The Project Gutenberg eBook of Divina Commedia di Dante: Paradiso This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook. Title: Divina Commedia di Dante: Paradiso Author: Dante Alighieri Release date: August 1, 1997 [eBook #999] Most recently updated: April 25, 2021 Language: Italian *** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK DIVINA COMMEDIA DI DANTE: PARADISO *** LA DIVINA COMMEDIA di Dante Alighieri CANTICA III: PARADISO Contents PARADISO Canto I. Canto II. Canto III. Canto IV. Canto V. Canto VI. Canto VII. Canto VIII. Canto IX. Canto X. Canto XI. Canto XII. Canto XIII. Canto XIV. Canto XV. Canto XVI. Canto XVII. Canto XVIII. Canto XIX. Canto XX. Canto XXI. Canto XXII. Canto XXIII. Canto XXIV. Canto XXV. Canto XXVI. Canto XXVII. Canto XXVIII. Canto XXIX. Canto XXX. Canto XXXI. Canto XXXII. Canto XXXIII. PARADISO Paradiso Canto I La gloria di colui che tutto move per l’universo penetra, e risplende in una parte più e meno altrove. Nel ciel che più de la sua luce prende fu’ io, e vidi cose che ridire né sa né può chi di là sù discende; perché appressando sé al suo disire, nostro intelletto si profonda tanto, che dietro la memoria non può ire. Veramente quant’ io del regno santo ne la mia mente potei far tesoro, sarà ora materia del mio canto. O buono Appollo, a l’ultimo lavoro fammi del tuo valor sì fatto vaso, come dimandi a dar l’amato alloro. Infino a qui l’un giogo di Parnaso assai mi fu; ma or con amendue m’è uopo intrar ne l’aringo rimaso. Entra nel petto mio, e spira tue sì come quando Marsïa traesti de la vagina de le membra sue. O divina virtù, se mi ti presti tanto che l’ombra del beato regno segnata nel mio capo io manifesti, vedra’mi al piè del tuo diletto legno venire, e coronarmi de le foglie che la materia e tu mi farai degno. Sì rade volte, padre, se ne coglie per trïunfare o cesare o poeta, colpa e vergogna de l’umane voglie, che parturir letizia in su la lieta delfica deïtà dovria la fronda peneia, quando alcun di sé asseta. Poca favilla gran fiamma seconda: forse di retro a me con miglior voci si pregherà perché Cirra risponda. Surge ai mortali per diverse foci la lucerna del mondo; ma da quella che quattro cerchi giugne con tre croci, con miglior corso e con migliore stella esce congiunta, e la mondana cera più a suo modo tempera e suggella. Fatto avea di là mane e di qua sera tal foce, e quasi tutto era là bianco quello emisperio, e l’altra parte nera, quando Beatrice in sul sinistro fianco vidi rivolta e riguardar nel sole: aguglia sì non li s’affisse unquanco. E sì come secondo raggio suole uscir del primo e risalire in suso, pur come pelegrin che tornar vuole, così de l’atto suo, per li occhi infuso ne l’imagine mia, il mio si fece, e fissi li occhi al sole oltre nostr’ uso. Molto è licito là, che qui non lece a le nostre virtù, mercé del loco fatto per proprio de l’umana spece. Io nol soffersi molto, né sì poco, ch’io nol vedessi sfavillar dintorno, com’ ferro che bogliente esce del foco; e di sùbito parve giorno a giorno essere aggiunto, come quei che puote avesse il ciel d’un altro sole addorno. Beatrice tutta ne l’etterne rote fissa con li occhi stava; e io in lei le luci fissi, di là sù rimote. Nel suo aspetto tal dentro mi fei, qual si fé Glauco nel gustar de l’erba che ’l fé consorto in mar de li altri dèi. Trasumanar significar per verba non si poria; però l’essemplo basti a cui esperïenza grazia serba. S’i’ era sol di me quel che creasti novellamente, amor che ’l ciel governi, tu ’l sai, che col tuo lume mi levasti. Quando la rota che tu sempiterni desiderato, a sé mi fece atteso con l’armonia che temperi e discerni, parvemi tanto allor del cielo acceso de la fiamma del sol, che pioggia o fiume lago non fece alcun tanto disteso. La novità del suono e ’l grande lume di lor cagion m’accesero un disio mai non sentito di cotanto acume. Ond’ ella, che vedea me sì com’ io, a quïetarmi l’animo commosso, pria ch’io a dimandar, la bocca aprio e cominciò: «Tu stesso ti fai grosso col falso imaginar, sì che non vedi ciò che vedresti se l’avessi scosso. Tu non se’ in terra, sì come tu credi; ma folgore, fuggendo il proprio sito, non corse come tu ch’ad esso riedi». S’io fui del primo dubbio disvestito per le sorrise parolette brevi, dentro ad un nuovo più fu’ inretito e dissi: «Già contento requïevi di grande ammirazion; ma ora ammiro com’ io trascenda questi corpi levi». Ond’ ella, appresso d’un pïo sospiro, li occhi drizzò ver’ me con quel sembiante che madre fa sovra figlio deliro, e cominciò: «Le cose tutte quante hanno ordine tra loro, e questo è forma che l’universo a Dio fa simigliante. Qui veggion l’alte creature l’orma de l’etterno valore, il qual è fine al quale è fatta la toccata norma. Ne l’ordine ch’io dico sono accline tutte nature, per diverse sorti, più al principio loro e men vicine; onde si muovono a diversi porti per lo gran mar de l’essere, e ciascuna con istinto a lei dato che la porti. Questi ne porta il foco inver’ la luna; questi ne’ cor mortali è permotore; questi la terra in sé stringe e aduna; né pur le creature che son fore d’intelligenza quest’ arco saetta, ma quelle c’hanno intelletto e amore. La provedenza, che cotanto assetta, del suo lume fa ’l ciel sempre quïeto nel qual si volge quel c’ha maggior fretta; e ora lì, come a sito decreto, cen porta la virtù di quella corda che ciò che scocca drizza in segno lieto. Vero è che, come forma non s’accorda molte fïate a l’intenzion de l’arte, perch’ a risponder la materia è sorda, così da questo corso si diparte talor la creatura, c’ha podere di piegar, così pinta, in altra parte; e sì come veder si può cadere foco di nube, sì l’impeto primo l’atterra torto da falso piacere. Non dei più ammirar, se bene stimo, lo tuo salir, se non come d’un rivo se d’alto monte scende giuso ad imo. Maraviglia sarebbe in te se, privo d’impedimento, giù ti fossi assiso, com’ a terra quïete in foco vivo». Quinci rivolse inver’ lo cielo il viso. Paradiso Canto II O voi che siete in piccioletta barca, desiderosi d’ascoltar, seguiti dietro al mio legno che cantando varca, tornate a riveder li vostri liti: non vi mettete in pelago, ché forse, perdendo me, rimarreste smarriti. L’acqua ch’io prendo già mai non si corse; Minerva spira, e conducemi Appollo, e nove Muse mi dimostran l’Orse. Voialtri pochi che drizzaste il collo per tempo al pan de li angeli, del quale vivesi qui ma non sen vien satollo, metter potete ben per l’alto sale vostro navigio, servando mio solco dinanzi a l’acqua che ritorna equale. Que’ glorïosi che passaro al Colco non s’ammiraron come voi farete, quando Iasón vider fatto bifolco. La concreata e perpetüa sete del deïforme regno cen portava veloci quasi come ’l ciel vedete. Beatrice in suso, e io in lei guardava; e forse in tanto in quanto un quadrel posa e vola e da la noce si dischiava, giunto mi vidi ove mirabil cosa mi torse il viso a sé; e però quella cui non potea mia cura essere ascosa, volta ver’ me, sì lieta come bella, «Drizza la mente in Dio grata», mi disse, «che n’ha congiunti con la prima stella». Parev’ a me che nube ne coprisse lucida, spessa, solida e pulita, quasi adamante che lo sol ferisse. Per entro sé l’etterna margarita ne ricevette, com’ acqua recepe raggio di luce permanendo unita. S’io era corpo, e qui non si concepe com’ una dimensione altra patio, ch’esser convien se corpo in corpo repe, accender ne dovria più il disio di veder quella essenza in che si vede come nostra natura e Dio s’unio. Lì si vedrà ciò che tenem per fede, non dimostrato, ma fia per sé noto a guisa del ver primo che l’uom crede. Io rispuosi: «Madonna, sì devoto com’ esser posso più, ringrazio lui lo qual dal mortal mondo m’ha remoto. Ma ditemi: che son li segni bui di questo corpo, che là giuso in terra fan di Cain favoleggiare altrui?». Ella sorrise alquanto, e poi «S’elli erra l’oppinïon», mi disse, «d’i mortali dove chiave di senso non diserra, certo non ti dovrien punger li strali d’ammirazione omai, poi dietro ai sensi vedi che la ragione ha corte l’ali. Ma dimmi quel che tu da te ne pensi». E io: «Ciò che n’appar qua sù diverso credo che fanno i corpi rari e densi». Ed ella: «Certo assai vedrai sommerso nel falso il creder tuo, se bene ascolti l’argomentar ch’io li farò avverso. La spera ottava vi dimostra molti lumi, li quali e nel quale e nel quanto notar si posson di diversi volti. Se raro e denso ciò facesser tanto, una sola virtù sarebbe in tutti, più e men distributa e altrettanto. Virtù diverse esser convegnon frutti di princìpi formali, e quei, for ch’uno, seguiterieno a tua ragion distrutti. Ancor, se raro fosse di quel bruno cagion che tu dimandi, o d’oltre in parte fora di sua materia sì digiuno esto pianeto, o, sì come comparte lo grasso e ’l magro un corpo, così questo nel suo volume cangerebbe carte. Se ’l primo fosse, fora manifesto ne l’eclissi del sol, per trasparere lo lume come in altro raro ingesto. Questo non è: però è da vedere de l’altro; e s’elli avvien ch’io l’altro cassi, falsificato fia lo tuo parere. S’elli è che questo raro non trapassi, esser conviene un termine da onde lo suo contrario più passar non lassi; e indi l’altrui raggio si rifonde così come color torna per vetro lo qual di retro a sé piombo nasconde. Or dirai tu ch’el si dimostra tetro ivi lo raggio più che in altre parti, per esser lì refratto più a retro. Da questa instanza può deliberarti esperïenza, se già mai la provi, ch’esser suol fonte ai rivi di vostr’ arti. Tre specchi prenderai; e i due rimovi da te d’un modo, e l’altro, più rimosso, tr’ambo li primi li occhi tuoi ritrovi. Rivolto ad essi, fa che dopo il dosso ti stea un lume che i tre specchi accenda e torni a te da tutti ripercosso. Ben che nel quanto tanto non si stenda la vista più lontana, lì vedrai come convien ch’igualmente risplenda. Or, come ai colpi de li caldi rai de la neve riman nudo il suggetto e dal colore e dal freddo primai, così rimaso te ne l’intelletto voglio informar di luce sì vivace, che ti tremolerà nel suo aspetto. Dentro dal ciel de la divina pace si gira un corpo ne la cui virtute l’esser di tutto suo contento giace. Lo ciel seguente, c’ha tante vedute, quell’ esser parte per diverse essenze, da lui distratte e da lui contenute. Li altri giron per varie differenze le distinzion che dentro da sé hanno dispongono a lor fini e lor semenze. Questi organi del mondo così vanno, come tu vedi omai, di grado in grado, che di sù prendono e di sotto fanno. Riguarda bene omai sì com’ io vado per questo loco al vero che disiri, sì che poi sappi sol tener lo guado. Lo moto e la virtù d’i santi giri, come dal fabbro l’arte del martello, da’ beati motor convien che spiri; e ’l ciel cui tanti lumi fanno bello, de la mente profonda che lui volve prende l’image e fassene suggello. E come l’alma dentro a vostra polve per differenti membra e conformate a diverse potenze si risolve, così l’intelligenza sua bontate multiplicata per le stelle spiega, girando sé sovra sua unitate. Virtù diversa fa diversa lega col prezïoso corpo ch’ella avviva, nel qual, sì come vita in voi, si lega. Per la natura lieta onde deriva, la virtù mista per lo corpo luce come letizia per pupilla viva. Da essa vien ciò che da luce a luce par differente, non da denso e raro; essa è formal principio che produce, conforme a sua bontà, lo turbo e ’l chiaro». Paradiso Canto III Quel sol che pria d’amor mi scaldò ’l petto, di bella verità m’avea scoverto, provando e riprovando, il dolce aspetto; e io, per confessar corretto e certo me stesso, tanto quanto si convenne leva’ il capo a proferer più erto; ma visïone apparve che ritenne a sé me tanto stretto, per vedersi, che di mia confession non mi sovvenne. Quali per vetri trasparenti e tersi, o ver per acque nitide e tranquille, non sì profonde che i fondi sien persi, tornan d’i nostri visi le postille debili sì, che perla in bianca fronte non vien men forte a le nostre pupille; tali vid’ io più facce a parlar pronte; per ch’io dentro a l’error contrario corsi a quel ch’accese amor tra l’omo e ’l fonte. Sùbito sì com’ io di lor m’accorsi, quelle stimando specchiati sembianti, per veder di cui fosser, li occhi torsi; e nulla vidi, e ritorsili avanti dritti nel lume de la dolce guida, che, sorridendo, ardea ne li occhi santi. «Non ti maravigliar perch’ io sorrida», mi disse, «appresso il tuo püeril coto, poi sopra ’l vero ancor lo piè non fida, ma te rivolve, come suole, a vòto: vere sustanze son ciò che tu vedi, qui rilegate per manco di voto. Però parla con esse e odi e credi; ché la verace luce che le appaga da sé non lascia lor torcer li piedi». E io a l’ombra che parea più vaga di ragionar, drizza’mi, e cominciai, quasi com’ uom cui troppa voglia smaga: «O ben creato spirito, che a’ rai di vita etterna la dolcezza senti che, non gustata, non s’intende mai, grazïoso mi fia se mi contenti del nome tuo e de la vostra sorte». Ond’ ella, pronta e con occhi ridenti: «La nostra carità non serra porte a giusta voglia, se non come quella che vuol simile a sé tutta sua corte. I’ fui nel mondo vergine sorella; e se la mente tua ben sé riguarda, non mi ti celerà l’esser più bella, ma riconoscerai ch’i’ son Piccarda, che, posta qui con questi altri beati, beata sono in la spera più tarda. Li nostri affetti, che solo infiammati son nel piacer de lo Spirito Santo, letizian del suo ordine formati. E questa sorte che par giù cotanto, però n’è data, perché fuor negletti li nostri voti, e vòti in alcun canto». Ond’ io a lei: «Ne’ mirabili aspetti vostri risplende non so che divino che vi trasmuta da’ primi concetti: però non fui a rimembrar festino; ma or m’aiuta ciò che tu mi dici, sì che raffigurar m’è più latino. Ma dimmi: voi che siete qui felici, disiderate voi più alto loco per più vedere e per più farvi amici?». Con quelle altr’ ombre pria sorrise un poco; da indi mi rispuose tanto lieta, ch’arder parea d’amor nel primo foco: «Frate, la nostra volontà quïeta virtù di carità, che fa volerne sol quel ch’avemo, e d’altro non ci asseta. Se disïassimo esser più superne, foran discordi li nostri disiri dal voler di colui che qui ne cerne; che vedrai non capere in questi giri, s’essere in carità è qui necesse, e se la sua natura ben rimiri. Anzi è formale ad esto beato esse tenersi dentro a la divina voglia, per ch’una fansi nostre voglie stesse; sì che, come noi sem di soglia in soglia per questo regno, a tutto il regno piace com’ a lo re che ’n suo voler ne ’nvoglia. E ’n la sua volontade è nostra pace: ell’ è quel mare al qual tutto si move ciò ch’ella crïa o che natura face». Chiaro mi fu allor come ogne dove in cielo è paradiso, etsi la grazia del sommo ben d’un modo non vi piove. Ma sì com’ elli avvien, s’un cibo sazia e d’un altro rimane ancor la gola, che quel si chere e di quel si ringrazia, così fec’ io con atto e con parola, per apprender da lei qual fu la tela onde non trasse infino a co la spuola. «Perfetta vita e alto merto inciela donna più sù», mi disse, «a la cui norma nel vostro mondo giù si veste e vela, perché fino al morir si vegghi e dorma con quello sposo ch’ogne voto accetta che caritate a suo piacer conforma. Dal mondo, per seguirla, giovinetta fuggi’mi, e nel suo abito mi chiusi e promisi la via de la sua setta. Uomini poi, a mal più ch’a bene usi, fuor mi rapiron de la dolce chiostra: Iddio si sa qual poi mia vita fusi. E quest’ altro splendor che ti si mostra da la mia destra parte e che s’accende di tutto il lume de la spera nostra, ciò ch’io dico di me, di sé intende; sorella fu, e così le fu tolta di capo l’ombra de le sacre bende. Ma poi che pur al mondo fu rivolta contra suo grado e contra buona usanza, non fu dal vel del cor già mai disciolta. Quest’ è la luce de la gran Costanza che del secondo vento di Soave generò ’l terzo e l’ultima possanza». Così parlommi, e poi cominciò ‘Ave, Maria’ cantando, e cantando vanio come per acqua cupa cosa grave. La vista mia, che tanto lei seguio quanto possibil fu, poi che la perse, volsesi al segno di maggior disio, e a Beatrice tutta si converse; ma quella folgorò nel mïo sguardo sì che da prima il viso non sofferse; e ciò mi fece a dimandar più tardo. Paradiso Canto IV Intra due cibi, distanti e moventi d’un modo, prima si morria di fame, che liber’ omo l’un recasse ai denti; sì si starebbe un agno intra due brame di fieri lupi, igualmente temendo; sì si starebbe un cane intra due dame: per che, s’i’ mi tacea, me non riprendo, da li miei dubbi d’un modo sospinto, poi ch’era necessario, né commendo. Io mi tacea, ma ’l mio disir dipinto m’era nel viso, e ’l dimandar con ello, più caldo assai che per parlar distinto. Fé sì Beatrice qual fé Danïello, Nabuccodonosor levando d’ira, che l’avea fatto ingiustamente fello; e disse: «Io veggio ben come ti tira uno e altro disio, sì che tua cura sé stessa lega sì che fuor non spira. Tu argomenti: “Se ’l buon voler dura, la vïolenza altrui per qual ragione di meritar mi scema la misura?”. Ancor di dubitar ti dà cagione parer tornarsi l’anime a le stelle, secondo la sentenza di Platone. Queste son le question che nel tuo velle pontano igualmente; e però pria tratterò quella che più ha di felle. D’i Serafin colui che più s’india, Moïsè, Samuel, e quel Giovanni che prender vuoli, io dico, non Maria, non hanno in altro cielo i loro scanni che questi spirti che mo t’appariro, né hanno a l’esser lor più o meno anni; ma tutti fanno bello il primo giro, e differentemente han dolce vita per sentir più e men l’etterno spiro. Qui si mostraro, non perché sortita sia questa spera lor, ma per far segno de la celestïal c’ha men salita. Così parlar conviensi al vostro ingegno, però che solo da sensato apprende ciò che fa poscia d’intelletto degno. Per questo la Scrittura condescende a vostra facultate, e piedi e mano attribuisce a Dio e altro intende; e Santa Chiesa con aspetto umano Gabrïel e Michel vi rappresenta, e l’altro che Tobia rifece sano. Quel che Timeo de l’anime argomenta non è simile a ciò che qui si vede, però che, come dice, par che senta. Dice che l’alma a la sua stella riede, credendo quella quindi esser decisa quando natura per forma la diede; e forse sua sentenza è d’altra guisa che la voce non suona, ed esser puote con intenzion da non esser derisa. S’elli intende tornare a queste ruote l’onor de la influenza e ’l biasmo, forse in alcun vero suo arco percuote. Questo principio, male inteso, torse già tutto il mondo quasi, sì che Giove, Mercurio e Marte a nominar trascorse. L’altra dubitazion che ti commove ha men velen, però che sua malizia non ti poria menar da me altrove. Parere ingiusta la nostra giustizia ne li occhi d’i mortali, è argomento di fede e non d’eretica nequizia. Ma perché puote vostro accorgimento ben penetrare a questa veritate, come disiri, ti farò contento. Se vïolenza è quando quel che pate nïente conferisce a quel che sforza, non fuor quest’ alme per essa scusate: ché volontà, se non vuol, non s’ammorza, ma fa come natura face in foco, se mille volte vïolenza il torza. Per che, s’ella si piega assai o poco, segue la forza; e così queste fero possendo rifuggir nel santo loco. Se fosse stato lor volere intero, come tenne Lorenzo in su la grada, e fece Muzio a la sua man severo, così l’avria ripinte per la strada ond’ eran tratte, come fuoro sciolte; ma così salda voglia è troppo rada. E per queste parole, se ricolte l’hai come dei, è l’argomento casso che t’avria fatto noia ancor più volte. Ma or ti s’attraversa un altro passo dinanzi a li occhi, tal che per te stesso non usciresti: pria saresti lasso. Io t’ho per certo ne la mente messo ch’alma beata non poria mentire, però ch’è sempre al primo vero appresso; e poi potesti da Piccarda udire che l’affezion del vel Costanza tenne; sì ch’ella par qui meco contradire. Molte fïate già, frate, addivenne che, per fuggir periglio, contra grato si fé di quel che far non si convenne; come Almeone, che, di ciò pregato dal padre suo, la propria madre spense, per non perder pietà si fé spietato. A questo punto voglio che tu pense che la forza al voler si mischia, e fanno sì che scusar non si posson l’offense. Voglia assoluta non consente al danno; ma consentevi in tanto in quanto teme, se si ritrae, cadere in più affanno. Però, quando Piccarda quello spreme, de la voglia assoluta intende, e io de l’altra; sì che ver diciamo insieme». Cotal fu l’ondeggiar del santo rio ch’uscì del fonte ond’ ogne ver deriva; tal puose in pace uno e altro disio. «O amanza del primo amante, o diva», diss’ io appresso, «il cui parlar m’inonda e scalda sì, che più e più m’avviva, non è l’affezion mia tanto profonda, che basti a render voi grazia per grazia; ma quei che vede e puote a ciò risponda. Io veggio ben che già mai non si sazia nostro intelletto, se ’l ver non lo illustra di fuor dal qual nessun vero si spazia. Posasi in esso, come fera in lustra, tosto che giunto l’ha; e giugner puollo: se non, ciascun disio sarebbe frustra. Nasce per quello, a guisa di rampollo, a piè del vero il dubbio; ed è natura ch’al sommo pinge noi di collo in collo. Questo m’invita, questo m’assicura con reverenza, donna, a dimandarvi d’un’altra verità che m’è oscura. Io vo’ saper se l’uom può sodisfarvi ai voti manchi sì con altri beni, ch’a la vostra statera non sien parvi». Beatrice mi guardò con li occhi pieni di faville d’amor così divini, che, vinta, mia virtute diè le reni, e quasi mi perdei con li occhi chini. Paradiso Canto V «S’io ti fiammeggio nel caldo d’amore di là dal modo che ’n terra si vede, sì che del viso tuo vinco il valore, non ti maravigliar, ché ciò procede da perfetto veder, che, come apprende, così nel bene appreso move il piede. Io veggio ben sì come già resplende ne l’intelletto tuo l’etterna luce, che, vista, sola e sempre amore accende; e s’altra cosa vostro amor seduce, non è se non di quella alcun vestigio, mal conosciuto, che quivi traluce. Tu vuo’ saper se con altro servigio, per manco voto, si può render tanto che l’anima sicuri di letigio». Sì cominciò Beatrice questo canto; e sì com’ uom che suo parlar non spezza, continüò così ’l processo santo: «Lo maggior don che Dio per sua larghezza fesse creando, e a la sua bontate più conformato, e quel ch’e’ più apprezza, fu de la volontà la libertate; di che le creature intelligenti, e tutte e sole, fuoro e son dotate. Or ti parrà, se tu quinci argomenti, l’alto valor del voto, s’è sì fatto che Dio consenta quando tu consenti; ché, nel fermar tra Dio e l’omo il patto, vittima fassi di questo tesoro, tal quale io dico; e fassi col suo atto. Dunque che render puossi per ristoro? Se credi bene usar quel c’hai offerto, di maltolletto vuo’ far buon lavoro. Tu se’ omai del maggior punto certo; ma perché Santa Chiesa in ciò dispensa, che par contra lo ver ch’i’ t’ho scoverto, convienti ancor sedere un poco a mensa, però che ’l cibo rigido c’hai preso, richiede ancora aiuto a tua dispensa. Apri la mente a quel ch’io ti paleso e fermalvi entro; ché non fa scïenza, sanza lo ritenere, avere inteso. Due cose si convegnono a l’essenza di questo sacrificio: l’una è quella di che si fa; l’altr’ è la convenenza. Quest’ ultima già mai non si cancella se non servata; e intorno di lei sì preciso di sopra si favella: però necessitato fu a li Ebrei pur l’offerere, ancor ch’alcuna offerta sì permutasse, come saver dei. L’altra, che per materia t’è aperta, puote ben esser tal, che non si falla se con altra materia si converta. Ma non trasmuti carco a la sua spalla per suo arbitrio alcun, sanza la volta e de la chiave bianca e de la gialla; e ogne permutanza credi stolta, se la cosa dimessa in la sorpresa come ’l quattro nel sei non è raccolta. Però qualunque cosa tanto pesa per suo valor che tragga ogne bilancia, sodisfar non si può con altra spesa. Non prendan li mortali il voto a ciancia; siate fedeli, e a ciò far non bieci, come Ieptè a la sua prima mancia; cui più si convenia dicer ‘Mal feci’, che, servando, far peggio; e così stolto ritrovar puoi il gran duca de’ Greci, onde pianse Efigènia il suo bel volto, e fé pianger di sé i folli e i savi ch’udir parlar di così fatto cólto. Siate, Cristiani, a muovervi più gravi: non siate come penna ad ogne vento, e non crediate ch’ogne acqua vi lavi. Avete il novo e ’l vecchio Testamento, e ’l pastor de la Chiesa che vi guida; questo vi basti a vostro salvamento. Se mala cupidigia altro vi grida, uomini siate, e non pecore matte, sì che ’l Giudeo di voi tra voi non rida! Non fate com’ agnel che lascia il latte de la sua madre, e semplice e lascivo seco medesmo a suo piacer combatte!». Così Beatrice a me com’ ïo scrivo; poi si rivolse tutta disïante a quella parte ove ’l mondo è più vivo. Lo suo tacere e ’l trasmutar sembiante puoser silenzio al mio cupido ingegno, che già nuove questioni avea davante; e sì come saetta che nel segno percuote pria che sia la corda queta, così corremmo nel secondo regno. Quivi la donna mia vid’ io sì lieta, come nel lume di quel ciel si mise, che più lucente se ne fé ’l pianeta. E se la stella si cambiò e rise, qual mi fec’ io che pur da mia natura trasmutabile son per tutte guise! Come ’n peschiera ch’è tranquilla e pura traggonsi i pesci a ciò che vien di fori per modo che lo stimin lor pastura, sì vid’ io ben più di mille splendori trarsi ver’ noi, e in ciascun s’udia: «Ecco chi crescerà li nostri amori». E sì come ciascuno a noi venìa, vedeasi l’ombra piena di letizia nel folgór chiaro che di lei uscia. Pensa, lettor, se quel che qui s’inizia non procedesse, come tu avresti di più savere angosciosa carizia; e per te vederai come da questi m’era in disio d’udir lor condizioni, sì come a li occhi mi fur manifesti. «O bene nato a cui veder li troni del trïunfo etternal concede grazia prima che la milizia s’abbandoni, del lume che per tutto il ciel si spazia noi semo accesi; e però, se disii di noi chiarirti, a tuo piacer ti sazia». Così da un di quelli spirti pii detto mi fu; e da Beatrice: «Dì, dì sicuramente, e credi come a dii». «Io veggio ben sì come tu t’annidi nel proprio lume, e che de li occhi il traggi, perch’ e’ corusca sì come tu ridi; ma non so chi tu se’, né perché aggi, anima degna, il grado de la spera che si vela a’ mortai con altrui raggi». Questo diss’ io diritto a la lumera che pria m’avea parlato; ond’ ella fessi lucente più assai di quel ch’ell’ era. Sì come il sol che si cela elli stessi per troppa luce, come ’l caldo ha róse le temperanze d’i vapori spessi, per più letizia sì mi si nascose dentro al suo raggio la figura santa; e così chiusa chiusa mi rispuose nel modo che ’l seguente canto canta. Paradiso Canto VI «Poscia che Costantin l’aquila volse contr’ al corso del ciel, ch’ella seguio dietro a l’antico che Lavina tolse, cento e cent’ anni e più l’uccel di Dio ne lo stremo d’Europa si ritenne, vicino a’ monti de’ quai prima uscìo; e sotto l’ombra de le sacre penne governò ’l mondo lì di mano in mano, e, sì cangiando, in su la mia pervenne. Cesare fui e son Iustinïano, che, per voler del primo amor ch’i’ sento, d’entro le leggi trassi il troppo e ’l vano. E prima ch’io a l’ovra fossi attento, una natura in Cristo esser, non piùe, credea, e di tal fede era contento; ma ’l benedetto Agapito, che fue sommo pastore, a la fede sincera mi dirizzò con le parole sue. Io li credetti; e ciò che ’n sua fede era, vegg’ io or chiaro sì, come tu vedi ogni contradizione e falsa e vera. Tosto che con la Chiesa mossi i piedi, a Dio per grazia piacque di spirarmi l’alto lavoro, e tutto ’n lui mi diedi; e al mio Belisar commendai l’armi, cui la destra del ciel fu sì congiunta, che segno fu ch’i’ dovessi posarmi. Or qui a la question prima s’appunta la mia risposta; ma sua condizione mi stringe a seguitare alcuna giunta, perché tu veggi con quanta ragione si move contr’ al sacrosanto segno e chi ’l s’appropria e chi a lui s’oppone. Vedi quanta virtù l’ha fatto degno di reverenza; e cominciò da l’ora che Pallante morì per darli regno. Tu sai ch’el fece in Alba sua dimora per trecento anni e oltre, infino al fine che i tre a’ tre pugnar per lui ancora. E sai ch’el fé dal mal de le Sabine al dolor di Lucrezia in sette regi, vincendo intorno le genti vicine. Sai quel ch’el fé portato da li egregi Romani incontro a Brenno, incontro a Pirro, incontro a li altri principi e collegi; onde Torquato e Quinzio, che dal cirro negletto fu nomato, i Deci e ’ Fabi ebber la fama che volontier mirro. Esso atterrò l’orgoglio de li Aràbi che di retro ad Anibale passaro l’alpestre rocce, Po, di che tu labi. Sott’ esso giovanetti trïunfaro Scipïone e Pompeo; e a quel colle sotto ’l qual tu nascesti parve amaro. Poi, presso al tempo che tutto ’l ciel volle redur lo mondo a suo modo sereno, Cesare per voler di Roma il tolle. E quel che fé da Varo infino a Reno, Isara vide ed Era e vide Senna e ogne valle onde Rodano è pieno. Quel che fé poi ch’elli uscì di Ravenna e saltò Rubicon, fu di tal volo, che nol seguiteria lingua né penna. Inver’ la Spagna rivolse lo stuolo, poi ver’ Durazzo, e Farsalia percosse sì ch’al Nil caldo si sentì del duolo. Antandro e Simeonta, onde si mosse, rivide e là dov’ Ettore si cuba; e mal per Tolomeo poscia si scosse. Da indi scese folgorando a Iuba; onde si volse nel vostro occidente, ove sentia la pompeana tuba. Di quel che fé col baiulo seguente, Bruto con Cassio ne l’inferno latra, e Modena e Perugia fu dolente. Piangene ancor la trista Cleopatra, che, fuggendoli innanzi, dal colubro la morte prese subitana e atra. Con costui corse infino al lito rubro; con costui puose il mondo in tanta pace, che fu serrato a Giano il suo delubro. Ma ciò che ’l segno che parlar mi face fatto avea prima e poi era fatturo per lo regno mortal ch’a lui soggiace, diventa in apparenza poco e scuro, se in mano al terzo Cesare si mira con occhio chiaro e con affetto puro; ché la viva giustizia che mi spira, li concedette, in mano a quel ch’i’ dico, gloria di far vendetta a la sua ira. Or qui t’ammira in ciò ch’io ti replìco: poscia con Tito a far vendetta corse de la vendetta del peccato antico. E quando il dente longobardo morse la Santa Chiesa, sotto le sue ali Carlo Magno, vincendo, la soccorse. Omai puoi giudicar di quei cotali ch’io accusai di sopra e di lor falli, che son cagion di tutti vostri mali. L’uno al pubblico segno i gigli gialli oppone, e l’altro appropria quello a parte, sì ch’è forte a veder chi più si falli. Faccian li Ghibellin, faccian lor arte sott’ altro segno, ché mal segue quello sempre chi la giustizia e lui diparte; e non l’abbatta esto Carlo novello coi Guelfi suoi, ma tema de li artigli ch’a più alto leon trasser lo vello. Molte fïate già pianser li figli per la colpa del padre, e non si creda che Dio trasmuti l’armi per suoi gigli! Questa picciola stella si correda d’i buoni spirti che son stati attivi perché onore e fama li succeda: e quando li disiri poggian quivi, sì disvïando, pur convien che i raggi del vero amore in sù poggin men vivi. Ma nel commensurar d’i nostri gaggi col merto è parte di nostra letizia, perché non li vedem minor né maggi. Quindi addolcisce la viva giustizia in noi l’affetto sì, che non si puote torcer già mai ad alcuna nequizia. Diverse voci fanno dolci note; così diversi scanni in nostra vita rendon dolce armonia tra queste rote. E dentro a la presente margarita luce la luce di Romeo, di cui fu l’ovra grande e bella mal gradita. Ma i Provenzai che fecer contra lui non hanno riso; e però mal cammina qual si fa danno del ben fare altrui. Quattro figlie ebbe, e ciascuna reina, Ramondo Beringhiere, e ciò li fece Romeo, persona umìle e peregrina. E poi il mosser le parole biece a dimandar ragione a questo giusto, che li assegnò sette e cinque per diece, indi partissi povero e vetusto; e se ’l mondo sapesse il cor ch’elli ebbe mendicando sua vita a frusto a frusto, assai lo loda, e più lo loderebbe». Paradiso Canto VII «Osanna, sanctus Deus sabaòth, superillustrans claritate tua felices ignes horum malacòth!». Così, volgendosi a la nota sua, fu viso a me cantare essa sustanza, sopra la qual doppio lume s’addua; ed essa e l’altre mossero a sua danza, e quasi velocissime faville mi si velar di sùbita distanza. Io dubitava e dicea ‘Dille, dille!’ fra me, ‘dille’ dicea, ‘a la mia donna che mi diseta con le dolci stille’. Ma quella reverenza che s’indonna di tutto me, pur per Be e per ice, mi richinava come l’uom ch’assonna. Poco sofferse me cotal Beatrice e cominciò, raggiandomi d’un riso tal, che nel foco faria l’uom felice: «Secondo mio infallibile avviso, come giusta vendetta giustamente punita fosse, t’ha in pensier miso; ma io ti solverò tosto la mente; e tu ascolta, ché le mie parole di gran sentenza ti faran presente. Per non soffrire a la virtù che vole freno a suo prode, quell’ uom che non nacque, dannando sé, dannò tutta sua prole; onde l’umana specie inferma giacque giù per secoli molti in grande errore, fin ch’al Verbo di Dio discender piacque u’ la natura, che dal suo fattore s’era allungata, unì a sé in persona con l’atto sol del suo etterno amore. Or drizza il viso a quel ch’or si ragiona: questa natura al suo fattore unita, qual fu creata, fu sincera e buona; ma per sé stessa pur fu ella sbandita di paradiso, però che si torse da via di verità e da sua vita. La pena dunque che la croce porse s’a la natura assunta si misura, nulla già mai sì giustamente morse; e così nulla fu di tanta ingiura, guardando a la persona che sofferse, in che era contratta tal natura. Però d’un atto uscir cose diverse: ch’a Dio e a’ Giudei piacque una morte; per lei tremò la terra e ’l ciel s’aperse. Non ti dee oramai parer più forte, quando si dice che giusta vendetta poscia vengiata fu da giusta corte. Ma io veggi’ or la tua mente ristretta di pensiero in pensier dentro ad un nodo, del qual con gran disio solver s’aspetta. Tu dici: “Ben discerno ciò ch’i’ odo; ma perché Dio volesse, m’è occulto, a nostra redenzion pur questo modo”. Questo decreto, frate, sta sepulto a li occhi di ciascuno il cui ingegno ne la fiamma d’amor non è adulto. Veramente, però ch’a questo segno molto si mira e poco si discerne, dirò perché tal modo fu più degno. La divina bontà, che da sé sperne ogne livore, ardendo in sé, sfavilla sì che dispiega le bellezze etterne. Ciò che da lei sanza mezzo distilla non ha poi fine, perché non si move la sua imprenta quand’ ella sigilla. Ciò che da essa sanza mezzo piove libero è tutto, perché non soggiace a la virtute de le cose nove. Più l’è conforme, e però più le piace; ché l’ardor santo ch’ogne cosa raggia, ne la più somigliante è più vivace. Di tutte queste dote s’avvantaggia l’umana creatura, e s’una manca, di sua nobilità convien che caggia. Solo il peccato è quel che la disfranca e falla dissimìle al sommo bene, per che del lume suo poco s’imbianca; e in sua dignità mai non rivene, se non rïempie, dove colpa vòta, contra mal dilettar con giuste pene. Vostra natura, quando peccò tota nel seme suo, da queste dignitadi, come di paradiso, fu remota; né ricovrar potiensi, se tu badi ben sottilmente, per alcuna via, sanza passar per un di questi guadi: o che Dio solo per sua cortesia dimesso avesse, o che l’uom per sé isso avesse sodisfatto a sua follia. Ficca mo l’occhio per entro l’abisso de l’etterno consiglio, quanto puoi al mio parlar distrettamente fisso. Non potea l’uomo ne’ termini suoi mai sodisfar, per non potere ir giuso con umiltate obedïendo poi, quanto disobediendo intese ir suso; e questa è la cagion per che l’uom fue da poter sodisfar per sé dischiuso. Dunque a Dio convenia con le vie sue riparar l’omo a sua intera vita, dico con l’una, o ver con amendue. Ma perché l’ovra tanto è più gradita da l’operante, quanto più appresenta de la bontà del core ond’ ell’ è uscita, la divina bontà che ’l mondo imprenta, di proceder per tutte le sue vie, a rilevarvi suso, fu contenta. Né tra l’ultima notte e ’l primo die sì alto o sì magnifico processo, o per l’una o per l’altra, fu o fie: ché più largo fu Dio a dar sé stesso per far l’uom sufficiente a rilevarsi, che s’elli avesse sol da sé dimesso; e tutti li altri modi erano scarsi a la giustizia, se ’l Figliuol di Dio non fosse umilïato ad incarnarsi. Or per empierti bene ogne disio, ritorno a dichiararti in alcun loco, perché tu veggi lì così com’ io. Tu dici: “Io veggio l’acqua, io veggio il foco, l’aere e la terra e tutte lor misture venire a corruzione, e durar poco; e queste cose pur furon creature; per che, se ciò ch’è detto è stato vero, esser dovrien da corruzion sicure”. Li angeli, frate, e ’l paese sincero nel qual tu se’, dir si posson creati, sì come sono, in loro essere intero; ma li alimenti che tu hai nomati e quelle cose che di lor si fanno da creata virtù sono informati. Creata fu la materia ch’elli hanno; creata fu la virtù informante in queste stelle che ’ntorno a lor vanno. L’anima d’ogne bruto e de le piante di complession potenzïata tira lo raggio e ’l moto de le luci sante; ma vostra vita sanza mezzo spira la somma beninanza, e la innamora di sé sì che poi sempre la disira. E quinci puoi argomentare ancora vostra resurrezion, se tu ripensi come l’umana carne fessi allora che li primi parenti intrambo fensi». Paradiso Canto VIII Solea creder lo mondo in suo periclo che la bella Ciprigna il folle amore raggiasse, volta nel terzo epiciclo; per che non pur a lei faceano onore di sacrificio e di votivo grido le genti antiche ne l’antico errore; ma Dïone onoravano e Cupido, quella per madre sua, questo per figlio, e dicean ch’el sedette in grembo a Dido; e da costei ond’ io principio piglio pigliavano il vocabol de la stella che ’l sol vagheggia or da coppa or da ciglio. Io non m’accorsi del salire in ella; ma d’esservi entro mi fé assai fede la donna mia ch’i’ vidi far più bella. E come in fiamma favilla si vede, e come in voce voce si discerne, quand’ una è ferma e altra va e riede, vid’ io in essa luce altre lucerne muoversi in giro più e men correnti, al modo, credo, di lor viste interne. Di fredda nube non disceser venti, o visibili o no, tanto festini, che non paressero impediti e lenti a chi avesse quei lumi divini veduti a noi venir, lasciando il giro pria cominciato in li alti Serafini; e dentro a quei che più innanzi appariro sonava ‘Osanna’ sì, che unque poi di rïudir non fui sanza disiro. Indi si fece l’un più presso a noi e solo incominciò: «Tutti sem presti al tuo piacer, perché di noi ti gioi. Noi ci volgiam coi principi celesti d’un giro e d’un girare e d’una sete, ai quali tu del mondo già dicesti: ‘Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete’; e sem sì pien d’amor, che, per piacerti, non fia men dolce un poco di quïete». Poscia che li occhi miei si fuoro offerti a la mia donna reverenti, ed essa fatti li avea di sé contenti e certi, rivolsersi a la luce che promessa tanto s’avea, e «Deh, chi siete?» fue la voce mia di grande affetto impressa. E quanta e quale vid’ io lei far piùe per allegrezza nova che s’accrebbe, quando parlai, a l’allegrezze sue! Così fatta, mi disse: «Il mondo m’ebbe giù poco tempo; e se più fosse stato, molto sarà di mal, che non sarebbe. La mia letizia mi ti tien celato che mi raggia dintorno e mi nasconde quasi animal di sua seta fasciato. Assai m’amasti, e avesti ben onde; che s’io fossi giù stato, io ti mostrava di mio amor più oltre che le fronde. Quella sinistra riva che si lava di Rodano poi ch’è misto con Sorga, per suo segnore a tempo m’aspettava, e quel corno d’Ausonia che s’imborga di Bari e di Gaeta e di Catona, da ove Tronto e Verde in mare sgorga. Fulgeami già in fronte la corona di quella terra che ’l Danubio riga poi che le ripe tedesche abbandona. E la bella Trinacria, che caliga tra Pachino e Peloro, sopra ’l golfo che riceve da Euro maggior briga, non per Tifeo ma per nascente solfo, attesi avrebbe li suoi regi ancora, nati per me di Carlo e di Ridolfo, se mala segnoria, che sempre accora li popoli suggetti, non avesse mosso Palermo a gridar: “Mora, mora!”. E se mio frate questo antivedesse, l’avara povertà di Catalogna già fuggeria, perché non li offendesse; ché veramente proveder bisogna per lui, o per altrui, sì ch’a sua barca carcata più d’incarco non si pogna. La sua natura, che di larga parca discese, avria mestier di tal milizia che non curasse di mettere in arca». «Però ch’i’ credo che l’alta letizia che ’l tuo parlar m’infonde, segnor mio, là ’ve ogne ben si termina e s’inizia, per te si veggia come la vegg’ io, grata m’è più; e anco quest’ ho caro perché ’l discerni rimirando in Dio. Fatto m’hai lieto, e così mi fa chiaro, poi che, parlando, a dubitar m’hai mosso com’ esser può, di dolce seme, amaro». Questo io a lui; ed elli a me: «S’io posso mostrarti un vero, a quel che tu dimandi terrai lo viso come tien lo dosso. Lo ben che tutto il regno che tu scandi volge e contenta, fa esser virtute sua provedenza in questi corpi grandi. E non pur le nature provedute sono in la mente ch’è da sé perfetta, ma esse insieme con la lor salute: per che quantunque quest’ arco saetta disposto cade a proveduto fine, sì come cosa in suo segno diretta. Se ciò non fosse, il ciel che tu cammine producerebbe sì li suoi effetti, che non sarebbero arti, ma ruine; e ciò esser non può, se li ’ntelletti che muovon queste stelle non son manchi, e manco il primo, che non li ha perfetti. Vuo’ tu che questo ver più ti s’imbianchi?». E io: «Non già; ché impossibil veggio che la natura, in quel ch’è uopo, stanchi». Ond’ elli ancora: «Or dì: sarebbe il peggio per l’omo in terra, se non fosse cive?». «Sì», rispuos’ io; «e qui ragion non cheggio». «E puot’ elli esser, se giù non si vive diversamente per diversi offici? Non, se ’l maestro vostro ben vi scrive». Sì venne deducendo infino a quici; poscia conchiuse: «Dunque esser diverse convien di vostri effetti le radici: per ch’un nasce Solone e altro Serse, altro Melchisedèch e altro quello che, volando per l’aere, il figlio perse. La circular natura, ch’è suggello a la cera mortal, fa ben sua arte, ma non distingue l’un da l’altro ostello. Quinci addivien ch’Esaù si diparte per seme da Iacòb; e vien Quirino da sì vil padre, che si rende a Marte. Natura generata il suo cammino simil farebbe sempre a’ generanti, se non vincesse il proveder divino. Or quel che t’era dietro t’è davanti: ma perché sappi che di te mi giova, un corollario voglio che t’ammanti. Sempre natura, se fortuna trova discorde a sé, com’ ogne altra semente fuor di sua regïon, fa mala prova. E se ’l mondo là giù ponesse mente al fondamento che natura pone, seguendo lui, avria buona la gente. Ma voi torcete a la religïone tal che fia nato a cignersi la spada, e fate re di tal ch’è da sermone; onde la traccia vostra è fuor di strada». Paradiso Canto IX Da poi che Carlo tuo, bella Clemenza, m’ebbe chiarito, mi narrò li ’nganni che ricever dovea la sua semenza; ma disse: «Taci e lascia muover li anni»; sì ch’io non posso dir se non che pianto giusto verrà di retro ai vostri danni. E già la vita di quel lume santo rivolta s’era al Sol che la rïempie come quel ben ch’a ogne cosa è tanto. Ahi anime ingannate e fatture empie, che da sì fatto ben torcete i cuori, drizzando in vanità le vostre tempie! Ed ecco un altro di quelli splendori ver’ me si fece, e ’l suo voler piacermi significava nel chiarir di fori. Li occhi di Bëatrice, ch’eran fermi sovra me, come pria, di caro assenso al mio disio certificato fermi. «Deh, metti al mio voler tosto compenso, beato spirto», dissi, «e fammi prova ch’i’ possa in te refletter quel ch’io penso!». Onde la luce che m’era ancor nova, del suo profondo, ond’ ella pria cantava, seguette come a cui di ben far giova: «In quella parte de la terra prava italica che siede tra Rïalto e le fontane di Brenta e di Piava, si leva un colle, e non surge molt’ alto, là onde scese già una facella che fece a la contrada un grande assalto. D’una radice nacqui e io ed ella: Cunizza fui chiamata, e qui refulgo perché mi vinse il lume d’esta stella; ma lietamente a me medesma indulgo la cagion di mia sorte, e non mi noia; che parria forse forte al vostro vulgo. Di questa luculenta e cara gioia del nostro cielo che più m’è propinqua, grande fama rimase; e pria che moia, questo centesimo anno ancor s’incinqua: vedi se far si dee l’omo eccellente, sì ch’altra vita la prima relinqua. E ciò non pensa la turba presente che Tagliamento e Adice richiude, né per esser battuta ancor si pente; ma tosto fia che Padova al palude cangerà l’acqua che Vincenza bagna, per essere al dover le genti crude; e dove Sile e Cagnan s’accompagna, tal signoreggia e va con la testa alta, che già per lui carpir si fa la ragna. Piangerà Feltro ancora la difalta de l’empio suo pastor, che sarà sconcia sì, che per simil non s’entrò in malta. Troppo sarebbe larga la bigoncia che ricevesse il sangue ferrarese, e stanco chi ’l pesasse a oncia a oncia, che donerà questo prete cortese per mostrarsi di parte; e cotai doni conformi fieno al viver del paese. Sù sono specchi, voi dicete Troni, onde refulge a noi Dio giudicante; sì che questi parlar ne paion buoni». Qui si tacette; e fecemi sembiante che fosse ad altro volta, per la rota in che si mise com’ era davante. L’altra letizia, che m’era già nota per cara cosa, mi si fece in vista qual fin balasso in che lo sol percuota. Per letiziar là sù fulgor s’acquista, sì come riso qui; ma giù s’abbuia l’ombra di fuor, come la mente è trista. «Dio vede tutto, e tuo veder s’inluia», diss’ io, «beato spirto, sì che nulla voglia di sé a te puot’ esser fuia. Dunque la voce tua, che ’l ciel trastulla sempre col canto di quei fuochi pii che di sei ali facen la coculla, perché non satisface a’ miei disii? Già non attendere’ io tua dimanda, s’io m’intuassi, come tu t’inmii». «La maggior valle in che l’acqua si spanda», incominciaro allor le sue parole, «fuor di quel mar che la terra inghirlanda, tra ’ discordanti liti contra ’l sole tanto sen va, che fa meridïano là dove l’orizzonte pria far suole. Di quella valle fu’ io litorano tra Ebro e Macra, che per cammin corto parte lo Genovese dal Toscano. Ad un occaso quasi e ad un orto Buggea siede e la terra ond’ io fui, che fé del sangue suo già caldo il porto. Folco mi disse quella gente a cui fu noto il nome mio; e questo cielo di me s’imprenta, com’ io fe’ di lui; ché più non arse la figlia di Belo, noiando e a Sicheo e a Creusa, di me, infin che si convenne al pelo; né quella Rodopëa che delusa fu da Demofoonte, né Alcide quando Iole nel core ebbe rinchiusa. Non però qui si pente, ma si ride, non de la colpa, ch’a mente non torna, ma del valor ch’ordinò e provide. Qui si rimira ne l’arte ch’addorna cotanto affetto, e discernesi ’l bene per che ’l mondo di sù quel di giù torna. Ma perché tutte le tue voglie piene ten porti che son nate in questa spera, proceder ancor oltre mi convene. Tu vuo’ saper chi è in questa lumera che qui appresso me così scintilla come raggio di sole in acqua mera. Or sappi che là entro si tranquilla Raab; e a nostr’ ordine congiunta, di lei nel sommo grado si sigilla. Da questo cielo, in cui l’ombra s’appunta che ’l vostro mondo face, pria ch’altr’ alma del trïunfo di Cristo fu assunta. Ben si convenne lei lasciar per palma in alcun cielo de l’alta vittoria che s’acquistò con l’una e l’altra palma, perch’ ella favorò la prima gloria di Iosüè in su la Terra Santa, che poco tocca al papa la memoria. La tua città, che di colui è pianta che pria volse le spalle al suo fattore e di cui è la ’nvidia tanto pianta, produce e spande il maladetto fiore c’ha disvïate le pecore e li agni, però che fatto ha lupo del pastore. Per questo l’Evangelio e i dottor magni son derelitti, e solo ai Decretali si studia, sì che pare a’ lor vivagni. A questo intende il papa e ’ cardinali; non vanno i lor pensieri a Nazarette, là dove Gabrïello aperse l’ali. Ma Vaticano e l’altre parti elette di Roma che son state cimitero a la milizia che Pietro seguette, tosto libere fien de l’avoltero». Paradiso Canto X Guardando nel suo Figlio con l’Amore che l’uno e l’altro etternalmente spira, lo primo e ineffabile Valore quanto per mente e per loco si gira con tant’ ordine fé, ch’esser non puote sanza gustar di lui chi ciò rimira. Leva dunque, lettore, a l’alte rote meco la vista, dritto a quella parte dove l’un moto e l’altro si percuote; e lì comincia a vagheggiar ne l’arte di quel maestro che dentro a sé l’ama, tanto che mai da lei l’occhio non parte. Vedi come da indi si dirama l’oblico cerchio che i pianeti porta, per sodisfare al mondo che li chiama. Che se la strada lor non fosse torta, molta virtù nel ciel sarebbe in vano, e quasi ogne potenza qua giù morta; e se dal dritto più o men lontano fosse ’l partire, assai sarebbe manco e giù e sù de l’ordine mondano. Or ti riman, lettor, sovra ’l tuo banco, dietro pensando a ciò che si preliba, s’esser vuoi lieto assai prima che stanco. Messo t’ho innanzi: omai per te ti ciba; ché a sé torce tutta la mia cura quella materia ond’ io son fatto scriba. Lo ministro maggior de la natura, che del valor del ciel lo mondo imprenta e col suo lume il tempo ne misura, con quella parte che sù si rammenta congiunto, si girava per le spire in che più tosto ognora s’appresenta; e io era con lui; ma del salire non m’accors’ io, se non com’ uom s’accorge, anzi ’l primo pensier, del suo venire. È Bëatrice quella che sì scorge di bene in meglio, sì subitamente che l’atto suo per tempo non si sporge. Quant’ esser convenia da sé lucente quel ch’era dentro al sol dov’ io entra’mi, non per color, ma per lume parvente! Perch’ io lo ’ngegno e l’arte e l’uso chiami, sì nol direi che mai s’imaginasse; ma creder puossi e di veder si brami. E se le fantasie nostre son basse a tanta altezza, non è maraviglia; ché sopra ’l sol non fu occhio ch’andasse. Tal era quivi la quarta famiglia de l’alto Padre, che sempre la sazia, mostrando come spira e come figlia. E Bëatrice cominciò: «Ringrazia, ringrazia il Sol de li angeli, ch’a questo sensibil t’ha levato per sua grazia». Cor di mortal non fu mai sì digesto a divozione e a rendersi a Dio con tutto ’l suo gradir cotanto presto, come a quelle parole mi fec’ io; e sì tutto ’l mio amore in lui si mise, che Bëatrice eclissò ne l’oblio. Non le dispiacque; ma sì se ne rise, che lo splendor de li occhi suoi ridenti mia mente unita in più cose divise. Io vidi più folgór vivi e vincenti far di noi centro e di sé far corona, più dolci in voce che in vista lucenti: così cinger la figlia di Latona vedem talvolta, quando l’aere è pregno, sì che ritenga il fil che fa la zona. Ne la corte del cielo, ond’ io rivegno, si trovan molte gioie care e belle tanto che non si posson trar del regno; e ’l canto di quei lumi era di quelle; chi non s’impenna sì che là sù voli, dal muto aspetti quindi le novelle. Poi, sì cantando, quelli ardenti soli si fuor girati intorno a noi tre volte, come stelle vicine a’ fermi poli, donne mi parver, non da ballo sciolte, ma che s’arrestin tacite, ascoltando fin che le nove note hanno ricolte. E dentro a l’un senti’ cominciar: «Quando lo raggio de la grazia, onde s’accende verace amore e che poi cresce amando, multiplicato in te tanto resplende, che ti conduce su per quella scala u’ sanza risalir nessun discende; qual ti negasse il vin de la sua fiala per la tua sete, in libertà non fora se non com’ acqua ch’al mar non si cala. Tu vuo’ saper di quai piante s’infiora questa ghirlanda che ’ntorno vagheggia la bella donna ch’al ciel t’avvalora. Io fui de li agni de la santa greggia che Domenico mena per cammino u’ ben s’impingua se non si vaneggia. Questi che m’è a destra più vicino, frate e maestro fummi, ed esso Alberto è di Cologna, e io Thomas d’Aquino. Se sì di tutti li altri esser vuo’ certo, di retro al mio parlar ten vien col viso girando su per lo beato serto. Quell’ altro fiammeggiare esce del riso di Grazïan, che l’uno e l’altro foro aiutò sì che piace in paradiso. L’altro ch’appresso addorna il nostro coro, quel Pietro fu che con la poverella offerse a Santa Chiesa suo tesoro. La quinta luce, ch’è tra noi più bella, spira di tale amor, che tutto ’l mondo là giù ne gola di saper novella: entro v’è l’alta mente u’ sì profondo saver fu messo, che, se ’l vero è vero, a veder tanto non surse il secondo. Appresso vedi il lume di quel cero che giù in carne più a dentro vide l’angelica natura e ’l ministero. Ne l’altra piccioletta luce ride quello avvocato de’ tempi cristiani del cui latino Augustin si provide. Or se tu l’occhio de la mente trani di luce in luce dietro a le mie lode, già de l’ottava con sete rimani. Per vedere ogne ben dentro vi gode l’anima santa che ’l mondo fallace fa manifesto a chi di lei ben ode. Lo corpo ond’ ella fu cacciata giace giuso in Cieldauro; ed essa da martiro e da essilio venne a questa pace. Vedi oltre fiammeggiar l’ardente spiro d’Isidoro, di Beda e di Riccardo, che a considerar fu più che viro. Questi onde a me ritorna il tuo riguardo, è ’l lume d’uno spirto che ’n pensieri gravi a morir li parve venir tardo: essa è la luce etterna di Sigieri, che, leggendo nel Vico de li Strami, silogizzò invidïosi veri». Indi, come orologio che ne chiami ne l’ora che la sposa di Dio surge a mattinar lo sposo perché l’ami, che l’una parte e l’altra tira e urge, tin tin sonando con sì dolce nota, che ’l ben disposto spirto d’amor turge; così vid’ ïo la gloriosa rota muoversi e render voce a voce in tempra e in dolcezza ch’esser non pò nota se non colà dove gioir s’insempra. Paradiso Canto XI O insensata cura de’ mortali, quanto son difettivi silogismi quei che ti fanno in basso batter l’ali! Chi dietro a iura e chi ad amforismi sen giva, e chi seguendo sacerdozio, e chi regnar per forza o per sofismi, e chi rubare e chi civil negozio, chi nel diletto de la carne involto s’affaticava e chi si dava a l’ozio, quando, da tutte queste cose sciolto, con Bëatrice m’era suso in cielo cotanto glorïosamente accolto. Poi che ciascuno fu tornato ne lo punto del cerchio in che avanti s’era, fermossi, come a candellier candelo. E io senti’ dentro a quella lumera che pria m’avea parlato, sorridendo incominciar, faccendosi più mera: «Così com’ io del suo raggio resplendo, sì, riguardando ne la luce etterna, li tuoi pensieri onde cagioni apprendo. Tu dubbi, e hai voler che si ricerna in sì aperta e ’n sì distesa lingua lo dicer mio, ch’al tuo sentir si sterna, ove dinanzi dissi: “U’ ben s’impingua”, e là u’ dissi: “Non nacque il secondo”; e qui è uopo che ben si distingua. La provedenza, che governa il mondo con quel consiglio nel quale ogne aspetto creato è vinto pria che vada al fondo, però che andasse ver’ lo suo diletto la sposa di colui ch’ad alte grida disposò lei col sangue benedetto, in sé sicura e anche a lui più fida, due principi ordinò in suo favore, che quinci e quindi le fosser per guida. L’un fu tutto serafico in ardore; l’altro per sapïenza in terra fue di cherubica luce uno splendore. De l’un dirò, però che d’amendue si dice l’un pregiando, qual ch’om prende, perch’ ad un fine fur l’opere sue. Intra Tupino e l’acqua che discende del colle eletto dal beato Ubaldo, fertile costa d’alto monte pende, onde Perugia sente freddo e caldo da Porta Sole; e di rietro le piange per grave giogo Nocera con Gualdo. Di questa costa, là dov’ ella frange più sua rattezza, nacque al mondo un sole, come fa questo talvolta di Gange. Però chi d’esso loco fa parole, non dica Ascesi, ché direbbe corto, ma Orïente, se proprio dir vuole. Non era ancor molto lontan da l’orto, ch’el cominciò a far sentir la terra de la sua gran virtute alcun conforto; ché per tal donna, giovinetto, in guerra del padre corse, a cui, come a la morte, la porta del piacer nessun diserra; e dinanzi a la sua spirital corte et coram patre le si fece unito; poscia di dì in dì l’amò più forte. Questa, privata del primo marito, millecent’ anni e più dispetta e scura fino a costui si stette sanza invito; né valse udir che la trovò sicura con Amiclate, al suon de la sua voce, colui ch’a tutto ’l mondo fé paura; né valse esser costante né feroce, sì che, dove Maria rimase giuso, ella con Cristo pianse in su la croce. Ma perch’ io non proceda troppo chiuso, Francesco e Povertà per questi amanti prendi oramai nel mio parlar diffuso. La lor concordia e i lor lieti sembianti, amore e maraviglia e dolce sguardo facieno esser cagion di pensier santi; tanto che ’l venerabile Bernardo si scalzò prima, e dietro a tanta pace corse e, correndo, li parve esser tardo. Oh ignota ricchezza! oh ben ferace! Scalzasi Egidio, scalzasi Silvestro dietro a lo sposo, sì la sposa piace. Indi sen va quel padre e quel maestro con la sua donna e con quella famiglia che già legava l’umile capestro. Né li gravò viltà di cuor le ciglia per esser fi’ di Pietro Bernardone, né per parer dispetto a maraviglia; ma regalmente sua dura intenzione ad Innocenzio aperse, e da lui ebbe primo sigillo a sua religïone. Poi che la gente poverella crebbe dietro a costui, la cui mirabil vita meglio in gloria del ciel si canterebbe, di seconda corona redimita fu per Onorio da l’Etterno Spiro la santa voglia d’esto archimandrita. E poi che, per la sete del martiro, ne la presenza del Soldan superba predicò Cristo e li altri che ’l seguiro, e per trovare a conversione acerba troppo la gente e per non stare indarno, redissi al frutto de l’italica erba, nel crudo sasso intra Tevero e Arno da Cristo prese l’ultimo sigillo, che le sue membra due anni portarno. Quando a colui ch’a tanto ben sortillo piacque di trarlo suso a la mercede ch’el meritò nel suo farsi pusillo, a’ frati suoi, sì com’ a giuste rede, raccomandò la donna sua più cara, e comandò che l’amassero a fede; e del suo grembo l’anima preclara mover si volle, tornando al suo regno, e al suo corpo non volle altra bara. Pensa oramai qual fu colui che degno collega fu a mantener la barca di Pietro in alto mar per dritto segno; e questo fu il nostro patrïarca; per che qual segue lui, com’ el comanda, discerner puoi che buone merce carca. Ma ’l suo pecuglio di nova vivanda è fatto ghiotto, sì ch’esser non puote che per diversi salti non si spanda; e quanto le sue pecore remote e vagabunde più da esso vanno, più tornano a l’ovil di latte vòte. Ben son di quelle che temono ’l danno e stringonsi al pastor; ma son sì poche, che le cappe fornisce poco panno. Or, se le mie parole non son fioche, se la tua audïenza è stata attenta, se ciò ch’è detto a la mente revoche, in parte fia la tua voglia contenta, perché vedrai la pianta onde si scheggia, e vedra’ il corrègger che argomenta “U’ ben s’impingua, se non si vaneggia”». Paradiso Canto XII Sì tosto come l’ultima parola la benedetta fiamma per dir tolse, a rotar cominciò la santa mola; e nel suo giro tutta non si volse prima ch’un’altra di cerchio la chiuse, e moto a moto e canto a canto colse; canto che tanto vince nostre muse, nostre serene in quelle dolci tube, quanto primo splendor quel ch’e’ refuse. Come si volgon per tenera nube due archi paralelli e concolori, quando Iunone a sua ancella iube, nascendo di quel d’entro quel di fori, a guisa del parlar di quella vaga ch’amor consunse come sol vapori, e fanno qui la gente esser presaga, per lo patto che Dio con Noè puose, del mondo che già mai più non s’allaga: così di quelle sempiterne rose volgiensi circa noi le due ghirlande, e sì l’estrema a l’intima rispuose. Poi che ’l tripudio e l’altra festa grande, sì del cantare e sì del fiammeggiarsi luce con luce gaudïose e blande, insieme a punto e a voler quetarsi, pur come li occhi ch’al piacer che i move conviene insieme chiudere e levarsi; del cor de l’una de le luci nove si mosse voce, che l’ago a la stella parer mi fece in volgermi al suo dove; e cominciò: «L’amor che mi fa bella mi tragge a ragionar de l’altro duca per cui del mio sì ben ci si favella. Degno è che, dov’ è l’un, l’altro s’induca: sì che, com’ elli ad una militaro, così la gloria loro insieme luca. L’essercito di Cristo, che sì caro costò a rïarmar, dietro a la ’nsegna si movea tardo, sospeccioso e raro, quando lo ’mperador che sempre regna provide a la milizia, ch’era in forse, per sola grazia, non per esser degna; e, come è detto, a sua sposa soccorse con due campioni, al cui fare, al cui dire lo popol disvïato si raccorse. In quella parte ove surge ad aprire Zefiro dolce le novelle fronde di che si vede Europa rivestire, non molto lungi al percuoter de l’onde dietro a le quali, per la lunga foga, lo sol talvolta ad ogne uom si nasconde, siede la fortunata Calaroga sotto la protezion del grande scudo in che soggiace il leone e soggioga: dentro vi nacque l’amoroso drudo de la fede cristiana, il santo atleta benigno a’ suoi e a’ nemici crudo; e come fu creata, fu repleta sì la sua mente di viva vertute che, ne la madre, lei fece profeta. Poi che le sponsalizie fuor compiute al sacro fonte intra lui e la Fede, u’ si dotar di mutüa salute, la donna che per lui l’assenso diede, vide nel sonno il mirabile frutto ch’uscir dovea di lui e de le rede; e perché fosse qual era in costrutto, quinci si mosse spirito a nomarlo del possessivo di cui era tutto. Domenico fu detto; e io ne parlo sì come de l’agricola che Cristo elesse a l’orto suo per aiutarlo. Ben parve messo e famigliar di Cristo: che ’l primo amor che ’n lui fu manifesto, fu al primo consiglio che diè Cristo. Spesse fïate fu tacito e desto trovato in terra da la sua nutrice, come dicesse: ‘Io son venuto a questo’. Oh padre suo veramente Felice! oh madre sua veramente Giovanna, se, interpretata, val come si dice! Non per lo mondo, per cui mo s’affanna di retro ad Ostïense e a Taddeo, ma per amor de la verace manna in picciol tempo gran dottor si feo; tal che si mise a circüir la vigna che tosto imbianca, se ’l vignaio è reo. E a la sedia che fu già benigna più a’ poveri giusti, non per lei, ma per colui che siede, che traligna, non dispensare o due o tre per sei, non la fortuna di prima vacante, non decimas, quae sunt pauperum Dei, addimandò, ma contro al mondo errante licenza di combatter per lo seme del qual ti fascian ventiquattro piante. Poi, con dottrina e con volere insieme, con l’officio appostolico si mosse quasi torrente ch’alta vena preme; e ne li sterpi eretici percosse l’impeto suo, più vivamente quivi dove le resistenze eran più grosse. Di lui si fecer poi diversi rivi onde l’orto catolico si riga, sì che i suoi arbuscelli stan più vivi. Se tal fu l’una rota de la biga in che la Santa Chiesa si difese e vinse in campo la sua civil briga, ben ti dovrebbe assai esser palese l’eccellenza de l’altra, di cui Tomma dinanzi al mio venir fu sì cortese. Ma l’orbita che fé la parte somma di sua circunferenza, è derelitta, sì ch’è la muffa dov’ era la gromma. La sua famiglia, che si mosse dritta coi piedi a le sue orme, è tanto volta, che quel dinanzi a quel di retro gitta; e tosto si vedrà de la ricolta de la mala coltura, quando il loglio si lagnerà che l’arca li sia tolta. Ben dico, chi cercasse a foglio a foglio nostro volume, ancor troveria carta u’ leggerebbe “I’ mi son quel ch’i’ soglio”; ma non fia da Casal né d’Acquasparta, là onde vegnon tali a la scrittura, ch’uno la fugge e altro la coarta. Io son la vita di Bonaventura da Bagnoregio, che ne’ grandi offici sempre pospuosi la sinistra cura. Illuminato e Augustin son quici, che fuor de’ primi scalzi poverelli che nel capestro a Dio si fero amici. Ugo da San Vittore è qui con elli, e Pietro Mangiadore e Pietro Spano, lo qual giù luce in dodici libelli; Natàn profeta e ’l metropolitano Crisostomo e Anselmo e quel Donato ch’a la prim’ arte degnò porre mano. Rabano è qui, e lucemi dallato il calavrese abate Giovacchino di spirito profetico dotato. Ad inveggiar cotanto paladino mi mosse l’infiammata cortesia di fra Tommaso e ’l discreto latino; e mosse meco questa compagnia». Paradiso Canto XIII Imagini, chi bene intender cupe quel ch’i’ or vidi—e ritegna l’image, mentre ch’io dico, come ferma rupe—, quindici stelle che ’n diverse plage lo ciel avvivan di tanto sereno che soperchia de l’aere ogne compage; imagini quel carro a cu’ il seno basta del nostro cielo e notte e giorno, sì ch’al volger del temo non vien meno; imagini la bocca di quel corno che si comincia in punta de lo stelo a cui la prima rota va dintorno, aver fatto di sé due segni in cielo, qual fece la figliuola di Minoi allora che sentì di morte il gelo; e l’un ne l’altro aver li raggi suoi, e amendue girarsi per maniera che l’uno andasse al primo e l’altro al poi; e avrà quasi l’ombra de la vera costellazione e de la doppia danza che circulava il punto dov’ io era: poi ch’è tanto di là da nostra usanza, quanto di là dal mover de la Chiana si move il ciel che tutti li altri avanza. Lì si cantò non Bacco, non Peana, ma tre persone in divina natura, e in una persona essa e l’umana. Compié ’l cantare e ’l volger sua misura; e attesersi a noi quei santi lumi, felicitando sé di cura in cura. Ruppe il silenzio ne’ concordi numi poscia la luce in che mirabil vita del poverel di Dio narrata fumi, e disse: «Quando l’una paglia è trita, quando la sua semenza è già riposta, a batter l’altra dolce amor m’invita. Tu credi che nel petto onde la costa si trasse per formar la bella guancia il cui palato a tutto ’l mondo costa, e in quel che, forato da la lancia, e prima e poscia tanto sodisfece, che d’ogne colpa vince la bilancia, quantunque a la natura umana lece aver di lume, tutto fosse infuso da quel valor che l’uno e l’altro fece; e però miri a ciò ch’io dissi suso, quando narrai che non ebbe ’l secondo lo ben che ne la quinta luce è chiuso. Or apri li occhi a quel ch’io ti rispondo, e vedräi il tuo credere e ’l mio dire nel vero farsi come centro in tondo. Ciò che non more e ciò che può morire non è se non splendor di quella idea che partorisce, amando, il nostro Sire; ché quella viva luce che sì mea dal suo lucente, che non si disuna da lui né da l’amor ch’a lor s’intrea, per sua bontate il suo raggiare aduna, quasi specchiato, in nove sussistenze, etternalmente rimanendosi una. Quindi discende a l’ultime potenze giù d’atto in atto, tanto divenendo, che più non fa che brevi contingenze; e queste contingenze essere intendo le cose generate, che produce con seme e sanza seme il ciel movendo. La cera di costoro e chi la duce non sta d’un modo; e però sotto ’l segno idëale poi più e men traluce. Ond’ elli avvien ch’un medesimo legno, secondo specie, meglio e peggio frutta; e voi nascete con diverso ingegno. Se fosse a punto la cera dedutta e fosse il cielo in sua virtù supprema, la luce del suggel parrebbe tutta; ma la natura la dà sempre scema, similemente operando a l’artista ch’a l’abito de l’arte ha man che trema. Però se ’l caldo amor la chiara vista de la prima virtù dispone e segna, tutta la perfezion quivi s’acquista. Così fu fatta già la terra degna di tutta l’animal perfezïone; così fu fatta la Vergine pregna; sì ch’io commendo tua oppinïone, che l’umana natura mai non fue né fia qual fu in quelle due persone. Or s’i’ non procedesse avanti piùe, ‘Dunque, come costui fu sanza pare?’ comincerebber le parole tue. Ma perché paia ben ciò che non pare, pensa chi era, e la cagion che ’l mosse, quando fu detto “Chiedi”, a dimandare. Non ho parlato sì, che tu non posse ben veder ch’el fu re, che chiese senno acciò che re sufficïente fosse; non per sapere il numero in che enno li motor di qua sù, o se necesse con contingente mai necesse fenno; non si est dare primum motum esse, o se del mezzo cerchio far si puote trïangol sì ch’un retto non avesse. Onde, se ciò ch’io dissi e questo note, regal prudenza è quel vedere impari in che lo stral di mia intenzion percuote; e se al “surse” drizzi li occhi chiari, vedrai aver solamente respetto ai regi, che son molti, e ’ buon son rari. Con questa distinzion prendi ’l mio detto; e così puote star con quel che credi del primo padre e del nostro Diletto. E questo ti sia sempre piombo a’ piedi, per farti mover lento com’ uom lasso e al sì e al no che tu non vedi: ché quelli è tra li stolti bene a basso, che sanza distinzione afferma e nega ne l’un così come ne l’altro passo; perch’ elli ’ncontra che più volte piega l’oppinïon corrente in falsa parte, e poi l’affetto l’intelletto lega. Vie più che ’ndarno da riva si parte, perché non torna tal qual e’ si move, chi pesca per lo vero e non ha l’arte. E di ciò sono al mondo aperte prove Parmenide, Melisso e Brisso e molti, li quali andaro e non sapëan dove; sì fé Sabellio e Arrio e quelli stolti che furon come spade a le Scritture in render torti li diritti volti. Non sien le genti, ancor, troppo sicure a giudicar, sì come quei che stima le biade in campo pria che sien mature; ch’i’ ho veduto tutto ’l verno prima lo prun mostrarsi rigido e feroce, poscia portar la rosa in su la cima; e legno vidi già dritto e veloce correr lo mar per tutto suo cammino, perire al fine a l’intrar de la foce. Non creda donna Berta e ser Martino, per vedere un furare, altro offerere, vederli dentro al consiglio divino; ché quel può surgere, e quel può cadere». Paradiso Canto XIV Dal centro al cerchio, e sì dal cerchio al centro movesi l’acqua in un ritondo vaso, secondo ch’è percosso fuori o dentro: ne la mia mente fé sùbito caso questo ch’io dico, sì come si tacque la glorïosa vita di Tommaso, per la similitudine che nacque del suo parlare e di quel di Beatrice, a cui sì cominciar, dopo lui, piacque: «A costui fa mestieri, e nol vi dice né con la voce né pensando ancora, d’un altro vero andare a la radice. Diteli se la luce onde s’infiora vostra sustanza, rimarrà con voi etternalmente sì com’ ell’ è ora; e se rimane, dite come, poi che sarete visibili rifatti, esser porà ch’al veder non vi nòi». Come, da più letizia pinti e tratti, a la fïata quei che vanno a rota levan la voce e rallegrano li atti, così, a l’orazion pronta e divota, li santi cerchi mostrar nova gioia nel torneare e ne la mira nota. Qual si lamenta perché qui si moia per viver colà sù, non vide quive lo refrigerio de l’etterna ploia. Quell’ uno e due e tre che sempre vive e regna sempre in tre e ’n due e ’n uno, non circunscritto, e tutto circunscrive, tre volte era cantato da ciascuno di quelli spirti con tal melodia, ch’ad ogne merto saria giusto muno. E io udi’ ne la luce più dia del minor cerchio una voce modesta, forse qual fu da l’angelo a Maria, risponder: «Quanto fia lunga la festa di paradiso, tanto il nostro amore si raggerà dintorno cotal vesta. La sua chiarezza séguita l’ardore; l’ardor la visïone, e quella è tanta, quant’ ha di grazia sovra suo valore. Come la carne glorïosa e santa fia rivestita, la nostra persona più grata fia per esser tutta quanta; per che s’accrescerà ciò che ne dona di gratüito lume il sommo bene, lume ch’a lui veder ne condiziona; onde la visïon crescer convene, crescer l’ardor che di quella s’accende, crescer lo raggio che da esso vene. Ma sì come carbon che fiamma rende, e per vivo candor quella soverchia, sì che la sua parvenza si difende; così questo folgór che già ne cerchia fia vinto in apparenza da la carne che tutto dì la terra ricoperchia; né potrà tanta luce affaticarne: ché li organi del corpo saran forti a tutto ciò che potrà dilettarne». Tanto mi parver sùbiti e accorti e l’uno e l’altro coro a dicer «Amme!», che ben mostrar disio d’i corpi morti: forse non pur per lor, ma per le mamme, per li padri e per li altri che fuor cari anzi che fosser sempiterne fiamme. Ed ecco intorno, di chiarezza pari, nascere un lustro sopra quel che v’era, per guisa d’orizzonte che rischiari. E sì come al salir di prima sera comincian per lo ciel nove parvenze, sì che la vista pare e non par vera, parvemi lì novelle sussistenze cominciare a vedere, e fare un giro di fuor da l’altre due circunferenze. Oh vero sfavillar del Santo Spiro! come si fece sùbito e candente a li occhi miei che, vinti, nol soffriro! Ma Bëatrice sì bella e ridente mi si mostrò, che tra quelle vedute si vuol lasciar che non seguir la mente. Quindi ripreser li occhi miei virtute a rilevarsi; e vidimi translato sol con mia donna in più alta salute. Ben m’accors’ io ch’io era più levato, per l’affocato riso de la stella, che mi parea più roggio che l’usato. Con tutto ’l core e con quella favella ch’è una in tutti, a Dio feci olocausto, qual conveniesi a la grazia novella. E non er’ anco del mio petto essausto l’ardor del sacrificio, ch’io conobbi esso litare stato accetto e fausto; ché con tanto lucore e tanto robbi m’apparvero splendor dentro a due raggi, ch’io dissi: «O Elïòs che sì li addobbi!». Come distinta da minori e maggi lumi biancheggia tra ’ poli del mondo Galassia sì, che fa dubbiar ben saggi; sì costellati facean nel profondo Marte quei raggi il venerabil segno che fan giunture di quadranti in tondo. Qui vince la memoria mia lo ’ngegno; ché quella croce lampeggiava Cristo, sì ch’io non so trovare essempro degno; ma chi prende sua croce e segue Cristo, ancor mi scuserà di quel ch’io lasso, vedendo in quell’ albor balenar Cristo. Di corno in corno e tra la cima e ’l basso si movien lumi, scintillando forte nel congiugnersi insieme e nel trapasso: così si veggion qui diritte e torte, veloci e tarde, rinovando vista, le minuzie d’i corpi, lunghe e corte, moversi per lo raggio onde si lista talvolta l’ombra che, per sua difesa, la gente con ingegno e arte acquista. E come giga e arpa, in tempra tesa di molte corde, fa dolce tintinno a tal da cui la nota non è intesa, così da’ lumi che lì m’apparinno s’accogliea per la croce una melode che mi rapiva, sanza intender l’inno. Ben m’accors’ io ch’elli era d’alte lode, però ch’a me venìa «Resurgi» e «Vinci» come a colui che non intende e ode. Ïo m’innamorava tanto quinci, che ’nfino a lì non fu alcuna cosa che mi legasse con sì dolci vinci. Forse la mia parola par troppo osa, posponendo il piacer de li occhi belli, ne’ quai mirando mio disio ha posa; ma chi s’avvede che i vivi suggelli d’ogne bellezza più fanno più suso, e ch’io non m’era lì rivolto a quelli, escusar puommi di quel ch’io m’accuso per escusarmi, e vedermi dir vero: ché ’l piacer santo non è qui dischiuso, perché si fa, montando, più sincero. Paradiso Canto XV Benigna volontade in che si liqua sempre l’amor che drittamente spira, come cupidità fa ne la iniqua, silenzio puose a quella dolce lira, e fece quïetar le sante corde che la destra del cielo allenta e tira. Come saranno a’ giusti preghi sorde quelle sustanze che, per darmi voglia ch’io le pregassi, a tacer fur concorde? Bene è che sanza termine si doglia chi, per amor di cosa che non duri etternalmente, quello amor si spoglia. Quale per li seren tranquilli e puri discorre ad ora ad or sùbito foco, movendo li occhi che stavan sicuri, e pare stella che tramuti loco, se non che da la parte ond’ e’ s’accende nulla sen perde, ed esso dura poco: tale dal corno che ’n destro si stende a piè di quella croce corse un astro de la costellazion che lì resplende; né si partì la gemma dal suo nastro, ma per la lista radïal trascorse, che parve foco dietro ad alabastro. Sì pïa l’ombra d’Anchise si porse, se fede merta nostra maggior musa, quando in Eliso del figlio s’accorse. «O sanguis meus, o superinfusa gratïa Deï, sicut tibi cui bis unquam celi ianüa reclusa?». Così quel lume: ond’ io m’attesi a lui; poscia rivolsi a la mia donna il viso, e quinci e quindi stupefatto fui; ché dentro a li occhi suoi ardeva un riso tal, ch’io pensai co’ miei toccar lo fondo de la mia gloria e del mio paradiso. Indi, a udire e a veder giocondo, giunse lo spirto al suo principio cose, ch’io non lo ’ntesi, sì parlò profondo; né per elezïon mi si nascose, ma per necessità, ché ’l suo concetto al segno d’i mortal si soprapuose. E quando l’arco de l’ardente affetto fu sì sfogato, che ’l parlar discese inver’ lo segno del nostro intelletto, la prima cosa che per me s’intese, «Benedetto sia tu», fu, «trino e uno, che nel mio seme se’ tanto cortese!». E seguì: «Grato e lontano digiuno, tratto leggendo del magno volume du’ non si muta mai bianco né bruno, solvuto hai, figlio, dentro a questo lume in ch’io ti parlo, mercè di colei ch’a l’alto volo ti vestì le piume. Tu credi che a me tuo pensier mei da quel ch’è primo, così come raia da l’un, se si conosce, il cinque e ’l sei; e però ch’io mi sia e perch’ io paia più gaudïoso a te, non mi domandi, che alcun altro in questa turba gaia. Tu credi ’l vero; ché i minori e ’ grandi di questa vita miran ne lo speglio in che, prima che pensi, il pensier pandi; ma perché ’l sacro amore in che io veglio con perpetüa vista e che m’asseta di dolce disïar, s’adempia meglio, la voce tua sicura, balda e lieta suoni la volontà, suoni ’l disio, a che la mia risposta è già decreta!». Io mi volsi a Beatrice, e quella udio pria ch’io parlassi, e arrisemi un cenno che fece crescer l’ali al voler mio. Poi cominciai così: «L’affetto e ’l senno, come la prima equalità v’apparse, d’un peso per ciascun di voi si fenno, però che ’l sol che v’allumò e arse, col caldo e con la luce è sì iguali, che tutte simiglianze sono scarse. Ma voglia e argomento ne’ mortali, per la cagion ch’a voi è manifesta, diversamente son pennuti in ali; ond’ io, che son mortal, mi sento in questa disagguaglianza, e però non ringrazio se non col core a la paterna festa. Ben supplico io a te, vivo topazio che questa gioia prezïosa ingemmi, perché mi facci del tuo nome sazio». «O fronda mia in che io compiacemmi pur aspettando, io fui la tua radice»: cotal principio, rispondendo, femmi. Poscia mi disse: «Quel da cui si dice tua cognazione e che cent’ anni e piùe girato ha ’l monte in la prima cornice, mio figlio fu e tuo bisavol fue: ben si convien che la lunga fatica tu li raccorci con l’opere tue. Fiorenza dentro da la cerchia antica, ond’ ella toglie ancora e terza e nona, si stava in pace, sobria e pudica. Non avea catenella, non corona, non gonne contigiate, non cintura che fosse a veder più che la persona. Non faceva, nascendo, ancor paura la figlia al padre, che ’l tempo e la dote non fuggien quinci e quindi la misura. Non avea case di famiglia vòte; non v’era giunto ancor Sardanapalo a mostrar ciò che ’n camera si puote. Non era vinto ancora Montemalo dal vostro Uccellatoio, che, com’ è vinto nel montar sù, così sarà nel calo. Bellincion Berti vid’ io andar cinto di cuoio e d’osso, e venir da lo specchio la donna sua sanza ’l viso dipinto; e vidi quel d’i Nerli e quel del Vecchio esser contenti a la pelle scoperta, e le sue donne al fuso e al pennecchio. Oh fortunate! ciascuna era certa de la sua sepultura, e ancor nulla era per Francia nel letto diserta. L’una vegghiava a studio de la culla, e, consolando, usava l’idïoma che prima i padri e le madri trastulla; l’altra, traendo a la rocca la chioma, favoleggiava con la sua famiglia d’i Troiani, di Fiesole e di Roma. Saria tenuta allor tal maraviglia una Cianghella, un Lapo Salterello, qual or saria Cincinnato e Corniglia. A così riposato, a così bello viver di cittadini, a così fida cittadinanza, a così dolce ostello, Maria mi diè, chiamata in alte grida; e ne l’antico vostro Batisteo insieme fui cristiano e Cacciaguida. Moronto fu mio frate ed Eliseo; mia donna venne a me di val di Pado, e quindi il sopranome tuo si feo. Poi seguitai lo ’mperador Currado; ed el mi cinse de la sua milizia, tanto per bene ovrar li venni in grado. Dietro li andai incontro a la nequizia di quella legge il cui popolo usurpa, per colpa d’i pastor, vostra giustizia. Quivi fu’ io da quella gente turpa disviluppato dal mondo fallace, lo cui amor molt’ anime deturpa; e venni dal martiro a questa pace». Paradiso Canto XVI O poca nostra nobiltà di sangue, se glorïar di te la gente fai qua giù dove l’affetto nostro langue, mirabil cosa non mi sarà mai: ché là dove appetito non si torce, dico nel cielo, io me ne gloriai. Ben se’ tu manto che tosto raccorce: sì che, se non s’appon di dì in die, lo tempo va dintorno con le force. Dal ‘voi’ che prima a Roma s’offerie, in che la sua famiglia men persevra, ricominciaron le parole mie; onde Beatrice, ch’era un poco scevra, ridendo, parve quella che tossio al primo fallo scritto di Ginevra. Io cominciai: «Voi siete il padre mio; voi mi date a parlar tutta baldezza; voi mi levate sì, ch’i’ son più ch’io. Per tanti rivi s’empie d’allegrezza la mente mia, che di sé fa letizia perché può sostener che non si spezza. Ditemi dunque, cara mia primizia, quai fuor li vostri antichi e quai fuor li anni che si segnaro in vostra püerizia; ditemi de l’ovil di San Giovanni quanto era allora, e chi eran le genti tra esso degne di più alti scanni». Come s’avviva a lo spirar d’i venti carbone in fiamma, così vid’ io quella luce risplendere a’ miei blandimenti; e come a li occhi miei si fé più bella, così con voce più dolce e soave, ma non con questa moderna favella, dissemi: «Da quel dì che fu detto ‘Ave’ al parto in che mia madre, ch’è or santa, s’allevïò di me ond’ era grave, al suo Leon cinquecento cinquanta e trenta fiate venne questo foco a rinfiammarsi sotto la sua pianta. Li antichi miei e io nacqui nel loco dove si truova pria l’ultimo sesto da quei che corre il vostro annüal gioco. Basti d’i miei maggiori udirne questo: chi ei si fosser e onde venner quivi, più è tacer che ragionare onesto. Tutti color ch’a quel tempo eran ivi da poter arme tra Marte e ’l Batista, eran il quinto di quei ch’or son vivi. Ma la cittadinanza, ch’è or mista di Campi, di Certaldo e di Fegghine, pura vediesi ne l’ultimo artista. Oh quanto fora meglio esser vicine quelle genti ch’io dico, e al Galluzzo e a Trespiano aver vostro confine, che averle dentro e sostener lo puzzo del villan d’Aguglion, di quel da Signa, che già per barattare ha l’occhio aguzzo! Se la gente ch’al mondo più traligna non fosse stata a Cesare noverca, ma come madre a suo figlio benigna, tal fatto è fiorentino e cambia e merca, che si sarebbe vòlto a Simifonti, là dove andava l’avolo a la cerca; sariesi Montemurlo ancor de’ Conti; sarieno i Cerchi nel piovier d’Acone, e forse in Valdigrieve i Buondelmonti. Sempre la confusion de le persone principio fu del mal de la cittade, come del vostro il cibo che s’appone; e cieco toro più avaccio cade che cieco agnello; e molte volte taglia più e meglio una che le cinque spade. Se tu riguardi Luni e Orbisaglia come sono ite, e come se ne vanno di retro ad esse Chiusi e Sinigaglia, udir come le schiatte si disfanno non ti parrà nova cosa né forte, poscia che le cittadi termine hanno. Le vostre cose tutte hanno lor morte, sì come voi; ma celasi in alcuna che dura molto, e le vite son corte. E come ’l volger del ciel de la luna cuopre e discuopre i liti sanza posa, così fa di Fiorenza la Fortuna: per che non dee parer mirabil cosa ciò ch’io dirò de li alti Fiorentini onde è la fama nel tempo nascosa. Io vidi li Ughi e vidi i Catellini, Filippi, Greci, Ormanni e Alberichi, già nel calare, illustri cittadini; e vidi così grandi come antichi, con quel de la Sannella, quel de l’Arca, e Soldanieri e Ardinghi e Bostichi. Sovra la porta ch’al presente è carca di nova fellonia di tanto peso che tosto fia iattura de la barca, erano i Ravignani, ond’ è disceso il conte Guido e qualunque del nome de l’alto Bellincione ha poscia preso. Quel de la Pressa sapeva già come regger si vuole, e avea Galigaio dorata in casa sua già l’elsa e ’l pome. Grand’ era già la colonna del Vaio, Sacchetti, Giuochi, Fifanti e Barucci e Galli e quei ch’arrossan per lo staio. Lo ceppo di che nacquero i Calfucci era già grande, e già eran tratti a le curule Sizii e Arrigucci. Oh quali io vidi quei che son disfatti per lor superbia! e le palle de l’oro fiorian Fiorenza in tutt’ i suoi gran fatti. Così facieno i padri di coloro che, sempre che la vostra chiesa vaca, si fanno grassi stando a consistoro. L’oltracotata schiatta che s’indraca dietro a chi fugge, e a chi mostra ’l dente o ver la borsa, com’ agnel si placa, già venìa sù, ma di picciola gente; sì che non piacque ad Ubertin Donato che poï il suocero il fé lor parente. Già era ’l Caponsacco nel mercato disceso giù da Fiesole, e già era buon cittadino Giuda e Infangato. Io dirò cosa incredibile e vera: nel picciol cerchio s’entrava per porta che si nomava da quei de la Pera. Ciascun che de la bella insegna porta del gran barone il cui nome e ’l cui pregio la festa di Tommaso riconforta, da esso ebbe milizia e privilegio; avvegna che con popol si rauni oggi colui che la fascia col fregio. Già eran Gualterotti e Importuni; e ancor saria Borgo più quïeto, se di novi vicin fosser digiuni. La casa di che nacque il vostro fleto, per lo giusto disdegno che v’ha morti e puose fine al vostro viver lieto, era onorata, essa e suoi consorti: o Buondelmonte, quanto mal fuggisti le nozze süe per li altrui conforti! Molti sarebber lieti, che son tristi, se Dio t’avesse conceduto ad Ema la prima volta ch’a città venisti. Ma conveniesi a quella pietra scema che guarda ’l ponte, che Fiorenza fesse vittima ne la sua pace postrema. Con queste genti, e con altre con esse, vid’ io Fiorenza in sì fatto riposo, che non avea cagione onde piangesse. Con queste genti vid’io glorïoso e giusto il popol suo, tanto che ’l giglio non era ad asta mai posto a ritroso, né per divisïon fatto vermiglio». Paradiso Canto XVII Qual venne a Climenè, per accertarsi di ciò ch’avëa incontro a sé udito, quei ch’ancor fa li padri ai figli scarsi; tal era io, e tal era sentito e da Beatrice e da la santa lampa che pria per me avea mutato sito. Per che mia donna «Manda fuor la vampa del tuo disio», mi disse, «sì ch’ella esca segnata bene de la interna stampa: non perché nostra conoscenza cresca per tuo parlare, ma perché t’ausi a dir la sete, sì che l’uom ti mesca». «O cara piota mia che sì t’insusi, che, come veggion le terrene menti non capere in trïangol due ottusi, così vedi le cose contingenti anzi che sieno in sé, mirando il punto a cui tutti li tempi son presenti; mentre ch’io era a Virgilio congiunto su per lo monte che l’anime cura e discendendo nel mondo defunto, dette mi fuor di mia vita futura parole gravi, avvegna ch’io mi senta ben tetragono ai colpi di ventura; per che la voglia mia saria contenta d’intender qual fortuna mi s’appressa: ché saetta previsa vien più lenta». Così diss’ io a quella luce stessa che pria m’avea parlato; e come volle Beatrice, fu la mia voglia confessa. Né per ambage, in che la gente folle già s’inviscava pria che fosse anciso l’Agnel di Dio che le peccata tolle, ma per chiare parole e con preciso latin rispuose quello amor paterno, chiuso e parvente del suo proprio riso: «La contingenza, che fuor del quaderno de la vostra matera non si stende, tutta è dipinta nel cospetto etterno; necessità però quindi non prende se non come dal viso in che si specchia nave che per torrente giù discende. Da indi, sì come viene ad orecchia dolce armonia da organo, mi viene a vista il tempo che ti s’apparecchia. Qual si partio Ipolito d’Atene per la spietata e perfida noverca, tal di Fiorenza partir ti convene. Questo si vuole e questo già si cerca, e tosto verrà fatto a chi ciò pensa là dove Cristo tutto dì si merca. La colpa seguirà la parte offensa in grido, come suol; ma la vendetta fia testimonio al ver che la dispensa. Tu lascerai ogne cosa diletta più caramente; e questo è quello strale che l’arco de lo essilio pria saetta. Tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui, e come è duro calle lo scendere e ’l salir per l’altrui scale. E quel che più ti graverà le spalle, sarà la compagnia malvagia e scempia con la qual tu cadrai in questa valle; che tutta ingrata, tutta matta ed empia si farà contr’ a te; ma, poco appresso, ella, non tu, n’avrà rossa la tempia. Di sua bestialitate il suo processo farà la prova; sì ch’a te fia bello averti fatta parte per te stesso. Lo primo tuo refugio e ’l primo ostello sarà la cortesia del gran Lombardo che ’n su la scala porta il santo uccello; ch’in te avrà sì benigno riguardo, che del fare e del chieder, tra voi due, fia primo quel che tra li altri è più tardo. Con lui vedrai colui che ’mpresso fue, nascendo, sì da questa stella forte, che notabili fier l’opere sue. Non se ne son le genti ancora accorte per la novella età, ché pur nove anni son queste rote intorno di lui torte; ma pria che ’l Guasco l’alto Arrigo inganni, parran faville de la sua virtute in non curar d’argento né d’affanni. Le sue magnificenze conosciute saranno ancora, sì che ’ suoi nemici non ne potran tener le lingue mute. A lui t’aspetta e a’ suoi benefici; per lui fia trasmutata molta gente, cambiando condizion ricchi e mendici; e portera’ne scritto ne la mente di lui, e nol dirai»; e disse cose incredibili a quei che fier presente. Poi giunse: «Figlio, queste son le chiose di quel che ti fu detto; ecco le ’nsidie che dietro a pochi giri son nascose. Non vo’ però ch’a’ tuoi vicini invidie, poscia che s’infutura la tua vita vie più là che ’l punir di lor perfidie». Poi che, tacendo, si mostrò spedita l’anima santa di metter la trama in quella tela ch’io le porsi ordita, io cominciai, come colui che brama, dubitando, consiglio da persona che vede e vuol dirittamente e ama: «Ben veggio, padre mio, sì come sprona lo tempo verso me, per colpo darmi tal, ch’è più grave a chi più s’abbandona; per che di provedenza è buon ch’io m’armi, sì che, se loco m’è tolto più caro, io non perdessi li altri per miei carmi. Giù per lo mondo sanza fine amaro, e per lo monte del cui bel cacume li occhi de la mia donna mi levaro, e poscia per lo ciel, di lume in lume, ho io appreso quel che s’io ridico, a molti fia sapor di forte agrume; e s’io al vero son timido amico, temo di perder viver tra coloro che questo tempo chiameranno antico». La luce in che rideva il mio tesoro ch’io trovai lì, si fé prima corusca, quale a raggio di sole specchio d’oro; indi rispuose: «Coscïenza fusca o de la propria o de l’altrui vergogna pur sentirà la tua parola brusca. Ma nondimen, rimossa ogne menzogna, tutta tua visïon fa manifesta; e lascia pur grattar dov’ è la rogna. Ché se la voce tua sarà molesta nel primo gusto, vital nodrimento lascerà poi, quando sarà digesta. Questo tuo grido farà come vento, che le più alte cime più percuote; e ciò non fa d’onor poco argomento. Però ti son mostrate in queste rote, nel monte e ne la valle dolorosa pur l’anime che son di fama note, che l’animo di quel ch’ode, non posa né ferma fede per essempro ch’aia la sua radice incognita e ascosa, né per altro argomento che non paia». Paradiso Canto XVIII Già si godeva solo del suo verbo quello specchio beato, e io gustava lo mio, temprando col dolce l’acerbo; e quella donna ch’a Dio mi menava disse: «Muta pensier; pensa ch’i’ sono presso a colui ch’ogne torto disgrava». Io mi rivolsi a l’amoroso suono del mio conforto; e qual io allor vidi ne li occhi santi amor, qui l’abbandono: non perch’ io pur del mio parlar diffidi, ma per la mente che non può redire sovra sé tanto, s’altri non la guidi. Tanto poss’ io di quel punto ridire, che, rimirando lei, lo mio affetto libero fu da ogne altro disire, fin che ’l piacere etterno, che diretto raggiava in Bëatrice, dal bel viso mi contentava col secondo aspetto. Vincendo me col lume d’un sorriso, ella mi disse: «Volgiti e ascolta; ché non pur ne’ miei occhi è paradiso». Come si vede qui alcuna volta l’affetto ne la vista, s’elli è tanto, che da lui sia tutta l’anima tolta, così nel fiammeggiar del folgór santo, a ch’io mi volsi, conobbi la voglia in lui di ragionarmi ancora alquanto. El cominciò: «In questa quinta soglia de l’albero che vive de la cima e frutta sempre e mai non perde foglia, spiriti son beati, che giù, prima che venissero al ciel, fuor di gran voce, sì ch’ogne musa ne sarebbe opima. Però mira ne’ corni de la croce: quello ch’io nomerò, lì farà l’atto che fa in nube il suo foco veloce». Io vidi per la croce un lume tratto dal nomar Iosuè, com’ el si feo; né mi fu noto il dir prima che ’l fatto. E al nome de l’alto Macabeo vidi moversi un altro roteando, e letizia era ferza del paleo. Così per Carlo Magno e per Orlando due ne seguì lo mio attento sguardo, com’ occhio segue suo falcon volando. Poscia trasse Guiglielmo e Rinoardo e ’l duca Gottifredi la mia vista per quella croce, e Ruberto Guiscardo. Indi, tra l’altre luci mota e mista, mostrommi l’alma che m’avea parlato qual era tra i cantor del cielo artista. Io mi rivolsi dal mio destro lato per vedere in Beatrice il mio dovere, o per parlare o per atto, segnato; e vidi le sue luci tanto mere, tanto gioconde, che la sua sembianza vinceva li altri e l’ultimo solere. E come, per sentir più dilettanza bene operando, l’uom di giorno in giorno s’accorge che la sua virtute avanza, sì m’accors’ io che ’l mio girare intorno col cielo insieme avea cresciuto l’arco, veggendo quel miracol più addorno. E qual è ’l trasmutare in picciol varco di tempo in bianca donna, quando ’l volto suo si discarchi di vergogna il carco, tal fu ne li occhi miei, quando fui vòlto, per lo candor de la temprata stella sesta, che dentro a sé m’avea ricolto. Io vidi in quella giovïal facella lo sfavillar de l’amor che lì era segnare a li occhi miei nostra favella. E come augelli surti di rivera, quasi congratulando a lor pasture, fanno di sé or tonda or altra schiera, sì dentro ai lumi sante creature volitando cantavano, e faciensi or D, or I, or L in sue figure. Prima, cantando, a sua nota moviensi; poi, diventando l’un di questi segni, un poco s’arrestavano e taciensi. O diva Pegasëa che li ’ngegni fai glorïosi e rendili longevi, ed essi teco le cittadi e ’ regni, illustrami di te, sì ch’io rilevi le lor figure com’ io l’ho concette: paia tua possa in questi versi brevi! Mostrarsi dunque in cinque volte sette vocali e consonanti; e io notai le parti sì, come mi parver dette. ‘DILIGITE IUSTITIAM’, primai fur verbo e nome di tutto ’l dipinto; ‘QUI IUDICATIS TERRAM’, fur sezzai. Poscia ne l’emme del vocabol quinto rimasero ordinate; sì che Giove pareva argento lì d’oro distinto. E vidi scendere altre luci dove era il colmo de l’emme, e lì quetarsi cantando, credo, il ben ch’a sé le move. Poi, come nel percuoter d’i ciocchi arsi surgono innumerabili faville, onde li stolti sogliono agurarsi, resurger parver quindi più di mille luci e salir, qual assai e qual poco, sì come ’l sol che l’accende sortille; e quïetata ciascuna in suo loco, la testa e ’l collo d’un’aguglia vidi rappresentare a quel distinto foco. Quei che dipinge lì, non ha chi ’l guidi; ma esso guida, e da lui si rammenta quella virtù ch’è forma per li nidi. L’altra bëatitudo, che contenta pareva prima d’ingigliarsi a l’emme, con poco moto seguitò la ’mprenta. O dolce stella, quali e quante gemme mi dimostraro che nostra giustizia effetto sia del ciel che tu ingemme! Per ch’io prego la mente in che s’inizia tuo moto e tua virtute, che rimiri ond’ esce il fummo che ’l tuo raggio vizia; sì ch’un’altra fïata omai s’adiri del comperare e vender dentro al templo che si murò di segni e di martìri. O milizia del ciel cu’ io contemplo, adora per color che sono in terra tutti svïati dietro al malo essemplo! Già si solea con le spade far guerra; ma or si fa togliendo or qui or quivi lo pan che ’l pïo Padre a nessun serra. Ma tu che sol per cancellare scrivi, pensa che Pietro e Paulo, che moriro per la vigna che guasti, ancor son vivi. Ben puoi tu dire: «I’ ho fermo ’l disiro sì a colui che volle viver solo e che per salti fu tratto al martiro, ch’io non conosco il pescator né Polo». Paradiso Canto XIX Parea dinanzi a me con l’ali aperte la bella image che nel dolce frui liete facevan l’anime conserte; parea ciascuna rubinetto in cui raggio di sole ardesse sì acceso, che ne’ miei occhi rifrangesse lui. E quel che mi convien ritrar testeso, non portò voce mai, né scrisse incostro, né fu per fantasia già mai compreso; ch’io vidi e anche udi’ parlar lo rostro, e sonar ne la voce e «io» e «mio», quand’ era nel concetto e ‘noi’ e ‘nostro’. E cominciò: «Per esser giusto e pio son io qui essaltato a quella gloria che non si lascia vincere a disio; e in terra lasciai la mia memoria sì fatta, che le genti lì malvage commendan lei, ma non seguon la storia». Così un sol calor di molte brage si fa sentir, come di molti amori usciva solo un suon di quella image. Ond’ io appresso: «O perpetüi fiori de l’etterna letizia, che pur uno parer mi fate tutti vostri odori, solvetemi, spirando, il gran digiuno che lungamente m’ha tenuto in fame, non trovandoli in terra cibo alcuno. Ben so io che, se ’n cielo altro reame la divina giustizia fa suo specchio, che ’l vostro non l’apprende con velame. Sapete come attento io m’apparecchio ad ascoltar; sapete qual è quello dubbio che m’è digiun cotanto vecchio». Quasi falcone ch’esce del cappello, move la testa e con l’ali si plaude, voglia mostrando e faccendosi bello, vid’ io farsi quel segno, che di laude de la divina grazia era contesto, con canti quai si sa chi là sù gaude. Poi cominciò: «Colui che volse il sesto a lo stremo del mondo, e dentro ad esso distinse tanto occulto e manifesto, non poté suo valor sì fare impresso in tutto l’universo, che ’l suo verbo non rimanesse in infinito eccesso. E ciò fa certo che ’l primo superbo, che fu la somma d’ogne creatura, per non aspettar lume, cadde acerbo; e quinci appar ch’ogne minor natura è corto recettacolo a quel bene che non ha fine e sé con sé misura. Dunque vostra veduta, che convene esser alcun de’ raggi de la mente di che tutte le cose son ripiene, non pò da sua natura esser possente tanto, che suo principio discerna molto di là da quel che l’è parvente. Però ne la giustizia sempiterna la vista che riceve il vostro mondo, com’ occhio per lo mare, entro s’interna; che, ben che da la proda veggia il fondo, in pelago nol vede; e nondimeno èli, ma cela lui l’esser profondo. Lume non è, se non vien dal sereno che non si turba mai; anzi è tenèbra od ombra de la carne o suo veleno. Assai t’è mo aperta la latebra che t’ascondeva la giustizia viva, di che facei question cotanto crebra; ché tu dicevi: “Un uom nasce a la riva de l’Indo, e quivi non è chi ragioni di Cristo né chi legga né chi scriva; e tutti suoi voleri e atti buoni sono, quanto ragione umana vede, sanza peccato in vita o in sermoni. Muore non battezzato e sanza fede: ov’ è questa giustizia che ’l condanna? ov’ è la colpa sua, se ei non crede?”. Or tu chi se’, che vuo’ sedere a scranna, per giudicar di lungi mille miglia con la veduta corta d’una spanna? Certo a colui che meco s’assottiglia, se la Scrittura sovra voi non fosse, da dubitar sarebbe a maraviglia. Oh terreni animali! oh menti grosse! La prima volontà, ch’è da sé buona, da sé, ch’è sommo ben, mai non si mosse. Cotanto è giusto quanto a lei consuona: nullo creato bene a sé la tira, ma essa, radïando, lui cagiona». Quale sovresso il nido si rigira poi c’ha pasciuti la cicogna i figli, e come quel ch’è pasto la rimira; cotal si fece, e sì leväi i cigli, la benedetta imagine, che l’ali movea sospinte da tanti consigli. Roteando cantava, e dicea: «Quali son le mie note a te, che non le ’ntendi, tal è il giudicio etterno a voi mortali». Poi si quetaro quei lucenti incendi de lo Spirito Santo ancor nel segno che fé i Romani al mondo reverendi, esso ricominciò: «A questo regno non salì mai chi non credette ’n Cristo, né pria né poi ch’el si chiavasse al legno. Ma vedi: molti gridan “Cristo, Cristo!”, che saranno in giudicio assai men prope a lui, che tal che non conosce Cristo; e tai Cristian dannerà l’Etïòpe, quando si partiranno i due collegi, l’uno in etterno ricco e l’altro inòpe. Che poran dir li Perse a’ vostri regi, come vedranno quel volume aperto nel qual si scrivon tutti suoi dispregi? Lì si vedrà, tra l’opere d’Alberto, quella che tosto moverà la penna, per che ’l regno di Praga fia diserto. Lì si vedrà il duol che sovra Senna induce, falseggiando la moneta, quel che morrà di colpo di cotenna. Lì si vedrà la superbia ch’asseta, che fa lo Scotto e l’Inghilese folle, sì che non può soffrir dentro a sua meta. Vedrassi la lussuria e ’l viver molle di quel di Spagna e di quel di Boemme, che mai valor non conobbe né volle. Vedrassi al Ciotto di Ierusalemme segnata con un i la sua bontate, quando ’l contrario segnerà un emme. Vedrassi l’avarizia e la viltate di quei che guarda l’isola del foco, ove Anchise finì la lunga etate; e a dare ad intender quanto è poco, la sua scrittura fian lettere mozze, che noteranno molto in parvo loco. E parranno a ciascun l’opere sozze del barba e del fratel, che tanto egregia nazione e due corone han fatte bozze. E quel di Portogallo e di Norvegia lì si conosceranno, e quel di Rascia che male ha visto il conio di Vinegia. Oh beata Ungheria, se non si lascia più malmenare! e beata Navarra, se s’armasse del monte che la fascia! E creder de’ ciascun che già, per arra di questo, Niccosïa e Famagosta per la lor bestia si lamenti e garra, che dal fianco de l’altre non si scosta». Paradiso Canto XX Quando colui che tutto ’l mondo alluma de l’emisperio nostro sì discende, che ’l giorno d’ogne parte si consuma, lo ciel, che sol di lui prima s’accende, subitamente si rifà parvente per molte luci, in che una risplende; e questo atto del ciel mi venne a mente, come ’l segno del mondo e de’ suoi duci nel benedetto rostro fu tacente; però che tutte quelle vive luci, vie più lucendo, cominciaron canti da mia memoria labili e caduci. O dolce amor che di riso t’ammanti, quanto parevi ardente in que’ flailli, ch’avieno spirto sol di pensier santi! Poscia che i cari e lucidi lapilli ond’ io vidi ingemmato il sesto lume puoser silenzio a li angelici squilli, udir mi parve un mormorar di fiume che scende chiaro giù di pietra in pietra, mostrando l’ubertà del suo cacume. E come suono al collo de la cetra prende sua forma, e sì com’ al pertugio de la sampogna vento che penètra, così, rimosso d’aspettare indugio, quel mormorar de l’aguglia salissi su per lo collo, come fosse bugio. Fecesi voce quivi, e quindi uscissi per lo suo becco in forma di parole, quali aspettava il core ov’ io le scrissi. «La parte in me che vede e pate il sole ne l’aguglie mortali», incominciommi, «or fisamente riguardar si vole, perché d’i fuochi ond’ io figura fommi, quelli onde l’occhio in testa mi scintilla, e’ di tutti lor gradi son li sommi. Colui che luce in mezzo per pupilla, fu il cantor de lo Spirito Santo, che l’arca traslatò di villa in villa: ora conosce il merto del suo canto, in quanto effetto fu del suo consiglio, per lo remunerar ch’è altrettanto. Dei cinque che mi fan cerchio per ciglio, colui che più al becco mi s’accosta, la vedovella consolò del figlio: ora conosce quanto caro costa non seguir Cristo, per l’esperïenza di questa dolce vita e de l’opposta. E quel che segue in la circunferenza di che ragiono, per l’arco superno, morte indugiò per vera penitenza: ora conosce che ’l giudicio etterno non si trasmuta, quando degno preco fa crastino là giù de l’odïerno. L’altro che segue, con le leggi e meco, sotto buona intenzion che fé mal frutto, per cedere al pastor si fece greco: ora conosce come il mal dedutto dal suo bene operar non li è nocivo, avvegna che sia ’l mondo indi distrutto. E quel che vedi ne l’arco declivo, Guiglielmo fu, cui quella terra plora che piagne Carlo e Federigo vivo: ora conosce come s’innamora lo ciel del giusto rege, e al sembiante del suo fulgore il fa vedere ancora. Chi crederebbe giù nel mondo errante che Rifëo Troiano in questo tondo fosse la quinta de le luci sante? Ora conosce assai di quel che ’l mondo veder non può de la divina grazia, ben che sua vista non discerna il fondo». Quale allodetta che ’n aere si spazia prima cantando, e poi tace contenta de l’ultima dolcezza che la sazia, tal mi sembiò l’imago de la ’mprenta de l’etterno piacere, al cui disio ciascuna cosa qual ell’ è diventa. E avvegna ch’io fossi al dubbiar mio lì quasi vetro a lo color ch’el veste, tempo aspettar tacendo non patio, ma de la bocca, «Che cose son queste?», mi pinse con la forza del suo peso: per ch’io di coruscar vidi gran feste. Poi appresso, con l’occhio più acceso, lo benedetto segno mi rispuose per non tenermi in ammirar sospeso: «Io veggio che tu credi queste cose perch’ io le dico, ma non vedi come; sì che, se son credute, sono ascose. Fai come quei che la cosa per nome apprende ben, ma la sua quiditate veder non può se altri non la prome. Regnum celorum vïolenza pate da caldo amore e da viva speranza, che vince la divina volontate: non a guisa che l’omo a l’om sobranza, ma vince lei perché vuole esser vinta, e, vinta, vince con sua beninanza. La prima vita del ciglio e la quinta ti fa maravigliar, perché ne vedi la regïon de li angeli dipinta. D’i corpi suoi non uscir, come credi, Gentili, ma Cristiani, in ferma fede quel d’i passuri e quel d’i passi piedi. Ché l’una de lo ’nferno, u’ non si riede già mai a buon voler, tornò a l’ossa; e ciò di viva spene fu mercede: di viva spene, che mise la possa ne’ prieghi fatti a Dio per suscitarla, sì che potesse sua voglia esser mossa. L’anima glorïosa onde si parla, tornata ne la carne, in che fu poco, credette in lui che potëa aiutarla; e credendo s’accese in tanto foco di vero amor, ch’a la morte seconda fu degna di venire a questo gioco. L’altra, per grazia che da sì profonda fontana stilla, che mai creatura non pinse l’occhio infino a la prima onda, tutto suo amor là giù pose a drittura: per che, di grazia in grazia, Dio li aperse l’occhio a la nostra redenzion futura; ond’ ei credette in quella, e non sofferse da indi il puzzo più del paganesmo; e riprendiene le genti perverse. Quelle tre donne li fur per battesmo che tu vedesti da la destra rota, dinanzi al battezzar più d’un millesmo. O predestinazion, quanto remota è la radice tua da quelli aspetti che la prima cagion non veggion tota! E voi, mortali, tenetevi stretti a giudicar: ché noi, che Dio vedemo, non conosciamo ancor tutti li eletti; ed ènne dolce così fatto scemo, perché il ben nostro in questo ben s’affina, che quel che vole Iddio, e noi volemo». Così da quella imagine divina, per farmi chiara la mia corta vista, data mi fu soave medicina. E come a buon cantor buon citarista fa seguitar lo guizzo de la corda, in che più di piacer lo canto acquista, sì, mentre ch’e’ parlò, sì mi ricorda ch’io vidi le due luci benedette, pur come batter d’occhi si concorda, con le parole mover le fiammette. Paradiso Canto XXI Già eran li occhi miei rifissi al volto de la mia donna, e l’animo con essi, e da ogne altro intento s’era tolto. E quella non ridea; ma «S’io ridessi», mi cominciò, «tu ti faresti quale fu Semelè quando di cener fessi: ché la bellezza mia, che per le scale de l’etterno palazzo più s’accende, com’ hai veduto, quanto più si sale, se non si temperasse, tanto splende, che ’l tuo mortal podere, al suo fulgore, sarebbe fronda che trono scoscende. Noi sem levati al settimo splendore, che sotto ’l petto del Leone ardente raggia mo misto giù del suo valore. Ficca di retro a li occhi tuoi la mente, e fa di quelli specchi a la figura che ’n questo specchio ti sarà parvente». Qual savesse qual era la pastura del viso mio ne l’aspetto beato quand’ io mi trasmutai ad altra cura, conoscerebbe quanto m’era a grato ubidire a la mia celeste scorta, contrapesando l’un con l’altro lato. Dentro al cristallo che ’l vocabol porta, cerchiando il mondo, del suo caro duce sotto cui giacque ogne malizia morta, di color d’oro in che raggio traluce vid’ io uno scaleo eretto in suso tanto, che nol seguiva la mia luce. Vidi anche per li gradi scender giuso tanti splendor, ch’io pensai ch’ogne lume che par nel ciel, quindi fosse diffuso. E come, per lo natural costume, le pole insieme, al cominciar del giorno, si movono a scaldar le fredde piume; poi altre vanno via sanza ritorno, altre rivolgon sé onde son mosse, e altre roteando fan soggiorno; tal modo parve me che quivi fosse in quello sfavillar che ’nsieme venne, sì come in certo grado si percosse. E quel che presso più ci si ritenne, si fé sì chiaro, ch’io dicea pensando: ‘Io veggio ben l’amor che tu m’accenne. Ma quella ond’ io aspetto il come e ’l quando del dire e del tacer, si sta; ond’ io, contra ’l disio, fo ben ch’io non dimando’. Per ch’ella, che vedëa il tacer mio nel veder di colui che tutto vede, mi disse: «Solvi il tuo caldo disio». E io incominciai: «La mia mercede non mi fa degno de la tua risposta; ma per colei che ’l chieder mi concede, vita beata che ti stai nascosta dentro a la tua letizia, fammi nota la cagion che sì presso mi t’ha posta; e dì perché si tace in questa rota la dolce sinfonia di paradiso, che giù per l’altre suona sì divota». «Tu hai l’udir mortal sì come il viso», rispuose a me; «onde qui non si canta per quel che Bëatrice non ha riso. Giù per li gradi de la scala santa discesi tanto sol per farti festa col dire e con la luce che mi ammanta; né più amor mi fece esser più presta, ché più e tanto amor quinci sù ferve, sì come il fiammeggiar ti manifesta. Ma l’alta carità, che ci fa serve pronte al consiglio che ’l mondo governa, sorteggia qui sì come tu osserve». «Io veggio ben», diss’ io, «sacra lucerna, come libero amore in questa corte basta a seguir la provedenza etterna; ma questo è quel ch’a cerner mi par forte, perché predestinata fosti sola a questo officio tra le tue consorte». Né venni prima a l’ultima parola, che del suo mezzo fece il lume centro, girando sé come veloce mola; poi rispuose l’amor che v’era dentro: «Luce divina sopra me s’appunta, penetrando per questa in ch’io m’inventro, la cui virtù, col mio veder congiunta, mi leva sopra me tanto, ch’i’ veggio la somma essenza de la quale è munta. Quinci vien l’allegrezza ond’ io fiammeggio; per ch’a la vista mia, quant’ ella è chiara, la chiarità de la fiamma pareggio. Ma quell’ alma nel ciel che più si schiara, quel serafin che ’n Dio più l’occhio ha fisso, a la dimanda tua non satisfara, però che sì s’innoltra ne lo abisso de l’etterno statuto quel che chiedi, che da ogne creata vista è scisso. E al mondo mortal, quando tu riedi, questo rapporta, sì che non presumma a tanto segno più mover li piedi. La mente, che qui luce, in terra fumma; onde riguarda come può là giùe quel che non pote perché ’l ciel l’assumma». Sì mi prescrisser le parole sue, ch’io lasciai la quistione e mi ritrassi a dimandarla umilmente chi fue. «Tra ’ due liti d’Italia surgon sassi, e non molto distanti a la tua patria, tanto che ’ troni assai suonan più bassi, e fanno un gibbo che si chiama Catria, di sotto al quale è consecrato un ermo, che suole esser disposto a sola latria». Così ricominciommi il terzo sermo; e poi, continüando, disse: «Quivi al servigio di Dio mi fe’ sì fermo, che pur con cibi di liquor d’ulivi lievemente passava caldi e geli, contento ne’ pensier contemplativi. Render solea quel chiostro a questi cieli fertilemente; e ora è fatto vano, sì che tosto convien che si riveli. In quel loco fu’ io Pietro Damiano, e Pietro Peccator fu’ ne la casa di Nostra Donna in sul lito adriano. Poca vita mortal m’era rimasa, quando fui chiesto e tratto a quel cappello, che pur di male in peggio si travasa. Venne Cefàs e venne il gran vasello de lo Spirito Santo, magri e scalzi, prendendo il cibo da qualunque ostello. Or voglion quinci e quindi chi rincalzi li moderni pastori e chi li meni, tanto son gravi, e chi di rietro li alzi. Cuopron d’i manti loro i palafreni, sì che due bestie van sott’ una pelle: oh pazïenza che tanto sostieni!». A questa voce vid’ io più fiammelle di grado in grado scendere e girarsi, e ogne giro le facea più belle. Dintorno a questa vennero e fermarsi, e fero un grido di sì alto suono, che non potrebbe qui assomigliarsi; né io lo ’ntesi, sì mi vinse il tuono. Paradiso Canto XXII Oppresso di stupore, a la mia guida mi volsi, come parvol che ricorre sempre colà dove più si confida; e quella, come madre che soccorre sùbito al figlio palido e anelo con la sua voce, che ’l suol ben disporre, mi disse: «Non sai tu che tu se’ in cielo? e non sai tu che ’l cielo è tutto santo, e ciò che ci si fa vien da buon zelo? Come t’avrebbe trasmutato il canto, e io ridendo, mo pensar lo puoi, poscia che ’l grido t’ha mosso cotanto; nel qual, se ’nteso avessi i prieghi suoi, già ti sarebbe nota la vendetta che tu vedrai innanzi che tu muoi. La spada di qua sù non taglia in fretta né tardo, ma’ ch’al parer di colui che disïando o temendo l’aspetta. Ma rivolgiti omai inverso altrui; ch’assai illustri spiriti vedrai, se com’ io dico l’aspetto redui». Come a lei piacque, li occhi ritornai, e vidi cento sperule che ’nsieme più s’abbellivan con mutüi rai. Io stava come quei che ’n sé repreme la punta del disio, e non s’attenta di domandar, sì del troppo si teme; e la maggiore e la più luculenta di quelle margherite innanzi fessi, per far di sé la mia voglia contenta. Poi dentro a lei udi’: «Se tu vedessi com’ io la carità che tra noi arde, li tuoi concetti sarebbero espressi. Ma perché tu, aspettando, non tarde a l’alto fine, io ti farò risposta pur al pensier, da che sì ti riguarde. Quel monte a cui Cassino è ne la costa fu frequentato già in su la cima da la gente ingannata e mal disposta; e quel son io che sù vi portai prima lo nome di colui che ’n terra addusse la verità che tanto ci soblima; e tanta grazia sopra me relusse, ch’io ritrassi le ville circunstanti da l’empio cólto che ’l mondo sedusse. Questi altri fuochi tutti contemplanti uomini fuoro, accesi di quel caldo che fa nascere i fiori e ’ frutti santi. Qui è Maccario, qui è Romoaldo, qui son li frati miei che dentro ai chiostri fermar li piedi e tennero il cor saldo». E io a lui: «L’affetto che dimostri meco parlando, e la buona sembianza ch’io veggio e noto in tutti li ardor vostri, così m’ha dilatata mia fidanza, come ’l sol fa la rosa quando aperta tanto divien quant’ ell’ ha di possanza. Però ti priego, e tu, padre, m’accerta s’io posso prender tanta grazia, ch’io ti veggia con imagine scoverta». Ond’ elli: «Frate, il tuo alto disio s’adempierà in su l’ultima spera, ove s’adempion tutti li altri e ’l mio. Ivi è perfetta, matura e intera ciascuna disïanza; in quella sola è ogne parte là ove sempr’ era, perché non è in loco e non s’impola; e nostra scala infino ad essa varca, onde così dal viso ti s’invola. Infin là sù la vide il patriarca Iacobbe porger la superna parte, quando li apparve d’angeli sì carca. Ma, per salirla, mo nessun diparte da terra i piedi, e la regola mia rimasa è per danno de le carte. Le mura che solieno esser badia fatte sono spelonche, e le cocolle sacca son piene di farina ria. Ma grave usura tanto non si tolle contra ’l piacer di Dio, quanto quel frutto che fa il cor de’ monaci sì folle; ché quantunque la Chiesa guarda, tutto è de la gente che per Dio dimanda; non di parenti né d’altro più brutto. La carne d’i mortali è tanto blanda, che giù non basta buon cominciamento dal nascer de la quercia al far la ghianda. Pier cominciò sanz’ oro e sanz’ argento, e io con orazione e con digiuno, e Francesco umilmente il suo convento; e se guardi ’l principio di ciascuno, poscia riguardi là dov’ è trascorso, tu vederai del bianco fatto bruno. Veramente Iordan vòlto retrorso più fu, e ’l mar fuggir, quando Dio volse, mirabile a veder che qui ’l soccorso». Così mi disse, e indi si raccolse al suo collegio, e ’l collegio si strinse; poi, come turbo, in sù tutto s’avvolse. La dolce donna dietro a lor mi pinse con un sol cenno su per quella scala, sì sua virtù la mia natura vinse; né mai qua giù dove si monta e cala naturalmente, fu sì ratto moto ch’agguagliar si potesse a la mia ala. S’io torni mai, lettore, a quel divoto trïunfo per lo quale io piango spesso le mie peccata e ’l petto mi percuoto, tu non avresti in tanto tratto e messo nel foco il dito, in quant’ io vidi ’l segno che segue il Tauro e fui dentro da esso. O glorïose stelle, o lume pregno di gran virtù, dal quale io riconosco tutto, qual che si sia, il mio ingegno, con voi nasceva e s’ascondeva vosco quelli ch’è padre d’ogne mortal vita, quand’ io senti’ di prima l’aere tosco; e poi, quando mi fu grazia largita d’entrar ne l’alta rota che vi gira, la vostra regïon mi fu sortita. A voi divotamente ora sospira l’anima mia, per acquistar virtute al passo forte che a sé la tira. «Tu se’ sì presso a l’ultima salute», cominciò Bëatrice, «che tu dei aver le luci tue chiare e acute; e però, prima che tu più t’inlei, rimira in giù, e vedi quanto mondo sotto li piedi già esser ti fei; sì che ’l tuo cor, quantunque può, giocondo s’appresenti a la turba trïunfante che lieta vien per questo etera tondo». Col viso ritornai per tutte quante le sette spere, e vidi questo globo tal, ch’io sorrisi del suo vil sembiante; e quel consiglio per migliore approbo che l’ha per meno; e chi ad altro pensa chiamar si puote veramente probo. Vidi la figlia di Latona incensa sanza quell’ ombra che mi fu cagione per che già la credetti rara e densa. L’aspetto del tuo nato, Iperïone, quivi sostenni, e vidi com’ si move circa e vicino a lui Maia e Dïone. Quindi m’apparve il temperar di Giove tra ’l padre e ’l figlio; e quindi mi fu chiaro il varïar che fanno di lor dove; e tutti e sette mi si dimostraro quanto son grandi e quanto son veloci e come sono in distante riparo. L’aiuola che ci fa tanto feroci, volgendom’ io con li etterni Gemelli, tutta m’apparve da’ colli a le foci; poscia rivolsi li occhi a li occhi belli. Paradiso Canto XXIII Come l’augello, intra l’amate fronde, posato al nido de’ suoi dolci nati la notte che le cose ci nasconde, che, per veder li aspetti disïati e per trovar lo cibo onde li pasca, in che gravi labor li sono aggrati, previene il tempo in su aperta frasca, e con ardente affetto il sole aspetta, fiso guardando pur che l’alba nasca; così la donna mïa stava eretta e attenta, rivolta inver’ la plaga sotto la quale il sol mostra men fretta: sì che, veggendola io sospesa e vaga, fecimi qual è quei che disïando altro vorria, e sperando s’appaga. Ma poco fu tra uno e altro quando, del mio attender, dico, e del vedere lo ciel venir più e più rischiarando; e Bëatrice disse: «Ecco le schiere del trïunfo di Cristo e tutto ’l frutto ricolto del girar di queste spere!». Pariemi che ’l suo viso ardesse tutto, e li occhi avea di letizia sì pieni, che passarmen convien sanza costrutto. Quale ne’ plenilunïi sereni Trivïa ride tra le ninfe etterne che dipingon lo ciel per tutti i seni, vid’ i’ sopra migliaia di lucerne un sol che tutte quante l’accendea, come fa ’l nostro le viste superne; e per la viva luce trasparea la lucente sustanza tanto chiara nel viso mio, che non la sostenea. Oh Bëatrice, dolce guida e cara! Ella mi disse: «Quel che ti sobranza è virtù da cui nulla si ripara. Quivi è la sapïenza e la possanza ch’aprì le strade tra ’l cielo e la terra, onde fu già sì lunga disïanza». Come foco di nube si diserra per dilatarsi sì che non vi cape, e fuor di sua natura in giù s’atterra, la mente mia così, tra quelle dape fatta più grande, di sé stessa uscìo, e che si fesse rimembrar non sape. «Apri li occhi e riguarda qual son io; tu hai vedute cose, che possente se’ fatto a sostener lo riso mio». Io era come quei che si risente di visïone oblita e che s’ingegna indarno di ridurlasi a la mente, quand’ io udi’ questa proferta, degna di tanto grato, che mai non si stingue del libro che ’l preterito rassegna. Se mo sonasser tutte quelle lingue che Polimnïa con le suore fero del latte lor dolcissimo più pingue, per aiutarmi, al millesmo del vero non si verria, cantando il santo riso e quanto il santo aspetto facea mero; e così, figurando il paradiso, convien saltar lo sacrato poema, come chi trova suo cammin riciso. Ma chi pensasse il ponderoso tema e l’omero mortal che se ne carca, nol biasmerebbe se sott’ esso trema: non è pareggio da picciola barca quel che fendendo va l’ardita prora, né da nocchier ch’a sé medesmo parca. «Perché la faccia mia sì t’innamora, che tu non ti rivolgi al bel giardino che sotto i raggi di Cristo s’infiora? Quivi è la rosa in che ’l verbo divino carne si fece; quivi son li gigli al cui odor si prese il buon cammino». Così Beatrice; e io, che a’ suoi consigli tutto era pronto, ancora mi rendei a la battaglia de’ debili cigli. Come a raggio di sol, che puro mei per fratta nube, già prato di fiori vider, coverti d’ombra, li occhi miei; vid’ io così più turbe di splendori, folgorate di sù da raggi ardenti, sanza veder principio di folgóri. O benigna vertù che sì li ’mprenti, sù t’essaltasti, per largirmi loco a li occhi lì che non t’eran possenti. Il nome del bel fior ch’io sempre invoco e mane e sera, tutto mi ristrinse l’animo ad avvisar lo maggior foco; e come ambo le luci mi dipinse il quale e il quanto de la viva stella che là sù vince come qua giù vinse, per entro il cielo scese una facella, formata in cerchio a guisa di corona, e cinsela e girossi intorno ad ella. Qualunque melodia più dolce suona qua giù e più a sé l’anima tira, parrebbe nube che squarciata tona, comparata al sonar di quella lira onde si coronava il bel zaffiro del quale il ciel più chiaro s’inzaffira. «Io sono amore angelico, che giro l’alta letizia che spira del ventre che fu albergo del nostro disiro; e girerommi, donna del ciel, mentre che seguirai tuo figlio, e farai dia più la spera suprema perché lì entre». Così la circulata melodia si sigillava, e tutti li altri lumi facean sonare il nome di Maria. Lo real manto di tutti i volumi del mondo, che più ferve e più s’avviva ne l’alito di Dio e nei costumi, avea sopra di noi l’interna riva tanto distante, che la sua parvenza, là dov’ io era, ancor non appariva: però non ebber li occhi miei potenza di seguitar la coronata fiamma che si levò appresso sua semenza. E come fantolin che ’nver’ la mamma tende le braccia, poi che ’l latte prese, per l’animo che ’nfin di fuor s’infiamma; ciascun di quei candori in sù si stese con la sua cima, sì che l’alto affetto ch’elli avieno a Maria mi fu palese. Indi rimaser lì nel mio cospetto, ‘Regina celi’ cantando sì dolce, che mai da me non si partì ’l diletto. Oh quanta è l’ubertà che si soffolce in quelle arche ricchissime che fuoro a seminar qua giù buone bobolce! Quivi si vive e gode del tesoro che s’acquistò piangendo ne lo essilio di Babillòn, ove si lasciò l’oro. Quivi trïunfa, sotto l’alto Filio di Dio e di Maria, di sua vittoria, e con l’antico e col novo concilio, colui che tien le chiavi di tal gloria. Paradiso Canto XXIV «O sodalizio eletto a la gran cena del benedetto Agnello, il qual vi ciba sì, che la vostra voglia è sempre piena, se per grazia di Dio questi preliba di quel che cade de la vostra mensa, prima che morte tempo li prescriba, ponete mente a l’affezione immensa e roratelo alquanto: voi bevete sempre del fonte onde vien quel ch’ei pensa». Così Beatrice; e quelle anime liete si fero spere sopra fissi poli, fiammando, a volte, a guisa di comete. E come cerchi in tempra d’orïuoli si giran sì, che ’l primo a chi pon mente quïeto pare, e l’ultimo che voli; così quelle carole, differente- mente danzando, de la sua ricchezza mi facieno stimar, veloci e lente. Di quella ch’io notai di più carezza vid’ ïo uscire un foco sì felice, che nullo vi lasciò di più chiarezza; e tre fïate intorno di Beatrice si volse con un canto tanto divo, che la mia fantasia nol mi ridice. Però salta la penna e non lo scrivo: ché l’imagine nostra a cotai pieghe, non che ’l parlare, è troppo color vivo. «O santa suora mia che sì ne prieghe divota, per lo tuo ardente affetto da quella bella spera mi disleghe». Poscia fermato, il foco benedetto a la mia donna dirizzò lo spiro, che favellò così com’ i’ ho detto. Ed ella: «O luce etterna del gran viro a cui Nostro Segnor lasciò le chiavi, ch’ei portò giù, di questo gaudio miro, tenta costui di punti lievi e gravi, come ti piace, intorno de la fede, per la qual tu su per lo mare andavi. S’elli ama bene e bene spera e crede, non t’è occulto, perché ’l viso hai quivi dov’ ogne cosa dipinta si vede; ma perché questo regno ha fatto civi per la verace fede, a glorïarla, di lei parlare è ben ch’a lui arrivi». Sì come il baccialier s’arma e non parla fin che ’l maestro la question propone, per approvarla, non per terminarla, così m’armava io d’ogne ragione mentre ch’ella dicea, per esser presto a tal querente e a tal professione. «Dì, buon Cristiano, fatti manifesto: fede che è?». Ond’ io levai la fronte in quella luce onde spirava questo; poi mi volsi a Beatrice, ed essa pronte sembianze femmi perch’ ïo spandessi l’acqua di fuor del mio interno fonte. «La Grazia che mi dà ch’io mi confessi», comincia’ io, «da l’alto primipilo, faccia li miei concetti bene espressi». E seguitai: «Come ’l verace stilo ne scrisse, padre, del tuo caro frate che mise teco Roma nel buon filo, fede è sustanza di cose sperate e argomento de le non parventi; e questa pare a me sua quiditate». Allora udi’: «Dirittamente senti, se bene intendi perché la ripuose tra le sustanze, e poi tra li argomenti». E io appresso: «Le profonde cose che mi largiscon qui la lor parvenza, a li occhi di là giù son sì ascose, che l’esser loro v’è in sola credenza, sopra la qual si fonda l’alta spene; e però di sustanza prende intenza. E da questa credenza ci convene silogizzar, sanz’ avere altra vista: però intenza d’argomento tene». Allora udi’: «Se quantunque s’acquista giù per dottrina, fosse così ’nteso, non lì avria loco ingegno di sofista». Così spirò di quello amore acceso; indi soggiunse: «Assai bene è trascorsa d’esta moneta già la lega e ’l peso; ma dimmi se tu l’hai ne la tua borsa». Ond’ io: «Sì ho, sì lucida e sì tonda, che nel suo conio nulla mi s’inforsa». Appresso uscì de la luce profonda che lì splendeva: «Questa cara gioia sopra la quale ogne virtù si fonda, onde ti venne?». E io: «La larga ploia de lo Spirito Santo, ch’è diffusa in su le vecchie e ’n su le nuove cuoia, è silogismo che la m’ha conchiusa acutamente sì, che ’nverso d’ella ogne dimostrazion mi pare ottusa». Io udi’ poi: «L’antica e la novella proposizion che così ti conchiude, perché l’hai tu per divina favella?». E io: «La prova che ’l ver mi dischiude, son l’opere seguite, a che natura non scalda ferro mai né batte incude». Risposto fummi: «Dì, chi t’assicura che quell’ opere fosser? Quel medesmo che vuol provarsi, non altri, il ti giura». «Se ’l mondo si rivolse al cristianesmo», diss’ io, «sanza miracoli, quest’ uno è tal, che li altri non sono il centesmo: ché tu intrasti povero e digiuno in campo, a seminar la buona pianta che fu già vite e ora è fatta pruno». Finito questo, l’alta corte santa risonò per le spere un ‘Dio laudamo’ ne la melode che là sù si canta. E quel baron che sì di ramo in ramo, essaminando, già tratto m’avea, che a l’ultime fronde appressavamo, ricominciò: «La Grazia, che donnea con la tua mente, la bocca t’aperse infino a qui come aprir si dovea, sì ch’io approvo ciò che fuori emerse; ma or convien espremer quel che credi, e onde a la credenza tua s’offerse». «O santo padre, e spirito che vedi ciò che credesti sì, che tu vincesti ver’ lo sepulcro più giovani piedi», comincia’ io, «tu vuo’ ch’io manifesti la forma qui del pronto creder mio, e anche la cagion di lui chiedesti. E io rispondo: Io credo in uno Dio solo ed etterno, che tutto ’l ciel move, non moto, con amore e con disio; e a tal creder non ho io pur prove fisice e metafisice, ma dalmi anche la verità che quinci piove per Moïsè, per profeti e per salmi, per l’Evangelio e per voi che scriveste poi che l’ardente Spirto vi fé almi; e credo in tre persone etterne, e queste credo una essenza sì una e sì trina, che soffera congiunto ‘sono’ ed ‘este’. De la profonda condizion divina ch’io tocco mo, la mente mi sigilla più volte l’evangelica dottrina. Quest’ è ’l principio, quest’ è la favilla che si dilata in fiamma poi vivace, e come stella in cielo in me scintilla». Come ’l segnor ch’ascolta quel che i piace, da indi abbraccia il servo, gratulando per la novella, tosto ch’el si tace; così, benedicendomi cantando, tre volte cinse me, sì com’ io tacqui, l’appostolico lume al cui comando io avea detto: sì nel dir li piacqui! Paradiso Canto XXV Se mai continga che ’l poema sacro al quale ha posto mano e cielo e terra, sì che m’ha fatto per molti anni macro, vinca la crudeltà che fuor mi serra del bello ovile ov’ io dormi’ agnello, nimico ai lupi che li danno guerra; con altra voce omai, con altro vello ritornerò poeta, e in sul fonte del mio battesmo prenderò ’l cappello; però che ne la fede, che fa conte l’anime a Dio, quivi intra’ io, e poi Pietro per lei sì mi girò la fronte. Indi si mosse un lume verso noi di quella spera ond’ uscì la primizia che lasciò Cristo d’i vicari suoi; e la mia donna, piena di letizia, mi disse: «Mira, mira: ecco il barone per cui là giù si vicita Galizia». Sì come quando il colombo si pone presso al compagno, l’uno a l’altro pande, girando e mormorando, l’affezione; così vid’ ïo l’un da l’altro grande principe glorïoso essere accolto, laudando il cibo che là sù li prande. Ma poi che ’l gratular si fu assolto, tacito coram me ciascun s’affisse, ignito sì che vincëa ’l mio volto. Ridendo allora Bëatrice disse: «Inclita vita per cui la larghezza de la nostra basilica si scrisse, fa risonar la spene in questa altezza: tu sai, che tante fiate la figuri, quante Iesù ai tre fé più carezza». «Leva la testa e fa che t’assicuri: che ciò che vien qua sù del mortal mondo, convien ch’ai nostri raggi si maturi». Questo conforto del foco secondo mi venne; ond’ io leväi li occhi a’ monti che li ’ncurvaron pria col troppo pondo. «Poi che per grazia vuol che tu t’affronti lo nostro Imperadore, anzi la morte, ne l’aula più secreta co’ suoi conti, sì che, veduto il ver di questa corte, la spene, che là giù bene innamora, in te e in altrui di ciò conforte, di’ quel ch’ell’ è, di’ come se ne ’nfiora la mente tua, e dì onde a te venne». Così seguì ’l secondo lume ancora. E quella pïa che guidò le penne de le mie ali a così alto volo, a la risposta così mi prevenne: «La Chiesa militante alcun figliuolo non ha con più speranza, com’ è scritto nel Sol che raggia tutto nostro stuolo: però li è conceduto che d’Egitto vegna in Ierusalemme per vedere, anzi che ’l militar li sia prescritto. Li altri due punti, che non per sapere son dimandati, ma perch’ ei rapporti quanto questa virtù t’è in piacere, a lui lasc’ io, ché non li saran forti né di iattanza; ed elli a ciò risponda, e la grazia di Dio ciò li comporti». Come discente ch’a dottor seconda pronto e libente in quel ch’elli è esperto, perché la sua bontà si disasconda, «Spene», diss’ io, «è uno attender certo de la gloria futura, il qual produce grazia divina e precedente merto. Da molte stelle mi vien questa luce; ma quei la distillò nel mio cor pria che fu sommo cantor del sommo duce. ‘Sperino in te’, ne la sua tëodia dice, ‘color che sanno il nome tuo’: e chi nol sa, s’elli ha la fede mia? Tu mi stillasti, con lo stillar suo, ne la pistola poi; sì ch’io son pieno, e in altrui vostra pioggia repluo». Mentr’ io diceva, dentro al vivo seno di quello incendio tremolava un lampo sùbito e spesso a guisa di baleno. Indi spirò: «L’amore ond’ ïo avvampo ancor ver’ la virtù che mi seguette infin la palma e a l’uscir del campo, vuol ch’io respiri a te che ti dilette di lei; ed emmi a grato che tu diche quello che la speranza ti ’mpromette». E io: «Le nove e le scritture antiche pongon lo segno, ed esso lo mi addita, de l’anime che Dio s’ha fatte amiche. Dice Isaia che ciascuna vestita ne la sua terra fia di doppia vesta: e la sua terra è questa dolce vita; e ’l tuo fratello assai vie più digesta, là dove tratta de le bianche stole, questa revelazion ci manifesta». E prima, appresso al fin d’este parole, ‘Sperent in te’ di sopr’ a noi s’udì; a che rispuoser tutte le carole. Poscia tra esse un lume si schiarì sì che, se ’l Cancro avesse un tal cristallo, l’inverno avrebbe un mese d’un sol dì. E come surge e va ed entra in ballo vergine lieta, sol per fare onore a la novizia, non per alcun fallo, così vid’ io lo schiarato splendore venire a’ due che si volgieno a nota qual conveniesi al loro ardente amore. Misesi lì nel canto e ne la rota; e la mia donna in lor tenea l’aspetto, pur come sposa tacita e immota. «Questi è colui che giacque sopra ’l petto del nostro pellicano, e questi fue di su la croce al grande officio eletto». La donna mia così; né però piùe mosser la vista sua di stare attenta poscia che prima le parole sue. Qual è colui ch’adocchia e s’argomenta di vedere eclissar lo sole un poco, che, per veder, non vedente diventa; tal mi fec’ ïo a quell’ ultimo foco mentre che detto fu: «Perché t’abbagli per veder cosa che qui non ha loco? In terra è terra il mio corpo, e saragli tanto con li altri, che ’l numero nostro con l’etterno proposito s’agguagli. Con le due stole nel beato chiostro son le due luci sole che saliro; e questo apporterai nel mondo vostro». A questa voce l’infiammato giro si quïetò con esso il dolce mischio che si facea nel suon del trino spiro, sì come, per cessar fatica o rischio, li remi, pria ne l’acqua ripercossi, tutti si posano al sonar d’un fischio. Ahi quanto ne la mente mi commossi, quando mi volsi per veder Beatrice, per non poter veder, benché io fossi presso di lei, e nel mondo felice! Paradiso Canto XXVI Mentr’ io dubbiava per lo viso spento, de la fulgida fiamma che lo spense uscì un spiro che mi fece attento, dicendo: «Intanto che tu ti risense de la vista che haï in me consunta, ben è che ragionando la compense. Comincia dunque; e dì ove s’appunta l’anima tua, e fa ragion che sia la vista in te smarrita e non defunta: perché la donna che per questa dia regïon ti conduce, ha ne lo sguardo la virtù ch’ebbe la man d’Anania». Io dissi: «Al suo piacere e tosto e tardo vegna remedio a li occhi, che fuor porte quand’ ella entrò col foco ond’ io sempr’ ardo. Lo ben che fa contenta questa corte, Alfa e O è di quanta scrittura mi legge Amore o lievemente o forte». Quella medesma voce che paura tolta m’avea del sùbito abbarbaglio, di ragionare ancor mi mise in cura; e disse: «Certo a più angusto vaglio ti conviene schiarar: dicer convienti chi drizzò l’arco tuo a tal berzaglio». E io: «Per filosofici argomenti e per autorità che quinci scende cotale amor convien che in me si ’mprenti: ché ’l bene, in quanto ben, come s’intende, così accende amore, e tanto maggio quanto più di bontate in sé comprende. Dunque a l’essenza ov’ è tanto avvantaggio, che ciascun ben che fuor di lei si trova altro non è ch’un lume di suo raggio, più che in altra convien che si mova la mente, amando, di ciascun che cerne il vero in che si fonda questa prova. Tal vero a l’intelletto mïo sterne colui che mi dimostra il primo amore di tutte le sustanze sempiterne. Sternel la voce del verace autore, che dice a Moïsè, di sé parlando: ‘Io ti farò vedere ogne valore’. Sternilmi tu ancora, incominciando l’alto preconio che grida l’arcano di qui là giù sovra ogne altro bando». E io udi’: «Per intelletto umano e per autoritadi a lui concorde d’i tuoi amori a Dio guarda il sovrano. Ma dì ancor se tu senti altre corde tirarti verso lui, sì che tu suone con quanti denti questo amor ti morde». Non fu latente la santa intenzione de l’aguglia di Cristo, anzi m’accorsi dove volea menar mia professione. Però ricominciai: «Tutti quei morsi che posson far lo cor volgere a Dio, a la mia caritate son concorsi: ché l’essere del mondo e l’esser mio, la morte ch’el sostenne perch’ io viva, e quel che spera ogne fedel com’ io, con la predetta conoscenza viva, tratto m’hanno del mar de l’amor torto, e del diritto m’han posto a la riva. Le fronde onde s’infronda tutto l’orto de l’ortolano etterno, am’ io cotanto quanto da lui a lor di bene è porto». Sì com’ io tacqui, un dolcissimo canto risonò per lo cielo, e la mia donna dicea con li altri: «Santo, santo, santo!». E come a lume acuto si disonna per lo spirto visivo che ricorre a lo splendor che va di gonna in gonna, e lo svegliato ciò che vede aborre, sì nescïa è la sùbita vigilia fin che la stimativa non soccorre; così de li occhi miei ogne quisquilia fugò Beatrice col raggio d’i suoi, che rifulgea da più di mille milia: onde mei che dinanzi vidi poi; e quasi stupefatto domandai d’un quarto lume ch’io vidi tra noi. E la mia donna: «Dentro da quei rai vagheggia il suo fattor l’anima prima che la prima virtù creasse mai». Come la fronda che flette la cima nel transito del vento, e poi si leva per la propria virtù che la soblima, fec’ io in tanto in quant’ ella diceva, stupendo, e poi mi rifece sicuro un disio di parlare ond’ ïo ardeva. E cominciai: «O pomo che maturo solo prodotto fosti, o padre antico a cui ciascuna sposa è figlia e nuro, divoto quanto posso a te supplìco perché mi parli: tu vedi mia voglia, e per udirti tosto non la dico». Talvolta un animal coverto broglia, sì che l’affetto convien che si paia per lo seguir che face a lui la ’nvoglia; e similmente l’anima primaia mi facea trasparer per la coverta quant’ ella a compiacermi venìa gaia. Indi spirò: «Sanz’ essermi proferta da te, la voglia tua discerno meglio che tu qualunque cosa t’è più certa; perch’ io la veggio nel verace speglio che fa di sé pareglio a l’altre cose, e nulla face lui di sé pareglio. Tu vuogli udir quant’ è che Dio mi puose ne l’eccelso giardino, ove costei a così lunga scala ti dispuose, e quanto fu diletto a li occhi miei, e la propria cagion del gran disdegno, e l’idïoma ch’usai e che fei. Or, figluol mio, non il gustar del legno fu per sé la cagion di tanto essilio, ma solamente il trapassar del segno. Quindi onde mosse tua donna Virgilio, quattromilia trecento e due volumi di sol desiderai questo concilio; e vidi lui tornare a tutt’ i lumi de la sua strada novecento trenta fïate, mentre ch’ïo in terra fu’mi. La lingua ch’io parlai fu tutta spenta innanzi che a l’ovra inconsummabile fosse la gente di Nembròt attenta: ché nullo effetto mai razïonabile, per lo piacere uman che rinovella seguendo il cielo, sempre fu durabile. Opera naturale è ch’uom favella; ma così o così, natura lascia poi fare a voi secondo che v’abbella. Pria ch’i’ scendessi a l’infernale ambascia, I s’appellava in terra il sommo bene onde vien la letizia che mi fascia; e El si chiamò poi: e ciò convene, ché l’uso d’i mortali è come fronda in ramo, che sen va e altra vene. Nel monte che si leva più da l’onda, fu’ io, con vita pura e disonesta, da la prim’ ora a quella che seconda, come ’l sol muta quadra, l’ora sesta». Paradiso Canto XXVII ‘Al Padre, al Figlio, a lo Spirito Santo’, cominciò, ‘gloria!’, tutto ’l paradiso, sì che m’inebrïava il dolce canto. Ciò ch’io vedeva mi sembiava un riso de l’universo; per che mia ebbrezza intrava per l’udire e per lo viso. Oh gioia! oh ineffabile allegrezza! oh vita intègra d’amore e di pace! oh sanza brama sicura ricchezza! Dinanzi a li occhi miei le quattro face stavano accese, e quella che pria venne incominciò a farsi più vivace, e tal ne la sembianza sua divenne, qual diverrebbe Iove, s’elli e Marte fossero augelli e cambiassersi penne. La provedenza, che quivi comparte vice e officio, nel beato coro silenzio posto avea da ogne parte, quand’ ïo udi’: «Se io mi trascoloro, non ti maravigliar, ché, dicend’ io, vedrai trascolorar tutti costoro. Quelli ch’usurpa in terra il luogo mio, il luogo mio, il luogo mio, che vaca ne la presenza del Figliuol di Dio, fatt’ ha del cimitero mio cloaca del sangue e de la puzza; onde ’l perverso che cadde di qua sù, là giù si placa». Di quel color che per lo sole avverso nube dipigne da sera e da mane, vid’ ïo allora tutto ’l ciel cosperso. E come donna onesta che permane di sé sicura, e per l’altrui fallanza, pur ascoltando, timida si fane, così Beatrice trasmutò sembianza; e tale eclissi credo che ’n ciel fue quando patì la supprema possanza. Poi procedetter le parole sue con voce tanto da sé trasmutata, che la sembianza non si mutò piùe: «Non fu la sposa di Cristo allevata del sangue mio, di Lin, di quel di Cleto, per essere ad acquisto d’oro usata; ma per acquisto d’esto viver lieto e Sisto e Pïo e Calisto e Urbano sparser lo sangue dopo molto fleto. Non fu nostra intenzion ch’a destra mano d’i nostri successor parte sedesse, parte da l’altra del popol cristiano; né che le chiavi che mi fuor concesse, divenisser signaculo in vessillo che contra battezzati combattesse; né ch’io fossi figura di sigillo a privilegi venduti e mendaci, ond’ io sovente arrosso e disfavillo. In vesta di pastor lupi rapaci si veggion di qua sù per tutti i paschi: o difesa di Dio, perché pur giaci? Del sangue nostro Caorsini e Guaschi s’apparecchian di bere: o buon principio, a che vil fine convien che tu caschi! Ma l’alta provedenza, che con Scipio difese a Roma la gloria del mondo, soccorrà tosto, sì com’ io concipio; e tu, figliuol, che per lo mortal pondo ancor giù tornerai, apri la bocca, e non asconder quel ch’io non ascondo». Sì come di vapor gelati fiocca in giuso l’aere nostro, quando ’l corno de la capra del ciel col sol si tocca, in sù vid’ io così l’etera addorno farsi e fioccar di vapor trïunfanti che fatto avien con noi quivi soggiorno. Lo viso mio seguiva i suoi sembianti, e seguì fin che ’l mezzo, per lo molto, li tolse il trapassar del più avanti. Onde la donna, che mi vide assolto de l’attendere in sù, mi disse: «Adima il viso e guarda come tu se’ vòlto». Da l’ora ch’ïo avea guardato prima i’ vidi mosso me per tutto l’arco che fa dal mezzo al fine il primo clima; sì ch’io vedea di là da Gade il varco folle d’Ulisse, e di qua presso il lito nel qual si fece Europa dolce carco. E più mi fora discoverto il sito di questa aiuola; ma ’l sol procedea sotto i mie’ piedi un segno e più partito. La mente innamorata, che donnea con la mia donna sempre, di ridure ad essa li occhi più che mai ardea; e se natura o arte fé pasture da pigliare occhi, per aver la mente, in carne umana o ne le sue pitture, tutte adunate, parrebber nïente ver’ lo piacer divin che mi refulse, quando mi volsi al suo viso ridente. E la virtù che lo sguardo m’indulse, del bel nido di Leda mi divelse, e nel ciel velocissimo m’impulse. Le parti sue vivissime ed eccelse sì uniforme son, ch’i’ non so dire qual Bëatrice per loco mi scelse. Ma ella, che vedëa ’l mio disire, incominciò, ridendo tanto lieta, che Dio parea nel suo volto gioire: «La natura del mondo, che quïeta il mezzo e tutto l’altro intorno move, quinci comincia come da sua meta; e questo cielo non ha altro dove che la mente divina, in che s’accende l’amor che ’l volge e la virtù ch’ei piove. Luce e amor d’un cerchio lui comprende, sì come questo li altri; e quel precinto colui che ’l cinge solamente intende. Non è suo moto per altro distinto, ma li altri son mensurati da questo, sì come diece da mezzo e da quinto; e come il tempo tegna in cotal testo le sue radici e ne li altri le fronde, omai a te può esser manifesto. Oh cupidigia che i mortali affonde sì sotto te, che nessuno ha podere di trarre li occhi fuor de le tue onde! Ben fiorisce ne li uomini il volere; ma la pioggia continüa converte in bozzacchioni le sosine vere. Fede e innocenza son reperte solo ne’ parvoletti; poi ciascuna pria fugge che le guance sian coperte. Tale, balbuzïendo ancor, digiuna, che poi divora, con la lingua sciolta, qualunque cibo per qualunque luna; e tal, balbuzïendo, ama e ascolta la madre sua, che, con loquela intera, disïa poi di vederla sepolta. Così si fa la pelle bianca nera nel primo aspetto de la bella figlia di quel ch’apporta mane e lascia sera. Tu, perché non ti facci maraviglia, pensa che ’n terra non è chi governi; onde sì svïa l’umana famiglia. Ma prima che gennaio tutto si sverni per la centesma ch’è là giù negletta, raggeran sì questi cerchi superni, che la fortuna che tanto s’aspetta, le poppe volgerà u’ son le prore, sì che la classe correrà diretta; e vero frutto verrà dopo ’l fiore». Paradiso Canto XXVIII Poscia che ’ncontro a la vita presente d’i miseri mortali aperse ’l vero quella che ’mparadisa la mia mente, come in lo specchio fiamma di doppiero vede colui che se n’alluma retro, prima che l’abbia in vista o in pensiero, e sé rivolge per veder se ’l vetro li dice il vero, e vede ch’el s’accorda con esso come nota con suo metro; così la mia memoria si ricorda ch’io feci riguardando ne’ belli occhi onde a pigliarmi fece Amor la corda. E com’ io mi rivolsi e furon tocchi li miei da ciò che pare in quel volume, quandunque nel suo giro ben s’adocchi, un punto vidi che raggiava lume acuto sì, che ’l viso ch’elli affoca chiuder conviensi per lo forte acume; e quale stella par quinci più poca, parrebbe luna, locata con esso come stella con stella si collòca. Forse cotanto quanto pare appresso alo cigner la luce che ’l dipigne quando ’l vapor che ’l porta più è spesso, distante intorno al punto un cerchio d’igne si girava sì ratto, ch’avria vinto quel moto che più tosto il mondo cigne; e questo era d’un altro circumcinto, e quel dal terzo, e ’l terzo poi dal quarto, dal quinto il quarto, e poi dal sesto il quinto. Sopra seguiva il settimo sì sparto già di larghezza, che ’l messo di Iuno intero a contenerlo sarebbe arto. Così l’ottavo e ’l nono; e chiascheduno più tardo si movea, secondo ch’era in numero distante più da l’uno; e quello avea la fiamma più sincera cui men distava la favilla pura, credo, però che più di lei s’invera. La donna mia, che mi vedëa in cura forte sospeso, disse: «Da quel punto depende il cielo e tutta la natura. Mira quel cerchio che più li è congiunto; e sappi che ’l suo muovere è sì tosto per l’affocato amore ond’ elli è punto». E io a lei: «Se ’l mondo fosse posto con l’ordine ch’io veggio in quelle rote, sazio m’avrebbe ciò che m’è proposto; ma nel mondo sensibile si puote veder le volte tanto più divine, quant’ elle son dal centro più remote. Onde, se ’l mio disir dee aver fine in questo miro e angelico templo che solo amore e luce ha per confine, udir convienmi ancor come l’essemplo e l’essemplare non vanno d’un modo, ché io per me indarno a ciò contemplo». «Se li tuoi diti non sono a tal nodo sufficïenti, non è maraviglia: tanto, per non tentare, è fatto sodo!». Così la donna mia; poi disse: «Piglia quel ch’io ti dicerò, se vuo’ saziarti; e intorno da esso t’assottiglia. Li cerchi corporai sono ampi e arti secondo il più e ’l men de la virtute che si distende per tutte lor parti. Maggior bontà vuol far maggior salute; maggior salute maggior corpo cape, s’elli ha le parti igualmente compiute. Dunque costui che tutto quanto rape l’altro universo seco, corrisponde al cerchio che più ama e che più sape: per che, se tu a la virtù circonde la tua misura, non a la parvenza de le sustanze che t’appaion tonde, tu vederai mirabil consequenza di maggio a più e di minore a meno, in ciascun cielo, a süa intelligenza». Come rimane splendido e sereno l’emisperio de l’aere, quando soffia Borea da quella guancia ond’ è più leno, per che si purga e risolve la roffia che pria turbava, sì che ’l ciel ne ride con le bellezze d’ogne sua paroffia; così fec’ïo, poi che mi provide la donna mia del suo risponder chiaro, e come stella in cielo il ver si vide. E poi che le parole sue restaro, non altrimenti ferro disfavilla che bolle, come i cerchi sfavillaro. L’incendio suo seguiva ogne scintilla; ed eran tante, che ’l numero loro più che ’l doppiar de li scacchi s’inmilla. Io sentiva osannar di coro in coro al punto fisso che li tiene a li ubi, e terrà sempre, ne’ quai sempre fuoro. E quella che vedëa i pensier dubi ne la mia mente, disse: «I cerchi primi t’hanno mostrato Serafi e Cherubi. Così veloci seguono i suoi vimi, per somigliarsi al punto quanto ponno; e posson quanto a veder son soblimi. Quelli altri amori che ’ntorno li vonno, si chiaman Troni del divino aspetto, per che ’l primo ternaro terminonno; e dei saper che tutti hanno diletto quanto la sua veduta si profonda nel vero in che si queta ogne intelletto. Quinci si può veder come si fonda l’esser beato ne l’atto che vede, non in quel ch’ama, che poscia seconda; e del vedere è misura mercede, che grazia partorisce e buona voglia: così di grado in grado si procede. L’altro ternaro, che così germoglia in questa primavera sempiterna che notturno Arïete non dispoglia, perpetüalemente ‘Osanna’ sberna con tre melode, che suonano in tree ordini di letizia onde s’interna. In essa gerarcia son l’altre dee: prima Dominazioni, e poi Virtudi; l’ordine terzo di Podestadi èe. Poscia ne’ due penultimi tripudi Principati e Arcangeli si girano; l’ultimo è tutto d’Angelici ludi. Questi ordini di sù tutti s’ammirano, e di giù vincon sì, che verso Dio tutti tirati sono e tutti tirano. E Dïonisio con tanto disio a contemplar questi ordini si mise, che li nomò e distinse com’ io. Ma Gregorio da lui poi si divise; onde, sì tosto come li occhi aperse in questo ciel, di sé medesmo rise. E se tanto secreto ver proferse mortale in terra, non voglio ch’ammiri: ché chi ’l vide qua sù gliel discoperse con altro assai del ver di questi giri». Paradiso Canto XXIX Quando ambedue li figli di Latona, coperti del Montone e de la Libra, fanno de l’orizzonte insieme zona, quant’ è dal punto che ’l cenìt inlibra infin che l’uno e l’altro da quel cinto, cambiando l’emisperio, si dilibra, tanto, col volto di riso dipinto, si tacque Bëatrice, riguardando fiso nel punto che m’avëa vinto. Poi cominciò: «Io dico, e non dimando, quel che tu vuoli udir, perch’ io l’ho visto là ’ve s’appunta ogne ubi e ogne quando. Non per aver a sé di bene acquisto, ch’esser non può, ma perché suo splendore potesse, risplendendo, dir “Subsisto”, in sua etternità di tempo fore, fuor d’ogne altro comprender, come i piacque, s’aperse in nuovi amor l’etterno amore. Né prima quasi torpente si giacque; ché né prima né poscia procedette lo discorrer di Dio sovra quest’ acque. Forma e materia, congiunte e purette, usciro ad esser che non avia fallo, come d’arco tricordo tre saette. E come in vetro, in ambra o in cristallo raggio resplende sì, che dal venire a l’esser tutto non è intervallo, così ’l triforme effetto del suo sire ne l’esser suo raggiò insieme tutto sanza distinzïone in essordire. Concreato fu ordine e costrutto a le sustanze; e quelle furon cima nel mondo in che puro atto fu produtto; pura potenza tenne la parte ima; nel mezzo strinse potenza con atto tal vime, che già mai non si divima. Ieronimo vi scrisse lungo tratto di secoli de li angeli creati anzi che l’altro mondo fosse fatto; ma questo vero è scritto in molti lati da li scrittor de lo Spirito Santo, e tu te n’avvedrai se bene agguati; e anche la ragione il vede alquanto, che non concederebbe che ’ motori sanza sua perfezion fosser cotanto. Or sai tu dove e quando questi amori furon creati e come: sì che spenti nel tuo disïo già son tre ardori. Né giugneriesi, numerando, al venti sì tosto, come de li angeli parte turbò il suggetto d’i vostri alimenti. L’altra rimase, e cominciò quest’ arte che tu discerni, con tanto diletto, che mai da circüir non si diparte. Principio del cader fu il maladetto superbir di colui che tu vedesti da tutti i pesi del mondo costretto. Quelli che vedi qui furon modesti a riconoscer sé da la bontate che li avea fatti a tanto intender presti: per che le viste lor furo essaltate con grazia illuminante e con lor merto, si c’hanno ferma e piena volontate; e non voglio che dubbi, ma sia certo, che ricever la grazia è meritorio secondo che l’affetto l’è aperto. Omai dintorno a questo consistorio puoi contemplare assai, se le parole mie son ricolte, sanz’ altro aiutorio. Ma perché ’n terra per le vostre scole si legge che l’angelica natura è tal, che ’ntende e si ricorda e vole, ancor dirò, perché tu veggi pura la verità che là giù si confonde, equivocando in sì fatta lettura. Queste sustanze, poi che fur gioconde de la faccia di Dio, non volser viso da essa, da cui nulla si nasconde: però non hanno vedere interciso da novo obietto, e però non bisogna rememorar per concetto diviso; sì che là giù, non dormendo, si sogna, credendo e non credendo dicer vero; ma ne l’uno è più colpa e più vergogna. Voi non andate giù per un sentiero filosofando: tanto vi trasporta l’amor de l’apparenza e ’l suo pensiero! E ancor questo qua sù si comporta con men disdegno che quando è posposta la divina Scrittura o quando è torta. Non vi si pensa quanto sangue costa seminarla nel mondo e quanto piace chi umilmente con essa s’accosta. Per apparer ciascun s’ingegna e face sue invenzioni; e quelle son trascorse da’ predicanti e ’l Vangelio si tace. Un dice che la luna si ritorse ne la passion di Cristo e s’interpuose, per che ’l lume del sol giù non si porse; e mente, ché la luce si nascose da sé: però a li Spani e a l’Indi come a’ Giudei tale eclissi rispuose. Non ha Fiorenza tanti Lapi e Bindi quante sì fatte favole per anno in pergamo si gridan quinci e quindi: sì che le pecorelle, che non sanno, tornan del pasco pasciute di vento, e non le scusa non veder lo danno. Non disse Cristo al suo primo convento: ‘Andate, e predicate al mondo ciance’; ma diede lor verace fondamento; e quel tanto sonò ne le sue guance, sì ch’a pugnar per accender la fede de l’Evangelio fero scudo e lance. Ora si va con motti e con iscede a predicare, e pur che ben si rida, gonfia il cappuccio e più non si richiede. Ma tale uccel nel becchetto s’annida, che se ’l vulgo il vedesse, vederebbe la perdonanza di ch’el si confida: per cui tanta stoltezza in terra crebbe, che, sanza prova d’alcun testimonio, ad ogne promession si correrebbe. Di questo ingrassa il porco sant’ Antonio, e altri assai che sono ancor più porci, pagando di moneta sanza conio. Ma perché siam digressi assai, ritorci li occhi oramai verso la dritta strada, sì che la via col tempo si raccorci. Questa natura sì oltre s’ingrada in numero, che mai non fu loquela né concetto mortal che tanto vada; e se tu guardi quel che si revela per Danïel, vedrai che ’n sue migliaia determinato numero si cela. La prima luce, che tutta la raia, per tanti modi in essa si recepe, quanti son li splendori a chi s’appaia. Onde, però che a l’atto che concepe segue l’affetto, d’amar la dolcezza diversamente in essa ferve e tepe. Vedi l’eccelso omai e la larghezza de l’etterno valor, poscia che tanti speculi fatti s’ha in che si spezza, uno manendo in sé come davanti». Paradiso Canto XXX Forse semilia miglia di lontano ci ferve l’ora sesta, e questo mondo china già l’ombra quasi al letto piano, quando ’l mezzo del cielo, a noi profondo, comincia a farsi tal, ch’alcuna stella perde il parere infino a questo fondo; e come vien la chiarissima ancella del sol più oltre, così ’l ciel si chiude di vista in vista infino a la più bella. Non altrimenti il trïunfo che lude sempre dintorno al punto che mi vinse, parendo inchiuso da quel ch’elli ’nchiude, a poco a poco al mio veder si stinse: per che tornar con li occhi a Bëatrice nulla vedere e amor mi costrinse. Se quanto infino a qui di lei si dice fosse conchiuso tutto in una loda, poca sarebbe a fornir questa vice. La bellezza ch’io vidi si trasmoda non pur di là da noi, ma certo io credo che solo il suo fattor tutta la goda. Da questo passo vinto mi concedo più che già mai da punto di suo tema soprato fosse comico o tragedo: ché, come sole in viso che più trema, così lo rimembrar del dolce riso la mente mia da me medesmo scema. Dal primo giorno ch’i’ vidi il suo viso in questa vita, infino a questa vista, non m’è il seguire al mio cantar preciso; ma or convien che mio seguir desista più dietro a sua bellezza, poetando, come a l’ultimo suo ciascuno artista. Cotal qual io lascio a maggior bando che quel de la mia tuba, che deduce l’ardüa sua matera terminando, con atto e voce di spedito duce ricominciò: «Noi siamo usciti fore del maggior corpo al ciel ch’è pura luce: luce intellettüal, piena d’amore; amor di vero ben, pien di letizia; letizia che trascende ogne dolzore. Qui vederai l’una e l’altra milizia di paradiso, e l’una in quelli aspetti che tu vedrai a l’ultima giustizia». Come sùbito lampo che discetti li spiriti visivi, sì che priva da l’atto l’occhio di più forti obietti, così mi circunfulse luce viva, e lasciommi fasciato di tal velo del suo fulgor, che nulla m’appariva. «Sempre l’amor che queta questo cielo accoglie in sé con sì fatta salute, per far disposto a sua fiamma il candelo». Non fur più tosto dentro a me venute queste parole brievi, ch’io compresi me sormontar di sopr’ a mia virtute; e di novella vista mi raccesi tale, che nulla luce è tanto mera, che li occhi miei non si fosser difesi; e vidi lume in forma di rivera fulvido di fulgore, intra due rive dipinte di mirabil primavera. Di tal fiumana uscian faville vive, e d’ogne parte si mettien ne’ fiori, quasi rubin che oro circunscrive; poi, come inebrïate da li odori, riprofondavan sé nel miro gurge, e s’una intrava, un’altra n’uscia fori. «L’alto disio che mo t’infiamma e urge, d’aver notizia di ciò che tu vei, tanto mi piace più quanto più turge; ma di quest’ acqua convien che tu bei prima che tanta sete in te si sazi»: così mi disse il sol de li occhi miei. Anche soggiunse: «Il fiume e li topazi ch’entrano ed escono e ’l rider de l’erbe son di lor vero umbriferi prefazi. Non che da sé sian queste cose acerbe; ma è difetto da la parte tua, che non hai viste ancor tanto superbe». Non è fantin che sì sùbito rua col volto verso il latte, se si svegli molto tardato da l’usanza sua, come fec’ io, per far migliori spegli ancor de li occhi, chinandomi a l’onda che si deriva perché vi s’immegli; e sì come di lei bevve la gronda de le palpebre mie, così mi parve di sua lunghezza divenuta tonda. Poi, come gente stata sotto larve, che pare altro che prima, se si sveste la sembianza non süa in che disparve, così mi si cambiaro in maggior feste li fiori e le faville, sì ch’io vidi ambo le corti del ciel manifeste. O isplendor di Dio, per cu’ io vidi l’alto trïunfo del regno verace, dammi virtù a dir com’ ïo il vidi! Lume è là sù che visibile face lo creatore a quella creatura che solo in lui vedere ha la sua pace. E’ si distende in circular figura, in tanto che la sua circunferenza sarebbe al sol troppo larga cintura. Fassi di raggio tutta sua parvenza reflesso al sommo del mobile primo, che prende quindi vivere e potenza. E come clivo in acqua di suo imo si specchia, quasi per vedersi addorno, quando è nel verde e ne’ fioretti opimo, sì, soprastando al lume intorno intorno, vidi specchiarsi in più di mille soglie quanto di noi là sù fatto ha ritorno. E se l’infimo grado in sé raccoglie sì grande lume, quanta è la larghezza di questa rosa ne l’estreme foglie! La vista mia ne l’ampio e ne l’altezza non si smarriva, ma tutto prendeva il quanto e ’l quale di quella allegrezza. Presso e lontano, lì, né pon né leva: ché dove Dio sanza mezzo governa, la legge natural nulla rileva. Nel giallo de la rosa sempiterna, che si digrada e dilata e redole odor di lode al sol che sempre verna, qual è colui che tace e dicer vole, mi trasse Bëatrice, e disse: «Mira quanto è ’l convento de le bianche stole! Vedi nostra città quant’ ella gira; vedi li nostri scanni sì ripieni, che poca gente più ci si disira. E ’n quel gran seggio a che tu li occhi tieni per la corona che già v’è sù posta, prima che tu a queste nozze ceni, sederà l’alma, che fia giù agosta, de l’alto Arrigo, ch’a drizzare Italia verrà in prima ch’ella sia disposta. La cieca cupidigia che v’ammalia simili fatti v’ha al fantolino che muor per fame e caccia via la balia. E fia prefetto nel foro divino allora tal, che palese e coverto non anderà con lui per un cammino. Ma poco poi sarà da Dio sofferto nel santo officio; ch’el sarà detruso là dove Simon mago è per suo merto, e farà quel d’Alagna intrar più giuso». Paradiso Canto XXXI In forma dunque di candida rosa mi si mostrava la milizia santa che nel suo sangue Cristo fece sposa; ma l’altra, che volando vede e canta la gloria di colui che la ’nnamora e la bontà che la fece cotanta, sì come schiera d’ape che s’infiora una fïata e una si ritorna là dove suo laboro s’insapora, nel gran fior discendeva che s’addorna di tante foglie, e quindi risaliva là dove ’l süo amor sempre soggiorna. Le facce tutte avean di fiamma viva e l’ali d’oro, e l’altro tanto bianco, che nulla neve a quel termine arriva. Quando scendean nel fior, di banco in banco porgevan de la pace e de l’ardore ch’elli acquistavan ventilando il fianco. Né l’interporsi tra ’l disopra e ’l fiore di tanta moltitudine volante impediva la vista e lo splendore: ché la luce divina è penetrante per l’universo secondo ch’è degno, sì che nulla le puote essere ostante. Questo sicuro e gaudïoso regno, frequente in gente antica e in novella, viso e amore avea tutto ad un segno. O trina luce che ’n unica stella scintillando a lor vista, sì li appaga! guarda qua giuso a la nostra procella! Se i barbari, venendo da tal plaga che ciascun giorno d’Elice si cuopra, rotante col suo figlio ond’ ella è vaga, veggendo Roma e l’ardüa sua opra, stupefaciensi, quando Laterano a le cose mortali andò di sopra; ïo, che al divino da l’umano, a l’etterno dal tempo era venuto, e di Fiorenza in popol giusto e sano, di che stupor dovea esser compiuto! Certo tra esso e ’l gaudio mi facea libito non udire e starmi muto. E quasi peregrin che si ricrea nel tempio del suo voto riguardando, e spera già ridir com’ ello stea, su per la viva luce passeggiando, menava ïo li occhi per li gradi, mo sù, mo giù e mo recirculando. Vedëa visi a carità süadi, d’altrui lume fregiati e di suo riso, e atti ornati di tutte onestadi. La forma general di paradiso già tutta mïo sguardo avea compresa, in nulla parte ancor fermato fiso; e volgeami con voglia rïaccesa per domandar la mia donna di cose di che la mente mia era sospesa. Uno intendëa, e altro mi rispuose: credea veder Beatrice e vidi un sene vestito con le genti glorïose. Diffuso era per li occhi e per le gene di benigna letizia, in atto pio quale a tenero padre si convene. E «Ov’ è ella?», sùbito diss’ io. Ond’ elli: «A terminar lo tuo disiro mosse Beatrice me del loco mio; e se riguardi sù nel terzo giro dal sommo grado, tu la rivedrai nel trono che suoi merti le sortiro». Sanza risponder, li occhi sù levai, e vidi lei che si facea corona reflettendo da sé li etterni rai. Da quella regïon che più sù tona occhio mortale alcun tanto non dista, qualunque in mare più giù s’abbandona, quanto lì da Beatrice la mia vista; ma nulla mi facea, ché süa effige non discendëa a me per mezzo mista. «O donna in cui la mia speranza vige, e che soffristi per la mia salute in inferno lasciar le tue vestige, di tante cose quant’ i’ ho vedute, dal tuo podere e da la tua bontate riconosco la grazia e la virtute. Tu m’hai di servo tratto a libertate per tutte quelle vie, per tutt’ i modi che di ciò fare avei la potestate. La tua magnificenza in me custodi, sì che l’anima mia, che fatt’ hai sana, piacente a te dal corpo si disnodi». Così orai; e quella, sì lontana come parea, sorrise e riguardommi; poi si tornò a l’etterna fontana. E ’l santo sene: «Acciò che tu assommi perfettamente», disse, «il tuo cammino, a che priego e amor santo mandommi, vola con li occhi per questo giardino; ché veder lui t’acconcerà lo sguardo più al montar per lo raggio divino. E la regina del cielo, ond’ ïo ardo tutto d’amor, ne farà ogne grazia, però ch’i’ sono il suo fedel Bernardo». Qual è colui che forse di Croazia viene a veder la Veronica nostra, che per l’antica fame non sen sazia, ma dice nel pensier, fin che si mostra: ‘Segnor mio Iesù Cristo, Dio verace, or fu sì fatta la sembianza vostra?’; tal era io mirando la vivace carità di colui che ’n questo mondo, contemplando, gustò di quella pace. «Figliuol di grazia, quest’ esser giocondo», cominciò elli, «non ti sarà noto, tenendo li occhi pur qua giù al fondo; ma guarda i cerchi infino al più remoto, tanto che veggi seder la regina cui questo regno è suddito e devoto». Io levai li occhi; e come da mattina la parte orïental de l’orizzonte soverchia quella dove ’l sol declina, così, quasi di valle andando a monte con li occhi, vidi parte ne lo stremo vincer di lume tutta l’altra fronte. E come quivi ove s’aspetta il temo che mal guidò Fetonte, più s’infiamma, e quinci e quindi il lume si fa scemo, così quella pacifica oriafiamma nel mezzo s’avvivava, e d’ogne parte per igual modo allentava la fiamma; e a quel mezzo, con le penne sparte, vid’ io più di mille angeli festanti, ciascun distinto di fulgore e d’arte. Vidi a lor giochi quivi e a lor canti ridere una bellezza, che letizia era ne li occhi a tutti li altri santi; e s’io avessi in dir tanta divizia quanta ad imaginar, non ardirei lo minimo tentar di sua delizia. Bernardo, come vide li occhi miei nel caldo suo caler fissi e attenti, li suoi con tanto affetto volse a lei, che ’ miei di rimirar fé più ardenti. Paradiso Canto XXXII Affetto al suo piacer, quel contemplante libero officio di dottore assunse, e cominciò queste parole sante: «La piaga che Maria richiuse e unse, quella ch’è tanto bella da’ suoi piedi è colei che l’aperse e che la punse. Ne l’ordine che fanno i terzi sedi, siede Rachel di sotto da costei con Bëatrice, sì come tu vedi. Sarra e Rebecca, Iudìt e colei che fu bisava al cantor che per doglia del fallo disse ‘Miserere mei’, puoi tu veder così di soglia in soglia giù digradar, com’ io ch’a proprio nome vo per la rosa giù di foglia in foglia. E dal settimo grado in giù, sì come infino ad esso, succedono Ebree, dirimendo del fior tutte le chiome; perché, secondo lo sguardo che fée la fede in Cristo, queste sono il muro a che si parton le sacre scalee. Da questa parte onde ’l fiore è maturo di tutte le sue foglie, sono assisi quei che credettero in Cristo venturo; da l’altra parte onde sono intercisi di vòti i semicirculi, si stanno quei ch’a Cristo venuto ebber li visi. E come quinci il glorïoso scanno de la donna del cielo e li altri scanni di sotto lui cotanta cerna fanno, così di contra quel del gran Giovanni, che sempre santo ’l diserto e ’l martiro sofferse, e poi l’inferno da due anni; e sotto lui così cerner sortiro Francesco, Benedetto e Augustino e altri fin qua giù di giro in giro. Or mira l’alto proveder divino: ché l’uno e l’altro aspetto de la fede igualmente empierà questo giardino. E sappi che dal grado in giù che fiede a mezzo il tratto le due discrezioni, per nullo proprio merito si siede, ma per l’altrui, con certe condizioni: ché tutti questi son spiriti ascolti prima ch’avesser vere elezïoni. Ben te ne puoi accorger per li volti e anche per le voci püerili, se tu li guardi bene e se li ascolti. Or dubbi tu e dubitando sili; ma io discioglierò ’l forte legame in che ti stringon li pensier sottili. Dentro a l’ampiezza di questo reame casüal punto non puote aver sito, se non come tristizia o sete o fame: ché per etterna legge è stabilito quantunque vedi, sì che giustamente ci si risponde da l’anello al dito; e però questa festinata gente a vera vita non è sine causa intra sé qui più e meno eccellente. Lo rege per cui questo regno pausa in tanto amore e in tanto diletto, che nulla volontà è di più ausa, le menti tutte nel suo lieto aspetto creando, a suo piacer di grazia dota diversamente; e qui basti l’effetto. E ciò espresso e chiaro vi si nota ne la Scrittura santa in quei gemelli che ne la madre ebber l’ira commota. Però, secondo il color d’i capelli, di cotal grazia l’altissimo lume degnamente convien che s’incappelli. Dunque, sanza mercé di lor costume, locati son per gradi differenti, sol differendo nel primiero acume. Bastavasi ne’ secoli recenti con l’innocenza, per aver salute, solamente la fede d’i parenti; poi che le prime etadi fuor compiute, convenne ai maschi a l’innocenti penne per circuncidere acquistar virtute; ma poi che ’l tempo de la grazia venne, sanza battesmo perfetto di Cristo tale innocenza là giù si ritenne. Riguarda omai ne la faccia che a Cristo più si somiglia, ché la sua chiarezza sola ti può disporre a veder Cristo». Io vidi sopra lei tanta allegrezza piover, portata ne le menti sante create a trasvolar per quella altezza, che quantunque io avea visto davante, di tanta ammirazion non mi sospese, né mi mostrò di Dio tanto sembiante; e quello amor che primo lì discese, cantando ‘Ave, Maria, gratïa plena’, dinanzi a lei le sue ali distese. Rispuose a la divina cantilena da tutte parti la beata corte, sì ch’ogne vista sen fé più serena. «O santo padre, che per me comporte l’esser qua giù, lasciando il dolce loco nel qual tu siedi per etterna sorte, qual è quell’ angel che con tanto gioco guarda ne li occhi la nostra regina, innamorato sì che par di foco?». Così ricorsi ancora a la dottrina di colui ch’abbelliva di Maria, come del sole stella mattutina. Ed elli a me: «Baldezza e leggiadria quant’ esser puote in angelo e in alma, tutta è in lui; e sì volem che sia, perch’ elli è quelli che portò la palma giuso a Maria, quando ’l Figliuol di Dio carcar si volse de la nostra salma. Ma vieni omai con li occhi sì com’ io andrò parlando, e nota i gran patrici di questo imperio giustissimo e pio. Quei due che seggon là sù più felici per esser propinquissimi ad Agusta, son d’esta rosa quasi due radici: colui che da sinistra le s’aggiusta è il padre per lo cui ardito gusto l’umana specie tanto amaro gusta; dal destro vedi quel padre vetusto di Santa Chiesa a cui Cristo le chiavi raccomandò di questo fior venusto. E quei che vide tutti i tempi gravi, pria che morisse, de la bella sposa che s’acquistò con la lancia e coi clavi, siede lungh’ esso, e lungo l’altro posa quel duca sotto cui visse di manna la gente ingrata, mobile e retrosa. Di contr’ a Pietro vedi sedere Anna, tanto contenta di mirar sua figlia, che non move occhio per cantare osanna; e contro al maggior padre di famiglia siede Lucia, che mosse la tua donna quando chinavi, a rovinar, le ciglia. Ma perché ’l tempo fugge che t’assonna, qui farem punto, come buon sartore che com’ elli ha del panno fa la gonna; e drizzeremo li occhi al primo amore, sì che, guardando verso lui, penètri quant’ è possibil per lo suo fulgore. Veramente, ne forse tu t’arretri movendo l’ali tue, credendo oltrarti, orando grazia conven che s’impetri grazia da quella che puote aiutarti; e tu mi seguirai con l’affezione, sì che dal dicer mio lo cor non parti». E cominciò questa santa orazione: Paradiso Canto XXXIII «Vergine Madre, figlia del tuo figlio, umile e alta più che creatura, termine fisso d’etterno consiglio, tu se’ colei che l’umana natura nobilitasti sì, che ’l suo fattore non disdegnò di farsi sua fattura. Nel ventre tuo si raccese l’amore, per lo cui caldo ne l’etterna pace così è germinato questo fiore. Qui se’ a noi meridïana face di caritate, e giuso, intra ’ mortali, se’ di speranza fontana vivace. Donna, se’ tanto grande e tanto vali, che qual vuol grazia e a te non ricorre, sua disïanza vuol volar sanz’ ali. La tua benignità non pur soccorre a chi domanda, ma molte fïate liberamente al dimandar precorre. In te misericordia, in te pietate, in te magnificenza, in te s’aduna quantunque in creatura è di bontate. Or questi, che da l’infima lacuna de l’universo infin qui ha vedute le vite spiritali ad una ad una, supplica a te, per grazia, di virtute tanto, che possa con li occhi levarsi più alto verso l’ultima salute. E io, che mai per mio veder non arsi più ch’i’ fo per lo suo, tutti miei prieghi ti porgo, e priego che non sieno scarsi, perché tu ogne nube li disleghi di sua mortalità co’ prieghi tuoi, sì che ’l sommo piacer li si dispieghi. Ancor ti priego, regina, che puoi ciò che tu vuoli, che conservi sani, dopo tanto veder, li affetti suoi. Vinca tua guardia i movimenti umani: vedi Beatrice con quanti beati per li miei prieghi ti chiudon le mani!». Li occhi da Dio diletti e venerati, fissi ne l’orator, ne dimostraro quanto i devoti prieghi le son grati; indi a l’etterno lume s’addrizzaro, nel qual non si dee creder che s’invii per creatura l’occhio tanto chiaro. E io ch’al fine di tutt’ i disii appropinquava, sì com’ io dovea, l’ardor del desiderio in me finii. Bernardo m’accennava, e sorridea, perch’ io guardassi suso; ma io era già per me stesso tal qual ei volea: ché la mia vista, venendo sincera, e più e più intrava per lo raggio de l’alta luce che da sé è vera. Da quinci innanzi il mio veder fu maggio che ’l parlar mostra, ch’a tal vista cede, e cede la memoria a tanto oltraggio. Qual è colüi che sognando vede, che dopo ’l sogno la passione impressa rimane, e l’altro a la mente non riede, cotal son io, ché quasi tutta cessa mia visïone, e ancor mi distilla nel core il dolce che nacque da essa. Così la neve al sol si disigilla; così al vento ne le foglie levi si perdea la sentenza di Sibilla. O somma luce che tanto ti levi da’ concetti mortali, a la mia mente ripresta un poco di quel che parevi, e fa la lingua mia tanto possente, ch’una favilla sol de la tua gloria possa lasciare a la futura gente; ché, per tornare alquanto a mia memoria e per sonare un poco in questi versi, più si conceperà di tua vittoria. Io credo, per l’acume ch’io soffersi del vivo raggio, ch’i’ sarei smarrito, se li occhi miei da lui fossero aversi. E’ mi ricorda ch’io fui più ardito per questo a sostener, tanto ch’i’ giunsi l’aspetto mio col valore infinito. Oh abbondante grazia ond’ io presunsi ficcar lo viso per la luce etterna, tanto che la veduta vi consunsi! Nel suo profondo vidi che s’interna, legato con amore in un volume, ciò che per l’universo si squaderna: sustanze e accidenti e lor costume quasi conflati insieme, per tal modo che ciò ch’i’ dico è un semplice lume. La forma universal di questo nodo credo ch’i’ vidi, perché più di largo, dicendo questo, mi sento ch’i’ godo. Un punto solo m’è maggior letargo che venticinque secoli a la ’mpresa che fé Nettuno ammirar l’ombra d’Argo. Così la mente mia, tutta sospesa, mirava fissa, immobile e attenta, e sempre di mirar faceasi accesa. A quella luce cotal si diventa, che volgersi da lei per altro aspetto è impossibil che mai si consenta; però che ’l ben, ch’è del volere obietto, tutto s’accoglie in lei, e fuor di quella è defettivo ciò ch’è lì perfetto. Omai sarà più corta mia favella, pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante che bagni ancor la lingua a la mammella. Non perché più ch’un semplice sembiante fosse nel vivo lume ch’io mirava, che tal è sempre qual s’era davante; ma per la vista che s’avvalorava in me guardando, una sola parvenza, mutandom’ io, a me si travagliava. Ne la profonda e chiara sussistenza de l’alto lume parvermi tre giri di tre colori e d’una contenenza; e l’un da l’altro come iri da iri parea reflesso, e ’l terzo parea foco che quinci e quindi igualmente si spiri. Oh quanto è corto il dire e come fioco al mio concetto! e questo, a quel ch’i’ vidi, è tanto, che non basta a dicer ‘poco’. O luce etterna che sola in te sidi, sola t’intendi, e da te intelletta e intendente te ami e arridi! Quella circulazion che sì concetta pareva in te come lume reflesso, da li occhi miei alquanto circunspetta, dentro da sé, del suo colore stesso, mi parve pinta de la nostra effige: per che ’l mio viso in lei tutto era messo. Qual è ’l geomètra che tutto s’affige per misurar lo cerchio, e non ritrova, pensando, quel principio ond’ elli indige, tal era io a quella vista nova: veder voleva come si convenne l’imago al cerchio e come vi s’indova; ma non eran da ciò le proprie penne: se non che la mia mente fu percossa da un fulgore in che sua voglia venne. A l’alta fantasia qui mancò possa; ma già volgeva il mio disio e ’l velle, sì come rota ch’igualmente è mossa, l’amor che move il sole e l’altre stelle. *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK DIVINA COMMEDIA DI DANTE: PARADISO *** Updated editions will replace the previous one—the old editions will be renamed. 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The Foundation’s EIN or federal tax identification number is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by U.S. federal laws and your state’s laws. The Foundation’s business office is located at 809 North 1500 West, Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and up to date contact information can be found at the Foundation’s website and official page at www.gutenberg.org/contact Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation Project Gutenberg™ depends upon and cannot survive without widespread public support and donations to carry out its mission of increasing the number of public domain and licensed works that can be freely distributed in machine-readable form accessible by the widest array of equipment including outdated equipment. Many small donations ($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt status with the IRS. The Foundation is committed to complying with the laws regulating charities and charitable donations in all 50 states of the United States. Compliance requirements are not uniform and it takes a considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up with these requirements. We do not solicit donations in locations where we have not received written confirmation of compliance. To SEND DONATIONS or determine the status of compliance for any particular state visit www.gutenberg.org/donate. While we cannot and do not solicit contributions from states where we have not met the solicitation requirements, we know of no prohibition against accepting unsolicited donations from donors in such states who approach us with offers to donate. International donations are gratefully accepted, but we cannot make any statements concerning tax treatment of donations received from outside the United States. U.S. laws alone swamp our small staff. Please check the Project Gutenberg web pages for current donation methods and addresses. Donations are accepted in a number of other ways including checks, online payments and credit card donations. To donate, please visit: www.gutenberg.org/donate. Section 5. General Information About Project Gutenberg™ electronic works Professor Michael S. Hart was the originator of the Project Gutenberg™ concept of a library of electronic works that could be freely shared with anyone. For forty years, he produced and distributed Project Gutenberg™ eBooks with only a loose network of volunteer support. Project Gutenberg™ eBooks are often created from several printed editions, all of which are confirmed as not protected by copyright in the U.S. unless a copyright notice is included. Thus, we do not necessarily keep eBooks in compliance with any particular paper edition. Most people start at our website which has the main PG search facility: www.gutenberg.org. This website includes information about Project Gutenberg™, including how to make donations to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation, how to help produce our new eBooks, and how to subscribe to our email newsletter to hear about new eBooks.