The Project Gutenberg EBook of Racconti storici e morali, by Cesare Cantù This eBook is for the use of anyone anywhere at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this eBook or online at www.gutenberg.org/license Title: Racconti storici e morali Author: Cesare Cantù Release Date: May 28, 2014 [EBook #45803] Language: Italian Character set encoding: UTF-8 *** START OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK RACCONTI STORICI E MORALI *** Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli, Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by The Internet Archive) RACCONTI STORICI E MORALI DI CESARE CANTÙ TERZA EDIZIONE MILANO LIBRERIA EDITRICE DI EDUCAZIONE E D'ISTRUZIONE DI PAOLO CARRARA Via S. Margherita, 1104 1878 Proprietà Letteraria dell'Editore. _Nel 1868 pregai Cesare Cantù di lasciarmi ristampare i suoi_ =Racconti= _già comparsi in molte edizioni. Egli non solo vi annuì, ma varj ne aggiunse, tutti riordinò e ritoccò: non credendo indegni di tal cura lavori che, quantunque i minimi fra' suoi, erano sopravissuti a trenta anni e a tante ruine di cose e di uomini._ _Consumate due edizioni, una nuova ne intraprendo, cominciando da questo volume, che sta anche da sè, e che è abbastanza qualificato dal titolo: al quale vanno compagni uno di_ =Paesaggi e Macchiette=, _e uno di_ =Novelle Lombarde=. _La materia loro e il nome dell'autore mi dispensano dal raccomandarli._ Milano, ottobre 1877. P. Carrara. AVVENTURE GUERRESCHE D'UN UOMO DI PACE CAPO I. I trentanove anni. Alli 6 ottobre anno 1806 compivo i trentanove anni, e abitavo in una cameretta da studente a Berlino. Quando mi svegliai, le campane sonavano della bella, che era domenica: e un sudor freddo mi corse tra pelle e pelle al riflettere che, fra un anno, questo sarebbe il mio quarantesimo giorno natalizio. — Il quarantesimo! A diciannove anni un giovane sospira il ventesimo, perchè fino a quello non gli pare di trovarsi a livello del mondo: a ventinove comincia a far il viso dell'armi al trentesimo anniversario che si avvicina: le illusioni della vita sono ite in dileguo. Ma il quarantesimo!... Ah, quarant'anni, e ancora senza impiego, senza uno stato! Era il mio caso nè più nè meno, eppure non era colpa mia. Risolsi dunque tra me e me, finchè durassi nell'ordine de' celibatarj, di non aver mai più di trentanove, nè meno di trentott'anni. Presa questa disperata deliberazione, mi alzai, e mi posi a dosso gli abiti da festa: ma l'anima era colma d'amaritudine... Roba di chiodi! Fra poco quarant'anni sulle spalle, e ancora solo, e niente più che un povero _candidatus theologiæ_ senza posto, senza avvenire! Neppure un impieghetto di professorello in città avevo potuto buscare; a che dunque tutto il mio sapere, l'instancabile zelo mio, la mia vita esemplare? Non ho parenti, non protettori, Non amiche, non ville, Che far mi possan mai Nell'urna del favor preporre a mille: passavo la giornata a correre le vie per bastare a' miei bisogni dando lezioni al terzo e al quarto: poi nelle ore libere facevo il letterato, scrivevo su pe' giornali e per le strenne: ma che pane salato vi so dir io! I libraj salariavano le mie vergini muse non con altre monete che di rame. Eppure tutti in generale i conoscenti mi faceano una cera da non dire, e portavano in palmo di mano il mio talento: ma dite mo se ci sarebbe stato un cane che mi desse un bruscolo? Il più distinto favore onde mi potessero onorare gli era un invito a pranzo. E la mia buona Giulietta? ah! invano si sarà conservata fedele a' miei destini. Anch'essa dovette appassire come un fiorellino delle Alpi nella solitudine, ignorata dal mondo. Giulietta m'era da nove anni promessa sposa, senza che mai avessimo tra noi una parola a ridire: buona come il pane, ingenua come l'acqua, al par di me povera e dimenticata, non avea che me solo. Nasceva da un consigliere, che in grazia d'un fallimento era morto impoverito. La vecchia madre sua che stava a casa in una città là su' confini della Polonia, era in sì basse acque da non potersi tener a lato la Giulietta; onde questa serviva in una casa a Berlino come compagna d'una dama, o, a dirla più prosasticamente, come cameriera: e col tenue ritratto del suo lavoro sostentava la madre. Quante volte non sarei io soccombuto all'umor negro se la buona Giulietta, Dio la benedica, non avesse sostenuto il mio coraggio! Ma ora non eramo più fiori e baccelli: io entrava nel quarantesimo anno, Giulietta toccava già i venticinque, ed io non era che un aspirante, ella una cameriera! CAPO II. Fu il ciel che delle lettere il conforto Certo inventò. Così pensando e ruminando, non avea che finito di vestirmi, quando sento bussare alla mia porta; entra il postino, e mi rimette una lettera, ma molto grossa, che costava niente meno che trenta soldi. Prezzo enorme per la borsa avizzita d'un teologhetto! Abbandonatomi sul seggiolone, stetti un buon quarto d'ora esaminando la soprascritta e il suggello, strologando da chi mi venisse. Io ci ho un gusto matto a far così per combattere la mia curiosità; e poi ghiribizzare co' più bei castelli in aria sul contenuto della lettera. Oggi poi la questione era se aprirla subito o aspettare domani. Non volevo mettermi a rischio di leggere forse notizie sinistre, proprio il mio giorno natalizio: sarebbe stato un cattivo pronostico per tutto l'anno. L'infelice è superstizioso. Tirai le buschette, e la sorte decise pel no. Cattivo segno! ma la mia curiosità, animata da eroico coraggio, scosse il giogo della sorte e delle ubbie; il suggello fu rotto, — lessi, ed i miei occhi s'empirono di lacrime. Dovetti deporre la lettera per calmarmi alquanto poi la rilessi. O provvidenza eterna! o mia Giulietta! — strinsi al cuore la lettera, mi posi in ginocchio colla fronte sino a terra, e sparsi le prime lacrime di gioja che avessi versate in vita mia, ringraziando l'Onnipotente della sua bontà. La lettera veniva dal mio unico protettore, un negoziante di Francoforte sul Meno, nella cui famiglia ero vissuto un pezzo come precettore. Per un caso... No: dove c'è Dio non c'è caso!... Basta: per interposto del mio mecenate, io era chiamato come capellano nelle terre d'un conte dell'impero, ricco sfondato, con settecento scudi di paga, abitazione, giardino e legna, e per giunta la speranza, quando andassi a genio al signor conte, d'esser nominato precettore di suo figliuolo, con assegni particolari. Doveva ai 19 ottobre trovarmi a Magdeburgo, ove il conte faceva una scappata quel giorno, e desiderava vedermi. Rimasi come stordito: tutti i miei voti erano compiuti. Lesto lesto finii d'affazzonarmi, e colla lettera di nomina in tasca, non corsi no, volai dalla Giulietta galluzzando. La sua padrona era per fortuna in chiesa, onde la trovai sola soletta. Restò spaventata al vedermi com'ero sfiatato, rosso come una brace, scintillante negli occhi; con angoscia mi trasse nella sua cameretta, dove io voleva bene spiattellarle il fatto, ma sì! non poteva formolar parole: piangevo, la stringevo fra le braccia, appoggiava il mio viso ardente sulle spalle di lei, che tremava di spavento. — Cosa v'è accaduto di sinistro? Cosa potè abbattere tanto il vostro nobil cuore?» — Oh Giulietta! (esclamai io) il mio cuore è avvezzo ai patimenti, sicchè vedrei il più acerbo destino col sorriso sulle labbra. Ma la gioja è ospite sconosciuta per me, nè ho armi contro di essa. Me ne vergogno: oppure, malgrado la mia filosofia, essa mi opprime. — La gioja, signor dottore!» disse Giulietta stupefatta. Nota bene, lettor cortese, che io aveva ottenuto all'Università soltanto il grado di licenziato, ma, per adattarmi alla moda, mi sorbivo a tutto pasto il titolo di dottore in filosofia. — Vi ricorda (le risposi) quando nel giardino di Sans-Souci ci trovammo insieme la prima volta? quanto eramo contenti! Nove anni scorsero d'allora, o Giulietta, e noi serbammo il giuramento di amore e di fedeltà che prestammo quel dì sotto la volta brillante de' cieli, innanzi al Dio che è dappertutto: benchè senza speranza, lo serbammo religiosamente. — Vuoi venir con me, Giulietta? (io seguitai in tono men tragico, ed era la prima volta che le dava del tu.) Una bella casa, un fior di giardino t'aspettano: vuoi tu dividere la mia felicità? Guarda questa è la nomina: io sono capellano.» Lesse la lettera, e mano mano che la scorreva, s'infocavano gli occhi suoi, che mai non la m'era parsa così bella. Poi finito, lasciando cascar le braccia, mi fissò un momento silenziosa, e le si gonfiavano negli occhi care lagrimette, Pari alle stille tremule brillanti, Che alla nuova stagion gemendo vanno Dai palmiti di Bacco entro agitati Al tepido spirar delle prim'aure Fecondatrici. — Verrò teco dove tu vorrai, Giammaria», essa mormorò, e singhiozzando gettommisi al collo. Era il primo _tu_ che le usciva dalle labbra: era il primo _tu_ ch'io udissi darmi dopo morta la mia mamma, pover'anima. Noi eramo felici come angeli in paradiso. Pochi istanti dopo, si spiccò da me per gettarsi ginocchioni, e pregare; poi sorse, mi volse uno sguardo ove scintillava una tenera gioja, e la prima domanda fu: — Ma questo è proprio verità? non è un sogno? Mostratemi la lettera: non mi ricordo più del suo contenuto.» CAPO III. Lasciar nelle sale del tetto natio Le donne accorate tornanti all'addio. — È naturale (diss'io a Giulietta) ch'io non entri alla mia parocchia prima d'esser ammogliato. Come potrei ne' primi giorni occuparmi d'una folla di minuzie e d'intersesi mondani? Dov'è lo studio? ove la stanza da letto, e che so io? Tu, Giulietta, tu me le additerai: tu mi tramuterai la casa straniera in patria deliziosa: noi staremo da papi. Solo non ti scordare che il mio studiolo abbia una finestra che dia sul tuo giardino, affinchè la primavera, mentre io lavorerò a tavolino, possa vederti per le redole annaffiare e zappettar le ajuole. Oh che goder di Dio che noi abbiamo a fare! Ella arrossì, e disse cambiassimo discorso: pure fu lei la prima a rattaccare del modo con cui volea disporre il suo orticello, e a discutere se o no tornasse conto comprare a Francoforte ogni nostro occorrente. Nè avemmo nulla a far di meglio che lavorare sul serio a conchiudere la nostra unione, domandare il congedo di Giulietta alla sua padrona, disdire la mia cameruccia, le mie lezioni, far fare le pubblicazioni di nostre nozze, avere il sì, e tutto. Ogni cosa andò al solito: mi rallegro e regalucci da tutte le bande; onde mi trovai più ricco che non fossi stato da parecchi anni in qua. Un altro amico di Berlino, di cui avevo allevato i figliuoli, mi offerse, per far il viaggio di Magdeburgo, il suo calessino, ed io non dissi di no, e mi fornii del passaporto necessario. Per verità il tempo era disastroso; bolliva carne in pentola: la guerra e i suoi guasti coprivano le campagne: il re s'era già avanzato coll'esercito fino a Turingen incontro a Napoleone, sin allora invitto. Noi però ci tenevamo sicuri, nella persuasione che fra un quindici giorni i Francesi sarebbero cacciati di là dal Reno. Via gli stranieri: O stranieri, strappate le tende Da una terra che patria non v'è. Per qualche guadagno io aveva composto cinque odi pindariche sulle vittorie de' Prussiani, ove descrivevo tutte le future battaglie, lasciando in bianco solamente il luogo delle azioni. Erano il non plus ultra della poesia classica, e potevo far conto di ricavarne cinque bravi talleri d'argento dai libraj di Berlino. Per tutti i buoni conti posi il manoscritto de' miei canti trionfali in saccoccia, per essere pronto, all'occasione, a fare stampare le prime a Magdeburgo. Ahi, come la speranza era diversa dall'effetto! Il 14 ottobre, giorno che l'antica potenza prussiana restò annichilata a Jena e ad Auerstedt, presi congedo da Giulietta: tornato appena da Magdeburgo, si farebbe il matrimonio, poi si andrebbe alla parocchia. Per quanto vago di lusinghe ci sorridesse innanzi l'avvenire, non sapevamo consolarci di questo distacco: pareva non avessimo a rivederci più. Per verità, come dottore in filosofia, io non dava retta ai presentimenti; ma come sposo ci avevo una fede scrupolosa. — Giammaria, Giammaria! Il Signore sia con te!... Vivi, vivi felice; ma noi non ci rivedremo più — più», esclamò Giulietta singhiozzando. Povera zitella! CAPO IV. Viaggio a Magdeburgo. Il 15 ottobre uscii contento come una pasqua dalla porta di Brandeburgo, portando in tasca la mia nomina e i miei cantici decasillabi di vittoria. Dovetti, per qualche faccenduola, pernottare a Potsdam; la sera traversai Sans-Souci, e nel giardino e sulla classica piazza, ove la Giulietta, fanciulla allora sui sedici anni, mi aveva promesso eterno amore, rinnovai, dopo nove anni, il mio fedele giuramento. La notte scrissi fin tardi all'amica mia un'idilio di mie speranze e di mie immaginazioni, dipingendole la felicità del nostro viver futuro nella parocchia, lungi dal trambusto del gran mondo. In mezzo ai quali disegni attaccai della grossa: e deh che sogni dorati vennero a cullare il mio sonno! Al domani buon'ora ripresi via, conducendo meco la vettura mia ed un cavallo de' buoni. Lungo il cammino, ripassava un ad uno i discorsi che improvviserei al conte di Magdeburgo per mostrarmi a lui dal mio lato più brillante, e quelli che volgerei a Giulietta nel menarla alla nostra parocchia. A Brandeburgo, nell'osteria, tutto era vita! Parlavasi di battaglie da casa del diavolo che doveano essere successe tra Napoleone e il caro re nostro, che Dio conservi: l'eroica morte del principe Luigi Ferdinando a Saalfeld era stata, diceano, vendicata nella più splendida guisa: nelle vallate della Turingia i cadaveri dei vinti ingorgavano il corso de' fiumi, niente meno. — E dell'imperatore Napoleone che n'è?» chiesi io. — Mah! — E il maresciallo Lannes? — Morto. — E Davoust? — Morto. — E Ney? — Morto: tutti morti. — Ma è proprio vero? — È un vangelo». Chi dubiterebbe di trionfi che si desiderano? Io non capivo più nella pelle, e tutto fuoco porsi la mano alla saccoccia per cavarne i miei inni trionfali: quando un vecchio sedutomi a spalla, trasse di bocca la pipa e mi soffiò nell'orecchio, ma con bassissima voce: — Magaridio la fosse così! ma io so che le sono sparampanate, e che ce n'è toccata una grossa.» Queste parole, potete immaginarlo, m'inchiodarono la mano nella tasca, e lasciai i lirici canti in luogo e posto. Una grossa! ed io vo a Magdeburgo. Non potrebbe succedere che Napoleone e la grande armata venissero a situarsi fra Giulietta e me? Un brivido febbrile mi cercò dal capo alle piante. Ma, eccetto il vecchio, tutti faceano gavazza nella sala dell'albergo, con un patassio, con un abbandono tale; ciascuno descriveva la pugna, la vittoria, la fuga con tante particolarità che avresti detto, e' l'han vista proprio cogli occhi loro. Ond'io, senza cercare se fosse verità o buccia di porro, mi adagiai nel parere de' più, e andai a dormire con tanto di cuore. CAPO V. Terribili presentimenti. Il giorno appresso scontrai di molti corrieri, che pareano venire da Magdeburgo o dall'esercito, difilandosi a Berlino a spron battuto. Il diplomatico silenzio di questi messaggieri non mi pronosticava niente di consolante, perchè la consolazione è naturalmente espansiva. In non mi ricordo qual villaggio fra Ziesar e Burg un subisso di gente stava raccolto; e quando io m'avvicinai, non s'insognavano di farsi da banda. Allora solo distinsi, innanzi ad un gran casamento, de' cavalli sellati, e alle finestre della casa molti ussari prussiani. — Ohe, cosa c'è di nuovo?» chiesi a quelli che m'erano intorno, fermando il calessino. — Ah, cara lei! ah, Signor benedetto!» esclamò una vecchia paesana. — Come, non sa? se non si discorre d'altro. Il re ha perduto tutto: e non son ancora boccie ferme: i Francesi arrivano a gambe: fra un'ora forse saranno qui.» Naturalmente io non le aggiustava piena fede; pure volli informarmi meglio, e fattomi verso il casamento, saltai di calesso, e v'entrai. Le camere formicolavano di gente; ussari, paesani, impiegati alla rinfusa, pipando, bevendo, narrando, ciaramellando: ma tutti col viso lungo, buzzo buzzo. Ora parlavasi della disfatta de' Prussiani e dell'avvicinare de' Francesi; ora d'un Maggiore che in grazia d'una ferita non potea continuare la strada a cavallo, ed avea bisogno d'una vettura: ne volevano una, e s'erano spediti messaggieri da tutte le bande a cercarne. Non sapendo quanto n'avessi in tasca dalla paura, più di là che di qua, io mi sedetti ad un cantuccio della tavola, e feci portar una fiaschetta di birra per aver comodo di sentire più giusto l'occorso, e a norma di quello regolarmi. Un dieci minuti dopo, gli ussari sgombrarono e salirono a cavallo: ed io mi feci alla finestra a vederli partire. E li vidi in fatto sfumare, ma che? nel bel mezzo di loro vidi andarsene il calessino mio, cioè prestato a me dall'amico di Berlino. Ebbi un bel gridare dalla finestra — Ohe! Alto là! Fermatevi! cotesta carrozza è mia di me;» fra un minuto ogni cosa era ita in dileguo. A furia di spintoni m'apersi un varco tra il pigio della folla, e uscii di là entro: ma il posto era vuoto; il mio biroccino andato a Dio lo rivedi. — Non la si sperpetui: la stia pure di buon animo,» mi disse uno smingherlino; che davasi tutta l'importanza di un impiegato. — Il signor Maggiore non ci andrà gran pezzo che rimanderà il calesso. E' non lo prese che per condursi fino alla città più vicina. Quel povero signore sdolorava delle sue ferite, e ha pigliato il miglior partito per calmarle. — Ma chi è questo Maggiore!» chies'io. Nessuno lo conosceva. — E dove diavolo va col mio biroccino?» Nessuno lo sapeva. Corsi al villaggio sulla direzione del calessino e della sua scorta; prima d'arrivarvi, la strada si spartiva in tre o quattro altre, ma per nessuna riuscii a trovare vestigia sicure de' fuggitivi: in nessuna parte rinvenni chi me ne sapesse dire gallo nè gallina. Tornato, tutti stavamo ancora dinanzi a quel casone, dove entrai anch'io scalmanato e aggirandomi che parevo un terremoto: ma nessuno badava a me più che alla terza gamba, tutti pensando all'avvicinarsi de' proprj malanni, al sovrastare de' Francesi. — La scriva; la rediga il processo verbale dell'ingiustizia fattami.» diss'io all'impiegato. — Tutto il paese e lei stesso furone testimonj di questo atto arbitrario. La scriva che, in conseguenza del sopruso del signor Maggiore tal dei tali, io Giammaria mi vedo costretto a fermarmi qua finchè torni il mio calessino, e che pretendo esser risarcito del danno emergente e del lucro cessante.» Lo scrivano fece il suo dovere a meraviglia; io ritirai copia del processino, e la riposi coi canti trionfali. La notte passò; passò il domani; l'impazienza mia era al colmo, ma il calesse non sapeva tornare. Il 19 ottobre spuntò. Giusti Dei! e l'illustrissimo signor conte dell'impero che mi aspettava a Magdeburgo? Chiesi a nome del Maggiore una carrozza, o, almen che fosse, un cavallo per andarmene ai fatti miei: ma il Maggiore innominato godea sì scarso credito, che nessuno volle anticiparmi nulla a nome suo. Che fare? Qui non c'è rimedio, e bisogna avere una buona pazienza. Ringraziato Dio che io portava con me tutti i miei beni, e potevo camparmela: ma la mia guardaroba se n'era andata col signor Maggiore. Ed all'amico di Berlino cosa dare per la vettura ed il cavallo? come comprare altri abiti, altra biancheria? dove prendere da far con Giulietta il viaggio sino alla parocchia? Certo la era una prova ben dura per la fede d'un capellano cristiano. Tagliai dalla siepe un bravo bastone di spino, e, così col cavallo di san Francesco, mi posi tra le gambe la strada per Magdeburgo. Il signor conte verrà in soccorso mio, pensavo tra me e me; e canterellavo traversando una landa non coperta che di macchie e di cespugli. CAPO VI. Gran ritirata. Mi abbattei in spizzichi di soldati prussiani di tutti i reggimenti, chi con armi, chi senza; vivandiere, carri da bagagli, che zitti e chiotti mi passavano allato: nè a me bastò il coraggio di volgere la parola a questi prodi sfortunati. — Ehi, sor dottore, dov'è ben avviato?» gridò una voce, in quella che, nel giardino di Burg, io mi trovavo in mezzo ad una truppa di soldati. Sebbene fossero anni domini che nol vedevo, pure lo ravvisai per un tenente, che a Berlino stava nella stessa casa dove io, e che solevo chiamarlo Carlomagno, perchè questo capameno faceva discendere la sua famiglia in linea retta col gran conquistatore. — A Magdeburgo, per servirla, signor tenente. — A Magdeburgo? Eh! voglio dirle bravo se ci arriva, sor dottore; i Francesi vi sono già accampati con una bagatella di cencinquantamila uomini, sputi la voglia, e torni con noi, se mi vuol dar ascolto. Tutto è perduto: Brunswich è morto; Mollendorf è prigioniero: del re non si sa che diavolo ne sia: il corpo di riscossa del principe di Würtenberg fu battuto jeri ad Alla. — Ma tant'è, io devo essere dentro oggi a Magdeburgo. — Sì? La corra dunque a gettarsi sulle bajonette de' Francesi. Buon viaggio, sor dottore, e buona tornata.» Mentre Carlomagno finiva con questo dire, due dragoni accorsero a spron battuto gridando: — Il nemico è già a Wittenberg, sull'Elba.» Tosto la fanteria raddoppiò il passo; ed io, non sentendomi di sostenere solo soletto l'affrontata dei cencinquantamila accampati a Magdeburgo, accettai la compagnia del tenente, e voltai tanto di spalle all'illustrissimo signor conte dell'impero. Addio, parocchia mia; addio, mie nozze; addio, paradiso di mie felicità! Benchè fossi già innanzi cogli anni, la fortuna di simili non me n'avea mai giocato. La battaglia di Jena scompaginava tutte le mie speranze quand'erano più brillanti che mai, e mi faceva tornar dottore, celibe e povero in canna. Io non risolveva a quale tra me ed il re avessero recato danni maggiori le vittorie di Napoleone. Ma la fortuna tiranna trovò in me la costanza usata; finchè mi restava qualcosa a perdere, io era tutto inquietudine, tutto paure. Ora che, spiantato di ramo e di radice, neppure a vender l'abito che portavo indosso avrei potuto pagare all'amico il cavallo e la carrozza, mi tornò il buon umore, e me n'impippavo dell'Olanda. S'è fatto primiera con peggiori carte. CAPITOLO VII. Il Cappellano. — Presto, avanti: io seguo la bandiera di Carlomagno,» dissi ridendo al tenente; — e vada come la sa andare, sotto la generosa sua protezione fuggo sino a Berlino. — Potenzainterra! non la è poi così disperata. Ho meco ancor mezza compagnia... tutti fior di Prussiani che fumano, e che non avrebbero paura davanti a una legione dell'inferno. Uh, avessi solo un cannone! non darei un passo indietro al cospetto di due reggimenti francesi. Se fossi stato io al posto del duca di Brunswich a Jena, o che sì o che no la battaglia sarebbe andata come è andata. Venite, dottore: io vi nomino gran cappellano della mia mezza compagnia.» Ogni volta che si traversasse un villaggio, il tenente faceva sfilare i soldati, reliquie di tutti i reggimenti li disponeva per colonna, ed orgoglioso del suo grado, stava diritto impalato come un i, finchè a suon di trombe il suo esercito sfilava innanzi ai paesani. Quei che non avevano armi seguitavano umilmente dietro a' bagagli; e me, come cappellano quest'era il mio posto naturale. Ben tosto legai un'amicizia da spartir colle pertiche con la vivandiera, padrona d'un baroccio. Questa brava creatura camminava a piedi, traendo per la cavezza una rôzza sfinita; e perchè non le moriva la lingua in bocca, essa mi contò per filo e per segno la storia dei fatti di Saalfeld e d'Auerstedt, censurando le posizioni e i movimenti dei Prussiani su questi due campi: alle quali critiche di strategia io non aveva a ridir nulla, io che mi sentivo capacissimo di perdere una battaglia, fossi ben a capo di dugentomila soldati. Questa commilitona si chiamava Elisabetta, e quel ch'è curioso, acconciava il capo al modo che si vuol dipingere la regina d'Inghilterra di questo nome: avea il viso e tutto contro tutte le tentazioni, ma umor allegro, spiritosa, pizzicava di letteratura, e cantava canzoni berlinesi con una voce da passare le orecchie. Il suo spirito e la sua acquavite le davano non poca influenza sulla truppa nostra, e le schiudevano l'accesso al consiglio di guerra, dove mettea fuori il suo partito ogni qual volta si trattasse di determinar la marcia del nostro convoglio. Il lento passo della sua rôzza, le lusinghe dell'acquavite e il suo ascendente sovra i soldati, la rendevano il vero capo nostro, tuttochè marciasse alla coda: e per non isfaticar il suo ronzino, non facevamo più di dieci o dodici miglia al giorno. La notte ci fermavamo nei villaggi, dove i soldati godevano tutta la libertà: ogni due giorni si teneva consiglio. Per dire il vero, di questo passo non s'andava innanzi gran che: ma di giorno in giorno l'esercito aumentava di alcuni soldati che s'intruppavano con noi, in modo che arrivammo a contare dugento uomini, fra i quali due dragoni e quattro trombetti. CAPITOLO VIII. L'Ajutante generale. La sera del quarto giorno Carlomagno mi trasse in disparte: aveva capito da un pezzo che in quel suo capaccio maturava qualche magnanimo disegno. — Sor dottore (mi disse), alla guerra si fa passata. Io sono tenente già da otto anni: oggi sarò generale, o mai più. Comando dugento uomini a un bel circa: innanzi di arrivare all'Oder, ne avrò probabilmente uniti duemila, che conduco al nostro re. Ma prima qualche eroica impresa. Piombo colla mia truppa sulla Sassonia, e detto fatto prendo il nemico alle spalle. — Come, come, non volete andare a Berlino?» l'interruppi io, pensando alla mia povera Giulietta. — No: io volto a diritta, verso Mittenwalde. Dottore, il posto di cappellano non vi sta bene: ho pensato che sareste un bravo soldato. Vi do un cappello militare, un mantello turchino, una brava spada e un buon puledro; e sarete mio ajutante generale. So che conoscete le matematiche e disegnate a meraviglia: vi adopererò nelle ricognizioni ed a levare i piani.» Avrei io osato contraddirgli? Accettai il posto di ajutante generale, perchè mi procurava il bene di sedere sul dosso di un cavallo, col cui mezzo speravo veder più tosto la Giulietta: lodai la confidenza di Carlomagno, e mutai il mio abito nero collo spadone di san Paolo. La sera stessa il generale passò in rassegna il suo esercito, nominò nuovi capitani, caporali, tenenti e tutto; mi presentò come suo ajutante generale, e sviluppò il suo disegno ai Prussiani meravigliati. — Sì, camerati miei, (gridò alzando ambe le braccia) il dado è gettato. Noi colle imprese nostre faremo il nome prussiano terribile per sempre. Lo spirito del gran Federico ci anima: la patria insanguinata e deserta ci guarda... Camerati, e noi soffriremo d'essere ridotti ad un indegna servitù? Quale sceglieremo? vittoria e fama nell'universo, od una miserabile esistenza sottomessi a stranieri? Quelli che vogliono essermi fedeli, che vogliono seguirmi per vendicar il loro Dio, il loro re, la patria loro, ripetano con me: Vittoria o morte.» Infiammati a questo discorso, sbolgettato con nobile ardore, i più gridarono — Vittoria o morte.» Solo alcuni, ustolando gli alberghi di Berlino, gridarono con un comico entusiasmo — Vittoria o pane.» La regina Elisabetta era fra i malcontenti: tutta versata per questa risoluzione presa senza consultarla, trasse fuori la tabacchiera, la rotolò fra le dita, l'aperse, poi la guardò con aria cupa e minacciosa. Il domattina eramo poco lontani da Brandeburgo: Carlomagno camminava innanzi con una maestà proprio imperatoria; io dietrogli giù giù sopra una rôzza che l'ultimo villaggio dove pernotammo era stato costretto a fornirci. A mancina stendevasi la strada grossa di Berlino; a destra il sentiero che dovea menarci alla gloria e all'immortalità. Il generale e me, benchè il mio cuore sanguinasse, voltammo eroicamente a dritta: l'esercito ne seguì: la vivandiera chiudeva la marcia cantilenando sul suo baroccio, ma arrivata che fu al crocicchio infilò bravamente la strada di Berlino. Non appena la retroguardia vide il bariletto dell'acquavite in quella direzione, voltò fronte, e lo seguitò senza proferire parola. L'esempio trascinò poco a poco tutti i soldati, che rinunziarono all'immortalità per l'attraente baroccio; sicchè alla fine ci trovammo soli il generale e me, esso involto ne' fumi suoi e negli umor bravi, io struggendomi dal desiderio della mia povera fidanzata. Il dispetto di Carlomagno quando vide la sua truppa sparita, voglio lasciarlo pensare a voi. Essa, volgendoci le spalle, camminava in coda al diletto barile; a capo le stava Elisabetta, assisa sul suo botticino come sur un trono, cantando in quilio: _Viva Bacco e l'allegria_. L'imperatore mandava faville: corremmo dietro ai disertori, comandammo con voce tonante, _Alto là!_ L'orgogliosa Elisabetta si compiacque di fermar il baroccio, e i soldati obbedirono: allora l'eroico tenente buttò fuori con energica voce la sua filippica. Oh, che ci hanno mai a che fare le parlate degli eroi di Senofonte e del Guicciardini? I commilitoni ascoltavano con tanto d'orecchi la pifferata: pure ebbi ad osservare che poteano tenersi di gettare tratto tratto uno sguardo amorevoluccio sulla carriola d'Elisabetta, temendo vederla sguisciar via. Nè so bene a che sarebbe andata a riuscire l'eloquenza del nostro generale, atteso che la regina Elisabetta rialzava la cresta con aria disdegnosa; ma tutt'a un tratto un nuovo incidente trasse la nostra curiosità. CAPITOLO IX. Marcia dell'esercito. Un tenente di ussari, _sforza_, _sprona_, _divora la via_ venendo dalla direzione di Berlino, e, senza altro preambolo ci dirige, le parole seguenti dal più lungi che potè farsi ascoltare: — Corpo di tre legioni di diavoli, dove andate per di qua, canaglia berrettina? I Francesi sono entrati in Berlino con tanta gente che nulla è floge: noi abbiamo dato volta: il re è a Kustrin nella Prussia occidentale, bisogna procurare di salvarci in Slesia dietro l'Oder.» — Viva Dio!» gridò Carlomagno con gran prosopopea; noi siamo Prussiani, signor mio, e non scappiamo; no, perdinci: noi, piuttosto, noi passeremo a traverso dei battaglioni.» Tale risposta fece metter la berta in seno al tenente, che si carezzò la barba corvina, e salutò con profondo rispetto il nostro generale. — Se volete unirvi alle mie truppe che ho raccozzate per conservarle al re (soggiunse Carlomagno maestosamente) sarete il benvenuto. Io vi do il comando della cavalleria sotto i miei ordini. Guard'a voi! in riga! per fianco destro! Il primo che parla di Berlino sarà trattato da disertore ed appiccato. Marsc.» L'esercito nostro così riprese il cammino di Mittinwald, senza che alcuno volgesse la testa verso Berlino, non mica per paura d'essere impiccato, ma per paura dei Francesi. Elisabetta stessa tenne dietro mogia mogia, discesa dal suo trono, e cessati i suoi canti di trionfo. Tutto l'esercito era preso da un certo terrore. I Francesi già a Berlino! Ma per dove diavolo sono passati? Che sian fioccati dal cielo? Io chinai anch'io la testa: Napoleone aveva in poter suo metà della monarchia prussiana, la città capitale del regno del gran re, e la mia Giulietta. Oh! l'aveva pur ragione la povera tosa quando, animata di profetico spirito, m'aveva detto tra gli scapigliati congedi, — Giammaria, non ci vedremo più! Qual improvviso rovescio! Alquanti giorni bastarono a tutto sovvertire: la Prussia, i cui eserciti erano testè lo sgomento dell'universo, un regno così florido, distrutto da una sola battaglia: la mia sposa prigioniera in potere del popolo più galante e più prode d'Europa: il mio protettore conte dell'impero, in una città che era già stata incendiata da Tilly: la mia parrocchia Dio sa dove; ed io pacifico _dottor in filosofia_, io _magister bonarum artium_, di tutti i miei titoli non mi restava più che quello di ajutante generale di Carlomagno. Allorchè, galoppando fra questo e il suo comandante di cavalleria Sparapane, mi abbandonavo alle illusioni, passando in rivista le mie memorie antiche, l'immagine di Giulietta, la mia stanzuccia di Berlino, eccettera, uno scapuccio del mio cavallo veniva a trarmi di botto dalle dorate visioni: e volgendo attorno gli sguardi inquieti, quelle contrade sconosciute che traversavamo, quelle strane figure che mi circondavano, tutto pareami un sogno, ed era obbligato a stropicciarmi gli occhi per assicurarmi che non dormivo. Di fatto io era un osso fuori di posto. Quanto meglio avrei fatto a fuggire a Berlino sull'ali dell'amore! O che i marescialli di Francia volevano prendersi la briga d'un povero maestruccolo? e poi, i miei canti di vittoria non m'erano usciti ancora di tasca. — Sì, ma cos'avrei fatto per vivere? Le mie lezioni sarebbero preoccupate da altri; i miei canti non potevano veder più la luce. Come ajutante generale sono spesato; sono alloggiato: e po' poi, chi sa ch'io non riesca meglio a pan che a farina? chi sa ch'io non faccia fortuna nella carriera delle armi? Moreau non era che un avvocatello, e più tardi, in qualità di generale, eseguì una ritirata da far la barba a Senofonte. Chi sa mai che il dottore in filosofia non faccia un giorno meravigliar l'universo colle sue imprese? S'ella coglie coglie: o Cesare o niente. Sospinta dal cattivo vento de' Francesi, che da Berlino ci soffiava in faccia, la nostra truppa si dirigeva sempre verso mezzodì. Fra noi non si parlava altro che d'eroi, che d'imprese, ma in fatto Sparapane non aveva tutti i torti quando ci insinuava di fuggire. Non ci avanzavamo che con precauzione e pe' tragetti, schivando le città e le borgate considerevoli, non fermandoci che in miserabili cascinali, e spesso facendo marcie forzate; simili piuttosto ad una masnada di ladri, che ad audaci conquistatori. I paesani ci tenevano informati delle notizie, e ci fornivano di viveri in abbondanza; ma tutti ci dicevano ad una voce: — Combatterete nella Slesia, perchè i Francesi sono già a Francoforte sull'Oder.» CAPITOLO X. Fu il vincer sempre mai laudabil cosa. — In somma delle somme (mi diceva il generale la seconda sera dopo esserci spiccati dalla via di Berlino, intanto che prendevamo i quartieri in un povero casale, e postavamo le guardie). In somma delle somme ho condotta la cosa sì bene, che piglio Napoleone a rovescio.» E sorrise con un'aria che dava a pensare; poi si mise a riflettere ancora. — Potrebbe anche essere (disse Sparapane), purchè egli non ci pigli noi domani.» Quest'objezione mi fe' raggricciare, perchè naturalmente io pensava al figliuol di mio padre. Tutti e tre meditabondi serbammo il silenzio, poi di scatto ci levammo dalle seggiole come sbigottiti, perchè nel villaggio s'era intesa una fucilata di allarme, e tutti i soldati esclamavano: — I Francesi! i nemici! all'armi!» La trombetta sonò il tutti a cavallo; i tamburri batterono: Sparapane fecesi pallido come un panno lavato, ed io, per mascherare la mia spaventosa agitazione, mi gettai come forsennato nella sala dell'albergo, gridando a quanto me n'usciva dalla gola: — Allò, bravi Prussiani, suvvia: presto all'armi.» Cercai la porta, ma non la sapevo trovare, sì ero sgomentato; e battendo il capo di qua, di là, rovesciai l'armadio della nostra vecchia ostessa continuando: ad urlare — Prussiani, all'armi! Bravi Prussiani non mi abbandonate.» L'ostessa si lamentava: i bambini piangevano; cane e gatto saltarono, in mezzo al trambusto sulla tavola. Il qual tramestìo crebbe viepeggio il mio delirio, sicchè credendo i Francesi già in camera, supplicavo il cielo d'avermi pietà, promettendo a me stesso, se la campavo, di non esser mai più ajutante generale, mai più. Il mio turbamento e le lagrime mie, che fortunatamente Carlomagno e Sparapane interpretarono a mio favore, istillarono ad essi nuovo coraggio; trassero fuori le durindane, e ci recammo al posto ov'erano adunate le truppe. Deh qual fortuna fu il trovarmi al bujo! Nessuno mi vedea, onde potevo, se caso occorresse, sgabellarmene, facendo incognito una ritirata alla Moreau od alla Senofonte. Io non son vile no, pure quel giorno un terror panico mi aveva preso: e poi in generale io sono più inquieto di notte che di giorno. — Ajutante! avanti, con venti uomini verso il cimitero: il nostro posto vi fu attaccato: se avete bisogno di soccorsi, mandate, e vi condurremo dei rinforzi. Finora non è che una scaramuccia dei posti avanzati.» Così perorò Carlomagno: i venti uomini si difilarono dietro a me, ed io li dovetti condurre. Povero _magister bonarum artium_, che cera facevi tu nel cavar dal fodero la spada! — Al diavolo il tenente, pensava io. Guarda mo'! non si ricorda più che a Berlino io abitavo al quinto piano?» Ma bastava che si fidavano del mio coraggio, e l'amor proprio me ne dava. Quando fummo arrivati al cimitero, i miei occhi si copersero di profonda tenebrìa, perchè ci avanzavamo verso un muro alto assai. Ma io scambiai il muro per truppe francesi, e facendomi da una banda, gridai, come se vedessi degli spettri! — Fuoco! fate fuoco!» Al lampeggiare della polvere ci chiarimmo che s'attaccava battaglia con un muro. Ma, indovinate un po'? sentimmo a un tratto molte voci gridare: — Perdono! quartiere! la vita!» e sette uomini di fanteria leggera francese, uscendo di dietro il muro, ove s'erano rannicchiati, vengono al mio piede _gettan l'armi e si danno prigioni_. Balordi! se fossero rimasti zitti e cheti noi non ce ne saremmo accorti per insogno. Così vennero da sè in bocca al gatto: e come prigionieri furono disarmati e condotti al quartier generale. Vi lascio pensare quanto mi pavoneggiassi arrivando dinanzi a Carlomagno, come l'ammazzasette, fra lo splendore di torchi e di fanali. Esso mi abbracciò al cospetto di tutto l'esercito, dicendomi: — Ajutante, il coraggio e la prudenza vostra vi fanno un immortale onore. Dirigerò un rapporto a Sua Maestà il Re, in cui gli presenterò la vostra condotta in questo affare sotto l'aspetto più favorevole.» Dai prigionieri spillammo che una compagnia di fanteria leggera, mandata a prendere i quartieri nel villaggio, avea avuto paura al sentire che Prussiani v'erano in grosso numero; il gran batter delle casse, la gran quantità delle sentinelle, i grandi strombettamenti nostri gli aveano convinti, a non dubitarne che fossimo chi sa quanti. I sette prigionieri s'erano avanzati un po' troppo nell'andar a scoprir paese. Io non toccava terra dal piacere: erano i primi uomini in mia vita che facessi prigionieri; i primi soldati di Napoleone che vedessi in muso. Li feci refiziare di quel poco che si potè avere, e coloro non vi s'addormentarono sopra. Alle mie domande sul numero dei Francesi che si trovavano nei contorni, risposero che un intiero corpo, sotto gli ordini di Davoust, era in cammino per Berlino. Io tradussi questa risposta al mio degno generale, ed esso, inorgoglito del primo esito delle sue armi, alzò le mani e gridò; — Corpo e sangue! è dunque vero che piglio l'esercito francese alle spalle.» Sparapane al contrario divenne smorto, cogli occhi invetriati. CAPITOLO XI. Secondo scontro e sue conseguenze. Quel che più mi lusingava nella mia prima impresa militare era la persuasione di non aver fatto versare una stilla di sangue. È ben vero che non era mia colpa: ma il merito del generale, nelle grandi battaglie come nelle più piccole scaramuccie, mi pare affatto dubbioso. Il più spesso, particolari circostanze, la felice idea d'un caporale, l'arguzia d'un tamburrino, l'accordo d'un reggimento, che altro so io, influiscono più che il genio del comandante sull'esito d'una mischia. I reggimenti, i battaglioni e le compagnie sul campo non sono più macchine affatto, siccome si suol credere: e non so quanto pagherei a leggere le battaglie di Maratona, di Farsaglia, di Marengo, di Jena descritte in modo filosofico da un testimonio ben informato. Non appena s'imporporò l'aurora, fummo all'ordine per la partenza: faceva gran freddo, e il nostro generale pensava che avremmo una giornata calda. I paesani narravano che il villaggio era circondato di truppe nemiche, onde fu risolto nel consiglio di guerra di sfilare traverso alla foresta. Usciti dal villaggio, ecco venirci contro da tutte le parti Francesi, sbucando fino dal bosco ove contavamo passare. Ma il tenente non si sconcertò: con calma stoica dispose in battaglia l'esercito: l'ala sinistra appoggiata ad un pantano, la dritta contro un noce antico. — Camerati, oggi non v'esca di mente che siete Prussiani: bandiera non abbiamo, ma tenete fisso lo sguardo al pennacchio bianco del mio cappello, che sarà dovunque siavi gloria da acquistare. Questo pensiero mi richiamò a mente Enrico IV, che, in un caso men disastroso, pronunziò alcuna cosa di consimile. — Se non possiamo vincere, possiamo almeno, da veri Prussiani, non esser vinti, continuò esso. Il peggio che ci possa accadere gli è di dormire sta sera con De Ziethen, Schwerin; Winterfeld e Federico il grande, invece di dormire nelle nostre miserabili caserme.» Certamente Leonida non parlò meglio alle Termopile, incoraggiando i suoi a morire per la patria. L'amico mio Carlomagno faceva le più bizzarre parodie del re spartano, e certo senza saperlo. Ma le nostre truppe mostravano di preferir i cavoli e le rape al _duro prandio_ e _alla terribil cena_ dei Campi Elisi. Quanto a me, un tozzo di pane di man di Giulietta mi sarebbe somigliato mille volte più prezioso, che tutta l'ambrosia in compagnia degli eroi dell'antichità. Era un tristo spettacolo a vedere le colonne francesi avanzarsi a rilento e il sentire tratto tratto lo squillo di loro trombe. Io stava alla peggio sul mio cavallo, non lungi dal noce, all'ala destra, e tremavo a verga a verga. Il buon Sparapane posto alla sinistra, ove le sue cornette facevano un fracasso di casa del diavolo, non parea guari più sicuro. Per l'ultima volta, prima d'ingaggiar il sanguinoso combattimento, Carlomagno mi s'accostò: — Signor ajutante generale, ecco il giorno di spiegare il genio vostro. Ma in nome di Dio, vi prego, non abbandonatevi all'impeto del vostro coraggio. Conservatevi calmo. S'io cado in battaglia, assumete voi il comando. Il nemico è troppo forte: se siamo battuti, ci ritireremo nel villaggio, e là morremo tutti fino ad uno nel cimitero.» Dopo questo breve discorso si ritrasse, lasciandomi al turbamento e alle angoscie mie. Fra ciò la regina Elisabetta aveva scelto per la sua vettura un posto molto opportuno, donde agevolmente potea trovare via di scampo. Tale posizione doveva impacciare i movimenti di Sparapane, giacchè esso la respinse scortesemente, e costrinse la vivandiera piangente a volgersi verso di me, passando innanzi alla fronte della linea. Questo movimento accidentale decise la sorte della battaglia prima che fosse cominciata. CAPITOLO XII. Già di mezzo sparito è il terreno, Già le spade respingon le spade. Mentre l'esercito nostro fissava occhi d'amore e di desiderio sul barile amato, che gli rullava dinanzi, il primo colpo di cannone si fece intendere, ed, ahi tenor d'inique stelle! la palla diede giusto nel mezzo alla botte dell'acquavite, sicchè il néttare delizioso schizzò d'ogni parte, mentre il cavallo sgomentito se ne portava il carretto. Col liquore divino ogni coraggio disparve: e la retroguardia fece un movimento addietro verso il villaggio. Carlomagno urlò: — Avanti;» ma sì! ogni entusiasmo era sparito: neppure un soldato s'avanzò. Tra la furia egli aveva dimenticato che la sua penna bianca doveva indicare il cammino della gloria; e giusto quella penna cascava al dietro della testa, onde i soldati si diedero a intendere che il cammino della gloria conducesse al villaggio. Un secondo colpo bombò: il mio cavallo, già rintronato dal primo tuono di quelle artiglierie così malsane, cominciò a partecipare all'inquietudine del suo cavaliere, che non potè lasciar di volgere la testa per assicurarsi se il cammino del villaggio fosse libero tuttavia. Allora i nemici cominciarono un fuoco di moschetteria, e tosto come un pazzo io mi posi a gridare: — Fuoco! fate fuoco! sparate!:» calcai il cappello sugli occhi, strinsi i denti, e pensando — Dio v'ajuti,» volli battermela minchion minchione verso il villaggio. Ma prima di trovar via nè verso di fare dar di volta alla mia rôzza capricciosa, i soldati obbedienti fecero fuoco, il mio cavallo n'ebbe spavento non minore di me, e mi portò in sua balìa dietro il noce. Tre cacciatori francesi mi spararono contro, e non vedendomi cascare, ed avendo paura della sciabola, che io teneva in mano, voltarono le spalle, e gambe. Il mio Pegaso, per quanto facessi per frenarlo, col capo fra le gambe seguitava il nemico; ond'io a giurare, a piangere, a gridare: — Fermo là! — Brrr — Quieto!» [Illustrazione: Il mio Pegaso, per quanto facessi per frenarlo, col capo fra le gambe seguitava il nemico; ond'io a giurare, a piangere, a gridare: Fermo là! — Brrr! — Quieto! (_Pag. 38_)] Ma niente era del fermarsi. I cacciatori presero uno stradello tra due fratte; e il mio bellicoso corridore dietro. Allenati, furono essi côlti da un vero spavento, perchè io era loro senza posa alle coste: spronavano i cavalli stanchi, ma il mio ronzino scaldato raddoppiava di celerità. Sicuramente mi tolsero per un diavolo incarnato, che avesse giurato di bevere il sangue loro; perchè tratto tratto si voltavano a guatarmi con aria costernata. Ah se que' buoni cristiani avessero saputo quanto questa vittoria mi pesava! Sbucati da una foresta di abeti, ci trovammo in un vasto piano, dov'era un campo di Francesi. Là perdetti le staffe, i miei fuggiaschi svanirono, e alcuni soldati mi trassero delle fucilate, onde il cavallo fece una capriola, e mi gettò là lungo e disteso come una pera cotta. Addio, Giulietta! addio, conti senza l'oste! addio a chi resta! addio, mondo ingannatore! io dicea fra i sospiri: giacchè la mia caduta fu sì violenta che i soldati mi credettero morto, anzi sepolto e corsero a me coi tre fuggitivi sghignazzando. Sorsi tremante come avessi la quartana; mi domandarono la spada, ed io la cedetti: i tre fantaccini volevano schioppettarmi lì per lì, ma i cacciatori mi tolsero in protezione, giurando ch'ero uom d'onore e prode. Una lode sì poco meritata, in bocca d'un nemico, mi fece andar in brodo, principalmente quando m'accorsi di non essere ferito. CAPITOLO XIII. Me prigioniero. Ora eccomi prigioniero di guerra. Mi condussero in una casa da paesani isolata, e lungo il cammino feci penitenza cedendo l'orologio, la borsa e l'anello d'oro che portavo, memoria della Giulietta. Un capitano, che stava trincando e scuffiando a due palmenti con diversi ufficiali in essa casa, mi domandò qual fosse il mio grado, dopo che fu narrato come qualmente io aveva inseguito i cacciatori fino nel campo. Cosa rispondere? Capellano? maestro d'arti? dottore in filosofia? M'avrebbero riso sul muso. Carlomagno non m'avea sollevato al grado d'ajutante generale? Senz'esitare adunque risposi: — Ajutante generale.» L'abito fa il monaco; ed anche i titoli. Mi fecero prender posto a tavola; c'era dell'arrosto rifreddo, del malaga, fior di rosolio; il capitano mi drizzò parole di consolazione sul caso mio: — È il destino della guerra. Cinquant'anni fa voi avevate Federico il Grande, e a noi toccò Rosbach; oggi noi abbiamo Napoleone il Grande, e a voi tocca Jena.» Gli uffiziali montarono a cavallo, ed io fui messo in arresto nel campo. Il brivido della paura non m'era passato ancora, onde il trovar fuoco al corpo di guardia mi tornò da morte a vita. Che ne sarà del tenente Leonida e de' suoi magnanimi? che sarà divenuta la regina Elisabetta col suo barile traforato? che diverrò io stesso? Questi pensieri m'invadevano lo spinto. M'era stato detto che sarei condotto a Francoforte sull'Oder, e che là mi unirei ad un convoglio di prigionieri per la Francia. Offrii di giurare sull'onor mio che non porterei più le armi contro sua Maestà Imperiale e Reale l'Imperatore de' Francesi, ma l'offerta non era stata accettata dal capitano, il quale diceva che la mia sorte doveva essere decisa dalle autorità superiori. Eccoti dunque destinato per la Francia, povero dottore per esservi inchiodato in una fortezza. Deh come tutto in un lampo si cangiò! Quando stavi assettato nella tua soffitta da poeta, girando gli occhi sopra i tetti vicini; quando leggevi Plutarco o la gazzetta, tirando quietamente una presa di tabacco, che cosa mai poteva turbare la tua pace? Poi finita la giornata, date le lezioni, tu andavi a fianco della tua Giulietta, a ragionar con lei delle speranze e dell'avvenire, o nella tua poetica solitudine scrivevi nuovi cantici guerrieri. A ciò mi corsero in mente gl'inni delle vittorie prussiane, che tenevo sempre in tasca: onde cacciai a mano lo scartafaccio, mi guardai attorno per vedere se ero osservato, e lo gettai sul fuoco. Canti di trionfo, canti pieni di rabbia e di spregio contro Napoleone e gli eserciti suoi, poteano nella mia prigionia costarmi nientemeno che la pelle. Dunque li vidi perir tra le fiamme, quasi col piacere stesso onde, in momenti più felici, io gli aveva partoriti. Nè la mia gioja fu sminuita per avere nella furia gettata con loro anche la mia nomina di capellano. Alcuni soldati mi s'accostarono ben tosto; quelli appunto che mi avevano fatto cascar di cavallo, e mi domandarono: — Cosa bruciate costì furtivamente?» e parlavano di spionaggio, di moschettare. Io, imbarazzato a rispondere, davo cartacce, il che non migliorò la mia situazione. Que' mariuoli, me n'accorsi ben io, cercavano di attaccar bega; m'insultarono, mi condussero in una camera del corpo di guardia, ove dovetti deporre la giubba e gli stivali; essi se li presero e via, nè più rividi i mariuoli nè la giubba. Fuori pel giorno fui interrogato molte volte sulle carte bruciate; e perchè io stava sul tirato, sostenendo che erano miserie, carte di famiglia, lettere private, fui condotto al quartier generale da due uomini, che in mia presenza caricarono il fucile. Senza giubba, mal in arnese, e in una giornata brusca d'ottobre, dovetti seguitar le mie guardie per una passeggiata di tre ore. Impillaccherato, stracciato, mezzo svestito, stavo peggio d'un pitocco, perchè non aveva la mia libertà: anzi la mia vita stessa non valeva in quel punto cinque soldi, perchè i Francesi in campagna amano i processi spicciativi. Un povero diavolo accusato di spionaggio essi l'impiccano e lo fucilano caldo caldo, senza curare s'egli se l'abbia a male. CAPITOLO XIV. Le montagne stanno al posto, gli uomini si trovano. Al cader della notte, una linea di fuochi mi si scoperse allo sguardo: a avvicinandoci, trovammo un campo considerevole. Fui condotto in una bella casa di campagna fuor del villaggio; dove stavano alla porta guardie a piedi, guardie a cavallo: uffiziali d'ogni arma, in belle divise, uscivano ed entravano continuamente. Condotto innanzi all'uffizio militare si lesse il rapporto sopra di me, mi fu chiesto il nome, il grado, e poi ordinato — Portatelo di là cogli altri prigionieri.» Uno de' primi uffiziali disse: — L'hanno spogliato in guisa, che è una vergogna.» Un altro volgendosi a me soggiunse: — Andate pure; sarà mio pensiero procurarvi abiti decenti.» Mi condussero nel campo, e là fui consegnato ad un uffiziale, incaricato di custodire i prigionieri. Questi, seduti accanto al fuoco, godevano la loro cena, ed io mi posi fra loro. Ma indovinereste quali furono le prime faccie che distinsi? Sparapane, e allato a lui Carlomagno, che mangiavano ambedue una minestra spessa in un badiale lavamano che la regina Elisabetta reggeva sulle ginocchia, invece di tavola. — Potenzinterra! gli è proprio il mio generale!» esclamai io, fuor di me dal contento. «È cotesto il pasto che avevate a fare all'Eliso con Ziethen, Schwerin, Winterfeld e Federico il Grande?» Il tenente, al sentir la mia voce, alzossi tripudiante, e mi serrò teneramente fra le braccia. — Come, signor ajutante? vivo ancora? sia lodato Iddio! Rimane adunque ancora un eroe al nostro re. Deh quanto vi piansi! Ma voi, perchè non saper moderare il vostro ardore? Ho ben visto come cacciaste in fuga i tre cacciatori, e come essi vi trascinarono dietro di sè. L'esempio vostro ravvivò la mia gente, un tantino scoraggiata; incrociammo le bajonette contro il nemico; morti e feriti a furia da ambe le parti: combattemmo come leoni una buona mezz'ora, poi ci fu forza metter giù le armi. Venite, ajutante del cuor mio, venite a parte della nostra cena.» Il prode tenente m'abbracciò ancora dalle tre volte in su: il valoroso Sparapane non sapea finire le fratellanze e i complimenti: la regina Elisabetta m'offrì un cucchiajo di stagno, e così posi in oblìo _la noja ed il mal della passata via_. Forse mezz'ora dopo, l'uffiziale di guardia comparve con un caporale: — Chi di lor signori è l'ajutante generale?» Carlomagno sorrise di contentezza, e m'accennò col dito proteso, perchè non era molto forte nel parlar francese. — Signor ajutante, (aggiunse l'uffiziale) mi piange il cuore ch'ella sia stata trattata sì indecorosamente. Le mandano dal quartier generale questi vestiti da addossare, con due bottiglie di vino per rifocillarsi. La stia sicura che i Francesi sanno stimare i loro nemici come uomini d'onore, e che i mariuoli e i ladri sono eccezioni alla regola.» Io feci al mio nobile nemico la più gentile risposta che sapessi immaginare, ed è un vero peccato che non abbia potuto, lì sui due piedi, trovar una frase migliore di questa: — I conquistatori dell'universo oggi m'hanno vinto due volte.» Noi tedeschi abbiamo un bel fare; ma, è forza dirlo, i Francesi sono il popolo più ingegnoso del mondo: sono proprio i Greci del nostro tempo. Fino i soldati semplici hanno un esteriore grazioso e amabile, che non si trova da noi se non sul teatro: una battaglia animata li rapisce, un buon pensiero li ricompensa, il sentimento dell'onore gl'infiamma: in questo popolo v'è dello spirito; non solamente patate e birra. CAPITOLO XV. Un bel fuggir salva la vita ancora. Al domani fummo tradotti a Francoforte sull'Oder. Io conosceva da cima a fondo quella città, anzi v'avevo degli amici a rotoli, ma nel caso presente questi amici mi riuscivano affatto inutili, se non anco dannosi. Un onesto Francofortese poteva trovarsi per caso sull'ingresso di sua casa nel momento appunto del nostro arrivo, e alluciarmi: e riconoscendomi, salutar l'ajutante generale col nome di «Caro mio dottore;» e forse domandarmi conto delle mie odi guerriere. Perciò, all'arrivar dinanzi alla porta, oh come il cuore mi faceva ticche tocche! Tirai giù il cappello, e su la cravatta fino agli occhi; mi sentivo vergognoso di entrare come un malandrino, fra mezzo a prigionieri, in una città che conoscevo; e davvero cominciava a mangiare del pan pentito, perchè, diciamolo, un po' di colpa ce l'avevo io coll'arrogarmi gradi e onori militari che aveano a far con me come il papa colla Cina. Ci prese in mezzo un nugolo d'oziosi, — ma no; sì duro nome non s'addiceva a quella buona gente; venivano, mossi di compassione, o forse cercando fra noi un amico, un parente. Benchè già buiccio, io mi rimpiccinivo il più che poteva: la mia coscienza era certo irreprensibile, ma una virtù involontaria somiglia al delitto. Infine giungemmo ai nostri quartieri di notte, e, parola d'onore promettemmo di non fuggire. Lo confesso, questa parola d'onore, non era gran fatto onorevole per me, giacchè mentre la dava, rifletteva tra me e me: — L'ajutante generale può ben legare la sua promessa, ma senza che ciò formi alcuna obbligazione pel signor dottore e _magister_. Appena fatto scuro, chiesi licenza d'andar a visitare certi amici: n'ebbi un bel no; ma quando volli uscire nessuno mi fermò, nessuno mi chiese, _Dove va?_ nessuno per le strade mi volse la parola; onde vedendomi libero a metà, volli esser libero affatto sgusciando fuori della città, e la sentinella mi tolse per un uffiziale francese. CAPITOLO XVI. Questi furo gli estremi onor renduti Al domatore di cavalli. Senza guardarmi ai piedi, corsi per forse un'ora a rotta di collo, poi sfiatato m'accôrsi d'aver lasciate le strette e miserabili callaje de' sobborghi: una sabbietta copriva la strada sotto gli stanchi miei piedi: intorno a me nell'oscurità si stendeva un bosco di pini, e sovra il mio capo la luna inargentata scintillava attraverso le nubi. Trovai la situazione mia poeticissima: eppure, che volete? una prosaica cena presso una cuccetta di paglia non mi sarebbe dispiaciuta. Ed ora che fare? ove drizzarsi? Io non sapeva cosa rispondere a queste mie domande. La fame non si fa mai sentire così viva come quando non si sa come calmarla: nè la vita è mai sì cara come nel momento che è in pericolo. Questi tristi pensieri ingombravano il mio spirito; onde rimisi in moto i miei piedi a benefizio di fortuna, curioso di sapere cosa diverrei, e dove infine mi condurrebbe la mia sorte avversa. Sentii cani abbajare; qualche lume mi apparve da lontano, alla cui scorta arrivai spedato ad un villaggio. Innanzi all'osteria stava un carozzino di posta a tiro a due, voltato proprio verso la direzione ch'io intendeva seguire. Guardai attorno: il sottopiede dietro al cocchio non aveva nulla che mi impedisse di accomodarvimi d'incanto, e di attaccar un sonnellino intanto che la vettura mi trascinerebbe lontano assai. Il padrone era ancora nell'osteria: io, cercandomi nelle tasche, non mi trovai allato nemmeno la croce d'un quattrino: eppure avrei comprato sì volentieri una pagnottina, perchè la vedevo in aria. In qualità d'uffiziale non potevo batter l'accattolica; potevo bensì goder a isonne mettendo a contribuzione: onde risolsi di tentare la fortuna, ed entrai nella casa. Sopra un truogolo di avena erano posati un cappello rotondo, un palandrane ed un frustino. Risoluto di cavarne le mani dal mestiero dell'armi, senza esitare gettai in là il mio cappello gallonato, deposi la giubba turchina sull'avena, e presi il palandrano: se avessi avuto la sciabola, di tutto cuore l'avrei barattata col frustino, che non ostante presi in mano per sicurezza, se non altro, contro i bottoli del villaggio. Non occorre dire che in tale arnese non potevo più pensare a cenar in quella casa onde attaccai la voglia ad un arpione: ma andava in solluchero pensando che ormai potrei viaggiare incognito tra mezzo ai Francesi. Stavo ancor ritto e fermo come un termine a piè dell'uscio, cercando cogli occhi un cantuccio, dove ripormi ad agguatar la vettura, che non la se ne andasse senza me, quando a un tratto una voce francese mi sonò dietro, che fece su me l'effetto di un fulmine. — Andiamo, ghiotto; lesto, andiamo,» gridò il Francese, che mi aveva tolto pel suo cocchiere, lo rimaneva lì intra due di cascar morto, o di darla alle gambe come un ladro: ma il Francese non voleva nè l'uno nè l'altro: e ghermitomi pel colletto con una forza prodigiosa, mi trasse presso il cocchio, e mi intronò nell'orecchio: _Sitzen dich auf_: poi balzando egli stesso nella carrozza, aggiunse: — Presto, frusta; avanti.» Alla buon'ora: pensai io nel sedermi sulla cassetta: e sferzando i cavalli uscimmo dal villaggio, tirando via di pratica. CAPITOLO XVII. Altre pugne, altre stragi. Più io toccavo su, e più il degno mio padrone ripeteva; — Buono! bravo!» Pareami arcifrettolosissimo, e a giudicar dalle parole che d'ora in ora gli scappavano di bocca, la sua coscienza non era più netta della mia. Al chiaro di luna credetti scorgere ch'ei fosse uno di quegli importanti personaggi che in francese si chiamano _impiegati_; avendo abiti troppo borghesi per un militare, e troppo militari per un borghese. La nostra conversazione riducevasi a monosillabi, perchè egli non parlava quasi punto il tedesco; io per restare in carattere, doveva ignorare totalmente il francese. Mi domandò; — Quanto star da qui a Posen?» ed io: — Molto ancora.» Egli aggiunse: — Essere molti Prussiani là? — Oh molto,» rispos'io: al che egli come forsennato gridò: — Andare, camminnare, sempre:» ed io faceva galloppar i cavalli colla pancia a terra. M'indussi poi a fargli intendere che avevo bisogno di mangiare col domandargli se aveva de' viveri seco; intese che gli domandassi di viver seco. Gli parlai di avermi compassione; credette che parlassi di commissione. Dissi che avevo _hunger_, cioè fame, e pensò che parlassi degli Ungheresi. Infine ripetei _brod_, e questa parola e il gesto onde l'accompagnai fece l'effetto, sì che mi diede un bel quarto di pagnotta, che fu meglio d'una sassata. Contento come un giubileo, sbocconcellai pane e pane in sulla cassetta, lodandomi del posto mio che mi forniva di tutto quanto potevo desiderare. Capellano o palafarniere, ajutante generale o maestro, dottore o vetturale, cos'importa? l'uomo sta sempre bene sotto qualunque abito: peggio per lui se l'abito è il solo bene che possiede. Io prendevo la strada di Polonia, dicendomi: Chi sa ch'io non vada in riva alla Vistola a trovar il comando d'un corpo d'armata? E non ci mettevo nè pepe nè sale, e per quanto oscura fosse la mia sorte, io la vedevo chiara come un'ambra. Mi sentiva nella migliore disposizione di spirito per comporre un sermone, quando a chiaro di luna distinsi alcune sentinelle sulla strada. Il mio commissario le vide al punto stesso, sfoderò la sciabola, impugnò una pistola che inarcò. Lo scatto d'uno scodellino mi coprì d'un sudor freddo da capo ai piedi. — Corpo e sangue, lesto, presto, avvia, tocca su,» gridava lui. — Fermo là. Chi viva! Alto là: chi viva?» gridarono alcuni soldati, presentandomi al petto la punta delle bajonette. A qual dei due obbedire? Io speravo che una bugia officiosa mi trarrebbe d'imbarazzo: onde credendo che i soldati fossero Francesi, avviati a raggiungere il loro reggimento, dissi loro: — Signori, il mio padrone è un generale francese.» — Alto là; rendetevi,» gridarono più voci ad un tratto. — Un canchero che ti roda,» urlò il mio preteso generale, e balzando di netto dal calesso, stramazzò due di costoro: sparò; gli risposero; di qua, di là, _da destra da manca sentivo le palle fischiando volar_. I miei cavalli furono spaventati anche più di me; onde, senza dire addio nè a diavolo morsero, il freno, e presero un galoppo disperato. Ed io certo non li teneva. Sentii ancora l'urtarsi delle sciabole e qualche scoppio; poi non intesi più nulla. Io mi trovavo salvato, grazie alla prudenza e alla velocità de' miei cavalli. — Maledetto accidente,» pensava io tastandomi dal capo alle piante, perchè dapprima mi credeva tutto crivellato dalle palle, e di perdere il sangue a catinelle, ma in fatto non avea tocca neppure una scalfitura. Tanto meglio. Ma del mio padrone che n'era? Doveva io tornar indietro a cercarlo? Sì! a rischio di farmi sciabolare. Ah, la fedeltà e la generosità mia non arrivavano a tanto. Quel che avvenne del commissario di guerra, Dio vel dica; per me non n'ebbi nè nuova nè ambasciata. Continuai pacificamente la mia strada, ma i cavalli erano spossati. Un villaggio mi si scoperse dinanzi; cosa dovevo fare? passarvi la notte, o tirar di lungo? Una voce mi diceva sommesso: — Va innanzi, va innanzi: perchè, sai tu di chi erano la carrozza ed i cavalli?» È ben vero che non gli avevo nè rubati, nè requisiti io, ma per questo dovevo tenermi l'altrui? In tale perplessità arrivai all'osteria, che già era un pezzo di là di notte. Lo stalliere affacciossi; io smontai, chiesi avena pei cavalli, birra per me, e mi accomodai nel salotto. Non avevo neppure un bezzo: ma ad un bisogno io pensava dar in pagamento il cappello e il palandrano: l'uno m'era troppo piccolo, l'altro troppo grande. CAPITOLO XVIII. Compagnia compromettente. L'ostessa, donna guarnita di ciccia in abbondanza, venne a sedermisi a lato, appoggiò i gomiti sulla tavola, e domandò se intendevo passar la notte sotto il suo tetto. Come risposi di no, mi chiese se voleva continuare il viaggio, sta sera fino alla piccola città di ***. Risposi di sì, stracontento che la curiosità di questa buona cristiana contentasse la mia, insegnandomi in qual parte del mondo mi trovassi. Mi domandò pure se non mi rincrescerebbe toglier meco una giovine che era giunta a piedi, e che gustava un po' di riposo, resole necessario da questa camminata. Io accettai a bocca baciata, sì per la mancia che mi darebbe, e sì pel piacere di sua compagnia. L'ostessa aggiunse che farei bene ad aspettar la punta del giorno per partire, giacchè la notte non era gran fatto sicura in questi tempi di guerra: molti Francesi ronzavano là intorno e i Prussiani che cercavano scappare, non erano un incontro meglio augurabile. Nessun giorno passava che non si sentisse parlar d'assassinio o di furto. Queste notizie mi fecero scrollar la testa con aria di malcontento e fu stabilito che sveglierebbe me e la signorina un pajo d'ore avanti giorno: per me era abbastanza presto, il mio padrone non c'era pericolo che mi rabbufasse; e quel riposo tornerebbe utile a' miei cavalli, ed anche alla signorina. Risolsi però di partire di buon mattino, atteso che, da bravo fisiologo, calcolavo che le strade doveano in quell'ora essere meno pericolose, perchè quelli che le rendono mal sicure durante la notte si ritirano o stanchi o paurosi dell'avvicinarsi del chiarore; e quelli che vogliono batterle di giorno, non si sono ancora messi in campagna. Il letto, cioè una materassuccia fatta colle fedi di miserabilità, non mi lusingò molto, e all'orologio scoccavono le quattro, ch'io stava aggiogando i cavalli. Feci trambusto per la casa finchè lo stalliere si svegliasse; esaminai colla lanterna il carrozzino, mia nuova proprietà. Dentro v'era un fodero di sciabola, vuoto; una delle tasche conteneva una bella pipa di schiuma, guarnita d'argento, una borsa da tabacco in seta ricamata, con queste tenere parole, _souvenir d'amitié_. Era senz'altro una galanteria di qualche giovinottina tedesca, conquista dell'impiegato, mio riveritissimo padrone. Il baule della vettura era chiuso, e l'impiegato avea tenuto seco la chiave. L'ostessa venne a portarmi il conterello sì pei cavalli, sì pel mio. — Madamigella pagherà per me,» le diss'io, e mi ribadii al posto, ove jeri sedeva il mio padrone. Vi so dire che ci stavo più caldo e più agiato che non a cassetta; oltre che speravo d'aver una amabile conversazione colla mia compagna di viaggio. Essa comparve al fine: salì nella carrozza al mio fianco; e detto addio all'ostessa, partimmo. Ma la nostra conversazione non fu sì piacevole quanto me l'ero immaginata. La giovane si abbiosciò nell'angolo della vettura, il più possibile discosto da me; e a tutte le mie riflessioni sulla frescura del mattino, sull'oscurità del crepuscolo, e sulla noja del viaggiare, ella non rispondeva che con un _sì_ o un _no_ secco secco. Rimasi adunque immerso nelle mie riflessioni, che diventavano di più in più curiose, mano mano che l'addormentata mia compagna veniva ravvicinata dal trabalzare della vettura. Il bujo rendeva ancora più potenti sull'immaginazione mia le sue invisibili attrattive. Poco a poco la testa della mia compagna si trovò sulla mia spalla: io passai pian pianino il mio braccio sinistro attorno allo svelto suo corpicciuolo, e me la strinsi contro il seno. Ma i battiti accelerati del cuor mio non la turbavano ne punto nè poco, mentre io tremava come un delinquente. Per la prima volta un'addormentata giovinetta stavasi appoggiata al mio seno; per la prima volta io teneva tra le braccia una creatura di quel sesso incantevole... Ah! perdona, Giulietta, se in quell'istante... Ma no, il cuor mio non fu infedele; anzi era con te. E mi immaginavo d'aver te per compagna: a te era dedicato il delizioso bacio che deposi sulla fronte della bella sconosciuta. Deh qual uomo resisterebbe ad una donna, il cui cuore batte sul suo cuore, il cui respiro si mesce col suo? Bisognerebbe esser di ghiaccio, non un celibatario di trentanove anni. CAPITOLO XIX. Sei pur bella cogli astri sul crine, Porporina foriera del dì. La vettura ruzzolava pianamente sulla sabbia, ed io lasciava andar i cavalli al loro passo, stringendo l'innocente mia compagna fra le braccia; e chiudendo gli occhi, m'abbandonai alle dolci visioni, che un benefico sonno mi offeriva. Giulietta, la mia parocchia, la più intera felicità, erano le fantasie tra cui il mio spirito andava rapito. La fanciulla ed io ci svegliammo nel momento stesso, nel momento che la vettura, lasciando la subbia, entrava sopra una strada ciottolata. Già schiariva il giorno, e la più bella aurora spiegava all'orizzonte dinanzi a me i suoi fuochi, _scintillanti tra i vivi zaffiri_. Gettai lo sguardo prima su' miei bravi cavalli, poi sulla mia compagna. — Ci guardammo per un po' l'un l'altro come stupefatti: ella fregò gli occhi, io altrettanto, pensando che il sole levante m'avesse abbagliato. Ma no! tornai a guardarla, e allora rimasi convinto ch'io sognava ancora della Giulietta, perchè mi pareva che fosse lei, seduta al mio fianco in petto e in persona. — O buon Dio! signor dottore, siete proprio voi?» domandò essa colla sua gentil voce argentina, esaminando ora il mio volto e i baffi, avanzo della divisa d'ajutante generale, ora il mio vecchio pastrano tutto a strambelli. — Giulietta! (gridai io.) Come! voi qui? possibile che voi siate al mio lato, voi?» Ma le domande cessarono: lacrime di felicità ne oscurarono gli occhi, e lasciai cascarmi le redini. Nell'eccesso della nostra gioja dimenticammo il mondo, dimenticammo tutto quel che ne circondava, e chi sa fin quando restavamo in quell'estasi deliziosa, vera beatitudine celeste, se una violenta sciacca non fosse venuta a richiamarci sulla terra. Ripresi le redini in mano, e allora fu una furia di bôtte e risposte. Giulietta era più bella che mai, ed i primi raggi del sole la facevano sfolgorare in tutta la sua gloria: sicchè lasciai cascare le briglie di nuovo. La informai delle mie avventure guerresche, già ben conosciute a voi, o lettori; e che ella ascoltò con attenzione più grande di quella di voi, o lettori. Molto più semplice era l'istoria dell'amica mia. La sua padrona, sgomenta dall'avvicinarsi dei Francesi, le aveva dato il congedo, lasciando Berlino per fuggire a Stettino, e per di là Dio sa dove Giulietta rimase sulla croce nell'incertezza de' fatti miei, sinchè ricevette da sua madre l'ordine di venirla a raggiungere. Da fanciulla obbediente partì detto fatto, lasciando le opportune spiegazioni per me, ove mai tornassi; e prese una vettura sino Francoforte. Di là, non avendo potuto trovar una carrozza, o perchè i Francesi le avessero requisite tutte, o perchè nessuno avesse voglia di muoversi in que' tempi, erasi eroicamente avventurata a piedi L'jeri sera, morta di fatica, era giunta nel villaggio, dov'ebbi la fortuna di scontrarla. CAPITOLO XX. E qui finì la dolorosa storia. Ci fermammo a fare un boccon di colazione in un albergo, poco lontano dal luogo ove la madre di Giulietta abitava. Là un bravo rasojo cancellò le ultime vestigia del mio grado d'ajutante generale. Giulietta mi comprò una bella giubba e un cappello, sicchè potei risalire il cocchio rinfronzito, e in un arnese più degno d'una bella giovinetta elegantemente vestita, e seguitammo la strada. Il sole ci saettava co' suoi raggi, e il cuor nostro non era men giulivo che tutta la natura. Da un pezzo erano state fatte le nostre pubblicazioni, sicchè nulla più impediva di sposarci; e ben tosto ci accordammo sul giorno. Nel frattempo io doveva scrivere a Francoforte per informarmi del conte dell'impero e della capellania cui dovevo essere nominato, benchè avessi bruciato la mia vocazione nel campo, insieme co' miei pindarici canti di trionfo. Giulietta aveva messo da banda cento talleri fumanti, che, a buoni conti, erano un bel principio. E poi, se la sventura ci bersagliava, io poteva rizzar una scoletta; pane e acqua, noi lo sentivamo, poteano bastare e anche troppo alla nostra felicità, purchè non fossimo l'un dall'altro separati. Mentre così abbellivamo la nostra povertà, Giulietta coll'immaginare de' pasti economici, io parlando sul mio zelo come maestro di scuola, un tintinno si fece sentire al fondo della vettura, come se qualche cosa ne cascasse ai piedi. Cercammo, ed era un marengo d'oro lampante. — T'è cascato a te?» chiesi alla Giulietta. — A me no: io non ne ho dell'oro», mi rispose ella. Prendemmo questo amabile dono come un avanzo del signor impiegato. Ma un momento dopo non rotola un altro marengo a' nostri piedi? — Da senno (diss'io) noi abbiamo qualche buon genio, o qualche fata benigna, che intese la nostra conversazione.» Allungai le mestole a levar anche questo; cercai minutamente se non avesse altri compagni, ma non trovai nulla, il che m'increbbe al cuore. Ma a poco andare, il fenomeno si rinnovò per la terza volta. — Cattadedina, questo non viene dalla vettura!» gridai io, e rattenni i cavalli. Allora un quarto ruspo d'oro brillò a' miei occhi, traverso una sfenditura del cofano, su cui stavamo seduti. La fonte aurea era dunque scoperta. Forzai il cofano, e trovai che, quel che dapprima avevo creduto il tintinno d'una catena, era un rotolo di marenghi che si era sgruppato, e presso a quello un sacchetto d'argento meglio chiuso. In che modo il mio impiegato fosse divenuto possessore di questo tesoro, io nol so; e, appartenesse a lui o ad altri, poco m'importava. Ma sì io, sì Giulietta conoscemmo che questa somma era troppo considerevole pei nostri modesti desiderj; nè potevamo tenercela in coscienza. Riponemmo dunque i tre marenghi presso gli altri, rinserrammo il cassetto, e toccammo innanzi come se nulla fosse accaduto. La vecchia madre di Giulietta, contentona di abbracciarci, ne ricevette con mille benedizioni. Il nostro tesoro fu dato a lei in deposito; ma, per quanti avvisi io facessi affigere sui cantoni e sulle gazzette, mesi e mesi passarono senza che alcuno comparisse a reclamare sia il cavallo e il calesso, sia il denaro. Al termine dunque delle avventure mie, rimasi più ricco che mai non l'avessi sperato, e con Giulietta per moglie. Mandai al mio amico di Berlino un lauto compenso per quella tal vettura che il signor Maggiore, m'avea menata via, senza tanti complimenti: rinunziai alla cura d'anime; una bella campagna, in situazione deliziosa, e all'ombra di tigli e di castani, una casetta grande abbastanza per Giulietta, sua madre e me, ecco il mio paradiso. 1845. UNA FIGLIA DI GALILEO GALILEI Se vi è titolo a scusare i romanzi storici, gli è l'introdursi che fanno nella vita privata, vorremmo dire nel cuore di coloro, di cui la storia non ci mostra che il braccio o la testa. Ma se la storia cesserà di essere un mostro convenzionale, se si convincerà che, di tutte le arti belle, ma di essa principalmente, la materia vera è l'uomo; l'uomo coi sentimenti, coi pensieri, colle speranze sue proprie; essa potrà raggiungere appieno l'intento suo d'essere l'immagine della vita, e non farà più bisogno di ricorrere a quelle ibridi composizioni, dove si è incerti anche del poco vero che serve d'intelajatura al molto finto. E che la storia possa riccamente soddisfare a questo bisogno, lo mostrarono que' pochi che seppero, ai dì nostri, farla discendere dall'epico suo sussiego, perchè versasse nella vita; scapitando forse in dignità di procedimento, ma guadagnando in verità. E noi oggi vogliamo sfogliare alcune di queste pagine prosastiche della vita d'un grand'uomo. Non sono i contrasti che fan il bello (dico il bello formale) de' quadri? Non è per questo che si accostano sempre Marte e Venere, Otello e Desdémona, satiri e ninfe, santi e demonj; e in un'arte più plateale quegli spazzacamini, quei servitori mori, quelle scimmie? Or noi, a canto all'austera figura di Galileo Galilei, che rammenta tanto senno, tanta perseveranza, tante contrarietà, ne abbiamo riscontrata un'altra, pura, ingenua, religiosa, che protegge quasi di candido velo gli occhi sfolgoranti che scopersero macchie nel sole, e circondano di carezze la risoluta volontà che, a fronte dei sofisti potenti, esclamava, _Eppur si muove_. È noto che Galileo ebbe la disgrazia d'aver più d'una creatura fuor di matrimonio, e il conforto di poter confessarle. Due figliuole si resero monache in San Matteo d'Arcetri col nome di suor Arcangela e suor Maria Celeste. Di quest'ultima, a lui prediletta, rimangono da 120 lettere nella biblioteca Palatina di Firenze, donde alcune furono messe nell'edizione delle opere di quel grande, che, a cura di Eugenio Alberi e a spese del granduca, fu fatta in Firenze. Abbiamo creduto non dovesse che piacere il trovarne qui alcune, di cui la religiosa mestizia e la candida affezione speriamo toccheran il cuore ai lettori come toccarono il nostro: vedendo questa pia soccorrere a tutti i dolori del padre con quei conforti, con quell'affetto, con quella dirittura di sentire, che la solitudine claustrale è così atta a ispirare in coloro che non vi si struggono di tristi repetìi, o di sollecitudini mondane. Dal convento di San Matteo in Arcetri, 10 maggio, 1623; a Bellosguardo. Sentiamo grandissimo disgusto per la morte della sua amatissima sorella e nostra cara zia (_Virginia Landucci_). Ne abbiamo dico, grave dolore per la perdita di essa, e ancora sapendo quanto travaglio ne avrà avuto V. S., non avendo lei, si può dir, altri in questo mondo, nè potendo quasi perder ogni cosa più cara, sì che possiamo pensar quanto gli sia stata grave questa percossa tanto inaspettata. E come gli dico partecipiamo ancor noi buona parte del suo dolore, sebbene dovrebbe esser bastato a farci pigliar conforto la considerazione delle miserie umane, e che tutti siamo qua come forestieri e viandanti, che presto siamo per andare alla nostra vera patria nel cielo, dove è perfetta felicità, e dove sperar dobbiamo che sia andata quell'anima benedetta. Sicchè, per l'amor di Dio preghiamo V. S. a consolarsi, e rimettersi nella volontà del Signore, al quale sa benissimo che dispiacerebbe facendo altrimenti, e anco farebbe danno a sè e a noi, perchè non possiamo non dolerci infinitamente quando sentiamo che è travagliata e indisposta, non avendo noi altro bene in questo mondo che lei. Non gli dirò altro se non che di tutto cuore preghiamo il Signore che la consoli e sia sempre seco. Salì in quel tempo al trono papale Urbano VIII, ch'era grand'estimatore e amico di Galileo; sicchè questi ne esultò, e mandò a leggere a sua figlia le lettere che, in diversi tempi, n'avea ricevute. Suor Maria Celeste gli rispose a' 10 agosto 1623: Il contento che mi ha apportato il regalo delle lettere che m'a mandate V. S., scrittegli da quell'illustrissimo cardinale, oggi Sommo Pontefice, è stato inesplicabile, conoscendo benissimo in quelle qual siasi l'affezione che le porta, e quanta stima faccia della sua virtù. Le ho lette e rilette con gusto particolare, e gliele rimando come m'impone, non l'avendo mostrate ad altri che a suor Arcangela (_la sorella_), la quale insieme meco ha sentito estrema allegrezza nel vedere quanto lei sia favorita da persona tale. Piaccia al Signore di concederle tanta sanità quanta gli è di bisogno per adempire il suo desiderio di visitare Sua Santità, acciocche maggiormente possa V. S. esser favorita da quella; e anco vedendo nelle sue lettere quante promesse gli faccia, possiamo sperare che facilmente avrebbe qualche ajuto per nostro fratello. Intanto noi non mancheremo di pregar il Signore, dal quale ogni grazia deriva, che gli dia d'ottener quanto desidera, purchè sia per il meglio. Mi vo immaginando che V. S. in questa occasione avrà scritto a Sua Santità una bellissima lettera per rallegrarsi con essa della dignità ottenuta; e perchè sono un poco curiosa, avrei caro se gli piacesse di farmene vedere la copia. La ringrazio infinitamente di queste che ha mandate e ancora dei poponi, a noi gratissimi. Le ho scritto con molta fretta, imperò la prego a scusarmi se ho scritto sì male. La saluto di cuore insieme con le altre solite. Pare che Galileo le facesse alcun rimprovero di quest'ultima parte della lettera; ond'essa gli replicava a' 13 agosto 1623, sempre a Bellosguardo. La sua amorevolissima lettera è stata cagione che io a pieno ho conosciuto la mia poca accortezza, stimando io che così subito dovesse V. S. scrivere a una tal persona, o per dir meglio al più sublime signore di tutto il mondo. Ringraziola adunque dell'avvertimento, e mi rendo certa che (mediante l'affezione che mi porta) compatirà alla mia grandissima ignoranza, ed a tanti altri difetti che in me si ritrovano. Così mi foss'egli concesso il poter di tutti esser da lei ripresa ed avvertita, come lo desidero, che io avrei così qualche poco di sapere, e qualche virtù che non ho; ma poichè, mediante la sua continua indisposizione, ci è vietato di poterla qualche volta rivedere, è necessario che pazientemente ci rimettiamo nella volontà di Dio, la quale permette ogni cosa pel nostro bene. Io metto da parte e serbo tutte le lettere, che giornalmente mi scrive V. S.; e quando non mi ritrovo occupata, con mio grandissimo gusto le rileggo più volte, sì che lascio pensare a lei se amo volontieri leggere quelle che gli sono scritte da persone tanto affettuose ed a lei affezionate. Per non la infastidire di troppo farò fine, salutandola affettuosamente insieme con suor Arcangela e l'altre di camera. Quanto affetto, e quanta venerazione per l'illustre genitore! Sette giorni dopo, le giunge nuova ch'e' si trovi indisposto, ond'essa gli scrive: Stamattina ho inteso dal nostro fattore che V. S. si ritrova a Firenze indisposta, e perchè mi par cosa fuora del suo ordinario il partirsi di casa sua (_a Bellosguardo_) quando è travagliata dalle sue doglie, sto con timore e mi vo immaginando che abbia più male del solito. Pertanto la prego a dar ragguaglio al latore acciocchè, se fosse manco di quello che temiamo, possiamo quietar l'animo. Ed in vero ch'io non m'avveggo mai d'esser monaca se non quando sento che V. S. è ammalata, poichè allora vorrei poterla venire a visitare e governare con tutta quella diligenza, che mi fosse possibile. Orsù, ringraziato sia il Signore Iddio di ogni cosa, poichè senza il suo volere non si volta una foglia. Io penso che in ogni modo non gli manchi niente, pur veda se in qualche cosa ha bisogno di noi, e ce l'avvisi, che non mancheremo di servirla al meglio che possiamo; intanto seguiteremo, conforme al nostro solito a pregare Nostro Signore per la sua desiderata sanità, e anco che conceda la sua santa grazia. Or viene la volta di confidare al padre i proprj malucci e invocarne l'assistenza; pur mandandogli nuove cortesie di regalucci, e quella cortesia che agli scrittori è giocondissima, il parlargli de' suoi libri. 21 novembre 1623. L'infinito amore ch'io porto a V. S., ed anche il timore che ho, che questo subito freddo, ordinariamente a lei tanto contrario, gli causi il risentimento dei suoi soliti dolori e d'altre sue indisposizioni, non comportano ch'io possa star più senza aver nuove da lei; mando adunque costì per intender qualcosa, sì dell'esser suo, come anche quando V. S. pensi partire. Ho sollecitato assai in lavorar i tovagliolini, e son quasi al fine; ma nell'appiccare le frange trovo che, di questa sorte che gli mando la mostra, me ne manca per due tovagliolini, che saranno quattro braccia. Avrò caro che le mandi quanto prima, acciocchè possa compirli avanti che si parta, che per questo ho preso sollecitudine in finirli. Per non aver io camera dove stare a dormire la notte, suor Diamante, per sua cortesia mi tiene nella sua, privandosi della propria sorella per tenervi me; ma a questi freddi è tanto cattiva la stanza, che io, che ho la testa tanto infetta, non credo poterci stare se V. S. non mi soccorre prestandomi uno de' suoi padiglioni, di quelli bianchi che adesso non deve adoperare. Avrò caro d'intender se può farmi questo servigio; e di più la prego a farmi grazia di mandarmi il suo libro, che si è stampato adesso, tanto che io lo legga, avendo io gran desiderio di vederlo. Queste poche paste che le mando, l'aveva fatte pochi giorni sono per dargliele quando veniva a darci addio: veggo che non sarà presto, come temevo, tanto che gliele mando acciò non induriscano. Suor Arcangela seguita ancora a purgarsi, e se ne sta non troppo bene con due cauterj che se le son fatti nelle coscie. Io ancora non sto molto bene, ma per essere omai tanto assuefatta alla poca sanità, ne faccio poca stima; vedendo di più che al Signore piace di visitarmi sempre con qualche poco di travaglio, lo ringrazio e lo prego che a V. S. conceda il colmo d'ogni maggior felicità. E per fine, di tutto cuore la saluto in nome mio e di suor Arcangela. _PS._ Se V. S. ha collari da imbiancare, potrà mandarceli. 19 dicembre 1625. Del cedro, che V. S. m'ordinò che dovessi confettare, non ne ho accomodato se non questo poco, che al presente le mando, perchè dubitavo, che per esser così appassito, non dovesse riuscir di quella perfezione che avrei voluto, come veramente non è riuscito. Insieme con esso le mando due pere cotte, per questi giorni di vigilia; ma per maggiormente regalarla gli mando una rosa, la quale, come cosa straordinaria in questa stagione, dovrà da lei esser molto gradita, e tanto più che, insieme con la rosa, potrà accettare le spine, che in essa rappresentano l'acerba passione del nostro Signore, e anco le sue verdi fronde, che significano la speranza, che (mediante questa Santa Passione) possiamo avere di dover, dopo la brevità ed oscurità dell'inverno della vita presente, pervenire alla chiarezza e felicità dell'eterna primavera del cielo; il che ne conceda Dio benedetto per sua misericordia.» Quest'affetto non è passeggero; ma come di figlia, non si altera cogli anni; e a' 4 marzo 1627 essa gli scriveva ancora a Bellosguardo un amorevole lamento. Credo veramente che l'amor paterno inverso dei figli possa in parte diminuirsi, mediante i mali costumi e portamenti loro, e questa mia credenza vien confermata da qualche indizio che me ne dà V. S., parendomi che più presto vada in qualche parte scemando quel cordiale affetto, che per l'addietro ha inverso di noi dimostrato; poichè sta tre mesi per volta senza venire a visitarne, che a noi pajon tre anni, ed anche da un pezzo in qua, mentre si ritrova con sanità, non mi scrive mai, mai un verso. Ho fatto buona esamina per conoscere se dalla banda mia ci fosse caduto qualche errore, che meritasse questo castigo, ed uno ne ritrovo (ancorchè involontario), e questo è una trascuraggine, o spensierataggine ch'io dimostro verso di lei, mentre non ho quella sollecitudine, che richiederebbe l'obbligo mio, di visitarla e salutarla più spesso con qualche mia lettera. Onde questo mio mancamento, accompagnato da molti demeriti che per altra parte ci sono, è bastante a somministrarmi il timore sopra accennatole; sebbene appresso di me non a difetto può attribuirsi, ma piuttosto a debolezza di forze, mente che la mia continua indisposizione mi impedisce di poter esercitarmi in cosa alcuna; e già più d'un mese ho travagliato con dolori di testa tanto eccessivi, che nè giorno nè notte trovavo riposo. Adesso che (per grazia del Signore) sono mitigati, ho subito preso la penna per scriverle questa lunga lamentazione, che, per essere di carnevale, può piuttosto dirsi una burla. Basta insomma che V. S. si ricordi che desideriamo di rivederla quando il tempo lo permetterà, intanto le mando alcune poche confezioni, che mi sono state donate; saranno alquanto indurite, avendole io serbate parecchi giorni colla speranza di dargliele alla presenza. I berlingozzi sono per l'Anna Maria e suoi fratellini (_figli di Michelangelo fratello di Galileo_). Gli mando una lettera per Vincenzo (_fratello_), acciò questo gli riduca in memoria che siamo al mondo, poichè dubito ch'egli se lo sia scordato, poichè non ci scrive mai un verso. Salutiamo per fine V. S. e la zia di tutto cuore, e da N. S. le prego ogni contento. Pretendono che il cervello non si sviluppi se non a scapito del cuore, e che perciò le persone di testa non siano le più amorevoli. Rimettiamone la decisione al dottor Faust; questo noi sappiamo, che Galileo non rispondeva abbastanza alle sollecitudini di sua figlia, o almeno non quanto essa desiderava. E però, sempre con religiosa rassegnazione, essa gli rinnuova il lamento agli 11 novembre dell'anno seguente: Essendo io stata tanto senza scriverle, V. S. potrebbe facilmente giudicare ch'io l'avessi dimenticato; sì come potrei io sospettare ch'ella avesse smarrita la strada per venir a visitarmi, poichè è tanto tempo che non ha per essa camminato. Ma siccome poi son certa che non tralascio di scriverle per la causa suddetta, ma si bene per penuria e carestia di tempo, del quale non ho mai un'ora che sia veramente mia, così mi giova di creder ch'ella, non per dimenticanza, ma sibbene per altri impedimenti, lasci di venir da noi; e tanto più adesso che Vincenzo nostro viene in suo scambio, e con questo ci acquetiamo, avendo da esso nuove sicure di V. S. le quali tutte mi sono di gusto, eccetto quella per la quale intendo ch'ella va alla mattina nell'orto. Questa veramente mi dispiace fuori di modo, parendomi che V. S. si procacci qualche male stravagante e fastidioso, siccome l'altra invernata gl'intervenne. Di grazia, privisi di questo gusto, che torna in tanto suo danno, e se non vuol farlo per amor suo, faccialo almeno per amor di noi suoi figliuoli, che desideriamo di vederla giugnere alla decrepità, il che non succederà s'ella così si disordina. Dico questo per pratica, perchè ogni poco ch'io stia ferma all'aria scoperta, mi nuoce alla testa grandemente: or quanto più farà danno a lei? Quando Vincenzo fu ultimamente da noi, suor Chiara gli domandò otto o dieci melarancie; adesso ella torna a dimandarle a V. S., se sono mediocremente mature, avendo a servirsene lunedì mattina. Gli rimando il suo piatto; dentrovi una pera cotta, che credo non le spiacerà, e questa poca pasta reale. Saluto V. S. e Vincenzo molto affettuosamente, e il simile fanno l'Arcangela e le altre di camera. Il Signore gli conceda la sua grazia. Sono uno dei temi favoriti agli scherzi della _buona società_ i regalucci delle monache; ma qui prendono un carattere solenne, e noi godiamo pensando n'avrà goduto quel grand'uomo di Galileo. Il Vincenzo, di cui qui si parla, era un altro figlio di lui, il quale nel 1629 menò moglie, e la fece conoscere alle sorelle. In quest'occasione suor Maria Celeste scriveva al padre con affetto ancor più espansivo, quasi (oseremmo cercar un bruscolo mondano in quella candida anima?) temesse che le cure della nuora lo distraessero alquanto dall'amor delle figliuole. Restammo veramente tutte sotisfatte della sposa, per esser molto affabile e graziosa; ma sopra ogni altra cosa ne dà contento il conoscere ch'ella porti amore a V. S., poichè supponghiamo che sia per fargli quegli ossequi, che noi le faremmo se ci fosse permesso. Non lascieremo già di fare ancor noi la parte nostra inverso di lei, cioè di tenerla continuamente raccomandata al Signor Iddio, che troppo siamo obbligate, non solo come figliuole, ma come orfane abbandonate che saremmo se V. S. ci mancasse. Oh se almeno io fossi abile ad esprimerlo il mio concetto, sarei sicura che ella non dubiterebbe ch'io non l'amassi tanto teneramente, quanto mai altra figliuola abbia amato il padre; ma non so significarglielo con altre parole, se non con dire che io lo amo più di me stessa, poichè, dopo Dio, l'essere lo riconosco da lei, accompagnato da tanti altri beneficj che sono innumerabili, sì che mi conosco anche obbligata e prontissima ad espor la mia vita a qualsivoglia travaglio per lei, eccettuatone l'offesa di Sua Divina Maestà. Di grazia V. S. mi perdoni se la tengo a tedio troppo lungamente, poichè talvolta l'affetto mi trasporta. Non mi ero già messa a scrivere con questo pensiero, ma sibbene per dirle che, se potesse rimandare l'oriuolo sabato sera, la sagristana che ci chiama a mattutino l'avrebbe caro; ma se non si può mediante la brevità del tempo che V. S. l'ha tenuto, sia per non detto che, meglio sarà l'indugiare qualche poco, e riaverlo aggiustato, caso che n'abbia bisogno. Vorrei anco sapere se ella si contentasse di far un baratto con noi, cioè ripigliarsi un chitarrone, ch'ella ci donò parecchi anni sono, e donarci invece un brevario a tutte due, giacchè quelli che avemmo quando ci facemmo monache, sono tutti stracciati, essendo questi gl'istromenti che adopriamo ogni giorno; talchè quello se ne sta sempre alla polvere, e va a rischio d'andar a male, essendo costrette, per non fare scortesia, a mandarlo in presto fuor di casa qualche volta. Se V. S. si contenta, me ne darà avviso, acciò possa mandarlo: e quanto ai breviarj non ci curiamo che siano dorati, ma basterebbe che vi fossino tutti i santi di nuovo aggiunti, e avessino buona stampa, perchè ci serviranno nella vecchiaja, se ci arriveremo. Volevo fargli della conserva di fiori di ramerino, ma aspetto che V. S. mi rimandi qualcuno de' miei vasi di vetro, perchè non ho dove metterla; e così se avesse per casa qualche barattolo o ampolla vuota, che gli dia impaccio, a me sarebbe grata per la bottega. Sopraggiunse intanto il 1630, l'anno della peste; e in tali pericoli la lontananza cresce gli sgomenti, quand'anche siasi certi che la presenza non diminuirebbe i pericoli. È in questi casi che la voce della religione vien di conforto più presentaneo, e viepiù se esca da labbra amorevoli. 18 ottobre 1630, a Bellosguardo. Sto con l'animo assai travagliato e sospeso, immaginandomi che V. S. si ritrovi molto disturbata mediante la repentina morte del suo povero lavoratore. Suppongo eziandio ch'ella procurerà con ogni diligenza possibile di guardarsi dal pericolo, del che la prego caldamente; e anco credo che non gli manchino i rimedj difensivi, proporzionati alla presente necessità, onde non predicherò altro intorno a questo. Bensì con ogni debita riverenza e confidenza figliale l'esorterò a procurar l'ottimo rimedio, quale è la grazia di Dio benedetto, col mezzo di una vera contrizione e penitenza. Questa senza dubbio è la più efficace medicina, non solo per l'anima, ma pel corpo ancora; poichè, se è tanto necessario, per ovviare al male contagioso, lo stare allegramente, qual maggiore allegrezza può provarsi in questa vita, di quello che ci apporta una buona e serena coscienza? Certo che, quando possederemo questo tesoro, non temeremo nè pericoli nè morte; e poichè il Signore giustamente ne castiga con questi flagelli, cerchiamo noi con l'ajuto suo di star preparati per ricevere il colpo da quella potente mano la quale avendoci cortesemente donato la presente vita, è padrona di privarcene come e quando gli piace. Accetti V. S. queste poche parole proferite con uno svisceratissimo affetto, e anco resti consapevole della disposizione nella quale, per grazia del Signore, io mi ritrovo, cioè desiderosa di passarmene all'altra vita, poichè ogni giorno veggo più chiaro la vanità e miseria della presente; oltrechè finirei di offendere Dio benedetto, e spererei di poter con più efficacia pregare per V. S. Non so se questo mio desiderio sia troppo interessato; il Signore, che vede il tutto, supplisca per sua misericordia ove io manco per mia ignoranza, e a V. S. doni vera consolazione. Noi qua siamo tutte sane del corpo, ma ben siamo travagliate dalla penuria e povertà; non in maniera però che ne patiamo detrimento nel corpo, con l'ajuto del Signore. Scrivo a ore sette; imperò V. S. mi scuserà se farò degli errori, perchè il giorno non ho un'ora di tempo che sia mia, poichè all'altre mie occupazioni s'aggiunse l'insegnare il canto fermo a quattro giovinette, e per ordine di Madonna ordinare l'uffizio del coro giorno per giorno: il che non mi è di poca fatica, per non aver cognizione alcuna di lingua latina. È ben vero che questi esercizj mi sono di molto gusto, s'io non avessi anco necessità di lavorare; ma da questo ne cavo un bene non piccolo, cioè il non stare in ozio un quarto d'ora mai mai; eccetto che mi è necessario il dormire assai per causa della testa. Se V. S. m'insegnasse il secreto che usa per sè, che dorme così poco, lo avrei molto caro, perchè finalmente sette ore di sonno, ch'io mando a male, mi pajon pur troppo. Non dico altro per non tediarla, se non che la saluto affettuosamente insieme con le solite amiche. E conforti la Maria Celeste inviava al padre in altri dispiaceri di esso. 2 novembre 1630, a Bellosguardo. So che V. S. sa meglio di me che le tribulazioni sono la pietra del paragone, ove si fa pruova della finezza dell'amor di Dio, sicchè tanto quanto le piglieremo pazientemente dalla sua mano, tanto potremo prometterci di posseder questo tesoro, ove consiste ogni nostro bene. La prego dunque di non pigliare il coltello di questi disturbi e contrarietà per il taglio, acciò da quello non resti offesa, ma piuttosto prendendolo a diritto, se ne serva per tagliare con quello tutte le imperfezioni, che per avventura conoscerà in sè stesso, acciò levati gl'impedimenti, siccome con vista di lince ha penetrato i cieli, così penetrando anche le cose più basse, arrivi a conoscere la vanità e fallaccia di tutte queste cose terrene; vedendo e toccando con mano che nè amor di figli, nè piaceri, onori o ricchezza ci possono dar vera contentezza, essendo cose per sè troppo instabili, e che solo in Dio benedetto, come in ultimo nostro fine, possiamo trovar vera quiete. Oh che gaudio sarà il nostro quando, squarciato questo fragil velo che ne impedisce, a faccia a faccia godremo questo gran Dio? Affatichiamoci pure questi pochi giorni di vita, che ci restano, per guadagnare un bene così grande e perpetuo; ove parmi, carissimo signor padre, che V. S. s'incammini per dritta strada, mentre si vale delle occasioni che si gli porgono, e particolarmente nel far di continuo benefizj a persone che la ricompensano d'ingratitudine; azione veramente, che, quanto ha più del difficile, tanto è più perfetta e virtuosa. Anzi questa, più che altra virtù, mi pare che ci renda simili all'istesso Dio, poichè in noi stessi esperimentiamo, che, mentre tutto il giorno offendiamo S. D. M., egli all'incontro va pur facendone infiniti benefizj; e se pur talvolta ci castiga, fa questo per maggior nostro bene, a guisa di buon padre che, per correggere il figlio prende la sferza: siccome par che segua di presente nella nostra povera città, acciocchè, almeno mediante il timore del soprastante pericolo, ci emendiamo. V. S. mi perdoni se troppo l'infastidisco con tanto cicalare, perchè, oltre che ella m'inanimisce col darmi indizio che gli sieno grate le mie lettere, io fo conto ch'ella sia il mio devoto (per parlare alla nostra usanza), con il quale io comunico tutti i miei pensieri, e partecipo i miei gusti e disgusti; e trovandolo sempre prontissimo a sovvenirmi, gli domando non tutti i miei bisogni, perchè sarieno troppi, ma sibbene il più necessario di presente, perchè venendo il freddo mi converrà intirizzirmi se egli non mi soccorre mandandomi un coltrone per tenere addosso, poichè quello che io tengo non è mio, e la persona se ne vuol servire, come è dovere. Quello che avemmo da V. S. insieme con il panno, lo lascio a suor Arcangela, la quale vuole star sola a dormire, e io l'ho caro: ma così resto con una semplice sargia, e se aspetto di guadagnar da comprarlo, non l'avrò nè manco quest'altro inverno. Sicchè io lo dimando in carità a questo mio devoto tanto affezionato, il quale so ben io che non potrà comportare ch'io patisca. E piaccia al Signore (se è per il meglio) di conservarmelo ancora lungo tempo; perchè, dopo di lei, non mi resta bene alcuno nel mondo. Ma è pur gran cosa ch'io non sia buona per rendergli il contraccambio in cosa alcuna! Procurerò almeno, anzi al più, d'importunar tanto Dio benedetto e la Madonna santissima, ch'egli ci conduca al paradiso, e questa sarà la maggior ricompensa ch'io possa dare per tutti i beni che mi ha fatti e fa continuamente. Gli mando due vasetti di lattovaro, preservativo dalla peste. Quello che non vi è scritto sopra è composto di fichi secchi, noci, ruta e sale, unito il tutto con tanto mele che basti. Se ne piglia la mattina a digiuno quanto una noce con bervi dietro un poco di greco o vino buono, e dicono che è esperimentato per difensivo mirabile; è ben vero che ci è riuscito troppo cotto, perchè non avvertimmo alla condizione dei fichi secchi, che è di assodare. Anco di quell'altro se ne piglia un boccone nell'istessa maniera, ma è un poco più ostico. Se vorrà usare dell'uno o dell'altro, procureremo di farli con più perfezione. 18 febbraio 1631. Il disgusto che ha sentito V. S. della mia indisposizione dovrà restare annullato, mentre di presente gli dico che io sto ragionevolmente bene circa al male sopraggiuntomi in questi giorni passati, che, quanto alla mia antica oppilazione credo che farà bisogno di una efficace cura a migliore stagione; intanto mi andrò trattenendo con buon governo, siccome ella mi esorta. È ben vero ch'io desidererei, che del consiglio che porge a me, si valesse anche per sè stesso, non immergendosi tanto ne' suoi studj che pregiudicano troppo notabilmente alla sua sanità. Che se il povero corpo serve come strumento proporzionato allo spirito nell'intender e investigare le novità con sua gran fatica, è ben dovere che se gli conceda la necessaria quiete; altrimenti egli si sconcerterà di maniera, che renderà anco l'intelletto inabile il gustar quel cibo che prese con troppa avidità. Non ringrazierò V. S. dei due scudi e altre amorevolezze mandatemi, ma sibbene della prontezza e liberalità con la quale ella si dimostra tanto e più desiderosa di sovvenirmi, quanto io bisognosa di esser sovvenuta. Resto confusa sentendo ch'ella conservi le mie lettere, e dubito che il grande affetto che mi porta gliele dimostri più compite di quello che sono; ma sia pure come si voglia, a me basta ch'ella se ne soddisfaccia: con che gli dico a Dio, il quale sta sempre con lei, e gli fo le solite raccomandazioni. E questa vada in contraddizione al dottor Faust, poichè vediamo che quest'austero Galileo, occupato de' pianeti e in lotta con tanti avversarj e invidiosi, siccome è la sorte degli uomini grandi, non è vero che abbia sagrificato alla testa il cuore; e siane prova il conservar che fa le lettere della sua monacella. Frugando nelle quali, procediamo, e vediam come ella si condolga della morte dello zio Michelangelo. 11 marzo 1631. La lettera di V. S. mi ha apportato molto disgusto per più ragioni. E prima perchè sento la morte dello zio Michelangelo del quale mi duole assai, non solo per la perdita di lui ma anco per l'aggravio che perciò ne viene a lei, che, veramente questa non credo che sarà la più leggiera fra le altre sue poche soddisfazioni, o per dir meglio tribulazioni. Ma poi che Dio benedetto si mostra prodigo con V. S. di lunghezza di vita e di facoltà più che con suo fratello e sorelle, è conveniente ch'ella spenda l'una e l'altre consolare benemplacito di S. D. M. che ne è padrone. Sento anco grandissimo disgusto di non poterle dare quella soddisfazione che vorrei circa il tener qua in serbo la Virginia, alla quale sono affezionata per essere ella stata di sollevamento e passatempo a V. S., già che i nostri superiori si sono dichiarati non voler in modo alcuno che pigliamo fanciulle nè per monache nè per inserto, perchè essendo tale la povertà del convento quale V. S. sa, si rendono difficili a provveder da viver per noi che già siamo qua, non che vogliano aggiungercene dell'altre. Essendo adunque questa ragione molto plausibile, e il comandamento universale per parenti ed altri, io non ardirei di ricercar da Madonna o da altri una tal cosa. Assicurisi bene che provo una pena intensa mentre mi trovo priva di poter in questo poco soddisfarla, ma finalmente non ci vedo verso. Dispiacemi anche grandemente in sentire ch'ella si trovi con poca sanità, e, se mi fosse lecito, di molto buona voglia piglierei sopra di me i suoi dolori; ma poi che non è possibile, non manco almeno dell'orazione, nella quale la preferisco a me stessa; così piaccia al Signore di esaudirla! Io sto tanto bene di sanità, che vo facendo quaresima, con speranza di condurla sino al fine, sicchè V. S. non si pigli pensiero di mandarmi cose da carnevale; la ringrazio di quelle già mandatemi, e, per fine di tutto cuore me le raccomando insieme con suor Arcangela e le amiche. Questa suor Arcangela era di salute ancor più disfatta; e di lei scriveva il 12 agosto: Suor Arcangela, che tanto m'ha dato da pensare, per grazia di Dio sta alquanto meglio, e sebbene assai debole e fiacca si ritrovi, comincia a sollevarsi; e perchè avrebbe gusto di mangiare qualche pesciuolo marinato, prega V. S. che gliene faccia provvisione di qualcuno per questi prossimi giorni magri. Di lei stessa si occupava in una del 30 agosto, sempre diretta a Bellosguardo. Se la misura o indizio dell'amore, che si porta ad una persona, è la confidenza che in lei si dimostra, V. S. non dovrà stare in dubbio se io l'amo di tutto cuore, come è in verità, poichè tanta confidenza e sicurtà piglio con lei, che qualche volta temo che non ecceda il termine della modestia e riverenza figliale, e tanto più sapendo ch'ella da molti fastidj e spese si trova aggravata. Nondimeno la certezza che ho, che V. S. sovviene tanto volentieri alle mie necessità quanto a quelle di qualsivoglia altra persona, anzi alle sue proprie, mi somministra ardire di pregarla che si compiaccia di alleggerirmi di un pensiero, che molto m'inquieta mediante un debito che tengo di cinque scudi, per la malattia di suor Arcangela; essendomi convenuto in questi quattro mesi spendere alla larga, in comparazione di quello che comportava la povertà del nostro stato. E ora che mi trovo all'estremo, e in necessità di soddisfare a chi devo, mi raccomando a chi so che può e vuole ajutarmi. E anco desidero un fiasco del suo vino bianco, per farlo acciajato per suor Arcangela, alla quale credo che più gioverà la fede che ha in questo rimedio, che il rimedio istesso. Scrivo con tanta scarsezza di tempo, che non posso dirle altro, senonchè vorrei che questi sei calicioni fossino di suo gusto, e me le raccomando. Fra ciò arrivarono i tempi grossi pel Galilei. Figuriamoci l'animo di una monacella, tutta innamorata di suo padre e superba della gloria di lui, e che tutt'inaspettatamente lo vede accusato d'eretico, e chiamato a Roma a scagionarsi o a ricredersi, da quel papa appunto, dalla cui protezione ella si era ripromesso tanti vantaggi per suo padre. Per quanto ella il sapesse trattato coi riguardi dovuti a grand'uomo e alle raccomandazioni del granduca, ella non poteva non restarne in sospeso: ma la sobrietà del dolore di essa, i lamenti che mai non accusano, l'interesse che non trascende mai ci fanno stimare infinitamente suor Celeste. Mentre dunque Galileo stava a Roma, essa gli scriveva, ai 12 marzo 1633: L'ultima sua lettera mi ha apportato gran consolazione, sì per sentire ch'ella si va mantenendo in buon grado di sanità, come anco perchè per quella vengo maggiormente certificata del felice esito del suo negozio, che tale me l'hanno fatto prevedere il desiderio e l'amore. E sebbene veggo che passando le cose in questa maniera, si andrà prolungando il tempo del suo ritorno, reputo nondimeno a gran ventura il restare priva delle mie proprie soddisfazioni per un'occasione, la quale abbia da ridondare in benefizio e reputazione della sua persona, amata da me più che me stessa. E tanto più m'acqueto, quanto che son certa ch'ella riceve ogni onore e comodità desiderabile da cotesti eccellentissimi signori, e in particolare dalla eccellentissima ambasciatrice, mia signora e padrona, la visita della quale se avessimo grazia suor Arcangela e io di ricevere, certo che sarebbe favore segnalato, e a noi tanto gradito quanto V. S. può immaginarsi. Quanto al procurare ch'ella vedesse una commedia, io non posso dir niente, poichè bisognerebbe governarsi secondo il tempo nel quale ella venisse; sebbene io veramente crederei che stessimo più in salvo lasciandola in quella buona credenza, in ch'ella deve ritrovarsi mediante le parole di V. S. Suor Arcangela sta alquanto meglio, ma non bene affatto. Io sto bene perchè ho l'animo quieto e tranquillo, e sto in continuo moto, eccetto però le sette ore della notte, le quali io mando a male in un sonno solo: perchè questo mio capaccio così umido non ne vuole manco un tantino. Non lascio per questo di soddisfare il più che io posso al debito che ho con lei dell'orazione, pregando Dio benedetto che principalmente le conceda la salute dell'anima, poi le altre grazie ch'ella maggiormente desidera. Non dirò altro per ora, senonchè abbia pazienza se troppo la tengo a tedio, pensando che io restringo in questa carta tutto quello che io le cicalerei in una settimana. La saluto con tutto l'affetto insieme con le solite. Come poi udì ch'egli era stato per alcuni giorni nel Sant'Uffizio, lo consolava: 20 aprile 1633. Dal signor Gerri mi viene avvisato in qual termine ella si ritrovi per causa del suo negozio, cioè ritirato nelle stanze del Sant'Uffizio; il che per una parte mi dà molto disgusto, persuadendomi ch'ella si ritrovi con poca quiete dell'animo, e fors'anco non con tutte le comodità del corpo; dall'altra banda, considerando io la necessità del venire a questi particolari per la sua spedizione, e la benignità colla quale fino a qui si è costà proceduto verso la persona sua, e sopratutto la giustizia della causa e la sua innocenza in questo particolare, mi consolo e piglio speranza di felice e prospero successo, con l'ajuto di Dio benedetto, al quale il mio cuore non cessa mai di esclamare e raccomandarla con ogni affetto e confidenza possibile. Resta solo ch'ella stia di buon animo, procurando di non pregiudicare alla sanità con il soverchiamente affliggersi, rivolgendo il pensiero e la speranza in Dio, il quale, come padre amorevolissimo, non mai abbandona chi in lui confida e a lui ricorre. Carissimo signor padre, ho voluto scrivergli adesso, acciò ella sappia ch'io sono a parte de' suoi travagli, il che a lei dovrebbe essere di qualche alleggerimento, ma non ne ho già dato indizio ad alcun altro, volendo che queste cose di poco gusto sieno tutte mie, e quelle di contento e soddisfazione sieno comuni a tutti. Che però tutti stiamo aspettando il suo ritorno, con desiderio di goder la sua conversazione con allegrezza. E chi sa, che, mentre adesso sto scrivendo, V. S. non si ritrovi fuori d'ogni frangente e di ogni pensiero? Così piaccia al Signore, il quale sia quello che la consoli, e con il quale la lascio. Quanta delicatezza! E che stacco fanno questi sentimenti dagli irosi di coloro, che, contro ogni testimonianza e probabilità, si ostinano a ripetere che Galileo dal Sant'Uffizio fu sottoposto alla tortura! Codardie, degne di que' materialoni, che computano solo i gusti come i tormenti del corpo, ed hanno bisogno d'aggiungere nuovi torti a questa patria, ch'essi poi ostentano di amare sviscerati. Suor Celeste si rallegrò quando intese vôlto in meglio l'affare, e al padre scriveva a' 7 maggio: L'allegrezza che mi apportò l'ultima sua amorevolissima lettera fu tale, e tale alterazione mi causò, che con questo e con l'essermi convenuto più volte leggere e rileggere la medesima lettera a queste monache, che tutte giubilavano sentendo i proprj successi di V. S., fui sorpresa da gran dolore di testa, che mi durò dalle ore quattordici della mattina fino a notte, cosa veramente fuori del mio solito. Ho voluto dirgli questo particolare, non per rimproverargli questo poco mio patimento, ma sibbene perchè ella maggiormente possane conoscere quanto mi siano a cuore, e mi premano le cose sue, poichè causano in me tali effetti; effetti che, sebbene generalmente parlando pare che l'amor figliale possa e deva causare in tutti i figli, in me ardirò di dire che abbiamo maggior forza, come quella che mi do tanto di avanzare di gran lunga la maggior parte degli altri dell'amare e riverire il mio carissimo padre; siccome all'incontro chiaramente veggo ch'egli supera la maggior parte de' padri in amare me sua figlia, e di ciò basti. Rendo infinite grazie a Dio benedetto per tutti i favori che fino a qui V. S. ha ricevuti, e per l'avvenire spero riceverà, poichè tutti principalmente derivano da quella pietosa mano, siccome V. S. giustamente riconosce. E sebbene ella attribuisce in gran parte questi benefizj al merito delle mie orazioni, questo veramente è poco o nulla; ma è bene assai l'affetto con il quale io li domando a S. D. M., la quale avendo riguardo a quello, tanto benignamente prosperando V. S. mi esaudisce, e noi tanto maggiormente gli restiamo obbligati: siccome anco grandemente siamo debitori a tutte quelle persone che a V. S. sono in favore ed ajuto, e particolarmente a cotesti eccellentissimi signori suoi ospiti[1]. Io volevo scrivere all'eccellentissima signora ambasciatrice, ma sono restata per non la infastidire con replicarle sempre le medesime cose, cioè rendimenti di grazie e confessioni di obblighi infiniti. V. S. supplirà per me con farle reverenza in mio nome: e veramente, carissimo signor padre, la grazia, che V. S. ha avuta del favore della protezione di questi signori e tale essa sola, che è bastante a mitigare, anzi annullare tutti i travagli che ha sofferti. Mi è capitata alle mani una ricetta eccellentissima contro la peste, della quale ho fatto una copia, e gliela mando non perchè io creda che costà vi sia sospizione alcuna di questo male, ma perchè è buona ad ogni altra cattiva disposizione. Degli ingredienti io ne sono tanto scarsa, anzi mendica per me, che non gliene posso far parte di nessuno, ma bisogna che V. S. procuri di ottener quelli, che per avventura gli mancheranno, dalla fonderia della Misericordia del Signor Iddio, con il quale la lascio. La peste in fatto durava per la Toscana, e suor Maria Celeste ne riferiva a suo padre in questo tenore: 18 giugno 1633, a Roma. Quando io scrissi a V. S. dandogli conto del male che era stato in questi contorni, già era cessato quasi del tutto ogni sospetto, essendo scorsi molti giorni, anzi settimane, senza sentirvisi niente; e come allora gli aggiunsi, me ne dava intera sicurtà il vedere che tutti questi gentiluomini se ne stavano qua in villa, come seguitano ancora di starci tutti: e quel che è più, nella medesima città di Firenze si sentiva che il male andava tanto diminuendo, che si sperava che presto dovesse restar libera del tutto; onde con questa sicurtà, mi mossi ad esortarla e sollecitarla per il suo ritorno, sebbene nell'ultima che gli scrissi, sentendo che le cose erano peggiorate, mutai linguaggio, come si suol dire. Perchè sebbene è verissimo che desidero grandemente di rivederla, desidero nondimeno molto più la sua conservazione e salute; e riconosco per grazia speciale del Signore Iddio l'occasione che V. S. ha avuta di trattenersi costà più lungamente di quello che lei e noi avremmo voluto. Perchè, sebbene credo che gli dia travaglio il trattenersi così irresoluta, maggiore gliene darebbe forse il ritrovarsi in questi pericoli, i quali tuttavia vanno continuando, e forse aumentando, e ne fo conseguenza da una ordinazione venuta al nostro monastero, come ad altri ancora, da parte dei Signori della sanità, ed è che, per lo spazio di quaranta giorni, dobbiamo, due monache per volta, star continuamente giorno e notte in orazione, e pregare S. D. M. per la liberazione di questo flagello. Avemmo dai suddetti Signori scudi 25 in elemosina; e oggi è il quarto giorno che demmo principio. Ora per darle avviso di tutte le cose di casa, mi farò dalla colombaja, ove fino da quaresima cominciarono a covare i colombi, ma il primo pajo che nacque fu mangiato una notte da qualche animale, e il colombo che li covava fu trovato dalla Piera sopra una trave, mezzo mangiato e cavatone tutte l'interiora, che per questo si giudicò che fosse stato qualche uccello di rapina; gli altri colombi spauriti non vi tornavano, ma seguitando la Piera a dargli da mangiare si sono ravviati, e adesso ne covano due. Gli aranci hanno avuto pochi fiori, i quali la Piera ha stillati, e mi dice averne cavato una metadella di acqua. I capperi quando sarà tempo si accomoderanno. La lattuga, che si seminò secondo che V. S. aveva ordinato, non è mai nata e in quel luogo la Piera vi ha messo dei fagiuoli, che dice essere assai belli, e similmente dei ceci, dei quali la lepre ne vorrà la maggior parte, avendo già cominciato a levarli via. Delle fave ve ne sono da seccare, e i gambi si danno per colazione alla muletta, la quale è diventata così altiera, che non vuol portar nessuno, e alcune volte ha fatto fare dei salti mortali al povero Geppo, ma con gentilezza, poichè non si è fatto male. Ascanio fratello della cognata, la domandò una volta per andar di fuora, ma dopo poco gli convenne tornarsi indietro, non avendo mai avuto forza di scaponire l'ostinata mula acciò andasse innanzi, la quale forse sdegna di essere cavalcata da altri trovandosi senza il suo vero padrone. Ma ritornando all'orto, gli dico che le viti mostrano assai bene, non so poi se proseguiranno così mediante il torto che ricevono di esser custodite dalle mani della Piera in cambio di quelle di V. S. Dei carciofi non ve ne sono stati molti, con tutto ciò se ne seccherà qualcuno. In cantina le cose passano bene, andandosi il vino conservando buono. In cucina non manco somministrare quel poco che fa bisogno per la servitù, eccetto che nel tempo che ci viene il signor Rondinelli, che allora ci vuol pensare lui; anzi che in questa settimana volle che una mattina noi stessimo in parlatorio a desinar da lui. Questi sono tutti gli avvisi che mi pare di potergli dare... Chi deriderà queste minuzie d'intimità, tal sia di lui; nol farà certo l'uomo che conobbe mai la vita del cuore, ma solo chi ha testa ancor meno che cuore dirà che queste frivolezze potessero combinarsi cogli spasimi della prigionia e della tortura, a cui cianciano sottoposto il Galilei. Però nel placido convento d'Arcetri dovette far gran colpo la nuova sparsasi che il Galileo, quel sapiente insigne, quel vecchio venerato, il padre di due consorelle era stato condannato, non già d'eresia, ma per aver trasgredito il precetto datogli nel 1616 di non trattare della mobilità della terra se non come ipotesi, nè appoggiarla a testi sacri. E questa fu novella prova all'affetto di suor Maria Celeste, che se ne traeva felicemente mediante l'irremovibile fidanza in Dio. 2 luglio 1633, Roma. Quanto mi è arrivato improvviso e inaspettato il nuovo travaglio di V. S. tanto maggiormente mi ha trafitto l'animo di estremo dolore il sentir la risoluzione, che finalmente si è presa tanto sopra il libro quanto nella persona di V. S.; il che dal signor Gerri mi è significato per la mia importunità, perchè, non tenendo sue lettere in questa settimana, non potevo quietarmi, quasi presaga di quanto era accaduto. Carissimo signor padre, adesso è il tempo di prevalersi più che mai di quella prudenza che gli ha concessa il Signore Iddio, sostenendo questi colpi con quella fortezza d'animo, che la religione, professione ed età sua ricercano. E giacchè ella per molta esperienza può aver piena cognizione della fallacia ed instabilità di tutte le cose di questo mondaccio, non dovrà far molto caso di queste burrasche, anzi sperar che presto sieno per quietarsi e cangiarsi in altrettanta sua soddisfazione. Dico quel tanto che mi somministra il desiderio, e che mi pare ne prometta la clemenza che Sua Santità ha dimostrato inverso di V. S. in aver destinato per la sua carcere luogo così delizioso, onde mi par ch'io possa sperar anco commutazione più conforme al suo e nostro desiderio; il che piaccia a Dio che sortisca, se è per il meglio. Intanto la prego a non lasciar di consolarmi con sue lettere, dandomi ragguaglio dell'esser suo quanto al corpo, e molto più quanto all'animo; e io finisco di scrivere, ma non giammai d'accompagnarla con il pensiero e con le orazioni, pregando S. D. M. che le conceda vera quiete e consolazione. Cotesto luogo delizioso era la villa Medici sul monte Pincio: dove pure rimase pochissimo, e giacchè non potevasi restituirlo a Firenze ove durava la peste, fu lasciato andar a Siena presso l'arcivescovo Piccolomini suo amico. Colà gli scriveva la figlia; e per intender quanto segue, è a saper che la penitenza inflitta a Galileo dalla feroce Inquisizione fu di recitare una volta per settimana i salmi penitenziali. La buona Maria Celeste si consola di poter alleviare il grand'uomo di questo peso col recitarli ella stessa in sua vece. 3 ottobre 1633. Sabato scrissi a V. S.; e domenica, per parte del signor Gherardini, mi fu resa la sua, per la quale sentendo la speranza che ha del suo ritorno, tutta mi consolo, parendomi un'ora mill'anni che arrivi quel giorno tanto desiderato di rivederla; e in sentire ch'ella si ritrovi in buona salute accresce e non diminuisce questo desiderio di avere duplicato contento e soddisfazione di vederla tornare in casa sua, e di più con sanità. Non vorrei già che dubitasse di me, che per tempo nessuno io sia per lasciare di raccomandarla con tutto il mio spirito a Dio benedetto, perchè questo mi è troppo a cuore, e troppo mi preme la sua salute spirituale e corporale. E per dargliene qualche contrassegno, gli dico, che ho procurato e ottenuto grazia di veder la sua sentenza, la lettura della quale, sebbene da una parte mi dette qualche travaglio, per l'altra ebbi caro di averla veduta, per aver trovato in essa materia di poter giovare a V. S. un qualche pocolino. Il che è con l'addossarmi l'obbligo che ella ha di recitare una volta per settimana li sette salmi, ed è già un pezzo che comincia a soddisfarlo, e lo fo con mio gusto, prima perchè mi persuado che l'orazione, accompagnata da quel titolo di obbedire a Santa Chiesa, sia assai efficace; e poi per levare a V. S. questo pensiero. Così avessi io potuto supplire nel resto, che molto volontieri mi sarei eletta una carcere più stretta di questa in che mi trovo per liberarne lei. Adesso siamo qui e le tante grazie già ricevute ci danno speranza di riceverne delle altre, purchè la nostra fede sia accompagnata dalle buone opere, che, come V. S. sa meglio di me, _fides sine operibus mortua est_.[2] 22 ottobre 1633. Non saprei come darle dimostrazione del contento che provo nel sentire ch'ella si va tuttavia conservando con sanità, se non con dirle che più godo del suo bene che del mio proprio, non solamente perchè l'amo quanto me medesima, ma perchè vo considerando che, se io mi trovassi oppressa da infermità, oppure fossi levata dal mondo, poco o nulla importerebbe, perchè a poco o nulla son buona, dove che nella persona di V. S. sarebbe tutto l'opposto per moltissime ragioni, ma in particolare (oltre che giova e può giovare a molti) perchè con il grande intelletto e sapere che gli ha concesso il Signore Iddio, può servirlo ed onorarlo infinitamente più di quello che non posso io: sì che con questa considerazione io vengo ad allegrarmi e goder del suo bene più che pel mio proprio. 9 dicembre, a Siena. Intendo che in Firenze è voce comune che V. S. sarà qua presto; ma fino che io non l'intendo da lei medesimo, non credo altro, se non che gli amici suoi cari dican quel tanto che l'affetto e il desiderio lor detta. Io intanto godo grandemente sentendo che V. S. abbia così buona ciera, quanto mi disse maestro Agostino, che mi affermò non averla mai più veduta colla migliore. Tutto si può riconoscere, dopo l'ajuto di Dio benedetto, da quella dolcissima conversazione ch'ella continuamente gode di quell'illustrissimo monsignor arcivescovo, e dal non si strapazzare nè disordinare, com'ella fa qualche volta quando è in casa sua. Il Signore Iddio sia sempre ringraziato, il quale sia quello che la conservi in sua grazia. 10 dicembre 1633, a Siena. Appunto quando mi comparve la nuova della spedizione di V. S., avevo preso in mano la penna per scrivere alla signora ambasciatrice per raccomandarle questo negozio, il quale vedendo io andare in lungo, temeva che non fosse spedito anco quest'anno, sì che l'allegrezza è stata tanto maggiore quanto più inaspettata; nè siamo soli a rallegrarci, ma tutte queste monache, per loro grazia, danno segni di vera allegrezza siccome molto hanno compatito ai miei travagli. La stia aspettando con grande desiderio, e ci rallegriamo di vedere il tempo tanto tranquillo. Il signor Gerri partiva stamane con la Corte per Pisa, ed io a buon'ora l'ho fatto avvisare del quando V. S. torna qua; che quanto alla spedizione, egli la sapeva e me n'aveva dato parte jersera. Gli ho anco detto la causa per la quale V. S. non gli ha scritto, e sonomi lamentata perchè egli non potrà ritrovarsi qua all'arrivo di V. S. per compimento delle nostre allegrezze, essendo veramente persona molto compita e di garbo. Altro non posso dire per carestia di tempo, se non che a lei ci raccomandiamo affettuosamente. In fatto Galileo fu presto restituito alla patria e alla sua cara villa d'Arcetri. Oltre la consolazione di trovarsi libero di sè e fra' suoi cari amici e discepoli, avrà goduto di poter conversare frequente colla figlia, nel vicino convento. Ma nell'aprile seguente l'angelica creatura tornava al cielo. Così Dio dispose. Ostinandoci a cercare l'uomo di casa sotto lo scienziato, non sappiamo tenerci dal riferire due suoi biglietti casalinghi. Da Arcetri, il 16 agosto 1636 scriveva al ben noto frà Fulgenzio Micanzio: Ho ricevuto una lettera da Monaco da Alberto Cesare mio nipote, la quale mi ha fatto lacrimare nel leggere il caso memorabile successogli nel fuoco di quella città; mentre, oltre al perder la madre con tre sorelle fanciulle, e un fratello, il poco che avevano andò tutto in fiamme e fuoco; ond'egli con un suo minor fratello restarono ignudi... È mirabile nel suono del liuto. Venendo lo tratterrò più che potrò appresso di me, sperando che debba essermi di sollevamento alla malinconia che, da alcuni giorni in qua, più del solito mi aggrava in questa mia solitudine, dove le sole lettere della S. V. R. mi sono di notabile refrigerio; come anco altre che da remote regioni mi pervengono in testimonio della mia in quelle bande conosciuta innocenza, e del manifesto torto che mi vien fatto. In altra lettera allo stesso, 12 novembre 1636: Quando succeda di riscuotere il semestre della mia magra pensione in Brescia, mi sarebbe caro che il denaro fosse investito là in tanto refe da cucire, dove lo fanno candidissimo e bello al possibile, e lo desiderei di diverse grossezze; e con esso mi sarebbe caro che fossero mescolate alcune cordelline e cordoncini, che alcune monache li intrecciano e annodano in alcune figure di gigli e altre bizzarrie bellissime, che poi qua per me saranno regali graziosi per presentare a mie parenti monache e fanciulle secolari. Noi fummo sempre fedeli a quelle che Carlyle intitola _The hero-worship_, il culto de' grand'uomini: e piuttosto che il divertimento de' piccoli di rovistare le debolezze di questi, ci parve che l'umanità guadagni ogni qualvolta una grande si mostra meritevole della stima, disputatagli da falsi testimonj. Come ci piacque, tra la magnifica fierezza di Roma imperiale, cercar la solitudine della Tebaide, e là requiara l'animo _facendo la carità_ insieme coi pii e forti romiti: come dalle fragorose grandigie di Luigi XIV ci riposarono i dotti e fermi solitarj di Porto Reale, così dal turgido stile, e dalla pomposa vanità del Seicento ci consolò il candido scrivere di questa fanciulla, pari alla quale non so se saprebbe idearne una il genio fecondo del miglior romanziere. Ed è pura storia. 1856. TECLA — Tecla! Tecla!» Ode il grido, dal letto Balza Tecla, al verone s'affaccia. È l'oggetto d'adultero affetto Cui promise fra l'armi seguir. — Vieni, o bella, d'amor fra le braccia; Vieni, e godi del lungo desir». Sciagurata! al marito le ciglia Volge; ei dorme nel talamo in calma. Un bambino, una tenera figlia Nella cuna baciò, ribaciò. Move, ondeggia, ristà; nella palma Cela il viso che il pianto inondò. — Tecla! Tecla!» Si spicca: la porta Zitta schiude: un saluto, un amplesso Di novello vigor la conforta; Addio tutti! a cavallo salì. Egli sprona, ella il segue d'appresso; Mezzanotte in quel punto s'udì. Via per campi, per ville galoppa, Ma ai lasciati suoi cari sospira. Sta su lieta: d'amore la coppa Lene obblio ti diffonda nel sen. Dell'amor nell'ebbrezza delira, Ti prometti un perpetuo seren. S'apre l'alba. — In quest'ora la mano Il marito a cercarmi protende, Nè mi trova: i miei pargoli invano Mi chiamâr». Sgombra l'ansia dal cor: Non se' in grembo al guerrier che t'accende? Sta su lieta, e t'inebbria d'amor. Mezzo un anno varcò. Dall'amante Repudiata, confusa, avvilita, Tecla, fuor d'una tenda festante, Lagrimando, ululando si sta; Dal guerrier, traditrice tradita, Invan chiede mercede, pietà. Senti, senti un urtar di bicchieri, Gavazzare un tripudio d'evviva. Senti; un brindisi ai fausti piaceri D'un'amica novella si fè. Dall'ambascia cascò semiviva; Mezzanotte in quel punto battè. Scarna, atrita, cenciosa, al soggiorno De' suoi primi innocenti contenti Sconosciuta fa Tecla ritorno, Là seduta rimpetto a soffrir Di mendica in aspetto i tormenti D'un atroce ma tardo pentir. Chi rimira la squallida, avvolta D'irto vel, la sovviene d'un tozzo, Ma addoppiare i suoi gemiti ascolta. Non è pane che all'egra fallì: Non di fame è il profondo singhiozzo; D'altro cibo sostenta i suoi dì. Ferve un denso tumulto di genti, È un volar di cavalli, di cocchi; Tutt'intorno festive o gementi Squille e trombe le alternano il suon: Nulla ascolta la misera, gli occhi Sempre intesi all'offesa magion. Note voci là dentro ella ha udito, Ma nessuna più suona per lei. Mesto uscir dalla casa il marito, Mesto il vede rivolgervi il piè. Del suo core l'ambascia tu sei, Alla gioja egli è morto per te. Fra i cancelli una bimba, un fanciullo Folleggiar nel giardino ha veduti, Che, sospeso l'ingenuo trastullo, Vispi incontro del padre si fan: A lui baci e carezze e saluti; Per te vezzi e lusinghe non han. Come trista del verno la sera Piove il gel dalle stelle serene! Insistente un'algenta bufera Fischia a Tecla fra l'ispido crin, Che disfoga le acerbe sue pene Gemebonda sul trito cammin. Al suo sguardo fra i vetri scintilla Una vampa di fuoco vivace Dalla sala, ove cara, tranquilla Collo sposo, tra i figli sedè. — O bei giorni! o miei gaudj! o mia pace! Più per me quel contento non è.» Ecco un lume alla stanza procede, Stanza un tempo a sereno riposo. È il marito: gli sguardi lo vede Verso il ciel, sopra i figli girar, Poi sul vedovo letto pensoso Affisarli, e dal cor sospirar. Tutti dormon. Soave bambina Rompe il sonno, esclamando fra i pianti — Mamma! mamma!» L'udì la tapina, — O mia figlia, o mia figlia!» gridò. Sorse, cadde alla soglia davanti; Mezzanotte in quel punto sonò. Al mattin, di traverso alla soglia, Mercenaria pietade ritolse D'un'ignota l'esanime spoglia Che la fame, che il freddo sfinir; Indistinta una fossa l'accolse Senza un pianto, un suffragio, un sospir. 1834. [Illustrazione: Al mattin, di traverso alla soglia... (_Pag. 97_).] UNA BUONA FAMIGLIA Hai tu ancora a mente quel Baldassare, nostro compagno di scuola, insieme col quale, nei giorni sì belli e sì mal conosciuti dell'adolescenza, noi si discorreva spesso, spesso si passeggiava? Era pur buono! ma ci conveniva dissimulare il bene che gli si voleva, perchè l'amicizia riusciva sospetta ai superiori; — sospetta quell'affezione ch'è il ristoro migliore fra i travagli della vita, ed alla quale io devo tutto quel poco di dolce che si mescolò fra l'assenzio onde fu satollo. Particolarmente con questo mal gradivano essi di vederci uniti, perchè lo giudicavano un perditempo, stante che era debole nel latino, non sapea figgersi a mente la prosodia, non traccheggiava sonori i periodi, e non accozzava bene negli esametri i dattili cogli spondei. Dopo quel tempo, balestrato lontano di qua, io non l'avevo più veduto, e neppur mai intesone notizie, benchè assai me lo ricordassi, come ricordo quelli tutti che una volta ebbero poco o assai del mio affetto. Or fa pochi giorni, mentre andavo, come soglio, scorrendo pedestre nuovi paesi, una mattina capitai a ***, e fermatomi un tratto sul piazzuolo a guardare certi devoti dipinti antichi della chiesa e cert'altri moderni strillanti e vani, ecco venirmi incontro uno, ed — Oh, sonate campane»; abbracciarmi, baciarmi: era Baldassare. Io paragonava le sue cortesie alle gelate accoglienze che mi usarono tant'altri condiscepoli dopo che si trovarono più elevati di me: tanto più gelate quanto la sventura mi gettò più sotto. Mi domandò de' casi miei; glieli esposi in poche parole; — sono così semplici quelli che posso narrare, come sono lunghi e complicati quelli che si ascondono, che devono ascondersi, e rodermi dentro, e accelerarmi la tomba, ove saranno sepolti con me. E quando seppe che io andava così girellone per cercare divagamento ed oblio, — Dunque oggi almeno devi restare con me: sì, se mi ami»: ed aggiunse parole di tale spontanea cortesia, che non seppi ricusare l'invito. E deh se me ne trovai soddisfatto! Quando Dio volle premiare il buon figliuolo d'un buon padre, che cosa gli mandò? un fedele amico pel viaggio, che lo condusse a ospitare presso una buona famiglia. Ed una buona famiglia veramente era quella del nostro Baldassare. — Appena mio padre (dicevami egli) s'accorse ch'io non era fatto per gli studj, persuaso che, anche senza di questi, uno possa riuscire galantuomo, mi tenne in casa, e m'avviò negli affari, dove, trovandomi nel mio elemento, non gli cagionava più que' disgusti che provava egli qualora, addomandandone i nostri precettori, s'udiva rispondersi che non profittavo, che scaldavo le panche e nulla più. Eppure a me parea di valere quanto altri, se non nel loro latino, almeno in altre cose. Menai moglie, accudii alle campagne, ed il Signore mi prosperò.» Fra questo parlare, entravamo in casa: una casa di quella semplice pulitezza che usa in campagna; e il primo aspetto che noi si offerse fu la moglie di lui, con un bambino al seno. Cittadine, i vostri adorni gabinetti, ove su comodi lettucci, tutte linde, svolgete libri d'eleganti vanità o di profumata corruzione, ovvero intendete ad opere oziose, mentre date ascolto agli studiati nonnulla di chi strascina la sua noja di visita in visita, porgono essi veruna immagine tanto bella quanto la vista d'una madre che allatta il proprio bambino? Tanto bella che, quando la religione vuol esporre alla devozione l'effigie di Colei che è più vicina a Dio, ed ispirarcene amore e confidenza, non sa meglio rappresentarla che in questo atto. Come l'amico a lei mi nominò, ella sorse al mio incontro tutta festosa, e — L'ho inteso ricordare delle volte assai dal mio Baldassare, siccome un giovane studioso....» — E non un giovane buono?» la interruppi io. — Sì, anche questo,» ella soggiungeva. Ed io: — Or bene: questa è la lode che più mi lusinga.» Una bimba in sui cinque anni, che trescava giuliva per casa, mi fece la festa più ingenua, facilmente allettata da qualche zuccherino onde la regalai. Ma come, avviandomi a veder la casa, passai nello stanzone vicino, ecco la fanciulletta che era corsa a far parte del dono a suo fratello, garzonetto su gli otto anni, il quale aveva interrotto lo scrivere per dare ascolto alla sorella. Visitammo un orto non così piccolo, che l'amico mio coltiva di propria mano, e vi fa i suoi esperimenti prima di proporli ai contadini, a ragione cautissimi in ciò che non hanno provato, e che riguarda la propria sussistenza. Le camere erano da campagna, ma pulitamente addobbate, le più con mobili vecchi, una o due con nuovi, che al loro tempo cederanno il luogo ad altri più nuovi d'un'altra coppia di sposi. Uno scaffale custodiva pochi libri, ch'esso mi mostrò con compiacenza, dicendo, — Che tu non creda ch'io abbia fatto voto d'ignoranza.» Erano pochi ma buoni, come si vorrebbero gli amici, ed oltre la Bibbia e diversi di religione, vi notai le opere di Franklin, il Robinson, Paolo e Virginia, i Promessi Sposi, qualche giornale di cognizioni utili, alcune storie, alcune novelle, e qualche composizione d'amici suoi. Mi portò quindi a salutare sua madre, vecchierella rubizza, sulla cui fronte leggeasi la serenità di chi passò bene la gioventù. Colla schietta cordialità che rimane soffocata fra le convenienze ed i garbi cittadineschi, ella accolse il vecchio camerata del suo Baldassare, poi cominciò le lodi di questo.... Ah! le lodi in bocca de' proprj genitori vagliono ben più di qualunque incenso sappia tributare la vanità. Ma poichè la modestia di lui l'interruppe, ella si volse ad encomiare la nuora, così caritativa, così amorevole, così rispettosa, così casalinga, che fa tutti contenti, perchè ella è contenta di sè stessa. Baldassare se ne mostrava commosso, e le stringeva la mano colla schiettezza d'affetto che traspira dagli atti, non suona nelle parole. — Se io verrò da te (così egli), tu mi mostrerai libri, edizioni, stampe, lavori tuoi: io, vuole ragione che ti mostri quelle che sono faccende mie.» E così mi trasse ai campi, dove, colla compiacenza d'un autore che rilegge l'ultima sua composizione, mi designava qua prati ridotti, là fossi cavati, più lungi migliaia di pioppi, d'altra parte gelsi, filari di viti, novali. Indi, condottici là dove una brigata di contadini stava mietendo sotto la sferza del sole, eppur cantando allegra, ci sedemmo al rezzo, badando ai lavoratori, e rincorrendo i primi nostri anni, la spensierata contentezza d'allora, i condiscepoli che poi la fortuna balzò uno qua, uno là, chi al bene, chi al male; i maestri, gli studj. — Or dimmi in tua fede (così esso), da quegli studj come fosti tu avvantaggiato? Al pensar mio, al pensar d'un uomo che s'intende di grano e di fieni, e non punto dei vostri Ciceroni, gli studj dovrebbero versare su cose che importino poi nella vita, che formino il carattere. Caspita! Sono gli anni più belli, è un campo allor allora dissodato; non farei io stranezza col seminarvi soltanto erbe che poi deva sbarbare quando ne vorrò frutti degni? Or che monta per la vita il vagliare e rivagliare le regole da parlar bene come parlavasi duemila anni fa, da gente che non c'è più? Ci abborravano poi la mente con tanti nomi di paesi, di monti, di fiumi, con tanta geografia che in molti anni io non ne ho mai compreso tanto, quanto un bel giorno che salii in cima di quella montagna là, e stetti a vedervi il sole dal nascere al tramontare. Veniva poi la storia a esporci quel che fece il tal re, poi il tale imperatore e il tal capitano: le guerre, le paci, la politica, come se noi fossimo stoffa da far ministri o sovrani o generali: erano Pelopidi, Epaminonda, Timoleoni, che uccidono o cacciano i signori dalla patria loro, quasi fossero esempi a poter imitare. Da quella storia poi, da que' loro autori mi veniva una certa morale che non so come accordarla col Vangelo e colla pratica società. Que' loro eroi famosi per uccidere gente, non li chiameremmo noi a buona ragione assassini? Ed ecco qua Spartani, per cui sono un obbrobrio le arti e l'industria; che non hanno contanti; vanno a vedere le fanciulle a combattere ignude; si ricambiano le mogli, e per divertimento od esercizio danno la caccia agli Iloti. Ecco un continuo declamare contro l'oro; i poeti venirci a dire che bisogna buttarlo giù nel mare che fu sacrilegio l'inventare la navigazione, che è un depravamento il volere che i ragazzi imparino l'un via uno... Ma sono queste massime d'accordo collo stato della società presente, cui base è la proprietà? e al levar delle tende, qual pro faranno a chi ha da vivere nella società qual è adesso, che certo non è peggiore di quel che fosse? Non dico altro dei precetti che ci davano per fare i periodi o per legarli in bel discorso. Ed io non sono mai stato sul loro calendario perchè scrivevo naturale e come mi veniva alla penna. — Ma guardate zucca! mi dicevano. Cotesto non si direbbe nè più nè manco parlando: è triviale: non v'è dignità.» Io per contentarli, m'ingegnavo di far diverso, ma allora sbagliavo le concordanze, storpiava il senso, azzoppavo il periodo, e tra quelle ambiziose vanità dicevo più o meno di quello che avevo in cuore. Lascio a parte che i soggetti di quegli esercizj erano ancora i soliti: guerre, aringhe di persone le quali chi sa come la pensavano tutt'altro da noi? mentre a noi toccava di lambiccare il cervello per indovinare come avrebbe ragionato Veturia per dissuadere Coriolano dal devastare la patria, o Annibale per esortare i suoi soldati a venire a depredar il paese delle uve e degli aranci. Io, che di studj non mi son più impacciato, qualunque volta ora m'occorre di parlare per interessi miei o del nostro Comune, nel mio studio o nel convocato, credi mi manchino in bocca le parole? o che commetta nello scrivere que' peccatacci da staffile? o che il mio scrivere sappia di ribollito? Ma qui conosco la materia che ho fra le mani; possiedo a fondo questi affari; mi formo in capo un'idea chiara di quello che ho ad esporre. E però ti confesso ingenuamente e, se non senza rossore, almeno senza rimorsi, che di quanto imparai con tanta fatica in otto anni di scuola, se togli il leggere e lo scrivere, mi son dimenticato di tutto, nè m'è fin qua accaduta occasione dove io mi compiangessi d'avere disimparato. E tu, che n'hai tu ritratto? [Illustrazione: .... ci sedemmo al rezzo, badando ai lavoratori, e rincorrendo i primi nostri anni, la spensierata contentezza d'allora.... (_Pag. 103_).] — Io? (gli rispondeva): Oh quanto a me, la cosa andò d'altro passo; e dopo esser rimasto una dozzina d'anni su per le scuole abballottando quanto te, mi dovetti rifare da capo a studiarle, come non ne avessi mai inteso parlare, affine di impancarmi a insegnarle, e potermene buscare pane prima, e poi dispiaceri.» E sospiravo. Egli, mi comprese, strinsemi la mano, s'attese un poco, indi continuò: — Ma dimmi in verità: ti ricorda che mai si curassero que' gran maestri nostri d'ispirare onoratezza, lealtà, quel franco obbedire che non avvilisce, quella cortesia che non fiacca l'anima?[3] di farci conoscere il mondo fra il quale dovevamo vivere un giorno? d'insegnarmi quel che è l'uomo, donde viene, ove va? come è veramente questo garbuglio della società? e che non si trova bene se non a far il bene? Or senza di ciò, cos'è ella, se quando si passa alla educazione sociale, devesi, per lo meno, disfare tutta quella ricevuta nelle scuole? Ora qui nei campi, come vedi, spendo meglio il tempo e il denaro. Pativo di salute, e adesso non so che sia male: dallo studiar me stesso e quei pochi che mi son d'attorno, parmi ritrarre assai più che dalla conoscenza degli eroi di Cornelio e di Plutarco. L'accordi?» Di questo e d'altro discorrendo, ci eramo rivolti verso casa, dove c'invitavano le squille del mezzogiorno, e mentre approvavo il suo dire colle riserve che dee sempre fare chi vive di lettere, senza riserve lodavo in cuor mio i genitori di esso, che non si fossero, come tant'altri, ostinati a voler torcere a studj liberali chi era nato per le arti d'industria. N'avrebbero avuto un tristo legulejo, o un letterato dappoco, o un basso aspirante a impieghi affollati, quando così ne trassero un vero ed assennato galantuomo. Vedendo quel gioverreccio fanciulletto correrci festivo all'incontro, — E questo fanciullo (gli chiesi), come l'educherai tu?» — I suo primi anni (rispose) sono commessi a persona che non potrà se non ispargervi semi eccellenti: sua madre. Oh, le ginocchia d'una madre! avvi pedagogica finezza che agguagli gl'insegnamenti ottenute su quelle? Quanto sarà da me, l'educherò alla vita, alla probità, all'amor de' suoi simili. L'abitare in campagna mi agevola il modo di farlo trovare più spesso con coloro ai quali potrà giovare, che non con quelli da cui egli aspetti giovamento e puntelli: e di fare che nessun'altra ambizione in lui si sviluppi, se non quella della bontà che fece nominare mio padre e mio nonno. L'istruzione poi non gli costi una lacrima. Quando saprà leggere, scrivere, far di conto, parlar la lingua della nostra nazione, imparerà le altre che sempre giovano; imparerà le matematiche, la fisica e quelle cognizioni che tornano utili in qualunque stato, finchè potrà da se determinarsi ad una via, per la quale lo dirigerà un'educazione speciale. Ma ti dico il cuore, non ho premura di metterlo sotto maestri, perchè mi pare che i primi anni sono da abbandonare allo sviluppo del corpo, senza la cui sanità, che può mai una mente colta? Imparerà poi, non ne temo, imparerà di voglia in un anno quello che avrebbe appena in tre imparato con noja. Intanto il tempo che egli passa fra noi non lo credo perduto.» E di questo m'ebbi a convincere per alcune sensate risposte che il fanciulletto fece a domande, postegli da me innanzi come a caso. Entrati nel salotto, noi discorrevamo ancora, quando fummo interrotti da un canto semplice, affettuoso, di voci infantili. Erano i due fanciulletti, che sopra un'aria popolare modulavano una canzonetta, composta da una loro amica, e diceva così: Da chi nacqui? e il nutrimento Chi mi diede pargoletto? Fu la mamma. Oh quanto affetto Alla mamma porterò! Chi mi fa carezze e baci? Chi mi stringe sul suo cuore? È la mamma. Oh quanto amore Alla mamma sempre avrò! Chi per me tanto s'affanna? Chi per me veglia e lavora? È la mamma. Quanto ognora Grato, o mamma a te sarò! Chi sospesa sta fra il sonno, Ed accorre al pianto mio? È la mamma. Oh un giorno anch'io Il tuo pianto asciugherò! Quand'io grande sarò fatto, Tu dagli anni indebolita Già sarai; ma a te la vita, Cara mamma, io sosterrò. Non fia mai che in abbandono Io ti lasci e a te sia ingrato; E così d'essere amato Dal mio Dio meriterò. Intenerito sin al fondo dell'anima, io baciai con immenso affetto quei due bambini, invidiando i genitori, nel cui amore crescono alla benevolenza fraterna. In tale compagnia ben puoi credere che il minor piacere furono le vivande, imbanditeci dalla buona nonna, la quale esultava nel ridirmi come fossero frutti, questo della sua bassa corte, quello del suo orto, ma il cui condimento più squisito erano gl'ingenui ragionamenti e gli atti di schietta bontà. Avevo, tra il desinare, osservato che il fanciullo riponeva una parte di sua pietanza, senza che i genitori mostrassero farvi mente. Poi quando si fu allo sparecchio, egli si levò; susurrò non sapevo che cosa all'orecchio della madre; ond'ella — Se il signore lo permette, va pure.» E come io glielo consentii, involse nel tovagliuolo quel che aveva risparmiato del suo mangiare, e andossene saltellando. — Ove va?» chiesi io alla madre. «Forse ai trastulli? ad una merendina coi camerata?» — Non già» mi rispos'ella. «Abbiamo qui d'accanto una povera vedova inferma, per la quale esso avanza ogni dì alcuna cosa del suo piatto, e ogni sabato il vino.» Ed ecco fra poco egli ritornò tutto gajo, tutto vivace, come un angelo che riporta al cielo l'anima, stata commessa alla sua tutela nel pellegrinaggio della vita. Io sentiva di diventar migliore fra tanta bontà abbracciai l'amico, e — Te beato! ma lo meriti.» Se quella fu una delle liete giornate, non me lo domandare. Ed ho voluto serbarne memoria, e mandartela, perchè tu la riponga fra le altre che conserviamo a vicenda delle semplici avventure, il cui ricordo ci consoli in anni più tardi e forse più desolati. Al leggere questa, ti correrà per avventura al labbro la domanda, se io trovai solamente dei buoni? Oh se de' cattivi ho pur trovato! e tanti, e tali, che qualche volta, nell'amarezza dell'anima mia, discredetti la bontà dell'uomo, e correvo ad esclamare, — No! l'uomo è veramente la peggior fattura del Creatore; superbo insieme e vigliacco, raggirato e fraudolento, invidioso e calunniatore, razza d'odio, d'egoismo, di perfidia». Se non che allora io mi richiamava a mente le tante anime benefiche, amorevoli, sante, scontrate sul cammino di mia vita, e la bestemmia convertivasi in inno al Creatore, di cui tutte le opere sono buone. Di questo ben ti posso accertare, che i cattivi non gli ho trovati mai fra coloro che stavano lungi dalle irrequiete ambizioni, dagli avidi interessi, dalle arroganti vanità; mai fra i poveri, fra i laboriosi; mai fra coloro che patiscono. Dunque benedetto Iddio nella povertà, benedetto nella sventura! Al soggetto della precedente novella si riferisce il seguente brano d'un lungo lavoro sull'educazione. LA MADRE .... Deh, che non ho io potente ispirazione quanta basti a dipingere una madre quale la conobbi e la conosco? Ai bambini suoi non soffrì che un seno venale porgesse il primo nutrimento; gelosa che una mercenaria vigilanza non dovesse usurpare qualche parte della tenerezza materna e dell'amor figliale. E perchè io l'ammirava del suo abbandonare, così giovane, così bella, gli spassi e le pompe del mondo, per badare al suo lattante, — Non fu nulla più che il mio dovere,» mi rispondeva con semplicità. «La natura mi avvisò del voler suo col colmarmi il seno e colle malattie che, altrimenti, mi potrebbero sopravvenire, quand'anche poi fosse vero che costasse noje l'adempiere le intenzioni della provvidenza, e il nutrire da noi stesse quella vita che noi abbiamo data, oh quanti compensi non le alleggeriscono! Quante dolcezze! Può trovare la donna diporto migliore che l'osservare la tenera innocente gioja del suo bambino? v'ha gusti preferibili alle sue carezze? o musiche più soavi che il primo suo cianciugliare? o fantasie più lusinghevoli che le speranze che danzano alla culla d'un fantolino? Le tenerezze che insieme prodighiamo al frutto del nostro amore crescono il reciproco affetto e la stima fra me e lo sposo, riempiono que' momenti di vacuo che lascia l'amore anche più sentito. I figlioletti già cresciuti s'adunano intorno al nuovo fratellino con sollecita cura, avvezzandosi, già così piccini, ad avvincersi un l'altro col legame del benefizio, de' reciproci bisogni e sussidj, e aprendo il cuore a quell'amicizia franca e sincera che, crescendo cogli anni, sarà loro di tanto ristoro ne' casi avversi e che, mostrandoli buoni fratelli, sarà alla società un pegno come essi riusciranno pure buoni cittadini[4]. E poi, e poi, — oh voi non sapete tutte le tempeste che passano qui, dentro il cuore d'un donna. E allora, oh allora, stringersi al seno un suo bambolino, è il sorriso dell'angelo che calma ogni procella, che sostenta e raddoppia la virtù.» Non la vidi mai, questa buona madre, indispettirsi pel tafferuglio de' suoi pargoletti, pel disordine chiassoso dei loro trastulli! anzi li guarda come altrettante prove dello sviluppo progressivo di loro forze, un elemento di quella età così vitale: e tanto le parrebbe strano l'esigere dal bimbo la tranquillità matura, come il cercare in un vecchio l'irrequieta agitazione del fanciullo. Contenta dunque di dirigere e vegliare questa vivacità, ben si guarda dal comprimerla coll'insistenza di uggiosi rimproveri, nè coi gravi precetti, i quali fomentano l'ipocrisia, come tutto ciò che contrasta all'ordine della natura. Conformandosi dunque a ciò che conviene a ciascuna età, rimuove i pericoli, ma più la paura de' pericoli; reprime gli eccessi, abitua a vita frugale e, se non disagiata, non dilicata però, e quale torna bene a rinforzar la costituzione, a prevenire i tanti mali cagionati dalla mollezza, a rendere più libero perchè con minori bisogni. L'ho sovente sorpresa mentre pigliava parte ai giocherelli de' suoi bambini collo spasso dell'innocenza, a guidarli col proprio esempio a fruttuosi trastulli, come a educare un par di tortore, nutrire un canarino, coltivar fiori, seminare un quadro del giardino, piantare ed innestare un albero che crescerà con essi; arte eccellente, ella diceva, per avvezzarli a non pretendere domani il frutto della fatica d'oggi, ad avere pazienza nell'aspettare il meglio. Tanto maggior cura essa pone a formar l'intelletto ed il carattere di que' suoi bambini, in ognun de' quali non vede un balocco de' genitori, ma rispetta un membro della società, destinato a divenire cittadino, sposo, padre, magistrato; a camminare, per la via delle prove, ad una sublime destinazione. Sarà illustre od oscuro? sarà tra i felici o tra gli sventurati? Questo, ella dice, sta nelle mani della provvidenza: dover mio è formarne un galantuomo. Conseguentemente si farebbe coscienza di dire ai figlioletti la più leggiera, la più innocente bugia, se bugia e innocente possono mai concordarsi. Chi sa se quell'errore non possa diventar seme di torti giudizj nella ricerca del vero, nella pratica della vita? Bisognoso di tutto sapere, il fanciullo vorrebbe saper tutto; ma incapace insieme di apprendere per sè quanto vorrebbe, è agitato da un'insaziabile curiosità, è pieno di memoria quanto scarso di raziocinio; e ne' primi cinque anni impara, chi ben vi guardi, più di quello che imparerà poi in tutta la vita. Uopo è dunque coltivarne molto la memoria[5], sobriamente il giudizio. Quante volte io mi trattenni con diletto e con frutto a udir la madre di cui parlo appagare le domande de' suoi bambini in modi semplici, piani; osservare con loro, far da idea germogliare idea; sollecitarne i giudizi, cui applaudire poi se conformi al retto senso, raddrizzare se difettivi; interrogare precisamente, rispondere, ma lasciando pur sempre alcuna cosa a desiderare, per aver sempre alcuna cosa da insegnare! Quel bisogno di conoscer la verità sa essa dirigere in modo che, senza soverchiamente stancarli colle discussioni, ne eserciti quanto basti il buon giudizio, qualità essenziale in qualunque stato, in qualunque occorrenza della vita. La curiosità portò più d'una volta quei cari fanciulli a questioni che li toccano ben da vicino, ma che non è opportuno il soddisfare[6]. Ben si guarda essa però dal rinviarle con ciance, nelle quali il fanciullo, che riflette più di quel che crediamo, ravvisa la bugia, e quindi è stimolato a cercare il vero di cui gli si fa mistero. Semplicemente ella risponde: — Queste le sono cose che tu non potresti ora intendere, e le capirai quando, cresciuto, profitterai negli studj»[7]. Il fanciullo, pago d'una soddisfazione datagli da colei che ama e stima, ritorna a' balocchi suoi, alle sue occupazioni, portandovi inoltre il desiderio di crescere e di profittar negli studj, per esser in grado di scoprire queste verità bramate. Quanto però è meglio un uom dabbene che un uomo d'ingegno, tanto più importa il coltivare il cuore che l'intelletto. E chi a ciò più opportuno della madre, la quale, sin dai primi momenti avendo avuto sott'occhio il proprio pargoletto, ne conosce il carattere, e sa quindi eccitarne le virtù che più proprie gli sono, ovviare i vizj a cui lo vede inclinare? Quella di cui io parlo, intenta a conoscere le gradazioni del carattere di ciascun suo figliuolo, non lasciasi entrare la pretensione di cangiarlo, il che suole e non riuscire e far perdere, nel carattere fittizio, tutti i vantaggi del naturale; atteso che nessuno rappresenta bene un personaggio se non è il suo proprio. Col contradire ai gusti, nel che alcuni genitori sembrano riporre la teorica di tutta l'educazione, a qual cosa si riesce se non a stancare e sviar il genio, porre ostacoli all'ingegno e all'attività, fare d'uno che poteva elevarsi grande, un mediocre al più? Per dare poi a conoscere al fanciullo i suoi doveri, in ogni azione essa lo abitua a ragionare del perchè, delle convenienze con sè, con altrui, singolarmente poi coi precetti del supremo legislatore. L'idea di Dio viene associata a tutta la vita; naturata, direi quasi, col cuore e collo spirito in modo da non abbandonar più quell'uomo. L'ho intesa alcune volte, allorchè la sera aduna attorno a sè i suoi bambini per sollevare la preghiera a quel Padre che è ne' cieli. Già qualche discorso precedente, o lo spettacolo additato del firmamento, o il ricordo d'una bella azione dispose que' teneri cuori ad innalzarsi al sommo vero, al sommo bello. La preghiera è breve, è semplice, è tutta unzione, aumentandone l'effetto la pietà, di cui si mostra compresa la madre; ma in quella preghiera non manca mai una commemorazione delle persone più care, dei cari estinti, dei cari lontani e della cara patria; dei sofferenti, dei poveri, che sono i fratelli prediletti di Cristo. Oh! queste prime idee, questi primi religiosi sentimenti possono ben essere repressi dal frastuono del mondo, dal cozzo delle passioni, dal viluppo degli interessi, dall'ebbrezza della fortuna, ma svelti non mai. E traverso alle vicende della vita, e nei momenti della sventura, e quando l'anima trova necessario il rientrare in sè stessa, parlano altamente, affidano il buono alla virtù, risvegliano i rimorsi nel traviato. Sui primi momenti ch'io la conosceva, volli sfoggiare alquanto della presunzione che ispirano la lettura e il crederci di sapere; e le ragionai sulla poca convenienza del parlar di Dio a fanciulli teneri ancora, i quali non possono formarsi se non un'idea materiale dell'esser suo, falsa ed incompleta de' suoi attributi. — Non fo questo» mi rispose ella: «a' miei bambini insegno amar Dio più che a conoscerlo; e a farlo amare serve ogni cosa che hanno intorno; serve il dono della vita ch'ei diede, ch'ei conserva loro; serve la tenerezza dei parenti. Quando amino Dio, sono ben certa che potrò senza errori guidarli facilmente a conoscerlo.» E poichè io voleva rinfiancar il mio sentimento con quell'appoggio, che non manca neppure alle più assurde dottrine, l'autorità, e parlavo dell'_Emilio_, e ne citavo qualche passo, ella tolse d'in su la tavola un libriccino dove suol notare quel che più la tocca nelle letture, e mi additò queste parole di un autore, come diceva essa, amicissimo degli uomini, e perciò degno d'essere amato. — Sono i casi personali di nostra infanzia, accompagnati dalle materne lezioni, che più profondamente si scolpiscono nella memoria, perchè penetrano fino nel nostro cuore; son le lezioni delle madri che danno tanto vigore alle nostre operazioni religiose durante tutta la vita. Istillate col latte, si perfezionano colla nostra ragione; e dopo aver giovato intorno alla cuna nell'età dell'innocenza, ci sostengono nell'età delle passioni. Per ciò vorrei che il sentimento della divinità, innato nell'uomo, vi fosse sviluppato prima non da un precettore, ma da una madre. Il Dio d'una madre è sempre indulgente e buono come quello della natura: un precettore insegna, una madre fa amare. E vorrei che questa porgesse le sue lezioni non in una città, ma alla campagna, non in una chiesa, ma sotto la volta del cielo, non sopra libri, ma sopra i fiori e i frutti»[8]. Mal s'apporrebbe chi in una madre tale temesse quella austerità, che nasce dall'intolleranza e dall'aspirare alla perfezione, e che il vulgo crede propria della virtù, mentre invece è miserabile retaggio di chi vuole affettarne le apparenze. Reprime ella i vizj, compatisce ai difetti; sa che la perfezione non è dell'uomo, meno ancora del fanciullo. In quell'età, che il simulare è affatto ignoto, agevole riesce a tutti, tanto più ad una madre, il conoscere al vero le torte inclinazioni de' bambini; quindi prontezza ad accorrere al rimedio, con fermezza disposta a rompere i capricci del fanciullo, senza neppur lasciargli balenare la possibilità che l'ostinazione soggioghi il materno volere, fondato sulla giustizia. Ai castighi ricorre tardi e pacatamente: non la tema della punizione, ma sì l'amore della virtù deve formar l'uomo onesto. Questo solo potrà perfezionare l'educazione, mentre l'altro rende pusillanime, simulato, irrita e scoraggia, e lascia senza freno il giovane, non sì tosto uscì di soggezione. Un punto però dove la sua austerità è irremovibile si è la veracità. Il suo trattare franco ed aperto coi figliuoli gli avvezza a considerarla come una confidente, un'amica, agevolandole così il modo di dar loro de' consigli: ad un fallo confessato mai non manca il perdono, come non manca mai il castigo ad una menzogna. Il castigo, l'ammonizione però non recano mai sembiante di escandescenza, di rabbia; è la ragione che illumina, è l'amicizia che persuade. Il secreto vi presiede sempre, sollecita troppo di non abituare il fanciullo allo svergognamento, col vituperarlo in faccia ai parenti, ai visitanti. Una parola di disapprovazione, un escludere il tristanzuolo dall'ascoltare un racconto, un collocarlo ad un deschetto apparato, sono castighi che a lei pajono più opportuni che non il negare l'abitino nuovo, od il privar d'un lacchezzo: questi possono essere fomenti dell'ambizione e della leccornia; quelli stimolano l'onore, e riescono all'effetto, perchè la madre è amata, è stimata. Applicato il castigo, la madre è la prima a dimenticarlo: troppo premendole d'accorciare que' momenti terribili per un ragazzo, in cui sono sospese le amorose cure materne. Le prime amicizie, così candide e verginali, eppure così strette e decisive dell'avvenire, sono attentamente invigilate da essa; sebbene il tenore di sua educazione ha fatto sì che ciascun de' suoi figliuoli prescegliesse per amici quelli che la natura stessa esibì, voglio dire i fratelli, coi quali si hanno comuni gli affetti, i desiderj, le speranze, le vicende. O madri, o madri, stringete, rassodate al più possibile questi domestici affetti, chè come la famiglia è il nocciolo della politica convenienza, così le casalinghe affezioni sono la fonte e il suggello delle cittadine virtù. Ma per questo è duopo sbandir le predilezioni, stabilire una perfetta uguaglianza, sulla quale soltanto può fondarsi il reciproco amore, uno studio reciproco di meritare la tenerezza de' genitori, un coraggio ad operare di conserva. Sciagurata quella che predilige uno dei figliuoli; che a quell'uno perdona ogni cosa, ogni cosa concede, a differenza e scapito degli altri! Gli altri nel cucco della mamma non vedono che un emulo; il malavvezzo già fantastica una distinzione indipendente dai meriti, una ingiustizia che giova; e così finisce odiato dagli altri, vano, capricioso, indolente, presuntuoso, ostinato, e quindi infallibilmente infelice. «Non è forse,» riflette bene il Tommaseo[9], «non è forse uffizio al mondo più delicato e più difficile dell'educazione del cuore di una donna. Chiunque per istinto e per obbligo vi si accinge, dovrebbe tremare di sè stesso; e, considerando la buona riuscita come un vero miracolo, non la sperare che da Dio. Per ben educare una donna, converrebbe poter comandare a tutte quelle circostanze che possono operare sull'animo di lei, molle a riceverle, e a conservarle tenace; circostanze innumerabili, non previsibili, minutissime e sempre varie. Chi giungerà a calcolare gli effetti che una parola, uno sguardo, un cenno, una conseguenza, un'abitudine posson fare sull'animo femminile? Egli è un piccolo mondo, dove le lontane e menome cagioni, in modo invisibile concatenate, producono sempre nuovi effetti, come gli elementi stessi, in varia proporzione uniti, diventano o l'aria animatrice del fiore nascente, o l'acqua che scende con impeto a corromperne la bellezza. Non domandatemi dunque se la madre ond'io parlo abbia un solo momento affidata altrui una cura sì dilicata, ove il minimo errore può trascinare il disordine e il disonore su chi trascurò di prevenirlo; se, buona, ella stessa e d'incolpato esempio, e quindi sempre consentanea con sè stessa, sappia coll'esperienza propria avvertire le sue fanciullette dei lacciuoli preparati al sesso, che noi chiamiamo debole per discolparlo in anticipazione del suo soccombere; avvertirle, dico, con quel modo che solo in mano delle imprudenti può divenire un pericolo, può sfiorare la squisitezza del pudore mentre intende a conservarla; e come le passioni più sfrenate e ribalde nascano sovente da nulla più che da un impeto d'immaginazione, dall'amor delle inezie, dalla prurigine di piacere e di primeggiare; se attenda ai discorsi degli estranei e dei domestici, alle confidenze dell'amicizia; se calcoli sull'impressione che fanno nel giovine cuore la novità, lo spettacolo. Ai teatri non conduce mai nè maschi nè bambine, non perchè essa creda il teatro cattivo in sè, ma lo crede cattivo nel modo che ora si fa. E perchè io mi meravigliavo di non sentire da essa quello ch'è un luogo comune nell'educazione materna, cioè il dipinger alle figliuole il mondo siccome una tristizia, siccome un continuo inganno; gli uomini come pessime creature, nei quali non possono le fanciulle trovare che perfidi, che ingrati, che mostri. — Il così operare (mi diss'ella) equivarrebbe al modo di chi, temendo l'indigestione, parlasse male a' suoi figliuoli de' cibi in generale. Lasciamo là i sentimenti che s'ispirano così alle fanciulle contro questo mondo, fra il quale son pur destinate a vivere. Giunge l'età delle passioni: un uomo, e voglio supporre un uomo non cattivo, avvicina l'inesperta, già da natura inclinata a non trovar in esso che bello e bene; se veramente è persuasa che tutti gli altri siano ribaldi, guarderà quest'uno come un'eccezione, come un non so che di mirabile, di straordinario, una fortuna, un privilegio donatole dal cielo: ovvie sono le conseguenze.» Opportuno dunque le sembra, anzi che alle fanciulle ispirar paura degli uomini, educarle a diffidar di sè stesse, pensare all'avvilimento cui può condurle un istante solo di obliata modestia; alla poca fede che gli uomini hanno nella femminile virtù, ed allo studio con che osservano l'impressione che la loro presenza produce sulle donne, per trarne partito. Avendo ella accostumato i suoi figliuoli sin dalla prima età a tenere cura ciascuna del proprio armadiuolo e della pulitezza degli abiti, ed assistere alle compre, informarsi del domestico avviamento, crescono all'amor dell'ordine, della lindura, dell'economia. Qualora, poi, angelo di consolazione, ella scende al tugurio del poveretto, a risparmiare alla vedova decaduta la vergogna del chiedere, ad asciugare le malide gote dell'agonia, a ristorare di pane gli orfani abbandonati, a mescere il vino alla sfinita nutrice, chi potrebbe altri venirle compagno e testimonio migliore che i suoi figlioletti? _Meglio è andare alla casa del lutto che non a quella dell'esultazione_, lo dice la Sapienza istessa. Oh! quando que' bambini hanno veduto serenarsi una fronte desolata; la mano della benefattrice, stretta in silenzio ed in silenzio baciata dal ristorato poverello; sopra una pupilla ove il pianto era inaridito ricomparire la stilla, ma simile alla pioggia sugli arsi campi in agosto; e quell'occhio, dapprima sbattuto e nella calma della disperazione chinato a terra volgersi ravvivato al cielo, benedicendolo d'aver eletta la donna a ministra di sua bontà; quando ciò avranno veduto, che altro non sarà di mestieri per infondere nei loro teneri cuori la soavità dell'amore, la dolcezza della generosità, il desiderare le incomparabili gioje del consolare altrui? «Sa abbastanza quella donna che sa contare le camicie di suo marito.» È un pezzo che tali massime sono invecchiate, e si è compreso quanto giovi che la donna sia colta, sì per occupare viepiù e contentare di sè lo sposo, sì per dirigere l'istruzione de' proprj bambini, e non arrossire in faccia ad essi. Quella di cui io ragiono, educata sufficientemente in sua casa, ma più educatasi da sè stessa, è la maestra unica de' fanciulli sinchè piccini; ne è la direttrice quando deve pure sottometterli a maestri. E qui conviene che confessi d'aver per lei sentito più che mai un vuoto nella nostra letteratura. Perchè, richiesto più volte a suggerirle libri adatti alla tenera età, libri di morale sana e di facile intelligenza, che piacessero all'intelletto e migliorassero il cuore di fanciulli, di giovinette, pur troppo a stento ne trovava, e tanto meno in quei che si professano scritti per la gioventù[10]; pur troppo in quei pochi che mi parevano da ciò, essa, che non darebbe mai un libro a' suoi figliuoli senza averlo dapprima scrutinato, ritrovava in abbondanza cose superiori alla capacità, o vane, o storte. La letteratura italiana ha altro a fare che occuparsi di preparare al bene coloro che per altre vie adempiranno le speranze, ch'ella forse sa seminare, ma non condurre a maturanza. L'associare ai giuochi l'istruzione è sua pratica[11]; giocando insegnò loro a leggere, a numerare, le prime linee del disegno, i primi passi della geografia. Veramente a poco più in là si spinge l'istruzione ch'essa fu in grado di dare da sè ai suoi figliuoli, nel che vi prego, o colte signore, a non volerla troppo agevolmente disistimare. Ella si agevola anche la fatica col fare che i suoi bambini s'istruiscano uno con l'altro, i maggiorelli insegnino ai minori, saldando così meglio nei primi le cognizioni acquistate, giovando a' secondi col dar loro maestri, i quali conoscano quel linguaggio più opportuno all'età puerile, che nell'ingrandire si disimpara; in fine collegando gli uni cogli altri per via del benefizio e dell'utile reciproco. Que' figlioletti, non avendo migliori amici che i proprj fratelli, miglior confidente che la madre, potrebbero crescere altrimenti che a dolci e retti sentimenti? E perchè si amano, essi sono tutta cura di evitare ciascuno quel che possa all'altro dispiacere, e la docilità nasce dalla tenerezza. Oh se una madre riesce a dare alla società i suoi figliuoli buoni, quanto bene ha compita la propria missione! Una madre così fatta, perchè non poss'io nominarla all'ammirazione de' suoi concittadini? Sebbene... no, è inutile: il mondo non bada, non applaude che alle virtù rumorose, quand'anche tornino a suo disastro: le tranquille ed utili devono crescere inosservate; lontane da ogni ricerca di trionfo, paghe di sè e d'un Dio che vede e ricompensa. Il mondo ha dato un nome ai torrenti e ai fiumi, che in loro pena recano il guasto alle fertili campagne e alle popolose borgate: ignora il ruscelletto che lambisce ed educa i fiori sul suo margine, e diffonde sui prati la fertilità e la vita. Tutt'altro che la donna politica, tutt'altro che la donna libera de' filosofi, che la donna emancipata di coloro che vogliono assocciarla alla sovranità maschile per farle perdere l'impero che ora possiede, la donna ch'io dico è signora soltanto nel sacrario domestico; il marito la onora quanto la ama, la consulta ne' casi difficili: i figliuoli la guardano con amorevole sommessione; concilia pace tra i vicini; colle limosine e le consolazioni sparge avvisi salutari, da pochi è conosciuta, da pochissimi nominata. Ma fortunati i figliuoli che incontrano una madre tale, degna che le cure sue vengano benedette dalla provvidenza, senza di cui qualunque fatica dell'uomo è nulla. In verità io vi dico che una nazione dove sieno frequenti tali madri, non è bene che non possa promettere a sè stessa. Ma perchè dunque la società nulla adopera per formarne? dirò di più, perchè adopera ogni modo a formarle affatto differenti? CONFORTI D'UN VECCHIO AI VECCHI «Per corta che sia la vita, la è sempre lunga abbastanza purchè buona e onesta.» Così filosofava Cicerone: ma fra i vecchi saranno sempre il maggior numero quelli che esclameranno umanamente col vecchio Goethe: «Amabile vita, dolce e cara abitudine d'esistere e di operare, dovrò rinunziarti?» Mentre è di moda affettarsi già logori a 20 anni, sazj dei godimenti, disingannati dagli affetti, spogli delle illusioni: allorchè si avvicinano i 50 anni, tutti vorremo ricominciare, o almeno allungare il tempo tanto più, quanto più si sente che «giunta in sul pendio precipita l'età.» Ebbene, consoliamoci al pensare che il nostro corso non è finito; che restiamo ancora in capitale d'alquanto di vita avvenire. «Quando uno ha 40 in 50 anni, faccia conto d'essere a mezzo del suo cammino.» Lo diceva il famoso longevo veneziano Luigi Cornaro; lo ripeterono Buffon e Haller; lo sostenne testè con raziocinj e con argomenti il signor Fleurens, segretario dell'Accademia delle Scienze di Parigi, in un curioso, se non profondo libro, _Della longevità umana e della quantità di vita sul globo_ (Paris 1855), «Son quindici anni (dic'egli) ch'io continuo ricerche sulla legge filosofica della durata della vita dell'uomo e in alcuni animali domestici, e la risultanza più precisa è, che normalmente essa va ad un secolo.» Così fosse! ma per intenderci bisogna distinguere la vita media, la vita ordinaria, la naturale, la straordinaria. La durata media della vita si ottiene (chi nol sa?) sommando gli anni di molti individui, e dividendo la somma pel numero di questi; sicchè vi vanno comprese tutte le malattie, tutte le accidentalità. Benoiston de Chateauneuf per 14 anni calcolò la durata della vita sopra 14 milioni di persone, morte fra le rive del Mediterraneo e il mar Glaciale; e trascurando l'infanzia, in cui ne perisce il maggior numero, trovò che, ogni cento persone, più di 44 giungono a 30 anni; dai 30 anni ai 60 se ne perde un poco meno della metà: a 70 anni trovò ridotti a un terzo quelli che avevano tocco i 30; un decimo agli 80; ai 90 ne restava appena uno ogni 63. Prendendo tutti i nati, anche quelli che respirarono un solo istante, si riconosce la vita media di 39 anni e 8 mesi: era di 28 anni e 9 mesi all'uscire del secolo passato: di 26 nel 600; di 17 nel 1400, chi voglia fidarsi delle statistiche: i legislatori romani, sopra il ruolo di popolazione tenuto per mille anni da Servio Tullio fin a Giustiniano, stabilirono la durata media a 30 anni. Le probabilità del vivere sono dunque di 39 anni e 8 mesi pel bambino; ma crescono rapidamente: e a quattro anni già arrivano a 49 anni e 4 mesi: poi decrescono: ai venti sono di 40 e 3 mesi: ai trenta di 34 e un mese; ai quaranta di 27 e mezzo; ai cinquanta di 20 e 5 mesi; ai sessanta di 14 e 3 mesi; chi ha settant'anni può sperarne ancora 8 e 8 mesi; chi ottanta, 4 anni e 8 mesi; chi novanta, 21 mesi. A ciò riescono i calcoli del Deparcieux, sopra i quali si stabiliscono i contratti vitalizj e le tontine. Cosa mortificante il doverci riportare ai computi dei Belgi e dei Francesi; perocchè non possediamo nessuno studio siffatto in Italia, benchè non pochi si ostentino cultori della statistica e, ciò che farebbe più al caso, della statistica medica. Eppure tale studio sarebbe più desiderabile, perchè varia la durata secondo i paesi, e mentre la media in Inghilterra supera i 38 anni, in Francia sta ai 30, a Napoli a 31 anno e 7 mesi, in Sassonia appena a 29. La varietà sentesi ben maggiore quanto ai longevi, e mentre in Francia, sopra mille nati, 364 toccano i 60 anni, soli 272 nel Belgio e 91 a Vienna, ove poi soli 14 giungono agli 80, mentre in Inghilterra vi giungono 74, in Francia 80. Quei che compiono i 60 anni, per lo più raggiungono i 65, e in generale vi ha un centenario ogni diecimila nati. Fu poc'anzi pubblicata, in superba edizione, la statistica della Francia, e ne raccogliamo, per ciò che concerne il nostro argomento, che sopra i 35,783,170 abitanti di quello Stato si hanno: Uomini Donne In tutto fino ai 25 anni 8,316,651 8,195,052 16,511,703 dai 25 ai 55 anni 7,265,630 7,208,780 14,474,410 dopo i 56 anni 2,194,731 2,572,683 4,767,414 d'età non provata 17,952 11,691 29,643 Dal che risulta che, di 100 persone, 46 appartengono all'età dell'incremento: 41 all'adulta: 13 al decremento, al quale meno di un settimo della popolazione arriverebbe. Fra questi le femmine stanno agli uomini come 14,30 a 12,33; e in generale la vita media delle donne è alquanto più protratta da per tutto, ma sono di più i maschi che raggiungono età straordinarie. Secondo il censo della popolazione della Gran Bretagna nel 1851, dei 21 milioni d'abitanti del regno unito, mezzo milione oltrepassarono i sessant'anni; più di 129,000 raggiunsero gli ottanta: circa diecimila di novanta: 319 passarono i cento. La longevità dei patriarchi appartiene al miracolo: nè qui è il luogo d'esporre i sistemi con cui vuolsi ragionarla o spiegarla. Certo dopo Abramo, vissuto 175 anni, entriamo in vite più normali; Giacobbe ha 145 anni, Sara 127; Mosè 120; Giosuè 110 anni, poi Eliseo 100; 90 Elia, Antioco Epifane compare con 149 anni, ma sull'età di questo straniero può revocarsi in dubbio la fede del libro dei Macabei. Molti illustri greci vissero assai: Epimenide di Creta 153 anni, Gorgia Leontino 107, Democrito 109, Xenofilo musicante 105, Isocrate retore e Zenone stoico quasi un secolo, come il panteista Xenofane, e Apollonio Tianeo taumaturgo, e Terenzio Varrone storico a Roma e quivi. Ctesibio avea 124 anni quando passeggiando morì: 103 la Terenzia di Cicerone: 115 Claudia moglie di Ofilio; di 100 l'attrice Luceja recitò: di 104 Galeria Copiola salì la scena per la guarigione d'Augusto, 91 anno dopo la prima comparsa. Nel censimento fatto sotto Claudio imperatore, un tal Fullonio di Bologna attestò d'avere 130 anni; e in quello sotto Vespasiano si trovarono a Parma tre uomini di 120 anni, uno di 130: a Piacenza uno di 150, uno di 131, quattro di 120, sei di 110; e nella Gallia Cisalpina, cioè fra l'Appennino e il Po, cinquantaquattro di 100, due di 125, quattro di 130 o 137, tre di 140; a Faenza una donna di 132, a Rimini un Marco Aponio di 150. È bizzarro; ma il vediamo tuttodì, come campino a lungo i guerrieri, e l'antichità abbonda d'esempi; Perpenna giunse ai 98 anni, Valerio Corvino ai 100, e ne corsero 49 fra il primo e il secondo suo consolato. Ognuno ricorda la longevità degli eremiti del medioevo, in mezzo alle astinenze, ma con quella calma che tutto rimette al Signor Iddio. Chi crollasse il capo sopra i numeri antichi, gli ricorderemo che il celebre medico e filosofo Haller raccolse copiosi esempj di vite diuturne, e ne conta più di mille di là dai 110 anni; sessanta dai 110 ai 120: ventinove dai 120 ai 130: quindici dai 130 ai 140: sei dai 140 ai 150: uno di 169. Tommaso Giannotti Rangoni nel 1550 dedicò a Giulio III un'opera _Dell'allungar la vita oltre i 120 anni_, dove molti annovera che a quell'età pervennero, fra quali san Romualdo anacoreta ravegnano; l'autore non ne visse che 84, Lejuncourt fece una _Gallerie de Centenaires_, poco esatta come sogliono essere tali compilazioni sistematiche, dando la vita di 120 persone che oltrepassarono i 120 anni. Harvey il famoso scopritore o divulgatore della circolazione del sangue, attesta che Carlo II re d'Inghilterra nel 1635 chiamò a sè Tommaso Parre, povero paesano di Alberbury, ch'era nato nel 1483, e aveva veduto dieci re. Venuto, mangiò più del solito, e morì: morì dunque di malattia accidentale a 152 anni, e l'autopsia mostrò sani tutti i suoi visceri, e non ossificate le cartilagini sternali. Al 19 gennajo 1710 moriva nella diocesi di Bruges il contadino Giovanni Mansard di 110 anni: aveva avuto dieci mogli: l'ultima sposò di 99 anni, e due anni dopo n'ebbe un figliuolo. Nel 1750 Carlo Czartin ungherese morì di 172 anni e poco prima di sua moglie di 164: il loro figlio ne visse 158: Pietro Rogwin, 185: Giuseppe Sarrington in Norvegia del 1795 moriva di 160 anni, avendo il figlio maggiore di 105 anni, e il minore di 45: cioè potè generare per 60 anni. Nel secolo scorso in Inghilterra morirono 49 dai 130 ai 175 anni: 4 a 138, 7 a 134, 2 a 146, 4 a 155, 1 a 159, 1 a 160, 1 a 168. 1 a 169, 1 a 175, 1338 passarono i 120. Draper, nel recente lavoro _Duration of human life_, recava dalle recenti statistiche inglesi, una Margherita Patten di 130, un Tommaso Parr di 152, un Giovanni Room di 172, un Pietro Torton di 185. Al congresso delle scienze morali a Edimburgo nel 1863 fu annunziato che, nel secolo corrente, in Iscozia da 1800 a 2000 persone erano campate centenarie. Nel 1862 morirono più che centenari la vedova Villart e Neofito Metaxas arcivescovo d'Atene; una Maria Viassenga italiana in Algeria di 103 anni, a Urrugue Manuella Suhasti di 108, un altro dell'età stessa a Prats, nell'ospizio dove viveva un uomo di 110, e un Pietro Merville morì di 116: tutti questi presso Bajona; a Biaritz Maria Biella nata nel 1754, nel Calvados Maria Tesson di 107 anni, a Pantou nelle Lande Maria Castelnau di 110, in Irlanda un contadino di 112. Ne' conti del 1861, Madrid appare come la capitale che ha più vecchi, contando sol fra le donne una di 116, una di 111, una di 108, due di 102, una di 101, una di 100. Negli Stati Uniti si decretò una pensione a quei avevano combattuto nella guerra dell'indipendenza, finita nel 1782. Or bene, nel censimento del 1865 se ne trovarono vivi ancora 24, di cui il più giovane avea 94 anni, tre ne aveano 100, uno 112, e tra tutti sommavano a 2439 anni. Nel 1867 a Costantinopoli moriva la sultana di 130 anni: e presso Macerata, Santa Colombini di 109 anni. Oggi in Francia contano più di 500 persone nate prima del 1774. C'è una famiglia nel Cantone della Ferè ove padre, madre, il suocero e una zia sommano 401 anno: e i due vecchi presero quest'anno la licenza di caccia. Nel febbrajo 1868 morì a Napoli un cacciatore dei Borboni di 102 anni, padre di 20 figliuoli, uno dei quali ha 80 anni. La Svizzera contava dieci centenarj alla fine del 1860, sur una popolazione di 2,310,494 anime, dai 100 ai 102 anni, di cui 3 uomini e 7 donne; 547 persone dai 90 ai 100 anni, fra cui 256 uomini e 291 donne; 11,092 dagli 80 ai 90 anni, di cui 30,164 uomini e 30,598 donne, infine 738,989 dai 60 ai 70 anni, di cui 68,046 uomini e 70,943 donne. È dunque un totale di 211,400 rappresentanti del secolo scorso, in cui predomina per numero il sesso femminile. E cento anni appunto sarebbero la vita completa, secondo Fleurens, il quale si fonda sull'analogia degli altri animali, la cui durata è il quintuplo dell'età dell'incremento, e questo è proporzionato alla gestione, e la gestione alla grandezza del corpo. Che se non tutti vi arrivano, si pensi che i più muojono di malattie, e pochissimi di vecchiaja. In quel tenore artificiale di vita che l'uomo si è fatto, ove il morale è più spesso malato che non il fisico, e il fisico malato più spesso che non sarebbe in abitudini serene, calme, costantemente e giudiziosamente laboriose, qual meraviglia se la sanità va scompigliata? se una vita di timori, di rancori, di litigi, mena a morir d'amarezza? Però la vita normale non procede tutta omogenea e seguente, come il moto d'un oriuolo; ha le sue accelerazioni e le sue pose; le epoche organiche e le critiche, come direbbero i Sansimoniani. Ippocrate stabiliva i periodi della vita di 7 in 7 anni fino ai 70; di là dei quali un filosofo ne aggiunse due altri fino agli 84, dopo di che non se ne terrebbe più conto, come al guidatore di cocchi quando oltrepassa la meta nel circo. Varrone distinse la vita in cinque periodi, terminati ai 15, 30, 45, 60 e 75 anni, da essi deducendo i nomi de' _pueri_, _adolescentes_, _juvenes_, _seniores_, _senes_. Al censimento della Gran Bretagna testè accennato è anteposta una relazione, dove si fissa la vita a cent'anni, divisa in 5 periodi di 20. Il primo comprende l'infanzia e l'adolescenza: il corpo cresce, lo spirito si forma, i costumi si regolano, s'acquistano il linguaggio e le cognizioni e le tradizioni dell'umanità; verso la fine appajono sentimenti generosi, la passione, l'entusiasmo; talvolta il delitto. Il secondo è dell'età matura, avente il colmo ai 30 anni: età della forza, della poesia, dell'invenzione, del bello; si va soldati, si diviene operaj, si mette casa, e si ottiene il dolce nome di padre; mentre i malvagi rompono alla passione, al delitto, alle follie più terribili, alle malattie più perniciose. Nel terzo ventennio, dai 40 ai 60, gli uomini diventano eminenti, ciascuno nella propria professione: le spese sostenute per l'istruzione recano frutto; il carattere d'uomo fatto ci procaccia confidenza: l'esperienza come l'ingegno permettono di trattare gli interessi più vivi della società. I figliuoli nostri son già uomini; ci crescono attorno gli edifizj da noi fondati, gli alberi da noi piantati, le vigne e i campi da noi dissodati; l'operajo diviene capo di fabbrica, e dirige gli stabilimenti ove prima era apprendista: è l'età della maggiore intelligenza, in cui si fanno le leggi, si pronunziano i giudizj, si scrivono opere per l'immortalità. Dai 60 agli 80 può considerarsi come il periodo della vita completa. Il soldato lasciò per sempre il campo; l'operajo e il contadino lavorano parcamente; passò il tempo della forza, ma a misura che la civiltà cresce, questi uomini non vengono più rejetti, anzi espettano onori e ricompense. Il negoziante arricchì; il manufattore diede il proprio nome alla fabbrica; il campagnuolo coglie i frutti de' suoi miglioramenti: il dotto, il medico, il giudice, il prete esercitano alte dignità; l'esperienza corona l'integrità: il merito viene inchinato senza invidia; il padrefamiglia è circondato dall'omaggio de' suoi figliuoli, divenuti padri anch'essi. Come la vita buona allora s'attornia di qualcosa di divino, così la malvagia merita gli epiteti che la paura e l'orror popolare crearono per disprezzarla. Fra gli 80 e i 100 i sensi divengono ottusi; i colori ci si sbiadiscono: le forme, i contorni non si scorgono più nettamente: la voce umana prende somiglianza d'un roco mormorare: il sentimento della vita, le memorie degli anni trascorsi dileguano per sempre. Come una lampada al mancar dell'alimento, la vita dell'uomo arde incerta e singhiozzante, finchè si estingue. Così lo statista inglese. Al contrario il suddetto Fleurens divide la vita in due stadj eguali: di aumento l'una, di decremento l'altra; e ciascuna in due altri; donde le quattro età dell'infanzia, della gioventù, della virilità, della vecchiaja: ognuna delle quali ancora partesi in due, essendovi una prima e una seconda infanzia, e così via. La prima infanzia va dalla nascita ai 10 anni, la seconda o adolescenza, dai 10 ai 20; la prima gioventù fino ai 30, la seconda ai 40: dai 40 ai 55 la prima virilità, la seconda da 55 ai 65: allora comincia la prima vecchiaja che stendesi fino agli 85, cui segue la seconda ed estrema. La prima infanzia è il periodo della dentizione. L'incremento delle ossa dura fino ai 20 anni, quando si congiungono alle loro epifesi, onde si finisce di ingrandire. Tiriamo la gioventù fino ai 40, quando il corpo cessa di crescere in grossezza; grossezza organica io dico, non già l'accumulamento di adipe, ch'è indipendente dall'età. Pure prosegue ancora un lavoro interno profondo, sopra il tessuto intimo delle parti, che le rende più sode, più compiute; e questo si fa dai 40 ai 50, e più o meno si protrae fino ai 65 o 70. Qui comincia la vecchiaja; ma qual è il carattere che la rivela fisiologicamente? Gli antichi fisiologi non aveano torto di distinguere nei nostri organi, per dir così, due provisioni di forza: l'una in potenza, l'altra in atto; questa adoperata, quella tenuta in riserva. Nella gioventù abbondano le forze in riserva, e appunto la diminuzione di queste caratterizza la vecchiaja. Fin tanto che i vecchi adoperano soltanto le forze attive, poco si accorgono d'aver nulla perduto; oltrepassano quel limite? eccoli stracchi, esausti; si avvedono di non aver più la riserva soprabbondante. L'uomo vuole anzi tutto la sanità; giacchè _Non vivere est vita, sed valere_: dappoi una lunga vita: e giacchè desidera questi beni, giova persuadergli che in parte dipendono da lui. Gli antichi cercarono la longevità coll'esercizio ginnastico; nel medioevo, cogli elisir di lunga vita, e il più insigne alchimista, Paracelso, proponeva che lunga fosse quella soltanto che va dai 900 ai 1000 anni. A canto ad un vecchio collocar qualche persona robusta, dalla cui vitalità si rifornisca, fu una cura praticata da David re, e suggerita non solo da Galeno e da Paolo d'Egina, ma fin da Boerhaave. Altri, con crudeltà meno mascherata, proposero di trasfondere nelle vene dei vecchi un sangue men depauperato: Bacone, il legislatore dell'esperienza, prescriveva un composto di oro, perle, gemme, ambra, bezoar, Hufeland, un regime abituale, secondo cui istituiva come scienza particolare la macrobiotica. Nell'età filosofistica, ove non si credeva più a Dio, trovarono dei creduli e Mesmer col suo tinozzo magnetico, e Cagliostro col suo elisir di lunga vita, e il conte di Saint-Germain che si ricordava d'aver assistito alle nozze di Cana, traversato Roncisvalle con Carlo Magno, anzi conosciuti di vista il peloso Esaù e la rejetta Agar. Oggi ai farmachi non si pensa più; nulla si ripromette da specifici; molto si crede ai metodi, e massime se questi non si ostentino con ciarlanteria. Nè ciarlanteria sarà il dire che la prima cosa per arrivare ben innanzi nella vecchiaja è il non averne paura. Invecchiare senza che il fisico ne scapiti è impossibile; ma ne vantaggia il morale, e questo è il lato bello della vecchiezza. Dicesi che i vecchi perdono il gusto dell'occuparsi; non sarà duopo andar lontano per trovare esempi del contrario, per rimontare a quel vecchio imperator romano che, la notte che morì, alle sentinelle diede per parola d'ordine, _Lavoriamo_. Consola il leggere in Cicerone celebrati i vantaggi della vecchiaja con sentimento vero, con abbondanza, con splendore. Luigi Cornaro, che diceva, «La miglior medicina è la vita ordinata,» a 95 anni scriveva: — Io son così sano, allegro e contento, che mangio con appettito, dormo quietamente; i miei sensi son tutti nella loro bontà e perfezione:» e godeva ancora di potere giovar alla sua Venezia, insegnandole a frenar il mare cogli argini, e ridurre a coltivazione campagne paludose, e fortificarsi contro i nemici. Quant'altre belle cose potrebbero trarsi dal Lessio e da altri che filosofarono intorno alla vecchiaja! Al dotto Fontenelle, di 95 anni, taluno domandava quali fossero i venti anni di sua vita che più ribramava: rispose che poche cose ribramava, però l'età dov'era stato più felice era dai 55 ai 75 anni; a 55 anni la fortuna è stabilita, fatta la reputazione, ottenuta la considerazione, fisso lo stato della vita, svanite o contentate le pretensioni, incarnati o dissipati i progetti, soddisfatte o raffreddite le passioni; quasi compiuto l'ordito dei lavori che ciascuno deve alla società; meno nemici, o piuttosto meno individui nocevoli, perchè il contrappeso del merito è imposto dalla voce pubblica. Buffon, che qualche volta irrorava l'aridità di filosofista con assecondare il cuore, a 70 anni scriveva: — La vecchiezza è un pregiudizio, dovuto all'aritmetica; gli animali che non san computare, non s'accorgono d'invecchiare.» E prosegue: — Ogni giorno che io mi alzo in buona salute, non ho il godimento di questa giornata pieno e presente quanto il vostro? Se conformo i moti, gli appettiti, i desiderj miei ai soli impulsi della sapiente natura, non son io savio al pari, e meglio contento di voi? La vista del passato, che cagiona rammarico ai vecchi insensati, non mi offre ella godimenti di reminiscenze, quadri giocondi, immagini graziose, da valer ben più che gli oggetti di piacere? Perocchè dolci sono tali immaginazioni; son pure; nè recano all'anima che un soave ricordo; le irrequietudini, le amarezze, tutta la funesta coorte che accompagna i vostri godimenti di gioventù spariscono dal quadro che me li riproduce; sparir deve anche il repetìo, ch'è l'ultimo lancio di quella pazza vanità che mai non invecchia.» Dicesi che i vecchi pensano solo al presente e a sè stessi: ma quanti invece s'affaticano a «inserir piante, di cui i nipoti corranno i frutti!» Dicesi che mancano d'immaginativa. Se fosse anche vero, ne li redime la ragione. — Il vecchio (dice il medico filosofo Reveillé-Paris in un libro sulla vecchiaja che, insieme con quello di Cicerone, merita di divenir il manuale di noi vecchi) sorride talora, ride ben di rado. La bontà, che è la grazia della vecchiaja, trovasi spesso sotto apparenze gravi e severe: giacchè la prima vien dal cuore, e le seconde dall'essere fisico, ch'è indebolito. La pazienza è il privilegio della vecchiaja. Un gran vantaggio dell'uomo che visse è il saper aspettare. Nel vecchio ogni cosa è sottomessa alla riflessione.» Ben detto! e in fatto lo spirito ha due moventi: l'attenzione e la riflessione. Ne' giovani l'attenzione viva, mobile, sempre affrettata, diffondesi su tutto; ma la riflessione difetta. Negli uomini maturi l'attenzione e la riflessione si dan mano, donde la forza loro. Nei vecchi l'attenzione sfugge, cresce la riflessione; il cuore umano si ritorce sopra sè stesso, e si conosce meglio; alla freschezza, alla grazia, allo slancio si surrogano la solidità, l'elevazione, la ponderatezza: perdonsi le illusioni ottiche, s'acquista la verità; s'impara a conoscere il pregio del tempo e a meno esigere dalla vita. Ma la vecchiaja ha bisogno anch'essa di regole: e un dottore filosofo mi detta le seguenti, ancor più filosofiche che mediche: I. Sapere invecchiare, e saper che s'invecchia. II. Ben conoscere sè stessi, e non pretendere dal corpo e dallo spirito più di quel che possono dare. III. Disporre convenientemente la vita abituale. Il corpo, non men dello spirito, obbedisce alla legge suprema dell'abitudine. Convien dunque conservare le abitudini che si contrassero, per quanto il comporta la natura. L'accordo delle buone abitudini fisiche forma la salute, come forma la felicità l'accordo delle buone abitudini morali: e i vecchi, che fanno tutti giorni la stessa cosa, colla stessa moderazione, collo stesso gusto, vivono sempre. IV. Evitare gli eccessi di qualunque sieno natura, chè ben riflette Rivarol che, quando si è giovani, bastano tre giorni di riserbo per riparare tre mesi di disordine; quando si è vecchi, a pena tre mesi di astinenza rimediano a tre giorni di disordini. V. Combatter le malattie all'origine: regola più importante ai vecchi, perchè non abbiamo più quelle tali forze di riserva che accennammo. VI. Convincersi che alcuni incomodi sono inseparabili dall'età, e che bisogna pure che per qualche organo cominci a sfasciarsi la macchina; tollerar dunque in vecchiaja alcuni mali, come se ne tollerarono altri proprj della gioventù. Troppo noto è l'epitaffio di quel veneziano. — Stavo bene, e per voler star meglio, sono qua:» e un medico, pochi anni fa, illustre nel nostro paese, allorchè qualche persona attempata lo consultava su alcun suo acciacco, le diceva: — Lo tenga molto dacconto: procuri di conservarlo per molti anni ancora: e badi che, col voler cacciare questo male, non se ne vada con esso qualche gran bene.» VII. Mettersi in mente di viver tutta la vita, ma non di là della vita. Cioè allontanare le cause di morte e di malattia, ma non pretender di vincere la legge di natura: v'ha di molti che muojono della paura di morire, mentre invece vuolsi prender la vecchiaja saviamente, ma con ardire e serenità. VIII. Schivare le gruccie, ma adoperare il bastone, cioè non ismettere l'attività, Touqueville scriveva alla signora Schwetcine: — Lo sforzo fuor di sè, e ancor più in sè, è necessario quanto più s'invecchia. Paragono l'uomo a un viandante che cammina incessantemente verso un paese sempre più freddo, sicchè deve muoversi di più quanto più avanza. La gran malattia dell'anima è il freddo. E per combatterlo bisogna non solo mantener vivo il movimento dello spirito col lavoro, ma anche il contatto de' suoi simili e degli affari. In vecchiaja principalmente non è più permesso viver solo di ciò che s'è acquistato, ma bisogna sforzarsi di acquistar altro; e invece di riposarsi sopra le idee di cui ci troveremmo ben tosto assopiti e sepolti, mettere sempre in contatto e in lotta le idee che si addottano con quelle che suggerisce lo stato della società e delle opinioni al tempo ove si arrivò.» Infatti l'uomo non è soltanto corpo; ed oltre la natura fisica, vi ha quel non so che d'indefinibile, che ci contenteremo di chiamare forza vitale. La solitudine, l'isolamento sono funesti alla vecchiaja, che non può trarre da sè medesima que' conforti dello spirito e del cuore che abbondano alla gioventù; ha bisogno anzi d'occupazioni, d'affari, di consigli, per mettere a profitto la propria esperienza, per dimenticare i disamorevoli disinganni e le meste lezioni dell'età, e conservare i pensieri benevoli. Qual lieto spettacolo non è trovare in un vecchio la placidezza nell'azione; quell'impero sovra sè stesso che si assoda a misura che si ottende la passione; quell'assiduità laboriosa nel culto della dottrina; quell'indipendenza onorevole che vien limitata solo da doveri volontarj; quella mansuetudine nell'austerità di non importuni consigli; quell'affabilità che concilia la clientela dei giovani serj e pensanti; quella facilità indulgente per gli errori altrui, quando se n'ha men bisogno pei proprj: quella soddisfazione di dominare soltanto coll'autorità d'una lunga esperienza, e di mettere a profitto altrui un fondo inesausto di ricordi, di esperienza, di buoni consigli, di gravi e sobrj insegnamenti! Oh, in tal caso la vecchiaja reca più guadagno nel morale che perdita nel fisico. Ma per conseguirla siffatta, non bastano le rughe e le canizie, come all'autorità del magistrato non bastano la divisa e gli uscieri, come alla nobiltà non bastano gli stemmi e genealogie. Bensì vuolsi quella dignità, che deriva da una gioventù ben condotta, da abitudini sane, da un tesoro di sensazioni e di pensieri accumulati in gioventù da quel patrimonio di affetti, di cui lasceremo l'eredità: da una dolcezza, che supplisce alla perdita degli altri vezzi del corpo e della conversazione; da una tolleranza, che ricopre anzichè snudare i difetti altrui, e vi trova una scusa quand'anche non possa darne una ragione; che però se trasvola alle debolezze, mai non transige col vizio e colla viltà. Insomma se non vogliamo che la vecchiaja sia un peso facciamone una dignità. A questo modo guarderemo serenamente il lento spegnersi della vita, come il tramonto d'una giornata d'autunno, consumata a riporre il ricolto; e nella fiducia che al suo termine ce ne sorriderà una che non conosce nè vespro nè sera. 1856. NOTA. È uscita nel 1867 un'opera d'un insigne fisiologo, il dottore Schröder, professore all'università di Utrecht, dove, parlando de' rapporti dell'anima col corpo, ragiona che, se il corpo e l'anima fossero la cosa stessa, se la ragione, l'intelletto, la vita morale fossero prodotti di forze materiali, la loro energia dovrebbe esser proporzionale a queste: mentre è il contrario. — È un inganno il non veder nel vecchio che un uomo logoro, ottuso, fiacco, gelato. La vecchiaja ha i suoi malanni, ma spesso sono gli amari frutti della vita passata. Non bisogna dipinger la vecchiaja sotto la figura d'un vecchio infermo, come non rappresenterebbe la gioventù un giovane tisico, perchè l'etisia s'incontra principalmente fra i giovani... Le pretese miserie della vecchiaja sono il risultato d'una disposizione sapiente e armonica... Ciò che distingue il vecchio è l'esser meno influenzato dal mondo esteriore, e meno operar all'esterno. Non ha più la vivacità del giovane, nè la forza dell'adulto: ottusi gli organi de' sensi, affievoliti i muscoli, le impressioni esterne operano men vivamente su lui; non può nè desidera prender parte alla vita attiva del giovane; cerca silenzio e riposo. A misura che le pulsazioni del suo cuore s'allentano, e il sistema nervoso s'indebolisce, va men soggetto alle passioni: la ragione, più fredda e calma; il giudizio maturato dall'esperienza prevalgono: men s'attacca alle cose esterne; svanisce nella memoria dei fatti ordinari della vita, ma conserva le rimembranze giovanili: di rado s'affeziona a qualcosa di nuovo. «Le forze diminuiscono, non l'intelligenza. Spesso i capelli bianchi ombreggiano un'intelligenza splendida; sempre alla vecchiaja si attribuì la saviezza e il giudizio. Mal si cercherebbe dietro al gelo del viso un rigido verno; arde ancora di dentro quel fuoco che già sfavillava di fuori: l'io superiore non si fiacca se non quando il corpo diviene fragile e stecchito. Il vecchio sa per esperienza quanto tutto è passeggero, onde s'appiglia fortemente a ciò che gli pare fisso e durevole: negli ultimi anni, il sentimento della verità del dovere, della virtù della religione vanno crescendo. Prende parte a una decente allegria fra amici, ma in generale è serio, concentrato. I suoi figliuoli son divenuti grandi e indipendenti; quasi tutti abbandonarono la casa. La gioventù viva e spiritosa allontanasi naturalmente da lui, correndo dietro alle distrazioni, gli amici suoi morirono quasi tutti, e la generazione che segue ha meno simpatie con lui, perchè allevata in nuove idee. Laonde egli vive di passato e d'avvenire... Lo scopo costante d'una vita ben adoprata è raggiunto: ha vinto le sue passioni, e gode ora della sua vittoria. Riguardando alla vita trascorsa, sentesi pieno di riconoscenza verso l'Eterno sovranamente buono, che lo condusse alla meta fra tanti benefizj. Il pensiero della vicina sua fine ne eccita i sentimenti religiosi. È convinto che l'interna voce, che mai non cessò affatto d'udire, è reale, onde guarda l'avvenire con calma e confidenza. «Da quest'aspetto la vecchiaja non è una fine compassionevole, ma la corona della vita umana; essa dà all'uomo la vera libertà. Il corpo invecchiò, non arrestossi lo svolgimento dello spirito.» IL LETTERATO Chi vorrà una volta, o colla sentita meditazione del romanzo, o colla potente vita del dramma, o colla profonda leggerezza dell'umorista, rivelarci al vivo la condizione singolare dell'uom di lettere nel nostro piccolo mondo? Essere, la cui sensività fu raffinata dagli studj, chiamati per questo umani; coll'ingegno e la coltura mira a conquistare nella società quel posto decoroso, che ad altri preparano la nascita, le ricchezze, le raccomandazioni; nel conflitto ha bisogno di forza, e la trae dalla convinzione e da una certa fidanza in sè, la quale può prendere l'apparenza, e talvolta anche la natura di superbia. Viene nel mondo coll'idea di giovarlo o almeno dilettarlo: e il mondo l'accarezza e lo strapazza, l'assume strumento alle sue gioje e bersaglio alle sue malignità. I maestri, e quei che lo precedettero nel faticoso cammino, lo incoraggiano fino al momento che dalla palestra non esca sull'arena; gl'imperaticci suoi, i primi versi, i primi racconti, i primi articoli suoi, sono un trionfo. — Chi di noi al suo cominciamento non udì una lode da quelli che poi sempre si sarebbero guardati dal dirci una parola di cortesia? Ma ben presto anche i maestri gli diventano nemici come i colleghi, e colla folla spettatrice non sanno se non avvertire ogni passo in falso, ogni movimento men grazioso, ogni botta, ogni ferita contro l'arte; i coevi lo invidiano, quando ancora i maggiori lo disdegnano; ne' suoi impeti di nobile e generosa ispirazione egli non trova una parola simpatica che l'incoraggi; nell'ora del dubbio non un consiglio che lo avvii; ne' passi scabrosi non una mano amica che lo sorregga; sentesi solo, non inteso in una società ch'egli deve frequentare per non essere eccentrico, e schivare per non divenire ozioso o vano. Povero letterato! Un attore, che si presenti sul teatro, sa come può piacere; urli, e non gli mancheranno applausi. La cantatrice, se ha robusto gorguzzule e passa il tetto colla possanza di trilli in cui non s'intenda verbo, è certa di ricevere trentamila lire per stagione. Sa la ballerina come gradire all'universalità: sa lo scultore, sa il pittore come s'abbagli e s'illuda: il povero letterato no. Egli si presenta a un pubblico, ove son tanti i giudizj quanti i cervelli, ed ogni cervello pretende che tutti gli altri pensino al modo suo; eppure due non se ne scontrerebbero, per gran ventura, che vedessero coll'occhio stesso. Chi dunque lo vuol a un modo, chi all'opposto; chi biasima la sentimentalità, chi trova disopportuna l'allegria; chi crede inutile la storia, chi dimostra falso genere il romanzo; chi grida morta la poesia, chi si ostina a canticchiare spose e dottori e principi; questi ama il periodo rotondo, cui l'altro torce il muso; uno vorrebbe il pretto Trecento, l'altro rifiuta ogni voce che non suoni viva sulle labbra e da queste nel cuore; chi vuol la lingua e lo stile ornati, fraseggianti, cortigiani; chi, al contrario, sdegna ciò che non va limpido, trasparente, secondo il cuore, ed _Où la semplicité n'est qu'un luxe de plus:_ chi giurò di dir male di chiunque non ha la fortuna di esser morto; chi pretende non poter un autore avere merito se non compì i quarant'anni; chi vuole il nuovo, anche a costo di dar nello stravagante; chi abborre ogni novità quand'anche sia bella; chi, immobile come il dio Termine, minaccia agli arditi quelle catene che il pedantismo formò, che il pregiudizio rispetta, e che il genio non osa spezzare; chi invece, nel dar di cozzo alle troppo anguste barriere, urta e fracassa ogni limite di gusto e di ragione; chi vuol l'insulto del libertino, chi la santocchieria dell'ipocrita; chi vuol la letteratura diretta di continuo al bene sociale; chi fa le risa grasse alle parole di coscienza letteraria, di missione, d'apostolato. Poi vengono i pericoli esterni, poi le necessità personali e patrie, poi i riguardi di tempo e di luogo. Adula i potenti? avrà gli applausi dei vili che son molti; ma se di mezzo a quella turba si leverà pur un guardo severo a dirgli — Tu rinneghi i fratelli», forse gli applausi e l'argento e i posti e le decorazioni gli torneranno in agro sapore. Sostengasi col decoro d'uomo che sente in sè memorie, orgogli, speranze, e vedrete il pubblico compassionare questi inesperti scribacchini così cattivi amministratori del fatto loro, e prendere uno in sospetto per la indecorata condizione in cui è e vuole rimanere per generosità; vedrete, se occorre, un infame sorgere ad infamarlo; e il pubblico illuminato, alle maligne insinuazioni o alle sguajate denunzie di tale a cui rifuggirebbero di stringer la mano, crederà, piuttosto che ad un'intera vita, immacolata alle prove del terrore e delle lusinghe. Foss'egli pure tanto dappoco da contentarsi della sguajata parte di buffone, anche là non troverebbe tutte rose, e fra gli sghignazzi della educatrice taverna e della congiurata malignità gli giungerebbe pure o lo schizzinoso dispetto di chi abborre questo acconciar le Muse da saltimbanco, o il severo dissenso di chi prova dolore e disdegno qualvolta vede nascere un nuovo nemico del bene e dell'operosità. In un tempo, in cui la critica è reputata la faccenda più agevole del mondo, e siede a scranna chi appena sarebbe da tanto da vergar lettere in un cancello; e prima d'avere studiato, anzi perchè non ha studiato, elevasi a sputar sentenze, e arrogasi tutore e vindice del buon gusto, il povero autore casca in mano di chi, pretendendosi non solo pari, ma maestro, si introna giudice, non con ingegno libero, sciolto, attento, ma con pregiudicato, incolto, meschino; che crede genio la sfacciataggine di ripeter in iscritto il motto che altri lasciossi sfuggire di bocca nella conversazione famigliare, e franchezza il dir ad alta voce ciò che non osa il suo cauto dissimulato suggeritore: — tiranelli che, somiglianti al Turco, non vorrebbero vedersi attorno se non eunuchi, e cominciano il regno loro dal trucidare tutti i fratelli. Costoro, indispettiti ch'egli osi far meglio di loro, dopo che ne avran lodato il primo lavoro, s'affrettano poi a deprimere i successivi, e procurano delle sue ruine formar piedestallo a qualche nano ch'essi predestinano a fargli ombra. Nè fra noi il letterato s'aspetti di trovare, come in Francia, un De Fontanes che proclami il sorgente Chateaubriand, o Chateaubriand che col suo voto credasi in dovere di proteggere i primi voli di Hugo o di Lamartine. Qui i re o i pretendenti della letteratura, ombrosi taceranno, o guarderanno con indifferenza l'affannoso dibattersi d'un novellino, costretto ad aprirsi da sè stesso la inesperta via tra bronchi d'ogni genere; e quantunque gli conoscano e cuore ed intelletto, non gli direbbero una sillaba di conforto, non soffogherebbero col nobile assenso i garriti della intollerante mediocrità. Il povero letterato, venuto in campo con ottimo fondo e col cuore aperto alla benevolenza, nei petti che vorrebbe abbracciare non iscontrando altro che le punte repellenti della denigrazione e dell'ironia, è costretto a ritirar la mano stesa all'amplesso, isolarsi, bestemmiare, odiare, struggersi nella fame d'affetti e d'intelligenza. La legge stessa che ad ogni cittadino garantisce, non solo sicurezza della vita, ma riguardi all'onore, tace pel povero letterato, che può vedersi bersaglio del primo cane che voglia addentargli le gambe, o della prima scimmia che tolga a contraffarlo; nè tampoco il galateo avrà voce, e le villanie che, dette ad un altro galantuomo, stomacherebbero la moltitudine, avventate a un letterato piacciono, garbeggiano; v'è chi non cerca altro se non la colonna del giornale ove ci abbia ingiurie; v'è chi si dà premura che di quest'ortiche non si patisca mai penuria; e siccome i fanciulli in piazza vanno in sollucchero al veder Pulcinella bastonare i fantocci di legno, così il colto pubblico di sè stesso s'esalta quando Bavio o Mevio, idrofobo o buffone, menano da ciechi sopra questo giocattolo del pubblico, che chiamasi il letterato. Ma il letterato non ha la testa di legno; è uomo della specie più sensitiva; ha un onore, ha affetti, ha speranze; e l'assassino scurrile o rabbioso gli guasta tutto. Vedetelo! Persuaso d'aver fatto un poco di bene alla società, anche indipendentemente dalla lode sperata, ne gode tranquillo con alcun amico, colla donna una cui stretta di mano gli val meglio d'un premio; e con essi entra ad un crocchio dove ricrearsi quella sera dalle fatiche del giorno. Ed ecco cadergli sotto gli occhi un foglio, ove il suo lavoro è messo alla gogna. Oh! certo egli ha filosofia quanta basti per non curarlo: la venale malignità e l'ignoranza superba, che trapelano da tutti i pori dell'articolo, il fanno sentirsi immensamente superiore all'attacco: ha in pronto una ragione trionfante contro ognuno degli appunti; prova compiacenza del trovarsi scopo ad ira così abjetta, la cui coscienza sta nel comando o nella seduzione di chi s'adombra d'ogni lampo di generosità. Ma intanto ciascuno gli parla di quella censura o per sincero compatimento, o pel gusto di esacerbargli la ferita; se non altro, per dirgli che non vi badi. Domani, andando a far colazione alla bottega, quel caffè gli si inacidirà nel veder il noto foglio in mano d'un terzo, che ride del buffone e del beffato, e che vilipende questo coll'associargli il bassissimo nome di quello. Salendo alla cattedra, pensa che i suoi scolari han letto, hanno udito: ciò che più gli pesa, qualche galantuomo, di quelli che non sanno immaginare che uno ingiurii altri a quel modo senza provocazione, andrà fin a supporre che esso abbia in verun modo offeso o stimulato il petulante ringhioso, verso del quale pure non ebbe altro torto, che quello d'un innocente viandante, contro di cui s'avventi un mastino per mera febbre di far male, o un molosso aizzato dal proprio padrone. Che fare? mettersi a declamar per le botteghe e per le piazze le sue difese? Ma io parlo d'un letterato, non d'un cerretano. Scriverle? Ma ciò prolungherebbe l'inquietudine sua; poi il colto pubblico non legge le difese; e se anche giungano, è tardi, e non fanno che inciprignire le piaghe. Egli intanto erasi lusingato di aver dal librajo la commissione di tradur dal francese un'opera tedesca, per dieci lire al foglio; di ottener l'onore d'insegnare la grammatica in quella casa, in quel collegio; di diventare copialettere in quel banco, o correttore delle bozze in quella tipografia; avea sperato di vendere il suo libro, e col ricavo far una buona azione; di trovar chi facciasi editore ad un'opera a cui da tanto tempo lavora; di procurarsi i mezzi di comprare que' libri, di fare quel viaggio, necessario per compire quello studio. — Grazioso buffone! idrofobo gentile! state allegri: ci siete riusciti. Tu avevi detto, — Io voglio attraversargli quell'onore»; tu avevi promesso, — Farò tanto che lo balzeranno da quell'impiego»; tu eri stato pagato per disingannar l'Italia (credente ne' tuoi oracoli) sul merito di quel libro, non perchè lo disistimasse, ma perchè non lo comprasse: buffone grazioso, idrofobo gentile, si può senza coltello assaltare alla strada, e senza neppure il coraggio di Battista Scorlino o di Maino Spinetta. Rallegratevi con voi stessi, e con chi v'aizza o vi paga! Il pubblico fu divertito; non s'è fatto che straziare, spogliare, uccidere un letterato. Sì, uccidere; uccidere a colpi di spillo o col fare il solletico; perchè io conosco giovani che andarono consunti sotto il peso d'un di questi legali assassinj; altri ne conosco che, non avendo quanta forza bastava per rimbalzare contro il colpo immeritato, s'abbandonarono fiaccamente, e nessuna cura ebbero maggiore che di sfruttare il proprio intelletto, e gettarsi a quell'inerzia che fa i cittadini tristi alle famiglie, inutili alla patria, ma che li pone sotto alla protezione della polizia e del galateo; protezione negata al letterato. Questi sono dolori fraterni, domestici, nella tempestosa repubblica del sapere. Se poi il letterato entri nel mondo, già v'è la persuasione ch'e' sia un bizzarro, qualche cosa di mostruoso: non potrà lanciarsi a cordiali abbandoni: aspetteranno oracoli ad ogni parola, appunteranno ogni frase, vorranno ch'e' sia libero, ma alla misura loro; ch'e' sia spregiudicato, ma immerso a gola in tutte le loro superstizioni: un difettuccio suo lo predicheranno dai tetti; le sue virtù saranno o ignorate o taciute, bastando per ogni encomio e per un vitupero il dire: — Gli è un letterato». . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Questi puntolini, chi volesse sapere che cosa significano, sono un'altra delle disgrazie del letterato onesto, in questo ameno stivale, costretto a dire più d'una volta, _Insipiens factus sum, vos me coegistis_; dirlo cioè tra sè medesimo, e mandar giù stranguglioni quando glielo rinfacciano quelli che cianciano a baldanza, perchè sanno che la ragione vera e trionfale egli non può dirla; perchè sanno che gli fanno colpa di aver dovuto fermarsi davanti a quel precipizio, ov'essi medesimi gli avevano preparato il trabocchetto. Ora quali ristori a tante miserie? Nessuno ch'io conosca. — Devono essere alleggerite assai dall'abitudine», dicono. Benissimo; e in fatti io non parlai che de' principianti, a cui la ciurma può consolarsi d'essere ancora in tempo a cagionare non soltanto dispiaceri, ma vero danno. Però in cortesia ditemi, e gli adulti non hanno più sentimento? e portate meno compassione ad uno perchè son dieci anni e un mese che spasima di micrania? Jer da sera io dipingeva a una damina i patimenti d'una poverissima famiglia; fame, freddo, non pentola, non letto, non tetto; ed ella mi rispose: — Ci sono assuefatti». Oh sì, il letterato adulto va più superiore, più sicuro di sè; ma conosce che il suo provocatore non imbocca la tromba della fama soltanto; e che, come criticargli il verso e il periodo, così può fargli ipotecare le opinioni e la persona. Sa, è vero, che la sua nazione e forse altre l'hanno conosciuto e lodato; ma s'avvera il caso di quegli illustri Pagani defunti, dei quali diceva sant'Agostino: — Ove non si trovano, son encomiati; ove si trovano, son bruciati». Ha tutti per partigiani, ma neppur uno per avvocato: onde, dopo che le passioni contemporanee gli bandirono guerra, e un vulgo patrizio e letterato, dall'abjettezza dell'anima propria argomentò quella di lui, le cui intenzioni non è capace d'elevarsi a comprendere nè ad indovinare il pensiero; il povero letterato dee ravvilupparsi in sè, come la biscia, intirizzito dal gelo dell'egoismo che trova d'intorno, e quivi, mettendo a schermo la testa se può, aspettare che all'ingiustizia presente succeda l'obblio avvenire. 1836. GLI ARTIGIANI S'aggrappino a due mani al passato quei meschini, per cui la letteratura è tuttavia nulla meglio che un nobile trastullo, l'occupazione degli ozj, occupata ella stessa in nulla meglio che vanità e frivolezze. Chi mira all'avvenire, volge al popolo la parola e il pensiero; e de' bisogni suoi, delle credenze, delle idee sue s'informa. Quanti libri non ha già prodotto l'età nostra in Francia, in Inghilterra, in Germania per educazione, conforto, sollievo del popolo!.... — L'Italia è ben lontana da tale fecondità; e pur troppo non si conservò immune da quelle bevande arsenicali, che certi autori satiriaci stillano con infame abilità per solleticare le passioni del popolo, invelenirne i rancori, adularne i brutali istinti. Gli effetti ne apparvero, e il più sciagurato di tutti, l'offrire, se non ragione, almeno pretesto alle riazioni, il render sospetta la libertà, e diminuirne il legittimo uso per tema degli scellerati abusi. E ben è a deplorare che oggi si corra volentieri a que' sozzi beveraggi, sgorganti dalle cloache parigine; e v'abbia editori e traduttori che li rimpastino per uso nostrale. La pubblica morale dovrebbe indignarsene, se ne' tempi di sovversione non fosse ancor più difficile conoscere il proprio dovere che l'adempirlo. Noi intanto, desiderosi di star piuttosto coi buoni e dir bene, accenneremo un libro, capitatoci appena testè alle mani, quantunque stampato prima che il titolo potesse parere d'occasione o di stimolo: _Gli artigiani illustri_[12]. Potrebbe pedantescamente chiamarsi il _Plutarco degli artigiani_, e l'accompagna quella nitidezza di stampa, quella vivacità di disegni che, se fu adoperata a stampe deletriche, ben è che venga adattata anche alle buone. Ma da noi... Via via; non istuzzichiamo un patriottismo così meschino, che si offende della verità, e stiamo all'opera in discorso. Poichè non ci furono conservati i nomi di coloro che inventarono e migliorarono l'arte in quei secoli di tanta vita che l'ignoranza trascura e il pregiudizio vilipende, vo' dire il medioevo, dovette l'autore cominciar le sue storie del Rinascimento, e farne la prima parte; l'altra va dalla rivoluzione in poi. Vien egli narrando succinto e con calore la storia degl'inventori o raffinatori di qualche arte; nel che, insieme col fabbro e col carpentiere appajono anche insigni nomi di scienziati che a tal servizio volsero l'ingegno, come Davy, Lavoisier, Réaumur, Papin, Franklin, anzi fino dei re, come Luigi XVI, che per passatempo faceva serrature e meridiane; Francesco I d'Austria che dipingeva stoviglie; Pietro il Grande che adoprò di buona lena la pialla e la scure. Basta un'occhiata a questo lavoro per accertare che anche la bottega ha i suoi eroi: e noi, dalla bottega usciti, ci compiaciamo in quelli, quanto la nobile gente nelle prepotenze degli avi. Seguiamo dunque la storia di alcuno di questi, e prima discorriamo d'un'arte che, non è guari, fu ridestata fra noi. — Un bel mattino di maggio del 1539 gli abitanti di Saintes restarono attoniti e indignati di vedere una nuova famiglia accasarsi fra loro; ma al sentimento inospitale, provato alla vista degli stranieri, succedette in breve l'ammirazione, udendo che Bernardo Palissy, capo della nuova famiglia, era celebre dipintore su vetro. Da quel momento agli stranieri vennero profuse cortesie ed atti di stima, e le mille piccole soperchierie ond'erano stati bersaglio nei primi giorni, sparirono per sempre. Faceano circa due anni che Bernardo Palissy era stabilito a Saintes, quando, veduta una coppa di terra tornita e smaltata di somma bellezza, si accese d'ardentissimo desiderio di formar un vaso simile. Dominato da tal pensiero, abbandona la condizione che assicurava il vitto suo e de' suoi, e logora tutto il suo tempo a rimpastar terra, e coprirla d'una composizione diligentemente preparata. Pieno d'ansietà assiste alla cottura de' suoi smalti: ma i primi tentativi riescono indarno, e la miseria penetra nella sua casa. Non importa, egli combatte sempre; e giunge a recar qualche miglioramento alle sue preparazioni... Oggi soffre; la sua famiglia langue nell'inedia; domani la sua cassa non sarà forse tant'ampia da contenere tutto l'oro che la sua scoperta deve procurargli. Ma il domani giunge, e Bernardo Palissy non coglie alcun frutto migliore. Ogni giorno la sua abitazione risonava dei lamenti della sua donna, e spesso fino i suoi figliuoli s'univano alla madre per pregarlo in lagrime e a mani giunte a ripigliar il primo mestiere di pittore sul vetro, che gli porgerà il mezzo di viver tranquillo. Palissy ai rimproveri della moglie, alle preghiere de' figliuoli opponeva una volontà irremovibile e la coscienza dell'opera sua. Trascorrono vent'anni in questa condizione dolorosa, e Palissy persevera nel suo proposito. Beffatto, avuto per pazzo, sospetto di sortilegio e di falsa moneta, il suo corraggio non vacilla. Finalmente con una nuova combinazione crede esser riuscito, quando un vasajo ch'egli aveva preso con sè, l'abbandona all'improvviso, chiedendo il suo salario. Palissy, privo di credito, spogliato di tutto, è obbligato dargli in pagamento parte del proprj abiti. Abbandonato a sè, si rivolge al suo forno, che avea fabbricato nella cantina della casa ma ohimè! gli manca la legna. Che farci?.... Eppure nella cottura di questo nuovo saggio riposa l'ultima sua speranza. Corre dunque al giardino, strappa le pergole, brucia i pali, e tosto il forno è acceso. Ma la fiamma langue e minaccia spegnersi, ed il calor del forno non è ancora intenso abbastanza. Allora Palissy, fuori di sè, vi butta dentro i mobili le porte, le finestre, perfino l'assito della sua camera; le lagrime, le suppliche della famiglia non possono arrestarlo; gli bisogna legna per alimentare il forno, e tutto quel che dà calore è irrevocabilmente sagrificato... Palissy è in ruina... Ma l'esito coronò i suoi sforzi! Un alto grido di gioja fa rintronar le vôlte della cantina, e rimbomba per tutta la casa; e quando la moglie di Palissy, scossa dallo strano grido, scende, trova il marito in piedi collo sguardo attonito fisso sopra un vaso di brillanti colori che tiene nelle mani. Il genio dell'invenzione, per lungo tempo sordo alle ricerche di Palissy, aveva posto finalmente sul capo dell'artista la corona del premio; egli aveva in sè quella santa credenza che non s'inganna mai. La fama della scoperta di Palissy non tardò a diffondersi, e la fortuna ritornò tra le sue pareti. Enrico III, lo chiamò a Parigi e gli diede abitazione nelle Tuillerie ed il brevetto _d'inventore delle rustiche figurine del re_. Ma l'editto contro i Protestanti, pubblicato il 1559 da Enrico III, non risparmiò Palissy, che professando la religione riformata, fu trascinato alla Bastiglia, dove il 1589 terminò i suoi giorni. Enrico III andò a visitarlo nel carcere, dolendosi d'esser costretto a lasciarlo in mano a' suoi nemici. — Voi mi diceste più volte, sire (rispose Palissy), di aver pietà di me. Ma io ho pietà di voi, che pronunciaste queste parole _son costretto_. Non è parlar da re. Io v'insegnerò il linguaggio di re. I carnefici, tutto il vostro popolo, voi stesso non potreste costringer me ad un atto di adorazione cui non credessi; nulla potreste sopra di me, giacchè io so morire.» Palissy ergevasi allora due metri più alto di Enrico III; l'artigiano eclissava la maestà del re. Non è un fatto nuovo, anzi ne ribocca la storia delle umane infelicità; il vedere il giusto in prigione o il genio trattato da pazzo, perchè fa torto alle sublimi mediocrità col volere aver ragione prima del tempo. Ma giovi qui ripeterne un esempio. È noto già; ma son noti anche Leonida e Regolo ed Epaminonda, che tutti i dì ci si ricantano all'orecchio. Riferiamolo dunque: — Regnante Luigi XIII, un uomo aveva concepito il disegno di adoperar il vapore come forza attiva sopra scala molto estesa; ma quell'uomo, il cui nome si conservò coi più celebrati nella storia delle arti e dei mestieri, doveva incontrare la più malevola contraddizione. La famigerata Marion Delorme scriveva a Cinq-Mars, famoso per la congiura contro il ministro Richelieu, questa lettera di graziosa leggerezza, che mostra in qual poco conto si tenessero nel bel mondo le cose serie, e quanto valesse allora la politica della Francia. Quando bene questa lettera non avesse contenuto che una semplice narrazione, la inurbana gajezza con cui è dettata reca, nostro malgrado, un vivo stringimento di cuore: poichè niun disgusto può compararsi a quello che fa nascere in noi un annunzio di morte uscito da bocca sorridente. 3 febbraio 1641. _Mio caro_, Mentre voi mi dimenticate a Narbona, abbandonandovi alle voluttà della Corte ed al piacere di far opposizione al cardinale Richelieu, io, seguendo il desiderio che mi dimostraste, fo gli onori di Parigi al vostro lord inglese, il marchese di Worcester, e lo conduco, o per dir meglio, mi fo condurre di curiosità in curiosità, scegliendo sempre le più triste e le più serie, parlando poco, ascoltando con estrema attenzione, e ficcando addosso a coloro che interroga due occhioni azzurri, che pare vogliano penetrare nel fondo del pensiero. Del resto, egli non s'accontenta mai delle spiegazioni che gli vengono fatte, e non prende mai le cose dal lato da cui gli vengono mostrate. Lo prova la visita che andammo a fare insieme a Bicêtre (l'ospedale de' pazzi) dove pretende d'avere scoperto in un pazzo un uomo di genio. Se il pazzo non fosse stato furioso, credo in verità che il vostro marchese n'avrebbe implorata la liberazione per condurselo a Londra, ed ascoltare le sue pazzie dall'alba al tramonto. Quando attraversammo il cortile dei pazzi, e più morta che viva dalla paura, io mi stringeva al mio compagno, un brutto ceffo si mostra dietro una grossa inferriata, gridando con voce soffocata: — Io non sono un pazzo, io: ho fatto una scoperta che deve arricchire il paese che vorrà porla in pratica. — Cos'è questa scoperta?» diss'io fissando colui che ci mostrava la casa. — Ah! egli rispose alzando le spalle: una cosa affatto semplice; e che voi non indovinereste mai: l'uso del vapore dell'acqua bollente.» Mi posi a ridere. — Quest'uomo (ripigliò il custode) chiamasi Salomone di Caus. Venne di Normandia or fa quattro anni per presentare al re una memoria intorno ai meravigliosi effetti che si potrebbero trarre dalla sua invenzione. A sentirlo col vapore si farebbero girar macchine, camminar vetture, che so io? Il cardinale cacciò questo pazzo senza ascoltarlo. Salomone di Caus, invece di scoraggiarsi, si pose a seguitar dappertutto il cardinale, che, stanco di trovarselo sempre fra i piedi, ordinò di chiuderlo a Bicêtre, dove si trova da tre anni e mezzo, e dove, come avete potuto udir da voi stessa, grida ad ogni forestiere, che non è pazzo, e che ha fatto una scoperta meravigliosa. Compose perfino un libro intorno a ciò, e lo tengo qui.» Milord Worcester, tutto pensoso, chiese il libro, e lette alcune pagine, disse: — Costui non è un pazzo, no; e nella mia patria sarebbe stato colmato di ricchezze; conducetemi a lui voglio interrogarlo.» Fu condotto, e ritornò tristo e meditabondo. — Ora (disse) egli è pazzo; la sventura e la prigionia gli hanno fatto smarrir la ragione per sempre, ma siete voi altri che l'avete reso pazzo; e quando l'avete gettato in questa prigione, gettaste qui il più gran talento della nostra età.» Quindi ce ne partimmo, e d'allora in poi egli non parla che di Salomone di Caus. Addio, mio caro e fido Enrico; ritornate al più presto; e non siate tanto felice, che non vi resti un po' d'amore per me. Il libro rimesso dal custode al marchese di Worcester era certamente quello, che l'infelice Salomone di Caus aveva pubblicato nel 1613 col titolo: _Le ragioni delle forze motrici con diverse macchine tanto utili quanto dilettevoli._ Il pensiero di alzar l'acqua per mezzo della forza elastica del vapore appartiene dunque a lui. Quarantott'anni dopo, il marchese di Worcester credette poterselo appropriare, senza timore di udirsene tolta la gloria. Gli Inglesi, sommi applicatori d'idee nuove, mostrano spesso una ciarlataneria senza pari. L'amor nazionale non richiede che si facciano prede nel dominio intellettuale dei vicini, nè che il frutto della rapina e dell'audacia venga qualificato come prima proprietà. Franklin, Parmentier, Montgolfier, Jaquard, Riquet, trovano naturalmente posto fra gli artigiani anteriori al 1789, quando l'elevazione dal terzo stato e il furore rivoluzionario e gli artefizj de' diplomatici e il fanatismo erudito e i tanti malanni furono guidati dalla Provvidenza ad effettuare la rigenerazione della povera plebe. Or chi volesse intendere la vita dell'artigiano di Parigi, dico dell'artigiano galantuomo, eccone uno schizzo: «L'operajo è senza forse una delle fisonomie più caratteristiche del nostro mondo sociale: occupa un luogo distinto, e per necessità del suo lavoro trovandosi spesso in contatto con tutte le classi della società, non ritrae nulla della fisionomia d'alcuna di esse. Prima di tutto, egli è _lui_. Di natura libero, tiene molto di quel lasciar correre, che non trovasi che nelle nature vergini, e non l'udreste mai proferir cattive parole e stizzose. Quando motteggia, il suo pensiero è fecondo di arguzie, di rado v'entra il sarcasmo: quando è in collera; il suo petto si dilata, i suoi occhi mandano lampi, la sua voce è tonante, e la parola divien secca e fiera; ma, siccome dopo la procella vien sereno, così la collera sua nasconde un cuore pieno di perdono. «Lavorare, poi lavorare, sempre lavorare; ecco il compendio della vita dell'operajo. S'alza dalle cinque alle sei per recarsi al telonio; notate per parentesi che egli abita d'ordinario all'estremità della città e la sua officina è all'estremità opposta; e al suono della campana entra nel lavorerio, e vestitosi, si pone all'opera. Il vestito di lavoro consiste nel levarsi la sopraveste, rimboccar le maniche della camicia, affibbiar un grembiule al corpo con una coreggia di cuojo. Dalle sette alle nove i martelli e gli strumenti lavorano a forza di braccia; alle nove la campana dà il segno della colazione. Allora le trattorie vicine, da due a tre soldi il piatto, aprono la loro affumicata caverna ai molti abituati; l'operajo può mangiare a suo bell'agio, ha tutto il tempo d'essere gastronomo, avendo per sè un'ora onde assaporare e digerire: alle dieci la campana rintocca, e l'operajo s'affretta al suo posto, e fin alle due lavora, raddoppiando d'ardore e d'attività: e il lavoro gli par più leggero e agevole. Alle due, ecco di nuovo la campana pel pranzo, che tosto incomincia. La trattoria è puntuale; e non finirono ancora di scoccar le due all'orologio bisunto che orna la sala dell'ostessa, che i piatti sono a loro luogo sulla tavola, impregnando l'aria del loro equivoco profumo. — A tavola! a tavola! Appena dopo la prima sciaquata, i bicchieri si toccano, e l'operajo slancia la propria opinione con una sicurezza che non rispetta nulla. Egli ha la sua politica particolare, e fa ogni giorno de' bei sogni, e sù questi bei sogni si fabbrica un avvenire di gloria e di prosperità, finchè, un soffio di vento non venga a rovesciare il castello di carta ch'egli con tanta cura e compiacenza s'era edificato. La campana manda ancora il suo avviso, e al nome del lavoro le chimere sono sparite. L'operajo ripiglia la fatica, ma lo strumento non è più maneggiato così destramente come prima; lavora però con coraggio, e il direttore non ha nulla a ridire. Fra qualche ora il giorno sarà finito, e gli lascerà un momento d'intera libertà, e allora potrà ronzare giù giù per le vie della città a lento passo. Questo pensiero gli fa dimenticare per un momento che lo strumento gli sta ozioso nelle mani, ed allora incominciano fra i vicini mille ciarle a bassa voce, che si perdono in un mormorio confuso. L'uno narra una piacevole avventura di cui fu testimonio il mattino venendo all'officina; l'altro fa a modo suo l'analisi del nuovo melodramma; questi, padre di famiglia, parla del bimbo che ha a balia; quegli deplora lo scarso salario... Ma zitto! La fedele campana alza la voce: l'ora beata dell'uscire è scoccata, e questa volta la campana risonò più chiara e viva, quasi avesse serbato per quest'ora il tintinno più lieto. Allora colle braccia fra le braccia, colla fisonomia aperta, il portamento leggero, i figliuoli dell'officina se ne vanno, ricambiandosi ad alta voce quelle grosse facezie, così spiritose ed ingenue. [Illustrazione: Appena dopo la prima sciaquata, i bicchieri si toccano, e l'operaio slancia la propria opinione con una sicurezza che non rispetta nulla. (_Pag. 171_).] «Nulla v'ha di sì grave come l'interno d'un'officina: tutti questi uomini attenti al lavoro, ch'adoperano lo strumento con un ingegno così preciso, che non s'interrompono mai senza un perchè, col corpo chino sul banco, nudi le braccia e il petto, il volto pensieroso, la bocca serrata, e continuano per ore intiere, quanto è ammirabile! Nell'operajo l'emulazione opera per tutti i versi. Scegliete un terreno vergine, seminatevi del buon grano, e vedrete tosto le spighe rigogliose ondeggiar il capo dorato ai raggi del sole; ma se, invece del buon grano, la vostra mano inesperta vi getta del loglio, anche la pianta parassita s'alzerà vigorosa. L'operajo è terreno vergine, giacchè, uscito dalla turba popolare, educato fra le privazioni e i travagli di una vita, spesso afflitta dalla miseria, il suo cuore, non corrotto dai diletti del lusso, si abbandona a tutte le impressioni, presta fede al bene, e capisce a stento il male. «S'ammoglia per tempo, poichè, abbandonato a sè, ha bisogno d'affetti che addolciscano la vita; affetti, di cui solo la donna possiede il secreto. Non conosce e non frequenta che la figliuola dell'operajo, ed i suoi voti non vanno più in su. La figliuola dell'operajo è pudica, è gentile, ama il lavoro, e vale insieme un patrimonio e una felicità. — Che cosa dunque chieder di più? Le parla, e qualche mese dopo ottiene la licenza di farsi fare l'abito nero di cerimonia, e d'ordinare il pranzo da nozze. «Dal giorno in cui l'operajo andò in abito nero a dire il _sì_, la sua indole muta improvvisamente, e perde l'amabile spensieratezza; conserva sempre la forma primitiva, ma con alquanto minor naturalezza e bonarietà. Jeri non aveva da pensar che a sè; oggi ha eseguito l'atto più grave di sua vita; atto che gl'impone quindi innanzi d'essere non solo onesto, ma regolato ed assiduo lavoratore. Non più ore di riposo, rubate talvolta al tempo del lavoro, e trascorse a fantasticare un avvenire felice. Non più quelle belle e buone infingardaggini soddisfatte, col capo al sole e la pippa in bocca. La giovane moglie minaccia d'essere feconda, e i mesi di balia non son che di trenta giorni, e non fanno credenza. Fa egli allora di molte sottrazioni al suo preventivo, perchè, senza di ciò la masserizia soffrirebbe un vuoto ben difficile a riempirsi da operaj che non hanno che una mercede fissa, senza eventualità. Prima del matrimonio, l'operajo andava a teatro tutti i lunedì: ora ragion vuole ch'egli goda questo spasso sol una volta il mese. Gli abiti d'un giovane non devono più esser quelli d'un ammogliato. Questi non è più padrone di sè, come l'altro, e dalla sua condotta dipende il bene della moglie e de' figliuoli. Egli cura adunque di porsi in istato di soddisfare alle spese imprevviste, che non sono sempre le più lievi d'una casa. «La domenica, riposo e festa. Sei giorni d'un lavoro faticoso sono un nulla quando la domenica promette di far bello, e la paga del sabato è abbastanza rotonda. Quel giorno l'operajo si alza più tardi, computa con compiacenza i piaceri che la domenica promette; s'adorna degli abiti più belli; e della più bella cera, vestito di panno, col cappello sulle ventitrè, si rivolge verso le alture dei sobborghi: colla sua donna al braccio, e con orgoglio seguìto da due o tre bimbi, che vanno dritto dritto per la loro strada, senza mai guardarsi indietro. «Le passeggiate della domenica o del lunedì non impediscono all'onesto artigiano di pensare al suo avvenire ed a quello della famigliuola. Ogni mese va a deporre religiosamente alla Cassa di Risparmio la modica somma, che potè economizzare sul salario del lavoro, o limitando i suoi piaceri, o riducendo i bisogni alla stretta necessità. Fra quindici anni comincerà a raccogliere i frutti della sua buona condotta; mariterà decentemente le sue figliuole con una piccola dote; allogherà forse i suoi figliuoli, dei quali avrà fatto dei buoni operaj come lui; e quando le forze verranno a mancargli cogli anni, avendo avuto il senno di riporsi un tozzo pel tempo delle infermità, avrà il conforto di vedersi allo schermo della necessità, e di finir i suoi giorni onorati sotto al modesto suo tetto, invece d'esser costretto a bussare alla porta d'un ospizio, e chiedervi per Dio un asilo alla sua debole decrepitezza.» _Così sia_, vorremmo dire: ma invece dobbiam dire, _Così fosse!_ Un tempo fu di moda ritrar la vita sotto colori ridenti; l'idillio è vecchio quanto la società. Poi venne il momento che si adulava _al popolo_ cioè _al vulgo_, perchè si aspettava che diventasse re: e nulla è più triviale che questo blandire ai futuri regnanti. Pur beato se con ciò s'intendeva offrir un modello di quel che dovrebbe essere, e di eccitarlo ad essere. Supponiamo quest'intenzione al nostro autore; ma la statistica, coi numeri inesorabili, già allora rivelava un aspetto ben differente. Bulwer, che pur dipinse la Francia con colori rosati, trova fra gli operaj di Parigi ubbriaconi i cappellaj, i pittori e arti analoghe, soprattutto i conciatori e gli operaj di porto; viziosi e malviventi i sartori; i filatori di cotone tanto miserabili, da esser fino incapaci di vizj; gli ebanisti, pazzi pel bere, ma tranquilli; gl'imbianchini beoni e infingardi, gli scarpellini beoni e sventati. A Lione, la gran città manifatturiera, 100,000 che lavorano alle sete sono all'infimo dell'istruzione, della pulitezza, della moralità, e si abbandonano per nulla a quel furore, con cui si rivela il mal contento degli esseri degradati. Carlo Dupin valuta che venti milioni di Francesi non prendono mai cibo animale, ma solo patate e grano turco; sette milioni e mezzo mangiano poco o nulla di pane; ma orzo, riso, polenta gialla, castagne, legumi, patate in acqua, e niun altro combustibile che stoppie e scopa. Lorain, nel _Prospetto dell'istruzione primaria in Francia_, asserisce esservi cantoni di quindici o venti Comuni, dove non si rinverrebbe una scuola; e fin nel dipartimento di Senna e Loira v'è un Comune dove il notajo conduce sempre seco i testimonj, perchè non troverebbe chi sapesse firmare; e in molti Comuni del dipartimento di Lot e Garonna e dell'Orne interi consigli municipali sono di inalfabeti. In ricambio (lo sappiamo) v'è la sapienza universale dei Parigini, e i tesori profusi nella Biblioteca, nell'Istituto, nelle altre fondazioni, destinate a concentrare anche l'istruzione, mentre l'importanza consisterebbe nel diffonderla. Ma il dio della Francia è la gloria; e questi fatti possono chiarire sì le subitanee rivoluzioni, sì il valor vero del suffragio universale. Fortunatamente il nostro tema non ci conduce a snudare quella corruzione e quelle miserie, ad esagerare le quali si affinò l'ingegno di declamatori, che poi non avevano nè un suggerimento per alleviarle, nè un conforto per lenirle. Basta l'aver accennato questo tema a una democrazia non cianciera, non irritante, non rivoluzionaria: che confessa la schiavitù agli arbitrj non esser più avvilente della schiavitù all'ignoranza; che sa il miglior modo d'innalzare il popolo essere l'educarlo, e indurgli l'abitudine di una regolare applicazione e del contare sopra sè stesso fin dall'infanzia per combattere le difficoltà della vita; che infine non si propone di impedir le lagrime, inevitabile eredità originale; sibbene di farle meno acerbe, di non lasciar che tolgano il coraggio di convertirle in miglioramento od in espiazione. 1851. FRANKLIN Un giovinotto sui ventun anno s'avviava un giorno a Filadelfia, senz'altro in tasca che qualche spicciolo, con cui comprò tre pagnotte; e l'una si pose sotto un braccio, sotto l'altro l'altra, mentre sbocconcellava la terza. Veniva egli da trecento miglia lontano, per cercar fortuna; — cercar fortuna, senza amici, senza conoscienze, senza titoli, in popolosa città, dove ciascuno bada a sè e a spinger innanzi il proprio carro! Ma che capitali reca egli in un mondo che calcola ed invidia, che considera scapito proprio l'altrui vantaggio? Reca industria, economia, applicazione, perseveranza, osservazione. E basteranno a fargli passo, ve lo assicuro; e quel garzonetto riuscirà un insigne fisico, un fondatore della libertà del suo paese, e sopratutto un grand'uomo. Ma grand'uomo, intendiamoci, non come quelli dell'antichità e di Plutarco, che sterminano ventimila nemici in una giornata; che per zelo di libertà uccidono il proprio fratello, e assistono al supplizio del proprio figliuolo; che per magnanimo sprezzo del sentimento trafficano di schiavi e prestano le mogli; che per avidità di gloria sommovono, congiurano, conquistano, fanno stordire il mondo; insomma eroi, ma non uomini. Eh! ben altro è l'eroismo moderno, placido, paziente delle contraddizioni, aspetta la lenta ma sicura opera del tempo, calcola gli eventi, e sovratutto risparmia le lacrime e il sangue. Quelli erano fulmini che spaventano e colpiscono; questi sono fabbricatori di macchine a vapore, che con lunga opera le congegnano, finchè producano quegli effetti che s'ammirano e benedicono. Beniamino Franklin, il giovinetto che v'additai, era nato a Boston il 1706, tredicesimo d'una famiglia d'artigiani; e appena imparò a leggere e scrivere lo posero, di dieci anni, a far candele come suo padre. Il ragazzo vi s'applicava, ma ogni momento che potesse aver libero, correva al mare, e divenne spertissimo nuotatore e remigante; i pochi quattrini poi che sparagnava di bocca, li convertiva in libri di viaggi e di storia. Suo padre, crollando il capo sopra il _letterato di casa_, lo pose stampatore sotto un altro fratello, ove stette fin a ventun anno maneggiando caratteri e casse, regoli e torchi. E perchè vi lavorava di passione, tosto divenne abilissimo, e, che più gl'importava, potè dai fattori dei libraj con cui trattava, ottener libri, che leggeva a furia. Il _Saggio sui progetti_ di Foe, autore del _Robinson Crosuè_ e un volume scompagnato dallo _Spettatore_ di Addison, lo inclinano ad un'istruzione svariata ad una delicata morale, al veder in ogni cosa quali miglioramenti vi si può recare. E volle scrivere anche, e compose alcune canzoncine da cantare gli orbi per le strade, e gli furono lodate: ma fortuna sua, qualche amico sincero gliene disse la verità, e così lo salvò dal pericolo di restare un poeta cattivo, o, quel ch'è peggio, un poeta mediocre. Dalle costoro censure comprese la necessità di limar lo stile, e non farne, all'usanza di troppi, un affare del caso e come vien viene; e ripetè intorno a' suoi periodi quelle pazienti prove che i savj conoscono e i presuntuosi deridono: oscure e diuturne prove, che di poi sono compensate dalla precisione e facilità con cui si compone e s'è intesi. A sedici anni legge Locke _Sull'intelletto_, la _Logica_ di Portoreale, i _Memorabili_ di Senofonte, e ne impara a rendersi conto delle proprie idee e chiarirle. Quest'analisi volgeva egli sulla propria vita. S'impose un regime stretto di dieta: il maggior risparmio nel cuocere le patate e il riso; lasciare il vino per fare il serbo di qualche soldo e di sanità e robustezza più che i beoni e pacchioni suoi compagni, e procacciarsi stima fra questi come avviene di chi non si lascia mai trovare sprovvisto nè di danaro nè di senno, due cose che, mancando, rendono tanto spregevole, da che Sparta fu distrutta. Poi la virtù stessa analizzava, e la decomponeva ne' varj suoi elementi, come Neuton colla luce, Lavoisier coll'aria; e al fine della giornata, della quale con altrettanta esattezza avea distribuito i denari e le ore, esaminava sè stesso; quanti quattrini avesse speso fuor del necessario, di quale difetto si fosse corretto, a qual buona qualità avviato. E perchè la presunzione è uno dei più forti ostacoli al miglioramento, s'avvezzava a non dir mai — Ne son certo, Sta proprio così, Ci scommetterei;» ma — Parmi, Sarei d'avviso;» ad abolire sè medesimo per giungere al suo scopo; a lasciare altrui il fumo per ottenere il sodo; ad _abbassarsi a tempo_, come un vecchio gli aveva insegnato una volta che battè del capo in una trave; a confidarsi nella propria attività, sobrietà, e perseveranza. Suo fratello, lo stampatore, si pose in mente di pubblicare una gazzetta, la seconda che in America fosse; e Franklin vi traforò qualche articolo suo proprio, ma in istretto incognito, onde non farsi burlare. E perchè se ne ignorava l'Autore, il lodavano, e piacque; e potè darsi a conoscere. Che spine incontri l'onest'uomo sui primi passi della letteratura e del giornalismo chiedetelo a chi ne sanguina ancora; e non vi farà meraviglia se presto Franklin fu in lizza col fratello, col governo, cogli emuli; onde indispettito, come molti fanno, coll'_ingrata patria_, se n'andò, nell'arnese che dicemmo, a Nuova-York e a Filadelfia. Quivi, a forza di lavorare, fece incontro, ma qualche progettista, di quelli che trovano strada troppo lunga del far fortuna il lavorare, l'aver pazienza, e lo spendere sempre un soldo meno del guadagno, il consigliò a viaggiare a Londra: Londra il paese dei tesori e degli impieghi. V'andò: ma a Londra chi bada al forastiero che capita senza titoli e senza ghinee? Svaniti i castelli in aria, consumati i pochi avanzi, Franklin si trovò solo in quel caos immensurabile; solo, senza mezzi nè appoggi; e in amicizia e in amore e in protezioni provò quei disinganni che tanto costano, e che il debole avviliscono, al robusto finiscono a persuadere di non confidare che in sè. In fatto egli pose fiducia, non in poderosi amici e promettenti padroni, ma nelle proprie braccia, colle quali or tirava robustamente i torchi d'una tipografia, or i remi d'un navicello sul Tamigi, or insegnava a nuotare; e così guadagnava dì per dì il suo pane. Tornato a Filadelfia, pensò da senno ad acquistar denaro e riputazione; e l'un e l'altra conseguì col lavorare dì e notte, e viver sobrio, e dare buon esempio, e rispondere coi fatti alle detrazioni dell'invidia. Così potè rizzare stamperia (1729), menò moglie, e cominciò a mandar fuori l'_Almanacco di Riccardo Buonomo_, raccolta di consigli e verità tutte pratiche, espresse proverbialmente, e che più non escono di memoria, e s'applicano cento volte ai casi propri ed agli altrui: «La chiave che spesso si adopera conservasi lucida come un argento: non adoprata irruginisce. Così è del nostro spirito. «L'assiduità fa le più grandi cose col minimo tempo. Uomo che si alza di buon mattino e si corica per tempo, si mantien savio e ricco. «Chi sa lavorare, non muor di fame. La fame guarda alla porta dell'uomo laborioso, ma non ardisce bussare. «Non ti mettere i guanti allorchè hai da maneggiare la tua pentola. Gatta colle scarpe non ghermisce sorci. «L'imposta che ci mette addosso l'accidia è due volte quella del Governo; oltrechè la superbia la rende tripla e quadrupla la follia; e gli esattori non diffalcano manco un ette. «Ti lamenti che la vita è breve: ma il tempo è il filo di cui si tesse la vita; perchè dunque lo getti? «Volpe che dorme, non mangia galline. «Chi vive di speranza muore di stento. «Chi ha un mestiere, ha un campo: ha una carica chi ha una professione utile ed onorevole. «Non ho mai veduto un albero spesso trapiantato far gran rami, nè arricchirsi una famiglia che spesso muta focolare. Tre San Martini equivalgono ad un incendio. «Un vizio costa quanto due figliuoli. «Cucina grassa, testamento magro. La gola porta via la camicia. I pazzi imbandiscono, e i savj godono. «Chi domanda un prestito, domanda una mortificazione. La quaresima è assai breve per coloro che a Pasqua devono danaro. Meglio andar a letto senza cena, che alzarsi indebitato. «L'ambizione che pranza colla vanità, a sera digiuna col disprezzo. L'orgoglio fa colazione coll'abbondanza, desina colla povertà, cena coll'infamia. «L'esperienza tiene una scuola che costa assai; ma è la sola dove i pazzi possono imparare. «La strada che mena alla fortuna, se volete saperlo, è piana, facile come quella che mena al mercato. Onde seguitarla due cose bisognano, assiduità e sobrietà; o in altri termini, non gittar mai il tempo nè il denaro, e dell'uno e dell'altro fare il miglior uso possibile.» La filosofia di Franklin, come vedete, è il deismo di Locke. Shaftesbury e Collins l'avevano tratto nello scetticismo e nell'indifferenza di ciò che sta di sopra dei tetti; onde va senza dogmi, come senza passione; stretta probità, ma nessuno slancio, come quel vaso da lui inventato, ove la fiamma s'abbassa, invece d'ascendere. Eliminando dalla morale l'idea divina, tolse il tipo supremo del bello e del giusto, la chiave maestra di tutte le teoriche, e ne fece una dottrina buona per un uom pacifico, spassionato, cresciuto da genitori profondamente religiosi come lui, ma inetta contro l'urto delle passioni. Chi non sente un tale difetto nella Scienza di _Ricardo Buonomo_? Egli stesso in più matura età se ne accorse: ma se all'analisi sua sfuggiva quest'idea così complessa e così semplice della divinità, non però si scostava mai dalla morale, arida qualche volta, ma sempre retta, amica dell'uomo, senza robusti sacrifizj; non atta a creare eroi, bastante a formare onest'uomini. Poi sempre dritto sulla pratica applicazione, alletta la curiosità coi titoli medesimi delle opere sue, e colla brevità, giacchè gli scritti per esser utili conviene sieno brevi. E al modo d'un divino modello, piacesi delle parabole, forma tanto popolare. Or racconta di quand'egli era ragazzo, e che, avendogli i suoi per una festa empito il borsellino egli corse a vuotarlo nella compra d'uno zufolino Un bel balocco, ma tutti gli dicevano ch'e' l'aveva pagato troppo caro. Dopo d'allora, quando vedeva taluno spendere per farsi nominare, o sprecar la pace e la libertà per ottenere un grado, o rovinarsi per acquistar l'aura popolare, e sciupare ingegno e forze per correre dietro alla voluttà, gli dicea; — Lo zufolino costa troppo caro.» Ora dà l'arte di fare sogni piacevoli, qual è l'andare a letto con una coscienza netta. Or dagli scacchi trae della bella e buona morale. Or racconta d'uno che avea una gamba ben focilata, e l'altra scarna e zoppa; e scontrandosi con alcuno o venendo in una conversazione, badava a chi ponesse mente alla migliore e chi il berteggiasse della gamba infelice, e questi ultimi schivava, peste della società. E poichè ciascuno abbiamo la nostra gamba bella e la deforme, sprezziamo quegli uggiosi maligni, che sempre dal nostro peggior lato ci ravvisano. Egli medesimo talvolta insegna una lampada economica, ed è il mettersi a letto presto, e presto levarsi; talvolta il copia-lettere, che risparmia tempo e pericolo di fallare: ora con bicchieri combina un'armonica: ora insinua d'ingrassare col gesso il trifoglio, e perchè non gli danno retta, egli lo sparge in modo da scrivere _Questo trifoglio fu ingessato_, e le lettere anche un pezzo da poi si leggono, distinte dal maggior rigoglio dell'erba. Or inventa i caminetti che serbano il suo nome, per consumare poca legna e scaldarsi assai; e ricusa il privilegio d'inventore, dichiarando volere sopratutto il bene generale. Qual cosa più insipida d'una tornata accademica? qual cosa più insulsa d'una conversazione? In quella si coglie noja fra gente raccoltasi onde far parata di retorica attorno a qualche cognizione e averne applauso prestabilito da un uditorio disattento mentre con risparmio di tempo e vantaggio della ragione si potrebbe ottenerne un giudizio posato col darla loro da leggere. Nella conversazione poi si sparpaglia l'ingegno e lo spirito in insulsi complimenti, in frivolo chiacchericcio, in illogiche maldicenze, in una politica senza fondamento, in una scienza assurda, nel palleggiarsi frizzi pungenti sotto l'aspetto di benevolenza, e scandagliare i fatti dell'amico sotto pretesto di mostrarne interesse. Si dirà per questo che sia impossibile una tornata accademica ove la mente vantaggi, una conversazione dove il cuore non si pervertisca nell'abbassamento del carattere? Eppure è col contatto che la favilla si sviluppa, come nella pila elettrica, come nel battere del focile; e il ricambio di parole rischiara le idee, quand'anche non le accresce, obliga ad esser chiari, e lasciar via le affettazioni, le lungagne; a tollerar l'opposizione, ad acconciarsi in diversi punti d'aspetto. Per quanto la solitaria meditazione sia necessaria al progresso del sapere, e questo non proceda se non per l'operosa concentrazione individuale, resta però sempre vero che l'ingegno si sviluppa meglio per la conversazione che per qualunque altro mezzo; ed anche quel che si impara, niuno lo sa davvero se non quando lo abbia detto. Franklin, per quanto rincresca il non veder mai qualche cosa di elevato in mezzo a tanta positività di buon senso, ci pare sempre più degno d'esser presentato all'imitazione del nostro secolo, il quale, tutto dedito alla materialità, sarebbe un gran che se potesse, come lui, possedere quella dose di criterio che si guarda dagli entusiasmi d'ira o di applauso, che non si lascia trascinare dalla corrente, che coltiva quelle medie proporzionali, in cui secondo il detto di quel Greco, somma forza riposero gli Dei. Ora egli, in sua giovinezza, istituì nella sua patria un circolo; — noi all'inglese lo chiameremmo un _club_; egli inglese, alla spagnuola lo chiamava una _giunta_; tanto è comune il creder migliori le cose, almeno le denominazioni forestiere. E con diversi amici vi s'adunava ogni venerdì sera, non per mormorare, non per spoliticare, nè per legger una dissertazione; ma per discutervi sopra un punto prestabilito. Ciascuno vi si preparava o coll'esame della materia, o colla conoscenza de' libri che ne trattavano; ed egli pretendeva (cosa incredibile perchè impossibile) che nessuno vi portasse amor di controversia, nè ambizione di trionfi. Lasciamo ai curiosi il cercare gli atti di quella fortunatamente non accademia; quel che a noi piace riferire si è che prima di aprire la giunta si proponevano le ventiquattro domande seguenti: I. Nelle ultime vostre letture avete trovato qualcosa di notevole, e tale che meriti esser comunicato alla giunta, particolarmente in fatto di morale, storia poesia, fisica, viaggi, arti meccaniche, od altre parti dello scibile? II. Quale istoria, degna d'esser conosciuta, avete letta di fresco? III. Sapete che qualche cittadino di recente non abbia fatto onore a' suoi affari, e qual cosa udiste sulla causa del suo dissesto? IV. Avete udito che qualche cittadino sia prosperato? e per quali mezzi? V. Avete saputo per quali vie un uomo di qui o d'altrove sia arrivato ad arricchire? VI. Sapete che qualche vostro compatrioto abbia fatto una buona azione, degna d'esser lodata e imitata, commesso qualche errore in cui importi essere avvertiti e difesi? VII. Quali tristi effetti della intemperanza avete osservati o uditi? quali dell'imprudenza, della violenza d'altri vizj o stravaganze? VIII. Quali buoni effetti della temperaza, della prudenza, della moderazione, o d'altra virtù? IX. Voi o qualche vostro amico foste malato o ferito? e quali rimedj adopraste? e con quale successo? X. Conoscete alcuno che deve tra poco fare un viaggio per terra o per mare, e sapete che s'abbia opportunità di far qualche invio col suo mezzo? XI. Pensate voi a qualche oggetto, in cui la giunta possa rendere servigio all'umanità, al paese, agli amici, ai membri suoi? XII. Avete inteso che sia arrivato in città qualche straniero di merito? qual cosa udiste od osservaste del carattere e del merito di lui, e pensate che la giunta possa incoraggiarlo o fargli alcun piacere? XIII. Conoscete qualche giovane di merito che cominci e sia di fresco stabilito, e al quale la giunta possa dar di spalla in qualche maniera? XIV. Nelle leggi del vostro paese avete notato qualche diffetto, di cui gioverebbe provocar la correzione da parte de' legislatori, o qualche ordine profittevole che vi manchi? XV. V'è caduto sottocchio qualche attentato alle giuste libertà del paese? XVI. Alcuno ha intaccato la vostra riputazione? E che cosa può far la giunta per difenderla? XVII. Avete ricevuto da alcuno un'ingiuria, di cui possa la giunta procurarvi riparazione? XVIII. Avete inteso che la fama di alcun membro della giunta sia stata intaccata? e che cosa faceste per difenderla? XIX. V'è alcuno la cui amicizia vi sia venuta meno, che possa esservi procurata dalla giunta o da alcun membro di essa? XX. In qual modo la giunta o alcun dei suoi membri può coadjuvare ai vostri onorevoli divisamenti? XXI. Avete alla mano qualche affare d'importanza nel quale crediate possa giovarvi il parere della giunta? XXII. Quali avvantaggi avete ricevuto da persona non presente? XXIII. V'è qualche cosa in fatto d'opinione, di giustizia o d'ingiustizia, che udreste volentieri mettere in discussione? XXIV. Nelle regole e nell'andamento della giunta vedete qualche cosa fuor di proposito, che abbisogni d'emenda? Rileggiamo questi punti: supponiamo che sopra di essi s'aggiri la conversazione famigliare e la accademica; e conveniamo che potrebbonsi rendere utili e il circolo e le tornate. Il difficile per un uomo nuovo è far il primo scudo e il primo passo; il resto viene da sè. Ben presto Beniamino è deputato all'assemblea generale di Pensilvania (1747), poi (1753) direttore delle poste; e in paese nuovo dove tutto era a fare, pensate quanto giovasse un uomo che sempre avea la mente a sperimentare e cercar ciò che giova di più e costa di meno! Istituì un gabinetto letterario, un corpo di pompieri, un'associazione di volontaria difesa contro gl'Indiani confinanti, mostrando di continuo l'importanza di raccogliere le piccole forze per ottenere i grandi effetti. Insomma egli diviene il rappresentante spirituale del suo paese; e benchè sia ancora lo stampatore, in effetto n'è il re, come voi siete tuttora il bambino che vostra madre cullava, eppur camminate, pensate, operate, e fors'anche ragionate. Ma v'è lavori che non procedono se non per le solitarie meditazioni, e tali furono quelli di Franklin sull'elettricità. Da alcun tempo gli studiosi eransi rivolti con ardore a questa meravigliosa forza della natura; ma la scienza di essa, limitata nei suoi risultamenti, nulla nelle applicazioni sue, oggetto di mera curiosità, era considerata come la parte più speciale della fisica. Nè si sarebbe preveduta la sua importanza neppur quando, nel 1746, Musschenbroeck e Allemand aveano scoperto la bottiglia di Leida, e semplificatala Watson, che imprese anche a misurare la rapidità di questo, che diceasi fluido. Ora Franklin s'applicò a spiegare quei fenomeni in una serie di lettere, che la Società Reale di Londra ricusò inserire nelle sue _Transazioni_ pei troppo soliti puntigli e gelosie delle accademie, ma che tosto furono tradotte in tutte le lingue. Egli restituì all'elettricità il carattere di scienza fisica, mentre di fisiologica parea darglielo la scossa della bottiglia. Dapprincipio supponeva anch'egli due elettricità, la vitrea e la resinosa; poi s'accertò che una sola e medesima era or positiva or negativa. L'uomo dell'analisi sottopose a questa anche la boccia di Leida, e ne dedusse la sua teorica dell'elettricità, presentata poi sotto veste matematica da Epino e da Cavendish, e che consiste nel supporre che un solo fluido elettrico sussista, le cui particelle si respingono fra loro, mentre invece sono attratte dalla materia. Il perfezionarsi di questa scienza fece ripudiare molte delle sue ipotesi. Ma continuando, pose in sodo due insigne dottrine: disperdersi l'elettricità per mezzo delle punte, sicchè non può accumularsi in corpi accuminati; il fulmine prodursi da esuberante elettricità nell'atmosfera, cioè essere lo stesso il fluido che cagiona gli scherzi della bottiglia di Leida, e quel che saetta i palazzi e le montagne. Ecco dunque novamento dall'analisi sua, dissipate quelle illusioni fantastiche, per cui alle sgomentate fantasie il fulmine pareva alcunchè sopra natura. I quali due principj accoppiando, pensò potersi colle punte scaricare l'atmosfera del fluido eccedente; dal che vennero i parafulmini. Per sottomettere l'ipotesi allo sperimento gli mancano osservatorj? ed egli arma di punta un acquilone di carta e mandatolo verso le nubi, ottiene la scintilla; e dal trastullo puerile deduce la pratica che guiderà le saette con tronche ali a lambire i piedi dell'uomo: il più debole essere del creato per la forza del corpo, il più sublime per lo slancio dello spirito. Queste considerazioni, badate bene, non venivano fatte da Franklin, il quale vedeva, osservava, sperimentava, deduceva, e nulla più. Nate questioni fra la metropoli e le colonie inglesi d'America, che cominciavano a guardarla di mal occhio, come un figliuolo cresciuto che si sente capace di reggersi da sè, Franklin fu mandato a Londra (1757), da molti paesi nortamericani nominato loro rappresentante. Sua missione era di impetrare che fosse cassato l'atto, pel quale la metropoli voleva imporre una tassa nuova e non consentita dalle colonie; e ottenne di essere ascoltato in contraddittorio avanti alla Camera dei Comuni (3 febbrajo 1765). Ivi con fermezza, precisione, facilità risponde alle interrogazioni; informa sulle varie notizie chiestegli intorno al commercio, alle finanze, alla politica, all'amministrazione; e consegue la sua domanda. Così crebbe in istima e in cognizione degli uomini e delle dottrine; e l'Accademia, che ne aveva rifiutato gli scritti volle farsi onore coll'annoverarlo tra' suoi. Futili compensi a una gloria già fondata, quanto potrebbero essere fecondi incoraggiamenti ad una nascente. Aveva Franklin procurato insinuare alle colonie dell'America inglese di darsi un governo unico, sotto la presidenza del re della Gran Bretagna: ma come avviene dei consigliatori di partiti giusti, parve realista ai liberali, repubblicano ai realisti, fu imputato di americano a Londra, d'inglese in America. Ma egli, vedendo per che via s'era messa l'Inghilterra, previde che l'oppressione condurrebbe la libertà, e nol tacque agli amici ed ai nemici. Pure egli voleva sempre si salvassero tutte le convenienze, si adoprasse la legalità, arma prima degli oppressi che vogliono emanciparsi. Le conciliazioni non valsero, e nacque la rivoluzione che doveva aprire un'era nuova nella storia del mondo, ed assicurare alle opinioni la prevalenza sopra i fatti. Dieci anni passati in contrasti politici avevano già avvezzati gli Americani ad occuparsi de' fondamenti della legislazione e dei governi, la guerra colla Francia aveva dato occasione di conoscere le proprie forze: d'altra parte le rivoluzioni fan gli uomini. Franklin avea cominciato dal procacciare che i suoi acquistassero fama di gente onesta, equa, pacifica, vero modo di far ricadere il torto sugli oppressori. Aveva egli fondato il giornale, che grand'efficacia ebbe sull'avvenire del suo paese: ma uno dei suoi abbonati gli dichiarò: — Voi difendete con troppo calore gl'interessi americani; questa polemica non mi piace; rinunzio all'abbonamento.» E Franklin: — Mi sa male assai di non ottenere la vostra approvazione: ma io non posso deviare dal cammino propostomi». Alcune settimane di poi, Franklin lo invitò a cena. Quegli si trovò in un'abitazione modestissima ma pulita: una fante stende sulla tavola un tovagliuolo bianco, vi mette de' meloni, burro, lattughe, un piatto di pere, una fiala d'acqua, una bottiglia di birra, e un pezzo di formaggio, e nient'altro. Battono, ed ecco arrivare il dottor Rusk, famoso medico: poi Stancock intelligente negoziante inglese, poi Washington; personaggi che dovevano poi divenire immortalmente illustri, e già allora godeano riputazione di gran patrioti. Si assisero lieti a una cena così frugale, e rimasero a discorrere fino a mezzanotte. L'abbonato al domani ringraziò Franklin d'averlo messo a parte di questa riunione, e della lezione datagli silenziosamente. Un uomo che può invitar i primi cittadini a un piatto di lattughe e formaggio, non può che seguire onestamente la sua linea politica. Fin dal 1773 diceva egli a' suoi concittadini: — Non troppa fretta, ragazzi, e badate che c'è temporale in aria. Siam in istato d'incremento, e poco andrà che ci troveremo forti tanto, da non potercisi negare veruna domanda. Una lotta prematura ci potrebbe arrestare, od anche respingere un secolo indietro. Che? tra amici si vien forse a duello per ogni minimo torto? Così fra le nazioni ogni ingiustizia non deve portar guerra e rivolta da governanti a governati. Per ora ci basti sostenere i nostri diritti in ogni occasione, senza cederne un solo, senza trascurare verun modo di renderli cari ai nostri concittadini. Sovratutto manteniamo in buona armonia le provincie, affinchè l'Europa s'accorga che abbiam qualche peso anche noi negli affari. Con tale condotta in poc'anni avremo acquistato definitivamente quanto possiam desiderare di potere e d'indipendenza.» L'avran chiamato un pusillanime, un dalla parrucca, un retrivo: ma quando la pazienza stancata giustifica l'insurrezione, eccovelo primeggiare sui tre teatri di quell'unica azione, America, Londra, Parigi. Alle belle prime mostra coraggio con iscritti satirici popolari. _L'editto prussiano, L'arte di fare di un grande impero un piccolo._ Col venire in Inghilterra scompiglia i disegni dei ministri, e ne cresce gl'imbarazzi. Di là egli avvisava i cittadini de' segreti preparativi, e trasmise lettere del loro governatore Hutchinson, che egli aveva osato intercettare, e che rivelavano la mala disposizione verso di essi; e di là reduce (1775) ripeteva: — Vi trattano con riguardi perchè vi temono; se cedete, vi avranno in conto di ribelli; armatevi.» Così, venuta l'opportunità, dava il segnale dell'insurrezione egli che, sin quando non fosse matura, l'aveva disconsigliata. Guidarsi moderatamente in una rivoluzione è immensa lode, poichè men coraggio si richiede a resistere in campo a nemici che ad osare spiacer agli amici. E Franklin la meritò, sempre disposto insinuando la calma, ma sempre ad affrontare coi compatrioti la procella. Stranio alla guerra, fu adoperato ne' consigli e nelle trattative per estendere l'insurrezione, per assodarla colla concordia, per persuadere che le provvidenze a mezzo non vagliono nei gravi casi, e far decretare l'indipendenza del suo paese (1776). Allora uomini quieti e virtuosi, come erano i coloni, cresciuti nelle piantagioni e nelle botteghe, stesero quel preambolo fulminante, ove dichiaravano i diritti dell'uomo e del cittadino; gente di pratica applicarono al caso politico i principj astratti della filosofia, e dissero: — «Quando, nel volgere degli umani eventi, ad un popolo diventa necessario sciogliere i vincoli politici che lo univano ad un altro, e prendere fra le nazioni del mondo quel posto distinto ed eguale a cui le leggi naturali e divine gli danno diritto, il rispetto dovuto all'opinione richiede ch'e' ne chiarisca i motivi. Noi teniamo per evidente che gli uomini furono creati eguali, e dal Creatore dotati d'inalienabili diritti; tra questi sono la vita, la libertà, la ricerca del proprio meglio; che per assicurare questi furono istituiti i governi, il cui legittimo potere deriva dal consenso dei sudditi; che qualunque volta una forma di governo contraria tali fini, il popolo ha diritto d'alterarla e abolirla, e fondarne una nuova, appoggiata su tali principj, conformandola nella guisa che più semplice gli sembra alla sua felicità e sicurezza. La prudenza prescrive di non cangiare per frivole e passeggiere cagioni un governo da lungo tempo stabilito; e l'esperienza ci mostra che gli uomini sono più inclinati a sopportar i mali finchè tollerabili, che non a farsi giustizia da sè coll'abolire gli ordini cui da lunga stagione sono abituati. Ma quando una protratta serie di abusi e d'usurpazioni, diretta invariabilmente a un fine, rivela il disegno di ridurle sotto assoluto dispotismo, è dover loro di distruggere siffatta forma di governo, e provveder con nuovi ordini alla futura loro salvezza. Tale fu appunto la paziente tolleranza di queste colonie, e tale la necessità che ora ci astringe a cangiar l'antico sistema di governo.» Non ci vedete voi, se non la mano propria, lo spirito però che dettava il _Riccardo Buonomo_? non è la stessa maniera di moderazione, di esperienza, di buon senso naturale? Quella simpatia che le azioni belle e generose trovano sempre nei Francesi, indusse gli Americani a cercarne l'amicizia, e Franklin vi fu spedito (1778). Egli non amava la Francia; e al tempo della guerra del Canadà, quand'essa, secondo è suo costume qualora le torna conto, istigava i coloni contro i suoi dominatori, egli aveva scritto una canzone che diceva: «Noi abbiam una madre vecchia ch'è divenuta brontolona; ci batte come ragazzi che dicano ancora mamma e babbo; non si ricorda che siam cresciuti, e che possiamo pensare da noi; e nessun lo negherà. «Se non obbediamo in ogni caso, rizza tanto di broncio e salta in collera; a tratto a tratto ci dà una buona stramentata; e nessun lo negherà, lo negherà. «Sopportiamo alla meglio il suo mal umore, ma perchè tollerar le ingiurie de' servi suoi? Quando i servi fanno sciocchezze, si ripagano col bastone; e nessun lo negherà, lo negherà. «Ma voi, tristi vicini (_i Francesi del Canadà_), che vorreste separare il figlio dalla madre intendetelo bene chiaro: essa è l'orgoglio nostro; e se voi l'attaccate, tutti ci porrem dalla sua: e nessun lo negherà, lo negherà.» Eppure a Parigi fu veramente il trionfo di Franklin. Scriveva egli stesso: — Demostene, interrogato qual fosse la qualità principale dell'oratore, rispose: _La prima è l'azione_, _la seconda l'azione_, _la terza ancora l'azione_. Così io per l'uomo pubblico dico che è l'apparenza, l'apparenza, e ancora l'apparenza. Per riuscire all'effetto è uopo si creda alla parola e alla capacità tua: stabilita una volta quest'opinione, ogni indugio, ogni ostacolo, ogni difficoltà andranno in dileguo.» Or come le apparenze cattivino i Francesi non è chi l'ignori, onde Franklin pose in ciò ogni suo studio. Fisico, teista, tollerante, satirico, andava egli grandemente pel verso di quella nazione: uom del popolo, giunto da per sè solo alla gloria e alla fortuna, difensore dei diritti in mezzo ad una nazione stanca del potere assoluto, fedele all'origine e alla missione sua fin nelle minime particolarità della vita, blandiva le passioni più generose, favoriva le migliori speranze, domandava libertà per l'America, la portava per l'Europa; — la libertà; che non contaminata per anco di tanti delitti, era il palpito di tutte le anime nobili. Pensate come dovessero levarlo a cielo! quegli eroi in zazzera, e collo spadino cesellato e damascato, non saziavansi d'udire questo filosofo dal cappel tondo, dai capelli lisci, dall'abito bruno, dalle scarpe senza fibbie, e dai calzoni allacciati col cuojo, e i guardinfanti voluminosi, e le tabacchiere d'oro, e i sbilitanti flabalà s'eclissavano a fronte della stamina e della scatola di radica dell'Americano. E tutti si esaltano di lui, lui precursore di nuova età, simbolo vivo delle idee progressive; ma egli, freddo osservatore, egli mercante, non si lascia trasportare, non giudica per fantasia, ma pesa e misura e conchiude. Nel secolo in cui si proclamava l'analisi, benchè vi si facessero le sintesi più ardite che mai, egli aveva analizzato il fuoco, i suoni, la luce, i governi, le finanze, la virtù; operando sull'uomo, non altrimenti che sopra la materia nei fisici esperimenti. Con questo egli acquistavasi l'amor de' filosofi, desposti allora dell'opinione. Unendo il contegno di Focione e lo spirito di Socrate, in mezzo alla frivolezza parigina sembrava un savio dell'antichità, e beato chi fosse ammesso alla sua compagnia! Considerandolo come tipo della nazione sua, la trovarono matura alla libertà: i savj ammiravano in lui l'attività paziente del genio che s'ostina in una grandiosa scoperta; i filosofi lo consultavano sull'uomo e sulla società; il popolo leggeva il suo _Riccardo Bonuomo_ e _l'Arte di farsi ricco_[13]; le donne amavano quell'ingenuità; ingenuità di pura apparenza, giacchè egli metteva a profitto la sua popolarità, e mentre il credeano un semplicione, egli guardava le triche de' briganti e degli ambiziosi, quel misto di magnificenza, e negligenza, quell'ostentar maggiormente quando i mezzi erano minori, quel ripetere certe parolone, che sonano di più perchè vuote. A lui veniva _un certo_ Mirabeau nobile, a far declamazioni contro la nobiltà; _un certo_ Marat a mostrargli una Memoria sul fuoco elementare; altri gli progettava il facile modo di devastare le coste dell'isola Britannica, altri una macchina che andrebbe senza motore, un terzo il modello di vestire e armare usseri come se fossero viaggiatori. E Franklin udiva, e rideva di sottecchi; rideva principalmente delle costituzioni e riforme universali ch'erano di moda, e che alcuno gli presentava alla sera perchè la mattina ne dicesse il giudizio. A Passy abitava una casetta con un giardinetto, tutto in diminutivo; e v'andava il fiore de' cittadini. Chi entrasse nel suo studio, vedea libri per tutto, un seggiolone, cui a volontà dava un moto ondulatorio per ninnarsi; di sopra, un ventaglio ch'egli agitava col piede; accanto, un bastone a gancio per afferrare i libri più alti senza scomodarsi: circostanze veramente strane per dipingere all'occhio degli esagerati, un Bruto ed un Timoleone moderno. Qualche volta ad un rivolo agitato dal vento si accostava con una verga, e con gesti da mago scotendola sopra l'acqua la facea calmare, e agli attoniti filosofi spiegava ciò essere effetto di olio che da quella verga spargeva sull'onde. Qualch'altra pigliavasi la beffa di cotesti filosofi, contraffacendone le frasi o i paradossi; e a Morellet scriveva le lodi del vino: gli uomini prima di Noè nol conoscevano, e perciò traviarono; scoperto che fu, derivarono da esso le parole _divino_, _divinità_, _indovinare_, parole che, contro Gebelin, provano esser antico il francese; e con disegni mostrava che il fine era provvidenziale di Dio nel formar il gomito stato che l'uomo potesse bere il vino con maggior comodità, che non avrebbe fatto se più corto il braccio o più lungo. Fin alla gloria, l'attrattiva più lusinghiera per le anime nobili, pareva egli indifferente; mentre i Parigini ne facevano l'idolo loro, egli si paragonava alla bambola, che i Parigini pettinavano, acconciavano, coronavano. Gente vogliosa di combattere per la causa repubblicana veniva offerirsegli, ed egli rideva di quell'entusiasmo, senza però lasciar scorgere che lo credeva inutile. Pei molti che gli domandavano lettere di raccomandazione pel suo paese, avea sbozzato questo formolario: — «Signore, il latore della presente, che viene in America, mi prega di dargli una commendatizia, benchè io non conosca nè lui nè il suo nome. In quanto spetta alla virtù e meriti suoi, vi rimetto a lui, che certo li conosce meglio di me. Del resto usategli tutte le pulizie che merita uno straniero ignoto, e tutti i favori di cui si mostrerà meritevole.» Intanto però lo trovavano sempre colla generosità, col progresso. Parlasi dell'innesto del vajuolo? è de' primi a sostenerlo. Piantansi le patate? siede accanto di Parmentier al banchetto, non servito che di questi tuberi. Se Mesmer ostenta i suoi miracoli, egli è scelto a chiamarli alla prova dell'esperienza, e veda quanto debba attribuirsi all'influenza dell'immaginazione. Se Mongolfier fa i primi esperimenti d'aeronautica, egli vi assiste, e a quei che domandano «A che serve?» risponde: «A che serve il bambino appena nato?» A Voltaire, idolo del tempo, a Voltaire, rappresentante dello scetticismo metafisico-religioso, egli, rappresentante del genio pratico e dello spirito politico e morale, presenta il suo nipotino perchè il benedica, e quegli il fa, dicendo: — Dio e la libertà: ecco l'unica benedizione conveniente al nipote di Franklin.» Ma Voltaire credeva più alla libertà, o più a Dio? Così condiscendendo altrui, qual meraviglia se ottiene gl'incensi universali? In una festa da ballo è scelta la più bella fra trecento donne, che sulla fronte del filosofo americano deponga una corona e un bacio; e dappertutto vedonsi i suoi ritratti, con quel verso famoso di Turgot, che parve così vero, benchè contenga due bugie: _Eripuit cælo fulmen, sceptrumque tyrannis._ Qui giace Franklin. Breve pietra accolse Chi ai re lo scettro, a Giove il fulmin tolse. Or tutto questo che serviva alla sua missione? Che serviva? Non v'ha egli detto che vuolsi apparenza e ancora apparenza? Il buon Luigi XVI non sapea che farne di questo re repubblicano, e dicono adoperasse il ritratto di lui ad un uso ingiurioso: ma dovette sorbirselo. La stessa figlia di Maria Teresa e sorella di Giuseppe II dovette chinar la fronte all'opinione così universale; e si trattò con Franklin come scienziato e come uomo, prima di riconoscerlo ambasciatore. Fu ben il miracolo della rupe di Mosè il vederlo, colle sole qualità personali, cavar alla Francia oberata tre milioni in prestito nel 1779, altrettanti nel 81, quattro nel seguente anno, oltre a sei di puro regalo datigli dal re. Così la Francia favoriva l'americana libertà coll'entusiasmo con cui, poc'anni prima, correva a comprar azioni alla banca di Law, e pochi anni dopo a vedere tagliar teste; e la Corte, trascinata da illusioni generose, o spinta dall'opinione, intraprendeva una guerra, contraria non solo ai suoi sentimenti, ma a' suoi proprj interessi; scassinava l'autorità monarchica; preparava il fallimento nazionale. Ma intanto la causa della patria e della libertà trionfa; gli Stati Uniti d'America offrono un modello nuovo alla posterità; e quando Franklin torna di Francia (1785), chi potrà dire le feste con cui fu trionfalmente ricevuto in quella città, ove sessant'anni prima era entrato con una pagnotta per braccio ed una al dente? Ivi egli continua al ben del paese. Propostasi la costituzione, dice: — Io l'adotto con tutti i suoi difetti, perchè credo ci bisogni un governo generale, e che non v'ha forma alcuna di governo che non possa essere un bene, se saviamente amministrata»; si applica a correggerla ed assodarla, secondo i consigli del tempo e dell'esperienza; e se questa gli mostra che errava nel pretendere l'unità del corpo legislativo, ei si ritratta, come già erasi ricreduto a proposito dell'elettricità vitrea e resinosa: quando parla ne' consigli, non disserta, ma ragiona: fonda una società, per migliorare la sorte dei carcerati, una per abolire la tratta degli schiavi; e per combattere le ragioni con cui altri la sostengono, egli manda fuori l'elogio del governo algerino e della pirateria: nuovo saggio di quell'arguta ironia alla socratica che spira in tutti i suoi scritti, e che non è intesa se non dove colti gli ingegni, fino il sentimento, esercitata la regione. O Catoni suicidi; o Attici spiranti di volontaria fame, o Vespasiani volenti morir in piedi, traete ad osservare la morte dell'eroe moderno. Il 17 aprile 1790 vede, senza terrore e senza ostentazione, avvicinarsi il fine de' suoi ottantaquattr'anni, esclama, — Rifatemi il letto, ch'io muoja comodamente»; e spira. Nel suo testamento lasciava capitali che, col tempo accumulandosi, servissero poi a grandi opere pubbliche; altre piccole somme da prestare, per ajutar i faticosi passi di chi comincia la carriera o vuol effettuare qualche nobile disegno; al generale Washington legava il suo bastone di pomo selvatico, migliore di uno scettro. Addio dunque, eroi magnanimi e temuti; eroi della spada e della fierezza! Oggi sottentrano le classi laboriose, gli eroi mercadanti e calcolatori, e la sostanza e il positivo; e nuova età vi annunzia questa limpidissima intelligenza senza poesia, questa onestà senza elevatezza. Sceverati da tutte le illusioni il mondo e i mondani, le azioni e le credenze, Franklin volle di là dalla tomba prolungare l'attico sorriso, e al sepolcro suo destinò quest'epitafio da libraio: IL CORPO DI BENIAMINO FRANKLIN STAMPATORE COME LA COPERTA DI UN LIBRO VECCHIO DA CUI SIENO STRAPPATI I FOGLI E CANCELLATO TITOLO E DORATURE QUI GIACE PREDA ALLE TIGNUOLE. NÈ PERÒ L'OPERA ANDRÀ PERDUTA MA RICOMPARIRÀ SECONDO CREDEVA IN UNA NUOVA EDIZIONE RIVEDUTA E MIGLIORATA DALL'AUTORE. 1836. INDIGNARSI E SOCCOMBERE PERSEVERARE E RIUSCIRE E' fu già tempo... come direbbe un novelliere; oppure — C'era una volta... come cominciava nostra nonna le panzane, ci fu un giovane inglese, di nome Tommaso Chatterton, miracolo di precoce talento, che a 16 anni faceva versi come i migliori poeti. Vedendo che l'oscurità del suo nome mal serviva al bisogno ch'egli aveva di denaro o di gloria, finse avere scoperto poesie di antichi, e il mondo festeggiò quelle pubblicazioni come un tesoro trovato. Sì; ma intanto egli non guadagnava tampoco di che vivere; i libraj non volevano dargli commissioni, perchè non poteano annunziarle accompagnate da titoli O da un nome famigerato; qualche signore lo faceva scrivere, ma lo retribuiva così a miseria da non bastargli a mangiare; il ministero, povero lui se dovesse assistere tutti quelli che si credono genj! E l'età passava; e la gloria non veniva; e la donna ch'egli amava non poteva sperare di possederla. Nel dispetto del successo fallito, nella mortificazione della gloria mancatagli, perdè la speranza e si uccise. Allora il mondo a compiangerlo, a raccorne ogni frammento, a deplorare un genio perduto; e Chatterton fu ricantato per tutto il mondo come un esempio de' patimenti del genio incompreso. Di que' suoi compianti noi abbiamo in casa il riscontro nei desolati versi di Giacomo Leopardi e nei dispettosi di Ugo Foscolo; n'abbiamo la scimmieria in quegli autori d'articoli e d'opuscoli, davanti ai quali l'uomo studioso incrocia le braccia al petto e abbassa la testa esclamando: — Oh s'io sapessi la centesima parte di quel che costui crede sapere!» È ben ragione dunque che piangano i tristi compensi che dà il mondo alla tanto loro dottrina e trovino indegno che non si pensi a collocarli nel Pritaneo; e nutrirli alla greppia del pubblico bilancio, affinchè scrivano opuscoli e articoli di giornali. Glorie d'Italia e dell'umanità, noi v'inchiniamo le ginocchia della mente: ma collochiamo fra le piaghe, piuttosto fra le cachessie del secolo, quel credersi gran cosa, quel lamentarsi sempre della società e imputarla di tutti i nostri mali: quel trovare da per tutto ingiusti ed egoisti; quella nessuna fermezza nel volere riparare ai proprii danni, quel vagolare in un amor febbrile che viene da eccitamento de' sensi e passa col soddisfarli; quella dissipazione negli studi; quelle precoci disillusioni; quella scarsa fede in Dio, nel prossimo, nella propria perseveranza. Nè pensiamo adempia il dover suo la letteratura che mette l'uomo in faccia alle miserie sociali, e al proprio nulla; snervandolo coll'intenerirlo; sviluppandogli una falsa sensività; e fra questo incessante declamare che rivela la debolezza; fra tante ostentazioni di coraggio che attestano la paura, pensiamo ci bisogni qualcosa di tonico, e di mostrar l'uomo che lotta coi mali, che persevera, che riesce. Nel paese stesso del povero Chatterton era nato Giorgio Crabbe, da un uomo da nulla, il quale in prima era vissuto coll'insegnare l'abbicì, poi ottenne una dispensa di sale, e al tenuissimo guadagno suppliva col pescare; ebbe sei altri figliuoli dopo Giorgio, il quale per tanto crebbe in mezzo alle privazioni e agli stenti fra pescatori e contrabbandieri e grascini, e gente abbandonata a istinti brutali. Suo padre lo menava alla pesca? non poteva addestrarlo nè a tendere le nasse, nè a raccorle, nè a remare, onde s'indispettiva e gli diceva: — Bestione non sarai buono a nulla.» Ma quando la sera egli si raccoglieva attorno i sette figliuoli e tirando a mano alcuni de' libri di quand'era maestro, leggeva qualche storiella, delle poesiette religiose, un racconto biblico, Giorgio non batteva palpebra, non perdeva una parola, capiva tutto, e il ruminava nella notte, e non davasi pace finchè non sapesse ripetere quella storia, e recitare a memoria quei versi. Pertanto suo padre lo pose a scuola, e n'avea stupende informazioni; ma la spesa era forte; e prima de' 14 anni dovette ritirarselo in casa. Se Giorgio ne fu scontento vel lascio pensare; non però cadde nello scoraggiamento che svoglia dall'azione; anzi ajutava suo padre nell'umile impieghetto, e il tempo che anche troppo gli avanzava occupava a legger quanti libri potesse trovare nel villaggio, a vagare lungo la spiaggia, e da marinaj, da pescatori, da naufraghi farsi raccontare storielle, costumi avventure, e formarsene tesoro nella mente. Vedendolo letterato, suo padre lo destinò alla professione più letterata d'un villaggio, quella di speziale, unita, come suole in campagna, a un po' di chirurgo. Crabbe v'aveva tutt'altro che inclinazione, ma vi si rassegnò, e ne' cinque anni di pratica cercò svago in uno studio, consono eppure più omogeneo quello della botanica. Non dee mancar mai un amore nella storia d'un giovane; e Crabbe s'invaghì di Sara Elmy, orfana povera raccolta, da un ricco zio; e da lei furono inspirati i primi suoi carmi. Coi quali fattosi qualche nome nel contorno, non però fortuna, a 21 anno passò a Londra onde impratichirsi negli spedali; ma ben presto gli venne meno il danaro, e dovè tornare al natio villaggio. Là aveva un nidio di parenti, tutti poveri; e correano a lui a cercargli un consulto, una medicina, un'operazione: ma il pagamento era un grazie, come si suole tra parenti; gli altri compaesani che il vedeano erborizzare, volevate che gli pagassero i succhi che estraeva da erbe comuni? Restava adunque sempre in lotta colla miseria; e quel ch'è peggio in lotta colla propria coscienza, ben egli conoscendo di non avere nè sufficienti studj, nè pratica, nè franchezza quanta voleasi per operare sui proprj simili, e salvar le vite. D'altra parte Sara ricambiava l'amor di lui; ma ragionevolmente pensando ch'è follia e quasi colpa il matrimonio senza i mezzi necessari, protestava non lo sposerebbe finchè non avesse uno stato; ed egli nei cassetti non vedea crescersi se non i componimenti in versi, dettatigli dal cuore e dalla ammirazione de' classici; e li credea belli, e belli erano, ma nessuno li conosceva, nessuno li pagava. Diveniva dunque un valoroso poeta, un esperto botanico; ma di speziale e di chirurgo andava sempre alla peggio; nè vedeva avvicinarsi quell'indipendenza, che è prima necessità del genio. E coi tormenti del genio si struggeva; s'ammalava come Chatterton; ma lo sosteneva la fede in sè e in Dio. E l'ultimo giorno del 1779 scriveva sul suo giornale: — Quest'anno di afflizioni, di pene, di povertà, di svilimento, di disinganno, di disgrazie, finisce, e va a raggiungere l'eternità. Signore, ten prego, ricorda i miei patimenti e le preghiere mie; dimentica i falli e le follie. Tu, sorgente di felicità, dammi maggior sommessione al tuo volere, maggior docilità a reprimere le vanitose mie speranze, maggior coraggio a sopportare la mia oppressione. L'anno che cadde non sia per me un tormento; quel che nasce non gli rassomigli: però la tua volontà si faccia e non la mia». [Illustrazione: E l'ultimo giorno del 1779 scriveva sul suo giornale: ... (_Pag. 209_).] E risolse di tornare a Londra a cercarvi il pane inacetito di letterato. Trovò (e questa fu una prima e grande fortuna) trovò a prestito 3000 lire, con metà delle quali, spense i piccoli suoi debiti, e s'imbarcò per Londra coll'astuccio dei ferri chirurgici, un fascio di manoscritti, un valigiotto e 1500 lire, avventurandosi in una città immensa, senza un amico, ma colla gioventù e la speranza, e colla consolazione che non correva più rischio di storpiare qualche malato. E subito si dà alla poesia, sua vocazione prepotente; a forbire i versi precedenti per la stampa, a farne dì nuovi, persuaso che valessero tesori, come tutti crediamo delle nostre produzioni. Ma de' librai, uno gli dice: «Siete troppo giovane, maturate un pochino;» e l'altro a «Eh, il pubblico non sa che farne di versi;» un terzo: «Che? i tempi tirano ad altro che a libri.» Crabbe non si dispera; non si svelenisce contro i tempi, la società, la fortuna, e persuadendosi che ne vada la colpa alla poca perfezione de' suoi componimenti, si ostina a migliorarli, ma ahimè! per subire nuovi rifiuti. Finalmente un libraio stampa un suo poemetto anonimo, e due tre giornali, ne parlano con lode; ma che? il libraio fallisce prima d'avergli pagato pur un soldo. E Sara? — Nel partire gli aveva detto come tutte: — Scrivimi spesso», ma poi pensando alla posta che allora costava carissima, si fece promettere solo qualche lettera di tanto in tanto, ma che notasse nel suo giornale le impressioni di ciascun giorno. E quel giornale ci restò, cara rivelazione di un'anima non vulgare, in conflitto colle difficoltà esterno, senza fiaccarsi, e appoggiandosi all'amore e alla fede. La sua miseria cresceva ogni dì; ogni dì le sue apprensioni; eppure egli ha il coraggio di celiare or sull'abito suo unico per la festa e pei giorni di lavoro; or sui bottoni che v'attacca, o sui pottinicci che vi fa nel rammendarlo. Gli editori non vogliono stampargli? i ricchi non riscontrano alle sue lettere? il posto ch'e' sollecita è già occupato? Egli se ne consola, che sarà per lo meglio; che Dio vuol provarlo, e intanto migliorerà i suoi versi, e l'amica sarà più contenta di lui. — Quale giornata di timore e d'aspettanza sarà domani! Sara, le speranze dileguano, e non vedo che il lato nero. Due volte, anzi tre in un mese ho fatto un buco nell'acqua. Se avessi un'altra lira, mangerei volentieri qualcosa stassera per cacciare i pensieri sinistri, ma son costretto economizzare quest'unica che ho, per la speranza d'avere domani a pagare una lettera. Come sarò ricevuto? Il peggio ch'io possa aspettarmi è di vedermi restituito il mio libro dal servidore senz'altro: il men peggio è di udire un rifiuto polito. Ipotesi dolorose tutt'e due!» Chi conosce l'alternar delle fidanze e degli sconforti in chi è alle prese colle difficoltà, non può non affezionarsi a questo nobile soffrente. E a volte a volte espone le sue angustie all'amica, come Foscolo alla Donna Gentile; ma con ben altra nobiltà e colla sola superbia della rassegnazione. Colla quale, sempre senza appoggi, cervava consolazione nel legger Tibullo, Orazio, Dryden, e far qualche passeggiata lungo il Tamigi, per quanto le mal nutrite forze gli permetteano. Perocchè, nella gran città di Londra molti sono che muojono a' pie' dei palazzi, ove un lord muore di replesione, o s'attedia per non saper come spendere dieci milioni d'entrata annua; o davanti ai magazzini dove si fanno affari per dugento milioni l'anno. E Crabbe la soffriva come Chatterton; ma si rassegnava con Dio, col pensiero di Sara, co' suoi libri. Oh! sicuramente l'età nostra, tutta positività e numeri, è poco fatta per compassionare un poeta, il quale sente in sè la favilla del genio; e come il baco venuto a maturanza, dee metter fuori il nobile filo che vestirà il re, e gli altari; perchè non si mette a lavori che acquistino pane, che importerebbe se Paganini si fosse fatto calzolajo, o Duprè muratore, o Manzoni impiegato al lotto? Eppure anche al material vedere d'oggidì si cerca tanto il piacere, e nella fisiologia di questo avran sempre parte primaria gli intellettuali. Una grande nazione poi non vive di solo pane, e la Germania e la Spagna e l'Italia si ringrandiscono dei nomi di Göthe, di Calderon, di Dante, quanto di qualsiasi altra gloria o potenza. Da ciò il dovere dei governanti di favorire i buoni ingegni, non dico gli intriganti e i sollecitatori di impieghi e di pensioni, cui unico titolo è l'alta opinione che hanno di sè stessi. E Crabbe la pensava così, e diresse varie epistole a lord Nord e ad altri ministri, e massime a lord Turlow, ricordando come il proteggere le lettere fosse sempre stato uffizio del gran cancelliere d'Inghilterra; ma queste gli rispose: «Scusate, ma le occupazioni non mi lasciano tempo di legger versi.» E per verità poco glie ne lasciavano la guerra allor calda contro le colonie ribelli d'America, lo scontento della plebe di Londra, le finanze scarmigliate, gli attacchi rabbiosi dell'opposizione. In questa primeggiava il famoso Burke, e a lui mandò Crabbe una lettera chiedendo, come voleva il Parini onorato e parco Con fronte liberal che l'alma pinga. Come uscirà il nuovo tentativo? Sarà vano l'appello alla generosità anche di questo? Domani gli sarà reso il suo manoscritto da un servo col solito complimento che si fa al pitocco: — Andate in pace?» Quest'incertezza dovette agitare i sonni di Crabbe, metterlo in convulsione al domani mentre avviavasi al palazzo di quello; e traversando il Tamigi, guardò giù dal parapetto, ricordandosi di Chatterton, di cui allora appunto avea conosciuto la miserabile fine; e riflettendo che la vita sua dipendeva dal capriccio, da una buona notte, da una cattiva digestione d'uno sconosciuto. Oh, certo allora, pensando al suo villaggio, Pianse i riposi di quell'umil vita E sospirò la sua perduta pace, e disse, — Oh fossi rimasto colà chirurgo, soffocando questa Qual sia favilla che mia mente alluma». Pure la disperazione è il peggior oltraggio che l'uomo possa fare alla Divinità, che lo gettò fra i triboli dicendo, — Soffri e progredisci.» Ma Burke accolse il poeta: gli parlò con quella benevolenza che costa sì poco ai fortunati del secolo, e tanto giova agli sfortunati; e Crabbe gli aperse il cuore, gli narrò quell'infanzia sua deserta, quell'istruzione incompleta, quelle lotte contro una professione ingrata, quelle lusinghe d'un amore virtuoso: e in tutto ponea tanta sincerità, tanta onorata delicatezza, che Burke se ne sentì preso, e raccontandolo ad un amico dicevagli un poco aristocraticamente: — Questo garzone ha i sentimenti d'un gentiluomo.» Quanto meglio avrebbe detto d'un galantuomo! ma invece di stiticarne la parola, lodiamolo dell'averselo preso in casa e a tavola, quasi un figliuolo; e benchè assorto nelle lotte parlamentari, trovò tempo di leggere i manoscritti di esso, farne una scelta rigorosa, poi presentarlo ad un librajo garantendo le spese di stampa. Il merito de' versi e, diciamola, l'appoggio dell'insegne oratore, procacciarono a Crabbe le lodi di qualche giornalista, di che egli non inorgoglì per addormentarsi nella mediocrità, ma s'affidò per far meglio. Insomma il primo passo era fatto; nè noi vogliam raccontare la vita di Crabbe. Tanto più ch'egli non risultò un Omero o uno Shakespeare; buon poeta, ma nemmeno pari ad altri del tempo, quali un Cooper, un Wordsworth. Vanto e pretensione di lui era ritrar al vero — Vieni, bella Verità; mostrami i caratteri ch'io dipingo, chiaro come li vedi tu; rivelamene qualità e difetti, sicchè io possa dire, _Essere fragile, osserva qual tu sei_, e ch'io possa leggere a nudo sin in fondo al cuor umano.» Avrebbe con ciò esclusa la facoltà che alcuno dice primaria della poesia, l'immaginazione, se non si sapesse quanta se ne richiede per vedere e conoscere la verità; e come l'invenzione stia nell'ingrandire ed abbellire il vero. Il suo _Villaggio_ non è un idillio di Titiri e Mirtilli, ma la pittura della vita campestre qual è, coi suoi dolori e le sue traversìe, e col merito di superarli o sostenerli; ove il sole e il vento han tutt'altro che bellezza e frescura; ove la incessante fatica dei campi dà altra voglia che di pigliar l'opaca frescura sotto patuli faggi; nè i canti di coloro che dalla città o dalle corti celebrano tre e quattro volte beati i pastori, alleviano la scarsezza di pane, e il freddo e il fumo delle afose capanne. Crabbe ritrae la grossolanità e le miserie del contadino, l'abbandono del malato sul suo pagliariccio, l'indifferenza del suo funerale, dopo una vecchiaja che s'accorge d'essere tutta a carico della famiglia; e la fedeltà di quei quadri attinge alla poesia, perchè sempre ne traspira l'affetto. Nel _Registro parrocchiale_ scorre i libri di battesimo, di matrimonio e di morte del suo paterno paesello, a ogni nome che incontra racconta una storiella di villaggio, dipingendo un carattere, una vicenda: cornice elastica ove entrano episodj senza fine. Altrettanto elastico è quello del _Borgo_, serie di lettere, ciascuna delle quali descrive uno degli elementi di cui si compone un borgo; la chiesa e i suoi addetti; le varie professioni; i convegni, le cause pie, le osterie, la scuola, la carcere, i mestieri. Questa successione di quadri senza legame appare anche nelle altre composizioni di lui; quadri della vita domestica e reale, adatti a un tempo quando dalla vita aristocratica l'attenzione e l'importanza si ritorceano su quella delle classi medie. Non sarà difficile indovinare che, pur cercando il vero, Crabbe vide gli uomini piuttosto in bruno, e nelle storie espose sempre qualche catastrofe. Il patetico lo governa il più delle volte, e alcuna sino a far sanguinare i cuori; e l'emozione che eccita il fece da molti collocar fra i primarj scrittori d'Inghilterra, benchè realmente sia più adatto a quei pochi che possono apprezzare le delicatezze dell'arte e la finitezza delle particolarità. Perciò, se non ottenne quel ch'è merito supremo, la popolarità, nessun altro autore moderno trovò tanto posto nelle antologie e nei pezzi scelti; talmente quei suoi brani sono finiti col fiato, e possono stare a sè come operette compiute. Ma che vo io qui assumendo linguaggio di critico? I grand'uomini, gl'insigni scrittori non leggeranno questa pagina, non ha bisogno di tali esempj; forse l'avrà qualche animo giovane, che nel barcollamento de' primi passi tende la mano, e non trova che un'altra gliene stende. Il gran cancelliere Thurlow, quando il vide famoso, invitò Crabbe, gli fece scuse d'averlo trascurato, e gli fece aggradire un viglietto di 2000 sterline. Il Crabbe ne distribuì gran parte a poveri studenti che aveva conosciuti ne' momenti peggiori; e anche più tardi non capitava mai a Londra senza informarsi se qualche giovane volenteroso si trovasse alle strette. Conscio di tali patimenti, voleva mitigarli, e sdebitarsi verso la provvidenza dei soccorsi ottenuti. Non crediate ch'e' s'ostinasse solo a far versi. Entrò ecclesiastico; fu cappellano del duca di Rutland; delle mortificazioni che accompagnano l'uom di talento nella casa del ricco inghiottì la sua parte e la espresse nel sermone _Il protettore_. Cercò quindi modo a sottrarsene, e avuto un sufficiente benefizio, sposò la sua Sara, e non che mettere il mondo alla confidenza di tutti i versi che componeva, dai 30 ai 52 anni, dal 1785 al 1807, l'età migliore, non pubblicò nulla di letterario. Nè del letterato avea l'ambizione o la vanità; erasi coll'ingegno sottratto alla miseria; dopo 12 anni di prove avea sposato la donna del suo cuore; or badava alla sua parrocchia, senza dimenticare d'essere stato medico; allevava al bene i suoi figliuoli, il che aprivagli occasione d'educare sè stesso; dalla botanica cercava distrazione scientifica; nè però abbandonava la Musa, pago di farne giudicare i parti dalla moglie e da qualche amico. Più d'una volta fu sul punto di pubblicar qualche opera; ma ai riflessi dell'editore (notate bene che gli editori inglesi leggono o fan leggere le opere che s'accingono a pubblicare) ne ripigliò l'esame, e il risultato fu di buttarle al fuoco. Solo per istanza dell'illustre ministro Fox, e dopo che questo l'ebbe letto e corretto, pubblicò il _Registro parrocchiale_ che dicemmo, opera lodatissima, come poi il _Borgo_ uscito nel 1810. Affeddiddio, le compiacenze letterarie son troppo scarso compenso per gli affanni domestici; e se repudiamo la grossolanità di Voltaire, che diceva darebbe tutta la gloria per una buona digestione, siamo certi che i più vantati scrittori cederebbero ogni loro vanto, e i titoli, e fin le laudi dei giornalisti per una buona moglie, un buon figliuolo, un amico provato: dirò di più, per un poco di pace. Crabbe ne' tardi anni provò ancora i dolori, e quali! Di sette figliuoli, cinque perdè; e Sara, men rassegnata e più appassionata di lui, n'ebbe diroccata la salute, onde tra affezioni nervose trascinò misera vita sino al 1813. Crabbe fu per morirle dietro, poi si rassegnò alla vita e alla panacea del tempo: e cercato a gara dopo che fu celebre nelle case aristocratiche che l'aveano respinto quand'era bisognoso, invecchiò tranquillo tra i figli de' figli, tra le lodi di lord Grey, di Canning, di Moore, di Walter Scott, di Jeffrey, di Gifford, di altri critici sottili, e morì nel 1832 a 78 anni. E se gli encomj all'illustre poeta si ripeterono per un mese sui giornali e le riviste, rimarrà perenne la lode che lo presenta come specchio del letterato dabbene. E qui non so resistere alla tentazione di esibir un altro esempio inglese di quella perseveranza che riesce. Fu famoso ai dì nostri Guglielmo Cobbet per potenza politica, e molti avranno letto i suoi _Avvisi ai giovani_. Or egli racconta di sè: — Ero un povero soldato che guadagnava 12 soldi il giorno, quando da solo imparai a leggere e scrivere bene la mia lingua. Chi voglia imparare non ha bisogno nè di scuola, nè di camera, nè di spese; il mio lettuccio mi serviva di sedia, il saccone da leggio, un'assa da tavolino. Per comprare candele ed olio non avevo denari; ma l'inverno studiavo accanto al fuoco, e al lume di questo; e sì che non potevo accostarmivi che alla mia volta. Se un giovane senza parenti, nè amici, nè fortuna, nè educazione, ha potuto in capo a un anno, e pur facendo il tristo mestiere di soldato, venir a capo d'altrettanto, quale scusa avrà chi in qualsiasi circostanza, sotto qualsivoglia giogo, rimarrà ignorante e povero? «Per comprare una penna o un foglio di carta ero costretto privarmi di parte del nutrimento, per quanto avessi fame. Non un momento avevo tutto a me; bisognava leggere e scrivere in mezzo ai soldati, che ridevano, canticchiavano, zuffolavano, e che nelle ore di ricreazione sono tutt'altro che decenti e quieti. Non beffate il quattrino che davo per comprar la penna o la carta e l'inchiostro, per me era una somma, una somma grossa. Ero gagliardo, pien di salute; facevo grand'esercizio; pagato il rancio, mi restavano appena quattro soldi la settimana. Mi ricorderò sempre che un giorno, dopo tutte le spese occorrenti, mi avanzò un soldo, il venerdì sera, e lo destinavo a comprar un'aringa per la modesta mia colazione del domani; il resto se l'erano divorato penna, carta e inchiostro. Mi svesto: Oh Dio! nel mettermi a letto, affamato a segno che avevo bisogno di tutto il mio coraggio per impor silenzio all'appetito, scopro di aver perduto il mio soldo, il mio tesoro. Nascosi la testa sotto il miserabile coltrone, e piansi come un ragazzo. Lo ripeto: se fra tali strettezze io giunsi a qualche cosa, qual v'ha giovane che, leggendo ciò, non avrebbe vergogna di pretendere che le circostanze abbiano contrariato la sua educazione, e siagli mancato il tempo d'imparare?» Così Cobbet; e noi vorremmo che coloro i quali superarono penosamente i primi passi, od ebbero più ispidi sterpi a sbroncare, più scoscesi burroni a superare, lasciando molti brani del pelo e della pelle a quei sassi, a quei vepri, raccontassero le vinte scabrezze ai giovani, e colle severe prospettive delle difficoltà gli animassero a lottare, a non credere che per agevole pendio fiorito, e tra le carezze d'una madre, le lusinghe d'un'amante, le connivenze de' giornalisti condiscepoli, si giunga alla vicina meta, al meritato riposo; e mostrando que' tanti che soccombono sulla via, e che al principio di essa o si prostrano scoraggiati, o siedono svigoriti, o sviano distratti, ripetessero a tutt'uomo che bisogna perseverare, e non isgomentandosi degli inciampi e neppure delle cadute, ripigliar lena, e marciar più risolutamente appoggiandosi alla propria costanza, chiudendo le orecchie ai canti lusinghieri come ai fischi villani; non accasciandosi nel dubbio, non indispettendosi alla minutezza delle particolarità, non irritandosi contro i colpi di spillo che ci danno gli amici, più penosi che i colpi di coltello dati dai nemici, non offuscando l'occhio colle lagrime, ma tenendolo fisso a una meta sempre più elevata. L'ULTIMO DEGLI HOHENSTAUFEN Milleducento cinquantotto appunto S'incarteggiava allor che Corradino Tradito fu, e per Carlo defunto. _Dittamondo._ La melanconia che s'attacca sempre al ricordo delle dinastie perite, massime se raccomandate dal coraggio e dalla sventura, spinse un'infinità di giovani letterati a cavare una tragedia od un romanzo dalla morte di Corradino, ultimo degli Hohenstaufen. E un romanzo veramente è il racconto che sogliono farne gli storici usuali, che, contraddetti invano dal buon senso vecchio e dai documenti nuovi, si ostinano a narrare il passato per via di luoghi comuni e di aneddoti convenzionali. Tentiamo di restituire quel fatto, all'appoggio di testimonianze o nuove o non comuni. Precedenti. La casa di Hohenstaufen, primeggiante fra quelle di Svevia, competè all'impero romano germanico coi duchi di Franconia e di Sassonia, e lo ottenne nella persona di Federico Barbarossa, uno degli eroi più insigni del medioevo, ancora vivo nelle tradizioni tedesche con quanto v'ha di prode e di generoso; e che, dopo rimesso l'ordine fra i contrastanti baroni dell'impero, andò a morire crociato in Palestina. Il suo nome ha suono ben diverso fra noi italiani, che ricordiamo come volle qui comprimere il movimento municipale, che avviavasi a repubblica; quel movimento che rinnovò la civiltà del nostro paese, e ne diede l'esempio agli altri. Federico si propose di rimettere al freno le nostre città, di piantarvi come diritto l'assoluta volontà del capo, ed ebbe il torto di adoprare mezzi feroci e di non riuscire; laonde l'odio nazionale lo marchiò fra coloro che soffocano un germe quando n'è inevitabile lo sviluppo; respingono verso il passato, invece di avviare all'avvenire. I Lombardi principalmente serbano abbominio alla memoria di lui, mentre insuperbiscono della Lega Lombarda che avevano formata per resistergli. E sebbene, nella pace di Costanza, lo vedessero scendere con loro ad un accordo, che ne riconosceva l'indipendenza nazionale, stettero sempre in gelosia de' successori di essi, e s'attennero alla parte Guelfa. Questa parte (denominata dai signori Guelfi di Baviera, avversi agli Hohenstaufen e ai fautori di questi ch'erano chiamati Ghibellini dal costoro castello di Weiblingen) rappresentava l'anelito dell'indipendenza, sotto la supremazia papale, mentre i Ghibellini avrebbero amato un governo forte e uno, e perciò la sovranità imperiale. Le due fazioni si spiegarono maggiormente alla morte del Barbarossa; e alla Guelfa acquistò fautori l'indegnità del figlio di lui, l'imperatore Enrico VI. Questi s'appoggiava tutto sulle sue armi, ultima ragione di chi non n'ha alcuna buona; e menò guerre incessanti contro questa povera Italia, per mozzarne la libertà, che da suo padre s'erano fatta garentire. Ma alla prevalenza imperiale avevano fatto sempre contrasto le repubbliche lombarde, i pontefici e i Normanni. Le repubbliche avevano provato la nobile compiacenza del governare i proprj interessi; e venute con ciò ad uno sviluppo stupendo d'intelligenza e di ricchezza, non erano disposte a tornare a un giogo avvilente. I papi sentivano che all'indipendenza del loro potere era necessaria l'indipendenza anche delle Due Sicilie, e perciò mal soffrivano che alcun straniero vi piantasse un dominio, il quale eccedesse que' limiti della supremazia tra sacra e guerresca, quell'accordo tra Chiesa e Stato, ch'erasi combinato dalla creazione del Sacro Romano Impero. Nell'Italia meridionale poi si erano stabiliti i Normanni, e occupate le Due Sicilie, ne formarono un regno, che controbilanciava qualunque potenza avesse voluto prevalere nella settentrionale; ligi ai papi senza pregiudizio della propria autonomia, e disposti a sostenerli qualunque volta venivano a cozzo coll'imperatore e coi Ghibellini. Supremo intento di chi volesse togliere l'indipendenza all'Italia, doveva esser dunque l'acquisto delle Due Sicilie; quanto alla potenza papale, essa non fu mai considerata come un ostacolo serio dai conquistatori di quel paese. Enrico VI aveva sposato Costanza, ultima erede dei re normanni, talchè si trovò re anche delle Due Sicilie; ma da tal fatto, che pareva consolidarla, venne la ruina della casa d'Hohenstaufen. Enrico tiranneggiò insanamente i Siciliani, calpestando i privilegi e le consuetudini, talchè non lasciò che odio in eredità al bambino suo, che fu Federico II. Quest'uomo, uno de' più illustri del medioevo, disgustò i Tedeschi perchè mostrava prediligere il suo regno in Italia; disgustò gli Italiani perchè cercò di mozzarne le libertà, sostenendo da per tutto i tiranni ghibellini; lottò tutta la vita coi papi, e mentre (come il cronista Salimbeni dice) sarebbe stato senza pari sulla terra se avesse amato l'anima sua, mori senza aver nulla consolidato. Suo figlio Corrado IV, imperatore contrastato, venuto in Italia per farsi valere, vi trovò la morte, dissero accelerata dal fratel suo naturale Manfredi, il quale allora si fece re della Sicilia, a scapito di Corradino figliuolo dell'estinto. I pontefici, ch'erano riconosciuti signori supremi di quel regno, non potendo altrimenti reprimere la tirannide dell'usurpatore, ne trasferirono la corona in Carlo d'Angiò, il quale, sostenuti da essi papi, e dai Guelfi, venne, vinse in battaglia Manfredi, e occupò il regno. Ma (caso troppo consueto) ben tosto si mostrò per nulla migliore di coloro che aveva cacciati: sicchè quei troppi che si lasciano lusingare a promesse di liberatori, e che perciò si trovano spesso delusi, mutarono in compassione e ribrama l'esecrazione che pur dianzi avevano per la casa Sveva. Il volgo Sempre il signor che più non ha vorria. Corradino — Sue speranze. Il 25 marzo 1252, da Corrado IV e da Elisabetta di Baviera era nato Corradino; bellissimo di sua persona (_pulcherrimus_), _letterato sicchè ben si esprimeva in latino_, mentre in tedesco componeva poesie, che otteneano lode fra quelle dei Minnesingeri. Suo padre morendo l'aveva affidato alla tutela, non dello zio Manfredi di cui sospettava, ma di Bertoldo di Hohenburg, signore bavarese, il quale però vedendo i Siciliani mal intalentati verso di lui straniero, rimise la reggenza a Manfredi, che, come dicemmo ne usurpò il dominio. Corradino era stato allevato presso il duca Lodovico di Baviera, sotto le sollecite cure d'una madre, che all'affetto univa pure le indomite speranze di chi, accostate le labbra al potere, non sa più cessarne la sete: e, come a tutte le grandezze scoronate, gli stava dintorno una turba di persone, che ne esageravano i diritti e ne esaltavano le speranze: e i fuorusciti, perpetui sommovitori dello stagno ove confidano il pescare, e i malcontenti de' paesi dominati da' suoi padri, lo circondavano di quella nebbia d'incensi, che toglie di veder la situazione e di calcolare al vero i mezzi e la probabilità. Al giovinetto, allora appena di quindici anni e mezzo, entrò facilmente il concetto che l'Italia aspirasse solo all'occasione di liberarsi dai Guelfi, dai papi, dagli Angioini, e l'occasione aspettata fosse lo sventolare dello stendardo svevo: certo lo ajuterebbero i tanti beneficati dal padre e dall'avo suo, e che egli (giovane com'era) confidava fedeli alla sventura. D'altra parte i Tedeschi lo rimproveravano di neghittoso, e cantavano canzoni contro di lui[14] perchè si rassegnava alla perdita dei diritti paterni. Coll'ardore d'un giovane e la cecità d'un pretendente, mosse egli dunque verso l'Italia, per quanto sua madre lo dissuadesse; i duchi di Baviera suoi zii lo accompagnarono per Trento fin a Verona coi loro feudatarj, ma poichè a lui venne meno il denaro da pagare quei 10,000 uomini, essi tornarono indietro, eccetto 3000 ch'egli potè ritenere, impegnando il proprio patrimonio. Che importa? I Ghibellini di tutta Italia, i malcontenti del regno di Sicilia gli largheggiavano promesse, merce di poco costo; uomini e denari affluirebbero. I Lucchesi aveano mandato a sollecitare la madre di lui: i Fiorentini vi spedirono Bonaccorso Bellincioni degli Adimari e Simone Donati, cavalieri d'alto credito, i quali dall'andata loro riportarono larghe promesse e una mantellina foderata da vajo che usava portare Corradino, la quale i Lucchesi esposero in San Fridiano e «non altrimenti vi traevano le genti a vederla, che se qualche solenne e celebrata reliquia fosse stata.»[15] Il solo Manfredo Malatesta, signore napoletano, gli aveva assicurato 16,000 oncie d'oro e 1000 cavalieri stipendiati. È ben vero che nè uomini nè danaro comparivano;[16] ma intanto Corradino componeva manifesti, arma di chi è debole nelle altre, e lamentavasi di Roma «che lo odiava a segno di non volerlo pur vivo;» e vantava la magnifica sua stirpe, che sì lungamente imperò, e dalla quale egli non voleva esser degenere; e dicevasi eletto e creato alla sublimità dell'impero, al quale aspirava calcando le orme dei suoi progenitori.[17] Forse all'infelice giovinetto aveano lasciato supporre ch'egli avesse alcun diritto ereditario alla corona imperiale, mentre essa liberamente attribuivasi dagli elettori. Con lui veniva un altro giovane spossessato, Federico di Baden, a cui il ducato d'Austria era stato tolto dal re di Boemia Ottocaro; sicchè, legato a Corradino da parentela e da conformità di sventure, veniva ajutarlo a recuperar il retaggio d'Italia, sinchè giungesse l'ora di racquistare egli pure il suo. Giovani infelici, entrambi non acquisterebbero che il patibolo. Giunsero a Pavia, città fedele agl'imperiali per opposizione alla sempre guelfa Milano; ed evitando le altre città lombarde, avverse a quel partito, e secondati dai tirannetti che speravano rialzarsi, varcarono i gioghi liguri; e ad un piccolo porto presso Savona trovarono galee della Repubblica Pisana, che li trasportarono a Pisa, città commerciante, che, come la moderna Inghilterra, avea promesse o almeno ricovero per chiunque gliene pagasse: e che al pretendente allestì ventiquattro galee, colle quali, presso Melazzo, dissipò un'armata assai maggiore di Provenzali e Messinesi. Sedeva pontefice Clemente IV, di nazione francese e perciò propenso a Carlo d'Angiò: oltrechè si era indignato alle pretensioni del giovinetto, che mostrava aspirare a congiunger l'impero colla corona di Sicilia; e poichè su questa era riconosciuta la supremazia della Santa Sede, nell'ottava di San Martino del 1247 dichiarò scomunicato Corradino[18]. Trista mescolanza delle armi spirituali cogl'interessi mondani, ma conforme alle idee del tempo. Chiamato poi in congresso Carlò d'Angiò, da Viterbo, ai 12 aprile dell'anno seguente, proferì proscritto Corradino co' suoi aderenti, e decaduto non solo da qualsifosse diritto sopra il regno di Sicilia, ma anche sopra il ducato di Svevia e sopra l'ideale reame di Gerusalemme, ignobilmente insultando a questo _reatino, uscito dalla razza velenosa del tortuoso serpente che, aspirando all'esterminio della romana madre Chiesa, col suo fiato appesta i paesi di Toscana, e manda traditori nelle diverse città dell'impero vacante e del nostro regno di Sicilia_[19]. Queste parole già fanno intendere come fautori non mancassero al pretendente: chè mai non fu difficile, massime in regno nuovo, il trovare partigiani a chiunque sorga a sommuovere. I baroni, che in Lombardia e in Toscana tenevano i feudi dell'impero, e all'ombra di questo aveano esercitato la tirannia, bramavano veder un nuovo imperatore, e massime un imperatore giovane e fiacco, sotto il cui nome mantellassero le superbe lor voglie. I Ghibellini, depressi in ogni parte, rialzarono la testa. A Roma sovratutto, sempre riottosa al dominio papale, parteggiava apertamente pel giovinetto, ed Enrico di Castiglia, che n'era stato eletto poc'anzi senatore da Carlo, or, disgustato di questo, mandava a Corradino invitandolo a venire, proferendogli la propria spada e un corpo di combattenti. Realtà e sconfitta. Con sì fauste lusinghe Corradino mosse da Pisa; mal accolto dai Fiorentini, malgrado le promesse traversò Siena, città a lui devota, che gli diede centomila fiorini d'oro[20], e che, al primo successo ch'egli ottenne al Pontavalle nel Valdarno Superiore, menò tripudj vivissimi e distrusse case e torri di Guelfi e il palazzo de' Tolomei, levandone 13 colonne colle basi e i capitelli[21]. Corradino spiegò le sue bandiere sotto alle mura di Viterbo, nelle quali stava ricoverato il pontefice, profugo da Roma. Ancora una volta dunque il vessillo ghibellino sventolava minaccioso al capo della Chiesa; e i cardinali, gente d'altro che da eserciti, ne impallidivano; ma il papa disse loro: _non vi metta paura questo giovane, trascinato dai malvagi come una pecora al macello_, e non meno tranquillamente celebrò la solennità della Pentecoste. I Romani festeggiarono Corradino col tripudio di un popolo che ha bisogno dello spettacolo, e coll'antica e nuova storditaggine di chi spera sempre la liberazione dallo straniero; il terreno coperto di abiti e di stoffe, le vie parate di ricchi tappeti, di pelliccie, di drappi di seta e d'oro, e tese di corde, alle quali ciascuno avea sospeso quel che di più vistoso avesse in fatto di vesti, di armi, di galanterie; e da per tutto suon di tamburi, di viole, di pifferi, e cori allegramente cantanti[22]. È sì facile anche ad uomini assodati da lunga esperienza il lasciarsi inebbriare da applausi che crede aver meritati o spera giustificare! Corradino, gridato liberator del popolo, spada d'Italia, e quegli altri titoli che d'età in età sono echeggiati dal vulgo di piazza e di gabinetto, salì al Campidoglio, e fece al popolo romano un discorso, ove il popolo romano avrà trovato tutte le bellezze di sentimento e di forma, perchè v'era adulato. Gridi, urla di gioja, strepitosi viva risposero, facendo risuonare i sette colli, e in poesia e in prosa si inneggiò al legittimo successore di tanti Cesari. Di quante speranze non dovea colmarsi il giovane Svevo: con quanta dolcezza ripensar all'esultanza di sua madre e della sua fidanzata! non levavano esse ogni giorno le mani al cielo per la prosperità di lui? In ciò fidando, ai 18 agosto mosse per Tivoli e Vicovaro, onde penetrare negli Abruzzi, sia per evitare a' suoi Tedeschi l'arsura de' giorni canicolari, sia per avervi abbondanza di carne e d'acqua: oltrechè quei monti erano opportunissimi ad accamparvisi e vi verrebbero a raggiungerlo tutti i partigiani suoi del regno, e principalmente i Pagani di Lucera, come chiamavasi una colonia di Saracini, che Federico II avea piantata nel cuor del regno, esponendo ai Musulmani e la religione e l'indipendenza nazionale per aver sotto mano persone che non temessero le scomuniche, e che di fatto furono fedelissimi sostegni della casa Sveva. Carlo d'Angiò, fratello di san Luigi di Francia, ma tanto astuto ed avido quanto pio e disinteressato era questo, aveva eccitato moltissimo scontento in quei regnicoli, che poc'anzi l'aveano accolto come salvatore, ma egli fidava sull'esercito suo di Provenzali e Francesi e baroni del regno. Non dormiva egli no: e ad Alba, donde si spiega il campo Pallentino, oppose all'invasore un buon nerbo di cavalieri francesi, toscani e regnicoli, guidati da Guglielmo Stendardo e Giovanni di Grati; poi a Tagliacozzo si fe' giornata (23 agosto). Alle armi del re benediva il legato pontificio, mentre imprecava a quelle di Corradino: ma questi con Federico menava buon numero di Tedeschi; di Italiani Galvano Lancia barone pugliese e Guido da Montefeltro; di Spagnuoli Enrico di Castiglia; e la superiorità dei Ghibellini pareva evidente, sicchè Carlo disperavasi nel veder i suoi dispersi e uccisi, e Corradino già esultava della vittoria, già pensava al gaudio di sua madre e della sua sposa; già credea sua quella superba Napoli, quell'impareggiabile Sicilia, che suo avo Federico diceva empiamente, se Dio l'avesse conosciuta, non avrebbe prediletto il regno di Palestina. Ma Alardo di Saint-Valery, vecchio cavaliere francese, reduce allora di Terrasanta, avea mostrato a Carlo l'importanza di tenere una riserva e avea serbato in disparte un corpo di truppe fresche, colle quali assalendo i Ghibellini, quando già si tenevano sicuri della vittoria, li sbaragliò interamente. Corradino, strappatigli repente gli allori e i sogni, non ebbe scampo che col fuggire, e a fatica ricoverò sulle terre romane. A Roma i Ghibellini aveano anticipato la nuova del suo trionfo, e presane l'occasione sempre ambita di far izza al papa e menare nuove feste; ma la verità giunse ben tosto coi fuggiaschi, e che Enrico di Castiglia, senatore della città, era caduto prigioniero: poi le triste notizie s'affollano: che Carlo ai prigionieri romani fece troncare i piedi, acciocchè la loro vista più sgomentasse la città; ma vedendo il popolo inferocirsi anzichè sgomentarsi a quello spettacolo, gli aveva fatti chiuder in una casa e quivi bruciare; che Carlo stesso veniva su Roma. Di fatto i Guelfi, rialzato il capo, e vendicatisi dei Ghibellini, con nuove feste accolsero Carlo, che alla sua volta salì in Campidoglio fra apparati ed inni, e ripigliò la dignità di senatore, e sedette giudicando. Ma non perdette tempo ne' trionfi, e provvide a compiere la vittoria. Corradino, così subitamente caduto dal vertice delle speranze nell'abisso della realtà, era corso a Roma, ma invece degli applausi di jeri trovò scherni e insidie, talchè vestito da villano fuggì, avendo seco l'indivisibile Federico d'Austria, Galvano Lancia, il costui figlio e poc'altri, fedeli alla sventura. Presero la via del mare, sperando trovar qualche legno, che li ritornasse a Pisa, o più volentieri all'isola di Sicilia, ove Corrado Capece suo vicario avea chiamati Saracini dall'Africa, e coll'armi straniere e musulmane teneva elevata la bandiera Ghibellina. Giunsero al fiumicello che la campagna di Roma separa dalle paludi Pontine presso al castello d'Astura. N'era castellano Giovan Frangipani romano, che, come gli altri baroni, aveva sposata la parte di Corradino; sposata, ma per vantaggio proprio, giacchè costui non avea di mira che il guadagno, e facendo guerra alle strade e al mar vicino, cercava d'ogni parte o prede o riscatti. Avvisato che persone ignote erano giunte in paese, e che, per aver un legno offrivano un prezioso anello e promettevano ingente noleggio, lasciava che fosse lor data una nave, ma con cattivi rematori; intanto, prevalendo la cupidigia, si pose ad inseguirli, e raggiunti li condusse ad Astura, in tentenno se cavar oro dal salvarli o dal venderli. Carlo non tardò ad averne contezza, e Roberto di Lavena, capitano delle sue galee, si presentò davanti Astura, domandando i rifuggiti, mentre per terra il cardinale Giordano di Terracina chiudeva ogni passo. Il Frangipani dunque consegnò gli infelici, e Carlo venne in persona a Genzano con un corpo di cavalleria per riceverli; e senz'altro fece decapitare Galvano Lancia, suo figlio ed altri signori di Puglia; erano sudditi ribelli; vassalli sleali; processo non occorreva. Corradino e Federico tenne prigionieri a Palestrina; poi, disperso che ebbe i residui del vinto esercito, li menò in insultante trionfo attraverso alle città della Campagna e della Terra di Lavoro fino a Napoli: lieto quanto il giorno che aveva ucciso Manfredi a Benevento. A Tagliacozzo Carlo fece erigere la chiesa della Vittoria dal miglior architetto d'allora, Nicolò da Pisa, e dotolla di laute possessioni. Il traditore Frangipani ebbe in premio la signoria della Pilosa fra Napoli e Benevento, la nobiltà e l'infamia. Processo e morte. Narrano che il papa, interrogato dal re che cosa dovesse far del prigioniero, rispondesse: _La vita di Corradino è morte di Carlo_; _la vita di Carlo è morte di Corradino_. Questo brutale consiglio è una delle mille ciancie, inventate da un tempo e da un partito che, venerabondi ai re, voleano scolpare questi col denigrare i sacerdoti e i papi: e se il Giannone, nella sua servilità a coloro che poi doveano ripagarlo a quel modo, bevette intrepidamente quell'aneddoto, lo trovò improbabile perfino il Sismondi, così corrivo a tutto ciò che denigri i pontefici. La storia insegna a valutare i fatti secondo le idee dell'età; le quali, se non giustificano mai il misfatto, ne danno la spiegazione. Corradino era scomunicato; e come tale non poteva essere giudicato che dalla Chiesa; laonde Clemente IX il domandò[23]. Questo pontefice avea già preso malavoglia dell'ambizione e della violenza di re Carlo; e l'aver in mano quel giovine sarebbegli stato un pegno e uno spauracchio prezioso. Per ciò stesso dovea Carlo rifuggirne; e probabilmente trovò modo di sgomentare Corradino sul trattamento che gli destinerebbero questi preti, inesorabili nemici della casa sua; e di persuaderlo ad affidarsi piuttosto alla sua regia clemenza. Di fatto il giovinetto confessò di avere peccato contro la santa madre Chiesa. Frate Ambrogio Sansedoni, predicatore rinomato di Siena, andò al pontefice e aveva preparato un eloquente discorso da recitargli a favore di Corradino, quando, accortosi dell'efficacia della semplicità, non fece altro che prostrarsi a' piedi del papa, ricordargli la parabola del figliuol prodigo, poi: _Santità, Corradino manda a dirvi: Padre, ho peccato avanti ai cieli e te, e chiede umilmente la remissione del suo peccato per la misericordia che è in voi._ Il pontefice, tocco nel cuore non dall'eloquenza del frate ma dall'alito di Dio, rispose subito; _Ambrogio, io ti dico in verità, la misericordia vogl'io non il sacrifizio_ e rivoltosi agli astanti: _Non è lui che parlò, ma lo spirito di Dio onnipotente_. L'agiografo che racconta quest'aneddoto[24] soggiunge che il pontefice e tutti gli astanti rimasero stupefatti della dolcezza che Dio aveva fatto passare dalla bocca del beato Ambrogio nei loro cuori; e così Corradino fu assolto da ogni censura e dallo sdegno del pontefice. La Chiesa assolveva; il re esultava di vedersi assicurata la sua preda;[25] e non interponendosi più conflitto di giurisdizione, potè disporre il processo in quel modo che giovasse al suo intento. Convocò a Napoli due sindaci di ciascuna delle città del Principato e della Terra di Lavoro, a lui devote e davanti a loro e a magistrati tutti francesi, propose l'atto d'accusa di Corradino. Eppure i più dichiaravano non fosse reo di morte un re vinto che tenta recuperare il toltogli dominio; e che, dovea considerarsi come prigione di guerra; e perchè Carlo, quasi a rendere il Cielo complice del suo misfatto insisteva sull'esser quello colpevole di sacrilegio per aver arso dei monasteri. Guido di Suzara valente giurista gli rammentò come un capo non possa star responsale de' trascorsi de' suoi seguaci; e come l'esercito stesso di Carlo se ne fosse contaminato nella prima conquista. Mandato ai voti, tutti furono per l'assoluzione, eccetto Roberto di Bari, provenzale, protonotaro del regno, che opinò per la morte; e bastò quell'unica voce perchè Carlo la decretasse. Così faceansi allora a Napoli i processi, pubblici e discussi. Corradino, quando ricevette l'annunzio della sua condanna, giocava agli scacchi col cugino Federico d'Austria; e lasceremo ai romanzatori il raccontare, e agli uomini di cuore il pensare qual impressione dovessero riceverne i due giovinetti, nati al regno e or destinati al patibolo. Chiesero di far testamento, e la mattina del 29 ottobre lo dettarono, presenti Giovanni Bricaudi, sire di Nangey, e quell'Alardo di Valéry che aveva a Carlo dato il suggerimento per cui vinse la battaglia di Tagliacozzo. Nell'archivio di Stoccarda esiste il testamento di Corradino, o piuttosto un codicillo di testamento anteriore non pervenutoci, ove provvede al pagamento d'alcuni debiti; fa molti legati a monasteri germanici; ai duchi di Baviera suoi zii lascia «tutti i beni patrimoniali e feudali con tutte le persone d'ambo i sessi a lui appartenenti ne' paesi germanici o nei latini.» e raccomanda loro Corrado e Federico d'Antiochia suoi cugini. Della madre non fa cenno, non della fidanzata, che si suppone fosse Brigida dei marchesi di Misnia: che non parlasse d'un erede a suoi diritti sul trono di Sicilia è facile comprenderlo, dettando egli sotto gli occhi di amici del suo nemico. [Illustrazione: Corradino, quando ricevette l'annunzio della sua condanna, giuocava agli scacchi col cugino.... (_Pag. 238_).] Dal castello di San Salvadore, Corradino con Federico d'Austria e dieci compagni furono condotti alla piazza del Mercato, ove, nella cappella di sant'Angelo, servita da Carmelitani, ascoltarono una messa da morto, detta per l'anima di loro ancor vivi; e si confessarono. Quella piazza non era allora chiusa verso il mare dagli edifizj; un rivo gettavasi in mare, e di là da quello stava il cimitero degli Ebrei. Fra questo e la predetta cappella fu eretto un patibolo, alla vista di quel cielo incantato, di quel mare, di quel lido, che la vulgare locuzione qualifica un pezzo di paradiso caduto in terra. Re Carlo volle darsi il barbaro piacere di veder dal castello lo spettacolo, e un popolo infinito v'accorse colla solita brutalità. Roberto di Bari, il protonotaro che aveva votato per la morte di Corradino, ne lesse la sentenza; e Corradino uditola, levossi il mantello, si pose ginocchioni, ed esclamò: _O madre, madre mia, qual notizia avete a sentire!_ e posata la testa sul ceppo, e giunte le mani verso il cielo, aspettò quella che si chiama giustizia. Tale rassegnazione inferocì il cugino Federico, che urlando, bestemmiò imprecando, senza chieder perdono a Dio lasciossi strappar la vita.... Gli altri lo seguirono. E il popolo guardava, stupidamente, e stupidamente piangeva, e alcuni Francesi, tardi indignati d'essere stromenti alle vendette d'un regnante, esalavano la collera con quei paroloni generosi di cui è scialaquatrice quella nazione dopo fatti turpi. La morte di giovani principi era un bel soggetto per canti, e in tedesco e in provenzale se ne fecero; Saba Malaspina diede loro l'omaggio che uno storico può, la patetica narrazione della loro fine, e un compianto su quel cadavere che «giaceva come un fior purpureo da improvvida falce reciso.» I Senesi, dopo la rotta di Tagliacozzo, aveano raccolto le reliquie dell'esercito: e affidatele al gran cittadino Provenzan Silvani, ruppero guerra ai Fiorentini: ma sopra Colle in val d'Elsa furono battuti dal vicario di Carlo (11 giugno 1269). Il beato Ambrogio Sansedoni impetrò ai Senesi l'assoluzione e dal 1273 in poi ogni anno facevasi a Siena una rappresentazione con macchine, versi e canti, per ricordare quegli eventi. Il vulgo narrò che un'aquila scese dall'alto delle nubi, intrise l'ala destra in quel regio sangue, e tosto risalì al cielo. Era sangue di re, che un re aveva fatto scorrere, giustificato dal diritto della vittoria, e dimenticando che la vittoria non è sempre pei forti. Non in terra sacra, ma nel sabbione del luogo stesso del supplizio furono sepolti i cadaveri sotto un cumulo di pietre; poi si narrò che i frati disseppellirono le ossa di Corradino, e le inviarono alla madre. Al posto poi della cappella fu elevata la chiesa di Santa Maria del Carmine; ma la lapide che or rammenta quella catastrofe fu posta solo nel secolo passato per cura di Michele Vecchione; ed è tradizione destituita di fondamento che Elisabetta dalla Baviera venisse in persona, sopra una galea tutta nera, a raccoglier il corpo del figliuolo, per farlo seppellire in una chiesa da lei fondata; e che in memoria di ciò, quei frati ponessero una statua colla borsa in mano: statua che or mutila è abbandonata in un magazzino del Museo degli Studj. Regnando Giovanna I, un cuojajo napoletano, di nome Domenico di Persio, si ricordò di quell'infelice che i parenti principeschi aveano dimentico, e dalla regina si fe' cedere il terreno dov'era stato ucciso, e vi fece erigere una cappella, con una colonna sormontata da una croce colla Madonna e la Maddalena e il simbolo affettuoso del pellicano. La confraternita dei cuojaj la prese in cura, e vi facea celebrare nella solennità, finchè la cappella non bruciò nel 1785. Ora la colonna vedesi ancora al vestibolo della sagristia nella moderna chiesa delle anime del purgatorio, e la croce staccatane è nella sacristia stessa sopra un altare. Ricordano Malaspini, e dietro lui il Villani e gli altri annalisti, narrano che al supplizio assisteva Roberto conte di Fiandra, genero di Carlo, e che, udita la sentenza, si avventò al protonotaro esclamando: _Malnato! tocca a te condannar un signore sì nobile e gentile?_ e lo trafisse. Il colpo sa talmente del francese, che romanzieri e tragici l'han ripetuto, e la storia docilmente l'adottò. Per disgrazia degli amatori del dramma in un _memoriale dei podestà di Reggio_, inserito nel tom. VIII dei _Rerum italicarum scriptores_, si trova che il 18 ottobre Margherita di Borgogna, nuova sposa di Carlo D'Angiò, arrivava a Reggio, e vi si fermò, ed ivi giunse a incontrarla Roberto, alla fin del mese, quando appunto accadeva il supplizio di Corradino. Poi nel lib. III pag. 215 del Summonte, _Historia di Napoli_, è riferito un diploma reale del 15 dicembre seguente, dato per mano di maestro Goffredo di Belmonte, e _Roberto di Bari_ protonotaro del regno. Ogni scolaretto ha inteso raccontare che Corradino dal palco gettò un guanto, come segno che invitava alla vendetta il suo erede, che era Pietro d'Aragona, al quale fu portato da Enrico di Waldburg; e qui appiccicano la storia di Giovanni da Procida e del vespro siciliano; storia divulgata in modo così differente dal vero. Di questa non dobbiamo ora parlare; il fatto del guanto non leggesi in veruno storico napoletano avanti del Collenuccio; però già prima n'avea parlato Giovanni abate di Victring in Carintia, che fece una cronaca nel 1344: autorità lontana di tempo e di luogo. Del resto come c'entrava Pietro d'Aragona? Costui aveva sposato Costanza, figliuola di Manfredi, figlio naturale di Federico II e usurpatore del trono a danno di Corradino; sicchè questi, nel manifesto che indicammo, lo designava per usurpatore e spergiuro. Possibile che ora volesse indicarlo come erede? Da Federico II era nata leggittimamente Margherita di Svevia, maritata in Alberto langravio di Turingia, alla quale avria potuto competere l'eredità degli Hohenstaufen, se altrimenti non n'avesse già disposto la spada; e lei infatti aveva il re Corrado designata erede, qualora si estinguesse la linea mascolina. E quando Pietro d'Aragona, per giustificare l'assalto della Sicilia, cercò altri titoli che la chiamata del popolo, non allegò questo guanto, nè la successione a Corradino, ma bensì quella a Manfredi. Federico di Turingia (noto nella storia col nome di Federico il Morsicato per un morso datogli alla faccia dalla madre quando fuggiva da suo padre Alberto il Depravato) non dimenticò i suoi diritti al regno di Sicilia e ne prese il titolo; sotto il quale diede concessioni e ricevette ambasciate dalle città lombarde e dalle sicule; ma ben tosto i vespri siciliani vennero ad avvertire che vi ha qualche altro diritto superiore alle regie convenzioni. 1856. GIANGIACOMO MEDICI Giangiacomo, detto il Medeghino, era nato in Milano il 1498 da Bernardo Medici, e da Cecilia Serbelloni. Suo padre, più ricco di prole che di denaro, adornò coll'umane lettere l'animo del figliuolo, il quale, in leggendo le lodi profuse agli assassini classici, chiamati eroi, s'invaghì d'imitarli; — non prima, non ultima colpa di quelli che encomiano i distruttori degli uomini. Entrò Giangiacomo nel mondo in un'età quando, siccome avviene dopo le rivoluzioni, «ognuno (traduco le parole di Enrico Dupuys) si facea legge il proprio talento: la gioventù, lieta dell'agitato imperio, operosa di brighe e scapigliata, insolentiva, tumultuava, facea violenze: i magistrati, postergato l'amor della patria e della virtù, solo i proprj interessi prendevano a cuore, soprusavano nella giustizia, agevoli ai ribaldi, molesti agl'incolpevoli: tutto per chi avesse denaro: la virtù e l'ingegno erano tolti a ludibrio, i buoni in odio, una signoria crudele, empia, intollerabile: ambizione, avarizia, libidine in luogo di legge: in ischerno il diritto: matrone e vergini chieste pubblicamente ad osceno mercato: se ricusassero, la forza»[26]. Aggiungiamo che i nomi di Guelfi e Ghibellini, i quali una volta aveano indicato i fautori o dell'indipendenza d'Italia anche a scapito della libertà, o della libertà anche a diminuzione dell'indipendenza, allora esprimevano fazioni, mutanti colore dalla state al verno, e dedite a bassi interessi e a straniere ambizioni. La nostra indipendenza minacciata, o dirò meglio, già perduta da che se la disputavano Francesi, Tedeschi, Spagnuoli, con armi disuguali, ma tutte infestissime, toglieva agl'Italiani l'occasione di utili combattimenti per la patria, ed al valore uno sfogo nobile e generoso. Il Medeghino pertanto, veduto andare il mondo diviso fra oppressori ed oppressi, scelse d'esser fra i primi; e di soli sedici anni _con virile vendetta_[27] trucidò un nemico: tristo preludio a carriera di sangue e di corrucci. Cercato al castigo, rifuggì nel mestiero delle armi: e non frenato mai dalle difficoltà nè dalla coscienza, in un tempo che sonava tutt'uno audace e buono, acquistò la rinomanza che il mondo è così facile a concedere ai capobanda. Gli stabiliti confini e l'imminente servitù, portata dal prevalere degli Spagnuoli ai Francesi, non aveano ricondotto la pace in Lombardia, e meno nelle terre comasche. Antonio, detto il Matto da Brinzio, terra del lago di Como, ribaldo d'agreste schiatta e di man pronto, mantellandosi da eroe sotto il nome d'un partito, come si fa qualvolta i partiti caldeggiano, perseguitava con uno stormo di bravi i fautori di Francia, catturava, furfantava, rapiva figliuoli per ostaggi, e per trarne gravi riscatti, oppure gli uccideva, raffinando l'ingegno ne' supplizj. Quelli del suo colore lo inneggiavano capitano, eroe, liberatore; gli altri l'abborrivano come brigante, masnadiero. Molti laghisti, specialmente di Torno e Menaggio, armatisi a quella vendetta che la legge non facea, stimolati sotto mano anche dal maresciallo Trivulzio, che pretendeva al suo castello di Musso il dominio delle Tre Pievi (così chiamano le estreme terre del lago), colsero il Matto e l'amazzarono; e sei giorni dopo, l'altro capo di masnade, Pelosino da Sala. Ma Giovanni, figlio del Matto, scellerato di professione, che come gregario, aveva militato sotto ai Veneziani, raunata la banda del padre, col nome di vendicarlo predò per oltre due anni il lago, rinnovando tutti gli eccessi del Matto. Ajutato dalle Leghe Grigioni, si rideva della forza e dell'astuzia usata per pigliarlo; e la cosa andò di male in peggio, finchè, dopo molto tempo, si riuscì a sterminare que' masnadieri senza però poterne avere il capo. Il quale, sendogli stati banditi sulla testa quattrocento scudi, per non pagar le sue ribalderie il caro che gli sarebbero costate, andossene a portare sue ruberie sul Trevisano. Anche un Gisbelo di Val Porlezza, capobanda che per quindici anni la aveva messa a soqquadro, fu da' Menaggini sorpreso nell'afforzata sua casa ed appiccato. Così perduto ogni spirito pubblico, ogni generosa virtù, sono costretti gli storici a riempiere le pagine loro colle miserie nostre, con futili pompe, coi fiacchi delitti, solo retaggio a noi lasciato dai tristi governi stranieri. Ed è questo il tempo che alcuni intitolano secol d'oro! Giangiacomo fu amico e vindice del Matto. Carissimo a quel Girolamo Morone che e senno ed astuzia e perfidie mise in opera per salvare l'indipendenza della Lombardia, coi Ghibellini fervorosamente adoperò in rimettere nel ducato Francesco Maria Sforza, e, appostato un corriere francese, lo assassinò, e dalle lettere di esso ricavò notizie opportune. Coi primi soldati di Carlo V entrò in Milano, ove agitò aspre vendette del sofferto esiglio; poi combattendo sulle sponde del Lario, più volte aveva abbattuto i Francesi, ed erasi fatti amici e nemici assai. Avendo quivi battagliato intorno al castello di Musso, anzi per suo principal merito essendo questo tolto di mano ai nemici, parendogli tutto al suo talento, avea fatto disegno d'acquistarne il dominio. Dilettatosi di questa speranza, si condusse a Milano a chiederlo, in considerazione dei molti servigi renduti. Ma veniva mandato d'oggi in domani, finchè il duca, che, non differente dagli altri signorotti di quell'ora, non si faceva coscienza degli utili tradimenti, gli lasciò intendere che era al tutto in lui l'acquistarsi quella rôcca, sol veramente che togliesse dai vivi Astore Visconti, che chiamavano il Monsignorino, cavaliere milanese di gran nome, la cui parentela, la popolarità ed il turgido ingegno lasciavano a temere non mescesse novità per rimettere nella prisca grandezza la propria famiglia. Giangiacomo fece come il duca accennò; ma questi, o piuttosto il Morone, che allora aggirava ogni cosa, vedendosi in grand'odio perchè lasciasse impunito l'assassino di Astore, stabilì disfarsene. Inviò dunque Giangiacomo a Giambattista Visconti castellano di Musso, con ordine manifesto di cedergli il castello, ma con segreto di ucciderlo. Chi è in difetto è in sospetto, e il Medeghino, che conosceva troppo bene i tempi, il Morone e sè stesso, violò la lettera, e v'ebbe letto il pericolo. Nè per questo atterrito, e consigliatosi col fratello, che fu poi papa, contraffece un ordine del Morone al castellano, che senza indugio andasse a Milano, cedendo in man d'esso Medici la rôcca[28]. Sortitogli a desiderio l'inganno, ne venne al possesso; non si diede per inteso delle sinistre intenzioni del duca, il quale del pari trovò del suo conto chiudere un occhio. Tanta era in quei giorni la lealtà dei principi e dei privati! Il Macchiavello avea troppi modelli a quel suo ritratto, esecrabile quand'anche se ne guardi l'elevato fine. Sul ciglio d'uno scosceso promontorio alla destra del lago di Como ove in maggior ampiezza si dilata, a sopraccapo della borgata di Musso innalzasi quel castello, che dicono di Sant'Eufemia, e che ha per naturale riparo da tre bande inaccessibili balze in precipizio, a spalle una alpestre scogliera. La torre di mezzo sta da tempi anteriori alla tradizione, e forse è delle antichissime difese de' Galli, o almeno de' Longobardi. Tra quella torre e il lago, i Visconti murarono una rôcca quadrata, per difesa e soggezione dei paesi finitimi. Quando l'ebbe il maresciallo Trivulzio, avendo le artiglierie mutato il modo di guerreggiare, pose presso il lago, al cominciare dell'erta, un baluardo, ove collocare le bombarde, e attorniò d'un muro le due rôcche. Trovò Giangiacomo questi lavori imperfetti: li compì; dirupò ove fosse alcun poco d'agevole; scarpellò verso il monte un fossato, il cui fondo seminò di triboli, di lamine e d'aguzzi stecconi, che tristo a chi vi desse dei piedi: dispose merli, vedette, feritoje con tale opportunità e saldezza di lavoro da fare che quel luogo, per natura forte, divenisse inespugnabile, tuttavolta che bastassero l'acqua ed il vitto. Nelle quali opere fin le donne s'affaticavano di forza, animate dall'esempio di Clarina e di Margherita, sorelle del Medici; la prima delle quali sposò poi Wolfango Teodorico Sittich signore di Altemps, l'altra il conte Giberto Borromeo, e divenne madre di san Carlo. Ivi dunque il Medeghino acciarpò un popolo di truffatori e scampaforche, e quelli d'ogni sorta, paesani ed avveniticci, che tutte le rivoluzioni sogliono lasciar sulle strade, e che bramassero ricovero e soldo, pronti a far quello e peggio ch'egli volesse. Là entro tutto era vita di guerra. In ogni dove rumor d'armi, accordo di pifferi e tamburri: chi impara le mosse, chi fa cartucce, chi tondeggia palle, chi trae a mira ferma: e per insegnare a quella bordaglia l'arte difficile e sì necessaria in guerra dell'obbedire, Giangiacomo teneva un consiglio di togati, diretti dall'integerrimo messer Giannantonio da Nava, che alla spiccia rendessero diritto, mentre altri regolavano le finanze. Anche esperti capitani ed artieri avea seco, e mi basti nominare Agostino Ramelli da Pontetresa, macchinista di gran nome, che per alzar l'acqua, i ponti, i pesi, inventò molti ingegni, pregevoli assai, e più se fossero più semplici[29]. Ebbe il Medeghino mezzana statura, membra proporzionate, petto ampio, viso bianco ed ilare, guardatura dolce e penetrante, parlar facile e naturale, nel dialetto più basso del paese; vestiva poco meglio che soldatello, il che unito a quella sua maniera alla soldatesca, lo rendeva assai popolare. Pochissimo dormiva; i piaceri del senso non cercò, unico diletto suo dicendo il pensar alla guerra ed alla casa; negl'istanti di riposo raccoglievasi sotto una tenda, e seduto s'un forziere, rosicchiando le ugne meditava e risolveva. Adottato un partito, e più volentieri appigliandosi ai più arrisicati, gli effettuava con risolutezza. Affabile con tutti, ma severissimo, anzi spietato nel mantenere la disciplina; audace all'immaginare, pronto al compire le imprese: insofferente del riposo, fantaccino o capitano secondo occorreva, amato e venerato insieme da' suoi dipendenti; inflessibile lo provavano i nemici e i trasgressori de' cenni suoi: chi sel guadagnasse, ne traeva e denaro al bisogno e braccia per ottener la sicurezza propria o minacciare l'altrui. Menando a battaglia, non tenevasi in mezzo a' soldati, ma da banda ove potesse veder l'ordine e la mischia. Quanto le limitate fortune glielo permisero, usò splendidezza e generosità. Quivi il Medeghino applicò l'animo a legarsi lo Sforza con qualche importante servigio; e tale fu l'essersi opposto ai Grigioni, che dall'asprezza del natio suolo s'affrettarono alla primavera del cielo italiano, dove gl'invitava re Francesco I di Francia a prodigare il loro sangue per una causa straniera. Il Medeghino affogò o trasse in sua forza tutte le navi, sicchè furono essi costretti per montane vie costeggiare il lago e venire nel Bergamasco, bezzicati senza tregua da quel capitano. Il quale poi, per costringerli a tornare indietro, assalì le Tre Pievi, dove tenea pratiche, e chiamatele alla desiderata libertà, corse per la valle di Chiavenna, portando ruina e strapazzo a quelle terre, dominate allora dai Grigioni. Al pericolo, il governo retico dovette richiamar i suoi guerrieri, capitanati da Dietegano Salis, i quali frenarono bensì le baldanzose correrie del Medeghino, ma non fu che gli potessero svellere di mano quanto avea già occupato. Si volsero dunque i Grigioni al duca, che, desiderando cessarne le nimicizie, confermò loro tutti quei possedimenti, restituì le barche tolte dal Medeghino, purchè dessero parola di più non osteggiar il Milanese. Il Medeghino, non curandosi più che tanto dell'accordo, si mantenne a viva forza in possesso delle Tre Pievi. Poco dipoi, re Francesco rinnovò le ostilità contro il ducato; e al primo ridergli della fortuna, i Grigioni, rotta la fede, ripresero l'armi contro il Milanese, e con larghe promesse e colla fiducia ne' soccorsi e nel denaro di Francia, procurarono di trarne dalla loro il Medeghino. Questi però era stato preoccupato dal duca, che, posponendo l'odio al vantaggio, gli assegnò buono stipendio e il perpetuo governo di Musso, del lago, della Valsassina e anche di Chiavenna, se riuscisse ad impadronirsene. Fu aggiungere sproni a buon corsiere: ma arduo quanto importante era l'occupare il castello di Chiavenna, il quale, dominando le vie che apronsi verso i varchi della Spluga e della Pregalia, sta antemurale contro i Grigioni. Vogliono far rimontare sino ai Galli l'erezione di quel castello, una parte del quale siede al piano, quasi guardia del borgo; l'altra detta il Paradiso, sovra il ciglione di un'erta rupe, cinta da doppio muro e dalla Mera, e non accessibile che per uno stretto viottolo, approfondito a punta di picconi e di scalpello nella pietra ollare, indi per una lunga scaliera, anch'essa ricavata nel vivo nel sasso, ed agevole a guardarsi a mano di pochi. Torlo a forza era dunque impossibile: onde il Medeghino ebbe ricorso all'astuzia, e ne affidò l'impresa a Mattiolo Riccio da Dongo, detto il Pelliccione, uno de' suoi più arrisicati. Questi ed una mano di prodi di sperimentata fede si posero occultissimamente entro il primo vallo che cingeva la pensile via, dove per ventura il fiume aveva aperto una breccia; ed ivi stettero attendendo, nello stridore d'una notte invernale, guazzosi e presso a intirizzirsi, se non che li ravvivava il coraggio. Era gran pezzo di notte quando Silvestro Wolf, castellano grigione, tornò d'aver goduto un banchetto a Chiavenna. Al quale tosto sono addosso i cagnotti, imponendogli, coi coltelli alla gola, di dar il solito segno, perchè s'abbassasse il ponte levatojo. Resisteva l'uomo, preferendo la morte al tradire i suoi: ma un figlioletto che seco menava, spaurato dalle minaccie e dall'armi, cominciò a gridare e chiamar la mamma, che fattasi ad uno spaldo, e inteso il pericolo di que' suoi cari, fece senz'altro levare le saracinesche e calare il ponte. Così penetrati, stettero senza rumore. La mattina seguìta, essendo giorno festivo, i principali del paese montarono, come solevano, a salutare il castellano, ed uno e due e tre fin a venti entrarono senza che uom ne uscisse. Taluno alfine ebbe scorto in sugli spaldi gente d'armi diversa dalle consuete, e non sapendo che volessero importare, entrò sospetto, e si diede nelle campane e all'armi. I Medicei resistettero da par loro, fin tanto che il Medeghino istesso sopraggiunto, valendosi di quegli imprigionati come di ostaggi, ebbe in potere anche Chiavenna, e corse la Pregalia, concedendo la preda ai soldati, nuovo infervoramento alla guerra. La presa di quel borgo costò al Medeghino una fucilata, che gli tolse il potere più divenir padre. Era stato in quest'impresa soccorso da Gherardo conte d'Arco governatore di Como, col quale concertò di conquistare la Valtellina. E senza por tempo in mezzo v'entra, occupa Delebio e Morbegno. Ma non appena si fu egli ritirato, Giovanni Travers engaddino, governatore della valle, colle cerne paesane diede addosso al conte d'Arco, lo ruppe, e costrinse ad abbandonar le conquiste. D'altra parte i Grigioni, dato alla presa di Chiavenna la spiegazione più plateale, cioè il tradimento, decapitarono il castellano Wolf, e toccate le campane a stormo, benchè nel rigore del gennajo movevano a ricuperar quel borgo. Conoscendo però non potere levarsi quello stecco dagli occhi senza truppe regolari, mandarono ordini ai loro che militavano al soldo dei Francesi in Lombardia perchè ritornassero, stimando prima vittoria il conservare l'acquistato. Fu questo il massimo servigio che il Medeghino potesse prestare allo Sforza: poichè la partenza di que' lancieri, in cui stava allora il nerbo delle battaglie, tanto peggiorò le cose di re Francesco che nella famosa giornata di Pavia fu sconfitto e preso egli stesso, _perdendo tutto fuorchè l'onore_. Poco dovette dunque rincrescere se la vittoria sorrise ai Grigioni sì in Valtellina, donde snidarono affatto i ducali, e sì a Chiavenna, che ricuperarono. Anche quel castello, stato assai alla dura, si rese a buoni patti d'armi appunto la vigilia della battaglia di Pavia, e tosto i Grigioni fecero strascinare nella Pregalia i cannoni, e dai terrieri smantellare la rôcca, come pure ogni bicocca e terra murata di Valtellina (1526). Restarono però le Tre Pievi al Medeghino, che tratti a sè nuovi satelliti col largheggiare, si diede al corsaro, predando le navi, imprigionando persone per vantaggiare sul riscatto; e inteso a stendere il proprio dominio, ebbe a sè Porlezza e la Valsassina. Tra ciò Francesco Sforza era caduto in grave malattia: sicchè temendone la morte, erasi fatto trama, massime per opera del Morone, di trasferire il dominio in suo fratello Massimiliano, affinchè non ricadesse il ducato in Carlo V, esoso ai principi pel crescente potere, ai popoli per la sfrenata soldatesca. Ma venutone sentore al falso cuore del marchese di Pescara, occupò Milano a nome dell'Imperatore: ed anche a Como, per invito de' terrazzani, pose un presidio spagnuolo, capitanato da Pietro Arias. Così lo Sforza perdette lo Stato, e la Lombardia l'indipendenza. Giangiacomo Medici non s'era piegato agli Spagnuoli; anzi opere di leone e di volpe usò contro di loro, e non era impresa che non gli venisse ben fatta. Si finse una volta partito ad un lungo viaggio, e mandò uno scaltrito che offerse agli Spagnuoli di metterli in potere della rôcca di Musso. Essi, avendo creduto, inviarono alcuni: e il castellano li prese ed appiccò, col danno e colle beffe. Allora, buttata giù la buffa, si pose a sfavorire apertamente la Lega Santa, che erasi ordita per ultima ruina alla lombarda indipendenza: e sfogossi contro Como, amica, o dirò più giusto, serva de' Cesarei. Debolissimi erano i provvedimenti contro di lui, sicchè su navi sottili correndo con rapine, prigionie ed arsioni il lago tutto, e facendo sua roba della roba di chicchefosse, si affacciò sino al borgo Vico di Como. Da terra poi acquistato il castello di Monguzzo, presso al Pian d'Erba, vi pose a guardia suo fratello Battista, come a Civello uno sbandito di Como, Luigi Borserio, che facevano star la campagna così che non poteva star peggio. Egli poi, a capo di quattromila, cerniti i più da Lugano, Bellinzona e Chiavenna, prese il borgo di Cantù, occupò i luoghi principali della Brianza, tutta sparsa di castellotti dominati da feudatarj, e corse sino ai forti di Brivio e di Trezzo sull'Adda, presidiati a diligenza dagli Spagnuoli. E sebbene, mentre si avviava a soccorrere Milano, toccasse dagli Spagnuoli una piena rotta a Carate presso il Lambro, nondimeno conservò tutte le conquiste. Nè meno de' nemici nocevano al Comasco i difensori, lupi custodi del gregge, che succhiavano e cittadini e campagnuoli con gravose tolte; ed oltre gli alimenti, in cui spendeva il Comune cento scudi d'oro quotidiani, rubavano grano, liquori, panni; se qualche cosa avanzava, se la portavano i comandanti, esattori violenti delle pubbliche imposte; per insatollare le ladre brame degli Spagnuoli, si dovettero vendere alla tromba, non che i beni degli assenti, quelli ancora di presenti; e molti, fin donne, per impotenza a pagar le tasse, furono cacciati in prigione. Dava ombra al debole governo la forza della città di Como che s'era nelle passate guerre mostrata poco o tanto capace di resistere: sicchè, col pretesto che potessero venire occupate dal Medeghino, si diroccarono molte fortificazioni; perfino il castel Baradello, ove tenevasi scorta e munizione di cibi e d'armi, fu per ordine del Leyva smantellato, mandando con somma fatica in ruina le parate, i ridotti, le stanze, la cappella di San Nicolò, lasciando appena la torre, che fra quei ruderi rammenta tuttavia in quali tempi quell'edifizio venne ristaurato, in quali distrutto. Impedito poi ogni commercio col lago, chiuso fin il porto per assicurarsi dell'armata medicea guidata da Francesco del Matto, di giorno in giorno si facea più viva la penuria, cresceano i languenti, chi non piangea aveva il singhiozzo, e per tutto un contar guai, un cercar pane, una continuità di miseria e di morte. Un cronista scriveva nel suo zibaldone: «La terra da soldati et di fame è rovinata, et io ne ho visto che, volendo extirpare herba per mangiare, caschare indreto, et così di penuria atenuati morire: sì che pregate il maximo et optimo Dio che ne difenda da tal condizione et dalle mani degli stranieri.» Volevasi altro che i deboli sforzi de' Cesarei a reprimere il terribile Giangiacomo. Il quale campeggiò Lecco (1528), e sebbene ne fosse snidato dai sovraggiunti soccorsi, pure quei della Santa Lega, conoscendone per prova il valore, mossero ogni pietra per tirarlo dalla loro. E vi riuscirono: onde, mutate le croci bianche in rosse, disertò dal duca all'imperatore, dalla causa nazionale alla straniera, e ne fu ripagato coll'investitura del castel di Musso, da cui prese il titolo di marchese, aggiunto il dominio del lago da Nesso in su, e Lecco, di cui si proclamò conte. Per esercitare interi i diritti della sovranità, fece anche battere moneta nel suo staterello; in questo nulla più riprovevole dei re e delle repubbliche d'allora, tutti legali falsarj del denaro[30]. E siccome il Leyva, sempre mal agiato di moneta, ne chiedeva al Medeghino, questi prometteva gran somme, purchè gli desse Como in pegno; e a poco più l'otteneva. Per consolidare il suo dominio nelle Tre Pievi rinforzò la torre d'Olonio, posta allo sbocco della Valtellina, e singolarmente la sua di Musso; poi si diede in corso pel lago, mentre il Borserio guastava la terra ferma. La flotta di lui era numerosa di sette navi grosse, da tre vele e quarantotto remi, e munite di bombarde che scagliavano palle da quaranta libbre, oltre un'infinità di legni spediti. Per sè teneva riservato un brigantino di gran capacità, coi migliori remiganti; tramezzati da fucilieri, e con questo dominava il lago, anche quando era maggior travaglio di venti. Là sciorinava lo stendardo dalle palle d'oro in campo rosso, e quel brigantino stesso col motto _Salve, Domine, vigilantes_, era stato da lui tolto per divisa. E poichè la virtù spesso è ridotta a prostrarsi a piè del delitto ed invocare la permissione d'essergli sostegno, fortunato reputavasi chi acquistasse l'amistà del Medeghino, e guai a chi ne provocasse gli sdegni! Ben se lo seppe Polidoro Boldoni di Bellano, che richiesto delle nozze d'una sua sorella, osò rispondere non voler legare parentela con ribelli e ladroni, e ne seguì l'eccidio di quasi intera la famiglia[31]. Ai padroni del mondo parlò una volta in cuore alcuna pietà della Lombardia, senza vantaggio sterminata; sicchè finalmente conchiusero la pace (1529), per la quale Carlo V si obbligava a restituire il ducato a Francesco Sforza verso il pagamento di novecentomila ducati d'oro: per sicurtà di essi l'imperatore occuperebbe Como e il castello di Milano. Il Medeghino, sdegnando obbedire al duca, e possente d'oro, d'uomini e di delitti, più sempre estendeva gli ambiziosi disegni. Il cognato conte di Altemps gli assolderebbe truppe in Germania; col Borromeo avea pratica per ottenere Arona, e così porre piede nel Lago Maggiore: già teneva una rôcca in Valsoda, barche sul lago di Lugano, intelligenze a Bellinzona, gli occhi sulla val Leventina; stringerebbe lega difensiva cogli Svizzeri; e poichè si faceva delle cose umane a chi più tirava, chi sa che, nella discordia dei voleri e nel conflitto delle ambizioni, non riuscisse a ciuffarsi il ducato di Milano? Vôlto a dar corpo a queste ombre, e già inorgogliendo della speranza, cominciò dall'impresa della Valtellina, disponendo agli inganni il suo pensiero. Procurò metter vescovo di Coira Giovannangelo suo fratello, allora arciprete di Mazzo, poi divenuto papa Pio IV: ma avvedersi i Grigioni dell'intenzione e sventarla fu tutt'uno. Mandò allora un suo fidato, che, col sarocchino e il bordone e con devoti atti da pellegrino, si pose alla Ràsega, luogo oltre Tirano, ove acconciandosi pie parole in bocca, persuase i popoli alla devozione verso san Rocco come riparo ai fieri contagi d'allora, fe' gettare le fondamenta, diceva egli, d'una chiesa, che in fatto dovea riuscire una fortezza. Affascinati dalla superstizione, davano i Valtellinesi e oro e mani per elevar la rôcca: ma scoperto infine, e distrutte le opere sue, il bugiardo pellegrino n'ebbe assai a campar la testa. Allora, ricorso alla forza aperta (1531), Giangiacomo assoldò Tedeschi e Spagnuoli, e condottieri lasciati senza stipendj dalla pace, tutti uomini avvezzi a disprezzar ogni legge per soddisfare ogni voglia; ed armate tante braccia e le sue, sbarca in Valtellina, dove sostenuto da amici, e massime dai frati, s'insignorisce di Morbegno, sparpaglia le truppe raunaticcie de' Grigioni, uccide Giovanni del Marmo governatore della valle ed i prodi Martino Travers e Dietegano Salis, ed a tutti i principi annunzia in voce di trionfo una vittoria sì segnalata. E poichè spargeva di far ciò tutto d'intesa col duca, i Grigioni mandarono a questo un ambasciatore a prender lingua del vero. Ma il Medeghino lo fece in un agguato ammazzare. Rimase pertanto ai Grigioni la convinzione che il marchese dicesse il vero, fin quando un legato dello Sforza, trapelato fra le insidie, narrò ai Reti come il fatto stesse, e che il duca, non che aver mano a quell'impresa, gl'invitava ad ajutarlo a liberarsi da quell'audace ribelle, promettendo loro trentamila zecchini se ricuperasse quanto possedeva avanti la guerra. Fece anche impedir gli ausiliarj che venivano al Medici, e richiamare gli Spagnuoli che stavano a suo servigio, i quali, vista mal parata la cosa, facilmente obbedirono. Ad essi il Medeghino sostituì dei prodi laghisti, e continuò pertinace, benchè fosse bandita una grossa taglia addosso a lui ed a' suoi fratelli. Ma il cielo s'oscurava. Da una parte movevano diecimila Grigioni, dall'altra i ducali guidati per terra da G. B. Speziano e per acqua da Lodovico Vestarino: mentre Alessandro Gonzaga, duca di Mantova, marciava sopra Monguzzo e gli altri castelli mediterranei, che con brava battaglia sottomise. Il Medeghino, che non aveva mai creduto volessero i montanari condurre a proprie loro spese la guerra, non fece ancora come sbigottito; e respinto dalla Valtellina, raccozzò i suoi a Mandello, e nell'acque di Menaggio fe' giornata colla flotta ducale; ma benchè combattesse con un valore degno di miglior causa, ne andò colla peggio. Frattanto Grigioni e Svizzeri, superando col numero il valore de' Medicei, si avanzarono nelle Tre Pievi, e posero assedio al castello di Musso, trascinate con ineffabile fatica le artiglierie su gli inaccessi rocchi di quello scoglio. Ma vola al soccorso il Medeghino, cui la trista fortuna non iscoraggia, e con una presa di fortissimi, per vie note solo a lui ed alle capre, si aggrappa sopra la montagna, ruzzola nel lago le bombarde de' Grigioni, sbaraglia gli assedianti, nell'ardore della vittoria li rincaccia da Bellagio, da Varenna, da Bellano; ridottosi poi a Lecco, non solo manda a vuoto gli sforzi del Gonzaga, ma così bene coglie il suo tempo che, audacissimamente penetratogli di notte nel campo, fa prigioniero lui stesso, e a Malgrate riporta sui ducali un'insigne vittoria. Però in battaglia avea perduto Francesco del Matto, avventato garzone; poi il Borserio, braccio suo principale, e quel che più al cuore gl'increbbe, il fratello Gabriele: onde disanimato da tante perdite, esausto di moneta, e stanco forse di tempestar fra le speranze e i timori d'una minacciata ambizione, pensò raccorre le vele. Prima si proferse a Francesco re di Francia, significandogli esser ad ogni suo comandamento se mai volesse ritentare la calata in Italia. Ma quegli se ne rese malagevole, benchè molti l'esortassero ad afferrare il ciuffo alla fortuna. Giangiacomo fece dunque gettar parole a Carlo V e a Ferdinando d'Austria, chiedendo buone condizioni, i quali pressarono il duca sì, che stipulò con lui in questi termini. Il marchese restituirebbe le rôcche di Musso e Lecco, ricevendo in compenso trentacinquemila scudi d'oro ed una signoria pel valore di mille ducati l'anno: il duca trasporterebbe a proprie spese le artiglierie ed ogni arnese del Medeghino, e procurerebbe la vendita del grano e del sale di lui; ad esso Giangiacomo poi «ed a tutti li fratelli et tutti quelli che li hanno servito, concederà gratia ampla et generale de tutti li loro excessi et delicti commessi, etiam che fossero tali che recercassero speciale et individua mentione, come sarebbe crimen lesæ majestatis, di modo che non saranno vexati directe nè per indirecto, nè se li potrà procedere per alchuno indice, et saranno restituiti li loro beni a tutti.»[32] Nel marzo 1532, quel famoso avventuriere, al cui orgoglio troppo era grave l'obbedire un solo istante là dove era uso governare ad una rivolta d'occhi, salpava dal suo Musso. Ma dato appena dei remi in acqua, volgendosi a guatare il suo ricovero di tanti anni, scorge i Grigioni, che impazienti si precipitano a demolirlo. Non sa frenarsi l'impetuoso, e risortagli in cuore l'antica baldanzosa volontà, fa porsi a terra, sbanda quella ciurma, e dispettoso e torvo impone rispettino il suo nido, fin almeno ch'egli non sia fuor di vista. In quanto appena il disse cessò il martellare, e solo dopo che la punta di Mandello ebbe tolto di veduta il partente suo brigantino, si demolì a picconi e a mine quella rôcca. Le ruine, vaste e solide quasi opera romana, rimasero lungo tempo spettacolo di terrore ai naviganti, che da lungi nominandole a dito, narravano i casi ond'erano state teatro. Oggi ancor sopravanzano, e nel mezzo intatta la chiesetta di Sant'Eufemia, che tra i disastri durò come l'anima del giusto fra le tempeste della vita.[33] Quest'avventuriere, che, tra per forza d'armi e per arti d'inganno, non può essere domato dal duca di Milano, dai Grigioni, dal re di Francia, da Carlo V padrone di mezz'Europa e dell'America, rivela la debolezza dei reggimenti d'allora, e ci chiama alla mente Alì bascià di Giannina, che ai giorni nostri resistette invitto a tutta la potenza de' Turchi. Fu questa l'ultima guerra nazionale che si combattesse in Lombardia. Giangiacomo, titolato marchese di Melegnano, ma ormai uomo d'altrui, prese soldo dal duca di Savoja, servendolo a nome di Spagna; ed elevossi fino a mastro di campo, pel favore di Anton di Leyva governatore del Milanese. Ma a questo succedette (1526) il marchese del Vasto, che avendo ruggine antica col Medici, colsegli addosso cagione di perfidia, e invitandolo a pranzo, dopo un allegro bere, il fece arrestare, e lo tenne prigione diciotto mesi. E principi e re scrissero in favore di lui, tanto che per ordine espresso di Carlo V fu liberato. Passò allora in Ispagna, ove Carlo V con gran favora l'accolse, e l'inviò a reprimere i cittadini di Gand ribellati, come fece: si condusse poi in Ungheria a soccorso di re Ferdinando contro i Protestanti; all'assedio di Landrecy trovossi, come generale d'artiglieria a combattere, contro altri italiani fuorusciti, e sperdenti per altri stranieri il loro valore: in Germania osteggiò la lega protestante insieme con que' tant'altri prodi d'Italia, cui la pace e la servitù della patria toglievano occasioni nazionali di guereggiare: fu sino vicerè di Boemia; sempre insomma ministro a despoti. Fatto poi generale della lega de' Medici fiorentini, del papa, dell'imperatore contro la toscana libertà, moltiplicò gli orrori di quella guerra; ed è in parte sua colpa se oggi ancora il viaggiatore piange la vasta solitudine che sterilisce intorno alla florida Siena. Fu allora che s'inventarono genealogie per provarlo d'un ceppo coi duchi di Firenze: ma egli potea dire come Napoleone: — La mia nobiltà comincia con me». Dall'Elba e dal Tibisco non dimenticò esso gli antichi suoi disegni; e dopo il 1547 scrisse per indurre Carlo V a conquistar la Valtellina, proponendo suoi avvedimenti guerreschi, ed offrendosi anticipare all'imperatore metà delle spese ed il dieci per cento dell'altra metà, purchè gli venisse in feudo quel territorio. Non gli diedero ascolto. Sposossi in Milano a Maria Orsina, figlia del conte di Pitigliano, altro famoso capitano di ventura; e quando ivi morì agli 8 ottobre 1555, il senato vestì a lutto e fu con gran pompa deposto nella metropolitana, ove si ammira il mausoleo, eretto a lui ed a suo fratello Gabrio, per disegno di Michelangelo e lavoro di Leon Leoni aretino, e che costò settemila e ottocento scudi[34]. E chi lo guarda, tristamente medita in che miserabili imprese fossero costretti e sfogarsi l'attività e il valore italiano, e a quali uomini prodighi onori e monumenti l'Italia, che è spesso matrigna a chi più la onora e la giova. BONA LOMBARDA Era il conte Pietro Brunoro uno di quei tanti capitani che, nel secolo XV, vendevano il valore proprio e quello d'un branco di seguaci a chi li pagasse per combattere cause altrui, e nuocere agli amici ed ai nemici. Insieme col Piccinino, altro più famoso capitano di ventura, condusse egli l'esercito de' Visconti in Valtellina nel 1432, per combattervi i Guelfi che aveano sottratto quella valle alla dominazione viscontea. Il Brunoro, mentre la presidiava coll'armi ducali, capitato a Sacco, villaggio d'industre agiatezza, ben piantato sul monte che fiancheggia Morbegno alla sinistra del Bitto, vide uno stuolo di fanciulle, in sottane di grossa lana che danno poc'oltre il ginocchio, con ben ricamati bustini, acconcie le treccie con un giro di spilloni d'ottone e con intrecciati nastri, come oggi ancora vi si costuma. Era giorno festivo, e guidava la danzante ilarità delle coetanee una donzella, brunetta anzi che no e di piccola statura, ma gagliarda bene e vivace, con una tale disprezzata leggiadria di adornarsi, un fare magnanimo troppo più che dal suo piccolo stato, che fermò gli occhi del capitano. Chiesto della condizione di lei, egli seppe come un Gabrio Lombardo di colà, militando sotto il duca di Sassonia, avea posto amore in Pellegrina, figliuola d'un mercante di Vestfalia, e di furto sposatala, ne avea avuto quella fanciulla, cui pose nome la Bona: e come questa ben presto orfana di parenti, rimase ad un zio, curato di Sacco, e tosto apparve, se povera di fortune, avventurata però di bei doni della natura. Ne crebbe curiosità e vachezza al Brunoro quando, accostatosele, la trovò, secondo sua pari, assai costumata e ben parlante, con umile franchezza ed accorta innocenza. La Bona, varcato il terzo lustro, era nel tempo che con maggior forza vengono le leggi della giovinezza: onde non è meraviglia se affissossi ella pure in lui volentieri, come sogliono le donne nei militari: e ben tosto mosse entrambi un vicendevole impulso d'amore. Venuto adunque il Brunoro a poco a poco domestico a lei, tolse un'abitazione là poco discosta; spesso la vedeva, la traeva a sè, e vestita da uomo l'addestrava alla caccia. Gli storici n'assicurano dell'illibatezza di lei. Stia a loro fede; noi sappiamo solo del brontolar che ne faceva lo zio pievano, il quale alla fine per iscampar vergogna alla nipote, indusse il Brunoro a sposarla, secretamente però che questi non ne patisse disdoro per la diversa condizione. Vien il tempo di uscire dalla Valtellina; e la Bona, in arnese di sergente, si offre alla fatica di seguitare il marito scotendosi dalle cure donnesche per sottentrare alle battagliere, nè per disastri di viaggi o per travagli in terra ed in mare lo abbandona mai; nè punto gli scema dell'affetto perchè se ne vegga trattata piuttosto da fante che da moglie. Intanto il Brunoro, com'era costume di quei capitani mercanteggiar del loro valore quando con questo, quando con quel principe, mutossi a' servigi di Alfonso il Magnanimo di Napoli: ma essendo con questo caduto in sospetto di fellonia, ne venne cacciato in prigione. Dieci anni vi languì, ognuno può facilmente immaginarsi con quanto accoramento della Bona, la quale ebbe in questo frangente il destro di attestare al mondo quanto amore la legasse al signor suo. Imperocchè, sempre in abito virile, si diede a correre tutte le Corti d'Italia, al re di Francia, al duca di Borgogna, ai Veneziani, impetrando da tutti buone attestazioni e preghiere per iscusar innocente e redimere il suo Pietro. Ricca di tante testimonianze, si presentò ad Alfonso, invocando la libertà del marito; nè il re, ammirata la costanza della Valtellinese, gliene seppe far niego. Non istette ella però contenta a sciogliere quei ceppi, ove, s'ella non era, avrebb'egli dovuto stentare l'intiera vita; e tanto s'adoperò che ottenne dai Veneziani conducessero il Brunoro a loro servigio con largo stipendio. Da quel punto, secondo il merito pagandogliene la mercede, il capitano se la tenne pubblicamente per moglie diletta, e da' consigli di lei non poco utile ritrasse. Con tolleranza e valore nell'armi da molto trascendendo la condizione del suo sesso, compariva o a capo della milizia, entrava innanzi a tutti gli assalti, faticavasi nelle zuffe; nè lieve incitamento era al valor dei soldati l'esempio d'una donna armata. Per non dir tutto, ricorderemo solo come una volta i Veneziani, campeggiando contro Francesco Sforza, perdettero il castello di Pavone in Bresciana, lasciando prigione lo stesso Brunoro. Poteva la donna non infiammarsi al danno del suo diletto? Raccoglie le sbandate reliquie de' marchesi: se ne fa guidatrice, più coll'esempio che colla voce le incora: piomba di nuovo sui Milanesi; li fuga: ricupera la perduta fortezza, e rende alla libertà il caro marito. Anche nei giuochi che si bandirono a Venezia nel 1457 per l'elezione del doge, toccò essa la palma per aver preso il gran castello di legno, difeso invano da destri soldati e capitani. L'alta idea che del valore di lei avea concepito Venezia fece sì, che venisse col marito spedita a difendere Negroponte, allora minacciata dal Turco, il quale con grande spavento dell'Europa veniva verso l'Italia inoltrando le sue conquiste. Finchè però ne stettero alla guardia il Brunoro e la sua donna non fu che quello procedesse. Ma il marito ivi morì, e la Bona si ricondusse a Venezia per ottenere dalla generosità della repubblica la confermazione dello stipendio paterno a pro di due suoi figliuoli, già destri nelle armi. Giunta però a Modone estenuata di forze, sconsolata dalla perdita di quel caro capo, dovette sostare, e sentendo avvicinarsi il giorno estremo, si fece preparare un magnifico sepolcro, e colà finì nel 1468. Se mi indugiai narrando di lei non fatemene colpa ben sarebbe a compiangere la condizione dello storico se non gli fosse concesso lasciarsi andare talvolta alla vaghezza d'una gioconda simpatia. Così il pellegrino affaticato dalla via, si ferma con diletto, e scolpisce il suo nome sulla quercia che protesse di ombra ospitale il suo riposo. Ben più volte mi meravigliai come in tempo che entrano di moda i romanzi storici[35], niuno abbia assunto ancora sì bel soggetto, che lo porterebbe a dipingere e la Lombardia, e il reame e quel mare e quelle isole che tengono ora fisso lo sguardo di tutto il mondo, ove una prode nazione vede finalmente coronati i sanguinosi sforzi che tant'anni durò per iscuotersi dal collo un intollerabile giogo. GIROLAMO CARDANO Nel 1663 Carlo Spoon, erudito di vaglia, raccoglieva e stampava in dieci volumi a Lione le _Opere_ di Girolamo Cardano milanese, filosofo e medico, assicurando che «fra i tanti scrittori del secolo precedente veruno ne era, le cui scritture sieno state ricevute e celebrate con maggior applauso ed ammirazione;» e che «l'autore da personaggi di gran nome fu intitolato dittatore delle lettere, da altri, uomo incomparabile; da altri, portento dì ingegno.» Vagliano le testimonianze dell'editore quanto i giudizj dei giornalisti, ma due cose son certe: che nessuno oggi legge quelle Opere, se non sia qualche _erudito_ che voglia _regalare_ agli umanissimi lettori un articolo in proposito; e che nelle scienze rimarrà perpetuo il nome del Cardano, non meno che nel catalogo abbastanza ampio delle bizzarrie umane avvegna chè egli sia stato illustre sapiente e insieme un deliro teosofista, provveduto di variatissima erudizione, eppur fecondo di pensamenti originali. Fazio Cardano milanese, studiando all'università di Pavia, conobbe una fanciulla, e da questa generò il nostro Girolamo nel 1501. Educato a Milano dal padre, valente giureconsulto, a 20 anni già spiegava la geometria d'Euclide a Pavia. Era il tempo che gl'ingegni ridesti sentivano un bisogno universale di esercitarsi alla ricerca del vero nelle scienze morali, come nelle naturali e positive; e molti attendeano a raffinare l'analisi antica, altri a perfezionare la nuova. Ma il linguaggio algebrico era al balbettare; appena sapeansi risolvere le equazioni di primo e secondo grado e alcune che ne derivano, nè s'era volta la riflessione sopra le radici negative o immaginarie. Algebristi italiani vi attesero; e Scipione Del Ferro bolognese nel 1535 trovò la soluzione d'un caso parziale d'equazione cubica x^3+p^x=q e ne comunicò il segreto ad Antonmaria Del Fiore, il quale pubblicamente sfidò in Venezia l'altro famoso algebrista bresciano Nicola Tartaglia. Consuete erano allora queste sfide, e il Tartaglia confuse l'emulo con una soluzione più generale. Questa, sotto giuramento, egli insegnò al nostro Girolamo Cardano, il quale, nella sala sua _Ars magna_, non si fè scrupolo di pubblicarla, affiggendole il proprio nome che le è rimasto, dicendosi anche oggi _formola cardanica_. Il Tartaglia ne mosse querela, il Cardano sostenne di avere ben sì avuta dal Tartaglia la formola del metodo di soluzione, ma trovata egli stesso la dimostrazione; e quanto alla formola, la scoperta non appartenere al Tartaglia, bensì a Scipione Del Ferro. Il Tartaglia dovette confessare che il Cardano avea dato a quella formola una maggiore generalità, e scoperto nuovi casi, non compresi nella regola da lui data, ma quanto alla formola, venne a sfida col Del Ferro; sfida non di stocchi e pistole come gli odierni eroi da caffè, ma di trentun problemi, ove il Bresciano ne propose di più ardui, e si mostrò algebrista superiore. A queste sfide prendea parte tutto il mondo scienziato, e le soluzioni e i trionfi si annunziavano a suon di trombe; glorie che toccarono spesso al Tartaglia. Ma in un tempo in cui a questo pareva un gran che l'avere scoperto il cubo di _p_+_q_ e l'equazione tra il cubo e una linea e tra due porzioni, di questa, fa meraviglia come siasi trovata la bella formola cardanica, fondamento ai lavori più insigni, e fino alla elegante generalizzazione di Harriot. Il Cardano riconobbe la più parte delle proprietà delle radici, indicò le negative nelle equazioni quadrate, ogni equazione cubica aver una o tre radici reali; sapeva trovare queste per approssimazione, indicarne il numero e la natura, o secondo i segni, o secondo i coefficienti; trasformare un'equazione cubica perfetta in un'altra deficiente del secondo termine; inventò il calcolo delle radici immaginarie, tanto spediente all'analisi; pubblicò pure il metodo di sciogliere le equazioni biquadrate, trovato dal Lodovico Ferrari bolognese suo scolaro; applicava l'algebra alla geometria nei problemi, prima di Vieta, e di Cartesio; prima di Harriot, cui il Montucla ne assegna il merito, fece l'equazione eguale a zero. Il Cossali, nella _Storia critica dell'algebra_ (1791), occupa quasi intero un volume a provare il merito del Cardano, restituendogli le scoperte che il Montucla attribuiva ad altri, e massime al Vieta. Inoltre il Cardano trattò di tutto, e su tutto portò l'analisi inventrice. Nella meccanica fece giudiziose osservazioni, valutò la gravità e resistenza dell'aria, ideò di misurare il tempo mediante la pulsazione dell'arteria; insegnò un lucchetto a combinazioni mutabili, che si chiude sotto la parola _serpens_, invenzione che mal s'arrogano i Francesi. Egli fu il primo a dare un'esatta descrizione della febbre petecchiale. Mentre le conchiglie fossili si credevano scherzi della natura, dilettatasi ad imitar in pietra le specie viventi, il Cardano dichiarò ch'erano valve pietrificate, attestanti la dimora del mare sulle vette montane; opinione ancora contrastata da quei gran naturalisti che furono il Mattioli, il Faloppio, il Mercati. Esaminando qual forza sia necessaria per sostenere un peso sovra un piano inclinato, la fece proporzionale all'angolo che esso forma coll'orizzonte; teoria giusta, sebbene ridotta a maggiore esattezza dai moderni. Indicò che l'acqua non è un elemento, ma è _prodotta da aria_. Come però di sapienza, così fu un portento di stravaganza. Lasciò le proprie Memorie, preziose come delle scarse che francamente rivelino il cuore, e come pittura dell'uomo del secolo XVI, in mezzo alla dottrina cabalistica, che disponeva il mondo in maniera affatto poetica. Se tu gli credi, e' poteva a sua voglia cadere in estasi e in acatalessi; vedeva qualunque cosa desiderasse, nè le tenebre toglieano vigore alla sua vista; ciò che era per occorrergli presentiva in sogno, e da certe macchie su l'unghie. Il piacere, secondo lui, non è che la cessazione del dolore, e il male giova, se non altro, perchè s'impara a schivarlo; anzi per lui era un bisogno il penare o far penare; tormentava altre creature, flagellava sè stesso, e morsicavasi le labbra, e si pizzicava per sentir dolore quando alcuno non ne avesse. E sì che dolori non gli mancavano. Giocatore, e perciò dissestato, è costretto ajutarsi con bassezze: un suo figlio fu attossicato dalla moglie, la quale perciò venne strozzata; a un'altro dovette far tagliare un'orecchio per reprimerlo; e tutta la sua vita fu bersagliata da sciagure. Conosceva d'essere invido, lascivo, malefico, spensierato, e confessandolo ne riversava la colpa sopra le stelle, ch'erano ascendenti al suo natale. Del resto credeasi oggetto d'una predilezione speciale del cielo; seppe più lingue senz'averle imparate; più volte Iddio gli parlò in sogno; più spesso un genio famigliare, lasciatogli da suo padre, il quale se n'era giovato per trent'anni; può in estasi trasportarsi da luogo a luogo a sua volontà, ode quel che si dice lui assente. Della sua vanità non mi parlate; appena ogni mille anni nasce un medico par suo; nè rifina di vantare le sue cure, non meno che l'abilità sua nel disputare; infine, per avverar il pronostico fatto, lasciossi morir di fame Scrisse maestrevolmente sui giuochi delle carte e dei dadi; smanioso di contraddire, stese bizzarri elogi della podagra e di Nerone, ma checchè ne dicano l'editore e la boria patriottica, nelle sue scritture mi ha l'aria di un giornalista ch'è obbligato ad empire le pagine, e più s'avviluppa in arzigogoli e astruserie, più è tenuto dai goffi; più si diffonde in lungagne, meglio è pagato; meno riflette, più lavora. Chi volesse ridurre ad unità filosofica quel suo balzellare, troverebbe ch'egli dichiarava la natura essere il complesso degli enti e delle cose. In lei v'ha tre principj eterni e necessarj: lo spazio, la materia, l'intelligenza del mondo; e funzione di quest'ultima è il movimento. Lo spazio è eterno, immobile, nè mai senza corpi; il che equivale a ciò che poi disse Cartesio, non darsi il vuoto in natura. La materia è pure eterna, ma nè immobile nè immutabile; anzi passa di forma in forma mediante due qualità primordiali, calore e umidità. Non può concepirsi veruna porzione di materia senza forma. Ogni forma è essenzialmente una e immateriale, cioè un'anima, laonde tutti i corpi sono enti animati; del che è prova l'essere suscettibili di movimento. Le anime particolari sono funzioni di un'anima universale o anima del mondo. In essa trovansi rinchiuse tutte le forme degli esseri, come i numeri nella decade; ella somiglia alla luce del sole, che comunque uno ed eguale nell'essenza, appare sotto infinita diversità d'immagini, e «color varj suscita ovunque si riposa.» Di tal passo andava filato al panteismo, se non avesse egli medesimo sospese le conseguenze, o variato circa l'opinione dell'unità dell'intelligenza. L'uomo è organo di quest'intelligenza universale; pure ha un carattere distinto, la coscienza. Questa il mena a distinguere l'anima dal corpo, o, come diciamo oggi, l'_io_ dal _non me_, l'uno dal vario. E dell'anima dimostra egli l'immortalità mediante gli argomenti de' filosofi predecessori; crede però che questo dogma abbia prodotto di gravi danni, quali sarebbero le guerre di religione. La fisica sua fonda affatto sulla simpatia generale fra i corpi celesti e le parti del corpo umano; secondando i postulati delle scienze occulte, delle quali tutte ragiona con intima persuasione, altamente riprovando quei professori inesperti, per _cui vizio resta infamata_ una dottrina, nella quale la certezza è tanta quanta nella medicina. In ciò poteva dire il vero in epigramma. Per vendicarla da tali ingiurie e mostrare _come sieno manifesti i decreti delle stelle in noi_, esso non procede che per raziocinio e sperimento, giacchè le scienze occulte appellavano sempre agli argomenti e ai fatti quanto le positive; tant'è vero che i fatti non hanno merito se non sappiansi ben interpretare. Il Cardano per maggior chiarezza riduce quella dottrina ad aforismi distinti in sette sezioni, dai quali si intende come ogni colore, ogni paese, ogni numero stesse sotto la soprantendenza di un astro. La magia naturale insegna otto cose: prima, i caratteri dei pianeti e a far anelli e sigilli; secondo, il significato del volo degli uccelli; terzo, a interpretare le voci loro e d'altri animali; poi le virtù delle erbe, la pietra filosofale, la conoscenza del passato, del presente, del futuro mediante tre viste; la settima parte mostra gli esperimenti propizj, sì del fare, sì del conoscere; l'ottava, le maniere d'allungare molti secoli la vita. Reggereste voi, lettori umanissimi, ad accompagnarmi nell'indicazione dei varj canoni di queste dottrine? Il Cardano, è ben lungi dal farne mistero; anzi insegna a comporre sigilli per far dormire, o per farsi amare, o per rendersi invisibile, o per non istancarsi, o per aver fortuna; tutto ciò combinando quattro nature, cioè la natura della facoltà, quella della materia, quella dell'astro, quella dell'uomo che fa; al qual uopo egli divisa la natura delle varie gemme e degli astri che vi corrispondono. Tra i talismani il più potente era il sigillo di Salomone. Una candela di sego umano, avvicinata a un tesoro, crépita fino a spegnersi, e la ragione è che il sego è formato di sangue; il sangue è sede dell'anima e degli spiriti, i quali entrambi son presi da cupidigia d'oro e d'argento finchè l'uomo vive, e _perciò_ anche dopo morto ne rimane turbato il sangue. Volete sapere i presagi che possono dedursi dalle differenti arti e dai casi naturali? Volete interpretar le linee della mano colla chiromanzia? o quel che significano le macchie sulle unghie e come intendere i sogni? come ottenere responsi? Non avete che a scorrere quei dieci volumi in foglio, e ve l'insegnerà con sicurezza: piccola fatica, guadagno incommensurabile. E fu con tali scienze ch'egli acquistò reputazione europea a' suoi giorni; consigli e responsi da lui chiedevano insigni personaggi e perfino Eduardo VI re d'Inghilterra; il primate di Scozia affidò le sue malattie a' costui strologamenti; san Carlo il propose maestro nell'Università di Bologna; il re di Danimarca gli offerse un posto alla sua corte; Gregorio XII il volle suo medico. Cento geniture egli formò d'illustri personaggi, dall'oroscopo, cioè dagli astri ascendenti al loro natale, deducendo la causa delle qualità e dei difetti loro. Alle stelle conviene aver riguardo nella medicazione, ed infallibile esaudimento ottengono le preghiere a Maria, fatte il primo giorno di aprile alle ore otto del mattino. Tutto ciò vi racconta colla persuasione onde oggi si parla delle tavole semoventi e degli spiriti picchianti; ma poi a volta a volta esce a ridere della chiromanzia, della stregoneria, dell'alchimia, della magia, dell'astrologia. Ne ride, eppure le esercita, per compassione di chi n'ha bisogno; i fantasmi reputa illusioni di fantasia scompigliata, eppure è pieno di storie di morti e di spiriti; crede che gli incubi generino bambini, e depongano il vero le streghe nei processi. Insomma, veggente come i moderni, talvolta delira come gli antichi della peggiore età; talvolta si eleva come il genio, tal altra è disotto del senso comune; vacilla tra opinioni rette e malvagie, e come disse un suo nemico acerrimo, lo Scaligero, in molti punti è superiore ad ogni umana intelligenza, in altri inferiore a un bambolo. E il Leibniz asserì che fu uomo grande malgrado i suoi difetti; senza questi sarebbe stato grandissimo. E per quanto noi vorremmo celebrar questo insigne milanese, troviamo di doverlo collocare con quei tropp'altri italiani, di bello, anzi di splendido ingegno, che il nostro patriotismo ci fa proclamare superiori, o almeno anteriori a que' forestieri i quali innovarono la filosofia; ma i nostri realmente ben poco effetto esercitarono sopra gl'incrementi della scienza; per ottener i quali non bastano lampi comunque splendidi, ma vuolsi luce tranquilla e seguita: non basta avventurare alcune teoriche, ma bisogna averle vedute nascere regolarmente, regolarmente svolgersi, applicarsi; non basta dire alcune verità prima d'ogni altro, ma bisogna averle scevrate dalle falsità, da altre asserzioni che attestano non essersi avuta chiara percezione neppur delle vere, e che ne elidono l'impressione; infine bisogna averle esposte non solo con esattezza, ma con limpida proprietà, col linguaggio approvato dai dotti e inteso anche dai vulgari, con quell'arte che penetra gli intelletti e determina le volontà. DUE ALCHIMISTI ITALIANI L'oro! non è esso il gran movente della società, il fattore più universale dell'incivilimento, il rappresentante di tutti i godimenti, la fonte del maggior di tutti, qual è l'indipendenza? Che stupirsi dunque se è cercato con mezzi sapienti, con laboriosi, con scellerati, con assurdi? Il titolo di questo racconto vi rimembra come, nel mentre l'arte si assottigliava per guadagnarne, la scienza presumesse crearne; cioè, mediante l'_arte ermetica_, scoprir un ingrediente che, imitando l'operazione della natura, i metalli ignobili tramutasse ne' due più preziosi. Come spesso fanno i fantastici, gli diedero un nome prima di possederlo; e la _pietra filosofale_ o la _polvere di projezione_ fu diuturno studio de' naturalisti, o speciale lucubrazione d'una specie di frammassoni, estesi da per tutto col nome di alchimisti. Io ebbi occasione di parlarne altrove forse non senza qualche diletto di quei pochi che ancora hanno il coraggio di leggere un libro che sia italiano e non sia romanzo[36]. Qui voglio soltanto soggiungere che, se v'ebbe de' bricconi tra gli alchimisti, i quali scroccavano l'oro colla promessa di fare oro, altri ve n'avea di buona fede, di longanime studio, d'ingenua abnegazione. Bernardo, nato da una famiglia di conti a Treviso il 1400, e conosciuto ne' fasti della _grand'arte_ col nome di Bernardo Trevisano, fu dei più leali ed ostinati cultori dell'alchimia. Geber e Rases, oracoli dei medici arabi, gli aveane istillato questa passione, e poichè la falsa scienza non meno che la vera pretendeva appoggiarsi sulle esperienze, tremila scudi egli consumò nel ripetere quelle che da essi maestri erano accennate. Poi si volse alle dottrine di Archelao e di Rupescissa, e «in quindici anni di prove (dic'egli) tanto in ciurmadori, quanto per me onde conoscerli, spesi da seimila scudi.» Cominciava a venirgli meno il coraggio e la speranza di trovar la pietra filosofale quando un suo compatriota insegnogli a farla col sal marino; ma in un anno e mezzo rinnovata quindici volte la prova e sempre fallitagli, scelse un altro metodo, qual era di sciogliere separatamente in acquaforte del mercurio e dell'argento; lasciatili così un anno mescolò le soluzioni e le concentrò sopra cenere calda in modo da ridurle a due terzi; questo residuo espose al sole in una storta, poi lasciollo cristallizzare durante cinque anni; alla fin dei quali trovò... null'altro che quel che vi avea messo. E Bernardo era giunto ai 46 anni, sempre tentonando, eppure non si disingannò; anzi avventurossi per un'altra via, insegnatagli da maestro Goffredo, frate cistercense. Eccovela. Comprarono duemila uova di gallina, le fecero sodare, e levatone il guscio, lo calcinarono al fuoco; separarono i tuorli dall'albume, e li fecero fermentare a parte entro fimo di cavallo, poi li distillarono trenta volte, finchè ne ottennero un liquido bianco, e un liquido rosso. Più volte si rifecero da capo, variarono le combinazioni; e il sapere che non ne trassero alcun frutto non vi farà tanta meraviglia, quanto vi piacerebbe il sapere da quali argomentazioni fossero condotti a ripromettersi effetti, così divergenti dalle cause. Sfortunatamente però non dovreste andar troppo lontano per imbattervi in ragionamenti simili, per esempio in fatto di politica, ove dai lati più arbitrarj si arguiscono le conseguenze più inattendibili. Il tempo invece tira le legittime; ma sperereste per questo che il criterio prevalga alla passione? Nè prevalse in Bernardo Trevisano, il quale, dopo otto anni, conobbe illusoria anche quella strada, ma non rinnegò la meta: e si pose a nuovi lavori insieme con un teologo illustre, il quale pretendeva cavar la pietra filosofale dalla coparosa. Calcinavasi questa per tre mesi, poi infondeasi in aceto, distillato otto volte: passavasi al lambicco quindici volte il giorno per un anno. — Ah! se l'uomo mettesse a buoni intenti la perseveranza che adopera ad assurdi! La fatica, l'ansietà era ad aspettarsi che guastassero la salute del nostro alchimista, e per quattordici mesi gli si ostinò addosso una febbre, che minacciava torgli la pazzia colla vita. Della febbre guarì, non della pazzia: e un chierico del suo paese l'informò che maestro Enrico, confessore dell'imperatore, possedeva il segreto di preparare la pietra filosofale. Detto fatto, il nostro Bernardo passa le Alpi, è in Germania, e per difficilissimi mezzi e col procaccio di confratelli alchimisti, s'introduce presso il fortunato, e a _quanti plurimi_ ne ottiene dieci marchi d'argento e la rivelazione del processo. Per null'altro che per un _gran mercè_ noi lo regaleremo ai lettori. Recipe mercurio, argento, olio d'ulive, solfo: _misce_, fondi a fuoco moderato; cuoci a bagnomaria, rimescolando senza riposo. Dopo due mesi si asciutti in una storta di vetro, rivestita d'argilla, e il prodotto si tenga per tre settimane sopra ceneri calde. Allora vi si unisca piombo, si fonda il tutto al crogiuolo, e il prodotto si sottoponga alla raffinazione. Ciò fatto, que' dieci marchi d'argento dovevano trovarsi cresciuti di un terzo: — ma ahimè! al fine di tanto lavoro più non ne restavano che quattro. Il Trevisano, come un amante corbellato, si vantò disilluso, giurò non badar più a simili fantasie; parenti e amici fecero giubileo della sua guarigione, per quanto cara gli fosse costata; ma due mesi appena erano trascorsi, e rideccolo al lambicco, alle storte, al farnetico di prima. Persuaso però che alla grand'opera gli fossero indispensabili i consigli di gran sapienti, andò a interrogarli in Ispagna, in Inghilterra, in Scozia, in Germania, in Olanda, in Francia; poi in Egitto, in Palestina, in Persia, culla e sede di quelle arcane dottrine; a lungo s'indugiò nella Grecia meridionale, e visitava principalmente i conventi, depositarj dei libri e delle dottrine tradizionali; e coi più rinomati monaci travagliava alla grand'opera. Così era giunto ai 72 anni, avendo dissipato il ricavo del venduto suo patrimonio; di modo che nel 1472 approdava all'isola di Rodi senza denari nè bagaglio, ma con sempre maggior fiducia nella polvere, cercata tutta la vita. Oh possano averne altrettanta i cercatori di ben più utili spedienti! A Rodi fermava stanza un religioso, celebrato in tutto Levante come possessore del gran secreto; ma di avvicinarsegli non trovava più modo il nostro Bernardo, sprovvisto com'era del gran passa-pertutto, il denaro; se non che un mercadante veneziano, conoscente della famiglia di lui, gli prestò ottomila zecchini, e raccomandollo a quel professore. Tre anni lo tenne costui in istudj e sulle suste, onde preparare il magistero per mezzo d'oro e d'argento amalgamati con mercurio; alfine lo ammise al sommo secreto dell'arte ermetica; e nel gran codice della verità gli mostrò questo assioma: Natura si fa giuoco di natura, E natura contiene la natura. L'avete capito, lettori dabbene? ma se volete che ve lo butti in moneta, ciò significa che bisogna gettare alle spalle le illusioni, non impigliarsi in ciurmerie, e persuadersi che per far oro ci vuol oro, e tutta l'alchimia non giunse mai od ottenerne in fine più di quello che adoperò in principio. Crediamo che a simili conclusioni arriveranno gli odierni eterogenisti. Perdere a 77 anni l'illusione di tutta la vita, è pure straziante! Ma il conte Trevisano volle almanco giovare agli innumerevoli adepti della scienza ermetica occupando i sette anni che ancora sopravisse nello scrivere diversi trattati intorno a quella scienza: il più celebre dei quali è il _Libro della filosofia naturale de' metalli di messer Bernardo conte della Marca Trevisana_, che ognuno può leggere, ma che pochissimi leggeranno nel tomo II della _Bibliothèque des philosophes chimiques_. L'acquisto della verità è così penoso, che molti ripugnano a manifestarla chiara, limpida com'essi la colsero, e far così fruttare agli altri la propria sperienza. Anche il nostro conte, invece di palesare e confessare schietto i suoi inganni, si rinvolse per modo che molti cercarono in esso la scienza ermetica; e lo credono, volli dire, lo credettero un de' migliori maestri della grand'opera. Ma quell'assioma fondamentale, intorno a cui egli si raggira continuamente, induce noi a tutt'opposta credenza, e se c'inganniamo, ci è di conforto questo passo del libro suddetto: «Onde che io conchiudo, e credetemi. Lasciate le sofisticazioni e chi vi crede; fuggite le loro sublimazioni, congiunzioni, separazioni, congelazioni, preparazioni, disgiunzioni, connessioni, ed altre decezioni. E taciano quelli che vanno spacciando e preconizzando altro solfo che il nostro, il quale è latente nella magnesia; e che vogliono trarre altro argento vivo che dal servitore rosso, od altra acqua che la nostra, la quale è permanente, e non si congiunge che alla propria natura, e non bagna altra cosa se non l'unità della propria natura. Nè altro aceto v'ha che il nostro, nè altro regime che il nostro, nè colori altri che i nostri, nè altra che la nostra sublimazione, nè altra che la nostra soluzione, che la nostra putrefazione.» Se l'ammaestramento non vi pare abbastanza evidente, non so che dirvi; d'altra parte sarebbe stato inutile, giacchè non si dà evidenza, a cui la passione ceda. * * * * * A tre secoli di distanza, le storie ci offrono, ossia avrebbero dovuto offrirci un altro alchimista, ma della peggiore schiuma. Come non siamo certi del vero nome di Cagliostro, così neppure del costui; se non che ne' suoi giorni trionfali lo vediamo intitolarsi don Domenico Manuele Gaetano conte di Ruggero, napoletano, maresciallo di campo del duca di Baviera, generale, consigliere, colonnello d'un reggimento a piedi, comandante di Monaco, maggior generale del re di Prussia. Era nato, almen pare, a Pietrabianca presso Napoli; imparò di orefice, e nel 1695 fu iniziato all'alchimia tramutatoria, probabilmente da un Lascaris, venuto dalle isole greche, e rinomato in tutta Europa. Da costui egli ebbe la tintura bianca e la tintura gialla, per formar l'argento e l'oro; e che doveva essere un amalgama, il quale, messo al fuoco, e svaporandone il mercurio, lasciava in fondo al crogiuolo il metallo fino. Tutta la speranza di buon esito consisteva nel non adoperare il bilancino. Questa polvere era ben poca; e don Domenico vi suppliva colla destrezza; andò pel mondo annunziando di poter trasmutare metalli in gran quantità, facendone prova su piccolissima, e ottenendone fama: — la merce più capricciosa del mondo. Perlustrata Italia, per quattro mesi fece eccellenti affari a Madrid; ove l'ambasciadore di Baviera lo persuase a recarsi dall'elettore signor suo, il quale allora dimorava a Bruxelles come governatore. Vi andò, eccitò la meraviglia, e ottenne la confidenza dell'elettore Massimiliano, il quale preso dalle splendidissime promesse ch'esso gli faceva, gli concedette onorificenze, cariche, titoli e sovvenzioni per seimila fiorini. Ma l'adempimento delle promesse non sapea venir mai; onde scopertolo ciarlatano, il fe' buttar prigione. Due anni vi penò, poi riuscito a fuggire, non corse volgarmente a nascondersi, o andò fiaccamente a piagnucolare; anzi comparve trionfante a Vienna nel 1702; e qualche projezione gli riuscì così destramente, che tutta la Corte ne rimase stupefatta; e l'imperatore se lo prese a servigio. La morte di questo interruppe la sua splendida carriera; ma è un'arte de' ciarlatani il cader sempre in piedi. Di fatto fu tolto a stipendio dall'elettor Palatino, al quale ed alla imperatrice egli promise dare in sei settimane 71 milioni o la sua testa. Prima del termine egli fuggì; ed eccolo a Berlino, acquistandosi favore col dirsi perseguitato dall'Austria: e re Federico I, sentito il consiglio di Stato, non trovò da opporsegli, ed accettò le magnanime sue proposizioni. Con grande apparato e numerosi testimonj egli eseguì alcune tramutazioni, constatate a tutto rigore di prove; e promise fabbricare polvere di projezione quanta basterebbe per fare sei milioni di talleri. Convien dire fosse un abilissimo prestigiatore, se vediamo quanti ne rimasero illusi, e quante volte rifece il proprio credito e di quanti onori venne colmato; pure tante volte va la gatta al lardo, che alla fine vi lascia la zampa. La promessa da lui fatta al re non vedeasi mai ridotta, nè tampoco avvicinata all'effetto: e il re andava, se non spilorcio, però prudente nel regalarlo, talchè gli mancava l'oro necessario per far oro, quella natura che contiene la natura, come sentimmo dire dal conte Trevisano. Re Federico, informato delle precedenti birberie del Napoletano, lo fece chiudere nella fortezza di Custrino, coll'alternativa che adempisse le promesse se no la forca. La prima condizione gli era impossibile, e perciò fu processato e come reo di lesa maestà condannato al patibolo. La consuetudine germanica portava che i falsificatori (e sotto questo titolo comprendevansi anche gli alchimisti) con inumano scherzo si sospendessero vestiti d'orpello ad una forca indorata: ed in questo arnese perì a Berlino il 29 agosto 1709. Il re ebbe vergogna d'essersene lasciato ingannare o rimorso d'averlo punito sproporzionatamente, onde non sofferse più mai che quel nome fosse proferito in sua presenza. Costui fu l'ultimo tramutatore che la storia menzioni; i ciurmadori si volsero ad altre maniere d'inganni, che meriteranno storia anch'essi quando ne sia passata la stagione. 1856. ROSTOPCIN Teodoro, figlio di Basilio conte di Rostopcin nacque nella provincia russa di Orel il 12 (23) marzo 1765, da famiglia che pretendea discendere da Gengiskan. Tartaro anche nella peggior significazione della parola, capace di qualunque estrema risoluzione, ambizioso, passionato, sarcastico, fanatico di assolutismo, abborrente da ogni novità, furioso nella collera; insieme amava le lettere, scriveva articoli e opuscoli, benevolo quando non c'entrasse la passione, agressivo spesso e infervorato per l'attacco. Fu per un momento il favorito dell'imperatore Paolo I, e suo ministro degli affari esteri, e lo rattenne da molte pazzie, sicchè talora sentì dirsi: «Voi siete terribile, ma avete ragione.» Un giorno Paolo, trovandosi in un circolo di principi, si volse di botto a Rostopcin chiedendogli: — Perchè voi non siete principe?» Ed egli: — Perchè mio padre venne di Tartaria in Russia nel fitto dell'inverno.» — Oh che ci ha a che fare la stagione col titolo?» — Quando un signore tartaro compariva la prima volta alla Corte, il czar gli lasciava la scelta fra una pelliccia e il titolo di principe. Mio avo, giunto nello stridor della vernata, ebbe il senno di preferire una pelliccia.» Paolo ne rise di cuore, e ai circostanti: — Signori principi, congratulatevi che i vostri avi non siano arrivati di gennajo.» L'imperatore Alessandro, del quale non carezzava le velleità liberali, avealo poco gradito, ma negli estremi bisogni il pose governatore di Mosca. Entusiasta per la patria, fremette al vederla invasa dai Francesi di Napoleone nel 1813; fè di tutto per concitare gli spiriti al maggior sacrifizio; organizzò 122,000 volontarj in corpi armati a spese della nobiltà; mantenne la tranquillità esaltando il coraggio, e quando, dopo la battaglia di Borodino, fu stabilito d'abbandonare Mosca senza difenderla, egli fece partirne i cittadini, sicchè vi restasse solo plebaglia, e troncò all'esercito invasore ogni possibilità di comunicare coll'interno dell'impero. Fu allora che scoppiò l'incendio famoso di Mosca, che ancora non è ben certo se fosse opera causale degli invasori, od ordinata dal Governo, o meditata dall'irritazione popolare. Ne fu attribuita generalmente la colpa o il merito a Rostopcin: ma di certo si sa soltanto che, partendone, egli distrusse un ricco villaggio di sua appartenenza, non lasciandovi che la chiesa con un'epigrafe ad esecrazione de' Francesi. Dopo quel disastro, Alessandro lo ricevette con freddezza, direbbesi anzi con ribrezzo: Rostopcin non invocò premj quando, nel 1815, poteva aspettarsene; in un libro _La verità sull'incendio di Mosca_ (Parigi 1823), sostenne era stata bruciata dagli invasori, e ne addusse in prova l'inutile distruzione di parte del Kremlin; dappoi si confuse fra i tanti attori del gran dramma europeo, tornò in Russia alla morte d'Alessandro, e morì a Mosca il 18 (29) gennajo 1826. Del resto viveva a Parigi, applicandosi a ricerche bibliografiche e ai piaceri; faceasi ammirare per motti politici, ma evitava di parlare di sè. — Dovreste scrivere le vostre memorie,» gli disse una signora, curiosa di conoscere il vero. Ed egli al domani gliele portò in un semplice foglio. E sono queste, che riferirò per l'espressione di un cinismo inesorabile e d'un frizzo volteriano. Così, quel ch'era stato salutato salvatore del suo paese, anzi dell'Europa, finiva oscuro e indispettito, vendicandosi dei disinganni, e se avea cominciato colla tragedia, finiva col sarcasmo. ME AL NATURALE OVVEROSSIA MIE MEMORIE SCRITTE IN DIECI MINUTI CAPITOLO I. Mia nascita. Il 1765, 12 marzo, uscii dalle tenebre al gran giorno. Mi misurarono, pesarono, battezzarono. Nacqui senza sapere il perchè: i genitori miei ringraziarono il cielo senza sapere il perchè. CAPITOLO II. Mia educazione. Mi insegnarono d'ogni sorta cose e lingue. A forza di essere sfacciato e ciarlatano, passai talvolta per dotto; e la mia testa divenne una biblioteca di libri scompagnati, di cui io solo ho la chiave. CAPITOLO III. Miei patimenti. Fui tormentato dai maestri, dai sartori che mi faceano i panni impiccati, dall'ambizione, dall'amor proprio, da inutili ribrame, da re e da reminiscienze. CAPITOLO IV. Privazioni. Tre grandi piaceri della spezie umana io non gustai: il furto, la ghiottoneria e l'orgoglio. CAPITOLO V. Epoche memorabili. Di trent'anni rinunziai al ballo; di quaranta, a piacere alle belle; di cinquanta, all'opinione pubblica; di sessanta, al pensare; e diventai un vero sapiente, o, ciò ch'è tutt'uno, un egoista. CAPITOLO VI. Ritratto morale. Fui caparbio come un mulo, capriccioso come una civetta, vispo come un fanciullo, infingardo come una marmotta, attivo come Buonaparte; e tutto ciò quando mi parve e piacque. CAPITOLO VII. Risoluzione importante. Non avendo mai potuto rendermi padrone della mia fisonomia, lentai la briglia alla mia lingua, e contrassi il mal vezzo di avere il cuore sulle labbra. Da ciò alcuni piaceri e molti nemici. CAPITOLO VIII. Che cosa fui e che cos'avrei potut'essere. Fui sensibilissimo all'amicizia, alla confidenza; e se fossi stato nell'età dell'oro, sarei per avventura stato un galantuomo fatto e finito. CAPITOLO IX. Principj rispettabili. Non fui mai avviluppato in nozze e in pettegolezzi; non ho mai raccomandato nè cuoco nè medico, e per conseguenza non attentai alla vita di nessuno. CAPITOLO X. Miei gusti. Mi vanno a sangue la poca brigata e il passeggiare in un bosco. Ebbi una venerazione involontaria pel Sole, e il suo tramonto mi lasciava spesso di mal umore. Dei colori amavo il celeste; di mangiari, il manzo col ramolaccio; di bibite l'acqua fresca; di spettacoli, la commedia e la farsa; d'uomini e donne, le fisonomie aperte ed espressive. I gobbi dei due sessi m'avean un'attrattiva, che mai non seppi definire. CAPITOLO XI. Mie avversioni. Nutrivo repugnanza per gli scioli e pei facchini, per le donne intriganti che ostentano virtù, disgusto per l'affettazione; pietà per gli uomini ritinti e per le donne imbellettate; avversione pei sorci, i liquori, la metafisica e il rabarbaro; sgomento della giustizia e dei cani rabbiosi. CAPITOLO XII. Analisi della mia vita. Aspetto la morte senza paura, ma senza impazienza. La mia vita fu un melodramma. CAPITOLO XIII. Rimunerazione del cielo. La mia gran fortuna è di sentirmi indipendente da tre che reggono l'Europa. Essendo ricco che basti, divezzo dagli affari e abbastanza indifferente alla musica, non ho di che intrigarmi con Rothschild, nè Metternich, nè Rossini. CAPITOLO XIV. Mio epitafio. Qui fu posato perchè sia riposato con un animo saziato un cuore vuotato un corpo sciupato un vecchio diavolo trapassato. Signori e signore passate. CAPITOLO XV. Dedicatoria a chi legge. Can d'un pubblico! Organo discordante delle passioni; che tu alzi al cielo, e sommergi nel brago, che salmeggi e calunnii, e il perchè non sai; immagine del tocco a martello; eco di te stesso; tiranno assurdo, scappato dai pazzerelli; quintessenza de' veleni più sottili e degli aromi più soavi; rappresentante del diavolo presso la specie umana; furia mascherata di carità cristiana; pubblico che io temetti in gioventù, rispettai maturo, vecchio sprezzai, a te dedico le mie Memorie. Gentil pubblico, finalmente son fuori dalle tue zanne, perchè son morto, e quindi sordo, cieco e muto. Possa tu godere simili vantaggi pel riposo tuo e del genere umano. I FRATI PACIERI Io vo gridando pace, pace, pace PETRARCA. Siccome nel primitivo caos una confusione di contrarj elementi lottava, informi e discordi aspettando il potente soffio dell'amore che gli ordinasse all'utilità, alla bellezza, alla evoluzione: tale nel medioevo, in questa cara patria nostra, i diversi elementi d'antico o di moderno, di popoli dell'Oriente e del Settentrione, di civiltà decrepita e di nascente, di coltura e di barbarie, di cristianesimo e d'idolatria, non combinati ancora, cozzavano senza riposo. Quinci guerre parziali, minute ma continue, nelle quali tu avvisi l'impeto di violente ed irrefrenate passioni, l'indisciplina dei grandi, l'indipendenza dell'individuo, che, col pugno sulla spada, si tiene per sovrano di sè e delle azioni proprie, e in quella spada vede il diritto di acquistare quanto gli torna o gli piace. Spente o soffocate le leggi e la giustizia, non conosciuto altro diritto che la forza, fra lo schiammazzo di quegli impetuosi, fra il divincolarsi delle membra colossali, fra l'urtar degli stocchi, qual voce avrebbe potuto far intendere parole di composizione e di pace? La religione. Unica forza morale di quei secoli, unico centro della disgregata società, supplendo al difetto dell'amministrazione e della giustizia, tra le risse private, tra le file dei combattenti inviava l'inerme sua milizia, perchè in nome del Signore imponesse fine agli eccidj fraterni. Chi non conosce la _tregua di Dio_? Uomini pii diedero voce che il Signore avesse parlato, ed ingiunto loro, che, spargendosi per la cristianità, intimassero dover ogni zuffa sospendersi tre giorni per settimana, o maledetto chi violasse tal legge. Gli uomini, usati al racconto di miracoli, creduli perchè ignoranti, perchè soffrenti, perchè cattivi, prestarono fede: ed ogni settimana, quando il giovedì tramontava, i soperchiatori, i prepotenti riponeano la daga o il coltello nel fodero: i tementi respiravano; l'insidiato usciva dagli asili o dai nascondigli, per tornar a vedere la donna, i figliuoli, il padre: poteva il tapino ardirsi d'alzare gli occhi sul suo signore, senza vederlo schizzar sangue e vendetta: le colombe s'accostavano sicure al nibbio, finchè non tornasse a ricacciarle l'alba del lunedì. A mezzo poi del secolo XIII, vennero i _Battuti_, grosse torme d'uomini, di donne, di fanciulli, che scalzi i piedi, coperta appena la nudità da un rozzo sacco, in lunghe disordinate file, seguitando un crocifisso, battendosi a sangue, cantando lo _Stabat Mater_, e così mutandosi di città in città, di regno in regno intimavano penitenza, e concordavano paci. A questa clamorosa divozione, non promulgata da predicatori, non istituita dal pontefice, senza che alcuno ne sapesse il come e il perchè, diffusa rapidamente da un capo all'altro dell'Europa, entrava negli animi la persuasione d'alcuna grave sventura, colla quale Iddio fosse per riasciacquare le iniquità della terra. Tacquero le danze e le canzoni d'amore per far luogo a pellegrinaggi e a devote cantilene: usurieri e ladri restituivano il mal tolto: peccatori inveterati nella colpa si confessavano e ricredevano: le sùbite ire ammorzavansi, come un incendio sotto un mucchio di terra. In quel tempo istesso cominciarono due nuovi Ordini religiosi, milizia potente a sostenere i diritti della santa sede, minacciati dallo svegliarsi dell'umano pensiero. Erano questi i Domenicani e i Francescani; i primi, specialmente intesi a svellere la zizzania di mezzo al frumento, e punire i fratelli di Gesù Cristo che non credessero e non adorassero come loro: gli altri, tutti popolari, tutta povertà, si diffondevano in mezzo al volgo, accattando un tozzo per Dio, predicando il Vangelo e i santi loro e pratiche di devozione, e mitigando i cuori iracondi. Ne' quali uffizj non erano però così distinti, che talvolta non si vedesse il Domenicano proclamare non l'esterminio, ma l'amore, ed il Francescano accostare la face al rogo che doveva ardere un riprovato. Sentivi tu (caso quotidiano a quei tempi,) sentivi un ricambiare di bestemmie, di vituperj, un tempestare di colpi? Eri sicuro di scorgere ben tosto fra gli azzuffati interporsi il frate col rozzo sajone, nudo il raso capo, tendendo di mezzo ai colpi la croce di legno che gli pendeva pel rosario alla cintura. Due fratelli si cercavano a morte? una famiglia un corpo aveva giurato vendetta di qualche insulto? l'oltraggio aveva aguzzato il coltello, nascosto sotto alla casacca d'un violento? Ebbene: il frate s'affacciava alla porta con un _Deo gratias_ sommesso; prendeva a ragionar del Signore, d'un Uomo Dio, che patì prima di noi, più di noi, per noi e senza colpa; dipingeva l'amarezza degli odj, la giocondità dell'abitare i fratelli in uno; poi un momento estremo, nel quale riuscirà così dolce il ricordarsi d'una buona azione; un altro giudizio, dove chi perdonò sarà perdonato. Quei cuori feroci cui non avrebbe frenato impero di legge o possanza di magistrati aprivansi alla benevolenza, fondevansi in lagrime, e correvano ad abbracciare il nemico, fra le benedizioni del frate paciere. Che se voi siete di quelli che investigano l'antichità, non fra diruti e reliquie inanimate, ma nei costumi discesi fino a questa ciarliera nostra civiltà che tanto vantiamo, e che pure non è se non una posata di mezzo fra il bene e il male, avrete potuto trovare avanzi di quelle antiche istituzioni, od in Toscana nella Compagnia della Misericordia, che ad ogni caso di rissa o di pericolo accorre per impedire o rimediare il male, recare pace o medicina; oppure in Roma, ove, pei trivj e nelle taverne, quando l'uomo, non educato o frenato dalle buone istituzioni, tra il furor delle risse o l'ebbrezza del giuoco, prorompe all'orrendo bestemmiare, gli si para dinnanzi un Saccone, uomo ravviluppato sino la faccia nella cocolla, il quale, senza far motto, si inginocchia davanti al bestemmiatore, tendendo le mani giunte. Il bestemmiatore comprende quel muto linguaggio, cessa l'imprecazione, e non di rado, caduto anch'egli in ginocchio, la converte in preghiera d'espiazione. Sotto a quel cilicio è forse celato uno dei primi signori, un prelato, un cardinale: — belle istituzioni, se non ne discordassero troppo le carabine, inarcate al tempo stesso per punire il bestemmiatore. Nè solamente a ricomporre private nimistà davano opera i frati: spesso ancora s'intromettevano alle discordie fra città e città, fra gente e gente nemica. Imperocchè le repubbliche italiane, senza sperienza di storie, non che sodare l'unione, tendevano a più sempre disgregarsi: ogni città, ogni villaggio, che più? ogni famiglia voleva formarsi centro, appartato da ogni altro: talchè fra que' ringhiosi non era pace mai, di rado tregua. Divisa l'Italia in repubbliche, queste in comunità, le comunità in corpi e maestranze, e tutti in fazioni, una l'altra contrariava ne' consigli, preparava segrete congiure, aperte sedizioni; correva alle armi, occupava i castelli, cacciava di contrada in contrada, di vicinanza in vicinanza gli avversarij? I vinti, cercato soccorso di fuori, comparivano di nuovo battevano e ricacciavano i già vincitori; ammazzamenti, guasti, rube, incendj, questa è la storia delle città d'allora. Miseri Italiani! Nessuna nazione al par di voi corse ingorda a queste battaglie; nessuno al par di voi scontò con tanto pianto quel sangue: e il pianto di tre secoli non ne ha ancora lavato la macchia... Giudizio e preparazione di Dio! Fra tanto battagliare di parti, grand'opera rimaneva ai frati. Già al tempo delle crociate, molti si davano attorno a calmare le risse, persuadendo a volgere piuttosto contro il comune inimico questo bisogno d'azione. Nel che Iddio con mirabili effetti di paci prosperò san Bernardo di Chiaravalle, che mentre bandiva la cacciata de' Saraceni da Terrasanta, venne a comporre in concordia Milano, Genova, Pavia, Cremona. Il beato Alberto mise in accordo i paesani delle due sponde dell'Adda, fra Brivio e la val san Martino, quand'erano già per venire ai ferri. Il qual beato Alberto aveva fondato il convento in Pontida, ove poi, ad insinuazione di frati, venne conchiusa la Lega Lombarda, formidabile al Barbarossa; e donde alla guida di un frate (frà Jacobo) si mossero le città per ricostruire la distrutta Milano, e redimere la patria dagli stranieri. In Genova ferveano le contese fra nobili, e un figlio di Rolando Avvocato era stato ucciso dagli arcieri di Marchese di Volta; marchese di Volta fu trucidato poco poi; sangue per sangue, nè fu il solo. Invano i consoli si adoprarono per rappattumare i feroci, onde finsero di voler risolvere il litigio con sei duelli. Accorsero le madri e le spose dei trascelti per impedir quel sangue; il che già disponeva a una pace ch'essi dissimulavano di desiderare. Perchè fosse più solenne il giudizio di Dio, invitarono l'arcivescovo; nel mezzo dell'adunanza le reliquie del Battista; attorno il clero in pontificale; croci alle porte della città: tutto che incuteva un insolito rispetto. Allora l'arcivescovo parlò di Dio e del precetto suo nuovo, la carità; cavò le lagrime: quei ch'erano venuti per uccidere si confusero in un abbraccio di fratellanza; e uno scampanìo universale e un fragor di _Te Deum_ annunziò la pace (1169). Quei di Gubbio conservano la tradizione che sant'Ubaldo, vescovo nel XII secolo, non potendo impedire le frequenti risse tra' cittadini, proibisse loro di usare armi o sassi, ma le risolvessero solo a pugni, nel che continuarono fin a tempi civili. Specialmente in tutta l'ottava dopo Pasqua, i quartieri di S. Giuliano e S. Martino combattevano contro quelli di S. Andrea e S. Pietro, cercando cacciarsi dai rispettivi quartieri e dalle abitazioni a forza di pugni: e chi rimaneva vinto e pesto non imputava l'emulo, ma la propria debolezza o sfortuna[37]. Grandi concordie conchiuse Francesco d'Assisi: e udito esser risse fra i magistrati e il vescovo della città sua, mandò i suoi frati a cantare al vescovado il suo _Cantico del sole_, al quale aggiunse allora questi versetti: _Lodato sia il Signore in quelli che perdonano per amor suo, e sopportano patimenti e tribolazioni._ _Beati quelli che perseverano nella pace, perchè saranno coronati dall'Altissimo._ Tanto bastò per mitigare gli sdegni. — Il dì dell'Assunta del 1222 (scrive Tommaso arcidiacono di Spalatro), stando io a studio in Bologna, vidi Francesco predicare sulla piazza davanti al pubblico, dove tutta quasi la città era raccolta. E fu esordio al suo predicare il parlar degli angeli, degli uomini e dei demonj: intorno ai quali spiriti tanto bene propose, che a molti letterati ivi presenti recò non poca meraviglia un parlare sì giusto di persona idiota. Ma tutta la materia del suo ragionare tendeva ad estinguere le nimicizie, e stabilir patti di pace. Sordido d'abiti, spregievole d'aspetto, di faccia abbietta, pure Iddio aggiunse tanta efficacia alle parole di lui che molte tribù di nobili, fra cui inumana rabbia d'inveterate inimicizie aveva con molta effusione di sangue infuriato, vennero ridotte a consiglio di pace». D'altre paci fu autore il seguace suo sant'Antonio da Padova, che affrontò l'orrido ceffo di Ezzelino _immanissimo tiranno_, per campare dalle costui zanne i vinti Camposampiero. Sul costoro esempio, Ugolino cardinale di Ostia pacificò Genova con Pisa (1217), nel tempo stesso che altri religiosi riconciliavano Milano, Piacenza, Tortona ed Alessandria. Poco poi (1229) il vescovo di Reggio rimetteva in concordia i Bolognesi coi Modenesi; il cardinal Giacomo, vescovo di Preneste (1232) accordava in Verona i Montecchi coi Capuleti, fazioni troppo note per la ricantata avventura di Giulietta e Romeo; frà Gherardo da Modena acquietò i suoi concittadini: i Vicentini il beato Giordano da Forzaté: frà Leone da Perego (1233) riconciliava i nobili co' plebei milanesi: frà Latino de' Predicatori (1278) i Geremei co' Lambertazzi in Bologna: in Faenza gli Acarisj coi Manfredi: in Ravenna i Polenta co' Traversari; frà Guala bergamasco riamicò i Bolognesi co' Modenesi nel 1229: e nel 1233 i Trevisani coi Bellunesi, dopo divenuto vescovo di Brescia. Anzi frà Bartolomeo da Vicenza istituì l'ordine militare di Santa Maria Gloriosa, intento a mantenere in armonia le città italiane. Siena ricorda sempre con pia tenerezza la sua Caterina, la sposata da Cristo, che con questo divino nome cominciava e finiva tutte le lettere, da essa dirette a re, a papi, a condottieri; da essa, povera fanciulla del popolo, per ispirare concordia e mitezza. I Fiorentini, cui un tratto era parsa più preziosa la libertà che la religione, presto ravveduti pregarono Caterina a riconciliarli col pontefice. E la pia, fattasi apostolo di misericordia, scriveva a Gregorio IX: — Pace, la pace, la pace per amor di Cristo crocifisso, e non ponete mente all'ignoranza, all'acciecamento, all'orgoglio de' vostri figliuoli. La pace sospenderà la guerra; distruggerà l'ira nei cuori e la scissura, riunirà tutti gl'interessi». In Milano, quando si contrastavano le fazioni de' nobili e dei popolani, (1257) vennero compromesse le differenze in quattro frati, e tutti stettero al lodo di loro: poi novamente essendo scoppiate, i discordi si raccolsero a Parabiago, ove due frati dettarono le condizioni della pace. Più tardi qui venne a predicare la legge d'amore il beato Amedeo, cavaliere portoghese mutato in francescano, che fabbricò di limosine la chiesa di Santa Maria della Pace, nuovo titolo pietoso, aggiunto ai tanti onde il medioevo incoronò la regina del dolore e dell'amore. Molte risse contumaci nel Milanese, in Valtellina, pel Comasco aggiustò pure frà Venturino da Bergamo, che giunse ad indurre oltre diecimila Lombardi a pellegrinare fino a Roma per la perdonanza. Vestiti in cotta bianca e mantello cilestro e perso, e sovra al mantelletto una Colomba bianca con tre foglie d'uliva nel becco, a schiere di venticinque o trenta, colla croce innanzi, procedevano di città in città gridando _pace e misericordia_, e venuti nelle chiese, nudavansi dalla cintola in su, e si flagellavano. Giovanni Villani li vide arrivare a Firenze, e mangiare fin cinquecento alla volta in piazza di Santa Marta Novella, provvisti per carità. Sull'uscire di quel secolo operò a quest'intento la compagnia dei Bianchi a Firenze, a Pistoja, a Genova, altrove. Nelle Provincie lombarde profittò assai quel Bernardino da Siena che veneriamo sugli altari. Meglio ancora frà Silvestro da Siena minor osservante, cui i magistrati di Milano avevano chiamato perchè attutisse i dissidj fra cittadini, al che, Dio ajutante, riuscì. Più clamoroso fu il componimento, a cui egli indusse i Comaschi. All'invito de' loro capi, condottosi sulle rive di quel lago, tolse a predicare con molto fervore e gran frutto, incominciando la riforma delle leggi, come ognora si dovrebbe, dalla riforma dei costumi. Indi piovendo sugli animi preparati la parola del Vangelo cioè della carità, fece abolire i maledetti nomi Guelfi e Ghibellini, sotto i quali gl'italiani si straziarono lungo tempo, favorendo chi la Chiesa, chi gl'imperatori, dimenticando intanto la patria e la libertà. Poi ad un giorno deliberato (fu il 13 dicembre 1439) impose che tutti, dalla città e dai contorni, convenissero sullo spazzo che si dilata dinanzi alla porta Torre. Ivi con parole piene di spirito e di carità infervorò gli animi così, che fra tutta la folla accorsa era un piangere, un singhiozzare, un picchiar di petti e deporre i rancori in fratellevoli abbracciamenti. I nomi di tutti furono iscritti sul libro della _Santa Unione_, e intimato l'anatema del cielo ed il castigo degli uomini a chi violasse le pacifiche promesse. Non vi sarà meraviglia che uomini così fatti, strascinando a loro arbitrio le popolari volontà, facessero e disfacessero a loro talento, riordinassero le leggi e gli statuti: essi in più luoghi riscossori delle gabelle; essi talvolta podestà e gonfalonieri. Nè pur sempre a mettere pace ponevano l'ingegno: ma qualora il meglio paresse, ricordavansi che Cristo ha portata in terra la spada. A chi è ignoto frà Giacomo de' Bussolari di Pavia? Uscito, al superiore comando, fuor del romitaggio che s'era eletto per servire a Dio, e condottosi in patria a predicare la pace, cominciò ad inveire contro i vizj onde erano lordi i suoi compatriotti, e più i più ricchi: nè perdonandola a stato o grado o fortuna, rinfacciava la viltà alla plebe, la tirannide ai potenti. Accadde in quei giorni che i Visconti, tiranni di Milano, volessero sommettere al loro comando Pavia, togliendola al dominio dei signori Beccaria. Il popolo, per un fiacco sentimento che sovente si onesta col nome di amor dell'ordine, scoraggiato porgeva il collo al giogo, allorquando il frate, coll'impeto di sua eloquenza, lo scosse, e ne ravvivò l'amor di patria sopito. Facendosi egli medesimo a capo dei cittadini, li condusse a rompere gli avversarj che invano forti nel numero cessero al valore inspirato nei Pavesi. Nè ristette: ma deliberato di tornare in cuore de' suoi l'antica virtù, eccitava in questi l'abborrimento ai tiranni, cioè all'ingiustizia; fece cacciare anche i Beccaria, armò il popolo, indusse i cittadini a frenare il lusso, e col superfluo risanguare il pubblico erario. Le donne, prime sempre negli esempj di disinteresse e sacrifizio, recarono gli abiti loro di maggior valuta e i giojelli, restando contente a poco più che un mantello nero ed uno zendado. Gli uomini esultanti avventaronsi fra pericoli, a cui era proposto per guiderdone il cielo e la libertà della patria. Ma anche allora la forza materiale prevalse, e il frate, scorgendo il precipizio delle fortune, entrò mediatore di pace. Nella quale, onorate condizioni ottenne per la sua Pavia; nulla a proprio vantaggio pattuì, neppure la vita. I Visconti giurarono i patti, e, costume dei violenti, appena ottenuto il fine, li violarono; il frate, mandato a Vercelli, fu sepolto nel _vade in pace_ di un convento, ove terminò la vita. Il più splendido esempio di paci operate da frati fu quello di Giovanni da Schio vicentino, de' Predicatori. A' suoi giorni la Marca Trevisana e tutta Lombardia sossopravano fra le risse di tirannetti, parteggianti chi a favore, chi contro dell'imperatore. Perchè s'accordassero, e così non fosse lusingato d'aiuti Federico II, che allora meditava ridurre tutta Italia in soggezione de' Tedeschi, Gregorio papa inviò frà Giovanni ad apostolare la pace. Fattosi egli prima a Bologna, non è a dire che frutti coglie: dovunque arriva, eccogli incontro tutto il popolo coi gonfaloni e le croci, con bandiere ed incensi; ogni parola sua è accolta come di più che uomo: felice chi tocca il lembo di sua tonaca! chi ne ottiene un filo! I Bolognesi per pubblico decreto lo seguitarono, e qualora egli si restasse, piantavangli attorno uno steccato, acciocchè la folla incomposta, accalcandosegli soverchiamente addosso, non gli nocesse. Corse con questa maniera di trionfo Belluno, Feltre, Conegliano, Treviso: i Padovani gli uscirono incontro fino a Monselice col carroccio, e fattolo su quello salire, il condussero in città fra una esultanza di devozione. Ivi nel Prato della Valle stivavasi il popolo ad ascoltarlo, e così egli componeva dissidj, riformava statuti, ridonava la libertà a prigionieri; la patria a fuorusciti. Poichè ebbe in tal guisa pellegrinata tutta la Marca Trevisana, ordinò che un tal giorno, tutti convenissero a giurare, innanzi a Dio e a lui, concordia ed amistà. Per quest'ordine, il 28 agosto del 1233, presso tre miglia di Verona, in un'estesa pianura che chiamano la Paquara, s'accolse un'infinità di persone di Lombardia e della Marca. Qui Verona Mantova, Brescia, Vicenza, Padova erano venute co' loro carrocci, il che vuol dire col popolo tutto: Feltrini, Bellunesi, Trevisani, Ferraresi, Veneziani, Bolognesi cogli stendardi; e tutti, quant'era lungo il cammino, cantando le lodi del Signore. Convenuti erano pure quindici vescovi delle città là intorno, e tutti i baroni delle vicinanze; qui i conti di Sanbonifazio; qui i signori di Camino; qui i Camposanpiero; qui il tremendo Salinguerra; qui più tremendi ancora, que' gran nemici dell'uman genere, Ezzelino ed Alberico da Romano erano venuti per udire dal frate le esortazioni di pace, di carità. Così ne' favolosi tempi alla canora voce dei poeti o degli incantatori traevano leoni ed orsi, fatti mansueti. Ai cronisti non bastano immagini per descrivere tanto concorso di gente; chi li somma a quattrocento migliaja: chi dice che da Cristo in poi non erasi veduta radunanza sì numerosa: chi la rassomiglia a quella futura nel gran giorno in val di Giosafatte. Ed erano persone, che unico diritto conoscevano la spada: nemici un dell'altro giurati; avvezzi a non incontrarsi che coll'ingiuria sul labbro, col pugno sugli stocchi: oltraggiati ed offensori, soverchiatori e soverchiati, emuli di nimicizie ereditarie, d'odj inespiati, inespiabili: sospendevano al fianco le daghe, su cui era impresso ancora un sangue, ond'era stata giurata la vendetta. — Ed ora venivano insieme; venivano alla voce di un povero frate; venivano a giurarsi perdono ed amicizia! Il qual frate, salito sopra altissimo pulpito, esordendo da quelle parole del Vangelo _La pace mia vi do_, _la pace mia vi lascio_, pronunziò un'esortazione alla moltitudine perchè ritornasse alla concordia del Signore. La voce sua, ne assicurano i cronisti, sonava quel giorno più che mortale: sicchè era intesa perfettamente da un popolo immenso, mugghiante a guisa di fiotti marini. Ma non è mestieri ricorrere a miracoli; giacchè, in que' solenni casi, se l'orecchio non ode, l'animo intende: intende al modo onde i soldati capiscono le arringhe dei loro capitani. Nè gli stupendi prodigi di commozione, che i simili mai non ottennero Demostene e Cicerone, e che sappiamo aver seguìto alle parole di Pietro eremita, di Bernardo di Chiaravalle, dei due santi d'Assisi e di Padova, non erano già effetto di ben accordate parole o d'invincibili ragionamenti. Rustici parlatori, in un latino tralignato od in un vulgare ancora inesperto, con argomento e distinzioni sofistiche, ne porgono la miglior riprova come l'eloquenza non consista tanto in chi parla, quanto in chi ascolta. L'opinione della bontà, intesa da tutti anche quando le idee di giustizia e di dovere sono stravolte, d'una bontà semplice a segno da sottrarsi all'invidia, amata perchè propizia e tutrice, venerata perchè impressa del marchio della religione, disponeva gli ascoltatori in favore del predicante. Coll'entusiasmo proprio dei secoli robusti, traevano essi per essere commossi: non udivano, ma vedevano: ed ogni gesto dell'oratore, interpretato da ciascuno a suo modo, ed esposto al libero volo dell'immaginazione, veniva a dire assai più che non avrebbero potuto le parole. E come il pio contadino, qualora devoto recita orazioni in lingua ignota, pure sa che sono preghiere, e crede in quel linguaggio ed in quell'unica formola, esprimere qualunque bisogno al suo padre che è ne' cieli, così sapendo che il frate predicava la pace, ciascuno vi faceva i commenti che al suo caso meglio convenivano, credea sentirsi chiamare col proprio nome, rinfacciare il proprio delitto. Che dirò poi di quando il frate rompeva in lagrime e singhiozzi, e si prostrava a terra, e scintosi il cordone dalla cintura, cominciava battersi in penitenza? Allora più nulla non limitava quell'elettrica possa che da uno in uno si propaga nelle moltitudini, e fa divenire di tutti quel che era impeto, curiosità, convincimento d'un solo. Poichè dunque frà Giovanni ebbe commossi gli animi colle dottrine generali della pace, della carità, scese a casi parziali, dalle idee agl'individui: ed ai campioni che gli stavano attorno, impose le leggi, secondo cui voleva si mettessero in accordo; questi rilascerebbe i prigioni, quegli rimanderebbe gli ostaggi, l'altro darebbe sua figlia in isposa al figliuolo dell'emulo. Indi, valendosi dell'autorità senza limite concessagli dal sommo pastore, nel nome di Cristo e del suo vicario pronunziò benedizioni ed anatemi sovra chi osservasse o no que' patti: e — Benedetto (esclamava) benedetto chi osserverà questa pace! benedetto chi la farà conservare! benedetto chi toglierà di mezzo le discordie! benedetto chi amerà il prossimo suo come si deve i fratelli!» E migliaja, migliaja di voci rispondevano, — Benedetto!» Indi pronunziava: — Oh maledetto e rubello a Cristo ed alla Chiesa chi seminerà zizzania fra gli amici! maledetto chi primo infrangerà i patti giurati! maledetto chi primo sguainerà la spada contro del fratello! maledetto e rubello a Cristo ed alla Chiesa chi inviterà le armi straniere fra le dissensioni della patria!» E migliaja migliaja di voci echeggiavano, — Maledetto!» Tale dovette apparire la vallea Palestina fra l'Ebal e il Garizim, quando a tutto Israele raccolto vi si promulgò la legge; ed un alterno coro di sacerdoti dalle due opposte montagne acclamava benedetto chi ne adempisse i precetti, maledetto chi vi fallisse; e un mondo di popolo rispondeva, — Così sia». Fra quei gridi, fra le lagrime, si gettavano al collo l'un dell'altro; baciavansi; confondevano i palpiti due cuori, che si erano odiati a morte. Il popolo vedendo i magnati abbracciarsi, e dimenticando che è proprietà dell'uomo poter piangere anche mentre il cuore medita il tradimento, il popolo credeva, sperava; — vicenda del popolo; credere, sperare, trovarsi deluso. Perocchè, credereste dovessero a lungo durar quelle paci? Erano frutto di momentaneo commovimento, sfrondavano i rampolli, anzichè svellere le radici de' mutui scontenti. Appena il paciere se n'era ito, ecco rinfocarsi peggio che prima gli sdegni, le vendette, le battaglie, le ambizioni: ecco sonare ancora d'armi il paese. Nè a diverso fine riuscì la riconciliazione di frà Giovanni. Erano corsi pochi giorni da quei solenni abbracciamenti, e in tutta la Marca divampava incendio di guerra. E frà Giovanni? Dopo che ebbe in tre dì fatto bruciare da sessanta ragguardevoli Vicentini, come sozzi d'eresia, ruppe all'ambizione, e si tolse il dominio di Vicenza. Ma ben presto dovette scontentarsi del non essere rimasto pago al dominio dell'opinione e della parola: giacchè vinto, imprigionato, indi espulso, vide pochi giorni appresso il trionfo di Paquara risolversi in sua vergogna, e quella pace in nuove sanguinose battaglie. Così soavissimo è il lume dell'iride succedente alla burrasca: ma un lieve soffio d'aria dissipa la nube da cui era rifranto[38]. DELL'ATTACCAR LITE Io vo gridando pace, pace, pace PETRARCA. — Conoscete l'abate di Saint-Pierre? — Oh, chi nol conosce? l'autore della _Pace perpetua_; l'inventore della parola _bienfaisance_; un utopista.... — Sì, ma l'avete letto? Davanti a questa domanda ammutolisce troppo spesso un uomo sincero: e, se sinceri, ammutolirebbero i tanti i quali sentenziano di libri che non conoscono se non di nome, o, ch'è ancor peggio, se non pel giudizio che ne diedero i giornalisti, i quali le più volte non li leggono, o col proposito di leggervi soltanto il bene o il male. Eppure l'opera più conosciuta del Saint-Pierre meritò di essere analizzata da quel cupo Gian Giacomo Rousseau; e un ministro, famoso per tutt'altro che per bontà, la definì «il sogno d'un uomo dabbene»; nè l'un nè l'altro giudici competenti, perchè la candidezza e la rettitudine non possono comprendersi se non da chi le possiede. Ed oggi che, sotto il nome di pace, freme continua la guerra o la minaccia di guerra, e si ripone il progresso della civiltà nel raffinare i modi di straziare ed ammazzare il maggior numero d'uomini e di beni nel minor tempo, è dolce buttarsi sui sogni della pace: — sogni forse anche dopo che gli uomini si saranno disubbriacati. Certo a chiunque vede l'animale detto ragionevole lacerarsi cogli orribili modi della guerra, vien in proposito di cercare un riparo a questa frenesia: e l'abate di Saint-Pierre credette trovarlo, e l'espose nel _Progetto di pace perpetua_. A Utrecht era adunato nel 1712 un congresso per istabilire la pace, da lunghi anni sbandita per le ambizioni di un re, e vedendo da quanti sofismi e paralogismi fosse ritardato l'accordo tra' principi, il nostro abate stese il suo _Progetto_. Lo so anch'io che il migliore sarebbe di dire: «O uomini, siate buoni; o principi, moderate la vanità; o ministri, non operate di puntiglio»: ma ciò varrebbe come indicare che il miglior rimedio alla febbre è l'ordinare: «Fate battere regolarmente il polso». Il Saint-Pierre era persuaso che gli uomini intendano i proprj interessi: e perciò dimostrava che la pace è più utile della guerra; dimostrazione strana per animali ragionevoli! Nè io voglio divisarvi il suo _Progetto_: basti dirvi che, fatto un nuovo scomparto più razionale dell'Europa, onde conservarla in assetto proponeva un congresso permanente ed arbitro, che giudicasse delle vertenze tra le nazioni, e che sancisse le paci e le mantenesse, dichiarando nemico pubblico chi ricusasse star alle decisioni di esso. Nella _città della pace_ deve risedere un ufficio perpetuo di _giureconsulti osservatori_ per avvertire continuo quai regolamenti e ordini giovi aggiungere ai vecchi, quali modificazioni introdurre, o emendazioni del diritto; giacchè è follia cercare la pace di fuori quando si stia male dentro. Ma queste le sono questioni da politici, nè i politici leggeranno di certo questo povero racconto fatto pel popolo, di cui essi non si danno pensiero. La semenza di Caino però germina anche fra noi privati; e pur tacendo i miserabili accapigliamenti della stizzosa ed invida razza de' letterati, ogni giorno risse, dispute, processi raddoppiano i mali di questa già infelice esistenza. Chi ha un possesso senza aver litigio? qual testamento si applica senza avvocati? qual eredità si addice senza baruffe e nimicizie tra i coeredi? I Milanesi di quel medioevo che alcuni credono solo feroce e ignorante, nel XII secolo fabbricando i tribunali in Piazza de' Mercanti, posero una iscrizione proprio al cominciar della scala, che in lettere gotiche ed in latino esprime: «Nelle controversie delle cause nascono corporali nimicizie, si fa getto delle spese, si cresce l'angustia dell'animo, si stanca ogni giorno il corpo, molti delitti ne derivano, si pospongono le buone ed utili opere e quelli che sperano trionfare spesso soccombono, o se trionfano, calcolate le fatiche e le spese, nulla si trovano in pugno». Il più bello, il più nobile ufficio di un paese, è quello del paciere, del conciliatore: e spesso lo adempiono i curati, riveriti per sapere, per integrità, per disinteresse. L'abate di Saint-Pierre scrisse un'opera sul modo di diminuire i processi, che son la guerra fra i privati; e quel libro potrebbe bene tradursi e ristamparsi, invece di tante o sudicerie o fatuità o tossici, che i libraj ammaniscono ogni giorno a quei che hanno bisogno di leggere per non essere costretti a pensare. Fedele al metodo geometrico di passar sempre dal cognito all'incognito, il Saint-Pierre dimostra in prima la necessità delle leggi e dei giudici e le loro condizioni essenziali e conchiude esser meglio che le leggi stabiliscano sopra tutti i casi, anzichè lasciar ai giudici l'applicazione di massime generali poco costanti. E poichè le relazioni sociali si estendono e modificano di continuo, vuolsi una società di dottori e di pratici, che incessantemente al legislatore sottopongano progetti studiati e provati; donde si ridurrebbero poco a poco ad uniformità le migliaja di consuetudini: toglierebbesi ai re l'arbitrio di far leggi assolutamente, ed intervenire agli affari privati, sospendendo il corso della giustizia; toglierebbesi (aggiungiamo noi) ai Parlamenti il mal vezzo di storpiare con emendamenti improvvisati le leggi preparate con lungo studio, o di obbligare i popoli ad osservare, dopo che i deputati fecero grande sforzo di logica e più di rettorica, per mostrare che sono o cattive o inopportune. Non contento di scrivere, il Saint Pierre non negligeva l'ufficio di paciere; e fra le altre gli incontrò quest'avventura. Il marchese di Villars possedeva in Normandia una lietissima tenuta, detta a ragione la Bellavista: e l'aveva coltivata ed abbellita in modo, che da lontano si accorreva ad ammirarla. Morto lui, venne disputata fra il cavaliere Castel e il contino di Beauvilliers, prossimi parenti, che per far valere le loro ragioni si circondarono di periti, d'ingegneri, d'avvocati, di sollecitatori. Ne seguirono ostinazioni da una parte, disgusti dall'altra, ognuno volendo avere per sè quel bel possesso. Invano si esibivano compensi ricchi, perocchè la Bellavista dava una specie di celebrità; dava il gusto di avere il più bel luogo di Normandia; dava, aggiungiamo, la soddisfazione di un puntiglio. E ad un puntiglio che cosa non si sacrifica? Onde essi dichiararono che litigherebbero l'intera vita, piuttosto che cedere la Bellavista. Era parente d'uno di essi il nostro Saint-Pierre, e volendo rimetterli in pace, andava e tornava da questo e da quello; ma che vale mai la ragione durante la collera o contro il puntiglio? Una volta il cavaliere e il contino si trovarono insieme alla Bellavista, giacchè un avanzo di buon senso e la creanza li rattenevano dall'ostentare in pubblico la loro nimicizia; ed entrambi confidavano i loro dispiaceri al Saint-Pierre, e principalmente la penuria di denaro a cui gli aveva ridotti la diuturnità del processo; la qual penuria però, invece di persuaderli ad un accomodamento, che, per quanto magro, è sempre migliore di una grassa sentenza, li faceva più caparbj a non volere aver perduto le spese. Il Saint-Pierre, vedendo che gli argomenti non profittavano, disse: — Ebbene, lasciam via questi rompicapo. E tanto per divagarci, permettete vi legga questa sera una storiella che ho composta or ora, e sulla quale desidero il vostro parere». Volentieri aderirono, e l'abate lesse la seguente STORIELLA. Fra le innumerevoli isole dell'immenso fiume del Mississipi, due ve ne ha di estensione mediocre, di incomparabile ubertà; le biade vi fanno spontanee e in abbondanza, gli alberi s'incurvano sotto ai pinocchi ed alle noci di cocco; i cespugli strabbondano di prugne. Allettati da questa fertilità, vi accorrono alci e cervi, che assicurano copiosa preda al cacciatore; e le baje ond'è scaccato tutto il lido sono frequentate da torme di pesci mangerecci, che il coglierli non costa alcuna fatica. Eppure le due isole avevano due soli abitanti; Maìco nell'isola Verde, Baìco nell'isola Tonda. Da buoni vicini si visitavano spesso, e viveano d'amore e d'accordo. Maìco valeva meglio alla caccia, Baìco alla pesca; talchè barattavansi le loro prede, e ne vantaggiavano entrambi. Del restante, uguali i costumi, uguali le ricchezze; vivevano dei prodotti delle loro isole; abitavano un capanno di frondi e di pali, fatto di loro mano; vestivansi delle pelli dell'alce che avevano ucciso, nè d'altro fregio inorgoglivano che delle penne dell'aquila o delle bacche essicate dei loro cespugli. Ma un giorno Baìco, sventrando un pesce, vi trovò un semicerchio d'oro, sfolgorante di gemme di vario colore. Voi vi avreste riconosciuto di botto uno dei pettini eleganti, con cui le Spagnuole fissano ed ornano la cappellatura; ma Baìco, che non n'avea mai veduti, trasalì d'allegria, e provò a mettersi quell'ornamento come collana, come diadema, come pendente al naso e alle orecchie: e non trovando di meglio, se l'attaccò appunto all'orecchio sinistro, sicchè pendea fino alla spalla, visibile di lontano. Prima cura di Baìco fu correre a Maìco, e raccontargli il felice incontro. Maìco rimase muto di meraviglia davanti all'orecchino, mai non avendo visto, mai immaginato un pendente sì magnifico, che a Baìco dava la sembianza di un Dio. Ma dalla meraviglia alla gelosia non v'è che un passo; e Maìco vi si lasciò portare senza accorgersi dapprima, poi di progetto e di riflessione — «O perchè il mio vicino trovò quel tesoro, anzichè trovarlo io stesso? È forse lui più bello, più forte, più coraggioso? I pesci appartengono a me quanto a lui. E po' poi, dove ha egli còlto il pesce che conteneva l'orecchino? Sotto l'isola Verde; dunque ne' possessi miei.» Queste riflessioni, ruminate dapprima tra sè e sè, non tardò a metterle fuori ad alta voce; e Baìco vi rispose coll'alterigia ispiratagli dalla recente fortuna. — «Il pesce fu pescato in mezzo al fiume; il semicerchio d'oro è mio di tutto diritto; all'occasione saprò difenderlo.» E si divisero buzzi e ingrugnati. Maìco rimasto solo, non vede, non pensa che al pendente del suo vicino; la fortuna di lui gli fa dispetto; la di lui insolenza gli muove la bile; si richiama tutte le usurpazioni che poc'a poco erasi permesse, e delibera di farle finite; e al domani l'occasione si presentò. Baìco, vedendo un bufalo traversare il fiume, l'inseguì col suo coltello, lo raggiunse sur una spiaggia dell'isola Verde, e l'uccise. Maìco accorse fretta e furia, dichiarando che l'animale apparteneva a lui. Sì, no; dai bisticci si va alle ingiurie, dalle parole ai pugni; Baìco ferito ricoverò alla sua barca mordendosi il dito e giurando vendetta. E Maìco che n'ebbe paura, pensò a ripararsi; e sapendo quanto il vicino fosse coraggioso ed attento, risolse prevenirlo. Di notte buja dunque s'imbarca, a chetichella, afferra all'isola Tonda, e colla scure alla mano giunge al capanno di Baìco... vi si avventa — Meraviglia! non vi trova alcuno; onde non potè che mettervi il fuoco, e tornar subito a casa sua. Ma nell'accostarsi, ecco un volume di fumo sorger di mezzo agli alberi che coprivano il suo abituro; — accorse inquieto; — la capanna sua era stata incendiata da Baìco. I due emuli si erano incontrati nella stessa idea di vendetta, e trovavansi entrambi senza ricovero. Questo non fu che il preludio della guerra dichiarata. Da quel giorno Maìco e Baìco ebbero rinunziato alla tranquillità e all'abbondanza di prima. Rimpiattati nelle forre, attenti solo a tendere agguati o ad evitarli, non s'arrischiavano d'uscir dai nascondigli per procacciarsi gli alimenti; addormentarsi non osavano, e all'odio di ciascuno porgevano sempre nuova esca le miserie che infliggeva all'altro. Molte ferite datesi negli incontri li resero irreconciliabili. La gelosia di Maìco cresceva colla sua collera; ogni volta che vedea dalla lungi Baìco col suo orecchino sfavillante, gonfiavasi di rabbia, e pareagli una sfida lanciata al suo coraggio. Veglie, fami sopportate da mesi, ferite e colpi, cosa importavano a Baìco, poichè possedeva il suo orecchino? poichè poteva opporlo gloriosamente al nudo nemico, del quale gli sforzi erano usciti sempre indarno? E quando pensava a quel vezzo, cascante sulla spalla del pescatore, Maìco sbuffava, infelloniva, e non poteva più sopportarlo, onde risolse venirne ad una fine. Piglia dunque la scure e il coltello, traversa a nuoto lo stretto fra le due isole (la barca d'entrambi era stata da un pezzo distrutta); chiotto chiotto arriva addosso a Baìco, e l'assale improvviso, mandando un ruggito di rabbia. Ma l'uom del pendente evitò il colpo mortale, afferrò le sue armi, e a quel furore oppose una difesa disperata. Ben presto entrambi furono coperti di ferite; Maìco sentì la scure del suo nemico calargli più volte sopra la testa, ma cieco nel suo furore non vi badò, seguitando a ferire, non a parare, finchè stesesi Baìco ai piedi; e si buttò con un urlo di vittoria sopra di esso, il quale rispose coll'anelito della morte. Allora sì la gioia, l'orgoglio di Maìco giunsero all'estremo. Al cadavere strappò l'orecchino, lungamente desiderato. — Alfine è mio! tanto patire, tanto aspettare, tanto combattere, eccoli alfine premiati! ecco il trofeo che attesterà per sempre la mia vittoria!» Guardatolo con un sorriso selvaggio, Maìco rimuove i capelli sanguinenti per attaccarsi il semicerchio d'oro; ma repente le mani che aveva sollevate verso la testa gli cascano: mette un _ah!_ desolato: — i colpi di Baìco avevano reciso le due orecchie del vincitore; il vezzo tanto disputato più non poteva servire! Maìco alzò la testa, e guardossi attorno disperato. Non vide che le isole devastate, i rottami delle due capanne, qualche residuo delle barche, e il cadavere di colui che un tempo era stato suo amico. [Illustrazione: Maìco alzò la testa.... (_Pag. 330_).] Qui l'abate di Saint-Pierre fece punto. Il contino e il cavaliere, che avevano ascoltato quella lettura con un'attenzione dapprima benevola, poi imbarazzata e pensosa, guardaronsi più volte; poi si alzarono di sedere, e fatte le congratulazioni all'ospite autore, uscirono senza farsi motto. Ma il domattina quando scese per far colazione, l'abate trovò i due litiganti davanti al focolajo di cucina, sul quale gettavano un dietro l'altro molti fascicoli di carta bollata. E alla domanda risposero: — Facciamo i commenti alla vostra storiella di jersera. Abbiamo capito che, se continuiamo a disputarci il podere di Bellavista, ci spianteremo tutti e due; e perchè almeno uno di noi due conservi l'orecchio a cui sospendere il pendente, tirammo a sorte quel possesso, e toccò al cavaliere.» Saint-Pierre li lodò, e raccontava poi spesso quell'aneddoto, e passò quasi in proverbio fra' suoi amici, qualora si disputasse d'una guerra o d'una lite di cui poco bene si prevedeva: — Vorrà essere l'istoria di Maìco l'indiano, che perdette le due orecchie nell'acquistar un orecchino.» Saint-Pierre non iscrisse questi due soli libri, ma altri molti, esposti però alla carlona, fin con parole non di Crusca, fin con neologismi; senza sfoggio di frasi simpatiche, senza il pepe delle allusioni sarcastiche nè la manna del tenerume umanitario. Ma le sue idee erano sempre suggerite dalla bontà; cercava continuo il miglioramento delle istituzioni sociali per render meno infelici gli uomini: a tal fine correva di paese in paese, di conversazione in conversazione, ad osservare, a discutere, a convincere. _Utopie_, dicevate da principio. Eppure gran parte delle proposizioni ch'e' faceva pel pubblico bene sono attuate a quest'ora. La sua proposta di _ricoveri pei mendichi_ fu applicata agli ospedali e agli accattoni. Quella sui ponti e le strade fe' raddoppiare subito la spesa assegnata ad un servizio così importante. Trovava assurda la venalità delle cariche, e proponeva i concorsi in proporzione del merito verso la nazione. Onde prevenire le rivoluzioni violente suggeriva d'insegnare a tutti la politica, e di ispirare zelo pel progresso e cura dei miglioramenti. Voleva estese anche alla campagna le scuole primarie, con maestri stipendiati: e che un membro dell'Istituto vigilasse alla pubblicazione de' libri utili ai campagnuoli, con cognizioni di igiene, di veterinaria, di meteorologia. Suggeriva pure collegi femminili. Predicava che ogni uomo di buona volontà ha diritto a trovare lavoro e ad apprendere un mestiere, lasciando soli gl'invalidi ne' ricoveri e nelle case d'industria. Tante altre cose che disse e scrisse sulla carità, sui soccorsi pubblici, sull'amministrazione degli ospedali, sul credito agricolo, sui porti, sulla canalizzazione, sulle banche, meritano d'essere lette anche oggi, dopo che in gran parte furono adottate. Esortava la Francia a provvedersi di buona marina, e sbrattare il Mediterraneo dai corsari; e noi lo vedemmo. Esortava a sostituire alla taglia arbitraria e al testatico, l'imposta sul censimento, e lo vide egli stesso. Ma il nostro utopista non era di quelli che vogliono portare la scure alla radice, riformare di colpo, senza riflettere che ogni innovazione ferisce interessi, rispettabili almeno come possesso antico, pubblico, tranquillo, legati ad un'infinità di altri che essi proteggono e alimentano. La distruzione è un male positivo al principio: bisogna dunque avere la certezza che essa gioverà poi, e tener in pronto qualcosa di meglio a surrogarvi. Ma abbattere una casa dove o bene o male si ricoverava dalle intemperie, e incoraggiar gli abitanti a ripararsi sotto frondi o trabacche finchè si pensi dove, come, con che fabbricar la casa nuova, non era un sistema che andasse a garbo a Saint-Pierre, conscio che la violenza non fonda nulla, perchè di natura sua perde ogni tratto le forze; mentre il tempo favorisce la giustizia e la ragione. — La riforma delle leggi e de' tribunali (diceva egli) non si farà d'un tratto; ci vorrà sessant'anni. L'opera cominciata si compirà col tempo, senza incomodar nessuno. Conviene introdurre i miglioramenti a grado a grado.» Poteano dunque chiamarlo codino, parrucca, conservatore, e, se vi ha, altro titolo peggiore. Eppure divenne membro dell'Istituto; giacchè, se i sedili accademici sono spesso usurpati dalla briga, non vuol dire che soli briganti gli ottengano. Ma che è che non è, dopo che da 23 anni v'andava a dissertare sui nomi e sui verbi e sui solecismi, ed essendo già sessagenario, eccolo cacciato fuori dal dotto corpo. E perchè quest'affronto? Era morto da poco Luigi XIV, che i contemporanei chiamarono Grande perchè colla guerra sacrificò migliaja di persone, devastò i paesi nemici, e dissanguò il proprio. Questi meriti non pareano poi così lodevoli all'abate di Saint-Pierre, e non voleva attribuirgli cotesto epiteto di grande, e lodò il Reggente d'aver istituito i consigli di governo, specie di costituzione che non lasciava più esposte le sorti del paese al capriccio d'un solo. Tanto bastò perchè Saint-Pierre fosse congedato. Ed egli se ne andò, non solo senza lamentarsi, ma senza gloriarsi della sua persecuzione; e se talvolta ne parlava, egli era per dire che Luigi XIV amò troppo la guerra, e che è un assurdo dei più micidiali quello che tutto dì si ripete con una beata dabbenaggine, _Se vuoi la pace, prepara la guerra_. I suoi colleghi ebbero vergogna di nominargli un successore, e per 25 anni rimase vacante il suo scanno. Perocchè egli campò fino agli anni 85: e scusate se tardai fin qua a dirvi ch'era nato a Roano nel 1658 da nobile gente, ed avea nome Carlo Ireneo Castel: visse inoffensivo e con quella bontà che niuna dote pareggia o compensa; ed occupandosi del bene altrui, si conciliò la benevolenza di molti, senza però sfuggire la malevolenza di altri. Solo otto anni dopo morto fu permesso di recitargli l'orazione funebre, nella quale D'Alembert disse che la vita di lui poteva epilogarsi in due parole, _donare e perdonare_. Da tutto ciò voi capite che il Saint-Pierre non era un grand'uomo, ma qualcosa di meglio, un galantuomo; anzi scrisse una Memoria sulla differenza tra un grand'uomo e un uomo illustre. L'amar la patria e i suoi simili, cercare di beneficarli, non ripromettersi compensi e sopportarne l'ingratitudine, il lavorare silenziosamente, non acquisteranno mai la stima che di un piccolo circolo; son altri i meriti a cui la società concede i suoi incensi e le sue apoteosi. Che importa? noi cerchiamo, non di essere illustri, ma buoni; non grand'uomini, ma galantuomini, e schiveremo le liti coi privati e le capiglie coi governanti; e conserveremo le orecchie: se anche non potremo attaccarvi gli orecchini. FINE. NOTE: [1] L'ambasciadore di Toscana Nicolini, presso del quale Galileo abitò durante il suo processo, salvo i giorni in cui dovette stare alla Minerva per udire la sentenza e ricever l'assoluzione. Di ciò si ragiona a disteso in Cantù _Eretici d'Italia_, discorso IL. [2] È noto come il punto cardinale dell'eresia luterana fosse l'inutilità delle opere. Questa professione esplicita della monaca rende fin ridicolo chi testè s'appassionò a trovare in Galileo un eretico mascherato, cioè un basso impostore: e che mandasse monache le sue figliuole per ispiare i segreti del convento. [3] M. Gasparin, protestante, scriveva di poi qualcosa di simile. «Sarà una delle meraviglie dell'avvenire il sentir che una società, la quale dicevasi cristiana, dedicò i sei o sette anni più belli della giovinezza de' figli suoi allo studio d'autori pagani; ch'essa gli ha unicamente nodriti delle false idee, delle false virtù, della falsa gloria di quelli; che gli allevò nel culto della patria, dell'onore della rinomanza che sopravvive alla tomba e che non pagasi mai troppo cara; che lentamente e laboriosamente ispirò loro gl'insegnamenti più contrarj al vangelo; che questo vangelo fu relegato a un posto talmente subordinato ed infimo, da poter ben di rado bilanciare l'influsso di quelle detestabili dottrine, sì ben addatte alle nostre inclinazioni naturali; e che in nome di Cristo si fece forza per acquistare molti discepoli a Socrate e a Zenone. Che cristiani si formassero così, noi lo vedemmo alle feste della Ragione; che Francesi, lo vedemmo a questa spaventosa perpetua parodia della Grecia e di Roma, espressa nei nomi, nel linguaggio e ancor più ne' sentimenti di tutti... Io mi ricordo di quando uscii di quest'educazione nazionale; mi ricordo cos'erano tutti i miei camerata coi quali avevo a fare. Eramo noi buoni cittadini? nol so; certo non eramo buoni cristiani, non avevamo tampoco i più deboli principj della fede evangelica.» _Intéréts généraux du protéstantisme français, 1844._ [4] «Vuoi sapere qual uno è? bada come si comporta co' suoi fratelli», disse un antico, non di quegli antichi che si spiegano nelle scuole. [5] Madama Campan, nella sua opera _De l'éducation_, che pure va raccomandata alle madri, comincia il libro III con queste parole: _La mémoire ne se développe qu'à l'âge de trois ans._ O non intendo, o non è vero. Quante cose non sa, non ricorda già il bambino a tre anni, fino a saper parlare? E poco dopo: _A trois ans l'enfant entend et commence à comprendre le sens des mots._ Ma qual madre non s'è sentita a dire bellissime cose da qualche caro fanciullino non ancora trienne? [6] È noto il modo che suggerisce Rousseau: caso per altro particolare. Madama Campan, alla cui esperienza conviene aver venerazione, dice che, qualora le occorressero de' fanciulli più curiosi di quel che sono generalmente, _j'ai toujours répondu avec succès à cette question, en disant que l'accouchement était une operation chirurgical très-douloureuse, et que presque toutes les mère risquent de perdre la vie en la donnant à leurs enfants. Ce mot chirurgical les effraie, et calme leur immagination.... ils n'en demandent pas davantage, et l'idée que leur naissance a mis les jours de leur mère en danger, les attendrit, et la leur rend encore plus chère._ Vedano le madri quanto l'espediente possa valere. [7] La citata Campan vorrebbe data tale risposta quando il fanciullo domanda perchè le ricchezze non sono egualmente distribuite sulla terra. Ad una madre religiosa non è così difficile la risposta. [8] BERNARDINO DI SAINT-PIERRE, _Harmonies de la nature_. Su questi e su altri punti dell'educazione bisognerebbe consultare la _Metodica_ del Rosmini. [9] _Educazione delle donne._ [10] E ancor meno ne' moltissimi pubblicatisi in quest'ultimi anni, e raccomandati d'uffizio. [11] Dunque è ben lontana dall'esser d'accordo con madama Campan, ove scrive, lib. IV, cap. 2: _N'accordez jamais aux enfants ce qui peut jeter quelque attrait sur l'étude; serrez donc avec soin le crayon, la plume et les jetons aussitôt que vos leçons seront terminées._ E perchè? [12] _Histoire des artisans illustres._ Elegante edizione parigina con 250 ritratti, vignette, contorni, ecc. [13] Le edizioni anteriori di qualche opera di Franklin cedono alla recente, ricchissima di cose nuove, e massime dalla sua corrispondenza, intitolata: _The works of B. Franklin, containing several political and historical tracts not included in any former edition, etc. by Jared Sparks_. Boston, 1840, 10 vol. in-8. [14] _Quietem quæsivit, et ob hoc a vulgo ignominiam multam suscepit: nam de eo carmina prava decantaverunt._ JOH. VITTTODUR. _Ap._ ECCARD. _Corpus hist._, 1. 1741. [15] Ammirato, _St. Fior._, L. II. [16] Ugo Falcando fin d'allora così scriveva: _In Apulis, qui semper novitate gaudentes, novarum rerum studiis aguntur, nihil arbitror spei aut fiduciæ reponendum._ [17] _Protestatio Conradini_; e altri documenti dell'll gennajo 1267 e 7 luglio 1268. [18] La lettera papale è presso MARTENE, _Thes._ II, 544. [19] _Corpus juris can._, c. 17 a. d. 1268. [20] E nell'Archivio diplomatico la ricevuta che esso rilasciò di altre 4200 onze il 14 maggio 1268. PARGAMENE, T. IX N. 874. [21] Bicherna, libro d'entrata e uscita L. fol. 25. 26. [22] Ne fu testimonio Saba Malaspina, che ci dà le maggiori particolarità di tutti questi fatti, pieno di compassione per i soccombenti. In MURATORI, _Rer. Ital. script._ 1. VIII. Anche Matteo Spinelli di Giovenazzo scrisse in dialetto pugliese un diario di questi fatti sino alla giornata di Tagliacozzo, ove forse morì. Voglionsi aggiungere il _Chronicon Cavense_, pubblicato dal PERTZ; la cronaca inedita del SALIMBENI, e varj documenti nuovi prodotti dal SAINT-PRIEST nella _Histoire de Charles d'Anjou_; dal RAUMER _Gesch. der Hohenstaufen_; _da_ HUILLARD BRÈHOLLES, _Recherches sur les monuments de la maison de Souabe e Nouvelles Recherches sur la mort de Conradin_; _da_ JÆGER _Conradins Geschichte la_ DA CESARE, _La colonna di Corradino_. [23] _Sunt qui dicunt per pontificem et cardinale ut Corradus et coeteri in eorum protestatem et carcerem venirent, fuisse decretum._ Quod ne accideret Carolus sategit. RICOBALDO FERRARESE e PIPINO _ap. Rer. Ital. script_. T. VIII, 137; IX, 684. [24] Presso i Bollandisti _Acta sanctorum Martii_, T. III; p. 190. [25] _Ut faciat rex vitulo superste victimam Conriadinum, reconoscentem sæpius contra matrem Ecclestiam deliquisse, nec minus contra regem ipsum vehementer errasse, procuravit per quosdam Ecclesiæ cardinales illuc propterea per sedem apostolicam destinatos, absolvi._ SABA MALASPINA. [26] HERRICI PUTEANI _Hist. cisalpina_. L. 1. [27] Parole dello stesso. [28] 1523. Così narrano, e dicono narrasse egli stesso da vivo. Ma è probabile che gli si affidasse uno scritto di tanta importanza? Un artifizio simile usò più tardi il Medeghino durante la guerra di Siena; scrisse al capitano Zeti, che custodiva Montereggioni pei Francesi, gli mandò la lettera a nome di Pietro Strozzi con sigilli falsi, per cavarlo di detto castello, ma non gli riuscì. Vedi _Arch. Storico, Rivoluzione di Siena_, pag. 237. [29] Stampò in francese ed in italiano _Le diverse ed artificiose macchine_ (Parigi 1588) con 195 belle tavole; opera dedicata ad Enrico III, e nella prefazione accenna i servigi prestati al Medeghino. Servì poi ai Francesi, e morì all'assedio della Roccella. [30] Delle monete del Medeghino stampò alcune il Bellatti, _Dissertazione sopra varie antiche monete_, Milano 1775. Il Carli, _Zecche d'Italia_, ne pubblicò una di rame piccola, con da un lato la testa e l'iscrizione JO. JA. DE MEDICIS. M. MUSI, ✠, dall'altra il Lario che regge una nave. Un'altra più grande da un lato ha l'arma dell'aquila con una palla e intorno il nome: nel rovescio una croce, e in giro _Marchio Musso Co. Leuci_. Una d'argento ha la barca a vela col Sol nascente, e _Salva Domine Vigilantes_. Un'altra il Medici a cavallo e il nome, e nel rovescio l'arme coll'elmo crestato e _Marchio Mussi Co. Leuci_. Nella grida del conte di Lautrech sono nominate le monete di Musso, cioè i testoni da soldi 16-1/2: i grossi da s. 5-1/2. Le monete di Lecco furono stampate dall'Argelati, _De monetis Italiæ, appendix ad par. III_, pag. 74. Quando, per mezzo del Caravacca saputa la parola militare, sorprese a Lecco il Gonzaga, fe' coniare una medaglia di rame argentato, ov'è _FF._, e dall'altra _JO._ _JA._ _M. M._ _LE._ _OB._ 1531; cioè _fides fracta_ — _Jo. Jacobus Medici Marchio Leuci Obsidio_. Un'altra ha le stesse parole e un'aquiletta sopra una palla, e a fianco un'X, e nel rovescio una croce, su' cui quattro angoli le lettere IN TE. [31] SIGISMONDI BOLDONI, epistola 29. [32] L'originale convenzione fu pubblicata da G. Molini nei _Documenti di storia italiana_. Firenze 1837. [33] Recentissimamente fu ridotta a delizioso giardino dei signori Manzi. [34] Marcantonio Missaglia scrisse la _Vita di Giangiacomo Medici marchese di Marignano valorosissimo et invittissimo capitano generale_, ecc. (Milano, Locarni e Bordoni, 1605), sopra memorie lasciategli da suo padre, segretario di Francesco II Sforza. Ericio Puteano nella sua _Historia cisalpina_ vuol mostrarci in esso un eroe; a quella va aggiunto un libro di Galeazzo Capella, _De bello mussiano_. Vedi pure lo Sprecher, lib. IV, il Quadrio, Diss. 7 § 3, Rebuschini, Benedetto Giovio. Una storia scritta da Gabriello Chiàbrera fu edita a Genova, nel 1836. [35] Allora entravano; ora sono già scaduti. Questo e il precedente racconto son tolti dalla _Storia della diocesi di Como_, di C. Cantù, del 1829, viva cresceva la sollevazione della Grecia. [36] Nella Storia Universale, Libro XV; _Scienze occulte_. [37] Vedi REPOSATI, _Vita di S. Ubaldo_, Loreto 1760. [38] Poichè ne' grandi movimenti riproduconsi le stesse scene, qualcosa di simile avvenne nell'assemblea legislativa di Francia il 7 luglio 1792. Era nel più forte delle accuse de' Girondini contro i Giacobini, rimbalzandosi gli uni agli altri l'accusa di tradir la patria; quando Lamourette, vescovo costituzionale di Lione, si alza, e mostra che unica causa de' mali è la scissura tra i rappresentanti della nazione. — Oh! celui qui réussirait à vous reunir, celui-là serait le véritable vainqueur de l'Autriche et de Coblentz. On dit tous les jours que votre reunion est impossible au point ou sont les choses... Ah! j'en frémis! mai c'est là une injure. Il n'y a d'irreconciliables que le crime et la vertu. Les gens de bien disputent vivement, parce qu'ils ont la convinction sincère de leurs opinions, mais ils ne sauraient se haïr. Messieurs, le salut public est dans vos mains; que tardez-vous de l'opérer?... Jurons de n'avoir qu'un seul sentiment; jurons-nous fraternité éternelle! que l'ennemi sache que, ce que nous voulons, nous le voulons tous, et la patrie est sauvée!» Un applauso, uno slancio universale seconda queste parole; i più fieri nemici son nelle braccia uno dell'altro; non più dritta o sinistra, montagna o pianura. — Un mese dopo succedeano gli assassinj del 10 agosto! INDICE L'Editore Pag. 5 Avventure guerresche di un uomo di pace » 7 Una figlia di Galileo Galilei » 61 Tecla » 93 Una buona famiglia » 99 La madre » 113 Conforti d'un vecchio ai vecchi » 129 Il letterato » 151 Gli artigiani » 161 Franklin » 177 Indignarsi e soccombere, perseverare e riuscire » 205 L'ultimo degli Hohenstaufen » 221 Giangiacomo Medici » 245 Bona Lombarda » 269 Girolamo Cardano » 275 Due alchimisti italiani » 285 Rostopcin » 295 I frati pacieri » 303 Dell'attaccar lite » 321 Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. End of Project Gutenberg's Racconti storici e morali, by Cesare Cantù *** END OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK RACCONTI STORICI E MORALI *** ***** This file should be named 45803-0.txt or 45803-0.zip ***** This and all associated files of various formats will be found in: http://www.gutenberg.org/4/5/8/0/45803/ Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli, Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by The Internet Archive) Updated editions will replace the previous one--the old editions will be renamed. Creating the works from public domain print editions means that no one owns a United States copyright in these works, so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the United States without permission and without paying copyright royalties. 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