The Project Gutenberg eBook of Alessandro Manzoni, Studio Biografico

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Title: Alessandro Manzoni, Studio Biografico

Author: Angelo De Gubernatis

Release date: April 1, 2005 [eBook #7817]
Most recently updated: October 6, 2012

Language: Italian

*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK ALESSANDRO MANZONI, STUDIO BIOGRAFICO ***

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ALESSANDRO MANZONI

STUDIO BIOGRAFICO DI ANGELO DE GUBERNATIS.

Letture fatte alla Taylorian Institution di Oxford nel maggio dell'anno 1878

NOTEVOLMENTE AMPLIATE.

FIRENZE.

1879.

  INDICE DEL VOLUME.
  A FEDERICO MAX MULLER
  Proemio del Libro
  I. Prologo
  II. La nobiltà del Manzoni
  III. Il Manzoni a scuola
  IV. Primi versi
  V. Il Manzoni ed il Parini
  VI. Il Trionfo della Libertà
  VII. Il Manzoni Poeta satirico
  VIII. Il Manzoni e Vincenzo Monti
  IX. I primi amici
  X. Carme autobiografico
  XI. Il Manzoni a Parigi
  XII. L'Urania.—L'Idillio manzoniano
  XIII. La Conversione
  XIV. Il Manzoni a Brusuglio.—Gl'Inni Sacri e la Morale cattolica
  XV. Il Manzoni Poeta drammatico
  XVI. Il Manzoni unitario
  XVII. Intermezzo lirico: Le strofe del Marzo 1821—Il Cinque Maggio
  XVIII. I Promossi Sposi
  XIX. Il Manzoni e la critica

A FEDERICO MAX MÜLLER

Professore nella Università di Oxford e Curatore della Taylorian
Institution

Illustre Amico,

_Nessuno meglio di Voi potrebbe dire in qual modo sia nato inaspettatamente questo mio nuovo tenue volume. Chè, se mia fu la scelta del tèma, Vostro fu il merito, posto che il libro non accresca i miei torti verso le lettere, se mi venne fornita l'occasione di scriverlo. E quale occasione! La più solenne che amor proprio di autore potesse ambire. Nè contento di avermi coi vostri insigni colleghi, i Curatori di codesta illustre Tayloriana Istituzione intesa a promuovere fra gli Inglesi lo studio delle lingue e delle letterature moderne, messo in condizione di ragionare per tre volte, innanzi ad un pubblico veramente eletto, intorno al sommo fra i nostri scrittori contemporanei, la vostra bontà e cortesia volle non pure che, tra le agiatezze della vostra casa ospitale, io dimenticassi in Inghilterra la mia condizione di straniero, ma ancora che, nelle vostre domestiche contentezze, se pure visibilmente contristate da un amaro ricordo, io vedessi, in alcune parte, l'immagine di quelle vivissime che mi attendevano al mio ritorno in patria. A Voi, illustre concittadino ed ammiratore di quel Goethe che diede al Manzoni nostro il vero battesimo della gloria, a Voi avvezzo, dal cielo olimpico e luminoso in cui spaziate, a contemplar le cime più ardue di quell'açvattha infinito, ch'è l'albero della scienza, non increscerà, io spero, dopo avere, con la vostra costante benevolenza accresciuto coraggio al vostro amico lettore, se io sono in qualche modo riuscito a presentarvi del Manzoni un ritratto abbastanza fedele, ritrovacelo nuovamente innanzi come figura degna di Voi; questo ritratto, in ogni maniera, nel mio desiderio Vi appartiene, se non altro come ricordo di quegli obblighi di sentita gratitudine, per i quali sono lieto io medesimo di non esservi più interamente straniero. Con questi sentimenti, gradite, illustre amico, il libro che Vi invio con la fiducia, non vorrei dire solamente speranza, che ne durasse lungamente in Voi la memoria, se non per alcun merito particolare del biografo, almeno sicuramente per la nobiltà della vita intellettuale che impresi a descrivere, dalla quale, fin che le nuove generazioni deriveranno luce ed esempio, le lettere continueranno sempre a sostenere il loro desiderabile e necessario ufficio d'instauratrici amabili e generose di ogni civile sapienza._

Il vostro

ANGELO DE GUBERNATIS.

PROEMIO DEL LIBRO

Il Discorso che segue, col quale tentai di studiare la vita del primo fra i nostri moderni scrittori, fu letto in tre giorni consecutivi dello scorso maggio in una sala della Taylorian Institution di Oxford, innanzi ad eletto uditorio che mi è venuto intorno, fino all'ultimo, crescendo per numero e benevolenza. Dovendo ogni lettura restringersi al breve giro di un'ora, dovetti pure, per non abusare della pazienta de' miei cortesi uditori, sopprimere parecchie parti del Discorso che io avea preparato per la importante & splendida occasione, e che un'ora non avrebbe bastato a svolgere. Desidero ora dunque ricolmare nella stampa le inevitabili lacune di que' discorsi, lieto d'offrire, per intiero, ai dotti e gentili Curatori dell'Istituto Oxoniano e a' miei proprii concittadini il frutto di que' pochi studii da me fatti sopra lo scrittore italiano, che ho più ammirato nell'età nostra e dal nome del quale tolse pure il proprio il carissimo fanciullo nel quale io ho riposto le mie migliori speranze. Mi sia ora indulgente la critica, com'io sono sicuro che furono onesti tutti gl'intendimenti che mi hanno mosso a scrivere; e chi ha poi qualche cosa di meglio e di più da dire intorno al Manzoni lo dica, che non troverà, per un tèma così simpatico, alcun lettore più attento di me e più desideroso d'imparare. Io non sono, e lo dichiaro subito, idolatra d'alcun nome; ma è pure tanto in me il sentimento della grandezza dell'uomo che ha chiuso in Italia tutto un secolo di storia letteraria, che spero di non essere accusato per falsa modestia, s'io confesso ingenuamente che il tèma altissimo mi sgomenta, e ch'io lo riconosco, pur troppo, superiore ad ogni mia virtù. S'io dovessi qui solamente discorrere degli scritti di Alessandro Manzoni, mi farei animo a ragionarne, reso forte ed illuminato dal consenso ammirativo dell'universo che legge; ma quando un uomo s'inalza alla grandezza del Manzoni, quando, dopo avere contemplato questo mirabile gigante dell'arte nostra, è necessità persuadersi che la sua originalità è specialmente riposta nel suo modo particolare di sentire, e questo modo di sentire non si può bene comprendere e non si ha quindi il diritto di giudicarlo, se non fa germogliare insieme il proponimento virtuoso di conformare la propria vita a que' sentimenti medesimi, io mi domando con piena sincerità: "Sono io degno di parlare di Alessandro Manzoni?" Io non voglio inalzarmi qui come critico sopra di esso; voglio anch'io guardare in su, e con tanto maggior obbligo di Giuseppe Giusti che pure avrebbe avuto per la qualità dell'ingegno il diritto di guardare il Manzoni in faccia; ma le parole verrebbero a morirmi sopra le labbra, se io non sapessi ammirare il Manzoni altrimenti che come un altro uomo che sia stato più grande di noi tutti, per sè stesso soltanto, e non ancora per lasciarci alcun memorabile esempio. Ora io che ho sempre desiderato richiamare molta gioventù della mia terra a ristudiarlo con me, io che lo propongo sicuramente ad esempio[1] non lo potrei, non dovrei poterlo fare, se prima non avessi fatto promessa a me medesimo di seguire docilmente i principii di quella filosofia letteraria che ammiro sovra ogni altra. E, pur troppo, per quanto sia grande in me il desiderio, sento povere le forze ed insufficienti all'uopo; e ripeto, pieno di confusione e di sincerità, il domine, non sum dignus. Ma io prevedo, pur troppo, a questo punto il moto impaziente di alcuni lettori, i quali prima di proseguire avranno già sentenziato presso a poco così: "Abbiamo capito, l'Autore ci promette un panegirico, invece d'uno studio critico; invece d'un Manzoni diminuito e fatto minutamente, come ora si deve, in pezzi, avremo un Manzoni altissimo, iperbolico, messo sugli altari ed idealeggiato, per edificazione de' buoni." Chi ha di tali impazienze non legga più oltre. Io voglio sì, io spero provare come il Manzoni fu grande, com'egli è stato, e sarà forse ancora per molto tempo, il massimo de' nostri scrittori; ma chi teme una tale dimostrazione, chi non la permette, chiuda il libro; che, in verità, io non lo scrivo con la speranza di convertire alcun profano, ma nel desiderio, il quale può ingannarmi, ma è onesto, di delineare il Manzoni quale mi apparve, dopo averlo ricercato attentamente ne' suoi scritti e nelle memorie del nostro tempo; e, poichè ne verrà fuori, come io spero, non solo la figura di un grande scrittore, ma ancora quella di un grand'uomo, sì mi tenta anche la speranza che alcuno già ben disposto, innamorandosi più forte della sua figura, si giovi dell'esempio che sotto di essa si cela, come tento io stesso di cavarne come posso alcun profitto non solo per l'arte dello scrivere, ma per quella assai più difficile del vivere. Da queste stesse parole si deve, parmi, capire che io non mi propongo di scrivere la vita d'un Santo; se il Manzoni fosse stato un uomo perfetto in ogni cosa, non ci rimarrebbe altro che adorarlo. Ma poich'egli era mortale come noi e soggetto ad errare ed alcuna volta può avere anch'esso umanamente errato, sarà utile a noi l'apprendere in qual modo egli vincesse le sue battaglie ideali, e quale ostinazione virtuosa egli abbia messo per vincere. "Ma noi non vogliamo più la noia di libri siffatti, che ci diano la biografia d'uno scrittore, con l'intendimento dichiarato di offrirci un modello virtuoso. Dateci l'uomo come l'avete visto. Penseremo noi alla conclusione, se ce ne sarà da farne alcuna, o non ne faremo, che sarà il meglio. Risparmiateci dunque i vostri fervorini." Sento già correre in aria queste parole più di minaccia che di consiglio; e, mettendomene in pensiero, prometto, fin d'ora, che risparmierò i fervorini, quanto mi sarà possibile, ma non prometto poi nulla di più: perchè, se, nello scrivere, mi accadrà, in qualche momento, che il cuore mi batta un poco più rapido, e mi esca per avventura una parola più calda, io non sacrificherà quel po' di fuoco che m'accende ancora, ad alcun domma della nuova critica; poichè io non ammetto, e lo dichiaro subito, in alcuna opera d'arte, principii, i quali escludano il principale, anzi il solo creatore d'ogni arte grande, che è il sentimento.

[1] Che la mia venerazione pel Manzoni sia óramai antica, ne recherò qui un breve documento. Ero studente nella Università di Torino; nella Facoltà di lettere si era disegnata la fondazione di un giornale letterario; io doveva esserne il direttore e proporne il titolo. Posi innanzi il nome di Alessandro Manzoni. Ma, temendo pure che al Manzoni potesse non piacere che da lui s'intitolasse un giornale di studenti, il quale avrebbe potuto riuscir battagliero, gli scrissi, in nome de' miei compagni, per domandare un permesso che alla nostra fiera, ma pur delicata, baldanza giovanile pareva necessario. Il venerando uomo si turbò all'idea che il suo nome potesse diventar simbolo di una battaglia di giovani, e c'indirizzò la lettera seguente, finqui inedita, l'autografo della quale trovasi ora nelle mani dell'egregio Antonio Ghislanzoni a Lecco: "Pregiatissimi Signori, Non ho mai avuto nell'animo un conflitto d'opposti sentimenti, come quello d'una profonda riconoscenza e d'un vivo dispiacere che m'ha fatto nascere la troppo cortese lettera, di cui m'hanno voluto onorare. Ma la benevolenza che attesta in ogni sua parte, mi da la certezza che di que' sentimenti non mi rimarrà che il primo. Per codesta così spontanea e per me preziosa benevolenza, Vi prego dunque, o Signori, di non dare al giornale, l'annunzio del quale mi rallegra, il titolo che v'eravate proposto. Sarebbe una cagione di vero e continuo turbamento alla mia vecchiezza, che, per quaggiù, non aspira ad altro che alla quiete. L'indulgentissimo vostro giudizio è già una gran ricompensa per de' lavori che non hanno altro merito, che d'esser fatti in coscienza. Confido, anzi mi tengo sicuro che non me la vorrete cambiare in un castigo, e che potrò goder subito in pace la speranza de' frutti che mi promette il saggio del vostro ingegno e del vostro cuore. Chiudo in fretta la lettera, perchè arrivi a tempo, come desidero ardentemente, e mi rassegno

Milano, 1 novembre 1859.

Dev.mo obbl.mo ALESSANDRO MANZONI."

Ricevuta questa lettera stimammo debito nostro, per rispetto alla volontà del Manzoni, rinunciare tosto al primo titolo desiderato di Alessandro Manzoni, e lo sostituimmo perciò un altro che, nel nostro pensiero, doveva riuscire equivalente. Il nuovo giornale s'intitolò per tanto: La Letteratura civile; ebbe, tuttavia, la vita solita de' giornali compilati da studenti.

I.

Prologo.

Se bene a molti rechi oramai gran tedio che si parli ancora nel mondo del Manzoni, e tra i molti i più siano persuasi che sopra un tale argomento, da essi chiamato giustamente eterno, non ci sia più nulla di nuovo da dire, dovendo io tener discorso intorno ad un nostro moderno scrittore, innanzi ad un'eletta d'Inglesi, presso i quali da Giuseppe Baretti ad Ugo Foscolo, da Ugo Foscolo a Gabriele Rossetti, da Gabriele Rossetti a Giuseppe Mazzini, per tacere degli onorati viventi che hanno insegnato od insegnano tuttora la letteratura italiana in Inghilterra, le nostre lettere da un secolo in qua furono sempre coltivate con amore, io non ho saputo trovare alcun tèma non solo più nobile, ma più nuovo del Manzoni. Non sorridete, o Signori. Io so bene che gli stranieri, i quali hanno fatto i loro primi, in verità, non molto divertenti esercizii d'italiano sopra i Promessi Sposi e sopra le Mie Prigioni, riguardano come stranamente idolatrico il nostro culto manzoniano. Lo so, e se credessi che la loro opinione avesse buon fondamento, me ne turberei; poichè, in verità, se il Manzoni fosse per noi un idolo, innanzi ad un idolo lo vedrei solamente possibile una di queste due altitudini: adorare tacendo con gli occhi chiusi, che non è il miglior modo per veder bene; o passargli accanto sdegnosi, sprezzanti, correndo via, che non è, di certo, un modo di veder meglio. Io ammiro grandemente il Manzoni, ma non l'adoro, e però, quantunque pieno di riverenza a tanta umana grandezza, oserò accostarmele e studiarla, anco perchè stimo che giovi il vedere come un uomo non solo sia nato, ch'è merito di natura, ma come abbia saputo egli stesso divenire e mantenersi grande. Ogni vanto di priorità in lavori simili al presente mi parrebbe, o Signori, intieramente oziosa e puerile; e però, prima d'accennare ad un fatto singolare che mi riguarda, debbo dichiararvi candidamente che non solo io non me ne faccio merito alcuno, ma che mi vergognerei se alcuno attribuisse a me un merito ch'è stato del caso. Ora sono più di sei anni, quando il Manzoni era pur sempre vivo, avendo io la debolezza di credere che la letteratura abbia alcuna virtù educatrice, tentai, come potei meglio, rinfrescare nella mente de' giovani il ricordo, e nel cuore di essi la riconoscenza per gli scrittori italiani, i quali avevano, a parer mio, più efficacemente cooperato non solo a mantenere vivo il decoro delle nostre lettere, ma a farle operative di virtù domestica e civile. Io m'era detto e persuaso che la loro modestia avrebbe loro vietato di parlare prima di scendere nel sepolcro; intanto i giovani che vengono su, poichè, ad uno ad uno, i nostri buoni vecchi se ne vanno, poco o nulla ne potranno sapere, onde mancheranno ad essi quei nobili esempi ed eccitamenti che in parte servirono, in parte avrebbero dovuto servire a noi per animarci nel sentimento del nostro dovere e per educarci alla virtù del sacrificio. Era dunque, o almeno parevami, che fosse debito nostro servire d'anello ideale fra la generazione che passa e quella che viene, portare virilmente ai giovani la parola de' vecchi; e, non credendo di potere far meglio, incominciai da Alessandro Manzoni. Ma quale non fu il mio stupore, quando, messomi intorno a cercare se esistessero biografie italiane del nostro primo scrittore vivente, in un secolo pur così prodigo di biografie, dovetti, con molta confusione, rinunciare alla speranza di trovarne alcuna e provarmi a tentar da me solo con le notizie del Fauriel e del Loménie, con gli sparsi articoli di critica letteraria, con le onorevoli disperse testimonianze degli amici a ammiratori del Manzoni, e con una nuova lettura delle sue opere, la prima biografia del grande Poeta milanese! La cosa parrebbe incredibile, se non fosse vera. Morto il Manzoni, il 22 maggio dell'anno 1873, in età di ottantotto anni, quel primo saggio biografico ebbe naturalmente la buona fortuna di servire come addentellato ad altri, che lo resero presto insufficiente; seguirono! pertanto nuove spigolature e nuove biografie, tra le quali convien ricordare quelle di Vittorio Bersezio, Giulio Carcano, B. Prina, F. Galanti, Antonio Stoppani, A. Buccellati, Cario Magenta, Carlo Romussi, Giovanni Sforza, Salvatore De Benedetti, Felice Venosta, Nunzio Rocca, Antonio Vismara; Carlo Morbio e Cesare Cantù tutte diversamente pregevoli per la nuova luce che recarono alla biografia manzoniana. Ma è cosa singolare che non sia ancora comparso fin qui alcun discorso critico un po' largo sopra tanta novità di materia biografica. Non ci si è pensato, pur troppo; onde è ancora veramente un caso per me felice, ma non lieto per l'Italia, che, dopo oltre sei anni dal mio primo saggio biografico, io abbia ancora, senza alcun merito e senz'alcuna pretesa, ad essere per ordine cronologico, il primo che tenti una biografia ragionata di Alessandro Manzoni. Chè, se io mi sono, ora volge il sest'anno, messo nell'impegno difficile di lodare il Manzoni vivo, senza tradire la maestà di quel santo vero che fu la sua prima e vorrebb'essere la mia religione, ognuno intenderà facilmente come una parte delle indagini, le quali son divenute possibili, sarebbero state sconvenienti, quando il grand'uomo era vivo e potea provarne pena; ognuno si persuaderà dunque come un nuovo studio biografico intrapreso in così diversa, e, per rispetto alla critica, migliorata condizione, deve necessariamente riuscire alquanto più ricco e più dimostrativo del primo. Queste dichiarazioni scuseranno pure il tono alquanto dimesso del mio presente Discorso. Non si tratta qui, invero, di giudicare dall'alto, che sarebbe sempre una impertinenza, nè da lontano, che non si potrebbe senza molta imprudenza, un Manzoni già ben cognito, o supposto tale, per farne, con pochi vivaci tratti di penna, un nuovo e splendido ritratto ideale. Il mio ufficio vuol essere, almeno per questa volta, assai più modesto. Si tratta, cioè, semplicemente di ristudiare da capo il nostro Poeta, di seguirne passo passo la vita, i pensieri, i sentimenti, prendendo per guida principalissima i suoi proprii scritti. Questo esercizio minuto richiede naturalmente un po' di pazienza, tanto in chi lo intraprende, quanto in chi conviene ad osservarlo; ma, s'io non erro, poichè avremo, voi ed io, fatto prova insieme di questa necessaria virtù, ci troveremo finalmente innanzi, quasi senz'accorgercene, vivo ed in piedi, un nuovo Manzoni, che nè voi nè io ci eravamo, prima di ristudiarlo, immaginato fosse per riescire così grande, per quanto lo ingrandisse già la nostra ammirazione, nè così importante, per quanto fosse già molto viva la nostra curiosità di conoscere tutto ciò che lo riguardava.

II.

La nobiltà del Manzoni.

In una delle sue lettere alla propria moglie, Massimo d'Azegiio le narrava una visita fatta al paese originario di casa Manzoni: "Ci hanno detto (egli scrive) che i vecchi della famiglia, ai tempi feudali, avevano un certo cane grosso, che quando andava per il paese i contadini erano obbligati a levargli il cappello, e dirgli: Reverissi, sur can (La riverisco, signor cane)." Un proverbio della Valsássina, ove i Manzoni una volta spadroneggiavano come signori del luogo insieme con la famiglia de' Cuzzi, suona ancora così:

     Cuzzi, Pioverna e Manzòn
     Minga intenden de resòn.

Cioè, le famiglie Cuzzi e Manzoni ed il torrente Pioverna, quando straripa, non intendono punto la ragione. Dalla Valsássina la famiglia Manzoni passò ad abitare in quel di Lecco, dove il signor Pietro Manzoni, padre del nostro Poeta, possedeva molte terre ed una bella palazzina detta Il Caleotto, che nell'anno 1818 Alessandro Manzoni fu costretto a vendere, insieme con gli altri beni per la mala amministrazione di chi aveva tenuto, per oltre un decennio, la procura ed il governo di quelle terre, una parte delle quali si trovava nel Comune di Lecco, altre in Castello, altre in Acquate, il villaggio per l'appunto de' Promessi Sposi. Come Renzo si trova obbligato a lasciare il proprio villaggio ed a vendere la propria vigna per recarsi ad abitare nel Bergamasco; così il nostro Poeta dovette, per salvar la villa di Brusuglio, abbandonar luoghi che gli erano cari, dove aveva passata una parte della sua infanzia, dov'era tornato a villeggiare tra gli anni 1815 e 1818, onde non è meraviglia l'intendere dallo Stoppani che in quegli anni, per l'appunto, Alessandro Manzoni si trovasse pure a capo dell'amministrazione del Comune di Lecco; meno ancora ci meraviglieremo, dopo di ciò, che la scena de' Promessi Sposi sia stata posta dall'Autore nel villaggio di Acquate, nel territorio di Lecco, nei luoghi ove lo riportavano le prime e le più care sue reminiscenze e dai quali egli s'era dovuto staccare per sempre con un vivo dolore, tre anni e mezzo soltanto innanzi ch'egli incominciasse a scrivere il proprio romanzo. I Manzoni erano dunque nobili, ma nobili decaduti dai loro titoli di nobiltà e dalla loro antica potenza. Avevano dominato una volta con la forza. La fortuna d'Italia volle che col sangue del Manzoni, che la tradizione ci rappresenta quali uomini violenti, si mescolasse un giorno un sangue più gentile, e che, per gli ufficii dell'economista Pietro Verri e, come vuolsi, del poeta Giuseppe Parini, l'illustre marchese Cesare Beccaria sposasse un giorno la non ricca, ma bella, giovine ed intelligente sua figlia Giulia al proprietario del Caleotto, a Don Pietro Manzoni, uomo intorno alla cinquantina; e che da quelle nozze fra una nobile fanciulla milanese ed un grosso signorotto di provincia, il 7 marzo dell'anno 1785, nella città di Milano, nascesse un figlio. Se mi si domandasse ora qual conto il nostro Poeta facesse della sua origine nobilesca, mi troverei alquanto imbarazzato a rispondere. Nel suo discorso, nel suo contegno, tutto pareva in lui signorile; ma, nel tempo stesso, egli si adoprava a riuscir uomo semplice ed alla mano.[1] Forse in gioventù aveano desiderato dargli una educazione più aristocratica che la sua vera condizione di nobile decaduto non comportasse; Don Pietro Manzoni, uomo alquanto materiale, venuto dalla provincia a stabilirsi in Milano[2], dovea, fra i nobili milanesi, trovarsi alquanto spostato e l'arguta intelligenza del figlio potè sentire, per tempo, ciò che v'era di falso in quella condizione della propria famiglia fra l'alto patriziato lombardo. Se è vero che, nella educazione del giovane Ludovico, divenuto poi Fra Cristoforo, il Manzoni abbia inteso, in qualche modo, rappresentare la propria gioventù, convien dire ch'egli non avesse della propria nobiltà gentilizia, per la stima che se ne faceva a Milano, una opinione superlativa; ma, come discendente dagli antichi signori di Barzio nella Valsássina, come antico proprietario del Caleotto egli dovea pure ricordare che i suoi padri erano stati una volta il terrore delle terre da loro dominate e persuadersi che, se la sua nobiltà contava poco a Milano, avea contato troppo dalle parti di Lecco. Questa speciale contradizione nella stima ch'egli potea fare della propria nobiltà, lo tirava ora a farsi piccino con Renzo, ora a immaginarsi grande con l'Innominato, ora a collocarsi ragionevolmente fra i due con la figura di Fra Cristoforo. Ma quali fossero i panni, di cui gli piacesse vestirsi, o rivestirsi, egli doveva sentir sempre l'altezza del proprio ingegno sovrano, la quale poi si dimostrava altrui molto più nella modestia che ne' vanti volgari. Poichè uno de' privilegi degli uomini grandi (un privilegio che talora può anche divenire una loro debolezza) è quello di trovar compiacenza nel farsi piccini. Crediamo, dice, con molto garbo, il conte Carlo Belgioioso, che una squisita modestia convivesse coi Manzoni con una ben misurata stima di sè. Egli riconobbe di certo i privilegi della propria intelligenza, e ne ringraziò Dio; ma li scordò davanti agli uomini. Della nobiltà del Manzoni altri si occuparono, non lui; quando il signor Samuele Cattaneo di Primaluna[3] pensò fargli cosa grata, inviandogli l'antico stemma de' Manzoni ch'egli avea ritrovato nella casa di Barzio, il Poeta ringraziò tosto del pensiero amorevole, ma non aggiunse altro. Gli pareva sul serio di offender qualcheduno, quando avesse lasciato capire ch'egli sapesse o sentisse, e, peggio ancora, si compiacesse d'appartenere ad una casta privilegiata. Ma tanto fa, egli era un signore; e, quando s'accostava al popolo per fargli del bene, mosso da un sentimento di umanità, di giustizia, di carità cristiana e da una gentilezza squisita, quando, nella vendita del Caleotto e delle sue terre ereditate dal padre in quel di Lecco, egli tirava un frego sopra i debiti de' suoi contadini e affittaioli e li perdonava tutti, si mostrava generoso ed umile al modo di quell'ottimo suo marchese erede di Don Rodrigo de' Promessi Sposi: quel marchese, se vi ricordate, volendo far del bene a Renzo ed a Lucia e riparare verso di essi i gravi torti del suo predecessore, compra la vigna di Renzo pagandola il doppio del prezzo richiesto; poi invita i due fidanzati al suo palazzotto, fa loro imbandire un buon desinare ed ordina che venga servito bene, anzi lo serve, in parte, da sè, ma non si mette addirittura a tavola coi villani. A questo punto il Manzoni entra direttamente in iscena, ed osserva: "A nessuno verrà, spero, in testa di dire che sarebbe stata cosa più semplice fare addirittura una tavola sola. Ve l'ho dato per un brav'uomo, ma non per un originale, come si direbbe ora; vi ha detto ch'era umile, non già che fosse un portento di umiltà. N'aveva quanta ne bisognava per mettersi al di sotto di quella buona gente, ma non per istar loro in pari." Questo brano mi pare abbastanza eloquente per sè, nè mi obbliga ad aggiugnere altro intorno al modo con cui il Manzoni sentiva la propria signoria,[4]

[1] Quanto alla fisionomia del Manzoni, non si potrebbe tuttavia dire che essa avesse un carattere diverso da quello de' popolani di Lecco, ove, come me ne assicura il prof. Stoppani, s'incontrano spesso contadini, alla vista de' quali vien voglia di gridare:—Ecco il Manzoni.—Cade quindi l'indiscreta ciarla nata in Milano, per cui si suppose possibile che il Manzoni fosse figlio dell'Imbonati, ciarla, alla quale alludeva forse il verso del noto Carme giovanile, In morte dell'Imbonati: Contro il mio nome armaro L'operosa calunnia.

[2] Don Pietro Manzoni abitava allora nella Via San Damiano, nella casa che porta ora il numero venti, e il battesimo venne celebrato nella chiesa di Santo Babila dal prete Alessio Nava; al fanciullo furono imposti i nomi di Alessandro, Francesco, Tommaso, Antonio. Il primo nome era quello del padre di Don Pietro, ossia del nonno del Manzoni, allora già morto; il secondo il nome del padrino Don Francesco Arrigoni. Il nome di Tommaso gli fu imposto, senza dubbio, perchè la Chiesa il dì 7 marzo festeggia San Tommaso. Antonio era il nome di un cugino canonico in San Nazaro; ma potrebbe pure esser venuto al Manzoni da una madrina Antonietta, intorno alla quale tuttavia, per ora, non sappiamo proprio nulla. Poichè si è qui ricordata la prima abitazione del Manzoni (l'ultima in Via del Morone, ove egli morì, è ben nota), ricorderò ancora col Morbio le altre case abitate dal Manzoni in Milano: "Altra casa, già abitata precedentemente da Manzoni, col padre, oltre l'accennata a San Damiano, fu quella segnata col N, 134, in Via Santa Prassede, ora Via Fontana, N. 44. Manzoni fu molto instabile nelle sue dimore. Nel 1808 abitava in Via Cavenaghi al N. 2528, ora N. 5. Sul declinare dell'anno 1810 scelse un'altra dimora; e colla madre, la sposa e la figlia Giulia, recossi ad abitare in Via San Vito al Carrobbio, al vecchio N. 3883, ora N. 27. Ponete un'iscrizione su quella casa. Ivi cominciò ad ideare gli Inni Sacri; ma essi furono ultimati e perfezionati nella sua Villa di Brusuglio, e precisamente in una capannuccia del giardino."

[3] Cfr. il volume delle Lettere pubblicato da Giovanni Sforza.

[4] Intorno alla nobiltà della famiglia Manzoni, ecco quanto scrisse l'erudito Carlo Morbio nella Rivista Europea dell'anno 1874 "Fu creduto da quasi tutti i biografi di Manzoni che Egli fosse stretto in parentela colla Francesca, celebre poetessa e letterata, della quale lungamente scrisse l'Argelati, che morì nel 1743 alla Cerreda sua villetta presso Lecco, nella ancor fresca età di 33 anni. Ma io già provai con lettera, direttami dallo stesso grande Poeta, nel 25 gennaio 1844, che Egli colla Francesca non aveva di comune che il cognome, comunissimo del resto, com'Egli m'osserva, nei territorio di Lecco e della Valsássina. Il grande Poeta fu egli di nobile casato? I Manzoni ebbero, è vero, feudi e onoranze in quei paesi, ma la loro nobiltà non venne mai ufficialmente riconosciuta. Don Pietro, padre di Alessandro, ed i suoi fratelli, presentarono bensì nel 1794 un'istanza documentata al Consiglio Generale della città di Milano, onde essere ammessi agli onori del Patriziato Milanese; ma prima che il Consiglio si pronunciasse in proposito, i supplicanti in causa d'urgenti affari di famiglia chiesero ed ottennero la restituzione de' loro documenti, obbligandosi però a riprodurli a tempo opportuno. Ma non mi consta che la famiglia Manzoni riproducesse più tardi la sua istanza. È poi assolutamente erroneo che la sua nobiltà venisse riconosciuta dal Tribunale Araldico, con sentenza del 10 luglio dell'anno 1771, perchè i Manzoni non si trovano accennati in nessuno degli elenchi dei nobili cittadini, proclamati come tali dal Tribunale Araldico e dal Consiglio Generale della città di Milano.—Manzoni non ha mai fatto uso di stemma gentilizio, neppure nelle lettere; il suo sigillo porta semplicemente le sue iniziali, entro un cerchietto a linee concentriche.

III.

Il Manzoni a scuola.

Io non mi fermerò ora a darvi notizie della culla del Manzoni, che fu ritrovata e si conserva in una villa del signor Rosinelli a Mozzana sopra Galbiate; nè della cascina detta La Costa, ove il grand'uomo fu allattato da Caterina Zanzeri, nè di questa nutrice, la quale vogliono che fosse svelta, vivace e piacevolona.[1]. Ma non è senza importanza il fatto che a soli sei anni il fanciullo Manzoni fu allontanato da casa sua e chiuso nel Collegio de' Frati Somaschi di Merate, ove rimase dall'anno 1791 all'anno 1796.[2] La mamma ve l'accompagnò, ma scomparve intanto che il fanciullo era tenuto a bada da un frate maestro. Si possono facilmente immaginare gli strilli del povero fanciullo non appena egli s'accorse che la mamma sua l'aveva lasciato; ma, poichè ad uno de' prefetti parve pure che il pianto durasse troppo, il fanciullo ricevette un colpo sulla guancia accompagnato da queste parole: "E quando la finirete di piangere?" Quello fu il primo dolore provato dal grand'uomo, che se ne rammentava anche negli ultimi anni della sua vita. "Buona gente (del resto egli concludeva, parlando di que' suoi primi istitutori), quantunque, come educatori, lasciassero troppo a desiderare che fossero prima un po' più educati loro stessi." I frati di Merate lo avvezzarono dunque ai primi castighi. Ad undici anni, Alessandro Manzoni passò nel Collegio di Lugano, ove gli toccò la buona fortuna di avere tra i suoi maestri il buon padre Francesco Soave,[3] onesto letterato e, per quei tempi, educatore assai liberale, sebbene s'indispettisse contro il nostro piccolo scolaro, che s'ostinava a scrivere le parole Re, Imperatore e Papa con la prima lettera minuscola. Il Manzoni parlando un giorno del Soave a Cesare Cantù gli disse, tra l'altre cose: "Teneva nella manica della tonaca una sottile bacchetta, presso a poco come quella che fa i miracoli dei giocolieri; e quando alcuno di noi gli facesse scappare la pazienza, egli la impugnava, e la vibrava terque quaterque verso la testa o le spalle del monello, senza toccarlo; poi la riponeva e tornava in calma." Al Manzoni rincresceva d'avere talvolta inquietato quel Padre, che tanto fece, sebbene non sempre il meglio, per l'istruzione della gioventù. Narrava pure il Manzoni come una volta gli scappasse detto in iscuola "ne faremo anche a meno," quando il Padre Soave annunziò che fra poco ci sarebbe stata la lezione d'aritmetica. Il Padre maestro si levò allora dalla cattedra, e si mosse gravemente verso il piccolo ribelle, che si sentiva già agghiacciare per lo sgomento il sangue nelle vene; gli si accostò, gli pose sulla guancia legermente due dita, come per carezzarlo, ma dicendogli con voce grossa: "E di queste ne farete a meno?" come se lo avesse percosso ferocemente. Il Manzoni, come assicura lo Stoppani e come si può ben credere, rimase "profondamente colpito da tanta mitezza, e ne parlava ancora con vera compiacenza quasi 70 anni più tardi." Ma la via crucis de' collegi non era ancora finita pel nostro piccolo proscritto. Verso il suo tredicesimo anno, lasciati i Somaschi di Lugano, egli veniva raccomandato ai Barnabiti del Collegio di Castellazzo, poscia a quelli del Collegio de' Nobili di Milano; e qui sebbene egli n'abbia poi detto un gran male nei noti versi In morte di Carlo Imbonati, nacque e si rivelò fra il tredicesimo e il quindicesimo anno il suo genio poetico, o per lo meno, la sua felice attitudine al poetare.[4]

[1] Cfr. I primi anni di Alessandro Manzoni, spigolature di Antonio Stoppani.

[2] La poca armonia che dovea regnare in casa di Don Pietro Manzoni fra moglie e marito, onde sappiamo che, alcuni anni dopo, la signora Giulia Beccaria si trasferiva con l'Imbonati a Parigi, dovette essere una delle principali cagioni, per le quali il Manzoni, in così tenera età, fu rinchiuso in collegio. Il Manzoni concepì poi per la vita di collegio una tale avversione, che, al dire del Loménie, egli non volle mandare in collegio alcuno de' suoi figli, ch'egli educò, invece, presso di sè. "On dit (aggiunge il Laménie) que, par suite de son excessive tendresse de père, l'expérience de l'éducation domestique ne lui a pas parfaitement réussi." Ed è vero, pur troppo, per quello che riguarda i maschi, i quali, ad eccezione forse del primogenito Pietro, che gli fece almeno buona compagnia negli ultimi anni della vita, non risparmiarono al grand'uomo noie e dolori.

[3] Francesco Soave era nato in Lugano nel giugno dell'anno 1743; avea fatto i suoi primi studii a Milano, quindi a Pavia, finalmente a Roma nel Collegio Clementino. Soppressa la Compagnia di Gesù, della quale faceva parte, andò nel 1767 ad insegnare poesia a Parma; fu allora che pubblicò la sua Grammatica ragionata della lingua italiana. Non è inutile avvertire che il primo impulso agli studii di lingua, che poi l'occuparono tanto, può esser venuto al Manzoni dai primi insegnamenti del Soave. Avendo, dice un biografo del Soave, la Reale Accademia di Berlino proposto il quesito: "Se gli uomini abbandonati alle loro facoltà naturali sieno in grado per sè medesimi d'istituire un linguaggio, e in qual modo potrebbero pervenirvi," il Soave vi mandò una dissertazione latina che ottenne il primo Accessit. Lo stesso Padre Soave la tradusse poi in italiano e la pubblicò in Milano nel 1772; quantunque Gesuita, il Padre Soave vi sosteneva arditamente il concetto poco ortodosso, che l'uomo può da sè stesso istituire il proprio linguaggio. Nello stesso anno 1772, il conte Firmian elesse il Padre Soave a leggere nel Collegio di Brera la filosofia morale, quindi la logica e la metafisica; nel tempo stesso egli coltivava le scienze fisiche e adopravasi a divulgare le nuove scoperte scientifiche; alcune delle sue osservazioni parvero anzi vere invenzioni. Per eccitamento del conte Carlo Bettoni di Brescia, il Padre Soave scrisse pure le Novelle morali per la Gioventù, e ne ottenne un premio di cento zecchini. Un altro riscontro curioso si può notare fra la vita del maestro Soave e quella del discepolo Manzoni. Il primo, inorridito nell'anno 1789 e ne' successivi per i rivolgimenti di Francia, imprese a scrivere un libro storico, sotto l'anagramma grecizzato di Glice Coresiano (Soave Luganese), col titolo: La vera idea della rivoluzione di Francia; il secondo termina la sua vita scrivendo per l'appunto un libro sopra la rivoluzione di Francia, per disapprovarla (sebbene in modo e per motivi assai diversi) come il suo primo vero maestro. Quando il Soave riparò nel 1796 in Lugano e vi ammaestrò il nostro piccolo Manzoni, era fuggiasco da Milano, ove spadroneggiavano vittoriosi i Sanculotti. Si capisce pertanto qual animo fosse allora il suo contro i repubblicani e come li dovesse rappresentare a' suoi piccoli alunni del Collegio di Lugano. Da Lugano lo richiamava poi in Napoli il principe d'Angri per affidargli l'educazione del proprio figliuolo. Il Manzoni dovette rivedere il Soave nel 1803 a Pavia, ove il buon Padre insegnava l'analisi delle idee; chi sa che il Manzoni non abbia pure frequentate le sue nuove lezioni di logica. Accennerò finalmente come, a promuovere le idee del giovine stoico Manzoni, può avere pure conferito alcun poco l'esempio del Soave che ci è rappresentato come uomo "d'ingenui e sinceri costumi, dal parlare lento e grave, dal viso alquanto austero, dal far contegnoso, non ostante il quale, la bontà sua lo rendea caro e venerato."

[4] "I locali del sozzo ovile (scrive Carlo Morbio, che fu egli pure alunno nel Collegio de' Nobili) non avevano subìto cambiamento importante dall'epoca in cui fuvvi Manzoni; così almeno assicuravano i vecchi del Collegio, che si ricordavano benissimo del vispo e caro Don Alessandro o Lisandrino. Verso la seconda corte ed i giardini, il Collegio spiegava un aspetto grandioso, ma melanconico e severo. Nell'interno, ampi eranvi i corridoi e le camerate. Era, per dir così, la fronte d'un vasto caseggiato, che non venne poi condotto a compimento. Verso il Naviglio poi l'Imperiale Collegio presentava una fronte ignobile e bassa. Gli alti pioppi di quella seconda corte già avevano ombreggiato il capo del giovane Poeta, il cui ritratto ad olio, grande al vero, stava appeso fra quelli dei più distinti allievi (Principi) del Collegio. È quindi troppo assoluta la sentenza della signora Dupin che i ritratti di Manzoni giovane sarebbero apocrifi. Questo all'incontro è bene autentico e genuino. È anche fama che a vent'anni Manzoni si facesse ritrarre a Parigi, a guisa d'inspirato, colle chiome sciolte e collo sguardo volto al cielo. (Con gli occhi rivolti in su lo rappresentava pure nella virilità il pittore Molteni in un quadro ad olio, che si conserva presso la marchesa Alessandrina Ricci D'Azeglio.) Fu scritto da quasi tutti i biografi di Manzoni, che egli da giovinetto fosse di tardo ingegno, e punto non istudiasse. Non ignoro che il grande Poeta, forse burlando, lasciò creder ciò; ma io combatto Manzoni colle stesse sue anni, coi bellissimi suoi Versi giovanili alla mano; ma io cito l'onoranza del ritratto, certamente non sospetta, che egli ottenne nello stesso Collegio Longone, ove fu alunno dal 1796 all'anno 1800."

IV.

Primi versi.

Invero, ch'egli amasse molto i versi e ne scrivesse fin dal tempo, nel quale sedeva ancora sui banchi della scuola, ce lo dice egli medesimo in un sermone giovanile diretto al suo compagno Giambattista Pagani di Brescia,[1] onde rileviamo ch'egli prediligeva già, fra tutti i metri, il verso sciolto, e che non gli toccarono mai, per cagione di poeti, quali Orazio, Virgilio e il Petrarca, quelle battiture che non gli saranno certamente mancate per altre ragioni. Ma, ingegno precocemente riflessivo, egli dovette accorgersi assai presto della vanità degli esercizii rettorici, ne' quali i frati maestri del Collegio de' Nobili in Milano costringevano allora, e così non li costringessero più ora, frati e non frati, nelle scuole d'Italia, i giovinetti ingegni. Nel suo sermone al Pagani egli si burla delle gonfie orazioni che, giovinetto, gli toccava comporre nella scuola, travestito, com'ei dice satiricamente, da moglie di Coriolano, e dell'arte rettorica, per la quale si chiude "in parole molte, poco senso," precisamente l'opposto di quello ch'egli fece dipoi, dicendo sempre molto in poco:

   Pensier null'altro io m'ebbi infin dal tempo
     Che a me tremante il precettor severo
     Segnava l'arte, onde in parole molte
     Poco senso si chiuda; ed io, vestita
     La gonna di Volunnia, al figlio irato
     Persüadea, coi gonfii sillogismi,
     Ch'umil tornasse disarmato in Roma,
     Allor sol degno del materno amplesso.
     Me dalla palla spesso e dalle noci
     Chiamava Euterpe al pollice percosso
     Undici volte, nè giammai di verga
     Mi rosseggiò la man, perchè di Flacco
     Recitar non sapessi i vaghi scherzi,
     O le gare di Mopso o quel dolente
     "Voi che ascoltate in rime sparse il suono."

Ma vi ha di più: io sono lieto di potervi oggi recare una nuova prova meravigliosa della precoce potenza, con la quale Alessandro Manzoni sentì sè stesso. Uno de' più geniali amici della sua vecchiaia, il professor Giovanni Rizzi, poeta gentile e sapiente educatore, conservava inedito presso di sè un mirabile Sonetto, composto dal Manzoni nell'anno 1801, il che vuol dire sul fine del suo quindicesimo o sul principio del sedicesimo anno della sua vita. Egli mi permise, per tratto di grande amorevolezza, in questa occasione a me tanto solenne, di levarlo dall'oblio immeritato, in cui rimaneva da settantasette anni. È, come vedrete, un ritratto fisico e morale che lo stupendo giovinetto faceva di sè stesso; vi è qualche cosa d'ingenuo nell'espressione, ma nel tempo stesso vi si ammira, insieme con una grande e preziosa sincerità, il felice presentimento di una vita lunga e gloriosa.

   Capel bruno, alta fronte, occhio loquace,
     Naso non grande e non soverchio umìle,
     Tonda la gota e di color vivace,
     Stretto labbro e vermiglio, e bocca esìle.
   Lingua or spedita or tarda, e non mai vile,
     Che il ver favella apertamente o tace;
     Giovin d'anni e di senno, non audace,
     Duro di modi, ma di cor gentile.
   La gloria amo e le selve e il biondo Iddio.[2]
     Spregio, non odio mai; m'attristo spesso,
     Buono al buon, buono al tristo, a me sol rio.
   All'ira presto, e più presto al perdono,
     Poco noto ad altrui, poco a me stesso,
     Gli uomini e gli anni mi diran chi sono.

Quest'ultimo verso profetico mi scioglie dall'obbligo di qualsiasi commento. Vi è qui tutto l'afflato del genio potente, che doveva rivelare al suo secolo ed alla sua terra una nuova poesia.

[1] Anche nell'Urania, il Manzoni dice ch'egli ambì la fama di poeta italiano fin dai passi primi nel terrestre viaggio:

                              Da' passi primi
         Nel terrestre viaggio, ove il desio
         Crudel compagno è della via, profondo
         Mi sollecita amor che Italia un giorno
         Me de' suoi vati al drappel sacro aggiunga.

[2] Variante: "Di riposo e di gloria insiem desìo."

V.

Il Manzoni ed il Parini.

Nella sua prima maniera satirica il Manzoni parineggia; il Parini, egli non avea conosciuto di persona, se bene lo potesse per le relazioni che il poeta di Bosisio avea avute con la famiglia Beccarla. Quando il Parini morì, il Manzoni, quattordicenne, incominciava già a sentire la poesia e ad ammirare veramente i poeti; si narra anzi ch'egli leggesse per l'appunto la celebre Ode La caduta, quando gli venne annunciato che il Parini era morto.[1] Il Manzoni vecchio dolevasi con Giovanni Rizzi di non averlo cercato, e scusavasi malamente col dire che allora egli era "un ragazzaccio che non sapeva nulla di nulla." Il vero è che non ci avrà pensato, che non avrà, come accade, creduto il Parini già così vicino a morire, e che la vita di collegio gli avrà pure diminuite le occasioni d'incontrarlo. Che se, al dire di Giulio Carcano, quando, nel Collegio de' Nobili, il giovinetto Manzoni fu, la prima volta, presentato al Monti come nipote di Cesare Beccarla, il Monti gli parve un Dio, è probabile che il vecchio Parini, quantunque non bello, gli avrebbe lasciata nell'animo una impressione più soave e più durevole. Ricordano gli amici del Manzoni che egli sapeva a memoria tutto il Giorno e che, sul fine della propria vita, quando sentiva affievolirsi la memoria, per assicurarsi di non averla perduta tutta, soleva trascrivere a mente qualche verso del suo Parini.[2] Quando, nel settembre dell'anno 1803, il diciottenne Manzoni mandava al suo maestro Monti un Idillio allegorico intitolato: L'Adda, egli lo accompagnava con una lettera, di cui, perchè si vegga quanta destrezza e causticità d'ingegno era già nel giovine Poeta, riporterò qui le prime parole: "Voi mi avete più volte ripreso di poltrone, e lodato di buon poeta. Per farvi vedere che non sono nè l'uno nè l'altro, vi mando questi versi."[3] Il discepolo domanda al maestro un parere sopra i suoi nuovi versi, per limarli, ed, intanto, invita il Monti alla propria villa. Nell'Idillio, il fiume Adda personificato in una Dea si volge così al Monti:

   Te, come piacque al ciel, nato a le grandi
     De l'Eridano sponde, a questi ameni
     Cheti recessi e a tacit'ombra invito.

L'Adda sa bene di non poter contendere col Po, presso il quale il Monti è nato, e prima di lui Lodovico Ariosto ed il Guarini, ma pur si gloria che presso le sue rive abbia cantato un giorno Giuseppe Parini, l'Orazio lombardo. L'Adda dice:

   Quivi sovente il buon cantor vid'io
     Venir trattando con la man secura
     Il plettro di Venosa e il suo flagello,
     O traendo l'inerte fianco a stento,
     Invocar la salute e la ritrosa
     Erato bella, che di lui temea
     L'irato ciglio e il satiresco ghigno;
     Ma alfin seguïalo e su le tempie antiche
     Fêa di sua mano rinverdire il mirto.
     Qui spesso udillo rammentar piangendo,
     Come si fa di cosa amata e tolta,
     Il dolce tempo della prima etade,
     O de' potenti maledir l'orgoglio,
     Come il genio natìo movealo al canto
     E l'indomata gioventù dell'alma.
     Or tace il plettro arguto e ne' miei boschi
     È silenzio ed orror. Te dunque invito,
     Canoro spirto, a risvegliar col canto
     Novo rumor Cirreo. A te concesse
     Euterpe il cinto, ove gli eletti sensi
     E le imagini e l'estro e il furor sacro
     E l'estasi soavi e l'auree voci
     Già di sua man rinchiuse. A te venturo
     Fiorisce il dorso brïanteo; le poma
     Mostra Vertunno e con la man ti chiama,
     Ed io, più ch'altri di tuo canto vaga,
     Già mi preparo a salutar da lunge
     L'alto Eridano tuo, che, al nuovo suono,
     Trarrà meravigliando il capo algoso,
     E tra gl'invidi plausi de le Ninfe,
     Bella d'un inno tuo corrergli in seno.

Nonostante la grazia di questo voluttuoso invito, il Monti non può muoversi, e se ne scusa con una lettera, la quale incomincia cerimoniosamente col voi e prosegue affettuosamente col tu. Loda moltissimo i versi, e conchiude: "Dopo tutto, sempre più mi confermo che in breve, seguitando di questo passo, tu sarai grande in questa carriera; e se al bello e vigoroso colorito che già possiedi, mischierai un po' più di virgiliana mollezza, parmi che il tuo stile acquisterà tutti i caratteri originali." Nell'amore del Parini fu ancora confermato il Manzoni dall'affetto che lo legò poco dopo alla memoria del più caro discepolo dell'Autore del Giorno, l'Imbonati, dall'ombra del quale, nel noto Carme, ei si fa dire:

     ……Quei che sul plettro immacolato
     Cantò per me: torna a fiorir la rosa,[4]
     Cui, di maestro a me poi fatto amico,
     Con reverente affetto ammirai sempre,
     Scola e palestra di virtù.

E i consigli dell'Imbonati non sono altro, in somma, se non quelli che si trovano già espressi nei versi sentenziosi del Parini. Il Manzoni sentì che erano veri, e li fece suoi proprii, per seguirne i precetti. Scegliere il vero per farne argomento e fondamento di alta poesia è virtù di pochi ingegni potenti. Il Manzoni non solamente sceglie bene, ma quello ch'egli ha scelto, perfeziona e migliora. Spoglia, a poco a poco, di una parte del loro apparato classico e mitologico i nobili pensieri del Parini e li rifeconda col proprio sentimento, per esprimerli con un linguaggio più caldo e più semplice.

[1] Tutti ricordano il principio commovente dell'Ode pariniana:

       Quando Orïon dal cielo
         Declinando imperversa,
         E pioggia e nevi e gelo
         Sopra la terra ottenebrata versa,
       Me, spinto nella iniqua
         Stagione, infermo il piede,
         Tra il fango e tra l'obliqua
         Furia de' carri la città gir vede;
       E per avverso sasso
         Mal fra gli altri sorgente
         O per lubrico passo
         Lungo il cammino stramazzar sovente, ec.

Il Manzoni vecchio che, per timore di cadere, soleva sempre, quando usciva, farsi accompagnare, dovette spesso pensare al suo Parini. "Una volta (mi scrive il Rizzi), quando egli andava a passeggio, una carrozza signorile passò così accosto a una povera donna che quasi la schiacciava. Avessi veduto che occhi fece, in quel momento! E pazienza gli occhi! Gli scappò nientemeno che questa frase: porchi de sciori! (porci signori!). E tutti intorno la sentirono."

[2] Le ultime parole trascritte dal Manzoni, per quanto me ne assicura il professor Giovanni Rizzi, furono versi del Giorno.

[3] Cfr. il libro del signor Romussi, Il Trionfo della libertà.

[4] Allude all'Ode La educazione, che il Parini scrisse pel giorno natalizio del suo allievo undicenne Carlo Imbonati all'uscire da una malattia, e che incomincia:

       Torna a fiorir la rosa
         Che pur dianzi languia
         E molle si riposa
         Sopra i gigli di pria.
         Brillano le pupille
         Di vivaci scintille.

    Questi versi sentenziosi del Parini dovettero far pensar molto il
    Manzoni, e persuaderlo; il Carme In morte dell'Imbonati ha
    perfetto riscontro di pensieri ed anche di parole con essi:

       Dall'alma origin solo
         Han le lodevol opre.
         Mal giova illustre sangue
         Ad animo che langue.
    —Chi della gloria è vago
         Sol di virtù sia pago.
    —Giustizia entro il tuo seno
         Sieda e sul labbro il vero.—
    —Perchè sì pronti affetti
         Nel core il ciel ti pose?
         Questi a Ragion commetti,
         E tu vedrai gran cose.
    —Sì bei doni del cielo,
         No, non celar, garzone,
         Con ipocrito velo,
         Che alla virtù si oppone.
         Il marchio, ond'è il cor scolto,
         Lascia apparir nel volto.
       Dalla lor mèta han lode,
         Figlio, gli affetti umani.

Si può, si deve combattere per la patria, ma chi vince

                Pietà non nieghi
         Al debole che cade.

Soccorriamo il povero, e l'uomo si mostri fido amante e indomabile amico. Il Giusti, nell'Elogio del Parini, scriveva: "La Lombardia perdè il suo poeta e non poteva cadere in mente ai cittadini, che lo piangevano, di consolarsene nel caro aspetto di un fanciullo di tredici anni ch'era allora in Milano e che di lì a poco fu quell'uomo che tutti sanno." Il Manzoni avrebbe pure potuto far propria la famosa strofa dell'Ode pariniana, La vita rustica:

       Me non nato a percotere
         Le dure illustri porte,
         Nudo accorrà, ma libero,
         Il regno della morte.
       No, ricchezza nè onore
         Con frode o con viltà
         Il secol venditore
         Mercar non mi vedrà.

Il Manzoni vide pure, come il Parini, nell'educazione un mezzo per rialzare non solo i costumi, ma la patria infelice ed oppressa. Nella Canzone: Per l'innesto del vaiuolo, il Parini intese anco a preparar fanciulli sani, perchè potessero un giorno dar prova

D'industria in pace o di coraggio in guerra.

    Nell'Ode: L'educazione, facendo apostrofare da Chirone il giovinetto
    Achille

Nato al soccorso Di Grecia,

il Parini rammenta al giovine Conte lombardo che può intraprendere ogni più ardua impresa per la patria

Un'alma ardita, Se in forti membra ha vita.

Così la poesia pariniana non è un vano giuoco, come non saranno mai pel Manzoni le lettore; tutta la sua letteratura è civile, anche dove scopre meno direttamente il suo intento educativo.

VI.

Il Trionfo della Libertà.

Il Manzoni, per sua natura, s'accostava, invero, più al fare un po' rigido del Parini che a quello pieno ed ampio, ma un po' reboante del Monti; quindi il Monti, che pur lo lodava tanto, desiderava in lui alcuna maggiore larghezza e rotondità di frase, ossia, come diceva, "un po' più di virgiliana mollezza," che si sarebbe ancora definita convenientemente "pastosità lombarda." Nel Sonetto giovanile che vi ho già riferito, il Manzoni si accusa da sè stesso come "duro di modi." Questa durezza è pure un poco nella sua poesia, quando alcun sentimento specialmente soave e vivace non viene a commuoverlo, obbligando il critico arcigno a tacere innanzi al poeta commosso. Tuttavia il Manzoni, negli anni de' suoi studii a Pavia, più tosto che un alunno e un ammiratore del discreto, austero e parco di versi tessitor, ci si dimostra un seguace dell'impetuoso Monti, verseggiatore facile, ad un tempo, e solenne ed altitonante, dal quale egli dovette pure avere appreso a studiare e ad imitar la Divina Commedia.[1] Dall'Autobiografia del medico inglese Granville, il quale nell'anno 1802 studiava la Medicina nell'Università di Pavia, rilevo che, in quell'anno medesimo, egli vi conobbe il Manzoni, il quale doveva esservisi recato per frequentare specialmente le lezioni di eloquenza italiana di Vincenzo Monti. Sappiamo ancora che il Monti, dalla sua cattedra di Pavia, fulminava dantescamente il governo temporale de' preti, parlava alto dell'amore di Dante per la patria e per la libertà. Le impressioni ricevute a quella scuola si rivelano chiaramente nel primo componimento manzoniano che si conosca, un poema in terza rima, diviso in quattro canti, intitolato: Il Trionfo della libertà, scritto ad imitazione dei Trionfi del Petrarca, e con molte reminiscenze della Divina Commedia, della Bassvilliana e della Mascheroniana del maestro Monti; il Manzoni lo concepì e lo scrisse fra il 1800 e il 1801, il che vuol dire tra il fine del suo quindicesimo e il principio del suo sedicesimo anno. Rileggendo alquanto più tardi il suo lavoro giovanile, il Manzoni, che lo poteva fare, poichè non s'era pubblicato, non lo distrusse; ma si contentò di porvi su la seguente Avvertenza: "Questi versi scriveva io Alessandro Manzoni nell'anno quindicesimo dell'età mia, non senza compiacenza e presunzione di nome di Poeta, i quali ora, con miglior consiglio e forse con più fino occhio rileggendo, rifiuto; ma veggendo non menzogna, non laude vile, non cosa di me indegna esservi alcuna, i sentimenti riconosco per miei; i primi come follia di giovanile ingegno, i secondi come dote di puro e virile animo." L'Avvertenza manca di quella lucidità e naturalezza che divenne, specialmente nella prosa, uno de' privilegi dello stile manzoniano, il che mi fa naturalmente sospettare che risalga essa stessa ad un tempo, nel quale il Manzoni, non più giovinetto, ma pur sempre giovanissimo, non era ancora interamente padrone di sè come prosatore, e probabilmente all'anno, in cui egli scriveva la faticata Urania. Il Manzoni parlando di un ritratto che gli aveano fatto in gioventù (forse quello di Parigi), con gli occhi rivolti al cielo, diceva: "Io era in quell'età, nella quale chi si lascia fare un ritratto, si crede in obbligo di prendere l'attitudine di un uomo ispirato." In quell'età soltanto il Manzoni poteva, dunque, parlando di sè, scrivere "io, Alessandro Manzoni," e vantarsi del suo "puro e virile animo." Il Manzoni, divenuto cattolico convinto, avrebbe della propria persona e delle proprie virtù parlato con molto maggiore umiltà. Il Manzoni vecchio poi non solo avrebbe scritta altrimenti quell'Avvertenza, non solo vi avrebbe condannati molti de' sentimenti sdegnosi espressi in quel poema; ma, cosa più probabile, ei non l'avrebbe scritta affatto, che, invece di scriverla, egli avrebbe semplicemente distrutti, con uno spietato auto-da-fè, i versi giovanili che rifiutava. Quando, assai più tardi, egli disapprovò pure ed anzi ripudiò, per molte gravi ragioni, i versi In morte dell'Imbonati, non era più in suo potere il distruggerli, perchè già troppo divulgati. È cosa certa poi, o almeno può tenersi come probabile fino alla certezza, che il Manzoni, dall'anno 1818 in qua, non avrebbe mai scritta in prosa la parola laude, invece di lode, la sintassi finalmente dell'Avvertenza rivela ancora l'impaccio del periodo classico, dal quale il Manzoni pose dipoi tanto studio a liberarsi. Il prosatore Manzoni, che conosciamo come maestro di mirabile naturalezza ed evidenza, non avrebbe mai detto, per esempio: non cosa di me indegna esservi alcuna; ma semplicemente: non esservi alcuna cosa indegna di me. Sono minuzie, lo vedo, delle quali parrà forse superfluo che si pigli nota in un breve discorso biografico. Ma, se io ammettessi che il Manzoni non pur vecchio, ma dopo il suo anno ventesimoterzo, avesse potuto scrivere quella singolare Avvertenza, non comprenderei più il Manzoni e sarebbe un cattivo principio per chi ha impreso a parlarne con la pretesa, la quale vedrete voi stessi in qual misura sia legittima, di farlo meglio conoscere agli altri. Il Manzoni tra i venti e i ventidue anni, non ancora risoluto di credere cattolicamente, ma già seguace di Zenone lo Stoico ed avido insieme di gloria poetica, poteva benissimo, nella fiducia di aver fatto qualche progresso nell'arte sua, ripudiare la forma letteraria del suo primo componimento per impedirne la stampa e, in pari tempo, compiacersi nella manifestazione di sentimenti, ai quali non aveva ancora rinunciato, nè poteva facilmente rinunciare fin che si trovava in mezzo ai liberi ragionari degli atei o deisti, dei materialisti o ideologi, dei rivoluzionarii, in ogni modo, e in pari tempo, galantuomini suoi amici, i quali frequentavano la Maisonnette. Il Manzoni vecchio sarebbe stato forse alquanto più indulgente, per quella serenità olimpica ch'è la bontà de' vecchi, ai difetti letterarii del suo componimento giovanile; ma egli ne avrebbe, senza dubbio, deplorato i sentimenti che vi si esprimono in modo violento, contro la Madre Chiesa, e contro quella povera Maria Antonietta, la quale, appena che il Manzoni incominciò a studiare criticamente la storia della prima rivoluzione francese, diventò una delle sue più forti simpatie storiche. Io so bene che a molti deve piacere il poter affermare che il Manzoni, riconoscendo come proprii i sentimenti espressi nel suo poema giovanile, si schierò addirittura contro il Papato e coi repubblicani; ma per un tale riconoscimento la questione cronologica è di capitale importanza, quando noi non vogliamo, per seguire le nostre fantasie o le nostre passioni, foggiarci, ad inganno di noi medesimi, in un discorso biografico sopra il Manzoni, un Manzoni diverso dal vero. Il quindicenne Manzoni, nel suo poemetto intitolato: Il Trionfo della libertà, ci dà l'aspetto di un generoso aquilotto che vuol tentare il primo suo volo. Egli sente già le ali che gli battono i fianchi generosi, ma ignora ancora quale via terrà. Si capisce già che egli ambisce volar alto, quando invoca la sua Musa, perchè rinfranchi la cadente poesia italiana, perchè sostenga la virtù che vien meno:

   Tu la cadente poesia rinfranca,
     Tu la rivesti d'armonia beata,
     E tu sostieni la virtù che manca;

mirabili versi per un poeta di quindici anni che esce dalle scuole de' frati e da un secolo cicisbeo educato fra le canzonette del Metastasio e del Frugoni; ma il giovinetto non ha ancora potuto pensare a crearsi una propria forma letteraria. Noi vediamo nel suo Trionfo piuttosto la destrezza di un forte ingegno imitatore, nutrito di buoni studii, che gl'indizii del più originale fra i nostri scrittori moderni. Egli ha già studiato molto, e incomincia a sentire gagliardamente, ma gli manca ancora l'abitudine, che fa grande l'artista, di meditare lungamente sopra i suoi sentimenti ed il proposito virile di esprimerli con naturalezza. Si sente già in parecchi versi il fremito di un'anima ardente, ma il paludamento del poeta è ancora tutto classico. Qualche indizio di originalità lo troviamo, appena, in que' passi, ove il poeta abbassa la tonante terzina ad uno stile più umile, vinto dalla propria urgente natura satirica. Egli incomincia allora ad esercitare la più difficile e la più utile di tutte le critiche, quella che uno scrittore intraprende sopra sè stesso, temperando talora l'iperbole di alcune immagini sproporzionate. Dopo avere, per esempio, dantescamente imprecato contro la città di Catania, onde era partito l'ordine regio delle stragi napoletane, dopo aver fatto invito tremendo all'Etna, perchè getti fuoco e cenere sopra tutta la città, il Poeta s'accorge da sè stesso che sarebbe troppo castigo, e che non si può per un solo reo punire tutto un popolo innocente; dominato però da quel sentimento della giusta misura così raro nell'arte, e pel quale appunto egli divenne poi artista così eccellente, modera e corregge l'imprecazione, trasportandola sopra il solo capo della regina Carolina:

   Deh! vomiti l'acceso Etna l'ultrice
     Fiamma, che la città fetente copra
     E la penetri fino a la radice.
   Ma no; sol pèra il delinquente; sopra
     Lei cada il divo sdegno, e sui diademi,
     Autori infami de l'orribil'opra.
   E fin da lunge e nei recessi estremi,
     Ove s'appiatta, e ne' covigli occulti
     L'oda l'empia tiranna, odalo e tremi.

In altri passi del poema pare affacciarsi direttamente il poeta satirico, ossia incominciarsi a rivelare uno de' caratteri più specifici dell'ingegno manzoniano. L'attitudine de' Lombardi innanzi al Francese arrivato come liberatore, e dominante come padrone, non contenta il giovine Poeta, anzi gli muove la bile; rivolto pertanto all'Italia, egli le domanda che cosa facciano i suoi figli, per rispondere tosto:

     …… I tuoi figli abbietti e ligi
     Strisciangli intorno in atto umile e chino;
     E tal, di risse amante e di litigi,
   D'invido morso addenta il suo vicino,
     Contra il nemico timido e vigliacco,
     Ma coraggioso incontro al cittadino.
   Tal ne' vizii s'avvolge, come Ciacco
     Nel lordo loto fa; soldato esperto
     Ne' conflitti di Venere e di Bacco.
   E tal di mirto al vergognoso serto
     Il lauro sanguinoso aggiunger vuole,
     Ricco d'audacia e povero di merto.
   Tal pasce il volgo di sonanti fole,
     Vile, di patrio amor par tutto accenso,
     E liberal non è che di parole.

Un giovinetto capace di scrivere tali versi annunzia non solo un ingegno precoce, ma ancora una precoce e formidabile esperienza della vita.

[1] Cfr. il Trionfo della libertà, e il Carme: In morte dell'Imbonati.

VII.

Il Manzoni poeta satirico.

In questi versi vi è già la forza, ma non ancora la finezza dell'umorismo manzoniano. Egli li apprese troppo di fresco nelle scuole, per poterli già smettere, quell'accento rettorico, quel fare magniloquente che presto sdegnò ed evitò poi sempre negli altri suoi scritti. La rima stessa doveva inceppargli il pensiero; la terzina imporgli quasi l'obbligo d'imitare ora il Dante ora il Monti, quando, non imitando alcuno, egli avrebbe già, fin d'allora, potuto rivelarsi come Manzoni. Negli anni seguenti, sebbene egli ricordasse ancora altri modelli poetici, avendo preferito il verso sciolto e quella forma di sermone pedestre che, nel secolo passato, il veneziano Gaspare Gozzi avea messo in qualche voga, il Manzoni potè sfogar meglio il suo umore satirico. I suoi Sermoni giovanili che si conoscono, pubblicati dal professore Antonio Stoppani, risalgono agli anni 1803 e 1804. Il terzo Sermone, diretto all'amico Pagani, fu scritto dalla patria stessa del Gozzi, nel marzo dell'anno 1804.[Veggasi la lettera diretta da Venezia al Pagani, pubblicata dal signor Carlo Romussi] Il Poeta sente d'avere un po' malato il cervello; egli s'era innamorato in quel tempo, egli, diciottenne studente, di una ragazza veneziana sulla trentina, ed era andato tanto in là ne' desiderii e nelle speranze da chiederle la mano. "All'età vostra (gli fu risposto) si pensa ad andare alla scuola, non a fare all'amore."—"Sotto quella doccia a freddo (scrive lo Stoppani) la guarigione fu istantanea, nè di quell'aneddoto altro rimase al Manzoni che la memoria per riderne piacevolmente coi famigliari negli anni più tardi." Egli si consola dunque della disgrazia amorosa nella gioconda vita e nei versi; non ha ardori belligeri, nè smania di divenire un gran filosofo, od un legislatore e uomo di Stato potente; la sua cura solenne sono i versi:

   Valido è il corpo in prima, e tal che l'opra
     Non chiegga di Galen; men sano alquanto
     Il frammento di Giove, e non è rado
     Che a purgar quei due morbi, ira ed amore,
     O la febbre d'onor, mi giovin l'erbe
     Dell'orto epicureo. Chè se mi chiedi:
     "A che l'ingegno giovinetto educhi?"
     Non a cercar come si possa in campo
     Mandar più vivi a Dite, o, con la forza
     Del robusto cerèbro, ad un volere
     Ridur le mille volontà del volgo,
     E i feroci domar; ma freno imporre
     Agli indocili versi, e i miei pensieri
     Chiuder con certo piè; questa è la febbre,
     Di cui virtù di farmaco o di voto
     Non ho speranza che sanar mi possa.

A scuola, noi lo abbiamo già detto, i versi gli erano sempre piaciuti; ora che egli, avendo il primo pelo sul mento, potrebbe quasi già venir coscritto fra le milizie del Regno, risolve consacrar tutto il suo tempo alla poesia:

  Ed or di pel già sparso il mento e quasi
     Fra i coscritti censito, in quella mente
     Vivo, e quant'ozio il fato e i tempi iniqui
     A me concederanno, ho stabilito
     Consacrarlo alle Muse. Or come il mio
     Furor difenda, dolce amico, ascolta.

Egli, discepolo ideale del Parini, non cura le ricchezze, nè l'illustre discendenza, nè i palazzi, nè la gran signoria, nè il rumore di eccelsi fatti, perchè ne parlino i tardi nepoti; Giove, a lui più mite, lo obbliga ai versi. Ma quali versi? Oramai gli vennero a noia i sonanti, e però, prendendo nota di ciò che vede intorno a sè, che non è degno di poema, egli prosegue a scrivere umili sermoni, ad occuparsi di quella povera plebe, che sarà pure primissima cura dell'Autore de Promessi Sposi:

   Or ti dirò perchè piuttosto io scelga
     Notar la plebe con sermon pedestre,
     Che far soggetto ai numeri sonanti
     Detti e gesta d'eroi. Fatti e costumi
     Altri da quei ch'io veggio a me ritrosa
     Nega esprimer Talìa.

Egli avrebbe bisogno, per rappresentar degli eroi, di vederne intorno a sè; ma non ne vede pur troppo; quelli che vorrebbero passare per eroi, invece di destare in lui ammirazione, lo fanno più tosto ridere. Quando la fantasia lo porta fra gli antichi, al fervido pensiero, ei dice:

   Mi s'attraversa Ubaldo, il qual pur ieri
     Pitocco, oggi pretor, poco si stima
     Minor di Giove e spaventar mi crede
     Con la novella maestà del guardo.

Se anche il nostro tempo, ei dice, opera cose grandi, lo tentano poco le odierne guerre e le paci, e i nuovi Greci e Quiriti, e la ghigliottina nuovamente inventata per affrettar la morte che finqui pareva venire all'uomo troppo lenta:

                     … quella cieca
     Famosa falce, che trovò l'acuto
     Gallico ingegno, onde accorciar con arte
     La troppo lunga in pria strada di Lete.

Un altro Sermone dello stesso anno 1804 fu diretto ad un autore di cattivi versi per nozze. Il giovine Poeta si sdegna che si mettano a far versi i medici e gli avvocati, come se fosse cosa facile il frenare

Di questa plebe indocile i tumulti.

Si burla il poeta dell'uso di scrivere versi per ogni matrimonio che si celebra, onde vengono fuori tanti cattivi poeti e tanti versi scellerati; ognuno deve fare l'arte sua; ma ogni arte ha bisogno d'essere appresa; egli non crede che la poesia sia un'arte sacra e necessaria; ride anzi volentieri di chi lo pensa e lo dice; necessaria è l'agricoltura, che insegna all'uomo il modo di alimentarsi, necessaria la scienza della legislazione; ma è un'arte, insomma, anche la poesia e domanda molto studio. I versaiuoli che cantano sopra ogni cantante, e scrivono per ispassarsi, quelli certamente non sudano. Ma sudava invece il divino Parini nel tornire i suoi versi oraziani:

   Quando sull'orme dell'immenso Flacco
     Con italico piè correr volevi,
     E dei potenti maledir l'orgoglio,
     Divo Parin, fama è che spesso a l'ugne,
   Al crin mentito ed a la calva nuca
     Facessi oltraggio. Indi è che, dopo cento
     E cento lustri, il postero fanciullo
     Con balba cantilena al pedagogo
     Reciterà: Torna a fiorir la rosa.

Dopo il Parini, il giovine Poeta rende uno splendido omaggio all'Alfieri morto Fanno innanzi,[1] per condannare con esso i poeti Metastasiani; quindi, come pensa Paolo Ferrari, il poeta viene pure a condannare il melodramma grottesco con le maschere, la tragi-commedia, il dramma semi-serio che ottenne favore sulle scene italiane e francesi nel principio di questo secolo:

   Mentre Emon si spolmona e il crudo padre
     Alto minaccia, e la viril sua fiamma
     Ad Antigone svela, o con l'armata
     Destra l'infame reggia e il cielo accenna,
     Odi sclamar dai palchi: "Oh duri versi!
     O duro amante! Dal tuo fero labbro
     Un ben mio! non s'ascolta. Oh quanto meglio
     Megacle ad Aristea, Giulia ad Orazio!"
     Che ti val l'alto ingegno e l'aspra lima,
     Primo signor dell'italo coturno?
     Te ad imparar come si faccia il verso,
     Degli itali aristarchi il popol manda.
     Mirabil mostro in su le ausonie scene
     Or giganteggia. Al destro piè si calza
     l'alto coturno e l'umil socco al manco;
     Quindi va zoppicando. Informe al volto
     Maschera mal s'adatta, ove sul ghigno
     Grondan lagrime e sangue. Allor che al denso
     Spettatore ei si mostra, alzarsi ascolti
     Di voci e palme un suon, che per le cave
     Vôlte rumoreggiando, i lati fianchi
     Scote al teatro e fa sostar per via
     Maravigliato il passeggier notturno.

Qui il verso è già intieramente sicuro; l'artista appare padrone della sua materia e la domina; il fanciullo sembra intieramente scomparso. Il Manzoni a diciannove anni è uomo. I compagni di scuola del Manzoni, Giambattista Pagani, Ignazio Calderari, Luigi Arese, incominciano a mescolare all'affetto un po' di ammirazione; il Foscolo gli diviene amico,[2] il Monti incomincia a temerne i giudizii. Poco prima, egli aveva sul giovinetto autorità di maestro e quasi di padre.

[1] Vittorio Alfieri era molto ammirato dal giovine Manzoni; dubito tuttavia assai che il Manzoni abbia conservato sempre la stessa ammirazione per l'illustre Astigiano. Tra i due poeti erano alcune conformità nel comune disdegno della poesia vana e servile, e della mitologia, {Il Manzoni non doveva ignorare la terzina alfieriana: Certo in un Dio fatt'uom creder vorrei A salvar l'uman genere, piuttosto Che in Giove fatt'un tauro ai furti rei.} nel sentimento comune dell'ufficio civile delle lettere, nello studio posto da entrambi gli scrittori a scrivere non pure italianamente, ma toscanamente: il Manzoni adorò tuttavia quella Francia che l'Alfieri odiò fino all'oltraggio; il Manzoni pose ogni cura a scrivere con naturalezza, l'Alfieri volle esser duro ed aspro, sperando riuscire più efficace. Nella gioventù accade tuttavia che s'ammira ingenuamente tutto ciò ch'è grande, senza domandarsi troppo se l'ammirazione abbia fondamento in alcuna viva simpatia, il giovane ammira talora con entusiasmo un grande per una sola qualità principale che lo tenta; l'età matura vuole rendersi maggior conto della stima che concede agli uomini; quindi accade che l'uomo ammiri tanto meno, ma ami poi e stimi molto più profondamente del giovane. Il Manzoni giovine aveva ammirato l'Alfieri che il Parini e l'Imbonati ammiravano; l'Imbonati è perciò dal Manzoni fatto parlare, nel modo seguente, intorno all'Alfieri:

                              Venerando il nome
         Fummi di lui, che nelle reggie primo
         L'orma stampò dell'italo coturno;
         E l'aureo manto lacerato, ai grandi
         Mostrò lor piaghe e vendicò gli umìli.

Quando poi l'amico Pagani fece al Manzoni la poco piacevole sorpresa di dedicare a Vincenzo Monti, in nome del poeta, in modo alquanto infelice, il Carme per l'Imbonati, il Manzoni gli scrisse in termini abbastanza vivaci e risentiti. In quella lettera del 18 aprile 1806 che il signor Romussi ci ha fatta conoscere, son notevoli queste parole relative all'Astigiano: "Tu mi parli di Alfieri, la cui vita è una prova del suo pazzo orgoglioso furore per l'indipendenza, secondo il tuo modo di pensare, e secondo il mio un modello di pura, incontaminata, vera virtù di un uomo che sente la sua dignità, e che non fa un passo, di cui debba arrossire. Ebbene, Alfieri dedicò. Ma a chi e perchè dedicò? Dedicò a sua madre, al suo amico del cuore, a Washington, al popolo italiano futuro, ec." Nella lettera francese al Chauvet sopra l'unità di tempo e di luogo, pubblicata nell'anno 1820, il Manzoni, che combatteva come poeta drammatico le unità alfieriane, poneva pure una parola di biasimo contro l'Autore del Misogallo: "Un uomo celebre, cui l'Italia era avvezza ad ascoltare con riverenza, aveva annunziato ch'egli avrebbe lasciato postumo uno scritto, al quale erano confidati i suoi più intimi sentimenti. Vide la luce il Misogallo, e la voce d'Alfieri, la sua voce che usciva dalla tomba, non levò alcun rumore in Italia, perchè una voce più potente si levava in ogni cuore contro un risentimento che mirava a fondare il patriottismo sull'odio. L'odio per la Francia! per la Francia illustrata da tanti genii e da tante virtù, donde sono sorte tante verità e tanti esempi! per la Francia che non si può vedere senza provare un'affezione somigliante ad amore di patria, e che non si può lasciare senza che al ricordo d'averla abitata non si mescoli qualche cosa di malinconico e di profondo simile all'impressione di un esiglio."

[2] Il Manzoni dovette conoscere il Foscolo, quando ritornò studente da Pavia. Gliene dovette conciliar la simpatia, oltre l'ingegno fervido, il culto che il Foscolo professava al Parini e il suo amore dell'indipendenza che lo rese forte contro l'adulato Buonaparte. Il Manzoni dovea essere tornato da Pavia meno entusiasta del Monti che non fosse quando vi si era recato: ne' litigi letterarii che il Monti ebbe col Foscolo, il Manzoni non parteggiò forse per alcuno, ma probabilmente ascoltò più volentieri il poeta più indipendente. Il Foscolo venerava l'Alfieri; al Monti, invece, parlando un giorno dell'Alfieri in casa del conte Venéri, scappò detto: "Un'arietta del Metastasio val più di tutte le sue opere insieme." Nel passo citato del Sermone manzoniano, ove si difende l'Alfieri contro i Metastasiani, è forse un'eco dei battibecchi letterarii fra il Monti ed il Foscolo: il Monti chiamò poi sacrilegio epico la traduzione alfieriana dell'Eneide, e non ebbe tutti i torti. Il Foscolo faceva credere che il Monti lo evitasse per timore di compromettersi, a motivo del suo carattere indipendente; è dunque assai possibile che ne' suoi colloquii degli anni 1804 e 1805 col Foscolo il Manzoni abbia udito più volte giudicare il Monti severamente. Il Foscolo parlando di sè dice: "Il Foscolo, figlio della Repubblica veneta che Buonaparte distrusse, si nutrì nel sentimento dei più, i quali considerano l'indipendenza de' rispettivi Stati d'Italia come la sola causa necessaria che può essere produttrice della intera sua rigenerazione. Coerente dunque a tali principii, egli non volle mai intervenire nelle adunanze dei Collegi elettorali di cui era membro, per non trovarsi nell'obbligo di prestare il solito giuramento di obbedienza." Per quanto una parte della condotta del Foscolo sotto l'impero non sia stata conforme a queste parole, non è dubbio che l'animo del Foscolo era piuttosto alieno dalla signoria napoleonica in Italia; e il Manzoni che aveva frequentata la contessa Cicognara e appreso da essa a giudicare il Buonaparte, dovette assai naturalmente accostarsi più volentieri al Foscolo dopo avere conosciuto il Monti. Dico più oltre come mi sembri pure scorgere un'allusione contraria al Monti nel Carme In morte dell'Imbonati. Se io non mi sono ingannato in tale congettura, si spiega forse meglio come, pubblicando i Sepolcri a Brescia nell'anno 1807, il Foscolo provasse una certa maliziosa compiacenza nel citare, per segno d'onore, in una nota i versi del Manzoni, relativi ad Omero libero, che non adulava i potenti, ad Omero, di cui il Monti e il Foscolo rivali traducevano allora l'Iliade, I versi citati sono questi per l'appunto:

                    Non ombra di possente amico,
         nè lodator comprati avea quel sommo
         D'occhi cieco e divin raggio di mente
         Che per la Grecia mendicò cantando.

Il Foscolo che non avea perdonato al vecchio Cesarotti la Pronea, di cui diceva: "Misera concezione, frasi grottesche, verseggiatura di dramma per musica e per giunta gran lezzo d'adulazione, infame ad ogni scrittore, ma più infame ad un ottuagenario che non ha bisogno di pane o poco omai può temere dalla fortuna," non dovea perdonare più tardi al Monti la dedicazione servile della sua Iliade al Beauharnais. È giusto tuttavia avvertire che il Monti divenne aperto nemico dell'Autore dei Sepolcri, la polvere dei quali minacciava di scuotere, solo tre anni dopo. Ma poichè il motivo primo della guerra fu la rivalità per la versione dell'Iliade, il primo saggio pubblico della quale comparve insieme coi Sepolcri nel 1807, non mi pare improbabile che, quantunque per tre anni nelle loro esterne relazioni i due poeti siansi mostrati amici, in privato avessero già incominciato a lacerarsi. Checchè ne sia, per altro, dell'intendimento, col quale fu scritta la nota de' Sepolcri, essa basta in ogni modo a provare l'amicizia e la stima che il Foscolo nutriva pel giovine Manzoni; come il Parini aveva pronosticata la gloria poetica del Foscolo, così il Foscolo augurò bene di quella nascente del Manzoni. Quando poi questi si convertì al Cattolicismo, e diede motivo a molti commenti maligni, tra i quali non doveano mancare quelli dei mitologisti Montiani, il Foscolo, che aveva potuto pregiare la sincerità de' sentimenti del suo giovane amico, no prese apertamente in Milano le difese, come rileviamo da una nota lettera di Silvio Pellico a Nicomede Bianchi.

VIII.

Il Manzoni e Vincenzo Monti.[1]

Il professore Stoppani narra un aneddoto, secondo il quale il giovinetto Manzoni sarebbe stato corretto dal vizio del giuoco, per un solo affettuoso rimprovero che gli fece Vincenzo Monti. "Il così detto Ridotto del Teatro alla Scala" era allora precisamente un ridotto di biscaiuoli. L'inesperto Alessandrino si era lasciato prendere all'esca, confessando egli stesso più tardi che si sentiva già fortemente invasato da quella terribile passione, che può in brev'ora trasformare un amoroso padre di famiglia in un parricida, e in suicida un giovine morigerato. Una sera Alessandro Manzoni sedeva al banco dei giuocatori. Tutto a un tratto si sente leggermente battere sopra la spalla. Voltosi indietro, si trovò in faccia lo sguardo affascinante di Vincenzo Monti, il quale gli disse queste semplici, ma gravi parole: "Se andate avanti così, bei versi che faremo in avvenire!" Dopo di quella sera il Manzoni, quantunque, per avvezzarsi a contemplare lo spettacolo del vizio, senza lasciarsene signoreggiare, abbia continuato di proposito, per un altro mese, a frequentare ogni sera il Ridotto, non giuocò più. Ma il giovinetto che nel bollore degli anni primi aveva potuto cedere egli stesso all'impeto di qualche passione infelice, non tardò ad acquistare non pure tra' suoi compagni, ma presso il proprio maestro, una singolare e veramente straordinaria autorità come consigliere sapiente. Onde, per esempio, quando il Monti, che apparteneva forse più di ogni altro poeta all'irritabile genus, entrò in lunga briga col mediocre letterato e poeta De Coureil e sostenne contro di lui un'acerba polemica letteraria, gravemente ammonito per lettera dal giovine suo discepolo che quello scandalo gli avrebbe fatto gran torto e diminuito quel prestigio che il Monti aveva sperato invece di accrescere rispondendo al De Coureil, il maestro ne rimase così colpito, che ne fece motto in una sua lettera del 6 febbraio 1805, diretta ad Andrea Mustoxidi, dandogli facoltà di pubblicare, se lo credeva utile, la lettera del Manzoni consigliatrice del partito più ragionevole, se pure non era il più piacevole all'amor proprio ferito del poeta-storiografo delle Alfonsine.[2] Ma nel 1805, conviene pur dirlo, il Manzoni era già lontano da quel primo entusiasmo, col quale quindicenne, nel Trionfo della libertà, ammirando più che altro la gloria di colui che chiamavano allora il Dante ringentilito, egli aveva glorificato e difeso contro i suoi detrattori il suo maestro Vincenzo Monti. Questo magnifico ed enfatico elogio del Monti fatto dal giovinetto Manzoni merita di venir riscontrato col famoso iperbolico epigramma, col quale ei lo piangeva morto, dopo ventott'anni:

   Salve, o Divino, cui largì natura
     Il cor di Dante e del suo Duca il canto;
     Questo fia 'l grido dell'età ventura,
     Ma l'età che fu tua tel dice in pianto.

Piacque al giovine Manzoni la gloria del suo maestro, ed è ben chiaro dal fine del saluto del nostro mirabile giovinetto al Monti, ch'egli sperava già o ardeva, almeno, del desiderio di acquistarne una simile:

   Salve, o Cigno divin, che acuti spiedi
     Fai de' tuoi carmi e trapassando pungi
     La vil ciurmaglia che ti striscia ai piedi.
   Tu il gran cantor di Beatrice aggiungi
     E l'avanzi talor; d'invidia piene
     Ti rimirali le felle alme da lungi,
   Che non bagnâr le labbia in Ippocrene,
     Ma le tuffâr ne le Stinfalie fogne,
     Onde tal puzzo da' lor carmi viene.
   Oh limacciosi vermi! Oh rie vergogne
     De l'arte sacra! Augei palustri e bassi;
     Cigni non già, ma corvi da carogne.
   Ma tu l'invida turba addietro lassi
     E, le robuste penne ergendo, come
     Aquila altera, li compiangi e passi.
   Invano atro velen sovra il tuo nome
     Sparge l'invidia, al proprio danno industre,
     Da le inquiete sibilanti chiome;
   Ed io puranco, ed io, vate trilustre,
     Io ti seguo da lunge, e il tuo gran lume
     A me fo scorta ne l'arringo illustre.
   E te veggendo su l'erto cacume
     Ascender di Parnaso, alma spedita,
     Già sento al volo mio crescer le piume.
   Forse, ah che spero? io la seconda vita
     Vivrò, se alle mie forze inferme e frali
     Le nove suore porgeranno aita.

Notiamo presso quell'ambizioso io, vate trilustre, quel prudente, ma non meno ambizioso forse tutto manzoniano, messo innanzi al vivrò immortale che ci prenunzia già l'Autore del Cinque Maggio predestinato a sciogliere all'urna del primo Napoleone un cantico

Che forse non morrà.

Quando il Manzoni scrive, nell'anno 1803, al Monti, lo fa già in un tuono di una certa famigliare baldanza che rivela la poca soggezione, e gli dà del voi. Il Monti invitato a dir la sua opinione sopra l'Idillio del Manzoni, gli risponde lodandolo sinceramente, facendo i migliori augurii al giovinetto e dicendogli finalmente: "Io non sono da tanto da poterti fare il dottore." Fra maestro e discepolo un tale linguaggio colpisce. Nella risposta del Monti, il maestro dice che egli ha incominciata la stampa del Persio. Nel marzo dell'anno 1804, il Manzoni si trovava a Venezia e scriveva di là al suo amico Pagani, studente di giurisprudenza a Pavia; nella sua lettera è una parola impaziente contro il Monti, che può già dimostrare la scaduta riverenza del discepolo. "Se Monti (egli scrive) vuol mandarmi il Persio, lo faccia avere, nel nome di Dio, a mio padre, a Milano." Questi indizii mi bisognava raccogliere per ispiegare non pure la vivacità del battibecco letterario che nacque dipoi fra i Manzoniani e i Montiani sopra l'argomento della mitologia nella poesia moderna, ma ancora per illustrare qualche passo del Carme In morte dell'Imbonati. Il giovine Poeta rammentando l'indegna educazione ed istruzione ch'egli avea ricevuta specialmente nel Collegio de' Nobili, non rattiene, com'è ben noto, il proprio sdegno, e lo sfoga in una forma intemperante che non si trova poi più in alcun altro suo scritto; ed accennando in particolare ad un maestro di poesia che lo disgustò, dice che da lui si rivolse, invece, agli antichi poeti: Questa Qual sia favilla, che mia mente alluma, Custodii com'io valgo e tenni viva Finor. Nè ti dirò com'io, nodrito In sozzo ovil di mercenario armento, Gli aridi bronchi fastidendo, e il pasto Dell'insipida stoppia, il viso torsi Dalla fetente mangiatoia, e franco M'addussi al sorso dell'ascrea fontana; Come, talor, discepolo di tale, Cui mi sarìa vergogna esser maestro, Mi volsi ai prischi sommi, e ne fui preso Di tanto amor, che mi parea vederli Veracemente e ragionar con loro.

Qui mi arresta un dubbio assai penoso. Chi fu mai codesto maestro, da cui il Manzoni, sentendo vergogna di lui, si diparte per correre ad inspirarsi direttamente presso i poeti antichi? Io so bene che, a questo punto, qualche amico discreto mi raccomanderà discrezione, invitandomi a passar oltre, a non arrischiar congetture che potrebbero riuscir vane ed ingiuriose. Ma passar oltre vuol dire o non capire o non voler capire. E se noi contemporanei ci contentiamo di leggere così il primo fra i nostri scrittori viventi, come potranno sperare d'intenderlo meglio quelli che verranno dopo di noi? So bene che il vivente discepolo del vecchio Vincenzo Monti, l'illustre Andrea Maffei, il quale ricorda pur sempre come, dopo l'anno 1820, il Manzoni visitasse spesso il Monti infermo, come nel mandargli la cantafera de' suoi Promessi Sposi glieli raccomandasse affettuosamente,[3] come lo encomiasse morto con lodi iperboliche, non farà buon viso alla nostra congettura; ed essa ripugna pure vivamente a me stesso, come ripugna, per dire il vero, ogni maniera o specie d'ingratitudine. Ma io non posso tacere che corsero parecchi anni, ne' quali il Manzoni ed il Monti apparvero veramente come avversarii; la storia letteraria ha i suoi diritti, e, per quanto c'incresca vedere il Manzoni, che aveva egli stesso fatto grande abuso, ne' primi suoi studii poetici, della mitologia, divenirci aperto derisore del Monti che volea mantenerla in onore, e colpirlo direttamente con l'Ode satirica intitolata: L'ira d'Apollo, ove, con nuova malizia, s'imita pure lo stile cancelleresco della Polizia austriaca, quale era adoprato allora da un poeta da strapazzo, Pietro Stoppani di Beroldinghen, e da un giornalista venduto, il Pezzi, grandi lodatori entrambi di Vincenzo Monti divenuto buon servitore dell'Austria, il Manzoni, che giovinetto avea molto ammirato e lodato, come sappiamo, il suo maestro Monti, divenuto amico di Ugo Foscolo, imparò forse da lui a giudicarne con minore indulgenza la condotta politica; e nella diminuzione di stima per l'uomo è assai probabile che siasi pure diminuito il concetto che il Manzoni si formava del Monti poeta. Recatosi poi a Parigi, in mezzo a una società, per la massima parte repubblicana, anzi che pietà, parve ch'egli concepisse un vero disprezzo pel Monti. Il Manzoni dice che tra i prischi sommi, egli cercò prima di Omero, per la traduzione del quale specialmente nacque tra il Foscolo ed il Monti così fiero dissenso, e, nominando Omero, sembra volerne, per antitesi, ferire il traduttore:

       …. Non ombra di possente amico,
     Nè lodator comprati avea quel sommo
     D'occhi cieco e divin raggio di mente
     Che per la Grecia mendicò cantando.

Nè era, io debbo pur ripeterlo, forse intieramente innocente e fuor d'ogni intendimento malizioso Ugo Foscolo, quando in una nota al suo Carme de' Sepolcri, volendo nominare il Manzoni, per mostrargli il conto ch'ei ne faceva e com'ei fosse memore di lui lontano, citava precisamente que' versi relativi ad Omero, ove si dice più tosto quello che non era stato Omero e quello ch'era invece qualche altro moderno poeta. L'amico Pagani, che ristampava a Milano il Carme per l'Imbonati, desiderava egli forse distruggere il sospetto che si alludesse con que' versi al Monti, quando, senza averne avuto l'incarico, dedicava, anche a nome dell'Autore, il poemetto a Vincenzo Monti? Lo ignoriamo; ma ci è noto intanto che l'imprudenza e l'arbitrio del Pagani maravigliarono ed irritarono grandemente il giovine Poeta, e furono per guastare l'amicizia di que' due buoni compagni di scuola. Il Manzoni voleva, invero, obbligare il Pagani a pubblicar subito una protesta che disdicesse la dedicatoria. Il Pagani gli opponeva che il dedicare non è un avvilirsi; che anche l'Alfieri avea fatto delle dedicatorie, e nessuno potrebbe negarlo uomo libero ed indipendente. Il Manzoni rispondeva esser vero, ma l'Alfieri essere stato "un modello di pura, incontaminata, vera virtù, di un uomo che sente la sua dignità e che non fa un passo, di cui debba arrossire."—"Ebbene (soggiungeva ancora da Parigi il nostro giovine Poeta), Alfieri dedicò; ma a chi, e perchè dedicò? Dedicò a sua madre, al suo amico del cuore, a Washington, al popolo italiano futuro." Ci è noto finalmente come il Manzoni deplorava il Carme per l'Imbonati per altre ragioni più gravi che non fossero le allusioni al Collegio de' Nobili. Una di queste ragioni può essere stato il tacito biasimo del Monti, e l'altra ragione la vedremo in breve. Fu detto da qualche biografo che, quando nel 1801 il Manzoni pubblicò l'Urania, il Monti abbia esclamato: "Questo giovine incomincia dove vorrei finire." È possibile che un giorno il Monti abbia reso un tale omaggio al suo discepolo; ma a questo detto suppongo che siasi attribuita un'origine troppo recente. Il Manzoni non incominciava più con l'Urania; da ben sette anni egli scriveva, ed i primi suoi componimenti il Monti aveva letti e lodati; è assai probabile quindi che il complimento, di cui si tratta, siasi fatto veramente dal Monti, ma nel 1801, poich'egli ebbe conosciuto il Trionfo della libertà, poema che il discepolo avea scritto per imitare, forse per emulare il maestro, e che termina in ogni modo, come abbiamo già udito, con la esaltazione del Monti sopra lo stesso Dante.

[1] Cfr. il paragrafo VI.

[2] La lettera è questa; il Manzoni era ancora in Milano, onde partì soltanto nella primavera, dopo la morte dell'Imbonati:

Ad Andrea Mustoxidi.

"In appendice alla mia del passato ordinario ve ne acchiudo un'altra del nostro amico Manzoni. Egli ha voluto farla passare per le mie mani, perchè mi risguarda direttamente e contiene una sua onesta disapprovazione dell'essermi io avvilito a parlare di De Coureil. Del quale mio errore io non meriterei veramente perdono, se non mi scusasse il fatto di quelli che hanno confuso il reverendo lor nome con quello d'un pazzo, e si sono condotti peggio di me, e non veggo che abbiano ancor redenta questa ignominia, separandosi da così vile e disonesta compagnia. Vera è pur troppo la riflessione di Manzoni che, prendendo briga col De Coureil, è forza che i buoni si scordino di quella gentilezza che pure è il primo frutto delle lettere, vero per conseguenza che in quella mia nota sono corsi dei termini non gentili. Ma se un facchino imbriaco, mentre io vado per la mia strada, mi viene addosso con villanìa, e mi lorda di fango, dovrò io dirgli:—Signore, siate più rispettoso coi galantuomini; signore, maltrattatemi con più discrezione; considerate, vi prego, che mi si deve un poco più di rispetto—e altre simili gentilezze? Chi può dunque incolparmi d'aver dato al mio critico i nomi ch'ei merita? Le creanze si usano con chi le pratica, e il bastone con gli asini mal educati. Ma parlerò con altro linguaggio, se avverrà che io sia forzato a drizzare più alto il mio giusto risentimento. Il contegno che così si usa con me, ha ormai irritata tutta l'Italia, e la sana porzione dei letterati, anche stranieri, ha già manifestato il suo sdegno su queste vili e scandalose ingiustizie. Della lettera di Manzoni fate l'uso che più vi piace, anche pubblico. Milano, 6 febbraio 1805"

[3] Il Monti non fu, tuttavia, a quanto pare, de' lettori più solleciti de' Promessi Sposi, secondo quanto trovo scritto nelle Memorie autografe di un ribelle, di Giuseppe Ricciardi (Milano, 1873): "Recatici a visitare l'Osservatorio astronomico posto nel Palazzo di Brera, trovammo quivi l'Oriani e il Carlini. Altri uomini, più o meno illustri, conoscemmo indi a poco, fra cui nominerò primo il Manzoni. Il quale io vidi la prima volta in Milano, nel giugno del 1827. Sedeva in mezzo alla sua bella e numerosa famiglia e ad un nobile crocchio d'amici, in cui tenevano il primo luogo Ermes Visconti, Tommaso Grossi e Giovanni Torti, cioè, quasi tutta la così detta Scuola romantica. Ci fu introduttore in casa Manzoni il Rosmini, giovanissimo allora, ed il quale avevo conosciuto per mezzo di un assai colto e gentil veneziano, per nome Antonio Papadopoli. I Promessi Sposi erano usciti in luce pochi dì prima, ed io li avevo divorati con un piacere infinito, tanto più poi in quanto che m'avevo sott'occhio i luoghi, dei quali parla quel mirabile libro. Desiderosi oltremodo di salutare il decano dei poeti allora viventi, Vincenzo Monti, n'andammo a Monza col Papadopoli. Trovammo il povero vecchio adagiato, o, per dir meglio, giacente in un seggiolone. Teneva gli occhiali inforcati sul naso, e leggicchiava non so qual commedia di Goldoni. Scorta sur un tavolino una copia dei Promessi Sposi, mio padre chiese al buon vecchio che ne pensasse, e quegli rispose aver provato alquanto fastidio nel leggere il primo capitolo, ma pur voler trapassare al secondo. Ne mostrò poi una bella lettera scrittagli dal Manzoni nell'inviargli in dono il suo libro."

IX.

I primi amici.

Il libro del signor Romussi ci ha recata in quest'anno una grata sorpresa, ponendoci sott'occhio alcune lettere o frammenti di lettere giovanili del Bianconi, dalle quali ricaviamo il nome de' suoi tre primi amici. Il più intimo tra questi fu Giambattista Pagani di Brescia, col quale il Manzoni avea studiato a Pavia; le lettere del Manzoni ce lo mostrano affettuoso, devoto, pronto a render servigii, alcuna volta anche troppo, come quando volle dedicar di suo capo, in nome del Manzoni, a Vincenzo Monti il Carme In morte dell'Imbonati, che si ristampava in Milano dal De Stefanis.[1] Veniva secondo Ignazio Calderari, che il Manzoni stesso chiamava aureo, amabile e rispettabile; e pure doveva essere un giovine ardente e pieno di entusiasmo, a giudicarne dalla lettera, in cui egli descrive il proprio viaggio a Brusuglio, la nuova villa manzoniana, per conoscere la madre dell'amico e per vedere se l'amico era sempre il medesimo. Pare che il Manzoni fin d'allora scrivesse lettere mal volentieri, e preferisse, stando a Milano, incaricare l'amico Calderari di mandare i suoi saluti al Pagani, anzi che scrivere egli stesso. "Aggiungi (egli scriveva al Pagani) che nel mio soggiorno a Milano la facilità di aver tue nuove per mezzo del nostro Calderari favoriva e scusava la mia pigrizia, la quale, a dir vero, non era scossa da alcuna tua sollecitudine a scrivermi." Il terzo amico, Luigi Arese, morì tisico nel 1806, intorno a' suoi vent'anni; gli amici lo chiamavano: "caro e adorabile."[2]

Non è raro il caso che le amicizie fatte nella scuola si raffreddino e si dileguino nella lontananza, per tornare a ravvivarsi nella vecchiaia. Il Calderari non accompagnò altrimenti la vita del Manzoni; la loro corrispondenza parve cessare quasi intieramente nell'anno 1808, quando il Manzoni, sposata Enrichetta Blondel, si ritrasse a vivere per alcuni anni isolato In Brusuglio; ed anche l'amicizia col Pagani cessò, dopo quell'anno, dall'essere attiva. Così non sappiamo altro dell'amicizia che il Manzoni parve avere con Antonio Buttura, letterato amico di sua madre,[3] e con Francesco Lomonaco.

[1] Mi giova qui intorno al Pagani riferire per intiero la nota che trovasi nell'importante volume del Romussi; "Giambattista Pagani fu condiscepolo di Manzoni nel Collegio dei Nobili (Longone) di Milano, e gli conservò sempre un'amicizia che molti anni di lontananza non riescirono nè a spegnere, nè ad indebolire. Fino ai loro ultimi giorni si scambiarono con schietta cordialità proteste di affetto; e la ritrosia di Manzoni in questi ultimi anni a scriver lettere non lo fece mai tardo nel rispondere all'antico amico. Il Pagani era nato nel 1784 in Lonato: era quindi maggiore di un anno di Manzoni. Terminati gli studii del Collegio, il Pagani passò a Pavia a studiar giurisprudenza, e colà conobbe Vincenzo Monti, che teneva cattedra d'eloquenza, e che lo accolse fra i suoi famigliari. In quel tempo Manzoni erasi recato a Venezia, e di là mandava all'amico i versi che man mano scriveva, fra cui un Sermone allo stesso Pagani indirizzato, e nel quale parla dapprima della vocazione ch'ebbe fin dall'infanzia di essere poeta e giustifica il genere satirico di poesia, cui intendeva consacrarsi. Questo Sermone rimase ignoto fino al 1874, in cui fu pubblicato dall'abate Antonio Stoppani nel suo bel libro: I primi anni di Alessandro Manzoni. Il Pagani aveva ingegno da comprendere l'amico, egli pure scrisse reputati lavori: opere giuridiche, perchè avea per la severa scienza del diritto una vera passione, e opere letterarie, cui si applicava per diletto, ma con molta intelligenza. Fra queste ultime si ricorda un Discorso intorno all'Adelchi letto all'Ateneo di Brescia, in difesa dell'opera dell'amico che era allora da molti, con indegna guerra, combattuto. Fra le giuridiche sono lodati il Repertorio legale pei diritti reali ed un Trattato sulle Rendite giuridiche. Durante il primo Regno d'Italia era stato eletto Conservatore delle Ipoteche in Brescia. Nei dolorosi anni della dominazione straniera conservò, con dignitosa fermezza, la fede e l'affetto per la patria, che ebbe la gioia di vedere risorta. Morì nel 19 febbraio 1874, e fu pianto da tutti i buoni, che perdevano un vivente esempio d'integrità e di modestia."

[2] Le due lettere del Manzoni al Calderari e la lettera intermedia al Pagani, pubblicate dal Romossi, volgono intorno alla malattia ed alla morte dell'Arese; le riproduco, perchè rivelano bene l'animo ed i pensieri del giovine Manzoni, il preteso ateo che dovea fare il miracolo di convertirsi:

"Parigi, 7 settembre 1806,

"Mio Calderari,

L'amara novella che mi hai data mi ha riempito di dolore e di melanconia. Io era per iscrivere a te, a Pagani, al povero Arese per annunciarvi il mio ritorno a Parigi, e per chiedere di voi tutti. Non puoi credere quanto m'abbia colpito l'annuncio della grave malattia del nostro Arese. La speranza che tu conservi, rianima la mia; ma le circostanze che tocchi, la indeboliscono pur troppo (In questo passo si vede già l'amore speciale del Manzoni per le antitesi, amore che si può pure avvertire nella lettera del 1803 al Monti già citata.) L'apparato della morte è quello che la accelera. Chi ha avuto il cuore di dargli la sentenza finale? Di farlo soffrire nei forse ultimi suoi momenti? Oh piaccia a Dio che io possa avere da te nuova del suo rivivere! Quando un malato ha presso di sè dei veri amici che gli nascondono il suo stato, egli muore senza avvedersene; la morte non è terribile che per quelli che rimangono a piangere. Ma quando gli amici sono allontanati, quando vi sentite intronare all'orecchio: Tu devi morire! allora la morte appare nel suo aspetto più deforme. Povero Arese! Ho sempre davanti gli occhi quella sua camera deserta degli amici, senza te, senza Pagani che potreste sollevarlo. Alcuni sono morti che sarebbero guariti, pel timore solo cagionato loro dalla sentenza che fu data al povero nostro Arese. Ti prego di scrivermi presto e senza interruzione; non ho bisogno di raccomandartelo. Mia madre divide la mia afflizione, e freme parlando della fredda crudeltà che è tanto comune nei nostri paesi. Scrivimi, ti prego, a lungo ogni minuzia che riguarda Arese. Povero Arese! nel fiore dell'età! Ti prego di scrivere a Pagani che io non ho ora testa nè tempo di scrivergli, ma che, al primo ordinario, lo farò sicuramente. Se mai il mio silenzio gli fosse dispiacente, digli che io sono sempre il suo Manzoni; al mio Pagani ciò deve bastare. Tu amami, Calderari, e sii certo che io ti amo e ti riverisco veramente, e scrivimi presto. Addio; dammi nuove di Arese.

Il tuo MANZONI B.a"

"Mio Pagani,

M'hai tu dimenticato davvero? Sono tre mesi che non ho tue nuove; e l'ultima mia lettera, nella quale ti annunciava la mia partita da Parigi, è rimasta senza risposta. Non posso dubitare della tua salute, giacchè il nostro aureo Calderari che mi scrive, me ne avrebbe senza dubbio fatto cenno. Io sperava che Zinammi, col quale ci siamo abboccati, avesse qualche tua lettera a consegnarmi; ma, non vedendone ed aspettandone di giorno in giorno, tardai a scriverti fino al mio ritorno. Scrivimi al più presto, dimmi se sei ancora il mio Pagani, com'io sarò sempre il tuo Manzoni; dammi nuove di te, e di tutto quello che ti è a cuore. Non puoi credere quanta pena mi abbia fatto la nuova della grave malattia del nostro povero Arese; e mia madre, che divide ogni mio affetto, ne fu pure assai triste ed in timore. Calderari mi annunciò qualche miglioramento che mi riempì di gioia e di speranza. Duolmi amaramente che gli amici non abbiano adito al suo letto, e che invece egli debba aver dinanzi agli occhi l'orribile figura di un prete. Nè puoi figurarti quanto dolore ed indignazione abbia in noi eccitato il sentire da Calderari che ad Arese era stata annunciata la fatale sentenza (spero, per Dio! che sarà vana). Crudeli, così se egli schiva la morte, avrà dovuto nullameno assaporare tutte le sue angosce! E quante volte l'annunzio della morte ha ridotto agli estremi dei malati che, ignorando il loro stato, sarebbero guariti? Basta: i mali del caro ed infelice Arese, che ho sempre dinanzi agli occhi, mi allontanano sempre più da un paese, in cui non si può nè vivere nè morire come si vuole. (Qui vi sono accenti intieramente foscoliani.) Io preferisco l'indifferenza naturale dei Francesi, che vi lasciano andare pei fatti vostri, allo zelo crudele dei nostri, che s'impadroniscono di voi, che vogliono prendersi cura della vostra anima, che vogliono cacciarvi in corpo la loro maniera di pensare, come se chi ha una testa, un cuore, due gambe e una pancia, e cammina da sè, non potesse disporre di sè e di tutto quello che è in lui a suo piacimento. Mi accorgo di aver fatto un pasticcio di parole, pazienza! Il mio Pagani è buono. Due parole di me. Io continuo il ben cominciato modo di vivere, senza cangiamento, senza interruzione. Se tu rileggi le mie passate lettere, ti farà ben maraviglia l'udire da me che mia madre, quest'unica madre e donna, ha aumentato il suo amore e le sue premure per me. Eppure la cosa è così. Io sono più felice che mai, e non mi manca che d'esserlo vicino a te e ai pochi scelti nostri amici, che si riducono ad Arese che vorrei risanato, e a Calderari che vorrei felice come egli merita. Ho vergogna di dirti che, dopo i versi stampati, non ne ho fatto più uno: ora però voglio mettermi il capo tra le mani, e lavorare, massime che mia madre non ha mai lasciato di punzecchiarmi, perchè io cacci la mia pigrizia. A proposito di versi, devo parlarti di un affare che mi è a cuore assai assai, e che in conseguenza premerà anche a te. Io non ho avuto dal libraio un soldo per l'edizione, e mi sono messo in puntiglio di non rilasciargli niente niente, perchè non voglio essere lo zimbello di nessuno e massime d'un libraio. La sua renitenza o noncuranza è veramente stomachevole. Nè ha alcun appiglio per eludere le mie richieste e per evitare di rendermi il mio. Perchè o le copie sono vendute e mi dia il danaro, o sono invendute e me le renda. Arese si era impegnato di parlargli. Rispose che egli aveva ottocento copie non vendute: io scrissi a Zinammi quello che doveva fargli dire da Arese, ma il povero Arese cadde malato. Ecco la mia risposta: rendere al signor Zinammi, procuratore di mia madre, il prezzo delle 200 vendute e le 800 copie invendute. E veramente mi fa maraviglia che il numero di quelle che sono in bottega sia così grande, non già perchè io credessi che dovessero avere grande spaccio (giacchè v'è un ostacolo a ciò, non so se per colpa dell'opera o dei lettori), ma perchè tu mi avevi annunziato che si vendevano a furia. Come tu facesti il negozio col libraio, così spero che vorrai ora ridurlo a fine, e te ne prego caldamente. Ho veduto su un giornale di Roma un giudizio di quei versi, con una lode tanto esagerata, che non ardisco riportarlo. "Caro Pagani, scrivimi ed amami, anzi amaci, giacchè tu sai che mia madre non ha mediocre stima di te e desiderio della tua amicizia. Scrivi a lungo e vale."

Il tuo MANZONI B.a"

"Parigi, 30 ottobre 1806."

"Caro il mio Calderari,

O Arese, giovine buono, amico vero della virtù e degli amici, giovine che in tempi migliori saresti stato perfetto, ma che nella nostra infame corruttela ti conservasti incontaminato, ricevi un vale da quelli che ti amarono caldamente in vita, e che ora amaramente ti desiderano. Povero Calderari, tu lo amasti, tu lo desideri e tu non hai potuto vederlo, consolarlo! Egli è morto nel fiore degli anni, nella stagione delle speranze, e l'ultimo oggetto che i suoi occhi hanno veduto non è stato un amico. Egli che era degno di amici! Povero Calderari! Mia madre ed io piangiamo sopra di Arese e sopra di te. Seppi da Buttura che tu eri assiduo alla sua porta, che le tue lagrime mostravano la forza del tuo affetto, ma invano. Noi rileggiamo le lettere di Arese, quel che ci resta di lui, quello che rimane in questo mondaccio di quell'anima fervida e pura. Odi quello che egli ci scrisse nell'ultima lettera, dove traspira quasi un presentimento della sua separazione. Egli parla con mia madre e con me, e par ch'egli non abbia voluto darmi l'ultimo addio, se non unendomi con Lei che tutto divide con me, e che abbia voluto così render più sacre per me le ultime sue parole. La lettera è del mese di giugno o di luglio al più tardi: "Ho veduto con sommo dolore partire il mio Pagani. Mi rimane Calderari, che è un angelo. È veramente degno di miglior sorte e di…. Le sue disgrazie, che egli soffre con animo veramente forte, mi stringono a lui più fortemente, e mi servono di un grande esempio. Oh Giulia, Giulia! non è così rara in Italia la virtù come tu pensi!" E finisce con queste parole che mai non rileggiamo senza un fremito di dolore e di speranza: "Giulia, Alessandro, ci rivedremo certamente. Un giorno, superiori all'umano orgoglio, beati e puri ragioneremo sorridendo delle passate nostre debolezze. Addio." Oh sì! ci rivedremo. Se questa speranza non raddolcisse il desiderio dei buoni e l'orrore della presenza dei perversi, che sarebbe la vita? Calderari, noi siamo afflitti di non poter essere con te. Tu sei degno d'aver degli amici, e in noi troveresti del cuore, quello di cui tu hai bisogno. Non posso scrivere a Pagani. Egli pure deve essere conturbato. In verità la morte di un amico nel fior degli anni vi lascia, oltre il dolore, un certo risentimento; pare un'orribile ingiustizia. Addio, caro ed infelice Calderari, amami e scrivi. Addio.

Il tuo MANZONI B.a"

[3] "Buttura Antonio (scrive il Romussi) buon critico e poeta, nato a Malcesine sul Lago di Garda nel 1771, partigiano della Repubblica francese a Venezia, epperciò favorito da Napoleone, si trasferì, dopo il Trattato di Campoformio, a Parigi, dove morì nel 1832. Fu professore al Pritaneo di San Ciro ed all'Ateneo, dove successe al Ginguené; la traduzione del Boileau, di cui parla il Manzoni (in una sua lettera del 1806), fu pubblicata nel 1816.

X

Carme autobiografico.

Quantunque già pubblicato a Lugano in fronte alle Vite degli illustri italiani di Francesco Lomonaco, fino a pochi anni innanzi era pochissimo noto il Sonetto giovanile di Alessandro Manzoni, ove si muove lamento, perchè l'Italia trascuri i suoi migliori ingegni, fin che son vivi, per piangerli morti:

   Tal premii, Italia, i tuoi migliori; e poi,
     Che pro se piangi e 'l cener freddo adori,
     E al nome vôto onor divini fai?
   Sì, da' barbari oppressa, opprimi i tuoi,
     E ognor tuoi danni e tue colpe deplori
     Pentita sempre, e non cangiata mai.

Nel principio del Sonetto, diretto a Francesco Lomonaco, si compiange la sorte di questo giovine e già illustre esule napoletano, obbligato a condur vita misera e raminga come Dante, l'antico esule gloriosa fiorentino, del quale il Lomonaco aveva narrata la vita. Due anni innanzi, in una nota al terzo canto del Trionfo, ove si descrivono le stragi di Napoli, il Manzoni raccomandava già "l'energico e veramente vesuviano rapporto fatto da Francesco Lomonaco patriotta napoletano". Vogliono che il Manzoni vecchio dicesse avere in gioventù concepite del Lomonaco grandi speranze, che non furono poi mantenute; ma chi riferì quelle parole del Manzoni dovette frantendere; il Lomonaco non ebbe tempo d'acquistar maggior gloria, poichè nell'anno 1810 che era, a pena, il trentesimoprimo della sua vita, egli miseramente s'uccise. L'ingratitudine è cosa mostruosa in tutti, ma più nei grandi ingegni. Ora io non posso credere che il Manzoni degli scrittori che lo fecero maggiormente pensare, e quello che importa, pensar giusto. Io ho voluto rileggere la Vita di Dante scritta dal Lomonaco. Ora, udite quali parole si leggono in fine di quella Vita: "I benemeriti della repubblica letteraria non sono i pedanti, o i servili imitatori, bensì quei che informati di una qualche potenza vivificativa sanno altamente e profondamente pensare. Un filosofo interrogò una volta l'Oracolo: quai mezzi praticar dovesse per divenir immortale, e l'Oracolo gli rispose: Segui il tuo genio." Ci sono simpatici quegli scrittori che esprimono meglio i nostri proprii sentimenti; il Manzoni deve aver detto leggendo tali parole: esse furono scritte per me; ed averle presenti quando, due o tre anni dopo, scriveva in Parigi il suo programma civile e poetico, ossia il Carme per l'Imbonati.[1] È vera fortuna per l'Italia che, nella primavera dell'anno 1805, Alessandro Manzoni abbia dovuto recarsi in Francia. È possibile, invero che proseguendo a rimanere in Milano, a respirar l'aria delle scuole letterarie d'Italia, a vivere tra le maldicenze puerili e pettegole de' nostri letterati, egli, a malgrado di tutta l'originalità del proprio ingegno, non avrebbe trovato così presto quella forma chiara, schietta, popolare di linguaggio, pel quale veramente col Carme dell'Imbonati per la nostra poesia incipit vita nova. A Parigi egli si trovò libero d'ogni impaccio scolastico, ed il suo genio, per la prima volta, potè spaziare per vie proprie e non ancora battute. Sentir e meditar: ecco la sua gran formola poetica; in Francia egli trovò pure il modo di esprimere naturalmente questi sedimenti meditati, per l'esempio che gli offrivano gli scrittori francesi. Il Carme per l'Imbonati è una prova eloquente che il Manzoni ha sentito, meditato e imparato a scrivere con semplicità e naturalezza. Esaminiamo ora dunque quali forti sentimenti dovessero agitarlo e commuoverlo, quali pensieri governarlo, quando egli scrisse a vent'anni, in Parigi, il bellissimo Carme. Che cosa sia veramente avvenuto nella famiglia Manzoni, nel principio dell'anno 1805, quando la signora Giulia Beccaria s'indusse a lasciare precipitosamente Milano in compagnia del figlio Alessandro, non si può fino ad ora bene affermare. Che il giovine Alessandro avesse avuto in Milano de' grossi dispiaceri, si può argomentare dai versi stessi del Carme, ov'egli si sfoga contro i vili che armarono contro il suo nome l'operosa calunnia. Carlo Imbonati era morto il 15 marzo dell'anno 1805, in Parigi, assistito dalla signora Giulia Beccaria, madre del Manzoni. La Giulia accompagnò le spoglie dell'amico a Brusuglio: villa, di cui egli, sebbene avesse parecchie sorelle, l'aveva fatta erede. La madre ed il figlio, dopo quella morte, partirono per Parigi, lasciando solo Don Pietro in Milano; l'eredità lasciata alla Giulia Beccaria diede occasione a molte ciarle; ora le ciarle, nelle quali anche gli uomini eletti che vi si abbandonano, diventano volgo, le nove volte su dieci, come sono figlie dell'ozio, sono madri di maldicenza. La signora Giulia Beccaria non dovette essere risparmiata. Che fece allora il figlio? Prima di tutto, egli non l'abbandonò più, e poi si preparò a vendicarne, come potè, la fama oltraggiata. Del padre che morì settantenne in Milano, due anni dopo la morte dell'Imbonati, e a cui il figlio, avvertito troppo tardi in Parigi, non arrivò in tempo a chiudere gli occhi, non troviamo se non un rapido cenno, abbastanza freddo, per annunciarne la morte, in una lettera che il Manzoni diresse nel marzo del 1807 all'amico Pagani da Brusuglio, ov'egli s'era per pochi giorni condotto con la madre a mettervi in ordine i suoi affari più urgenti. Nella stessa lettera, invece, il Manzoni rappresenta all'amico la propria "felicità di avere per madre ed amica una donna, parlando della quale, egli dice, troverò sempre più ogni espressione debole e monca."[2] Ignazio Calderari, comune amico del Manzoni e del Pagani, avendo poi, allora per l'appunto passato, com'ei diceva: "due mezze giornate in paradiso," o sia, nella villa dell'amico Manzoni a Brusuglio, scrivendo nel giorno stesso al Pagani, gli fa il ritratto della signora Beccaria: "Che dirotti di sua madre? Mi palpitava il cuore nel viaggio pel desiderio di conoscere una tal donna, che io già amava e venerava come quella che forma la felicità del nostro Manzoni, e da quanto vidi non posso ingannarmi che l'uno formi la contentezza dell'altro, perchè nulla è tra loro di segreto: l'uno a vicenda ambisce di prevenire i desiderii dell'altro, e si protestano l'un dell'altro indivisibili. Tu trovi in lei una donna, cui, non mancando alcuna delle vere grazie che adornano una donna, è dato un senno maschio ed una facile quanto soave ed affettuosa parola; è poi nel discorso tutta sentimento; ma quel che più attrae l'ammirazione, è il vedere queste prerogative d'ingegno e di cuore accompagnate da modestissimo contegno e spoglie affatto d'ogni donnesco, benchè minimo pettegolezzo; mi pare insomma che essa si assomigli perfettamente a quello che ce la rappresentavano le sue lettere a te e al sempre caro e adorabile Arese, quando le leggevamo insieme. Che bella coppia è mai quella! In verità, io credo non si possa pregare miglior cosa ad un uomo che di avere una tal madre o un simile padre!" Ma è pure unica la fortuna di una donna, la quale abbia avuto per padre un Cesare Beccaria[3] e per figlio un Alessandro Manzoni.[4] La madre del Manzoni, quando si recò a Parigi, non si faceva chiamare altrimenti che la signora Giulia Beccaria; il nome del Beccaria servì di passaporto e di commendatizia anche al nostro giovine Alessandro presso la più eletta e la più colta società parigina, ov'egli ebbe pure occasione di conoscere, fra gli altri valentuomini, lo storico piemontese Carlo Botta, il quale, non potendo ancora presagire in lui il futuro caposcuola del romanticismo in Italia, gli divenne amico.[5] Il Manzoni stesso, in quel tempo, un poco per farsi meglio conoscere, ma molto più forse per compiacere alla propria madre, firmava le proprie lettere col doppio nome di Manzoni-Beccaria; quando poi l'amico suo Pagani fece ristampare in Milano, per conto dell'Autore,[6] il Carme In morte dell'Imbonati, egli lo pregò di aggiungere pure sul frontispizio il nome del Beccaria, specialmente dopochè il poeta Lebrun, allora molto in voga, inviandogli un suo nuovo componimento stampato, lo avea, senz'altro, salutato col nome di Beccaria, soggiungendo nella dedicatoria manoscritta queste parole: "C'est un nom trop honorable pour ne pas saisir l'occasion de le porter. Je veux que le nom de Lebrun choque avec celui de Beccaria."[7] Il Pagani o dimenticò o finse o volle dimenticare il singolare desiderio espressogli dall'amico, il quale dovette contentarsi di sentirsi chiamare semplicemente: Alessandro Manzoni. I versi per l'Imbonati non furono dunque scritti, come sembrami siasi creduto fin qui, immediatamente dopo la morte di colui, che, discepolo del Parini, dovea, se avesse vissuto, divenire la guida spirituale del Manzoni; ma parecchi mesi dopo, nel febbraio dell'anno 1806, quando s'appressava l'anniversario della sua morte, ed assai probabilmente per dare, in quel giorno funebre, una consolazione alla nobile amica derelitta dell'Imbonati. Noi sappiamo ora intanto dal signor Romussi che, per quell'anniversario funebre, il Manzoni faceva ristampare i suoi versi in Milano, per mezzo del suo amico Pagani, al quale soggiungeva il seguente poscritto: "Il 15 corrente è il fatale giorno anniversario della morte del virtuoso Imbonati. Mia madre dice che un tuo sospiro per lui sarà a lui un omaggio, una consolazione a lei, e che in quel momento le nostre anime saranno unite."[8] Nel Carme commemorativo, ove si esalta la virtù dell'Imbonati, ove si confessa pubblicamente l'amicizia che lo legava a Giulia Beccaria, ove si promette dal poeta all'ombra dell'Imbonati ch'egli avrebbe seguito i sapienti consigli dell'amico di sua madre, si esalta insieme e si consola la virtù e il dolore della madre. Sotto questo aspetto speciale, parmi che il Carme, sebbene già notissimo, In morte dell'Imbonati, possa ora venir riletto dagli ammiratori del Manzoni, con più viva, se pure non nuova, curiosità, poichè insieme col genio nascente del poeta ci mostra il coraggioso ed eloquente affetto del figlio vendicatore dell'onore materno.[9] Incomincia il Poeta accortamente col rivolgersi alla madre, rammentando com'egli fosse solito a scusarsi presso di lei, per avere fino a quel di coltivata solamente la poesia satirica, poichè non gli era apparso sopra la terra un solo raggio di virtù, al quale potesse consacrare l'ingegno poetico. Ma, dopo avere inteso come la madre rimpiangesse la rara virtù dell'amico che le era stato tolto, gli parve almeno che il ricordo di quelle virtù potesse destare in alcuno il proposito di farle rivivere in sè. Il giovine Poeta vede veramente o immagina d'avere veduto in sogno il conte Carlo Imbonati, ma in figura di malato già consunto dal proprio male. Egli serba tuttavia sempre molta calma nell'aperto volto e nell'aspetto, i quali inspirano pronta fiducia anche agl'ignoti. Pensosa è la fronte di lui, mite e sereno lo sguardo, il labbro sorridente. Il Poeta ventenne fa prontamente atto di volerlo abbracciare e di favellargli:

                         ma irrigidita
     Da timor, da stupor, da reverenza
     Stette la lingua.

Allora l'Imbonati stesso prende a parlare, e dice come un affetto imperioso lo muova a ritornar presso di lui, che, nel fine di sua vita, era stato oggetto dei suoi più vivi desiderii:

                          E sai se, quando
     Il mio cor nelle membra ancor battea,
     Di te fu pieno, e quanta parte avesti
     Degli estremi suoi moti.—Or, poi che dato
     Non m'è, com'io bramava, a passo a passo,
     Per man guidarti su la via scoscesa,
     Che, anelando, ho fornita, e tu cominci,
     Volli almeno una volta confortarti
     Di mia presenza.

L'Imbonati, non credendo forse ancora imminente l'ultimo suo giorno, avea diretta al giovine Manzoni che, in quel tempo, dovea condurre fra la gioventù milanese una vita alquanto dissipata, una prima ed ultima lettera eloquente, dove gli dava alcuni suoi consigli amorosi, fiducioso certamente di deporre il buon seme in ottimo terreno. Il Manzoni, alla sua volta, rispose con una lettera caldissima; ma la risposta arrivò all'Imbonati, quand'egli avea già chiusi gli occhi alla luce. Mi si domanderà: Come sapete voi questo? In quale biografia l'avete voi letto? Avreste, per avventura, vedute quelle preziose lettere? No: lo non le ho vedute; ma ho semplicemente letto, con intento biografico, i versi stessi del Manzoni. Gli abbiamo letti anche noi, e sono chiari abbastanza da non abbisognare di commenti. Io ne convengo perfettamente, e vi prego dunque soltanto di rileggerli ancora una volta:

        …. Allor ch'io l'amorose e vere
     Note leggea, che a me dettasti prime,
     E novissime fôro, e la dolcezza
     Dell'esser teco presentìa, chi detto
     M'avrìa che tolto m'eri! E quando in caldo
     Scritto gli affetti del mio cor t'apersi,
     Che non sarìa dagli occhi tuoi veduto,
     Chiusi per sempre! Or quanto e come acerbo
     Di te nutrissi desiderio, il pensa.

Il Manzoni non pare dunque aver conosciuto l'Imbonati, ma essersene solamente innamorato per la fama delle sue molte virtù e per l'affetto sincero e profondo che egli aveva inspirato alla signora Beccaria; il che è intieramente regolare, poichè sappiamo dal Fauriel che la Beccaria s'era recata a Parigi con l'Imbonati fin dai primi anni del Consolato. Si spiega quindi pure come, per un certo periodo della vita giovanile di Alessandro Manzoni, appaia educatrice di lui non già la madre, ma una zia uscita da uno de' conventi soppressi, nel tempo in cui i Manzoni abitavano nella Via di Santa Prassede.[10] Essa aveva l'incarico di accompagnare in chiesa il giovinetto, e di fargli dare lezioni di musica e di danza, forse pure di scherma. Come spiegarsi altrimenti che l'Imbonati fosse così poco noto al figlio di colei, per la quale egli era tutto, e che, invece di parlare al Manzoni, egli si risolvesse a scrivergli? Un giorno qualche altra lettera inedita ci darà forse la chiave di questo enigma biografico; intanto proseguiamo la nostra lettura:

   Io sentìa le tue lodi; e qual tu fosti
     Di retto, acuto senno, d'incolpato
     Costume e d'alte voglie, ugual, sincero,
     Non vantator di probità, ma probo,
     Com'oggi, al mondo, al par di te nessuno
     Gusti il sapor del beneficio, e senta
     Dolor dell'altrui danno. Egli ascoltava
     Con volto nè superbo, nè modesto.
     Io, rincorato, proseguia: se cura,
     Se pensier di qua giù vince l'avello,
     Certo so ben che il duol t'aggiugne e il pianto
     Di lei che amasti ed ami ancor, che tutto,
     Te perdendo, ha perduto.

L'Imbonati sorride mestamente, e risponde:

                                  Se non fosse
     Ch'io l'amo tanto, io pregherei che ratto
     Quell'anima gentil fuor delle membra
     Prendesse il vol, per chiuder l'ali in grembo
     Di Quei ch'eterna ciò che a Lui somiglia.
     Che, fin ch'io non la veggo, e ch'io son certo
     Di mai più non lasciarla, esser felice
     Pienamente non posso. A questi accenti
     Chinammo il volto, e taciti ristemmo;
     Ma, per gli occhi d'entrambi, il cor parlava.

Dopo questo omaggio che il giovine Poeta, preteso ateo, rende per le parole dell'Imbonati alla credenza in Dio e nella immortalità dell'anima umana, egli domanda all'ombra dell'Imbonati quale impressione essa abbia provato nel punto della morte.[11] Essa risponde evasivamente che non provò alcun dolore, che le parve liberarsi da un breve sonno; ma poi, ridesta alla vita eterna, le increbbe non ritrovarsi più vicina la cara donna che vegliava, con amorosa pietà, al fianco di lui infermo. Altro l'Imbonati non può rimpiangere di questa vita mortale, nè il tristo mondo ch'egli abbandonò. Anima virtuosamente stoica e scettica ad un tempo, comunica il proprio scetticismo all'amica diletta ed al carissimo alunno:

   Che dolermi dovea? forse il partirmi
     Da questa terra, ov'è il ben far portento,
     E somma lode il non aver peccato?
     Dove il pensier dalla parola è sempre
     Altro, è virtù per ogni labbro ad alta
     Voce lodata, ma ne' cor derisa;
     Dov'è spento il pudor, dove sagace
     Usura è fatto il beneficio, e frutta
     Lussuria amor; dove sol reo si stima
     Chi non compie il delitto; ove il delitto
     Turpe non è, se fortunato; dove
     Sempre in alto i ribaldi e i buoni in fondo.
     Dura è pel giusto solitario, il credi,
     Dura e, pur troppo, disugual la guerra
     Contro i perversi affratellati e molti.
     Tu, cui non piacque su la via più trita
     La folla urtar che dietro al piacer corre
     E all'onor vano e al lucro, e delle sale
     Al gracchiar vôto, e del censito volgo
     Al petulante cinguettìo, d'amici
     Ceto preponi intemerati e pochi,
     E la pacata compagnia di quelli
     Che, spenti, al mondo anco son pregio e norma,
     Segui tua strada; e dal viril proposto
     Noti ti partir, se sai.

Qui, dove torna pure ad affacciarsi in parte il poeta de' Sermoni che si mostra alieno dai pubblici affidi, appaiono chiare le ragioni, per le quali il Manzoni, disgustato della società milanese, si recò in Francia con la madre. Segue il già citato ricordo dell'educazione ricevuta in collegio, quindi l'allusione allo innominato maestro ch'egli disprezza; viene infine l'alunno sdegnoso alle calunnie dei vili che assalirono il nome del giovine poeta in Italia, alle quali egli non diede risposta, unico modo savio per farle cadere; e caddero infatti così bene, che non si potrebbe oggi più argomentare con qualche fondamenta di qual natura veramente esse fossero e onde partissero. È possibile tuttavia, se è vero che il Manzoni abbia, in qualche modo, nella gioventù di Lodovico, voluto raffigurar la propria ch'egli, non ignaro, per averle particolarmente studiate, delle leggi cavalleresche, invece di sfidare il suo avversario calunniatore l'abbia disprezzato, per mostrare poi in età più matura, con tutta la forza stringente della sua logica poderosa, e per l'esempio del duello di Lodovico, come un tal partito, tragico insieme e ridicolo, non risolva mai alcuna questione d'onore. I versi giovanili del Manzoni ci dicono, in somma, in modo indiretto, che egli nè entrò in polemica letteraria, nè chiese a' suoi calunniatori alcuna riparazione di sangue:

   Nè l'orecchio tuo santo io vo' del nome
     Macchiar de' vili che, ozïosi sempre,
     Fuor che in mal far, contra il mio nome armâro
     L'operosa calunnia. Alle lor grida
     Silenzio opposi, e all'odio lor disprezzo;
     Qual merti l'ira mia fra lor non veggio;
     Ond'io lieve men vado a mia salita
     Non li curando:

non curanza che, ricordando il disdegnoso verso dantesco,

Non ti curar di lor, ma guarda e passa,

conferma pure il verso del Manzoni giovinetto:

Spregio, non odio mai.

Per quale intima associazione d'idee non si potrebbe ora ben dire, il giovine Manzoni domanda quindi all'Imbonati, se sia vero quello che di lui si va dicendo, ch'egli abbia, cioè, disprezzato i poeti e le Muse. Ma l'Imbonati è pronto a soggiungere che gli furono venerandi e cari Vittorio Alfieri e Giuseppe Parini, ma ch'egli disprezza, invece, i poeti triviali, arroganti, viziosi, di perduta fama, i quali fanno un vergognoso mercato di lodi e di strapazzi, e dai quali si attende una vecchiaia oscura e ignominiosa; e qui forse il Manzoni mirava ancora al cavaliere storiografo Vincenzo Monti od all'improvvisatore Francesco Gianni che viveva a Parigi, e metteva in verso i bollettini delle vittorie napoleoniche. La vecchiaia dell'Autore della Bassvilliana e della Mascheroniana fu, pur troppo, quale il Manzoni la pronosticava ai venali poeti, dai quali egli abborriva; al Gianni fu invece, dopo la caduta di Napoleone, conservata la sua lauta pensione. Udite, pertanto, le generose parole dell'Imbonati, il Manzoni prorompe egli stesso e conchiude stupendamente il Canto:

   Gioia il suo dir mi prese, e non ignota[12]
     Bile destommi; e replicai: deh! vogli
     La via segnarmi, onde toccar la cima
     Io possa, o far che, s'io cadrò su l'erta,
     Dicasi almen: su l'orma propria ei giace.
     Sentir, riprese, e meditar; di poco
     Esser contento; dalla mèta mai
     Non torcer gli occhi; conservar la mano
     Pura e la mente; delle umane cose
     Tanto sperimentar, quanto ti basti
     Per non curarle; non ti far mai servo;
     Non far tregua coi vili; il santo vero
     Mai non tradir; nè proferir mai verbo,
     Che plauda al vizio, o la virtù derida.

     O maestro, o, gridai, scorta amorosa,
     Non mi lasciar; del tuo consiglio il raggio
     Non mi sia spento, a governar rimani
     Me, cui natura e gioventù fa cieco
     L'ingegno e serva la ragion del core.
     Così parlava e lagrimava; al mio
     Pianto ei compianse, E, non è questa, disse,
     Quella città, dove sarem compagni
     Eternamente. Ora colei, cui figlio
     Se' per natura e, per eletta, amico,
     Ama ed ascolta, e di figlial dolcezza
     L'intensa amaritudine le molci;
     Dille ch'io so ch'ella sol cerca il piede
     Metter su l'orme mie; dille che i fiori
     Che sul mio cener spande, io li raccolgo,
     E li rendo immortali; e tal ne tesso
     Serto che sol non temerà nè bruma,
     Ch'io stesso in fronte riporrolle, ancora
     Delle sue belle lagrime irrorato.
     Dolce tristezza, amor, d'affetti mille
     Turba m'assalse; e, da seder levato,
     Ambo le braccia con voler tendea
     Alla cara cervice. A quella scossa,
     Quasi al partir di sonno, io mi rimasi;
     E con l'acume del veder tentando
     E con la man, solo mi vidi; e calda
     Mi ritrovai la lagrima sul ciglio.

Qui tutto è vero e caldo come fiamma viva; qui spira l'alito di una poesia originale e potente. L'ombra dell'Imbonati, in conformità delle idee svolte nell'Ode pariniana Sull'Educazione e di quelle del Fauriel (il prediletto tra i pochi ed intemerati amici del Manzoni in Parigi), il quale, intorno a quel tempo, stava, per l'appunto, meditando una storia dello Stoicismo, traccia al discepolo e, per mezzo di esso, a noi, un intiero bellissimo programma di Filosofia stoica. Con un tale espediente, non saprei dire se più ingegnoso o affettuoso, avendo l'Imbonati parlato per mezzo del figlio all'amico, la signora Giulia Beccaria dovette persuadersi come, per la virtù dell'amor figliale, divenuta poesia sovrana, la madre non solamente potea consolarsi, ma avesse ogni ragione di inorgoglirsi, nella lieta certezza di aver fatto all'Italia il dono celeste di un nuovo grande poeta.[13]

[1] È giusto tuttavia l'avvertire che consigli simili il Manzoni dovea averli talora intesi dallo stesso Monti. Questi, in una sua lettera di risposta al Tedaldi-Fores, ringraziando il giovine Poeta romantico per un Inno all'Aurora, gli scriveva come lo potrebbe ora fare un manzoniano: "Perchè in avvenire trionfi ne' vostri versi l'affetto, innamoratevi, fate che le vostre idee prima di andar sulla carta passino per mezzo il fuoco del cuore; in una parola, sentite."

[2] In una lettera del marzo 1806 diretta da Parigi al Pagani, il Manzoni si esprime così. "Scrivimi presto, te ne prego per me e per mia madre, che legge le tue lettere coi miei occhi. Ella t'ama quanto io t'amo. Ella è continuamente occupata…. ad amarmi e a fare la mia felicità."

[3] Quando, nel 1793, il Beccaria morì, il Manzoni si trovava in collegio, e contava appena otto anni. Non pare ch'egli abbia ricevute altre impressioni del nonno, fuori di quelle che gli furono comunicate dalla madre e dalla lettura delle opere, specialmente dei due libretti, Intorno ai Delitti e alle Pene, e Intorno alla Natura dello stile. In quest'ultima opera, quantunque scritta assai male, trovansi parecchi pensieri, che devono aver servito di base ai primi discorsi che il Manzoni tenne in Parigi col Fauriel intorno allo stile. Io ne accennerò alcuni che mi sembrano particolarmente essere divenuti manzoniani: "Un'eccellente poetica sarebbe quella che insegnasse a risvegliare in sè stesso l'indolente ed indeterminata sensibilità, che facesse scorrere lo spirito osservatore su tutte le cagioni che gli produssero piacere o dolore. Sono le osservazioni sopra le interne operazioni dello spirito, non sulle esterne manifestazioni di esso, che formano le vere istituzioni.—Io parlo solamente a quegli animi pronti e penetranti che sanno ripiegarsi in sè medesimi e sentir profondamente, ed a quegl'ingegni arditi e liberi che si formano una scienza de' loro pensieri e non degli scritti altrui." Il sensismo del Condillac adoperato nella statistica è il fondamento della dottrina del Beccarla, che il Manzoni tradusse in pratica. "Il principal artificio (conchiudeva il Beccaria) di chi vuole riuscire eccellente scrittore sarà quello di ridurre a tutte le idee sensibili, componenti, tutto il corredo delle parole, delle quali egli, conversando e studiando, carica la memoria, il che finalmente si riduce al principio medesimo esposto nella prima parte di queste ricerche; se l'eccellenza dello stile consiste nell'esprimere immediatamente il massimo numero di sensazioni unibili colle idee principali, per mettersi in istato appunto di esprimere questo massimo numero, il miglior mezzo sarà quello di averne ricca l'immaginazione. Ora come mai ciò potrà aversi se tre quarti dell'istituzione nostra si fa per mezzo delle parole, ed è necessario di farlo attesa la complicata coltura de' nostri costumi? non certamente in altra maniera, infuori che in quella di studiosamente e ad ogni occasione portare l'unione delle generali ed indeterminate espressioni alle sensibili, precise e determinate.

[4] Così l'Imbonati che ebbe per discepolo il Manzoni, aveva avuto per maestro il Parini. Il Manzoni stesso dovea avere per maestro un Monti, per amici un Foscolo ed un Fauriel, un Rosmini ed un Grossi, per critico un Goethe, per genero un Azeglio, per discepolo ideale un Giusti! Le visite del Mazzini e del Garibaldi, di Vittorio Emanuele e del Principe Umberto, di Don Pedro d'Alcantara e del Granduca Alessandro di Weimar, erano dimostrazioni particolari di quel consenso universale d'ammirazione, pel quale la gloria letteraria del Manzoni fu insuperata ed insuperabile.

[5] Il Botta dava a leggere al giovine Manzoni il manoscritto della sua Storia della Indipendenza degli Stati Uniti, della quale il Manzoni scriveva con entusiasmo all'amico Pagani, dicendogli, tra l'altre cose: "Credi che, dopo i nostri storici vecchi, nulla d'eguale è mai comparso in Italia," e gli raccomandava di trovargli un editore in Italia. L'editore non si potè trovare. Il Botta stampò il libro a sue spese; poi, avendo la moglie malata, e bisogno urgente di far danaro, vendette tutta l'edizione a peso di carta!—È noto come, dopo la pubblicazione de' Promessi Sposi, il Botta classicheggiante si schierò tra gli avversarii della Scuola manzoniana.

[6] La prima edizione de' soli cento esemplari, uscita nel febbraio del 1806, non fu messa in vendita; l'edizione di Milano fu di 1000 esemplari, ed uscì nel marzo di quello stesso anno.

[7] Fra i poeti che destarono maggior entusiasmo nel giovine Manzoni vuol essere ricordato, per l'appunto, questo Lebrun. {P. D. E., da non confondersi con un altro poeta Lebrun (P. A.) nato nello stesso anno, in cui nacque il Manzoni, morto membro dell'Accademia Francese, di cui il Dumas figlio ebbe a tessere l'elogio insieme col D'Haussonville. Questo Lebrun ebbe pure una gloria precoce, cantò pure le vittorie napoleoniche, e ottenne perciò anch'esso una pensione annua, ma di soli 1200 franchi.} Egli era nato nel 1729, e s'era acquistato fra i suoi contemporanei il nome di Pindare francais. A quattordici anni aveva già fatta un'Ode che prometteva un poeta insigne. Nato nella casa del principe di Conti, che lo prese a proteggere e lo adoperò poi per molti anni come suo segretario, vogliono che egli potesse esserne figlio. Il figlio del grande tragico Racine, poeta egli stesso, innamorò il giovane Lebrun della poesia; naufragato il Racine presso Cadice, il Lebrun lo pianse con un'Ode tenerissima. Sopra il suo quinto lustro, il Lebrun noveravasi già fra i primi Lirici francesi. L'indole satirica del poeta gli fece molti nemici; ma vuolsi pure ricordare che la figlia del grande Corneille ebbe dote per un'Ode famosa, nella quale il Lebrun supplicava in favore di lei il Voltaire. E quando il Voltaire morì, il Lebrun lo onorò con questa strofe efficace:

         O Parnasse! frémis de douleur et d'effroi!
         Pleurez, Muses, brisez vos lyres immortelles
         Toi dont il fatigua les cent voix et les ailes,
         Dis que Voltaire est mort, pleure et repose-toi.

Ma gli epigrammi pungenti del Lebrun sono molto più numerosi. La morte del prìncipe di Conti, la sua separazione dalla moglie, il fallimento del principe di Guémenée, presso il quale il Lebrun avea collocati i suoi risparmii, ne amareggiarono la vita. Per la intercessione del conte di Vaudreuil e del Calonne, impietosito il re Luigi XVI concesse al povero Lebrun una pensione annua di duemila franchi, il che non impedì, allo scoppiar della rivoluzione, che il Pindaro francese scrivesse le più ardenti odi rivoluzionarie. Ma il regno del Terrore lo spaventò; il Lebrun lamentò allora la libertà perduta e l'umanità oltraggiata. Passata la tempesta rivoluzionaria, creato l'Institut National, ei fu de' primi ad esservi accolto. Sotto il Direttorio, gli fu dato quartiere nel Louvre, con una pensione annua di mille scudi; Napoleone, primo console, la portò nel 1804 a seimila franchi. Negli ultimi anni della sua vita, il poeta perdette la vista; ma la ricuperò, in parte, per le cure del dottor Forlenze, onde il Cournand componeva la graziosa strofa seguente:

         D'un nuage fatal tes yeux étaient voilés;
         Forlenze, par son art, te rendit la lumière.
         En des siècles plus reculés
         Ce qu'il fit pour Pindare, il l'eût fait pour Homère.

Ma del beneficio della luce il Lebrun godette per poco tempo, poichè morì nel mese di settembre dell'anno 1807. I critici contemporanei del Lebrun non lo stimavano inferiore al lirico Giambattista Rousseau, specialmente per le due Odi al Buffon, per l'Ode sopra il vascello Le Vengeur, e per le sue traduzioni e imitazioni delle Odi d'Orazio. Ebbi sotto gli occhi un ritratto del poeta Lebrun, una figura nervosa, un profilo sottile, che non doveva inspirar molta simpatia; il Manzoni era tuttavia in quell'età, in cui tutti gli scrittori celebri sembrano degni d'essere amati, quando incontrò il Lebrun; e però il 17 marzo dell'anno 1806 scriveva da Parigi al suo amico Pagani: "Ieri ebbi l'onore di pranzare con un grande uomo, con un poeta sommo, con un lirico trascendente, con Lebrun. Avendomi onorato di un suo componimento stampato, volle assolutamente scrivere sull'esemplare, che conserverò per sempre: A. M. Beccaria. Ho avuto l'onore di imprimere due baci sulle sue smunte e scarnate guancie; e sono stati per me più saporiti che se gli avessi colti sulle labbra di Venere. È un grande uomo, per Dio! Spiacemi che le sue Odi sieno sparse e non riunite in un volume per potertele far conoscere; il suo nome lo conoscerai certamente. Credimi che noi Italiani siamo alquanto impertinenti, quando diciamo che non vi è poesia francese. Io credo e creder credo il vero, che noi non abbiamo (all'orecchio), che noi non abbiamo un lirico da contrapporre a Lebrun per quello che si chiama forza lirica. E perciò qui lo chiamano comunemente Pindare Lebrun, e non dicono forse troppo. Per contentare la loquacità che oggi mi domina, e per giustificare la mia opinione, ti trascriverò qualche verso qua e là delle sue Odi. In una imitata dall'Exegi monumentum di Orazio, egli dice che il suo monumento è più ardito della piramide e più durevole del bronzo. E poi (ascolta, per Dio!):

         Qu'atteste leur masse insensée?
         Rien qu'un néant ambitieux:
         Mais l'ouvrage de la pensée
         Est immortel comme les Dieux.

Eh? e nella medesima Ode:

         Comme l'encens qui s'évapore
         Et des Dieux parfume l'autel,
         Le feu sacré qui me dévore
         Brûle ce que j'ai de mortel.

E nella stessa ancora:

         J'échappe à ce globe de fange:
         Quel triomphe plus solennel!
         C'est la mort même qui me venge;
         Je commence un jour éternel.

E, in un'Ode a Bonaparte, due anni fa:

         Le peuple souverain qu'un Héros sent défendre
         N'obéira qu'aux Lois;
         Et l'heureux Bonaparte est trop grand pour descendre
         Jusqu'au trône des Rois.

In un'Ode per la famosa notte del 10 agosto,—attento bene:

         O Nuit, dont le voile imposteur
         Servit un roi conspirateur,
         Je te dénonce à la mémoire!
         ors de ta lâche obscurité,
         Parais dans ton affreuse gloire,
         Subis ton immortalité!

    Se questi non sono versi, quelli d'Orazio e di Pindaro sono
    cavoli!—E parlando di Dio in un poema;

         Au-delà du soleil, au-delà de l'espace,
         Il n'est rien qu'il ne voie, il n'est rien qu'il n'embrasse,
         Et la création respire dans son sein.

  [8] Una lettera del maggio 1806 diretta in poscritto dalla Giulia
    Beccaria al Pagani lo pregava di visitare in Milano la tomba
    dell'Imbonati: "Un vostro puro vale (scriveva essa), sarà
    aggradito da Lui, sarà accetto dal mio povero cuore."

  [9] L'Autore della Biografia del Manzoni che si legge ora nel_
    Supplemento all'Enciclopedia popolare_ del Pomba, preferisce
    invece far credere che il Manzoni abbia scritto il Carme per
    l'Imbonati, per riconoscenza della pingue eredità ricevuta!

[10] "Il Manzoni (scrive lo Stoppani) si ricordava fin negli ultimi suoi anni della buona zia, la quale gli aveva lasciato delle impressioni vivissime, che egli ricordava agli amici, come fossero ancora quei giorni. Ritornata ai patrii lari, l'ex-monaca si era assunta lei una parte dell'educazione di Lisandrino, a cui aveva preso a volere un gran bene, e questa parte era di farne un giovinotto… se vi par troppo il dire galante, diremo brillante, chè non daremo così occasione di pensar male a nessuno. Non pare che per una coltivazione di questo genere il terreno fosse così facile, come avrebbe desiderato la coltivatrice. Anche il Manzoni dovette subire il supplizio inevitabile delle lezioni di musica e di danza…. Non vi cadesse mai in mente che l'ex-monaca fosse una donna meno che ammodo, anzi meno che pia; ella non mancava mai di condur seco Lisandrino alla benedizione nella chiesa detta alla Pace. Vuol dire che lungo la via c'era tempo di discorrere d'altre cose.—Vede lei,—diceva un giorno il Manzoni, in uno degli ultimi anni della sua vita, ad un amico, mentre passavano per la Via di Santa Prassede,—vede lei quella finestra? Un giorno ero là colla zia che m'insegnava il viver del mondo. D'un tratto eccoci alle spalle lo zio monsignore; e la zia svelta a regalargli, come si dice, una buona cavatina, cambiando discorso con tale disinvoltura, da fare invidia al comico più provetto.—Dove mai aveva la zia appreso una tattica così sorprendente? Ma!… La cosa aveva fatto un gran senso al giovinetto, e gli avrà dato certamente da pensare. Talvolta certamente nella conversazione il discorso cadeva sulla soppressione, con tutti quei pro e contro che udiamo anche noi a' nostri giorni. La zia a questo proposito non si lasciava mai cogliere nelle spire di un ragionamento qualsiasi. Con quel suo fare spigliato e disinvolto saltava a piè pari alla conclusione.—Io per me—diceva—sono del parere di Giuseppe II. Aria: Aria!—soggiungeva, trinciando nell'aria di gran cerchi colla mano destra, quasi avesse voluto farsi largo, e sgombrarsi dattorno quel non so che, da cui aveva impedito per tant'anni il respiro."

[11] Questa pareva una preoccupazione forte nel Manzoni: noi abbiamo veduto nelle lettere che scrive intorno all'Arese moribondo com'egli si sdegni contro il sacerdote che viene a crescere il terrore della morte; è noto poi come l'estrema agonia del Manzoni sia stata dolorosa, pel terrore che lo invase nell'ultimo momento.

[12] Egli ricordava senza dubbio, in quel punto, il proprio già citato Sermone contro i cattivi poeti.

[13] L'indole intieramente soggettiva del Carme, le lodi date all'Imbonati amico di sua madre, quando il padre ancora viveva, e la possibilità che alcuno venisse un giorno, come venne pur troppo, a sospettare ch'egli cantasse l'Imbonati per riconoscenza venale, dopo che il Conte aveva diseredato i proprii parenti per lasciare le proprie sostanze alla bella ed intelligente amica, furono, senza dubbiò, i motivi gravissimi, per i quali il Canzoni ebbe più tardi a dolersi d'avere scritto quel Carme giovanile.

XI.

Il Manzoni a Parigi.

Il nome che portava la madre del Manzoni l'avea fatta accogliere in tutte le conversazioni più eleganti e più dotte del Consolato e del Primo Impero. Ad Auteuil, presso Parigi, viveva la vedova dell'Helvetius, in una casa già frequentata dai famosi Holbach, Franklin, Jefferson, Condillac, Diderot, D'Alembert, Condorcet, Laplace, Volney, Garat, Chenier, Ginguenè, Daunou, Thurot, Tracy l'ideologo e Cabanis. Ma il Cabanis frequentava specialmente la Maisonnette ove viveva la vedova del Condorcet, sorella del maresciallo Grouchy e della moglie di Giorgio Cabanis. Fu alla Maisonnette, ove la signora Beccarla si recava con particolare frequenza, che il Manzoni dovette conoscere il grande medico filosofo di Auteuil. Dal Sainte-Beuve apprendiamo che il Manzoni, parlandone col Fauriel, lo chiamava cet angélique Cabanis. Il Cabanis era nato nel 1757 a Cosnac e morì nel 1808 presso Meulan. Il Manzoni lo conobbe dunque negli ultimi tre anni della sua vita, e al colmo della sua gloria. Nell'anno 1806 il Cabanis aveva indirizzata al Fauriel una bella lettera sopra le cause prime, che fu pubblicata solo parecchi anni dopo la sua morte; probabilmente il Manzoni la lesse manoscritta presso il Fauriel. Il Sainte-Beuve riportò un passo eloquente della lettera del Cabanis; io ne riferirò qui, invece, la conclusione, nella quale il medico filosofo si rivolgeva allo storico sperato dello Stoicismo: "C'est a vous, mon ami, qu'il appartient de nous offrir les images des grandes âmes formées par ces maximes, de retracer dignement des souvenirs si touchants et si majestueux. Sans doute il est toujours utile de proposer aux hommes de semblables modèles; mais, aux époques des révolutions politiques, le bon sens et la vertu n'ont de garantie que dans la constance des principes, dans l'inébranlable fermeté des habitudes. Le débordement de toutes les folies, de toutes les fureurs, les excès de tous genres, inséparables de ces grands bouleversements, troublent les tètes faibles, leur rendent problématique ce qu'elles ont regardé comme le plus certain; les exemples corrupteurs, les succès momentanés du crime, les malheurs, les persécutions qui s'attachent si souvent aux gens de bien, ébranlent la morale des âmes flottantes; le ressort des plus énergiques s'affaiblit lui-même quelquefois, et toutes celles qui ne sont affermies dans la pratique des actions honnêtes que par le respect de l'opinion publique, voyant cette opinion toujours équitable à la longue dans les temps calmes, alors incertaine, égarée et souvent criminelle dans ses jugements, s'habituent à mépriser une voix qui leur tenait lieu de conscience; et si elles ne finissent bientôt par traiter de vaines illusions les devoirs les plus sacrés, il ne leur reste plus du moins assez de courage pour les faire triompher, dans le secret de leurs pensées, des impressions de terreur dont elles sont environnées de toutes parts. Poursuivez donc, mon ami, cet utile et noble travail: si la plus grande partie des temps historiques vers lesquels il vous ramène doivent remettre sous vos yeux les plus horribles et les plus hideux tableaux, vous y trouverez aussi celui des plus admirables et des plus touchantes vertus; leur aspect reposera votre coeur, révolté et fatigué de tant de scènes d'horreur et de bassesse. Jouissez, en le retraçant avec complaissance, des encouragements qu'il peut donner à tous les hommes en qui vit quelque étincelle du feu sacré, surtout à cette bonne jeunesse, qui entre toujours dans la carrière de la vie avec tous les sentiments élevés et généreux; et ne craignez pas d'embrasser une ombre vaine, en jouissant d'avance encore de la reconnaissance des vrais amis de l'humanité." A me pare tra le cose probabili che il Cabanis, quando scriveva queste parole, scritte, prima del Manzoni, un poco alla manzoniana, per le quali insieme col Fauriel si confortava nella speranza che la nuova gioventù avrebbe raccolto l'esempio delle virtù stoiche, di cui il Fauriel dovea scrivere la storia, sebbene fosse avvezzo a terminare i suoi scritti con una generosa perorazione ai giovani, pensasse questa volta, particolarmente, al giovine amico del Fauriel, al Manzoni, che, nel suo Carme in morte di Carlo Imbonati, fin dal mese di febbraio dello stesso anno 1806 si era fatto un vero programma poetico di Filosofia stoica. In parecchi scritti poi del Cabanis trovo traccie di quello stile modestamente arguto, un po' vago d'antitesi e di paralleli, che piaceva pur tanto al Manzoni e che gli divenne proprio, ma ch'egli potè forse sentirsi capace di rinnovare leggendo alcuno degli scrittori francesi. Non vorrei ingannarmi, innanzi ai professori di stilistica, dicendo che riconosco, per esempio, anticipato in parte il fare manzoniano in queste parole, con le quali si termina la prefazione del Coup-d'oeil sur les révolutions et sur la réforme de la Médecine, del Cabanis: "Cette introduction est la seule partie que j'aie pu terminer. Je m'étais refusé jusqu'à ce moment à la rendre publique, dans l'espoir de compléter un jour l'ouvrage entier tel que je l'avais conçu. Mais le dépérissement total de ma santé ne me permet plus de nourrir cet espoir, qui fut toujours peut-ètre beaucoup trop ambitieux pour moi. Je finis donc par céder aux voeux de quelques amis, et par livrer au public cette faible esquisse. J'aurais voulu la rendre plus digne de lui et d'eux, mais la même raison qui m'engage à la tirer de mon portefeuille, m'ôte le courage et les moyens de la perfectionner. Telle qu'elle est, elle renferme, je crois, des idées utiles, c'est assez pour écarter les conseils de mon amour-propre, qui peut-ètre la condamneraient a l'oubli; et si nos jeunes élèves, auxquels elle est particulièrement destinée, retirent quelque fruit de cette lecture, l'avantage de les avoir aidés dans leurs travaux sera pour mon coeur bien au-dessus de tous les succes les plus glorieux." Io non dico che qui dentro ci sia il Manzoni; ma mi pare di ritrovarci, fino ad un certo segno, il suo modo di dire, e però non ho creduto di doverlo tacere. Nel Cabanis, oltre al medico filosofo, vi era l'apostolo, un bisogno continuo di comunicarsi vivamente ed utilmente agli altri; questo bisogno il Manzoni non l'ha sentito in pari grado, anzi, per dire il vero, egli mi pare averlo sentito pochissimo. Il Cabanis non si contentava che il medico fosse dotto; lo voleva principalmente buono; e tutti i suoi migliori scritti riescono ad una tale conclusione. Ma, se il Manzoni non provava la stessa impazienza nel manifestare i proprii sentimenti e nel farli attivi leggendo gli scritti e ascoltando i discorsi di colui che gli parve angelico, dovette provare più volte una viva simpatia, e, approvando in cuor suo i pensieri del sapiente di Auteuil, trarne qualche profitto per la regola della propria vita, ed in parte, anche, in quanto il Cabanis gli parve scrittore efficace, giovarsene per dare, ad un tempo, rilievo singolare e disinvoltura alla propria prosa. Il Manzoni entrò nella vita con un programma etico ben determinato. Così il Cabanis, quando, nel 1783, ottenne il dottorato, avea proferito innanzi a' suoi giudici un generoso giuramento in versi non molto eleganti, ma, in compenso, molto sinceri, onde rilevo questi brani:

   Je jure qu'à mon art obstinément livrée
     Ma vie aux passions n'offrirà nulle entrée;
     Qu'il remplira mes jours; que, pour l'approfondir,
     L'embrasser tout entier, peut-être l'agrandir,
     Mon âme à cet objet sans repos attachée,
     Poursuivant sans repos la vérité cachée,
     Formera, nourrira, par des efforts constants,
     Sa lente expérience et ses trésors savants.
     Je jure que jamais l'intérêt ni l'envie
     Par leurs lâches conseils ne souilleront ma vie;
     Que partout mes respects chercheront les talents;
     Que ma tendre pitié, que mes soins consolants
     Appartiendront surtout au malheur solitaire,
     Et du pauvre d'abord trouveront la chaumière;
     Que mes jours, dont mon coeur lui réserve l'emploi,
     Pour conserver les siens ne seront rien pour moi
     ………………………………..
     ………………………………..
     Libre de vains égards ou d'un orgueil coupable,
     Je jure que ma voix, de détours incapable,
     Montrera sans faiblesse, ainsi qu'avec candeur,
     Et l'erreur étrangère et surtout mon erreur.
     Je jure encor, fidèle à mon saint ministère,
     Je jure, au nom des moeurs, que mon respect austère
     Ne laissera jamais mes désirs ni mon coeur
     S'égarer hors des lois que chérit la pudeur.
     ………………………………..
     ………………………………..
     Ah! si mon coeur jamais, dans de honteux moments,
     Abjurait sans puàeur ses vertueux serments,
     Attache à tous mes pas les remords et le blâme,
     Dieu vengeur qui m'entends! qu'en me fermant son âme,
     La sévère amitié me laisse en un désert!
     Dans ce coeur maintenant aux goûts simples ouvert
     Flétris les vrais désirs, étouffe la nature,
     Frappe-le des terreurs que nourrit l'imposture;
     Et que plein de l'effroi d'un obscur avenir,
     Je meure sans laisser aucun doux souvenir!
     Mais, si de la vertu dont l'image m'enflamme
     La sévère beauté toujours parle à mon âme;
     Si, malgré tant de maux dont les assauts constants
     Ont flétri mes beaux jours et glacé mon printemps,
     À mes devoirs livré, moi-même je m'oublie,
     Pour ne songer qu'aux maux qu'un autre me confie;
     Si toujours mes serments sont présents a mon coeur,
     Dieu juste, sur mes jours répands quelque douceur;
     Veille sur les amis qui consolent ma vie;
     Nourris les sentiments dont tu l'as embellie!
     Chéri du malheureux, du puissant révéré,
     Que mon nom soit béni plutôt que célébré!

Il Cabanis, come più tardi il Manzoni, tenne fede al suo programma giovanile. E, se fu caso che due uomini come il Cabanis ed il Manzoni, l'uno al tramonto, l'altro al principio della vita, s'incontrassero e si amassero, quel caso almeno non si potè dir cieco, poichè, se il temperamento dei due scrittori era diverso, non potevano incontrarsi due uomini che si somigliassero di più nel desiderio del bene. Il ritratto del Cabanis che accompagna il primo volume della edizione delle sue opere fatta nell'anno 1823 a Parigi dal Didot, ci offre la figura d'uomo pensoso e malinconico, ma benevolo e dall'espressione soave. La gioventù del Cabanis era stata molto agitata; giovinetto, egli aveva seguito, in qualità di segretario, un signore polacco a Varsavia; tornato a diciott'anni a Parigi, vi aveva atteso per alcuni anni a lavori letterarii, tra gli altri, a una versione dell'Iliade; ma non trovandosi abbastanza incoraggiato, elesse infine di studiar la medicina; laureato dopo sei anni di studio, si stabilì ad Auteuil, dove ebbe la ventura di conoscere la vedova del celebre Helvetius, che lo trattò come proprio figlio e gli fece conoscere gli uomini illustri che ne frequentavano la casa, tra i quali quel Beniamino Franklin, di cui il Cabanis ci ha poi raccontata così bene e con tanta efficacia morale la vita. Per mezzo dell'Holbach, divenne amico del Diderot, del D'Alembert e del Voltaire. All'arrivo della rivoluzione, il Cabanis ne approvò i principii e ne deplorò gli eccessi. Amico intimo del Mirabeau, ne descrisse la malattia e la morte. Assistette fino all'ultima ora il Condorcet, ne raccolse gli scritti, ne consolò la vedova; poco dopo, si congiunse in matrimonio con una cognata di lei, sorella del generale Grouchy. Nominato quindi professore, membro dell'Istituto, membro del Senato, la sua fama d'allora in poi andò sempre crescendo e la sua vita potè dirsi relativamente felice. Tutti gli scrittori francesi contemporanei s'accordarono nel chiamare il Cabanis non solo un gran medico, professore e filosofo, ma un homme de bien. Questa lode ch'egli ambiva sopra ogni altra, gli meritò pure la gloria di essere amato ed ammirato dal nostro Manzoni; ora, poichè nessuna delle ammirazioni del Manzoni rimase sterile per la sua vita, noi non possiamo tacere che, se il Manzoni tornò in Italia migliore che non ne fosse partito, una parte del merito vuole pure riferirsi all'angelico Cabanis. Quando il Cabanis morì, nel 1808, il suo posto nell'Accademia francese fu occupato da un altro filosofo, un amico, una conoscenza intima anch'esso del Fauriel e del Manzoni, l'ideologo Destutt de Tracy, l'autore dei celebri Élements d'idéologie, nato nel 1751, morto nel 1836.[1] Sebbene, per l'età, il Tracy potesse essere padre al Fauriel, sappiamo tuttavia che egli avea tanta fiducia nel criterio di lui, che gli dava ad esaminare e giudicare i proprii scritti prima di pubblicarli. Scrivendo poi al Fauriel, il Tracy gli diceva, citando un bell'adagio orientale, che l'albero dell'amicizia "est le seul qui porte des fruits toujours doux." Ma il grande amico, l'anima gemella, nella gioventù del Manzoni, fu Claudio Fauriel. La signora di Staël, scrivendo al Fauriel, fra le altre cose gli diceva: "Ce n'est pas assurément que votre esprit aussi ne me plaise, mais il me semble qu'il tire son originalité de vos sentiments." Queste parole ci possono dare la ragione della profonda simpatia, della viva amicizia che il Manzoni sentì pel Fauriel. La forza, la grandezza originale del Manzoni consiste pure nella sua capacità di sentire vivacemente e di tradurre sinceramente il proprio sentimento. Ammiratore del Parini e di Carlo Imbonati, due stoici, il giovine Manzoni arrivava a Parigi e vi incontrava lo stoico Fauriel, nel 1805, cioè nell'anno in cui questi preparava una storia dello Stoicismo ed attirava alle dottrine stoichei suoi migliori amici. Ma lo stoicismo del Fauriel non si scompagnava da un sentimento filantropico, più moderno che lo raddolciva. Amico del vero, e persuaso che il vero si può conciliar sempre col buono, per amor del vero egli amava pure nell'arte la naturalezza. Il Manzoni trovò dunque nel Fauriel più tosto un consenso che un ammaestramento; i due amici confermarono a vicenda, ne' loro lunghi e geniali discorsi, e determinarono meglio a sè stessi la loro poetica letteraria che riusciva al tempo stesso una poetica della vita. Anche al Manzoni si sarebbero forse potute rivolgere le parole che la Stael indirizzava al Fauriel: "Vous aimez les sentiments exaltés, et, quoique vous n'ayez pas, du moins je le crois, un caractère passionné, comme votre âme est pure, elle jouit de tout ce qui est noble avec délices." Ingegni critici entrambi, ossia correttivi, erano impediti essi stessi da una clamorosa e tumultuosa dimostrazione de' loro sentimenti; poeti entrambi, non potevano tuttavia guardare con freddezza alcun oggetto della loro critica; moderavano dunque la passione e scaldavano la riflessione con una specie di compenso euritmico che le metteva quasi sempre fra loro in perfetta armonia. Il Fauriel sarebbe stato amato con ardore dalla Stael, se egli lo avesse voluto; ma preferì una soddisfazione più viva, quella di essere ammirato da lei, che, deposta oramai ogni speranza di una corrispondenza amorosa, poteva quindi scrivergli: "Je croirai moins de mal de la nature humaine quand votre âme noble et pure me fera sentir au moins tout le charme et tout le mérite des ètres privilégiés." Si comprende il fascino che un tal uomo dovette esercitare sopra il giovane Manzoni al suo arrivo in Parigi, e si capisce ancora come il Fauriel dovesse fortificarsi ne' suoi virtuosi convincimenti, trovando adesione ad essi nell'animo di un Manzoni. Vuolsi egli da ciò argomentare che il Fauriel fosse, nella sua qualità di stoico, insensibile all'amore, e fargli quasi un merito di una tale insensibilità? Non è questo il mio pensiero. Pare, invece, che l'animo del Fauriel fosse preso, più ancora che dalle grazie, dalle virtù della vedova del Condorcet. Essa era nata sei anni prima di lui, ma, se egli amò alcuna donna, fu quella; ed amando fortemente quella, non ne poteva onestamente amare un'altra; perciò Beniamino Constant, scrivendo al Fauriel, dopo avere chiamata la Stael "la meilleure et la plus spirituelle des femmes," si scusa, soggiungendo queste altre parole significanti: "Je m'aperçois que le superlatif est malhonnête, et je le rétracte pour l'habitante de la Maisonnette." Il Fauriel era nato per sentire fortemente l'amicizia, degno quindi d'incontrarsi col Manzoni che si mostrò anch'esso affettuoso e costante nelle sue amicizie. E si può ancora riferire al Manzoni quello che il Sainte-Beuve scrisse del Fauriel: "En lui les extrémités, les terminaisons de l'âge précédent se confondent, se combinent à petit bruit avec les origines de l'autre; il y a de ces intermédiaires cachés qui font qu'ainsi deux époques, en divorce et en rupture à la surface, se tiennent comme par les entrailles." Come il Fauriel comunicò al Cabanis, ad un ideologo, ad un filosofo, che era pure non grande, ma neppure infimo poeta, il proprio amore delle indagini storiche, così ne innamorò un altro poeta più grande e più originale, il nostro Manzoni. Il dramma storico, il romanzo storico, il discorso storico, la Storia della Colonna infame, riconoscono per loro padre legittimo, effettivo, il Manzoni; ma se il Manzoni ne fu il padre, il Fauriel ne vuol essere tenuto come l'amoroso padrino. Alla sua volta, il Manzoni, rapito da un nuovo profondo sentimento religioso, dovea forse contribuire ad animare di nuova poesia cristiana il sentimento stoico, quasi pagano, del Fauriel, e aggiungere a' pensieri virili dello storico una maggior soavità di espressione poetica. Il Fauriel poi ed il Manzoni erano di quegli uomini, in compagnia del quali, anche non volendo, si diventa migliore: il poeta danese Bággesen, per esempio, che era temuto da' suoi avversarii per i suoi frizzi e per le sue invettive, presso il sereno e virtuoso Fauriel diveniva o voleva almeno apparire un agnello: i frammenti delle sue lettere al Fauriel pubblicati dal Sainte-Beuve lo dimostrano. Lo stoico Fauriel, amico della vedova del Condorcet, ma, senza dubbio, amico nel più nobile senso della parola, dovea tenere il posto presso il Manzoni di quel Carlo Imbonati, lo stoico discepolo del Parini, ed amico della signora Giulia Beccaria. Quando la signora Condorcet morì nel 1822, il Fauriel venne a cercare conforto al suo vivo, irreparabile dolore, presso il suo Manzoni, a Brusuglio. Premesse queste poche parole intorno alle ragioni profonde della simpatia ed amicizia che legò insieme il Manzoni ed il Fauriel, mi giova ora, con la guida del Sainte-Beuve, seguire i discorsi che i due grandi scrittori tennero in Parigi sull'arte loro. Ma io discorderei tosto dall'illustre critico francese, il quale attribuiva al Fauriel il merito d'avere, dopo la lettura del noto Carme In morte dell'Imbonati, non pure consigliato al Manzoni di perfezionarsi nel verso sciolto, ma indicatigli "les modèles qu'il préférait." Per quanto il Fauriel fosse intelligente di poesia italiana, conviene ammettere che il Manzoni se ne intendesse un poco più: il Fauriel provavasi egli pure a scrivere sonetti italiani e li leggeva al Manzoni; ma, se que' sonetti avessero avuto un vero valore, è assai probabile che gli avrebbero sopravvissuto. Il Fauriel deve avere semplicemente ammirato i bei versi del Manzoni, e convenuto con lui che il miglior modello di verso sciolto italiano era quello del Parini, che molto probabilmente il Manzoni fece conoscere al Fauriel e non, di certo, viceversa. Il Sainte-Beuve scrive, del rimanente, egli stesso parlando del Manzoni: "Le divin Parini, comme il l'appelait quelquefois, fut son premier maître; mais, en avançant, son vers tendit de plus en plus à se dégager de toute imitation prochaine, à se retremper directement dans la vérité et la nature." Il che è vero soltanto, se si confronti lo sciolto della tragedia con quello del Carme per l'Imbonati, ma non potrebbe stare se si volesse riguardare come un progresso l'Urania ed altri componimenti lirici immediatamente successivi, rispetto a quel primo Carme mirabile per verità e naturalezza. Ma a questo punta non mi giova più citare; mi conviene invece riferire, per intiero, quanto il Sainte-Beuve ci lasciò scritta intorno ai discorsi principali che si tennero su argomenti letterarii fra il Manzoni ed il Fauriel, dall'anno 1806 all'anno 1808. "Quante volte (scrive il Sainte-Beuve), correndo l'estate del 1806 o alcuno degli anni dipoi, nel giardino della Maisonnette e fuori, per le colline di Saint-Avoie, sul pendio di quella vetta, onde si scorge sì bello il corso della Senna, e l'isoletta coperta di salici e di cipressi, da cui l'occhio si allarga contento su quella fresca e tranquilla vallata, quante volte i due amici andavano ragionando tra loro sul fine supremo d'ogni poesia, sulle false immagini di che conveniva spogliarla, sull'arte bella e semplice che bisognava richiamare alla vita! Certo, il Cartesio non fu tanto insistente nel raccomandare al filosofo di deporre le idee della scuola e i pregiudizii dell'educazione, quanto il Fauriel nel raccomandare al poeta di liberarsi intieramente da quelle false immagini che sogliono ricevere nome di poetiche. Bisogna che la poesia sia cavata dall'intimo del cuore, bisogna sentire e saper esprimere i proprii sentimenti con sincerità. Quest'era il primo articolo della riforma poetica meditata dal Fauriel e dal Manzoni. Non è però che di mezzo alle speranze questi non sentisse un'amarezza nel cuore. Ben intendendo che la poesia non può corrispondere nè alle sue origini nè al suo fine, se non opera sulla vita del popolo e della società, scorgeva facilmente, che, per mille titoli, l'Italia non poteva arrivare a tanto. La divisione degli Stati, il difetto d'un centro comune, l'ozio, l'ignoranza, le pretensioni locali avevano arrecato differenze troppo profonde tra la lingua scritta e le parlate. Quella divenne addirittura una lingua morta. Non potè quindi prendere ed esercitare sulle varie popolazioni un'azione diretta, immediata, universale. E così, per una contradizione veramente singolare, la prima condizione in Italia d'una lingua poetica, pura e semplice, era di fondarsi sull'artificio. Il Manzoni sentì assai presto la gravità di questo inconveniente. Egli non poteva contemplare senza un certo piacere, misto d'invidia, il pubblico di Parigi tutto plaudente alla commedia del Molière. Quel vedere un popolo intero che gustava e intendeva in tutte le loro parti i capolavori del genio, come cosa sua, quasi ponendosi in comunicazione con esso, gli pareva un sintomo di quella vita attiva che temeva fosse divietata a una nazione divisa In tanti dialetti. Egli ch'era destinato a riunire un giorno i più eletti ingegni del suo paese in un concorde sentimento d'ammirazione, egli allora non credeva possibile siffatta unanimità, o almeno dolevasi che non potesse partire dal maggior numero. Il Fauriel lo incoraggiava con autorità, e ponevagli sott'occhio molti illustri esempi, anche di scrittori italiani, ricordandogli che tutti, più o meno, ebbero a lottare con difficoltà della stessa specie." Il soggiorno in Francia non valse di certo al Manzoni per fargli imparar meglio quella lingua italiana, allo studio della quale egli si appassionò poi tanto dopo il suo ritorno in Italia. Ma gli diede, quanto allo stile, quella naturalezza, quell'agevolezza e disinvoltura che le nostre scuole e le nostre Accademie non ci hanno mai insegnate, avendo anzi mirato molto spesso a nascondere con la frase elegante i pensieri, o il vuoto de' pensieri, più tosto che ad esprimerli. Il Manzoni ammirava grandemente e sovra tutti i prosatori il Voltaire, le opere del quale egli citava spesso, avendole fino al suo trentesimo anno 1820 avute sempre fra le mani! Se ne privò poi, per farne dono al proprio confessore monsignor Tosi, canonico del Duomo, poi vescovo di Pavia, e togliersi così la tentazione di ascoltare il Voltaire altrimenti che come scrittore, e di sorbire con l'ambrosia delle belle parole il veleno di pensieri che quella fede cattolica, della quale egli aveva assunta la difesa, gli comandava di riprovare.[2]

[1] L'Elogio del Cabanis recitato dal Tracy fu tradotto in italiano da Defendente Sacchi sopra il manoscritto dell'Autore e pubblicato nel 1834 a Piacenza.

[2] Il fatto ci è affermato dal professor Magenta, il quale aggiunge che il Voltaire appartenuto al Manzoni "era un magnifico esemplare parigino del 1785, di circa 100 volumi in-8°, legati in marocchino col labbro dorato. L'egregio Carlo Tosi ne tiene quattro soltanto, che degli altri alla morte del Vescovo non si trova che i cartoni."

XII.

L'Urania. —L'Idillio manzoniano.

Fu scritto molto e forse troppo sopra gli amori molteplici e non tutti egualmente ammirabili e confessabili di Volfango Goethe. Il capitolo che tratta degli amori del Manzoni sarà assai più breve e più discreto, ma, come parmi, non privo d'importanza per chi s'occupi di psicologia letteraria. Io non piglio molto sul serio e però non dovrei curar qui il breve disgraziato amoretto di Venezia, del quale ho già fatto un breve cenno, perchè non sembra aver lasciata alcuna traccia profonda nell'arte manzoniana. Ma non posso, tuttavia, passare sotto silenzio che Niccolò Tommaseo aveva veduto un Sonetto giovanile del Manzoni, ov'era un verso molto espressivo. Il nostro Poeta, fin da giovinetto, aveva fermata la sua mente ad un alto ideale, e rivolgendosi alla sua Musa inspiratrice le prometteva di serbar fede al virtuoso ideale, arrecandone in pegno una ragione stupenda per la sua naturalezza:

Perch'io non posso tralasciar d'amarti!

Questo bel verso ci assicura già che per Alessandro Manzoni l'amore non sarà una debolezza, ma una sola grande virtù, e che dalla donna egli avrebbe ricevuto soltanto inspirazioni gentili e benefiche. Dopo avere pubblicato il Carme In morte dell'Imbonati, e ricevute per esso magnifiche lodi in Italia ed in Francia,[1] il Manzoni che, in una variante del suo Sonetto Ritratto giovanile, aveva scritto questo verso singolarissimo:

Di riposo e di gloria insiem desìo,

contento di quel primo saggio della propria gloria, si riposò, e trovò in quel riposo una specie di voluttà, della quale, mi si perdoni la confusione di parole che sembrano farsi guerra, pensando prima da stoico, poi da cristiano, godette molte volte, nella sua vita, con una squisita compiacenza, non vorrei dire da epicureo. Di questa sua beata pigrizia poetica egli fu più volte piacevolmente rimproverato e canzonato da' suoi amici, uno de' quali, il poeta Giovanni Torti, lo raffigurava, anzi, sotto il nome di

                           Cleon nostro
     Di beato far nulla inclito speglio.[2]

Dicono che il Manzoni vecchio si compiacesse molto di quella canzonatura dell'amico, e non mi parrebbe niente improbabile, che quelle famose parole de' Promessi Sposi, le quali si pigliano generalmente come un complimento puro e semplice al poeta Giovanni Torti, fossero pure un'amabile vendetta intima di Cleone. L'Innominato una volta avea intorno a sè molti bravi, e tra questi, come si capisce, pochi galantuomini; dopo la conversione del padrone si dispersero, e rimasero soltanto presso l'Innominato alcuni fidati amici, pochi e valenti come i versi del Torti, il quale probabilmente ne aveva pure anch'esso dispersi e distrutti molti cattivi, prima di far grazia ai pochi che gli parevano riusciti secondo il suo cuore.[3] Ad ogni modo, per molti mesi dopo la pubblicazione del Carme In morte dell'Imbonati, il Manzoni non iscrisse più versi; nè gli valse "il dolce sprone" materno a toglierlo da quella specie di letargia. Quale fu dunque l'occasione, o, per dirla con Massimo d'Azeglio, la tentazione tentante che mosse il giovine Poeta, nell'anno seguente, a comporre il nuovo poemetto Urania? A me pare di non ingannarmi dicendo semplicemente che il Manzoni, in quell'anno, s'era innamorato della fanciulla, che divenne poi sua moglie, Enrichetta Blondel, e che l'Urania fu scritta specialmente per piacerle. Il Poeta incomincia ad invocare le Grazie per cantare un nuovo inno, il quale sia ascoltato, non solo all'ombra de' pioppi lombardi, ma anco presso i sacri colli dell'Arno, ai quali il Carme foscoliano De' Sepolcri, uscito nella primavera di quell'anno, dovea più fortemente tentarlo. Anch'egli desidera venire ascritto, non alla turba, ma "al drappel sacro" de' poeti d'Italia "antico ospizio delle Muse." La recrudescenza nel desiderio della gloria presso i poeti risponde quasi sempre ad una recrudescenza d'amore; le donne amanti di poeti furono quasi sempre o autrici o principali collaboratrici della loro gloria; anche il Manzoni, il meno erotico forse di tutti i nostri grandi poeti, sentì crescere l'ardore poetico all'improvviso sollevarsi nel suo petto di una fiamma gentile. Ma, dopo ch'egli s'era scostato dagl'imitatori per accostarsi, com'egli canta, "ai prischi sommi," la poca gloria poetica non bastava più alla sua giovanile ambizione, aut Caesar, aut nihil; anche il nostro pensava dunque fra sè, dopo avere conosciuto il Pindaro Lebrun, o Pindaro, o Dante, o Manzoni; e, dopo avere lodato il primo, si velava sotto la figura del secondo; per avere il diritto di ascoltare il glorioso discorso delle Muse. Dante vien celebrato per aver primo dato le bende ed il manto alla poesia italiana, per averla, primo, condotta a fonti illibate, per averla, maestro dell'ira nell'Inferno e del sorriso nel Purgatorio e nel Paradiso, creata degna di emular la madre latina:

          …. e nelle stanze sacre
     Tu le insegnasti ad emular la madre,
     Tu dolce maestro e del sorriso,
     Divo Alighier, le fosti. In lunga notte
     Giaceva il mondo, e tu splendevi solo,
     Tu nostra.

Quanta maestà e virgiliana soavità di affetto In quel nostro!—A questo punto, nondimeno, il Poeta che non ha per anco rinunciato a tutte le reminiscenze della scuola, si ricorda troppo d'avervi studiata la Mitologia greca; onde quello stesso Manzoni che, pochi anni dopo, scriverà l'Ode satirica intitolata: L'ira d'Apollo, nella quale, in pena d'aver posto da banda le vecchie ciarpe mitologiche, il poeta riformato si farà giocosamente condannare da Apollo a non più bere l'onda Castalia, a non cingersi più la fronte d'alloro, a non più salire sul Pegaso, a non più volare, a cantar sempre in umile stile quello ch'egli sentirà e nulla più:

     Rada il basso terren del vostro mondo,
     Non spiri aura di Pindo in sua parola;
     Tutto ei deggia da l'intimo
     Suo petto trarre e dal pensier profondo;

quello stesso poeta, per rappresentare gli antichi beneficii che le nove Muse recarono un giorno ai mortali, immagina che, discesa dal cielo, la stessa dea Urania gli abbia un giorno cantati al poeta Pindaro. Non sono da sperare stupendi effetti poetici da una tale intonazione mitologica, e però tutto l'Inno, nel tutt'insieme, riesce manierato e freddo. Pure qua e là la natura potente vince l'arte delle scuole, e ne vien fuori qualche verso di calore, di colore e di sapore tutto manzoniano, ove l'effetto è proprio cavato, come in molte delle immagini dantesche, dalla potenza di meditar sopra lo impressioni: questi, per esempio:

     Fra il romor del plauso,
     Chinò la bella gota, ove salìa
     Del gaudio mista e del pudor la fiamma.

Sono versi pittoreschi; ma il Manzoni ricordava senza dubbio, nel comporli una impressione propria, essendo ben noto agli amici del Poeta, com'egli soleva, innanzi a lodi che gli facevano piacere, arrossire come fanciullo. In questi altri versi, il primo è da notare per l'equivoco della parola amanti, la quale si può riferire alla Gloria, come a tutte le donne amate in genere; ed è vero pur troppo, che di mille innamorati, i quali sognano la gloria, uno solo riesce, con pena, a conseguirla; parecchi de' versi che seguono, sentono come un soave afflato virgiliano:

     V'è la Gloria, sospir di mille amanti:
     Vede la schiva i mille, e ad un sorride.
     Ivi il trasse la Diva. All'appressarsi,
     Dell'aura sacra all'aspirar, di lieto
     Orror compreso in ogni vena il sangue
     Sentìa l'eletto, ed una fiamma lieve
     Lambir la fronte ed occupar l'ingegno.
     Poi che nell'alto della selva il pose
     Non conscio passo, abbandonò l'altezza
     Del solitario trono, e nel segreto
     Asilo Urania il prode alunno aggiunse.
     Come talvolta ad uom rassembra in sogno
     Su lunga scala, o per dirupo, lieve
     Scorrer col piè non alternato all'imo,
     Nè mai grado calcar, nè offender sasso;
     Tal su gli aerei gioghi sorvolando,
     Discendea la Celeste.

L'immagine seguente ci ricorda un'analoga similitudine dantesca; quella che vien dopo ha pure per noi qualche importanza biografica, perchè, sotto la impressione provata dal poeta Pindaro, reso improvvisamente dubitoso delle sue forze, dopo aver fatto concepire di sè solenni speranze, sono da riconoscersi i sentimenti particolari che dovea provare il Manzoni divenuto quasi inerte, dopo le lodi forse più ambite che sperate, onde fu coronato il Carme per l'Imbonati; ed anco questi versi, ove l'Autore trae l'espressione dal proprio modo di sentire, riescono pieni di poetica efficacia:

     Come la madre al fantolin caduto,
     Mentre lieto al suo piè movea tumulto,
     Che guata impaurito e già sul ciglio
     Turgida appar la lagrimetta, ed ella
     Nel suo trepido cor contiene il grido,
     E blandamente gli sorride in volto
     Per ch'ei non pianga; un tal divino riso
     Con questi detti a lui la Musa aperse:
     "A confortarti io vegno. Onde sì ratto
     L'anima tua è da viltade offesa?
     Non senza il nume delle Muse, o figlio,
     Di te tant'alto io promettea."—"Deh! come,
     Pindaro rispondea, cura dei vati
     Aver le Muse io crederò? Se culto
     Placabil mai degl'Immortali alcuno
     Rendesse all'uom, chi mai d'ostie e di lodi,
     Chi più di me, di pregi e di cor puro,
     Venerò le Camene?[4] Or, se del mio
     Dolor ti duoli, proseguir, deh! vogli
     L'egro mio spirto consolar col canto"
     Tacque il labbro, ma il volto ancor pregava,
     Qual d'uom che d'udir arda, e fra sè tema
     Di far, parlando, alla risposta indugio.
     Allor su l'erba s'adagiàro, il plettro
     Urania prese; e gli accordò quest'inno
     Che, in minor suono, il canto mio ripete.

Ma spogliando il Carme del suo apparato mitologico, noi troviamo in esso i sentimenti particolari del poeta e però un nuovo elemento biografico, del quale ci giova tener conto. Il poeta Pindaro, dopo aver dato prove del suo valore poetico ed onorate le Muse, riesce improvvisamente dubitoso delle proprie forze; onde la Musa discende a rimproverarlo insieme ed aggiungergli coraggio. Il Manzoni, quantunque vago di riposo, quando s'accingeva all'opera non s'arrestava facilmente innanzi alle cose difficili; anzi, metteva più forte impegno per riuscire; il modo con cui tormentò sè stesso negli Inni Sacri, lo sforzo giovanile per frenare i versi volubili e ribelli, il lungo, ostinato studio ch'egli, lombardo, pose nella parlata fiorentina, possono servire di commento a questi versi dell'Urania:

      …. Baldanza a quel voler non tolse
     Difficoltà, che all'impotente è freno,
     Stimolo al forte.

Le Muse e le Grazie discendono sulla terra e recano i loro benefici ai mortali, cioè la pace, la concordia, la pietà. I versi seguenti del Manzoni, non ancora cattolico, concordano perfettamente col fine dell'Inno sulla Pentecoste, e col precetto evangelico che la mano sinistra non deve sapere quello che fa la destra, e ci dimostrano insomma ch'è una poco pia menzogna il miracolo della conversione dall'ateismo, dal materialismo e dal cinismo del Manzoni, che non fu mai nè ateo, nè materialista, nè cinico. Ma su questo argomento avremo occasione di ritornare; intanto, spogliando della loro veste classico-mitologica i versi che seguono, compiacciamoci di veder già vivo sotto di essa un Manzoni cristiano. Scrivendo nel 1805 al Monti, il giovine Manzoni gli ricordava già che le lettere non sono buone a nulla, se non servono a ringentilire i costumi; nell'Urania, le Muse devono fare qualche cosa di più, insegnarci la pietà ed il perdono delle offese, e la carità benefica e modesta:

     Così dal sangue e dal ferino istinto
     Tolser quei pochi in prima; indi lo sguardo
     Di lor, che a terra ancor tenea il costume
     Che del passato l'avvenir fa servo.
     Levâr di nuova forza avvalorato.
     E quei gli occhi giraro, e vider tutta
     La compagnia degli stranier divini,
     Che alle Dive fea guerra. Ove furente
     Imperversar la Crudeltà solea
     Orribil mostro che ferisce e ride,
     Viver pietà che mollemente intorno
     Ai cor fremendo, dei veduti mali
     Dolor chiedea: Pietà, degl'infelici
     Sorriso, amabil Dea. Feroce e stolta
     Con alta fronte passeggiar l'Offesa
     Vider, gl'ingegni provocando, e mite
     Ovunque un Genio a quella Furia opporsi,
     Lo spontaneo Perdon che con la destra
     Cancella il torto e nella manca reca
     Il beneficio, e l'uno e l'altro obblia.

Per virtù delle Muse nasce nell'uomo l'amor della fatica industre, il sentimento dell'onore, della fedeltà, dell'umana ospitale fratellanza,

         …. che gl'ignoti astringe
     Di fraterna catena; e tutta in fine
     La schiera pia nell'opra affaticarsi
     Videro, e nuovo di pietà, d'amore
     Negli attoniti sorse animi un senso,
     Che infiammando occupolli.

I poeti si destano e cantano alla turba le vedute bellezze, la terra non più squallida, ride; al discendere dell'armonia nel cuore dei mortali, l'ira tace e sii sveglia un secreto ardente desiderio di carità e di pace, onde la vita si fa bella e riposata:

                                       L'ira
     V'ammorzava quel canto, e dolce, invece,
     Di carità, di pace vi destava
     Ignota brama.

Dopo aver'cantato, le Muse risalgono all'Olimpo e ne ricevono le lodi di Giove, ma per tornar sollecite presso Pindaro, a que' luoghi che un gentile ricordo rende cari,

        …. chè ameno
     Oltre ogni loco a rivedersi è quello
     Che un gentil fatto ti rimembri.

Le Muse spiegano a Pindaro che, se egli, a malgrado dell'amor delle
Muse, non potè ancora sciogliere canti immortali, ciò accade per la
vendetta d'un Nume, poich'egli, fino ad ora, negò il canto alle
Grazie; senza le quali nè pure gli Dei

                           …. son usi
     Mover mai danza o moderar convito.
     Da lor sol vien se cosa in fra i mortali
     E di gentile, e sol qua giù quel canto
     Vivrà che lingua dal pensier profondo
     Con la fortuna delle Grazie attinga.
     Queste implora coi voti, ed al perdono
     Facili or piega. E la rapita lode
     Più non ti dolga. A giovin quercia accanto
     Talor felce orgogliosa il suolo usurpa;
     E cresce in selva, e il gentil ramo eccede
     Col breve onor delle digiune frondi:
     Ed ecco il verno le dissipa; e intanto
     Tacitamente il solidario arbusto
     Gran parte abbranca di terreno, e mille
     Rami nutrendo nel felice tronco
     Al grato pellegrin l'ombra prepara.
     Signor così degl'inni eterni, un giorno,
     Solo in Olimpia regnerai
: compagna
     Questa lira al tuo canto, a te sovente
     Il tuo destino e l'amor mio rimembri.

Qui il Manzoni sembra certamente voler fare qualche allusione personale. È evidente ch'egli lascia rivolger la parola a Pindaro, perchè gli parrebbe cosa troppo vana ed orgogliosa obbligar le Muse a discendere dall'Olimpo per lui e augurargli di regnar solo in Olimpia. Se così è, noi dobbiamo riconoscere in questa giovine quercia olimpica, che un giorno regnerà sola, il Manzoni stesso, e domandargli chi possa nascondersi sotto la felce orgogliosa che ingombra intanto la via alla giovine quercia, ma che, in pena della sua temerità, vivrà un anno solo. Gl'indizii precisi od anco probabili ci mancano per arrischiarci a qualsiasi congettura. Osservo, invece, come una potente ragione segreta dovette determinare il Manzoni a compiere la sua prima formola poetica sentir e meditare, con un nuovo elemento che le mancava, la grazia. Il Manzoni vecchio diceva che l'arte deve aver per oggetto il vero, per fine l'utile, per mezzo l'interessante, ossia il bello. Il senso dei versi dell'Urania è il medesimo:

…. sol qua giù quel canto Vivrà che lingua dal pensier profondo Con la fortuna delle Grazie attinga.

Io dubito che l'amore abbia dettato que' versi, e che nell'anno 1807 il Poeta avesse già veduta la giovinetta che dovea l'anno seguente sposare. L'Urania, a malgrado della bellezza di alcune parti, riesce, tuttavia, un componimento freddo e stentato, a motivo specialmente della morta Mitologia evocata a velare più che a significare i sentimenti vivi e contemporanei del Poeta. Lo studio ch'e' fece per nascondersi, dopo essersi molto e forse troppo scoperto nel Carme per l'Imbonati, gli fece parer buoni quegli stessi mezzi mitologici, sopra i quali, pochi anni dopo, egli medesimo dovea gettar tanto ridicolo. Ed è a dolersi che l'amico Fauriel non abbia sconsigliato il Manzoni dal ritentar quella vana forma poetica. È da dolersi, ma non da stupire; poichè, in quel tempo medesimo, il Fauriel traduceva la Parteneide, poema alpestre del poeta danese Jens Bággesen,[5] ove non solamente si rimettono in iscena gli Dei ma si crea una nuova dea della Vertigine, dove la Jungfrau o la Vergine è allegoricamente rappresentata come una poetica persona viva. Nè pago il Fauriel di tradurre in francese il poema che il Bággesen avea composto in tedesco, invitava il Manzoni a tradurlo in italiano. Ma il Manzoni, che intanto avea già fatto, con la madre, nel 1806 il suo viaggio in Isvizzera e ammirato dappresso le montagne, che vi ritornò forse nel 1807, invece di tradurre, si provò a comporre un poema originale sopra le montagne, accompagnandone l'invio al Fauriel suo secondo duca alpestre, come il Bággesen era stato il primo, con una epistola in versi, della quale il Sainte-Beuve ci ha fatto conoscere un frammento "Alla Vergine ideale" del Danese egli opponeva nell'epistola e nel poema una Vergine che le somigliava, da lui conosciuta sui colli orobii, in una villa del Bergamasco: siamo, ove precisamente egli conobbe la sua Enrichetta Blondel. Il suo matrimonio con essa si celebrò in Milano il 6 febbraio dell'anno 1808 innanzi all'ufficiale civile. Enrichetta Blondel aveva sedici anni, era nata a Casirate, apparteneva ad una famiglia di origine ginevrina, di confessione evangelica riformata, onde nel giorno stesso in cui celebravasi il matrimonio civile, veniva in Milano da Bergamo il pastore protestante Giovanni Gaspare Degli Orelli a benedire quelle nozze evangelicamente; testimone dello sposo era non solo un cattolico, ma un prete, il sacerdote Francesco Zinammi (o Zinamini?). Dopo le nozze, gli sposi partirono per Parigi, ov'era rimasta la signora Beccaria. Il 31 agosto dell'anno 1808, il Manzoni scriveva da Parigi al suo amico Pagani: "Ho trovato una compagna che riunisce veramente tutti i pregi che possono rendere veramente felice un uomo e me particolarmente; mia madre è guarita affatto, e non regna fra di noi che un amore ed un volere." In Parigi nasce al Manzoni una figlia; vien battezzata secondo il rito cattolico e le s'impone il nome di Giulia, in onore della madrina ch'era la nonna, e di Claudina, in onore del padrino Claudio Fauriel.

  [1] Per la Francia bastavano in ogni modo quelle del Fauriel, per
    l'Italia quelle del Foscolo.

  [2] Il signor Romussi crede pure che il Torti nella Torre di Capua
    raffigurasse il Manzoni convertito in Fra Calisto da Firenze:

    ……rifuggissi alla Scrittura, o quando
         S'avvenne al loco, ove il Maestro disse
         Che stretto è in quel d'amare ogni comando,
         Fu come gli occhi della mente aprisse:
         Tutto qui sta (diss'ei) vivere amando,
         E amar fu sua scienza fin ch'ei visse;
         Di che pur reso in suo sermon potente
         Innamorava di ben far la gente.

[3] Anche il Monti, del resto, scrivendo nel 1818 a Giovanni Torti, gli avea detto: "Da chi avete voi imparata l'arte di far versi così corretti, così belli? _Fatene di più spessi _e crescete la gloria degl'Italiani, il più caldo lodatore della vostra Musa sarà sempre il vostro Monti."

[4] In quell'anno medesimo il Manzoni aveva composto una Canzone di tessitura classica, in onore delle Nove Muse. Ne ho veduto un frammento non molto felice. Ogni strofa dovea descrivere una Musa.

[5] L'incontro del Manzoni in Parigi con questo illustre poeta danese non fu, di certo, senza risultamenti. Il Bággesen era nato nel 1761 da una povera famiglia; ricevuto gratuitamente all'Università di Copenhagen, diede tosto parecchi saggi del suo valore nel poetare. In età di ventun anno avea pubblicata la prima raccolta de' suoi versi, alla quale, dopo sette anni, era serbato l'onore di una versione tedesca; a ventiquattro anni, usciva il suo dramma Uggiero il Danese, che cadde intieramente dopo la parodia che ne fece l'Heiberg intitolata: Uggiero il Tedesco. Allora il giovine poeta disgustato desiderò lasciare il proprio paese e visitare la Germania, la Svizzera e la Francia; il Duca di Augustemborgo, suo protettore, gliene fornì i mezzi. Il Bággesen viaggiò così fuori di patria per quattro anni, e s'addestrò in questo tempo specialmente nella lingua tedesca, la quale divenne per lui come una seconda lingua. Impromessosi a Berna con una nipote dell'Haller, rientrò per poco in patria, per ripartirne nell'anno 1793 e visitare nuovamente la Svizzera, Vienna e l'Italia. Lo ritroviamo nel 1796 a Copenhagen, aggregato a quel Corpo universitario; ma l'anno dipoi egli s'era già rimesso in viaggio, avea perduto la moglie a Kiel e sposava, in seconde nozze, a Parigi, come più tardi il Manzoni, la figlia di un pastore di Ginevra, con la quale, nell'anno 1798, ritornava in Danimarca. Chiamato a prender parte nella direzione di quel Teatro reale, vi rappresentava un proprio dramma, che fu molto applaudito. Ma, nel 1800, tornava a chiedere un congedo per recarsi a Parigi, dove, dopo avere pubblicato in Amburgo due volumi di poesie tedesche assai maltrattate dai giornali di quel tempo, e il suo poema della Parteneide, scritto pure in tedesco, nell'anno 1806 faceva ritorno a Copenhagen, dove intanto il Rahbez e l'Oehlenschlaeger, coi giovani ammiratori del Goethe e della scuola romantica di Weimar, avevano preso il posto del Bággesen nella simpatia del pubblico. Il nostro poeta ne sentì pena. Volle col suo Labirinto provare di esser anch'esso capace di trattare quel genere di poesia che piaceva ai romantici, ma intanto non si rattenne dallo scrivere una satira contro la moderna scuola, dal pubblicare epigrammi contro i capi romantici, e specialmente contro il Goethe che avea ammirato e certamente molto studiato, come lo prova lo stesso suo dramma Il perfetto Faust, e contro l'Oehlenschlaeger da lui prima molto onorato. Non potendo più esser riguardato come primo fra i poeti della Danimarca, il Bággesen lasciava nuovamente il suo paese nell'anno 1807, e soggiornava ora in Francia, ora in Germania, fino all'anno 1814, scrivendo ora satire ed epigrammi, ora inni d'amore pel suo paese, secondo il suo vario umore poetico. Natura mobile, egli subiva facilmente e mutava impressioni ed idee, in contradizione e lotta continua fra lo spirito romantico ed il classico, fra la fede e lo scetticismo. Il nostro giovane Manzoni, per mezzo del Fauriel, conobbe il Bággesen in Parigi fra gli anni 1806 e 1808, e fu tra i suoi più caldi ammiratori. Il Fauriel non fu amico inutile dei letterati e filosofi, dei quali divenne famigliare; com'egli rivedeva, prima della stampa, gli scritti del Tracy, attirava il Cabanis alle ricerche storiche, come più tardi traduceva e raccomandava ai Francesi le tragedie del suo Manzoni, così, innamoratosi della Parteneide del Bággesen, imprese a tradurla e quasi a rifarla, facendola precedere da una introduzione, ove scriveva il Sainte-Beuve: "A la définition délicate qu'il donne de l'idylle, à la peinture complaisante et suave qu'il en retrace, je crois retrouverà travers l'écrivain didactique l'homme heureux et sensible, l'hôte de la Maisonnette et l'amant de la nature." Il Fauriel confessava poi che, primo il Bággesen, nella Parteneide, gli aveva dato: "le sentiment des Alpes," e per questo pregio gli perdonava molte stranezze; il Botta ed il Manzoni parteciparono a quell'ammirazione. Quando nel 1810 il Fauriel pubblicò finalmente la Parteneide in francese, il primo gli scriveva: "Vous avez rencontré des beautés pures et presque angéliques, vous avez été attiré vers elles, vous les avez saisies, vous en avez été pénétré et nous les avez rendues avec le ton et le style qui leur conviennent;" il secondo, come scrive il Sainte-Beuve, "réinstallé à Milan, adressait A Parteneide une pièce de vers allégoriques dans le genre de son Urania, et il semblait se promettre de faire en italien une traduction, ou quelque poème analogue sur ses montagnes. Voici" prosegue il Sainte-Beuve "un passage dans lequel il exprime l'impression vive qu'il ressentit lorsque la belle Vierge lui fut présentée par son second guide, par ce cher Fauriel, qui la lui amenait par la main. Manzoni nous pardonnera d'arracher à l'oubli ces quelques vers de sa jeunesse, ce premier jet non corrigé (non corretto, est-il dit en marge); il nous le pardonnera en faveur du témoignage qu'il y rend a son ami:"

         ……… Col tuo secondo duca
         Te vidi io prima, e de lo sacre danze
         O dimentica o schiva; e pur sì franco.
         Sì numeroso il portamento, e tanto
         Di rosea luce ti fioriva il volto,
         Che Diva io ti conobbi, e t'adorai.
         Ed ei sì lieto ti ridea, sì lieta
         D'amor primiero ti porgea la destra,
         Di sì fidata compagnia, che primo
         Giurato avrei che per trovarti ei l'erta
         Superasse de l'Alpe, ei le tempeste
         Affrontasse del Tuna, e tremebondo
         Da la mobil Vertigo e da l'ardente
         Confusïon battuto in sul petroso
         Orlo giacesse. Entro il mio cor fêan lite
         Quegli avversarii che van sempre insieme,
         Riverenza ed Amor; ma pur sì pio
         Aprivi il riso, e non so che di noto
         Mi splendea ne' tuoi guardi, che Amor vinse,
         E m'appressai sicuro. E quel cortese,
         Di cui cara l'immago ed onorata
         Sarammi, infin che la purpurea vita
         M'irrigherà le vene, a me rivolto,
         Con gentil piglio la tua man levando,
         Fêa d'offrirmela cenno. Ond'io più baldo
         La man ti stesi.

Mi piace ora aggiungere che Parteneide rispose al Manzoni, in lingua tedesca, per bocca dello stesso Bággesen in una poesia intitolata precisamente: Parthenais au Manzoni, la quale si legge nella quinta parte delle Poesie del Bággesen pubblicate dal figlio del poeta a Lipsia nell'anno 1836. Una nota dice: "Questa poesia si fonda sul fatto che dopo che il Fauriel ebbe tradotta la Parteneide in francese, il Bággesen ricevette dal Mansioni la promessa ch'egli l'avrebbe tradotta in italiano. La traduzione francese è in prosa; il Manzoni si proponeva di adoperare la terza rima. Non sappiamo per quali motivi il lavoro non sia poi stato seguito." Debbo questa notizia alla cortesia del signor Kr. Arentzen, autore di un pregiato lavoro biografico sopra il Bággesen pubblicatosi di recente in lingua danese. Il signor Arentzen ebbe pure la bontà di trascrivermi gli esametri tedeschi del Bággesen diretti al Manzoni. Anche in essi come nel poema della Parteneide, egli si cela sotto il nome di Nordfrank, il poeta viaggiatore. Parteneide parla e dice come, guidata dal Bággesen, ella visitò la regione del Nord, guidata dal Fauriel la regione dell'Occidente; l'amicizia del Fauriel, essa dice, mi è cara, come quella di Nordfrank. Si compiace in tale compagnia, quando sente un dolce richiamo verso il Mezzogiorno; le par di sognare, le par di viaggiare verso un mondo incantato, e stende la mano al nipote di Dante, del Tasso e del Petrarca, all'amico del Fauriel e del Bággesen, al simpatico Manzoni:

         Ach! und ich ahne dass mildere Duft and sanftere Tüne
         Wonniger noch mit der blühenden Gluth lebhafterer Farben
         Würden umwehn und vollenden den Schmück, wenn irgend ein Enkel
         Dantes', Tasso's oder Petratk's mit gönnte der Bildung
         Blümenkron, geflückt in des jungfraubeiligen Maro's
         Muttergefild. O reichte die Hand mir Fauriel's Freund und
         Nordfranks! Liebe zuletzt noch lernte, holder Manzoni!
         Hold sunt Erröthen Dir schon die freundschaftseliger Jungfrau
.

Questi due versi sembrano lasciar capire che al Bággesen fosse noto che nel tempo in cui il Manzoni tornato in Lombardia si preparava a tradurre la Parteneide (1807), per la prima volta conoscesse veramente l'amore, nel suo incontro con un'altra Vergine, la giovinetta Blondel, che divenne, poco dopo, sua moglie e che ciò possa essere, lo confermerebbe pure la seguente nota che troviamo nel caro libriccino dello Stoppani: I primi anni di Alessandro Manzoni, pag. 234: "I versi pubblicati di preferenza dal Sainte-Beuve, perchè gli tornavano bene ad illustrare il suo soggetto, sento ora con piacere che esistono fra le carte del Manzoni, preceduti da pochi altri che formano il principio del Carme, e seguiti da un numero maggiore che ne costituiscono come il corpo, sia questo o non sia del tutto compiuto." Chi mi dà questa notizia aggiunge che, dopo aver letti quei versi, glien'è rimasta l'impressione che il Manzoni abbia cominciato il suo Carme col richiamo della Vergine ideale della Parteneide, per dire in seguito, come infatti dice, che egli ha trovato in Italia, sul colli orobii, una Vergine a lei somigliante. Sarebbe poi sua opinione che questa seconda Vergine del Manzoni non fosse ideale, ma reale, molto probabilmente la stessa Enrichetta Blondel, che fu poi sua sposa, o che egli deve aver conosciuta la prima volta da vicino, o presso i di lei zii Mariton in una lor villa, nelle vicinanze di Bergamo. Ad ogni modo non sarebbe questo Carme, secondo lui, quel lavoro, a cui allude il Sainte-Beuve, che il Manzoni sembrava promettersi di fare in italiano, perchè un poemetto sul gusto di quello di Bággesen il Manzoni diceva di averlo fatto realmente_ in ottava_ rima, e alcune stanze le recitava, anche in questi ultimi anni, a chi l'accompagnava nella passeggiata. Sfortunatamente questo poemetto non si trovò fra i suoi scritti, e pare indubitato che egli l'abbia consegnato alle fiamme. La stessa Vergine ci descrive finalmente il Poeta in un'Ode giovanile, della quale citerò te strofe più espressive. Il Poeta, ancora irretito nelle immagini mitologiche, ci assicura che la sua fanciulla gli apparve la prima volta in forma somigliante a quella della dea Cinzia. Crediamogli sulla parola, e compiacciamoci ora nel veder partitamente descritte le qualità esteriori della sedicenne sposa sperata dal Manzoni, la quale dovea poi aver tanta parte, per quanto destramente dissimulata, nell'arte sua:

       Tal prima agli occhi miei,
         Non ancor dotti d'amorose lagrime,
         Appariva costei,
         Vincendo di splendor l'emule vergini
         Per mover d'occhi dolcemente grave
         E per voce soave.
       Dagl'innocenti sguardi,
         Che ancor lor possa e gli altrui danni ignorano,
         Escono accesi dardi;
         Non certi men, nè di più lieve incendio,
         Se dal fronte scendendo il crine avaro
         Lor fa lene riparo;
       Oh qual tutta di nuove
         Fatali grazie ride allor che l'invido
         Crin col dito rimove:
         E doppio appresta di beltà spettacolo
         Sul fronte schietto, trascorrendo lieve
         Con la destra di neve.
       Nè tacerò la bella
         Bocca gentil, fonte di riso ingenuo
         E di cara favella;
         E in cui prepara, ahi, per chi dunque! Venere
         I casti baci e le punture ardite
         E le dolci ferite.

Non giova al Poeta il suo proposito, fatto nel Carme per l'Imbonati, di voler seguire la dottrina di Zenone; l'Amore lo ferì; egli è invitato ad amare e a cantare d'amore, quando per l'appunto ben più alti soggetti e più fieri gli occupavano la mente; Amore non vuole, egli esclama:

    ……….ch'io canti rossa
         Di sangue Italia, onde ancor pochi godano;
         Nè di plebe commossa
         Le feroci vendette ed i terribili
         Brevi furori, e i rovesciati scanni
         Dei tremanti tiranni.

Il Poeta, come nell'Urania, cede alle grazie di Venere, e, per essa, lascia le cure della politica. Notiamo ora questa sua prima confessione poetica, perchè essa ci potrà aiutare, in appresso, a comprender meglio le sue tragedie ed il suo romanzo, e a scusare, in parte, il Manzoni della poca parte attiva ch'egli prese con la sua persona alle vicende politiche Italiane, alle quali diede pure co' suoi proprii scritti pieni d'efficacia educativa una spinta così gagliarda.

XIII.

La Conversione.

A questo punto si colloca dal biografi quella che si chiamò la meravigliosa conversione del Manzoni, e si raccontano storielle forse tutte veridiche, ma ove si dia loro una soverchia ed esclusiva importanza, poco credibili. Alcuni vogliono che un semplice "io ci credo" opposto risolutamente dal piemontese conte Somis di Chiavrie alle invettive lanciate contro la religione cattolica in una conversazione di Parigi, abbia persuaso il giovine miscredente, e indottolo a cercar consigli edificanti presso il medesimo conte Somis, presso l'abate Grègoire e presso il giansenista genovese Padre Degola, che allora si trovava a Parigi e col quale entrò quindi in corrispondenza letteraria; altri che, smarrita un giorno la giovine sposa in mezzo alla folla delle vie di Parigi, attiratovi da un canto religioso, sia entrato nella chiesa di San Rocco, e abbia mormorato in ginocchio questa semplice preghiera: "O Dio, se tu ci sei, fammiti palese." Egli ritrovò, dicesi, tosto la sposa, e divenne credente. Qualche piccolo fatto deve, senza dubbio, essere intervenuto per risolvere in un dato momento il Manzoni a fissare un po' meglio quelle idee vaghe ch'egli aveva intorno al Cattolicismo.[1] Ma egli era nato cattolico, la sua educazione di collegio era stata tutta cattolica; uscito di collegio, sappiamo ch'egli frequentava ancora le chiese; le scene orrende del cardinal Ruffo a Napoli, quelle di Binasco e di Pavia stavano presenti alla memoria del Manzoni; e però il Trionfo della Libertà esce in frequenti imprecazioni contro la Chiesa, ma a quel modo stesso con cui Dante cattolico imprecava contro la Lupa, e il canonico Petrarca contro l'avara Babilonia. Se il giovine Manzoni amava poco i preti ed i frati, se la lettura delle opere del Voltaire lo aveva anche maggiormente alienato da essi, se quando morì il suo giovine compagno di scuola Luigi Arese, ei si doleva che tenendosi lontani dal letto dell'infermo gli amici, gli si fosse accostata soltanto "l'orribile figura del prete" per accrescergli il terrore della morte, se, in somma, il Manzoni, pur credendo nella immortalità dell'anima, nell'esistenza di un Dio che premia "eternando ciò che a lui somiglia," nei doveri cristiani della pietà e della carità, e pure adempiendo alcuno de' riti religiosi prescritti dalla sua condizione di cattolico, fra i quindici ed i ventitrè anni non fu un cattolico profondamente convinto, devoto e zelante, in un pariniano, in uno stoico suo pari doveva riuscir molto agevole l'innestare un po' di devozione cattolica. Ma i preti furono solleciti a levarne soverchio romore e a trarne troppo grande profitto. Parlando, nel 1806, dei preti italiani che assediano il letto de' moribondi, in una lettera diretta all'amico Pagani, il ventenne Manzoni usciva in un fiero lamento, dichiarando ch'egli voleva rimaner lontano "da un paese, in cui non si può nè vivere nè morire come si vuole. Io preferisco, proseguiva egli, l'indifferenza naturale dei Francesi che vi lasciano andare pei fatti vostri, allo zelo crudele dei nostri che s'impadroniscono di voi, che vogliono prendersi cura della vostra anima, che vogliono cacciarvi in corpo la loro maniera di pensare." Due anni dopo aver levato questo vivo lamento, Alessandro Manzoni doveva egli stesso cadere in cura d'anima, ed il tristo frutto di questo stato di forzata docilità, alla quale egli si sottomise, fu una sterilità intellettuale che durò quasi dieci anni, 1808-1818, e, per l'appunto i dieci anni più belli della sua vita, ne' quali con molto stento, con molti pentimenti, il Manzoni riuscì a pena a mettere insieme quattro Inni sacri, due Parodie letterarie e due povere e stentate Canzoni politiche di genere classico. Si dirà: in quegli anni, egli si godette le sue prime gioie domestiche, ed attese a' suoi affari un po' imbrogliati ed alle cure agrarie, ed è vero; ma nè le une nè le altre hanno mai impedita la manifestazione del genio. Il Manzoni ebbe, pur troppo, in quegli anni un'idea fissa, che non era la sua, un'idea che gli aveano messa; e quando v'ha un'idea fissa, tutte le altre idee, per quante siano, e per quanto originali, non trovano l'opportunità e l'agevolezza di manifestarsi. L'idea fissa era ch'egli dovesse come scrittore diventare il poeta e l'apologista della religione cattolica, o non iscrivere più.

[1] "L'histoire de la conversion de Manzoni (scrive il compianto Loménie) est diversement racontée; suivant quelques-uns, la première pensée en serait venue au poëte dans le voyage à Paris dont je viens de parler. Au milieu d'une conversation où le Catholicisme n'était pas épargné, une personne se serait tout-à-coup écriée "Et moi, je crois!" Et ce cri d'un homme avouant sa foi au milieu des sarcasmes de l'incrédulité aurait été pour Manzoni le signal d'une révolution intellectuelle. Suivant d'autres, l'écrivain milanais, marié avec une protestante en haine de la croyance catholique, aurait été conduit par elle et avec elle au Catholicisme. Un écrivain (M. Didier) qui a publié, dans la Revue des Deux Mondes de 1831, un article sur Manzoni, et qui raconte ce dernier fait, ajoute: "On aimerait que de telles démarches fussent spontanées et procédassent moins de circonstances accidentelles que d'une volonté libre et solitaire." Le même écrivain semble reprocher a la détermination de Manzoni d'être l'effet "d'une influence de foyer beaucoup plus que le résultat logique et volontaire d'une argumentation personnelle et indépendante." Je crois ce reproche mal fondé, et le fait sur lequel il repose inexact. Je ne sais pas au juste toutes les circonstances qui ont précède et occasionné, de près ou de loin, la conversion de Manzoni, mais je sais que ce fait est bien le résultat logique et volontaire d'une argumentation personnelle et indépendante; car, durant la temps où Manzoni, revenu de Paris à Milan, flottait avec inquiétude entre le scepticisme et la foi, il écrivait à Paris, à un ami, des lettres où il peint l'état de son esprit, et où il s'annonce comme absorbé par l'examen d'une question à ses yeux la plus importante de toutes. Cette situation de doute et d'examen se prolonge fort longtemps; il est naturel de penser que cette résolution a été prise en connaissance de cause. Il n'est pas exact non plus que Manzoni ait épousé une protestante en haine de la croyance catholique. A son retour a Milan il se maria, très-jeune lui-même, avec une jeune personne de seize ans, mademoiselle Henriette Blondel, fille d'un Génevois établi à Milan, et qui était en effet protestante; mais il l'épousa, non parce qu'elle était protestante, mais parce quelle était fort intéressante, parce qu'il l'aimait beaucoup, et que sa mère désirait qu'il n'épousât pas une Milanaise. De plus, si mes renseignements sont exacts, loin d'avoir été conduit au Catholicisme par sa femme, ce serait lui au contraire qui aurait décidé l'abjuration de cette dernière." Vogliono, come dissi, che il Padre Degola giansenista, ed il Padre Grégoire abbiano avuto il primo merito come catechisti del neo-cattolico; venuto poi ad abitar nuovamente in Lombardia, il giansenista monsignor Tosi, divenuto confessore del giovino Poeta, compì, a poco a poco, il preteso miracolo, con tanto maggiore efficacia, in quanto egli conformava intèramente la propria vita ai precetti religiosi che insegnava.—Tra le opere che formavano parte della libreria del Manzoni a Brusuglio, vi era un magnifico Sant'Agostino in undici volumi, con qualche postilla autografa. Le Confessioni di Sant'Agostino dovettero offrire materia di lunga meditazione al neo-cattolico Manzoni. Il professor Magenta è persuaso che la vera conversione del Manzoni sia stata operata dal Tosi, e noi lo crediamo tanto più facilmente, in quanto riconoscendo che nel Tosi vi erano le doti d'un santo, e che dal lato morale egli dovette fare un gran bene al Manzoni, pel rigore del suo Giansenismo, per l'angustia de' suoi sillogismi religiosi minacciò pure di soffocarne l'alto ingegno creatore. Il professor Magenta, al quale avevo domandato qualche schiarimento sul contenuto di certe lettere confidenziali da lui omesse nella stampa dell'importante suo libro relativo al Tosi, egli, dichiarando di non potermene dare, si distende nuovamente nelle lodi di monsignor Tosi, ed io credo mio dovere riferir qui le sue proprie parole: "Non s'esagera dicendo che (il Tosi) dominava l'animo del grande scrittore. Non pare vero che nessuno del biografi del Manzoni abbia mai parlato del vescovo Tosi, vero tipo di sacerdote, al quale il Manzoni professava una venerazione che non aveva limiti. Lo Sclopis, il Ferrucci e lo Zoncada, per citare alcuni nomi, mi scrissero che, dopo il mio libriccino, l'origine del ritorno del Manzoni al Cattolicismo non è più dubbia per loro; nè so se a lei paia così. In quanto a me le dirò che la mia persuasione è profondissima, persuasione che cavai anche dai tenore di talune lettere della Blondel che io aveva già stampate, e che, per ragioni che debbo tacere, levai dai torchi. L'eccesso delle dottrine volteriane, gli avvenimenti politici, la nativa temperanza e la grande dirittura di mente del Manzoni, tutto cospirava ad apparecchiare un'atmosfera morale, in cui fosse a lui facile di ricevere l'influenza d'un uomo ch'era altrettanto pio, quanto largo d'idee. Ho ragione di credere che la Curia Romana avesse ingiunto al Tosi di stampare una ritrattazione dell'illustre Tamburini, quando questi si trovava sul letto di morte; ma il venerando Vescovo di Pavia, pigliando tempo, riuscì a sottrarsi all'odioso ufficio. Una vita così immacolata, così caritatevole, così forte, umile e liberale ad un tempo, doveva esercitare un fascino sullo spirito del Manzoni, spirito de' più larghi anche in fatto di religione che sieno mai stati al mondo." Noi conveniamo solamente in parte in questa ammirazione; noi crediamo che il Tosi ed il Manzoni, per natura, avessero ingegno ed animo largo; ma in quanto si proponevano di voler riuscire cattolici, esclusivamente cattolici, divenivano intolleranti. Quando giudicavano senza preconcetti cattolici, giudicavano bene, e liberalmente. Nella bella è lunga lettera che il Manzoni diresse da Parigi al Tosi sopra la questione religiosa, si trovano alcuni giudizii larghi che fanno onore a chi li proferiva e a chi gli ascoltava. La conclusione tuttavia è che noi in Italia dobbiamo essere contenti del nostro buon clero e della credulità del nostro volgo, ed una tale conclusione agghiaccia tutto il nostro entusiasmo: "Chi può dissimularsi gl'inconvenienti che esistono fra di noi? ma non v'è stato di guerra, perchè non ci son quasi protestanti; ma v'è una classe di buoni preti, i più dei quali potrebbero, è vero, senza danno, essere un po' più dotti, ma i quali per lo più hanno uno zelo sincero per la religione non mista di altre teorie, e una buona classe di fedeli che sono cristiani di cuore, e che non credono ad altri dogmi che ai rivelati."

XIV.

Il Manzoni a Brusuglio. Gl'Inni Sacri e la Morale cattolica.

Sopra la luna di miele manzoniana noi non abbiamo altre notizie, oltre quelle che il Sainte-Beuve e il Loménie avevano potuto raccogliere dai ricordi del Cousin e del Fauriel. Il Manzoni,[1] già convertito alla fede cattolica, tediato delle ciarle, alle quali quella conversione avea dato motivo, in compagnia della madre e della giovine sposa, ch'egli adorava, si ritrasse alla sua villa di Brusuglio, e parve nelle cure agresti dimenticare ogni tumulto della vita mondana. Il Loménie trova un'analogia fra il Manzoni ed il Ràcine,[2] rapportandosi per l'appunto ai primi anni del soggiorno di Alessandro Manzoni in Brusuglio, e la sua comparazione non è priva d'ogni fondamento; non ispiega tuttavia come il nostro Poeta, in mezzo agli splendori della natura ed alle contentezze domestiche trovasse così scarse occasioni d'ispirazione poetica. Mi duole dover ripetere che nello sforzo lungo e doloroso che il Manzoni dovette fare per credere, isterilì per alcuni anni il proprio ingegno, costretto a lavoro che dovette riuscirgli ingrato dall'autorità riverita del proprio confessore. Il Tosi volendo fare del Manzoni un poeta cattolico, gli aveva ordinato di comporre gl'Inni Sacri e le Osservazioni in difesa della Religione cattolica rivolte contro il Sismondi. Gli Inni Sacri doveano, nel primo intendimento, riuscir dodici come i dodici Apostoli o come i dodici mesi dell'anno;[3] ma il Manzoni stentò tanto a comporli, che in sette anni ne terminò a fatica cinque. L'Inno della Risurrezione fu incominciato nell'aprile del 1812, e compiuto soltanto i l 23 giugno; anzi l'ultima lima ricevette più tardi; il Manzoni vi notò di suo pugno, che era ancora da correggersi; nel vero, l'autografo e la stampa differiscono notevolmente. Il 6 novembre del 1812, il Manzoni si accinse a comporre l'inno, Il Nome di Maria; durò sei mesi in quel breve lavoro, e vi si affaticò grandemente; Io stento appare ora grandissimo anche nel leggerlo: fu terminato il 19 aprile 1813. Il Natale, pieno di cancellature, costò più di quattro mesi di lavoro: incominciato il 15 luglio 1813, ebbe compimento il 29 novembre dello stesso anno, ma con poca soddisfazione dell'Autore che vi appose questa nota: explicit infeliciter. L'Inno della Passione costò un anno e mezzo di lavoro; fu ripreso in quattro volte: la prima nel 3 marzo dell'anno 1814, la seconda nel di 11 luglio dello stesso anno, la terza nel 5 gennaio del 1815, la quarta nell'ottobre di quell'anno. La Pentecoste, ch'è il più bello, il più inspirato, il più caldo degli Inni Sacri, fu bensì incominciato nel giugno 1817, ma abbandonato nel suo primo disegno dal Manzoni che vi scrisse sopra rifiutato, e ripreso soltanto il 17 aprile del 1819 e terminato, fra molte soste e cancellature, il 2 ottobre di quell'anno. Esso appartiene dunque già al nuovo periodo più agitato e più operoso della vita poetica manzoniana. Queste note cronologiche sopra la composizione degl'Inni Sacri devono avere per la critica la loro importanza. La lentezza del comporre non accenna a una troppo grande vivezza del sentire, ma l'ostinazione che il Manzoni pose per finirli, anche a dispetto delle Muse, provano la sua ferma volontà di credere, e la sua persuasione che fosse necessario comunicare altrui la propria fede; ma questa maniera di fede, pur troppo, male si comunica. Vivo il Manzoni, osai fare sopra gl'Inni Sacri il seguente giudizio, ove nel rendere un omaggio riverente all'Autore intendevo lasciare aperto un adito alla critica dell'opera. "Gl'Inni Sacri, io diceva, hanno creato in Italia una nuova forma di poesia, il contenuto della quale che si giudicò, da prima, romantico, era semplicemente biblico, li Manzoni ha il gran merito d'avere liberato in Italia la poesia cristiana dalle forme convenzionali ereditate dal Paganesimo; forme convenzionali per noi moderni, che ci studiamo d'imitarle, mentrechè, invece, per gli antichi erano proprie, naturali, e frutto spontaneo e necessario di quella civiltà. Egli restituì ai poeti d'Italia la loro libertà, e col proprio esempio disse loro: essendo cristiani, inspiratevi da Cristo; essendo moderni, diffondete la parola di Cristo con la lingua vostra ch'è la lingua del cuore. Per questo rispetto gli Inni Sacri segnano nella storia della nostra poesia una vera rivoluzione letteraria, della quale saranno sentiti per sempre, ed invano si dissimulerebbero, i benefici effetti. Io non chiamo, senza dubbio, tali i numerosi inni nati dipoi in varie parti d'Italia ad imitazione di que' primi che avean fatto, se bene lentamente, fortuna; gl'imitatori avevano ne' loro esercizii dimenticato l'essenziale, cioè che per cantare la religione bisogna almeno portarla un poco, anzi molto nell'anima; essi lavoravano a soggetto come gli antichi istrioni, sul modello degl'Inni Sacri, ma per istemperare i primi colori, stancare le prime immagini, e dir poco in molto, come il Manzoni avea detto molto in poco. E questo carattere distintivo della poesia manzoniana parmi pure creare il suo difetto principale; poichè lo studio di restringere un gran senso in brevi parole fa sì che talora queste brevi parole siano adoperate ad esprimere più che naturalmente esse non potrebbero, e a diventare talora semplici formole astratte: il che se prova la potenza del poeta del concentrare le sue idee, impedisce per altro che la sua poesia riesca popolare, e le toglie molta parte di quell'impeto lirico e di quel calore che si comunica, tanto necessario ad ogni poesia, ma alla lirica religiosa in modo specialissimo. Il Manzoni giovine fece opera da vecchio, costringendo in linguaggio matematico le verità della religione che gli eran nuovamente apparse in modo luminoso, quasi egli volesse porsele innanzi, ed estrinsecarsele in una forma più precisa per potersi meglio persuadere della loro realtà e più durevolmente contemplarle ed adorarle. Ma ci sembra di non rischiar troppo, dicendo come il Manzoni vecchio, innamorato com'egli è e maestro nelle bellezza del linguaggio popolare, se dovesse oggi cantar la religione, sceglierebbe una via opposta a quella ch'ei tenne in gioventù, escludendo ogni parola equivoca che il popolo non potesse comprendere da sè ed ogni trasposizione men naturale di parole, per riuscire subito al desiderato effetto di dare al popolo un canto che non muoia appena recitato, che si diffonda senza bisogno d'interpreti, e che consoli veramente chi si muove a cantarlo." Ma, nell'ordine specialmente de' pensieri religiosi volendo sollevare l'espressione all'altezza del pensiero e chiudere quest'ultimo in una forma sacra ed immobile, che non gli permetta di deviare ad alcun senso profano, o l'espressione manca od assume un carattere mistico che non può riuscir popolare. L'età nostra non è punto mistica; il Manzoni dovea sentirlo più d'ogni altro. Per un verso egli voleva credere, e per rendersi degno della propria fede si adoprava ad esprimerla per infonderla in altri. Ma il lungo meditare sopra un sentimento religioso, più tosto che accrescerlo, lo diminuisce. In un'Ode sopra l'Innesto del vaiuolo, rimasta inedita, e forse incompiuta, dominato, senza dubbio, da un sentimento religioso, e riflettendovi lungamente sopra, per trovargli una espressione corrispondente, il Manzoni sentendo che egli usciva dal vero, e che fuori del vero fortemente amato non può più essere vera poesia, si scusava con due bellissimi versi, che sono pure una eccellente scappatoia:

come il più divin s'invola, Nè può il giogo patir della parola.

Quanto più il pensiero del poeta s'innalza, tanto più la materia fonica diviene inerte e incapace di farsene messaggiera; ma è vero ancora che, lanciando imprudentemente il pensiero in un campo, ove esso non può prender radice, invece di fecondarvisi, muore di sterilità. Il Manzoni parafrasando spiritosamente in prosa il pensiero dissimulato ne' due versi citati, accompagnava l'invio di un frammento d'Inno sacro inedito alla signora Louise Colet con questa scusa per non averlo finito: "Je me suis aperçu (diceva egli) que ce n'était plus la poésie qui venait me chercher, mais moi qui m'essoufflais a courir après elle." Ed i pochi versi erano questi, che celebravano la presenza, l'onnipotenza, l'onnisapienza di Dio nella natura:

   A lui che nell'erba del campo
     La spiga vitale nascose,
     Il fil di tue vesti compose,
     Di farmachi il succo temprò,
   Che il pino inflessibile agli austri,
     Che docile il salcio alla mano.
     Che il larice ai verni, e l'ontano
     Durevole all'acque creò;
   A quello domanda, o sdegnoso,
     Perchè sull'inospite piagge,
     Al tremito d'aure selvagge,
     Fa sorgere il tacito fior,
   Che spiega davanti a lui solo
     La pompa del pinto suo velo,
     Che spande ai deserti del cielo
     Gli olezzi del calice e muor.

Il Manzoni, per propria confessione, voleva dimostrare che non vi è nulla e nessuno inutile a questo mondo; che come Dio ha le sue ragioni per far crescere il fiore nel deserto, così anche i monaci, anche gli eremiti sebbene apparentemente inutili alla società, avranno qualche merito, per le loro solitarie e segrete virtù, innanzi al Creatore. Ma ancora qui il ragionamento vince ed ammazza il sentimento. Il Manzoni ha pensato molto più che sentito gl'Inni Sacri. Non gli uscirono dal cuore per impeto di una fede ardente, ma dalla testa, per disciplina della propria ragione piegata e costretta a quell'esercizio letterario dai consigli, dagli eccitamenti, anzi dai precetti di monsignor Luigi Tosi suo confessore. Egli obbedì, ma era evidente che l'obbedienza gli costava molta fatica. Si voleva fare dell'ode Pariniana un'ode Cattolica, e si toglieva alla lirica il principale dei suoi caratteri, la spontaneità. Nello sforzo per riuscir sublime, molte volte il Manzoni negl'Inni Sacri riuscì oscuro; una tale oscurità non si dissimulava egli medesimo, e, anzi che scusarsene a chi gli domandava schiarimento di qualche passo ambiguo, rispondeva su per giù come a Luigi Frati, il quale aveva assunta l'apologia degl'Inni Sacri contro il sacerdote Salvagnoli-Marchetti, autore di un opuscolo che li bistrattava: "Si contenti ch'io non dica nulla sul passo, dove Ella incontra difficoltà, e che, del rimanente, non porta il prezzo che Ella se ne occupi, appunto perchè v'incontra difficoltà; giacchè le parole hanno a dire da sè, a prima giunta, quel che voglion dire; e quelle che hanno bisogno d'interpretazione, non la meritano."[4] . L'Inno sacro del Manzoni è assai dotto, grave, solenne, elevato, quasi epico; è evidente che, dopa essersi immerso nella lettura della Sacra Scrittura per derivarne immagini, e tradurle in un linguaggio più moderno, il Manzoni fece quanto poteva per inalzarle. Ma in questo sforzo egli tolse un po' di naturalezza e di evidenza al sentimento; volle fare un commento poetico, anzi un compendio della leggenda biblica, e in questo lavoro tutto sintetico arrivò talvolta ad interpretarla in modo grandioso, ma non mai, o quasi che non mai, in modo popolare. L'Inno sacro manzoniano è buono per l'artista che vuol credere, ma non pel popolo che crede. Cristo col suo mondo storico appare, negl'Inni Sacri, come qualche cosa d'antico, di lontano da noi, che la sola immaginazione storica può ritrovare, non già presente, non già vivo, che nasce, che soffre, che risorge. Le immagini degl'Inni Sacri, quasi tutte bibliche, non sono più vive per la nostra moderna poesia, e non corrispondono quasi mai all'altezza de' pensieri e de' fatti che dovrebbero esprimere e far più evidenti. Tutti hanno a memoria le due prime strofe del Natale cioè l'immagine d'una valanga che ci ricorda il Manzoni alpinista, tornato di fresco da un viaggio nella Svizzera e dall'ammirazione della Parteneide del Bággesen; la valanga è stupendamente descritta:

   Qual masso, che dal vertice;
     Di lunga erta montana,
     Abbandonato all'impeto;
     Di romorosa frana,
     Per lo scheggiato calle,
     Precipitando a valle,
     Batte sul fondo e sta;
   Là dove cadde, immobile
     Giace in sua lenta mole,
     Nè per mutar di secoli
     Fia che riveggia il Sole
     Della sua cima antica,
     Se una virtude amica
     In alto nol trarrà;

a questo punto il lettore s'arresta, perchè ha bisogno di ripigliar fiato, come l'avrà di certo ripreso assai lungo il Manzoni scrivendo, e questo riposo che l'autore ed il lettore sono obbligati a prendere dopo due strofe, non è atto troppo ad agevolare l'intelligenza di quello che deve seguire. Lasciando poi stare che non è mai venuto in mente ad alcuno, e al Manzoni meno che ad altri, che alcuna virtù amica possa immaginarsi di far risalire in cima d'un monte quel macigno che n'è precipitato, nessuno si sentirà disposto a commuoversi al pensiero poco dopo espresso che l'uomo, per il peccato originale, sia caduto nella condizione medesima di quel macigno che non può da sè risorgere a quell'altezza, onde la giustizia o la vendetta di Dio lo precipitò. La comparazione dal maggior numero de' lettori che declamano l'Inno del Natale, non è, per fortuna, intesa; si guarda alla similitudine e non all'oggetto comparato; se fosse intesa, più tosto che commuovere, quasi offenderebbe. Ed il Manzoni non era di certo commosso, quando intonava il suo Inno. Proseguendo, il Poeta s'infiamma nel suo canto mistico e trova parole eloquenti per esprimere alcuni alti concetti; ma il Bambino Gesù si vede poco, quel Bambino che nei rozzi canti popolari di Natale, i quali si sentono in Italia, in Francia, in Ispagna, si ode veramente piangere, ha freddo, è povero, è accarezzato, è venerato. Io mi ricordo essermi intenerito, da fanciullo, cantando in coro con ingenua fede uno di que' rozzi idillii natalizii innanzi al Presepio; nessuno potrebbe innanzi al Presepio cantare ora tutto il Natale del Manzoni, perchè troppi versi vi sono, i quali avrebbero bisogno di commento per venire intesi, atti benissimo a significare alle persone colte (che pur troppo, in Italia almeno, non vanno più in chiesa a cantar inni) la grandezza del mistero che si vela nel nascimento di Cristo, ma non già a rappresentarlo in forma viva al popolo, al quale la poesia sacra è specialmente destinata. Il fine dell'Inno manzoniano sul Natale assume il tono del canto popolare; tuttavia qua e là occorrono ancora versi o immagini troppo sapienti. Il popolo capirà, per esempio, perfettamente il principio di questa strofa:

   Dormi, o Fanciul non piangere,
     Dormi, o Fanciul celeste;
     Sovra il tuo capo stridere
     Non osin le tempeste.

Il popolo capisce questa specie di tenerezza; ma essa non avrebbe mai aggiunto di suo i tre versi rettorici che seguono, i quali descrivono le tempeste:

     Use su l'empia terra,
     Come cavalli in guerra,
     Correr dinanzi a te;

oltre che al nostro popolo l'idea che la terra sia empia non può entrare. Il popolo intenderà i due primi versi della strofa che segue:

   Dormi, o Celeste, i popoli
     Chi nato sia non sanno;

e non più i seguenti:

     Ma il dì verrà che nobile
     Retaggio tuo saranno;
     Che in quell'umil riposo,
     Che nella polve ascoso
     Conosceranno il Re.

Per il popolo il Bambino nasce ogni anno. Il Manzoni si riporta col suo pensiero all'anno storico della nascita del Redentore, per profetare che un giorno il Bambino sarà adorato "in quell'umil riposo" come il Re. Ma il popolo che canta il Bambino che nasce, e però la poesia del Natale, non si cura di quello che ne penseranno i posteri; il Bambino è nato a posta per esso, esso lo canta, lo adora, come suo proprio Dio, che crescerà per lui, che per lui farà miracoli e si lascerà un giorno ammazzare. Il Manzoni volle, nel suo Inno, abbracciare il passato e l'avvenire, cantare ad un tempo come un antico cristiano, e come un cattolico del secolo XIX, quasi da Dio mandato a spiegare con la poesia i misteri del Cristianesimo. Egli compose parecchi bei versi, espresse alcuni alti e nobili concetti; come poeta, sostenne e forse accrebbe la propria fama, ma, sebbene gl'Inni Sacri si leggano, si spieghino e si raccomandino nelle scuole e nei seminarii d'Italia, nessuno è riuscito fin qui a farli imparare a memoria e cantare dal nostro popolo. Il Manzoni credette talora con immagini popolari render più chiari i suoi concetti morali; ma l'immagine, senza dubbio, chiarissima ed in Manzoni quasi sempre pittoresca, per la sua troppa luce abbaglia, e c'impedisce di veder bene quello che è destinata ad illuminare. Nella Passione ci si descrive, per esempio, l'altare della chiesa parato a bruno:

Qual di donna che piange il marito.

Ecco l'immagine di una realtà ben viva; ma bisogna andare a pensare che la Chiesa ha chiamato sè stessa la Sposa di Cristo, per intenderne il motivo; onde, per capire l'immagine bisogna presupporre nel popolo una nozione che gli manca. Nella Risurrezione, per dirci che Cristo non durò alcuna fatica a rovesciare il marmo del suo sepolcro, il Manzoni ricorre ad una similitudine, per la quale il Redentore ci appare in figura di uno di que' poderosi Giganti della leggenda popolare indoeuropea, che senza alcuna fatica operano prodigiosi tours de force; e la lenta cura che pone il Poeta nel rappresentarci la similitudine, diminuisce l'efficacia dell'atto taumaturgico attribuito al Cristo:

   Come, a mezzo del cammino,
     Riposato, alla foresta,
     Si risente il pellegrino
     E si scote dalla testa
     Una foglia inaridita,
     Che dal ramo dipartita
     Lenta lenta vi ristè;
   Tale il marmo inoperoso,
     Che premea l'arca scavata,
     Gittò via quel Vigoroso,
     Quando l'anima tornata
     Dalla squallida vallea
     Al Divino che tacea:
     Sorgi, disse, io son con te.

Ma quando il Manzoni, nell'Inno medesimo, lascia stare i dogmi od i miti, per tornare a predicar semplicemente quella carità cristiana ch'egli sentiva già fortemente anche prima di mettersi nelle mani del suo confessore, quella carità ch'è principio, fonte, alimento d'ogni religione, il suo linguaggio torna semplice, naturale, eloquente. Nella festa della Pasqua, ossia nella risurrezione primaverile, tutto il mondo si rallegra e sorride, ed i Cristiani si danno il bacio fraterno del perdono, e siedono democraticamente ad una mensa comune; ma perchè tutti mangino, il ricco non deve mangiar troppo; onde il Manzoni ci canta:

   Sia frugal del ricco il pasto;
     Ogni mensa abbia i suoi doni;
     E il tesor negato al fasto
     Di superbe imbandigioni
     Scorra amico all'umil tetto;
     Faccia il desco poveretto
     Più ridente oggi apparir.

Nel Nome di Maria notasi non pure lo stento dei pensieri, ma ancora un certo stento di parole, non di rado antiquate;[5] il Manzoni si ricordò forse troppo delle nostre antiche Laudi spirituali, e questo riuscì certamente l'Inno più cattolico del Manzoni. Ma il puro Cattolicismo non seppe mai inspirar nulla di grande; e se non si sapesse che il Manzoni non ischerzava mai con le cose sacre, si direbbe in alcune strofe ch'egli, anzi che scrivere un inno originale, volesse parodiare certi poeti classicheggianti. È strano infatti il trovare in una sola poesia manzoniana forme come queste: quando cade il die, invita ad onorarte, d'oblianza il copra, se ne parla e plora, d'ogni laudato esser la prima, in onor tanto avémo, vostri antiqui Vati, i verginal trofei, nosco invocate. Conviene invece a tutti i Cristiani, siano cattolici, sian protestanti, l'Inno manzoniano della Pentecoste, ossia l'inno dell'amore, l'inno della carità. Il Manzoni sta per uscir dalla tutela troppo opprimente della sua guida spirituale. Egli è arrivato finalmente a riposare non più nel genere, ma in una sua propria specie di fede; ma egli vuole poi esser libero di cantarla come la sente, non vuol più traccie, la traccia egli se la darà questa volta da sè; non teme oramai più il ridicolo, che da principio lo disturbava ed irritava, è arrivato alla calma, anzi a quella pace che il mondo irride, ma non può rapire, e chi ha la pace nell'anima è libero e padrone di sè. Perciò, nel suo Canto della Pentecoste, che appartiene già ad un nuovo ciclo della vita manzoniana, il Poeta ritrova nuovamente sè stesso, tutta la sua originalità, tutta la sua potenza; noi sentiamo risorgere il Manzoni dell'Imbonati, ma rinvigorito, ma più eloquente, ma più sereno e più grande; noi recitiamo commossi la sua magnifica invocazione lirica all'Amore cristiano, perchè si diffonda e si comunichi a tutte le vite, a tutte le età della vita:

   Noi t'imploriam; nei languidi
     Pensier dell'infelice
     Scendi, piacevol Alito,
     Aura consolatrice;
     Scendi bufera ai tumidi
     Pensier del vïolento;
     Vi spira uno sgomento,
     Che insegni la pietà.
   Per te sollevi il povero
     Al ciel ch'è suo, le ciglia;
     Volga i lamenti in giubilo,
     Pensando a Cui somiglia;
     Cui fu donato in copia,
     Doni con volto amico,
     Con quel tacer pudìco,
     Che accetto il don ti fa.
   Spira dei nostri bamboli
     Nell'innocente riso;
     Spargi la casta porpora
     Alle donzelle in viso;
     Manda alle ascose vergini
     Le pure gioie ascose;
     Consacra delle spose
     Il verecondo amor.
   Tempra dei baldi giovani
     Il confidente ingegno;
     Reggi il viril proposito
     Ad infallibil segno;
     Adorna la canizie
     Di liete voglie sante;
     Brilla nel guardo errante
     Di chi sperando muor.

Dopo queste strofe sacre il Manzoni non ne scrisse altre; egli sentì che non si poteva andare più in su, tutti i dogmi religiosi si riducono finalmente ad una sola parola: amate. Dopo aver cantato l'amore, dopo averlo probabilmente sentito nella sua maggior veemenza, e sotto le varie forme, con le quali nella vita si può amare, il Manzoni stava per espandere liberamente il suo genio giovanile già temprato, e per drizzare il suo proposito virile a segno infallibile. Ma il confessore gli stava ancora presso per ricordargli ch'egli avea dato di sè pubblico scandalo, e che come pubblico era statolo scandalo, pubblica dovea essere la riparazione.[6] Non bastava che ci fosse diventato cattolico, e che egli avesse composto inni intieramente ortodossi; doveva adoprare tutto il suo ingegno in difesa della religione cattolica. La Chiesa sapeva bene quanto quell'ingegno valesse, e se lo volle appropriare. Al Manzoni fu imposto come penitenza da monsignor Tosi l'obbligo di scrivere le Osservazioni sopra la Morale cattolica. Noi leggiamo con ammirazione nella Vita dell'Alfieri che il grande Astigiano ordinava al suo servitore di legarlo fortemente alla sedia per obbligarsi al lavoro; ma non abbiamo letto senza una grande pietà e confusione, che monsignor Tosi chiudeva in camera Alessandro Manzoni, perchè mandasse innanzi il libro sulla Morale cattolica che non voleva andare avanti. Il fatto ci è assicurato dall'egregio biografo del Tosi, professor Carlo Magenta, il quale scrive precisamente: "Il Tosi, vedendo che quel lavoro procedeva lento, perchè l'Autore era occupato in altri studii, trovandosi a Brusuglio, ad una cert'ora del giorno andava a chiudere il Manzoni nel suo studio, dichiarandogli che non l'avrebbe lasciato escire, finchè non avesse scritto un certo numero di pagine." Dallo stesso biografo abbiamo appreso con una specie di terrore che il Tosi consigliava il Manzoni a mettere in versi la storia di Mosè ed un lavoro ascetico, di cui ci è rimasta una traccia. Basterà per saggio che io ne riporti l'introduzione: "L'uomo aspira a riposare nella contentezza, ed è agitato dal desiderio di sapere; e, pur troppo, abbandonato a sè stesso cerca la soddisfazione in vani diletti ed in una scienza vana. Oggi ci è dato un Consolatore che insegna. Felici noi, se sappiamo comprendere che l'unica vera gioia e l'unico vero sapere vengono dallo Spirito che il Padre ci manda, nel nome di Gesù Cristo." Come non fremere al pensiero che, se il Manzoni s'imbecilliva in un'opera di tal natura, l'Italia non avrebbe forse mai avuto i Promessi Sposi? E chi sa quante belle pagine de' Promessi Sposi sono andate perdute per la condanna di quel bravo e sant'uomo, che era monsignor Tosi! Il signor Magenta ci dice che il Tosi "avrebbe voluto togliere quel brano bellissimo dei Promessi Sposi, in cui il Padre Cristoforo, dopo avere sciolta Lucia, soggiunge quelle commoventi parole che tutti sanno: Peccato, figliuola? peccato il ricorrere alla Chiesa, e chiedere al suo ministro che faccia uso dell'autorità che ha ricevuta da essa, e che essa ha ricevuta da Dio? Io ho veduto in che maniera voi due siete stati condotti ad unirvi; certo, se mai m'è parso che due fossero uniti da Dio, voi altri eravate quelli; ora non vedo perchè Dio v'abbia a voler separati;" parrebbe che questo passo fosso abbastanza religioso: ma al Tosi non bastava; ei si faceva ancora scrupolo, non avrebbe prosciolto Lucia dai voti, e da cattolico conseguente non poteva permettere che l'Autore del romanzo, posto che Lucia avea fatto voto alla Madonna di non isposar Renzo, li mandasse finalmente insieme all'altare. Ma si trovò, per fortuna, in Milano un altro prete di manica più larga, un altro amico, Don Gaetono Giudici, al quale il Manzoni dava a leggere gli stamponi dei Promessi Sposi, e Don Giudici vedendo che il Manzoni, per obbedienza al confessore, stava già per dar di frego a quelle parole e a parecchie altre pagine, vi si oppose energicamente. Il Manzoni lavorava dunque sotto una duplice censura, l'austriaca e l'ecclesiastica; ed abbiamo tutte le ragioni di credere che, se la prima sacrificò qualche parola, la seconda ci privò di molte belle pagine e chi sa forse d'intieri volumi manzoniani. Non apprendiamo forse dalle lettere del Manzoni al Tosi che questi cercava pure distoglierlo, nel 1824, dal lavoro sulla lingua italiana, al quale il Manzoni fin da quel tempo attendeva, temendo ch'egli vi si affaticasse troppo ed entrasse in polemiche letterarie? Polemiche contro il Sismondi per la difesa del Cattolicismo si potevano fare, e non erano da temersi; il Manzoni dovea invece più tosto riposarsi in un ozio beato ed infingardo, che correre il pericolo di agitare in Italia alcuna nuova questione letteraria che poteva divenir nazionale. Ma io qui mi fermo, per timore di cambiare il mio studio biografico sopra il Manzoni in una specie di processo contro il suo confessore, che, lo ripeto, era uomo di santi costumi, ed aggiungerò ancora di svegliato ingegno e d'animo liberale ed amantissimo della patria; ma i sillogismi cattolici sono terribili e fatali per la loro angustia; chi si rassegna a ragionare in quel dato modo, come l'esemplare delle opere del Voltaire già possedute dal Manzoni, avrebbe potuto indifferentemente sopprimere il genio del Manzoni. Alcune delle lettere di lui al Tosi ci fanno paura; questa per esempio:—"Veneratissimo e Carissimo Signor Canonico. Le rispondo immediatamente, perchè Ella possa assicurare la nota persona che tutto sarà saldato. Io intanto ringrazio vivamente il Signore che ci ha offerto questo fortunato mezzo di propiziazione per noi peccatori, e ringrazio pure di cuore la carità di Lei, del cui Santo Ministero Dio si vale per tutto quel bene ch'io possa fare. Dico senza esitare questa parola, perchè malgrado la mia profonda indegnità sento quanto possa in me operare la Onnipotenza della Divina Grazia. Si compiaccia di pregare il buon Gesù che non si stanchi di farne risplendere i miracoli in un cuore che ne ha tanto bisogno. È inutile raccomandarle il segreto. Si ricordi intanto d'una famiglia che tanto la venera ed ama, e mi tenga sempre Suo umilissimo e affezionatissimo Figlio in Gesù Cristo, ALESSANDRO MANZONI."—Questo eccesso di umiltà cristiana ci atterra. La lettera allude, senza dubbio, ad una buona azione, a qualche opera di carità, per la quale il futuro Autore di quei bei versi, in cui si raccomanderà di far l'elemosina:

     Con quel tacer pudìco
     Che accetto il don ti fa,

domanda il segreto. Ma il linguaggio di quella lettera, pur troppo, ci umilia. Per fortuna, il Manzoni stesso reagì da sè medesimo contro quella servitù e contro quell'unzione di linguaggio, per tornare uomo anche col proprio confessore. Si trovano perciò con piacere molte altre lettere, nelle quali il Manzoni scrive al Tosi con molta naturalezza, e si rivela bonariamente qual è, senza prendere ad imprestito alcuno stile d'occasione e di convenienza o di obbedienza; che se il Manzoni solamente cattolico ci faceva l'effetto di un uomo asfissiato, noi ci sentiamo in esse inondare da un aere più spirabile che ci rinfresca e ci rasserena. Il Manzoni stesso temette, del resto, egli medesimo d'esser preso per più cattolico ch'egli veramente non fosse e non si sentisse, e in un momento di molta, se non ancora di perfetta, sincerità, nei primi giorni dell'anno 1828, se ne confessava candidamente ad una donna, alla poetessa piemontese Diodata Saluzzo Roero, la quale rallegravasi con lui, perch'egli fosse apparso al prete Lamennais di allora "religieux et catholique jusqu'au profond de l'ame." Quell'opinione lo spaventava come eccessiva, e però egli le scriveva: "Egli è vero che l'evidenza della religione cattolica riempie e domina il mio intelletto; io la vedo a capo e in fine di tutte le questioni morali; per tutto dove è invocata, per tutto donde è esclusa. Le verità stesse che pur si trovano senza la sua scorta, non mi sembrano intere, fondate, inconcusse, se non quando sono ricondotte ad essa ed appaiono quel che sono, conseguenze della sua dottrina. Un tale convincimento dee trasparire naturalmente da tutti i miei scritti, se non fosse altro, perciocchè, scrivendo, si vorrebbe esser forti e una tale forza non si trova che nella propria persuasione. Ma l'espressione sincera di questa può, nel mio caso, indurre un'idea pur troppo falsa, l'idea di una fede custodita sempre con amore, e in cui l'aumento sia un premio di una continua riconoscenza; mentre invece questa fede io l'ho altre volte ripudiata e contraddetta col pensiero, coi discorsi e colla condotta; e dappoichè, per un eccesso di misericordia, mi fu restituita (avvertasi la parola restituzione, la quale implica soltanto che vi furono anni, in cui il Manzoni negò o più tosto non custodì bene la fede cattolica, in cui era stato allevato, e diminuisce perciò il merito taumaturgico degli operatori della conversione di lui), troppo ci manca che essa animi i miei sentimenti e governi la mia vita, come soggioga il mio raziocinio. E non vorrei avere a confessare di non sentirla mai così vivamente, come quando si tratta di cavarne delle frasi; ma almeno non ho il proposito d'ingannare, e col dubbio d'aver potuto anche involontariamente dar di me un concetto non giusto, mi nasce un timore cristiano d'essere stato ipocrita, e un timore mondano di comparire tale agli occhi di chi mi conosce meglio." Questa preziosa confessione può ridursi ad una sola formola: dal Manzoni cattolico uscirono, in somma, sole voci di testa; ed ora udremo, se vi piace, le sue più gagliarde e spontanee voci di petto, e vedremo finalmente spiegarsi tutta la singolare originalità del genio manzoniano.

[1] La vita del Manzoni in quegli anni ci è così descritta dal Sainte-Beuve: "Nel 1808 si ammogliava. Occupavasi d'agricoltura e d'abbellire la sua villa di Brusuglio presso Milano; poi tornava in Francia a rivedere gli amici della Maisonnette: e dava il Fauriel per padrino alla sua primonata, imponendole i nomi di Giulietta-Claudina. Così passava i giorni tra la famiglia, le piante ed i versi; e questi tenean forse l'ultimo posto. Il Mustoxidi scriveva da Milano al Fauriel: "Alessandro e gli altri della famiglia godono salute, e spesso vi ricordano. Tutto dedito alle cure domestiche, mi pare che s'allontani troppo di frequente dalle Muse, le quali pur gli furono liberali di santi favori (20 dicembre 1811)." Ma il Manzoni non s'allontanava forse dalla poesia quanto pareva; essa doveva tornare a lui, di lì a qualche tempo, ricca di nuovi e più santi gaudii. Dato alla famiglia come il Racine, sebbene forse un po' troppo presto convertito verso il 1810 alle idee religiose e alla pratica cristiana, padre, sposo, amico, davasi tutto, con animo pacato, ai più ordinati sentimenti, prendeva i costumi e gli abiti più puri e naturali; pareva vi si seppellisse. Non temete! L'immaginazione saprà trovar la sua strada; essa rimane sempre viva in certe anime ardenti insieme e delicate. Egli era di quelli, nel quali dovea verificarsi il bel motto proferito dal Fauriel nei loro primi colloquii: "L'immaginazione, quando s'applica alle idee morali, cogli anni, anzichè raffreddarsi, si fortifica e raddoppia d'energia." Il Manzoni adunque in que' tempi occupavasi pur sempre di poesia, se non per farne, almeno per godere di tutto ciò che ne forma l'oggetto, e la parte migliore. Se l'architettura e i disegni di ville degni del Palladio parevan qualche volta dominare soverchiamente nelle sue fantasie, l'agricoltura e i suoi piaceri innocenti gli sorridevano più tranquillamente in mezzo a quella quiete. Il Fauriel inviavagli di Francia gran copia di scelte semenze, che riempivano i desiderii dell'amico cadendo su terra ubertosa; e i bachi da seta soprattutto e i gelsi erano la sua grande faccenda sul fine di maggio, come la trattura della seta. Un giorno, nei primi momenti della sua andata in campagna, uno sciame di api venne a stabilirsi nel suo giardino, proprio sotto i suoi occhi, quasi per dar pascolo di piaceri e studii classici a questo figliuol di Virgilio. Erano gioie sì pure, che la poesia non poteva esser lontana." Fin qui il Sainte-Beuve.—Ho veduto due opere d'agricoltura, del Re e del Lastri, con postille autografe del Manzoni. La lettera del Manzoni al Grossi che pubblicai nella Rivista Europea, ed uno scritto pubblicato dai signor Galanti nella Perseveranza sopra il Manzoni agronomo, provano chiaramente che egli era non solo molto appassionato, ma anche intelligentissimo delle cose agrarie. Sappiamo pure ch'egli s'occupava a Brusuglio di bachicoltura; e non ci deve perciò recar meraviglia" sebbene possa parere un po' tirata, la similitudine che troviamo ne' Promessi Sposi, quando Don Gonzalo, per risovvenirsi dell'affare di Lorenzo Tramaglino, un filatore di seta come il Manzoni, che ha dimenticato "al campo sopra Casale, dov'era tornato, e dove aveva tutt'altri pensieri, alzò e dimenò la testa, come un baco da seta, che cerchi la foglia."—Poichè abbiamo ora sorpreso il Manzoni in casa sua, dirò pure che egli non solo leggeva i proprii libri, ma che li postillava quasi sempre, mettendosi volentieri in dialogo con l'autore da lui letto; ebbi in mano alcuni de' suoi libri postillati: uno di essi che posseggo è il seguente; La théorie del'Economie politique fondée sur les faits résultants des statistiques de la France et da l'Angleterre, par M. Ch. Ganilh: Paris, 1815. Nel secondo volume si trovano sei postille. Credo che possa destare qualche curiosità il vedere in qual modo il Manzoni leggeva e intendeva e criticava un libro di economia politica. Alla pag. 249 l'Autore scrive: "Comme l'on ne peut consommer habituellement les produits de l'étranger, qu'autant qu'on peut en payer la valeur en produits indigènes, il s'ensuit évidement que la consommation des produits indigènes est de la même valeur; et ce qu'il ne faut pas perdre de vue, c'est que, sans la consommation des produits exotiques, l'équivalent en produits indigènes n'aurait pas existé. L'effet nécessaire de la circulation des produits étrangers dans un pays, quand ils sont d'une nature différente de celle des produits nationaux, est donc d'accroître ces produits, de favoriser l'industrie particulière de chaque peuple, etc." Il lettore Manzoni riproduce in margine lo stesso passo con una breve omissione e con alcune proprie aggiunte, che segneremo in corsivo: "Comme l'on ne peut consommer, habituellement ou non, les produits de l'étranger (qu'ils soient ou non d'une nature differente de celle des produits nationaux) qu'autant qu'on peut en payer la valeur en produits nationaux, il s'ensuit évidemment que la consommation des produits exotiques, quelle que soit leur nature, nécessite la production d'une quantité de produits indigènes de la même valeur. L'effet nécessaire de la circulation des produits étrangers dans un pays, même quand ils sont de même nature que les produits nationaux, est donc d'accroître ces produits, de favoriser l'industrie particulière de chaque peuple, etc." L'Autore ripiglia: "Enfin les peuples, en se refusant à la circulation de leurs produits identiques, me semblent avoir rempli parfaitement les intentions de la nature, et s'être conformés strictement à ses lois bienfaisantes. La circulation des produits identiques ne peut s'établir et se maintenir que par la concurrence, qui excite parmi les concurrens l'envie, la haine, et toutes les passions anti-sociales". Il Manzoni è pronto a ribattere: "Oh prodige d'irréflexion! Il ne s'est pas souvenu que la concurrence est tout naturellement établie entre les fabricants et les débitants de produits identiques dans un même pays. Pour la prévenir, il faudrait qu'il n'y eût, par exemple, qu'un seul cordonnier en France." Alla pag. 221, il Ganilh scriveva; "On chercherait inutilement, par la pensée, un seul cas où un individu quelconque pût être offensé ou affligé de voir, dans le marché de sa localité, des produits différens de ceux de son sol et de son industrie." Il Manzoni, che ama la precisione, scrive in margine, con la solita arguzia: "Il n'a pas observé qu'il y a des produits de nature différente, et qui servent aux mêmes usages. Ainsi un individu quelconque_ qui fabriquerait des étoffes de laine ou de fil, pourrait être fort bien offensé ou affligé de voir apparaître pour la première fois sur son marché des étoffes de soie; un fruitier de voir pour la première fois arriver des oranges, etc." A pag. 222, l'Autore dice d'un'imposta che è a danno dei produttori e dei consumatori, ma torna a beneficio dello Stato: il Manzoni annota maliziosamente: "Il faut donc entendre un État duquel sont exclus les consommateurs et les producteurs." A pagina 224, il Ganilh si pronuncia contro la libertà sconfinata del cambio, che "tend a soumettre toutes les industries particulières a l'industrie du peuple le plus industrieux, toutes les aisances nationales a la richesse du peuple le plus riche." Il Manzoni, logico implacabile, interrompe questo slancio di eloquenza protezionista, osservando che il popolo più ricco vende "mais a condition que ceux qui lui achètent ne s'appauvriront pas; car autrement il ne pourrait plus leur vendre." Alla pag. 292, l'Autore sconsiglia i trattati di commercio con la Cocincina; l'Europa comprerebbe dalla Cina che, alla sua volta, non farebbe acquisto dei prodotti dell'Europa. Il Manzoni obbietta: "Inconcevable! Il ne voit pas que si l'Europe achetait le sucre de la Cochinchine, celle-ci aurait le moyen d'acheter les produits du sol et de l'industrie de l'Europe: car, sans cela que ferait-elle des 125 millions (supposés} que l'Europe lui enverrait? Il ne voit pas que 125,000,000 importés tous les ans et jamais rendus embarrasseraient autant un pays que la même somme exportée annuellement et jamais remplacée. Au reste, il suppose que la Cochinchine pourrait fournir du sucre pour la consommation entière de l'Europe, etc., etc."_

[2] "Au sortir (scrive il Loménie) d'une conversation avec une personne fort distinguée qui a vécu dans l'intimité de Manzoni, et qui, après m'avoir raconté en quelques mots sa vie assez dénuée d'incidents pittoresques, avait excité au plus haut point mon intérêt en me parlant longuement du caractère et des habitudes du poëte milanais, dans le but de me prouver que Manzoni était, suivant l'expression du narrateur, tout ce qu'ily a de moins homme de lettres, je m'en allais cherchant parmi les hommes de lettres de notre pays et de notre temps quelque poëte célèbre, douè d'une modestie plus grande encore que son talent, d'une piété aussi sincère qu'éclairée, sans affectation comme sans intolérance; quelque nature riche à la fois d'élévation, de finesse, d'ingénuité et d'abandon; quelque caractère reste simple, honnête et bon, malgré les séductions du génie et les corruptions de la gloire; quelque chose enfin qui pût m'aider à comprendre et faire comprendre Manzoni au lecteur par la comparaison. J'étais un peu embarrassé, quand j'eus l'idée de rétrograder de deux siècles, et de relire les Mémoires que le fils de Racine nous a laissés sur la vie de son père. J'avais trouvé mon affaire.—Et ce n'est pas seulement par le côté moral qu'il (Manzoni} ressemble á Racine; ce n'est pas seulement parce qu'il s'est renfermé très-jeune encore dans ces jouissances paisibles et pures d'époux, de père et de chrétien, qui firent le bonheur de Racine après Phèdre, depuis son mariage jusqu'à sa mort; ce n'est pas seulement parce qu'il a de Racine, avec la simplicité des goûts, une légère teinte de causticité tempérée par le sentiment religieux qui charme dans maintes pages du beau roman des Fiancés, comme elle se fait jour dans la comédie des Plaideurs; ce n'est pas seulement parce qu'il abhorre franchement, comme Racine, tout entretien relatif à lui-même et à ses productions littéraires, que l'auteur de Carmagnola et d'Adelchi peut, sous plusieurs rapports, être comparé à l'auteur d'Esther et d'Athalie. Ces deux hommes représentent à la vérité dans l'art dramatique deux systèmes bien différents; mais, de tous les dramaturges de l'école dite romantique, je n'en connais point qui, par la délicatesse du sentiment moral, le fini et la distinction de la forme, se rapproche autant que Manzoni du plus pur, du plus élégant, du plus harmonieux représentant de la tragédie classique. Offrant dans leur caractère, dans le tour de leur inspiration, et dans la physionomie générale de leurs oeuvres, je ne sais quel air de famille qui perce à travers la différence des idées, des pays et des temps, ces deux poëtes présentent encore une certaine analogie au point de vue biographique. Des deux côtés c'est la même vie honnête et simple, plus calme, plus solitaire, plus indépendante chez Manzoni, garantie plus tôt des orages du coeur par la croyance religieuse et les chastes douceurs d'un mariage heureux, moins affairée que celle de Racine, moins mélangée de soucis mondains et de devoirs de cour, mais également marquée par une double période d'inquiétude dans le doute et de repos dans la foi."

[3] Gli argomenti dovevano esser questi: Il Natale, L'Epifania, La Passione, La Risurrezione, L'Ascensione, La Pentecoste, Il Corpo del Signore, La Cattedra di San Pietro, L'Assunzione, Il Nome di Maria, Ognissanti, I Morti.

[4] Il pubblico italiano non s'accorse degl'_Inni Sacri, se non dopo pubblicato il Cinque Maggio_. Quando, nel 1817, Carlo Mazzoleni indirizzava per essi complimenti al Manzoni, questi gli rispondeva: "Io non so quali grazie rendervi per le lodi, colle quali mi fate animo a proseguire questi lavori. Se io non dovessi attribuirle in gran parte alla indulgente vostra amicizia, mi leverei davvero in superbia; ma ad ogni modo l'indifferenza del pubblico mi farà stare a segno." Quando il Manzoni era forse ancora contento degl'Inni Sacri usciti di fresco da un parto molto laborioso, il pubblico non se ne volle accorgere; quando il pubblico se ne accorse e se ne contentò, chi non era più contento degl'Inni Sacri era il Manzoni stesso

[5] In Milano si conservano alcune strofe dello stesso componimento, non più felici, che lo stesso Poeta tolse via, nel momento di stamparlo.

[6] Dopo la morte del Manzoni, fu raccontato che il grand'uomo un giorno a chi lo ringraziava del bene ch'egli avea fatto, rispose commosso: "Senta, se c'è un nome che non meriti autorità, questo nome è il mio. Lei forse non sa che io fui un incredulo e un propagatore d'incredulità e con una vita conforme alla dottrina, che è il peggio. E se la Provvidenza mi ha fatto vivere tanto, è perchè mi ricordi sempre che fui una bestia e un cattivo." Il Manzoni evidentemente, per eccesso di umiltà cattolica e d'immaginazione, si calunniava, esagerando la propria giovanile empietà e gli stravizii della sua vita di studente.

XV.

Il Manzoni Poeta drammatico.

Un psicologo troverebbe argomento di uno studio molto importante, esaminando in qual modo la mente del Manzoni abbia potuto, nel 1815, scrivere, dopo il Carme In morte dell'Imbonati, una Canzone stentata e rettorica, e poi rivelarsi di nuovo, con insolito splendore, nei Cori del Carmagnola. Ma converrebbe pure che fosse aiutato, in questa indagine, da qualche indizio biografico. Ora la biografia manzoniana dal 1810 al 1818, o tace intieramente, o ci dice soltanto che il Manzoni in quel tempo rimase sotto la disciplina religiosa di monsignor Tosi, scrisse alcuni Inni Sacri e s'occupò d'agricoltura. È troppo poco per ispiegarci la singolare, quasi febbrile e potente operosità dell'ingegno manzoniano che muove dall'anno 1818 e va fino al termine dell'anno 1824, sei anni preziosi, ne' quali veramente si è rivelato tutto il genio poetico del Manzoni. Le lettere di quel tempo dirette dalla Giulia Beccarla e dal Manzoni al Tosi ci mostrano Don Alessandro molto malato di nervi; ebbene, erano forse le insonnie del genio agitato da una specie di furore divino. Nel 1818, il Manzoni aveva pure avuto uno de' più grossi dispiaceri della sua vita; era stato costretto a vendere il Caleotto, la casa, le terre di suo padre, presso Lecco. In mezzo a que' disastri economici cercò forse sollievo nella poesia; il dramma che si compieva nella sua vita, gli fece forse eleggere la forma drammatica. Studiando una volta la storia di Venezia con l'intendimento di scrivere un poema sopra la fondazione della città delle Lagune, si era probabilmente innamorato della figura del Carmagnola; ma il momento non era più per lui da poemi; l'animo del Manzoni agitato, non più contenuto dalla pietà e dalla rassegnazione, che monsignor Tosi non si stancava di raccomandargli, avea bisogno di sfogarsi, mettendo fra loro in poetico contrasto drammatico diversi affetti. Forse la vendita del Caleotto avea dato occasione in Milano a nuove chiacchiere che lo avevano disgustato; la madre, la moglie, il Tosi, forse pure il Fauriel, a cui, dopo alcuni anni di silenzio, egli era tornato con più vivace affetto, aveano cercato di calmarlo; e vi erano, senza dubbio, riusciti in parte: ma il maggior conforto egli avea dovuto provarlo, ritirandosi in sè stesso, e creandosi, come avveniva in casi simili al Goethe, a sua immagine un proprio mondo poetico. In quel mondo tutto ideale egli poteva liberamente sfogare i suoi sentimenti, in quella finzione storica esprimere ad un tempo e nascondere i proprii dolori. E coi proprii il Manzoni sentiva pure profondamente i dolori della patria avvilita ed oppressa sotto l'ignominia d'un Governo straniero. Nella Prefazione del Conte di Carmagnola il Manzoni stesso dichiarò che una delle ragioni che lo determinarono a introdurvi i Cori, fu questa, che "riserbando al poeta un cantuccio dov'egli possa parlare in persona propria, (essi) gli diminuiranno la tentazione d'introdursi nell'azione, e di prestare ai personaggi i suoi proprii sentimenti, difetto dei più noti negli scrittori drammatici." Ma, quando leggiamo uno scrittore come il Manzoni, dobbiamo guardar sempre al senso preciso che vogliono aver le parole; egli non dice già che i Cori toglieranno, ma solamente che essi diminuiranno all'autore la tentazione di mettersi in iscena. Approfittiamo dunque di questa mezza negazione, che implica necessariamente una mezza affermazione. In una bella lettera che il Manzoni scrisse nel febbraio dell'anno 1820 al suo amico abate Gaetano Giudici di Milano, rimasta fino ad oggi inedita, trovo, fra le altre, queste parole: "Io aveva sentito che le circostanze e le azioni del Carmagnola non erano in proporzione coll'animo suo e coi suoi disegni; ma questa dissonanza appunto è quella che io ho voluto rappresentare. Un uomo di animo forte ed elevato e desideroso di grandi imprese, che si dibatte colla debolezza e colla perfidia de' suoi tempi, e con istituzioni misere, improvvide, irragionevoli, ma astute e già fortificate dall'abitudine e dal rispetto, e dagl'interessi di quelli che hanno iniziativa della forza, è egli un personaggio drammatico?"[1] Quest'uomo potrebbe essere così bene il Manzoni posto fra gli uomini del suo tempo, con un Governo come quello di Lombardia, posto a rischio continuo di perdere, nell'adempimento dei suoi doveri civili, la pace domestica e la vita, come il Conte di Carmagnola. In ogni modo, nelle parole della tragedia che s'intitola dal Conte di Carmagnola, più che i sensi di un capitano di ventura del Medio Evo, noi ritroviamo spesso l'animo, i pensieri, i dubbii, gl'interni combattimenti del Manzoni, geloso del suo buon nome, timido nell'opera, ardito ne' concepimenti, pio, delicato, amante della patria e della famiglia. Queste parole messe in bocca al Conte di Carmagnola non istonerebbero, per esempio, ove si collocassero nel Carme In morte dell'Imbonati:

   Oh! beato colui, cui la fortuna;
     Così distinte in suo cammin presenta
     Le vie del biasmo e dell'onor, ch'ei puote
     Correr certo del plauso e non dar mai
     Passo, ove trovi a malignar l'intento
     Sguardo del suo nemico. Un altro campo
     Correr degg'io, dove in periglio sono
     Di riportar, forza è pur dirlo, il brutto
     Nome d'ingrato, l'insoffribil nome
     Di traditor. So che de' grandi è l'uso
     Valersi d'opra ch'essi stiman rea;
     E profondere a quel che l'ha compita
     Premi e disprezzo, il so; ma io non sono
     Nato a questo; e il maggior premio che bramo,
     Il solo, egli è la vostra stima, e quella
     D'ogni cortese; e, arditamente il dico,
     Sento di meritarla.

Così avrebbe parlato, così forse parlava allora il Manzoni a' suoi proprii accusatori. Noi sappiamo già che prima della pubblicazione del Carme In morte dell'Imbonati, ossia nell'anno 1805, si era ciarlato molto in Milano contro il Manzoni, e che si tornò a ciarlare contro di lui, quando, nel 1819, egli malato di nervi ritornò con la madre e con la moglie a Parigi. La madre del Manzoni, nell'aprile dell'anno 1820, scriveva a monsignor Tosi che il Manzoni preferiva "il soggiorno di Parigi a quello di Milano, per il gran ribrezzo che gli produce quella benedetta mania che si ha di parlare degli affari degli altri. Si ricorda di tante ciarle e di tante supposizioni fatte sul nostro viaggio; e qualche volta questa idea lo mette di cattivo umore:" Il malumore, o almeno un po' di malumore, penetra pure in alcuni versi del Conte di Carmagnola. Ma il sentimento cristiano e l'amor patrio vincono finalmente ogni altra cura. Il Manzoni assai più che il suo Conte di Carmagnola esplorava il suo tempo e cercava persuadersi ora che la salute d'Italia sarebbe venuta dalla Toscana, ora dal Piemonte. Il Carmagnola, infatti, alludendo ai Fiorentini, dice:

                               A molti in mente
     Dura il pensier del glorïoso, antico
     Viver civile; e subito uno sguardo
     Rivolgon di desìo, là dove appena
     D'un qualunque avvenir si mostri un raggio,
     Frementi del presente e vergognosi;

e al suo Piemonte belligero fida, con la propria, la vendetta d'Italia:

     Voi provocate la milizia. Or sono
     In vostra forza, è ver; ma vi sovvenga
     Ch'io non ci nacqui; che tra gente io nacqui
     Belligera, concorde; usa gran tempo
     A guardar come sua questa qualunque
     Gloria d'un suo concittadin, non fia
     Che straniera all'oltraggio ella si tenga.

Ma, in pari tempo, nelle parole che Marco rivolge all'amico suo il Conte di Carmagnola, ritroviamo la prudenza manzoniana; si direbbe che Marco sostiene presso il Conte quella parte medesima che il Fauriel presso il Manzoni; è l'amico Fauriel, al quale la tragedia è per l'appunto dedicata:

                         …… Consiglio
     Di vili arti ch'io stesso a sdegno avrei,
     Io non ti do, nè tal da me l'aspetti;
     Ma tra la noncuranza e la servile
     Cautela avvi una via; v'ha una prudenza
     Anche pei cor più nobili e più schivi;
     V'ha un'arte d'acquistar l'alme volgari,
     Senza discender fino ad esse; e questa
     Nel senno tuo, quando tu vuoi, la trovi.

Il Conte, ossia forse il Manzoni, vorrebbe fidarsi al suo destino, e non curar troppo le male arti de' nemici; Marco, ossia ancora, come si può sottintendere, il Fauriel gli pone innanzi l'immagine della moglie e della figlia amatissime, ma forse in qualche momento dimenticate per alcun'altra più forte attrattiva, per l'amore della patria:

                          Vuoi che una corda io tocchi
     Che ancor più addentro nel tuo cor risoni?
     Pensa alla moglie tua, pensa alla figlia,
     A cui tu se' sola speranza; il cielo
     Diè loro un'alma per sentir la gioia,
     Un'alma che sospira i dì sereni,
     Ma che nulla può far per conquistarli.
     Tu il puoi per esse; e lo vorrai. Non dire
     Che il tuo destin ti porta; allor che il forte
     Ha detto: io voglio, ei sente esser più assai
     Signor di sè che non pensava in prima.

Il Manzoni poeta cristiano detta ancora queste pie parole al fiero
Conte condannato a morte:

     E tu, Filippo, ne godrai! Che importa?
     Io le provai quest'empie gioie anch'io;
     Quel che vagliano or so.

E quest'altre affettuose alla moglie Antonietta paiono suggerite al
Conte da Enrichetta Blondel, la moglie del Manzoni:

                             ……O sposo
     De' miei bei dì, tu che li fêsti, il core
     Vedimi; io moio di dolor, ma pure
     Bramar non posso di non esser tua.

Vi è finalmente tutta la pietà cristiana del Manzoni, molto più che il carattere storico del Carmagnola, in queste parole del Conte:

                       Allor che Dio sui buoni
     Fa cader la sventura, ei dona ancora
     Il cor di sostenerla…. Oh! pari il vostro
     Alla sventura or sia. Godiam di questo
     Abbracciamento; è un don del cielo anch'esso.
                 …. Il torto è grande,
     Ma perdona; e vedrai che in mezzo ai mali
     Un'alta gioia anco riman.
         … Oh gli uomini non hanno
     Inventata la morte; ella sarìa
     Rabbiosa, insopportabile, dal cielo
     Essa ci viene, e l'accompagna il cielo
     Con tal conforto, che nè dar nè tòrre
     Gli uomini ponno.

Così sono uscite dal cuore di un marito credente, del Manzoni, in somma, queste belle e solenni ultime parole, con le quali il Conte raccomanda la moglie e la figlia al Gonzaga:

     Quando rivedran la luce,
     Di' lor…. che nulla da temer più resta.

Poco, lo ripeto, sappiamo, pur troppo, della vita del Manzoni in quegli anni che corsero dal suo matrimonio alla pubblicazione del Conte di Carmagnola e dell'Adelchi; ma forse non andremmo troppo lontani dal vero, supponendo che alcun grande dolore abbia agitato l'animo del Manzoni nel tempo, in cui, venduto il Caleotto, egli scrisse le sue tragedie[2] ed incominciò il proprio romanzo. Vi sono versi che non si possono scrivere altrimenti che sotto una impressione molto viva e dolorosa; ed i versi che ho citati, mi fanno dubitare che il Manzoni abbia desiderato in quegli anni prender parte a qualche congiura politica, che, per una recrudescenza d'amor patrio, abbia corso qualche gran rischio e temuto assai per la propria famiglia e siasi poi sentito accusare di qualche debolezza: la malattia nervosa che lo visitò, appena terminata la sua tragedia, le varie ciarle alle quali diede occasione il suo ritorno a Parigi, hanno forse qualche relazione con alcun fatto che ignoriamo, ma del quale potrebbe darsi che si trovassero indizii ne' suoi scritti di quel tempo. Fu caso fortunato che i componimenti del Manzoni cadessero sotto gli occhi del Goethe, ma non già caso che il Goethe se ne compiacesse. Vi era naturale simpatia fra que' due ingegni olimpici; anche il Goethe in quasi tutte le sue opere poetiche ha rivelato sè stesso in modo che la biografia di lui può farsi quasi che tutta sopra la sola guida de' suoi scritti. Il Manzoni sfogò meno le sue passioni, si frenò di più, tenne più fermo ad un solo alto segno il proprio ideale; ma sotto la sua calma apparente, sotto quella mirabile temperanza di linguaggio, è ancora possibile scorgere le tempeste d'un animo agitato, in continua lotta con sè medesimo, e più ancora che lottante fra il dovere e il piacere, contrastato fra due doveri diversi. I due doveri diversi, fra i quali il Manzoni lottò, dovettero essere la patria e la famiglia, come per un altro verso la libertà del pensiero e la fede. Il Goethe, come il Manzoni, mirava alla perfezione; ma io credo che, senza alcuna esagerazione, si possa dire che il primo mirava particolarmente ad una perfezione intellettuale, il secondo alla perfezione morale, che costa qualche cosa di più, poichè obbliga pure a qualche maggior sacrificio. Nell'Adelchi si palesa generalmente assai meno il sentimento individuale dell'autore; tuttavia è lecito in più d'un passo, ove parla il giovine eroe longobardo, riconoscere i privati sentimenti del Manzoni. La tragedia fu terminata, quando, fallita la rivoluzione piemontese, parecchi de' migliori amici del Manzoni dovettero andare o in esigilo, o al carcere duro. Il Nostro si dolse, certamente, seco stesso di non aver potuto far nulla per la patria e di dovere nascondere il suo potente ed inspirato Inno rivoluzionario dedicato a Teodoro Koerner, e, per amore della famiglia, evitare ogni imprudenza. S'io non m'inganno, è il Manzoni del 1821 che parla in questi versi posti in bocca ad Adelchi:

     Il mio cor m'ange, Anfrido; ei mi comanda
     Alte e nobili cose; e la fortuna
     Mi condanna ad inique: e, strascinato,
     Vo per la via che non mi scelsi, oscura,
     Senza scopo; e il mio cor s'inaridisce,
     Come il germe caduto in rio terreno
     E balzato dal vento.

Il Manzoni fu sempre un po' repubblicano; se ne lagnavano nel 1848 il Giusti e l'Azeglio, quando lo vedevano diffidar troppo delle promesse del re Carlo Alberto. E da repubblicano, con poca verosimiglianza storica, egli faceva parlare il moribondo Adelchi al re Desiderio suo padre:

     Gran segreto è la vita; e noi comprende
     Che l'ora estrema. Ti fu tolto un regno;
     Deh! nol pianger; mel credi. Allor che a questa
     Ora tu stesso appresserai, giocondi
     Si schiereranno al tuo pensier dinanzi
     Gli anni, in cui re non sarai stato, in cui
     Nè una lagrima pur notata in cielo
     Fia contra te, nè il nome tuo saravvi
     Con l'imprecar de' tribolati asceso.
     Godi che re non sei, godi che chiusa
     All'oprar t'è ogni via; loco a gentile,
     Ad innocente opra non v'è; non resta
     Che far torto, o patirlo. Una feroce
     Forza il mondo possiede e fa nomarsi
     Dritto; la man degli avi insanguinata
     Seminò l'ingiustizia; i padri l'hanno
     Coltivata col sangue; e omai la terra
     Altra mèsse non dà.

Tutto ciò è grande, è vero, è degno del Manzoni, e si capisce che dovesse piacere al Mazzini, ma stona nel linguaggio di un Principe longobardo del IX secolo. Come tragedie storiche, il Carmagnola e l'Adelchi, mi paiono, sia detto con tutto il rispetto de' loro pregi letterarii, lavori sbagliati; ma essi, oltre all'importanza che hanno per le novità che introducono nella drammatica italiana, obbligando le persone tragiche a parlare un linguaggio umano e a muoversi naturalmente, senza l'impaccio delle regole così dette aristoteliche intorno alle unità, contengono un gran numero di particolari poetici manzoniani, il che vuol dire nuovissimi, per i quali se non vi si andrà a cercare la verità storica e se essi non si potranno rappresentare sulle scene, vi si troveranno sempre affetti eloquentemente espressi, pensieri elevati, caratteri bene scolpiti, descrizioni pittoresche, intendimenti civili e patriottici che li faranno ammirare. Il Manzoni dedicava l'Adelchi, dodici anni dopo il suo matrimonio, a sua moglie Enrichetta Blondel, e non senza un motivo particolare, oltre i motivi generali che egli dovea parer di avere per dare un pubblico segno d'onore e d'affetto alla sua compagna. Come m'è parso di sentire nell'amicizia di Marco pel Conte di Carmagnola quella del Fauriel pel Manzoni, onde, perciò forse, veniva particolarmente dedicata al Fauriel la prima tragedia manzoniana; così mi paiono da ricercarsi nella tragedia stessa le ragioni particolari, per le quali Enrichetta Blondel fu onorata della dedicazione dell'Adelchi. "Il signor marchese Capponi (scrive il Tommaseo), nel conoscere la prima moglie, non bella e di poche parole, a quello appunto e al portamento sentì che la vera ispiratrice del Manzoni era lei." Disse il simile qualche anno dopo un giornale di Francia, che, recando i versi di Ermengarda morente: Amor tremendo è il mio, ec., soggiunge: Ah questa, signor Manzoni, non è roba vostra; ve l'ha dettata una donna. Rileggiamoli dunque insieme questi bei versi che il Manzoni avrebbe rubati a sua moglie. Ermengarda, in amoroso delirio, si rivolge col memore pensiero allo sposo che la tradì:

                        ……O Carlo,
     Farmi morire di dolor tu il puoi;
     Ma che gloria ti fia? Tu stesso un giorno
     Dolor ne avresti. Amor tremendo è il mio;
     Tu nol conosci ancora; oh! tutto ancora
     Non tel mostrai; tu eri mio; secura
     Nel mio gaudio io tacea, nè tutta mai
     Questo labbro pudico osato avria
     Dirti l'ebbrezza del mio cor segreto.

Nel personaggio di Adelchi, il Manzoni stesso confessò d'aver voluto foggiare un suo ideale; il medesimo si può dire dell'Ermengarda, sopra i sentimenti della quale la storia non ci dice nulla; ora gl'ideali che si coloriscono al di fuori della storia e che riescono caratteristici come questo di Ermengarda, non si possono concepire altrimenti che supponendoli determinati dagli stessi sentimenti più vivi del Poeta nell'ora in cui egli scrisse. Io non posso insistere di più sopra un argomento così delicato come le relazioni di Alessandro Manzoni con Enrichetta Blondel; ma parmi che un rimorso gentile dell'Autore verso la sua compagna che egli potè forse turbare co' suoi ardimenti patriottici o con alcun'altra sua imprudenza, abbia fatto parlare Ermengarda in quel modo straordinariamente appassionato, e che la dedica solenne dell'Adelchi alla sua compagna sia stata come una pubblica riparazione di qualche segreta lacrima domestica. S'io mi sono ingannato, ne domando perdono alla memoria del Manzoni; ma come ai critici del Goethe fu lecito de tracciare sopra i suoi versi la storia de' suoi amori, non ho potuto spiegarmi altrimenti, come in un dramma, dove l'amore non entrava, sia apparso l'unico tipo veramente poetico di una moglie ideale che ci presenti la poesia italiana, e che il Dramma stesso porti la seguente dedicazione glorificatrice:

ALLA DILETTA E VENERATA SUA MOGLIE ENRICHETTA LUIGIA BLONDEL LA QUALE INSIEME CON LE AFFEZIONI CONIUGALI E CON LA SAPIENZA MATERNA POTÈ SERBARE UN ANIMO VERGINALE CONSACRA QUESTO ADELCHI L'AUTORE DOLENTE DI NON POTERE A PIÙ SPLENDIDO E A PIÙ DUREVOLE MONUMENTO RACCOMANDARE IL CARO NOME E LA MEMORIA DI TANTE VIRTÙ.[3]

[1] Poichè il professor Giovanni Rizzi, dalla cortesia del quale io l'ho ricevuta, mi permette di valermene, io me ne valgo nel solo modo che mi sembri conveniente, cioè stampandola tutta:

"Parigi, 7 febbraio 1820. Cariss. e Pregiat. Amico,

Sarei impacciato a ringraziarvi degnamente non solo dell'amabile pensiero che avete avuto di scrivermi, ma anche della pazienza che avete posta a regolare la vostra penna in modo che nulla per me fosse perduto dei preziosi sentimenti vostri, se non sapessi da lungo tempo quanto sia facile saldare con voi questi conti, e che voi vi tenete pagato d'ogni cosa, quando sappiate che con essa abbiate fatto piacere altrui. Sappiate dunque che la vostra lettera me ne ha cagionato uno dei più vivi e durevoli che per me si potessero provare, e che letta e riletta fra noi ha fatto una specie di festa di famiglia. Io non dubitava della continuazione della preziosa vostra amicizia, sapendo che è questo un dono che voi non prodigate nè ritirate leggermente, all'uso del mondo; ma le assicurazioni e le espressioni di essa, nutrendo le più care memorie dell'animo mio, l'hanno giocondamente e profondamente occupato. Già sufficentemente stabiliti in questa peregrinazione provvisoria, noi ci siamo ormai avvezzati alla nostra nuova situazione, ed io principalmente mi trovo in uno stato di quiete d'animo, e talvolta direi quasi di contentezza, della quale non saprei forse dare le ragioni io stesso; ma una mancanza, alla quale nulla può supplire, uno spazio che null'altra cosa può occupare, è sempre per me l'assenza di alcuni pochi amici, e quella singolarmente di uno, il quale mi ama, come merita egli d'esser amato. Non saprei altrimenti esprimere l'idea che ho dell'amicizia vostra, e se il riconoscere la mia fortuna può darmi taccia d'orgoglio, preferisco quest'accusa a quella d'ingratitudine. La venerazione e l'affetto ch'io nutro per voi, sarà, spero, un sentimento ereditario nella mia famiglia, e Giulietta, che ha più memoria nel cuore che nella mente, me ne ha già dato un segno, contandomi di essersi più volte rallegrata qui alla domenica dal pensiero che si andrebbe in casa Giudici: nè l'interruzione, nè la mutazione degli oggetti hanno potuto impedire che nascesse in lei questo pensiero così dissociato da tutte le sue attuali abitudini. Serbando la legge del silenzio così ragionevolmente imposta agli scrittori in ciò che riguarda i loro parti, io non vi avrei certo fatto parola di quel povero Carmagnola; ma voi mi avete aperto un adito, e addio silenzio! Lasciate adunque che io vi ringrazii dell'avermi voi dato il più bel premio, e nello stesso tempo la più utile scuola che un manufatturiere di poesie possa desiderare, cioè la cognizione dell'impressione che un suo lavoro ha prodotta su un animo elevato e su un ingegno grande ed esercitato. Benchè voi abbiate alla fine ritirate le prime vostre obbiezioni, non vi maravigliate se io mi tengo pienamente assoluto da una seconda sentenza, che posso forse attribuire alla vittoria dell'amicizia sull'imparzialità. Vi esporrò quindi brevemente i motivi che mi hanno condotto nei passi che vi urtarono dapprima, acciocchè voi giudichiate anche la mie intenzioni, e mi sia il giudizio vostro una norma per l'avvenire. Io aveva sentito che le circostanze e le azioni del Carmagnola non erano in proporzione coll'animo suo e coi suoi disegni, ma questa dissonanza appunto è quella che io ho voluto rappresentare. V'erano due difficoltà, una di diritto per così dire. Un uomo di animo forte ed elevato e desideroso di grandi imprese, che si dibatte colla debolezza e colla perfidia dei suoi tempi, e con istituzioni misere, improvvide, irragionevoli, ma astute e già fortificate dall'abitudine e dal rispetto, e dagli interessi di quelli che hanno l'iniziativa della forza, è egli un personaggio drammatico? Su questa quistione che può spiegare tutto un sistema drammatico, io aspetto da voi, quando vi piacerà occuparvene, la soluzione la più ragionata ed autorevole. L'altra difficoltà era per me il ridurre questa idea, quando sia plausibile" ad una lodevole pratica; ma in questo il vostro giudizio non mi sarà tanto sicuro, poichè si esercita sopra un amico. Il Coro era fatto certamente coll'intenzione di avvilire quelle stesse guerre, a cui io voleva pure interessare il lettore: vi è contradizione fra questi due intenti? Io non saprei certo affermare nè il sì nè il no—ma vi sottometto brevemente i motivi che mi hanno fatto credere possibile di eccitare questi due sentimenti. Mi sembra che lo spettatore o il lettore possa portare ad un dramma la disposizione a due generi d'interesse. Il primo è quello che nasce dal vedere rappresentati gli uomini e le cose in un modo conforme a quel tipo di perfezione e di desiderio che tutti abbiamo in noi: e questo è con infiniti gradi di mezzo, l'interesse ammirativo che eccitano molti personaggi di Corneille—di Metastasio—e d'infiniti romanzi. L'altro interesse è creato dalla rappresentazione più vicina al vero di quel misto di grande e di meschino, di ragionevole e di pazzo, che si vede negli avvenimenti di grandi e piccioli di questo mondo: e questo interesse tiene ad una parte importante ed eterna dell'animo umano, il desiderio di conoscere quello che è realmente, di vedere più che si può in noi e nel nostro destino su questa terra. Di questi due generi d'interesse io credo che il più profondo, ed il più utile ad eccitarsi, sia il secondo; credo che si possano anche riunire in un'azione e in un personaggio, purchè si trovino uniti spesso nel fatto, e tengo poi fermamente che sia metodo vizioso quello di trasportare negli avvenimenti la perfezione che non è che nell'idea, e che quando sia rappresentata in idea o veramente poetica e morale.—Voi vedete che ho voluto tentare di conservare entrambi questi mezzi di commozione e di riflessione, impiegandone uno nella tragedia e l'altro nel Coro.—A persuadermi di non aver riuscito ci vuol poco, perchè sento anch'io quanto l'esecuzione sia lontana dall'idea: ma a provarmi la falsità dell'idea sarebbero necessario molte ragioni, che spero di non sentire da voi, perchè amo credere che penserete in questo com'io.—Ben inteso che voi supplirete a questi cenni confusi e scritti alla sciamannata. La carta mi manca, e quel che è peggio il tempo. Non voglio ritardare a domani questa lettera per ridarla in più ragionevole figura intrinseca ed estrinseca. Dacchè ho perduta la speranza di divenire un giorno Accademico della Crusca, mi sono lasciato andare agli eccessi i più straordinarii della licenza: il peggio si è che la più parte di queste mie ciarle peccano contro il senso, ma a questo supplirà il vostro e a tutto l'indulgente vostra amicizia. Vorrei arrabbiarmi contro Torti che non mi scrive, ma con che diritto? Non tocca a me di negare! privilegi della pigrizia; ma se voi lo spingete, chi sa che non sia generoso! Ricordatemi alla Domenica e al Venerdì, ringraziate Mario dei cari saluti che gli rendo ben cordialmente. Alla degnissima vostra famiglia poi presentate l'espressioni della mia stima e della riconoscente mia amicizia coi più affettuosi complimenti di mia madre, di Enrichetta e di Giulietta. Chi sa che il signor Castillia non mi porti qualche altra vostra lettera! Questo pensiero mi tiene allegro. Scriverò al Canonico fra pochi giorni; intanto vi prego di fargli i miei più teneri e rispettosi saluti. E voi accogliete le assicurazioni della profonda stima e della inalterabile affezione del vostro

Amico vero A. MANZONI"

[2] Sopra la lentezza relativa del Manzoni nel preparare le sue tragedie il Sainte-Beuve ci diede questi schiarimenti: "Il Manzoni, tutti lo sanno, lavorava le sue tragedie lentissimamente. Questa lentezza, che può dipendere da diverse cagioni, come per esempio dalla delicatezza di un'organizzazione nervosa, la quale si può trovare impedita a tener sempre dietro alla fantasia e all'intelletto, questa lentezza considerata in sè stessa non sarà forse cosa lodevole. Ma ciò che sicuramente merita lode, e vuolsi anzi proporre ad esempio, è la coscienza adoperata da lui nel preparare i materiali, e nello studiare gli argomenti delle sue composizioni. Sarebbe difficile il dire quel ch'abbia fatto per l'Adelchi, di cui cominciò ad occuparsi sul serio, dopo il suo ritorno da Parigi a Milano, negli ultimi mesi del 1820. Egli si accinse a studiare da storico, emulando gli uomini, coi quali aveva fin'allora conferito, tutto ciò che potè trovare nelle cronache sulle circostanze della dominazione e dello stato de' Lombardi in Italia. Non leggeva superficialmente tanto da poter riuscire a dare un qualche colore locale, una tinta qualsiasi del Medio Evo ad un'opera di fantasia. No davvero, egli volle vedervi il fondo; si seppellì nella collezione Rerum Italicarum del Muratori, e prese anche famigliarità, com'egli dicea sorridendo, con qualcuno dei 49 grossi complici di Agostino Thierry."

[3] Il prof. Corrado Gargiolli mi fa noto che una signora, nel dividersi da un giovane che era da lei amato e che si era sposato ad un'altra donna, riaperse l'Adelchi alla scena di Ermengarda morente, e bagnandola delle sue lacrime scrisse all'amante una lettera commovente d'addio. Il Manzoni, cui venne dal Gargiolli riferito il caso, se ne compiacque soggiungendo: "Quelle erano davvero preziose postille," alludendo certamente alle lacrime, e al commento vivo che ne faceva il dolore di quell'abbandonata.

XVI.

Il Manzoni unitario.

Noi abbiamo fin qui toccato del Manzoni come riformatore dello stile poetico italiano, come scrittore religioso e come autore di tragedie storiche ed autobiografiche. Vediamo direttamente e particolarmente lo scrittore politico. Le opinioni politiche espresse in verso da un giovinetto di quindici anni non sembrano doversi pigliare molto sul serio. Quella spontaneità che appare, per lo più, nella manifestazione de' sentimenti di un giovine, è solo apparente; il giovine prima dei trent'anni sposa con ardore e difende con impetuosa eloquenza quelli che crede i suoi principii inviolabili e santi; ma egli non gli ha, gl'impara, li sposa, li riceve, gli accetta; rado accade che essi siano il prodotto di un intimo proprio convincimento. Il giovine, con tutta la sua furia simpatica che lo spinge a concepire i disegni più arditi e più vasti, a intraprendere le opere più pericolose, e con la felice illusione in cui vive che tutto il mondo sia suo, è meno libero assai dell'uomo maturo, tanto più composto e regolato nel suo modo di pensare, di sentire e di operare. Il giovine si crede libero, quando segue tutti i suoi istinti più diversi; l'uomo invece sente la libertà solamente dal punto, in cui egli incomincia a governare questa tumultuosa varietà d'istinti, a reggere la propria volontà, a dominare sè stesso. Non è quindi da chiedersi ad un giovine conto troppo severo di quel ch'egli abbia pensato politicamente fra i quindici ed i trent'anni; ma è poi tanto più mirabile il caso, in cui, come avvenne nella vita del Manzoni, si abbia a notare fra la giovinezza, la virilità e la vecchiaia d'un uomo una continuità progressiva di quei pensieri, che sono il fondamento e la regola della sua condotta civile. Del Manzoni si può dire che egli temperò con l'età il modo di manifestare i proprii pensieri; ma la somma di questi rimase costante e si confermò con la vita. Incominciò, come già sappiamo, a cantare il trionfo della libertà a quindici anni. Nel primo Canto del Trionfo incontriamo l'immagine dell'uccello che esce di gabbia e gode della sua libertà, adoprata a significare la gioia del prigioniero italiano ritornato libero:

   E a color che fuggir l'aspra catena,
     Prorompea sugli occhi e su le labbia
     Impetüosa del piacer la piena,
   Come augel che fuggì l'antica gabbia,
     Or vola irrequieto tra le frondi,
     Rade il suol, poi si sguazza ne la sabbia.

È singolare il vedere come le prime immagini della giovinezza manzoniana rifioriscono vive nella sua tarda vecchiaia. Il Manzoni, più che ottantenne, passeggiando ne' Giardini Pubblici di Milano, alla vista di uccellini chiusi in gabbia, compose alcuni eleganti distici, nei quali gli uccelli prigionieri, ai quali è contesa la vista del cielo, si lamentano per invidiare la sorte delle anitre che si diguazzano liberamente negli stagni:

   Fortunatæ anates quibus æther ridet apertus,
     Liberaque in lato margine stagna patent.
   Nos hic intexto concludunt retia ferro
     Et superum prohibent invida tecta diem.
   Cernimus heu! frondes et non adeunda vireta
     Et queis misceri non datur alitibus.
   Si quando immemores auris expandimus alas,
     Tristibus a clathris penna repulsa cadit.
   Nullos ver lusus dulcesve reducit amores,
     Nulli nos nidi, garrula turba, cient.
   Pro latice irriguo, læto pro murmure fontis
     Exhibet ignavas alveus arctus aquas.
   Crudeles escæ, vestra dulcedine captae
     Ducimus æternis otia carceribus.

L'Austria ricevette pure i primi colpi dal giovinetto Manzoni, nel Trionfo della Libertà:

   S'alzò tre volte e tre ricadde al suolo
     Spossata e vinta l'Aquila grifagna,
     Che l'arse penne ricusâro il volo.
   Alfin, strisciando dietro a la campagna
     Le mozze ali e le tronche ugne, fuggìo
     Agl'intimi recessi di Lamagna.

Non ci meravigliamo dunque che tra i Martiri dello Spielberg il conte Confalonieri sapesse a memoria e recitasse parecchie terzine del poema giovanile d'Alessandro Manzoni. L'anima gloriosa del francese Desaix caduto a Marengo combattendo contro gli Austriaci per quella che si sperava potesse divenire la libertà d'Italia, appare in una specie di Olimpo al giovine Poeta, il quale, pure imitando il noto incontro di Virgilio con Sordello, sa ancora trovare e produrre un nuovo effetto poetico:

   Allor ch'egli me vide il piè ramingo
     Traggere incerto per l'ignota riva,
     Meditabondo, tacito e solingo,
   A me corse gridando: "Anima viva,
     Che qua se' giunta, u' solo per virtute,
     E per amor di libertà s'arriva.
   Italia mia che fa? di sue ferute
     È sana alfine? è in libertate? è in calma?
     O guerra ancor la strazia e servitute?
   Io prodigo le fui di non vil'alma."

Dicono che il Manzoni ed il Mazzini, ritrovandosi insieme un giorno dell'anno 1860, si rallegrassero insieme d'essere stati, per lungo tempo, i soli veri unitarii d'Italia. Nel vero, entrambi misero una specie di ostinazione nel desiderare e nel predicare in tutti i modi ed in ogni occasione l'unità italiana. Anche il Monti, per dire il vero, nella Musogonia aveva collocata la seguente strofa:

   E voi di tanta madre incliti figli,
     Fratelli, i preghi della madre udite:
     Di sentenza disgiunti e di consigli,
     Che pensate, infelici, e chi tradite?
     Una deh sia la patria, e ne' perigli
     Uno il senno, l'ardir, l'alme, le vite.
     Del discorde voler che vi scompagna,
     Deh non rida, per Dio! Roma e Lamagna.

Si può anche ammettere che il Monti fosse in quel momento sincero, ed esprimesse con tali versi il proprio intimo sentimento; ma egli cantò tante volte idoli diversi, dal Braschi a Napoleone, dal Suvaroff all'Imperatore d'Austria, che una sua strofa unitaria non può far di lui un poeta unitario. Prima dell'anno 1860 gli unitarii in Italia si potevano contare; tra i liberali d'idee più avanzate prevaleva generalmente l'idea della federazione. Il professor De Benedetti racconta in questo modo il colloquio che il Mazzini avrebbe avuto col Manzoni: "Vede, Don Alessandro (avrebbe detto il Mazzini), durante un pezzo siamo stati noi due soli a credere all'unità di quest'Italia. Ora possiamo dire che avevamo ragione." Al che il Manzoni volendo mostrare che egli vi aveva avuto poco merito, perchè l'unità era inevitabile, con un malizioso sorriso avrebbe risposto: "Il padre del nostro amico Torti, che aveva sempre freddo, cominciava al primo fresco di settembre a dire: Vuol nevicare. A ottobre e novembre sentiva crescere il freddo e ripeteva: Nevica di sicuro. Finalmente, a gennaio o febbraio s'aveva una gran nevicata, e il buon Torti esclamava: L'avevo detto io che doveva nevicare." Ma, un anno innanzi, prima che il Mazzini gli facesse visita, egli, che era sempre stato un po' repubblicano e molto unitario, compiacevasi, in somma, di avere indovinato giusto giusto come il padre del Torti. "Alla fede dell'unità d'Italia (egli diceva) ho fatto il più grande dei sacrificii che un poeta potesse fare: quello di scrivere scientemente un brutto verso." Questo brutto verso si trova in un frammento di Canzone petrarchesca composta dal Manzoni nell'aprile dell'anno 1815, quando Gioachino Murat bandiva il suo famoso Proclama di Rimini, col quale chiamava alle armi gli Italiani, in nome dell'Unità italiana. Ma intanto che il Manzoni scriveva, la rotta di Tolentino, con tutti gli ambiziosi disegni del Murat, faceva cadere la penna di mano al nostro giovine Poeta, che, a mezzo della quinta strofa, si arrestava. Il frammento, più che quattro strofe finite, ci presenta un solo abbozzo, ove conviene tener molto conto de' pensieri ed usar qualche indulgenza alla inelegante povertà del verso. Nello stesso anno il giovinetto Leopardi componeva una specie di Orazione rettorica e reazionaria, della quale mi fece vedere una copia il marchese Ferrajoli di Roma. Quando verrà pubblicata, se pure a quest'ora non è già pubblica, sarà utile il riscontrare la Canzone del reazionario Manzoni con la prosa del Leopardi, il quale, per quanto intesi, era, alcuni anni dopo, col Nicolini tra quelli che si sdegnavano più forte contro il pietismo manzoniano e contro la sua teoria del perdono delle ingiurie. Il Manzoni nei versi del frammento, per la forma, classicheggia un po' pedestremente; ma ne' concetti egli si rivela moderno, e libero e coraggioso profeta d'un avvenire, intuito e sperato per l'Italia da pochi sapienti:

   O delle imprese alla più degna accinto,
     Signor, che la parola hai proferita,
     Che tante etadi indarno Italia attese;
     Ah! quando un braccio le teneano avvinto
     Genti che non vorrìan toccarla unita,
     E da lor scissa la pascean d'offese;
     E l'ingorde udivam lunghe contese
     Dei re tutti anelanti a farle oltraggio;
     In te sol uno un raggio
     Di nostra speme ancor vivea, pensando
     Ch'era in Italia un suol senza servaggio,
     Ch'ivi slegato ancor vegliava un brando.
   Sonava intanto d'ogni parte un grido,
     Libertà delle genti e gloria e pace,
     Ed aperto d'Europa era il convito;
     E questa donna di cotanto lido,
     Questa antica, gentil, donna pugnace,
     Degna non la tenean dell'alto invito;
     Essa in disparte, e posto al labbro il dito,
     Dovea il fato aspettar dal suo nemico,
     Come siede il mendìco
     Alla porta del ricco in sulla via;
     Alcun non passa che lo chiami amico,
     E non gli far dispetto è cortesia.
   Forse infecondo di tal madre or langue
     Il glorïoso fianco? o forse ch'ella
     Del latte antico oggi le vene ha scarse?
     O figli or nutre, a cui per essa il sangue
     Donar sia grave? o tali, a cui più bella
     Pugna sembri tra lor ingiuria forse?
     Stolta bestemmia! eran le forze sparse,
     E non le voglie; e quasi in ogni petto
     Vivea questo concetto:
     Liberi non sarem se non siamo uni;
     Ai men forti di noi gregge dispetto,
     Fin che non sorga un uom che ci raduni.
   Egli è sorto per Dio! Sì, per Colui
     Che un dì trascelse il giovinetto ebreo
     Che del fratello il percussor percosse;
     E fattol duce e salvator de' sui,
     Degli avari ladron sul capo reo
     L'ardua furia soffiò dell'onde rosse;
     Per quel Dio che talora a stranie posse,
     Certo in pena, il valor d'un popol trade;
     Ma che l'inique spade
     Frange una volta, e gli oppressor confonde,
     E all'uom che pugna per le sue contrade
     L'ira e la gioia de' perigli infonde.
     Con Lui, signor, dell'itala fortuna
     Le sparse verghe raccorrai da terra,
     E un fascio ne farai nella tua mano…

I versi non belli, in questo frammento, sono parecchi; ma il Manzoni alludeva, nel suo discorso, a questo:

Liberi non sarem se non siamo uni.

Per questa unità da lui voluta, sperata, predicata, fin da giovinetto, il Manzoni aveva il coraggio di combattere apertamente, quantunque così devoto al Capo spirituale della Chiesa, il potere temporale de' Papi. Per questo riguardo, il Manzoni s'accordava perfettamente con l'antico e col nuovo poeta Ghibellino, con l'Alighieri e col Niccolini; il Poeta quindicenne, nel Trionfo della Libertà, e però prima della sua pretesa conversione, mentrechè egli mostra come Dio, ossia la religione, insegni soltanto l'amore:

   Ei, con la voce di natura, chiama
     Tutti ad armarsi, e gli uomini accompagna
     E va d'ognuno al cor ripetendo: ama!

si rivolge dantescamente a Roma:

   Ahi! de la libertà l'ampia ruina
     Tutto si trasse ne la notte eterna,
     Ed or serva sei fatta di reina.
   Che il celibe Levita ti governa
     Con le venali chiavi, ond'ei si vanta
     Chiuder la porta e disserrar superna.
   E i Druidi porporati, oh casta, oh santa
     Turba di lupi mansüeti in mostra
     Che de la spoglia de l'agnel s'ammanta,
   E il popol riverente a lor si prostra
     In vile atto sommesso, e quasi Dei
     Gli adora e cole, oh sua vergogna e nostra!

Si offendeva il giovinetto Manzoni nel vedere che in Italia molto più che Cristo si adorasse il suo Vicario; egli presentiva già il giorno, in cui il Papa avrebbe finito per dichiararsi infallibile; perciò arditamente cantava:

     Infallibil divino a le devote
     Genti s'infinse, che a la putta astuta
     Prestâro omaggio e le fornîr la dote.

Si dirà facilmente da alcuno di que' devoti che si preparavano alla beatificazione di Alessandro Manzoni, che non è da tenersi conto del linguaggio intemperante di un giovine studente traviato; ma il guaio è che il Manzoni, quantunque ossequente alla Chiesa, in tutto ciò che riguarda la materia dommatica del Cattolicismo, non s'immaginava mai che verrebbe un giorno, in cui l'infallibilità e il potere temporale de' Papi diventerebbero due nuovi dommi, due nuovi articoli del Credo cattolico! Nell'Adelchi, lo stesso Desiderio re de' Longobardi, a cui l'Autore impresta pure i suoi proprii sentimenti religiosi, tanto da fargli dire vinto da Carlo Magno queste parole di sommissione, per le quali si riconosce nel vincitore la potenza del dito divino:

     In te del cielo
     Io la vendetta adoro, e innanzi a cui
     Dio m'inchinò, m'inchino,

quando si tratta di definire quali possano essere le relazioni di un Re che ambisce la piena signoria d'Italia col Papa, esclama:

        …. Roma fia nostra; e, tardi accorto,
     Supplice invan, delle terrene spade
     Disarmato per sempre, ai santi studii
     Adrian tornerà; re delle preci,
     Signor del Sacrifizio, il soglio a noi
     Sgombro darà.

In queste poche parole viene espresso, dodici anni prima, il concetto fondamentale dell'Arnaldo del Niccolini. Il Manzoni perciò non poteva in nessun modo accordarsi coi Gesuiti, i quali volevano che la Chiesa s'impacciasse nel governo politico del mondo; e fin dall'anno 1819, scrivendo da Parigi al suo proprio confessore Tosi un po' giansenista, esprimeva chiaramente il suo pensiero in proposito: "A malgrado (egli diceva) degli sforzi di alcuni buoni ed illuminati Cattolici per separare la religione dagli interessi e dalle passioni del secolo, malgrado la disposizione di molti increduli stessi a riconoscere questa separazione, e a lasciare la religione almeno in pace, sembra che prevalgano gli sforzi di altri che vogliono assolutamente tenerla unita ad articoli di fede politica che essi hanno aggiunto al Simbolo. Quando la Fede si presenta al popolo così accompagnata, si può mai sperare che egli si darà la pena di distinguere ciò che viene da Dio da ciò che è l'immaginazione degli uomini? I solitarii di Porto Reale l'hanno fatto, ma erano pochi, erano dotti, erano separati dal mondo, assistiti da quella grazia che non cessarono d'implorare." Ciò che è nuovo nel carattere religioso della letteratura manzoniana è, per l'appunto, questo richiamo della religione a' suoi principii fondamentali di carità e di libertà, questo accordo dei principii umanitarii del Vangelo coi principii umanitarii proclamati dalla Rivoluzione francese, la quale non gli osservò poi sempre essa medesima, ma intanto gli ha come consacrati nella società moderna. Gli scrittori cattolici francesi più venerati, come il Chateaubriand ed il Montalembert, rimasero, per questo riguardo, molto più indietro del Nostro. Il Montalembert, per esempio, che conobbe il Manzoni a Brusuglio nel 1836, discorreva un giorno con esso intorno all'assetto politico che si poteva sperare o disperare di dare all'Italia. Il Manzoni disse tosto che il suo ideale sarebbe stata l'unità d'Italia con un Principe di casa Savoia. Sperava il Francese che il Manzoni avebbe fatta un'eccezione pel dominio temporale del Papa, non potendo ammettere che un cattolico supponesse possibile qualsiasi attentato contro di esso; e però strinse i panni al Manzoni, chiedendogli quello che contasse di fare del Papa-Re. "Quando vi ho detto (rispose il Manzoni senza scomporsi) che voglio l'unità con un Principe che non è il Papa, mi par d'avere già risposto in anticipazione alla vostra dimanda." Nell'anno 1848, quando tutta l'Italia delirava per Pio IX e in casa dello stesso Manzoni il suo primogenito si faceva bello con la medaglia del Papa, il Manzoni fu de' pochissimi che non si lasciarono sedurre da un entusiasmo, che a lui pareva più funesto che utile all'unità italiana. Egli non si lasciava trasportare dalle opinioni volgari, quando non gli pareva che il senso volgare fosse il buon senso; ma voleva camminare co' suoi tempi, e progredire; anche nel modo di vestire, desiderando evitare ogni ridicola stranezza, fino agli ultimi anni di sua vita desiderava sempre mostrarsi uomo moderno. Di ogni ritorno al passato, di ogni passo che si dèsse per andare indietro, si doleva. Venerava i dommi cattolici, ma non trovava certamente che fossero pochi; e però quando intese che se ne voleva aggiungere uno nuovissimo, quello dell'infallibilità papale, il vecchio Manzoni si trovò intieramente d'accordo col giovinetto protestante del Trionfo della Libertà, si schierò dunque animosamente tra gli antinfallibilisti più risoluti e più rigorosi; "ma quando (scrive il Rizzi) egli, cattolico, seppe che in Vaticano era passata, come si direbbe noi laici, la nuova legge, non fece che esclamare: pazienza!, e non ne parlò più. E forse in questa sua sottomissione della ragione alla fede c'entrava per molto l'esempio del suo dottore e maestro l'abate Rosmini, il quale pure avea dichiarato di sottomettersi alla censura inflitta al suo libro delle Cinque Piaghe." Ma, in somma, egli si rallegrò che Roma fosse tolta al governo del Papa, ed accettò con piacere l'onore di venire ascritto nell'albo de' cittadini di Roma capitale, dove il Papa infallibile si era rintanato a fare il broncio a quell'Italia, che, come ben disse lo stesso Manzoni, egli benedisse prima del Quarantotto, per mandarla, dopo il Quarantotto, a farsi benedire. Egli conosceva il pregio di certi onori, i quali ricevono importanza dall'occasione e dalla qualità speciale di chi li riceve e di chi li concede; perciò egli che, a malgrado dell'intercessione del conte Andrea Cittadella e di Alessandro Humboldt, non avea temuto offendere l'Imperatore d'Austria ed il Re di Prussia, ricusando le loro decorazioni, gradiva poi una stretta di mano del re Vittorio Emanuele, una rosa del generale Garibaldi, ed un ben tornito complimento del più dotto fra i coronati viventi, Don Pedro d'Alcantara. Un tempo, quando pubblicò i Promessi Sposi, egli avea pure gradito le cortesie del Granduca di Toscana; ma non dimentichiamo ch'era quello il decennio glorioso, in cui nella piccola ospitale Toscanina riparavano gli esuli delle altre provincie d'Italia, il Pepe, il Colletta, il Poerio, il Leopardi, il Tommaseo, il Giordani ed altri più che venivano a riscaldare le loro speranze intorno alla più coraggiosa ed importante delle Riviste letterarie italiane, l'Antologia, e nel Gabinetto letterario del ginevrino Giampietro Vieusseux. Ed il Manzoni di nessuno faceva maggiore stima che di quegli Italiani, che aveano avuto la fortuna non solo di scrivere, ma di patire e di combattere per l'Italia; quando il Settembrini si dimenticò pertanto a segno da paragonare il Manzoni al vecchio Priamo che scagliava il suo telo senile, egli, sebbene sentisse tutta l'indegna acerbità dell'offesa, la voleva perdonare, non tanto perchè come cristiano egli lo avrebbe dovuto, ma perchè egli pensava che si dovesse perdonar molto ad un uomo, il quale era stato in prigione per la patria. È noto che il Manzoni, negli ultimi anni della sua vita, lavorava intorno ad un Saggio comparativo fra la Rivoluzione francese del 1789 e la Rivoluzione italiana del 1859. L'opera, tuttora inedita, non potè venir terminata; nella parte che riguarda la Rivoluzione francese, egli ammira l'Ottantanove e deplora e condanna il Novantatrè, che non gli pare sia stato nè utile nè, in alcun modo, necessario; trova, in somma, che il Novantatrè era un Ottantanove peggiorato; sono rimasti intatti di questa parte ben 286 fogli. La parte italiana, quale rimane fra le carte inedite del Manzoni, si compone di soli diciotto fogli; al nostro scopo, che è quello di mostrare quale concetto civile e politico il Manzoni si faceva della letteratura, basterà qui il riferirne, poichè la gentilezza e la memoria di un amico ci aiuta, alcuni saggi che il Manzoni stesso veniva leggendo ai più intimi ed assidui suoi frequentatori. Di Dante che voleva l'unità con Arrigo di Lussemburgo, il Manzoni scriveva: "Dante, il grande e infelice Italiano, che cercava in una qualche forza viva il mezzo di ottenere l'unità, credette di poterlo trovare nell'Impero. Ma, per verità, sarebbe difficile il decidere se questo sarebbe stato meno atto a crearla davvero o a mantenerla." Il Manzoni ammirava il Piemonte e sperava molto da esso; perciò lasciò scritto: "La concordia nata nel 1849 tra il giovane Re di codesta estrema parte della patria comune e il suo popolo ristretto d'allora, fu la prima cagione di una tale indipendenza; poichè fu essa, e essa sola, che rese possibile anche il generoso e non mai abbastanza riconosciuto aiuto straniero; e essa sola che fece rimaner privi d'effetto gli sforzi opposti della Potenza allora prevalente in Italia, e fatalmente avversa a questa indipendenza." Ma il Manzoni voleva il Piemonte italiano, non già l'Italia piemontese, e ancora meno l'Italia esclusa dal Piemonte o il Piemonte dall'Italia. Perciò quando il Piemonte formava con la Sardegna un regno separato, e l'Accademia delle Scienze, la quale soleva aggregarsi come Accademici stranieri gl'illustri Italiani delle altre provincie, nel 1833 eleggeva Accademico straniero il Manzoni, questi, rifiutando un tale onore, rispondeva al Presidente dell'Accademia conte Prospero Balbo in questi termini: "Un tanto onore sarebbe caramente pagato, se io non lo potessi ottenere che col titolo di Accademico straniero; standomi più a cuore l'esser compatriotta di Lei e degli altri uomini insigni, di cui codesta Accademia si vanta, che d'esser loro collega; chè, se questo è un effetto della degnazione loro, quello è un dono di Dio, che mi ha fatto nascere in questa Italia, che è superba di chiamarli suoi." L'ultime sue parole d'affetto furono pure per la città di Torino. Egli le scrisse nell'anno 1873, poco prima di morire, e suonano così: "Trista condizione di cose, in cui anche gli uomini di alta mente e amici della patria non potevano far altro che disperare o sognare." Vittorio Emanuele gli pare: "Un Re che al coraggio e alla costanza della sua stirpe univa un sentimento per l'Italia, che in questo caso non consentiremmo di chiamare ambizione, perchè la parte di vanità e d'interesse personale sottintesa in un tale vocabolo scompare nella grandezza e nella nobiltà del fine." Riconosce l'antica forza di resistenza opposta allo straniero invasore dall'esercito del piccolo Piemonte, con una felice similitudine: "L'esercito piemontese aveva saputo tener addietro, da quella parte, per ben tre anni, il novo invasore, come quel valente ragazzo olandese aveva opposta all'acqua che stava per prorompere da un punto dell'argine la sua piccola, ma tenace schiena, aspettando soccorso." Riconosce l'importanza del soccorso, che ci diedero i Francesi nel 1859; ma, nello stesso tempo, osserva che l'Italia si è pure un poco aiutata da sè: "La vita d'una nazione non può essere un dono d'altri. È bensì vero che una nazione divisa in brani, inerme nella massima parte, e compressa da una preponderante, ordinata e vigilante forza straniera, non potrebbe da sè rivendicare il suo diritto di essere; e questa è la sua infelicità e un ricordo di modestia. Ma è anche vero che non lo potrebbe nemmeno con qualunque più poderoso aiuto esterno senza un forte volere e uno sforzo corrispondente dalla sua parte. Un braccio vigoroso può bensì levar dal letto un paralitico, ma non dargli la forza di reggersi e di camminare." Per la stessa ragione il Manzoni ammirava la grande impresa compiuta dal generale Garibaldi; ma, quanto più gli appariva meravigliosa, tanto più ei vi riconosceva l'opera del popolo italiano che la secondò: "E mille valorosi condotti, come a una festa, da un valorosissimo a conquistare a questa patria comune un vasto e magnifico tratto del suo territorio, da principio con l'armi, a un'immensa disuguaglianza di numero, come a prova dell'ardire, e poi con la sola forza del nome e della presenza, come a prova della spontaneità dell'assenso." Questa pare a me e deve parere a molti bella e buona sapienza politica; si chiama pure (a dispetto di certe sottigliezze e squisitezze di stile che possono talora apparir soverchie) un parlar chiaro e sicuro, come d'uomo profondamente convinto. Il Manzoni ebbe pure la grande fortuna che gli eventi gli diedero ragione. Nel 1848 egli voleva essere più tosto repubblicano con l'unitario Mazzini, che federalista col re Carlo Alberto; del che dolevansi i suoi amici piemontesi, in ispecie il Balbo e l'Azeglio. Quest'ultimo, perciò, scrivendo a sua moglie sfogava un po' di risentimento politico contro il Manzoni ed i suoi amici:[1] "Salutami gli amici, Grossi, Manzoni, e di' a tutti che io, a forza di girare, conosco l'Italia più di loro; che non si fan repubbliche senza repubblicani; e di questi non ne ho quasi incontrati in Italia. Di' a Manzoni che, se riesce a far repubblicano Carlo Alberto, non riescirà a far Pio IX. Sarebbe metter in seno all'Italia due serpi che si combatterebbero e lacererebbero loro e lei. Per amor di Dio, contentiamoci di fare uno Stato forte sul Po, costituzionale; e preghiamo Dio di trovare un venti per cento che capisca de quoi il s'agit. A star sempre in una camera, parlar cogli stessi uomini, si giudica male un paese e il mondo pratico. Lasciamo andar la donna del giudizio di Salomone e il suo bambino; a lei Salomone dava la scelta, a noi la necessità la nega. Giudizio, cose possibili, e non poesia, per carità!" Pare che il Manzoni opinasse allora che chi amava l'Italia dovea piuttosto come, nel giudizio di Salomone, imitar la vera madre, la quale preferiva piuttosto saper viva ed intatta in mano altrui la propria creatura, che riscattarla dalle altrui mani per farla in pezzi, L'Azeglio dava al Manzoni del poeta, altri, con parola che vorrebbe significare il medesimo, lo qualificavano, a motivo delle sue idee unitarie, per un utopista; al che egli rispondeva: "Eh! ben anche la vostra federazione è un'utopia; poniamo pure che l'unità sia un'utopia; la federazione è un'utopia brutta, come l'unità è invece un'utopia bella." Dolevasi, invero, che i Francesi avessero chiesto un compenso del sangue versato in Lombardia, col privare l'Italia occidentale di due suoi antichi baluardi; ma, dominato dal suo concetto unitario, egli provava a consolarsi della dolorosa iattura con una similitudine: "Se la culla del Regno d'Italia (egli pensava) è stata la Savoia, come il fanciullo cresciuto in età, non avendo più bisogno della culla, la può dar via, così fece il Regno d'Italia cedendo la Savoia alla Francia." Ma la Savoia era all'Italia, più ancora che una culla, una fortezza poderosa; chi la ricevette, invece, non si rallegrò forse di un acquisto proporzionato alla gravità della nostra perdita. Ma in Savoia non si parlava italiano, e uno de' più forti elementi per costituire fortemente l'unità della patria pareva al Manzoni l'unificarla in un solo linguaggio. Quindi il sacrificio nazionale, per la perdita di Nizza e Savoia, ma specialmente della Savoia, al Manzoni dovette parer minimo. Essa non poteva, secondo il concetto manzoniano, convergere al centro comune della patria, non poteva associarsi e partecipare all'opera vivificatrice del linguaggio, che doveva aver sede unica e base fondamentale in Firenze. Poichè ogni unità, ma specialmente ogni unità organica, ha il suo centro di attrazione e di gravità, poichè ogni albero ha la sua radice, la radice dell'albero della lingua italiana, ond'essa dovea ricevere succo e forza vitale, era pel Manzoni in Firenze, nella parlata fiorentina, come quella che in Toscana appare meno incerta, e, come più ricca di storia civile, necessariamente anco più ricca di parole adatte per esprimere un maggior numero di pensieri. "In fatto di lingua (diceva egli con vivacità a' suoi amici), in fatto di lingua non c'è un più o un meno; non c'è che il tutto o il niente." Egli voleva il tutto; e non ammetteva alcuna diminuzione di questo concetto ch'ei si era fatto dell'unica base stabile e conveniente alla lingua italiana.[2] Chi, dicendosi manzoniano, cercava l'italiano in altre parti della Toscana, fuori del Contado fiorentino, spostava la sua questione, mostrava di frantenderla e irritava il valentuomo che l'aveva proposta, forse più degli avversarii aperti, i quali volevano che la lingua si pigliasse dove tornava più comodo. La questione della lingua non è punto nuova in Italia; essa è nata, si può dire, con la nostra letteratura. Merito principale del Manzoni fu d'avere ricominciato a trattarla nazionalmente, con quella stessa serietà, con la quale l'aveano posta nel Trecento e nel Cinquecento il primo poeta e il primo prosatore d'Italia, Dante e il Machiavelli. Il merito dovea parere tanto maggiore nell'anno 1824, quando il Manzoni s'accinse la prima volta di proposito allo studio della lingua italiana, poichè Vincenzo Monti con la Proposta e gli Accademici della Crusca coi loro illustri e minuti battibecchi facevano anzi nuova mostra infelice, con meschini dispetti provinciali, dell'antica e funesta discordia italiana. Il Manzoni poi, lasciando stare le questioni minori, prese, come suol dirsi, il toro per le corna, si domandò se lingua c'era, dov'essa era migliore, e quando la fiorentina si riconoscesse migliore, richiese che quella sola si studiasse e adottasse per farne la lingua di tutti gl'Italiani. Il ragionamento pareva molto ovvio e semplice; il Manzoni aveva rinnovato il miracolo dell'uovo di Colombo. Ma quando tutti ebbero capito quello che prima non capivano, pur volendo mostrare di saperne di più, invece di convenire che egli avea ragionato bene, si voltarono contro di lui come contro un sofista che, invece d'allargare la questione, l'avea ristretta troppo. Ma egli aveva ragionato anche questa volta da unitario. Egli ammirava forse nella storia più Firenze che Roma, e si sarebbe contentato che la sede del Regno d'Italia rimanesse in Firenze anzi che trasferirsi a Roma, la quale in ogni modo desiderava di gran cuore ridonata all'Italia libera dal dominio temporale de' Papi. I Fiorentini doveano parere al Manzoni gli Ateniesi d'Italia, la lingua fiorentina la nostra lingua attica. Ma, perch'egli potesse avere pienamente ragione, era prima necessario ascoltarlo; ora l'Italia non convenne a Firenze, per avvivarne l'antica floridezza, per mettervi dentro tutto il suo sapere, tutta la sua civiltà e per farne veramente la prima città d'Italia, com'era un tempo Atene per la Grecia; l'Italia vi si attendò per cinque anni, non vi pose stabile radice e, migrando nel 1870 ad altra riva, la lasciò più povera e più negletta di prima. La teoria manzoniana quindi ci pare ora più che mai eccessiva, poichè in Firenze non s'accentra più, com'era sperato dal Manzoni e dall'Azeglio, il fiore della civiltà, il nerbo della vita italiana; ed una lingua per ottenere il consenso universale d'una nazione ha bisogno di derivar la sua forza da una vita locale più gagliarda delle altre. Questa vita privilegiata potrebbe esistere, ma non può dirsi, pur troppo, che esista ora in Firenze; quindi la necessità di ammettere la ragionevolezza di que' temperamenti che il Fauriel proponeva già al Manzoni fino dal loro primi colloquii intorno alla lingua italiana. "Il Fauriel (scriveva il Sainte-Beuve), udendo le ingegnose ragioni del Manzoni, non ardiva contradirle in tutto, ma nondimeno aveva qualche cosa da ridire. L'Italia ebbe pure in tutti i tempi i suoi grandi scrittori; perchè dunque non potrà averne anche oggi? È poi un male così grande ed irrimediabile, alla fin fine, d'esser costretto a scegliere, ed anche, in un certo senso, a comporsi la lingua, a tenerla sollevata dalle trivialità, a cercare d'indirizzarla verso un tipo superiore, che s'appoggia direttamente, ma in modo larghissimo, all'esempio degli antichi maestri? È vero che, superate le difficoltà, ci vuole poi l'ingegno per far bene. Ma il Fauriel mostrava che qui il campo era assai vasto e glorioso. E ardiva, per certo, rimandare all'amico un rimprovero che ne avea ricevuto sovente; e incitarlo a non voler prendere per regola del suo lavoro un ideale di perfezione, a cui non è dato giungere interamente, neppure a coloro che ne hanno in sè il sentimento. E rifacevagli quella guerra che spesso il Manzoni compiacevasi fare a lui, per troppa incontentabilità. Il Fauriel era infatti incontentabile in ciò che componeva, ma sulle cose; il Manzoni sullo stile." Noi possiamo ora trovar ragionevoli i temperamenti del Fauriel, ma dobbiamo essere persuasi ch'essi non convincevano il Manzoni, il quale mirava ad ogni specie di perfezione, e riconosceva come un elemento di perfezione l'unità. Bisognava in Italia scrivere popolarmente per essere intesi da tutti, bisognava parlare una sola lingua, avere una sola fede religiosa, una sola fede politica; senza di ciò non vi è armonia e vera grandezza italiana. Il centro dell'unità del linguaggio doveva esser Firenze, quello dell'unità della fede Dio, come lo intende e lo spiega la Chiesa cattolica. Voleva pure unità di stirpe nel popolo italiano, e però nel suo celebre Discorso sopra la Storia de' Longobardi che ebbe il merito di promuovere in Italia una nuova serie d'indagini storiche molto importanti,[3] escludeva i Longobardi conquistatori da quel popolo italiano che aveano vinto ed oppresso e derubato, ma in nessun modo, potuto assimilarsi. Voleva bontà ed unità di leggi, liberate dal capriccio; quindi la critica legislativa della sua storia della Colonna Infame, ove, col pretesto di biasimar le antiche leggi, colpisce nella stessa condanna le nuove sommamente arbitrarie dell'Austria. Anche le idee avevano il loro principio, il loro centro d'unità; nel Dialogo sull'Invenzione egli sostiene la dottrina rosminiana delle idee innate, e le fa, per conseguenza, anche se non lo dice, risalire a Dio. Per lo stesso sentimento d'armonia universale, il Manzoni sente l'alto dominio della poesia, che abbraccia in sè l'universalità delle cose sentite e pensate, e la superiorità della poesia alla storia. "È una parte (egli esclama nel suo Discorso sul Romanzo storico) della miseria dell'uomo il non poter conoscere se non qualcosa di ciò ch'è stato, anche nel suo piccolo mondo; ed è una parte della sua nobiltà e della sua forza il poter congetturare al di là di quello che può sapere." La realtà per lui era la base, l'ideale, la corona di ogni edificio poetico; perciò il suo edificio piantato sopra la terra poteva facilmente salire fino al cielo. Per questi supremi diritti concessi alla poesia, il Manzoni, sebbene confessi che ad ogni uomo d'ingegno giova il consenso altrui per assicurarsi delle proprie forze, sentendo sè stesso tanto superiore al volgo da poter talvolta osare di andar contro le opinioni volgari, lasciò pure scritto: "La maggior parte de' poeti, le cui opere sopravvissero a loro, ebbero qualche pregiudizio da vincere, e non divennero immortali se non con l'affrontare il loro secolo in qualche cosa." Ma non frantendiamo: il Manzoni, per quanto grande rivoluzionario egli fosse in letteratura, non ha già voluto dire ai giovani che, per riuscire originali, essi hanno ad urtare i sentimenti più squisiti e più delicati del loro tempo; lo strano ed il grottesco non vogliono già dire l'originale; il Manzoni è sempre ragionevole anche quando egli è maggiormente poeta, ossia quando il suo ingegno si alza di più; egli ha definito una volta la poesia l'esaltazione del buon senso, e basta questa definizione per farci intendere quello ch'egli crede si possa dire o non dire in poesia. Il reale e l'ideale devono essere fusi insieme; l'ideale deve alzare il reale, non abbassarlo, non abbassarsi ad esso; l'uno fuori dell'altro non istà nella poesia; e con uno solo di questi elementi non c'è vera poesia. Il Manzoni, in questo come in altri casi, vuole tutto o niente. Egli, così destro e fine nel cogliere i particolari accidenti delle cose, li nota soltanto per le loro attinenze con quell'armonia generale che, nell'età nostra, nessuno ha sentita più del Goethe. E quantunque assai lontano il Nostro dal possedere quelle profonde conoscenze nelle scienze fisiche e naturali, che il Tedesco aveva acquistate, è mirabile la loro concordia nell'alto concetto dell'unità ideale della scienza, o, se vogliam meglio, delle scienze. "Questo esser costretti (scriveva il Manzoni) a spezzar lo scibile in tante questioni, questo vedere come tante verità nella verità ch'è una, e in tutte vedere la mancanza e insieme la possibilità, anzi la necessità d'un compimento, questo spingerci che fa ognuna di queste verità verso dell'altre, questo ignorare che pullula dal sapere, questa curiosità che nasce dalla scoperta, com'è l'effetto naturale della nostra limitazione, è anche il mezzo, per cui arriviamo a riconoscere quell'unità che non possiamo abbracciare." Io mi sono forse troppo dilungato a parlare d'un Manzoni diverso da quello che gli stranieri si figurano. Ma tante volte mi è accaduto di sorprendere sulle labbra di gentili forestiere un sorriso ironico perchè richiesto d'indicar loro uno scrittore italiano da leggersi, io raccomandavo a tutte ostinatamente il Manzoni, tante volte mi sentii rispondere: sono pur noiosi que' suoi Promessi Sposi ch'io ho voluto dimostrare dapprima: che il Manzoni sarebbe per noi un grande uomo anche senza i Promessi Sposi; ed ora mi proverò a dichiarare le ragioni, per le quali i Promessi Sposi non possono parer noiosi a noi, e, se non mi lusingo troppo da me stesso, non dovranno parer più noiosi ai forestieri, pur che s'avvezzino a leggerli a quel modo con cui siam soliti a leggerli in Italia da un mezzo secolo e specialmente da alcuni anni in qua, la guida costante di un rationabile obsequium.

[1] Nell'anno 1832 (il Camerini afferma nel 1831) troviamo l'Azeglio stabilito in propria casa con la figlia primogenita di Alessandro Manzoni, la Giulia, che ebbe per padrino il Fauriel, divenuta sua moglie, intento a dipinger quadri e a limare il Fieramosca. "Le lettere (egli scrive ne' Miei Ricordi) erano rappresentate in Milano da Alessandro Manzoni, Tommaso Grossi, Torti, Pompeo Litta, ec. Vivevano fresche memorie dell'epoca del Monti, Parini, Foscolo, Porta, Pellico, di Verri, di Beccaria; e per quanto gli eruditi od i letterati viventi menassero quella vita da sè, trincerata in casa ed un po' selvaggia, di chi non ama d'esser seccato, pure a volerli, e con un po' di saper fare, c'erano, e si poteano vedere, Io mi trovavo portato in mezzo a loro come genero di Alessandro Manzoni; conoscevo tutti, ma mi ero specialmente dimesticato con Tommaso Grossi, col quale ebbi stretta ed inalterata amicizia sino alla sua pur troppo precoce morte. A lui ed a Manzoni specialmente, desideravo di mostrare il mio scritto e chiedere consigli, ma di nuovo mi era presa la tremarella, non più pittorica, ma letteraria. Pure bisognava risolversi, e mi risolsi; svelai il mio segreto, implorando pazienza, consiglio e non indulgenza. Volevo la verità vera. Fischiata per fischiata, meglio quella d'un paio d'amici che quella del pubblico. Ambidue credo che si aspettavano peggio di quello che trovarono, a vedere il viso approvativo, ma un po' stupito, che mi fecero, quando lessi loro il mio romanzo. Diceva sorridendo Manzoni: "Strano mestiere il nostro di letterato; lo fa chi vuole dall'oggi al domani! Ecco qui Massimo: gli salta il grillo di scrivere un romanzo, ed eccolo lì che non se la sbriga poi tanto male." Pare che il Manzoni abbia detto invece: "Eccolo lì che ci riesce alla prima."—Lo stupore del Manzoni e del Grossi, del resto, aveva il suo fondamento, se è vero, come pare verissimo, quello che il signor Gaspare Barbèra disse aver inteso dalle stesso D'Azeglio: "Quando io scrissi (avrebbe detto l'Azeglio) la prima volta per illustrare la Sacra di San Michele (che fu stampata nel 1829), mi posi al lavoro dopo aver fatto raccolta di modi italiani, i quali mi pareva che dovessero fare un grande effetto sui lettori, e ne riempii più che potei il mio scritto. Andato in quei giorni a Milano, offrii a Manzoni una copia della Sacra, e lo pregai di notarmi ciò che gli fosse parso errore o difetto nello stile. Assunse di buon grado l'incarico; e dopo alquanti giorni essendomi fatto rivedere, il Manzoni mi fece per l'appunto notare quei passi che a me parevano i più belli e studiati, richiamandomi alla maggiore semplicità del dire. E coteste note accompagnate dalle sue osservazioni verbali mi aprirono un nuovo orizzonte nell'arte della scrivere e del dipingere."—Il Camerini lasciò pure scritto che il Grossi ed il Manzoni aiutarono l'Azeglio a correggere le bozze di stampa del Fieramosca. Quando poi si pubblicò il Niccolò de' Lapi, l'opinione che premeva di più all'Azeglio, ch'egli temeva di più, era quella del Manzoni, ond'egli, nel dicembre dell'anno 1840, scriveva alla sua seconda moglie, Luisa Blondel (la prima moglie, la figlia del Manzoni, di cui è figlia la vivente egregia marchesa Alessandrina Ricci, gli era morta dopo quattro anni di matrimonio): "Se puoi sapere che cosa dice Manzoni del mio lavoro, scrivimene qualche cosa; chè, confesso, desidero di uscir d'incertezza. Già sai che da lui mi basta sentire un: Tanto può passare." Col suo matrimonio con la Blondel l'Azeglio era diventato una seconda volta parente del Manzoni; tuttavia non può dirsi che i loro caratteri, le loro idee, i loro sentimenti si convenissero. La marchesa Alessandrina Ricci, figlia dell'Azeglio, nipotina del Manzoni, mi rappresenta in questo modo espressivo il contrasto morale che impediva ai due grandi di avere fra loro più intime relazioni: "Erano (ella scrive) di troppo diversa natura, dissentivano troppo in alcuni punti religiosi e politici. Mio nonno, fosse carattere o maggior filosofia, vedeva, per esempio, tutto color di rosa, prendeva le cose come venivano, sapeva insomma passar sopra facilmente a quelle che più lo contrariavano; ciò che, unito alla sua robusta costituzione, gli permise di campare fino ad ottantotto anni. Mio padre, invece, non prendeva, pur troppo, le cose come venivano; e di lui si può veramente dire ciò che io rimpiango continuamente, que la lame avait usé le fourreau."—I dissensi politici fra l'Azeglio ed il Balbo da una parte e il Manzoni dall'altra si rivelarono specialmente nell'anno 1848, nel quale il Manzoni, nella terza giornata, dopo aver quasi rischiato il capo, firmando l'indirizzo dei Milanesi a Carlo Alberto, invocato in soccorso dei Lombardi, appena Carlo Alberto fu entrato in Lombardia, vide in lui più tosto un usurpatore che un liberatore; e si associò pertanto alla parte repubblicana che voleva una Lombardia indipendente. Tuttavia, i due grandi trattavano ad un modo le questioni di civile decoro. Un giorno il conte Andrea Cittadella, insigne e coltissimo gentiluomo di Padova, ciambellano dell'Imperatore d'Austria, si presentò al Manzoni per offrirgli col miglior garbo possibile una decorazione austriaca. Il Manzoni rifiutò non solo con fermezza, ma persino con una certa durezza, anzi non permise altrimenti che si continuasse un tale discorso. La Blondel aveva annunciato il caso all'Azeglio, e questi rispondeva: "La condotta di Manzoni porterà un ribasso almeno del 25% alla partita croci; e lo vado dicendo a tutti. Un giovane assai caldo mi parlava di questo fatto in modo che avrei avuto una terribile tentazione di dire: anch'io nel mio piccolo, eccetera; ma son uscito vittorioso dal conflitto, e spero che il mio avvocato difensore potrà giovarsi di questo fatto nell'assise della valle di Giosafat." Questi uomini dunque, che forse non si amavano molto, erano invincibilmente legati l'uno all'altro da un mutuo rispetto, fondato sopra la stima leale delle loro reciproche eccellenti qualità morali. È noto poi come siano state le premure dell'Azeglio governatore a Milano che fecero ottenere al Manzoni, presidente dell'Istituto Lombardo, quella pensione di dodicimila lire annue, con le quali il grand'uomo potè passar meno angustiati gii ultimi anni della sua vita.

[2] La questione della lingua (mi scrive il Rizzi) fu, come tutti sanno, una delle passioni della sua vita. Ne parlava quanto più poteva, e con tutti; e si può dire che, dopo l'unità politica, era la cosa che gli stava più a cuore di tutte. Negli ultimi giorni della sua vita, le idee gli si erano confuse, ed egli tratto tratto diceva cose che non avevano senso, o, per lo meno, legame; ma, se si tirava il discorso sulla questione della lingua, parlava ancor sempre con quella maravigliosa lucidità, che fu uno de' suoi pregi più notevoli in tale questione; lui, così mite, così pieno di riguardi con tutti, diventava insofferente, s'irritava e qualche volta anche si sfogava. E non era già la contradizione che gli désse noia; era il modo con cui gli avversarii ponevano la questione, era il vedere che le sue ragioni non erano, anche dai migliori, combattute con altre ragioni, o negate così all'ingrosso, o trascurate, come se non meritassero nemmeno attenzione. E anche in questa, come nelle altre questioni, egli non era uomo da accontentarsi di un'adesione parziale. O tutto, o niente; la sua logica non gli permetteva di fermarsi e di acquetarsi in un punto intermedio."

[3] Sopra l'importanza vera del Discorso storico del Manzoni intorno alla storia dei Longobardi abbiamo l'opinione stessa dell'Autore, quale egli dovette esprimerla al Fauriel ed al Cousin. Parlando di quel Discorso, il Sainte-Beuve diceva: "Vorrei quasi paragonarlo ad alcuna di quelle argutissime lettere critiche di Agostino Thierry sulla nostra storia di Francia. Senza aver la pretesa di schiarire quella del Settentrione d'Italia nel IX secolo, questo Discorso produce l'effetto di rendere visibile l'oscurità, dimostrando come quella che pareva esser luce, non era. Quel che impazientava il Manzoni sovra ogni cosa e lo impazientava al pari del suo confratello Thierry (ch'egli chiamava con questo nome), erano le formole vaghe, volgari, vigliacche, con le quali gli storici moderni avevano nascoste e quasi soffocate le questioni che essi non intendevano. Egli era solito epilogare, scherzando, il senso del suo Discorso storico in questi termini a un dipresso:—Ho fatto sapere ad essi che non sapevano nulla; ho detto loro che non avevo nulla da dire; dopo di che li saluto, pregandoli di far lunghi studii, affine di sapercene dir qualche cosa. E mi pare che anche questo si chiami aver fatto un passo."—Sopra il valore del Manzoni come storico ci promette un saggio critico importante l'illustre storico lombardo Cesare Cantù.

XVII.

Intermezzo lirico: Le strofe del Marzo 1821. Il Cinque Maggio.

Ho promesso di discorrere finalmente de' Promessi Sposi; ma, cosa che parrà alquanto singolare, questi non s'intendono bene se prima non rileggiamo insieme le strofe del Marzo 1821 ed il Cinque Maggio. Ho detto rileggiamo, ma io temo pur troppo che le prime non solo alla maggior parte de' lettori stranieri, ma ad un gran numero di lettori italiani non siano note affatto; e le doveva ignorare il Settembrini, quando, con improvvida leggerezza, lanciava al Manzoni l'accusa di essere stato il poeta della reazione. Le conosceva invece benissimo e le faceva gustare vivamente al pubblico affollato di Zurigo nell'anno 1856 l'illustre critico Francesco De Sanctis, conchiudendone la lettura concitata con queste belle parole: "Non è una Marsigliese, neppure una poesia del Berchet, potentissimo de' nostri poeti patriottici. Ne' versi di costui sentite una certa profondità di odio che spaventa, la tristezza dell'esigilo, l'impazienza del riscatto, ed un tale impeto e caldo di azione che talora vi par di sentire l'odore della polvere ed il fragore degli scoppi; qui è il suo genio. La poesia del Manzoni non è solo un inno di guerra agl'Italiani, ma un richiamo a tutte le nazioni civili; la parola del poeta è indirizzata agl'Italiani ed ai Tedeschi insieme. In tanta concitazione di animi non gli esce una sola parola di odio, di vendetta, di bassa passione; lontano parimente da ogni iattanza, non vi è il fremito e la spuma della collera, ma la quieta temperanza di un'anima virile." Ma questa bellissima tra le liriche manzoniane fu il meno fortunato de' suoi componimenti; nato nel marzo del 1821, alto scoppiar della rivoluzione torinese, quando s'attendeva da un giorno all'altro che l'esercito liberatore piemontese varcasse il Ticino, compresso dalle armi del Bubna e del Latour ogni moto rivoluzionario in Piemonte, rimase nascosto fino al giugno dell'anno 1848, quando la rivoluzione lombarda non solo era già scoppiata, ma ferveva calda e vivissima la pugna fra gl'Italiani e gli Austriaci. Prostrata nuovamente ogni speranza italiana, tornò a nascondersi in Lombardia fino all'anno 1859, e solo fece capolino nella Rivista Contemporanea dell'anno 1856, dopo che il De Sanctis l'ebbe recitata a Zurigo. Nel 1859 si ristampò, ma oramai come una poesia già vecchia, divenuta rara, non già come una lirica viva, eloquente, e piena di affetti vigorosamente italiani. Così essa tornò a dimenticarsi, e non si trova ancora, ch'io sappia, in alcuna nelle nostre antologie poetiche.

[1] E pure mancò poco che per essa il Manzoni non rischiasse il capo, quando si pensi che per assai meno si empirono di generosi patriotti italiani le carceri di Gradisca e dello Spielberg. È noto come il Confalonieri, quando in attesa de' Piemontesi si ponevano già dai congiurati lombardi del 1821 le prime basi di un Governo provvisorio, abbia pregato l'amico suo Manzoni di adoprare i suoi buoni amici presso il canonico Sozzi di Bergamo, affinchè questi si disponesse a prendervi parte; il Sozzi fu abbastanza avveduto per rispondere: "Vengano prima e allora ci troveranno tutti pronti." Nel processo, il Confalonieri ebbe il torto di parlar troppo e nominò pure, quasi a propria scusa, il Sozzi fra i membri designati al futuro Governo provvisorio; un commissario di Polizia si recò prontamente presso il canonico; ma questi, evitando a studio di nominare il Manzoni, si strinse soltanto nelle spalle, dichiarando semplicemente che al Confalonieri egli non avea parlato mai e che non era mai nè pure passata fra loro alcuna lettera; il che era vero; così il Manzoni per quella volta fu salvo, ma il pericolo corso fu assai grande e gli dovette porre nell'animo un vivo sgomento. Il Confalonieri, che aveva il difetto di parlar troppo, sapeva a memoria le tremende strofe manzoniane per la rivoluzione piemontese del marzo e, se avesse parlato, il Manzoni era perduto. Quindi il Manzoni si ritrasse, in que' giorni pieni di sospetti e di denuncie, da Milano a Brusuglio, ove per tutto il tempo che durarono i processi politici, non cessò di temere. Non mai la poesia politica italiana aveva spiccato il suo volo così alto. Vi è una grande serenità e tranquillità in tutto l'Inno; ma quella pace sarebbe stata tanto più minacciosa ai tedeschi dominatori, se allora essi avessero potuto prenderne notizia. Col dedicarla poi nell'anno 1848 a Teodoro Koerner, il Manzoni che, come s'è detto, avea avuto la fortuna d'essere stato compreso e consacrato dal Goethe[2] volle fare intendere alla Germania che egli sapeva distinguere il popolo tedesco da' suoi Governi tirannici; ben disse dunque il Carcano che quella dedicatoria era omaggio insieme e rimprovero alla nobile nazione che ci calpestava. Il ritrarsi del Manzoni a Brusuglio, se fu consiglio di prudenza domestica, non fu già una viltà civile. Egli non faceva all'Austria alcuna concessione. Egli non le abbandonava nulla. Egli avea cessato di sperare nell'opera immediata della rivoluzione, quindi ritirava il suo Inno per riserbarlo a tempi migliori. Ma intanto continuava a protestare, e dolersi del presente, a custodire tutte le sue speranze patriottiche dell'avvenire. La rivoluzione piemontese era fallita; di là dunque per il momento non c'era da attendere altro. Ma nessuno ebbe una fede più viva del Manzoni nell'opera del tempo. Ed egli continuò a scrivere anche ne' giorni più desolati come un uomo che spera. Sentì e si persuase che egli non era fatto per cospirare, che la parte anche piccolissima da lui, quantunque inettissimo, presa alla congiura del Confalonieri non era adatta al suo temperamento; ma sentì che come scrittore, col permesso della Censura, la quale non avrebbe capito ogni cosa e approvato molte cose che non capiva, egli avrebbe ancora potuto fare un gran bene. Egli mostravasi ossequente alla censura; ne accettava tutti i tagli, bene persuaso che ciò che sarebbe rimasto sarebbe bastato a far penetrare il suo pensiero. Così sappiamo ora che la Censura austriaca fece parecchi tagli nell'Adelchi. Il Manzoni, specialmente quando egli scriveva il Discorso storico, ne' Longobardi raffigurava non già i Lombardi, ma la stirpe germanica, i Tedeschi, gli Austriaci. Il Giannone avea scritto che la signoria de' Longobardi doveva ormai risguardarsi come una signoria nazionale, perchè dominante in Italia da oltre due secoli; il Manzoni, in quegli anni, ne' quali la Grecia si agitava per la sua guerra d'indipendenza, demandava semplicemente se non fossero pure stranieri i Turchi in Grecia, benchè vi dominassero da tre secoli. La Censura soppresse quel brano. Quattro altri bei versi, ne' quali il giovine Adelchi, supplicando il padre a far la pace con papa Adriano, parlava dell'attitudine degli oppressi Latini, ossia degli oppressi Italiani:

   Di questa plebe che divisa in branchi,
     Numerata col brando, al suol ricurva,
     Ancor dopo tre secoli, siccome
     Il primo dì, tace, ricorda o spera,

furono pure sacrificati. Così, nel Coro dell'Adelchi, scritto dopo che fallì la rivoluzione piemontese del 1821, tra gli altri versi vennero soppressi questi, ove l'Autore si rivolgeva agl'Italiani:

   Stringetevi insieme l'oppresso all'oppresso,
     Di vostre speranze parlate sommesso.

Ma il censore che si credeva furbo, lasciò passare nello stesso Coro questi altri versi, ove il volgo latino vedendo arrivare i Franchi guerrieri (si legga Buonaparte coi Francesi),

                      rapito d'ignoto contento,
     Con l'agile speme precorre l'evento,
     E sogna la fine del duro servir.

I Franchi, ossia i Francesi, arrivano contro i Longobardi, ossia contro i Tedeschi di Lombardia, contro gli Austriaci; ma, invece di liberare, portano in Italia una nuova tirannide, la tirannide napoleonica; e il censore si contenta che l'ultima strofa del Coro manzoniano dica così:

   Il forte si mesce col vinto nemico,
     Col novo signore rimane l'antico;
     L'un popolo e l'altro sul collo vi sta.
     Dividono i servi, dividon gli armenti,
     Si posano insieme su i campi cruenti
     D'un volgo disperso che nome non ha.

Era un canto di dolore, che dovea seguire naturalmente a quello tutto fiducioso che, nel marzo 1821, il Manzoni stesso avea composto, quando i congiurati lombardi aspettavano con ansia le novelle che l'esercito rivoluzionario piemontese avea passato il Ticino. Ma il censore non capì intanto che era l'Austria la rea progenie,

     Cui fu prodezza il numero,
     Cui fu ragion l'offesa,
     E dritto il sangue, e gloria
     Il non aver pietà,

e che con quelle parole il Manzoni vendicava finalmente nel 1822 i martiri piemontesi e lombardi della libertà italiana. Dopo il 1821, il Manzoni fece della Censura austriaca la propria alleata, per divulgare i suoi pensieri patriottici; prima di quel tempo, aveva, invece, anch'esso, se bene inutilmente, cospirato un poco. Ne' Cento Giorni, quando si temeva in Italia una nuova ristorazione della tirannide napoleonica, il Manzoni aveva, fra il 23 aprile e il 12 maggio 1814, composta una Canzone che si conserva inedita a Milano, diretta contro la signoria francese in Italia. Ne reco qui, per saggio, la prima strofa, la quale mi pare abbastanza significante pel suo particolare sapore manzoniano:

   Fin che il ver fu delitto, e la menzogna
     Corse gridando, minacciosa il ciglio,
     Io son sola che parlo, io sono il vero,
     Tacque il mio verso e non mi fu vergogna.
     Non fu vergogna, anzi gentil consiglio;
     Che non è sola lode esser sincero,
     Nè rischio è bello senza nobil fine.
     Or che il superbo morso
     Ad onesta parola è tolto alfine,
     Ogni compresso affetto al labro è corso;
     Or si udrà ciò che sotto il giogo antico
     Sommesso appena esser potea discorso
     Al cauto orecchio di provato amico.

Dopo il 1822, il Manzoni giudicò cosa più prudente e più pratica il confidarsi tutto all'ignoranza de' suoi censori. Quando il 5 maggio 1821 morì Napoleone, il nostro Poeta si trovava a Brusuglio. Parve a sua madre che quella morte sarebbe stata degno soggetto di un suo canto. Il Manzoni si raccolse brevemente in sè stesso, e bastarono sole ventiquattro ore ad ispirargli una delle più belle liriche del nostro secolo, nella quale il soggetto epico trae pure calore lirico dalle impressioni stesse che il poeta aveva ricevute nella sua gioventù alla vista di Napoleone. Lo Stoppani ci ha fatto noto che il verso del Cinque Maggio, ove si rappresenta il modo terribile, con cui il primo Napoleone poteva talora guardare:

Chinati i rai fulminei,

risale ad una impressione ricevuta dal Manzoni giovinetto al Teatro della Scala. Dopo la battaglia di Marengo il Buonaparte era venuto a Milano più da padrone che da liberatore: entrò una sera in teatro, e scorse in un palco la contessa Cicognara, nemica implacabile che non gli perdonava l'ignobile mercato di Venezia. Incominciò a puntare gli occhi sopra di lei, quasi per fulminarla, e per tutta la sera non si rimosse. "Che occhi! (diceva il Manzoni, il quale stava nel palco della Contessa), che occhi aveva quell'uomo!" e richiesto se potesse esser vero che quegli occhi gli avessero suggerito il noto verso, rispose: "Proprio così, proprio così." Il Buonaparte gli aveva lasciato certamente per questo ricordo e per altri consimili una forte, viva e profonda impressione. Al poeta Longfellow, che, in una sua visita al Manzoni, avvertiva la Impossibilità, nella quale egli si era trovato di render convenientemente in inglese tutte le bellezze di quell'Inno straordinario, il Manzoni con la sua solita originalità ed arguzia, pur facendosi tutto rosso in viso, rispondeva: "Dio buono! Era il morto che portava il vivo!" Il Manzoni era, del resto, sinceramente persuaso che si fosse un poco esagerato il merito del proprio componimento, a cui fu senza dubbio non piccola gloria e pari fortuna l'essere stato proibito dalla Polizia austriaca, tradotto in tedesco dal Goethe, imitato in francese dal Lamartine.[3] L'Austria aveva tosto riconosciuto nel Cinque Maggio del Manzoni un omaggio troppo splendido al suo temuto nemico, che pareva come evocato dal suo sepolcro, in quelle strofe potenti. Non ne permise la stampa; ma il Manzoni ebbe l'accorgimento di presentarne alla Censura due esemplari: un esemplare il censore tenne gelosamente presso di sè; dell'altro esemplare non prese alcuna cura; ed il caso volle che andasse smarrito negli stessi ufficii di Polizia, o sia che qualche impiegato lo trafugasse e trafugato lo divulgasse; onde il Manzoni poteva poi dire con la sua consueta maliziosa bonarietà, ch'egli il Cinque Maggio non l'aveva proprio stampato mai, non avendone mai avuto il tempo, poichè quella Polizia che ne avea proibita la stampa, si era essa data briga di farlo divulgare, tanto che usci la versione tedesca del Goethe prima che ne fosse conosciuta alcuna edizione italiana. Ogni grande scrittore ha nella sua vita il suo momento epico; il Manzoni lodato dal Goethe che canta Napoleone, dovette sentire tutta la potenza del suo genio poetico, e ch'egli, in quel punto, dominava veramente le altezze:

     Lui sfolgorante in soglio
     Vide il mio genio e tacque.

L'io Manzoniano qui appare potente come in quei forse già da me notato, forse più ambizioso di qualsiasi più audace affermazione:

     E scioglie all'urna un cantico
     Che forse non morrà.

Il Cinque Maggio è il degno epilogo poetico di una grande epopea storica, tanto più grande e più eloquente in bocca d'un poeta che poteva, con fiero e legittimo orgoglio, quasi unico tra i poeti italiani e francesi del suo tempo, dirsi innanzi alla memoria di Napoleone

     Vergin di servo encomio,
     E di codardo oltraggio,

quantunque la notizia che abbiamo ora di una Canzone antinapoleonica, non codarda certamente e non oltraggiosa, ma pure scritta dal Manzoni, quando il colosso napoleonico non lo poteva più ferire, scemi una parte dell'efficacia potente che avevano que' due mirabili versi.[4]

[1] Mi giova qui pertanto rimetterla sotto gli occhi de' lettori nella sua integrità:

      MARZO 1821
      —
      ALL'ILLUSTRE MEMORIA
      DI TEODORO KOERNER
      POETA E SOLDATO
      DELLA INDIPENDENZA GERMANICA,
      MORTO SUL CAMPO DI LIPSIA
      IL GIORNO XVIII D'OTTOBRE MDCCCXIII
      NOME CARO A TUTTI I POPOLI
      CHE COMBATTONO PER DIFENDERE O PER RICONQUISTARE
      UNA PATRIA
      ————-
      ODE

       Soffermati sull'arida sponda,
         Volti i guardi al varcato Ticino,
         Tulti assorti nel novo destino,
         Certi in cor dell'antica virtù,
              Han giurato: non fia che quest'onda
         Scorra più tra due rive straniere;
         Non fia loco, ove sorgan barriere
         Tra l'Italia e l'Italia, mai più!
       L'han giurato; altri forti a quel giuro
         Rispondean da fraterne contrade,
         Affilando nell'ombra le spade
         Che or levate scintillano al Sol.
              Già le destre hanno strette le destre;
         Già le sacre parole son porte:
         O compagni sul letto di morte,
         O fratelli su libero suol!
       Chi potrà della gemina Dora,
         Della Bormida al Tanaro sposa,
         Del Ticino e dell'Orba selvosa
         Scerner l'onde confuse nel Po;
              Chi stornargli del rapido Mella,
         E dell'Oglio le miste correnti,
         Chi ritogliergli i mille torrenti
         Che la foce dell'Adda versò;
       Quello ancora una gente risorta
         Potrà scindere in volghi spregiati,
         E a ritroso degli anni e dei fati
         Risospingerla ai prischi dolor:
              Una gente che libera tutta,
       O fia serva tra l'Alpe ed il mare,
         Una d'arme, di lingua, d'altare,
         Di memorie, di sangue e di cor.
       Con quel volto sfidato e dimesso,
         Con quel guardo atterrato ed incerto,
         Con che stassi un mendìco sofferto
         Per mercede nel suolo stranier,
              Star doveva in sua terra il Lombardo;
         L'altrui voglia era legge per lui;
         Il suo fato un segreto d'altrui;
         La sua parte servire e tacer.
       O stranieri, nel proprio retaggio
         Torna Italia, e il suo suolo riprende;
         O stranieri, strappate le tende
         Da una terra che madre non v'è.
              Non vedete che tutta si scote
         Dal Cenisio alla balza di Scilla?
         Non sentite che infida vacilla
         Sotto il peso de' barbari piè?
       O stranieri! sui vostri stendardi
         Sta l'obbrobrio d'un giuro tradito:
         Un giudizio da voi proferito
         V'accompagna all'iniqua tenzon:
              Voi che a stormo gridaste in quei giorni:
         "Dio rigetta la forza straniera;
         Ogni gente sia libera, e pêra
         Della spada l'iniqua ragion."
       Se la terra, ove oppressi gemeste,
         Preme i corpi de' vostri oppressori,
         Se la faccia d'estranei signori
         Tanto amara vi parve in quei dì;
              Chi v'ha detto, che sterile, eterno
         Sarìa il lutto dell'itale genti?
         Chi v'ha detto che ai nostri lamenti
         Sarìa sordo quel Dio che v'udì?
       Sì, quel Dio, che nell'onda vermiglia
         Chiuse il rio che inseguiva Israele,
         Quel che in pugno alla maschia Giaele
         Pose il maglio ed il colpo guidò;
              Quel che è Padre di tutte le genti,
         Che non disse al Germano giammai:
         "Va, raccogli ove arato non hai;
         Spiega l'ugne, l'Italia ti do."
       Cara Italia! dovunque il dolente
         Grido uscì del tuo lungo servaggio,
         Dove ancor dell'umano lignaggio
         Ogni speme deserta non è;
              Dove già libertade è fiorita,
         Dove ancor col segreto matura,
         Dove ha lagrime un'alta sventura,
         Non c'è cor che non batta per te.
       Quante volte sull'Alpi spiasti
         L'apparir d'un amico stendardo!
         Quante volte intendesti lo sguardo
         Ne' deserti del duplice mar!
              Ecco alfin dal tuo seno sboccati,
         Stretti intorno a' tuoi santi colori,
         Forti, armati de' propri dolori,
         I tuoi figli son sorti a pugnar.
       Oggi, o forti, sui volti baleni
         Il furor delle menti segrete;
         Per l'Italia si pugna, vincete!
         Il suo fato sui brandi vi sta.
              O risorta per voi la vedremo
         Al convito de' popoli assisa,
         O più serva, più vil, più derisa
         Sotto l'orrida verga starà.
       O giornate del nostro riscatto!
         O dolente per sempre colui
         Che da lunge, dal labbro d'altrui,
         Come un uomo straniero le udrà!
              Che a' suoi figli narrandolo un giorno
         Dovrà dir, sospirando: "Io non v'era;"
         Che la santa vittrice bandiera
         Salutata in quel dì non avrà.

Notiamo, tuttavia, come ci sembri molto probabile che l'ultima strofa sia stuta composta dal Manzoni tra il poetico furore delle Cinque gloriose Giornate di Milano.

[2] Un opuscolo tedesco intitolato: Interesse di Goethe per Manzoni fu tradotto per cura dell'Ugoni in italiano. Ma alle notizie contenute in quell'opuscolo conviene premettere le poche parole che si trovano negli Annalen del Goethe, le quali non mi ricordo che siansi finqui citate dai biografi del Manzoni, neppure del Sauer. Raccogliendo dunque il Goethe nella memoria i casi principali della sua vita, nell'anno 1820, scriveva: "Quanto alla letteratura straniera, io m'occupai del Conte di Carmagnola. L'amabilissimo autore Alessandro Manzoni, un poeta nato, per avere infranta la legge di unità di luogo, fu da' suoi concittadini accusato di romanticismo, sebbene de' vizii di questo non se ne sia appigliato alcuno a lui. Egli s'attenne al procedimento storico; la sua poesia prese un carattere interamente umano; e sebbene egli indugi poco nelle metafore, i suoi voli lirici divennero gloriosi come gli stessi critici malevoli furono costretti a riconoscere. I nostri buoni giovani tedeschi potrebbero vedere in lui un esempio per mantenersi naturalmente in una semplice grandezza; ciò servirebbe forse a trattenerli da ogni falso trascendentalismo." L'anno seguente, negli stessi Annalen, il Goethe scriveva che dall'Italia aveva ricevuta l'Ildegonda del Grossi, ove doveva ammirare molte cose, senza essersi tuttavia potuto formare un concetto pieno e preciso del lavoro; e soggiungeva: "Perciò tanto più gradito mi riesce il Conte di Carmagnola, tragedia del Manzoni, un vero e schietto poeta, che concepisce chiaramente, che va a fondo delle cose, e che sente umanamente." L'articolo del Goethe nel giornale: Ueber Kunst und Alterthum, si compendiava in queste parole: "Noi non abbiamo trovato nel suo dramma un solo passo, ove avremmo desiderata una parola di più o di meno. La semplicità, la forza e la chiarezza sono nel suo stile fuse indissolubilmente, e, per questo riguardo, non ci periteremo di definire come classico il suo lavoro."

[3] Dopo aver letto il Cinque Maggio, il Lamartine ne aveva scritto così al suo amico De Virieu: "J'ai été bien plus satisfait que je ne m'y attendais de l'ode de Manzoni; je faisais peu de cas de sa tragédie (Il Conte di Carmagnola); son ode est parfaite. Il n'y manque rien de tous ce qui est pensée, style et sentiment; il n'y manque qu'une plume plus riche et plus éclatante en poésie. Car, remarque une chose, c'est qu'elle est tout aussi belle en prose et peut-être plus; mais n'importe; je voudrais l'avoir faite." Quest'ultima confessione, in bocca del Lamartine, vale quanto il più splendido elogio.

[4] In un articolo intitolato: Storia dei maneggi letterarii in tempo del dominio di Buonaparte, inserito, alla caduta del primo Impero, nel secondo numero del giornale Lo Spettatore, leggiamo che parecchi del così detto partito filosofico che manteneva idee repubblicane e però avverse a qualsiasi tirannide, finirono con far la corte al primo Console e poi all'Imperatore. Il poeta Lebrun riguardava come soverchia degnazione, come una discesa, il sedersi del Buonaparte sul trono dei re:

         Et l'heureux Bonaparte est trop grand pour descendre
         Jusqu'au trône des rois.

Il poeta Chènier, pel suo Ciro, riceveva una pensione di seimila franchi. Non mancarono i poeti genealogisti. L'Esmenard, per esempio, faceva discendere il Buonaparte da un Baldus re degli Ostrogoti, e lo fingeva parente del re di Svezia Gustavo IV. "Il padrone disgradò la ridicola adulazione, non fece alcun caso di quell'ostrogoto lignaggio, e nobilmente dichiarò che la famiglia Buonaparte incominciava dal 18 brumaio, êra di salute per la Francia. Pure il poeta genealogista, sulle prime fischiato, dopo due o tre anni ricavò frutto dalla sua cortigianeria." Nell'elogio del Viennet proferito all'Accademia francese dal conte di Haussonville, troviamo che il Viennet repubblicano avea risposto all'Esmenard con un'Epistola, ov'era questa strofa:

         J'estime tes aïeux, mais j'aime mieux te voir
         Être grand par toi-même, et ne leur rien devoir.
         La France, en t'elevant au trône de ses maîtres,
         A compté tes hauts faits, et non pas tes ancêtres.

Dicono che l'Imperatore, pur ignorandone l'autore, abbia molto gradito l'Epistola, e siasi esso stesso preso la briga di divulgarla. Quanti fatti consimili avrà avuto occasione di notare e però di ricordare il giovine Manzoni in Francia ed in Italia, e quanto disgusto deve egli aver provato alla caduta di quel Grande, nel vederlo indegnamente insultato da quegli stessi che l'avevano maggiormente esaltato! Il Rosini, ne' suoi Cenni di Storia contemporanea (Pisa, 1851), dice del Buonaparte console com'egli "nelle sue prime campagne in Italia onorò gl'ingegni dei viventi e dei trapassati, come una festa solenne celebrar fece per Virgilio, come un'altra egli ne promosse pel trasporto delle Ceneri dell'Ariosto, come una Iscrizione ordinò d'apporre sulla porta della casa, dove abitò Corilla in Firenze, come fondar fece una cattedra di Letteratura dalla Nazione israelitica, per farne grazia al loro poeta (Salomone Fiorentino), e come finalmente, volendo conoscer di persona l'Alfieri, e ributtato da lui, gli rispondesse non già come appare dalla Vita di quello (anno 1800, cap. 28), ma, per quanto allor se ne disse, precisamente così:—Aveva letto le vostre opere, e aveva desiderato di conoscervi; ho letto il vostro biglietto e me n'è passata la voglia.—" Ma il Buonaparte fece destituire il Cicognara, consigliere di Stato in Milano, per aver accettata la dedicazione de' versi del poeta Ceroni Mantovano, il quale sotto il nome di Timone Cimbro lamentava la caduta e il destino della Repubblica di Venezia. Secondo il Cantù (Cronistoria dell'Indipendenza italiana) deve attribuirsi al Ceroni il Sonetto che incomincia:

       Tinse nel sangue de' Capeti il dito
         Il ladron Franco; e, di sue fraudi forte,
         Vincitor scese nell'ausonio lito,
         Ebbro gridando: Libertade o morte.

E finisce:

       Che più? fra noi seder dee un Gallo in trono?
         Ahi! se cangiar tiranno e libertade,
         O terra, ingoia il donatore e il dono.

In un breve scritto di Giovanni Rosini: Sugli Epistolari del Cesarotti e del Monti, trovo intorno al Cicognara questa notizia: "Tornato in questo tempo in Milano e creato Consigliere di Stato, co' nobili suoi modi e col suo bell'ingegno a sè attirava gli sguardi dell'universale il conte Leopoldo Cicognara, e insieme con lui, anzi, come è più naturale, al disopra di lui, la bella, colta ed animosa sua consorte. Col cuore sempre vòlto a compiangere la caduta e il destino della veneta Repubblica, sua cara patria, ella fece gran plauso a certi versi del poeta Ceroni Mantovano, che trattavano quell'argomento e che furon letti, per quanto mi venne riferito, tra un gran numero di convitati, a pranzo da lei. Per l'arditezza dei sentimenti levaron grido, e mentre alcuni se ne ripetevano imparati a memoria, pochi giorni appresso comparvero stampati colla intitolazione: Versi di Timone Cimbro a Cicognara. Colui che comandava in Milano le armi francesi, partir fece un giandarme, che, cambiatosi di brigata in brigata, recò velocissimamente i Versi a Napoleone, il quale colla stessa sollecitudine ordinò la destituzione del Cicognara, e la sua cacciata da Milano. Allora fu che riparossi in Toscana, dove si diede a continuar lo studio delle Belle Arti, che gli affari politici gli avevano fatto interrompere. Ma la Contessa rimase in Milano." Il Monti, invece, del primo Console cantava:

                                         L'anima altera,
         Che nel gran cor di Bonaparte brilla,
         Fu dell'italo Sole una scintilla;

    poi volgendosi al Console stesso per rappresentargli le miserie
    d'Italia, aggiungeva:

                                              Vedi che, priva
         Del Creator tuo sguardo
, appena è viva.

    Il poeta Lodovico Savioli, nel 1803, salutava in Napoleone "il
    guerrier della vittoria alunno;" Luigi Lamberti "l'eroe dei Numi
    amor," e infine esclamava:

         Fondar popoli e far con sante leggi
         La virtute reina e il vizio domo,
         Impresa è sol d'immortal Nume, o d'uomo
                                     Che a Nume si pareggi.

Il poeta Veneto Buttura diceva da Venezia a Napoleone:

         Sull'indegne mio piaghe affisa il ciglio,
         Vien, vinci, abbatti i coronati mostri;
         E rendi a te la gloria, a me la vita.

    Son note le basse adulazioni del Cesarotti, autore della
    Pronea, che parlava in versi a Napoleone, dicendo:

Parlo in prosa ai mortali, in versi ai Numi.

    Il Foscolo non inneggiò a Napoleone, ma non fu insensibile alle
    grazie della vice-regina Beauharnais:

                                          Novella speme
         Di nostra patria, e di sue nuove grazie
         Madre e del popol suo, bella fra tutte,
         Figlia di regi, e agli Immortali amica.

    Un'Ode del Crocco scritta per la Nascita del Re di Roma e citata
    dal Cantù, cantava:

         Si scosse il Tebro, lo squallor depose
         Roma, rinata allo splendor dal soglio,
         Ed alla maestà si ricompose
                                     Del prisco orgoglio.
         Brillò limpido il Sol, di repentina
         Gioia su i sette Colli alzossi un grido,
         E più superba l'aquila latina
                                     Uscì dal nido.

    Il Gagliuffi voltava in distici latini il Codice napoleonico. Il
    Monti aveva celebrato nel vincitore di Marengo il liberatore
    d'Italia:

         Il giardino di Natura
         No, pei barbari non è.

    Ma nella sua visione presentendo in Napoleone l'ambizione di
    diventar Sovrano, gli fa consigliar da Dante d'impadronirsi della
    signoria:

                                      Vate non vile
         Scrissi allor la veduta meraviglia
         E fido al fianco mi reggea lo stile
         Il patrio amor che solo mi consiglia.

Nel tempo stesso scriveva al Cesarotti: "Il Governo mi ha comandato e m'è forza obbedire. Batto un sentiero, ove il voto della Nazione non va molto d'accordo colla politica, e temo rovinare. Sant'Apollo m'aiuti, e voi pregatemi senno e prudenza." Lo stesso Monti dedicando la traduzione dall'Iliade al Beauharnais che gli avea ottenuto il posto di storiografo del Regno d'Italia, scriveva nella dedicazione: "Se il cielo, invidiandovi ai nostri giorni, vi avesse concesso agli eroici, Omero vi avrebbe collocato vicino ad Achille fra Patroclo e Diomede. Noi, testimoni delle vostre alte virtù, vi collochiamo in grado più d'assai eminente; tra Minerva ed Astrea, vicino al massimo vostro Padre." Napoleone tuttavia si doleva di avere per sè tutta la piccola e contro di sè tutta la grande letteratura. Non mancò a Napoleone il suo improvvisatore imperiale, Francesco Gianni, che, pensionato con seimila franchi l'anno, cantava:

         Quell'eroe terribil tanto,
         Onde Ettor di vita uscì,
         In due lustri non fe' quanto
         Bonaparte in un sol dì.

Il Mascheroni prima di morire scriveva al Serbelloni: "Vi prego dire a Buonaparte ch'egli è in cima di tutti i miei pensieri," e gli dedicò la Geometria del Compasso. "Egidio Patroni, perugino (scrive il Cantù nella Cronistoria), oltre altri componimenti, fece la Napoleonide, collezione di cento Odi, ciascuna preceduta da una medaglia incisa, celebranti i fasti dell'Eroe." Tra i lodatori del Buonaparte, il Cantù ricorda ancora Quirico Viviani, Giulio Perticari, Carlo Porta, Saverio Bettinelli, Paolo Costa, Cesare Arici, Felice Romani, Davide Bertolotti, Mario Pieri che d'aver lodato si pentì troppo tardi, Angelo Mazza. "Il divinizzare Napoleone (scrive ancora il Cantù) fu un luogo comune dei nostri retori. Nell'Università di Padova, dinanzi al suo busto, il Rettore magnifico conchiuse l'orazione;—Veneriamo, o signori, la presenza del Nume. -" Il Giordani nel Panegirico, dove si vanta di "altamente sentire la dignità del secolo," ribocca di espressioni simili a queste: "Il mondo è venuto in potestà di tale, non oso dir uomo. Invitando gl'Italiani a considerare le grandezze de' tuoi benefizii, augusto Principe, in cui la nostra nazione adora il più caro benefizio che riconosca dall'Imperatore in Italia. Quale altro che Iddio, o virtù somiglievole agli Dii, poteva fare sì stupenda consonanza? La virtù di questo divino spirito non ci lascia sembrar temeraria qualunque speranza." Nello stesso Panegirico il Giordani chiama Napoleone "l'Ottimo e Massimo," e loda Cesena di fare ogni anno riaprire l'Accademia con le lodi del Buonaparte, egli che più tardi biasimò poi l'uso dell'Università di Torino di lodare ogni anno il Re di Sardegna.

XVIII

I Promessi Sposi.

I Promessi Sposi furono qualche cosa d'impreveduto e di singolare, non pure nella letteratura italiana, ma nella vita stessa del Manzoni. Per quanto i Cattolici abbiano desiderato farne il loro proprio romanzo, nessuno avrebbe mai immaginato che dalle mani dell'Autore degl'Inni Sacri e delle Osservazioni sulla Morale cattolica sarebbero usciti i tipi di Don Abbondio e della Signora di Monza. Come intorno alla conversione religiosa, furono fatte e scritte parecchie congetture intorno alla vera origine dei Promessi Sposi. Pare che, nel primo concetto, il soggetto principale del romanzo dovesse essere la conversione dell'Innominato; e ci vuol poca fatica a indovinare da quella scelta, che il Manzoni voleva ancora col proprio romanzo adombrarci un episodio della propria vita. Secondo il Sainte-Beuve, l'idea di eleggere la forma del romanzo sarebbe venuta al Manzoni dall'intendere che in quel tempo il Fauriel meditava anch'esso un romanzo storico, del quale pare che la scena dovesse collocarsi in Provenza.[1] Ma poichè l'affermazione del Sainte-Beuve mi pare alquanto vaga o non è probabile che il Manzoni abbia fatto un romanzo solamente perchè il Fauriel ne volea fare un altro, ma più tosto si crederebbe vero il contrario, cioè che il Fauriel trovandosi a Brusuglio, quando il Manzoni avea già terminato e stava correggendo i Promessi Sposi, potesse pensare esso a qualche cosa di simile, gioverà ricorrere ad altre spiegazioni. Camillo Ugoni, che poteva forse averne avuto alcun sentore in casa stessa del Manzoni che lo amava e stimava moltissimo, lasciò scritto nella sua Biografia del Filangieri, che l'idea di eleggere ad un suo lavoro educativo la forma di romanzo venne al Manzoni dal leggere un passo della Scienza detta Legislazione del Filangieri, ove si raccomanda come ottima lettura educatrice ai fanciulli, che entravano nel decimo anno, i romanzi storici.[2] La congettura dell'Ugoni mi pare avere qualche grado probabile, in quanto che, nell'anno in cui il Manzoni incominciò a scrivere i Promessi Sposi cioè nel 1821 (e non dopo pubblicato l'Adelchi, come afferma il Sainte-Beuve), la sua figlia primogenita Giulia avea per l'appunto undici anni, e il figlio Pietro dieci. Alieno com'egli era dal mandare i figli a scuola, dopo il duro esperimento che della scuola aveva fatto egli medesimo, il Manzoni dovette, senza dubbio, desiderare di potere scrivere, se gli riusciva, prima d'ogni cosa, un buon romanzo storico, che in Italia non esisteva pur troppo, per i suoi proprii figliuoli. E mi reca meraviglia che tra le tante cagioni astruse che s'andarono a cercare per chiarirsi come il Manzoni si fosse indotto a scrivere un romanzo, quest'una così ovvia, così semplice, non siasi ancora indicata. Il Manzoni, come ho già avvertito, era un lettore e un postillatore di libri infaticabile; la biblioteca di Don Ferrante dovea, per la varietà, somigliare alcun poco alla sua. Egli era dell'opinione non molto comune, o almeno poco ascoltata, che i libri si stampassero per venir letti; e leggeva di tutto; di storia e di poesia, di teologia e di filosofia, di agronomia e di giurisprudenza; e di tutto facea tesoro nella sua memoria prodigiosa, e succo di vera sapienza più ancora che di semplice dottrina. Egli discorreva volentieri coi libri che leggeva come se fossero persone vive, ed entrava volentieri con essi in segreta e minuta polemica, quando gli pareva che sragionassero. Altre volte egli se ne lasciava inspirare, e questo fu appunto il caso che gli dovette occorrere prima di scrivere i Promessi Sposi. Quando il Manzoni ebbe letto in uno Studio biografico del tedesco Sauer, per quali ragioni artistiche, politiche, religiose, egli si fosse condotto a scrivere i Promessi Sposi, accompagnando le parole con un arguto sorriso, sclamò: Cospetto! questo signore deve essere un gran dotto, perchè di me e delle cose mie ne sa assai più che non ne sappia io. E, dopo aver dichiarato che di quelle intenzioni sotterranee, sintetiche, subbiettive o che so io egli non ne avea avute mai, raccontò per la centesima volta ad uno de' suoi amici presenti come l'idea del romanzo gli fosse nata a Brusuglio, dove egli avea per qualche tempo creduto cosa prudente il ritirarsi con Tommaso Grossi e con la famiglia, quando a Milano erano incominciati gli arresti de' Carbonari. Egli s'era portato in campagna due libri: la Storia milanese del Ripamonti, scritta, com'è noto, in latino, ed un'opera del Gioia: Economia e Statistica. Il Ripamonti gli suggerì l'episodio che, fin dal principio, fissò in particolar modo la sua attenzione e poco mancò non diventasse il pernio di tutta l'opera; l'episodio dell'Innominato. Dal Gioia gli venne l'idea della inutilità delle leggi, quando queste non siano in armonia coi costumi, ed i legistatori rimangano stranieri al paese.[3] È lecito il supporre che, prima di accingersi a scrivere i Promessi Sposi, il Manzoni siasi consigliato col suo confessore canonico Tosi; è lecito il supporre che, nel primo disegno, annunziando il Manzoni di voler narrare la conversione d'un reprobo alla fede, egli abbia incontrato un'approvazione piena ed assoluta. L'Innominato che si convertiva pubblicamente nel cospetto del cardinal Federigo, era il Manzoni stesso che, dopo avere per dodici anni lottato per credere, annunziava finalmente che il canonico Tosi gli avea toccato il cuore, lo avea vinto e fatto cosa di Dio; era il Manzoni stesso che confessava, anzi esagerava ai proprii occhi ed agli altrui la sua antica empietà, per far più grande il miracolo della Chiesa, la quale avea avuto la virtù di attirarlo nel proprio seno. Chi cerca ora in qual modo il Manzoni siasi condotto a credere, non ha da fantasticar molto, ma semplicemente da rileggere con un po' d'attenzione la scena commovente dell'incontro dell'Innominato col cardinal Federigo. Con pochissime mutazioni, si può sostituire al nome dell'Innominato quello del Manzoni, al nome del cardinal Borromeo quello di monsignor Tosi, con la sicurezza d'avere scritta ne' Promessi Sposi la propria confessione autentica, ma trasformata, dissimulata ed ingrandita in opera d'arte, del poeta convertito.[4] Aggiungiamo che, quando i Promessi Sposi si pubblicarono, il Tosi era già vescovo, e sarebbe forse stato assunto all'onore del cappello cardinalizio, senza quel po' di giansenismo ch'era rimasto nella sua dottrina, e che dovea dispiacere alla Curia Romana quanto piaceva, invece, al Manzoni. Ciascuno che rilegga que' capitoli de' Promessi Sposi, e li confronti con la diligente biografia che di Luigi Tosi scrisse il professor Magenta, si persuaderà facilmente che il Manzoni innestò la figura del cardinal Federigo sopra quella del proprio santo confessore. Ma ciò che da principio doveva essere l'intiero libro, diventò poi un semplice episodio di esso. Il Manzoni, riuscito, di giorno in giorno più, realista o verista nell'arte sua, desideroso di fare sopra il suo tempo, sopra la gioventù che doveva educarsi per mezzo della lettura, una impressione durevole e profonda, dopo aver concepito un alto e vasto poema, disegnò di scriverlo in prosa. Nel tempo in cui l'amico suo Tommaso Grossi venuto con lui a Brusuglio si provava a vestire di forme più popolari l'ottava epica, scrivendo il poema de' Lombardi alla prima Crociata, il Manzoni intraprendeva una riforma più radicale. Egli era d'avviso che si dovesse pensare e sentir alto, ma scriver piano; e come Dante avea creata la lingua poetica italiana, il Manzoni, anco se non vi pretendeva, riuscì a fondare veramente la nuova prosa italiana. Si dirà; ma come? Il Foscolo ed il Monti non avevano forse preceduto il Manzoni? Sì, ma oltre che nessuno de' due ha presentato all'Italia una prosa così ricca di fatti, di osservazioni, d'idee originali, di affetti veri e di tipi scolpiti come i Promessi Sposi, l'uno e l'altro scrisse sempre con un po' di enfasi rettorica, con un po' di pompa teatrale, che ad ogni lettore di buon senso, per poca che sia, deve sempre apparire soverchia. Il Manzoni dovea fin da giovinetto aver meditato il libretto del suo nonno Beccaria sopra lo Stile, un libretto scritto male, ma pensato bene;[5] l'articolo del Verri intitolato: "Ai giovani d'ingegno che temono i Pedanti," e i discorsi che si facevano contro l'Arcadia e contro la Crusca nell'Accademia, della quale l'Imbonati era stato presidente; ma, trovando poi giusto tutto ciò che si scriveva contro i parolai, gli Aristotelici della letteratura, i pedanti, i retori, egli credeva pure che si dovesse far qualche sforzo per mostrare che lo stile poteva acquistar nuova nobiltà dalla sua stessa naturalezza. Il Manzoni contribuì ad innamorare più fortemente l'odierna Italia della sua lingua, con l'occuparsene egli stesso per un mezzo secolo, col tornare pazientemente per tre lustri sopra la lingua de' Promessi Sposi, col fine di purgarla dalle sue voci improprie; l'efficacia che per tale riguardo egli esercitò col proprio esempio, si sente ancora e non può venir disconosciuta. Ma la letteratura italiana gli deve molto più, per avere il Manzoni con l'autorità del suo nome e con la prova vivente ed immortale d'un capolavoro avvezzata la lingua ad uno stile così facile, così chiaro, e, ad un tempo, così virile e sostenuto, da rendere impossibile il ritorno alle viete forme accademiche e scolastiche, alla nostra stilistica tradizionale e così detta classica, senza pericolo di cadere nel ridicolo. Dalla descrizione che il Manzoni ci fa della libreria di Don Ferrante ne' Promessi Sposi, rileviamo che quest'uomo enciclopedico (mettendogli solamente dappresso il piemontese Botero) prediligeva sovra tutti un autore "mariuolo sì, ma profondo," il Machiavelli, di cui non si stancava di leggere e di ammirare il Principe e i Discorsi sopra la Prima Deca di Tito Livio. C'è da scommettere che una parte dell'ammirazione di Don Ferrante non andava al pensatore ed al politico unitario,[6] ma allo scrittore, il quale nella prosa non fu superato fin qui da alcuno, ma emulato dal solo Manzoni, il quale partecipava senza dubbio in proposito dell'opinione di Don Ferrante. Qual merito maggiore per uno scrittore che la sua virtù non solo di dir molto in poco, ma di dire facilmente le cosa difficili, l'arte di far diventare universali le idee più elevate ed originali? E bene questa virtù, quest'arte il Manzoni possedette, come autore de' Promessi Sposi? in grado supremo e singolarissimo. Sotto questo aspetto, la sua prosa è la più democratica che sia stata scritta in Italia. Ma il Manzoni dovette ben presto accorgersi che, ov'egli avesse fatto l'Innominato il centro di tutto il suo poema o romanzo, oltre allo scoprir troppo sè medesimo, non avrebbe mancato di dare al suo romanzo un'aria reazionaria che veramente non ha e che ingiustamente gli fu attribuita dal Settembrini. Chè se nell'Innominato che potremmo chiamare della prima maniera, come già nel Carmagnola, vi è qualche cosa del Wallenstein dello Schiller e del Goetz von Berlichingen del Goethe, cioè uno spirito ribelle a leggi che gli paiono ingiuste, del secondo Innominato, dell'Innominato convertito, proposto a modello, i Gesuiti non avrebbero mancato di fare il loro uomo-tipo, il loro modello ideale; e tutto il buon effetto della conversione molto più morale che religiosa operata dal cardinal Federigo si sarebbe guastato, col mettere sul volto dell'Innominato la brutta maschera di Tartufo. Consoliamoci dunque che il Manzoni abbia voluto egli stesso allargare il proprio soggetto, opporre al cardinal Federigo Don Abbondio e la Monaca di Monza, e fra questi due mettere quella brava Donna Prassede che si proponeva di far l'educazione di Lucia, su per giù a quel modo con cui credono di potere educare le famose Dame del Sacro Cuore. Il Manzoni doveva aver conosciuto qualche Donna Prassede; quindi fa vivezza e finitezza del suo malizioso ritratto: "Era Donna Prassede una vecchia gentildonna molto inclinata a far del bene; mestiere certamente il più degno che l'uomo possa esercitare; ma che pur troppo può anche guastare, come tutti gli altri. Per fare il bene, bisogna conoscerlo; e, al pari d'ogni altra cosa, non possiamo conoscerlo che in mezzo alle nostre passioni, per mezzo de' nostri giudizii, con le nostre idee, le quali bene spesso stanno come possono. Con l'idee Donna Prassede si regolava come dicono che si deve far con gli amici; n'aveva poche, ma a quelle poche era molto affezionata. Tra le poche ce n'era, per disgrazia, molte delle storte; e non eran quelle che lo fossero meno care. Le accadeva quindi, o di proporsi per bene ciò che non lo fosse, o di prender per mezzi cose che potessero piuttosto far riuscire dalla parte opposta, o di crederne leciti di quelli che non lo fossero punto, per una certa supposizione in confuso che chi fa più del suo dovere possa far più di quel che avrebbe diritto; le accadeva di non vedere nel fatto ciò che ci era di reale, o di vederci ciò che non ci era; e molte altre cose simili, che possono accadere, e che accadono a tutti senza eccettuarne i migliori; ma a Donna Prassede troppo spesso e, non di rado, tutte in una volta."—"… Fin da quando aveva sentito la prima volta parlar di Lucia, s'era subito persuasa che una giovine, la quale aveva potuto promettersi a un poco di buono, a un sedizioso, a uno scampaforca, in somma, qualche magagna, qualche pecca nascosta la doveva avere. Dimmi chi pratichi, e ti dirò chi sei. La vista di Lucia aveva confermata quella persuasione. Non che, in fondo, non le paresse una buona giovine; ma c'era molto da ridire. Quella testina bassa col mento inchiodato sulla fontanella della gola, quel non rispondere, o risponder secco secco, come per forza, potevano indicar verecondia; ma denotavano sicuramente molta caparbietà; non ci voleva molto a indovinare che quella testina aveva le sue idee. E quell'arrossire ogni momento, e quel rattenere i sospiri…. Due occhioni poi, che a una Donna Prassede non piacevano punto. Teneva essa per certo, come se lo sapesse di buon luogo, che tutte le sciagure di Lucia erano una punizione del cielo per la sua amicizia con quel poco di buono, e un avviso per far che se ne staccasse affatto; e, stante questa, si proponeva di cooperare a un così buon fine. Giacchè, come diceva spesso agli altri e a sè stessa, tatto il suo studio era di secondare i voleri del cielo; ma taceva spesso uno sbaglio grosso, ch'era di prender per cielo il suo cervello." Qui metteremo un punto d'interrogazione. Quando si pensi che il Manzoni avea corso rischio nella primavera del 1821, di andare a morire sulle forche, a motivo del suo Inno rivoluzionario e della sua amicizia pel Confalonieri, non è egli probabile che sotto quel "poco di buono, quel sedizioso" quello scampaforca di Renzo sia da ravvisarsi per un momento il Manzoni stesso, in Lucia che avrebbe dovuto staccarsi da lui la signora Blondel, in Donna Prassede qualche sua bigottissima amica, a cui il Manzoni non dovea parere convertito abbastanza e in ogni modo

Un di que' capi un po' pericolosi,

come il poeta Giusti nel Sant'Ambrogio definiva per l'appunto l'Autore de' Promessi Sposi? Mi provo a indovinare, e malgrado dell'industria grande del Manzoni a mescolar bene le sue carte, mi studio di capire la malizia del suo giuoco. La Blondel, com'è noto, era nella sua nuova fede cattolica molto più ardente dello stesso Manzoni, ed avrà, senza dubbio, cercato o trovato fra le sue nuove amiche qualche consigliera del tipo di Donna Prassede. Noi non sapremmo essere attratti molto, per dire il vero, dalle idee di una povera e rozza contadina come Lucia; ma se si fosse, per un'ipotesi, travestita, anche un solo momento, da Lucia la signora Blondel, quando il Manzoni ci assicura che "quella testina aveva le sue idee," non ne faremmo più le meraviglie. Non dimentichiamo poi che il Manzoni si lagnava spesso della cura d'anime che i così detti amici, e con gli amici si comprendano pure l'amiche, si erano assunta presso la famiglia Manzoni, gli uni per fare di Don Alessandro un santo, gli altri per salvare in lui il liberale, e troveremo, senza dubbio, molto più gustoso il ritratto di Donna Prassede, che, per dire tutta la verità, collocato nel secolo decimosettimo, presso quello di una semplice contadinella, ci riesce quasi strano, ed in ogni modo, indifferente. Il Manzoni voleva bensì credere, ma non passare per un ipocrita; egli si sentiva capace e volonteroso di far del bene, di farne molto, ma anche debole all'occasione e soggetto a cadere; nè desiderava infingersi agli occhi altrui migliore di ciò che egli poteva essere. Ricordiamo il principio del ventesimosesto capitolo dei Promessi Sposi: quanta delicatezza in quel suo interrompersi, quando il cardinal Federigo rimprovera Don Abbondio di non aver resistito a Don Rodrigo, d'avere avuto paura, d'avere preferito al dovere la sua tranquillità; Don Abbondio, confuso, non sa che rispondere e rimane senza articolare parola; l'Autore è preso da uno scrupolo personale, e soggiunge: "Per dir la verità, anche noi, con questo manoscritto davanti, con una penna in mano, non avendo da contrastare che con le frasi, nè altro da temere che le critiche dei nostri lettori, anche noi, dico, sentiamo una certa ripugnanza a proseguire, troviamo un non so che di strano in questo mettere in campo con così poca fatica tanti bei precetti di fortezza e di carità, di premura operosa per gli altri, di sacrifizio illimitato di sè. Ma pensando che quello cose erano dette da uno che poi le faceva (il Manzoni alludeva, senza dubbio, a monsignor Tosi), tiriamo avanti con coraggio." Ciò che nel libro del Manzoni piace è il Manzoni stesso. Inconsapevolmente que' passi, ove egli entra, più o meno dissimulato, in iscena, ove passano i suoi pensieri, le sue impressioni, ci attirano e ci seducono piacevolmente; con quanto maggior diletto li rileggeremo noi dunque ora sapendo che egli, come il Goethe, si è diviso un poco fra tutti i suoi personaggi! Il forestiero ha cercato tutta l'attrattiva del Romanzo manzoniano nella semplice storia dei due fidanzati; ed ha ragione di conchiudere che l'attrattiva è piccola, che il libro si distende troppo a raccontarla; ha ragione ancora s'egli sente qualche po' di dispetto contro l'Autore, il quale, invece di farlo correre speditamente verso lo scioglimento, lo interrompe con descrizioni infinite, e con la citazione di documenti legali poco intelligibili. Se Aristotile avesse dato le regole del romanzo storico, è probabile che il Romanzo manzoniano si troverebbe scritto contro tutte le regole; vi mancano le giuste proporzioni: vi manca pure quel crescendo d'attrattiva che si vuol trovare in quasi tutti i romanzi; l'azione principale è poco importante, od almeno pare di piccola importanza, considerata in sè e non negl'intendimenti sociali dell'Autore, il quale, per mezzo d'un caso minuto e specialissimo, volle rappresentare l'eterna lotta fra oppressori ed oppressi, fra padroni e servi, fra grandi e popolo, aggruppando intorno a questa lotta alcune gravi questioni sociali, come quella del caro dei viveri, della salute pubblica, della legislazione penale, dell'amministrazione delle Opere Pie, de' mali che reca con sè la guerra, del clero, de' conventi, ed altre più, ciascuna delle quali potrebbe dar materia, anco più che a nuovi libri, a nuove ed opportunissime leggi, che, quando fossero veramente buone ed osservate, varrebbero meglio di qualsiasi libro pure ottimo, poichè la più difficile di tutte le traduzioni umane è quella delle idee nei fatti, della teoria nella pratica, della sapienza intellettuale in tanta eccellenza di virtù operativa. Il Romanzo manzoniano di per sè, come invenzione di casi, dice poco; di grandi e forti passioni non vi è quasi traccia; il lettore non rimane stordito e sorpreso da alcuna grande novità; ma è singolare, che in questo solo romanzo si cerchi meno quello che piace di più negli altri, l'elemento romanzesco, e molto più singolare che, privandosi quasi di questo elemento che pare così necessario negli altri romanzi, l'Autore de' Promessi Sposi trovi fuori di esso tanta materia di lettura viva ed attraente. Egli trattò il romanzo come l'Autore comico la commedia; vi rappresentò la società nella sua vita solita ed ordinaria, per mostrare che questa vita stessa è una commedia che si rinnova di secolo in secolo, eternamente. L'ingegno satirico che tentava naturalmente il Manzoni giovinetto, gli giovò mirabilmente nella commedia, o nel dramma, o nel poema, o nel romanzo che si voglia chiamare, de' Promessi Sposi, i quali sono tutte queste cose insieme, ora molto, ora poco, ed entrano nella condizione privilegiata, e disperante, più che disperata, di tutti i grandi capolavori letterarii, che non si lasciano classificare in verun genere, perchè hanno essi stessi creato un genere nuovo, di cui, per lo più, non essendo l'originalità cosa molto imitabile, rimangono poi soli rappresentanti. Ciò che nella Divina Commedia attrae più non è il suo soggetto, ma la maniera con cui l'Autore lo pensa, lo sente e lo tratta; il medesimo si può ripetere de' Promessi Sposi: nel primo, cerchiamo la poesia di Dante, l'anima e la mente di Dante; nel secondo; la poesia del Manzoni, l'anima e la mente del Manzoni, e il modo con cui il reale e l'ideale gli appaiono. Chi legge i Promessi Sposi come un libro ordinario, non può gustarli se non mediocremente; chi vi cerca tutto ciò che l'Autore ha voluto mettervi, non può mancare di trovarvelo, e di ammirare, senza fine, l'Autore che, con mezzi quasi umili, seppe ottenere effetti massimi. Si, Renzo e Lucia sono povera e zotica gente, e se il Manzoni ce li figurasse soltanto come tale, senz'altre sue malizie, comprenderemmo poco i motivi che spinsero un così alto ingegno a raccogliersi tutto negli anni più vigorosi e potenti della sua vita sopra una materia così scarsa d'inspirazione. Ma il Manzoni ha voluto appunto l'opposto di quello che si vuole generalmente, non inalzare sè sopra un soggetto nobile, ma inalzare e nobilitare un soggetto quasi ignobile, col versarvi dentro la miglior parte di sè. Egli adopera i suoi poveri contadini con quella stessa malizia, con la quale egli si serve talora di similitudini volgari per dichiarare meglio certi pensieri che, alla prima, non appaiono nella loro piena evidenza. Sotto i grossi panni del villano di Lecco si trova sempre il cervello sottile del Manzoni. Se la fine ironia che vi è dentro non si coglie, il racconto può talora riuscire insipido, e le riflessioni che lo accompagnano sembrare superflue. Quando l'Autore intraprende, per esempio, a descriverci quello che sia propriamente un carteggio fra contadini, i quali sogliono ricorrere ad un letterato della loro condizione per far sapere i loro negozii ai lontani, osserva: "al letterato suddetto non gli riesce sempre di dire tutto quel che vorrebbe, qualche volta gli accade di dire tutt'altro; accade anche a noi altri, che scriviamo per la stampa;" questa specie di prima punta maliziosa c'incomincia ad avvertire di che veramente si tratta; e il fine della descrizione riesce a persuadercene del tutto: "Quando la lettera così composta arriva alle mani del corrispondente, che anche lui non abbia pratica dell'abbicci, la porta a un altro dotto dello stesso calibro, il quale gliela legge e gliela spiega. Nascono delle questioni sul modo d'intendere: perchè l'interessato, fondandosi sulla cognizione dei fatti antecedenti, pretende che certe parole voglian dire una cosa; il lettore, stando alla pratica che ha della composizione, pretende che ne vogliano dire un'altra. Finalmente bisogna che chi non sa si metta nelle mani di chi sa, e dia a lui l'incarico della risposta: la quale, fatta sul gusto della proposta, va poi soggetta a un'interpretazione simile. Che se, per di più, il soggetto della corrispondenza è un po' geloso; se c'entrano affari segreti, che non si vorrebbero lasciar capire a un terzo, caso mai che la lettera andasse persa; se, per questo riguardo, c'è stata anche l'intenzione positiva di non dire le cose affatto chiare; allora, per poco che la corrispondenza duri, le parti finiscono a intendersi tra di loro come altre volte due scolastici che da quattr'ore disputassero sull'entelechia; per non prendere una similitudine di cose vive, che ci avesse poi a toccare qualche scappellotto." Le cose vive, alle quali il Manzoni faceva allusione, potevano essere benissimo le famose polemiche sorte in quel tempo, da una parte fra Classici e Romantici, dall'altra fra il Monti e gli Accademici della Crusca: polemiche, le quali sembravano fatte molto più per imbrogliare le idee che per renderle più chiare e popolari. Così non s'intenderebbe come il Manzoni, dopo aver lasciato fare a Lucia quell'imprudente suo voto di non più sposare Renzo, si désse poi tanta pena per rappresentare l'immagine di un Renzo ideale che le tornava, malgrado del voto, nella mente, se non fosse lecito il supporre che in quelle immagini entrasse la reminiscenza di qualche scena domestica manzoniana. "Lucia, quando la madre ebbe potuto, non so per qual mezzo, farle sapere che quel tale era vivo e in salvo e avvertito, sentì un gran sollievo, e non desiderava più altro, se non che si dimenticasse di lei; o, per dir la cosa proprio a un puntino, che pensasse a dimenticarla. Dal canto suo, faceva cento volte al giorno una risoluzione simile riguardo a lui; e adoperava anche ogni mezzo per mandarla ad effetto. Stava assidua al lavoro, cercava d'occuparsi tutta in quello, quando l'immagine di Renzo le si presentava, e lei a dire o a cantare orazioni a mente. Quell'immagine, proprio come se avesse avuto malizia, non veniva per lo più così alla scoperta; s'introduceva di soppiatto dietro all'altre, in modo che la mente non s'accorgesse d'averla ricevuta, se non dopo qualche tempo che la c'era. Il pensiero di Lucia stava spesso con la madre; come non ci sarebbe stato! e il Renzo ideale veniva pian piano a mettersi in terzo, come il reale avea fatto tante volte. Così con tutte le persone, in tutti i luoghi, in tutte le memorie del passato, colui si veniva a ficcare. E se la poverina si lasciava andar qualche volta a fantasticar sul suo avvenire, anche lì compariva colui, per dire, se non altro: io, a buon conto, non ci sarò. Però, se il non pensare a lui era impresa disperata, a pensarci meno, e meno intensamente che il cuore avrebbe voluto, Lucia ci riusciva fino a un certo segno; ci sarebbe anche riuscita meglio, se fosse stata sola a volerlo. Ma c'era Donna Prassede, la quale, tutta impegnata dal canto suo a levarle dall'animo colui, non aveva trovato migliore espediente che di parlargliene spesso. "Ebbene?" le diceva, "non ci pensiam più a colui?"—"Io non penso a nessuno," rispondeva Lucia. Donna Prassede non s'appagava d'una risposta simile, replicava che ci volevan fatti e non parole; si diffondeva a parlare sul costume delle giovani, "le quali," diceva, "quando hanno nel cuore uno scapestrato, ed è lì che inclinano sempre, noa se lo staccan più. Un partito onesto, ragionevole, d'un galantuomo, d'un uomo assestato, che, per qualche accidente, vada a monte, son subito rassegnate; ma un rompicollo, è piaga incurabile." E allora principiava il panegirico del povero assente, del birbante venuto a Milano, per rubare e scannare; e voleva far confessare a Lucia le bricconate che colui doveva aver fatte, anche al suo paese. Lucia con la voce tremante di vergogna, di dolore, e di quello sdegno che poteva aver luogo nel suo animo dolce e nella sua umile fortuna, assicurava e attestava che, al suo paese, quel poveretto non aveva mai fatto parlar di sè altro che in bene; avrebbe voluto, diceva, che fosse presente qualcheduno di là, per fargli far testimonianza. Anche sull'avventure di Milano, delle quali non era ben informata, lo difendeva, appunto con la cognizione che aveva di lui e de' suoi portamenti fin dalla fanciullezza. Lo difendeva o si proponeva di difenderlo, per puro dovere di carità, per amore del vero, e, a dir proprio la parola con la quale spiegava a sè stessa il suo sentimento, come prossimo. Ma da questa apologia Donna Prassede ricavava nuovi argomenti per convincere Lucia, che il suo cuore era ancora perso dietro a colui. E, per verità, in que' momenti, non saprei ben dire come la cosa stésse. L'indegno ritratto che la vecchia faceva del poverino, risvegliava, per opposizione, più viva e più distinta che mai nella mente della giovine l'idea che vi si era formata in una così lunga consuetudine; le rimembranze, compresse a forza, si svolgevano in folla; l'avversione e il disprezzo richiamavano tanti antichi motivi di stima; l'odio cieco e violento faceva sorger più forte la pietà; e con questi affetti, chi sa quanto ci potesse essere o non essere quell'altro che dietro ad essi s'introduce così facilmente negli animi; figuriamoci cosa farà in quelli, donde si tratti di scacciarlo per forza. Sia come si sia, il discorso per la parte di Lucia non sarebbe mai andato molto in lungo; che le parole finivan presto in pianto." Io mi potrei facilmente ingannare; ma queste parole che mi parrebbero troppe se fossero dette per ispiegare i sentimenti d'una rozza contadina lombarda, hanno tutto il loro senso se Lucia deve in questo caso nascondere un'altra persona che ci sta a cuore assai più, la quale poteva benissimo trovar qualche piccola imperfezione nel Manzoni, reale e vicino, salvo a sognarlo come un ideale, quand'egli stava lontano, quando lo sapeva perseguitato ed in pericolo, quando, peggiore di tutte le malvagità umane, essa sentiva che la calunnia voleva indegnamente colpirlo. Renzo è compromesso anch'esso quasi involontariamente come il Manzoni ne' casi politici di Milano; e se non ci fosse stato per l'Autore il proposito di mettersi un poco in iscena, ma di farsi povero contadino, per lasciarsi scorgere meno, avrebbero avuto ragione que' primi critici de' Promessi Sposi, quando biasimavano l'Autore d'aver fatto andare Renzo a Milano solamente per avere un'occasione di fare nuovo sfoggio d'ingegno nelle descrizioni del tumulto, della fame e della peste di Milano. E qui prevedo un'obbiezione: non ci diceste che il Manzoni ha forse voluto rappresentare nella conversione dell'Innominato la propria? Ora se egli è l'Innominato, come potrebbe essere ancora Renzo? Egli è l'Innominato, per un verso, Renzo per un altro, Don Ferrante, Fra Cristoforo in altri momenti. I lettori del Goethe conoscono bene questa specie di avatar del genio, questa potenza tutta divina di staccar da sè un attributo per farne un nuovo tipo umano vivente, come nell'Olimpo dalla testa di Giove esce una Minerva, come dagli attributi di un solo Dio vien fuori la pluralità degli Dei. Il Manzoni si moltiplica e si riproduce quasi senza fine ne' Promessi Sposi, non meno che il Goethe nel Faust, nel Wilhelm Meister, nel Werner, nell'Egmont, nel Tasso e in altri suoi drammi, per tacere delle Elegie Romane, ov'egli entra direttamente e quasi furiosamente in iscena. L'aver condensato ad un tempo e distribuito ed esaurito quasi tutto sè stesso in un solo capolavoro è gloria maggiore nel Manzoni, e principal fascino, quasi misterioso, de' Promessi Sposi. Il centro simpatico di tutto il libro è l'Autore stesso, come accade pure nel Don Chisciotte. Tra i due lavori vi è anzi qualche affinità di tóno umoristico; ma nel libro italiano la varietà è molto maggiore, ed i pensieri e i sentimenti si levano più alto. S'io li riscontro qui è perchè oramai stimo necessario che ci avvezziamo a studiare i Promessi Sposi, come si studiano i libri già divenuti classici, i quali si pigliano come sono, senza pretendere, che dovessero riuscire diversi da quelli che i loro grandi Autori gli hanno voluti. Noi non possiamo volere che in questi classici si approvi e si ammiri tutto; crediamo invece che tutto meriti di venire studiato, e che la conclusione di un tale studio sia sempre, per un verso, una somma di maggiore ammirazione, per l'altro, una somma di maggior profitto. Fra le tante cose che s'ammirano nei Promessi Sposi, la più mirabile, se si consideri la difficoltà artistica della composizione, pare a me e ad altri la grande varietà, con la quale l'Autore ci presenta quadri e tipi paralleli, che sono simili senza monotonia, e dissimili senza stonatura. Presso la conversione di Fra Cristoforo noi troviamo quella dell'Innominato, presso la descrizione della fame quella della peste, presso il cardinal Federigo Fra Cristoforo, presso Don Rodrigo il conte Attilio e l'Innominato, presso Don Abbondio Fra Galdino, presso il conte zio il Ferter, Renzo presso Bortolo, e così di seguito, si riproducono ne' Promessi Sposi casi e tipi analoghi, con caratteri distintivi che scusano pienamente, anzi glorificano l'Autore d'averli immaginati. Non vi è nulla di più facile in arte che il creare de' contrasti forti; mettendo dall'un lato chi è tutto buono, dall'altro chi è tutto tristo, la maggior parte degli autori ha combinato rumorosi e stupendi effetti drammatici; il Manzoni sentiva che le proprie forze bastavano a superare maggiori difficoltà; se le creò e le vinse. Nell'arte de' chiaroscuri, delle mezze tinte, nessuno lo supera; ad egli tira ogni linea con mano tanto sicura, che anche i suoi personaggi secondarii diventano tipi popolari, non escluso quel buon sarto di villaggio che pizzicava del letterato perchè sapeva leggere ne' Reali di Francia, divenuti suo Vangelo. S'io non erro, il professore Stoppani fu il primo a cercare ne' tipi de' Promessi Sposi le persone reali, delle quali il Manzoni, avendole conosciute, si ricordava nell'immaginarli. Egli credette ravvisarne alcune; così dalla Caterina Panzeri contadina di Galbiate suppose che s'inspirasse per disegnare la figura della Lucia. Ma la Lucia Mondella, in quanto è contadina, non dice nulla; in quanto dice qualche cosa, noi l'abbiamo già accennato, nasconde la signora Blondel. Il Manzoni andò a cercarsi la sposa in un paesello del Bergamasco, come Renzo va nel Bergamasco a metter su casa. Come la Edmengarda dell'Adelchi, anche la Lucia è pudica con lo sposo e parca di parole; ma le poche parole che essa dice a lui, valgono più delle molte dette ad altri. Quando Lucia, uscita dal Lazzeretto, rivede Renzo, non sa dirgli altro che questo: "Vi saluto. Come state?" L'Autore soggiunge: "E non crediate che Renzo trovasse quel fare asciutto, e se l'avesse per male. Prese benissimo la cosa per il suo verso; e come tra gente educata si sa far la tara ai complimenti, così lui intendeva bene che quelle parole non esprimevan tutto ciò che passava nel cuore di Lucia. Del resto, era facile accorgersi che aveva due maniere di pronunziarle: una per Renzo, e un'altra per tutta la gente che potesse conoscere." Quando Renzo passa in rassegna, al fine della sua storia, tutti i brutti casi che gli sono intervenuti e gl'insegnamenti che gliene rimasero, onde egli non si mescolerà più nei tumulti, non si lascerà più andare a bere oltre il bisogno, eviterà di dar sospetto di sè come testa calda, fuggirà, in somma, con una maggior prudenza e moderazione ogni maniera d'impicci, sentiamo ch'è presente il Manzoni; come abbiamo il Manzoni in questo proponimento finale di Renzo: "Prima d'allora era stato un po' lesto nel sentenziare, e si lasciava andar volentieri a criticare la donna d'altri, e ogni cosa. Allora s'accorse che le parole fanno un effetto in bocca, e un altro negli orecchi; e prese un po' più d'abitudine d'ascoltar di dentro le sue, prima di proferirle. Il Manzoni, in verità, pubblicati i Promessi Sposi, si mostrò nel suo contegno pubblico e nei suoi discorsi che potevano esser riferiti, d'un riserbo ebe parve eccessivo; anche le sue lettere, dopo quel tempo, prendono quasi tutte un carattere uniforme di convenienza, in qualche modo, diplomatico e stereotipato; nella lettera straordinariamente sincera ch'egli scrisse venti e più anni dopo a Giorgio Briano, per iscusarsi di non poter fare il deputato, se il Collegio di Arona, come gli veniva scritto, si fosse ostinato a volerlo eleggere, troviamo parole che consuonano perfettamente con gli ultimi propositi pacifici di Renzo, e li dichiarano, "Quel senso pratico delle opportunità, quel saper discernere il punto o un punto, dove il desiderabile s'incontri col riuscibile, e attenercisi, sacrificando il primo, con rassegnazione non solo, ma con fermezza, fin dove è necessario (salvo il diritto, s'intende) è un dono che mi manca, a un segno singolare. E per una singolarità opposta, ma che non è nemmeno un rimedio, perchè riesce non a temperare, ma impedire ciò che mi pare desiderabile, mi guarderei bene dal proporlo, non che dal sostenerlo. Ardito, finchè si tratta di chiacchierare tra amici, nel mettere in campo proposizioni che paiono, e saranno, paradossi; e tenace non meno nel difenderle, tutto mi si fa dubbioso, oscuro, complicato quando le parole possono condurre a una deliberazione. Un utopista e un irresoluto sono due soggetti inutili per lo meno in una riunione, dove si parla per concludere; io sarei l'uno e l'altro nello stesso tempo. Il fattibile le più volte non mi piace. E dirò anzi, mi ripugna; ciò che mi piace, non solo parrebbe fuor di proposito e fuor di tempo agli altri, ma sgomenterebbe me medesimo, quando si trattasse non di vagheggiarlo o di lodarlo semplicemente, ma di promuoverlo in effetto, d'aver poi sulla coscienza una parte qualunque delle conseguenze. Di maniera che, in molti casi, e singolarmente ne' più importanti, il costrutto del mio parlare sarebbe questo: nego tutto, e non propongo nulla. Chi desse un tal saggio di sè, è cosa evidente che anco i più benevoli gli direbbero: ma voi non siete un uomo pratico, un uomo positivo; come diamine non vi conoscevate? dovevate conoscervi; quando è così, si sta fuori degli affari. È una cosa dolorosa e mortificante il trovarsi inutile a una causa che è stata il sospiro di tutta la mia vita. Ma Ipse fecit nos et non ipsi nos; e non ci chiederà conto dell'omissione, se non nelle cose, alle quali ci ha data attitudine. Scampato al gravissimo pericolo dell'anno 1821 al Manzoni non dovette parer vero, quando pubblicò i Promessi Sposi, di potersi finalmente riguardare al sicuro; quella specie di bando che esisteva contro di lui pareva levato; ed egli vi alluse, come parmi, quando nel fine della storia di Renzo già compromesso ne' tumulti di Milano, si domandò; "Come andava col bando? L'andava benone; lui non ci pensava quasi più, supponendo che quelli, i quali avrebbero potuto eseguirlo, non ci pensassero più nè anche loro; e non s'ingannava. E questo non nasceva solo dalla peste che aveva fatto monte di tante cose; ma era, come s'è potuto vedere anche in varii luoghi di questa storia, cosa comune a que' tempi che i decreti tanto generali, quanto speciali contro le persone se non c'era qualche animosità privata e potente che li tenesse vivi e li facesse valere, rimanevano spesso senza effetto, quando non l'avesse avuto sul primo momento." Il Manzoni non ebbe di questi nemici privati e potenti che lo volessero perdere ad ogni costo; e però tenuto fuori dai primi processi, quando i processi si chiusero, non si parlò altro di lui; non già per questo ch'egli fosse contento dell'andamento delle cose, e rassegnato al Governo straniero; vi è anzi un passo dei Promessi Sposi, che potrebbe anche essere di Tacito o del Machiavelli, ov'è chiaro che l'Autore intende muover rimprovero agl'Italiani, i quali dopo aver levato alte grida pel supplizio di pochi generosi tollerano poi in pace l'ignominia d'oltraggio di una lunga servitù. "Noi uomini siamo, in generale, fatti così: ci rivoltiamo sdegnati e furiosi contro i mali mezzani, e ci curviamo in silenzio sotto gli estremi, e sopportiamo, non rassegnati, ma stupidi, il colmo di ciò che da principio avevamo chiamato insopportabile." Altrove l'Autore, nel tempo stesso che gli scusa, sembra rivolgere un biasimo delicato a que' patrioti, i quali espatriavano senza una vera necessità; naturalmente l'Autore vuole aver aria di parlare soltanto di Renzo e di Lucia, che lasciano il loro villaggio per recarsi nell'ospitale e laborioso Bergamasco; ma il Bergamasco potrebbe assai bene nel caso nostro nascondere l'Inghilterra ed il Belgio. "Chi domandasse se non ci fu anche del dolore in distaccarsi dal paese nativo, da quelle montagne, ce ne fu sicuro; chè del dolore ce n'è, sto per dire, un po' per tutto. Bisogna però che non fosse molto forte, giacchè avrebbero potuto risparmiarselo, stando a casa loro, ora che i due grand'inciampi, Don Rodrigo e il bando, eran levati. Ma già da qualche tempo erano avvezzi tutt'e tre a riguardar come loro il paese dove andavano. Renzo l'aveva fatto entrare in grazia alle donne, raccontando l'agevolezze che ci trovavano gli operai; e cento cose della bella vita che si faceva là. Del resto, avevan tutti passato de' momenti ben amari in quello, a cui voltavan le spalle; e le memorie tristi, alla lunga, guastan sempre nella mente i luoghi che le richiamano. E se que' luoghi son quelli, dove siam nati, c'è forse in tali memorie qualcosa di più aspro e pungente. Anche il bambino, dice il manoscritto, riposa volentieri sul seno della balia, cerca con avidità e con fiducia la poppa che l'ha dolcemente alimentato fino allora; ma se la balia, per divezzarlo, la bagna d'assenzio, il bambino ritira la bocca, poi torna a provare, ma finalmente se ne stacca; piangendo sì, ma se ne stacca." Renzo, che cessa di essere un eroe di romanzo, rimane alcun tempo incerto sul modo d'impiegare quel po' di danaro ch'egli ha, se nell'agricoltura o nell'industria; il Manzoni, che ha rinunciato alla vita politica, si ritira a Brusuglio per darsi tutto all'agricoltura ed a' suoi studii di lingua, lieto di trovarsi fuori delle tempeste. Quando Renzo dice alla sua Lucia ch'egli dai molti guai ha imparato almeno molte cose che non sapeva, Lucia, assai dotta e fine e intelligente per una contadina, risponde al suo moralista: "E io cosa volete che abbia imparato? Io non sono andata a cercare i guai; son loro che son venuti a cercar me. Quando non voleste dire" aggiunge soavemente sorridendo "che il mio sproposito sia stato quello di volervi bene, e di promettermi a voi."—"Renzo (prosegue il Manzoni) alla prima rimase impicciato. Dopo un lungo dibattere e cercare insieme, conclusero che i guai vengono bensì spesso, perchè ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani e che quando vengono, o per colpa, o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore. Questa conclusione, benchè trovata da povera gente, ci è parsa così giusta, che abbiam pensato di metterla qui, come il sugo di tutta la storia." Questa conclusione del libro riesce un vero accento acuto; ed è meraviglia che, invece di accusare, come fecero alcuni critici, il Manzoni di aver talora imprestato a "povera gente" sentimenti troppo elevati, non siasi capito alla prima che, da profondo umorista, il Manzoni avea voluto far passare sè stesso per un povero diavolo che s'impicciò da poeta in avventure troppo romanzesche, per le quali non si sentiva nato, riserbandosi poi il diritto di burlarsene come critico, su per giù come il Cervantes avea fatto prima di lui, ma con maggior caricatura, nel suo immortale Don Chisciotte. In ciascuno di noi vi è un lato comico e un lato drammatico; il proprio lato comico il Manzoni rappresentò talora in Renzo, talora in quel Don Ferrante che in casa sua non voleva nè comandare nè ubbidire, proprio come il Manzoni, ma era despota in fatto di ortografia; è noto lo scrupolo che il Manzoni metteva nella punteggiatura; nessun autore forse fece un maggior consumo di virgole; e nell'ortografia italiana tanto più legittimamente poteva egli comandare in una casa, ove la padrona, come la signora Blondel, era forestiera; il lato drammatico lo abbiamo personificato in Fra Cristoforo e nell'Innominato. Nella Prefazione un po' stramba ai Promessi Sposi, il Manzoni mette già da sè stesso il lettore sull'avviso che nel preteso vecchio manoscritto da lui ritrovato e rimaneggiato s'incontrano casi e persone ch'egli credeva ricordarsi unicamente da esso, quando invece gli accadde poi di riscontrarli con casi e persone che le storie rammentano. "Taluni di que' fatti (egli dice) certi costumi descritti dal nostro Autore, c'eran sembrati così nuovi, così strani, per non dir peggio, che prima di prestargli fede, abbiam voluto interrogare altri testimoni; e ci siam messi a frugar nelle memorie di quel tempo per chiarirci se veramente il mondo camminasse allora a quel modo. Una tale indagine dissipò tutti i nostri dubbii; a ogni passo ci abbattevamo in cose consimili, e in cose più forti e, quello che ci parve più decisivo, abbiam perfino ritrovati alcuni personaggi, dei quali non avendo mai avuto notizie fuor che dal nostro manoscritto eravamo in dubbio se fossero realmente esistiti. E, all'occorrenza, citeremo alcuna di quelle testimonianze, per procacciar fede alle cose, alle quali, per la loro stranezza, il lettore sarebbe più tentato di negarla." Con questa sua malizia l'Autore vuole lasciarci intendere che egli, dopo aver messo in scena sè stesso o persone da lui conosciute, ha voluto cercare se, per caso, esse potessero avere qualche riscontro con persone vissute nella stessa Lombardia due secoli innanzi; e poichè, in tal sorta d'investigazioni, si trova quasi sempre quello che si cerca, poichè gli uomini si modificano nelle forme, ma nel fondo sono sempre gli stessi, egli non dovette troppo meravigliarsi nel trovare ch'egli ed i suoi conoscenti presentavano sotto parecchi aspetti caratteri di molta somiglianza con alcuni veri ed autentici personaggi storici. Così l'Innominato egli non l'inventò tutto; era Bernardino Visconti, a proposito del quale la duchessa Visconti rallegravasi un giorno che il Manzoni le avesse messo in casa "prima un gran birbante, ma poi un gran santo;" il poeta Giusti soleva e converso chiamare il Manaoni "un santo birbone," alludendo alla santità della sua vita e della sua fede e all'infinita malizia del suo ingegno. L'Innominato aveva dunque esistito; ma il Manzoni lo riscaldò coi proprii sentimenti e ne fece un gran tipo.[7] Chi dubita dell'esistenza del cardinal Federigo? ma il Manzoni si ricordava la nobile condotta di monsignor Opizzoni innanzi al Buonaparte, e il suo confessore Tosi e il vicario Sozzi, e delle loro virtù riunite animava anco più la bella figura del Borromeo, ed in parte ancora quella di Fra Cristoforo. Si trovò poi che un Fra Cristoforo da Cremona avea realmente sacrificato la propria vita per gli appestati di Milano; ma, in quanto il Manzoni se ne servì per farne un tipo immortale, oltre alla sua particolare simpatia per i Padri Cappuccini, che risaliva alle prime vivaci impressioni d'infanzia, ci doveva entrare lo studio dell'Autore a rappresentarci la vittoria riportata sopra sè stesso dal violento Lodovico che diventa un monaco piissimo, per meglio persuadere sè stesso che nella prima gioventù non avea sempre dovuto essere moderato e temperato, della necessità di domare gl'istinti e di vincere le passioni. Qualche cosa del giovine Manzoni, qualche pagina della sua prima vita è lecito argomentare che si trovi accennata nel racconto della gioventù di Lodovico. Noi non sappiamo se il Manzoni abbia avuto duelli nella sua gioventù; delle cosidette leggi cavalleresche egli ne parla come un uomo che le conosce, meglio che dai libri di cavalleria, i quali si trovano nella biblioteca di Don Ferrante, per un po' di pratica; ed è possibile che qualche caso di provarsi alla scherma, se non di un serio duello, gli sia occorso in Milano innanzi al suo primo viaggio di Parigi; ma non abbiamo per ora alcuno indizio per affermarlo.[8] In ogni modo, Lodovico convertito in Fra Cristoforo rassomiglia tanto all'Autore che par proprio lui, eccetto il tono di predica che non era del Manzoni. "Il suo linguaggio, è detto, era abitualmente umile e posato; ma, quando si trattasse di giustizia o di verità combattuta, l'uomo s'animava, a un tratto, dell'impeto antico, che, secondato e modificato da un'enfasi solenne, venutagli dall'uso di predicare, dava a quel linguaggio un carattere singolare. Tutto il suo contegno, come l'aspetto, annunciava una lunga guerra, tra un'indole focosa, risentita, e una volontà opposta, abitualmente vittoriosa, sempre all'erta, e diretta da motivi e da ispirazioni superiori. Un suo confratello ed amico, che lo conosceva bene, l'aveva una volta paragonato a quelle parole troppo espressive nella loro forma naturale, che alcuni anche ben educati pronunziano, quando la passione trabocca, smozzicate con qualche lettera mutata: parole che in quel travisamento fanno però ricordare della loro energia primitiva." Il professore Stoppani dice aver conosciuto da fanciullo il parroco, che dovette servire al Manzoni come tipo del suo Don Abbondio. Il Manzoni era ancora giovinetto, quando conobbe quel curato, il quale gli raccontava in qual modo avesse preso gli ordini: "Quando mi presentai all'esame, l'esaminatore mi domandò se i parroci erano d'istituzione umana o divina. Io sapeva benissimo che loro volevano si rispondesse che erano d'istituzione umana, e, furbo, risposi tosto: d'istituzione umana, d'istituzione umana!" Il giovine Manzoni si permise domandargli se fosse quello il suo convincimento; il parroco ripose: "Oh! giusto! a me avevano insegnato ben diversamente a Pavia. Ma se avessi risposto come la pensava io, non mi lasciavano dir Messa." Il Manzoni voleva fare qualche obbiezione; ma il curato troncò il discorso con questa sentenza: "Quando i superiori domandano, bisogna saper rispondere a seconda del come la pensano loro." Questo aneddoto è autentico; il Manzoni stesso lo fece conoscere a' suoi amici, e dalla bocca di questi lo Stoppani lo raccolse. È evidente la rassomiglianza di questo curato con Don Abbondio;[9] ma per formarne quel tipo che riuscì, occorreva il concorso di un genio, e la conoscenza de' materiali, dei quali il Manzoni si servì, giova soltanto a mostrare che i grandi poeti son quasi come Domeneddio, poichè, con l'attenuazione di un quasi, creano anch'essi opere divine, ex nihilo. Storico è pur troppo il personaggio della Geltrude, la Monaca di Monza; ma quando il Manzoni ne lesse la storia, per tornare a colorirla potentemente gli giovò il ricordarsi la zia ex-monaca, già da me ricordata, la quale ebbe cura ch'egli imparasse la musica, il ballo, forse pure la scherma, su per giù come quel Lodovico, a cui il padre fece dare un'educazione "secondo la condizione de' tempi e per quanto gli era concesso dalle leggi e dalle consuetudini; gli diede maestri di lettere ed esercizii cavallereschi, e morì, lasciandolo ricco e giovinetto." Ma, senza i frequenti richiami de' tipi manzoniani alla vita dell'Autore e a' suoi conoscenti, che accrescono vivacità o naturalezza alle sue mirabili ipotiposi, per tacere de' casi, ne' quali egli nomina direttamente o sottintende troppo chiaramente i suoi amici Giovanni Torti e Tommaso Grossi, di cui loda i versi "pochi e valenti" di cui raccomanda, con molta industria, la diavoleria ch'egli stava scrivendo a Brusuglio, ossia il poema de' Lombardi alla prima Crociata, i Promessi Sposi sono pieni zeppi di osservazioni maliziose tutte manzoniane, traendone talora materia dalle occasioni più impensate. Tutti ricordano il viaggio di Renzo allo studio del dottor Azzeccagarbugli, coi quattro capponi che doveano servirgli di commendatizia. Renzo, agitato dalla viva passione, "dava loro di fiere scosse e faceva balzare quelle quattro teste spenzolate," al qual punto l'Autore soggiunge: "le quali intanto s'ingegnavano a beccarsi l'una coll'altra, come accade troppo sovente tra compagni di sventura." Quest'osservazione messa lì, come per sotterfugio, è forse più potente, pel suo effetto, di tutto il bellissimo Coro della battaglia di Maclodio, che lamenta le discordie italiane, più potente perchè meno enfatico, e più opportuno, più speciale. Gli esuli italiani che si laceravano, talora, senza pietà, da quelle poche parole erano invitati a pensare. Ed il pensare, in simili casi, è, quasi sempre, un rimediare. Quanta forza satirica in una sola frase manzoniana! La serva del dottor Azzeccagarbugli, per un esempio, sa bene che il suo padrone è così abile, così destro avvocato da far parere galantuomo qualsiasi birbante che si raccomandi a lui; non vi è causa spallata che nelle sue mani non sia diventata buona; perciò, dopo ch'ella serve il dottore, non ha mai visto tornar via il ricorrente co' suoi doni rifiutati; il primo caso è quello di Renzo venuto dal dottore a domandar giustizia contro un prepotente; ma alla serva non può venire in capo che si tratti d'un innocente perseguitato; nel restituirgli dunque le quattro bestie per ordine del padrone, le dà a Renzo "con un'occhiata di compassione sprezzante, che pareva volesse dire: bisogna che tu l'abbia fatta bella." Bisogna che Renzo sia più birba di tutte le altre birbe che il dottore ha rivendicate all'onore del mondo, perch'egli si decida a lasciarlo partire col suo vistoso regalo. Il torto che la serva fa a Renzo, pensando così male di lui, è men grave della condanna del dottore e di tutti i dottori di legge che gli somigliano, sottintesa in quel giudizio temerario. Renzo torna a casa indignato, e non sa dir altro col cuore in tempesta, se non queste parole: "Saprò farmi ragione, o farmela fare. A questo mondo c'è giustizia finalmente." Al che il Manzoni è pronto a soggiungere: "Tant'è vero che un uomo sopraffatto dal dolore non sa più quel che si dica." Quanta profonda ironia in questa frase! Renzo torna da una spedizione, nella quale ha pur troppo potuto accorgersi che giustizia nel mondo proprio non ce n'è; ma vi sono parole che si dicono senza alcun perchè; Renzo vuole la giustizia, e non la trova; per rendere questo suo sentimento usa un'espressione popolare, e dice che la giustizia finalmente c'è, quando ha proprio fatto esperimento del contrario; il Manzoni, da quel fine umorista che è, nota la contradizione che esiste talora fra le cose che si dicono e quelle che si pensano, e come nel dolore si ragioni meno e si dica qualche volta precisamente l'opposto di quello che si pensa. E, in somma, la conclusione vera del terzo capitolo è, che non c'è da fare assegnamento di sorta su quella che si chiama giustizia umana, in genere, ma che nel caso nostro, nell'intendimento manzoniano; dovea chiamarsi giustizia straniera, giustizia de' signori in Lombardia, ossia nessuna giustizia, arbitrio, violenza, che le leggi in parte mantenevano e l'abuso delle leggi accresceva a dismisura. Talora incontriamo qualche passo che appare una stonatura. Renzo non ha ancora avuto il tempo di far chiasso in paese pel caso di Don Rodrigo; anzi il caso è tale, che non se ne può parlare con alcuno senza grave pericolo di guastarlo. Non è verosimile dunque che Renzo ne abbia fatto rumore nel villaggio; e pure, malgrado della inverosimiglianza, il Manzoni ci lascia credere che Renzo siasi sfogato con gli amici, e che questi, invece di prestargli una mano al bisogno, siansi ritirati tutti; onde Renzo se ne sfoga con Fra Cristoforo: "Oh, lei non è come gli amici del mondo! Ciarloni! Chi avesse creduto alle proteste che mi facevan costoro, nel buon tempo; eh! eh! Eran pronti a dare il sangue per me; m'avrebbero sostenuto contro il diavolo. S'io avessi avuto un nemico? Bastava che mi lasciassi intendere; avrebbe finito presto di mangiar pane. E ora, se vedesse come si ritirano!" Per Renzo e pel caso suo queste parole ci paiono troppe e sproporzionate e strane; ma se il Manzoni si nasconde sotto Renzo, alludono a qualche abbandono simile da lui patito, e poich'egli ci preme, in verità, molto più di Renzo, prendiamo a cuore il suo caso. Vi è una scenetta domestica fra Renzo e Lucia, che il Manzoni deve aver colta proprio sul vivo, Renzo va in collera, vorrebbe uccidere Don Rodrigo, rovinarsi, se Lucia non consente a recarsi con lui dal curato per sorprenderlo. Lucia si spaventa e gli si butta in ginocchi, e promette che farà tutto quel che egli vorrà, pur che diventi più trattabile, più umano, pur che torni buono. L'Autore a questo punto si fa una domanda, che obbliga molto naturalmente un lettore intelligente a farsene un'altra. Siamo noi in casa Mondella, od in casa Manzoni? E la domanda è questa: In mezzo a quella sua gran collera, aveva Renzo pensato di che profitto poteva esser per lui lo spavento di Lucia? E non aveva adoperato un po' di artifizio a farlo crescere, per farlo fruttare? Il nostro Autore protesta di non saper nulla; e io credo che nemmen Renzo non lo sapesse bene. Il fatto sta che era realmente infuriato contro Don Rodrigo, e che bramava ardentemente il consenso di Lucia; e quando due forti passioni schiamazzano insieme nel cuor di un uomo, nessuno, neppure il paziente, può sempre distinguer chiaramente una voce dall'altra, e dire con sicurezza qual sia quella che predomini, "Ve l'ho promesso," rispose Lucia, con un tono di rimprovero timido e affettuoso; "ma anche voi avevate promesso di non fare scandoli, di rimettervene al padre…."—"Oh via! per amor di chi vado in furia? Volete tornare indietro ora? e farmi fare uno sproposito?"—"No, no," disse Lucia, cominciando a rispaventarsi, "Ho promesso e non mi ritiro. Ma vedete come mi avete fatto promettere. Dio non voglia…."—"Perchè volete far de' cattivi augurii, Lucia? Dio sa che non facciam male a nessuno."—"Promettetemi almeno che questa sarà l'ultima."—"Ve lo prometto, da povero figliuolo."—"Ma questa volta, mantenete poi," disse Agnese.—Qui l'Autore confessa di non sapere un'altra cosa; se Lucia fosse, in tutto e per tutto, malcontenta d'essere stata spinta ad acconsentire. Noi lasciamo, come lui, la cosa in dubbio.[10] La persona dell'Autore viene, per lo più, ad accrescere la forza de' sentimenti de' suoi personaggi; a colorirli più gagliardamente; occorreva un grande poeta per far così commovente l'addio di Lucia ai suoi monti, occorreva un buon patriotta per far sentire con tanta tenerezza il dolore di chi si stacca dalla patria. Ma talora i sentimenti dell'Autore che si mettono fra quelli de' suoi personaggi appaiono soverchianti e guastano una parte dell'effetto artistico. Chi è rimasto veramente commosso, per un esempio, dall'addio di Lucia, desidera rimanere in quella commozione, e non vorrebbe accogliere nell'animo alcun sentimento diverso da quello. Ma il Manzoni vuole ad ogni costo che prevalga ne' dolori umani il sentimento della rassegnazione cattolica; quindi, senza pure accorgersi che la commettitura o la toppa cattolica riesce troppo evidente, non badando ad alcuna regola di transizione, dopo l'ultimo addio di Lucia, soggiunge senz'altro: "Chi dava a voi tanta giocondità è per tutto; e non turba mai la gioia de' suoi figli se non per prepararne loro una più certa e più grande." Per arrivare a un tal sentimento, Lucia avea bisogno di un po' di preparazione; e il Manzoni, da quel profondo psicologo che era, lo dovea sentire meglio d'ogni altro. Ma è assai possibile che nella prima composizione del romanzo quella pia appendice non esistesse, e che per solo suggerimento di alcuno dei suoi revisori egli l'abbia introdotta nel secondo manoscritto o sulle prove di stampa. Sappiamo invero che il Manzoni avendo incominciato il romanzo il 24 aprile dell'anno 1821, cioè appena fallita la rivoluzione piemontese, e dopo i primi arresti de' patriotti lombardi, lo avea terminato nel 1823, e precisamente il 17 settembre. Il Grossi ch'era con lui a Brusuglio dovette essere il primo a leggerlo, in camera charitatis; ma il Grossi, l'amico e collaboratore di Carlo Porta, poteva al Manzoni parere un confessore di manica larga. Un lettore più difficile fu di certo l'amico critico e filosofo Ermes Visconti, al quale il Manzoni passò la sua prima minuta de' Promessi Sposi; il Visconti la copri di note, appunti, correzioni; il Manzoni ne tenne buon conto nella nuova trascrizione del proprio lavoro ch'egli fece nell'anno 1824; la diede quindi a ricopiare per passarla ad altri amici; il Fauriel, il Tosi, Gaetano Giudici, il Tommaseo, furono nel numero de' lettori privilegiati; ricevute le osservazioni, egli corresse nuovamente di proprio pugno tutta la copia, che passò quindi alla Censura, e finalmente alla Tipografia; sulle prove di stampa che si conservano, il Manzoni fece nuove correzioni; la stampa del primo volume incominciò nell'anno 1825, quella del secondo nel 1826, il terzo ed ultimo volume si finì di stampare nella primavera dell'anno 1827.[11] L'aspettativa del romanzo era grande; il Fauriel ne parlava a' suoi amici in Francia; Victor Cousin che avea visitato il Manzoni a Brusuglio ne recava notizie al vecchio Goethe a Weimar. In Italia, alla sola notizia che il Manzoni stava scrivendo un romanzo storico, parecchi letterati si misero a scrivere romanzi storici, confondendo la speranza di far più presto con quella di far meglio.[12] Non sapevano, non pensavano che il Romanzo manzoniano avrebbe tratto tutta la sua gloria non dall'essere storico, ma dall'averlo immaginato, sentito e scritto a modo suo, e come sapeva farlo egli solo, il Manzoni. Il 12 marzo dell'anno 1827, ad una domanda della contessa Diodata Saluzzo relativa al romanzo il Manzoni rispondeva: "La filastrocca, della quale Ella ha la bontà di richiedermi, è bensì stampata in gran parte, ma nulla ne è ancor pubblicato, nè sarà che ad opera compiuta. Del quando non posso fare alcuna congettura un po' precisa; perchè di quel che manca alla stampa, una parte manca ancora allo scritto; e il compimento di questo dipende da una salute incerta e bisbetica, la quale spesso mi fa andare assai lento, e talvolta cessare affatto per buon numero di giorni. Dell'essersi poi, come Ella mi accenna, veduto costi il già stampato, io non so che mi dire nè che pensare, non ve ne avendo io spedita certamente copia, nè in altra parte d'Italia. Nè anche posso tacere che, siccome l'aspettazione di alcuni mi aveva già posto in gran pensiero, così in grandissimo mi pone codesta ch'Ella si degna mostrarmi: che, riguardando al mio lavoro, sento troppo vivamente quanto sia immeritevole di una sua curiosità; e troppo certamente prevedo quanto questa sia per essere mal soddisfatta. Ma, ad ogni modo, la prova non sarà terribile che per la vanità; e io confido ch'Ella si contenterà di dimenticare il libro noioso, senza cacciar per questo l'autore dal posto accordatogli nella sua benevolenza." Da questa lettera rileviamo che nel marzo 1827 il libro era al suo fine, ma che il Manzoni doveva ancora scriverne gli ultimi fogli. È potuto parere strano ai lettori de' Promessi Sposi che il Manzoni fissasse il numero de' suoi lettori a soli venticinque; o eran troppi, o troppo pochi; si disse che in quel caso il Manzoni affettava soverchia modestia; ma è difficile il cogliere il Manzoni in fallo; il buon senso è stato forse più vicino a lui che a qualsiasi altro mortale. Ora noi sappiamo che, prima di venir pubblicati, i Promessi Sposi furono veramente letti e talora molto criticati da un numero scelto di amici, che potrebbero per l'appunto sommare insieme al numero di venticinque. Essi furono, dal 1823 in cui i Promessi Sposi furono finiti di comporsi, al 1827, ossia per ben quattro anni, per un caso singolare, il solo vero pubblico de' Promessi Sposi; e, per quanto nel trovarsi così limitato ci fosse da sperare che usasse discrezione e riserbo, non pare che una tal regola siasi osservata da tutti; sembra anzi che alcuno de' venticinque lettori parlasse troppo e che si permettesse un genere di censure irritante per ogni autore, ma specialmente per un autore come il Manzoni; ond'egli preparò per la stampa e pubblicazione definitiva del libro, destinato da prima ai soli amici fidati, una frecciata delle sue, e la lanciò in modo che il pubblico potesse non capire, e la dovessero sicuramente sentire gli amici indiscreti, ai quali essa era diretta.[13] Non sarà troppa temerità la nostra il supporre che una delle persone più colpite doveva essere Niccolò Tommaseo: l'articolo critico ch'egli pubblicò nel fascicolo di ottobre del 1827 nell'Antologia, è forse, fra tutti gli articoli che si scrissero allora sopra i Promessi Sposi, il più malizioso, Il Tommaseo parla della "degnazione," con la quale il Manzoni "si è abbassato a voler fare un romanzo," e si domanda: "Chi mi sa dire per quali pensieri e sentimenti passasse lo spirito di quest'uomo singolare nel corso del suo lavoro? Chi mi sa dire se egli non l'abbia compiuto in uno stato di opinione molto diverso da quello, in cui l'ha cominciato?" Dopo aver censurato i caratteri de' Promessi Sposi, trovato Renzo, per un villano, troppo gentile, Lucia priva di carattere, troppo poco villana, Agnese pesante, avvertito che il cardinal Federigo compare troppo tardi, che l'Innominato si converte troppo presto, dice: "Quel della Signora sarebbe più individuale e più vivo, se l'Autore, come la pubblica voce afferma, non avesse per eccesso di delicatezza troncata la parte de' suoi traviamenti;" trova Don Abbondio quasi noioso, perchè troppo simile a sè stesso; il lepore manzoniano gli sa talvolta "del mendicato e del picciolo." E qui, nel tempo stesso che l'accusa, vuole parer di scusarlo, accusandolo un po' di più: "Se non che (scrive il Tommaseo) da un uomo che segue con amabile semplicità i miti impulsi del suo bel cuore e del suo raro ingegno, non è poi da esigere un freddo rigore in seguire quella certa convenienza di tuono, ch'è così facile a degenerare in sistema, ed a farsi monotonia. Egli è lecito però l'affermare, che nel tuono di questo libro domina insieme col vasto non so che di vago, che alla fin fine potrebbe essere il difetto di chi si abbassa a soggetti minori della propria grandezza. Perchè se quel libro è fatto pel volgo, è tropp'alto; se per gli uomini colti, è tropp'umile. In questo libro sarebbe a desiderare un far più svelto e più franco. La modestia dell'Autore si spinge, se è lecito dire, talvolta sino a diventare orgogliosa. Egli teme di non iscolpire abbastanza i caratteri, di non fare abbastanza impressione; perciò si ferma su tutto. Se invece di mostrarsi conoscitore degli uomini in genere, Manzoni avesse voluto spiegarci solamente i misteri di quel pezzo d'uomo che è l'uomo morale, allora egli sarebbe stato sempre grande; ma allora non avrebbe fatto un romanzo. Manzoni talvolta lascia immaginar troppo al lettore, talvolta nulla; il suo tuono è il tuono d'un uomo superiore che si abbassa per giovare altrui, ma talvolta par non si abbassi che per piacere; e questo lo fa troppo lepido. La sua naturalezza è quasi sempre artifiziata, ma di un'arte sublime; le sue intenzioni vanno sempre al di là delle sue parole; e per gustare molte espressioni, molti tratti, e lo spirito dominante dell'opera, bisognerebbe aver conosciuto l'Autore, dappresso. Si conosce più il libro dall'Autore, che non l'Autore dal libro." A malgrado del bisticcio, si capisce quello che il Tommaseo voleva dire; egli era stato in casa Manzoni, avea letto in casa sua i Promessi Sposi prima che si pubblicassero, ed era di quelli che potevano legger molto fra le linee. L'articolo che il Tommaseo amico osò stampare in Firenze, quando il Manzoni si trovava con la sua famiglia festeggiato, ammirato, invidiato forse anco, non è punto simpatico, e ci lascia facilmente supporre quali altri giudizii il Tommaseo dovesse permettersi contro il romanzo nei privati discorsi, prima che si pubblicasse. Quelle censure anticipate, per la maggior parte ingiuste e piene di sofisticherie, irritarono, senza dubbio, il Manzoni, al quale vennero riportate; perciò, nell'ultimo foglio del suo romanzo, poco prima di mandarlo in giro, egli volle inserire una sua pagina tutta significativa: il lettore di romanzi che arriva al fine de' Promessi Sposi ed intende che quella Lucia e quel Renzo, ai quali o poco o molto s'è affezionato, vanno a finire in un paese, dove non sono poi bene accolti, ha un po' ragione di mettersi di malumore contro l'Autore, che non seppe immaginare alcun'altra miglior conclusione; ma, se il lettore di romanzi è persona intelligente, la quale più de' casi straordinarii di un eroe o di un'eroina sappia ammirar l'arte, con la quale l'Autore crea, egli passerà invece, tosto, dal breve malumore ad una viva e durevole ammirazione. Dopo il cenno che ho qui fatto sopra il modo singolare con cui si preparò in Milano la stampa de' Promessi Sposi, tutti possono intendere la finezza di questa pagina, che si può pertanto tornare a rileggere: "Il parlare che, in quel paese, s'era fatto di Lucia, molto tempo prima che la ci arrivasse, il saper che Renzo aveva avuto a patir tanto per lei, e sempre fermo, sempre fedele; forse qualche parola di qualche amico parziale per lui e per tutte le cose sue, avevan fatto nascere una certa curiosità di veder la giovine, e una certa aspettativa della sua bellezza. Ora sapete come è l'aspettativa: immaginosa, credula, sicura; alla prova poi, difficile, schizzinosa; non trova mai tanto che le basti, perchè, in sostanza, non sapeva quello che si volesse; e fa scontare senza pietà il dolce che aveva dato senza ragione. Quando comparve questa Lucia, molti, i quali credevan forse che dovesse avere i capelli proprio d'oro, e le gote proprio di rosa, e due occhi l'uno più bello dell'altro". e che so io? cominciarono a alzar le spalle, ad arricciare il naso, e a dire: "Eh! l'è questa? Dopo tanto tempo, dopo tanti discorsi, s'aspettava qualche cosa di meglio. Cos'è poi? Una contadina come tant'altre. Eh! di queste e delle meglio ce n'è per tutto." Venendo poi a esaminarla in particolare, notavan chi un difetto, chi un altro; e ci furon fin di quelli che la trovavan brutta affatto. Siccome però nessuno le andava a dir sul viso a Renzo queste cose, così non c'era gran male fin lì. Chi lo fece il male, furon certi tali che gliene rapportarono; e Renzo, che volete? ne fu tocco sul vivo. Cominciò a ruminarci sopra, a farne di gran lamenti, e con chi gliene parlava, e più a lungo tra sè "E cosa v'importa a voi altri? E chi v'ha detto d'aspettare? Son mai venuto io a parlarvene? a dirvi che la fosse bella? E quando me lo dicevate voi altri, v'ho mai risposto altro, se non che era una buona giovine? È una contadina! V'ho detto mai che v'avrei menato qui una principessa? Non vi piace? non la guardate. N'avete delle belle donne? guardate quelle." E vedete un poco come alle volte una corbelleria basta a decidere dello stato di un uomo per tutta la vita. Se Renzo avesse dovuto passar la sua in quel paese, secondo il suo primo disegno, sarebbe stata una vita poco allegra. A forza d'esser disgustato, era ormai diventato disgustoso. Era sgarbato con tutti, perchè ognuno poteva essere uno de' critici di Lucia. Non già che trattasse proprio contro il Galateo; ma sapete quante belle cose si possono fare senza offender le regole della buona creanza; fino sbudellarsi. Aveva un non so che di sardonico in ogni sua parola; in tutto trovava anche lui da criticare, a segno che, se faceva cattivo tempo due giorni di seguito diceva: "Eh già, in questo paese!" [14] Vi dico che non eran pochi quelli che l'avevan già preso a noia, e anche persone che prima gli volevan bene; e col tempo, d'una cosa nell'altra, si sarebbe trovato, per dir così, in guerra con quasi tutta la popolazione, senza poter forse nè anche lui conoscer la prima cagione di un così gran male." Così il Manzoni pigliava non due, ma tre colombi ad una fava; conchiudeva la sua storia in un modo certamente insolito, per quanto sia sembrato umile; alludeva forse ai discorsi che si fecero in Milano intorno alla sua sposa, quando egli la menò dal contado bergamasco in Milano; e dava una sferzata allegra a que' critici impazienti, che si preparavano a gettare il discredito sul libro prima che venisse pubblicato. Io potrei ora proseguire questa indagine biografica manzoniana sopra i Promessi Sposi, ma temerei recarvi tedio. Non terminerò tuttavia senza avvertire come l'ottimo commento ai Promessi Sposi si possa fare soltanto a Lecco. Chi voglia ammirare veramente tutta la potenza artistica dell'ingegno manzoniano deve recarsi sopra la scena stessa del romanzo. Non mai si è rivelata meglio la virtù d'uno scrittore a idealeggiare il reale. Quello che il Manzoni aveva fatto degli uomini, lo fece pure de' luoghi; col suo genio plastico gli espresse, con la sua fantasia poetica li sollevò, col suo proprio sentimento diede loro una tinta calda ed un calore simpatico. Il Manzoni, io l'ho già detto, aveva dovuto con suo grave dolore vendere la propria palazzina detta il Caleotto che sorge presso Lecco (ove il Manzoni possedeva pure alcune terre, come il suo Renzo un orto), in faccia ad Acquate ed al bel Resegone, e sovrasta all'Adda. V'è una leggenda a Lecco, che io vi ripeto come la intesi: secondo essa, dopo la vendita dolorosa de' beni paterni, il Manzoni non sarebbe più tornato a Lecco, ma a ricordo de' vecchi, un giorno, nel tempo in cui egli scriveva i Promessi Sposi, una vettura si sarebbe fermata in vista del Caleotto e di Acquate; in quella vettura vogliono che si trovasse il Manzoni, e che alla vista de' cari luoghi della sua infanzia abbia dato in uno scoppio di pianto, e mancatogli il coraggio di scendere, egli sia invece ripartito prontamente per Milano, per sottrarsi alla vivezza del dolore subitamente provato. Sia storia o storiella, questo racconto esprime, in ogni modo, il sentimento vivissimo che il Manzoni aveva, senza dubbio, del panorama incantevole ch'egli aveva più volte, essendo fanciullo, ammirato dal suo Caleotto. Si direbbe che di là tutti i luoghi principali de' Promessi Sposi non solo s'abbracciano con gli occhi, ma si pigliano, per così dire, con le mani. La viottola, per la quale passeggiava Don Abbondio, la chiesa d'Acquate, la casa di Agnese e di Lucia, la palazzina di Don Rodrigo, il Resegone, il convento di Pescarenico, il passo del Bione, le rovine del supposto castello dell'Innominato, tutto si spiana alla vista di chi contempli la scena ridente e svariata dal Caleotto. Chi visita ora que' luoghi li trova certamente bellissimi; ma bisogna proprio visitarli per vedere coi proprii occhi, con piena evidenza, quale meraviglioso artista, quale stupendo poeta anche scrivendo in prosa siasi rivelato il Manzoni.[15] Nessuno che legga i Promessi Sposi in vista d'Acquate troverà una sola linea che si discosti dal vero; ma la poesia di quel vero prima di lui l'aveva forse sentita in parte qualcuno, egli la sentì e la espresse tutta; ecco dunque, in qual modo il Manzoni è stato verista; ecco in qual modo io vorrei pure che lo diventassimo noi tutti, imparando nel tempo stesso da lui a fare molto con assai poco e non viceversa assai poco con molto. Di montagne come il Resegone se ne trovano certamente in Italia parecchie altre; ma quella è la montagna d'Acquate, cioè del villaggio, ove Renzo e Lucia son nati e cresciuti; tutti i loro ricordi, tutti i loro affetti sono là, ma un signore prepotente viene a cacciare dal loro tetto, dal loro nido e disperde nell'esiglio i giovani fidanzati; allora il Resegone appare più bello, più grande, più poetico di tutti gli altri monti, perchè quel monte vuol dire ai fuggiaschi la patria; ed ecco, in qual modo naturale, il Manzoni converte l'addio di una povera contadina al suo villaggio in un vero inno commovente dell'esule italiano alla patria.

[1] Il Fauriel, scrive il Sainte-Beuve, s'andava proponendo, circa quel tempo, di comporre un romanzo storico, di cui avrebbe certamente collocata la storia nel Mezzodì della Francia, in una di quelle epoche ch'egli conosceva così bene. Dopo aver finito l'Adelchi, il Manzoni, abbandonata l'idea di una tragedia Spartaco, si mise anch'egli a pensare di comporre il romanzo Promessi Sposi. Circa lo stesso tempo, il suo amico Grossi s'occupava intorno ad un grande poema storico: I Lombardi atta prima Crociata. Era il tempo del grande ardore per l'Ivanhoe. Di qui nuove attivissime discussioni, e nuovo moto alle idee, sia per lettera, sia a voce, nel soggiorno del Fauriel in Italia (la Prefazione che precede il supplemento al secondo volume dei Canti popolari della Grecia del Fauriel reca la data di Brusuglio vicin di Milano) dal 1823 al 1825. Discutevasi, per esempio, come questione principale, tra i due amici, intorno al modo d'innestare la storia con la poesia, senza che l'una noccia all'altra. Il Fauriel inclinava a credere che, quindi in poi, la lotta condurrebbe la poesia propriamente detta a rimanere ogni dì più soccombente. Il Manzoni pensava altrimenti, e sosteneva contro le apparenze e i cattivi pronostici che la poesia non ha volontà di morire. E tutti due s'accordarono a dire che, in un certo sistema di romanzo, "c'è posto per l'invenzione de' fatti nella rappresentazione di costumi storici." Ebbene, la è questa appunto, replicava il Manzoni, una di quelle forze potentissime che restano tuttavia alla poesia, la quale, com'io vi diceva, non ha volontà di morire. La narrazione storica non è fatta per lei; giacchè il racconto de' fatti ha virtù di svegliare nell'uomo, naturalmente e ragionevolmente curioso, una tale attrattiva da disgustarci delle invenzioni poetiche che vi si volessero mescolare fino a farle parere puerili. Ma riunire i caratteri distintivi di un'epoca della società, rischiararli o porli in moto con un'azione, profittar della storia senza mettersi in concorrenza con essa, senza pretender di fare quel che esse sa far meglio sicuramente, ecco ciò che mi sembra tuttavia riservato alla poesia; che anzi essa sola può fare. "Non crediamo ingannarci (soggiunge il Sainte-Beuve), epilogando per tal modo l'opinione del poeta."

[2] Ecco le parole proprie del Filangieri, quali si possono leggere nel libro IV, capo 40, art. 3°, della Scienza della Legislazione: "Io propongo la lettura de' romanzi pe' fanciulli che sono giunti all'età che si richiede secondo l'ordine da noi esposto (cioè l'età di nove anni compiuti), per assistere ai morali discorsi. Ma quali debbono essere questi romanzi? quali i soggetti, sui quali formar si dovrebbero? Ogni condizione può avere i suoi eroi, può avere i suoi mostri. Presso tutte le nazioni, in tutte l'età, in tutti i Governi, se ne trovano in tutte le classi dello Stato. I cenci dell'ultimo cittadino e la toga del primo magistrato nascondono spesso le più grandi virtù e i vizii più vili. L'occhio del filosofo penetra a traverso di questo velo, nel mentre che il volgare non vi vede che cenci e toga. Su questi fatti che l'istorie di tutti i tempi ci manifestano, formar si dovrebbero i romanzi, de' quali io parlo. L'eroe esser dovrebbe della classe, della quale son coloro, a' quali ne vien destinata la lettura. L'agricoltore dunque, il fabbro, il semplice soldato, o il duce che ha cominciato dall'esserlo, e che ha condotto l'aratro prima di condurre la legione, somministrar dovrebbero il soggetto e l'eroe dei romanzi che pe' fanciulli di questa classe io propongo. L'arte dello scrittore esser dovrebbe di mettere nel maggior aspetto quelle virtù così civili come guerriere che sono più alla portata degl'individui di questa classe; di dipingere co' colori più neri que' vizii, ai quali sono più esposti; di fecondare que' semi dell'amor della patria o della gloria, che si van gittando in tanti modi nel cuore de' nostri allievi, e d'ispirare quell'elevazione di animo, ch'è altrettanto più gloriosa, quanto meno si combina colla ricchezza delle fortune e coll'originaria dignità della condizione. Io vorrei che il soggetto del romanzi fosse per lo più un fatto vero, e non interamente immaginato, e vorrei che l'autore ne assicurasse colui che legge. È incredibile quanto questa prevenzione ne renderebbe più efficace la lettura. La moltiplicità e l'eccellenza delle opere che son comparse in questo genere presso tutte le nazioni, ed in tutte le lingue dell'Europa, renderebbe molto facile la collezione di questi romanzi d'educazione che io propongo. Gli effetti e i vantaggi, che ne produrrebbe la lettura, sono noti a chiunque conosca la forza dei sentimenti e l'influenza che questi aver possono sulla formazion del carattere e sullo sviluppo delle passioni."

[3] Questa notizia ch'io rilevo da una lettera del professore Giovanni Rizzi, trova pure conferma nelle seguenti parole del Buccellati: "Rattristato, per i rovesci del 1821, la morte e la prigionia degli amici, (il Manzoni} disse a Grossi ch'egli non potendo più vivere a Milano, intendeva ritirarsi colla famiglia a Brusuglio. Grossi trovò savio il pensiero di Manzoni, e se ne valse anche per suo conto, seguendo l'amico nel suo eremitaggio. Tra i libri che Manzoni portava seco da Milano eravi la Storia del Ripamonti e l'Economia e Statistica del Gioia, in cui si trovano citate le Gride contro i Bravi e gl'inconsulti Decreti annonarii. Oh! che tempi, diceva Manzoni a Grossi, segnando specialmente le pagine del Ripamonti che alludono all'Innominato. Sarebbe bene porre sottocchio in modo evidente queste istorie…."

[4] Lo riferisco, quantunque notissimo, perchè nella biografia manzoniana sembrami avere una importanza speciale: "…. La presenza di Federigo era infatti di quelle che annunziano una superiorità, e la fanno amare. Il portamento era naturalmente composto, e quasi involontariamente maestoso; non incurvato, nè impigrito punto dagli anni; l'occhio grave e vivace, la fronte serena e pensierosa; con la canizie nel pallore, tra i segni dell'astinenza, della meditazione, della fatica, una specie di floridezza verginale; tutte le forme del volto indicavano che, in altra età, c'era stata quella che più propriamente si chiama bellezza; l'abitudine de' pensieri solenni e benevoli, la pace interna d'una lunga vita, l'amore degli uomini, la gioia continua d'una speranza ineffabile, vi avevano sostituita una, direi quasi, bellezza senile, che spiccava ancor più in quella magnifica semplicità della porpora. Tenne anche lui, qualche momento, fisso nell'aspetto dell'Innominato il suo sguardo penetrante; ed esercitato da lungo tempo a ritrarre dai sembianti i pensieri; e, sotto a quel fosco e a quel turbato, parendogli di scoprire sempre più qualcosa di conforme alla speranza da lui concepita al primo annunzio d'una tal visita, tutt'animato; "Oh!" disse, "che preziosa visita è questa! e quanto vi devo esser grato d'una sì buona risoluzione: quantunque per me abbia un po' del rimprovero!" "Rimprovero!" esclamò il signore maravigliato, ma raddolcito da quelle parole e quel fare, e contento che il Cardinale avesse rotto il ghiaccio, e avviato un discorso qualunque. "Certo, m'è un rimprovero," riprese questo, "ch'io mi sia lasciato prevenir da voi; quando, da tanto tempo, tante volte, avrei dovuto venir da voi io." "Da me voi! sapete chi sono? V'han detto bene il mio nome?" "E questa consolazione ch'io sento, e che, certo, vi si manifesta nel mio aspetto, vi par egli ch'io dovessi provarla all'annunzio, alla vista d'uno sconosciuto? Siete voi che me la fate provare; voi, dico, che avrei dovuto cercare; voi, che almeno ho tanto amato e pianto, per cui ho tanto pregato; voi de' miei figli, che pure amo tutti e di cuore, quello che avrei più desiderato d'accogliere e d'abbracciare, se avessi creduto di poterlo sperare. Ma Dio sa fare Egli solo le meraviglie, e supplisce alla debolezza, alla lentezza, de' suoi poveri servi." L'Innominato stava attonito a quel dire così infiammato, a quelle parole, che rispondevano tanto risolutamente a ciò che non aveva ancor detto, nè era ben determinato di dire; e commosso, ma sbalordito, stava in silenzio. "E che?" riprese ancor più affettuosamente Federigo: "voi avete una buona nuova da darmi, e me la fate tanto sospirare?" "Una buona nuova, io? Ho l'inferno nel cuore; e vi darò una buona nuova? Ditemi voi, se lo sapete, qual'è questa buona nuova che aspettate da un par mio." "Che Dio v'ha toccato il cuore e vuol farvi suo," rispose pacatamente il Cardinale. "Dio! Dio! Dio! Se lo vedessi! Se lo sentissi! Dov'è questo Dio?" "Voi me lo domandate? voi? E chi più di voi l'ha vicino? Non ve lo sentite in cuore, che v'opprime, che v'agita, che non vi lascia stare, e nello stesso tempo v'attira, vi fa presentire una speranza di quiete, di consolazione, d'una consolazione che sarà piena, immensa, subito che voi lo riconosciate, lo confessiate, l'imploriate?" "Oh, certo! ho qui qualche cosa che mi opprime, che mi rode! Ma Dio! Se c'è questo Dio, se è quello che dicono, cosa volete che faccia di me?" Queste parole furon dette con un accento disperato; ma Federigo, con un tono solenne, come di placida ispirazione, rispose; "Cosa può far Dio di voi? cosa vuol farne? Un segno della sua potenza e della sua bontà: vuol cavar da voi una gloria che nessun altro gli potrebbe dare. Che il mondo gridi da tanto tempo contro di voi, che mille e mille voci detestino le vostre opere…." (l'Innominato si scosse, e rimase stupefatto un momento nel sentir quel linguaggio così insolito, più stupefatto ancora di non provare sdegno, anzi quasi un sollievo): "Che gloria," proseguiva Federigo, "ne viene a Dio? Son voci di terrore, son voci d'interesse, voci forse anche di giustizia, ma d'una giustizia così facile, così naturale! Alcune forse, pur troppo, d'invidia di codesta vostra sciagurata potenza, di codesta, fino ad oggi, deplorabile sicurezza d'animo. Ma quando voi stesso sorgerete a condannare la vostra vita, ad accusar voi stesso, allora…. Allora Dio sarà glorificato! E voi domandate cosa Dio possa far di voi? Chi son io, pover'uomo, che sappia dirvi fin d'ora che profitto possa ricavar da voi un tal signore? Cosa possa fare di codesta volontà impetuosa, di codesta imperturbata costanza, quando l'abbia animata, infiammata d'amore, di speranza, di sentimento? Chi siete voi, pover'uomo, che vi pensiate d'aver saputo da voi immaginare e fare cose più grandi nel male, che Dio non possa farvene volere e operare nel bene? Cosa può Dio far di voi? E perdonarvi? e farvi salvo? e compiere in voi l'opera della redenzione? Non son cose magnifiche e degne di Lui? O pensate! se io omiciattolo, io miserabile e pur così pieno di me stesso, io qual mi sono, mi struggo ora tanto della vostra salute, che per essa darei con gaudio (Egli m'è testimonio) questi pochi giorni che mi rimangono, oh pensate! quanta, quale debba esser la carità di Colui che m'infonde questa, così imperfetta, ma così viva, come vi ami, come vi voglia Quello che mi comanda e m'ispira un amore per voi che mi divora!" A misura che queste parole uscivan dal suo labbro, il volto, lo sguardo, ogni moto ne spirava il senso. La faccia del suo ascoltatore, di stravolta e confusa, si fece da principio attonita e intenta; poi si compose a una commozione più profonda e meno angosciosa; i suoi occhi che dall'infanzia più non conoscevan le lacrime, si gonfiarono; quando le parole furon cessate si coprì il viso con le mani, e diede in un dirotto pianto, che fu come l'ultima e più chiara risposta."

[5] "Nell'Italia nostra (vi si diceva) vi sono tuttavia gli Aristotelici delle Lettere, come vi furono della Filosofia; e sono quei tenaci adoratori delle parole, i quali fissano tutti i loro sguardi sul conio di una moneta, senza mai valutare la bontà intrinseca del metallo e corron dietro e preferiscono nel loro commercio un pezzo d'inutile rame, ben improntato e liscio, a un pezzo d'oro perfettissimo, di cui l'impronta sia fatta con minor cura. Immergeteli in un mare di parole, sebben anche elleno non v'annuncino che idee inutili o volgarissime, ma sieno le parole ad una ad una trascelte, e tutte insieme armoniosamente collocate nei loro periodi, sono essi al colmo della loro gioia. Mostrate loro una catena ben tessuta di ragionamenti utili, nuovi, ingegnosi, grandi ancora, se una voce, se un vocabolo, una sconciatura risuona al loro piccolissimo orgtano, ve la ributtano come cosa degna di quella."

[6] "Due però (scrive il Manzoni) erano i libri che Don Ferrante anteponeva a tutti e di gran lunga in questa materia; due che, fino a un certo tempo, fu solito di chiamare i primi, senza mai potersi risolvere a qual de' due convenisse unicamente quel grado: l'uno, il Principe e i Discorsi del celebre Segretario fiorentino; mariuolo sì, diceva Don Ferrante, ma profondo: l'altro la Ragion di Stato del non men celebre Giovanni Botero; galantuomo sì, diceva pure, ma acuto." Il Manzoni dovea pensare ne' suoi studii storici un po' come il suo Don Ferrante: "Ma cos'è mai la storia senza la politica? Una guida che cammina, cammina, con nessuno dietro che impari la strada, e, per conseguenza, butta via i suoi passi; come la politica senza la storia è uno che cammina senza guida." L'Autore entra spesso in iscena anche come attore. Così dopo aver fatto una descrizione, forse un po' troppo minuta della biblioteca di Don Ferrante, soggiunge: "Noi cominciamo a dubitare se veramente il lettore abbia una gran voglia di andar avanti con lui in questa rassegna, anzi a tornerò di non aver già buscato il titolo di copiator servile per noi, e quello di seccatore da dividorsi con l'anonimo sullodato, per averlo bonariamente seguito fin qui, in cosa estranea al racconto principale, e nella quale probabilmente non s'è tanto disteso, che per isfoggiar dottrina, e far vedere che non era indietro del suo secolo. Però lasciando scritto quel che è scritto per non perder la nostra fatica, ometteremo il rimanente, per rimetterci in istrada."

[7] È il Manzoni stesso che ce lo fa sapere in una sua lelterina a Cesare Cantù, il quale, valendosi, com'è noto, in gran parte dei materiali di studio dei Promessi Sposi che avevano servito al Manzoni, compose il suo Commento storico ai Promess Sposi: "L'Innominato (scriveva il Manzoni) è certamente Bernardino Visconti. Per l'aequa potestas quidlibet audendi ho trasportato il suo castello nella Valsássina. La duchessa Visconti si lamenta che le ho messo in casa un gran birbante, ma poi un gran santo." Nella Valsássina aveva avuto signorìa, nel tempo in cui è collocata l'azione del romanzo, la casa Manzoni. L'aver fatto l'Innominato il signore della Valsássina parmi un altro segno evidente che il Manzoni voleva, in qualche modo, rappresentar sè stesso nell'Innominato, per l'aequa potestas quidlibet audendi. Vogliono che il Manzoni un giorno a chi lo ringraziava del bene ch'egli avea fatto co' suoi scritti, rispondesse; "Senta, se c'è un nome che non meriti autorità, questo nome è il mio. Lei forse non sa che io fui un incredulo e un propagatore d'incredulità e con una vita conforme alla dottrina, che è il peggio. E se la Provvidenza mi ha fatto vivere tanto, è perchè mi ricordi sempre che fui una bestia e un cattivo."

[8] "Lodovico (scrive il Manzoni) aveva contratte abitudini signorili; e gli adulatori, tra i quali era cresciuto, l'aveano avvezzato ad esser trattato con molto rispetto. Ma, quando volle mischiarsi coi principali della sua città, trovò un fare ben diverso da quello, a cui era accostumato; e vide che a voler esser della loro compagnia, come avrebbe desiderato, gli conveniva fare una nuova scuola di pazienza o di sommissione, star sempre al di sotto e ingozzarne una ogni momento. Una tal maniera di vivere non s'accordava, nè con l'educazione, nè con la natura di Lodovico. S'allontanò da essi indispettito. Ma poi ne stava lontano con rammarico, perchè gli pareva che questi veramente avrebber dovuto essere i suoi compagni; soltanto gli avrebbe voluti più trattabili."

[9] Forse vi è pure qualche cosa delle idee di quel parroco conosciuto dal Manzoni, nel battibecco fra Agnese e Don Abbondio sul titolo da darsi al cardinal Federigo "illustrissimo" o "monsignore" o "eminenza," ove Don Abbondio prova che il Papa ha decretato che i Cardinali si chiamino eminenze, perchè troppi si appropriarono il titolo d'illustrissimi. Un giorno, è vero, si chiameranno tutti eminenze, gli abati, i proposti, ma intanto per un po' di tempo, perchè gli uomini son fatti così, sempre voglion salire, sempre salire, i soli curati a tirar la carretta, e a pigliarsi del reverendo fino alla fine del mondo. Piuttosto, non mi meraviglierei punto che i cavalieri, i quali sono avvezzi a sentirsi dar dell'illustrissimo, a esser trattati come i Cardinali, un giorno volessero dell'eminenza anche loro. E se lo vogliono, vedete, troveranno ehi gliene darà. E allora il Papa che ci sarà allora, troverà qualche altra cosa per i cardinali.

[10] Enrichetta Blondel, moglie del Manzoni, morì cinque anni dopo la pubblicazione dei Promessi Sposi nel 1833, e il Manzoni ne rimase per lungo tempo inconsolabile. Il Tommaseo ricordava, in proposito; un aneddoto commovente: "Il Manzoni era a Stresa per assistere all'agonìa dell'amico Antonio Rosmini; e fu soggetto d'ammirazione agli astanti la venerazione figliale di lui più vecchio ed il cordoglio di quella morte; e io posso dire quanto profondamente (non parendo ai profani) egli sentisse i dolori. Rincontratomi seco a Stresa, a caduto il discorso su Virgilio {religione dell'anima sua) rammentando io quel sovrano concetto d'Evandro; Tuque o santissima coniux, felix morte tua, egli continuava la citazione: neque in hunc servata dolorem, accompagnandola coll'atto del viso e della mano abbandonata sul ginocchio, e sentì la diletta e venerata sua moglie, la sua ispiratrice, della quale consunta da lento languore ei diceva con parole degne di chi ci ritrasse Ermengarda morente:,—Tutti i dì la offro a Dio, e tutti i dì gliela chieggo.—Veggasi pure quanto scrive in proposito il professor Prina nel suo diligente Studio biografico sopra il Manzoni.

[11] Il Tommaseo, scrivendo al signor Giovanni Sforza, gli diceva: "Nel marzo (1827) egli (Manzoni) stava scrivendo gli ultimi fogli, e io sul principio di quell'anno o sulla fine del precedente lessi buona parte del terzo volume all'abate Rosmini che, passeggiando la sua stanza, sorrideva e ammirava. Un giorno che Don Alessandro correggeva le bozze e le metteva al sole che s'asciugassero: vede che ho qualcosa anch'io al sole, coll'arguzia solita, nel vedermi entrare, sorridendo egli disse."

[12] Del rumore che fecero al loro apparire, i Promessi Sposi, possiam prendere argomento dalle seguenti parole di Paride Zajotti, il critico detta Biblioteca Italiana: "Alessandro Manzoni conduce in Italia la scuola romantica; nè la placidezza della sua vita, nè la dignitosa temperanza dell'alto suo ingegno valsero a liberarlo da questo onore pericoloso, cui necessariamente lo solleva la fama universale delle sue opere, e il bisogno riconosciuto da' suoi seguaci di ripararsi sotto un gran nome. Non è quindi a maravigllare, se le sue scritture al primo venire in luce destano una commozione sì viva, e chiamano tosto i partiti a sdegnose e gareggianti parole; i classicisti non gli vogliono permettere d'acquistar tanta gloria violando i loro antichi precetti, e i romantici menano un romoroso trionfo, attribuendo alla bontà de' nuovi principii le lodi unicamente debite all'eccellenza del loro maestro." Più volgarmente il prete Giuseppe Salvagnoli Marchetti, il quale nell'anno 1829 pubblicava in Roma un opuscolo contro gl'Inni Sacri di Alessandro Manzoni, per far dispetto al Borghi che gli ammirava, gl'imitava e non volea le lodi del Salvagnoli se quelle lodi doveano tacitamente contenere un biasimo agl'Inni manzoniani, confessa la popolarità, di cui godevano fin da quell'anno i Promessi Sposi. Dicendo egli al proprio libraio che non avea ancora letto il romanzo del Manzoni, fa poi che il libraio malignamente gli soggiunga: "Si tollererebbe più volentierl il non aver letto Dante che i Promessi Sposi oggidì." Il libraio gli offre venticinque zecchini, a patto ch'ei scriva contro i Promessi Sposi; il Salvagnoli finge ricusare il compenso larghissimo, per questa sola ragione, ch'egli non suol leggere nè insegnare "una storia corretta e rifatta in un romanzo." Che se consente a scrivere contro gl'Inni Sacri, l'invidia non c'entra. "Non invidio (egli scrive) il Manzoni, perchè non ho mai invidiato chi segue false immagini di bene e di vero." La critica dell'opera manzoniana fu in parte pubblica, in parte privata. Lo stesso critico della Biblioteca Italiana fin dall'anno 1827 ce ne avverte: "I varii giudizii, che diedero di quest'opera le pubbliche stampe e i privati discorsi, cominciarono a dividersi già sul principio di essa, dove si venne a disputare se le convenisse il nome di romanzo che l'Autore non le aveva assegnato…. troppo oziosa è la disputazione de' nomi, quando il giudizio della cosa stessa non ne dipende. Non manca mai chi voglia seguire l'esempio dell'Addison, il quale, negandosi il titolo di poema epico al Paradiso perduto, solea chiamarlo poema divino; e noi medesimi, quando veggiamo per un sì tenue soggetto così accese battaglie, amiamo ripetere sotto voce la sentenza del poeta persiano: che importa alla rosa che le si cambi il nome, se le rimane il suo usato profumo? E pure lo stesso critico, da principio al fine del suo esame, si mostra incontentabile, fin che conchiude lagnandosi che il Manzoni non abbia frammischiato al suo racconto qualche lirica potente sacra o guerresca o cittadina. Il critico non dovette esser solo a muover questo lamento, e chi sa che non gli tenesse bordone in quell'anno lo stesso Grossi, il quale nel Marco Visconti introdusse poi le sue due più belle liriche. Lo stesso critico Zajotti, dopo aver notato come, per cagione dell'abate Chiari, fosse caduto in basso il romanzo italiano, avverte quello che occorreva per farlo vivere onorato: "A cancellare quella macchia, a rimettere nella vera sua sede l'onesto romanzo, era necessario che sorgesse un uomo ricco di qualità rarissime, e troppo difficili ad essere congiunte in un solo. Ei doveva aver bollente l'ingegno ed il cuore, ma saperli tenere a freno, chè la fantasia non gli avesse a travolgere; dovea conoscere gli uomini, e tuttavia poterli amare, conoscere le passioni, ma, coll'averne trionfato, sapere come si vincano. All'antica erudizione gli era d'uopo unire la nuova sapienza, e l'una e l'altra ravvivare col fuoco d'una splendida immaginativa. Nè questo ancora gli poteva bastare. Bisognava che la sua fama fosse superiore non all'invidia, ch'è impossibile, ma sì alla calunniai bisognava che, circondato da bellissima gloria acquistata con opere di alta letteratura, non avesse a temere la taccia di frivolità impressa da noi agli Studii del romanziere; bisognava finalmente che il suo nome amato dai buoni e riverito anche dai malvagi presentasse l'idea delle più insigni virtù religiose e morali, e solo bastasse colla sua dignità a liberare da ogni sospetto i romanzi. Ma dove rinvenire quest'uomo e come sperarlo? La fortuna ha prosperato l'Italia, e quest'uomo è Alessandro Manzoni. La sola notizia che l'Autore dell'Adelchi, il Poeta degl'Inni Sacri scriveva un romanzo, nobilitò la carriera, e trasse alcuni chiari intelletti ad entrarvi. {Camillo Laderchi, traducendo nel 1846 il giudizio del Sainte-Beuve sopra il Fauriel e il Manzoni, scriveva: "Allorquando Manzoni sta per dar fuori uno scritto, possiam esser sicuri che n'escono in precedenza cento altri a trattare l'argomento che deve essere oggetto della sua pubblicazione, quasi intendendo prevenirlo e torgli la materia di mano. Ciò avvenne per la Storia degli Untori, quando si seppe vicina la stampa del suo libro sulla Colonna infame. Ma poi, tostachè il suo lavoro comparisce, si trova che siffatti tentativi non valsero a impedirgli di conquistare una nuova gloria, camminando per vie prima intentate, e nondimeno sempre sul vero, lontano lontanissimo da tutto ciò che può sapere d'esagerato e di stravagante.") "Il vero ostacolo, il solo che l'ingegno abbandonato a sè stesso non potea vincere, fu pienamente atterrato; gli altri impedimenti, che sarebbe troppo facile annoverare, cadranno di leggieri innanzi al passo animoso degl'Italiani. Nei due secoli della nostra gloria noi avemmo romanzi eccellenti: perchè dovrebbero mancarci nel terzo, ora ch'è sgombra la strada a raccor questa palma? Tutta la terra è scena conveniente ai racconti del romanziere; ma se, com'è desiderio giusto comune, gl'Italiani vorranno rimanersi in Italia, chi potrà sorpassarli nella varia descrizione dei costumi e dei luoghi? Ov'è il paese più favorito dalla natura e del cielo? Ove sono i campi guardati con più amore dal sole? Ed infinita è la diversità delle costumanze e degli usi. Ogni montagna, quasi ogni fiume, divide due popoli vicini, e tuttavia fra loro distinti come due lontanissime genti. Roma, Napoli, Firenze, Milano, Venezia, sembrano altrettante nazioni, che risalendo fino alle loro origini si trovano sempre uguali a sè medesime, ma sempre differenti nelle pratiche della vita civile. L'indole e perfino il modo di pensare n'è diverso, come la storia. Quale mèsse ricchissima pel romanziere che ha da descrivere una tanta delizia, un tanto orrore di luoghi, e può rappresentare sì svariati costumi e con sì facili combinazioni metterli insieme a contrasto! Non ci rimane alcun dubbio, la vittoria in corto volgere d'anni sarà nostra, se il mal augurato romanzo storico non affascina gl'ingegni." Imprende quindi il critico a biasimare l'uso di mescolare il romanzo con la storia, e il biasimo suo conforta di molte buone ragioni, parecchie delle quali dovettero far pensare e persuadere il Manzoni, che s'accinse quindi egli medesimo a giudicare il romanzo storico, per condannarlo senza riguardo.

[13] Il Manzoni si destreggiava contro i suoi critici e contro gli amici dissidenti press'a poco come quel giudice di pace, di cui egli stesso ci ha parlato nel suo ingegnoso e formidabile Discorso sul Romanzo storico: "Un mio amico, di cara e onorata memoria, raccontava una scena curiosa, alla quale era stato presente in casa di un giudice di pace in Milano, val a dire molt'anni fa. L'aveva trovato tra due litiganti, uno de' quali perorava caldamente la sua causa; e quando costui ebbe finito, il giudice gli disse: Avete ragione. Ma, signor giudice, disse subito l'altro, lei mi deve sentire anche me, prima di decidere. È troppo giusto, rispose il giudice, dite pure su, che v'ascolto attentamente. Allora quello si mise con tanto più impegno a far valere la sua causa; e ci riuscì così bene, che il giudice gli disse: Avete ragione anche voi. C'era lì accanto un suo bambino di sette od ott'anni, il quale, giocando pian piano con non so qual balocco, non aveva lasciato di stare anche attento al contradittorio; e a quel punto alzando un visino stupefatto, non senza un certo che d'autorevole, esclamò: Ma babbo! non può essere che abbiano ragione tutt'e due! Hai ragione anche tu, gli disse il giudice. Come poi sia finita, o l'amico non lo raccontava, o m'è uscito di mente; ma è da credere che il giudice avrà conciliate tutte quelle sue risposte, facendo vedere tanto a Tizio, quanto a Sempronio, che se aveva ragione per una parte, aveva torto per un'altra."

[14] Si confronti quello che fin da giovine il Manzoni scriveva da Parigi a' suoi amici lombardi, e ciò che la moglie scriveva di lui nel 1820 al Tosi. Probabilmente il Manzoni avrà parecchie volte prima della pubblicazione de' Promessi Sposi lamentata la indifferenza, la malignità italiana, la quale doveva rincrescergli tanto più dopo essere stato ammirato dal Fauriel e dal Goethe.

[15] Colgo l'occasion per ringraziare l'egregio Antonio Ghislanzoni che mi fu guida intelligente e simpatica nel mio pellegrinaggio artistico ai luoghi manzoniani.

XIX.

IL MANZONI E LA CRITICA.

Appena che i Promessi Sposi si pubblicarono, il pubblico li comprò e li lesse avidamente:[1] se ne fecero subito in tutte le provincie d'Italia ristampe, in Francia, in Germania, in Inghilterra traduzioni. Il pubblico lesse ed ammirò; parecchi nobilissimi ingegni sacrarono tosto con parole di vero entusiasmo il capolavoro della moderna prosa italiana; i soli letterati di professione, facendo il loro solito invido mestiere, criticarono indegnamente. Ma il pubblico, come spesso accade, non gli ascoltò; i Promessi Sposi diventarono, in poco tempo, classici; i luoghi descritti nel romanzo parvero degna mèta di nuovi pellegrinaggi ideali; i tipi de' Promessi Sposi diventarono tutti popolari; il romanzo parve così poetico, che un Del Nobolo si provò pure a mettere quella storia in versi; la pittura, la musica s'impadronirono di quel tèma popolare, reso illustre da una mente sovrana; fino ad oggi le edizioni italiane del romanzo superano le centocinquanta. Nessun libro italiano è forse mai stato letto di più; e pure è singolare che oggi, dopo oltre cinquant'anni, ci siano ancora da scoprire ne' Promessi Sposi tante finezze, tante bellezze che erano passate intieramente inosservate. Un commento ai Promessi Sposi rimane ancora da farsi e non può mancare. Il libro è assai piano, e non sembra abbisognarne: e pure confido che quanto ne sono venuto dicendo fin qui, abbia già convinto alcuno di voi che in questa come in tutte le opere del genio si può sempre scoprire qualche abisso inesplorato. L'antico bisticcio del Tommaseo avrebbe potuto da lungo tempo spingere i lettori a questa maniera d'indagini; ma, o non vi si pose mente, non vedendosi altro in quel giuoco di parole che il giuoco stesso e non l'occasione che gli avea dato mouvo, o, vivo Manzoni, nessuno osò andare a cercar l'Autore nel libro. Dopo la sua morte, si raccolsero parecchi de' suoi motti, si ricordò qualche suo discorso, si pubblicarono alcune sue lettere; ma a rileggere criticamente tutto intiero il libro de' Promessi Sposi, dico a rileggerlo per il pubblico, non s'è pensato ancora; ed è cosa assai strana, fra tanto consenso di ammirazione, che non solo dura, ma cresce sopra la tomba del grande Milanese. I Promessi Sposi li rileggiamo volentieri, perchè ad ogni nuova lettura ci pare d'intenderli e di gustarli meglio; ma, quanto maggiore sarà questo nostro diletto, se noi potremo d'ora in poi leggere quelle tante altre belle cose che il Manzoni nascose prudentemente fra riga e riga, ed alle quali non avevamo fin qui posto mente! Ricordiamoci ch'è del Manzoni e che si trova per l'appunto ne' Promessi Sposi quella similitudine fra i segni del vasto saccheggio fatto nella parrocchia di Don Abbondio accozzati insieme nel focolare e "molte idee sottintese, in un periodo steso da un uomo di garbo." Dicono che Walter Scoti, venuto a Milano, cercasse tosto del Manzoni, per rallegrarsi con lui del suo bel romanzo, e che il Manzoni, il quale definì un giorno lo Scott "l'Omero del romanzo storico," con modestia rispondesse ai primi complimenti: "Se i miei Promessi Sposi hanno qualche pregio, sono opera vostra, tanto sono il frutto del lungo mio studio sui vostri capolavori." Il grande Romanziere scozzese sentì tosto ciò che vi era di eccessivo in quella modestia, e tagliò corto, a quanto si narra (il Carducci pone in dubbio il racconto stesso), con una risposta non meno spiritosa che eloquente, la quale non ammetteva replica: "Or bene, in questo caso dichiaro che i Promessi Sposi sono il mio più bel romanzo." Carlo Cattaneo, forte ingegno lombardo, che non partecipava punto delle idee della scuola manzoniana, anzi le combatteva, parlando un giorno col professor De Benedetti, dichiarava ch'egli non conosceva alcuno scrittore più originale del Manzoni, perchè in nessun altro scrittore si vedono come nel Manzoni armonizzate due qualità che di consueto si escludono, la pietà e la satira. Ho riferito l'opinione d'un rivale e quella d'un dissidente; gioverà ancora ascoltare quella di un nobile avversario. Il Sismondi, contro il quale il Manzoni avea composto il suo libro sopra la Morale cattolica, scrivendo nel 1829, da Ginevra, a Camillo Ugoni, esprimevasi in questi termini sopra il Manzoni: "Je suis enchanté d'apprendre que vous préparez une novelle édition de ses oeuvres; c'est un homme d'un beau talent et d'un noble caractère. J'apprends avec bien de chagrin qu'au lieu de préparer quelque nouvel ouvrage dans le genre du roman historique dont il a fait un présent a l'Italie, il écrit au contraire un grand livre contre ce genre d'ouvrages. Il y avait da génie dans ses Promessi Sposi, il y avait en même temps l'exemple da genre de lecture qui peut, en dépit de la censure, faire l'impression la plus générale et la plus utile sur le public italien."[2] Ma il Manzoni doveva essere originale in tutto; egli avea promesso a vent'anni di mirar sempre alla salita, ma che egli sarebbe caduto sopra una via propria, sulla sua propria orma, quando avesse dovuto cadere. Appena composti i Promessi Sposi, vedendo il pericolo che si correva a passare per creatore del romanzo storico in Italia, e ad esser tenuto complice di tutti i pretesi romanzi storici che si sarebbero pubblicati dopo il suo, ebbe un'idea poetica. Adopero la parola poetica nel modo, in cui piaceva adoprarla a Renzo. Vi ricordate la scena dell'osteria? Un giuocatore dice che le penne d'oca, con le quali si scrive, sono in mano de' signori, perchè sono essi che mangiano le oche, ed è giusto che s'ingegnino a far qualche cosa anche delle penne. Si ride, e Renzo esclama: "To' è un poeta costui. Ce n'è anche qui de' poeti; già ne nasce per tutto. N'ho una vena anch'io, e qualche volta ne dico delle curiose…, ma quando le cose vanno bene." L'Autore soggiunge: "Per capire questa baggianata del povero Renzo, bisogna sapere che, presso il volgo di Milano, e del contado ancora più, poeta non significa già, come per tutti i galantuomini, un sacro ingegno, un abitator di Pindo, un allievo delle Muse, vuol dire un cervello bizzarro e un po' balzano che, ne' discorsi e ne' fatti, abbia più dell'arguto e del singolare che del ragionevole. Tanto quel guastamestieri del volgo è ardito a manomettere le parole, e a far dir loro le cose più lontane dal loro legittimo significato! Perchè, vi domando io, cosa ci ha che fare poeta con cervello balzano?" Il Manzoni dovette sentirsi dare a quel modo del poeta, e non da sole persone del volgo. Quando egli stava correggendo i Promessi Sposi, cioè nel luglio del 1824, dopo avere scritto una bella lettera scherzosa a monsignor Tosi, conchiude: "Ma io m'accorgo che lo scherzo eccede e che la mia pensata di non dirle seriamente quello che io sento, per timore d'essere poco rispettoso, è stata veramente, com'Ella dice qualche volta, poetica. Perdoni Ella davvero questa scappata d'un cervello che Ella conosce per balzano, la perdoni alla vivezza d'un sentimento che aveva proprio bisogno di sfogo." Queste parole sono il commento più autentico che si possa desiderare a quel brano veramente poetico dei Promessi Sposi. Il Manzoni dovea temere i suoi pedissequi, non meno forse che il pericolo d'esser preso egli stesso per un pedante che camminasse sulle traccie altrui. Per i grandi egli aveva un rationabile obsequium; Virgilio, Dante, lo Shakespeare, il Voltaire, il Goethe ammirava, ma sentendosi abbondanza d'ingegno originale, non si provò mai, dopo il Carme per l'Imbonati e l'Uranio, ad imitarli. Concepì il romanzo come un lavoro nuovo e sui generis, anzi, tutto proprio, e nell'anno medesimo in cui l'ebbe terminato, che fu, come s'è già detto, il 1823, diresse al marchese Alfieri una lunga lettera sul romanticismo, la quale rimase allora inedita, ma che ci pare molto eloquente. Compiuto un lavoro destinato a diventar classico, ecco in qual modo egli ragionava intorno ai Classici: "Gli antichi, o almeno i più lodati di essi, sono stati appunto eccellenti, perchè cercavano la perfezione nel soggetto stesso che trattavano, e non nel rassomigliare a chi ne aveva trattati di simili; e quindi per imitarli nel senso più ragionevole e più degno del vocabolo, bisognava appunto non cercare d'imitarli nelll'altro senso servile. Chè molte cose de' Classici erano piaciute, perchè avevano trovato negl'intelletti una disposizione a gustarle, nata da circostanze, da idee, da usi particolari che più non sono. Che, fra i moderni stessi, più vantati son quelli che non imitarono, ma crearono; o, per parlare un po' più ragionevolmente, seppero scoprire ed esprimere i caratteri speciali, originali, degli argomenti che presero a trattare; vi è un po' di contradizione nel dire: prendete a modelli quegli scrittori che furono sommi, perchè non presero alcun modello." Egli non può tollerare l'impero delle leggi stabilite, con molto arbitrio, dai retori. "Ricevere (egli esclama) senza esame; senza richiami, leggi di tali, e così create, è cosa troppo fuori di ragione. E quale infatti (aggiungeva) è l'effetto più naturale del dominio di queste regole? Di distrarre l'ingegno inventore dalla contemplazione del soggetto, dalla ricerca de' caratteri proprii ed organici di quello, per rivolgerlo e legarlo alla ricerca e all'adempimento di alcune condizioni talvolta affatto estranee al soggetto, e quindi d'impedimento a ben trattarlo. Una delle lodi che noi Italiani in ispecie diamo ai poeti che più siamo in uso di lodare, non è ella forse dell'aver eglino abbandonate le norme comuni, dell'essersi resi superiori a quelle, dell'avere scelta una via non tracciata, non preveduta, nella quale la critica non aveva ancor posti i suoi termini, perchè non la conosceva, e il genio solo doveva scoprirla? Se essi dunque hanno fatto così bene, prescindendo dalle regole, perchè ripeteremo sempre che le regole sono la condizione essenziale del far bene?" E sopra questo argomento della ragionevolezza nell'ammirazione egli ritorna ancora con altre parole: "L'ammirazione pe' sommi lavori dell'ingegno è certamente un sentimento dolce e nobile; una forza non so se ragionevole, ma tuttavia universale, ci porta a gustare più ancora un tal sentimento, quando gl'ingegni che lo fanno nascere sono nostri concittadini. Ma l'ammirazione non deve mai essere un pretesto alla pigrizia, voglio dire che non deve mai inchiudere l'idea di una perfezione che non lasci più nulla da desiderare nè da fare. Nessun uomo è tale da chiudere la serie delle idee in nessuna materia; e come nelle opere della produzione materiale, così in quelle dell'ingegno, ogni generazione deve vivere del suo lavoro, e risguardarsi il già fatto come un capitale da far fruttare con nuovi trovati, non come una ricchezza che dispensi dall'occupazione." Egli scrive dunque a suo modo un libro che si battezza come un romanzo storico; così tuttavia non l'ha battezzato egli; egli ha fatto un libro originale che fu ascritto tra i romanzi originali; ma il suo romanzo storico è tale che si può dire di esso:

Manzoni il fece e poi ruppe lo stampo.

Vennero numerosi imitatori: nessuno, non esclusi i migliori, come il Varese, il Bazzoni, l'Azeglio, il Grossi, il Cantù, riuscirono a darci un romanzo manzoniano; chi si avvicinò di più, per alcune parti, al tipo, fu Giulio Carcano con la sua Angiola Maria; ma questa, più ancora che i Promessi Sposi, arieggia il Vicario di Wakefield del Goldsmith. Il Manzoni previde il caso, e col suo bravo discorso contro il Romanzo storico mise, come suol dirsi, le mani innanzi, per non venire confuso co' suoi probabilmente numerosi seguaci, che si credettero e non furono e non potevano essere imitatori. Egli non può naturalmente, per modestia, parlare di sè; ricorre quindi ad un altro esempio illustre, ed esclama: "Mi sapreste indicare, tra le opere moderne e antiche, molte opere più lette e con più piacere e ammirazione dei romanzi storici di un certo Walter Scott? Voi volete dimostrare, con questo e con quell'argomento, che non doveano poter produrre un tal effetto. Ma se lo producono!—Che quei romanzi siano piaciuti, e non senza di gran perchè, è un fatto innegabile, ma è un fatto di quei romanzi, non il fatto del romanzo storico." Con questo argomento egli salva il proprio libro dal naufragio, in cui si accorge che tutti i romanzi storici devono andare perduti; e meglio ancora da questo argomento, che richiede sempre il sussidio della prova, lo salva, fuor di ogni dubbio, la creazione di alcuni tipi; il poeta creatore di tipi salva il romanziere. Non si domanda, invero, nè importa sapere in qual secolo, in qual villaggio precisamente, Don Abbondio abbia vissuto; ciò che rileva è che si abbia in lui rappresentato al vivo un certo carattere umano, un certo tipo di parroco italiano. Il romanzo può perire; Don Abbondio e l'artista che lo scolpì, vivranno immortali. Ma il genere, insomma, è proprio falso. "Un gran poeta e un gran storico (disse con ragione il Manzoni sentendo sè stesso) possono trovarsi, senzo far confusione, nell'uomo medesimo, ma non nel medesimo componimento.—Il positivo non è, riguardo alla mente, se non in quanto è conosciuto; o non si conosce se non in quanto si può distinguerlo da ciò che non è lui; e quindi l'ingrandirlo con del verosimile non è altro, in quanto all'effetto di rappresentarlo, che un ridurlo a meno, facendolo in parte sparire. Ho sentito parlare di un uomo più economo che acuto, il quale si era immaginato di poter raddoppiare l'olio da bruciare, aggiungendoci altrettanta acqua. Sapeva bene che, a versarcela semplicemente sopra, l'andava a fondo, e l'olio tornava a galla; ma pensò che, se potesse immedesimarli mescolandoli e dibattendoli bene, ne resulterebbe un liquido solo, e si sarebbe ottenuto l'intento. Dibatti, dibatti, riuscì a farne un non so che di brizzolato, di picchiettato che scorreva insieme, ed empiva la lucerna. Ma era più roba, non era olio di più; anzi, riguardo all'effetto di far lume, era molto meno. E l'amico se ne avvide, quando volle accendere lo stoppino." Quando il Manzoni ebbe pubblicato il suo Discorso contro il Romanzo storico—Siamo fritti!—scriveva Tommaso Grossi a Cesare Cantù. E si capisce che, dopo avere pensato e scritto un tale discorso, ove ogni pagina, anzi ogni parola rivela una profonda persuasione, egli non si sarebbe mai accinto a scrivere un secondo libro sul tipo dei Promessi Sposi. Prima di tutto, un libro simile non può essere altrimenti che unico per uno scrittore e per una letteratura. Concepite, se vi riesce, due Iliadi per la Grecia, due Divine Commedie per l'Italia, due Amleti per l'Inghilterra, due _Faust _per la Germania, due Don Chisciotti per la Spagna; l'uno dei due deve essere una freddura o una caricatura. Così non si può dare in Italia un altro libro simile ai Promessi Sposi, e il Manzoni avea troppo buon senso per immaginarsi di poterlo scrivere; egli non era, per dire il vero, un grande ammiratore del Tasso; anzi è strano il disprezzo che mostrò a questo nostro grande e infelice ingegno; ma, se ammirava qualche cosa in lui, la Gerusalemme Conquistata dovea parergli una grande miseria nel confronto della Gerusalemme Liberata. Egli dunque non avrebbe mai commesso lo sbaglio di comporre un secondo poema, o sia un secondo romanzo; ma nel capitolo 22 del suo romanzo si era letto questo passo, relativo alla storia della Colonna infame ed agli Untori: "È parso che la storia potesse esser materia di un nuovo lavoro. Ma non è cosa da uscirne con poche parole; e non è qui il luogo di trattarla con l'estensione che merita. E, oltre di ciò, dopo essersi fermato su quei casi, il lettore non si curerebbe più certamente di conoscere ciò che rimane del nostro racconto. Serbando però a un altro scritto la storia e l'esame di quelli, torneremo finalmente ai nostri personaggi." Fu uno sbaglio quella pubblica promessa; poichè si trovarono subito, non so se speculatori o spigolatori, o l'uno e l'altro insieme, che gli sfiorarono l'argomento, così chiaramente indicato alla curiosità del pubblico, di maniera che quando il Manzoni ebbe pronta la sua Storia della Colonna infame, troppi dei documenti ch'egli aveva esaminati il primo, aveano già vista la luce. E poi il pubblico s'era immaginato da quella aperta promessa, e dalla lunga aspettativa, che sarebbe uscito un nuovo racconto; quando, invece, s'accorse di che si trattava, esso si credette burlato, e mormorò, quantunque il Manzoni l'avesse, con onesta previdenza, messo subito sull'avviso, scusandosi da sè stesso della soverchia curiosità, con cui s'era attesa la Storia della Colonna infame. "In una parte (egli scrive) dello scritto precedente (I Promessi Sposi), l'Autore aveva manifestata l'intenzione di pubblicare la storia; ed è questa che presenta al pubblico, non senza vergogna, sapendo che da altri è stata supposta opera di vasta materia, se non altro, e di mole corrispondente. Ma, se il ridicolo del disinganno deve cadere addosso a lui, gli sia permesso almeno di protestare che nell'errore non ha colpa, e che, se viene alla luce un topo, lui non aveva detto che dovessero partorire i monti." Il Manzoni, proseguendo l'opera di Pietro Verri che nel secolo innanzi aveva scritto le Osservazioni sulla Tortura, voleva fare inorridire per le iniquità dei sistemi di procedura, insistendo sui processi degli Untori, non tanto per far prendere in odio la tortura già scomparsa, quanto per rendere odiosi i processi che l'ignoranza rende ancora sempre arbitrarii e fallaci. "Noi (egli scrive), proponendo a lettori pazienti di fissar di nuovo lo sguardo sopra errori già conosciuti, crediamo che non sarà senza un nuovo e non ignobile frutto, se lo sdegno e il ribrezzo che non si può non provarne ogni volta, si rivolgeranno anche, e principalmente, contro passioni che non si posson bandire come falsi sistemi, nè abolire come cattive istituzioni, ma render meno potenti e meno funeste, col riconoscerle ne' loro effetti e detestarle." Si meraviglia il Manzoni e si duole e s'arrabbia ad una volta che, per un secolo e mezzo, non pur dal volgo, ma da uomini dotti ed onesti siasi non pur creduto agli Untori, ma diffusa per gli scritti l'opinione che gli Untori esistessero, e che fosse carità e giustizia il perseguitarli. "Se non che (osserva il Manzoni) anche quella indegnazione alla rovescia, anche il dispiacere che si deve provare nel riconoscerla, porta con sè il suo vantaggio, accrescendo l'avversione e la diffidenza per quell'usanza antica e non mai abbastanza screditata di ripetere senza esaminare, e se ci si lascia passar quest'espressione, di mescere al pubblico il suo vino medesimo, alle volte quello che gli ha già dato alla testa." I processi erano condotti con la ferma intenzione di trovare materia di condanna, e di provare ad ogni costo la reità dell'accusato. A proposito del Mora, il quale sotto la tortura si confessa reo, il Manzoni osserva: "Così eran riusciti a far confermare al Mora le congetture del birro, come al Piazza le immaginazioni della donnicciola; ma in questo secondo caso con una tortura illegale come nel primo con un'illegale impunità. L'armi eran prese dall'arsenale della giurisprudenza; ma i colpi eran dati ad arbitrio e a tradimento." Il Manzoni mirava evidentemente a colpire con queste parole la pretesa legalità dei processi politici austriaci, ai quali premeva provare la reità degli accusati; sopra questi processi si dovea poi scrivere la storia. Ora noi vediamo quale opinione avesse il Manzoni degli storici ufficiali, quando leggiamo quello che egli scriveva intorno al Ripamonti: "Il Ripamonti era istoriografo della città, cioè uno di quegli uomini, ai quali, in qualche caso, può esser comandato e proibito di scriver la storia." Così egli fa una critica degli storici, quando giustifica sè d'aver fatto la storia di povera gente: "I giudizii criminali e la povera gente, quand'è poca, non si riguardano come materia propriamente della storia." Nella seconda parte del suo scritto, il Manzoni cogliendo l'occasione che gli si offre di cercare quello che gli storici avean detto degli Untori, intraprende pure una critica eruditamente demolitrice di Pietro Giannone, storico audacemente plagiario, e la conchiude con queste parole: "Chi sa quali altri furti non osservati di costui potrebbe scoprire chi ne facesse ricerea; ma quel tanto che abbiam veduto d'un tal prendere da altri scrittori, non dico la scelta e l'ordine de' fatti, non dico giudizii, l'osservazioni, lo spirito, ma le pagine, i capitoli, i libri, è sicuramente, in un autor famoso e lodato, quel che si dice un fenomeno. Sia stata, o sterilità, o pigrizia di mente, fu certamente rara, come fu raro il coraggio, ma unica la felicità di restare, anche con tutto ciò (fin che resta), un grande uomo. E questa circostanza, insieme con l'occasione che ce ne dava l'argomento, ci faccia perdonare dal benigno lettore una digressione, lunga, per dir la verità, in una parte accessoria di un piccolo scritto." Dopo aver citato i versi del Parini, che fanno eco alla tradizione popolare degli Untori e della Colonna infame:

     O buoni cittadin, lungi, che il suolo
     Miserabile infame non v'infetti,

Il Manzoni soggiunge. "Era questa veramente l'opinione del Parini? Non si sa; e l'averla espressa così affermativamente bensì, ma in versi, non ne sarebbe un argomento; perchè allora era massima ricevuta che i poeti avessero il privilegio di profittar di tutte le credenze, o vere o false, le quali fossero atte a produrre un'impressione o forte o piacevole. Il privilegio! Mantenere e riscaldar gli uomini nell'errore, un privilegio! Ma a questo si rispondeva che un tal inconveniente non poteva nascere, perchè i poeti, nessun credeva che dicessero davvero. Non c'è da replicare; solo può parere strano che i poeti fossero contenti del permesso e del motivo." Noi abbiamo qui un Manzoni intieramente critico; il poeta creatore è scomparso. Ma quanta novità ed originalità pure in questa critica! quanta onestà e profondità d'intendimenti! quanta efficacia, quanta poesia, se si può dire, in questa stessa critica! Noi dobbiamo tuttavia, a nostra confusione, confessare che la Storia della Colonna infame come, in generale, tutte le prose critiche del Manzoni, in Italia fu letta da pochi e meditata da pochissimi; e che il Manzoni dovette anche una volta convenire che egli era stato meglio capito, in ogni modo, meglio apprezzato da un forestiero che dai proprii concittadini. In una lettera di ringraziamento ch'egli diresse, nell'anno 1843, al conte Adolfo di Circourt, noi leggiamo queste parole scritte in francese, lingua della quale egli aveva già dato splendido saggio nella sua bella lettera al Chauvet sopra le Unità drammatiche, pubblicata dopo una rispettosa critica del suo Conte di Carmagnola: "J'avais, effet, en travaillant au petit ouvrage que vous avez jugé avec tant d'indulgence, les intentions que vous exprimez si bien. Evènement isolé et sana relation avec les grands faits de l'histoire; acteurs obscurs, les puissants autant que les faibles; erreur sur laquelle il n'y a plus personne à détromper parmi ceux qui lisent; institutions contre lesquelles on n'a plus a se défendre: il m'avait semblé que sons tout cela il y avait pourtant encore un point qui touchait aux dangers toujours vivants de l'humanité, a ses intèrèts les plus nobles, comme aux plus matériels, a sa lutte perpétuelle sur la terre. Mais comme on aime beaucoup à viser, on se fait facilement des buts; et la persuasion la plus vive, qui par cela même pourrait n'être qu'engouement, le témoignage même de quelques amis dont le jugement, de grande autorité en toute autre occasion, pourrait être égaré par la sympathie, ne peuvent rassurer que faiblement contre la crainte de s'être trompé. C'est du public que l'on attend une assurance, non pas entière, mais plus ferme; et cette épreuve m'a été complètement défavorable. Quand ma petite histoire a paru, le silence (permettez-moi de ramener à un sens plus réel une expression que vous avez employée d'une manière trop bienveillante) le silence s'est fait; et la curiosité qui s'était assez éveillée dans l'attente a cessé tout d'un coup, non comme satisfaite, mais comme déçue. Jugez après cela, Monsieur, quel plaisir a dû me faire une voix inattendue et éloquente, qui a bien voulu me dire que je ne m'étais pas tout a fait trompé." Dopo la pubblicazione della Storia della Colonna infame, fuori de' suoi scritti sull'unità della lingua, il Manzoni non pubblicò altro. E pure il suo robusto e vivace ingegno si mantenne vegeto fino agli ultimi giorni della sua lunga vita, Egli non iscrisse quasi più per la stampa; ma ogni giorno riceveva vecchi e nuovi amici, discorrendo coi quali il suo ingegno, simile a molla che scattasse, gittava luminose faville, e diffondeva idee così originali, che avrebbero, ciascuna per sè, potuto formar la fortuna di un libro e di un autore. Ed è veramente peccato che il Manzoni non abbia avuto presso di sè un Eckermann come il Goethe, per trascriverci i suoi quotidiani discorsi; se Carlo Porta, il Torti, il Grossi, il Tosi, il Giudici, il Sozzi, il Rosmini, il Cantù, il Carcano, il Rossari, il Ceroli, il Bonghi, il Rizzi e gli altri più intimi amici del Manzoni (non parlo della signora Blondel) avessero pensato a notare tutti i motti che uscirono dalla bocca del Manzoni, nessun libro più originale e più sapiente di quello che riunisse tutti quegli appunti sarebbe forse mai stato immaginato e composto. Le uscite manzoniane erano tutte impensate e quasi sempre felici. Lo stesso imbarazzo che il Manzoni provava talora nell'esprimersi, poichè qualche volta e ne' momenti per l'appunto che egli aveva una maggior fretta di parlare, gli accadeva di balbettare, aggiungeva una nuova forza alle parole che uscivano poi come palle esplodenti. E sopra quel suo difetto organico egli avea preso la buona abitudine di ridere il primo, per toglierne la volontà ed il pretesto agli altri. "La balbuzie di Alessandro Manzoni (scrive Antonio Stoppani) non era una balbuzie di genere comune come sarebbe quella, per esempio, consistente in una specie di sincope momentanea dell'organo vocale…. Il Manzoni non era nemmeno di quelli che vanno soggetti a quella specie di paralisi mentale momentanea, per cui la parola, benchè comunissima, rifiuta di presentarsi nell'istante, in cui si ha bisogno di proferirla. "Io, diceva il Manzoni, la parola la vedo; essa è lì; ma non vuole uscirmi dalla bocca;" quando era in questo caso, troncava improvvisamente il discorso. "Se la si lascerà dire," soggiungeva l'illustre paziente: e dopo questa specie di scongiuro, pronunciava senza difficoltà quella parola che prima s'era rifiutata assolutamente a pigliar forma sensibile nella sua bocca. Avendo Don Giovanni Béttega, ora parroco di Anzano, avuto occasione di presentargli, Alessandro Manzoni, giocando di parole sul cognome di quel bravo ecclesiastico che, pronunciato lungo, in dialetto lombardo vuol dire balbetta: "Lei, disse, ha il nomen ed io l'omen." Nella lettera che scrisse al Briano per rinunciare alla deputazione, il Manzoni fece pure allusione alla sua balbuzie; ad un amico poi che gli domandava perchè non avea voluto esser deputato, egli, scherzando, rispondeva: "Poniamo il caso che io volessi parlare e mi volgessi al presidente per domandargli la parola, il presidente dovrebbe rispondermi:—Scusi, onorevole Manzoni, ma a lei la parola io non la posso dare.—" Ma non è qui il luogo di raccogliere aneddoti, tanto più che il loro numero, se gli amici del Manzoni superstiti vorranno ricordarli e parlare, può divenire infinito. Ho qui solamente toccato di un difetto fisico del Manzoni solamente per mostrare come anche da esso il Manzoni abbia saputo trovar nuovo alimento alle sue inesauribili arguzie. Molti venivano a domandargli pareri letterarii in iscritto, ma inutilmente. Un parere scritto gli era pure stato chiesto, prima ch'esso pubblicasse le sue Novelle, dall'illustre poetessa piemontese Diodata Saluzzo, ed egli allora s'era schermito con queste parole: "Ella dee dunque sapere che io ho un'avversione estrema, come una specie di terrore, all'esprimere giudizio su cose letterarie, massime in iscritto, e a ridurre in breve i motivi; questa avversione nasce in me dall'incertezza o, dirò meglio, dalla improbabilità di farlo bene, e dalla difficoltà del farlo comunque. Il giudizio di una parola può essere, ed è sovente, derivato da principii di una grande generalità; di modo che non sia possibile motivarlo, nè quasi esprimerlo, senza espor quelli, cioè senza scarabocchiar molte pagine. Nel che sovente il lavoro materiale sarebbe ancora la più piccola faccenda; vi è questo di più che tali principii ponno essere, e sono sovente (parlo del fatto mio) tutt'altro che connessi, che certi, che distinti, puri e riducibili a formole precise e invariabili; e l'applicazione che pur se ne fa, è un tal quale intravvedimento; è quel che Dio vuole; ma pur lo si fa. E siccome questa incertezza o confusione è anche, per men male, riconosciuta sovente dall'intelletto, in cui è, così dove si vorrebbe un giudizio, spesso non si presenta che un dubbio, più difficile assai a mettere in parole, che non un giudizio. Queste difficoltà e altre congeneri (giacchè non voglio abusar troppo della licenza che le ho chiesta di riuscirle seccatore) si trovano a cento doppi più nello scritto che nella conversazione. Qui hanno luogo le espressioni più indeterminate, i periodi non formati, le parole in aria, formole cioè proporzionate a quella incertitudine e imperfezione d'idee; e tali formole hanno però un effetto, giacchè la parte stessa che si degna volere il giudizio altrui, viene in aiuto a chi ha da formarlo, dando mezzo, colle spiegazioni, colle risposte, a porre in forma il dubbio, a svolgere il giudizio che non era nella mente del giudicante che un germe confuso. Questa parolona di giudicante basta poi a farle ricordare gli alti motivi di avversione che ha e dee avere per un tale uffizio chi conosce la propria debolezza. Contuttociò non voglio dire che io non mi conduca a farlo qualche volta a viva voce con persone, a cui mi lega una vecchia famigliarità; nè ch'io non ardisca pur di farlo, comandato, con persona, per cui sento la più rispettosa stima; dandomi animo da una parte questa stima medesima che dall'altra mi tratterrebbe; che, quanto al pericolo di dire sproposito o di non saper bene cosa si dica, è poca cosa per chi protesta e avvisa innanzi tratto che probabilmente gli accadrà l'uno e l'altro." Così, quando accadeva al Manzoni di dover giudicare di una contesa letteraria e non averne voglia, egli dovea ricorrere press'a poco a quel famoso espediente, a cui, come dicemmo, si riferiva un suo amico di cara e onorata memoria, che gli raccontava una scena curiosa, della quale era stato spettatore molt'anni innanzi in casa d'un giudice di pace. Il Manzoni imitò spesso la tattica di quel giudice di pace, ne' giudizii che gli toccò proferire, sedendo in tribunale; ma, a quattr'occhi, coi più intimi amici, diede sempre torto o ragione a chi l'aveva. Grande coraggio personale egli non ebbe forse mai; ma la sua mente ardita non si arrestò innanzi ad alcuna difficoltà, anzi le dominò sempre tutte come sovrana. Egli non avrebbe, per un esempio, mai scritta una riga da pubblicarsi in favore d'un libro del Tommaseo, o contro di esso; ma, quando egli pubblicava in Francia il romanzo Fede e Bellezza, ove l'eroe passa per molte avventure erotiche per arrivare poi ad una specie di gesuitica compunzione, il Manzoni lo definiva, in un crocchio d'amici, con due parole: metà Giovedì grasso, metà Venerdì santo. Al Borghi imitatore degl'Inni Sacri egli era stato, per lettere, generoso di lodi soverchie; se ne pentì in appresso, e ne' discorsi famigliari con gli amici temperò il soverchio in modo che il povero innaiuolo toscano ne rimaneva annientato. Fu invece largo sempre di lodi sincere al Grossi, al Rosmini, al Torti, al Giusti, a proposito del quale rispondeva a chi gli faceva osservare che anche in Toscana la lingua si va corrompendo, col parafrasare le parole della Bibbia relative a Sodoma e Gomorra: "Dieci Giusti bastano a salvare la città." Nel Dialogo dell'Invenzione, il Manzoni mette senza dubbio in iscena sè ed il Rosmini, sebbene non lo dica: anzi egli dà il nome di Primo all'uno, di Secondo all'altro, dicendo: "Guai a me se mettessi in piazza i loro nomi veri." Il primo è senza dubbio, il Rosmini; il secondo, il Manzoni. Il secondo dice che l'artista crea, poi corregge che l'artista inventa. Il primo dimostra che nè crea nè inventa, poichè l'idea essendo semplice, non si compone, ma esiste per sè, è anteriore all'opera dell'artista e conduce il secondo per una serie di sillogismi stringenti, al fine de' quali il secondo deve darsi per vinto, ma domanda altro. Il primo osserva: "Tanto meglio se queste nostre chiacchiere vi lasciano la curiosità di conoscere più di quello che richiede la nostra questione, e soprattutto di quello che potrei dirvi. Vuol dire che studieremo filosofia insieme." Il secondo conviene: "Insomma, bisogna studiarla questa filosofia." Il primo soggiunge: "Fate di meno ora, se potete, con quelle poche curiosità che vi sono venute. Non fosse altro che l'ultima, quella che non v'ho nemmeno lasciata finir d'esprimere. Tutte queste idee…. avevate intonato; e infatti tante idee, tanti esseri eterni, necessarii, immutabili, aventi cioè gli attributi che non possono convenire se non a un Essere solo, non è certamente un punto, dove l'intelletto si possa acquietare. E nello stesso tempo, come negare all'idee questi attributi? E non v'è, di certo, uscito dalla mente neppure quell'altro fatto altrettanto innegabile, e altrettanto poco soddisfacente, dell'esser tante di queste idee comprese in una, che pure riman semplice e che potete fare entrare anch'essa in un'altra più estesa, più complessa; come potete da una di quelle farne uscire dell'altre moltiplicando, per dir così, e diminuendo, a piacer vostro, questi esseri singolari, senza potere né distruggerne nè predarne uno. Ora, quando il tornare indietro è impossibile, e il fermarsi insopportabile, non c'è altro ripiego che d'andare avanti. Non è poi un così tristo ripiego! È con l'andare avanti che si passa dalla moltiplicità all'unità, nella quale solo l'intelletto può acquietarsi fondatamente e stabilmente." E in questo concetto sovrano dell'unità che balenò alla mente manzoniana e la contenne, m'acquieterò anch'io per conchiudere che uno scrittore che bandi a vent'anni la formola poetica: "sentir e meditar", e le serbò fede costante nell'arte sua, non può venir letto superficialmente; egli conduceva tutte le forme del bello alla suprema unità del vero, o più tosto poneva il vero come base fondamentale di tutti i suoi edifizii poetici. Quanto a' suoi intendimenti civili e religiosi, essi non hanno propriamente che fare con l'arte sua; essi non le sono inerenti. Si può credere diversamente dal Manzoni; ma non si dovrebbe oramai concepire l'arte in modo diverso da quello, con cui egli l'ha trattata in modo non superabile ne' Promessi Sposi. Il Manzoni scrisse il suo capolavoro fra le discussioni dei Classici e dei Romantici che lo riconoscevano come loro caposcuola; la comparsa del capolavoro manzoniano troncò le discussioni; così le recenti battaglie combattute in Italia fra i così detti Veristi e Idealisti potranno aver fine, se nelle file degli uni o degli altri apparirà un altro genio capace di risolvere il problema con un altro capolavoro. Auguriamoci che questo genio nasca presto, e, intanto che s'aspetta, studiamo il Manzoni.

[1] Milleseicento erano stali i soscrittori; in pochi giorni nella sola Milano se ne spacciarono oltre seicento copie. Dalla Bibliografia Manzoniana del Vismara (Milano, Paravia) rileviamo che fino all'anno 1875 erano state fatte ben 118 edizioni italiane separate de' Promessi Sposi, 17 edizioni tedesche, 19 edizioni francesi, 10 edizioni inglesi; esistono inoltre traduzioni spagnuole, greche, olandesi, svedesi, russe, ungheresi, ec. Non si contano qui 86 edizioni italiane delle opere varie del Manzoni, nelle quali si comprendono pure i Promessi Sposi.

[2] Il poeta Niccolini che lagnavasi di essere santamente abborrito dal Manzoni, cosa non vera, poichè il Manzoni non odiava alcuno e faceva invece grande stima del Niccolini, {Parlando il Manzoni delle tragedie del Niccolini al professor Corrado Gargialli che gli dedicava un volume delle tragedie niccoliniane, gli scriveva: "La minore delle mia inferiorità rispetto al Niccolini come autore di tragedie è nel numero."} confessava pur tuttavia che un solo scrittore italiano avea potenza di farlo pensare, e che questo solo era il Manzoni. In bocca d'un rivale una tale confessione è preziosa e dice molto. Ma il Manzoni faceva pensare, perchè pensava sempre, prima di dire o di fare checchessia; anzi egli pensava troppo. Le sue parole avevano tutte un gran senso: ond'è veramente a dolersi che tante siano volate via, senza che alcuno abbia provveduto a raccoglierle ed a metterle insieme. Una vita di ottantotto anni, de' quali più di settanta vissuti con una piena coscienza di sè, con una ferma volontà diretta ad un alto segno, piena di alti pensieri, quanto sarebbe istruttiva se si potesse conoscere intimamente!

End of Project Gutenberg's Alessandro Manzoni, by Alessandro De Gubernatis