutasse alla esaltazione del pontefice nascoso. Le quali pratiche non piacquero a tutti tra quella gente ibadita e però nimica all'autocrazia di Ali; ma il maggior numero odiava mille volte più Ibrahim-ibn-Ahmed vivo, che Ali sepolto da secoli; più la dominazione straniera, che il dispotismo; e il giogo stesso del dispotismo tanto lor parea duro a portarlo sul collo, quanto comodo e piacevole a metterlo addosso altrui. Ebbe dunque gran séguito Abu-Abd-Allah; gli proffersero avere e sangue; i misteri quanto più assurdi, tanto più furibondo accendeano lo zelo; un capo uccise di propria mano il fratello che andava gridando impostore Abu-Abd-Allah. A capo di sette anni, correndo il novecento dell'era volgare, costui cominciava a scoprirsi[240] presso Setif, nei monti detti [122] di Ikgiân, sede d'una tribù della gente di Kotâma.[241]

La gente di Kotâma tenea la più parte della odierna provincia di Costantina: un quadrilatero da Bugia e Bona su la costiera, a Belezma e Baghaia nella catena degli Aurès: territorio montuoso, dove coltivato dalle tribù stanziali, dove abbandonato a pascolo e corso dalle tribù nomadi della medesima gente. Si distinguea questa dagli altri Berberi per non so che divario di tradizioni, usanze, dialetto; tanto che gli eruditi vi trovarono appicco a consanguineità con la schiatta arabica. Che che ne fosse, i Kotamii non si affratellarono punto coi vincitori, nè lor ubbidiron altrimenti che di nome, nè si piegarono a tributo, non che smettere lor costumi aborigeni. Com'ogni altra nazione berbera, i Kotamii par sian vissuti in rozza confederazione, vincolo di schiatta più che di legge; il quale se non bastava a campar le tribù loro dalla guerra civile nè dalla dominazione straniera, potea stringerle insieme ad un tratto in brevi ma gagliardi sforzi. Allo entrar del decimo secolo, fortissima era la nazione kotamia per numero totale degli uomini o relativo degli armati; poichè la tradizione esagerando portò che ne andassero trecentomila ad assalire Kairewân; e da più certi ricordi sappiamo quanti eserciti kotamii corsero in quel secolo fino all'Atlantico e oltre il Nilo sotto le bandiere dei Fatemiti: nelle quali imprese la nazione kotamia si dissanguò; si trovò menomata a quattromila uomini verso la metà del duodecimo secolo; [123] nel decimoquarto, qualche tribù che ne rimanea soffriva il giogo di Tunis, e in oggi se n'è dileguato il nome.[242] Non primeggiava per vero nella confederazione la tribù stanziata a Ikgiân. Ma la mente di Abu-Abd-Allah, l'accentramento e ardore della setta ismaeliana le dettero tal vigore, da soggiogare qualche tribù rivale, tirarsi dietro le altre, e unire la nazion kotamia, anzi una gran parte della schiatta berbera, contro i vincitori Arabi. Ibrahim-ibn-Ahmed dal suo canto aveva arato quel terreno più che i mistici agricoltori ismaeliani; fin avea liberato la nazione kotamia del disagio che le davano i bellicosi Arabi di Belezma.

Ed egli stesso gittò la prima scintilla. Risaputo dal governator di Mila come l'oscuro professore d'Ikgiân osasse accusare d'eresia Abu-Bekr e Omar, mandò ad ammonirlo di frenare la lingua; e, se no, vedrebbe. Abu-Abd-Allah, invece di rispondere, si mostrò in campo (901) con giusto esercito, con simboli non più visti, scritti su le bandiere, nei suggelli delle lettere e nel marchio dei cavalli; ordinò gli oficii d'amministrazione militare; afforzò la casa del rifugio a Ikgiân; diè il motto di guerra “In sella, cavalieri di Dio;” apertamente bandì la rivoluzione politica e religiosa. Così la società ismaeliana, compiuti i lavori a suo bell'agio tra genti guerriere e luoghi inaccessibili alla vigilanza dei governanti, uscia dalle tenebre improvvisamente in sembianza di Stato antico [124] che facesse guerra, non di moltitudine tumultuante e confusa. Sbigottì Ibrahim a quel terribil segno. Comprese che la viva forza da lui sciupata si stoltamente, ormai non bastava contro la ribellione sciita: pertanto si provò a suscitar la guerra civile tra i Kotamii; a calmare gli altri popoli con le riforme; e si affrettò all'abdicazione. Scendendo dal trono raccomandò al figliuolo che non assalisse mai primo gli Sciiti, si difendesse, e abbandonato dalla fortuna si ritraesse in Sicilia.[243]

CAPITOLO VI.

S'uom potea riparare alla rovina di casa aghlabita, quel desso era Abd-Allah, successor del tiranno. Abd-Allah par modello dell'ottimo principe musulmano del medio evo: prode della persona, cavaliero e schermidore perfetto, savio capitano, bell'ingegno, poeta, dialettico, erudito, rettorico, e, quel che monta assai più, giusto, magnanimo, benigno, temperato nell'esercizio del comando, osservatore d'ogni precetto di sua religione. Preso lo Stato alla abdicazione del padre,[244] mandò lettere circolari da leggersi [125] al popolo adunato, per le quali promettea zelo nella guerra sacra, e nel governo umanità, giustizia, amor del ben pubblico. E che non scrivesse ciance di principe nuovo provollo coi fatti, chiamando appo di sè un consiglio di molti savii e dotti uomini (queste son le parole d'Ibn-el-Athîr), che lo aiutavano a condurre gli affari secondo giustizia e proponeano i provvedimenti richiesti dalle condizioni del popolo. Come i predecessori, sedè egli stesso nel Tribunal dei soprusi. Volle che i magistrati ordinarii rendessero ragione, senza contemplazion di persone, contro oficiali, cortigiani, congiunti o figli del principe e contro lui medesimo. Eletto il novello cadi dal Kairewân, gli commise di reprimere severamente i soprusi dei riscuotitori delle tasse e proteggere gli oppressi. Riformò al tempo stesso la corte: vestitosi di lana come i primi califi; sgombrati que' nugoli di pretoriani; fuggito a precipizio dalle insanguinate castella del padre, sì che soggiornò nei primi tempi in una casuccia di mattoni, poi ne fece acconciare una più spaziosa, comperate entrambe del proprio. Forte di sua virtù, sdegnando i consigli tiberiani del padre, Abd-Allah mandava contro gli Sciiti un esercito capitanato dal proprio figliuolo, altri dice fratello, soprannominato Ahwâl. E già la vittoria seguiva gli auspicii del principe guerriero; e la contentezza de' popoli promettea che la ribellione, ristretta a una tribù, presto sarebbe spenta.

[126] Quando un vil parricida troncò ogni speranza degli Arabi d'Affrica. Ziadet-Allah, figliuolo di Abd-Allah, rimaso a reggere la Sicilia dopo la morte d'Ibrahim, s'era dato a vita sozza e bestiale con vili cortigiani che lo stigavano contro il padre perchè sentiansi soffocare da quella severa riforma. Risapendo tai vergogne, Abd-Allah deponea d'oficio il figliuolo; chiamavalo a Tunis; e, arrivato ch'ei fu del mese di maggio novecentotrè, come a fanciullo discolo, gli tolse danaro e arredi e sì il chiuse in un appartamento del palagio, messi in prigione a parte i suoi cagnotti. Ma le mura non furon ostacolo a una congiura di corte che si ordì, consapevole Ziadet-Allah. Il mercoledì ventisette di luglio,[245] uscito Abd-Allah dal bagno e gittatosi a dormire in parte solitaria del palagio sopra un sofà di stuoie, tre eunuchi schiavoni ch'ei tenea molto fidati gli si appressano; un trae pian piano la spada di sotto il capezzale; e d'un fendente tagliò netto e collo e barba e intaccò la stuoia. Corre un altro alla prigione di Ziadet-Allah; scala il muro; lo saluta re; gli fa pressa di mostrarsi alla corte: ma quei temendo doppio tradimento, risponde che, se dice il vero, gli rechi la testa del padre: onde l'eunuco andò e tornò e gli gittò la testa d'in sul muro. Presala in mano, raffiguratala, il parricida balzò di gioia; fe' spezzare le porte della prigione; assembrare i grandi di casa aghlabita; i quali sospettando, o no, il vero, [127] per paura degli stanziali, o perchè la virtù di Abd-Allah lor fosse stata anco molesta, giurarono fedeltà al successore. A cancellar sue proprie vestigia, questi fece scannare immantinente i tre sicarii, e appendere i cadaveri al patibolo.

Pria che si risapesse il misfatto, Ziadet-Allah scrivea col suggello del padre ad Ahwâl di venir subito a Tunis; il quale senza sospetto, lasciò lo esercito, e per via fu preso e morto. Uccisi al paro da trenta, tra fratelli, zii e cugini del novello tiranno, in un isolotto[246] ove li mandò sotto colore di rilegazione; dato lo scambio a' primarii magistrati; gratificati con largo donativo gli oficiali pubblici. Del rimanente, non curando se lo Stato andasse bene o male, Ziadet-Allah ripassava dal sangue nel fango: regnava sette anni trescando con sicarii, giullari, beoni, concubine e giovani svergognati; arrivava a far batter moneta col nome del paggio Khattâb; e quando avea mala nuova della guerra sciita, diceva al coppiere: “Mescimi; e anneghiamola in questa tazza.”[247]

Abu-Abd-Allah intanto conquistava l'Affrica. [128] Nel regno d'Ibrahim-ibn-Ahmed avea soggiogato qualche popolazione agricola (901) e combattuto una tribù guerriera della nazione stessa de' Kotâmii. Venuto alla prova contro gli eserciti aghlabiti al tempo d'Abd-Allah, il ribelle or vinse or fu vinto; e n'avea la peggio, quando Ziadet-Allah lo cavò di briga col parricidio e il fratricidio (903). Poscia, tra le vicende della guerra, salì pur sempre la parte sciita. Non solo tutta la gente kotamia, ma anco altre popolazioni berbere seguiron volentieri un capo che promettea la venuta del Messia e quanto prima soggiogati tutti i popoli della Terra, e fatto spuntare il sole di Ponente; e dava pur qualche arra de' prodigii. Arra la vittoria, il bottino, la propria temperanza, austerità, abnegazione, l'abolizione del kharâg o diciamo tributo territoriale, antichissimo sopruso degli Arabi sopra i Berberi: e questo ribelle, entrato a Tobna, e recatogli il danaro pubblico, rendeva il kharâg ai possessori musulmani; aboliva le tasse non prescritte nel Corano o nella Sunna; e bandiva ai popoli che ormai non avrebbero ad osservare altre leggi che i sacri testi. All'incontro i sudditi fedeli pagavan troppo caro le vergogne di Ziadet-Allah. Gli eserciti, accozzati di stanziali e avanzi del giund, che è a dire di tormentatori e tormentati, marciavano di pessima voglia; e talvolta sbaragliavansi pria di venire alle mani, non ostante gli immensi appresti d'armi e macchine da guerra; e quali capitani lor potea dare tal principe? Entro pochi anni, Abu-Abd-Allah minacciò la metropoli dell'Affrica (907). Il tiranno, provatosi a far grande armamento e montare a [129] cavallo egli stesso, tornò addietro spaurito a Rakkâda, rifatta sede della corte aghlabita; afforzolla con mura di mattoni e mota;[248] affidò l'esercito, troppo tardi, ad un uom di guerra di sangue aghlabita, per nome Ibrahim-ibn-abi-Aghlab; la cui virtù non valse che a ritardare la vittoria del nemico. Di marzo novecento nove, Ziadet-Allah, all'avviso di un'ultima sconfitta d'Ibrahim, tenendosi spacciato e tradito da costui, dal primo ministro, dai soldati, dai cittadini, si deliberò a fuggire incontanente. Dà voce di riportata vittoria; fa tagliar le teste ai miseri che teneva in carcere e condurle a trionfo per le strade di Kairewân, come se fossero dei nemici uccisi in battaglia; e intanto a Rakkâda, ch'era discosta a quattro miglia, entro il palagio si caricavano trenta cameli d'arredi preziosi, oro, gioielli; mille Schiavoni della guardia erano messi in ordinanza, e dato loro a portar mille dinar d'oro per cadauno; le mogli e le più gradite concubine del tiranno montavano in lettiga. Al cader del giorno ei con la corte cavalcò in fretta alla volta di Tripoli, per passare indi in Egitto.

Risaputa la quale fuga, tutta Rakkâda sgombrò, ch'era soggiorno di scrivani e servidori di corte: a lume di fiaccole tante famigliuole, con loro robe preziose, correano per la campagna su le orme del principe. Ma il popolaccio di Kairewân, invidioso e turbolento, piombò la dimane sopra la città regia; per sei giorni continui frugò le case cercando tesori sepolti, [130] e portò via masserizie; finchè comparve la vanguardia di Kotâma, che ricacciollo alla capitale. Dove la schifosa anarchia della paura avea consumato, in questo mezzo, quel po' di forza vitale che rimaneva alla schiatta arabica. Ibrahim-ibn-abi-Aghlab, usando un attimo di favor popolare, convocò i giuristi, i capi delle famiglie nobili della città e i principali mercatanti; lor disse, che se Ziadet-Allah se n'era fuggito, tanto meglio; poichè la mala fortuna se ne andrebbe con quel poltrone; or si potrebbe far la guerra; lo aiutassero di danari ed egli saprebbe rannodare l'esercito, salvar l'onore e la dominazione degli Arabi: per Dio non si dessero in mano di quelle frotte di vinti rivoltati, di barbari settatori d'un eretico, calpestatori d'ogni legge. Ma i notabili risposero, al solito, ferocemente a chi parlava di onore e di pericoli; conchiusero che il danaro lor serviva a ricattare dalla schiavitù sè stessi e le famiglie; e replicando Ibrahim che si potean togliere i capitali dei lasciti pii, l'adunanza gridò sacrilegio. Sdegnosamente uscì Ibrahim dalla sala; e in piazza ebbe a soffrire gli insulti della plebe che ripeteva a modo suo gli argomenti dei barbassori, e dava mano anco ai sassi: se non che l'Aghlabita con uno stuol di cavalli si fe' largo caricando fino alle porte della città. Audace, anzi temerario, andò a Tripoli, sperando di scuotere Ziadet-Allah; e per poco non incontrò la sorte del primo ministro; il quale s'era imbarcato per la Sicilia, ma i venti lo spinsero a Tripoli, nelle mani del tiranno, ch'egli avea confortato alla difesa, e or n'ebbe in merito la morte. Ziadet-Allah, chiesta licenza [131] dal califo abbassida, soggiornò or in Egitto or in Siria, sperando sempre che il califo riconquistasse l'Affrica per lui; e mentre aspettava, rubato dai proprii servitori, ammonito per sue infami dissolutezze dai magistrati, vilipeso da' governanti, impoverito, invecchiato in pochissimi anni, morì (916) di malattia o di veleno.[249] Così cadde dopo un secolo la dinastia d'Aghlab.

Finì con vergogna non minore la dominazione degli Arabi in Affrica. La municipalità di Kairewân, sbrigatasi da quella molesta virtù d'Ibrahim-ibn-abi-Aghlab, mandava in fretta oratori allo Sciita poc'anzi scomunicato con tanta rabbia dai giuristi; il quale era entrato a Rakkâda (26 marzo 909) con sue miriadi di Berberi. Il vincitore accordò l'amân, distogliendo a gran fatica i capi di tribù di Kotâma dal promesso saccheggio di Kairewân. Nè solamente assicurò vita e sostanze al popolo della capitale, e a quanti altri si sottomettessero, ma anco alla parentela degli Aghlabiti e ai condottieri del giund. Prepose agli oficii pubblici molti capi kotamii e qualche giureconsulto arabo sciita; rinnovò i simboli della moneta, bandiere, atti pubblici, senza porvi nome di principe; mutò due parole nell'idsân, o diremmo appello alla preghiera;[250] [132] del rimanente non molestò gli ortodossi; nè sparse altro sangue, che degli schiavi negri soldati di casa d'Aghlab. D'ogni parte dell'Affrica propria, gli Arabi sottometteansi ad uom sì civile che tenea in pugno trecentomila barbari. Non che i cittadini, piegavan la fronte i nobili del giund; non sentendosi forza di salvar sè stessi e i figliuoli dalla schiavitù;[251] onde credeano uscirne a buon patto se non perdean altro che la dominazione. E al solito avvenne che il giogo si aggravò quando l'ebbero assestato sul collo.

Perchè lo Sciita tra non guari risegnava il comando. Sembra che tanti anni innanzi, i capi kotamii iniziati a Ikgiân non avessero voluto mettere a rischio vita e sostanze senza sapere per chi; onde lo Sciita lor additava il custode del gran segreto in Selamia di Siria. Andativi i messaggi di Kotâma, trovarono Sa'îd-ibn-Hosein; il quale, richiesto di svelare il pontefice, rispose “son io,” aggiugnendo chiamarsi, per vero Obeid-Allah; e infilzava una genealogia fino ad Ismaele, e da questi ad Ali e Fatima, figliuola del Profeta. Indi l'appellazione di Fatemita che usurpò questa dinastia persiana, detta altrimenti Obeidita, dal nome del primo monarca. In sul trono non le mancaron poi dottori che provassero genuina la parentela con Ali; mentre i dottori di parte abbassida la negavano con pari asseveranza: gli argomenti pro e contro rimasero per mantener viva la lite, tra gli eruditi musulmani più moderni; e fin [133] oggi dotti europei han creduto alla legittimità dei Fatemiti.[252] Ma Abu-Abd-Allah lo Sciita, vero fondator del califato d'Affrica, non mi par complice di quell'albero genealogico falsato per tiro del Gran Maestro.

Trapelando intanto il segreto, e sendo venuto Obeid-Allah in sospetto ai luogotenenti del califo in Siria, per quei misteriosi andamenti e visite di stranieri, fuggissi in Egitto col giovanetto Abu-l-Kasem, che dovea far la parte di Alida, s'ei nol potesse.[253] Apparve in questa fuga, mirabile effetto dell'affiliazione ismaeliana: quegli occhi d'Argo che spiavan sopra le spie del governo; quelle mani pronte e fedeli per ogni luogo; e la verga dell'oro che veniva a sciogliere tutti i nodi. Accortosi Obeid-Allah che gli Abbassidi lo cercassero in Egitto, lor tolse la traccia, passando a Tripoli d'Affrica e di lì a Segelmessa, città su le falde meridionali del Grande Atlante, in oggi decaduta e soggetta a Marocco, allora capitale del principato dei Beni-Midrâr, berberi, eretici di setta Sifrita e independenti degli Aghlabiti. S'appresentò come ricco mercatante che bramasse far soggiorno [134] nel paese; entrò in grazia del regolo, per nome Eliseo; e si tenea sicuro, quando Ziadet-Allah diè avviso a quei di Segelmessa che il capo di cotesta setta sterminatrice dell'Affrica si ascondesse appo di lui. Perciò caddero i sospetti sul mercatante straniero; e fu sostenuto, interrogato, confrontato col figlio e coi famigliari e costoro torturati a frustate; ma tutti negavano e parlavano a un modo. Eliseo non s'appose al vero, finchè lo Sciita, trionfante a Rakkâda, non gli domandava con lusinghe e promesse, la liberazione d'Obeid-Allah. Ricusò; gittò le lettere in faccia agli ambasciatori; e li fe' mettere a morte. Lo Sciita, dicon le croniche, tremando per Obeid-Allah, dissimulava l'insulto; tornava a pregare; e di nuovo gli furono uccisi i messaggi. Allor con gran furore mosse di Rakkâda (maggio 909) sopra Segelmessa.

E forse in suo segreto il men che bramasse era di liberare Obeid-Allah. Fin dai principii della ribellione d'Affrica, lo Sciita, per lealtà alla verace schiatta d'Ali o ambizione propria, par si fosse studiato a tener lungi dallo esercito l'impostore di Selamîa. Ma nol potea disdire apertamente, avendo amici e nemici tra i capi di Kotâma, padroni dell'esercito, abboccatisi con Obeid-Allah in Oriente, entrati in quell'orditura di spionaggio, menzogne e superstizioni, nella quale era avvolto lo stesso Sciita, e le fila, maestre teneale in mano Obeid-Allah. Con ciò le moltitudini cominciavano a ripetere il nome del pontefice nascoso; a saperlo in pericolo; nè forza umana le avrebbe ritenuto. Lo Sciita, non osando dunque spezzare l'idolo fabbricato con le proprie mani, gli si prostrò [135] il primo; differì i disegni; sperò che i meriti avrebbero cancellato le offese; che il novello principe non avrebbe potuto far senza di lui: e quando s'accorse dell'errore, mormorò, cospirò, e fu spento.

Ed ora cavalcando alla testa dell'esercito vittorioso, vedea le altre nazioni berbere sottomettersi di queto o sgombrargli il passo; giugnea a Segelmessa; rompea le genti d'Eliseo, uscite a combatterlo; ed occupava la città. Ansiosamente corre alla prigione di Obeid-Allah, coi capi kotamii; i quali, a vederlo salvo, proruppero in lagrime di gioia. Lo condussero al campo (20 agosto 909) con riverenza che puzzava d'adorazione: Obeid-Allah e il figliuolo soli à cavallo, ogni altro a piè; e primo lo Sciita, che andava gridando “Ecco il mio e il vostro Signore!” Si rinnovò tal rito a Rakkâda (gennaio 910), quand'ei fe' la entrata trionfale coll'esercito; uscitogli all'incontro il popolo di Kairewân co' soliti plausi; nè mancarono poeti che lo rassomigliassero alla divinità. Prese titolo di Comandator dei credenti e soprannome di Mehdi, ch'è a dire “Guidato da Dio;” e così fu ricordato ogni venerdì nella khotba. Oltre lo stato di Segelmessa, lo Sciita gli avea conquistato poc'anzi quel di Taiort, independente dagli Aghlabiti: onde l'impero Fatemita fin dal principio si estese a tutta l'Affrica settentrionale, eccetto le estreme province di ponente, tenute dagli Edrisiti.[254]

[136] Fornite le cerimonie, il Mehdi diè opera a fabbricar le fondamenta del nuovo impero. Alla tolleranza religiosa d'Abu-Abd-Allah era già succeduto il fanatismo del fratello preposto all'Affrica propria durante la guerra di Segelmessa; il quale perseguitò molti ortodossi. Ed or il Mehdi faceva osservare più rigorosamente le pratiche sciite nei punti di disciplina ecclesiastica o diritto civile in che differivano dalle sunnite: le parole mutate nell'appello; un digiuno sostituito a una preghiera; maledire i compagni del Profeta fuorchè Ali; permettere altre forme di divorzio; dar più larga parte alle figliuole nei retaggi; e somiglianti novazioni, qual ridicola e qual seria, odiosissime tutte agli Arabi d'Affrica.[255] Con peggior consiglio ei tentò d'incorporar lo Stato alla setta. Ai capi berberi di Kotâma richiese il giuramento di fedeltà “per la Verità di chi intenda i misteri:” al qual gergo ismaeliano erano avvezzi, e passò. Ma la schiatta arabica vide con orrore seder pro tribunali a Rakkâda una mano di dâ'î preseduti dallo Scerif, più alto dignitario, i quali, chiamavano i cittadini per affiliarli alla setta con lusinghe, poi con minacce; e mandavano in carcere i ricusanti; e quattromila ne furono uccisi, per comando del principe o brutalità dei satelliti kotamii. Contuttociò i proseliti arabi si contarono a dito. Il [137] Mehdi, necessitato alfine a smetter la violenza, riempì le logge ismaeliane come potea.[256] Fallì lo scopo d'imbeccare alle moltitudini quella sua ipostasi, onde avrebbe regnato con doppio comando, di re e d'Iddio. Trapiantata poi la sede in Egitto, i successori rincalzarono la propaganda: il più pazzo, il più codardo, il più crudele tra i Fatemiti, l'empio Hakem-biamr-illah, arrivò per tal modo agli onori divini; e i Drusi l'adoran tuttavia.

Ma il Mehdi, non potendo soggiogar le coscienze, assestò ogni altra cosa da uom di Stato. Prodigò facoltadi, carezze, oficii militari e civili ai Kotamii più che non avesse fatto lo Sciita; e pur non si abbandonò tutto alle milizie loro, ordinò un esercito stanziale di liberti e schiavi, parte di schiatta greca e italiana,[257] e parte negri. Pose diligenza e regola nell'amministrazione delle entrate pubbliche; onde fe' sentir meno il peso ed ebbe abilità di aggravarlo senza romore.[258] S'impossessò non solo dei beni degli Aghlabiti,[259] ma sì dei lasciti pii e dei patrimonii pubblici d'alcune città;[260] tolse le armi serbate nelle torri [138] della costiera; abbattè i palagi fortificati degli Aghlabiti; cancellò per le castella e moschee i nomi dei principi fondatori, e scolpivvi il suo.[261] Oltre le novazioni che accentravano l'autorità, il Mehdi come i predecessori sedette nel Tribunal dei soprusi, e trattò dassè le faccende pubbliche.[262]

Varie tribù e città berbere levaron la testa; ed ei le domò con milizie di Kotâma capitanate dallo Sciita. Poi risapendo che questi sparlava, che capi kotamii gli davan orecchio, e che si mettea in forse se stesse in sul trono il verace imâm guidato da Dio, un giorno convita Abu-Abd-Allah e il fratello; li fa appostare all'uscita e trucidare; con ippocrita pietà recita egli stesso la preghiera su i cadaveri (febbraio 911); e quetamente li seppellisce nel giardin della reggia. Spense gli altri capi di Kotâma disaffetti. Ad un che gli domandava miracoli in prova di sua divinità, fe' di presente troncar la testa.[263] Un altro Kotamio spacciò sentirsi addosso lo spirito divino; nol provò con la vittoria; e fu preso e mandato al supplizio.[264]

Non cessavano con tutto ciò i tumulti del popolo di Kairewân e d'altre città arabiche, la pertinace nimistà [139] dei giureconsulti e nobili, la petulanza degli sgherri kotamii, le ribellioni d'altre genti berbere; tra le quali quella esaltazione del nome d'Ali provocò novello furore delle sètte kharegite, e ne sorgeva, a capo di parecchi anni, un terribile demagogo del ramo detto de' Nakkariti. Il Mehdi dunque, non potendo fondarsi sopra alcuna schiatta nè vasta opinione, ma sol su quella sua macchina di governo, dovea metterla in salvo da un impeto degli elementi ostili, con maggior cura che non avessero fatto gli Aghlabiti; nè parvegli acconcia Rakkâda, sì vicina a Kairewân; nè altra città di Arabi. Con alto consiglio volle porsi in sul mare, ove l'armata gli servisse a difesa ed a minaccia sopra stranieri e Affricani e Siciliani impazienti del giogo; ed ove il commercio creasse ricchezze e nuova popolazione. Percorsa tutta la costiera a levante di Cartagine, elesse una penisoletta ch'esce tra i golfi di Hammamet e di Kabes, in forma di palma di mano aperta, e l'istmo raffigura il polso. Le diè nome di Mehdîa, ma fu detta anco Affrica, come capitale. Ampliò con maravigliose opere il porto, da renderlo capace, dicon, di settecento galee; costruì arsenale, castelli, torri, porte di ferro massiccio di mole non più vista, fosse di grano, cisterne d'acqua; soprantese in persona ai lavori; sciolse problemi meccanici;[265] trovò in sua astrologia il giorno e l'ora di gettar la prima pietra, spuntando in cielo [140] il Lione; profferì facili profezie; usò la scienza e impostura dei suoi veri antenati persiani, che per esser nuova parea tanto più miracolosa in Occidente. Ed a capo di cinque anni (920), quando vide fornita la inespugnabile capitale, sclamò: “Or sì regneranno i Fatemiti.[266]

CAPITOLO VII.

La colonia siciliana, dissanguata nella guerra civile del novecento, stette cheta o quasi, per nove anni; nel qual tempo la ressero quattro emiri: Ziadet-Allah (902-903); Mohammed-ibn-Siracusi, surrogatogli dal padre (maggio 903);[267] e, dopo il parricidio, Ali-ibn-Mohammed-ibn-Abi-Fewâres; e Ahmed-ibn-abi-Hosein-ibn-Ribbâh, di nobil casa modharita, stanziata in Sicilia da una sessantina d'anni, illustre per valorosi capitani e governatori. Ali, al dir d'una cronica, fu deposto da Ziadet-Allah:[268] probabil è che lo avesse eletto il popolo di Palermo, quando vide insanguinato il trono dal parricidio, e ne sperò uno scompiglio che gli desse agio a ripigliare suoi dritti.

[141] Non prima si riseppe in Palermo la fuga di Ziadet-Allah, che il popolo, stigato dal medesimo Ali, sollevossi all'entrar d'aprile del novecentonove: irruppe in palagio, saccheggiò la roba, prese Ahmed, ed esaltò in suo luogo Ali.[269] Poscia venuti avvisi della occupazione di Rakkâda, i Palermitani mandavano Ahmed prigione in Affrica, e chiedeano allo Sciita la confermazione di Ali. Concedettela; raccomandò con questo di ripigliar la guerra sacra, smessa sotto il regno di Ziadet-Allah;[270] nel qual tempo i Cristiani erano tornati ad afforzarsi in loro rôcche del Valdemone, per incuria di chi reggea le cose in Sicilia o forse per trattato con l'impero bizantino.[271] Del resto non seguì evento d'importanza fino alla esaltazione del Mehdi. Nè altrimenti si ricorda il nome di Sicilia che nella persecuzione di Abu-l-Kâsim-Tirazi, cadi di Palermo sotto gli Aghlabiti; cacciato probabilmente con Ahmed e vergheggiato in piazza pubblica di Kairewân, insieme col dotto cadi di Tripoli, entrambi rei di costanza nel rito ortodosso.[272]

Ove si consideri l'esser della Sicilia in questo interregno, si vedrà la rivoluzione del novecento d'un subito tornata a galla, quando mancò con gli Aghlabiti la man che l'avea represso. Oltre le forze proprie ristorate in un decennio, la colonia rinvigorì, com'ei sembra, di nobili arabi che per avventura si [142] fossero rifuggiti d'Affrica nel primo terrore[273] o nelle persecuzioni sempre crescenti; la lealtà dei quali a casa d'Aghlab ormai s'accordava con gli umori d'independenza siciliana. Ma avendo al fianco quella piaga dei Berberi di Girgenti, l'aristocrazia palermitana, titubante a ripigliare le armi contro l'Affrica, contentavasi di tener lo stato con l'antico espediente d'un emiro tutto suo. Ali sembra, in fatti, il caporione della nobiltà; sì ch'essa fece come volle nell'interregno. Sperando poi di raggirare il Mehdi ed appagarlo con ubbidienza nominale, Ali chiesegli di andare a Rakkâda per abboccarsi con lui; e il Mehdi tutto lieto assentì. Avutolo in Affrica, lo fa imprigionare; manda a regger l'isola un uom suo, provato in missioni così fatte, Hasan-ibn-Ahmed-ibn-Ali-ibn-Koleïb, soprannominato Ibn-abi-Khinzîr, ch'era stato prefetto di polizia di Kairewân sotto lo Sciita.[274]

[143] Gli intendimenti del principe e le condizioni della colonia appariscono da' primi atti d'Ibn-abi-Khinzîr. Sbarcato a Mazara il dieci dsu-l-higgia del dugento novantasette (20 agosto 910), deputava un suo fratello per nome Ali[275] governatore a Girgenti; del quale oficio non v'ha ricordo sotto gli Aghlabiti, e pare trovato del Mehdi per lusingare i Berberi e attizzare la discordia tra loro e gli Arabi. Al medesimo tempo fece cadi di Sicilia un Ishâk-ibn-Minhâl; il primo, aggiungono gli annali, che vi sedesse a nome del Mehdi:[276] e ciò mostra che per più d'un anno s'era amministrata la giustizia secondo il dritto sunnita e da un eletto dell'emiro. Ibn-abi-Khinzîr prepose alla azienda uomini nuovi, i quali furono accusati di aggravii; o forse v'istituì nuovi oficii, secondo i voleri del principe.[277] Il “Preposto della Quinta” di cui si fa ricordo poco appresso, sembra nuovo; e di certo fu posto a scemar l'autorità dell'emiro, sia che avesse carico di spartire il bottino e le terre prese ai vinti e serbarne la quinta all'erario, sia che anco amministrasse il ritratto della quinta.[278] La primavera o state seguente (911) l'emiro, sostando alquanto da' negozi fiscali, conduceva l'esercito sopra Demona, ove i Cristiani avean levato la testa: ed arse il contado, predò, fece prigioni; ma non osò [144] assalire la rôcca.[279] La qual debole fazione scopre i travagli che aveano in casa i Musulmani di Sicilia e l'agitamento generale della schiatta arabica contro i Fatemiti, il quale scoppiava ad ora nelle città d'Affrica.[280]

Tra così fatte disposizioni d'animi, Ibn-abi-Khinzîr volle dare un banchetto ai primarii nobili nel palagio di Palermo. I convitati sedeano nella sala, quando alcun s'addiè, o il finse,[281] d'una sinistra commozione tra gli schiavi dell'emiro; d'un luccicar di spade che si porgessero l'un l'altro; e balzando in piedi sclamò: “Siam traditi;” e tutti corsero alle finestre a gridare: “All'armi; all'armi!” Fresca era la memoria dello Sciita, trucidato insiem col fratello alle soglie del Mehdi;[282] Ibn-abi-Khinzîr non pareva uom da scrupoli; l'universale degli Arabi di quel secolo ridea, certo, come di romanzo della ospitalità cavalleresca de' lor padri Beduini: tra tanti vizii, tra tanti odii, credibilissimo il tradimento, e assai volentieri creduto. D'un subito, dunque, trasse il popolo in piazza; s'affollò dinanzi il palagio; trovate chiuse le porte, v'appiccò fuoco; nè si racchetò quando usciron sani e salvi i convitati, i quali al certo non dissero che avean sognato. Ibn-abi-Kinzîr, fattosi ad arringare il popolo, perdeva indarno il fiato; gli troncavan [145] le parole con minacce e villanie; finchè vistili in punto d'irrompere nelle sue stanze, cercò scampo saltando in una casa contigua, ma cadde, si spezzò una gamba, e fu preso e messo in carcere. Per tal modo fallì il tradimento dell'emiro o riuscì la calunnia dei nobili: ch'io nol so. I nobili scriveano il caso al Mehdi; il quale perdonava ai sollevati e deponea d'oficio Ibn-abi-Khinzîr, bastandogli che fosse posato il tumulto in Palermo e preso il governo provvisionalmente da Khalîl, Preposto della Quinta.[283] Seguiron cotesti avvenimenti innanzi il ventisette dsu-l-higgia del dugentonovantanove (13 agosto 912), quando giunse in Sicilia, mandato dal Mehdi, un novello emiro per nome Ali-ibn-Omar-Bellewi.[284]

Vivea di questo tempo in Sicilia un Ahmed-ibn-Ziadet-Allah-ibn-Korhob;[285] uom d'alto affare, di molta ricchezza, di nobil casa arabica devota agli [146] Aghlabiti; che dei suoi maggiori, un fu primo ministro d'Ibrahim-ibn-Ahmed; un altro, forse il padre, espugnò Siracusa,[286] e un congiunto o fratello avea tenuto poc'anzi il governo dell'isola.[287] Par che il principe fatemita, non trovando modo a maneggiar la colonia siciliana, se ne fosse consultato con Ibn-Korhob, avversario sì, ma intero e leale; poichè sappiamo che costui scrisse al Mehdi: “Se vuoi dar sesto al paese, mandavi grosso esercito che lo domi e strappi la potestà di mano ai capi; se no, la colonia rimarrà in perpetuo disubbidiente alle leggi; ad ogni piè sospinto moverà tumulto contro gli emiri e te li rimanderà a casa svaligiati.”[288] In suo laconismo, Ibn-Korhob accennava, com'io credo, con una voce sola alle due maniere di capi ch'erano nelle popolazioni musulmane dell'isola, i magistrati cioè dei Berberi e i nobili degli Arabi; capi di consorterie di due nature diverse, ma preposti in entrambe a molti negozii civili e insieme al comando delle milizie. Tale la potestà, capitaneria, dice litteralmente la cronica, che occorreva abolire in Sicilia. Mettendo da parte i Berberi e risguardando agli Arabi, cotesta espressa testimonianza, confermata da tutti i ricordi dei tempi susseguenti, mostra cresciuto ormai e soverchiante nella colonia un terzo male, non men grave [147] dell'antagonismo di schiatta e, direi quasi, del dispotismo affricano. L'insolenza dei nobili non era apparsa per lo addietro, non essendo adulta la cittadinanza che potesse risentirsene, come quella del Kairewân e d'altre città d'Affrica. Però si notava degli ottimati la sola resistenza al principato e confondeasi col sentimento di libertà coloniale; però la plebe di Palermo parteggiava tuttavia per toro e tardò altri trent'anni a tediarsene. Mancando dunque il popolo, altro partito non rimaneva che sceglier tra due mali, dispotismo fatemita o sfrenamento d'oligarchia; e ad Ibn-Korhob parve meno intollerabile il primo. Ciò dia la misura dell'altro. E dimostri anco la virtù di quel gran cittadino, ch'era nobile, ortodosso, affezionato agli Aghlabiti e Siciliano: e diè consiglio contrario a tutti interessi e umori di parte. Non andò guari ch'ei compiva maggior sagrifizio, gettandosi nella voragine della rivoluzione; non per leggerezza, non per vanità, non per ambizione, ma ad occhi aperti, per religion d'animo generoso, quando conobbe che v'era da tentar con un dado contro cento, la liberazione della patria dall'Affrica insieme e dall'anarchia.

Entrando l'anno di Cristo novecento tredici, tutta la Sicilia era levata di nuovo a romore: cacciato di Palermo il Bellewi, debil vecchio e molesto;[289] cacciato di Girgenti Ali-ibn-abi-Khinzîr, fratello di Hasan, e saccheggiatagli la casa;[290] ucciso a dì venzette gennaio dai Palermitani Amrân, Preposto della [148] Quinta,[291] il quale par abbia voluto por mano al reggimento come il predecessore Khalîl. In tal moto generale contro l'autorità fatemita, svolazzò nelle menti il solito proponimento di concordia; tanto che Arabi e Berberi insieme formavano di chiamare di governo dell'isola Ahmed-ibn-Korhob. Ei che conoscea la tempra di cotesti affratellamenti, ricusò; fuggì; corse a nascondersi in una grotta; venuti a trovarlo i notabili di tutta la Sicilia musulmana, stette saldo al niego e a dir che non si fidava di loro. Ma incalzando essi nell'inchiesta, e giurandogli d'ubbidirlo infino alla morte,[292] si raccomandò a Dio ed accettò. Il lunedì diciotto di maggio, il popolo siciliano lo investiva solennemente dell'oficio di emiro.[293] Esordì compiendo il primo precetto di legge musulmana, con mandare uno stuolo in Calabria, nella state del novecentotredici; il quale, assaliti i Cristiani, ne riportò bottino e prigioni.[294]

Indi Ibn-Korhob levò l'animo a maggiore impresa. Dopo la guerra d'Ibrahim-ibn-Ahmed, i Cristiani di Valdemone aveano ristorato, con Demona e altre castella, anco Taormina: opera di gran momento, poichè i cronisti musulmani in questo incontro chiamanla Taormina la Nuova. Si accingeva egli dunque ad espugnarla un'altra fiata, con intendimento, come si vociferò, di riporvi sue sostanze, famiglia e schiavi, ed afforzarvisi in caso di guerra civile; ma il disegno sembra piuttosto di compiere ed assicurare il [149] conquisto del Valdemone. Che che ne fosse, mandovvi il proprio figliuolo Ali con un esercito; il quale stette per tre mesi all'assedio, finchè molte schiere, forse dei Berberi, si abbottinaron gridando non voler combattere per mettersi un altro giogo sul collo: ed arsero bagaglie e padiglioni del capitano; e lo cercavano a morte, se non che fu difeso dagli Arabi. Ma la impresa si abbandonò.[295]

Tentava Ibn-Korhob nel medesimo tempo[296] di ordinare la Sicilia in legittimo e stabile reggimento, con tutta quella libertà che mai avessero imaginato i Musulmani ortodossi. Il modo, pianissimo, era di riconoscere il nome del califo abbassida Moktader-billah; il quale da Bagdad, nelle misere condizioni in cui si travagliava il califato, non avrebbe potuto nè levar tributi, nè esercitar comando di sorta, nè scegliere l'emir di Sicilia, nè altro far che investire lo eletto dei Siciliani. Quanto all'emir, la investitura gli veniva a dare un po' di séguito e di riverenza; togliea qualche pretesto ai macchinatori di novità; mettea qualche lieve intoppo allo sdrucciolo di cotesta autorità senza forza pubblica: del rimanente non aumentava i pericoli d'una tirannide, nè i capi riottosi potean temerne troppo rigor di giustizia. Però la nobiltà arabica di Sicilia toccava il bello ideale del governo di genio suo; quel che aveva ambito per lo innanzi, quel che desiderò in appresso e mai nol potè [150] conseguire. I Berberi faceano come chi si gitti in mare dalla nave che arde: vessati dal principato d'Affrica e dagli Arabi lor compagni nell'isola, concordaron questa volta coi più vicini.[297] Tutta la Sicilia dunque a una voce assentì ad Ibn-Korhob, quand'ei messe il partito della obbedienza agli Abbassidi. Incontanente, tolto dalla khotba il nome del Mehdi, si pregò nelle solenni adunanze dei Credenti per Moktader. Mandaronsi lettere e messaggi a Bagdad; ove il califo, con sussiego pontificale, approvò, fece compilare un bel diploma d'investitura in persona di Ahmed-ibn-Ziadet-Allah-ibn-Korhob, e gliel'inviò, com'era usanza, per legati apposta, accompagnato col solito dono degli emblemi del comando: bandiere negre, toghe nere, collana d'oro e smaniglie.[298] Arrivò in Palermo l'ambasceria di Bagdad poco appresso l'armata siciliana, che tornava in porto con splendida vittoria.[299]

Disdetto il nome del Mehdi, s'era apprestato Ibn-Korhob a provar sua ragione con la spada; e come prima seppe uscito un navilio affricano ad assaltare la Sicilia, ovvero a guerreggiare contro l'Egitto e le città d'Affrica rivoltate,[300] fece salpare, a' nove luglio novecento quattordici, il navilio siciliano, condotto dal proprio figliuolo Mohammed. Ai diciotto luglio, trovò nel porto di Lamta, presso Medhia, l'ammiraglio nemico, Hasan-ibn-abi-Khinzîr, quel [151] campato a mala pena nel tumulto di Palermo; e dato dentro, ruppe gli Affricani, arse tutte lor navi, fe' da secento prigioni e tra gli altri Hasan. Mohammed deturpò la vittoria, scannandolo di propria mano e facendogli mozzar mani e piè, e mandò la testa al padre in Palermo: crudeltà provocata forse da antiche offese in Sicilia, di certo dagli esempii di barbarie che avean dato gli eserciti fatemiti nelle città ribelli d'Affrica e dalla strage indistinta degli Arabi di parte aghlabita. Sopravvennero dopo la sconfitta genti che il Mehdi mandava in fretta da Rakkâda; ma, sbarcati i Siciliani, le combatterono e vinserle con tanta rotta, che preser tutte le bagaglie del campo. Indi l'armata assaltò e distrusse Sfax, che si tenea pei Fatemiti; e, passando oltre, si mostrò a Tripoli. Trovatovi El-Kâim figliuolo del Mehdi con l'esercito che tornava d'Egitto, rivolser le prore verso la Sicilia.[301]

La riputazione di tal vittoria e della investitura rincorò Ibn-Korhob, sì che diede opera più alacremente alle cose pubbliche, con forza e prudenza, scrive un cronista[302] secondo la formola; lasciandoci a tradurre in numeri cotesti segni d'algebra; e di più ad imaginare le difficoltà che si paravano innanzi al novello reggitor della Sicilia: le pretensioni contrarie de' Berberi e della nobiltà arabica, delle antiche famiglie musulmane e dei Siciliani convertiti, degli ottimati militari e dei giuristi; le confuse brame del [152] popol minuto; e quanti soprusi e dilapidazioni eran da riparare, a quante ambizioni dovea resistere Ibn-Korhob, a quante cedere, a quante cupidigie por freno, da quanti invidiosi schermirsi, quanti ladroni gastigare o lusingare, quante pazze ire a comporre, quanti calunniatori ad affrontare, quanti sciocchi a far contenti: nelle dette condizioni della colonia, tra uomini sì mal connessi insieme a ciascun persuaso che la rivoluzione s'era fatta a suo beneficio particolare. Una impresa che tentò Ibn-Korhob in Calabria, quasi dimenticando ch'aveva alle spalle i Fatemiti, mostra ch'ei temesse molto più le divisioni interiori e quel pomo di discordia del fei; onde si studiava ad appagare i più bramosi col bottino della guerra sacra. L'esercito che passò il Faro, saccheggiò, diè il guasto, afflisse gli indifesi Cristiani della punta meridionale di terraferma.[303] Ma l'armata fece naufragio, il primo settembre del medesimo anno novecento quattordici o del seguente, a Gagliano presso il capo di Leuca, ovvero Gallico presso Reggio.[304] Questo fu principio della rovina d'Ibn-Korhob. Occorso di combatter nuovamente le forze navali dei Fatemiti che ingrossavano su la costiera d'Affrica, l'armata siciliana, scemata da quel disastro dì Calabria, fu vinta e [153] prese tutte le navi. Indi una mala contentezza nei popoli; e ogni provvedimento d'Ibn-Korhob cominciò ad andar di traverso; i turbolenti, che s'erano acquattati per timore, alzaron le creste.[305]

Narra il Cedreno che Zoe, mentre reggea lo stato pel figliuolo Costantino Porfirogenito di minore età, volendo concentrare le forze contro i Bulgari che nuovamente minacciavano la capitale, fermò la pace coi Saraceni di Sicilia, affinchè cessassero la infestagione della Puglia e Calabrie racquistate dalla dinastia macedone. Eustazio, gentiluomo di camera,[306] com'or si chiamerebbe, dello imperatore e stratego di Calabria, stipolava a questo fine con l'emir di Sicilia di pagargli tributo di ventiduemila bizantini d'oro all'anno, che tornano a un dipresso a trecentomila lire.[307] Continua l'annalista, come surrogato ad Eustazio un Giovanni Muzalone; costui sì iniquamente governò, che i Calabresi, ribellati all'impero, diersi a Landolfo principe di Benevento, dopo la esaltazione di Romano Lecapeno al trono di Costantinopoli:[308] i quali avvenimenti designando la data che manca nel racconto, fan tornare la pace di Sicilia al novecento quindici o principii del novecento sedici, e però al tempo d'Ibn-Korhob.[309] Vergogna all'impero, gloria [154] recò questo trattato alla colonia musulmana di Sicilia e al valente uom che la reggea. E pur non maraviglierei, se un di o l'altro si trovasse in qualche cronaca che i ventiduemila bizantini d'oro eran cagione di nuove discordie tra le milizie arabiche e berbere; che le fazioni calunniavan l'emiro d'essersi venduto agli Infedeli per scialacquare lor moneta coi suoi sgherri.

La reazione contro Ibn-Korhob incominciò, come era da aspettarsi, dalla schiatta berbera. Correndo l'anno trecentotrè dell'egira (16 luglio 915, a 3 luglio 916), i Girgentini disdiceano l'autorità sua; mandavano per lettere ad offerirsi al Mehdi; tiravano a sè altre popolazioni. Si fe' capo della parte un Abu-Ghofâr.[310] Coi principali dei sollevati, volle in persona intimare a Ibn-Korhob, se ne andasse con dio fuor di Sicilia, poichè spiaceva al popolo: ai quali l'emiro pacatamente rispose aver preso lo stato richiesto e costretto da loro stessi; e ricordò il dato giuramento, e si sforzò a persuaderli che non guastassero l'impresa ben cominciata [155] dai Siciliani: ma ostinaronsi; ed ei non volle cedere a minacce. Anzi, mantenendogli molti altri la fede, s'afforzò, com'ei pare, in Palermo e si venne alle armi. Poi, sia che l'avvantaggio fosse rimaso ai sollevati, sia che gli rifuggisse l'animo dal continuar quello spargimento di sangue civile, Ibn-Korhob deliberossi a volontario esilio in Spagna. Non è inverosimile che gli abbia dato il tracollo quella terribil nuova dell'assedio della colonia al Garigliano, di che potea parer causa la pace fermata coi Bizantini.[311] Noleggiati dunque i legni, trasportatavi gran salmeria delle robe proprie e de' suoi, Ibn-Korhob stava per dar le vele al vento, il quattordici luglio del novecento sedici.[312] In questo una turba ingombra la spiaggia; salta furibonda su le navi; saccheggia; pon le mani addosso all'emiro, ai figliuoli, agli amici che seguivan sua fortuna, tra i quali un Ibn-Khami, il cadi. Messi ai ferri, gittati sur una barca, li mandarono, per colmo d'infamia, all'usurpator fatemita a Susa. “E che ti mosse a sconoscere il sacro dritto della casa d'Ali e ribellarti da noi?” dicea superbamente il Mehdi ad Ibn-Korhob, fattosel recare incatenato. “I Siciliani,” rispose, “mi esaltarono mio malgrado, e mio malgrado m'han deposto.” Rimandollo allora in carcere, e divisò il supplizio [156] più che potesse insolito e ignominioso. Montato a cavallo, menava seco i prigioni a Rakkâda, capitale tuttavia dell'impero. E fuor la porta della Pace,[313] là dov'eran sepolti i miseri avanzi di Hasan-ibn-abi-Khinzîr ucciso dopo la battaglia di Lamta, Ibn-Korhob, i figliuoli, gli amici politici, come ladroni di strada, eran vergheggiati a morte; mozzati loro mani e piè; e sospesi i cadaveri a tanti pali dinanzi la tomba.[314]

Insieme con lor nobili vittime i controrivoluzionarii di Sicilia mandarono al Mehdi una petizione arrogante. Sognando di potere rinnegare il dritto e mantenere il fatto, scriveangli non aver bisogno dì soldati nè di alcuno aiuto da lui: nominasse un governatore e un cadi, ed essi penserebbero al resto; aggiugnendo altre condizioni che lo empieron di collera e di furore, scrivono i cronisti senza particolareggiarle.[315] E il Mehdi che sapeva usar le occasioni, in vece del trave della favola ch'ei bramavano, mandò in Sicilia uno sperimentato capitano,[316] [157] Abu-Sa'îd-Musa-ibn-Ahmed, soprannominato Dhaif, ch'è a dir l'Ospite, con un'armata e forti schiere di Kotamii, capitanate da loro sceikhi. Approdò a Trapani il quindici agosto; dove andati a trovarlo i notabili di Girgenti, molto li onorò, li presentò di ricche vestimenta, si studiò a lusingarli e tirarli alle sue voglie; ma quando vide che era niente, d'un colpo di mano fe' catturare il procace Abu-Ghofàr e metterlo ai ceppi. A tempo fuggì un costui fratello per nome Ahmed; corse a Girgenti a chiamare il popolo alle armi. Così i Berberi a capo di due mesi, e pur era troppo tardi, raccesero la rivoluzione ch'aveano spento con le proprie mani. Altre città e castella seguiron l'esempio.[317]

Abu-Sa'îd senza dimora andò sopra la capitale. Sapendo intercetto il cammino da popolazioni tumultuanti, o manco difesa la città dalla parte di mare, il condottiero affricano audacemente imbarcò suoi Kotamii; e con l'armata entrò nel porto di Palermo a' ventotto settembre.[318] La bocca del porto era quella ch'or s'addimanda la Cala; le lagune e il gran canale, in oggi ricolmi, penetravano assai dentro terra sino ai ripari della città vecchia; talchè lasciavan d'ambo i lati due bracci, tutti scogli ed arene, disabitati, com'ei sembra.[319] Abu-Sa'îd pose [158] le genti su l'un dei bracci; vi si afforzò di fronte con una muraglia tirata per traverso dal porto alla spiaggia esteriore; assicurato ai fianchi e alle spalle dal mare, ch'ei tenea con l'armata e sì chiudealo agli assediati.[320] Dapprima potè far poco male alla città: sotto gli occhi suoi il diciassette d'ottobre i Palermitani giuravan la lega con gli ambasciatori di Girgenti e d'altre città; tra i quali si ricordano i nomi d'Ibn-Ali ed Awa-es-Seâ'ri.[321] Ma par che il pericolo [159] comune non facesse dimenticare la nimistà, e che il rimanente della Sicilia non mandasse aiuti; poichè gli assedianti sempre più strinsero Palermo. In un combattimento erano sconfitti i Siciliani; rimanea sul campo di battaglia grande numero di lor nobili; i feroci Kutamii irrompeano nei sobborghi; metteano al taglio della spada gli abitatori, fin le donne e i fanciulli; sforzavano le donzelle, guastavano e saccheggiavano ogni cosa. Nondimeno la città vecchia tenne fermo: Abu-Sa'îd chiese ed ebbe dal Mehdi nuovi aiuti d'uomini e di navi; finchè, scarseggiando le vittuaglie, rincarito anco il sale a poco men che una lira all'oncia,[322] i cittadini si calarono agli accordi dopo sei mesi d'assedio. Si stipulò pien perdono, fuorchè a due capi ribelli: e i cittadini con la solita alacrità li consegnarono, e fecero entrare Abu-Sa'îd a' dodici marzo novecento diciassette. Contro i patti, com'egli è manifesto, svelse le porte, abbattè mura, tolse le armi e i cavalli da battaglia, pose una taglia su la città, e, imprigionati molti uomini di nota, li mandò in Affrica al Mehdi. Questi senza strepito li fe' mazzerare; e poi spacciò in Sicilia una clementissima amnistia. Di settembre del medesimo anno [160] Abu-Sa'îd, col navilio e l'esercito, tornava in Affrica, lasciando a reggere la Sicilia Sâlem-ibn-Ased-ibn-Râscid, affidato in una forte schiera di Kotamii.[323] La rivoluzione d'independenza parve morta e sepolta.

CAPITOLO VIII.

Tra le raccontate guerre civili dell'isola, gli Italiani di Terraferma, arrivati, con rara vicenda di fortuna, a collegarsi per pochi mesi, estirparono i Musulmani dal Garigliano. Durevoli accordi poteano seguirne men che prima allo entrar del decimo secolo, quando i feudatarii dell'Italia di sopra si fecero quasi principi assoluti; l'autorità dell'impero occidentale calò tuttavia, per esser piccioli e troppi i pretendenti; le armi bizantine valser nè più nè meno quanto bastava a non poterle cacciare dall'Italia meridionale; la tiara pontificale s'avvilì, nei misfatti, nelle atrocità, nelle brutture, dispensata alfine per man delle Marozie e delle Teodore. E pure, com'è capricciosa la storia, quella lega italiana, sì giusta, sì necessaria, [161] sì felice nel successo, ebbe origine a Roma in mezzo di tanto vitupero; l'eroe della impresa fu Giovanni decimo, nato di scandalo, esaltato per doppio scandalo, sì che gli scrittori ecclesiastici te l'abbandonano.

Quando Giovanni decimo salì al pontificato (914), que' del Garigliano stavano in sul termine di passar da ladroni a conquistatori. Accozzati, come narrammo, dei Musulmani che avean guerreggiato in quelle parti al tempo di Giovanni ottavo, inaugurarono la nuova compagnia con saccheggi di monasteri: la sconfitta che toccarono in Calabria dell'ottocento ottantacinque li fiaccò;[324] poi è verosimile che si fossero riforniti, sotto il regno d'Ibrahim-ibn-Ahmed, di fuorusciti Affricani e sopratutto dei Siciliani del novecento. Il passaggio d'Ibrahim (902) in Calabria lor diè ardire e, credo, rinforzi; credo lor siasi raggiunta la più parte della banda d'Agropoli, il cui nome sparisce dopo la fine del nono secolo; onde, s'ei ne restò qualche drappello, stava ai soldi della repubblica napoletana.[325] Cresce, all'incontro, per tutte le croniche di questo tempo, lo spavento dei barbari del Garigliano, cui ci dipingono infestissimi e più terribili degli Ungheri che desolavano la Lombardia;[326] e pur venendo ai particolari niuno accusa i Musulmani d'aver arso, come fecero gli Ungheri, le centinaia di prigioni. Il vero è che i Musulmani non avanzavano [162] i Magiari di crudeltà, nè di numero; sì bene di sveltezza, di perseveranza e d'ordini. Già già appariva, nel bel mezzo della nostra costiera del Tirreno, quel nocciolo normale dello stato musulmano: il Kairewân.[327] Il campo del Garigliano cominciava a prendere aspetto di città: aveanlo afforzato di ripari e torri;[328] vi tenean le donne, i figliuoli, i prigioni, il bottino.[329] I gioghi del vicin colle, eran cittadella nel pericolo estremo. Il breve tronco del fiume, navigabile a barche, rendea comoda la stanza e agevoli gli aiuti; sedendo alla foce i confederati cristiani di Gaeta, e un po' più lungi la repubblica di Napoli, che si facea rispettare, ma in fondo era amica. Non si ritrae che costoro ubbidissero agli Aghlabiti, nè poscia ai Fatemiti, nè mai agli emiri di Sicilia. Facean corpo politico dassè, fuor della legge; come tante altre compagnie musulmane in vari tempi e luoghi: a Creta, a Bari, a Taranto, a Frassineto. Al par che quelle scegliean lor capo, che un cronista italiano chiama califo[330] e s'intitolava forse così.

Guardando su la carta d'Italia i nomi dei luoghi infestati, si vedran le gualdane spiccarsi dalla stanza del Garigliano, come raggi che vadano a ferire per tutta l'area d'un vasto semicircolo; se non che i raggi son corti e rintuzzati tra mezzogiorno e levante, ove incontravano Napoli e i principati longobardi; [163] e corron lungi assai tra ponente e tramontana per entro lo Stato Ecclesiastico. Provocati da qualche insolito guasto di que' del Garigliano dopo la guerra d'Ibrahim-ibn-Ahmed, i Cristiani vennero ad osteggiarli alla sponda del fiume, di giugno del novecentotrè; e toccarono sanguinosa sconfitta.[331] Atenolfo principe di Capua, testè insignoritosi di Benevento (900), volle ritentare la sorte delle armi, il novecento otto: trasse alla lega i Napoletani e gli Amalfitani; raccolta gran gente, passò il Garigliano sopra un ponte di barche a Setra, come si chiamava il luogo presso Traietto; dove fortuneggiò in un assalto notturno dei Musulmani e dei Gaetini lor ausiliari; ma, ristorata la battaglia, ruppe i nemici e inseguilli fino ai ripari.[332] Visto poi che non bastassero le forze a quella espugnazione, ovvero che i Napoletani balenassero nella lega, mandò il figliuolo Landolfo a chiedere aiuti a Leone, al quale premeva altrettanto d'assicurare i dominii bizantini in Italia. E così la impresa si apparecchiava a Costantinopoli, quando Landolfo ebbe a tornare a Benevento per la morte del padre (910), e mancò di lì a poco (911) lo stesso Leone.[333] Landolfo, preso lo stato, rinnovò il novecentoundici i patti con la repubblica di Napoli; la quale in parole gli promesse d'aiutarlo contro i Musulmani come se Benevento fosse terra sua propria;[334] ma in [164] fatti par non abbia cessato quel gioco d'equilibrio incominciato ottant'anni prima. La fortuna delle armi fu varia. I Musulmani condotti da Alliku, come leggesi il nome nella cronica, avean fatto una punta fino alla costiera dell'Adriatico, quando Landolfo li raggiunse e ruppe in due scontri a Siponto[335] e Canosa.[336] Tornaron fuori con novelle forze; dettero il guasto a Venosa, Frigento, Taurasi, Avellino, e al contado proprio di Benevento.[337] In ultimo saccheggiarono e arsero il monastero d'Alife.[338]

Maggior danno recarono dalla parte di Roma. Il monastero di Farfa, celebre nel medio evo per grandi possessioni e baldanza contro i papi, fu distrutto in questo tempo, l'anno non si sa, abbandonato dai frati quando si sentirono addosso i Musulmani.[339] Giace Farfa nella Sabina; la qual provincia era tutta corsa al par che la Campagna di Roma e il territorio di Ciculi, con uccisioni, incendii, saccheggi. Si spinsero i nemici oltre il Tevere a Nepi; salirono fino ad Orta e a Narni, nelle quali città stanziarono.[340] Impadroniti così dei passi, [165] misero grave taglia sopra i Cristiani che andassero in pellegrinaggio alla tomba degli Apostoli. Il contado della metropoli fu sì fattamente infestato, che uno storico mordace scrivea quindici anni appresso, aver tenuto mezza città di Roma i Romani e mezza gli Affricani.[341]

Tra tanta calamità, appresentossi a Giovanni decimo un Musulmano, disertore per ingiurie avute da' suoi; il quale si vantò di rintuzzarli, sol che il papa gli desse una man di forti giovani, armati di targa, brando, giavellotto, cinti di legger saio, provveduti d'un po' di cibo: alla quale descrizione si ravvisa la milizia degli almugaveri Catalani, sì famosi nelle guerre del vespro siciliano.[342] Giovanni decimo gli diè una sessantina d'uomini; coi quali il disertore, appostati gli antichi compagni, li svaligiò in uno stretto passo. Indi i Romani a rincorarsi; ad uscire alla campagna; a combattere con avvantaggio la guerra spicciolata.[343] Un Akiprando di Rieti fece oste, con altri longobardi e gente della Sabina, contro i Saraceni afforzati nelle ruine di Trevi:[344] e li vinse e passò a fil di spade. Da un'altra banda i terrazzani di Nepi e di Sutri felicemente combatteano gli Infedeli a campo Baccani. Dopo le quali sconfitte, le schiere musulmane di Narni e di Ciculi si ritrassero al Garigliano.[345]

[166] Perchè il papa e Landolfo, accorgendosi ch'era niente superare il nemico qua e là, se non lo si estirpava da' suoi ridotti, in men di due anni aveano mandato ad effetto un abbozzo di crociata. Ristorarono e allargarono la lega del novecento dieci: il papa vi trasse la imperatrice Zoe, Alberico duca di Camerino, Berengario duca dei Friuli che avea da tanti anni il titolo ed or quasi la potenza di re d'Italia. Berengario, aiutato di danari dal papa, veniva a Roma in su la fine del novecentoquindici: tra, plausi che non fu uopo di comperare si cingea la corona imperiale. Alla nuova stagione, congiunti per la prima ed ultima volta a ben dell'Italia, il papa e l'imperatore marciarono al Garigliano. Li seguian le milizie dei ducati di Camerino e Spoleto. Landolfo andò al ritrovo con le genti del principato di Capua e Benevento. L'impero bizantino diè valido aiuto: l'armata, grosse schiere di Pugliesi e Calabresi, e la greca astuzia dello stratego Niccolò Picingli; il quale trasse alla lega il principe di Salerno, e quel che più era, Napoli e Gaeta, lusingando i due duchi col titolo di patrizii, e minacciando di opprimerli se favorissero tuttavia gli Infedeli.

Del mese di giugno il navilio greco saliva su pel Garigliano; il papa in persona e i collegati italiani stringeano dagli altri lati; davansi fieri assalti, nei quali Alberico e Landolfo meritarono lode di valorosi. Sforzati nei ripari, i Musulmani si rifuggirono alle alture del monte; dove il cerchio delle armi cristiane più stretto li rinserrò. I Bizantini innalzarono un castello a piè della costa ripida donde gli assediati [167] soleano far le sortite per procacciar vettovaglia. Dopo tre mesi, perduta assai gente negli scontri; pressati dalla fame; per segreto consiglio, come si sparse, dei duchi di Napoli e di Gaeta, i Musulmani poser fuoco agli alloggiamenti, e nel trambusto chi potè cercò scampo nei boschi d'intorno, ove i Cristiani dando loro la caccia, tutti li uccisero o fecer prigioni. Così ebbe fine la colonia del Garigliano, d'agosto novecento sedici. Nè mancarono i frati di spacciare ch'avean visto con gli occhi proprii San Pietro e San Paolo mescolarsi tra i combattenti.[346]

La qual vittoria non liberò tutta Italia. A settentrione i Musulmani di Frassineto, venuti di Spagna, gittatisi nelle Alpi, corsero per un secolo o poco meno (889-975) l'odierno territorio del Piemonte, non che la Svizzera e la Francia meridionale; dei quali non dirò, sendo fuor dell'argomento propostomi.[347] All'altro capo della penisola non durò a lungo la pace. Forse il principato fatemita non volle osservare i patti stipolati dal ribelle Ibn-Korhob. Più [168] certamente, l'impero bizantino non seppe guardar quelle province con la spada, nè farvi osservare la pace, nella condizione precaria con che le tenea.

A trattare i popoli col bastone vuolsi avere in pugno un baston sodo e dare ad occhi aperti; ma l'impero, con sue triste soldatesche ed amministrazione scomposta, troppo si affrettava a spossessare ad un tempo i principi longobardi, estirpare la nobiltà feudale, assoggettare i comuni, e spolpare e calpestare il popolo. Dopo aver dunque racquistato, verso la fine del nono secolo, le Calabrie e gran tratto della Puglia,[348] i Bizantini presero e riperdettero entro quattr'anni (891-895) lo stato di Benevento; si provarono indarno contro Capua e Salerno; furon costretti a collegarsi coi principati longobardi (908-916) contro i Musulmani del Garigliano;[349] non seppero nè prevenire nè reprimere la ribellione di tante città di Puglia e di Calabria che si davano (921) a Benevento; nè l'impero le riebbe altrimenti che per pratiche col principe Landolfo.[350] In questo mentre non si pagò il tributo ai Musulmani di Sicilia.

E per dieci anni i miseri popoli dell'Italia meridionale vider venire di Sicilia, sotto le insegne fatemite, nuove facce di predoni stranieri: in cambio d'Arabi, di Berberi, di Negri, più fiera genía settentrionale. Perchè il Mehdi par non si fidasse di rendere le armi all'universale de' Musulmani in Sicilia, non degli Arabi in Affrica; i Kotamii suoi gli servivano [169] a spegnere gli incendii in casa ed a tentare il conquisto d'Egitto, massima ambizione di sua dinastia. Adocchiò allora i giannizzeri prediletti d'Ibrahim-ibn-Ahmed: gli Slavi, derrata di prima qualità nel commercio di schiavi che conduceasi nel Mediterraneo dal settimo al decimo secolo, talchè par abbian dato il nome alla cosa.[351] Gente sobria del resto; prode nelle armi, amante di libertà più che niun altro popolo di que' tempi, nelle province europee dov'era costituita a governo suo proprio; gente anco umana verso gli schiavi che riteneva in casa:[352] ma non le parea male di vendere gli uomini del suo stesso sangue e del germanico, presi nelle guerre e nei ladronecci di confini.[353] Allora, sì com'oggi, il grosso della schiatta slava occupava l'Europa orientale; s'addentellava coi popoli finnici, con l'impero germanico, coi Magiari, con l'impero bizantino: Schiavoni, Croati, Serbi ed altri rami slavi ingombravano le regioni a levante dell'Adriatico; mettean tralci infino al Peloponneso; frammezzati ad avanzi più o meno frequenti delle antiche popolazioni; fatti cristiani di fresco; e dove vicini temuti, dove tributarii, dove sudditi di [170] Costantinopoli.[354] Lo sbocco principale di loro schiavi era l'Adriatico; gli emporii eran tenuti da essi e dalle città latine e greche della costiera orientale; i navigatori della costiera italiana aiutavano al trasporto; i Musulmani del Mediterraneo, dalla Spagna alla Siria, più che altri popoli, consumavan cotesta merce, in soldati, paggi ed eunuchi. E il Mehdi ne congegnò una macchina produttrice di novelle derrate: il bottino, dico, e i prigioni che gli Slavi gli andassero a buscare in terraferma d'Italia.[355]

La prima frotta, passata d'Affrica in Sicilia su barcacce, piombava di notte a Reggio, nella state del novecentodiciotto; prendea la città senza contrasto.[356] Sopravvenne, del novecento ventiquattro, lo [171] schiavo liberto slavo Mes'ud,[357] con venti galee; il quale occupò la rôcca di Sant'Agata, quella, credo io, presso Reggio,[358] e tornossene a Mehdia coi prigioni.[359] Assaporato il qual guadagno, il principe apprestò maggiore espedizione, affidata all'hâgib, o vogliam dir primo ministro, Abu-Ahmed-Gia'far-ibn-Obeid; il quale veniva il medesimo anno con armata poderosa a svernare in Sicilia.[360] Alla primavera del novecentoventicinque passò in Calabria; s'insignorì di Bruzzano[361] e di molti altri luoghi; alfine andò ad osteggiare Oria, in Terra d'Otranto. Fazione importantissima, sanguinosa, notata nelle cronache cristiane con l'epigrafe: quest'anno, del mese di luglio, Oria fu presa;[362] se non che oggi l'attestato d'uno scrittore ebreo che vi fu fatto prigione dà precisamente il primo luglio;[363] ed un brano d'annali musulmani ci [172] fa argomentare che si fossero ridotte in Oria le forze bizantine della Calabria, riparate le popolazioni d'un gran tratto di paese, sostenuto un assedio o almen mostrata la faccia a' nemici nell'assalto. Tanto significa il fatto che Gia'far v'uccise seimila combattenti, tra la battaglia e dopo, s'intende; che trassene diecimila prigioni e presevi un patrizio, il quale riscattava sè stesso e la città per cinquemila mithkâl d'oro,[364] o vogliam dir settantaduemila lire italiane.[365] Il capitan musulmano stipulò anco la tregua per tutta la Calabria, datigli statichi a sicurtà del tributo, lo stratego della provincia e un Leone vescovo di Sicilia;[366] coi quali ripartì per l'isola a' diciannove [173] di luglio.[367] Par si fosse fermato il trattato a Taranto; poichè l'autore che testè citai, nato probabilmente in Calabria, il dotto medico Sciabtai Donolo, narra che preso ad Oria con molti altri Giudei, fu condotto a Taranto e quivi riscattato.[368] Giunto in Sicilia Gia'far significò immantinenti la vittoria al principe fatemita; indi gli recò egli stesso il bottino a Mehdia: fece ammonticchiare in una sala della reggia drappi di seta a disegni e colori,[369] gioielli, moneta e ogni roba di pregio. Il Mehdi se li godea con gli occhi, quando un cortigiano che gli era allato “Oh padrone,” sclamò, “non vidi mai sì gran tesoro!” e il Mehdi a lui: “È il bottino d'Oria.” Onde l'adulatore per bruciare incenso al primo ministro, “Puoi chiamare uom fidato,” ripigliò, “chi ti riporta a casa tutto questo.” Ma il principe avaro gli troncò la parola: “Perdio, s'è mangiato il camélo e me ne reca gli orecchi!”[370] I prigioni furono venduti in Affrica.[371]

Intanto si fermava tra le corti di Mehdia e di Costantinopoli un trattato che ratificò, a quanto parmi, i patti di Calabria e que' d'Ibn-Korhob. Narra il Cedreno, com'apprestandosi Simeone re dei Bulgari a nuovo assalto sopra la capitale dell'impero, mandava a propor lega al principe d'Affrica ch'aiutasse dalla parte sua col navilio; e l'Affricano assentiva e [174] rinviava gli ambasciatori bulgari insieme coi propri per ultimar la cosa, quando gli uni e gli altri caddero in man de' Greci in Calabria e furon addotti a Costantinopoli. Romano Lecapeno, per sturbare la lega, ritenne i prigioni bulgari; rese gli affricani al signor loro, con doni e profferta di soddisfare il tributo della Calabria; e sì bene condusse la pratica, che il Fatemita fermava la pace con esso lui e gli rimettea metà della somma promessa dalla imperatrice Zoe; onde il tributo scemò a undicimila bizantini all'anno. E così rimase in dritto fino alla esaltazione di Niceforo Foca (963); ma in fatto, gli strateghi di Calabria onesti il pagavano, e i ladri si metteano il danaro in tasca.[372] Tanto il Cedreno, senza data precisa e sbagliando il nome del Mehdi;[373] il che non porta punto a mettere in dubbio la cosa.

Cotesta pace e le vicende che le tenner dietro, dettero argomento a supporre altra maggiore vergogna dell'impero bizantino, che si è ripetuta infino ad oggi e sembra esagerata, anzi trasnaturata. Liutprando, trent'anni appresso il trattato,[374] scrivea avere inteso a dire che Romano Lecapeno, quando gli si [175] ribellaron le Calabrie e la Puglia, non trovando modo a ripigliarle, chiese aiuto ai Musulmani d'Affrica; ch'essi vennero in Italia con esercito innumerevole; che, soggiogate le province, reserle ai Greci; e fornita lor cortesia, “giraron verso Roma e s'andarono a porre al Garigliano:” il quale anacronismo di mezzo secolo,[375] per certo non aggiugne fede al racconto. Nelle altre croniche cristiane, negli annali musulmani, non troviamo vestigia di cotesta avventura;[376] a meno che il trattato riferito del Cedreno non si voglia supporre anteriore alla fazione d'Oria, e questa combattuta non contro le armi bizantine ma contro i ribelli: che sarebbe far troppo lavoro di fantasia. Pertanto io tengo falsa la tradizione; la quale nacque dal trattato di pace e dall'odio immenso e giusto che portavano tutti gli Italiani ai Greci. Liutprando l'accettò lietamente, non solo per quel suo mortalissim'odio, e disprezzo e dispetto contro la corte di Costantinopoli, ma anche per l'analogia dei fatti che seguivano al suo tempo, quando gli strateghi bizantini di Calabria sfacciatamente traccheggiavano con gli emiri di Sicilia. Il sol patto tacito o espresso da sospettarsi tra il novecentoventicinque [176] e 'l novecentotrenta, è che i Bizantini escludessero dalla tregua e designassero ai Fatemiti le città di Calabria e Puglia che lor non obbedivano e però non pagavan la quota del tributo musulmano. A ciò dunque si ristringa il biasimo dei Bizantini; e si cancelli dalla storia quella impossibilità dell'Italia meridionale racquistata da loro con eserciti musulmani.[377]

Tra gli stati independenti dall'impero greco, le città che gli si ribellavano, e gli strateghi che differivano a pagare il tributo, non mancò occasione di preda alle soldatesche slave. Di luglio novecento ventisei preser Siponto, capitanati, al dir d'una cronica, da Michele re loro,[378] forse zupano, come si chiamava il primo magistrato delle repubbliche slave della Dalmazia, e però venuto a dirittura e dassè, non d'Affrica da servidore del Mehdi. Ma il costui paggio slavo Sâin, l'anno appresso, che cadde nel trecentoquindici della egira, passava d'Affrica in Sicilia con quarantaquattro navi la più parte da guerra: accozzate le sue con le genti dello emir di Sicilia, facea vela per Taranto; assediava la città, difesa virilmente [177] dagli abitatori; entrava d'assalto; menava strage degli uomini da portar arme, e mandava il rimanente della popolazione a vendere in Affrica.[379] Del novecentoventotto, par che l'esercito di Sicilia e gli Slavi si fossero divisi per portar la guerra in due province diverse. Il primo, andato a campo ad Otranto, espugnavala il diciassette agosto; distruggea le case e s'apprestava a correre altri paesi, quando una moría lo costrinse a tornarsi in Palermo.[380] Sâin co' suoi Slavi assaliva i principati longobardi dalla parte del Tirreno; prendeavi parecchie fortezze, tra le quali le memorie musulmane notano una Ghirân ossian “Le Grotte,” ed una Kalat-el-Khesceb, ch'è a dir “La Rocca del Legno:” nomi da non si riconoscere agevolmente nella nostra topografia del medio evo, poi ch'è evidente che i vincitori li posero a capriccio o li tradussero in lor linguaggio. Fatto fardello [178] quanto potè, Sâin si appresentava a Salerno; i cui cittadini comperaron la pace a prezzo di danaro e drappi di seta dibâg.[381] Donde passato a Napoli, la sforzava a simil patto; se non che prese danaro e vesti, dice la cronica:[382] senza dubbio per significar le pezze di tela di quel lavorío che non avea pari al mondo e facea la ricchezza della città, com'afferma il mercatante arabo Ibn-Haukal, trovatosi a Napoli una quarantina d'anni appresso.[383] Sâin riscosse anco il tributo della Calabria e fece ritorno in Palermo col bottino e numero grandissimo di prigioni.[384]

[179] Ma l'anno seguente, com'e' par che gli strateghi di Calabria andasser sempre a rilento nel pagare, Sâin si mostrò nell'Adriatico, con quattro navi grosse. Imbattutosi nello stratego che n'avea ben sette, lo slavo non se la stette a pensare che l'assalì e il vinse. Sbarcato poi, prendea Termoli nel mese di settembre o d'ottobre; e si riducea alfine a Mehdia con dodici migliaia di prigioni.[385] Fu ultima di sue scorrerie questa del novecentoventinove. E credo che in tal tempo l'armata e le genti slave fossero venute a svernare ogni anno in Palermo, e che parte ve ne rimanesse a mercatare dopo la partenza di Sâin; poichè il rione più grosso della città, contiguo al porto, si addimandò il Quartiere degli Slavi.[386]

Lunga pezza poi respirò l'Italia meridionale sendo stato soddisfatto il tributo dai Bizantini fino alla morte del Mehdi;[387] racceso poscia il fuoco della guerra civile in Sicilia; e nel frattempo rivolte le forze navali dei Fatemiti contro Genova. In que' primordii della repubblica, sembra già cresciuto il commercio, poichè attirò gli avvoltoi, fatemiti. Abu-l-Kasem-Mohammed, figliuolo del Mehdi, salito al trono il [180] novecentotrentaquattro, allestiva immantinenti un'armata di trenta legni da guerra;[388] con la quale Ja'kûb-ibn-Ishak corse la riviera ligure, sbarcò nei contorni di Genova, fecevi bottino e prigioni.[389] Donde Abu-l-Kasem, ragunato novello esercito il novecentotrentacinque, rimandavalo in quelle parti. I Musulmani allor posero l'assedio alla città; apriron la breccia;[390] entrati con la spada alla mano fecero carnificina degli uomini, preser le donne e i fanciulli, saccheggiaron le case e i tesori delle chiese[391] e rimontarono su lor legni. Di passaggio approdano in Sardegna; opprimon col numero que' fieri isolani; lor ardono molte navi; fan lo stesso gioco in Corsica;[392] e impuni se ne tornano a Mehdia, recando in cattività un migliaio di donne italiane.[393] Così leggiamo ne' ricordi loro il lagrimevol caso di Genova,[394] accennato appena dai [181] nostri scrittori del tempo, con giunta dell'avviso che n'avesse dato il Cielo, tingendo di sangue una polla d'acqua.[395] Alla fine del decimoterzo secolo, non bastando tal prodigio alla repubblica potente e vittoriosa, si finse una terribile vendetta: come la gioventù genovese fosse ita fuori con l'armata; come al ritorno, vedendo la città vota, d'un subito rivolte le prore in caccia de' Saraceni, colseli che si godean l'acquisto in un isolotto disabitato presso la Sardegna, ne fece un monte di cadaveri, e riportò a casa le mogli, le sorelle, i figliuoli. Favoletta sì semplice che par trovata pei bambini; e sta bene in bocca di chi la compose o la ripetè: Iacopo da Varaggio, arcivescovo di Genova, compilator della Leggenda Dorata.[396]

CAPITOLO IX.

Non fia lungo a narrare le vicende interiori della Sicilia da una rivoluzione ad un'altra. Ressela per venti anni, con titolo di emir, quel Sâlem-ibn-Rescid, [182] lasciatovi alla partenza d'Abu-Sa'îd.[397] Ma l'autorità era mutilata. Le fazioni in Terraferma, com'abbiam visto, si condussero per capitani mandati apposta d'Affrica; nelle quali, se talvolta andò Sâlem, fu da ausiliare.[398] Il navilio siciliano, che diè tanta briga al Mehdi al tempo d'Ibn-Korhob, combatteva ora gli ortodossi sudditi degli Abbassidi in Egitto; i quali ben sapeano che i Siciliani ci andassero contro voglia. E però dopo la giornata navale che guadagnarono gli Abbassidi fuori Rosetta (919), menati a terra i prigioni, il popolo di Misr nè scevrò i Kotamii per ammazzarli; perdonò la vita ai Siciliani, Tripolitani e abitatori dell'Africa propria.[399] Del novecentoventisette; venne d'Affrica a por taglie[400] su la Sicilia, il figliuolo dell'emiro Sâlem, con due sceikhi[401] detti il Belezmi e il Kalesciani[402]; e tornovvi del trentadue, con preposti nuovi: [183] Ibn-Selma e Ibn-Dâia; i quali aggravaron la mano sul popolo, ma rappresentatisi a corte l'anno appresso, caddero in disgrazia del padrone;[403] parendogli forse, che del camelo, com'ei solea dire, gliene avessero recato gli orecchi.[404] Veggiamo infine che Sâlem accordava la tregua a Taormina e altre castella dei Cristiani dì Sicilia nella state del novecentodiciannove.[405] Da tutto ciò è manifesto che il Mehdi adoperasse in Sicilia l'espediente tollerato dai pubblicisti musulmani del tempo: scindere l'emirato in due oficii, l'un di guerra e polizia, l'altro di azienda e giurisdizione;[406] e che non contento a ciò, togliesse l'occasione e le forze da far la guerra. Un capitan generale della sbirraglia con l'antico titolo d'emir; un presidio di Kotamii o fanti poliziotti, com'or diremmo; pace coi Cristiani dell'isola, per lasciarvi disarmati i coloni; gli affari d'azienda e di guerra accentrati in Affrica: con questi ordini il Mehdi tenne la Sicilia. Usò modi somiglianti con le popolazioni arabiche d'Affrica. In generale serbò la pace con l'impero bizantino, e con le popolazioni berbere independenti. Meglio che la spada, amò la penna, i raggiri fiscali, gli artifizii da gran maestro, ai quali era stato educato. Condusse per man del figliuolo la guerra d'Egitto, saviamente ostinandosi a quel conquisto; ma non gli riuscì.

La morte del Mehdi, seguita il tre marzo novecentrentaquattro, si riseppe in Sicilia il venticinque [184] agosto; poichè il figliuolo che gli succedette, Abu-l-Kasem-Mohammed, soprannominato El-Kâim-biamr-illah, la occultò quanto ei potè,[407] temendo gli umori ostili degli Arabi d'Affrica, le sètte karegite dei Berberi e lo scompiglio che dovea recare nella setta ismaeliana la disparizione del semideo. A' dieci marzo del medesimo anno, fu morto dinanzi il palagio di Sâlem in Palermo, un Rendasc, governatore di Taormina:[408] questo sol ne sappiamo; ma il nome greco ci porta a supporlo capitan del municipio cristiano che avesse infranto la tregua, e caduto in mano di Sâlem fosse mandato al supplizio. Il diciannove poi d'ottobre, ingrossati per piogge i torrenti delle montagne che circondano Palermo, calamità troppo frequente, si rovesciarono su la città, portaron via molte case [185] fuori e dentro le mura, e v'annegò della gente.[409] Corso poco più d'un anno, l'undici luglio del trentasei, soffiò sopra l'isola uno scirocco sì infocato, ch'arse le frutta in sugli alberi; nè quella stagione si potè far vendemmia.[410]

Ridestossi nel trentasette la rivoluzione a Girgenti; la quale città par che il governo fatemita non avesse disarmato nè imbrigliato al par di Palermo, in grazia, sia del sangue berbero, sia della pinta data a Ibn-Korhob. Ciò non togliea nè l'avarizia del fisco, nè i soprusi degli oficiali di Sâlem; sul quale piombò l'odio dei Girgentini, come d'ogni altro musulmano di Sicilia. Levatosi dunque il popolo, a' diciassette aprile, contro Ibn-'Amrân ch'era 'âmil, o, diremmo noi, delegato di Sâlem in Girgenti, lo andarono ad assalire in Caltabellotta, forte rôcca a trentadue miglia, ov'ei si tenea sicuro con suoi gendarmi;[411] e, fatto impeto nella fortezza, il capo fuggì; gli sgherri furono svaligiati. Al quale annunzio Sâlem mandava Abu-Dekâk, Kotamio, con le genti di sua tribù, le milizie siciliane, e i fanti di Meimûn-ibn-Musa, che sembran altra caterva di gendarmi: e Abu-Dekâk s'era messo a stringere 'Asra, terra d'incerto sito,[412] tra Palermo [186] e Girgenti e rivoltata anch'essa, quando lo sopraggiunsero i Girgentini. Appiccata la zuffa il ventiquattro giugno, par che i soli a combattere tra i regii fossero stati que' di Kotama; poichè di lor soli si narra la sconfitta e la strage, nella quale cadde anco il capitano, e la prigionia dei rimagnenti. I vincitori marciarono sopra Palermo. Dove, o che il popolo non si fidasse per anco di levar la testa, o che il movesse l'antica nimistà coi Girgentini, si lasciò condurre da Sâlem e da Meimûn-ibn-Musa a combattere per gli oppressori. Scontrati i Girgentini, il due luglio, a Mesîd-Bâlîs,[413] i Palermitani li ruppero dopo fiero combattimento, e li inseguiron fino a' mulini di Marineo.[414] Se fosse lecito di ristorar a conghietture le memorie de' tempi, diremmo risolutamente che la nobiltà palermitana non proseguì volentieri la guerra contro i ribelli; che cercò di patteggiare col governo e resistergli, avendo di nuovo le armi alla mano. Certo, che la rivoluzione non fu repressa a Girgenti, [187] e che a capo di due mesi divampò in Palermo.

Dove la domenica diciassette settembre sorgea contro Sâlem il popolo condotto da un Ibn-Sebâia e un Abu-Târ;[415] ai quali l'emiro fe' testa, notandosi che gli fu ucciso nella zuffa un Abu-Nottâr, detto il Negro: qualche gran colonna della polizia al suo tempo. Nondimeno rimase l'avvantaggio a Sâlem, poichè ei faceva impalare parecchi ribelli il dì venti nell'arsenale. Più poderosi stuoli corsero alle armi, il sette ottobre; ritentarono la prova; e furono sconfitti di nuovo da Sâlem ed assediati nella città vecchia, ov'e' si ritrassero.[416] Pure finì senza molto sangue. Avea Sâlem fin dai primi movimenti scritto al principe: tutta la Sicilia essere rivoltata; se non la volea perdere, mandasse rinforzi; e i notabili dell'isola, titubanti nella ribellione, aveano spacciato altre lettere nelle quali diceano voler obbedire al califfo, ma che non poteano sopportare quel tiranno di Sâlem. Donde Kâim, lor ne mandò un altro di tempra più fina; con possente esercito, nel quale contavansi parecchi condottieri,[417] forse di soldatesche [188] mercenarie. Il capitan supremo ebbe nome Abu-Abbâs-Khalîl-ibn-Ishâk-ibn-Werd. Nato in Tripoli di nobile famiglia arabica, s'era dato in gioventù agli studii, alla devozione, alle ascetiche fantasie dei sufì; poi s'era venduto ai Fatemiti, fattosi ministro d'espilazioni e di supplizi contro i proprii concittadini; rimeritato con oficii d'azienda, con governi di città; e n'abusò, sapendosi che pericolò la vita sotto l'avaro Mehdi, e che campò per intercessione di Kâim; il quale, salito al trono, lo fe' capitano della cavalleria d'Affrica, con giurisdizione sul giund e sul navilio.[418] Questo suo fidatissimo deputò all'impresa di Sicilia. Sembra, che parte dell'armata fosse allestita in fretta a Susa. Poichè torna a tal tempo la leggenda affricana che, avendo i calafati svelto i cippi del cimitero di Susa per far puntello alle navi che si racconciavano per la spedizione di Sicilia, niuno osò toccare la pietra sepolcrale del devoto Iehia-ibn-Omar-ibn-Iusûf, dalla quale si vedea raggiare una portentosa luce.[419]

Khalîl, arrivato in Palermo a' ventitrè ottobre,[420] fe' buon viso ai cittadini, che gli si appresentarono protestando lealtà al califo; ed ascoltò lor querele contro Sâlem; le quali furono ripetute con molte lagrime e strida dalle donne, uscite anch'esse dalla città, menando seco i fanciulli: doloroso spettacolo [189] che commosse quanti il videro, scrive Ibn-el-Athîr, e ne piansero per pietà. Ripeteano tantosto le accuse contro Sâlem i deputati delle altre terre dell'isola, e i Girgentini medesimi che si sottomessero. Khalîl soddisfece in apparenza ai Siciliani con deporre d'oficio gli 'âmil di Sâlem: commedia ripetuta e applaudita in tutti i tempi. Quanto a Sâlem, nè andò via da Palermo, nè perdè il titol di emiro, nè par gli fosse tolta altra autorità, che il comando dell'esercito.[421] Di che imbaldanziva tanto l'animo servile, da non sapersi frenare una volta che, abboccatosi coi deputati girgentini e punto forse da loro, rimbeccò: non ridessero poi tanto; aspettassero, e vedrebbero se il principe non avea mandato Khalîl a vendicare il sangue dei soldati uccisigli nella rivoluzione.[422]

Calmati che parvero i Siciliani, Khalîl diè opera al freno da por loro in bocca. Il palagio o castello degli emiri in Palermo giacea fuor la città vecchia, nel medesimo luogo ov'è adesso la reggia.[423] Provano ciò le stanze dei soldati rimaste lì presso nel decimo secolo,[424] e il portico, o, come lo chiamarono ai tempi normanni, la Via coperta, che dalla cattedrale riusciva a quel sito e che per certo, ai tempi musulmani, [190] avea congiunto il palagio alla moschea giâmi'; sì come a Cordova,[425] a Kairewân,[426] e ad Algeri.[427] Posto dunque ad un miglio dal mare, e standovi di mezzo città sì forte e popol sì contumace, il palagio non era bel soggiorno agli emiri negli spessi tumulti palermitani. Al contrario, la penisola in sul porto dove par si fosse accampato Abu-Sa'îd nell'assedio del novecento sedici,[428] offeriva sito difendevole, aperto agli aiuti di fuori, ed acconcio a vietarne ai Palermitani. Khalîl vi gettò subito le fondamenta d'una cittadella cui diè nome El-Khâlisa, che suona “L'eletta;” e in vero dovea rinserrare il fior dei leali: l'emiro, i suoi mercenarii da spada e da penna; palagio, arsenale, oficii pubblici; prigione: tutta la macchina governativa; come una Mehdia in piccolo, circondata di mura, e molto bene afforzata.[429] All'uso dei tempi, Khalîl risparmiò danari, sforzando la gente a lavorarvi;[430] oltrechè fece abbattere le mura della città vecchia, e toglierne un'altra fiata le porte.[431] I Palermitani fremevano, e non poteano dar crollo. Ma i Girgentini, [191] addandosi che Sâlem avea ragione, vollero ripigliare le armi pria che Khalîl non architettasse qualche altra cittadella in casa loro.

Onde afforzan le mura alla meglio; fanno preparamenti di guerra: Khalîl, dal suo canto, accozzò grosso esercito, tra i Siciliani e le forze recate d'Affrica; coi quali movea di Palermo il nove marzo del novecentrentotto. Usciti i Girgentini allo scontro, vinsero per sanguinosa battaglia, nella quale cadeano due capi di gran nome tra i regii: Ibn-abi-Khinzîr, ch'è lo stesso casato dell'emiro del novecentoundici; ed Ali-ibn-abi-Hosein della tribù di Kelb, genero di Sâlem e ceppo della dinastia che poi regnò in Sicilia. Pur l'esercito regio, poderoso e condotto dalla volontà inflessibile di Khalîl, non ostante la prima sconfitta, continuò l'assedio per otto mesi; nei quali non passò giorno che poco o molto non si combattesse; finchè, sovrastando la stagione piovosa, Khalîl levò il campo a' ventidue ottobre. Svernò alla Khâlesa; fece venir d'Affrica altri Berberi, come il provano i nomi de' capitani Wasâmâ e Ibn-Modû;[432] ed attese a levar novelli tributi su le popolazioni siciliane che gli ubbidivano. Onde, oppresse della gravezza, mosse dall'esempio e dalle istigazioni dei Girgentini, si chiarirono ribelli tutte le castella e il popol di Mazara, scrive Ibn-el-Athîr, particolareggiando molto i casi di cotesta guerra. E le castella si deve [192] intendere del Val di Mazara; trovandosi tutti in quella provincia i nomi dei quali si fa ricordo; nè parendo da altro indizio che fossero per anco sparse le colonie musulmane a levante del Salso. “Misero in campo (continua Ibn-el-Athîr) loro gualdane; la ribellione fece passi da gigante; scrissero all'imperatore di Costantinopoli, chiedendo aiuti; il quale mandò navi con uomini e frumenti.” A tal partito si scorge la disperazione; ed anco all'insolito accordo che par sia stato tra gli Arabi e i Berberi dell'isola; ed alla ostinatissima resistenza: e vincean la prova, se Palermo voleva o potea tentare uno sforzo estremo; se i sollevati sapeano sottomettersi ad unità di comando; e se la carestia non combatteva anco pei Fatemiti. Khalîl, nella primavera del novecentrentanove, cominciò la guerra ai passi delle Madonie: espugnò Caltavuturo, Kalat-es-sirât,[433] Sclafani; le quali non si ritrae che fossero state soccorse dai distretti meridionali. Assicurate così le spalle e le vittovaglie, volse a ponente; occupò Mazara;[434] indi una penisola, ch'io credo il Capo San Marco, dove fu preso un condottiero bizantino o di schiatta siciliana, per nome Foca o simile, cui Khalîl fe' morire tra i tormenti:[435] indi [193] mosse con tutte le genti all'assedio di Caltabellotta. Ebbela a patti, dopo sanguinosa battaglia vinta il dieci luglio; nè potè fare altra impresa fino al settembre, quando messe il campo a Platani. La quale giaceva a dieci miglia in circa da Caltabellotta, una ventina da Girgenti e sei dal mare: antica fortezza d'un miglio in giro, su la cima del monte chiamato in oggi di Platanella, che sorge stagliato e dirupato d'ogni banda su la ripa destra del fiume di Macasoli e su la sinistra del Lico, il quale ha mutato il nome in Platani. La trovarono i Musulmani al conquisto; la tenner anco sotto i Normanni, formidabile e munita d'una rôcca; vi s'afforzarono nelle guerre civili al principio del regno di Federigo Svevo, quando par siano stati smantellati i ripari, e il villaggio conceduto coi terreni alla Cattedrale di Palermo. Tantochè nel decimosesto secolo ne avanzavan, dice Fazzello, mirabili rovine, ed oggi il nome di Calata attesta su le carte geografiche il sito della rôcca.[436]

[194] Indarno travagliossi Khalîl contro Platani; anzi abbandonò o perdè Caltabellotta; a ripigliar la quale avendo spiccato parte de' suoi, i Girgentini una notte di novembre assalivano improvvisi l'uno e l'altro campo; sforzavano quel di Caltabellotta; lo saccheggiavano, metteano in fuga gli assedianti. Khalîl allora risolutamente lasciò anco l'assedio di Platani, per concentrar tutte le forze contro Girgenti, nodo principale della guerra; per chiudere quegli audaci entro lor mura, sì che non gli facessero altra vergogna, e che sentissero più crudelmente la fame.

La quale straziava tutta l'isola; prodotta non tanto da inclemenza di stagioni e da' guasti inevitabili della guerra, quanto da satanic'arte di Khalîl; il quale non mentì al certo quando vantossi d'avere spento di ferro e di fame centinaia di migliaia d'anime in Sicilia. Ormai tutta la strategia stava nel nudrire i proprii soldati, poichè i nemici sarebbero morti senza ferite: e il capitano computista d'Affrica, facendo rapir ogni maniera di cibo che potesse, conseguiva a un tratto la salute de' suoi e la distruzion de' Siciliani. La carestia ingombrò cittadi e campagne, scrive la cronica del paese; padri e madri mangiarono i cadaveri dei figli; abbandonate dagli uomini, rovinarono le castella; le terre coltivate rinsalvatichirono: una infinità di gente, aggiugne il Baiân, fuggendo la carestia e i sicarii di Khalîl, riparò qua e là nei paesi di Rûm, ch'è a dire Italia o Grecia; dove la più parte si fecero cristiani. Mentre seguia nell'isola cotesto scempio, Khalîl stava all'assedio di Girgenti: poi lasciovvi forte schiera con Abu-Kelef-ibn-Harûn, ed egli si ridusse [195] in Palermo, certo ormai dell'esito. E di marzo del novecenquaranta, Platani inespugnabile s'arrendè; Girgenti tenne il fermo finchè i più savii o avventurati si salvarono con la fuga; i rimagnenti aprirono le porte a patto d'uscire salvi, il venti novembre: ma Khalîl, quand'ebbeli nelle sue forze, spezzando la fede menolli in Palermo. Le altre castella spaventate a questo eccesso s'affrettarono a chiedere perdono, sperando placare il tiranno: tutta la Sicilia tornò al nome dei Fatemiti. Khalîl mandava a Kâim in Affrica le caterve dei prigioni da vendere;[437] nè andò guari che parendogli queta ogni cosa, s'imbarcò egli stesso per l'Affrica a' dieci settembre novecenquarantuno; lasciando al governo di Palermo due delegati, per nome Ibn-Kufi e Ibn-'Attâf della tribù di Azd;[438] chè Sâlem era morto l'anno innanzi. Si tirò dietro in altro legno i notabili di Girgenti. E in alto mare comandò di sfondare la nave; sì che tutti perirono.[439]

Donde gli annalisti musulmani si scoton di loro aritmetica impassibilità, venendo a parlare di questo Khalîl; e chi l'infama d'aver ecceduto ogni limite di [196] efferata barbarie, chi nota aver costui fatto in Sicilia ciò che niun altro Musulmano osò prima nè poi in alcun paese. Si narra che al ritorno in Mehdia, sedendo un giorno a brigata coi primi della città, caduto il discorso su la guerra di Sicilia, l'empio si millantava: “Non saprei giusto giusto quanti ve ne feci morire; non furono più d'un milione, non meno di secentomila.” E fatta breve pausa, ripigliò: “Sì, per Dio, passarono i secentomila.” E una voce s'alzò, del maestro di scuola Abu-abd-Allah, che gli rispose senza cirimonie:[440] “Va, Abu-l-Abbâs, che ti basta un omicidio solo,”[441] alludendo al grave peccato ch'era di sparger sangue per caso di maestà.[442]

Non andò guari che Khalîl n'ebbe il gastigo dalle mani degli uomini; Minacciata Kairewân dal ribelle Abu-Iezîd, e tentennando i cittadini tra la paura delle sfrenate sue moltitudini, e l'odio contro casa fatemita, Kâim vi mandò il gran sicario della dinastia con una banda di mille Negri a cavallo. Il quale, all'usanza vecchia, cominciò a velare e maltrattare, e tentava anco la cura della fame, spazzando il contado con orribile guasto; ma fe' contrario effetto, poichè i cittadini mormorarono, poi cospirarono, e, [197] come minor male, chiamarono Abu-Iezîd. Appressandosi l'esercito ribelle (ottobre 944), Khalîl perdè l'animo: uscì alla battaglia quasi sforzato; fuggì pria che si venisse alle mani; e corse a chiudersi nel palagio di Kairewân. Dove preso dai ribelli, l'uccisero coi suoi sgherri, e appiccarono il cadavere a un palo, alla porta chiamata di Rebi'.[443]

CAPITOLO X.

Fortuneggiarono i Fatemiti in questa rivoluzione. Dicemmo noi che le sètte kharegite ardeano ab antico tra i Berberi, or covando, or divampando. Dal ramo degli Ibaditi si spiccò, com'egli avviene, novella affiliazione che prese nome di Nekkariti;[444] e contaminò la giustizia dello scopo con la stolta iniquità dei mezzi; insegnando legittimi, l'omicidio, lo stupro, la rapina su tutti i non Nekkariti; ch'era a dir quasi tutto il genere umano. Gli ultimi proseliti par che oggidì rimangano gente industre e tranquilla, nell'isola delle Gerbe; ove al certo fecero gran parte della popolazione e corpo politico dassè, infino al decimoquarto e al decimoquinto secolo.[445] La setta prese subito [198] augumento, nei principii del decimo secolo, alla esaltazione dei Fatemiti; quando si vide per prova la efficacia di coteste trame nella schiatta berbera, e quando la servile superstizione ismaeliana insultò e provocò i liberi spiriti dei Kharegi. Surse allora nel Gerîd tunisino, o vogliam dire regione meridionale dell'odierno Stato di Tunis, un Abu-Iezid-Mokhalled-ibn-Keidâd della tribù d'Ifren e nazione di Zenata; uom povero, piccino, zoppo, deforme in volto, ma di grande intelletto e animo da bastare a qualunque impresa; il quale, noiato di stentar la vita insegnando il Corano ai giovanetti, si mescolò coi dottori nakkariti che volean fare e non sapeano; divenne dei principali della setta; osò allargarla e mutarla in cospirazione. A capo d'una ventina d'anni d'affaticamento e persecuzioni, imprigionato dal governatore di Tauzer, liberato da' suoi per audace colpo di mano, si rifuggiva all'altra estremità dell'impero fatemita, tra i monti Aurès; dove accozzatisi con esso altri rami di sètte kharegite ed alcune tribù della nazione di Howâra, l'anno trecentrentuno (942-43) si deliberò la ribellione: che Abu-Iezîd ne fosse capo, e che, cacciati i Fatemiti, l'Affrica si reggesse a repubblica. Abu-Iezîd s'intitolò democraticamente Sceikh dei Credenti; si mostrò alla testa degli eserciti, vestito d'un rozzo saio di lana; montato sur un asinello balzano; onde gli dissero “Il cavalier del ciuco.” E con centomila Berberi di varie tribù, di varie sètte, feroci tutti e indisciplinati, occupò l'Affrica propria. Delle molte battaglie ch'ei combattè con varia fortuna, sempre con valore e costanza, ricorderemo [199] sol due, nelle quali gli stette a fronte un Siciliano, probabilmente di schiatta greca, per nome Boscera,[446] schiavo di Kâim. Aveva il califo a un tempo mandato Khalîl-ibn-Ishak a Kairewân, e questo Boscera con un esercito a Begia, città dentro terra tra Tunis e Bona, perchè la difendesse contro il ribelle che s'avanzava a quella volta, l'anno quarantaquattro. Appiccata la zuffa andavano in volta i seguaci d'Abu-Iezîd, quand'ei corso addosso ai fuggenti, smontava dal destrier di battaglia, si facea recare il baston da pellegrino, e l'asinello balzano; lo cavalcava gridando: “Così fa chi vuol non fuggire, ma vincere o morire!” Li rattestò; girò di fianco, tanto che giunse dietro gli accampamenti di Boscera, minacciando tagliargli la ritirata. Alla quale mossa, il capitano fatemita fe' suonare a raccolta; precipitosamente prese la via di Tunis, inseguito da Abu-Iezîd; il quale gli uccise gran gente; prese e messe a sacco Begia; occupò Tunis, abbandonata anco da Boscera che indietreggiava a Susa. Quivi gli giunsero rinforzi di Mehdia, e ordini di Kâim che ripigliasse le offese. Onde uscito da Susa, trovandosi a fronte un luogotenente d'Abu-Iezîd per nome Aiûb-ibn-Kheirân, [200] combatterono ad Herkla, com'or si chiama, in sul golfo di Hammamet; dove trionfò Boscera con grande strage dei nemici; ma ritirossi a Mehdia pria che lo sopraggiugnesse Abu-Iezîd, col grosso dell'esercito.[447] Così, facendo una punta quando si poteva, Kâim contese l'Affrica ai ribelli; senza impedire che il medesimo anno cacciassero i suoi d'ogni luogo, fuorchè Susa e Mehdia, e lo assediassero nella capitale (gennaio 945). Occuparono tosto i sobborghi; dettero assalti alla fortezza, un de' quali (luglio 945) recò tal paura; che grande numero di cittadini, massime i mercatanti, rifuggivansi chi in Tripoli, chi in Egitto, molti in Sicilia.

Nondimeno le fortificazioni di Mehdia salvarono la dinastia, dando tempo alla dissoluzione delle forze d'Abu-Iezîd che si componeano d'elementi eterogenei. La cittadinanza di Kairewân, e, poco più poco meno, il rimanente della schiatta arabica, mal soffriva la eresia nekkarita, quantunque Abu-Iezîd per soddisfar loro avesse ristorato in pubblico il culto ortodosso. Peggio potean tollerare le licenze e rapine dell'esercito, e la dominazione dei Berberi. Però la municipalità di Kairewân, quando aprì le porte ad Abu-Iezîd, fece secolui un accordo che si chiamassero gli Omeiadi di Spagna; ai quali furono mandati veramente oratori: e gli Omeiadi promesser molto, ma non si venne a conchiusione.[448] Intanto Abu-Iezîd, [201] inebbriato dell'aver che fare con gentiluomini, si vestì di seta, montò bei cavalli, e si alienò gli animi dei Kharegi più schietti o più rozzi; de' quali un gli surse contro con le armi; altri a poco a poco l'abbandonavano; nè gli valse allora ripigliar l'asinello e la casacca di lana. La difficoltà dell'impresa di Mehdia, accrebbe le discordie tra gli assedianti. Vi si aggiunse la virtù d'Ismaele figliuolo di Kâim, giovane animoso, eloquentissimo, attivo, dotato di sagacità politica e di gran vedere nelle cose di guerra, al quale il padre affidò il comando supremo.

Donde Abu-Iezîd, ributtato in varii assalti, vedendo assottigliare l'esercito da' malcontenti che se ne andavano e da' masnadieri che correano qua e là per l'Affrica in busca di più facil preda, partitosi di Mehdia (gennaio 946), osteggiò Susa, cui sperava ridurre di leggieri; e gli fallì. Venuto intanto a morte Kâim (maggio 946), Ismaele l'occultò; poi, avuti segnalati avvantaggi sopra il ribelle, promulgò la esaltazione al trono; preso il soprannome di Mansûr-biamr-Illah, o diremmo “Vittorioso per voler di Dio.” Continuando la guerra in persona, incalzò Abu-Iezîd ritrattosi negli Aurès; dopo fieri combattimenti lo assediò in un castello tra i monti di Kiâna; donde il ribelle tentò una sortita: fu colpito in fronte e alle spalle; fuggì; lo presero; e dopo pochi giorni morì di sue [202] ferite (agosto 947). I Nekkariti intanto erano uccisi per tutta l'Affrica alla spicciolata. Fadhl, figliuolo di Abu-Iezîd, che rimase in su le armi dopo il padre, fu morto a tradimento e mandata la testa a Mansûr; morto a tradimento Aiûb, altro figliuolo rinomato scrittore di genealogie berbere; perseguitata fieramente tutta la tribù d'Ifren.

Così ebbe fine dopo quattro anni la ribellione nekkarita. Kâim, serrato in Mahdia, non s'era trovati altri amici fedeli che la tribù di Kotâma e una parte della nazione di Sanhâgia che ubbidiva a Zîri-ibn-Menâd: e da ciò venne la grandezza della casa di Zîri, che regnò in Affrica per due secoli. Capitano e consigliere fidatissimo di Mansûr nella medesima guerra fu Abu-l-Kâsem-Hasan-ibn-Ali-ibn-Abi-Hosein, della tribù arabica di Kelb; rimunerato incontanente col governo della Sicilia, che rimase per un secolo a' suoi discendenti.[449] Aggiugne un diligente compilatore, essersi dato ad Hasan tal altro carico che parrebbe macchia ai nomi più infamati dei nostri dì; ma lo possiam credere al decimo secolo, sì come i posteri sarà forza che credano al secol decimonono il supplizio del bastone in Italia. Quel prode e colto Mansûr avea fatto scorticare il cadavere d'Abu-Iezîd, imbottir di bambagia la pelle e condurre il misero [203] sembiante per cinque mesi per le città principali d'Affrica, legato sopra un camelo, in mezzo a due scimmie addestrate a schiaffeggiarlo e pelargli la barba. Or si narra che Hasan dovesse recarlo a spettacolo in Sicilia, con giunta della testa di Fadhl, ucciso di fresco. Se non che il legno fece naufragio; la pelle d'Abu-Iezîd fu salvata; e si tennero contenti d'appenderla a quella stessa porta di Mehdia, ov'egli era arrivato a piantare una lancia al tempo dell'assedio.[450]

In Sicilia per sei anni non s'erano più udite nè guerre nè tumulti, ma furti, soprusi, violenze private: il forte, dice la cronica, si mangiava il debole;[451] accennando senza dubbio alle enormezze dei nobili e dei condottieri berberi e mercenarii che avea lasciato Khalîl. Nè l'abbondanza potea succedere alla fame, là dove mancavan le braccia a coltivare il suolo, dopo la orrenda cavata di sangue del novecenquaranta. In questo incontro un Crinite, armeno, stratego di Calabria,[452] incettava frumento a basso prezzo nella provincia e rivendealo a peso d'oro nella Sicilia oppressa (son le parole di Cedreno) dalla fame e dalla guerra che vi portarono i Cirenaici; nella quale guerra i Romani dettero asilo ai fuggitivi Cartaginesi, nè lor nazione [204] osò ridomandarli nè esigere il tributo, temendo non i Romani negassero le vittuaglie.[453] Traducendo cotesti nomi di storia antica che i Bizantini non sapeano smettere, si ha la confermazione di quanto ci narrano gli scrittori arabi. Si ritrae che il Crinite continuava suo traffico almen fino al novecenquarantacinque; poichè l'imperatore che lo spogliò dell'oficio e dei danari mal tolti, fu Costantino Porfirogenito.[454]

Veramente la colonia di Sicilia in questo breve tratto era divenuta ludibrio delle genti vicine. Ibn-'Attâf e Ibn-Kufi preposti da Khalîl, quand'ei tornossi in Affrica, sembrano proprio il capo bargello e il capo riscotitore; nè alcuno avea titolo d'emir, come poc'anzi Sâlem: motewalli, in fatti, li chiama la cronica siciliana, che vuol dire “delegati” e litteralmente “pseudo-wâli.”[455] Forse fu surrogato, il novecentrentaquattro, un Ibn-Asci'ath a Ibn-Kufi, che tra i due sembra il riscotitore; forse Ibn-'Attâf, il bargello, ebbe autorità un po' più larga il novecentrentacinque, quando il califo fatemita pericolava in Affrica e ricominciavano le mormorazioni in Palermo.[456] Ma la debolezza che i [205] compilatori appongono a Ibn-'Attâf era per vero la poca autorità dell'oficio, da non poter armare la gioventù, dare gli stipendii, osteggiare gli Infedeli, strappar loro il tributo o far colta di bottino e prigioni. Kâim, seguendo e rincalzando la pratica del padre, avea tanto accentrato il governo in Affrica e indebolito la colonia, da toglierle il principio vitale della società musulmana, ch'era la guerra: perpetuo errore dei despoti a tener il popolo tra morto e vivo per assicurarsi di lui. Il che nuoce al popolo, nuoce al despota e non impedisce le rivoluzioni; poichè e gli oppressi n'avran voglia sempre e l'oppressore non potrà prevenirle sempre. Di tutte le città musulmane, Palermo avea patito minor danno nella guerra di Khalîl. La nobiltà, i giuristi, la plebe, mal soffrendo tanta abiezione; suscitati dalle nuove d'Affrica, dove Abu-Iezîd tuttavia combattea, non seppero star cheti l'anno novecenquarantasette alla fine del ramadhan, quando le pratiche religiose e la frequenza del popolo in piazza riscaldan più le teste ai Musulmani.

Nella festa che sorvenne del primo scewâl trecentrentacinque [206] (24 aprile 947), i Beni-Tabari, nobil casato d'origine persiana ch'era dei primi nel consiglio municipale di Palermo, levano il romore contro Ibn-'Attâf, gridando che per la costui dappocaggine e viltà i Cristiani calpestano il nome musulmano, si ridon dei patti e da tanti anni non pagan tributo. Il popolo li seguì: uscito in piazza 'Attâf coi fanti del bargello, si vien alle mani; sbaragliati i fanti e molti uccisi; prese le bandiere e le taballe di 'Attâf; sì che a mala pena arrivò a chiudersi in castello. I cittadini se ne tornavano a lor case senza incalzarlo altrimenti. Attâf indi a scrivere i soliti letteroni al principe che mandasse stuoli di soldati subito subito. I capi del tumulto procacciaron dal canto loro di ritrar come andasse la guerra d'Abu-Iezîd e che intendesse di fare in Sicilia Mansûr. Saputo ch'egli fosse per commettere il governo dell'isola ad Hasan-ibn-Ali, partirono per Mehdia Ali-ibn-Tabari ed altri uomini di nota, a chiedere, in scambio di Hasan, un emiro di lor piacimento. Il qual fine si proponeano di conseguir per amore o per forza; raccomandando ai partigiani in Palermo che non lasciassero entrare in città Hasan-ibn-Ali, nè sbarcare i seguaci dalle navi; ma aspettassero le lettere ch'essi avrebbero scritto dall'Affrica dopo l'abboccamento con Mansûr.[457] Cotesta [207] pratica si dèe riferire alla state del novecenquarantotto, quando Mansûr, spenti gli ultimi avanzi della ribellione in Affrica, ebbe agio di pensare alla Sicilia.[458]

Diverso dagli emiri che vennero per lo addietro a ripigliar lo stato in Sicilia, Hasan-ibn-Alî sciolse d'Affrica con poche navi: sbarcato a Mazara senza strepito, stettevi tutto il dì, come in quarantena; non facendosi anima vivente a dargli il benvenuto. A notte scura comparve una man di Kotamii, d'Arabi d'Affrica[459] e d'altre genti, scusandosi che non l'avessero osato prima per timore dei Beni-Tabari e di loro aderenti, e ragguagliandolo dell'ambasceria in Affrica e altre disposizioni della parte. Nè andò guari che giunse a Mazara una brigata della parte, a speculare le forze e intendimenti di Hasan. Vistolo sprovveduto, da poterlo menare com'e' voleano, gli contaron fole: ed e fe' le viste di beversele; promettendo che non moverebbe [208] un passo da Mazara s'e' non andassero a Palermo e tornassero con la risposta: chè probabilmente avean pretestato doverne deliberare la gema'. Ma come prima seppeli partiti, cavalcò per altra via con picciolo stuolo per andare a guadagnar loro le mosse in Palermo; dove era manifesto che avrebbero adunato tutti i fautori e sollevato la città contro di lui. La parte dunque consultava comodamente e rideasi forse di Hasan, quando si sparge che il novello emiro è a Baida, alle porte della città. L'Hâkim,[460] gli oficiali pubblici, tutti coloro che bramavano il buono stato, scrive Ibn-el-Athîr, e par non significhi questa volta i vigliacchi e i pecoroni, tutti gli vanno all'incontro; ed Hasan ad onorarli, a informarsi delle condizioni e bisogni della città, senza quel cipiglio sbirresco che da tanti anni si solea vedere in volto ai governanti. Ismaele-ibn-Tabari, capo della fazione aristocratica, sapendo che tutta la città usciva ad accoglier l'emiro, non potè far che non andasse con gli altri; e al par che gli altri, o forse più, fu ricambiato di cortesie. Tornato alle sue case che si sentiva scappar di mano le fila della trama, peggio indispettì sapendo che Hasan se n'era ito bel bello in palagio, e che gli s'accostavano non solamente gli avversarii ma i partigiani stessi dei Beni-Tabari. Pensando ai modi di frastornare la opinione pubblica, il migliore gli parve una calunnia.

[209] Un cittadino, cagnotto suo, gitta gli occhi addosso ad un negro della guardia d'Hasan ch'avea nome d'uomo valorosissimo e amato indi dall'emiro; gli si avvicina con bei modi; lo invita ad entrare nelle sue stanze; quando ve l'ebbe attirato, salta fuori gridando: “Accorrete, accorrete, questo masnadiere mi s'è ficcato in casa e vuole sforzarmi la moglie in faccia mia.” Il popolo trasse al romore. Ismaele non mancò di cacciarsi in mezzo borbottando: “Bel preludio! Non son padroni per anco del paese, e ci trattan così! Che dobbiamo aspettarci quando metteranno radice?” E suggeriva d'andare a chieder vendetta all'emiro; supponendo ch'ei non la farebbe, e che il popolo infiammato di sdegno romperebbesi al tumulto e ne sarebbe cacciato Hasan. La plebe, seguendo lo zimbello che non cessava dalli schiamazzi, trasse dinanzi all'emiro. Il quale ascolta pacatamente la querela; risponde a quell'uomo: “Se dici il vero, giuralo dinanzi a Dio;” e poichè lo sciagurato giurava, comandò incontanente di mozzar la testa allo schiavo. Al quale supplizio inaspettato, rallegrossi tutta la città: “Ecco la prima volta, sclamavano, che veggiam far la giustizia; or si può viver sicuri in Palermo.” Ismaele si rannicchiò.[461]

Ed Hasan, come se nulla fosse stato, lo vezzeggiava al par che gli altri capi della parte; la qual commedia durò sino allo scorcio del novecenquarantotto. Dello scioglimento abbiamo due tradizioni: la [210] prima, riferita da Ibn-el-Athîr e scritta evidentemente nelle croniche musulmane d'Affrica; la seconda, è immediata testimonianza d'un Siciliano, di professione o almen d'origine cristiano: e l'una rappresenta la sostanza del fatto; l'altra l'apparenza che gli diè il governo. Al dir della prima, il califo, che avea senza dubbio tenuto a bada gli ambasciatori della fazione, sapendo ben avviate le cose di Palermo, li fe' d'un subito catturare in Affrica: che furono Ali-ibn-Tabari, Mohammed-ibn-'Abdûn, Mohammed-ibn-Genâ e altri di minor nome; e scrisse ad Hasan che prendesse lor compagni; il quale, giudicando ardua cotesta impresa, la compiè a tradimento. La cronica del paese, narra in vece che quei di Palermo congiuravano contro Hasan; e ch'egli addandosene “li colse alla rete:” questa è proprio la parola, la quale si direbbe rubata ai liberti che scrivean le croniche degli Omeiadi di Spagna e ne palliavano i delitti.[462] Ma ognun vede che le due tradizioni s'addentellano come pezzi d'antica iscrizione che il caso abbia fatto trovare in tempi diversi. Il venticinque dicembre del quarantotto[463] Hasan mandava a dire da buon compagnone [211] ad Ismaele: “M'hai promesso di condurmi a diporto nel tuo giardino; vien dunque al castello e andremo insieme.” Somigliante messaggio inviò, a nome d'Ismaele, agli altri notabili della fazione. Entrati tutti senza sospetto, lasciando gli stuoli di lor séguito alle porte del palagio, l'emiro li intrattenne con bei ragionamenti e cortesie fino ad ora tarda; non traspirando fuor le mura altro che allegrezza: poi richiese la brigata di spender quella notte in festa secolui e che la dimane si cavalcherebbe alla villa dei Beni-Tabari e fe' dire ai seguaci di fuori, si ritirassero a casa e tornassero la dimane, poichè lor signorie rimanean ospiti dell'emiro. Al sacro nome d'ospitalità niuno pensò a male. E la dimane si videro appiccati ai pali tanti cadaveri mutili delle mani e dei piè. Erano Ismaele-ibn-Tabari, Regiâ-ibn-Genâ un Mohammed e parecchi altri di cui non si ricordano i nomi.[464] Tenne dietro al supplizio la confiscazion dei beni. Fatto il colpo, crebbero i partigiani di Hasan; il reggimento piacque all'universale dei cittadini; la colonia posò dai tumulti; ripigliò animo e forze: così litteralmente le croniche.[465] Ed e' si comprende come l'utile colpa sia stata approvata non solo da chi scrisse, ma anco [212] da chi vide e forse dalla più parte del popolo che ne fruì. Oltre i costumi dei tempi, oltre l'ammirazione volgare della vittoria, oltre l'invidia soddisfatta di questo e di quello, ei non si può negare che il misfatto di Hasan tornò utile al pubblico; poichè i Tabari, i Genâ, i nobili di Palermo e lor clientele non erano al certo tribuni zelanti del ben pubblico, ma tirannelli che disputavan tra loro e ad un tiranno più grande il dritto di sopraffare la gente minuta. Donde possiam dire anche noi: bene stia ai vinti. Nè però assolviamo il vincitore, il quale esordì a Mazara con la menzogna: rincalzò all'entrare in Palermo col supplizio del soldato innocente; compì l'opera con far trappola delle proprie case e arme della giustizia il tradimento. Come dovea navigare Hasan tra cotesti due scogli, lo lasciamo a risolvere ai casisti. L'insegnamento che vogliamo cavarne è che gli Stati non ordinati secondo uguaglianza e libertà, non hanno rimedio ai mali loro che sia scevro di colpa.

CAPITOLO XI.

Terminando in questo tempo la lotta della independenza e principiando un periodo più culto, è bene rassegnare gli elementi civili che rimaneano.

Le vicende dei Cristiani nella prima metà del decimo secolo mostrano ch'e' tenessero tuttavia il lato orientale dell'isola. Ibrahim-ibn-Ahmed avea distrutto [213] sì loro fortezze; ma le guerre civili impedirono ai Musulmani di porre colonie in quelle parti. Però non avvi ricordo d'alcuna terra di Valdemone o Val di Noto nella sanguinosa storia di Khalîl, nè in altra rivoluzione della colonia fino al novecensessantanove; però nella guerra di Manuele Foca (964) i Bizantini sbarcarono come in luoghi amici per tutta la costiera da Messina a Lentini. E cotesta guerra si accese appunto, perchè i Musulmani voleano porre stanza e possedere terreni nella Sicilia orientale.[466]

Regione fatta squallida e desolata, a dispetto della natura, in quel dubbio confine di due epoche; quando la dominazione bizantina, nell'andarsene, le avea lasciato il tristo retaggio di suoi vizii sociali; e i Musulmani, anzichè veri padroni, eran tuttavia nemici, liberi sì di correre la provincia. Di certo mancar dovea l'agricoltura con la popolazione, diradata dalle stragi d'Ibrahim e dalle emigrazioni in Calabria e altri paesi cristiani; e n'è prova la lunga carestia, nella quale una metà dell'isola non bastava a sfamar l'altra metà afflitta dalla guerra civile.[467] Con la ricchezza e con la popolazione si dileguavan anco gli ultimi avanzi di coltura intellettuale; talchè sparisce in questo tempo ogni vestigio di scrittori cristiani di Sicilia.[468]

La stessa religione par abbia perduto nelle province [214] orientali, se non la speranza ch'è sua radice, certo gli effetti esteriori che mostran viva la pianta. Mancano infatti le memorie ecclesiastiche di quel periodo. Nessuna agiografia ne abbiamo; se non che l'autore anonimo della Vita di San Niceforo vescovo di Mileto vagamente parla della gran copia di “veggenti in Dio” che vissero in Sicilia (964), dei quali nomina il solo Prassinachio; com'e' pare, romito, stanziante in su lo Stretto di Messina; uomo famosissimo per pietà, e per avere presagito la sconfitta di Manuele Foca.[469] E quest'abbondanza di profeti è pur segno infallibile di presente miseria, di che la ragione umana vegga chiusa ogni uscita. Torna alla stessa, alla precedente generazione, Ippolito vescovo di Sicilia, non sappiamo di qual città, autore di certi vaticinii molto oscuri su la caduta della potenza musulmana, i quali erano in voga a Costantinopoli nella seconda legazione di Liutprando.

Nè è da lasciare inosservata cotesta strana appellazione di vescovo di Sicilia, che comparisce a un tratto alla metà del decimo secolo. Oltre Liutprando, l'adopera la Cronica di Cambridge, parlando d'un Leone che fu mandato in ostaggio a Palermo nel novecenventicinque;[470] dond'è evidente [215] aver que' due scrittori ripetuto un modo di dire che correva in Palermo e in Costantinopoli verso il novecensessantotto, quando vissero entrambi. I titoli canonici delle sedi siciliane non erano al certo mutati; ma supposto che ne rimanesse in piedi una sola, il vescovo comunemente si dovea chiamar di Sicilia, non di tale o tal città. E fors'era quello di Taormina.

Cotesti indizii messi insieme provano il picciol numero a che era ridotta la gente greca e italica della Sicilia orientale e la vita che vivea di stenti, di fatiche, di pericoli. Le città independenti eran fatte tributarie dopo la guerra d'Ibrahim-ibn-Ahmed; spezzato pertanto ogni legame con l'impero bizantino, tanto più dopo la pace che fermò l'impero coi califi fatemiti.[471] Costantino Porfirogenito, in fatti, nella descrizione delle province, confessa perduta l'isola di Sicilia, le cui città, dice egli, “parte son abbandonate, parte si tengono dagli atei Saraceni.”[472] Che se rimase negli almanacchi di corte il tema di Sicilia, significava soltanto la Calabria che una volta ne avea fatto parte; consolandosi la povertà bizantina con dare all'accessorio il titolo del principale: onde il governatore si chiamò promiscuamente stratego di Sicilia, stratego di Calabria e anche duca di Calabria.[473] Le popolazioni tributarie di Sicilia reggeansi necessariamente a municipio;[474] [216] soddisfaceano il tributo quando non poteano ricusarlo impunemente; rialzavan le mura per poco che i Musulmani non ci badassero; e di tratto in tratto, or adescate da occasione propizia, ora esasperate da sopruso de' vincitori, ritentavan la prova di resistere. Taormina così; così qualche altra rôcca di Val Demone. Del Val di Noto non si fa motto, dopo la caduta di Siracusa e delle città dell'Etna. Forse la popolazione, menomata delle migliaia che si menavano in schiavitù in altre parti dell'isola[475] o fuori, rimase sì poca e sparsa che nulla osò, e niuno parlò di lei.

Mi conferma in tal supposto la sovrabbondanza di abitatori che si notava a ponente del Salso; a spiegar la quale non basterebbero nè le migrazioni dall'Affrica, nè il naturale accrescimento di popolo che prosperi. Del fatto non si può dubitare. Ibn-Haukal, venuto in Palermo il novecentosettantadue, fornisce dati da ragionare la popolazione della capitale a più di trecentomila anime.[476] Khalîl, trent'anni prima fece morire oltre secentomila persone nel Val di Mazara, esclusa Palermo, dove l'efferato animo non trovò pretesto a sfogarsi. A suppor dunque distrutto in quattro anni (938-41) un terzo della popolazione della provincia musulmana, il Val di Mazara, cioè, con Palermo, le si debbon dare innanzi il novecentrentotto due milioni d'abitatori, quanti ne ha adesso tutta l'isola. Men della metà erano Musulmani.[477]

[217] Quanto alle schiatte, credo gran parte di tal popolazione antichi abitatori della Sicilia tutta, ridotti in Val di Mazara; tra liberti, vassalli e schiavi, tra cristiani, rinnegati e giudei:[478] questi ultimi stanziati nelle città; gli altri, in città e ville. Non occorre di replicare ciò che dicemmo degli antichi coloni musulmani. Ma quei venuti d'Affrica nella prima metà del decimo secolo, furono di tre maniere: industriali, soldatesche, e rifuggiti. Pei primi non sarebbe necessario allegare testimonianze e poche possono rimanerne: pure abbiamo il ricordo d'un Sa'îd-ibn-Heddâd, di famiglia artigiana come lo accenna il nome patronimico, al quale, sotto il regno d'Ibrahim-ibn-Ahmed, morì in Sicilia un fratello che gli lasciò quattrocento dînar, guadagnati com'ei pare, con alcuna industria.[479] Dal novecento al novecentrentanove quattro grossi eserciti erano stati mandati a ripigliar lo stato in Sicilia; un altro (902) e parecchi stuoli minori vi erano passati andando in Calabria. Ma di cotesta massa soldatesca di Berberi, Negri, Slavi e milizie arabiche d'Affrica, sbarcati nell'isola in men di mezzo secolo, chi fu spento, chi [218] se ne tornò; picciola parte è da supporre rimasa a soggiorno: e di ciò si ha indizio pei soli Slavi, che diedero nome al più grosso quartier della capitale.[480] Sembra di maggiore importanza, per lo numero e per la qualità degli uomini, la migrazione dei partigiani di casa aghlabita e dei fervidi ortodossi che lasciavano l'Affrica, per paura o dispetto, al mutamento della dinastia e alle varie persecuzioni che seguirono. Ai quali la Sicilia era asilo, come paese più lontano dagli occhi sospettosi dei governanti e come quello che odiava i Fatemiti e vivea più o meno apertamente in rivoluzione.

E cresciuta la popolazione, cessate le continue guerre del conquisto, incominciavano a metter fronde, se non per anco fiori e frutti, gli studii; sturbati sì nelle guerre d'independenza dal romor delle armi, ma molto più promossi dal principio civile che accompagna i moti politici e fa lor precedere o seguire da presso lo svegliamento degli ingegni. Favoriva anche gli studii il contatto più familiare coi vinti, la liberale educazione e dottrina dei rifuggiti d'Affrica e l'esempio dei giuristi mandati a tenere i magistrati.

Per cominciar dagli avanzi dell'antica civiltà del paese, ricorderemo l'opera che prestò un dotto siciliano nella versione della materia medica di Dioscoride. Aveva abbozzato questo gran lavoro a Bagdad verso la metà del nono secolo, Stefano cristiano di Siria; il quale, sapendo la lingua meglio che la scienza, tradusse i nomi dei semplici più ovvii, e di molti altri trascrisse la denominazione greca senza il riscontro in arabico. [219] Si doleano dunque della imperfetta versione i medici che fiorirono sotto gli Omeiadi di Spagna, quando del novecenquarantotto, trattato un accordo tra Romano imperatore di Costantinopoli e l'omeiade Abd-er-Rahman-Naser-lidin-illah, Romano gli inviò, tra gli altri doni, il testo latino delle storie di Paolo Orosio ed un manoscritto greco di Dioscoride, con belle miniature delle piante. Deste a ciò le speranze dei dotti di Cordova, come ci narra Ibn-Giolgiol che fu medico della corte nel regno seguente, il califo Abd-er-Rahman richiedeva a Romano un interprete di greco e di latino; e mandatogli del novecentocinquantuno il monaco greco Niccolò, fu riveduta o piuttosto rifatta la versione con l'aiuto dei disegni. Se ne dèe merito a parecchi medici arabi di Spagna, al dotto medico giudeo Hasdai-ibn-Bescrût, all'interprete Niccolò ed al siciliano Abu-abd-Allah, che parlava l'arabo e il greco e conoscea la materia medica; tantochè la difficile interpretazione tecnica fu compiuta, nè altro rimase ad appurare che una diecina di semplici di poco rilievo. Fin qui Ibn-Giolgiol, il quale in gioventù conobbe e praticò tutti i collaboratori. Del Siciliano altro ei non dice; ma ben si può supporre di schiatta greca e convertito di fresco, non avendo nome patronimico, e prendendosi sovente dagli uomini nuovi il nome proprio di Abd-Allah, che significa servo di Dio.[481] Possiamo supporre di gran momento la cooperazione sua, poichè si narra di lui solo che unisse le nozioni tecniche alle filologiche.

[220] Dalla medicina passiamo di sbalzo alla giurisprudenza; non concedendo quadro più compiuto le memorie che abbiamo. Ma se giurisprudenza vuol dir la base d'ogni civiltà; se l'incivilimento europeo si debbe alla legge romana, più che a niun altro libro o istituzione; lo studio del dritto ebbe nell'islamismo confini assai più larghi e maggiore influenza civile e letteraria che nell'Occidente pagano o cristiano. Accennammo già la importanza politica dei giuristi musulmani dell'ottavo e nono secolo.[482] Lo studio loro abbracciava tutte le scienze che noi chiamiamo morali e politiche, trascorrea fino alla teologia, chiamava la filologia a darle aiuto nella interpretazione del Corano, adoperava la biografia come strumento di critica della tradizione, arrivava alle soglie della matematica computando le tasse legali e le frazioni nel partaggio delle eredità. Però non fa torto all'Affrica se non coltivò con onore altra scienza che questa. Ve la illustrarono nel nono secolo Ased-ibn-Forât, conquistatore della Sicilia, e Sehnûn;[483] entrambi della scuola di Malek. Nè tardò molto a passare in Sicilia mediante i discepoli di Sehnûn. Fra i quali levò grido un Iehia-ibn-Omar-ibn-Iusûf morto in Susa il novecentotrè in odore di santità[484] e maestro del siciliano [221] Abu-Bekr-Ahmed-ibn-Mohammed-ibn-Iehia, coreiscita, devoto famigerato.[485] Più che la voce di tal discepolo, giovò una grande opera di Iehia-ibn-Omar, intitolata “Comandamenti della fede e leggi dell'islâm,” la quale si leggea nelle scuole di dritto di Sicilia e d'Affrica, e chiamavanla comunemente il Libro dei Miracoli. Vivendo l'autore, un liberto degli aghlabiti, diligentissimo editore,[486] s'era venduto il giubbone per comperare pergamena vecchia[487] da copiar questa o altra opera di Iehia-ibn-Omar; e, com'egli ebbe fornita la copia, un altro zelante e povero letterato fe' lungo viaggio a piedi per amor di leggerla e trascriverla. Parecchi anni appresso un giurista siciliano o stato nell'isola, infervorato del Libro de' Miracoli sel vide in sogno tutto illuminato d'una luce che scendea dal cielo. A tal venerazione era giunta l'opera d'Iehia e la [222] scienza ch'ei coltivò! In Palermo insegnava per quattordici anni la Modawwana, celebre manuale di dritto secondo Malek, il professore Abu-Sa'îd-Lokmân-ibn-Iusûf, della tribù arabica di Ghassân, trapassato a Tunis il trecentodiciotto dell'egira (930-31); martire della didascalia, s'egli è vero che morì d'una piaga fattasi al costato con l'angolo della tavola sulla quale solea scrivere e spiegare il testo. Si nota di costui che possedette dodici rami diversi di scienze;[488] nè fa maraviglia, atteso la vastità degli studii che rannodavansi al dritto.[489]

Segnalossi tra i discepoli di Sehnûn, per dottrina e austera integrità, un Abu-'Amr-Meimûn-ibn-'Amr, il quale diè alla Sicilia bell'esempio delle virtù di magistrato. Promosso a cadi dell'isola, da delegato ch'egli era al tribunale dei soprusi di Kairewân, andando a Susa per imbarcarsi, Meimûn si volse alla gente che gli dava il buon viaggio. “Cittadini,” lor disse, “ecco la giubba e il mantello che ho indosso; ecco lo zaino coi miei libri, e cotesta schiava negra che mi fa i servigi di casa, con una giubba e un mantello nè più nè manco di me: ponete ben mente, e vedrete in che arnese tornerò di Sicilia.” Giunto in Palermo, come poi narrò il siciliano Sa'îd-ibn-Othman, e condotto alla casa dei cadi, Meimûn quando la vide, [223] ricusò d'entrarvi, dicendo non saper come acconciarsi in sì gran palagio; e volle albergare in una picciola casetta. Dove, senza aguzzini nè uscieri, quando alcun picchiava alla porta, correa la negra ad aprire, rispondeva: “or ora parlerete al cadi;” e chiamatolo, se ne tornava a filare per vendere il refe e supplire allo scarso mantenimento del padrone. Il qual magistrato non è a dire se fosse caro a tutta la città. Poi si ammalò. Non vedendolo uscir di casa da tre dì, gli amici, andati a visitarlo, lo trovarono giacente, in vece di tappeto, sopra una stuoia di papiro, manifattura indigena,[490] appoggiando il capo su due cuscini imbottiti di fieno. Piangendo lor disse avere atteso all'oficio, che n'era testimone Iddio, finchè gli eran bastate le forze; nè li avrebbe abbandonati giammai se non fosse stato per quella incurabile infermità che si sentiva. Volle andare a morire in patria. E quando partì: “Che Dio vi conceda un successore miglior di me,” furon le ultime parole di Meimûn ai Palermitani; e quelli a benedirlo ed a pregargli salute. Nè dimenticò, messo il piè a Susa, di mostrare alla gente il sacco dei libri, le vestimenta fatte più logore e la stessa schiava.[491]

Per certo le relazioni politiche con l'Affrica fruttarono alla Sicilia un utilissimo commercio d'idee e di studii. Si novera tra i discepoli di Sehnûn, [224] un Diama-ibn-Mohammed, morto il dugentonovantasette (909-910), ch'era stato cadi di Sicilia sotto gli Aghlabiti.[492] Con l'insegnamento ortodosso trapelavan anco i novelli ardimenti filosofici dei Musulmani; sapendosi che il giureconsulto Abu-Giafar-Mohammed-ibn-Hosein-Marwazi, com'ei pare, oriundo persiano, trapassato in Sicilia del dugentonovantatrè (905-906) era forte sospetto di miscredenza.[493] Sembrano incominciati in Sicilia nella stessa metà del decimo secolo gli studii filologici; poichè il primo Siciliano lettor del Corano e grammatico di cui si trovi il nome nelle raccolte biografiche, è Abu-abd-Allah-Mohammed-ibn-Khorassân, liberto degli Aghlabiti, nato il trecentosei (918-19), di schiatta persiana anch'egli, se è da stare all'indizio del nome patronimico.[494]

Appariscono al tempo stesso in Sicilia i primi esempii d'una maniera di erudizione che fu molto in voga appo i Musulmani, dico i racconti biografici che correano nelle scuole e ritrovi dei dotti: officine delle effemeridi letterarie di quel tempo. Taluno li messe in carta; poi vennero i compilatori che ci hanno serbato cotesti materiali di Storia letteraria, chiamati per lo più Tabakât, o vogliam dir classi, [225] sendo ordinati i cenni biografici in classi, di giureconsulti, grammatici, poeti, lessicografi e simili: Delle più antiche e preziose, è il Riâdh-en-Nofûs, da noi ricordato sovente; il quale, trattando dei giuristi e santi musulmani d'Affrica fin oltre la metà del decimo secolo, ci dà i nomi dei Siciliani che tramandarono parecchi aneddoti a voce o in iscritto. Indi veggiamo che Abu-Bekr-Ahmed, citato dianzi tra i discepoli di Iehia-ibn-Omar, lasciò ricordi, scritti com'e' pare, intorno il pio giurista Abu-Harûn-Andalosi, vissuto in Affrica; pei quali fatti Abu-Bekr or si dà come testimone oculare, or allega i detti altrui.[495] Il medesimo Abu-Bekr, su la fede dell'altro Siciliano Abu-abd-Allah-Mohammed-ibn-Khorassân,[496] riferisce aneddoti d'un Ibn-Ghazi da Susa, devoto un tempo e rinomato lettore del Corano per la melodia della voce, poi infame tra gli Ortodossi perchè alla esaltazione del Mehdi lo adulò vilmente, è s'affiliò a setta ismaeliana.[497] Abu-Bekr, avendo in sua giovinezza conosciuto Iehia-ibn-Omar (m. 903) ed Abu-Harûn-Andalosi (m. 905), visse nella prima metà del decimo secolo. Contemporaneo di lui, e al par siciliano Saîd-ibn-Othman; il quale raccontò a voce i fatti del cadi Meimûn in Palermo.[498] Un altro [226] Abu-Bekr, per nome Mohammed-ibn-Ahmed-ibn-Ibrahim, maestro di scuola, detto il Siciliano, forniva all'autore del Riâdh alcuni aneddoti del devoto africano Abu-Iunis-ibn-Noseir, morto il trecentoquattro (916-17) del quale ei fu amico ed ospite.[499] Il Siciliano Abu-Hasan-Harîri, o diremmo il Setaiolo, morto il trecentoventidue (934), che guadagnò con ascetiche stravaganze un cenno biografico nel Riâdh, può passare anch'egli tra gli agiografi; poichè si seppero dalla sua bocca le dolci visioni di Moferreg,[500] le zuffe d'Abu-Ali da Tanger col nemico del genere umano,[501] e le vicende del pellegrino Abu-Sari-Wâsil, ritrattosi in eremitaggio presso il castello Dîmâs in Affrica.[502]

Per quanto si voglian supporre perduti i ricordi di quella età, la somma è che, innanzi la dominazione kelbita, la cultura intellettuale della Sicilia si ristringea quasi alla scienza del dritto; nè lasciò nomi illustri. L'argomento negativo che viene dal Riâdh e da altre compilazioni parziali, pienamente si conferma col dizionario generale d'Ibn-Khallikân, dove si leggono le biografie di Siciliani del duodecimo e undecimo secolo, ma nessuna ve n'ha del decimo. Ciò non vuol dire che gli studii lontani dalla giurisprudenza, l'erudizione, le lettere, la poesia fossero trascurati [227] al tutto in Sicilia, avanti i Kelbiti. Sarebbe bastata a recarveli la sola famiglia aghlabita, che sì larga diramossi allato al regio ceppo d'Ibrahim. Perchè nel nono secolo que' nobili rami dieron molti emiri alla Sicilia;[503] una lor famiglia anco par trapiantata nella colonia:[504] e dall'altra mano sappiamo coltivate dai discendenti d'Aghlab logica, dialettica, astronomia o astrologia che dir si voglia, rettorica, filologia, e lo stile peregrino di scrivere; ne troviamo anche un che dettò cronica o storia della casa d'Aghlab; e dei verseggiatori non v'ebbe penuria.[505] Ma in Affrica coteste discipline non fiorirono mai al par del dritto, nè salirono al ragguaglio delle letterature contemporanee dei califati d'Oriente e di Spagna: e la colonia siciliana, che le toglieva in prestito dalla madre patria, pur dovea rimanere più addietro. Non si veggono Affricani nè Siciliani nel Ietimat-ed-dahr, antologia poetica di Th'âlebi, oriundo persiano vivuto nei principii dell'undicesimo secolo; il quale, ricercando i poeti buoni e mediocri dell'Oriente musulmano, gittò pure uno sguardo su quei della Spagna.[506]

[228] Ci torna da tutti i lati quell'operoso commercio tra la Sicilia e l'Affrica, che necessariamente dovea nascere dalle relazioni politiche de' due paesi e che portava seco una somiglianza di industrie, d'incivilimento letterario, e di costumi. Al frequente passaggio che si è visto di uomini notabili dall'Affrica in Sicilia, si può contrapporre il tramutamento di coloni che andavano a tentar la sorte nella madre patria, ai quali si dava, sia per nascita, sia per lungo soggiorno, il nome di Siciliani. Taluno salì ad alto grado in Affrica. Leggiamo tra i governatori di Tripoli uno Scekr, detto il Siciliano, che diè principio il dugentosessantanove (882-83) alla fabbrica d'una cisterna monumentale, e compiè una cupola nella moschea giami'.[507] Le mura della stessa città furono ristorate ed ampliate il trecentoquarantacinque (956-957) da Abu-l-Feth-Ziân il Siciliano, motewalli, o vogliam dire delegato al reggimento del paese.[508] E poco fa ci è occorso di nominare il capitan siciliano Boscera nelle battaglie dei Fatemiti contro Abu-Iezîd.[509]

Perchè poi non mancasse alla colonia un vizio grave della madre patria, veggonsi i Siciliani gareggiar coi fratelli d'oltremare nei fasti dell'ascetismo musulmano. Operano le superstizioni nei popoli come i liquori inebbrianti nel corpo umano; i quali all'assaggiarli dan vigore e brio; poi turbano il cervello, concitano sovente a rabbioso furore; alla fine snervan l'uomo, lo fan cadere in letargo o senile imbecillità. [229] La macchina soprannaturale dell'islamismo, dopo avere aiutato a conseguire gli effetti morali, sociali e politici, ai quali aspiravano le nazioni dell'Asia anteriore, invasò i Musulmani d'infecondo ardore teologico e li assopì nei vaneggiamenti delle espiazioni e propiziazioni: e così quello zelo ch'era stato virtù giovando all'universale, si mutò in vizio, quando portò a sanguinose discordie, o peggio, alla devota misantropia, allo straziar sè stesso senz'altrui pro, allo sciogliersi dai legami della famiglia e della città, allo scambiar la moneta sonante delle virtù umane con polizze su l'altro mondo, non pur sottoscritte dal fondator di loro religione, ma dagli interpreti di seconda e terza mano. Percorrendo il Riâdh-en-Nofûs, si veggono comparire successivamente tra i Musulmani d'Affrica tre tipi di perfezione morale: nel settimo e ottavo secolo, il guerriero del conquisto, ambizioso di martirio; nel nono secolo il giureconsulto che impavido affronta tiranni e plebi; nel decimo il mote'abbed, uom di santa vita diremmo noi, che si macera d'astinenza, si stempra in lagrime, passa dì e notte pregando e ruminando fatti soprannaturali, e di rado avvien che si levi di ginocchioni, per vedere se i concittadini sian vivi o morti. Pur i bacchettoni penaron lungo tempo a ragguagliar la devozione musulmana a quella dell'impero bizantino, spogliandola della virtù guerriera e della carità spirate da Maometto.

Ce ne dà esempio Mofarreg, il primo santone siciliano che si presenti nel Riâdh, il quale, se consumò il rimanente della vita in sterile penitenza, avea [230] sparso prima (882?) il sangue per la patria.[510] Abu-Hasan il setaiolo, autor di questo aneddoto d'agiografia, raccontava anco i travagli di Abu-Ali, oriundo di Tanger, nato o stanziato in Sicilia, ch'ei conobbe di persona e passò la vita tra indefesse austerità; lontano dalle cure mondane; assorto tutto nella preghiera. Cui soleva comparire il demonio, in sembiante d'uomo, scongiurandolo per Dio di smetter sua dura penitenza, “con la quale,” aggiugneva il maligno spirito, “non ti avverrà mai di sentir pace nell'animo.” Ed Abu-Ali a rispondergli: “Via di qui, Tentatore; se Dio m'aiuti, continuerò a tuo dispetto.” Ma coltolo un dì che dormiva sur una panca, Satan gli diè una voltolata; onde cadendo a terra si spezzò la fronte; ed enfiatagli la piaga, e prendendogli tutta la faccia, que' tornava a susurrargli: “Smetti, e d'un subito ti guarirò.” Finchè, ostinandosi il devoto a respingerlo e a dirgli che amava meglio morire, il demonio lo abbandonò al suo fato, che non tardò guari a compiersi.[511] Di questo Abu-Hasan setaiolo, rimase un ricordo biografico scritto da Abu-Soleiman-Rebî'-Kattan,[512] erudito affricano che soleva andare a visitarlo in casa presso la moschea d'Abu-Zarmuna, credo a Kairewân, ov'ei gli narrava quei fatti de' devoti di Sicilia. Par che Rebî', si fosse invogliato di conoscere il Setaiolo, per le maraviglie che sentiva di sua pietà: un uom fitto sempre a suo telaio; triste e silenzioso, se non che a volta [231] a volta prorompeva in ringraziamenti e lodi a Dio; e all'annunzio delle preghiere canoniche, metteasi a gemere, a trascinarsi in terra, a dolersi delle peccata, a gridare “Ahimè c'ho dissipato la vita mia negli errori!” Il dotto giurista, mezzo devoto anch'egli, ma di zelo più robusto, ammirava pure le ubbie di Abu-Hasan; nè seppe trattenersi dal dirgli: “Tu mi colmi di gioia,” quando gli sentì ripetere aver fitto ormai ogni suo pensiero nella morte, nè altro bramar che l'ora di comparire al cospetto di Dio.[513] Così, secondo la tempra degli animi, variavano i sintomi della devozione, mentre si corrompea l'islamismo. Nè mancarono superstizioni più puerili. Kazwîni, compilatore di cosmografia e storia naturale nel decimoterzo secolo, ci serbò, nel capitolo dell'ictiografia del Mediterraneo, il racconto d'un buon Musulmano d'Occidente; il quale navigando in quel mare il dugentottantotto (901) vide un giovane siciliano ch'era seco nella barca, gittar la rete e cogliere certo pesciolino miracoloso il quale portava, a mo' di collana, tutto il simbolo musulmano: avea scritto su la mascella destra “Non v'ha dio che il Dio;” nell'occipite “Maometto;” e su la mascella sinistra “è l'apostol di Dio.”[514]

[233]

LIBRO QUARTO.

CAPITOLO I.

La tribù di Kelb,[515] rampollo di Kodhâ'a, e però del ceppo himiarita, diè soldati agli eserciti che passavano in occidente al principio dell'ottavo secolo; occorrendo poco dipoi nella storia di Affrica e Spagna emiri kelbiti di gran fama,[516] dei quali Biscir-ibn-Sefwân capitanò una correria sopra la Sicilia.[517] Prevalsi poi in Affrica gli Arabi di Adnân, i quali in ogni modo abbassarono e calpestarono la schiatta di Cahtân, si vede tuttavia un capitano kelbita ucciso nelle guerre civili alla fin dell'ottavo secolo, ch'avea tenuto Mila presso Costantina,[518] e però nei luoghi ove facea soggiorno la tribù di Kotama. Preso infine lo stato dalla casa modharita d'Aghlab, si dilegua il nome kelbita dalle storie, fino alla esaltazione dei Fatemiti; ai quali [234] era ragione che si accostassero gli avanzi dei nobili arabi nemici della passata dinastia. Intanto uomini kelbiti aveano acquistato séguito, e forse stretto parentele, nella gente di Kotama, che amava ad arabizzare; poichè nei tempi appresso (986) veggiamo sceikh de' Kotamii in Egitto, capo connivente a loro insolenza e non dato al certo dai califi, un Kelbita della casa appunto degli emiri di Sicilia.[519] Sia dunque in grazia dei Kotamii, sia della setta ismaeliana o d'altri servigi i Beni-abi-Hosein di Kelb furono ben visti a corte del Mehdi;[520] Ali di quella gente, morì a Girgenti combattendo per Kâim;[521] Hasan, figlio di Ali, guadagnò nuovi meriti appo Mansûr, come si è detto. Affidando a costui la Sicilia, Mansûr potea fare assegnamento, non meno su la fedeltà e il valor dell'uomo, che su le qualità della famiglia: nobile e però riverita dal popolo; nuova in Sicilia e però sciolta d'ogni legame con la parte aristocratica del paese.

Non occorre di esaminare la sognata concessione feudale della Sicilia ad Hasan, che si fondava su la versione erronea del testo d'un plagiario; e i moderni compilatori l'hanno abbandonata, conoscendo quanto ripugnasse agli ordini musulmani.[522] In vece di [235] quella impossibilità legale, il Martorana pensò che il califo fatemita, a un tempo con la elezione di Hasan, avesse ordinato il governo di Sicilia con titolo più illustre ed autorità più larga, accordando all'isola “un emirato suo proprio.”[523] Ma veramente, nè il nome era nuovo, nè l'autorità. La prima cosa, l'oficio di wâli, che il Martorana crede inferiore a quel d'emiro, è il medesimo, semprechè si tratti d'una provincia; e vale tanto a dir wâli d'Africa, d'Egitto, di Sicilia, o simili, quanto emiro: e ciò in linguaggio comune al par che in linguaggio legale.[524] In secondo luogo, nessuno scrittore fa motto di mutati ordini al tempo di Hasan;[525] nessuno serba a lui ed ai successori il titolo di emir ed ai predecessori quello di wâli: fin dai principii del conquisto di Sicilia, son adoperati da sinonimi, or l'uno or l'altro, come portava l'uso della lingua e il capriccio dello scrittore; allo stesso modo che gli Aghlabiti or son detti wâli, ed or emiri d'Affrica. In fine, se per “emirato suo proprio” s'intenda governo che non abbracciasse altra provincia, la Sicilia [236] se l'ebbe sempre sotto i Musulmani. E se voglia significarsi emirato con pien potere, oficio di wâli o emir generate, come lo chiamano i pubblicisti, la Sicilia l'ebbe senza interruzione fino all'ottocentosettantotto, e di tratto in tratto, nei settant'anni che seguirono infino al novecenquarantotto, quante volte i principi d'Affrica non poteano calpestare i coloni a lor talento.[526] In ciò si dèe dunque correggere la sentenza. Da un'altra mano la si dèe spiegare alla più parte dei lettori. “Governo proprio” significava in Sicilia, venti o trent'anni addietro, un luogotenente del re di Napoli, albergato più o meno splendidamente nella reggia di Palermo, ed un'amministrazione civile, finanziaria e giudiziale independente dai ministri napoletani: il qual ordine bramavano que' Siciliani che non odiasser molto la dinastia regnante; e loro ne fu conceduta una sembianza che durò qualche anno. Donde “emirato proprio della Sicilia,” era frase grata a taluni e credo al Martorana, chiarissima a tutti nel paese; e nel nostro caso, rendea, propriamente o no, una idea giusta; poichè l'ordine del milleottocentrentadue somigliò molto a quello del novecenquarantotto, astrazion fatta dagli antecedenti e dalle conseguenze. Il Wenrich, non avendo alle mani tal cemento, si appigliò alla innovazione di titolo e d'autorità, ch'era la parte più debole del concetto [237] di Martorana; vi persistè non ostante gli schiarimenti datigli dalla erudizione orientale; e con troppa fretta si cavò da cotesta esamina di dritto pubblico.[527]

La quale a me par molto piana. Il dritto musulmano ammette due forme di governo provinciale; autorità civile e militare raccolta in unica mano, o divisa. La prima forma, obbligatoria nei nuovi conquisti e nei paesi confinanti con Infedeli, fu adoperata necessariamente in Sicilia, dove i coloni la tiravano a independenza. Ibrahim-ibn-Ahmed, Mehdi e Kâim vollero provar l'altra forma; e non bastaron fiumi di sangue a farla allignare. Mansûr, più generoso, più savio, o che gli aprisse gli occhi la rivoluzione d'Abu-Iezîd, rinunziò al gusto di reggere la Sicilia, come un villaggio d'Affrica, dal suo sofà, e di espilarla a suo talento per commissarii: le rese il governo normale di grande provincia di confini, con mandarvi un vicerè, com'oggi si direbbe. Il qual fatto non fu, ne poteva essere, accompagnato da novello statuto, nè da novello titolo.[528]

[238] Molto manco potea Mansûr istituire l'emirato ereditario. La successione del quale oficio in una famiglia si vede sovente nelle storie musulmane, dagli Aghlabiti d'Affrica infino agli odierni pascià d'Egitto, ma sempre nacque di fatto e durò con le sembianze di elezione che venisse dalla volontà del principe. Cominciò sempre da un emir temporaneo; finì sempre col fatto di novella dinastia independente; passando per una serie di vicende, che da una dinastia all'altra si assomigliano come le figure simili in geometria; procedono secondo unica legge; e danno agli occhi lo stesso aspetto. Morto Mansûr, pochi anni appresso la elezione di Hasan, i successori del primo non mutarono la famiglia degli emiri in Sicilia, perchè l'era potentissima a corte e governava l'isola tranquillamente. Quando poi i Kelbiti caddero in disgrazia al Cairo, i califi fatemiti si accorsero di non poterli sradicare dalla Sicilia. Perchè già era avvenuto il caso che nascea necessariamente dagli ordini sociali e politici dei Musulmani, come altrove accennammo. La nobiltà militare, i soldati mercenarii, i dottori erano avvinti alla famiglia kelbita dal saldo vincolo dell'interesse, per via degli stipendii e del patrocinio; la plebe nudrita con le scorrerie contro i Cristiani e le [239] limosine in patria; l'universale soddisfatto delle entrate che s'investiano in comodo pubblico o di privati siciliani, degli edifizii che sorgeano, dello splendor d'una corte protettrice di begli ingegni, del reggimento condotto secondo i bisogni o il genio dei cittadini di Sicilia, non degli impiegati di Mehdia; soddisfatto delle colonie che moveano dal Val di Mazara a ripopolare le città della Sicilia orientale, a coltivarne le campagne o godersi i tributi di quelle ove rimanessero i Cristiani. Però non è a domandare se i Musulmani dell'isola volessero correre il rischio d'un governo d'uomini nuovi, che avrebbe potuto rimutar tutto e ricondurre i bargelli è i commissarii fiscali del tempo di Sâlem. Una volta che il califo fatemita il tentò, acconsentendo, com'e' pare, la casa kelbita per la promessa di maggiore stato in Egitto, i Siciliani corsero alle armi (969); e il califo non trovò altro modo di porre fine ai tumulti che d'inviare al più presto un emiro kelbita. In venti anni dunque era fondata di fatto là eredità dell'emirato, la quale premeva tanto ai Siciliani.

E però era già surto un principato di Sicilia: senza decreto nè plebiscito che potesse registrarsi dai cronisti, ognuno ormai sel vedeva. Ibn-Haukal, venuto in Palermo del trecentosessantadue (972-3), parla del palagio ove albergava il Sultano; la qual voce è usata già dagli scrittori del decimo secolo per designare principi di fatto, riconosciuti o no dal califo: e veramente ella ha valore radicale di violenza; e quando il tempo onestò la cosa e il nome e mutò questo in titolo pubblico, significò impero privo della sacra [240] potestà dei califi.[529] Sia che Ibn-Haukal abbia ripetuto la voce Sultano perchè la sentiva in Palermo, o che l'abbia detto dassè per definire l'ordine di cose che toccava con mano, l'attestato è di gran momento collimando con lo scopo della rivoluzione divampata in Sicilia tre anni prima, e col ritratto delle vicende che seguirono fino alla metà dell'undecimo secolo. Dal novecensettanta in poi non muovon d'Affrica nè d'Egitto eserciti che combattano in terraferma d'Italia, non che in Sicilia, insieme coi Musulmani dell'isola. I Siciliani, quando lor pare, depongono un emir kelbita e ne scelgono un altro nella famiglia. Che se il califo manda tuttavia al designato dall'emir predecessore, o dal popolo, un diploma, con le insegne dell'oficio e col titol sonante di Corona dell'Impero, Spada della Fede e simili, ciò significa soltanto che la Sicilia riconoscea pontefici i fatemiti. Nè monta il nome loro stampato nelle monete siciliane fino alla metà dello undecimo secolo. Abbiamo notato più volte che nel medio evo i Musulmani tenesser poco conto di tal regalia, sì gelosamente custodita dai principi cristiani. Inoltre il nome dei Fatemiti dava corso più largo al conio siciliano nei frequenti commerci con l'Affrica e l'Egitto, per la qual ragione non ebbero scrupolo a contraffarlo o imitarlo i principi longobardi [241] di Salerno.[530] Ma niuno sosterrà che l'isola obbediva al califo fatemita Daher o Zâhir (1021-1036) perchè v'abbian di lui e del successore tante monete battute in Palermo,[531] quando i lor nomi non si ricordano punto nè poco nella sollevazione contro i Kelbiti; nè que' califi se ne dierono briga; nè pensò a loro la casa kelbita, nè alcuna delle fazioni che agognavano al potere dello Stato: anzi una parte che cercò aiuti di fuori, si volse agli emiri zîriti d'Affrica, minacciando, s'e' ricusavano, di chiamare a dirittura i Bizantini.

Aiutaron cotesta emancipazione della Sicilia, la potenza dei Kelbiti a corte, com'abbiam detto; il tramutamento della sede fatemita, da Mehdia al Cairo; le guerre orientali dei primi califi d'Egitto; la pazzia e debolezza degli altri; la emancipazione contemporanea dell'Affrica. Pur la cagione principale fu che i Siciliani voleano. Raro avvien che rimangano frustrati i popoli quando fermamente si propongano e tenacemente procaccino di scuotere il giogo: che se una generazione fallisca, per colpa propria o fortezza del nemico, un'altra coglierà il nemico sprovveduto e avvolto in alcuna delle brighe che non mancano mai agli oppressori; e vincerà, forse senza combattere. [242] Il sangue sparso per sessant'anni, fruttò alla Sicilia che nel novecenquarantotto, col romor d'un tumulto, riebbe l'emir generale; e nel novecensettanta, con breve guerra, si sciolse dall'arbitrio del califo nelle elezioni: che è a dire salì al sommo grado di libertà d'un popolo musulmano. E prima vi sarebbe giunta la colonia, se non fosse stato per le divisioni etniche, municipali e sociali, che sempre la dilaniarono.

CAPITOLO II.

Fin dalla morte del Mehdi, o vogliam dire dalla rivolta di Girgenti, l'impero bizantino non soddisfaceva il tributo di Calabria;[532] le città assicurate di Sicilia lo avean anco smesso negli ultimi tempi. Ma, risaputo come Hasan dava sesto alla cosa pubblica, venne tosto in Palermo un frate a recare i decorsi di tre anni da parte di qualche città.[533] Altre di Sicilia o di Calabria che nol fecero, furon punite dal novello emiro con aspre correrie; onde chiesero aiuti a Costantinopoli.[534] Dove rimase inaspettatamente padrone il Porfirogenito, gli parve indegno della maestà [243] imperiale pagar quel tributo ai Barbari. Sforzandosi, quanto il poteva un picciolo ingegno ed una natura inerte, a ristorare gli ordini della civiltà romana ch'egli avea studiato su i libri ed affastellato in sue compilazioni, Costantino Porfirogenito non lasciò da canto l'amministrazione militare, nè la disciplina; di che tornò qualche frutto all'impero, ed egli molto più se ne prometteva. E però mandava in Italia, in vece d'oratori col tributo, que' che gli parean capitani e soldati. I quali alla prima si diedero a maltrattare e taglieggiare i sudditi, peggio che non avrebbe fatto il nemico.[535]

Hasan, dal suo canto, com'ei seppe sbarcati i Bizantini ad Otranto, chiese rinforzi. Mandatigli da Mansûr settemila cavalli e tremila cinquecento uomini da piè, oltre i soldati d'armata e le navi da guerra e da carico, giugneano in Palermo, il due luglio novecencinquanta, condotti dal liberto schiavone Farag-Mohadded. L'esercito siciliano era in punto; sì che a' dodici luglio poderoso sforzo mosse per mare e per terra alla volta di Messina, sotto il comando di Hasan. Immantinenti, valicato lo stretto, assalirono Reggio, cui trovaron vota di abitatori. Hasan spargeva i cavalli a far preda intorno; andava egli col grosso delle genti all'assedio di Gerace; davale indarno aspri assalti; e già la riducea, tagliatole l'acqua da bere, quando ebbe nuove dell'esercito bizantino che venisse a trovarlo. Perlochè, [244] composto coi Geracini e presone danari e statichi, raccolti i suoi, mosse contro i Greci; i quali precipitosamente si rifuggirono ad Otranto e Bari. Hasan, inseguendoli, poneva il campo sotto Cassano; infestava i dintorni. Combattuta per un mese la città senza frutto, e sopravvenuto l'inverno, fe' l'accordo come a Gerace; ripassò il Faro; lasciò l'armata a svernare nel porto di Messina; ed ei tornò alle stanze in Palermo.[536] I patti di Gerace e Cassano sembrano tregua per un anno, comperata con una taglia che si pagava parte in contanti, e si davano gli statichi in sicurtà del resto.[537]

S'adunavano intanto in Calabria le armi bizantine, che l'anno innanzi o non eran tutte passate in Italia, ovvero avean osteggiato i dominii beneventani in Puglia, ove occuparon Ascoli.[538] L'armata obbediva ad un Macrojoanni, o diremmo noi Giovanni il Lungo; l'esercito, che fu grosso se non [245] valido, al patrizio Malaceno, col quale si accozzarono le genti di Pasquale stratego di Calabria[539] Hasan, per comando del califo, riassaltava la terraferma in primavera del novecencinquantadue. L'otto maggio, che fu quell'anno tra i dì festivi alla Mecca, scontravansi i due eserciti sotto Gerace: della quale battaglia gli annali arabici dicono non essersi unque vista più aspra e fiera; gli annali greci attestano averne il nemico riportata nobilissima vittoria; e par torni a questo, che i Cristiani avean l'avvantaggio del numero, i Musulmani degli ordini e della fiducia nel capitano,[540] il valore si pareggiava. Li sbaragliati poi, sfrenatamente fuggirono; inseguendoli i Musulmani infino a notte, con grande strage, cattura d'uomini, preda d'armi, cavalli, bagaglie: e a mala pena camparono il patrizio e lo stratego.[541] Le teste degli uccisi mandate a trionfo nelle varie città di Sicilia e [246] d'Affrica, come tuttavia porta il brutto costume degli Arabi. Hasan strinse d'assedio Gerace, che di nuovo fe' bella difesa, non ostante la mancata speranza d'aiuti. Pur Costantino mandava il segretario Giovanni Pilato all'emir di Sicilia; il quale, notano i Bizantini, non s'inebbriando nelle vittorie, assentì la tregua.[542] Fermossi nella state del cinquantadue; e sembra limitata dapprima a Gerace, poi resa comune a tutti i luoghi di Calabria che obbedivano all'imperatore, e stipulatovi il solito patto del tributo e di più la tolleranza del culto musulmano. Uno stuolo mandato da Hasan saccheggiava intanto Petracucca, come par si chiamasse a quel tempo una grossa terra tra i capi di Spartivento e di Bruzzano.[543] Altri assalivano un'altra [247] terra, non sapremmo dir se Roseto su i confini della Calabria con la Basilicata, ovvero le isole di Tremiti, presso il Gargano:[544] e si nota in questo medesimo anno saccheggiato il santuario del Gargano e infestati parecchi luoghi dello Stato di Benevento.[545] I prigioni di Petracucca e di Roseto, o Tremiti, che furon molti; andavano di Sicilia in Affrica; e con essi, incatenato il capitano, del navilio musulmano, per nome Abu-Mehell; il quale, giunto a Mehdia, era punito con l'estremo supplizio. S'ignora il delitto: se infrazion della tregua, se peculato sul bottino; che è più verosimile.[546]

Mentre i suoi infestavano le costiere dell'Adriatico,

. [248] Hasan, ritrattossi da Gerace a Reggio, apriva[547] nel bel mezzo della città una moschea; cospicua al minaretto spiccantesi in alto da un angolo, perchè tutti il vedessero e ne sentissero la cantilena del muezzin. Stipulò in fatti libero ai Musulmani l'appello alla preghiera e ogni altro rito pubblico; che cristiano non mettesse mai piè nella moschea; che la desse legittimo asilo ad ogni musulmano, anche prigione di guerra ed anche fatto cristiano, al quale paresse di rifuggirvisi. E minacciò che, sapendo tolta, non che altro, una pietra della moschea di Reggio, farebbe diroccar le chiese cristiane per ogni luogo di Sicilia e d'Affrica. I quali patti, i Cristiani umilmente osservarono, scrive tutto lieto Ibn-el-Athîr; ignorando che la moschea di Reggio non durò oltre quattro anni.[548] E preoccupato del gran dispetto degli Infedeli, passò sotto silenzio la vera importanza del fatto: il civil pensamento di Hasan ad usar la vittoria in favore del commercio, ch'era operoso al certo tra la Sicilia e la Calabria e molto più potea progredire con la tolleranza dell'islamismo a Reggio. Non guari dopo l'impresa di Calabria, venuto a morte Mansûr (marzo 953), e rifatto califo il figliuolo [249] Abu-Tamîn-Ma'àd, che fu soprannominato Moezz-li-dîn-illah, l'emiro Hasan andava a corte a Mehdia; lasciato al governo della Sicilia il proprio figlio Abu-Hasan-Ahmed. E Moezz ratificava: il quale atto riferiscono i cronisti con parole diverse; ma la somma è che il califo lasciò l'emirato ad Hasan con sostituzione d'Ahmed in caso d'assenza e di morte.[549] Segnalatissimo favore, da potersi comprendere col bisogno che avea Moezz del vincitor di Gerace per l'impresa d'Egitto, la quale poi si differì. Dovea forse combattervi l'esercito affricano, tornato di Calabria in Sicilia, il quale ripassò in Affrica poco dopo il viaggio di Hasan.[550]

Mentre si pensava a tal conquisto, l'emiro andò ad audace fazione in Spagna. Era occorso che spacciato un corriere di Sicilia in Affrica con lettere per Moezz, s'imbattè in una nave di mole non più vista in que' tempi, fatta costruire da Abd-er-Rahman califo omeiade di Spagna e mandata a mercatare in Egitto; le genti della quale detter di piglio piratescamente al legnetto [250] siciliano, nè rispettarono gli spacci. Il che risaputo da Moezz, commetteva ad Hasan di far la vendetta con l'armata di Sicilia. Entrato nel porto d'Almeria, l'emir bruciò quanti legni v'erano; prese il naviglio che avea fatto l'insulto, tornato già d'Alessandria con ricche merci e giovani cantatrici per Abd-er-Rahman; poi sbarcò, messe Almeria a sangue ed a ruba; e salvo si ridusse a Mebdia. Due correrie delli Spagnuoli su le costiere d'Affrica mal rendeano la pariglia; essendosi combattuto con varia fortuna. Seguì l'assalto d'Almeria l'anno trecenquarantaquattro (26 aprile 955 a 13 apr. 956).[551]

Maggior guerra richiamò Hasan in Sicilia. La tregua coi Bizantini, era stata rinnovata il cinquantaquattro forse per altri due anni, venuto a ciò in Palermo un frate Assiropulo.[552] Ma Costantino, mal soffrendo sempre il tributo, e rinfrancato dal valore che cominciavano a mostrare i suoi contro i Musulmani dell'Asia Minore, volle ritentar la fortuna in Italia. Mandovvi le soldatesche di Tracia e Macedonia col patrizio Mariano Argirio, e l'armata che ubbidiva [251] a due capitani minori, Crambéa e Moroleone, il novecencinquantasei,[553] quando spirava la tregua. L'Argirio cominciò da Napoli, notata allora a corte come ribelle e amica de' Musulmani per antichi e forse anco recenti patti: la strinse per mare e per terra; bruciò il contado; ridusse i cittadini a riconoscere la signoria bizantina finchè avessero il coltello alla gola. Varii luoghi dei principati longobardi e di Calabria, più o meno disubbidienti, si sottomessero del pari;[554] e chi sa se coi voti, fors'anco con pratiche, non chiamavano i Musulmani? I quali non tardarono. 'Ammâr, fratello di Hasan, giunto d'Affrica con l'armata il nove agosto del cinquantasei, svernò in Palermo ed a primavera assaltò la Calabria.[555] Non che correre il paese, par abbia dovuto afforzarsi 'Ammâr in qualche luogo; e chiamare in soccorso il fratello; vedendosi chiuso a settentrione dal grosso delle forze bizantine, mentre al suo fianco o alle spalle tentava audacissima fazione Basilio, protocarebo, o direm noi capitan di vascello, con un'armatetta. Sbarcato a Reggio costui distruggeva la moschea; poi risolutamente [252] drizzava le prore al bel mezzo della colonia musulmana di Sicilia; prendea Termini a ventiquattro miglia di Palermo; assaliva indi la città di Mazara. Dove sopraccorso Hasan, l'emiro ebbe la peggio, e perdè molti de' suoi:[556] pur Basilio se ne andò senza infestar l'isola altrimenti. L'anno appresso (958), Hasan con l'armata siciliana toccava le costiere di Calabria; congiungea le forze con 'Ammâr; e insieme andavano ad affrontare ad Otranto l'armata bizantina, capitanata da Mariano Argirio in persona. Dalle tre narrazioni, diverse e mutile, che abbiam di questa fazione, si ritrae come un gagliardo vento levatosi contro l'armata di Sicilia quando si veniva alle mani, desse agio al patrizio d'uscir di briga senza battaglia, e di prendere una nave musulmana imbattutasi tra le sue. Le altre, ricacciate dalla medesima tempesta vêr la Sicilia, la più parte fecero naufragio. I Siciliani poi si vantarono della fuga dell'Argirio; questi impiastrò a Costantinopoli che, aiutandolo il vento, avea distrutto e affondato tutte lor navi; un cronista bizantino, di cui s'ignora la età, scrisse che i Musulmani accampati a Reggio, mentre l'armata bizantina stava per passare d'Otranto in Sicilia, presi di timor panico, se ne tornarono a furia ed annegarono nei mari di Palermo. E in vero, se 'Ammâr avea le stanze presso Reggio, i cittadini dovean credere precipitosa fuga quel montar delle sue genti su le navi d'Hasan, delle quali poi si riseppe, non l'andata ad Otranto, ma il naufragio presso la Sicilia.[557]

[253] In ogni modo, il patrizio nè assali L'isola, ne tentò altra impresa di che si faccia memoria. Hasan in men d'un anno rifece l'armata siciliana.[558] Non è inverosimile, ma nè anco provato, che in questo tempo un'armatetta musulmana abbia osteggiato Napoli per parecchi dì, fatto prigioni, perduto la maggior nave in un assalto, e in fine assentito a lasciar tranquilla la città, prendendone taglia in moneta e vasellame d'oro e d'argento: e può credersi anco ch'alcun dei prigioni avesse visto in sogno San Gennaro e Sant'Agrippino, i quali gli promettessero il riscatto che poi seguì.[559] Da miglior fonte sappiamo che seguirono avvisaglie: il novecensessanta preso dai Musulmani un Afrina o come che si chiamasse, capitan greco al certo, e dai Bizantini un Ibn-Baslûs e menato a Costantinopoli; il novecensessantuno venuto in Sicilia un legato bizantino che portava il gran nome di Socrate, il quale riscattò con danaro Afrina e gli altri prigioni di sua gente.[560] La debole guerra finì con una tregua, fermata, com'ei pare, il medesimo anno, e durata infino all'esaltazione di Niceforo Foca.[561]

[254]

CAPITOLO III.

Posate le armi, Hasan suggellò con due gravi fatti la novella amistà tra la dinastia fatemita e la colonia siciliana; obbedientissima ormai di contumacissima che sempre era stata. S'affrettò a comparire a corte di Mehdia col figliuolo Ahmed e con trenta de' primarii nobili musulmani dell'isola; i quali, al dir d'un compilatore, prestarono giuramento a Moezz;[562] al dir della cronica contemporanea, Hasan li fece entrar nella setta del Principe dei Credenti:[563] ond'e' mi par manifesto che s'affiliassero alla società ismaeliana.[564] Non era avvenuto mai a' Fatemiti d'accalappiare a un tratto tanti e sì illustri proseliti. Moezz non rifiniva dunque d'onorarli; presentavali di Khil'a, o vogliam dire sontuose sopravvesti degli opificii regii, [255] e, con liberalità più sustanziale, accrebbe loro gli stipendii militari[565] e fors'anco promise più larghe concessioni.

Perocchè leggiamo nella cronica che quegli ottimati sollecitavano il califo a un'impresa sopra Taormina.[566] Il qual cenno e gli effetti seguíti l'anno appresso, mostrano che si trattò di allargare le colonie musulmane nel Val Demone e Val di Noto, sottoporre al kharâg, e, secondo i casi, confiscare o dividere le terre delle due province; mutarvi la condizione dei Cristiani, da cittadini di municipii tributarii a meri dsimmi o schiavi. Questo sembra il vero scopo del viaggio in Affrica, e dell'affiliazione alla setta. Moezz, guardando sempre all'Oriente e agli Abbassidi, nemici comuni suoi e dell'impero bizantino, avea forse ricusato al solo Hasan, assentì forse a malincuore a tutta la nobiltà siciliana quell'impresa che metteva in pericolo la pace con Costantinopoli. Ma non potea dir no senza ridestare i tumulti in Sicilia. Sendo temporanea per natura la sicurtà accordata ai municipii tributarii, non mancava ai coloni il dritto d'occupar quelli con la forza. Non mancava loro la brama, o forse il bisogno, sendo la somma del tributo a gran pezza minore della gezîa e del kharâg, non che del fruttato diretto delle terre. Fu di certo Hasan l'autore e promotore del consiglio, premendogli più che [256] a niun altro di metter mano sulla Sicilia orientale, per accrescere il giund, empierlo d'uomini suoi, raddoppiare le entrate e le forze dello Stato; ad onor della corona fatemita e profitto immediato di sè medesimo e dei figliuoli.

Tornati in Sicilia Ahmed e i nobili[567] che di gioia non capivano nella pelle, si aprì la primavera del novecensessantadue con tripudio universale dei Musulmani, dal palagio degli emiri all'infimo tugurio. Avea bandito Moezz per tutto l'impero che il dì della circoncisione del proprio figliuolo, sarebbero anco circoncisi i fanciulli maturi a ciò di ciascuna famiglia, spesando lui le feste, che soglion farsi in tal solenne passaggio dell'uomo dal grembo della madre al consorzio della città:[568] chè tai larghezze usano tuttavia i facoltosi musulmani verso lor clienti, e i poveri del paese partecipano dei banchetti imbanditi.[569] Alla nuova luna dunque di rebi' primo del trecencinquantuno (8 aprile 962), scritti innanzi tratto i fanciulli, si compiè il rito, cominciando dal figliuolo e dai fratelli dell'emiro Ahmed, e via scendendo ai nobili ed alla gente minuta, che in Sicilia sommarono a quindicimila giovanetti; e da parte del califo lor furono dispensati centomila dirhem e cinquanta some di vestimenta e piccioli regali.[570] La circoncisione, ch'è uso antichissimo degli Arabi, non precetto del Corano, non [257] ha tempo determinato; si fa per ordinario a sette anni, la differisce qualche famiglia più o meno infino a' sedici. Però il numero che notammo non ne darà con certezza quello degli abitatori musulmani di tutta l'isola; pure servirà a ragionarlo a un di presso.[571]

Senza dimora, Ahmed mandava ad effetto il disegno. Mosse del mese di maggio, con esercito di Siciliani e Affricani, sopra Taormina; i cui cittadini, com'era manifesta la causa dell'assalto, s'erano apparecchiati a difendere fino agli estremi la roba e libertà. E valorosamente il fecero; nè li sgomentaron le nuove soldatesche di Hasan-ibn-'Ammâr, cugino d'Ahmed, venuto d'Affrica in Palermo il primo agosto e sopraccorso al campo. Ma quando i Musulmani tagliarono l'acqua che dava da bere alla città, fu forza calarsi all'accordo. Ricusato ogni onesto patto da Ahmed, che sapea quel ch'ei volea, la tortura della sete sforzò i Taorminesi a risegnare tutto ciò che possedeano e darsi schiavi, salva la vita sola: e così uscirono dalla rôcca il ventiquattro dicembre, dopo sette mesi e mezzo d'assedio. Le facoltà dei vinti, scrive Ibn-el-Athîr, divennero fei; ch'è a dire i terreni caddero nel fisco, per investirsi in stipendii militari. L'emiro mandava a Moezz mille settecento [258] settanta dei prigioni.[572] E mettea presidio di qualche centinaio di Musulmani nella città, mutando il nome, a onor del califo, da Taormina in Moezzia.[573]

Il che dà a vedere un primo principio di colonia e fa supporre l'ordinamento che si tentasse in tutta la regione orientale. Perchè Moezzia non fosse una bicocca, si lasciò al certo la popolazione agricola nel contado, e la gente minuta, mercatanti o artefici, nella città, da schiavi o da liberti. Le terre indifese o scarse di abitatori chiedeano al certo e otteneano l'amân, prima o dopo Taormina; scendendo i cittadini a condizione di dsimmi e scansando la schiavitù, fors'anco lo spogliamento dei beni privati; e cominciò a stanziare alcun picciolo stuolo del giund nei luoghi più importanti. In particolare nol sappiam che di Siracusa, dove comparisce due anni appresso debole colonia che non bastava a difendersi da qualche galea bizantina, ma a capo d'altri cinque anni la si scorge adulta, da farsi sentir nella guerra civile.[574] [259] Probabil è dunque che abbian messo piè nelle ruine d'Acradina e d'Ortigia verso il novecentosessantadue; trovandovi già raggranellato un po' di popolazione cristiana. In ogni modo, dopo la occupazione di Taormina, tutta la Sicilia obbediva ai Musulmani, fuorchè Rametta, solo avanzo de' municipii greci e romani di Sicilia; antico asilo, com'io penso, dei più valorosi cittadini di Messina,[575] ed or di quanti altri cristiani della provincia amassero meglio guardar la morte in faccia che soffrire l'ignominia del vassallaggio.

Nè veggo nelle istorie qual popol abbia mai sortito fine più magnanima: tanta fu la saviezza dei preparamenti, la costanza della volontà, il valor nel combattere, e con sì poca speranza d'aiuto gettarono il guanto ai vincitori. Chè morto Romano secondo imperatore (15 marzo 963) e succedutigli due bambini, si disputava il comando tra la rea lor madre e un eunuco; nè potea sapersi in Sicilia l'esito della rivoluzione militare ch'esaltò Niceforo Foca (16 agosto 963), quando Hasan-ibn-'Ammâr poneva il campo a Rametta l'ultimo di regeb trecentocinquantadue (23 agosto 963); venendo a punir la ribellione, come al solito si chiamò. Si dubitava tanto poco dell'esito, che l'emiro Ahmed partì al tempo stesso per l'Affrica[576] a compier, com'ei sembra, l'ordinamento amministrativo dell'isola con Moezz; il quale comandò che Ibn-'Ammâr riducesse intanto Rametta. E quegli piantò [260] suoi mangani e 'arrâde,[577] a batter le mura; si provò ad affaticare i cittadini ogni dì con assalti; e nulla approdava. Tanto che, pensando ridurli per fame, passò tra que' monti l'inverno e la primavera e la state appresso, trinceato bene il campo, e costruitovi un castello per sè e casipole ai soldati.[578]

Que' di Rametta intanto chiesero aiuti a Niceforo Foca, il Domestico, come il chiamano sempre gli Arabi, dall'alto oficio che tenne pria dell'impero e che illustrò, a danno loro, col conquisto di Creta (maggio 961) e altre belle vittorie.[579] Salito al trono, volle levare all'Impero la vergogna del tributo che si pagava ai Musulmani; e sperò che bastassero gli auspicii suoi e le medesime armi a ripigliar la Sicilia col favor della popolazione cristiana. Onde adunò poderoso esercito, dicesi più di quarantamila uomini,[580] di varie nazioni: Armeni, antichissimi difenditori dell'impero; [261] mercenarii russi,[581] battezzati di fresco; e gli eretici Pauliciani[582] che, trasportati in Tracia, militavano sotto le insegne dei loro persecutori con riputazione di ferocissimi soldati: dei quali i Russi e i Pauliciani avean testè fatto buona prova a Creta.[583] Si apprestarono legni di non più vista grandezza per traghettare le genti; le navi da battaglia robuste e munite di fuochi;[584] il terrore dell'oste accresciuto da grande salmeria di macchine da gitto;[585] deputato a pregare il cielo in buona forma e vigilare sì sospetta accozzaglia di costumi, lingue, e coscienze straniere, con oficio di cappellano maggiore, come noi diremmo, un Niceforo, uom di molta pietà e molto senno, prete di corte, poscia vescovo di Mileto e in ultimo santo canonizzato.[586] Fin qui l'imperatore provvide da vecchio soldato. Se non che elesse i condottieri per favore e corta scaltrezza di palagio. Non uno ma due condottieri, patrizii entrambi; dei quali il primo fratello del protovestiario, o maggiordomo che noi diremmo, ebbe nome Niceta; eunuco pien di religione, erudito negli scritti dei Santi Padri, ma, sbagliata la via, si trovava in quella stagione protospatario, che [262] suona aiutante di campo dell'imperatore. Ebbe costui il grado di drungario, o vice-ammiraglio, il comando particolare del navilio[587] e supremo dell'impresa.[588] L'altro, Manuele figliuol naturale di Leone Foca, nipote però di Niceforo, fatto generale della cavalleria: giovane d'animo bollente, testa dura e cieco valore.[589] De' due messi insieme, pensò Niceforo comporre un ottimo capitano, senza avere ricorso ad alcun di que' suoi sperimentati commilitoni dell'Asia Minore, il quale andasse in Sicilia a guadagnare nuova riputazione e poi mettersi, com'egli stesso avea fatto, su la via del trono: e questo non gli fece veder l'errore di porre un forzuto e fiero principe del sangue mezzo a ragguaglio e mezzo sotto d'un soldato da tavolino. Pur a Costantinopoli non era chi dubitasse della vittoria. Oltre la potenza di tanto sforzo, n'erano pegno lor nuovi libri sibillini detti le Visioni di Daniele, ed i vaticinii d'Ippolito vescovo di Sicilia dei quali nessuno s'era visto fallire; e vi si leggea come il lione e il lioncello dovessero un giorno divorare l'onagro. Parea chiaro ai Greci che le due belve con le zanne simboleggiassero i due imperatori di Cristianità, Niceforo e Otone, e l'altra belva del deserto Moezz; se non che, quattr'anni dopo la sconfitta, il nostro Liutprando si beffò di loro che non avessero capito. Otone e il figliuolo, ei rimbeccò, veraci leoni, doveano manicarsi Niceforo, asino selvatico vano ed incestuoso, che avea sposata la comare. [263] E il mordace vescovo di Cremona parlava tanto da senno, che appose la vittoria dei Musulmani alla fidanza che n'avessero presa, interpretando appunto come lui la profezia d'Ippolito.[590]

Risaputi i preparamenti del nemico, Ahmed racconciò e armò in fretta il navilio siciliano; scrisse marinari e soldati, e chiese immediati rinforzi a Moezz. Il quale, non perdonando a spesa, mandava il navilio d'Affrica con molte schiere di Berberi,[591] capitanate da Hasan, padre d'Ahmed. Giunti del mese di ramadhan (11 settembre a 10 ottobre 964), Hasan avviava uno stuolo al campo di Rametta, rimaneva egli col grosso delle genti in Palermo, sovvenendogli dello sbarco di Basilio nella Sicilia occidentale (957). Già l'oste bizantina, traghettato l'Adriatico, s'era raccolta in su la punta di Calabria. Principiò il tre scewâl (12 ottobre), fornì in nove giorni il passaggio dello stretto; occupò a prima giunta Messina; afforzolla con fossati, e risarcì le mura.[592] Intanto altri stuoli, recati al certo dall'armata, si mostravano per le costiere di settentrione e di levante; prendeano nell'una Termini d'assalto, ed era bene per tagliare gli aiuti di Hasan; nell'altra vanamente sparpagliavansi tra Taormina, Lentini e Siracusa, delle quali ebber le prime due di [264] queto, la terza per battaglia.[593] Cotest'errore di allontanar troppa gente da Messina, pianta della guerra, e la mala disciplina de' soldati, non isfuggirono agli ansiosi cristiani di Sicilia. Ci si narra che Prassinachio, uom di specchiate virtù, che s'era posto in un romitaggio in su lo Stretto ed era tenuto lucidissimo tra i “veggenti in Dio”[594] del paese, avesse presagito la sconfitta al cappellano maggiore bizantino; il quale non s'aspettava altro da quella marmaglia armata[595] che gli avean dato in guardia.

Mentre Niceta guazzava per trecento miglia di costiere col grosso del navilio, Manuele Foca s'avviluppò col grosso de' cavalli tra i precipizii dei monti Nettunii, per dare aiuto a Rametta. La quale, a guardarla in su la carta, è vicina a nove miglia a Messina;[596] ma vi si frappone erto il Dinnamare, che guarda entrambe le acque del Ionio e del Tirreno e dalla cima sovrasta a quelle per tremila trecento piedi. Pertanto chi cavalchi da Messina a Rametta, dèe prender lungo giro intorno la montagna per settentrione e ponente [265] infino a Spadafora, o per mezzogiorno infino a Mili, e risalir dall'una o dall'altra per le convalli; delle quali strade la prima corre ventiquattro miglia, l'altra più di trenta. Sboccano in una pianura ritonda di tre o quattro miglia di diametro; in mezzo alla quale spiccasi in alto una collina o piuttosto immane masso, che vi si poggia per un sol viottolo aspro e faticoso di mezzo miglio; e la cima disuguale è tutta coronata di mura. Quest'è Rametta. Il piano d'intorno sembra l'arena di un circo apparecchiato ad eserciti per duellare a ultimo sangue. Gli fan chiostra scoscese e spaventevoli coste, fendendosi quanto basti ad aprir la via per settentrione a Spadafora, per mezzogiorno a Mili; e un'altra gola verso ponente conduce a Monforte. Dal lato orientale taglia la pianura un burrone tirato quasi a filo per parecchie miglia da mezzodì a tramontana: profondo squarcio di terreno siliceo, targo, precipitoso; e all'imo fondo è talvolta stagliato come fosso di fortezza, che non dà via a calarvi. Così lo descrivono i cronisti arabi; e mel confermavan uomini pratichi dei luoghi, dai quali seppi quant'io ne ho scritto. Delle tre gole fanno anco menzione gli Arabi, ma danno il nome di quelle sole di Mikos e Demona; nell'una delle quali oggi mette capo la via di Mili e nell'altra la via di Monforte. E s'addimandavan così da due fortezze molto importanti in quel tempo; onde già ci è occorso di farne parola.[597]

[266] Aveva Ibn-'Ammâr dato avviso dello sbarco ad Ahmed: e questi incontanente mosse di Palermo;[598] ma non potè giungere avanti Manuele, il quale, non prima raccolte le genti a Messina, le menò in furia a Rametta, la notte innanzi il quindici scewâl (24 ottobre). Mandò una schiera a tentare il passo di Mikos, un'altra quel di Demona, una terza a intercettare gli aiuti su la strada di Palermo: egli, con l'esercito spartito in sei schiere, seguì la marina fino a Spadafora; indi poggiò alla volta di Rametta. E quivi Ibn-'Ammâr avea dovuto scemarsi anco di tre schiere per chiudere i passi di Mikos e Demona, e fronteggiare gli assediati, se tentassero la sortita. Altro non gli rimanea dunque che un buon nodo, tutto o la più parte d'Arabi Siciliani; col quale si fece incontro a Manuele. All'alba appiccarono la zuffa.[599]

Al fragore non si stettero i cittadin di Rametta che non facessero impeto nello stuolo musulmano messo in guardia; il quale li ricacciò dentro le mura. Con uguale fortuna que' che teneano i passi di mezzogiorno e di ponente respinsero i Bizantini.[600] Ma gli Arabi che si erano travagliati lunga pezza contro Manuele con grande strage del nemico e loro, imberciati nella stretta serra, com'è sembra, dai tiri delle macchine, [267] cominciarono a ritrarsi negli alloggiamenti:[601] e i Cristiani ad incalzarli, ad irrompere nella pianura, a circondare il campo: se li abbiamo cacciati dal passo, che faranno or che li tenghiamo in mezzo e lor togliamo l'aria da respirare? E per troppa certezza della vittoria par si fossero disordinati i Bizantini. Gli altri, certissimi ed ormai bramosi della morte,[602] voglion finirla a un tratto; intonano i versi dell'antico poeta arabo:

“Indietreggiai per amor della vita; ma vita, ah, non sento in petto se non ripiglio l'assalto!

“Che le ferite del codardo gli tingano le calcagna. A noi le ferite piovon sangue su la punta del piè.”[603]

E s'avventano con Ibn-'Ammâr: la misura del verso li unì in un sol impeto da farsi far largo. Il capitano, visto che in vece di morire si può vincer tuttavia, grida a tutto fiato: “Oh Dio, se m'abbandonano i figli d'Adamo non mi lasciar tu:” e diè un'altra carica, che scompigliò i nemici; e invano lor patrizii [268] fecero prova a rattestarli con le parole e coll'esempio. Manuele spronava nella mischia con un'eletta di cavalli; rinfacciava a' suoi che si fossero millantati tanto coll'imperatore ed or fuggissero dinanzi un pugno di barbari. Ferì in questo dire tra i Musulmani; uccise di sua mano un uomo; e si trovò avviluppato, picchiato di lance d'ogni banda; ma non passavano la grave armadura. Tirano dunque al cavallo, chi di punta, chi di taglio a' garretti; caduto a terra col suo signore gli si abbaruffano addosso Arabi e Greci; alfine fu spacciato Manuele e chi l'aiutò. Gli altri si sbaragliarono. Era tra mezzodì e vespro.[604] Il grosso degli Arabi eran fanti, come si vede nell'episodio di Manuele che terminò la battaglia.

Durò la caccia, la fuga, la carnificina infino a notte. A compier l'epico terrore del caso,[605] un negro nembo che ottenebrava quella chiostra di monti, scoppiando a folgori e tuoni quando fu decisa la giornata, incrudelì sopra i fuggenti, accrescendo i pericoli degli ignoti e rotti luoghi. Uno squadrone messosi a briglia sciolta giù pel burrato, precipitò nella fossa; che la colmaron uomini e cavalli, e i vincitori passaronvi su di galoppo, dicono i loro annali, nè par mica impossibile. D'ogni lato, pe' greppi e per le boscaglie, inseguirono gli spicciolati, li scannarono quanto loro bastavan le forze a ferire: pochi patrizii o altri uomini [269] di nota fatti prigioni, per avarizia del riscatto. Pochissimi camparono fuggendo. Più di diecimila i morti; bottino infinito di cavalli, robe, armi; tra le quali si trovò una spada ch'era passata dai Musulmani ai Cristiani in Oriente, e quella riebbero nel sanguinoso campo di Rametta. Su la quale era inciso in caratteri arabici: “Indiano è questo brando; pesa censettanta mithkâl; e molto ferì dinanzi l'apostol di Dio.” Cotesta reliquia delle prime guerre dell'islam era mandata poscia a Moezz con altre preziose armi e piastre e maglie;[606] aggiuntovi una resta di capi mozzi e dugento prigioni barbari, dice una cronica,[607] che sembran degli Armeni o dei Russi.

Ma come i trofei erano recati in Palermo, uscito all'incontro l'emiro Hasan, fu commosso, dice Ibn-Khaldûn, di tanta e sì improvvisa gioia che gli scoppiò [270] una febbre maligna; della quale morì, del mese di novembre, a cinquantatrè anni.[608] Tacciono tal drammatica infermità gli altri annalisti: onde potè per avventura immaginarsela quell'ardito e primo scrittor della Scienza Nuova,[609] cercando sempre dentro la storia medesima la cagione del fatto la quale spesse volte si trova fuori. Fu pianto da tutti Hasan, valoroso, savio, fondator d'una dinastia e però maculato dei vizii del mestiere, che poi spariscono nel baglior d'una corona.

I martiri di Rametta intanto bevvero infino all'ultima stilla il calice amaro che la fortuna porgeva insieme con lor santa corona. Tennero il fermo dopo la sconfitta dei Greci; ma lo stremo delle vittuaglie li sforzò a mandar via le bocche inutili: mille della povera gente, com'e' sembra, tra vecchi, donne e fanciulli. Ibn-'Ammâr, in vece di rispingerli nella fortezza e affrettar la dedizione di quella, li accolse e mandò in Palermo; ma fu crudo coi rimagnenti. Fatti pelle ed ossa, tuttavia combattevano, entrato già il novecensessantacinque; quando un giorno Ibn-'Ammâr apparecchia le scale, dà l'assalto, lo protrae fino a notte; e allora una mano dei suoi salì su le agognate mura di Rametta. Passati a fil di spada gli uomini; menate in cattività le donne, i fanciulli; saccheggiata la città, e fattovi grande bottino. Partendosi dopo un anno e mezzo da' selvaggi luoghi illustrati con tanto [271] sangue, Ibn-'Ammâr lasciò nella rôcca presidio e abitatori musulmani.[610]

In questo mezzo Ahmed guadagnava una battaglia navale. Saputa la rotta di Manuele mentr'ei si affrettava marciando sopra Rametta,[611] tirò dritto, com'ei pare, a Messina[612] per cavar la voglia d'un novello sbarco ai Bizantini che s'eran messi in salvo a Reggio. Seguiron poi in Sicilia tanti altri scontri,[613] non sappiamo i luoghi; e d'un solo il nome del capitan bizantino, il maestro Essaconte, il quale fu sconfitto con grande strage.[614] Donde è manifesto che i Musulmani ripigliavano ad una ad una le terre occupate; mentre il navilio greco pigramente stava lì a Reggio per raccorre i presidii. Ahmed si pose alla vedetta a Messina con quante forze potè. Quando l'armata nemica sciolse le vele per Costantinopoli, risolutamente ei l'assalì; con tanta disparità di preparamenti navali, che i Musulmani gittaronsi talvolta a nuoto per appiccare il fuoco ai legni nemici.[615] Aspro e lungo indi il [272] combattimento, che ne rosseggiò il mar di sangue, scrivono gli Arabi[616] in metafora, e può passare. Compiuta fu lor vittoria nella battaglia dello Stretto, come la chiamarono. Affondate, arse o prese tutte le navi bizantine; fatto grandissimo numero di prigioni, con cento patrizii e mille altri nobili, se la non è metafora aritmetica d'Ibn-Khaldûn. Il bottino e i prigioni erano recati in Palermo.[617] Tra gli altri l'eunuco ammiraglio, il quale fu mandato a Moezz, e dimorò due anni a Mehdia[618] in comoda prigione, ingannando il tempo a copiar le omelie di San Basilio e qualche altro pio testo greco, in più di dugento fogli di pergamena: bel volume ch'è adesso nella Biblioteca di Parigi, soscritto con data e nome e titoli e donazione a una chiesa di Costantinopoli, condotto dal principio alla fine con mano uguale e ferma, di buon calligrafo, rubriche ad oro e colori, larghi margini e puliti, colonne e righi tirati a squadra e compasso, che Temistocle e Archimede avrebbero potuto invidiare tant'arte a Niceta.[619] Ahmed, toltosi costui dinanzi, spingea le gualdane contro le città greche, com'io credo, di Calabria; le quali, visto depredati i contadi e intercetti i commerci, [273] altro partito non ebbero che di far la tregua, pagando tributo ai vincitori.[620] Questo fine sortì la impresa di Niceforo Foca.[621]

[274]

CAPITOLO IV.

Due anni dopo le raccontate vittorie, correndo il trecencinquantasei (16 dic. 966, 5 dic. 967) Moezz significò all'emir di Sicilia la pace fermata con l'Impero, e gli ingiunse di riattare, meglio oggi che domani, dicea lo scritto, le mura e fortificazioni di Palermo; ordinare in ogni iklîm dell'isola una munita città che avesse moschea giami' e pulpito; e ridurvi la gente dell'iklîm, vietandole di soggiornare sparsa pei villaggi. Ahmed fece metter mano immantinenti ai lavori in Palermo, e mandò per tutta l'isola sceikhi preposti ad inurbare le province. Tanto e non più una cronica musulmana.[622] Ed Ibn-Haukal, venuto in Palermo sei anni appresso, ammirava le forti muraglie del Cassaro e della Khâlesa; e intendea come delle nove porte del Cassaro tre fossero state innalzate da Ahmed, una delle quali tramutata da debole a difendevol sito.[623] Delle città ristorate oltre la capitale nulla sappiam di certo.[624] Ma più monta indagare l'ordine [275] militare ed amministrativo accennati sì laconicamente dal cronista. Ed a ciò ne proveremo; e direm poi della pace.

La prima cosa è da vedere che valga qui iklîm; la qual voce gli Arabi tolsero del greco, al par di noi;[625] le serbarono il significato che aveva in geografia fisica; e v'aggiunser quello di circoscrizione territoriale. Così la troviamo in Affrica nel decimo secolo,[626] in Sicilia nel duodecimo[627] e in Egitto nel decimoquarto;[628] dinotando per lo più quel tratto mezzano di paese ch'oggi chiameremmo distretto, o cantone: nè altro vuol dire al certo in questo rescritto di Moezz. La moschea giami' e il pulpito non portano a supporre più vasto l'iklîm; ma solo che il capoluogo fosse città importante, da farvisi la prece pubblica del venerdì.

[276] Ma la gente[629] che si dovea dai villaggi ridurre nei capoluoghi, non poteva essere l'universale degli abitatori: cristiani o musulmani; liberi, dsimmi o schiavi; nobili e plebei. Poco men assurdo sarebbe a intender tutti i Musulmani, non esclusi i contadini, chè al certo ve n'erano in Val di Mazara; e quanto agli artefici e mercatanti, non occorrea comando del principe perchè soggiornassero nelle città. Però trattavasi della sola milizia, dei nobili cioè con lor lunghe parentele; e chi altro era tenuto gente nel medio evo, fosse in Cristianità o in terra d'islâm? Ignoriam noi se nel Val di Mazara, conquistato ormai da un secolo, le milizie fossero pagate dall'erario in moneta sonante, ovvero con iktâ', o vogliam dire delegazioni, sul kharâg di un dato territorio, che riscuotessero con lor proprie mani,[630] stanziando qua e là nelle ville. Ma ciò seguiva necessariamente in Val Demone e Val di Noto, per la fresca mutazione del tributo dei municipii, in gezîa degli individui e kharâg dei poderi; mancando il tempo di stendere i ruoli e i catasti, secondo i quali l'azienda pubblica riscuotesse il danaro o il frumento del kharâg. E però non si eran fatti nè anco iktâ' in buona forma; ma nulla toglie che le milizie, con partaggio provvisionale e tumultuario assentito o non assentito dall'emir Ahmed, avessero diviso tra loro alla grossa le entrate mal note delle nuove province, e si fossero [277] sparse nelle campagne, esattori a libito e pagatori di sè medesimi. La qual rapina permanente rovinava i sudditi cristiani, snervava lo Stato musulmano, per le sciupate rendite presenti, la inaridita sorgente di quelle avvenire e la sciolta disciplina militare. A cotesti danni volle ovviare Moezz, forse in Val di Mazara, di certo nella Sicilia orientale, con l'ordinamento novello; per lo quale par fosse affidata a magistrati civili la riscossione, e deputati gli stessi o altri oficiali in ciascun capoluogo a vegliare i governati, e significar loro la parola del principe; il che si facea d'ordinario nella khotba, e però dal pulpito, nella moschea giami'.[631] Quali fossero allora i nomi e limiti degli iklîm di Sicilia, e se mere circoscrizioni militari, o anco di azienda, nessun ricordo di quel tempo cel dice; nè vi si può supplire con induzioni. Sol dobbiamo supporre che gli iklîm fossero stati adattati ai corpi del giund, non questi a quelli: perocchè, eccettuati gli stanziali, le altre milizie facean corpo secondo le parentele, nè agevolmente si potea dividere un corpo, nè tranquillamente tenerne insieme due o più di schiatte diverse. Da questo e dalla diversità delle entrate pubbliche sopra territorii uguali in superficie,[632] nascea la disuguaglianza grandissima di estensione degli iklîm, che si nota in varii Stati musulmani; e che durava in Sicilia infino al duodecimo secolo.[633]

[278] La pace parve tempo opportuno a tale riforma d'amministrazione militare; o forse nelle pratiche della pace l'avea chiesta il governo bizantino, per temperare coi consigli i mali dei Cristiani di Sicilia, che non avea saputo prevenire con le armi e che non poteva ignorare, nè farne le viste coi frati e il clero di Sicilia. I quali consigli, utili anco al principe musulmano, più gratamente doveano essere ascoltati nella stretta amistà che allor nacque tra le corti di Costantinopoli e di Mehdia da comuni interessi. L'uno era il sospetto di Otone di Sassonia, il quale volle regnare in Italia quanto Carlomagno e più: ubbidito ormai senza contrasto dalle Alpi al Tevere; coronato imperatore a Roma (962); padrone della città; fattosi giudice a gastigare o vendicare i papi, ed arbitro di eleggerli e deporli; e si voltava già ai favori del principe di Benevento e contro Niceforo; assaltava (968) la Calabria, e minacciava però la Sicilia.[634] Ma in Oriente stringea Moezz a Niceforo, passione più gagliarda, la brama di spogliare altrui. Il califato abbassida, mutilo da più tempo delle estreme province, comandava or appena, e di nome solo, a Bagdad e in breve cerchio. I Buidi o Boweidi teneano la Persia; la casa di Hamdân la Mesopotamia; la dinastia d'Ikhscid la Siria e l'Egitto; i Karmati l'Arabia, donde terribili [279] irrompeano fuori. Lo stesso nome di califo rimanea per ipocrisia o compassione dei vicini usurpatori, dei ministri o capitani di ventura avvicendatisi nella signoria della capitale, i quali vendettero gli oficii pubblici in faccia ai successori di Omar e di Harûn Rascîd, saccheggiarono la reggia, messer loro le mani addosso, lor fecero stentare la vita con una pensioncella; mentre i mercenarii turchi o deilemiti e la plebe ad ogni piè sospinto insanguinavano le strade di Bagdad. Tra tanta rovina del califato, Niceforo Foca (962-7) trionfando nell'Asia Minore, s'era innoltrato due volte in Siria; avea preso Aleppo, Laodicea e molti altri luoghi, e assediato Antiochia, che fu indi espugnata da' suoi.[635] Venuto così Niceforo alle mani con gli Ikhsciditi, nemici immediati di Moezz, probabil è che si trattasse tra l'uno e l'altro di operare d'accordo.

Tanto più che Moezz ebbe con un ambasciatore bizantino quella famigliarità che sovente nasce tra svegliati ingegni. Costui chiamossi Niccolò, mandatogli più volte da Costantinopoli a Mehdia ed al Cairo;[636] forse il medesimo che stipulò la detta pace del novecensessantasette, recati a Moezz splendidi doni di Niceforo, e avutone per riscatto o in cortesia l'eunuco Niceta.[637] L'ambasciatore, sostato per viaggio in [280] Sicilia, andava misurando la possanza fatemita: accolto onorevolmente dal governatore dell'isola, e notato il bell'aspetto dell'esercito; viste poscia a Susa le grosse schiere che v'erano apparecchiate. Ma a Mehdia il greco si facea strada a stento nella calca dei soldati, famigliari e cortigiani, finchè, entrato nella reggia, uno splendore lo abbagliò: e condotto a Moezz che sedea maestosamente sul trono, gli parve proprio il Creatore del mondo, non uomo mortale; che se si fosse vantato di salir su in cielo gli avrebbe risposto: “è incredibile, ma tu lo farai.” Tanto si dice che confessasse Niccolò, pochi anni dopo, al principe medesimo, il quale, chiamatolo in segreto nella reggia del Cairo, gli avea domandato: “Ti sovviene del tal dì ch'io ti prediceva in Mehdia saresti venuto a salutarmi re in Egitto?” — “È vero,” rispose; e Moezz: “Ci ritroveremo adesso a Bagdad; tu ambasciatore, ed io califo.” Ma il Greco stiè zitto; e, sforzato da Moezz, gli fe' quel racconto della luce sfolgorante di Mehdia e che adesso vedea negra di tenebre la capitale, e ammorzata nella sua faccia quella terribile maestà; donde giudicava rovesciata e sinistra la fortuna. Moezz abbassò gli occhi tacendo; s'ammalò; e non guari dopo morì (975). Che che sia di cotesto dialogo, il quale non disconviene a due adetti d'astrologia del decimo secolo, si accetteranno i particolari della prima ambasceria che fanno all'argomento nostro: la condizione cioè dell'esercito siciliano; e che Moezz volentieri [281] ragionasse di sue ambizioni orientali coi legati di Costantinopoli.[638]

Già le guerre di Niceforo e le irruzioni dei Karmati in Siria batteano la dinastia turca, fondata in Egitto da Ikhscid, capitano degli Abbassidi, il quale avea occupato la provincia commessagli e l'avea lasciata a' suoi. Venuto a morte (maggio 968) il loro liberto Kafûr che tenne con man ferma lo Stato, succedettegli di nome un Ahmed, nipote d'Ikhscid, fanciullo di undici anni, e di fatto un reggente e due ministri i quali si sfamarono in rapine e soprusi. Indi tumultuavano le soldatesche; i cittadini malcontenti prestavano orecchio alle pratiche di Moezz; e un sensale giudeo di Bagdad, che s'era fatto musulmano e straricco e strumento necessario dell'azienda d'Egitto, visto che i nuovi signori stendesser le mani a pelarlo, si rifuggì appo il Fatemita; gli svelò le condizioni del paese e le vie di insignorirsene. La pestilenza e la carestia che in quel tempo desolavan orribilmente l'Egitto, aiutarono al precipizio.[639]

Moezz ebbe sapienza e genio di amministrazione, di che solea trar vanto. Narrasi che una volta, per sermonare i grandi della vezzeggiata e temuta tribù di Kotama, si fece trovare in farsetto, nel suo [282] studio, tra libri e dispacci: “Ed ecco,” lor disse, “com'io spendo i giorni a far di mia mano il carteggio con l'Oriente e l'Occidente, in vece di sedere a desco profumato di muschio, vestito di sete e pellicce, a sbevazzare al suono di strumenti musicali e canto di belle giovani! Chi mai in questo popolo crederebbe che il principe è serrato in camera a procacciare la sicurezza e prosperità del paese e il trionfo vostro su i nemici?” E finì con ricordar loro, da moralista e da medico, tutte le virtù, anche di star contenti a una moglie; promettendo che, s'e' lo ascoltassero, così conquisterebbero i paesi orientali, com'avean fatto del Ponente.[640] E con ciò a consultare gli astrologi e più sovente le spie; tenere mandatarii con le man piene d'oro nei paesi agognati; e biechi bargelli su le popolazioni arabiche d'Affrica. Ond'ei parrebbe a legger di Filippo secondo di Spagna, se nei costumi di Moezz si notasse fanatismo ed ipocrisia, anzichè un animo generoso e un colto ingegno, vago di poesia, vivace e facondo, pratico in varie lingue; il berbero, il negro e lo slavo.[641] Del rimanente uom di stato non ordinò mai vasto disegno con maggior arte, ch'egli il conquisto d'Egitto. Oltre le dette pratiche, si procacciava séguito nelle due città sante dell'Arabia; si assicurava in Affrica; accumulava tesori; ordinava gli eserciti; e cercava, per mandarli ai conquisto, un gran capitano senz'ambizione.

Lo trovò o lo fece egli stesso: un Siciliano di schiatta cristiana,[642] Giawher, che suona “'gioiello;” se [283] pur questo non è il vocabolo arabico raddolcito dalla nostra pronunzia. Figliuolo d'un Abd-Allah, che pare schiavo rinnegato, Giawher fu comperato da un eunuco affricano, rivenduto a un secondo e da questi a un altro; il quale ne fece dono al califo fatemita Mansûr.[643] Messolo a lavorar coi segretarii, Mansur poi l'affrancò; donde entrava, secondo legge musulmana, nella famiglia. Era giovane di bello aspetto, lodevoli costumi, pronto ingegno, affaticante, vigilante, sennato scrittore e pulito, chè ne resta di lui l'editto della sicurtà data al popolo egiziano; e molto amò la poesia e le lettere, protesse cui le coltivasse, e salito a potenza fu largo coi poeti. Moezz, sperimentatolo in varii oficii pubblici, lo fece vizir; poi si consigliò di mandarlo (958) con un esercito di Berberi a ridurre le province occidentali d'Affrica, di cui alcuna s'accostava agli Omeîadi di Spagna: e Giawher in men di due anni occupava per molti combattimenti l'odierno Stato di Marocco; mandava a Moezz i pesci [284] e le alghe presi nell'Atlantico, e gli recava egli stesso in gabbie di ferro i principi di Segelmessa e di Fez. Però, deliberata, dopo la morte di Kafûr, l'impresa d'Egitto, Moezz la commetteva al liberto siciliano; provvedeva con esso lui ad ogni cosa, fatti financo scavar pozzi nel deserto di Barca su la strada che dovea battere l'esercito da Sort a Faiûm. Giawher s'infermò a morte in questo tempo; e il califo a visitarlo ed assisterlo; e sicuro dicea: “Non morrà, poichè mi dèe conquistare l'Egitto.”[644]

All'entrar di febbraio del novecensessantanove, ragunate le genti nei piani di Rakkâda per muovere all'impresa, apparve più brutta che mai l'uguaglianza del dispotismo. Giawher smontava di sella, baciava la mano di Moezz e l'unghia del pontifical palafreno; e alla sua volta, cavalcando con l'esercito, si vedea camminar dinanzi a piè, per comando del califo, i costui figliuoli e congiunti, non che i grandi del regno. I centomila uomini che gli danno i cronisti, significano che fu possente l'esercito; i cameli carichi d'oro gittato in forma di macine, simboleggiano, a mo' delle Mille ed una notte, il provvedimento necessario a chi andava a combattere in paese affamato, con giunta d'infinite barche stivate di grano che seguivano l'armata alle bocche del Nilo. Nei primi di giugno, non lungi da Fostat, sede del governo, Giawher [285] fermava un accordo coi principali cittadini;[645] concedendo a tutto il popol d'Egitto la sicurtà della vita, sostanze e famiglie, a nome del califo; il quale, mosso a pietà del paese, avea mandato sue armi invitte a liberarli dai ladroni e dagli empii e farvi rifiorir la giustizia. Scendendo alle realtà, promettea di rilasciare le indebite esazioni del fisco su i retaggi; fornir le spese necessarie alle moschee; rispettare le opinioni religiose,[646] e i giudizii secondo l'usanza del paese, non contraria al Corano nè alla sunna; e mantenere i dritti dei dsimmi.[647] Si recò allora in parti la città; chi sdegnava l'accordo uscì a combattere e fu rotto; il vincitore, confermati saviamente i patti, entrava a Fostat nei primi di luglio. Altro non mutò dei riti che il nome del principe nella Khotba, l'appello alle preghiere, e il color delle vestimenta degli oficiali pubblici, di nero in bianco. Provvide all'azienda da uom del mestiere; pose in ogni uficio un egiziano e un affricano; amministrò rettamente la giustizia; e con rara modestia esercitò il pien potere commessogli.[648] Piantato il campo presso Fostat, disegnovvi la novella capitale, la Kâhira, ossia trionfatrice; [286] e diè mano immantinente a edificarla.[649] Quivi innalzò la moschea Azahr, che fu compiuta entro due anni; nella quale il fondatore volle tramandare ai posteri il nome della patria siciliana e dell'oficio ch'era stato principio di sua grandezza.[650] Assicurò il conquisto reprimendo chi si levasse nelle province; e dando una memorabile sconfitta (971) ai Karmati, che vennero ad assalirlo al Cairo.[651]

Intanto il nome di Moezz era gridato alla Mecca e Medina; capitani minori mandati da Giawher gli acquistavano parte di Siria;[652] non ostante i Karmati, o forse per la paura che avean di loro i Musulmani, parea che i popoli da Suez all'Eufrate volesserlo riconoscere signore. Onde Giawher tanto insistè, che il trasse a trasferir la sede in Egitto; il che se non bastò a dare ai Fatemiti l'ambito impero musulmano, fece durar due secoli la dinastia, la quale, rimasa in Affrica, sarebbe stata spiantata di corto. La prodigiosa fertilità dell'Egitto; la postura che ne fa scala del commercio tra l'Oriente e l'Occidente; la popolazione gran parte cristiana, docile o servile e attaccata al suolo, offrian salda base a una dominazione reggentesi sugli ordini dell'azienda, d'una setta e d'una tribù berbera, non su popolo ed armi di sua propria nazione: oltrechè i padroni d'Egitto, per necessità [287] geografica, comandaron sempre alla Siria e tennero le chiavi dell'Arabia occidentale. In Affrica, al contrario, i Fatemiti non avean potuto vincere la nimistà dei cittadini arabi in sessant'anni di terrore e di sferza,[653] non spegnere l'antagonismo del sangue berbero racceso dalle sètte kharegite; e mentre e' conquistavan l'Egitto, erano necessitati raccomandarsi alla tribù di Sanhâgia per reprimere un altro ribelle che seguía le orme di Abu-Iezîd.[654] Nè Sanhâgia, condotta dalla famiglia zîrita, lor prestava le armi con sì cieca lealtà da far serva sè stessa. Nè i Kotamii soffrivano che il califo comandasse in casa loro:[655] nè d'altronde bastavano a tener l'Affrica, facendo insieme da pretoriani in Egitto e un pugno anco in Sicilia.

Moezz si deliberò dunque a sgomberare d'Affrica per sempre, recando seco arredi, tesori, armerie e fin le ossa degli avi. Partì d'agosto novecensettantadue; sostato alquanto a Sardegna, villa d'Affrica che par abbia preso il nome dai Sardi che vi soggiornarono,[656] con magnifica lentezza entrò al Cairo di giugno [288] novecensettantatrè; assestò le cose pubbliche con Giawher; poi messe da canto l'illustre liberto, il quale morì il novantadue; e il suo figliuolo Hosein, generalissimo del nipote di Moezz, fu ucciso da quello a tradimento.[657]

Di rado ci occorrerà ormai di tornare alla storia dell'Egitto; e di Moezz, basterà aggiugnere gli ordini politici lasciati nelle antiche province. Presto ei depose, se pur l'ebbe mai, il pensiero di commettere l'Affrica a un Arabo di nobil sangue, il quale, non sarebbe stato contento a picciola autorità; nè bastante a tenere il paese coi coloni arabi contumaci.[658] Si volse pertanto ai Berberi, alla tribù di Sanhâgia, alla famiglia zîrita, al capo Bolukkîn, e, per arabizzarlo, gli diè nome di Iûsuf-abu-l-Fotûh e titolo di Seif-ed-dawla, ossia Spada dell'impero. Il quale gli avea prestato mano forte contro i ribelli, come il padre al padre di lui; e sapea bene Moezz, che, non lasciandolo governatore, quei si potea far principe.[659] Bolukkîn, che il sapeva anco, non si dolse che gli scemassero l'impaccio del governo civile: che Moezz eleggesse i cadi, e qualche capo di milizia;[660] che un consiglio degli oficiali pubblici trattasse la somma degli affari ed egli facesse eseguire le [289] deliberazioni.[661] Assentì anco a più duro taglio: che fosse posto da Moezz un direttore sul kharâg, ed un su le tasse diverse, entrambi mezzo independenti dal governo d'Affrica;[662] i quali lungo tempo mandarono moneta in Egitto.[663] Ond'era proprio quel governo bipartito che la dinastia volle porre in Sicilia e non le venne fatto. Nè Moezz si promettea di perpetua obbedienza da Bolukkîn;[664] ma, come fan sovente gli uomini di stato, fruiva del comodo oggi e rimetteva al domani le cure del pericolo che non si potea cansare.

Assestata così l'Affrica fatemita con un vicerè [290] che comandasse dalle rive occidentali del golfo di Cabès fin dove potesse verso l'Atlantico, il cauto Moezz eccettuò Tripoli, Adgâbîa e Sort a mezzogiorno del golfo; commettendole ad altre mani, per aver libero il passaggio dall'Egitto, se mai venisse in capo a Bolukkîn di tentar novità. Eccettuò anche la Sicilia, data da tanti anni e testè confermata ai Beni-abi-Hosein di Kelb.[665]

CAPITOLO V.

Moezz volle anco far prova a raccogliersi in mano il fren della Sicilia. Del trecencinquantotto (24 nov. 968, 12 nov. 969), mentre Giawher era in su le mosse per l'Egitto, si notò che, giunto in Mehdia un oratore bizantino con ricchi presenti, il califo comandava di smantellare Taormina e Rametta, ristorate poc'anzi. Il che fu sì grave ai Musulmani dell'isola[666] che l'appiccarono a consiglio degli Infedeli: come l'odio pubblico lascia sovente le giuste accuse, e va a trovare le più assurde. L'emiro Ahmed, temendo peggio che parole, mandovvi con genti il fratello Abu-l-Kasem e lo zio Gia'far; i quali, accampatisi tra le due città, le fecero diroccare ed ardere.[667] Era il preludio d'un colpo di stato; perchè [291] Moezz lo stesso anno richiamò in Affrica Ahmed con tutti i suoi,[668] il quale volentieri ubbidì. Ei fu preposto al navilio,[669] ed il cugino Ibn-'Ammâr ad una schiera che si dovea mandare di rinforzo a Giawher;[670] Mohammed, fratello d'Ahmed, rimase a corte finch'ei visse, fidato e caro a Moezz sopra ogni altro amico.[671] Manifesto egli è dunque che ai Beni-abi-Hosein fu promesso alto stato appo il califo in Affrica o in Egitto; e che Taormina e Rametta furono spiantate perchè le tenean gli Arabi Siciliani, i quali era mestieri disarmare pria di offenderli. Ahmed se ne andava dopo sedici anni e nove mesi di governo, in su la fine del trecencinquattotto (ottobre o nov. 969). Fece uno sgombero di casa: figliuoli, fratelli, congiunti, famigliari, clientela, ricchezze, arredi, quanto si potea portar via; caricatone trenta navi salpò l'emiro per Mehdia. Lasciò un solo liberto del padre, per nome Ia'isc; al quale Moezz commise il reggimento della Sicilia.[672]

[292] Ma le tribù, leggiamo, assembrate nell'arsenale vennero a contesa coi liberti di Kotama, li combatterono e ne fecero strage.[673] Le tribù di certo significano i corpi del giund d'arabi siciliani, ordinati secondo loro schiatte. Liberti di Kotama, di certo gli stranieri Negri, Slavi, Berberi e d'altre tribù, e fors'anco rinnegati cristiani di Sicilia o di Terraferma, che i capi di Kotama aveano manomessi ed armati per rinforzar loro squadre, troppo poche ormai ai bisogni della dinastia. Nè parmi abusare il dritto d'interpretazione se aggiungo che il giund siciliano sì fieramente nimicasse i liberti di Kotama per cagione del fei, creduto suo proprio retaggio, del quale vedea partecipare quegli usciti di schiavitù; e forse lor erano stati concessi gli stipendii ricaduti per la partenza dei Kelbiti. Il tumulto par che fosse seguíto allo scorcio del novecensessantanove.[674] L'arsenal di Palermo sendo posto nella Khalesa,[675] e' si vede che [293] Ia'isc, perduti i suoi sgherri entro la stessa cittadella, non ebbe difesa contro i sollevati.

Com'avvenne sempre in Sicilia, il fuoco di Palermo si appigliò subito alle altre città: ammazzati nelle parti[676] di Siracusa i liberti kotamii; subbugli e zuffe per tutta l'isola; rotto il freno alle nimistà: indarno Ia'isc cercò di racchetare gli animi, sospetto com'egli era, senz'armi nè séguito, onde niuno lo ascoltò. Le milizie trascorsero a rapine e violenze sopra i terrazzani;[677] dettero addosso alle città cristiane assicurate:[678] difendendo lor proprii dritti, non ebbero rispetto agli altrui. La forza fatta ai Cristiani mostra che in fondo si dolessero della distribuzione del fei, e che pretendessero riparare l'ingiustizia prendendoselo dassè. Moezz, risaputo cotesto scompiglio quando forse non era spenta la ribellione della tribù di Zenata in Affrica,[679] ed i Karmati gli minacciavano il recente conquisto d'Egitto, non si ostinò contro i Siciliani. Deposto Ia'isc, mandò nell'isola Abu-l-Kasem-Ali-ibn-Hasan, con grado di vicario del fratello Ahmed; per dar a vedere che non avesse mai pensato a mutare nè gli ordini nè gli uomini. Al cui arrivo, che seguì il quindici scia'bân del cinquantanove (22 giugno [294] 970), posarono i tumulti; la colonia lietissima l'accolse e docile gli ubbidì.[680]

Entro pochi mesi Ahmed, veleggiando con l'armata affricana alla volta d'Egitto, s'infermava a Tripoli, dove di corto morì. E in novembre del novecensettanta Moezz scriveva insieme ad Abu-l-Kasem lettere di condoglianza per la morte del fratello e il diploma d'investitura ad emir di Sicilia.[681] Lo stato si rassodò nelle mani di quel giusto e generoso.[682]

Capitò in questo tempo (972-73) in Palermo Abu-l-Kasem-Mohammed-ibn-Haukal che ci ha lasciato una descrizione della città.[683] Ibn-Haukal nato a [295] Bagdad in mezzo all'anarchia pontificale, viaggiò trent'anni (943-76) per genio di studiare i paesi e gli uomini, e bisogno di mercatare; percorse la più parte degli stati musulmani, dall'Indo alle spiagge settentrionali d'Affrica;[684] e s'ei non passò in Spagna, toccò pure la terraferma italiana a Napoli, dove traean per loro traffichi i Musulmani d'ogni parte del Mediterraneo.[685] La geografia d'Ibn-Haukal, compilata in parte su gli altrui scritti ed in parte sul taccuino di viaggio, pecca al solito di preoccupazioni, giudizii precipitosi, fatti facilmente creduti all'altrui ignoranza o passione: opera d'ingegno non esercitato in scienze nè lettere; pur v'ha un tal senno mercantile che dà nel segno discorrendo le cose pubbliche; e se ne cavano genuini ragguagli su gli itinerarii, le usanze, le derrate, le entrate pubbliche e gli ordini amministrativi. Della Sicilia Ibn-Haukal altro non dice, se non essere lunga sette giornate di cammino e larga quattro, tutta abitata e coltivata, montuosa, coperta di rôcche e di fortezze, ed esserne Palermo metropoli e sola città importante per numero di abitatori e fama nel mondo. E di Palermo discorre più e meno del bisogno; tacendo i fatti economici che suol andar notando per paesi anco minori e che son forse perduti con un opuscolo ch'egli intitolò: “I Pregi dei [296] Siciliani,” ovvero con un altro libercolo o capitolo della Geografia, del quale ci è sol rimaso qualche frammento.[686]

La pianta di Palermo, ch'agevolmente si può delineare con questa scorta e coi ricordi archeologici, ritrae le vicende essenziali della Sicilia fin dal conquisto musulmano e la sorte della colonia che si bilanciava tra una virtù e un vizio. Virtù di accentramento e civiltà; vizio di divisione: le schiatte, le classi, le religioni, per mutuo sospetto separate d'animi e di soggiorno; onde ne crescea tanto più la ruggine tra loro. Che se furon tali tutte le metropoli del medio evo, Palermo nè anco serrava i cittadini in un muro e una fossa. Spartivasi, dice Ibn-Haukal, in cinque regioni (hârât); ma poi chiama cittadi[687] due di quelle, come bastionate e vallate ciascuna dassè. L'una, detta Cassaro (Kasr); la vera, ei nota, ed antica Palermo, afforzata d'alte e robuste muraglie di pietra, fiancheggiata di torri, abitata dai mercatanti e dalla nobiltà municipale.[688] L'altra, la Khâlesa, cinta di minor muro, soggiorno del sultano e suoi seguaci, non avea mercati nè fondachi, ma bagni, oficii pubblici, l'arsenale, [297] la prigione. Più popolosa e grossa che le due solenni città del municipio e del governo, la regione non murata detta delli Schiavoni, dava stanza alla marineria ed ai mercatanti stranieri che traeano in Palermo.[689] Eran altresì aperte, e non dissimili l'una dall'altra, le Regioni Nuova e della Moschea, le quali racchiudeano i mercati e le arti: cambiatori, oliandoli, venditori di frumento, droghieri, sarti, armaiuoli, calderai, e via dicendo ciascun mestiere dassè, diviso dal rimanente; se non che i macellai teneano oltre cencinquanta botteghe in città[690] e molte più fuori. Due contrade, ch'Ibn-Haukal intitola regioni senza porle nel novero delle cinque, si addimandavano dei Giudei e di Abu-Himâz. Similmente il Me'sker, che suona Stanza di soldati, par fosse ricinto a parte.[691] I sobborghi che serbavan vestigia dei guasti durati nelle guerre dell'independenza, correano a scirocco frammezzo ai giardini fino all'Oreto, ove si sparpagliavano su la sponda; ed a libeccio salivano dal Me'sker in fila continua fino al villaggio di Baida.[692] La postura delle regioni si ravvisa di leggieri. Il Cassaro [298] in mezzo, in forma di nave che volgesse la prora a tramontana. Come ancorata per traverso, a greco, la Khâlesa; da levante a libeccio la Regione della Moschea, la Regione nuova e il Me'sker: gli Schiavoni, in linea paralella al Cassaro, dal lato di ponente.

Il mare, sì come è manifesto, entrando per una stretta foce che non è punto mutata, disgiungea la Khâlesa dalla estremità settentrionale delli Schiavoni; e imbattendosi nella punta del Cassaro, si fendeva in due bacini o lagune; dei quali su l'occidentale era costruito nelli Schiavoni il porto di commercio; su quel di levante nella Khâlesa, l'arsenale. Se mai nell'antichità le lagune bagnarono tutti i fianchi della città, erano rattratte nel decimo secolo al tronco e ai due bacini; di che resta, dopo novecent'anni, il sol tronco detto la Cala.[693] Perchè scrive Ibn-Haukal che parecchi grossi rivi, ciascuno da far girare due macine, [299] frastagliavano tutto il terreno tra il Cassaro e li Schiavoni; e dove offrian comodo ai mulini, dove si spandeano in laghetti, dove facean paduli che vi crescea la canna persiana o vi si coltivavan piante d'ortaggio.[694] “Tra così fatti luoghi, ei dice, è una fondura coperta del papiro da scrivere, ch'io pensai non venisse altrove che in Egitto, ma qui ne fabbricano cordame per le navi e quel po' di fogli che occorrono al sultano.” E però non sembra inverosimile che sia di Sicilia, anzi che d'Egitto, il gran papiro con lettere arabiche a mo' di marchio di manifattura, sul quale è scritta una bolla di Giovanni ottavo a pro dell'abbadia di Tournus in Francia, data il primo anno di Carlo il Calvo imperatore (875) e serbata nella Biblioteca di Parigi.[695] La pianta egiziana ministra dell'antico sapere, recata forse dai Greci a Siracusa e dagli Arabi in Palermo, crebbevi oziosa fino al secol decimo sesto, quando, prosciugato lo stagno, gli rimase il nome e si chiama anch'oggi il Papireto.

Invece di paduli ed umili culture, la campagna di levante lussureggiava d'orti e giardini da diletto su le sponde dell'Oreto, che s'addimandava [300] Wed-Abbâs, e così infino ai tempi normanni e svevi;[696] ma oggi ha ripigliato il nome classico. Salivano i giardini e si mesceano ai vigneti presso il villaggio di Balharâ,[697] voce indiana,[698] vinta adesso dalla latina appellazione di Monreale, presso il quale giaceva una miniera di ferro, posseduta prima da un di casa d'Aghlab ed or dal sultano che adoperava il metallo alle costruzioni navali. Il fiume volgea gli altri mulini abbisognevoli a sì gran popolo. E scende Ibn-Haukal a rassegnare le scaturigini d'acqua della città e dei dintorni, delle quali alcuna serba il nome;[699] ma egli ne tace due di nome arabico, onde sembrano scoperte nell'undecimo secolo.[700] Contro l'opinion comune, e' si vede che i Musulmani di Palermo sciupavan [301] tanto tesoro di acque. Ibn-Haukal, nato in sul Tigri, chiama pure il Wed-Abbâs gran riviera, onde fa supporre che lo ingrossassero tante polle oggi condotte ad uso della città.[701] Nè dimentica che del territorio parte fosse adacquata con canali, parte delle sole piogge si come in Siria. Fecegli maggiore meraviglia che li abitatori della parte orientale del Cassare, della Khâlesa e dei quartieri di quella banda, bevessero la greve acqua di lor pozzi. Donde è manifesto che non si debba riferire alla dominazione musulmana quella egregia economia idraulica che in oggi dà acque correnti in tutte le parti della città, fino ai piani più alti delle case. Risguardando alle voci tecniche dei fontanieri di Palermo che son mescolate greche, latine ed arabiche, si scopre l'opera comune delle tre schiatte unite sotto i Normanni: e però differiamo a trattarne nell'ultimo libro.

Venendo ai monumenti, Ibn-Haukal notava la Moschea giâmi' del Cassaro, una volta tempio cristiano; nella quale serbavansi, al dire dei logici della città, le ossa d'Aristotile; ma ei non si fa mallevadore che d'aver visto il feretro, appeso in alto, e udita la tradizione che gli antichi Greci solessero impetrare miracoli dalle ceneri del filosofo in tempi di siccità, pestilenze o guerra civile. Donde è libero il campo a porre il mito e il monumento innanzi o dopo l'èra cristiana; richiamandoci il nome all'antichità, [302] forse al culto d'Empedocle, ma la qualità ed uso del santuario s'adattan meglio alla pietà cristiana; e la medesima tradizione riferita da Bekri dà, invece d'Aristotile, il nome di Galeno, che da Roma andasse a trovare i Cristiani in Siria, e fosse morto, in viaggio, in Sicilia[702]. Nè sembra strano che alla dedizione di Palermo si fosse pattuito di lasciare in piè tutta o parte la chiesa; e che quando la fu mutata affatto in moschea, i nuovi padroni, tra credere e non credere, avesser lasciato sì comodo palladio in qualche cantuccio fuor l'edifizio; che esempii v'ha di chiese bipartite tra le due religioni nei primi conquisti; e non meno di superstizioni reciprocamente tolte in prestito non che tollerate, quando si rattiepidì lo zelo[703]. Il Cassaro, ovale, era tagliato nell'asse maggiore dalla strada dritta ch'oggi ne ritiene il nome, la quale s'appellava Simât diremmo la “Fila:” chè tal era, di fondachi e botteghe, e, raro pregio nel medio evo, tutta selciata. Avea la città vecchia nove porte, delle quali si riconosce il sito;[704] ed una era quella che, in grazia d'esotiche lettere intagliate su l'arco e in un minaretto vicino, fu creduta infino al secol passato opera dei fondatori ebrei [303] o caldei di Palermo. Demolita la porta e il minaretto da un vicerè spagnuolo; serbati da dotti del paese i disegni dei caratteri che inghirlandavano il minaretto, ancorchè trasposti e mutili, come s'erano mescolate e perdute in parte le pietre, ognun vi scorge una bella e severa scrittura cufica, e se ne può accozzare la data del quarto secolo dell'egira e tre versetti del Corano, di quei soliti a porre nelle moschee.[705] La [304] Khâlisa avea mura senza altre porte che quattro dal lato di terra, a mezzogiorno. Sorgeano fuor le mura, credo del Cassaro, in sul bacino di levante i ribât, come chiamavansi nelle città di confine le stanze dei volontarii spesati su le limosine legali o su lasciti pii, per uscire in guerra contro gli Infedeli; la quale genía, come si allargò e corruppe l'islamismo, somigliava ormai per la disciplina ai ribaldi negli eserciti feudali, e per l'ozio ai frati mendicanti nei paesi che n'han troppi. Molti ribât, dice Ibn-Haukal, sono in Palermo in riva al mare, pieni zeppi di sgherri, scostumati, gente di mal affare: vecchi e giovani, perversi e infingardi, mascherati di devozione per carpir la moneta e intanto svergognar le donne oneste, fare i mezzani e peggior brutture; riparati colà per non aver condizione nè pan nè tetto.

A computare il numero degli abitatori, Ibn-Haukal ci dà questo bandolo: che la moschea de' beccai, un dì che v'erano ragunati tutti con lor famiglie e attenenti, racchiudea da settemila persone. La quale arte stando negli odierni censimenti della città a tutta la popolazione come uno a cento, il numero tornerebbe nel decimo secolo a settecentomila; e, fattavi pur grossa tara per le mutate condizioni, non si può ragionar meno di trecento o trecencinquanta mila [305] anime.[706] A ciò ben s'adatta l'altro dato delle cinquecento moschee ch'erano in Palermo, delle quali tre quinti nella città vecchia e grosse regioni e due quinti nei sobborghi: moschee tutte acconce e frequentate, tra pubbliche, di corporazioni e di privati. Nè Ibn-Haukal tante ne avea viste mai in cittadi uguali e maggiori; nè sapea trovarne riscontro se non a Cordova, il numero delle cui moschee gli era stato raccontato, ma in Palermo l'avea ritratto con gli occhi suoi proprii e tutti i cittadini gliel confermavano. Cordova in vero, decaduta nel decimoquarto secolo, ebbe da settecento moschee[707] e poco meno Costantinopoli fino al decimosettimo secolo.[708]

[306] Dalla quale sovrabbondanza Ibn-Haukal cava argomento di riprendere i Palermitani che ciascuna famiglia per superbia e vanità volesse la sua cappella particolare, fin due fratelli che abitavan muro a muro. E narra che un Abu-Mohammed oriundo di Cafsa, giurista in materia di contratti,[709] arrivò a fabbricare vicino a venti passi alla propria una moschea pel figliuolo, affinchè vi desse lezioni di dritto. Notato poi che più di trecento pedagoghi insegnavan lettere ai giovanetti, v'appicca la chiosa che eleggean tal mestiere per iscusarsi dalla guerra sacra, anche in caso d'irruzione del nemico; ch'e' si vantavano di probità e di religione e facean da testimonii nei giudizii e nei contratti; ma in fondo nulla era in essi di bello nè di buono. Nè era in alcun altro. In fatti, il cadi Othman-ibn-Harrâr, uom timorato di Dio, conosciuti alla prova chi fossero i suoi concittadini, avea ricusato lor testimonianze, grave o leggiero che fosse il caso; onde s'era messo a terminar tutte le liti con accordi; e infermatosi gravemente ammonì chi dovea prendere il magistrato non si fidasse d'anima vivente. Al quale succedette, continua Ibn-Haukal, un Abu-Ibrahim-Ishak-ibn-Mâhili, che fece ridir di sè molte scempiaggini.[710] Che più, se non usano la circoncisione, nè [307] osservano le preghiere, nè pagan la limosina legale, nè vanno in pellegrinaggio; e appena avvien che digiunino il ramadhan e che facciano il lavacro in un sol caso! E scaglia la sentenza: non essere in Palermo begli ingegni, nè uomini dotti, nè sagaci, nè religiosi; non vedersi al mondo gente meno svegliata, nè più stravagante; men vaga di lodevoli azioni, nè più bramosa d'apprendere vizii.

Ma si tradisce col filosofare: che la radice di tanto male è il gran mangiar che fanno di cipolle crude, mattina e sera, poveri e ricchi; ond'han guasto il cervello e ammorzato il senso.[711] In prova, ecco, bevon dei pozzi anzichè cercar le dolci acque correnti; al ragionar con essi t'accorgi c'han le traveggole; nel guardarli vedi alla cera la complessione intristita. Ghiottoni, che non si sgomentano a puzzo di cibi. Sudici di loro persone, da far parer mondi i Giudei. Allato al negrume di lor case diresti bigio un focolare. Nelle più splendide, vedi correre i polli e sconciare la stanza e fino i guanciali del padrone. Arroge che in Sicilia il frumento non si serba da un anno all'altro; e sovente, sì malvagio è l'aere, inverminisce su l'aia.

Il tempo è passato che scrivendo la storia si prendea battaglia per simili argomenti, e che la carità patria, bamboleggiando, avvampava sol nelle inezie. Pur [308] non debbo ricusare ai miei concittadini musulmani di nove secoli addietro il giusto giudicio, secondo parer mio, come farei pei Medi o i Cinesi. Dico dunque che la storia letteraria della Sicilia dalla metà del decimo alla metà del duodecimo secolo non mostra nè ingegni grossi nè studii negletti; e Ibn-Haukal medesimo cel dà a vedere quando ricorda i logici che favellavano d'Aristotile, i trecento maestri di scuola e le tante moschee, parte delle quali serviva, come ognun sa, agli studii ch'or diciamo universitarii. Certamente, nel secolo che corse da Ibn-Haukal alla guerra normanna la cultura progredì sotto i Kelbiti; ma non poteva giacer sì bassa al suo tempo. Lo stesso penso dell'incivilimento esteriore, che pur era sì notevole nella detta guerra e dopo, come l'attesta qualche poesia d'Ibn-Hamdîs, al par che una geografia anonima,[712] e Ibn-Giobair e Ugone Falcando e con essi tutta la storia della dominazione normanna. Quanto alle virtù religiose secondo lor setta, le meno importanti si son viste nelle biografie dei devoti: la primaria, ch'era il genio guerriero, splendè in due nobilissime vittorie riportate, l'una pochi anni innanzi a Rametta sopra l'impero bizantino, l'altra pochi anni appresso in Calabria sopra Otone secondo. Però l'aspra censura è accozzata, come per lo più avviene, d'errori e di verità. Errore fu d'Ibn-Haukal, che, praticando coi [309] mercatanti del paese, ritrasse la nobiltà, i dottori e la plebe con tutte le sembianze che quei lor davano per invidia di classe. Errore, ch'ei condannò come vizii fisici e morali tutte le qualità insolite ch'ei notava in quei Musulmani misti di sangue greco e latino; mezzo stranieri ai lineamenti del volto, alla carnagione, alla pronunzia, agli usi, nè ben domati a tutte pratiche dell'islamismo. Verità era il fermentar dei molti elementi eterogenei di che si componea la popolazione della Sicilia e sopratutto di Palermo: tante schiatte; islamismo e avanzi palesi o latenti di cristianesimo; diritti civili disuguali, ricchezza e miseria, violenza guerriera e industria; torre di Babele, in cui doveano pullulare superbia, rancori, abiezione e infinite piaghe sociali. Se molte n'esagerava nella sua mente il buon mercatante di Bagdad, molte pur ne toccava con mano.

E in Sicilia non solo, ma in Spagna, ma in tutti gli stati musulmani del Mediterraneo. A leggere i suoi scritti lo si direbbe disingannato e dispettoso del non aver trovato in Ponente la virtù civile che mancava a Bagdad; come i mali proprii s'appongon sempre al destino, e gli altrui a chi li patisce. Similmente avviene che giudicando gli stranieri si vegga in molte cose la superficie, si sconoscano le virtù, ma s'imbercin diritto i vizii fondamentali; il che mi par abbia fatto Ibn-Haukal nella descrizione generale del Mediterraneo. Toccando quivi di Cipro e Creta: “Le tennero” ei dice “i Musulmani, i figliuoli dei combattenti della guerra sacra; ma l'invidia e la crudeltà invasaron cotesti popoli, al par che que' dei Confini [310] dell'impero, della Mesopotamia e della Siria; proruppe tra loro il mal costume, la iniquità, l'ingordigia, la discordia, la perfidia, l'odio scambievole; sì che costoro apriron la strada ai nemici e serviranno d'ammonimento a chi ben consideri gli eventi.”[713] E pria di terminare il capitolo: “In oggi,” ripiglia, “i Rûm offendono i Musulmani con ogni maniera di scorrerie su le costiere di questo mare, e fan preda di nostre navi d'ogni banda; nè abbiam chi ci aiuti nè ci difenda. Abietti si calano i nostri principi, pieni d'avarizia e di superbia in casa; i dotti non curano nè intendono, ti danno responsi comentando come a lor piace, nè pensano a Dio nè alla vita futura; pessimi i mercatanti, non rifuggon da cosa illecita nè reo guadagno; i devoti balordi, pronti a voltar casacca, fanno cammino in ogni calamità e spiegan la vela ad ogni vento: e però i confini e le isole rimangono in balía dei nemici, e la terra si lagna con Dio della iniquità di cui la tiene.”[714]

CAPITOLO VI.

In questo tempo l'amistà di Moezz con Niceforo par abbia preso quella sembianza di lega che i cronisti occidentali rinfacciano all'impero bizantino. Già [311] da parecchi anni Otone primo, cominciava a colorire i disegni sopra l'Italia meridionale, come accennammo; profferiva da sovrano feudale aiuti a Pandolfo Capo di ferro principe di Capua e Benevento contro Niceforo rivolto al racquisto della Puglia; tentava senza frutto di tirare a sè il principe di Salerno; d'ottobre del sessantotto correa con incendii e rapine i confini di Calabria e dello stato salernitano; accattava forze navali dai Pisani che poco appresso si veggono combattere in Calabria;[715] di marzo del sessantanove incalzava l'assedio di Bari tenuta dai Bizantini; e in quel torno inviava aiuti a Pandolfo, che fu vincitore e poi vinto a Bovino.[716] La pratica del matrimonio del figliuolo con la principessa greca Teofano, anzichè comporre, rinvelenì gli animi (giugno ad ottobre 968) per la perfidia che v'odorò la corte bizantina, la ingiuria che incontrò a Costantinopoli l'ambasciatore Liutprando, e il vero o supposto tradimento dei Bizantini che dettero addosso in Calabria alle genti di Otone quando liete veniano a ricever la sposa (969). Seguirono dunque in Puglia tra le armi de' due imperi parecchi scontri che non occorre divisar [312] qui.[717] Nell'un dei quali forse il novecensessantotto due Landolfi, fratello e figliuolo di Pandolfo Capo di ferro, combatteano in Ordona contro i Greci e i Musulmani uniti insieme e metteanli in fuga; ma il giovane Landolfo vi toccò una ferita.[718] Atto figliuol del marchese Trasimondo di Spoleto, del novecensettantadue, ruppe un capitan musulmano Bucoboli, e inseguillo infino a Taranto:[719] forse ausiliare mandato da Moezz pria della morte di Niceforo Foca; forse capitan di ventura ai soldi del principe di Salerno, o della repubblica di Napoli, la quale era stata poc'anzi (970) assalita da Otone.

Ma Zimisce, ucciso Niceforo (11 dicembre 969) e salito sul trono, fermò la pace con Otone e le nozze di Teofano col figliuolo;[720] talchè mancava una ragione dell'accordo tra Costantinopoli e i Fatemiti. Svanì l'altra ragione per le vittorie di Zimisce in Siria e di Moezz sopra i Karmati; donde tolti via i nimici comuni, cominciarono l'un contro l'altro a digrignare.[721] [313] Morirono poi entrambi entro due settimane (24 dicembre 975, 7 gennaio 976); e ricaduto l'impero bizantino in gare di corte e guerre civili, non seguirono altri effetti contro i Fatemiti, ma non si rappiccò nè anco la pace. In Puglia intanto eran già venuti alle armi. Del novecensettantacinque uno Zaccaria, che par greco al nome, avea preso Bitonto, ucciso prima Ismaele, musulmano al nome, condottier ausiliare o di ventura.[722]

L'ardimento di sbarcar non guari dopo a Messina, mostra che i Bizantini andassero co' nuovi contro i vecchi amici. Tornano a questo tempo i preparamenti navali di Niceforo, maestro, come s'intitolò, di Calabria, il quale, secondo legge bizantina, fece armare salandre a spese delle città per difender le costiere e assaltare la Sicilia; e tanto aggravò quei di Rossano, ch'arser le navi e ammazzarono i protocarebi; e il governatore, dopo molte minacce, perdonò loro a intercessione di San Nilo il giovane, o perchè non era agevol cosa a punire.[723] Sembra che coi Bizantini si siano accozzati i Pisani, testè venuti in Calabria ai servigi dell'Impero, e che abbian fatto [314] l'impresa con forze navali soltanto. Occupavan Messina alla prima. Sopracorreavi Abu-l-Kâsem con l'esercito siciliano e gran compagnia di dotti e virtuosi cittadini, scrive Ibn-el-Athîr, quasi a smentire Ibn-Haukal. Del mese di ramadhan del trecensessantacinque (mag. 976) entrava nella città, dove i nemici non l'aspettarono. Inseguendoli pertanto di là dallo stretto, risalì con le genti fino a Cosenza; la quale assediò parecchi giorni; e chiestogli l'accordo per danaro, assentì; e andò a porre la taglia nella stessa guisa alla rôcca di Cellara, indi ad altre terre. Mandava intanto il fratello Kâsem con l'armata su le costiere di Puglia,[724] commettendogli di spingere le gualdane giù per la Calabria ov'ei guerreggiava col grosso delle genti.[725] I Musulmani [315] assaliron Gravina in Puglia, che fu indarno, al dir d'una cronica latina; al dir d'un'altra la presero: ma forse s'appongono entrambe al vero, se finì con pagare la taglia.[726] Sparso molto sangue, fatto gran bottino e copia di prigioni, l'emiro e il fratello tornavano in Sicilia.[727]

Dove Abu-l-Kâsem, non dimenticato l'assalto di Messina, ristorava la forte rôcca di Rametta, l'anno trecensessantasei (29 agosto 976, 17 agosto 977), e vi ponea presidio capitanato da un suo schiavo negro.[728] Ripassò poscia in Terraferma, investì Sant'Agata, quella forse che s'addimanda di Reggio; tantochè i cittadini ne uscirono per accordo, consegnatagli la rôcca e quanta roba v'era.[729] Così Ibn-el-Athîr: un altro cronista arabico dice sbarcato Abu-l-Kâsem alle “Torri” (Abrâgia), dove messosi l'esercito a rapire pecore e buoi e traendosene dietro una infinità che impediva il cammino, il capitano li fece sgozzar tutti in un luogo, al quale indi rimase infino ai dì del cronista il nome di Monakh-el-bakar o diremmo noi la “Posata del bestiame.”[730] Appressandosi i Musulmani a Taranto, i cittadini [316] sguisciaron via, chiuse le porte in atteggiamento di difesa, per intrattenere il nemico: e questi saliva le mura, credendo dar battaglia; se non che, accortosi della burla, pose fuoco alla città e distrussene a suo potere. Giunse Abu-l-Kâsem ad Otranto; corse altre città delle quali non ci si dicono i nomi;[731] ma sappiam che Oria in Terra d'Otranto e Bovino in Capitanata, furon arse entrambe, e il popol minuto d'Oria condotto prigione in Sicilia.[732] Assalita per ultimo una città che mi par da leggere Gallipoli,[733] e presone la taglia, l'esercito si riduceva in Sicilia, con torme di prigioni, salmerie di ricche spoglie, e vanto, che parea gloria, d'aver dato il guasto a sì vasto tratto di paese che fa in oggi mezzo il reame di Napoli.[734] I cronisti noverano due altre imprese d'Abu-l-Kâsem in Terraferma tra il settantotto e l'ottantuno, senza narrarne i particolari.[735]

Inaspettatamente qui viene un'agiografia greca ad attestare il gentil animo dell'emir di Sicilia. Ma principieremo da più alto, poichè i costumi del popolo [317] assalito, e un po' anco degli assalitori, per tutto il decimo secolo son come l'ordito di cotesto scritto, con trama sì discreta di soprannaturale, da non far impedimento alla vista. Diciamo della Vita di San Nilo da Rossano, dettata da un compagno e discepol suo alla fine del decimo a principio dell'undecimo secolo. Nacque San Nilo verso il novecentotrè; morì verso il novantotto. Studiò i santi padri, cioè Antonio Saba, e Ilarione, scrive il discepolo; quantunque non gli mancassero libri nè ingegno da apprendere negromanzia, se l'avesse voluto.[736] Una febbre lo fe' pensare alla morte, giovane di trent'anni; perilchè abbandonati i beni ed una figliuola naturale ch'avea, si tonsurò nel monastero di San Mercurio e corse a cercare asilo in quel di San Nazario,[737] dove non arrivassero le branche del governatore bizantino, il quale lo volea sfratare e tornare al duro giogo di decurione. Fuggendo dunque solo e a piè in riva al mare, ecco saltargli addosso dalle fratte un barbaro saraceno, seguito da Etiopi con occhi di bragia che avean lì tirata loro barca. E il barbaro a interrogarlo; e, inteso che andasse a fare i voti monastici, si messe umanamente a persuaderlo d'aspettar la vecchiaia a lasciare il mondo. Vistolo risoluto, l'accomiatò che tremava da capo a piè; ma pensato meglio, li corse dietro gridando: “Fratello, aspetta aspetta;” e volle provvederlo [318] per lo viaggio di pani finissimi, scusandosi che non avesse in pronto altro da mangiare. Fu costrutta poi in miracolo tal ordinaria carità musulmana a povero viandante: fu creduto il demonio in carne e in ossa un gentiluomo, il quale cavalcando presso San Nazario, intendendo il proponimento del giovane, lo chiamò pazzo, poichè se volea salvar l'anima potea far penitenza in casa senza ficcarsi tra i frati, “avari,” dicea, “pieni di vanagloria, dati tutti alla crapula; che un caldaio di lor cucine capirebbe me ritto in piedi e mezzo questo mio cavallo.” Preso l'abito, tornato a San Mercurio dopo un pezzo, Nilo si segnalò per obbedienza monastica, flagellarsi, pregare, vestir ciliccio che mutava una volta ogni anno, pazienza dello schifo e disagio; ed anche assiduità allo studio, belle massime di carità cristiana, e mondana sagacità e prudenza.[738]

Donde salì in fama di santità: riverito dai magistrati; andaron vescovi, arcivescovi, ciambellani di Costantinopoli e i governatori stessi di Calabria a richiederlo di vaticinii e consigli;[739] fondò il monastero di Grottaferrata presso Roma; vinse l'antipatia della schiatta italica e oltramontana a sua favella e greca profusione di capelli e barba;[740] fu onorato in sua vecchiezza a Monte Cassino, a corte dei principi di Capua, dall'imperatore Otone terzo e da Gregorio quinto, dai quali impetrò grazia all'antipapa Filargato.[741] Pria di pervenire a [319] tanta altezza, avea patrocinato rei minori, come i sollevati di Rossano di cui dicemmo, ed un giovane di Bisignano che svaligiò ed uccise un giudeo, ed i magistrati lo volean dare in mano alla comunità israelita.[742] San Nilo gareggiò a suo modo nell'arte salutare col medico giudeo Sciabtai Donolo, uom di molta sapienza a quel tempo in Calabria.[743] E come ci vengon visti nella vita del Donolo,[744] così anco in quella di San Nilo i Musulmani di Sicilia, ch'erano per fermo il flagello principale delle Calabrie, dopo i governatori bizantini. In una spaventevole incursione, quella, come parmi, d'Hasan del novecencinquantuno o del cinquantadue, i monaci di San Mercurio si rifuggivan qua e là per le castella; San Nilo rimanea nel romitaggio d'una spelonca vicina, donde vide la polvere dei cavalli nemici; e, campato su nella montagna, tornando, trovò che gli avean rubato fino un sacco di cilicio, e il monastero desolato, e mancava un fedel suo compagno. Cui volendo riavere o rimaner prigione con essolui, si poneva all'aperto in mezzo alla strada; vedea venir dieci cavalieri vestiti, armati e cinti le teste di fazzoletti[745] alla foggia dei Saraceni; quand'eccoli smontare, inginocchiarsi: ed erano gli abitatori d'un castello, che così travestiti scorreano, se per far bene o male non so, i quali lo accertarono essere salvo il compagno.[746] Posate poscia le armi musulmane, seguíto il tumulto di Rossano che narrammo, San Nilo presagì la novella [320] tempesta. Tornò allora a Rossano l'arcivescovo Vlatto, con molti prigioni riscattati in Affrica, per credito della sorella ch'era moglie, come diceano, del re dei Saraceni: qualche schiava favorita del Mehdi o di Kâim. Dondechè proponendosi Vlatto di andar nuovamente in Affrica a liberar altri Calabresi, San Nilo lo ammonì non si arrischiasse in quella tana di vipere che alla fin fine l'avrebbero morso: e in fatti, andato, mai più non tornò.[747] In quel medesimo tempo si raccendea la guerra musulmana in Calabria; vaticinava San Nilo che la non finirebbe di corto, e distogliea lo stratego Basilio dal fabbricare una chiesa, chè gli Infedeli, dicea, la demolirebbero immantinente occupando il paese.[748] Nella guerra, forse del novecentosettantasette, riparatosi San Nilo nel castello di Rossano, rimasero nel cenobio tre frati, che furon menati prigioni in Sicilia.[749]

A riscattarli ei vendea delle canove del monastero il valsente di cento bizantini d'oro,[750] e con un frate fidato e un giumento donatogli da Basilio stratego, li mandò in Palermo, con lettere per quel principe, dice la cronica, cui chiamano Amira, e altre ad un segretario,[751] brav'uomo e cristianissimo. Il quale tradotta l'epistola all'emiro, quei la lodava di dottrina e prudenza, e vi raffigurava lo stile d'un amico[752] di Dio: onde onorato molto il messaggiero e regalatolo, [321] mandava a San Nilo un presente di pelli di cervi e aggiugneavi questa lettera: “Colpa tua, ch'ebbero dispiacere i tuoi frati; poichè se me n'avessi richiesto, ti avrei spacciato una cifera[753] che bastava affissarla in su la piazza, e niuno avrebbe molestato, il monastero, nè sarebbe occorso fuggirtene via. Adesso, se non temi di venirne appo di me, potrai soggiornare liberamente nel paese che m'obbedisce, dove sarai rispettato ed onorato da tutti.”[754] Del quale scritto mi par genuino il senso, e fin direi il tenore.

Morto intanto Otone primo (973), Otone secondo, che meritò esser detto dai Romani il Sanguinario, ritentava l'impresa dell'Italia meridionale; parendogli quivi men salda che mai l'autorità dei fratelli della moglie, regnanti a Costantinopoli con poca riputazione e impedimento di nuove guerre. Allo scorcio dell'ottantuno, calato a Benevento dando voce del passaggio contro gli Infedeli, espugnata Salerno che gli ricusava l'omaggio e gli aiuti, Otone si apparecchiò al conquisto delle Calabrie.[755] Le quali, scrive Ditmar, uom sassone d'alto legnaggio, vescovo e contemporaneo, eran gravemente afflitte dai Greci e dai Saraceni.[756] Un altro cronista tedesco di quell'età, afferma che gli imperatori bizantini, non potendo stogliere Otone da cotesta impresa, condussero [322] a soldo i Saraceni di Sicilia e altre isole, e fin d'Affrica e d'Egitto, per lanciarglieli addosso.[757] Gli annali musulmani, che maravigliosamente accordansi con Ditmar in molti particolari, notan solo che Abu-l-Kâsem bandì la guerra sacra, poichè il re dei Franchi movea contro la Sicilia.[758] Manifesto egli è dunque che i Bizantini e i Musulmani di Sicilia, rinnovandosi il comun pericolo, rifacessero la lega come al tempo di Niceforo e di Moezz.[759] Lo stratego di Calabria assoldò forse qualche compagnia musulmana, che stanziò in quelle parti e militò con essolui. Ma l'esercito siciliano non operò mai insieme coi Greci: che gli uni e gli altri combattessero contro Otone sul medesimo campo di battaglia, è falso supposto di moderni scrittori, i quali si fidarono alle compilazioni, mettendo da parte le croniche originali.

In primavera dell'ottantadue, Otone venne sopra Taranto, e in breve la espugnò, mal difesa dai Greci.[760] Nella poderosa oste militavano Sassoni, Bavari e altri Tedeschi, Italiani delle province di sopra e dei principati longobardi; condotti dai grandi vassalli dell'Impero laici ed ecclesiastici, dal fior della nobiltà di Germania e d'Italia.[761] Scarseggiando di forze navali, [323] Otone s'acconciò coi protocarebi di due salandre, mandate fin dai tempi di Niceforo Foca a raccogliere le tasse di Calabria; i quali gli prometteano d'ardere il navilio musulmano: ch'era doppio tradimento, o quei tentennavano nella fede del signor loro, e si disponeano a seguir Otone vincitore, e vinto abbandonarlo. Erano navi, scrive Ditmar, di mirabile lunghezza e celerità, con doppia fila di remi e cencinquanta uomini ciascuna; armate di quel fuoco cui nulla spegne se non l'aceto. Due gualdane di Musulmani furon sopraffatte dall'esercito d'Otone;[762] una delle quali, o una terza che fosse, si difese in una città, credo io Rossano, poi si dette alla fuga.[763]

Abu-l-Kâsem, partito con l'esercito del mese di ramadhan trecentosettantuno (27 aprile a 26 maggio 982), saliva lungo la costiera orientale di Calabria, dove ebbe più certi avvisi delle forze del nemico accampato a Rossano.[764] Perchè non si fidando d'assalirlo, adunati i capitani che voleano andare innanzi, risolutamente ordinò la ritirata: e mandavala ad effetto con l'esercito e il navilio, quando i legni nemici che stavano alla vedetta, addandosene, mandarono spacci ad Otone che corresse sopra i Musulmani sbigottiti.[765] Ei lascia addietro gli impedimenti e col [324] fior dei suoi fa tate diligenza che sopraggiugne i Siciliani il quindici luglio[766] su la marina di Stilo.[767] Vistili da lungi sparuti di numero, sclama che sono masnadieri, non soldati, e, incontanente comanda di dar dentro.[768] Abu-l-Kâsem, facendo alto, s'era già messo in ordine di battaglia.[769]

Dopo aspro menar di mani avvenne che uno squadrone imperiale caricando il centro de' Siciliani lo ruppe e volse in fuga. Trapassando nell'impeto fino alle bandiere difese da Abu-l-Kâsem con un forte nodo di nobili e prodi cavalieri, tennero il fermo; furon tutti mietuti e l'emiro ucciso d'un colpo al sommo della testa:[770] ma immolandosi strapparon la vittoria di mano all'imperatore tedesco. Chè a quel respitto li sbaragliati si rannodano, precipitano alla riscossa, scrive Ibn-el-Athîr, deliberati a morire; i vincitori, scrive Ditmar, dopo breve scontro sono soverchiati e tagliati a pezzi:[771] nè fa maraviglia tal subito scambio di sorti quando il centro de' Siciliani sconfitto rifacea [325] testa più addietro, e le ali rimase intere si chiudevano su le spalle del nemico. Il rimanente dell'esercito otoniano si dileguò fuggendo. Lasciò sul campo quattromila morti e grande numero di ottimati prigioni.[772] Tra questi noverossi il vescovo di Vercelli mandato ad Alessandria d'Egitto e riscattatosi dopo lunghi anni, al par che tanti altri chierici e laici, i quali a poco a poco si vedean tornar in Germania.[773] Degli uccisi, le croniche italiane ricordano Landolfo principe di Capua, Atenolfo suo fratello e i nipoti Ingulfo, Vadiperto e Guido di Sessa;[774] le tedesche, Arrigo vescovo d'Augsburg, Wernher abate di Fulda, e molti altri prelati;[775] e dei gran baroni un Richar, un duca Odone, i conti Ditmar, Becelino, Gevehardo, Guntero, Bertoldo, Eccelino e un altro Becelino fratel suo, con Burchardo, Dedone, Corrado, Irmfrido, Arnoldo, e altri che Iddio solo conosce, scrive Ditmar, il quale vi perdè uno zio della madre.[776]

Otone il Sanguinario, fuggendo a briglia sciolta col cugino duca di Baviera, avvistò le due salandre greche presso la spiaggia, e si tenne salvo.[777] Ma arrestatoglisi il destriero, un giudeo suo fidato che lo seguiva gli grida: “Prendi il mio e dà pane ai miei figli s'io ci muoio,” onde Otone montato in sella[778] [326] spinse il cavallo in mare; gridò e fe' cenno al nocchiero; e quei tirò dritto. Tornato a proda, trova il giudeo, Calonimo il suo nome, che l'attendeva ansioso di lui non di sè stesso: il cugino era ito, chè già si vedean venire a spron battuto i Musulmani. “E che farò?” sclamava Otone. “Ma sì ho ancora un amico!” e lanciossi di nuovo nell'onda col cavallo del giudeo.[779] Questi fu ucciso.[780] Ricettò l'imperatore l'altra salandra che passava, conoscendolo un ofiziale schiavone.[781] Fatto posare dal protocarebo sul proprio letto e interrogato, accertò sè essere Otone: lo pregò d'accostarsi a Rossano, tanto che prendesse seco la moglie e i tesori; ch'ei non voleva rimetter piè su l'infausta terra, ma andare a Costantinopoli, ove i pii imperatori renderebbero merito a chi avesse tolto a sicura morte il cognato. Il Greco assentì: navigando dì e notte giunsero a Rossano.[782] Otone mandava lo Schiavone a terra, e non guari dopo fu vista scendere alla marina la imperatrice con Thierry vescovo di Metz ed una fila di giumenti che recavano, come diceasi, il tesoro; a che il capitan greco gittò l'áncora. S'accosta con barchette il vescovo; monta su la nave egli e pochi; parla ad Otone; e questi, per accogliere [327] onorevolmente la imperatrice, indossa abiti di gala, arriva passeggiando al bordo: e giù in mare d'un salto. Un della ciurma che lo volle ritenere, fu trafitto; gli altri ricacciati indietro dagli altri famigliari saliti con l'arme alle mani; e Otone intanto afferrava la spiaggia: talchè i Danai truffatori d'ogni gente furono burlati, conchiude soddisfatto Ditmar.[783] Nel cui racconto io non veggo nulla che rassomigli a favola. Altri recò il caso un po' diverso, come l'andava ritraendo la fama;[784] chi venne appresso v'aggiunse e tolse quanto gli parve;[785] falsarii moderni lo ricomposero a lor modo:[786] e in fine i critici nauseati sono stati lì lì per rigettar tutti gli episodii in un fascio.[787] I ricordi arabici convengono con Ditmar, sì nei primi accidenti della fuga e sì nel successo, dicendo che Otone si ridusse allo accampamento ov'era la moglie; e con lei tornossi a Roma.[788]

E veramente, soggiornato alquanto a Capua, passò nell'Italia di sopra, adunò del novecentottantatrè la dieta dell'Impero a Verona,[789] s'apprestò a far vendetta sopra la Sicilia, vantossi di gittare un ponte di barche su lo stretto di Messina,[790] e venne a morire a Roma (7 dic. 983); meno avventuroso d'Abu-I-Kâsem, ch'era [328] caduto sul campo di battaglia. Dove la stirpe arabica pagò alla stirpe italiana l'affitto della Sicilia, coi buon colpi che sbarattarono un esercito germanico e fecer morire di rabbia e disagi l'imperatore, l'Otone, passeggiante ormai su l'estrema punta della penisola. E forse Salernitani, Romani, e Italiani d'altre province tratti a forza sotto l'insegna imperiale, benedissero le scimitarre orientali che loro balenavano dinanzi gli occhi. Prepotente forza delle necessità geografiche su le vicende delle nazioni, a vedere i Musulmani di Sicilia, guelfi innanzi tratto, guadagnare in Calabria una prima Legnano![791]

[329] Rimasti i Siciliani signori del campo, assumea le veci d'emiro Giâber, figliuolo d'Abu-l-Kâsem; il quale immantinente fe' suonare a raccolta, non concedendo di continuare il bottino; nè pur di raccogliere le armi e attrezzi di guerra lasciati dal nemico da rifornirne gli arsenali di Sicilia. Non si ritrae se fu necessità, paura o gelosia d'affrettarsi a pigliar lo stato in Palermo; nè s'ei pensò a recar seco il cadavere del padre. Ma alle costui virtù rese merito il popolo, che chiamollo “Il Martire,” ed affidò alla storia questa epigrafe: Giusto, di specchiati costumi, tutto amore ai sudditi, affabile, elemosiniere, che non lasciò ai suoi figliuoli nè una moneta d'oro, nè una d'argento, nè un pezzetto di terreno, avendo legato ogni cosa ai poveri ed opere di carità.[792]

[330]

CAPITOLO VII.

Sì com'era incerta la elezione degli emiri tra il fatto e il dritto, così i cronisti variamente scrissero di Giâber, qual notando che i Musulmani di Sicilia lo esaltarono senza diploma del califo;[793] e qual che 'Azîz-billah, succeduto (975) a Moezz, in buona forma lo nominò.[794] Fu l'uno e l'altro di certo. Giâber, dato a voluttà, lasciò correre al peggio le cose pubbliche: donde i Siciliani il deposero,[795] o se ne richiamarono al Cairo, dove una gelosia di corte spianò loro la via. Perchè Ibn-Kellas, vizir del califo, si adombrava forte di Gia'far-ibn-Mohammed della famiglia dei Kelbiti di Sicilia, intimo di 'Azîz tanto e più che il padre Mohammed non l'era stato di Moezz.[796] Avendo pensato fin dalla morte d'Abu-l-Kâsem tôrsi d'addosso il rivale con splendido esilio, Ibn-Kellas persuase adesso 'Azîz a farlo emir di Sicilia[797] in luogo del cugino: e chi sa quanto rincalzò le querele dei Siciliani, e se nol fece domandar proprio da loro? Dicon gli annali arabi che Giâber dolentissimo lasciò, e Gia'far a malincuore prese l'oficio. Nondimeno, arrivato in Sicilia del trecentosettantatrè (14 giugno 983, 2 giugno 984), rassettò e fece prosperare [331] il paese; lodato anco per amore degli studii e liberalità. Morto il quale del settantacinque (23 mag. 985, 11 mag. 986), succedettegli il fratello Abd-Allah, che seguì il bello esempio, e in breve anch'egli trapassò, del mese di ramadhan trecensettantanove (dic. 989); lasciato l'oficio d'emir al proprio figliuolo Abu-l-Fotûh-Iûsuf. Così espressamente il Nowairi e Ibn-abi-Dinâr; nè vi ripugna il dir degli altri compilatori. Aggiugne il Nowairi, che 'Azîz gli mandò poscia il rescritto d'investitura.[798]

Arrivò all'apice in questo tempo e repente rovinò la potenza dei Beni-abi-Hosein a corte del Cairo. Hasan-ibn-'Ammâr, il vincitor di Rametta, per riputazione propria nelle armi e di sua parentela appo la tribù di Kotama, si trovò sceikh, spontaneamente eletto, credo io, dei Kotamii stanziati in Egitto, ch'eran tuttavolta i pretoriani di casa fatemita: ed egli a un tempo lor patrono e fidato capitan del califo; tantochè 'Aziz, venendo a morte (ottobre 996), gli raccomandò il figliuolo Mansûr, soprannominato Hâkem-biamr-allah, fanciullo d'undici anni. Alla cui esaltazione, i condottieri kotamii lo sforzarono a dare il governo dello Stato a Ibn-'Ammâr, con oficio nuovo, che si chiamò il Wâsita, ossia Intermediario; e vi si aggiunse il titolo di Amîn-ed-dawla, che suona “Il Fidatissimo dell'impero.” Onoranza anche nuova a corte fatemita e di mal augurio; quando gli emîr-el-Omrâ che posero in tanto vitupero il califato abbassida [332] s'addimandavano per simil forma La Colonna, La Pietra angolare, La Spada, e che so altro, dell'impero. E per poco i Beni-abi-Hosein non copiarono il rimanente: chè già il vecchio capitano mostrava fasto e superbia da re; nella corte, nella milizia stremava le spese per arricchire i Kutamii, e lor dava impunità d'ogni licenza e d'ogni misfatto. Un eunuco di corte presto lo sgarò, fondandosi in su gli stanziali turchi i quali spezzaron la boria ai Kotamii; onde Ibn-'Ammâr fu deposto dal comando (997), onorato e tenuto in disparte per pochi anni; finchè il pupillo, che andava assaporando il sangue, (1000) lo fece assassinare.[799]

Parve cosa degna di nota che nel breve predominio d'Ibn-'Ammâr ad un tempo reggessero, egli l'Egitto e il cugino Iûsuf la Sicilia:[800] sì com'oggi vedremmo con maraviglia, due stretti parenti, l'uno gran vizir a Costantinopoli, l'altro pascià d'Egitto. Pertanto a tutti era già manifesta la independenza della Sicilia; nè faceva specie che la corte fatemita, per procaccio, com'e' sembra, d'Ibn-'Ammâr, desse a Iûsuf il privilegio di Thiket-ed-dawla che suona “Fidanza dell'impero.”[801] Nè solamente si noverava la Sicilia tra gli stati musulmani di momento in sul Mediterraneo, [333] ma gli altri cominciavano ad invidiar sua sorte. Alla fama in arme che le avean dato i primi tre emiri kelbiti, s'aggiunse la prosperità sotto i discendenti del kelbita cortigiano Mohammed, tra i quali segnalavasi questo Iûsuf. Leggiamo in una cronica che al suo tempo il popolo godè ogni ben che si potesse desiderare; il governo si condusse efficace e tranquillo; furono soggiogati parecchi paesi bizantini, e l'emiro mostrò quella magnanimità, liberalità e giustizia, che mancava in tanti altri principati musulmani.[802] Chi lodalo di fermezza insieme e di bontà in verso i sudditi;[803] chi d'aver superato tutti i predecessori in gloria e virtù.[804] La cultura sua e della corte ci torna dalle biografie dei poeti contemporanei.

E prima d'Ibn-Moweddib da Mehdia, cervello strano dato all'alchimia e alla pietra filosofale, uom di brutti costumi, cupido e taccagno, vago d'andare qua e là per lo mondo a buscar danaro con meschini versi; il quale, viaggiando alla volta d'un'isola adiacente alla Sicilia, era stato preso dai Bizantini e ritenuto in lunga cattività. Rimandato in Palermo con altri prigioni, quando Iûsuf fermò una tregua con l'Impero, Ibn-Moweddib ringraziavalo con un poemetto, e l'emiro lo regalava; ma non tenendosene soddisfatto, si messe a sparlare di Iûsuf sì apertamente, che fu ricerco dal bargello. Si nascose appo un conoscente, artigiano dell'arsenale. Ma uscito una sera ubbriaco per comperar [334] nuov'esca da bere,[805] lo colsero; e il prefetto della città[806] condusselo immantinente a Iûsuf. Il quale lo rinfacciava: “Sciagurato, che è questo che sento dir di te!” E il poeta a lui: “Ciarle di spioni, che Iddio aiuti il signor emiro.” — “Ma ti sovviene,” riprese Iûsuf, “il nome di chi cantò: Ecco il valentuomo messo con le spalle al muro dai figli di male femmine?” — “Sì,” rispose Ibn-Moweddib, “il medesimo che fe' l'altro verso: L'inimicizia dei poeti, tristo chi se l'accatta!” Alla qual pronta citazione di Motenebbi,[807] l'emiro non gli disse altro; ma gli fece contare cento quartigli[808] d'oro, a condizione di andarsene tosto della città; “perchè temo,” aggiugnea, “che s'una volta gli ho perdonato, un'altra me la pagherebbe cara.”[809]

Già la fama attirava alla corte di Iûsuf non men belli ingegni e animi più alti, come Mohammed-ibn-'Abdûn nato a Susa d'illustre casa del Kairewân, pregiato tra i suoi per buona lingua e stile semplice e vigoroso. Il quale avendo cantato le lodi dell'emiro, sì gli piacque, ch'ei lo volle compagno del proprio [335] figliuolo Gia'far dilettante di versi,[810] e questi gli si strinse di cara amistà. Tanto che volendo rimpatriare, Gia'far, succeduto nel governo al padre infermo,[811] gliel negò, ancorchè Mohammed lo chiedesse a lui ed al padre con rime piene d'affetto. Che anzi, invaghito tanto più di quel bello ingegno, Gia'far s'adontò che persistesse; gli vietò d'entrare in palagio; ed a rappattumarsi furon uopo novelli versi, e che il poeta li porgesse di furto mentre Gia'far stava a sollazzo in un casino.[812] Il quale sentendosi rassomigliare alla luna e che pari a quella si nascondesse a chi volea far ossequio, gli vennero le lagrime agli occhi e donò al poeta un tesoro.[813]

Quanto fosse pagata non so, ma valea molto a lor gusto, una Kasîda indirizzata a Iûsuf, innanzi il novecentonovantotto,[814] per la festa del Sagrifizio,[815] da un Abd-Allah della tribù di Tonûkh, detto Il figliuolo del cadi di Mîla, ond'ei pare oriundo d'Affrica. Il qual poemetto ci serbò Ibn-Khallikân, [336] che lettolo per caso su la coperta d'un libro, lo trascrisse nelle Biografie degli uomini illustri, temendo non andasse perduto. Come richiedea la classica immutabilità della Kasîda, esordisce con lamenti amorosi, e visione di belle che sembrano allegoriche, nè schiudon le labbra se non a ricordare i riti del pellegrinaggio; talchè pervenghiamo per lungo giro alla festa del Sagrifizio, a Iûsuf e al figliuolo. La festa, sfarzosamente abbigliata, luccicante gli omeri del sottile drappo dell'Irâk, venía dopo un anno a visitare Thiket-ed-dawla, che l'ornava di collana e pendenti, e Gia'far accoglievala con lieti augurii. Ma quale gemma più lucente che l'uno e l'altro re, nobili rampolli della gente di Kodhâ'a?[816] E chi, dato fondo al proprio avere, sperando aiuto da Iûsuf, restò mai deluso? Quell'Iûsuf che corse l'arringo della gloria coi principi ed ei solo toccò la meta; il solo eroe che abbia potere di emendar il tristo secolo; il brando sguainato contro i nemici della Fede; il forte scudo dei Musulmani; la mente che vede ogni cosa e sa alternare mansuetudine e forza; il guerriero armato di due spade, che son la costanza e il fino acciaro. Ecco l'esercito inondar la terra nemica; le lance rodeinite[817] avventarsi come fieri serpi addosso ai fuggenti; i condottieri nemici tagliati a pezzi e spiccato da' busti capo insieme ed elmetto; nè cessa il martellar delle spade, perchè le armature che testè luccicavano all'alba sian gialle di polvere, anzi al polverio tutto s'oscuri il [337] sole. Indarno sperano i miscredenti risarcire lor guasti; indarno s'apprestano a raccogliere le primizie dei campi, ch'ogni anno gli stuoli che tu mandi in guerra, battono lor monti e lor pianure, lasciando vestigio d'ignudi cadaveri capelluti e barbuti;[818] e chi scampa si riman soletto, senza la famiglia ch'è menata in cattività; e trova sì svaligiati suoi tempii, che gli è forza smettere l'idolatria. Salve, o Iûsuf, vigile scolta dell'islam nella notte di questa misera età. Lieta siati la festa; lunghissimi i tuoi giorni al ben fare, al regno, alla gloria; e perenne suoni il tuo nome dal pulpito.[819] Così il poeta metteva a un paro con le veraci virtù la sanguinosa intolleranza religiosa e lo strazio de' vicini: e fosse dileguato al tutto tal empio errore in religioni più mansuete e popoli più civili!

Pur la corte kelbita di Palermo avea fama in Italia di quella ch'era gentilezza secondo i tempi, come l'attesta un centone d'istoria e romanzo, scritto, un anno più o un anno meno, al mille di nostr'èra. L'attesta, dico, trasponendo nel passato, come sovente si fa, le idee presenti. L'autore, monaco a [338] Roma o nei dintorni, narra i primi assalti dei Musulmani sopra la Terraferma d'Italia (842) in questo modo: che Florenti re palermitano, innamorato per fama della bella Gisa sirocchia del principe Romualdo, per rapirla adunava sciami infiniti di Saraceni d'Africa, Palermo e Babilonia; sbarcava ad Amalfi; aiutato dal perfido Radalgiso, assediava Benevento; finchè Romualdo gli uccise quarantamila uomini in una rotta, dalla quale Florenti a mala pena campò la vita.[820] La qual favola è documento non solo della possanza, ma sì della cultura dei Kelbiti allo scorcio del decimo secolo; poichè loro si attribuisce proprio un fatto di cavalleria.[821] Il cronista poi, partigiano d'Otone terzo, non dimenticò di riferire la fondazione della terribile colonia del Garigliano (883) alla medesima cagione alla quale si apponea la sconfitta d'Otone secondo (982), cioè che i Bizantini avesser mandato a Palermo ed Africa, offrendo il regno d'Italia ai Saraceni.[822]

Qual che fosse stato l'accordo tra l'impero d'Oriente e i Musulmani di Sicilia, finì con la vita d'Otone secondo. Perchè i Bizantini, vedendo sgombrare dopo la sanguinosa giornata i vincitori al par che i vinti, ripigliarono tranquillamente le Calabrie e con un po' di fatica la Puglia. Dominarono da Reggio [339] al golfo di Policastro sul pendio occidentale d'Apennino, e sul pendio orientale da Reggio al Tronto: posta la sede del governo a Bari, e mandativi a lor usanza gli strateghi, i quali, verso il mille, cominciarono a prender titolo di Catapano.[823] Ma non mutossi la rapacità, corruzione e debolezza del reggimento bizantino. Dalla ritirata dunque d'Otone alla occupazione dei Normanni, quella provincia si travagliò tra insoffribile tirannide e impotenti sforzi a liberarsene; e talvolta v'ebbe chi per disperazione chiamò i Musulmani di Sicilia; i quali sempre da ausiliari o da nemici corsero il paese, eccetto brevi tregue, di che una sola è certa e l'anno nemmen si sa.[824] Lor fazioni non sono specificate dagli annalisti arabi; i latini le pongono con ignorante brevità, date dubbie, nomi guasti, e niuna connessione: come cicatrici di cui non si sa l'origine ma non si cancellano mai nella memoria delle genti. Ordineremo dunque gli sparsi cenni il manco male che si possa, principiando avanti e terminando dopo il regno di Iûsuf, perchè non son molti, e perchè non si abbiano ad interrompere nei capitoli seguenti i successi di Sicilia.

Saccheggiata del novecentottantasei Santa Ciriaca o Gerace;[825] l'anno appresso fatte altre scorrerie in Calabria; l'ottantotto, assediata, presa e desolata Cosenza,[826] [340] assaliti altresì i villaggi presso Bari e riportatone uomini e donne prigioni in Sicilia.[827] Si trovò il novantuno l'oste musulmana a Taranto; dove sopraccorso un conte Atto con gente di Bari, cadde nella zuffa egli e parte de' suoi.[828] Tornavano il novantaquattro a quelle regioni; stringeano per tre mesi, espugnavano al quarto, Matera, che fu incendiata e avea patito tal fame nell'assedio, che si narra d'una donna cibatasi delle carni del figlio.[829] Dandosi intanto gli Italiani oppressi a cospirare contro i Bizantini, accadde d'ottobre del novantotto che Smagardo da Bari, accozzatosi con un condottiero Busito, che par suoni Abu-Sa'îd, giunse chetamente alla città; gli fu aperta una porta; ma il Musulmano, vistolo uscire da un'altra, si ritrasse temendo tradimento, o che fosse fallito il colpo;[830] talchè veramente fallì. Succeduta, com'e' sembra, la tregua per qualche anno, fors'anco durando la tregua col catapan bizantino, ch'indi suscitasse i Musulmani a molestare gli Stati independenti in sul Tirreno, a dì tre agosto del mille e due si mostrarono a Benevento con forze ch'è mestieri chiamar esercito, e presa la notte medesima la via di Capua, posero l'assedio alla città; poi corsero infino a Napoli, con qual successo lo ignoriamo, forse di metter grosse taglie e ritrarsi.[831] Di marzo mille e tre, innoltratisi [341] dentro terra nel golfo di Taranto, assediavano senza frutto Montescaglioso.[832] Guerra, non incursione di predoni, fu l'altra che seguì il mille e quattro, capitanando i Musulmani il kâid Safi, rinnegato. Il quale in su l'entrar di maggio poneva il campo a Bari, vi chiudea Gregorio catapano della provincia; e avrebbe espugnata la capitale senza le armi dei Viniziani, pronti ad aiutar l'impero greco quando ne andava la sicurezza dell'Adriatico. Perchè Pietro Orseolo doge di Venezia, salpato con l'armata a dieci agosto, approdava a Bari il sei settembre in faccia ai nemici, che invano instrussero i cavalli su la costiera e fecero avvisaglie con lor navi. Rifornita Bari di vettovaglie, il doge ordinò ogni cosa per fare ad un tempo la sortita dal sobborgo e dar battaglia navale. E per tre dì fu combattuto ad armi bianche e dardi artifiziati con fuoco; finchè Safi vedendo averne la peggio, chetamente levò il campo la notte del ventidue settembre.[833]

Minori sembran le forze e meglio giudicata la vittoria, nella battaglia navale che si travagliò il sei agosto del mille e cinque a Reggio; dove i Pisani, emuli ormai di Venezia, ruppero i [342] Musulmani.[834] D'agosto del mille e nove, spezzato il patto del capitano Sato, o cred'io Sa'îd, i Musulmani occupavano un'altra volta Cosenza.[835] Poi si legge che un Ismaele combatteva insieme coi Saraceni l'anno mille undici a Montepeloso; ch'era ucciso nella zuffa un Pasiano e che Ismaele entrava nel castel di Bari;[836] nel qual testo par si debba legger Melo in luogo d'Ismaele:[837] e sarebbe il nome, se fausto o male augurato non so, al certo venerabile e grande, del cittadin di Bari, il quale, levatosi come Smagardo contro la tirannide bizantina, comperò indi a poco le spade normanne. Che gli emiri kelbiti abbiano aiutato a cotesti movimenti di Puglia non può chiamarsi in dubbio: e se ci fossero ignote lor fazioni di guerra, basterebbe la cura che posero le croniche pugliesi a notare le mutazioni di signoria dei Musulmani dal mille quindici al mille e venti, tacendo al tutto quelle che precedettero e che seguirono.[838]

[343] Per cagion della rivoluzione militare del millequindici onde furono menomate le forze dei Kelbiti, è da supporre venuti d'Affrica, non di Sicilia, i Musulmani i quali del mille e sedici posero a terra a Salerno; strinsero un pezzo la capitale con l'armata e con l'esercito; alfine furono costretti abbandonare l'impresa.[839] Altri narra che trovandosi per caso in Salerno quaranta gentiluomini normanni, reduci dal pellegrinaggio di Gerusalemme, sentendosi ribollire il sangue nelle vene alla vista degli Infedeli baldanzosi e dei terrazzani che tremanti s'apprestavano a pagar la taglia, chiedean armi e cavalli, prometteano liberare i Cristiani col ferro; e lor era creduto alle robuste persone e guerriero piglio ed aspetto: tantochè, assaliti alla sprovveduta i nemici, li sbaragliavano con grande strage. Il qual episodio parmi da accettare, sol che s'aggiungano al drappello straniero i cavalli e i fanti del principato salernitano, e che si tolga qualche zero alla cifra dei ventimila Saraceni che leggiamo in una compilazione. I pii guerrieri ricusavano ogni guiderdone, ripigliavano il viaggio ad onta di tutte promesse e preghiere: onde il principe di Salerno mandò secoloro un legato che conducesse a' suoi soldi campion più mondani, recando in Normandia la mostra del ben di Dio che si godeva in Italia: vestimenta di porpora, briglie di cavalli ricoperte a lamine [344] d'oro, melarance, mandorle e noci confettate.[840] E gli stranieri corsero all'esca; ma divorarono insieme la man che la porgea.

[345] Mentre le armi normanne cominciavano con piccoli auspicii a mostrarsi in Puglia, i ribelli avendo uopo di più forti aiuti, non restarono di chiamare i Musulmani di Sicilia. I quali del mille e venti, accozzatisi con un Rayca, pugliese, assediarono e presero Bisignano:[841] che sembra la prima impresa dell'emiro Akhal. Si legge poi che di giugno del milleventitrè un kâid Gia'far con Rayca pose il campo a Bari; donde partitosi il dì appresso, espugnò Palasciano:[842] nel qual testo il nome va corretto forse Abu-Gia'far e sarebbe il medesimo Akhal[843]. Delle altre scorrerie di costui, delle arsioni e guasti e saccheggi in Calabria, vagamente accennati negli annali arabici[844], ignoriamo i particolari, non avendo croniche cristiane di Calabria in questo tempo, ma sol qualche ricordo della Puglia. Tornò ad osteggiar la Puglia il milleventinove Gia'far, o Akhal, insieme con Rayca; assediò il castello d'Obbiano; e si ritrasse per accordo coi terrazzani che dessergli prigioni gli stranieri, com'ei pare, il presidio bizantino[845]. Stavano per cominciare in Sicilia i rivolgimenti che distrussero la dinastia kelbita e la dominazione [346] musulmana, quando di giugno milletrentuno i Musulmani occupavan Cassano; e il tre luglio davano una rotta al catapano Potho.[846]

D'allora in poi non s'intende d'assalti loro in Terraferma, nè v'ha luogo a supporne, ove si consideri lo scompiglio dell'isola, la vittoria di Maniace, l'ingrossar dei venturieri normanni in Puglia e Calabria. I Musulmani che rimasero quivi fino al conquisto della Sicilia, erano rifuggiti o mercatanti. Tale al certo la popolazione infedele di Reggio, la quale il millesessanta s'accozzò coi Cristiani in una infelice fazione navale contro la patria, per isfogare odii di parte o mostrar fede ai novelli signori.[847] Qualche altro esule sventurato, qualche avventuriere di negozio o di scienza, stanziò in questo tempo a Salerno, come sarà detto a suo luogo. Ma il flagello che aveva afflitta per due secoli l'Italia dal Tevere al Faro, si trovò spezzato innanzi la metà dell'undecimo.

Le battiture del quale, furono al certo più spesse e crudeli che non ci sia venuto fatto di raccontarle su i ricordi, pochi e dispersi, di due secoli oscurissimi; delle quali notizie alcune si trovano senza data nè certezza di nomi topografici nelle agiografie; e però non ci si può fare assegnamento.[848] Migliore testimonianza danno i nomi che leggiam tuttavia su le carte geografiche in luoghi di cui non fan motto gli annali cristiani nè dello islam: i quali nomi, e [347] tanti che ne ignoriamo, e tanti che si sono dileguati, ragion vuole derivino dai casi del nono e decimo secolo, anzi che del decimoterzo, quando le squadre musulmane di Federigo secondo e di Manfredi non faceano un passo che gli scrittori guelfi immantinenti non ne ritraessero l'orma. Nido dei Musulmani par sia stato nel nono secolo il Monte Saraceno, come si addimanda, su la costa meridionale del Gargano,[849] a settentrione del qual promontorio, tra Viesti e il lago di Varano, è anche una Punta Saracena. Un monte Saraceno s'innalza rimpetto al comune di San Bartolomeo di Capitanata su l'altra sponda del Fortore. Un altro in Calabria Citeriore, a ponente di Rocca imperiale. Nella stessa provincia s'addimanda Saracena un Comune posto a libeccio di Castrovillari a poche miglia; e sbocca nel Jonio, tra Amendolara e la foce del Crati, il fiumicello Seracino; presso al quale in sala marina è una Torre Saracina come la chiamano. Lo stesso nome di Torre Saracena si scorge nelle carte del secol decimottavo in Calabria Citeriore, tra Longobuco e Bocchigliero. Fino nello Stato papale a poche miglia a greco da Tivoli giace la terra di Saracinesco; a mezzogiorno della quale è l'altra detta Siciliano: nomi lasciati per avventura nei principii del decimo secolo dalle masnade del Garigliano, o alla fine dell'undecimo [348] dai Musulmani di Sicilia, che menò seco Roberto Guiscardo, per liberare papa Ildebrando dai Romani e dai Tedeschi.

CAPITOLO VIII.

Dopo otto anni di prospero reggimento, Iûsuf, colpito d'emiplegía del lato sinistro, risegnò l'emirato al figliuolo Gia'far, al quale avea già procacciato in cancelleria d'Egitto il diploma di sostituzione:[850] e adesso a nome del califo Hâkem-biamr-Allah gli erano inviate le bandiere del comando, con prerogativa di Tâg-ed-dawla e Seif-el-milla, che suonan “Corona dell'Impero e Spada della Fede.”[851] Faccende di cancelleria, parendo che ormai i califi fatemiti non pretendessero esercitare autorità in Sicilia, nè eleggerne gli emiri, ma sol mantenere le cerimonie dell'investitura, come faceano in Affrica; dove ciò non togliea che gli emiri zîriti loro contendessero qualche città di frontiera con le ragioni e con la spada.[852] E veramente nella vita di Hâkem, di che sappiam tante minuzie, non si fa motto mai della Sicilia, nè [349] del reggimento nè degli emiri di quella; se non che alcun Siciliano, nativo ovvero oriundo, comparisce nella storia politica e letteraria dell'Egitto, non altrimenti che gli stranieri, dell'Irâk, di Siria, d'Affrica. Di cotesti Siciliani diremo là dove cadrà in acconcio. Da un'altra mano la corte degli emiri in Palermo del tutto si ordinava come di principi independenti. Si veggono nel regno di Gia'far gli oficii di vizîr e di hâgib, ossia ministro e ciambellano; i quali mai non furono, nè il poteano, appo gli emiri di provincia. I poeti in loro apostrofe a Iûsuf e al figliuolo chiamavanli Malek, che suona re, titol nuovo nell'islamismo; e scrivean come se mai non fosse stato al mondo il califato d'Egitto.[853]

Gia'far ebbe dal padre, insieme col principato, ciò che si potea tramandare per liberale educazione: non le virtù dell'animo nè della mente. Fece mediocri versi; entrò nelle antologie degli Arabi in grazia d'un epigramma improvvisato in Egitto (1035), dove andò a finir comodamente la vita quando il cacciarono di Sicilia: volgare antitesi sopra due paggi che gli venner visti in abiti di dibâg[854] l'un rosso e l'altro nero; la qual freddura piacque assai in quell'Arcadia arabica dell'undecimo e duodecimo secolo.[855] Del rimanente, indole pigra, avara, crudele: nelle sue mani casa kelbita diè la volta al comun precipizio delle [350] dinastie musulmane, nelle quali ad una o due generazioni di guerrieri succedettero per lo più i Sardanapali; come se il naturale intristir dei sangui regii s'affrettasse dentro le mura dell'harem, dove si sciupa il padre, e la fiacca prole alla sua volta vi lascia quel po' di spirito rimaso nella razza.

Dal martire Abu-l-Kâsem in poi, gli emiri siciliani aveano amato meglio i piaceri della reggia in Palermo che i combattimenti di Terraferma. Così il buon Iûsuf, così Gia'far; il quale par quel desso ch'edificò il castel di Maredolce tra le abbondanti acque e i lieti giardini che furon poi delizia dei re normanni.[856] I capitani, intanto, mandati in guerra, riportavano a casa, con qualche poco di bottino, la vergogna della ritirata a Bari (1004) e della sconfitta a Reggio (1005): il principe stracurato e i ministri procaccianti aprian la strada a domestiche ambizioni. Donde Ali, figliuolo di Iûsuf, congiurò contro il fratello coi Berberi e gli schiavi negri; coi quali negli ultimi di gennaio del mille e quindici, ridottosi in un luogo non lungi di Palermo, si chiarì ribelle. Gia'far gli mandava incontro senza indugio il giund e le milizie della capitale:[857] a dì trenta gennaio si venne alla zuffa, la quale finì con molto sangue dei sollevati, e il rimanente diessi alla fuga. Ali preso, menato al fratello; il quale comandò [351] di metterlo a morte, non curando le lagrime del padre paralitico: talchè entro otto giorni il temerario giovane si giocò la testa e la perdette. Gia'far fe' trucidar dal primo all'ultimo gli schiavi ribellati, e i Berberi scacciò dall'isola con le famiglie loro, niuno eccettuato; i quali si ridussero in Affrica.[858]

Le croniche danno un insolito barlume su la ragione degli avvenimenti, aggiugnendo, che rimaso a Gia'far il solo giund siciliano e menomato l'esercito, i Siciliani imbaldanzirono contro i governanti.[859] Indi si vede essere stati i Negri squadre stanziali. I Berberi, avanzo delle colonie spopolate un tempo (940) da Khalîl-ibn-Ishak, o piuttosto delle soldatesche venute d'Affrica sotto i due primi emiri kelbiti, sembran anco milizia stanziale: squadre di giund che gli emiri tenessero appo di loro, pronte a servirli in casa e [352] fuori, stipendiate con assegnazione temporanea di dhiâ, o vogliam dir poderi demaniali: picciola mano di gente, poichè tornò sì agevole di cacciarla via. L'attentato di Ali fu dunque cospirazione militare. Gia'far con le stragi e il bando volle vendicarsi e assicurarsi; ma non pensò che, rimanendo nelle forze di coloro che l'avean mantenuto sul trono, non potea maltrattarli senza pericolo.

A nulla forse ei pensava se non alle vanità e voluttà del principato; rimettendo ad altri la cura di trovar moneta che bastasse allo spendio. Per sua mala sorte s'avvenne in un segretario Hasan-ibn-Mohammed da Bâghâia in Affrica,[860] e fecelo vizîr. Ai cui consigli Gia'far comandava che in luogo dell'antica tassa invariabile d'un tanto ad aratata[861] su i terreni, si levasse il dieci per cento su i grani e le frutta; allegando l'usanza generale degli Stati musulmani.[862] I terreni, s'intenda, tassati a kharâg perpetuo: ed era arbitrario l'atto; non potendosi in giure musulmano mutar nè la quantità nè il modo di riscossione fermati al conquisto e diversi secondo i paesi, talchè la costumanza degli altri luoghi, molti o pochi, non potea far legge in Sicilia.[863] Che tal novazione [353] aumentasse il peso, non occorre dimostrarlo, quando il ministro e l'emiro la vollero, e i possessori se ne mossero a far quel che fecero. Il vizîr aggravò il mal tolto trattando con modi villani e superbi i kâid e gli sceikhi, che è a dire i capi delle nobili famiglie militari e i notabili della cittadinanza. E l'emiro, al quale è naturale che se ne richiamassero, parlò ed operò leonino.[864]

Riposava sicuro, nella severità sua e sagacità del ministro, quando, il sei di moharrem del quattrocento dieci (13 maggio 1019), sollevatasi repente la capitale, nobili e plebei trassero al palagio; l'assalirono, abbatterono certi casamenti esteriori e facendosi notte intorniarono le mura come in assedio. Già già mancavan le forze ai pochi difensori; le turbe stavano per saltar dentro, quando si vide uscire in portantina il paralitico Iûsuf; e per carità e riverenza s'arrestarono a un tratto gli assalitori. Il quale si studiò a calmarli con parole e promessa di far quant'e' vorrebbono; e quelli al veder il povero vegliardo rifinito dagli acciacchi e dall'ansietà, ruppero in lagrime: [354] quasi supplicando si rifecero a contargli tutte le angherie sostenute. Iûsuf rispondea farsi mallevadore del figliuolo, e ch'ei medesimo volea gastigarlo, e dargli lo scambio in persona di cui lor paresse. Domandarono l'altro figliuolo Ahmed, soprannominato Akhal;[865] e incontanente Iûsuf facea promulgare la deposizione di Gia'far, e la esaltazione di Ahmed. Domandarono Hasan di Bâghâia e il ciambellano Abu-Râfi'; i quali consegnati al popolo furono entrambi uccisi e condotta in giro per la città la testa del vizîr, ch'era più odiato, e arso il tronco, senza sepoltura. E ciascuno se ne tornò a casa.

Iûsuf intanto temendo non inviperissero peggio gustato il sangue, avea fatto imbarcare Gia'far sopra un legno che sciogliea per l'Egitto; e poco appresso in altra nave ei lo seguì. Moriron poscia entrambi in Egitto, dove avean recato secoloro in contanti seicento settantamila dinâr, che son circa dieci milioni di lire italiane. I cronisti arabi, lodando a lor uso la carità e liberalità, notano che Iûsuf possedeva in Sicilia tredici o quattordici mila giumente, senza contarvi gli altri animali da sella e da soma, e che venendo a morte non lasciò pure un ronzino.[866] Ma a considerar [355] meglio i fatti, quello stupendo armento, per non dir nulla dei dieci milioni di moneta, prova la quantità dei poderi tenuti in demanio nei regni di Iûsuf e di Gia'far. È verosimile che costui, cacciati i Berberi ribelli del mille e quindici, abbia ritenuto i poderi, anzichè concederli in beneficio militare ai Siciliani; e che il dispetto di tal avarizia abbia fatto sentir più dura l'offesa dell'aggravata tassa prediale.

Mentre germogliavano in Sicilia così fatte discordie, crebbe in Affrica la dominazione zîrita; la cui potenza e le vicende interiori e il crollo che le diè una nuova irruzione di Arabi, a volta a volta si risentirono nell'isola. Bolukkîn con le armi di Sanhâgia, la riputazione di Moezz, e gli ordini dell'antica colonia arabica, occupò tanto o quanto il paese infino a Ceuta; raffrenò gli Omeiadi di Spagna che tenean parte della costiera; si spinse a mezzogiorno dell'Atlante; rintuzzò la rivale nazione di Zenata; ebbe dal califo Azîz le città su i confini dell'Egitto, negategli nella prima concessione: talchè, venendo a morte (984), era ubbidito più come principe che vicario da Tripoli a Fez. Succedettegli il figliuolo Mansûr, il quale mantenne con varia fortuna la potenza del padre; sottopose al giogo la tribù di Kotama.[867] E [356] ch'ei si sentisse saldo in sol trono, lo mostran le parole: “Mio padre e l'avolo comandarono con la spada; quanto a me non adoprerò forza se non che i benefizii.” E l'altro detto: “Ho ereditato questo reame da' miei, nol tengo in virtù d'un rescritto, nè mel farà lasciare un rescritto.”[868]

Furon serbate contuttociò le apparenze; sì che esaltato, alla morte di Mansûr, il figliuolo Badîs (996), gli vennero del Cairo, a nome di Hakem, le vestimenta, il diploma[869] e il titolo di Nasr-ed-dawla, ch'è a dir “Sostegno dell'Impero.”[870] Ma a capo di tre anni, il governatore di Tripoli per Badîs, tradito il signor suo, offriva la città alla corte fatemita; e questa, come di furto, se la prendea, commettendola a Iânis il Siciliano, governatore di Barca, forse liberto di sangue cristiano. Appo il quale mandando Badîs a dolersi, rispose altero: e il principe d'Affrica, quasi il califo non ci entrasse e fosse la contesa tra lui e Iânis, gl'inviava di Mehdia con genti un Gia'far-ibn-Habîb; il quale pose il campo ad Agiâs tra Cabès e Tripoli. Mandò poi a dire a Iânis che di tre partiti scegliesse l'uno: rappresentarsi a Badîs; mostrare il diploma che avessegli affidato il governo di Tripoli; o disporsi alla battaglia. E Iânis gli scrivea: “Ch'io vada a corte del tuo signore, non ne parliamo. Esibir diploma non debbo, sondo io vicario del Principe, dei Credenti in provincia maggior di Tripoli. Dell'altro caso, che rimane, non darti briga: aspetta dove sei, chè ci [357] vedrem presto.” Entrambi mossero; s'affrontarono tra gli uliveti di un villaggio detto Zânzûr. Dove Iânis fu rotto con molta strage l'anno trecentonovanta (12 dic. 999 — 30 novembre 1000); e fatto prigione, pregò il recassero a Gia'far, ma gliene portaron la sola testa. Li sbaragliati s'afforzarono a Tripoli[871] la quale debolmente aiutata dal siciliano Zeidân, com'altri legge, lo schiavone Reidân,[872] che reggeva allora la corte del Cairo, tornò in potere di Badîs, dopo lunghe vicende che a noi non occorre di raccontare.[873]

Fortunosa età per la schiatta berbera, la quale dopo due secoli si sciogliea, senza ferir colpo, dalla dominazione degli Arabi, serbando gli elementi di civiltà di quegli stranieri: religione, leggi, scienze, lettere, industrie, ed una popolazione cittadinesca data a cotesti esercizii, impotente ormai per numero e tenor di vita a ripigliare il comando. Gli aborigeni del continente affricano dal Mediterraneo al Tropico, non erano mai stati sì padroni in casa loro, dacchè Cartaginesi, Romani, Vandali, Bizantini, Arabi occuparono l'un dopo l'altro la regione settentrionale. Ma il veleno della discordia c'hanno nel sangue, sempre lor tolse di cacciare gli stranieri; e quando rimaser soli, non fe' allignar tra loro nè fratellanza, [358] nè amistà, nè almeno persuasione di dover vivere insieme; ed ha negato all'universale infino a questi dì nostri l'incivilimento al quale gli individui parrebbero maravigliosamente disposti. Senza dir dell'antagonismo tra i varii rami del ceppo berbero e soprattutto dei Zenata, che furon sempre dei più selvatichi, contro i Sanhâgia, che sembrano di più docil natura, la divisione nacque nella stessa casa zîrita, sotto il regno di Badîs, quando Hammâd, figliuol dell'avolo Bolukkîn, dopo aver combattuto a pro della dinastia, ribellatosi (1014), fondò uno Stato independente nelle odierne province di Costantina ed Algeri.[874] Altre calamità piovvero su que' lacerati dalla guerra civile.

Del trecentonovantacinque (1004-5), al dir del contemporaneo Ibn-Rekîk, la carestia e la pestilenza si messero a gara a spopolar l'Affrica propria; i contadini fuggirono dalle terre non trovando di che mangiare; deserti i villaggi; consumato presto quel che teneasi in serbo nelle città; e, in alcune tribù, i Berberi s'ammazzaron tra loro per isfamarsi di carne umana. Ad un tempo la peste[875] mieteva a centinaia e migliaia gli abitatori delle città: chi ha visto l'orrida scena con gli occhi suoi la raffigura nei particolari narrati dal cronista. Fu tanto che a Kairewân rimasero abbandonate moschee, forni, bagni, chi non avea da ardere, andava a far legna nelle porte e nei tetti delle case senza padrone. Cacciati [359] da quei flagelli, moltissimi abitatori delle città e delle campagne ripararono in Sicilia. La moría cessò; la carestia mitigossi;[876] poi ricomparve, con le cavallette e con la guerra civile, l'anno quattrocentosei (1015-16) e di nuovo il quattrocentonove (1018-19) e il quattrocentotredici (1022-23), e così di tratto in tratto.[877]

Morto intanto Badîs (aprile 1016) ed esaltato il figliuolo Moezz, Scerf-ed-dawla, ossia “Gloria dell'Impero” come era scritto nella patente del califo,[878] divampò in quelle parti crudelissima proscrizione religiosa. Gli ortodossi d'Affrica, calcati per un secolo dagli Sciiti, rimbaldanzirono alla sgombrar della corte fatemita: ormai sì grossi e rabbiosi, che Hammâd fece assegnamento sopra di loro per togliere mezzo il regno ai nipoti; onde, chiaritosi ribelle, ristorò (1014) il culto sunnita, pose mano al sangue degli eretici nelle province che gli ubbidivano, ed entrato per forza d'armi a Bugia, tanto stigò i cittadini di Tunis che ammazzarono popolarmente que' della setta,[879] degni di mille morti, perchè non volean ripetere che Abu-Bekr ed Omar fossero in grazia di Dio. Così la cupidigia e la vendetta prendon sempre una maschera più brutta dello stesso ceffo loro, se lo mostrassero scoperto. Soffiavan entro il fuoco dal Kairewân quegli indomiti dottori di schiatta arabica; rincalzando forse gli argomenti teologici con l'esempio delle orribilità [360] che faceva ogni dì in Egitto il pontefice delli Sciiti, il sanguinario e matto Hâkem, arrivato non guari dopo al colmo d'ogni empietà, quando (1016-1021) assentì a dirsi Iddio in una religione di suo conio, e per diletto mise a sangue ed a fuoco la capitale.[880] L'opinione pubblica trapelava, com'avviene, nella stessa reggia degli Zîriti; dove il precettore di Moezz stillò la credenza ortodossa nell'animo baldanzoso d'un re d'otto anni. Ond'ecco un dì (luglio 1016) che cavalcando il fanciullo nelle vie di Kairewân, gli sfugge di bocca una benedizione ad Abu-Bekr ed Omar; e ne scoppia repentino scompiglio tra il popolo e i seguaci del principe che in parte erano Sciiti. Fatti questi miseri in pezzi, cominciato a saccheggiare le case, a ricercare per ogni luogo i sospetti di quella, e di qual si fosse eresia, ad ammazzarli, uomini, donne e fanciulli; e ardean poscia i cadaveri e rapivano quanto poteano. La proscrizione tumultuaria propagossi in un attimo a Mehdia e per tutte le città dell'Affrica propria; s'allargò nei villaggi. Fra que' che morirono difendendosi, e quei che furono scannati come pecore, sommarono a parecchie migliaia. Rimase il nome di “Lago di Sangue” alla contrada ove caddero i primi tremila, e il fatto passò in proverbio, come la Saint-Barthélemi.[881]

[361] Durò almen due anni la persecuzione, mettendovi mano il principe per risparmiar, com'ei pare, il sangue; e non stando sempre a' patti il popolazzo. Perchè, del quattrocentonove (19 maggio 1018, 7 maggio 1019) si nota l'eccidio d'una man di Sciiti che se n'andavan esuli in Sicilia. Da dugento uomini montati a cavallo, e forse disarmati, i quali con lor famigliuole e lor genti di casa viaggiavano sotto scorta di cavalleria alla volta di Mehdia, per imbarcarsi. Pernottando alla borgata detta di Kâmil, rimorse la coscienza ai villani de' contorni se li lasciassero andar vivi: s'armarono; dettero addosso agli eretici non difesi da loro guardie e tutti li trucidarono; delle donne quante eran giovani e quante lor parvero belle disonorarono e poscia le uccisero.[882] Il miserando caso ci attesta che al par dei cacciati dalla fame del mille e cinque, riparavano in Sicilia gli eretici perseguitati in questi due anni, e che il governo d'Affrica sopravvedeva all'uscita, fornia forse le navi.

Suggellossi col sangue degli Sciiti l'amistà della nuova dinastia e delle popolazioni arabiche, ristrette ormai nelle città; poichè prima gli Aghlabiti, poscia i Fatemiti, per corta ragion di Stato, avean battuto e annichilato i nobili del giund stanziati nei villaggi.[883] In molte città i Berberi, in alcune anche gli Afarika, [362] avanzi de' Cristiani del paese, soggiornavano con gli Arabi,[884] e già parea che le varie genti e la novella dinastia si acconciassero a far una nazione. Già gli Zîriti, abbandonata l'antica lor sede di Ascîr nelle montagne di Titeri, s'eran posti a Mansuria a mezzo miglio del Kairewân, o piuttosto dentro la stessa capitale arabica, la quale fu poi congiunta da fortificazioni a Mansuria.[885] Fiorirono in questo tempo le manifatture e i commerci, condotti da una mano nel Mediterraneo con Sicilia, Spagna e altri paesi marittimi;[886] dall'altra mano con le regioni interne del continente affricano. La quale prosperità industriale si potrebbe d'altronde argomentar dallo smodato lusso della corte zîrita in feste pubbliche, sposalizii, funerali, doni ai califi d'Egitto; ed anche dallo sminuito valore, o vogliasi dire cresciuta copia, dei preziosi metalli.[887] [363] Attestano i commerci con l'Affrica centrale i presenti mandati a Mansûr dai principi del Sudân (992) e la barbarica pompa degli Zîriti che in lor solenni cavalcate usciano con elefanti, e giraffe, oltre le belve indigene dell'Atlante.[888]

Nè la potenza sembrava minore del fasto nel regno di Moezz-ibn-Badîs, temuto da tutti per mezzo secolo, com'uomo intraprendente e savio nei consigli e gagliardo nelle armi. Infino agli ultimi anni, quando subita rovina lo ridusse quasi al nulla (1053), ei fu per vero il più possente principe musulmano delle regioni bagnate dal Mediterraneo.[889] Comprendendo la comodità che gli dava il mare ad allargar suo dominio, egli il primo di sua schiatta, provvide a ristorare [364] il navilio affricano, del quale non si fa motto da che il califo fatimita Moezz mutò la sede e portò via quanto potè in Egitto. Del mille ventitrè, Moezz-ibn-Bâdîs facea racconciare gli arsenali di Mehdia, fabbricare attrezzi navali in copia non più vista, costruir legni da guerra e bandire l'arruolamento dei marinari:[890] ed a capo di pochi anni, l'armata affricana, collegata con la siciliana, combattea contro i Bizantini nell'Arcipelago; e il principe zîrita facea prova a insignorirsi della Sicilia. Sventura dei Musulmani dell'isola ch'egli ebbe tanto rigoglio quando cominciaron tra loro le guerre civili, e si trovò povero e disarmato quando si fece in pezzi lo stato kelbita.

CAPITOLO IX.

Akhal cominciò con lieti auspicii. Ridotto all'obbedienza qualche castello che se ne fosse spiccato agli avvisi della rivoluzione;[891] avuto da Hâkem il titolo di Teaîd-ed-dawla (Sostegno dell'impero), attese alle faccende pubbliche; ristorò la tranquillità e contentezza in casa e la guerra fuori.[892] Nè sol mandava [365] le gualdane in Terraferma, chè sovente capitanò egli stesso gli eserciti, favoreggiando, com'abbiam detto, i ribelli di Puglia.[893]

Donde Basilio imperatore, uom d'armi, ch'avea testè rintuzzati in Oriente e Musulmani e Russi e Bulgari, pensò, con tutti i suoi sessantott'anni, di recar la guerra egli stesso in Sicilia. Mandò innanzi l'eunuco Oreste, fidatissimo ciambellano ed aiutante di campo, con grosse schiere di sudditi ed ausiliari: Macedoni, Vallachi, Bulgari, Russi, che solean militare sotto le insegne bizantine;[894] i quali cacciarono i Siciliani d'ogni luogo che occupavano in Calabria. Reggio allora fu ristorata per le cure del catapano Boioanni, che servisse di stanze d'inverno all'oste, la quale per passar lo Stretto aspettava altre forze con l'imperatore[895] e il navilio con un suo [366] parente.[896] Si differì poi l'impresa per l'infermità di Basilio, che di corto ne morì in dicembre del milleventicinque.[897]

Divulgatosi il pericolo della Sicilia, Moezz-ibn-Bâdis profferse, ed Akhal accettò aiuti; poichè bandìssi in Affrica la guerra sacra; alla quale l'ambizioso signore agevolmente spingea quelle turbe sì infocate contro gli eretici. Tanto che li stivò in quattrocento barcacce: di gennaio del milleventisei li avviò alla volta di Sicilia, fidandosi in Dio e nella bonaccia. Presso Pantellaria si leva un turbine di vento, ed ecco a un tratto capovolti e affondati i legni; campando pochi uomini dal naufragio.[898] Più efficaci ausiliari furono ad Akhal la balordaggine di Costantino [367] ottavo rimaso solo sul trono a Costantinopoli, una dissenteria che s'apprese in Calabria all'esercito e la niuna esperienza d'Oreste nel governare la guerra. I Siciliani, assalitolo improvvisamente, gli diedero una sanguinosa rotta; per vendicar la quale, Romano Argirio ch'era succeduto a Costantino (novembre 1028) racimolò nell'Ellade e Macedonia que' che gli pareano i migliori soldati e sì mandolli in Italia. Ma nulla fecero,[899] o fuggirono dinanzi i Musulmani nelle due ricordate battaglie del mille trentuno.[900]

S'arrischiaron poi gli Affricani e i Siciliani a lontane scorrerie navali contro l'Impero. Un'armatetta musulmana, di qual nazione non si sa, dato il guasto alle costiere d'Illiria, corseggiava infino a Corfù: contro la quale uscito il navilio di Ragusa e il patrizio Niceforo governatore di Nauplia, la vinsero; presero la più parte dei legni, e quei che scamparono fecero naufragio ne' mari di Sicilia, del milletrentuno in sul fin della state.[901] Del trentadue, gli Affricani con grande sforzo infestavano le costiere ed isole di Grecia; e il patrizio Niceforo, superatili anco in battaglia, lor fe' cinquecento prigioni.[902] Affricani e Siciliani di maggio milletrentacinque si spinsero depredando tra le Cicladi fino alla costiera di Tracia; della quale temerità bastarono a punirli i governatori di provincia che mandatine altri cinquecento prigioni a Costantinopoli, [368] impalarono i rimanenti lungo la marina d'Asia, da Adramito a Strobilo. Nè l'esempio atterrì tanto i corsari d'Affrica e di Sicilia che nella state un'altra armatetta loro non tentasse la Licia e isole vicine: i quali parimenti sconfitti dal navilio provinciale e presi, furono mazzerati, fuorchè una terza frotta di cinquecento che portò testimonianza di vittoria alla capitale. In questo mezzo la corte bizantina avea mandato all'emir di Sicilia un Giorgio Probato, a trattar la pace,[903] o piuttosto a gittargli un laccio al collo. Altro oratore greco andava appo Moezz-ibn-Bâdis con ricchi presenti di sete, arnesi e rarità.[904]

Akhal s'era messo per un mal terreno, ch'anelando d'uscirne prese la scorciatoia al precipizio. Narrano gli annali com'egli stando in su le armi in terra di nimici, sovente lasciasse il reggimento dell'isola al figliuolo per nome Gia'far, ch'era l'opposto di lui: nè giusto nè umano coi sudditi. E senza appicco, voltando pagina, leggiamo che Akhal, assembrati i Siciliani, dice volerli sgravare degli Affricani partecipanti di lor paesi e poderi;[905] esser disposto a cacciar quegli intrusi. A che i Siciliani rispondeano non potersi, quando gli Affricani s'erano imparentati con esso loro e commiste le due genti e divenute [369] tutt'una. L'emiro li accomiatò. Chiamati a sè gli Affricani, proponea lo stesso partito contro i Siciliani: ed assentirono. Indi Akhal a favorire gli Affricani: se li messe attorno; francò lor poderi e levò il Kharâg da que' soli dei Siciliani.[906] Tra cotesti cenni vaghi, disparati ed a prima vista contraddittorii, dobbiamo discernere il fatto che scompigliò e capovolse la Sicilia musulmana.

Ne' ricordi dei due primi secoli dell'egira i giund prendono nome ordinariamente dal paese ove soggiornano: i Sirii, gli Egiziani, i Khorassaniti che passano di tratto in tratto in Affrica e Spagna, son le milizie arabiche di Siria, Egitto e Khorassan, mescolati coi proprii liberti delle schiatte vinte. Si poteano chiamar dunque Siciliani, verso il mille, i discendenti dai primi conquistatori arabi del paese; ed Affricani i figliuoli dei sopravvenuti quando cadde la dinastia aghlabita (910), quando s'innalzò la kelbita (948) infino a quei che testè avea cacciato d'Affrica (1004-1019) la fame e la persecuzione religiosa. Ma cimentando tal supposto con le condizioni che dà la cronica, in parte vi si adatterebbero e in parte no. Starebbe bene a dire gli Affricani partecipanti del paese, cioè degli oficii pubblici e stipendii militari; si potrebbe ammettere, in significato più largo, la partecipazione loro nella proprietà territoriale;[907] ma sarebbe duro a credere che [370] poche famiglie di rifuggiti e di avventurieri fossero cresciute a tal numero che Akhal vi potesse far assegnamento contro l'antica nobiltà e il popolo musulmano dell'isola. Inverosimile parmi che un principe arabo di nobil sangue abbassasse alla condizione di ra'ia, o plebe, il fior della nobiltà, cancellandoli dal giund: chè a questo torna la voce “cacciare” adoperata nel testo, non a cacciar dal paese. Inverosimile ch'ei levasse il kharâg su i poderi dell'antica nobiltà e condonasselo alla nuova: ingiustizia da non venire in mente a tiranno musulmano. Ma intendendo, all'uso nostrale, Siciliani la progenie degli antichi abitatori educata nell'islamismo, ed Affricani la progenie del giund d'Affrica trapiantato nell'isola in varii tempi, i nomi convengono alle origini e si decifera bene il testo. Akhal volendo stigare i Siciliani, ricorda loro che gli intrusi godonsi in parte il retaggio degli avi; e quand'ei [371] passa dalle arti oratorie ai fatti, distingue le proprietà[908] degli uni e degli altri: lascia o rende immuni quelle dei vincitori, aggrava quella dei vinti, con una rivendicazione di dritti fiscali, alla quale non avevan che rispondere i giuristi della scuola di Mâlek.[909] Si ritrova in Sicilia così la generazione d'uomini che non potea mancarvi; quella che in Spagna si chiamò dei Mowalled ed aiutò alla dissoluzione del califato;[910] quella che a capo di dieci anni da questa novazione d'Akhal occupò lo stato nella Sicilia centrale; gli “uomini ignobili” come li chiaman allora le croniche.[911] Veramente la divisione di Affricani e Siciliani, torna a vincitori e vinti, a nobili e popolo: come in ogni paese [372] conquistato, mescolandosi la schiatta, ne avanza la distinzione di classi: in Italia, gli Italiani fatti popolo e i Longobardi nobiltà; in Francia, i Galli e i Franchi; in Inghilterra, i Sassoni e i Normanni. Non ho parlato del supposto che Siciliani fossero gli Arabi, ed Affricani i Berberi, perchè sarebbe molto alieno dall'uso del linguaggio e dai fatti della storia, i quali ci mostrano ridotta al nulla la schiatta berbera in Sicilia[912].

La nobiltà era scemata e fiaccata, come in ogni altro stato musulmano, per la lotta contro il principato. Dopo gli Aghlabiti e i primi Fatemiti, le diè duro crollo (948) Hasan-ibn-Ali, il Kelbita; il figliuolo Ahmed ne accarezzò ed imbrigliò li avanzi (966); e l'altro figliuolo Abu-l-Kâsim li trasse seco al martirio sul campo di Stilo (982). Talchè i nobili per loro virtù nelle guerre d'independenza e di religione, per loro vizii nei tumulti dell'oligarchia, avean perduto il sangue vitale, mal supplendolo le famiglie che veniano d'Affrica: menomati di numero e facoltà, cominciarono fors'anco a tediarsi della guerra quando i Kelbiti promossero le lettere, le cortesie e il viver lieto.

Intanto, corsi due secoli dal conquisto, era venuto su il popolo, o cittadinanza che dir si voglia. Da una mano i Musulmani mercatanti e artigiani che passavano d'Affrica in Sicilia e raggranellavano danari con la industria; dall'altra mano, assai maggior numero, [373] i Cristiani del paese, proprietarii ed affittaiuoli delle terre che si voltavano all'islamismo; i liberti di case nobili, che convertiti s'avviavano agli oficii pubblici ed alla milizia; i figliuoli degli uni e degli altri, spesati negli studii legali e fatti notabili per sacro dritto della scienza, componeano tal classe che per numero vincea di gran lunga la nobiltà, nè avea da invidiarle gli avvantaggi della ricchezza nè dell'intelletto; le si accomunava negli oficii dello stato e la superava nei consigli municipali. La cittadinanza di Palermo comparisce adulta fin dalla metà del decimo secolo, quando favorì Hasan contro i nobili; e la plebe, come avvien sempre, abbandonò i nobili e seguì i popolani grassi. Nelle città minori doveano intervenire i medesimi effetti, col divario che portava il minor numero dei popolani oriundi d'Affrica. I villaggi, sede della popolazione rurale, eran tenuti dai proprietarii minori d'origine siciliana, con poca o niuna mescolanza di nobili. La nobiltà prevalea solo nella costiera orientale, occupata di recente, la quale essendo abitata tuttavia da Cristiani,[913] le classi inferiori non entravano nella repubblica musulmana. Nel rimanente dell'isola la cittadinanza, favorita fin qui dai principi kelbiti, si sentia più forte de' nobili. Pur l'invidia non avea partorito per anco guerra civile. S'era dimenticato l'infausto vocabolo dopo spenti i Berberi: quando si pigliavano le armi in piazza l'era per cavar la bizzarria ad un ministro o un emiro.

[374] Ma il principato, per necessità o cupidigia, accese la discordia. Le milizie siciliane erano scemate con la nobiltà; cacciati i mercenarii (1015) non rimanea niuno a difendere la reggia (1019), e pochi a difender lo stato. Akhal vi pose mente, riscosso dal pericolo degli assalti bizantini e degli aiuti di Moezz (1025); fors'anco gli piacea, com'uomo di guerra ch'ei si mostrò in Calabria, di tirarsi dietro più grosso esercito e imitare la virtù dei primi Kelbiti. Ma nelle presenti condizioni, l'esercito non si potea rifornire che di mercenarii; le entrate dei poderi demaniali non bastavano alla spesa, o egli le volea serbare alla corte; e aggravare il kharâg non osava, dopo l'esempio del fratello. Altro modo non avea dunque che dividere i sudditi, i quali uniti avean cacciato Gia'far; trarre a sè una parte, e con lo aiuto di quella strappar il danaro dalla borsa dell'altra. Le parti eran fatte; la scelta non dubbia tra nobili e popolani: gli uni sdegnosi della gente nuova, correvoli ai sorrisi di corte, ordinati ed usi a milizia; gli altri intesi a loro industrie, senza storia nè legame di casati; e, come più erano, più potean pagare. Akhal parlò all'orecchio agli uni ed agli altri per tastarli e aizzarli, prima di venirne alla commedia delle adunanze. Fermato bene l'intento, colta l'occasione della guerra in Calabria o di qualche lagnanza contro il proprio figliuolo, convocò i notabili siciliani; espose il bisogno dello stato; lor diè l'eletta tra un partito impossibile e uno spiacevole: fornir essi la gente all'esercito o la moneta. Quando ricusarono l'uno e l'altro, ei compì il disegno, assentito già certamente dai nobili. Bandisce [375] che i Siciliani abbiano a pagare il kharâg ossia, com'ei pare, la doppia decima invece del dazio fisso: leva il danaro col braccio forte dei nobili e dei mercenarii che allora accozzò, chiamati in Palermo, stanziati nella Khalesa ed altri luoghi opportuni. Così mi par da delineare il colpo di stato di Akhal, che va messo tra il mille trentuno e il mille trentacinque; perchè innanzi il trentuno si combattea tuttavia in Calabria, e gli scrittori bizantini[914] accennano in su lo scorcio del sei mille cinquecenquarantatrè (1 settembre 1034 a 31 agosto 1035) il principio della guerra civile in Sicilia; gli scrittori arabici pongono nel quattrocento venzette (4 novembre 1035 a 23 ottobre 1036) la reazione degli oppressi.[915]

Il biasimo ricadrebbe sopra Akhal, se i demanii bastavano alla ristorazione dell'esercito; e, se no, andrebbe diviso tra i Siciliani, che ricusavano il bisognevole, e l'emiro che sel prendea con astuzia [376] e violenza, non iscusate dallo scopo. Ma in questa, come in cento altre vicende di maggior momento e più note e più vicine, la storia non arriva a cogliere in flagrante il primo colpevole. Primi a prendere le armi furono i Siciliani; dei quali par siasi fatto capo un Abu-Hafs,[916] fratello d'Akhal, impaziente di torgli il regno, sì come l'avea tentato l'altro fratello Ali, contro Gia'far e lo stesso Akhal, fattolo volontariamente o no: chè i figli del buon Iûsuf rassomiglian forte agli Atridi. Primo a chiedere aiuti stranieri sembra sia stato l'emiro; appo il quale venuto a trattar la pace, dopo il maggio milletrentacinque, Giorgio Probata, “sì destramente condusse il negozio,” scrivono i Bizantini, ch'ei tornò a Costantinopoli col figliuol dell'emiro: ed avanti la fine d'agosto la pace era fermata; Akhal avea accettato dall'impero il titol di Maestro; e, sendo combattuto e incalzato da Abu-Hafs, avea chiesto aiuti al novello padrone, il quale s'apprestava a mandargli Maniace con un esercito.[917] Maestro era dignità di corte maggiore del Patrizio ed anco grado militare, come diremmo noi Maresciallo:[918] onde veggiamo intitolarsi Maestri dei militi i duchi di Napoli e alcun doge di Venezia,[919] capi di stati che dipendean di nome dalla corte bizantina; e veggiam [377] dato da quella onor di patrizio or a dogi amici or a principi longobardi che si piegavano a lei.[920] Però il titolo di Akhal non era vana parola. Marchio di vassallaggio; vergogna a Kelbita ed a Musulmano; ottimo pretesto ai sudditi disaffetti, ad un fratello ambizioso e ad un potente vicino.

Le quali pratiche di Akhal e qualche successo della guerra civile sospinsero i ribelli ad imitarlo. Dopo il quattro novembre milletrentacinque, andavano a Moezz-ibn-Bâdîs messaggi dei Siciliani a profferirgli l'isola, s'ei liberassela dagli insopportabili soprusi d'Akhal; e se no, minacciavano di darsi, come uomini disperati, all'impero bizantino. E Moezz mandò loro il figliuolo Abd-Allah, con tremila cavalli e tremila fanti. Il quale in lunga guerra più volte si scontrò con l'emiro, ed aveane l'avvantaggio[921] con l'aiuto della parte siciliana e di Abu-Hafs, quando Leone Opo mandato (1034) a capitanare l'esercito d'Italia in luogo d'Oreste, passò il Faro, l'anno milletrentasette, sollecitato da Akhal, che avea l'acqua alla gola. Leone gli fe' largo; ruppe le genti di Moezz: poi temette, o il disse, che i perfidi Musulmani si rappattumassero tra loro per tagliare a pezzi l'esercito battezzato; e tornossene in Calabria, senz'altro frutto che di liberare quindicimila Cristiani prigioni, o piuttosto abitatori [378] di Sicilia cacciati dalla paura di quell'atroce guerra civile.[922] Allora prevalsero le armi di Moezz e de' partigiani.[923] Akhal non ebbe altro rifugio che le mura della Khâlesa, dove fu assediato e alfine ucciso. Perchè, fatta sperienza per due anni del rimedio attossicato che sono in guerra civile cotesti aiuti stranieri, l'universale dei Musulmani di Sicilia già se ne tediava, già accennava di voler liberare Akhal: quando i principali della rivoluzione li prevennero; fecero assassinare l'emiro nella sua propria fortezza, e presentaron la testa ad Abd-Allah figliuolo di Moezz.[924] Abd-Allah era rimaso come padrone della capitale e di tutta isola, quando gli piombò addosso Maniace[925].

[379]

CAPITOLO X.

L'ultimo e men tristo sforzo dell'impero greco sopra la Sicilia, fu ordinato da un frate eunuco, per nome Giovanni, il quale pervenuto era al comando per magagna senza esempio: messo innanzi un garzonaccio fratel suo, che se ne invaghisse Zoe, vicina ai cinquant'anni; fattole avvelenare Romano Argirio, e, mentre spirava, gridar imperatore il drudo, sposarlo la dimane dinanzi il patriarca di Costantinopoli che benedisse le nozze. Michele Paflagone, salito al trono per tal via, mezzo scimunito e mezzo pentito, dava il nome; Zoe stava come prigione, e Giovanni reggea lo stato con fortezza, diligenza ed astuzia. Ritratto lo scompiglio ch'era in Sicilia, il monaco ministro adescò Akhal; deliberò l'impresa; ne fe' capitano Giorgio Maniace, il quale nelle guerre di Siria avea dato prove (1030, 1034) di grandissimo valore e pronto consiglio. Ma Giovanni, tra nipotismo e diffidenza, prepose al navilio uno Stefano, marito della sorella, nè uom di mare, nè di guerra, nè di alcuna virtù. Chiamato Maniace dai confini dell'Armenia,[926] passaron due anni tra andirivieni e preparamenti e [380] ridurre a disciplina, quanto si potesse, il nuovo esercito. Il quale ridondò al solito di stranieri: Russi,[927] Scandinavi,[928] Italiani di Puglia e Calabria e con essi una compagnia di ventura, di qualche cinquecento cavalli, mescolati Italiani e Normanni, la quale s'era condotta ai soldi del principe di Salerno e recavagli or comodo ed or molestia, sì ch'ei volentieri la diè in prestito a Maniace.[929]

Le geste dei guerrieri scandinavi del Baltico e di lor colonia di Normandia, ci sono pervenute per due maniere di tradizione molto diverse. Gli Scaldi di Norvegia e d'Islanda, in lor saghe non raccomandate alla scrittura innanzi il duodecimo secolo, raccontavano le vicende di casa loro in guisa da raffigurarsi la cronica in mezzo al rustico fogliame rettorico; ma, quanto ai fasti di lor gente in paesi lontani, ne prendeano [381] il tema e lo foggiavano in romanzo poco o punto storico. Sbrigliavansi tanto più nell'immaginare, quanto le saghe, dettate nel proprio idioma, si recitavano per diletto delle brigate e vi s'incastravan qua e là frammenti ritmici. I cronisti normanni, all'incontro, cresciuti in Francia sotto il giogo della letteratura latina, favoleggiavano con minore licenza entro que' che parean limiti conceduti dalla storia classica; se non che il romanzo francese di cavalleria, testè venuto in voga, li allettava ad aggiugnere qualche bel colpo di lancia. Tennero lo stesso metro i monaci italiani che vissero sotto i principi normanni; sì per mal vezzo e adulazione, e sì per non avere il più delle volte altri testimonii che quei principi e que' guerrieri: massimamente nelle prime imprese di ventura in Italia, scritte settanta o novanta anni dopo, su ricordi orali passati per due generazioni. Però è da far tara diversa alle tradizioni scandinave, ed alle normanne. Ed a ciò avremo riguardo or che ci occorrono per la prima volta le autorità settentrionali; studiandoci a cavarne il vero e addentellarlo nei ricordi greci e latini.

Giorgio Maniace e il patrizio Michele Doceano soprannominato “il Fusaiolo,”[930] ch'avea dato lo scambio a Leone Opo, ragunate le genti a Reggio, passavano il Faro l'anno milletrentotto.[931] Narrano gli scrittori di parte normanna come l'esercito posto a [382] terra non lungi da Messina, lentamente marciò in ordinanza vêr la città; donde impetuosi uscirono i Musulmani, nulla curando il numero dei nemici. Allo scontro balenavano i Greci, quando Guglielmo di Hauteville soprannominato Braccio di ferro, condottiero d'uno squadrone normanno, confortati i suoi con maschie parole, fece sonar la carica: e spronano stretti a schiera, spezzano i nemici, li volgono in fuga, li inseguono fino ai ripari; altri aggiugne che occupassero una porta. La città tantosto s'arrese a Maniace.[932] Ma questa fazione, nella quale non abbiam cagione di ricusare la virtù normanna, sembra mero combattimento di vanguardia. I Musulmani in lor guerre di Sicilia non fecero mai assegnamento sopra Messina, città cristiana; nè mai l'afforzarono; nè tennervi presidio di momento.

Il nodo della guerra era a Rametta, dove sopraccorso, com'e' pare, il grosso dell'esercito affricano, stava in sul collo a Maniace da vietargli di dare un passo nell'isola. Ond'egli andatili a trovare tra lor gole e precipizii, lor mostrò sè non essere Manuele Foca, nè alcun sito potersi dir forte senza la virtù degli uomini. Ruppeli con tanta strage che gli annalisti v'appiccicano l'antica metafora del campo dilagato dai rivi del sangue.[933] Pur la vittoria poco approdò, difendendosi [383] ostinatamente gli Arabi Siciliani in lor cittadi e castella; sì che Maniace non ne occupò più di tredici in due anni.[934] Della qual guerra spicciolata, non ci avanzano ricordi storici; ma dette argomento lì su le rive del Baltico a millanterie di veterani, invenzioni di scaldi e aggiunte di chi venne dopo. Dico dell'Eneide a lor modo che intesson le saghe con le imprese giovanili di Aroldo il Severo che poi fu re di Norvegia. Rimondata delle favole, la tradizione torna a questo: che Aroldo capitanò la squadra dei Varangi nell'esercito di Maniace; che a lungo combattè in Sicilia contro Arabi del paese e Berberi; che andò in nave a qualche fazione su la costiera, che prese qualche terra per impeto d'armi e stratagemmi; e sopratutto che fece fardello di ricco bottino, mandollo a serbare a corte di Russia e di lì portosselo a casa. E forse ne rimane qualche briciolo ne' musei di Copenhagen, Cristiania e Pietroburgo, tra le monete musulmane d'oro trovate intorno il Baltico, avanzo dei peculii che raccoglieano quegli svizzeri dell'impero bizantino.[935]

[384] A lungo si travagliò l'assedio di Siracusa, del quale ci si narra il solo episodio che un condottiero [385] ferocissimo uscito della città quando appresentossi l'oste di Maniace, fea strazio dei Greci e dei Longobardi, [386] sì come il lupo suol delle pecore. Mosso a pietà dei fratelli cristiani, Guglielmo Braccio di ferro cerca nella mischia l'Ettore musulmano; prende del campo e lo passa fuor fuora con la lancia; al qual colpo allibbiti que' del presidio, si rifuggono entro le mura, amando meglio a scagliar sassi e frecce dall'alto, che venire alle strette coi guerrieri del Nord.[936] [387] Che che ne sia della prova del Braccio di ferro, Siracusa resistè tanto che i Musulmani rifecero l'esercito e minacciarono gli assedianti.

Con rinforzi d'Affrica Abd-Allah mise insieme parecchie migliaia, dicon sessanta, di soldati, bene o male armati;[937] coi quali si accampò nelle pianure di Traina a settentrione dell'Etna; donde potea correre per la valle dell'Alcantara a Taormina o per quella del Simeto a Catania e Siracusa. Fanti la più parte; poichè, venendo a giornata, Abd-Allah s'affidava nei triboli di ferro seminati a man piene in fronte dell'ordinanza, non sapendo che i cavalli nemici, ferrati a larghe piastre, poco o nulla ne sarebbero offesi.[938] Maniace ch'avea dinanzi la forte e munita Siracusa, nè signoreggiava dell'isola se non che la costiera orientale,[939] fu costretto tornare addietro per levarsi dalle spalle il nemico. Pose il campo ad una quindicina di miglia a levante di Traina, là dove furono nel duodecimo secolo una terra e un'abbadia addimandate da lui, e il nome vi dura finoggi.[940] [388] Spartito l'esercito in tre schiere, gagliardamente ferì, aiutato da un vento che dava nel volto ai nemici, o secondo altri dall'impeto della compagnia normanna, talchè al primo scontro le turbe dei Musulmani sbaragliaronsi; furono orribilmente mietute dai vincitori. Abd-Allah campava a mala pena con pochi seguaci. Seguì questa battaglia nella primavera o nella state del millequaranta.[941]

Poi s'intese nel campo un bisbiglio che mosse [389] forse a riso i soldati. La compagnia normanna ubbidiva ad Ardoino lombardo, valvassoro dell'arcivescovo di Milano, nobil uomo,[942] grande d'intelletto e di cuore; il quale soggiornando poc'anzi in Puglia, vedendo la gente che parlava il suo medesimo linguaggio calpestata e mal soffrente il giogo e trovandosi allato milizia sì valorosa, tra carità ed ambizione, andava meditando novità contro i Bizantini aborriti e spregiati.[943] Al par di lui amava i Bizantini la compagnia, la quale in questa guerra era stata lodata sempre in parole da Maniace e messa innanzi nei [390] pericoli, ma lasciata addietro nei guiderdoni. Fattole torto nello spartir la preda dopo la battaglia di Traina, Ardoino andò a querelarsene appo il capitano, con aspre parole; e quegli che nulla soffriva nè temeva al mondo, risposegli con brutali fatti: comandò di spogliarlo ignudo e frustarlo per gli alloggiamenti con corregge di cuoio. Patì l'ignominia Ardoino; tornossene alle stanze della compagnia; e rattenne chi volea sciupar la vendetta pigliando l'arme immantinenti contro tutta l'oste greca. Al contrario, s'infinge rassegnato, ma ch'ei non può rimanere nello esercito dopo tal onta; e così impetra da un segretario di Maniace la licenza di tornarsi, egli solo in Terraferma. Avuto in mano lo scritto, cavalca con tutta la gente; fa diligenza nel cammino; arriva a Messina; passa lo Stretto, mostrando l'ordine di Maniace;, va a trovare gli altri condottieri normanni ch'erano rimasi in Terraferma; grida libertà ai popoli; e attacca il fuoco ch'arse come stoppie la dominazione bizantina in Italia.[944]

Intanto era surta un'altra discordia. Per mala guardia del navilio bizantino, Abd-Allah imbarcatosi a Caronia o Cefalù avea riparato in Palermo, donde potea ricominciare la guerra.[945] Maniace ne salì in tanta [391] collera che venutogli tra i piè l'ammiraglio, il chiamò poltrone, vigliacco, traditor dell'impero; gli diè in sul capo due e tre volte d'un suo bastone. E Stefano se n'andò a comporre lettere all'eunuco Giovanni: questo piglio di principe assoluto, questa violenza contro i proprii parenti dell'imperatore, mostrar chiaro l'animo ribelle di Maniace: badasseci o sel vedrebbe piombare a Costantinopoli con l'esercito pronto a seguirlo in ogni attentato.[946]

Era già caduta Siracusa, dove par che Maniace desse opera a ristorare le fortificazioni, il culto e gli ordini pubblici; rimanendo fin oggi il suo nome al castello della punta estrema di Ortigia.[947] Si narra inoltre ch'ei mandasse in un'arca d'argento a Costantinopoli il corpo di santa Lucia, additatogli da un vecchio cristiano; disseppellito in presenza della compagnia normanna; e trovato intero e fresco dopo [392] settecent'anni: come raccontava a capo d'un altro mezzo secolo qualche veterano normanno a' monaci di Monte Cassino, o almen quei lo scrissero.[948] Similmente nelle altre città occupate, Maniace ordinò castella con forti presidii, per cavar la voglia ai terrazzani di scuotere il giogo. Gli acquisti si rassodavano; poco avanzava ormai perchè tutta l'isola tornasse all'impero e al cristianesimo. Ma repente per segreto comando della corte, il capitano vincitore fu preso, imbarcato per Costantinopoli, gittato in fondo d'un carcere; e commesso di ultimare la guerra a quel medesimo Stefano ed all'eunuco Basilio Pediadite.[949]

Mancò Maniace all'esercito nel fortunoso momento, che Ardoino e i Normanni levarono l'insegna della ribellione in Puglia; donde il catapano Michele Doceano fu necessitato ripassarvi con parte dell'esercito nell'autunno del millequaranta.[950] I Musulmani di Palermo, che non era stata mai occupata,[951] ripigliarono allora gli assalti. Stefano e l'eunuco, inetti entrambi e ladri, nè seppero combattere alla campagna, nè mantenere i presidii ordinati da Maniace; e il catapano, toccate dai Normanni due sanguinose sconfitte (17 marzo e 4 maggio 1041), richiamò di Sicilia, com'ultima speranza, i Calabresi, i Macedoni e i [393] Pauliciani.[952] Pertanto dei presidii bizantini qual non fu cacciato se ne andò dassè.[953] Crebbe il disordine per la mutazione di stato e incertezza di consigli a Costantinopoli, dove, morto Michele Paflagone (dicembre 1041), era salito al trono un altro giovinastro che sol pensava a disfarsi di Zoe e dei ministri del predecessore: e così Stefano e il Pediadite furono richiamati e mandato senza forze a ristorar la guerra in Sicilia Doceano che l'avea sì infelicemente governata in Terraferma;[954] il quale fece quel si doveva aspettare da lui. All'entrar del millequarantadue, l'impero avea riperduto l'isola, da Messina in fuori.

Tenea Messina un protospatario Catacalone, soprannominato l'Arsiccio,[955] con trecento cavalli e cinquecento pedoni del tema d'Armenia; quando venne ad osteggiarlo (1042 marzo?) una massa di Musulmani levata popolarmente in tutta la Sicilia, condotta, a quel ch'e' pare, da un principe kelbita, forse Simsâm.[956] L'Arsiccio si serrò per tre dì nelle mura, senza dar segno di vita, lasciando il nemico a predare e gavazzare [394] all'intorno e persuadersi ch'egli avesse paura. Al quarto dì, occorrendo una festa,[957] raguna il presidio in chiesa; fa esortarlo dal pulpito a combattere fortemente per la fede e l'impero; fa celebrar la messa; si comunica con tutti i suoi, ed in su l'ora di pranzo, apponendosi che gli Infedeli stessero a mala guardia, schiuse le porte, li assaltò. Soprappresi non poterono dar di piglio alle armi, non che ordinarsi: Catacalone li sbaragliò, ne fe' macello, saccheggiò l'accampamento; e tornò glorioso in città, mentre gli avanzi degli assedianti fuggivano a precipizio verso Palermo.[958]

La quale vittoria giovò soltanto a differir di qualche anno, o di qualche mese, chè l'appunto non si sa, la perdita di Messina e con quella d'ogni speranza su la Sicilia. Perchè la rivoluzione dei popoli e la compagnia di ventura ingrossata ogni dì più che l'altro di Normanni e d'Italiani dell'Italia di sopra,[959] irresistibilmente scacciavano i Bizantini dalla Terraferma. [395] Maniace stesso, liberato di prigione in un lucido intervallo della corte e rimandato in Italia (aprile 1042) segnalossi per prudente valore in guerra, s'infamò per crudeltà efferate contro i terrazzani, ripigliò qualche città, ma non arrivò a vincere i Normanni. In questo, un terzo marito di Zoe lo provocò o piuttosto sforzò a ribellarsi; tantochè fattosi gridar imperatore, passò con l'esercito in Grecia (febbraio 1043), azzuffossi con le genti di Costantino Monomaco, e le avea messe in rotta, quando un colpo tirato a caso lo freddò in sul cavallo. Pochi dì appresso Costantinopoli applaudiva ai codardi che portavano in giro, confitta a una lancia, la testa di Maniace.[960]

CAPITOLO XI.

Ai miseri Cristiani di Sicilia parve risorgere a vita nuova quando fu innalberata in lor cittadi e castella la insegna della croce col motto di: “Cristo vince.” San Filareto, il quale si trovò forse a Traina la dimane della battaglia,[961] solea narrar che rendettero [396] grazie solenni nelle chiese; che spezzarono i ceppi messi ai piè a lor fratelli prigioni; che caduto il terrore di quel fier tiranno affricano, respirarono in libertà.[962] La qual voce sappiam che significhi quando due religioni contendon tra loro. Alla santa esultanza del riscatto si mescolò la vendetta, l'ingiuria; nè andò guari che costrette le armi bizantine a sgombrare di Sicilia, molti abitatori cristiani emigrarono in Terraferma,[963] aspettandosi la pariglia dai Musulmani. Il grosso della popolazione battezzata, com'avvien sempre per amore della patria, necessità o tiepidezza d'animo, restò lì dov'era. E così al conquisto normanno il Valdemone si trovò pien di Cristiani,[964] e sminuzzoli anche se ne contavano per le valli di Noto e di Mazara, in Siracusa,[965] Palermo,[966] [397] Vicari,[967] Petralia,[968] ed altri luoghi.[969] Le vicende della guerra normanna nelle quali bastarono due anni ad occupare il Valdemone e ce ne vollero trenta a soggiogar le altre due valli, provano similmente che nella prima regione fossero pochi presidii musulmani nelle principali città e fortezze in mezzo a popolazioni cristiane timide ma nemiche; e nel rimanente dell'isola, al contrario, pochissimi Cristiani soffocati tra le turbe dei circoncisi.

Nè mutossi la condizione legale dei Cristiani; sol è da supporre aggravati i soprusi tra il millequarantatrè e il millesessantuno; dapprima per la vendetta dei Musulmani che tornavan su; poscia per la divisione loro in piccoli principati, tanto più molesti e rapaci. Caduti gli ultimi comuni tributarii tra il novecensessantadue e il sessantacinque,[970] da indi in poi non ne abbiamo ricordi; nè possiamo immaginare qual necessità o caso li avrebbe fatto risorgere. I Cristiani che sottomettonsi al conte Ruggiero ed a Roberto Guiscardo nei principii della guerra, son veri dsimmi[971] paganti tributo, agricoltori o borghesi, ed i primi parte possessori e parte servi della gleba;[972] le [398] quali popolazioni avean di certo lor magistrati municipali, ma non formavan corpo politico. Di schiavi cristiani posseduti da Musulmani non abbiamo memoria, ond'e' par non siane rimaso tanto numero da farsi sentir tra le vicende del conquisto. Forse la più parte, per migliorar loro condizione,[973] fatti Musulmani, e chi manomesso, chi no, andavano confusi nella società dei vincitori.

Se le schiatte antiche non si sbarbicano di leggieri, i Cristiani dell'isola eran tuttavia mescolati Greci ed Italici. A ciò par abbian posto mente i Normanni, nelle cui croniche le genti battezzate che abitavano la Sicilia al principio della guerra, son chiamate dove Greci o Greci Cristiani, e dove a dirittura Cristiani; e si distinguono i primi con l'attributo di perfidi, come portavano le idee occidentali.[974] Un altro barlume ci dà lo scrittor della vita di San Filareto, notando tra i pregi della Sicilia la carnagione bianca e vermiglia e le belle e aperte fattezze di molti abitatori, le quali non somigliano al sembiante del greco San Filareto, e vi si potrebbe per avventura raffigurar il tipo italiano.[975] Della medesima [399] schiatta sembrano i frati di San Filippo d'Argira in Sicilia i quali nella seconda metà del decimo secolo andavano a Roma: insolito viaggio a gente greca in quell'età.[976] Come i due linguaggi, che è a dir le due schiatte, durarono insieme nel medio evo nelle parti della penisola ch'aveano avuto colonie greche nell'antichità, così anche rimasero in Sicilia; se non che la lingua greca prevalea nell'undecimo secolo.[977] E la cagione parmi, che i Cristiani di sangue italico e punico della Sicilia occidentale, avean rinnegato la più parte sotto la dominazione musulmana, per essere stati più tosto domi; se pur non si lasciaron domare più tosto per antagonismo contro il sangue greco e il dominio bizantino. La religione loro, fors'anco la lingua, si dileguò nella società musulmana. La religione si mantenne insieme con la lingua nella Sicilia orientale, sede primaria delle antiche colonie greche.

Ci mancò nella prima metà del decimo secolo ogni memoria d'incivilimento appo i cristiani di Sicilia;[978] ma nei cent'anni che seguono ne ricomparisce qualche vestigio. Della fine del decimo secolo abbiamo un'agiografia, scritta, com'ei sembra, da un Greco siciliano.[979] Verso il milletrenta ci si parla di preti cristiani che insegnavan lettere ai giovanetti a Castronovo [400] in Val di Mazara;[980] fors'anco a Demona.[981] Nella seconda metà dell'undecimo secolo un ricco cristiano del paese, faccendiere dei Normanni e poi monaco, avea dato opera a raccogliere libri e dipinture in Messina.[982] I quali indizii fan piena prova, quando la storia politica mostra che dovea necessariamente avvenire così. Del novecentodue passò sul Valdemone la sanguinosa falce d'Ibrahim-ibn-Ahmed; poi su tutta l'isola la falce della fame; e sul Val di Mazara quella di Khalîl-ibn-Ishak: ma la guerra civile dei vincitori, fece respirare i Cristiani del Valdemone. Cioè la popolazione rurale, i cui tugurii non avea potuto frugare Ibrahim, e qualche cittadino spatriato che dopo la tempesta tornava ai diletti luoghi, povero e feroce. Quei che ristorarono Taormina, quei che meritarono tanta fama a Rametta, ebber sì le mani pronte a combattere e rabberciare lor mura; la mente fitta a difender sè ed ammazzare i Musulmani, ma non si curavano, credo, di dipinture, nè di libri, nè dell'alfabeto: e facean bene. Sopraffatta alfine quella virtù dalle armi kelbite, i Cristiani s'ebbero a contentare degli umili compensi che concede il servaggio. Assestandosi appo i Musulmani l'azienda pubblica, repressa la rapacità delle milizie, favoriti i commerci con la Terraferma, prosperanti le regioni occidentali [401] dell'isola e venuti i padroni a stanziare nella region di levante, si rinfrancò la industria degli abitatori cristiani. Rifatti alquanto di sostanze e di numero, risalirono a quel grado d'incivilimento dei lor fratelli di Calabria. Chi voglia conoscere in volto i Cristiani del Valdemone di questa età, legga in Malaterra il racconto di quei che s'appresentavano l'anno mille sessantuno a Ruggiero nella prima scorreria grossa a che si rischiò dentro terra. Tutti lieti gli recavano vittuaglie e altri doni; e tosto correvano a scusarsi coi Musulmani: averlo fatto per forza, per salvar le persone e la roba da codesti predoni.[983] Alla quarta generazione gli eroi di Rametta eran fatti, come or si direbbe, onesti e pacifici cittadini.

I quali in punto di religione sembrano tiepidi anzi che no. Dopo l'impresa d'Ibrahim-ibn-Ahmed (902), si sbaragliò il clero siciliano. Gli imperatori bizantini, egli è vero, promulgando la lista delle sedi soggette a lor patriarca, proseguono infino al secol decimoterzo a noverar quelle di Sicilia quali sapeansi nell'ottavo secolo, salvo qualche errore di copia; ma dimenticano che l'isola è stata tolta allo impero dai Musulmani ed a costoro dai Normanni; che le sedi sono state distrutte dai primi, rifatte dai secondi a lor modo, e rese al pontefice romano.[984] Però quei ruoli di cancellaria non attestano condizioni contemporanee, più che nol faccian oggi i titoli di vescovi d'Eraclea, d'Adana e altri largiti dal papa. Appunto come cotesti, sembrano vescovi in partibus quel di [402] Catania e l'Arcivescovo di Sicilia, dei quali abbiamo le soscrizioni in carte del decimo e dell'undecimo secolo.[985] Al contrario par abbia esercitata, quando che fosse, la dignità vescovile quel Leone che poi soggiornò in Calabria e venne in Sicilia (925) da statico.[986] Esercitolla per fermo Nicodemo che i Normanni (1072) trovarono arcivescovo in Palermo.[987] Egli è verosimile che nel decimo secolo, rimaso in tutta la Sicilia un sol vescovo, abbia mutato e titolo[988] e sede, ponendosi nella capitale allato alla corte degli emiri per mantenere più efficacemente i dritti spirituali e temporali del povero suo gregge; come il patriarca giacobita d'Alessandria e il primate nestoriano di Seleucia s'eran tramutati, l'uno al Cairo, l'altro a Bagdad. Palermo fatta capitale dai Musulmani, lor debbe dunque, strana vicenda della sorte, la dignità di chiesa metropolitana; la quale non fu conceduta da Roma, nol sembra da Costantinopoli; e niuno la sognava innanzi [403] il decimo secolo, ma alla metà dell'undecimo niuno la mise in forse. È chiaro che la assunse l'eletto dei Fedeli confermato dagli emiri: pastor d'una provincia che avea avuto sedici diocesi tra vescovili e arcivescovili, e d'una città ch'era seconda solo a Costantinopoli e Bagdad.

Passando al clero inferiore, basterà dir che i monasteri nei quali tutto si racchiudea, sì fiorenti dopo san Gregorio, ormai sembrano poco men che distrutti. Quel di San Filippo d'Argira, di regola basiliana, scomparisce verso il novecensessanta, quando le colonie musulmane trapassavano in Valdemone.[989] I Normanni trovano in Val di Mazara il monastero di Santa Maria a Vicari, pregante per la vittoria dei Cristiani, possedente un po' di servi, bestiame e terreni, ma negletto ed oscuro.[990] Trovano molte ruine di monasteri in Valdemone,[991] e di due soli abbiam certezza [404] che rimanessero in piè: quel di Sant'Angelo di Lisico, presso Brolo, i cui frati s'affrettavano a far confermar dal conte Ruggiero la proprietà dei monti, colline, acque; terreni e mobili che diceano aver tenuto sotto gli empii Saraceni;[992] e quel di San Filippo in Demona, un frate del quale, vivuto fino al millecento e cinque, affermava aver patito nel santo luogo gli oltraggi degli Infedeli.[993] Poco o nulla s'è perduto dei documenti di tal fatta, gelosamente custoditi e rinnovati dall'ecclesiastica prudenza: donde si può argomentare che alla metà dell'undecimo secolo, appena rimanesse una mezza dozzina di monasteri con frati e di che vivere.

Nè era comando di legge, nè effetto di costumanza generale dei Musulmani, sotto il cui dominio durarono e durano tante sedi vescovili e grossi monasteri in Egitto, in Siria, nelle regioni tra l'Eufrate e il Tigri. Ma le ondate di Arabi che irruppero in Occidente sembran più cupide e quelle popolazioni cristiane men tenaci nella fede e disciplina ecclesiastica; e il monachismo, pianta esotica appo noi, non resse alle intemperie sì come in Oriente. A coteste tre cagioni unite mi par da apporre il subito [405] decadimento del Cristianesimo in Sicilia, al par che in Affrica e Spagna, direi quasi al primo tocco dell'islam. Presi i beni ecclesiastici e sconfortato il clero, menomarono le sedi vescovili, crebbe l'erba nei conventi; e la credenza delle popolazioni, non riscaldata dalla voce del sacerdozio nè dalla assiduità del culto, calò a poco a poco. Ma è mestieri pur che quella massa per propria natura mal ritenesse il calore; poichè lo zelo dei Fedeli, chierici e laici, avrebbe alla sua volta vivificata la gerarchia a dispetto dei governanti e della povertà, come, per esempio, avvenne in Siria, appo i Maroniti.

Il fervore religioso non si ridestò nell'ultima lotta delle popolazioni cristiane di Sicilia (913-964), quando la povertà e i pericoli allettavan poco i dignitarii ecclesiastici a tornar dalla Calabria;[994] e il popolo, venuto alle prese con la morte, chiedea miracoli troppo biblici. Pertanto la riputazione di santità tornò tutta ai romiti profetizzanti, clero rivoluzionario da non sbigottir tra quelle tempeste. Tale il Prassinachio, del quale dicemmo, e gli altri di cui non è maraviglia se ignoriamo i nomi,[995] poichè le agiografie si scriveano nei monasteri, non per le celle dei romiti, quando pur sapeano scrivere. Posate in Sicilia le armi e mancati i monasteri, il clero mal si rifornì: quei che ne sentiano vocazione, passavano in Calabria dove si parlava la stessa lingua, si trovavano spesso i concittadini; e la dominazione greca apria largo campo [406] alla modesta pietà, alle fantasie riscaldate ed alle ambizioni monacali. A legger le vite dei santi di Calabria in questo tempo, ognun vede che si pasceano, come tutta la chiesa greca, delle leggende degli antichi padri della Tebaide e di Siria; se non che la natura occidentale rifuggiva da quelle orrende penitenze, dalla perpetua solitudine, dalla oziosa contemplazione che non si diffondesse in altrui. E però i romiti si associavano tra loro; procacciavano seguito nelle cose mondane. L'apice della virtù religiosa era la fondazione d'uno, anzi di parecchi monasteri, di cui uom divenisse abate in vita e santo tutelare dopo la morte. Ed a questo aspirò e pervenne alcun rifuggito siciliano.

Correndo la prima metà del decimo secolo, nacque a Castronovo, nel bel mezzo delle colonie musulmane e dicesi di ricchi genitori, Sergio e Crisonica, un Vitale; il quale educato nelle lettere sacre, ma amando poco lo studio, andò a chiudersi nel Monastero di San Filippo d'Argira. Con altri frati passò a Roma, dice l'agiografia, senza aggiungere il tempo nè il perchè, ai quali noi ci possiamo apporre; e sarebbe per avventura la raccontata vicenda del novecentosessanta, quando una man di Musulmani avesse preso a stanziare nella patria di Diodoro Siculo ed occupato i beni di San Filippo. Fatto per via un miracoluccio a Terracina, e da Roma tornato addietro ad un romitaggio presso Sanseverina di Calabria, San Vitale ripassò in Sicilia, visse d'erbe salvatiche ben dodici anni nelle solitudini dell'Etna, in faccia dell'antico suo chiostro. Ripigliato alfine il cammin della Terraferma, mutò stanza otto o nove fiate tra [407] Calabria e Basilicata; s'abboccò ad Armento con San Luca di Demona che levava grido in quelle parti; e fatto venir di Sicilia un suo nipote per nome Elia, fondò un monastero presso Rapolla, ove morì, come credesi, il nove marzo novecentonovantaquattro. Dei molti prodigii che gli si appongono in vita e in morte, è da notar quello del monastero di Sant'Adriano, dove piombati i Musulmani di Sicilia, i frati fuggirono, fuorchè San Vitale; cui fattosi incontro un Saraceno dispettoso del non aver trovato danari nè bestiame, e tirato a tagliargli la testa, Vitale fe' il segno della croce; una folgore strappò la scimitarra di mano al barbaro e lo atterrò semivivo; se non che il Santo lo facea rinvenire. Trent'anni dopo morte, il corpo di San Vitale fu rubato ai monaci di Rapolla da quei di Turi,[996] il cui vescovo recosselo in città come palladio contro gli immondi Agareni di Sicilia che tornavano a dare il guasto alla Basilicata. Di cotest'agiografia, scritta da un Greco contemporaneo, abbiam la sola versione latina che ne fece fare alla fin del duodecimo secolo Roberto vescovo di Tricarico; nella quale la critica può sol rigettare i fatti che trapassano gli ordini della natura.[997]

[408] Lo stesso parrà della vita di San Luca da Demona, dettata da un discepol di lui così semplicemente che i prodigii cadon dassè e spicca l'opera d'un uom di questo mondo, sagace, affaticante, animoso, ambiziosuccio, ma a buon fine. Si dice al solito nato di parenti nobilissimi, Giovanni e Thedibia; entrato nel monastero di San Filippo d'Argira; passato di lì a Reggio, per apprendere da un Elia, venerabile romito, le discipline dei Santi Padri: ch'ei compitava appena l'ofizio, ma la pratica d'Elia e particolare grazia del Cielo, prosegue l'agiografo, gli apriron la mente ad ogni dottrina, fino i misteri delle sottilità filosofiche. Lesse senza nebbia nell'avvenire che s'aspettavan di nuovo i Saraceni, strumento della vendetta celeste su la Calabria; onde uscito di sua spelonca si messe a predicar contro i peccatori; trascorse fino a Noja, dove soggiornò sette anni in una basilica. Rincrescendogli poi l'aura popolare, se ne andò su le sponde dell'Agri, a fabbricare il monastero di San Giuliano; gli raccapezzò qualche poderetto per carità dei fedeli; fece scomparir, non si sa come, un Landolfo possessore vicino, invidioso della prosperità dei frati; e correndo sempre incontro alla fama, ch'ei facea le viste di fuggire, diessi ad esorcizzare demonii, a sovvenire i poverelli, a curare i malati con impiastri e medicine, scrive l'agiografo, per nascondere la virtù del miracolo. Finchè, al tempo di Niceforo imperatore, calato dalle Alpi un feroce che si messe a depredare le città greche [409] d'Italia,[998] San Luca e suoi frati, e tra quelli lo scrittore, ripararono ad un castello vicino. Poi vergognando di vivere a casa de' laici, San Luca adocchiò tra le rupi d'Armento un sito da potersi afforzare senza fatica, e v'innalzò un altro monastero, che fu come l'acropoli d'una colonia basiliana, di tanti chiostri minori e romitaggi e cappelle, sparsi nella provincia, fondati la più parte da San Luca, lavorandoci fin di sua mano; dei quali lo riconobbero abate, e veramente fu capitano. Perchè una volta venuti i Musulmani di Sicilia a dare il guasto, s'erano attendati alla pianura presso una cappella e profanavanla e scorreano i dintorni, riportandone gran tratta di prigioni incatenati. San Luca scortili dall'alto della rôcca, intona i salmi; ritto in su la porta del chiostro fa la rassegna; arma i frati più gagliardi, lascia i deboli in presidio: e con la croce in mano, conduce il bruno stuolo sopra i nemici; i quali si sbaragliarono, gittaron le armi al súbito assalto ed alla vista del Santo, che loro apparve sul mitico destrier bianco, raggiante di luce. Ma ciò non tolga fede alla valente fazione. Con pari animo andò girando ad assistere da medico e padre spirituale i frati della colonia, mentre ardeavi spaventosa moría. Venuta poi di Sicilia a visitarlo una sorella sua per nome Caterina, madre di due altri santi Antonio e Teodoro, fondò presso Armento un monistero di donne. Talchè salito San Luca al sommo della fama claustrale, morì il tredici ottobre novecentonovantatrè, [410] non pur vecchio, s'egli è vero che lo compose nella fossa quel medesimo San Saba stato suo superiore a San Filippo d'Argira. Del quale, nè dei due nipoti di Luca, non si fa memoria altrove, nè si sa come abbiano meritato l'appellazione di santi.[999]

Similmente s'illustrò in Terraferma, e ci è noto per gli scritti d'un greco di Calabria, San Filareto, del quale accennammo nella guerra di Maniace. Nato di schiatta greca, forse a Traina,[1000] mandato a scuola appo un sacerdote, delibò degli studii quanto gli parve abbastanza, dice l'agiografo: giovane frugale, mansueto, assiduo in chiesa, aiutava a lavorare i poderetti paterni e vide la liberazione e il subito precipizio dei Cristiani di Sicilia. Perchè passata la famigliuola a Reggio, indi a Sinopoli, e messosi col padre agli altrui servigii in campagna, gli stenti della vita, la lontananza dalla patria profondamente sbigottirono quell'animo tenero e malinconico. Sperando pace nel chiostro e non sapendo lasciare il padre e la madre, egli unico figliuolo; dopo lunga perplessità lor si fece innanzi, si gittò ginocchioni, svelò il proponimento; ed assentitogli, ruppe in lagrime baciando mani e piedi ai genitori. A venticinque anni proferì i voti nel monastero di Aulina tra Seminara e Palmi, fondato da [411] Sant'Elia di Castrogiovanni,[1001] del quale poi solea leggere assiduamente e contemplare la vita; ma nè l'indole sua, nè le condizioni delle cose lo portavano ad imitare il missionario demagogo del nono secolo. Nell'adunanza dei frati solennemente gli furon vestite, dice l'agiografo, le armadure simboliche, la tunica usbergo di carità, il mantello scudo di fede, il cappuccio elmo di speranza, il cingolo freno contro libidine; impugnò a guisa d'asta la croce: e mutato il nome di Filippo in Filareto, dato a tutti il bacio fraterno, lo messero a guardare gli armenti del monastero. Durissima vita a chi era avvezzo a qualche agio ed un po' allo studio.[1002] Si sobbarcò pur lietamente; fu specchio d'obbedienza monastica, di pietà, di buoni costumi; e non fece miracoli mai: se non che due anni dopo morte, una luce che usciva dalla sepoltura v'attirò i devoti, indi i malati; e cominciarono le guarigioni miracolose. Era morto Filareto di cinquant'anni, verso il millesettanta. Un piccino, gracile, dal volto ovale, scuro e pallido, dagli occhi azzurri e poca barba, tardo al parlare. Così lo dipinge il monaco Nilo, il quale in tutta l'agiografia ora ripete, or dice passar sotto silenzio i particolari che gli avea sentito raccontare, su le cose domestiche e pubbliche al tempo di sua gioventù. Candide tradizioni, su le quali il compilatore incollò una rettorica nè bella [412] nè brutta, una pietà verbosa ma non ciarlatana, che l'una e l'altra agevolmente si staccano; e ne rimane quel buon documento storico che ci è occorso e ci occorrerà tuttavia di citare.[1003]

Così gli scuri sembianti d'Ippolito e Prassinachio, lo zelo claustrale di Luca di Demona e Vitale da Castronovo, e la rassegnazione di Filareto rispondono alle tre vicende principali della opinione pubblica appo i Cristiani di Sicilia dal principio del decimo secolo alla metà dell'undecimo. Delle altre agiografie di questo tempo, è spuria, a detta degli stessi Bollandisti, quella di Santa Marina.[1004] La leggenda di San Giovanni Therista, non regge alla critica: tanti casi da romanzo intessuti sopra un anacronismo.[1005] Non meno maravigliose e pur son verosimili e cavate in parte da buone autorità, le avventure di San Simeone, che nacque a Siracusa nella seconda metà del decimo secolo, di padre bizantino e madre calabrese, e morì a Treveri il mille trentaquattro. Soggiornò in Sicilia infino a sette anni, quando il padre per dovere di milizia passava [413] a Costantinopoli, dice la leggenda; e però sembra soldato fatto prigione nella guerra di Manuele Foca, liberato per riscatto. Forse il parlare arabico che il fanciullo avea appreso in Sicilia, lo spinse, fatti ch'ebbe gli studii in Costantinopoli, ad andare a Gerusalemme: ove s'infiammò delle geste dei padri del deserto, volle vivere or frate ora romito a Betlem, al Giordano, al Sinai, in una grotta del Mare Rosso; la comunità del Sinai poi mandollo a riscuotere le grosse limosine che le solea porgere Riccardo conte di Normandia. Così venne a Rouen, dove trovando morto Riccardo (1026) e gretto il successore, passò a Treveri; ed acconciatosi con l'arcivescovo, mostrò a que' buoni Tedeschi esempio di penitenza orientale, chiudendosi tutto solo nella vecchia torre di Porta Negra, ritrovo dei dimonii. Gli assalti dei quali per tanti anni, dì e notte, respinse con sue preci; e si comprende. Ma dopo una inondazione che disertò il paese, accorsa la plebe co' sassi in mano chiamando a morte il frate incantatore della torre, Simeone non se ne mosse più che dei dimonii: proseguì a recitar l'ofizio tanto che i preti racchetarono quel furore. Dopo morte preti e plebe a gara gli attribuirono miracoli. Di certo col dir ch'ei facea delle calamità di Terrasanta, e con quel suo strano tenor di vita in Normandia e in Germania, Simeone da Siracusa fu un dei mille mantici della Crociata.[1006]

[414] Dal detto fin qui si vede che il Cristianesimo si ristrinse e rattiepidì in Sicilia sotto la dominazione musulmana; ma non ne venne a mancare giammai[1007] la credenza nè il culto palese. L'attesta un autore arabo dell'undecimo secolo, con dir preciso che “s'eran fatti musulmani la più parte degli abitatori.”[1008] Che se Urbano secondo, nella bolla del millenovantatrè, lamentava la religione spenta nell'isola per tre secoli, non volea significar altro che la misera condizione della Chiesa siciliana e il picciol numero dei Fedeli, se tali pur gli pareano quei di rito greco.[1009] Sembra privo d'ogni fondamento il supposto che i Cristiani di Sicilia al conquisto normanno fossero i [415] venuti al tempo di Maniace, poichè questi condusse soldati, non coloni; e i soldati, come si è detto, non tardarono a ripassare in Terraferma.[1010]

All'incontro la libertà del culto si deve intendere entro i limiti osservati in generale negli Stati musulmani;[1011] senza persecuzione o pur insolito rigore, di che non v'ha alcun indizio in Sicilia dal principio alla fine della dominazione musulmana. Ma va messo in forse, come affermazione di cronica moderna e zeppa di errori, che un principe musulmano dell'isola accordasse ai Cristiani di celebrare pubblicamente gli oficii divini e recare l'eucaristia ai moribondi.[1012] Va rigettata ritondamente la istituzione d'una confraternita nella chiesa di San Michele del monistero delle Naupactitesse in Palermo, l'anno mille e quarantotto, nella quale fossero ordinate processioni ogni mese e festa annuale ed esequie solenni dei confratelli [416] morti. Il diploma di rinnovazione di quegli antichi statuti, che è serbato nell'archivio della cappella palatina di Palermo, non fa menzione della città, nè il nome topografico che vi occorre[1013] appartiene a Palermo nè ad altra terra di Sicilia. Anzi le preghiere da farsi per gli “ortodossi imperatori e il santissimo patriarca e metropolitano” mostrano che il paese ubbidisse all'impero bizantino. Forse Bari o altra città dell'Italia meridionale, dove nelle guerre di re Ruggiero qualche capitano bibliofilo diè di piglio a questo ruolo di pergamena in capo al quale vedea luccicare una Madonnetta bizantina su fondo d'oro.[1014]

[417]

CAPITOLO XII.

Siam pervenuti adesso al tratto più oscuro di queste istorie. Dopo la esaltazione dell'emiro Iûsuf gli annali arabici della Sicilia cambiano stile; le sorgenti impoveriscono; e pur si tien dietro al racconto sino alla occupazione di Moezz.[1015] La guerra di Maniace, passata sotto silenzio dai Musulmani, si ritrae tanto o quanto dai nemici loro. Ma nei venti anni [418] che corsero tra la cacciata dei Moezziani e la sconfitta d'Ibn-Thimna, il nesso degli avvenimenti si spezza; appena v'ha un cenno dell'anarchia seguíta in Sicilia, e più lungo racconto dell'ingiuria di Meimûna che affrettò l'ultima catastrofe. Le notizie biografiche degli uomini di lettere, ancorchè abbondino in quel tempo, dan poco lume su la storia politica. È forza dunque aiutarci a conghietture; adoprare spesso quella forma dubitativa sì spiacente nella storia, sì audacemente scansata dai maestri antichi, per amor dell'arte.

Spento Akhal, rimasa la Sicilia ad arbitrio d'Abd-Allah-ibn-Moezz, ed assalita al medesimo tempo da Maniace; non è dubbio che Moezz, per difendere il nuovo acquisto v'abbia mandato d'Affrica quante forze ei potea. Torme di Berberi, dunque, amiche e non amiche a casa zîrita, adescate con un po' di denaro e molte speranze; masnadieri senza disciplina, di quei che dieci anni dopo, assaliti in casa loro dagli Arabi d'oltre Nilo, spulezzarono trentamila contro tremila alla prima battaglia.[1016] Non fecero miglior prova nella giornata di Traina, mescolati con gli Arabi di Sicilia, ch'eran tratti a forza, e lor cominciava a puzzare la dominazione affricana. La strana fuga d'Abd-Allah di fianco verso la marina e indi per nave a Palermo, dimostra l'esercito, non che scompigliato, ammutinato, minacciante l'infelice capitano. Senza ciò, per codardo e inesperto che fosse costui, spronava per la [419] più corta alla capitale, con la speranza di rannodare le genti, in tre o quattro giornate di cammino tra castella e luoghi fortissimi per natura.

Scoppiaron al certo dopo la rotta di Traina nelle milizie siciliane, nella cittadinanza di Palermo e d'altri luoghi del Val di Mazara, le querele che gli annali arabici portan dopo la morte di Akhal, senza l'appunto del tempo, luogo e causa prossima;[1017] ma v'ha quella stampa di costernazione d'un popolo che vegga il subisso. Altercavano i Musulmani di Sicilia, avversarii e partigiani di Moezz, rinfacciandosi reciprocamente: “Voleste mettervi in casa gli stranieri! Per dio! che l'è finita bella: ecco il frutto dell'opera vostra![1018]” E pentiti gli uni e gli altri, si univano ai danni d'Abd-Allah. Si venne al sangue in Palermo, col presidio o con alcuna schiera leale che tornasse di Traina: il figliuolo di Moezz, perduti ottocent'uomini[1019] nella zuffa, si gittò coi rimagnenti su l'armata; e scampò in Affrica. I sollevati rifecero emiro Hasan, soprannominato Simsâm o Simsâm-ed-Dawla (Brando dell'Impero), fratello di Akhal;[1020] forse quel desso che [420] cinque anni innanzi s'era ribellato coi Siciliani contro il fratello.

A salto a salto, gli annali arabici continuano dopo la esaltazione di Simsâm, che la Sicilia si sconquassò; ch'uomini di vil condizione, di qua, di là, detter di piglio al comando.[1021] Il Kâid Abd-Allah-ibn-Menkût s'insignoriva di Trapani, Marsala, Mazara, Sciacca e di tutte le pianure occidentali; il Kâid Ali-ibn-Ni'ma, soprannominato Ibn-Hawwâsci, di Girgenti, Castrogiovanni e Castronovo con lor distretti.[1022] La costiera [421] settentrionale e l'orientale, ch'abbandonaron ultima i Bizantini, par abbian seguíta la sorte di Palermo;[1023] se non che il Kâid Ibn-Meklâti occupò Catania qualche anno appresso.[1024] La capitale si resse a nome di Simsâm; poi lo cacciò via; e gli sceikhi, ch'è a dire i notabili municipali, presero lo stato.[1025] Questo fu il primo periodo dell'anarchia, cominciato con la cacciata di Abd-Allah-ibn Moezz il quattrocentotrentuno (22 settembre 1039 a 9 settembre 1040), chiuso con la deposizione di Simsâm, com'e' pare, l'anno quattrocentoquarantaquattro (2 maggio 1052 a [422] 21 aprile 1053) che una cronologia assegna a termine della dinastia kelbita di Sicilia.[1026]

Si narra che nel medesimo tempo, l'anno al giusto non sappiamo, combattuta Malta dai Bizantini, ridotti i Musulmani a tale, che il nemico volea da loro tutte le facoltà e le donne; ragunaronsi, considerarono il numero degli schiavi ecceder quello degli uomini liberi; e trassero l'ultimo dado. Profferiscono alli schiavi l'emancipazione e il partaggio dei beni, s'e' vogliono armarsi coi padroni e tutti insieme vincere e godersi la libertà, o morire. A che assentendo gli schiavi, gli uni e gli altri in una sola falange fecero impeto su i Bizantini; li ruppero e cacciarono dall'isola: e dopo la vittoria si compiè la riforma promessa; il nuovo popolo di Malta si ordinò con sì bella concordia, e indi tanta forza in picciola massa, che i Cristiani non osarono assalirlo mai più. Scrivea così un contemporaneo; al quale si potrebbe credere cotesto esempio di felice prudenza senza accettarne tutti i particolari. I nemici erano al certo schiera spiccata dall'esercito di Maniace. Il partito fu preso pubblicamente quando i Bizantini occupate le campagne di Malta strignessero d'assedio la città; o piuttosto nacque in una cospirazione dei Musulmani, soggiogati [423] innanzi il mille quaranta, e sollevatisi appresso, ad esempio della Sicilia.[1027]

Dove la cacciata dei Bizantini avea dato anco la pinta all'ordine sociale ingiusto e mal fermo, surto dal conquisto musulmano; ma nell'isola piccina lo si racconciò patriarcalmente con una riforma; nell'isola grande gli elementi più complicati, diversi secondo le regioni ed aizzati già dalla guerra civile, non potendo accordarsi, scissero il paese in più Stati. A misura che sgombravano i Bizantini, i Musulmani sottentrarono confusamente. Qui la moltitudine occupò senza trar colpo il castello afforzato e poscia abbandonato dal nemico; là avventossi contro picciol presidio e fecelo in pezzi; a tal altro luogo corse una frotta di disertori berberi dell'esercito di Moezz, o uno stuolo di giund siciliano con la bandiera di Simsâm o senza. Così dobbiamo affigurarci il racquisto della più parte dell'isola, che i Musulmani credean fare di propria virtù, ed era la stoltezza della corte bizantina, la quale gittò in carcere Maniace; era la mente d'Ardoino e la spada delle compagnie italiane e normanne che sbarattavano le schiere greche, come ripassavano il Faro ad una ad una. I legami tra capitale e province spezzati dalla occupazione bizantina; quei degli antichi Musulmani coi nuovi, ossia dei nobili coi popolani, spezzati dalle arti d'Akhal e dal [424] mutare e rimutare i giund per sei anni continui,[1028] le plebi corse alle armi, fatte conquistatrici ciascuna dassè; i corpi franchi di Berberi; la rabbia di Siciliani ed Affricani ridesta necessariamente quando fu scosso il giogo zîrita; quello scompaginamento sociale; quell'autorità monarchica rimessa su in un tumulto senza forze proprie nè entrate, toglieano ai Kelbiti ogni modo di rassettare la cosa pubblica. La sconfitta di Simsâm, o certo dello esercito sotto le mura di Messina,[1029] dileguò la speranza se alcuna ne rimanea. L'emiro che i Bizantini dicono ucciso, e per sua sventura nol fu, perdè allora il solo dritto che dà comando nelle rivoluzioni. Che sperar, che temere di lui? Lo stormo delli sbaragliati si sparpagliò per tutta l'isola: ognuno s'acconciò in casa propria o nell'altrui, non essendovi forza maggiore che lo respingesse. Questo significano in loro stile gli annali arabici, dei quali abbiam dato il tenore.

Come in natura ogni più strano disordine è ordinato in sè stesso secondo le eterne leggi della materia, così in quel ribollir di tutte le genti che altre vicende avean cacciato insieme in Sicilia, nacquero varii grumi: e ciascuno fece uno stato; e in ciascuno si scopre l'affinità degli elementi che gli davano principio. Lo stato del centro, di cui fu capitale Castrogiovanni, erano territorii agricoli fatti da lunghissimo tempo musulmani; sì che v'era accaduta la vicenda del menomarsi la nobiltà militare, dileguarsi i vassalli [425] cristiani e crescere i popolani dell'antica schiatta; la parte Siciliana come si era chiamata in principio dalla guerra civile. Onde vi prevalsero que' che le croniche appellano uomini di vil condizione, finchè un se ne fece signore: Ibn-Hawwasci, “Il Demagogo,” schiavo, liberto plebeo.[1030] Questo stato vincea di potenza ogni altro dell'isola; come si vedrà negli avvenimenti che seguono per quarant'anni. Ibn-Menkût, messo negli annali a capolista degli uomini ignobili che vengon su nella rivoluzione, comanda nella punta occidentale, paese marittimo, sede di antiche colonie arabiche e però di molta cittadinanza d'origine musulmana. Quivi la popolazione sta, o tentenna, tra le due fazioni affricana e siciliana, o vogliam dir nobile e plebea: onde v'ha poco divario con la cittadinanza palermitana; e non guari dopo sparisce questo stato d'Ibn-Menkût, attirato da Palermo o da Castrogiovanni. Palermo fa parte dassè. La costiera orientale, abitata la più parte da vassalli cristiani, obbedisce a Simsâm e poscia al capo della nobiltà,[1031] e veggiamo i nobili prevalere nella più illustre città di quelle parti;[1032] e la seconda ch'era Catania, tenersi pria dal condottiere berbero Ibn-Meklâti, ma sottomettersi al signor di tutta la regione orientale. In vero Ibn-Meklâti, con que' suoi titoli di “Base dell'Impero” e ciambellan del Sultano, rassomiglia a governatore di provincia per Simsâm.[1033] Guerrier di ventura, sia delle [426] antiche colonie berbere, sia disertore dell'esercito moezziano, cacciatosi tra le turbolenze della Sicilia, salito in favor della corte; dopo il naufragio della quale si provò ad afferrare la tavola ch'avea presso. Le divisioni tornano dunque a tre: nobiltà militare, popolo delle province, e cittadinanza della capitale.

Avendo detto abbastanza delle due prime,[1034] ci rimane ad investigar gli umori di parte in Palermo. Ab antico, vi prevalse come notammo,[1035] la nobiltà, cui seguivano docilmente popolo e plebe difendendo le franchigie coloniali. Cresciuto il popolo di numero, facoltà e lumi, gli rincrebbe la licenza aristocratica; applaudì al primo emir kelbita che la raffrenava: la gemâ', nella quale veniano mancando i nobili proscritti e sottentravano i giuristi popolani, tendea, come un tempo quella di Kairewân, alla costituzione dei primi califi sotto un principe elettivo; quella via di mezzo di libertà, che la turbolenta schiatta arabica smarrì in brev'ora e non potè ritrovarla mai più. Quando la discordia tra nobili e popolo fu matura, quand'Akhal mutò la base del principato dal popolo nei nobili, si parteggiò forse nella capitale, ov'eran ambo gli elementi, e il popolare ch'era il più forte prevalse: come il mostrano quelle soldatesche chiamate dal principe, quell'assedio di ch'egli fu stretto nella Khalesa, ch'è a dir la Metropoli rivolta contro la cittadella che i Fatemiti le avean piantato in seno. Palermo ubbidì al figliuolo di Moezz per difender lo stato dai Bizantini; lo scacciò quando s'accorse che sapeva opprimere ma non [427] difendere; e ristorò il principato kelbita sola áncora di salvezza in quella tempesta. La gemâ' di Palermo par abbia tenuto il cammin dritto, mentre guazzavano nell'anarchia le altre popolazioni a ponente dal Salso: contadini e cittadini delle città minori, dove sogliono essere più stizzose le ire, più procaci gli uomini rozzi, men chiari alla vista gli interessi pubblici. In particolare vi si dovea coltivar meno lo studio del dritto che racchiude ogni idea politica dei Musulmani;[1036] e la schiatta siciliana, assai meno mescolata con l'arabica, le si dovea mostrare più ostile.

Per qual vicenda fosse cacciato Simsâm di Palermo si ignora. Ma la Sicilia centrale era perduta; la regione di levante obbediva forse di nome; questo “Brando dell'impero” non era uom di guerra nè di stato, e volle far troppo il re in Palermo, o parve inutile impaccio alla gemâ'. Gli dissero dunque di andarsene con Dio, e vollero provare la repubblica; se pur non aveano esaltato e deposto, tra i Kelbiti e la repubblica, un principe che regnasse qualche anno o qualche mese, Abd-er-Rahman-ibn-Lûlû, soprannominato Sceikh-ed-Dawla (Anziano dell'Impero) che rifuggissi in Egitto.[1037] Si vedrà nell'ultimo capitolo, [428] come la capitale, bramosa tuttavia di ricomporre lo stato, abbia promosso o accettato un re novello di schiatta nobile; il quale finì peggio dei predecessori.

CAPITOLO XIII.

Sfasciandosi per tal modo gli ordini pubblici, facea pur la Sicilia bella mostra al di fuori: grosse e frequenti città, valide fortezze, monumenti, industria agraria e cittadinesca, commercio, lusso, scienze, lettere. Le quali parti di civiltà sendosi maturate sotto la dinastia kelbita che più o meno le promosse, noi le verremo esponendo in questo e nel capitolo seguente, recando la storia letteraria sino al fin della guerra normanna; e farem anco parola dei dotti, i quali non trovando patria sotto il giogo cristiano, vollero serbarne schietto il simulacro nell'esilio, sì che andarono raminghi in Spagna, Affrica, Egitto ed Oriente, nella prima metà del duodecimo secolo. Con essi porremo quei pochi di cui s'abbiano notizie senza data certa. E serbiamo al sesto libro i dotti musulmani, del paese o stranieri, segnalatisi in Sicilia sotto i Normanni; e gli altri che conseguiron fama fuori l'isola dopo la metà del duodecimo secolo.

Tra il novecensettantatrè e il millecinquantaquattro dell'èra cristiana, tra il mercatante Ibn-Haukal che appuntava maraviglie e vizii in qualche osteria di Palermo, e l'Edrisi prole di principi, che stendea la [429] descrizione dell'isola sotto gli occhi di re Ruggiero, vissero in Sicilia due eruditi i quali ci lasciaron alcun cenno geografico. Scrittori entrambi di storia o cronica del paese, l'uno verso il millecinquanta per nome Abu-Ali-Hasan; l'altro, alla fine del secolo, l'illustre filologo Ibn-Kattâ': ed entrambi ebbero alle mani memorie più antiche. Fiorì anche nell'undecimo secolo il geografo spagnuolo Bekri, due cenni del quale su la Sicilia si trovano presso uno scoliasta.[1038] Dobbiamo i frammenti di Abu Ali e d'Ibn-Kattâ' all'erudito Iakût; il quale pubblicò il milledugentoventotto il Mo'gem-el-Boldân, ossia Dizionario geografico, e par abbia tolto da loro quasi tutte le notizie che dà sulla Sicilia.[1039] Si scoprono nel Mo'gem pochi nomi raddoppiati e altre mende inevitabili in compilazioni di tal fatta, non gravi errori da scemar fede all'opera.

[430] Al dire d'un cadi Abu-Fadhl, citato da Abu-Ali, si noveravano in Sicilia diciotto città e più di trecentoventi rôcche;[1040] ed Ibn-Kattâ' attestava aver letto nelle annotazioni d'un anonimo ch'erano nell'isola ventitrè cittadi, tredici fortezze[1041] e innumerevoli gruppi di case rurali.[1042] Coteste due notizie pur si riferiscono entrambe alla seconda metà del decimo o alla prima dell'undecimo secolo; nè fa caso il divario, quando le appellazioni città, fortezza, o rôcca corron sì vaghe ed arbitrarie appo gli Arabi come appo noi quelle di città, terra, o villaggio. Il numero diverso delle città non prova dunque mutata la condizion delle cose, è però diversa l'età degli eruditi che le scrissero. Quanto alle rôcche annoverate dal primo, tornano a un di presso a quel che oggi diremmo Comuni; perchè allora tra guerre straniere e guerre civili, le popolazioni amaron siti forti ed alpestri, e quelle chiamate al piano dall'agricoltura o dal traffico ebbero sempre qualche castello su nel monte dove potersi rifuggire.[1043] La più parte dunque delle rôcche [431] d'Abu-Fadhl eran le acropoli degli abitatori di quelle masserie e villaggi, dei quali avea perso il conto l'annotatore citato da Ibn-Kattâ'. In oggi il numero dei Comuni risponde a un di presso a quello d'Abu-Fadhl; ma non sarebbe sì malagevole a noverar le borgate rurali, che scemarono a mano a mano dalla istituzione alla abolizione della feudalità, dal conquisto normanno al parlamento del milleottocento dodici.[1044]

I nomi di città notati nel Mo'gem, i quali senza troppo discostarci dal vero possiamo supporre tolti da Abu-Ali e Ibn-Kattâ',[1045] sono in ordine alfabetico: Adornò,[1046] Alcamo, Boèo,[1047] Bonifato,[1048] [432] Carini,[1049] Castrogiovanni, Catania,[1050] Cefalù, Corleone, Demona,[1051] Gelso,[1052] Khalesa,[1053] Marsala, Mazara, Messina,[1054] Milazzo,[1055] Mineo, Palermo, Partinico, Patti, Sciacca, Scopello,[1056] [433] Siracusa, Trapani,[1057] che sommano a ventiquattro; e tolto il raddoppiamento di Marsala chiamata Boèo da Abu-Ali, farebbero appunto il numero d'Ibn-Kattâ'.[1058] Col nome di beled (paese) Iakût aggiugne Camerata, Termini e Girgenti, scaduta al certo nel decimo secolo dopo la ribellione. Chiama beleda (terra) Cinisi, Tusa e Mascali; boleida (paesetto) Villanuova;[1059] kala' (rôcca) Taormina, Tripoli, Aci e Bellût (Caltabellotta); kerîa (villaggio) Mili,[1060] Giattini[1061] e Sementara;[1062] dhia' (podere o villa) Kerkûd,[1063] e dà senza qualificazione Oliveri, e Caronia.[1064] Ma è da notare che le terre minori [434] non si ricordano nel Mo'gem per la importanza loro, ma perchè occorreano nella storia letteraria degli Arabi, che l'autore si propose d'illustrare con sì vasto dizionario geografico.

Le terre minori e villaggi che si leggono in Edrisi e altri scrittori arabi del duodecimo secolo e nei diplomi infino al decimoquinto, sommano quasi a novecento; dei quali se una parte fu fondata da coloni cristiani nel secol duodecimo, altrettanta per lo meno si dee supporre distrutta nella guerra normanna; onde lo stesso numero si può anco ritenere innanzi il conquisto.[1065] I nomi d'origine arabica, o berbera, o son prettamente arabici,[1066] o si scernono per note etimologie di schiatte[1067] e per voci ch'entrino nelle appellazioni composte: ain, gar, ras, menzîl, rahl, kala' burgi:[1068] e dinotano a un di presso i novelli nodi di popolazione formati nell'epoca musulmana da una parte dei coloni arabi e berberi, mentre un'altra parte prendeva a stanziar nelle ville, castella e città ch'erano in piè; onde non perdeano i nomi antichi.[1069] I novelli, [435] senza contarvi quei di fiumi, monti, cale e capi disabitati che moltissimi pur ve n'ha d'origine arabica,[1070] tornano a trecentoventotto, dei quali dugentonove in Val di Mazara, cento in Val di Noto e diciannove in Val Demone. Se risguardiamo all'area di ciascuna valle[1071] cotesti numeri confermano ciò che sappiam dalla storia, che i Musulmani occupassero tutto il Val di Mazara, e avessero posto qualche presidio in Val Demone. E dimostrano il fatto accennato soltanto dalle croniche, dico le grosse colonie che si sparsero in Val di Noto.[1072]

[436] Descrizioni di città non avvene, fuorchè di Palermo per Ibn-Haukal; pur si raccoglie qua e là qualche particolare. Sappiamo da Bekri, e però innanzi la guerra normanna, che Siracusa, grande città, occupava la penisola, congiunta alla spiaggia per sottile istmo, tra il maggiore e il minor porto, tra i quali era condotto un fosso che si varcava sopra un ponte; che l'era circondata di triplice muro, credo io, dalla parte dell'istmo; e che il gran porto apprestava stazione d'inverno alle navi.[1073] Ibn-Herawi, nel duodecimo secolo, narrava che nelle parti orientali di Catania rimanessero le tombe d'una trentina di martiri musulmani[1074] quivi uccisi nel primo secolo dell'egira; e che tra Catania e Castrogiovanni fosse il sepolcro d'Ased-ibn-Forat, conquistatore della Sicilia. D'altra sorgente, che sembra più antica, abbiamo Catania chiamarsi anco la Città dell'Elefante, da un simulacro di pietra in figura di questo animale, e ammirarvisi bei monumenti dei tempi andati, e chiese con pavimenti di marmo bianco e nero.[1075] Cefalù, al dir [437] d'Abu-Ali, era forte città, guardata da un castello sovra alta rupe a cavaliere della spiaggia;[1076] Castrogiovanni, maraviglia del secolo, gran città su la vetta d'un monte che fa centro all'isola, avea scaturigini abbondanti, terre da seminato e giardini, chiusi tutti entro il muro che torreggiava lì a mezz'aria.[1077] Non obliò il diligente Iakût di notare la postura astronomica delle tre città primarie, Palermo, Messina e Siracusa, secondo il Kitâb-el-Melhema, ossia “Libro della Divinazione”[1078] attribuito a Tolomeo, composto da qualche astrologo arabo o siriaco; il quale sapea leggere forse nei destini, ma sbagliava, come i contemporanei, le latitudini e longitudini.[1079]

[438] Più sodi ragguagli ritraggiamo in questo tempo dell'Etna, sì mal noto ai primi cosmografi arabi. Masûdi, scrivendo a Bagdad nella prima metà del decimo secolo, aveva ignorato il gran monte di Sicilia, o confusolo con l'Isola di Vulcano; favoleggiato che nelle eruzioni saltasser fuori strane sembianze d'uomini mozzi del capo; che il fuoco rischiarasse la terra e il mare oltre cento parasanghe;[1080] nè conoscea bene altro prodotto vulcanico che le pomici, adoperate a levigare le pergamene e tavolette da scrivere e stropicciare i piè nel bagno.[1081] Ma Abu-Ali-Hasan vide i luoghi e forse alcuna eruzione. “Il monte del fuoco, dic'egli, altissimo sovrasta al mare tra Catania e Mascali, non lungi da Taormina: gira la base tre giornate di cammino; abbondante di alberi fruttiferi; irsuto di boschi la più parte di castagne, nocelle, pini e cedri;[1082] ricoperto la cima di neve anche la [439] state, ammantata di nugoli; ma il verno è tutto neve dal capo al piè. Sorgongli intorno molti edifizii e maestosi avanzi dei tempi andati, e rovine che danno a vedere la frequenza del popolo che vi soggiornava; di che narrasi, Tûra antico re di Taormina[1083] aver messo in campo sessantamila combattenti. In su l'alto s'aprono spiragli[1084] ond'esce fuoco e fumo; e talvolta il fuoco scorrendo da alcun lato brucia che che trovi, poi si fa scorie, come quelle del ferro, onde gli si dà nome di akhbâth;[1085] dove oggi non spunta fil d'erba, nè animale vi s'arrischia.”[1086] Al tempo d'Abu-Ali spesseggiarono gli incendii nella costa orientale, poich'egli scrive che alcuni anni il fuoco scendea come rivo infine al mare e tanto sfolgorava, che parecchie notti in Taormina e altre terre non si acceser lumi e si viaggiò per que' paesi come se fosse giorno.[1087] Così egli ch'era nato o avea fatto dimora in Sicilia. Un cristiano di Calabria di quell'età, rassegnando le maraviglie [440] della Sicilia, non descrive conflagrazioni dell'Etna, ma ne fa supporre seguíte di recente, poichè riflette che tanti filosofi de' tempi antichi e de' suoi proprii avean sottilizzato su l'origine di quel fuoco senz'altra conchiusione che d'accrescere i dubbii e provar la ignoranza dei mortali.[1088] Bekri, contemporaneo e straniero, parla solo del borkân in due isolette adiacenti, dalla parte di settentrione, al certo Stromboli e Vulcano: prodigio di natura, dove tacendo il vento meridionale s'udiva un terribil fragore come di tuono.[1089] Altri scrivean del fuoco perenne dell'Etna al quale uom non osava appressarsi; ed aggiungeano maravigliando che la materia ignita tolta dal suo luogo si spegnesse incontanente.[1090] Le medesime eruzioni che Abu-Ali, o alcuna più recente, vide il dotto e devoto Siciliano Abu-l-Kâsim-ibn-Hâkim, rifuggito a Bagdad; dov'ei narrava, forse il millecentoventidue,[1091] al viaggiatore Abu-Hâmid da Granata, il fuoco dell'Etna risplendere talvolta a dieci parasanghe, in guisa che non occorre fiaccola nè lucerna nei villaggi o strade di campagna. Tra le fiamme, proseguia, scagliansi in alto massi di fuoco, somiglianti a balle di cotone, i quali infrangendosi ricadon a terra e si fan pietra bianca, o in mare e tornano in pietra nera e porosa, l'una e l'altra lieve da galleggiare sull'acqua. Aggiugnea suoi prodigi: i sassi e la sabbia, tocchi da quel [441] fuoco, avvampar quasi bambagia, e divenir polve negra simile all'antimonio; ma l'erbe e le vestimenta non accendersi alla lava, che consuma soltanto le pietre e gli animali, sì com'è scritto del fuoco della gehenna.[1092] Un altro barbassoro musulmano di Sicilia affermava al viaggiatore Herawi dopo il millecentosettantatrè, che un uccello color di piombo in forma d'una quaglia solea svolazzare dal fuoco dell'Etna e rituffarvisi, ed era appunto la salamandra; ma io non ho visto altro che pomici nere, aggiugne Herawi.[1093] Tanto ricaviamo dagli Arabi su la storia naturale dell'Etna: nel che non ho voluto metter da canto nè le minuzie nè le favole, e con Herawi son giunto infino alle eruzioni della seconda metà del duodecimo secolo, ricordate ormai dagli scrittori latini. Notevol è che Edrisi, dicendo del Monte del Fuoco, non faccia motto delle eruzioni, e poi descriva minutamente, anzi che no, i fenomeni di Stromboli e Vulcano. E ciò parmi indizio di lungo riposo dell'Etna nella prima metà del duodecimo secolo dopo gli incendii dell'undecimo, supposti fin qui su debolissimi argomenti,[1094] e provati adesso dalle testimonianze di Abu-Ali e d'Abu-l-Kâsim-ibn-Hâkim.

Dall'Etna faremo principio alle produzioni minerali [442] della Sicilia, tra le quali Masûdi pone il diaspro ch'ei tenea rimedio al mal di ventre, applicandolo esteriormente; ed anche, non so come, base del corallo.[1095] Del diaspro par che dica Iakût supponendo trovarsene montagne in Sicilia:[1096] ch'è esagerazione, non tutta bugia. Si cavava dall'Etna il sale ammoniaco, gran capo di commercio con la Spagna ed altri paesi.[1097] Delle pomici abbiam già detto, adoperate dagli Arabi nel bagno e nello scrittoio;[1098] e Bekri supponea costruite di pomici di Sicilia le volte del teatro romano a Susa.[1099] In lista con le ricchezze minerali del Mongibello Abu-Ali ponea l'oro, argomentandolo dalle note miniere d'Ali, ovvero da qualche pirite; ed immaginò, non so per qual errore, l'Etna aver preso nome in lingua rûmi dall'oro che chiudea nelle viscere.[1100] Con ciò narrano si cavasse nell'isola ogni altro metallo d'uso comune, argento, rame, ferro, piombo, mercurio.[1101] L'autor della vita di San Filareto parla del cristallino e lucente salgemma di Sicilia.[1102] Gli [443] Arabi contemporanei noverano l'antimonio, l'allume e il vitriolo.[1103] Lo zolfo e la nafta, adoperati allora nei fuochi da guerra e non ignoti ai Musulmani di Sicilia nell'undecimo secolo,[1104] par non si fossero cavati nell'isola che alla fine del duodecimo.[1105]

L'abbondanza delle acque di fonti o fiumi accennata per le generali da Iakût,[1106] sembra veramente maggiore dell'attuale, ove si risguardi alla descrizione particolareggiata che faceane Edrisi il millecencinquantaquattro ed ai fiumi ch'ei dice navigabili a barcacce di trasporto ed or più nol sono.[1107] E così dovea intervenire per la distruzione dei boschi che s'è fatta dal duodecimo secolo in qua;[1108] la quale non credo incominciata per man degli Arabi, poichè il sapiente agricoltore rispetta i boschi, e lo sciocco e affamato li taglia. Di notizie precise, Abu-Ali ne fornisce su le due regioni boschive che per natura sono le principali dell'isola: l'Etna e la catena d'Apennino. Della prima delle quali abbiam fatto parola. Dell'altra Abu-Ali afferma, le eccelse montagne e spaziose valli sopra Cefalù abbondar d'ogni maniera di legname [444] atto a costruzioni navali.[1109] Il monaco Nilo loda i cedri di Sicilia, i cipressi e i pini dritti e maestosi, i cui rami servivan di fiaccole.[1110]

Vengon poscia le ubertose produzioni dei giardini, dei campi e della pastorizia lodate da Bekri;[1111] le frutta d'ogni colore e sapore che non mancavano state nè verno, scrive Iakût, forse da Abu-Ali;[1112] le mèssi che coprivano la più parte dell'isola secondo Ibn-Haukal;[1113] lo zafferano che vi germogliava spontaneo;[1114] il cotone e il canape coltivati a Giattini[1115] e altrove; il primo dei quali sembra venuto dell'Affrica;[1116] gli ortaggi che parean troppi ad Ibn-Haukal.[1117] Nessuno scrittore arabo fa menzione degli ulivi, che in Sicilia comunemente si credono accresciuti in quella età, perchè i contadini soglion chiamar saracinesco qual veggano più possente di ceppo, e pittoresco di tronco e rami. Nel che i contadini s'accostano forse al vero, e gli altri no. La coltura dell'ulivo in Sicilia risalisce al quinto secolo innanzi l'era volgare, nè mai si abbandonò, ma decadde al par che tante altre sotto [445] i Romani, nè rifiorì sotto gli Arabi; poichè sappiamo dell'olio che l'Affrica vendeva alla Sicilia nel nono, undecimo e duodecimo secolo.[1118] Parmi piuttosto che l'isola debba ai Musulmani le melarance e altri agrumi ch'or son capo sì ricco di commercio;[1119] ed anco la canna da zucchero,[1120] i datteri[1121] e i gelsi, o almeno la seta.[1122] Al contrario se la vite non si sbarbicò per ogni luogo, se i poeti arabi di Sicilia lodarono il vin del paese con tal fervore anacreontico, i vigneti scemarono contuttociò sotto la dominazione musulmana; e sì lentamente si rifornirono in due secoli, che la Sicilia facea venir vini da Napoli verso la fine del decimoterzo.[1123]

[446] Le razze equine di Sicilia, ricordate dagli Arabi nell'undicesimo secolo,[1124] fornivano, al dir d'un autore cristiano, animosi destrieri, d'egregie forme e vario pelo;[1125] abbondavano i muli[1126] dalla zampa sicura nelle montagne, adoprati alla soma ed al tiro;[1127] e con quelli, asini,[1128] buoi, vaste greggi di pecore;[1129] nè era smessa l'antica educazione delle api. Copiosa la pesca, e nei porti, scrive il monaco Nilo, le ostriche, e le conchiglie che danno la porpora.[1130] Le foreste e montagne ripiene di cacciagione.[1131] Nè vi mancan le belve, che giovano a spirare il timor di Dio negli animi semplici, riflette il frate,[1132] volendo significare al certo i lupi. Gli Arabi, avvezzi ad altro che spauracchi da bambini, noveravano tra i pregi della Sicilia non esservi lioni, leopardi, iene, nè grossi serpenti, e gratuitamente aggiugneano nè vipere, nè scorpioni.[1133]

L'ubertà del paese non si riconoscea dalla sola matura, come direi forse trattando d'altri tempi; chè possentemente l'aiutava la industria degli abitatori, [447] sulla quale dà un po' di lume il “Libro dell'agricoltura” d'Ibn-Awwâm, spagnuolo della metà dell'undecimo secolo, sagace compilatore degli insegnamenti d'opere più antiche forse fin dal tempo de' Nabatei, alle quali aggiunse le proprie osservazioni su le pratiche agrarie della Spagna. Da lui sappiamo che il modo più acconcio di piantare gli ortaggi, sopratutto le cipolle e i poponi, era detto alla Siciliana; e la minuta descrizione ch'ei ne fa, risponde appunto a quel congegno di schiene e rigagnoli che si pratica tuttavia in Sicilia.[1134] Le voci arabiche d'orticultura che rimangono nel dialetto siciliano, non lascian dubbio sul tempo in cui ebbero origine queste e simili pratiche.[1135] Un fiore ch'è forse la malvetta rosata,[1136] si chiamava in Spagna al tempo d'Ibn-'Awwâm Malva siciliana, onde sembra venuto di Sicilia.[1137] Quinci passò in Spagna una composizione di mostarda con miele e senape, descritta per filo e per segno in un luogo d'Ibn-Besâl.[1138] Ma importantissima sopra ogni altra la pratica di porre il cotone in terreni ingrati che Ibn-Fassâl citato da Ibn-'Awwâm riferisce ai Siciliani, e la dice imitata con profitto nelle costiere di Spagna.[1139] [448] Un altro trattato arabico d'agricoltura ricorda che i Siciliani sarchiassero fino a dieci volte il terreno da seminare a cotone.[1140] Rimase in Sicilia l'utile pianta nel duodecimo secolo;[1141] e infino alla metà del decimoterzo;[1142] ma allo scorcio del decimoquarto se n'era ita, seguendo quasi la schiatta arabica, in Malta, Stromboli e Pantellaria:[1143] ed appena par che cominci a tornare adesso nelle spiagge di Pachino e su le sponde del Simeto.

In fatto d'opificii abbiam ricordo del prezioso drappo, al certo di seta, detto di Sicilia, del quale si trovò una catasta tra i tesori d'Abda, figliuola del califo fatemita Moezz, morta in Egitto in su la fine del decimo o principio dell'undecimo secolo.[1144] Che innanzi quell'età si lavorasse la seta in Sicilia lo prova d'altronde la biografia del pio [449] Abu-Hasaa-Hariri,[1145] e v'accenna il nome di Kalat-et-Tirazi, castello in oggi abbandonato presso Corleone,[1146] non che il regio Tirâz di Palermo, avanzo dell'industria arabica nel duodecimo secolo, di che sarà detto a suo luogo. Similmente abbiam pochi cenni del commercio, per non curanza degli scrittori o dispersione degli scritti. Oltre la esportazione del sale ammoniaco testè ricordata,[1147] sappiamo la importazione dell'olio da Sfax,[1148] e la frequente navigazione dalla Sicilia a Mehdia e Susa.[1149] I patti di Hasan-ibn-Ali del novecencinquantadue[1150] ci attestano l'importanza del traffico tra l'isola e Reggio; nè picciola parte dovea tornare alla Sicilia dalle relazioni commerciali ch'ebbe coi Musulmani la costiera di Terraferma bagnata dal Tirreno. Lasciando le regioni dal Tevere in su, lo conferma Ibn-Haukal per Napoli, Salerno, Amalfi;[1151] lo conferma il doppio nome di Keitona-el-Arab che ritenne il Promontorio Circeo fino al tempo di Edrisi; nome analogo a quel che davano ad una città nelle parti meridionali della Sardegna,[1152] ed a quel [450] c'ha tuttavia la Catona in faccia a Messina.[1153] Maggiore d'ogni altra prova è che a Salerno, fors'anco a Napoli e Amalfi, si contraffacea, non per frode ma per bisogno del commercio, la moneta d'oro di Sicilia,[1154] come infino ne' tempi nostri v'ebbero belli e buoni colonnati di Spagna battuti in altri paesi.

Ove ponghiamo mente al genio randagio degli Arabi, alla comunanza di leggi, usi, costumi e in gran parte anco di schiatta, dei Musulmani che teneano il bacino occidentale del Mediterraneo, non staremo in forse che la Sicilia partecipò delle arti e lusso della Spagna e costiera d'Affrica, sì come è provato che ebbe analoghe vicende politiche e cultura di lettere. Così anco dei monumenti. Perirono nella guerra normanna quasi tutti que' dei Musulmani; e pur non vi ha menomo dubbio del loro splendore, quando l'autor della vita di San Filareto lodava i tempii ed altri sontuosi edifizii delle città maggiori della Sicilia;[1155] e il conte Ruggiero, dopo averci lavorato per trent'anni con ferro e fuoco, scrivea patetico in un diploma del millenovanta, delle vaste e frequenti rovine delle città e castella saracene; de' vestigii di lor palazzi, fabbricati con mirabile artifizio, adatti, non che ai comodi, ad ogni lusso e delizia della vita.[1156] Nel sesto [451] libro toccheremo l'architettura arabica sotto i Normanni, alla quale dobbiam tutti i monumenti che avanzano in Sicilia del medio evo, da pochissimi in fuori. Dico due o tre, da che la iscrizione neskhi intagliata a mo' di fregio nelle mura del palagio della Cuba, porta il nome di re Guglielmo secondo e la data del millecentottanta.[1157] Bagni di Cefalà e il palagio della Zisa sembrano più antichi, alla gravità della scrittura cufica che altra volta li coronò;[1158] e il palagio e bagno di Maredolce, ancorchè non vi si trovino iscrizioni, parrebbe contemporaneo; ma rimanendo sempre incerta l'epoca, e sendo state racconce le fabbriche di poi, e la Zisa anche abbellita dai Normanni, non vi si può fondare giudizio su l'arte arabica di Sicilia nell'undecimo secolo. Questo sol noterò, che le linee di prospetto del cubo allungato e dell'arco aguzzo dei tempi normanni si trovano nelle cornici delle iscrizioni arabiche di Sicilia dell'epoca musulmana. Qui un rettangolo sormontato da una punta in forma di mitra vescovile;[1159] lì inscritto dentro il rettangolo un arco spezzato in tre lobi alla foggia che s'è chiamata moresca.[1160]

Avvien sempre che sfugga alla più cruda rabbia di guerre o persecuzioni qualche monumento di [452] minor mole, per trascuranza o stanchezza delle mani vandaliche, per capriccio o gusto d'alcun uomo: e così parecchie iscrizioni arabiche della dominazione musulmana rimasero in Sicilia, senza contar quelle de' tempi normanni delle quali si dirà a suo luogo. Quantunque i rami pubblicati dal Di Gregorio sian delineati così così, e io non abbia avuto sotto gli occhi migliori disegni delle iscrizioni inedite, potrò pur toccare la calligrafia lapidaria, la quale col disegno architettonico e coi rabeschi tenea luogo di tutt'arte grafica appo i Musulmani.[1161] Ci occorse già far parola delle iscrizioni della torre di Baich in Palermo,[1162] e del castello di Termini;[1163] l'una perduta, se non che abbozzossi il disegno d'alcun brano; e l'altra pessimamente delineata, e temo adesso ita a male: entrambe del decimo secolo. Alla medesima età mi par da riferire la leggenda intagliata nel vecchio edifizio dei bagni di Cefalà, logora da lungo tempo, e in oggi, mi si dice, dileguata del tutto.[1164] Le iscrizioni conservate sono sentenze coraniche scolpite in colonette di marmo [453] che si tolsero dalle moschee e si murarono nelle chiese, ovvero epitaffii svelti dalle tombe, collocati in musei o case private. La scrittura cufica, semplice, robusta, con poche fioriture, e nessun ghiribizzo qual si notava nella torre di Baich,[1165] appar anco nei due cippi sepolcrali del Museo di Verona,[1166] in altri due di casa Calzola a Pozzuoli,[1167] nei tre di Marsala, Siracusa e Messina, che non hanno data;[1168] in quello del Museo Daniele a Caserta,[1169] e in un picciol marmo di [454] casa Emmanuele a Trapani,[1170] e un altro del Museo di Messina:[1171] le quali forme di caratteri, molto svariate e pur tutte appartenenti alla classe che ho posta, non differiscono dallo stile dei monumenti analoghi sparsi da Cordova infino a Bagdad. Frammisto a quello si vede nella stessa epoca in Sicilia, sì come in ogni altro paese musulmano, con linee più tortuose e bizzarre, il cufico ornato e talvolta intralciato di rabeschi, che si è chiamato impropriamente scrittura carmatica. Bellissima in questo stile, nè sopraccarica di capricci è la lapide sepolcrale di Oma-er-Rahman che si trovò pochi anni addietro in Palermo, dove manca la data, ma sembra alla vista del decimo o undecimo secolo.[1172] Similmente dell'epoca musulmana le iscrizioni coraniche delle Chiese delle Vergini e San Francesco d'Assisi in Palermo,[1173] del convento dei Francescani in Trapani,[1174] che son più o meno ornate, ma [455] di bella struttura di caratteri; e l'altra assai logora e ignuda, nè di forme eleganti, di una colonna nel portico meridionale della cattedrale di Palermo.[1175] Un bel neskhi, o corsivo, modificato a forme monumentali, spoglio di ornamenti e notato di punti diacritici, si scorge in una pietra sepolcrale di Mazara, in parte logora, se il vizio non è nella stampa ch'io n'ho alle mani.[1176] È scritto in neskhi grossolano, con qualche punto diacritico e qualche errore di grammatica, l'epitaffio mutilo che si serba nella Biblioteca comunale di Palermo: e stava su la tomba d'un Abu-Hasan-Ali, morto il trecencinquantanove dell'egira.[1177]

[456] Farò cenno in ultimo delle monete dei Musulmani di Sicilia, su le quali manca un lavoro compiuto, nè io potrei provarmici, nè sarebbe da stenderlo qui.[1178] Mi ristringo pertanto ai risultamenti, ritraendoli dall'accurato catalogo del Mortillaro, aggiugnendo qualche altra notizia che s'è pubblicata appresso e le monete inedite del Museo parigino. Degli Aghlabiti, dei quali è si povera la numismatica, rimangono poche monete siciliane.[1179] Per lo contrario abbondano le fatemite; sì che ve n'ha di tutti i califi che regnarono di fatto o di nome in Sicilia, da Obeid-allah fondatore della dinastia fino ad Abu-Tamim-Mostanser-Billah, o meglio al quattrocentoquarantacinque dell'egira dopo caduta la dominazione kelbita:[1180] un [457] centinaio di monete, la più parte d'oro, due sole d'argento e non poche di vetro di varii colori, che sembran usate in luogo dei quattrini di rame.[1181] Hanno leggende cufiche; formole fatemite, molte con data e col nome della Sicilia. Quelle d'oro, quando se n'è fatto saggio, si son trovate di buona lega. Son tutte del peso d'un grammo più o meno, che torna alla quarta parte del dinâr omeiade, abbassida e fatemita: di certo il robâ'i, ossia quartiglio, del quale si legge nei ricordi arabici della Sicilia nel decimo e duodecimo secolo.[1182] Picciola e comoda [458] moneta come gli odierni cinque franchi d'oro, coniata tuttavia sotto i Normanni con leggende arabiche, e chiamata tari in un diploma greco, e tareni nelle croniche e carte latine di quel tempo.[1183]

Il commercio musulmano di Sicilia, non che mantener suoi robâ'i nell'isola sotto la dominazione normanna, avea costretto ad usarli, fin dai principii del decimo secolo, Napoli, Salerno, Amalfi; ed a batterne in casa propria, ed anteporli a tutt'altro conio. I diplomi latini di Napoli di quel secolo portan le vendite in solidi bizantini e più spesso in tari,[1184] dei quali quattro faceano un solido bizantino, ch'era lo stesso del dinâr arabo. Dai medesimi atti si rileva che i solidi scarseggiavano o mancavan del tutto alla metà del secolo, ancorchè sempre si notassero come moneta legale; e che rimanea quasi solo conio corrente d'oro il tari.[1185] Da un'altra mano i musei del [459] regno di Napoli ci mostrano quartigli d'oro della stessa forma e peso di que' di Sicilia, col nome del califo fatemita Moezz (953-975); se non che comparisce la mano straniera, al cufico men franco, e la lega men buona, e si mostra talvolta alla scoperta, aggiugnendo in mezzo dell'impronta arabica “Salerno” e altre lettere latine: e perfino stampò la croce tra le sentenze unitarie dei Fatemiti, o scrisse sul dritto il nome di Gisulfo principe di Salerno (1052-1076) e sul rovescio quel di Moezz morto un secolo innanzi.[1186] Parmi non cada in dubbio che i tari dei diplomi napoletani fossero appunto i robâ'i di Sicilia, e le copie più o men fedeli che se ne faceano nell'Italia meridionale. La voce tari, ignota di là del Garigliano, ignota nelle altre province bizantine, si accosta per articolazioni ed accento a dirhem o dirhim pronunziata velocemente dagli Arabi trihm,[1187] ed al plurale terâhîm o trâhîm e trâhî, mangiandosi l'ultima consonante e battendo l'accento sull'ì. Le bocche italiane ne fecero tari. Nè questa è conghiettura, ove si ricordi il tari denominazione di peso, che risponde senza dubbio al [460] dirhem, il quale gli eruditi di Sicilia scrissero tari-peso, ma il popolo credo l'abbia detto sempre trappeso, rendendo nella prima sillaba la volgare pronunzia arabica.[1188] Così i Napoletani e i Siciliani del medio evo ripigliavano dagli Arabi il vocabolo drachma, che quelli aveano tolto dai Bizantini e mutato in dirhem.

CAPITOLO XIV.

Arrivati a scoprire per quante vie s'era messo lo spirito umano al tempo dell'antica civiltà, i popoli musulmani le tentaron qua e là con ardore giovanile; in molte si lasciarono addietro i Cristiani contemporanei; sovente aggiunsero lor trovati al patrimonio [461] degli antichi; il che non avveniva allora in Cristianità. Sopra ogni altro lussureggiarono in due esercizii connaturali a loro società. L'arte della parola in rima e in prosa, antico vanto degli Arabi, mutando corso nell'islamismo e allontanandosi dalle forme del bello, si allargò in ogni più sottile investigazione di grammatica, lessicografia, versificazione, delle quali parteciparono i popoli conquistati: talchè per tutta Musulmanità fu studiata la filologia minore quanto nol fecero mai i Greci nè i Latini; e se le Muse dessero la corona a chi più s'affatica, gli Arabi se l'avrebbero senza contrasto. Surse dal Corano quella scienza mescolata di teologia e dritto, la quale, sendo come il pan quotidiano dei Musulmani, non è maraviglia che attirasse tutti gli ingegni disposti a così fatte contemplazioni e bramosi di onori e stato. La filologia e le scienze coraniche, per aver sì profonde radici l'una nella schiatta arabica, le altre nella società musulmana, occuparono quasi tutto il campo, rinvigorite dalla metafisica e dialettica dell'Occidente; rimasero sole dopo la decadenza politica e sociale dagli Arabi; e si possono dir vegete fino ai dì nostri dovunque regga la legge di Maometto, dal Gange allo stretto di Gibilterra. Ma le scienze antiche, come le chiamarono gli Arabi per averle tolte in presto dai Greci, trovarono ostacolo nella tenacità semitica del popolo dominatore, il quale se n'era invaghito per ebbrezza di nuovo acquisto, e d'un subito s'arretrò, spaventato, dal cammin che credea lo menasse all'inferno. Poi prevalendo genti più grossiere, in Levante i [462] Turchi, in Occidente i Berberi; irrompendo Cristiani d'ogni banda nell'impero musulmano, esacerbaronsi le passioni religiose, rinnegòssi il secolo di Harûn Rascîd, e quelle sospette scienze sparvero ad una ad una tra le tenebre ricadenti sul mondo musulmano.

Le ristorate dottrine dunque d'Aristotele, d'Euclide, d'Ippocrate, non solo ebbero minor tratta di seguaci al tempo della civiltà arabica, ma sendo ite in bando dalla terra d'islam, dileguavasi dal decimoquarto secolo in poi la memoria di cui le coltivò. I biografi tuttavia s'affaticarono a rintracciare nomi e aneddoti di grammatici, retori, lessicografi, interpreti del Corano, tradizionisti, giureconsulti, teologi e mistici d'ogni maniera, e vennero a capo di trovarne molti sfuggiti alle ricerche dei predecessori; ma fecero guarda e passa nelle altre scienze. Similmente si smettea di copiarne i libri. Ho voluto notare cotesta disuguaglianza nelle proporzioni della storia letteraria e le due cause da che venne, perchè la non sembri difetto peculiare degli Arabi Siciliani. Un pugno d'uomini, del resto, datisi alla cultura intellettuale per qualche secolo e mezzo, soggiogati quando coglieano il frutto, perseguitati e dispersi entro un altro secolo: meraviglia è che ce ne rimanga qualche brano di memorie letterarie per carità di cui accolse in casa gli esuli sconsolati. Nei paesi rimasti musulmani, l'amor di patria o la vanagloria municipale dei tempi di decadenza, religiosamente ragunò ogni ricordo dei cittadini più o meno illustri. E i coloni di Spagna, più numerosi assai dei Siciliani, pervenuti all'incivilimento dopo tre secoli, n'ebber [463] agio altri quattro a compiere il pio oficio pria che sgombrassero d'Europa.

Il solo autore arabo che appositamente abbia scritto la storia dei filosofi, matematici e medici, non ricorda altri Siciliani che un del duodecimo, secolo e tre dell'antichità, Archimede, Empedocle, Corace;[1189] su i quali dà ragguagli meno scontraffatti che non si potrebbero aspettare così di rimbalzo; ma non appartengono al nostro argomento. Del resto, se l'abbiano ignorato Zuzeni al tempo di Federigo secondo ed Ibn-Khallikân nella generazione seguente, si coltivaron pure le sciente matematiche in Sicilia sotto la dominazione arabica. Ne fan fede le memorie dei tempi normanni, delle quali diremo a suo luogo; ed anco alcun cenno immediato dell'undecimo secolo. Makrizi nella Topografia dell'Egitto, venendo a parlare dell'osservatorio che fondò al Cairo il mecenate Afdhal l'anno cinquecento tredici (1119-20), e il califo Amer spiantò a capo di sei anni, novera tra gli astronomi che v'erano condotti a stipendio, il geometra siciliano Abu-Mohammed-Abd-el-Kerîm,[1190] [464] esule ch'ei sembra dopo il conquisto normanno. Ibn-Kattâ', nell'Antologia dei poeti siciliani, trascrivendo alcuni versi di Abu-Hafs-Omar-ibn-Hasan-ibn-Kûni con due righi di cenno biografico, gli diè lode anco di geometra ed astronomo. Il titol che aggiugne di Kâtib, ossia segretario; mostra che quest'Omar il fu in alcun oficio pubblico, forse nella segreteria di Stato. Del quale se i versi d'amore son troppo geometrici, v'ha uno squarcio d'elegia che direbbesi scritto da stoico romano anzi che da credente arabo: sì sdegnoso il pensiero, alto senza puntello di religione; ed anco semplice e grave nella forma; se non forse per due bisticci che il poeta incastrò nell'ultimo verso.[1191] Ibn-Kattâ' similmente fa ricordo del Segretario Abu-Abd-Allah-Mohammed-ibn-Hasan-ibn-Kereni,[1192] astronomo, aritmetico e poeta.[1193]

Che la matematica e l'astronomia si fossero applicate in Sicilia a studii topografici, non si può negar nè affermare. In vero scorgiamo una bella. [465] correzione della postura dell'isola rispetto all'Affrica. Ibn-Haukal Bel decimo secolo supponea la Sicilia guardare dritto Bugia, Tabarca e Marsa Kharez (La Calle); cioè la spingea due gradi più a ponente.[1194] Ibn-Iûnis, il celebre astronomo del Cairo, alla fine del decimo secolo, con errore contrario la tirava dieci gradi a levante di Tunis.[1195] Ma una notizia anonima che leggiamo in Iakût e par si debba riferire a sorgenti siciliane dell'undecimo secolo, pone vicinissima alla Sicilia tra le terre d'Affrica l'antica Clipea presso il Capo Bon, aggiugnendo correr tra quella e l'isola cenquaranta miglia, ossia due giornate di navigazione con buon vento, e, da un altro lato, lo Stretto del Faro misurarsi due miglia, là dove l'isola più s'accosta alla terraferma.[1196] Donde parmi che la correzione sopraddetta si debba riferire ai navigatori siciliani ed affricani, non agli astronomi; tanto più che lo sbaglio delle longitudini non si potea riconoscere da privati senza un osservatorio fornito di quegli smisurati stromenti che gli Arabi furon primi a costruire. Ignoriamo in qual tempo visse chi immaginò l'isola triangolo equilatero, [466] misurandovi sette giornate di cammino da un vertice all'altro.[1197] Ibn-Haukal s'avvalse forse delle nozioni che correano nel paese e avvicinossi al vero quando assomigliò la Sicilia a triangolo isoscele con la punta rivolta a ponente,[1198] la base di quattro giornate, e ciascun lato di sette.[1199] Bekri ne fe' triangolo scaleno, troppo largo alla base, di cencinquantasette miglia, con censettantasette di lato maggiore e cinquecento di perimetro.[1200] Altri diè il giro di quindici giornate.[1201] Infine una misura che sembra oficiale e dell'undecimo secolo, portava undici merhele o diremmo stazioni di posta, da Trapani a Messina, e tre giornate di larghezza;[1202] onde s'argomenta [467] che mancassero i rilievi di posta nella riviera orientale, e le distanze perciò si ritraessero il manco male che si potea dai viandanti. La somma è che i dotti siciliani studiarono piuttosto la geografia descrittiva che la geografia matematica del suolo ov'erano nati.

Lo Sceikh Abu-Sa'îd-ibn-Ibrahim, detto il Maghrebino e il Siciliano, compilò un libro di terapeutica, del quale v'hanno due codici, ad Oxford e Parigi. S'intitola il primo Ausiliare alla guarigione d'ogni sorta di morbi ed acciacchi;[1203] e il secondo Taccuino[1204] dei medicamenti semplici: unica opera, della [468] quale il manoscritto bodleiano parmi il primo dettato, e il parigino la seconda edizione, corretta e semplificata. Considerato, che vogliansi adattare i medicamenti alle particolarità degli individui e dei mali; e che fin qui le opere di materia medica siano state compilate secondo i nomi dei semplici o delle malattie, l'autore si propone di presentar l'uno e l'altro ordine uniti insieme a colpo d'occhio per sussidio di memoria al medico. Fa dunque un volume di tavole sinottiche, notando nelle linee orizzontali ciascun semplice con sue qualità ed usi, secondo le divisioni che fanno le linee verticali o vogliam dire colonne. Pon quattro classi di malattie; del capo, degli organi respiratorii, degli organi digestivi e del corpo tutto; e poi nota nella linea orizzontale la denominazione tecnica della infermità. Tratta soltanto dei medicamenti semplici i quali son messi nell'ordine dell'antico alfabeto detto Abuged,[1205] seguíto sempre dai medici e matematici arabi. Nella introduzione si discorrono con dotta brevità i principii generali della materia medica.[1206]

[469] Spedito ed utile manuale, il cui linguaggio tecnico, le divisioni, le teorie e qualche tradizione greca che s'accenna nella introduzione, rispondono al corpo di dottrine mediche che possedeano gli Arabi nell'undecimo secolo, qual si vede nella famosa compilazione d'Avicenna. Il riscontro col Canone ci conduce inoltre a supporre contemporaneo o anteriore ad Avicenna (980-1037) il Siciliano Abu-Sa'îd, il quale afferma niuno avere steso prima di lui tavole comparate di rimedii e malattie; e noi le troviamo appunto nel secondo libro del Canone.[1207] D'Abu-Sa'îd non avanza alcun cenno biografico. Tuttavia nè menzogna nè plagio non son da sospettare, quand'ei fa categorie patologiche diverse da quelle d'Avicenna; e dà un catalogo di semplici molto minore, dove pur se ne trova di tali che mancano nel Canone, ed è diversa la disposizione dei nomi identici. Se imitazione v'ebbe, par dunque l'abbia fatta Avicenna da Abu-Sa'îd, o ch'entrambi abbiano attinto alle medesime sorgenti, e recato nelle esposizione della materia medica quel genio simmetrico degli Arabi, senza conoscere i lavori l'uno dell'altro in regioni si lontane. Se non che il manuale apposito del Siciliano fu ecclissato dal trattato generale del Persiano, al quale poi si è attribuito, come a Tolomeo, Averroès ed [470] altri compilatori antichi e moderni, tutto l'onor delle dottrine ch'egli coordinò ed espose.

Più che Abu-Sa'îd meritò della scienza il Siciliano Ahmed-ibn-Abd-es-Selâm, sceriffo, ch'è a dir della stirpe d'Ali, autore d'un trattato di medicina che serbasi a Leyde ed era intitolato: Il libro dei medici su tutte le malattie dal capo alle piante.[1208] Limitandosi ai medicamenti semplici, chè i composti, dice egli, difficilmente riescono nè mai n'è certo lo sperimento, Ahmed breve accenna i rimedii indicati secondo le diagnosi; non tacendo le credenze volgari e contrapponendovi i dettami dei maestri greci ed arabi e sovente la propria esperienza. Divide l'opera in venti capitoli; da alcuno dei quali che ho percorso, specialmente il paragrafo su l'idrofobia, il Libro dei medici mi sembra ricco di osservazioni, dettato con quella saviezza sperimentale che si fa scorta delle teorie e ch'è sola via dritta in quest'arte. Ma pieno giudizio non se ne potrà dare, se la storia della medicina appo gli Arabi non sia meglio studiata che al presente, e se eruditi medici non approfondiscano [471] quest'opera, la quale a prima vista sembra di gran momento. Ahmed ne compose un'altra, forse d'igiene, intitolata: Conservazione della salute; divisa in ottanta capitoli e dedicata ad un Abu-Fâres-Abd-el-Azîz-ibn-Ahmed; della quale tanto sol sappiamo da Hagi-Khalfa, e che l'autore si appellava Siciliano e Tunisino.[1209] Di lui non troviamo cenno nelle biografie dei medici arabi; talchè dobbiam lasciarlo tra quei d'età incerta, non potendo affidarci ad un barlume che ci condurrebbe all'ultima emigrazione dei Musulmani di Sicilia, sotto Federigo secondo imperatore.[1210] Visse di certo nella dominazione musulmana Abu-Abd-Allah-Mohammed-ibn-Hasan-ibn-Tazi, poeta e letterato di gran fama in Sicilia, al quale Ibn-Kattâ' dà appellazione di medico, senza dirne altro;[1211] e noi ne riparleremo tra i poeti con l'onore e il biasimo ch'ei meritò. Del rimanente questo picciol numero di medici, le cui notizie ci pervengono come per caso, non prova che la scienza fosse trascurata in Sicilia.

Scarsi al paro i ricordi di cui seguì la filosofia antica, che gli Arabi chiamarono col proprio nome greco: e diceano Kelâm ossia “ragionamento,” la metafisica e logica religiosa acconciate a lor modo. [472] I filosofi, spesso perseguitati in vita e dimenticati dopo morte, non tornan a galla nella storia letteraria degli Arabi, se non li spinge su qualche vestimento più leggiero: poesia o filologia. Così ci vien trovato nelle biografie dei linguisti di Soiuti, un Sa'îd-ibn-Fethûn-ibn-Mokram da Cordova, della illustre gente dei Togibiti, grammatico, filologo e scrittor di due trattati di versificazione; dato anche, dice Soiuti, alla filosofia. Fu costui contemporaneo del terribil ministro Ibn-Abi-'Amir, detto Almanzor, protettore delle lettere, persecutore delle scienze antiche; quel che bruciò i libri di filosofia ed astronomia della biblioteca di Cordova. Sa'îd, accusato non sappiamo se di scetticismo o ribellione, forse senz'altra colpa che il nascer di schiatta possente e temuta, fu chiamato da Almanzor, interrogato severamente e messo in prigione. Poi lasciaronlo andare in esilio; ed elesse la Sicilia, dove passò il resto de' suoi giorni, alla fine del decimo o principio dell'undecimo secolo.[1212]

Primaria scienza sacra appo loro la lettura del Corano, la quale portando seco interpretazione, riesce a gravi conseguenze legali, dommatiche e morali. Fu dettato il Corano quando tra gli Arabi contavasi a dito chi sapesse scrivere; nè a grammatica si pensava pur anco nè ad ortografia. Poscia Othmân nell'edizione canonica eliminò i luoghi apocrifi, le frasi estranee al dialetto coreiscita, ma non [473] potè mettere in carta la sacra parola con segni più perfetti che gli Arabi non ne possedessero. Cioè che notavano precise tanto o quanto le consonanti,[1213] e delle vocali sol quelle rinforzate da accento, e non pur tutte: donde l'ambiguità di tanti vocaboli che non sono distinti se non dalle vocali, di tanti periodi varii di significato secondo i modi grammaticali che si accennassero leggendo.[1214] Il testo dunque sendo scritto, come oggi diremmo, in cifera di stenografia, nè bastando averlo sotto gli occhi per saperne appunto il tenore, era forza supplirvi con la tradizione orale e con le regole della grammatica. Indi i Lettori, i maestri di Lettura, i trattati e anche poemi didascalici, le sette scuole principali di lettura e non so quante secondarie, gli arabici assottigliamenti in cotesta novella scienza; e s'arrivò a notare il Corano con segni più presto musicali che ortografici: lettere, punti, lineette, sigle che si dipingeano a varii colori intorno gli arcaici caratteri negri del testo d'Othmân, e prescrivean le pause, le modulazioni e oficio dell'a, le articolazioni da elidere o permutare e simili.

[474] Fu dei più rinomati Lettori del Corano al suo tempo Abd-er-Rahmân-ibn-Abi-Bekr-ibn-'Atîk-ibn-Khelef da Siracusa, detto Ibn-Fehhâm (Il figlio del Carbonaro), nato il quattrocencinquantaquattro (1062), uscito, com'è probabile, alla presa di Siracusa, l'ottantotto (1095), e morto il cinquecento sedici (1122-3). Andò cercando in Oriente i dottori principi della Lettura; praticò con parecchi d'Egitto; e soggiornò, forse diè studio, in Alessandria, essendo stato chiamato lo Sceikh Alessandrino. Compose il Soddisfacimento a chi brami saper bene le Sette Lezioni, e La Gemma Solitaria d'Ibn-Fehhâm su la Lettura: com'è vezzo degli scrittori arabi di porre titoli millantatori e avviluppati, purchè sembrino bizzarri. Si ricorda inoltre un suo Commentario su i Prolegomeni Grammaticali d'Ibn-Babesciâds: che grammatico ei fu anco e giurista, e poeta. Abbiamo, solo avanzo de' suoi scritti, qualche verso, elegante di lingua e stile, studiato di immagini, se il raccoglitore non trascelse appunto gli squarci ampollosi per dare un bel saggio.[1215] Nella poesia erotica d'Ibn-Fehhâm è tenerezza [475] e delicatezza d'affetto non comune.[1216] Il disinganno d'uom battuto dalla fortuna gli dettò un epigramma, contro il suo secolo, ma la saetta arriva fin qui.[1217]

Segnalossi nella medesima scienza Abu-Tâher-Ismail-ibn-Kelef-ibn-Sa'îd-ibn-'Amrân, autore d'un trattato in nove volumi su le forme grammaticali[1218] del Corano, e d'un sommario intitolato Cenno su la Lettura: dov'ei messe a riscontro le Sette Lezioni, con dettato conciso da potersi tenere a mente, facile agli scolari, bastante anco ai dotti. Libro rinomato ai tempi d'Ibn-Kallikân, comentato poscia da molti e rimaso in onore fino al decimosettimo secolo, quando ne fe lode Hagi-Khalfa. Compendiò inoltre questo Ismail un'opera, credo teologica, intitolata L'Argomento, di Faresi. Fu noverato tra i primi letterati dell'età sua. Ibn-Khallikân, su la fede dello spagnuola Ibn-Baskowâl, gli dà per patria Saragozza; Soiuti lo ricorda coi due nomi di Siciliano e Spagnuolo; ed Hagi-Khalfa alterna l'uno e l'altro. Secondo tutti, fu Ansâri, cioè oriundo di Medina, e morì il quattrocentocinquantacinque (1063), [476] in Spagna, credo io, dov'egli si fosse rifuggito, lasciando la Sicilia quando caddero i Kelbiti, o in quel torno.[1219]

Visse nella generazione seguente, e forse uscì di Sicilia al conquisto, Abu-Amr-Othmân-ibn-Ali-ibn-Omar da Siracusa, discepolo d'Ibn-Fehhâm in lettura e d'altri rinomati professori in tradizione, uomo di molta dottrina a giudizio del dotto Silefi che usò con lui; autor di varie opere di lettura, grammatica e versificazione, linguista inoltre e poeta, il quale tenea scuola di lettura del Corano nella moschea d'Amru[1220] al Cairo vecchio, verso la metà del duodecimo secolo.[1221] L'età non sappiamo di Abu-Abd-Allah-Mohammed-ibn-Haiun, siciliano, che scrisse al dir di Casiri un'appendice alla Parafrasi poetica del Corano, di cui v'ha un codice all'Escuriale.[1222] Vengon poscia i Lettori che non lasciaron opere, [477] tra i quali si ricorda Kholûf-ibn-Abd-Allah da Barca, dimorante in Sicilia alla metà del quinto secolo dell'egira, dotto nelle due parti della grammatica cioè forma e sintassi, non digiuno delle scienze filosofiche e morali, e buon poeta al dir di Dsehebi.[1223] Lettore e moralista Abu-l-Kâsim-Abd-er-Rahman-ibn-Abdel-Ghanî; lettori anco Abu-Bekr-'Atîk-ibn-Abd-Allah-ibn-Rahmûn della tribù di Khaulân, passata in Siria e Spagna nei primi conquisti degli Arabi, ed Abu-Hasan-Ali-ibn-Abd-el-Gebbâr-ibn-Waddâni, il qual nome lo mostra oriundo d'Affrica. Tutti e tre poeti e vissuti nel decimo o undecimo secolo; i pochi versi dei quali, che trascrive Imâd-ed-dîn, mi sembran di pulite forme, e battono su la instabilità delle cose umane e consolazione delle sventure, tema grato ai Musulmani.[1224] Nella prima metà dell'undecimo secolo, levò grido il Lettore siciliano Abu-Bekr-ibn-Nebt-el-'Orûk, sì che un valente giovane spagnuolo, che poi meritò importanti ofici in patria, tornando dalla Mecca e dall'Egitto dove avea compiuto gli studii, fermossi in Sicilia a ripigliare quei di lettura [478] coranica con questo Abu-Bekr, e del dritto con Abd-el-Hakk-ibn-Harûn.[1225] Si ricorda infine tra i Lettori il grammatico, linguista e poeta Abn-Bekr-Mohammed-ibn-Abd-Allah che volentieri direi venuto d'Affrica in Sicilia,[1226] finito pazzo, se ben m'appongo a quel che ci narran di lui. In sua vita d'austera morale e uggiosa pietà, gli venne visto un giovanetto figlio d'alcun capitano o regolo dell'isola; e non osando svelare il brutto pensiero che gli nacque, trafitto di dolore, si fece pelle ed ossa; il sangue, dirompendo dal fegato, che gli Arabi tengon sede delle passioni, gli offese il petto, lo portò via, scrive Dsehebi, da questo all'altro mondo, innanzi tempo. Con altro giudizio che quel degli Arabi, si direbbe che la consunzione gli turbò il cervello, il che pur suole avvenire, e com'uomo nudrito negli scrupoli immaginò tal peccato ch'ei non avea. Nè vale la sua propria confessione in eleganti versi, degni di men tristo argomento, i quali incominciano col dubbio ch'ei fosse fuor di sè, e si chiudono con affrettare la morte.[1227]

[479] I detti e pratiche di Maometto, raccontati con sommo zelo dai contemporanei, messi in carta da quei che vennero appresso, sono, come ognun sa, la seconda sorgente della dottrina musulmana nelle scuole ortodosse; se non che l'ampia raccolta non fu mai compilata in forma autentica, non porta a quel che i Musulmani chiaman precetto divino, e i dottori, secondo lor giudizio, ne accettano e ricusano, esercitando la critica non meno su l'autenticità, che su la interpretazione dei vocaboli antiquati e frasi oscure. Studio vasto che diè origine a scuole mal note l'una all'altra, e condusse i tradizionisti a lunghe peregrinazioni qua e là, dove fosse alcun rinomato dottore o chi aveva appreso da lui. Fanno le tradizioni importantissimo corpo di dritto pubblico, civile e penale, e disciplina religiosa; avvegna che proveggano alla spicciolata a tanti casi non contemplati dal Corano: onde la tradizione è preparamento necessario, anzi parte integrale della giurisprudenza.[1228] S'ei fosse da stare ad una conghiettura dell'erudito Iakût, avrebbe preso soprannome dalla Calabria un Abu-Abbas, dei più antichi critici delle tradizioni: discepolo d'Abu-Ishak-Hadhrami, e maestro di Abu-Dâwûd-Soleiman, che dettò il Sinan, autorevole compendio. Ma Abu-Dâwûd morì l'ottocentottantotto di nostr'èra; onde si dovrebbe supporre che Abu-Abbâs-Kalawri avesse militato nelle prime squadre musulmane, che d'Affrica, Sicilia [480] o Creta assaltarono la terraferma d'Italia (842). E non reggendo il supposto di Iakût altrimenti che su l'analogia del nome etnico, nè accompagnandolo alcun ragguaglio di biografia, ne rimarremo a questo cenno.[1229]

Oltre i giuristi che preliminarmente apparavano la Tradizione e l'arte critica di quella, parecchi dotti dell'isola vi attesero particolarmente. Fin dai primi anni del decimo secolo o poco innanzi, il siciliano Abu-Bekr-Mohammed-ibn-Ibrahim-ibn-Musa, della tribù di Temîm, passò in Irâk per approfondire cotesto studio che fioriva tuttavia nella capitale abbassida e nelle importanti città vicine. Scrisse molte opere delle quali non sappiamo i titoli, e diè lezioni a Waset; noverandosi tra i suoi discepoli alcun tradizionista di nome. Côlto insieme con l'erudizione il mal vezzo del misticismo che spuntava allora tra i dotti musulmani, frequentò le accademie di Gioneid e Nûri, barbassori sufiti; entrò nella setta[1230] e lasciovvi nome onorato.[1231] Dopo l'Irâk par abbia fatto soggiorno in Egitto, anzichè tornare in Sicilia.[1232]

[481] Ignorasi l'età del cadi Abu-Hasan-Ali-ibn-Moferreg, autor di un'opera intitolata Annotazioni del Siciliano su la Tradizione, citato da Beka'i, nel decimoquinto secolo, tra i testi ch'egli soleva adoperare.[1233] Due liberti siciliani, al certo degli schiavi cristiani venduti in altri paesi, ebbero nome di tradizionisti a Cordova, nella seconda metà del decimo secolo: dei quali, Derrâg, uom di molta pietà e dottrina, fu bandito per sospetti politici e morì in Oriente, dopo fatto il pellegrinaggio;[1234] e l'altro per nome Râik, studiò tradizioni in Oriente e professolle poscia in Spagna.[1235] S'applicò alla legge ed alla tradizione, tenuto uom dottissimo al principio dell'undecimo secolo, l'emir Abu-Mohammed-'Ammâr-ibn-Mansûr dei Kelbiti di Sicilia, di ramo collaterale ai due che regnarono. I frammenti poetici del quale spiran l'orgoglio guerriero della nobiltà non mansuefatto dalle elucubrazioni legali, e ci svelano che l'autore navigasse a golfo lanciato tra i tumulti e le trame che s'alternavano in Palermo.[1236]

Verso il milletrenta, si trovò in Spagna Abu-Fadhi-Abbâs-ibn-Amr, siciliano, il quale apprese da Kâsem-ibn-Thâbit di Saragozza la spiegazione dei vocaboli e modi disusati delle tradizioni ed insegnolla [482] ad altri Spagnuoli; onde sembra stanziato nel paese.[1237] Abu-Bekr-Mohammed-ibn-Sâbik, nella generazione seguente, uscito forse in pellegrinaggio, apparò tradizione alla Mecca da parecchi dottori, tra i quali primeggia Karîma figliuola di Ahmed-Marwazi; e in luogo di tornare in Sicilia ove non era oramai che guerre e stragi, aprì scuola in Granata; ma sentendovi anco mal fermo il suolo, passò in Egitto; e quivi morì di gennaio del mille e cento. Lasciò in Granata desiderio di sè, e fama di gran teologo.[1238] Son anco ricordati com'ottimi tradizionisti il Sementari, Ibn-Mekki, Ibn-Abd-el-Berr ed Ibn-Kattâ; del primo dei quali diremo tra i mistici, e degli altri tra i filologi. Sopra tutti s'innalzò il Mazari.

Così chiamato dalla città nativa e Temîmi dalla [483] tribù, per nome Abu-Abd-Allah-Mohammed-ibn-Ali-ibn-Omar-ibn-Mohammed,[1239] giurista malekita, uom sommo, scrive Ibn-Khallikân, nella dottrina testuale e critica delle tradizioni.[1240] Celeberrimo nelle scuole musulmane il suo comentario di tradizione intitolato Il maestro delle dottrine (contenute) nel libro di Moslim.[1241] Scrisse anco la Spiegazione dei (principii) che occorrono nello “Argomento dei dommi,”[1242] ed un commentario sul libro intitolato Il buon indirizzo, opere entrambe di teologia scolastica;[1243] un commentario sul Manuale di Mâlek che si chiama il Mowattâ;[1244] quattro volumi su l'insegnamento del cadi Abd-el-Wehhâb;[1245] ed altre di erudizione e belle lettere:[1246] ma fu dotto in varii rami di scienze pratiche o speculative,[1247] fin anco in medicina. Leggiamo in un [484] comentario malekita come la gente accorresse a consultar il Mazari da medico al par che giurista, dal tempo ch'ei si diè con ardore a quello studio, punto da un medico israelita, il quale, curandolo in grave infermità, gli rinfacciava: “ecco il gran dottore dell'islamismo in balía d'un povero giudeo, che se il lasciasse morire farebbe opera meritoria in sua religione e grave danno ai Musulmani.[1248]” E veramente per tutta l'Affrica Settentrionale i contemporanei il tennero a luminare di giurisprudenza; si raccontò che il Profeta gli fosse comparso in sogno, confortandolo a scrivere, i posteri lo dissero ultimo legista inventore; e Khalîl-ibn-Ishak, compilator dell'oscuro codice che or si osserva in Affrica, pose il Mazari e il siciliano Ibn-Iûnis tra le quattro autorità cardinali, citate dopo la Modawwana,[1249] Il Mazari seguì in teologia la dottrina asci'arita[1250] o vogliamo dire scolastica, la quale soleva adoprare la filosofia e le interpretazioni per difendere il domma ortodosso dai duri colpi che gli traeano scismatici e razionalisti con le medesime armi. Uscito di Sicilia, com'ei pare, al conquisto normanno, soggiornò [485] al Cairo vecchio, ad Alessandria; a Mehdia; quindi ad Alessandria di nuovo, dove insegnò tradizioni.[1251] Si narra che a Mehdia abbia dato, poco appresso il mille, i primi rudimenti della scienza, a Mohammed-ibn-Tûmert, detto poi il Mehdi: un mezzo Savonarola berbero, che fondò l'impero almohade:[1252] tra il qual legame col profeta avventurato, e la dottrina propria e l'acume dell'ingegno e la serena virtù dell'animo, il Mazari passò tra i beati dell'islamismo. Morto in Mehdia d'ottantatrè anni lunari, chi dice il quattro e chi il venti ottobre, del millecentoquarantuno,[1253] fu sepolto sia a Mernâk presso Tunis,[1254] sia a Monastir;[1255] il qual disparere [486] su le minuzie biografiche, mostra la grande rinomanza dell'uomo, al par delle lodi che ne fanno tutti gli scrittori.[1256] Dalla riputazione di santità nacque una favola, ripetuta in Affrica nel decimoquinto secolo, la quale dava al Mazari trecento tredici anni di vita.[1257]

Per l'intima connessione che hanno le tradizioni con la giurisprudenza, si comprende come questa, ben avviata già in Sicilia nella prima metà del decimo secolo,[1258] sia progredita nel corso dell'undecimo.

Nel confine di que' due, chè l'anno appunto non si sa, nacque, com'e' pare, in Palermo, Abu-Bekr-Mohammed-ibn-Abd-Allah-ibn-Iûnis, dottore principe di scuola malekita, onorato quasi a ragguaglio col Mazari, citato insieme con lui, come dicemmo, da Khalîl, detto per antonomasia il Siciliano e famoso altresì per le prodezze fatte di sua persona nella guerra [487] sacra, quella verosimilmente di Maniace. Trapassò Ibn-Iûnis il venti rebi' primo del quattrocencinquantuno (5 maggio 1059).[1259] Suo discepolo il giurista malekita siciliano Abu-Mohammed-Abd-el-Hakk-ibn-Harûn, famoso per le opere e per gli illustri discepoli spagnuoli, Khelef-ibn-Ibrahim, detto Ibn-Hassâr, e Soleiman-ibn-Iehia-ibn-Othmân-ibn-Abi-Dunia da Cordova; dei quali il primo, come s'è detto, lo ritrovò in Sicilia[1260] e l'altro alla Mecca, in pellegrinaggio, e seguillo in Egitto, studiando sempre con essolui.[1261] Scrisse Abd-el-Hakk la Correzione dei Quesiti, trattato di casi legali;[1262] e i Detti arguti, opera filologica o di erudizione, rimasa in voga fino al decimoquarto secolo.[1263] Da lui anco avea appreso il dritto in patria, Thâbit il Siciliano; il quale, rifuggito poscia in Ispagna, ne diè quivi lezioni nella seconda metà del secolo.[1264]

[488] Oltre i giureconsulti Ibn-Fehhâm, ed 'Ammar-ibn-Mansur, e Mazari, ed Ibn-Mekki ricordati di sopra; Abu-Bekr-Mohammed-ibn-Hasan-ibn-Ali-Rebe'i, da Girgenti, onorato molto per sapere e virtù, professava giurisprudenza malekita in Sicilia, indi in Affrica ed Alessandria; e morì l'anno cinquecentotrentasette (1142-3).[1265] Forse della stessa famiglia un Ali-ibn-Othmân-ibn-Hosein-Rebe'i, Sikilli, il quale, mercatando a Cordova, recovvi il libro d'Ibn-Hâtim-Adsrei, intitolato Splendori sul fondamento del dritto; e da lui l'apprese il giurista spagnuolo Abu-Ali, Ghassâni.[1266] Il dottore siciliano Abu-Abd-Allah-Mohammed-ibn-Abd-Allah, recatosi dopo il conquisto normanno in Granata, dievvi lezioni sul Lume di giurisprudenza d'Abu-Hasan-Lakhmi, e quivi morì il cinquecento diciotto (1124).[1267] Un Mozaffer, siciliano o schiavone, chè spesso si scambiano nella scrittura arabica, fu deputato nel quattrocentoquattro (1013-14) a prefetto di Misr e del Cairo e mohtesib, l'ultimo dei quali officii richiedea scienza. [489] legale.[1268] Tenne in Egitto il sommo magistrato di cadi dei cadi, un Ahmed-ibn-Kâsim siciliano, che Imâd-ed-dîn ricorda col nome di Giusto, trascrivendo i versi ch'ei compose per Afdhal (1093-1121). La lindura dei quali non iscuserebbe certi modi d'adulazione, se non fossero all'usanza orientale e forse dettati da stretta amistà.[1269] D'età incerta Abu-Mohammed-Hasan-ibn-Ali-ibn-Ge'd, dottore principe al suo tempo, e diè il proprio nome alle Porzioni Ge'dite secondo la scuola di Malek;[1270] porzioni s'intenda nel partaggio delle eredità, ch'è ramo importante del dritto musulmano. Ai giureconsulti son da aggiugnere Kattâni, “il Sottil Grammatico,” del quale diremo tra i filologi; ed Abu-Omar-Othmân-ibn-Heggiâg da Sciacca in Sicilia, dimorante in Alessandria, morto il cinquecento quarantaquattro (1149); il quale era stato dei maestri del rinomato tradizionista Silefi [490] d'Ispahan, e lasciò parecchi libri malekiti.[1271] Dettò un comentario sul Mowattâ di Malek il letterato affricano Ibn-Rescîk, emigrato in Sicilia alla metà dell'undecimo secolo.[1272] Nel medesimo tempo dava fuori opere di dritto il Sementari, col quale passiamo a discorrere la nuova edizione di devoti che pullulava nell'islamismo.

Abu-Bekr-Atîk-ibn-Ali-ibn-Dâwûd del villaggio di Sementara in Sicilia,[1273] discendente, chi sa? dei coloni che possedeavi un tempo San Gregorio, fu uomo infaticabile di corpo e d'intelletto. Di quei devoti Siciliani, scrive Ibn-Kattâ', che faceano autorità in giurisprudenza;[1274] degli asceti dell'isola, chiarissimi per sapere: ed usò degnamente la vita di quaggiù, sciolto dalle cure mondane, tutto intento e fitto nell'altra vita. Partì per l'Hegiâz, compiè il pellegrinaggio; percorse poi tante regioni, Iemen, Siria, Persia, Khorasân; praticò quivi coi servi di Dio, tradizionisti ed asceti; raccolse lor detti e notizie e con eleganza le dettò. Scrisse a mo' di dizionario suoi viaggi e il frutto del conversare con que' dotti stranieri; e sul dritto e la tradizione varie opere pregiate per ordine e lucidità; ed un gran trattato, che niuno agguagliò mai in bellezza di stile, su la perfezione spirituale[1275] e su gli esempii degli uomini virtuosi. Così lo giudicava [491] Ibn-Kattâ.[1276] L'ultima delle opere ricordate s'intitolava: Guida dei Cercatori (della perfezione spirituale), e prendea dieci volumi.[1277] Un componimento di Sementari su l'ascestismo musulmano, dai pochi versi che ne abbiamo, sembra anch'oggi nobile sfogo d'intelletto sdegnoso della viltà e tristizia del secolo, invaghito d'una immagine del giusto e del sublime, ch'uom abbozzi nella propria coscienza e la dipinga su l'oscura tela dell'infinito.[1278] Morì costui il ventuno di rebi' secondo del quattrocento sessantaquattro (15 gennaio 1072).[1279] Contemporaneo di Sementari, e sembrano usciti entrambi al crollo della dinastia kelbita, Abu-Hasan Ali-ibn-Hamza, andato in Spagna innanzi il quattrocento quaranta (1048), al dir d'Homaidi che il conobbe e ascoltò; sufita, scolastico,[1280] dotto in ogni ramo di teologia e d'altre scienze;[1281] discepolo del [492] moralista sciafeita Abu-Tâher-Mohammed-ibn-Ali da Bagdad.[1282]

I Sufiti, non contenti all'abnegazione delle cose mondane, si provarono a distruggere ogni idea di realità, spegnere il senso, concentrare l'uomo nella coscienza dell'essere, e farlovi con ostinata volontà sprofondare a grado, a grado, tanto che gli paresse toccar nel nocciolo dell'animo la Divinità, immedesimarsi con quella, togliersi dagli occhi i veli che occultano la scienza e l'avvenire. La qual monomania artifiziale appresterebbe bell'argomento di studio psicologico e patologico se si giugnesse a scernere l'allucinazione dalle ciurmerie e linguaggio allegorico con che si è mescolata in ogni età e paese. La setta par abbia preso nome e, forme verso la metà del nono secolo, quando ne pullularono tante nell'islamismo; quando i devoti, incalzati dalla filosofia greca che li sforzava a ragionar sulla missione di Maometto, si rifuggirono nel misticismo indiano. Qualche rampollo brahmanico o buddista, che vegetasse ab antico in Persia, s'innestò con l'ascetismo dei compagni di Maometto, e ne spuntò questo frutto. Il nome deriva da Sûf “lana,” perchè gli adetti ne vestivano secondo l'uso dei primi Musulmani; e quando la setta divenne quasi ordine religioso, il superiore iniziava il neofito con porgli sulle spalle la Khirka, mantello o straccio di lana. Durano fin oggi i Sufiti insieme con gli ordini plebei, dervis e simili che copiarono [493] le sembianze più goffe della setta. In origine fu onesto ritrovo d'animi nauseati di quello scompiglio politico del califato; teste inquiete, fors'anco intelletti sani, non soddisfatti dall'islamismo, se non che lor parea peggio mutar di religione o starne senza; e panteisti o scettici, si gittarono sovente in quelle ombre mistiche per dare un ganghero ai devoti. Infatti gli ortodossi formalisti li chiamavan empii tutti in un fascio. Gâzeli, il terribile teologo, sentenziò atto più meritorio l'accoppare un sufita che campar dieci uomini dalla morte.[1283]

Se si risguardi all'età del sufita Abu-Bekr-Mohammed,[1284] al quale tennero dietro Ali-ibn-Hamza e Sementari,[1285] si vedrà che l'ascetismo primitivo [494] dei Musulmani durato in Sicilia sino alla metà del decimo secolo,[1286] non tardava guari a prender la novella foggia mistica. Dai dotti scendea già nel volgo, e la devota commedia era in voga nella prima metà del l'undecimo secolo, poichè Ibn-Tazi la riprende con questi versi:

“Non istà il sufismo, no, a vestir lane che rattoppi tu stesso; non ad intenerire gli sciocchi;

Nè a stridere, saltare, scontorcerti, cadere in deliquio, come se tu fossi impazzato.

Sta il sufismo nell'animo schietto, immacolato; nel seguir là verità, il Corano, la fede;

Nel mostrare che temi Iddio, che ti penti di tue colpe, che ne sei trafitto di rammarico eterno.[1287]

Tra gli asceti che non trascorressero a così fatte allucinazioni, si ricorda un Abu-l-Kâsim-ibn-Hâkim, dottissimo, come dicono, il quale nella prima metà del duodecimo secolo vivea a Bagdad in casa, non più corte, del califo.[1288] Mohammed-ibn-Sâbik ed Abd-er-Rahman-ibn-Abd-el-Ghani, nominati di sopra, furono l'un teologo, l'altro moralista.[1289] Musa-ibn-Abd-Allah da Cufa, della schiatta d'Ali, teologo, poeta ed erudito, verso la metà dell'undecimo secolo elesse a dimora la Sicilia; donde poi passò a combattere i Cristiani in Spagna; ed alfine fu ucciso in

.[495] Affrica (1094).[1290] Lasciò un trattato di teologia Abu-Mohammed-Abd-er-Rahman-ibn-Mohammed il Siciliano, del quale ignoriamo l'età, se non che il manoscritto unico in Europa è copiato in Antiochia il seicentoquarantanove dell'egira (1251). Compilazione scolastica ed ortodossa, partita in quattro capitoli: teologia naturale, teologia musulmana, natura e potenza del demonio, condizioni e doveri degli uomini in società.[1291] Mi sembra nitida ed ordinata; logica, quel poco che si poteva. Il capitolo sul Tentatore, assai più particolareggiato che non soglia incontrarsi negli scolastici musulmani, par si rannodi a quella fissazione dei devoti siciliani ed affricani sulla fine del nono o principio del decimo secolo.[1292]

Ad un tempo, col progresso dalla cieca divozione al misticismo, si notò in Sicilia, sì come in ogni altra provincia musulmana, novello fervore per le lettere, soprattutto gli studii filologici, come s'intendeano da ciascuno fino al decimottavo secolo; i quali non fecero rinascere in Oriente quegli antichi poeti arabi nè quel vivo e conciso parlare dei compagni di Maometto; nè altro produssero che una mediocrità più generale, uno stile luccicante, ondulante e ridondante; quel che ammiran da otto secoli in Hariri, e che da nove o dieci secoli avviluppa presso que' popoli il pensiero e sovente ne tien luogo. Ma tant'è, che il [496] lungo secento degli Arabi non mancò di pregi, come nè anco il secento europeo del decimosettimo secolo o del decimonono. Al par che gli Spagnuoli, Affricani, Egiziani e Sirii, i Musulmani di Sicilia non poteano giugnere a segno più alto; ma ben toccaron quello nell'undecimo secolo, nè furon da meno degli Spagnuoli; superarono forse le altre province dette, nelle quali la natura non sorrideva sì dolcemente, e le schiatte antiche, Semiti, Copti, Berberi, non eran metallo suscettivo di tempra sì fina.

Dopo Ibn-Khorasân, grammatico siciliano della prima metà del decimo secolo,[1293] ne comparisce un altro per nome Hasan-ibn-Ali, il quale, andato, in pellegrinaggio, morì alla Mecca, allo scorcio del trecentonovantuno (novembre 1001) lasciando onorata memoria di sè nelle scuole d'Oriente.[1294] Qualche mezzo secolo innanzi, era venuto a stare in Sicilia Musa-ibn-Asbagh-Morâdi, da Cordova, al ritorno d'un viaggio in Oriente: linguista, grammatico e, dicono, elegante poeta; ma fece in ottomila versi una parafrasi del Mobtedâ,[1295] ossia “Primordii;” forse i Primordii del mondo e racconti dei Profeti d'Abu-Hodseifa il Coreiscita.[1296] All'entrar dello undecimo secolo, visse in Sicilia il rifuggito spagnuolo Sa'id-ibn-Fethûn che ricordammo [497] di sopra: il quale fu insieme linguista e compose un trattato di versificazione.[1297]

Le guerre civili della Spagna balestrarono anco in Sicilia Abu-l-'Ala-Sâ'id da Mosûl, esercitatosi con lode negli studii di filologia ed erudizione a Bagdad, buon poeta, argutissimo e pronto di motti, piacevole al conversare, ma cortigiano, menzognero, scroccone, scialacquatore, beone; il quale, andato a cercare ventura in Ispagna, si rimpannucciò appo Almansor (990), e lui mancato, venne a provare se i Kelbiti di Sicilia fossero que' mecenati che portava la fama, e morì il quattrocento diciassette (1026) o quattrocento diciannove.[1298] Torna alla stessa età il Siciliano Abu-Iakûb-Iûsuf-ibn-Ahmed-ibn-Debbâgh, buon poeta, autor di versi didascalici sulla grammatica, il quale, a giudizio d'Ibn-Kattâ', avanzò ogni contemporaneo in quel che noi diremmo studio di storia letteraria.[1299] Tornano alla metà dell'undecimo secolo, Kolûf-ibn-Abd-Allah da Barca, domiciliato in Sicilia, lettor del Corano, dotto nei due rami della grammatica,[1300] ornato di varia erudizione e poeta;[1301] Abu-Hasan-Ali-ibn-Abd-er-Rahman il Siciliano, che diè studio di grammatica, come sembra, [498] a Susa;[1302] ed Abu-Hafs-Omar-ibn-Hasan, grammatico di conto, linguista e poeta.[1303]

Più che mai genuino comparisce l'innesto di rampollo arabo su ceppo siciliano in persona di Abu-Abd-Allah-Mohammed-ibn-abi-Fereg-ibn-Fereg-ibn-abi-l-Kasim, Kattâni o vogliam dire “il Linaiolo,” soprannominato il “Sottil Grammatico,” nato in Sicilia il quattrocenventisette (1035-6); dove fece tutti gli studii e ne uscì armato da capo a piè in giurisprudenza malekita, grammatica, lingua ed erudizione d'ogni maniera; e nelle due prime fu tenuto uom sommo, se non che attaccandosi ad appuntar gli errori di questo e di quello, tutti gli si volser contro e tagliarongli i passi.[1304] Lasciata la Sicilia, com'e' pare alla caduta di Palermo, andò a Bagdad nel Korasân, e a Gazna; donde passò, su le orme dei conquistatori turchi, in India: e per ogni luogo rifaceva il verso ai dottori ed appiccava battaglia. Avvenne un dì ch'egli entrasse in una scuola, credo a Mêrw in Khorasân e di teologia,[1305] tenuta da Mohammed-ibn-Mansûr, Sem'âni; il quale cominciato a dettar la lezione, il Sottil Grammatico lo interruppe: [499] “Non è com'ei dice; va scritto così e così.” E Sem'âni ai discepoli: “Correggete a sua posta, ch'ei ne sa più di me:” i quali obbedirono. Non guari dopo il Siciliano, rivolto a Sem'âni, “Signor mio,” disse, “ho sbagliato, chè menda non v'era nel tuo dettato:” e quegli pacatamente: “Si rifaccia dunque come stava:” e finita la lezione, trovandosi solo con gli amici, ripigliò: “Il Magrebino[1306] mi sfidava per dirmene un sacco delle sue, com'ha fatto con gli altri; ma gli uscii di sotto; ed ecco che s'è condannato di bocca propria.” Kattâni morì a Ispahan, il cinquecento dodici (1148-9.) Ebbe a maestro in dritto il celebre siciliano Mohammed-ibn-Iûnis, e in grammatica un Ali-Haiûli, siciliano o dimorante nell'isola.[1307]

Nella gioventù di Kattâni era trapassato in Sicilia un valente filologo secondo que' tempi, per nome, Abu-Ali-Hasan-ibn-Rescîk. Nacque l'anno mille a Msila d'Affrica, d'un liberto di schiatta greca o italica:[1308] il quale apparando al figlio la propria arte d'orafo, il mandò insieme a scuola; e visto il pronto ingegno alla poesia ed alle lettere, gli assentì d'andare a quindici anni, a Kairewân, antico emporio della cultura arabica. Dove Ibn-Rescîk guadagnò dottrina, fama e stato. Un poema in lode di Moezz-ibn-Badîs lo fece entrare al servigio del principe;[1309] tenuto poscia [500] tra i poeti di corte,[1310] e fatto segretario di guerra.[1311] Sino al limitare della vecchiezza, visse prosperamente a corte, tra gli studii, tra le amistà e nimistà letterarie ed alcun brutto costume, svelatoci dal Siciliano Abu-Abd-Allah-ibn-Seffâr, erudito dabbene, il quale trovandosi al Kairewân, tutto lieto d'esser fatto intimo di Ibn-Rescîk, si trovò terzo personaggio in una strana commedia.[1312]

Ma al conquisto degli Arabi d'oltre Nilo, quando Moezz era costretto a chiudersi in Mehdia (1057) e il poeta ve l'accompagnava[1313], la mala fortuna, come pur suole, accese discordia tra i due vecchi amici. Un'armata cristiana, di Pisa forse o di Genova, s'era appressata nottetempo a Mehdia; il principe affaccendato in sul far dell'alba a provvedere al pericolo, leggea [501] gli spacci a lume d'un doppiere, quand'ecco Ibn-Rescîk entrare nella stanza, e porgergli un poema che incominciava: “Fa' cuore; non ti s'offuschino i pensieri nel cimento: chè già alla tua possanza ognun piega il collo.” — “E come far cuore,” proruppe Moezz, “quando tu mi vieni tra i piedi ad aiutarmi così? Perchè mo non stai zitto!” E stracciò il poema, e bruciollo al doppiere. Ibn-Rescîk, voltate incontanente le spalle, s'imbarcò per la Sicilia,[1314] dove avea amici; sapendosi di due poeti siciliani che si carteggiavano con esso, e rimanendoci fino i versi ch'ei scrisse all'uno arrivando a Mazara e la risposta per le rime.[1315] Raccolto a grande onore dai principali della terra, lo rappattumarono con Ibn-Scerf, poeta del Kairewân e della corte di Moezz e però suo mortal nemico; il quale, avendo riparato in Sicilia prima di lui, s'era messo subito a lacerarlo.[1316] L'ospitalità siciliana non tolse che venuto per cagion di mercatare un legno di Mo'tadhed, principe Abbadida di Siviglia, Ibn-Rescîk si mettesse ai panni al padrone, pregando di [502] menarlo seco a corte; il quale gliene promesse e poi lo piantò. Rimaso parecchi anni tra sì e no di far il viaggio di Spagna, venne a morte in Mazara verso il millesettanta.[1317]

Il cui soggiorno tra il romor delle armi cristiane, non promosse, credo io, le lettere, nè ad altro giovò che a tramandarci qualche aneddoto dell'antica corte kelbita e qualche barlume su la cultura contemporanea. Lasciando addietro le opere perdute d'Ibn-Rescîk, in giurisprudenza,[1318] lingua,[1319] storia letteraria,[1320] fatti memorabili della storia,[1321] ed una Cronica del Kairewân;[1322] lasciando addietro le poesie, facili, vivaci e talvolta oscene,[1323] noterò un trattato di poetica denominato La Colonna, nel quale la ragion dell'arte è considerata al [503] modo che noi abbiamo appreso dai maestri greci; e si accenna ad alcun precetto di quelli.[1324] Onde direi cotest'opera compiuta in Sicilia da Ibn-Rescîk, con que' pochi lumi di greche lettere che vi rimanessero: un anonimo Siciliano ne fece poi un compendio col titolo di Preparamenti.[1325] Più chiara apparisce la sorgente in due versi d'Ibn-Rescîk, coi quali il poeta esortando, com'e' parmi, alcun regolo dell'isola a lasciarsi menare a guinzaglio dai dotti, ricorda forse il nome d'Atene, e v'appicca quel della Sicilia, con una etimologia che allor correa tra gli Arabi del paese.[1326]

[504] La falsa etimologia, dico, da due vocaboli greci che significan fico ed olivo, ripetuta dai cronisti latini di Sicilia del decimoterzo secolo,[1327] scritta per lo primo da un filologo arabo che visse fino al millecinquantotto e fu maestro d'Ibn-Kattâ'. Ebbe nome Abu-Bekr-Mohammed-ibn-Ali-ibn-Hasan-ibn-Abd-el-Berr, della tribù di Temîm; il quale uscito di Sicilia per proseguire gli studii di tradizioni, grammatica e lessicografia, soggiornò in Oriente, forse a Bagdad; e tornando in patria, recò il celebre dizionario di Gewhari; fu accolto e messo in alto stato da Ibn-Menkûd che regnava allor in Mazara, principe d'austerissima pietà al dir del biografo.[1328] Che Ibn-Abd-el-Berr [505] abbia tolto da Ibn-Rescîk quella falsa etimologia e la erudizione che pur vi si richiedeva, non mi par punto verosimile. Un secolo innanti gli Arabi Siciliani avevano aiutato alla interpretazione d'opere scientifiche dei Greci; notaron poscia gli avanzi d'antichi monumenti; raccolsero qualche favola delle colonie greco-sicole;[1329] vissero con Greci di Sicilia culti tanto o quanto. V'ha cagione dunque di presumere che si fosse tentato dai Musulmani dell'isola nella prima metà dell'undecimo secolo qualche studio su la letteratura greca, rozzo sì, ma da poter mostrare agli scrittori arabi un altro campo come quello delle scienze filosofiche e matematiche coltivato al tempo di Mamûn. E la Sicilia offriva ottimo terreno all'esperimento. Se non che molto più agevole torna a trapiantare da schiatta a schiatta le scienze che le lettere; ed ormai la virtù degli Arabi mancava da per tutto; la colonia siciliana era lì lì per cadere sotto il dominio straniero.

Quel soprannome d'Ibn-Kàttâ (Figliuolo del picconiere) si dètte ad una famiglia del ceppo modharita di Temîm, ramo di Sa'd-ibn-Zeid-Monat, la quale par venuta in Sicilia da Santarem di Portogallo verso la metà del decimo secolo.[1330] Gia'far-ibn-Ali di tal gente, [506] filologo di molta dottrina, rinomato nello stile epistolare, lodato per proprietà di linguaggio e delicato gusto in poesia, vivea fino al millecinquantotto,[1331] forse in un villaggio a poche miglia di Palermo.[1332] Da lui nacque, il dieci sefer del quattrocentotrentatrè dell'egira (8 ottobre 1041), illustre figliuol d'uomo illustre, scrivono i biografi, Ali-ibn-Gia'far, detto similmente Ibn-Kattâ', il quale ebbe a maestri in lettere e tradizioni Ibn-Abd-el-Berr ed i primi eruditi del paese; fece versi a tredici anni, a andò crescendo di dottrina e fama, finchè, abbattuto l'ultimo vessillo mussulmano in Sicilia, emigrò in Egitto: dove non fu onoranza che non gli fosse resa; anzi il tennero come dittatore nelle lettere; e giuravano su l'Ei così disse. Il ministro Afdhal, sì benigno agli usciti siciliani, lo volle maestro dei proprii figliuoli;[1333] scriveasi a vanto nelle biografie chi gli fosse stato amico o discepolo:[1334] da lui appresero gli Arabi d'Egitto, e studiaronlo [507] con le sue glose, il dizionario di Gewhari; a dispetto di qualche saccente che accusavalo di non tenerne il testo autentico, ma una copia con licenze posticce:[1335] che par calunnia, poichè Ibn-Abd-el-Berr gli avea potuto insegnare quel libro in Sicilia. Morto del mese di sefer cinquecentoquindici (aprile e maggio 1121) al Cairo vecchio,[1336] lo seppellirono accanto al legislatore Sciafe'i.[1337]

Com'egli primeggiò tra i letterati arabi della Sicilia, Ibn-Kattâ' così fu quel che più scrisse delle cose patrie. Dettò una storia di Sicilia ch'è perduta;[1338] sparse qua e là cenni biografici, geografici e di varia erudizione sul paese;[1339] compilò un'antologia [508] siciliana intitolata La nobile Perla e l'eletta dei poeti dell'isola: della quale ci rimangono gli squarci che piacquero a Imâd-ed-dîn d'Ispahan; e son di quarantatrè poeti,[1340] tra i censettanta che ne avea trascelti Ibn-Kattâ',[1341] e di ciascuno par abbia data la biografia, poichè vi messe la sua propria.[1342] Sortirono maggior fama in Levante e Spagna le opere di filologia e storia letteraria. Il Libro dei Verbi, che al dire d'Ibn-Khallikân tolse il primato a quel dello spagnuolo Ibn-Kûtîa;[1343] la Fabbrica dei nomi, verbi e infiniti, cioè un quadro generale delle forme grammaticali, lodato anche da Ibn-Khallikân, dove l'autore aggiunse forse un centinaio di nuove forme spigolate nei glossarii e scrittori; e sembra l'ultimo suo lavoro.[1344] In lessicografia lasciò il comento [509] al Gewhari;[1345] la Correzione della lingua;[1346] il Libro della Spada, glossario de' nomi e predicati che usano dar gli Arabi a quell'arme;[1347] il Libro dell'Andare e del Viaggiare anche esso in ordine alfabetico, il quale par lista dei verbi che significan l'uno o l'altro;[1348] e il Libro delle Interiezioni.[1349] Scrisse due trattati di versificazione[1350] ed un comentario su le poesie di Motenebbi.[1351] Il compendio intitolato Kitab-el-Kisár, sembra dizionario biografico di una classe di scrittori;[1352] è [510] trattato di storia letteraria il libro dei Sali contemporanei;[1353] quel dei Luccicanti Sali, è Antologia de' poeti Spagnuoli.[1354] Le quali opere quanto fossero tenute in conto appo gli eruditi musulmani, lo mostrano la lode d'Ibn-Khallikân che lo chiama “principe delle lettere, massime in fatto di lingua” e le notizie che tolgono spesso da lui Ibn-Khallikân medesimo, Imâd-ed-dîn, Iakût, Ibn-Sa'îd lo storico, l'enciclopedista Scehâb-ed-dîn-Omari, Firuzabadi nel Kamûs,[1355] e varii biografi. Da questi squarci, in vero, Ibn-Kattâ' sembra accurato e sottile filologo, ed elegante scrittore, più sobrio che non portassero i tempi. Mediocre poeta comparisce dai frammenti rimastici delle molte poesie ch'ei dettò; e pur talvolta, dimenticati i bisticci e le arguzie, si fa a ritrarre le immagini con semplicità graziosa.[1356] Che se guardiamo ai precetti più che alle [511] opere, lo diremmo iniziato a que' primi studii delle lettere greche: qua par che condanni il tipo della Kasîda arabica;[1357] qua rende espresso omaggio alle bellezze dell'antichità.[1358]

Segnalaronsi in varii rami di filologia i già nominati: Ibn-Kuni linguista,[1359] Abu-Bekr-Mohammed grammatico e linguista;[1360] Ibn-Tazi grammatico, scrittore di epistole e poeta;[1361] Ibn-Fehhâm autore d'un commentario su i Prolegomeni Grammaticali d'Ibn-Babesciâd;[1362] ed Omar ovvero Othman-ibn-Ali da Siracusa discepolo d'Ibn-Fehhâm, autore di opere su la lingua, la grammatica e la versificazione, professore al Cairo vecchio, maestro del filologo egiziano Abd-allah-ibn-Bera.[1363] Dsehebi, senza notarne l'età, ricorda un Tâher-ibn-Mohammed-ibn-Rokbâni, della tribù di Taghleb, siciliano, soprannominato il vizir, l'uom più dotto del tempo suo in lingua arabica, rettorica ed arte di scrivere in prosa e in verso, al quale [512] riverenti accorreano, per apprendere, i letterati d'ogni paese e trovavano un mar di scienza:[1364] ma non ne rimane altro vestigio che que' quattro righi datigli dal biografo, e due che ne serba al figliuolo Ali, poeta, erudito in lingua, nelle antiche istorie degli Arabi e in ogni altro studio che appartenga alle lettere.[1365] Con lode anco troviamo i nomi di Ia'kûb-ibn-Ali-Roneidi filologo e poeta,[1366] Abu-Mohammed, detto Dami'a grammatico, poeta e ottimo pedagogo;[1367] Abu-Abd-Allah-Mohammed-ibn-Sados, grammatico, segretario e facilissimo scrittore in prosa e in rima;[1368] Abu-Fadhl-Ali-ibn-Hasan-ibn-Habîb, gran linguista e buon poeta;[1369] ed Abd-Allah-ibn-abi-Malek-Mosîb della tribù di Kais, cima di linguista, al dir di Sefedi, poeta nato e dotto di più in prosodia e versificazione;[1370] Abu-Hasan-Ali-ibn-Mohammed di Kerkûda erudito;[1371] Ali-ibn-Abd-Allah di Giattini,[1372] Siciliani tutti e d'epoca ignota. Avvi tra i molti comentatori di Motenebbi nell'undecimo o duodecimo secolo un Ibn-Fûregia e un Abu-Hasan-ibn-abi-Abd-er-Rahman, entrambi Siciliani.[1373]

[513] Nel passar dalla didattica e critica al proprio effetto dell'arte, troviamo, filologo insieme ed oratore, Abu-Hafs-Omar-ibn-Khelef-ibn-Mekki, ricordato dianzi nei tradizionisti e giuristi.[1374] Il quale, rifuggito in Affrica quando le continue vittorie dei Normanni, forse la espugnazione di Palermo, toglieano ogni speranza di salute, conseguì il magistrato di cadi a Tunis[1375] che allora si governava a repubblica. È attribuita ad Ibn-Mekki la Correzione della lingua che altri riferisce ad Ibn-Kattâ',[1376] e potrebbero supporsi due opere col medesimo titolo, che Ibn-Kattâ' avesse imitato per gareggiare con quel sommo, “il cui valore, dice egli, celebravano e ripeteano tutte le lingue per ogni luogo; quel che in eloquenza non cedette il vanto ad Ibn-Nobâta, e lasciò modelli di poesia.[1377][514] Dsehebi anzi lo antepone al Cicerone degli Arabi, e come raro esempio aggiugne ch'ei solea porgere dal pulpito un sermone novello ogni venerdì.[1378] Ma gli squarci dei versi d'Ibn-Mekki san troppo di predica; ritraggono della natura umana i soli vizii, consigliano la solitudine e l'egoismo, nè escon di vena poetica;[1379] ond'io dubito ch'ei n'abbia avuta d'oratore.

All'agrume ascetico d'Ibn-Mekki va contrapposta la spensieratezza cavalleresca del segretario Hâscem, che argomentiamo al paro dai versi: i quali due tipi si alternano con poco divario nei poeti arabi di Sicilia. Abu-l-Kâsim-Hascem-ibn-Iûnis, al dir d'Ibn-Kattâ', fu lodatissimo scrittore di epistole, motti arguti, racconti e mekâme:[1380] quella maniera di componimento accademico che ha dato rinomanza ad Harîri. Perdute le prose d'Hascem e la più parte delle poesie, ci rimangono varii tagli di due e tre versi, e bastano pure a mostrarlo seguace della scuola classica degli Arabi. Vi cogliamo anco una bravura, credo io, di guerra civile: il poeta vedendo i suoi sgomentati senza consiglio, fa testa egli solo ad un fier nemico Abu-Nasr, e il rinfaccia agli ingrati concittadini. Altrove accenna ad avventure d'amore, millantandosi [515] che una notte negra come vaga chioma, viaggiò tutto solo al ritrovo, toltosi per ciambellano il brando tagliente, e per segretario la lancia rodeinita; e somiglianti freddure.[1381] Citammo già il nome d'Ibn-Tazi, lodato scrittore d'epistole.[1382] Porremo in lista coi prosatori i Kâtib, o vogliamo dir Segretarii in oficio pubblico, richiedendosi a questo appo gli Arabi non comune erudizione letteraria, per compilare quei rescritti tramezzati di prosa rimata, sì peregrini, sì lambiccati di lingua e stile, da parer d'altro popolo o d'altra età che gli scritti di storia o scienze. Levaron grido, com'ei sembra, il segretario Abu-Sewâb da Castrogiovanni, ricordato da Iakût nella notizia geografica di quella città;[1383] Abu-Hasan-Ali-ibn-abi-Isâk-Ibrahim-ibn-Waddâni preposto ad un officio pubblico in Sicilia.[1384] E dei poeti d'Ibn-Kattâ' son detti Segretarii Abu-Ali-Ahmed-ibn-Mohammed-ibn-Kâf;[1385] Abu-Ali-ibn-Hosein-ibn-Kalid,[1386] Abu-Bekr-Mohammed-ibn-Sahl detto Rozaik;[1387] Abu-Abd-Allah-Mohammed-ibn-Ali-ibn — Sebbâgh amico d'Ibn-Rescîk;[1388] Abu-Feth-Mohammed-ibn-Hosein-ibn-Kerkûdi, [516] copioso scrittore in rima e in prosa;[1389] Ibn-Kereni l'astronomo e computista;[1390] Abd-el-Gebbar-ibn-Abd-er-Rahman-ibn-Sir'în;[1391] Ibn-Kûni filologo, astronomo e geometra;[1392] Abu-Hafs-Omar-ibn-Abd-Allah;[1393] il cadi Abu-Abd-Allah-Mohammed-ibn-Kâsim-ibn-Zeid della tribù di Lakhm;[1394] Abu-Abd-Allah-Mohammed-ibn-'Attâr;[1395] ed Abu-Hasan-Ali-ibn-Hasan-ibn-Tûbi, elegantissimo prosatore e poeta.[1396]

Tra tanti ingegni che onorarono la Sicilia musulmana, pochi si volsero alla Storia. La cronica sola che ci rimanga è scritta in arabico sì, ma pensata in altra lingua da un cristiano o figliuol di cristiano di Palermo, che visse alla metà del decimo secolo, famigliare forse dei principi kelbiti; chè le date costantinopolitane, lo stile timido, la lingua scarsa, la grammatica volgare, la reticenza dei sentimenti religiosi, la prudenza cortigiana, la brevità in principio (827) e la diligenza in sul fine (964), ci svelano tutte le condizioni dell'autore, fuorchè il nome.[1397] La storia di Sicilia d'Ibn-Kattâ' è perduta.[1398] Corse per le mani di pochi eruditi fino al decimoterzo secolo quella del giurista Abu-Ali-Hasan-ibn-Iehia, della quale abbiamo frammenti che illustrano la geografia,[1399] e sembra [517] tolto anco da quella il caso di Malta nella guerra di Maniace; onde l'autore tornerebbe alla metà dell'undecimo secolo:[1400] siciliano è da dirsi, per nascita o soggiorno, all'argomento ch'elesse ed alla precisione delle notizie locali. L'età nè la patria non si scorge d'Abu-Zeid-Gomari, d'origine berbera, autore d'un'altra storia di Sicilia.[1401] Ali-ibn-Tâher, mentovato di sopra, si versò nell'antica storia degli Arabi, senza la quale mal si poteano comprendere lor poeti classici.[1402] Scrisse la Storia d'Algeziras Ibn-Hamdîs da Siracusa.[1403]

Ma venendo ai poeti, il numero e la monotonia ci distoglie dal trattar di ciascuno partitamente; se non che i maggiori nell'arte o che svelino le condizioni e costumi del paese. E pria diremo di cui si esercitò nel componimento eroico degli Arabi, la Kasîda, che suona “Trovata:” adoperata con altro nome negli epicedii ed elegie d'amore; poemetto [518] sopra una sola rima, ove il poeta intesse le lodi proprie, o di sua gente o del mecenate, con digressioni erotiche, descrizioni, apostrofe e macchina ritraente la vita dell'avventuroso cavaliere nomade, sì come la macchina di nostra epopea s'adatta alle prime imprese nazionali. Nè l'effimero accentramento del califato generò appo di loro l'epopea, quando popol arabico propriamente non v'era. La Kasîda antislamitica pervenne tal quale a quel brulichío di stati musulmani del decimo e undecimo secolo; e la si udì in Palermo a corte di Iûsuf (990-8) in bocca di poeti africani.[1404]

La generazione seguente s'illustrò in Sicilia per parecchi autori di Kasîde, tra i quali va innanzi per età e virtù poetica Abu-Hasan-Ali-ibn-Hasan-ibn-Tûbi,[1405] lodato altresì per eloquenti scritti in prosa, come notammo.[1406] Viaggiò in Oriente nei principii dell'undecimo secolo, si versò in faccende politiche,[1407] e fors'anco di amministrazione, e fu chiaro a corte di Moezz-ibn-Badîs,[1408] le cui lodi si leggono in una sua Kasîda.[1409] Altre, e soprattutto i versi d'amore, danno una fragranza direi quasi della poesia di Grecia e d'Italia; v'ha un piglio di passione, una naturalezza d'immagini che non sembrano tolti in prestito dalle [519] muse arabiche.[1410] Suol cantare la gioventù, le donne, il vino, le stelle, i fiori; piange i diletti perduti nell'età matura, senza mai trascorrere alla schifa licenza di tanti altri poeti arabi; poichè un suo epigramma, sì fino da parer de' tempi d'Orazio o di Giovenale, è satira al certo, non confessione di vizio.[1411] Gli argomenti, lo stile, fin qualche concetto e qualche parola d'Ibn-Tûbi, si ravvisano nelle rime d'Ibn-Hamdîs, che di certo il prese a modello e l'avanzò.

Fioriva in quel torno o qualche dieci anni appresso, Ibn-Sebbâgh il segretario, amico d'Ibn-Rescîk, forse palermitano, ed intinto nelle pratiche con Moezz-ibn-Badîs, al certo seguace di parte siciliana nella rivoluzione d'Akhal, poichè con robusti versi, e talvolta gonfii, loda il valor di sua gente contro i Bizantini e i Kelbiti.[1412] Armoniose [520] e gentili le rime d'amore d'un Abu-Fadhl-Mosceref-ibn-Râscid, autore di tre o quattro Kasîde e altri componimenti; e pur non gli manca vigor di parola nè altezza di pensieri quand'ei tocca la guerra civile, forse i principii della normanna, e sospira la unione della Sicilia sotto un sol capo.[1413]

Non guari dopo, il grammatico siciliano Abu-Hasan-Ali-ibn-Abd-er-Rahman-ibn-Biscir, dettava [521] una Kasîda ad onore di Nâsir-ed-dawla-Ibn-Hamadân, capitano anzi padrone del califo d'Egitto,[1414] e un'altra a lode del vizir Ibn-Modebbir,[1415] la prima delle quali sembrò un capo lavoro a Malek-Mansûr, principe erudito del secolo seguente.[1416] Un altro Abu-Hasan-Ali-ibn-Abd-er-Rahman, segretario e grammatico, chiamato Bellanobi dalla patria, Ansâri dal lignaggio,[1417] uscito di Sicilia nella seconda metà dell'undecimo secolo, rifuggissi al Cairo; ove perduta la madre, piansela con una elegia piena d'affetto e d'immagini poetiche. V'hanno inoltre componimenti, brevi e cinque Kasîde, due delle quali a lode d'una casa di Beni-Mawkifi, non sappiamo se di Sicilia o [522] d'Egitto,[1418] onde nasceva un mecenate del Bellanobi: versi studiati, puliti e mediocri.[1419] Nè passò questo segno in poesia il filologo Ibn-Kattâ', del quale abbiamo detto.[1420] Par fosse uscito di Sicilia nell'adolescenza Megber-ibn-Mohammed-ibn-Megber che [523] studiò in Egitto e vi fece soggiorno, tenuto in gran pregio dai critici arabi, autore di varie Kasîde, una delle quali al Kâid-Abu-Abd-Allah, soprannominato Mamûn, ma nol credo dei regoli siciliani. Con altri versi, mordendo un poeta bisognoso o avaro, ci ragguaglia del sussidio di cinque dînar al mese che porgea la corte fatemita agli uomini di lettere. Morì costui pria della metà del duodecimo secolo:[1421] l'ultimo forse dei Siciliani che dopo il conquisto s'erano affidati alla carità fatemita.

Più franca ospitalità loro offrivano in Spagna da dodici dinastie gareggianti a bandir corte per mostrar che da vero regnassero; la miglior parte gentiluomini arabi, usi a far della poesia lusso ed a tener unica virtù civile la liberalità. Sia la frequenza dei commerci, sia il gusto delle lettere, si strinse con la Sicilia più che ogni altro stato spagnuolo quel dei Beni-Abbâd di Siviglia: e già al tempo di Mo'tadhed (1041-1068) s'era rifuggito nell'isola un poeta Abu-Hafs-Omar-ibn-Hasan, di nobil gente spagnuola, amico del principe, poscia temuto e perseguitato; il quale tornato alfine in patria, Mo'tadhed lo fece assassinare.[1422] Ma succeduto al cupo tiranno il figliuolo [524] Mo'tamid, che avea gran cuore in guerra e in casa, ed altamente sentiva in poesia, la corte di Siviglia fu asilo dei poeti Siciliani Abu-l-Arab e Ibn-Hamdîs.

Abu-l-Arab-Mos'ab-ibn-Mohammed-ibn-Ali-Forât, coreiscita della schiatta di Zobeir, nato in Sicilia il quattrocentoventitrè (1033) avea nome già di gran poeta, quando, occupata Palermo dai Normanni, impazienza del giogo stretta di povertà lo sospinsero ad andar via, dicendo alla patria ch'essa l'abbandonava non egli lei.[1423] Mo'tamid gli avea profferto asilo a Siviglia; mentr'egli pur tentennava, sbigottito dai rischi del viaggio, invecchiato a quarant'anni, aveagli mandato per le spese cinquecento dînar: e vedendolo giugnere a corte dopo un anno o poco meno (465, 1072-73), l'accolse lietamente, gli fu poi sempre largo di danari e d'affetto;[1424] e quegli ne rendea merito coi versi; [525] par anco abbia militato in alcuna impresa del mecenate.[1425] Sopravvisse Abu-l-Arab alla ruina di casa Abbadida una ventina d'anni, sapendosi di lui fino al cinquecento sette (1113-14). Improvvisatore, poeta di gran fama, più arabo che niun altro Arabo nel pregio della lingua, dice Ibn-Bassâm, scherzando sul soprannome; e Scehâb-ed-din-Omari, preso d'un estro di prosa rimata, lo esalta duce e maestro di tutti i poeti del suo secolo e gente.[1426] In vero le Kasîde ed altri componimenti d'Abu-l-Arab, dei quali non ci mancano squarci, sembrano elegantissimi di lingua e stile; arabici pur troppo in ragion poetica, ma vi si frammette spesso la semplicità che dianzi lodammo in Ibn-Tûbi.

Abd-el-Gebbâr-ibn-Mohammed-ibn-Hamdis nacque in Siracusa (1056) di nobile famiglia della tribù di Azd, che prendea nome da un Hamdîs, capo himiarita ribellatosi (802) in Affrica contro [526] Ibrahim-ibn-Aghlab.[1427] Cresciuto al romor delle armi normanne che già infestavano il Val di Noto, Ibn-Hamdîs, più che agli studii si diede a combattimenti, amori, festini, trincare; finchè un successo sul quale ei tocca e passa, credo avventura amorosa in nobil casato, sforzollo a fuggire[1428] in Affrica il quattrocensettantuno [527] (1078-79). Ma sdegnando i costumi delle tribù arabiche scatenate dall'Egitto su l'Africa propria,[1429] allettato altresì dalla fama di Mo'tamid-ibn-Abbâd, andò a corte di Siviglia, ove fu accolto con onore e liberalità.[1430] In quel ritrovo dei primi poeti contemporanei [528] d'Occidente rifulse il genio d'Ibn-Hamdîs; non si corruppe in corte l'animo franco, liberale, pien d'amore del padre, della Sicilia, degli amici, della gloria, delle donne; d'ogni bellezza di natura e d'arte. Seguì il principe nei campi com'uomo d'arme ch'egli era ed anco ne facea troppa mostra nei versi. Alla battaglia di Talavera (1086) abbattuto dal cavallo nei primi scontri che tornarono ad avvantaggio dei Cristiani, si sviluppò gagliardamente, n'uscì con la corazza tutta affrappata dai fendenti, più che a sè stesso pensando al figlio giovinetto che combattea lì presso con gran valore.[1431] Ma quando gli Almoravidi tornarono in Spagna da nemici; quando Mo'tamid fu spoglio del regno e d'ogni cosa, e scannatigli due figliuoli sotto gli occhi, e con le figlie mandato in catene ad Aghmat (1091), Ibn-Hamdîs passava in Affrica, andava a visitarlo nella prigione: dove fecero scambio di sante lagrime e versi mediocri.[1432] Tornatosi il poeta siciliano a Mehdia,[1433] saputa [529] non guari dopo la morte di Mo'tamid (1095), soggiornò parecchi anni nelle due corti di casa zîrita, avendo lasciato in lungo poema la descrizione d'un palagio di Mansûr principe hammadita di Bugia, aspro nemico degli Almoravidi;[1434] due Kaside in vita[1435] ed un'elegia in morte di Iehia-ibn-Temîm (1116) principe di Mehdia;[1436] e le lodi di Ali-ibn-Iehia (1116-21) ed Hasan-ibn-Ali (1121-1148) saliti successivamente a quel trono.[1437] Scrisse la Storia di Algeziras.[1438] Rifinito dall'età e dall'avversa fortuna, ch'ei s'assomigliava ad aquila che più non voli e i figli le imbecchino il pasto,[1439] perduto il lume degli occhi, morì di ramadhan cinquecentovensette (luglio 1133), chi dice a Majorca, chi a Bugia, sepolto accanto al poeta spagnuolo Ibn-Labbâna, col quale avea gareggiato nella grazia di Mo'tamid a Siviglia e nel carcere.[1440]

[530] Ingegno felicissimo nel coglier e ritrarre le sensazioni, nel colorirne le dipinture che veggiamo sparse a larga mano in duemila e cinquecento versi: dipinture d'obietti materiali, avvenimenti, passioni, costumi. Delle quali lascerem da canto ciò che non si riferisca alla Sicilia: le geste di Mo'tamid, i suoi palagi ed orti o del principe di Bugia, gli episodii accademici di Siviglia, la morte d'una moglie, il naufragio d'altra sua donna nel viaggio di Spagna ed Affrica, le cacce affricane, le descrizioni d'animali e frutta e fiori,[1441] gli specchi di pece,[1442] le lampadi a spirito di vino,[1443] il piglio feroce dei masnadieri d'oltre Nilo, cui poneva a riscontro gli Arabi inciviliti di Sicilia. Quei compagni di sangue chiarissimo come lo splendor delle stelle,[1444] coi quali in gioventù solea [531] cercare all'odorato il miglior muschio[1445] dei vigneti siracusani. Entrano di notte in un romitaggio; chiuse le porte, gittan su le bilancette un dirhem d'argento, e la vecchia suora lor ne rende una coppa piena di liquid'oro; poi ne menan via le sposine: quattro anfore[1446] vergini, impeciate e sepolte da lunghi anni; elette da un tal che d'ogni succo d'uva ti sa dir patria, età e cantina. Ma gli svelti e vaghi giovani traggono a sala illuminata da gialli doppieri messi in file come colonne che sostenessero eccelsa volta di tenebre; dove il signor della festa bandisce esilio e morte alla tristezza: e già le suonatrici, cominciando a toccar le corde, destan gioia negli animi; quella si stringe al petto il liuto, questa dà baci al flauto: una ballerina gitta il piè a cadenza dello scatto delle dita; gentil coppiera va in giro, mescendo rubini e perle, avara sì delle perle che rado allarga le stringhe dal collo della gazzella.[1447] Oh dolci ricordi della Sicilia, campo di mie passioni giovanili, albergo ch'era di vivaci ingegni, paradiso dal quale fui scacciato! e come riterreimi dal piangerlo? Quivi risi a vent'anni spensierato; ahi che a sessanta mi rammarico di quelle colpe; ma non le biasmar tu, accigliato censore, poichè le cancellava il perdono di Dio![1448]

[532] Figliuoli delle Marche siam noi, cantò altrove Ibn-Hamdîs; a noi spunta il sorriso quando la guerra aggrotta le ciglia; divezziamo i bamboli, in mezzo all'armi, col latte di generose giumente: rassegnaci; e quanti siamo, tanti campioni conterai che ciascun vale una schiera. Indietreggia nostr'oste per rinnovare l'assalto; ritraendosi, sparge la morte: no, che tutte le stelle non sono cadute, e pur v'ha una speme in questa guerra, e siam noi. I condottieri ci mostrano il dì della battaglia, un drappo da ricamare con gruppi d'avvoltoi; chè i prodi ad ogni carica di lor nobili 'Awagi,[1449] spargon sul terreno larga pastura agli uccelli voraci. Ecco una colomba messaggiera di strage, volar secura tra i lampi. Sì; percotemmo i nemici della Fede entro lor focolari: piombò un flagello su le costiere dei Rûm; navi piene di lioni solcarono il mare, armate la poppa d'archi e dardi, lancianti nafta che galleggia e brucia come la pece della gehenna ov'ardono i dannati; cittadelle che vengono a combattere le città dei Barbari, a sforzarle e saccheggiarle. E che valser quei vestiti di maglie di ferro luccicanti, e usi a dar dentro quando pur si ritraggono i prodi? Non piegammo noi al duro scontro; ingozzata la coloquinta, gustammo alfine il dolce favo, e li rimandammo con le armadure squarciate e addentellate da questo sottil filo de' nostri brandi. Perchè l'acciaro nelle nostre mani [533] ragiona,[1450] e nelle altrui si fa mutolo. Ma dalla casa mi guardano furtivamente begli occhi travagliati dalla vigilia e dal pianto, che il dolore dì e notte li avea dipinti di kohl;[1451] una manina incantatrice muove le dita a salutarmi. Oh dilettoso giardino, la cui sembianza viene a visitar le pupille aggravate di sonno e le schiude all'immaginativa! Io sospiro la mia terra; quella nel cui seno si fan polvere le membra e le ossa de' miei, chè già se n'è ito il fior della prima gioventù, alla quale tornan sempre le mie parole.[1452]

Sotto il bel cielo di Spagna, nelle regioni temperate dell'Affrica settentrionale, il poeta siracusano non obbliò mai quel paese “cui la colomba diè in presto sua collana, e il pavone suo splendido ammanto;[1453] dove i raggi del sole avvivan le piante d'amorosa virtù ch'empie l'aere di fragranza;[1454] dove respiri un diletto che spegne le aspre cure, senti una gioia che cancella ogni vestigio d'avversità.”[1455] Pur l'alto sentimento che gli facea parer più belle le naturali bellezze della Sicilia, lo ritenne dal tornar a vederla serva; gli dettò versi di rampogna no, ma di compianto e di verità, ch'è primo debito di cittadino alla patria. Ripetendo ed esaltando in mille modi il valore [534] delle persone,[1456] ricordava sospirando, esser morta nel paese la virtù della guerra.[1457] E in età più matura sclamava:

“Oh se la mia patria fosse libera, tutta l'opera mia, tutto me le darei con immutabile proponimento.

Ma la patria come poss'io riscattarla dalla schiavitù nelle rapaci mani dei Barbari?

(Lo potea forse, quando) il suo popolo si straziava a gara in guerra civile, e ciascun legnaiolo vi gittava esca al foco?

(Quando) i congiunti non sentivano carità di parentela; bagnavano le spade nel sangue dei congiunti,

E (il popolo tutto insieme) avea lo stesso piglio d'una destra le cui dita non giochino l'un a seconda dell'altro?”[1458]

A tanta altezza di poesia giunse Ibn-Hamdîs! Con soave sentimento cantò d'amore; con leggiadria ed arte e abbondanza d'estro sopra ogni argomento ch'ei toccava. E se l'intemperanza orientale d'immagini, [535] le antitesi, i bisticci, i vizii radicali della letteratura arabica tolgono a noi di collocarlo tra i sommi poeti, i critici di sua nazione il tenner tale,[1459] e in Occidente i suoi versi furono poco men citati che que' d'Imrolkais e di Motenebbi. Il critico Abu-Salt-Omeîa, che l'accusò di plagii, lo dicea ladro illustre, uso ad abbellire le idee rubate.[1460]

Dimorò in Affrica o Spagna il suo figliuolo Mohammed, più poeta del padre al dir d'Ibn-Bescirûn; ma i brevi saggi che ne dà, fan giudicare altrimenti.[1461] Soleiman-ibn-Mohammed da Trapani, oriundo di Mehdia stanziatovi, esule dopo il quattrocento quaranta (1048), erudito e scostumato, passò in Affrica, indi in Spagna; ove s'acconciò nelle corti di principi minori, e piacquero sue Kaside, e vi lasciò nome non oscuro.[1462] Più elegante poeta Abu-Sa'îd-Othmân-ibn-'Atîk, Siciliano, forse di Palermo come ogni altro di cui non si noti particolarmente la città natia, andò a dirittura in Spagna al conquisto normanno, a corte del rivale di Mo'tamid in lettere e munificenza (1054-1091), il principe d'Almeria Mo'tasem, della illustre stirpe dei Beni-Somâdih.[1463] Vissero al par nella seconda [536] metà dello undecimo secolo poeti di Kasîde, i segretarii Hâscem-ibn-Iunis e Ibn-Kûni e Omar-ibn-Abd-Allah, dei quali si è detto;[1464] e un Ali-ibn-Abd-Allah-ibn-Sciami.[1465]

Ibn-Tazi, cultor di scienze e di lettere,[1466] facile ingegno ed umore bilioso, censor di vizii infangato in brutto costume egli stesso, va lodato tra i primi poeti satirici degli Arabi per vivacità di concetti, stile incisivo, e pur naturale, eleganza e grazia non infrequente.[1467] Ci avanzan di lui, dopo che li vagliavano Ibn-Kattâ' e Imâd-ed-dîn, da ottanta epigrammi, tra descrittivi ed erotici, se così possan chiamarsi, e satirici; ma sol di questi diremo. Dei quali è grave e lepido molto quel sopra i Sufiti;[1468] altri con lindura riprendono vecchi che tingeano i capelli,[1469] facce irsute di barba,[1470] e noiosi cantori:[1471] ed erano ridicolaggini del tempo. Su i vizii eterni dell'umana natura lanciò arguti motti ad avari.[1472] [537] chiacchieroni,[1473] permalosi;[1474] nè perdonò ai difetti fisici:[1475] mise il dente ove potè a lacerare con rabbia, ed arrivò a chiamare l'umanità razza di vipere e cani.[1476] Ruzaik-ibn-Sahl, già nominato, toccò l'argomento con più misura e men poesia, nei soli versi che ci rimangon di lui.[1477]

Meritano i Kelbiti particolar menzione pria di continuare la lista dei poeti minori, perchè s'e' non arricchirono gran fatto il Parnaso siciliano, incoraggiarono e favorirono cui v'aspirasse. Dell'emiro Ahmed (953-969) si ricordano due mediocri versi con che si lagnava che in età avanzata nol curasser le donne: strana querela in bocca a principe musulmano.[1478] Cantò più lietamente d'amore Abd-er-Rahman-ibn-Hasan, [538] intitolato emiro per onor di famiglia e Mostakhles-ed-dawla (L'eletto dell'impero) per oficio ch'avesse tenuto a corte fatemita in Egitto,[1479] Abu-Mohammed-Kâsim-ibn-Nizâr, detto anche emir, contemporaneo di Ahmed, poscia prefetto di polizia a Misr, ci attesta la puntigliosa superbia di sua gente in faccia anco al principe.[1480] Improvvisava l'emiro Giafa'r-ibn-Iûsuf qualche versuccio, e faceva ai poeti le carezze dell'asino.[1481] L'altro Giafa'r soprannominato Thiket-ed-dawla, figliuolo di Akhal, si scusava in rima delle promesse non compiute per la malignità di sua fortuna.[1482] Del dotto e audace Ammâr abbiam detto e de' suoi versi.[1483] Abu-Kasim-Abd-Allah-ibn-Selmân di gente Kelbita, si vantava con mediocre poesia d'amare e proteggere la virtù, esalava lamenti erotici, e attestava l'epoca in cui visse, dicendosi circondato da nemici che facean le viste d'ossequiarlo.[1484] Avanzò ogni altro Kelbita nel pregio dei carmi un Gia'far-ibn-Taib, [539] che carteggiavasi con Ibn-Kattâ', n'ebbe lodi nell'Antologia siciliana e meritolle, come provano due squarci di Kasîda e qualche altro verso petrarchesco.[1485] Caduta la dinastia, que' che se ne divisero le spoglie, ambiron pur ad onori letterarii che noi non possiamo assentire: dico, il kaid Abu-Mohammed-ibn-Omar-ibn-Menkût,[1486] e il kaid Abu-l-Fotûh figlio del kaid Bodeir-Meklâti ciambellano, soprannominato Sind-ed-dwala, d'umor niente allegro.[1487] Fe versi anco Ibn-Lûlû, detto forse per errore principe di Sicilia.[1488] Nè sdegnava l'arte un prefetto di polizia di que' tempi, per nome Abu-Fadhl-Ahmed-ibn-Ali, coreiscita;[1489] nei cadi Abu-Fadhl-Hasan-ibn-Ibrahim-ibn-Sciâmi, della tribù di Kinana,[1490] Abu-Abd-Allah-Mohammed-ibn-Kâsim-ibn-Zeid, della tribù di Lakhm,[1491] e Ahmed-ibn-Kâsim già ricordato.[1492]

[540] Perchè il verseggiare è facile quando non si badi alla poesia del concetto, e l'aiuti un linguaggio classico che risuona sempre agli orecchi, una certa educazione letteraria, qual ebbero in quell'età tutti i Musulmani che non nascessero proprio dal volgo, e l'uso generale vi sospinga, come avvenne nei tempi della nostra Arcadia. Di quei che trattarono argomenti morali non spiccando altrimenti per bellezze di forma, noteremo quel solo che possa giovarne, cioè com'intendessero la filosofia pratica della vita: gli uni a cantare il vino, le ballerine, i passatempi, che sono Abu-Bekr-Mohammed-ibn-Ali-ibn-Abd-el-Gebbâr oriundo di Kamûna in Affrica,[1493] Abu-Ali-ibn-Hasan-ibn-Khâlid, il Segretario,[1494] Abu-Abbâs-ibn-Mohammed-ibn-Kâf;[1495] gli altri austeri, fissati nell'altra vita e spregianti quella che fruivano di presente, come Abu-Hafs-Omar-ibn-Hasan-ibn-Setabrîk, devoto di grido,[1496] Abu-l-Kârim-Ahmed-ibn-Ibrahim Waddâni,[1497] e i già ricordati Abu-Ali-Ahmed-ibn-Mohammed-ibn-Kâf il Segretario,[1498] Ibn-Mekki,[1499] Abd-er-Rahman-ibn-Abd-el-Ghâni,[1500] Atîk,[1501] il Siracusano Ibn-Fehhâm,[1502] Ali-Waddâni.[1503] D'altri abbiamo descrizioncelle, [541] epigrammi sui quali poco o nulla è da notare. Abu-Mohammed-Abd-el-Azîz-ibn-Hâkem-ibn-Omar, della tribù iemenita di Me'âfir, dettò qualche verso sui corpi celesti.[1504] Abu-l-Feth-Ahmed-ibn-Ali-Sciâmi è lodato dall'autore dell'Antologia siciliana, il quale gli domandò alcuni versi per metterli nella raccolta;[1505] Ruzaik-ibn-Abd-Allah fu perseguitato sì ostinatamente dalla povertà, che una volta donatagli da gran personaggio una borsa d'oro, tornando a casa tutto lieto, trovò che un ladro gliel'avea svaligiata, e sfogò il dolore in rime.[1506] Il Segretario Ibn-Kerkûdi è detto poeta di vaglia da Ibn-Kattâ'; ma dai versi non me ne accorgo.[1507] Alla lista vanno aggiunti: Abu-Hasan-Sikilli,[1508] Abd-el-Azîz-Bellanobi, fratello d'Ali,[1509] il Segretario Abu-Abd-Allah-Mohammed-ibn-'Attâr,[1510] Abd-el-Wehâb-ibn-Abd-Allah-ibn-Mobârek,[1511] Abu-Hasan-ibn-Abd-Allah da Tripoli o Trapani,[1512] Abu-Mohammed-Abd-Allah-ibn-Mekhlûf lo Scilinguato,[1513] e il Segretario Ibn-Sir'în,[1514] dei quali ci rimangono pochissimi versi o nessuno. Ci sono occorsi trattando d'altri studii, e abbiam detto del merito che loro s'attribuisca [542] in poesia, Kholûf da Barka,[1515] Ibn-Abd-el-Berr,[1516] Gia'far-ibn-Kattâ',[1517] Dami'a,[1518] Ja'kûb Roneidi,[1519] Ali-ibn-Hasan-ibn-Habîb,[1520] Ibn-Sados,[1521] Taher-Rokbani,[1522] e il costui figlio Ali,[1523] Othman-ibn-Ali da Siracusa,[1524] Ali-ibn-Waddani,[1525] Abd-Allah-ibn-Mosîb,[1526] Ibn-Kereni,[1527] ed Abu-Bekr-Mohammed.[1528]

Da quanto abbiamo esposto, si può conchiudere che la poesia rifioriva in Sicilia, dopo tredici secoli; e se non agguagliò le bellezze dei tempi di Teocrito e Stesicoro, produssene quella specie che concedea il Parnaso di Arabia. A noi Italiani non solo, ma a tutti Europei nudriti alla scuola dei Greci, non può sembrar lieto soggiorno nè la sala vaporosa d'Odîn nè la tenda de' Beduini, dove si gareggia di metafore baldanzose, descrizioni sopra descrizioni, antitesi incessanti di pensieri e di vocaboli, paralelli bizzarri e lambiccati, lingua ricercata o morta e sepolta, gergo nomade che ormai mal si adattava alle idee delle colonie musulmane d'Europa, ma il culto classico comandava adoperarlo. E però ci offendono a prima vista tutti quegli orpelli e gemme di vetro di che s'adornavano [543] i poeti arabi di Sicilia, come ogni altro di lor età e linguaggio: le pupille omicide, le palpebre taglienti come spade, le guance di fuoco su cui spunti il mirto della barba, o guance di rose, e vi fu anche chi disse di rubino, cui mordessero gli scorpioni d'una negra chioma inanellata, i tralci di ben[1529] sormontati di lune piene, che è a dire svelti giovani dal volto fresco e splendente, i capelli bianchi che spandan tenebre; e infinite secenterie di simil tempra, nelle quali si compiaceano gli stessi Ibn-Hamdîs, Ibn-Tûbi, Abu-l-Arab, Ibn-Tazi, e il Bellanobi. Ma poi va considerato che il genio diverso delle lingue toglie nell'una a tal espressione figurata quel sapor aspro che abbia nell'altra: il che si noterebbe tra le lingue d'unica famiglia che parliamo in Europa, non che tra le indo-europee e le semitiche. Scendendo più addentro, scopriremo sovente pensieri semplici ed alti, linguaggio spontaneo d'affetti, verace colorito, tratteggiare risoluto, grazie non contigiate; e diremo che quelle brune muse arabiche se si abbigliassero a foggia nostra, passerebbero per belle. Io chieggo che nel giudicare i poeti arabi di Sicilia dagli squarci che ho mostrati e su le intere opere che spero sian date un giorno all'Italia, si guardi al concetto della mente piuttosto che alla forma in cui si manifestava; e che per la forma s'accettino, com'è ragione, i giudizii dei critici arabi ch'ho accennato a lor luogo. Forse quei biografi ed antologisti che ci serbarono frammenti de' poeti arabi siciliani li defraudavano delle nostre lodi più meritate, trascrivendo appunto i versi che [544] noi avremmo messi da banda, e tralasciando come scipiti quelli che noi avremmo trascelto.[1530]

Vuolsi in fine far parola dei musici che soleano cantar sul liuto i versi dei poeti: la quale usanza gli Arabi appresero dai Persiani, i devoti musulmani la condannavano, e quando lor venia fatto vietavanla, ma i grandi e' ricchi tosto richiamavano nelle brigate musici, cantatrici e ballerine. Il gran diletto che ne prendessero i Musulmani di Sicilia, è quanto se ne travagliassero si ritrae dalle poesie, dove spesseggiano le descrizioni dell'arte che dissipava i tristi pensieri e movea alla gioia; nè sdegnavano i poeti di lodare, talvolta anco biasimare i musici: Ibn-Tazi fe ad uno l'epigramma: “Ei canta e ti gitta addosso noia e malanni; ei tocca il liuto, affè che gliel'avresti a spezzare su le spalle.”[1531] Le croniche degli Abbadidi registrano con superstizioso terrore il caso del Musico Siciliano, così il chiamano, condotto agli stipendi di Mo'tadhed. Il quale sendosi fitto in capo (1068) che sovrastassegli la morte e la ruina di sua casa, volle cavar augurio dai versi che a sorte gli fossero recitati; fatto venire il Musico Siciliano e seder seco con grandi onori e carezze, e richiestolo di cantare, venner detti al Siciliano cinque versi, che incominciavano: “Consumiam le notti, sapendo ch'esse ci debbono [545] consumare;” ed appunto a capo di cinque giorni il principe si morì.[1532]

Aggiugnendo i nomi rassegnati in questo capitolo a quei che notammo nel capitolo XI del terzo Libro, si hanno (salvo il raddoppiamento di qualche nome che non ci sia venuto fatto di chiarire) a un di presso centoventi Musulmani di Sicilia e una dozzina di stranieri dimoranti nell'isola, che segnalaronsi nelle scienze e nelle lettere sino al fin della dominazione musulmana. Il quale abbozzo, disteso la più parte senza conoscer le opere, su i cenni solamente di autori arabi, è imperfetto di certo; pur adombrerà la cultura della Sicilia in quei tempi, supposta anzichè conosciuta quand'io mi accinsi a coteste ingrate ricerche. Pervenuti che saremo, nel sesto Libro, ai letterati e scienziati che rimasero fino ai tempi di Federigo, mi proverò a indagare la parte che si debba attribuire ai Musulmani nel risorgimento degli studii in Italia.

CAPITOLO XV.

Copiose abbiam visto le sorgenti della ricchezza; coltivati i comodi sociali; svegliati ingegni vaghi di scienze e d'ogni maniera di lettere; gli uomini ad uno ad uno non mentire al valor del sangue arabico, greco nè italico, non ignorar arte nè [546] stromento di guerra che appartenesse a que' tempi. Costumi tra buoni e tristi: da un lato, invidia, avarizia, abbominazioni di taluno, stravizi di tal altro, ma l'universale condannarli; dall'altro lato, carità di figliuoli, costanti amicizie, liberalità, alti e generosi spiriti, raggi d'amore che balenavano fin entro le mura degli harem; talchè soli vizii profondi della società musulmana di Sicilia compariscon due: la violenza e il sospetto. Nè era menomata di certo la fede musulmana in Sicilia, dove non prevalsero scuole scettiche, non si udirono scismi, non sètte kharegite, nè fanatismo di casa d'Ali: allegri giovani beveano, dilettavansi di canti e suoni e balli, e poi se ne pentivano; più numero assai di devoti praticava e predicava la rigorosa disciplina, la vita ascetica, e fin le follie sufite. Il qual doppio egoismo dei gaudenti e degli asceti, inevitabil fatto in certe religioni, va noverato tra i sintomi non tra le cause della tabe che consumava la Sicilia, come ogni altra colonia arabica, senz'eccettuarne veruna. Tabe nel vincolo dello stato; quando i corpuscoli sociali non stanno insieme per amor di patria nè forza di comando, ma ciascun fa per sè. Dicemmo già come l'impero arabico nacque con tal germe d'immatura morte: per l'indole dei conquistatori, l'imperfetta assimilazione dei popoli vinti, l'immobilità delle leggi, la necessità e impotenza insieme del dispotismo, i mercenarii stranieri, l'ordinamento aristocratico dei giund, la confusa democrazia municipale, le consorterie per le multe del sangue: anarchia generale sotto sembianza di assoluta unità religiosa e politica. [547] Indi s'era scisso il califato; i pezzi s'erano rinfranti; gli sminuzzoli, nello undecimo secolo, si trituravano; e pur la forza dissolvente non restava di commuovere e rimescolare quegli atomi di polvere. La Sicilia, spartita tra la gemâ di Palermo, Ibn-Hawwasci, Ibn-Meklâti, ed Ibn-Menkût, perseverò nella discordia sino all'ultimo compimento del conquisto normanno, sendo aggravato il vizio delle istituzioni dalla diversità delle genti. A levante, popolazioni cristiane soggette a nobiltà arabica; nel centro, le plebi di Siciliani convertiti all'islam; a ponente, la cittadinanza delle grosse terre; tramezzati in tutto questo rimasugli di Berberi di non so quante immigrazioni, e rifuggiti arabi d'Affrica e di Spagna. Era proprio la mano simboleggiata da Ibn-Hamdîs, la quale nell'ora del pericolo non potè impugnare la spada.

Ai fomenti di discordia s'aggiugnea l'ambizione di Moezz-ibn-Badîs e il subito danno che la distrusse, il contraccolpo del quale si risenti necessariamente in Sicilia. Appunto alla metà dell'undecimo secolo, passarono in quel ch'è oggi lo stato di Tunis gli Arabi che desolarono e ripopolarono l'Affrica settentrionale, ov'era assottigliata e snervata la schiatta dei primi conquistatori. La causa della quale irruzione fu che Moezz, disdetta l'autorità pontificale de' Fatemiti, avea gridato il nome dei califi di Bagdad; onde il ministro Iazuri, che tenea la somma delle cose al Cairo, non potendo ripigliare la provincia con le armi, la volle inondare di masnadieri: indettò le tribù beduine di Hilâl e Soleim, ospiti infestissimi dell'Alto Egitto; dispensò a ciascuno un mantello e un dinâr [548] d'oro; e scaraventolli a ponente del Nilo (1051). Ed entro sei anni aveano compiuta l'opera; sospinto Moezz all'estrema riva del mare, su li scogli di Mehdia inespugnabili, dond'ei comandava molto dubbiamente a qualche città della costiera mercè l'armata e gli schiavi assoldati.[1533] In questa guerra gli Arabi saccheggiarono il Kairewân (novembre 1057), i cui cittadini si rifuggivano chi nelle parti più occidentali d'Affrica, chi in Spagna e chi in Sicilia.[1534] Precipitando per tal modo le cose di Moezz, veggiam calare in Sicilia la fazione che s'era affidata a lui nel principio della guerra civile, gli si era poi volta contro (1040), e non mi sembra inverosimile che avesse rannodato le pratiche, afforzata ch'essa fu a Castrogiovanni e Girgenti con Ibn-Hawwasci.

Ma cacciato di Palermo Simsâm e poi spento, par che la repubblica di Palermo ed altri grossi municipii venuti in sospetto di quelle pratiche si collegassero con la parte dei nobili a danno d'Ali-ibn-Hawwasci. Perchè allor si destava novella tempesta in Sicilia;[1535] sorgeva improvvisamente capo di parte un Mohammed-ibn-Ibrahim-ibn-Thimna, dei principali [549] ottimati, se leggiam bene un luogo d'Ibn-Khaldûn,[1536] certo non uscito di sangue plebeo,[1537] insignoritosi di Siracusa, non si sa come nè quando, nè se quella fosse sua patria. Ibn-Thimna, assalito Ibn-Meklati, kâid di Catania, che avea sposata la Meimuna sorella d'Ali-ibn-Hawwasci, lo debellò, gli tolse la vita, lo stato e la donna; e, dopo i termini legali di vedovanza, chiese ed ottenne la man di lei dal fratello. Donde è chiaro che il signor di Castrogiovanni non ebbe poter d'aiutare il cognato confederato suo di certo, nè di ricusar la sorella all'uccisore. Nel medesimo tempo finisce ogni ricordo dei Beni-Menkût, signori della punta occidentale dell'isola. La più parte dell'isola obbedì a Ibn-Thimna, che osò prendere il medesimo titolo d'un califo di Bagdad[1538] Kâdir-billah, o diremmo “Possente per grazia di Dio;” e in Palermo si fece la Khotba per lui.[1539] È verosimile che la gemâ' gli abbia dato nella capitale un'autorità di nome; bensì l'abbia aiutato all'impresa di Catania e altre città marittime col navilio, il quale non si armò mai altrove che in Palermo. Si ristorava così un'apparente [550] unità di comando di guerra, se mai la Sicilia fosse assalita. Suppongo compiute queste vicende il millecinquantatrè dell'era cristiana, quando Moezz era con l'acqua alla gola; ritraendosi che il quattrocentoquarantacinque dell'egira (1053-4), mandato da lui il navilio a ridurre Susa che gli s'era ribellata, trovò in que' mari l'armata del Sâheb di Sicilia, e temendola ostile diè di volta.[1540] La quale denominazione di Sâheb s'adatta a Ibn-Thimna e non meno la nimistà contro casa zîrita.

Durò quanto potea la concordia tra i due capi di parti, l'uno vittorioso, sciolto d'ogni timor di fuori, l'altro umiliato; rivolti entrambi ad avvantaggiarsi con la forza neutrale ch'erano i municipii. Il parentado diè occasione a scoprir nuovamente la nimistà. Meimuna, donna d'indole altera, pronto ingegno e lingua troppo più pronta, solea bisticciarsi col marito; il quale forse non l'amava nè ella lui, forse rinfacciava l'indole plebea alla figliuola del Demagogo. Una sera Ibn-Thimna, acceso dal vino, ricomincia i piati domestici, trascorre alle villanie; Meimuna gliene dà di rimando; e il feroce ubbriaco, come se avesse letto i fasti di Caligola o di Nerone, le fa segar le vene d'ambo le braccia. Ma un figliuolo di lui per nome Ibrahim accorreva a tempo, chiamava i medici, ed arrestavano il sangue; si che la dimane rientrato in sè Ibn-Thimna, andò a scusarsi dei furori dell'ebbrezza, e Meimuna fe sembiante di perdonarlo. Dopo onesto spazio di tempo, ella il pregava le concedesse [551] di rivedere i parenti; quegli, o non sospettando non curandola, o ch'ei cercasse pretesto d'attaccare briga con Ibn-Hawwasci, le diè licenza; mandolla con onorevole scorta e ricchi presenti a Castrogiovanni. Contò allora il caso al fratello; quei le giurò che mai non la rimanderebbe all'efferato signore. Indi Ibn-Thimna a rivendicar i diritti di marito e di re, a minacciare quel che tenea vassallo e plebeo: ma Ibn-Hawwasci non si spuntò dal niego; ed entrambi apparecchiarono le armi.

Ibn-Thimna movea all'assedio di Castrogiovanni; l'altro gli uscì all'incontro; lacerò a brani a brani l'esercito nemico, dicon gli annali, e lo inseguì fin presso Catania con grandissima uccisione. Se prima o dopo della sconfitta non si sa, la Sicilia tutta da Catania, qualche altra città all'infuori, prestava obbedienza al vincitore, anche Palermo. Indi si scorge che la cittadinanza della capitale e delle città maggiori, la quale avea deciso altre fiate i litigi tra le due parti, gittandosi or con l'una or con l'altra, compiè quest'altra rivoluzione a favor d'Ibn-Hawwasci. E in vero, dileguato il timore delle armi di Moezz, il capo dei gentiluomini avea dovuto aggravar la mano su la cittadinanza al par che su la parte siciliana, e provarsi a prender in quelle regioni dell'isola l'autorità, della quale non godeva altro che il nome. Il terzo partito dunque, com'or si chiama, lo messe giù al par di Akhal, del figliuolo di Moezz e di Simsâm. Ibn-Thimna condotto agli estremi, si ricordò che v'erano in Sicilia e in Calabria i Cristiani. Pratiche s'erano cominciate al certo tra [552] gli uni e gli altri fin quando si videro sventolare da Messina su l'altra sponda dello Stretto le gloriose bandiere normanne. Il signor musulmano si cacciò, traditore a sua schiatta e religione, tra le sante trame di chi volea scuotere il giogo: corse a Mileto offerendo la Sicilia al conte Ruggiero, con la solita speranza ch'ei la conquistasse per fargliene dono.[1541]

[553]

SOMMARIO
DEI CAPITOLI CONTENUTI
NEL SECONDO VOLUME.

LIBRO TERZO.
 
CAPITOLO I.
 
an. 827-900. Società musulmana di Sicilia. — Emir di provincia in dritto comune Pag. 1
  Secondo il fatto in Sicilia 5
  Amministrazione della giustizia 7
  Amministrazione civile 8
  Municipio ossia gemâ' 9
  Proprietà delle terre in dritto comune 12
  Tassa fondiaria. Kharâg 18
  Proprietà in Affrica 21
  E in Sicilia 22
  Stipendii militari. Giund 25
  Fei. Iktâ'. 27
  Altre parti dell'azienda 29
  Schiatte in Sicilia. Arabi e Persiani 31
  Berberi 35
  Antagonismo d'Arabi e Berberi 37
  Tendenza della colonia a governo proprio 40
  Contrasto interiore delle due schiatte 41
  Come l'usa Ibrahim-ibn-Ahmed 42
 
CAPITOLO II.
 
875-901. Indole d'Ibrahim 45
  Esaltazione. Primordii del regno 46
  Opere pubbliche. Fuochi di segnale 48
  Fondazione di Rakkâda 49
  Tirannide, tumulti e stragi 50
  Orribili crudeltà 54
  Parricidio su mogli, fratelli, figli e figliuole 58
 
CAPITOLO III.
 
898. Rivoluzione spenta in Sicilia 62
899. E ridesta 63
900. Abu-Abbas figlio d'Ibrahim viene con l'esercito 64
  Combattimenti. Resa di Palermo 66
[554]
901. Guerra sopra i Cristiani in Sicilia e in Calabria 69
902. Abdicazione d'Ibrahim 75
 
CAPITOLO IV.
 
  Ibrahim in Sicilia 78
  Prende Taormina d'assalto 81
  Stragi. Martirio di San Procopio 83
  Ridotte Demona, Mico, Aci e Rametta 85
  Deboli provvedimenti di Leone il Sapiente 87
  Ibrahim passa in Calabria 89
  Terrore e miracoli a Napoli 90
  Ibrahim muore all'assedio di Cosenza 95
 
CAPITOLO V.
 
Secolo VII a IX. Scismi musulmani 97
  Promosse le scienze. Scuole scettiche 99
  Sette miste. — Kharegiti 102
  Sciiti 105
  Influenza delle antiche sètte persiane 108
  Zindîk, Khorramii ec. 111
  Origine degli Ismaeliani 114
  Karmati 116
  Ordinamento di setta ismaeliana 118
893-900. Propaganda in Affrica 120
  Abu-Abd-Allah ed i Berberi di Kotama 122
904. Pigliano le armi contro gli Aghlabiti 123
 
CAPITOLO VI.
 
902. Riforme dell'Aghlabita Abu-Abbâs 124
903. Ucciso per pratica del figlio 126
  Bagno di Ziadet-Allah 127
901-908. Vittorie dello Sciita 128
909. Fuga di Ziadet-Allah 129
  Occupato il regno degli Sciiti 131
  Obeid-Allah detto il Mehdi supposto discendente d'Ali e Fatima 132
  Imprigionato a Segelmessa 133
910. Fondazione del califato Fatemita 135
910-920. Ordinamenti e misfatti del nuovo principe 137
915-920. Fabbrica la città di Mehdia 139
 
CAPITOLO VII.
 
902-910. Emir che succedonsi in Palermo 140
910. Ibn-Abi-Khinzir mandato dal Mehdi 142
912. Cacciato dal popolo 144
  Potenza della nobiltà 145
913. Nuova rivoluzione. Il popolo elegge emir Ibn-Korhob 147
  Guerra ai Cristiani 148
[555]
914. Investitura degli Abbassidi 149
  Vittoria navale in Affrica 150
915-916. Naufragio e sconfitta 151
  Trattato coi Bizantini 153
  Controrivoluzione 154
916. Supplizio d'Ibn-Korhob 156
917. Assedio e dedizione di Palermo 157
 
CAPITOLO VIII.
 
882-915. Colonia dal Garigliano 160
  Sue scorrerie 162
  Difese di Giovanni X 165
913. Lega contro quei Musulmani 166
916. Distrutta la colonia 166
918. Condizione della Puglia e Calabria 168
  Slavi a' soldi dei Fatemiti 168
918-925. Fazioni di Reggio ed Oria 170
  Trattato dei Fatemiti coi Bizantini 175
826-929. Scorrerie degli Schiavoni e Siciliani in Terraferma 176
934-935. Affricani a Genova 179
 
CAPITOLO IX.
 
917-937. Salem emiro con scemata autorità 181
934-936. Inondazione. Vento infocato 184
937. Rivoluzione di Girgenti 185
  E di Palermo 187
  Khalîl-ibn-Ishak 188
  Edifica la Khalesa 189
938. Muove contro Girgenti 191
  Stragi e fame in val di Mazara 192
940. I Girgentini s'arrendono 195
944. Vanti di Khalîl in Affrica e sua morte 196
 
CAPITOLO X.
 
  Rivoluzione dei Nekkariti in Affrica. Abu-Iezîd 197
  Boscera il Siciliano 199
945. Assedio di Mehdia 200
  Morte d'Abu-Iezîd 201
947. Carestia, bargelli ed esattori in Sicilia 203
  Tumulto in Palermo 204
948. Hasan primo emir kelbita 207
  Prende lo stato in Palermo 208
  E spegne a tradimento i capi della nobiltà 210
 
CAPITOLO XI.
 
895-948. Condizione dei Cristiani in Valdemone o Val di Noto 212
  Popolazione del Val di Mazara 216
[556]
895-948. Principii di cultura intellettuale 218
951. Novella versione di Dioscoride 218
  Giuristi e libri malekiti 220
  Il cadi Meimûn in Palermo 222
  Altri giuristi. Ibn-Khorassân filologo 224
  Raccontatori di biografie 225
  Meno coltivati gli altri studii 226
  Siciliani che si segnalarono fuori 228
  Devoti e superstizioni 229
 
LIBRO QUARTO.
 
CAPITOLO I.
 
948. Casa kelbita dei Beni-Abi-Hosein 233
  Hasan non ebbe nuovo titolo nè autorità, se non che di emîr generale, come quei del nono secolo 234
969. L'emirato di Sicilia divien di fatto ereditario e independente 238
 
CAPITOLO II.
 
950. Guerra di Hasan in Calabria 242
952. Moschea a Reggio. Patti 248
953. Confermato Hasan con sostituzione del figliuolo Ahmed 249
955. Fazione di Hasan in Spagna 249
956-960. Nuova guerra coi Bizantini 250
 
CAPITOLO III.
 
961. Hasan e Ahmed coi nobili siciliani a corte del califo Moezz 254
  Disegni contro i Cristiani di Val Demone 255
962. Feste di circoncisione in Sicilia 256
  Presa Taormina 257
965. Rametta sola resiste 259
  Niceforo Foca le manda in aiuto Manuele e Niceta 260
964. Sbarco e fazioni dei Bizantini 263
  Battaglia di Rametta 264
  Morte di Hasan 269
965. Espugnazione di Rametta 270
  Vittoria navale dei Musulmani 274
 
CAPITOLO IV.
 
967. Ristorazione di città e ordinamento degli iklîm 274
  Pace tra Moezz e i Bizantini 278
  Niccolò ambasciatore greco 279
968. Indole e arti di regno di Moezz 281
  Giawher liberto siciliano 282
  Reca le armi di Moezz fino all'Atlantico 283
969. E gli conquista l'Egitto 284
970-974. Conseguenze in Oriente 286
[557]
972. Moezz muta la sede in Egitto 287
  Lascia un luogotenente in Affrica, senza autorità su la Sicilia 288
 
CAPITOLO V.
 
969. I Kelbiti richiamati in Affrica 290
  Rivoluzione in Sicilia 290
970. Moezz cede e manda emiro Abu-l-Kâsem-Ali, kelbita 293
972. Il viaggiatore Ibn-Haukal 294
  Descrizione di Palermo 296
  Numero approssimativo degli abitatori 304
  Costumi e usanze 306
  Riflessioni d'Ibn-Haukal su i Musulmani di Spagna e delle isole 309
 
CAPITOLO VI.
 
968-970. Otone I nell'Italia meridionale 310
  Lega dei Fatemiti coi Bizantini 312
975. Spezzata 313
976. Guerra d'Abu-l-Kâsim in Calabria 314
977. Arse Taranto, Oria e Bovino 315
903-950. San Nilo da Rossano 317
951. Assalto del Monastero di S. Mercurio 319
977. Frati presi a Rossano 319
  Lettera di San Nilo ad Abu-l-Kâsem 320
984. Otone II muove contro i Bizantini e i Musulmani 321
982. Viene a Taranto e Rossano 322
  Sconfitto a Stilo. Vittoria e morte d'Abu-l-Kâsem 324
  Fuga d'Otone 325
  Ritirata dell'esercito siciliano 329
 
CAPITOLO VII.
 
982-983. Emiri. Giâber; Gia'far 330
985-989. Abd-Allah; e Iûsuf 331
990-997. Potenza dei Kelbiti in Egitto 331
990-998. Ottimo governo di Iûsuf 332
  Il poeta Ibn-Moweddib a corte di Palermo 333
  E Mohammed-ibn-'Abdûn 334
  Poema di Abd-Allah-Tonukhi a lode di Iûsuf e del figliuolo 335
  Fama cavalleresca della corte 337
983-998. I Bizantini occupan la Puglia e la Calabria 338
986-1005. Assalti dei Siciliani in quelle province 339
1004. Assedio di Bari 341
1005-1011. Altre fazioni 341
1016. I Normanni a Salerno 343
1020-1031. I Siciliani assaltano tuttavia la Puglia e la Calabria 345
  Altre fazioni loro supposte da nomi geografici 346
[558]
 
CAPITOLO VIII.
 
998. Gia'far-ibn-Iûsuf, emiro 348
1015. Ribellione e supplizio del fratello Ali 350
  Nuovo ordinamento dell'esercito 351
  Gravezze 352
1019. Rivoluzione in Palermo 353
  Cacciato Gia'far e surrogatogli il fratello Akhal 354
975-998. Dominazione degli Zîriti in Affrica 355
999. Iânis il Siciliano 356
  Condizione dei Berberi nell'Affrica propria 357
1001-1023. Calamità ed emigrazioni d'Affrica in Sicilia 358
1016. Moezz-ibn-Badîs lo Zîrita 359
  Persecuzione degli Sciiti 359
1019. Rifuggiti in Sicilia 361
1019-1052. Industria e ricchezza dell'Affrica propria 362
1023. Armamenti di Moezz 363
 
CAPITOLO IX.
 
1025. Primordii d'Akbal in Sicilia 364
  Esercito bizantino in Calabria 365
1026. Naufragio degli Affricani 366
1031-1035. Scorrerie navali dei Siciliani ed Affricani in Grecia 367
  Akbal favorisce in Sicilia la parte che si chiamò degli Affricani contro la parte dei Siciliani 368
  Schiatte e condizioni delle due parti 369
  I nobili 372
  La cittadinanza 373
  Intenti e modi di Akhal 374
  Si sottomette ai Bizantini 376
1035-1037. I Siciliani chiamano Moezz. Guerra civile 377
1038. Ucciso Akhal, Moezz resta padrone dall'isola 378
 
CAPITOLO X.
 
  Impresa di Maniace 379
  Racconti dei mercenarii Scandinavi o Varangi 380
  Vittorie di Maniace 381
1038-1039. Assedio di Siracusa 384
1040. Battaglia di Traina 387
  Rivolta di Ardoino coi Normanni 389
  Maniace e l'ammiraglio Stefano 390
  Maniace si afforza in Sicilia 391
1041. È scambiato e catturato 392
1042. Difesa di Catacalone a Messina 393
1043. Ribellione e morte di Maniace 394
[559]
 
CAPITOLO XI.
 
1043-1061. Condizione dei Cristiani di Sicilia 395
  La più parte dsimmi 397
  Di schiatta greca e italica 398
  Studii e industria loro 399
  Il clero 401
  I frati 403
  Poco zelo religioso 404
948-1061. San Vitale da Castronovo 406
950-994. San Luca da Demona 408
1020-1070. San Filareto 410
964-1031. San Simeone da Siracusa 412
827-1061. Il Cristianesimo non mancò giammai in Sicilia 414
  Due tradizioni rigettate 415
 
CAPITOLO XII.
 
1040. Difetto di notizie storiche 417
  Condizioni d'Abd-Allah-ibn-Moezz in Sicilia 418
  È cacciato e fatto emiro Simsâm-ed-dawla 419
1040-1052. Sorgono i regoli Ibn-Menkût, Ibn-Hawwasci, Ib-Meklâti, e Palermo si regge a repubblica 420
  Riforma sociale a Malta 422
  Come cadde la dinastia kelbita 423
  Parti 424
  Intenti politici dei Palermitani 426
 
CAPITOLO XIII.
 
XI Secolo. Prosperità materiale e lettere 428
  Notizie geografiche d'Abu-Ali e d'Ibn-Kattâ' su la Sicilia 428
  Numero delle città, rôcche e villaggi 430
  Nomi 431
  Distribuzione delle schiatte 434
  Cenni su alcune città 436
  Descrizioni dell'Etna ed eruzioni 438
  Prodotti minerali dell'isola 441
  Acque e boschi 443
  Agricoltura 444
  Pastorizia 446
  Pratiche agrarie dei Siciliani 446
  Manifatture 448
  Commercio 449
  Architettura 450
  Iscrizioni e calligrafia 452
  Monete 456
  Tari d'oro di Sicilia imitati a Napoli, Salerno e Amalfi 458
[560]
 
CAPITOLO XIV.
 
XI Secolo. Studii degli Arabi. Prevalgono le scienze coraniche e le lettere 460
  Fonti di storia letteraria 462
  Astronomi e matematici siciliani 463
  Lavori di geografia matematica 464
  Misure itinerarie della Sicilia 466
  Scrittori di medicina. Abu-Sa'id-ibn-Ibrahim 467
  Lo sceriffo Ahmed 470
  Altri medici 471
Verso il 1000. Studii filosofici. Sa'id-ibn-Fethûn da Cordova 472
  Lettura del Corano 472
1062-1122. Ibn-Fehhâm 474
m. 1063. Abu-Tâher-Isma'il 475
Verso il 1100. Ibn-Omar e Ibn-Haiun 476
  Altri lettori del Corano 477
  La Tradizione di Maometto 479
Verso l'842. Tradizionisti: il Kalawri 479
Verso il 900. Abu-Bekr-Temimi 480
Verso il 1030. Ammâr principe Kelbita ed altri tradizionisti 481
m. 1141. Mazari giurista, tradizionista, teologo e medico 482
m. 1059. Studii legali. Ibn-Iûnis detto il Siciliano 486
Verso il 1030. Abd-el-Hakk 487
  Altri scrittori e professori di dritto 488
m. 1072. Sementari, giurista e ascetico 490
Verso il 1040. Ibn-Hamsa 491
  Setta dei Sufiti 492
X e XI Secolo. Sufiti Siciliani 493
  Altri ascetici e teologi 494
  Opera di teologia d'Abd-er-Rahman-Sikilli 495
  Lettere 495
  Varii filologi e grammatici siciliani o venuti in Sicilia 495
1033-1118. Kattâni 498
1000-1070. Ibn-Rescîk 499
  Falsa etimologia della voce Sicilia 504
Verso il 1030. Ibn-Abd-el-Berr 504
  Gia'far-ibn-Kattâ' 505
1041-1121. Ali suo figliuolo 505
  Opere d'Ali-ibn-Kattâ' 507
  Altri filologi 511
Verso il 1070. Ibn-Mekki giurista ed oratore 513
  Prosatori. Hascem-ibn-Iûnis 514
  Altri prosatori. I Segretarii 515
X e XI secolo. Storia. Cronica di Cambridge; Abu-Ali, e pochi altri 516
  Poesia arabica in questo tempo 517
Verso il 1030. Poeti eroici, ossia di Kasîde; Ibn-Tûbi 517
[561]
Verso il 1040. Ibn-Sebbâgh 519
1061. Ibn-Biscir, Billanobi ed altri rifuggiti in Egitto 520
  Comunicazioni con la Spagna 523
1032-1111. Abu-l-Arab 524
1056-1133. Ibn-Hamdîs 525
  Sua descrizione della vita dei giovani nobili 530
  Vanti guerrieri 532
  Carità patria e giudizio severo su la Sicilia 534
  Altri poeti di Kasîde 535
Verso il 1050. Satirici. Ibn-Tazi 536
  E Ruzaik 537
953-1100. Poeti di casa kelbita 537
  Altri principi e magistrati 539
X e XI Secolo. Poeti su argomenti morali 540
  E molti altri 541
  Come vadano giudicati i poeti arabi in Sicilia 542
  I musici 544
IX e X secolo. Epilogo su gli studii dei Musulmani di Sicilia fino al conquisto 545
 
CAPITOLO XV.
 
1053-1060. Condizioni e costumi pubblici e cagioni della decadenza 545
1051-1057. Grande avvenimento da Affrica 547
  Ibn-Thimna signor di Siracusa occupa Catania ed è riconosciuto principe di tutta l'isola 548
1053-1054. Armata siciliana a Susa 550
1054-1060. Meimuna moglie d'Ibn-Thimna si rifugge appo il fratello 550
  Guerra tra Ibn-Thimna e Ibn-Hawwasci signor di Castrogiovanni 551
  Ibn-Thimna sconfitto chiama i Normanni 551

FINE DEL SECONDO VOLUME.

[563]

AVVERTENZA DELL'AUTORE.

In corso di stampa del presente volume, si son pubblicati i testi nella Biblioteca Arabo-Sicula. Mi è parso dunque, nel IV libro, di citare la Biblioteca anzichè i MSS.; e così farò nei libri V e VI. Per comodo dei lettori, le pagine di quei testi saranno notate nella versione, quando m'avverrà di darla alla luce.

Pongo qui in fine qualche correzione d'error di stampa ed alcune aggiunte.

Parigi, gennaio 1858.


Pag. 10, lin. 1: Aghlabiti;(1) del califato

leggasi:

Aghlabiti;(1) di tutte le città d'Affrica nei primordii della dinastia fatemita (a); del califato

(a) Il Mehdi usava far leggere i suoi rescritti e avvisi di vittorie nella gemâ' di ciascuna città. Baiân, testo, tomo I, anni 296 a 300.

Pag. 36, lin. 11: e versione, p. 128.

leggasi:

e versione, p. 128. Si vegga anche Edrisi, versione di M. Jaubert, tomo I, p. 275. Il Merâsid, di Iakût, edizione di Leyde, tomo III, p. 159, nota una fortezza Minsciâr presso l'Eufrate.

Pag. 37, lin. 18: origine latina.

leggasi:

origine latina.

XIII. Mesisino, nel feudo del Landro (val di Mazara), citato da Villabianca, Sicilia nobile, tomo II, p. 345. Meziza era nome di tribù berbera, secondo Ibn-Kaldûn, Histoire des Berbères, tomo I, p. 241 della versione, e I, 153 del testo.

Pag. 59, lin. 13: (903) leggasi: (902)

Pag. 75, lin. ult.: precedente, p. 58.

leggasi:

precedente, p. 58. Debbo avvertire che secondo una variante proposta dal prof. Fleischer nel testo di Nowairi, invece di “malattia biliosa” si dovrebbe tradurre “gli si fece incontro con vestimenta negre.” Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 451, e Introduzione, p. 63. Ma non n'è certo quel dotto orientalista; nè io.

Pag. 92, lin. 32: agosto. Col

leggasi:

agosto e in novembre. Col

Pag. 169, lin. 31: epist. 75.

leggasi:

epist. 75. Altri divieti simili ai Veneziani nell'887 e 960 sono notati dal Muratori, Annali d'Italia, 960.

Pag. 178, lin. 28: ribâ'i leggasi: robâ'i

Pag. 214, lin. 21: tratto e si dilegua alla leggasi: tratto alla

Pag. 238, lin. 6: Perchè Moezzia non fosse una bicocca da schiavi o da liberti fu lasciata al certo la popolazione agricola nel contado, e la gente minuta, mercatanti o artefici, nella città.

leggasi:

Perchè Moezzia non fosse una bicocca, si lasciò al certo la popolazione agricola nel contado, e la gente minuta, mercatanti o artefici, nella città, da schiavi o da liberti.

Pag. 263, lin. 22: togliere leggasi: tagliare

Pag. 276, lin. 19: a kharâg leggasi: e kharâg

[564] Pag. 302, lin. 2: cristiana. Nè

leggasi:

cristiana; e la medesima tradizione riferita da Bekri dà, invece d'Aristotile, il nome di Galeno, che da Roma andasse a trovare i Cristiani in Siria, e fosse morto, in viaggio, in Sicilia(a). Nè

(a) Ibn-Scebbât, nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 210.

Pag. 323, lin. 4: e quei leggasi: o quei

Pag. 334, lin. 30: Rebâ'i leggasi: Robâ'i

Pag. 334, lin. 31: par che valesse leggasi: valeva

Pag. 378, lin. 13: Maniace leggasi: Maniace(4)

Pag. 378, lin. 26: da Sicilia leggasi: in Sicilia

Pag. 382, lin. 26: Si leggasi: (1) Si

Pag. 417, lin. ult.: Abn-Ali leggasi: Abu-Ali

Pag. 434, lin. 15: ain leggasi: ain,

Pag. 434: le note 2 3 4 s'invertano così: 3 4 2

Pag. 445, lin. 13: Si leggasi: (1) Si

Pag. 459, lin. 4: franca leggasi: franco

Pag. 460, lin. 19: rebâ'i leggasi: robâ'i

NOTE:

1. Veggasi il Libro I, cap. III, VI.

2. Oltre il Corano e la Sunna, ossia il supposto precetto divino e lo esempio del Profeta, la legge si fondava sullo igtihâd, che vuol dire litteralmente “sforzo” degli interpreti ed esecutori ad applicare lo statuto ai casi non provveduti espressamente.

3. Mawerdi, Ahkâm-Sultanîa, lib. III, edizione di Enger, p. 51.

4. Mawerdi, op. cit., lib. I, p. 23, enumera così i dritti dello imâm, ossia califo, pontefice e principe: 1º Conservar la fede secondo i dommi cardinali e le interpretazioni concordi degli imâm precedenti, e ricondurre all'ortodossia i novatori, con la ragione o con la forza; 2º Far eseguire le leggi civili e criminali; 3º Vegliare alla sicurezza interna; 4º Fare osservare i precetti religiosi; 5º Difendere il territorio; 6º Portar guerra agli Infedeli; 7º Riscuotere le legittime entrate pubbliche; 8º Pagare gli stipendii e spese pubbliche; 9º Adoperare capaci e fidati ministri; 10º Trattar dassè le faccende più rilevanti. Tolti questi due ultimi paragrafi che contengono consigli di condotta, non ordinamenti di diritto pubblico, gli altri doveri dell'imâm non differiscono da quei dello emiro, che nella potestà d'interpretare i dommi.

5. Mawerdi, op. cit., lib. III, p. 47, 48. Questo autore aggiunge che l'uficio di emiro poteva essere generale ovvero speciale; sendo lecito destinare un emiro alle cose di guerra e di polizia, come noi diremmo, e un altro all'azienda e giurisdizione; op. cit., p. 51. Ma tal caso sembra avvenuto assai di rado. Mawerdi stesso, p. 54, dice che nelle province conquistate di recente l'uficio di emir, di dritto, diveniva generale; nè si potea diminuirne il territorio, nè l'autorità. Le ragioni che ne allega Mawerdi son fondate su l'assioma, che il ben della religione e della repubblica musulmana va anteposto al capriccio del califo.

6. L'oficio della posta si chiamava appo gli Arabi berîd, trascrizione della voce latina veredus. Par che i Sassanidi abbian tenuto la stessa pratica in fatto di alta polizia; come l'accennai nella versione del Solwân d'Ibn-Zafer, nota 24 al cap. V, p. 313, 314.

7. Il Baiân, tomo I, p. 75, e Nowâiri, Storia d'Affrica, versione francese di M. De Slane, in appendice a Ibn-Khaldûn, Histoire des Berbères, tomo I, p. 588, fanno menzione del giuramento (biâ') prestato al nuovo emir di Affrica, Nasr-ibn-Habib (791).

8. Ibrahim non era al certo independente in dritto più che gli altri emiri di provincia. Per le monete di Heggiâg non occorre citazione. Su quelle di Mûsa, va ricordato che la leggenda talvolta fu latina, come si scorge dalle lettere di M. De Saulcy, Journal Asiatique, série III, tomo VII, p. 500, 540 (1839), e tomo X, p. 389, seg. (1840).

9. Capitolo V, p. 296.

10. La numismatica arabo-sicula finadesso può dare scarso aiuto alla Storia, sendo pubblicate pochissime monete, e la importante collezione di Airoldi non per anco studiata. A ciò si aggiunga, che rimangono poche speranze per l'epoca aghlabita, perchè gran copia di monete andò al crogiuolo per la gelosia dinastica, l'avarizia e il genio burocratico dei Fatemiti. Delle monete aghlabite di Sicilia alcune sono state pubblicate da Tychsen, Adler, Castiglioni; alcune dal Mortillaro, il quale compilò, utile lavoro, una lista di tutte le monete arabo-sicule, conosciute da lui. Le quattro che io ho accennato nel testo, si trovano le prime in quella lista (Mortillaro, Opere, tomo III, p. 343, seg.); ed io ne ho dato forse più corretti ragguagli nel Libro II della presente storia, cap. III, p. 283, cap. V, p. 296, e cap. VI, p. 320, del primo volume. Le altre monete aghlabite di Sicilia son registrate dal Mortillaro dal nº 5 al 12.

11. Fakhr-ed-dîn, presso Sacy, Chrestomathie Arabe, tomo I, p. 84. Non ho bisogno di avvertire che la Khotba sia la preghiera pubblica, in cui si ricorda il nome del principe e pontefice.

12. Veggasi il Libro II, cap. III, V, VI, VII, IX, X.

13. Mawerdi, op. cit., lib. III, p. 51, 52, 53; lib. XIX, p. 375, seg.

14. Come apostasia, empietà, stupro, ubbriachezza ec.

15. Come omicidii e ferite, furti, calunnie.

16. Mawerdi, op. cit., lib. III, p. 48, 51, 52, 53; lib. XIX, p. 375, seg.

17. Mawerdi, op. cit., lib. VII, p. 128, seg. Veggasi anche Sacy, Chrestomathie Arabe, tomo I, p. 132, seg. Talvolta il principe delegava alcuno allo esercizio di questa somma giurisdizione. Così abbiam ricordi di un wâli-l-mezâlim in Affrica sotto gli Aghlabiti, che poi fu câdi in Palermo.

18. Mawerdi, op. cit., lib, III, p. 48, 51, 52, 53; lib. VI, p. 107, seg.; e lib. XX, p. 405 a 408. Si avverta che la giurisdizione non restò divisa nè in tutti i paesi nè in tutti i tempi nel modo che porta il Mawerdi. Io ho voluto seguire a preferenza questo scrittore, perchè è contemporaneo alla dominazione musulmana in Sicilia, e ci mostra l'ordinamento normale d'allora, meglio che nol farebbero i trattati relativi all'impero ottomano, all'Affrica ec., al giorno d'oggi.

19. Mawerdi, op. cit., lib. VIII, p. 164, seg.

20. Mawerdi, op. cit., lib. XX, p. 404, seg. Veggasi ancora presso Sacy, Chrestomathie Arabe, tomo I, p. 468 a 470, uno squarcio dei Prolegomeni di Ibn-Khaldûn, il quale in parte copia litteralmente Mawerdi, e in parte aggiugne fatti novelli.

21. Makkari, presso Gayangos, The Mohammedan Dynasties in Spain, tomo I, p. 105; Lane, Modern Egyptians, tomo I, p. 166.

22. Ibn-Khaldûn, Prolegomeni, presso Gayangos, op. cit., tomo I, p. XXXII; e nello stesso volume, Makkari, p. 104, e nota a p. 398; Sacy, Chrestomathie Arabe, tomo II, p. 184. Al Cairo fu detto wâli-l-beled, prefetto della città; in Spagna, sâheb-el-medîna, preposto della città, sâheb-el-leil, preposto della notte, e sâheb-es-sciorta. Gli Omeîadi aveano la grande e picciola sciorta, come noi diremmo alta e bassa polizia.

23. Ibn-Khallikân, Wafiat-el-'Aiân, Vita di Abu-Mohammed-Iahia-ibn-Akthem, fa menzione del sâheb-es-sciorta di Palermo sotto il principe kelbita Thikt-ed-daula. MS. di Parigi, Suppl. Arabe, 502, fog. 326 verso; e 504, fog. 234 recto.

24. Capitolo LVI di Giacomo, e XVII di Federigo di Aragona; Diploma di Carlo d'Angiò del 24 ottobre del 1269, nella Biblioteca Comunale di Palermo, MS. Q. q. G. 2, pei Magistri sorterii di Palermo. Dalle annotazioni di monsignor Testa ai detti luoghi dei Capitoli del Regno, si vede usata infino ai principii del XVIII secolo in dialetto siciliano la voce sciorta, che latinamente scriveano sorta, surta, xurta, ec.

25. Veggansi il Lib. I, cap. VI, p. 133, seg., e p. 148; e il Lib. II, cap. II, p. 259.

26. Il Mehdi usava far leggere i suoi rescritti e avvisi di vittorie nella gemâ' di ciascuna città. Baiân, testo, tomo I, anni 296 a 300.

27. Veggasi Mawerdi, Ahkâm-Sultanîa, lib. XX, p. 411 a 414.

28. Daumas, Le Sahara Algérien, p. 72, 290, 293; e il medesimo, Mœurs et Coutumes de l'Algérie, p. 10.

29. Ricordinsi i wagih, sceikh e fakîh del Kairewân, di cui si fa parola nel Libro I, cap. IV, p. 148. Mawerdi, l. c., adopera il nome generico di dsui-l-mekena, ossia “notabili, o capaci;” i quali par non fossero i soli possessori e capitalisti, poichè si dice che possano contribuire alle opere pubbliche, sia con danaro, sia con lavoro. Ei nota essere così fatto obbligo non individuale ma dell'universale, ossia gemâ' dei cittadini notabili. Lo stesso autore adopera la voce dsui-l-mekena per denotare quella classe di persone alle quali furon date in enfiteusi dal califo Othmân le terre demaniali del Sewâd, lib. XVII, p. 335.

30. Ibn-Khallikân, Wafiât-el-'Aiân, nella vita di Ibn-Zohr (Avenzoar) morto a Cordova il 1130, dice che l'avolo di costui avea tenuto alto grado nella sciûra. Veggasi la versione inglese di M. De Slane, tomo III, p. 139, ed a p. 140 la nota 12, ove questo erudito orientalista fa considerare che in Spagna e nell'Affrica settentrionale ogni città aveva il counsel or committee che aiutasse il governatore (e questa non parmi espressione esatta) nello esercizio del suo oficio, e si componea dei capi dei varii quartieri, del câdi, e delle antiche e influenti famiglie del luogo. Nel tomo II, p. 501 della stessa versione, si parla d'un Consiglio simile a Murcia.

A Tripoli fin oltre la metà del XII secolo v'ebbe un “Consiglio dei Dieci” che cessò al conquisto degli Almohadi; come l'afferma Tigiani, Rehela, versione francese di M. Rousseau, p. 186, 187. (Journal Asiatique, février-mars 1853, p. 135, 136.)

Negli Stati ove è prevalso più il dispotismo, è rimase in vece della gemâ' un sol oficiale municipale, detto sceikh-el-beled, “l'anziano del paese,” mezzo tra eletto ed ereditario; come si ritrae per l'Affrica settentrionale da M. Worms, Recherches sur la propriètè territoriale dans les pays musulmans, p. 373, 427; e per l'Egitto, dal Lane, Modern Egyptians, tomo I, p. 171.

31. Mawerdi, op. cit., lib. XX, p. 411, a 414.

32. Lane, Modern Egyptians, tomo I, p. 170.

33. Ibn-el-Athîr, anno 336, MS. B, p. 261; MS. C, tomo IV, fog. 350 verso, dice dei Beni Tabari, ch'erano degli 'aiân, ossia caporioni della gemâ' in Palermo.

34. Riadh-en-Nofûs, MS., fog. 79 recto, nella vita di Lokmân-ibn-Iûsuf

35. Una quarantina d'anni fa, sostenne quest'assioma il barone De Hammer, oggi consigliere aulico dell'impero austriaco. M. De Sacy lo confutò, prima nel Journal des Savants del 1818, poi nella terza delle sue Memorie su la proprietà in Egitto, Mémoires de l'Académie des Inscriptions, tomo VII, p. 55, 56. Il Martorana, Notizie storiche dei Saraceni Siciliani, tomo II, p. 129 e 248, amò meglio seguire il consigliere aulico, che il dotto professor di Parigi. Il signor Benedetto Castiglia, in uno articolo di giornale che sopra ho avuto occasione di lodare, La Ruota, Palermo, 30 agosto 1842, si appigliò a questo paradosso, e scrivendo in fretta lo attribuì a M. De Sacy. A così fatta teoria rimangono ormai pochi partigiani. La rigetta espressamente M. Worms nella detta opera, Recherches sur la constitution de la propriètè territoriale dans les pays musulmans. Nè so come M. Du Caurroi riparli di Messer Domeneddio proprietario universale, Journal Asiatique, IVe série, tomo XII, p. 13 (1848), senza allegar nuove autorità.

36. Mawerdi, Ahkâm-Sultanîa, lib. XVI, p. 325; Hedaya, libro LXV, tomo IV, p. 140.

37. Mawerdi, op. cit., lib. XVII, p. 341. Traduco “antracite” la voce kâr, che secondo i dizionarii significa “pece liquida.”

38. Il 10 per cento su la raccolta annuale dei grani, frutta, miele ec., si ragguaglia al 2 12 per 100 su gli armenti, danaro, merci, masserizie ec., supponendo che coteste maniere di capitali rendessero il 25 per 100. Non arrivando a sì alto segno il fruttato dei capitali mobili, essi vengono a pagare più che i capitali fissi delle terre. Avvertasi che il 10 si ragiona su i prodotti del suolo bagnato da pioggie periodiche o acque sgorganti. Le terre inaffiate con macchine idrauliche, richiedendo maggiore spesa di cultura, son tassate al 5. Al contrario, quelle irrigate con acqua di canali che mantiene lo Stato, pagano il 20; nel qual caso il doppio dazio va per censo dell'acqua.

39. Seguo l'uso generale nella trascrizione di questa, voce, la quale secondo il modo tenuto nel resto del mio lavoro andrebbe scritta zekâ.

40. La zekât è dovuta dai soli Musulmani adulti, sani di mente e liberi, che posseggano oltre un certo valore fissato dalla legge. Si chiama anche decima. Il ritratto è stato sovente distolto dalla sua destinazione legale; usurpandolo i governi, che poi si sgravavano la coscienza in opere di pietà o di carità. Veggansi a tal proposito: Mawerdi, Ahkâm-Sultanîa, lib. XI, p. 195, seg., e lib. XVIII, p. 366, seg.: questo dottore sciafeita riferisce il dritto come si tenea nella propria scuola, cita le opinioni delle altre e i fatti fino al tempo e paese suo, cioè tra il X e l'XI secolo, a Bagdad; Hedaya, lib. I, versione inglese, tomo I, p. 1, seg., che mostra il dritto osservato in India nel XVIII secolo secondo la scuola di Abu-Hanîfa; D'Ohsson, Tableau général de l'Empire Ottoman, tomo II, p. 403, e tomo V, p. 15, seg., che riferisce anco il dritto hanefita, osservato alla stessa epoca in Turchia; Khalîl-ibn-Ishâk, Précis de jurisprudence musulmane, traduit par M. Perron, cap. III, tomo I, p. 328, seg. Quest'autore, di scuola malekita, visse nel XV secolo. Il suo compendio, brevissimo e oscurissimo, fa legge in Affrica. Veggasi anche Burckhardt, Voyage en Arabie (versione francese), tomo II, p. 294, che descrive la pratica dei Wababiti, puritani dell'islamismo ai tempi nostri. Le varie scuole ed epoche fan poca differenza nell'applicazione degli statuti su la zekât.

41. Mishkat-ul-Masabih, lib. XII, cap. XI, tomo II, p. 45, seg. Data la tradizione del Profeta, tralascio di citare i trattatisti, alcuni dei quali, a dir di Mawerdi, op. cit., lib. XVII, p. 330, credettero necessaria la licenza del principe a confermare il dritto di primo occupante. Ognun vede che ciò non torna ad esercizio di un supremo dritto di proprietà, ma a necessaria misura di ordine pubblico, per evitare che due o più persone si contendessero un podere. È fondato su la medesima ragione il divieto di occupare il suolo bisognevole a pascolo comune, strade, mercati ec., di che tratta il Mawerdi, lib. XVI, p. 322, seg.

42. Hedaya, lib. XLV, tomo IV, p. 132.

43. Nella sura VIII, verso 42, è detto appartenere la quinta a Dio, e per lui al Profeta, ai parenti di costui, agli orfanelli, agli indigenti e ai viandanti. La morte di Maometto diè luogo a cavillare su questa legge. Dei dottori, chi ha pensato doversi investire tutta la quinta in utilità pubblica; chi poterne disporre il principe; chi doversi esclusivamente serbare ai parenti del Profeta, orfanelli ec. Veggasi Beidhawi, comento al citato verso del Corano, edizione di M. Fleischer, tomo I, p. 367 e 368; Mawerdi, op. cit., lib. XII, p. 239 a 242. Koduri vuol che la quinta si divida in tre parti uguali agli orfanelli, poveri, e viandanti; sostenendo che la quota del Profeta si fosse estinta alla sua morte; presso Rosenmuller, Analecta Arabica, § 34.

44. Questo importante fatto è riferito da Mawerdi, op. cit., lib. XVII, p. 334, seg. Avanti la edizione di M. Enger del 1853, che noi citiamo, questo squarcio era stato pubblicato con una versione francese da M. Worms, Recherches sur la constitution de la propriété, etc., p. 188, 189, e 202, seg. Ma M. Worms non ebbe alle mani che un sol MS. del Mawerdi; non si servì delle varianti di quello che possiede la Biblioteca di Parigi; e d'altronde non colse sempre il segno nella versione.

45. Mawerdi, l. c.

46. Il dritto era, secondo Sciafei, che le terre prese con le armi si dividessero al par che il bottino, a meno di cessione volontaria dei combattenti. Malek le dicea proprietà perpetua della repubblica. Abu-Hanîfa rimetteva al principe di scompartirle tra i combattenti, lasciarle agli Infedeli, con obbligo di pagare il kharâg, ovvero dichiararle proprietà della repubblica, come gli paresse. Così riferisce Mawerdi, lib. XII, p. 237, seg.; e lib. XIII, p. 254, seg. (anche presso Worms, op. cit., p. 100, seg.; 103, seg.; 107, seg.). Ma i giureconsulti vissero quando i conquisti eran cessati; onde la opinione loro non servì che a lodare o biasimare i fatti compiuti.

47. Sura, LIX, versi 6, 7, 8.

48. Mawerdi, op. cit., lib. XIII, p. 254; e presso Worms, op. cit., p. 107 e 110. La prima era opinione di Sciafei; la seconda di Abu-Hanîfa. L'Hedaya, quantunque compilazione hanefita, si appiglia nel presente caso all'opinione di Sciafei, lib. IX, cap. VII, tomo II, p. 205. Koduri, autore del decimo secolo, sostiene la prima opinione, presso Rosenmuller, Analecta Arabica, §12.

49. Mawerdi, op. cit., lib. XVII, p. 334, 335; e presso Worms, op. cit., p. 189, e 204. Si vegga anche Koduri, presso Sacy, Mémoires de l'Académie des Inscriptions, tomo V, p. 10.

50. Mawerdi, op. cit., lib. XII, p. 237; lib. XIII, p. 253; e lib. XIV, p. 299; i quali squarci si veggano anche presso Worms, op. cit., p. 100, 103, 108, 111; Koduri, presso Sacy, Mémoires de l'Académie des Inscriptions, tomo V, p. 11. Si riscontri col lib. II, cap. XII della presente storia.

51. Mawerdi, op. cit., lib. XVII, p. 330, seg.; e presso Worms, op. cit., p. 184, seg., e 196, seg.; alla cui versione van fatte molte correzioni. Ha errato il Martorana, Notizie storiche dei Saraceni Siciliani, tomo II, nota 247, p. 248, sostenendo che tutte le proprietà musulmane venissero da concessione del principe.

52. Mawerdi, op. cit., lib. XVII, p. 335; e presso Worms, op. cit., p. 189, e 205.

53. Questo ultimo fatto si ricava dall'Hedaya, lib. IX, cap. VII, tomo II, p. 205.

54. Prima di scrivere queste parole, io ho studiato le dissertazioni di M. De Sacy, Mémoires de l'Académie des Inscriptions, tomo I, V e VII; l'opera citata di M. Worms, e le compilazioni legali musulmane, come l'Hedaya, D'Ohsson, Khalîl-ibn-Ishak. Dell'opera di M. De Hammer, ne so quanto ne dicono M. Sacy e M. Worms.

La conchiusione di M. Sacy, che le terre d'Egitto appartenessero sempre agli antichi possessori indigeni, e fossero state usurpate in vario modo dai principi e loro soldatesche, è giusta, a creder mio, ma non abbastanza provata, nè applicabile a tutti i paesi musulmani.

Quanto a M. Worms, è da commendare il metodo, la sagacità, la erudizione; non la imparzialità sua. Ponendo un'arbitraria distinzione tra le terre da seminato e i giardini, o, com'ei dice, terre di grande culture e di petite culture, M. Worms pretende che le prime sian sempre appartenute allo Stato in tutti i paesi musulmani, fuorchè l'Arabia. Ed io credo ch'ei si apporrebbe al vero, se parlasse di una parte, anche della più parte, dei vasti poderi, ma che sbaglia sostenendo esser tale la condizione di tutte le terre da cereali; e doversi tener tali per presunzione legale, senz'altre prove. Così ei viene a negare i dritti certissimi: 1º di dissodamento; 2º di partaggio tra i soldati; 3º di proprietà di convertiti avanti il conquisto; e 4º di beni lasciati agli Infedeli in piena proprietà, e indi passati in man di Musulmani. Se non altro, il numero dei wakf, ossia lasciti pii, ch'è grandissimo in tutti i paesi musulmani, avrebbe dovuto avvertire M. Worms della esistenza di moltissime terre libere; non potendosi dai Musulmani fare wakf senza libera proprietà; nè supporre da Europei che tutte le proprietà private fosser divenute lasciti pii. Qui parlo dei wakf a moschee o altre opere; non di quello in favor della repubblica musulmana che costituisce il demanio pubblico.

55. Si confrontino: Ibn-abd-Hâkem, citato da M. De Slane, nell'Ibn-Khaldoun, Histoire des Berbères, tomo I, p. 312, nota 1; Ibn-Khaldûn stesso, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, traduzione di M. Des Vergers, p. 27; e il Baiân, tomo I, p. 23. Ho accennato questo fatto nel lib. I, cap. V, p. 121 del primo volume.

56. Si confrontino: Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, trad. di M. Des Vergers, p. 31, 34; il Baiân, tomo II, p. 38; e Nowaîri, Storia d'Affrica, in appendice a Ibn-Khaldoun, Histoire des Berbères, versione di M. De Slane, tomo I, p. 159. Ho ferma opinione che M. De Slane non s'apponga al vero, rendendo in questo luogo la voce Khammasa “fare schiavo il quinto della popolazione.” Si deve intendere più tosto “levare il quinto della rendita territoriale” ossia porre il kharâg; come lo mostra con varii esempii il professor Dozy, Glossaire al Baiân, tomo II, p. 16.

57. Isidoro De Beja, cap. XLVIII, su l'autorità del quale hanno registrato questo fatto M. Reinaud, Invasion des Sarrazins en France, p. 16; e il prof. Dozy, Glossaire al Baiân, tomo II, p. 16.

58. Baiân, tomo I, p. 84. A questo esempio si potrebbe aggiugner quello delle terre che pagavan decima, su le quali il secondo principe aghlabita, Abd-Allah-ibn-Ibrahim, comandò (812) che si levasse un tanto all'anno secondo la misura della superficie, e non più la decima in derrata. Ibrahim-ibn-Ahmed, che avea continuato o ripigliato tale abuso, il cessò l'anno 902. Baiân, tomo I, p. 87 e 125. Nowairi, in appendice a Ibn-Khaldoun, Histoire des Berbères, versione di M. De Slane, tomo I, p. 402. Or come decima in derrata significa ordinariamente zekât, così le terre che ne pagavano si dovrebbero credere libera proprietà de' Musulmani. Nondimeno si può dare che i cronisti abbian voluto significare la doppia decima, ossia kharâg, dovuta sopra terre tributarie, e che la ingiusta innovazione fosse stata soltanto nel modo della riscossione in danaro, e a misura di superficie. Mi induce a tal supposto l'enormezza che sarebbe stata a mutare la zekât in tassa fondiaria; e mi vi conferma la opinione di alcuni giuristi, riferita da Mawerdi, op. cit., lib. XVII, p. 335, cioè che il kharâg su le terre da seminato non potea passare il dieci per cento su la raccolta.

59. Baiân, tomo I, p. 125, 175, 184, 273, anni 289 (902), 303 (915), 305 (917), 405 (1014).

60. Il Martorana, Notizie storiche dei Saraceni Siciliani, tomo II, p. 130, e nota 254 a p. 252, afferma potersi provare la esistenza di così fatti poderi coi nomi di città e castella che rispondono a quelli di emiri siciliani. Ma gli esempii ch'ei ne dà son tutti fallaci; e non lo è meno il supposto che i poderi demaniali dovessero prendere il nome degli emiri. Nè anco posson servire di argomento i beni demaniali dei Normanni. Ma la legge, l'interesse dei governanti, e l'uso generale degli Stati musulmani, danno tal presunzione che val meglio di ogni prova.

61. Veggasi il Libro II, cap. XII, p. 474 del primo volume.

62. Lasciando da parte i molti diplomi del XII secolo che lo attestano, basti allegare le Consuetudini di Palermo, cap. XXXVI, e gli Statuti di Catania contenuti in un diploma del 1668 presso De Grossis, Catena sacra, p. 88, 89, citato dal Di Gregorio, Considerazioni, nota 21, cap. IV del lib. I.

63. Veggasi in questo capitolo la nota 2 a p. 17.

64. Ad postremum, capientes panormitanam provinciam, cunctos ejus habitatores captivitati dederunt. Johannes Diaconus, Chronicon Episcoporum Neapolitanæ Ecclesiæ, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo I, parte 2ª, p. 313.

65. Veggasi il Libro II, cap. V, della presente storia, vol. I, pag. 294.

66. Veggasi il Libro IV, cap. VIII sul kharâg aggravato nel 1019, e il cap. IX su le possessioni dei Musulmani d'origine siciliana e d'origine affricana.

67. Hedaya, lib. XXXIX, e LII, tomo IV, p. 1, seg.; 466, seg.; D'Ohsson, Tableau général de l'Empire Ottoman, tomo V, lib. IV, V, p. 275, seg.

68. Si chiamavano in generale dhiâ', come notammo di sopra, e in Sicilia e Affrica anche ribâ'.

69. Mawerdi, op. cit., lib. XVIII, p. 351, seg. e 355, là dove è detto che senza ricusa di combattere o altra causa legittima non si potea togliere lo stipendio, “sendo il giund esercito del popolo musulmano.” Si confronti col lib. III, p. 50, onde si scorge che lo emir di provincia potea, senza permesso del califo, accordare lo stipendio ai figliuoli di militari pervenuti ad età da portar arme.

70. Mawerdi, op. cit., lib. XII, p. 218, seg.

71. Akhbâr-Megmûa'-fi-iftitâh-el-Andalos, MS. della Biblioteca imperiale di Parigi, Ancien Fonds, 706, fog. 99 recto. In questa importante cronica del X secolo si legge: “Quando recavansi ai califi le entrate (gebâiât) delle città e province, ciascuna somma era accompagnata da dieci personaggi dei notabili del paese e del giund; nè si incassava nel tesoro (beit-el-mâl) una sola moneta d'oro o argento, se costoro non giurassero prima per quel Dio ch'è unico al mondo, essersi levato il denaro secondo il dritto, ed essere sopravanzo degli stipendii dei soldati e famiglie loro nel paese, ciascun dei quali fosse stato soddisfatto di quanto per diritto gli apparteneva. Or avvenne che si recò al califo il kharâg d'Affrica, la quale di quel tempo non si tenea come provincia di frontiera; e il denaro era veramente avanzo, sendosi pria soddisfatti gli stipendii del giund e le prestazioni dovute all'altra gente. Arrivate con cotesto danaro otto persone in presenza del califo, ch'era di quel tempo Solimano (715-717), furono richiesti di giurare; e in fatto fecero sacramento ec.” Questo fatto dell'VIII secolo risponde perfettamente alla massima di Mawerdi, op. cit., lib. III, p. 50, che l'emir di provincia mandi all'imâm gli avanzi del fei, “quando ve ne abbia, pagati tutti gli stipendii.”

72. Secondo Mawerdi, l. c., mancando il danaro del fei in una provincia, dovea supplire il tesoro del califo. Negli annali dal terzo al quinto secolo dell'egira credo non si trovi un solo esempio di stipendii menomati.

73. Mawerdi, op. cit., lib. XVII, p. 337 a 341, enumera i varii casi e i varii pareri dei giuristi, relativamente all'iktâ'. Non si tenea lecito trattandosi di kharâg eventuale, cioè dovuto da Infedeli che avessero pieno diritto di proprietà, e però andassero sciolti dal tributo come dalla gezîa, facendosi musulmani. Il kharâg perpetuo, se dovuto in danaro e non variabile secondo il raccolto, si potea concedere. Pare che gli iktâ' si fossero anco tentati sopra le decime legali, ossia zekât; poichè i giuristi si sforzavano a dimostrarne la nullità. Questo luogo di Mawerdi è stato tradotto da M. Worms, Recherches sur la propriété etc., p. 206, seg.; la cui interpretazione non sempre mi pare esatta.

74. Mawerdi, l. c., della edizione di Enger, e p. 207, seg., della versione del Worms, enumera gli uficii pei quali si tenea permesso lo iktâ' e le condizioni necessarie nei varii casi. La regola generale che se ne cava, messi da canto i dispareri dei giuristi su i punti secondarii, è: 1º di escludere le concessioni oltre una vita d'uomo; 2º permettere le vitalizie ai soli militari; 3º permettere le delegazioni per parecchi anni agli impiegati permanenti, come muedsin e imâm delle moschee; e 4º limitarle a un anno pei non permanenti, come câdi, hâkim, segretarii e impiegati d'azienda.

75. Su le varie entrate legali e le opinioni dei giuristi, citerò in generale Mawerdi, Ahkâm-Sultanîa, lib. XI, XII, XIII, XIV, XVII, XVIII. I fatti generali che allego si cavano dalla storia dei primi cinque secoli dell'islamismo.

76. Si percorrano nel Libro II le vicende della colonia infino al tempo di cui si tratta, e si vedrà appena un dono di spoglie e prigioni di Castrogiovanni fatto dallo emir di Sicilia al principe aghlabita, e da questi al califo.

77. Intitolato il Moscitarik, opera di Iakût, geografo del XIII secolo. Il testo arabico è stato pubblicato a Gottinga dal dotto e infaticabile dottor Wüstenfeld.

78. Veggasi il Moscitarik, alla voce Mêzar. È noto a tutti che gli antichi supposero il nome di Segesta, mutato per eufemismo da Egesta; ma l'autorità degli antichi è debolissima in fatto di etimologie.

79. Veggasi il Libro II, cap. IX, p. 407 del primo volume.

80. Alla prima apparteneano Ibn-Gauth (Libro II, cap. III, p. 285 del primo volume), un della tribù di Hamadân (Libro II, cap. VI, p. 314 del primo volume), i Kelbiti, che furono emiri di Sicilia nel X secolo, e fin nel XII secolo un della tribù di Kinda, che comperò una casa in Palermo da un Berbero di Lewâta. Della seconda nasceano gli Aghlabiti, che mandarono molti loro congiunti in Sicilia: e si trovano inoltre i nomi delle tribù di Kinâna, Fezâra e altre dello stesso ceppo. Tra i poeti arabi di Sicilia, che fiorirono la più parte nell'XI e XII secolo, veggiamo tre rami soli di Kahtân e moltissimi di Adnân, non ostante la signoria dei Kelbiti.

81. Per gli Spagnuoli veggasi il Libro II, cap. III, p. 264, e cap. IV, p. 286 e 288 del primo volume. Si potrebbe anco attribuire alli Spagnuoli il nome di Caltabellotta “la Rocca delle Querce,” identico a quello di Kalat-el-bellût, presso Cordova. Ma ognun vede che il nome potea nascere dalla condizione del luogo.

82. Casr-Sa'd chiamavasi secondo Ibn-Giobair (Voyage en Sicile de Mohammed-ibn-Djobaïr, Journal Asiatique, série IV, tomo VI, 1845, p. 516, e tomo VII, 1846, p. 75, e nota 24) un castello nelle vicinanze di Palermo, fondato fin dai primi tempi della dominazione musulmana. Era nome di tribù arabica di Adnân, stanziata in Siria e in Egitto, come si ritrae da Makrizi, El-Baiân-wa-l-I'râb, edizione del Wüstenfeld, p. 11 a 14; dalla quale tribù vennero i nomi di quattro diversi luoghi in Oriente, che occorrono nel Moscitarik di Iakût, p. 447, e d'un villaggio presso Mehdîa, in Affrica, ricordato nel dizionario biografico di Sefedi, MS. di Parigi, Suppl. Arabe 706, articolo su Khazrûn; e da Edrisi, Géographie, versione francese, tomo I, p. 277.

Belgia, secondo Edrisi, era castello sul fiume, or detto Belici, che scorre tra Gibellina e Santa Margarita, e mette foce presso Selinunte. Il nome or del castello e or del fiume, nei diplomi latini dall'XI al XV secolo si vede scritto Belich, Belichi, Belice, Belix, Bilichi. In altra regione, tra Polizzi, cioè, e Collesano, si ricorda nel XIV secolo un castel Belici. Veggansi i diplomi presso Pirro, Sicilia Sacra, p. 695, 736, 842, 843; Di Gregorio, Biblioteca Aragonese, tomo II, p. 469, 489, 492; Del Giudice, Descrizione del tempio di Morreale, appendice, p. 8, seg., dipl. del 1182. Fanno menzione degli stessi nomi: Amico, Lexicon Topographicum, in Val di Mazara e Val Demone; e Villabianca, Sicilia Nobile, tomo I, parte II, p. 23.

Il medesimo nome, sotto la forma di Belgi e Belgiân, si trova a Bassora e presso Marw in Khorassân, secondo il Merâsid-el-Ittilâ'. Inoltre un picciol fiume che si scarica nell'Eufrate presso Rakka, chiamato anticamente Bileka, porta oggi il nome di Belich, o Belejich, secondo la pronunzia inglese, come si nota nel Journal of the Royal Geographical Society, anno 1833, tomo III, p. 233.

83. Volgarmente Dennisinni, fonte presso Palermo, tra i palagi della Cuba e della Zisa. In un diploma latino del 1213, presso Mortillaro, Catalogo dei diplomi della cattedrale di Palermo, p. 55, questo nome è scritto Aynscindi; e Aynisindi nello Anonymi Chronicon Siculum, opera del XIV secolo, presso Di Gregorio, Biblioteca Aragonese, tomo II, p. 129. Ibn-Haukal, nel X secolo, dava a questa fonte il nome di 'Ain-abi-Sa'id. Journal Asiatique, IV série, tomo V, p. 90 e 99 (20 e 29 dell'estratto).

84. Del villaggio di Balharâ, fa menzione Ibn-Haukal, l. c. Il sito risponde senza dubbio a quel di Monreale; e il nome par sia rimaso a un mercato di Palermo, ch'era frequentato probabilmente dagli abitatori di Balharâ, il quale, nel medio evo, fu chiamato, come attesta Fazzello, Segehallaret, e oggi, tralasciata la voce suk o sug, “mercato,” si addimanda Ballarò. Io l'ho avvertito alla nota 33 alla mia versione di Ibn-Haukal. Or in India avvi un monte detto nel medio evo Balharâ, e scritto dagli Arabi precisamente con la stessa ortografia del testo di Ibn-Haukal. Ne fa menzione il medesimo autore, e, seguendo lui, Ibn-Sa'id, Moktaser-Gighrafia, MS. di Parigi, fog. 53. Balharâ era anche titolo di un principe d'India, al dir di Masudi, Morûg-ed-dscheb, versione inglese di Sprenger, tomo I, p. 193, e Reinaud, Mémoire sur l'Inde, p. 129.

85. Ságana, vasto podere, e un tempo feudo, tra le montagne a ponente di Palermo. Il nome resta tuttavia. Se ne fa menzione in un diploma di Guglielmo II, del 1176, del quale v'ha una copia in arabico nell'archivio del Monastero di Morreale, con una versione latina contemporanea, pubblicata da Del Giudice, Descrizione del tempio di Morreale, appendice, p. 18.

Saghâniân chiamavasi una città della Tartaria independente, al sud-est di Samarkand; e scriveasi con le medesime lettere radicali che nel diploma di Morreale, se non che in questo l'accento e la finale son diversi: in luogo di Saghâniân, Sâghanû. È superfluo ricordare che nel IX secolo l'impero arabico si estendeva alla Tartaria fino a Fergana; e che Bokhara, Samarkand e altre città di quella provincia, furono patria di dottissimi scrittori arabi.

86. Menzîl Sindi, ricordato da Edrisi, e situato presso Corleone; e Gebel-Sindi, vasto podere presso Girgenti, di cui si fa menzione in un diploma del 1408, presso Di Gregorio, Biblioteca Aragonese, tomo II, p. 49. Significano l'uno “la posta o villaggio,” e l'altro “il monte” del Sindî, o vogliam dire uom del Sind. Il nome di Sindis, a levante di Corleone, occorre di più in un diploma presso Pirro, Sicilia Sacra, p. 764. Mohammed-ibn-Sindi capitanò l'armatetta uscita di Palermo contro i Bizantini nell'855. Veggasi il Libro II, cap. V, p. 302 del primo volume.

87. Dei nomi che presentano tal certezza, sei sono vicinissimi a Girgenti; due tra questa e Palermo; due presso Palermo; uno nei dintorni di Messina; uno in quei di Siracusa. Ecco i nomi:

I. Andrani, casale tra Sciacca e Girgenti, da un diploma del 1239, Constitutiones Regni Siciliæ, edizione del Carcani, p. 268. Andrani o Andarani è l'aggettivo etnico di Andara, tribù berbera, ricordata da Ibn-Khaldûn, Storia dei Berberi, testo arabico, tomo I, p. 108 e 178, e versione francese di M. De Slane, tomo I, p. 170, 275.

II. Kerkûd, nome di villa in Sicilia secondo il Merâsid-el-Ittilâ' e il Mo'gim di Iakût, MS. del British Museum, nº 16649 e 16650, nell'articolo Kerkeni (Girgenti): forse la Karches di un diploma del 1177 a favor del vescovo di Girgenti, negli Opuscoli di autori siciliani, tomo VIII, p. 334. Kerkûda è tribù berbera, secondo Ibn-Khaidûn, op. cit., testo, tomo I, p. 177; versione, tomo I, p. 274.

III. Mesisino, nome di collina nell'antica baronia di Belici presso Castelvetrano, secondo Villabianca, Sicilia Nobile, tomo II, p. 345. Meziza è tribù berbera, secondo Ibn-Khaldûn, op. cit., testo, tomo I, p. 153; versione, tomo I, p. 241. La mutazione della z in s non mette in forse la etimologia.

IV. Mechinesi, antico casale sul cui sito sorge in oggi Acquaviva, secondo Amico, Lexicon Topographicum. Miknas, o Miknasa è nome notissimo di tribù berbera.

V. Minsciâr, castello, secondo Edrisi, presso il sito presente di Racalmuto; e Muxaro (Sant'Angelo di) in oggi comune a 14 miglia da Girgenti, scritti entrambi con varianti nei diplomi del medio evo. Minsciâr era nome di una montagna in Affrica, appartenente alla tribù berbera dei Wezdâgia, secondo Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, versione di M. Des Vergers, testo arabo, p. 56, e versione, p. 128. Si vegga anche Edrisi, versione di M. Jaubert, tomo I, p. 275. Il Merâsid, di Iakût, edizione di Leyde, tomo III, p. 159, nota una fortezza Minsciâr presso l'Eufrate.

VI. Modiuni si addimanda in oggi il fiume detto anticamente Selinus, presso Selinunte. Madiûna è nome di tribù berbera, secondo Ibn-Khaldûn, Storia dei Berberi, testo, tomo I, p. 109, e versione, tomo I, p. 172.

VII. Sanagi o Sinagia, si chiamò la sorgente del fiume Mazaro, e un podere nel territorio di Salemi, secondo un diploma del 1408, presso Di Gregorio, Biblioteca Aragonese, tomo II, p. 489, e Villabianca, Sicilia Nobile, tomo II, p. 396. Sanhâgia, o Sinhagia, come ognun sa, è delle principali tribù berbere.

VIII. Notissima al paro quella di Zenata. Hager ez-Zenati e Rahl ez-Zenati che suonan “La rupe,” e “il villaggio” di quel di Zenata, sono nomi di luogo presso Corleone, ricordati nei diplomi: del 1093, presso Pirro, Sicilia Sacra, p. 695 e 842; del 1150, 1155, 1301, presso Mongitore, Sacræ Domus Mansionis.... Panormi, Monumenta historica, cap. XIII; e del 1182, presso Del Giudice, Descrizione del tempio di Morreale, Appendice, p. 11. Di quest'ultimo diploma avvi una copia arabica nell'archivio del monastero di Morreale. Negli altri, che son tutti latini, si legge talvolta Petra de Zineth, Raalginet, Ragalzinet ec.

IX. Magagi in latino e Maghâghi in arabico, secondo il diploma del 1182 presso Del Giudice, l. c., è nominata una villa nel territorio dell'antica Giato, non lungi dall'odierno comune di San Giuseppe li Mortilli. Maghâga, tribù berbera, secondo Ibn-Khaldûn, Storia dei Berberi, testo, tomo I, p. 108; versione, tomo I, p. 171.

X. Cutemi, Cutema, Gudemi, terra presso Vicari, sul confine delle diocesi di Palermo e Girgenti, ricordata in un diploma del 1244, presso Pirro, Sicilia Sacra, p. 147. Il nome deriva da Kotâma o Kutâma, tribù berbera, di cui ci occorrerà far parola. Avvertasi che questa e Sanhagia forse non vennero in Sicilia prima del X l'una, e l'altra dello XI secolo.

XI. Cûmîa, nome di due villaggi vicino Messina, e di una tribù berbera, di cui Ibn-Khaldûn, op. cit., testo, p. 109 ec., e versione, tomo I, p. 172 ec.

XII. Melilli, nome di città a dodici miglia da Siracusa. Melila e Melili, cittadi d'Affrica, l'una su la costiera del Rif di Marocco, l'altra nello Zab; e Melila, tribù berbera, di cui Ibn-Khaldûn, op. cit., testo, tomo I, p. 107 ec., e versione, p. 170 ec. Ma il nome potrebbe esser pure d'origine latina.

XIII. Mesisino, nel feudo del Landro (val di Mazara), citato da Villabianca, Sicilia nobile, tomo II, p. 345. Meziza era nome di tribù berbera, secondo Ibn-Kaldûn, Histoire des Berbères, tomo I, p. 241 della versione, e I, 153 del testo.

Do la presente lista com'abbozzata appena; perocchè nè si trovan raccolti, nè io tutti li so, i nomi topografici secondarii della Sicilia, di monti, poderi, scaturigini d'acqua ec. Da un'altra mano scarseggiano le notizie su le denominazioni etniche di second'ordine e su le topografiche relative ai Berberi d'Affrica, e la lingua loro appena si è cominciata a studiare da Europei; ond'è possibile che siano berberi molti nomi topografici attuali della Sicilia o di quei ricordati nelle carte dal XII al XV secolo, la cui origine non pare arabica, nè greca, nè latina, nè francese. Son certo che si arriverà a scoprirne col tempo molti altri. Avverto infine che moltissimi dati anco dalla schiatta berbera non si riconosceranno giammai; perchè gli uomini di quella prendeano sovente nomi o soprannomi arabici. Occorrono inoltre parecchi nomi berberi tra i poeti siciliani dell'XI e XII secolo. La storia ricorda, nell'XI secolo, Ibn-Meklâti, uno dei regoli che si divisero l'isola, uom della tribù di Meklata, di cui Ibn-Khaldûn, op. cit., testo, tomo I, p. 108 ec.; versione, tomo I, pag. 172 ec. L'atto di vendita di una casa in Palermo, dato il 1132, porta il nome del venditore Abd-er-Rahman-ibn-Omar-ibn....-el-Lewâti, cioè di Lewâta, notissima tribù berbera; testo arabico presso Di Gregorio, De supputandis apud Arabos Siculos temporibus, p. 44.

88. Mœurs et Coutumes de l'Algérie, par le général Daumas, Paris 1853, p. 148, 166, seg.; 191, seg.

89. Ibn-Khaldûn, sì veggente in filosofia storica e sì accurato compilator degli annali dei Berberi, fa una distinzione tra i Berberi nomadi e gli agricoltori, dei quali i primi taglieggiavano i secondi e si teneano più nobili di loro, Storia dei Berberi, versione francese di M. De Slane, tomo I, p. 167, seg. Par che i nomadi non solamente esercitassero quella maggioranza, come più forti, sopra gli agricoltori, ma anco inclinassero all'aristocrazia nello ordinamento interiore di loro tribù. Quanto alla democrazia, ancorchè Ibn-Khaldûn non ne parli, trasparisce dai fatti che io andrò accennando; e fors'anco quello storico si accorse della diversità del reggimento politico, quando notò che i Berberi lontani dalle grandi città e però non soggetti alla dominazione romana, vandala o bizantina, “avean le forze, ordini, numero di genti, re, capi, reggitori (akiâl plurale di kâil) e comandanti che lor piacessero;” poichè la diversità di cotesti governanti, scrivendo lo autore in arabico e non in berbero, mostra differenza non di mero titolo, ma ancora di autorità e natura del magistrato. Veggasi il testo arabico, vol. I, p. 132; e la versione, vol. I, p. 207, che non è litterale.

90. Il califo fatemita Mo'ezz-li-din-Allah, verso il 908, apprestandosi al conquisto di Egitto, volea porre governatori suoi e riscuotere le decime legali nel paese della tribù di Kotâma. Rifiutaronli. Chiamati a corte alcuni sceikhi della tribù, Mo'ezz, non li potendo intimidare, lor disse che l'avea fatto per prova, e che si rallegrava di avere a' suoi servigi uomini di sì alti spiriti. Veggasi Makrizi, citato da M. Quatremère, Vie du Khalife fatimite Moezz-li-din-Allah, p. 30, 31.

91. Queste due tribù sendo state in guerra contro il principe zeirita d'Affrica, Mo'ezz-ibn-Badis, gli mandarono il 1026 loro sceikhi a trattare uno accordo con esso lui: Ibn-al-Athîr, MS. C, tomo V, fog. 59 recto, anno 417. Le milizie di Kotâma, stanziate al Cairo al principio del regno di Hâkein-bi-Amr-Allah (966), non vollero che si ingerisse nelle faccende loro altri che un proprio loro sceikh. Veggasi Iahîa-ibn-Sa'îd, Continuazione degli annali d'Eutichio, MS. di Parigi, Ancien Fonds, 131 A, p. 62.

92. Veggasi il Libro II, cap. X, p. 424; e cap. XI, p. 440 del primo volume. Secondo Ibn-el-Athîr, e il Baiân, la cacciata dei Musulmani da Amantea e Santa Severina seguì il 272 (17 giugno 885 a' 6 giugno 886), la qual data si riscontra con quella degli annali bizantini. La prima guerra civile tra Arabi e Berberi in Sicilia scoppiò tra l'autunno dell'886 e la primavera dell'887, secondo la testimonianza della Cronica di Cambridge, combinata con quella del Baiân.

93. Veggasi il Libro II, cap. X, p. 429, seg., del primo volume.

94. Citato da Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, traduzione di M. Des Vergers, p. 139. Nel testo si legge in caratteri arabici Mâlankhûnîa (Μελανχολία). Forse attinse alla stessa sorgente l'autore del Baiân, tomo I, p. 126, il quale, in luogo di trascrivere la denominazione della malattia, la traduce: “bile negra.”

95. Litteralmente “la materia onde cresce il re, sono i rai'a.” Questa voce arabica, come ognun sa, vuol dir gregge; ed è passata in termine tecnico per designare il popol minuto delle città e campagne.

96. Nowairi, Storia d'Affrica, MSS. di Parigi, Ancien Fonds, 702, e 702 A, fog. 23 recto del primo, e 54 del secondo. Mi allontano alquanto dalle versioni non precise che han dato di questo passo M. Des Vergers, e M. De Slane, il primo in nota a Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 139, e l'altro in appendice a Ibn-Khaldûn stesso, Histoire des Berbères, tomo I, p. 435.

97. Ibn-Abbâr, MS. della Società Asiatica di Parigi, fog. 32 verso. L'autore allega in esempio il distico d'Ibrahim:

“Astri siam noi, figli degli astri; avol nostro la luna del cielo, Abu-Nogiûm-Tamîm;

“Avola nostra il Sole. Or chi s'agguaglia a noi, discesi di due sì nobili schiatte?”

A chi non conosce l'arabico è da avvertire che in quella lingua la luna è di genere maschile, il sole femminino, e Abu-Nogiûm significa “padre delle stelle.”

Conde, Dominacion de los Arabes en España, parte IIª, cap. LXXV, riferisce, senza citare sorgente, un aneddoto anacreontico, seguito forse nella prima gioventù di Ibrahim. Certo poeta, per domandargli non so che grazia, scrivea due versi in un pelizzino, e il nascondea, come noi facciamo nei confetti, entro una rosa, presentata a Ibrahim mentre sedeva in un giardino tra le sue donne. Una lesse e cantò i versi; e Ibrahim donò al poeta cento monete d'oro.

98. Confrontinsi: Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 92 recto; e MS. C, tomo IV, fog. 246 verso, anno 261; Baiân, tomo I, p. 110, seg.; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, traduz. di M. Des Vergers, p. 126, seg.; Nowairi, in appendice a Ibn-Khaldûn, Histoire des Berbères, traduz. di M. De Slane, tomo I, p. 424, seg.

99. Veggansi le autorità citate nella nota precedente; e vi si aggiungano: Bekri, Descrizione dell'Affrica nelle Notices et extraits des MSS., tomo XII, p. 470; Tigiani, Rehela nel Journal Asiatique, série IV, tomo XX (agosto 1852), p. 99; e tomo XXI (febbraio 1853), p. 133; Ibn-Wuedrân, MS. arabo, § 6; e versione di M. Cherbonneau, nella Revue de l'Orient, decembre 1853, p. 428. Il primo parla soltanto della Moschea di Kairewân; l'ultimo di quella di Tunis, e del serbatoio d'acqua.

100. Theophanes continuatus, lib. IV, cap. XXXV, p. 197; Constantinus Porphyrogenitus, De Cerimoniis aulæ Byzantinæ, appendice al Iº libro, p. 492; Symeon Magister, De Michæle et Theodora, cap. XLVI, p. 681. I posti in tutto erano nove, compreso quello di Costantinopoli. Il numero diverso dei fuochi indicava diversi casi, come: assalto dei Musulmani, battaglia, incendio, etc. Leone, arcivescovo di Tessalonica e professore alla Magnaura, al dire di Symeon Magister, avea perfezionato questo sistema telegrafico, ponendo a Tarso ed a Costantinopoli due orologi che si supponeano isocroni (ὲξ ἴσου κάμνοντα). L'imperator Michele l'ubbriaco fece sopprimere i segnali a vista della capitale, perchè i sinistri avvisi non lo venissero a sturbare tra i giochi dell'ippodromo.

101. Questa conghiettura è fondata su gli indizii seguenti. Primo, che i fuochi di segnali usati in Sicilia fino agli ultimi anni del secolo passato per dare avviso dei corsali barbareschi che si avvistassero, si chiamavan fáni, appunto la stessa voce φάνος, che troviamo nei citati scrittori bizantini. Da ciò par che l'usanza risalga ai tempi in cui il linguaggio oficiale in Sicilia era il greco. Secondo, che la montagna ove sorgea l'antica Solunto, alla estremità orientale del golfo di Palermo, si addimanda tuttavia Catalfano, voce scorciata da Calatalfano e composta dall'arabico kala't (rocca) e da φάνος; il che prova che vi fosse stata una torre da segnali al tempo della dominazione musulmana, o anche prima. Terzo, che i segnali con fuochi furono tentati nell'847 durante lo assedio di Lentini, come già narrammo nel Libro II, cap. VI, p. 317 del primo volume.

102. Confrontinsi: il Baiân, tomo I, p. 215; Nowairi, in appendice alla Histoire des Berbères par Ibn-Khaldoun, versione di M. De Slane, tomo I, p. 424; Bekri, Descrizione d'Affrica nelle Notices et Extraits des MSS., tomo XII, p. 476, 477; Ibn-Wuedrân, MS. arabo, § 6º. I due ultimi scrittori riferiscono la fondazione di Rakkâda agli anni 273 e 274. Il nome nacque, secondo alcuni, dall'amenità del sito che inebbriasse di voluttà e sforzasse al sonno; secondo altri, da un gran mucchio di cadaveri che vi si trovarono a dormir l'ultimo sonno.

103. Si pronunziino le ultime due lettere ciascuna col proprio suono, non unite con quello della th inglese. Il nome vuol dir “Padre della vittoria.”

104. M. De Slane, op. cit., p. 425, ha tradotto queste parole del Nowairi “un certain nombre d'entr'eux parvint à se réfugier en Sicile.” Ma il testo dice chiaramente “rilegare,” e così lo ha interpretato M. Des Vergers in nota a Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 127.

105. Ciò è notato da Nowairi, op. cit., p. 425, e 427. Veggansi per cotesti fatti: Nowairi, l. c.; e il Baiân, tomo I, p. 110.

106. Tomo I, p. 126.

107. Baiân, tomo I, p. 114. Quivi si fa menzione di due diverse emissioni di moneta. L'una fu di dirhem sihâh, ossiano “schietti,” come li chiamava il principe. Così ei soppresse le ritaglie d'oro senza conio, con che si soleano pagare le frazioni di valori, per lo scrupolo religioso di non cambiar metallo con metallo; onde si tenea biasimevole pagando, per esempio, una merce del valore di mezzo dinâr, dar al venditore un dinâr e riceverne mezzo dinâr in altra moneta. Per questa ragione nei paesi musulmani i cambiatori, sirâfi, come li dicono, erano per lo più giudei. Non sappiamo se desse luogo al malcontento quello scrupolo di coscienza, ovvero la cattiva lega dei dirhem. Represso il tumulto, aggiunge il Baiân, rimasero abolite per sempre in Affrica, non solo le ritaglie (kitâ'), ma anche i nokûd, che significa buona moneta in generale, e qui parmi si debba intendere di quella dei califi, che avea corso in tutti i paesi. Venne dopo ciò la coniazione dei dirhem e dinâr detti 'asceri, ossia decimali. La numismatica ci permette di aggiugnere che Ibrahim coniasse altresì quarte di dinâr in oro; che ve n'ha pubblicate parecchie, e una ne ho veduto nel Cabinet des Medailles di Parigi, uscita probabilmente dalla Zecca di Sicilia l'anno 268, e del peso di un grammo e cinque centesimi, che valea da tre lire e sessanta centesimi pria della attuale perturbazione nel pregio dell'oro.

108. Baiân, tomo I, p. 125. Quivi è usato il vocabolo kabâlât, al singolare kabâla o gabâla, poichè la prima lettera partecipa del suon della g. Indi è agevole a riconoscervi la nostra voce gábella. Etimologicamente significa promessa, offerta, prestazione.

109. Baiân, l. c. Il testo porta che nel 289 Ibrahim, riformando parecchi abusi del proprio governo “prese le decime in frumento e rilasciò il kharâg di un anno ai possessori delle dhiâ'.” Le varie significazioni di queste voci, di che abbiamo discorso nel capitolo precedente, lascian dubbio se le decime fossero zekât, ovvero tributo fondiario su i grani, e il kharâg rilasciato, questo medesimo tributo, ovvero censo; e in fine se si tratti di dhiâ', poderi demaniali, ovvero beneficii militari.

110. Baiân, tomo I, p. 117, anno 280 (893-894).

111. Nowairi, in appendice all'Histoire des Berbères, par Ibn-Khaldoun, versione di M. De Slane, tomo I, p. 426; Ibn-Khaldûn stesso, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, versione di M. Des Vergers, p. 128. Secondo Ibn-Khaldûn, ebbe infino a 3,000 schiavi stanziali; secondo il Baiân a 5,000, e Nowairi dice 100,000, forse il numero totale dello esercito.

112. Il Principe, cap. XVIII.

113. Baiân, tomo I, p. 116; Nowairi nell'opera citata, p. 427, il quale registra questo fatto due anni prima del Baiân, cioè nel 278.

114. Questa riflessione si legge nel Baiân, l. c.

115. Nowairi, op. cit., p. 498. Veggasi ciò che notai a questo proposito nel Libro II, cap. X, p. 429 e 430 del primo volume.

116. Confrontinsi: il Baiân, tomo I, p. 117, 123; Nowairi, op. cit., p. 428, 429; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, versione di M. Des Vergers, p. 130 a 132. — Il Baiân, dal quale tenghiamo la narrazione degli onori resi a Meimûn, dice donategli tre sorte di vesti di seta: 1º kherz, o diremmo noi filosella, seta grossolana dei bozzoli forati dal baco; 2º wesci, credo drappo intessuto d'oro; e 3º dibâg, drappo operato e di varii colori. È trascrizione dal persiano dibâh, preso alla sua volta dal greco δίβαφος.

117. Nowairi, op. cit., p. 427.

118. Baiân, tomo I, p. 116.

119. Confrontinsi: il Baiân, l. c.; e Nowairi, op. cit., p. 427.

120. Ibn-Abbâr, MS. della Società Asiat. di Parigi, fog. 33 recto.

121. Confrontinsi: il Baiân, tomo I, p. 116; Nowairi, op. cit., p. 436; e Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, traduz. di M. Des Vergers, p. 139.

122. Baiân, tomo I, pag. 127; Nowairi, op. cit., p. 437.

123. Veggasi il Libro II, cap. XII, p. 476.

124. Riadh-en-nofûs, MS. fog. 55 verso.

125. Libro II, cap. XII, p. 511.

126. Baiân, tomo I, p. 116. Su questa maniera di supplicio, usata nei paesi musulmani almeno fino al XVI secolo, si veggano Sacy, Chrestomathie arabe, tomo I, p. 468; Quatremère, arsione dell'opera di Makrizi, Histoire des Sultans Mamlouks, tomo I, pag. 72 e 182; De Freméry, nel Journal Asiatique, série IV, tomo III (gennaio 1844), p. 124.

127. Mi discosto in questo passo dalla versione di M. De Slane.

128. Op. cit., pag. 430.

129. Baiân, tomo I, p. 124. Ho seguíto piuttosto la cronologia di questa compilazione che del Nowairi, il quale reca il fatto nel 281 (894-895).

130. Confrontinsi: Ibn-Abbâr, MS. della Società Asiatica di Parigi, fog. 35 recto; Baiân, tomo I, p. 281; Nowairi, op. cit., p. 430.

131. Confrontinsi: il Baiân, tomo I, p. 115 a 127; Ibn-Abbâr, l. c; Nowairi, op. cit., p. 428, 436, 437; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, fog. 139, il quale accenna appena le crudeltà del tiranno.

Ibn-el-Athîr, risoluto a lodarlo come principe forte e sostegno dell'islamismo, salta a piè pari tatti quei misfatti, e narra solo i principii del regno e la morte di Ibrahim; pur si lascia sfuggir dalla penna che l'eroe Abu-l-Abbas vivea in continuo terrore della “maligna indole del padre.” MS. A, tomo II, fog. 92 e 172; MS. C, tomo IV, fog. 246 verso, e 279 recto, anni 261 e 289.

132. Veggasi in questo medesimo Libro II cap. IV.

133. Baiân, tomo I, p. 115. Aggiugne il cronista che Ibrahim trovò con maraviglia il cuore confuso (leggo nel testo fânian) col fegato, e irsuto di peli. In Sicilia si dice d'uom tristo e vendicativo ch'abbia il cuor peloso; il quale pregiudizio o la frase può ben venire dagli Arabi. Quanto ai movimenti convulsivi che si narrano di Ibn-Semsâma, non mi sembrano più meravigliosi di quei che la storia ricorda di tanti altri decapitati; nè parmi strano che vi concorra il proponimento fermatosi in mente da un uomo nell'atto di ricevere il colpo mortale.

134. Confrontinsi il Baiân, tomo I, p. 126 e 127, e Nowairi, op. cit., pag. 436 seg. Entrambi citano Ibn-Rakîk, cronista affricano del X secolo, e il Baiân aggiugne aver trovato cotesti fatti anche in altri autori. Ibn-Abbâr, MS. citato della Società Asiatica di Parigi, fog. 35 recto, solo narra il fatto delle donne incinte sparate per cavarne il feto, dicendo che seguì l'anno 283 (896-897) e conchiudendo con la esclamazione: “enorme peccato contro Iddio, ch'ei sia esaltato.” Immediatamente appresso cita Ibn-Rakîk per uno aneddoto relativo alla deposizione di Ibrahim. In generale per la vita di questo tiranno si veggano i tre scrittori or citati e Ibn-el Athîr, Ibn-Kaldûn, e gli altri compilatori che più o meno ripetono gli stessi fatti. La più parte del racconto di Nowairi era stata tradotta, prima di M. De Slane, da M. Des Vergers, nelle note a Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, pag. 138, seg.

135. Martirio di San Procopio vescovo di Taormina, cavato dalla Traslazione del corpo di San Severino alla città di Napoli, presso Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 60, seg.; e presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo I, parte II, p. 269. L'autore è lo stesso della cronica dei Vescovi di Napoli, come lo prova il Muratori nel tomo citato del Rerum Italicarum, pag. 287, seg. L'altra narrazione alla quale alludo è il martirio dei fratelli siracusani, presso Gaetani, op. cit., tomo II, p. 59.

136. Confrontinsi: il Baiân, tomo I, p. 124, anno 285 (27 gennaio 898 a 15 gennaio 899), e il Chronicon Cantabrigiense, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 43, anno 6406 (1º settembre 897 a 31 agosto 898). Supponendo precise quelle due date, l'avvenimento si ristringe ai sette mesi che corsero dalla fin di gennaio a quella d'agosto 898. Si noti che il Baiân non spiega chi fosse il capo dei Berberi, e chi degli Arabi. Ma vi supplisce il nome di Hadhrami; poichè l'Hadramaut è regione a levante del Iemen. Se tuttavia rimanesse dubbio, lo toglie la Cronica di Cambridge dicendo che i Berberi, dopo assalito il giund, consegnarono agli Affricani Abu-Hosein e i suoi figliuoli. Quegli era dunque il lor capo. Ho corretto secondo la Cronica di Cambridge il soprannome di costui, che nel Baiân si legge Abu-Hasan.

137. Veggasi il Libro II, cap. IX, p. 390 del 1º vol., nota 4. Ho scritto il nome come si trova in Ibn-el-Athîr, anno 287, MS. A, tomo II, fog. 167 recto; e MS. di Bibars, fog. 123 recto. Il Nowairi, Storia di Sicilia, presso di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 11, dà il nome di Abu-Malek-Ahmed-ibn-Iakûb-ibn-Omar-ibn-Abd-Allah-ibn-Ibrahim-ibn-Aghlab. Questo compilatore, che in tutto merita minor fede, dice che Ahmed governò la Sicilia per ventisei anni (correggasi 28), dal 259 al 287 (872 a 900); dimenticando che nella Storia d'Affrica egli stesso avea nominato in quello spazio di tempo due altri emiri di Sicilia. Perciò suppongo che Ahmed fosse stato scambiato una prima volta, e rieletto, dopo molti anni, verso il 287.

138. Chronicon Cantabrigiense, presso di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 43. La versione stampata porta: Anno 6407 commissum est prælium in Franco Forth. Le due parole del testo, nelle quali parve di ravvisare questo nome geografico, sono sbagliate nelle edizioni di Caruso e Di Gregorio; poichè nel MS. originale, secondo la collazione che me ne ha fatto il cortese signor Power bibliotecario dell'università di Cambridge, si legge chiaramente la seconda voce mofâreka; e la prima, mancante di punti diacritici, si compone delle seguenti lettere: 1º f, ovvero k; 2º r; 3º b, t, th, ovvero i, n; 4º h, g, ovvero kh; 5º a. Badando alle sole radicali, non esito a dire che siano f, r, g con che si scrive il verbo fereg, “scindere, fendere;” e son certo che questa parola mal copiata o piuttosto male scritta in arabico dall'autore, greco di Sicilia, sia il plurale irregolare di un vocabolo che significasse “scissura;” proprio il greco σχῖσμα. Non lascia luogo a interpretarla altrimenti la voce precedente mofâreka, che si accorda grammaticalmente con questa, e che è l'aggettivo feminino cavato dalla terza forma del verbo ferek, “separare, disgregare.” Si corregga dunque la versione: “L'anno 6407 varie fazioni guerreggiaron tra loro.”

Occorre di aggiugnere che il nome di Francoforte o altro simile non poteva esistere in Sicilia avanti i Normanni; e che non v'ha in oggi, nè v'è mai stato. Il comune attuale di Francofonte, e non Francoforte, fu fondato nel XIV secolo.

139. Ibn-el-Athîr, anno 287, MS. A, tomo II, fog. 167; MS. di Bibars, fog. 123 recto. Il Nowairi, nella Storia di Sicilia presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 11, senza fare menzione delle guerre che seguirono, dice Abd-Allah eletto emir di Sicilia il 287; e nella Storia d'Affrica data da M. De Slane in appendice a Ibn-Khaldûn, Histoire des Berbères, p. 431, lo fa andare in Sicilia il 284, sbarcare nel mese di giumadi primo (giugno 897), espugnare Palermo, e accordare poi l'amân. Da ciò si conferma la incertezza delle sue compilazioni.

140. La Cronica di Cambridge dice che Abd-Allah “passò” di Affrica a Mazara il 24 luglio; Ibn-el-Athîr che “arrivò” in Sicilia il primo di scia'bân, che risponde al primo agosto.

141. Questi è Ibn-Khaldûn, nella Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 57 del testo, e 134 della versione di M. Des Vergers. Non so donde abbia cavato tal particolare l'autore, che nel resto del racconto compendia Ibn-el-Athîr.

142. Nei due MSS. di Ibn-el-Athîr si trova il secondo nome senza punti diacritici. Credo vada letto Bâgi. Questo, a detta del Lobb-el-Lobbâb di Sojuti, edizione del Veth, può esser nome di famiglia persiana, o nome etnico derivato da Bâgia, chè così addimandavasi una città della penisola spagnuola (Beja in Portogallo); un villaggio in Affrica (Bedja nell'odierno reame di Tunis, città dentro terra a poca distanza da Tabarca); e un villaggio presso Ispahan in Persia.

143. Traduco “vespro” la voce 'asr che indica una delle ore della preghiera, e risponde a ventun'ora, secondo l'antico modo italiano, cioè nei primi di settembre, e in Palermo, alle tre e mezza dopo mezzodì. Veggansi le tavole delle ore delle preghiere musulmane alla latitudine del Cairo, presso Lane, Modern Egyptians, tomo I, p. 302.

144. Il Baiân dice combattuta la giornata “alle porte della città;” il che si deve intendere fuori i sobborghi, poichè Ibn-el-Athîr dice occupati questi dopo la vittoria. È da ricordarsi che la strada da Trapani a Palermo infino alla metà del XII secolo, e forse più oltre, passava per Carini, come il mostrano gli itinerarii di Edrisi. Però dovea correre per una delle valli che fiancheggiano Monte Cuocio, e uscire alla pianura, sia tra Bocca di Falco e Baida, sia tra questa e la montagna di Petrazzi, lungo la linea della nuova strada da ruota di Torretta.

145. Riscontrinsi: Ibn-el-Athîr, anno 287, MS. A, tomo II, fog. 167, seg.; e MS. di Bibars, fog. 123 recto, seg.; Baiân, tomo I, p. 125; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 132, seg.; Chronicon Cantabrigiense, p. 43; Giovanni Diacono di Napoli, Traslazione del corpo di San Severino, presso Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 60, ripubblicato da Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo I, parte IIª, p. 269. È maraviglioso lo accordo di Giovanni Diacono coi cronisti musulmani intorno la importanza dei fatti; e della Cronica di Cambridge, di origine greca, con Ibn-el-Athîr, su la data della battaglia di Palermo, che l'uno porta il 10 di ramadhân, e l'altro l'otto di settembre, che è appunto il riscontro del calendario cristiano col musulmano.

146. Questi versi sono trascritti da Ibn-el-Athîr nella notizia biografica di Abd-Allah, anno 289, MS. A, tomo II, fog. 172 recto; MS. C, tomo IV, fog. 279 recto; e MS. di Bibars, fog. 129 verso; e con qualche variante da Ibn-Abbâr, MS. della Società Asiatica di Parigi, fog. 33 verso. Mettendo nell'ultimo verso un punto diacritico sotto la h della voce b hâr e leggendola bigiâr, che vuol dire accanto, in vicinanza, traduco così:

“Bevo la salutar bevanda, in terra straniera, lungi da' miei e dalla mia casa:

“Ahi! soleva altre volte appressarla a'labbri, quand'io tutto olezzava di muschio e d'aloe;

“Ed or eccomi in mezzo al sangue, tra i vortici del fumo e il polverio.”

Ho reso “salutar bevanda” la voce dewâ, medicamento, farmaco.

147. Iakût nel Mo'gim el-Boldân, MS. di Oxford, articolo Palermo, trascrive uno squarcio della descrizione d'Ibn-Haukal, nel quale si dà questo numero di moschee e si ripete quel di 300 del resto della città, che si conoscea secondo la descrizione da me pubblicata. Quel passo va or corretto secondo Iakût, la cui aggiunta ne compie la sintassi che rimanea sospesa.

148. Oltre ciò che ho detto su la topografia di Palermo nei capitoli precedenti, veggasi Ibn-Haukal, Description de Palerme, da me pubblicata nel Journal Asiatique, IV série, tomo V, p. 94, 95; e nell'Archivio Storico Italiano, appendice XVI, p. 22. I nomi delle porte della città antica che troviamo in Ibn-Haukal, ci permettono di fissare il perimetro. Movendo dalla odierna parrocchia di Sant'Antonio saliva verso libeccio per l'altura ov'è il monastero delle Vergini, continuava per la strada del Celso fino a Sant'Agata la Guilia, volgeasi a scirocco lungo una linea che or si tirasse dalla cattedrale allo Spedal grande, e, ripiegandosi verso greco, toccava gli attuali monisteri dei Benfratelli e Santa Chiara, Università degli studii, Uficio della Posta, Monistero di Santa Caterina, donde tornava alla chiesa di Sant'Antonio. Figura ellittica, il cui asse maggiore coincidea con la strada del Cassaro d'oggi presa dalla cattedrale a Sant'Antonio. A quest'asse correan quasi paralelle, d'ambo i lati, due strade che agevolmente oggi si riconoscono, anguste e serpeggianti come tutte quelle del medio evo; l'una dal Monastero delle Vergini alla Beccheria vecchia (Ocidituri); l'altra dal Palagio Comunale al monastero di Santa Chiara. Non si badi molto alla pianta del Morso, Palermo antico, che si riferisce ai tempi normanni, e d'altronde è inesattissima.

149. Riscontrinsi: Ibn-el-Athîr; il Baiân; e Ibn-Khaldûn ai luoghi citati nella nota 2 della p. 67 del presente vol. Il Baiân dice espressamente che Abd-Allah entrava dopo accordato l'amân il venti di ramadhân.

150. Johannis Diaconi Neapolitani, Martirio di San Procopio presso il Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 60; e presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo I, parte IIª, p. 269.

151. Vita di Sant'Elia, presso il Gaetani, op. cit., tomo II, p. 73.

152. Si trova nel solo Ibn-el-Athîr, in un passo di cui abbiamo tre MSS. con tre lezioni diverse: Bartibûa, Iartînûa, e nel MS. ordinariamente più corretto, Bartanobûa. Facendo astrazione delle vocali non accentuate, il nome si riduce a sette lettere, alcune delle quali posson variare secondo i punti diacritici. Le lettere sono: 1ª b, i, n, t, th, e può anche rispondere alle nostre p e v; 2ª r, ovvero z; 3ª t; 4ª e 5ª stesse lettere che la prima; 6ª w, ovvero û; 7ª a, la quale potrebbe esser muta, onde la finale è anche incerta tra û e wa. Combinando le consonanti con varie vocali, la migliore lezione sembra Neritînû, che risponde al nome dato dai geografi antichi ai popoli di Neritum in terra d'Otranto. Neritum, oggi Nardò, città poco lontana dal mare, fu assai importante nel medio evo, fatta sede vescovile nel XV secolo. Ma la mia conghiettura è tanto più incerta, quanto sappiamo assai vagamente la regione di cui si tratti, come diremo nella nota seguente.

153. Riscontrinsi: Ibn-el-Athîr, anno 287, MS. A, tomo II, fog. 167 verso; e MS. di Bibars, fog. 123 recto, seg.; ed anno 261, MS. A, tomo II, fog. 92; MS. C, tomo IV, fog. 246 verso; e MS. di Bibars, fog. ...; Johannes Diaconus, Translatio corporis Sancti Severini, presso Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 60; e presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo I, parte IIª, p. 269, seg.; Baiân, tomo I, p. 123, anno 288; Chronicon Cantabrigiense, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 44; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, versione di M. Des Vergers, p. 137, 138; e il cenno che ne fa Nowairi, con errore di data, nella Storia d'Affrica, in appendice alla Histoire des Berbères, par Ibn-Khaldoun, versione di M. De Slane, tomo I, p. 431; Chronicon Vulturnense presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo I, parte IIª, p. 415.

Più che ad ogni altro si badi a Ibn-el-Athîr, e Giovanni Diacono. Nei MSS. A e di Bibars si legge che le navi musulmane tornavan da Reggio a Messina cariche di roba e dakík, che vuol dir farina, ma credo vada corretto rakîk, schiavi. La battaglia di Reggio è riferita da Ibn-el-Athîr al mese di regeb (21 giugno a 20 luglio 901), e dalla Cronica di Cambridge precisamente al 10 giugno; e questa data io ho seguito, ma forse è erronea, e si dee correggere 10 luglio, mutando una sola lettera nel testo arabico, e leggendovi iuliu in vece di iuniu. Il Baiân in luogo di Ríwa (Reggio) ha z la, che si potrebbe supporre Scilla, ma è alterazione del primo di questi nomi. Ibn-Khaldûn, per errore, credo io, di memoria, frettolosamente compendiando questi annali, scrisse che Abd-Allah, andato da Taormina a Catania, e trovandola ostinata alla difesa, se ne tornò per ripugnanza a spargere sangue musulmano. Ciò non si legge in ibn-el-Athîr; nè è probabile che Catania a questo tempo fosse già divenuta colonia musulmana. Anzi, la espugnazione del vicino castello di Aci nel 902, ch'era tenuto dai Cristiani, li fa supporre signori anco di Catania.

Adesso debbo allegar le testimonianze di quell'ultima impresa di Abd-Allah, dopo la distruzione delle mura di Messina. Ibn-el-Athîr, abbozzando sotto l'anno 261 una biografia di Ibrahim-ibn-Ahmed, dice che proponendosi costui il pellegrinaggio e la guerra sacra, andò a Susa l'anno 289 (902) “e indi passò col navilio in Sicilia, e pose il campo a Demona, Assediatala per diciassette giorni, andò a Messina, e passò a Reggio, ove s'era adunata gran gente dei Rûm. Ei li combatteva alle porte della città; li sbaragliava; e prendea Reggio, con la spada alla mano, del mese di regeb. Saccheggiatola, fece ritorno a Messina, di cui abbattè le mura; e, trovando in porto le navi arrivate da Costantinopoli, ne prese trenta. Andò poi a Neritînû (Bartîbû etc.), e se ne insignorì alla fine di regeb. Ei diè esempi di giustizia e di buona condotta verso i sudditi. Andò poi a Taormina etc.,” seguendo a narrare la espugnazione di questa città nel 902. Or lo squarcio che ho messo in carattere corsivo è compendio esatto, e in molti luoghi trascrizione, di quello che contiene le imprese di Abd-Allah del 901, il quale si trova sotto l'anno 287; se non che in quest'ultimo manca la impresa di Neritînû. E evidente dunque che Ibn-el-Athîr, o il copista, replicò nella guerra d'Ibrahim parecchi fatti di quella di Abd-Allah dell'anno precedente. È evidente, dico, per lo assedio di Demona, vittoria di Reggio, presura delle navi greche a Messina, e distruzione delle mura di questa città. Mi pare probabile per la occupazione di Neritînû.

E ciò perchè Ibn-Khaldûn, il quale compendiava gli annali di Ibn-el-Athîr, e un'altra cronica più antica, dopo tutte le imprese di Abd-Allah come noi le abbiamo narrato, fino alla distruzione delle mura di Messina, continua: “Indi tragittò nella vicina parte d'Italia (così va resa la denominazione di a'dwet-er-Rûm); combattè con popoli Franchi d'oltre il mare; e tornò in Sicilia.” La città dunque il cui nome leggiam sì male in Ibn-el-Athîr, par che giacesse nella regione vagamente chiamata a'dwet-er-Rûm, che non si può intendere del solo stretto di Messina, ma di tutta la costiera che guarda la Sicilia, se si ricordi il valor della denominazione analoga di Berr-el-A'dwa in Affrica. I Franchi combattuti da Abd-Allah non poteano esser che le genti dei duchi di Spoleto e Camerino condotti ai soldi di Leone il Sapiente. Ritraggiamo infatti ch'egli nel 904 abbia mandato danaro ai Franchi per rinforzare l'esercito destinato contro la Sicilia. Veggasi il cap. IV del presente Libro, p. 87, 89.

154. Johannes Diaconus Neapolitanus, l. c.

155. Nowairi, Storia d'Affrica, MS. di Parigi 702 A, fog. 53 verso; e traduzione di M. De Slane, in appendice a Ibn-Khaldûn, Histoire des Berbères, tomo I, p. 431; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, versione di M. Des Vergers, p. 138 e 139. Avvertasi che M. De Slane ha saltato il luogo del Nowairi, ove si dice della malattia che colpiva Ibrahim in questo momento. Quanto alla tradizione, sembra che il Nowairi l'abbia tolto da Ibn-Rekîk; al par di Ibn-Khaldûn, il quale lo attesta espressamente. Egli è vero che Ibn-Abbâr, MS. della Società Asiatica di Parigi, fog. 35 recto, riferisce aver letto nella Storia d'Ibn-Rekîk, che Mo'tadhed minacciò di deporre Ibrahim e surrogargli, non il figliuolo, ma il cugino Mohammed; ma questo si dee tenere come fatto diverso, seguito appunto nell'896, prima della uccisione del detto Mohammed, della quale abbiam fatto parola nel Capitolo precedente, p. 58. Debbo avvertire che secondo una variante proposta dal prof. Fleischer nel testo di Nowairi, invece di “malattia biliosa” si dovrebbe tradurre “gli si fece incontro con vestimenta negre.” Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 451, e Introduzione, p. 63. Ma non n'è certo quel dotto orientalista; nè io.

156. El-Fâsik. Questo soprannome si legge in Ibn-Abbâr, op. cit., fog. 32 verso.

157. Baiân, tomo I, p. 125 e 126.

158. Veggasi nel Capitolo II del presente libro la nota 2 a p. 55.

159. Riscontrinsi: il Baiân, l. c.; e Nowairi, Storia d'Affrica, nell'op. cit., p. 432.

160. Ibn-el-Athîr, anno 287, MS. A, tomo II, fog. 167 verso; e MS. di Bibars, fog. 123 recto, seg.

161. Riscontrinsi: Nowairi, l. c.; Ibn-el-Athîr, anno 261, MS. A, tomo II, fog. 92 recto; e MS. C, tomo IV, fog. 246 verso; Baiân, tomo I, p. 126.

162. Johannes Diaconus, Translatio corporis S. Severini, presso Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 62; e presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo I, parte IIª, p. 209, seg.

163. Ibn-el-Athîr e Nowairi, ll. cc. Nella versione di M. De Slane la data della partenza per Nuba è posta per errore di stampa in vece del 16 il 22 di rebi' secondo, che tornerebbe al 5 aprile.

164. Trapani certamente, come scrive Ibn-Khaldûn, ancorchè nel testo di Nowairi si legga Tripoli. Nelle opere arabiche quei due nomi son confusi spesso. Ma qui il testo di Nowairi non lascia luogo a dubbio, portando che Ibrahim da Nûba navigò a quella città, e che indi cavalcò per a Palermo.

165. In maggio, secondo la diligentissima Cronica di Cambridge. Secondo il conto di Nowairi lo sbarco sarebbe avvenuto nella seconda metà di giugno, poichè Ibrahim si intrattenea diciassette giorni a Trapani; ma questa cifra può essere sbagliata, come lo è di certo quella del soggiorno in Palermo.

166. Giovanni Diacono napoletano espressamente nota che Ibrahim sdegnasse d'entrare in Palermo, come casa propria. All'incontro Nowairi riferisce tanti particolari da non potersi mettere in forse l'andata. Il detto che Ibrahim non tenne, ma fece tenere da altri il Tribunale dei Soprusi, mi fa supporre che il tiranno fosse rimaso fuor la città vecchia.

167. Riscontrinsi: Nowairi, Storia d'Affrica, MS. di Parigi 702 A, fog. 53 verso; e traduzione francese di M. De Slane, in appendice a Ibn-Khaldûn, Histoire des Berbères, tomo I, p. 432; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, versione di M. Des Vergers, p. 142; Johannes Diaconus Neapolitanus, Translatio corporis Sancti Severini, presso Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 61. Non cito Ibn-el-Athîr perchè il testo è viziato, come dissi nel capitolo precedente, nota, p. 73. Avvertasi che la versione di M. De Slane in questo luogo del Nowairi sembra poco esatta, e v'ha qualche error di stampa nelle date, oltre lo errore del Nowairi che Ibrahim arrivato in Palermo il 28 regeb (8 luglio), e soggiornatovi quattordici giorni, ne fosse partito il 7 scia'bân (17 luglio). M. De Slane ha soppresso quest'ultima data, accorgendosi che fosse sbagliata.

168. Il nome di Costantino si legge nella Vita di Sant'Elia da Castrogiovanni, e gli è dato il titolo di patrizio. I cronisti bizantini scrivon che “fosse In Taormina,” al tempo della espugnazione, Caramalo, come e' pare, capitano del presidio, quantunque non gli dian titolo di patrizio, nè altro. Penso io dunque che si tratti d'un medesimo personaggio per nome Costantino, e di casato Caramalo. I bizantini non dicono nè anco il grado di Michele Characto, ma ch'egli accusò di viltà e tradimento il Caramalo, quand'entrambi si rifuggirono a Costantinopoli. Da ciò la conghiettura che il Characto fosse secondo in grado, o capitanasse qualche corpo ausiliare, il quale virtuosamente avesse combattuto contro Ibrahim. Giorgio Monaco fa supporre che Eustazio, drungario dell'armata, fosse stato inviato a Taormina o incaricato di recarle aiuto; il che ei non fece, e indi ne fu punito. Ma par che il cronista supponga questa colpa, confondendola con quella che certamente commise Eustazio, mandato contro l'armata di Leone da Tripoli di Siria.

169. Riscontrinsi: Georgius Monachus, De Leone Basilii filio, § 25, p. 861; Theophanes continuatus, lib. VI, § 18, p. 365; Symeon Magister, De Leone Basilii filio, § 9, p. 704; Leonis Grammatici, Chronographia, p. 274.

170. La versione latina ha: Quippe lumbare lineum supra lumbos suos ponere. Dunque il buon vecchio, gittata la cocolla, si mostrava con le sole mutande, per imitare, credo io, la foggia degli schiavi. Vita Sancti Eliæ Junioris presso Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 73 e 74; e nella collezione dei Bollandisti, 17 agosto, p. 479, seg.

171. Corano, Sura XLVIII, verso 1.

172. Corano, Sura XXII, versi 20 e 21.

173. Riscontrinsi: Ibn-el-Athîr, anno 261, MS. A, tomo II, fog. 92; MS. C, tomo IV, fog. 246 verso; e MS. di Bibars; Nowairi, Storia d'Affrica, testo nel MS. di Parigi 702, A, fog. 53 verso, e traduzione presso De Slane, op. cit., p. 432, 433; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 142; Chronicon Cantabrigiense, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 44; Johannes Diaconus presso Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 61. Non cito i Bizantini perchè non portano particolari del fatto, nè date. Nella Cronica di Cambridge l'anno è sbagliato dal copista che scrisse sifta (sei) in luogo di sena (anno), la qual voce differisce dalla prima per un sol punto diacritico. Così vi si trova 6416 in luogo di 6410, cioè 908 in luogo di 902. Ma le altre testimonianze storiche non lascian dubbio su la vera lezione; e a ritrovarla basterebbe anco il calendario, perchè la Cronica di Cambridge espressamente dice presa Taormina la domenica primo d'agosto, il qual dì incontrò in domenica il 902, e non il 908. Il giorno designato da Ibn-el-Athîr, è il 22 scia'bân 289, che risponde esattamente al 1º agosto 902. La Cronica del Monastero di Volturno, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo I, parte IIª, p. 415, accenna senza data la espugnazione di Taormina.

174. Johannes Diaconus, l. c. È verosimile e perciò non l'ho tolto via, quel vanto da cannibale che Ibrahim forse non intendeva di consumare. Nel Baiân, tomo I, p. 123, leggiamo che il 283 (896) egli avea fatto uccidere quindici persone a Taurgha nell'odierno Stato di Tripoli, e cuocerne le teste, come se volesse imbandirle a mensa; il che fu cagione che la più parte del proprio esercito lo abbandonasse. Un MS. della Biblioteca di Bamberg, dello XI secolo, citato nell'opera di Pertz, Scriptores, tomo III, p. 548, in nota alla Cronica Salernitana, accenna il martirio di San Procopio, evidentemente compendiando e alterando la narrazione di Giovanni Diacono.

175. Nei varii MSS. d'Ibn-el-Athîr, Ibn-Khaldûn; e Nowairi questo nome si legge Bîkesc, Benfesc, Tîfesc, Minisc, Minis, e talvolta è scritto senza punti diacritici. Edrisi pone tra Messina e Taormina, in luogo aspro e montuoso, a 15 miglia verso mezzodì da Monforte, una terra Mîkosc, Mîkos, Minis, secondo i varii MSS. Non trovo in oggi nomi somiglianti; ma il luogo risponde tra il Capo di Scaletta e il Monte Scuderi; sia Artalia, o Pozzolo Superiore, o Giampileri ec. Castello par che non ne rimanesse nè anco al tempo di Edrisi. Il nome mi par latino o greco, Vicus, Μῦχος Μηκὰς o anche Νῖκος. Mandanici, che darebbe quest'ultimo nome aggiunto a quel di Μάνδρα, non risponderebbe alla detta distanza da Monforte, che per altro può essere inesatta o sbagliata nel MS. di Edrisi.

176. Veggasi la nota 4 a p. 468 del I Volume, lib. II, cap. XII, intorno il sito del castel di Demona.

177. Si pronunzii come Hodjr in francese, e in inglese Hojr. Non l'ho scritto Hogr perchè darebbe un suono diverso.

178. Certamente El-Iagi, quantunque alcun MS. porti El-Bâgi, Et-Tâgi ec., mutando i punti diacritici, e altro dia le lettere senza punti. Edrisi lo scrive Liâgi, come si legge nei migliori MSS., dovendosi negli altri aggiugnere un punto diacritico alla lettera b e mutarla così in i, Liag o Liagi in luogo di Lebag che si è trascritta. La differenza di ortografia tra Edrisi e le memorie, di certo anteriori a lui, su le quali compilò Ibn-el-Athîr, dà luogo a una curiosa osservazione filologica. Nel X secolo, al quale van riferite quelle memorie, il nome di Ἄκις e Acis, pronunziato in Sicilia, com'oggi Iaci, con la prima vocale strisciante nel modo che avvertii per Enna, era scritto dagli Arabi col loro articolo el; probabilmente perchè i Greci l'usavano anche con l'articolo. Nella prima metà del XII secolo, in cui visse Edrisi, si dicea Li Aci con l'articolo italiano, il che può aggiugnersi alle altre prove che la lingua nostra già si parlasse in Sicilia.

179. Riscontrinsi: Ibn-el-Athîr, Ibn-Khaldûn, e Nowairi, ll. cc. Il racconto di Nowairi, che in questo luogo è particolareggiato più che gli altri, dopo aver detto di Bico, Demena e Rametta, continua: “E mandò sopra Aci, con un'altra schiera, Sa'dûn-el-Gelowi. Tutte le popolazioni insieme si rivolsero a costui, profferendo la gezîa; ma egli non l'accettò, nè volle altro patto che l'uscita loro dalle fortezze. Uscironne dunque: ed egli distrusse tutte le rôcche e castella, e ne gittò le pietre in mare.” Questo passo prova che la denominazione di Aci, al principio del X secolo, comprendesse parecchie castella; ovvero che Aci fosse come la capitale di quelle sparse sul fianco orientale dell'Etna. Tra i due supposti, terrei piuttosto il primo; perchè ai tempi di Edrisi, Aci par che fosse nominata al plurale, come dissi nella nota precedente; e in oggi v'ha infino a sette comuni di tal nome, poco lontani l'un dall'altro. Qual fosse la fortezza principale nel 902, non so. Forse Castel d'Aci, posto sopra un masso di basalto in sul mare, rimpetto alli scogli de' Ciclopi, o Faraglioni come or chiamansi: Le isole di Aci di Edrisi. Castel d'Aci è famoso nelle guerre degli Angioini contro gli Aragonesi. Potrebbe darsi ancora che la rôcca principale fosse stata sul vicin “Capo dei Molini” ove si trovano ruderi antichissimi; ovvero nel quartier della odierna Acireale, detto Patané, che ha avanzi di un edifizio romano o bizantino, e vi si è scavata una grossa pietra di lava, col noto monogramma del motto “Gesù Cristo vince” che si solea porre nelle fortezze e bandiere bizantine. Veggasi su le antichità dette l'erudito lavoro di Lionardo Vigo, Notizie storiche d'Aci Reale, cap. II.

180. Veggasi il Libro I, cap. IV, p. 100, seg., e nota 1 alla pag. 102. L'episodio di Ibrahim appartiene esclusivamente a Pietro Diacono. Si conserva manoscritto nella Biblioteca di Monte Cassino; come ritraggo dalla lista messa in appendice al trattato di Pietro Diacono, De viris illustribus Cassin.; presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo VI. È pubblicato dal Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tomo I, p. 181, seg., con note che condannano qualche bugia e mostrano gli anacronismi sconci della narrazione, compilata, come dice Pietro Diacono, su la Cosmografia di Teofane, e la “Cronologia dei Pontefici Romani.”

181. Ibn-el-Athîr, anno 261, MS. A, tomo II, fog. 92, seg.; MS. C, tomo IV, fog. 246 verso.

182. Georgius Monachus, De Leone Basilii filio, § 25, p. 860, 861; e Leo Grammaticus, Chronographia, p. 274, dicono espressamente condannati a morte, pel fatto di Taormina, il Caramalo ed Eustazio drungario dell'armata; e nominano i due monasteri diversi nei quali furono mandati per commutazion di pena. Contuttociò Giorgio Monaco nel § 29, narrando la impresa di Leone da Tripoli che seguì due anni dopo, dice mandatovi Eustazio con tutte le forze navali; il quale tornò, allegando non aver potuto trovare il nemico. Pare dunque che la condanna debba riferirsi a questo secondo fatto; ma non è inverosimile, trattandosi della corte bizantina, che dopo la prima prova sia stato tratto Eustazio dal monastero, per affidargli di nuovo l'armata e la fortuna dell'impero.

183. Johannis Diaconi Neapol., Translatio etc., presso Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 62.

184. Johannes Cameniata, De Excidio Thessaloniciensi, esattamente narra tutti i particolari di cui fu testimone oculare; e tra gli altri, al § 18, p. 512, la nazione dei soldati capitanati dal rinnegato Leone. Perciò il Rampoldi grossolanamente sbagliò, Annali Musulmani, scrivendo sotto l'anno 902 che i “Musulmani Aghlabiti, radunata una flotta in Affrica e in Sicilia, prendeano Lenno, e minacciavano Costantinopoli, comandati da Leone di Tripoli.” Lo seguì in questo errore il Martorana, Notizie dei Saraceni Siciliani, tomo I, cap. II, p. 69; e nota 88, p. 20; e scrisse i fatti di Lenno e Tessalonica “tra le belle gesta che pur fecero i Saraceni Siciliani,” ingannato anche dalla concisione di Cedreno, il quale suppone Taormina e l'isola di Lenno occupate nella medesima impresa. Lenno fu presa dai Musulmani di Cilicia, capitanati da un altro rinnegato per nome Damiano, l'anno 903; come si scorge dalle autorità che cita il Le Beau, Histoire du Bas Empire, lib. LXXII, § 31; e in particolare da Symeon Magister, De Leone Basilii filio, § 9 e 10, p. 704, il quale porta in anni diversi i due fatti di Taormina e di Lenno. Oltre Giovanni Cameniata si veggano per la impresa di Tessalonica, Theophanes continuatus, lib. VI, cap. XX, p. 366, seg.; Symeon Magister, § 13, 14, p. 705; Leo Grammaticus, p. 277; Georgius Monachus, § 20, p. 862.

185. Cento libbre d'oro secondo Giorgio Monaco, la Continuazione di Teofane, e Symeon Magister, ll. cc. Giovanni Cameniata accenna prima vagamente una grossa somma di danaro, e poi due talenti d'oro, op. cit., § 59, p. 569. Il secondo aggiugne che il danaro servisse agli stipendii e spese dell'esercito in Sicilia (τοῦ κατὰ Σικελίαν στρατοῦ), ma si deve intendere di quello che si pensava far passare di Calabria in Sicilia. Symeon Magister dice che le cento libbre d'oro eran chiuse in un cestellino (κανίσκιος) per recarle ai Franchi. Senza dubbio si tratta degli stessi Franchi di cui fa menzione Ibn-Khaldûn nel 901; e probabilmente erano i duchi di Spoleto e Camerino, che nel IX e X secolo fecero un po' i capitani di ventura. Si vegga sopra a pag. 72, 74.

186. Johannes Cameniata, op. cit., § 39 e 64, p. 569 e 576; Theophanes continuatus, lib. VI, cap. XX, XXI, p. 366, seg.; Symeon Magister, De Leone Basilii filio, § 13, 14, p. 705, seg.; Georgius Monachus, De Leone Basilii filio, § 29, 30, p. 862, seg.; Leo Grammaticus, p. 277. Veggasi anche Le Beau, Histoire du Bas Empire, lib. LXXII, § 32, seg.

187. Ibn-el-Athîr, l. c.; Nowairi, Storia d'Affrica, MS. di Parigi, 702, A, fog. 53 verso; e la traduzione francese presso M. De Slane, op. cit., p. 433; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 143, dice Ibrahim tornato in Sicilia, e morto all'assedio di Cosenza ch'ei non sapeva essere in Calabria. Il detto ritorno è evidente sbaglio nato dal confondere questa impresa di Ibrahim con quella del figliuolo l'anno innanzi.

188. Giovanni Diacono, testimone oculare ed autor di questo racconto, dice che la demolizione del castello Lucullano fu compiuta il 12 (quarto idus) d'ottobre; il corpo di San Severino recato a Napoli il dì appresso; e le stelle cadenti viste dopo sei dì, che tornerebbe al 18 o al 19. Il Baiân, tomo I, p. 126 e 127, riferisce questo fenomeno al 22 del mese di dsu-l-k'ada, cioè dal tramonto del 27 al tramonto del 28 ottobre: e merita maggior fede, non solo per la solita diligenza di cotesta compilazione, ma anco per l'uso degli Arabi di scrivere i numeri alla distesa, più tosto che in cifre. D'altronde potrebbe supporsi che il copista di Giovanni Diacono avesse notato VI in luogo di XVI o di XV i giorni corsi dal ritrovamento delle ossa di San Severino alle stelle cadenti. Ibn-Abbâr, MS. della Società Asiatica di Parigi, fog. 33 verso, ci conduce ad ammettere l'una e l'altra data, poichè fa supporre replicato il fenomeno più o meno per molte sere, dicendo: “In dsu-l-ka'da di quest'anno morì Ibrahim-ibn-Ahmed; e da quel momento furon viste stelle cadenti sparnazzantisi come pioggia a destra e a sinistra; onde fu chiamato l'anno delle stelle.” Questo squarcio è stato tradotto inesattamente da Conde, Dominacion de los Arabes en España, parte IIª, cap. 75.

Io mi sono intrattenuto sì lungamente ad esaminare questa data, poichè gli scienziati osservano un periodo annuale in tal fenomeno, e che sia più notabile verso il dieci agosto e in novembre. Col medesimo intento il barone De Hammer ha raccolto nel Journal Asiatique, serie IIIª, tomo III (1837), p. 391, alcuni ricordi d'autori arabi in fatto di stelle cadenti; e il baron De Slane vi ha fatto qualche correzione nel tomo IV della medesima serie, p. 291.

189. Evangelium secundum Lucam, XXI, 25. Questa riflessione è dell'anonimo autore d'un MS. dell'XI secolo, posseduto dalla Biblioteca di Bamberg, e citato nella raccolta di Pertz, Scriptores, tomo III, p. 548, in nota alla Cronica Salernitana. L'anonimo evidentemente ebbe alle mani la narrazione di Giovanni Diacono, ch'ei compendia e guasta.

190. Corano, Sura XV, verso 18; Sura XXXVII, verso 8, seg.

191. Così lo chiama Giovanni Diacono.

192. Il Nowairi dice il fiume. Potrebbero esser due, poichè il Busento confluisce col Crati sotto Cosenza.

193. Gli altri particolari della malattia d'Ibrahim si cavano dai cronisti musulmani. Giovanni Diacono dice Ibrahim morto nella chiesa di San Michele. In quella di San Pancrazio afferma la Cronica di Bari presso il Muratori, Antiquitates Italicæ Medii Ævi, tomo I, p. 31; e il Muratori vuol correggere chiesa di San Bertario.

194. Riscontrinsi: Ibn-el-Athîr, anno 261, MS. A, tomo II, fog. 92, seg.; MS. C, tomo IV, fog. 246 verso; e MS. di Bibars; Baiân, tomo I, p. 126; Ibn-Abbâr, MS. della Società Asiatica di Parigi, fog. 33 verso; Nowairi, Storia d'Affrica, MS. di Parigi, 702, A, fog. 53 verso e 54 recto; e la traduzione francese presso De Slane, op. cit., tomo I, p. 433, 434; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 143, 144; Ibn-Wuedrân, § 6; e versione di M. Cherbonneau, nella Revue de l'Orient, décembre 1853, p. 429; Ibn-Abi-Dinâr (El-Kaïrouani), MS. di Parigi, fog. 21 verso; e traduzione francese, p. 86; Abulfeda, Annales Moslemici, anno 261; Johannes Diaconus, Translatio etc, presso Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 62; Chronicon Barense anno 902, presso Muratori, Antiquitates Italica Medii Ævi, tomo I, pag. 31; e presso Pertz, Scriptores, tomo V, p. 52; MS. di Bamberg citato nella raccolta stessa di Pertz, Scriptores, tomo III, p. 548, in nota.

La data della morte, non scritta precisamente dall'accurato e contemporaneo Giovanni Diacono, si ritrae dai Musulmani. La recan tutti nel mese dsu-l-ka'da del 289, ma v'ha divario nel giorno: secondo il Baiân, il lunedì 17; secondo Nowairi, il sabato 18; e secondo Ibn-el-Athîr, Ibn-Wuedrân, e Abulfeda, il sabato diciannove: che tornano ai 23, 24 e 25 ottobre 902. Or poichè i giorni della settimana coincidono nel nostro calendario e nel musulmano, e il 17 dsu-l-ka'da 289 cominciò al tramonto del 22 e finì al tramonto del 23 ottobre, giorno di sabato, è evidente un lieve sbaglio in tutte quelle date. Qual che fosse stata la cagione dell'errore, mi è parso di ritenere la data del sabato 23 ottobre.

Nella versione del Nowairi, M. De Slane ha detto “quand la maladie interne dont Ibrahim souffrait, etc.;” ma confrontando con Ibn-el-Athîr e Ibn-Abi-Dinâr son certo che si debba sostituire “malattia viscerale.”

195. Johannes Diaconus, op. cit., presso Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 62; e presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo I, parte IIª, p. 273.

196. Vita Sancti Eliæ Junioris, presso Gaetani, Vita Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 74.

197. Chronicon Barense, anno 902, presso Muratori, Antiquitates Italicæ Medit Ævi, tomo I, p. 31; Vita di San Bertario citata quivi in nota dal Muratori; Lupi, Protospatæ (Protospatarii) Chronicon, anno 901, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo V; presso Pratilli, Historia Princ. Langob., tomo IV, p. 20; e presso Pertz, Scriptores, tomo V, p. 53; Romualdi Salernitani, Chronicon, anno 902, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo V.

Non cito la Cronica della Cava, e la Cronica di Calabria pubblicata nella stessa raccolta di Pratilli, tomo III e tomo IV, perchè la prima è interpolata, la seconda apocrifa del tutto.

Il Martorana, Notizie Storiche, tomo I, cap. II, p. 60, pensò di impastare in uno tutti i racconti delle croniche. Scrisse che “annottando l'emiro Ibrahim intorno all'assedio, e accaduto un gran temporale con frequenti detonazioni, vi fu colpito si malamente da un fulmine elettrico, che dovè levarsi tosto dall'ossidione; poi morì di sfracello tra mille dolori entro al suo palazzo, nella città di Palermo.”

198. Per cotesti fatti notissimi non occorrono citazioni. I particolari si possono vedere in Sciarestani e nelle altre opere che mi occorrerà in breve di ricordare.

199. Questo fatto mi è occorso per la prima volta nel Kitâb-el-Fihrist, MS. di Parigi, tomo II, fog. 75 verso. Molti di quei libri trattavano di veterinaria; e forse l'amor dei cavalli fu la prima cagione che conducesse gli Arabi nel santuario delle scienze greche.

200. Veggasi il Libro I, cap. VI, p. 141, 142 del 1º vol.

201. Veggansi in generale Hagi Khalfa nei Prolegomeni; Pococke, Specimen historiæ Arabum; Wenrich, De auctorum græcorum versionibus etc. Il Kitâb-el-Fikrist, MS. di Parigi, tomo II, fog. 67 verso, seg., fornisce dati importanti a chi voglia approfondire questa epoca della storia intellettuale dell'umanità.

202. Tarîkh-el-Hokemâ, MS. di Parigi, Suppl. Ar. 672, p. 13. L'autore, che visse nel XII secolo, afferma aver veduto in una biblioteca di Gerusalemme, tra i libri provenienti dal lascito dello sceikh Abu-l-Feth-Nasr-ibn-Ibrahim di Gerusalemme stessa, un trattato di Empedocle contro la immortalità delle anime, del quale ei non dà il titolo, e nota soltanto che Aristotile l'avesse confutato, e che altri avesse voluto scusar Empedocle supponendo allegorico il suo linguaggio; ma l'autore aggiugne non vedervi punto allegoria. Hagi-Khalfa, ediz. Flüegel, tomo V, p. 144, 152, ni 10,448 e 10,500, attribuisce ad Empedocle: 1º un “Libro della Metafisica,” così intitolato al par di quello notissimo d'Aristotile, e 2º un “Libro su la resurrezione spirituale e su l'assurdo che le anime risorgano come (si rinnovano) i corpi.” Ma il Wenrich, De auctorum græcorum versionibus etc., p. 90, li crede apocrifi entrambi, non trovandoli in Diogene Laerzio.

Che che ne sia di questo argomento negativo, par che appartengano ad Empedocle, o almeno ad alcun di sua scuola, i libri col nome del filosofo agrigentino, dei quali gli Arabi possedeano le versioni. Penso così perchè le opinioni fondamentali attribuite ad Empedocle dal Kitâb-el-Hokemâ, e più distintamente da Sciarestani, testo arabico, p. 260, seg., ben si accordano col panteismo che ritraggiamo dai frammenti di questo filosofo e dalle notizie che ce ne danno gli scrittori antichi. Al dir de' due eruditi arabi, la Divinità d'Empedocle era l'astrazione della scienza, volontà, beneficenza, potenza, giustizia, verità ec.; non già un essere reale dotato di dette qualità e chiamato con que' varii nomi. La nota dottrina di Empedocle su l'amore e l'odio, ossia l'attrazione e repulsione, si vede anco chiaramente nella cosmogonia che gli attribuisce Sciarestani.

Il filosofo spagnuolo che al dire del Kitâb-el-Hokemâ tolse sue dottrine da Empedocle, ebbe nome Mohammed-ibn-Abd-Allah-ibn-Mesarra-ibn-Nagîh, nato in Cordova l'883 e morto il 931. Costui, dopo avere studiato alla scuola del proprio padre e di due altri dotti spagnuoli, fu perseguitato come zindîk, per troppo zelo di spargere le dottrine d'Empedocle; talchè si rifuggiva in Oriente. A capo di lunghi anni, tornato in Spagna, ricominciò a insegnare la stessa filosofia più copertamente e cadde di nuovo in sospetto d'empietà.

Un compendio di quest'articolo del Tarîkh-el-Hokemâ si legge in Ibn-abi-Oseibi'a, MS. di Parigi, Suppl. Ar. 673, fog. 22 recto, e Suppl. Ar. 674, fog. 40 verso.

203. Abulfeda, Annales Moslemici, an. 449 (1057), notando la morte di questo gran poeta, inserisce senza scrupolo i versi che cito.

204. Sciarestani, Kitâb-el-Milel “Libro delle sètte,” testo arabico, p. 147, seg., nota la differenza che correa tra i Bâteni antichi, ossia filosofi razionalisti, e i Bâteni moderni, sètte miste, chiamate con varii nomi in varii paesi.

205. Makrizi, presso Sacy, Exposé de la religion des Druses, tomo I, p. XIII, attesta questo fatto. La origine arabica si vede anche dai nomi dei capi di parte riferiti da Sciarestani.

206. Veggasi il Libro I, cap. III, p. 69 del 1º volume.

207. Sciarestani, Kitâb-el-Milel, testo arabico, p. 85, seg. L'autore nota tra i principii comuni alle sètte kharegite che il peccato grave porti infedeltà, ma nol ripete tra le opinioni particolari dei primi Khâregi del tempo di Ali.

208. Sciarestani, op. cit., p. 87 a 102.

209. Sciarestani, op. cit, p. 108, 109.

210. È plurale dell'aggettivo Ghâli, che significa “eccedente, smoderato.”

211. Sciarestani, op. cit., p. 109, 132, 133; il quale rintracciando il cammino di coteste opinioni, e ignorando l'origine indiana della incarnazione (Holûl) la attribuisce ai Cristiani. Si vegga anche Makrizi, presso Sacy, Exposé de la religion des Druses, tomo I, p. XIII-XIV.

212. Quest'ultimo fatto da Sciarestani, op. cit., p. 132.

213. Makrizi, presso Sacy, Exposé de la religion des Druses, tomo I, p. XIII.

214. Su le sètte del magismo ci danno molto lume Mohammed-ibn-Ishak, autore del Kitâb-el-Fihrist, e Sciarestani ricordato di sopra; i quali vissero l'uno nel decimo, l'altro nell'undecimo secolo, ebbero alle mani gran copia di materiali persiani, ed erano entrambi uomini da saperne cavare costrutto. Ciò non ostante mancaron loro le cognizioni che a noi fornisce lo studio del buddismo, il quale ebbe tanta influenza su le varie sètte dei magi. Per quella d'Ibn-Daisân si vegga il Kitâb-el-Fihrist, MS. di Parigi, Suppl. Ar., 1400, tomo II, fog. 194 recto, e 211 recto e verso; e Sciarestani, op. cit., p. 194, 196. Il Kitâb-el-Fihrist porta il cominciamento dell'eresia d'Ibn-Daisân una trentina d'anni dopo quella dei Marcioniti, ai quali assegna il primo anno d'Antonino imperatore (138), e alla eresia di Mani il secondo anno di Gallo (252).

215. Questa teoria sociale è attribuita a Mani nella compilazione turca della cronica di Tabari, uno squarcio della quale, tradotto in inglese, è uscito alla luce nel Journal of the American oriental Society, tomo I, p. 443, New-Haven, 1849. Si trova altresì nelle compilazioni orientali che compendiano Tabari e si copian tra loro. Io presto fede a tale tradizione per la condizione politica della Persia al tempo di Mani, e perchè Mazdak, predicatore del comunismo in Persia, seguiva la sua scuola. Nondimeno debbo avvertire che non ne fan motto il Kitâb-el-Fihrist, tomo II, fog. 192 verso a 212 verso, nè Sciarestani, op. cit., p. 179 a 196, in lor dottissime analisi della religione manichea.

216. Confrontinsi il Kitâb-el-Fihrist e Sciarestani, ll. cc. Questo passo del Kitâb-el-Fihrist è stato tradotto dà M. Reinaud, Géographie d'Aboulfeda, Introduction, p. CCCLXI.

217. Kitâb-el-Fihrist, tomo II, fog. 203 verso e 209 recto. Quivi si dice del Râís, ossia capo, e della Raîsa, o vogliam dire direzione centrale, de' Manichei a Bâbel, sotto Walîd I (705-715).

218. Secondo il Kitâb-el-Fihrist tomo II, fog. 216 verso e 217 recto, v'ebbe due personaggi nominati Mazdak. Del primo non si dice l'epoca, ma solo ch'ebbe séguito nel Gebâl, Aderbaigian, Armenia, Deilem, Hamadân e Fars. I suoi settatori furon detti Khorramii. Il secondo Mazdâk è quelle di cui si conosce la istoria, e i settatori presero il nome di Mazdakiani.

219. Confrontisi: Procopio, De Bello Persico, lib. I, cap. V; Tabari, compilazione turca, versione del barone De Hammer, nel Journal Asiatique, ottobre 1850, p. 344; Kitâb-el-Fihrist, l. c.; Sciarestani, op. cit., p. 192, seg.; Mirkond, presso Sacy, Antiquités de la Perse, p. 353, seg.; Mogimel-et-Tewârikh, versione di M. Mohl, nel Journal Asiatique di luglio 1852, p. 117, e di maggio 1853, p. 398. Nella Introduzione al Solwân d'Ibn-Zafer, io ho toccato questo punto di storia, mettendo in forse i racconti dei cronisti sul comunismo di Mazdak; e penso tuttavia ch'ei non abbia mandato ad effetto tutte le sue teorie nel tempo che tenne lo Stato. Ma la licenza di quelle teorie non si può negare dopo l'autorevole testimonianza del Kitâb-el-Fihrist, nel quale si cita un trattato speciale di Thelgi su questo argomento.

220. Sciarestani, op. cit., p. 187.

221. Veggasi il Libro I, cap. VI, p. 140 e 141 del 1º volume.

222. Confrontinsi: il Kitâb-el-Fihrist, tomo II, fog. 220 recto, e Sciarestani, op. cit., p. 194. Entrambi noverano la setta di Abu-Moslim tra quelle derivate da Mazdak.

223. Ibn-el-Athîr, anno 141, MS. C,. tomo IV, fog. 125 verso; e Abulfeda che lo copia, Annales Moslemici, an. 141.

224. Ibn-el-Athîr, anni 159 e 161, MS. C, tomo IV, fog. 148 verso e 150 verso; Abulfeda, op. cit., an. 163. Ma seguo la cronologia d'Ibn-el-Athîr.

225. Ibn-el-Athîr, an. 168, MS. A, tomo I, fog. 29 verso.

226. Ibn-el-Athîr, an. 170, MS. A, tomo I, fog. 39 verso.

227. Abulfeda, Annales Moslemici, an. 166.

228. Questo soprannome, al dire d'Ibn-el-Athîr, significa “L'Eterno.” Il nome patronimico era Ibn-Sahl.

229. Così nel Merâsid-el-Ittila'. I cronisti la scrivono con l'articolo. Dando alla lettera dsal il valore di semplice d si pronunzierebbe Bedd, o El-Bedd.

230. Confrontinsi: Kitâb-el-Fihrist, MS. di Parigi, tomo II, fog. 217 recto, seg.; Ibn-el-Athîr, anni 201, 220, 221, MS. C, tomo IV, fog. 191 recto, 203 verso, 205 recto, seg.; Abulfeda, Annales Moslemici, anno 226.

231. Questo nome si trova nel solo Kitâb-el-Fihrist, nè son certo della lezione di quel mediocrissimo manoscritto.

232. Così il Kitâb-el-Fihrist, che toglie ogni dubbio. Makrizi, credendo patronimico il nome di Deisâni, scrisse Meimûn figlio di Deisân; e M. De Sacy sospettò qualche errore nel noto Bardesane; ma nol chiarì. Veggasi la sua Chrestomathie Arabe, tomo II, p. 88 e 94. Ho detto della setta deisanita a pag. 109.

233. Nel Kitâb-el-Fihrist si legge Sce'âbîds, che significherebbe “giochi di mano” o di prestidigitation, come dicono i Francesi. Mi par che qui si debba prendere in senso più generale.

234. I varii racconti che correano su la origine della setta ismaeliana si leggono, più distintamente che altrove, nel Kitâb-el-Fihrist, MS. di Parigi, tomo II, fog. 5 verso a 9 verso, dove l'autore cita un trattato speciale sopra questa setta, scritto per combatterla, da Abu-Abd-Allah-ibn-Zorâm (o Rizâm). Non ostante la diversità delle tradizioni, date come dubbie nel Kitâb-el-Fihrist, mi par che molto ben si connettano insieme e che si possa accettare il grosso di tutti que' fatti. Si veggano altresì Makrizi, presso Sacy, Chrestomathie Arabe, tomo II, p. 88; Sacy stesso, Exposé de la religion des Druses, tomo I, p. LXIII e LXX, seg. — Makrizi sostiene, e M. de Sacy ripete con incredibile semplicità, che Abd-Allah-ibn-Meimûn fabbricasse questa gran macchina, non ad altro fine che di propagare l'ateismo e il libertinaggio!

235. Senza moltiplicare le citazioni mi riferirò al solo Sciarestani, op. cit., testo arabico, p. 15, 16, 127.

236. Kitâb-el-Fihrist, volume citato, fog. 6 recto e verso. Il nome proprio Hamdan è dato da Ibn-el-Athîr. La pronunzia di Kirmit è determinata da Sefedi, Dizionario biografico, MS. di Parigi, Suppl. Ar., 706, articolo sopra Soleiman-ibn-Hasan. Varie etimologie si danno di questo soprannome che al dir del Kitâb-el-Fihrist si riferisce a un castello. Su i fatti si vegga anche Makrizi, presso Sacy, Chrestomathie Arabe, tomo II, p. 89.

237. Ibn-el-Athîr, anno 278, MS. C, tomo IV, fog. 269 verso, dà un lungo ragguaglio su la origine, dottrine e riti dei Karmati; del qual capitolo la parte meno importante fu trascritta dal Nowairi e tradotta dal Sacy, vol. cit., p. 97. Veggasi ancora il Sacy, pag. 126 di esso volume. Il mio giudizio, formato su la tendenza diversa degli Ismaeliani e Karmati, si conferma coi particolari d'Ibn-el-Athîr. Notò anche questa differenza il Taylor nell'opera, The history of Mohammedism and its sects, p. 172, quantunque ei non abbia avuto alle mani tutti i fatti da poterla provare. L'analogia dei Karmati con gli Ismaeliani era stata sostenuta da M. De Sacy, Exposé de la religion des Druses, p. LXIII, seg., e da M. De Hammer, Histoire de l'ordre des Assassins, p. 47, 48, su la fede degli autori musulmani citati da loro. Il Baiân, che allor non si conoscea, contiene a pag. 292, seg., del 1º volume, un racconto sugli Ismaeliani e Karmati; ove si replicano con molti particolari i fatti già noti, e tra gli altri lo scandalo della notte lor festiva detta della Imamîa, e il nome, troppo significativo, di figliuoli della fraternità, dato ai fanciulli che nasceano da que' baccanali.

238. Kitâb-el-Fihrist, MS. di Parigi, tomo II, fog. 6 verso.

239. Su l'associazione ismaeliana si veggano Sacy, Esposé de la religion des Druses, Introduzione; Quatremère, Mémoires historiques sur les Fatimites, nel Journal Asiatique, agosto 1835, e le autorità musulmane citate da essi. Merita molta attenzione il racconto di Makrizi, presso Sacy, Chrestomathie Arabe, tomo II, p. 140, seg., su gli ordini della setta trionfante nel regno dei Fatemiti.

240. Confrontinsi: Warrâk, cronista spagnuolo del X secolo, citato nel Baiân, tomo I, p. 117-118; Makrizi, presso Sacy, Chrestomathie Arabe, tomo II, p. 111, seg.

241. Su questo sito si consulti una nota di M. Cherbonneau, Journal Asiatique, décembre 1852, p. 509.

242. Confrontinsi: Edrisi, Geografia, versione francese di M. Jaubert, tomo I, p. 246; Ibn-Khaldûn, Storia dei Berberi, versione francese di M. De Slane, tomo I, p. 291; Cronica di Gotha, presso Nicholson, An account of the establishment of the Fatemite Dynasty, p. 88.

243. Confrontinsi: Baiân, tomo I, p. 118; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, versione di M. Des Vergers, p. 145-147; Makrizi, presso Sacy, Chrestomathie Arabe, tomo II, p. 113, seg.; Ibn-Hammâd, MS. di M. Cherbonneau, fog. 1 verso.

244. Credo il 22 rebi' primo del 289 (5 marzo 902) più tosto che a mezzo giugno del medesimo anno. L'una e l'altra data si legge nei medesimi autori: ma forse non è errore, e la prima va intesa dello esercizio del potere supremo, la seconda della solenne inaugurazione per la quale forse si aspettò il diploma del califo abbassida. Veggansi le autorità citate qui sopra a p. 77, e Ibn-Abbâr, MS. della Società Asiatica di Parigi, fog. 33 verso, che porta appunto la data del 22 rebi' primo.

245. Il mercoledì ultimo, secondo Ibn-el-Athîr, e penultimo giorno, secondo il Baiân, del mese di sciabân 290. Indi si vede che l'uno segue il calendario astronomico, e l'altro il conto civile, di che si è fatta parola al cap. III del Libro I, pag. 57, del 1º volume.

246. Detto Geziret-el-Kerrâth, ossia “Isola dei Porri.” Così fu chiamato dagli Arabi un isolotto a Capo Passaro in Sicilia, che ritien oggi il nome voltato in italiano. Ma credo qui si tratti della Geziret-el-Kerrâth in Affrica, a 12 miglia da Tunis.

247. Confrontinsi: Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 172 recto, seg., an. 289, e MS. C, tomo IV, fog. 279, stesso anno, e fog. 286 recto, seg., an. 296, e MS. Bibars, an. 289, fog. 129 verso; Ibn-Abbâr, MS. della Società Asiatica di Parigi, fog. 33 verso e 34 recto; Baiân, tomo I, p. 128, 138, 139; Nowairi, Storia d'Affrica, in appendice alla Histoire des Berbères par Ibn-Khaldûn, versione di M. de Slane, tomo I, p. 438 a 440; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, versione di M. Des Vergers, p. 146 a 149; Ibn-Abi-Dinâr, testo MS., fog. 21 verso, e traduzione, p. 87; Ibn-Wuedrân, nella Revue de l'Orient, décembre 1853, p. 429, seg.; Cronica di Gotha, versione di Nicholson, p. 51, 74, 75.

248. Rendo così la voce arabica tâbia, donde lo spagnuolo tapia e credo anco il siciliano taju. In quest'ultima voce la b par mutata dapprima, alla greca, in v, e poscia dileguata nell'j.

249. Confrontinsi: Ibn-el-Athîr, MS. C, tomo IV, fog. 286 recto, seg., an. 296; Ibn-Khallikân, Wefiât-el-'Aiân, versione inglese di M. De Slane, tomo I, p. 465; Baiân, tomo I, p. 133 a 147, e Cronica di Gotha, presso Nicholson, p. 83 a 91; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, versione di M. Des Vergers, p. 150 a 156; Nowairi, Storia d'Affrica, in appendice alla Histoire des Berbères par Ibn-Khaldoun, versione di M. De Slane, tomo I, p. 441 a 447; Makrizi, presso Sacy, Chrestomathie Arabe, tomo I, p. 113 a 115.

250. Secondo i Sunniti era: “Venite alla preghiera ch'è migliore del sonno.” Gli Sciiti corressero: “Venite alla preghiera ch'è l'opera migliore.”

251. Confrontinsi: Baiân, tomo I, p. 137, 141 a 149, e Cronica di Gotha, versione di Nicholson, p. 64, 92, 96, seg.; Makrizi, presso Sacy, Crestomathie Arabe, tomo II, p; 115; Sacy, Exposé de la religion des Druses, tomo I, p. CCLXX, seg.

252. Veggansi le autorità citate da M. Sacy, Exposé de la religion des Druses, tomo I, p. CCXLVII, seg., e Chrestomathie Arabe, tomo II, p. 88 a 92 e 95; e da M. Quatremère, Journal Asiatique, août 1836, p. 99, seg., il primo dei quali sostiene e l'altro confuta le pretensioni dei Fatemiti. Si aggiungano: Kitâb-el-Fihrist, MS. di Parigi, tomo II, fol. 6 verso; Baiân, tomo I, p. 292, seg.; Ibn-Abbâr, MS. della Società Asiatica di Parigi, fog. 37 verso. Non cadendo in dubbio che Sa'îd, o vogliam dire Obeid-Allah, discendesse da El-Kaddâh, i partigiani dei Fatemiti dovean provare la parentela di El-Kaddâh con Ali; ma niuno l'ha fatto.

253. Questo aneddoto è narrato nel Kitâb-el-Fihrist, MS. di Parigi, tomo II, fol. 7 recto, dove Abu-l-Kasem non è detto figliuolo d'Obeid-Allah, come questi lo spacciò e come scrivono tutti gli altri cronisti.

254. Confrontinsi: Tahîa-ibn-Sa'îd, Continuazione degli Annali d'Eutichio, MS. di Parigi, Ancien Fonds, 131 A, fog. 87 verso, seg.; Kitâb-el-Fihrist, MS. di Parigi, tomo II, fog. 6 verso, seg.; Ibn-el-Athîr, an. 296, MS. A, tomo II, fog. 197 verso, e MS. C, tomo IV, fog. 290; Baiân, tomo I, pag. 149, seg.; Cronica di Gotha, versione di Nicholson, p. 100, seg.; Makrizi, presso Sacy, Chrestomathie Arabe, tomo II, p. 114, 115. Traggo la data del 20 agosto 909 da Ibn-Abbâr, MS. della Società Asiatica di Parigi, fog. 38 recto.

255. Confrontinsi: Riâdh-en-nofûs, MS. di Parigi, fog. 67 verso; Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo II, fog. 197 verso, seg.; MS. C, tomo IV, fog. 290, seg., an. 296; Baiân, tomo I, p. 158, 159; Makrizi, Mokaffa', MS. di Parigi, Ancien Fonds, 675, fog. 222 recto; Ibn-Hammâd, MS. di M. Cherbonneau, fog. 3 recto.

256. Confrontinsi Ibn-el-Athîr e Makrizi, ll. cc. Veggasi anche nel Riâdh-en-nofûs, fog. penultimo, verso, un curioso aneddoto che si narra nella iniziazione d'Ibn-Ghâzi.

257. Iahîa-ibn-Sa'îd, continuatore di Eutichio, scrive Rûm, il qual nome si dava ad ambe le schiatte e comprendea perciò i Siciliani. La più parte probabilmente erano cristiani di Sicilia, convertiti o no. Uscì da questi giannizzeri fatemiti Giawher conquistatore del Marocco e dell'Egitto, ch'è chiamato ora Rûmi ed or Sikîlli, ossia siciliano.

258. Si legge nel Baiân, tomo I, p. 175 e 184, che il Mehdi nel 303 (915-16) fece il catasto dei poderi tributarii (dhi'â) prendendo la media tra il massimo e il minimo fruttato; e che nel 305 (917-18) levò una tassa addizionale sotto pretesto di arretrati. La sottile avarizia della finanza fatemita si ritrae da tante altre fonti.

259. Iahîa-ibn-Sa'îd, fog. 89 recto.

260. Riâdh-en-nofûs, fog. 67 verso. Il testo dice: “Prese i beni de' lasciti pii e delle fortezze.” Quest'ultima voce significa senza dubbio le città di provincia.

261. Riâdh-en-nofûs, l. c.; Ibn-Hammâd, MS. di M. Cherbonneau, fog. 2 recto.

262. Iahîa-ibn-Sa'îd, l. c.

263. Confrontinsi: Ibn-el-Athîr, an. 296, MS. A, tomo II, fog. 198 verso, e MS. C, tomo IV, fog. 290 verso; Ibn-Khallikân, nella vita di Abu-Abd-Allah lo Sciita, versione inglese di M. De Slane, tomo I, p. 465; Baiân, tomo I, p. 158, seg.; Ibn-Abbâr, MS. della Società Asiatica di Parigi, fog. 38 recto; Ibn-Hammâd, MS. de M. Cherbonneau, fog. 2 recto e verso.

264. Iahîa-ibn-Sa'îd, fog. 89 verso.

265. Non si trovava modo di pesar coteste masse di ferro. Egli usò una barca da bilancia idrostatica, caricandovi le porte e segnando ove arrivasse il pel dell'acqua. Alle porte fu sostituita poi tanta zavorra; e questa si pesò coi modi ordinarii.

266. Confrontinsi: Bekri, versione di M. Quatremère nelle Notices et Extraits de MSS., tomo XII, p. 479, seg.; Iahîa-ibn-Sa'îd, Continuazione d'Eutichio, MS. di Parigi, Ancien Fonds, 131 A, fog. 89 verso; Ibn-el-Athîr, an. 303, presso Tornberg, Annales Regum Mauritaniæ, tomo II, p. 373; Ibn-Abbâr, MS. della Società Asiatica di Parigi, fog. 38 recto.

267. Ibn-el-Athîr, an. 289, MS. A, tomo II, fog. 172 recto; MS. C, tomo IV, fog. 279 recto; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 146; Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 11.

268. Nowairi, l. c. I fasti della famiglia Ribbâh si veggano nel Vol. I della presente istoria, p. 321, 322, 330, 343, 353, principiando da Ia'kûb-ibn-Fezara, padre di Ribbâh.

269. Confrontinsi: Nowairi, l. c., e Chronicon Cantabrigiense, p. 44, dove si legga Ibn-Ribbâh, in luogo di Ibn-Ziagi.

270. Nowairi, l. c.

271. Si legge nella Cronica di Gotha, versione del Nicholson, p. 79, che nel 294 (906-7) Ziadet-Allah mandò ambasciatori a Costantinopoli ed accolse onorevolmente a Rakkâda un oratore bizantino.

272. Riâdh-en-nofûs, manoscritto di Parigi, fog. 67 verso.

273. Abd-Allah-ibn-Sâigh, ultimo vizir di Ziadet-Allah, s'era imbarcato per la Sicilia quando il principe prese la fuga. Veggasi Nowairi, Storia d'Affrica, in appendice alla Histoire des Berbères par Ibn-Khaldoun, versione di M. De Slane, tomo I, p. 444. Certamente Ibn-Sâigh non fu il solo a tentar questa via.

274. I fatti esteriori si ritraggono riscontrando Ibn-el-Athîr e Nowairi, ll. cc.; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, trad. di M. Des Vergers, p. 158, 159; Abulfeda, Annales Moslemici, an. 296, presso Di Gregorio, p. 78; Scehab-ed-dîn, ibid., p. 59.

Il nome compiuto di Ibn-abi-Khinzîr si legge nel Baiân, tomo I, p. 148; al par che l'oficio di wâli, conferito dallo Sciita, a lui nella città di Kairewân e ad un altro fratello per nome Khalf nel Castel-vecchio. Ibn-Khaldûn, l. c., afferma che Ibn-abi-Khinzîr fosse stato dei notabili della tribù di Kotama. Lo credo, piuttosto dei principali della setta, ma di schiatta arabica. L'Haftariri che si legge tra i nomi di questo governatore di Sicilia nella versione latina di Abulfeda, è falsa lezione di Abi-Khinzîr. Questo soprannome poi del padre, suona in lingua nostra “Quel dal cinghiale.”

È bene avvertire che il Rampoldi, Annali Musulmani, an. 909, tomo V, p. 119, 123; sognò un viaggio del Mehdi in Sicilia e parecchi aneddoti della sollevazione di Palermo contro Ahmed-ibn-abi-Hosein-ibn-Ribbâh; i quali non sembrano errori di compilatori arabi ch'egli avesse avuto per le mani, ma particolari aggiunti del proprio al Nowairi e agli annali chiamati di Scehab-ed-dîn.

275. Il nome di costui si legge nel Baiân, tomo I, p. 129.

276. Ibn-el-Athîr e Ibn-Khaldûn, ll. cc.

277. Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 12.

278. Idem, p. 13, e Chronicon Cantabrigiense, presso Di Gregorio, p. 44.

279. Ibn-el-Athîr e ibn-Khaldûn, ll. cc.

280. Baiân, tomo I, p. 158 a 172.

281. Il solo cronista che racconti questo episodio adopera qui una voce che può significare: “suppose o diede a credere.”

282. Al dir dei cronisti, più degni di fede, lo Sciita fu assassinato di febbraio 911. Il tumulto di Palermo accadde nella state seguente o più tardi; poichè Ibn-abi-Khinzîr, venuto d'agosto 910, andò all'impresa di Demona nella primavera o nella state del 911.

283. Sâheb-el-Khoms. Per errore del Caruso (Chronicon Cantabrigiense, an. 6421), seguito dal Di Gregorio, dal Martorana e dal Wenrich, questo titolo di oficio fu tradotto “Signore d'Alcamo:” ed è sbaglio da non perdonarsi ad orientalista. M. Caussin, che v'era caduto anch'egli, cercò di correggerlo nella versione francese del Nowairi, pubblicata in Parigi, p. 24.

284. Si confrontino: Ibn-el-Athîr, an. 296, MS. A, tomo II, fog. 198 verso; MS. C, tomo IV, fog. 290; Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 12, 13; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 159. I particolari del tumulto e il governo provvisionale di Khalîl son riferiti dal solo Nowairi. Ho seguíto quest'ultimo per la data dell'arrivo di Ali-ibn-Omar in Sicilia.

Ibn-el-Athîr, an. 296, MS. A, tomo II, fog. 200 recto; e MS. C, tomo IV, fog. 290 verso, nel capitolo intitolato “Racconto della uccisione di Abu-abd-Allah lo Sciita,” narra la rivolta di un Ibn-Wahb in Sicilia. Riscontrandola coi capitoli dei fatti di Sicilia posti sotto la rubrica del 296 e del 300, si vede che quella narrazione non regge; e che fu tolta, senza molta critica, da qualche racconto della rivoluzione d'Ibn-Korhob nel 300, nel quale erano sbagliati il nome e la data.

285. Così in uno squarcio di A'rib, inserito nel Baiân, tomo I, p. 169. Gli altri cronisti, accorciando, scrivono Ahmed-ibn-Korhob.

286. Veggasi il Lib. II, cap. IX, tomo I, p. 400, nota.

287. Mohammed-ibn-Sirakusi eletto emir nel 903. Siracusa fu presa, distrutta e abbandonata nell'878. Il padre dunque non poteva esser nato in quella città, e dovea il nome di Siracusano alla vittoria.

288. Ibn-el-Athîr, an. 300, MS. A, tomo II, fog. 206 recto; MS. B, tomo IV, fog. 293 recto. Il primo MS. in vece della lezione “domi” ha “disperda.” Questo squarcio fu dato da M. Des Vergers, nello Ibn-Khaldûn, p. 161, nota.

289. Ibn-el-Athîr, an. 300, MS. A, tomo II, fog. 205 verso, MS. C, tomo IV, fog. 293; Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 13; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 159.

290. Baiân, tomo I, p. 169.

291. Chronicon Cantabrigiense, presso Di Gregorio, op. cit., p. 44.

292. Baiân, l. c.

293. Ibn-el-Athîr, Baiân, Nowairi, Ibn-Khaldûn, ll. cc. La data precisa nella sola Cronica di Cambridge, l. c.

294. Ibn-el-Athîr, l. c.

295. Ibn-el-Athîr, an. 300, MS. A, tomo II, fog. 205 verso; MS. B, tomo IV, fog. 293 recto; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 159.

296. Nè la lettera nè il senso dei testi fan supporre che Ibn-Korhob abbia preso tal partito dopo l'ammutinamento di Taormina, e per rimediarvi.

297. Di coteste riflessioni non è risponsabile alcun cronista.

298. Confrontinsi Ibn-el-Athîr, Baiân, Nowairi, Ibn-Khaldûn, ll. cc.

299. Ciò si vede dall'ordine dei fatti presso Ibn-el-Athîr e Ibn-Khaldûn.

300. Veggasi il Baiân, tomo I, anni 300 e seguenti; Ibn-Khaldûn, Storia dei Fatemiti, in appendice alla Histoire des Berbères etc. del medesimo autore, versione di M. De Slane, tomo II, p. 524.

301. Si confrontino: Chronicon Cantabrigiense, l. c., an. 6422; Ibn-el-Athîr, l. c.; Baiân, anni 300 e 301, tomo I, p. 169 e 172; Ibn-Khaldûn, Storia d'Affrica, e Storia dei Fatemiti, ll. cc. Le date si ritraggon dalla sola Cronica di Cambridge.

302. Baiân, tomo I, p. 169.

303. Ibn-el-Athîr, l. c. senza porre la data a ciascun fatto della rivoluzione d'Ibn-Korhob, ch'ei narra in un fascio nel 300.

304. Chronicon Cantabrigiense, l. c., an. 6423. Secondo la cronologia seguita costantemente in questa cronica, la data torna senza dubbio al 914. Ma supporrei piuttosto uno sbaglio del cronista, che lo armamento di due navilii siciliani al medesimo tempo, ovvero tale rapidità di movimenti dell'unica armata, che avesse vinto il 18 luglio a Lamta, poi osteggiato Sfax e Tripoli, poi toccato il porto di Palermo, e si fosse trovata finalmente ne' mari di Calabria il lº settembre. Il nome di luogo è scritto nel testo senza punti diacritici.

305. Ibn-el-Athîr, l. c., il quale non parla del naufragio in Calabria.

306. Θαλαμηπόλος.

307. Nel IX secolo il χρυσίον valea da 13 a 14 franchi in peso di metallo.

308. Cedreno, ediz. Niebuhr, tomo II, p. 355.

309. La guerra coi Bulgari, condotta dopo il trattato con la Sicilia, fu combattuta il 917; Romano Lecapeno fu coronato a' 17 dicembre 919; la ribellione di Calabria segui nel 920 e 921. Pertanto il Le Beau, Histoire du Bas Empire, lib, 73, cap. XIII, con buona critica ha posto il trattato di Sicilia nel 916. Un cenno di Giorgio Monaco, ediz. Niebuhr, p. 880, porterebbe questo fatto alla 3ª indizione (914-15). Ad ogni modo, come dalla state del 916 alla primavera del 917 non v'ebbe in Sicilia alcun governo, così par che il trattato si debba mettere avanti la ristorazione dell'autorità fatemita, e però al tempo d'Ibn-Korhob. Posporre non si dee, sapendosi che un'armata del Mehdi assaliva Reggio, d'agosto 918.

Ma anche lasciato da parte lo esame se il trattato si fosse fermato nel 915 nel 918 e anche 919, prima dell'esaltazione di Romano Lecapeno, egli è certo che non si può collocare nel 928 come ha creduto il Martorana (tomo I, p. 86), seguito dal Wenrich (lib. I, cap. XII, § 105). Il Martorana ha preso i particolari del trattato da Cedreno e la data da Nowairi. Ma parmi evidente che questa si debba riferire, non al trattato primitivo, ma alla rinnovazione di quello tra Costantinopoli e i Fatemiti; come spiegherò a suo luogo, nel capitolo seguente.

310. Questo nome, dato dal solo Nowairi, è senza vocali nel manoscritto. Senza dubbio non è patronimico, ma soprannome; e, come io lo leggo, significa “Quel dal collo e faccia irsuti di peli.”

311. Veggasi il capitolo seguente. L'assedio incominciò il 14 giugno 916. L'accusa sarebbe stata ingiusta, perchè i ladroni del Garigliano non ubbidivano all'emir di Sicilia. Ma quando mai l'umor di parte giudicò giusto i nemici?

312. La data precisa è nella sola Cronica di Cambridge. Rispondevi con pochissimo divario il Baiân, ponendo l'imprigionamento d'Ibn-Korhob nell'anno 303, che finì il 3 luglio 916, e l'arrivo a Susa nel mese di moharrem 304, cioè dal 4 luglio al 2 agosto.

313. Bab-es-selm.

314. Confrontinsi: Chronicon Cantabrigiense, an. 6424 (1º settembre 915 a 31 agosto 916), presso Dì Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 44; Baiân, an. 303 e 304, tomo I, pag. 175, 176; Ibn-el-Athîr, an. 300, MS. A, tomo II, fog. 206 recto, MS. C, tomo IV, fog. 293 recto; Nowairi, presso Di Gregorio, p. 13; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 160, 161 e Storia dei Fatemiti, in appendice alla Histoire des Berbères, etc., tomo II, p. 525. Ibn-el-Athîr, Ibn-Khaldûn che lo copia e Nowairi, pongono tutti i fatti, con error di data, nel 300.

315. Baiân, an. 304, l. c.

316. Iahia-ibn-Sa'îd, continuatore degli annali di Eutichio, MS. di Parigi, fog. 89 verse, accennando la rivoluzione d'Ibn-Korhob, la dice domata da un capitano, del Mehdi per nome Bagana o Bogona, etc., (ch'ei non mette vocali) il quale ridusse anche le città ribelli di Barca e Tuggurt. Non ostante la inesattezza della narrazione, è evidente che si tratti di Abu-Sa'îd ch'avea forse quell'altro nome, berbero, com'ei mi suona all'orecchio.

317. Confrontinsi; Chronicon Cantabrigiense, Ibn-el-Athîr, Baiân, Nowairi, Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, ll. cc. Il Rampoldi, tomo V, anni 914, 915, 916, 917, rimpastò e trinciò a modo suo tutti questi avvenimenti, tolti dalla Cronica di Cambridge e da Nowairi. Il Martorana, tomo I, p. 81, e il Wenrich, lib. I, cap. XI, § 103, han fatto d'un solo due capitani: Musa-ibn-Ahmed, e Abu-Sa'îd-Aldhaif; e il Wenrich ha fatto venire bi Sicilia il primo nel 913, e l'altro nel 916.

318. Confrontinsi: Chronicon Cantabrigiense, Ibn-el-Athîr, ll. cc.

319. Si vegga la nota a p. 68, 69, di questo volume. Il mare dell'antico porto si è ritirato notabilmente in pochi secoli; sia per sollevamento del suolo, sia per alluvione del fiume Papireto, sia per l'uno e per l'altro insieme. L'anno 972, quando venne in Palermo Ibn-Haukal, il gran porto giacea nel quartiere delli Schiavoni (chiesa di San Domenico, contrada del Pizzuto ec.), e l'arsenale, alla Khâlisa, cittadella fabbricata dai Fatemiti il 937; la quale, dice Ibn-Haukal, era circondata dal mare, fuorchè dalla parte di mezzogiorno. Indi è evidente che le acque occupavan quella che si chiama tuttavia “Piazza della marina” ancorchè più non guardi il mare. Fazzello afferma che al principio del XVI secolo, tirando gagliardi venti di tramontana, le onde batteano una porta della città e allagavan la piazza contigua, e che ciò non avveniva più quand'egli scrisse, cioè verso il 1530. (De rebus siculis deca l, lib. VII, cap. I.) In oggi il mar grosso di greco-tramontana, che dà per dritto entro la Cala, manda appena qualche sprazzo a piè delle case e ricaccia i rigagnoli dentro gli aquidotti della Piazza-marina. Però io credo che al principio del X secolo i due bracci fossero stati sì bassi da non potervisi far soggiorno. Alla punta di quel di Tramontana è in oggi il Castello, fabbricato sopra scogli a fior d'acqua. Il braccio della Kalsa o Gausa, come si chiama tuttavia questo quartiere ed è la Khâlisa Fatemiti si distingue tuttavia benissimo a quella schiena che s'alza, tra la passeggiata della marina propriamente detta e la Piazza della marina. Quivi sono il palagio Butera, la strada dello stesso nome, la chiesa della Catena (del porto antico), la Zecca, i Tribunali, dei quali edifizii il più antico arriva al XIV secolo; e sursevi fino al 1821 la chiesa della Kalsa, ch'era anche del XIV o XIII.

320. Ibn-el-Athîr, l. c. Le circostanze locali ch'ei narra stan bene nell'uno e nell'altro braccio, e la testimonianza d'Ibn-Haukal, che il porto giacea nel quartier delli Schiavoni, non toglie il dubbio; poichè la Khâlisa avea pur l'arsenale, o porto militare. Anzi è probabile che il braccio settentrionale, come più basso dell'altro e però paludoso, non fosse atto per anco a porvi un campo.

321. La data e i nomi degli ambasciatori si leggono nella cronica di Cambridge; il cenno di Girgenti e altre città in Ibn-el-Athîr. Awa o Uwa par nome proprio berbero.

322. Questo si legge nella sola Cronica di Cambridge. Il Caruso e gli orientalisti che lo aiutarono alla pubblicazione, lessero Tariain e interpretarono due tari. Ma oltrechè la voce tari si scriverebbe in arabico dirhem, il manoscritto ha chiaramente harbatain, che va letto kharrobatain, e significa due kharrobe, maniera di peso e di moneta, la cui denominazione pare tradotta dal latino siliqua. La moneta torna a 140 di dinâr; e però 0,36 di lira italiana. L'oncia di sale costava dunque 0,72: probabilmente l'oncia romana, che fu in uso in Sicilia fin, dopo la dominazione musulmana e ne fa menzione Edrisi. Secondo il valore che le dà Edrisi, non molto diverso da quello dell'antica oncia romana, tornerebbe all'incirca a 30 grammi.

323. Si confrontino: Chronicon Cantabrigiense, l. c., an. 6425 e 6426; Ibn-el-Athîr, l. c.; Baiân, e 'Arîb, an. 304, tomo I, p. 176; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 161, 162. Ibn-Khaldûn erroneamente suppone in Trapani la guerra che fu in Palermo. Il Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 13, la confonde coi fatti di Girgenti. Il nome del nuovo emiro è scritto nella Cronica di Cambridge, Sâlem soltanto; nel Baiân, Sâlem-ibn-abi-Râscid; in Ibn-Khaldûn, Sâlem-ibn-Râscid; nel Nowairi, Sâlem-ibn-Ased-el-Kenâni. Credo si debba correggere Kotâmi; non essendo verosimile che il Mehdi avesse posto un arabo della tribù di Kinâna, sopra le soldatesche della tribù berbera di Kotâma, lasciate in Sicilia.

324. Veggasi il Lib. II, cap. XI, pag. 440 e 458, seg.

325. Probabilmente eran di questi drappelli i Musulmani che insieme coi Napoletani uccisero trenta cittadini di Capua l'anno novecento cinque. Veggasi Chronicon Sancti Benedicti, presso Pertz, Scriptores, ec., tomo III, p. 206.

326. Liutprando, Antapodesis, lib. II, cap. XLIV, XLV.

327. Veggasi il primo Vol., p. 113.

328. Munitiones, dice Liutprando; turres, il monaco Benedetto di Sant'Andrea.

329. Liutprando, l. c.

330. Chronicon comitum Capuæ, presso Pertz, Scriptores, ec., tomo III, p. 208.

331. Chronica Sancti Benedicti, presso Pertz, stesso volume, p. 206. Probabilmente vuol dire dei Longobardi di Capua e Benevento e dei Napoletani.

332. Leo Ostiensis, lib. I, cap. L.

333. Op. cit., cap. LII.

334. Il diploma di Gregorio duca di Napoli tratta anco di altri patti internazionali con Benevento, come per esempio le leggi secondo le quali giudicarsi le liti tra sudditi dei due Stati. È dato la 14ª indizione, e trascritto in un diploma del duca di Napoli Giovanni, presso Pratilli, Historia Principum Langobardorum, tomo III, p. 228.

335. Oggi Manfredonia.

336. Chronicon comitum Capuæ, l. c. Questo Alliku è quel che la cronica dice califo degli Agareni di Traietto e Garigliano.

337. Ibidem.

338. Chronicon Vulturnense, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo I, parte II, p. 418. La cronica dice avvenuto questo fatto verso il 916.

339. Chronicon Farfense, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo II, parte II, p. 454.

340. Benedicti Sancti Andreæ monachi Chronicon, cap. XXVII, presso Pertz, Scriptores, ec., tomo III, p. 713.

341. Liutprando, op. cit., lib. II, cap. XLIV, XLV.

342. El-mugawer in arabico significa scorridore, o, come or dicesi, guerrigliero.

343. Liutprando, ibid., cap. XLIX, L.

344. Civitatis vetustate consumpta, (il monaco Benedetto non è scrupoloso in fatto di concordanze) nomine Tribulana.

345. Benedicti Sancti Andreæ monachi, op. cit., cap. XXIX.

346. Si confrontino: Liutprando, Antapodesis, lib. II, cap. XLIX e LIV, presso Pertz, Scriptores, ec., tomo III, p. 297, 298; Chronicon comitum Capuæ presso Pertz, stesso vol., p. 208; Annales Cassinatenses, ibid., p. 171; Annales Beneventani, ibid., p. 174; Chronicon Benedicti Sancti Andreæ etc., ibid., p. 713, 714; Chronicon Farfense, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo II, parte II, p. 455; Chronicon Pisanum, presso Muratori, ibid., tomo VI, p. 107, seg., an. 917; Lapo Protospatario, presso Pertz, Scriptores, ec., tomo V, p. 53; Marangone, nell'Archivio Storico Italiano, tomo VI, parte II, pag. 4, an. 907; Leonis Ostiensis, lib. I, cap. LII. Le autorità principali sono Liutprando e Benedetto di Sant'Andrea, contemporanei; e Leone d'Ostia, ch'ebbe alle mani ricordi contemporanei. La data varia; ma si determina con l'incoronamento di Berengario.

347. I fatti de' Musulmani di Frassineto sono stati con molta critica ricercati e lucidamente esposti da M. Reinaud nell'opera: Invasions des Sarrazins en France etc., parte III.

348. Si vegga il lib. II, cap. XI.

349. Si vegga il capitolo precedente.

350. Cedreno, ediz. Niebuhr, tomo II, p. 355, 356.

351. Su gli stanziali ed eunuchi slavi comperati dai principi musulmani in cotesti tempi, si vegga Reinaud, Invasions des Sarrazins en France etc., parte IV, pag. 233, seg. — I nostri antichi non son mica esenti di biasimo nel commercio degli schiavi. Nell'ottavo secolo i Veneziani ne cavavano gran guadagno e ne teneano mercato anche a Roma. Il papa Zaccaria lo vietò nel 748. Veggasi Anastasio Bibliotecario presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo III, p. 164. Carlomagno riprese Adriano I nel 785 di tollerare questo scandalo; e il papa si scusò dicendo che lo faceano i Greci e i Longobardi. Veggasi Codex Carolinus, ediz. Gretser, epist. 75. Altri divieti simili ai Veneziani nell'887 e 960 sono notati dal Muratori, Annali d'Italia, 960.

352. Leonis imperatoris, Tactica, cap. XVIII, presso Meursius, Opera, tomo IV, e versione francese di Maizeroi.

353. Su questa promiscuità di schiatte che si menavano al mercato, veggansi le autorità allegate da M. Reinaud, op. cit., p. 235, 236.

354. Constantini Porphyrogeniti, De administrando imperio, cap. 29, 31, 49, 50. Si confronti con l'importante studio di Lelewel, Géographie du moyen age, Bruxelles 1852, tomo III, capitolo Slavia.

355. Con queste bande di schiavi, la più parte forse non Musulmani, si poteva eluder la legge che accorda quattro quinti della preda ai combattenti. Si vegga più innanzi l'aneddoto del bottino d'Oria.

356. Chronicon Cantabrigiense presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 45, an. 6246 (1º settembre 917 a 31 agosto 918). Debbo qui accennare altre fazioni che si sono supposte. Il Rampoldi, Annali Musulmani, 919, 921 (tomo V, p. 148, 150), fa occupare da Salem-ibn-Râscid, emir di Sicilia, prima Lipari, pei vari luoghi sul Volturno e sul Garigliano; e lo fa combattere a capo d'Anzio contro Giovanni X. Quest'ultima è ripetizione gratuita del fatto del 916 del Garigliano. Il nome di Salem è tolto da Nowairi; quel di Lipari non so donde; il resto è accozzato di fantasia su qualche cenno degli annalisti italiani. Il Martorana, tomo I, p. 84, ed il Wenrich, lib. I, cap. XII, § 104, replicano cotesti fatti, citando Rampoldi, che ne dee rispondere veramente, e il Giannone, lib. VII, cap. IV; il quale non recò tutte quelle favole, ma confusamente vi accennò e v'aggiunse una novella banda saracena afforzatasi al Gargano. Così gli parve correggere la voce Garigliano e con essa l'anacronismo di Liutprando, Antapodesis, lib. II, cap. XLV.

Si legge nel Muratori, Annali d'Italia, e indi in quei che l'hanno compendiato o anche combattuto. Che nel 919 Landolfo e Atenolfo riportassero non poche vittorie sopra i Saraceni a i Greci. La sorgente è un passo della Cronica del monastero al Volturno, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo I, parte II, p. 418, nel quale si fa quel vago cenno senza data, dopo un documento del 916. Ma il testo si riferisce in generale al regno di que' due principi, e però allude alle vittorie che riportarono contro i Musulmani del Garigliano il 916 e innanzi, e contro i Bizantini dopo il 920.

Finalmente le interpolazioni alla Cronaca della Cava e la falsa Cronica di Calabria, portano tanti scontri dei paesani coi Musulmani; di che il Martorana ha accettato alcuni e altri no.

357. Questo è dei nomi che i Musulmani solean porre agli schiavi.

358. In Calabria sola v'ha tre luoghi di tal nome.

359. Confrontinsi: Chronicon Cantabrigiense, l. c., an. 6432 (1º settembre 923 a 31 agosto 924), e Baiân, tomo I, p. 192, an. 310 (30 aprile 922 a 19 aprile 923).

360. Baiân, tomo I, p. 194, an. 312 (8 aprile 924 a 27 marzo 925).

361. Chronicon Cantabrigiense, l. c., an. 6433. Il nome è scritto senza punti diacritici; ma Bruzzano par la lezione più plausibile.

362. Chronicon Barense, presso Muratori, Antiquitates Italicæ, tomo I, p. 31; e Lupo Protospatario, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo V, p. 38; dei quali il primo attribuisce l'impresa ai Saraceni, e parla di uccisi e di prigioni; il secondo la riferisce agli Sclavi, l'anno 924.

363. Sciabtai (o Sabbathai) Donolo, prefazione al libro Hakmoni, nella raccolta di Miscellanee ebraiche, intitolata Melo-Sciofnayim, e pubblicata dal signor Geiger, rabbino di Breslau, Berlino 1840, p. 31; da confrontarsi col MS. ebraico della biblioteca imp. di Parigi, Ancien Fonds, 266. Il nome della città, scritto senza segni vocali aur s, fece supporre una volta che si trattasse di Aversa; ma non è dubbio che vada letto Aurias. Il giorno della occupazione è il lunedì 9 di tammuz dell'anno ebraico 4685. Debbo cotesti ragguagli al dotto orientalista signor Derembourg, che ha esaminato il MS. di Parigi.

Donolo (Δόμνουλος) ricomparisce medico famoso in Calabria verso la metà del decimo secolo, e rivaleggia in sua arte col taumaturgo San Nilo il giovane. Veggasi Vita sancti patris Nili junioris etc., greco-latina, pubblicata da Gio. Mat. Caryophilo, Roma 1624, in-4, p. 88.

364. Baiân e 'Arîb, tomo I, p. 195.

365. Il mithkâl è nome di peso, e in oro equivale al dinar, ch'io ragiono a un di presso a lire 14,50.

366. Chronicon Cantabrigiense, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 46, an. 6434 (1º sett. 925 a 31 agosto 926). La testimonianza concorde di Lupo Protospatario, del Baiân e di Sciabtai Donolo ci fa supporre che la Cronica di Cambridge abbia registrato il fatto nel settembre, quando forse arrivò in Palermo Gia'far con la preda e i prigioni. Il Baiân e la detta Cronica mi è parso che accennassero a due patti diversi; l'uno per la città d'Oria, l'altro per tutta la Calabria; sotto il qual nome andava anco la terra d'Otranto. Di quale diocesi in Sicilia fosse vescovo Leone non si ritrae. Non era egli al certo lo stratego di Calabria, come ha supposto il Wenrich (lib. I, cap. XII, § 105, p. 141), male interpretando la Cronica di Cambridge, e non riflettendo che l'impero bizantino non affidò mai governi ai vescovi.

367. Il 25 rebi' secondo del 313. Baiân, l. c. Il testo dice positivamente che Gia'far arrivò in Sicilia quel giorno. Le altre autorità citate mi portano a correggere che partì per la Sicilia quel giorno.

368. Sciabtai Donolo, l. c.

369. Nel testo, dibâg, che è corruzione della voce greca δίβαφος, pervenuta agli Arabi per mezzo dei Persiani, i quali la scrivono dibâh.

370. Baiân, l. c.

371. Lupo Protospatario, l. c.

372. Cedreno, ediz. di Parigi, tomo II, p. 650; ediz. di Bonn, II, 356, seg.

373. Il nome nel testo è φατλοῦν; forse dovea dire φατμοῦν, perchè il Mehdi non ebbe tra i suoi nomi questo di Fadhl; e, da un'altra mano, le lettere λ e μ si scambiano assai facilmente nei manoscritti greci. Le Beau, Histoire du Bas Empire, lib. LXXIII, § 53, pone questa negoziazione nel 923, ch'è la data d'una delle tante imprese di Simeone contro Costantinopoli. Ma la narrazione del Cedreno si può ben applicare ai tre anni seguenti, fino alla morte di Simeone. D'altronde, la pratica di Simeone col Mehdi precedette forse di parecchi anni la conchiusione della pace tra il Mehdi e Romano.

374. Liutprando, Antapodesis, lib. II, cap. LXV, presso Pertz, Scriptores, tomo III, p. 296. Si sa che l'autore cominciò a scrivere a Francfort verso il 958. Pertz, vol. cit., p. 264.

375. Romano Lecapeno salì al trono il 919; regnò solo dal 920; perdè la Calabria il 921. I Musulmani si afforzarono ai Garigliano verso l'882, e ne furono scacciati il 916.

376. Il monaco dello stato romano Benedetto di Sant'Andrea, che scrisse negli ultimi anni del decimo secolo una rozza cronica infiorata di romanzi, accenna (presso Pertz, Scriptores, ec., tomo III, p. 713); le ambascerie dei Romani a Palarmo et Africe, perchè venissero a pigliare il regno d'Italia, e dice ch'essi andarono per tal cagione ad Amalfi e al Garigliano. Ma ciò si riferisce evidentemente alle pratiche d'Atanasio vescovo di Napoli (879-882), e non avvalora le parole di Liutprando, nè porta ad anacronismi.

377. Non ci dee ritenere la grande autorità del Machiavelli, il quale accettò il racconto di Liutprando in un quadro generale (Istorie fiorentine, lib. I, nel paragrafo che principia “Era intanto morto Carlo imperatore”). Ognun sa che ai tempi del Segretario Fiorentino le sorgenti della storia d'Italia erano la più parte ignote o incerte. La stessa ragione non vale a favor del Giannone, lib. VII, cap. IV; e molto meno del Martorana, tomo I, p. 84, cap. III, e del Wenrich, lib. I, cap. XII, § 104, p. 139, 140.

378. Confrontinsi: Lupo Protospatario e la Cronaca di Bari, presso Pertz, Scriptores, tomo V, p. 54; Chronicon Sanctæ Sophiæ Beneventi, presso Muratori, Antiquitates Italicæ, tomo I, p. 253; Romualdo Salernitano, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo V, an. 926. L'indizione 15ª corregge lo sbaglio della Cronica di Bari che dà l'anno 928. Il nome d'Istachael scritto in alcune edizioni di Lupo, va letto Michael.

379. Si confrontino: Ibn-el-Athîr, an. 313, MS. A, tomo II, fog. 234 verso; e MS. C, tomo IV, fog. 304 recto; Baiân, tomo I, p. 199, an. 315 (7 marzo 927 a 23 febbraio 928); Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 13, 14, an. 316; Lupo Protospatario, e Cronica di Bari, l. c., an. 927; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 162. Nella Cronologia historica, di Hazi Halife (Hagi Khalfa), versione del conte Carli, Venezia 1697, p. 59, si legge questa impresa di Taranto, che manca nel testo persiano di Parigi.

Debbo avvertire che la discrepanza delle croniche mi sforza ad ordinare i fatti alla meglio, senza la certezza ch'io soglio ricercare. Per esempio, un dice che Sâin venne con 44 navi; un altro gli dà 33 navi da guerra; chi parla delle forze unite di Sâin e dell'emir di Sicilia, chi di Sâin solo; chi sbaglia evidentemente le date; chi confonde in un sol anno tutte le imprese; chi pone i nomi geografici, e chi no; chi li scrive in guisa da doversi indovinare la giusta lezione. Ciò sia detto per tutte queste fazioni dal 927 al 929.

380. Ibn-el-Athîr e Nowairi, ll. cc. Prendo la data dalla Cronica di Cambridge, l. c., an. 6436 (1º settembre 927 a 31 agosto 928), ove credo si debba leggere Otranto in vece di Zarniwah, che fu messo a caso nelle edizioni precedenti. Otranto si legge chiaramente negli altri due autori citati.

381. Si vegga la nota 3, a pag. 173 di questo volume.

382. Il Baiân, sola sorgente di questo fatto, adopera la voce thiâb, plurale di thaub; e significherebbe vestimenta, in generale, ovvero, secondo l'uso moderno d'Egitto, un camicione che le donne soglion mettere sopra tutti gli altri abiti quand'escono fuor di casa: una specie di dominò. Si vegga Dozy, Dictionnaire détaillé etc., p. 106. Ma Ibn-Haukal parlando appunto di Napoli, come si vedrà nella nota seguente, usa la stessa voce al singolare e al plurale, nel significato certissimo di tela di lino in pezza. Le pezze che valean da cinque a secento lire ciascuna non faceano ingombro: e così interpretato parrà più verosimile questo passo del Baiân.

383. Ibn-Haukal, testo arabico, nella mia Biblioteca Arabo-Sicula, p. 10, 11, cap. IV, § 2. Probabilmente questo infaticabile viaggiatore andò a Napoli poco prima o poco appresso di Palermo, ove si trovò l'anno 362 dell'egira (972-3). Ibn-Haukal dice aver veduto egli stesso a Napoli questi bellissimi tessuti di lino, che da un'altra espression del testo possiam supporre anco ricamati ovvero operati a damasco. Ogni thaub, lungo 100 dsira' e largo da 10 a 15, si vendea più o meno 150 ribâ'i, o vogliam dir quarteruoli d'oro. Cotesta moneta usata in Sicilia dal X al XII secolo torna in peso di metallo a lire 3,80. La dsira', o dra, come pronunzian oggi, vuol dir braccio; e tra le varie maniere, che ve n'ebbe e ve n'ha in Oriente, è probabilissimo che Ibn-Haukal abbia ragionato con quella chiamata “negra” ch'era a un di presso 0,48 metri. S'aggiunga questo agli altri copiosi materiali che abbiamo per la storia dell'industria italiana nel medio evo. Spieghin poi gli eruditi il lavorío di cotesta tela sì fina, larga da 5 a 7 metri, che si vendea 570 lire la pezza di 48 metri, e dicano se si debba supporre errore nei numeri scritti da Ibn-Haukal.

384. Confrontinsi: Chronicon Cantabrigiense, l. c., an. 6437 (1º settembre 928 a 31 agosto 929), e Nowairi, l. c. La prima dice che in Lombardia non fu espugnata da Sâin alcuna “città;” e ciò si accorda con la tradizione del Baiân, citata di sopra. La data posta nella Cronica di Cambridge par quella del ritorno fin Palermo sul finir della state, è però nel 928.

385. Confrontinsi: Chronicon Cantabrigiense, l. c., an. 6436 (1º settembre 929 a 31 agosto 930); Baiân; tomo I, p. 201, an. 317 (13 febbraio 929 a 1 febbraio 930). Le due croniche notano concordemente essere stata questa la terza espedizione di Sâin. Ho scritto così il nome secondo la lezione della Cronica di Cambridge, e di quella di Gotha. Il Nowairi ha Sâreb. Il dotto editore del Baiân corresse Sâber.

386. Ibn-Haukal nella descrizione di Palermo dà questo nome topografico. In oggi si chiama il Quartier del Capo.

387. Nowairi, l. c.

388. Dsehebi. Mi par bene dì accennare distintamente la origine dei particolari che sappiamo di questo fatto importante della storia italiana.

389. Ibn-el-Athîr, Ibn-Khaldûn. Nel confuso racconto di Dsehebi si fa anche cenno d'un assalto anteriore a quello in cui fa presa la città.

390. Dsehebi.

391. Liutprando: Cunctosque civitatis et ecclesiarum thesauros. Non credo si debba intendere del comune e della chiesa, ma de' cittadini etc.

392. Così chiaramente nel manoscritto di Dsehebi. In que' d'ibn-el-Athîr si legge chiaramente Karkesia, e così in uno de' due squarci d'Ibn-Khaldûn, ove si aggiugne “su le spiagge di Siria.” Ciò ha spinto l'erudito baron de Slane a correggere “Cesarea;” sendo grossolano errore Karkesia. Ma ibn-Khaldûn, o il copista, par che abbia aggiunto quella spiaggia di Siria, appunto perchè non gli venne a mente che si trattava della Corsica. Ciò mi par certo dalla narrazione d'Ibn-el-Athîr, il quale parla di unica espedizione a Genova, in Sardegna e in quel terzo paese.

393. Dsehebi.

394. Si confrontino: Chronicon Cantabrigiense, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 46, an. 6442 (lº settembre 933 a 31 agosto 934); Ibn-el-Athîr, MS. B, tomo I, p. 149 e 163, e MS. C, tomo IV, fog. 321 verso e 325 verso, anni 322 (21 dicembre 933 a 9 dicembre 934), e 323 (10 dicembre 934 a 28 novembre 935); Baiân, tomo I, p. 216; Nowairi, presso Di Gregorio, op. cit., pag. 14; Dsehebi, Tarîkh-el-Islâm, an. 323, manoscritto di Parigi, Ancien Fonds, 646, fog. 505 verso; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique etc., p, 162, 163, e Storia dei Fatemiti, manoscritto di Parigi 742 quater, tomo IV, fog. 18 verso, con la versione datane da M. De Slane nella Histoire des Berbères dello stesso Ibn-Khaldûn, tomo II, p. 529, appendice.

395. Liutprando, Antapodesis, lib. IV, cap. V, presso Pertz, Scriptores ec., tomo III, p. 316.

396. Iacopi de Varagine Chronicon, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo IX, p. 10.

397. Il Martorana, tomo I, p. 86 e 215, nota 115, seguito dal Wenrich, crede personaggi diversi Salem emiro del 917 e Salem del 937, fondandosi in su questo, che Nowairi aggiunga nel primo caso il nome patronimico Ibn-Ased; e Abulfeda nel secondo, Ibn-Rescîd. Tal supposto or si dilegua con l'autorità degli altri compilatori citati nel capo VII, p. 160, e soprattutto d'Ibn-el-Athîr, il quale scrive Sâlem-ibn-Rescîd sì nel 313 e sì nel 325 dell'egira.

398. Si vegga il Capitolo precedente, p. 170, seg., 176.

399. Eutichii, Patr. Alexandrini annales, tomo II, p. 508, 509. Questo scrittore, poco men che contemporaneo, è il solo che narri l'episodio dei prigioni risparmiati; tra i quali pone in primo luogo i Siciliani. Ei riferisce la battaglia al 307 dell'egira; ma Ibn-el-Athîr, MS. C, tomo IV, fog. 298 recto e verso, la scrive nel 306 (13 giugno 918 a 1 giugno 919); e la Cronica di Cambridge nota nel 6427 (1 settembre 918 a 31 agosto 919) la spedizione dei Fatemiti in Alessandria.

400. Taglieggiare è versione litterale del testo arabico. Donde sappiamo questo dazio insolito e gravoso, ma non di che natura el fosse.

401. Così la Cronica. Sceikh, vecchio, indi anziano, senatore, capo d'una frazione di tribù, capo d'un villaggio, o semplicemente preposto o dottore.

402. Cioè il primo di Belezma, città d'Affrica che abbiam citato altrove; il secondo, di Kalesciana a 12 miglia da Kairewân, della quale il Bekri, Notices et Extraits des MSS., tomo XII, 479.

403. Cronica di Cambridge, op. cit., p. 45.

404. Si vegga al Capitolo VIII, p. 172, 173.

405. Cronica di Cambridge, op. cit., anno 6427.

406. Si vegga il Capitolo I di questo Libro III, p. 3 in nota.

407. Confrontinsi: Cronica di Cambridge, op. cit., p. 46, anno 6442; Ibn-el-Athîr, anno 322, MS. B, p. 149, MS. C, tomo IV, fog. 321 verso; Baiân, tomo I, p. 216. Questi due ultimi dicono occultato il caso più a lungo.

408. Cronica di Cambridge, op. cit., p. 47, anno 6442. Il nome somiglia a quel di Randazzo, grossa città surta in Sicilia nel medio evo, che in Edrisi leggiamo Rendag. Sembra di origine greca, poichè la Storia Miscella, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo I, parte I, p. 150, ricorda un patrizio Sisinnio soprannominato Rendacium, sotto Leone Isaurico; e la Continuazione di Teofane nel regno di Romano Lecapeno, § 4, parla di un ‘Ρεντάκιος uom dell'Attica, e forse ateniese, parente del patrizio Niceta; il qual nome è scritto con le stesse lettere da Giorgio Monaco, e ‘Ρεντάκης da Simeone (ediz. Bonn, p. 399, 891, 732). Nulla toglie che il governatore di Taormina fosse appartenuto alla medesima famiglia, e che da lui o da altri fosse venuto il nome di Randazzo. Che il caso seguisse in Palermo non mi par dubbio, Quantunque la Cronica dica: “innanzi il palagio (Kasr) di Sâlem.” Non v'ha memona di terra in Sicilia chiamata Kasr Sâlem (il nome attuale di Salemi è corruzione dell'arabico Senem, idolo o statua); e la stessa Cronica, notando poi la morte dell'emiro, aggiugne che seguì nel suo kasr. Probabilmente il palagio vecchio, al quale rimase il nome di Salem, per essere stato l'ultimo emiro che vi soggiornò; tramutati poi gli ofici pubblici ecc. nella Khalesa.

409. Confrontinsi: Cronica di Cambridge, ann. 6443, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 47; Nowairi, op. cit., p. 14.

410. Cronica di Cambridge, l. c., anno 6444.

411. Il testo ha N rd barîn, che non dà significato. I primi editori lessero Brediaræos. Probabilmente è la voce persiana Bardadâr, guardie palatine.

412. Il nome non sarebbe molto diverso da Asaro, l'antica Assorus; ma l'a scritta con un'ain indica origine arabica; e il sito di Asaro presso Leonforte si allontana troppo a levante dalla via tra Palermo e Girgenti. Mancando di vocali il MS., questo nome si potrebbe leggere Osra, che significherebbe “asilo, riparo,” e sarebbe nome di luogo oggi sconosciuto.

413. La Cronica di Cambridge, la sola che fornisca questo e gli altri particolari della guerra, dà il secondo vocabolo in guisa da potersi anco leggere Tâlis, Nâlìs, Iâlis e Mâlis. Il primo è suscettivo della ottima lezione Mosciaiad, che significherebbe “edifizio, monumento.” Non mi sovviene di nomi topografici antichi o moderni di Sicilia che ci aiutino a trovare il vero nome e il sito preciso, che dovea essere molto vicino a Palermo. Ma Bâlîs è nome d'una provincia tra il Sind e il Segestân, Geografia d'Edrisi, versione francese, I, 444, 449. Bâlis o Bâles era picciola città su la sponda occidentale dell'Eufrate. Veggansi: Ibn-Haukal., MS. di Parigi, Suppl. Arabe, 885, fog. 85 recto; Edrisi, op. cit., I, 335; Jakût, Merâsid, ediz, di Leyde, I, 122; Abulfeda, Geografia, testo arabo, ediz. di Parigi, p. 268. In Ispagna era città (Velez Blanco?) nella provincia di Begiâia e porto tra Alicante e Cartagena. (Edrisi, op. cit., tomo II, p. 14, 39.).

414. Lo stesso MS. ha M r nuh, Marineo, a 17 miglia da Palermo, sovrasta al fiume di Misilmeri, appunto su la strada per la quale doveano ritirarsi i Girgentini. Le due battaglie senza particolari di leggono in Ibn-el-Athîr, anno 325; e in Nowairi, presso Di Gregorio, p. 14, 15. Abulfeda, anno 325, dà appena un cenno della rivoluzione.

415. Così la Cronica di Cambridge. Il Nowairi ha invece Ishâk-Bostâni (ossia il giardiniere) e Mohammed-ibn-Hamw. Probabilmente son le medesime persone. Ibn-Sebâia potrebbe essere il nome patronimico d'Ishâk soprannominato Il Giardiniere; ed Abu-Târ, il soprannome di Mohammed. Quanto al nome patronimico di quest'ultimo, forse va corretto Hammoweih, e sarebbe d'origine persiana. Il Martorana, tomo I, p. 88, e con lui il Wenrich, arbitrariamente danno i due primi come capi del tumulto del 17 settembre, e i due secondi di quello del 7 ottobre.

416. Cronica di Cambridge, op. cit., p. 48, anno 6446, e ve n'ha un cenno in Ibn-el-Athîr, anno 325, e in Nowairi, op. cit., p. 15.

417. Ibn-el-Athîr e Nowairi, ll. cc. Il secondo, che par abbia copiato qui la cronica primitiva, dice: “con un esercito e parecchi kâid.” Perciò questa voce non sembra adoperata nel significato generale di capitani d'esercito, ma in quel di condottieri di corpi minori.

418. Confrontinsi: Ibn-Abbâr, MS. della Società Asiatica di Parigi, fog. 104 recto; e Baiân, tomo I, p. 225, anno 325.

419. Riadh-en-Nofûs, fog. 60 recto. Iehia era morto verso il 290. Però ho supposto che si tratti di questa impresa o dell'altra del 916.

420. Così la Cronica di Cambridge, op. cit., p. 48, anno 6446. Nowairi, op. cit., dice alla fine del 325; il che torna allo stesso con poco divario.

421. Si vegga qui appresso, Lib. IV, Cap. 1, p. 236. Sâlem rimase al certo in autorità insieme con Khalîl. Senza questo non si può trovare ragione plausibile dell'abboccamento coi Girgentini, nè dell'essere lui rimaso in palagio vecchio; nè del titolo di emir che gli si dà alla morte.

422. Confrontinsi: Ibn-el-Athîr, Nowairi e Ibn-Khaldûn, ll. cc.

423. Fazzello, Deca I, lib. VIII, cap. II, scrive del palagio reale di Palermo: Hanc (arcem) a Sarracenis primum Panormum adeptis, super veteris arcis ruinis excitatam literæ in eo incisæ indicant. Ma nè egli dà, nè si è mai trovata la iscrizione, e però non allego tal testimonianza.

424. Ibn-Haukal, Description de Palerme, nel Journal Asiatique, IVe série, tomo V, p. 95.

425. Makkari, Mohammedan dynasties in Spain, versione di Gayangos, tomo I, p. 220; Edrisi, Géographie, vers. di Jaubert, tomo II, p. 58 seg.

426. Bekri, versione di Quatremère, Notices et Extraits, tomo XII, p. 473.

427. Bargès, descrizione della Moschea principale d'Algeri al 1830, nel Journal Asiatique, série IIIe, tomo XI, p. 182. Quivi non si dice in vero che di una porta di comunicazione col palagio del governatore.

428. Veggasi il cap. VII di questo Libro, p. 157, 158.

429. Ibn-Haukal, Description de Palerme, nel Journal Asiatique, série IVe, tomo V, p. 22, 23; Nowairi, Enciclopedia, ibid., p. 104, Edrisi, Géographie, versione di Jaubert, tomo II, p. 77.

430. Ibn-el-Athîr, anno 325, scrive che “la gente fu molto aggravata nella costruzione della cittadella.” I pubblicisti musulmani, principalmente Mawerdi, ci danno il comento. Veggasi il cap. I di questo Libro, p. 10, nota 4.

431. Cronica di Cambridge, Ibn-el-Athîr e Ibn-Khaldûn, ll. cc.

432. Cotesti nomi dalla sola Cronica di Cambridge. La sillaba wa entra in parecchi nomi berberi in vece dell'arabico ibn, figlio. Modû sembra dello stesso conio; non arabico al certo. Si trova in Edrisi con ortografia poco diversa il nome d'un castelletto tra Randazzo e Castiglione, che risponderebbe a Mojo d'oggidì.

433. Risponde a Collesano d'oggidì secondo le distanze notate da Edrisi, il quale la dà con questo nome istesso di Kalat-es-Sirât.

434. L'ordine delle operazioni militari di Khalîl è dato dalla Cronica di Cambridge e sta bene a martello. Il nome che scrivo Mazara è ””lb”ra, letto dai primi traduttori Kalbara, arbitrariamente nella prima sillaba. Correggendo Mazara non si viene ad alterare alcun dei tratti principali e si trova la importante città nominata da Ibn-el-Athîr. Quanto a Kalbara, o come che si legga la prima sillaba, non v'ha nome noto da potervisi adattare; e non è da pensare nè anco per ombra alla Calabria.

435. Il fatto e il nome nella sola Cronaca di Cambridge, ove il secondo è scritto senza vocali Fkh e si potrebbe legger Foca, o con altra vocale che fu preferita nella version latina, e non è bello ripeterla in Italiano. Ancorchè Fikh significhi in arabico la scienza del dritto, qui è nome d'uomo e d'un luogo che il prese da lui; nè credo abbian gli Arabi tal nome proprio. Al contrario è noto ad ognuno nelle istorie bizantine il casato Foca, illustre in que' tempi: e ciò mi ha suggerito la prima lezione. Nondimeno il latino e (perchè no?) l'italiano potean anco fornire il soprannome d'alcun cristiano di Sicilia, il cui braccio avessero accettato i ribelli musulmani, sì come avean chiesto gli aiuti di Costantinopoli. E in vero presso il Capo di San Marco è un luogo detto Ficana. Questo appunto, e la coincidenza del sito presso Mazara e Caltabellotta, mi ha persuaso che si tratti della penisola del Capo San Marco. Ho interpretato penisola la voce gesîra del testo, che vuol dire anche isola.

436. Si vegga pel XII secolo la geografia d'Edrisi; pel XIII e XIV, i diplomi accennati da Pirro, Sicilia Sacra, p. 136, e da Huillard-Breholles, Historia diplomatica Frederici II imperatoris, tomo I, p. 118, 194; Mortillaro, Catalogo dei diplomi della Cattedrale di Palermo, p. 90; e pel XVI, la descrizione di Fazzello, Deca I, lib. X, cap. III.

437. La Cronica di Cambridge accennando sola questo fatto, usa la espressione sebi, che vuol dir propriamente le donne e fanciulli prigioni. Parmi qui adoperata in significato più largo.

438. Il nome etnico di 'Attâf è dato dal solo Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 165.

439. Quest'ultimo periodo della rivoluzione si ricava in parte dalla Cronica di Cambridge, anni 6447 a 6450, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 48, 49; in parte da Ibn-el-Athîr, anno 325. Si veggano anche il Baiân, ediz. Dozy, tomo I, p. 223; Abulfeda, anno 325; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, versione, p. 164, 165. Il Nowairi, presso Di Gregorio, p. 15, accenna la venuta e la partenza di Khalîl, senza far motto della guerra. Il Rampoldi, Annali, tomo V, p. 213, 217, 221, 223, 230, anni 937, 938, 939, 940, 941, aggiugne di capo suo una ribellione in Palermo in questo secondo periodo, aiutata dai Bizantini; e che il governo d'Affrica mandasse grani in Sicilia.

440. Era modo familiare il chiamare col keniel, ossia primo soprannome, anzichè col nome proprio o col titolo di dignità.

441. Confrontinsi: Baiân, l. c., e Ibn-Abbâr, MS. della Società Asiatica di Parigi, fog. 104 recto.

442. Peccato, poichè i pubblicisti più accreditati non permetteano di uccidere i ribelli presi con le armi alla mano, nè di tenerli in prigione finita che fosse la guerra, nè di prendere i loro beni, nè di far cattive lor donne e figliuoli. Veggasi Mawerdi, Ahkâm Sultanîa, ediz. Enger, p. 98 e seg.; The Hedaya, versione inglese di Hamilton, lib. IX, cap. IX, nel tomo II, p. 250. Nell'impero ottomano prevalsero poi dottrine più tiranniche, le quali si ricerchino in D'Ohsson, Tableau de l'Empire Ottoman, tomo VI, p. 253.

443. Confrontinsi: Ibn-Abbâr, MS. della Società Asiatica di Parigi, fog. 104 recto; Baiân, tomo I, p. 223; Ibn-el-Athîr, MS. C, tomo IV, fog. 343 recto, anno 333.

444. Significa, “Que' che dicono: Non vogliam saperne nulla.” Proprio come i Know-nothings d'America.

445. Veggasi: Tigiani nel Journal Asiat., série IVe, tomo XX, p. 171, seg.; Ibn-Khaldûn, Histoire des Berbères, passim.

446. È voce arabica che significa “buona nuova;” un de' nomi che volentieri si davano alli schiavi. Andrebbe meglio trascritta in francese Bochra, che non si può rendere col nostro alfabeto. Tigiani dice costui siciliano (sikilli); il testo d'Ibn-Khaldûn pubblicato da M. De Slane porta Schiavone (saklabi); nè so determinar la vera lezione. La critica storica ci ricorda che tra gli schiavi e mercenarii dei Fatemiti vi fossero al paro e Siciliani e Slavi. La differenza tra coteste due voci in scrittura arabica è lievissima, e però il merito dei MSS. non può servire di argomento decisivo. Nondimeno, Tigiani fu erudito più diligente che Ibn-Khaldûn, e i MSS. delle sue opere, copiati assai men sovente che quelli d'Ibn-Khaldûn, sembrano men sospetti d'errore.

447. Queste due battaglie sono raccontate da Tigiani, Journal Asiatique, série IVe, tome XX, p. 101, seg. Si vegga anche Ibn-Khaldûn, Storia dei Berberi, testo arabo, tomo II, p. 18, 19.

448. I dotti e la cittadinanza di Kairewân seguirono con molto zelo Abu-Iezîd all'assedio di Mehdia. Chi mai scriverà questo bel tratto di storia, non dimentichi le notizie che ne dà il Riâdh-en-Nofûs, fog. 89 verso a 91 verso. Quivi si narra la deliberazione presa dai fakih nella Moschea giami' di Kairewân; i dotti che s'armavano; le corporazioni che veniano in arnesi di guerra con lor bandiere di varii colori scritte con varie leggende; i martiri caduti in battaglia ec. Il dotto Abu-l-Arab, ch'era dei capi rivoluzionarii, sclamava all'assedio di Mehdia: “Ho scritto di mia mano 1500 trattati; ma il combatter qui val meglio che tanta dottrina!”

449. Il cenno che do di questa grande rivoluzione è tolto da Ibn-el-Athîr, anni 333, 334; MS. C, tomo V, fog. 343 recto a 346 recto; Baiân, tomo I, p. 200 a 228; Tigiani, Journal Asiatique, série Ve, tomo I, p. 178, seg.; Ibn-Khaldûn, Storia dei Berberi, testo, tomo II, p. 16 a 23; Ibn-Hammâd, Journal Asiatique, série IVe, tomo XX, p. 470, seg. Per le date, seguo a preferenza Ibn-el-Athîr. Si veggano anche il Riâdh-en-Nofûs, fog. 89 verso, seg.; Iehia-ibn-Sa'îd, Continuazione di Eutichio, fog. 87 verso; Ibn-Khallikân, versione di M. De Slane, tomo I, p. 218, seg., e III, p. 185.

450. Ibn-Hammâd, op. cit., p. 497.

451. Cronica di Cambridge, op. c., p. 49, an. 6450.

452. ’Ο Κρηνίτης Χαλδίας τῆς Καλαβρίας γεγόμενος στρστηγὸς. Nella edizione di Parigi fu aggiunto tra parentesi παρὰ dopo il nome proprio; e fu tradotto Crenita Chaldiæ in Calabria prefectus; la quale versione non è mutata nella edizione di Bonn, ancorchè sia stato ridotto a miglior lezione il testo, Chaldia era nome d'un tema bizantino, che avea per capitale Trebisonda nell'Armenia minore; e qui indica la patria di quel barattiere, non la sua sede in Calabria, ove non fu mai luogo di tal nome. Si vegga per Caldia, Costantino Porfirogenito, De Thematibus, p. 30, e De administrando imperio, p. 199, 209, 226, ediz. di Bonn.

453. Cedreno, ediz. di Bonn, tomo II, p. 357.

454. Cedreno, l. c. Costantino riprese il comando dell'impero in dicembre 944.

455. Cronica di Cambridge, l. c. Il cronista avea ben dato il titolo di emir a tutti i precedenti infino a Sâlem; e nol dimentica parlando poco appresso del kelbita Hasan-ibn-Ali.

456. Nowairi, presso Di Gregorio, p. 15, senza nominare Ibn-Kufi. Il Nowairi direbbe secondo la versione: “Anno 334, præfectus electus fuit Mohammed ben el Aschaat, qui usque ad annum 336 leniter gessit imperium;” ma va corretto secondo il testo: “Fu wâli in Sicilia l'anno 334 Mohammed-ibn-Asci'ath; e resse gli affari infino al 336 (Ibn)'Attâf.” L'oscurità di questo passo, che mosse M. Caussin a considerare, fuor d'ogni regola grammaticale, il nome proprio 'Attâf come sostantivo o aggettivo, viene appunto dalla dubbiezza del compilatore; il quale, trovando due nomi di governanti nello stesso tempo, impiastrò l'uno essere stato wâli fino al 34, e l'altro avere tenuto la somma delle cose fino al 36. Ibn-el-Athîr, incontrata, com'ei pare, la stessa difficoltà nelle croniche, se ne cavò col silenzio. Non disse degli altri; non disse del tempo in cui Ibn-'Attâf prendesse il governo; ed occorrendogli di nominarlo, non gli diè alcun titolo. Se si volesse seguire il Nowairi senza badare all'ambiguità delle sue parole nè al silenzio della Cronica di Cambridge e d'Ibn-el-Athîr, si potrebbe supporre che nel 34 fu fatto emiro Ibn-Asci'ath; e dal 35 al 36 governò di nuovo Ibn-'Attâf. Il Rampoldi, tomo V, p. 256, anno 945, citato dal Martorana, tomo I, p. 217, nota 13, dice che Mohammed-ibn-Asci'ath fosse stato precettore di Mansûr. Non credo che i compendii ch'egli ebbe alle mani gli abbian potuto fornire tal notizia. Al suo modo di compilare supporrei piuttosto un enorme anacronismo che l'abbia portato a confondere questo Ibn-Asci'ath con l'autore della setta dei Karmati, del quale ho fatto cenno nel Libro III, cap. V, p. 116 di questo volume.

457. Confrontinsi: Ibn-el-Athîr, anno 336; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 165, 166, e il breve cenno del Nowairi presso Di Gregorio, p. 15. Il passo di quest'autore che Di Gregorio tradusse: “De perturbato rerum Siciliensium statu, et quod in earum administratione nonnulla vitia irrepsissent;” e M. Caussin: “La peine que lui donnaient les habitants et le mauvais état des affaires;” si renderebbe più correttamente: “Che i Siciliani rimbaldanzivano, e piegavano al male;” cioè si disponeano alla ribellione.

458. Ibn-el-Athîr; da cui tenghiamo i particolari di questi fatti e di quei che seguirono all'arrivo di Hasan in Sicilia, non segna altre date che il tumulto di Palermo a 1º scewâl 335, e la elezione di Hasan il 336 (22 luglio 947 a 9 luglio 948). La Cronica di Cambridge non porta altra data dell'arrivo di Hasan che il 6456 (1 sett. 947 a 31 ag. 948); ma un fatto che racconta dopo, ci porta a supporre l'arrivo verso la fine dell'anno costantinopolitano. Da un'altra mano si sa (Ibn-Hammâd citato di sopra ap. 202) che Mansûr sino alla fine di giumadi 2º del 333 (gennaio 948) facea condurre per le strade di Kairewân la pelle imbottita di Abu-Iezîd; che poi volea mandar in Sicilia quella e la testa di Fadhl con Hasan; e che la barca fece naufragio, ec. Infine Ibn-el-Athîr nota che dopo l'uccisione di Fadhl, figliuolo di Abu-Iezîd, il califo tornava a Mehdia, di ramadhan 336 (marzo ed aprile 948); ed è da supporre ch'ei non abbia pensato alle cose di Sicilia prima di questo. Però credo che l'arrivo di Hasan in Sicilia si debba protrarre fino a giugno o luglio 948.

459. Ibn-el-Athîr, solo narratore in questo luogo, scrive: la gente d'Affrica. Senza il menomo dubbio accenna agli Arabi venuti di recente dall'Affrica. I coloni si chiamavano Siciliani; i Berberi, i Kotamii, ciascuno col suo nome.

460. Così Ibn-el-Athîr. Palermo avea un cadi; onde il titolo di Hâkim è generico qui in significato di magistrato, ovvero è adoperato perchè vacasse l'oficio in quel tempo, e, invece di cadi eletto dal principe, rendesse ragione un supplente. Hâkim si addimandò, dopo il conquisto normanno, il capo della municipalità di Malta; ma mi sembra fatto eccezionale, nato dalla dominazione cristiana.

461. Ibn-el-Athîr, anno 336; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 166. Quivi si legga sempre “Tabari” invece di “Matîr,” ch'è errore del MS. sul quale fece la versione M. Des Vergers.

462. Questo riscontro mi è suggerito dal bello studio del professore Dozy, su le fonti della storia de' Musulmani Spagnuoli, Histoire de l'Afrique etc., intitulée Al-Bayano-'l-Moghrib, Introduction, p. 16, seg.

463. La Cronica di Cambridge, che sola porta la data e il supplizio, dice: “Venuto il giorno di mila” che fu un lunedì, l'emiro etc.” La voce che ho trascritto dall'arabico e che è chiara nel MS., significa il Natale de' Cristiani, sol che vi si aggiunga un d alla fine ove ho messo le virgolette. I primi editori supplendo invece un'altra lettera scrissero Mi'âd “giorno prefisso” come si potrebbe tradurre. Ma questa voce oltrechè sarebbe insolita, imbroglierebbe il fatto or che Ibn-el-Athîr ci racconta l'ordine del tradimento palatino, e farebbe mancar la data del giorno; la quale non è probabile che il cronista avesse trascurata, mentre designava il giorno della settimana. Il Natale del 948 cadde appunto in lunedì.

464. Debbo avvertire che Ibn-el-Athîr dal quale tenghiamo i nomi, narra il tradimento, la cattura, la confiscazione, non il supplizio: il casato che dovrebbe trovarsi dopo il nome di Mohammed è lasciato in bianco in uno dei MSS., e manca al tutto negli altri due. La Cronica di Cambridge al contrario dice della uccisione dei “côlti alla rete, tra i quali un Marisc (in inglese sarebbe Marîsh) e i suoi compagni.” Questo nome fu scritto dal traduttore inglese, Coreish; ma il codice dà chiarissima la iniziale m. Non l'ho scritto nel testo, parendomi soprannome e che debba indicare il capo della fazione, cioè Ismaele-ibn-Tabari; e ciò sembra confermato dai significati della voce Marîsc dati dal Meminski, cioè “saetta impennata” e una specie di pomo. Marîs sarebbe dei nomi che si danno ai leone.

465. Confrontinsi: Cronaca di Cambridge, ibn-el-Athîr, Ibn-Khaldûn, ll. cc.

466. Si vegga il Libro IV, capitolo III.

467. Capitolo X del presente Libro, p. 203-204 di questo volume.

468. Non va in questo periodo l'autore anonimo della Vita di San Niceforo vescovo di Mileto di cui or or si dirà. Questo autore, probabilmente siciliano, visse nella seconda metà del decimo secolo. Il testo greco è nella Biblioteca imperiale di Parigi, Nº 1181; e M. Hase ne ha pubblicato uno squarcio in nota a Leone Diacono, edizione di Bonn, p. 442.

469. Leonis Diaconi Caloensis, l. c. L'anonimo dice che i Veggenti per virtù divina abbondavano in Sicilia com'ogni altro prodotto del suolo. Τὸ δὲ καὶ απὸ τινος τῶν ὲν τῇ χώρα δεοπτικῶν (πλεονεκτεῖ γὰρ καὶ τῇ τοῦτων φορᾷ τῆς ἄλλης εὺδηνιας οὺκ ἔλαττον.)

470. Liutprandi Legatio, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo II, parte I, p. 485. “Hippolytus quidam Siciliensis episcopus.” La Cronica di Cambridge citata al capitolo VIII di questo Libro, p. 172, ha: “Leone vescovo della Sicilia;” nè la costruzione arabica permette d'interpretare “uno dei vescovi di Sicilia.”

471. Si vegga il cap. VII del presente Libro, p. 173.

472. De Thematibus, p. 58, ediz. di Bonn, tomo III, delle opere di Costantino: καὶ τὰς λοιπὰς πόλεις τὰς μὲν ἠφημωμένας, τὰς δὲ κφατουμένας παφὰ τῶν Σαρακηνῶν.

473. Costantino Porfirogenito, op. cit., p. 60, e De administrando imperio, p. 225.

474. Libro II, cap. XII, p. 470, 471 del primo volume.

475. Libro II, cap. VI e IX, vol. primo, p. 323, 325, 407.

476. Journal Asiatique, série IVe, vol. V, 1845, p. 105, nota 9.

477. Veggasi il Libro IV, cap. III, su la popolazione musulmana al 962.

478. V'era in Palermo un borgo di Giudei. Ibn-Haukal, nel Journal Asiatique, vol. cit., p. 97.

479. Riâdh-en-Nofûs, fog. 71 recto. Sa'îd morì il 302. Il biografo aggiugne che costui toccò i danari per favore di Ibrahim-ibn-Ahmed; non sappiamo se per aver tolto qualche difficoltà fiscale, ovvero per avergli fatto pagare i 400 dînar con tratta sul tesoro di Kairewân. Sa'îd, avvezzo a vita peggio che frugale, spese 200 dînar a fabbricarsi una casa; 50 in vestimenta; 50 in tappeti, stoviglie e altre masserizie; e ne serbò 100 per mantenimento del resto della sua vita. Di che riprendendolo gli amici, rispose che avea a ufo dei 100 dînar, poichè il quarto d'un rotolo di carne gli bastava una settimana. Il primo giorno, dicea, mangio il brodo delle ossa; il secondo quel dei tendini; dal terzo al sesto certi piatti di bietole mescolati or a fave, or a ceci, or a pastinache; e il settimo dì la carne!

480. Ibn-Haukal, Journal Asiatique, vol. cit., p. 93.

481. Squarcio della vita di Ibn-Giolgiol (in francese Djoldjol) per Ibn-abi-Oseibia, testo e versione di M. Sacy, in appendice alla Rélation de l'Egypte par Abdallatif, p. 549, seg., e 493, seg.

482. Veggasi il Libro I, cap. VI, e Libro II, cap. II, nel volume primo, p. 149, seg., 253, seg.

483. Questo era soprannome. Il nome intero Abu-Sa'îd-Abd-es-Selâm-ibn-Sa'îd-ibn-Habîb-ibn-Hasân-ibn-Helâl-ibn-Bekkâr-ibn-Rebia', della tribù arabica di Tonûkh. Così il Riâdh-en-Nofûs, fog. 39 verso. Confrontisi Ibn-Khallikân, versione inglese, tomo II, p. 131.

484. Si vegga il cap. IX di questo III Libro nel presente volume, p. 188. La data della morte si argomenta dal posto dato a questa biografia nel Riâdh-en-Nofûs, fog. 57 verso. Iehia-ibn-Omar spese seimila dînar per lo studio della giurisprudenza. Andò in Spagna, donde fu detto Andalosi; e in Oriente, dove fece, come tutti coloro che il poteano, un corso di lingua e poesia, dimorando nelle tende dei Beduini in Arabia. In cotesta peregrinazione scientifica, durata sette anni, consumò quasi il suo avere. Riâdh-en-Nofûs, l. c.

485. Riâdh-en-Nofûs, fog. 79 recto.

486. Intendo non solamente copista, come suonerebbe tal voce nel medio evo, ma uom dotto che sovente compilava sul dettato dei maestri. Costui segnalavasi tra gli editori d'Affrica per tenace memoria e scrupolosa esattezza.

487. Il testo dice che costui, per nome Ahmed-Kasri (ossia del Castel vecchio presso Kairewân), non avendo da comperar carta, si vendè il giubbone e col prezzo acquistò dei rokûk. Tal voce secondo i dizionarii è plurale di Rekk, “carta o pergamena.” La definizione è vaga, o il senso variò coi tempi e i paesi. Ma leggiamo in Masudi, Biblioteca Arabo-Sicula, p. 2, che la pomice di Sicilia si adoperava a radere lo scritto nei difter e nei rokûk. Indi mi par manifesto che quest'ultima voce significava, nel X secolo, “pergamena vecchia.” La voce che ho reso carta è wark. Si comprende poi benissimo che la carta nuova dovesse costare in Affrica assai più cara che i codici latini e greci, merce inutile, da ripassarsi con la pomice prima di adoperarli. Quanti preziosi Manoscritti antichi dovettero perire in questa guisa!

488. Riâdh-en-Nofûs, fog. 79 recto.

489. Ce ne fornisce un esempio curioso il MS. della Biblioteca di Parigi, Ancien Fonds, 277, fog. 100 recto, seg. In questa compilazione legale del secolo XVI si tratta tra le altre cose delle acque stagnanti delle quali fosse lecito far uso nelle abluzioni. Come la traduzione vuol che queste acque abbian certo volume, così il compilatore si crede obbligato a indicare i modi geodetici di misurar la superficie delli stagni, e fa a quest'effetto un lungo trattato con figure geometriche.

490. Aggiungo questo perchè Ibn-Haukal parla del papiro di Palermo, nel Journal Asiatique, série IVe, tomo V, p. 98.

491. Riâdh-en-Nofûs, fog. 77, verso. Ancorchè cotesta biografia si legga nel 316, sembra errore da correggersi 312, secondo l'ordine cronologico che comincia poco innanzi nel Riâdh. Secondo Dsehebi, Kitâb-el-'iber, MS. di Parigi, Ancien Fonds, 646, tomo I, anno 320, seguì in questo anno la morte di Meimûn, ormai centenario, paralitico e rimbambito.

492. Baiân, testo arabico, tomo I, p. 160.

493. Op. cit., p. 138. Marwazi è nome etnico che si riferisce a Merw in Khorassân, ad un borgo di Bagdad, e fors'anco ad un villaggio. Veggasi il Lobb-el-Lobbâb di Soiuti, ediz. di Leyde, p. 242, con la nota t.

494. Makrizi, Mokaffa, MS. di Leyde 1366, al nome Mohammed; Soiuti, Tabakât-el-Loghawîn, MS. di Parigi, Suppl. Arabe, 681, e MS. del dottor John Lee, allo stesso nome. L'epoca e la qualità di liberto degli Aghlabiti, fan supporre nato costui in Sicilia, ove si fossero rifuggiti i genitori. La famiglia par di origine persiana a cagion di quel nome di Korassân, quantunque non abbia la forma di aggettivo patronimico che sarebbe Khorassânî. I Beni-Korassân furon signori di Tunis nel XII secolo.

495. Riâdh-en-Nofûs, fog. 60 recto. L'autore Maleki, il quale non visse di certo innanzi la fine del X o principii dell'XI secolo, cita qui con la frase: Narra Abu-Bekr etc. Da ciò argomentiamo che Maleki avea sotto gli occhi uno scritto, non un racconto inserito da autore più moderno, il cui nome avrebbe citato com'ei suole.

496. Costui non è detto siciliano nel Riâdh; ma lo sappiamo d'altronde. Si vegga a p. 224, nota 3.

497. Riâdh-en-Nofûs, fog. 107 verso.

498. Si vegga la p. 222.

499. Riâdh-en-Nofûs, fog. 73 verso.

500. Si vegga il Libro II, cap. X, p. 420, del primo volume.

501. Riâdh-en-Nofûs, fog. 79, verso. È da avvertire che la biografia di Abu-Hasan-Harîri è messa il 316, ma trovandosi tra il 322 e il 323, è da supporre uno sbaglio nella data.

502. Riâdh-en-Nofûs, fog. 61 recto. La morte di Wâsil è riportata al 294. Ho scritto il soprannome Sari, secondo Dsehebi, MS. di Parigi, Ancien Fonds, 802, il quale avverte che un altro nome scritto in arabico con le stesse consonanti si pronunzia Sorri.

503. Si vegga il Libro II, cap. V, VII, IX, X, vol. I, p. 300, 342, seg., 352, 391, 423, 427; Libro III, cap. III, VI, vol. II, p. 63, 64, 124.

504. Ibn-Haukal, Journal Asiatique, IV serie, vol. V, p. 99, parla d'una miniera di ferro presso Palermo, ch'era stata posseduta da un di casa d'Aghlab.

505. Veggasi Libro III, cap. II, p. 58 di questo volume, e Ibn-Abbâr, MS. della Società Asiatica di Parigi, fog. 35 recto, 36 recto, 148 verso. Da quest'ultimo luogo Casiri trasse la notizia ristampata dal Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 237, lin. 6, la quale non appartiene propriamente alla storia letteraria di Sicilia.

506. Th'âlebi avverte (MS. di Parigi, Ancien Fonds, 1370, sezione prima, lib. X, fog. 66, recto) che del Maghreb (Affrica e Spagna) non avea alle mani antologie, ma poesie volanti raccolte qua e là. Pure è notevole ch'ei ne dia di molti Spagnuoli, di pochi appartenenti alla corte fatemita d'Egitto e di nessun Affricano nè Siciliano. Un sol tripolitano che vi si trova è di Tripoli di Siria.

507. Tigiani, Rehela, MS. di Parigi, fog. 97 Terso, seg. Traduzione francese, p. 190, seg.

508. Ibid.

509. Si vegga in questo Libro III, cap. X, p. 199.

510. Si vegga il Libro II, capitolo X, p. 420 del primo volume.

511. Riâdh-en-Nofûs, fog. 79 verso.

512. Kattân significa tessitore o mercatante di cotone.

513. Riâdh-en-Nofûs, fog. 79 verso.

514. Zaccaria.....el-Cazwîni's, Cosmographie, testo arabico dell''Agiâ'ib-el-Mekhlûkât pubblicato dal prof. Wüstenfeld, p. 125. L'autore dice un pesce lungo una spanna, e che la nave era presso B rtûn; il quale non so a che luogo risponda.

515. Kelb, vuol dir “cane.” Questo nome d'un dei progenitori della tribù fu dato forse, come usavano gli Arabi avanti Maometto, pel caso d'essersi visto, o sentito abbaiare, un cane alla nascita del fanciullo.

516. Libro I, capitolo VI, p. 135, nota 1, e p. 136 del primo volume. Si vegga anche Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, versione di M. Des Vergers, passim; Conde, Dominacion de los Arabes en España, parte I, cap. 22, 32, 33, 35; Makkari, Mohammedan dynasties in Spain, versione del prof. Gayangos, tomo II, p. 41, 66.

517. Libro I, capitolo VII, p. 171 del primo volume.

518. Nowairi, Storia d'Affrica, in appendice alla Histoire des Berbères par Ibn-Khaldoun, versione del baron De Slane, tomo I, p. 391.

519. Makrizi, citato da Sacy, Chrestomatie Arabe, tomo I, p. 137.

520. Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 15. La versione “tum quod de majoribus suis optime meritus fuisset,” si corregga: “ed anche per essere stati i maggiori di Hasan, fedeli servitori degli antenati di Mansûr.” Così evidentemente si risalisce al Mehdi.

521. Veggasi il Libro III, cap. IX, p. 191.

522. Sapendo male l'arabico e peggio il diritto musulmano, Marco Dobelio Citeron tradusse: “dedit insulam Siciliæ in feudum ec.,” negli estratti di Scehâb-ed-dîn-Omari, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 59. Il Di Gregorio sospettò l'errore, ibid., nota f; e con minore incertezza lo ha condannato il Wenrich, lib. II, cap. 230, p. 270, 271. Il fatto di cui nè l'uno nè l'altro si accorsero, è che il compilatore copiava Abulfeda, e che però abbiamo il testo arabico, quantunque siasi perduto il MS. di Scehâb-ed-dîn. Or Abulfeda dice meramente che Mansûr diè il waliato (ossia oficio d'emir) di Sicilia ad Hasan. Annales Moslemici, tomo II, p. 446, anno 336. Il Martorana scansò l'errore senza confutarlo.

523. Notizie storiche dei Saraceni Siciliani, tomo I, p. 92, II, p. 15.

524. L'ho accennato, Libro I, capitolo IV, p. 147, del primo volume, e Libro III, cap. I, p. 5, del presente. Wâli, in rapporto di annessione con altri titoli di magistrato, significa altro. Emir, legato alla voce “esercito,” significa meramente “capitano.” In tempi più recenti si son chiamati emir tutti i discendenti di famiglia principesca ed anche que' di Maometto.

525. Nè anco la Cronica di Cambridge, scritta al tempo dei Kelbiti. Pur fu questa che suggerì la distinzione al Martorana, poichè Hasan è il primo emiro di cui noti la elezione (948). Ma degli altri il cronista non la disse, ignorando forse la data; e in ogni modo ei ben dà il titol d'emiro a Sâlem (917-937).

526. Veggansi: Libro II, cap. V, VI, VII, IX, X, e tutto il libro III. Prendendo a caso qualche esempio in Ibn-el-Athîr, si trova il titolo di emir di Sicilia negli anni 835, 851,882, 895, 925; frammessovi talvolta il titolo di wâli, e chiamandosi sempre l'oficio waliato. Così negli altri annalisti musulmani. Il Bâian dà nell'835 il titolo di Sâheb, del quale si è detto a suo luogo.

527. Wenrich, Commentarii, lib. I, § 229, p. 269. I passi ch'ei cita dell'opera del barone De Hammer su la Costituzione dell'impero musulmano doveano farlo accorto del vero; tanto più che De Hammer gli forniva il nome di un emir di Sicilia nell'880; e che egli stesso ne avrebbe potuto vedere molti altri nei testi arabici. Ne uscì scrivendo: Utcumque vero rex se habuerit, id certe constat dignitatem illam in Hasani Calbitæ familia, hereditario quasi jure postmodum remansisse. E col quasi sdrucciolò su quell'altro intoppo dell'oficio rimaso per un secolo nella medesima famiglia.

528. Lo stesso punto di diritto pubblico si trattò per l'Affrica propria nel 361 (971-72), allorchè Moezz, trapiantando la sede in Egitto, dovea non ristorare ma instituire l'emirato nella provincia. Proffertolo ad un Gia'far-ibn-Ali di schiatta arabica, questi domandò pien potere nella elezione dei magistrati, nell'amministrazione della finanza e in ogni altro atto di governo; senza obbligo di render conto dell'azienda nè di aspettare l'approvazione del califo per mandare ad effetto i provvedimenti. Moezz gli rispose in collera che volea farsi principe in vece di lui. Accomiatatolo, si volse al berbero Bolukkin, fondatore della dinastia zirita; il quale domandò al contrario che il califo eleggesse i magistrati, gli amministratori della finanza, i capitani delle milizie; che gli affari più rilevanti si trattassero in un consiglio degli oficiali pubblici; e ch'egli, Bolukkin, facesse eseguire le decisioni del Consiglio. Moezz scelse lo Zirita; dicendo pure a un suo fidato, che quegli andrebbe per via più lunga allo stesso scopo al quale Gia'far volea giugnere d'un salto. Makrizi, Kitâb-es-Solûk, versione presso Quatremère, Vie da calife fatimite Moezz; Journal Asiatique, (novembre 1836 e gennaio 1837), estratto, p. 87, 88.

529. Adopero indistintamente Sultano e Soldano che son varianti di trascrizione; l'una secondo l'uso nostro d'oggi, l'altro come suonava agli orecchi dei nostri padri al tempo che le repubbliche italiane teneano i commerci del Levante. I principi ottomani seguendo le tradizioni dei principi turchi dell'Asia Minore e delle varie dinastie d'Egitto dopo Saladino, preferiscono tuttavia il titol di Sultano a quel di califo, ch'ebbero per cessione, al certo illegale, della seconda dinastia abbassida.

530. Si veggan queste nell'opera di Domenico Spinelli principe di San Giorgio, Monete cufiche etc., Napoli 1844, un vol. in-4, p. 1, seg. Ma dubito di alcune, delle quali non mi sembrano ben trascritte le leggende.

531. Si vegga la lista in Mortillaro, Opere, tomo III, p. 377, seg. Se ne aggiungano altre 14 che ve n'ha nella collezione del Cabinet des Médailles, a Parigi, e tre altre pubblicate dal sig. Federigo Soret, Extrait des Mémoires de la Societé imp. d'Archéologie, Saint-Petersbourg, 1851, p. 50, 51, ni 122, 124, 125.

532. Cedreno, ediz. di Bonn, tomo II, p. 358.

533. Ibn-el-Athîr, anno 336, MS. C, tomo IV, fog. 350 verso; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 167; i quali autori parlano di Rûm, e si deve intendere di que' soli di Sicilia, poichè Costantino ricusò di pagare il tributo per la Calabria.

534. Ibn-el-Athîr, anno 340, C., tomo IV, fog. 353, verso. L'annalista qui dice Rûm di Sicilia; ma par si debba intendere di Calabria e di qualche città più forte di Sicilia, come Taormina e Rametta.

535. Cedreno, l. c. È da credere, per men vergogna delle armi bizantine, che le dette forze fossero venute parte innanzi e parte dopo la state del 950. Cedreno, come ognun sa, non ricorda mai le date.

536. Confrontinsi: Cronica di Cambridge, anni 6459-6460, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 49, 50; Ibn-el-Athîr, anni 336 e 340, MS. B, p. 263, seg., MS. C, tomo IV, fog. 350 verso, seg., e 353 verso; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, versione di M. Des Vergers, p. 167, 168, dove in vece di Sire Doghous si legga stratego; e Storia dei Fatemiti, MS. arabo di Parigi, Suppl. Arabe, 742 quater, tomo IV, fog. 18 verso, con la traduzione di M. De Slane in appendice alla Histoire des Berbères par Ibn-Khaldoun, tomo II, p. 529. È da avvertire che Ibn-el-Athîr narra i medesimi fatti con circostanze diverse, nei due capitoli del 336 e del 340. Così anche Ibn-Khaldûn nei due luoghi ch'io cito, il secondo dei quali contien parecchi errori. Ho tradotto salmerie la voce che la versione latina della Cronica di Cambridge rende cameli, aggiugnendo al testo un punto diacritico che non v'ha. In vero questa voce arabica non ha la forma che apparterrebbe al plurale di nave oneraria, o salmeria. Ma che andavano a fare i cameli nelle montagne e selve di Calabria?

537. La Cronica di Cambridge dice di soli statichi, Ibn-el-Athîr di solo danaro; nè l'una nè l'altro particolareggiano i patti.

538. La presa d'Ascoli è registrata da Lupo Protospatario, presso Pertz, Scriptores, tomo V, p. 54. La data ch'è del 950 par si debba correggere 951.

539. Cedreno, l. c. Si vegga la nota 1 della pagina 242.

540. Cedreno dice che il capitan musulmano, innanzi la battaglia, confortò i suoi a non temere un esercito ove i soldati erano maltrattati dai condottieri; alludendo alle taglie e ingiurie con che il patrizio e lo stratego aveano offeso i sudditi. Mi è parso di accettare il fatto morale, non il materiale del discorso di Hasan; il quale sembra dettato al Cedreno dall'arte rettorica con che si è scritta la storia per tanto tempo.

541. Confrontinsi: Cronica di Cambridge, anno 6461, op. cit., p. 50; Cedreno, Ibn-el-Athîr, Ibn-Khaldûn, ll. cc; Lupo Protospatario, anno 951 presso Pertz, Scriptores, tomo V, p. 54, dove si legge: “Malachianus fecit prælium in Calabria cum Saracenis et cecidit.” Il giorno della battaglia si ricava da Ibn-el-Athîr, il quale lo dice diverso nei due racconti del 336 e del 340; che son d'origine evidentemente diversa. Nel primo è la festa di Aráfat ossia il 9; nel secondo quella del Dhohâ ossia il 10 di dsu-l-higgia; il qual divario vien forse dal conto astronomico che precede il civile di mezza giornata. Il nome del patrizio Μαλακένος, dato dal Cedreno, è trascritto nella Cronica di Cambridge M””l”gên o M””l”gân e in Lupo Malachianus. Novella prova del fatto da noi già notato, che in Sicilia il x si pronunziava c ovvero g, almen dal IX secolo in poi. In Puglia si rendea con l'antico suon latino ch.

542. Confrontinsi: Ibn-el-Athîr, e Cedreno, ll. cc. Ho notato sopra che Ibn-el-Athîr dia due narrazioni diverse di questa impresa dal 952. Le narrazioni differiscono anche sul modo della tregua; leggendosi nel cap. del 336 che entrato l'anno 341 (28 maggio 952), e stando Hasan tuttavia all'assedio di Gerace, venne a trovarlo un ambasciatore di Costantinopoli, col quale fece la tregua e passò indi a Reggio. Lo stesso autore, nel capitolo del 340, scrive che, assediata Gerace, fu fatta composizione per danaro, e che Hasan poscia mandò uno stuolo alla città di Petracucca. La tregua di Gerace fu dunque per la sola città, e si estese poi alla provincia; ovvero si fermò a Gerace per tutta la Calabria? In quest'ultimo caso si potrebbe supporre che Pietracucca fosse stata assalita, sia contro i patti, sia perchè non obbediva all'imperatore e però non entrava nella tregua.

543. Il fatto è indubitabile, leggendosi nella Cronica di Cambridge e in Ibn-el-Athîr. Il nome nella Cronica è B tra”ûka, dove si potrebbe porre un f. ovvero un k al luogo che ho segnato con virgolette, mancandovi i punti diacritici. In ogni modo è inesatta la trascrizione e versione latina, dove le prime tre consonanti furono attribuite al nome geografico e delle altre si compose un avverbio, molto inopportuno. 1 MSS. d'Ibn-el-Athîr hanno B tr kûka. La stessa lezione si trova nel Mo'gem-el-Boldân di Iakût, il quale trascrive un passo d'Ibn-Haukal, che pone appunto B tr kûka tra Gerace e Reggio; e la menzione fattane in suo breve cenno prova che nel X secolo fosse terra importante per popolazione o commercio. Due secoli dopo Ibn-Haukal, Edrisi ha B tr kûna, secondo i MSS. di Parigi, i quali sendo di scrittura africana, vi si può leggere un altro k in vece della n senza far violenza al testo. Ed è nome, dice Edrisi, d'un fiumicello che mette foce a tre miglia dal capo Gefira (Zephyrium) e sei miglia da Bruzzano: come va corretta la versione di M. Jaubert, tomo II, p. 116, che salta queste e altre cifre di distanze. Invano ho cerco nelle carte e descrizioni della Calabria il nome moderno di questo luogo. Il sito risponde a Pietrapennata o Brancaleone, e si dèe supporre in monte, atteso quel nome di Petra. Cocca, cucco, e simili son voci di bassa latinità e bassa grecità, passate nell'idioma nostro e nei dialetti di Calabria e di Sicilia dove cucca significa civetta, coccoveggia.

544. Nella sola Cronica di Cambridge troviamo dopo B trakûka l'altro nome geografico Rm t sa. Rametta in Sicilia non può essere; poichè la stessa Cronica scrive il nome altrimenti. Roseto e Tremiti mi sembrano le lezioni più probabili; la seconda delle quali s'accorderebbe con l'assalto al Gargano.

545. Chronicon Sanctæ Sophiæ presso Muratori, Antiquitates Italicæ Medii Ævi, tomo I, p. 253. Gli assalitori poteano esser Cretesi; ma sembra più probabile che l'armata siciliana, dopo la tregua coi Bizantini, abbia infestato i dominii di Benevento

546. Cronica di Cambridge, l. c., la quale porta questi fatti nel 6461 (1 sett. 952 a 31 agosto 953) quando forse Hasan fece ritorno in Sicilia. Il Rampoldi, tomo V, p. 284, anno 954, fa sequestrare il navilio siciliano, e condurlo in Affrica, cioè applica ai legni ciò che la cronica scrive del Capitano. Martorana e Wenrich lo seguono. È da avvertire che gli Annali arabici dan sempre Hasan come capitan supremo nelle due imprese del 951 e del 952. Coteste vittorie de' Musulmani in Calabria sono ricordate in termini generali da Iehia-ibn-Sa'îd, MS. di Parigi, Ancien Fonds, 131 A, fog. 87 verso.

547. Il testo dice fabbricò; par si debba intendere che acconciò ad uso di moschea qualche edifizio della città.

548. Ibn-el-Athîr, anno 336, MS. B, p. 263; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 168, 169, dove per errore di stampa è detto: “El Haçan retourna alors à Kharadja où il bâtit etc.” In luogo di Kharadja, dèe dire Reggio, come nel testo arabico. Terminando il racconto di queste imprese di Hasan in Calabria, avverto averne escluso i fatti che si leggono dal 948 al 952 nella Cronica di Arnolfo e nelle interpolazioni alla Cronica della Cava, pubblicate l'una e le altre dal Pratilli, tomi III e IV; della quale impostura non diffidò sempre il Martorana, nè prima di lui il De Meo, Annali... del Regno di Napoli, tomo V, p. 288 a 325.

549. Ibn-el-Athîr, anno 340, MS. C, tomo IV, fog. 353 verso, ed Ibn-Khaldûn, l. c., scrivono chiaramente che Hasan lasciò in luogo suo il figlio; ma è certo più esatto il linguaggio di Abulfeda, Annales Moslemici, tomo II, p. 446, anno 336, e di Ibn-Abi-Dinar, MS. di Parigi, Suppl. Arabe, 851, fog. 37 verso, dei quali il primo aggiugne che Moezz confermò Ahmed e il secondo, più precisamente, che lasciato da Hasan a reggere la Sicilia in sua vece Ahmed, il califo rinnovò l'atto di elezione in persona di costui. Abulfeda trascrive le parole d'Ibn-Sceddad, autore del XII secolo. Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 15, dice: “E Hasan chiese a Moezz che onorasse suo figlio Abu-Hasan col titolo di wali di Sicilia etc.;” come si dèe leggere la vece dell'erronea versione “a quo cum nobilissimus filius ejus etc.” La data esatta si trova anche in Abulfeda; secondo il quale Hasan era rimaso in Sicilia cinque anni e due mesi; e però la partenza per l'Affrica va posta in giugno o luglio 953.

550. Cronica di Cambridge, presso Di Gregorio, op. cit., p. 50, anno 6462 (1 sett. 953 a 31 agosto 954).

551. Confrontinsi: Ibn-el-Athîr, anno 344, MS. B, p. 286; Abulfeda, Annales Moslemici, stesso anno, tomo II, p. 462; Ibn-Khaldûn, Storia dei Fatemiti, MS. di Parigi, Suppl. Arabe, 742 quater, tomo IV, fog. 20 verso; Conde, Dominacion de los Arabes etc., parte II, cap. 85; Quatremère, Vie de Moezz nel Journal Asiatique, novembre 1836, serie III, tomo II, p. 404, dove è citato un altro luogo di Ibn-Khaldûn. L'armata che assalì la Spagna è detta siciliana da Ibn-Khaldûn nel primo dei passi citati. Conde scrive che vi fossero navi d'Affrica e di Sicilia, e dà altri particolari, cavati forse da autori spagnuoli; ma non ci possiam fidare alla sua critica nè alle sue versioni.

552. Cronica di Cambridge, anno 6462 (953-54) presso Di Gregorio, op. cit., p. 50. Il nome è Asur b l s con la prima s del suono della ç francese. Sembra composto da Ασσύριος e ποῦλος che in greco moderno è desinenza patronimica; e però la voce intera sarebbe nome di persona o famiglia discendente da quella che i Bizantini s'ostinavamo a chiamare classicamente Assiria.

553. La data del 955, che va corretta 956, si trova in Lupo Protospatario. Veggasi Muratori, Annali d'Italia.

554. Confrontinsi: Theophanes continuatus, ediz. di Bonn, p. 453, 454; e Cedreno,. tomo II, p. 359; delle quali la prima, è cronica di corte e contemporanea; la seconda, compilazione del XII secolo e differente dalla cronica in molti particolari, non si sa dove attinti. Nè l'una nè l'altra metton date o riscontri cronologici. Quanto alla guerra coi Musulmani di Sicilia, gli annali arabi tacciono; nè abbiamo altra guida sicura che qualche cenno della Cronica di Cambridge, con che potremo interpretare la vaga rettorica e spesso bugiarda, de' due bizantini.

555. Cronica di Cambridge, anno 6464 (956-7), op. cit., p. 50; Ibn-el-Athîr, anno 345 (14 aprile 956 a 2 aprile 957), MS. B, p. 289, scrive: “Quest'anno Hasan-ibn-Ali, sâheb di Sicilia, usci con grosso navillio contro il paese dei Rûm.”

556. Ibid. Suppongo dai fatti seguenti la dimora di Ammâr in Calabria e la ritirata di Basilio dall'isola.

557. Confrontinsi: Theophanes continuatus, ediz. di Bonn, p. 454, 455, e Cedreno, stessa edizione, tomo II, p. 359, 360; Cronica di Cambridge, l. c., anni 6466, 6467 (1 settembre 957 a 31 agosto 959). La Continuazione di Teofane dà evidentemente il rapporto oficiale del patrizio, con reticenze e confusione di tempi. Cedreno ci ha conservato l'altra tradizione, che non si trova nei cronisti contemporanei conosciuti da noi.

558. Cronica di Cambridge, l. c.

559. De Meo, Annali del Regno di Napoli, tomo V, p. 358, anno 958. Il solo mallevadore è l'autore anonimo degli Atti di Sant'Agrippino. Se il fatto si può ammettere, parmi abbia ragione il De Meo a porlo il 958 piuttosto che il 961, com'altri avea pensato.

560. Cronica di Cambridge, l. c, anni 6468 e 6469 (i settembre 959 a 31 agosto 961). Il nome che trascrivo Afrina coi primi editori, è scritto senza punti: onde può esser composto delle lettere seguenti: 1. a o i; 2. f, k; 3. b, t, th, n, i; 4. idem; 5. a ovvero h aspirata.

561. Cedrone, l. c.

562. Ibn-Sceddâd, dal quale è tolto questo passo d'Abulfeda, Annales Moslemici, tomo III, p. 446, seg., anno 336. Vi si accorda Ibn-abi-Dinâr, MS. di Parigi, fog. 37 verso. Entrambi pongono il fatto nel 347 (24 marzo 958 a 12 marzo 959), e dicono solo dell'andata di Ahmed coi trenta, senza nominare Hasan.

563. Cronica di Cambridge, anno 6469 (1º sett. 960 a 31 ag. 961), presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 50, dicendo di Hasan e non di Ahmed. Il divario della data non monta, o accenna viaggi diversi.

564. Il Martorana, tomo I, p. 100, e il Wenrich, lib. I, cap. XIV, § 128, p. 164, interpretano che i trenta fossero iti a far professione di rito sciita. Ma le parole della Cronica che ho citato portano piuttosto ad affiliazione alla setta ismaeliana. Il giuramento non occorrea per la esaltazione del principe, riconosciuto in Sicilia da parecchi anni. Nè giuramento poi, nè solenne professione si facea del rito sciita; il quale, differiva dall'ortodosso in una frase dell'appello alla preghiera e in pochi punti di dritto, e però la pratica di quello dipendea dagli oficiali del governo, nè i privati ci avean che fare. D'altronde si è già notato quanto agognasse la novella dinastia a far proseliti alla setta ismaeliana. Veggasi Libro III, cap. VI, p. 136, 137.

565. Cronica di Cambridge, l. c. La voce che traduco “stipendii militari” si potrebbe leggere in altro modo, e significherebbe “acquisti.” Ma qui tornano a sinonimi; perchè, non essendovi per anco terre da dividere, il principe non potea donarne di quelle dello Stato, ma solo assegnare temporaneamente le entrate di esse. Veggasi il Libro III, cap. I, p. 16, seg., di questo volume.

566. Cronica di Cambridge, l. c.

567. Abulfeda, e Ibn-abi-Dinâr, ll. cc. S'intende ch'essi non fanno motto dei pensieri ch'io attribuisco a Moezz, ad Hasan ed ai nobili Siciliani.

568. Nowairi citato da Quatremère, Vie de Moëzz nel Journal Asiatique, IIIe série, tomo II, p. 420.

569. D'Ohsson, Tableau de l'empire ottoman, libro II, cap. 17.

570. Abulfeda e Ibn-abi-Dinâr, ll. cc.

571. Secondo le tavole di popolazione di Francia e di qualche provincia d'Italia che ho avuto alle mani, i fanciulli maschi di 7 anni sono il centesimo della popolazione. Supponendo metà dei 15,000 di sette anni e metà oltre gli otto, la popolazione musulmana di Sicilia nel 972 tornerebbe a 750,000 il qual numero non discorda dai computi che abbiam fatto con altri dati, Libro III, cap. XI, pag. 216 di questo volume. Il Palmieri, nella Somma della Storia di Sicilia, Palermo 1834, vol. I, p. 376, su questo medesimo dato ragiona i Musulmani dell'isola a 300,000. E sbaglia; perchè suppone istituita allora la circoncisione dai Fatemiti, e che si fosse praticata in Sicilia per la prima volta, e però su tutti i fanciulli di ogni età.

572. Nowairi dice 1570. Nel supposto che fosse la quinta del principe si ragionerebbe a 9000 anime la popolazione di Taormina. Ma forse non era luogo ad osservare la proporzione legale, perocchè Moezz potea aver mandato soldatesche di schiavi, e prender come sua propria la parte che lor toccava dei prigioni e del bottino.

573. Si confrontino: Cronica di Cambridge, anno 6470-71, op. cit., p. 51; Ibn-el-Athîr, anno 351, MS. B, p. 302; Abulfeda, Annales Moslemici, anni 336 e 351, tomo II, p. 446, seg., 478; Nowaîri, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 15, 16; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 170, e Storia dei Fatemiti, MS. di Parigi, Supl. Arabe, 742 quater, vol. IV, fog. 20 verso, e traduzione di M. De Slane in appendice alla Histoire des Berbères par Ibn-Khaldoun, tomo II, p. 542; Ibn-abi-Dinâr, MS. di Parigi, fog. 37 verso, seg.; Lupo Protospatario, presso Pertz, Scriptores, tomo V, p. 54.

574. Si vegga per Siracusa nel 964, il séguito del presente capitolo, e nel 969 il capitolo V di questo Libro IV. Per altre città non ho testi da poter citare.

575. Si vegga il Libro II, cap. X, pag. 426 del primo volume.

576. Si confrontino: Cronica di Cambridge, anno 6471 (962-3), op. cit., p. 51, e Nowairi, op. cit., p. 16.

577. Cotesta voce e il fatto si trovano nel solo Nowairi. Le 'arrâde, macchine da gitto più picciole del mangano, come le spiegano i dizionarii, erano già in uso nel decimo secolo appo gli Arabi, facendone menzione Mawerdi, ediz. Enger, p. 75.

578. Nowairi, l. c.

579. Secondo gli autori bizantini citati da Le Beau, Histoire du Bas Empire, Libro LXXIV, cap. 46, ambo i califi, abbassida e fatemita, abbandonarono i Cretesi, visto non poterli aiutare. Presso alcuni annalisti musulmani corse l'errore che Moezz avesse mandato forze che liberaron Creta; il qual fatto M. Quatremère notò in una compilazione persiana, e giudiziosamente lo suppose dato per anacronismo invece della sconfitta di Costantino Gongile del 958. Veggasi il Journal Asiatique, IIIe série, tomo II, p. 420, 421. Ma mi è avvenuto di trovare appunto lo stesso racconto in Ibn-el-Athîr, anno 351 (962), MS. C, tomo IV, V, e nell'altro MS. di Parigi, Supl. Arabe, 741 bis, fog. 228 verso; se non che in un MS. si legge ben Creta, e nel secondo “l'isola di....” lasciando il nome in bianco. Indi si potrebbe supporre che, in vece d'anacronismo, lo sbaglio fosse nel nome. E mi è parso di farne menzione, perchè l'isola potrebbe per avventura esser Malta.

580. Ibn-el-Athîr.

581. Nowairi.

582. Nowairi. Questo compilatore scrive Magi. Il Di Gregorio tradusse Persis; M. Quatremère, op. cit., notò in parentesi Normands. Senza il menomo dubbio si tratta de' Pauliciani, ai quali l'eresia manichea potea ben meritare appo i Musulmani la volgare appellazione di Magi. Noi sappiamo che le legioni di Tracia erano composte di Pauliciani e che aveano trionfato a Creta. Si veggano Le Beau, op. cit., libro LXXIV, cap. 14, e Gibbon, Decline and Fall, cap. LIV, nota 4.

583. Le Beau, l. c.

584. Leone Diacono Caloense.

585. Ibn-el-Athîr.

586. Vita di San Niceforo vescovo di Mileto.

587. Leone Diacono, e Vita di San Niceforo.

588. Vita di San Niceforo.

589. Leone Diacono.

590. Liutprando. Ognun sa la sua rabbia contro i Bizantini, come lombardo; e contro Niceforo Foca perchè l'accolse freddamente o peggio, quando Otone primo il mandò oratore a Costantinopoli.

591. Ibn-el-Athîr, Nowairi e gli altri Arabi. Il nome di Berberi si ricava dalla sola Cronica di Cambridge, dove fu franteso dai primi editori e con essi dal Di Gregorio; talchè tradussero in latino: “cum copiis Ben-Aber.” In vece di questo nome proprio, si dèe leggere senza il menomo dubbio Berâber, ch'è il plurale di Berbero.

592. Ibn-el-Athîr, Nowairi, e gli altri Arabi.

593. Coteste fazioni sono accennate dal solo Leone Diacono, in mezzo a luoghi comuni di rettorica, che mi fecero stare in forse se lo scrittore ci avesse anche ficcato, come luogo comune di erudizione, tutti i nomi classici che gli sovvenivano della geografia di Sicilia. Ei dà a Termini l'antico nome d'Imera, nè fa parola di Rametta. I Siciliani non potendo difendere le città, si ritraggono sui monti e nelle selve. I Romani, inseguendoli là dove i fronzuti rami togliean la vista del sole, sciolgono la falange, onde son côlti dai barbari in un agguato tra greppi e caverne, ec. Pur tra coteste frasi da scuola, le fazioni delle quattro città nominate hanno sembianza di vero; tantopiù che sappiamo da altre fonti che i Musulmani dopo le vittorie di Rametta e del Faro, ebbero a combattere in varii luoghi. Perciò ammetto la testimonianza.

594. Θεοπτικῶν.

595. Credo così render meglio che con versione litterale il testo ἀναγωγίαν πλείστην τῶν στρατηγῶν. Vita di San Niceforo vescovo di Mileto.

596. Veggasi Libro III, cap. X, pag. 427 del primo volume.

597. Si vegga il Libro II, cap. XII, vol. I, pag. 468, nota 4, ed il Libro III, cap. IV, pag. 85, nota 1. I nomi topografici son dati qui dal solo Nowairi; nei due MS. del quale, Demona si riconosce con certezza. Non così l'altro nome che ha le lettere ””Ksc ovvero ””Ks, rimanendo molto dubbie le prime due. Preferisco la lezione del migliore tra i MSS. di Edrisi.

598. Nowairi; ma non dice se per terra o per mare. È più probabile il primo, e che Ahmed abbia dovuto allungare il cammino per iscansare Termini, occupata dal nemico.

599. Confrontinsi: Ibn-el-Athîr e Nowairi. Questi, come dicemmo, non dà il nome della strada che tenne Manuele; ma la sola che gli restava, e la più breve delle due praticabili, era quella di Spadafora. Tal conseguenza necessaria è confermata dal fatto della schiera posta su la via di Palermo.

600. Ibn-el-Athîr, e Nowairi.

601. I compilatori dicono che Ibn-'Ammâr andò incontro a Manuele, senza particolareggiare il luogo dove si combattesse avanti la ritirata nel campo. Ma è evidente che fu nella gola di Spadafora. Ibn-'Ammâr non poteva aspettar nel piano un nemico sì superiore di numero e di cavalli.

602. Ibn-el-Athîr, Nowairi ec.

603. Cotesti versi, dati dal solo Ibn-el-Athîr, sono di Hosein-Ibn-Homâm della tribù di Morra, e si leggono nell'antologia poetica intitolata Hamasa ossia “della virtù in guerra,” testo arabico pubblicato dal Freytag, p. 92, 93. Hosein visse avanti l'islamismo; il poco che sappiam di lui, si vegga nel Commentario dell'Hamasa, l. c., e in Ibn-Doreid “Libro etimologico,” testo pubblicato a Gottinga dal Wüstenfeld, p. 186. I versi recitati dai combattenti provano che questi fossero Arabi, e però della colonia siciliana; poichè Moezz avea mandato d'Affrica soldatesche berbere. Il giund arabico d'Affrica, se pur ne rimaneva in questo tempo, era ridotto a picciol numero e niente disposto a venire in Sicilia.

604. Nowairi scrive: fin dopo la prece del Zohr, che si fa passato mezzodì; Ibn-el-Athîr all'ora dell''Asr, che in quella stagione tornerebbe a ventun'ora e mezza, a modo dei nostri antichi.

605. Ritraendosi cotesti particolari dagli Arabi, non v'ha il menomo sospetto di fattura rettorica. Non è al certo in lor annali che gli Arabi dan volo all'immaginazione.

606. Si confrontino: Ibn-el-Athîr, Abulfeda, Nowairi, Ibn-Khaldûn. Il Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 18, tradusse l'ultima parte della leggenda incisa su la spada “multum is sanguinem fadit in manibus Apostoli Dei,” scostandosi dalla versione francese di M. Caussin; il quale (Histoire de Sicile... du Nowairi, pag. 34, in appendice a Riedesel, Voyages en Sicile ec.) gli rimbeccò che la frase arabica “nel mezzo delle mani” significa non già “nelle mani” ma “in presenza.” E ciò è verissimo; quantunque si potrebbe allegare a difesa del Di Gregorio qualche raro esempio ch'egli non conoscea di certo, nel quale la detta frase ha il significato litterale “nelle mani” ovvero “per le mani.” Ma nel caso nostro parmi dubbio essere stata cotesta spada in pugno non che di Maometto, ma d'alcun dei primi guerrieri dell'islamismo. Litteralmente abbiamo: “lungo (è) quanto fu percosso con esso (brando) nel mezzo delle mani ec.;” il che si può intendere in presenza di Maometto, dalla parte sua o dalla parte contraria. E mi appiglierei a quest'ultimo supposto anzi che ai primo, per l'ambiguità che pare studiata, e sopratutto perchè manca la formola (ferì) “nella via di Dio” cioè in difesa della religione. Il peso della spada torna da sette ad ottocento grammi, variando il mithkal secondo i tempi e i luoghi.

607. Nowairi. L'appellazione 'Ilg non si dava ordinariamente ai Bizantini (Rûm) nè ai Persiani ('Agem). Il compilatore, o forse il cronista, adoperò la stessa voce 'ilg per designare il Palata alemanno, o piuttosto armeno, di cui nel Libro II, cap. I, p. 247 del primo volume.

608. Confrontinsi: Abulfeda, Nowairi, Ibn-Khaldûn. La data della morte si trova soltanto nel primo e nella Cronica di Cambridge, secondo l'uno del mese di dsu-l-ka'da (8 nov. a 8 dic.), secondo l'altra in novembre.

609. Ibn-Khaldûn, sì come il nostro Vico, notò che tentava una scienza novella. Si vegga la Introduzione nel primo volume della presente Storia, pag. LIV.

610. Ibn-el-Athîr e qualche particolare da Nowairi.

611. Nowairi.

612. I cronisti bizantini, cominciando da Leone Diacono, son sì mal informati, che dicono preso il navilio bizantino nel porto di Messina dal nemico che inseguiva gli avanzi delli sbaragliati di Rametta. La nuova corse al par confusa nell'Italia di mezzo, poichè Liutprando dice ucciso Manuele e preso Niceta nella stessa battaglia tra Scilla e Cariddi.

613. Confrontinsi: Ibn-el-Athîr, Nowairi, Ibn-Khaldûn.

614. Liutprando.

615. Ibn-el-Athîr, e in due luoghi Ibn-Khaldûn. Il professore Fleischer, rivedendo le stampe della Biblioteca Arabo-Sicula, ha proposto di leggere qui “sfondare” invece di “ardere;” i quali due verbi non differiscono in scrittura arabica che per un punto diacritico su la prima lettera. Ma i MSS. sono uniformi nella lezione che io seguo. E la probabilità, in una battaglia navale, mi par maggiore per l'effetto di appiccare l'incendio gittandosi a nuoto con una fiaccola di fuoco greco, che per quello di tuffare con un palo di ferro e lavorar su i fianchi di una grossa galea.

616. Nowairi.

617. Confrontinsi: Ibn-el-Athîr e Ibn-Khaldûn. Entrambi dicono espressamente che la battaglia dello Stretto seguì nel 354.

618. Leone Diacono, Liutprando, lo scrittore anonimo della Vita di san Niceforo, e Cedreno.

619. MS. greco, Ancien Fonds, 497, proveniente dalla biblioteca di Colbert. La soscrizione è pubblicata dal Montfaucon, Paléographie, 45 A, e meglio da M. Hase, in nota alla pagina 67 del testo di Leone Diacono. La soscrizione a p. 444, data nella prigione di Africa, come si chiamava anche Mehdia ἐν τὸ δεϚμωτηρίῳ ’Αφρικῆς, è di settembre indizione decima (967). Niceta non vi dimenticò i titoli di protospatario e drungario dell'armata.

620. Ibn-el-Athîr e Ibn-Khaldûn che dicono entrambi cittadi dei Rûm. Ma questi non poteano essere di Sicilia ove i Musulmani non si contentavano al certo di tributo che pagasse il municipio.

621. Si confrontino: Leonis diaconi Caloënsis, ec., ed. di Bonn, p. 65-67; Vita di San Niceforo vescovo di Mileto, d'anonimo siciliano o calabrese, MS. greco di Parigi, Ancien Fonds, 1181, squarcio dato da M. Hase in nota a Leone Diacono, op. cit., p. 442; Cedreno, tomo II, p. 353 e 360, ediz. di Bonn; Liutprando, Legatio, presso Pertz, Scriptores, tomo III, p. 355, 356; Lupo Protospatario, anno 965, presso Pertz, Scriptores, tomo V, p. 55; Cronica di Cambridge, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 51, la quale è interrotta appunto al principio di questa impresa; Ibn-el-Athîr, anno 353, MS. B, p. 308 seg., C IV, fog. 361 verso; Abulfeda, Annales Moslemici, anno 336, tomo II, p. 448; Nowairi, presso Di Gregorio, op. cit., p. 16 a 18; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique ec., p. 170, 171, e Storia dei Fatemiti, MS. di Parigi, Suppl. Arabe, 742 quater, tomo IV, fog. 21 recto, con la versione di M. De Slane, in appendice alla Histoire des Berbères dello stesso Ibn-Khaldûn, tomo II, p. 529 seg.; Hagi-Khalfa, Cronologia, anno 353, nella versione italiana del Carli, p. 63; Ibn-abi-Dinâr, MS. di Parigi, Supl. Arabe, 851, fog. 26 verso, e 37 verso, seg. Il Rampoldi, Annali Musulmani, tomo V, p. 306, 311 e 314, con incredibile sbadataggine, fa sbarcare e morire Manuele il 963; lo fa tornare in Sicilia il 964, e inventa nel 965 una guerra dei Cristiani di Girgenti, che sembra replica della rivoluzione del 938. Il Quatremère, nella Vita di Moezz, Journal Asiatique, IIIe serie, tomo III, p. 65 a 68, fa il racconto di questa impresa su i testi di Abulfeda e di Nowairi. Una lezione erronea del secondo, portò l'illustre orientalista a tradurre “Les Musulmans étaient animés par le sentiment de l'honneur” in vece di “entrarono nel proprio campo” come si ha di certo, confrontando il testo d'Ibn-el-Athîr.

622. Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 19. Se avessi più osato, avrei tradotto “preposti all'inurbamento,” che sarebbe proprio la voce del testo: 'imâra. Avvertasi che la cronica copiata da Nowairi dice “fabbricare.” Ma le mura di Palermo erano al certo più antiche. Si deve intender anco “riattare” là dove parla delle città di provincia.

623. Journal Asiatique, IVe série, tomo V, p. 92 a 95.

624. Il Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 167, diè il disegno ridotto d'una iscrizione del castel di Termini, nella quale si leggono certamente i nomi di Moezz-li-dîn-Allah e di Ahmed. Ma la data del 340, anche aggiuntavi una cifra d'unità, ed anche supposta tal cifra di nove, sarebbe anteriore al fatto nostro; e in ogni modo mancano altri compartimenti che doveano contenere “fabbricato per comando ec. per le cure dell'emiro ec.” Pertanto questa iscrizione, come tutte le altre, è da rivedersi sul monumento, se si potrà; e per ora accerta soltanto che il castel di Termini fu edificato nel regno di Moezz.

625. Schivando, per genio di lor lingua, due consonanti in principio di parola, premessero a κλίμα una alef con la vocale i.

626. Ibn-Haukal, Geografia, capitolo dell'Affrica, MS. di Parigi, Suppl. Arabe, 885, p. 36, 45, 48, 51, 52, dice degli iklîm della penisola Bâsciu (oggi Dakhel), di Susa, Setfura, Laribus, Ascîr, e Cafsa.

627. Edrisi, Geografia, nel capitolo di Sicilia, dice degli iklîm di Siracusa, Noto, Mazara, Marsala, Trapani, Cefalà, Rahl-Menkûd; chiama Sciacca la metropoli degli iklîm (al plurale), che prima dipendeano da Caltabellotta; anche al plurale accenna quei di Castrogiovanni e quei di Pietraperzia: e infine dice che da Caronía cominciasse l'iklîm di Demona. Tolto quest'ultimo, che pare risponda al Val Demone, gli altri sono o distretti o circondarii, non mai province.

628. Presso Sacy, Description de l'Egypte par Abdallatif, appendice, p. 586 seg. Il titolo è appunto “Dei luoghi (che si comprendono) negli iklîm d'Egitto.” Percorrendo la lista, si trova il solo iklîm di Nesterawa, e le altre circoscrizioni sono denominate talvolta 'aml (governo), talvolta thaghr (frontiera). 'Aml sembra, anche in Edrisi, sinonimo di iklîm, se pur non indica meramente la circoscrizione del governo civile, quando iklîm sia riserbato alla circoscrizione militare; il che suppongo senza poterlo affermare. Thaghr avea il valore che diamo oggidì a “piazza,” in linguaggio d'amministrazione militare. È da notare che nel detto documento di Egitto v'ha 21 divisioni; che gli 'aml racchiudono un numero di luoghi molto diverso, da 383 a 150 ed anche meno. I thaghr di Alessandria, Rosetta e Damiata ne hanno molto meno; e l'iklîm di Nesterawa sol cinque.

629. Il testo ha la voce Ahl, popolo, famiglia, gente in generale.

630. Veggasi, Libro III, capitolo I, pag. 28 seg., di questo volume.

631. Nei primi tempi dell'islamismo oravano dal pulpito i califi o gli emiri delle province. Poi si ebbero khatîb (predicatori) stipendiati.

632. Non solo per la diversa ubertà del territorio; ma anche perchè lo Stato in alcuni possedeva le terre, in altri riscoteva il dazio solo.

633. Per esempio, il territorio di Giato giugnea da una parte a Sagana presso Palermo e dall'altra presso Calatafimi: che sono circa venti miglia siciliane di lunghezza. Il territorio di Mazara prendea quasi tutto il distretto odierno di tal nome e metà di quello d'Alcamo, confinando col territorio di Giato; cioè avea da trenta miglia di lunghezza. Si vegga il diploma del 1182 presso Del Giudice, Descrizione del real tempio.... di Monreale, appendice, p. 8, 9, 10. All'incontro il territorio di Palermo e molti altri erano brevissimi.

634. Si vegga il capitolo VI di questo Libro.

635. Veggansi per questa epoca gli Annali Musulmani d'Abulfeda, e la Storia del Basso Impero di Le Beau.

636. Ibn-abi-Dinâr, che narra quest'aneddoto, dice precisamente “andare e venire più volte.”

637. La data della pace e i doni che recò l'ambasciatore si ritraggono da Nowairi, presso di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 19. Al dir di Liutprando, presso Pertz, Scriptores, tomo III, p. 356, Niceta fu riscattato con tant'oro, che niun uomo di senno ne avrebbe dato mai per un eunuco. Mi sembra più probabile che Moezz l'avesse reso senza riscatto, come afferma il Le Beau, Histoire du Bas Empire, lib. LXXV, cap. XI. Ma le autorità che cita il compilatore francese nol dicono nè punto nè poco, nè parlano della spada di Maometto che avesse mandata Niceforo a Moezz; la quale mi par la stessa presa a Rametta, e che Le Beau abbia confuso il fatto o rabberciatolo a modo suo.

638. Questo lungo aneddoto, tolto al certo da antica cronica affricana, si trova intero in Ibn-abi-Dinâr, MS. di Parigi, fog. 28 recto, dal quale io traduco, saltando molte parole qua e là, ma senza aggiungerne alcuna. Ibn-el-Athîr, MS. A, tomo III, fog. 7 verso, 8 recto, lo dà quasi con le stesse parole, se non che vi mancano l'andata in Sicilia ed a Susa. La versione dello squarcio di Ibn-el-Athîr si vegga presso Quatremère, Vie de Moezz-li-dîn-Allah, nel Journal Asiatique, IIIe série, tomo II, 1836, p. 131 dell'estratto.

639. Ibn-Khallikan, Vita di Giawher, versione inglese di M. De Slane, tomo I, p. 340, seg.; Quatremère, op. cit., p. 37 seg.

640. Quatremère, op. cit., p. 22, seg., che cita Makrizi.

641. Quatremère, op. cit, p. 134, 135, anche da Makrizi.

642. Khodhâ'i, MS. di Parigi, Ancien Fonds, 761, fog. 116 recto; Ibn-el-Athîr, anno 338, MS. C, tomo V, fog. 7 recto; Ibn-Khallikân, versione inglese di M. De Slane, tomo I, p. 340, seg. e il Baiân, testo, tomo I, pag. 229, dicono espressamente Giawher Rumi, che significa, come ognun sa, di schiatta greca o latina. Nella moschea el-Azhar al Cairo, fondata da Giawher il 361 (971) è, o era, una iscrizione trascritta da Makrizi e posta probabilmente dal conquistatore medesimo, il quale non vi s'intitola altrimenti che “Giawher il segretario siciliano.” Perchè si legge chiaramente Sikîlli nei quattro MSS. di Parigi, ch'io ho citato nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 669, 670, e lo stesso nella recente edizione di Bulak in Egitto che ho notato nelle aggiunte. Però non posso accettare la conghiettura di M. Quatremère, op. cit., p. 75, il quale tradusse “Esclavon;” leggendo Saklabi, perchè tanti Slavi si trovavano negli eserciti fatemiti. Ho avvertito altrove che questa voce in scrittura arabica si confonde facilmente con Sikîlli, ma nel presente caso non è luogo a dubbio; perchè un Rumi poteva ben essere Siciliano, e non mai Slavo.

643. Khodhâ'i e Baiân, ll. cc.; Ibn-Hammâd, MS. di M. Cherbonneau, fog. 8 recto.

644. Si confrontino Ibn-Khallikan, l. c, e gli altri autori arabi citati da M. Quatremère, op. cit., pag. 9 ad 11, e 35. Il capitolo d'Ibn-el-Athîr su le imprese di Giawher fino all'Oceano è stato pubblicato da M. Tornberg in nota agli Annales Regum Mauritaniæ, (Kartâs), tomo II, p. 382. Abulfeda, Geografia, versione di M. Reinaud, tomo II, pag. 204, indica precisamente la linea di operazione disegnata da Moezz.

645. Confrontinsi: Ibn-Khallikan, l. c, e le autorità date da M. Quatremère, op. cit., p. 40 seg.

646. Il testo ha qui la voce milla, “credenza religiosa.”

647. Ibn-Hammâd, MS. di M. Charbonneau, fog. 8 verso e 9 recto. Quest'atto è segnato di scia'bân 358 da “Giawher segretario, schiavo del principe dei Credenti ec.” E l'amân è accordato a tutto il popolo del Rîf e del Sa'îd, ossia basso ed alto Egitto. Credo che il testo risponda a quello che M. Quatremère ha tolto dal MS. Leyde del Nowairi e datone il principio nell'op. cit., p. 41 a 43; quantunque manchino nella versione i patti importanti di cui io fo parola. Da questi si vede che i Fatemiti non vietavano affatto il rito sunnita, e che si limitavano ad innovare la formola dell'appello alle preghiere, sì come ho notato in questo volume, p. 131, 136, lib. III, cap. VI.

648. Ibn-Hammâd, fog. 8 verso; Quatremère, op. cit., p. 51, 56.

649. Quatremère, op. cit., p. 48.

650. Ecco, secondo Makrizi, l'iscrizione in giro della cupola sul primo portico: “In nome di Dio ec. Edificata per comando del servo e amico di Dio Abu-Temîm-Ma'dd-Moezz-li-din-Allah principe dei Credenti (sul quale e sugli egregi suoi progenitori e discendenti siano le benedizioni di Dio), e per opera del servo di esso principe, Giawher il segretario siciliano, l'anno 360.” Biblioteca arabo-sicula, p. 669-670.

651. Quatremère, op. cit., p. 57, 82, seg.

652. Quatremère, op. cit., p. 51, 63, 69, seg.

653. Si veggano i molti fatti che provan questo, nel Riâdh-en-Nofûs, fog. 92 verso, 93 verso, 98 verso ec., e le altre citazioni di questo MS. che ha fatte M. Quatremère, op. cit., p. 13 seg. Non intendo dire delle cagioni del trasferimento della sede in Egitto, su la quale il concetto mio è al tutto diverso.

654. Ibn-el-Athîr, MS. C, tomo V, anno 358, fog. 367 recto. Il nome del capo era Abu-Kharz o Abu-Kherez della tribù di Zenata, e i suoi seguaci delle due sètte sifrita e nakkarita. Nei MSS. d'Ibn-Khaldûn è chiamato Abu-Gia'far: Histoire des Berbères, versione, tomo II, pag. 548, Appendice. Si vegga anche Quatremère, op. cit., p. 62.

655. Per Sanhâgia si vegga Ibn-el-Athîr, MS. C, tomo V, anno 361; per Kotama, Makrizi, citato da M. Quatremère nella detta opera, p. 30.

656. Ibn-el-Athîr, l. c.; Bekri e Ibn-Khaldûn citati da M. Quatremère, stessa opera, p. 86, nota 1. Indi è venuto, come avverte questo dotto orientalista, l'errore di un supposto viaggio di Moezz nell'isola di Sardegna. Si vegga anche Wenrich, Commentarii, lib. I, cap. XIII, § 113.

657. Ibn-Khallikan, versione inglese di M. De Slane, tomo I, p. 340, seg.

658. Quatremère, op. cit., p. 87, da Makrizi. Si vegga nel presente volume, pag. 237, nota 2.

659. Ibn-el-Athîr, anno 361, MS. C, tomo IV, fog. 370 recto e verso, e tomo V, fog. 10 verso.

660. M. Quatremère, op. cit., p. 88, secondo Makrizi, dice i capi. Parmi si debba intendere di qualche capo; poichè si trattava certamente dei mercenarii e delle milizie arabe; non già della vera forza, cioè la tribù di Sanhâgia, la quale avea gli ordini militari suoi proprii.

661. Quatremère, l. c., da Makrizi.

662. Ibn-el-Athîr, l. c., e Ibn-Khaldûn, Storia dei Fatemiti, in appendice alla Histoire des Berbères del medesimo autore, versione, tomo II, p. 550. Il primo aggiugne che Moezz comandò ai due direttori di carteggiarsi con Bolukkîn. Certamente per la forma, e per aver mano forte all'uopo. Si noti la distinzione delle amministrazioni del kharâg e delle tasse diverse. La distinzione parmi fatta non solo perchè eran diversi i modi di riscossione, cioè l'uno tassa invariabile e diretta, com'oggi diciamo, e gli altri tasse mutabili e in parte indirette, ma anche per la diversità dei territorii e delle genti. Il kharâg principalmente si dovea trarre dall'Affrica propria, nè credo sia stato mai consentito dalle più forti tribù berbere. Kotama nè anche volea pagare la decima musulmana. Si vegga Quatremère, op. cit., p. 30.

663. Il Baiân, testo, tomo I, p. 238, narra, l'anno 366 (976-7) e il seguente, che 400,000 dinâr raccolti a Kairewân furono mandati in Egitto dal direttore. Questo fatto tronca ogni dubbio.

664. Lo dice espressamente Ibn-el-Athîr. È da notare che su questi primi ordini del governo zîrita i compilatori orientali differiscono dagli affricani. Ibn-el-Athîr, e più di lui l'egiziano Makrizi, ristringono l'autorità di Bolukkîn. Ibn-Khaldûn, nel luogo testè citato, riferisce in compendio gli stessi fatti; ma nella Histoire des Berbères, versione, tomo II, p. 10, dice quasi lasciato assoluto potere a Bolukkîn. Indi è manifesto che i primi compilavano sui cronisti egiziani, e che Ibn-Khaldûn nella Storia dei Fatemiti copiò Ibn-el-Athîr, e in quella dei Berberi seguì le autorità affricane, senza curarsi della contraddizione: il che gli avvien sovente. Ognun poi vede che i cronisti d'Egitto sotto i Fatemiti sosteneano il dritto della dinastia, e quei d'Affrica sotto gli Zîriti, già scioltisi dall'obbedienza all'Egitto, voleano fare risalire l'independenza fino ai primi principii del governo zîrita.

665. Ibn-el-Athîr, anno 361, MS. C, tomo IV, fog. 370 recto, e tomo V, fog. 10 recto, con le varianti che ho notato nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 267 del testo.

666. Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 19.

667. Nowairi, l. c. La frase che il Di Gregorio stampò erroneamente nel testo, e tradusse ut earum edificia disficerent, va corretta “onde entrambi (Abu-l-Kasem e Gia'far) posero il campo tra le due città.” Così anche l'ha spiegato M. Quatremère, op. cit., p. 68. È supposizione mia che si attribuisse tal provvedimento ai doni dei Bizantini; ma se no, perchè accoppiar quei due fatti?

668. Nowairi, l. c.; Abulfeda, Annales Moslemici, an. 336; Ibn-abi-Dinâr, MS. di Parigi, fog. 38 recto.

669. Abulfeda e Ibn-abi-Dinâr, ll. cc.

670. Quatremère, op. cit., p. 84.

671. Makrizi, Mokaffa, MS. di Leyde, tomo I, sotto il nome di Mohammed-ibn-Hasan-ibn-Ali etc., detto il Siciliano. Il biografo aggiugne che ammalatosi costui al Cairo, Moezz l'andava a visitare, e che venuto a morte del 363 (973-4) lo compose egli stesso nel feretro, e recitò la prece sul cadavere. Questo Mohammed era nato il 319 (931), e però prima della venuta del padre in Sicilia.

672. Si confrontino: Nowairi, Abulfeda, Makrizi e Ibn-abi-Dinâr, ll. cc., ma l'ultimo sbaglia la data. Tutti dicono Ia'isc surrogato dallo stesso Ahmed. Ma convien meglio alla ragion del fatto la narrazione d'Ibn-el-Athîr, anno 359, MS. C, tomo IV, fog. 368 verso, e tomo V, fog. 9 recto, che Ia'isc fosse stato eletto da Moezz. Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, versione, p. 172, segue questa tradizione, ma erroneamente dice che Ahmed fosse stato eletto dai Siciliani alla morte del padre. Si confronti il presente volume, Libro IV, cap. II, pag. 249, nota 1.

673. Ibn-el-Athîr, anno 359, MS. C, tomo IV, fog. 368 verso, e tomo V, fog. 9 recto. Il testo ha kabâil, plurale di kabîla, che significa una delle suddivisioni della tribù arabica. Gli scrittori arabi del decimo secolo che parlan dell'Affrica usano cotesto nome generico per designare le tribù sia d'Arabi, sia di Berberi, ed in oggi nelle province d'Algeri e di Orano (non già in tutta l'Algeria nè in tutto il resto dell'Affrica) si chiamano Kabili, come ognun sa, i soli Berberi. Nondimeno nel presente passo d'Ibn-el-Athîr, copiato da croniche del X o XI secolo la voce kabâil non si può intendere altrimenti che tribù di Arabi Siciliani; primo perchè è messa assolutamente senza appellazione etnica che la determini; e secondo, perchè in Sicilia a quei tempo la lite non potea nascere se non che tra i coloni arabi ed i pretoriani. I Berberi della Sicilia meridionale non contan più dopo la guerra del 940, e non fecero mai parte della popolazione di Palermo.

674. In novembre 969 partirono i Kelbiti, e in giugno 970 tornarono.

675. Ibn-Haukal, Description de Palerme, nel Journal Asiatique, IVe série, tomo V, p. 93.

676. Così litteralmente il testo: parti, contrada, vicinanza. Forse si tratta del distretto o iklîm.

677. Il testo ha un vocabolo analogo e derivato dalla stessa radice che il ra'ia, che tutti sentiamo ripetere nei fatti dei paesi musulmani d'oggidì. È però si deve intendere principalmente dei sudditi cristiani.

678. Questo importantissimo fatto della rivoluzione contro Ia'isc è riferito dal solo Ibn-el-Athîr, l. c., e appena accennato da Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, versione, p. 172.

679. Secondo Ibn-el-Athîr, anno 358, MS. C, tomo V, fog. 367 recto, il capo di questa ribellione si sottomesse di rebi' secondo 359 (febbraio e marzo 970). Sul nome si vegga qui innanzi la nota 2 della pag. 287.

680. Si confrontino: Ibn-el-Athîr, anno 359, MS. C, tomo IV, fog. 368 verso; Ibn-Khaldûn, l. c.; Abulfeda, Annales Moslemici, tomo II, anno 336; Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 19; Ibn-abi-Dinâr, MS. di Parigi, fog. 38 recto. Il giorno della venuta d'Abu-l-Kasem in Palermo risponde esattamente al computo degli anni del suo governo che fa Ibn-el-Athîr, narrando la sua morte seguíta il 20 moharrem 372. Egli avea tenuto l'oficio, al dir dell'annalista, 12 anni, 5 mesi e 5 giorni, che sono secondo il calendario musulmano 4405 giorni. Si vegga Ibn-el-Athîr, anno 371, che citeremo in fin del capitolo VI del presente libro. Abulfeda dà la stessa cifra di Ibn-el-Athîr; Ibn-abi-Dinâr dice in numero tondo 12 anni; e il Baiân con errore 11.

681. Si confrontino: Abulfeda, Annales Moslemici, an. 336, tomo II, p. 446, seg. Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 19; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, versione, p. 172. Secondo il primo, Ahmed morì negli ultimi mesi del 359 (fino al 2 nov. 970), e Moezz scrisse al fratello il 360 (dal 3 nov.).

682. Ibn-Khaldûn, l. c. La versione ha “integro” invece di “generoso,” come ho tradotto appigliandomi alla variante di un MS. di Tunis.

683. Questo capitolo della geografia d'Ibn-Haukal fu pubblicato da me con versione francese nel Journal Asiatique del 1845, IVe série, tomo V, p. 73, seg.; poi in italiano nell'Archivio Storico, appendice XVI (1847), p. 9, seg., con le varianti ricavate dal MS. di Oxford. Adesso due articoli del M'ogem-el-Roldân, di Iakût, che do nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 107 e 120 del testo arabico, mi abilitano a correggere alcuni luoghi e supplire altre notizie le quali mancano nelle copie d'Ibn-Haukal, che abbiamo in Europa; ma si trovavano al certo nella edizione ch'ebbe per le mani Iakût. Le differenze che si vedranno tra quel che scrivo adesso e le mie versioni del 1845 e 1847 vengono in parte dalle dette correzioni e in parte da migliore riflessione, e, se mi si voglia concedere, da un poco più di pratica nella lingua. Oltre a ciò debbo avvertire che nella versione italiana e più nelle note corsero moltissimi errori di stampa. La citazione d'Ibn-Haukal e Iakût valga per tutto il resto del presente capitolo.

684. Su la vita e le opere d'Ibn-Haukal si veggano: Uylenbroek, Iracæ persicæ descriptio, Leyde, 1822, in-4º; e Reinaud, Géographie d'Aboulfeda; introduzione, p. LXXXII, seg.

685. Si vegga il Libro III, cap. VIII, pag. 178, nota 2, di questo volume.

686. L'autore, ne' MS. che abbiamo in Europa, accenna il primo opuscolo in fin della descrizione della Sicilia. Il titolo e qualche altro particolare si leggono nel citato passo del Mo'gem-el-Boldân, di Iakût, il quale ebbe certamente alle mani il secondo opuscolo su la Sicilia, o altra edizione più copiosa della Geografia.

687. Così nel testo che abbiamo. Nell'altra edizione di cui Iakût ci serba i frammenti, par che Ibn-Haukal abbia chiamato anche cittadi le altre tre regioni.

688. Ibn-Haukal dice di proposito dei soli mercatanti; ma venendo a toccare la superbia dei cittadini, come innanzi si vedrà, confessa senza volerlo che soggiornassero nel Kasr le famiglie ragguardevoli che avean moschee proprie e vi si davan lezioni di dritto; cioè i membri della gema', la nobiltà cittadina, come noi diremmo.

689. Ibn-Haukal non dice la condizione e nazione degli abitatori, ma che quivi era il porto: il che basta. D'altronde sappiam che fossero in quel quartiere gli stabilimenti dei Genovesi, infino al XVII secolo; e vi rimane tuttavia la Chiesa di San Giorgio detta dei Genovesi. Quivi anche giacea nel XII secolo la contrada detta degli Amalfitani, come ritrasse dai diplomi il Fazzello, il quale aggiugne che del suo tempo v'era una chiesa di Sant'Andrea degli Amalfitani.

690. Ibn-Haukal scrive beled, che è vago quanto paese. Par che voglia dire di tutte le cinque regioni, non delle due sole murate.

691. Lo fu di certo nel XII secolo, onde il nome che portava di halka, in cui la prima lettera si trascrivea in modi diversi nei diplomi; sì come dirò a suo luogo. Ibn-Haukal, senza notarlo espressamente, parla del Me'sker come di contrada fuor la città vecchia.

692. Si vegga la pag. 68 di questo volume.

693. Nel XVII secolo un Giambattista Maringo, su vaghe autorità, disegnò una carta dell'antica Palermo, copiata poscia a colori in certi quadri, uno dei quali passò nella Biblioteca Comunale. Il Morso fe' ridurre e incidere così fatta pianta e vi fabbricò sopra la sua Palermo dei tempi normanni, nella quale le navi veleggiano troppo dentro terra d'ambo i lati della città vecchia. L'attestato d'Ibn-Haukal tronca adesso ogni lite, poich'ei ci dice quali acque separavano la città vecchia dalli Schiavoni, e che dall'altro lato si usciva nella regione della Moschea e dei Giudei, delle quali sappiamo il sito attuale, cioè l'oficio della posta, la strada dei calderai, ec. Ma in vero i diplomi dell'XI e XII secolo non concedeano al Morso di tirar sì in alto il mare. Ei lo fece arrivare fino alla Biblioteca Comunale odierna, supponendo che gli statuti di una confraternita della Madonna delle Naupactitesse, i quali si leggono in una pergamena greca della cappella palatina, 1º appartenessero alla città di Palermo; 2º che vi fosse fatta menzione di un quartiere di Naupactitessi, anzichè di un monastero di Naupactitesse (ἐν τῇ τῶν ναυπακτιτησσῶν μονῇ); e 3º che questa voce significasse “costruttori di navi” non già “donne di Lepanto” (Ναύπακτος). A suo luogo dirò più particolarmente di cotesto diploma, ch'è stato allegato per provare la fondazione di detta confraternita prima del conquisto normanno.

694. Ibn-Haukal precisamente dice: ottime piantagioni di zucche.

695. Bulle de Tournus, litografiata per uso dell'École des Chartes, Paris 1835. Si vegga anche Marini, Papiri Diplomatici, p. 26, 27, 222, 223. Questo papiro è lungo parecchi metri, e largo 58 centimetri. La leggenda arabica, tramezzata di qualche linea rossa, si scorge in capo del ruolo in caratteri corsivi grandi e franchi, tratteggiati con un pennello a colore in oggi bruno, anzichè nero d'inchiostro; ma sendo molto frusto il papiro in quella estremità, vi si può leggere appena qualche congiunzione e preposizione, qualche sillaba interrotta, la voce allah, ed un brano di nome Sa'îd-ibn.... Il commercio della Sicilia musulmana con Napoli, e le note relazioni di Giovanni VIII con quella città e coi Musulmani, dan valido argomento a supporre palermitano cotesto papiro, il quale per altro sembra più grossolano che quei d'Egitto.

696. Abbes in un diploma del 1164, presso Mongitore, Sacræ domus Mansionis.... Monumenta, cap. V; Habes in un diploma del 1206 presso Pirro, Sicilia Sacra, p. 129, e Audhabes, Avedhabes, o Leudhabes in altri del 1207 e 1211, op. cit., p. 130, 136, con le note del D'Amico. Non occorre di spiegare che Aud, Aved, Leud, sieno trascrizioni della voce arabica Wed, fiume. Abbâs è nome proprio d'uomo.

697. Il nome agevolmente si riconosce nel Bulchar di Fazzello, Deca I, libro VIII, cap. 1, e nel Segeballarath, ibid., come un tempo si chiamava, al dir dello stesso autore, la piazza odierna di Ballarò. Senza dubbio era corruzione di Sûk-Balharâ, “il mercato di Balharâ,” il quale villaggio appunto s'accostava da quel lato alla città.

698. Si vegga il Libro III, cap. I, p. 34 del presente volume.

699. Ghirbâl, “cribrum,” oggi Gabrieli. Il nome arabico potea ben essere il latino del quale ha la significazione.

Fawâra, “polla d'acqua,” oggi La Favara.

Ain-Abi-Sa'îd “fonte di Abu-Sa'îd,” che fu un tempo, al dir d'Ibn-Haukal, governatore del paese. Si vegga il Libro III, cap. VII, p. 157 di questo volume. Il Fazzello trovò nei diplomi Ain-Seitim; oggi Annisinni o Dennisinni.

700. Garraffu e Garraffeddu, diminutivo siciliano del primo. Gharrâf è aggettivo “abbondante (d'acqua).” Il sito era laguna o padule al tempo d'Ibn-Haukal, giacendo fuor la punta settentrionale del Kasr. E però queste due fonti, o almen la prima, furono scoperte tra il X secolo e la metà del XII, pria che si cominciasse a dileguare il linguaggio arabico.

701. Si potrebbe aggiugnere a questa cagione la mutata o trascurata coltura delle montagne che accresce le piene del torrenti, ma fa menomare le acque perenni. La valle di questo fiume, là dove fa grotta nel sasso, mostra che un tempo il letto dovea essere assai più largo e profondo del presente.

702. Ibn-Scebbât, nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 210.

703. I fatti delle chiese e moschee di Damasco e di Cordova sono noti a tutti. Sa anche ognuno che nel medio evo principi musulmani onorarono e credettero ecclesiastici cristiani famosi per sapere o pietà o arcana vista dell'avvenire; e similmente principi cristiani i dotti o astrologi musulmani. Secondo l'autorevole testimonianza di Lane, Modern Egyptians, Londra 1837, vol. I, p. 322, i Musulmani e i Giacobiti d'Egitto fan tuttavia fraterno scambio di superstizioni.

704. Ibn-Haukal nomina, 1 Bâb-el-Bahr “la porta del mare;” 2 Bâb-es-scefâ “la porta della Medicina” così detta da una fonte vicina; 3 Bâb-Scian-taghâth “la porta di Sant'Agata;” 4 Bab-Rûta “la porta di Rûta” dal nome d'un'altra fonte (Rût in arabico “fiume” dal persiano Rûd e si trova il nome in Spagna); 5 Bab-er-riâdh “la porta dei giardini” fabbricata in vece di quella, 6, detta Bab-ibn-Korhob dal nome del noto ribelle; 7 Bab-el-ebnâ “la porta dei figli;” 8 Bab-el-Hadî “la porta del Ferro;” 9 una porta nuova senza nome. La più parte di cotesti nomi si trova nei diplomi del XII secolo, come ho detto nelle annotazioni ad Ibn-Haukal nel Journal Asiatique e nell'Archivio storico italiano.

705. La porta dei Patitelli fa demolita nel 1564, e andò a male la iscrizione che vi si vedea al tempo di Fazzello, il quale errò, credo io, a supporla diversa dalla Bebilbachal (Bab-el-Bahr) di cui avea trovato il nome nelle scritture antiche. La torricciuola vicina che si addimandava di Baich, divenuta, di minaretto di moschea, abitazione d'un cittadino, fu intaccata dal lato occidentale nel 1534 per farvi certe ristaurazioni; e si cominciò allora a dislocare le pietre nelle quali correa l'iscrizione in unica linea al sommo dell'edifizio; se non che Fazzello, accorse, gridò, le fece rimettere, e copiò fedelmente, ma confusi, ed alcun capovolto, i gruppi di tre quattro lettere, ch'erano intagliati in ciascuna pietra. Ei pubblicò il disegno, in picciolo, nella sua Storia, deca I, lib. VIII, cap. I, credendo serbare il testo caldaico scritto poco dopo il Diluvio. Nel 1564, il vicerè spagnuolo che prolungò il Cassaro e gli diè il nome di Toledo, abbattè senza riguardo la torricciuola; ma per le cure dell'erudito Marco Antonio Martinez si trasportò la più parte delle pietre scolpite nel palagio di città, e se ne trassero i disegni: ottantaquattro pietre, delle quali mancavano ventuna. Così rimase la iscrizione, a un di presso ordinata al modo d'un lungo rigo di caratteri da stampa che sian caduti a terra e un analfabeta li abbia rimessi insieme in cinque o sei linee, dopo averne gittate via la quarta parte. Così la pubblicò due secoli appresso, per la prima volta, il Torremuzza (Siciliæ etc. Inscriptionum, 2ª edizione) e indi il Di Gregorio (Rerum Arabicarum) e il Morso (Palermo Antico). L'Assemanni accertò la natura dei caratteri; ma pochi ne lesse. Il Tychsen vi ritrovò una cifra cronologica e il frammento d'un versetto del Corano. Io ve n'ho letto un altro; è il resto M. Reinaud; il quale, com'io lo consultai su la mia lezione, la confermò, e incontanente la proseguì. Ecco la traduzione della data e dei versetti, nella quale il carattere corsivo mostra le parole che si è arrivato ad accozzare. Accenno le linee secondo la copia di Martinez:

Linea 3. Trecento, — Tychsen; aggiugnendo con dubbio trentuno. Mi parrebbe più tosto, ma non lo affermo, sessanta.

Linea 4. (Corano, sur. XXIV, v. 36.) in edifizii [i quali] permesse Dio che fossero innalzati.

Linee 5, 6, 7, 8, 9: e che si ricordasse in quelli il suo nome, lodan lui mattino e sera (v. 37) uomini [cui] non distoglie traffico nè vendita dal ricordare Dio, far la preghiera e pagar la limosina; tementi quel giorno in cui saranno confusi i cuori e le viste. — Reinaud.

Linea 12. (Sur. II, v. 256.) Non [v'ha] Dio se non Lui, il Vivente, il Sempiterno. — Tychsen.

Varie parole delle linee 4, 6, 7, 8, di Martinez rispondono alle linee 6, 7, 8, 9 di Fazzello; e mostrano viemeglio quanto i disegni di questo storico sieno più esatti che quelli del Martinez.

706. In numeri tondi, i beccai, i loro garzoni, gli impiegati nei macelli, e i venditori di interiora, con le famiglie, ragionate a cinque teste per casa, sommavano nel 1844 a 2000. La popolazione era circa 200,000. Ma la cifra di 700,000 che avremmo con tal proporzione nel 972 dèe scemarsi per le cause seguenti: 1º la istituzione dei macelli pubblici, che diminuisce oggi il bisogno di molte braccia; 2º la maggiore consumazione di carne da supporsi nella capitale della Sicilia musulmana, mentre le classi meno agiate, nelle presenti condizioni lagrimevoli della città, mangian carne poco o punto; 3º i giorni di magro ai quali non erano astretti i Musulmani; 4º la poligamia, la quale, se a lungo andare fa più mal che bene, pure in un periodo di ricchezza crescente poteva aumentare la proporzione da 5 a 6 o 7 a famiglia, però dare minor numero di capi di casa ossia minor numero di botteghe a numero uguale d'individui. Per queste considerazioni pongo che il numero d'anime dell'arte, stesse al numero d'anime della città come uno a cinquanta, non come uno a cento ch'è in oggi; e metto in conto dalle 5 teste a famiglia anche i bambini lattanti che Ibn-Haukal di certo non vide nelle 32 file (i numeri sono scritti non già accennati in cifre) di circa 200 persone ciascuna, che assisteano alla preghiera. Se dunque pecca il mio computo, non è di eccesso. L'area dell'abitato, che ha guadagnato un poco su le acque e perduto molto dentro terra, conferma tal giudizio. Debbo avvertire che nelle note alle due versioni italiana e francese, posi la popolazione di Palermo 170,000 anime. Il censimento che si fe poco appresso la mostrò molto maggiore, e così l'ho corretto a dugentomila.

707. Gayangos nelle note a Makkari, Mohammedan Dynasties in Spain, tomo I, p. 492.

708. D'Ohsson nel XVIII secolo contava più di 200 moschee nell'ambito di Costantinopoli e 300 nei subborghi, aggiugnendo che non ve ne fossero più nelle case dei nobili: quello appunto che faceva il gran numero delle Moschee in Palermo. Tableau général de l'empire ottoman, tomo II, p. 453, seg., edizione di Parigi 1788, in-8.

709. Questo è il significato della voce wethâiki, che si legge trascritta altrimenti e non tradotta nelle mie due versioni francese ed italiana. Si vegga Hagi-Khalfa, ediz. Flüegel, VI, p. 423. N. 14, 174.

710. Ei le narrava, ma Iakût le troncò in questo passo del testo che ci ha conservato.

711. I medici arabi del medio evo credono fermamente che la cipolla offenda il cerebro a chi se ne cibi. Iakût, nel Mo'gem-el-Boldân, Biblioteca Arabo-Sicula, cap. XI, p. 107 del testo, mette per comento a questo passo d'Ibn-Haukal l'estratto d'un libro arabico di medicina, ove si spiega appunto con l'indebolimento del cervello e dei sensi, il fatto che bevendo acqua salmastra dopo aver mangiato cipolle, uom non senta il mal sapore dell'acqua.

712. L'opera anonima intitolata Geografia, compilata di certo nel X secolo ma interpolata appresso, cava da Ibn-Haukal alcune notizie su la Sicilia, e aggiugne che i cittadini di Palermo si segnalassero su tutti i popoli vicini per eleganza di arredi e di vestimenta e urbanità nel tratto ec. Ma è dubbio se la fonte di questo passo sia del X secolo ovvero dei due seguenti. Il testo si legge nella Biblioteca Arabo-Sicula, cap. V, p. 12 e 13.

713. Ibn-Haukal, Geografia, MS. di Leyde, p. 69, e fog. 97 della copia di Parigi, Suppl. Arabe, 885.

714. Op. cit., p. 71 del MS. di Leyde e fog. 98 verso della copia di Parigi.

715. Del 962. Otone andò a Pisa, ove rimasero alcuni nobili tedeschi: Sardo, Cronaca Pisana, nell'Archivio Storico italiano, tomo VI, parte II, p. 75. Del 971 furono in Calabria i Pisani: Marangone, Cronaca Pisana, nello stesso volume dell'Archivio, p. 4, ovvero nel 969 secondo la Chronica Pisana, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo VI, p. 107, seg.

716. Si confrontino, la Cronica anonima Salernitana presso Pertz, Scriptores, tomo III, p. 554, che non porta date precise, e Lupo Protospatario, presso Pertz, Scriptores, tomo V, p. 55, anno 969, dove il passaggio d'Otone in Calabria è riferito all'ottobre dello stesso anno in cui fu una ecclisse di sole in dicembre. Lo stesso troviamo negli Annales Casinatenses, Pertz, Scriptores, III, 171. L'ecclisse seguì il 22 dic. 968. Romualdo Salernitano autore del XII secolo dà i medesimi fatti con qualche divario presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo V, anno 967.

717. Si vegga Muratori, Annali d'Italia, 968 a 970.

718. Chronica Sancti Benedicti, presso Pertz, Scriptores, III, p. 209, nel cenno su Landolfo l'Ardito che cominciò a regnare il 958 (si corregga 968).

719. Lupo Protospatario, presso Pertz, Scriptores, tomo V, p. 55. Ei dà il titolo di Caytus (Kaîd) a questo Bucoboli, forse Abu-Kabâil, con 40,000 Saraceni, o secondo altri MS. 14,000. Atto avea secondo alcuni MS. 60,000 uomini. Queste cifre non sono da attendere nè punto nè poco; e certo si tratta d'una piccola schiera, poichè non fan memoria di questa impresa gli annali musulmani d'Affrica nè di Sicilia. Si vegga anche De Meo, Annali di Napoli, tomo VI, p. 90, il quale s'affatica a mostrare che questa battaglia seguisse il 973. Lascio indietro le fazioni di Saraceni in Calabria interpolate nella Cronica della Cava, edizione del Pratilli, anni 970, 973.

720. Chronicon Salernitanum, presso Pertz, Scriptores, tomo III, p. 556, anno 970. Si vegga anche Le Beau, Histoire du Bas Empire, lib. LXXV, § 51.

721. I Fatemiti sul fine del 974 e il principio del 975 presero Tripoli di Sira e Beirût, cacciati i presidii bizantini. Si vegga Quatremère, Vie de Moezz, estratto dal Journal Asiatique, p. 126 e 128. L'ambasciatore Niccolò era tornato a corte di Moezz poco avanti la costui morte, ma si è visto già come gli parlava.

722. Lupo Protospatario, anno 975, presso Pertz, Scriptores, tomo V, p. 55.

723. Vita di San Nilo il giovane, testo greco e versione latina di Giovan Matteo Caryophilo, Roma 1624, in-4, p. 112, seg. Questo Niceforo, che primo e solo ebbe titolo di μάγιστρος in Calabria si dice mandato dai pii imperatori, e però da Basilio e Costantino, e dopo la morte di Zimisce. D'altronde la data s'adatta alla età che avea allora San Nilo, la cui vita l'agiografo tratta con ordine cronologico; e gli avvenimenti mostrano che dal 963 sino alla fine del secolo i Bizantini non poteano avere il ticchio di assalir la Sicilia che nel 976.

724. In Ibn-el-Athîr, solo che dia il fatto, si legge b”r bûla. Ciò mi fece pensare a Paola di Calabria; e sì proposi questa lezione nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 268 del testo. Poscia ho considerato che la prima voce sia da leggere barr “terra,” però la seconda bûlia, ossia Puglia, aggiugnendo una lettera dopo la l. A ciò mi conduce anche la fazione di Gravina.

725. Si riscontrino: Ibn-el-Athîr, anno 365; MS. A, tomo III, fog. 9 verso; MS. B, pag. 375; MS. C, tomo V, fog. 16 recto ec.; Abulfeda, Annales Moslemici, 365, tomo II, p. 524, ed Hagi-Khalfa, Cronologia, versione italiana del Carli, p. 65. Dei MS. Ibn-el-Athîr, B, ha con le vocali Kosenta; gli altri e Abulfeda non pongono vocali e sbagliano i punti diacritici. L'altra città è scritta Gelwa in B, e nell'autografo d'Abulfeda, MS. della Biblioteca di Parigi, Suppl. Arabe, 750, fog. 163 verso; degli altri MS. dei due annalisti, quale ha G“lwa, quale H“lwa. Lo scambio tra la w e la r che si vede sovente nei MS. arabi sopratutto in caratteri affricani, ci dà animo a leggere Cellara: chè la g arabica risponde alla nostra c, e la doppia l non si dovea scrivere ma accennare soltanto con un segno ortografico. Cellara è picciol comune dell'odierno distretto di Cosenza tra questa città e Rogliano. In ogni modo non si può assentire a M. Des Vergers la lezione Caltagirone ch'ei vien proponendo nel dare questo squarcio d'Ibn-el-Athîr, in nota a Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 175.

Marco Dobelio Citerone nella versione di Scehab-ed-dîn-'Omari, o alcuni degli eruditi siciliani che la stamparono, lessero in vece di Cosenza, Catania; e in vece di Gelwa, Avola. Indi il Wenrich, Commentarii, lib. I, cap. XV, § 131, a supporre una rivoluzione in Catania ed Avola di Sicilia. Ma nè il testo di Abulfeda copiato da Scehad-ed-dîn, nè il complesso dei fatti permettono questo supposto, tanto meno perdonabile quanto il Martorana, tomo I, p. 225, nota 155, avea mostrato la dritta strada.

726. Si riscontrino Lupo Protospatario, anno 976, e Romualdo Salernitano, stesso anno, nei citati volumi di Pertz e Muratori.

727. Ibn-el-Athîr e Abulfeda, ll. cc.

728. Si riscontrino Ibn-el-Athîr, l. c., e Nowairi presso il Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 19.

729. Ibn-el-Athîr, l. c.

730. Abulfeda, Annales Moslemici, tomo II, p. 450, sotto l'anno 336, trascrivendo Ibn-Sceddâd. Perciò si deve intendere del XII secolo. Risponderebbe per avventura al significato di Monakh-el-Bakar il nome di Vaccarizzo nella Calabria citeriore, distretto di Rossano. Ma v'ha Bova, Bovino e tante appellazioni della stessa etimologia nel regno di Napoli, che non si può fare conghiettura ben fondata. Lo stesso si dica del nome topografico: Le Torri.

731. Ibn-el-Athîr, l. c.

732. Si riscontrino Lupo Protospatario, anno 977, e Romualdo Salernitano, 976, nei citati volumi di Pertz e Muratori.

733. Il fatto è nel solo Ibn-el-Athîr, e in tutti i MS. questo nome è quasi senza punti diacritici. M. Des Vergers nella nota che citai propone di leggere Gravina. Ma v'ha la differenza del tempo e del luogo, poichè Gravina fu assalita il 976 e giace in Puglia. Oltre a ciò si dovrebbe mutare di forma qualche lettera. Leggendo Garipoli non aggiungo altro che i punti diacritici, e posso ben supporre che i Musulmani del X secolo pronunziassero in questo modo Gallipoli, come i Siciliani d'oggidì. Va avvertito qui che si potrebbe trattare per avventura d'un casale presso Catanzaro chiamato Garopoli nel XVIII secolo. Veggasi Sacco, Dizionario geografico del regno di Napoli, Napoli, 1795-6, in-8.

734. Ibn-el-Athîr e Abulfeda, ll. cc.

735. Nowairi, l. c., novera cinque imprese d'Abu-l-Kâsem in Terraferma, delle quali l'ultima il 372, e la prima il 365.

736. Vita citata di San Nilo il giovane, p. 4. Il testo ha φυλακτὰ ed ἐξορκισμούς.

737. Il De Meo, Annali di Napoli, tomo V, p. 257, anno 938, spiega che il monistero di San Nazario, poi detto di San Filareto, ad un miglio da Seminara e sei da Palma, apparteneva allo stato di Salerno e quel di San Mercurio ai Bizantini.

738. Vita di San Nilo, pag. 5 a 37.

739. Op. cit., passim.

740. Vita di Sant'Adalberto, Acta Sanctorum, 23 aprile.

741. Vita di San Nilo, p. 124 a 155, e si confrontin le citate agiografie di Sant'Adalberto.

742. Op. cit., p. 63.

743. Op. cit., p. 88, seg.

744. Si vegga il presente volume, p. 171-172, Libro III, cap. VIII.

745. φακιόλια.

746. Vita di San Nilo, p. 54.

747. Op. cit., p. 117, 118.

748. Op. cit., p. 123.

749. Op. cit., p. 120.

750. ἑκατὸν χρυσίνων.

751. νοτάριον.

752. È versione litterale della voce arabica walî “eletto, amico, santo ec.”

753. σημεῖον “segno,” probabilmente l''alâma, ossia motto e titolo scritto da un segnatario a capo dei dispacci, che tenea luogo della soscrizione nostra.

754. Op. cit., p. 120.

755. Metterò le citazioni alla fin del fatto, e qui le accennerò soltanto. La data della venuta a Benevento e Salerno si trova nella Cronica di Santa Sofia e la confermano i diplomi citati dal Muratori negli Annali.

756. Ditmar.

757. Annali di San Gallo.

758. Ibn-el-Athîr.

759. E senza ciò Abu-l-Kâsem non passava in Calabria a rischio di far unire a' suoi danni le genti d'Otone e i Bizantini.

760. Ditmar. Gli Annales Lobienses presso Pertz, Scriptores, tomo I, p. 211, dicono nel 982 che Otone celebrò il Natale a Salerno e la Pasqua a Taranto. La data si vede anco dai diplomi citati dal De Meo. Secondo gli Annali di San Gallo, Otone volea occupare l'Italia fino al mare Siculum et portum Traspitam (var. Traversus) che potrebbe essere falsa lezione di Taranto. E Taranto si dèe correggere, o Rossano, il nome che Ibn-el-Athîr scrive Mileto, e Ibn-Khaldûn Rametta.

761. Si veggano i nomi alla fine del racconto.

762. Ibn-el-Athîr.

763. Ditmar. Quos primo infra urbem quondam clausos fugavit devictos, postque eosdem in campo ordinato fortiter adiens etc. Il riscontro con Ibn-el-Athîr mostra che la prima fu avvisaglia contro una picciola schiera e la seconda giusta giornata contro l'esercito.

764. Ibn-el-Athîr. Aggiungo io Rossano perchè quivi era rimasta la imperatrice e la corte quando Otone si messe a inseguire Abu-l-Kâsem.

765. Ibn-el-Athîr. Ditmar dice similmente di avvisi dati ad Otone dagli esploratori.

766. Secondo Ibn-el-Athîr il venti di moharrem che risponde col conto astronomico al 14 e col civile al 15. Ditmar, tertio idus julii, cioè il 13; le necrologie date da Pertz, Scriptores, tomo III, p. 765, nota 59, hanno secundo idus julii e idibus julii; e Lamberto idibus julii, cioè il 14 e il 15.

767. Presso il mare, secondo tutti. Lupo Protospatario ha nei varii MS. Cotruna, Columnæ, Colupna etc.; Romualdo Salernitano dice Stilo, alla qual voce greca risponde Colonna. Mi appiglio a questa tradizione perchè Rossano giace a 45 miglia da Cotrone. Il campo di battaglia dovette essere assai più lontano, secondo i particolari della ritirata d'Abu-l-Kâsem e della fuga di Otone.

768. Annali di San Gallo.

769. Ibn-el-Athîr.

770. Ibn-el-Athîr. La morte di Bulcassimus è ricordata da Lupo Protospatario.

771. Ditmar, come Ibn-el-Athîr, dice vinta la battaglia dalla schiera sbaragliata che si rannodò. Gli Annali di San Gallo ricorrono al trovato antichissimo d'un agguato e delle miriadi di nemici che ne sbucassero.

772. Ibn-el-Athîr. Il MS. di Lupo Protospatario aggiugne un zero alla cifra dei morti e la raggira all'esercito siciliano.

773. Annali di San Gallo.

774. Si confrontino Chronicon Sancti Benedicti, presso Pertz, Scriptores, III, p. 209, e Leone d'Ostia, lib. II, cap. 9.

775. Lamberti Annales, Annales Ottemburani.

776. Si confrontino Ditmar, Lamberto e le croniche minori presso Pertz, Scriptores, III, p. 124, 143, e le necrologie citate quivi a p. 765, nota 59.

777. Ditmar.

778. Ibn-el-Athîr, il quale dice che il caval d'Otone si fermò, senza far menzione del mare. Ma Ditmar scrive che Otone si gittò a nuoto col cavallo del giudeo.

779. Ditmar.

780. Ibn-el-Athîr. Il nome dato da Ditmar farebbe supporre questo giudeo calabrese o pugliese, parteggiante contro i Greci dei quali parlava probabilmente la lingua.

781. Ditmar dice: ab Heinrico milite ejus qui szlavonice zolunta vocatur agnitus intromittitur. Più sotto parlando dello stesso lo chiama binomius. Però lo credo schiavone.

782. Ditmar: et perdiu et pernox ad condictum pertingere locum properavit. Sembra almeno una intera giornata. Giovanni Diacono di Venezia dice che Otone fu ritenuto su la nave tre giorni.

783. Gli Annali di San Gallo danno la somma del fatto, dicendo che Otone “a mala pena scampò in nave ad un castello de' suoi.”

784. Arnolfo, Giovanni Diacono di Venezia, dice espressamente che si salvò sa due Zalandriæ greche.

785. Hermanno Contratto, Sigeberto, ec.

786. Pratilli, nelle Interpolazioni alla Cronaca della Cava.

787. Muratori, Annali d'Italia; e Saint-Marc, Abregé chronologique de l'histoire d'Italie.

788. Ibn-el-Athîr.

789. Ditmar. Si veggano in Muratori, Annali, le leggi promulgate in questa dieta. Sul soggiorno a Capua si riscontri il De Meo.

790. Annali di San Gallo, Arnolfo.

791. Le autorità arabiche sono: Ibn-el-Athîr, anno 371, MS. A, tomo III, p. 33 recto; il compendio che ne fa Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 173, 174; e i cenni di Abulfeda, Annales Mosl., anno 336, tomo, II, p. 446, seg.; Baiân testo, tomo I, p. 248, anno 372; Nowairi, presso Di Gregorio, op. cit., p. 20; Ibn-abi-Dinâr, MS. di Parigi, fog. 38 recto; Hagi Khalfa, Cronologia, versione del Carli, anno 372, p. 66. Notisi che Ibn-el-Athîr e Ibn-Khaldûn chiamano l'imperatore franco, in vece di Otone, Berdwîl, dal nome di Baldovino che suonò tanto nelle Crociate.

Le autorità latine: Theitmari, Chronicon, lib. III, cap. 12, presso Pertz, Scriptores, tomo III, p. 765, 766 (Ditmar dei conti di Waldeck, vescovo di Mersebourg, nacque il 976 e morì il 1018); Annales Sangallenses Majores, presso Pertz, op. cit., tomo I, p. 80 (l'autore di questa parte dice aver veduto tornare varii prigioni riscattati); Joannis Diaconi, Chronicon Venetum, presso Pertz, op. cit., tomo VII, p. 27 (l'autore finì di scrivere il 1008); Richari Historiarum, presso Pertz, op. cit., t. III, p. 561 (l'autore scrisse tra il 996 e il 998, ma fa un brevissimo cenno); Lamberti, Annales, presso Pertz, op. cit., tomo III, p. 65 (l'autore visse alla metà dell'XI secolo); Herimanni Aug., Chronicon, presso Pertz, op. cit., tomo V, p. 117. (Ermanno Contratto, come fu soprannominato, nacque il 1013, morì il 1054.) A queste croniche vanno aggiunti i cenni di altre minori presso Pertz, op. cit., tomo I, p. 211, 242; III, p. 5, 64, 124, 143; V, p. 4. Dei cronisti latini d'Italia dell'XI e XII secolo, Lupo Protospatario, e l'anonimo di Bari, presso Pertz, op. cit., tomo V, p. 55, dicono meramente che Otone combattè con Bulcassimo re dei Saraceni, il 981, e l'uccise e vi perirono 40,000 uomini; Amato, L'Ystoire de li Normant, lib. VI, cap. 22, ricorda per le generali la sconfitta di Otone; Leone d'Ostia, lib. II, cap. 9, presso Pertz, op. cit., tomo VII, p. 635, ne dice breve ed esatto; e più largamente Arnolfo, Gesta Episcopor. Mediol., presso Pertz, op. cit., tomo VIII, p. 9. In fine Romualdo Salernitano, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo V, anno 981, squadernò nella seconda metà del XII secolo che Otone vinse a Stilo e poi prese Reggio.

Il Pratilli nelle interpolazioni alla Cronica della Cava, tomo IV della sua raccolta, pose una lunga favola su questa impresa nel 982; ed un'altra nel tomo III nella Cronica dei Duchi di Napoli, anno 981, fingendo una battaglia navale a Malta.

Queste sono le autorità tra buone e triste; nè ho pur notato tutte le compilazioni dall'XI secolo in poi. Tra i compilatori assai male rabberciò cotesta guerra di Otone II il Sigonio, Historia de Regno Italico, lib. VII, il quale suppose una prima vittoria del 981, ed una sconfitta del 982 alla città di Basentello in Calabria; dove da un lato combattessero Greci e Saraceni; e dall'altro lato i Romani e i Beneventani per vendetta abbandonassero Otone. Questi due fatti li imaginò; e si capisce. Ma non so in quale istoria o geografia abbia trovato Basentello. Il Basente, il quale forse diè luogo all'errore, è grosso fiume di Basilicata che sbocca nel golfo di Taranto, tra la città di questo nome e Rossano. Il Muratori cominciò a raddrizzare così fatti errori negli Annali d'Italia, 982, e il De Meo, Annali del Regno di Napoli, tomo VI, p. 158, seg., 171, 174, seg., notò molte utili date. Nondimeno l'errore è durato dopo la correzione; e fin oggi si vanno ricantando le due giornate, la fuga dei Greci al primo scontro della seconda battaglia e il nome di Basentello.

792. Ibn-el-Athîr, e Ibn-Khaldûn, ll. cc.

793. Abulfeda, e Ibn-Abi-Dinâr, ll. cc.

794. Nowairi, l. c.

795. Ibn-Khaldûn, l. c.

796. Si vegga per questo Mohammed il Cap. V del presente libro, p. 291.

797. Abulfeda, l. c. È mio il supposto dei richiami dei Siciliani in Egitto. Abulfeda non ne fa motto; ma Ibn-Khaldûn dice di più, come si è potuto vedere.

798. Si riscontrino: Abulfeda, Nowairi, Ibn-Khaldûn e Ibn-abi-Dinâr, ll. cc. La morte di Abd-Allah e successione del figlio si legge anche nel Baiân, testo, tomo I, p. 254.

799. Si confrontino: Iehîa-ibn-Sa'îd, MS. di Parigi, Ancien Fonds, 131, A, p. 138, seg.; Ibn-el-Athîr, MS. C, tomo V, fog. 33 recto, anno 386, e le autorità citate da M. De Sacy, Chréstomathie Arabe, 2ª ediz., tomo I, p. 137, 138, ed Exposé de la Religion des Druses, p. CCLXXXIII, seg. La corte fatemita par che fino allora non avesse dato di somiglianti titoli onorifici che a Bolukkin, vicario d'Affrica. Si vegga Ibn-el-Athîr, citato qui innanzi a p. 288, e Ibn-Khaldûn, Histoire des Berbères, versione, tomo II, p. 10.

800. Abulfeda, Annales Moslemici, anno 336, tomo II, p. 450, il quale trascrive Ibn-Sceddâd, e questi probabilmente alcun più antico cronista.

801. Nowairi e Ibn-Khaldûn; ll. cc.

802. Baiân, testo, tomo I, p. 254.

803. Nowairi presso Di Gregorio, op. cit., p. 20.

804. Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, versione, p. 178.

805. Nakl son le frutta secche e i confetti che gli orientali sogliono mangiare centellando col vino.

806. Sâheb-es-sciorta. Si vegga il Lib. III, cap. I, p. 9 di questo volume.

807. Dico così, perchè cercando di chi fossero cotesti due emistichii, li ho trovati in Motenebbi, entrambi in una Kasida indirizzata a Bedr-ibn-'Ammâr. Si vegga il diwano coi comentarii, MS. della Biblioteca di Parigi Suppl. Arabe, 1485, fog. 448 recto. Motenebbi, che suona il profetastro, chiamato così per aver voluto fare il profeta, è dei più celebri poeti arabi ai tempi dell'islamismo. Morì il 351 (965).

808. Robâ'i. Altri MS. hanno dinâr. Il rebâ'i è ricordato come moneta corrente in Sicilia nel XII secolo, e valeva un quarto di dinâr d'oro; al qual proposito si vegga il testo d'Ibn-Giobair, edizione di Wright, p. 329, 335, e la nota dell'editore a p. 23 della Introduzione.

809. Si confrontino: Ibn-Khallikân, edizione del Wüstenfeld, fasc. X, p. 28; e il Mesâlik-el-absâr, MS. di Parigi, Ancien Fonds, 1372, fog. 120 verso.

810. Il testo nol dice, ma lo sappiamo d'altronde, come si dirà a suo luogo.

811. Ciò si dee supporre dal fatto stesso, ancorchè non si legga nel testo.

812. Montezeh, luogo di diletto, casino, villa, talvolta loggia. Il nome di Gia'far mi fa pensare al casino reale dei Normanni detto della Favara o di Maredolce, presso Palermo; il quale par che fosse chiamato dai Musulmani Kasr-Gia'far fino ai tempi di Guglielmo il Buono. Si vegga Ibn-Giobair, nel Journal Asiatique, serie III, tomo VII (1846), p. 76.

813. Tigiani, Rehla, MS. di Parigi, Suppl. Arabe, 911 bis, fog. 16 recto. L'autore tolse questo squarcio da Ibn-Rescîk.

814. Quell'anno Iûsuf paralitico surrogò il figliuolo al dir delle croniche. Ma dalla misura delle lodi che si dispensano a lui ed a Gia'far, mi sembra che Iûsuf, senza lasciare per anco il governo, si fosse associato il figlio nel titolo soltanto.

815. Il 10 del mese di dsu-l-higgia, grande solennità appo i Musulmani di rito malekita. È anche delle feste che si celebrano alla Mecca alla fine del pellegrinaggio, e però nel poema si dice tanto del pellegrinaggio.

816. Kodhâ'a è un dei ceppi della schiatta himiarita, alla quale appartenea la tribù di Kelb.

817. Così chiamano i poeti le lance sottili e dritte, dal nome di Rodeina, moglie d'un celebre armaiuolo di Bahrein.

818. I devoti greci del medio evo, per falsa interpretazione d'un testo, teneano a peccato di tosarsi, onde i Longobardi e i Franchi li derideano fino al XII secolo, come qui fa il poeta musulmano.

819. Ibn-Khallikân, edizione del Wüstenfeld, fasc. X, p. 28, seg. Questa Kasîda ha 61 versi più che doppii de' nostri endecasillabi. Come ognuno comprende, non ho fatto la traduzione litterale nè anche di tutti i versi che giovano all'argomento nostro; ma ho raccolto le frasi più significative, trasponendole talvolta, troncando molte imagini, e nessuna aggiugnendone. Debbo avvertire che il passo “gli è forza smettere l'idolatria” risulta da una bella correzione che ha fatta il professore Fleischer alla p. 640 della mia Biblioteca Arabo-Sicula dove occorre il verso: “Tu li hai percosso in lor famiglie, sì che li hai fatto rimaner soletti; e nei loro riti, sì che hanno lasciato il culto degli idoli.” La frase che ho messo in corsivo è espressa da una sola voce che avea varianti, e nessuna plausibile, nei MS. d'Ibn-Khallikân.

820. Benedicti Sancti Andreæ Monachi Chronicon, presso Pertz, Scriptores, tomo III, p. 700. Su l'età e l'autorità del cronista si vegga la prefazione dell'editore a p. 695.

821. Nella detta prefazione si nota che questo Benedetto sembri il primo o tra i primi che abbiano scritto il supposto viaggio di Carlo Magno in Terrasanta. Siam dunque precisamente nei romanzi di cavalleria, coi trovatori, le cortesie e i cavalieri erranti.

822. Op. cit., p. 713.

823. Corruzione di capitaneus, come avvisa il Ducange; o derivato da κατὰ e πὰν, come pensano altri dotti ellenisti.

824. Si vegga qui sopra a p. 333. Tra il 982 e il 998, poichè Iusûf non avea per anco lasciato il governo al figliuolo.

825. Lupo Protospatario, anno 986. Cito qui e appresso la edizione di Pertz, Scriptores, tomo V, p. 55, 56.

826. Romualdo Salernitano, anno 987. Qui ed appresso da Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo V.

827. Lupo Protospatario, 988.

828. Lupo Protospatario, 991, e Anonimo di Bari nella stessa pagina del Pertz. Il nome ha le varianti Asto, Otho, Azzo.

829. Si riscontrino: Lupo Protospatario, 994; Anonimo di Bari, 996; Romualdo Salernitano, 994.

830. Lupo Protospatario, e Anonimo di Bari, 998. Busito è intitolato caytus, cioè kâid, condottiero.

831. Si riscontrino le varie lezioni della Cronica di Santa Sofia di Benevento, l'una delle quali porta precisamente la data di agosto 1002, XVª indizione, presso Muratori, Antiquitates Italicæ, tomo I, p. 257; e le altre presso Pertz, Scriptores, III, p. 177. Si vegga anche Romualdo Salernitano, 1001.

832. Lupo Protospatario ed Anonimo di Bari, 1003.

833. Si riscontrino: Giovanni Diacono di Venezia, contemporaneo, presso Pertz, Scriptores, tomo VII, p. 35; Anonimo di Bari, anno 1003, presso Muratori, Antiquitates Italicæ, tomo I, p. 33; Lupo Protospatario, anno 1001 (var. 1002). La data del 1004 si trova presso Giovanni Diacono, al par che i particolari dell'impresa. Si vegga anche il Dandolo, lib. IX, cap. I, parte 44, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo XII, p. 233, con data erronea.

834. Chronica Varia Pisana, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo VI, p. 107 e 167; Marangone, nell'Archivio Storico Italiano, tomo VI, parte II, p. 4. La data ch'è in tutti del 1006 si dee scemare d'un anno, cadendo in agosto e contandosi l'anno alla pisana.

835. Lupo Protospatario, anno 1009.

836. Chronicon Barense, presso Muratori, Antiquitates Italicæ, tomo I, p. 33, anno 1011, e le varianti del Pertz nella edizione messa a riscontro di Lupo Protospatario.

837. Così pensa De Meo, Annali di Napoli, tomo VII, p. 12, 13, an. 1010.

838. Lupo Protospatario, ediz. di Pertz, Scriptores, tomo V, p. 57, an. 1015. “Apparuit stella cometæ mense februarii et Samuel rex obiit et regnavit filius ejus.... 1016. Occisus est ipse filius præfati Samuelis a suo consobrino filio Aronis et regnavit ipse.... 1020 Descenderunt Sarraceni cum Rayca et obsederunt Bisinianum et apprehenderunt eam et mortuus est ipse admira (amira, amita etc.) et Melis dux Apuliæ.” L'abdicazione di Iûsuf innanzi il 1015; il fratricidio di Gia'far nel 1015; e la cacciata di costui nel 1019 che si leggeranno nel capitolo seguente, rispondono a un di presso ai fatti accennati da Lupo: nè monta la inesattezza dei particolari, nè lo sbaglio dei nomi. Ritengo pertanto che la cronica intenda dire dei Kelbiti di Sicilia, non di qualche avventuriere musulmano che avesse tentato di farsi signore in Calabria, che sarebbe supposizione senza alcun fondamento.

839. Si confrontino: Lupo Protospatario e Anonimo di Bari, anno 1016, e gli Annali del Monastero di Santa Sofia di Benevento, nella edizione del Pertz, Scriptores, tomo III, p. 177, stesso anno.

840. Si confrontino: Amato, L'Ystoire de li Normant, lib. I, cap. 17, 18, 19; Leone d'Ostia, lib. II, cap. 37, presso Pertz, Scriptores, tomo VII, p. 651, 652; nei quali è da notare che Amato, scrittore più antico, pon meno episodii da romanzo di cavalleria: del resto si vede che entrambi attinsero ad unica fonte. Delle circostanze importanti il divario è questo, che Amato dice giunti i Normanni durante l'assedio e Leone d'Ostia prima; che l'uno suppone i Saraceni venuti a riscuotere il solito tributo il quale cessò per sempre dopo quell'impresa, e l'altro reca il fatto come un dei soliti assalti che finivano pagando una taglia. Si accordano a un di presso nella data, dicendo l'uno avan mille e l'altro circa sedici anni avanti il 1017. Ma come entrambi riferiscono agli allettamenti dell'ambasciatore salernitano la venuta dei venturieri che comparvero in Italia il 1017, così mi è parso di seguir la data di Lupo Protospatario e della Cronica di Santa Sofia di Benevento; la quale, oltre l'autorità di que' cronisti, convien meglio ad una pratica di questa fatta che non potea durare sedici anni. D'altronde la data del principio del secolo poteva essere vagamente indicata nei ricordi su i quali scrisse Amato verso il 1080, e Leone d'Ostia nei principii del XII secolo.

Non ho fatto menzione dei compilatori successivi, per esempio Odorico Vitale (morto il 1141), il quale dà 20,000 ai Saraceni e 100 ai Normanni, e son tra questi Drogone ec. Al contrario, i critici moderni mi par abbiano negato troppo facilmente l'episodio de' quaranta pellegrini, il quale, tolti gli ornamenti della Tavola Rotonda, non ha nulla che discordi dall'indole degli uomini e dei tempi.

Debbo avvertire che nella edizione della Cronica di Santa Sofia di Benevento, Pertz, Scriptores, III, p. 176, 177, si leggono le altre scorrerie qui appresso notate, cavate da aggiunte della edizione di Pratilli, tomo IV, p. 358, che non si trovano negli altri MS. Si vegga nel detto volume del Pertz, p. 173, l'avvertimento dell'editore tedesco, il quale parmi non siasi ricordato che le aggiunte veniano dalle stesse mani che interpolarono la Cronica della Cava, fabbricarono quelle di Calabria e dei Duchi di Napoli ec. Però non accetto quelle notizie come genuine:

Anno 982. Dopo la sconfitta di Otone, i Saraceni saccheggian tutta la Calabria. (Noi sappiamo che se ne tornarono in fretta in Sicilia.)

Anno 1002. Prima della marcia sopra Benevento (che è nelle altre edizioni), vengono a Bari e prendono e ardono Ascoli e il Castel di Santangelo.

Anno 1007. Nuova infestagione di Capua.

Anno 1009. Presa di Bitonto e del Castrum Natii.

Anno 1016. Durante l'assedio di Salerno, dato il guasto fino ad Agropoli e Capaccio.

841. Lupo Protospatario, presso Pertz, Scriptores, tomo V, p. 57.

842. Ibidem. Il nome è scritto Iaffari, Zaffari etc. Si aggiugne criti che par da leggere caiti.

843. Ahmed-ibn-Iûsuf, soprannominato Akhal, è chiamato sempre da Cedreno Apollofar. Da un'altra mano gli annali musulmani ci dicono che il suo figliuolo Gia'far rimaneva al governo in Sicilia quand'egli andava a far guerra in Terraferma. E però il suo keniet, come lo chiamano gli Arabi, par sia stato Abu-Gia'far, “il padre di Gia'far.”

844. Si riscontrino: Ibn-el-Athîr sotto l'anno 484, MS. A, tomo IV, fog. 134 recto, seg.; Abulfeda, Annales Moslemici, tomo III, p. 274, seg.; Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 22.

845. Lupo Protospatario, l. c.

846. Lupo Protospatario, l. c.

847. Amato, L'Ystoire de li Normant, lib. V, cap. XI.

848. Si veggano quelle di San Nilo, lib. IV, cap. VI, p. 317, seg., di questo volume; e di San Vitale, San Luca di Demena e San Giovanni Therista, lib. IV, cap. XI.

849. Leandro Alberti, Descrittione di tutta Italia, Venezia 1588, fog. 245 verso, la dà per fatta, aggiugnendo: “Insino ad oggidì si vedono le sepolture nel sasso cavate secondo i loro malvagi riti et profane cerimonie.” Ma i “malvagi riti” dei Musulmani portano dì inumare i cadaveri, non già di chiuderli in avelli dì pietra. Perciò non son questi al certo i vestigii che lasciarono sul monte Gargano.

850. Nowairi afferma la sostituzione conceduta prima della rinunzia di Iûsuf. N'è prova anco la poesia di Abd-allah-Tonûki della quale abbiam fatto parola nel Cap. VII, pag. 335, della quale si vegga la nota 4.

851. Si riscontrino: Ibn-el-Athîr, anno 484, MS. A, tomo IV, fog. 134 recto, e seg.; Abulfeda, Annales Moslemici, anno 336, tomo II, p. 446, seg., ed anno 484, tomo III, p. 274; Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 20; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 178; Ibn-abi-Dînar; MS., fog. 37 verso, seg.

852. Si vegga qui appresso, pag. 356.

853. Si vegga la poesia citata nel cap. VII, p. 335, seg.

854. Drappo di seta, sul quale si vegga la nota 1, pag. 54, del presente volume.

855. Imâd-ed-din, Kharîda, MS. di Parigi, Ancien Fonds, 1376, fog. 40 verso, ed Ibn-Khallikân, edizione del Wüstenfeld, fascicolo X, p. 32, vita 803.

856. Ibn-Giobair, nel Journal Asiatique, serie IV, tomo VII (1846), p. 76, chiama Kasr-Gia'far il sito regio di Maredolce. Dei tre emiri che portarono tal nome, non veggo altri che il figliuolo di Iûsuf che abbia avuto genio e tempo da fondare questa villa regia, della quale terremo proposito nel libro VI.

857. Secondo Ibn-el-Athîr “un giund” e secondo Nowairi un 'Asker ossia “esercito,” voce generica la quale può comprender anche le milizie municipali oltre quella della nobiltà.

858. Si riscontrino: Ibn-el-Athîr, Nowairi e Ibn-Khaldûn, ll. cc.; il passo d'Ibn-Khaldûn: “mais il epargna ses partisans” vien da una lezione erronea del testo, e va corretto “cacciò i Berberi e gli schiavi negri.” È da avvertire che Nowairi dice seguita la battaglia il mercoledì sette di scia'bân 405; il qual giorno risponde, nel conto astronomico, alla domenica 30 gennaio, e nel conto civile al lunedì 31 gennaio 1015. Il giorno della settimana è dunque sbagliato nel testo; o l'errore vien dall'uso ortodosso di contare il primo del mese arabico dal dì che si fosse vista con gli occhi la luna nuova, checchè ne notasse il calendario.

In ogni modo, la data del 16 febbraio che si legge nel Martorana ed è fedelmente copiata dal Wenrich, vien da un errore corso nella edizione del Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 21, nota c. Secondo il Martorana e il Wenrich i ribelli furon parte Affricani e parte servi di Ali; ma pei primi i testi dicono precisamente Berberi, e pei secondi 'Abîd, ossia Schiavi negri; nè s'aggiugne che fossero schiavi di Ali, anzi il fatto li mostra soldati stanziali.

Non merita esame il fatto recato dal Rampoldi, Annali Musulmani, 1002, che l'emiro “Thajo dawla per la sua iniquissima amministrazione e le enormi sue crudeltà” fu deposto e sostituitogli il fratello Ahmed. È anacronismo della rivoluzione del 1019, che l'annalista senza accorgersene replica poi a suo luogo.

859. Ibn-el-Athîr e Nowairi, ll. cc.

860. Città su la catena degli Aurès; oggidì in provincia di Costantina.

861. El-zeug-el-baker “Coppia di buoi.” Senza dubbio la superficie da lavorarsi in una stagione con un aratro. Si vegga il Lib. I, cap. VI, primo volume, p. 153, nota 1.

862. Si riscontrino Ibn-el-Athîr e Nowairi, ll. cc.; il primo dei quali adopera la voce generica ghallat “prodotti del suolo,” e il secondo le due voci te'âm e themr, delle quali l'una qui significa frumento e l'altra il frutto degli alberi o arbusti, e però comprende le olive e le uve.

863. Ciò si ritrae chiaramente da Mawerdi, ediz. di Enger, p. 259 e 260. Quest'autore particolareggia i casi nei quali era permesso d'accrescere o diminuire il kharâg: cioè l'aumento o diminuzion di valore che non venisse da fatto del proprietario. Per esempio si accresceva il kharâg, se un'acqua inopinatamente sorgesse da inaffiare il podere, e si diminuiva se un'acqua venisse meno; ma non si mutava, se la industria del possessore migliorasse, o la sua incuria facesse andar a male la coltura. Si vegga anche ciò che ne abbiam detto, Lib. III, cap. I, pag. 18, 19, del presente volume. Non si trattava al certo di terreni decimali ossia libera proprietà di Musulmani, nel qual caso la violazione sarebbe stata assai più grave. Non di poderi demaniali, poichè i nobili del giund non andavano al certo a coltivarli da affittaiuoli. Non di poderi dei Cristiani, poichè que' che se ne risentiron furono i Musulmani.

864. Si riscontrino: Ibn-el-Athîr, Abulfeda, Nowairi e Ibn-Khaldûn, ll. cc. Il primo dice che Gia'far “oppresse i suoi fratelli (in islam) e li trattò con superbia.” Nowairi che “vilipese i Siciliani e gli sceikhi del paese, e li trattò con superbia.”

865. Akhal (le lettere k ed h qui rendono non una ma due lettere diverse) significa uom da' cigli negrissimi da parer tinti col kohl. S'intenda dei cigli propriamente detti, non delle sopracciglia.

866. Si riscontrino: Ibn-el-Athîr, Abulfeda, Nowairi, Ibn-Khaldûn e Ibn-abi-Dinâr, ll. cc. Il palagio nel quale fu assediato Gia'far non sembra la cittadella detta la Khâlesa, ma l'antico castello degli emiri nel sito della reggia attuale, ovvero un palagio nella Khalesa. È da notare inoltre che Nowairi dice seguíto il tumulto il lunedì sei di moharrem; ma quel giorno risponde secondo il conto astronomico al mercoledì 13, e secondo il conto civile al giovedì 14 maggio. Il Di Gregorio tradusse male nel Nowairi, p. 21: “et omnia pessum dabat. Tum etiam Giafaro imputabatur quod universas populi siciliensis opes diriperet;” e p. 22: “ab conspectu eorum non abscessurum.” Questi due passi van corretti: “accadesse che che accadesse (nel raccolto). Inoltre Gia'far mostrò dispregio pei Siciliani....... che non si allontanerebbe dai loro consigli.” Infine nella stessa p. 22 la frase “ego administrationis suæ rependi vicem” va spiegata più precisamente “Vi risponderò io dei fatti suoi e lo punirò io.”

867. Si riscontrino: Ibn-el-Athîr, anni 361, 365, 379, 386, MS. C, tomo V, fog. 10 verso,.... 27 verso, 34 verso; Baiân, testo arabico, tomo I, p. 222, 238, 240, seg.; Ibn-Khaldûn, Histoire des Berbères, versione di M. De Slane, tomo II, p. 9 a 16.

868. Baiân, testo, tomo I, p. 249.

869. Ibn-el-Athîr, anno 386, MS. C, tomo V, fog. 34 verso.

870. Ibn-Khallikân, versione inglese di M. De Slane, tomo I, p. 248.

871. Si riscontrino Ibn-el-Athîr, anno 389, MS. A, tomo III, fog. 100 recto; e Tigiani, Rehela, MS. di Parigi, fog. 74 recto, e 88 verso, e traduzione nel Journal Asiatique, serie V, tomo I, (février-mars 1853), p. 104 e 132; nel primo dei quali luoghi Tigiani riferisce la battaglia come Ibn-el-Athîr al 390, e nel secondo al 389.

872. Baiân, testo, tomo I, p. 266, anno 392. La variante “Reidan Saklabi” si legge nei testi citati da M. De Sacy, Exposé de la Religion des Druses, tomo I, p. CCXCIII, dove per altro non si dice dei fatti di Tripoli.

873. Si veggano i particolari in Ibn-el-Athîr, MS. C, tomo V, fog. 40 recto, anno 393; e nel Baiân, l. c.

874. Si vegga in generale l'Histoire des Berbères par Ibn-Khaldoun, più volte citata, e in particolare il tomo II, p. 17 e 44.

875. Il testo ha le due voci webâ e tâ'ûn, che indicano al certo due pestilenze diverse.

876. Baiân, testo, tomo I, p. 267, anno 595.

877. Si riscontrino: Ibn-el-Athîr, anni 406, 413, 432, MS. C, tomo V, fog. 46 verso, 56 verso e 74 recto; e Baiân, testo, tomo I, p. 280, anno 409 ec.

878. Ibn-el-Athîr, anno 406, vol. citato, fog. 46 recto e verso.

879. Ibn-Khaldûn, Storia dei Berberi, testo, tomo I, p. 222, e versione di M. De Slane, tomo II, p. 44.

880. Gli atroci particolari del regno di Hâkem si leggano nello Exposé de la Religion des Druses, di M. De Sacy, tomo I, p. CCXCII, seg. Il cominciamento dell'apoteosi del tiranno nel 407 si legge a p. CCCLXXXIII, seg.

881. Si riscontrino: Ibn-el-Athîr, anno 407, MS. C, tomo V, fog. 53 recto; Baiân, anni 407 e 425, testo, tomo I, p. 279 e 285; Nowairi, Storia d'Affrica, MS. di Parigi, Ancien Fonds, 702, fog. 36 verso; e Ibn-Khaldûn, Histoire des Berbères, versione di M. De Slane, tomo II, p. 20; i quali non differiscono in altro che nei particolari.

882. Baiân, testo, tomo I, p. 280.

883. Si veggano nel presente volume il Lib. III, cap. II, VI. Coi Fatemiti vennero d'Oriente a poco a poco i partigiani loro e gli affiliati alla setta, ai quali è probabilissimo che oltre gli oficii pubblici siano state concedute pensioni militari. In Affrica gli Sciiti erano chiamati ordinariamente Orientali.

884. Bekri, nelle Notices et Extraits des MSS., tomo XII, p. 462 e 511. Si vegga il Lib. I, cap. V, nel 1º volume, p. 105, nota 1.

885. Bekri, Notices et Extraits des MSS., tomo XII, p. 472. Questa città, altrimenti detta Sabra, fu fondata e prese il primo nome dal califo fatemita Mansûr, che vi trasferì la corte da Mehdia nel 947. Si vegga anche il Baiân, testo, tomo I, p. 222.

886. Sul commercio e industria dell'Affrica propria abbiamo le relazioni d'Ibn-Haukal, che viaggiò quivi nella seconda metà del X secolo; e di Bekri che scrisse nel 1067. Il primo dice del commercio di Tripoli coi porti dei Rûm (Italia e Grecia); di Tenès ed Orano con la Spagna; di tutta l'Affrica propria con l'Oriente, ove si mandavano schiave mulatte e schiavi negri, Rum e Schiavoni, ambra grigia, e seta; delle manifatture di lana ad Agdabia e Tripoli; della pesca del corallo a Tenès, Ceuta e Mersa-Kharez (Journal Asiatique, IIIe série, pag. 362, seg.). Il secondo (Notices et Extraits des MSS., tomo XII) fa menzione, oltre i prodotti ordinarii del suolo, delle canne da zucchero a Kairewân, p. 484; del cotone a Malla, p. 515; dell'indago a San, o Sanab, p. 455; dei gelsi coltivati e la seta prodotta a Kabes, p. 462. Ricorda altresì le manifatture di panni e tele di Kairewân, Susa, Kafsa, p. 488, 503; il commercio dell'olio di Sfax con la Sicilia e paesi di Rûm, p. 465; le navi mercantili siciliane e d'altre nazioni che ingombravano il porto di Mehdia, p. 480.

887. Il Baiân ci dà minuti ragguagli di questo lusso, ritratti da Ibn-Rekîk, cronista contemporaneo; il quale spesso allega i detti di mercatanti sul valore dei corredi nuziali etc. Si veggano i particolari nel testo arabico, tomo I, p. 249 a 284, anni 373 a 415. Per darne qualche esempio: mandati il 373 in presente al califo di Egitto, cavalli, arnesi, e altre robe, del valsente d'un milione di dinâr, p. 249; il 415, nelle nozze d'una figliuola di Badîs, i gioielli, gli arredi, i vasi d'oro e d'argento e le ricche tende recati dalla sposa furono stimati un altro milione di dinâr, p. 284; nel 406, in una sconfitta dei Beni-Hammâd, si trovarono addosso a tal prigione 50,000 dinâr, a tal altro 8,000 ec. Ancorchè alcune somme siano esagerate di certo, nol sembran tutte. Ibn-Khaldûn, Histoire des Berbères, tomo II, p. 19, riferisce altri esempii, tolti da Ibn-Rekik, i quali non si trovano nel Baiân.

888. Baiân, testo, tomo I, p. 256 e 258, anni 382 e 387, nel primo dei quali luoghi si dice d'una giraffa mandata dal Sudân con gli altri doni. Donde sembra che alla fine del decimo secolo si tenesse già un commercio diretto di caravane tra l'Africa propria e il Sudân. Ibn-Haukal verso la metà dello stesso secolo parla solo del commercio del Sudân con Segelmessa nello Stato odierno di Marocco, la quale fu occupata talvolta dagli Zîriti ma non rimase in poter loro. L'abbondanza dell'oro, che secondo i tempi ci fa tanta maraviglia, veniva forse dal commercio col Sudân.

889. Si veggano i particolari del regno di Moezz in Ibn-el-Athîr, an. 415, 417, 427, 432, MS. C, tomo V, fog. 56 verso, 59 recto, 69 verso, 74 recto; Baiân, testo, tomo I, p. 286 e 287; e ibn-Khaldûn, Histoire des Berbères, vers. franc., tomo II, p. 18 a 20.

890. Baiân, testo, tomo I, p. 282, anno 414.

891. Ibn-el-Athîr, Abulfeda e Nowairi, copiando tutti, com'è evidente, una stessa cronica, scrivono “che ubbidirono ad Akhal tutte le rôcche di Sicilia possedute dai Musulmani.” Da ciò argomento che alcune nei principii non gli avessero ubbidito. In questo tempo non era in Sicilia alcuna terra che non fosse tenuta da Musulmani.

892. Ibn-el-Athîr, anno 484, MS. A, tomo IV, fog. 134 recto; Abulfeda, Annales Moslemici, anno 484, tomo III, p. 274, seg.; Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 22; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, versione, p. 179.

893. Si vegga il capitolo VII del presente Libro, p. 345, 346.

894. Si riscontrino: Cedreno, ediz. di Bonn, tomo II, p. 479, sotto l'an. 6354 (1025-6); Anonimo di Bari, presso Pertz, Scriptores, tomo V, p. 53, dove il 1027 senza il menomo dubbio va corretto 1025. Il Cedreno dà il nome e la misera condizione d'Oreste; l'Anonimo i nomi delle genti che si notavano nell'esercito, alle quali aggiugne i Vandali, che si dee leggere probabilmente Varangi. Il nome del capitano vi è detto Ispo chitoniti e peggio in altre edizioni Despotus Nicus, etc.; ma la giusta lezione è quella di Lupo: Oresti chetoniti, ossia Oreste ciambellano (κοιτωνίτης). Il titolo di protospatario, ossia aiutante di campo dell'imperatore, è dato dal Cedreno a p. 496.

Ci è occorso più volte di notare che accozzaglia di genti diverse fossero gli eserciti bizantini. Nel comento delle poesie di Motenebbi, un autore arabo dice che l'esercito mandato del 343 (954) contro Seif-ed-dawla della dinastia di Hamdan, si componea di Armeni, Russi, Slavi, Bulgari e Khozari. Presso Sacy, Chréstomathie Arabe, tomo III, p. 5, seconda edizione.

895. Si riscontrino: Ibn-el-Athîr, anno 416, (1025-6), MS. A, tomo III, fog. 193 verso, pubblicato da M. des Vergers in nota a Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 180; e Anonimo di Bari, l. c. Il nome di Reggio è nell'Anonimo. Ibn-el-Athîr parla della cacciata dei Musulmani da quelle parti d'Italia e della costruzione delle stanze per l'esercito bizantino: il che si deve intendere manifestamente di Reggio; e conferma nell'Anonimo la lezione: Et Regium restaurata est a Vulcano catepano. Delle varie edizioni di cotesta cronica, alcuna ha al contrario che Reggio fosse distrutta; e sembra ignorante correzione di qualche copista. In generale son pessimi i MSS. degli Annali o Anonimo, come che voglia chiamarsi, di Bari. Il nome del catapano ha le varianti Bulcano, Bugiano, Bagiano. Baiano, nelle quali si riconosce il Βοϊωάννις, che sotto Basilio II governò felicemente la provincia, come narra Cedreno, tomo II, p. 546, parlando d'un suo figliuolo o nipote dello stesso nome, sconfitto in Puglia dai Normanni il 1041. Questo Boioanni, trasmutato in Vulcano, parve ad alcuni eruditi non uomo ma vulcano che vomitasse lave sopra Reggio; della cui distruzione indi accusarono il Vesuvio, ch'è lontano anzi che no. Si vegga un avvertimento del Martorana, Notizie Storiche dei Saraceni Siciliani, vol. III, p. 2 a 6.

896. Ibn-el-Athîr, l. c., dice “il figliuol della sorella dell'imperatore,” nel che v'ha anacronismo col patrizio Stefano mandato il 1038, o si tratta di qualche figliuolo di Giovanni Orseolo che dovesse capitanare l'armata veneziana. Giovanni Orseolo, fratel cognato dell'imperatore Romano Argirio, era morto nel 1006.

897. Cedreno, tomo II, p. 479.

898. Ibn-el-Athîr, l. c., il quale parla di 400 kat'a, che appo gli Arabi sembra nome generico, come noi diremmo vele. Nondimeno parmi la stessa voce cattus e gattus che nelle cronache di Pisa e nel Malaterra (XI secolo) denota una sorta di navi.

899. Cedreno, tomo II, p. 496, 497, senza data precisa tra il 6537 e il 6539 (1029-31).

900. Si vegga il Cap. VIII, pag. 346.

901. Cedreno, tomo II, p. 499.

902. Cedreno, tomo II, p. 500.

903. Cedreno, tomo II, p. 513 e 514, il quale scrive la data di maggio 6543, per la scorreria di Tracia, poi accenna l'ambasceria di Giorgio Probato ed altri fatti, e tra gli ultimi avvenimenti dell'anno la scorreria di Licia che torna così all'agosto.

904. Baiân, testo, tomo I, pag. 286, anno 426 (15 novembre 1034 a 3 novembre 1035).

905. Questa ultima parola sì grave è nel solo Nowairi. Ibn-el-Athîr non la dà.

906. Ibn-el-Athîr, anno 484, MS. A, tomo IV, fog. 134 recto, e Nowairi presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 22, trascrivono entrambi questo, come par manifestamente, squarcio di cronica. La sola variante che rilevi è la voce “possessioni” aggiunta da Nowairi nel luogo che notai. Abulfeda, Annales Moslemici, 484, tomo III, p. 276, e Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, versione, p. 179, accennano appena il successo.

907. Cioè che si fossero concedute anche a loro le terre da dividersi ai combattenti e il dritto di occupare le terre inculte; soli modi di concession di terre leciti ad un principe musulmano. Ma questi non poteano aver luogo o erano rarissimi nel X secolo, quando vennero le nuove famiglie d'Affrica; perchè il conquisto era fatto, e le terre prese nella costiera orientale che allora fu occupata, si tennero in fei, cioè demanio pubblico, per espressa testimonianza degli annali.

Non mi valgo del significato tecnico che potrebbe darsi al verbo, scerek, adoperato qui alla terza forma, il quale denoterebbe, non che “partecipazione,” ma “promiscuità.” Il professor Dozy, nelle sue sagaci investigazioni su la Spagna Musulmana, ha notato che nella prima costituzione della proprietà territoriale verso il 719, i conquistatori si posero nelle terre dei vinti lasciandole loro a coltivare, e si chiamarono gli uni e gli altri scerîk, ossia “comproprietario.” Si vegga il Baiân, tomo II, p. 16, nel glossario. Applicato quest'esempio al nostro caso, troncherebbe ogni dubbio; e “i Siciliani” sarebbero i vinti, ai quali i vincitori avrebbero preso una porzione di terre, come in Italia si tolse “la parte dei Barbari.” Ma su questo solo argomento non si può affermare un ordine così contrario alla legge e pratica dei Musulmani; il quale in Spagna fu eccezione, se pur non va interpretato altrimenti che il faccia il dotto professore di Leyde.

908. Amlâk plurale di milk e di molk. Tra queste due voci, derivate entrambe dalla stessa radice, si è preteso adesso porre una distinzione proveniente dall'idea di alcuni orientalisti francesi, che il dritto musulmano non ammetta vera proprietà fuorchè nel principe, e che ai privati, o almeno alla più parte, non dia altro che il possesso. La quale distinzione è giusta, ma applicata troppo facilmente e largamente; come accennai nel Lib. III, cap. I, p. 13 seg., del presente volume. Quanto alla diversa denominazione, mi pare arbitraria, ovvero nata di recente in Turchia, che non è la Toscana degli Arabi, nè il modello del dritto pubblico. I pubblicisti arabi del decimo secolo non fanno differenza nella denominazione; e Mawerdi, il quale sapea la lingua e il dritto, non distingue altrimenti i due modi di possesso che chiamando “proprietà della repubblica musulmana” quella delle terre il cui possessore fatto musulmano debba pagare tuttavia il kharâg, e “proprietà d'infedeli” quella delle terre che tornano decimali, ossia libere di kharâg, se pervenute in man di Musulmani. Dunque la voce amlâk ci lascia al punto donde movemmo.

909. Akhal potea pretendere di rivendicare un dritto usurpato; cioè sostenere che al conquisto quelle terre fossero state appropriate alla repubblica musulmana e lasciate ai Cristiani sotto censo, e che poi, divenuti musulmani i possessori, per abuso fosse stato rimesso loro il kharâg, e levata la sola decima legale.

910. Si veggano le belle osservazioni del Dozy, nella Introduzione al Baiân, § 1, p. 6. Mowalled significa propriamente “nato in casa” e indi “arabo di sangue misto” nato di padre arabo e madre straniera, o di madre libera e padre schiavo. Indi la voce nostra Mulatto.

911. Si vegga il capitolo XIII del presente Libro.

912. Non occorre avvertire che cotesti nomi non hanno che fare con quelli simili che dà il Cedreno ai corsari dei due stati Zîrita d'Affrica e Kelbita di Sicilia, i quali andavano a infestare i dominii bizantini di Levante.

913. In fatti nelle rivoluzioni del 1042, la Sicilia orientale restò ai nobili, la centrale ed occidentale ai popolani, come si vedrà nel capitolo XII di questo Libro.

914. Cedreno, tomo II, p. 514.

915. Ibn-el-Athîr e Nowairi, Abulfeda e Ibn-Khaldûn, ll. cc.

Non ho bisogno di avvertire che su questa novazione d'Akhal, principio della rovina della Sicilia musulmana, ho tenuto presente il concetto del Martorana, tomo I, cap. IV, p. 128, seg., al quale si conformò il Wenrich, Lib. I, cap. XVI, § CXL. Ma ben altra mi è parsa l'indole generale, altri i particolari del fatto; della quale interpretazione ho spiegato largamente le ragioni.

Il Martorana e con lui il Wenrich non so perchè riferiscano ad Hasan-ibn-Iûsuf, soprannominato Simsâm-ed-dawla, la pace con l'impero bizantino che seguì in principio della guerra civile, e che però fu stipolata di certo da Akhal. In vero il Cedreno, che ne fa parola, dà all'emiro di Sicilia il nome di Apolafar Muchumet il quale non risponde nè al soprannome Akhal, nè al nome proprio Ahmed. Ma Apolafar sembra alterazione d'Abu-Gia'far (si vegga il Cap. VII del presente Lib., p. 345); e in ogni modo la data del Cedreno è sì precisa da non lasciar luogo a dubbio. La Vita di San Filareto, presso Gaetani, Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 114, seg., e presso i Bollandisti, 1º aprile, p. 605, seg., conferma pienamente così fatto sincronismo.

916. ’Απόχαψ è trascrizione esattissima nel modo che usavano i Greci. Con le medesime lettere diedero il nome di Abu-Hafs (Omar-ibn-Scio'aib) conquistator di Creta. Si vegga il Lib. I, cap. VI, vol. I, p. 162. Il Rampoldi, che non badava a queste minuzie, trascrisse Abu-Kaab, e così l'han ripetuto il Martorana e il Wenrich.

917. Cedreno, tomo II, p. 513, 514.

918. Ducange, Glossario greco, alla voce Μαγίστερ, e Gloss. Lat., 2e ediz. alle voci Magister militum e Magister officiorum.

919. Ducange, op. cit., Magister militum.

920. Per esempio, il titolo di patrizio fu dato il 788 ad Arigiso principe di Benevento; il 916, al duca di Napoli e al principe di Salerno; il 999, a Giovanni figliuolo e socio in oficio di Pietro Orseolo doge di Venezia.

921. Si confrontino le due narrazioni arabica e greca, la prima delle quali si legge in Ibn-el-Athîr, Abulfeda, Nowaîri e Ibn-Khaldûn e l'altra in Cedreno, ll. cc. Il fatto è senza ombra di dubbio lo stesso, poichè Cedreno dice che restando vincitore Apolofar, l'altro fratello chiamò in aiuto l'emir degli emiri d'Affrica, stipolando di dargli parte dell'isola.

922. Cedreno, tomo II, p 503, 516, 517, nell'anno 6545 (1º sett. 1036 a 31 agosto 1037), il quale dice i 15,000 prigioni romani, ossia bizantini. O si dee togliere un zero, o supporli vassalli cristiani da Sicilia.

923. Si confrontino Cedreno, e gli annalisti arabi, ll. cc.

924. Si confrontino: Ibn-el-Athîr, Abulfeda, Nowairi, e Ibn-Khaldûn, e il cenno d'Hagi-Khalfa, anno 427, ch'è mal reso nella versione del Carli, p. 70. Ibn-Khaldûn, op. c., p. 180, della versione francese, guasta fatti e date, aggiugne nomi e cambia cifre. Un errore, com'io lo credo, del MS. di Parigi ha portato poi M. Des Vergers a tradurre: “et citèrent en leur présence l'émir El-Akhal, qui fut décapité par leur ordre;” in vece di: “ed assediarono il loro emiro Akbal, il quale poi fu ucciso.” La Vita di San Filareto, dianzi citata, della quale abbiam la sola versione latina, dice che Michele Paflagone mandò l'esercito da Sicilia “tum ab ejus provinciæ Toparca, tum a Siculis nonnullis sæpe rogatus;” e porta il fatto come gli Arabi: “Interim vero Barbarorum tyrannus, eo qui in Sicilia dominabatur per dolum sublato, bona illius omnia depredatus et in regnum quod ille administrabat invadens, nemine omnino obsistente, Panormi totiusque Siciliæ potitur;” e poi narra l'impresa di Maniace. La voce Toparca, come ognun vede, è generica e bene appropriata secondo il linguaggio greco a designare un principe di picciolo stato.

925. Nilo Monaco, Vita di San Filareto il giovane, presso Gaetani, Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 114. Il biografo intese i fatti da San Filareto che in questo tempo avea 17 o 18 anni e morì di 50. La quale testimonianza non ebbe sotto gli occhi il Martorana nè il Wenrich; e toglie ogni dubbio sul sincronismo delle due serie di fatti riferite l'una dagli Arabi e l'altra da Cedreno. Notai sopra come fossero certe d'altronde le date della prima chiamata dei due stranieri cioè Bizantini e Zîriti. Adesso aggiungo che va cancellata, come raddoppiamento di racconto, la chiamata dei Bizantini per Simsâm-ed-Dawla e la seconda degli Zîriti per Abu-Kaab; e che l'emirato di Simsâm va messo, non prima, ma dopo la guerra di Maniace. Il Martorana fu tratto in errore un po' da Rampoldi; e il Wenrich al tutto da Martorana. Rampoldi, anni 1035 e 1036, avea mescolato e alterato come in sogno d'infermo i racconti di Nowairi e di Cedreno e aggiuntivi fatti di capo suo.

926. Cedreno, tomo II, p. 494, 500, 504, seg., 512, 514.

927. Gli Annales Barenses, presso Pertz, Scriptores, tomo V, p. 54, anno 1041, dicono di schiere russe tornate in Puglia dalla impresa di Sicilia.

928. I Varangi, famosi pretoriani della corte bizantina dal X secolo in poi, erano venturieri di schiatta scandinava che capitavano a Costantinopoli per la via di Russia. La venuta loro a questa impresa si ricava da altre autorità che quella citata nella nota precedente, la quale accenna forse ad ausiliari sudditi dei principi russi. Su i Varangi si vegga Gibbon, Decline and Fall, cap. LV, con le aggiunte del Milman, ed una nota di Samuele Laing, nella versione dell'Heimskringla di Snorro Sturleson, tomo III, p. 4. Il nome, derivato dalle voci scandinave Wehr, vaer, o Ware, è tradotto dal Laing “the defenders.”

929. Si confrontino Amato, L'Ystoire de li Normant, lib. II, cap. VIII, p. 38, Malaterra; lib. I, cap. VII; Guglielmo di Puglia, lib. I, Plebs Lombardorum Gallis admixta quibusdam ec.; Cronica di Roberto Guiscardo presso il Caruso, Bibliotheca Sicula, p. 830, presso il Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo V, e nella versione francese, lib. I, cap. IV, p. 266, del volume stesso di Amato. Il Cedreno, tomo II, p. 545, dice circa 500 i Normanni e lor condottiero Ardoino. Secondo Amato, e Leone d'Ostia, eran 300, capitanati da Guglielmo di Hauteville. All'incontro Guglielmo di Puglia, come s'è veduto, attesta che ve ne fosse picciol numero nella compagnia, e mi pare il più verosimile.

930. Σφόνδιλος, il verticillum dei Latini.

931. Si confrontino: Lupo Protospatario presso Pertz, Scriptores, tomo V, p. 58, anno 1038; Cedreno, tomo II, p. 520, anno 6546, VIª indizione (1037-38), Cronica di Roberto Guiscardo, ll. cc.; Nilo Monaco, Vita di San Filareto, presso il Gaetani, Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 115, e presso i Bollandisti, 6 aprile, p. 608.

932. Si confrontino: Amato, Malaterra, e Cronica di Roberto Guiscardo, i quali non sono d'accordo nei particolari. Il primo non dà nè anco il nome di Messina, ma dice solo: “et ont combatu à la cité et ont vainchut lo chastel de li Sarrazin;” ma per cité par voglia significare Siracusa. Malaterra non fa cenno della porta occupata. Cedreno non dice nè punto nè poco di questo combattimento.

933. Cedreno, tomo II, p. 520, il quale dà ai Cartaginesi 50,000 uomini e dice espressamente seguíta la battaglia κατὰ τὰ λεγόμενα ‘Ρήματα. Questo nome risponde al Rimetta, Rimecta etc. dei diplomi dell'XI e XII secolo e alla Rimète di cui parla l'Ystoire de li Normant, lib. V, cap. XX, nelle prime imprese del conte Ruggiero. Il sito e i ricordi delle guerre precedenti fanno comprendere che gli Affricani abbiano amato a decider la sorte delle armi a Rametta più tosto che a Messina. Si spiega con pari agevolezza il silenzio di Cedreno sul combattimento di Messina, e dei cronisti normanni su la battaglia di Rametta; poichè il primo scrivea delle giornate campali, senza particolareggiare le fazioni minori; e i secondi scriveano de' trofei di lor gente, senza curarsi del resto, o trascurandolo a bella posta. In ogni modo i due combattimenti son distinti.

934. Cedreno, l. c.

935. Debbo alla cortesia del signor F. P. Broch, erudito orientalista di Cristiania, la cognizione di questa impresa di Aroldo il Severo, e di quelle sorgenti che io ho potuto studiare, come tradotte in latino o in inglese. Il professore P. A. Munch, autore d'una Storia di Norvegia dettata nell'idioma nazionale, mi ha poi favorito qualche schiarimento per mezzo del signor Broch.

I fasti di Aroldo il Severo (Harald Haardraade) si leggono nella raccolta delle Saghe intitolata: Scripta Historica Islandorum, tomo VI, (Copenhagen, 1835, in 8º), p. 119 a 161, e nell'opera di Snorro Sturleson, autore islandese della fine del XII e principio del XIII secolo, intitolata: Heimskringla or Chronicle of the Kings of Norway, versione inglese di Samuele Laing, Londra 1844, in 8º, tomo III, pag. 1 a 16, saga IX, cap. I a XV. Aroldo, fratello uterino di Olaf il Santo re di Norvegia, combattè con valore, giovanetto di 15 anni, nella battaglia di Stiklestad (1030), ove il re fu morto ed egli gravemente ferito. Nascoso da fedeli partigiani, andò a corte di Iaroslaw 1º principe di Russia, dal quale umanamente accolto, militò con lode su i confini di Polonia. Chiesta in isposa Elisabetta figliuola del re, Iaroslaw gli fece intendere che forse gliela darebbe quand'avesse acquistato terreno e danaro. Aroldo pertanto andossene a cercar ventura con la spada. (Tuttociò sembra di buon conio. S'allega l'autorità d'Aroldo stesso e de' contemporanei; un dei quali dicea averlo visto giovanetto con un bel saio rosso, sembiante regio e marziale, volto pallido, folte sopracciglia, gesti un po' violenti ma rattenuti.)

Andò a combattere in Polonia, Germania, Francia e Italia; donde passò a Costantinopoli con una compagnia di ventura, sotto il mentito nome di Nordbrikt; perchè gli imperatori non volean tra i Varangi uomini di sangue reale. (Autorità vaghe o non citate. La peregrinazione da venturiere in Germania, Francia e Italia sembra favolosa.)

Regnavano a Costantinopoli Zoe e Michele Catalacto (volean dire Calafato e si dee correggere Paflagone, senza che vi sarebbe anacronismo), dai quali fu mandato a combattere nel mar di Grecia. (Forse il 1035 contro gli Affricani e Siciliani che infestavano l'Arcipelago; ma non si può affermare.)

Aroldo indi fu fatto capo dei Varangi (non generale in capo che s'intitolava Acolutho, ma della divisione mandata in Italia), e partì con Girgir (Giorgio Maniace) il quale girava le isole greche: e sovente combattè coi corsali. (Maniace non v'era per certo.) Sta per venire alle mani con Girgir perchè facendo alto l'esercito una notte, Aroldo si era attendato sur una collina evitando i luoghi bassi insalubri in quel paese, e Girgir volea mettersi nel medesimo sito. Finisce che si tira a sorte il luogo ed Aroldo per scaltrezza o frode resta dov'è. (Fatto verosimile, forse vero, incorniciato di favole.)

Aroldo guerreggiando insieme coi Greci non fa mai dar dentro i Varangi; ma quand'è solo, combatte disperatamente, e sempre riporta la vittoria. Girgir biasimato del non guadagnar mai nulla, scarica la colpa su i Varangi; alfine l'esercito si separa in due: Girgir coi Greci ed Aroldo coi Varangi e i Latini; questi riporta infinite vittorie, e quegli se ne torna scornato a Costantinopoli, abbandonato anche dai giovani greci che vogliono rimaner con Aroldo. (La prima parte si riscontra un po' con le memorie normanne. Le altre son favole intessute su la disgrazia di Maniace.)

Aroldo allora passa con l'armata in Affrica, detta la terra dei Saraceni; ove conquista ottanta città o castella; vince in campo il re d'Affrica; guerreggia parecchi anni; fa gran bottino d'oro, gioielli e altre cose preziose, e il manda in Russia, com'abbiam detto; poi assalta la costiera meridionale di Sicilia. (Citati varii squarci di poesie. La immaginaria impresa in Affrica è tolta dal combattere in Sicilia contro gli Affricani. Gli ottanta castelli son la più parte in aria; il re d'Affrica può dinotare Abd-Allah figliuolo di Moezz, alla battaglia di Traina.)

In una battaglia navale guadagnata da Aroldo sopra gli Affricani, i cadaveri degli uccisi son buttati su l'arena alle spiagge meridionali della Sicilia che son tinte di sangue. (Citata una poesia. Quest'episodio non si può affermare nè negare.)

Aroldo va con l'armata in Blaland (questo nome danno le saghe al paese dei Negri d'Affrica a mezzodì della Serkland, ossia Affrica Settentrionale), ove riporta altre vittorie e torna a Costantinopoli. Zoe gli domanda una ciocca di capelli, e che ricambio ei ne vuole si legga nella versione latina. Guarisce poi per miracolo una pazza; libera il paese vicino d'un gran dragone; va a combattere un'oste di Pagani ai confini dell'impero; vince con l'aiuto di Sant'Olaf che appare sopra un cavallo bianco; e per voto fabbrica una chiesa a Costantinopoli. (Non occorre notare che son tutte favole. Il caval bianco di Sant'Olaf, è lo stesso di Sant'Ignazio di Costantinopoli alla battaglia di Caltavuturo nell'882, Vol. I, p. 420, Lib. II, Cap. X, e di San Giorgio alla battaglia di Cerami nel 1063.)

Mandato su l'armata con Girgir a saccheggiare la Sicilia, prendevi quattro città. La prima, scavatavi sotto una mina, per la quale sbucò nel bel mezzo d'un palagio dove allegramente si banchettava. La seconda, molto più forte, non si potea avere per battaglia. Perciò Aroldo, visto che tanti stormi di uccelletti volassero dalla città al bosco vicino, fa impiastrar di bitume certi alberi, e presi gli uccelli lor fa attaccare addosso schegge di pino sparse di zolfo e cera, e messovi fuoco lascia gli innocenti animali; sì che tornandosi a lor nidi nei tetti di strame, appiccarono l'incendio per ogni luogo della città e la fu obbligata ad arrendersi. (Lo stesso tiro è attribuito nelle saghe alla granduchessa Olga, ai re di Danimarca Hadding e Fridleif ed a Gurmund pirata.) Un'altra città più grossa, lungamente assediata, cadde con questo stratagemma: che Aroldo s'infinse malato e poi morto, e volle farsi seppellire con sontuoso funerale in città; dove i frati fecero a gara per averlo ciascuno in sua chiesa. Armati di sotto e coperti di lunghe gramaglie egli e pochi Varangi recavan la bara; mettean mano alle spade quando furono in su la porta, ed aprivano il passo a tutto l'esercito. (Somigliante strattagemma è attribuito a Roberto Guiscardo in Calabria, a Frode I, re di Danimarca ed a molti altri condottieri.) Infine stringendo un castello inespugnabile, i Varangi fingono di avvicinarsi senz'arme e giocar tra loro per beffarsi del presidio; i soldati del presidio, per non parer da meno, fan lo stesso; e replicato lo scherzo parecchi dì, i Varangi una volta traggono lor coltellacci nascosi ed occupano al solito la porta, con aspro combattimento, nel quale Aroldo fece andare innanzi con la bandiera un Haldor che fu gravemente ferito e rinfacciò il re di codardia. (Questo pare men favoloso; oltre Haldor che tornò con una cicatrice alla guancia, v'è nominato un Ulf-Ospaksson etc.)

Dopo diciotto battaglie vinte in Sicilia, raccolto gran bottino, Aroldo e Girgir, che fa sempre la parte dell'Arlecchino in commedia, se ne tornano. Aroldo poi va a conquistare coi soli Varangi Gerusalemme, a bagnarsi nel Giordano; è imprigionato a Costantinopoli per dispetto amoroso di Zoe o gelosia del novello suo marito Costantino Monomaco; è liberato per virtù di Sant'Olaf, apparsogli in sogno; fuggendo rapisce e poi lascia una principessa greca, e dopo altre avventure, sposa la Elisabetta di Russia a Novogorod, si collega col re di Svezia per torre la corona di Norvegia a Magnus figliuol di Sant'Olaf, e alfine regna insieme col nipote (1047).

Or il finto conquisto di Terrasanta, la Sicilia non ricordata mai come paese musulmano, e tanti altri indizii, mostrano che la Eneide di Aroldo nel Mediterraneo fu inventata dopo le Crociate. Dunque non è nè anco contemporanea; nè possiam su la sua fede accettar quegli episodii che somiglian meno a menzogna: per esempio il combattimento navale su le costiere meridionali di Sicilia, e l'ultimo dei quattro stratagemmi narrati di sopra. Del resto, le due autorità c'ho citato non s'accordan tra loro nei particolari, e questi variano nelle altre saghe non tradotte, come ritraggo dal signor Broch.

Ho fatto parola delle monete musulmane trovate nel Baltico al par che molte dell'impero bizantino. Su la presunta origine di esse gli eruditi sono d'accordo. Si vegga la nota del signor Laing, op. cit., tomo III, p. 4.

936. Si confrontino: Malaterra, lib. I, cap. VII, e la Cronica di Roberto Guiscardo, testo e versione, ll. cc. La voce Archadius, data per nome proprio del condottiero, è titolo, come tutti sanno, di grado militare, Kâid, più tosto che di magistrato, Kâdhi.

937. Così Malaterra. Il monaco Nilo dice 100,000; Cedreno fa supporre molto più, portando a 50,000 il numero degli uccisi. Da un'altra mano l'Anonimo par non giunga al vero dando ai Musulmani soli 15,000 uomini.

Il nome della città non è dubbio: Traina in Malaterra e nell'Anonimo; Δραγῖναι in Cedreno. Il campo in pianura è ricordato altresì da Cedreno e dal monaco Nilo; se non che questo non dà il nome della città, leggendosi nella versione non longe ab urbe, sia che i copisti avessero saltato il nome, sia che San Filareto fosse di Traina stessa. La voce πόλις che dovea essere nel testo non si può intendere capitale, e però Palermo, contro le testimonianze di Cedreno e dei cronisti Normanni citati di sopra.

938. Nilo Monaco, l. c.

939. Cedreno non parla qui dell'assedio di Siracusa, anzi dice aver Maniace soggiogato tutta l'isola. La posizione dei Musulmani a Traina lo smentisce.

940. Il nome basta a provare che vi stanziò Maniace, e conferma che il campo di battaglia fosse stato nelle pianure tra quel luogo e Traina. La terra che s'addimandò Maniace è descritta da Edrisi, di cui si vegga il testo nella Biblioteca Arabo-Sicula, cap. VII, pag. 64, la versione francese del Joubert, tomo II, e il compendio presso il Di Gregorio, Rerum Arabicarum, pag. 123. Portava l'altro nome, al certo anteriore, di Ghirân-ed-dekîk ossia “Le grotte della Farina.” Al tempo di Fazzello ne avanzavan ruine e si chiamavano il Casalino; De Rebus Siculis, deca I, lib. X, cap. 1. Su l'abbadia che fu in parte distrutta dai tremuoti del 1693, si veggano, oltre il Fazzello, i diplomi del XII secolo presso Pirro, Sicilia Sacra, p. 396, 456, 977, 1004. Si riscontri D'Amico, Lexicon Siciliæ Topograficum, tomo II, alla voce Maniacis.

941. Si confrontino: Cedreno, tomo II, p. 522, Vita di San Filareto, l. c.; Malaterra, lib. I, cap. 4; Cronica di Roberto Guiscardo, presso Caruso, Bibliotheca Sicula, p. 832, lib. I, cap. V, p. 266, della versione francese. Questa Cronica dà molto diversa, e manifestamente imaginaria, la postura dei luoghi e le circostanze della battaglia. Al par che Malaterra la dice guadagnata dai soli Normanni. La data si scorge dall'ordine in che pone questo fatto il Cedreno nel 6548 (1039-1040) e dal ritorno del Catapano Doceano in Terraferma di novembre 1040.

Secondo il monaco Nilo, il tiranno de' Barbari (Abd-Allah), dopo la fuga a cavallo, se ne tornò in Africa su picciolo legno e ridusse a casa le reliquie dell'esercito. Cedreno narra che il capitano cartaginese fuggendo giunse alla spiaggia, donde, montato sur una barchetta riparò in Affrica; facendo mala guardia su la costiera l'ammiraglio bizantino, cui Maniace avea raccomandato d'impedir la fuga. Chi suppose così fatta precauzione di Maniace, ignorava al certo che Traina giace a più di trenta miglia dal mare e che sorgevi di mezzo l'altissima giogaia di Caronia. Da un'altra mano, gli annali arabi portano che Abd-Allah fu cacciato in Affrica per sollevazione dei Musulmani di Palermo, come si narrerà nel seguente Capitolo. Indi è chiaro che il biografo di San Filareto, e molto più la tradizione bizantina riferita dal Cedreno, confusero in un solo due fatti distinti, cioè la sconfitta di Traina che costrinse Abd-Allah a rifuggirsi in Palermo e il tumulto di Palermo che lo cacciò in Affrica.

942. Amato lo dice: “Arduyn servicial de Saint-Ambroise archevesque de Milan;” Leone d'Ostia “Arduinus quidam Lambardus (cioè della Lombardia d'oggidì) de famulis scilicet Sancti Ambrosii;” Malaterra “Arduinum quendam Italum;” Lupo Protospatario “Arduinus Lombardus;” Cedreno “Arduino.... signore independente di un certo paese (Ἀρδουῖνον.... χώρας τινὸς ἄρχοντα, καὶ ὑπὸ μηδενὸς ἀγόμενον).” In questo medesimo passo, tomo II, p. 345, Cedreno dice positivamente che la compagnia normanna era capitanata da Ardoino, talchè si riscontra con Guglielmo di Paglia, lib. I, Inter collectos erat Hardoinus etc. e col Chronicon Breve Northman., presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo V, p. 278, che dice assalita la Puglia il 1041 dai Normanni, duce Hardoino: Tutte le circostanze dei presente fatto e dell'ordinamento a Melfi, provan lo stesso. Amato, Malaterra e gli altri scrittori di parte normanna aman meglio a far capitano della compagnia Guglielmo Braccio di ferro, che nel 1038 conducea probabilmente uno squadrone e che arrivò al sommo grado nel 1043.

943. Amato, lib. II, cap. XVI e Leone d'Ostia, lib. II, cap. 66, quasi con le stesse parole di lui, scrivono che Ardoino, preposto dai Bizantini al governo di varie città di Puglia dopo la ingiuria ricevuta in Sicilia della quale si volea vendicare, accarezzasse e suscitasse occultamente i popoli alla rivoluzione. Il fatto si dee tener vero, ma si dee porre innanzi l'impresa di Sicilia; perchè è impossibile, con tutta la corruzione del governo bizantino, che fosse stato affidato quell'oficio ad Ardoino dopo la diserzione; e d'altronde non lascia luogo a tal fatto il breve tempo che corse tra la fuga della compagnia dall'esercito di Sicilia e la occupazione di Melfi. Amato, che ignorava le date e i particolari, cadde facilmente in quest'anacronismo. Ardoino sembra della nobiltà minore che si sollevò il 1035 contro l'arcivescovo di Milano e fu vinta. È verosimile parimenti ch'egli ed altri rifuggiti e stranieri avessero fatto una compagnia di ventura, e che innanzi il 1038, trovandosi ai soldi dei Bizantini, gli fosse stato affidato il comando militare di qualche città di Puglia.

944. Si confrontino: Malaterra, lib. I, cap. VIII; Amato, lib. II, cap. XIV a XVIII; Guglielmo di Puglia, lib. I, Cumque triumphato etc, Cronica di Roberto Guiscardo presso Caruso, Bibliotheca Sicula, p. 832, e nella versione francese, lib. I, cap. V; Leone d'Ostia, lib. II, cap. LXVII; Cedreno, tomo II, p. 545. Queste autorità differiscono molto nei particolari del torto fatto alla compagnia, ed altri ne dà la colpa a Maniace, altri a Michele Doceano, succedutogli nel comando in Italia. Ho seguito a preferenza il Malaterra, la cui narrazione è più verosimile e s'incatena meglio con gli altri fatti.

945. Cedreno che narra più distinto questo fatto, suppone fuggito il capitan musulmano a dirittura verso l'Affrica, e che Maniace si adirò tanto con l'ammiraglio perchè appunto gli avea commesso di guardar ben la costiera che nessuno campasse da quella via. La postura di Traina, la testimonianza del monaco Nilo e quella degli annalisti arabi che ho notato di sopra (pag. 388, nota 1), dimostrano che la colpa fu d'averlo lasciato imbarcare in qualche punto della costiera e navigare verso Palermo. Indi ho notato i due luoghi nei quali più probabil è ch'egli entrasse in nave. Evidentemente Cedreno e il monaco Nilo presero il principio e la fine della fuga d'Abd-Allah e trascurarono i fatti intermedii, che soli possono spiegare la collera di Maniace.

946. Cedreno, tomo II, p. 522, 523.

947. Fazzello, deca I, lib. IV, cap. I, afferma senz'altra prova, che Maniace edificò il castello, e aggiugne ch'ei fe' gittare in bronzo i due arieti i quali stettero in su la porta del castello fino al 1448, quando piacque ad un marchese di Geraci d'adornarne un suo palagio a Castelbuono. Confiscati per ribellione d'un altro marchese di Geraci, gli arieti vennero in Palermo; si tramutarono d'uno ad altro edifizio; e fino al 1848 si videro in una sala della reggia. Ma, presa questa dal popolo, un degli arieti si trovò spezzato, com'e' par da una palla di cannone; e il Comitato di governo collocò l'altro nel Museo dell'Università. La fattura mi sembra antica più tosto che bizantina.

948. Amato, lib. II, cap. IX; Leone d'Ostia, lib. II, cap. LXVI.

949. Cedreno, tomo II, p. 523.

950. Secondo gli Annali di Bari, presso Pertz, Scriptores, tomo V, p. 54, Doceano, reduce di Sicilia, entrò in Bari di novembre 1040. (Scritto 1041, perchè il nuovo anno si contava dal 1º settembre.)

951. Erroneamente si è inferita la occupazione di Palermo dal verso di Guglielmo di Puglia, lib. I, Premia militibus Regina solveret urbe. Il cronista vuol dire Reggio, non “la città regia.”

952. Annali di Bari, l. c.

953. Cedreno, tomo II, p. 523.

954. Si confrontino gli Annali di Bari, e Lupo Protospatario presso Pertz, Scriptores, tomo V, p. 54, 58, con Cedreno, tomo II, p. 525.

955. Κεκαμένος.

956. Cedreno, solo autore di questa tradizione, dice aggiunti rinforzi cartaginesi alla leva in massa di Sicilia e capitanata l'oste dall'emiro Apolofar. Mi sembrano sbagli di parole: che ignorando la morte di Akhal e sapendo lì l'emir di Sicilia, i Bizantini abbiano scritto il nome di Apolofar; vedendo i disertori berberi, li abbiano deffinito ausiliarii cartaginesi. Leggeransi nel cap. XII i fatti seguíti tra i Musulmani dal 1040 al 1042, pei quali credo si possa accettare dalla tradizione di Cedreno la qualità del capitano emir di Sicilia, mutare la persona e sopprimere la uccisione. Il Martorana, tomo I, p. 141, ben s'appose al nome di Simsâm; se non che lo fece andare in Egitto e tornare con rinforzi del califo fatemita, che sono sogni del Rampoldi, Annali Musulmani, 1040.

957. Cedreno scrive positivamente la Pentecoste; ma voltata qualche pagina (tomo II, p. 538), lo dimentica, narrando che Catacalone portò egli stesso a Costantinopoli il nunzio della vittoria di Messina, nell'atto che il popol s'era levato a romore contro il nuovo imperatore Michele Calafato. Or, secondo lo stesso Cedreno, la sedizione che tolse il trono al Calafato, cominciò il lunedì della seconda settimana dopo Pasqua del 1042, e però innanzi la Pentecoste. Della Pentecoste del 1041 non si può ragionare al certo, la quale cadde il 10 maggio, cioè quando non eran partite per anco di Sicilia le schiere dei Macedoni, Pauliciani e Calabresi. D'altronde l'annunzio della vittoria sarebbe stato un po' tardo. Perciò suppongo sbagliata la festa e che debba dir la domenica delle Palme o altra.

958. Cedreno, tomo II, p. 523, 524. Lascio da canto Apollofar, ucciso nella tenda in mezzo al vino; i soldati che non si reggeano in piè dall'ebrezza; le valli e i letti dei fiumi pieni di cadaveri; l'oro, argento, perle e altre gemme che si trovarono nel campo musulmano, divise a moggia (μεδίμνοις) tra i vincitori.

959. Cedreno, tomo II, p. 546, dice di cotesti aiuti degli Italiani della regione tra il Po e le Alpi.

960. Si confrontino: Cedreno, tomo II, p. 541, 547 a 549; Michele Attallota, Historia, pubblicata da M. Brunet-de-Presle, p. 11, 18, 19; Guglielmo di Puglia, lib. I, Interea magno Danaum etc., sino alla fine del libro; Annali di Bari e Lupo Protospatario, presso Pertz, Scriptores, tomo V, p. 54, 58, anni 1042, 1043; Chronicon Breve Northman., presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo V, p. 278, anni 1042, 1043. Cedreno dà ad intendere che Maniace ripigliò sopra i Normanni tutta l'Italia all'infuori di poche città, il che è falso.

961. Si vegga la nota 1 della pag. 387, nel capitolo precedente. I particolari della battaglia e del seguito che ebbe, portano a credere presente il narratore a Traina.

962. Nilo Monaco nella Vita di San Filareto, presso Gaetani, Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 115, e presso i Bollandisti, tomo I, di aprile, p. 609. San Filareto avea allora diciott'anni. Il tiranno era Abd-Allah figliuolo di Moezz.

963. Così la famiglia di San Filareto; la quale non si può supporre sola a prendere tal partito.

964. Mettendo da parte le memorie dei cospiratori cristiani di Messina, più probabili che autentiche, delle quali tratteremo nel seguente libro, si veggano pei Cristiani di Traina, Malaterra, lib. II, cap. XVIII, e la Cronica di Roberto Guiscardo, presso Caruso, p. 838, e versione francese, lib. I, cap. XV; e per lo rimanente del Valdemone stesso, Amato, lib. V, cap. XXI e XXV, e Malaterra, lib. II, cap. XIV.

965. In un diploma di Tancredi conte di Siracusa, dato del 1104, si legge che il conte Ruggiero nell'istituire il vescovato di Siracusa (1093) gli aveva assoggettato tutto il clero greco e latino. Il primo non era venuto al certo coi Normanni. Il poeta siracusano Ibn-Hamdîs, ricordando le sue scappate giovanili, Biblioteca Arabo-Sicula, cap. LIX, § 1, p. 549, dice di un monistero di donne, ov'egli ed altri scapestrati andavano a bere il vino “color d'oro.”

966. Malaterra, lib. II, cap. XLV, dice dell'arcivescovo che si sforzava a mantener la fede in Palermo pria che v'entrassero i Normanni. Avea nome Nicodemo, secondo una bolla di Calisto II, presso Pirro, Sicilia Sacra, pag. 53.

967. Si vegga il diploma del 1098 pel monastero di Santa Maria di Vicari, che citiamo nel capitolo seguente.

968. Malaterra, lib. II, c. XX, narra che gli abitatori fossero parte Cristiani e parte Musulmani.

969. Malaterra, lib. I, cap. XVII, narrando una scorreria del conte Ruggiero da Messina a Girgenti nota che gli si fecero incontro i Christiani provinciarum, che deve intendersi del Valdemone e Val di Mazara. Si vegga anche il cap. XIII di questo libro.

970. Si vegga il Cap. III del presente Libro, pag. 257, seg., del volume.

971. Si veggano i luoghi di Malaterra e d'Amato, testè citati. Le condizioni ritratte dal primo nel lib. I, cap. XIV, s'adattano appuntino agli dsimmi.

972. Si vegga il Libro V, ch'è il luogo proprio di trattarne, poichè le prove di coteste due condizioni compariscon dopo il conquisto normanno.

973. Libro II, cap. XI, pag. 484 del primo volume.

974. Malaterra, lib. I, cap. XIV, XVIII e XX, citati di sopra, parla di Cristiani di Valdemone, di Traina e delle province (tra Messina e Girgenti); e cap. XXIX, dei Greci di Traina che sembran parte della popolazione cristiana di quella città. Il Di Gregorio, Considerazioni sopra la Storia di Sicilia, lib. I, cap. I, ritiene la stessa distinzione di schiatte e allega, note 2, 3, la stessa autorità. Aggiugne, nota 4, un esempio di Geraci tolto dal lib. II, cap. XXIV, di Malaterra; sul quale non voglio fare assegnamento, non essendo certo se si tratti di Geraci in Sicilia o della città dello stesso nome in Calabria.

975. Nilo Monaco, Vita di San Filareto, presso il Gaetani, Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 113, e presso i Bollandisti, 6 aprile, p. 607.

976. Si vegga qui appresso la vita di San Vitale di Demona.

977. Non v'ha un sol rigo nè un sol nome latino tra i ricordi della dominazione normanna che possano riferirsi all'epoca precedente.

978. Si vegga il Lib. III, cap. XI, p. 213, 214 di questo volume.

979. Si veggano nel cap. III del presente Libro i ragguagli cavati dalla Vita di San Niceforo vescovo di Mileto, e il cenno che do di questa agiografia alla fine dello stesso capitolo, p. 273 del volume.

980. Vita di San Vitale abate, presso Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 86; e presso i Bollandisti, 9 marzo, p. 26.

981. Vita di San Luca di Demona, presso Gaetani, op. cit., p. 96; e presso i Bollandisti, 13 ottobre, p. 337.

982. Si vegga il testamento del Prete Scolaro del 1114 presso Pirro, Sicilia Sacra, p. 1005. Costui lasciò al Monastero del Salvatore in Messina trecento codici greci e “bellissime immagini coperte d'oro.” Ma è da avvertire che avea fatto viaggi in Grecia e che solea comperare da mercatanti di quella nazione.

983. Malaterra, lib. II, cap. XIV. Si vegga anche Amato, lib. V, cap. XXI.

984. Si vegga il Lib. II, cap. XII, nel primo volume, p. 485 e 486, nota 2.

985. Alla fin del IX secolo sembrano anche vescovi in partibus, o fuggitivi, que' di Cefalù, Alesa, Messina e Catania, che si trovarono al Concilio di Costantinopoli (870). Non conto nel X secolo San Procopio vescovo di Taormina che incontrò il martirio nel 902. Non parlo del vescovo di Camerino nelle Marche (963-967) che altri suppose di Camerina in Sicilia. Leone vescovo di Catania è soscritto in una decretale del patriarca di Costantinopoli del 995, di cui il Pirro, Disquisitio de Patriarca Siciliæ, § VII, nº 5. Umberto monaco in Lorena, è sottoscritto col titolo di arcivescovo di Sicilia nel concilio romano del 1049; sul quale si vegga il Pirro, p. 51, e le autorità citate dal Martorana, Notizie Storiche dei Saraceni Siciliani, tomo II, p. 217, note 133, 134.

986. Si vegga il Lib. III, cap. VIII, p. 172 di questo volume. Non facciamo parola del vescovo Ippolito, non sapendosene appunto il tempo.

987. Si veggano le autorità citate poc'anzi, p. 396, nota 5. I Normanni non fecero conto dell'arcivescovo greco più che d'un imam di moschea; e certo non gli dettero un titolo ch'ei non avesse. La corte di Roma non solo lo riconobbe a Nicodemo ed agli arcivescovi normanni, ma n'avea già investito a modo suo Umberto.

988. Si vegga il Lib. III, cap. XI, p. 214 di questo volume.

989. San Luca di Demona e San Vitale di Castronovo, dei quali or or discorreremo le vite, presero entrambi l'abito monastico a San Filippo d'Argira; e morirono in Calabria, l'uno il 993, l'altro, come si suppone, il 994. Dall'agiografia di San Vitale si scorge che in gioventù egli con altri frati dal monastero di San Filippo andò a Roma, e che, tornando dopo due anni in Sicilia, visse da romito su l'Etna rimpetto l'antico suo chiostro. San Luca di Demona era uscito dallo stesso monastero il 959 o poco prima. Però la cagione della partenza di entrambi par lo sgombero del monastero, il quale risponderebbe a un di presso ai fatti del Valdemone che narrammo nel cap. III di questo Libro, p. 255, seg., del volume.

990. Questo mi sembra il valore del testo ἀδηλωθείσαν (μόνην), Diploma del 1098 pubblicato con versione italiana da Niccolò Buscemi, nel giornale ecclesiastico di Palermo che s'intitolava Biblioteca Sacra, tomo I, p. 212, seg. Il Martorana in una risposta al Buscemi, estratta dal Giornale di Scienze ec. per la Sicilia, p. 39, si sforzò invano a distruggere l'attestato che contien questo diploma. Il conte Ruggiero vi dice chiaramente avere confermato (ἐπέκυρω) le possessioni. Dunque il monastero esisteva, e non vivea di limosine avanti il conquisto normanno.

991. Non occorre citare tutti i diplomi normanni che lo attestano in varie guise. Fra gli altri uno del 1093 presso Pirro, Sicilia Sacra, p. 1016, prova che restava in piè la chiesa soltanto nel monastero di San Michele Arcangelo in Traina.

992. Diploma del 1144 nel quale re Ruggiero accenna il decreto del padre, presso Pirro, Sicilia Sacra; p. 1021. Il Martorana nella risposta citata vuole inforsare l'attestato; ma non può cancellare quel tenebant et possidebant tempore impiorum Saracenorum, come tradusse il Lascari, e gli si può credere ancorchè non si conosca l'originale greco.

993. Testamento di Gregorio categumeno del monastero di San Filippo di Demona. Il testo greco con altri diplomi del monastero fu pubblicato dal Buscemi, op. cit., p. 381 a 388, e più correttamente dal Martorana, op. cit., p. 60 a 64 con novella versione italiana di monsignor Crispi, valente ellenista siciliano, morto non è guari.

994. Si ricordi il fatto del vescovo Leone nel 925.

995. Si vegga il cap. XI del Lib. III, e il cap. III del Lib. IV, p. 214 e 264 del presente volume.

996. Antica sede del vescovato di Tricarico.

997. Presso Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 86, e presso i Bollandisti, 9 marzo, p. 96. I soli dati cronologici, oltre l'anno della versione, sono la contemporaneità con San Luca di Demona, il titolo di Catapano di Calabria che occorre nel racconto, e il nome del monastero di Armento, il quale si sa fondato nella seconda metà del decimo secolo. La morte septimo idus martii feria sexta ha portato i Bollandisti a notare l'anno 994. Si vegga anche De Meo, Annali di Napoli, tomo VI, anno 994. I nomi dei luoghi in Calabria ove si dice soggiornato San Vitale in romitaggio dopo il ritorno dalla Sicilia, son Liporaco presso Cassano, Pietra di Roseto, Rappaco presso San Quirico, Misanelli, Armento, Sant'Adriano presso Basidia, una cella presso Turi, e infine Rapolla.

998. Otone I, come notaron bene il Gaetani e i Bollandisti. E però torna al 968 o 969 nelle scorrerie che abbiamo accennato al cap. VI del presente Libro, p. 311 del volume.

999. Vita di San Luca di Demona, versione dal testo greco che sembra perduto, presso il Gaetani, op. cit., tomo II, p. 96, e presso i Bollandisti, 13 ottobre (tomo VI), p. 332. Questa seconda e recente edizione è illustrata di erudite annotazioni. Il sant'Elia di Reggio primo maestro di San Luca, fu, al dir dei Bollandisti, lo Speleote che dimorava a Melicocca presso Seminara, op. cit., p. 333, § V. Per error di stampa nel Gaetani è recata quest'agiografia il 13 settembre, quando vi si legge tertio idus octobris, l'anno dell'Incarnazione 993 e del mondo 6493 secondo l'èra alessandrina.

1000. Si vegga il capitolo precedente, p. 387.

1001. Si vegga il Lib. II, cap. XII, 517 del primo volume.

1002. L'agiografo sclama: Ov'era in quelle solitudini il soffice letto, la pulita stanza, il tappeto, le stuoje, i bagni, le brigate di amici, il pan fino, i pesci, l'olio, i condimenti, le frutte, il vino, la lettura del Vecchio e del Nuovo Testamento? Ma par ch'ei voglia accennare il contrasto con la vita di qualche prelato di Calabria, piuttosto che con quella di San Filareto stesso in gioventù.

1003. Vita di San Filareto, presso il Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 112, seg.; e presso i Bollandisti 6 aprile (tomo I), p. 605, seg., versione d'un testo greco che sembra perduto.

1004. Si vegga il Gaetani, op. cit., tomo II, p. 109, che se la bevve; e i Bollandisti, 17 luglio (tomo IV), p. 288.

1005. Presso il Gaetani, op. cit., tomo II, p. 107; e presso i Bollandisti, 24 febbraio (tomo III), p. 479: il primo dei quali lo fa morire il 1054; e i secondi il 1129. Figliuolo d'un conte calabrese che fu ucciso nelle scorrerie dei Musulmani di Sicilia, nacque in Palermo dalla madre condotta in schiavitù, e sposata da un Musulmano; andò in Calabria a battezzarsi e trovare i tesori nascosi del padre; si fece monaco sotto San Nilo (morto il 998), operò in vita molti miracoli, e morendo risanò d'un'ulcera Ruggiero Guiscardo nipote di Roberto, il quale diè in merito grandissimi beni al monastero. Questo Ruggiero Guiscardo, che la storia non conosce, questo sbalzo dalla fine del X alla fine dell'XI secolo, convengon bene alle avventure favolose che abbiamo appena accennate.

1006. La vita di San Simeone da Siracusa fu scritta per ordine dell'arcivescovo di Treveri da un Eberwin abate del monastero di San Martino, il quale avea praticato con Simeone nella torre e l'aveva assistito a morte. Si vegga presso il Gaetani, Vitæ Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 101; o meglio presso i Bollandisti, 1 giugno, p. 87, seg. Si riscontri la Cronica di Sigeberto, anno 1016, presso il Pertz, Scriptores, tomo VII, p. 555.

1007. Si cominci dai Cristiani che compiangeano i prigioni di Siracusa (878) nelle strade di Palermo, Lib. II, cap. IX, p. 408 del primo volume; si scenda via via nel X secolo ai patti di Hasan in Reggio, alla guerra di Taormina e Rametta, al segretario cristiano d'Abu-l-Kâsim, Lib. IV, cap. II, III, VI, p. 247, 257 e 320 di questo volume; e si arrivi nel presente capitolo ai fatti dell'XI secolo, e si vedrà durar sempre il cristianesimo.

Di questa opinione sono stati quasi tutti gli scrittori delle cose ecclesiastiche di Sicilia, come si può vedere del Mongitore, Opuscoli d'Autori Siciliani, tomo VII, p. 119, seg. Il Di Gregorio tenne la stessa sentenza, Considerazioni su la storia di Sicilia, lib. I, cap. I.

La sentenza contraria è stata di recente sostenuta dal Martorana, Notizie Storiche dei Saraceni Siciliani, tomo II, p. 43 a 75; al quale rispose il sacerdote Niccolò Buscemi, Biblioteca Sacra per la Sicilia, (Palermo 1832), vol. I, p. 195 seg., 373 seg., ed egli replicò in varii articoli del Giornale di Scienze e Lettere per la Sicilia del 1834, raccolti poi in un volumetto, p. 17 seg., 133 seg. Io ho citato di sopra alcuni documenti allegati dall'uno e dall'altro, e, com'è naturale, ho tenuto presenti le ragioni pro e contra, ma non posso qui esaminarle partitamente.

1008. Nel Mo'gem-el-Boldân di Jakût, Biblioteca arabo-sicula, testo, p. 117.

1009. Presso Pirro, Sicilia Sacra, p. 617, nella notizia della Chiesa siracusana. Il comento si trova non solo nei fatti che abbiamo esposto, ma anche in un diploma di re Ruggiero dato il 6642 (1134), il quale attesta la sollecitudine del padre a liberare dagli Agareni la Sicilia e i suoi abitatori cristiani; presso Pirro, p. 975.

1010. Questo supposto è del Martorana, Notizie storiche, tomo II, p. 68 a 73; il quale non so se vi sia stato condotto dal Rampoldi che sognò una tregua di tre anni tra i Musulmani e i Bizantini di Sicilia, dopo la partenza di Maniace. Si vegga la risposta del Martorana, p. 16, nota. Il Martorana cadde in errore, credendo che l'appellazione di Greci, sì frequente in Sicilia nello XI e XII secolo, non dinotasse i Siciliani di linguaggio greco, ma necessariamente si dovesse riferire a gente venuta di fresco dalle province bizantine.

1011. Si vegga il Lib. II, cap. XII, p. 476 seg. del primo volume.

1012. Questa cronica in forma di lettera di Fra Corrado, priore del convento domenicano di Santa Caterina in Palermo, ha una data che risponde al 1290. Si vegga presso Caruso, Bibliotheca Historica regni Siciliæ, tomo I, p. 47, questo cattivo compendio di fatti dal 1027 al 1282, del quale non conosciam tutte le sorgenti ed alcuna si potrebbe supporre versione inesattissima dall'arabico. Oltre gli errori madornali su i fatti e i nomi, vi si nota l'anacronismo d'un secolo nella scorreria dello spagnuolo Meimûn-ibn-Ghania in Sicilia, ch'è messa il 1027 in vece del XII secolo. In ogni modo, ancorchè la storia sembri più tosto alterata da errori di compilazione o di copia che falsata a disegno, non si può fare alcuno assegnamento su l'attestato di Fra Corrado.

1013. Girio.

1014. La versione latina di questo diploma fa pubblicata dal Di Giovanni, Codex Siciliæ diplomaticus, nº CCXCVIII, p. 347; il testo greco dal Morso, Palermo antico, p. 321, e dal Garofalo, nel Tabularium... capellæ collegiatæ.... in regio panormitano palatio, p. 1, seg.; e tutti han creduto si trattasse d'una confraternita in Palermo; massime il Morso, il quale vi fabbricò sopra la strana conghiettura da noi accennata nel cap. V del III Libro, p. 298 di questo vol. in nota.

Ma quella preghiera pel patriarca e per gli imperatori (βασιλεῶν) mal conveniva ad un corpo morale esistente in Palermo nell'XI e XII secolo. Il Martorana, Notizie ec., tomo II, p. 219, pensò doversi riferire la fondazione ai Greci bizantini ch'ei suppone occupatori di Palermo nella guerra di Maniace; e mise anco in forse l'autenticità del diploma. Il Mortillaro in un'aspra critica contro Garofalo, Opere, tomo II, p. 67, seg., rincalzò cotesto sospetto.

A me non par luogo di credere apocrifa la pergamena; ma tengo certo che la confraternita delle Naupactitesse non sia stata mai in Palermo. Dapprima i nomi dei confratelli sottoscritti, greci la più parte, mi avean fatto pensare ad alcuna delle città ed isole di Grecia assalite dai Normanni di Sicilia; ma consultatone M. Hase, ha notato che tra que' nomi ve n'abbia di forma italiana, e che il nome di un Ruggiero Nanainà ci richiami alla Puglia. Però debbo all'autorità del maestro il pensiero che segno nel testo. Aggiungo che la voce imperatori, al plurale, fa credere rinnovati gli statuti mentre sedea più d'uno sul trono di Costantinopoli; e ciò, dopo il 1048 data del primo diploma, tornerebbe al regno di Costantino Duca (1060-67), il quale si associò i figliuoli, o di questi e della madre (1068); e sarebbe appunto prima della occupazione di Bari per Roberto Guiscardo.

1015. Ibn-el-Athîr dà i fatti in ordine cronologico infino agli armamenti dei Bizantini, il 416 (cap. IX di questo Libro a p. 365 del volume); e indi salta al 484 raccogliendo in un capitolo tutti gli avvenimenti dalla abdicazione di Iûsuf, il 388 (998), al compiuto conquisto dei Normanni (1091); nel quale capitolo la data e' particolari scarseggiano da Iûsuf alla occupazione di Moezz (1037), e mancano al tutto d'allora infino alla chiamata dei Normanni (1060). Or appunto alla fine del X secolo, cioè al tempo di Iûsuf, giugne la cronica d'Ibn-Rekîk (Introduzione, p. XXXVII del primo volume). Ibn-Rescîk supplì forse i primi quarant'anni dell'XI secolo, ibid. I cenni su la seconda metà sembrano cavati da Abu-Salt-I-Omeîa o da Ibn-Sceddâd (Introduzione, p. XXXVIII), i quali scrivendo nel XII secolo, quando era giù la dominazione musulmana di Sicilia, o non conobbero o non vollero raccontare tutti i particolari della caduta.

Questo concetto si conferma a legger Abulfeda, Nowairi e Ibn-Khaldûn, nei quali si vede manifestamente la stessa lacuna, ancorchè non abbian sempre copiato o compendiato Ibn-el-Athîr, ed abbiano avuto in originale alcune sorgenti. Abulfeda muta un po' la divisione della materia. D'un fiato ei dà nell'anno 336 tutta la storia degli emiri kelbiti di Sicilia, trascritta da un autore ch'è al certo Ibn-Sceddâd: capitolo aggiunto dopo la prima copia o edizione, poich'è scritto di mano d'Abulfeda stesso in margine del MS. di Parigi, Suppl. Arabe, 750. Poi nel 484 fa un capitolo compendiato, com'ei pare, sopra Ibn-el-Athîr, dov'ei viene a ripetere alcuni fatti del capitolo del 336, non avendo badato a cancellarli quando aggiunse lo squarcio d'Ibn-Sceddâd. Nowairi e Ibn-Khaldûn, dividendo loro storie generali per dominazioni, non per anni, fanno capitoli apposta su le cose di Sicilia; ma vi allogano gli stessi fatti d'Ibn-el-Athîr, più o meno particolareggiati e sempre interrotti nel periodo che notammo. Tutti par abbiano ignorato le storie particolari della Sicilia scritte da Ibn-Kattâ' e da Abu-Ali-Hasan (Introduzione, p. XXXVII, nº I, V).

1016. Nel 1052. Si vegga Ibn-Khaldûn, Histoire des Berbères, versione di M. De Slane, tomo I, p. 34, 35; e Ibn-el-Athîr, MS. C, tomo V, fog. 81 verso, e 82 recto, che particolareggia molto più i fatti.

1017. Sapendosi di certo dagli autori cristiani che lo sconfitto a Traina fu Abd-Allah-ibn-Moezz, il tumulto che lo cacciò avvenne di necessità dopo la battaglia, non immediatamente dopo la uccisione di Akhal.

1018. Traduco quasi litteralmente da Ibn-el-Athîr dove si legge “Per dio la fine dell'opera vostra, ec.;” la qual voce fa supporre un recente e grave caso.

1019. Alcuni autori portan trecento; ma è differenza di copia, potendosi scambiare facilmente le due voci arabiche che significano quei due numeri. Qual dei due sia il vero nol so.

1020. Si riscontrino: Ibn-el-Athîr, anno 484, MS. C, tomo V, fog. 109, recto, seg.; Abulfeda, Annales Moslemici, stesso anno, tomo III, p. 274, seg.; Nowairi, presso Di Gregorio, op. cit., p. 23; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 181; Ibn-Abi-Dinâr, MS., fog. 37 verso, seg. Quest'ultimo è il solo che aggiunga il compimento ed-dawla al soprannome Simsâm e mi sembra però più corretto.

1021. Si riscontrino: Ibn-el-Athîr, Abulfeda, e Ibn-Khaldûn, ll. cc., i quali copiano con varianti unico testo. Nowairi, l. c., non dice degli uomini di vilissima condizione. E forse copiando come gli altri, saltò quelle parole perchè gli parvero contraddittorie al fatto trovato nel medesimo testo, o altrove, e dato da lui solo; cioè il governo degli Sceikhi in Palermo. Abulfeda, in fin del capitolo su i Kelbiti ch'ei trascrive da Ibn-Sceddâd, dice che s'impadronirono della Sicilia i Kharegi, ossia ribelli.

1022. Si riscontrino: Ibn-el-Athîr, Abulfeda, Ibn-Khaldûn e Nowairi, ll. cc. I primi tre aggiungon al novero dei regoli Ibn-Thimna; ma Nowairi, ch'è il più diligente di tutti in questo periodo, dice costui surto appresso: e ciò si accorda meglio con gli altri fatti.

Ibn-Menkût sembra di schiatta arabica. Questo nome che in un sol MS. di Nowairi si legge con la variante Metkût, non può essere diverso da quell'Ibn-Menkud da cui si addomandò un castello appunto in Val di Mazara, ricordato da Edrisi, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 119 della versione latina. Nacque di certo della famiglia e probabilmente fu predecessore d'un Kâid Abu-Mohammed-Hasan-ibn-Omar-ibn-Menkûd, poeta siciliano ricordato da Imâd-ed-dîn nella Kharida, MS. di Parigi, Ancien Fonds, 1375, fog. 43 recto. Un Kaid Abd-Allah-ibn-Menkût, della stessa tribù e forse della stessa famiglia, si vede alla corte di Tamîm, principe zîrita di Mehdia, il 481 (1088-9) presso Ibn-el-Athîr, MS. C, tomo V, fog. 106 verso, con la variante Menkûr nel Baiân, tomo I, p. 310 del testo arabico. E con le varianti Metkûd, Medkûr, si trova lo stesso nome in Affrica nel XIII secolo presso Ibn-Khaldûn, Histoire des Berbères, versione di M. De Slane, tomo II, p. 103, 222. Le dette varianti son dei copisti, nè montano. Quella tra Menkût e Menkûd potrebbe venir dal suono similissimo che hanno quelle due lettere finali nella pronunzia degli Arabi. Infine è da avvertire che l'una e l'altra voce ha significato in arabico.

Quanto ad Ibn-Hawwâsci (le ultime tre lettere corrispondenti al ch francese e sh inglese), questo nome si legge anche Hawâs e Giawâs; e li credo errori di copie. Hawwâsci significherebbe “l'agitatore, il demagogo,” e ben converrebbe a quegli che Ibn-Thimna diceva appo i Normanni “servo suo rivoltato” (Leone d'Ostia, lib. III, cap. 45); un che esmut lo peuple et lo chacerent de la cite et se fist amiral (Amato, lib. V., cap. 8).

È da avvertire infine che in Ibn-Khaldûn leggiamo Abd-Allah-ibn-Hawwâsci signor di Mazara e Trapani, e non si vede il nome di Ali-ibn-Ni'ma, nè si parla di Castrogiovanni e Girgenti. Viene probabilmente da un rigo saltato nella copia in questo modo: “a Mazara e Trapani Abd-Allah-ibn-Menkût ed a Castrogiovanni Ali-ibn-Ni'ma detto Ibn-Hawwâsci ec.”

1023. All'assalto dei Normanni, il 1062, era venuto in soccorso di Messina il navilio palermitano. Diremo a suo luogo del navilio del principe di Sicilia che si trovò il 445 (1053-4) a Susa rivoltata contro gli Zîriti.

1024. Nei due MSS. di Nowairi si trova Kelâbi e Meklâbi, ma la giusta lezione data da Ibn-Khaldûn è Meklâti, che differisce dall'ultima pei punti diacritici d'una sola lettera, e dalla prima per questi e per un picciol nodo che segna la m, e che facilmente sfugge alla vista in una scrittura frettolosa. D'altronde Ibn, o Ben, Meklâti, risponde al Benneclerus di Malaterra (lib. II, cap, 2, 3), il quale scrisse probabilmente Benmecletus.

Nella Kharida d'Imâd-ed-din, MS. di Parigi, Ancien Fonds, 1375, fog. 36 verso, abbiamo tre lamentevoli versi del poeta siciliano, il Kâid Abu-l-Fotûh figliuolo del Kâid Bedîr (o Bodeir) Sened-ed-dawla, Ibn-Meklâti ciambellan del sultano. Trovandosi nel capitolo tolto da Ibn-Kattâ', erudito e filologo siciliano che morì nel principio del XII secolo, Bedîr o il figliuolo è probabilmente il signor di Catania. Il sultano del quale egli si intitolò Hâgib, (ciambellano) col soprannome di “Base dell'Impero,” pare Simsâm, che in sua misera condizione tenesse corte e desse titoli.

In ogni modo Meklâta era tribù berbera e forse ramo di Kotâma, come si legge in Ibn-Khaldûn, Histoire des Berbères, versione di M. De Slane, tomo I, p. 172, 227, 294, e tomo II, p. 237.

1025. Nowairi, l. c. Gli altri tacciono questo fatto importante.

1026. Hagi-Khalfa, compilatore assai moderno, è il solo che porti questa data nel Takwim-et-Tewârîkh (Cronologia), edizione di Costantinopoli, p. 60. Pur si adatta benissimo in mezzo a quel tratto di venti anni che gli annalisti lasciano sì oscuro. S'aggiunga che Ibn-el-Athîr, Abulfeda e Nowairi, i quali non scrivono la data della elezione nè della deposizione di Simsâm, pongono appunto nel 444 (1052-53) il primo passaggio dei Normanni con Ibn-Thimna, che seguì nove anni dopo (1061). Sembra dunque che le croniche lette da loro abbiano confuso la caduta dei Kelbiti con la chiamata dei Normanni. Ibn-Khaldûn s'allontana da ogni probabilità, dando Simsâm cacciato di Palermo e poi ucciso il 431 (1039-40).

1027. Cosmografia di Kazwîni, intitolata Athâr-el-Bilâd, testo arabico, p. 383. Il compilatore che visse nel XIII secolo, dice avvenuto il caso dopo il 440 (15 giugno 1048 a 3 giugno 1049). Il cronista di cui trascrive le parole ma non dà il nome, fu al certo contemporaneo, perchè visse avanti l'occupazione normanna del 1091. Forse Abu-Ali-Hasan, autore d'una storia di Sicilia, citato altrove da Kazwini.

1028. Prima da Akhal; poi dalle due parti nella guerra civile e in ultimo da Abd-Allah-ibn-Moezz. Nol dicono gli annalisti, ma non cade in dubbio.

1029. Si vegga il cap. X di questo Libro, p. 393, 394.

1030. Litteralmente significa “Il figlio del Demagogo.” La citazione è a p. 420, nota 2.

1031. Si vegga il cap. XV del presente Libro.

1032. A Siracusa, come si scorge dalle poesie d'Ibn-Hamdîs.

1033. Si vegga la nota 2, p. 421.

1034. Si vegga il capitolo IX di questo Libro, p. 373 del volume.

1035. Si vegga il Lib. III, cap. VIII e X, p. 146 seg., e 248 seg., di questo volume.

1036. È da fare eccezione per poche città marittime come Mazara, Marsala, Trapani, le quali per la vicinanza con l'Affrica e l'antichità delle colonie, sopratutto Mazara, doveano serbare ordini e tendenze politiche analoghi a que' di Palermo. Il dritto non si trascurò di certo a Mazara, dove sorse il più celebre giureconsulto del tempo.

1037. Imâd-ed-dîn, nella Kharîda, MS. di Parigi, A. F., 1375, fog. 133 recto, lo pone tra i poeti egiziani, notando pure che si dovrebbe noverar tra quei di Sicilia. Il titolo che gli dà di Sâheb-Sikillia, mi porta alla conghiettura che annunzio nel testo. Pure si potrebbe supporre dimenticata qualche parola, dopo Sâheb, per esempio, Sciorta, nel qual caso sarebbe stato prefetto di polizia in Sicilia.

1038. Lo scoliasta è Ibn-Scebbât. Gli estratti di Bekri, sono pubblicati nella mia Biblioteca Arabo-Sicula, p. 209, seg., del testo, secondo un MS. di M. Alphonse Rousseau.

1039. Quest'opera di Iakût è la principale raccolta di notizie di geografia descrittiva che ci rimanga su i paesi musulmani del medio evo. Si veggano i ragguagli che ne dà M. Reinaud, Géographie d'Aboulfeda, Introduzione, p. CXXIX, seg. Ormai ve ne ha in Europa varii MSS., si che si può sperar quanto prima una buona edizione del Mo'gem. Ritraggo la data della pubblicazione dal MS. del British Museum, 16,649. Prolegomeni, fog. 3, recto.

Gli articoli su la Sicilia e sue città e terre, che io ho dato nella detta Biblioteca, p. 105 a 126 del testo, son tratti dai due soli MSS. di Oxford e British Museum. I nomi stessi leggonsi nel Compendio del Mo'gem intitolato Merasid-el-Ittilâ', pubblicato recentemente a Leyde dal professor Juynboll; ed io li ho posti nella Biblioteca, p. 127 a 132. Iakût non conobbe forse l'opera di Edrisi, e di certo non la usò trattando della Sicilia: la sola notizia che s'accordi un po' con Edrisi, è quella di Catania, di cui diremo più innanzi. Oltre i nominati nel testo, Iakût cita in due articoli Ibn-Herawi ed Abu-Hasan-Ali-Ibn-Badîs. Infine i versi ch'ei trascrive da una satira d'Ibn-Kalakis, venuto in Sicilia al tempo di Guglielmo il Buono; gli fornirono un sol nome geografico novello, cioè Oliveri; e nessuna notizia importante: D'Ibn-Kalâkis diremo nel Libro VI.

1040. Mo'gem nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 115.

1041. Ibidem: ecco il passo di Iakût: “Ho veduto scritto di propria mano d'Ibn-Kattâ' su la coperta del Târîkh-Sikillîa (Storia di Sicilia) queste parole: Trovo in alcuna copia della Sîrat-Sikillia la nota marginale che sono in quest'isola ventitrè città ec.” La voce sirat significa “Memoria, cronica,” ma non sappiamo se qui sia nome generico o titolo speciale del libro.

1042. Dhia' che vuol dir propriamente “podere demaniale” e in generale podere, possessione rurale. Come ogni podere avea i suoi proprii coloni o agricoltori, così il nome si estendeva agli abituri pochi o molti; e però il significato può variare da Masseria o villa infino a Villaggio.

1043. Questo fatto fu generale in Europa nel medio evo. Ma in Sicilia, tra istituzioni e configurazione del suolo, dura fin oggi. All'infuori di alcune regioni dove l'agricoltura è progredita per eccezione, gli abitatori battuti e impoveriti non hanno avuto alacrità che basti a scender dalle loro vette per avvicinarsi alle terre da coltivare e alle strade.

1044. Il numero dei comuni attuali è di 352, cominciando da Palermo e terminando a San Carlo che ha men di 300 anime. Secondo Abu-Ali, nell'XI secolo si contavano almeno 340 tra città e rôcche. Spiegherò nei VI libro la osservazione che qui accenno su la diminuzione dei villaggi.

1045. Ibn-Haukal, del quale copiò tanti squarci l'autore del Mo'gem, non dicea forse d'altra città che Palermo.

1046. Il Mo'gem e il Merâsid hanno Ads”n”t che si dovrebbe leggere Otranto. Ma anzichè supporre l'errore di trasferirsi quella città in Sicilia, parmi si debba mutare la t finale in w e leggere Adsernô.

1047. Il Mo'gem, citando Abu-Ali, dice che el-B”iâw era “città” importante anzi che no, sol promontorio occidentale, nel luogo “men coltivato e men ferace dell'isola.” Senza dubbio dunque Lilibeo, al quale già gli Arabi davano l'attuale forma di Boèo mutando in articolo arabico le prime due sillabe. Occorrendo intanto il nome di Marsa-Ali (Marsala) nei fatti storici del 1040, come dicemmo nel capitolo precedente, p. 420 di questa volume, è da supporre che quella città, nella prima metà del secolo avesse già doppio nome, il nuovo di Porto d'Ali e l'antico mutato in Boèo, ovvero che coesistessero le due terre, l'una crescente, e l'altra in decadenza.

1048. Così addimandasi tuttavia il monte che sovrasta ad Alcamo, nel quale il Fazzello, Deca I, lib. VII, cap. IV, afferma che sorgea l'antica Alcamo, tramutata nel sito attuale per comando di Federigo d'Aragona il 1332. Potrebbe darsi che Alcamo fosse stata sempre dove è oggi. Edrisi (1154) la chiama menzîl ossia stazione, e Ibn-Giobair (1184) beleda ossia terra: il che prova che non era fortezza nel XII secolo. Da un'altra mano il castello sul monte si chiama tuttavia Bonifato, e nel XII secolo era lì presso un villaggio dello stesso nome, con 600 salme di territorio, come si scorge da un diploma del 1182 presso Del Giudice, Descrizione del Tempio di Morreale, appendice, p. 14. Posto ciò, non abbiam ragione di supporre che Iakût dia, come due città, due nomi diversi della stessa. Rivedendo i diplomi citati dal Fazzello e dal D'Amico nel Dizionario topografico, ricercandone altri, ed esaminando con occhio d'archeologo i ruderi di Bonifato e le vecchie mura d'Alcamo attuale, si potrà sciogliere il nodo.

1049. Nel testo è K”r”b”na. Non dubito che sia da aggiugnere un punto alla b arabica, e leggere Karîna.

1050. Nel testo si legge in due articoli Katâna e Katânîa, date entrambe come città, ed è probabile che le due notizie vengano da fonti diverse.

1051. Manca in Edrisi; e i diplomi del XII secolo non ne parlan come di città esistente. Ragione di più per supporre che Iakût abbia preso questo nome da Abu-Ali o da Ibn-Kattâ'. Si vegga il Lib. II, cap. XII, p. 468, seg., del I volume.

1052. Il Mo'gem ha Giâlisuh; e un diploma arabo e latino del 1182 per la chiesa di Morreale, ha nell'arabico Giâlisû, e nel latino (al genitivo) Jalcii: che pare trascrizione di alcun dei chierici francesi che in quel tempo venivano a mettersi in prelatura in Palermo. Il vero nome sembra l'italiano “Gelso” che ritien tuttavia quel podere. Nel secolo XII si noverava tra i villaggi, come si vede dal detto diploma. Qual maraviglia dunque che nell'XI fosse stata, come dice Iakût, “città nello interno della Sicilia?” Il sito risponde a tramontana di Corleone.

1053. Nel X secolo era cittadella o città distinta da Palermo e contigua, come si vede da Ibn-Haukal, p. 296 del presente volume. Gli Arabi d'Affrica teneano città distinte Mehdia e Zawila, Kairewân e Mansuria, poco più o poco men distanti che Palermo e la Khalesa nel X secolo. La distinzione era ragionevole, sì per la importanza delle popolazioni, e sì per l'agevolezza di mantenersi in una città, quando l'altra fosse occupata dal nemico. Iakût avverte che ai tempi suoi, al dir d'un Abu-Hasan-ibn-Bâdis, la Khalesa era quartiere dentro la città di Palermo.

1054. Messina nello stesso articolo del Mo'gem è detta prima boleida e poi medina. Quest'ultimo in un libro attribuito falsamente a Tolomeo; il primo senza citazione. Se si riferisse ai tempi in cui Messina par mezzo abbandonata? Si vegga il Lib. II, cap. X, p. 427 del volume I.

1055. Mîlâs nel Mo'gem è data come villaggio; nel Merâsid come città. Vi si legge inoltre Milâs “forte rôcca su la spiaggia” che potrebbe essere l'attuale Mili nello Stretto di Messina, o piuttosto variante d'ortografia, come Katâna e Katânîa.

1056. In oggi è nome d'una tonnara nel golfo di Castellamare. La ricorda come terra abitata un diploma del 1098 presso Pirro, Sicilia Sacra, p. 294: ed è detta villaggio in due del 1170 e 1251 che cita D'Amico, Dizionario topografico, agli articoli Cetaria e Scupellum. Cetaria, città antica secondo Tolomeo, forse detta così dalla pesca dei tonni che vi si facea come oggi. Scopello fu colonia di ghibellini lombardi rifuggiti in Sicilia, ai quali poi l'imperatore Federigo II concedette la città di Corleone.

1057. Per manifesto errore, Trapani è messa due volte con ortografia diversa, e la prima volta, con la forma Itrâbinisc è data come beleda (terra).

1058. Si noti il gran divario con la geografia di Edrisi, nella quale si dà il nome di città alle sole: Castrogiovanni, Catania, Girgenti, Marsala, Mazara, Messina, Noto, Palermo, Randazzo e Siracusa. Si vede bene che v'era passato per lo mezzo il conquisto normanno e la immigrazione italiana.

1059. Billanoba, patria del poeta siciliano Billanobi, sembra distrutta pria del conquisto normanno; non leggendosi nei tanti diplomi che abbiamo dal fine dell'XI secolo in qua. Billanobi fiorì alla metà di quel secolo, come innanzi diremo.

1060. Si vegga la nota 7 della pagina precedente.

1061. Giattîn fu patria, secondo Iakût, di un dotto musulmano. Un diploma arabo-latino del 1182 dà il nome in arabico Getîna e in latino Jatina.

1062. S”m”ntâr, patria d'un altro dotto, secondo Iakût. Samanteria era massa, ossia podere, della chiesa romana in Sicilia secondo un'epistola di San Gregorio, lib. VII, ep. 62, presso il Pirro, Sicilia Sacra, p. 32.

1063. Biblioteca Arabo-Sicula, p. 124 del testo e variante del MS. di Oxford nelle aggiunte, p. 41 della Introduzione. Iakût scrive Kerkûr, che ho corretto secondo Ibn-Khaldûn, Histoire des Berbères, versione, tomo I, p. 274. Il testo del Mo'gem, dice: “Kerkûr una delle ville di Sfax in Sicilia.” Si potrebbe intendere villaggio popolato da uomini di Sfax o meglio correggere “delle ville di Sfax ed altra in Sicilia.”

1064. Oltre a ciò nell'articolo “Sardegna” Iakût aggiugne che secondo alcuni era anche nome di città in Sicilia; nota Saklab, quartiere di Palermo; e, con manifesto errore, pone Taranto in Sicilia.

1065. Io ho raccolto con pazienza i nomi dei villaggi nel dizionario topografico del D'Amico, nel Pirro, nella Sicilia nobile del Villabianca, nei diplomi delle chiese di Palermo e Morreale, in que' della Commenda della Magione, in que' dati dal Di Gregorio in appendice agli scrittori dell'epoca aragonese, e in altri pubblicati qua e là. Mi propongo di porli in appendice alla versione della Biblioteca Arabo-Sicula.

1066. Tali per esempio Godrano (ghidrân, palude), Baida (la Bianca), Abdelali (Abd-el-Ali nome proprio), Zyet (Zeid nome proprio), Chadra e Cadara (Khadra, la verde) ec.

1067. Si vegga il Lib. III, cap. I, p. 33, seg. di questo volume.

1068. “Fonte, grotta, capo, posata, stazione, rôcca, torre.” La voce rahl entra in cento sette nomi topografici di Sicilia. La voce kala, o kala't, in venti; la voce menzîl in diciotto.

1069. Tra i nomi delle 24 città riferiti di sopra v'ha di origine arabica le sole Alcamo, Khalesa, Marsala e Sciacca.

1070. Per esempio Wadi-Musa (il fiume di Mosè) il Simeto; Dittaino (Wadi-t-tîn il fiume fangoso) il Chrysas degli antichi; Marsa-s-scegira (Porto dell'albero) la Punta di Circia presso il Pachino; Rasigelbi (Ras-el-kelb o ghelb, la Punta del Cane) presso Cefalù; Oiûn-Abbâs (le fonti d'Abbâs) le Tre Fontane presso Selinunte; Ras-el-Belât (il capo degli archi o del lastricato) il capo Granitola ec.

1071. Questa è, secondo gli ultimi dati geografici, 4025 miglia quadrate di Sicilia per le province di Palermo, Trapani, Girgenti e Caltanissetta, che rispondono a un di presso al Val di Mazara; 2220 per quelle di Catania e Noto, che rispondono quasi al Val di Noto; e 1180 per la provincia di Messina, che torna all'antico Val Demone. Il quale dopo il XIII secolo fu ingrandito a mezzodì infino a Catania ed a ponente oltre Cefalù. La proporzione dunque della superficie dei tre valli è di 0,52, 0,31 e 0,17; e i 328 luoghi arabici vi stanno alla ragione di 0,64, 0,30 e 0,06. La popolazione attuale (1853) è distribuita così:

Val di Mazara Palermo. 541,326
Girgenti. 250,795
Trapani. 202,279
Caltanissetta. 185,531
      1,179,931
Val di Noto. Catania. 411,822
Noto. 254,593
      666,415
Val Demone. Messina. 384,664
    Totale. 2,231,020

Donde la proporzione della popolazione in oggi torna a 0,52, 0,30 e 0,18.

1072. Si vegga il cap. XI, del lib. III, e i cap. III e XI di questo Libro, p. 213, seg., 258 e 398, seg., del volume.

1073. Da Ibn-Scebbât, nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 211, 212 del testo.

1074. Mo'gem, nella Biblioteca Arabo Sicula, aggiunte al testo, p. 40 della Introduzione. Quest'Ibn-Herawi, pare lo stesso che Ali-ibn-Abi-Bekr da Mosûl detto Herawi come oriundo di Herat: il quale fu in Sicilia dopo il 1175. Iakût dà come dubbia questa tradizione dei sepolcri dei Tabi', ossia Musulmani della generazione dopo Maometto.

1075. Da Iakût, Mo'gem e Merâzid, nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 123 e 131. La notizia precedente è data con la lezione di Katânîa e la presente di Katâna, delle quali d'altronde il compilatore riconosce l'identità. Ei non dice da chi abbia cavato questa seconda notizia; non copiata al certo da Edrisi. Questo autore nota il doppio nome di Città dell'Elefante, che venia dal simulacro di pietra “messo anticamente in un eccelso edifizio, e adesso trasportato dentro la città nella chiesa dei Monaci” (benedettini). Edrisi in vece delle chiese lastricate di marmo, dice delle giami' e moschee, del fiume intermittente (l'Amenano), del porto frequentato, e di altri particolari ignoti a Iakût. Su l'elefante di lava si vegga il Lib. I, cap. IX, p. 219 del 1 volume.

1076. Mo'gem e Merâsid, nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 111, e 128 del testo.

1077. Mo'gem, op. cit., p. 116, 123 e 130. Qui Iakût non cita Abu-Ali, ma par che tolga le notizie da lui. Aggiugne che la giusta ortografia fosse Kasr-ianih e che il secondo fosse nome rûmi (latino o greco) d'un uomo. Già era avvenuta la trasformazione di cui dissi Lib. II, pag. 280 del 1º vol.

1078. Si vegga Reinaud, Géographie d'Aboulfeda, Introduzione, p. CXXXII.

1079. Mo'gem nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 112, 117, e 126 del testo. Le longitudini, sembrano prese dalla “cupola d'Arîn” al modo di alcuni antichi geografi arabi, su la quale si confrontino Reinaud, op. cit., p. CXL, seg.; e Sédillot, Mémoire sur les systèmes géographiques des Grecs et des Arabes, Paris 1842, in 4º.

Il falso Tolomeo dà a Palermo 40° di longitudine e 35° di latitudine, oroscopo la Vergine e casa di regno a dieci gradi dell'Ariete ec.; a Messina, 39° longitudine, 38° 40′ latitudine, oroscopo il Sagittario, casa della vita a 9° 27′ di quel segno; a Siracusa, 39° 18′ longitudine, 39° latitudine, oroscopo la Zampa del Lione, casa della vita a 13° del Cancro, casa del regno ad altrettanti dell'Ariete ec.

Gli errori degli Arabi su la posizione geografica di Palermo giunsero fino ai tempi d'Abulfeda, come si vede nella costui Géographie, versione di M. Reinaud, tomo II, p. 273, seg., dove la longitudine è notata 35° dall'isola del Ferro; e la latitudine, 36° 10′ ovvero 36° 30′. Nondimeno Abu-Hasan-Ali, astronomo di Marocco, segnava più correttamente latitudine 37° 30′, e più scorrettamente longitudine 45° 20′; presso Sédillot, Instruments astronomique des Arabes tomo II, p. 204.

Per comprendere od po' il gergo del Kitâb-el-Melhema, dirò, a chi non sta saputo in astrologia, che la posizione si determinava su i segni del zodiaco. Quello che spunta all'orizzonte in faccia al luogo n'è l'oroscopo principale, il tâli' come dicono gli Arabi. Le “case” della vita del regno e degli altri destini, rispondono ai punti dell'ecclittica divisa in dodici parti uguali facendo capo dal tâli', in un MS. d'astrologia intitolato Kitab-en-Nogiûm, Biblioteca di Parigi, Ancien Fonds, 1146, fog. 13 recto, la casa della vita è appunto all'oroscopo, e quella del regno al quarto scompartimento a sinistra; il che non risponde al sistema del falso Tolomeo. Anche le denominazioni son alquanto diverse; e il campo al sistemi era libero in vero agli astrologi.

1080. Trecento miglia.

1081. Marûg-ed-Dseheb e Tenbîh nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 1, 2. Masudi alle altre favole aggiugne che perì nell'Etna Porfirio, autor dell'Isagoge.

1082. Il testo ha Arzen che i dizionarii arabi definiscono vagamente albero di legno durissimo da far bastoni, ma è precisamente il cedro. Non si noverano tra gli altri alberi le querce.

1083. Questo personaggio par favoloso. Edrisi chiama Tûr il monte di Taormina, santuario famoso; e questo ricorda la falsa etimologia di πόλεν Ταύρου καὶ μενύας, su la quale facea sì gravoso scherzo l'arcivescovo Teofane Ceramèo.

1084. Kazwini, trascrivendo questo passo come nel Mo'gem, aggiugne la voce “sulfurei,” ch'è giudizio forse suo proprio e non d'Abu-Ali.

1085. È il plurale di khebeth, scoria. Questa voce, non è rimasa nel dialetto siciliano, nel quale la lava impietrata si chiama “sciara:” e parmi bella e buona la voce arabica scia'râ che significa propriamente “irsuta” e in sostantivo “luogo coperto di piante” e “bosco”.

1086. Presso il Mo'gem, p. 118, 119 della Biblioteca Arabo-Sicula, testo arabo. Il medesimo passo di Abu-Ali è trascritto da Kazwini, nell'Agiâib-el-Mekhlûkât, p. 166; e nello Athâr-el-Bilâd, p. 143, seg., dei testi pubblicati dal Wüstenfeld.

1087. Iakût e Kazwini pongono questo fatto in fin della citazione d'Abu-Ali, dopo le parole “e dicesi esser quivi (nell'Etna) miniere d'oro; ond'è che i Rûm lo chiamavano il monte dell'oro.” Quel “dicesi” potrebbe interrompere la citazione; il che gli Arabi dinotano ordinariamente con la voce “finisce” ma spesso la dimenticano.

1088. Vita di San Filareto presso il Gaetani, Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 113, e presso i Bollandisti, tomo I, di aprile, pag. 607.

1089. Presso Ibn-Scebbât, nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 210.

1090. Mo'gem, op. cit., p. 116. L'autore non cita in questo luogo. Si vegga anche Kazwini, 'Agiâib, p. 166, seg., e nell'Athâr, p. 143, seg.

1091. Abu-Hâmid si trovò in quell'anno a Bagdad. Si vegga Reinaud, Géographie d'Aboulfeda, introduzione, p. CXII.

1092. Tohfet-el-Albâb di Gharnati, nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 74, 75. Il passo del Corano a che allude l'autore è nel verso 22 della sura II.

1093. Kitâb-el-Asciârât di Herawi, ibid., e se ne vegga la versione inglese del professor Samuele Lee, in appendice allo Ibn-Batuta's Travels, Londra, 1829, in 4º, p. 6. Herawi venne in Sicilia dopo il 1173, e morì ad Aleppo il 1215. Si vegga Reinaud, Géographie d'Aboulfeda, Introduzione, p. CXXVII, seg.

1094. Si vegga in questo periodo la Storia critica delle eruzioni dell'Etna del canonico Giuseppe Alessi.

1095. Tenbîh, nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 2.

1096. Il nome è guasto in tutti i MSS. La buona lezione mi sembra iascf (in francese yachf) variante di iascb che adopera Masûdi. Come ognun vede, l'una e l'altra è il latino jaspis, d'origine semitica, del quale i Francesi han fatto jaspe. Gli Arabi rendono indistintamente con una f o una b la p che manca in loro alfabeto. Ognun sa la copia, mole e qualità dei diaspri e soprattutto delle agate di Sicilia. Gli antichi favoleggiavano su le proprietà mediche dell'agata, più o meno, come Masûdi.

1097. Mo'gem nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 118.

1098. Si vegga a p. 439.

1099. Notices et Extraits des MSS., tomo XII, p. 463.

1100. Mo'gem, op. cit., p. 116, 118. L'etimologia sembra piuttosto confusa col Πλοῦτος che ai tempi dei Pagani, come ai nostri, era il Dio dell'oro e dell'inferno.

1101. Mo'gem, op. cit., p. 116 e 118. Si ricordi anche la miniera di ferro presso Palermo, di cui Ibn-Haukal.

1102. Presso Gaetani, Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 113, e presso i Bollandisti, tomo I, di aprile, p. 607.

1103. Mo'gem, op. cit., p. 118.

1104. Ibn-Hamdîs in una poesia che ho pubblicato nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 565, dice de' fuochi lanciati dall'armatetta siracusana in una impresa contro i Cristiani.

1105. Iakut non ne fa parola, nè Edrisi. Il primo che li accenni è Ibn-Scebbât, Biblioteca Arabo Sicula, testo, p. 210, negli estratti non già di Bekri, ma del continuatore per nome Ibn-Ghalanda.

1106. Mo'gem, op. cit., p. 115.

1107. I fiumi di Lentini, Ragusa e Mazara.

1108. I diplomi dell'XI e XII secolo dicono di foreste e boschi or distrutti, come la foresta del monte Linario presso Messina, il bosco Adrano tra Prizzi e Bivona ec. L'Etna perde molto dei suoi da un secolo in qua. Il Monte Pellegrino di Palermo fu terreno boschivo fino al XV secolo. Edrisi dice della Benît (Pineta) a ponente di Buccheri ec.

1109. Mo'gem, op. cit., p. 111.

1110. Vita di San Filareto, l. c.

1111. Squarcio dato da Ibn-Scebbât, Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 210.

1112. Mo'gem, op. cit., p. 116.

1113. Si vegga il cap. V di questo Libro, p. 295 del volume, e un altro squarcio d'Ibn-Haukal trascritto nel Mo'gem, op. cit., p. 119, ove leggiamo “La più parte del terreno di Sicilia è da seminato.”

1114. Mo'gem, op. cit., p. 116. Il testo dice: “e la terra di Sicilia produce lo zafferano.” Tutto questo squarcio par si debba attribuire ad Abu-Ali.

1115. Mo'gem, op. cit., p. 110.

1116. Ibn-Haukal dice del cotone coltivato a Cartagine ed a Msila. Descrizione dell'Affrica, versione di M. De Slane, nel Journal Asiatique, serie III, tomo XIII.

1117. Si vegga sopra, cap. V del presente Libro, p. 299 a 307.

1118. Si vegga il Lib. I, cap. IX, p. 206 del volume I, nota 2; e il Lib. II, cap. X, p. 415 dello stesso volume. Per l'XI secolo l'attesta Bekri; pel XII i diplomi.

1119. Le poesie arabiche a lode del re Ruggiero, delle quali si tratterà a suo luogo, descrivono le piantagioni di agrumi nella villa regia di Favara o Maredolce presso Palermo. Un diploma del 1094 presso Pirro, Sicilia Sacra, p. 770, dice di una Via de Arangeriis presso Patti.

Da un'altra mano si sa che varie sorta di melarance vennero dall'India in Siria ed Egitto dopo il principio del quarto secolo dell'egira e decimo dell'era cristiana. Veggasi una nota di M. de Sacy all'Abdallatif, Relation de l'Egypte, p. 117. Probabilmente la Sicilia, la Spagna, e con esse gli altri paesi in sul bacino occidentale del Mediterraneo ebbero gli aranci e i cedri in questo medesimo tempo dalla Siria e dall'Egitto.

1120. La canna da zucchero, secondo Ibn-Haukal, e però nel X secolo, si coltivava in Affrica (versione di M. De Slane, nel Journal Asiatique, III serie, tomo XIII); secondo Ibn-Awwâm, e però nell'XI, era notissima in Spagna; un diploma del 1176, parla di un molino da cannamele in Palermo; e però non è dubbio che cotesta industria risalisse in Sicilia all'XI o anche al X secolo.

1121. La piantagione di datteri a San Giovanni dei Leprosi fuori Palermo, posta accanto a un oliveto, è ricordata in un diploma del 1249 presso Mongitore, Sacræ domus Mansionis... Monumenta, cap. IV. Fu tagliata nel XIV secolo dall'esercito angioino che assediò Palermo.

1122. Edrisi dà il nome di Nahr-Tût “fiume Gelso” al fiume detto oggi Arena a mezzogiorno di Mazara, e dice dell'abbondanza della seta prodotta a San Marco in Val Demone.

1123. Si scorge da due diplomi del 1284, e dalla Cronica di D'Esclot, cap. CX, dei quali ho fatto cenno nella Guerra del Vespro Siciliano, edizione di Firenze, 1851, cap. X, p. 209.

1124. Mo'gem, nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 116.

1125. Vita di San Filareto, presso Gaetani, Sanctorum Siculorum, tomo li, p. 113, e presso i Bollandisti, tomo I, di aprile, p. 607.

1126. Mo'gem, l. c.

1127. Vita di San Filareto, l. c. La versione latina del Padre Fiorito ha: ad vehicula trahenda aptissimi; ma mancando il testo greco, non siam certi se si tratti di carri o di lettighe.

1128. Mo'gem, l. c.

1129. Mo'gem e Vita di San Filareto, ll. cc. Si ricordin anco i grandi armenti dell'emiro Iûsuf, cap. VIII del presente Libro, p. 354 del volume.

1130. Vita di San Filareto, l. c.

1131. Mo'gem e Vita di San Filareto, ll. cc.

1132. Vita di San Filareto, l. c.

1133. Mo'gem, op. cit., p. 116 a 118. In Sicilia le vipere e gli scorpioni sono assai più rari e men letali che in Affrica, Egitto ed Oriente.

1134. Libro de Agricultura, su autor.... ebn el Awam Sevillano, versione spagnuola di Banqueri, col testo arabico, Madrid, 1802, in folio, tomo II, p. 193 e 231. Si tratta d'una specie di popone, detta in arabico Nefâq, credo quel che in Sicilia si dicono meloni da tavola, ovvero i meloni d'inverno.

1135. “Nuara” (in arabico nowâr, secondo Ibn-'Awwâm, tomo II, p. 213) si addimanda l'aja di poponi, zucche, cocomeri; “vaitali” (ar. batîl) il rigagnolo dei giardini: “gebbia” (ar. giâbia), un gran serbatoio d'acqua per irrigare gli orti ec.

1136. La malvetta rosata, come la chiamiamo in Sicilia, è il Pelargonium radula roseum dei botanici.

1137. Ibn-'Awwâm, op. cit., tomo II, p. 296.

1138. Ibn-'Awwâm, op. cit., tomo II, p. 418.

1139. Ibn-'Awwâm, op. cit., tomo II, p. 104.

1140. Kitab-el-Felaha, d'Aba-abd-Allah-Mohammed-ibn-Hosein, citato da M. Cherbonneau in una Memoria su la Culture arabe au moyen-âge negli Annales de la Colonisation algérienne, giugno 1854.

1141. Diploma del 1140, pel quale si concedono alla Chiesa di Catania “duas terras ad bombacea” presso De Grossis, Decacordum, tomo I, p. 77. Edrisi nota che il cotone si coltivava in gran copia a Partinico.

1142. Ibn-Sa'id, Kitâb-el-Badi, nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 137, e Mokhtaser Gighrafia, op. cit., p. 134, con la correzione a p. 43 dell'introduzione, ove si tratta di Pantellaria.

1143. Fazzello, Deca I, lib. I, cap. 1.

1144. Abu-Mehasin, Storia d'Egitto, MS. di Parigi, Ancien Fonds, 660, fog. 103 recto, facendo parola di Rascida e Abda figliuole di Moezz, nate innanzi il 972 e morte sotto il regno di Hâkem (996-1021), dice aver la prima lasciato il valsente d'1,700,000 di dinâr, in drappi di varie sorte e profumi, e la seconda un moggio di smeraldi, tanti quintali d'argento ec., e trentamila scikke (o sciukke) siciliane. Questa voce significa taglio d'abito, nè sappiam se sia nome generico ovvero appellazione speciale di questo drappo. Se in quelle cifre si sente l'odor delle mille e una notte, il cronista ch'ebbe alle mani Abu-Mehasin, non inventò quella maniera di drappo. D'altronde abbiam fatto cenno del gran lusso degli Zirîti in Affrica: e le ricchezze dei despoti son talvolta di quelle verità verissime che han sembiante di favola.

1145. Si vegga il cap. XI del Lib. III, p. 230 di questo volume.

1146. Si chiama volgarmente Calatrasi. Tirazi vuol dire artefice del tirâz, ossia opificio regio delle vesti di seta ricamata. Si vegga su questo indizio di Kalat-et-Tirazi una nota nell'erudita opera di M. Francisque-Michel, Récherches sur les étoffes de soie au moyen âge, Paris, 1852, in 4º, tomo I, p. 77, al quale io ho dato questa notizia e in cambio ne toglierò cento, spigolate nelle antiche poesie francesi, che serviranno a illustrare questa industria siciliana nel XII e XIII secolo.

1147. Si vegga la p. 443.

1148. Bekri, Notices et Extraits des MSS., tomo XII, p. 463.

1149. Op. cit., p. 480, 488.

1150. Si vegga il cap. II di questo Libro, p. 247, seg.

1151. Ho dato il testo di quel paragrafo nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 10.

1152. Edrisi, Géographie, versione di M. Jaubert, tomo II, pag. 266 e 69. In quest'ultimo luogo M. Jaubert non so perchè abbia preferito la variante Fîlâna.

1153. Keitûn nel dialetto, arabico di Siria ed Egitto, vuol dire, ripostiglio o magazzino. Viene dal greco Κοιτὼν che, dal significato primitivo di letto, passò a quelli di camera, albergo, e, presso i Greci del medio evo, guardaroba e stazione di navi: i quali si veggano nella nuova edizione del Thesaurus di Enrico Etienne.

1154. Si vegga il fine del presente capitolo.

1155. Presso Gaetani, Sanctorum Siculorum, tomo II, p. 113, e presso i Bollandisti, tomo I, d'aprile, p, 607.

1156. Presso Pirro, Sicilia Sacra, p. 842.

1157. Io pubblicai questa iscrizione nella Revue Archéologique di Parigi, del 1851, p. 669, seg. Alcuni eruditi palermitani vorrebbero mantenere alla Cuba un altro secolo o due d'antichità, supponendo l'iscrizione più moderna dell'edifizio. Ma non riflettono che la non è incisa in lapide, ma proprio scolpita in giro delle mura, senza vestigie di racconciamenti.

1158. Girault de Prangey, Essai sur l'architecture arabe, Paris 1841, tavola XIII, nº 3, 4.

1159. In una colonna della cattedrale di Palermo, presso il Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 137.

1160. In due iscrizioni sepolcrali presso Di Gregorio, op. cit., p. 146, 152.

1161. V'ha l'eccezione delle effigie d'uomini e animali in qualche monumento, come i lioni dell'Alhambra ec. Ma in Sicilia non se ne vede alcun esempio. I mosaici d'animali nella sala della Zisa in Palermo, appartengono ai tempi normanni.

1162. Si vegga il cap. V di questo Libro, p. 302, seg., del volume.

1163. Si vegga il cap. IV di questo Libro, p. 274.

1164. Il Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 188, ne diè un disegno preso ad occhio, come si usava al suo tempo, e ridotto, nel quale ei confessò non poter leggere che qualche sillaba; ed io stento anche a questo. Si vegga, del resto, la nota della pagina precedente. Il disegno di poche lettere che veggiamo nell'opera citata di Girault de Prangey, Essai ec., mostra la bellezza dei caratteri e la trascuranza di chi li avea ritratti prima. L'amico Saverio Cavallari che mi ragguagliò qualche anno addietro della distruzione dei caratteri, n'avea fatto altra volta un disegno che fin qui non ci è riuscito di trovare.

1165. Si ricordi che il miglior disegno è quel pubblicato dal Fazzello.

1166. Il conte Annibale Maffei vicerè di Sicilia li tolse di Palermo e recò a Verona. Scipione Maffei pubblicò le iscrizioni nel Museo Veronese, p. 187, e indi il Di Gregorio nel Rerum Arabicarum, p. 146 a 149. Alla interpretazione attesero G. S. Assemani e il Tychsen. Son le solite formole e brani del Corano, coi nomi proprii; l'uno dei quali mi par vada letto Ibrahim-ibn-Khelef-Dibâgi (in vece di Ibrahimi filii Holaf Aldinagi), morto il 464 (1072); e l'altro è Abd-el-Hamîd-ibn-Abd-er-Rahman-ibn-Scio'aïb, morto il 470 (1078). Secondo il Lobb-el-Lobâb di Soiuti, l'appellazione Dibagi, vuol dire “operaio di seterie,” ed era anche nome patronimico nella discendenza del califo Othoman-ibn-'Affân.

1167. Presso Di Gregorio, op. cit., p. 144 e 152, il quale tolse l'interpretazione da quelle pubblicate dall'abate De Longuerue e da Adriano Reland. La prima dà il nome dello sceikh e giurista sagacissimo Ahmed-ibn-Sa'd-ibn-Mâlek-(ibn-Abd?)el-'Azîz bisognoso (dell'aiuto) del Signore (non Gubernatoris jurisperiti sapientis Ahmedis filii Saad ben el Malak potentissimi qui pauperis instar est erga dominum suum), morto il 413, (1023); e la seconda di Mohammed-ibn-Abi-Se'âda (non filii ebn Saadh) morto il 444 (1052 non 471, ossia 1079). Le quali iscrizioni non ben disegnate nè ben trascritte in caratteri arabici, e però male interpretate, o furon tolte di Sicilia o Reggio, o provano il soggiorno e morte nei dintorni di Napoli di due Musulmani di Sicilia, Affrica o Spagna, che vi fossero andati, il primo forse per faccende pubbliche o rifuggito, e il secondo per mercatura.

1168. Presso di Gregorio, p. 164, 165, 166. I due primi non si possono interpretare senza più esatti disegni. Nell'ultimo, il secondo rigo, mal deciferato dal Di Gregorio, nè ben corretto da Fraehn, Antiquités Mohammed., tomo I, p. 15, va letto: (Iddio vivente) “stante” e poi la sentenza del Corano, sura XXXII, v. 21, (voi avete) “nell'inviato di Dio, un bel conforto. Questo è il sepolcro d'Abu-Bekr...”

1169. Presso Di Gregorio, p. 171, il quale sbagliò tutto, fuorchè una formola e la data. Va letta così: ... (Benedica) Iddio al profeta Maometto e sua schiatta..... (Chi spende il proprio avere in servigio) di Dio, fa come l'acino di frumento, dal quale germoglian sette spighe....... (Iddio prospera) cui vuole: immenso egli è e sapiente [sura II, verso 263]........ (sepolcro di)...... ibn-Hosein, Rebe'i (?), Fâresi.... morto.... l'anno 417 (1026).

1170. Presso il Di Gregorio, p. 141. La leggenda mal trascritta dal Di Gregorio è “Nè (spero) aiuto che in Dio,” sentenza tolta dal Corano, sura XI, verso 90.

1171. Pubblicata da Lanci, Trattato delle simboliche rappresentanze, tomo II, p. 25.

1172. Un lucido di questa iscrizione ch'era messa da architrave in una finestra, mi fu mandato il 1853 dai signori Agostino Gallo e Saverio Cavallari. Sendo inedita, mi par bene darne la versione: “In nome del Dio clemente e misericordioso; che Iddio benedica al profeta Mohammed e sua schiatta. “Ogni anima assaggerà la morte, nè avrete vostro guiderdone che il dì della Risurrezione. Chi sarà campato dal fuoco e introdotto nel Paradiso, sarà allor felice: perchè la vita di quaggiù non è altro che roba d'inganno.” [Sura III, v. 182.] Questo è il sepolcro di Oma-er-Rahman (cioè la serva di Dio) figliuola di Mohammed, figlio di Fâs; la quale morì il primo.....”

1173. Presso Di Gregorio, op. cit., p. 138 e 140.

1174. Op. cit., p. 141. Il Di Gregorio lesse male l'ultima frase, nè credo ben l'abbia corretta il Lanci, Trattato delle simboliche rappresentanze ec. Parigi, 1845, tomo II, p. 24, tavola XV. Parmi si debba leggere thikati Allah, “La mia fidanza (è) Dio.”

1175. Presso Di Gregorio, op. cit., p. 131. Non si può deciferare sul rame che ne pubblicò il Di Gregorio con la interpretazione di Tychsen. Ma di certo non v'ha una sillaba del verso 55 (si corregga 52) della sura VII, che credette leggervi il professore di Rostock.

1176. Mi fu mandata a Parigi il 1844 dal principe di Granatelli. Il lato leggibile è a dritta di cui guardi. Nei due primi righi son le formole; nel terzo, un frammento della sura XXXVIII, verso 67; nel quarto “.... sepolcro del cadi Kkidhr...;” il quinto e sesto non si scorgono bene; nel settimo “.... di Dio sopra di lui (morto) il venerdì cinque...;” nell'ultimo: “quattro e novanta e....” mancando il secolo che sarebbe il quarto o quinto della egira (1003, o 1100). A destra e sinistra corrono due righi perpendicolari a mo' di cornice, che non ho potuto leggere.

1177. Presso il Di Gregorio, op. cit., p. 154. La lezione e interpretazione di Tychsen, date dal Di Gregorio, difettano in molte parti, e sbagliano la data ch'è pur chiarissima. Ecco come leggo questa iscrizione, mettendo tra parentesi le parole da supplirsi, e indicando con punti le altre che mancano: “(In nome di Dio) clemente e misericordioso, (e benedica Iddio ec.) (Dì loro: Grave annunzio; e voi ne ri-)fuggite [sura XXXVIII, verso 67, 68]. Questo è il sepolcro dello sceikh........ il Kâid egregio Abu-Hasan-Ali figliuolo del....... il giusto, e benedetto il trapassato Abu-Fadhl........ (figlio del).... e benedetto il trapassato Abd-Allah, figlio di Moha(mmed).... (figlio del).... e benedetto il trapassato Ali, figlio di Tâher.... (che sia benigno) Iddio a lui. Il quale morì la notte del giovedì, cinque del mese........ (e fu sepolto?) il venerdì, l'anno trecento cinquantanove (969-70)... (morì attestando non esservi altro Dio) che Allah ed essere Maometto l'inviato di Dio.” L'errore che notai nel testo è di porre il nominativo Abu in luogo del genitivo abi nei due luoghi dove occorre.

1178. Si ricordi l'avvertenza fatta nella Introduzione, p. XVI e XXIV.

1179. Si vegga il Lib. I, cap. III, V e VI, ed il Lib. III, cap. I, p. 283, 284, 296, 297, 321 del volume I, p. 5, 6 di questo volume, e s'aggiungano le seguenti:

Oro, anno 268, (881-2) di grammi 1,05 nel Museo di Parigi. In fin della leggenda del rovescio parmi leggere la voce robâ'i. Si confronti con quella simile pubblicata da Castiglioni e notata da Mortillaro, Opere, tomo III, p. 352, nº IX.

Oro, anno 295, (907-8) di grammi 4,25 nel Museo di Parigi col nome del parricida Abu-Modhar-Ziadet-Allah.

In queste monete non si legge il nome di Sicilia, ma i dotti le credono siciliane dall'opera. Le altre monete aghlabite di Sicilia notansi dal Mortillaro, Opere, tomo III, p. 343, seg., nº I a XII.

1180. Si vegga il catalogo nelle opere di Mortillaro, tomo III, p. 357, seg., dal nº XIII all'LXXXIX. Quivi l'ultima con data dell'anno e del paese è del 439, (1047-8).

A queste 77 monete sono da aggiugnere le seguenti:

Oro, anno 343 (954-5) di grammi 1,05 nel Museo di Parigi.
id. 344 (955-6) 1,05 ibid.
id.       1,05 ibid. senza data, col nome del califo Moezz.
id.       1,05
id.       1,05
id. 396 (1005-6) indicata come quarto di dinâr da M. Soret, Lettre à S. E. etc. de Fraehn, Saint-Pétersbourg, 1851, p. 50 nº 121.
id. 414 (1023-4,
ovv. 424)
1,00 nel Museo di Parigi.
id. 421 (1030) 1,00 ibid.
id. 422 (1031) 1,00
id. 423 (1031-2) 1,00
id. Altre otto senza nome nè data 1,00 ibid.
id. 422   indicata come triens da M. Soret, p. 50, nº 122.
id. 437 (1045-6) id. p. 51, nº 124.
id. 445 (1053-4) id. p. 51, nº 125.

1181. Il Mortillaro, vol. cit., p. 176, seg., 339, 340, citando il Tychsen ed altri, ha sostenuto quest'uso dei vetri improntati; e mi par s'apponga al vero. Ei nota, anche a ragione, la mancanza assoluta di monete arabiche di rame battute in Sicilia; alla quale non credo si possa opporre la moneta pubblicata dal principe di San Giorgio Spinelli, Monete cufiche dei principi longobardi ec., p. 31, nº CXXX. Prima, perchè non v'ha data di anno nè di luogo; e secondo, per essere molto dubbia la leggenda Emir-el-Mumenîn che l'autore credè scoprirvi. Resta a trovare il paese e l'età in che fu coniata questa e altre monete di rame, certamente musulmane, che il principe di San Giorgio dà nella tavola IV.

1182. Nei varii MSS. questa voce è scritta senza mozioni. È da leggere o la prima vocale, come in aggettivo numerale distributivo che nel nostro caso significa “di quei che vanno a quattro” (in un dinâr) proprio il latino quaterni. Ho fatto già parola di questa sorta di moneta siciliana, nel cap. VII del presente libro, p. 334 del volume. Le autorità sono, in ordine cronologico: 1º Ibn-Haukal, Geografia, nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 11, secolo X; 2º Ibn-Khallikân nel luogo che cito al cap. VIII, p. 334, il qual autore trascrive le parole d'Ibn-Rescik, che visse nell'XI secolo, ma riferiva un fatto del X; 3º Ibn-Giobair, stessa citazione, XII secolo; 4º diploma arabico di Sicilia del 1190 presso Di Gregorio, De supputandis apud arabes temporibus, p. 40, 42.

Una trentina di dinâr d'oro, tra omeiadi e abbassidi, che ho pesati nel Museo di Parigi, sono per lo più di 4 grammi traboccanti. Dieci dinâr fatemiti d'Egitto mi han dato lo stesso risultamento: il migliore arriva a grammi 4,35, e il più scadente a grammi 3,45.

1183. Ne diremo più distesamente nel sesto Libro.

1184. Il singolare nei detti diplomi è tare.

1185. Regii Neapolitani Archivii Monumenta, Napoli, 1845, seg., in 4º. Il tari vi occorre per la prima volta in un diploma di Gaeta del 909, tomo I, parte I, p. 9, dove si vegga l'erudita nota degli editori. Poi negli atti privati stipolati a Napoli infino al mille, i prezzi son pagati per lo più in tari d'oro. Nel documento CCXL, anno 996, dato di Napoli, tomo II, p. 143, si legge “auri solidos XIII de tari ana quadtuor tari per unoquoque solidos,” la quale proporzione è replicata, con più o meno errori di grammatica, nei documenti CCXXXIII, anno 993, p. 129, e CCLV, anno 977, seg., 178. Si vegga anche il diploma del 1076 dell'Archivio della Cava, citato da M. Huillard-Breholles, nelle Recherches sur les Monuments et l'histoire des Normands etc. dans l'Italie Méridionale, publiées par les soins de M. le duc de Luynes, p. 166, dove si fa menzione di soldi d'oro, ciascun dei quali tornava a quattro tari di moneta d'Amalfi.

1186. Monete cufiche battute dai principi longobardi ec. interpretate.... dal principe di San Giorgio Domenico Spinelli. Nella prefazione dell'erudito signor Michele Tafuri, p. XXII, seg., si accenna la lega inferiore a quella di Sicilia; e in una nota, p. 227, la differenza dei caratteri. Le monete di cui trattiamo son le prime trenta della raccolta. Il peso varia da 18 a 23 acini di Napoli, cioè da 0,80 ad un grammo. Debbo aggiugnere che, accettando le conchiusioni generali dei dotti editori, non son d'accordo in tutti i particolari. Per esempio, varie leggende non mi sembrano ben trascritte; non tengo punto provata la cronologia che distribuisce coteste monete ai principi di Salerno; nè che tutte sieno state coniate in Salerno. Ve n'ha forse d'Amalfi; e forse è di Napoli il nº XXVII.

1187. Il dal arabico è suono partecipante della d e della t; e trascrivendolo in latino o greco, si rendea sempre con la t: per esempio da dâr-es-sen'a, “tarsianatus,” donde noi abbiam fatto “arzana' e arsenale.”

1188. Il dirhem, peso, parte aliquota dell'ukîa (uncia) e differente secondo i paesi, si adoperava esclusivamente per l'argento. Dal peso in argento nacque la denominazione di moneta ch'era usata fin dai tempi di Maometto; e rimase sola moneta nisâb, ossia legale, in che si ragionava la decima, il prezzo del sangue ec. Il dirhem, moneta effettiva, fu poi diverso.

Or il robâ'i tornava a tre dirhem nisâb, poichè il dinâr si ragionò dodici. Naturalmente gli Arabi di Sicilia, nel commercio, chiamavan quella moneta d'oro “un tre dirhem,” e nell'uso bastava dire trâhîm al plurale. Il vocabolo tari, introdotto in tal modo presso gl'Italiani di Napoli e poi presso i Normanni e Italiani di Sicilia, restò denominazione di moneta d'oro; mentre da un'altra mano i Normanni di Sicilia, usando il sistema degli Arabi, ebbero il dirhem moneta ed anche il dirhem, o tari, peso di argento. Indi la voce tari-peso o trappeso. Spariti con la dinastia normanna i tari d'oro, la voce tari restò come denominazione di peso e moneta d'argento. Gli eruditi del secolo passato arrivarono, dopo molti errori e ricerche, a distinguere i tari dei diplomi antichi da quei che aveano alle mani e che valeano quasi la quarta parte dei primi, cui chiamarono per questo tari d'oro. Il dotto Conte Castiglioni sbagliò, come parmi, negando cosiffatta etimologia della voce tari.

1189. Tarîkh-el-Hokemâ. Ho accennato nel Libro III, cap. V, p. 100 del volume, l'articolo sopra Empedocle. Il testo di tutti gli estratti di Zuzeni è ormai pubblicato nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 613, seg. Nella biografia d'Archimede, si riferisce al gran Siracusano il disegno delle dighe e ponti che dettero abilità a coltivare gran tratto della valle del Nilo nelle inondazioni di che fecero cenno gli antichi (veggasi Harles, Bibliotheca Græca, tomo IV, p. 172); e gli si attribuiscono molte opere genuine o spurie, e tra le seconde, credo io, un “Discorso su gli orologi ad acqua con soneria” che Casiri erroneamente suppone significare il bindolo, (Bibliotheca Arabico-Hispana, tomo I, p. 383.) Di Corace si dà il noto aneddoto col discepolo non trascrivendo il nome, ma traducendolo Ghorâb (Corbo, Κόραξ), e aggiugnendo che egli fu greco dell'Isola di Sicilia. Archimede ed Empedocle si dicono greci senz'altro.

1190. Kitâb-el-Mewâ'iz, ediz. di Bulâk, tomo I, p, 127, e nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 669. Una versione di questo squarcio, per M. Caussin de Perceval si legge nelle Notices et Extraits des MSS., tomo VIII, p. 33, segg.

1191. Estratto della Dorra-Khalíra (Perla Egregia ec.) d'Ibn-Kattâ', inserito nella Kharîda d'Imâd-ed-dîn, Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 596. I versi leggonsi nel MSS. della Kharîda, di Parigi, Ancien Fonds, 1375, fog. 43 verso, e del British-Museum, Rich. 7593, fog. 35 recto. Ecco i tre dell'elegia ch'io cito, scritta non sappiamo per quale personaggio.

“Alla morte (appartien) ciò che nasce, non alla vita: l'uomo non è che ostaggio di essa.

Diresti gli anni suoi (foglio) di cui si spieghi un lembo, finchè sopravvien la morte e sel ravvolge.

Chi impreca al tempo non l'intacca, no; ma quand'esso scocca (suo strale) non fallisce mai il colpo.”

1192. Ovvero Kerni. L'uno e l'altro è nome di tribù; e il secondo anche etnico, da un villaggio presso Bagdad.

1193. Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 395.

1194. Mo'gem, nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 149. Questo passo serbatoci da Iakût, manca, come tanti altri, nei MSS. d'Ibn-Haukal che abbiamo in Europa. La carta di Istakhri lo conferma pienamente.

1195. Si vegga la tavola delle longitudini e latitudini pubblicata da Lelewel nell'Atlante della Géographie du moyen-âge, Bruxelles, 1850. Ibn-Iûnis, nella lista delle posizioni geografiche (p. 4) segna le seguenti:

Sicilia (forse a Palermo) long. 39° lat. 39°
Tunis   29°   33°
Kairewân   31°   31° 40′
Tripoli d'Affrica   40° 40′   33°

1196. Mo'gem, nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 115 del testo dove si dà allo Stretto il nome di Faro.

1197. Op. cit., p. 114.

1198. Ibn-Haukal, op. cit., p. 119, il qual passo si trova soltanto nel Mo'gem. Ibn-Haukal non conoscea forse le carte greche rifatte dagli Arabi dopo Mamûn, poichè l'opera geografica ch'egli aumentò e corresse con le proprie osservazioni era quella d'Istakhri; della quale abbiamo il MS. pubblicato in fac-simile dal Dottor Moëller col titolo di Liber Climatum, Gothæ, 1839, in 4º. Quivi, a p. 39, si trova il disegno più primitivo che si possa immaginare del Mediterraneo: lo spaccato di un orciolo, nel quale il collo affigura lo stretto di Gibilterra e la pancia è piena di tre palle che rappresentano la Sicilia, Creta e Cipro. Il circolo della Sicilia s'avvicina alla curva che significa la costiera d'Affrica, ad un punto ove è scritto “Tabarca.” Questa figura ridotta alla metà, si ritrova anche nell'Atlante della Géographie au moyen-âge, del dotto Lelewel, tavola terza. Un'altra figura vieppiù strana, a p. 25 dell'edizione di Gotha, spinge la Sicilia a levante verso Tripoli.

1199. Journal Asiatique, IVe serie, tomo V (1845), p. 91, e Archivio Storico Italiano, App. XVI, p. 21.

1200. Squarcio riferito da Ibn-Scebbât, il cui testo si vegga nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 210.

1201. Mo'gem, op. cit., p. 114.

1202. Op. cit., p. 115. La merhela, “cavalcata” ossia quel tratto di strada che si percorre d'un fiato, è misura itineraria degli Arabi, un po' vaga, e diversa secondo i luoghi. Edrisi nella descrizione dell'isola, Biblioteca Arabo-Sicula, p. 48 del testo, ragiona la merhela leggiera a diciotto miglia in circa. Così gli 11 rilievi da Messina a Trapani secondo il miglio di Sicilia del tempo di Edrisi che risponde al miglio romano e all'attuale di Sicilia, tornerebbero a 198 miglia. Ma ragionando la merhela a venti miglia, quella misura sarebbe quasi esatta, poichè gli itinerarii della posta di Sicilia del 1839, portavano 172 miglia a cavallo da Messina a Palermo per le Marine, e 68 da Palermo a Trapani per via rotabile, ch'è necessariamente più lunga. Secondo lo stesso Edrisi, la giornata di cammino, diversa dalla merhela, era da 24 a 36 miglia, e in media 30. Il miglio attuale di Sicilia risponde a 1487 metri; il romano si ragiona 1481 o 1475.

1203. Catalogo della Bodlejana, nº DLXIV (Marsh. 173), MS. del 1034 dell'egira (1624-5). La voce che traduco “Ausiliare” significa propriamente “Colui che rende prospero un successo.” La voce “acciacchi” è trascritta, non che tradotta. Il testo ha il plurale di Sciakwa, con l'articolo as-sciakwa, donde parmi derivato acciacco.

1204. Trascrivo anche questa voce. Takwîm, in arabo vuol dire designazione di prezzo, annotazione precisa e indi libretto di appunti. Questo MS. anche moderno, ma senza data, è segnato nella Biblioteca Parigina, Ancien Fonds, 1027. Di certo s'è perduto nella nuova legatura, una trentina d'anni fa, il titolo che si legge nel catalogo stampato e in un foglio di mano del maronita Ascari: “Takwîm al Adouiat al Mofredat.” Il nome dell'autore è scritto diverso da quello di Oxford: Ibrahim-ben-abi-Said-al-Magrebi-al-Olaij; ma forse portava Ibn-Ibrahim e Sikilli in vece di Olaij, come lesse Ascari.

Del rimanente non solo i due MSS. sono identici al modo di prima e seconda edizione corretta, ma la seconda edizione corse anche sotto il titolo di “Ausiliare pei medicamenti semplici,” poichè Hagi-Khalfa, edizione Flüegel, tomo IV, p. 182, nº 13, 145, dà appunto questo ad un'opera di cui ignorava l'autore, la quale comincia con le stesse parole del MS. di Parigi. Il principio dell'introduzione con le varianti dei due MSS. si legge nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 694, seg., del testo.

1205. Abbicci o meglio il greco α, β, γ, δ, che era l'ordine antico degli Arabi, e in fatti presero da quello le notazioni numerali in lettere.

1206. Ecco le rubriche delle colonne verticali nel MS. di Parigi. — 1. Nome del medicamento. — 2. Qualità (se vegetabile ec.). — 3. Specie diverse. — 4. Quale specie sia da scegliere. — 5. Natura (se caldo, freddo, secco ec.). — 6. Forza. — 7. Indicazione nelle malattie del capo. — 8. Id. degli organi respiratorii. — 9. Id. degli organi digestivi. — 10. Id. generali del corpo. — 11. Modo di adoperare il medicamento. — 12. Dosi. — 13. Effetti nocivi. — 14. Come ripararvi. — 15. Surrogati. — 16. Numero progressivo. — Le colonne 7, 8, 9, 10, sono molto più larghe che le altre. Nel MS. di Parigi le sedici colonne prendono ambe le facciate del libro aperto e v'ha cinque semplici, ossia cinque divisioni orizzontali, in ciascuna. Il MS., che finisce al fog. 122 recto, ha l'ultima pagina in bianco, sì che vi manca la conchiusione e forse alcuno degli ultimi articoli.

1207. Si vegga la bellissima edizione d'Avicenna fatta a Roma il 1593, coi caratteri Medicei, p. 124, segg. Avicenna dà 800 semplici, Abu-Sa'îd 545. Entrambi li pongono nell'ordine alfabetico dell'Abuged; ma l'ordine secondario in ciascuna lettera iniziale è diverso. Del resto Avicenna compose questo capitolo in tavole, come Abu-Sa'îd, ancorchè nella edizione romana, per guadagnare spazio, i cenni ch'erano in colonne sian messi in continuazione.

1208. MS. della Biblioteca pubblica di Leyde, dell'anno 899 dell'egira, (1493), nº 41, segnato nel Catalogo del 1716, nº 727, p. 440. Il titolo in arabico che leggiamo nel catalogo non si trova più nel MS. Io l'ho pubblicato con la introduzione e la tavola dei capitoli nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 697 del testo.

Ecco la tavola dei capitoli: 1. Medicamenti semplici giovevoli contro la cefalgia; 2.... contro le malattie degli occhi; 3.... degli orecchi; 4.... del naso; 5.... della bocca; 6.... della gola e del collo; 7.... del fegato e dello stomaco; 8.... degli intestini e purgativi; 9.... del sedere e tumori che vi nascono; 10.... delle reni; 11.... della vescica; 12.... degli organi maschili; 13.... della matrice; 14.... delle articolazioni; 15.... ferite; 16.... tumori e pustole (buthûr, donde i butteri del vaiolo); 17.... malattie polmonari; 18.... Febbri e mal'aria; 19.... Veleni e morsicature di animali; 20.... Sostanze proficue alla sanità generale della persona.

1209. Hagi-Khalfa, Dizionario Bibliografico, edizione di Flüegel, tomo V, p. 75, nº 10,057.

1210. Il mecenate ricordato da Hagi-Khalfa non si trova tra i principi d'Affrica nè di Spagna; ma quel soprannome e quel nome proprio, spesseggiavano nella dinastia hafsita di Tunis che surse in principio del XIII secolo. Si potrebbe dunque supporre uom di quella famiglia che non avesse regnato nè lasciato memoria di sè negli annali politici.

1211. Imâd-ed-dîn, Kharîda, nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 589, del testo. Questa notizia trovandosi nell'Antologia d'Ibn-Kattâ', il poeta fu anteriore al principio del XII secolo.

1212. Soiuti, Tabakât-el-Loghewîn, nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 674. Almanzor tenne l'oficio di primo ministro o piuttosto lo scettro della Spagna dal 976 al 1001.

1213. Ognun sa che molte consonanti non si distinguono altrimenti che pei punti messivi sopra o sotto; e che la scrittura monumentale chiamata Cufica non ha punti, il che la rende spesso sì incerta. Ma il carattere neskhi punteggiato si usò fin dal primo secolo dell'egira, com'or lo provano varii monumenti; nè par che negli esemplari del Corano sia caduto mai equivoco su le consonanti.

1214. Questi si accennano con vocali e anche consonanti. Ma molte consonanti prescritte dalle forme grammaticali non si notavano allora, come il provano gli antichi esemplari del Corano. Si veggano i lavori di M. De Sacy, Notices et Extraits des MSS., tomo VIII, p. 290 segg., 355 seg., e tomo IX, p. 76, seg. La lista delle lezioni arcaiche o erronee che voglian dirsi, delle copie primitive del Corano, è molto più lunga, come si vede nei frammenti su Pergamena che possiede la Biblioteca di Parigi, Suppl. Arabe.

1215. Si riscontrino: Imâd-ed-dîn, Kharîda, squarcio tolto da Ibn-Kattâ', nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 598; Dsehebi, Anbâ-en-Nohâr, op. cit., p. 645, ed Hagi-Khalfa, edizione di Flüegel, tomo II, p, 209, nº 2472, tomo VI, p. 36, nº 12,632, e p. 70, nº 12,752. Il nome è dato diversamente, ma si vede l'identità della persona.

Nella Kharîda troviamo dodici versi di questo autore. I primi quattro son cavati da una elegia d'ignoto argomento; se non che vi leggiamo:

“Ed entra (il nemico o l'esercito ec.) in un deserto che ha abitatori: entra come il mare; se non che gli manca l'onda amara.

“Vedresti lor lettighe da camelo piene di nemici che portan via la preda, navigar quasi galee su le teste degli abitatori.” MS. di Parigi, Ancien Fonds, 1375, fog. 49, v. 7, e del British Museum, fog. 37, v. 7.

1216. “Le gitto uno sguardo furtivo, temendo per lei gli appuntatori e le spie.

“E vorrei lamentarmi seco di questo immenso affetto, ma non oso; tanto è il mio pudore!

“Quantunque ella sembri avara dell'amor suo, tutto io le dono il mio e la candida amistà.

“E nasconderolle, quand'anco ne dovessi morire, l'incendio di dolore che m'ha messo (in seno).” MSS. cit.

1217. “Non domandar agli uomini del secolo che operino secondo giustizia: da ciò li scusano i costumi del secolo e degli uomini.

“E se vuoi che duri l'amistà col tuo compagno, studiati a chiudere gli occhi su quel ch'ei fa.” MSS. cit.

1218. 'Irâb, è la dottrina delle mutazioni grammaticali dei vocaboli, astrazion fatta della sintassi che si chiama Nakw.

1219. Si confrontino: Soiuti, Tabakât-el-Loghewîn nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 673, 674; Hagi-Khalfa, edizione Flüegel, tomo I, p. 356, nº 926, e IV, p. 284, nº 8398; e Ibn-Khallikân, edizione del Wüstenfeld. Avvertasi che Ibn-Besckowâl, secondo il MS, della Société Asiatique di Parigi, il solo che io abbia potuto consultare, nol dice di Saragozza, ma soltanto spagnuolo; nè fa menzione dell'origine di Medina. Potrebbero esser dunque due Ismail-ibn-Khelef, l'uno spagnuolo e l'altro siciliano.

1220. Così la chiamano gli Europei. Si pronunzierebbe più correttamente Amr.

1221. Si confrontino: Dsehebi, Anbâ-en-Nohâ nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 647, e Soiuti, Tabakât-el-Loghewîn, op. cit., p. 676. Ho corretto secondo Soiuti il nome che in Dsehebi si legge Omar-ibn-Ali ec. Argomento l'età da quella del suo maestro Ibh-Fehhâm, lodato di sopra, e del celebre tradizionista Silefi, morto il 1180, il quale al dir di Dsehebi conobbe Omar-ibn-Ali al Cairo Vecchio.

1222. Casiri, Bibliotheca Arabico-Hispana, tomo I, p. 501, trascritto dal Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 237. Ma Casiri non dà in arabico nè il nome dell'autore, nè il titolo del libro. Dice il primo oriundo siciliano e nato a Ceuta, avendo letto al certo Sikilli e Sibti; che potrebbe significare “Siciliano stanziato a Centa” o al rovescio. Duolmi che le difficoltà dell'Escuriale e le mie, mi abbian tolto di andare a studiar questo Manoscritto, come ho fatto di tutte le altre opere d'Arabi siciliani.

1223. Op. cit., p. 644.

1224. Imâd-ed-din, Kharîda, estratti dalla Dorra d'Ibn-Kattâ', nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 597 e 592. Del primo abbiam due versi tolti da un'elegia ed un epigramma in altri due versi; del secondo due soli versi; ed altrettanti del terzo.

Ecco l'epigramma di 'Atîk, nella Kharîda, MS. di Parigi, fog. 46 verso, e del British Museum, f. 35 verso.

“Non temer (il soggiorno) di un poderetto presso picciol paese; chè là dove si respira, si mangerà.”

“Iddio scompartisce il nutrimento a tutte le creature, e il tribolarsene è da stolto.”

1225. Ibn-Besckowâl, op. cit. all'articolo: Khelef-ibn-Ibrahim-ibn-Khelef, soprannominato Ibn-Hassâr, il quale nacque il 427 e morì il 511 (1036-1117).

1226. Ancorchè le due sorgenti della sua biografia lo chiamino entrambe Sikilli, pure Imâd-ed-dîn lo mette tra i poeti dell'Africa propria, senza spiegare il perchè.

1227. Si riscontrino: Imâd-ed-dîn, Kharida, estratto della Dorra d'Ibn-Kattà', nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 604 del testo, e Dsehebi, Anbâ-en-Nohâ, op. cit., p. 647. Il primo dà il nome di Mohammed Ibn-Abi-Bekr, il secondo di Abu-Bekr-Mohammed-ibn-Abd-Allah; ma la supposta causa della morte, raccontata da entrambi con poco divario, non lascia dubbio su l'identità della persona. I versi, che son sette, si leggono nella Kharîda. Il misero pazzo dice che versava a un tempo lagrime e sangue; e finisce così:

“Oh! sventura, amici miei, fui ferito; e non v'accorgeste che mi fiedean le spade di due pupille.”

“Il fegato mi si è versato nel petto. E fino a quando vedrò alternar la mattina e la sera, cruciato sempre dall'amore?” MS. di Parigi, fog. 133 recto, e del British Museum, fog. 100 recto.

1228. Si vegga la pregevole monografia malekita di M. Vincent, intitolata Études sur la loi musulmane, Paris, 1842, in 8º.

1229. Mo'gem-el-Boldân nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 123, ed Aggiunte a p. 40 della Introduzione. Iakût, non so su qual fondamento, vuol che il nome “Calabria” si legga in arabico Killawria.

1230. Makrizi, Mokaffa', nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 663, il quale non porta data; ma ce l'additano i nomi di Gioneid e Nûri, ricordati da Giami nelle Vite dei Sufiti. Abu-l-Kasim-Gioneid da Bagdad, tenuto in suo tempo il primo veggente o visionario dell'Irâk, sagace al certo e sentenzioso, morì il 297, 298 o 299 (909-911); ed Abu-Hosein-Ahmed-ibn-Mohammed-Nûri, che si credea secondo solo a Gioneid, era trapassato pochi anni innanzi. Si vegga la biografia di Gioneid, tradotta dal persiano di Giami per M. De Sacy, Notices et Extraits des MSS., tomo XII, p. 426 a 429 con le note corrispondenti.

1231. Par desso l'Abu-Bekr Sikilli che Giami pone in lista, op. cit. p. 409. D'altronde Makrizi nel cenno biografico non dimenticò l'appellazione di Sufita.

1232. Perchè Makrizi lo chiama Misri e Sikilli. Non è mica probabile ch'ei fosse nato in Egitto e venuto in Sicilia.

1233. Hagi-Khalfa, edizione Flüegel, tomo IV, p. 474, nº 9271.

1234. Ibn-Besckowâl, op. cit., al nome: Derrâg. L'età si scorge da quella d'un suo maestro in Spagna, per nome Abu-Gia'far-Ibn-'Awn-Allah, che andò in pellegrinaggio il 342 (953).

1235. Ibn-Besckowâl, op. cit. a questo nome. Un discepolo di Râik, per nome Sa'Id-ibn-Iûsuf da Calatayud, morì il 395 (1004).

1236. Imâd-ed-dîn, Kharîda, estratto dalla Dorra d'Ibn-Kattâ nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 595. Il titol di emiro si diè per cortesia a tutti i rampolli di famiglie principesche. Mi par bene tradurre tutti i versi che abbiamo di lui, alle allusioni dei quali non troviamo riscontro nelle croniche; ma vanno naturalmente tra l'abdicazione di Iusûf, 998, e la caduta della dinastia.

“Ella mi dicea: Ho visto uomini prodi, ma nessuna (spada) del Iemen agguagliò mai la tua.

“Uso tanto ai tumulti della plebe, che ormai ti credi invulnerabile a lor sassi.

“Ma fino a quando affronterai temerario i fati, offrirai il petto alle lance?

“Ed io le risposi: Di tutto ho sentito parlare fin qui, fuorchè d'un Kelbita vigliacco.”

E scrisse ad un suo cugino questo rimbrotto:

“Ti credei spada ch'io sguainassi contro il nemico, non che volgessila contro me medesimo.

“Mi affaticai ad innalzarti ed onorarti; ed eccomi alfine sgarato (chiuso) in un carcere, non lungi dalle tue stanze.”

1237. Homaidi, Geswat-el-Moktabis nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 578. L'autore, che nacque il 1029 e morì il 1097, trascrive due versi di Ahmed-ibn-Abi-Mokâ ch'eran passati per la bocca di Abbas-ibn-Amr nel seguente modo: 1 Abu-Mohammed-Ali; 2 il cadi Ibn-Soffâr; 3 Abbas-ibn-Amr; 4 Thâbit da Saragozza, ec. Però il soggiorno di quel Siciliano in Spagna par si debba riferire ai primi trent'anni del secolo.

1238. Ibn-Besckowâl, Silet, nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 578. Le cagioni che lo avessero distolto dal tornare in Sicilia e dal rimanere in Granata, non son dette dal biografo ma supposte da me.

1239. Makrizi dà il nome d'Abu-Abd-Allah-Mohammed-ibn-Mosallim, (secondo, altri, aggiugne, Moslim) ibn-Mohammed, Koreiscita. Degli altri scrittori che facciano parola di lui, Hagi-Khalfa segue il nome dato da Ibn-Khallikân, Soiuti quel che ai trova in Makrizi, i rimanenti lo chiamano Mazari, o Abu-Abd-Allah-Mohammed-Mazari.

1240. Il testo d'Ibn-Khallikan dice “la memoria delle tradizioni e il Kelâm, sopra quelle.” Kelâm, come abbiam notato altrove, era la “scolastica” il metodo delle scuole teologiche. Però mi sono discostato dalla versione di M. De Slane “the Manner in which be lectured on that subject.”

1241. Qui anche mi è parso che la voce “dottrine” renda il testo fewâid, più precisamente che la versione litterale inglese “good passages.” Di quest'opera fan parola Ibn-Khallikân, e Makrizi; e la nota Hagi-Khalfa, edizione Flüegel, tomo II, p. 545, nº 3908.

1242. Ibn-Khallikân e Makrizi, il quale la dice positivamente di subietto teologico.

1243. Makrizi.

1244. Iakût, nel Moseterik, edizione di Wüstenfeld all'articolo: “Mazara.”

1245. Appendice anonima ad Hagi-Khalfa, nella edizione di Flüegel, tomo VI, p. 650, nº 93.

1246. Adab, dicono gli Arabi in una parola. L'Encyclopédie des Gens du monde, sarebbe appo loro un'opera di Adab, la qual voce racchiude la buona educazione.

1247. Ibn-Khallikân lo dice Motefennin, ossia dotto in varii rami di sapere; il furioso teologo Ibn-Mo'allim, MS. di Parigi, Suppl. Arabe, 200, fog. 100 verso, aggiugne: “e primeggiò nella scienza del detto e dello speculato.”

1248. Kharesci, Comento al Compendio di Khalîl-ibn-Ishak, Ms. di Parigi, Sup. Ar. 405. foglio 5 verso. Debbo avvertire che simile notizia, con poco divario, mi è stata data dall'erudito e svegliato Soleiman-Kurdi da Tunis, che ho conosciuto a Parigi, il quale ricordava benissimo il fatto della sepoltura di Mazari a Monastir, cavato, credo io, da Ibn-Khallikân.

1249. Kharesci, l. c. Si vegga anche la versione del Khalîl, Précis de jurisprudence musulmane etc., traduit par M. Perron, tomo I, p. 5, e la nota del traduttore a pag. 511. Della Modawwana abbiam fatto cenno nel Libro III, capitolo XI, p. 222 di questo volume.

1250. Makrizi.

1251. Makrizi, il quale dà nomi d'un Ahmed-ibn-Ibrahim-Razi, maestro suo al Cairo vecchio, e di parecchi discepoli ch'ebbe Mazari ad Alessandria.

1252. Zerkescl, Storia degli Almohadi, nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 522. Argomento la data del soggiorno a Mehdia da quella che si assegna al passaggio del giovane Ibn-Tûmert in detta città, cioè la fine del quinto secolo dell'egira. Si veggano Ibn-Khaldûn, Histoire des Berbères, versione di M. De Slane, tomo II, p. 163, e il Kartâs, versione del professore Tornberg, intitolata Annales Regum Mauritaniæ, tomo II, p. 150. Ibn-Tûmert comparve più zelante asci'arita che il suo maestro Mazari; ma il maestro era dotto e galantuomo; il discepolo spezzava strumenti di musica, sgridava nobili donne per le strade, architettava miracoli; e suscitò nella schiatta berbera una delle più importanti rivoluzioni che mai vi fossero avvenute.

1253. Ibn-Khallikân dice che alcuni riferissero la morte di Mazari il 18 rebi' primo del 536, altri il lunedì 2 dello stesso mese. Questo giorno di settimana non va bene secondo i nostri calendarii. Nel conto civile, rebi' primo di quell'anno cominciò di sabato, e nel conto astronomico di venerdì; il che s'aggiunga alle tante prove che i Musulmani nel medio evo contavano i mesi non sul calendario, ma su le testimonianze legali di chi avesse vista primo la luna nuova.

Il Baiân, testo, tomo I, p. 322, dà la morte di Mazari il 536; Makrizi il 530, Kâresci, l. c., il 536.

1254. Villaggio ad otto miglia, O. S. O., da Tunis.

1255. Penisola alla estremità meridionale del Golfo di Hammamet, non lungi da Mehdia. Sapendosi che Mazari morì in Mehdia, e che il cimitero di questa città era in Monastir, non ho dubbio a leggere così in vece di Menasciin, che nella edizione dei Wüstenfeld si dà come luogo della sepoltura di questo insigne giurista.

1256. Si confrontino: Ibn-Khallikân, Biographical Dictionary, versione di M. De Slane, tomo III, p. 4, e testo, tomo I, p. 681, e nella edizione del Wüstenfeld, fascicolo VII, p. 12, biografia 628; Makrizi, Mokaffa', nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 667, 668; Soiuti nel cenno biografico di Abd-el-Kerîm-Iehia-ibn-Othman, Biblioteca Arabo-Sicula, p. 676; Zerkesci, Hagi-Khalfa ed Ibn-Mo'allim, ll. cc. Il libro di quest'ultimo, venutomi alle mani dopo la pubblicazione della Biblioteca Arabo-Sicula, fu scritto tra il 701 e 708 dell'egira (1302-1308) a Damasco: una furibonda polemica asci'arita, nella quale son levati a cielo gli ortodossi e s'invoca la spada dei principi contro chi differisse d'un pelo dalla loro credenza. Il titolo dell'opera d'Ibn Mo'allim è Stella del ben diretto, e lapidazione del traviato.

Debbo avvertire in ultimo che si potrebbero supporre due scrittori contemporanei nati a Mazara entrambi e nominati Mohammed; cioè il figlio di Alì e li figlio di Mosellim; Makrizi non solamente dà al suo Mazari questo nome patronimico ma anche altro nome di tribù, e lo dice morto di scia'bân 530 (maggio 1136); le quali particolarità tutte differiscono da quelle che leggiamo in Ibn-Khallikân e negli altri autori citati. Makrizi avrebbe dunque confuso il Mazari tradizionista domiciliato in Alessandria con quello assai più rinomato che morì in Affrica.

1257. Zerkesci, l. c.

1258. Si vegga il cap. XI del Lib. III, p. 219, segg.

1259. Karesci, l. c., il quale aggiugne che secondo altri Ibn-Iûnis mori allo stesso giorno di rebi' secondo, cioè 20 giorni appresso.

Probabilmente è questi lo Sceikh Siciliano che veggiamo nell'antica compilazione malekita anonima, intitolata Sciarh-el-Ahkâm, MS. di Parigi, Ancien Fonds, 480, fog. 85 verso; e il Siciliano citato da Agihûri nell'altro Commentario sopra Khalîl, MS. di Parigi, Suppl. Arabe, 397, vol. I, fog. 390 recto. Secondo una lista messa a capo delle glose di Ahmed Zurkani all'opera di Khalîl, MS. di Parigi, Suppl. Arabe, 402, fog. 1 recto, la citazione Sikilli indicava sempre Mohammed-ibn-Iûnis.

1260. Si vegga sopra la nota a pag. 478.

1261. Ibn-Besckowâl, op. cit., nell'articolo di Soleiman-ibn-Iehia. Costui, tornato a Cordova, vi professava dritto malekita nel 478 (1085). Credo Abd-el-Hakk discepolo d'Ibn-Iûnis, perchè lo Sciarh-el-Ahkâm, dà su l'autorità sua una sentenza d'Ibn-Iûnis, l. c.

1262. Hagi-Khalfa, edizione Flüegel, tomo II, p. 479, nº 3785.

1263. Makkari, Analectes sur l'histoire ec. d'Espagne, testo arabico, tomo I, p. 917. I Detti arguti son tra le venti opere celebri che accennò in cinque versi il letterato spagnuolo Ibn-Giâbir, morto in Aleppo il 780 (1378), delle quali Makkari dà i titoli compiuti.

1264. Ibn-Besckowâl, op. cit. all'articolo: Thâbit, Sikilli.

1265. Makrizi, Mokaffa', nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 664. Rebe'i è nome etnico che si riferisce a famiglie di varii ceppi arabici: Nizâr, Azd, Temîm, Kelb, ec. V'ha nella raccolta del Di Gregorio, p. 171, la iscrizione sepolcrale d'un Rebe'i, morto il 1026.

1266. Ibn-Besckowâl, op. cit., al nome d'Ali-ibn-Othmân: Il titolo dell'opera è Loma'-fi-Asl-el-Fikh. Il nome etnico dell'autore forse va letto “Adserbi” e significherebbe “oriundo dell'Aderbaigiân.” Ali potrebbe per avventura essere il medesimo di cui rimanea nel Museo di Daniele l'iscrizione sepolcrale citata nella nota precedente; dove la voce Rebe'i è preceduta da altre che mancano, fuorchè la sillaba an, ch'è appunto la desinenza del nome patronimico Othmân. In tal supposto, l'andata in Spagna tornerebbe nei primi venticinque anni dell'XI secolo; nè parrebbe inverosimile che l'erudito mercatante fosse ito a morire a Napoli, o Salerno.

1267. Ibn-Besckowâi, op. cit., a questo nome. Il titolo dell'opera è Tebsira-fil-Fikh; la quale manca in Hagi-Khalfa, al par che la precedente.

1268. Makrizi, citato da Sacy, Chrestomathie Arabe, tomo I, p. 196. Su l'officio di mohtesib, si vegga qui sopra la p. 8, Lib. III, cap. I.

1269. Kharîda, d'Imâd-ed-dîn, nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 604. Un giorno il cadi entrando nella stanza del primo ministro Afdhal, vistogli dinanzi un calamaio d'avorio intarsiato di corallo, improvvisò:

“Per divina possanza si ammollì il ferro nelle mani di David, sì che il filò in maglie come gli piacque.

“Ed ecco arrendevole a te il corallo, pietra che l'è, forte e schiva al tratto.”

Un'altra volta, avendo fatto Afdhal condurre un canale infino al villaggio di Karâfa presso il Cairo, il cadi che possedea quivi una casa ed un orto, gli domandò l'acqua per la casa. Il fece in sette versi, nei quali descrivendo gli alberi intristiti del suo giardino, conchiude così:

“All'udire il lamento del bindoli (sul canale, gli alberi) dicono con favella d'afflitto innamorato:

“Veggo l'acqua ed ardo di sete, ma ahimè non ho modo di andarvi a bere.”

V'han di lui pochi altri versi erotici.

1270. Hagi-Khalfa, edizione Flüegel, tomo IV, p. 398, nº 8978. Ibn-Ge'd è chiamato sceikh, cioè dottore, e imâm, cioè principe, onoranza che già dai capi di scuola scendeva ai dotti di minor nota.

1271. Mo'gem nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 114.

1272. Hagi-Khalfa, edizione di Flüegel, tomo VI, nº 13,437, p. 265.

1273. Si vegga il cap. XIII di questo Libro, p. 433, nota 6.

1274. Mogtehid, come si è detto altrove, significa “dottore che cava dall'analogia e dalla ragione novelli assiomi o corollarii dì giurisprudenza.”

1275. Così traduco rekâik, plurale di rekîka, litteralmente “sottilità.” Il significato tecnico è: “virtù di intelletto, di studio e di costumi che innalza l'uomo sì che s'avvicini alla divinità.”

1276. Citato da Iakût, nel Mo'gem, articolo Sementâr che si vegga nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 113, 114. Oltre Ibn-Kattâ', l'autore del Mo'gem si riferisce ad un Mohibb-ed-dîn-ibn-Niggiâr, che alla sua volta allegava Abn-Hasan da Gerusalemme.

1277. Mo'gem, l.c.

1278. “Discordie civili incalzanti; popolo dimentico (di sè stesso); secolo che infierisce sul genere umano:

“Quelle soggiornano in questo a lor agio; nè accennano d'andar via: coprono (il mondo) tutto d'iniquità e d'errore.

“O sconsigliato procacciator di male, seguace d'ogni colpa, che mi dirai tu?

“Hai venduto la tua casa dell'eternità a vilissimo prezzo, di ben mondano che svanirà quanto prima.”

Si vegga il testo di Oxford nella Bibl. Arabo-Sicula, p. 36 della Introd.

1279. Mo'gem, nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 114.

1280. Il biografo scrive che costui ietekallam, cioè litteralmente “ragionava;” ma il significato proprio è “ragionava secondo la scuola teologica detta degli Arabi Kelâm, che torna quasi alla nostra teologia scolastica.” Si vegga Renan, Averroës et l'Averroïsme, p. 79-80.

1281. Homaidi aggiugne ch'ei “trattava anche le scienze” (olûm): si deve intendere dunque d'altre scienze che la teologia, e però legge, o matematiche o filosofia.

1282. Il breve cenno biografico di costui si legge nel Gedswet-el-Moktabis di Homaidi, MS. della Bodlejana, estratto, nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 578. Ibn-Besckowâl, Ms. della Società Asiatica di Parigi; al nome di Alî-ibn-Hamza, copia il cenno di Homaîdi.

1283. Si vegga la bella prefazione di M. De Sacy agli estratti delle Vite de' Sufiti di Giâmi, dei quali diè il testo persiano e la traduzione francese, aggiungendovi il testo arabico e versione d'un capitolo dei Prolegomeni d'Ibn-Khaldûn, Notices et Extraits des MSS., tomo XII, p. 287, segg.

Ibn-Khaldûn sembra molto proclive alla dottrina sufita, di che riferisce l'origine ai compagni di Maometto; e si sforza a spiegare l'estasi sufita con la doppia sorgente delle percezioni umane dalle sensazioni esteriori e da disposizioni interne che gli parea non dipendessero da quelle, come gioia, tristezza ec.

M. De Sacy nota la somiglianza con alcuna setta indiana, e la probabilità che i Musulmani avessero conosciuta questa in Persia, li primo che abbia preso nome di Sufita si crede un Abu-Hâscim, verso la metà del secondo secolo dell'egira ed ottavo dell'èra cristiana; ma la dottrina si sviluppò più tardi, l'ordine forse nel X secolo, e la vestizione della Khirka alla fine, com'ei pare, dell'XI. Argomento ciò dal trattato sufita di Sadr-ed-dîn-Kunewi, morto il 673 (1274), MS. di Parigi, Ancien Fonds, 426, poichè il mistico mantello era pervenuto a costui, per una seguenza di nove superiori, da un Mohammed Scîli, dal quale in su non si ricordava vestizione, ma soltanto “Sodalizio e insegnamento;” e questo risaliva ad Ali. Giâmi, che visse nel XV secolo, riferiva la vestizione ad Ali stesso: ed è naturale che con l'andar del tempo crescessero le imposture della setta.

1284. Si vegga la p. 480.

1285. Il titolo del Dalîl-el-Mokâsidin “Guida dei Cercatori” sa di sufismo; poichè “cercare”, nel gergo della setta, accennava alla perfezione spirituale, allo spirito divino che si dovea trovare in fondo dell'anima.

1286. Si vegga il Lib. III, cap. XI, p. 228 e segg. di questo volume.

1287. Nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 590 del testo, tolti dalla Kharîda d'Imâd-ed-dîn, il quale alla sua volta li avea presi da Ibn-Kattâ'. Questo ibn-Tazî è tra i primi nella raccolta d'Ibn-Kattâ'.

1288. Abu-Hâmid da Granata, nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 74; e Pseudo-Wakidi, op. cit., p. 199. Abu-Hâmid si trovò a Bagdad il 1122, come notammo nel Lib. I, cap. IX, p. 85 del primo volume.

1289. Pag. 477 e 482

1290. Ibn-Besckowâl, MS. della Società Asiatica di Parigi, al nome: Musa.

1291. MS. di Leyde, Nº 366 dell'antico catalogo arabico. Ho pubblicato la prefazione nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 698, 699.

1292. Lib. III, cap. XI, p. 229 di questo volume.

1293. Si vegga il Lib. III, cap. XI, p. 223 di questo volume.

1294. Soiuti, Tabakât-el-Loghewîn, nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 674. Tralascio i nomi dei maestri e discepoli di questo Hasan-ibn-Ali, ricordati dal biografo.

1295. Op. cit., nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 678. Il biografo dice senz'altro il Mobtedâ.

1296. Quest'opera si trova ad Oxford, nei MSS. arabici, nº DCCCXLI. Catalogo, tomo I, p. 182. Si vegga anche D'Herbelot, Bibliothèque Orientale, all'articolo Mobteda.

1297. Si vegga la citazione a p. 472.

1298. Si confrontino: ibn-Khallikân, versione inglese di M. De Slane, tomo I, p. 632; Dsehebi, Anbâ-en-Nohâ; Sefedi, Wafi-fil-Wefîât; e Soiuti, Tabakât-el-Loghewîn nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, pagine 644, 659, 675.

1299. Si confrontino: Dsehebi, Anbâ-en-Nohâ, e Soiuti, op. cit., nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 648, 678. Il secondo lo chiama Ibn-Debbâgh (il figlio del Conciatore). Ibn-Kattâ, citato da Soiuti, dice che “costui osservava con molta cura i libri degli antichi, e indagava ogni più riposta notizia degli scrittori.”

1300. Si vegga la p. 475, nota 3.

1301. Si vegga la citazione a p. 477.

1302. Soiuti, Tabakât-el-Loghewîn, nella biografia di Omar-ibn-Ieîsc da Susa, Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 678. Omar, che fu discepolo del Siciliano, dava a sua volta lezioni nel 498 (1104); la qual data mi serve di guida. V'ebbe in Oriente al medesimo tempo un poeta siciliano dello stesso nome, del quale diremo innanzi.

1303. Dsehebi, Anbâ-en-Nohâ, nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 646. Potrebbe essere lo stesso che il Segretario Ibn-Kûni, che ebbe il medesimo nome, soprannome e nome patronimico. Si vegga la p. 464.

1304. Lascio indeterminato il male che gli abbian fatto. Il testo dice: “Gridarono contro di lui, e indi non prosperò.”

1305. Il primo, perchè il padre e il figlio di Sem'âni, entrambi scrittori conosciuti, soggiornavano in Mêrw. Si vegga Reinaud, Introduzione alla Géographie d'Aboulfeda, p. CX; e d'Herbelot, Bibliothèque Orientale, all'articolo: Samaani. Suppongo la cattedra di teologia, perchè Soiuti in progresso del racconto usa la voce Kelâm.

1306. Cioè: “di Ponente:” Africa, Sicilia e Spagna.

1307. Soiuti, Tabakât-el-Loghewîn, nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 673.

1308. Rûmi.

1309. Ibn-Khallikân e Dsehebi, i quali aggiungono che altri il dicea nato a Mehdia. Fu nominato anche Azdi, dalla tribù di Azd, dalla quale nasceva il padrone del padre divenuto dopo l'affrancamento patrono della famiglia; ed anche Kairewâni dalla città dove fece soggiorno.

1310. Ibn-Abbâr, Hollet-es-siarâ, MS. della Società Asiatica di Parigi, fog. 108 verso.

1311. Diwân di Bellanobi, nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 681. Ecco i due versi d'Ibn-Rescîk, scritti probabilmente in Sicilia, che attestano questo fatto e insieme l'orgoglio dei liberti delle corti musulmane.

“Segretario io già fui dell'esercito dell'emir; e condussi le faccende (pubbliche) dirittamente:

“Non tenni bottega, no, in un mercato d'arti, il cui nome conviene alla (viltà della) cosa.”

Qui si scherza sulle voci sûk “mercato e plebe” e Mihâl “arte ed astuzia.”

1312. Scehab-ed-dîn-Omari, dà quest'aneddoto in tre o quattro pagine, notando ch'ei l'abbrevia dal testo d'Ibn-Bassâm. Io l'ho pubblicato nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 651, 652, stralciandone molte lamentazioni erotiche, se tali possan dirsi, in prosa e in verso. Ibn-Seffâr autore del racconto afferma che in realità non c'era stato nulla di male: e ciò scolpi non Ibn-Rescîk, ma l'opinione pubblica che condannava, come ognun vede, quelle sozzure.

1313. Ibn-Khallikân e Scehâb-ed-dîn-Omari. La data ch'essi non notano si legge in Ibn-Khaldûn, Histoire des Berbères, versione di M. De Slane, tomo II, p. 21, 22, e più precisamente in Ibn-el-Athîr, MS. C, tomo V, fog. 81 verso, e seg., sotto l'anno 442; il quale pone in ramadhan 449 (novembre 1057), il saccheggio di Kairewân, che seguì poco dopo la partenza di Moezz.

1314. Ibn-Bassâm, squarcio inserito da Scehâb-ed-dîn-Omari nel Mesâlik-el-Absâr, Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 650, 651. Il testo ch'è in prosa rimata, gonfio e voto, dice: “Non andò guari che venne un'armata di Rûm, ed all'alba il mare apparve tutto colline minaccianti estremi fati e poggi carichi di morte repentina ec.;” ma non aggiugne il successo dell'impresa, nè dice appunto la nazione che avea messo a galla le terribili colline. I Bizantini da tanto tempo non comparivano nel bacino occidentale del Mediterraneo. All'incontro i Pisani il 1034 aveano assalito Bona e Cartagine, e nella seconda metà del secolo osteggiarono Palermo; poi Mehdia insieme coi Genovesi ec.

1315. Imad-ed-dîn, Kharîda nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 591. Il nome dell'uno è: Abu-Hasan-Ali-ibn-Ibrahîm-ibn-Waddâni, e dell'altro Abu-Adb-Allah-Mohammed-ibn-Ali-ibn-Sebbâgh, il Segretario. I tre versi si leggono nel MS. di Parigi, fog. 35 recto; e sembrano scritti dal Maggi o dallo Zappi.

1316. Ibn-Bassâm, op. cit., p. 651.

1317. Si confrontino: Ibn-Khallikân, Dizionario Biografico, versione inglese di M. De Slane, tomo I, p. 384; Dsehebid, Anbâ-en-Nohâ, nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 644; Scehâb-ed-dîn-Omari, op. cit., p. 649 a 653. I due primi riferiscono come meno autorevoli altre tradizioni che recavano la morte d'Ibn-Rescîk nel 450 o nel 456. Si vegga anche il Baiân, edizione del Dozy, testo, vol. I, p. 307. Abbad-ibn-Mohammed soprannominato Mo'tadhed-billah, regnò dal 433 al 461 (1041-1069).

1318. Si vegga sopra a p. 490.

1319. Le Pagliucce d'oro, Ibn-Khallikan ed Hagi-Khalfa, op. cit., tomo IV, p. 509, nº 9394, ed i “Neologismi;” Ibn-Kallikan, l. c.

1320. Il Tipo, Hagi-Khalfa, op. cit., tomo I, p. 468, nº 1302. È citato anche da Ibn-Kallikân, nella detta biografia, e in un altro luogo relativo all'aneddoto dell'emiro kelbita Iusuf raccontato da noi nel cap. VII di questo Libro, p. 333 del volume. Si vegga anche Makkari, Analectes de l'histoire d'Espagne, testo arabico, tomo I, p. 904, e il Mesâlik-el-Absâr, MS. di Parigi, fog. 77 recto.

1321. La bilancia delle geste, Hagi-Khalfa, op. cit., tomo VI, p. 285, Nº 13,497.

1322. Hagi-Khalfa, Dizionario Bibliografico, edizione di Flüegel, tomo II, p. 142, Nº 2285.

1323. Spesso occorrono versi d'Ibn-Rescîk nelle antologie, biografie ec. Molti se ne trovano nel Diwân di Bellanobi, che sembrano raccolti in Sicilia, come diremo trattando di quel poeta. E quivi ho letto i versi d'Ibn-Rescîk, ai quali alludo, nei quali le parole sono brutte quanto l'argomento.

1324. Di quest'opera, che citano Ibn-Khallikân, ibid., ed Hagi-Khalfa, edizione Flüegel, tomo IV, p. 263, nº 8338, abbiamo due MSS. in Europa, l'uno a Leyde (22 Golius, catalogo del Dozy, tomo I, p. 121, nº CCXXXVII), e l'altro al British Museum, (nº 9661, Catalogo CCXXXIX E). Io ho percorso il MS. di Londra. In principio, chè non notai il numero del foglio, Ibn-Rescîk dice che la ragione poetica dei Iunân (Greci antichi), era fondata tutta “su gli obbietti morali o fisici; poichè i Greci non pensarono mai a ciò che fa il principale vanto dei poeti arabi;” con che vuol significare gli scherzi di parole, gli enigmi, le tumide metafore ec. Non ho tradotto letteralmente, perchè non son certo della lezione di alcune voci. Il MS., in parte è di moderna e pessima scrittura africana, e in parte di buon neskbi del 644 dell'egira.

1325. Hagi-Khalfa, l. c.

1326. Questi due versi sono dati da Ibn-Scebbât, a proposito della supposta etimologia della voce Sicilia, e da Soiuti, nella biografia del Siciliano Ibn-Abd-el-Berr, Biblioteca Arabo-Sicula, p. 212 e 672.

“Sorella di 'Adîna in un nome del quale non partecipò altro paese (del mondo), e cerca (se ne trovi),

“Nome cui Dio illustrò, accennandovi in forma di giuramento; — segui (dunque o principe) gli avvisi dei dotti; e, se nol vuoi, va pure a tentoni.”

Soiuti aggiugne che le parole “cui Dio illustrò ec.” si riferiscano a quel verso del Corano (Sura XCV, vers. I), “(Giuro) per l'olivo e pel fico” deve, al dir di alcuni comentatori, quei due alberi sono nominati per eccellenza tra tutti i vegetabili; e secondo altri il primo allude a Gerusalemme, e il secondo a Damasco.

Quanto a 'Adîna, parmi si debba intendere Atene. Egli è vero che gli eruditi arabi sogliono scrivere altrimenti questo nome; egli è vero che la prima lettera del nostro testo, cioè l'ain, sia esclusivamente semitica e non soglia adoperarsi dagli Arabi nelle voci straniere. Ma la geografia arabica non offre altro nome che soddisfaccia al caso; ed Atene vi si adatta appuntino: nome dato ad onore di Minerva che recò l'olivo, onde quest'albero, in greco, si dice anco Αθηναις.

Debbo qui avvertire che nel tradurre î due versi ho seguito la felice interpretazione del professore Fleischer e la correzione sua al testo della Biblioteca Arabo-Sicula, p. 212. Non così la lezione “Medina” ch'egli propone in vece di 'Adîna; parendomi che le condizioni supposte dal poeta non convengano punto all'antica Jathrib, poi detta Medinet-en-Nebi, ossia la città del Profeta.

1327. Græce Sîcalea quod latine est ficum el olivam, leggesi nell'Anonymi Chronicon Siculum, presso Di Gregorio, Biblioteca Aragonese, tomo II, p. 121, e in Bartolomeo de Neocastro, op. cit., l, 115. Questa etimologia di Σικελία da συκῆ ed ἐλαία, non si trova negli scrittori greci nè anco dei bassi tempi. Mostra grande ignoranza non solo della storia ma anche della lingua confondendo il ι e l'υ l'ή e l'ε, come l'orecchio le rendea simili a chi non le avesse mai lette nei libri. E però si può supporre trovato dei liberti siciliani che sapessero dall'infanzia il greco volgare e non avessero studiato profondamente altra letteratura che l'arabica.

1328. Si confrontino: Ibn-Scebbat, di Dsehebi e Soiuti, nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 212, 648, e 671, 672. L'ultimo cita a proposito della detta etimologia un passo di Ibn-abd-el-Berr, non sappiamo di quale opera, trascritto da Ibn-Dehia, autore spagnuolo (1153-1235) nelle storie del poeti Maghrebini intitolata il Matreb. Il primo dà l'etimologia sul Tethkîf-el-lisân, opera d'Ibn-Kattâ', che naturalmente l'avea tolta dal maestro Ibn-Abd el-Berr. Il nome d'Ibn-Menkût, data dal solo Dsehebi, è scritto Medkûd; su di che si vegga il cap. XII di questo Libro, p. 420 del volume.

1329. Si vegga il Lib. III, cap. XI, e il cap. XIII di questo Libro, p. 219 e 439 del volume.

1330. La voce Kattâ', che non è nei dizionarii, si trova nella continuazione di Bekri, ove significa i picconieri di zolfo in Sicilia; squarcio dato da Ibn-Scebbât, Biblioteca Araba-Sicula, p. 210. L'ho trovata anche col significato di “tagliator di pietra” in una leggenda cristiana, MS. arabo di Parigi, Ancien Fonds, 66, fog. 175 recto.

Ibn-Khallikân, comincia la vita di Ali-ibn-Gia'far Ibn-Kattâ' con una genealogia che si rannoda a quella degli Aghlabiti, risalendo fino ai primi progenitori della tribù di Temîm. Egli dice averia scritta così nella bozza del suo dizionario biografico senza sovvenirgli onde fosse tolta; ma aver sotto gli occhi altro albero di parentela di propria mano d'Ibn-Kattâ' nel quale non entrano punto gli Aghlabiti. Noi ci appigliamo, com'è naturale, a questo, che porta: Abu-l-Kasem-Ali-ibn-Gia'far-ibn-Ali-ibn-Mohammed-ibn-Abd-Allah-ibn-Hosein, Sciantareni, Sa'di; onde si vede che corsero quattro generazioni tra l'emigrato di Santarem, e il nato in Sicilia il 1041. Si corregga conforme a ciò la notizia data nella Introduzione, vol. I, p. XXXVII. nº I.

1331. Dsehebi, Anbâ-en-Nokâ nella Biblioteca Arabo Sicula, testo, p. 643.

1332. Kasr-Sa'd. Si vegga il viaggio d'Ibn-Giobaîr, nel Journal Asiatique, serie IV, tomo VII (1846), p. 42. La conghiettura è fondata su l'identità di nome della tribù e del villaggio. D'altronde Ibn-Kattâ' essendo detto meramente Sikilli era cittadino della capitale.

1333. Si confrontino: Imad-ed-dîn, Ibn-Khallikân, Dsehebi e Soiuti.

1334. Lo Dsehebi, nella vita di Nasrûn-ibn-Fotûh-ibn-Hosein Kherezi, e 'l Soiuti in quella d'Isma'il-ibn-Ali-ibn-Miksciar, Biblioteca Arabo-Sicula, p. 618 e 674, notano di quei due grammatici che fossero stati compagni d'Ibn-Kattâ'; e del secondo si dice essere divenuto celebre la mercè del letterato siciliano. Soiuti nelle biografie di Ased-ibn-Ali-ibn-Mo'mir, Hoseini, lo ricorda discepolo in tradizione d'Ibn-Kattâ'; e lo stesso in quella di Ali-ibn-Abd-el-Gebbâr-ibn-Abdûn, gran filologo e tradizionista, Biblioteca Arabo-Sicula, p. 673, 677.

1335. Soluti, l. c. Ogni libro si leggea in pubblica scuola con licenza scritta dall'autore o di chi il tenesse da lui; e così successivamente. Or i letterati d'Egitto, a proposito del Dizionario di Gewhari, spacciarono che Ibn-Kattâ', vedendolo mal noto e molto desiderato nel paese, avesse fabbricato la serie della licenza: onde le sentenziarono nom di coscienza “troppo sciolta” in questa materia. Così Soiuti; il che spiega quell'accusa di “troppa scioltezza nel riferire” che leggiamo più vagamente in Ibn-Khalikân. Il Dizionario di Gewhari era stato pubblicato a Nisapûr in Khorasân il 390 (1000), e l'autore morto il 393 o 398.

1336. La biografia di Ali-ibn-Kattâ' è data da: Ibn-Khallikân, Dizionario biografico, versione inglese di M. De Slane, tomo II, p. 265, 266; Dsehebi, Anbâ-en-Nohâ, nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 646; Soluti, Tabakât-el-Loghewîn, op. cit., p. 676. Imad-ed-dîn, nella Kharîda, op. cit., p. 589, ne fa anche un breve cenno, aggiugnendo aver conosciuto in Egitto chi lo avea veduto vivente; e aver trovato una tavoletta scritta da lui il 509. Si vegga anche Abulfeda, Annales Moslemici, anno 515, tomo III, p. 462.

1337. Soluti, op. cit., p. 677.

1338. Hagi-Khalfa, Dizionario Bibliografico, edizione Flüegel, tomo II, p, 135, nº 2243; e Soluti, op. cit., nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 677. L'autografo par che fosse venuto alle mani di Iakût. Si vegga la Biblioteca Arabo-Sicula, p. 115.

1339. Si veggano nel capitolo precedente, la pag. 430; e in questo capitolo, p. 490 ec. Ibn-Kattâ' par che abbia dato l'ortografia di tutti i nomi topografici dell'isola. Oltre quel di Sicilia citato dianzi, v'ha quel di Kosîra (Pantellaria), nella, Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 124.

1340. Kharîda, nella Biblioteca Arabo-Sicula, cap. LXIII, § 3, p. 589 a 598.

1341. Hagi-Khalfa, op. cit., tomo II, p. 135, nº 2243. Ne fa menzione lo stesso autore, tomo III, p. 203, nº 4935, e Ibn-Khallikân, e Soiuti, ll. cc.

1342. Makkari, Analectes sur l'histoire d'Espagne, tomo I, p. 634 del testo arabico, trascrive un passo dello storico Ibn-Sa'id, il quale dando l'autobiografia si scusava con l'esempio di tre scrittori, tra i quali nomina Ibn-Kattâ'.

1343. Ibn-Khallikân e Soiuti, ll. cc., Hagi-Khalfa, op, cit., tomo I, p. 373. Nº 1025. Par che sia esemplare di quest'opera il MS. dell'Escuriale DLXXIII, che Casiri tradusse “Liber Verborum tripartitumque”, ma si tratta forse dei “verbi triliteri”; e quivi afferma essere stato Ibn-Kattâ', Domicilio Cordubensis. Notando poi l'opera di versificazione, della quale or or faremo parola, Casiri lo spaccia origine siculus patria Hispalensis, ed anche trascrive male il nome. Indi gli Ebn-al-Kattaa ed Ebn-Cataa del Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 239. Il Casiri non avea punto fatto equivoco tra il padre e il figliuolo, ma avea reso con lettere diverse lo stesso nome. Io non so, non avendo veduto i due MSS., se vi sia qualche parola da far supporre il soggiorno d'Ibn-Kattâ' a Cordova e Siviglia; nè sarebbe impossibile che prima d'Egitto ei fosse andato in Ispagna. Ma Casiri suol troppo facilmente far dono alla Spagna di scrittori che non le appartengano per niun conto.

1344. Ricordato da Ibn-Khallikân e da Soiuti. Hagi-Khalfa ebbe alle mani quest'opera, poichè ne trascrive le prime parole, com'ei suole. Dà anche uno squarcio della introduzione, dove Ibn-Kattâ' ricorda le 308 forme di nomi, tra sostantivi e aggettivi, date dal celebre grammatico Sibûweih, le aggiunte d'altri, e in fine le sue proprie. Dei masdar, ossia infiniti adoperati sostantivamente come noi diciamo l'andare., il fare ec., si erano notate 36 forme, e Ibn-Kattâ' le condusse a 100. Compi questo trattato in regeb del 513. Hagi-Khalfa, op. cit., tomo I, p. 146, nº 31.

1345. Soiuti, l. c. Hagi-Khalfa, op. cit., tomo IV, p. 94, nº 7714.

1346. Hagi-Khalfa, op. cit., tomo II, p. 190, nº 2429. Nondimeno Nawawi, The Biographical Dictionary, testo arabico, pubblicato dal Wüstenfeld, p. 126, attribuisce quest'opera all'altro siciliano Abu-Hafs-Omar-ibn-Khelef-ibn-Mekki. Ibn-Scebbat la cita a proposito della Sicilia, Biblioteca Arabo-Sicula, p. 212, senza dar il nome dell'autore.

1347. Hagi-Khalfa, op. cit., tomo V, p. 102, nº 10, 207.

1348. Op. cit., tomo V, p. 151, nº 10, 492.

1349. Op. cit., tomo V, p. 44, nº 9853.

1350. L'uno intitolato: Il Salutifero nella scienza della versificazione, si trova in Hagi-Khalfa, op. cit., tomo IV, p. 7, nº 7384. L'altro è all'Escuriale col titolo di: Eloquente prosodia in compendio che (tutto) abbraccia. Si vegga Casiri, Biblioteca Arabo-Hispanica, tomo I, p. 82, cod. CCCXXIX.

1351. Catalogo dei MSS. arabi del British Museum, Parte II, p. 281, nº DXCVII.

1352. Hagi-Khalfa, op. cit., tomo V, p. 136, nº 10,395. Il dotto editore traduce “Liber de Palatiis eorum nominibus et naturæ descriptione, alphabetice dispositus,” supponendo così un errore nel pronome loro ch'è replicato due volte nel testo, e che non si può dire se non di persone; e tenendo Kisâr come plurale di “palagio,” la qual forma se pur si può ammettere, è inusitata. Inoltre una descrizione di palagi, senza dire di qual paese, mi sembra opera troppo aliena dagli studii d'Ibn-Kattâ'. Però mi è avviso di ritenere la lezione loro, che trovo altresì nel MS. di Parigi, e di considerare Kisâr, come plurale di Kasîr, “breve, corto, nom corto d'ingegno e di qualità, imperfetto” che si legge nel Dizionario di Meninski. Sarebbe allora un dizionario biografico di “Scrittori minori,” come noi diremmo. Del resto avverto che il più delle volte è impossibile di tradurre con certezza i titoli dei libri arabi, quando non si sappia l'argomento, o non si abbia alle mani tutta l'opera, per comprendere quegli enimmi.

1353. Hagi-Khalfa, op. cit., tomo IV, p. 145, nº 7901, e tomo VI, p. 109, nº 12,867. Lo cita anche l'autore del Mesâlik-el-Absâr, nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 656. Mi è parse bene rendere la prima voce col significato proprio di Sali. Gli Arabi l'adoperarono a un dipresso come noi al traslato, per significare “bellezze letterarie, espressioni vivaci ec.”

1354. Ibn-Khallikân, l. cit., e tomo III, p. 190 della medesima versione inglese. Ma Hagi-Khalfa attribuisce ad altri l'opera così intitolata, e nelle altre notizie biografiche di Ibn-Kattâ' non se ne fa parola.

1355. Si vegga il Dizionario arabico di Freytag, tomo III, p. 170.

1356. Ibn-Khallikân, l. c., afferma che Ibn-Kattâ' lasciò molte poesie; e ne dà per saggio tre squarci, un dei quali non si trova negli estratti che ce ne serba. Imâd-ed-dîn nella Kharîda, MS. di Parigi, Ancien Fonds, 1375, fog. 20 verso a 22 recto, e MS. del British Museum, Rich. 7593. Il Soiuti, nel Tabakât-el-Loghewîn, in fin della biografia d'Ibn-Kattâ', dà altri 13 versi, che ho copiati dal MS. del Dottor John Lee, ma non si trovano in quel di Parigi. Abbiamo nella Kharîda il primo verso d'una sua Kasîda a lode di Afdhal, e frammenti di cinque altre.

1357. A ciò parmi che alludano i tre versi trascritti da Ibn-Khallikân, op. cit., “Consume not this life ec.” nella versione inglese di M. De Slane, tomo II, p. 266.

1358. Dalla Kharîda, MS. citato di Parigi, fog. 21 verso.

“Somigliante a cotesta nostra, l'età degli antichi popoli che perirono, sfoggiava di colori e sembianti (affé) non spregevoli.

“La diresti scatola d'oro, piena di rubini, così alla rinfusa, non legati.”

A comprender meglio l'allusione, è da sapere che le due voci che ho tradotto “alla rinfusa” e “legato” sono Nethr e Mensûm, le quali hanno anche il significato, l'una di “prosa” e l'altra di “poesia.”

1359. La citazione a p. 464.

1360. Id., p. 477, 478.

1361. Dsehebi, Anbâ-en-Nohâ, nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 647. Si vegga per costui l'altra citazione qui innanzi a p. 471.

1362. Id. 474.

1363. Id. 476. Il nome di Omar con la stessa genealogia e condizioni è dato da Dsehebi, Biblioteca Arabo-Sicula, 647; quello di Othman da Makrîzi e Soiuti, p. 663, 676.

1364. Dsehebi, op. cit., p. 645.

1365. Id. p. 646.

1366. Id. p. 648.

1367. Ibid.; e Soiuti, p. 673, citando Iakût.

1368. Dsehebi, op. cit., p. 647.

1369. Id. p. 646; e Soiuti, p. 677. Ho corretto il nome secondo Soiuti.

1370. Soiuti, p. 675.

1371. Mo'gem, nella Bibl. Ar. Sic. p. 124.

1372. Mo'gem, op. cit. p. 110.

1373. In un Diwan di Motenebbi, copiato il 1184 dell'èra volgare, si notano in appendice i comentatori, e tra quelli si legge il nome d'un Sikilli-ibn-Fûregia, (Mines de l'Orient, tomo IV, p. 112.) Una delle copie di quel diwano con simile appendice che possiede il British Museum (Catalogo orientale, parte II, p. 281, nº DXCVII) dà tra i comentatori. Abu-Hasan ec. Seîkillî (corr. Sikîlli) ed Ibn-Fûregia, senza aggiugnere il nome di Siciliano. Costui scrisse a difesa di Motenebbi due opere: L'accusa contro Ibn-Ginni, e La vittoria sopra Abu-l-Feth. Abu-Hasan-Abd-er-Rahman, potrebbe essere il medesimo ricordato a p. 497, col nome proprio di Ali.

1374. Pag. 482 e 488.

1375. Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, versione de M. Des Vergers, p. 183.

1376. Si vegga la p. 509. La Correzione della lingua, d'Ibn-Mekki è citata da Nawawi, Biographical Dictionary, testo arabico, p. 126, a proposito delle varianti del nome proprio Abraham, Ibrahim ec. È attribuita anche ad Ibn-Mekki da Ibn-Khallikân, versione di M. De Slane, tomo I, p. 435, e da Soiuti; e con una variante da Hagi-Khalfa, edizione Flüegel, tomo III, p. 604, nº 7189.

1377. Kharîda, nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 597. Imad-ed-dîn non solamente cita Ibn-Kattâ', ma par che trascriva da lui questo squarcio di prosa rimata. Abd-er-Rahîm-ibn-Mohammed-ibn-Nobâta, fiorì in Mesopotamia nella seconda metà del decimo secolo. Gli Arabi citano il vescovo Kos e questo Ibn-Nobâta, come noi faremmo di Demostene e Cicerone: e in vero, serbate le proporzioni tra l'eloquenza arabica e la greca e latina, Ibn-Nobâta si può dir felicissimo oratore. Così parmi dalle sue khotbe, che ho percorso nel MS. della Biblioteca Parigina, Ancien Fonds, 451. Si vegga la biografia d'Ibn-Nobâta in Ibn-Khallikan, versione inglese, di M. De Slane, tomo I, p. 396.

1378. Dsehebi, Anbâ-en-Nohâ, nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 646, 647. A' cenni biografici di Dsehebi e della Kharîda, si aggiunga quello di Soiuti, Biblioteca Arabo-Sicula, p. 677.

1379. Nella Kharîda, MS. di Parigi, Ancien Fonds, 1375, fog. 45 recto e seg., v'hanno dodici epigrammi d'Ibn-Mekki; su i quali è fondato il mio giudizio.

1380. Kharîda, nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 595. Ho tradotto “racconti” la voce riwâiât. Credo che già nell'XI secolo prevalesse appo gli Arabi l'uso dei finti racconti in prosa, chiamati riwâiât al par dei racconti di fatti veri.

1381. Kharîda, MS. citato, fog. 40 verso, seg. Sono nove d'una Kassida; undici d'un'altra, spezzati a due o tre versi, una stanza di sette versi brevi, e l'epigramma che fè incidere in un pugnale.

1382. Si vegga sopra, p. 471 e 494.

1383. Mo'gem-Boldân, nella Biblioteca Arabo-Sicula, Correzioni ed aggiunte che fan seguito alla Prefazione, p. 43.

1384. Iakût-Moscterik, edizione del Wüstenfeld all'articolo Waddân; Kharîda nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 591.

1385. Kharîda, estratti dalla Dorra d'Ibn-Kattâ', nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 592.

1386. Ibid.

1387. Ibid.

1388. Op. cit., p. 591.

1389. Karîda, ecc. nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 595.

1390. Ibid. Si vegga il presente capitolo, p. 464.

1391. Op. cit., p. 595.

1392. Op. cit., p. 596. Si vegga il presente capitolo, l. c.

1393. Op. cit., p. 598.

1394. Ibid.

1395. Ibid.

1396. Op. cit., p. 590.

1397. Cronica di Cambridge. Si vegga l'Introduzione mia nel primo volume, p. XL, nº VII; e il cap. X del Lib. III, p. 210 dei presente volume.

1398. Pag. 507.

1399. Si veggano i particolari nel Capitolo XIII di questo libro, p. 429, seg.

1400. Capitolo XII di questo Libro, p. 422. Kazwini, che dà questo fatto senza citazione, allega in altro luogo (Agiâib-el-Mekhlûkât, edizione del Wüstenfeld, testo, p. 166) la Storia di Sicilia di Abu-Ali-Hasan-ibn-Iehia; nè par n'abbia conosciuta alcun'altra. Si potrebbero anzi supporre entrambi que' passi tolti di peso da Iakût, il quale allega sovente quella istoria nel Mo'gem-el-Boldân, Biblioteca Arabo-Sicula, p. 109, 111, 115, 118. Nelle tre copie a me note del Mo'gem, manca in vero l'articolo di Malta; ma si dee supporre che Kazwini l'abbia avuto sotto gli occhi in esemplari migliori.

A prima vista parrebbe che Abu-Ali-Hasân potesse identificarsi con Ibn-Rescîk, il quale portò quei due primi nomi. Ma distruggono tal supposto il nome patronimico Ibn-Iehia, la qualità di giureconsulto e la celebrità stessa d'Ibn-Rescîk, poichè tra le sue opere notissime niuno annovera la storia di Sicilia. Abu-Ali-Hasan-ibn-Iehia, s'egli è, come sembra, il narratore del caso di Malta, scrisse tra il 1049 e il 1091, come notai a suo luogo.

1401. Hagi-Khalfa, ediz. di Flüegel, tomo II, p. 135, nº 2243.

1402. Si vegga qui innanzi a p. 511, 512.

1403. Hagi-Khalfa, ediz. di Flüegel, tomo II, p. 124, nº 2196.

1404. Cap. VII di questo Libro, p. 333 e seg. del volume.

1405. Nome derivato dal castello Tûb nell'Africa propria, del quale fosse stato oriundo il padre, alcuno degli avi. Questo nome di luogo si trova nel Riâdh-en-Nofûs, p. 191 della Biblioteca Arabo-Sicula, ed anche nel Lobb-el-Lobâb di Soiuti, edizione di Leyde.

1406. Pag. 516.

1407. Nel cenno d'Imad-ed-dîd, tolto probabilmente da Ibn-Kattâ', è detto, tra le altre lodi, “Sostegno di sultani.”

1408. Luogo citato.

1409. Kharîda, MS. di Parigi, Ancien Fonds, 1375, fog. 30 recto.

1410. Kharîda, MS. citato, fog. 30 verso.

“L'incantesimo non sforza altrimenti che le grazie di costei; l'ambra grigia non (olezza) altrimenti che l'alito suo.

“Ignoravamo il suo soggiorno, quando ne venne fuori una fragranza che ci fe dire: ella è qui ec.”

“La morte, oh bramo la morte, s'io non debba mai stringerla al seno: chè la virtù, onde ho vita, è il suo sembiante.

“Se mai sitibondo bevesti dell'acqua a lunghi sorsi, (sappi) che ciò è nulla al (paragone del) mio (contento a) baciarla in bocca.”

1411. Non potendo lasciare addietro le accuse contro la società di cui ricerchiamo la storia, ho pubblicato nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 590, quest'epigramma; e qui, a malgrado mio, lo traduco. Ma non si può affermare che Ibn-Tûbi lo avesse scritto piuttosto in Sicilia, che in Oriente o in Affrica.

“Con questi versi descrisse un r....... eccellente in suo mestiere:

“Quel dai grandi occhi negri che torcea lo sguardo da me, mandaigli a dire l'intento mio per un mezzano;

“Ed ecco che questi il mena seco sotto mano, cheto cheto, come flamma (di lampada) si tira l'olio.”

1412. Si vegga qui sopra a p. 515. Ecco i versi che troviamo nella Kharîda, tolti probabilmente da una Kasîda, dei quali ho dato il testo nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 591.

“I miei son tal gente, che, quando l'unghia di destrieri leva sotto le nubi (del cielo) nubi di polvere,

“I brandi loro lampeggiano e mandano sangue dal taglio, come scroscio di pioggia.

“Terribili altrui, difficili a maneggiare, or s'avventano ad Himiar ed or a Cesare:

“Difendono lor terra, ch'altri non entri a pascervi; troncano ogni mal che sopravvenga.”

Himiar, come ognun sa, è il supposto progenitore della schiatta del Iemen, alla quale appartengono i Kelbiti. La gente del poeta sono i suoi partigiani o i concittadini. Lo credo palermitano, perchè è chiamato Sikilli senz'altro e perchè Ibn-Rescîk, sbarcando a Mazara, gli scrisse una breve epistola in versi che abbiamo nella Kharîda, MS. di Parigi, Ancien Fonds, 1375, fog. 34 verso.

1413. Kharîda nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 593, 594. Lasciando il principio di una Kasida data da Imâd-ed-dîn, ch'è pur bello, tradurrò i soli versi che alludono ad avvenimenti politici. Il poeta, dopo la finzione obbligata del viaggio d'una bella (se fosse Meimuna?) e dell'arrivo di lei alla collina, ov'era forte proteggitore un bel cavaliero, continua così:

“Un da' grandi occhi negri, tinto le palpebre di kohl: il quale mi strappa dalla paziente (rassegnazione) poich'è caduto in dure strette:

“Che Dio guardi le piagge dell'isola, se il principe d'un alto monte avrà in guardia gli armenti scabbiosi che pascono in quella!

“(Principe) i cui nemici edificano castella inaccesse. Ma forse i baluardi di Babek respinsero Ifscîn?

“Io reco la verità in mie parole, nè oso penetrare i segreti di Dio;

“Io il vidi che già s'era recata in mano la somma delle cose, il vidi un dì bersaglio a una furia di sassi, ed ei sorrideva.

“Lioni in una guerra che faceva ardere nel loro costato una fiamma accesa già dagli (antichi) odii.”

Qui finisce inopportunamente lo squarcio della Kasîda, della quale ci si dà, in grazia delle antitesi, quest'altro verso che descrive, dice Imâd-ed-dîn, i morti in battaglia.

“Redhwân li sospingea lungi dal dolce soffio del Paradiso, e Malek li avvicinava al fiato del fuoco (infernale).”

Non ho bisogno di avvertire che questi ultimi sono dei ministri dell'eterna giustizia, a credere dei Musulmani. Il Babek nominato nel primo squarcio è il ribelle comunista al quale accennai nel Lib. III, cap. V, p. 113 di questo volume; e Ifscîn, il capitano turco che il vinse. La lezione “un alto mente” è la sola che mi par si possa sostituire ad una voce del testo che non dà significato (Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 593, nota 8), e si adatterebbe al signore di Castrogiovanni. Infine i guerrieri caduti nelle mani di Redhwân e Malek, dovrebbero essere i Cristiani.

1414. Akhbâr-el-Molûk, di Malek-Mansûr principe di Hama, nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 612, 613. Il nome compiuto di questo poeta si ha da Nowairi. Il Nâsir-ed-dawla, citato qui è il secondo della casa di Hamadân, che portò quel titolo; il quale, costretto a fare il capitano di ventura in Egitto, rinnovò al Cairo gli esempii degli emir el-Omrâ di Bagdad, e d'Al-mansor a Cordova, e in fine fu ucciso il 465 (1072).

1415. Nowairi, Storia d'Egitto, nella Biblioteca Arabo-Sicula, l. c., in nota. Ibn-Modebbir entrò in officio il 453 (1061). Il riscontro del nome e del tempo mi fan supporre che il poeta sia il grammatico del quale parla Soiuti, e il dice maestro dello egiziano Omar-Ibn-Ie'isc, il quale alla sua volta diè lezioni in Alessandria il 498 (1104). Biblioteca Arabo-Sicula, p. 678.

1416. Akhbâr-el-Molûk, l. c.

1417. Cioè degli Arabi di Medina.

1418. Mawkifi, vuol dire oriundo di Mawkif borgata di Bassora. Delle due Kasîde, ove si ricorda questa famiglia, la prima fa le lodi d'un Mohammed, (fog. 2 recto), e la seconda d'un Abu-l-Fereg (fog. 10 recto), che ben potrebbe essere la stessa persona. Cito la copia del MS. dell'Escuriale che mi fu donata dal conte di Siracusa.

1419. Degli eruditi Arabi, i soli che faccian parola di Bellanobi, sono Iakût, Mo'gem nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 108, all'articolo Billanoba, e l'editore dei dugentotrentasei versi di questo poeta che si trovano nel codice dell'Escuriale, CCCCLV del catalogo di Casiri. Questi lesse il nome etnico Albalbuni, e suppose scritti i versi a lode di principi siciliani e in particolare d'Ibn-Hamûd. Si vegga il di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 237, e la nota scritta a capo del codice dell'Escuriale, ch'io ho pubblicato nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 680, dove il detto nome è dato con tutti i segni ortografici, Bellanobi. Quivi anche si legge che il giurista Abu-Mohammed-Abd-Allah-ibn-Iehia-ibn-Hamûd, Hazîmi, avea recitato in Alessandria all'editore, l'anno 513 (1119), que' versi di Bellanobi sentiti di sua propria bocca, e varii squarci d'Ibn-Rescîk e d'altri poeti non siciliani. Questo Ibn-Hamûd non era della famiglia Alida di tal nome che regnò in Spagna e ne venne un ramo in Sicilia, ma della tribù d'Hazîma ch'apparteneva a quella di Nahd, e però alla schiatta di Kahtân.

Ecco alcuni versi della citata elegia:

“Ottima e santissima delle madri, m'hai gittato in seno un'arsura, che il fuoco non l'agguaglia.

“Tra noi si frappone la distanza dell'Oriente all'Occidente; e pure giaci qui accanto, la casa non è lungi da te!

“Oh che s'irrighi la tua zolla, ad irrigarla scendanvi perennemente nubi gravide di pioggia,

“E mentr'esse spargeranvi stille di pianto, sorridan lì i più vaghi fiori.

“Dite all'Austro: Costei mori musulmana; accompagnaronla le preci della sera e della mattina;

“Sosta tu dunque su la moschea Akdâm, e tira su a settentrione senza torcere a manca ec.

La moschea Akdâm a Karâfa presso il Cairo, è ricordata da Makrîzi nella Descrizione dell'Egitto, testo arabico, stampato di recente a Bulâk, tomo II, p. 445, dove si fa parola del cimitero di Karâfa, della incerta etimologia di quella denominazione d'Akdâm, ec.

1420. Pag. 510.

1421. Kharîda, capitolo dei poeti egiziani, nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 605 e seg. Secondo Imad-ed-dîn, questo poeta morì avanti il 544 (1149-50); onde mal reggerebbe il supposto che il Kâid-Mamûn fosse alcuno dei regoli di Sicilia, i quali si intitolavano Kâid, come s'è detto. Che che ne fosse, io ho pubblicato nella Biblioteca Arabo-Sicula tutto lo squarcio di questa Kasîda, serbatoci da Imâd-ed-dîn. Similmente si leggono nel luogo citato e nella prefazione, p. 77, i versi contro il poeta Moslim, il quale, non contento dei cinque dînar, domandò un'altra pensione in merito della poesia; e gli accrebbero il sussidio di mezzo dînar al mese. Imad-ed-dîn dà quasi un centinaio di versi di Megber.

1422. Mesalik-el-Absar, nella Biblioteca arabo-Sicula, testo, p. 654, 655.

1423. Squarcio di poema dato da Imad-ed-dîn nella Kharîda, Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 609. I primi tre versi e il settimo, riferiti anco da Tigiani, si leggono nella Historia Abbadidarum del Dozy, tomo II, p. 146, dei quali si può vedere la traduzione del dotto editore. Gli altri son del tenore seguente:

“Su, alma, non tener dietro all'accidia, i cui lacci allettano, ma l'è trista compagna.

“E tu, o patria, poichè mi abbandoni, vo' fare soggiorno nei nidi delle aquile gloriose.

“Dalla terra io nacqui, e tutto il mondo sarà mia patria, tutti gli uomini miei congiunti.

“Non mi mancherà un cantuccio nello spazio; se nol trovo qui, lo cerco altrove.

“Hai tu ingegno? abbi anco cuore: chè l'assente non conseguì mai suo proposito appo colui che nol vede.”

1424. Ibn-Bassâm narra che un giorno sedendo Mot'amid a brigata, recatogli un carico di monete di argento, ne donò due borse ad Abu-l-Arab; il quale vedendo innanzi il principe tante figurine d'ambra, e tra le altre una che fingea un camelo ingemmata di pietre preziose, sclamò: “A portar coteste monete, che iddio ti conservi, ci vuol proprio un camelo.” E Mot'amid, sorridendo, gli regalò la statuetta: onde il poeta lo ringraziava con versi estemporanei. Dal Mesâlik-el-Absar, nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 656, e da Tigiani, nella Historia Abbadidarum, del Dozy, l. c.

1425. Oltre i versi di risposta all'invito di Mot'amid, che si trova nelle biografie d'Abu-l-Arab, la Kharîda, MS. di Parigi, Ancien Fonds, 1376, fog. 35 recto, e Sappi. Arabe 1411, fog. 8 recto e verso, dà squarci di altri due poemi, dei quali il primo sembra, e il secondo è di certo, indirizzato a Mo'tamid. Quivi si accenna ad una impresa in terra nemica, alla quale si trovava il poeta, poich'ei dice: “Notti (gloriose) che tutte le notti tornassero a noi con le medesime speranze ec.”

1426. La biografia di Abu-'l-Arab si ricava da: Imad-ed-dîn, Kharîda nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 606; Ibn-Khallikân, Dizionario Biografico, versione inglese di M. De Slane, tomo II, p. 277 nella vita di Ali-ibn-Abd-el-Ghani-el-Husri; Scehâb-ed-dîn-Omari, Mesâlik-el-Absâr, nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, 655 e seg. Fa cenno di lui Melik-Mansur, op. cit., p; 613. Hagi-Khalfa, edizione di Flüegel, tomo III, p. 314, nº 5678, nota il diwano delle sue poesie. Non trovo in alcun autore il titolo dell'opera di arte poetica alla quale par che voglia alludere Scehâb-ed-dîn-Omari.

1427. Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique ec., versione di M. De Vergers, p. 87, 88, e citazione di Nowairi, ibid., nota 96. Al dir di Nowairi, questo Hamdîs discendea della tribù di Kinda, che sarebbe collaterale a quella di Azd, entrambe del Iemen, ossia del ceppo di Kahtân. Suppongo Ibn-Hamdîs nato il 447 (1055-1056), poichè morendo il 527 (1132-3) avea circa ottant'anni, leggendosi nel suo diwân, Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 573, i versi seguenti, un po' senili:

“Ecco un bastone ch'io non strascino nel sentiero della vergogna; mi regge ansi a scostarmene.

“O vogliate dir che l'impugno per correr meglio all'ottantina, non per battere (gli alberi e raccorre) foglie al mio gregge. [Si vegga il Corano, Sura XX, verso 19.]

“Io sembro un arco, e il bastone la corda; l'arciere v'incocca canizie e caducità.”

1428. Le allusioni a questo fatto si raccapezzano da due Kasîde, la prima delle quali ho data nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 552 e seg., e comincia così:

“Le sollecitudini della canizie hanno scacciato l'allegrezza della gioventù. Ah! la canizie quando comincia a splendere la t'abbuia!

“Per un'ombra d'amore il destino mi spinse lungi; e l'ombra fuggì da me e sparve.

. . . . . . . . . . . . . . .

“Una brezza vespertina mormora, rinfresca, e sospinge soavemente (la barca).

“Ella sciolse. Evviva! E la morte facea piangere il cielo sugli estinti che giaceano in terra.

“Il mugghio del tuono incalzava le nubi come il camelo che freme contro la compagna ribelle.

“D'ambo i lati di lei avvampano i baleni, col lampeggiare di spade brandite.

“Passai la notte nelle tenebre. O bianca fronte dell'aurora, arrecami la luce!

. . . . . . . . . . . . . . .

“In quella (terra) è un'anima amante, che alla mia partita, mi infuse questo sangue che scorremi nelle vene;

“Luoghi ai quali corrono furtivi i miei pensieri, come i lupi si rinselvano nella (natia) boscaglia.

“Quivi fui compagno dei lioni alla foresta; quivi in suo covile visitai la gazzella.

“O mare! dietro da te è il mio giardino, del quale mi ascondi le delizie non già le miserie!

“Lì vidi sorgere una bella aurora, e lungi di quello mi coglie il vespro.

“Ahi se non m'era data la speme, quando il mare mi vietò di porvi il piede,

“Io montava, in vece di barchetta, l'arcione, e correva in quelle piagge incontro al sagrifizio.”

Ho dovuto tradurre liberamente le strane metafore che ha il testo nell'ultimo verso. L'altra Kasîda, è scritta in risposta ad un amico che par abbia profferto ad Ibn-Hamdis, dopo molti anni, di rappattumarlo con possente famiglia perch'ei tornasse in Sicilia, ove i Musulmani, com'e' parmi, volean tentar qualche sollevazione. La difficoltà di ridurre a lezione plausibile alcuni versi di questo lungo componimento, mi distolse dal pubblicarlo nella raccolta dei testi. Nondimeno vi si scorge manifesta la cagione della fuga; e la famiglia nemica par si chiamasse dei Beni-Hassân. Il poeta, già maturo e collocato a corte di Mo'tamid, ricusa di tornar di presente nella Sicilia soggiogata dai Normanni; ma perdona a tutti, e finisce la Kasîda sclamando:

“Lode ai viventi, lode a coloro le cui ossa giacciono nelle tombe, lode sia a tutti!

“Lode, perchè non dura quivi il letargo; e grandi eventi ne riscoteranno anche me.”

1429. Si vegga la descrizione ch'ei fa di costoro e il paragone con gli Arabi di Sicilia in una Kasîda che comincia: “Pascon la bianca foglia il cui frutto è sangue (lo stipendio dei mercenarii ec.)” nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 561 e segg.

1430. Ibn-Khallikân. L'Autore dell'Akhbar-el-Molûk intitola Ibn-Hamdîs dsu-l-wizâratein (quel dal doppio officio) che solea dirsi a vizir investito di comando civile e militare: ma qui mi sembra allusione al genio poetico e valor guerriero d'Ibn-Hamdîs.

Tra i molti componimenti indirizzati a Mo'tamid ve n'ha uno, nel quale, ricordando la patria e i parenti, conchiude con effusione di gratitudine:

“Nè tu mi chiudesti la via dell'andar appo loro; ma ponesti il dono a vincolo che mi ritenesse;

“Ed una generosa amistà, la cui dolcezza spandendosi nel mio cuore lo rinfrescò, arso ch'esso era dal cordoglio.”

Di questa Kasîda ho dato uno squarcio nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 554. Si veggano le altre poesie indirizzate a Mo'tamid ed al costui figliuolo Rescîd, delle quali ho dato le rubriche nella stessa raccolta, p. 567, 569, 570.

1431. Diwân d'Ibn-Hamdîs, nell'op. cit., p. 569. Il poeta tornando a Siviglia, fece questi versi al figliuolo che avea nome Abu-Hâscim. Suppongo si tratti di Talavera, poichè il testo dice, per antonomasia, “la battaglia.”

“Oh Abu-Hâscim! le spade m'hanno sminuzzolato: ma, lode a Dio, non voltai faccia dal taglio loro.

“Ricordaimi, in mezzo a quelle, il tuo sembiante, mentre non mi prometteano riposo alle fresche ombre.”

1432. Questi versi riferiti da varii annalisti e biografi, si leggono presso Dozy, Historia Abbadidarum, tomo I, p. 246, tomo II, p. 44. Altri ve n'ha nel Diwan d'Ibn-Hamdîs, accennati nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 571.

1433. Nowairi, Storia di Beni-Abbâd, presso Dozy, op. cit., II, 138, e Biblioteca Arabo-Sicula, p. 459.

1434. Makkari, Analectes sur l'histoire etc. d'Espagne, testo arabico, tomo I, p. 321 e seg., dà in tre squarci 48 versi di questa Kasîda. Mansûr-ibn-Nâsir-ibn-'Alennâs, regnò dai 1088 al 1104, nello stato hammadita, che già avanzava per territorio e forze il reame del ceppo zîrita di Mehdia. Si vegga Ibn-Khaldûn, Histoire des Berbères, versione di M. De Slane, tomo II, p. 51 e seg., dove si fa menzione dei sontuosi palagi edificati a Bugia da Mansûr e dal padre.

1435. Diwân d'Ibn-Hamdîs. Le rubriche si leggono, op. cit., p. 572.

1436. Ibn-el-Athîr, anno 509; nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 280.

1437. Ve n'hanno squarci nella Kharîda, le cui rubriche si leggono nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 608.

1438. Hagi-Khalfa, edizione Flüegel, tomo II, p. 124, nº 2196.

1439. Diwân, op. cit., p. 572, 573. Ibn-Hamdîs diceva al raccoglitor del diwan, aver letto nelle opere di Storia Naturale questa filial pietà delle aquile, e che la non si notasse in alcun altro animale.

1440. Le notizie d'Ibn-Hamdîs, si ricavano da: Ibn-Khallikân, Biographical Dictionary, versione di M. De Slane, tomo II, p. 160 seg.; Imad ed-dîn, Kharîda nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 607 e seg.; Malek-Mannu, Tabakat-el-Scio'arâ, op. cit., p. 612. Scehab-ed-dîn-Omari, Mesalik-el-Absâr, op. cit., p. 653 e seg.; e soprattutto dagli avvertimenti premessi a varie poesie, nel Diwân di Ibn-Hamdîs dal raccoglitore anonimo, il quale lo conobbe di persona e conversò con lui, come si ritrae da una glosa, op. cit., p. 573. Gli estratti cominciano dalla p. 547. Il Diwân pur non contiene tutte le poesie; mancandovi la Kasîda pel palagio di Mansûr, dianzi citata, e altre di cui si leggono squarci nella Kharîda, in Ibn-el-Athîr, Nowairi ec.

1441. La giraffa, il cavallo, lo scorpione, le melarance, gli anemoni, i doppier di cera ec. Parte di coteste descrizioni, mancanti nel Diwân d'Ibn-Hamdîs, son date da Nowairi in un volume della Enciclopedia, MS. di Leyde, nº 273, e ne occorrono sovente in varie raccolte enciclopediche, per esempio il Giâmi'-el-Fonûn, di Ahmed Harrâni, autor del XIII secolo, MS. di Parigi, Ancien Fonds, 367, fog. 18 verso e 39 recto.

1442. “Come se scaldi specchio di pece, (vedi) il rosso del fuoco camminar su quella negrezza.” Da Scehâb-ed-dîn-Omari nel Mesâlik-el-Absâr, volume XVII, MS. di Parigi, Ancien Fonds, 1372, fog. 76 verso.

1443. La Kasida dedicata a Iehia-ibn-Temîm, principe di Mehdia, comincia con questo verso:

“È fiamma questa che squarci le tenebre della notte, o la lampade il cui fuoco (si alimenta con) l'acqua dell'uva?

“Ovvero sposa che comparisca alta sul seggio ec.” Diwân, nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 572.

1444. Nella parafrasi di queste ed altri squarci d'Ibn-Hamdîs non aggiugnerò nulla del mio. Tradurrò fedelmente, ma scorcerò, e trasporrò, studiandomi a rendere il manco male che io possa il colorito dell'originale.

1445. Questo vocabolo furbesco si usa tuttavia in Sicilia; e chi sa se venne dagli Arabi? Forse nacquero da quella espressione figurata i nomi di moscato e moscatello.

1446. Dinân, plurale di denn, orcio lungo che finisce aguzzo.

1447. Cioè l'otre di pelle di gazzella che serviva a portar l'acqua.

1448. Diwân, nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 548 e seg. Questa Kasîda comincia coi versi:

“L'anima sfogò tutte voglie in gioventù, e la canizie le ha recato suoi ammonimenti.

“La fortuna non la piantò come virgulto in buon terreno, nè poi ne raccolse i frutti,

“No; fui sorteggiato alle passioni che mi divisero in pezzi tra loro:

“Logorai le armi in guerra; fornii molti trascorsi alla pace ec.”

1449. Razza di cavalli rinomata nelle antiche poesie degli Arabi. Si vegga una nota di M. De Slane nel Journal Asiatique, Serie III, tomo V, (1838), p. 467, 477.

1450. Ibn-Hamdîs, adopera altrove la stessa figura. Gli Arabi odierni d'Affrica, come ognun sa, dicono del combattere che “parli la polvere.”

1451. Antimonio o altra polvere negra con che le donne d'Oriente (ed oggi anche ve n'ha in Europa) tingono i lembi delle palpebre e le occhiaie.

1452. Diwân di Ibn-Hamdîs nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 563 e segg.

1453. Mesâlik-el-Absâr nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 151.

1454. Diwân d'Ibn-Hamdîs, op. cit., p. 553, dalla Kasida che abbiam testè citato a p. 526, nota 2.

1455. Stesso Diwân, Biblioteca Arabo-Sicula, p. 562.

1456. Nella Kasîda, della quale or or darò cinque versi nel testo, ripiglia dopo il biasimo del popolo le lodi dei guerrieri: “uomini che quando li vedi in furore, ameresti meglio il ratto dei lioni.... Galoppanti su snelli corsieri, a' cui nitriti fanno eco in terra di nemici le nenie delle piagnone.... Li vedi caricare or con la lancia or con la spada; ferir d'ambo i lati non altrimenti che il re nel giuoco degli scacchi.... Muoion della morte del valore in mezzo alla mischia, quando i vigliacchi spirano in mezzo alle donne dal turgido petto. Imbottiscon della polvere de' campi i cuscini che lor si pongono sotto gli omeri nella sepoltura.” Quest'ultimo era costume dei devoti guerrieri.

1457. Diwân, nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 554.

1458. Litteralmente “le falangi, delle dita, ec.” op. cit., p. 558. Questa lunga Kasîda, scritta, com'e' pare, in Affrica, lagnandosi di qualche principe zîrita, comincia, p. 554, col verso:

“Ho vestito la pazienza com'usbergo contro i colpi della sorte. O tristo secolo, poichè non vuoi la pace, su combattiamo.”

1459. Ibn-Bassâm, Imâd-ed-dîn, Scehâb-ed-dîn-Omari, Malek-Mansûr ec., ll. cc.

1460. Nella Karîda, Biblioteca Arabo-Sicula, p. 608.

1461. Kharîda nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 608. L'autore lo pone al par che il padre tra i poeti Spagnuoli; Ibn-Bescirûn, tra quei del Maghreb di mezzo, che risponde presso a poco all'Algeria.

1462. Iakût nel Mo'gem, Homaidi nella Gedswa, Ibn-Kattâ' nella Dorra, Scehâb-ed-dîn-Omari nel Mesâlik, estratti, nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 122, 377, 594, 653. Ibn-Bescowâl, Ms. della Società Asiatica di Parigi, copia il cenno di Homaidi.

1463. Kharîda, da Ibn-Kattâ', nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 597. Una Kasîda è indirizzata a Mo'tasim, sui quale si vegga il Dozy, Recherches sur l'histoire d'Espagne, tomo I, p. 116.

1464. Si vegga sopra a p. 514, 516.

1465. Kharîda, da Ibn-Kattâ', nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 596.

1466. Si vegga a p. 511, in questo capitolo.

1467. Imâd-ed-dîn, Kharîda nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 589, loda i suoi versi come “di buon gitto e intessuti con gusto.” Si vegga anche Dsehebi, Anbâ-en-nokâ, op. cit., p. 647. I versi si trovano nella Kharîda e somman quasi a dugento.

1468. Si vegga la p. 494, in questo capitolo.

1469. Kharîda, MS. di Parigi, Ancien Fonds, 1375, fog. 24 verso, e altrove.

1470. Ibid., e 25 verso. Di cotesti barbuti, l'uno chiamavasi Gia'far-ibn-Mohammed, e l'altro Hamdûn, nomi che non troviamo nelle memorie del tempo. Del secondo ei diceva: “La barba d'Hamdûn, è una casacca che gli serve a ripararsi dal gran freddo. O piuttosto, quand'ei vi s'asconde in mezzo, la ti pare un mantello da letto addosso a una scimmia.”

1471. Op. cit., fog. 24 recto, 26 recto ec. Ve n'ha non men che otto, un dei quali è di lode. A fog. 26 verso, lode d'una ballerina.

1472. Kharîda, MS. di Parigi, Ancien Fonds, 1375, fog. 26 recto.

“Andai a fargli visita per novellare, che alla sua borsa io non pensava per ombra.

Ma suppose che venissi a chieder danaro, e fu lì lì per morir di paura.”

1473. Kharîda, nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 590:

“Con le parole ti avvicina ogni cosa; richiedilo, ed ecco ch'è lontano (cento miglia).

“L'amico non faccia assegnamento su la sua promessa; il nemico non tema mai la minaccia.”

1474. Kharîda, MS. cit., fog. 29 recto:

“Gran pezza sopportai la mal indole di costui e dicea tra me: s'emenderà forse.

“Ma or che ha tolto moglie, alla larga! ho paura delle cornate.”

1475. Ad un butterato di vaiolo, e a due di fiato puzzolente, op. cit., fog. e 27 recto e 28 recto.

1476. Op. cit., fog. 24 verso: “O tu che mi biasimi del fuggire gli uomini e viver solitario,

“(Sappi), ch'io non so star con le vipere.”

Ed a fog. 29 recto: “Quand'uom ti dice villania, lascialo andare, che Dio ti aiuti! Abbaieresti forse contro il can che t'abbaia?”

1477. Kharîda, estratto d'Ibn-Kattâ', nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 592. Ecco i versi che leggiamo nel MS., fog. 37 verso:

“Le indoli e costumi degli uomini, variano come le qualità d'acqua che tu conosci.

“Qui la limpida e pura, e puoi gustarla un sol giorno; e qui la torbida e puzzolente.

“Negli uomini il bene è pozzetta invernale che (la estate) si corrompe; il male è pozzo ridondante e inesauribile.”

1478. Dal Mesâlik-el-Absâr, estratto, nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 154.

1479. Kharîda, estratto d'Ibn-Kattâ', nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 592. Sendo messo da Ibn-Kattâ' immediatamente prima d'Abu-Mohammed-Kasîm-ibn-Nizâr, sembra anche dei Kelbiti che sgombrarono di Sicilia con Ahmed, come notammo nel cap. IV di questo Libro, p. 291.

1480. Kharîda, estratto d'Ibn-Kattâ', op. cit., p. 592. Nel MS. son questi versi:

“Se l'amico mi fa ingiuria, regalo alle sue ciglia un allontanamento,

“Vieto all'occhio mio di vederlo: mi sia cavato l'occhio se il guarda!

“Gli ficco negli occhi il suo proprio tratto come uno stecco;

“Lo pongo giù nell'infima abside, quand'anche ei sedesse su le due stelle polari;

“La rompo con lui, foss'egli pure Ahmed-ibn-Abi-Hosein.”

1481. Si veggano il cap. VII ed VIII di questo Libro, p. 334 e 349 del volume.

1482. Si vegga il cap. IX di questo Libro, p. 368, e la Kharîda, estratto d'Ibn-Kattâ', nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 596. È chiamato emiro. Il titolo di Thiket-ed-dawla, sarebbe lo stesso che avea portato l'avolo Iûsuf.

1483. Si vegga in questo capitolo la p. 481.

1484. Dal Mesâlik-el-Absâr, nella Bibl. Arabo-Sicula, p. 154, 155.

1485. Kharîda, estratto da Ibn-Kattâ', nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 598. Ecco tre versi che troviamo nel MS. di Parigi, fog. 48 verso.

“M'ange un dolore ch'io ignorava: un padrone che tiranneggia me debole, ed io pur gli servo.

“Una sua perfida parola mi fa bramar sempre chi promette e non attende.

“Oh Dio! accresci in me il desiderio dell'amor suo, e serba sempre nel mio cuore gli affetti che lo struggono!”

1486. Kharîda, estratto d'Ibn-Kattâ', nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 506. Questa famiglia tenne la signoria di Mazara; ma non sappiamo se Hasan fu di quei che regnarono, nè se fu quel medesimo Ibn-Menkût, di cui abbiam detto in questo capitolo, p. 504.

1487. Op. cit., p, 592. Si vegga il cap. XII di questo Libro, p. 421. I versi di costui nella Kharîda, MS., fog. 37 recto, sono:

“Non v'ha letizia al mondo; il mondo è tutto angosce,

“Che se letizia appare, è poca e non durevole.

“La eletta degli uomini lascia il mondo; chè l'una e l'altro non possono stare insieme.”

1488. Si vegga il cap. XII di questo Libro, p. 427 del volume.

1489. Kharîda, estratto d'Ibn-Kattâ', nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 595.

1490. Ibid.

1491. Op. cit., p. 598.

1492. In questo cap., p. 489.

1493. Kharîda, p. 597.

1494. Op. cit., p. 592.

1495. Ibid.

1496. Op. cit., p. 597.

1497. Op. cit., p. 591.

1498. Op. cit., p. 592. Questi e il precedente sì segnalano per elegante gravità nei pochi versi che ne abbiamo. Ahmed, come ognun vede, era fratello d'Abu-Abbâs-ibn-Mohammed citato poc'anzi.

1499. Pag. 513.

1500. Pag. 477.

1501. Ibid.

1502. Pag. 474.

1503. Pag. 477.

1504. Kharîda, op. cit., p. 591.

1505. Kharîda, op. cit., p. 598.

1506. Op. cit., p. 597.

1507. Op. cit., p. 595.

1508. Potrebbe essere per avventura il Bellanobi o altro Abu-Hasan. Ne abbiamo soli cinque versi, senza cenno biografico nella Enciclopedia di Nowairi, MS. di Leyde 273, p. 747 e 749.

1509. Iakût, Mo'gem, estratto, nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 108.

1510. Kharîda, estratto d'Ibn-Kattâ', nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 598.

1511. Ibid.

1512. Op. cit., p. 597.

1513. Ibid.

1514. Op. cit., p. 595.

1515. Pag. 476, 477, in questo cap.

1516. Pag. 504, in questo cap.

1517. P. 505, in questo cap.

1518. Pag. 512, in questo cap.

1519. Ibid.

1520. Ibid.

1521. Ibid.

1522. Pag. 511.

1523. Pag. 512.

1524. Pag. 476 e 511, in questo cap.

1525. Pag. 477, in questo cap.

1526. Pag. 412, in questo cap.

1527. Pag. 464, in questo cap.

1528. Pag. 478, in questo cap.

1529. Salix Ægyptiaca.

1530. Ciò si dee pensare a priori. Lo conferma il Diwân d'Ibn-Hamdîs, che abbiamo intero, dal quale Imâd-ed-dîn, Ibn-Khallikân, Scehâb-ed-dîn-Omari, scelsero qualche bello squarcio e parecchi mediocri e lasciarono i migliori, quasi sempre a rovescio del gusto nostro.

1531. Kharîda, estratti d'Ibn-Kattâ', nel MS. di Parigi, Ancien Fonds, 1375, fog. 27 verso, e altri epigrammi d'Ibn-Tazi dal fog. 24 recto; altro di Moscerif-ibn-Râscid, a fog. 30 recto; e la descrizione d'una festa d'Ibn-Hamdîs, qui innanzi a p. 531.

1532. Ibn-Abbâr, presso Dozy, Historia Abbadidarum, tomo II, p. 62, ed estratto nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 329.

1533. Si confrontino: Ibn-el-Athîr, MS. C, tomo V, anni 435, 442, 448, 453, 455; Abulfeda, stessi anni; Baîan, testo, tomo I, p. 288 e segg.; Ibn-Khaldûn, Histoire des Berbères, versione di M. De Slane, tomo I, p. 31 e seg., e II, p. 21; Tigiani nel Journal Asiatique, d'agosto 1852, p. 84 a 96; Leone Africano, presso Ramusio, Navigatione et Viaggi, vol. I, fog. 3 recto e verso, edizione di Venezia 1563.

1534. Marrekosci, The history of the Almohades, testo arabico, pubblicato dal professor Dozy, p. 259.

1535. Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 24, dice che la Sicilia di nuovo “si commosse come le onde del mare.” Il Di Gregorio pensò correggere il testo, e tradurre “et solemnis precatio pro eo fiebat in insula,” accennando ad Ibn-Hawwasci. Ma il testo è chiaro e senza mende.

1536. Histoire de l'Afrique et de la Sicile, p. 181 della versione di M. Des Vergers. Quivi si legge “l'un des principaux chefs des habitants les plus turbulents de la ville;” e la voce che ho messo in corsivo, sarebbe traduzione plausibile dell'arabico awghâr, come M. Des Vergers corresse il testo dell'unico e mediocre MS. ch'egli ebbe alle mani. Quivi si legge arghâd, che significherebbe “uomini di viver lieto;” ma non si adatta alla parola “caporioni” che precede. Ma un MS. di Tunis, ha la variante agwâd, “nobili” che io seguo nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 484. Le lezioni inoltre del MS. e del testo di M. Des Vergers, darebbero voci arcaiche o neologie; la variante del MS. di Tunis al contrario è di uso comunissimo, e con la voce precedente fa il senso preciso “capi dei nobili.”

1537. Si vegga il passo di Leone d'Ostia che citai nel cap. XII di questo Libro, p. 421 in nota.

1538. Questi regnò, o stette sul trono dal 991 al 1031.

1539. Ibn-Khaldûn e Nowairi.

1540. Tigiani, versione, op. cit., p. 109, e testo nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 377, 378.

1541. Si confrontino: Ibn-el-Athîr, anno 484, nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 275, 276 del testo; Abulfeda, Annales Moslemici, tomo III, p. 274 e seg., anno 484; Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, versione di M. Des Vergers, p. 181 e seg.; Nowairi, presso Di Gregorio, Rerum Arabicarum, p. 23 e seg.; Ibn-Abi-Dinâr, Storia d'Affrica, nella Biblioteca Arabo-Sicula, testo, p. 533; i quali con più o men particolari ripetono unica tradizione. Si veggano anche Amato, l'Ystoire de li Normant, Lib. V, cap. 8; l'Anonymi Chronicon-Siculum, presso Caruso, Bibliotheca Sicula, p. 836, e versione francese nello stesso volume di Amato, p. 278; Malaterra, lib. II, cap. 3; e Leone d'Ostia, lib. III, cap. 45: dei quali chi dice d'Ibn-Thimna cacciato di Palermo; chi del cognato d'Ibn-Hawwasci ucciso da lui; e da lor soli si ritrae che Ibn-Hawwasci fosse riconosciuto principe in Palermo. I nomi storpiati pur si ravvisano. Ibn-Thimna, è scritto Bettumenus, Vulthuminus, Vultimino ec.; Ibn-Meklati, Belcamedas, Bercanet, Benneclerus, e in una variante del Caruso, op. cit., p. 179, Benemeclerus; d'Ibn-Hawwasci si è fatto maggiore strazio, Belchaoth, Belchus ec. Sempre della voce ibn rimane la b, vi s'aggiugne la l dell'articolo che segue, ed è esatta anche la prima consonante del nome patronimico; il resto si dilegua.

Debbo aggiugnere che Ibn-Giûzi, autor del XIII secolo, dà seriamente una favola assurda che non cavò di certo dagli annali musulmani, ma da qualche tradizione orale o raccolta d'aneddoti. Scrive che i Franchi conquistarono la Sicilia il 463 (1070-71), chiamati da Ibn-Ba'ba', governatore dell'isola, per paura del califo d'Egitto il quale gli domandava il tributo ed ei non potea pagarlo. Si legge nel Merat-ez-Zemân, nella Biblioteca Arabo-Sicula, p. 326.

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le grafie alternative (comentario/commentario, seguita/seguíta e simili; molti nomi arabi, come Khalesa/Khâlesa), correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.

Le correzioni elencate a pag. 563 (Avvertenza dell'Autore) sono state riportate nel testo.

Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.






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Hart, the owner of the Project Gutenberg-tm trademark.  Contact the
Foundation as set forth in Section 3 below.

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effort to identify, do copyright research on, transcribe and proofread
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collection.  Despite these efforts, Project Gutenberg-tm electronic
works, and the medium on which they may be stored, may contain
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law of the state applicable to this agreement, the agreement shall be
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that arise directly or indirectly from any of the following which you do
or cause to occur: (a) distribution of this or any Project Gutenberg-tm
work, (b) alteration, modification, or additions or deletions to any
Project Gutenberg-tm work, and (c) any Defect you cause.


Section  2.  Information about the Mission of Project Gutenberg-tm

Project Gutenberg-tm is synonymous with the free distribution of
electronic works in formats readable by the widest variety of computers
including obsolete, old, middle-aged and new computers.  It exists
because of the efforts of hundreds of volunteers and donations from
people in all walks of life.

Volunteers and financial support to provide volunteers with the
assistance they need are critical to reaching Project Gutenberg-tm's
goals and ensuring that the Project Gutenberg-tm collection will
remain freely available for generations to come.  In 2001, the Project
Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure
and permanent future for Project Gutenberg-tm and future generations.
To learn more about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation
and how your efforts and donations can help, see Sections 3 and 4
and the Foundation information page at www.gutenberg.org


Section 3.  Information about the Project Gutenberg Literary Archive
Foundation

The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non profit
501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the
state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal
Revenue Service.  The Foundation's EIN or federal tax identification
number is 64-6221541.  Contributions to the Project Gutenberg
Literary Archive Foundation are tax deductible to the full extent
permitted by U.S. federal laws and your state's laws.

The Foundation's principal office is located at 4557 Melan Dr. S.
Fairbanks, AK, 99712., but its volunteers and employees are scattered
throughout numerous locations.  Its business office is located at 809
North 1500 West, Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887.  Email
contact links and up to date contact information can be found at the
Foundation's web site and official page at www.gutenberg.org/contact

For additional contact information:
     Dr. Gregory B. Newby
     Chief Executive and Director
     gbnewby@pglaf.org

Section 4.  Information about Donations to the Project Gutenberg
Literary Archive Foundation

Project Gutenberg-tm depends upon and cannot survive without wide
spread public support and donations to carry out its mission of
increasing the number of public domain and licensed works that can be
freely distributed in machine readable form accessible by the widest
array of equipment including outdated equipment.  Many small donations
($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt
status with the IRS.

The Foundation is committed to complying with the laws regulating
charities and charitable donations in all 50 states of the United
States.  Compliance requirements are not uniform and it takes a
considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up
with these requirements.  We do not solicit donations in locations
where we have not received written confirmation of compliance.  To
SEND DONATIONS or determine the status of compliance for any
particular state visit www.gutenberg.org/donate

While we cannot and do not solicit contributions from states where we
have not met the solicitation requirements, we know of no prohibition
against accepting unsolicited donations from donors in such states who
approach us with offers to donate.

International donations are gratefully accepted, but we cannot make
any statements concerning tax treatment of donations received from
outside the United States.  U.S. laws alone swamp our small staff.

Please check the Project Gutenberg Web pages for current donation
methods and addresses.  Donations are accepted in a number of other
ways including checks, online payments and credit card donations.
To donate, please visit:  www.gutenberg.org/donate


Section 5.  General Information About Project Gutenberg-tm electronic
works.

Professor Michael S. Hart was the originator of the Project Gutenberg-tm
concept of a library of electronic works that could be freely shared
with anyone.  For forty years, he produced and distributed Project
Gutenberg-tm eBooks with only a loose network of volunteer support.

Project Gutenberg-tm eBooks are often created from several printed
editions, all of which are confirmed as Public Domain in the U.S.
unless a copyright notice is included.  Thus, we do not necessarily
keep eBooks in compliance with any particular paper edition.

Most people start at our Web site which has the main PG search facility:

     www.gutenberg.org

This Web site includes information about Project Gutenberg-tm,
including how to make donations to the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation, how to help produce our new eBooks, and how to
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