Project Gutenberg's Dal molino di Cerbaia a Cala Martina, by Guelfo Guelfi

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Title: Dal molino di Cerbaia a Cala Martina
       Notizie inedite sulla vita di Giuseppe Garibaldi

Author: Guelfo Guelfi

Release Date: January 17, 2010 [EBook #31000]

Language: Italian

Character set encoding: ISO-8859-1

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Ritratto di Giuseppe Garibaldi

 

DAL
MOLINO DI CERBAIA
A
CALA MARTINA


NOTIZIE INEDITE
SULLA VITA
DI GIUSEPPE GARIBALDI


2ª EDIZIONE

FIRENZE
PEI TIPI DI SALVADORE LANDI
4 — Via delle Seggiole — 4
1889

 

[v]

AL LETTORE
(Prefazione premessa alla 1ª edizione)

Il Comitato costituito in Scarlino collo scopo di erigere un Monumento a Cala Martina mi incaricava di riunire e coordinare i dati storici del salvamento di Giuseppe Garibaldi compiuto dai patriotti toscani nel 1849. — Ho fatto quanto le mie forze permettevano, non risparmiando ricerche onde raggiungere la più scrupolosa verità. — Ora presento l'opera mia accompagnata [vi]da un desiderio, e da una speranza; il desiderio è che altri raccolga pazientemente tutte le particolarità del trafugamento da Cesenatico all'appennino toscano, e così si completi il racconto dello scampo miracoloso, — la speranza è che gli Italiani facciano buon viso a questo piccolo lavoro non per il merito suo, ma per lo scopo patriottico al quale è destinato.

Scarlino, 2 settembre 1885.

Dott. Guelfo Guelfi.

 

[vii]

 

Si additano alla riconoscenza del popolo italiano coloro che nel 1849 sulle terre toscane scientemente cooperarono al salvamento dell'Eroe, e sono i seguenti:

Sequi ing. Enrico di Castelfranco di Sopra.
Bardazzi Carlo di Vaiano.
Bardazzi Vincenzo di Vaiano.
Barbagli Giuseppe di Arezzo.
Martini Antonio di Prato.
Franceschini dott. Francesco di Prato.
Fontani Tommaso di Prato.
Burresi prof. Pietro di Poggibonsi.
Martini Girolamo di Castelnuovo Val di Cecina (nato a Prato).
Serafini cav. Cammillo di San Dalmazio.
Guelfi Angiolo di Scarlino.
[viii]Lapini Giulio di Massa Marittima.
Lapini Riccardo di Massa Marittima.
Verzera Domenico di Massa Marittima.
Serri Biagio di Massa Marittima.
Pina Olivo di Scarlino.
Ornani Giuseppe di Scarlino.
Fontani Oreste di Scarlino.
Carmagnini Leopoldo di Scarlino.
Gaggioli Pietro di Follonica.
Azzarrini Paolo di Rio Marina (nato a S. Arenzo).

Il Comitato

 

[ix]

INTRODUZIONE

«Com'ero fiero d'esser nato in Italia!»
Garibaldi, Memorie autobiografiche.

Sulla fine dell'agosto 1849 il futuro Capitano dei Mille si aggirava profugo e senza guida per l'Appennino toscano. Era uscito da Roma la sera del 2 luglio, seguìto da 3000 dei suoi, cui aveva promesso per ricompensa fame, sete, marcie, battaglie e morte. Voleva ultimo ripiegare la gloriosa bandiera, e sperava che la presenza delle sue armi rinfocolasse nei popoli toscani i sensi di libertà testè compressi dall'invasione[x] straniera. E seppe colla sua maravigliosa abilità di condottiero uscire dalle strette di quattro eserciti che lo inseguivano, confonderli tutti colle sue mosse ardite, colle sue contromosse inopinate, trovarsi una via di uscita di mezzo a quel cerchio di ferro. Ma non ebbe dai popoli l'appoggio sperato, e si ridusse sul territorio di San Marino, dove, ripugnante di patteggiare collo straniero, sciolta prima la sua colonna, eludeva anche una volta la caccia spietata, e fuggiva di mano ai suoi persecutori per comparire la sera stessa del 1º agosto a Cesenatico con 200 dei più fidi che non vollero a nessun costo lasciarlo, e con essi impadronitosi di tredici barche peschereccie, salpava per Venezia, ultimo propugnacolo della vita italiana.

Ma la fortuna non arrise propizia a questo sforzo supremo. Sopraggiunte da incrociatori austriaci le sue barche, guidate da marinai presi a forza o improvvisati, si sbandarono, e Garibaldi con pochi compagni fu costretto a riprendere terra sulle coste di Magnavacca. Un bando feroce[xi] dell'austriaco generale Gorzkowscki lo poneva fuori della legge come un predone, e comminava la fucilazione a chi gli dasse soccorso. Pochi per difendersi, troppi per potersi nascondere, non era dunque possibile che quei gloriosi avanzi di Roma repubblicana si tenessero uniti su quella spiaggia scoperta, e si sparpagliarono a caso per diverse vie.

Garibaldi restò solo colla sua Anita e col capitano Leggero. Ma in quale condizione era ridotta la misera donna! Incinta da sei mesi non aveva mai voluto lasciare il marito suo nella ritirata disastrosa, ed ora febbricitante, lacera, sprovvista di tutto, era perfino incapace di reggersi in piedi. La prese Garibaldi sulle sue braccia, e si diresse col compagno verso una capanna deserta, ove giunto, gli comparve, soccorso insperato, Giovacchino Bonnet di Comacchio. Ebbe per mezzo di lui il Generale ricovero più sicuro, e un letto per la povera inferma, prima presso un amico, poi nella fattoria Guiccioli detta Le Mandriole; ma erano ivi appena arrivati che l'infelice Anita spirava.[xii] Ed ora un altro supremo dolore; anche il conforto di dare alla salma della cara compagna sepoltura onorata era vietato allo Eroe. Gli Austriaci comparivano in vista della casa quando Anita cessava di vivere, onde non potè il Generale che deporre un bacio su quella gelida fronte, raccomandare colle lacrime agli occhi alla famiglia del fattore Ravaglia che si dasse a quel caro corpo una sepoltura onorata, e, incalzato dal pericolo, volgere le spalle alle Mandriole.

Raccolto da patriotti di Sant'Alberto e di Ravenna fu per la via di Forlì diretto a Modigliana, e affidato a Don Giovanni Verità, sacerdote onesto e patriotta, presso il quale restò nascosto per otto giorni, e che fornì i due profughi di una guida per condurli lungo il crinale dell'Appennino nei monti di San Marcello, da dove pel Modenese sarebbero di poi passati in Piemonte. Ma la guida servì loro di scorta fino al valico di Montepiano, e, forse errando la via, li fece divergere verso Toscana, prendendo il contrafforte appenninico delle Galvano, ove durante un temporale, e in[xiii] mezzo ad una folta nebbia, fu perduta di vista dai due proscritti, che rimasero anche privi di alcuni oggetti — affidati al loro conduttore. Chiamata e ricercata inutilmente la guida, nè sapendo per dove incamminarsi, stretti dalla necessità, si risolsero a discendere il monte, e a cercare una via di salvezza attraverso ai luoghi abitati. Questo lo stato del grande Nizzardo sulla fine del 1849, questi i suoi dolori nei due mesi trascorsi. La patria ricaduta nella schiavitù, la sua Anita morta di stento fra le sue braccia, e abbandonata la salma di lei all'altrui carità, esso stesso seguìto da un solo compagno, incerto del dove muovere il piede, privo di appoggi, cercato a morte come una belva feroce, e nonostante ciò sempre sicuro di sè, col suo indomito coraggio, colla sua fede nell'avvenire, l'Eroe non ha piegato, e non piegherà sotto il peso dell'avversa fortuna. Tanto disprezza il pericolo, che neppure ha voluto fare sacrifizio dei suoi capelli inanellati, e della sua barba bionda, ornamento bello ma troppo singolare della sua testa caratteristica. È[xiv] tranquillo e sereno, come se la condanna di morte non pesasse su lui[1].

[1]

I

Dal Molino di Cerbaia a Prato

La mattina del 26 agosto 1849, giorno di domenica, due sconosciuti, poco dopo il sorgere del sole, guidati da persona del paese, scendevano a piedi il monte delle Calvane per la pendice che conduce alla valle del Bisenzio. Si erano presentati a Montecuccoli ad ora inoltrata della sera innanzi, ed avevano chiesto ed ottenuto ricovero per quelle poche ore in casa Ciampi, da dove erano ripartiti senza dare a conoscere l'essere loro, e dopo avere fatta ricerca di chi li dirigesse verso Pistoia. Un tale Ferdinando Marcelli detto Fiorino si[2] era offerto di condurli al Molino di Cerbaia, da dove il mugnaio, che aveva nome di ospitaliero e servizievole, avrebbe pensato al modo di fare loro continuare la via. Una qualche straordinaria circostanza aveva certamente balzati quei due per luoghi così alpestri ed inusitati; non avevano toscana la pronunzia; era il loro vestiario decente, ma non portavano seco qualsiasi oggetto di viaggio; erano pervenuti a Montecuccoli sboccando dalle boscaglie che ricuoprono i monti dell'Appennino. Nè questo solo avrebbe attirata sui due viandanti l'attenzione altrui, che anche dalle loro persone traspariva un qualche cosa di veramente singolare; l'uno di essi, di mezzana statura, dalle membra bene proporzionate, dalla barba bionda, dai capelli lunghi e ricciuti che gli scendevano per le spalle, dalla fisonomia bella, fiera, ma velata da un intimo senso di mestizia, procedeva pel primo, e faceva trasparire da tutti i suoi atti una tale sicurezza di sè, da doverlo a forza riverire ed ammirare. L'altro, bruno di carnagione e di capelli, adusto della persona, zoppicante da[3] un piede, seguiva il compagno coll'obbedienza del soldato verso il suo capo, coll'amore previdente del figlio verso il suo genitore. Camminavano spediti, per quanto il bruno non potesse fare a meno di mostrarsi qualche volta sofferente del suo piede, e, mentre passavano al di sotto del poggio a cui sovrastano i grandiosi avanzi dell'antica rocca di Cerbaia, il viaggiatore biondo non potè fare a meno di soffermarsi a rimirare le grandezze dei tempi che furono. I suoi belli occhi celesti si saranno velati ancora più di mestizia, e forse l'istoria intera dell'umanità passò come un lampo per la mente di lui — la forza che si impone al diritto — si asside sovrana — e cacciata a sua volta da forza maggiore, lascia a vestigia di sè le proprie rovine.

Procederono oltre fino al Molino di Cerbaia, cui girarono attorno per andare a trovare l'ingresso situato dalla parte opposta a quella per la quale erano discesi. Il mugnaio Luigi Biagioli, conosciuto col soprannome di Pispola, che veramente era servizievole, ricevè i due viandanti con[4] ogni maniera di cortesia, come era nel suo costume di fare. Chiesero i nuovi venuti ristoro di riposo e di cibo, o il modo di procedere oltre per la via più breve fino a Pistoia, e su favorevole risposta del mugnaio licenziarono la guida, remunerandola del servizio prestato. Intanto Pispola fece porre a mensa i due viaggiatori, e si disponeva ad insellare due cavalli, coi quali avrebbe fatto guidare gli ospiti a Pistoia da alcuno dei suoi figli.

Ma la fortuna d'Italia preparava ad due sconosciuti una via più sicura. Enrico Sequi, giovane ingegnere preposto alla direzione di alcuni lavori stradali che si compievano in vicinanza di Vaiano, vicino villaggio posto sulla destra del Bisenzio, si incamminava verso il monte cacciando. Pervenne così al Molino di Cerbaia, a quattro chilometri dal paese, ed erano circa le ore 8 di mattina. Pispola col fare ciarliero del campagnuolo semplice e rozzo gli raccontò che un'ora avanti si erano presentati al Molino due forestieri, i quali avevano chiesto di rinfrancarsi, e di proseguire la strada per Pistoia;[5] intanto erano a tavola, e venivano preparati i cavalli secondo il desiderio loro; concluse invitando il Sequi a fare compagnia agli ospiti. Questi, sorpreso dalla novità del caso, corse col pensiero ai tanti patriotti sbandati delle Romagne, che traversavano allora quei monti in cerca di salvezza, e col desiderio di giovare ai supposti fuggiaschi accettò l'invito, ed entrò nella stanza in cui stavano gli sconosciuti. Entrando salutò il Sequi i due che sedevano a mensa improvvisata, e che, restituito il saluto al cacciatore, offersero a lui, ciascuno a loro volta, da bevere. Intanto il Sequi, parlando ora di una cosa ora dell'altra, e specialmente dirigendosi al mugnaio, e proponendogli una cacciata da farsi insieme nella futura settimana, potè bellamente fare intendere agli stranieri l'essere suo. Il mugnaio aveva aderito alla proposta caccia, e si era poi ritirato per accudire alle sue faccende. Restato solo coi due, venne fatto al giovane ingegnere di portarsi la mano ad una delle tasche per estrarre il porta-sigari, e insieme a questo estrasse involontariamente un giornale,[6] che tosto veduto gli fu da uno dei due cortesemente richiesto. Ottenutolo lo scorse questi con una rapida occhiata, fino a che fermatosi ad un punto, atteggiò le labbra ad un sorriso di sdegnosa compiacenza, e fatto cenno al compagno gli accennò sul giornale quello che aveva fermata la sua attenzione. La indicazione non sfuggì agli occhi del Sequi, e cadeva sulla notizia della cattura di Garibaldi operata dagli Austriaci nelle acque di Venezia. Proruppe il compagno in un accesso d'ilarità, dal che fattosi ardito domandò l'ingegnere, se provenissero essi dagli Stati romani, e se avessero potuto dare qualche sicuro ragguaglio degli ultimi fatti di Roma, mentre i giornali non riferivano che notizie contradittorie ed incerte. Rispose il più giovane che tutto era finito, e che i pochi superstiti erravano fuggiaschi per le Legazioni: «E il nostro Garibaldi ove trovasi?» esclamò il Sequi per impulso subitaneo, con accento commosso ed animato.

Nè è da meravigliarsi che la domanda improvvisa uscisse così vivace dalle labbra[7] del bravo ingegnere. Garibaldi stava allora nella mente di tutti i liberali d'Italia. — Non era ancora il Duce della leggendaria spedizione dei Mille — non era ancora il liberatore di Sicilia e di Napoli — ma il popolo italiano aveva già divinato di quanto sarebbe capace quell'uomo singolare — non lo avevano compreso gli uomini di Stato nostri di qualunque parte si fossero, e fu questa causa non ultima delle sciagure nazionali del 1849. — Allora e poi Garibaldi non era per gli uomini di Stato che un abile condottiero di guerriglie. — Sarà il popolo che lo chiamerà Generale — sarà la storia che lo chiamerà eccelso capitano — ma intanto l'umanità non godrà il frutto dei trionfi di quel genio di guerra, e forse acquisterà stentatamente in un secolo quanto poteva dare a lei il Duce glorioso in due delle sue miracoloso campagne.

Piuttosto è da meravigliarsi che l'onesto Sequi nello strano incontro, nella fisionomia speciale, nei capelli lunghi ed inanellati, nella barba bionda, e più che tutto nel fascino singolare che sapevano[8] destare l'accento e lo sguardo di lui, non sospettasse il profugo illustre nel modesto ospite del mugnaio. Forse ne dubitò in modo confuso, e da ciò fu mosso alla passionata domanda.

Si scossero i due incogniti a quella esclamazione di affettuosa premura, e il più attempato di loro, alzatosi in piedi, fissò i suoi occhi negli occhi del Sequi, e dopo un lampo di esitazione si slanciò a braccia aperte verso di lui dicendo: «Amico, Garibaldi è nelle vostre braccia.»

Quale effetto producesse la generosa confidenza nel giovane ingegnere non è da dirsi. Pensò all'ardua impresa che la fortuna gli offriva, alle soldatesche austriache che occupavano ogni città, ogni paese di Toscana, agli amici che perseguitati essi pure non avrebbero potuto prestare l'opera loro, alle poche conoscenze di cui poteva disporre come quasi nuovo del luogo, e pensò anche alla difficile riuscita del salvamento, che, se sortiva esito fausto, era tale da meritarne[9] eterna lode, se avverso, avrebbe portato sul di lui capo la persecuzione dei tristi e forse l'esecrazione dei buoni. Restò muto un momento, che non fu di esitazione, ma di sorpresa, e tornato alla realtà delle cose, raccomandò ai profughi illustri che non rendessero palese in quella casa l'essere loro. Disse dal mugnaio, sebbene tutt'altro che patriotta, esservi poco a temere, mentre era esso un uomo di cuore, e oltre ogni dire ospitale, ma la casa essere pericolosa come quella nella quale si riducevano spesso a gozzoviglia gli sgherri sguinzagliati alla caccia dei poveri sbandati di Roma, che per quei monti cercavano una via di salvezza. Pure non seppe per il momento quale altro migliore consiglio dare se non quello di differire la già stabilita partenza fino alla sera; egli intanto farebbe del suo meglio per trovare ai profughi una via di scampo. Accettò il Generale la proposta del suo nuovo amico, e lo ringraziò con effusione di quanto farebbe per lui e pel suo compagno ivi presente, che[10] gli disse essere uno dei suoi più fidi, il capitano Leggero[2], avanzo della legione di Montevideo, e che, quantunque sofferente per recenti ferite, non lo aveva mai voluto abbandonare, anche quando sulla costa di Magnavacca lo stesso Generale per il bene di tutti aveva dato l'ordine di sbandarsi. Narrò poi all'amico le loro avventure degli ultimi giorni, le sofferenze mentre senza guida e senza tetto si aggiravano pei monti vicini, poi chiamato il mugnaio gli disse che dopo l'incontro favorevole dell'ingegnere aveva pensato di ritardare la partenza fino alla sera, nella quale sarebbe tornato il Sequi a riprenderlo per dirigerlo a Pistoia per vie più comode che non fossero quelle[11] traverso ai monti, come insieme al mugnaio avevano divisato di fare; intanto gli chiedeva ospitalità per quel giorno, al che il buon uomo condiscese di gran cuore, ponendo a disposizione degli ospiti una camera ove potessero riposare.

Partiva il Sequi dal Molino alle ore 9 e mezzo, e si dirigeva a Vaiano sopraffatto dall'inopinato incontro, dalla difficoltà della riuscita, e da mille altri pensieri tanto diversi da quelli che gli passavano per la mente quando due ore avanti faceva la stessa via cacciando, e preceduto dal suo fedele Tamigi. Il primo ostacolo che gli si presentava era la mancanza di aderenti in quei luoghi, nei quali si trovava precariamente, per causa dei lavori stradali affidati alla sua direzione. Si ridusse alla casa Bardazzi, luogo di sua residenza in Vaiano, e poichè conviveva con quella famiglia, contrastato come era da opposti pensieri, si ridusse alle 12, ora del pranzo, senza avere presa una definitiva decisione. Si pose a tavola colla famiglia Bardazzi, composta dei fratelli Carlo e Vincenzo, e delle sorelle[12] Clementina ed Anna, e dopo avere nella mente agitato il sì e il no della rivelazione che era per fare, stretto dalla necessità del momento, di trovare cioè una via per venire in aiuto dei due profughi, si risolse finalmente a raccontare quanto gli era avvenuto al Molino di Cerbaia.

Ed ora si vedrà la propizia fortuna non abbandonare più il Generale fino al suo felice imbarco sulla costa toscana. Era Carlo Bardazzi, il maggiore della famiglia, uomo di cuore italiano, e soffriva ai dolori sotto cui gemeva in quei giorni la misera patria. Tostochè sentì dal Sequi il racconto del prodigioso incontro, non solo non si perdè di animo, ma offertosi esso insieme al fratello di venire in aiuto del suo ospite, lo incoraggiò nell'impresa, gli offrì la sua casa, e lo munì di una lettera per il dottor Francesco Franceschini di Prato, egregio patriotta col quale avrebbe potuto stabilire la via da seguirsi. E poichè il bisogno stringeva, ed era possibile che il Franceschini per ragioni di professione si trovasse[13] assente da Prato, non trascurò di dare al Sequi altra lettera per Leopoldo Bertini, onesta persona anche esso, e che il Bardazzi giudicava adatto a rimpiazzare il Franceschini, dato che questi fosse pel momento lontano.

Partì subito il Sequi prendendo a prestito il cavallo del dottor Nardi medico condotto di Vaiano, e arrivato a Prato, dopo aver prima saputo dal Bertini che il dottor Franceschini non era assente, si diresse alla casa di quest'ultimo, che era vicina alla Porta del Serraglio fuori di città, e ve lo trovò, ma in letto sofferente per febbre reumatica. Carlo Bardazzi aveva fatto grande assegnamento sulla cooperazione dell'egregio dottore, e non a torto, che appena ebbe esso sentita dalla bocca del Sequi l'importanza della cosa per la quale l'amico di Vaiano gli aveva diretto il giovane ingegnere, dimentico di ogni malore, abbandonò il letto, e vestitosi in fretta si diè tutto alla salvezza del Generale. Condusse tosto il Sequi da Antonio Martini, vecchio e provato patriotta, come quello che poteva soccorrere di consiglio[14] in questa emergenza, ed essere di aiuto colle aderenze sue. Bene si apponeva il Franceschini, che udito dal Sequi non senza meraviglia il racconto di quanto gli era avvenuto la mattina al Molino di Cerbaia, non che lo stato precario in cui si trovavano i due esuli, Antonio Martini si pose senza altro a cercare insieme agli amici un piano di salvamento, e impossibile essendo per mancanza di guida il transito dei monti fino al Genovesato, e urgente il togliere i profughi da luoghi così popolosi e tanto guardati, si stabilì per la migliore di dirigerli verso la Maremma toscana. E varie furono le cause che fecero fermare i tre patriotti in questa risoluzione. — Aveva il Sequi un amico fidatissimo nel dottor Pietro Burresi medico-condotto di Poggibonsi, prima e necessaria sosta del non breve viaggio, e a lui potevano dirigersi i viaggiatori per il ricambio della vettura. — Era ministro dei Lamotte al Bagno a Morbo Girolamo Martini, parente di Antonio, e quanto lui buono e coraggioso patriotta. — Erano note ad Antonio le aderenze di Girolamo coi[15] liberali maremmani, e la minore sorveglianza poliziesca di quei luoghi, non per manco di accanimento negli sgherri granducali, ma per la vastità della provincia, per la sua poca popolazione, e per la malaria. — Al di là provvederebbe la fortuna. — E così fu stabilito per il viaggio, ma intanto occorreva trovare un luogo vicino alla città, non esposto all'occhio e alla persecuzione della polizia, dove il Generale ed il suo compagno potessero riparare quella notte, e aspettarvi l'ora della partenza. E qui sovvenne ai tre patriotti l'egregio Tommaso Fontani capo-stazione a Prato, amico del Martini, che da lui interpellato accettò di gran cuore di ospitare i profughi nell'interno della Stazione, ove sarebbero stati condotti dopo la mezzanotte di quel giorno per riposarvi, ed aspettare il momento di intraprendere lo stabilito viaggio. Convenuto fra il Martini e il Sequi che il loro punto di ritrovo sarebbe stato alla mezzanotte nell'Albereta del Leonetti presso la Madonna della Tosse, il primo si assunse di provvedere le vetture per la partenza da Prato, mentre il[16] secondo prendeva spedito la via di Vaiano con animo più quieto pei concerti presi.

Arrivò il Sequi a casa Bardazzi, e raccontò ai due fratelli, che lo stavano aspettando con impazienza, come la sua gita avesse avuto esito favorevole, e come fosse ormai assicurato l'appoggio dei patriotti di Prato. — Ne esultarono i Bardazzi, e fu stabilito che il maggiore farebbe preparare una modesta refezione per gli ospiti illustri, i quali si sarebbero fermati in casa sua nel passare da Vaiano, e che il minore, come per età più adatto ai disagi, sarebbe a disposizione dell'impresa per tutto quello che potesse occorrere.

Essendo così tutto prestabilito, il Sequi, trattenutosi ancora qualche tempo, sull'imbrunire prese seco l'amico suo Giuseppe Barbagli, e armati ambedue di fucili e pistole si avviarono al Molino di Cerbaia. Era sorpreso non poco il Barbagli della richiesta fattagli in quel modo, e in quell'ora, e seguendo la via domandava che cosa significasse una tale gita misteriosa. Si spiegò in parte il Sequi dicendogli esser per accingersi ad impresa[17] arrischiata onde salvare la vita preziosa di tali, in confronto di che poco costava la loro — avere fatto assegnamento sulla devozione del compagno alla causa nazionale — ma se non sentisse il coraggio di arrischiarvisi si ritraesse pure, che in ogni caso si fidava sulla di lui discretezza; al che, con risposta semplice, spontanea, e altamente onorevole, replicava il Barbagli: «Se tu ed essi vi salvate, sarò salvo anch'io; e se dovremo incontrare male non mi lagnerò per questo con te,» e tirarono innanzi.

Strada facendo giunsero alla casa di un loro conoscente, Michelangelo Barni, e richiestolo del suo baroccino si diressero al Molino di Pispola. A misura che il Sequi si avvicinava al Molino si ingigantivano nella sua mente i pericoli cui erano stati esposti per tutta la giornata i due profughi tanto accanitamente ricercati dalla sbirraglia della reazione, e non fu senza un'ansia tremenda che si presentò sul limitare della casa. Entrò e vide il coraggioso capitano e il suo compagno seduti a mensa in mezzo alla famiglia del mugnaio,[18] colla tranquillità e sicurezza di persone che non avessero nulla da temere.

Si sollevò a tale vista il cuore del Sequi, balzarono in piedi i due profughi, e ridottisi col bravo ingegnere in una cameretta del Molino, lo abbracciarono come un fratello, mentre esso raccontava le vicende della giornata, le pratiche fatte, e la buona speranza di trarli da quelle strette mercè l'aiuto dei liberali di Vaiano e di Prato. Allora il Generale, chiamato il mugnaio, lo ringraziava dell'ospitalità ricevuta, lo pregava di fare accompagnare la comitiva col suo baroccio, e si disponeva a ricompensare quella buona famiglia recandosi in mano una borsa, dalle cui maglie trasparivano poche monete d'oro, una dello quali estrasse per darla al mugnaio; ma fosse per il fascino che il Generale sapeva destare sopra tutti coloro che lo accostavano, o fosse per l'espansione d'animo acquistata dal buon uomo mercè le copiose libazioni fatte a cena in onore dei suoi commensali, il fatto è che Pispola, per quanto fosse pregato, ricusò di ricevere il denaro, e dopo fatto approntare al figlio[19] Ranieri il barroccio richiesto, salutò gli ospiti alla partenza con ogni maniera d'augurii per il loro felice viaggio.

Salirono nella vettura data dal Barni il Generale ed il Sequi, e sul barroccio il figlio del mugnaio col Barbagli ed il Capitano Leggero, e si avviarono verso Vaiano. Sapeva Garibaldi di essere aspettato a casa Bardazzi, e fece volentieri quella breve sosta per potere esternare all'ottima famiglia, e massime al capo della medesima Carlo Bardazzi, tutta la sua gratitudine per le cure prodigate in quel giorno a lui profugo; non vi prese cibo, ma in segno di aggradimento di quanto era stato preparato per lui e pel compagno accettò di bere. Fu stabilito di lasciare la vettura del Barni coll'incarico di restituirla al suo proprietario; i Bardazzi offrirono il loro baroccino, ma il Generale preferì un baroccio ugualmente di proprietà della famiglia, come tale da dare minore sospetto in qualsiasi incontro lungo la via. Così il Garibaldi ed il Sequi presero posto nel baroccio di Pispola, mentre il capitano Leggero ed il Barbagli erano sull'altro baroccio[20] condotto dal giovane Bardazzi Vincenzo. Partirono da Vaiano dopo le 10 di notte, e seguitarono i due barocci fino al luogo detto Cammino di Spazzavento, dove fermate le vetture, il Sequi per ordine del Generale disse che in così bella serata si preferiva di continuare a piedi fino a Prato, ma in realtà fu così fatto per nascondere la vera meta del viaggio, cioè la Madonna della Tosse, luogo di convegno con Antonio Martini. Retrocederono le due vetture condotte da Vincenzo Bardazzi, e da Ranieri figlio di Pispola, e continuarono la via i due profughi insieme ad Enrico Sequi e a Giuseppe Barbagli, che conosceva ormai il nome illustre dei viandanti notturni pei quali aveva tanto faticato, pronto ora a fare di più se occorresse. Arrivarono dopo le undici al luogo convenuto, e tosto uscì dall'Albereta detta del Leonetti la vettura condotta da Gaetano Vannucchi, amico del Martini, da lui pregato di prestarsi a favore dei due profughi, di cui però non disse il nome, quantunque liberamente lo potesse, attesi gli onesti o liberali principi del giovane. Era nella vettura lo stesso[21] Martini che per un atto di squisita delicatezza, e per sorvegliare esso medesimo l'impresa, era venuto ad incontrare i due proscritti. — Dista la Madonna della Tosse da Prato circa 5 chilometri, e vi si addita oggi il sasso dove Garibaldi si assise per pochi momenti. — Salirono tutti nella vettura, e seguitarono così fino presso la città, e quindi discesi, e dividendosi dal Vannucchi, entrarono nei campi, e per la sponda destra del Bisenzio raggiunsero la via ferrata che traversarono per introdursi nella Stazione. Stava quivi ad aspettare l'egregio capo-stazione Fontani, che per mezzo di una scala a piuoli fece salire i due profughi in una stanza remota. — Tutto questo succedeva a pochi passi dalla sentinella austriaca che stava di guardia dalla parte opposta del fabbricato. — Così è; l'amore di patria, la devozione, il coraggio di quattro patriotti convertiva la fazione del soldato invasore in guardia d'onore del Generale. — Questo avveniva dopo la mezzanotte del 26 al 27 Agosto.

Intanto correva il Martini, sempre a tutto previdente, ad accertarsi che il vetturino[22] Vincenzo Cantini da lui noleggiato fosse per l'ora convenuta al luogo stabilito, ed il Sequi, disceso anch'esso insieme al Barbagli per la parte da dove erano venuti, entrò in città per la Porta al Serraglio, dicendo al custode suo conoscente essere in cerca di altro ingegnere, che però ben sapeva essere assente da Prato. Fece ciò allo scopo di eludere le future ricerche della polizia, che anzi andò fino alla casa dell'ingegnere, ove, come già sapeva, gli fu risposto essere a Firenze, e presa una vettura finse tornare a Vaiano, ma invece con un lungo giro fece capo di nuovo agli amici nella Stazione.

Tornò il Martini ad annunziare che tutto era in ordine per la partenza, e alle due antimeridiane lasciavano la Stazione il Generale e Leggero guidati dal Martini e dal Sequi, e raggiungevano la vettura che li aspettava presso la stanza mortuaria dietro le mura della città, e distante circa 100 metri dalla porta e dalla Stazione. Prima della partenza furono consegnate al Generale due lettere, di cui una dell'ingegnere Sequi per il dottor Pietro[23] Burresi a Poggibonsi, l'altra di Antonio Martini per il suo parente Girolamo ministro al Bagno a Morbo. Nell'una e nell'altra si pregava ad assistere con ogni maniera d'aiuto i due profughi senza però declinare i loro nomi.

Pieni di affetto e di riverenza dall'una, di affetto e riconoscenza dall'altra parte furono gli addii. Prima di separarsi, dai suoi amici di Prato Garibaldi li abbracciò, li baciò con effusione, e disse loro queste testuali parole: «Arrivederci a tempi migliori.» Ringraziava e baciava il Leggero con eguale effusione, poi salirono nella vettura che tosto parti.

Ebbe la polizia sentore del fatto dopo qualche giorno, o fece arrestare, prima tutta la famiglia di Pispola, che come inconsapevole fu rilasciata, quindi l'ingegnere Enrico Sequi, sostenuto in carcere per qualche giorno, e liberato per mancanza di prove, tanto seppero i bravi patriotti accoppiare la prudenza all'ardire.

Nè è da trascurarsi un episodio relativo all'anello nuziale della povera Anita. Prima di separarsi dal Sequi volle[24] il Generale mostrargli quale e quanta si fosse la sua gratitudine per lui, e toltosi dal dito un anello d'oro glielo consegnava dicendogli: «Questo è l'oggetto che io abbia più sacro al mando, poichè è l'anello nuziale della mia perduta Anita. A voi lo consegno, come pegno della mia gratitudine ed amicizia.» E il Sequi rispondeva commosso: esser troppo il dono per il poco fatto da lui; conserverebbe religiosamente il prezioso ricordo, per restituirlo al Generale quando la patria fosse redenta dalla schiavitù. — E il capitano Leggero volle lasciargli per sua memoria un pugnale americano da lui messo in opera nella difesa di Roma. Dopo 10 anni l'Italia era restituita a nazione. — Garibaldi colla leggendaria spedizione de' Mille aveva unita mezza Italia alla patria comune, e due anni dopo giaceva ferito al piede dalla palla d'Aspromonte. — Era in Pisa dopo la prigionia del Varignano, e il dottor Franceschini ed il Sequi si recarono a visitarlo; sennonchè i medici avevano inibita qualunque visita all'infermo. — Troppo doleva ai due amici il tornarsene senza aver veduto il Generale,[25] onde il Sequi, toltosi dal dito l'anello di Anita, pregò l'ufficiale col quale aveva parlato di portarlo a Garibaldi insieme ad una sua carta da visita. — Condiscese l'ufficiale con indifferenza e forse peggio e dopo entrato nella camera del ferito, fu sentita la voce del Generale che diceva: «Fate che passi,» cui replicava l'ufficiale rammentando l'ordine assoluto dei medici, ma tacque alla replica tuonante: «Fate che passi, per Dio!» E l'ufficiale aprì senz'altro la porta, e così il Sequi e il Franceschini si trovarono in faccia all'Eroe, che memore del beneficio tendeva le braccia al Sequi, e gli diceva: «Venite, amico.» Il dottor Franceschini commosso piangeva dirottamente, e all'ufficiale che attonito restava immobile nel vedere quella scena inaspettata, si rivolse Garibaldi e gli disse: «Voi non volevate introdurre da me questo mio amico; questo è il mio salvatore, al quale diedi in ricordo l'anello di Anita, che voi mi avete rimesso, e che io gli restituisco.» Volle il Generale che gli fosse raccontato dalla bocca del Sequi il salvamento nella valle di Bisenzio, e fece[26] accettare a lui ed al Franceschini una refezione nella stessa sua camera, e quando furono congedati con mille attestati di gratitudine, passando per l'anticamera si trovarono circondati da un gruppo di giovani garibaldini, che corsi alla notizia dell'accaduto, acclamarono nel modo più entusiastico ai due liberatori del loro amato Generale[3].

II

Da Prato al Bagno a Morbo

[27]

La vettura noleggiata per i profughi dall'egregio Martini era a quattro ruote e ad un cavallo, adatta cioè alle vie pianeggianti che esistono fra Prato e Poggibonsi, e non tale da richiamare l'attenzione di chicchessia. La conduceva Vincenzo Cantini, garzone di Angiolo Franchi tenutario di vetture pubbliche, e credeva di condurre verso la Maremma due mercanti di bestiame, che colà si portavano per fare acquisti. A tutto aveva pensato il previdentissimo patriotta pratese.

Per la via d'Empoli e per la valle dell'Elsa giunsero i due viaggiatori senza[28] incontro sinistro presso Poggibonsi alle ore 8 di mattina, e si fermarono fuori dell'abitato alla casetta detta Bonfante, distante dal paese forse duecento metri.

Non era cosa nuova che ivi facesse sosta qualche vettura a riposare i cavalli, e ancora qualcuno vi se ne ferma oggi, quantunque non siavi locanda. — E fu buona l'idea, perocchè oltre a non mettersi in evidenza della sbirraglia reazionaria, sfuggivano i profughi la vista dei soliti Austriaci che erano di passaggio da Poggibonsi. — Un bambino, figlio della Giuseppa Bonfanti[4] vide fermarsi il legno davanti alla sua abitazione, e scenderne i due, uno dei quali, biondo e più attempato, gli domandò con modo cortese se era permesso[29] il riposarsi un poco nella casa. Riferì il bambino la domanda alla madre, e questa che era oltre ogni dire ospitale, scese ad incontrare i due viaggiatori, garbatamente li accolse, e li fece salire nella cucina, mentre il vetturino, ricoverato il cavallo nella stalla della Bonfanti, veniva mandato al paese onde consegnare al dottore Burresi la lettera del Sequi, con preghiera di provvedere un mezzo di trasporto per la prosecuzione del viaggio fino al Bagno al Morbo. Chiese di poi il Generale se si poteva avere una qualche cosa da ristorarsi, e la buona donna assentiva premurosa, e voleva andare a far provvista in paese, ma non volle esso dicendo che se nella casa vi fossero uova, sarebbero state cibo bastante per loro. — E questa disposizione del Generale nasceva non tanto dal desiderio di non propalare la loro presenza, quanto dalla sobrietà sua abituale. — Si piegò la Bonfanti all'esplicito desiderio e si mise attorno alla cottura delle uova. — Stava frattanto Garibaldi seduto insieme a Leggero nella cucina, e una bambina di forse tre anni, figlia della Bonfanti, attirata[30] dalla fisonomia simpatica, e dai modi benevoli dello straniero, gli andò festevolmente fra le ginocchia, e Garibaldi la carezzava con fare paterno. — Se ne avvide la donna, e dava mano ad allontanarla con quel modo proprio delle madri, che pare burbero, ed è carezzevole, dicendole: «si levasse da dare noia a quei signori;» se non che Garibaldi si oppose, e presa in collo la bambina la baciò e ribaciò teneramente, e le fece mille carezze. — Aveva sentito la donna, sempre buona con tutti, una speciale simpatia pei due mercanti (così si dicevano) massime pel biondo, e l'attiravano a lui le cortesi maniere, il fare franco e leale, e la sua bella fisonomia fiera a un tempo e gentile. — Ora poi che vi si aggiungeva l'orgoglio materno soddisfatto nel vedere così carezzata la sua bambina da quel signore tanto amorevole e buono, di quanto si aumentasse quel sentimento di simpatia misto a rispetto, solo chi è madre lo dica. — La Bonfanti semplice e casalinga subiva il fascino a cui nessuno si è sottratto nell'avvicinare l'Eroe. — Forse non aveva mai[31] sentito parlare di Garibaldi, forse la strana voce della plebaglia reazionaria aizzata dal prete le rappresentava come un bandito assetato di sangue e di rapine quell'uomo singolare che parlava così bene, che si mostrava a lei tanto cortese, che era pieno d'amore per la sua fanciullina. — Quando più tardi seppe qual nome portasse il modesto viaggiatore biondo, fu tale e sì devota la sua ammirazione per lui, che conservò come una santa reliquia la stoviglia ove furono cotte le uova, e il bicchiere a cui bevve il Generale; e quando nel 1867 Garibaldi, non mai dimentico dei benefizii ricevuti, passando da Poggibonsi volle rivedere la casa ospitale, la donna non si saziava di riguardare estatica l'Eroe. — E Garibaldi, che si rammentava delle circostanze più minute, domandò della bambina che aveva tenuta sulle braccia nelle poche ore in cui aveva trovato riposo in quella casa modesta, e gli fu presentata una giovane di oltre venti anni, sulla cui fronte depose un bacio paterno, memoria dei baci stampati dal profugo sul suo visino di fanciulla,[32] grato ricordo dell'accoglienza amorevole che in tempi così diversi aveva ricevuta nella casa della Giuseppa Bonfanti.

Allestite le uova, e tornato il Cantini da Poggibonsi coll'assicurazione che quanto prima tutto sarebbe in ordine per la partenza, volle la buona donna nell'attiguo salotto apprestare la mensa, cui si assisero Garibaldi, il capitan Leggero e il vetturino di Prato. Poco avanti il mezzogiorno venne il vetturino di Poggibonsi, e Garibaldi, ringraziata la Bonfanti di tutto quello che aveva ricevuto da lei, volle ad ogni costo soddisfarla dei prestati servigi, ad onta che essa facesse del suo possibile per rifiutare la moneta, e lasciando al Cantini i suoi saluti per gli amici di Prato, e accomiatandosi dalla famiglia Bonfanti come un vecchio amico, partì insieme al compagno pel Bagno a Morbo.

Abbiamo con ogni accuratezza procurato di rintracciare se il dottore Pietro Burresi, allora medico-condotto di Poggibonsi, poi Clinico esimio degli Studi Superiori di Firenze, avesse avuto un colloquio[33] col Generale alla casa Bonfanti, non essendo possibile l'incontro in altro luogo, mentre nelle poche ore di sosta siamo certi che i profughi non si mossero di là; ma tutto ci fa credere, e ce lo affermano concordi i testimoni viventi, che il Burresi non accostasse i due viaggiatori, ed è ciò anche naturale se si riflette che la lettera dell'ingegnere Sequi parlando di profughi senza rammentare chi fossero, e raccomandando di fornire ad essi i mezzi per continuare il viaggio, l'egregio professore, dopo avere adempiuto a quanto lo pregava l'amico, non si sarà occupato più in là, non potendo neppure sospettare il nome illustre che portava uno degli esuli a lui diretti da Prato. È certo però che il Burresi non poteva fare migliore scelta nel vetturino. Era questi Niccola Montereggi giovane popolano di principii liberali, e testè uscito dalle carceri per causa politica. Nonostante ciò gli era stato detto che conduceva due mercanti di bestiame in Maremma.

Partiti dalla casa Bonfanti percorsero la strada che fiancheggia il paese ingombra[34] di salmerie e soldati austriaci, e con qual cuore vedesse il Generale così da vicino questa nuova miseria della patria non è da dire. Arrivarono a Colle in giorno di straordinaria affluenza di popolo, e il Montereggi, per assicurare l'esito del viaggio, che sapeva lungo e faticoso, pensò di cambiare il suo cavallo con una cavalla di migliore lena colla quale un suo fratello aveva portati la mattina stessa alcuni passeggeri a Colle[5]. Il Montereggi rammenta con espansione anche oggidì la sua Chioccia (è il nome della cavalla) e dice che poche bestie sarebbero[35] state buone di fare quanto fu da lei fatto in quella giornata. Per il ricambio del cavallo si fermarono nella via principale di Colle ad una locanda ove il vetturino sapeva di trovare il fratello[6]. Era la strada per la straordinaria occorrenza di festa ingombra di popolo, e vi si aggiravano spessi i gendarmi del Governo granducale. Durante il cambio dei cavalli scesero i due viaggiatori dalla vettura, e col modo di persone che non hanno nulla da temere, stavano in mezzo a tanta gente paesana, e sbirraglia lorenese, quasi fosse per essi la cosa più naturale. Ripartirono subito da Colle, e passando per il Castelletto di San Gemignano, pervennero circa[36] alle 3 pomeridiane al di sotto di Volterra senza entrare in città, al luogo detto i Monumenti. La strada fino allora percorsa è malagevole e montuosa, e il Generale scendeva spesso a terra con agilità mirabile nei luoghi più faticosi, e si dava a cogliere sulle siepi more selvatiche, che mangiava con avidità. Ai Monumenti havvi un quadrivio che pose in imbarazzo il vetturino sulla via da seguire, come quegli che non era pratico dei luoghi. Vi fa capo la via Colligiana per la quale erano venuti i viaggiatori, e vi se ne staccano altre tre, di cui due per parti diverse conducono alla città, e una terza procede alla china, e dopo poco tratto biforcandosi, per una parte volge alla Val d'Era, e per l'altra alle Saline.

Era quest'ultima la via da prendersi, ma il vetturino aveva bisogno d'indicazione, e si fermò per aspettare qualche viandante cui dirigere la domanda. Intanto Garibaldi scese dalla vettura, e si assise cogitabondo all'ombra di un roveto che allora esisteva in un lembo di terreno abbandonato fra la via che conduce alla città, e la Via di Val d'Era e delle Saline. — Sull'erta — al davanti di lui — si alzavano le mura della[37] cittadella, tristamente celebre sotto il nome di Maschio come antica prigione di Stato, poi ridotta a carcere cellulare, e nella quale scontavano allora tanti patriotti il delitto di avere amata l'Italia, e per lei sperati migliori destini. — Di fianco, e sulla via, si ergevano i cosiddetti Monumenti, attestato marmoreo di adulazione servile, coi quali si magnifica la liberalità di un principe austriaco che si degnò di far costruire una strada ruotabile per Volterra a spese del pubblico erario. — In faccia a tanta abiezione e a tanta miseria saranno stati molto tristi i pensieri del Campione perseguitato della libertà! — Fu breve la sosta, e avuta l'indicazione della via da seguirsi, fu continuato il viaggio fino alle Saline. Ivi, sul piazzale della fabbrica governativa del sale, pel quale doveva passare la vettura, erano alcune guardie di finanza, e Garibaldi, sorpreso di trovare soldati in luogo di quasi aperta campagna, ordinò al vetturino di continuare per la valle della Cecina, anzichè volgere per le Saline. Ma chiarito l'equivoco dal vetturino stesso, dopo fatto un breve tratto di strada, fu ripreso il primitivo cammino per Pomarance,[38] e passato il Ponte di Ferro sulla Cecina, cominciarono la salita. Se non che la povera Chioccia correva da 5 ore senza riposo, aveva percorsa una lunga strada montuosa, e quantunque dovesse trarsi dietro un leggero baroccino a due ruote, aveva il carico di tre persone, ed era stata bastantemente sollecitata per via. Ora dava segni di stanchezza, vi era una lunga salita da fare, e fu necessità fermarsi a Prugnano, podere che è sulla mano destra di chi sale a Pomarance, e circa alla metà della salita. In questo tempo prese il Generale un uovo cotto nella cenere, e rinfrancata la cavalla, dopo il riposo di un'ora, fu continuato il cammino. Ma la Chioccia era sfinita di forze, per cui il Montereggi arrivato alla Burraia locanda presso Pomarance, fu costretto, sebbene a malincuore, a dichiarare ai suoi viaggiatori che non poteva condurli fino alla meta stabilita. — Scesero alla Burraia, e il Montereggi ebbe incarico dal Generale di trovare altro vetturino che li accompagnasse al Bagno a Morbo. Andò il Montereggi a Pomarance e tornò con Vittore Landi detto Zizzo, vetturino di professione, che si incaricò[39] di portare egli i due mercanti di bestiami al Bagno a Morbo. — Mentre si preparava la vettura, il Garibaldi e il Leggero si riposarono in una camera del piano superiore, e prima di partire mangiarono insieme al Montereggi ciò che era stato per loro preparato dall'oste. — Venne Zizzo col suo barroccino, e i profughi ripresero la via dopo due ore di sosta, ed arrivarono al Bagno a Morbo alle ore 11 di sera. — Vi erano così pervenuti in un solo giorno da Prato, traversando buon tratto della Toscana, e riposando appena qualche ora pel cambio delle vetture[7]. Certamente era d'assai migliorata, la condizione loro. — Se non altro l'esoso straniero non era penetrato in quelle regioni. — Quantunque non fossero ancora nella Maremma, la popolazione scarsa faceva sì che più facilmente potessero restare inosservati in casa di[40] amici. — Ma quanti ostacoli ancora da superare! — Quante difficoltà da vincere! — Buon tratto di cammino li separa tuttora dal mare, unico scampo per essi — e sul mare occorre una barca che si ponga al cimento per portarli in luogo di salvezza. — Ma la fortuna d'Italia li accompagna — toccheranno[41] il lido tanto desiderato — vi sarà la barca che insieme coll'Eroe porterà in salvo il futuro Dittatore di Sicilia, e di Napoli, tanta parte del riscatto italiano — e a conclusione del fortunato evento, potrà poi dettare ai posteri l'eccelso Scrittore Livornese[8]: «Quindi impari[42] chi legge a non disperar mai della patria»[9].

III

Dal Bagno a Morbo a San Dalmazio

[43]

Il Morbo è stazione balnearia alla quale concorrono in tempo d'estate i malfermi in salute dei vicini paesi, e della Maremma massetana. Fu quindi cosa al di fuori delle consuetudini ordinarie della casa il presentarsi di due stranieri alle 11 di sera. Zizzo si era fermato colla sua vettura al principio della piccola salita che vi è dalla parte del giardino, ed i viaggiatori avevano battuto alla porta che fu aperta dallo stesso ministro del Bagno. «Parlo al signor Martini?» chiese il Generale;[44] e sulla risposta affermativa si trasse di tasca una lettera, e gliela consegnò. Introdotti i due stranieri nel salotto terreno, e pregati di sedersi, chiedeva Girolamo Martini il permesso, com'è d'uso, di leggere la lettera ricevuta, e ne aveva scorsi i primi versi, quando uno dei due, alzatosi in piedi di un tratto, e con tuono sicuro e confidente di chi parlasse ad un vecchio amico, lo interruppe dicendo: «Signor Martini, in due parole vi dirò il contenuto della lettera; sappiate che io sono il Generale Garibaldi, e questo mio compagno il Capitano Leggero.» Attonito guardò il Martini i suoi due ospiti, gli passarono per la mente le gesta gloriose del Generale, la fortuna avversa presente, il bisogno di soccorso immediato, e tutte queste cose ed altre assai si tradussero nella risposta che gli usciva dal cuore: «Coraggio, Generale, tutto si rimedia.» E pronto davvero al rimedio, col senso pratico che gli era abituale, pensò anzitutto di coonestare la venuta dei due stranieri ad ora così insolita al Morbo, e di fare insieme sparire le traccie loro presso al vetturino che li aveva[45] condotti. Saputo dal Garibaldi come Zizzo fosse nella credenza di avere portati due mercanti di bestiame, si fece sulla porta di casa, e rivolgendosi a lui con voce alta lo rimproverò di avergli condotti i due mercanti coi quali non aveva nulla che fare, mentre essi erano diretti a comprare cavalli a Bruciano, e lo invitò a continuare senz'altro il viaggio, se voleva esser pagato colla pattuita mercede. Ma Zizzo, come era naturale, rispondeva: essersi impegnato col vetturino di Poggibonsi di portare i due passeggeri al Bagno, e questo avere fatto, quindi essere fuori dell'obbligo suo, e non volere andare a Bruciano in quell'ora per tutto l'oro del mondo; avere esso già impegno di portare oggetti alla fiera del Ponte di Ferro nel giorno successivo, ed essergli perciò necessario l'immediato ritorno a Pomarance. Ben si aspettava una tale risposta Girolamo Martini, quindi di rimando: «Sta bene, sta bene; vedo che colla tua brenna non saresti buono a condurceli, questi tuoi viaggiatori, cosicchè ce li farò condurre col mio legno appena si saranno un poco riposati.»[46] Ciò detto scendeva il breve tratto di via che lo separava dal vetturino, e gli poneva in mano una moneta d'oro da venti lire a nome dei due mercanti. — Come restasse Zizzo a così lauta ricompensa si può immaginare. — Coll'ingordigia insaziabile del suo mestiere pensò che se i 10 chilometri dalla Burraia al Morbo gli avevano fruttato un marengo, la prosecuzione del viaggio a Bruciano ne avrebbe fruttato un altro almeno con persone così correnti allo spendere, e anche oggi dopo 35 anni rammenta con dispiacere il malaugurato rifiuto. — E noi che si considera ora le cose con piena calma si troverà invero la larghezza del Martini essere da risparmiarsi, come quella che, uscendo dalle consuetudini naturali, poteva generare sospetto circa ai due mercanti che pagavano con tal profusione; ma bisogna pensare altresì a quanto inopinatamente avveniva al Martini, allo stato dell'animo suo non atto in quel momento a ponderare con sangue freddo le cose più piccole, ed anzi loderemo la sagacia ammirevole del ripiego di Bruciano, col quale si giovava[47] alla posizione degli esuli tanto rispetto al vetturino, quanto rispetto ai bagnanti.

Ma rimediato ad uno, ecco che si presenta un altro malanno. Era stato chiamato il cameriere della casa, che era già coricato, e gli era stato ordinato di servire i due nuovi venuti. Veduti esso i due profughi, che erano tuttora nel salotto terreno insieme col Martini, uscì subito dalla stanza, e chiamato quest'ultimo in luogo appartato, con modi di chi è trasognato dalla sorpresa, gli disse: «Ma, signor ministro, sa lei chi sono quei forestieri?» — E il Martini: «Chi sono dunque?» — «Uno dei due, quello dalla barba bionda, è Garibaldi.» — «Ma voi siete matto, replicò col suo sangue freddo il Martini, quei due sono mercanti di bestiame che vanno a fare acquisti di cavalli a Bruciano, e sono stati portati qui per errore.» — «E io, gli dico che sono due profughi, e uno di essi è Garibaldi; lo conosco bene, stia sicuro, l'ho servito a tavola a Nizza.» — Bisognò cessare dall'inutile negativa, e dire al cameriere che non si era ingannato, i due esser lì di passaggio per pochi momenti, ma guai a lui se avesse[48] parlato, e il cameriere promise e mantenne.

Tutto questo avveniva in breve lasso di tempo. Ma la posizione dei profughi era precaria, e occorreva pensare a far qualcosa pel loro salvamento. Trovavasi per caso al Bagno un tale che godeva fama onesta, ed era creduto dal Martini assai liberale. A lui si rivolse il buon ministro confidandogli il nome degli ospiti illustri, e richiedendolo di consiglio. Era il creduto liberale onesto sì, ma pusillanime, e trasecolando nel sentire che in quella stessa casa si trovava Garibaldi, consigliò per il suo meglio il Martini a sbarazzarsi, e subito, di persone così pericolose, e questi a riparare la mal fatta confidenza, sempre d'animo pronto ai ripieghi gli replicava: «Già, già.... avevo io pure pensato così, e metterò subito in pratica il suo consiglio col farli accompagnare a Bruciano, appena si saranno riposati.» E chiamato il vetturino di casa, in presenza del timoroso signore gli ordinò di tenersi pronto per condurre a Bruciano i due viaggiatori; in segreto poi gli ingiungeva di partire al[49] tocco dopo la mezzanotte, fermarsi al Campo Murato, località prossima a Bruciano, fino a giorno avanzato, tornare al Bagno facendo in modo di essere veduto, e dire a tutti di avere accompagnati i due mercanti di bestiame arrivati al Bagno nella sera antecedente. E così fece il vetturino che era fidatissimo, ma inconsapevole del perchè dal ministro gli fosse ordinata tale cosa, e il suo ritorno da solo tranquillizzò il pusillanime consigliatore, ingannò l'astuto cameriere, e fece persuasi i bagnanti che i mercanti di bestiame giunti ad ora tanto insolita, erano anche ripartiti con sollecitudine per la loro destinazione.

Frattanto il Martini aveva fatti passare i suoi ospiti nella parte più riposta della casa, e li aveva alloggiati al piano superiore nella camera sovrapposta alla sala di ricevimento. Nella notte non chiuse occhio, pensando e ripensando al dove trovare un asilo sicuro per essi, chè tale non era quello prescelto per necessità. E come uomo di cuore non si preoccupava soltanto del domani, ma anche e molto più di trovare[50] una via per la quale far giungere i profughi in luogo di salvezza. Finalmente risolse di dirigersi a Michele Bicocchi, ricco proprietario della vicina fattoria di Sant'Ippolito, come a colui che poteva dare asilo, aiuto e consiglio. Si recò da lui la mattina prestissimo, e gli raccontò gli eventi della sera, gli disse il nome illustre che portava uno dei suoi ospiti, la necessità di ricovero più sicuro, il dovere che sentiva fortissimo di non abbandonare il proscritto.

Dètte il Bicocchi consiglio buono, profferta grande di aiuti, ma rifiuto circa all'asilo. Coonestò la repulsa col dire la fattoria di Sant'Ippolito spesso frequentata dagli agenti del governo restaurato — ma questo era quanto succedeva allora per tutte le case di campagna, e in ogni caso era sempre stanza più sicura per gli esuli che non fosse il Morbo in tempo di bagnatura. — La ragione vera si era che il Bicocchi, per pochezza d'animo non volle correre il rischio delle pene comminate per chi ricettasse Garibaldi. Ma qui si ferma il lato cattivo, che poi, sempre a patto di non avere in casa sua un così pericoloso proscritto,[51] si diè di tutta lena ad aiutare il Martini, d'onde ne venne il consiglio buono, e la profferta d'aiuti. — Propose Cammillo Serafini di San Dalmazio, e Angiolo Guelfi di Scarlino, come quelli che avrebbero accettata di gran cuore l'impresa del salvamento, e sarebbero stati da tanto di portarla a termine con esito fortunato, e l'uno fornirebbe sicuro asilo in San Dalmazio, mentre l'altro provvederebbe una via di salvezza per la Maremma. — Consigliò spedire un espresso al Serafini, e si profferse di parlarne egli medesimo ad Angiolo Guelfi, che sapeva doversi trovare quel giorno stesso alla fiera del Ponte di Ferro. — Quanto ad aiuti non misurò la promessa, che anzi dichiarò essere la sua pecunia a disposizione dell'impresa, ed essere pronto a spendere qualunque somma purchè riuscisse a bene. — Offrì uomini e cavalli per trasporti ed espressi, e certamente avrebbe tutto mantenuto, ma non ve ne fu il bisogno. Insomma il Bicocchi tutto poneva a disposizione, eccetto la sua personale sicurezza, e in quei momenti di egoistica abiezione, non era poca cosa. E[52] se si aggiunge il modo tepido anzichè no con cui aveva sempre proceduto il Bicocchi nei partiti politici, e la sua vita appartata, vi è piuttosto da lodare che da biasimare. Questo è certo che passato il panico della reazione, il Bicocchi si è doluto più volte con alcuno dei coadiuvatori di non aver presa parte più attiva nell'impresa onoranda.

Così stabilito il da farsi, mandò il Martini un espresso a San Dalmazio, e partì il Bicocchi per la fiera del Ponte di Ferro alla quale sapeva d'incontrare il Guelfi. Ma l'espresso del Martini trovò che il Serafini era già partito per la fiera, cosicchè il Bicocchi potè ivi parlare con ambedue.

La fiera di bestiame, che si fa ora nella terra di Pomarance, si teneva allora sulla sponda sinistra del fiume Cecina presso il Ponte di Ferro nella adiacente pianura percorsa dalla via di Pomarance, e Garibaldi era passato appunto di là il giorno innanzi per andare al Morbo, cosicchè facendosi la riunione sui due lati della strada, la sua vettura nel giorno dipoi avrebbe dovuto passare in mezzo a tanto popolo adunato,[53] e fu fortuna che questo incontro venisse a caso schivato. — Era in quel giorno il Serafini alla fiera come deputato del Comune di Pomarance, e il Guelfi vi si trovava per suo diporto. — Li prese il Bicocchi ambedue in segreto, e riferì loro essere necessario che si portassero subito al Morbo, essendovi, come disse, due personaggi colà rifugiati da salvare. Nè l'uno nè l'altro avevano di bisogno che una tal cosa fosse loro detta due volte, quindi lasciata il Serafini la deputazione, e il Guelfi gli amici, si posero in via per provvedere al soccorso di que' due proscritti di cui ignoravano il nome, nè questa era cosa nuova per essi che si erano affaccendati in quei tristi tempi a salvare dall'ergastolo e dalla morte quanti più patriotti esuli avevano potuto. — Ora si aspettavano di soccorrere tutt'altri che il più grande campione della libertà italiana. — Sapevano il Garibaldi scomparso dalla scena politica da circa un mese, e tutto faceva credere che dalle rive dell'Adriatico, ove era succeduta l'ultima catastrofe della sua schiera, egli avesse già trovata una via di salvezza[54] per l'America, e in ogni caso mai pensavano che potesse essere in quei paraggi. — Stabilirono strada facendo che mentre il Serafini sarebbe corso ove si trovavano i profughi, il Guelfi anderebbe ad aspettare a San Dalmazio, ed ivi insieme, a seconda del bisogno, avrebbero concertate le misure necessarie al salvamento. E così fecero, per cui il Serafini correva difilato al Morbo, vi arrivava circa le due pomeridiane, ricevuto dal Martini come angiolo liberatore, ed introdotto presso i due profughi, a differenza degli altri che avevano fin qui soccorso l'Eroe, lo riconosceva a prima vista per averlo veduto a Livorno nel suo sbarco dell'Ottobre antecedente, e dopo vinta la sorpresa tanto naturale per così inopinato incontro, con voce franca e slancio patriottico disse: «Generale, disponete di me.» Ed il Generale intese dalle poche parole e dagli atti come potesse aver piena fiducia di chi gli offriva i suoi servigi, onde, abbracciandolo come un vecchio amico, rispose: «Portateci al mare e presto, e saremo salvi.» E, come sempre, non s'ingannava nè sulla via da seguirsi, nè sulla[55] sollecitudine di tentarla. Sapeva guardate a vista tutte le vie di terra, e praticata una crociera attivissima dai legni austriaci sulla spiaggia adriatica; se nella sua lunga traversata dall'Appennino al Morbo avesse lasciato sentore di sè, non sarebbe mancata un'altra crociera sulla spiaggia tirrena per chiudere l'ultima via di scampo all'Esule temuto, che si voleva avere ad ogni costo nelle mani. — E la crociera fu posta infatti, ma troppo tardi. — Garibaldi era già in salvo da tre giorni quando la costa fu sorvegliata. — Egli non s'ingannava neppure nel supposto di lasciare dietro a sè sentore del passaggio; trovò ovunque amici fidi che si posero ad ogni rischio per lui, ma erano troppi per conservare tutti il segreto, ed è certo che in ogni luogo pel quale passò Garibaldi, se ne propagò la notizia poco dopo la partenza. — Il suo nome era troppo grande e popolare perchè potesse restare segreto.

Brevi furono gli accordi, e Serafini propose come temporario asilo la sua casa di San Dalmazio intanto che si fosse potuto provvedere allo scampo per la via di Maremma,[56] e accennava alla presenza del Guelfi tutto disposto a prestare l'opera sua. In poche parole fu concertato che sull'imbrunire sarebbe tornato il Serafini per trasportare i due profughi a San Dalmazio.

Restarono il Garibaldi ed il Leggero per alcune altre ore nella loro camera appartata del Morbo. Quali fossero in questo tempo le cure da cui erano circondati per parte del Martini, è inutile il dire; basti solo riflettere quanti ostacoli avrà dovuto superare il buon uomo per poter ritenere nascostamente nella casa due individui, e provvedere ai loro bisogni di vitto, in mezzo a tante persone alcune delle quali già al corrente del segreto arrivo del Generale. Ma tanta fu la prudenza e l'assennatezza sua, congiunta a quel mirabile sangue freddo di cui lo abbiamo già veduto capace, che tutto seppe eludere, e si arrivò alla sera senza che nessuno della casa pensasse di coabitare coll'Esule temuto.

Venne alle 9 di sera il Serafini. — Entusiasta di Garibaldi e di amor patrio, non avrebbe ceduto il suo incarico pericoloso per cosa al mondo. — Subito arrivato a San[57] Dalmazio aveva colle più animate parole posto Angiolo Guelfi al corrente della grave missione che la fortuna offriva loro. Aveva Angiolo Guelfi sortito da natura, insieme a fervido amore di libertà, carattere fermo e riflessivo, onde abbracciò l'importanza dell'impresa che gli si poneva dinanzi, ed aspettando la venuta degli ospiti volse nell'animo suo i diversi modi pei quali si poteva giungere al salvamento del Grande che il caso affidava alle loro mani. — Intanto il Serafini aveva prese nella sua casa le più minute precauzioni tanto per l'alloggio de' suoi ospiti, quanto perchè il loro arrivo passasse inavvertito agli abitanti del paese, e a coloro stessi che frequentavano la sua casa. — Uscirono i profughi inosservati dal Bagno, e accompagnati dal Martini raggiunsero il baroccino che era a breve distanza dalla casa sulla via pubblica, nel luogo ove da questa si stacca il piccolo braccio stradale del Morbo. — Armati dal Serafini, sempre previdente, di fucili da caccia, salirono i due nel baroccino insieme a lui, che colla sua abituale velocità fece in breve tempo i pochi chilometri[58] di strada provinciale, e si fermò al luogo detto Croce del Bulera. Quivi cessava in quei tempi la strada ruotabile per chi fosse andato a San Dalmazio, e quivi il Serafini lasciò il suo legno presso i suoi parenti, come ne era solito, non credendo prudente il richiamare l'attenzione altrui sul passaggio inusitato di un veicolo a quell'ora, e per luoghi così malagevoli. Continuarono a piedi fino al paese i forse tre chilometri che restavano da fare, e alle dieci e mezzo di sera vi giunsero. — La strada principale, e si può dire unica, del paesello era deserta, e così poterono arrivare inosservati alla casa Serafini. Si fermarono gli ospiti al riparo di un angolo di caseggiato che si trova in faccia all'ingresso principale,[59] mentre il proprietario per altra porta entrava nella casa, e li introduceva esso stesso nel suo salotto[10].

IV

Da San Dalmazio alla casa Guelfi

[61]

Per chi conosce i sensi gentili di ospitalità che sono pregio abituale di Cammillo Serafini, sarà facile cosa l'immaginare le cure da cui vennero circondati i due esuli in quella casa. Fu la splendida accoglienza che sa fare l'uomo cui la fortuna accordò largo censo, e la natura cuore più largo. Ma di ciò basti. Diremo piuttosto come appena installati i suoi ospiti nel salotto cui fa capo la breve scala di accesso, corresse il Serafini dal Guelfi per dargli la notizia dell'arrivo. Stava questi nella cucina della casa parlando coi familiari, in apparenza calmo,[62] ma col cuore in ansia per l'aspettativa. Toltosi di là insieme al Serafini, fu da esso condotto nella stanza dov'erano i suoi ospiti illustri e presentato al Generale. Questi appena vide Angiolo Guelfi senz'altre parole gli gettò le braccia al collo, e gli disse: «Vengo con voi.» Nè il moto subitaneo proveniva dal desiderio di cercare uno scampo come che si fosse, bensì da sentimento di simpatia nel vedersi dinanzi quel patriotta dalla barba grigia, folta e prolissa, dalla fisonomia bella e severa, e dallo sguardo franco e leale, tale insomma da attirare a sè chiunque lo vedesse per la prima volta. Ma il Guelfi, pur corrispondendo all'effusione d'animo del Generale, gli faceva intendere che una traversata, per quanto breve, onde raggiungere la Maremma, sarebbe stata pericolosissima in quei momenti nei quali esso così conosciuto era tenuto d'occhio dalla polizia lorenese.

Strettisi a consiglio i due profughi insieme a Serafini e Guelfi, tutti convennero che scopo precipuo della ricerca dovesse essere una barca atta a trasportare gli[63] esuli sulla riviera ligure, e che di ciò avrebbe dovuto occuparsi il Guelfi partendo senza dilazione per la Maremma. Espose esso le sue intenzioni circa alle persone a cui rivolgersi, ed ebbe in tutto l'approvazione del Serafini conoscitore esatto esso pure degli uomini e dello stato della Maremma. Parlò il Guelfi della sua casa nel piano di Scarlino da servire per luogo di sosta, come quella che, situata in pianura disabitata, aveva di frequente dato ricetto ad esuli politici, ma perciò appunto proponeva di non servirsene come asilo che in caso estremo, essendo ormai sospetta, sia per i profughi che l'avevano frequentata, sia pel nome inviso del proprietario. Tutto ciò veniva approvato dal Serafini; e fu stabilita la partenza del Guelfi per le prime ore del mattino successivo, onde evitare sospetti di una gita notturna. Fu preveduto anche il caso che il Guelfi dovesse trattenersi in Maremma, e che vi fosse bisogno di corrispondenza fra esso e San Dalmazio. A tale effetto fu stabilito che se avesse dovuto dare notizie di sè, le avrebbe fatte pervenire per[64] mezzo del Martini dirigendo lettere al Morbo con nome convenzionale, e se si fosse dovuto di qualche cosa avvertirlo, si sarebbe usato l'indirizzo fittizio «Antonio Piesce» che Angiolo Guelfi scrisse di suo pugno sopra di un quarto di foglio, e che il Serafini poi conservò e conserva tuttora insieme agli altri documenti di quella data memoranda.

Così fra gli accordi e la mensa ospitale fatta imbandire dal Serafini si era arrivati a notte avanzata, e il Guelfi volle passare le poche ore che lo separavano dalla partenza nel conversare col Grande che così inopinatamente gli era stato avvicinato dalla fortuna. Furono queste alcune ore di amichevole colloquio che Angiolo Guelfi non dimenticò finchè visse. L'animo suo fiero, leale, entusiasta di libertà si beava nell'anima grande del Garibaldi, e soleva dire di poi che vi erano in quell'anima connesse la natura del guerriero indomito, a quella della delicata fanciulla. Parlarono di tante cose, ma più che tutto delle presenti miserie della patria, e delle speranze future. Una volta cadde[65] il discorso sulla possibile eventualità che il piano ideato pel salvamento fosse scoperto, il Guelfi arrestato; e il Generale traendosi da tergo un pugnale glielo mostrò sorridendo e gli disse: «Vedete, Capitano, che non mi prenderanno mai vivo.» E lo chiamava con modo familiare così, sapendolo capitano della Guardia Nazionale di Scarlino. — Vi erano nella camera in cui si erano ritirati il Garibaldi ed il Guelfi alcuni giornali provveduti dal Serafini, che riflettendo l'indirizzo reazionario del Governo Granducale non mancavano d'ingiurie e di calunnie ai caduti. Garibaldi lesse fra le altre la stolta notizia avere esso rapito e portato seco il tesoro della Repubblica Romana in dieci milioni, e dopo avere estratto dalla tasca lo stesso borsellino col quale voleva pagare il mugnaio Pispola, lo mostrava al Guelfi, e gli diceva ridendo: «Capitano, ecco i miei milioni.» Ma poco dopo seguiva nel giornale un'infame calunnia: «Il famigerato bandito Garibaldi ha ucciso colle sue mani la propria moglie, perchè gli era d'inciampo nella fuga.»[66] Allora le guancie dell'Eroe furono solcate dalle lacrime, e disse fiere parole all'indirizzo dei suoi vili detrattori. — Intanto i modi franchi, e i liberi sensi del Guelfi si erano fatta sempre più strada nell'animo del Generale. Quando venne l'ora della partenza del suo nuovo amico, il Garibaldi, cedendo ancora ad un moto subitaneo proprio della sua natura ferrea insieme ed entusiasta, tornò a gettarglisi al collo, e gli disse: «Voglio venire con voi.» Ma il Guelfi, più conoscitore delle cose locali di quello che lo fosse l'esule proscritto, gli rispondeva: «No, Generale, non si provvederebbe in tal modo alla vostra salvezza. I miei passi sono spiati; Voi insieme a me sareste riconosciuto, e si cadrebbe ambedue nelle mani de' nostri nemici. La sicurezza vostra mi costringerà ad altra cosa anche più dolorosa, quella di rinunziare all'onore di ricevervi io stesso nella mia casa, se, come spero, tutto potrà andare a seconda de' desideri nostri. Io starò sempre in questi giorni in un luogo diverso dal vostro, e mi porrò in evidenza; così vogliono le triste esigenze dei tempi, e la salute vostra[67] che è salute futura della patria.» Si arrese il Generale alle prudenti ragioni del bravo maremmano, che poco dopo partì per Massa Marittima, prendendo a pretesto di esservi richiamato da urgenti affari privati. Quanto poi saggiamente operasse Angiolo Guelfi nel così fare, lo diremo a suo tempo.

Diremo intanto delle misure di precauzione prese dal Serafini a tutela de' suoi ospiti illustri. Il paesello di San Dalmazio dista 12 chilometri dal Morbo, ed è fabbricato sull'erta pendice meridionale del poggio, che ha sulla sua vetta la vecchia e diruta Rocca Silana. Segregato allora dal movimento commerciale per la mancanza di vie ruotabili, colla sua piccola popolazione intenta ai lavori agricoli, sembrava il più sicuro asilo pei due proscritti, eppure la lebbra reazionaria era entrata fin là, e le precauzioni prese dall'egregio Serafini non potevano dirsi mai troppe. La sua casa, posta quasi alla cima del paese, ha l'ingresso principale nella via di mezzo, e due altre uscite secondarie, di cui una al di sopra del paese in aperta campagna, e l'altra posteriore in[68] una vallata deserta e quasi selvaggia. Della disposizione eccellente della casa intendeva servirsi il Serafini in caso di sorpresa, e mentre aveva provveduto con abbondanza d'armi alla momentanea resistenza, aveva indicata ai suoi ospiti la via che dovrebbero seguire per le diverse uscite, e i punti diversi di ritrovo, se, come esso diceva, sarebbe rimasto vivo nella lotta. — Aveva aperto da sè stesso la porta della casa al Generale e a Leggero, e mai nei quattro giorni della loro permanenza li fece vedere a' suoi familiari, ai quali con minaccia della vita aveva ingiunto il più rigoroso silenzio sulla presenza di stranieri nella casa, dichiarandoli due suoi consanguinei implicati nelle ultime vicende politiche, e che voleva ad ogni costo salvare. — Insomma una volta nelle mani del Serafini, Garibaldi non era più il proscritto in balìa della sorte, e la sua cattura non sarebbe stata più un facile colpo di mano. — Quivi il perseguitato potè godere i primi momenti di quiete dopo la morte di Anita.

Ma non era quieto il Serafini. Di carattere[69] ardente e passionato, misurava gli indugi alla stregua del desiderio che sentiva vivissimo di vedere in salvo i suoi ospiti cari e rispettati. Seguiva colla mente il Guelfi nella sua gita in Maremma, ne misurava tutti i pericoli, ne esagerava anche la difficoltà di riuscita. E lo mise in maggiori angustie la lettera che ricevè per espresso nelle ore pomeridiane del giorno 28 spedita dal Martini. Era questa senza firma, ma scritta coi caratteri di Angiolo Guelfi, notissimi al Serafini. Diretta con finto nome ed indirizzo: «Al signor Dario Ascani — Colle,» diceva così:

«C. Amico

«Arrivato qua non ho trovato la persona per fare il noto affare. Dunque vi rimando il baroccino.

«Io parto nel momento per la Maremma bassa, quando avrò fatto i miei affari ritornerò a trovarvi.

«Non state in pensiero se mi tratterrò qualche giorno, giacchè l'aria è assai buona.

«State bene e sano.»

[70]

Seguiva un'aggiunta scritta dalla mano di Girolamo Martini nei termini che seguono:

«Se crede di volere cambiare venga da me nella giornata, che si combinerà tutto. Gradisca i miei ossequi, e li faccia gradire.»

La solita imperturbabile tranquillità del bravo Martini in faccia agli ostacoli traspariva dalle poche righe aggiunte alla lettera tanto significante di Angiolo Guelfi. Questi aveva trovato un ostacolo nell'esecuzione dei suoi disegni, e ne dava avviso col ritorno del baroccino, avvertendo in pari tempo che la sua lontananza sarebbe più lunga di quanto si era proposto. Il Serafini, trepidante per il buon esito dell'impresa, ne parlò al Generale, domandandogli il suo volere in faccia a questo inopinato ritardo. E il Generale calmo e sorridente rispondeva alle premure dell'ottimo Serafini: «Dolergli e molto dei gravi rischi che i suoi bravi amici andavano ad incontrare per lui; quanto a sè non si dassero pensiero;» e come erano sulla loggia della casa posta ad altezza[71] non indifferente dalla sottoposta vallata gli diceva: «Vedete, tanto lo scalare questa vostra loggia, quanto lo scenderne, è per noi due cosa facile.» Opinò infine il Generale doversi aspettare l'esito delle pratiche, fiducioso di quanto andava facendo il Guelfi in Maremma, quindi fu deciso di nulla innovare.

Passò così il 29, e la mattina del 30 il Serafini, insofferente della mancanza di notizie del Guelfi, che a lui pareva prolungata, ed era naturalissima, mandò un espresso al Bagno per sapere qualche nuova dal Martini. Ma il Martini ne sapeva quanto lui, e gli rispondeva sempre calmo, sempre prudente con la seguente lettera senza data, senza firma, senza indirizzo:

«Pregiatissimo,

«Non essendo qua l'amico non posso dirgli niente, ma subito che tornerà che spero sarà in questa mattina, spedirò persona costà e lo renderò inteso di tutto; mi creda.

«Suo

[72]

E il ritorno tanto desiderato del Guelfi avvenne infatti la mattina del 30, come col suo animo calmo lo avea previsto il Martini.

Diremo ora della gita di Angiolo Guelfi in Maremma, ma a spiegazione dei timori del Serafini, e del rifiuto del Guelfi a portare seco i due profughi, accenneremo come pochi giorni avanti, mentre attendeva esso nel piano di Scarlino alla direzione della sua azienda, venne a trovarlo Olivo Pina, quello stesso che vedremo poi accompagnare Garibaldi al mare, e gli disse come essendo andato per affari suoi a Massa Marittima, aveva incontrato Giovanni Fabbri e Giuseppe Lapini ambedue autorevoli ed onesti cittadini, ma non malevisi dal restaurato governo lorenese, i quali, come amici di Angiolo Guelfi, cercavano appunto occasione segreta e sicura per fargli sapere che non si presentasse nè a Massa nè a Scarlino, perchè era a loro certa cognizione, avere le autorità locali ordine di procedere in tal caso al di lui arresto. All'annunzio di questa nuova persecuzione aveva il Guelfi domandato fra il serio ed il faceto, dove dovesse[73] dunque andare, poi facendo di necessità virtù, si ritirò nelle vicinanze del Morbo, un poco riparandosi presso gli amici suoi Bruscolini di Castelnuovo, un poco presso l'amico e parente Cammillo Serafini a San Dalmazio, e così si conduceva, incerto sempre del domani, tantochè credè bene stare lontano anche dalla famiglia che teneva allora a Laiatico, per risparmiare il possibile dolore di un suo arresto sotto gli occhi dei suoi cari. Era insomma il Guelfi un perseguitato, che si era assunto di aiutare altri più perseguitati di lui. Nè poteva delegare ad alcuno la missione sua, perchè difficile sarebbe stato il trovare chi al pari di lui avesse autorità e fiducia insieme sui patriotti di Massa, di Scarlino e di Follonica, tutti indispensabili col concorso loro alla buona riuscita dell'impresa. Ora per organizzare il passaggio e il salvamento per la via di mare, era necessario non solo aggirarsi pei due luoghi proibiti, Massa e Scarlino, ma occorreva altresì in quei tempi di sospetti e di arbitrii, avere rapporti coi più caldi repubblicani, che erano a lor[74] volta i più perseguitati e i più sorvegliati. Ecco dunque perchè il Serafini, che bene sapeva lo stato del Guelfi, temeva tanto del buon esito dell'impresa; ecco perchè il Guelfi stesso rifiutò con dolore la richiesta del Generale di averlo a compagno, ecco perchè lo troveremo sempre in luogo diverso dal Generale.

È stato in varii modi e da varii scrittori toccato questo periodo della vita avventurosa del Garibaldi, ma nessuno ha conosciuto e svelato la posizione difficile nella quale dovè preparare, e portare a termine l'impresa un pugno di patriotti, perseguitati essi stessi, e costretti spesso a pensare alla loro salvezza, se volevano avere libero il domani, per spenderlo, non a proprio vantaggio, ma in prò della salute del Generale.

Partì dunque Angiolo Guelfi dal Morbo nelle prime ore del 29, ed arrivò a Massa circa alle 8. Fece subito ricerca dei due fratelli Giulio e Riccardo Lapini, e di Pietro Gaggioli detto Giccamo. Trovò i Lapini, giovani animosi e caldi patriotti, pronti ad assumere la parte loro, di scortare[75] cioè i profughi a traverso il territorio di Massa fino alla Casa Guelfi, ma non potè trovare il Gaggioli, sceso a Follonica per affari suoi. Era intenzione del Guelfi, quando partì dal Morbo, di prendere gli accordi opportuni coi Lapini e col Gaggioli, e ritornare poi subito donde era venuto, sempre per non destare colla sua presenza sospetti nei luoghi pei quali doveva passare Garibaldi. Ma la inopinata mancanza di Giccamo gli fece fare di necessità quello che voleva schivare, e si risolvè ad andarlo a trovare a Follonica. Fu allora che scrisse la lettera all'indirizzo convenzionale di «Dario Ascani, Colle» e la fece recapitare al Martini col ritorno del baroccino che lo aveva accompagnato a Massa. In essa annunziava velatamente, come si è sentito, la mancanza del Gaggioli, faceva intendere la sua gita in cerca di lui, e coll'animo pieno di fiducia nel buon esito dell'impresa pericolosa che si era assunta, mandava un saluto ed un conforto agli amici colle parole: «Non state in pensiero se mi tratterrò qualche giorno, giacchè l'aria è assai buona.»[76]

E non poteva fare altrimenti. La salvezza del Generale e del compagno suo dipendeva dal trovare chi si assumesse l'incarico di traversare coi due profughi il mare dalla spiaggia tirrena alla ligure, e questo non poteva trovarsi che da Giccamo per la sua professione sempre in rapporto con uomini di mare. Era Pietro Gaggioli, detto Giccamo, onesto commerciante e buon patriotta di Follonica, e per di più deferentissimo ad Angiolo Guelfi per antica amicizia. Necessario quindi che il Guelfi parlasse in persona al Gaggioli, il quale si sarebbe piegato a fare per lui quello che non avrebbe fatto per altri. Partì infatti il Guelfi per Follonica la mattina stessa del 29, ed ebbe la fortuna d'incontrare Giccamo per via al Ponte della Pecora di ritorno a Massa insieme a suo figlio. Restò lietamente sorpreso il buon Giccamo dell'incontro inopinato di Angiolo Guelfi che non soleva mai tornare in quei luoghi prima del Novembre, e scesi ambedue dai loro baroccini si strinsero a colloquio sul margine della via. Espose il Guelfi la causa della sua gita in[77] Maremma, e pregò l'amico quanto più caldamente potè a non tralasciare una circostanza così inattesa di giovare alla causa della libertà, e a contentare insieme un vecchio amico. Misurò il Gaggioli tutte le difficoltà ed i pericoli di quanto si sarebbe andato facendo, poi, patriotta ed amico, cedeva alle ragioni ed alle preghiere del Guelfi patriotta vecchio ed amico suo, e tornando indietro dall'intrapreso cammino, rifaceva la via per Follonica, mettendosi con tutta lena a porre in esecuzione quanto aveva promesso. Il Guelfi, poi, resa inutile la gita di Follonica, volgeva per Scarlino, suo paese nativo, onde prendere gli opportuni accordi pel ricevimento degli esuli, e per la loro scorta fino al mare. Giunse a Scarlino, sempre nelle ore della mattina, e fece ricerca tosto di Olivo Pina che conosceva audacissimo, ed era altresì legato seco lui da stretta familiarità, e postolo al corrente di tutto, lo richiese di ricevere esso per lui assente gli ospiti illustri nella sua casa del piano di Scarlino, e di trovare altri giovani di buona volontà e risolutezza che gli si associassero per[78] servire di scorta ai profughi durante il loro soggiorno alla Casa Guelfi, e nella traversata fino al mare. Il trovare compagni non era per Olivo Pina cosa difficile, attesochè nella Maremma tutta, e specialmente in Massa e Scarlino, si era dichiarato il popolo caldo difensore delle idee democratiche, e lo aveva mostrato coll'invio di numero grande di volontari, che erano testè stati rimandati alle loro case pieni di malcontento dal governo lorenese restaurato. Che se si aggiunge trattarsi di difendere la vita del più popolare campione della libertà, vogliamo dire Giuseppe Garibaldi, vi era da trovare uomini volenterosi oltre il bisogno. In tutti quei luoghi poi era Angiolo Guelfi potente per aderenze ed amicizie, massime in Scarlino, ove possedeva censo, oltre a reputazione non piccola. In pochi momenti Guelfi e Pina s'intesero che nel giorno ed ora designate da Gaggioli e dai Lapini sarebbero andati in quattro alla casa Guelfi, cioè Olivo Pina, Giuseppe Ornani, Leopoldo Carmagnini, e Oreste Fontani, tutti sotto-ufficiali della disciolta Guardia Nazionale di Scarlino,[79] di cui già il Guelfi era il ben amato Capitano, e che una volta ricevuti i due esuli sarebbero stati difesi fino alla morte. Stabilito tutto ciò, Angiolo Guelfi insieme ad Olivo Pina tornava a Follonica, ivi prendeva gli accordi ultimi con Giccamo circa a trasmissione di notizie, si divideva da Olivo Pina, risaliva a Massa, dava ai fratelli Lapini le buone nuove delle pratiche iniziate, e conveniva con essi che avvertiti da Gaggioli, avvertirebbero a lor volta Olivo Pina, e per mezzo di espresso terrebbero informato il Guelfi stesso che si ritirava al Bagno, e dopo ciò la mattina del 30 tornava al Morbo come si è visto di sopra.

Si mise il Guelfi a fare in apparenza la parte del tranquillo bagnante al Morbo, ma dentro a sè tormentato dal dubbio circa la riuscita del suo piano, e pronto a tentare altra via se quello andasse fallito; e il Martini pensava intanto a trasmettere a San Dalmazio la lieta nuova del felice ritorno, e delle pratiche bene avviate dal Guelfi.

Per tutto il tempo che il Generale si trattenne a San Dalmazio traspariva dai[80] suoi atti una tale sicurezza, come se i pericoli non esistessero intorno a lui. Si alzava alle 6 della mattina, dormiva tranquillamente, mangiava, come al suo solito, parcamente, era calmo, spesso sorridente col suo ospite che procurava con ogni modo di mostrargli il suo rispetto e il suo amore. Prediligeva trattenersi nella terrazza attigua al salotto, e che guarda la vallata deserta. Ivi stava fumando e leggendo per molte ore i libri messi a sua disposizione dal Serafini, e più degli altri la vita di Vittorio Alfieri. Così passava tutto il tempo che non si intratteneva a parlare coll'ospite suo. Il capitano Leggero poi si aggirava continuamente per tutte le stanze della casa, escluse quelle praticate dai domestici del Serafini, quasi fosse insofferente di quella prigionia, e accorreva pronto ad ogni minimo desiderio dal suo Generale. Nei ragionamenti che faceva il Garibaldi col Serafini entravano spesso le speranze sulla liberazione della patria, ed anzi riconoscendo nel suo interlocutore un entusiasta partigiano di libertà, gli lasciò scritti di sua mano i nomi di coloro coi[81] quali poteva intendersi per una futura riscossa, ma per non compromettere l'amico scriveva così:

«Nominativi per un tentativo mineralogico.

«Il sacerdote Verità Giovanni parroco di Modigliana.
«Montanari tenente-colonnello della caduta Guardia Nazionale di Ravenna.
«Bonnet N. capitano della G. N. a Comacchio presso Ravenna.
«Caldesi Vincenzo ex-Deputato a Roma, di Faenza.
«Capaccini ex-capitano del reggimento l'Unione a Forlì.

«Il 1º Settembre 1849

«In Ancona, Giannini N. dedicato al commercio.
«Elia Antonio padrone di bastimenti.
«Casale Raffaello di Foligno.
«Vincenzini Pietro ex-maggiore della G. N. di Rieti.»

Così l'autografo religiosamente conservato dal Serafini insieme a molti altri del Generale, e l'esule che non aveva terra[82] che lo sostenesse, pensava non a sè ma al bene futuro della sua patria. È sempre il prigioniero di Gualeguay che intuona alla patria schiava i versi pieni di amore selvaggio:

Io la vorrei deserta
E i suoi palagi infranti
.........
Pria che vederla trepida
Sotto il baston del Vandalo!

Spesso ancora si mostrava preoccupato il Serafini dell'esito incerto circa alle pratiche iniziate da Angiolo Guelfi per l'evasione dalla parte del mare, tantochè il Generale, colla sua solita serenità, gli diceva: «Non vi date pensiero di me, dirigetemi al mare, e là un solo trave basta per noi due.» E siccome un uomo tale non conosceva cosa fosse millanteria, bisogna ben dire che il coraggio in lui non aveva confini.

Una volta il Serafini, che cercava in ogni modo di render meno sgradita ai suoi ospiti la loro reclusione, volle dare ad essi lo spettacolo gradito di una cacciata quasi sotto i loro occhi, e avvisatone il Generale che assisteva dalla terrazza, presi seco[83] cani e fucile, da eccellente cacciatore qual'era, uccise in poco tempo una lepre e due pernici, che presentò subito al suo ospite amato quanto rispettato, e questi, sensibile alla nuova manifestazione di riguardo, qualificò con effusione come una grata sorpresa, il pensiero del Serafini. E qui cade in acconcio raccontare un aneddoto, che mostra la serenità d'animo del Generale nelle circostanze più difficili della sua vita avventurosa, e insieme la perenne memoria che conservava poi beneficî ricevuti. — Era la sera del 2 Ottobre 1860, e per tutto quel giorno memorando aveva Garibaldi perigliato sul campo di battaglia di Santa Maria di Capua; più volte si era veduto sfuggire la vittoria, e più volte aveva saputo riafferrarla co' suoi lampi di genio, coll'entusiasmo che faceva risorgere la sua presenza fra i volontari. Affaticato dai disagi della giornata, e dall'incertezza di quella pugna che per lui valeva più di un regno — valeva l'unità della patria — si era gettato su di un letticciuolo, e stava fumando modestamente il solito suo mezzo sigaro, quando chiese di[84] vederlo Cammillo Serafini. Non si erano più incontrati dal 1849, e fu subito fatto passare nella camera per ordine del Generale. Eravi Bixio assiso su di una seggiola al capo del letto ove Garibaldi si era gettato. Quali cortesi accoglienze si avesse il Serafini dal Dittatore, è inutile il dire. Basti il sapere che rivoltosi a Bixio gli raccontò questo periodo del suo trafugamento, e rammentò le gentilezze avute dal Serafini, e con compiacenza narrò al suo compagno d'armi la grata sorpresa di una cacciata fatta sotto i suoi occhi dal cortese suo ospite. Così era quest'uomo straordinario, e in mezzo ai gloriosi fatti svolti poche ore fa, il suo animo aveva sempre un ricordo gentile per quanto aveva ricevuto nei giorni di sventura.

E per provare che la serenità dell'animo non lo abbandonasse anche nei momenti più difficili, basti il dire che in casa Serafini trovava tanta quiete da permettergli di accingersi alla narrazione dei fatti gloriosamente compiuti a difesa della Repubblica Romana. La sera del 1º Settembre aveva cominciato il suo scritto così:[85]

«Fatti di Roma»

«Giunto da Rieti negli ultimi d'aprile a Roma, colla 1ª Legione Italiana — io fui destinato a guarnire le mura, da Porta S. Pancrazio a Porta Portese — il 30 dello stesso mese essendoci notizie che i francesi si avanzavano per attaccarci — io mandai un distaccamento....»

Era lo scritto a questo punto quando si sentì un colpo alla porta, e la voce maschia e ben conosciuta di Angiolo Guelfi, che pronunziava la parola Venezia. Noi la sentiremo ripetere questa parola, e passerà per la bocca di tutti i patriotti, che di qui in avanti fino a Cala Martina prenderanno parte alla impresa onoranda. La scelse il Generale, e la portò Angiolo Guelfi come parola di riconoscimento e di consegna a tutti coloro per le cui mani dovevano passare gli esuli illustri. Era un tributo di amore alla infelice città, che fino allora assalita dalla peste, dalla fame, e dalle armi straniere, aveva saputo ultima mantenere alto il vessillo nazionale, e lo aveva ora ripiegato con onore.[86]

Così restò troncata questa pagina di storia che scriveva l'autore stesso dei fatti gloriosi; il manoscritto fu conservato dall'egregio patriotta Cammillo Serafini, e insieme ad altri documenti riguardanti questo periodo della vita di Garibaldi, fu da lui tenuto nascosto sotterra per i dieci anni nei quali rimase in piedi la dominazione lorenese[11].

[87]

Spieghiamo ora la venuta di Angiolo Guelfi a dare in persona l'avviso della partenza.

Stava esso, come abbiamo detto, al Morbo, in apparenza come bagnante, in[88] fatto per riprendere all'occorrenza le pratiche del trafugamento per la via del Tirreno, se per una qualche disgrazia non si fosse potuto effettuare il piano ideato. Si era imposto di non accostare il Generale[89] che in caso di assoluta necessità, ma la sera del 1º settembre aveva ricevuto un espresso dei fratelli Lapini diretto a Girolamo Martini, col quale si diceva che tutto era pronto, e che nella notte stessa sarebbero impostati lungo la via i mezzi di trasporto, e non aveva potuto reggere al desiderio ardentissimo di rivedere per l'ultima volta i due profughi, e portare loro da sè stesso la lieta novella. Ma non aveva dimenticato di dire ad arte che, richiamato a Pisa da urgenti affari, andava la sera a San Dalmazio, per farvisi condurre dai cavalli dell'amico Serafini. E così fece di fatti, che il giorno successivo, mentre Garibaldi imbarcava felicemente a Cala Martina, il Guelfi si faceva vedere in Pisa[12].

[90]

Con quanta gioia fosse ricevuta dal Serafini e dagli esuli la lieta novella si può immaginare. Angiolo Guelfi, che aveva così[91] bene condotta la cosa, fu fatto segno per parte di Garibaldi e di Leggero alle più entusiastiche dimostrazioni di amicizia e di ringraziamento. Nei pochi momenti che precederono la partenza volle il Generale restare a solo col Guelfi nella sua camera. Lo ringraziò con effusione di quanto aveva da lui ricevuto, lo abbracciò e baciò caramente, lo chiamò suo amico, poi volendogli dare un attestato della sua riconoscenza si levò da tergo un pugnale americano, che lo aveva sempre accompagnato nelle guerre al di là dell'Atlantico, e nella difesa di Roma, e porgendolo al Guelfi gli disse: Non ho altro oggetto a me caro da potervi dare per mio ricordo. — Prendete, capitano, questo stile che mi rammenta tante cose, ed io mi auguro che in tempi per la patria migliori mi possa essere riportato dal vostro figlio, al quale mostrerò di essere sempre memore dell'aiuto ricevuto da voi, e dai valorosi maremmani. —

E il pugnale non è stato mai più presentato al Generale, perchè Angiolo Guelfi non era uomo da mettersi in mostra. — Aveva compiuto un dovere, nè voleva di[92] più. — Però Garibaldi trovò il modo di dimostrare la sua gratitudine. — Nel 1859 venne a prendere a Modena il comando delle truppe toscane. In esse era volontario Guelfo, l'unico figlio di Angiolo Guelfi, che secondo le istruzioni del padre non si presentava al Generale. — Lo seppe però questi una sera per circostanza fortuita, e ordinò che si andasse tosto a chiamare il figlio del suo amico, come esso diceva. — Non fu possibile trovarlo la sera, per cui fu avvisato di portarsi la mattina successiva al Quartier Generale. — Vi andò, e modestamente si atteggiò, quando entrato nell'anticamera la trovò piena di ufficiali superiori toscani ivi riuniti per il rapporto giornaliero. — Salutò militarmente i suoi superiori, poi, non sapendo che fare di meglio, si ritirò nel vano di una finestra. E quivi stava, guardato con occhio sprezzante da tutti quegli ufficiali gallonati, che avevano servito la casa di Lorena, ed ora servivano il popolo toscano. — Passò un sotto-tenente di Stato Maggiore, volontario anch'esso e amico del Guelfi figlio, e a questi si diresse il[93] giovane maremmano per pregarlo di dire al Generale che esso era là ad aspettare i suoi ordini. — Entrò il sotto-tenente nella stanza dove Garibaldi riceveva ad uno ad uno gli ufficiali superiori, e subito dopo se ne aperse la porta, e ne uscì un colonnello, l'ufficiale di Stato Maggiore con cui aveva parlato il Guelfi, e lo stesso Generale. — E giacchè siamo entrati in così minute particolarità, vogliamo dire qualcosa del vestiario di questo uomo, nella cui anticamera stavano ufficiali così superbi pei loro colletti dorati, pei loro bottoni lucenti. — Aveva i calzoni da generale piemontese con striscia dorata, il berretto ugualmente da generale, una giacca cittadina di lana sottile, e non altro. — Licenziò il colonnello, poi precedendo sempre di qualche passo il suo ufficiale, si avanzò sorridente traversando l'ampia sala, e non curando i saluti compassati dei presenti, diceva: «Dov'è, dov'è?» — E sull'indicazione dell'ufficiale che lo seguiva, si diresse fino al vano della finestra ove si era ritirato il giovane Guelfi, lontano le mille miglia dal pensare che tutto questo[94] movimento si facesse per lui, cosicchè si trovò preso per la mano dal Generale che lo guardava con fare paterno, e lo condusse nella sua stanza, ove chiusa da sè stesso la porta, lo fece assidere al suo fianco, e rimproverandolo dolcemente del perchè non era venuto a vedere un vecchio amico di suo padre, gli disse più volte: «Io gli devo la vita al tuo babbo, e mi rammenterò sempre di quanto ha fatto per me.» E con mille modi familiari lo licenziò dopo avergli domandato notizie del padre e contezze dell'essere suo, e dopo avergli detto sorridendo: «Voi giovani avete spesso bisogno di denaro; rammentati che hai qua un amico.» — Traversò il giovane l'anticamera estatico delle maniere affascinanti, del fare semplice e modesto dell'Eroe, e questa volta non vide neppure le inappuntabili uniformi, che ingombravano ancora la sala, e solamente scendendo le scale col cuore gonfio dall'emozione provata, pensava a quel Generale che riceveva i suoi ufficiali in tenuta così lontana da quella d'ordinanza, e che interrompeva senza riguardi un rapporto[95] per andare a prendere per la mano un semplice volontario, l'unico merito del quale consisteva nell'essere figlio di chi gli aveva salvata la vita, quando il governo di quei signori gallonati lo aveva cercato a morte. — Triste e singolare mutabilità delle cose umane!

Angiolo Guelfi poi non rivide il Generale che nel 1862 a Pisa, ed anche perchè da lui stesso ricercato per mezzo di Girolamo Martini. — Ebbe le stesse difficoltà del Sequi per essere introdotto, che cessarono però quando al figlio Menotti disse con voce grave «non allignare in uomo dei suoi anni curiosità puerile, bensì essere ivi per obbedire ad un ordine del Generale;» ebbe anch'esso liete accoglienze e dimostrazioni infinite di gratitudine, e fu dallo stesso Garibaldi presentato come suo liberatore al figlio Menotti, che lo abbracciò con trasporto quando si sentì dire: «Vedi, a questo amico tu devi la vita di tuo padre.» E certamente deve avere narrato lo stesso ad un signore inglese ivi presente, poichè questi, dopo avere ascoltato attentamente Garibaldi che parlava[96] nella di lui lingua nativa, corse a stringere e squassare ad Angiolo Guelfi la mano con vivacità mista alla consueta compassatezza britannica, parlandogli con calore in inglese, lingua che il Guelfi non conosceva, e a cui rispondeva con monosillabi tronchi, e colla sua solita grave indipendenza di fare; contrasto singolare di cui rise lo stesso Generale, che nell'accomiatarsi dal Guelfi gli strinse la mano, e gli consegnò un suo ritratto fotografico, sotto al quale aveva scritto di sua mano queste parole: «Al mio carissimo amico Guelfi Angiolo. Ricordo di gratitudine. G. Garibaldi.» Ma di ciò basti e riprendiamo il filo della storia interrotto[13].

[97]

Cammillo Serafini poneva mano ai preparativi per la partenza, e ordinava subito che fossero sellati tre dei suoi cavalli, e per un lungo giro al di sopra del paese fossero impostati a meno di mezzo chilometro da San Dalmazio, in luogo detto «La Croce della Pieve» sull'incontro delle due vie a sterro che conducevano da Rocca Silana a Castelnuovo, e da San Dalmazio a Montecastelli. Disse[98] ai suoi uomini che aspettava alcuni amici cacciatori provenienti dalla parte di Rocca Silana, che prendessero detta via coi cavalli bardati, e se non li incontrassero, andassero a legare i cavalli al luogo indicato, e venissero ad avvertirlo. I suoi uomini, assuefatti ad obbedire spesso a simili ordini, essendo il padrone tanto ospitale e cortese, adempiuto a quanto era stato loro comandato, poichè non incontrarono per via i pretesi cacciatori, tornarono a San Dalmazio ad annunziare al Serafini che i tre cavalli erano stati impostati alla Croce della Pieve. Tuttociò aveva fatto il Serafini per simulare un arrivo, e sviare così le menti dalla partenza imminente dei profughi. Ai suoi subalterni poi mostrò sorpresa che non avessero incontrato alcuno, e disse che i cacciatori da lui aspettati forse avevano sbagliata strada, e voleva da sè stesso andare ad incontrarli; si occupassero essi intanto di alcune faccende in casa. Ciò fatto corse dagli ospiti suoi, e dette il segnale della partenza. — E qui giova notare a vero onore del Serafini, come sia[99] cosa più facile ad immaginarsi che ad eseguirsi il tenere nascoste due persone a chicchessia per quattro giorni e quattro notti in un paesello di campagna. Eppure, tante e tanto grandi furono le cautele prese dal bravo Serafini, che nessuno in San Dalmazio sospettò della presenza di due esuli in casa sua, in quei tempi nei quali l'occhio vigile della polizia, reso più acuto ancora dal vigliacco sussidio del partito reazionario, scrutava per tutto, e dappertutto vedeva nemici.

Erano poco più delle 9 di sera, e Garibaldi, Leggero, Guelfi e Serafini scesero la breve scala che conduce per mezzo delle stanze terrene alla porta segreta che si apre nella vallata deserta. Quivi Angiolo Guelfi si separò dai cari esuli con addio breve, ma pieno di dimostrazioni d'affetto dall'una e dall'altra parte; ciò fatto, richiuso l'uscio esterno, tornava nel piano superiore della casa Serafini, studiando di mostrarsi tranquillo, mentre col pensiero angosciato precorreva i pericoli cui quella notte decisiva andavano incontro gli illustri proscritti. — Uscirono i tre silenziosi,[100] e armati di tutto punto, nella vallata. — Precedeva il Serafini, seguiva Garibaldi, veniva ultimo il Leggero, e percorrendo lungo le mura del castelletto per sentiero dirupato, sboccarono sulla via che era in que' tempi sterrata, o come suol dirsi, a bastina, e volgendo a sinistra si avviarono alla Croce della Pieve. — Pochi passi avanti di giungervi, il Serafini col suo solito zelo, pregò i compagni di ritirarsi per un poco nel bosco che ivi fiancheggia la via, ed esso volle andare a speculare il luogo, e vedere da sè stesso se i cavalli erano al posto da lui designato. — Trovò tutto nell'ordine voluto, li sciolse, ne aggiustò le redini, e li pose tutti tre in fila, ove stettero, essendo in tal guisa ammaestrati. Chiamò allora i profughi, e posti in sella prima Garibaldi, poi Leggero, salì esso sul terzo, e a trotto serrato e uniforme presero la strada di Castelnuovo, essendo già stabilito che al di là di questo paese avrebbero trovato un baroccino impostatovi da Girolamo Martini. — Di che grado si fossero buoni cavalieri quei tre si giudichi nel pensare come i due esuli fossero usi a cavalcare[101] i poledri delle libere pianure di America, e come il Serafini fosse, e sia tuttora conosciuto per addestrare cavalli, e correre con essi a precipizio per le vie malagevoli dei suoi paesi. — Andavano l'uno accanto all'altro, quasi toccandosi il ginocchio quando lo permetteva la larghezza della via, e quando questa si ristringeva, andava innanzi il Serafini, poi il Garibaldi, ultimo il capitano Leggero. — Così procederono fin presso Castelnuovo, ove, incontrata via più facile, fu il trotto dei cavalli anche più spedito. — Questa corsa precipitosa era un vero sollievo pel Generale, che veniva così richiamato alle sue abitudini predilette. — Traversarono Castelnuovo, chè non si poteva fare altrimenti, serrati l'uno all'altro, e di trotto così accelerato e uniforme, che pareva sentire lo scalpitare di un solo cavallo. Chi avesse visto quei tre correre così armati a quell'ora, chi sa cosa avrebbe pensato; ma nessuno li vide, e passarono il paese senza incontro per raggiungere il punto stabilito che era presso al Molino di Bruciano, luogo sicuro perchè distante dall'abitato. — Quivi[102] era già ad aspettarli Girolamo Martini, che era partito solo in calesse dal Bagno alle ore 9 con due fucili a due canne, dicendo di andare in Maremma alla caccia delle quaglie. — Scesero di sella i tre cavalieri, e Garibaldi, vedendo il Martini in persona, e giudicando per lui, piuttosto avanzato in età, troppo grave il disagio di quel viaggio notturno, gli disse in tuono di dolce rimprovero: «Come, voi stesso, signor Martini, volete accompagnarci?» — «Io stesso» — rispose il buon Ministro, che non voleva affidare a mani mercenarie il prezioso incarico.

Quivi il Serafini, ritirando i fucili da caccia come armi troppo appariscenti, volle fare accettare al Generale un suo stile dalla lama triangolare, poi il Garibaldi e il Leggero si accomiatarono da lui esternandogli i loro più vivi ringraziamenti per l'ospitalità cordiale, e per la sua valida cooperazione al loro salvamento. Si scambiarono augurî per sè e per la patria, e si divisero abbracciandosi e baciandosi. — Quanto il Generale tenesse in conto l'operato di Cammillo Serafini, e qual memoria[103] ne abbia sempre conservato, lo mostrano l'accoglienza fattagli la sera del 2 Ottobre 1860, al quartiere generale di Caserta, subito dopo la vittoria di quel giorno, cosa della quale abbiamo già parlato, e lo mostrano altresì le molte lettere direttegli in tempi diversi, ma specialmente la seguente che qui riproduciamo, colla quale, sotto colore di fare domanda relativa ad un caso d'idrofobia, fa sapere al Serafini e agli amici di essere arrivato in salvo, e di conservare memoria degli aiuti che ebbe in Toscana. Ecco la lettera scritta poco dopo i fatti narrati:

Maddalena, 20 Ottobre 1849.

«Stimatissimo signor Cammillo.

«Abbenchè io non abbia l'onore di conoscervi personalmente — la fama vostra chiarissima ovunque — di gentilezza, e somma perizia nell'arte medica — mi fanno ardito a chiedervi un consiglio. Una persona per cui m'interesso molto — è stata morsa da un cane, e si teme una conseguenza idrofobica — essa non potrebbe recarsi presso di voi — per imponenti[104] motivi, e desidero caldamente un consiglio vostro sopra il processo da effettuarsi in tal caso. Ditemi pure se i bagni sulfurei potrebbero essere in tal caso di giovamento. —

«Vi anticipo, Stimabilissimo Signore, tutta la mia riconoscenza — compiacetevi, vi prego, di un riscontro — e comandate in ogni caso il vostro

«G. Garibaldi.»

Dottore Cammillo De Serafini
in San Dalmazio
Maremma Toscana.

Fatti salire i due profughi l'uno a sinistra, l'altro a destra nel baroccino, il Martini consegnò a ciascuno di essi un fucile, e montato in mezzo a loro, prese a guidare il cavallo e partirono per la via di Massa. — Erano circa le 10 quando si mossero dal Molino di Bruciano, e circa alle 12 erano arrivati senza incidenti al punto dove li aspettavano i fratelli Lapini. — Si erano essi partiti da Massa nel modo seguente: Riccardo Lapini e un suo familiare fidatissimo Biagio Serri andarono[105] a ricevere il Generale e il compagno, mentre Giulio Lapini e Domenico Verzera tenutario di vetture si andavano ad appostare dall'altro lato della città nel piano di Schiantapetto. — E qui sembrerà imprudenza il vedere partire i due esuli da Castelnuovo scortati dal solo Martini, ed essere ricevuti sotto Massa da due soli patriotti. — Ma si rifletta che la riuscita dell'impresa non dipendeva dalle forze che si sarebbero potute spiegare, ma dalla celerità e segretezza nel condurla. — Era il Martini eccellente cacciatore dotato di non comune coraggio, e di quel sangue freddo che gli abbiamo visto mettere in opera, e che giova più del numero nell'eseguire operazioni siffatte. — Era poi Riccardo Lapini, testè reduce volontario del governo democratico di Guerrazzi, parco di parole, pronto a venire alle mani per ogni nobile causa, e tale da perdere generosamente la vita, per salvare quella dei due che andava ad incontrare. — Nè meno risoluto era Biagio Serri sebbene più maturo d'età, quindi più riflessivo, ma ugualmente infiammato di amore par le idee democratiche. — Quanto[106] a Domenico Verzera basti dire che il buon patriotta fu messo dai bravi fratelli Lapini a parte del segreto per procacciarsi le vetture occorrenti, e fu fatta tanto bene la scelta, che quando si parlò di pagare l'opera sua, il buon uomo del popolo pianse come un fanciullo trovandosi umiliato della offerta mercede, e disse di essere povero, non avere che i suoi cavalli per mantenere la sua famiglia, ma essere stato pronto, fino da quando fu richiesto dell'opera sua, a dare cavalli, vita, e quanto avesse di più caro per salvare l'Eroe di Roma. — Così dicevano, e ponevano in opera, così dicono e farebbero all'uopo i popolani della Maremma Toscana. — E si rammenti infine che i due da scortarsi valevano da sè soli un esercito, e che tutti erano provvisti di armi, e sapevano all'occorrenza adoprarle. — Fu discusso dai fratelli Lapini insieme al Guelfi il progetto di andare ad incontrare Garibaldi con numero tale di giovani da renderlo sicuro da un colpo di mano del Governo Granducale, ed era facile riunire questo numero tanto a Massa, quanto a Scarlino, che avevano[107] dato buon nerbo di volontari al Governo Democratico. — Ma fu subito abbandonata l'idea, che se era buona a condurre in salvo Garibaldi fino al mare, e se più si adattava alla natura di quei fieri maremmani, avrebbe poi impedito all'Eroe di andare più in là. — Ecco perchè pochi e risoluti ebbero l'onore di prendere parte all'impresa. Un numero maggiore non era tale da mantenere il segreto; tanto è ciò vero che per imprudenza di uno di coloro che ne erano a parte il 2 Settembre, cioè il giorno di poi, la polizia di Massa era informata del passaggio di Garibaldi avvenuto la notte stessa, e all'ottimo dottor Ricciardi, autore dell'opuscolo citato, diceva il Vicario (che per la sua bigotteria gesuitica era chiamato a Massa suor Caterina) di aver prese tutte le sue misure, e questa volta il bandito non potergli sfuggire[14]. — E quando il bigotto Vicario così parlava l'opera dei patriotti toscani era felicemente compiuta. — La modesta vela di una navicella portava con sè il predestinato,[108] che dopo 10 anni doveva colle sue gesta gloriose rendere possibile al popolo italiano il costituirsi in nazione, e spazzare da sè per sempre quei tirannelli, di uno dei quali il furibondo suor Caterina era servitore abietto e zelante.

Intanto Riccardo Lapini e Biagio Serri armati di fucile si erano appostati in un piccolo boschetto vicino alla casa poderale detta Le Malenotti, e quivi aspettavano da poco tempo, quando ad un tratto sentirono rotto il cupo silenzio della notte dallo scalpitar di due cavalli che si avvicinavano dalla parte di Massa Marittima, e poco dopo videro passare a poca distanza dal bosco nel quale erano appiattati, due gendarmi a cavallo in perlustrazione. — L'inaspettato incontro turbò i due patriotti, e non pensando che allo scopo pel quale si trovavano colà, cioè la salvezza del Generale, alzarono i cani dei loro fucili, ed erano per esplodere sui malcapitati gendarmi, quando un barlume di riflessione li trattenne, e seguirono silenziosi e guardinghi i due soldati fiancheggiando la via fino alla biforcazione della[109] strada di Volterra da dove aspettavano Garibaldi, e pronti a fare fuoco se i due gendarmi avessero preso per quella parte; ma essi continuarono la via di Siena, e se avessero saputo il pericolo che sfuggivano, si potevano dire fortunati davvero, chè sarebbero stati due vittime, sotto i colpi aggiustati e sicuri dei due massetani, e quando anche per un caso insperabile fossero fuggiti da quello, avrebbero trovato poco dopo altro pericolo anche più serio nel baroccino del Martini. — E questo buon vecchio ha assicurato di poi, che se avesse avuto l'incontro dei gendarmi, avrebbe per il primo, e subito, fatto fuoco colle pistole di cui era armato, e il come sarebbe andata a finire non è dubbio, se si pensa che i compagni del Martini si chiamavano Garibaldi e Leggero.

Lapini e Serri si posero più tranquilli ad aspettare, dal momento che videro dalla direzione presa dai gendarmi come il Governo non avesse alcun sospetto sulla venuta dei profughi, e infatti poco dopo sentirono un lontano romore di ruote, che sempre più si avvicinava, ed essendo[110] quasi certi che era il baroccino desiderato, si misero in evidenza sulla via. — Si fermò il legno a non breve distanza, e si udì la voce chiara e tranquilla del Martini, che gridò: «Venezia,» e fu risposto «Venezia,» e gli uni e gli altri si corsero incontro, mentre il bravo Martini diceva al Generale: «Siamo nelle braccia agli amici» e scesi tutti a terra, e scambiati i saluti coi patriotti di Massa, il piccolo drappello si diresse a piedi fin presso le Malenotti, ove il Martini accomiatandosi con un saluto dai massetani, e con auguri ed abbracciamenti dai cari esuli, riprese col suo legno la via del Morbo. — Garibaldi dimostrò a Girolamo la sua gratitudine colle stesse parole pronunziate a Prato ad Antonio Martini: «A rivederci a tempi migliori.» — E Girolamo Martini rivide due volte il Generale, ma non sappiamo se in tempi migliori; lo rivide a Pisa nel 1862, e a Salò nel 1866 — a Pisa ferito al piede dalla palla d'Aspromonte — a Salò ferito al cuore per aver dovuto abbandonare il frutto delle sue vittorie conquistato a prezzo di tanto sangue generoso. — Alla ferita d'Aspromonte aveva risposto[111] gridando: «Non fate fuoco.» All'ordine di ritirarsi dal Trentino, aveva risposto: «Obbedisco.» Oh, doppio martirio dell'anima grande! La patria deve più al suo Eroe per quei due sacrifizi, che per le sue cento vittorie. — Che il Martini avesse ambedue le volte oneste accoglienze è inutile il dire. Gli domandò il Generale con amore notizie di tutti i patriotti che avevano coadiuvato al suo salvamento del 1849, e fu per suo mezzo che invitò e pregò Angiolo Guelfi di andarlo a trovare a Pisa.

Intanto Garibaldi e Leggero insieme ai due massetani si mossero a passo più che concitato, e per la strada maestra giunsero al podere denominato Casetta del Marcio presso l'antico padule della Ghirlanda. Allora, abbandonata la via ruotabile, presero una strada a sterro sulla destra che conduce alla Fonte di Bufalona, ove, prima di arrivarvi presero un viottolo parimente a destra, percorrendo il quale per lungo tratto, girarono alla lontana la città, e giunsero al piano di Schiantapetto al termine della scesa di tal nome. — Colà si trovavano Giulio Lapini e Domenico[112] Verzera con due baroccini impostati. — Si riconobbero a distanza alla convenuta parola, e subito nel primo legno, guidato da Domenico Verzera, salivano Garibaldi e Leggero, e sul secondo, guidato da Giulio, stavano i due fratelli Lapini bene armati, che servivano di scorta. — Si mossero rapidamente e di conserva i due legni, e percorrevano la via maestra, quando prima di arrivare al luogo detto la Cura, raggiunsero due gendarmi a piedi, i quali conoscendo bene i fratelli Lapini, salutarono la comitiva credendoli tutti cacciatori che andassero a diporto alle quaglie nella vicina pianura. — I due baroccini giunti alla Cura, presero la via, allora a sterro, del Vado all'Arancio come più breve e più sicura, e sboccando per essa nella via Emilia, dopo un chilometro raggiunsero senza altri incontri la casa Guelfi nel piano di Scarlino. — Erano ivi riuniti in gruppo, secondo il convenuto, davanti alla Casa, i quattro scarlinesi Olivo Pina, Giuseppe Ornani, Oreste Fontani e Leopoldo Carmagnini, e per tutti rispose un festoso: «Venezia,» Olivo Pina, alla parola di segnale[113] che da lontano aveva gridata Giulio Lapini. — Il Generale era cogitabondo, ed entrò silenzioso nella casa dopo avere detto: «Buongiorno, amici.» — Erano le ore 1 e mezzo antimeridiane del 2 Settembre.

Nel tempo che avvenivano tutte queste cose, Cammillo Serafini e Angiolo Guelfi stavano a San Dalmazio trepidanti sul buon esito dell'impresa. — Appena fu giorno spedirono un espresso al Morbo per sapere qualche cosa dal Martini, che doveva essere di ritorno, e con loro consolazione riceverono la seguente lettera scritta da Girolamo Martini, ma senza data, e senza indirizzo:

C. Signore,

«Dall'espresso ho ricevuto il suo biglietto al quale rispondo con piacere, e gli dico che dopo quattro ore che mi fu consegnato i due oggetti, io non mancai di consegnarli a quattro oggetti simili a que' due che non si poteva trovare di meglio e sono sicuro che ora, nel momento che scrivo, sarà fatta l'ultima consegna con il meglio esito che si possa[114] desiderare, e con il piacere di presto poterlo vedere per fargli i più distinti ossequi ancora per parte degli amici. Potrà venire al Bagno con il suo parente che mi farà un regalo. In fretta mi creda

«Suo devotiss. servitore

«G.o Martini

Appena ricevuta questa lettera, e ormai quasi sicuro del fatto suo, partiva subito il Guelfi per Pisa, quantunque ne fosse dovuto fuggire con la famiglia pochi mesi avanti, e col pericolo di essere ivi arrestato andava a sviare colla sua presenza l'attenzione dalla sua casa di Scarlino, presa di mira come il proprietario, e andava anche a preparare una difesa per sè e per gli altri, nel caso non improbabile di un futuro processo. — E il processo fu iniziato subito dal Vicario di Massa, ma quantunque più volte ripreso, andò sempre a vuoto per mancanza di prove e di fatti, e soprattutto per la presenza accertata di Angiolo Guelfi a Pisa nei[115] giorni in cui si voleva imputargli di avere dato ricovero a Garibaldi nel piano di Scarlino[15].

V

Dalla Casa Guelfi a Cala Martina

[117]

La casa Guelfi, detta anche «La Pecora» dal nome del prossimo fiume, è un fabbricato a tre piani, di forma quadrata, di mediocre proporzione, situato lungo la Via Emilia fra Follonica e Scarlino. Costruita ad altro scopo, servì di poi ad uso agricolo, e nel tempo in cui vi si fermò il Generale non aveva altre case all'intorno, eccetto un capannone che serviva ad uso di stalla e fienile. Posta nella bassa pianura di Scarlino, vicina al padule, era nei mesi d'estate[118] un luogo non frequentato, quantunque così prossimo alla via maestra. Entrò il Generale preceduto da Giulio Lapini ed Olivo Pina, e fu condotto nel salotto del piano di mezzo, ove gli fu preparato un caffè che accettò volentieri. Giunsero subito dopo in baroccino Pietro Gaggioli e Paolo Azzarrini per prendere gli ultimi accordi circa all'imbarco, onde avanti di procedere oltre è necessario spiegare quanto fu fatto su tal proposito da Pietro Gaggioli che col provvedere l'imbarco ha avuta una parte così interessante nel salvamento di Garibaldi.

Abbiamo trovato il bravo Giccamo sulla via da Follonica a Massa, che cedendo alle ragioni e alle preghiere di Angiolo Guelfi abbandona i proprii affari, e torna difilato a Follonica. — Da quel momento, Giccamo non ha preso più un minuto di riposo. — Parte la sera del 29 agosto in baroccino insieme a suo figlio per Piombino; approfitta della circostanza di essere il fornitore della brace dei penitenziarii di Portolongone e Portoferraio, e prende la via dell'Elba senza essere provvisto del[119] foglio di via allora prescritto; per fare ciò è naturale che non può servirsi della Posta, e si dirige a un tale Pietro Del Santo detto Bacco barcaiuolo, il quale allega il solito ostacolo del foglio di via per sè e per Giccamo, e i di cui scrupoli sono vinti dalla lauta mercede di sei francesconi; si fa sbarcare di contrabbando alla Punta al Cavo fra Marina di Rio e Portoferraio; di là va a piedi a Portolongone in cerca di Paolo Azzarrini padrone di barca peschereccia, suo intrinseco amico, e che spera potere tirare all'esecuzione dei suoi disegni; vince la naturale renitenza dell'Azzarrini, che vede in quanto è per fare compromesso l'avvenire della sua famiglia, ma che cede poi alla parola amica e patriottica di Pietro Gaggioli. Portate le cose a questo punto, l'Azzarrini si munisce di patente regolare per sè e quattro marinari con destinazione a Follonica, imbarca di contrabbando l'amico Giccamo, arriva nella notte del 31 agosto alla spiaggia di Follonica, ne sbarca sempre di contrabbando il Gaggioli, e la mattina del 1º Settembre fa vidimare regolarmente[120] la sua patente in arrivo, e per non generare sospetti, si pone a contrattare una partita di acciughe. — E Giccamo assennato ed infaticabile aveva raggiunto il suo scopo. — Era andato all'Elba, e ne era tornato senza lasciare traccia di sè, non aveva generato sospetto nel barcaiuolo di Piombino, perchè si sapeva da tutti avere esso continui interessi nell'isola; aveva provveduta la barca, culmine del desiderio suo e degli amici. — Ma appena sceso a terra non si riposa. Sale in baroccino, e va da sè stesso a portare la lieta novella a Giulio Lapini, il quale, secondo il convenuto, fissa la partenza dei profughi da San Dalmazio nelle prime ore della sera, avvisa dei luoghi nei quali saranno appostati i patriotti da servire di guida e di scorta, e finalmente invita Olivo Pina a mezzo di espresso ad essere insieme ai compagni dalle 12 in là della notte fra il 1º e il 2 settembre al posto stabilito alla casa Guelfi. — Giccamo poi torna a Follonica, e lo vediamo all'ora fissata giungere alla casa Guelfi insieme all'Azzarrini per prendere gli ultimi[121] accordi[16]. E tutto questo lavorìo condotto in tempi e circostanze così difficili[122] affidato per l'esecuzione a tante e sì diverse persone, e in luoghi così diversi, doveva compiersi, e si compiè con esattezza ammirabile in una notte per il futuro bene d'Italia. Si dia larga parte d'onore ai bravi che concorsero all'impresa, ma si dia la sua parte anche alla costante e propizia fortuna del Generale.

Brevi furono gli accordi presi fra il Generale, l'Azzarrini, Giccamo e Olivo Pina. — L'Azzarrini sarebbe fra le 9 e le 10 in vista di Cala Martina, riconosciuta come luogo più adatto all'imbarco. — Giccamo ricondurrebbe l'Azzarrini a Follonica, e anderebbe a raggiungere in luogo detto «Meleta» il drappello che si muoverebbe dalla casa Guelfi per raggiungere Cala Martina. — Olivo Pina scorterebbe insieme ai compagni i due profughi attraverso il piano di Scarlino per un itinerario tracciato fino a raggiungere a Meleta le boscaglie che allora vi esistevano, e a traverso a queste farebbe raggiungere il punto stabilito. Dopo di ciò fu pregato il Generale di prendere qualche momento di riposo, ed esso accettando, domandò[123] quale era la camera del Capitano, volendo con ciò attestare la sua gratitudine ad Angiolo Guelfi assente, che tanto aveva fatto per condurre lui e il compagno in luogo di salvezza. Indicatagli la camera, che è quella corrispondente all'angolo nord-ovest della casa, si adagiò sul letto così vestito come era, e il Leggero si gettò su di un letticciuolo nella camera stessa.

Nel breve tempo che gli ospiti prendevano riposo, fu preparato un qualche cibo per ristorarli, come lo permetteva il luogo e la precarietà delle circostanze. Abitava il piano più alto della casa la famiglia del colono, e fu incaricata la sua moglie di preparare una zuppa pel Generale e pel compagno. Intesero bene quei buoni lavoratori che vi erano nella casa proscritti politici, ma non li videro nè seppero i nomi loro, e quanto al ricovero che ivi trovavano i perseguitati, era per essi cosa abituale, alla quale erano stati ormai assuefatti dal proprietario, a cui erano legati per verace affezione. I quattro Scarlinesi facevano intanto vigile guardia, e[124] uno di essi stava constantemente nel piazzale ove si apre l'unica porta d'ingresso della casa. Alle ore 4, dopo un'ora e mezzo di riposo, Olivo Pina andò a battere alla porta della camera in cui era il Generale, ed avvertì che si ponessero in ordine per la partenza. Fu subito pronto il Generale, ma inavvertito, dopo Olivo Pina, si presentò sull'uscio di camera un giovane ungherese disertato dall'esercito austriaco sotto le mura di Livorno. Aveva anch'esso trovato ricetto ospitale da più mesi in quelle lande maremmane, e si era per tutto quel tempo ricoverato alla casa Guelfi, e alla Fonte al Bugno, vicino podere diretto allora da Olivo Pina. Non si sa come, ma certamente doveva avere avuta notizia della presenza di Garibaldi, poichè affannandosi in segni di rispetto, parlava animato al Generale in lingua ungherese, e sulle sue labbra veniva spesso il nome venerato di Kossuth. Lo stava ascoltando Garibaldi, quantunque non lo intendesse, e domandò a Giulio Lapini ed Olivo Pina chi fosse quel giovane, e cosa volesse. Gli fu spiegata in poche parole[125] la causa per cui l'ungherese si trovava in quei luoghi, e Garibaldi sempre compassionevole per tutti, mostrò desiderio di condurre seco il disertore, ma si opposero il Lapini e il Pina dicendogli avere essi preso impegno cogli amici di provvedere alla salvezza della sua vita preziosa, e non potere mai permettere di farla esporre a maggiori pericoli per l'ungherese, al quale si sarebbe pensato a tempo migliore; e siccome il Generale mostrava di non cedere a quelle ragioni, fecero allora intendere il rifiuto del capitano Azzarrini di portare un individuo più del convenuto sulla sua fragile barca, e a questo argomento cedè, sebbene a malincuore, Garibaldi. L'ungherese poi fu fatto ritornare alla Fonte al Bugno, con ingiunzione per parte di Olivo Pina di non allontanarsene fino al suo ritorno.

Presero una zuppa i due esuli, e avanti di partire cambiarono il loro vestito coi fratelli Lapini, cioè Garibaldi con Giulio, e Leggero con Riccardo, e disse il Leggero che così avevano fatto diverse volte durante il loro trafugamento, unica misura[126] di sicurezza che era stato possibile far prendere al Generale. Erano le 5, ora stabilita per la partenza, ed essendo riuniti nel salotto della casa Guelfi gli esuli, i fratelli Lapini, e i quattro Scarlinesi, Giulio si rivolse al Garibaldi, e gli disse come buon augurio: «Sapete, Generale; oggi abbiamo letto nei giornali a Massa che eravate a Venezia in compagnia di Manin e del generale Pepe, e ne abbiamo riso di cuore, perchè nessuno vi sospetta qui.» Poi gli accennò ai quattro Scarlinesi come giovani a tutta prova, dicendogli: «E ora vi consegno in mano di amici tali quali avete incontrato fin qui.» Garibaldi e Leggero abbracciarono e baciarono i fratelli Lapini, e li pregarono di ringraziare a loro nome Angiolo Guelfi per l'ospitalità ricevuta nella sua casa, e più ancora per quanto aveva esso operato. Quindi si divisero, restando i Lapini alla casa Guelfi, e partendo i due profughi scortati dai quattro Scarlinesi alla volta del mare.

Partì il drappello dei sei, armati tutti di fucili a due canne. Precedeva Olivo Pina, seguiva il Generale, poi gli altri. — Camminavano[127] silenziosi poichè Garibaldi era cupo e cogitabondo. — Cosa pensava egli, scampato da tanti pericoli, e quasi in salvo? — Forse pensava alla sua diletta Anita, che mercè l'opera dei bravi patriotti occorsigli sarebbe ora seco se non gliela avesse rapita la morte; forse pensava alle risorse che avrebbe trovate in mezzo alla popolazione maremmana, se avesse diretta la sua ritirata per quelle parti anzichè per l'Umbria, e qualche cosa ne disse, come vedremo di poi; e forse subiva quel sentimento vago d'inquietudine, che provano anche le anime grandi quando stanno per accingersi ad un passo decisivo e finale. — Passarono davanti alla casa della Fonte al Bugno, presero l'argine destro del fosso Allacciante fino al passo detto Pedata di Caserma, e qui traversarono il fosso, che in quella stagione è asciutto, continuando per l'argine sinistro.

Narro ora un triste episodio. Nella lunga peregrinazione di Garibaldi dall'Adriatico al Tirreno, è qui soltanto che ebbe esso ad incontrare persona disposta a nuocergli per animo deliberato. Era questi un[128] tale Antonio Cardini ex-gendarme dei Lorenesi, che fu incontrato sull'argine destro mentre guardava maiali di proprietà di Domenico Fontani, fratello ad Oreste, uno dei quattro Scarlinesi che scortavano Garibaldi. Il Cardini riconobbe il Generale per averlo riveduto in altri luoghi, e lo esternò a Giuseppe Ornani, che in quel momento era l'ultimo della comitiva. Negò come era naturale l'Ornani, e aggiunse che sbagliava d'assai se sognava Garibaldi in quei luoghi, mentre il da lui supposto proscritto non era che un cacciatore, col quale andavano essi Scarlinesi in padule, e credè averlo convinto, e fu bene pel tristo, perchè i quattro giovani non erano tali da lasciarsi dietro una spia. Passò oltre la piccola brigata, e il Cardini col cuore ormai deturpato dal suo vecchio mestiere, tornando la sera al paese, ripetè di avere veduto il giorno stesso Garibaldi traversare il piano di Scarlino, e disse ciò al suo padrone noto e zelantissimo reazionario, il quale però sapendo contemporaneamente come fra i componenti la brigata sospetta vi fosse[129] suo fratello Oreste, non ne fece nessun caso. L'ex-gendarme però era invasato dal turpe desiderio di un lauto guadagno, e voleva andare a denunziare il fatto ai gendarmi di Follonica, ma pensò bene di non farlo quando fu prima sconsigliato, poi minacciato della vita da Giorgio Fontani altro fratello ad Oreste; e sapeva bene il vigliacco delatore che la faceva con uomini capaci di mantenere la promessa.

E qui vogliamo dire cosa che se non aggiunge gloria alla meritata fama di disinteresse del Capitano del Popolo, torna di onore immenso a quei generosi che erano disposti a far sacrifizio della vita e degli averi per condurlo in salvamento. Il capitano Leggero camminava spesso di coppia con Giuseppe Ornani, e presso a poco nel luogo detto di sopra, ragionando fra loro, gli disse come tutto il denaro di cui disponesse il Generale consisteva in dieci monete (forse voleva dire pezzi da 20 lire), ma che il Serafini colla sua squisita gentilezza aveva messa a disposizione di Garibaldi una qualche somma, depositandola su di un mobile della camera da[130] lui abitata. — E questo avveniva quando i sicarii della penna cercavano con ogni maniera di calunnie insozzare la bella fama del Generale. — Quanto poi alla nobile offerta del Serafini, noi crediamo sia la più bella lode il narrarla, aggiungendo come esso non ne abbia mai fatta parola ad alcuno nè prima nè poi.

Continuarono la via in sembianza di cacciatori sull'argine sinistro dell'Allacciante, fino all'imbocco in questo del fosso minore detto Fontino. Quivi è un ponte di legno per uso dei guardiani, gettato sulla foce del fosso stesso. Passarono il ponte, e invece di continuare a discendere verso il padule, presero l'argine sinistro del Fontino risalendolo, e così si trovarono sulla «Via Dogana,» largo stradone a sterro che da Scarlino conduce al Puntone. Fatti pochi passi sulla Via Dogana, le grosse campane di Scarlino cominciarono a suonare per una qualche funzione religiosa. Il paese era vicino, lì sul prossimo poggio, il vento favorevole, il suono bello e maestoso, e tutto ciò, e la giacitura del paese, veduto da quella[131] parte, così fabbricato per lungo sul crinale del poggio, faceva credere Scarlino molto più grande di quello che fosse.

Si fermò sorpreso il Garibaldi, e domandò: «Che paese è quello?È Scarlino, il paese nostro e del Capitano,» gli rispondeva Olivo Pina, e sapeva di fargli cosa grata chiamando in tal modo Angiolo Guelfi, poi alludendo al suono delle campane che aveva attirata la sua attenzione, continuò con tuono deciso: «E se ordinate, Generale, gli si fa cambiare suono.» A queste parole il capitano Leggero, che era fra gli ultimi, si fece avanti premuroso, e domandò quanti abitanti vi erano nel paese, e di quanti giovani si poteva disporre. — Risposero: «Il paese ha mille abitanti, e si può contare su tutti i giovani, ma venti almeno ci seguono, chè altrettanti sono tornati da poco, ed erano volontarî del governo di Guerrazzi.» Allora il Capitano si avvicinò a Garibaldi, e gli disse con fuoco: «Generale, ricominciamo di qui?» — E i quattro Scarlinesi stavano pronti ad aspettare gli ordini. — Ma il Generale guardò prima in faccia i suoi compagni, un lampo di gioia[132] rasserenò la sua fronte, vedendosi circondato da uomini così risoluti, poi rifacendosi cupo, rispose: «Si porterebbero ad inutile carneficina; piuttosto i padri penseranno ad educare i loro figli per il giorno della riscossa.» — E fu continuato il cammino.

Percorsero sulla Via Dogana per forse duecento metri, poi deviarono a sinistra per una stradella, entrando nel bosco delle «Piane di Meleta,» e si fermarono a riposarsi all'ombra di una quercia. Era questo il luogo nel quale aveva dato convegno Pietro Gaggioli. E infatti l'infaticabile Giccamo era al suo posto. Si chiama la località «Fonte al Leccio,» ma di fonte non vi è che il nome, tantochè sentendosi il Generale preso da sete, sia per il cammino accelerato, sia a causa del calore estivo che principiava a sentirsi coll'alzare del sole, bisognò ricorrere alla prossima casa poderale di Meleta; vi andò Giuseppe Ornani, e ritornò insieme a tale Giovanni Lorenzi che vi risiedeva, e al quale aveva richiesta un poca d'acqua per dissetare una brigata di cacciatori. Venne[133] il Lorenzi con una fiasca di vimini, e bevvero tutti l'acqua mista a rhum, del quale Giccamo aveva pensato di provvedersi. Il Lorenzi vide tutte quelle persone distese all'ombra della quercia, e così tutti armati di fucili a due canne li credè cacciatori, e continuò a crederlo per lungo tempo. Sul partire di là l'Ornani domandò al Pina qual via fosse meglio seguire, se cioè per «Val Citerna» e «Val Lunga» faticosissima e attraverso alla macchia, ovvero per la «Via delle Costiere» viuzza assai ben tenuta, perchè serviva allora al continuo passaggio da una torre all'altra dei Cavalleggieri di Costa. Proponeva l'Ornani di prescegliere quest'ultima come più breve e più agevole, onde non affaticare di soverchio il Generale. — Insisteva il Pina per la parte di Val Citerna e Val Lunga come più sicura, dovendosi passare in vista della Torre di Portiglioni se si volesse battere la Via delle Costiere. Il capitano Leggero domandò allora quanti uomini custodissero questa Torre di Portiglioni, ed essendogli stato risposto che vi risiedevano sei Cannonieri di Costa, saltò su a dire:[134] «Passiamo pure di là, non ce ne tocca neppure uno per uno» e infatti erano sette compreso Giccamo che li aveva testè raggiunti; ma Garibaldi riprese, gravemente: «Non per noi che si parte, ma per coloro che rimangono, occorre usar prudenza.» E prescelse la via del bosco.

Sempre per sentieri traversarono Val Citerna, e giunti sulla cima si trovarono nella via ruotabile delle Collacchie. Il Generale non si aspettava di trovare una strada simile in mezzo a quelle boscaglie, e in luoghi così disabitati, onde si fermò sorpreso, e domandò: «Dove conduce questa strada?» E il Pina rispose: «Da una parte a Follonica, e quindi a Livorno, e dall'altra a Grosseto, poi a Roma.Vi sarà il caso d'incontri?Il pericolo è ben lontano, tanto più che noi la traversiamo soltanto, ma se si presentasse il caso di esser sorpresi, state sicuro che non vi lasceremo mai in mano dei nostri nemici.» — A queste parole il Generale si rivolse commosso a Leggero, egli disse: «Vedi quali uomini fanno in questa Maremma! Se avessimo conosciuta la strada e la popolazione, era questa la[135] via da seguire.» Voleva alludere alla ritirata da Roma; e quando lì presso vide vacche vaganti, si battè la fronte ed aggiunse: «Se avessi saputo di trovare anche il cibo per i bravi soldati, sarebbe stata questa la via!»

Traversarono in obliquo la strada, e rientrarono subito nella macchia, e quando dopo pochi passi vi si furono internati, Olivo Pina che precedeva si rivolse al Generale, e col fare sicuro di chi dice cosa ormai certa, e con frase tutta toscana, gli disse: «E ora, Generale, chi ci ha visto, ci ha visto» — volendo fare intendere che non incontrerebbero più alcuno, e se lo incontrassero guai a lui. — Intese Garibaldi, e sorridendo dette uno sguardo a Leggero, e stava in quello sguardo la più bella lode pei coraggiosi Scarlinesi.

Così percorsero Val Lunga, e giunsero sulla Collacchia, o crine del poggio, che per l'altro declive termina con Cala Martina. Fino ad ora il drappello aveva percorsi sentieri malagevoli, ma pervii, e tali da permettere il passaggio di un uomo; ma qui finiva ogni traccia di strada, e[136] Olivo Pina si soffermò e disse: «Ora bisogna abbandonare la viottola, e traversare la macchia,» e accennò a destra. Il Generale si voltò alla parte indicata, e con sorpresa vide al di sotto il mare; — di mesta e cupa che era fino ad ora la sua fisonomia si rasserenò — la vista del mare che gli è stata sempre gradita, gli doveva essere anche più gradita ora, dacchè era per lui la tanto cercata via di salvezza. Aveva detto al Serafini: «Sul mare, una trave basta per noi due,» e queste parole che in bocca di Garibaldi non erano vana iattanza, mostravano quanta fiducia dovesse sentirsi alla vista dell'elemento suo prediletto.

Entrò pel primo Olivo nel folto del bosco, poi Garibaldi, che rompeva la macchia col petto come un vecchio cacciatore maremmano, e tutti gli altri li seguirono per la ripida discesa; così pervennero alla Via delle Costiere, in quel tratto che soprastà a Cala Martina, e traversatala, per un sentiero più ripido ancora, ma un poco più aperto, toccarono la spiaggia del mare, sboccando nella parte di mezzogiorno, ad un terzo dell'arco descritto dal piccolo[137] seno, e percorrendone tutta la massima curva, andarono a fermarsi all'altro terzo d'arco della parte opposta, cioè di settentrione, e quivi si fermarono giudicando il luogo più riparato, e insieme più adatto all'imbarco. — Finalmente Garibaldi poteva toccare l'elemento desiderato[17].

VI

L'imbarco

[139]

Il lido toscano fra Follonica e Castiglione della Pescaia è formato da una serie di cale o piccoli seni, divisi fra loro da altrettanti piccoli promontorî o punte, che vanno a terminare nel mare. E quivi, ma molto più prossima a Follonica che a Castiglione, trovasi Cala Martina[18] formata dall'insenarsi del mare, e dal protendersi in esso di Punta Martina a mezzogiorno, e di Punta[140] Sentinella a settentrione. La sorveglianza doganale, sanitaria, ed anche politica delle coste toscane si faceva allora mercè una serie di stazioni o torri poste in modo che dall'una si vedessero i segnali che si facevano dall'altra. Stavano a custodia di[141] ciascuna torre e del lido, cinque o sei cannonieri, che per non demeritare tal nome avevano in custodia un cannone rivolto colla sua bocca innocente verso la marina. La stazione prolungata in quei luoghi disabitati, il servizio poco militare loro affidato, e più di tutto l'azione pestifera della malaria, rendevano questi soldati tanto poco temibili, che certamente la riunione dei guardacoste di quattro torri non sarebbe bastata a stare a fronte del nostro ardito drappello, composto di uomini vigorosi, pratici della località, e capaci tutti di una sicurezza di tiro più unica che rara. Oltre i cannonieri, che dal popolo maremmano venivano chiamati in spregio «Picchiotti,» eravi un altro corpo di militi a cavallo, e si dicevano Cavalleggeri Guardacoste, i quali disimpegnavano il servizio di corrispondenza fra l'una e l'altra torre, per cui erano queste riunite fra loro da una viuzza a sterro assai ben tenuta, e che chiamavasi Via delle Costiere. Questa via è più o meno lontana dal mare a seconda dei luoghi, e nel massimo d'insenatura di Cala Martina è distante pochi metri dalla[142] scogliera. Chi si volge in quel punto verso la Cala ha sulla destra Punta Sentinella, sulla sinistra Punta Martina. — Punta Sentinella, prolungamento e fine del monte omonimo, più breve, più bassa, più pianeggiante nel suo dorso — Punta Martina più allungata nel mare, più alta, più acuminata. — I fianchi della prima sono tagliati a picco sul mare — quelli della seconda vanno degradando per una pendice ripida e ricoperta di folto bosco. Sulla vetta di Punta Martina eravi allora una stazione o torre di cannonieri, ma di lassù non si vedeva la Cala, almeno nel luogo ove doveva avvenire l'imbarco, e Punta Sentinella, disabitata, la ricuopriva dalla vista della torre di Portiglioni. Chi scendesse poi nella Cala si troverebbe come in un anfiteatro perfettamente semicircolare, con una bocca di forse quattrocento metri, e le cui pareti da ogni parte ripide sono nude dalla parte di Punta Sentinella, rivestite a bosco dalle altre. La spiaggia è breve, in alcuni punti quasi nulla, e formata di ciottoli con poca rena ed alghe, poi vengono gli scogli di natura arenaria, che sono talora[143] scoperti, talora sommersi dalle onde marine, a seconda dello stato di quiete, o del dominarvi dei venti.

Era il drappello disceso al mare dalla parte di Punta Martina, e percorrendo la spiaggia in curva, andò a fermarsi a riparo di Punta Sentinella. Per quanto si poteva scorgere non vi erano barche alla vista. Allora fu il primo pensiero di Olivo Pina il mandare a speculare da luogo ove si scoprisse più largo orizzonte, e intanto provvedere alla sicurezza della brigata. Ordinò all'Ornani di percorrere il lido dalla parte di Punta Martina, e giungere allo scavalco da dove si scorge vasto tratto di mare verso Castiglione, ma di camminare sempre per la macchia facendo in modo di non essere veduto dai cannonieri di Punta Martina. — Appostò il Carmagnini nel bosco presso la Via delle Costiere, colla ingiunzione che se passasse il cavalleggere e non vedesse quanto si andava facendo alla Cala, lo lasciasse andare oltre, ma se succedesse altrimenti, facesse fuoco su lui. — E il Carmagnini si appostò tranquillo al suo posto, pronto ad eseguire l'ordine ricevuto. — L'Ornani[144] poi percorse sempre per il bosco il tragitto indicato, ma arrivato allo scavalco di Punta Martina speculò l'uno e l'altro braccio di mare senza vedere la barca, e tornò a darne avviso ad Olivo Pina, da cui ricevè l'ordine di andare per la parte opposta onde vedere se l'Azzarrini fosse per venire di là. Pietro Gaggioli, che stanco dalle fatiche sostenute in quei giorni si era disteso accanto al Carmagnini senza scendere alla Cala, seguì l'Ornani nella corsa verso Follonica. In questo tempo il Generale stava estatico a riguardare il mare. Appena arrivato a Cala Martina aveva voluto bagnarsi i piedi nell'onda prediletta, e si era dato a slacciarsi la calzatura. Corse Olivo Pina ad aiutarlo, ma esso rifiutava, e cedè solamente all'insistenza sua, accettandone l'aiuto, e si lavò i piedi nell'acqua marina, contento, come diceva, di poter fare ciò dopo tanto tempo. Di poi insieme a Leggero, Fontani e Pina si trattenne sulla spiaggia ad aspettare.

Comparve poco dopo la barca, che veniva dalla parte di Follonica, senza essere[145] stata veduta dall'Ornani e da Giccamo perchè aveva bordeggiato lungo la costiera in sembianza di barca peschereccia. Ed era infatti una semplice barca peschereccia, guidata da soli quattro uomini, cioè il padrone Azzarrini e tre marinai, e avendo camminato quasi rasente alla spiaggia, non poteva averla scorta l'Ornani che guardava ad una certa distanza, impedito a vedere vicino dal lido tagliato a picco, e coperto di folto bosco.

Appena la barca fu in vista, vennero dalla Cala fatti segnali collo sventolare di un fazzoletto, e la barca, veduti i segnali, si accostò subito alla spiaggia. — Era il momento solenne. — Il Carmagnini aveva abbandonato il suo posto di guardia, dal momento che la barca si era accostata. — Garibaldi in tutta la sua fierezza guardava al mare. — Pareva un leone imprigionato a cui fosse stata aperta la gabbia ferrata. — Si rivolse commosso ai tre Scarlinesi che lo stavano ammirando, e disse loro: «Non vi è nulla che possa ricompensare ciò che ho ricevuto da voi, ma spero di ritrovarvi a tempi migliori.» — Rispose Olivo Pina, commosso[146] egli pure, e a nome di tutti: «Un pizzo della vostra pezzuola basta a ciascuno di noi — lo lasceremo come ricordo ai nostri figliuoli; — avevamo per unico scopo salvarvi e conservarvi all'Italia, e volentieri veniamo con voi fino a Genova, se lo volete.» — Assentirono gli altri due, e il Carmagnini insisteva sulla proposta di accompagnarlo, ma il Generale riprese: «No, nel mare non temo alcuno: ci rivedremo.» — Potenza singolare di quell'uomo che, se lo avesse voluto, avrebbe fatto quattro marinari di quei giovani incontrati poche ore fa, e che non avevano mai veduto il mare se non dalla costa.

Prima di partire volle dare un suo ricordo a ciascuno; a Olivo Pina un fischio d'argento colle due lettere incise CL (forse Cogliuoli Luigi); al Carmagnini un piccolo stile che si levò dal di dietro della cintura; al Fontani un piccolo portafogli da appunti, e da questo staccò un foglio ove fece la sua firma col lapis, e la consegnò ad Olivo Pina perchè lo dasse a suo nome all'Ornani tuttora assente. Poi li abbracciò, li baciò, li incaricò dei suoi saluti a[147] Girolamo Martini, Cammillo Serafini e Angiolo Guelfi, e montò nella barca. Lo stesso fece il capitano Leggero salutando ed abbracciando gli amici, e la barca si mosse. — Allora il Generale, quando era ancora pochi metri lontano dalla spiaggia, mandò agli Scarlinesi, come ultimo saluto, il grido maschio e vibrato: «Viva l'Italia!» — Era sfida alla tirannide che lasciava padrona del campo — vaticinio di destini migliori — saluto ai patriotti che nel nome della patria derelitta avevano spregiati i pericoli per dare a lui salvamento. — Erano le ore 10 antimeridiane del 2 Settembre 1849.

In questo tempo l'Ornani tornava dalla sua escursione senza aver veduta la barca; aveva percorsi tre chilometri insieme al Gaggioli attraverso alla macchia foltissima della scogliera, e arrivati alla fonte detta di San Supero, trafelati dalla stanchezza, e dal sole cocente, si erano dissetati, poi il Gaggioli, rifinito dalla fatica, sentì di non potere rifare il cammino, e incaricato l'Ornani dei suoi saluti al Generale e al compagno, aveva ripresa la via di Follonica. Si affacciò l'Ornani al lido[148] di Cala Martina, e vide la barca che già si allontanava, e il Generale in piedi che guardava la riva. Salutò dall'alto vivamente col fazzoletto, e gli fu corrisposto il saluto da Garibaldi e da Leggero, che continuarono così fino a quando non furono perduti di vista. Allora l'Ornani entusiasta del buon esito dell'impresa, voleva che in segno di gioia si scaricassero tutte le armi, ma si oppose il Pina più calmo, per non destare attenzione sul fatto che si era compiuto.

Ed anche questo voglio dire quantunque fosse pazzia, ma di quelle che muovono da impeti magnanimi, e tale da mostrare a quali uomini era affidato Garibaldi. Passarono i quattro Scarlinesi, per tornare alle case loro, dalla Torre di Partiglioni, e visto lì presso l'innocente cannone, utensile obbligato delle torri di costa, volevano in segno di festa a ludibrio dei cannonieri e del loro governo, gettarlo in mare. — E l'avrebbero fatto, chè quei quattro valevano per quaranta picchiotti (e Olivo Pina, certo ormai che il Generale era in salvo, si univa agli altri[149] nell'esultanza del fatto), se per fortuna non fossero stati ivi incontrati e dissuasi da Giccamo, che tornava da riprendere il suo barroccino a Meleta, per andare a Follonica.

Due giorni dopo, il 4 settembre, era la fiera al Palazzo presso Travale, e Olivo Pina vi andò per accordi presi col Guelfi, a riportare a voce le diverse particolarità dell'imbarco. Vi erano Cammillo Serafini ed Angiolo Guelfi, reduce quest'ultimo la sera avanti da Pisa, ove era andato a mettersi in mostra per deviare gli occhi della polizia dal teatro vero del fatto. Raccontò Olivo Pina i più minuti particolari, portò i saluti di Garibaldi e di Leggero lasciati da essi nell'atto stesso della partenza, e tuttociò riempì di giubbilo l'animo dei due patriotti, a segno che Cammillo Serafini chiamò Olivo Pina fratello di fortuna, e tale lo ha sempre chiamato di poi, volendo alludere alla fortuna da essi avuta di potere salvare la vita del Grande Capitano.

La traversata sulla barca dell'Azzarrini fu felice, e senza casi notevoli. Partiti dalla spiaggia toscana si diressero alla Punta[150] al Cavo, ove l'Azzarrini sbarcò il padre ed un altro marinaio di Capoliveri, e così si mise in ordine col numero degli uomini descritti nella patente, poi tanto pregò il tenente-castellano di Rio Marina, che questi gli firmò abusivamente la patente per l'estero, quantunque volesse la legge vigente che per fare ciò si fosse munito del visto delle Autorità di Portoferraio. Tornò a costeggiare la spiaggia tirrena, e il giorno di poi sbarcò felicemente a Porto Venere il Grande Italiano. L'Azzarrini stesso, richiesto da Giovanni Gaggioli figlio del tanto benemerito Giccamo, scrive da sè stesso la storia della traversata colla lettera seguente:

«Di buon mattino imbarcai l'eroico generale Garibaldi e il capitano Leggero, e mi diressi all'isola dell'Elba. A Capo Castello sbarcai mio padre, e un marinaro di Capoliveri perchè vi fosse sempre il numero. Il Deputato di Sanità mi firmò abusivamente la patente, e la sera feci vela per il Golfo della Spezia. All'indomani a mezzogiorno si era giunti in vista di Livorno, ove si vedevano passeggiare[151] le sentinelle tedesche, e il giorno dopo giunsi felicemente a Porto Venere. Colà sbarcai l'eroico Garibaldi con Leggero. Garibaldi mi diede per ricompensa un piccolo scritto di sua propria mano, che conservo come la pupilla dei miei occhi; esso era così concepito:

«Il padrone Paolo Azzarrini che la fortuna mi fece incontrare in terra italiana dominata dai Tedeschi, mi ha trasportato su questo luogo di asilo e di salvamento, trattandomi egregiamente, e senza interesse.

«G. Garibaldi

Era meritato questo attestato di benemerenza, poichè Paolo Azzarrini ebbe troncati i suoi interessi per la parte presa nel salvamento di Garibaldi. Impossibilitato a ritornare nell'Elba, ove lo avrebbero aspettato persecuzioni poliziesche, per avere sottratto l'Esule illustre alla caccia spietata, dovè condannarsi all'esilio per i 10 anni nei quali perdurò la dominazione lorenese, e solamente in contrabbando si avvicinò una volta a Capoliveri[152] per imbarcare il vecchio padre e il resto della sua famiglia, che dovè trasportare sul suolo ospitale della Liguria. — E in mezzo a tanta pioggia di pensioni e di croci per gli eroi del domani, nessuna ricompensa è stata data a Paolo Azzarrini, che perdè anche gli arnesi del suo mestiere per salvare all'Italia il suo Eroe[19].

[153]

E qui termina l'assunto mio. — Una mano di patriotti disseminati da Vaiano alla spiaggia di Follonica, di cui alcuni incogniti l'uno all'altro, perseguitati e costretti a pensare alla loro salvezza, in 7 giorni, senza accordi precedenti, in onta alla polizia lorenese e all'occupazione straniera, alla reazione toscana e al bando feroce di Gorzhowscki, seppe trafugare il Generale del Popolo, fargli percorrere centinaia di chilometri e provvedergli una barca per metterlo in luogo di salvezza. Al Molino di Cerbaia — alla Casa Bardazzi a Vaiano — alla Madonna della Tosse — alla Stazione della ferrovia di Prato — alla Casa Bonfanti a Poggibonsi — al quadrivio[154] di Volterra — alla Locanda della Burraia — alla Casa Serafini a San Dalmazio — alla Casa Comunale di Castelnuovo — al vetusto Palazzo Municipale di Massa — sulla piazza principale di Follonica — e alla Casa Guelfi nel piano di Scarlino — in tutti questi luoghi una lapide, un ricordo rammenta l'opera di salvamento compiuta dai patriotti toscani nel 1849. — Solo a Cala Martina neppure una pietra ricorda che quel luogo riunì in sè e tradusse in fatto quanto era stato compiuto da Cerbaia alla spiaggia Tirrena. — Solo Cala Martina aspetta una memoria e l'avrà — perocchè, lo pensino gli Italiani, se li umili scogli di Cala Martina non erano, la storia non avrebbe registrato nei suoi fasti lo scoglio glorioso di Quarto.

NOTE:

[1] Le notizie contenute in questa introduzione sono attinte dall'opera del prof. Giuseppe Guerzoni, Giuseppe Garibaldi, edito dal Barbèra, Firenze, 1882. La serie dei fatti che si svolsero dal 26 agosto al 2 settembre 1849, restati sepolti nel silenzio per i dieci anni della dominazione lorenese, e raccolti ora dopo 35 anni, quando molti degli attori di essi non sono più; reclamava circospezione massima, e diligenza nelle ricerche, per non passare dalla storia alla leggenda. Le diverse Vite di Garibaldi o sorvolano, o travisano quanto avvenne in questo periodo, alcuna poi è piena d'inesattezze anche sulla posizione geografica dei luoghi, cosicchè vi si designa avvenuto l'imbarco, ora a Talamone, ora a Follonica, e perfino a Massa Marittima, città di poggio, e distante parecchi chilometri dal mare. Due soli opuscoli hanno parlato con molta esattezza di questo periodo avventuroso del Generale, e portano per titolo, il primo: «Da Prato a Porto Venere,» del dottore Ricciardo Ricciardi, Grosseto, Tipografia Barbarulli, 1873, e l'altro: «In Val di Bisenzio. Episodio del 26 agosto 1849,» per Enrico Sequi Firenze, Stamperia Righi, 1862; ma il primo svolge più specialmente i fatti avvenuti dal Morbo fino al mare, il secondo si occupa esclusivamente di quanto avvenne in Val di Bisenzio. Dopo avere tenuto conto delle cose narrate nei due opuscoli, mi sono rivolto a tutti i superstiti fra quelli che ebbero parte diretta nell'impresa, e così raccolsi interessanti notizie dal testè defunto signor Antonio Martini di Prato, dall'egregio signor Cammillo Serafini di San Dalmazio, dai quattro Scarlinesi Pina, Ornani, Fontani e Carmagnini che scortarono Garibaldi dalla casa Guelfi a Cala Martina; poi mi rivolsi a coloro che, legati da intimi rapporti con alcuno degli estinti patriotti, potevano fornire notizie di circostanze e fatti, e così al signor Odoardo Pellini genero del defunto Girolamo Martini, e alla signora Ester vedova Martini pei fatti del Morbo, e al signor Vincenzo Magherini farmacista a Vaiano per quanto avvenne in quel paese. Mi sono dato ad interrogare anche alcuni che, quantunque inconsapevoli, presero una parte nel salvamento, e cioè il Montereggi vetturino di Poggibonsi, Zizzo vetturino di Pomarance, e Tommaso Pucci, figlio della Giuseppa Bonfanti. Mi sono stati di aiuto tre atti pubblici, o come diconsi di notorietà, relativi a circostanze diverse, di cui uno sottoscritto: «Ranieri Biagioli di Vaiano,» un altro «Vincenzo Bardazzi di Vaiano,» e un terzo «Pina, Ornani, Fontani e Carmagnini di Scarlino.» E finalmente mi hanno giovato i ricordi di famiglia, essendo stato Angiolo Guelfi parte non ultima del fortunato salvamento. Le notizie raccolte, poste in confronto le une colle altre, e più di tutto colle date certe che si avevano cioè — 26 agosto per Vaiano e Prato — 27 agosto per il Morbo — 28 agosto per la fiera di Pomarance sulla Cecina — e 2 settembre per Cala Martina, mi hanno guidato nello stabilire con piena certezza, i fatti nel loro ordine cronologico, e nella loro storica precisione.

[2] Il compagno di Garibaldi conosciuto generalmente col nome di Capitano Leggero si chiamava Leggero Cogliuoli, cosa che ho potuto accertare in diversi modi, ma specialmente per dichiarazione fattami dal signor Cammillo Serafini che possedeva il suo nome scritto in più luoghi sui libri letti dai profughi nella sua casa di San Dalmazio.

[3] L'opuscolo dell'ingegnere Enrico Sequi «In Val di Bisenzio ecc.,» mi è servito principalmente di guida in questo capitolo, e di là ho tolta la maggior parte delle notizie. La narrazione del Sequi è stata parzialmente modificata dalle dichiarazioni contenute nei due Atti pubblici sopra citati, cioè: «Atto pubblico di dichiarazione di Biagioli Ranieri fu Luigi, rogato a Cerbaia il 25 maggio 1884 dal notaro G. B. Nistri, e registrato a Prato il 26 maggio 1884;» «Atto pubblico di dichiarazione di Bardazzi Vincenzo fu Leonardo rogato a Vaiano il 25 maggio 1881 dal notaro G. B. Nistri, e registrato a Prato il 26 Maggio 1884.» Il racconto è altresì completato da alcune notizie fornite per lettera dall'ora compianto patriotta Antonio Martini di Prato, e dal signor Vincenzo Magherini farmacista a Vaiano.

[4] La donna che ospitò Garibaldi era bensì nata Bonfanti, ma unitasi in matrimonio con tale Serafino Pucci ne portava allora il cognome. F. D. Guerrazzi dettò una epigrafe che a cura di alcuni patriotti di Poggibonsi fu posta all'esterno della casa, e anche in essa la donna è chiamata Giuseppa Bonfanti, e così continueremo noi pure a chiamarla, essendo con questo nome ormai conosciuta.

[5] Il vetturino Niccola Montereggi assicura che in quel giorno vi era a Colle fiera o mercato. Abbiamo rintracciato ciò, e abbiamo saputo con certezza come la fiera annuale vi si tiene da tempo immemorabile il 17 Agosto, e il mercato si è sempre fatto in giorno di Venerdì, ma il giorno del passaggio da Colle fu invece il 27 Agosto, giorno di Lunedì, quindi non resta che a supporre lo spostamento in quell'anno della fiera, o del mercato per una qualsiasi causa eccezionale, ovvero che l'affluenza straordinaria di popolo asserita con sicurezza dal vetturino provenisse da qualche festa religiosa o reazionaria.

[6] Abbiamo voluto rintracciare con precisione il luogo ove avvenne a Colle il cambio del cavallo, e accurate informazioni ci fanno sapere essere stato ciò alla locanda di Moneta, condotta allora da Luigi Papini, la quale locanda esisteva nella casa Buccianti in via S. Jacopo, che poi si chiamò via Stefano Masson. Però i viaggiatori non entrarono nella locanda, e si trattennero nel mezzo della strada tutto il tempo che occorse al cambio del cavallo.

[7] Era necessario, per l'esattezza storica del racconto, rintracciare l'itinerario seguito nei giorni 26 e 27 Agosto 1849 dai due proscritti, tanto più che ora appunto su questo viaggio così rapido attraverso alla Toscana che potevano nascere i maggiori dubbi. È per questo che come riassunto delle ricerche più minuziose fatte in proposito, pongo qui l'intiero itinerario del Generale da Cerbaia al Bagno a Morbo colle ore approssimative dei diversi fatti.

26 Agosto. Ore 7 ant. Arrivo di Garibaldi al Molino di Cerbaia.
— Ore 8 ant. Incontro coll'ingegnere Enrico Sequi.
— Ore 9 pom. Partenza dal Molino di Cerbaia.
— Ore 10 pom. Arrivo alla Casa Bardazzi a Vaiano.
— Ore 11½ pom. Arrivo alla Madonna della Tosse.
— Ore 12 pom. Arrivo alla Stazione di Prato.

27 Agosto. Ore 2 ant. Partenza da Prato.
— Ore 8 ant. Arrivo a Poggibonsi.
— Ore 12 merid. Partenza da Poggibonsi.
— Ore 3 pom. Al quadrivio di Volterra.
— Ore 5 pom. Arrivo al podere di Prugnano.
— Ore 6 pom. Partenza dal podere di Prugnano.
— Ore 7 pom. Arrivo alla Burraia.
— Ore 9 pom. Partenza dalla Burraia.
— Ore 11 pom. Arrivo al Bagno a Morbo.

[8] Angiolo Guelfi nel Decembre 1862 faceva apporre nella camera ove riposò Garibaldi nel piano di Scarlino la seguente epigrafe dettata dall'illustre F. D. Guerrazzi, e che qui trascrivo per l'altissimo suo valore letterario, e per lo stupendo concetto che in essa è svolto, e di cui ho riportata una parte come sintesi e chiusura del presento capitolo.

BANDITO COME BELVA DA ROMA
IL DESTINATO
A TANTA PARTE DEL RISCATTO ITALIANO
GIUSEPPE GARIBALDI
QUI LA NOTTE DAL 1º AL 2 SETTEMBRE 1849 POCHE ORE POSÒ
LA NOTTE STESSA
PEDESTRE E SCORTO DA UN COMPAGNO SOLO
TRAVERSATO IL PIANO DI SCARLINO
ATTINSE LA CALA DI PUNTA MARTINA
DOVE SU DI UN BURCHIELLO
SÈ COMMISE IN BALÌA DEI VENTI
DIO
COMPASSIONANDO ALLE MISERIE NOSTRE
LO SALVÒ LO PROTESSE
QUINDI IMPARI CHI LEGGE A NON DISPERARE MAI DELLA PATRIA
ANGIOLO GUELFI
IN LAUDE DI DIO
ONORE ALLO EROE
Q. M. P.
IL GIORNO VENTESIMO QUINTO DEL MESE DI DECEMBRE 1862

[9] I fatti accennati nel presente Capitolo sono stati i più difficili a rintracciarsi, perchè avvolti più profondamente nell'oblio, come lo mostrano le notizie incerte, che quasi per incidenza si trovano su di essi nei due opuscoli Sequi e Ricciardi. Eppure dopo l'imbarco è questo il momento più importante della traversata. Dalle 2 della mattina alle 11 della sera il Generale, facendo il cambio di tre vetture, e prendendo brevi riposi, si trasferì da Prato al Bagno, passando incolume per le terre popolose della Valle dell'Elsa, e rasentando Volterra e Pomarance. Mi fu cortese di tutte le informazioni fino all'arrivo a Poggibonsi l'ora defunto patriotta Antonio Martini, ed ebbi la fortuna di rintracciare i due vetturini tuttora viventi Niccola Montereggi a Poggibonsi, e Vittore Landi detto Zizzo a Pomarance. Parlai altresì con Tommaso Pucci figlio della Giuseppa Bonfanti, dal quale ebbi sicuri particolari circa alla fermata degli esuli nella sua casa.

[10] L'opuscolo del dottor Ricciardo Ricciardi espone le principali circostanze narrate in questo capitolo. Io poi potei completarle mercè le più particolari informazioni fornitemi dal signor Odoardo Pellini, e dalla signora Ester Martini, il primo genero, e la seconda vedova del fu Girolamo Martini. In questa parte mi sono altresì venute in aiuto le reminiscenze di giovinezza, per quanto aveva io stesso sentito narrare dal padre mio Angiolo Guelfi. Era esso alieno dall'entrare in particolari del fatto, ma rammento sempre la sera stessa del suo ritorno a Laiatico ai primi di Settembre 1849, quando, nell'atto di coricarsi nella medesima camera, raccontò con entusiasmo a me, allora dodicenne, il salvamento compiuto da pochi giorni, e i particolari dei colloqui avuti col Generale, e massimamente il dono dello stile coll'invito di farglielo presentare dall'unico figlio se fossero vòlti per la patria destini migliori. — Da quella circostanza in fuori gliene ho sentito parlare raramente, come da chi avesse inteso compiere un dovere e nulla più. — Tanto è ciò vero che le altre informazioni relative alla parte presa da Angiolo Guelfi nella fortunata impresa le ho dovute raccogliere dall'egregio amico, signor Cammillo Serafini, e dai quattro Scarlinesi, segnatamente dal Pina e dall'Ornani, come più degli altri familiari di Angiolo Guelfi.

[11] L'illustre patriotta signor Cammillo Serafini, entusiasta dell'esito felice dell'impresa di cui era stato tanta parte, non curando il pericolo, conservò per i dieci anni della dominazione lorenese i preziosi documenti citati nel corso di questa storia. In una mia visita all'egregio ed onorando amico ho veduto questi documenti ingialliti dal tempo, macchiati dall'umidità, essendo essi stati per dieci anni chiusi in un tubo di latta, e sotterrati nelle grotte della Pieve presso San Dalmazio, e sono i seguenti:

1º La lettera di Angiolo Guelfi senza data, ma evidentemente scritta da Massa Marittima la mattina stessa del suo arrivo, cioè il 29 agosto, cui fa seguito una aggiunta fattavi dal signor Girolamo Martini.

2º Un piccolo pezzo di carta in cui Angiolo Guelfi di suo carattere scrisse le sole parole «Antonio Piesce» recapito fittizio per potere scrivere a lui in Maremma, dato il caso che se ne fosse presentata l'urgenza.

3º La lettera di Girolamo Martini, ugualmente senza data e senza firma, scritta la mattina del 30 agosto, nella quale dichiara di essere esso stesso all'oscuro di quanto succedeva in Maremma al Guelfi, e accennava alla speranza del suo prossimo ritorno.

4º Un autografo del Generale, che sotto il titolo di «Tentativo mineralogico» dava l'indicazione dei patriotti della Romagna ai quali poteva dirigersi il Serafini per una futura riscossa.

5º Il principio della narrazione dei fatti di Roma, scritto ugualmente di carattere del Garibaldi, e rimasto interrotto dalla venuta di Angiolo Guelfi a San Dalmazio per dare l'avviso della partenza.

6º Una lettera di Girolamo Martini senza data e senza indirizzo, colla quale rendeva noto al Serafini ed al Guelfi il buon esito del viaggio fino a Massa, e la consegna degli esuli nelle mani dei patriotti massetani.

7º La lettera di Garibaldi scritta dalla Maddalena il 20 ottobre 1849, diretta al signor Serafini, nella quale sotto colore di fare domanda circa ad un caso d'idrofobia, per la cura preventiva della quale malattia si rivolgono al signor Serafini da tutte la parti della Toscana, faceva sapere le sue nuove, e ringraziava gli amici dell'aiuto ricevuto in Toscana.

Devo alla squisita gentilezza dell'amico signor Cammillo Serafini il dono del primo di questi documenti, cioè della lettera scritta da Angiolo Guelfi al suo arrivo a Massa, quando non trovò ivi Giccamo come aveva sperato. È questo per me un preziosissimo autografo, e che mi è doppiamente caro, come quello che da un lato è prova della parte non ultima presa dal padre mio nell'impresa onoranda, e dall'altro mostra l'amicizia di cui mi onora il signor Cammillo Serafini, che con gentilezza d'animo senza pari volle donare al figlio un documento così importante scritto dal padre suo 35 anni avanti, in quali condizioni ognuno può pensarlo. Ed io ne rendo qui all'egregio donatore pubbliche e meritate grazie.

[12] Seguendo il sistema di documentare quanto più è possibile questo tratto di storia fino a qui imperfettamente conosciuta, credo bene annotare, per la sua importanza storica, l'itinerario di Angiolo Guelfi dal 28 agosto al 4 settembre, tale quale ho potuto ricostituire con certezza dalle deposizioni dei superstiti poste in confronto coi fatti che si andavano svolgendo, ed è il seguente: 28 agosto. Nelle ore del mattino si trovava alla fiera del Ponte di Ferro sul fiume Cecina, da dove partì improvvisamente per San Dalmazio, tostochè fu avvertito della presenza di due proscritti politici.

— Nelle ore della sera parlò col Generale in casa Serafini.

29 agosto. Partì nelle prime ore del mattino per Massa Marittima, e non trovandovi Giccamo continuò per Follonica; sennonchè lo incontrò alle 10 antimeridiane circa sulla via di Massa, e continuò per Scarlino, ove arrivò alle ore 12 circa. Ripartì la sera per Follonica e continuò per Massa.

30 agosto. Nelle ore della mattina tornò al Morbo.

31 agosto. Si trattenne al Morbo.

1 settembre. Ebbe avviso nella sera che tutto era pronto, e partì per San Dalmazio a portarne la notizia.

2 settembre. Dopo la notizia dell'arrivo di Garibaldi alla Pecora partì per Pisa.

3 settembre. Tornò da Pisa a San Dalmazio.

4 settembre. Andò col Serafini alla fiera del Palazzo a Travale, ove doveva incontrarsi con Olivo Pina.

[13] F. D. Guerrazzi nella sua opera Lo Assedio di Roma accenna al salvamento di Garibaldi compiuto dai patriotti toscani nel 1849, e nella prima edizione così si esprime: «Di Garibaldi note le fortune, la costanza, l'ardire, i pericoli, e i casi dolorosi. Episodi pieni di amarezza infinita della Odissea pietosissima sono le morti del Brunetti e dei suoi figliuoli, di Ugo Bassi, e della valorosa sua donna Anita, le fughe, le insidie, la ferina caccia, e l'eroico aiuto dei buoni, e per ultimo lo scampo miracoloso per virtù del Guelfi maremmano nostro, bella gloria toscana.» Livorno, 1864, pag. 876. Nelle successive edizioni, dopo le parole: «per virtù del Guelfi maremmano nostro,» aggiunge: «e di una donna, Giuseppa Bonfanti ecc.» L'eccelso scrittore fu tratto in inganno da informazioni prima incomplete, poi erronee. Non già il solo Guelfi, che pure vi ebbe splendida parte, bensì una mano di patriotti da Vaiano a Scarlino compierono il salvamento dell'Eroe, e in quanto alla Giuseppa Bonfanti di Poggibonsi, buona donna, ma inconsapevole di chi riceveva nella sua casa, essa non fece che il compito di onesta e ospitale massaia. — Questo dico al solo scopo di ristabilire i fatti nella loro storica verità.

[14] Vedi opuscolo Ricciardi.

[15] Le particolarità del soggiorno di Garibaldi a San Dalmazio, quelle della sua partenza e del cammino fatto fino al Molino di Bruciano, non che la copia degli importanti documenti finora inediti che sono riportati in questa parte di racconto, tutto questo mi è stato fornito dal prelodato signor Cammillo Serafini. Mi sono poi venute in aiuto le informazioni del signor Odoardo Pellini per il viaggio notturno degli esuli fino a Massa, e per tutto ciò, ma più specialmente per la parte presa nel salvamento dai patriotti di Massa Marittima, mi ha guidato il già citato opuscolo del dottor Ricciardo Ricciardi, il quale, coscenzioso sempre, è in questa parte esattissimo per aver potuto raccogliere le più minute informazioni dalla bocca degli ora defunti Giulio e Riccardo Lapini. Le particolarità del viaggio di Angiolo Guelfi nella Maremma mi sono state date specialmente da Olivo Pina.

[16] Per le ragioni altra volta esposte del riscontro storico delle date riassumo l'itinerario di Pietro Gaggioli detto Giccamo, il quale ebbe parte così importante nel trovare la barca che condusse in salvo i due esuli:

29 agosto. Parlò a ore 10 ant., con Angiolo Guelfi per la via di Follonica a Massa, e nelle ore di sera dello stesso giorno partì per Piombino.

30 agosto. Nelle prime ore del mattino partì in contrabbando per l'Elba sulla barca di Pietro del Santo detto Bacco, e sbarcato alla Punta al Cavo, andò a piedi a Portolongone a trovare l'amico suo Azzarrini, col quale combinò il trasporto degli esuli.

31 agosto. Partì dall'Elba sulla barca dell'Azzarrini, e la notte del 31 tornò di contrabbando a Follonica.

1 settembre. Nella mattina andò a Massa a dare notizia ai Lapini dell'arrivo della barca; nella notte dal 1º al 2 andò alla Pecora coll'Azzarrini per prendere gli ultimi accordi.

2 settembre. Tornò a Follonica coll'Azzarrini nelle prime ore del giorno. All'ora fissata, per la via del Puntone tornò a Meleta, ove incontrò Garibaldi e gli Scarlinesi, e con essi arrivò fino a Cala Martina.

[17] Tutte quante le notizie che riguardano il viaggio di Giccamo mi sono state fornite dal di lui figlio, ed amico mio Giovanni Gaggioli. I diversi episodi avvenuti alla Pecora, e nella traversata del piano di Scarlino, e l'itinerario seguito, mi sono stati concordemente narrati dai quattro Scarlinesi Olivo Pina, Giuseppe Ornani, Leopoldo Carmagnini e Oreste Fontani, come resulta altresì dall'Atto Pubblico di Notorietà da essi sottoscritto nel dì 19 agosto 1883, rogato a Scarlino dal Notaro Biageschi, e registrato a Massa Marittima. Detto Atto, che ha per scopo precipuo la identificazione e descrizione dello stile americano donato da Garibaldi ad Angiolo Guelfi, riassume altresì i principali fatti del salvamento dal Morbo fino al mare.

[18] La carta militare italiana, ed anche la pianta topografica della tenuta demaniale di Follonica, danno nomi diversi da noi alle località nelle quali avvenne un fatto storico che andiamo svolgendo. In ambedue viene indicato col nome di Cala Martina il seno di mare che sta al sud di Punta Martina dalla parte di Castiglione della Pescaia, e vi si chiama Poggio degli Olivastrelli quello che noi chiamiamo Poggio Sentinella, mentre non si dà nome alcuno al seno di mare da noi conosciuto per Cala Martina. Saputa questa differenza di nomi, ci siamo dati pensiero di interrogare i più vecchi pratici dei luoghi, e così abbiamo potuto accertare che da essi si chiama Cala Martina il luogo ove avvenne l'imbarco, limitato dalla parte di Castiglione della Pescaia da Punta Martina, e dalla parte di Follonica dal Poggio Sentinella, o Poggio degli Olivastrelli che dire si voglia. In ogni caso è indiscutibile che l'imbarco del Generale nel 1849 avvenne nella piccola cala che noi descriviamo, e questo ci risulta per reiterate visite fatte sul luogo insieme agli Scarlinesi che servirono di scorta ai profughi, e così ci venne indicato anche il punto preciso della costa da dove mosse il Garibaldi per incontrare la barca.

[19] L'imbarco con tutte le sue particolarità mi fu narrato in modo uniforme dai quattro Scarlinesi che vi erano presenti, ed è convalidato dal già citato atto di notorietà. La lettera dell'Azzarrini, e l'attestato rilasciatogli dal Generale sono tolti dal più volte citato opuscolo dell'amico dottor Ricciardi.

INDICE

Al LettorePag.     v
Nomi di coloro che cooperarono al salvamento di Garibaldi vii
Introduzione ix
I. Dal Molino di Cerbaia a Prato 1
II. Da Prato al Bagno a Morbo 27
III. Dal Bagno a Morbo a San Dalmazio 43
IV. Da San Dalmazio alla Casa Guelfi 61
V. Dalla Casa Guelfi a Cala Martina 117
VI. L'Imbarco 139

Prezzo: UNA LIRA

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. Sono stati corretti i seguenti refusi:

P. viiiAzzarrini [Azzarini] Paolo di Rio Marina
xiipel Modenese [Modanese] sarebbero di poi passati
14urgente il togliere i profughi [prfughi] da luoghi
57perchè il loro arrivo passasse inavvertito [invvertito]
69«State bene e sano [sono].»
93Aveva i calzoni da generale [genenerale]
143mare verso Castiglione [Castiglioni]
143il Carmagnini [Carmignini] si appostò tranquillo
148che si era compiuto [campiuto].

Grafie alternative mantenute:






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Guelfo Guelfi

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Foundation as set forth in Section 3 below.

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work, (b) alteration, modification, or additions or deletions to any
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Section  2.  Information about the Mission of Project Gutenberg-tm

Project Gutenberg-tm is synonymous with the free distribution of
electronic works in formats readable by the widest variety of computers
including obsolete, old, middle-aged and new computers.  It exists
because of the efforts of hundreds of volunteers and donations from
people in all walks of life.

Volunteers and financial support to provide volunteers with the
assistance they need, are critical to reaching Project Gutenberg-tm's
goals and ensuring that the Project Gutenberg-tm collection will
remain freely available for generations to come.  In 2001, the Project
Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure
and permanent future for Project Gutenberg-tm and future generations.
To learn more about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation
and how your efforts and donations can help, see Sections 3 and 4
and the Foundation web page at http://www.pglaf.org.


Section 3.  Information about the Project Gutenberg Literary Archive
Foundation

The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non profit
501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the
state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal
Revenue Service.  The Foundation's EIN or federal tax identification
number is 64-6221541.  Its 501(c)(3) letter is posted at
http://pglaf.org/fundraising.  Contributions to the Project Gutenberg
Literary Archive Foundation are tax deductible to the full extent
permitted by U.S. federal laws and your state's laws.

The Foundation's principal office is located at 4557 Melan Dr. S.
Fairbanks, AK, 99712., but its volunteers and employees are scattered
throughout numerous locations.  Its business office is located at
809 North 1500 West, Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887, email
business@pglaf.org.  Email contact links and up to date contact
information can be found at the Foundation's web site and official
page at http://pglaf.org

For additional contact information:
     Dr. Gregory B. Newby
     Chief Executive and Director
     gbnewby@pglaf.org


Section 4.  Information about Donations to the Project Gutenberg
Literary Archive Foundation

Project Gutenberg-tm depends upon and cannot survive without wide
spread public support and donations to carry out its mission of
increasing the number of public domain and licensed works that can be
freely distributed in machine readable form accessible by the widest
array of equipment including outdated equipment.  Many small donations
($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt
status with the IRS.

The Foundation is committed to complying with the laws regulating
charities and charitable donations in all 50 states of the United
States.  Compliance requirements are not uniform and it takes a
considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up
with these requirements.  We do not solicit donations in locations
where we have not received written confirmation of compliance.  To
SEND DONATIONS or determine the status of compliance for any
particular state visit http://pglaf.org

While we cannot and do not solicit contributions from states where we
have not met the solicitation requirements, we know of no prohibition
against accepting unsolicited donations from donors in such states who
approach us with offers to donate.

International donations are gratefully accepted, but we cannot make
any statements concerning tax treatment of donations received from
outside the United States.  U.S. laws alone swamp our small staff.

Please check the Project Gutenberg Web pages for current donation
methods and addresses.  Donations are accepted in a number of other
ways including checks, online payments and credit card donations.
To donate, please visit: http://pglaf.org/donate


Section 5.  General Information About Project Gutenberg-tm electronic
works.

Professor Michael S. Hart is the originator of the Project Gutenberg-tm
concept of a library of electronic works that could be freely shared
with anyone.  For thirty years, he produced and distributed Project
Gutenberg-tm eBooks with only a loose network of volunteer support.


Project Gutenberg-tm eBooks are often created from several printed
editions, all of which are confirmed as Public Domain in the U.S.
unless a copyright notice is included.  Thus, we do not necessarily
keep eBooks in compliance with any particular paper edition.


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     http://www.gutenberg.org

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