The Project Gutenberg eBook of Il Conte di Monte-Cristo This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook. Title: Il Conte di Monte-Cristo Author: Alexandre Dumas Auguste Maquet Release date: May 20, 2021 [eBook #65391] Language: Italian Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by The Internet Archive) *** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK IL CONTE DI MONTE-CRISTO *** IL CONTE DI MONTE-CRISTO DI Alessandro Dumas Volume Unico NAPOLI PER FRANCESCO ROSSI Trinità Maggiore, num. 6 — 1850 IL CONTE DI MONTE-CRISTO DI ALESSANDRO DUMAS I. — MARSIGLIA — L’ARRIVO. Il 28 Febbraio 1815 la vedetta della Madonna della guardia dette il segnale della nave a tre alberi il _Faraone_ che veniva da Smirne, Trieste e Napoli. Come è d’uso, un pilota costiere si partì tosto dal porto, e passando vicino al castello d’If, recossi a bordo del naviglio fra il capo di Morgiou, e l’isola di Rion. Quindi, come parimente è uso, la piattaforma del forte San Giovanni si ricoprì di curiosi; poichè è sempre un avvenimento di grande importanza a Marsiglia l’arrivo di un bastimento, soprattutto poi quando questo sia stato come il _Faraone_, costrutto, attrezzato, stivato nei cantieri della vecchia _Phocée_, ed appartenga ad un armatore della città. Frattanto il naviglio avanzava; aveva felicemente superato lo stretto formatosi da qualche scossa vulcanica fra l’isola di Calasareigne e quella di Jaros; ed oltrepassato Pomègue, procedeva col suo gran corpo sotto le tre gabbie in relinga, ma tanto lentamente, e con andamento sì tristo, che i curiosi, con quell’istinto che presagisce le disgrazie, l’un l’altro si domandavano quale infortunio fosse accaduto a bordo. Ciò non pertanto gli esperti alla navigazione riconoscevano che se un qualche accidente era avvenuto, questo non sarebbe stato al materiale del bastimento, poichè se procedeva lentamente lo faceva peraltro con tutte le condizioni di un naviglio eccellentemente governato. La sua ancora era gettata, i pennoni di bompresso abbassati, e vicino al pilota che si prestava a dirigere il _Faraone_ nella stretta entrata del porto di Marsiglia, stava un giovinotto di rapido gestire, che con occhio vivo invigilava ciascun movimento del naviglio, e ripeteva ogni ordine del pilota. La vaga inquietezza che commoveva la folla aveva particolarmente turbato uno degli accorsi alla spianata di San Giovanni, di modo che egli senza attendere l’entrata del bastimento nel porto, saltò in una barchetta, ordinando di vogare avanti al _Faraone_, cui raggiunse rimpetto all’ansa di riserva. Il giovine marinaio vedendo giungere quest’uomo, lasciò il suo posto a lato del pilota, e venne col cappello in mano, ad appoggiarsi al parapetto del bastimento. Era costui un giovine di vent’anni circa, alto, snello, con occhi neri, e capelli color dell’ebano. Vi si scorgeva in tutta la persona quell’aspetto di calma e di risoluzione degli uomini avvezzi fin dalla loro infanzia a lottare coi perigli. — Ah! siete voi, Dantès? gridò l’uomo dalla barca; che è mai accaduto, e perchè quest’aria di tristezza sparsa su tutto il bordo? — Una gran disgrazia, signor Morrel, rispose il giovinotto, una gran disgrazia particolarmente per me. All’altezza di Civitavecchia abbiamo perduto il bravo Capitano Leclerc. — Ed il carico? domandò vivamente l’armatore. — È giunto a buon porto, sig. Morrel, e sono persuaso che sotto questo riguardo voi sarete contento. Ma il povero Capitano Leclerc.... — Che gli è dunque accaduto? domandò l’armatore con un aspetto notabilmente rallegrato. — È morto. — Caduto in mare? — No, signore, morto di una febbre cerebrale in mezzo ad orribili patimenti. — Poi volgendosi verso l’equipaggio. — Olà eh! disse egli, ciascuno al suo posto per l’ancoraggio. L’equipaggio ubbidì. Nel medesimo momento gli otto o dieci marinari che lo componevano si slanciarono chi sulle scotte, chi sui bracci, e chi infine agl’imbrogli del trinchetto e delle altre vele. Il giovine marinaio gettò uno sguardo non curante al cominciamento della manovra, e vedendo che si eseguivano i suoi ordini, ritornò al suo interlocutore. — E come accadde adunque questa disgrazia? continuò l’armatore riprendendo la conversazione al punto in cui il giovine marinaio l’aveva interrotta. — Ahimè! nel modo più imprevisto. Dopo un lungo colloquio col comandante del porto, il Capitano Leclerc abbandonò Napoli molto turbato: in capo a ventiquattro ore fu colto dalla febbre, e tre giorni dopo era morto. Noi gli abbiamo resi gli ordinarii funerali, ed ora riposa decentemente avviluppato in una branda con una palla da 36 ai piedi ed una alla testa all’altezza dell’Isola del Giglio; ne riportiamo alla vedova la croce d’onore e la spada. Ov’era il fastidio, continuava il giovinotto con un sorriso malinconico, di fare per dieci anni la guerra agl’Inglesi per arrivare poi a morire come tutti gli uomini nel suo letto! — Peccato! che volete, Edmondo? riprese l’armatore che sembrava consolarsi sempre più, siamo tutti mortali, e bisogna pure che i vecchi cedano il posto ai giovani; senza di ciò non vi sarebbe più avanzamento, ed al momento che voi mi assicurate che il carico... — È in buono stato sig. Morrel, ve ne assicuro. Ecco un viaggio che io vi consiglio di non iscontare per 25mila franchi di guadagno. — Poi come era passata la Torre Rotonda: — Lesti a caricare le vele dei pennoni, il flocco e la bregantina, — comandò il giovine marinaio. L’ordine venne eseguito quasi colla stessa celerità che sur un bastimento da guerra. — Ammaina, e carica in ogni luogo! — All’ultimo comando tutte le vele si abbassarono, ed il naviglio si avanzò in un modo quasi insensibile, non camminando più che per l’impulso ricevuto. — Ora se voi volete salire, sig. Morrel, disse Dantès, vedendo l’impazienza dell’armatore, ecco qui il vostro scrivano Danglars che esce dal suo camerino, e che vi darà tutte le notizie che potete desiderare; quanto a me bisogna che invigili l’ancoraggio e che metta la nave a lutto. — L’armatore non se lo fe’ ripetere due volte, afferrò una gomena che gli gettò Dantès, e con una sveltezza che avrebbe fatto onore ad un uomo di mare, salì gli scalini inchiodati sporgenti sul fianco del bastimento, mentre che l’altro, ritornando al suo posto di secondo, cedeva la conversazione a colui che aveva annunziato sotto il nome di Danglars, il quale uscendo dal suo gabinetto si avanzava in fatto verso l’armatore. Il sopraggiunto era un uomo di 25 a 26 anni di figura molto cupa, ossequioso verso i suoi superiori, insolente coi sottoposti, cosicchè oltre il suo ufficio di computista, che è di per se stesso un motivo di avversione pei marinari, egli era tanto malveduto dall’equipaggio, quanto al contrario Dantès n’era amato. — Ebbene? sig. Morrel, disse Danglars, voi sapete già la disgrazia, n’è vero? — Sì, sì povero capitano Leclerc! era un bravo ed onest’uomo. — E soprattutto un eccellente uomo di mare, invecchiato fra il cielo e l’acqua, come si conviene ad un uomo incaricato degli affari di una casa così importante, come la casa Morrel e Figlio. — Ma, disse l’armatore tenendo gli occhi rivolti a Dantès che cercava il punto del suo ancoraggio, ma mi sembra che non faccia d’uopo essere tanto vecchio marinaio quanto voi dite, Danglars, per conoscere ben bene il suo mestiere. Ecco il nostro amico Edmondo che fa il suo, e mi sembra in vero che non ha bisogno di chiedere consigli ad alcuno. — Sì, disse Danglars gettando su Dantès uno sguardo obliquo in cui balenò un lampo d’odio, sì, questi è giovane, e perciò non teme di nulla. Appena morto il capitano, egli assunse il comando senza consultare alcuno, e ci ha fatto perdere un giorno e mezzo all’Isola d’Elba invece di ripiegare direttamente a Marsiglia. — Quanto al prendere il comando del naviglio, disse l’armatore, era suo dovere come secondo; quanto al perdere un giorno e mezzo all’Isola d’Elba, egli ha fatto male, a meno che il naviglio non avesse avuto qualche avaria da riparare. — Il naviglio stava bene come sto io, e come desidero che voi stiate sempre, signor Morrel, e questa giornata e mezzo fu perduta per un capriccio, pel solo piacere di andare a terra. — Dantès, disse l’armatore volgendosi verso il giovinotto, venite qui. — Perdono, signore, disse Dantès; io sarò da voi fra un momento. — Poi indirizzandosi all’equipaggio: — Date fondo! diss’egli. L’ancora cadde, e la catena scorse con rumore. Dantès restò al suo posto, malgrado la presenza del pilota, fino a che fu compita questa manovra, dopo di che: — Abbassate la fiamma a mezz’albero, disse; la bandiera in derno, incrociate le antenne! — Voi vedete, disse Danglars, egli si crede, sulla mia parola, di già Capitano. — E lo è difatto, disse l’armatore. — Sì, sig. Morrel, salva la vostra sottoscrizione e quella del vostro socio. — Diamine! perchè non lo lascerem noi a tal posto? disse l’armatore, egli è giovine, lo so bene, ma mi sembra atto alla bisogna, e molto esperimentato nel suo mestiere. Una nube passò sulla fronte di Danglars. — Perdono, sig. Morrel, disse Dantès avvicinandosi, ora che il bastimento è ancorato, eccomi ai vostri ordini. Voi mi avete, cred’io, chiamato? Danglars fece un passo indietro. — Io voleva domandarvi il perchè vi siete fermato all’Isola d’Elba. — Lo ignoro io stesso: fu per eseguire un ultimo comando del Capitano Leclerc, che morendo mi aveva confidato un plico pel gran Maresciallo Bertrand. — Avete voi dunque veduto il gran maresciallo, Edmondo? — Sì. — Morrel si guardò attorno e tirò da un canto Dantès. — E come sta l’Imperatore, domandò egli vivamente. — Bene, per quanto ne ho potuto giudicare coi miei propri occhi. — Avete veduto adunque anche l’Imperatore? — Egli entrò dal Maresciallo mentre vi era io. — E gli avete parlato? — Cioè, fu egli che parlò a me, disse Dantès sorridendo. Mi fece delle interrogazioni sul bastimento, sul tempo della partenza da Marsiglia, sul viaggio che avea fatto, e sul carico che portava. Io credo che se questo fosse stato vuoto, e che io ne fossi stato il padrone, la sua intenzione sarebbe stata quella di farne acquisto. Ma io gli dissi che non era che un semplice secondo, e che il bastimento apparteneva alla casa Morrel e figlio. «Ah! diss’egli, io la conosco. I Morrel sono armatori di padre in figlio ed ho conosciuto un Morrel, che serviva con me nello stesso reggimento quando era di guarnigione a Valenza». — È vero! gridò l’armatore tutto contento. Era Policar Morrel, mio zio, che divenne capitano. Dantès, direte a mio zio che l’Imperatore si è risovvenuto di lui, e vedrete piangere il vecchio brontolone. Andiamo, andiamo, continuò l’antico armatore battendo amichevolmente la mano sulla spalla del giovinotto; voi avete fatto bene ad eseguire le istruzioni del capitano Leclerc, e di fermarvi all’Isola d’Elba quantunque se si sapesse che voi avete consegnato un plico al Maresciallo e parlato coll’imperatore, ciò potrebbe mettervi in rischio. — Come volete voi che ciò avvenga? disse Dantès: io non so neppure ciò che ho portato, e l’Imperatore non mi ha fatto che quelle interrogazioni che avrebbe dirette a chiunque. Ma perdono! riprese Dantès, ecco la Sanità e la Dogana che giungono: Voi permettete, n’è vero? — Fate fate, mio caro Dantès. Il giovinotto si allontanò, ed a misura ch’egli si allontanava, Danglars si accostava. — Sembra, diss’egli che abbia addotto buone ragioni sulla sua sosta a Porto Ferrajo? — Eccellenti, mio caro Danglars. — Ah! tanto meglio rispose questi, poichè è sempre cosa dispiacevole di vedere un camerata che non fa il proprio dovere. — Dantès ha fatto il suo, rispose l’armatore, e non v’è nulla che dire. Fu il capitano Leclerc, che gli ordinò questa sosta. — A proposito del capitano Leclerc, vi ha egli rimessa una sua lettera? — A me? no. Ne aveva egli dunque? — Io mi credeva che oltre il piego, il capitano Leclerc gli avesse confidata questa lettera. — Di qual piego intendete voi parlare? — Di quello che Dantès ha depositato nel passar da Porto Ferrajo. — E come lo sapete? Danglars arrossì. — Io passava davanti la porta del capitano che era socchiusa e vidi rimettere a Dantès il piego e la lettera. — Egli non me ne ha parlato, disse l’armatore, ma se ha questa lettera me la consegnerà. Danglars riflettè un istante: — Allora, sig. Morrel, vi prego, di non parlare di ciò a Dantès; mi sarò ingannato. In questo momento il giovinotto fece ritorno. Danglars si allontanò. — Ebbene? mio caro Dantès siete libero? domandò l’armatore. — Sì, o signore, ho dato alla Dogana la lista delle vostre mercanzie, e quanto alla consegna, essa avea inviato col pilota costiere un uomo al quale ho rimesso le mie carte. — Voi dunque non avete più nulla a far qui? Dantès gettò uno sguardo rapido intorno a sè. — No, qui tutto è in ordine. — Potete dunque venire a pranzo con noi. — Scusatemi, signor Morrel, ve ne prego, ma la prima mia visita la debbo a mio padre. Non sono però meno riconoscente all’onore che mi fate. — È giusto, Dantès, so che siete un buon figlio. — E...., domandò Dantès con una certa esitazione, sta bene mio padre, per quel che voi ne sappiate? — Io credo di sì, quantunque non l’abbia veduto. — Sì, egli si tiene ritirato nella sua cameretta. — Ciò prova per lo meno, che non ha avuto bisogno di nulla durante la vostra assenza. Dantès sorrise. — Mio padre è altiero, o signore, e quand’anche egli fosse stato sprovveduto di tutto, non si sarebbe rivolto a chiedere cosa alcuna a chicchessia, eccetto che a Dio. — Ebbene! dopo questa prima visita, noi calcoliamo su voi. — Scusatemi di nuovo, sig. Morrel, ma dopo questa prima visita, io ne ho un’altra che non mi sta meno a cuore. — Ah! è vero, Dantès, dimenticava che vi è ai Catalani qualcuno che deve aspettarvi con non minore impazienza di vostro padre. È la bella Mercedès. (Dantès arrossì). Ah! ah! disse l’armatore, non sorprende più ch’ella sia venuta tre volte a domandare le notizie del _Faraone_. Perbacco! Edmondo voi non siete da compiangere, avete una graziosa amica. — Ella non è mia amica, è mia fidanzata. — Qualche volta è tutt’uno, disse ridendo l’armatore. — Ma non per noi, rispose Dantès. — Andiamo, andiamo! non voglio trattenervi di più. Voi avete fatto sufficientemente bene i miei affari, e debbo lasciarvi l’agio di fare i vostri. Avete voi bisogno di danaro? — No, signore, io ho tutti i miei stipendi del viaggio, cioè quasi tre mesi di paga. — Voi siete un giovinotto regolato, Edmondo! — Aggiungete che ho un padre povero, sig. Morrel. — Sì, sì, so che siete un buon figliuolo! andate dunque a vedere vostro padre. Io pure ho un figlio, e non saprei perdonarla a colui che dopo tre mesi di viaggio lo trattenesse lontano da me. — Dunque voi permettete? disse il giovinotto salutandolo. — Sì, non avete altro a dirmi?... Il Capitano Leclerc non vi ha dato morendo alcuna lettera per me? — Gli sarebbe stato impossibile di scrivere; ma ciò mi ricorda che io avrei un congedo di qualche giorno a domandarvi. — Per prender moglie? — Per primo... poi per andare a Parigi. — Bene! bene! voi prenderete il tempo che vorrete, Dantès. Non si occuperanno meno di sei settimane per iscaricare il bastimento, e non rimetteremo in mare prima di tre mesi. Sarà però d’uopo che vi troviate qui fra tre mesi. Il _Faraone_, continuò l’armatore battendo sulla spalla del giovine marinaio, non potrebbe mettere alla vela senza il suo Capitano. — Senza il suo Capitano! esclamò Dantès cogli occhi sfavillanti di gioia. Ponete ben mente a ciò che mi dite, poichè voi vi fate mallevadore delle più segrete speranze del mio cuore; avreste voi intenzione di nominarmi Capitano del _Faraone_? — Se io fossi solo, vi stenderei la mano, mio caro Dantès, e vi direi: è fatto, ma io ho un socio, e voi sapete l’antico proverbio Italiano: _che ha un padrone chi ha un compagno_; la metà della faccenda però è fatta, per lo meno, poichè sopra due voti, voi ne avete di già uno. Fidatevi di me per aver l’altro, ed io farò quanto potrò di meglio. — Oh! Sig. Morrel, esclamò il giovine _marinaio_ stringendo colle lagrime agli occhi le mani dell’armatore; vi ringrazio in nome di mio padre e di Mercedès. — Va bene! va bene, Edmondo, vi ha un Dio in cielo per la brava gente; andate a vedere vostro padre e Mercedès; poi ritornate da me. — Non volete voi che vi riconduca a terra? — No, grazie, rimango a regolare i miei conti con Danglars. Siete voi rimasto contento di lui durante il viaggio? — Secondo il senso che voi date a questa interrogazione; se si tratta come buon camerata, no, perchè io credo ch’egli non m’ami: dal giorno in cui ebbi la debolezza, in conseguenza di una contesa che avemmo assieme, di proporgli che ci fermassimo dieci minuti all’Isola di Monte-Cristo per terminarla, proposizione che io ebbi torto di fargli e che egli ebbe ragione di rifiutare; se poi è come scrivano che mi fate questa domanda, credo che non vi sia nulla a dire, e sarete contento del modo con cui ha fatto il suo dovere. — Ma, domandò l’armatore, se voi foste Capitano del _Faraone_, conservereste Danglars con piacere? — Capitano, o secondo, rispose Dantès, avrò sempre i più grandi riguardi per coloro che possederanno la confidenza dei miei armatori. — Andiamo, andiamo, Dantès, vedo bene che siete un bravo giovinotto su tutti i riguardi. Non voglio più a lungo trattenervi; andate, poichè siete sulle spine. — A rivederci, sig. Morrel, e mille ringraziamenti. Il giovine marinaio balzò nella lancia, andò a sedersi a poppa e ordinò di approdare alla Cannebière. Due marinai si piegarono tosto sui loro remi e la barca fuggì con quella rapidità che è possibile in mezzo alle mille barche, le quali ingombrano quella specie di angusta strada che conduce fra due file di navigli, dall’entrata del porto allo scalo d’Orléans. L’armatore sorridendo lo seguì cogli occhi fino alla spiaggia, lo vide saltare sui gradini dello scalo e perdersi tosto in mezzo alla folla variopinta, che dalle cinque del mattino alle nove della sera ingombra questa famosa strada della Cannebière, i cui Phocéens moderni sono tanto orgogliosi, che dicono con la più gran serietà del mondo e con quell’accento che imprime tanto carattere a ciò che dicono «Se Parigi avesse la Cannebière, sarebbe una piccola Marsiglia.» Rivolgendosi, l’armatore vide Danglars, che in apparenza sembrava attendere i suoi ordini, ma che in fatto seguiva come lui il giovine marinaio collo sguardo. V’era però grandissima diversità nella espressione di questo doppio sguardo diretto sul medesimo individuo. II. — IL PADRE ED IL FIGLIO. Lasciamo Danglars, alle prese col genio dell’odio, cercare di gettare contro il suo camerata qualche maligna supposizione all’orecchio dell’armatore, e seguiamo Dantès, che dopo aver percorsa la Cannebière in tutta la sua lunghezza, prende la contrada Nouaille, entra in una piccola casa sita alla sinistra dei viali di Meillan, sale i quattro piani di una scala oscura e attenendosi con una mano al mantegno, comprime coll’altra i battiti del cuore, e si arresta davanti una porta socchiusa, che lascia vedere fino al fondo una piccola camera: in essa stava il padre di Dantès. La notizia dell’arrivo del _Faraone_ non era ancor giunta al vecchio che salito sur una cassa, era occupato a piantare delle cannucce sopra cui adattava con mano tremante alcuni nasturzi misti a clematidi che si arrampicavano lungo la pergola della finestra. Ad un tratto si sentì circondare il corpo da due braccia, ed una voce ben conosciuta gridare dietro a sè: — Mio padre! mio buon padre. Il vecchio gettò un grido e si volse; poi vedendo suo figlio, si lasciò cadere tra le braccia di lui tremante e pallido. — Che avete dunque o padre? sareste voi ammalato? — No, mio caro Edmondo, mio figlio, mio caro figlio, no: ma io non ti aspettava, e la gioia, la sorpresa di rivederti così all’improvviso... Dio, Dio... mi sembra di morire... — Coraggio! rimettetevi, o padre. Sono io, io stesso. Si dice sempre che la gioia non nuoce; ed è perciò che sono entrato così senza farvi preparare; guardatemi, sorridetemi in vece di osservarmi con occhi spaventati. Io ritorno e noi saremo felici. — Ah! tanto meglio, o figlio, riprese il vecchio. Ma in qual modo possiamo noi essere felici? tu adunque non mi abbandoni più? Vediamo, raccontami le tue fortune. — Che il signore mi perdoni, disse il giovinotto, di allegrarmi di una fortuna che faccio col lutto di una famiglia: ma il cielo m’è testimone che io non l’ho desiderato! Essa mi giunge, ed io non ho forza di affliggermene. Il bravo Capitano Leclerc è morto, ed è probabile che colla protezione del Sig. Morrel, io vada al suo posto... Capitano a venti anni! con cento luigi di stipendio ed una parte nello interesse! non è ciò più di quel che poteva sperare un povero marinaio come sono io! — Sì, figlio mio, sì, infatto questa è una felicità. — E perciò io voglio che col primo denaro che avrò voi abbiate una casetta con un giardino per piantare le vostre clematidi, i nasturzi ed il caprifoglio. Ma che avete padre? si direbbe che state male! — Pazienza, pazienza, non sarà nulla. E le forze mancando al vecchio, cadde rovescioni in addietro. — Via, via, disse il giovinotto, un bicchiere di vino, vi rianimerà. Dove conservate il vino? — No grazie, non lo cercare, io non ne ho bisogno, disse il vecchio cercando di trattenere il figlio. — Lasciate fare, lasciate fare, o padre, indicatemi il luogo. Ed aprì due o tre armadi. — È inutile... disse il vecchio, non vi è più vino.... — Come non vi è vino, disse Dantès impallidendo a sua volta, e guardando alternativamente le guance smunte ed increspate del vecchio, e gli armadi vuoti. Come! non vi è più vino! sareste voi restato privo di denaro, o padre? — Io non son rimasto privo di nulla, dappoichè tu sei qui. — Frattanto, balbettò Dantès, asciugandosi il sudore che freddo gli colava dalla fronte, io vi aveva però lasciato 200 fr. son tre mesi partendo. — Sì, sì Edmondo, è vero. Ma tu avevi dimenticato nel partire un piccolo debito col vicino Caderousse, egli me lo ha ricordato, dicendomi che se io non pagava per te, egli andava a farsi pagare dal Sig. Morrel. Allora tu comprendi, per tema che ciò non ti facesse torto... ho pagato io per te. — Ma, esclamò Dantès, il mio debito con Caderousse era di 140 fr.; e voi li avete pagati sui 200 fr. che vi ho lasciati. Il vecchio fece un segno affermativo colla testa. — Dimodochè voi avete vivuto, per tre mesi con soli 60 fr. — Tu sai quanto poco mi abbisogni e mi basti. — Oh! mio Dio! padre mio perdonatemi, gridò Edmondo gettandosi ai piedi del buon vecchio. — Che fai tu mo? — Ah voi mi avete squarciato il cuore! — Nulla! tu sei qui, disse il vecchio sorridendo, ora tutto è dimenticato, se stai bene. — Sì io son qui; eccomi con un bell’avvenire e con qualche poco di danaro. Prendete o padre, diss’egli, prendete e inviate subito qualcuno a cercare qualche cosa. — E vuotò sulla tavola la borsa che conteneva una dozzina di monete d’oro, cinque o sei scudi da cinque fr. e qualche poco di moneta minuta. Il viso del vecchio si annuvolò. — Di chi è quel danaro? — Mio, tuo, di entrambi, prendi, compra delle provvisioni, sii felice, domani ve ne sarà dell’altro. — Adagio, adagio, disse il vecchio sorridendo, colla tua permissione io farò uso della tua borsa, ma con moderazione, mentre le persone che mi vedessero fare grandi provviste direbbero che io era obbligato ad aspettare il tuo ritorno per farle. — Fate come vi aggrada, ma prima d’ogni altro provvedetevi di una persona di servizio. Non voglio più che usciate solo. Io ho del caffè e dell’eccellente tabacco di contrabbando in una cassetta in fondo alla stiva; voi l’avrete domani. Ma... zitto; sento arrivare qualcuno. — Sarà Caderousse che avendo saputo il tuo arrivo viene a darti il ben venuto. — Bene, ecco altre labbra che dicono diversamente da ciò che pensa il cuore; ma non serve, mormorò Edmondo; egli è un vicino che ci ha altra volta reso un servigio; che sia il ben venuto. — Di fatto al momento in cui Edmondo terminava la frase a voce bassa, si vide comparire la testa nera barbuta di Caderousse sul limitare della porta. Era costui un uomo di 25 a 26 anni, aveva fra le mani un po’ di panno che nella sua qualità di sartore si accingeva a tramutare nei paramani di un abito. — Ah! eccoti dunque di ritorno, Edmondo! disse con l’accento marsigliese più pronunciato, e con un largo sorriso che gli scopriva dei bellissimi denti, bianchi come l’avorio. — Come vedete, vicino Caderousse, e pronto a servirvi in qualunque cosa, rispose Dantès, mal dissimulando la sua freddezza, nel fare questa offerta. — Grazie, grazie, fortunatamente non ho bisogno di nulla, anzi gli altri hanno qualche volta bisogno di me (Dantès fece un movimento d’impazienza); non dico ciò per te o giovinetto; ti prestai del denaro, tu me lo hai reso, ciò si pratica fra buoni vicini e noi siamo pari. — Non si è mai pari con quei che ci han favorito, disse Dantès, mentre, allorquando non si deve loro più danaro, loro si deve la riconoscenza. — E a che parlare di ciò? Ciò che è passato, è passato; parliamo del tuo felice ritorno o giovinotto. Io era andato sul porto per ritrovare da accompagnare del panno color marrone, allora quando ho incontrato l’amico Danglars. «— Tu a Marsiglia? — Sì, io stesso, rispose egli. — Io ti credeva a Smirne? — Io potrei ancora esservi mentre vengo di là — E Edmondo ov’è egli, il bravo giovinotto? — Certamente presso suo padre» mi rispose Danglars ed allora io sono venuto per avere il piacere di stringere la mano ad un amico. — Questo buon Caderousse, disse il vecchio, ci ama molto. — Certamente vi amo e vi stimo ancora, molto più che gli uomini onesti sono tanto rari... ma sembra che tu ritorni ricco, continuò il sartore, volgendo uno sguardo bieco sull’oro e sull’argento che Dantès aveva posato sulla tavola. Al giovine marinaro non sfuggì il lampo di cupidigia che rischiarò gli occhi neri del suo vicino. — Eh! mio Dio, disse con non curanza, questo danaro non è mio, aveva manifestato a mio padre il timore che nella mia assenza gli fosse mancato qualche cosa ed egli per rassicurarmene ha vuotata la sua borsa sulla tavola. Andiamo padre, rimettete il vostro danaro nel tiratoio, a meno che il vicino Caderousse non ne abbia a sua volta bisogno, nel qual caso è sempre a sua disposizione. — No, giovinotto, disse Caderousse, io non ho bisogno di niente, e grazie a Dio il proprio stato mantiene l’uomo; conserva il tuo danaro, che non se ne ha mai di troppo; ciò non toglie che io ti sia obbligato della tua offerta come se ne avessi approfittato. — Era di buon cuore, disse Dantès. — Non ne dubito. Ebbene, eccoti dunque di bene in meglio col signor Morrel, furbo che sei. — Il sig. Morrel ha sempre avuto molta bontà per me. — In questo caso tu hai avuto torto a ricusare il suo pranzo. — Come! ricusare il suo pranzo? riprese il vecchio; egli dunque ti aveva invitato a pranzo? — Sì, padre mio, rispose Edmondo sorridendo della meraviglia che cagionava a suo padre l’eccessivo onore di cui si credeva il soggetto. — E perchè dunque? dimandò il vecchio. — Per ritornare più presto vicino a voi, mio padre, rispose il giovinotto, aveva gran fretta di vedervi. — Ciò però avrà dispiaciuto a quel buon uomo del signor Morrel, soggiunse Caderousse; e quando uno aspira a divenir capitano, ha torto di non far la corte al suo armatore. — Io gli ho spiegata la causa del mio rifiuto, rispose Dantès, e sono certo che egli l’ha intesa. — Ah! per diventar capitano bisogna accarezzare un poco più i suoi padroni. — Io spero di divenire capitano anche senza di ciò. — Tanto meglio, ciò farà piacere ai tuoi vecchi amici. Io so che vi è qualcuno laggiù dietro alla cittadella S. Nicola che ne sarà molto contento. — Mercedès? disse il vecchio. — Sì, padre mio, rispose Dantès, e colla vostra permissione, ora che vi ho veduto, ora che so che voi state bene, che avete tutto ciò che vi abbisogna, vi chiederei il consenso di fare una visita ai Catalani. — Va figlio mio! va! disse il vecchio Dantès, e Dio benedica te nella tua donna, come benedisse me nel figlio! — Sua donna! disse Caderousse, voi andate tropp’oltre, papà Dantès: ella non lo è ancora, io credo. — No, ma, secondo ogni probabilità, rispose Edmondo, ella non tarderà molto a divenirlo. — N’importa, disse Caderousse, hai fatto bene a sbrigarti. — E perchè ciò? — Perchè la Mercedès è una bella giovinetta, e le belle giovinette non mancano d’innamorati, quella particolarmente, la seguivano a dozzine. — Davvero! disse Edmondo con un sorriso sotto il quale traspariva un’ombra d’inquietudine. — Oh sì! riprese Caderousse, e anche belle proposte capisci tu? diventi capitano, e si guarderà bene da rifiutarti. — Ciò equivale al dire, disse Dantès con sorriso che mal dissimulava la sua inquietudine, che se io non diventassi capitano... — Eh! eh! fece Caderousse. — Via, via, disse il giovinotto, io ho migliore opinione che voi delle donne in generale, e di Mercedès in particolare, e sono convinto che diventi o no capitano, ella mi resterà egualmente fedele. — Tanto meglio! disse Caderousse, egli è sempre una buona cosa che i giovinotti, quando si maritano, siano forniti di buona fede, ma non serve, credimi Dantès, corri ad annunziarle il tuo arrivo, ed a metterla a parte delle tue speranze. — Vi vado, disse Edmondo, che abbracciò suo padre, salutò con un cenno di testa Caderousse, e partì. Caderousse restò un altro momento, poi prendendo congedo dal vecchio Dantès, discese a sua volta, e andò a raggiunger Danglars che lo aspettava all’angolo della strada _Senac_. — Ebbene! disse Danglars, l’hai tu veduto? — L’ho lasciato ora. — Ti ha egli parlato della sua speranza di divenir capitano? — Egli ne parla come se lo fosse digià. — Pazienza! mi sembra che si solleciti un po’ troppo. — Diavolo! sembra che il posto gli sia stato promesso dallo stesso sig. Morrel. — Dimodochè egli sarà molto contento? — Cioè, egli è molto insolente; mi ha di già offerti i suoi servigi come se fosse un personaggio d’importanza; e del denaro in prestito come se fosse un banchiere. — E tu avrai ricusato? — Certamente, quantunque io avessi potuto accettare, atteso che sono stato io che gli ho messo fra le mani le prime monete bianche ch’egli ha toccato: ma ora Dantès non avrà più bisogno d’alcuno divenendo capitano. — Baie! disse Danglars, egli non lo è ancora; ed in fede mia sarebbe una bella cosa se nol fosse più, Caderousse; altrimenti non vi sarebbe modo di potergli parlare. — Se noi lo vogliamo veramente, disse Danglars, egli resterà ciò che è, e forse diventerà ancor meno di quel che è. — Che dici tu? — Niente, parlo a me stesso. È egli sempre innamorato della Catalana? — Innamorato pazzo; ora è andato da lei. Ma o mi sbaglio, o avrà dei dispiaceri da quella parte. — Spiegati! ciò è più importante di quel che credi. Tu non ami certamente Dantès? — Io non amo gli arroganti. — Ebbene dimmi allora ciò che sai relativamente alla Catalana. — Io non so niente di positivo, ho veduto soltanto cose che mi fanno credere, come ti diceva, che il futuro capitano avrà dei dispiaceri nei dintorni della via delle _Vieilles-Infirmeries_. — Che hai tu veduto? Via, dimmi. — Ebbene, ho veduto che tutte le volte che Mercedès entra in città, è sempre accompagnata da robusto e minaccioso Catalano dagli occhi neri, la pelle rossa, molto scuro, ardentissimo, e ch’ella chiama mio cugino. — Ah! davvero, e credi tu che costui le faccia la corte? — Lo suppongo; che diavol’altro vuoi che faccia un giovinotto di ventun’anno ad una bella ragazza di diciassette? — E tu dici che Dantès è andato ai Catalani? — Egli è uscito di casa sua poco prima di me. — Se noi andiamo dalla medesima parte, ci fermeremo all’osteria della _Réserve_ dal papà _Panfilo_ e mentre staremo bevendo un bicchier di vino di _Lamalgue_, attenderemo notizie. — E chi ce le porterà? — Noi saremo sulla strada, e vedremo bene sul viso di Dantès ciò che sarà avvenuto. — Andiamo, disse Caderousse; ma sei tu che paghi? — Certamente, rispose Danglars. E tutti e due s’incamminarono con passo rapido verso il luogo indicato. Giunti colà si fecero portare una bottiglia e due bicchieri. Il papà Panfilo aveva veduto passare Dantès, che non erano dieci minuti. Certi che Dantès era ai Catalani, si assisero sui banchi di verdura nascente ai piedi delle piante di sicomori sui rami delle quali gli uccelli salutavano i primi giorni della primavera. III. — I CATALANI. A cento passi dal luogo ove i due amici, collo sguardo all’orizzonte e l’orecchio all’erta, vuotavano lo spumoso vino di Lamalgue s’innalzava dietro il monticello nudo ed arido pel sole e pel maestrale, il piccolo villaggio dei Catalani. In un bel giorno, una colonia misteriosa partì dalla Spagna, e venne ad approdare alla lingua di terra che abita oggidì: giungeva non si sa da dove, e parlava una lingua sconosciuta. Uno dei capi, che capiva il provenzale, domandò alla Comune di Marsiglia quel promontorio ignudo ed arido, sul quale essi avevano, come gli antichi marinari, ritirati i loro navigli. La domanda fu accordata, e tre mesi dopo si elevava un piccolo villaggio attorno ai dodici o quindici bastimenti che erano stati tirati a terra da questi _Zingari_. Il villaggio costrutto in un modo bizzarro e pittoresco, di stile metà moresco, metà spagnuolo, è quello che in oggi si vede abitato dai discendenti di quegli uomini, che parlano la lingua dei loro padri. Dopo tre o quattro secoli essi sono ancora rimasti fedeli a questo piccolo promontorio, sul quale caddero a guisa di uno stormo di uccelli di mare, senza immischiarsi in niente alla popolazione marsigliese, maritandosi fra di loro, e conservando gli usi e costumi della loro madre patria, come ne hanno conservata la favella. Fa d’uopo che i nostri lettori ci seguano a traverso l’unica strada di questo villaggio ed entrino con noi in una di queste case, alle quali per di fuori il sole ha dato il bel colore di foglia secca, particolare ai monumenti del paese, e al di dentro uno strato di tinta gialla che forma l’unico ornamento della _Posadas_ spagnuola. Una bella giovinetta coi capelli neri come il lustrino, cogli occhi vellutati come quelli della gazzella stava ritta ed appoggiata ad un assito, sfrondando tra le sue dita profilate con un disegno antico una innocente erica di cui strappava i fiori, e gli avanzi della quale erano già sparsi sul terreno; inoltre le sue braccine, nude fino al gomito, modellate su quelle della Venere d’Arles, fremevano con una specie d’impazienza febbrile, ed ella batteva la terra col piede agile, e curvato in modo da fare apparire la forma pura e superba della gamba serrata da una calza di cotone rosso ad angoli grigi e azzurri. A tre passi da lei assiso sur una cassa cui dondolava con un movimento rozzo, appoggiando il suo gomito ad un vecchio mobile tarlato, stava un robusto giovinotto di 20 a 22 anni che la guardava con un’aria da cui si scorgeva l’interno combattimento tra l’inquietudine ed il dispetto. I suoi occhi interrogavano; ma lo sguardo fermo e fisso della giovinetta, dominava il suo interlocutore. — Vediamo, Mercedès, diceva il giovine; fra poco sarà Pasqua; ecco un’epoca propizia ad un matrimonio. — Io vi ho risposto le cento volte, Fernando, e bisogna per verità che siate nemico di voi stesso, per rinnovarmi questa interrogazione. — Ebbene! ripetetelo ancora, ve ne supplico, affinchè io giunga a crederlo, ditemi per la centesima volta che voi ricusate il mio amore che aveva l’approvazione di vostra madre; fate ben comprendere che vi prendete giuoco della mia felicità, e che la mia vita e la mia morte sono un nulla per voi. Ah! mio Dio! mio Dio! aver sognato per dieci anni di essere vostro sposo, Mercedès, e perdere questa speranza, unica meta della mia vita! — Non sono però stata io, che abbia giammai incoraggiata questa speranza, Fernando, rispose Mercedès; voi non avete una sola lusinga a rimproverarmi, che io abbia usata a vostro riguardo; vi ho sempre detto: «Io vi amo come un fratello; ma non esigete giammai da me altra cosa che quest’amicizia fraterna, poichè il mio cuore è dato ad altri.» — Sì, lo so bene, Mercedès, rispose il giovine, voi vi siete gloriata a mio riguardo del merito crudele della franchezza. Ma dimenticate però che esiste fra i Catalani una sacra legge che ordina di maritarsi fra loro. — Voi v’ingannate Fernando, non è una legge, è un’abitudine, ecco tutto; e credetemi non vi giova invocare questa abitudine in vostro favore. Voi siete entrato nella coscrizione, la libertà che vi si lascia non è che una semplice tolleranza. Da un momento all’altro potete essere richiamato al servizio militare, ed una volta soldato, che farete voi di me, di me povera orfanella, trista, senza beni, che in tutto possiede una capanna quasi in rovina, alla quale sono attaccate alcune reti usate, miserabile eredità lasciata da mio padre a mia madre, e da mia madre a me? Da un anno ch’ella è morta, pensate o Fernando che io vivo quasi di pubblica carità. Qualche volta voi fingete che io vi sia utile, e ciò per avere il diritto di dividere la vostra pesca meco; io accetto perchè voi siete il figlio del fratello di mio padre, perchè noi siamo stati allevati insieme, e più ancora sopra tutto perchè vi cagionerei troppo dispiacere s’io ricusassi. Ma io ben capisco che questo pesce che vado a vendere e dal quale ritraggo il danaro per comprare la canape che filo è un’elemosina. — E che importa! Mercedès? Così povera e sola come siete, mi convenite assai più che la figlia del più superbo armatore o del più ricco banchiere di Marsiglia. A noi che abbisogna? una donna onesta ed atta alle faccende domestiche. Ove potrei io ritrovar meglio di voi sotto questi rapporti? — Fernando, rispose Mercedès scuotendo la testa, si diviene abili alle faccende domestiche; ma non si può guarentire di restare oneste allora quando si ama un altro uomo che non è suo marito. Contentatevi della mia amicizia; poichè ve lo ripeto, ciò è quanto posso promettervi, ed io non prometto, che quel che sono sicura di mantenere. — Sì, lo comprendo, voi sopportate pazientemente la vostra miseria, ma avete paura della mia. Ebbene, Mercedès, amato da voi, io tenterò la fortuna, voi mi porterete felicità, ed io diverrò ricco. Io posso estendere il mio stato di pescatore, posso entrare come commesso in un banco, io stesso posso diventar negoziante. — Voi non potete tentare niente di tutto ciò, Fernando, voi siete soldato, e se restate ancora ai Catalani, gli è perchè non v’è guerra; restate adunque pescatore, non fate dei sogni che vi farebbero riuscire ancora più terribile la realtà, e contentatevi della mia amicizia, dacchè non posso darvi altro. — Ebbene, voi avete ragione Mercedès, io sarò marinaro; avrò in vece del costume dei padri nostri, che voi disprezzate, un cappello inverniciato, una camicia a righe ed una veste blu colle ancore sui bottoni; non è egli così che bisogna essere vestito per piacervi? — Che intendete di dire? domandò Mercedès, vibrandogli uno sguardo imperioso; io non vi capisco. — Voglio dire Mercedès, che voi non siete così inflessibile e crudele con me, se non perchè attendete qualcuno che va così vestito; ma quello che voi aspettate è forse incostante, e se pur non lo è, il mare lo è per lui. — Fernando, gridò Mercedès, io vi credeva buono; mi sono ingannata; voi avete un cuore cattivo invocando ad aiuto della vostra gelosia la collera di Dio. Ebbene! sì, non vi nascondo nulla, io aspetto, io amo quello che voi dite, e s’egli non ritorna, in vece di accusare questa incostanza che voi invocate, io dirò che egli è morto amandomi. Il giovine Catalano fece un gesto di rabbia. — Io vi capisco Fernando; voi vi rivarreste con lui perchè io non vi amo; voi incrocereste il vostro coltello catalano contro del suo pugnale. Ma ciò, a che servirebbe? a perdere la mia amicizia se rimaneste vinto, a vederla cambiata in odio se vincitore. Credetemi, il muovere contesa con un uomo, è un cattivo mezzo per piacere alla donna che lo ama. No, Fernando, voi non vi lascerete trasportare da così perversi pensieri; se non mi potete avere a moglie, vi contenterete di avermi ad amica ed a sorella. D’altronde, soggiunse ella cogli occhi commossi e bagnati di lagrime, aspettate Fernando; voi lo avete detto or ora: il mare è perfido e sono già quattro mesi che egli è partito: ed in quattro mesi ho contato molte burrasche! Fernando restò impassibile. Egli non cercò di asciugare le lagrime che scorrevano sulle guance di Mercedès, e ciò non pertanto avrebbe dato una libbra del suo sangue per ciascuna di quelle lagrime che colavano per un altro; si alzò, fece un giro nella capanna, ritornò, si fermò davanti a Mercedès, coll’occhio cupo, e coi pugni fortemente serrati. — Vediamo, Mercedès, diss’egli, anche una volta rispondete... avete voi ben risoluto? — Io amo Edmondo Dantès, disse freddamente la giovinetta, e niun altro fuorchè Edmondo sarà il mio sposo! e l’amerò finchè avrò vita. Fernando chinò la testa scorato, e cacciò fuori un sospiro che sembrò un gemito; poscia ad un tratto alzando la fronte, coi denti serrati e le narici socchiuse: — Ma s’egli è morto! diss’egli. — S’egli è morto, io morrò. — Ma se egli vi obblia? — Mercedès, gridò una voce esultante al di fuori della capanna. — Ah! sclamò la giovinetta arrossendo di gioia, esultante d’amore, tu vedi bene ch’egli non mi ha dimenticato; poichè eccolo qua... E si slanciò verso la porta che aprì gridando: — A me, a me, Edmondo, eccomi qui! — Fernando pallido e fremente dette addietro come fa un viaggiatore alla vista di un serpente, ed urtando nella sua cassa vi ricadde a sedere. Edmondo e Mercedès erano vicini l’uno all’altro. Il sole ardente di Marsiglia che penetrava per l’apertura della porta, gli inondava di un torrente di luce. Sulle prime essi non videro nulla di ciò che li circondava, una felicitò immensa li isolava da questo mondo; non si parlavano che con quelle parole interrotte che sono lo slancio della più viva gioia, e sembrano accostarsi all’espressione del dolore. Ad un tratto Edmondo si accorse della figura cupa di Fernando che si designava nell’ombra, pallida e minacciosa; per un movimento di cui egli stesso non si sarebbe forse dato ragione, il Catalano teneva la mano sul coltello posto alla cintura. — Perdono, disse Dantès inarcando a sua volta le sopracciglia, non aveva osservato che eravamo in tre. Poi rivolgendosi a Mercedès domandò: — Chi è questo signore? — Egli sarà il vostro migliore amico, mentre è egualmente il mio, è mio cugino, è mio germano, egli è Fernando, è finalmente l’uomo che dopo voi, Edmondo, amo di più in questa terra. Edmondo, senza abbandonare Mercedès stese, con un movimento di cordialità, la mano al Catalano. Ma Fernando lungi dal corrispondere a questo gesto amichevole, restò muto ed immobile come una statua. Allora Edmondo portò il suo sguardo scrutatore, da Mercedès commossa e tremante a Fernando cupo e minaccioso. Questo solo sguardo gli fece tutto comprendere. La collera gli salì alla fronte. — Io non avrei saputo venire con tanta fretta da voi, Mercedès, per ritrovarvi un nemico. — Un nemico! esclamò Mercedès, con uno sguardo corrucciato rivolto al suo cugino: un nemico presso di me, dici tu, o Edmondo? Se io credessi ciò, ti prenderei sotto il braccio e me ne andrei a Marsiglia abbandonando questa casa per non riporvi mai più il piede. (L’occhio di Fernando lanciò un baleno). Se ti accadesse disgrazia, mio Edmondo, continuò ella col medesimo implacabile sangue freddo il quale provava a Fernando che la giovinetta aveva saputo leggere fino al più profondo de’ suoi sinistri pensieri, se ti accadesse qualche disgrazia, io salirei sul capo di Morgiou e mi getterei sugli scogli colla testa in avanti. (Fernando divenne spaventosamente pallido). Ma tu t’inganni, Edmondo, continuò ella, tu qui non hai nemici: qui non vi è che Fernando mio fratello, che ti stringerà la mano come ad un amico di cuore. A queste parole la giovinetta fissò il suo sguardo imperioso sul Catalano, il quale come se fosse stato affascinato da questo sguardo, si accostò lentamente a Edmondo, e gli stese la mano. Il suo odio pari ad un flutto impotente quantunque furioso, veniva ad infrangersi contro l’ascendente che questa donna esercitava su lui. Ma appena toccata la mano di Edmondo, sentì di aver fatto tutto ciò che poteva, e slanciandosi fuori della capanna, correndo come un insensato, ed intrecciandosi le mani nei capelli gridava: — Oh chi mi libererà da quest’uomo: me infelice! me infelice! — Eh! Catalano! ehi Fernando, ove corri tu? disse una voce. — Il giovinotto si arresta ad un tratto, guarda a sè d’intorno e riconosce Caderousse seduto a tavola con Danglars sotto un pergolato di foglie. — Eh! disse Caderousse, perchè non vieni tu qui? hai tu dunque tanta fretta da non avere il tempo di dire buon giorno agli amici? — Particolarmente quando essi hanno ancora una bottiglia quasi piena davanti, soggiunse Danglars. Fernando guardò quei due uomini con occhi da ebete e nulla rispose. — Sembra affatto stordito, disse Danglars urtando col suo nel ginocchio di Caderousse, sarebbe egli possibile che ci fossimo sbagliati, e che Dantès trionfasse in opposizione a quanto abbiam preveduto? — Diavolo bisogna vedere, disse Caderousse, e volgendosi verso il Catalano. — Ebbene, non ti risolvi tu? — Fernando asciugò il sudore che gli colava dalla fronte, entrò lentamente sotto il pergolato, la cui ombra sembrava rendere un po’ di calma ai suoi sensi, e la freschezza un po’ di sollievo al suo corpo spossato. — Buon giorno, diss’egli, voi mi avete chiamato, n’è vero? E fu piuttosto un cadere che un assidersi sur una delle panche che circondavano la tavola. — Io ti ho chiamato perchè tu correvi come un pazzo, e perchè ho avuto paura che ti buttassi in mare, disse ridendo Caderousse. Che diavolo! quando uno ha degli amici, non è solo per offrir loro un bicchiere di vino, ma ancora per impedir loro di bere tre o quattro pinte di acqua. Fernando mandò un gemito simile ad un singulto, e lasciò cadere la testa su i suoi due pugni incrociati sulla tavola. — Ebbene! vuoi tu che te lo dica Fernando? rispose Caderousse, intavolando la conversazione con quella villana brutalità della gente del popolo, cui la curiosità fa dimenticare ogni specie di diplomazia; tu mi hai l’aria di un amante sconfitto. Ed accompagnò questo scherzo con una forte risata. — Baie! rispose Danglars, un giovinotto come costui, non è fatto per essere disgraziato in amore; tu ti burli di lui, Caderousse. — Niente affatto, non senti come sospira? Coraggio, coraggio, Fernando, disse Caderousse, alza in alto il naso e rispondici. Non è civiltà il non rispondere agli amici che vi domandano come va la salute. — La mia salute va bene; disse Fernando serrando le pugna, ma senza alzar la testa. — Ah! vedi tu Danglars, disse Caderousse occhiando l’amico, ecco qua come sta l’affare: Fernando che vedi qui, buono e bravo Catalano, uno dei migliori pescatori di Marsiglia, è innamorato di una bella ragazza che si chiama Mercedès: ma disgraziatamente sembra che la bella ragazza dal canto suo sia innamorata del secondo del _Faraone_, e siccome il _Faraone_ è entrato oggi stesso nel porto, tu capisci?... — No, io non capisco niente, disse Danglars. — Il povero Fernando, avrà ricevuto il suo congedo. — Ebbene! e poi? disse Fernando alzando la testa e guardando Caderousse come chi cerchi qualcuno con cui sfogare la sua collera. Mercedès non dipende da alcuno, n’è vero? Ella dunque è ben libera di amare chi vuole. — Ah! se tu la prendi così, disse Caderousse, è un altro affare; io ti credeva un Catalano, e mi era stato detto che i Catalani non eran tali da lasciarsi impunemente metter da banda da un rivale, aggiungendo che particolarmente Fernando era un uomo terribile nella sua vendetta. Fernando sorrise di pietà. — Un innamorato non è mai terribile, diss’egli. — Povero giovinotto, riprese Danglars fingendo di compiangerlo col più profondo sentimento dell’anima, che vuoi? non si aspettava di vedere ritornare Dantès così presto; forse lo credeva morto, forse infedele, e che so io? Queste cose sono tanto più sensibili quanto più ci accadono all’impensata. — In fede mia! disse Caderousse che beveva parlando, e su cui il vino di Lamalgue cominciava a fare il suo effetto; in ogni modo Fernando non è il solo che viene afflitto dal felice arrivo di Dantès: non è vero, Danglars? — Sì, ed oserei quasi dire che ciò gli porta disgrazia. — Ma non importa, soggiunse Caderousse versando un bicchiere di vino a Fernando, e riempiendo il proprio per la ottava o decima volta, mentre che Danglars aveva appena assaggiato il suo; non importa, frattanto egli sposa Mercedès, la bella Mercedès; almeno egli ritorna per ciò. In questo mentre Danglars fissava uno sguardo scrutatore per iscoprire il cuore del giovinotto sul quale le parole di Caderousse cadevano come piombo liquefatto. — E quando si faranno le nozze? dimandò. — Oh! non sono ancor fatte, mormorò Fernando. — No, ma esse si faranno, disse Caderousse, tanto è vero quanto che Dantès sarà capitano del _Faraone_, n’è certo Danglars? Danglars abbrividì a questo colpo inatteso, e si volse a Caderousse di cui studiò i lineamenti per scorgervi, se questo colpo era stato premeditato; ma egli non lesse che l’invidia su quel viso fattosi di già quasi stupido dall’ubbriachezza. — Ebbene! disse egli riempiendo i bicchieri, beviamo dunque alla salute del capitano Edmondo Dantès, marito della Catalana! Caderousse portò il bicchiere alla bocca, e con una mano appesantita lo tracannò d’un fiato. Fernando prese il suo e lo stritolò al suolo. — Eh! eh! eh! disse Caderousse, che vedo là, sull’alto del promontorio, nella direzione dei Catalani? Guarda tu Fernando che hai miglior vista della mia; io credo di cominciare a vedere doppio, e tu sai che il vino è traditore... non sono i due amanti che passeggiano tenendosi vicini vicini?... Il Cielo mi perdoni! essi non si credono da noi veduti, eccoli! Danglars non perdeva di vista alcuna delle angosce che soffriva Fernando, il cui viso si scomponeva visibilmente. — Gli conoscete voi Fernando? diss’egli. — Sì, rispose questi con sorda voce, sono Edmondo e Mercedès. — Ah! vedete, disse Caderousse, io gli aveva riconosciuti! Ohe! Ohe! la bella ragazza! venite un po’ per di qua; e diteci quando si faranno le nozze, poichè Fernando si è ostinato a non volercelo dire. — Vuoi tacere! disse Danglars, simulando di ritenere Caderousse, che colla tenacità dell’ubbriaco si sforzava di piegarsi fuori del pergolato. Cerca di tenerti dritto, e lascia gl’innamorati amarsi tranquillamente. Guarda Fernando, e prendi esempio da lui, ch’è uomo ragionevole. Forse Fernando, ridotto agli estremi, e, punto da Danglars come il toro dai giostratori, stava per islanciarsi, perchè si era già alzato e sembrava raccogliersi in sè stesso per iscagliarsi innanzi al suo rivale; ma Mercedès, ridente e accorta, alzò la bella testa e fece brillare il suo limpido sguardo. Allora Fernando si ricordò la minaccia ch’ella aveva fatta di morire se Edmondo morisse, e ricadde scorato sul suo sedile. Danglars guardò successivamente quei due uomini l’uno stupito dall’ubbriachezza, l’altro dominato dall’amore. — Io non trarrò niente da questi imbecilli, mormorò: ed ho gran paura di essere qui fra un ebbro ed un poltrone. Ecco un invidioso che si ubbriaca di vino mentre dovrebbe farlo di fiele; ecco un amante imbecille al quale vien tolta l’innamorata di sotto al naso, e che si contenta di piangere e lamentarsi come un fanciullo, e ciò nonostante ha gli occhi fulminanti come gli Spagnuoli, i Siciliani e i Calabresi, i quali sanno vendicarsi così bene: egli ha i pugni che infrangerebbero la testa ad un bove non diversamente dalla mazza del macellaio! Senza più dubbio il destino di Edmondo la vince; egli sposerà la giovinetta, sarà fatto capitano e si riderà di noi, ammenochè... Un sinistro sorriso, si spiegò sulle labbra di Danglars. Ammenochè io non vi prenda parte. — Olà! continuava a gridare Caderousse per metà alzato e coi pugni sulla tavola, olà! Edmondo, tu non vedi adunque gli amici, o sei diventato già tanto superbo da non poter parlar loro? — No, mio caro Caderousse, rispose Dantès, io non sono superbo, io sono felice, e la felicità accieca, cred’io, assai più della superbia. — Oh! ecco una bella spiegazione, disse Caderousse. Ehi! buon giorno, madama Dantès. Mercedès salutò con gravità. — Questo non è ancora il mio nome, diss’ella, e nel mio paese è di cattivo augurio chiamare le ragazze col nome del loro fidanzato prima che sien maritate. Vi prego adunque di chiamarmi Mercedès. — Bisogna perdonare al buon vicino, disse Dantès, egli si sbaglia di poco. — Dunque le nozze si faranno quanto prima, Dantès? disse Danglars salutando i due giovani. — Il più presto possibile, signor Danglars: oggi si parlerà del tutto con mio padre, e domani o dopo domani al più tardi il pranzo degli sponsali, qui alla _Réserve_; io spero che gli amici vi saranno, e ciò vuol dire che voi siete invitato, sig. Danglars, e che tu o Caderousse non mancherai. — Fernando, disse Caderousse ridendo, Fernando, sarà invitato anch’egli? — Il fratello della mia sposa è pure mio fratello, disse Edmondo, e sì Mercedès come io saremmo molto dispiacenti che si allontanasse da noi in questa occasione. Fernando aprì la bocca per rispondere, ma la voce gli si estinse in gola, e non potè articolar parola. — Oggi gli accordi, domani o dopo domani gli sponsali!... che diavolo! capitano, avete molta fretta. — Danglars, rispose Edmondo sorridendo, vi dirò ciò che Mercedès diceva or ora a Caderousse, non mi date un titolo che non mi appartiene, anche ciò mi sarebbe di cattivo augurio. — Scusate, rispose Danglars, io dunque diceva semplicemente che avete molta fretta. Che diavolo! Noi abbiamo tempo, il _Faraone_ non metterà alla vela che fra tre mesi. — Si ha sempre fretta di esser felici, poichè quando uno ha sofferto lungamente, si ha pena a credere alla felicità. Ma non è il solo egoismo che mi fa operare in tal modo; fa d’uopo che io vada a Parigi. — Ah davvero! a Parigi, è la prima volta che vi andate, Dantès? — Sì. — Vi avete affari? — Non per conto mio, un’ultima commissione del nostro capitano Leclerc da adempire; capirete, Danglars, che è cosa sacra. D’altra parte, state tranquillo io non prenderò che il tempo necessario per la gita e pel ritorno. — Sì, sì, capisco, disse ad alta voce Danglars, poi soggiunse abbassando la voce, fra sè: — A Parigi, senza dubbio, per rimettere al suo indirizzo la lettera che gli consegnò il capitano. Ah! perbacco! questa lettera mi fa nascere un’idea, un’eccellente idea, perbacco! ah! sig. Dantès, amico mio, tu non hai ancora dormito a bordo del _Faraone_ nella cella n. 1. Poi volgendosi a Edmondo che già si allontanava. — Buon viaggio, gli gridò dietro. — Grazie, rispose Edmondo voltando la testa, ed accompagnando questo movimento con un gesto amichevole. Dopo di che i due amanti continuarono la loro strada lieti e tranquilli come due eletti che salgono al cielo. IV. — Il COMPLOTTO. Danglars seguì Edmondo e Mercedès collo sguardo finchè i due amanti furono spariti da uno degli angoli del porto San Nicola; poi rivolgendosi, s’avvide che Fernando era ricaduto sulla sua panca pallido e fremente, nel mentre che Caderousse balbettava le parole di una canzone da osteria. — Ecco qua, disse Danglars a Fernando, un matrimonio, che sembra non formi la felicità di tutto il mondo. — Anzi, che fa la mia disperazione. — Voi dunque amate Mercedès? — Da che la conobbi l’amai; l’ho sempre amata! — E voi state là a strapparvi i capelli in luogo di cercare un rimedio alla cosa? che diavolo! io non credeva che fosse questo il modo in cui operano quei della vostra nazione. — Che volete che io faccia? domandò Fernando. — E che so io? è forse cosa che mi riguarda? non sono io l’innamorato di Mercedès, ma voi. — Io voleva pugnalar l’_uomo_, ma la donna mi ha detto che se avveniva disgrazia al suo fidanzato, ella si sarebbe uccisa. — Baie! queste son cose che si dicono sempre, e non si fanno mai. — Signore, voi non conoscete Mercedès; quando ella ha minacciato, esegue. — Imbecille! mormorò Danglars; che ella si uccida o no a me poco importa, purchè Dantès non diventi capitano. — E prima che Mercedès muora, soggiunse Fernando coll’accento di una ferma risoluzione, morirei io stesso. — Questo si chiama amore! disse Caderousse con una voce sempre più avvinata: o questo è vero amore, o io non lo so più conoscere. — Vediamo, disse Danglars, voi mi sembrate un gentil giovinotto, e io vorrei, che il diavolo mi porti! togliervi d’impaccio; ma... — Sì, sì, disse Caderousse, vediamo il modo. — Mio caro, soggiunse Danglars, tu sei per tre quarti ubbriaco, termina la bottiglia e lo sarai del tutto. Bevi e non mischiarti di ciò che noi facciamo, perchè a noi abbisogna di aver libera la testa. — Io ubbriaco? disse Caderousse, eh via, io delle tue bottiglie ne beverei altre quattro, se sono più grandi di una boccetta da acqua di Colonia!.. Papà Panfilo, vino!... E per aggiungere la prova alla proposizione, Caderousse battè col suo bicchiere la tavola. — Voi dunque dicevate?... riprese Fernando aspettando con impazienza il seguito della frase interrotta. — Che diceva io? non me ne sovvengo. Questo ubbriacone di Caderousse mi ha fatto perdere il filo delle idee. — Ubbriaco quanto tu vorrai. Tanto peggio per quelli che hanno paura del vino! ciò è perchè hanno qualche cattivo pensiero e temono che il vino glielo tolga dal cuore. E Caderousse si mise a cantare gli ultimi versi di una canzone molto in voga a quei tempi: _Bevon acqua soltanto i malvagi. — Il diluvio la prova ne fu._ — Voi dicevate, signore, riprendeva Fernando, che mi vorreste levar di pena; ma aggiungeste... — Sì, aggiungeva che per levarvi di pena, basta che Dantès non sposi quella che voi amate, ed il matrimonio può benissimo non effettuarsi anche senza che Dantès muora. — La morte sola può separarli, disse Fernando. — Voi ragionate come un ragazzo, amico mio, disse Caderousse, e siccome Danglars è un furbo, un maligno, un greco, vi mostrerà in qual modo voi avete torto. Provalo Danglars, io ho garantito per te; digli che non vi è bisogno che Dantès muora; d’altra parte mi dispiacerebbe ch’ei morisse, Dantès è un buon giovinotto; io l’amo... io ti amo, Dantès; alla tua salute, Dantès! Fernando si alzò con la massima impazienza. — Lasciatelo dire, riprese Danglars trattenendo il Catalano; e poi sebbene ubbriaco non dice un grande sproposito: l’assenza separa due individui tanto bene, quanto la morte: supponete per esempio che vi fosse fra Edmondo e Mercedès la muraglia di una prigione, essi non sarebbero divisi nè più nè meno che se vi fosse la lapide di una tomba. — Sì, ma di prigione si esce, disse Caderousse, che con gli ultimi avanzi della sua intelligenza si andava frammischiando alla conversazione, e quando si esce di prigione, e si porta il nome di Edmondo Dantès, uno si vendica. — Che importa! mormorò Fernando. — E poi, riprese Caderousse, perchè si metterebbe in prigione Dantès, egli non ha nè rubato, nè ammazzato, nè assassinato. — Taci una volta! disse Danglars. — Sì non voglio tacere, disse Caderousse, io pretendo che mi si dica perchè si vuol far mettere in prigione Dantès; io amo Dantès; alla tua salute, Dantès. E vuotò di un fiato un altro bicchier di vino. Danglars seguì con lo sguardo i progressi dell’ubbriachezza del suo compagno, e volgendosi a Fernando: — Ebbene! comprendete voi che non vi è bisogno di ucciderlo? — No certo, se come voi dicevate poco fa si potesse ritrovare il modo di farlo catturare. E questo modo lo sapreste voi? — Cercando bene, disse Danglars, si potrebbe ritrovarlo... ma di che diavolo vado io ad immischiarmi? è forse cosa che mi riguarda? — Io non so se ciò vi riguardi, disse Fernando afferrandogli un braccio; ma ciò che so io, si è che voi avete qualche motivo particolare di odio contro Dantès: colui che odia sè stesso, non s’inganna sui sentimenti altrui. — Io! dei motivi di odio con Dantès? nessuno, sulla mia parola! Io vi ho veduto infelice e la vostra infelicità mi ha commosso, perciò ho preso interessamento per voi, ecco tutto. Ma dal momento, che voi credete che io operi per conto mio, addio amico caro; levatevi d’impaccio come potete. E Danglars fece le viste a sua volta d’alzarsi. — No, disse Fernando trattenendolo, restate, in fin dei conti poco mi importa che odiate o no Dantès: io l’odio e lo confesso altamente, trovate il mezzo ed io l’eseguo, purchè non vi sia la morte dell’uomo, mentre Mercedès si ucciderebbe se venisse ucciso Dantès. Caderousse che aveva lasciata cadere la testa sulla tavola rialzò la fronte, e guardando Fernando e Danglars, con occhi appesantiti e stupidi. — Uccidere Dantès... diss’egli. Chi parla qui di uccidere Dantès? io non voglio che sia ucciso, io!... egli è mio amico... egli mi ha offerto questa mattina di divider meco il suo danaro, come io ho diviso il mio con lui... io non voglio che si uccida Dantès! — E chi ti parla di ucciderlo, imbecille? riprese Danglars, si tratta di un semplice scherzo. Bevi alla sua salute, soggiunse riempiendogli il bicchiere, e lasciaci tranquilli. — Sì, sì, alla salute di Dantès, disse Caderousse votando il suo bicchiere, alla sua salute... a... lla.... — Ma il mezzo?... il mezzo? disse con impazienza Fernando. Non lo avete ancora ritrovato? — No; voi ne avete assunto l’incarico. — È vero, riprese Danglars, i Francesi hanno questa superiorità sopra gli Spagnuoli, gli Spagnuoli ruminano, ed i Francesi inventano. — Inventate dunque, inventate, disse Fernando con impazienza. — Cameriere! disse Danglars, carta, penna e calamaio. — Carta, penna e calamaio? mormorò Fernando. — Sì, io sono scrivano computista, la penna, l’inchiostro e la carta sono i miei istrumenti, e senza di questi non saprei fare cosa alcuna. — Carta, penna e calamaio, gridò ad alta voce Fernando. — Ecco tutto, disse il cameriere portando gli oggetti richiesti. — Quando si pensa, disse Caderousse lasciando cadere la sua mano sulla carta, che qui vi è il modo di ammazzare un uomo più al sicuro di quello che se si attendesse all’angolo di un bosco per assassinarlo! Io ho sempre avuto più paura di una bottiglia d’inchiostro, di una penna e di un calamaio, che di una spada o di una pistola. — Il buffone non è ancora ubbriaco quanto sembra, disse Danglars. Versategli dunque da bere, o Fernando. Fernando riempiè il bicchiere di Caderousse, e questi da quel bravo bevitore che era, levò la mano dalla carta e la portò al bicchiere. Il Catalano seguì i movimenti fino a che Caderousse, quasi sopraffatto da questo nuovo assalto, rimise, o meglio lasciò cadere il suo bicchiere sul desco. — Ebbene!... riprese il Catalano vedendo che il rimanente della ragione che restava a Caderousse cominciava a sparire a quest’ultimo bicchier di vino. — Ebbene! io diceva adunque, per esempio, riprese Danglars, che se dopo un viaggio come quello che ha fatto Dantès, e nel quale ha toccato Napoli e l’isola d’Elba, qualcuno lo denunciasse al procuratore del re, come messo bonapartista... — Lo denunzierò io, disse con vivacità il giovine. — Sì, ma allora vi si fa sottoscrivere la vostra dichiarazione, e sarete confrontato con quello che avete denunziato. Io vi somministro di che sostenere la vostra accusa, lo so bene; ma Dantès non può restare eternamente in prigione; un giorno o l’altro ne uscirà, e il giorno in cui egli esce sarà terribile per quello che ve lo ha fatto entrare. — Oh! io non desidero che una cosa, disse Fernando, ed è ch’egli venga a muovermi contesa. — Sì, e Mercedès? Mercedès che vi prenderà in odio se voi avrete soltanto la disgrazia di scalfire l’epidermide al suo diletto Edmondo! — È giusto, disse Fernando. — No, no, riprese Danglars, se si risolve una cosa di simil genere, vedete bene, val meglio prendere bonariamente così, come faccio io, questa penna, bagnarla nell’inchiostro e scrivere colla mano sinistra, affinchè il carattere non sia conosciuto, la piccola seguente denunzia. E Danglars, unendo l’esempio all’insegnamento, scrisse colla mano sinistra e con un carattere rovesciato, che non aveva alcuna analogia col suo carattere ordinario, le righe seguenti che passò a Fernando, e che questi lesse a mezza voce. «Il procuratore del re è avvisato, da un amico del trono e della religione, che il nominato Edmondo Dantès, secondo nel bastimento il _Faraone_, giunto questa mattina da Smyrne, dopo aver toccato Napoli e Portoferraio, è stato incaricato da Murat di una lettera per l’Usurpatore, e dall’Usurpatore di una lettera pel Comitato Bonapartista di Parigi. Si avrà la pruova del suo delitto arrestandolo, poichè si troverà questa lettera, o nelle sue tasche, o presso suo padre, o nel suo gabinetto a bordo del _Faraone_». — Alla buon’ora, continuò Danglars; in tal modo la vostra vendetta avrebbe senso comune, e siete sicuro ch’essa non ricadrebbe su voi, e la cosa andrebbe da sè sola; e perciò non resta più che a piegare la lettera, come faccio io, e di scrivere sopra: _Al procuratore del re_: e tutto sarebbe fatto. E Danglars fece la soprascritta come se avesse scherzato. — Sì, tutto sarebbe fatto, gridò Caderousse, che con un ultimo sforzo d’intelligenza aveva seguito la lettura e che comprendeva per istinto tutto il male che avrebbe potuto apportare una simile denunzia; sì tutto sarebbe fatto, soltanto questa sarebbe un’infamia. Ed allungò il braccio per prendere la lettera. — Per tal modo, disse Danglars allontanando la lettera, tutto ciò che ho detto e fatto, non è che uno scherzo; ed io sarei il primo ad essere afflitto se accadesse qualche disgrazia a Dantès. A questo buon Dantès! così, guarda... Prese la lettera, la maltrattò fra le mani, e la gettò in un angolo del pergolato. — Alla buon’ora disse Caderousse, Dantès è mio amico, e non voglio che gli si faccia del male. — E chi diavolo pensa a fargli del male? Certamente nè io nè Fernando, disse Danglars alzandosi, e squadrando il giovinotto che era rimasto seduto e che non perdeva d’occhio il foglio denunciatore gettato nell’angolo. — In questo caso, riprese Caderousse, che ci portino del vino, voglio bere alla salute di Edmondo e della bella Mercedès. — Tu hai anche troppo bevuto, ubbriacone, disse Danglars, e se continui sarai obbligato di dormir qui, che non potrai più tenerti in piedi. — Io! disse Caderousse levandosi colla fatuità dell’uomo ubbriaco, non potrò tenermi in piedi? scommetto di salir sul campanile degli _Accoules_ ed anche senza contrappeso! — Sia! disse Danglars, scommetto ma per domani, oggi è ora di ritornare a casa; dammi il braccio e andiamo. — Andiamo, disse Caderousse, ma non ho bisogno del tuo braccio. Vieni anche tu Fernando, rientri con noi a Marsiglia? — No, disse Fernando, io ritorno ai Catalani. — Tu fai male, vieni con noi a Marsiglia, vieni. — Non ho che fare a Marsiglia e non voglio andarci. — Come hai tu detto ciò? nol vuoi? ebbene a tuo bell’agio, libertà per tutti; vieni Danglars, lasciamo rientrare il giovinotto ai Catalani, poichè vuole così. Danglars profittò del momento di buona volontà di Caderousse per trascinarlo alla volta di Marsiglia; e per lasciare la strada più corta e più facile a Fernando, invece di ritornare per la riviera della _Rive-Neuve_, ritornò per la porta _S. Victor_. Caderousse lo seguì barcollando, stretto al suo braccio. Quando fu ad una ventina di passi, Danglars si voltò, e vide Fernando precipitarsi sul foglio che mise tosto in tasca, poi subito balzò fuori del pergolato e voltò dalla parte del _Pillon_. — Ebbene, che fa dunque? disse Caderousse, egli ha mentito: ci ha detto che andava ai Catalani ed ha voltato dalla parte della città. Olà! Fernando, tu ti sbagli, mio giovinotto. — Sei tu che vedi male, disse Danglars, egli segue direttamente la strada della _Vieilles-Infirmeries_. — In verità? disse Caderousse. Eppure avrei giurato che ha voltato a destra!... il vino è un traditore. — Andiamo, andiamo, mormorò Danglars: credo che l’affare sia ora bene incamminato e che altro non vi resta che lasciarlo progredire da sè. V. — IL PRANZO DEGLI SPONSALI. Il dì seguente fu un bel giorno. Il sole si alzò puro e rilucente, e i suoi primi raggi di un rosso purpureo screziavano di un bel color rubino le spumose cime delle onde. Il pranzo era stato preparato al primo piano di quella stessa _Réserve_ col pergolato della quale abbiam di già fatto conoscenza. Era una gran sala illuminata da cinque o sei finestre al di sopra di ciascuna delle quali, (non si sa perchè) stava scritto il nome di una delle grandi città della Francia; una balaustrata di legno passava avanti e univa queste finestre. Quantunque il pranzo non fosse fissato che pel mezzogiorno, fin dall’undici del mattino questa balaustrata era sopraccaricata di persone che vi passeggiavano con impazienza. Erano i marinai privilegiati del _Faraone_ e qualche soldato amico di Dantès. Tutti per fare onore al fidanzato erano vestiti dei loro migliori abiti. Correva voce fra i convitati che gli armatori del _Faraone_ avrebbero onorato di lor presenza gli sponsali del loro secondo. Ma questo, a loro pensare, era un onore sì grande accordato a Dantès che nessuno osava crederci. Ciò non ostante Danglars che giungeva in compagnia di Caderousse, confermò a sua volta la notizia. La mattina aveva veduto lo stesso sig. Morrel, e questi lo aveva assicurato che sarebbe venuto a pranzo alla _Rèserve_. Difatti pochi momenti dopo, il sig. Morrel fece il suo ingresso nella sala e fu salutato dai marinai del _Faraone_ con un _hourrah_ di unanimi applausi. La presenza dell’armatore era per essi una conferma della voce che già correva, che Dantès sarebbe nominato capitano; e siccome Dantès era molto amato dalla ciurma, così questa brava gente ringraziava in tal modo l’armatore, che, per caso, l’elezione del capo era una volta in armonia coi desideri dei subordinati. Appena entrato il signor Morrel, unanimamente furono incaricati Danglars e Caderousse di andare incontro ai fidanzati, prevenirli dell’arrivo del personaggio importante, la cui venuta aveva prodotto sì forte impressione, e dir loro che si sollecitassero. Danglars e Caderousse partirono a tutta corsa; ma non ebbero fatto cento passi che all’altezza del magazzino a polvere scorsero la piccola compagnia che veniva alla loro volta: essa componevasi di quattro giovinette amiche di Mercedès, catalane come essa, che accompagnavano la fidanzata cui Edmondo dava braccio. Vicino alla futura sposa camminava il vecchio Dantès, e dietro loro veniva con sinistro sogghigno Fernando; i poveri giovinotti erano così felici, che non vedevano che sè soli ed il bel cielo che li benediva. Danglars e Caderousse disimpegnarono la loro missione di ambasciatori: quindi dopo avere cambiata con Edmondo una stretta di mano ben vigorosa ed amichevole, Danglars prese posto vicino a Fernando, Caderousse si mise in fila accanto del padre di Dantès, centro dell’attenzione generale. Il vecchio era vestito del suo bell’abito di taffettà mischio, guernito di larghi bottoni di acciaio tagliati a faccette. Le sue gambe sottili, ma nerborute, erano ricoperte da un magnifico paio di calze di cotone frastagliato, puzzanti un poco di contrabbando inglese. Dal suo cappello a tre pizzi pendeva una fettuccia bianca e turchina: finalmente egli si appoggiava sur un bastone di legno tornito e ricurvo in alto come il _pedum_ degli antichi. Si sarebbe detto uno di quei zerbinotti che facevano nel 1796 la loro parata, nei giardini nuovamente riaperti del Lussemburgo, e delle Tuglierie. Vicino a lui, come si è detto, si era introdotto Caderousse che la speranza di un buon pranzo aveva riconciliato con Dantès, Caderousse al quale restava nella mente una vaga memoria di ciò che era accaduto nel giorno innanzi, come quando allo svegliarsi il mattino si trova nel proprio spirito l’ombra del sonno che si è fatto la notte. Danglars nell’avvicinarsi a Fernando aveva gettato sull’amante spregiato uno sguardo profondo. Fernando camminava dietro ai fidanzati, completamente dimenticato da Mercedès la quale con quell’egoismo giovanile e caro dell’amore, non aveva occhi per altri che per Edmondo; Fernando era pallido, poi rosso a tratti istantanei, che scomparivano per dar posto ciascuna volta ad un pallore sempre più crescente. A quando a quando volgeva uno sguardo verso Marsiglia, ed allora un tremito nervoso ed involontario gli scorreva per tutte le membra. Fernando sembrava attendere o per lo meno prevedere un qualche grande avvenimento. Dantès era vestito con semplicità, appartenendo alla marina mercantile, aveva un abito che teneva il mezzo fra l’uniforme militare ed il costume borghese, e sotto questo abito il suo portamento che veniva riscaldato ancora dalla gioia e dalla bellezza della sua fidanzata era superbo. Mercedès era bella come una di quelle greche di Cipro o di Cèos dagli occhi d’ebano e dalle labbra di corallo. Essa camminava col passo franco e libero delle Andaluse. Una cittadina avrebbe forse cercato di nascondere la sua gioia sotto un velo o almeno sotto il velluto delle sue palpebre; ma Mercedès sorrideva e guardava tutto ciò che la circondava, e il suo sorriso ed il suo sguardo dicevano francamente quanto avrebbero potuto dire le sue parole: «Se voi siete amici rallegratevi meco, poichè in verità io sono molto felice». Dal momento che i fidanzati e coloro che gli accompagnavano furono alle viste della _Rèserve_, Morrel discese, e s’avanzò anch’egli verso di loro, seguito dai marinari e dai soldati coi quali era rimasto ed a cui aveva rinnovato la promessa, già fatta a Dantès, ch’egli sarebbe succeduto al Capitano Leclerc. Edmondo vedendolo venire lasciò il braccio della sua fidanzata e lo passò sotto a quello di Morrel. L’armatore e la giovinetta dettero allora l’esempio e salirono pei primi la scala di legno che metteva alla camera ove era preparato il pranzo, che cigolò per cinque minuti sotto i pesanti passi dei convitati. — Padre mio, disse Mercedès, fermandosi alla metà della tavola, voi starete alla mia destra, alla sinistra vi porrò quello che fin qui mi ha fatto da fratello, e lo disse con dolcezza tale, che penetrò nel più profondo del cuore di Fernando a guisa di un colpo di pugnale. Le sue labbra s’incresparono e sotto la tinta livida del suo viso maschile, si potè ancora vedere una volta il sangue ritirarsi a poco a poco, per affluire al cuore. Durante questo tempo Dantès aveva eseguita la stessa manovra; alla sua destra avea posto Morrel, alla sua sinistra Danglars; quindi aveva fatto segno colla mano che ciascuno prendesse posto a suo piacere. Di già circolavano intorno alla tavola i salami di Arles colle carni brune e affumicate, le raguste ricoperte della loro rosea corazza, i ricci di mare che sembravano castagne circondate dalla loro scorza spinosa, le cappe, che hanno l’orgoglio di rimpiazzare con superiorità, presso i ghiottoni del mezzo giorno, le ostriche del nord; finalmente tutti quei crostacei, che i flutti gettano sulla riva sabbiosa e che i pescatori riconoscenti designano col nome generico di frutti di mare. — Bel silenzio! disse il vecchio assaggiando un bicchiere di vino giallo come il topazio, che il papà Panfilo in persona aveva portato avanti a Mercedès; si direbbe che qui vi sono trenta persone che non desiderano altro che di ridere? — Eh! un marito non è sempre allegro, disse Caderousse. — Il fatto si è, disse Dantès, che io sono troppo felice in questo momento. Se egli è così che voi lo intendete, o vicino, voi avete ragione: la gioia qualche volta fa un effetto strano; essa opprime come il dolore. Danglars osservò Fernando la cui natura sensitiva riceveva ed espandeva ciascuna emozione. — Andiamo adunque, diss’egli, avreste forse paura di qualche cosa? mi sembra al contrario che vada tutto a seconda dei vostri desideri. — Ed è precisamente questo che mi spaventa, disse Dantès; mi sembra che l’uomo non sia fatto per essere così facilmente felice. La felicità è come quei palazzi dell’isole incantate, le porte dei quali sono guardate dai Draghi; bisogna combattere per acquistarli, ed io per dir la verità non so con qual merito mi abbia la felicità di essere marito a Mercedès. — Il marito! il marito! disse Caderousse ridendo, non ancora caro capitano; provati un poco di fare da marito e tu vedrai come sarai ricevuto. Mercedès arrossì. Fernando si agitava sulla sua sedia, rabbrividiva al più piccolo rumore e di tempo in tempo asciugava delle grosse gocce di sudore che gli colavano dalla fronte come le prime gocce della pioggia di un oragano. — In fede mia, disse Dantès, vicino Caderousse, non val la pena di darmi una mentita per così poco. Mercedès non è ancora mia moglie, è vero, cavando l’orologio, ma fra un’ora e mezzo ella lo sarà. Ciascuno fece un grido di sorpresa eccetto il padre di Dantès, il cui largo riso mostrava dei denti sempre belli. Mercedès sorrise e non arrossì più. Fernando afferrò convulsamente il manico del coltello. — Fra un’ora disse Danglars, impallidendo anch’egli, e come ciò? — Sì, amici miei, rispose Dantès, grazie al credito del Sig. Morrel, l’uomo al quale dopo mio padre io debbo il più a questo mondo, tutte le difficoltà furono appianate; noi abbiamo pagate le pubblicazioni; e a due ore e mezzo il _Maire_ di Marsiglia ci aspetta al palazzo di città. Ora essendo un’ora e un quarto, credo di non essermi sbagliato di molto dicendo che tra un’ora e trenta minuti Mercedès si chiamerà Madama Dantès. Fernando chiuse gli occhi; una nube di fuoco gli bruciò le palpebre, si appoggiò alla tavola per non cadere in deliquio, e ad onta di tutti gli sforzi non potè ritenere un sordo gemito che si perdè fra il rumore delle risa e delle felicitazioni dell’assemblea. — È un bel fare eh! disse il padre di Dantès, vi sembra che questo si chiami perder tempo? arrivato ieri mattina, maritato oggi a tre ore; parlatemi di marinari per andar dritti alla meta. — Ma le altre formalità? osservò timidamente Danglars, il contratto, la scritta? — Il contratto! disse Dantès ridendo, il contratto è fatto; Mercedès non ha niente ed io del pari, noi ci maritiamo sotto il regime della comunione, e ciò non è lungo a scrivere e non sarà costoso a pagare. Questa facezia eccitò una nuova esplosione di gioia e di evviva. — Per tal modo quel che noi crediamo un pranzo di sponsali, disse Danglars, è un pranzo di nozze? — No, disse Dantès, state tranquilli; non vi perderete niente. Domani mattina parto per Parigi; cinque giorni per andare, cinque per tornare, un giorno per eseguire coscienziosamente la commissione di cui sono incaricato, e il 12 marzo sono di ritorno. Pel 12 marzo adunque vi aspetto al vero pranzo di nozze! La prospettiva di un nuovo festino, raddoppiò l’ilarità al punto che Dantès padre, che al principio del pranzo si lamentava del silenzio, faceva ora in mezzo della conversazione generale vani sforzi per fare sentire il suo voto di prosperità in favore dei promessi sposi. Dantès indovinò i pensieri del padre e vi rispose con un sorriso pieno di amore. Mercedès cominciò a guardare l’ora sul pendolo della sala e fece un piccolo segno ad Edmondo. Regnava intorno alla tavola quella gioia fragorosa, quella libertà individuale, propria della fine dei pranzi della bassa classe. Quegli che erano malcontenti del loro posto si erano alzati di tavola, ed erano andati a cercare altri vicini. Tutti cominciavano a parlare in una volta e nessuno si occupava di rispondere a ciò che il suo interlocutore gli diceva, ma soltanto alle proprie idee. Il pallore di Fernando era quasi passato sulle guance di Danglars; Fernando stesso più non viveva; sembrava un dannato in un lago di fuoco; si era alzato dei primi e passeggiava in lungo e in largo nella sala, cercando d’isolare il suo orecchio dal rumore delle canzoni e dal toccarsi dei bicchieri. Caderousse si avvicinò a lui nel momento in cui Danglars, che egli sembrava fuggire, lo raggiungeva in un angolo della sala. — In verità, disse Caderousse, a cui le buone maniere di Dantès, e più ancora il vino di papà Panfilo, avevan tolto i resti di quell’odio di cui l’inattesa fortuna di Dantès aveva gettato i germi nel suo animo; in verità Dantès è un gentil giovinotto, e quando lo vedo seduto presso la sua fidanzata, dico a me stesso che sarebbe stato veramente male di fargli quella cattiva burla che gli tramavate ieri. — Tu hai veduto, disse Danglars, che la cosa non ha avuto alcuna conseguenza; questo povero Fernando era così sconvolto che mi aveva sulle prime fatto pena; ma dal momento che egli ha preso la sua risoluzione al punto di farsi il primo testimonio delle nozze del suo rivale, non v’è più nulla a dire. — Caderousse guardò Fernando, egli era livido. — Il sacrificio è tanto più grande, continuava Danglars, in quanto che la giovinetta è molto bella. Che furbo felice è il mio futuro Capitano! vorrei chiamarmi Dantès, per dodici ore soltanto. — Partiamo? domandò la dolce voce di Mercedès; suonano le due, e siamo aspettati a due ore e un quarto. — Sì, sì, partiamo, disse vivamente Dantès. — Partiamo, ripeterono in coro, tutti i convitati. Nel medesimo istante Danglars che non perdeva di vista Fernando assiso sul parapetto della finestra, lo vide aprire due occhi spaventati, alzarsi come per un movimento convulsivo e ricadere assiso al suo posto. Quasi nel medesimo momento un sordo rumore ritronò nelle scale, un fragor di passi ed un mormorio di voci, confuso all’urtarsi di armi, coprì le esclamazioni dei convitati per fragorose che fossero, ed attirò l’attenzione generale, che si manifestò ad un tratto con un silenzio. Il rumore si avvicinò, tre colpi percossero la porta; ciascuno guardò il suo vicino con sorpresa. — In nome della legge! gridò una voce, cui nessuno rispose. Tosto la porta si aprì, ed un commissario, cinto della sua sciarpa, entrò nella sala seguito da quattro soldati armati, condotti da un caporale. L’inquietudine diede luogo al terrore. — Che c’è? domandò l’armatore facendosi avanti al commissario cui conosceva; qui v’è sbaglio certamente? — Se vi è sbaglio, sig. Morrel, rispose il commissario, state sicuro che sarà tosto riparato. Frattanto io sono portatore di un mandato di arresto, e quantunque, esegua la mia commissione con dispiacere, pur non ostante m’è forza l’eseguirla. Chi di voi, è Edmondo Dantès? — Tutti gli sguardi si diressero verso il giovinotto, che, commosso ma conservando la sua dignità, fece un passo in avanti e disse: — Son io signore. — Edmondo Dantès, riprese il commissario, in nome della legge, io vi arresto. — Voi mi arrestate! disse Edmondo con un leggiero pallore; e perchè? — L’ignoro, ma voi lo conoscerete certamente nel vostro primo interrogatorio. Morrel capì che non vi era nulla a farsi contro la riflessione; un commissario cinto di sciarpa non è più un uomo, egli è la statua della legge fredda, sorda, muta. Il vecchio al contrario si precipitò verso l’uffiziale; vi sono cose che il cuore di un padre o di una madre non capiranno mai. Egli pregò e supplicò, lagrime e preghiere non ebbero alcun potere: e frattanto la sua disperazione era sì grande che il commissario ne fu commosso. — Signore, diss’egli, calmatevi, forse vostro figlio avrà trascurato qualche formalità di dogana o di sanità, e secondo tutte le probabilità, allorchè si saranno ricevuti da lui gli schiarimenti che si desiderano, sarà messo in libertà. — Che significa tutto ciò? domandò Caderousse aggrottando le sopracciglia, a Danglars che fingeva sorpresa. — Lo so io forse? disse Danglars; io sono come te, guardo ciò che accade, mi confondo, e non ci capisco niente: Caderousse cercò con gli occhi Fernando, egli era disparso. Tutta la scena del giorno avanti si presentò allora a Caderousse con una spaventevole chiarezza. Si sarebbe detto che la catastrofe alzava il velo che l’ubriachezza del giorno innanzi aveva posto fra lui e la sua memoria. — Oh! oh! diss’egli con voce rauca, sarebbe questa la conseguenza dello scherzo di cui parlavate ieri, Danglars? In questo caso guai a chi l’avesse fatto, perchè è ben triste! — Niente affatto, rispose Danglars, tu sai bene che al contrario io ho lacerato il foglio. — Tu non l’hai lacerato, gridò Caderousse, l’hai maltrattato e gettato in un angolo, ecco tutto. — Taci, tu non hai veduto nulla, eri ubbriaco. — Ov’è Fernando? domandò Caderousse. — E che so io! rispose Danglars, sarà pei fatti suoi probabilmente. Ma invece di occuparci di ciò, andiamo piuttosto a portare qualche consolazione a questi poveri afflitti. Infatti, durante questa conversazione Dantès, aveva stretta la mano sorridendo ai suoi amici, e si era costituito prigioniero dicendo: — Siate tranquilli, ben presto si spiegherà l’errore, e probabilmente non andrò neppur fino alla prigione. — Oh! sì certamente, io ne risponderei, disse Danglars che in questo momento si avvicinava, come abbiam detto, al gruppo principale. Dantès discese la scala preceduto dal commissario di polizia, e circondato dai soldati. Una carrozza il cui sportello era aperto aspettava alla porta: egli vi salì, due soldati ed il commissario di polizia salirono dopo di lui. Lo sportello si chiuse, e la carrozza riprese la strada di Marsiglia. — Addio Dantès! addio Edmondo, gridava Mercedès spingendosi fuori della ringhiera. Il prigioniero intese quest’ultimo grido uscito come un singhiozzo dal cuore lacerato della fidanzata, cacciò la testa dalla portiera gridando: a rivederci Mercedès! e disparve dietro uno degli angoli del forte S. Nicola. — Aspettatemi qui, disse l’armatore; prendo la prima carrozza che incontro, corro a Marsiglia, e vi riporterò sue notizie. — Andate, gridarono tutte le voci: andate e tornate presto. Dopo questa duplice partenza vi fu un momento di stupore terribile, che invase tutti coloro che erano rimasti, il vecchio e Mercedès restarono qualche tempo appartati, ciascuno nel proprio dolore. Ma finalmente i loro occhi s’incontrarono, essi si riconobbero come due vittime d’uno stesso colpo, e di un subito si gettarono nelle braccia l’uno dell’altra. In questo mentre Fernando rientrò, versò un bicchier d’acqua che bevve e andò ad assidersi ad una sedia. Il caso volle che Mercedès uscendo dalle braccia del vecchio venisse a cadere in una sedia vicina. Fernando rabbrividì e con un movimento affatto istintivo dette addietro con la sua. — È lui, disse Caderousse a Danglars che non aveva perduto di vista un momento il Catalano. — Nol credo, rispose Danglars, egli è troppo stupido. In ogni caso, il colpo ricada sulla testa di chi lo vibrò! — Tu non parli di colui che lo ha consigliato, disse Caderousse. — Affè, disse Danglars, se si dovesse mallevar tutto quello che si manda in aria. — Sì, allorchè ciò che si manda in aria, ricade per la punta. Durante questo tempo gli altri convitati riunitisi in gruppi commentavano l’arresto ciascuno secondo la sua opinione. — E voi Danglars, disse una voce, che pensate di questo accaduto? — Io disse Danglars, credo che abbia portato qualche balla di merce proibita. — In questo caso, voi avreste dovuto saperlo; siete lo scrivano. — Sì è vero, ma lo scrivano non conosce che le balle che gli vengono dichiarate. Io so che noi abbiamo un carico di cotone, ed ecco tutto; che abbiamo preso il carico in Alessandria dal sig. Pastret, e a Smyrne dal sig. Paschal; non mi domandate altro. — Oh! mi ricordo or bene, mormorò il povero padre, egli mi ha detto ieri che aveva per me una cassa di caffè ed una di tabacco. — Vedete dunque! disse Danglars è questo; nella nostra assenza la dogana avrà fatta una visita a bordo del _Faraone_, e vi avrà scoperto il contrabbando. — Mercedès non credeva niente di tutto ciò: per il che compresso il dolore fino a quel momento, scoppiò di repente in singulti. — Coraggio, coraggio, speriamo! disse il padre di Dantès senza troppo sapere ciò che si diceva. — Speriamo! ripetè Danglars. — Speriamo, tentò di mormorare Fernando: ma questa parola lo soffocava, le sue labbra si agitarono, e non ne uscì alcun suono. — Amici, gridò uno dei convitati che era rimasto in vedetta sulla ringhiera, amici, una carrozza... Ah! è il signor Morrel! coraggio! senza dubbio egli ci porta qualche buona notizia. Mercedès ed il vecchio padre corsero verso l’armatore, che incontrarono sulla porta: il sig. Morrel era pallidissimo. — Ebbene!... gridarono tutti ad una voce... — Ebbene, amici miei, rispose l’armatore scuotendo la testa, l’affare è più grave di quello che noi non possiamo pensare. — Oh! Signore, gridò Mercedès, egli è innocente. — Lo credo, rispose Morrel; ma è accusato. — Di che dunque? Domandò il vecchio Dantès. — Di essere un messo bonapartista. Quegli dei miei lettori che han vivuto ai tempi di cui tratta questa storia si ricorderanno qual terribile accusa era allora quella che fu indicata da Morrel. Mercedès gettò un grido; il vecchio si lasciò cadere sulla sedia. — Ah! mormorò Caderousse, voi mi avete ingannato, Danglars, quello che voi chiamate scherzo, fu fatto. Ma io non voglio lasciar morire di dolore questo vecchio e questa giovinetta, vado a spiegar loro ogni cosa. — Taci, disgraziato! gridò Danglars afferrando la mano di Caderousse, o io non rispondo della tua vita. Chi ti dice che Dantès non sia veramente colpevole? il bastimento si è fermato all’isola d’Elba, egli è disceso; è rimasto un giorno intero a Porto Ferrajo. Se si è ritrovata qualche lettera che lo metta in rischio, verrebbero dichiarati suoi complici coloro che volessero proteggerlo. Caderousse aveva l’istinto rapido dell’egoismo, e capì tutta la solidità di questo ragionamento. Egli guardò Danglars con occhi fatti ebeti dal timore e dal dolore e per un passo che aveva fatto in avanti, ne fece due in dietro; ed: — Aspettiamo allora, mormorò — Aspettiamo, disse Danglars: se è innocente sarà messo in libertà, se è reo è inutile mettersi a rischio, per un cospiratore. — Allora partiamo, io non posso più lungamente restar qui. — Sì, vieni, disse Danglars, contento di trovare un compagno nella ritirata: vieni, e lasciamoli tirarsi d’impaccio come potranno. — Essi partirono. Fernando divenuto il sostegno della giovinetta, prese Mercedès per mano, e la ricondusse ai Catalani. Dalla loro parte gli amici di Dantès ricondussero il vecchio quasi svenuto ai viali di _Meillan_. Ben presto il rumore che Dantès era stato arrestato come un messo bonapartista, si sparse per tutta la città. — Avreste voi creduto ciò, caro Danglars? disse Morrel raggiungendo il suo computista e Caderousse; poichè egli stesso rientrava con tutta fretta in città per avere qualche notizia diretta di Edmondo dal sostituto del procuratore del Re, il sig. Villefort, che conosceva un poco. Avreste mai creduto ciò? — Diamine, signore, rispose Danglars, io vi aveva detto che Dantès non si sarebbe fermato senza un motivo all’isola d’Elba, e tal sosta, voi lo sapete, mi era paruta sospetta. — Ma avete voi fatto parte ad alcuno, fuori che a me di questo vostro sospetto? — Me ne sarei ben guardato, soggiunse a bassa voce Danglars; sapete bene che a cagione di vostro zio il signor Policar Morrel, che ha servito sotto _l’altro_ e che non nasconde il suo pensiero, voi siete sospetti di amare Napoleone, e avrei avuto paura di far torto ad Edmondo non meno che a voi. Vi sono delle cose, che è un dovere del subordinato di dire al suo armatore, e di tenere severamente celate agli altri. — Bene! Danglars, bene! disse Morrel, voi siete un bravo uomo, così io aveva pensato a voi nel caso in cui questo povero Dantès fosse divenuto capitano del _Faraone_. — Come signore? — Sì, io aveva già domandato a Dantès ciò che pensava di voi; e se egli avesse avuto repugnanza a conservarvi il vostro posto; mentre non so perchè mi era sembrato scorgere qualche ripugnanza fra voi due. — E che vi ha egli risposto? — Che credeva infatto avere avuto, in una congiuntura che non mi ha detto, qualche torto con voi, ma che chiunque avesse avuta la confidenza dell’armatore, avrebbe pur anche avuta la sua. — L’ipocrita, mormorò Danglars. — Povero ragazzo, disse Caderousse; è un fatto che egli era un eccellente giovinotto. — Sì, ma frattanto, disse Morrel, ecco il _Faraone_ senza capitano. — Oh! bisogna sperare, poichè noi non possiamo ripartire che fra tre mesi, che di qui allora Dantès sia messo in libertà. — Senza dubbio; ma fino allora! — Ebbene fino allora eccomi qua, sig. Morrel, disse Danglars. Sapete che io conosco il modo di menare un bastimento quanto un capitano venuto da un lungo viaggio. Ciò vi offre nello stesso tempo un vantaggio di servirvi di me; mentre allora quando Edmondo uscirà di prigione voi non avrete a licenziare alcuno, egli riprenderà il suo posto, ed io il mio. — Grazie, Danglars, disse l’armatore: ecco infatto il modo di conciliar tutto. Prendete dunque il comando, io ve ne do facoltà e vigilate lo sbarco; non bisogna mai che per la disgrazia di un individuo ne soffrano le faccende. — Siate tranquillo, o signore... si potrà poi almeno vederlo il buon Edmondo? — Vi risponderò in breve. Vado a cercare di parlare col sig. de Villefort ed intercederne il favore a pro del prigioniere. Io so bene che egli è di parte regia, ma che diavolo, quantunque regio e Procuratore del Re, è ciò non pertanto un uomo e io non lo credo cattivo. — No, disse Danglars, ma ho inteso dire che è ambizioso; e malvagio ed ambizioso si assomigliano molto. — Infine poi, disse Morrel con un sospiro, staremo a vedere; andate a bordo, vi raggiungo in breve; ed abbandonò i due amici per prendere la strada del palazzo di Giustizia. — Vedi, disse Danglars a Caderousse, il giro che prende la cosa: hai ancora l’intenzione di andare a difendere Dantès? — No certamente; ciò nonostante è assai terribile che uno scherzo abbia conseguenze sì triste. — Diamine! e chi lo ha fatto? non siamo stati nè tu nè io, non è vero? fu Fernando. Tu sai bene che in quanto a me ho gettato il foglio in un canto: ed anzi credevo di averlo lacerato. — No, no, disse Caderousse! in quanto a ciò ne sono sicuro, io lo vedo ancora là nell’angolo del pergolato tutto maltrattato, tutto avvolto, e vorrei anzi che fosse ancora là ove mi sembra di vederlo. — E che vuoi farci? Fernando lo avrà raccolto, Fernando lo avrà copiato o fatto copiare, o forse non avrà avuto neppur questo fastidio. Or che ci penso, mio Dio! egli avrà forse mandata la mia propria lettera. Fortunatamente che io aveva cambiato il mio carattere. — Ma tu sapevi dunque che Dantès cospirava? — Io non sapevo niente affatto. Come ti dissi, ho creduto di fare uno scherzo e niente altro. Sembra che scherzando, come fa Arlecchino, io abbia detta la verità. — Tant’è, soggiunse Caderousse, io pagherei qualche cosa di bello perchè la burla non fosse accaduta, o almeno per non essermene mischiato: tu vedrai che quest’affare ci cagionerà qualche disgrazia. — Se deve portar disgrazia a qualcuno, sarà al vero colpevole, che è Fernando e non noi. Qual disgrazia vuoi tu che accada? noi non abbiamo che a starci cheti, e a non dire una parola su quanto è avvenuto, e il temporale passerà senza che cada il fulmine. — _Amen!_ disse Caderousse facendo un saluto di addio a Danglars e dirigendosi verso i viali di _Meillan_ scuotendo la testa e brontolando seco stesso, come è solito di fare chi è molto preoccupato. — Buono! disse Danglars, le cose prendono quell’avviamento che io aveva preveduto; eccomi Capitano provvisorio, e se questo imbecille di Caderousse può tacere, ben presto capitano effettivo. Non vi sarebbe dunque altro caso che la giustizia rilasciasse Dantès... Oh! ma, aggiunse con un sorriso, la giustizia è giustizia ed io mi rimetto ad essa. Ciò dicendo saltò in una barca dando ordine al battelliere di portarlo a bordo del _Faraone_ ove l’armatore gli aveva dato posta. VI. — IL SOSTITUTO DEL PROCURATORE DEL RE. In via gran Corso, rimpetto alla fontana delle Meduse, in una di quelle vecchie case che hanno l’architettura aristocratica fabbricate da Puget, si celebrava pure nello stesso giorno e nella stessa ora un pranzo di sponsali. Solamente, gli attori invece d’essere gente del popolo, marinai, e soldati, appartenevano alla più alta società di Marsiglia. Erano antichi Magistrati che avevano chiesto la dimissione dai loro ufficii sotto l’usurpatore; vecchi ufficiali disertati dalle file francesi per passare in quelle dell’esercito di Condè; giovinotti educati dalle loro famiglie ancor mal sicuri della propria esistenza, ad onta dei quattro o cinque cambi che avevano pagati in odio di quell’uomo. Erano a tavola e la conversazione ferveva per tutte le passioni del tempo, passioni tanto più terribili, vive ed accanite nel mezzodì. L’imperatore, re dell’isola d’Elba dopo essere stato sovrano d’una parte del mondo, regnava sopra una popolazione di 25 mila anime, e dopo avere inteso gridare; _Viva Napoleone!_ da 120 milioni di sudditi, e in dieci lingue diverse, era là, trattato come un uomo perduto per sempre per la Francia e pel trono; i Magistrati riaccendevano le loro contese politiche, i militari parlavano di Mosca e di Lipsia; le donne, del divorzio con Giuseppina. A tutta questa gente allegra e trionfante sembrava, non dalla caduta dell’uomo ma dall’annientamento del principe, che la vita ricominciasse per loro e che uscissero da un sogno penoso. Un vecchio decorato della croce di S. Luigi si alzò e propose ai convitati di bere alla salute di Luigi XVIII. Era questi il marchese di S. Méran. A questo brindisi che ricordava ad un tempo e l’esiliato di Hartwell e il pacificatore della Francia, il rumore fu grande, i bicchieri si alzarono all’uso inglese, le donne staccarono i loro mazzolini di fiori e gli unirono sui nastri; fu un entusiasmo quasi poetico. — Ne converrebbero se fossero qua, disse la marchesa di S. Méran, donna dall’occhio secco, dalle labbra sottili, dal contegno aristocratico ed ancora elegante, ad onta dei suoi cinquant’anni; ne converrebbero s’ei fosser qua, tutti quei rivoluzionari che li scacciarono e che noi lasciamo a nostra volta tranquillamente cospirare nei nostri vecchi castelli, da loro acquistati per un tozzo di pane, sotto il regime del terrore; converrebbero che il vero entusiasmo era dalla nostra parte, mentre noi ci stringevamo alla monarchia che crollava, ed invece essi salutavano il sole nascente che faceva la loro fortuna perdendo la nostra; converrebbero che il nostro Re era per noi il vero Luigi prediletto, mentre che il loro usurpatore non è stato per essi giammai che il Napoleone maledetto, n’è egli vero Villefort? — Che dite signora marchesa?... rispose il giovine al quale era rivolta questa domanda. Perdonatemi, io non era attento alla conversazione. — Eh! lasciate questi ragazzi, marchesa, riprese il vecchio che aveva proposto il brindisi; essi stan per sposarsi in breve, e naturalmente han tutt’altro da parlar che di politica. — Vi chiedo perdono, madre mia, disse una bella giovinetta dai capelli biondi. Vi rendo Villefort, che avevo usurpato per un istante. Villefort, mia madre vi parla. — Ed io son pronto a rispondere alla signora, se vuole avere la bontà di rinnovarmi la interrogazione che non ho intesa. — Vi perdoniamo, Renata, disse la marchesa con un sorriso di tenerezza che era meraviglia veder su quel volto secco, ma il cuore della donna è così fatto che per quanto arido divenga al soffio dei pregiudizi ed alle esigenze dell’_etichetta_, ha sempre un angolo fertile e ridente, ed è quello che Dio ha consacrato all’amore materno. Vi perdoniamo... Diceva adunque, Villefort che i bonapartisti non avevano nè l’entusiasmo, nè l’abnegazione nostra. — Oh! signora, essi hanno almeno qualche cosa che compensa tutto ciò; egli è il Maometto dell’occidente; egli è per questi uomini, volgari ma di somma ambizione, non solo un legislatore ed un padrone, ma ancora un tipo.... — Dell’eguaglianza! gridò la marchesa. Napoleone! il tipo dell’eguaglianza! e che direte voi dunque di Robespierre? mi sembra che gli togliate il posto per darlo al Corso: e questo pare a me sufficiente usurpazione. — No, signora, io lascio ciascuno sul proprio piedestallo; Robespierre, nella piazza di Luigi XV, sul suo patibolo; Napoleone nella piazza Vendôme su la sua colonna. Ciò però non vuol dire, aggiunse Villefort sorridendo, che tutti e due non siano due infami rivoluzionari, e che il 9 termidoro e il 4 aprile 1814 non sieno due giorni felici per la Francia, e degni di essere egualmente festeggiati dagli amici dell’ordine e della monarchia; ma ciò spiega egualmente come Napoleone caduto per non rialzarsi più mai, io spero, abbia pur sempre conservati i suoi satelliti. Che volete, marchesa! Cromvel che non era neppure la metà di tutto ciò che è stato Napoleone, aveva anch’egli i suoi! — Sapete voi che ciò che dite, Villefort, puzza di rivoluzione da una lega lontano. Ma vi perdono: egli è impossibile di essere figlio di un _Girondino_, e non conservare qualche gusto per il terrore. — Un vivo rossore passò sulla fronte di Villefort. — Mio padre era girondino, disse egli, è vero; ma non ha dato il suo voto per la morte del Re: mio padre è stato proscritto da quello stesso terrore che proscriveva voi pure, poco ha mancato che non portasse la testa sullo stesso patibolo ove cadde quella di vostro padre. — Sì, disse la marchesa, senza che questo sanguinoso pensiero portasse la menoma alterazione sulla sua fisonomia; solamente era per principi diametralmente opposti che vi sarebbero saliti tutti e due; e n’è prova che tutta la mia famiglia è rimasta affezionata ai principi esiliati, nel mentre che vostro padre si è affrettato di accomodarsi col nuovo governo, e che dopo che il cittadino Noirtier fu girondino, il conte di Noirtier divenne senatore. — Madre mia, madre mia! disse Renata, voi sapete che fu convenuto che non si sarebbe giammai parlato di queste tristi rimembranze. — Signora, rispose Villefort, io mi unisco a madamigella di S. Méran per domandarvi umilmente l’obblio del passato. Con qual vantaggio ritornare su cose su cui la stessa volontà di Dio è impossente? L’io può cambiare l’avvenire; non può modificare il passato. Ciò che possiamo noi mortali, si è, se non di rinnegarlo, almeno di gettarvi sopra un velo. Ebbene io non solo mi sono diviso dalle opinioni di mio padre, ma ancora dal suo nome. Mio padre è stato, e forse è ancora bonapartista, e si chiama Noirtier; io sono regio, e mi chiamo Villefort. Lasciate morire nel vecchio tronco un avanzo rivoluzionario, e non pensate, signora, al ramo che si diparte da questo tronco senza potere, e dirò quasi, senza volere staccarsene del tutto. — Bravo Villefort, disse il marchese, bravo! bella risposta. Io ho sempre predicato alla marchesa la dimenticanza del passato senza averla mai potuto ottenere; spero che voi sarete più fortunato di me. — Sì, sta bene, disse la marchesa, dimentichiamo il passato, io non dimando meglio, ciò è convenuto; ma che almeno Villefort sia inflessibile per l’avvenire. Non dimenticate, Villefort, che noi vi abbiamo garantito in faccia a Sua Maestà, che Sua Maestà stessa ha voluto dimenticare tutto, dietro le nostre raccomandazioni, come io dimentico tutto alla vostra preghiera. — Così dicendo gli stendeva la mano. — Soltanto se vi cade fra i piedi qualche cospiratore, pensate che si hanno gli occhi aperti su voi, tanto più che si sa che siete di una famiglia che può essere in relazione coi cospiratori. — Pur troppo! signora, disse Villefort, la mia professione, e soprattutto il tempo in cui viviamo mi ordinano di essere severo. Io tale sarò. Ho di già avuta qualche accusa politica da sostenere, e sotto questo riguardo ho dato le mie prove. Disgraziatamente però, noi non siamo ancora al fine. — Credete? disse la marchesa. — Il temo. Napoleone all’Elba è troppo vicino alla Francia, la sua presenza quasi in vista alle nostre coste risveglia la speranza nei suoi partigiani. Marsiglia è piena di ufficiali a mezza paga che tutti i giorni sotto qualche frivolo pretesto cercano contesa coi regii. Di qui i duelli fra le persone elevate, di qui gli assassini nella classe del popolo. — A proposito, disse il conte di Servieux vecchio amico di S. Méran ciambellano del conte Artois, voi sapete che la Santa alleanza lo toglie di là. — Sì, si è tenuto discorso su questo argomento quando siamo entrati in Parigi, disse S. Méran. Ma dove lo invieranno? — A S. Elena. — A S. Elena? e che è? disse la marchesa. — Un’isola a duemila leghe di qua, oltre l’Equatore. — Alla buon’ora! come disse Villefort, è una gran follia aver lasciato un simile uomo fra la Corsica ov’è nato, fra Napoli ove regna ancora suo cognato, e in faccia a quella Italia, di cui voleva fare un regno a suo figlio. — Disgraziatamente, disse Villefort, abbiamo i trattati del 1814, e non si può toccare Napoleone senza infrangerli. — Ebbene! s’infrangeranno, disse de Servieux. Vi ha egli guardato tanto pel minuto quando si trattò di far moschettare l’infelice duca d’Enghien? — Sì, disse la marchesa; è stabilito, la santa Alleanza libererà l’Europa da Napoleone, e Villefort libererà Marsiglia da tutti i partigiani di lui. Il Re regna o non regna: se egli regna, il suo governo dev’essere forte e i suoi magistrati inflessibili: questo è il solo mezzo per prevenire il male. — Disgraziatamente signora, disse sorridendo Villefort, un sostituto del Procuratore del Re giunge sempre quando il male è fatto. — Allora sta a lui a ripararlo. — Potrei aggiungere ancora, che noi non ripariamo il male ma lo vendichiamo. — Oh! signor de Villefort, disse una bella giovinetta, figlia del conte de Servieux e amica di Renata, sollecitatevi adunque di avere una bella causa fin che saremo a Marsiglia; io non ho mai veduto una tornata al Tribunale, e mi si dice che sia una cosa molto curiosa. — Curiosissima, davvero madamigella, disse il sostituto, perchè invece di una finta tragedia si rappresenta un dramma vero; in vece di dolori rappresentati sono dolori sentiti. Quell’uomo che là si vede, invece di ritornare a casa sua dopo calato il sipario, e di andare a cena, rientra in prigione ove ritrova il più delle volte il carnefice. Vedete bene che per le persone nervose, che cercano le emozioni, non vi è spettacolo che possa paragonarsi a questo; state tranquilla, madamigella, se l’agio si presenterà, vi proverò la verità del mio asserto. — Ci fa rabbrividire... ed egli ride! disse Renata impallidendo. — Che volete!... riprese Villefort; questo è un duello... io ho ottenuto cinque o sei volte la pena di morte contro accusati politici... ebbene! chi sa quanti pugnali a quest’ora si arruotolano nelle tenebre o sono già diretti contro di me? — Oh! mio Dio, disse Renata impallidendo sempre più, parlate voi seriamente Villefort? — Non si può parlare più seriamente, rispose il giovine magistrato con un sorriso sulle labbra. E con questi bei processi che madamigella desidera appagare la sua curiosità, ed io la mia ambizione, la condizione delle cose non farà che peggiorare. Tutti questi soldati di Napoleone abituati ad andar come ciechi incontro alle palle nemiche, rifletton forse a bruciare una cartuccia, o a marciare a passo di carica colla baionetta abbassata? ebbene! penseranno ad uccidere un uomo che credono loro nemico personale più che ad uccidere un Russo, un Tedesco o un Ungherese che non hanno mai veduto? d’altra parte bisogna ammettere ciò, altrimenti non vi sarebbe punto di difesa, io stesso quando vedo luccicare nell’occhio dell’accusato il lampo luminoso della rabbia mi esalto tutto e m’incoraggio: non è più un processo, ma un combattimento; io lotto contro di lui, egli risponde, io raddoppio, il combattimento finisce come tutti gli altri, con una vittoria o con una sconfitta. Ecco ciò che si chiama discussione! è il pericolo che fa l’eloquenza. Un accusato che sorride dopo una mia replica mi fa conoscere che ho parlato male, e ciò che ho detto è snervato, senza vigore, insufficiente; immaginate dunque quale dev’essere la sensazione d’orgoglio di un procuratore del re convinto della reità dell’accusato, allora quando vede avvilirsi ed annientarsi il reo sotto il peso delle prove e sotto i fulmini della eloquenza! quella testa si abbassa, dunque cadrà. — Renata gettò un leggiero grido. — Ecco ciò che si chiama saper parlare, disse uno de’ convitati. — Ecco l’uomo che ci abbisogna in tempi come i nostri! — Così, disse un terzo, nel vostro ultimo affare, sarete rimasto superbo, mio caro Villefort. Lo sapete quell’uomo che aveva ucciso suo padre, ebbene senza metafora voi lo avete ucciso prima che il carnefice lo toccasse. — Oh per i parricidi, disse Renata, poco importa, non vi sono supplizi abbastanza grandi per tal fatta di gente, ma per gl’infelici accusati politici!... — Gli accusati politici! gridò la marchesa, è ancor peggio, perchè il Re è padre della nazione, e volere rovesciare od uccidere il Re è lo stesso che volere uccidere il padre di 32 milioni di uomini. — Oh! è lo stesso, Villefort, disse Renata, voi mi promettete di avere indulgenza per quelli che vi raccomanderò? — State tranquilla, disse Villefort con un sorriso affettuoso, noi faremo insieme le nostre requisitorie. — Cara mia, disse la marchesa, occupatevi di ricami, di aghi, di nastri, e lasciate il vostro futuro sposo disimpegnare il suo ufficio. Oggi giorno le armi sono in riposo, e la toga è in credito; vi ha su questo proposito un motto latino... — _Cedant arma togae_, interruppe inchinandosi Villefort. — Io credo che avrei desiderato meglio che voi foste stato un medico, rispose Renata; l’angelo sterminatore per quanto sia un angelo, fa sempre paura. — Buona Renata! mormorò Villefort accarezzando la giovanetta con uno sguardo di amore. — Figlia mia, disse il marchese, Villefort sarà il medico morale e politico di questa provincia; ha una bella parte da rappresentare, credetemi. — E sarà un mezzo di fare dimenticare la parte che ha rappresentata suo padre, soggiunse l’incorreggibile marchesa. — Signora, riprese Villefort con un mesto sorriso, io ho di già avuto l’onore di dirvi che mio padre aveva, spero almeno abiurati gli errori del tempo passato: che era divenuto un amico zelante della religione e dell’ordine, miglior regio forse di me stesso, poichè egli lo è con pentimento e io non lo sono che con passione. — E dopo questa frase rotonda, Villefort per giudicare dell’effetto della sua facondia, girò intorno lo sguardo sui convitati, come dopo una frase equivalente, avrebbe guardato l’uditorio dal suo seggio in tribunale. — Ebbene, mio caro Villefort, riprese il conte di Servieux, è appunto ciò che io risposi l’altro giorno alle Tuglierie al ministro della casa del Re che mi domandava conto di questa singolare alleanza fra il figlio di un girondino, e la figlia di un ufficiale dell’esercito di Condè, e il ministro l’ha intesa molto bene. Questo sistema di fusione è pur quello di Luigi XVIII. Così il Re, che senza che noi ce n’accorgessimo, ascoltava la nostra conversazione, c’interruppe, dicendo «Villefort (notate bene che il Re non ha pronunziato il nome di Noirtier, anzi al contrario ha appoggiato su quello di Villefort), Villefort ha dunque detto il Re, farà una bella carriera, è un giovane di già sennato e di mio genio. Ho visto con piacere che il marchese e la marchesa di S. Méran lo prendono per genero, ed io stesso avrei loro consigliata questa alleanza, se non fossero venuti pei primi a chiedermi la permissione di contrattarla». — Il Re ha detto questo! gridò entusiasmato Villefort. — Io vi ho riferite le sue stesse parole, e se il marchese vuole essere sincero vi confesserà che ciò che io ho riferito in questo momento coincide perfettamente con quanto il Re disse a lui stesso, son circa sei mesi, quando gli parlò di una proposta di matrimonio fra sua figlia e voi. — Sì, è vero, disse il marchese. — Ah! dunque io dovrò tutto a quest’ottimo principe! Perciò che non farei io per servirlo bene? — Alla buon’ora, disse la marchesa, ecco come io vi desidero; venga ora un cospiratore, e sarà il ben venuto. — Ed io, madre mia, disse Renata, prego il cielo che non vi ascolti; che egli non invii a Villefort che dei ladroncelli, dei piccoli fallimenti, dei timidi scrocconi; in questo modo soltanto potrò dormire tranquilla. — Egli sarebbe come se, disse ridendo Villefort, voi desideraste ad un medico che avesse a curare soltanto delle emicranie, delle flussioncelle, delle punzicature di api, tutte cose che non sono di menomo rischio. Ma se volete vedermi procuratore del Re, auguratemi al contrario che io abbia a curare di quelle malattie che fanno onore al medico. — In questo momento, come se il destino avesse aspettato il voto di Villefort per esaudirlo, un cameriere entrò e gli disse qualche parola all’orecchio; Villefort lasciò la tavola scusandosi, e ritornò dopo brevi momenti col viso aperto e le labbra sorridenti. Renata lo guardò con amore; perchè veduto così, cogli occhi azzurri, col colorito maschio e le nere barbette che gli contornavano il viso era veramente un bello ed elegante giovinotto. Per tal modo tutta l’anima della giovinetta sembrava dipendere dalle sue labbra, aspettando che spiegasse la causa della sua momentanea assenza. — Ebbene, disse Villefort, voi desideravate madamigella non ha guari di avere un medico per marito. Io ho per lo meno coi medici questo di simile che non son mai padrone del mio tempo, e che son disturbato anche vicino a voi, anche al pranzo di nozze. — E per qual causa venite dunque disturbato? domandò la bella giovinetta con una leggiera inquietudine. — Ahimè, per un malato che, a quanto sembra, se debbo credere a quello che mi è stato detto, trovasi agli estremi; questa volta è un caso grave, e la malattia confina molto col patibolo. — Oh! mio Dio, gridò Renata impallidendo. — Davvero? disse ad una voce tutta l’assemblea. — Sembra che siasi scoperto niente meno che un complotto bonapartista. — Sarebbe possibile! gridò la marchesa. — Ecco la lettera di denunzia, e Villefort, lesse ad alta voce. — «Il signor procuratore del Re, è avvisato da un amico del Trono e della Religione, che il nominato Edmondo Dantès, secondo nel bastimento il _Faraone_ giunto questa mattina da Smyrne, dopo aver toccato Napoli e Porto-ferraio, è stato incaricato da Murat di una lettera per l’usurpatore e dall’usurpatore di una lettera per il comitato bonapartista di Parigi. Si avrà la prova del suo delitto arrestandolo poichè si troverà questa lettera o nelle sue tasche o presso del padre, o nel suo gabinetto a bordo del _Faraone_». — Ma disse Renata, questa non è che una lettera anonima, e diretta al Procuratore del Re, e non a voi. — Sì, ma il Procuratore del Re è assente; in sua assenza la lettera è stata portata al suo segretario, che è facoltato ad aprire le lettere. Egli dunque ha aperta questa, mi ha fatto cercare, e non avendomi ritrovato, ha dato gli ordini necessari per l’arresto. — Il colpevole dunque è già arrestato, disse la marchesa. — Cioè l’accusato, soggiunse Renata. — Sì, o signora, disse Villefort, e come aveva l’onore di dire or ora a madamigella, se la lettera si ritrova, il malato è malato gravemente. — E dov’è quest’infelice? domandò Renata. — A casa mia che mi aspetta. — Adunque, amico mio, disse il marchese, non mancate al vostro dovere per trattenervi con noi, andate che il servizio del Re lo impone. — Ah! signor Villefort siate indulgente, disse Renata giungendo le mani, ricordatevi che questo è il giorno dei vostri sponsali. — Villefort fece un giro intorno alla tavola, e avvicinandosi alla sedia della giovinetta, sulla spalliera della quale si appoggiò: — Per risparmiarvi un’inquietudine, diss’egli, farò quanto potrò, mia cara Renata; ma se gl’indizi sono sicuri, e l’accusa è vera, bisognerà bene tagliare questa cattiva erba bonapartista. Renata rabbrividì a questa parola _tagliare_ poichè l’erba che si dovea tagliare era la testa di un uomo. — Bah! Bah! disse la marchesa, non date ascolto a questa giovinetta, Villefort; ella ci si avvezzerà. — E la marchesa stese a Villefort una mano secca che egli baciò, sempre guardando Renata e dicendole cogli occhi: — È la vostra mano che intendo baciare in questo momento o almeno desidererei che fosse. — Questi sono tristi auspici, mormorò Renata. — In verità, madamigella, disse la marchesa, voi siete di una puerilità disperante. Vi domando un poco ciò che può aver che fare il destino dello stato con le vostre fantasie sentimentali, e colle vostre sensibilità di cuore? — Oh! madre mia, mormorò Renata. — Grazia per la cattiva regia, marchesa, disse Villefort. Io vi prometto di fare il mio dovere di sostituto del Procuratore del Re coscienziosamente, vale a dire di essere severo. — Ma nel medesimo tempo che il magistrato indirizzava queste parole alla marchesa, il fidanzato gettava di nascosto uno sguardo, che diceva: — State tranquilla, Renata, per amor vostro sarò indulgente. — Renata corrispose a questo sguardo col più dolce sorriso, e Villefort uscì col paradiso nel cuore. VII. — L’INTERROGATORIO. Non appena Villefort fu fuori della sala da pranzo che lasciò la maschera allegra per prendere l’aria grave di un uomo chiamato al supremo ufficio di pronunciare sulla vita del suo simile. Ora, ad onta della mobilità della sua fisonomia, mobilità che il sostituto aveva studiata, come deve fare ogni abile attore, più di una volta innanzi lo specchio, allora per altro durò molta fatica ad aggrottare le sopracciglia e a rendere severi i suoi lineamenti. Di fatto, prescindendo dalle memorie di quella linea politica seguita da suo padre e che poteva se egli non se ne allontanava compiutamente, inceppare il suo avvenire, Gherardo de Villefort era in quel momento tanto felice, quanto è concesso ad un uomo di esserlo. Di già ricco per sè stesso, egli a ventisette anni occupava un posto elevato nella magistratura, sposava una giovinetta bella di persona cui amava; di più, oltre la sua bellezza che era notevole, madamigella di S. Méran sua sposa apparteneva ad una delle famiglie più favorite dalla corte d’allora; finalmente l’influenza dei genitori di lei, non avendo figli maschi, poteva essere consacrata tutta intera al loro genero; ella portava ancora al marito una dote di 50mila scudi, che grazie alle speranze, parola atroce inventata dai sensali di matrimonio, poteva un giorno aumentarsi con una eredità di un mezzo milione. Tutti questi elementi riuniti componevano dunque per Villefort un totale di felicità abbagliante a segno, che gli sembrava di vedere delle macchie nel sole quando aveva lungamente guardata la sua vita interna colla vista dell’anima. Alla porta trovò il commissario di polizia che lo aspettava... La vista dell’uomo nero lo fece tosto ricadere dall’altezza del terzo cielo sulla terra materiale ove noi camminiamo; ricompose il viso nel modo che abbiamo indicato, e avvicinandosi all’ufficiale di giustizia: — Eccomi, signore, diss’egli; ho letta la lettera, e voi avete fatto benissimo in arrestare quest’uomo, ora datemi sopra di lui e sulla cospirazione tutti i particolari da voi raccolti. — Signore, della cospirazione non si sa ancor nulla, rispose il Commissario; ma tutte le carte che sono state ritrovate presso quest’uomo, sono tutte poste in un plico e sigillate sul vostro scrittoio. Quanto al prevenuto, voi lo avrete veduto dalla lettera stessa che lo denunzia, egli si chiama Edmondo Dantès, secondo a bordo del bastimento a tre alberi, il _Faraone_, che fa commercio di cotone con Alessandria e Smyrne, e appartiene alla casa Morrel e F. di Marsiglia. — Prima di servire nella marina mercantile ha egli servito nella marina militare? domandò Villefort. — Oh! no, signore, egli è giovine del tutto. — Qual è la sua età? — Diciannove o vent’anni al più. — In questo e siccome Villefort, seguendo la strada grande era giunto all’angolo della via dei Consoli, un uomo che sembrava aspettarlo al suo passaggio, lo fermò: era Morrel. — Ah! signor de Villefort, esclamò il bravo uomo riconoscendo il sostituto, immaginatevi che si commette lo sbaglio più strano, e più inaudito; è stato arrestato il secondo del mio bastimento, Edmondo Dantès. — Lo so, disse Villefort, ed io mi riduco in casa per interrogarlo. — Ah! continuò Morrel, spinto dalla sua amicizia per il giovinotto, voi non conoscete quello che viene accusato, io, io lo conosco. Immaginatevi l’uomo più dolce, più probo ed oserei quasi dire l’uomo che conosce il suo mestiere meglio di tutta la marina mercantile. Oh! signor de Villefort, io ve lo raccomando caldamente e con tutto il cuore. — Villefort, come si è potuto vedere, apparteneva al partito nobile della città e Morrel al partito plebeo; il primo era ultra regio, il secondo sospetto di bonapartista. Villefort guardò sdegnosamente Morrel e gli rispose con freddezza: — Voi sapete che si può essere dolci nella vita privata, probi nelle relazioni commerciali, sapienti nel proprio stato, e ciò nonostante essere grandi colpevoli politicamente parlando, voi il sapete? — e il magistrato appoggiò sopra queste ultime parole come se avesse voluto fare l’applicazione allo stesso armatore; mentre che col suo sguardo scrutatore si sforzava di penetrare fino al fondo del cuore di quest’uomo ardito abbastanza da intercedere per un altro, quando doveva sapere che aveva bisogno egli stesso d’indulgenza. Morrel arrossì poichè non si sentiva la coscienza netta in riguardo alle sue opinioni politiche; e d’altra parte la confidenza che gli avea fatto Dantès del colloquio tenuto col gran Maresciallo e delle poche parole che gli aveva dirette l’Imperatore gli turbava qualche poco lo spirito. Tuttavolta egli aggiunse con l’accento del più profondo interessamento: — Io ve ne supplico, sig. de Villefort, siate giusto come dovete esserlo, buono come lo siete sempre, e _rendete a noi_ ben presto questo povero Dantès. — Il _rendete a noi_, risuonò rivoluzionariamente all’orecchio del sostituto al Procuratore del Re. — Eh! eh! disse a sè stesso, _rendete a noi_. Questo Dantès sarebbe egli forse affiliato a qualche setta di carbonari perchè il suo protettore impieghi così, senza pensarci, la formola collettiva? È stato arrestato in un’osteria, mi disse, cred’io il Commissario, in numerosa compagnia, mi soggiunse; forse sarà stata qualche _vendita_. Poi alzando la voce, rispose: — Signore, potete stare perfettamente tranquillo, e non vi sarete appellato inutilmente alla mia giustizia, se il prevenuto è innocente; ma se al contrario egli è reo, viviamo in tempi così difficili che la impunità sarebbe di un esempio tremendo; ed io sarei obbligato di fare il mio dovere. — E siccome era arrivato alla porta della casa attigua al palazzo di giustizia, entrò maestosamente dopo aver salutato con una gentilezza di ghiaccio l’infelice armatore che rimase come pietrificato al luogo ove lo lasciò Villefort. L’anticamera era piena di gendarmi e di uffiziali di polizia. In mezzo ad essi, guardato a vista, circondato da sguardi fulminanti d’odio si stava tranquillo, immobile e ritto in piedi il prigioniero. Villefort traversò l’anticamera, dette uno sguardo obliquo a Dantès dopo aver preso un piego che gli venne da un uffiziale, dicendo: — Mi si conduca il prigioniero. Per quanto fu rapido lo sguardo, pure bastò a Villefort per farsi un’idea dell’uomo che stava per interrogare. Egli aveva riconosciuto l’intelligenza in quella fronte larga ed aperta, il coraggio nell’occhio fisso e nel sopracciglio corrugato, e la franchezza nelle labbra grosse e semi-aperte, che lasciavano vedere due fila di denti bianchi come l’avorio; la prima impressione era stata dunque favorevole per Dantès, ma Villefort aveva inteso dir così spesso, come parola di profonda politica, che bisogna diffidare del primo movimento attesochè questo è il buono; che egli applicò la massima all’impressione, senza tener conto della differenza che passa fra queste due parole: soffocò in conseguenza i buoni istinti che volevano invadergli il cuore per liberare lo spirito dall’assalto, accomodò davanti lo specchio il contegno come nei giorni di grandi formalità, e si assise cupo e minaccioso avanti allo scrittoio. Un istante dopo di lui entrò Dantès. Il giovinotto era sempre pallido, ma tranquillo e sorridente: salutò il suo giudice con una pulitezza non affettata, cercò cogli occhi una sedia, come se si fosse ritrovato nella camera del signor Morrel. Fu allora soltanto che egli scontrò lo sguardo di Villefort, sguardo particolare agli uomini del foro che non vogliono che vi si legga il loro interno pensiero, e fanno del loro occhio un cristallo appannato. Questo sguardo gli fece conoscere che egli era davanti alla giustizia, aspetto di sinistre maniere. — Chi siete voi, e come vi chiamate? domandò Villefort, sfogliando quelle note che l’uffiziale gli aveva rimesso entrando, e che da un’ora erano divenute voluminose, tanto la corruzione dello spionaggio si attacca presto al corpo disgraziato di colui che si noma prevenuto. — Signore, io mi chiamo Edmondo Dantès, rispose il giovinotto con voce ferma e sonora: sono secondo a bordo del bastimento il _Faraone_, che appartiene ai Sigg. Morrel e F. — La vostra età? continuò Villefort. — Diciannove anni, rispose Dantès. — Che facevate voi, al momento che siete stato arrestato? — Assisteva al pranzo dei miei sponsali, disse Dantès, con una voce leggermente commossa, tanto questo contrasto era doloroso, dai momenti di gioia colla lugubre cerimonia che si compiva, tanto il viso cupo di Villefort faceva brillare di tutta la sua luce il volto raggiante di Mercedès. — Voi assistevate al pranzo dei vostri sponsali? disse il sostituto rabbrividendo suo malgrado. — Sì, o signore, io sono sul punto di sposare una donna che amo da tre anni! — Villefort sebbene d’ordinario impassibile fu ciò nonostante colpito da questa coincidenza; e la voce commossa di Dantès sorpreso in mezzo alla sua felicità andò a svegliare una fibra simpatica nel fondo della sua anima. Egli pure si maritava, egli pure era felice, e si veniva a disturbare la sua felicità, perchè contribuisse a distruggere la gioia di un uomo, che come lui, toccava di già alla felicità! questo ravvicinamento filosofico, pensò egli, farà grande effetto al mio ritorno nel salone del marchese di S. Méran, ed egli accomodava di già nel suo spirito, e mentre Dantès attendeva nuove interrogazioni, le parole di antitesi, coll’aiuto delle quali gli oratori costruiscono quelle frasi ambiziose di applausi che qualche volta fanno credere in essi una vera eloquenza. Allorchè il suo piccolo _speech_ interno fu accomodato, Villefort sorrise al suo effetto, e ritornando a Dantès: — Continuate, diss’egli. — Che volete che io continui a fare? — Ad illuminare la giustizia. — Che la giustizia mi dica su qual punto vuol essere rischiarata, ed io le dirò tutto ciò che so. Soltanto, aggiunse egli, con un sorriso, la prevengo che so ben poche cose. — Avete voi servito l’Imperatore? — Egli cadde appunto quando stavo per essere incorporato nella marina militare. — Si dice che le vostre opinioni politiche siano esagerate, disse Villefort al quale nessuno aveva detto una parola di ciò, ma non si trovava malcontento di porre una domanda come si pone un’accusa. — Le mie opinioni politiche? le mie, signore! è quasi vergognoso il dirlo, ma io non ho mai avuto ciò che si chiama un’opinione: ho diciannove anni appena, come ebbi l’onore di dirvi; io non so niente, non sono destinato a rappresentare alcuna parte, il poco che sono e che sarò, se mi vien accordato il posto che ambisco, lo dovrò solo al signor Morrel. Per tal modo tutte le mie opinioni, non dirò politiche, ma private, si limitano a questi tre sentimenti: amo mio padre, rispetto il sig. Morrel, e adoro Mercedès. Ecco, o signore, tutto ciò che posso dire alla giustizia: vedete che questo può importarle ben poco. A seconda che Dantès parlava, Villefort ne contemplava il viso dolce ad un tempo ed aperto, e sentiva ritornare alla memoria le parole di Renata, che senza conoscere il prevenuto, gli aveva domandata indulgenza per lui. Coll’abitudine che aveva digià il sostituto a trattare i delitti e i delittuosi, egli vedeva sorgere ad ogni parola di Dantès le prove dell’innocenza di lui. Di fatto questo giovine, che si sarebbe potuto chiamare anche ragazzo, semplice, ingenuo, eloquente, di quella eloquenza del cuore che non si trova mai quando si cerca per affettarla, pieno d’affezione per tutti perchè era felice, chè la felicità rende buoni anche gli stessi perversi, versava fino sul suo giudice la dolce affabilità che si espandeva dal suo cuore. Edmondo non aveva nello sguardo, nella voce, nel gesto, per quanto rozzo e severo fosse stato con lui Villefort, che affabilità e bontà per colui che lo interrogava. — Perbacco! disse tra sè Villefort, ecco un grazioso giovinotto e non penerò molto, lo spero, a farmi un merito con Renata compiacendo la sua prima raccomandazione. Ciò mi frutterà una buona stretta di mano in presenza di tutti, ed un bacio ineffabile di nascosto in un canto. A questa doppia speranza la figura di Villefort si abbellì, dimodochè quando rivolse gli sguardi dai suoi pensieri sopra Dantès, Dantès che aveva seguito tutti i movimenti della fisonomia del suo giudice, sorrideva quasi al suo pensiero. — Sapete voi di aver qualche nemico? disse Villefort. — Io dei nemici? rispose Dantès, ho la fortuna di essere ancora ben poca cosa, perchè la mia posizione me ne faccia. Quanto alla mia indole, forse un poco troppo vivace, ho sempre cercato di addolcirla verso i miei subordinati. Ho dieci o dodici marinai sotto i miei ordini; che vengano pure interrogati, o signore, ed essi vi diranno che mi amano e mi rispettano, non come un padre perchè sono troppo giovine, ma come un fratello maggiore. — Bene, continuò Villefort, vediamo ora, se invece di nemici poteste avere qualche invidioso, o qualche geloso. Voi siete per essere nominato capitano a diciannove anni, il che è un raro bene in tutti gli stati; queste due preferenze avrebbero potuto generarvi qualche invidioso. — Sì, avete ragione: voi dovete conoscere gli uomini meglio di me; ciò è possibile; ma se questi invidiosi dovessero essere tra i miei amici, vi confesso che amo meglio di non conoscerli, per non esser costretto ad odiarli. — Avete torto, bisogna sempre per quanto è possibile, tener gli occhi aperti intorno a sè, e in verità voi mi sembrate un così bravo giovine, che per voi son per allontanarmi dalle regole ordinarie della giustizia e per illuminarvi, comunicandovi la denunzia che vi conduce a me dinanzi. Ecco il foglio accusatore, conoscete voi il carattere? — E Villefort cavò di tasca la lettera e la presentò a Dantès. Questi osservò e lesse. Una nube gli oscurò la fronte, poi disse: — Non conosco questo carattere, che quantunque alterato, pure è scritto con molta franchezza. In ogni caso è una mano molto abile che lo ha vergato. Sono ben fortunato, soggiunse guardando con riconoscenza Villefort, di avere a trattare con un uomo, quale voi siete, poichè in fatto il mio invidioso è un vero nemico. — Al baleno che folgorò sugli occhi del giovinetto pronunciando queste parole, Villefort potè conoscere quanta violenta energia stava nascosta sotto quella prima dolcezza. — Ora osserviamo, disse Villefort, rispondetemi francamente, non come farebbe un prevenuto al suo giudice, ma come un uomo che si trova in una falsa posizione risponde ad un altro che prende interessamento per lui: che vi è di vero in questa anonima accusa? — E Villefort gettò con disprezzo sullo scrittoio la lettera che Dantès gli aveva restituita. — Eccovi la pura verità, sul mio onore di marinaio, sul mio amore per Mercedès, sulla vita di mio padre. — Parlate, signore, disse ad alta voce Villefort. Poi fra sè soggiunse. — Se Renata potesse vedermi, spero, sarebbe contenta di me e non mi chiamerebbe più tagliatore di teste. — Ebbene! lasciando Napoli il Capitano Leclerc cadde malato di febbre cerebrale; siccome non avevamo medico a bordo, ed egli non volle fermarsi in alcun punto della costa, sollecitato come era di portarsi all’isola d’Elba, la malattia peggiorò in modo che verso la fine del terzo giorno sentendosi vicino a morire mi chiamò a sè: «— Mio caro Dantès, mi disse: giuratemi sul vostro onore di far tutto ciò che vi dirò trattandosi di affari della più alta importanza.» «— Ve lo giuro capitano, risposi io.» «— Ebbene, siccome dopo la mia morte spetta a voi il comando del bastimento nella vostra qualità di secondo, assumerete questo comando, e metterete capo all’isola d’Elba, sbarcherete a Porto Ferrajo, cercherete del gran Maresciallo e gli rimetterete questa lettera; forse egli allora vi consegnerà un’altra lettera, e v’incaricherà di qualche missione. Questa missione che era riservata a me, voi l’eseguirete, Dantès, in mia vece, e tutto l’onore sarà vostro.» «— Io lo farò, Capitano; ma forse non potrò giugnere fino al Gran Maresciallo tanto facilmente quanto credete.» «— Eccovi un anello che vi farà giungere facilmente a lui, disse il Capitano, e che toglierà tutte le difficoltà». — A queste parole mi rimise l’anello, e fu appena in tempo; perchè poco dopo lo prese il delirio e il domani era morto. — E che faceste allora? — Ciò che io doveva fare, o signore, e che ciascun altro avrebbe fatto al mio posto. In ogni tempo le preghiere dei moribondi sono sacre, ma presso i marinai le preghiere di un superiore sono ordini che si debbono eseguire. Io feci dunque vela verso l’isola d’Elba ove giunsi il domani; consegnai a bordo tutto l’equipaggio, ed io solo discesi a terra. Come aveva preveduto, mi fecero sulle prime delle difficoltà per introdurmi dal Gran Maresciallo, ma io gli inviai l’anello che doveva servirmi di segnale a farmi riconoscere, e tutte le porte si aprirono avanti a me. Egli mi ricevette, m’interrogò sugli ultimi particolari della morte del disgraziato Leclerc; e come questi lo aveva preveduto, mi venne consegnata una lettera coll’incarico di portarla in persona a Parigi. Io glielo promisi, poichè questo era un compiere l’estrema volontà del mio Capitano. Ritornai a bordo, feci vela per Marsiglia ove giunsi ieri, accomodai rapidamente tutti gli affari colla Dogana e la Sanità, corsi ad abbracciare mio padre, volai a vedere la mia fidanzata, che trovai più bella e più innamorata che mai. Col favore del signor Morrel furono superate tutte le difficoltà ecclesiastiche; e finalmente, o signore, io assisteva, come vi ho detto, al pranzo dei miei sponsali; fra un’ora doveva esser maritato, e contavo partir domani per Parigi allora quando per questa accusa che sembra voi pure disprezziate quanto me, io fui arrestato. — Sì, sì, mormorò Villefort, tutto ciò mi sembra essere la verità, e se voi siete colpevole, lo siete soltanto d’imprudenza; ed anche questa imprudenza potrebbe essere legittimata dagli ordini che riceveste dal vostro capitano. Rendetemi questa lettera che vi è stata consegnata all’isola d’Elba, datemi la vostra parola d’onore di ricomparire alla prima requisitoria, ed andate a raggiungere i vostri amici. — Per tal modo io sono libero, signore? gridò Dantès al colmo della gioia. — Sì, soltanto datemi questa lettera. — Essa dev’essere innanzi a voi poichè mi fu tolta con tutte le altre mie carte, ed io ne riconosco qualcuna in quel fascio. — Aspettate, disse il sostituto a Dantès, che prendeva i guanti ed il cappello; a chi era essa diretta? — _Al sig. Noirtier, strada Coq-Héron a Parigi_. La folgore se caduta fosse su Villefort, non lo avrebbe percosso con un colpo più rapido e più inatteso; egli si lasciò cadere sulla seggiola dalla quale si era per metà alzato per prendere il piego delle carte confiscate su Dantès, lo sfogliò precipitosamente, e ne cavò la lettera fatale, sulla quale gettò uno sguardo ov’era impresso il più indicibile terrore: — sig. Noirtier strada _Coq-Héron_ N. 13, mormorò impallidendo sempre più. — Sì, o signore, rispose Dantès maravigliato; lo conoscete voi? — No, rispose Villefort, un servo fedele del Re non conosce i cospiratori. — Si tratta dunque di una cospirazione? domandò Dantès che cominciava, dopo essersi creduto libero, a riprendere un terrore più grande del primo; in ogni modo, signore, io ve l’ho detto, ignorava completamente il contenuto del dispaccio di cui era il portatore. — Sì, riprese Villefort, con sorda voce, ma voi sapete il nome di quello a cui era diretto. — Bisogna bene che io lo sapessi se dovevo consegnarlo nelle sue proprie mani. — E voi non avete mostrata questa lettera ad alcuno? disse Villefort che sempre più impallidiva a seconda che leggeva la lettera. — Ad alcuno sul mio onore. — Tutti dunque ignoravano che voi eravate portatore di una lettera che veniva dall’isola d’Elba, ed era diretta al sig. Noirtier? — Tutti lo ignorano meno quegli che me l’ha consegnata. — Questo è troppo è ancora troppo, mormorò Villefort. La fronte di Villefort si oscurava sempre più quanto si accostava al fine: le sue labbra bianche, le mani tremanti, gli occhi ardenti di lui facevano passare nello spirito di Dantès le più dolorose apprensioni. Dopo la lettura di questa lettera, Villefort lasciò cadere il capo fra le mani, e rimase oppresso. — Oh! mio Dio che c’è dunque? chiese timidamente Dantès. Villefort non rispose, ma dopo qualche momento rialzò la testa pallida e scomposta, e rilesse una seconda volta la lettera. — E voi dite che non sapete nulla di ciò che contiene questa lettera? rispose Villefort. — Sul mio onore, vi ripeto, io non so nulla. Ma che avete voi stesso? Mio Dio! voi state male? volete che suoni il campanello? volete che chiami qualcuno? — No, disse Villefort alzandosi prontamente; no, non fate rumore, non dite una parola, sta a me il dare degli ordini qui e non a voi. — Signore, disse Dantès, mortificato, facea per venire in vostro soccorso, scusatemi, ve ne prego in riguardo alla intenzione. — Non ho bisogno di niente; uno sconcerto passeggiero, ecco tutto; occupatevi di voi e non di me: rispondete. Dantès aspettava l’interrogazione che veniva annunziata da quest’ultima parola, ma inutilmente; Villefort ricadde sul suo seggio, passò la mano gelida sulla fronte che grondava sudore e per la terza volta si mise a rileggere la lettera. — Oh! se egli sa il contenuto di questa lettera, mormorò egli, se conoscerà un giorno che Noirtier è il padre di Villefort, io son perduto per sempre... — E a quando a quando guardava Edmondo come se col suo sguardo avesse potuto infrangere quella barriera invisibile che racchiude nel cuore i segreti che dalla bocca non vengono palesati. — Oh! non esitiamo più, sclamò egli di repente, non vi è che questo mezzo. — Ma, in nome del Cielo, signore riprese il disgraziato se dubitate di me, se avete dei sospetti, interrogatemi, io sono pronto a rispondervi. Villefort fece un violento sforzo su sè stesso, e con un tuono di voce che voleva rendere sicuro: — Signore, diss’egli, dal vostro interrogatorio risultano a vostro danno i sospetti più forti: io non sono dunque padrone come aveva poco fa sperato, di mettervi in libertà in questo medesimo punto, debbo prima prendere questa misura, consultare il giudice d’istruzione. Frattanto voi avete veduto come vi ho trattato. — Oh! sì, signore; gridò Dantès, vi ringrazio poichè siete stato per me più che un giudice, un amico. — Ebbene vi tratterò ancora per qualche tempo prigioniero il men che mi sarà possibile; la principale accusa contro di voi è questa lettera, e... vedete... — Villefort si avvicinò al caminetto, gettò la lettera nel fuoco e restò immobile fino a che fu ridotta in cenere. — E vedete, continuò egli, io l’ho annientata. — Oh! gridò Dantès, signore, voi siete più che la giustizia, voi siete la stessa bontà. — Ma ascoltatemi, continuava Villefort, dopo quest’atto, voi comprendete bene che potete avere tutta la confidenza in me, n’è vero? — Ah! signore, ordinate, ed io eseguirò i vostri ordini. — No, disse Villefort avvicinandosi al giovinotto, non sono ordini che io voglio darvi, voi capirete, sono consigli. — Dite, io mi conformerò come fossero ordini. — Vi farò trattenere fino a questa sera al palazzo di giustizia: forse tutt’altri che io, verrà ad esaminarvi. Dite tutto ciò che avete detto a me, ma non dite una parola su quella lettera. — Io ve lo prometto, o signore. Era Villefort che sembrava supplicare, era l’accusato che attutava il giudice. — Voi capirete, diss’egli gettando uno sguardo sulle ceneri che conservavano ancora la forma della carta, e che venivano alzate in aria ed agitate dalla fiamma, ora che questa lettera è annientata, voi ed io sappiamo soltanto che vi sia stata, essa non vi sarà più ripresentata, negatela arditamente, e con questo mezzo soltanto siete salvo. — Io negherò, signore, siate tranquillo, disse Dantès. — Bene, bene, rispose Villefort portando la mano al cordone del campanello. Poi fermandosi al momento che stava per suonare: — Questa era la sola lettera che voi aveste? diss’egli. — La sola. — Giuratelo. — Dantès stese la mano: — Lo giuro. — Il campanello suonò, il commissario di Polizia entrò. Villefort si avvicinò al pubblico ufficiale e gli disse qualche parola all’orecchio. Il Commissario rispose con un semplice segno di testa. — Seguitelo, signore, disse Villefort a Dantès. — Dantès s’inchinò, gettò un ultimo sguardo di riconoscenza a Villefort ed uscì. Non appena la porta fu chiusa dietro lui, che le forze mancarono a Villefort, e cadde quasi svenuto sul suo seggio. Poi dopo un momento: — Oh! mio Dio, da che dipende la vita e la fortuna? se il procuratore del Re fosse stato a Marsiglia, se il giudice d’istruzione fosse stato chiamato in mia vece, ora sarei perduto. Questo foglio, questo maledetto foglio mi precipitava nell’abisso. Ah! padre mio, padre mio, sarete voi dunque sempre un ostacolo alla mia felicità in questo mondo? e dovrò io lottare eternamente col vostro passato? — Poi di repente una luce inattesa parve passare innanzi al suo spirito, e gli rischiarò il viso; un sorriso gli balenò sulle labbra ancora corrugate, gli occhi stravolti divennero fissi, e parvero fermarsi sopra un pensiero. — Sì, diss’egli, sì, questa lettera che doveva perdermi, farà forse la mia fortuna. Andiamo, Villefort, all’opera! — E dopo essersi assicurato che l’accusato non era più nell’anticamera, il Sostituto al procuratore del Re uscì a sua volta, e s’incamminò prestamente verso la casa della sua fidanzata. VIII. — IL CASTELLO D’IF. Attraversando l’anticamera, il commissario di polizia fece un segno a due gendarmi, i quali si posero uno a dritta e l’altro a sinistra di Dantès; fu aperta una porta che comunicava dal quartiere del procuratore del Re al palazzo di giustizia, e continuarono per qualche tempo in uno di quei lunghi corridoi che fanno tremare quelli che vi passano, anche quando non hanno alcun motivo di tremare. Nello stesso modo che l’appartamento di Villefort comunicava col palazzo di giustizia, il palazzo di giustizia comunicava colla prigione, tetro monumento addossato al palazzo e che guarda in modo strano da tutte le sue aperture guarnite di sbarre il campanile degli _Accoules_ che sorge avanti ad esso. Dopo una quantità di voltate nel corridoio che percorreva, Dantès si vide innanzi una porta col catenaccio di ferro: il commissario di polizia battè col martello tre colpi che si ripercossero per Dantès come se gli fossero stati battuti sul cuore. La porta si aprì, i due gendarmi spinsero leggermente il prigioniero che esitava; Dantès oltrepassò il limitare terribile, e la porta tosto si rinchiuse con fracasso dietro a lui. Egli respirava un’altr’aria, un’aria mefitica e pesante; era l’aria della prigione. Venne condotto in una camera abbastanza pulita ma con l’inferriata a catenaccio. Ne resultò che l’aspetto della sua nuova dimora non gli cagionò gran timore. D’altra parte le parole del Sostituto al procuratore del Re, pronunciate con una voce che era sembrata a Dantès così soave, risuonavano al suo orecchio come una dolce promessa di speranza. Erano già quattr’ore da che Dantès era stato introdotto in quella camera. Eravamo come abbiamo detto al primo di marzo, ed il giorno declinando presto, il prigioniero si trovò di un subito nella notte. Allora il senso dell’udito si aumentò in lui, a misura che quello della vista andava a spegnersi. Al più piccolo rumore che perveniva fino a lui, convinto che sarebbe stato messo in libertà, si alzava velocemente e faceva un passo verso la porta. Ben presto il rumore andava a perdersi in un’altra direzione, e Dantès ricadeva sullo sgabello. Finalmente, verso le dieci della sera al momento in cui Dantès cominciava a perdere la speranza, un nuovo rumore si fece udire e questa volta gli sembrava diretto verso la sua camera. Infatti dei passi rimbombarono nel corridoio e si fermarono avanti la sua porta. Una chiave girò due volte nella serratura, i catenacci cigolarono, la massiccia barriera di quercia si aprì lasciando penetrare ad un tratto nella oscura camera l’abbagliante luce di due ceri. A questa luce Dantès vide brillare le sciabole ed i moschetti di quattro gendarmi. Egli aveva fatto due passi in avanti; rimase immobile al suo posto vedendo quest’aumento di forza. — Venite voi a cercar me? domandò Dantès. — Sì, rispose uno dei gendarmi. — Per parte del signor Sostituto al procuratore del Re? — Ma... così credo.... — Bene, disse Dantès, sono pronto a seguirvi. La convinzione che si veniva a cercarlo per parte di Villefort, toglieva ogni timore all’infelice giovinotto. Egli si avanzò dunque con ispirito tranquillo, con andamento libero, e si pose da sè stesso nel mezzo della scorta. Una carrozza aspettava alla porta di strada, il cocchiere era al suo posto, un _esente_ era assiso presso il cocchiere. — È dunque per me questa carrozza? domandò Dantès. — È per voi, rispose uno dei gendarmi, e salite. — Dantès volle fare qualche osservazione, ma lo sportello si aprì, sentì che era spinto. Egli non aveva nè la possibilità nè la sola intenzione di far resistenza. Si trovò in un momento assiso nel fondo della carrozza fra due gendarmi; gli altri due sederono nel posto davanti, e la pesante macchina si mise in moto con un sinistro rumore. Il prigioniero volse gli occhi sulle aperture, esse erano chiuse coi graticci; ei non aveva fatto che cambiar di prigione, soltanto questa scorreva, e lo trasportava verso una meta non conosciuta. Attraverso le sbarre, chiuse in modo da lasciarvi appena passare la mano, Dantès riconobbe ciò non pertanto che si passava per la strada _Caisserie_ e che dalle strade _S. Laurent_, e _Tamaris_ si discendeva verso lo scalo. Ben tosto vide attraverso le sue sbarre, e quelle del monumento presso il quale si ritrovava, brillare i lumi della _Consigne_. La carrozza si fermò; l’_esente_ discese e si avvicinò al corpo di guardia; una dozzina di soldati uscirono e si disposero in due file in modo da formare un viale. Dantès vedeva al chiarore dei riverberi dello scalo rilucere i loro moschetti. Sarebbe egli per me, si domandava, che si spiega una simil forza militare? L’_esente_, aprendo lo sportello della carrozza che era stato chiuso a chiave, quantunque non pronunziasse una parola, dette la risposta alla domanda che si era fatta Dantès, perchè vide fra le due file di soldati il sentiero che era stato preparato per lui dalla carrozza al porto. I due gendarmi, seduti nel posto davanti, furono i primi a discendere, poscia fu fatto discender lui, e finalmente quelli che prima gli stavano ai fianchi; si diressero verso una barchetta, che un marinaio di dogana teneva. I soldati osservavano Dantès passare con una stupida curiosità. In un momento egli fu messo a posto alla poppa del battello, sempre fra i quattro gendarmi, nel mentre che l’_esente_ si teneva a prua. Una scossa violenta staccò il battello dalla riva e quattro vigorosi rematori vogarono verso il _Pilon_. Ad un grido partitosi dalla barca la catena che chiude il porto si abbassò, e Dantès si trovò nel luogo detto _Frioul_, vale a dire fuori del porto. Il primo movimento del prigioniero ritrovandosi all’aria aperta era stato un movimento di gioia. L’aria è quasi la libertà! Egli respirò adunque a pieni polmoni quella brezza vivace che porta sulle sue ali tutti gli olezzi sconosciuti della notte e del mare. Indi a poco mandò fuori un sospiro: passava avanti l’osteria della _Réserve_ ove era stato sì felice la stessa mattina nell’ora che aveva preceduta quella del suo arresto, e attraverso la chiara apertura di due finestre, giunse fino a lui il lieto rumore di un ballo. Dantès incrociò le mani, levò gli occhi al cielo e pregò. La barca continuava il suo cammino, aveva già oltrepassata la _Testa di Moro_: era in faccia all’ansa del Faro, ed andava a bordeggiare di fianco alla batteria: questa era una manovra incomprensibile per Dantès. — Ma dove mi conducete voi? domandò egli. — Lo saprete ben presto. — Ma pure... — Ci è proibito di darvi alcuna spiegazione. Dantès era per metà soldato; fare delle domande a subordinati ai quali era proibito di rispondere, gli parve una cosa assurda e si tacque. Allora i pensieri più strani gli passarono per la mente, come non si poteva fare una lunga navigazione con una simile barchetta, come non vi era alcun bastimento all’ancora nella parte verso cui si dirigevano, egli pensò che sarebbe stato depositato sur un punto lontano della costa per dirgli che era libero: egli non era incatenato, non era stato fatto alcun tentativo per mettergli le manette, e ciò gli era sembrato di buon augurio. D’altronde il Sostituto così eccellente per lui non gli aveva detto che qualora non pronunziasse una parola sulla lettera diretta a Noirtier, egli non aveva nulla a temere? Villefort, non aveva in sua presenza annientata la pericolosa lettera unica prova contro di lui? egli aspettava adunque, muto e pensieroso, e cercava di fendere coll’occhio da marinaio esercitato alle tenebre, e assuefatto allo spazio, la oscurità della notte. Lasciata a destra l’isola _Ratonneau_ su cui riluceva il Faro, e sempre costeggiando erano arrivati all’altezza del seno dei Catalani. Là, gli sguardi del prigioniero raddoppiarono di energia: era là che stava Mercedès e gli sembrava ad ogni momento vedere delinearsi sulla riva oscura la forma vaga ed indecisa di una donna. Come mai un presentimento non diceva allora a Mercedès che il suo amante passava in quel momento a trecento passi lontano da lei? Un sol lume brillava ai Catalani. Studiando la posizione di questo lume, Dantès riconobbe che esso rischiarava la camera della sua fidanzata. Mercedès era la sola che vegliava in tutta la piccola colonia. Alzando un grido poteva il giovinotto essere inteso dalla sua fidanzata: una falsa vergogna lo trattenne; che direbbero coloro che lo custodivano sentendolo gridare come un insensato? egli restò dunque muto cogli occhi fissi su quel lume. Frattanto la barca continuava il suo cammino; ma il prigioniero non pensava punto alla barca, egli pensava a Mercedès. Una situazione del terreno fece scomparire il lume. Dantès si voltò e vide allora che la barca prendeva il largo. Nel mentre che egli guardava il lume, assorto nei propri pensieri, non si era avveduto che ai remi erano state sostituite le vele, e che la barca camminava spinta dal vento. Ad onta della repugnanza che provava Dantès a fare delle nuove interrogazioni al gendarme, egli si appressò a lui e stringendogli la mano gli disse — Gendarme, in nome della vostra coscienza, e per la vostra qualità di soldato, io vi scongiuro ad aver pietà di me e di rispondermi. Io sono il capitano Dantès, leale e buon francese, quantunque accusato di non so qual tradimento, ove mi conducete? ditelo, e sulla fede di marinaio io mi adatterò al mio dovere, e mi rassegnerò al mio destino. Il gendarme si grattò l’orecchio, e guardò il suo camerata. Questi fece un movimento, quasi avesse voluto dire: «mi sembra che al punto in cui siamo non vi sia a temere alcun inconveniente». Il gendarme allora si rivoltò verso Dantès e gli disse: — Voi siete Marsigliese e marinaio e domandate a me dove andiamo? — Sì, poichè sul mio onore non lo so. — Non ne avete alcun sospetto? — Alcuno. — È impossibile! — Io ve lo giuro per quanto vi è di più sacro al mondo. Rispondetemi adunque di grazia! — Ma la consegna? — La consegna non vi proibisce di dirmi ciò che saprò fra dieci minuti, fra una mezz’ora, forse fra un’ora; soltanto voi mi risparmierete di qui a là dei secoli d’incertezza. Io ve lo domando come se voi foste un mio amico. Osservate, io non voglio nè rivoltarmi nè fuggire; d’altra parte non lo posso. Su via, ove andiamo noi? — Ammenochè non abbiate la benda agli occhi o non siate mai uscito dal porto di Marsiglia, dovete ora indovinare ove andiamo. — Eppure... — Allora guardate attorno a voi. — Dantès si alzò, tese naturalmente lo sguardo verso il punto a cui sembrava dirigersi il battello, e vide cento tese lontano innalzarsi la nera e scoscesa roccia sulla quale è posta come una superfetazione di silce il nero castello d’If. Questa forma strana, questa prigione ove regna un sì profondo terrore, questa fortezza che fa vivere da trecent’anni Marsiglia nelle sue lugubri tradizioni, compariva ad un tratto innanzi a Dantès che non pensava punto ad essa, e gli fece l’effetto che fa ad un condannato a morte la vista del patibolo. — Ah! mio Dio! gridò egli, il castello d’If! e che andiamo noi a far là? Il gendarme sorrise. — Ma non sarò già condotto là per esservi imprigionato? continuò Dantès. Il castello d’If è una prigione di stato soltanto pei grandi colpevoli politici. Io non ho commesso alcun delitto. Vi sono forse dei giudici d’istruzione, dei magistrati qualunque al castello d’If? — Non vi sarà io suppongo, disse il gendarme, che un governatore, dei carcerieri, una guarnigione e delle ottime mura. Andiamo, andiamo, amico, non mi fate tanto il sorpreso, poichè in verità mi farete credere che voleste ricompensare la mia compiacenza col burlarvi di me. Dantès strinse la mano del gendarme sì forte che pareva volesse infrangergliela. — Voi pretendete adunque che mi si conduca al castello d’If per esservi imprigionato? — Probabilmente, disse il gendarme; ma in ogni modo camerata, è inutile stringermi la mano così fortemente. — Senz’altre informazioni, senz’altra formalità? disse il giovinotto. — Le formalità sono compite, l’informazione è fatta. — Così ad onta della promessa del sig. de Villefort... — Io non so se Villefort vi ha fatta una promessa, disse il gendarme, quello che so, si è che noi andiamo al castello d’If. Ebbene! che fate adesso? Olà camerati, a me! Con un movimento pari al baleno, ma che però era stato preveduto dall’occhio esercitato del gendarme, Dantès aveva voluto slanciarsi in mare, ma quattro mani vigorose lo trattennero al momento in cui i suoi piedi lasciavano il piantito del battello. Egli ricadde nel fondo della barca urlando di rabbia. — Bravo! gridò il gendarme, mettendogli un ginocchio sul petto, ecco come voi mantenete la vostra parola da marinaio! fidatevi delle persone melliflue! Ebbene, ora, mio caro, se fate un movimento, un sol movimento, io vi mando una palla nella testa, ho tradita la prima mia consegna, ma vi assicuro che non mancherò alla seconda. — E di fatto abbassò la sua carabina verso Dantès, che sentì appoggiarsi come un anello di gelo l’estremità della canna sulla tempia. Un momento egli ebbe l’idea di eseguire il proibito movimento e di finirla così violentemente coll’inatteso infortunio che si era gettato sopra di lui coi suoi artigli d’avvoltoio; ma giusto perchè questa infelicità era inattesa, Dantès pensò che non poteva durare; gli tornarono al pensiero le promesse di Villefort; e poi bisogna anche dirlo, questa morte così nel fondo di un battello, dalle mani di un gendarme gli parve lurida e nuda. Egli ricadde adunque sul piantito della barca mandando un urlo di rabbia e rodendosi con furore le mani. Quasi nel medesimo momento un urto violento ripercosse il battello, uno dei battellieri saltò sulla roccia che era stata toccata dalla piccola barca, una corda si svolse dall’interno di una puleggia, Dantès s’accorse che erano arrivati, e che si ammarrava lo schifo. Infatti i suoi guardiani che lo tenevano ad un tempo e per le braccia, e pel colletto dell’abito, lo sforzarono di rialzarsi, lo costrinsero a discendere a terra, e lo trasportarono verso gli scalini che mettevano alla porta della cittadella, mentre che l’_esente_ armato di moschetto colla baionetta li seguiva di dietro. Dantès del resto non fece più alcuna inutile resistenza; la sua lentezza proveniva più da inerzia che da opposizione. Egli era stordito e barcollava come un ubbriaco. Vide di nuovo i soldati che si schieravano sulla rapida china, sentì dei scalini che lo forzarono ad alzare i piedi, si accorse che passava sotto una porta, e che questa porta si chiudeva dietro di lui ma tutto ciò macchinalmente come attraverso di una densa nebbia senza distinguer nulla di positivo. Egli non vedeva neppur più il mare, questo immenso dolore dei prigionieri che guardano lo spazio col terribile sentimento che sono impotenti a superarlo. Vi fu una sosta di un momento durante la quale egli cercò di raccogliere i suoi spiriti. Egli guardò intorno a sè; era in un cortile quadrato formato da quattro grandi muraglie; si sentivano i passi lenti e regolari delle sentinelle ed ogni volta che esse passavano davanti al riflesso che veniva proiettato sulle muraglie dalla luce di due o tre lumi che ardevano nell’interno del castello, si vedeva scintillare la canna dei loro moschetti. Si attese dieci minuti circa. Certi che Dantès non poteva più fuggire lo avevano lasciato; sembrava che si aspettassero degli ordini, e questi ordini giunsero. — Ov’è il prigioniero? domandò una voce. — Eccolo, risposero i gendarmi. — Che mi segua; io lo condurrò al suo alloggio. — Andate! dissero i gendarmi dando una spinta a Dantès. Il prigioniero seguì la sua guida, che lo condusse difatti in una sala quasi sotterranea, le cui muraglie nude ed umide sembravano impregnate da un vapore di lagrime. Una specie di lampione, posato sopra uno sgabello ed il cui lucignolo nuotava in un grasso fetido illuminava le pareti di questo spaventoso soggiorno, e mostrava a Dantès il suo conduttore, che era una specie di carceriere subalterno, mal vestito e pur di lurido aspetto. — Ecco la vostra camera per questa notte, diss’egli. È tardi ed il sig. Governatore è andato a letto; domani quando si sarà alzato, ed avrà conosciuti gli ordini che vi concernono, forse vi cambierà di domicilio. Frattanto eccovi del pane. Vi è dell’acqua in questa brocca, della paglia laggiù in quel cantone; insomma vi è tutto quello che un prigioniero può desiderare. Buona sera. — E prima che Dantès avesse pensato ad aprir la bocca per rispondergli, prima che avesse veduto ove il carceriere avesse posto il pane, prima che si fosse renduto conto della direzione ove stava la brocca, prima che avesse voltati gli occhi verso l’angolo ove lo aspettava quella paglia destinata a servirgli di letto, il carceriere aveva preso il lampione e chiudendo la porta aveva tolto al prigioniero quella luce incerta che gli aveva mostrato come al chiarore di un lampo le umide muraglie della sua prigione. Allora egli trovossi solo nelle tenebre e nel silenzio così muto e così tetro quanto le volte di cui egli sentiva il freddo agghiacciante abbassarsi sulla sua fronte che bruciava. Quando i primi raggi del giorno ebbero ricondotto un poco di luce in quest’antro, il carceriere ritornò coll’ordine di lasciare il prigioniero ove era. Dantès non aveva cambiato di luogo, una mano di ferro sembrava averlo inchiodato nello stesso posto in cui si era fermato entrando; soltanto il suo occhio profondo si nascondeva sotto una gran gonfiezza cagionata dall’umido vapore delle sue lagrime; egli era immobile e guardava il terreno. Aveva passata così tutta la notte, in piedi, senza dormire un solo istante; il carceriere si avvicinò a lui; gli girò attorno, ma Dantès non pareva vederlo, gli battè sulla spalla e Dantès rabbrividì scuotendo la testa. — Non avete dormito? domandò il carceriere. — Non lo so, rispose Dantès. Il carceriere lo guardò con meraviglia. — Non avete fame? continuò egli. — Non lo so, rispose ancora Dantès. — Volete voi qualche cosa? — Vorrei vedere il Governatore. Il carceriere alzò le spalle ed uscì. Dantès lo seguì cogli occhi, stese le mani verso la porta socchiusa; ma questa venne chiusa a sbarre. Allora il suo petto sembrò squarciarsi in un lungo singulto. Le lagrime che gli gonfiavano le palpebre scorsero come due ruscelli, egli si precipitò colla fronte per terra e pregò lungo tempo, esaminando collo spirito tutta la sua vita passata, e chiedendo a sè stesso qual delitto aveva commesso in questa vita ancor sì giovanile, che potesse meritargli una tal crudele punizione. La giornata scorse così; fu molto se egli mangiò qualche boccone di pane, bevette qualche goccia d’acqua. Ora egli restava assiso assorto nei suoi pensieri, ora girava intorno alla sua prigione come fa una bestia feroce chiusa in una gabbia di ferro. Un solo pensiero lo faceva soprattutto trasecolare; ed era che, durante questa traversata in cui, ignorando il luogo ove era condotto, egli era rimasto sì queto, sì tranquillo, avrebbe potuto ben dieci volte gettarsi in mare, ed una volta nell’acqua, mercè la sua abilità nel nuotare, mercè l’abitudine, che faceva di lui uno dei più abili nuotatori di Marsiglia, sparire sotto all’acqua, fuggire ai suoi guardiani, guadagnare la costa, salvarsi, nascondersi in qualche luogo deserto, attendere un bastimento genovese o catalano, raggiungere l’Italia o la Spagna, e di là scrivere a Mercedès che venisse a lui; quanto alla sua vita in nessuna contrada poteva esserne inquieto, in ogni luogo i buoni marinai sono rari; parlava l’italiano come un toscano; parlava lo spagnuolo come un figlio della vecchia Castiglia. Egli avrebbe vivuto libero, felice con Mercedès, con suo padre, perchè suo padre sarebbe venuto a raggiungerlo; mentrechè era ora prigioniero, chiuso nel castello d’If, in così sicura prigione, non sapendo che cosa accadeva a suo padre, che a Mercedès, e tutto ciò perchè egli aveva creduto alla parola di Villefort. Era un divenire pazzo. Così Dantès si rotolava furioso sulla paglia fresca che il carceriere gli aveva portato. L’indomani alla stess’ora il carceriere rientrò. — Ebbene, gli domandò, oggi siete più ragionevole di ieri? Dantès non rispose parola. — Fatevi dunque, disse l’altro, un poco di coraggio... desiderate qualche cosa che sia in mio potere? dite. — Io desidero parlare al Governatore. — Eh? disse il carceriere con impazienza, vi ho di già detto che è impossibile... — Perchè è impossibile? — Perchè nei regolamenti della prigione vi è, che a nessun prigioniero sia permesso domandarlo. — E quali sono i permessi che qui si possono avere? — Un miglior vitto pagandolo, la passeggiata, e qualche volta dei libri. — Non ho bisogno di libri, non mi curo di fare passeggiate, trovo buono il mio vitto; per tal modo non ho bisogno che di una cosa, quella cioè di parlare al Governatore... — Se mi annoiate ancora un’altra volta con questa domanda, non vi porto più da mangiare. — Ebbene, disse Dantès, se non mi porti più da mangiare, morirò di fame, ecco tutto. — L’accento col quale Dantès pronunciò queste parole, provò al carceriere che il suo prigioniero si sarebbe stimato felice a morire. Così siccome ogni prigioniero fatti i conti, fruttava al carceriere circa dieci soldi al giorno, quello di Dantès fece il calcolo della perdita che risulterebbe per lui dalla sua morte; quindi riprese con tuono più addolcito: — Ascoltatemi, ciò che desiderate è impossibile; non lo domandate più perchè non vi ha esempio che per la domanda di un prigioniero il Governatore sia venuto nella sua carcere a ritrovarlo; soltanto coll’essere savio vi si potrà permettere la passeggiata, ed allora sarà possibile che un giorno o l’altro, durante questa possa passare a voi vicino il Governatore; nel qual caso, voi lo potrete interrogare, ed egli, se vuole, vi risponderà. — Ma, quanto tempo potrò aspettare prima che questo caso si presenti? — Diamine! disse il carceriere, un mese, tre mesi, sei mesi, e forse anche un anno. — È troppo, disse Dantès, voglio vederlo subito. — Ah! disse il carceriere, non vi lasciate infatuare così da un desiderio solo ed impossibile, o prima di quindici giorni diventerete pazzo. — Ah! tu lo credi? disse Dantès. — Sì pazzo, è sempre così che comincia la pazzia, noi qui ne abbiamo avuti e ne abbiam tuttora degli esempi. Lo scienziato che abitava questa camera prima di voi, dette volta al cervello per essersi fitto in mente di voler esser messo in libertà mediante un milione che incessantemente offriva al Governatore. — E quanto tempo è che ha lasciato questa camera? — Due anni. — E fu messo in libertà? — No, fu messo in segrete. — Ascolta, disse Dantès, io non sono uno scienziato, nè sono un pazzo; forse lo diventerò; ma disgraziatamente in questo momento ho ragione; voglio farti una proposizione. — E quale? — Io non ti offrirò un milione perchè non potrei dartelo; ma ti offrirò cento scudi, se tu vuoi la prima volta che andrai a Marsiglia, giungere fino ai Catalani e portare una lettera ad una giovinetta che si chiama Mercedès, ma neanche una lettera, appena due righe. — Se io portassi due righe, e fossi scoperto, perderei il mio posto che è di mille lire l’anno senza contare gl’incerti. Vedete dunque che sarei un grande imbecille se volessi arrischiare di perder mille lire per guadagnarne trecento. — Ebbene, disse Dantès, ascolta e ritieni bene a mente quel che ti dico; se ricusi di avvertire il Governatore, che io desidero parlargli, se ricusi di portare due righe a Mercedès o di prevenirla almeno che io sono qui, un giorno o l’altro, io ti aspetto nascosto dietro la porta, e nel momento che entri ti spacco la testa collo sgabello. — Delle minacce! gridò il carceriere, facendo un passo addietro e mettendosi sulla difesa. Infallibilmente la testa vi gira, lo scienziato ha cominciato come voi, e fra tre giorni sarete pazzo come lui. Fortunatamente che nel castello d’If vi sono delle segrete. — Dantès prese lo sgabello, e se lo fece velocemente girare intorno alla testa. — Sta bene, sta bene, disse il carceriere, dappoichè voi lo volete assolutamente, andrò ad avvertire il Governatore. — Alla buon’ora! disse Dantès, posando lo sgabello e sedendovi sopra, colla testa bassa e gli occhi stravolti, come se veramente diventasse pazzo. — Il carceriere uscì e dopo pochi minuti rientrò con quattro soldati ed un caporale. — Per ordine del Governatore, diss’egli, fate discendere il prigioniero nel piano sottoposto. — Nelle segrete adunque? disse il caporale. — Nelle segrete. Bisogna mettere i pazzi coi pazzi. I quattro soldati s’impadronirono di Dantès, che cadendo in una specie di atonia, li seguì senza resistenza, gli furono fatti discendere quindici scalini, dopo i quali fu aperta una segreta in cui entrò mormorando: — Egli ha ragione, bisogna mettere i pazzi coi pazzi! — La porta fu chiusa e Dantès camminò con le mani stese innanzi a sè fino a che urtò nel muro, allora si assise in un angolo e restò immobile, nel mentre che i suoi occhi, abituandosi un poco per volta all’oscurità cominciarono a distinguere gli oggetti. Il carceriere aveva ragione, mancava ben poco a Dantès per divenire pazzo. IX. — LA SERA DEGLI SPONSALI. Villefort, come abbiam detto, aveva ripreso la strada del Gran Corso e rientrando in casa del marchese di S. Méran, trovò i convitati che avevano lasciata la tavola ed erano passati nella sala di conversazione a prendere il caffè. Renata lo attendeva con una impazienza divisa da tutto il resto della società. Fu egli perciò accolto da una esclamazione generale. — Ebbene! taglia teste, sostegno dello Stato, Bruto regio, gridò uno, che abbiamo di nuovo? sentiamo. — Siamo noi minacciati nuovamente dal regime del terrore? diss’un altro — Il lupo della Corsica è uscito dalla sua caverna? chiese un terzo. — Signora marchesa, disse Villefort accostandosi alla sua futura suocera, vi prego volermi perdonare se sono costretto di lasciarvi così... Signor marchese, potrò io avere l’onore di dirvi una parola in disparte? — Ah! dunque si tratta di un affare grave? domandò la marchesa, vedendo oscurarsi la fronte di Villefort. — Tanto grave, che son costretto a prendere un congedo di qualche giorno da voi. Così, continuò egli volgendosi a Renata, vedete bene se bisogna che sia veramente un affare serio! — Voi partite? gridò Renata, incapace di nascondere l’emozione che le cagionava questa inattesa novella. — Ahimè! sì, rispose Villefort, è indispensabile. — E dove andate voi dunque? domandò la marchesa. — Questo è il segreto della giustizia, signora. Ciò nonostante se qualcuno di questi signori ha delle commissioni per Parigi, io ho un amico che parte questa sera e che se ne incaricherà volentieri. (Tutti lo guardarono con sorpresa). — Voi mi avete domandato un colloquio particolare? disse il marchese. — Sì, passiamo nel vostro gabinetto, se permettete. — Il marchese prese il braccio di Villefort, ed uscì con lui. — Ebbene! domandò questi, entrando nel suo gabinetto; che è avvenuto? parlate! — Cose che io credo della più alta importanza, e che richiedono che io parta al momento per Parigi. Frattanto marchese scusate l’indiscretezza della mia domanda; avete voi rendite sullo Stato? — Tutta la mia fortuna è in cartelle dello Stato, 6. a 700. mila fr. circa. — Ebbene! vendete, marchese; vendete o siete rovinato! Avete un banchiere? — Sì. — Datemi una lettera per lui, e che egli venda senza perdere un minuto, senza perdere un secondo! forse ancora io non arriverò che troppo tardi! — Diavolo! disse il marchese, non perdiamo dunque tempo. E si mise a tavolino, scrisse una lettera al suo agente di cambio, al quale gli ordinava di vendere ad ogni patto. — Ora che possedo questa lettera, disse Villefort, chiudendola con ogni cura nel suo portafoglio, me ne abbisogna un’altra. — Per chi? — Pel Re. — Pel Re? — Sì. — Ma non oso prendermi l’ardire di scrivere a Sua Maestà. — Perciò non è a voi che io la domando, ma v’incarico di chiederla al signor de Servieux. Bisogna che egli mi dia una lettera per mezzo della quale io possa giungere fino a Sua Maestà senza essere sottomesso a tutte le formalità della domanda di una udienza, che possono farmi perdere un tempo prezioso. — Ma, non avete voi il guarda-sigilli, che ha facile l’entrata alle Tuglierie, e per mezzo del quale potete giungere al Re di giorno e di notte? — Sì, senza dubbio; ma è inutile che io divida con un altro il merito della notizia che porto, capite? Il guarda-sigilli mi porrebbe naturalmente al secondo rango e mi toglierebbe il benefizio del mio viaggio. Io vi dico una cosa sola, marchese, la mia carriera è assicurata se pel primo giungo alle Tuglierie, perchè renderò al Re un servigio che non potrà dimenticare. — In questo caso, mio caro, andate a fare la vostra valigia, io chiamo Servieux, e gli faccio scrivere la lettera che deve servirvi di lasciapassare. — Bene, non perdete tempo, perchè fra un quarto d’ora bisogna che io sia in sedia di posta. — Fate fermare la vostra carrozza avanti la porta della mia casa. — Senza dubbio; farete le mie scuse alla marchesa, ed a madamigella di S. Méran che io lascio in un simil giorno col più profondo dispiacere. — Voi le troverete entrambe nel mio gabinetto, e potrete far loro i vostri addii. — Mille grazie, occupatevi della mia lettera. — Il marchese suonò, un servo comparve. — Dite al conte di Servieux che io lo aspetto, disse il marchese. Ora andate, continuò egli, dirigendosi a Villefort, siete libero. — Sta bene, io non faccio che andare e tornare. Villefort uscì correndo; ma giunto alla porta pensò che un sostituto del procuratore del Re se fosse stato veduto a camminare con passo precipitato, correva rischio di turbare il riposo di tutta la città; riprese adunque il suo moto ordinario di andare, che in tutto era da magistrato. Alla sua porta scoperse nell’oscurità un che come un bianco fantasma che lo aspettasse ritto ed immobile. Era la bella catalana che non avendo avuto notizie di Edmondo era fuggita dal Faro sul cominciar della notte per venire a sapere da sè stessa la causa dell’arresto del suo amante. All’avvicinarsi di Villefort, ella si staccò dal muro contro cui era appoggiata, e venne a sbarrargli il cammino. Dantès avea parlato della sua fidanzata al sostituto; e Mercedès non ebbe bisogno di nominarsi, per essere riconosciuta da Villefort; fu sorpreso della bellezza di questa donna, ed allorchè ella gli domandò che era avvenuto del suo amante, gli sembrò d’esser egli l’accusato, ed ella il giudice. — L’uomo di cui mi parlate, disse bruscamente Villefort, è un gran colpevole, io non posso far niente per lui. — Mercedès lasciossi sfuggire un singulto, e siccome Villefort cercava di passare oltre, ella lo fermò una seconda volta. — Ma almeno dov’è — domandò ella, che io possa informarmi se è vivo o morto. — Io non lo so, non mi appartiene più, rispose Villefort. E, impacciato da quello sguardo fisso, da quella attitudine supplichevole respinse Mercedès, ed entrò chiudendo fortemente la porta, come per lasciar di fuori questo dolore che gli veniva cagionato. Ma il dolore non si lascia respingere in tal modo; come la freccia mortale di cui parla Virgilio, l’uomo ferito la trasporta seco. Villefort rientrò, chiuse la porta; ma giunto nella sala le gambe gli venner meno, mandò un sospiro, che sembrò un singulto, e si lasciò cadere sopra un divano. Allora nel fondo di questo cuore malato nacque il primo germe di un’ulcera mortale; quest’uomo ch’egli sacrificava alla sua ambizione, questo innocente che scontava la pena di suo padre colpevole, gli apparve pallido e minaccioso dando la mano alla sua fidanzata, pallida anch’essa come lui, trascinando dietro loro i rimorsi, non quelli che fanno vacillare il malato come i furiosi dell’antica fatalità, ma quel tintinnìo sordo e doloroso che, in certi momenti, colpisce diritto al cuore e lo lacera col ricordo di un’azione passata: laceramento i cui vivi dolori corrodono un male che si approfondisce sempre più fino al giorno della morte. Allora vi fu nell’anima di quest’uomo un momento ancora di esitanza. Già parecchie volte lo aveva provato, e ciò senz’altra emozione che quella della lotta tra il giudice e l’accusato, la pena di morte contro i prevenuti, e la memoria di questi prevenuti giustiziati mercè la sua fulminante eloquenza che aveva abbagliati o i giudici, o i _giurati_, e non aveva neppur lasciato una nube sulla sua fronte, perchè i prevenuti erano rei, o tali almeno li credea Villefort. Ma questa volta era ben’altra cosa, la pena del carcere perpetuo era stata inflitta ad un innocente che era sul punto di essere felice e del quale egli non solo struggeva la libertà, ma ancora la felicità. Questa volta egli non era più un giudice, era un carnefice! Pensando a ciò, si sentì quel battito sordo che abbiamo descritto, e che gli era sconosciuto fino allora, ripercuotersi nel fondo del cuore, e riempiergli il petto di vaghe apprensioni; egli è così che per un violento soffrire instintivo, il ferito è avvertito di non avvicinare giammai, senza tremare, il dito alla sua ferita aperta e grondante sangue, prima che questa non sia cicatrizzata. Ma la ferita che aveva ricevuta Villefort era di quelle che non si chiudono mai, o se si chiudono, è solo per riaprirsi più sanguinose e più dolorose di prima. Se in questo momento la dolce voce di Renata gli fosse risuonata all’orecchio per domandargli grazia, se la bella Mercedès fosse entrata e gli avesse detto: «in nome di quel Dio che ci guarda e che sarà nostro giudice, rendetemi il mio fidanzato», sì, questa fronte per metà piegata sotto la necessità, si sarebbe spiegata del tutto, e colle sue mani ghiacciate avrebbe senza dubbio, anche col rischio di tutto ciò che poteva avvenirgli, segnato l’ordine che fosse messo in libertà Dantès. Ma nessuna voce mormorò nel silenzio, e la porta non si aprì che per dare adito ad un cameriere di Villefort, il quale veniva ad annunziare, essere i cavalli di posta attaccati alla carrozza da viaggio. Villefort si alzò o piuttosto balzò come un uomo che trionfa d’un’interna lotta; corse al suo scrigno, versò nelle sue saccocce tutto l’oro che vi si ritrovava, girò un istante smarrito per la camera colla mano sulla fronte e articolando parole interrotte; poi finalmente sentendo che il cameriere gli aveva posato sulle spalle il mantello, uscì, si slanciò nella carrozza, e ordinò con voce tronca di passare per la strada Gran Corso, e di fermarsi avanti la porta del marchese di S. Méran. Come lo aveva promesso S. Méran, Villefort trovò la marchesa e la figlia nel gabinetto. Vedendo Renata il Sostituto rabbrividì, perchè ebbe timore che la giovinetta gli domandasse un’altra volta la libertà di Dantès. Ma pur troppo! bisogna dirlo, la giovinetta non era preoccupata che da una cosa, dalla partenza di Villefort. Ella amava Villefort; questi partiva nel momento che diveniva suo marito; nè poteva dire quando sarebbe ritornato, e Renata in vece di perorare per Dantès, malediceva l’uomo che pel suo delitto la separava dall’amante. Che doveva dunque dire Mercedès! la povera Mercedès aveva ritrovato Fernando all’angolo della strada _La Loge_ che l’aveva seguita; ella era rientrata ai Catalani, e pel dolore moribonda e disperata si era gettata sul letto. Davanti a questo Fernando si era messo in ginocchio a stringendo la gelida mano di Mercedès che non pensava a ritirarla, la copriva di ardenti baci che Mercedès non sentiva. Ella passò la notte così; la lampada si spense quando non vi fu più olio, ella non vide l’oscurità, come non aveva veduto la luce, e il giorno ritornò senza che ella se ne accorgesse. Il dolore avevale posto innanzi gli occhi una benda che non le lasciava vedere che Edmondo. — Ah! voi siete qui, disse finalmente volgendosi alla parte di Fernando. — Da ieri sera non vi ho più lasciata, rispose Fernando con un doloroso sospiro. In quanto a Morrel non si era dato per vinto. Egli aveva saputo che Dantès dopo il primo interrogatorio era stato tradotto in prigione; allora corse da tutti i suoi amici. Si era presentato a tutte quelle persone di Marsiglia che potevano avere qualche influenza! ma di già correva voce che il giovinotto era stato arrestato sotto la presunzione di essere un messo bonapartista; e siccome allora anche i più arrischiosi credevano un sogno insensato ogni tentativo di Napoleone per ritornare sul trono; così Morrel aveva ritrovato freddezza, timore, rifiuto, ed era tornato a casa disperato, ma convenendo ciò non pertanto che la posizione era grave, e che nessuno poteva farci niente. Caderousse da sua parte era molto inquieto e tormentato. In vece di uscire come aveva fatto Morrel, in vece di tentare qualche cosa in favore di Dantès, pel quale d’altra parte non poteva far niente, si era rinchiuso nella camera con due bottiglie di vino di _cassis_ ed avea cercato di annegare la sua inquietudine nell’ubbriachezza. Ma nello stato di spirito in cui trovavasi, due bottiglie erano troppo poca cosa per assopire la ragione. Era troppo ubbriaco per poter andare a cercare altro vino, era poco ubbriaco perchè l’ubbriachezza gli avesse potuto estinguer la memoria. Appoggiato sui gomiti ad una tavola di legno in faccia a queste bottiglie vuote, vedeva danzare al riflesso della sua candela al lungo lucignolo tutti quei spettri che Hoffman ha sparsi sui suoi manoscritti inumiditi dal _punche_ come una polvere nera e fantastica. Danglars solo non era nè tormentato nè inquieto; era anzi allegro, poichè si era vendicato di un nemico, ed aveva assicurata a bordo del _Faraone_ la carica che temeva di perdere. Danglars era uno di quegli uomini di calcolo che nascono con una penna dietro l’orecchio e un calamaio nel posto del cuore: per lui a questo mondo tutto era sottrazione o moltiplicazione, e una cifra gli sembrava molto più preziosa di un uomo, quando essa poteva aumentare il totale che quest’uomo poteva diminuire. Danglars era dunque andato a letto come di ordinario, e dormiva tranquillamente. Villefort dopo di avere ricevuto dal sig. de Servieux una lettera diretta al conte de Blacas, baciò la mano alla marchesa di S. Méran, strinse quella del marchese e correva la posta sulla strada d’Aix. Il padre di Dantès si moriva dal dolore e dall’inquietudine. Di Edmondo noi abbiamo veduto ciò che accadde. X. — IL PICCOLO GABINETTO DELLE TUGLIERIE. Lasciamo Villefort sulla strada di Parigi, ove mercè il triplicar delle mance divorava la strada, e penetriamo attraverso i due o tre saloni che lo precedono nel piccolo gabinetto delle Tuglierie tanto ben conosciuto per essere stato il gabinetto favorito di Napoleone e di Luigi XVIII, e per essere oggi giorno quello del Re Luigi Filippo. Là, assiso davanti ad una tavola di nocciuolo, che era stata trasportata da Hartwell; e per uno di quei capricci familiari ai gran personaggi egli vi portava una particolare affezione, il Re Luigi XVIII ascoltava con poca attenzione un uomo dai 50 a 52 anni, coi capelli grigi, di viso nobile e severo, facendo delle postille sul margine di un volume di Orazio, di edizione del _Gryphius_, molto scorretta quantunque stimata, e che ben si adattava alle sagaci osservazioni filosofiche di sua Maestà. — Voi dicevate adunque signore? disse il re... — Che io sono talmente inquieto da non potersi più, sire. — Davvero! avete veduto in sogno sette vacche grasse, e sette magre? — No Sire, perchè ciò non ci annunzierebbe che sette anni di fertilità e sette anni di carestia, e con un re previdente come vostra Maestà la carestia non sarebbe stata a temersi. — Di qual altro flagello si tratta adunque, mio caro Blacas? — Sire, io temo qualche tentativo disperato. — E per parte di chi? — Di Bonaparte; o almeno dei suoi parteggiani. — Mio caro Blacas, disse il Re, coi vostri terrori m’impedite di lavorare. — Vostra Maestà mi ordina forse di non più insistere su questo argomento? — No, caro conte. Ma allungate la mano, laggiù, a sinistra vi troverete il rapporto del ministro di polizia in data di ieri... Ma eccolo, egli stesso... N’è vero annunziate il ministro di polizia? interruppe Luigi XVIII volgendosi all’usciere. Entrate, barone, e raccontate al conte ciò che sapete, e di più recente, sul conto di Bonaparte. Non ci dissimulate niente della situazione per quanto essa sia grave. Sentiamo, l’isola d’Elba è forse un vulcano, e siamo noi per vederne uscire la guerra tutta fiammeggiante, _bella, horrida bella_? — Vostra Maestà, disse il ministro, avrà consultato il rapporto di ieri. — Sì, sì, ma dite al conte, che non ha potuto trovarlo, ciò che contiene questo rapporto; ditegli in minuti particolari ciò che fa l’usurpatore nella sua isola. — Signore, disse il barone al conte, tutti i buoni servitori di Sua Maestà non hanno che a rallegrarsi delle recenti notizie che ci giungono dall’isola d’Elba. Bonaparte si annoia mortalmente; passa delle intere giornate a veder lavorare alle miniere di Portolongone. Vi è di più: noi siamo quasi sicuri che fra poco tempo l’Usurpatore diventerà pazzo. — Pazzo? — Pazzo da legare. La sua testa s’indebolisce. Ora egli piange a calde lagrime, ora ride a gola aperta; altre volte passa delle ore intere sulla riva a gettar sassi nell’acqua e quando il sasso ha fatto cinque o sei sbalzi, sembra così contento come se avesse guadagnato un altro Marengo o un nuovo Austerliz. Ne converrete, credo, esser questi segni di pazzia. — O di saggezza, signor barone, o di saggezza, disse ridendo Luigi XVIII. I grandi capitani dell’antichità si divertivano anch’essi a gettare dei sassi in mare; vedete Plutarco alla _Vita di Scipione Affricano_. Ebbene! Blacas che ne pensate voi? disse il Re sospendendo un istante di consultare il voluminoso libro scolastico che teneva aperto innanzi a sè. — Io dico, Sire, che o il ministro di polizia, o io ci sbagliamo. Ma siccome è impossibile che sia il ministro di polizia, poichè ha in guardia l’onore e la salute di V. M., è probabile che faccia errore io. Ciò nonostante, Sire, al posto di V. M. vorrei interrogar la persona cui ordinai d’invigilare il mezzogiorno, e che giunge per la posta per dirmi: «Un gran pericolo minaccia il re». Ecco perchè bramerei che Vostra Maestà gli facesse quest’onore. — Volentieri, conte; sotto i vostri auspici io riceverò chi vorrete; ma voglio riceverlo colle armi alla mano. Signor ministro, avete voi un rapporto più recente di questo? perchè questo è dato dal 20 febbraio, e noi siamo ai 4 di marzo. — No, Sire, ma io ne attendo uno da un’ora all’altra. Sono uscito da questa mattina e nella mia assenza può esser giunto... — Andate alla prefettura, se ve n’è uno portatelo; e se non c’è... Ebbene! ebbene... continuò ridendo Luigi XVIII, se non c’è, fatene uno. Non è così che si pratica forse? — Oh! Sire, disse il ministro, grazie a Dio sotto questo rapporto non c’è bisogno d’inventar niente; ogni giorno i nostri uffici sono ingombrati da una quantità di denunzie particolareggiate che provengono da una folla di poveri diavoli che sperano un poco di riconoscenza per i servigi che non rendono, ma che vorrebbero rendere. Essi giuocano alla ventura, e sperano che un giorno un qualche inatteso avvenimento venga a dare una specie di verità alle loro predizioni. — Va bene; andate, signore, disse Luigi XVIII, e pensate che vi aspetto. — Io non faccio che andare e tornare, Sire, e fra dieci minuti sono ai vostri comandi. — Ed io, Sire, disse Blacas, vado a cercare il mio messaggiero che ha fatto dugento venti leghe, e ciò appena in tre giorni. — Egli è bene un prendersi della fatica e dell’incomodo, mio caro conte, quando abbiamo i telegrafi che c’impiegano tre o quattro ore, e ciò senza che il proprio fiato ne soffra menomamente. — Ah! Sire, voi ricompensate molto male questo povero giovinotto che giunge così di lontano e con tanto ardore per recare un utile avviso a vostra Maestà! Non fosse che per il conte di Servieux che me lo raccomanda, io vi supplico di riceverlo bene. — De Servieux, il ciambellano di mio fratello? — Egli stesso. — Infatto ora trovasi a Marsiglia. — Ed è di là che mi scrive. — Vi parla egli pure di questa cospirazione? — No, ma egli mi raccomanda il sig. de Villefort e mi incarica di introdurlo presso vostra Maestà. — De Villefort! gridò il Re; e perchè non me lo avete detto subito? soggiunse lasciando scorgere sul viso un principio d’inquietudine. — Sire, io credeva che questo nome fosse sconosciuto a V. M. — No, no, davvero, mio caro Blacas, egli è uno spirito serio, elevato, e soprattutto ambizioso; eh! per bacco! voi conoscerete di nome suo padre, Noirtier. — Noirtier, il girondino? Noirtier il senatore? — Precisamente. — E Vostra Maestà ha impiegato il figlio di un tal uomo? — Mio caro conte, vi ho di già detto che Villefort è ambizioso; e per inalzarsi, Villefort sacrificherà tutto, anche suo padre. — Allora, Sire debbo farlo entrare? — Sul momento, conte. Ov’è egli? — Mi aspetta a basso nella mia carrozza. Il conte uscì colla vivacità di un giovinotto, l’ardore sincero per la causa regia gli dava la sveltezza di vent’anni. Luigi XVIII restò solo, riportando gli occhi sul suo Orazio mezz’aperto, mormorò: _Justum et tenacem propositi virum_. Blacas risalì colla stessa velocità con cui era disceso; ma nell’anticamera fu costretto ad invocare l’autorità del Re; l’abito polveroso di Villefort, il suo costume niente conforme alla tenuta di corte, aveva eccitato gli scrupoli del maestro di cerimonie, che fu maravigliato di trovare in questo giovinotto la pretensione di presentarsi al Re vestito in quel modo; ma il conte tolse tutte le difficoltà colle semplici parole: Ordine di Sua Maestà; e ad onta delle osservazioni che continuò a fare il maestro di cerimonie per l’onore del principe, Villefort fu introdotto. Il Re era assiso nello stesso posto in cui lo aveva lasciato il conte. Aprendo la porta Villefort si trovò precisamente in faccia di lui; il primo movimento del giovine magistrato fu di sostare. — Entrate, sig. de Villefort, disse il Re, entrate. — Villefort salutò, fece qualche passo innanzi e aspettava che il Re lo interrogasse. — Signor de Villefort, continuò Luigi XVIII, ecco il conte di Blacas, che pretende abbiate qualche cosa d’importante da dirci. — Sire, il signor conte ha ragione, e spero che Vostra Maestà lo riconoscerà essa stessa. — Prima d’ogni altra cosa, il male è egli così grande, a vostro avviso, quanto mi si vuol far credere? — Sire, io lo credo urgente; ma mercè la diligenza che ho fatto, spero che non sia irreparabile. — Parlate quanto lungamente volete, disse il Re che cominciava a lasciarsi prendere dall’emozione che aveva alterato il viso del signor de Blacas e che alterava la voce di Villefort. Parlate e soprattutto cominciate dal principio; io amo l’ordine in tutte le cose. — Sire, disse Villefort, farò a V. M. un rapporto fedele, ma io la prego frattanto di volermi scusare, se per la confusione in cui mi trovo dovessi mettere qualche oscurità nelle parole. — Un’occhiata gettata dal Re dopo questo esordio insinuante rassicurò Villefort della benevolenza del suo augusto uditore, e continuò: — Sire, io sono giunto il più rapidamente possibile a Parigi per annunziare a Vostra Maestà che ho scoperto coi mezzi delle mie funzioni non già uno di quei complotti volgari e senza conseguenza, come se ne tramano ogni giorno nel popolo e nell’esercito, ma una vera cospirazione, una tempesta che non minaccia niente meno che il Trono di Vostra Maestà; Sire, l’usurpatore arma tre vascelli, egli medita qualche disegno, forse insensato, ma fors’anche terribile per quanto sia insensato. A quest’ora egli dev’essere partito dall’isola d’Elba per andare ove, io non lo so, ma a colpo sicuro per tentare una discesa a Napoli o sulle coste della Toscana, od anche della stessa Francia. Vostra Maestà non ignora che il sovrano dell’isola d’Elba ha conservato delle corrispondenze con l’Italia e con la Francia. — Sì, signore io lo so, disse il Re, molto turbato; e ultimamente ancora si ebbero degli avvisi che si tenevano delle riunioni bonapartiste nella strada S. Jacques. Ma continuate, vi prego: come avete avuto questi particolari? — Sire, essi risultano dall’interrogatorio che ho fatto subire ad un uomo di Marsiglia che da molto tempo io faceva invigilare e che ho fatto arrestare il giorno della mia partenza, Quest’uomo, marinaro turbolento e d’un bonapartismo che mi era sospetto, è stato segretamente all’isola d’Elba. Egli ha veduto il gran Maresciallo, che gli ha dati ordini verbali per un bonapartista di cui non mi è riuscito fargli dire il nome; ma questa missione era di preparare gli spiriti ad un ritorno, noti Vostra Maestà che è l’interrogatorio che parla, ad un ritorno che non può mancare di essere vicino. — E dov’è quest’uomo? disse Luigi XVIII. — In prigione, Sire. — E la cosa vi è sembrata grave? — Tanto grave, Sire, che questo avvenimento avendomi sorpreso in mezzo ad una festa di famiglia, il giorno stesso de’ miei sponsali, io ho lasciato, fidanzata e amici, tutto differito ad altro tempo, per venire a depositare ai piedi di Vostra Maestà e i timori da cui ero compreso e le assicurazioni della mia devozione. — È vero, disse Luigi XVIII, non v’era trattato di matrimonio tra voi e madamigella di S. Méran? — La figlia di uno dei più fedeli servitori di Vostra Maestà. — Sì, sì, ma torniamo al complotto. — Sire, io ho timore che non sia più un complotto, ma una cospirazione. — Una cospirazione di questi tempi, disse Luigi XVIII sorridendo, è cosa facile a meditarsi, ma ben difficile a condursi a termine; perciocchè, ristabilito da ieri sul trono dei nostri antenati, noi abbiamo gli occhi aperti ad un tempo sul passato, sul presente e sull’avvenire. Da dieci mesi i miei ministri raddoppiano di vigilanza perchè il littorale del Mediterraneo sia ben guardato; se Bonaparte discende a Napoli, la coalizione tutta intera sarà in piedi prima solo che egli giunga a Piombino; se egli discende in Toscana, metterà il piede in un paese nemico, se discende in Francia lo farà con un pugno d’uomini, e noi ne verremo più facilmente a termine, esecrato come egli è dalla popolazione. Rassicuratevi adunque, o signore, ma non contate meno sulla nostra reale riconoscenza. — Ah! ecco qui il ministro di polizia, gridò il conte di Blacas. In questo momento infatti il ministro di polizia apparve sulla soglia della porta pallido, tremante, e coll’occhio vacillante come se fosse stato colpito da vivissima luce. Villefort fece un passo per ritirarsi, ma de Blacas lo trattenne per la mano. XI. — IL LUPO DI CORSICA. Luigi XVIII al veder quel viso scomposto spinse violentemente innanzi a sè la tavola avanti a cui trovavasi. — Che avete dunque signor barone? gridò egli, voi mi sembrate tutto commosso; queste esitazioni hanno rapporto a ciò che diceva de Blacas? ed a ciò che mi vien confermato da Villefort? De Blacas si accostava vivamente al barone, ma il terrore del cortigiano impediva di trionfare dell’orgoglio dell’uomo di Stato; infatto in simile congiuntura gli era ben meglio di essere umiliato dal Prefetto di polizia che di umiliarlo su questo argomento. — Sire... balbettò il barone. — Ebbene! sentiamo, disse Luigi XVIII. — O Sire, quale spaventosa disgrazia! sono io abbastanza da compiangere! io non me ne consolerò mai... — Signore, disse Luigi XVIII, vi ordino di parlare. — Ebbene! Sire, l’usurpatore ha lasciato l’isola d’Elba il 26 Febbraio ed è sbarcato il primo Marzo. — E dove? in Italia? domandò impazientemente il Re. — In Francia, Sire, in un piccolo porto presso d’Antibes, nel golfo di Juan. — L’usurpatore è sbarcato in Francia vicino ad Antibes, nel golfo Juan, a 250 leghe da Parigi, il primo Marzo, e voi sapete questa notizia soltanto oggi, 4 marzo!... Eh! signore, ciò che voi dite è impossibile vi sarà stato fatto un falso rapporto. — Ahimè! Sire, ciò che vi annunzio non è che pur troppo vero. — Luigi XVIII fece un gesto indicibile di collera e di spavento, si rizzò in piedi, come se un colpo impreveduto lo avesse percosso nello stesso tempo nel cuore e nel viso. — In Francia! gridò egli, l’usurpatore in Francia! non era dunque vigilato quest’uomo? Ovvero, chi sa? si era d’accordo con lui? — Oh! Sire, gridò il conte di Blacas, non è un uomo come il ministro di polizia quello che può essere accusato di tradimento. Sire, noi eravamo tutti ciechi ed il barone era a parte dell’acciecamento generale, ecco tutto. — Ma,... disse Villefort. Poi arrestandosi di un tratto. — Ah! perdono, perdono Sire, disse inchinandosi, il mio zelo mi trasportava, che Vostra Maestà si degni scusarmi. — Parlate, signore, parlate con ardire, disse Luigi XVIII, voi solo ci avete prevenuti del male, aiutateci a porvi rimedio. — Sire, disse Villefort, l’usurpatore è detestato dalla parte di mezzogiorno; e mi sembra che se egli si avventura nel mezzogiorno, si può facilmente sollevare contro di lui la Provenza, e la Linguadocca. — Sì, senza dubbio, disse il ministro, ma egli s’avanza dalla parte di _Gap_ e _Sisteron_. — Egli s’avanza? disse Luigi XVIII, egli vien dunque a Parigi? — Il ministro di polizia tacque, ed il suo silenzio fu equivalente ad una confermativa. — E il Delfinato signore, domandò il Re, credete voi che possa essere sollevato da noi come la Provenza? — Sire, io sono dolente di dover dire a Vostra Maestà una verità crudele; ma lo spirito del Delfinato è ben lungi dall’accostarsi a quello della Provenza e della Linguadocca. Sire, tutti i montanari sono bonapartisti. — Ecco, mormorò Luigi XVIII, egli era bene informato. E quanti uomini ha seco? — Sire, io non lo so, disse il ministro di polizia. — Come! voi non lo sapete! vi siete dimenticato d’informarvi di questa particolarità. È vero, essa è di poca importanza, soggiunse il Re con un sorriso opprimente. — Sire, il dispaccio porta semplicemente l’annunzio dello sbarco e la strada che ha preso l’usurpatore. — E come dunque vi è giunto questo dispaccio? domandò il Re. — Il ministro abbassò la testa; e un vivo rossore gli si sparse sulla fronte; dal telegrafo, Sire. — Luigi XVIII fece un passo in avanti, ed incrociò le braccia sul petto nel modo che avrebbe fatto Napoleone. — E così, diss’egli impallidendo di collera, sette eserciti coalizzati avranno rovesciato quest’uomo; un miracolo del cielo mi avrà rimesso sul trono dei padri miei dopo 25 anni di esilio; io avrò per questi 25 anni studiato, esplorato, analizzato gli uomini e le cose di questa Francia che mi era stata promessa, perchè giunto poi alla meta di tutti i miei voti una forza che io teneva stretta fra le mie mani, scoppi ad un tratto e mi stritoli! — Sire, è una fatalità, mormorò il ministro accorgendosi che un simil peso, leggiero pel destino, era sufficiente a schiacciare un uomo. — Cadere! continuò Luigi XVIII, che al primo colpo d’occhio aveva esplorato il precipizio sull’orlo del quale stava la monarchia; cadere, ed essere avvisati dal telegrafo della propria caduta! Oh! quanto amerei meglio salire sul patibolo di mio fratello Luigi XVI, che discendere le scale delle Tuglierie scacciato dal ridicolo. Il ridicolo, voi non sapete che cos’è in Francia. — Sire! Sire! mormorò il ministro, per pietà! — Avvicinatevi, Villefort, continuò il Re, volgendosi al giovine che, ritto, immobile ed in addietro, considerava l’andamento di questa conversazione, ove si agitavano i perduti destini di un regno; avvicinatevi, e dite al ministro, che si poteva sapere tanto tempo prima, tutto ciò che egli non ha saputo. — Sire, era materialmente impossibile d’indovinare i disegni di quest’uomo nascosti a tutti, balbettò il ministro. — Materialmente impossibile! ecco là, o signore, una gran parola; disgraziatamente vi sono dei grand’uomini come vi son delle grandi parole, io l’ho misurati. Materialmente impossibile! ad un ministro che ha un dicastero, degli uffici, dei messi ed un milione e mezzo di franchi pei fondi delle spese segrete, di sapere ciò che succede a 60 leghe dalle coste di Francia! Ebbene! ecco qui questo signore che non aveva alcuna di queste risorse a sua disposizione, semplice magistrato, che ne sapeva più di voi con tutta la vostra polizia e che mi avrebbe salvata la corona, se avesse avuto, come voi, il diritto di fare agire un telegrafo. — Lo sguardo del ministro di polizia si voltò con una espressione di profondo rispetto su Villefort, che abbassò la testa colla modestia del trionfo. — Io non dico ciò per voi, mio caro Blacas, continuò il Re; poichè se non avete scoperto niente, avete avuto almeno il buon senso di mantenervi nel vostro sospetto. Un altro forse avrebbe considerata la rivelazione di Villefort come insignificante o ben anche suggerita da un’ambizione venale, e avrebbe atteso che i segni del telegrafo!... — Queste parole facevano allusione a ciò che il ministro di polizia aveva pronunciato con tanta sicurezza un’ora prima. Villefort capì l’artifizio del Re. Un altro forse si sarebbe lasciato trasportare dall’ebrietà delle lodi; ma egli temeva farsi un nemico mortale nel ministro di polizia, quantunque vedesse che questi era irrevocabilmente perduto. Infatti il ministro che nella pienezza del suo potere non aveva saputo indovinare il segreto di Napoleone, poteva nelle convulsioni della sua agonia penetrare quello di Villefort. Per far ciò non gli sarebbe abbisognato altro che interrogare Dantès. Egli adunque venne in soccorso del ministro invece di opprimerlo. — Sire, disse Villefort, la rapidità dell’evento deve provare alla Maestà Vostra che il Cielo solo poteva impedirlo, suscitando una burrasca. Ciò che Vostra Maestà crede in me l’effetto di una profonda perspicacia è dovuto ad un puro e semplice caso, di cui ho approfittato come un servo fedele e devoto, ed ecco tutto. Non mi attribuite più di quel che merito, per non aver mai a pentirvi della prima idea che aveste concepito di me. — Il ministro di polizia ringraziò il giovine con uno sguardo eloquente, e Villefort capì di essere riuscito nel disegno, vale a dire che senza perder niente della riconoscenza del Re, si era fatto un amico sul quale poteva contare all’occasione. — Sta bene, disse il Re, e frattanto, o signori, voltandosi verso Blacas ed il ministro, non ho più bisogno di voi; ciò che resta a farsi, spetta al ministro della guerra. — Fortunatamente, Sire, disse de Blacas, possiamo contare sull’esercito; V. M. sa come tutti i rapporti ce lo dipingono devoto al vostro governo. — Non mi parlate di rapporti, conte, ora so la fiducia che si può avere in essi. Eh! a proposito di rapporti, signor barone, che avete voi saputo di nuovo sulla strada di S. Jacques? — Sull’affare della strada di S. Jacques? gridò Villefort, senza poter trattenere l’esclamazione: ma fermandosi ad un tratto: — Perdono, Sire, diss’egli, la mia devozione a V. M. mi fa incessantemente dimenticare, non il rispetto che ho per essa, perchè questo è troppo profondamente scolpito nel mio cuore, ma le regole dell’etichetta. — Dite e fate, signore, soggiunse Luigi XVIII: voi oggi avete acquistato il diritto d’interrogare. — Sire, rispose il ministro di polizia, oggi veniva precisamente per dire a Vostra Maestà le ultime notizie che sono state raccolte su questo avvenimento, allorchè l’attenzione di Vostra Maestà si è rivolta alla terribile catastrofe del golfo Juan. Ora queste informazioni non avranno forse alcun’importanza pel Re. — Al contrario, disse Luigi XVIII: questo affare mi sembra avere un rapporto diretto con ciò che ci occupa, e la morte del generale Épinay ci metterà forse sulla strada di un gran complotto interno. (Al nome del generale Épinay, Villefort rabbrividì.) — Sire, rispose il ministro di polizia, ciò indurrebbe a credere che questa morte non fosse il resultato di un suicidio come si era creduto dapprima, bensì di un assassinio. Il generale Épinay usciva a quanto sembra da una riunione bonapartista quando disparve. Un uomo sconosciuto era stato nella stessa mattina a cercarlo in casa, e gli aveva assegnato convegno nella strada S. Jacques. Per disgrazia il cameriere del generale che lo seguiva al momento in cui questo sconosciuto era stato introdotto nel gabinetto, ha bene inteso nominare la strada di S. Jacques, ma non si è ricordato poi del numero. — A seconda che il ministro di polizia dava al Re queste informazioni, Villefort che sembrava pendere dalle sue labbra, arrossiva e impallidiva. Il Re si volse a lui: — Non pensate voi al pari di me, signor Villefort, che il generale Épinay, che si faceva credere della fazione dell’usurpatore, ma che in vero era tutto a me devoto, sia perito vittima di un’insidia bonapartista? — È probabile, Sire, rispose Villefort; ma non se ne sa altro? — Si sta sulle tracce dell’uomo che venne a dare il ritrovo. — Davvero? ripetè Villefort. — Sì, il cameriere ne ha dati i connotati; è un uomo dai 50 ai 52 anni, bruno, cogli occhi neri coperti da folte sopracciglia, e con le barbette; è vestito con un soprabito blu abbottonato, e porta sulla bottoniera la fettuccia di ufficiale della Legion d’onore. Jeri fu seguitato un individuo di cui i connotati corrispondono perfettamente a quelli che ho detto, ma è stato perduto alla voltata delle strade _Jussiène_, e _Coq-Héron_. — Villefort si era appoggiato alla spalliera di una sedia, poichè, a seconda che il ministro di polizia parlava, sentiva le gambe venirgli meno; ma allorquando seppe che lo sconosciuto era sfuggito alla vigilanza di colui che lo seguiva, respirò. — Voi farete far tutte le ricerche possibili di quest’uomo, disse il Re al ministro di polizia perchè, se come tutto fa credere, il generale Épinay, che in questo momento ci sarebbe stato tanto utile, è caduto vittima di un assassinio, sia bonapartista o no, io voglio che i suoi assassini siano severamente puniti. — Villefort ebbe bisogno di tutta la sua calma per non tradire il terrore che gli veniva inspirato da questa raccomandazione del Re. — Cosa strana! continuò il Re, con buon umore, la polizia crede di avere detto tutto quando ha detto: «è stata commessa un’uccisione;» e tutto fatto quando soggiunge: «si sta sulle tracce dei colpevoli.» — Sire, spero che su questo punto almeno V. M. sarà soddisfatta. — Va bene, vedremo. Io non vi trattengo dippiù, barone. Signor de Villefort, voi dovete essere stanco di questo lungo viaggio, andate a riposarvi. Sarete senza dubbio stato da vostro padre. — Un lampo passò innanzi agli occhi di Villefort. — No, Sire, diss’egli, sono disceso all’albergo di Madrid, strada Tournon. — Ma avete veduto il signor Noirtier? — Mi sono fatto condurre immediatamente presso il conte di Blacas. — Lo vedrete? almeno... — Non lo penso, Sire. — Ah! è giusto, disse Luigi XVIII sorridendo, in modo da provare che tutte queste reiterate interrogazioni non erano state fatte senza un perchè. Dimenticava che voi siete freddo con il signor Noirtier, che questo è un nuovo sacrificio che fate alla causa reale, e di cui fa d’uopo che io vi compensi. — Sire, la bontà che mi dimostra la M. V. è una ricompensa che sorpassa tanto le mie ambizioni che non mi resta più nulla a domandare al Re. — Non importa, signore, noi non vi dimenticheremo, state tranquillo. — E in questo mentre, il Re staccò la croce della legion d’onore che portava d’ordinario sul suo abito vicino a quella di S. Luigi, e la dette a Villefort; — Frattanto, diss’egli, portate sempre questa croce. — Sire, disse Villefort, V. M. s’inganna, questa croce è quella d’ufficiale. — In fede mia, signore, disse il Re, prendetela tal quale è, io non ho il tempo di farne domandare un’altra. Blacas, voi vigilerete affinchè sia tosto spedito il brevetto a Villefort. — Gli occhi di Villefort si bagnarono di una lagrima di orgogliosa gioia; egli prese la croce e la baciò. — Ora quali sono gli ordini che mi fa l’onore darmi la M. V.? — Prendete il riposo che vi è necessario, e pensate che, senza forza per potermi servire a Parigi, potete essermi di grandissima utilità a Marsiglia. — Sire, rispose Villefort inchinandosi, fra un’ora io sarò partito da Parigi. — Andate, disse il Re, e se un giorno vi dimenticassi, non abbiate alcun riguardo a richiamarvi al mio pensiero... Signor barone, date ordine perchè si vada a cercare il ministro della guerra. Blacas restate. — Ah! signore, disse il ministro di polizia a Villefort, uscendo dalle Tuglierie, voi entrate per la buona porta, la vostra fortuna è fatta! — Durerà ella lungamente? mormorò Villefort salutando il ministro la cui carriera era finita, e cercando cogli occhi una carrozza per ritornare all’albergo. Una vettura passava sulla strada, Villefort vi si gettò nel fondo, lasciandosi trasportare dai suoi sogni di ambizione. Dieci minuti dopo, Villefort era rientrato all’albergo; ordinò che fra due ore i cavalli da posta fossero in ordine e che frattanto gli si servisse la colazione. Stava per mettersi a tavola quando il suono del campanello vibrò agitato da una mano franca e ferma. Il cameriere aprì e Villefort intese una voce che pronunziava il suo nome. — E chi può già sapere che io sono qui? si domandava il giovinotto. In questo mentre entrava il cameriere. — Ebbene! disse Villefort, che c’è? chi ha suonato? chi mi domanda? — Uno straniero che non ha voluto dire il suo nome. — E quali apparenze ha? — È... è un uomo di una cinquantina di anni. — Grande? piccolo? — Della vostra statura, o signore, presso a poco, bruno, molto bruno, capelli neri, occhi neri, sopracciglia nere e barbette nere. — Come è vestito? domandò agitato Villefort. — Con un gran soprabito blu bottonato fino a basso, e fregiato della decorazione della Legion d’Onore. — È lui! mormorò Villefort impallidendo. — Eh! per bacco! disse comparendo sulla porta l’uomo di cui abbiamo dati i connotati, ci vogliono ben molte cerimonie! c’è forse il costume a Marsiglia che i figli facciano fare anticamera al padre? — Mio padre! gridò Villefort; non mi era dunque sbagliato, io sospettava che foste voi. — Allora se tu sospettavi che fossi io, riprese il nuovo arrivato deponendo la canna in un cantone ed il cappello su d’una sedia, permettimi di dirti, mio caro Gherardo, che non è una bella cosa il farmi aspettare in tal modo. — Lasciateci, Germano, disse Villefort. Il cameriere uscì dando segni visibili di meraviglia. XII. — IL PADRE ED IL FIGLIO. Noirtier, poichè in fatto era egli stesso il sopraggiunto, seguì cogli occhi il domestico fino a che fu chiusa la porta; poi temendo senza dubbio che egli stasse ad ascoltare nell’anticamera, andò a riaprirla ed a guardare; la cautela non era stata inutile, e la rapidità colla quale Germano si ritirò provava che egli non era esente dal peccato che perdette i nostri primi padri. Noirtier allora volle andare egli stesso a chiudere la porta dell’anticamera, richiuse quella in cui erano, e stese la mano a Villefort che aveva seguito tutti questi movimenti con una sorpresa da cui non si era peranco rimesso. — A noi! sai tu mio caro Gherardo, disse egli al giovinotto, guardandolo con un sorriso di cui era difficile definire l’espressione, che tu non mi sembri molto contento di rivedermi? — Al contrario, mio padre, io ne sono incantato; era soltanto così lontano, ve lo confesso, di attendere una vostra visita, che essa mi ha in qualche modo stordito. — Ma, mio caro amico, rispose Noirtier sedendosi, mi sembra che io potrei dirvi altrettanto. Come! voi mi annunziate i vostri sponsali a Marsiglia per il giorno 28 Febbraio, e il 4 Marzo siete a Parigi? — Se io vi sono, padre mio, disse Gherardo avvicinandosi a Noirtier, non ve ne lamentate; perchè è per voi che io sono qui venuto, e il mio viaggio forse vi salverà. — Ah! davvero! disse Noirtier allungandosi con noncuranza sulla seggia su cui si era assiso; davvero! contatemi dunque com’è, signor magistrato, ciò dev’esser curioso. — Padre mio, voi dovete certamente avere inteso parlare di un complotto bonapartista che tiene le sue riunioni nella strada S. Jacques? — N. 35, sì; io ne sono il vice-presidente. — Padre mio! la vostra pacatezza mi fa fremere. — Che vuoi tu, mio caro, quand’uno è stato proscritto dai montanari, quando uno è uscito da Parigi in una carretta di fieno, quando uno è stato attorniato nelle lande di Bordeaux dagli sgherri di Robespierre, ha per sè buone ragioni di guerra. Ma continuate adunque. Ebbene? che è accaduto in questa riunione della strada S. Jacques? — È accaduto che vi si fece venire il generale d’Épinay, e che il generale Épinay uscito a nove ore di sera da casa sua, fu ritrovato il domani nella Senna. — E chi vi ha raccontata questa bella storia? — Il Re stesso, signore! — Ebbene! in compenso della vostra storia vi darò una notizia. — Padre mio, io credo di saper già ciò che volete dirmi! — Ah! voi sapete lo sbarco di Sua Maestà l’Imperatore. — Silenzio, padre mio, ve ne prego, prima per voi e poi per me; sì, io sapeva questa notizia, e la sapeva ancora prima di voi, poichè è da tre giorni che io volo su la strada da Marsiglia a Parigi, colla rabbia di non poter lanciare, a duecento leghe innanzi a me il pensiero che mi bruciava il cervello. — Sono tre giorni! ma siete pazzo? tre giorni fa l’Imperatore non era ancora sbarcato. — Non importa, io sapeva il suo disegno. — E come? — Per mezzo di una lettera che vi era stata indirizzata dall’isola d’Elba, e che io ho sorpresa nel portafoglio di un messaggiero. Se questa lettera fosse andata nelle mani di un altro, a quest’ora, padre mio, voi forse sareste moschettato. Il padre di Villefort si mise a ridere. — Andiamo, andiamo, diss’egli, sembra che la restaurazione abbia imparato dall’Impero il modo di spedire gli affari... moschettato! caro mio, e come potete crederlo? e questa lettera dov’è? Io vi conosco troppo per pensare che voi l’abbiate lasciata andare. — L’ho bruciata per timore che ne rimanesse un sol frammento; perchè questa lettera era la vostra condanna. — E la perdita del vostro avvenire, rispose freddamente Noirtier. Sì, lo capisco; ma ora io non ho più nulla a temere, poichè voi mi proteggete. — Io faccio anche più di questo. Vi salvo. — Oh diavolo! ciò diventa più drammatico: spiegatevi. — Signore, ritorno sull’argomento delle riunioni di strada S. Jacques. — Sembra che queste riunioni stiano molto a cuore alla polizia; perchè non le hanno cercate meglio? le avrebbero ritrovate. — Non le hanno ritrovate, ma ne sono sulla traccia. — Questa è la parola d’uso, lo so bene: quando la polizia non sa niente, dice che ella ne è sulle tracce, ed il Governo aspetta tranquillamente il giorno in cui essa venga a dire colle orecchie basse, che queste tracce son perdute. — Sì, ma fu ritrovato un cadavere; il generale è stato ammazzato, e in tutti i paesi del mondo questo si chiama un assassinio. — Un assassinio, dite voi? Andiamo via, niente prova che il generale è stato vittima di un assassinio; tutti i giorni si ritrova gente nella Senna che vi si getta per disperazione, o che vi si annega non sapendo nuotare. — Padre mio, voi sapete benissimo che il generale non si è annegato per disperazione, e che non si va a prendere un bagno nella Senna al mese di Gennaio. No! no! non vi illudete, questa morte è stata qualificata per un assassinio. — E chi l’ha qualificata in tal modo? — Il re stesso. — Il re! Volete voi sapere come sono andate le cose? Ebbene! ve lo dirò. Si credeva di poter contare sul generale Épinay, ci era stato raccomandato di laggiù: uno dei nostri va da lui, lo invita ad intervenire ad un’assemblea di amici nella contrada S. Jacques. Egli viene e là gli si spiega tutto il disegno: la partenza dall’isola d’Elba, lo sbarco meditato. Poi quando egli ha udito tutto, che non gli resta più niente a sapere, risponde che è realista. Allora ciascuno si mette in guardia, gli si fa dare giuramento; egli lo dà ma di cattiva grazia. Ebbene! ad onta di tutto ciò il generale uscì perfettamente libero. Egli non è ritornato a casa sua; che volete? mio caro, egli si allontanò da noi, avrà sbagliata la strada, ecco tutto. Un assassinio! In verità voi mi sorprendete, Villefort, voi Sostituto Procuratore del Re piantare un’accusa su prove così meschine! Ho io forse mai pensato a dire a voi, quando esercitavate il vostro mestiere di realista, e facevate tagliar la testa a uno dei miei: «figlio mio voi avete commesso un assassinio!» No, io ho detto: «benissimo! signore voi avete oggi combattuto vittoriosamente; a dimani la rivincita.» — Ma, padre mio, state in guardia, perchè questa rivincita sarà terribile quando la prenderemo noi. — Io non vi comprendo. — Voi contate sul ritorno dell’Usurpatore? — Lo confesso. — V’ingannate, padre mio, egli non farà dieci leghe nell’interno della Francia senza essere perseguitato, circondato, e preso come una bestia feroce. — Mio caro amico, l’Imperatore in questo momento è sulla strada di Grenoble. Il 10 o il 12 sarà a Lione, e il 20 o il 25 a Parigi. — Le popolazioni si solleveranno... — Per andare ad incontrarlo. — Egli non può aver seco che pochi uomini, e gli verranno inviati contro degli eserciti... — Che gli serviranno di scorta per entrare nella capitale. In verità mio caro Gherardo voi non siete ancora che un ragazzo. Voi vi credete bene informato perchè un telegrafo vi ha detto tre o quattro giorni dopo lo sbarco: «l’usurpatore è sbarcato a Cannes con pochi uomini: lo si sta perseguitando.» Ma dov’è, che fa? Voi non lo sapete. Si perseguita, ecco tutto ciò che sapete; ebbene! egli sarà in tal guisa perseguitato fino a Parigi senza bruciare una cartuccia. — Grenoble e Lione sono due città fedeli che gli opporranno una barriera insuperabile. — Grenoble gli aprirà le sue porte con entusiasmo, e la popolazione di Lione tutta intera uscirà per incontrarlo. Credetemi noi siamo tanto bene informati quanto voi, e la nostra polizia val molto più della vostra. Ne volete una prova? eccola: voi volevate nascondermi il vostro viaggio e io ho saputo il vostro arrivo mezz’ora dopo che avevate passata la barriera. Voi non avete dato il vostro indirizzo ad alcun altro che al vostro postiglione, ebbene! io ho conosciuto il vostro indirizzo e la prova è che giungo appunto al momento in cui vi mettete a tavola. Suonate adunque ed ordinate che portino un’altra posata, pranzeremo insieme. — Infatto, rispose Villefort, guardando suo padre con stupore; voi mi sembrate molto bene istruito. — Eh! mio Dio! la cosa è semplicissima: voi che siete in possesso del potere non avete che quei mezzi che può fornire il danaro; noi che lo aspettiamo, abbiamo quelli che somministra la devozione e l’attaccamento. — La devozione? disse Villefort ridendo. — Sì, la devozione; egli è in tal modo che con termini onesti viene chiamata un’ambizione che spera. — Il padre di Villefort stese da sè la mano sul cordone del campanello, per chiamare il domestico, Villefort gli trattenne il braccio. — Aspettate, padre mio, disse il giovine; una parola ancora... — Dite... — Per quanto sia mal regolata la polizia realista, ella però sa una cosa terribile. — Quale? — I connotati dell’uomo che, la mattina del giorno in cui disparve il generale Épinay, si era presentato in casa sua. — Ah! sa ciò questa buona polizia? e questi connotati quali sono? — Colorito bruno, capelli, barbette ed occhi neri; soprabito blu, abbottonato fino al mento; fettuccia d’uffiziale della Legion d’onore attaccata alla bottoniera, e canna d’India. — Ah! ah! ella sa ciò, disse Noirtier; e perchè dunque non ha messo la mano su questo uomo? — Perchè ieri o ieri l’altro lo ha perduto di vista presso l’angolo della strada _Coq-Héron_. — Diceva bene io quando diceva che la vostra polizia è stupida! — Io non ne dissento: ma da un momento all’altro può ritrovarlo. — Sì, disse Noirtier, gettando uno sguardo di noncuranza intorno a lui; sì, se quest’uomo non fosse stato avvertito; ma egli lo è, e, continuò ridendo, cambierà di viso e di costume. A queste parole, egli si alza, si leva il soprabito e la cravatta, va verso la tavola sulla quale erano preparate tutte le cose necessarie alla toletta di suo figlio, prende un rasoio, s’insapona il viso e con un polso perfettamente fermo fa cadere le barbette che lo mettevano a rischio, dando alla polizia un documento così prezioso. Villefort lo guardava con un terrore che non era esente da ammirazione. Tagliate quelle, Noirtier dà un’altra piega ai suoi capelli, prende, in vece della sua cravatta nera, la prima cravatta di colore che trova nel baule aperto di suo figlio, indossa, in vece del suo soprabito blu e abbottonato, un abito di suo figlio, color marrone e di taglio aperto; si prova avanti allo specchio il cappello ad ale ristrette del giovine, e pare soddisfatto del modo come gli sta, lascia la canna d’India nel canto del caminetto ove l’avea deposta, e fa sibilare nella sua mano nervosa una mazza di sambuco colla quale l’elegante sostituto dava al suo modo di camminare la disinvoltura che era una delle principali sue qualità. — Ebbene! diss’egli, volgendosi verso suo figlio stupefatto, subitochè questo cambiamento quasi a vista fu compito; ebbene, credi tu che la tua polizia potrà ora riconoscermi? — No padre mio, balbettò Villefort, o almeno lo spero. — Ora, mio caro Gherardo, continuò Noirtier, rimetto alla tua prudenza il far disparire tutti gli oggetti che lascio alla tua custodia. — Oh! siate tranquillo, padre mio, disse Villefort. — Sì, sì, ora io credo che tu abbia ragione, e che tu possa dire di avermi effettivamente salvata la vita. Ma sta tranquillo, io ti renderò questo servizio quanto prima. Villefort scosse la testa. — Non ne sei tu convinto? — Spero almeno che v’inganniate. — Rivedrai tu il re? — Forse. — Vuoi tu passare ai suoi occhi per un profeta? — I profeti delle disgrazie sono sempre malveduti alla corte. — Sì, ma un giorno o l’altro gli vien resa giustizia: supponi una seconda restaurazione, allora passerai per un uomo ben più grande di Talleyrand del quale noi leggiamo tutte le lettere, e che non scrive che lettere. — Infine che dovrei io dire al Re? — Digli questo; «Sire, voi siete ingannato sulle disposizioni della Francia, sull’opinione delle città, sullo spirito dell’esercito. Quello che voi chiamate a Parigi il lupo della Corsica, che si chiama ancora l’usurpatore a Nevers, si chiama già Bonaparte a Lione e l’Imperatore a Grenoble. Voi lo credete circondato, perseguitato, in fuga; egli cammina rapido come l’aquila che porta; i suoi soldati, che voi credete morti di fame, stanchi dalla fatica e vicini a disertare, si aumentano come gli atomi di neve intorno al globo che si precipita. Sire, partite, abbandonate la Francia al suo vero padrone, a quello che l’ha conquistata; partite, Sire, non che voi corriate alcun pericolo: il vostro rivale è abbastanza forte per farvi grazia, ma perchè è umiliante per un nipote di S. Luigi il dovere la vita all’Eroe d’Arcole, di Marengo e d’Austerlitz.» Digli tutto ciò Gherardo o piuttosto, va, non dirgli niente, dissimula il tuo viaggio, non ti vantare di ciò che sei venuto a fare a Parigi; riprendi la posta; se tu hai volato su la strada per venire, divora lo spazio per ritornare; rientra a Marsiglia di notte, penetra in casa tua dalla porta di dietro e là resta ben tranquillo, ben umile, ben segreto, e soprattutto bene inoffensivo; perchè questa volta, te lo giuro, noi opereremo da persone rigorose e che conoscono i loro nemici; andate figlio mio, andate caro Gherardo, e mediante questa obbedienza agli ordini paterni, ovvero, se credete meglio, questa deferenza per i consigli di un amico, noi vi lasceremo nel vostro posto. Ciò sarà, soggiunse Noirtier sorridendo, un mezzo per voi di potermi salvare una seconda volta, se la bilancia politica un giorno rimetterà voi in alto, e me in basso. Addio mio caro Gherardo, al vostro prossimo ritorno discendete a casa mia. — E Noirtier uscì colla tranquillità che non lo aveva abbandonato un momento durante questa difficile conversazione. — Villefort, pallido e agitato, corse alla finestra, ne alzò la tenda, e lo vide passare in calma ed impassibile nel mezzo di due o tre uomini di cattivo aspetto imboscati agli angoli delle strade, che erano forse là per arrestare l’uomo dalle barbette nere, dal soprabito blu e dal cappello a larghe falde. Villefort restò così in piedi ed anelante fino a che suo padre disparve al crocivio di Bussy. Allora egli si slanciò sugli oggetti da lui lasciati; mise nel fondo del suo baule la cravatta nera, e il soprabito blu, contorse il cappello che cacciò sotto un armadio, ruppe la canna d’India in tre parti che gettò sul fuoco, si mise una berretta da viaggio, chiamò il suo cameriere, con uno sguardo gli proibì le mille interrogazioni che avrebbe avuto volontà di fargli, saltò nella carrozza che l’aspettava, seppe a Lione che Bonaparte era entrato a Grenoble; e in mezzo all’agitazione che regnava lungo l’intera strada giunse a Marsiglia, in preda a tutti i terrori che entrano nel cuore dell’uomo coll’ambizione e coi primi onori. XIII. — I CENTO GIORNI. Noirtier era un buon profeta, e le cose successero presto come egli aveva detto. Ciascuno conosce il ritorno dall’isola d’Elba, ritorno strano, miracoloso, che è senza esempio nel passato e resterà probabilmente senza imitazione nell’avvenire. Luigi XVIII non tentò che debolmente di riparare un colpo sì forte; la sua poca confidenza negli uomini gli toglieva quella degli avvenimenti. Il regno, o piuttosto la monarchia ricostituita da lui tremò sulla sua base ancora incerta. Villefort non ebbe dunque dal suo Re che una riconoscenza non solo inutile pel momento ma ben anche pericolosa, oltre quella croce di ufficiale della legione d’onore che egli ebbe la prudenza di non mostrare, quantunque de Blacas, come gli aveva raccomandato il Re, ne avesse fatto spedire sollecitamente il brevetto. Napoleone certamente avrebbe destituito Villefort senza la protezione di Noirtier divenuto onnipossente alla corte dei Cento giorni, sì pe’ perigli che aveva affrontati, come pei servigi che aveva renduti. Così, come gli era stato promesso, il Girondino del ’93 e il Senatore del 1806 protesse colui che lo aveva salvato il giorno prima. Tutta la potenza di Villefort si limitò adunque durante questa corta evocazione dell’impero, di cui fu facile prevedere la seconda caduta, a nascondere il segreto che Dantès era stato sul punto di divulgare. Il solo procuratore del re fu destituito essendo sospetto di freddezza in bonapartismo. Appena il potere imperiale fu stabilito, cioè appena l’Imperatore abitò le Tuglierie che abbandonava Luigi XVIII, ed ebbe spedito ordini senza numero da quel piccolo gabinetto ove noi abbiamo introdotti i nostri lettori con Villefort, e sul tavolino di nocciuolo sul quale ritrovò ancora aperta ed a metà piena la tabacchiera di Luigi XVIII; che Marsiglia, ad onta dell’attitudine dei suoi magistrati, cominciò a sentir fermentare nel suo seno i germi della guerra civile sempre male spenti nel mezzogiorno. Poco mancò allora che le rappresaglie non andassero al di là di qualche chiasso di cui furono assediati i regii, chiusi nelle loro case, o di pubblici affronti da cui furono perseguitati coloro che si avventurarono ad uscire. Per una naturale voltata di bordo, il degno armatore che noi abbiamo designato come appartenente alla fazione popolare, si trovò a sua volta, non dirò onnipossente, perchè Morrel era un uomo prudente e leggermente timido, come tutti quelli che hanno fatto una faticosa e lenta fortuna commerciale, ma in istato, quantunque fosse trattato di moderato dai zelanti bonapartisti, di alzare la voce per fare sentire i suoi reclami. Questi reclami, come s’indovinerà facilmente, erano in favore di Dantès. Villefort era rimasto in piedi ad onta della caduta del suo superiore, e il suo matrimonio, quantunque rimanesse stabilito, pure venne protratto a tempi più felici. Se l’Imperatore si conservava in trono, era un’altra alleanza che bisognava a Gherardo, e suo padre sarebbe stato incaricato di ritrovarla. Se una seconda restaurazione riconduceva Luigi XVIII in Francia l’influenza di S. Méran raddoppiava unitamente alla sua, e la meditata unione ritornava più convenevole. Il sostituto del procuratore del re era dunque momentaneamente il primo magistrato di Marsiglia, allorchè una mattina la sua porta s’aprì, e gli venne annunziato il Sig. Morrel. Un altro si sarebbe sollecitato di andare incontro all’armatore, e con questa sollecitudine avrebbe indicata la sua debolezza. Ma Villefort era un uomo superiore che aveva, se non la pratica, almeno l’istinto di tutte le cose. Egli fece fare adunque anticamera a Morrel, come se fosse stato sotto la restaurazione. Questi si aspettava di trovare Villefort abbattuto, ma lo ritrovò come lo aveva veduto sei settimane prima, cioè tranquillo, fermo e pieno di quella fredda gentilezza, la più insormontabile di tutte le barriere che separa l’uomo elevato dall’uomo volgare. Egli era penetrato nel gabinetto di Villefort convinto che il magistrato avrebbe tremato alla sua vista, ed egli invece si trovò tutto tremante e commosso innanzi a questo personaggio interrogatore che lo aspettava col gomito poggiato su lo scrittoio e il mento sulla mano. Egli si soffermò sulla soglia. Villefort lo guardò come se avesse avuto qualche difficoltà a riconoscerlo. Finalmente dopo qualche secondo di esame e di silenzio, durante il quale il degno armatore girava e rigirava il cappello fra le mani: — Il sig. Morrel, credo? disse Villefort. — Sì, signore, io stesso, disse l’armatore. — Avvicinatevi adunque, continuò il magistrato, facendo colla mano un segno di protezione, e ditemi a che debbo io l’onore di una vostra visita. — Non ve lo figurate, signore? domandò Morrel. — No, non saprei affatto; ciò però non impedisce che sia disposto ad esservi favorevole se la cosa è in mio potere. — La cosa dipende interamente da voi, disse Morrel. — Allora spiegatevi. — Signore, continuò l’armatore riprendendo la sua sicurezza a seconda che parlava, e incoraggito d’altronde dalla giustizia della sua causa e dalla chiarezza della sua posizione; vi ricordate voi che qualche giorno prima che si sapesse lo sbarco di S. M. l’imperatore, io era venuto a reclamare la vostra indulgenza per un disgraziato giovinotto, un marinaio, secondo a bordo del mio _brick_. Egli fu accusato, se vi ricordate, di relazioni coll’isola d’Elba; queste relazioni che erano delitto in quell’epoca, oggi sono titoli di favore. Voi servivate Luigi XVIII allora, e non gli usaste nessun riguardo, ed era vostro dovere; oggi voi servite Napoleone e dovete proteggerlo, questo pure è vostro dovere. Io vengo dunque a domandarvi che avvenne di lui. Villefort fece uno sforzo violento su sè stesso. — E il nome di quest’uomo? domandò egli. — Edmondo Dantès. Evidentemente Villefort sarebbe stato più contento di cimentare la palla di un suo avversario in un duello, che di sentir pronunziare questo nome a così poca distanza; ciò nonostante egli non mosse tratto del suo viso. Di tal maniera, si diceva a se stesso, non potrò essere accusato nell’arresto di questo uomo di un affare personale. — Dantès, ripetè egli, Edmondo Dantès diceste. — Sì, signore. — Villefort aprì allora un grosso registro posto in un vicino cassetto e ricorse ad un indice, dall’indice alla pagina indicata, quindi rivolgendosi all’armatore: — siete voi ben sicuro di non sbagliarvi, signore? gli disse nel modo più naturale. — Se Morrel fosse stato un uomo più furbo o meglio illuminato su questo affare, avrebbe ritrovato bizzarro che il sostituto del procuratore del re si fosse degnato rispondergli di tal maniera sopra materie estranee al suo ufficio, e si sarebbe domandato perchè Villefort non lo mandava piuttosto ai registri dei detenuti, ai governatori delle prigioni, al prefetto del dipartimento. Ma Morrel cercando invano del timore in Villefort non vi osservò più, dal momento che ogni timore sembrava mancasse, che molta condiscendenza. Villefort aveva colpito al segno. — No, signore, disse Morrel, io non m’inganno; d’altra parte conosco il povero giovinotto da dieci anni, ed è impiegato da quattro anni sotto di me. Io venni, vel rammentate? saranno circa sei settimane a pregarvi di essere clemente con lui, come ora vengo a pregarvi di essere giusto; voi anzi mi riceveste molto male e mi rispondeste come uomo mal contento. Ah! allora i regii erano ben severi coi bonapartisti! — Signore, disse Villefort colla sua presenza e la sua calma ordinaria, io era regio allora perchè credeva i Borboni non solamente gli eredi legittimi del trono, ma eziandio gli eletti della nazione. Ma il ritorno miracoloso di cui siamo stati testimonii mi ha provato il mio inganno: il genio di Napoleone ha vinto. — Alla buon’ora, gridò Morrel colla sua buona e rozza franchezza, mi fa piacere sentirvi parlare in tal modo, e ne auguro bene per la sorte di Edmondo. — Aspettate adunque, riprese Villefort sfogliando un altro registro, l’ho trovato..... Un marinaro, non è così, che sposava una Catalana? Sì, sì, ora me ne ricordo: la cosa era molto grave. — Come? — Voi sapete che uscendo dal mio appartamento egli venne condotto alle prigioni del palazzo di giustizia? — Sì, ebbene? — Ebbene, io feci il mio rapporto a Parigi, mandai le carte ritrovate presso di lui, questo era il mio dovere, che volete... ed otto giorni dopo il suo arresto egli fu portato via. — Portato via! gridò Morrel: ma che cosa avranno potuto fare di questo giovanotto? — Oh! state tranquillo, egli sarà stato trasportato a Fenestrelles, a Pignerol, o alle isole S. Marguerite, ciò che si chiama sfrattato in termine di ufficio, e una bella mattina voi lo vedrete ritornare a prendere il comando del suo bastimento. — Che venga quando vuole, il suo posto gli sarà sempre conservato. Ma come mai non è ancora ritornato? Mi sembra che la prima cura della giustizia Imperiale dovrebbe essere quella di mettere in libertà coloro che erano stati incarcerati dalla giustizia regia. — Non accusate temerariamente, mio caro Morrel, rispose Villefort; in tutte le cose bisogna procedere legalmente. L’ordine di arresto era venuto dall’alto, bisogna che dall’alto venga pur quello della libertà. Ora Napoleone è rientrato, non sono appena quindici giorni, ed egualmente le lettere di abolizione appena possono essere state spedite. — Ma, domandò Morrel, non vi sarebbe modo di passar sopra a tutte le formalità? ora che noi trionfiamo, io godo di qualche influenza, e posso ottenere di far annullare il decreto. — Non ha avuto luogo alcun decreto. — Dell’ordine d’arresto, allora. — In materia politica non vi è registro d’arresto. Qualche volta i Governi han premura di fare sparire un uomo senza ch’egli lasci traccia del suo passaggio; le annotazioni sui registri degli arrestati lascerebbero campo a ricerche. — Ciò sarà stato un tempo forse, ma ora... — È sempre lo stesso in tutti i tempi, mio caro Morrel: i Governi si succedono, e si rassomigliano. La macchina penitenziaria montata sotto Luigi XIV continua pure oggi giorno, eccetto la Bastiglia che per un accidente fu spianata. L’Imperatore è sempre stato più rigoroso pel regolamento delle sue prigioni, di quello che non lo è stato lo stesso gran Re, e il numero dei carcerati di cui non si conserva alcuna traccia sui registri è incalcolabile. Tanta benevolenza avrebbe messo fuor di dubbio delle certezze, e Morrel non aveva neppure dei sospetti. — Ma finalmente, Sig. Villefort, diss’egli, qual consiglio potreste voi darmi per sollecitare il ritorno di Dantès? — Un solo, fate una petizione al ministro della giustizia. — Oh! noi sappiamo ciò che sono le petizioni; il ministro ne riceve 200 al giorno, e non ne legge neppur quattro. — Sì, rispose Villefort, ma egli leggerà una petizione inviatagli da me, postillata da me, indirizzata direttamente da me. — E voi v’incaricherete di far giungere questa petizione! — Col più gran piacere; Dantès poteva essere allora colpevole, ma oggi egli è innocente, ed è mio dovere il rendere la libertà a colui che fu mio dovere di far mettere in prigione. — Villefort preveniva in tal modo il pericolo di una ricerca poco probabile, ma possibile, che lo avrebbe perduto senza risorse. — Ma come scrivere al ministro? — Mettetevi là, signor Morrel, disse Villefort cedendo il suo posto all’armatore, io ve la detterò; non perdiamo tempo, ne abbiamo già perduto abbastanza. — Sì, signore, pensiamo che il povero giovanotto aspetta, soffre, e forse si dispera. — Villefort rabbrividì all’idea che questo prigioniero lo maledicesse nell’oscurità e nel silenzio; ma egli era troppo messo a rischio per potere ritornare addietro: Dantès doveva essere infranto fra gli scogli della sua ambizione. Villefort dettò una domanda in cui, con uno scopo eccellente, tanto da non esservi dubbio alcuno, egli esagerava il patriottismo di Dantès, e i servigi da lui resi alla causa Bonapartista. In questa petizione, Dantès compariva uno dei più attivi pel ritorno di Napoleone. Era evidente che vedendo una tal supplica, il Ministro dovea fare giustizia sul momento, se la giustizia non era ancora stata fatta. Finita la petizione, Villefort la rilesse ad alta voce. — È fatto, diss’egli; ora riposate tranquillamente su me. — E la petizione partirà presto, Signore? — Oggi stesso. — E la postillerete? — La postilla ch’io posso mettervi è quella di certificare per vero, tutto ciò che voi dite nella petizione. — Villefort a sua volta si assise, e sopra un lato della petizione, scrisse il suo certificato. — Ora che resta a fare, o Signore? domandò Morrel. — Aspettate, rispose Villefort. Io rispondo di tutto. Questa assicurazione rese la speranza a Morrel; egli lasciò il sostituto-procuratore del Re incantato di lui, e corse ad annunciare al vecchio padre di Dantès che non tarderebbe molto a rivedere suo figlio. Quanto a Villefort, in vece d’inviarla a Parigi, egli conservò preziosamente nelle sue mani questa petizione, la quale salvando Dantès per allora, lo metteva sì orribilmente a rischio per l’avvenire, supponendo ciò che l’aspetto di Europa, e la piega degli avvenimenti permettevano già di supporre, cioè una seconda restaurazione. Dantès rimase adunque prigioniero: perduto nel profondo della sua segreta, non intese il rumore formidabile della caduta del trono di Luigi XVIII, nè quella più spaventevole ancora dello scrollo dell’Impero. Ma Villefort, aveva tutto seguito con un occhio vigilante, e tutto ascoltato con occhio attento. Due volte durante questa breve apparizione imperiale che fu chiamata _cento giorni_, Morrel era ritornato da Villefort, insistendo sempre per la libertà di Dantès, e tutte e due volte Villefort lo aveva pacato con promesse e con speranze. Giunse finalmente la battaglia di Waterloo, Morrel non ricomparve più da Villefort. L’armatore aveva fatto pel suo giovine amico tuttociò che era stato umanamente possibile. Provare nuovi tentativi sotto questa seconda restaurazione era un cimentarsi inutilmente. Luigi XVIII risalì sul trono; Villefort, per cui Marsiglia era piena di tristi rimembranze, divenute rimorsi, domandò ed ottenne il posto vacante di procuratore del Re a Tolosa. Quindici giorni dopo la sua istallazione nella nuova residenza sposò madamigella Renata di S. Méran il cui padre era favorito in corte più che mai. Ecco come Dantès durante i cento giorni, e dopo la battaglia di Waterloo, restò sotto chiavi, dimenticato dagli uomini, ma non da Dio. Danglars capì tutta la forza del colpo con cui aveva percosso Dantès, vedendo ritornare Napoleone in Francia. La sua denunzia avea colpito nel segno, e, come tutti gli uomini di una certa attitudine al delitto, e di una mezzana intelligenza per la vita ordinaria chiamò questa bizzarra coincidenza, un _decreto della Provvidenza._ Ma quando Napoleone ritornò a Parigi, e che la sua voce rintronò nuovamente imperiosa e potente, Danglars ebbe paura. Ad ogni momento si aspettava veder comparire Dantès, Dantès informato di tutto, Dantès minaccioso e terribile nelle sue vendette. Allora egli manifestò a Morrel, un desiderio di lasciare il servizio di mare, e si fe’ da lui raccomandare ad un negoziante spagnuolo, presso del quale entrò da commesso d’ordine, alla fine di Marzo, vale a dire 10 o 12 giorni dopo la ricomparsa di Napoleone alle Tuglierie. Egli partì adunque per Madrid, e non s’intese più parlare di lui. Fernando non capì niente. Dantès era rimasto assente, e ciò era quanto gli importava. Che n’era accaduto? egli non cercò di saperlo. Soltanto, durante tutto il tempo che gli venne accordato da questa assenza, s’ingegnò ora ad ingannare Mercedès, sui motivi dell’assenza, ora a meditare dei disegni d’emigrazione e di ratto. Di tempo in tempo ancora, soprattutto nelle ore tetre di sua vita, s’assideva sulla punta del capo Pharo, da questo luogo donde si distingueva ad un tempo Marsiglia, ed il villaggio dei Catalani, guardando, tristo ed immobile come un uccello da preda, se avesse veduto per una di queste due strade il giovinotto dal libero andare, dalla testa alta, che per lui pure era diventato il messaggiero di una cruda vendetta. Allora il disegno di Fernando era arrestato; egli spaccava la testa di Dantès con un colpo di fucile, e dopo si uccideva, ciò dicendo a sè stesso per colorire il suo assassinio. Ma Fernando s’ingannava; egli non si sarebbe mai ucciso, poichè sperava sempre. Frattanto ed in mezzo a tanto ondeggiamento doloroso, l’impero chiamò un ultimo bando di soldati, quanti uomini v’erano in istato di poter portare le armi si slanciarono fuori della Francia alla voce formidabile dell’imperatore. Fernando partì come gli altri lasciando la sua capanna e Mercedès corrodendosi col terribile pensiero che dietro a lui forse sarebbe ritornato il rivale a sposar quella ch’egli amava. In quanto alla giovinetta, la pietà ch’egli sembrava prendere alla infelicità di lei, la cura di antivenirne anche i più piccoli desideri, aveva prodotto l’effetto che sogliono fare su i cuori generosi le apparenze di devozione. Mercedès aveva sempre amato Fernando con amicizia; alla sua amicizia si aggiunse un nuovo sentimento, quello della riconoscenza. — Fratello mio! disse ella nell’adattare il sacco da coscritto sulle spalle del Catalano, fratello mio! mio solo amico! non vi fate uccidere, non mi lasciate in questo mondo ove io piango, e dove sarò sola quando voi non ci sarete più! — Queste parole, dette al momento della partenza, resero qualche speranza a Fernando. Se Dantès non ritornava più, Mercedès potrebbe dunque un giorno esser sua. Mercedès restò sola su questa nuda terra, che non le era sembrata mai così arida, e col mare immenso per orizzonte. Tutta bagnata di lagrime come quella pazza di cui si racconta la dolorosa storia, si vedeva incessantemente vagare intorno al piccolo villaggio dei Catalani, ora fermandosi sotto il sole ardente del mezzogiorno, ritta, immobile, muta come una statua e guardando Marsiglia; ora assisa sulla spiaggia, ascoltando il mormorio del mare, eterno come il suo dolore, e domandando incessantemente a sè stessa se fosse meglio gettarsi in avanti, lasciarsi cadere come corpo morto, aprire l’abisso e inghiottirvisi; piuttosto che soffrire in tal modo tutte queste vicissitudini di un’aspettativa senza speranze. Non il coraggio mancò a Mercedès per compiere il suo disegno, ma la religione le venne in aiuto, e la salvò dal suicidio. Caderousse come Fernando, venne pure chiamato nella coscrizione; e siccome egli aveva otto anni più del Catalano, ed era ammogliato, così fece parte del terzo bando e fu inviato sulle coste. Il vecchio Dantès, che non era più sostenuto dalla speranza, la perdè interamente alla caduta dell’imperatore. Cinque mesi dopo, nello stesso giorno in cui era stato separato dal figlio, e quasi nell’istessa ora in cui venne arrestato, rendette l’ultimo sospiro fra le braccia di Mercedès. Morrel provvide a tutte le spese della sepoltura, e pagò i piccoli debiti che il vecchio aveva fatti durante la sua malattia. Operando così non era solo beneficenza ma anche coraggio. Le province di mezzogiorno erano in fuoco, ed il soccorrere, anche al letto di morte, il padre di un bonapartista così pericoloso come Dantès, era un delitto. XIV. — IL PRIGIONIERO FURIOSO ED IL PRIGIONIERO PAZZO. Circa un anno dopo il ritorno di Luigi XVIII, vi fu una visita dell’ispettore generale delle prigioni. Costui chiamavasi de Boville. Dantès sentì girare e stridere dal fondo della sua segreta tutti quei preparativi, che in alto facevano molto fracasso, ma in basso sarebbero stati rumori impercettibili per tutt’altre orecchie che per quelle di un prigioniero avvezzo a discernere nel silenzio della notte il ragno che tesse la sua tela, e la caduta periodica della goccia d’acqua, che impiega un’ora a formarsi sotto la volta della segreta. Indovinò che fra i vivi accadeva qualche cosa di straordinario. Egli che da sì lungo tempo abitava una tomba, poteva bene considerarsi come un morto. In fatto l’ispettore visitava, una dopo l’altra, le camere, le celle, le segrete; molti prigionieri furono interrogati, ed eran quelli che per la loro stupidità si raccomandavano alla benevolenza dell’amministrazione; l’ispettore lor domandava come erano nutriti e quali reclami avessero a fare. Essi risposero unanimamente che il nutrimento ora orribile e che reclamavano la loro libertà. L’ispettore dimandò se aveano altro a chiedere. Essi scossero la testa; qual altro bene oltre la libertà può reclamare un prigioniero? De Boville, si volse sorridendo, e disse al governatore: — Io non so perchè ci facciano fare questi inutili giri; chi vede una prigione ne vede cento, chi ascolta un prigioniere ne ascolta mille. È sempre la stessa cosa: mal nutriti ed innocenti. Ve ne sono altri? — Sì, noi abbiamo i prigionieri pericolosi o pazzi che son ritenuti in segreta. — Vediamo, disse l’ispettore, con un’aria di profonda stanchezza, compiamo il nostro ufficio, discendiamo nelle segrete. — Aspettate, disse il governatore, che si mandino almeno a prendere due uomini. I prigionieri commettono qualche volta, non fosse che per disgusto della vita e per farsi condannare a morte, degli atti d’inutile disperazione; voi potreste cader vittima di uno di questi eccessi. — Prendete adunque le vostre cautele, soggiunse l’ispettore. In fatto si mandarono a chiamare due soldati, e si cominciò a discendere per una scala umida, infetta, ed ammuffita. — Oh! fece l’ispettore fermandosi a metà della scala. E chi diavolo può alloggiare qui? — Un cospiratore dei più pericolosi, ci è stato raccomandato particolarmente come uomo capace di tutto. — È egli solo? — Certamente. — Da quanto tempo? — Da circa un anno. — E fu messo qui fino dal suo entrare? — No, Signore, ma soltanto dopo aver tentato di uccidere il custode incaricato di portargli il nutrimento; quello stesso che ci fa lume. N’è vero, Antonio? — Sì, rispose il custode — Ah! è dunque pazzo quest’uomo. — È forse peggio, disse il custode; è un demonio. — Volete voi che se ne faccia una querela? domandò l’ispettore al governatore. — È inutile, signore. Egli è abbastanza punito così; d’altra parte tocca ormai quasi alla follia, e secondo l’esperienza che ci danno le nostre osservazioni, prima che compia un altr’anno, egli sarà compiutamente pazzo. — In fede mia, tanto meglio per lui, disse l’ispettore, una volta pazzo del tutto, egli soffrirà meno. Come si vede bene, l’ispettore era un uomo pieno d’umanità, e ben degno delle funzioni filantropiche che esercitava. — Avete ragione, signore, disse il governatore, e la vostra riflessione prova che avete profondamente studiata la materia. Parimente abbiamo, in una segreta non lontana da questa più d’una trentina di passi, e nella quale si discende per un’altra scala, un vecchio scienziato, antico capo di fazione in Italia, che è qui fin dal 1811, e di cui il cervello ha dato volta verso la fine del 1814, per cui da quell’epoca, non è più fisicamente riconoscibile, piange, ride, dimagrisce, ingrassa. Volete voi veder quello piuttosto che questo? La sua pazzia vi divertirà e non vi attristerà punto. — Li vedrò entrambi, rispose l’ispettore; bisogna disimpegnare il proprio ufficio coscienziosamente. — L’ispettore faceva allora il suo primo giro e voleva lasciare una buona idea della propria autorità. — Entriamo dunque prima qui, soggiunse. — Volentieri, rispose il governatore. Allo stridere delle massicce serrature, al cigolare dei catenacci arrugginiti, Dantès, aggruppato in un angolo della segreta, ove riceveva con un contento indicibile il tenuissimo raggio di luce che filtrava attraverso gli stretti spiragli della sua inferriata, rialzò la testa. Alla vista di un uomo sconosciuto, illuminato dalle torce che portavano i due custodi, accompagnato da due soldati, e al quale il governatore parlava col cappello in mano, Dantès indovinò di che si trattava, e vedendo finalmente presentarsi un’occasione per implorare un’autorità superiore, balzò in avanti colle mani giunte. I soldati abbassarono subito la baionetta perchè credettero che il prigioniero si lanciasse verso l’ispettore con cattiva intenzione, e de Boville stesso fece un passo in dietro. Dantès s’accorse che era stato designato come un uomo da temersi. Riunì dunque nel suo sguardo tutto ciò che il cuore dell’uomo può contenere di mansuetudine e di umiltà, ed esprimendosi con una specie di eloquenza pietosa che meravigliò gli astanti cercò di toccare l’anima del suo visitatore. L’ispettore ascoltò il discorso di Dantès sino alla fine; poi volgendosi verso il governatore: — Egli piegherà alla devozione, diss’egli a mezza voce, è già disposto a sentimenti più dolci. Vedete... la paura fa il suo effetto su lui; ha indietreggiato in faccia alle baionette, ora un pazzo non rincula innanzi ad alcuna cosa; su questo proposito ho fatto delle curiose osservazioni a _Charenton_: — poscia volgendosi verso il prigioniero. — In brevi termini che domandate voi? — Io domando qual delitto ho commesso! domando che mi si diano dei giudici! domando che sia istruito il processo! domando da ultimo di essere fucilato se sono reo! ma del pari di essere messo in libertà se sono innocente! — Siete voi ben nutrito? domandò l’ispettore. — Sì, credo... non ne so niente... ma ciò poco m’importa! Quello che deve importare non solo a me disgraziato prigioniere, ma ancora a tutti i funzionari che amministrano la giustizia, ed al Re che ci governa, si è che un innocente non sia vittima di un’infame denunzia, e non muoia sotto chiavi maledicendo i suoi carnefici.... — Voi siete molto umile oggi, disse il governatore; però non siete sempre stato così. Parlavate bene altrimenti, mio caro amico, il giorno che volevate uccidere il vostro custode. — È vero, signore, disse Dantès, e ne domando umilmente perdono a quest’uomo, che è sempre stato buono con me; ma che volete! io era pazzo... io era furioso... — E voi non lo siete più? — No, signore, perchè la prigionia mi ha piegato, umiliato, annichilito, è sì lungo tempo che io sono qui... — Sì lungo tempo? E da qual’epoca foste arrestato? disse l’ispettore. — Il 28 Febbraio 1815, a due ore dopo mezzo giorno. — L’ispettore calcolò. — Siamo ai 30 Luglio 1816. Che dite dunque? Non sono che 17 mesi da che siete prigioniere. — Come 17 mesi! riprese Dantès. Ah! signore, voi non sapete che sono 17 mesi di prigionia! 17 anni, 17 secoli! soprattutto per un uomo, che come me, era vicino a toccare la sua felicità, per un uomo che, come me, era sul punto di sposare una donna amata; per un uomo che vedeva aprirsi a sè dinnanzi una carriera onorevole e al quale tutto è venuto meno in un sol punto; che, dal mezzo del giorno più bello cade nella notte più profonda; che vede la sua carriera distrutta, che ignora se colei ch’egli ama, lo ami tuttora; che ignora se il suo vecchio padre è morto o vivo! 17 mesi di prigione per un uomo abituato all’aria marina, all’indipendenza del marinaro, allo spazio, all’immensità, all’infinito, signore, 17 mesi di prigione sono più che non meritano tutti i delitti designati dalla lingua umana co’ più odiosi nomi! Abbiate dunque pietà di me, e domandate per me non l’indulgenza ma il rigore, non una grazia ma una sentenza! Dei giudici, signore non domando che giudici. Non si possono negare i giudici ad un accusato. — Va bene, disse l’ispettore, si vedrà. — Poi volgendosi verso il governatore disse: — In verità questo povero diavolo mi fa pena. Ritornando sopra, mi farete vedere il registro degli arresti. — Sì, certo, disse il governatore; ma credo che ritroverete annotazioni terribili sul conto suo. — Signore, continuò Dantès, so bene che voi non potete farmi uscir di qui colla vostra autorità; ma potete trasmettere la mia domanda agli uffici competenti, potete causare una requisitoria, potete finalmente farmi sottomettere ad un giudizio. Un processo, è tutto ciò che io domando; che io sappia qual delitto ho commesso, ed a qual pena sono condannato; poichè, assicuratevi, l’incertezza è il peggiore di tutti i supplizi. — Istruitemi, disse l’ispettore. — Signore, gridò Dantès, comprendo dal suono della vostra voce che voi siete commosso; ditemi almeno che io speri. — Non posso dirvelo, rispose l’ispettore; posso soltanto promettervi di esaminare il vostro registro, e ciò che vi sta a carico. — Oh! allora, signore, son libero! Son salvo! — Chi vi fece arrestare? dimandò l’ispettore. — Il sig. de Villefort; vedetelo, e intendetevela con lui. — È già un anno ch’egli non è più in Marsiglia, ma a Nimes. — Ah! ciò non mi sorprende più, il mio solo protettore si è allontanato. — Il sig. de Villefort aveva egli qualche motivo di odio contro di voi? domandò l’ispettore. — Nessuno, signore, anzi era molto benevolo meco. — Io potrò dunque fidare alle note che egli ha lasciato sul conto vostro, o che potrà trasmettermi? — Intieramente, signore. — Sta bene, aspettate. — Dantès cadde in ginocchio, levando le mani verso il Cielo e mormorando una preghiera nella quale egli raccomandava a Dio questo uomo che era disceso nella sua prigione come il Salvatore che liberava le anime dall’inferno. La porta si richiuse, ma la speranza discesa con Boville, era rimasta nella segreta di Dantès. — Volete voi vedere il registro di consegna subito, domandò il Governatore, o passare alla segreta dello scienziato? — Finiamola prima colle segrete, rispose l’ispettore; se io ritornassi ove fa giorno, forse non avrei più il coraggio di discendere di bel nuovo qui per compiere la mia trista missione. — Oh! quest’altro non è un prigioniero come quello che abbiamo lasciato, e la sua pazzia rattrista meno che la ragionevolezza del suo vicino. — E quale è la sua pazzia? — Oh! una pazzia strana, egli si crede possessore di un immenso tesoro. Il primo anno della sua prigionia ha fatto offrire al Governo un milione, se volesse metterlo in libertà; il secondo anno due milioni, il terzo tre milioni, e così progressivamente. Egli è ora al suo quinto anno di prigionia, e chiederà di parlarvi in segreto, per offrirvene cinque. — Ah! ah! è curiosa in fatto, disse l’ispettore; e come si chiama questo milionario? — Faria. — N. 27? domandò l’ispettore leggendo questa cifra sopra una porta. — Precisamente qui. Antonio, aprite. Il custode ubbidì, e de Boville entrò nella segreta dello _scienziato pazzo_: per tal modo veniva generalmente chiamato il prigioniere. In mezzo della camera in un circolo tracciato sul pavimento con un poco d’intonaco, staccato dal muro, era sdraiato un uomo quasi nudo, tanto le sue vesti erano andate in pezzi. Egli disegnava in questo cerchio delle linee geometriche molto dritte e parallele, e pareva in tal modo occupato a risolvere il suo problema a guisa di Archimede nel momento che fu ucciso da un soldato di Marcello. Egualmente egli non si mosse al rumore che fece la porta della prigione nell’aprirsi, e non sembrò risvegliarsi che allorquando la luce delle torce illuminò con chiarore straordinario l’umido suolo su cui lavorava. Allora si volse e vide con sorpresa la numerosa compagnia che era discesa nel suo carcere. Si alzò prestamente, prese una coperta gettata sul miserabile suo letto, e si coperse precipitosamente per comparire in uno stato più decente agli occhi degli stranieri. — Domandate voi nulla? disse l’ispettore senza variare la sua formola. — Io, signore, disse Faria con sorpresa, nulla domando. — Voi non capite, disse l’ispettore, io sono un messo del governo, ed ho la commissione di scendere in tutte le prigioni, per ascoltare i reclami de’ prigionieri. — Oh! allora, signore, è tutt’altro, gridò vivacemente Faria, e spero che ce la intenderemo. — Vedete, disse a bassa voce il governatore, non comincia egli come vi avevo detto? — Signore, continuò il prigioniero, io sono Faria nato in Roma nel 1768; sono stato venti anni segretario del conte Spada, l’ultimo dei Principi di questo nome, sono stato arrestato, e non so perchè, verso il principio dell’anno 1808; dopo questo tempo ho sempre reclamato la mia libertà dalle Autorità Italiane, e Francesi. — Perchè dalle Autorità Francesi? domandò il governatore. — Perchè io sono stato arrestato a Piombino e presumo che, come Firenze, Piombino sia divenuto capo luogo di un qualche dipartimento Francese. L’ispettore ed il governatore si guardarono ridendo. — Diavolo, mio caro, disse l’ispettore, le vostre notizie sull’Italia non sono di fresca data. — Esse portano la data del giorno in cui sono stato trasportato da Fenestrelle qui, signore, disse Faria; era nel 1811, e S. M. l’Imperatore avendo dato il nome di re di Roma al figlio che il cielo gli aveva concesso, io presumeva che continuando il corso delle sue conquiste egli vagheggiasse il sogno di Macchiavello e di Cesare Borgia. — Signore, disse l’ispettore, la Provvidenza ha fortunatamente arrecato tali cambiamenti nella Penisola, che quel sogno rimarrà tale. — Sarà; ma quante cose non sono possibili sulla terra? rispose Faria. — Sì, ma non già i sogni, riprese l’ispettore; nè sono venuto qui per intavolare con voi un corso di politica oltramontana, ma soltanto per domandarvi, come ho già fatto, se avete qualche reclamo da indirizzarmi sul modo col quale siete nutrito ed alloggiato. — Il nutrimento è quello di tutte le prigioni, rispose Faria, vale a dire cattivissimo. Quanto all’alloggio, come vedete è umido e malsano, ma ciò nonostante è conveniente abbastanza per una segreta. Ora non è di ciò che si tratta, ma bensì di una rivelazione della più alta importanza che ho a fare al governo. — Eccoci, disse a bassa voce il Governatore a de Boville. — Ecco perchè io sono fortunato di vedervi, continuò Faria, quantunque voi mi abbiate distratto da un calcolo molto importante, che se riesce, cangerà forse del tutto il sistema planetario di Newton. Potete voi accordarmi il favore di un colloquio particolare? — Eh! che diceva io? fece il governatore all’ispettore. — Voi conoscete bene la persona, rispose questi sorridendo. Poi rivolgendosi a Faria: Signore, diss’egli: — Ciò che chiedete è impossibile. — Ciò nonostante, riprese Faria, si tratterebbe di fare guadagnare al governo una somma enorme, una somma, per esempio, di cinque milioni! — In fede mia, disse l’ispettore, volgendosi al governatore, voi avete predetto perfino la cifra. — Vediamo, riprese Faria, accorgendosi che l’ispettore faceva un movimento per ritirarsi, non è poi assolutamente necessario che noi siamo soli: il sig. governatore potrà assistere al nostro colloquio. — Disgraziatamente mio caro signore, disse il governatore, noi sappiamo già a memoria quello che voi volete dirci. Si tratta dei vostri tesori, n’è vero? Faria guardò quest’uomo pungente, con certi occhi su cui un osservatore disinteressato avrebbe certamente veduto splendere il lampo della ragione e della verità. — Senza dubbio, diss’egli, di che volete che io vi parli, se non di ciò? — Sig. ispettore, continuò il governatore, vi posso raccontare questa storia tanto bene quanto Faria, essendo già quattro o cinque anni che me la sento risuonare alle orecchie. — Ciò prova, sig. governatore, disse Faria che voi siete di quella gente di cui parla la Scrittura, i quali hanno gli occhi e non vedono, hanno le orecchie e non sentono. — Mio caro signore, disse l’ispettore, il governo è ricco, e grazie a Dio, non ha bisogno dei vostri milioni; conservateli adunque pel giorno in cui uscirete di prigione. L’occhio di Faria si dilatò; egli afferrò la mano dell’ispettore e soggiunse: — Ma se io non esco di prigione, se contro ogni giustizia mi si ritiene in questa segreta, se vi debbo morire senza aver lasciato il mio segreto ad alcuno, questo tesoro andrà dunque perduto? Non è meglio che il Governo ne profitti con me? Io andrò fino a sei milioni, signore! Sì, io lascerò sei milioni, e mi contenterò del resto, se mi si vorrà rendere la libertà. — Sulla mia parola, disse l’ispettore a mezza voce, se non si sapesse che quest’uomo è pazzo, egli parla con un accento di tanta convinzione, da credere che dicesse la verità. — Io non sono un pazzo, signore, e dico precisamente la verità, riprese Faria, che, con quella finezza di udito che è particolare ai prigionieri, non aveva perduto una sola delle parole dell’ispettore. Il tesoro di cui vi parlo esiste veramente, ed io sono pronto a firmare un trattato, in virtù del quale voi mi condurrete al luogo che verrà da me deputato: si scaverà la terra sotto i nostri occhi, e se io mentisco, se nulla vien ritrovato, se io son pazzo come voi dite, ebbene! voi mi condurrete in questa medesima carcere ove io resterò eternamente, e dove morrò senza più nulla domandar nè a voi, nè ad alcuno. Il governatore si mise a ridere. — È lontano questo vostro tesoro? domandò egli. — A cento leghe di qui circa. — La cosa non è male immaginata, disse il governatore; se tutti i prigionieri volessero divertirsi a fare una passeggiata coi loro gendarmi per cento leghe, o se i guardiani acconsentissero a fare una simile passeggiata questo sarebbe un eccellente pretesto, che i prigionieri si procurerebbero per prendere la via dei campi alla prima occasione opportuna, e durante un simile viaggio l’occasione si presenterebbe certamente. Disgraziatamente però questo è un pretesto troppo conosciuto, ed il sig. Faria non ha neppure il merito dell’invenzione. — Poi volgendosi allo scienziato: — Vi ho domandato se siete bene nutrito? — Signore rispose Faria, giuratemi sul vostro onore di liberarmi se io dico la verità, e v’indicherò il luogo preciso ove è nascosto il tesoro. — Siete contento del nutrimento?, ripetè l’ispettore. — Signore, voi così non correte alcun rischio, e vedete bene che non è per procurarmi un’eventualità di fuga, mentre io resterò prigione fino a che abbiate fatto il viaggio. — Voi non rispondete alla mia interrogazione, disse con impazienza l’ispettore. — Nè voi alla mia, gridò Faria. Siate adunque maledetto come tutti gli altri insensati che non han voluto credermi. Voi non volete il mio oro, io lo custodirò; voi mi ricusate la libertà, Dio me la manderà. Andate, non ho più nulla a dirvi. — E Faria gettando la coperta, raccolse l’intonaco, ed andò ad assidersi di nuovo in mezzo al circolo ove continuò le sue linee ed i suoi numeri. — Che fa egli là? disse l’ispettore ritirandosi. — Conta i suoi tesori, rispose il governatore. Faria rispose a questo sarcasmo con un’occhiata su cui era impresso il più gran disprezzo. Essi uscirono. Il carceriere chiuse la porta dietro loro. — Egli avrà forse davvero posseduto qualche tesoro, disse l’ispettore risalendo la scala. — O avrà sognato di possederlo, rispose il governatore, e il giorno dopo si sarà risvegliato pazzo. — Così terminò l’avventura per lo scienziato Faria. Egli rimase prigioniere, e dopo questa visita la sua riputazione di pazzo glorioso aumentò sempre più. In quanto a Dantès, l’ispettore gli mantenne la parola. Risalendo nell’ufficio del governatore si fe’ mostrare il registro di consegna. Una nota era scritta dirimpetto al suo nome. | Bonapartista arrabbiato; | ha preso parte attiva | al ritorno dall’Isola Edmondo Dantès | d’Elba; da tenersi | nella più gran segreta, | e sotto la più stretta | sorveglianza. Questa nota era di un altro carattere, e di un inchiostro diverso dal rimanente del registro, ciò che provava essere stata aggiunta dopo l’incarcerazione di Dantès. L’accusa era troppo positiva per tentare di combatterla. L’ispettore adunque scrisse al margine: «vista la nota di fronte, nulla si può fare.» Questa visita aveva per così dire ravvivato Dantès; dacchè era entrato in prigione, aveva obbliato di contare i giorni; ma l’ispettore lo aveva fornito di una nuova data, ed egli non l’aveva dimenticata. Dietro a lui, scrisse sul muro con un po’ di gesso staccato dalla volta: 30 luglio 1816; e da quel momento faceva ogni giorno un segno affinchè la misura del tempo non gli sfuggisse più. I giorni passarono, poi le settimane, quindi i mesi. Dantès aspettava sempre. Egli aveva cominciato dal fissare la sua liberazione a quindici giorni. Impiegando soltanto la metà della premura che aveva sembrato provare l’ispettore dovevano essere sufficienti 15 giorni. Passati questi 15 giorni, egli disse che era un’assurdità il credere che l’ispettore sarebbesi occupato di lui prima del suo ritorno a Parigi; or questo ritorno a Parigi non poteva aver luogo che allor quando avrebbe finito il giro, il quale poteva durare un mese o due. Egli fissò adunque tre mesi invece di 15 giorni; compiti i tre mesi un altro ragionamento venne in suo aiuto, ed egli si concesse sei mesi: finiti ancora questi sei mesi, mettendo i giorni uno in capo all’altro ritrovò di avere aspettato dieci mesi e mezzo. Durante questi dieci mesi e mezzo, niente fu cambiato nel regime della sua prigione; non vi era giunta alcuna notizia consolante, interrogato il carceriere, questi era muto secondo il solito. Dantès cominciò a dubitare dei suoi sensi, a credere che ciò che prendeva per un ricordo della sua memoria, non fosse altro che una allucinazione del suo cervello, e che questo angelo consolatore, apparso nella sua prigione, non vi fosse disceso se non che sulle ali di un sogno. In capo d’un anno il governatore fu cambiato. Egli aveva ottenuto la direzione del forte di Ham; condusse seco molti de’ suoi subordinati e fra gli altri il carceriere di Dantès. Un nuovo governatore giunse; sarebbe stato troppo lungo per lui l’imparare a memoria il nome di tutti i prigionieri, si fe’ perciò rappresentare soltanto i loro numeri. Questa orribile casa ammobiliata si componeva di cinquanta camere. I loro abitanti erano distinti col numero della camera che abitavano, ed il disgraziato giovinotto cessò di essere chiamato ancora col suo nome Edmondo o col suo cognome Dantès: e si chiamò il numero 34. XV. — IL NUMERO XXXIV ED IL NUMERO XXVII. Dantès passò per tutti i gradi d’infelicità che soffrono i prigionieri dimenticati in una prigione. Cominciò dall’orgoglio che è una conseguenza della speranza ed una conoscenza dell’innocenza; poi passò al dubbio della sua innocenza, ciò che non giustificava male le idee del governatore sulla sua alienazione mentale; finalmente cadde dall’alto del suo orgoglio, pregò non Dio ancora, ma gli uomini. Dio è l’ultima risorsa: il disgraziato che dovrebbe cominciare dal Signore talvolta non giunge a sperare in lui che dopo avere esaurite tutte le altre speranze. Dantès dunque pregò perchè il togliessero dal suo carcere, per metterlo in un altro, fosse anche stato più nero e più profondo; un cambiamento, quantunque peggiore, era sempre un cambiamento, e gli procurerebbe una distrazione di qualche giorno. Egli pregò che gli venisse accordata la passeggiata, dell’aria, dei libri, degl’istrumenti. Niente di tutto ciò gli venne accordato, ma non importa; domandava sempre. Si era assuefatto a parlare col nuovo carceriere, quantunque questi fosse, se si può dire, più muto del primo; ma parlare ad un uomo, per quanto muto, era ancora un piacere. Dantès parlava per sentire la sua propria voce: si era provato di parlare quando era solo, ma allora aveva paura. Spesso prima di esser fatto prigioniere, Dantès si era fatto uno spauracchio di queste camere di prigionieri, composte di vagabondi, di banditi, e di assassini, fra i quali un’ignobile gioia mette in comune delle orgie inintelligibili e delle amicizie spaventose. Egli giunse a desiderare di esser messo in uno di questi bagni, per poter vedere qualche altro viso oltre quello del carceriere impassibile che non voleva parlare. Egli desiderava il bagno, col suo costume infamante, colla catena al piede, col marchio sulla spalla. I forzati almeno godevano la società dei loro simili, respiravano l’aria, vedevano il cielo: i forzati per Dantès erano esseri fortunati. Egli supplicò un giorno il carceriere di domandare per lui un compagno qualunque, fosse pur anche stato lo scienziato pazzo di cui avea inteso parlare. Sotto la scorza di carceriere, per quanto sia rozza, resta sempre qualche cosa di uomo. Questi, quantunque il suo viso nol dimostrasse, aveva spesso nel fondo del cuore compianto questo disgraziato giovine, il cui carcere era sì duro; passò dunque la domanda del numero 34 al governatore; ma questi, prudente come se fosse stato un uomo politico, s’immaginò che Dantès volesse ammutinare i prigionieri, tramare qualche complotto, aiutarsi con qualche amico, per tentare una evasione, e si ricusò. Dantès aveva esaurito il cerchio delle risorse umane. Come dicemmo che ciò doveva accadere, egli si rivolse allora a Dio. Tutte le idee pietose sparse nel mondo, e che vengono raccolte dagl’infelici che sono curvati sotto il peso della sventura, vennero allora a presentarsi al suo spirito; si rammentò delle preghiere insegnategli da sua madre, e ritrovò in quelle dei sensi fino allora ignoti; perchè all’uomo che s’appaga di terrene felicità, la preghiera rimane spesso un assieme monotono e vuoto di senso fino a che il giorno del dolore viene a spiegare all’infelice questo linguaggio sublime per mezzo del quale egli parla a Dio. Pregò dunque con fervore; e pregando ad alta voce non si spaventava più delle sue parole. Allora cadeva in una specie di estasi; vedeva Dio risplendente a ciascuna parola che pronunziava; tutte le azioni della sua vita umile e perduta le rapportava alla volontà di questo Dio onnipossente facendosene delle lezioni, e proponendosi degli obblighi ad adempiere. Ad onta di queste preghiere ferventi, Dantès rimase prigioniero. Allora lo spirito si fece tetro, una nube s’addensò innanzi ai suoi occhi. Dantès era uomo semplice e senza educazione; il passato era rimasto per lui coperto da quel denso velo, che la sola scienza solleva. Egli non poteva nella solitudine della sua secreta o nel deserto del suo pensiero rianimare i popoli estinti, rifabbricare le antiche città che l’immaginazione e la poesia ingrandiscono, e che passano davanti agli occhi giganteschi ed illuminati dal fuoco del Cielo, come i quadri babilonesi di Martin; egli non aveva che il suo passato così breve, il suo presente così tristo, il suo avvenire così incerto: 19 anni di luce da meditarsi forse in una eterna notte! Nessuna distrazione poteva venirgli in aiuto: il suo spirito energico che forse non avrebbe amato meglio che prendere il suo volo a traverso le età, era forzato a restar prigioniero come un’aquila nella sua gabbia. Si aggrappava allora ad una sola idea, a quella della sua felicità, distrutta senza una causa apparente e per una fatalità inaudita, si atteneva a quest’idea, la girava, la rigirava sotto tutti i rapporti, divorandola per così dire a denti aguzzi, come nell’inferno di Dante l’implacabile Ugolino divora il cranio dell’arcivescovo Ruggiero. Dantès non aveva avuto che una fede passeggiera; egli la perdette come altri la perdono nei felici eventi, solamente non ne avea profittato. La rabbia successe all’ateismo. Edmondo emetteva delle bestemmie che facevano dare addietro per l’orrore il carceriere, infrangeva il corpo contro le muraglie della prigione, inferociva contro tutto ciò che lo circondava, e sopra tutto contro sè stesso; alla minima contrarietà che gli faceva provare un granellino di sabbia, una festuca di paglia, un soffio d’aria; allora quella lettera denunziatrice ch’egli aveva veduta, che avevagli mostrata Villefort, che da sè stesso aveva toccata, gli ritornava al pensiero; ciascuna linea fiammeggiava nel muro come il Mane, Thècel, Pharès, di Baldassarre; egli diceva a sè stesso che l’odio degli uomini e non la giustizia di Dio lo aveva immerso nell’abisso in cui si trovava; invocava a questi uomini sconosciuti tutti i supplizi di cui la sua ardente immaginazione poteva farsi un’idea; e trovava che i più terribili erano ancora troppo deboli e troppo brevi per essi. A forza di dire a sè stesso, in proposito dei suoi nemici, che quegli che vuole punirli crudelmente deve servirsi di tutt’altro mezzo che della morte, cadde nell’immobilità della trista idea del suicidio; disgraziato colui che sul declivio dell’infelicità, si ferma a questa trista idea! È uno di quei mari morti che si estendono come l’azzurro delle onde pure, ma nelle quali il nuotatore sente di più in più legarsi i piedi in una creta bituminosa che lo attrae a sè, lo assorbe, lo inghiottisce. Una volta preso in tal modo, se il soccorso divino non lo aiuta tutto è finito, e qualunque sforzo che egli tenti, lo approfondisce sempre più nella morte. Ciò nonostante questo stato di morale agonia è meno terribile dei patimenti che lo hanno preceduto e del gastigo che lo seguirà; è una specie di consolazione vertiginosa che ci mostra il precipizio. Talvolta diceva a sè stesso, quando nelle mie lontane corse, allorchè era ancora uomo, e quando quest’uomo libero e possente gettava ad altri uomini dei comandi, che erano eseguiti, ho veduto il cielo coprirsi, il mare fremere e mormorare, l’uragano nascere da un angolo del cielo, e come un’aquila gigantesca battere colle sue ali i due orizzonti; allora io sentiva che il mio vascello non era più che un rifugio impotente, poichè leggero come una piuma nella mano del gigante tremava e rabbrividiva anch’esso. Tosto al rumore del vento che fischiava, delle montagne d’acqua che mi si rovesciavano sul capo; il rumore spaventevole delle onde, l’aspetto degli scogli, mi annunziavano la morte, e la morte mi spaventava, ed io faceva tutti i miei sforzi per sfuggirla, e riuniva tutte le forze dell’uomo e tutta l’intelligenza del marinaio per lottare contro il cielo ed il mare!... ciò accadeva perchè allora io era felice, perchè il ritornare alla vita, era un ritornare alla felicità; ciò avveniva perchè non aveva invocata la morte, non l’aveva scelta; ciò avveniva perchè il sonno mi sembrava duro sopra questo letto di alghe e di sassi; ciò avveniva finalmente perchè io, che mi credeva una creatura fatta ad immagine di Dio, mi sdegnava di dover servire dopo la mia morte di pasto alle foche ed agli avvoltoi. Ma oggi è tutt’altro: ho perduto tutto ciò che poteva farmi amare la vita, oggi la morte mi sorride come una nutrice al bambino che va cullando; oggi io muoio a modo mio, e mi addormento stanco ed infranto, come mi addormenterei dopo una di queste sere di disperazione e di rabbia nelle quali ho contato tremila giri intorno alla mia camera cioè trentamila passi, vale a dire circa dieci leghe. Dacchè questo pensiero ebbe germogliato nello spirito del giovinotto egli si fe più dolce, più ilare; si adattò meglio al suo letto, al suo pane nero, mangiò meno, non dormì più e trovò quasi sopportabile questo avanzo di esistenza che era certo di poter lasciare quando avesse voluto, come si lascia un vestito logoro. Aveva due mezzi per morire: uno era semplice; bastava di legare il fazzoletto alla sbarra della finestra e di appiccarvisi; l’altro consisteva a fingere di mangiare ed a lasciarsi morire di fame. Il primo ripugnava molto a Dantès. Egli era stato allevato coll’orrore ai pirati i quali vengono appesi ai pennoni dei bastimenti. L’impiccarsi adunque era per lui una specie di supplizio infamante che non voleva applicarsi da sè stesso, adottò il secondo, e ne cominciò l’esecuzione nel seguente giorno. Circa quattr’anni erano passati nelle alternative che raccontiamo. Alla fine del secondo, Dantès aveva cessato di contare i giorni, ed era ricaduto nell’ignoranza completa del tempo, dalla quale era stato una volta liberato dall’ispettore. Dantès aveva detto: io voglio morire, ed aveva scelto il suo genere di morte, lo aveva bene esaminato, e per timore di retrocedere dalla sua risoluzione, aveva fatto giuramento a sè stesso di morire così. Quando mi verrà portato il nutrimento della mattina e quello della sera, aveva esso pensato, io getterò gli alimenti dalla finestra, e fingerò di averli mangiato. Eseguì quanto avea promesso a sè stesso di fare. Due volte al giorno, per la piccola apertura sprangata che non gli lasciava scorgere che il cielo, gettava il cibo; sul principio con allegria, poi con riflessione, finalmente con dispiacere; ebbe bisogno di ricordarsi il giuramento fatto, per attinger la forza di continuare il suo terribile disegno. Questi alimenti che altra volta gli ripugnavano, la fame, dai denti aguzzi, glieli faceva comparire appetitosi allo sguardo e squisiti all’odorato; qualche giorno teneva per più di un’ora il piatto degli alimenti, contemplava con occhio fisso quel po’ di carne putrida o quel pesce infetto, e quel pane nero e guasto. Quegli erano gli ultimi istinti della vita che lottavano ancora in lui e che di tempo in tempo abbattevano la sua risoluzione. Allora il carcere non gli sembrava più tanto tetro, il suo stato gli sembrava meno disperato; era ancora giovine, poteva avere venticinque o ventisei anni, gli restavano forse ancor cinquant’anni di vita, cioè due volte quanto avea vissuto. Durante questo tempo immenso quanti avvenimenti potevano atterrare le porte, rovesciare le mura del castello d’If, e rendergli la libertà! allora egli avvicinava i denti al cibo, che, Tantalo volontario, allontanava da sè stesso dalla bocca; ma la memoria del fatto giuramento gli tornava allo spirito, e la sua natura gelosa aveva timore di avvilire sè stessa per mancare al fatto giuramento. Consumò adunque, rigoroso ed implacabile, il poco d’esistenza che gli restava, e venne il giorno che non ebbe più la forza di alzarsi per gettare dal finestrello della prigione la colazione che gli era stata portata. La dimane non ci vedeva più, sentiva appena; il carceriere credeva ad una grave malattia. Dantès sperava in una morte vicina. La giornata passò così. Edmondo sentiva un vago stordimento che non era privo di un certo ben essere, il guadagnare a poco a poco; lo stiramento nervoso del suo stomaco si era assopito, gli ardori della sua sete si erano calmati; allorchè chiudeva gli occhi, vedeva brillarsi intorno una quantità di fiammelle simili a quei fuochi fatui che corrono la notte sui terreni paludosi: era il crepuscolo di quel paese sconosciuto che si chiama morte. Di repente una sera, verso le nove, egli intese un sordo rumore alla parete del muro contro la quale era steso. Tanti animali immondi erano venuti a fare i loro rumori in quella prigione, che un poco alla volta Edmondo aveva assuefatto il suo sonno a non turbarsi per così poco; ma questa volta, sia che i sensi si fossero esaltati dall’astinenza, sia che davvero il rumore fosse più forte che d’ordinario, sia che in quest’ultimo e supremo momento tutto acquisti importanza, Edmondo si agitò pel rumore e sollevò la testa per meglio ascoltarlo. Era un grattamento che sembrava fatto o da una unghia enorme o da un dente possente o finalmente dall’uso di un istrumento qualunque su delle pietre. Benchè indebolito, il cervello del giovinotto fu colpito da quella vaga idea costantemente fissa nello spirito del prigioniero, la libertà. Questo rumore giungeva appunto nel momento in cui ogni altro rumore andava a cessare per lui: gli sembrò che Iddio si mostrasse alla fine placato delle sue sofferenze, e gl’inviasse questo rumore per avvertirlo di fermarsi sull’orlo della tomba, su cui già vacillava il suo piede. Chi poteva sapere che uno dei suoi amici, uno di quegli esseri prediletti ai quali aveva pensato sì spesso, che ne aveva consunto il pensiero, non si occupasse di lui in questo momento e non cercasse ad accorciare la distanza che li separava? ma no, Edmondo senza dubbio si sbagliava e non era che un’abberrazione fluttuante alla porta della morte. Però Edmondo sentiva sempre questo rumore: durò circa tre ore, dopo di che egli intese una specie di crollo; ed il rumore cessò. Qualche ora dopo lo senti più forte e più vicino. Edmondo già prendeva interessamento a questo lavoro che gli faceva compagnia; quando il carceriere entrò. Da otto giorni che aveva fatta la risoluzione di morire, da quattro giorni che aveva cominciata a metterla in esecuzione, Edmondo non aveva indirizzata la parola a quest’uomo, non rispondendogli nemmeno, quando questi gli parlava per domandargli di qual malattia si credeva affetto, e si voltava dalla parte del muro quando credeva di essere osservato troppo attentamente. Ma oggi il carceriere poteva sentire il sordo rumore, allarmarsene, mettervi fine e disturbare così forse quella non so quale speranza, la cui sola idea lusingava gli ultimi momenti di Dantès. Il carceriere portava la colazione. Dantès si sollevò dal letto ed alzando quanto più poteva la voce si mise a parlare su tutti gli argomenti possibili, sulla cattiva qualità dei viveri che gli erano portati, sul freddo che si soffriva in quella segreta, mormorando e brontolando per avere il diritto di gridar più forte, e stancando la pazienza del carceriere che precisamente in quel giorno aveva ottenuto per il prigioniero malato un brodo più sano e un pane più fresco, e che appunto allora glieli portava. Fortunatamente credette che Dantès delirasse; depose i viveri sulla cattiva tavola ov’era abituato a lasciarli e si ritirò. Edmondo libero allora, si rimise ad ascoltare con gioia. Il rumore diveniva così distinto che ora il giovinotto lo udiva senza sforzo. Non più dubbii, diss’egli a sè stesso, dappoichè questo rumore continua anche il giorno, giova credere esser qualche prigioniero che lavora per la sua liberazione. Oh! se io fossi vicino a lui; come lo aiuterei! ma di repente una tetra nube passò sopra questa aurora di speranza in quel cervello abituato all’infortunio, e che con somma difficoltà pareva prender parte alle gioie umane, perchè gli sorgeva l’idea che il rumore poteva essere causato dal lavoro di qualche operaio che il governo impiegava alle riparazioni di una prigione vicina. Era facile l’assicurarsene; ma come arrischiare una domanda? certamente era cosa semplicissima aspettare l’arrivo del carceriere, fargli ascoltare questo rumore, e vedere quale aspetto prendeva; ma con una simile soddisfazione veniva egli a tradire interessi molto preziosi per una curiosità molto breve: disgraziatamente la testa d’Edmondo, campana vuota, era assordita dal ronzìo di un’idea, egli era così debole che il suo spirito fluttuava come un vapore, e non poteva condensarsi attorno ad un pensiero. Edmondo non vide che un mezzo di rendere la chiarezza alla sua riflessione e la lucidezza al suo giudizio; egli volse lo sguardo sul brodo ancor fumante che il carceriere aveva deposto sulla tavola, si alzò, andò barcollando fino a quella, prese la tazza, l’accostò alle labbra, e ne inghiottì il contenuto con una sensazione indicibile di benessere. Allora ebbe il coraggio di fermarsi là; aveva inteso dire che alcuni naufraghi disgraziati, raccolti, estenuati dalla fame, erano morti per avere ghiottamente divorato un nutrimento troppo sostanzioso. Edmondo depose sulla tavola il pane che teneva già vicino alla bocca, e andò a rimettersi sul letto. Non voleva più morire. Ben presto sentì che la vita gli rientrava nel cervello, tutte le idee vaghe ed incerte riprendevano il loro posto in questa macchina meravigliosa. Potè pensare e fortificare il pensiero col ragionamento. Allora si disse: — Bisogna tentare la prova, ma senza mettere in rischio alcuno. Se il lavoratore è un operaio ordinario io non dovrò che battere contro il mio muro; allora egli cesserà tosto dal lavorare, per cercare di indovinare chi è che batte e con quale scopo. Ma siccome il suo lavoro sarà non solamente lecito ma comandato, egli lo riprenderà ben presto. Se, al contrario, è un prigioniero, il rumore che io farò, lo spaventerà; temerà di essere stato scoperto; cesserà dal suo lavorio, e non lo riprenderà che questa sera quando crederà che ognuno sia a letto e addormentato. Alzatosi di nuovo questa volta, le gambe non vacillavano più, gli occhi non erano più abbagliati. Andò verso un angolo della prigione, staccò un ciottolino isolato dall’umidità, e percosse tre colpi contro il muro nella stessa direzione in cui l’interno rumore era più sensibile. Dopo il primo colpo il rumore era cessato come per incanto. Edmondo ascoltò con tutta l’anima. Passò un’ora, ne passarono due, e nessun nuovo rumore si fece sentire; egli aveva fatto nascere dall’altra parte della muraglia un assoluto silenzio. Edmondo pieno di speranza mangiò qualche boccone di pane, bevette un poco di acqua e mercè la forte struttura di cui era stato dotato, si ritrovò presso a poco come per lo innanzi. Passò la giornata, il silenzio durava sempre. Venne la notte senza che ricominciasse il rumore. — È un prigioniero! disse Edmondo con una gioia indicibile. Da quel momento la testa s’infuocò, la vita gli ritornò violenta a forza d’essere operosa. La notte passò senza che il minimo rumore si facesse udire: Edmondo non chiuse occhio. Ritornò il giorno, il carceriere rientrò portando gli alimenti. Edmondo aveva già divorati quelli del giorno innanzi, divorò pur quelli che gli furono portati, ascoltando senza posa quel rumore che non si riproduceva, tremando che fosse cessato per sempre, facendo dieci o dodici leghe nella sua segreta, scuotendo per ore intere le sbarre di ferro del suo spiraglio, rendendo l’elasticità ed il vigore alle sue membra con un esercizio dimenticato da lungo tempo, e disponendosi a lottare corpo a corpo col suo futuro destino, come fa stendendo le braccia e spargendo il corpo d’olio il gladiatore che sta per entrare nell’arena. Negli intervalli poi di questa febbrile operosità, ascoltava se il rumore si rinnovava, s’impazientava della previdenza di questo prigioniero che non indovinava essere stato distratto dalla sua opera di libertà da un altro prigioniero che aveva per lo meno al pari di lui la stessa fretta di essere liberato. Tre giorni passarono, settantadue ore mortali, contando minuto per minuto! Finalmente una sera, dopochè il carceriere aveva fatta la sua visita, e dopo che per la centesima volta Dantès aveva applicato l’orecchio al muro, gli sembrò che uno scroscio impercettibile si ripercuotesse sordamente nella sua testa, messa a contrasto colle pietre silenziose. Dantès indietreggiò per ben raccogliere il suo cervello agitato; fece qualche passo nella camera, e rimise l’orecchio nella stessa direzione. Non v’era più dubbio; si lavorava qualche cosa dall’altra parte; il prigioniero aveva riconosciuto il pericolo del suo stratagemma e ne aveva adottato certamente un altro, e per continuare la sua opera con maggior sicurezza, aveva sostituito la leva allo scalpello. Fatto ardito per questa scoperta, Edmondo risolvè di venire in aiuto all’infaticabile operatore. Cominciò dallo spostare il suo letto, dietro il quale gli sembrò che l’opera di liberazione si compisse e cercò cogli occhi un oggetto col quale avesse potuto intaccare la muraglia, far cadere il cemento umido e spostare finalmente una pietra; nulla gli si presentava allo sguardo, egli non aveva nè coltello, nè strumento tagliente. Di ferro non v’eran che le sue sbarre, ma ei si era troppo bene e spesso assicurato che queste erano ferme e non valeva neppur più il fastidio di provare a spostarle. Per suppellettili della sua prigione non aveva che un letto, una sedia, una tavola, un secchio ed una brocca. Il letto aveva le traverse di ferro, ma queste erano incastrate nel legno e fermate con viti. Sarebbe abbisognato un cacciavite per levare queste viti e prendere le traverse. Alla tavola ed alla sedia niente. Il secchio altra volta aveva il manico; ma questo era stato tolto. Non restava più a Dantès che un mezzo, quello cioè di rompere la sua brocca, e coi pezzi di coccio ad angolo mettersi al lavoro. Egli lasciò cadere la brocca sul pavimento, e questa andò in pezzi. Dantès ne scelse due o tre più acuti, li nascose nel suo pagliereccio, e lasciò gli altri sparsi per terra. La rottura di una brocca era troppo naturale perchè potesse ridestare sospetti. Edmondo aveva tutta la notte per lavorare, ma nella oscurità l’affare andava male poichè bisognava lavorare a tastoni, e sentì ben presto che egli smussava l’informe istrumento contro una materia più dura di quello; risospinse adunque il letto, e aspettò il giorno. Colla speranza gli era ritornata la pazienza. Tutta la notte egli ascoltò, e intese che lo sconosciuto minatore continuava la sua opera sotterranea. Venne il giorno, entrò il carceriere. Dantès disse che il giorno innanzi nel bere gli era sfuggita dalle mani la brocca, e che si era rotta cadendo. Il carceriere andò brontolando a cercare una brocca nuova, senza neppure prendersi l’incomodo di portar via i rottami della vecchia. Ritornò dopo un momento, raccomandò maggior cautela al prigioniero, ed uscì. Quest’ultimo ascoltò con una gioia indicibile lo stridere della chiave, che per lo innanzi ogni volta che si chiudeva gli serrava il cuore. Ascoltò l’allontanarsi del rumore dei passi; poi, quando questo rumore svanì, balzò dalla sua cuccia che spostò, e al debole raggio del giorno che penetrava nel carcere, potè vedere gl’inutili tentativi fatti nella notte precedente contro il corpo di una pietra invece di lavorare sul cemento che la circondava. L’umidità aveva fatto il cemento friabile. Dantès vide con un battito di cuore contento, che questo cemento si staccava a pezzetti i quali per altro erano quasi atomi, ma ciò nonostante in capo ad una mezz’ora Dantès ne aveva staccato un bel pugno. Un matematico avrebbe potuto calcolare che con due anni circa di questo lavoro, supposto che non si fosse incontrato alcun macigno, si poteva scavare un passaggio di due piedi quadrati e di ventisette piedi di profondità. Il prigioniero si rimproverò allora di non avere impiegato in quest’opera le lunghe ore di già successivamente trascorse, sempre più lente, e che egli aveva perdute nella speranza, nella preghiera e nella disperazione. Dopo sei anni circa, dacchè era chiuso in quel carcere, qual lavoro, per quanto lento non avrebbe potuto egli compiere? questa idea gl’infuse un nuovo ardore. In tre giorni giunse, in mezzo ad inaudite cautele, a togliere tutto il cemento, ed a mettere allo scoperto il macigno; il muro era formato di frantumi di pietra in mezzo ai quali per aumentare la solidità era di tratto in tratto posto un macigno. Uno di questi macigni era stato da lui scoperto in tutto il suo contorno, ed ora si trattava di toglierlo dal suo sito. Dantès dapprima provò colle unghie, ma esse erano insufficienti all’uopo. I frantumi della brocca introdotti nelle connessure, si rompevano allorchè Dantès voleva servirsene a guisa di leva. Dopo un’ora d’inutili tentativi, Dantès si rialzò col sudore dell’angoscia sulla fronte. Stava egli forse per fermarsi in sul principio, ovvero gli abbisognava aspettare inerte ed inutile il suo vicino, che forse si sarebbe anche egli stancato, pria di avere compito l’opera? Allora un’idea gli venne in pensiero, egli rimase in piedi sorridendo; la fronte umida pel sudore abbandonata si asciugò. Il carceriere portava tutti i giorni la minestra di Dantès in una casseruola di latta, contenente la sua zuppa e quella di un altro prigioniero, poichè Dantès aveva notato che questa casseruola era sempre o interamente piena, o piena a metà, secondo che il carceriere incominciava la distribuzione dei viveri o da lui o dal suo compagno. La casseruola aveva un manico di ferro; era questo che Dantès anelava, e che avrebbe pagato in contraccambio, se gli fosse stato chiesto, dieci anni della sua vita. Il carceriere versava il contenuto della casseruola nel piatto di Dantès. Dopo aver mangiata la minestra con un cucchiaio di legno, Dantès lavava questo piatto, che serviva così ogni giorno. La sera Dantès pose il piatto per terra a mezza strada fra la porta e la tavola; il carceriere entrando vi mise il piede sopra, e lo ruppe in mille pezzi. Questa volta non vi era nulla da dire contro Dantès: egli aveva fatto male di lasciare il piatto per terra, è vero, ma il carceriere aveva avuto torto di non guardare ove metteva i piedi. Il carceriere si contentò adunque di brontolare, poi guardò intorno a lui dove poteva mettere la minestra, il servizio da tavola di Dantès si limitava a quel solo piatto, quindi non v’era luogo a scegliere. — Lasciate la casseruola, disse Dantès; la riprenderete domani quando mi portate la colazione. Questo consiglio andava d’accordo con la pigrizia del carceriere, che per tal modo non aveva bisogno di risalire, scender di bel nuovo, e tornare a risalire poi. Egli lasciò la casseruola. Dantès fremè per la gioia; questa volta mangiò sollecitamente la minestra e la carne che, secondo l’uso delle prigioni, vien messa in mezzo alla minestra. Poi dopo avere aspettato un’ora per esser certo che il carceriere non si sarebbe pentito, allontanò il letto, prese la casseruola, introdusse l’estremità del manico nel cemento, fra il macigno e i rottami di pietra vicini, e cominciò a farlo fare da leva. Una leggiera oscillazione assicurò Dantès che il lavoro prendeva buona piega. In fatto in capo a un’ora la pietra era tolta dal muro ove lasciava una buca di un diametro maggiore di un piede e mezzo. Dantès raccolse con molta cura il calcinaccio, e lo portò negli angoli della prigione, grattò la terra grigiastra con un frammento della sua brocca, e ricoperse il calcinaccio di terra. Poi volendo mettere a profitto questa notte in cui la combinazione, o meglio lo stratagemma che aveva immaginato, ponevagli fra le mani un utensile così prezioso continuò a scavare con tutta operosità. All’alba del seguente giorno ripose la pietra nel foro, respinse il letto contro il muro e vi si coricò. La colazione consisteva in un po’ di pane; il carceriere entrò, e lo posò sulla tavola. — Ebbene! non mi portate un altro piatto? — No, disse il carceriere; voi siete un rompitutto, avete rotta la vostra brocca, e siete stato causa che io abbia infranto il vostro piatto; se tutti i prigionieri facessero tanti guasti quanti ne fate voi, il governo non potrebbe durarla. Vi si lascia la casseruola dentro cui d’ora in poi si verserà la vostra minestra, ed in tal modo forse non romperete più i vostri utensili. — Dantès levò gli occhi al cielo, giunse le mani al di sotto della coperta. Questo ferro, di cui egli restava padrone, fe’ nascere nel suo cuore il più vivo slancio di riconoscenza verso il cielo, che non gli era stato mai inspirato nel tempo della sua passata vita dai grandi beni che aveva ottenuti. Soltanto egli aveva osservato, che dal momento in cui aveva cominciato a lavorare, l’altro prigioniero non lavorava più. Non importa; questa non era una ragione per desistere dall’impresa; se il suo vicino non progrediva verso di lui, egli andrebbe incontro al suo vicino. In tutta la giornata Dantès lavorò senza riposo; la sera aveva, mercè il suo nuovo istrumento, levato dal muro più di dieci pugni di calcinaccio, rottami e cemento. Quando giunse l’ora della visita, raddrizzò alla meglio il manico della casseruola che aveva storto, e rimise il recipiente al posto consueto. Il carceriere vi versò l’ordinaria razione di minestra e carne, o piuttosto di minestra e pesce perchè quello era un giorno di magro, e tre volte per settimana facevano mangiar di magro i prigionieri. Questo avrebbe potuto essere ancora un mezzo per misurare il tempo, se Dantès non avesse da molto tempo abbandonato tale calcolo. Versata la minestra il carceriere si ritirò. Dantès volle allora assicurarsi se il suo vicino aveva cessato effettivamente di lavorare: e si mise in ascolto. Tutto era silenzioso come in quei tre giorni nei quali fu interrotto il lavoro. Dantès sospirò: evidentemente il suo vicino non si fidava di lui. Ciò nonostante non si perdette di coraggio e continuò a lavorare tutta la notte. Ma dopo due tre ore di lavoro, egli incontrò un ostacolo: il ferro non intaccava più, e scorreva sopra una superficie piana. Dantès toccò l’ostacolo colla mano, e riconobbe che egli aveva raggiunto un trave. Questo trave traversava o piuttosto sbarrava del tutto il foro incominciato da Dantès: gli bisognava scavare dal sotto in su. Il disgraziato giovine non aveva pensato ad un simile ostacolo. — Oh! mio Dio! gridò egli, io aveva pregato tanto, che sperava mi aveste inteso: dopo aver perduta la libertà della vita, dopo avere smarrita la calma della notte, dopo avermi richiamato all’esistenza, abbiate pietà di me, non mi lasciate morir disperato. — Chi parla di Dio e di disperazione nello stesso tempo? articolò una voce che sembrava venire di sotto terra, e che, attenuata dall’opacità, giungeva a Edmondo con un accento sepolcrale. Edmondo sentì drizzarsi i capelli sulla testa, e dette addietro cadendo in ginocchio. — Ah! mormorò egli, finalmente sento parlare un uomo! — Erano già quattro o cinque anni che non aveva sentito parlare altri che il suo carceriere, ed il carceriere non è considerato un uomo dal prigioniero: egli è una porta viva aggiunta a quella di quercia, è una sbarra di carne e d’ossa aggiunta a quelle di ferro. — In nome del cielo! gridò Dantès, voi che avete parlato, continuate a parlare quantunque la vostra voce mi abbia spaventato; chi siete? — Chi siete voi piuttosto? domandò la voce. — Un disgraziato prigioniero, rispose Dantès che non aveva alcuna difficoltà a farsi conoscere. — Di qual paese? — Francese. — Il vostro nome? — Edmondo Dantès. — La vostra professione? — Marinaio. — Da quanto tempo siete qui? — Dal 1 Marzo 1815. — Il vostro delitto? — Sono innocente. — Ma di qual delitto siete accusato? — Di avere cospirato pel ritorno dell’imperatore. — Come! pel ritorno dell’imperatore! l’imperatore non è dunque più in trono? — Egli ha abdicato a Fontainebleau nel 1814 ed è stato relegato all’isola d’Elba. Ma voi che ignorate tutto questo, da quanto tempo siete qui? — Dal 1811. — Dantès rabbrividì; quest’uomo aveva quattr’anni di prigionia più di lui. — Sta bene, non scavate più, disse la voce, parlando prestamente; soltanto ditemi a quale altezza si trova lo scavo che fate. — Rasente terra. — Da che è nascosto? — Dal mio letto. — Hanno smosso mai il vostro letto da che siete in prigione? — Giammai. — Dove mette la vostra camera? — Ad un corridore. — Ed il corridore? — Mette capo ad un cortile. — Ahimè! mormorò la voce. — Oh! mio Dio, che avete? gridò Dantès. — Mi sono sbagliato, l’imperfezione dei miei disegni mi ha ingannato, la mancanza di un compasso mi ha perduto, una linea di sbaglio sul mio disegno ha equivalso a quindici piedi di realtà, ed ho preso il muro che voi scavate per quello della cittadella. — Ma allora voi sareste riuscito sul mare. — Era ciò che voleva! — Ma se foste riuscito? — Mi gettava a nuoto, guadagnava una delle isole che circondano il castello d’If, sia l’isola di Daume, sia quella di Tiboulen, o ancora la spiaggia, ed allora sarei stato salvo. — Ed avreste potuto nuotare fin là? — Dio me ne avrebbe data la forza; ed ora tutto è perduto! — Tutto? — Sì, richiudete il vostro foro con cautela, non lavorate più, non vi occupate di niente, ed aspettate le mie notizie. — Ma almeno ditemi chi siete... — Io sono... sono il N. 27. — Voi dunque non vi fidate di me? domandò Dantès. Edmondo credette sentire un amaro riso penetrare per la volta e giungere fino a lui. — Oh! io sono un buon cristiano, gridò egli, indovinando per istinto, che quell’uomo pensava ad abbandonarlo, io vi giuro per quanto vi ha di più sacro, che mi farò piuttosto uccidere che far travedere ai vostri carnefici ed ai miei l’ombra della verità; ma in nome del cielo, non mi private della vostra voce, o, io ve lo giuro, perchè sono all’estremo della mia forza, m’infrangerò la testa contro le muraglie, e voi avrete a rimproverarvi la mia morte. — Quant’anni avete? riprese l’incognito interlocutore: la vostra voce mi sembra quella di un giovine. — Io non so quant’anni m’abbia, perchè non ho misurato il tempo da che son qui. Ciò che so si è che, il 1 Marzo 1815, quando fui arrestato, aveva circa 19 anni. — Non ancora 26 anni! mormorò la voce. Andiamo, a quest’età non si può essere ancora un traditore. — Oh! no! no! ve lo giuro, ripetè Dantès. Ve l’ho di già detto, e ve lo ridico, mi farei piuttosto tagliare a pezzi che tradirvi. — Avete fatto bene a parlarmi, ed a pregarmi, riprese la voce, poichè formar voleva un altro disegno, e mi allontanava da voi. Ma la vostra età mi tranquillizza, vi raggiungerò, aspettatemi. — E quando? — Bisogna che io calcoli i nostri pericoli, lasciatemi dare il segnale. — Ma non mi abbandonerete, non mi lascerete solo, verrete da me, o permetterete ch’io venga da voi; fuggiremo assieme, e, se non potremo fuggire, almeno parleremo, voi delle persone che amate, io di quelle che amo. Amate qualcuno? — Sono solo al mondo. — Allora amerete me... se voi siete giovine, sarò vostro camerata, se siete vecchio sarò vostro figlio... Io ho un padre che deve avere settant’anni se vive ancora; io non amava che lui, ed una giovinetta che si chiamava Mercedès. Mio padre non mi avrà certo dimenticato, ne sono sicuro, ma ella, chi sa, se pensa ancora a me... io vi amerò come amava mio padre. — Sta bene, disse il prigioniero; addio a domani. Queste poche parole furono dette con un accento che convinse Dantès; egli non chiese di più, si rialzò, prese le solite cautele per i rottami tolti dal muro, e rimise il letto al suo posto. Da quel momento Dantès si abbandonò del tutto alla felicità, pensando, che non sarebbe stato certamente più solo, fors’anche libero; al peggio andare, se egli restava prigioniero, avrebbe avuto un compagno; e la prigionia divisa non è che la metà del gastigo. I lamenti che si mettono in comune, sono quasi preghiere, e le preghiere che si fanno in due sono atti di ringraziamento. Per tutta la giornata Dantès passeggiò nella prigione, il cuore balzavagli di gioia. Di tempo in tempo questa gioia lo soffocava. Egli si sedeva sul letto premendosi con una mano il petto. Al più piccolo rumore che sentiva nel corridoio, balzava alla porta. Più d’una volta gli si affacciò alla mente il timore che lo avessero separato da quell’uomo che non conosceva, e che di già amava come un amico. Allora egli avea risoluto, al momento che il carceriere avrebbe scostato il letto, ed abbassata la testa per esaminare l’apertura, gli fracasserebbe il capo su quello stesso pavimento ove aveva rotta la brocca. Sarebbe stato condannato a morte, lo sapeva; ma non stava forse per morire di noia e di disperazione al momento in cui questo rumore miracoloso lo aveva reso alla vita? La sera venne il carceriere; Dantès era sul letto; gli pareva che, stando su quello, avrebbe meglio fatto la guardia alla incominciata apertura. Bisognava senza dubbio che guardasse il suo visitatore importuno con uno sguardo stravagante, perchè questi gli disse: — Oh! siete per ridivenir pazzo? Dantès non rispose, perchè temè che l’emozione della voce lo tradisse. Il carceriere si ritirò scuotendo la testa. Giunta la notte, Dantès credè che il suo vicino profitterebbe del silenzio e della oscurità per riannodare la conversazione con lui, ma s’ingannò. La notte passò senza che alcun rumore rispondesse alla sua febbrile aspettativa. Ma la dimane dopo la visita del mattino, e mentre aveva allontanato il letto dal muro intese battere tre colpi distinti da intervalli uguali; egli si precipitò in ginocchio. — Siete voi? disse, eccomi. — Il carceriere se nè andato? domandò la voce. — Sì, rispose Dantès, non ritornerà che questa sera... abbiam dunque dodici ore di libertà! — Posso operare? disse la voce. — Sì! senza indugio, sul momento ve ne supplico! Tosto la porzione di terra sulla quale Dantès, per metà addentrato nell’apertura appoggiava le mani, sembrò cadergli sotto: egli si gettò in addietro nel mentre che un ammasso di terra e di rottami precipitò in un foro che veniva ad aprirsi al di sotto dello scavo da lui fatto. Allora dal fondo di questo foro oscuro, e di cui non poteva misurare la profondità, vide comparire una testa, poi due spalle e finalmente un uomo tutto intero che con molta agilità uscì dallo scavamento fatto. XVI. — LO SCIENZIATO. Dantès ricevè fra le braccia il nuovo amico aspettato da sì lungo tempo e con tanta impazienza, e lo attirò verso la finestra, affinchè quel poco di giorno che penetrava nel carcere potesse illuminarlo per intero. Questi era un personaggio basso della persona, coi capelli incanutiti piuttosto dai pensieri che dall’età, coll’occhio penetrante, nascosto sotto folte sopracciglia grige, colla barba ancor nera che gli scendeva fino a metà del petto: la magrezza del viso solcato da profonde rughe, le forti linee della sua caratteristica fisonomia, svelavano un uomo più atto ad esercitare le facoltà morali, che le forze fisiche. La fronte del sopraggiunto era coperta di sudore. Quanto alle vesti era impossibile distinguerne la forma primitiva, poichè cadevano in cenci: sembrava avere 65 anni almeno, quantunque una certa vigoria nei suoi movimenti annunciasse aver egli una età minore di quello che faceva vedere la lunga prigionia. Accolse con molto piacere le proteste entusiaste del giovine. La sua anima di ghiaccio sembrò un momento riscaldarsi e dilatarsi al contatto di quest’anima ardente. Egli lo ringraziò della sua cordialità con un certo calore, quantunque fosse stato grande il disinganno di ritrovare un’altra segreta là dove credeva trovar la libertà. — Prima di tutto, diss’egli, vediamo se c’è mezzo di far disparire agli occhi dei carcerieri le tracce del mio passaggio. Tutta la nostra tranquillità futura dipende dalla loro ignoranza di ciò che noi abbiamo fatto. — Allora egli s’inchinò verso l’apertura, sollevò facilmente la pietra ad onta del peso, e la mise al foro. — Questa pietra è stata spostata con molta negligenza, diss’egli, scuotendo la testa; voi dunque non avete utensili? — E voi? domandò Dantès con sorpresa. — Ne ho fabbricato qualcuno. Ecco una lima, io ho tutto ciò che mi bisogna: scalpello, coltello e leva. — Oh! sarei ben curioso di vedere questi prodotti della vostra pazienza e della vostra industria, disse Dantès. — Ecco lo scalpello; — e gli presentò una lama forte ed aguzza, adattata ad un legno di forma rotonda. — E con che l’avete fatto? disse Dantès. — Con una delle traverse del mio letto; con questo istrumento ho scavato tutto il sentiero che mi ha portato fin qui: circa 50 piedi. — 50 piedi? gridò Dantès con una specie di terrore. — Parlate a bassa voce, o giovine, parlate più piano, disse lo sconosciuto guardandosi intorno, spesso accade che alle porte delle prigioni si sta in ascolto. — Ma si sa che io son solo. — Non importa! — Ed avete scavato 50 piedi per giunger qui? — Sì, questa è circa la distanza che separa la mia camera dalla vostra, soltanto ho mal calcolato la curva, per mancanza di strumenti di geometria, per poter fare una scala di proporzioni: in vece di 40 piedi di ellissi, ne ho incontrati 50; io credeva, come vi dissi ieri, di giungere fino all’esterno, traforare questo muro, e gettarmi in mare. Ho seguito la lunghezza del corridore che mette nella vostra camera, invece di passarvi al di sotto. Tutto il mio lavoro però è perduto, dappoichè questo corridore mette capo in un cortile pieno di guardie. — È vero, disse Dantès, ma esso non fiancheggia che un lato della mia camera, e questa ne ha quattro. — Sì, senza dubbio; ma eccone uno il cui muro è formato dallo scoglio: vi abbisognerebbero dieci anni di lavoro, e minatori forniti di tutti gli utensili per traforare la roccia. Quest’altro deve essere addosso ai fondamenti dell’appartamento del governatore: noi riusciremmo nelle cantine che certamente sono chiuse a chiave, e saremmo presi. L’altro lato dà... aspettate... e dove mette quest’altro lato? Questo lato era quello in cui stava scavata la feritoia, attraverso la quale penetrava la luce: feritoia, che andava sempre ristringendosi fino al punto in cui dava passaggio al giorno, e per la quale un fanciullo, per quanto piccolo, non avrebbe certamente potuto passare; e per soprappiù guernita da tre ranghi di sbarre di ferro che potevano rassicurare il carceriere più sospettoso sul timore di una evasione per questa parte. Ciò nonostante il nuovo arrivato facendo questa domanda, trascinò la tavola al di sotto della finestra. — Salite su questa tavola, disse a Dantès. Dantès obbedì, salì sulla tavola e, indovinando la mente del compagno, appoggiò il dorso al muro e gli presentò le due mani incrociate. Il suo compagno salì allora, più lestamente di quello che avrebbe potuto far credere la sua età, e con un’abilità da gatto, balzò sulla tavola, poi dalla tavola sulle mani di Dantès, quindi dalle mani sulle spalle. Così curvato in due, perchè la volta del carcere gl’impediva di raddrizzarsi, introdusse la testa tra il primo rango delle sbarre e potè allora fissare lo sguardo dall’alto in basso. Un momento dopo ritirò pesantemente la testa. — Oh! oh! diss’egli, io ne dubitava. — E si lasciò andare strisciando lungo il corpo di Dantès sulla tavola, e dalla tavola balzò in terra. — E di che cosa dubitavate? domandò Edmondo saltando anch’egli dalla tavola dopo di lui. Il vecchio prigioniero meditava. — Sì, diss’egli, è così; il quarto lato del vostro carcere mette sopra una galleria esterna, che è una specie di strada di perlustrazione, per la quale passano le pattuglie ed ove sono poste le sentinelle. — Ne siete ben sicuro? — Ho veduto il cappello del soldato e la punta della sua baionetta, e pel timore di essere veduto da lui mi son così presto ritirato. — E così? disse Dantès. — E così, vedete bene, che è affatto impossibile di fuggire dal vostro carcere. — Allora?... continuò il giovinotto con un mesto accento interrogatore. — Allora, disse il vecchio prigioniero, sia fatta la volontà di Dio; — ed un’aria di profonda rassegnazione comparve sopra i lineamenti del vecchio. Dantès guardò quest’uomo, che rinunciava in tal modo e con tanta filosofia ad una speranza nudrita da sì lungo tempo con una sorpresa mista ad ammirazione. — Ora volete voi dirmi chi siete? domandò Dantès. — Oh! mio Dio! sì, se ciò può importarvi. — Potete esser buono a consolarmi e sostenermi, poichè mi sembrate forte in mezzo ai forti. Lo scienziato sorrise tristamente. — Io sono Faria, diss’egli, prigioniero fino dal 1811, come voi sapete, in questo castello d’If; ma erano già tre anni ch’era tenuto racchiuso nella fortezza di Fenestrelles. Nel 1811 fui trasportato dal Piemonte in Francia. Allora seppi che il destino in quell’epoca sorridente a Napoleone gli aveva concesso un figlio al quale era stato dato il titolo di Re di Roma: ero ben lungi dal dubitare allora ciò che mi avete detto ieri: cioè che quattr’anni dopo questo gran colosso sarebbe stato rovesciato. E chi regna adesso in Francia? Forse Napoleone II? — No, Luigi XVIII. — Luigi XVIII! il fratello di Luigi XVI? i decreti del cielo son ben reconditi e misteriosi! qual è dunque la mente della provvidenza, quando abbassa l’uomo che aveva esaltato, ed esalta quello che aveva abbassato? Dantès seguiva collo sguardo quest’uomo che dimenticava un momento il proprio destino, per preoccuparsi così di quelli del mondo. — Sì, sì, continuò egli, è come in Inghilterra; dopo Carlo I, Cromwell; dopo Cromwell Carlo II, e forse dopo Giacomo II, un principe d’Orange... I segreti di Dio sono imperscrutabili, e la serie delle umane vicende imprevedibile, voi siete ancor giovine, e potrete vedere.... — Sì, purchè io esca di qui. — Ah! è giusto, disse Faria, noi siamo prigionieri; qualche volta lo dimentico, perchè i miei occhi penetrano al di fuori di queste muraglie che ci racchiudono, e mi credo in libertà. — Ma perchè siete prigione? — Perchè ho sognato nel 1807 il disegno che Napoleone ha tentato di porre ad effetto nel 1811. E il vecchio abbassò la testa. Dantès non capiva come un uomo poteva arrischiare la vita per simili faccende, è vero però che, se egli conosceva Napoleone per avergli parlato una volta, non sapeva quali ne fossero stati i disegni. — Non siete voi... infermo? domandò Dantès che cominciava a partecipare dell’opinione generale che si aveva di lui nel castello d’If. — Infermo? vorrete dir pazzo perchè come tale son tenuto in questo luogo. — Io non osava dirlo, rispose Dantès sorridendo. — Sì, sì, continuò Faria con amaro sorriso, sì, sono io che passo per pazzo; sono io che diverto da lungo tempo gli ospiti di questa prigione, e rallegrerei i fanciulletti, se vi fossero fanciulletti nel soggiorno del dolore senza speranza. Dantès rimase un momento immobile e muto. — Così voi ora rinunciate alla fuga? gli disse. — Io credo la fuga impossibile; è un rivoltarsi contro Dio il tentare ciò che Dio non vuole che si compia. — Perchè scorarvi? sarebbe troppo domandare alla Provvidenza di riuscire al primo tentativo! Non potete voi ricominciare da un’altra parte ciò che avete fatto da questa? — Ma voi non sapete ciò che ho fatto, per parlare in tal modo di ricominciare? non sapete che mi sono abbisognati quattro anni per fabbricare gli utensili che posseggo, che da due anni gratto, e foro una terra dura come il granito? non sapete che mi è bisognato sminuzzar delle pietre tali, che avrei creduto non aver la forza di smuovere? che delle giornate intere sono passate in questo lavoro gigantesco, e qualche sera mi reputava felice solo per aver potuto levare un pollice quadrato di vecchio cemento divenuto duro quanto la pietra stessa? non sapete che per riporre tutta questa terra, tutti questi rottami, e queste pietre che spostava, fui costretto di fare un’apertura sotto la volta di una scala, nel vuoto della quale ho nascosto quanto scavava dal foro, ed ora questo vuoto è ripieno e non saprei più ove mettere un pugno di polvere? non sapete finalmente che mi credeva di toccare la fine del mio lavoro cui mi sentiva appena la forza di compiere, ed ecco che Dio non solo mi ha allontanato la meta, ma l’ha trasportata non so dove? ah! io ve l’ho detto, e ve lo ripeto, d’ora innanzi non farò più niente per tentare di riacquistare la mia libertà, poichè vedo che la volontà di Dio è, ch’ella sia perduta per sempre. Edmondo abbassò la testa per non confessare a quest’uomo che, la gioia di avere un compagno, gl’impediva di prendere quella parte, che avrebbe dovuto, al dolore provato dal prigioniero per non essersi potuto salvare. Faria si lasciò andare sul letto di Edmondo il quale restò ritto in piedi. Il giovine non aveva mai pensato alla fuga. Vi sono di quelle cose che sembrano talmente impossibili che non si ha neppur l’idea di tentarle e che si evitano come per istinto. Scavare 50 piedi sotto terra, consacrare a questa operazione un lavoro di due anni, per giungere, se riesce, sopra un precipizio che mette a picco sul mare; precipitarsi da 50, 60, e forse 100 piedi d’altezza, infrangersi la testa sur uno scoglio nella caduta, se la palla di una sentinella non vi ha colto prima, essere obbligato, se si giunge a superare tutti questi pericoli, di fare una lega nuotando, tutto ciò era troppo, per non rassegnarvisi, e noi abbiamo veduto che Dantès aveva già spinta questa rassegnazione fino alla morte. Ma ora che il giovine aveva veduto un vecchio attaccarsi alla vita con tanta energia e dargli l’esempio delle risoluzioni disperate, egli si mise a riflettere e a misurare il suo coraggio. Un altro aveva tentato ciò ch’egli non aveva avuto neppur l’idea di pensare; un altro meno forte, meno destro di lui, si era procurato a forza di criterio e di pazienza tutti gl’istrumenti di cui abbisognava per questa incredibile operazione, che era andata a vuoto solo per una misura mal presa; un altro aveva fatto tutto ciò: nulla dunque doveva essere impossibile a Dantès. Faria aveva traforato 50 piedi, egli ne traforerebbe 100. Faria a 50 anni aveva impiegato due anni al lavoro, egli che aveva la metà degli anni di Faria ne impiegherebbe quattro. Faria scienziato, uomo di studi, non aveva avuto timore di rischiare la traversata dal castello d’If all’isola di Daume, di Ratonneau e di Lemaire; egli, Edmondo marinaro, egli, Dantès, l’ardito nuotatore che era stato tante volte a cercare un ramo di corallo nel fondo del mare, esiterebbe dunque a fare una lega nuotando? quanto tempo abbisogna per fare una lega nuotando? un’ora. Ebbene! non era stato tante volte delle ore intere in mare senza por piede sulla riva? No, no, Dantès non aveva bisogno che di essere incoraggiato dall’esempio. Dantès farà tutto ciò che un altro ha fatto, o avrebbe potuto fare. E Edmondo riflettè un momento. — Io ho trovato ciò che cercate, diss’egli al vecchio. Faria rabbrividì. — Voi? disse, rialzando la testa in un modo che faceva conoscere che, se Dantès diceva la verità, lo scoramento del suo compagno non sarebbe stato di lunga durata. — Voi? vediamo dunque il vostro ritrovato? — Il corridore che avete fiancheggiato per venire dalla vostra prigione fin qui, si estende nella stessa direzione della galleria esterna, n’è vero? — Sì. — Non deve dunque esserne lontano che circa 15 passi? — A dir molto. — Ebbene! verso la metà del corridore noi foriamo un cammino che lo attraversa a guisa di croce; questa volta voi prendete meglio le vostre misure; noi mettiamo capo sulla galleria esterna, uccidiamo la sentinella, ed evadiamo. Perchè questo disegno riesca non vi bisogna che coraggio, e voi ne avete; che vigore, ed io non ne manco; di pazienza non parlo, voi avete dato le vostre prove, io darò le mie. — Un momento, rispose Faria, voi non avete saputo mio caro compagno di qual genere è il mio coraggio e qual uso io conti di fare della mia forza; circa la pazienza, credo di essere stato abbastanza paziente ricominciando ogni notte il lavoro del giorno. Ma allora, ascoltatemi bene o giovine, era perchè mi sembrava che io avrei servito Dio liberando una delle sue creature, che essendo innocente, non aveva potuto essere condannata. — Ebbene? domandò Dantès, la cosa è allo stesso punto nè più nè meno, vi siete conosciuto forse colpevole da che mi avete incontrato, ditelo? — No, ma io non voglio divenirlo; fin qui io credeva di non aver che fare che con le cose, ora proponete di aver che fare con uomini. Io ho potuto benissimo traforare un muro e distruggere una scala, ma non potrei traforare un petto, nè distruggere un’esistenza. Dantès fece un leggiero movimento di sorpresa. — Come, diss’egli, potendo diventar libero, ve ne asterreste per un simile scrupolo? — Ma e voi, disse Faria, perchè non avete una sera accoppato il carceriere con un piede del vostro tavolino, e rivestito dei suoi abiti tentato di fuggire? — Perchè non me n’è venuta l’idea, disse Dantès. — Egli è perchè voi sentite per un simil delitto un tale orrore instintivo, che non ci avete nemmen pensato, rispose il vecchio; perchè nelle cose semplici e permesse i nostri naturali appetiti ci avvertono di non uscir dalla linea del dovere. La tigre che versa il sangue per natura, non ha bisogno che di una cosa, ed è che il suo odorato l’avverta che vi è preda alla sua portata; tosto si slancia verso questa preda; vi piomba sopra, e la sbrana; questo è il suo istinto, ella vi obbedisce; ma l’uomo al contrario ripugna al sangue, non sono le leggi sociali che proscrivono l’omicidio, sono le leggi naturali che lo rigettano. — Dantès rimase confuso: ciò spiegava perfettamente quanto era passato nella sua anima ad insaputa di lui. — E poi, continuò Faria, da 12 anni circa che sono in prigione, ho ripassato col mio spirito tutte le più celebri evasioni; non ho veduto riuscire le violenti, che molto raramente. L’evasioni fortunate, l’evasioni coronate da un pieno successo, sono quelle meditate con giudizio, preparate con lentezza; così il duca de Beaufort fuggì dal castello di Vincennes, Dubuquoi dal forte l’Evèque, e Latude dalla Bastiglia. Vi sono ancor quelle che possono essere offerte dal caso; queste sono le migliori; aspettiamo un’occasione, credetemi, e se si presenta, approfittiamone. — Voi avete potuto aspettare, disse Dantès sospirando; questo lavoro vi teneva sempre occupato, e quando non avevate lavoro per distrarvi, avevate le vostre speranze per consolarvi. — È vero disse Faria sorridendo, e poi avevo un’altra occupazione. — Che facevate dunque? — Studiava e scriveva. — Vi davano dunque carta, penne ed inchiostro? — No, ma io me ne faceva. — Vi facevate della carta, delle penne e dell’inchiostro? gridò Dantès. — Sì. Dantès guardò quest’uomo con ammirazione; ma però stentava a credere ciò ch’egli diceva; Faria si accorse di questo dubbio: — Quando verrete a trovarmi, gli disse, vi mostrerò una opera intera, risultato dei pensieri, delle ricerche e delle riflessioni di tutta la mia vita, opera che io avevo meditata all’ombra del Colosseo in Roma, ai piedi della colonna di S. Marco a Venezia, sulle rive dell’Arno a Firenze, e non avrei mai pensato che i miei carcerieri mi avrebbero un giorno lasciato il comodo di eseguirla fra le quattro mura del castello d’If. È un’opera eminentemente filosofica che formerà un grosso volume in 4º. — E voi l’avete scritta? — Sopra due camice: ho inventato una preparazione che rende la tela liscia come la pergamena. — Siete dunque chimico? — Un poco. Ho conosciuto Lavoisier, e sono stato amico di Cabanis. — Ma per una simile opera avrete dovuto consultare molti autori; avevate dunque dei libri? — A Roma aveva quasi cinque mila volumi nella mia biblioteca ed a furia di leggere e di rileggere, ho scoperto che con 150 opere bene scelte si ha, se non il riassunto completo delle umane cognizioni, almeno tutto ciò che è utile all’uomo a sapersi: ho consacrato tre anni della mia vita a leggere e rileggere questi 150 volumi, di modo che li sapeva a memoria quando fui arrestato. Per tal modo con un leggero sforzo di mente li ho richiamati tutti al pensiero, ed io potrei quasi recitarvi alla lettera Senofonte, Plutarco, Tito Livio, Tacito, Strada, Dante, Montaigne, Shakespeare, Spinoza, Macchiavelli e Bossuet: non vi cito che i più importanti. — Voi dunque conoscete diverse lingue? — Parlo cinque lingue viventi, il tedesco, il francese, l’italiano, l’inglese e lo spagnuolo; coll’aiuto del greco antico intendo bene il greco moderno; solo lo parlo un poco male, ma lo studio adesso. — Lo studiate? disse Dantès. — Sì, ho fatto un dizionario delle parole che sapevo; le ho distribuite, combinate, girate e rigirate in modo che esse possono bastare per esprimere il mio pensiero. Conosco circa mille parole; a tutto rigore sono bastanti, quantunque ve ne siano cento mila, cred’io, nel dizionario. Non sarei eloquente, ma mi farei intendere a meraviglia, e ciò mi basta. Edmondo sempre più meravigliato cominciava quasi a ritrovare soprannaturali le facoltà di quest’uomo straordinario. Egli volle prenderlo in fallo sopra un punto qualunque, e continuò: — Ma se non vi hanno dato delle penne, diss’egli, come avete potuto scrivere un’opera così voluminosa? — Ne ho fatte dell’eccellenti, che sarebbero preferite alle penne ordinarie quando fosse conosciuta la materia, colle cartilagini delle teste di quei grossi merluzzi che qualche volta ci danno nei giorni di magro. Per tal modo vedeva giungere il mercoledì, il venerdì ed il sabato con grandissimo piacere, perchè avea la speranza d’aumentare la mia provvisione di penne, e i miei lavori filosofici, ve lo confesso, sono la mia più cara occupazione. Pensando all’ideale, dimentico il presente, e camminando libero nella filosofia, dimentico di esser prigioniero. — Ma l’inchiostro? disse Dantès, con che lo facevate? — Nella mia segreta vi era altra volta un caminetto, poco prima del mio arrivo in prigione fu murato, e per molti anni vi devono aver fatto fuoco tutto l’inverno, è dunque tutto tappezzato di fuligine. Io faccio sciogliere questa fuligine in una porzione di quel vino che ci danno la domenica, e ciò mi somministra dell’eccellente inchiostro per tutta la settimana. Per le note particolari che hanno bisogno di essere distinte e scorte subito, foro le mie dita e scrivo col sangue. — E quando potrò vedere tutto ciò? domandò Dantès. — Quando vorrete, rispose Faria. — Oh! subito! subito! gridò il giovinotto. — Seguitemi dunque, disse Faria. Ei s’introdusse nel corridore sotterraneo entro al quale disparve; Dantès lo seguì. XVII. — LA CAMERA DELLO SCIENZIATO. Dopo essere passato curvandosi, ma pure con bastante facilità, pel passaggio sotterraneo, Dantès giunse all’estremità opposta del corridore che metteva nella camera di Faria. Là il passaggio si ristringeva, e presentava appena lo spazio sufficiente perchè un uomo potesse strisciarvisi aggrappandosi. La camera del nuovo amico aveva il pavimento formato di pietre quadrate, e sollevando una di queste pietre nell’angolo più oscuro della camera, si vedeva il luogo ove Faria aveva incominciata la sua laboriosa fatica, e di cui Dantès aveva veduto la fine. Rimessa la pietra al suo posto, Faria vi stendeva sopra una vecchia stuoia, e questa cautela bastava per nasconderla agli occhi dei carcerieri. Appena entrato ed in piedi il giovine esaminò questa camera misteriosa colla più grande attenzione. Al primo aspetto questa stanza non presentava niente di particolare. — Bene, disse Faria, non è che mezzo giorno e un quarto, abbiamo ancora qualche ora per noi. — Dantès guardò intorno, cercando a quale orologio Faria aveva potuto legger l’ora in un modo così preciso. — Vedete questo raggio di luce che viene dalla mia finestra? disse Faria, guardate sul muro le linee che vi ho tracciate. Mercè di esse combinate col doppio movimento della terra e l’elittica che questa descrive intorno al sole, io so l’ora più esattamente di quello che se avessi un orologio, poichè un orologio può guastarsi, mentre che la terra ed il sole non si guastan mai. Dantès non arrivava a comprendere questa spiegazione; vedendo il sole ognora alzarsi dietro le montagne e tuffarsi nel Mediterraneo aveva sempre creduto che fosse quello che camminasse e non la terra. Questo doppio movimento del globo da lui abitato, e di cui non si accorgeva, gli sembrava quasi impossibile; in ciascuna parola del suo interlocutore, vedeva misteri di scienza così ammirabili ad approfondirsi, quanto quelle miniere d’oro e di diamanti che aveva visitate in un viaggio, fatto mentre era ancor fanciullo, a Guzarate e a Golconda. — Vediamo, disse a Faria, ho smania di esaminare i vostri tesori. — Faria andò verso il caminetto, e collo scalpello che teneva sempre in mano, spostò la pietra che altra volta formava il focolare e che nascondeva una cavità abbastanza profonda; in questa cavità stavano racchiusi tutti gli oggetti di cui aveva parlato a Dantès. — Che volete voi vedere per primo? gli domandò. — Mostratemi la vostra grand’opera filosofica. Faria cavò dal grazioso armadio tre o quattro rotoli di tela ravvolti su sè stessi come fogli di papiro; erano strisce larghe circa quattro pollici e lunghe circa diciotto. Queste strisce, numerate, erano coperte da una scrittura che Dantès potè leggere perchè essa era scritta nella lingua materna di Faria, vale a dire in italiano, idioma che Dantès comprendeva perfettamente nella sua qualità di provenzale. — Vedete, gli disse, tutto è qui; sono circa tre giorni che ho scritto la parola fine nella 68ª striscia. Due delle mie camice e tutti i miei fazzoletti vi sono impiegati; se un giorno ritorno libero e posso ritrovare in Italia uno stampatore che ardisca stamparla, la mia riputazione è fatta. — Sì, rispose Dantès, lo vedo bene. Ora mostratemi ve ne prego, le penne con le quali è stata scritta quest’opera. — Eccole, disse Faria: e mostrò al giovinotto un bastoncello lungo sei pollici, grosso quanto un manico di un pennello, attorno ad una delle estremità del quale stava legata con un filo una di quelle cartilagini, ancora marchiata dall’inchiostro di cui Faria aveva parlato a Dantès. Essa era tagliata a becco, ed era spaccata come una penna ordinaria. Dantès l’esaminò, cercando con lo sguardo lo strumento col quale era stata tagliata in un modo così preciso. — Ah! sì, disse Faria, il temperino n’è vero? è il mio capolavoro, io l’ho fatto nello stesso modo di questo coltello, con un vecchio candeliere di ferro. — Il temperino tagliava come un rasoio. Quanto al coltello aveva il doppio vantaggio di servire ad un tempo da coltello e da pugnale. Dantès esaminò questi differenti oggetti colla stessa attenzione che avrebbe usata in una bottega di chincagliere di Marsiglia: aveva esaminato altra volta eguali strumenti eseguiti da selvaggi e portati dal mare del Sud dai capitani di lungo viaggio. — In quanto all’inchiostro, disse Faria, voi sapete qual processo impiego, e lo faccio quando ne ho bisogno. — Ciò di cui mi maraviglio si è, disse Dantès, che vi siano bastati i giorni per questi lavori. — Ma io aveva ancora le notti, rispose Faria. — Le notti! siete voi dunque dalla natura dei gatti e ci vedete chiaro anche la notte? — No, ma Iddio ha dato all’uomo l’intelligenza per venire in aiuto alla povertà dei sensi: io mi son procurato la luce. — E come? — Dalla carne che ci portano separai il grasso, lo feci fondere, e ne cavai una specie di olio compatto. Guardate, ecco qua la mia bugìa. — E Faria mostrò a Dantès una specie di lampione come quelli che si adoperano nelle pubbliche illuminazioni. — Ma il fuoco? — Ecco delle pietruzze e della tela bruciata. — Ma i solfanelli? — Ho fatto mostra di avere una malattia cutanea, ed ho domandato dello zolfo che mi è stato accordato. Dantès depose sulla tavola gli oggetti che teneva in mano, e abbassò la testa, avvilito per la perseveranza e per la forza di quello spirito. — Questo non è tutto, continuò Faria, poichè non bisogna mettere tutti i tesori in un solo nascondiglio; chiudiamo ora questi. — Riposta la pietra al suo posto, Faria vi sparse sopra un poco di terra, vi strisciò il piede per far scomparire ogni mancanza di continuità, si avanzò verso il letto e lo spostò. Dietro al capezzale, nascosto con una pietra che lo chiudeva quasi ermeticamente, era un foro, ed in questo foro una scala a corda lunga da 25 a 30 piedi. Dantès l’esaminò, essa era di una solidità a tutta prova. — Chi vi ha fornito la corda necessaria a quest’opera meravigliosa? domandò Dantès. — Dapprima qualche camicia che io aveva, poi qualche lenzuolo del mio letto che aveva sfilato nei tre anni di prigionia a Fenestrelles. Quando sono stato trasportato al castello d’If ho trovato il mezzo di portar meco queste fila; qui ho continuato il mio lavoro. — Ma non si accorgevano che i lenzuoli erano senz’orlo? — Io li ricuciva. — Con che? — Con quest’ago. E Faria alzando una falda del suo abito, mostrò una spina lunga acuta e ancora affilata che vi portava attaccata. — Sì, continuò Faria, dapprima io aveva pensato a smurare queste sbarre, ed a fuggire dalla finestra che è un poco più larga della vostra, come vedete, e che avrei ancora slargata di più al momento dell’evasione; ma mi accorsi che questa finestra dava in un cortile interno, e rinunziai a questo disegno essendo troppo incerto. Ciò nonostante conservai la scala per una di quelle occasioni imprevedute, per una di quelle evasioni di cui vi ho parlato e che il solo caso qualche volta procura. Dantès mentre esaminava la scala, pensava a tutt’altro; un’idea gli si era affacciata alla mente. Quest’uomo così intelligente, così ingegnoso, così profondo avrebbe potuto forse rischiarare la causa della propria infelicità, nella quale egli non aveva mai potuto scorgere nulla. — A che pensate voi? domandò Faria ridendo, e prendendo l’astrazione di Dantès per un atto di ammirazione portata al più alto grado. — Io pensava primieramente ad una cosa, ed è la quantità enorme d’intelletto che voi avete dovuto impiegare per giungere al punto a cui siete arrivato; che avreste voi dunque fatto se foste stato libero? — Forse niente: il mio cervello è troppo pieno, e forse si sarebbe svaporizzato in cose futili: necessita la disgrazia per scavare certe miniere misteriose nascoste nell’umano intelletto: vi bisogna la pressione per far scoppiare la polvere; la prigionia ha riunito in un sol punto tutte le mie facoltà vaganti da un lato e dall’altro; esse si urtarono in un angusto spazio; e voi lo sapete, dallo scontro delle nuvole risulta l’elettricità, dall’elettricità il lampo, dal lampo la luce. — No, io non so niente, disse Dantès avvilito dalla sua ignoranza; una quantità delle vostre parole per me sono vuote di senso; voi siete ben felice di essere in tal modo istruito! Faria sorrise. — Voi pensavate a due cose, mi diceste poco fa? ma non mi avete fatto conoscere che la prima, qual è la seconda? — La seconda è, che voi mi avete raccontata la vostra vita, ed io non vi ho raccontata la mia. — La vostra vita, o giovine, è tanto corta che non può racchiudere avvenimenti di grand’importanza. — Racchiude un immenso infortunio, un infortunio che non ho meritato; e vorrei potermela prendere con gli uomini per la mia infelicità. — Allora voi vi credete innocente del fatto che vi viene imputato? — Innocente del tutto, lo giuro sulla testa di mio padre e di Mercedès. — Bene, disse Faria, chiudendo il nascondiglio e rispingendo il letto al suo posto, raccontatemi la vostra storia. Dantès allora raccontò ciò che egli chiamava sua storia, e che si limitava ad un viaggio nell’India, e a due o tre viaggi in Levante; finalmente arrivò all’ultima sua traversata, alla morte del capitano Leclerc, al plico deputato pel gran Maresciallo, al colloquio avuto col medesimo, alla lettera da lui rimessagli per il sig. Noirtier, finalmente al suo arrivo a Marsiglia, alla sua visita al padre, ai suoi amori con Mercedès, al pranzo dello sposalizio, all’arresto, all’interrogatorio, alla prigionia provvisoria nel palazzo di giustizia, e finalmente alla prigionia definitiva al castello d’If. Giunto a questo punto, Dantès non sapeva più nulla, neppure il tempo da che era prigioniero. Terminato il racconto Faria riflettè profondamente. — Havvi, diss’egli dopo un momento, un assioma in diritto di gran profondità e che coincide a ciò che vi diceva non è molto, che almeno il cattivo pensiero non nasce con una falsa organizzazione, la natura umana repugna al delitto. Ciò non ostante la civilizzazione ci ha dato de’ vizi, dei bisogni, e degli appetiti fittizi, che qualche volta hanno l’influenza di soffocare i nostri buoni istinti e di condurci al male. Quindi ne nasce questa massima: «se voi volete scoprire il colpevole, cercate dapprima colui al quale può essere utile il commesso delitto.» La vostra sparizione a chi poteva essere utile? — A nessuno, mio Dio! io era tanto poca cosa. — Non rispondete così, perchè la risposta manca ad un tempo di logica e di filosofia; tutto è relativo, mio caro amico; dal re che incomoda il suo successore, fino all’ultimo impiegato che incomoda l’alunno, ciascuno incomoda colui che gli vien dopo o che gli cammina a lato; se il re muore il suo successore eredita una corona, se l’impiegato muore l’alunno ne eredita l’impiego e lo stipendio di 200 lire. Queste 200 lire di stipendio sono per lui la sua lista civile e gli sono tanto necessarie per vivere, quanto i milioni ad un re. Ciascuno individuo, dal più basso al più alto grado della scala sociale, riunisce intorno a sè un piccolo mondo d’interessi, avendo i suoi turbini ed i suoi atomi gialli come i mondi di Descartes. Soltanto questi mondi vanno sempre più allargandosi a misura che si sale. È una scala a chiocciola rovesciata, che si tien ritta alla punta per forza d’equilibrio. Ritorniamo dunque al vostro mondo. Voi eravate sul punto di essere nominato capitano a bordo del _Faraone_? — Sì. — Eravate sul punto di sposare una bella giovinetta? Esisteva forse qualcuno che avesse premura perchè non diveniste capitano del _Faraone_? qualcuno cui importasse che non sposaste Mercedès? rispondetemi intanto alla prima interrogazione, l’ordine è la chiave di tutti i problemi. Io ripeto adunque, v’era qualcuno a cui potesse importare che non foste nominato capitano del _Faraone_? — No, io era molto amato a bordo. Se i marinari avessero potuto eleggere un capo, son certo che sarei stato io l’eletto. Un sol uomo vi era che poteva in qualche modo esser meco inquieto, perchè tre mesi prima avevo avuto con lui una contesa, e gli aveva proposto un duello che egli ricusò. — Avanti adunque!... come si chiama quest’uomo? — Danglars. — Che cosa era a bordo? — Scrivano computista. — Se voi foste divenuto capitano l’avreste conservato al suo posto? — No, se la cosa fosse dipesa da me, perchè aveva creduto scorgere qualche infedeltà nei suoi conti. — Bene. Ora, chi ha assistito al vostro ultimo colloquio col capitano Leclerc? — Nessuno; noi eravamo soli. — Ma qualcuno poteva sentire la vostra conversazione? — Sì perchè la porta era socchiusa, e anzi... aspettate... sì, sì, Danglars è passato precisamente nel momento in cui il capitano Leclerc mi consegnava il plico del gran Maresciallo. — Bene, noi siamo sulla strada. Avete condotto con voi alcuno quando siete disceso a terra all’isola d’Elba? — Nessuno. — Vi fu rimessa una lettera? — Sì, dal gran Maresciallo. — Che ne avete fatto? — L’ho riposta nel mio portafogli. — Voi avevate dunque indosso un portafogli. Come mai un portafogli che doveva contenere una lettera ufficiale poteva egli stare nella tasca di un marinaio? — Avete ragione, il mio portafogli era a bordo. — Fu dunque a bordo che voi chiudeste la lettera nel portafogli? — Sì. — Da Portoferraio al bordo dove riponeste la lettera? — L’ho tenuta in mano. — Dunque quando siete risalito a bordo del _Faraone_ tutti hanno potuto vedere che avevate una lettera, Danglars e tutti gli altri? ora ascoltate bene, riunite tutta la vostra memoria: vi ricordate in quali termini era redatta la denunzia? — Oh! sì, l’ho riletta tre volte, e mi è rimasta nella mente parola per parola. — Ripetetemela adunque. — Dantès si raccolse un momento. — Eccola, diss’egli, alla lettera: «Il Sig. Procuratore del Re è avvisato da un amico del trono e della religione, che il nominato Edmondo Dantès, secondo nel bastimento il _Faraone_, giunto questa mattina da Smyrne dopo aver toccato Napoli e Portoferraio, è stato incaricato da Murat di una lettera per l’Usurpatore, e dall’Usurpatore d’una lettera pel Comitato Bonapartista di Parigi. Si avrà la prova del delitto arrestandolo, poichè si troverà questa lettera, o nelle sue tasche, o presso di suo padre, o nel suo gabinetto a bordo del _Faraone_.» Faria alzò le spalle. — Ciò è chiaro come la luce del giorno, diss’egli, e bisogna ben dire che voi abbiate avuto il cuore molto buono e molto ingenuo, per non indovinare la cosa al primo aspetto. — Voi lo credete! gridò Dantès; Ah! questa sarebbe un’infamia. — Com’era il carattere ordinario di Danglars? — Un bel corsivo. — Qual era quello della lettera anonima? — Un carattere rovesciato. — Faria sorrise. — Contraffatto, n’è vero? — Ma molto franco per essere contraffatto. — Aspettate! diss’egli. E presa la penna, o meglio ciò che così chiamava, la bagnò nell’inchiostro e scrisse colla mano sinistra, sopra un po’ di tela preparata a tal uopo, le prime due o tre righe della denunzia. Dantès dette addietro e guardò Faria quasi con terrore. — Oh! è meraviglioso, è sorprendente, gridò egli, come questa scrittura rassomiglia a quella. — Ciò è perchè la denunzia fu scritta colla mano sinistra; ed io ho osservato una cosa, che tutti i caratteri fatti colla mano diritta sono diversi, ma che quelli che sono fatti colla mano sinistra si rassomigliano. — Voi avete dunque veduto tutto, osservato tutto? — Continuiamo... passiamo alla seconda interrogazione. V’era qualcuno a cui potesse importare che non sposaste Mercedès? — Sì, un giovine che l’amava... — Il suo nome? — Fernando. — Questo è un nome spagnuolo. — Egli era catalano. — Credete voi che questi sia stato capace di scrivere la lettera? — No, questi era piuttosto capace di piantarmi un coltello nel cuore. — Bene, questo è nella natura spagnuola: un assassinio, sì; una viltà, no. — D’altra parte, continuò Dantès, egli ignorava tutti i particolari riportati nella denunzia. — Voi non li avevate raccontati ad alcuno? — A nessuno. — Neppure alla vostra amica? — Neppure alla mia fidanzata. — Fu Danglars! — Oh! adesso ne son sicuro. — Ma aspettate... Danglars conosceva Fernando? — No... sì, cioè... ora mi ricordo... — Che cosa? — La vigilia dei miei sponsali li ho veduti insieme ad una tavola, sotto il pergolato di Papà Panfilo. Danglars era amichevole e scherzoso, Fernando era pallido e sconvolto. — Eran soli? — No, vi era con loro un terzo mio compagno, che senza dubbio era stato quello che avevali fatto fare conoscenza tra loro, un sartore chiamato Caderousse; ma questi era già ubbriaco. Aspettate... — Che cosa? — Come mai non me ne sono ricordato prima? sulla tavola ove essi bevevano stava un calamaio, della carta, e delle penne! Dantès battendosi colla mano la fronte esclamò: Oh! è così, fu là che si scrisse quella lettera. Oh! infami! oh infami! — Volete voi ancora sapere qualche altra cosa? disse sorridendo Faria. — Sì, sì, poichè voi approfondite tutto, poichè voi vedete chiaro in ogni cosa: vorrei sapere perchè non sono stato interrogato che una sola volta, perchè non ho avuto giudici e in qual modo sono stato condannato senza una sentenza. — Oh! questo poi, disse Faria, è un affare un poco più grave; la giustizia qualche volta ha delle procedure che sembrano cupe e misteriose. Ciò che noi abbiamo fatto fin qui pei vostri nemici è uno scherzo da ragazzi, ora abbisognano maggiori schiarimenti per questo argomento. — Vediamo, interrogatemi, perchè in verità voi vedete nella mia vita più chiaro di me. — Chi vi ha interrogato? fu il procuratore del Re, il sostituto, o il giudice d’istruzione? — Fu il sostituto. — Giovine o vecchio? — Giovine: tra i 27 ai 28 anni. — Bene, non ancora corrotto, ma ambizioso. Quali furono i modi che usò con voi? — Amichevoli piuttosto che severi. — Gli avete voi raccontato tutto? — Tutto. — E i suoi modi si cambiarono mai durante l’interrogatorio? — Un momento si sono alterati allorquando lesse la lettera che mi metteva a rischio. Egli sembrò oppresso dalla mia disgrazia. — Dalla vostra disgrazia? — Sì. — Siete ben sicuro che era per la vostra disgrazia che si affliggeva? — Egli per lo meno mi ha dato la più gran prova di simpatia. — E quale? — Ha bruciato quel solo documento che poteva recarmi danno. — Qual fu questo documento? la denunzia? — No, la lettera. — Ne siete ben sicuro? — Lo fece sotto i miei occhi. — Ora è un altro affare; quest’uomo potrebbe ancora essere uno scellerato maggiore di quel che avevo creduto prima. — Voi mi fate fremere, sul mio onore! disse Dantès. Il mondo dunque è popolato di tigri e di coccodrilli? — Sì, con questa differenza, che le tigri ed i coccodrilli a due gambe sono più pericolosi degli altri. Egli dunque, mi dicevate, ha bruciato quella lettera? — Sì, dicendomi: «voi vedete, non esiste che questa prova contro di voi, ed io l’anniento.» — Questa condotta è troppo sublime per essere naturale. — Voi lo credete? — Ne sono sicuro. A chi era diretta quella lettera? — _Al Sig. Noirtier, strada Coq-Héron, N. 13, Parigi._ — Potete voi presumere che il vostro sostituto avesse qualche premura a far sparire quel foglio? — Forse, perchè mi ha fatto promettere due o tre volte, egli mi diceva per mio pro, di non parlare ad alcuno di quella lettera; anzi mi ha fatto giurare di non pronunciar mai a chicchessia il nome che stava scritto sull’indirizzo. — Noirtier! disse Faria, Noirtier! io ho conosciuto un Noirtier alla corte dell’antica regina d’Etruria, un Noirtier che nella rivoluzione era stato girondino. Come si chiamava il sostituto? — De Villefort. — Faria scoppiò in una risata. Dantès lo guardò con stupore: — Che avete? domandò egli. — Vedete questo raggio di sole? chiese Faria. — Sì. — Or bene! tutto adesso per me è più chiaro di questo raggio trasparente e luminoso. Povero ragazzo! povero giovinotto! e questo magistrato era buono con voi? egli ha bruciata, annientata la lettera? egli vi ha fatto giurare di non pronunziar mai il nome di Noirtier? — Sì. — Noirtier, povero cieco che siete, sapete chi era questo Noirtier?... questo Noirtier era suo padre! Un fulmine caduto ai piedi di Dantès, che gli avesse spalancato un abisso nel fondo del quale si fosse aperto l’inferno, non avrebbe prodotto un effetto così pronto, così elettrico, così opprimente quanto queste inattese parole; si alzò, afferrandosi la testa fra le mani quasi avesse voluto impedire che scoppiasse: Suo padre!... suo padre!... gridò egli. — Sì, suo padre... si chiama Noirtier de Villefort, soggiunse Faria. Allora una luce folgorante passò per la mente del prigioniero; tutto ciò che gli era rimasto oscuro venne in quel punto illuminato da una chiarezza risplendente. Le tergiversazioni di Villefort durante l’interrogatorio, la lettera distrutta, il giuramento richiesto, la voce quasi supplicante del magistrato, che in vece di minacciare sembrava implorare, tutto gli ritornò al pensiero. Egli gittò un grido, traballò come un ubbriaco, poi slanciandosi all’apertura che dalla cella di Faria conduceva alla sua: — Oh! diss’egli mi necessita esser solo, per poter pensare a tutto ciò. — E arrivando nella sua segreta cadde sul letto, ove il carceriere lo ritrovò la sera, assiso cogli occhi fissi, i lineamenti contratti, immobile e muto come una statua. Nelle ore di meditazione che per lui erano passate come minuti secondi, aveva presa una terribile risoluzione e fatto un formidabile giuramento! Per mantenere questo giuramento e mandare ad effetto questa risoluzione bisognava supporre che un giorno sarebbe libero! Una voce venne a togliere Dantès da questa estasi, era quella di Faria, che dopo la visita del carceriere, veniva ad invitare Dantès a cenare con lui. La sua riconosciuta qualità di pazzo e particolarmente di pazzo delirante, procurava al vecchio prigioniero qualche privilegio come sarebbe quello di avere il pane un poco più bianco, ed una piccola bottiglia di vino la domenica. Or per caso era quello un giorno di domenica, e Faria veniva ad invitare il giovine compagno a far parte del suo vino e del suo pane: Dantès lo seguì: tutte le linee del viso si erano ricomposte, ed avevano ripreso la loro consueta abitudine, ma con una durezza e fermezza tale (se si può dire) che manifestavano una risoluzione già presa. Faria lo guardò fissamente: — Sono mortificato di avervi aiutato nelle vostre ricerche e di avervi detto ciò che vi ho detto. — Perchè? domandò Dantès. — Perchè vi ho infiltrato nel cuore un sentimento che prima non vi era; la vendetta. — Dantès sorrise. — Parliamo d’altro; diss’egli. Faria lo guardò ancora un momento e tentennò tristamente la testa; quindi come lo aveva pregato Dantès, parlò di altro. Il vecchio prigioniero era uno di quegli uomini la cui conversazione, come quella di coloro che hanno molto sofferto, contiene molti insegnamenti, e racchiude un interessamento continuo; ma egli non era egoista, e questo infelice non parlava mai delle sue disgrazie. Dantès ascoltava ciascuna delle sue parole con ammirazione: alcune corrispondevano alle idee che già aveva, ed a sua conoscenza per lo stato di marinaro; le altre appartenevano a cose a lui sconosciute, ed a guisa di quelle aurore boreali che rischiarano i navigatori nelle latitudini australi, mostravano al giovine dei paesi sconosciuti e dei nuovi orizzonti, illuminati da chiarore fantastico. Dantès concepì la felicità di cui doveva godere un’organizzazione intelligente a seguire questo spirito elevato sulle eminenze morali, filosofiche, e sociali sulle quali d’abitudine posavasi. — Voi dovreste insegnarmi un poco di quanto sapete, disse Dantès, non fosse altro che per non annoiarvi meco. Mi sembra che dobbiate preferire la solitudine ad un compagno senza educazione e senza cognizioni come sono io. Se vi acconsentite vi prometto di non parlarvi più di fuga. Faria sorrise. — Ahimè! figlio mio, diss’egli, la scienza umana è molto limitata, e dopo avervi imparato le matematiche, la fisica, la storia, e le tre o quattro lingue vive che io parlo, voi sapreste quello che so io; ora tutta questa scienza potrei farla passare dal mio spirito nel vostro in due anni. — Due anni! disse Dantès, credete che io possa imparare tutte queste cose in due anni? — Nella loro applicazione no, nei loro principi sì; l’imparare non è lo stesso che sapere, vi sono gli eruditi e gli scienziati, la memoria forma i primi, la filosofia i secondi. — Ma la filosofia non si può imparare? — La filosofia non s’impara, la filosofia è la riunione delle scienze imparate al genio che le applica. — Vediamo, disse Dantès, che cosa m’insegnerete per primo? ho smania di cominciare, ho sete di scienza. — Tutto! disse Faria. — Infatto fin da quella sera i due prigionieri stabilirono un disegno di educazione che cominciò ad essere messo in esecuzione il giorno dopo. Dantès aveva una memoria prodigiosa, una estrema facilità di concetto; la disposizione matematica del suo spirito lo rendeva atto a comprender tutto per mezzo del calcolo, nel mentre che la poesia del marinaro correggeva quanto poteva esservi di troppo materiale nella dimostrazione ridotta all’aridità delle cifre e alla precisione delle linee. D’altra parte sapeva già l’italiano e un poco l’arabo che aveva imparato viaggiando in Oriente. Con queste due lingue, imparò ben presto il meccanismo di tutte le altre, ed in capo a sei mesi principiò a parlare l’inglese ed il tedesco. Come lo aveva detto a Faria, sia che la distrazione procuratagli dallo studio gli tenesse luogo di libertà, sia ch’egli fosse, come abbiamo già veduto, rigido osservatore della sua parola, Dantès non parlava più di fuggire; e le giornate per lui passavano rapide ed istruttive. In capo a un anno era già un altro uomo. Quanto a Faria, Edmondo osservava che, ad onta della distrazione arrecata con la presenza di lui alla sua prigionia, diventava ogni giorno più tetro; un pensiero incessante ed eterno sembrava occuparne lo spirito; era preso da profonde distrazioni, si alzava ad un tratto, incrocicchiava le braccia e passeggiava meditabondo intorno al carcere. Un giorno si fermò ad un tratto nel mezzo di uno dei cerchi le cento volte ripetuti e descritti intorno alla sua camera, e gridò: — Ah! se non vi fosse la sentinella. — Non vi sarà sentinella quando voi non la vorrete, disse Dantès, che aveva seguito il suo pensiero attraverso la teca del suo cervello, come attraverso una bottiglia di cristallo. — Ah! ve l’ho detto: mi ripugna l’idea d’un omicidio. — E frattanto quest’omicidio, se venisse commesso, lo sarebbe per istinto della nostra conservazione, per un sentimento di difesa personale. — Non importa... io non saprei... — Ciò nonostante voi ci pensate? — Senza posa, senza posa, mormorò Faria. — Ed avete ritrovato un mezzo, n’è vero? domandò vivamente Dantès. — Sì, se potesse accadere che mettessero di guardia una sentinella sorda e cieca. — Ella sarà cieca, ella sarà sorda, rispose il giovine con un accento di risoluzione che spaventò Faria. — No, no, gridò egli, è impossibile. Dantès volle trattenerlo sopra questo argomento, ma Faria scosse la testa, e si ricusò di continuare a rispondere, e dopo ciò passarono ancora altri tre mesi. — Siete voi forte? domandò un giorno Faria a Dantès. Questi senza rispondere prese lo scalpello, lo piegò a ferro di cavallo, e lo raddrizzò. — V’impegnereste voi a non uccidere la sentinella che in un caso di estrema necessità? — Sì, sul mio onore. — Allora, disse Faria, potremo eseguire il nostro disegno. — E quanto tempo ci vorrà per eseguirlo? — Almeno un anno. — Potremo dunque metterci al lavoro? — Subito. — Oh! vedete dunque abbiamo già perduto un anno. — Credete voi che quest’anno sia stato perduto? — Oh! perdono, gridò Edmondo arrossendo. — Zitto! disse Faria. L’uomo è sempre uomo, e voi siete uno dei migliori che m’abbia conosciuti. Ecco il mio disegno. Faria mostrò allora a Dantès un disegno da lui tracciato: era la pianta della sua camera, di quella di Dantès e del corridoio che le univa una all’altra. Nel mezzo di questo corridoio egli stabiliva un condotto simile a quello che si pratica nelle miniere, questo condotto avrebbe portato i due prigionieri sotto la galleria ove passeggiava la sentinella. Una volta giunti là, essi praticherebbero un largo scavamento, smurerebbero una delle pietre quadrate che formano il piancito della galleria, la pietra in un dato momento sprofonderebbe sotto il peso del soldato, che scomparirebbe inghiottito dallo scavamento. Dantès, si sarebbe precipitato sopra di lui nel momento in cui, ancor stordito per la caduta, non avrebbe potuto difendersi, lo avrebbe legato, gli avrebbe turata la bocca, ed allora tutti e due passando da una finestra di quella galleria, sarebbero discesi lungo la muraglia esterna coll’aiuto della scala di corde, e si sarebbero salvati. Dantès battè le mani, e i suoi occhi sfavillarono di gioia; questo disegno era così semplice, che era impossibile non riuscisse. Nel medesimo giorno i due minatori si misero all’opera e con un ardore tanto più grande, in quanto che questo lavoro che cominciava dopo un lungo riposo, non faceva, secondo tutte le probabilità, che secondare il pensiero intimo e secreto d’entrambi. Niente l’interrompeva, se non che l’ora nella quale ciascuno d’essi era obbligato di rientrare nella sua stanza per ricevere la visita del carceriere. D’altra parte avevano presa l’abitudine di distinguere così facilmente il rumore impercettibile dei passi, al momento in cui quest’uomo discendeva, che giammai nè l’uno e nè l’altro fu colto all’imprevista. La terra da essi estratta dalla nuova galleria, e che sarebbe stata sufficiente per riempire l’antico corridoio, veniva gettata a poco a poco, e con inaudite cautele dall’una o dall’altra delle finestre del carcere di Dantès, o del carcere di Faria, dopo polverizzata con ogni cura, e il vento della notte la trasportava lungi, senza lasciarne traccia. Più d’un anno fu passato in questo lavoro che venne eseguito con uno scalpello, un coltello ed una leva di legno per soli strumenti. Durante quest’anno e mentre lavoravano, Faria continuò ad istruire Dantès parlandogli ora in una lingua, ora in un’altra; insegnandogli la storia delle nazioni, e di quei grand’uomini che di tempo in tempo lasciano dietro a sè una di quelle luminose tracce, che si chiama gloria. Faria uomo di mondo, e di gran mondo, aveva inoltre nelle sue maniere una specie di maestà malinconica, di cui Dantès, mercè lo spirito d’imitazione che gli aveva fornito la natura, seppe trar profitto, e riunire quell’elegante tratto di cui mancava a quei modi aristocratici che generalmente non si acquistano che coll’abitudine di avvicinare le classi elevate o colla conversazione degli uomini superiori. In capo a 15 mesi il foro era finito, lo scavamento sotto la galleria era fatto, si sentiva passare e ripassare la sentinella, e i due operai, che erano obbligati ad aspettare una notte oscura e senza luna per rendere più sicura la loro evasione, non avevano più che un timore, ed era, che la botola sprofondasse da sè sotto i piedi del soldato. Venne ovviato a questo inconveniente col mettere per puntello una specie di travicello che avevano scavato nei fondamenti. Dantès era occupato a metterlo al posto quando intese ad un tratto Faria, rimasto nel carcere da lui occupato a formare una cavicchia destinata a mantenere la scala di corda, che lo chiamava con un accento di disperazione. Rientrò sollecitamente, e vide Faria ritto in mezzo alla camera, pallido, col sudore alla fronte e le mani intirizzite. — Oh! mio Dio! gridò Dantès, che c’è, che cosa avete? — Presto! presto! disse Faria, ascoltatemi. Dantès guardò il viso livido di Faria, gli occhi circondati da un cerchio azzurrognolo, le labbra bianche, i capelli irti, e per lo spavento lasciò cadersi a terra lo scalpello che teneva in mano. — Che c’è egli dunque? gridò Edmondo. — Son perduto, disse Faria, ascoltatemi, un male terribile, forse mortale mi assale in questo momento. L’accesso è incominciato, lo sento. Ne fui già colpito l’anno prima della mia carcerazione. A questo male non vi è che un rimedio; ve lo dirò; correte presto nel mio carcere, togliete un piede al mio letto, questo piede è scavato: vi troverete dentro una piccola boccetta di cristallo piena per metà di un liquore rosso; portatemela, o piuttosto... no, no... io potrei esser sorpreso qui... aiutatemi a rientrare nella mia camera fino a che mi resta ancora qualche forza. Chi sa ciò che può accadere, e quanto tempo durerà l’accesso? — Dantès senza molto agitarsi, quantunque la disgrazia che lo colpiva fosse immensa, discese nel corridoio, trascinò dietro a sè l’infelice compagno, e conducendolo con infiniti stenti fino all’estremità opposta, giunse nel carcere di Faria, e lo depose nel letto. — Grazie, disse Faria, tremando con tutte le membra, come se uscisse dall’acqua diacciata; ecco il male che s’inoltra, sto per cadere in catalessi. Forse non farò un movimento, forse non manderò un gemito, ma forse ancora mi contorcerò, griderò, sputerò bava. Fate in modo che non siano intese le mie grida, questo è ciò che soprattutto importa, perchè allora potrei essere cambiato di camera, e noi saremmo divisi per sempre. Quando voi mi vedrete immobile, freddo, e per così dire morto, allora soltanto schiudetemi i denti col coltello, fatemi colare in bocca otto o dieci gocce di quel liquore, e forse rinverrò. — Forse? gridò dolorosamente Dantès. — A me! a me! gridò Faria io mi... mi... L’accesso fu sì rapido e violento, che il disgraziato prigioniero non potè compiere neppure l’incominciata parola; una nube gli passò sulla fronte, sollecita e tetra come la tempesta del mare. La crisi gli dilatò gli occhi, gli contorse la bocca, gl’imporporò le guance; si agitò, ruggì; ma come lo aveva raccomandato egli stesso, Dantès soffocò queste grida sotto la coperta. Tutto durò due ore; allora più inerte che un masso, più pallido e più freddo di un marmo, più infranto di una cosa calpestata sotto i piedi, cadde, s’intirizzì in un’ultima convulsione, e divenne livido. Edmondo aspettò che questa morte apparente avesse investito tutto il corpo, e ghiacciato fino al cuore; allora prese il coltello, introdusse la lama fra i denti, disserrò a gran fatica le intirizzite mascelle, e contò una dopo l’altra le dieci gocce del rosso liquore, e aspettò. Passò un’ora senza che il vecchio facesse il più piccolo movimento; Dantès temeva di avere aspettato troppo, e lo guardava con le mani cacciate nei capelli; finalmente un leggiero colorito apparve sulle sue guance; gli occhi costantemente rimasti aperti e attoniti, ripresero il consueto sguardo, un debol sospiro gli sfuggì di bocca; fece un piccolo movimento. — Egli è salvo! egli è salvo! gridò Dantès. Il malato non poteva ancora parlare, ma stese con ansia visibile la mano verso la porta. Dantès ascoltò e intese i passi del carceriere. Erano quasi le sette ore, e Dantès non aveva avuto il pensiero di misurare il tempo. Il giovine si slanciò all’apertura, vi si precipitò, rimise la pietra al di sopra della testa, e rientrò nella stanza. Un momento dopo la porta si aprì, ed il carceriere ritrovò, secondo il solito, il prigioniero assiso sul letto. Appena ebb’egli voltato le spalle, appena il rumore dei suoi passi si perdè nel corridoio, Dantès, divorato dall’inquietudine, senza pensare a mangiare, riprese il cammino sotterraneo, e sollevando la pietra al di sopra della testa, rientrò nella camera di Faria. Questi aveva ripreso conoscenza, ma era sempre steso sul letto, inerte e senza forze. — Io non contava più di rivedervi, diss’egli a Dantès. — E perchè questo? domandò Edmondo, contavate dunque di morire? — No, ma tutto è all’ordine per la vostra fuga, ed io credeva che sareste fuggito. — Il rossore dell’indignazione colorò le guance di Dantès — Senza di voi! gridò egli, mi avete veramente creduto capace di ciò? — Adesso m’accorgo che mi sono ingannato, disse il malato; ah! sono molto debole, molto abbattuto. — Coraggio, le forze ritorneranno, disse Dantès, sedendosi vicino al letto di Faria e prendendogli le mani. Faria tentennò la testa. — L’ultima volta, diss’egli, l’accesso non durò che una mezz’ora, dopo la quale io ebbi fame e mi rialzai solo. Oggi non posso muovere nè la gamba, nè il braccio destro, la testa è oppressa, e ciò prova che è accaduto un versamento nel cervello; al terzo accesso resterò interamente paralizzato, o morirò sul colpo. — No, no, tranquillatevi, voi non morrete. Se questo terzo accesso deve colpirvi vi troverà libero; io vi salverò come questa volta, e meglio ancora, perchè avremo tutti i necessarii soccorsi. — Amico mio, disse il vecchio, non vi lusingate, la crisi che è passata mi ha condannato ad un carcere perpetuo; per fuggire bisogna poter camminare. — Ebbene, noi aspetteremo otto giorni, un mese, due mesi se bisogna; in quest’intervallo le vostre forze ritorneranno, tutto è pronto per la fuga, ed abbiamo la libertà di poter scegliere a nostro piacere l’ora ed il momento. Il giorno in cui vi sentirete abbastanza forte per nuotare, noi metteremo ad esecuzione il nostro disegno. — Io non nuoterò più, disse Faria, questo braccio è paralizzato, non per un giorno, ma per sempre; sollevatelo voi stesso, e sentite quanto è pesante. — Il giovine sollevò il braccio che ricadde morto ed insensibile. Dantès mandò un profondo sospiro. — Ora sarete convinto voi stesso, n’è vero Edmondo? disse Faria; credetemi, io so quello che dico. Dopo il primo accesso che ebbi di questo male, non ho mai cessato di studiarvi e di riflettervi sopra; io lo aspettava perchè è un’eredità di famiglia. Mio padre è morto al terzo assalto, mio nonno egualmente. Il medico che mi compose questo liquore, il celebre Cabanis, mi predisse la stessa sorte. — Il medico si sbaglia, gridò Dantès; in quanto alla vostra paralisi, essa non mi sgomenta, io vi prenderò sulle spalle, e nuoterò sostenendovi. — Mio amico, disse Faria, voi siete marinaro, e buon nuotatore, e dovete per conseguenza sapere che un uomo caricato di un simile fardello non potrebbe fare cinquanta braccia nel mare. Cessate dal lasciarvi illudere dalle chimere che ingannano l’ottimo vostro cuore. Io resterò qui fino a che suoni l’ora della mia liberazione, che adesso non può più esser che quella della morte. In quanto a voi partite, fuggite; voi siete giovine, destro e forte, non vi occupate di me, io vi rendo la vostra parola. — Sta bene, disse Dantès. — Ebbene! allora? — Io pure resterò. — Poi levandosi e stendendo una mano sul vecchio: — Per quanto vi ha di più sacro, io giuro di non lasciarvi che alla vostra morte. — Faria considerò questo giovine sì nobile, sì semplice e sì elevato, e lesse sui tratti animati dall’espressione di devozione la più pura, la sincerità della sua affezione, e la lealtà del suo giuramento. — Andiamo, disse il malato, io accetto e vi ringrazio. — Poi stendendogli la mano: — Voi forse sarete un giorno ricompensato di questa disinteressata divozione, gli disse; ma dappoichè io non posso e voi non volete partire, è necessario di ricolmare il sotterraneo sotto la galleria; il soldato camminando può scuoprire la sonorità nella direzione dello scavo, richiamare l’attenzione di un ispettore, e allora noi saremmo scoperti e separati. Andate a fare questa faccenda nella quale disgraziatamente non posso aiutarvi, impiegatevi tutta la notte se bisogna, e non ritornate da me che domattina dopo la visita del carceriere; avrò qualche cosa di somma importanza da comunicarvi. — Dantès, prese la mano di Faria che lo assicurò con un sorriso, ed uscì con quell’obbedienza e quel rispetto che aveva dedicato al suo vecchio amico. XVIII. — IL TESORO. Allorchè Dantès la dimane rientrò nella camera del suo compagno di prigionia, trovò Faria assiso, col viso sereno sotto il raggio che penetrava attraverso la stretta finestra della sua cella. Egli teneva aperto nella mano sinistra, la sola di cui gli era rimasto l’uso, un po’ di carta che per l’abitudine di restare avvolta sempre nello stesso modo aveva preso la forma di un cilindro ribelle a stendersi, e ch’ei mostrò a Dantès senza dire una parola. — Che è ciò? domandò questi. — Guardate bene, disse Faria sorridendo. — Io lo sto osservando attentamente, disse Dantès, ma non vedo altro che un po’ di carta mezzo bruciata e sulla quale sono tracciati dei caratteri gotici con un inchiostro particolare. — Questa carta, amico mio, disse Faria, è, ora ve lo posso confessare perchè vi ho sperimentato, questa carta è il mio tesoro, di cui da questo momento la metà è vostra! Un freddo sudore passò sulla fronte di Dantès. Fino a quel giorno, e per uno spazio sì lungo di tempo, egli aveva sempre evitato di parlare a Faria di questo tesoro, origine dell’accusa di pazzia che gravava sul povero amico. Colla sua istintiva delicatezza, Edmondo aveva preferito di non toccare questa corda dolorosa; e Faria per sua parte si era taciuto; egli aveva preso il silenzio del vecchio per un ritorno alla ragione. Or quelle poche parole sfuggite a Faria, dopo una crisi così penosa, sembravano annunziare una grave ricaduta d’alienazione mentale. — Vostro tesoro, balbettò Dantès. — (Faria sorrise). — Sì, diss’egli; in ogni occasione voi siete un nobil cuore, Edmondo, e dal vostro pallore e dal vostro fremito comprendo ciò che passa per la vostra mente in questo punto. No, siate tranquillo, io non sono pazzo, questo tesoro c’è, Dantès, e se non mi è stato concesso di possederlo, voi lo possederete in mia vece. Nessuno ha voluto darmi ascolto, nè aggiustarmi fede perchè fui giudicato pazzo; ma voi dovete sapere che tal non sono, ascoltatemi, e dopo credetemi se vi piace. — Ahimè! mormorò Edmondo fra sè stesso, il malato ricade; mi mancava questa disgrazia. Indi alzando la voce: — Amico mio, diss’egli a Faria, il vostro accesso forse vi ha stancato, non vorreste un po’ di riposo? domani se voi così desiderate, sentirò la vostra istoria; ma oggi pensate alla vostra salute; d’altra parte continuò egli sorridendo, un tesoro non deve ora importarci gran fatto. — Deve importarci moltissimo, Edmondo, rispose il vecchio, chi sa che domani o doman l’altro non giunga il terzo accesso; allora tutto sarebbe finito... Sì, è vero, io qualche volta ho pensato con un amaro piacere a queste ricchezze che farebbero la fortuna di dieci famiglie; perdute per coloro che mi perseguitano: quest’idea mi serviva di vendetta ed io l’assaporava lentamente nella oscurità della mia segreta e nella disperazione della mia prigionia: ma ora che vi vedo giovine e pieno di speranza, ora che penso a tutto quel che può resultarne di felicità a voi in conseguenza della mia rivelazione, io fremo pel ritardo, e tremo di non potere assicurare un proprietario tanto degno quanto voi il siete a queste immense ricchezze nascoste. (Edmondo volse altrove la testa sospirando). — Voi persistete nella vostra incredulità, Edmondo, continuò Faria; la mia voce non vi ha convinto. Vedo che vi abbisognano delle prove. Ebbene leggete questo foglio che non ho fatto mai vedere ad alcuno. — Domani, amico mio, disse Edmondo, bramando schivarsi a secondare la follia del vecchio. Io credeva che fosse già stabilito fra noi di non parlarne che domani? — Ebbene, ne parleremo domani, ma oggi leggete questo foglio. — Non l’irritiamo di più, pensò Edmondo. E prendendo la carta di cui mancava la metà, che sembrava essere stata consunta da qualche accidente, egli lesse... — Ebbene? disse Faria, quando il giovine ebbe finita la lettura. — Ma, rispose Dantès, non leggo che righe troncate, che parole senza senso; i caratteri sono interrotti dall’azione del fuoco e restano inintelligibili. — Per voi, amico mio, che li leggete per la prima volta, ma non per me che vi ho impallidito sopra per ben molte notti, e che ho ricostruita ogni frase, e compiuto ogni pensiero. — E credete aver ritrovato questo senso troncato? — Ne son sicuro; ne giudicherete da voi stesso; ma dapprima ascoltate la storia di questa carta. — Silenzio! gridò Dantès; dei passi!... qualcuno si avvicina... io parto... addio! e Dantès, fortunato di poter fuggire alla storia ed alla spiegazione che non gli avrebbero che maggiormente confermato la infelicità del suo amico, fuggì per lo stretto andito, nel mentre che Faria acquistando una specie di attività dal terrore, spinse col piede la pietra che ricuoprì colla stoia, a fine di nascondere allo sguardo la mancanza di continuità che non era stato in tempo di fare sparire. Era il governatore che, essendo stato avvisato dal carceriere dell’accidente di Faria, veniva ad assicurarsi da sè stesso della sua gravità. Faria lo ricevette assiso, evitò qualunque gesto che potesse metterlo a rischio, e riuscì a nascondere al governatore che egli era stato colpito da una paralisi, che aveva fatta morta una metà della sua persona. Il suo timore si era che il governatore mosso a pietà di lui, non volesse farlo trasportare in una prigione più sana e non lo separasse in tal modo dal suo giovine compagno: ma fortunatamente non fu così: il governatore si ritirò convinto che il povero pazzo pel quale sentiva nel fondo del cuore un po’ di affezione, non era affetto che da una leggiera indisposizione. In questo tempo, Edmondo, assiso sul letto e colla testa fra le mani, cercava di riordinare le sue idee; dacchè conosceva Faria avea sempre scorto in lui tanta ragione, e tanta logica, che non poteva comprendere come questa suprema saggezza su tutti i punti, potesse poi collegarsi coll’alienazione di mente sopra un sol punto: era Faria che s’ingannava sul suo tesoro? o erano gli uomini che s’ingannavano sul conto di Faria? Dantès restò nella sua cella tutto il giorno, non osando ritornare a visitare il suo amico. Egli cercava di allontanare così il momento in cui avrebbe acquistata la certezza che il compagno era pazzo; questa convinzione doveva essere spaventosa per lui. Ma verso sera, dopo l’ora dell’ordinaria visita, Faria, non vedendo più ritornare il giovine, tentò di superare lo spazio che lo divideva da lui. Edmondo rabbrividì sentendo gli sforzi dolorosi che faceva il vecchio per trascinarsi: la gamba era inerte: egli non poteva aiutarsi che con un sol braccio: fu perciò obbligato di tirarlo a sè, poichè certamente non sarebbe riuscito ad uscire solo per la stretta apertura che metteva nella camera di Dantès. — Eccomi implacabilmente risoluto a perseguitarvi, disse con un sorriso raggiante di benevolenza; voi avete creduto potere sfuggire alla mia munificenza, ma ciò non vi ha servito a niente. Ascoltatemi adunque. — Edmondo vedendo che non poteva più evitarlo, fece sedere il vecchio sul letto, e si pose vicino a lui sul suo sgabello. — Voi sapete, disse Faria, che io era il segretario, il famigliare, l’amico del conte Spada, l’ultimo dei principi di questo nome. Io devo a questo degno personaggio tutto ciò che ho provato di felicità in questa vita. Egli non era ricco, benchè le ricchezze di sua famiglia fossero proverbiali, e che abbia spesse volte inteso dire: _ricco come uno Spada_. Ma egli, come la pubblica voce, viveva sotto questa riputazione di opulenza; il suo palazzo fu il mio Eden. Educai i suoi nipoti che morirono, e allora io dedicandomi con devozione a tutte le sue volontà, cercai rendergli quel che aveva fatto per me da dieci anni. La casa del conte non ebbe più segreti per me, io aveva soventi volte visto lo Spada scartabellare dei libri antichi, e sfogliare avidamente dei manoscritti antichi di famiglia tutti ricoperti di polvere. Un giorno che io gli rimproverava queste inutili veglie, e la specie di abbattimento che le seguiva, egli mi guardò sorridendo amaramente, e mi aprì un libro che era la storia d’Italia. Al capitolo XX della medesima stava scritto: «Cesare Borgia prese d’assalto Sinigaglia, che apparteneva a Francesco Maria della Rovere; il giorno stesso della vittoria, chiamò a pranzo tutti i condottieri del suo esercito, ed a seconda che entravano nella sala del convito, non avendo più bisogno di loro e temendo qualche lega che potesse inceppargli la vittoria nella Romagna, fece a tutti l’un dopo l’altro tagliar la testa sul limitare della porta. Così morì Vitellozzo Vitelli signore di Città di Castello, Oliverotto signore di Fermo, Paolo Orsini Duca di Gravina, Francesco di Todi, Guido Spada ecc.» «Dopo questa lettura, egli mi favellò così: «Guido Spada non aveva potuto disimpegnarsi dal collegare le sue bande con quelle di Cesare Borgia, quando si portò ad invadere la Romagna, temendo che un rifiuto non solo gli potesse costar la vita, ma la perdita di quegl’immensi beni di cui era ritenuto possessore, e che, conservava colla più grande importanza per trasmetterli ad un nipote che amava qual figlio. Quando Guido Spada, dopo la vittoria di Sinigaglia, ricevette l’invito al pranzo di Borgia egli sospettò il tradimento che veniva ordito, ed accorgendosi omai che ancorchè non fosse andato al convito la sua vita era sempre in balia del Borgia trovandosi in mezzo alle sue genti, si limitò a spedire un messaggio al nipote in Roma per avvertirlo del luogo ove egli teneva il suo testamento. Il messaggiero, la cui partenza era stata spiata, fu ucciso in cammino, ma non gli fu ritrovato altro foglio se non che uno scritto dello Spada in cui diceva: «Lascio al mio nipote amatissimo le mie stoviglie ed i miei libri, fra i quali la mia Bibbia ad angoli d’oro desiderando ch’egli la conservi quale ricordo del suo affezionatissimo zio.» «Gli eredi cercarono in ogni luogo, ammirarono la Bibbia, fecero man bassa sui mobili, e si meravigliarono che Spada, l’uomo ricco, non fosse in effetti che il più miserabile degli zii; nessun tesoro fu rinvenuto, se pure non vogliansi chiamare tesori le scienze racchiuse nella biblioteca e nel laboratorio chimico. «Il messaggiero che era stato assassinato in viaggio, ebbe tempo prima di morire, di dire ad un sacerdote, che prestavagli gli ultimi uffici di religione innanzi la chiesetta presso la quale fu aggredito, che facesse sapere al nipote di Guido Spada in tutta secretezza, che vi avrebbe certamente trovato il testamento. Il sacerdote eseguì questo estremo desiderio del trafitto: e fu dopo questo annunzio che si raddoppiarono più attivamente ancora le ricerche: ma tutto fu invano. Non restarono al nipote che due palazzi, ed una villa dietro al Palatino, ed un migliaio circa di scudi in argenteria, ed altrettanto in moneta contante. La famiglia Spada non riprese più il lustro di prima e rimase dubbia la loro fortuna; un mistero eterno pesò sopra questa faccenda, e la pubblica fama fe’ credere, che Cesare Borgia avesse ritrovato i tesori della famiglia Spada nella tenda di Guido sotto le mura di Sinigaglia.» — Fin qui, interruppe Faria, sorridendo, non vi sembrerà che questo racconto sia privo di senno? — Oh! amico mio, disse Dantès, mi sembra, al contrario, di leggere una cronaca importantissima, continuate. — La famiglia si accostumò a questa oscurità, gli anni si successero. Fra i discendenti, alcuni furono soldati, altri diplomatici; alcuni furono ecclesiastici, altri banchieri; alcuni si arricchirono, altri finirono di rovinarsi. Ma veniamo all’ultimo della famiglia, a quello di cui io fui segretario, al conte Spada. Io lo aveva spesso sentito lamentarsi della sproporzione del suo grado colla sua fortuna, per cui lo aveva consigliato di porre i pochi beni che gli restavano in rendita vitalizia; ascoltò il mio consiglio, e per tal modo raddoppiò le sue rendite. La famosa Bibbia ad angoli d’oro era rimasta in famiglia, ed il conte Spada la possedeva: fu conservata di padre in figlio, perchè la clausola bizzarra del solo testamento che si conobbe, ne aveva formata una vera reliquia custodita con una superstiziosa venerazione in famiglia. Era quel libro illustrato da magnifiche miniature gotiche e così pesante per l’oro, che vi voleva un leggio per poterne far uso. Alla vista delle carte di ogni specie, titoli, contratti, pergamene, che venivano custodite negli archivii della famiglia e che derivavano da Guido Spada, io mi misi a mia volta al par di venti servitori, di venti intendenti e venti segretarii che mi avevano preceduto, ad esaminare queste filze formidabili. Ad onta dell’attività e della precisione delle mie ricerche, io non ritrovai assolutamente niente. Frattanto aveva letta ed anche scritta una storia esatta delle effemeridi della famiglia Borgia, nel solo scopo di assicurarmi se fosse stata aggiunta alla famiglia di questi Principi qualche gran fortuna dopo la morte di Guido Spada, e mai non potei osservare altro se non l’addizione dei beni degli altri condottieri con lui decollati, che furono ben presto esauriti nelle guerre della Romagna. «Ero dunque quasi sicuro che nè Cesare Borgia, nè la sua famiglia si erano impadroniti delle immense fortune di cui si credevano possessori gli Spada, ma che queste, se pur vi erano, rimasero senza padrone, come quei tesori delle favole arabe che dormono nel seno della terra, sotto la custodia di un genio. Io sfogliai, contai, calcolai le mille e mille volte le rendite e le spese della famiglia da trecento anni in poi, e tutto fu inutile. Confrontai questi calcoli colle spese e le rendite prima dell’avvenimento di Guido, e vi trovai una incalcolabile differenza; ciò nonostante tutto riuscì inutile, io restai nella mia ignoranza ed il conte Spada nella sua miseria. «Il mio padrone morì. Dal suo contratto vitalizio egli non aveva eccettuate che le sue carte di famiglia, la biblioteca composta di cinque mila volumi e la famosa Bibbia; mi lasciò legatario di tutto questo, unitamente ad un migliaio di scudi romani che possedeva in denaro contante colla condizione di fargli dire delle messe nell’anniversario della sua morte, di formare un albero genealogico della sua famiglia e di scrivere una storia della medesima, il che ho fatto esattamente... «Tranquillizzatevi, Edmondo, ci accostiamo alla fine. «Nel 1807, un mese prima del mio arresto, e quindici giorni dopo la morte del conte Spada, era il 25 di dicembre, (vedrete in breve in qual modo questa data memorabile mi sia rimasta in mente) io rileggeva per la centesima volta queste carte che metteva in ordine, perchè appartenendo oramai il palazzo ad uno straniero, io stavo per lasciare Roma e stabilirmi a Firenze portando meco una certa quantità di libri, la mia biblioteca e la famosa Bibbia, allorchè stanco da questo continuo studio, e indisposto per un pranzo indigesto, lasciava cadere la testa sopra le mani e mi addormiva. Erano tre ore dopo mezzogiorno: mi svegliai; la pendola batteva le sei: alzai la testa e mi trovai nella più profonda oscurità. Suonai perchè mi si portasse il lume, non venne alcuno. Risolvetti allora di servirmi da me; quest’era d’altra parte un’abitudine da filosofo che mi abbisognava di adottare. Presi con una mano la bugìa che era sul tavolo, coll’altra non ritrovando solfanelli cercai un po’ di carta che mi avvisava di accendere ad un resto di fuoco rimasto nel caminetto; ma nell’oscurità temendo di prendere una carta preziosa invece di un foglio inutile, esitai; allora mi risovvenni di aver veduto nella famosa Bibbia che era sulla tavola, vicino a me, un vecchio foglio tutto ingiallito che sembrava aver servito di segno al luogo ove si cessava la lettura, e che aveva traversato i secoli, mantenuto al suo posto dalla venerazione degli eredi. Io cercai a tastoni quest’inutil foglio, lo trovai, lo contorsi, lo presentai alla fiamma moribonda e lo accesi; ma sotto le dita, come per magìa, a seconda che il fuoco saliva io vidi dei caratteri giallastri uscir dalla carta e comparire sul foglio. Allora fui preso da terrore; serrai fra le mani il foglio, spensi il fuoco, accesi la bugìa alla bracia; riaprii con indicibile emozione il foglio ripiegato, e riconobbi che un inchiostro misterioso e simpatico aveva tracciato quelle lettere apparse soltanto al contatto del vivo calore; poco più di un terzo del foglio era stato consumato dalla fiamma. Egli è quel foglio che voi avete letto questa mattina. Rileggetelo Dantès; poi quando lo avrete riletto io vi compierò le frasi interrotte e il senso incompiuto; — e Faria, trionfante, aprì il foglio a Dantès che questa volta lesse avidamente le parole seguenti, tracciate con un inchiostro color di ruggine; «Essendo costretto per lo mio me di seguire in un con le gia nella guerra di Romagna, e parato a qualunque tradimento p cipe, dichiaro a mio nipote erede universale che ho per aver visitato con me isola di Monte-Cristo, tutto quanto preziose, diamanti, argenterie per il valore circa di due troverà passando la ventesima dell’Est in linea retta. Due aper in queste grotte il tesoro sta nell’angolo qual tesoro lascio a lui e cedo solo erede.» «28 _Marzo_ 1492. «Guid — Ora, riprese Faria, leggete quest’altra carta. — E presentò a Dantès un altro foglio, con altri frammenti di righe. — Adesso, diss’egli, veduto Dantès che aveva letto fino all’ultima linea, ravvicinate i due frammenti, e giudicate. Dantès obbedì, ravvicinati i due frammenti, davano il seguente assieme. «Essendo costretto per lo mio me_glio_ di seguire in un con le _mie genti Cesare Bor gia_ nella guerra di Romagna, e _dovendo essere pre_ parato a qualunque tradimento p_er parte di questo prin_ cipe, dichiaro a mio nipote _Giulio Spada, mio_ erede universale, che ho _nascosto in una direzione che egli conosce,_ per aver visitato con me, _cioè nell’_ isola di Monte-Cristo, tutto quanto _io possedo in pietre_ preziose, diamanti, argenterie, _che solo io conosco questo tesoro_ per il valore circa di due _milioni di scudi romani, e che egli_ troverà passando la ventesima _pietra della roccia a partirsi dal seno_ dell’Est in linea retta. Due aper_ture sono state praticate_ in queste grotte; il tesoro sta nell’angolo _più lontano della seconda, il_ qual tesoro lascio a lui e cedo _in tutto come mio_ solo erede.» 28 _Marzo_ 1492. «Guido _Spada_. — Ebbene! capite finalmente? disse Faria. — È la dichiarazione di Guido Spada, è il testamento che fu cercato per sì gran tempo, disse Edmondo ancora incredulo. — Sì, mille volte sì. — E chi l’ha ricostruito in tal modo? — Io che coll’aiuto del frammento restato, ho indovinato il resto misurando la lunghezza delle linee con quella della carta e penetrando nel senso nascosto col mezzo visibile, come uno si guida in un sotterraneo con un residuo di luce che gli venga dall’alto. — E che faceste quando avete creduto di acquistare questa cognizione? — Voleva partir subito, ed anzi sono partito sul momento, portando meco il principio della mia grand’opera filosofica, ma la polizia imperiale che conosceva i miei principi teneva gli occhi aperti sopra di me. La mia partenza precipitata, della quale non poteva conoscere la causa, svegliò dei sospetti, e al momento in cui io stava per imbarcarmi a Piombino, venni arrestato... Ora, continuò Faria, guardando Dantès con un’espressione quasi paterna, ora, amico mio, voi ne sapete quanto me. Se noi ci salviamo insieme la metà del mio tesoro è vostra; se io muoio qui, e che voi vi salviate solo, vi appartiene in totalità. — Ma, domandò Dantès con esitazione, questo tesoro non ha egli nel mondo possessori più legittimi di noi? — No, no, rassicuratevi; la vera famiglia Spada è estinta compiutamente. D’altra parte l’ultimo dei conti Spada mi ha dichiarato suo erede, e nel lasciarmi per legato questa Bibbia simbolica mi ha pur lasciato tutto ciò che conteneva. No, no, tranquillizzatevi, se noi un giorno potremo metter le mani sopra questa fortuna, potremo goderne senza rimorsi. — E dite voi che questo tesoro racchiude... — Due milioni di scudi romani, circa 13 milioni di franchi. — Impossibile! disse Dantès, spaventato dall’enormità della somma. — Impossibile e perchè? rispose il vecchio. La famiglia Spada era una delle più antiche e delle più possenti famiglie del secolo XV. D’altra parte in quei tempi, in cui era sospesa ogni speculazione ed ogni industria, non erano rari questi ammassi di oro e di pietre; anche oggi giorno in Roma vi sono delle famiglie che muoiono di fame, e che hanno quasi un milione in diamanti e pietre preziose trasmesse per maggiorasco, che non possono essere alienate. (Edmondo che credeva sognare, ondeggiava fra l’incredulità e la gioia). — Io non ho custodito per sì lungo tempo tal segreto con voi, continuò Faria, se non perchè prima volessi mettervi alla pruova e poi farvi una sorpresa. Se noi fossimo evasi prima del mio accesso di catalessi, vi avrei condotto a Monte-Cristo; ora, aggiunse egli con un sospiro, siete voi che mi condurrete.... Ebbene! Dantès, non mi ringraziate? — Questo tesoro è vostro, amico mio, disse Dantès; egli appartiene a un solo, ed io non vi ho alcun diritto; io non sono neppure vostro parente. — Voi siete mio figlio, Dantès! gridò il vecchio, voi siete il figlio della mia prigionia. Dedito interamente agli studi, mi era condannato al celibato; Dio vi ha inviato a me per consolare l’uomo che non è stato padre, e il prigioniero che non poteva esser libero. — E Faria tese il braccio che gli restava, al giovine, che gli si gettò al collo piangendo. XIX. — IL TERZO ACCESSO. Ora che questo tesoro, stato per sì lungo tempo lo scopo delle meditazioni di Faria, poteva assicurare la felicità di colui che egli veramente amava come suo figlio, questo tesoro aveva raddoppiato di valore a’ suoi occhi: tutti i giorni si divertiva nel farne le quote, spiegando a Dantès tutto ciò che poteva fare di bene ai suoi amici quell’uomo che ai nostri giorni possedesse una fortuna di 13 a 14 milioni; e allora il viso di Dantès si faceva tetro, perchè il giuramento di vendetta che aveva fatto si presentava al suo pensiero, e rifletteva quanto male poteva fare a’ suoi nemici un uomo che ai nostri giorni possedeva 13 a 14 milioni. Faria non conosceva l’isola di Monte-Cristo, ma Dantès la conosceva, vi era spesse volte passato davanti ed una volta vi avea preso ancora terra. Quest’isola era, è stata sempre, ed è ancora compiutamente deserta; è una roccia di forma quasi conica che sembra essere stata sospinta da qualche cataclismo vulcanico dal fondo dell’abisso alla superficie del mare[1]. Dantès faceva il piano dell’Isola a Faria, e questo davagli dei consigli sui modi da impiegarsi per ritrovare il tesoro. Ma Dantès era ben lungi dall’essere così entusiasta e così confidente quanto lo era il vecchio; era al certo ben sicuro che Faria non era pazzo ed il modo con cui era giunto alla scoperta che aveva fatto credere alla sua follia, raddoppiava ancora la sua ammirazione per lui; ma non poteva egualmente credere che questo deposito, supposto che un giorno vi fosse stato, vi fosse tuttavia, e quando non guardava questo tesoro come una chimera, lo guardava come molto lontano. Frattanto, come se il destino avesse voluto togliere ai prigionieri l’ultima speranza, e far loro credere che erano condannati ad un perpetuo carcere, una nuova disgrazia venne a colpirli. La galleria che dava sul mare, minacciando ruina da lungo tempo, era stata ricostruita; furono sostituiti ai pianciti e ai travi degli enormi dadi di roccia sul foro di già per metà interrato da Dantès; senza questa cautela, che fu suggerita dal vecchio al giovine, il loro infortunio sarebbe stato ancora maggiore, perchè si sarebbe scoperto il tentativo di evasione e sarebbero stati indubitatamente divisi. Una nuova porta più forte e più inesorabile delle altre si era chiusa ancora una volta sur essi. — Voi vedete bene, diceva Dantès, con una dolce tristezza a Faria, che Dio vuol togliermi fino il merito di ciò che chiamate mia devozione per voi: vi ho promesso di restare eternamente con voi, ed ora non son più libero di non poter mantener la mia parola; non avrò più il tesoro e non usciremo di qui nè l’uno nè l’altro. Del resto il mio vero tesoro siete voi, amico mio, quello che mi attendeva sotto le tetre volte di questa prigione siete voi, è la vostra presenza, il nostro convivere cinque o sei ore del giorno insieme ad onta della vigilanza dei nostri carcerieri. Sono questi raggi d’intelligenza che voi avete versato nel mio intelletto, queste lingue che voi avete trapiantate nella mia memoria, ove vegetano con tutte le loro ramificazioni filologiche. Queste scienze diverse che voi mi avete rese sì facili colla profondità della conoscenza che me ne avete data, e colla chiarezza dei principi a cui le riduceste. Ecco il mio tesoro, amico; ecco in che modo mi avete fatto ricco e felice. Credetemi e consolatevi; ciò per me val molto più delle verghe d’oro e delle casse di diamanti, quand’anche non fossero così problematiche, come le nubi che si vedono la mattina fluttuare sul mare, che si prendono per terra ferma e che svaporano, svaniscono a seconda che uno si avvicina. Vedervi vicino a me per il più lungo tempo possibile, ascoltare la vostra voce eloquente, ornare il mio spirito, rattemprare l’anima mia, rendere tutta la mia organizzazione capace di grandi e terribili cose, se mai un giorno sarò libero, riempirle così bene che la disperazione alla quale ero sul punto di abbandonarmi, quando vi conobbi, non vi ritrovi più posto; ecco tutta la mia fortuna: questa non è chimerica, io la debbo a voi, e tutti i sovrani della terra, fossero essi ancora tanti Cesare Borgia, non riuscirebbero a togliermela. Così i giorni che scorsero in seguito, se non furono giorni felici pei due prigionieri, passarono però molto prestamente. Faria che aveva custodito il segreto del suo tesoro per sì lungo tempo, ora ne parlava ad ogni occasione. Come lo aveva preveduto, egli restò paralizzato dal lato destro ed egli stesso aveva perduto ogni speranza di potersene servire; ma pensava sempre pel suo compagno ad una liberazione o ad una evasione, e ne godeva per lui. Per timore che la lettera potesse un giorno perdersi o cancellarsi aveva obbligato Dantès ad impararla a memoria, di tal che questi la sapeva dalla prima all’ultima parola; allora distrusse la seconda parte, certo che poteva essere ritrovata la prima parte, senza che ne fosse indovinato il vero senso. Qualche volta passava delle ore intere nel dare delle istruzioni a Dantès, istruzioni che dovevano servirgli nei giorni della sua libertà. Una volta libero, dal giorno, dall’ora, dal momento in cui sarebbe stato libero, allora egli non doveva più avere che un solo ed unico pensiero, quello di guadagnare Monte-Cristo in qualunque siasi modo, restarvi solo con un pretesto che non desse sospetto; ed una volta là, una volta solo, cercare di ritrovare le grotte maravigliose e scavare nell’interno della seconda grotta. Aspettando in tal modo, le ore passavano, se non rapide almeno sopportabili: Faria, come dicemmo, senza avere ricuperato l’uso della mano e del piede, aveva ricuperata tutta la chiarezza della sua intelligenza e aveva insegnato al suo giovine compagno un poco alla volta oltre le cognizioni morali, di cui si disse in particolare, quell’arte paziente e sublime del prigioniero che dal niente sa trarre qualche cosa. Faria pel timore di vedersi invecchiare, Dantès pel timore di ricordarsi il suo passato quasi estinto, e che non presente più nel fondo della sua memoria lontana, che come perduto nella notte; tutto camminava come in quelle esistenze ove l’infelicità non ha nulla scomposto, e che passano macchinalmente e con calma sotto l’occhio della Provvidenza. Ma sotto questa calma superficiale esistevano nel cuore del giovine, e fors’anche del vecchio, molti slanci trattenuti, molti sospiri soffocati, che Faria faceva quando era solo, Edmondo quando rientrava nel suo carcere. Una notte Edmondo si risvegliò come scosso, credendo di essere stato chiamato; aprì gli occhi e tentò di squarciare la spessezza dell’oscurità. Il suo nome, o piuttosto una voce di lamento che tentava di articolare il suo nome, giunse fino a lui. Si alzò sul letto, il sudore dell’angoscia gli bagnava la fronte, ed ascoltò. Non v’era più alcun dubbio: il lamento veniva dal carcere del suo compagno. — Gran Dio! esclamò Dantès; sarebbe forse..., e spostò il letto, levò la pietra, si slanciò nella via sotterranea, giunse all’opposta estremità, la pietra era alzata. Alla luce incerta e vacillante di quella lampada di cui abbiamo altre volte parlato, Edmondo vide il vecchio pallido, ancor ritto che si aggrappava al legno del letto. I suoi lineamenti erano sconvolti da quegli orribili sintomi che egli già conosceva, e che tanto lo spaventarono quando apparvero per la prima volta. — Ebbene! amico mio, disse Faria rassegnato.... non ho più bisogno d’insegnarvi altro. — Edmondo gettò un grido doloroso, e del tutto smarrito si slanciò verso la porta gridando: — Soccorso! soccorso! — Faria ebbe ancora la forza di fermarlo per un braccio. — Silenzio, diss’egli, o siete perduto. Non pensiamo più che a voi, caro amico, a rendere la vostra prigionia sopportabile o la vostra fuga possibile. Vi bisognerebbero molti anni per rifare da solo tutto ciò che io ho fatto qui, e che sarebbe distrutto sul momento se i nostri sorveglianti sapessero la nostra intelligenza. D’altra parte siate tranquillo, amico mio, il carcere che abbandono non resterà lungamente vuoto: un altro disgraziato verrà a prendere il mio posto. A quest’altro voi comparirete come un angiolo salvatore. Quest’altro sarà forse giovine, forte, paziente come voi. Quest’altro potrà aiutarvi nella vostra fuga, mentre che io non era ormai in istato che d’impedirla. Non avrete più un mezzo cadavere unito a voi per ostare ai vostri movimenti. Dio fa finalmente qualche cosa per vostro bene: egli vi dà più di ciò che vi toglie, ed è ben ora che io muoia. Edmondo non potè far altro che unire le mani e gridare. — Oh! amico mio, amico mio, tacete. — Quindi riprendendo la sua forza, un momento perduta dal colpo imprevisto, e il coraggio piegato dalle parole del vecchio: — Oh! diss’egli, io vi ho già salvato una volta, vi salverò la seconda. — E sollevando il piede del letto ne cavò la boccettina in cui v’era ancora un terzo del liquore rosso. — Ecco diss’egli, di questa bibita salutare ne resta ancora. Presto, presto, ditemi ciò che devo fare. Questa volta vi sono nuove istruzioni da aggiungere? parlate, amico mio, vi ascolto. — Non v’è alcuna speranza; rispose Faria, scuotendo la testa; ma non importa, Dio vuole che l’uomo da Lui creato, nel cuor del quale ha profondamente scolpito l’amor della vita, faccia tutto ciò che può per conservare questa esistenza, spesse volte penosa, ma sempre cara. — Oh! sì, rispose Dantès, vi salverò; ve lo dico io. — Ebbene! dunque tentate, il freddo mi prende, sento il sangue affluire al cervello; quest’orribile tremito mi fa sbattere i denti, e sembra disgiungere le mie ossa, comincia ad invadere il mio corpo; tra cinque minuti la crisi scoppierà, fra un quarto d’ora non vi sarà di me che un cadavere. — Ah! gridò Dantès, col cuore lacerato dal dolore. — Voi farete come l’altra volta, soltanto non aspetterete sì lungo tempo. A quest’ora tutte le molle della mia vita sono consunte, e la Morte non avrà più (mostrando il braccio e la gamba paralizzata) non avrà più che la metà del lavoro da fare. Se dopo avermi versato dodici gocce in bocca, invece di dieci, vedete che io non rinvengo, versate il rimanente. Frattanto portatemi sul letto perchè non posso più tenermi in piedi. — Edmondo prese il vecchio nelle braccia e lo stese sul letto. — Ora, amico, disse Faria, sola consolazione della mia misera vita, voi, che il cielo mi dette un po’ tardi, ma pure mi dette qual dono inapprezzabile di cui lo ringrazio, nel momento in cui sono per separarmi per sempre da voi, vi auguro tutti i beni, tutte le felicità che meritate. Figlio mio, io vi benedico! Dantès si gittò in ginocchio appoggiando la testa sul letto del vecchio. — Ma prima di ogni altro ascoltate bene ciò che vi dico in questo momento supremo; il tesoro di Spada c’è, Dio permette che non vi sia più per me nè distanza nè ostacolo. Io lo vedo nel fondo della seconda grotta, i miei occhi penetrano la profondità della terra e restano abbagliati da tante ricchezze... se voi giungete a fuggire, ricordatevi che il povero Faria da tutti creduto pazzo, non lo era. Correte a Monte-Cristo, approfittatevi della fortuna, voi che avete sofferto abbastanza... Una scossa violenta interruppe il vecchio, Dantès rialzò la testa, e vide che gli occhi si iniettavano di rosso, sarebbesi detto che un’onda di sangue saliva dal petto alla fronte. — Addio! addio! mormorò il vecchio stringendo convulsivamente la mano al giovine, addio. — Oh! non ancora, non ancora, gridò questi. Non mi abbandonate, oh! mio Dio! soccorretelo... aiuto... aiuto!... — Silenzio! silenzio! silenzio! mormorò il moribondo, che non ci separino se volete salvarvi. — Avete ragione. Oh! sì sì, siate tranquillo, vi salverò. D’altra parte quantunque soffriate molto, sembra che soffriate meno della prima volta. — Oh! disingannatevi, soffro meno perchè ho minor forza di soffrire. Nella vostra età si ha fede nella vita, è il privilegio della gioventù di credere e di sperare; ma la vecchiaia vede più chiaramente la morte. Oh! eccola... ella viene... tutto è finito... la vista si perde... la ragione svanisce... la vostra mano Dantès... addio!..., e riunendo tutte le sue forze e le sue facoltà fece un ultimo sforzo per rialzarsi dicendo: — Monte-Cristo... non dimenticate Monte-Cristo! E ricadde sul letto. La crisi fu terribile; membra contorte, pupille gonfiate, schiuma sanguinolenta, un corpo senza movimento, ecco ciò che restò su quel letto di dolore, nel posto ove un momento prima era stato disteso un essere intelligente. Dantès prese la lampada, la posò al capezzale del letto sopra una pietra sporgente, da dove la sua luce tremante rischiarava con uno strano e fantastico riflesso questo viso scomposto e questo corpo inerte e rigido. Là cogli occhi fissi aspettò intrepidamente il momento di ministrare il salutare rimedio. Quando credè fosse giunto, prese il coltello, disserrò i denti, che offrivano meno resistenza della prima volta, contò una dopo l’altra le dodici gocce, e aspettò; la boccettina conteneva ancora il doppio circa di ciò che avea versato. Aspettò dieci minuti, un quarto d’ora, una mezz’ora, niente si mosse. Tremante, coi capelli irti, la fronte ghiacciata dal sudore, contava i secondi coi battiti del cuore. Allora egli pensò che era tempo di tentare l’ultima prova: avvicinò la boccettina alle labbra paonazze di Faria, e senza aver bisogno scostare le mascelle rimaste aperte, versò il rimanente del liquore che conteneva. Il rimedio produsse un effetto galvanico, un violento tremore scosse le membra del vecchio, gli occhi si riaprirono spaventosi a vedersi, gettò un sospiro che sembrava un grido, quindi tutto questo corpo tremante rientrò a poco a poco nella sua immobilità; i soli occhi rimasero aperti. Una mezz’ora, un’ora, un’ora e mezzo passarono. Durante quest’ora e mezzo d’angoscia Edmondo curvato sul suo amico, con la mano applicata sul cuore sentì successivamente questo corpo raffreddarsi, e questo cuore spegnere il suo battito sempre più sordo e profondo. Finalmente nulla sopraggiunse, l’ultimo fremito del cuore cessò, la faccia divenne livida, gli occhi rimasero aperti; ma lo sguardo si fece vitreo. Erano le sei del mattino, il giorno cominciava a sorgere, il suo raggio malinconico entrava nel carcere e faceva impallidire la luce della lampada vicina a spegnersi. Riflessi strani di luce passavano sul viso del cadavere dandogli di tempo in tempo delle apparenze di vita. Fino a che durò questa lotta tra il giorno e la notte, Dantès potè ancora dubitare, ma da che il giorno la vinse, fu fatto certo che era in compagnia di un cadavere. Allora un terrore profondo ed invincibile s’impadronì di lui; egli non osò più stringere quella mano che pendeva fuori del letto, non osò più fissare gli occhi su quelli immobili e bianchi, che tentò inutilmente più volte di chiudere, e che sempre si riaprivano: spense la lampada, la nascose con ogni cura, fuggì rimettendo alla meglio la pietra al disopra della testa: n’era già tempo, chè il carceriere poteva star poco a venire. Questa volta il carceriere cominciò la visita da Dantès; uscendo da questo carcere, passava in quello di Faria al quale portava la colazione e la biancheria. Nulla faceva conoscere in quest’uomo che fosse al giorno dell’accidente accaduto. Egli uscì. Dantès fu preso allora da un’indicibile impazienza di saper ciò che sarebbe accaduto nel carcere del suo disgraziato amico: rientrò dunque nel passaggio sotterraneo, e giunse in tempo per sentire le esclamazioni del carceriere che chiamava soccorso. Ben presto entrarono gli altri carcerieri, dipoi s’intese quel passo pesante e regolare, comune ai soldati anche quando sono fuori servizio. Dietro i soldati giunse il Governatore. Edmondo intese il rumore del letto sul quale veniva agitato il cadavere, e la voce del governatore che ordinava di gettargli dell’acqua sul viso, e che vedendo quest’aspersione non atta a far rivivere il prigioniero, mandava a chiamare il medico. Il governatore uscì, e giunsero fino alle orecchie di Dantès alcune parole di compassione miste alla risa ed alle facezie dei carcerieri. — Andiamo, andiamo, diceva uno di questi, il pazzo è andato a raggiungere i suoi tesori; buon viaggio. — Ei non avrà, con tutti i suoi milioni, di che pagare la coperta da morto, diceva l’altro. — Oh! rispondeva un terzo, le coperte dei morti del castello d’If non costano molto. Può essere che essendo una persona di distinzione nella scienza, gli vorranno usare qualche riguardo. — Allora avrà l’onore del sacco. Edmondo ascoltava, non perdeva una parola, ma non capiva il significato dei loro detti. Ben presto le voci cessarono, e gli sembrò che i carcerieri lasciassero la camera. Ciò nonostante non osò entrarvi, potevano avervi lasciato qualcheduno a guardia del morto. A capo di un’ora circa il silenzio si animò debolmente, quindi andò crescendo: era il governatore che ritornava seguito da un medico e da diversi ufficiali. Si rinnovò un momento di silenzio; era evidente che il medico si accostava al letto ed esaminava il cadavere. Ben presto il dialogo ricominciò: il medicò analizzò il male del quale era stato vittima il prigioniero; e dichiarò che egli era morto. Domande e risposte si facevano con una noncuranza che indignò Dantès. Gli sembrava che tutti avrebbero dovuto risentire pel povero Faria una parte dell’affetto che ei gli portava. — Sono dispiacente di ciò che voi mi annunziate, disse il governatore rispondendo alla certezza manifestata dal medico, che il vecchio fosse in effetti morto; era un prigioniero docile, inoffensivo, ricreante colla sua follia e soprattutto facile a sorvegliarsi. — Oh! riprese il carceriere, si sarebbe potuto far di meno di qualunque sorveglianza. Garantisco ch’egli avrebbe potuto restar qui cinquant’anni, senza provar di fare il più piccolo tentativo di evasione. — Frattanto, riprese il governatore, non che io dubiti della vostra scienza, ma è necessario di assicurarci se il prigioniere sia in effetti morto. — Si formò un nuovo silenzio, e Dantès sempre in ascolto suppose che il medico esaminasse e palpasse una seconda volta il cadavere. — Voi potete restare tranquillo, disse allora il medico: è morto, e me ne rendo io garante. — Sapete, signore, riprese il governatore insistendo, che noi non ci contentiamo, in casi simili, di un semplice esame; perciò ad onta di tutte le apparenze vi prego di adempiere alle formalità prescritte dalla legge. — Che si faccia arroventare un ferro, disse il medico, ma in verità, questa è una cautela inutile. — Quest’ordine fece fremere Dantès. S’intesero dei passi frettolosi, il cigolio della porta, l’andare e venire interno, e di lì a poco un carceriere rientrò dicendo: — Ecco il braciere con un ferro. Si rinnovò il silenzio per un momento, poi s’intese il frizzio delle carni che bruciavano e di cui l’odore nauseabondo penetrò per fino dietro il nascondiglio di Dantès che lo sentì con orrore. A quest’odore di carne carbonizzata, il sudore scaturì dalla fronte del giovine che per un momento credette di svenire. — Voi vedete, disse il medico, che egli è veramente morto; questa bruciatura al tallone è decisiva, il povero pazzo è guarito dalla follia e liberato dalla prigionia. — Non si chiamava Faria? domandò uno degli ufficiali che accompagnavano il governatore. — Sì, rispose questi: egli pretendeva che questo fosse un nome antico, era però molto dotto e molto ragionevole su tutti i punti che non avevano relazione col suo tesoro; ma su questo, bisogna convenire, egli era intrattabile. — È l’affezione che noi chiamiamo monomania, disse il medico. — Voi non avete mai avuto nulla da lamentarvi di lui? domandò il governatore al carceriere. — Mai, sig. governatore, rispose questi, altre volte anzi mi divertiva molto raccontandomi delle storie; e un giorno perfino che mia moglie era malata, mi scrisse una ricetta che la guarì. — Ah! ah, fece il medico, ignorava di aver che fare con un collega; spero, signor governatore, aggiunse ridendo, che per tal riguardo lo tratterete con considerazione. — Sì, sì, siate tranquillo egli sarà decentemente sepolto nel sacco più nuovo che si potrà ritrovare; siete contento? — Dobbiamo noi adempiere quest’ultima formalità alla vostra presenza, sig. governatore? domandò un carceriere. — Senza dubbio; ma sbrigatevi; non posso restare in questa camera tutta la giornata. Si fece sentire un nuovo andare e venire: un momento dopo il rumore dello stendere di una tela giunse alle orecchie di Dantès, il letto s’incurvò sulle traverse, un andar grave come di chi porta un peso, gravitò sulla pietra sotto di cui stava Dantès, quindi il letto tornò a piegarsi sotto il peso che gli si rendeva. — A questa sera, disse il governatore. — La messa vi sarà? domandò un ufficiale. — Impossibile, disse il governatore. Il cappellano del castello venne ieri a chiedermi un permesso di otto giorni per fare un piccolo viaggio a Thiers. Io gli ho garantito i miei prigionieri durante la sua assenza; il povero Faria non doveva avere tanta fretta, se voleva il suo _requiem_. Intanto si compieva l’operazione per la sepoltura. — A questa sera, disse il governatore, quando fu finita. — A che ora? domandò il carceriere — Fra le dieci e le undici. — Si deve vegliare il morto? — E perchè fare? si chiuda la prigione come se fosse vivo e nient’altro. Allora i passi si allontanarono, le voci gradatamente cessarono, si fece sentire il cigolio dei cardini della porta che si chiudeva e lo stridere della serratura. Un silenzio più tetro di quello della solitudine, il silenzio della morte, si sparse per tutto, perfino nell’anima agghiacciata del giovine. Allora egli sollevò lentamente la pietra colla testa, e gettò uno sguardo investigatore nella camera: questa era vuota. Dantès allora uscì dal suo nascondiglio. XX. — IL CIMITERO DEL CASTELLO D’IF. Sul letto, steso nel senso della sua lunghezza e debolmente rischiarato da un giorno nebbioso che penetrava attraverso la finestra, si vedeva un sacco di tela grossissima sotto le larghe pieghe del quale si distingueva confusamente una forma lunga ed irrigidita: questo era l’involto funebre di Faria, quell’involto che costava sì poco al dire degli stessi carcerieri. Così tutto era finito: una materiale separazione esisteva di già fra Dantès ed il vecchio suo amico; egli non poteva vederne più gli occhi rimasti aperti per guardare al di là della morte, non poteva più stringere quella mano industriosa che aveva sollevato il velo che per lui copriva tante cose nascoste. Faria, l’utile, il buon compagno al quale si era avvezzato con tanto interessamento non esisteva più che nella sua memoria! Allora si assise ai piedi di questo letto terribile, e s’immerse in una cupa ed amara melanconia. Solo! era ritornato solo! era ricaduto nel silenzio, si trovava in faccia al niente! solo, non più la voce dell’unico essere umano che ancora lo teneva attaccato alla terra! non era meglio morire anche col rischio di passare per la lugubre porta dei patimenti? L’idea di un suicidio, scacciata dal suo amico, allontanata dalla presenza di lui, ritornava allora a drizzarsi come un fantasma vicino al letto di Faria. — Se io potessi morire, diss’egli, andrei ove è andato egli. Ma come si fa a morire? è ben facile, riprese ridendo. Io resto qui, mi getto sul primo che entra, lo strangolo e sarò ghigliottinato. Ma siccome accade che tanto nei grandi dolori, quanto nelle grandi tempeste l’abisso si trova fra le due sommità dei flutti, così Dantès rinculò all’idea di questa morte infamante, e precipitosamente discese da questa disperazione ad una sete ardente di vita e di libertà. — Morire! oh! no! gridò egli, a che varrebbe di aver vissuto tanto, di aver tanto sofferto per morire così? Morire era bene, quando avevo presa la risoluzione l’altra volta, sono diversi anni; ma ora ciò sarebbe veramente un aggiunger troppo alla mia miserabile situazione. No, io voglio vivere; no, voglio lottare fino all’ultimo momento, no, voglio riconquistare quella felicità che mi fu tolta. Prima di morire, dimenticava che io ho i miei carnefici da punire, e forse anche qualche amico da ricompensare; ma ora sarò dimenticato qui, e non uscirò dal mio carcere che nello stesso modo di Faria. — A questa parola Edmondo restò immobile, cogli occhi fissi, come colui che viene colpito da una repentina idea, ma però da un’idea che spaventa. Ad un tratto si alzò, portò la mano alla fronte come se avesse le vertigini, fece due o tre giri intorno alla camera, e ritornò a fermarsi davanti al letto. — Oh! oh! chi m’invia questo pensiero? sei tu, o mio Dio? dappoichè i soli morti escono liberamente di qui, prendiamo il posto dei morti... e senza aspettare il tempo di pentirsi di questa risoluzione, e senza pensarvi più oltre per timore di distruggerla, si chinò sullo schifoso sacco, l’aprì col coltello fatto da Faria, ne tolse il cadavere, il trascinò nel proprio carcere, lo depose sul suo letto, gli mise in testa quella tela di cui egli stesso soleva coprirsi, baciò un’ultima volta quella fronte agghiacciata, tentò nuovamente di chiuderne gli occhi ribelli, che continuarono a rimanere aperti, ne volse la testa dalla parte del muro, affinchè il carceriere, quando gli portava il cibo della sera, avesse creduto che dormisse (il che non di rado accadeva) rientrò nel sotterraneo, tirò a sè il letto contro la muraglia, giunse nell’altra camera, prese dal nascondiglio l’ago e il filo, si tolse i cenci affinchè sotto la tela si sentissero le carni nude, si adattò dentro il sacco, si pose nella stessa situazione in cui era il cadavere, e richiuse il sacco con una cucitura per di dentro. Si sarebbe potuto sentire il battito del cuore, se per disgrazia in quel momento fosse entrato qualcuno. Dantès avrebbe potuto aspettare la visita della sera: ma egli temeva che il governatore cambiasse di risoluzione, e che si trasportasse il cadavere qualche tempo prima. Allora la sua ultima speranza sarebbe stata perduta. In ogni evento il suo disegno era stabilito, ecco ciò ch’egli contava di fare. Se durante il tragitto i becchini riconoscevano che portavano un vivo invece di un morto, Dantès non lasciava loro il tempo di verificarlo; con un vigoroso colpo di coltello apriva il sacco di alto in basso, approfittava del loro terrore e fuggiva; se avessero voluto fermarlo si sarebbe servito del coltello. Se lo conducevano fino al cimitero e lo depositavano in una fossa, vi si lasciava coprir di terra; quindi, venuta la notte, appena i becchini avessero voltato le spalle, si apriva un passaggio attraverso la terra molle, e fuggiva. Sperava che il peso della terra non sarebbe stato tanto grande da non poterla sollevare. Se poi s’ingannava, se al contrario questo peso era tanto forte da morirne soffocato, tanto meglio: tutto era finito! Dantès non aveva mangiato dal giorno innanzi: nel mattino non avea pensato alla fame, e non vi pensava neppure allora. La sua posizione era troppo precaria per lasciargli l’agio di fermare il pensiero sopra altre idee. Il primo pericolo che correva Dantès, era che il carceriere quando gli portava il vitto alle sette si fosse accorto della sostituzione fatta. Fortunatamente, più di venti volte, tanto per misantropia che per stanchezza, Dantès aveva ricevuto il carceriere, addormentato, e in questi casi, d’ordinario, quest’uomo deponeva il pane e la minestra sulla tavola, e partiva senza dir parola. Ma questa volta il carceriere poteva derogare dalle sue abitudini di mutismo, interrogare Dantès, e vedendo che non gli rispondeva, accostarsi al letto e scoprir tutto. Allorchè si avvicinarono le sette, cominciarono le angosce di Dantès. Si sforzava di comprimere colla mano il petto per moderare i palpiti del cuore, mentre che, con l’altra si asciugava il sudore della fronte che scorreva lungo le tempie, dei brividi ne agitavano tutto il corpo, e a quando a quando gli stringevano il cuore come fra una morsa ghiacciata. Allora egli si credeva sul punto di morire. Le ore passarono senza alcun movimento nel castello, e Dantès si persuase di aver sfuggito il primo pericolo, il che eragli di buon augurio. Finalmente verso l’ora stabilita dal governatore cominciarono a sentirsi dei passi su per la scala, Edmondo capì che era giunto il momento. Si armò di tutto il suo coraggio, trattenne il respiro, e sarebbe stato pienamente contento se avesse potuto trattenere egualmente le pulsazioni precipitate delle arterie. Fu fatto alto alla porta; il passo era doppio, Dantès dubitò che fossero i due becchini che venivano a prenderlo. Questo sospetto si cambiò in certezza, quando intese il rumore che fecero nel deporre il cataletto. La porta s’aprì, una luce velata giunse fino agli occhi di Dantès; attraverso la tela che lo copriva, vide due ombre che s’avvicinavano al letto. Una terza restava alla porta tenendo in mano un lanternone. I due uomini che si erano accostati al letto afferrarono il sacco dalle due estremità. — Per bacco! per essere un vecchio magro, è ben pesante! disse quegli che lo sollevava dalla testa. — Si dice, che ogni anno lo ossa diventino più pesanti mezza libbra, disse l’altro che lo prendeva pei piedi. — Hai tu fatto bene il nodo? domandò il primo. — Sarebbe da bestia il caricarci di un peso inutile, rispose il secondo, lo farò quando siamo giù. — Hai ragione, andiamo dunque. — Perchè questo nodo? domando Dantès a sè stesso. Il preteso morto fu trasportato dal letto alla bara. Edmondo s’intirizziva per meglio rappresentare la parte di defunto. Fu posto sul cataletto, ed il corteggio, rischiarato dall’uomo che portava il lanternone, e che camminava avanti, salì la scala. D’un subito fu circondato dall’aria fresca ed aperta della notte. Dantès riconobbe il maestrale. Questa sensazione così momentanea fu per lui ripiena di delizia ad un tempo e d’angoscia. I portatori fecero una ventina di passi, poi si fermarono e deposero al suolo la bara. Uno di essi si allontanò, e Dantès sentì che gli stivali ripercuotevano sulle pietre. — Dove sono adesso? chiese Dantès a sè stesso. — Sai tu che non è leggiero niente affatto? disse quello che era vicino a Dantès sedendosi sull’orlo del cataletto. Il primo sentimento di Edmondo fu quello di allontanarsi da lui; fortunatamente si trattenne. — Fammi luce, animale, disse quello dei due portatori che si era allontanato, non troverò ciò che cerco. — L’uomo dal lanternone obbedì, quantunque l’ingiunzione fosse stata fatta come vedemmo poco convenientemente. — E che cosa cerca? si domandò nuovamente Dantès; una pala senza dubbio. Una esclamazione di soddisfazione indicò che il becchino aveva trovato ciò che cercava. — Finalmente, disse l’altro, ce n’ha voluto. — Sì, rispose il primo, ma non avrà perduto niente ad aspettare. — A queste parole si ravvicinò ad Edmondo che intese depositare vicino a sè un corpo pesante e sonoro: nel medesimo punto una corda gli circondò i piedi con una viva o dolorosa compressione. — Ebbene! è fatto il nodo? domandò quel becchino che era rimasto inoperoso. — Ed è fatto bene, disse l’altro, me ne rendo garante. — In questo caso, avanti. — E sollevato il cataletto si rimisero in cammino. Fecero una cinquantina di passi circa, poi si fermarono per aprire una porta, quindi ripresero il moto: il rumore delle onde che s’infrangevano contro la roccia sulla quale era fabbricato il castello giungeva sempre più distintamente all’orecchio di Dantès a seconda che si avanzavano. — Cattivo tempo! disse uno dei becchini, non è una bella cosa trovarsi in mare con questa nottata. — Sì, disse l’altro, il sapiente corre gran pericolo di bagnarsi. — Ed entrambi scoppiarono in una risata. Dantès non capì bene la forza dello scherzo, ciò nonostante non gli si drizzaron meno i capelli sulla testa. — Va bene! eccoci arrivati, riprese il primo. — Più avanti, più avanti, disse l’altro; tu sai bene che l’ultimo rimase per via infranto sur uno scoglio, e che il governatore ci disse la dimane, che non eravamo buoni a nulla. — Fecero ancora altri quattro o cinque passi sempre salendo, quindi Dantès si sentì preso per la testa e per i piedi; e tutto il corpo venne barcollato. — Una! dissero i becchini; due e tre!... E nello stesso tempo Dantès si sentì lanciato in un enorme vuoto, traversando lo spazio come un uccello ferito, e cadendo sempre con uno spavento che gli agghiacciava il cuore. Quantunque tirato in basso da qualche cosa di pesante che precipitava ancor più il rapido volo, gli sembrò che questa caduta durasse un secolo. Finalmente, con un rumore spaventoso, entrò come dardo in un’acqua ghiacciata, che gli fece gettare un grido che nel medesimo punto fu soffocato dalla immersione. Dantès era stato lanciato in mare e veniva tratto al fondo da una palla da 36 legatagli ai piedi.... .... Il mare è il cimitero del castello d’If. XXI. — L’ISOLA DI TIBOULEN. Dantès, stordito, quasi soffocato, ebbe però la sicurezza d’animo di trattenere il respiro, e siccome aveva la mano dritta armata di coltello, pronta a qualunque evento, come si disse, così sventrò rapidamente il sacco, cavò il braccio, poi la testa; ma allora ad onta di tutti gli sforzi per sollevare la palla continuò a sentirsi trarre in basso; si curvò, cercò la corda che gli legava le gambe, e con uno sforzo supremo la troncò appunto nel momento in cui stava per affogare. Allora, dando un vigoroso colpo di piede, risalì libero alla superficie dell’acqua, mentre che la palla trascinava nel più profondo del mare quel grossolano tessuto che per poco non era divenuto il suo involto sepolcrale. Non prese che il tempo di respirare, e s’immerse una seconda volta, perchè la prima cautela che doveva prendere, era quella di evitare l’attenzione delle guardie. Quando ricomparve una seconda volta, era già lontano una cinquantina di passi dal luogo della sua caduta: vide al di sopra della testa un cielo nero e tempestoso, alla superficie del quale il vento faceva scorrere rapidamente le nubi, scoprendo ad intervalli qualche piccolo punto azzurro illuminato da una stella: a sè d’innanzi si presentava la tetra e muggente pianura delle onde, che cominciavano ad accavallarsi, come segno di vicina tempesta, mentre che al di dietro, più nero del mare, e del cielo, s’inalzava, come un fantasma minaccioso, il gigante di granito di cui la tetra punta sembrava un braccio steso per riafferrar la sua preda. Sullo scoglio più alto vide un lanternone che rischiarava due ombre. Gli sembrava che queste fossero inchinate sul mare con inquietezza. Infatto questi due strani becchini dovevano avere inteso il grido ch’egli aveva emesso nel traversare lo spazio. Dantès s’immerse di nuovo, e fece un lungo tragitto sott’acqua. Questa manovra gli era stata altra volta familiare, e nel seno del Faro gli attirava d’ordinario molti ammiratori che lo avevano soventi volte proclamato il più abile nuotatore di Marsiglia. Allora ritornò alla superficie del mare, il lanternone era disparso. Gli abbisognava orizzontarsi. Fra le isole che circondano il castello d’If le più vicine sono Ratonneau, e Pomègue; ma esse sono abitate, al pari della piccola isola di Daume. La più sicura era dunque quella di Tiboulen o di Lemaire, distanti una lega dal castello d’If. Non per questo Dantès si astenne da risolversi a voler raggiungere una di queste due. Ma come ritrovarle in mezzo ad una notte, che s’imbruniva sempre più a sè d’attorno? In questo momento vide brillare come una stella il faro di Planier. Dirigendosi in linea retta ad esso lasciava l’isola di Tiboulen un po’ a sinistra; tenendosi dunque verso quella parte doveva incontrare cammino facendo questa isola. Ma come abbiam già detto, vi era una lega almeno dal castello d’If all’isola. Faria, nella prigione, aveva spesse volte ripetuto al giovine, vedendolo afflitto ed ozioso: «Dantès, non vi lasciate andare a questa mollezza, voi vi annegherete, se tenterete di fuggire poiché le vostre forze non saranno state in esercizio.» Sotto l’onda pesante ed amara, queste parole erano venute a risuonare alle orecchie di Dantès; egli si era sollecitato allora di risalir e di fendere le onde per vedere, se avesse davvero perdute le forze; e si accorse con gioia che la sua obbligata inazione nulla gli aveva tolto del suo vigore e della sua agilità, convincendosi che era ancor padrone di quell’elemento di cui si era fatto giuoco fin dall’infanzia. D’altra parte la paura, questa rapida persecutrice, raddoppiava il vigore di Dantès. Egli ascoltava, sospeso sulla cima dei flutti, se qualche rumore gli giungesse all’orecchio. Ogni volta che s’innalzava all’apice di un’onda il suo sguardo rapido percorreva il visibile orizzonte, e tentava di fendere la spessezza dell’oscurità. Ogni onda più alta delle altre gli pareva una barca che lo perseguitasse; e allora raddoppiava di sforzi, che sebben lo allontanavano, ripetuti più e più volte dovevano ben presto estenuarne le forze. Egli ciò nonostante nuotava, e già il terribile castello si perdeva nel vapore notturno. Non lo distingueva più, ma lo sentiva. Passò un’ora nella quale Dantès esaltato dal sentimento di libertà che lo dominava, continuò a fendere i flutti nella direzione che aveva stabilito. — Vediamo, diceva tra sè, ecco ben presto un’ora che nuoto; ma siccome il vento mi è contrario, così ho dovuto perdere un quarto della mia rapidità. Frattanto, ammenocchè non abbia sbagliata la linea, ora non devo esser molto lungi da Tiboulen... ma se mi fossi sbagliato! — Un fremito invase il corpo del nuotatore. Egli tentò di fare per un poco il morto, affine di riposarsi; ma il mare diveniva sempre più forte, e così ben presto anche questo mezzo di sollievo, sul quale egli aveva fidato, gli addiveniva impossibile. — Ebbene! diss’egli, sia; nuoterò sino alla fine, fin che le braccia si stanchino, fin che le gambe s’irrigidiscano, finchè i granchi invadano il mio corpo, ed allora calerò a fondo. Si rimise a nuotare colla forza e l’impulsione del disperato. D’improvviso gli sembrò che il cielo, di già tetro, si oscurasse ancor più, che una nube fitta, pesante, compatta, si abbassasse verso di lui; nel medesimo punto sentì un forte dolore al ginocchio. L’immaginazione, colla sua incalcolabile prestezza gli disse allora, che quello era l’urto di una palla, e che immediatamente avrebbe sentito l’esplosione del colpo di fucile, ma questa non rintronò. Dantès allungò la mano, e sentì una resistenza. Ritirò l’altra gamba a sè, e toccò la terra: vide allora che cosa era l’oggetto che creduto aveva una nube. A venti passi da lui s’inalzava un mucchio di scogli a forme bizzarre che si sarebbero presi per immenso spazio di fiamme pietrificate al momento della loro più ardente combustione. Era l’isola di Tiboulen. Dantès si rialzò, fece qualche passo innanzi, e si stese, ringraziando Dio, su quelle punte di granito che gli sembrarono in quell’ora più morbide del più soffice letto. Quindi ad onta del vento, della tempesta, e della pioggia che cominciava a cadere, stanco e affaticato com’era, si addormentò di quel delizioso sonno dell’uomo, il capo del quale diventa inerte, ma di cui l’anima veglia nella conoscenza di una felicità inattesa. Di là ad un’ora, Edmondo si risvegliò all’immenso fragore di un tuono; la tempesta si era scatenata nello spazio, e batteva l’aere col suo volo romoreggiante. A quando a quando un lampo discendeva dal cielo, come un serpente di fuoco, ed illuminava i flutti che si accavalcavano gli uni sugli altri come i vortici di un immenso caos. Dantès, coll’occhio di esperto marinaio, non si era ingannato: aveva approdato alla prima delle due isole, quella di Tiboulen; la sapeva nuda, scoperta e senza offerire il più piccolo asilo. Ma quando la tempesta sarebbe cessata, egli si rimetterebbe in mare per raggiungere nuotando l’isola di Lemaire, egualmente arida, ma più larga e per conseguenza più ospitaliera. Una roccia che si trovava alquanto sporgente, offrì un momentaneo asilo a Dantès; egli vi si rifugiò, e quasi nel medesimo punto la tempesta scoppiò con tutto il suo furore. Edmondo sentiva tremare la roccia sotto la quale si era messo al coperto, e i flutti che s’infrangevano contro la base della gigantesca piramide giungevano a spruzzarlo. Per quanto fosse al sicuro, era in mezzo a questo profondo fracasso, ed a questi folgoranti bagliori, preso da una specie di vertigine. Gli sembrava che l’isola tremasse sotto di lui, e da un momento all’altro andasse, come un immenso vascello all’ancora, a spezzare il suo fondo, o ad essere inghiottito nell’immensa voragine. Si ricordò allora che non aveva mangiato da ventiquattr’ore: aveva fame e sete! Stese le mani e la testa, e bevè l’acqua della tempesta che colava a rivi dallo scoglio. Quando si rialzò, un baleno che sembrava squarciasse il cielo fino al trono abbagliante di Dio, illuminò lo spazio. Alla luce di questo, Dantès, fra l’isola di Lemaire e il capo Crosoille, a un quarto di lega, vide a guisa di uno spettro scivolare dall’alto di un flutto al fondo di un abisso, una barca pescareccia trasportata ad un tempo dall’uragano, e da l’onda. Dopo un minuto secondo comparve il fantasma sulla cima di un altro flutto avvicinandosi con una celerità spaventevole. Dantès volle gridare, cercò qualche straccio di tela per agitarlo nell’aria e fare loro conoscere che essi stavano per perdersi: ma lo vedevano da sè stessi. Al chiarore di un altro lampo il giovine vide quattro uomini aggrappati all’albero ed alle funi; un quinto si teneva attaccato al manolaio del timone già rotto. Questi uomini che egli vedeva, il videro del pari poichè grida disperate, e trasportate dalla fischiante bufera gli giunsero all’orecchio. Al di sopra dell’albero troncato come un ramoscello, si agitavano a colpi ripetuti e frequenti gli avanzi di una vela in pezzi. D’improvviso le funi che ancora la trattenevano si ruppero, e disparve trasportata sotto la cupa profondità del cielo a guisa di quei grandi uccelli bianchi che compariscono sotto le nere nubi. Nello stesso tempo uno scroscio orribile s’intese, e le grida di agonia giunsero fino a Dantès. Aggrappato allo scoglio di dove guardava l’abisso, un nuovo lampo gli mostrò il piccolo bastimento in pezzi e fra gli avanzi delle teste col viso disperato, delle braccia stese verso il cielo. Quindi tutto ritornò nella notte. Il terribile spettacolo durò quanto un lampo. Dantès si precipitò sul pendio sdrucciolevole delle rocce col pericolo di rotolar nel mare. Guardò, ascoltò, ma non intese, nè vide più nulla. Non più grida, non più sforzi umani, la sola tempesta, questo grande spettacolo della natura, continuava a ruggire coi venti, a spumeggiare coi flutti. Un poco per volta il vento si acquetò, il cielo spinse verso occidente i grossi nuvoloni grigi, per così dire, slacciati dall’uragano; ricomparvero le stelle più brillanti che mai, ben presto verso l’est, una lunga striscia rossastra disegnò sull’orizzonte delle ondulazioni di un azzurro nero, queste si commossero, una subita luce corse sulle loro cime, e ne cangiò le vette spumeggianti in criniere dorate. Era giorno. Dantès restò immobile e muto davanti a così grande spettacolo, come se fosse la prima volta che lo vedeva; difatto egli lo aveva dimenticato pel lungo tempo trascorso nel castello d’If. Si rivolse alla fortezza, interrogando, con un lungo sguardo circolare, la terra ad un tempo ed il mare. Il tetro fabbricato usciva dal seno delle onde con quella imponente maestà propria delle cose immobili che sembrano comandare insieme e vigilare. Potevano essere le cinque del mattino; il mare continuava a calmarsi. Fra due o tre ore, rifletteva Edmondo, il carceriere rientrerà nella mia camera, troverà il cadavere del povero mio amico, lo riconoscerà, mi cercherà invano, griderà all’arme; allora scopriranno il foro ed il passaggio sotterraneo; verranno interrogati quegli che mi slanciarono in mare, che devono avere inteso il grido che gettai. Subito tutte le barche riempite di soldati armati, correranno dietro il disgraziato fuggitivo che sapran bene non potere esser lontano, il cannone avvertirà tutta la costa esser proibito di dare asilo ad un uomo che verrà incontrato errante, nudo, affamato. Le spie e i birri di Marsiglia saranno avvertiti, e percorreranno la costa, nel mentre che il governatore del castello d’If farà percorrere il mare. Allora perseguitato nell’acqua, circondato sulla terra che accadrà di me? ho fame, ho freddo, ho perfino abbandonato il coltello salvatore che mi era d’impaccio per poter nuotare: sono all’arbitrio del primo che vorrà guadagnare 20 fr. per consegnarmi; non ho più nè forza, nè idee, nè risoluzione. Oh! mio Dio! mio Dio! voi sapete se ho sofferto, e se voi potete far più per me di quello che non ho potuto far io stesso! Nel momento in cui Edmondo, in una specie di delirio causato dallo spossamento delle forze, e dal vuoto del cervello, ansiosamente rivolto verso il castello d’If pronunciava quest’ardente preghiera, vide comparir sulla punta dell’isola di Pomègue, spiegando la vela latina un piccolo bastimento, che soltanto l’occhio di un marinaro poteva discernere essere una tartana genovese, sulla linea ancora mezz’oscura del mare. Essa veniva dal porto di Marsiglia e guadagnava il largo cacciando innanzi all’acuta prua una scintillante schiuma che apriva una strada più facile ai suoi arrotonditi fianchi. — Oh! gridò Edmondo, dire che in mezz’ora potrei raggiungere quel naviglio se non temessi di essere interrogato, riconosciuto per un fuggitivo e ricondotto a Marsiglia! che fare? che dire? qual favola inventare da cui eglino potessero rimanere ingannati? quei marinai là sono tutti contrabbandieri, sono semi-pirati, che colla scusa di fare il cabotaggio corseggiano le coste; essi preferiranno vendermi piuttosto che fare una sterile e buona azione. Aspettiamo... ma l’aspettare è impossibile, morrò di fame fra qualche ora, la poca forza che mi rimane sarà svanita, d’altra parte l’ora della visita si avvicina, l’allarme non è ancor sparso, forse non dubiteranno, posso farmi credere uno dei marinari di questo piccolo legno, che si è infranto la scorsa notte; questa favola non manca di verisimiglianza, e niuno tornerà a contraddirmi perchè son tutti annegati; andiamo. Dicendo queste parole, Dantès volse lo sguardo nella direzione ove si era rotto il naviglio, e rabbrividì. Sulla cresta di uno scoglio era rimasto attaccato il frigio berretto di uno dei naufragati, e vicino a quello fluttuavano gli avanzi della carena, frantumi inerti che il mare batteva e ribatteva contro la base dell’isola cui ripercotevano come impotenti arieti. In un punto la risoluzione di Dantès fu presa; si rimise in mare, nuotò verso il berretto, afferrò un avanzo di trave, e si diresse per tagliar la linea che doveva percorrere il bastimento. — Ora son salvo, mormorò egli. Questa convinzione gli rese le forze. Ben presto s’accorse che la tartana, avendo il vento quasi per diritto, correva di bordo fra il castello d’If e la torre di Planier. Dantès temè per poco che invece di costeggiare, il piccolo bastimento non guadagnasse il largo, come avrebbe dovuto fare, se la sua destinazione fosse stata per la Corsica o per la Sardegna, ma secondo il modo con cui manovrava, il nuotatore riconobbe ben presto che il naviglio come è d’uso di chi fa vela per l’Italia, cercava passare fra l’isola di Jaros, e quella di Calaseraigne. Frattanto il naviglio ed il nuotatore si avvicinavano insensibilmente l’uno all’altro; anzi in una bordata il piccolo bastimento venne ad un quarto di lega circa verso Dantès. Egli si sollevò allora sulle onde agitando il berretto in segno di disgrazia, ma nessuno del bastimento lo vide, che anzi questo girò di bordo, e ricominciò una nuova bordata. Dantès pensò di chiamare; ma misurando coll’occhio la distanza, capì che la voce non poteva giungere al naviglio, trasportata e coperta come era non solo dalla brezza del mare, ma anche dal rumore dell’onde. Allora si consolò della cautela di aver preso quel trave. Indebolito come era forse non avrebbe potuto sostenersi sul mare fino a raggiunger la tartana, e sicuramente, come era possibile, se la tartana passava senza vederlo, non avrebbe potuto riguadagnare la costa. Dantès quantunque fosse quasi certo della direzione che seguiva il bastimento, lo accompagnava con lo sguardo ansioso fino al momento in cui gli parve che ritornasse a lui. Allora si avanzò ad incontrarlo; ma prima che si fossero raggiunti, il bastimento ritornò a girar di bordo. Tosto Dantès, con un estremo sforzo, si alzò quasi in piedi sull’acqua, agitando il berretto, e mandando uno di quei gridi lamentevoli che si emettono dai marinai negli estremi momenti, e che sembrano il lamento di qualche genio marittimo. Questa volta fu veduto ed inteso. La tartana interruppe la manovra, e volse capo alla sua parte; nel medesimo tempo vide che si preparava a mettere una scialuppa in mare: un momento dopo la scialuppa con due uomini, si dirigeva alla sua volta battendo il mare a quattro remi. Dantès allora lasciò sfuggirsi il trave di cui credeva non aver più bisogno, e nuotò vigorosamente per risparmiare la metà di cammino a coloro che venivano a lui. Il nuotatore però aveva calcolato su forze che non aveva; capì allora di quanta utilità gli sarebbe ancora stato quell’avanzo di legno che già galleggiava a cento passi da lui lontano. Le braccia incominciavano ad irrigidirsi, le gambe avevano perduto la loro flessibilità, i movimenti divenivano forzati e lenti, il petto era anelante. Gettò un secondo grido, i due rematori raddoppiarono d’energia e l’un di essi gli gridò in italiano: «coraggio!» La parola gli giunse al momento in cui un’onda, che non aveva avuto la forza di sormontare, passava al di sopra della testa e lo copriva di schiuma. Egli comparve battendo il mare coi movimenti ineguali e disperati di un uomo che sta per annegare, mandò un terzo grido, e si sentì approfondire nel mare, come se avesse avuto ancora ai piedi la palla mortale. L’acqua passò al di sopra della testa e attraverso di quella vide il cielo livido con delle macchie nere. Uno sforzo violento lo ricondusse a galla. Gli sembrò allora di esser preso per i capelli, più non vide cosa alcuna, non intese più nulla, era svenuto. Allorchè riaprì gli occhi, Dantès si ritrovò sul ponte della tartana che continuava il suo cammino; il primo sguardo fu di vedere qual direzione teneva: essa continuava ad allontanarsi dal castello d’If. Dantès era talmente spossato, che fu preso per un sospiro di dolore l’esclamazione di gioia che fece. Come si disse, egli era steso sul ponte: un marinaro fregavagli le membra con una coperta di lana, un altro che riconobbe per quello che avevagli già detto coraggio, gl’introduceva in bocca l’orifizio di una zucca marina che faceva le veci di fiasco; un terzo, vecchio marinaro che era ad un tempo pilota e padrone, lo guardava con un sentimento di pietà egoista, che provano in generale gli uomini per una disgrazia che essi hanno sfuggita, e che può la dimane minacciarli di nuovo! Qualche goccia di rum che conteneva la zucca, rianimarono il cuore indebolito del giovine, mentre che le frizioni che il marinaro continuava a fare con la lana, riconducevano l’elasticità alle membra di lui. — Chi siete voi? domandò in cattivo francese il padrone. — Sono, rispose Dantès, in cattivo italiano, un marinaro Maltese; noi venivamo da Siracusa carichi di vino e di tele. La tempesta di questa notte ci ha sorpresi al capo Morgiou, e siamo andati ad infrangerci contro quelle rocce che vedete laggiù. — Di dove venite? — Da quelle rocce, dove ho avuto la fortuna di aggrapparmi, mentre che il nostro povero capitano vi batteva la testa. I nostri tre altri compagni si sono annegati: credo di essere il solo rimasto vivo, ho scoperto il vostro naviglio, e temendo di dovere aspettare lungamente su quell’isola deserta, mi sono arrischiato sur un frammento del nostro bastimento per tentare di raggiungervi. Vi ringrazio, continuò Dantès, voi mi avete salvata la vita; io era perduto quando uno dei vostri marinari mi ha afferrato pei capelli. — Sono io, disse un marinaro con una figura franca ed aperta, ed un viso circondato da lunghe barbette nere, n’era ben tempo, chè voi calavate a fondo. — Sì, disse Dantès, stendendogli la mano, sì, amico mio, vi ringrazio una seconda volta. — In fede mia! disse il marinaro, ho quasi esitato; con quella barba lunga sei pollici, e quei capelli lunghi un piede, avevate piuttosto l’aspetto di un brigante che di un galantuomo. — Dantès si ricordò allora che dal momento che era entrato nel castello d’If, non si era più tagliali i capelli, e non si era fatta più la barba. — Sì, diss’egli, è un voto che aveva fatto alla Madonna di Piedigrotta, in un momento di pericolo, di stare cioè dieci anni senza tagliarmi nè barba, nè capelli. Oggi si compie l’espiazione del mio voto, e poco ha mancato che non mi anneghi nell’anniversario. — Ma ora che faremo di voi? domandò il padrone. — Ahimè! rispose Dantès, ciò che vorrete. La nostra filuga si è perduta, il capitano è morto. Come vedete, sono sfuggito alla medesima sorte, ma assolutamente nudo: fortunatamente sono abbastanza buon marinaro. Gettatemi nel primo porto in cui prenderete terra: ed io ritroverò sempre impiego su qualche bastimento mercantile. — Conoscete voi il Mediterraneo? — Vi navigo fino dalla mia infanzia. — Sapete voi ove sono i buoni ancoraggi? — Vi sono pochi porti, anche dei più difficili, dai quali io non possa entrare ed uscire ad occhi bendati. — Ebbene! dite adunque padrone, domandò il marinaro che aveva gridato coraggio a Dantès, se il camerata dice il vero, chi impedisce che resti con noi? — Sì, se egli dice il vero, rispose il padrone con aria incredula, ma nello stato in cui si trova questo povero diavolo ci promette molto, e ci mantiene poco. — Io manterrò più di quel che ho promesso, disse Dantès. — Oh! oh! fece il padrone ridendo, vedremo. — Quando vorrete, riprese Dantès, alzandosi; dove andate? — A Livorno. — Ebbene! allora, invece di correre bordate che vi fanno perdere un tempo prezioso, perchè non serrate semplicemente il vento da più presso? — Perchè allora andremmo a dar dritto sull’isola di Riou. — Vi passerete a più di venti braccia di distanza. — Prendete adunque il timone, disse il padrone, e giudicheremo del vostro sapere. Il giovine andò a sedersi al timone, si assicurò con una leggiera pressione che il bastimento era obbediente, e vedendo che, senza essere di prima finezza, non si rifiutava, gridò: — Alle braccia e alle boline. — I quattro marinari che formavano l’equipaggio corsero al loro posto, nel mentre che il padrone li guardava fare. — Tirate, continuò Dantès. — I marinari obbedirono con molta precisione. — Ora annodate, bene. — Quest’ordine fu eseguito come i due primi, e il piccolo bastimento, invece di continuare a correre bordate, cominciò a dirigersi verso l’isola di Riou, presso la quale passò, come aveva predetto Dantès, lasciandola a dritta per una ventina di braccia. — Bravo! disse il padrone. — Bravo! ripeterono i marinari. E tutti guardarono meravigliati quest’uomo il cui sguardo aveva ripresa un’intelligenza e il corpo un vigore, che erano ben lontani dal supporre in lui. — Vedete, disse Dantès lasciando il timone, che potrò esservi di qualche utilità, almeno durante la traversata; se giunti a Livorno non mi volete più, mi lascerete, e su i primi mesi di soldo vi rimborserò il mio nutrimento fin là, e gli abiti che vi piacerà prestarmi. — Sta bene! sta bene! disse il padrone, potremo accomodarci, se sarete ragionevole. — Un uomo vale un altr’uomo, disse Dantès; ciò che date ai camerati, lo darete a me pure, e tutto è stabilito. — Non è giusto, disse il marinaro che aveva salvato Dantès, perchè voi ne sapete più di noi. — Ciò non riguarda te, Jacopo, disse il padrone; ciascuno è libero d’impegnarsi per quella somma che più gli conviene. — È giusto disse Jacopo; io non faceva che una semplice osservazione. — Ebbene! tu farai molto meglio ancora prestando a questo bravo giovinotto un paio di pantaloni ed una giacca, se pure ne hai di più. — No, disse Jacopo; ma ho un pantalone ed una camicia. — Ciò è quanto mi abbisogna, disse Dantès; grazie, amico mio. — Jacopo se ne scese giù dal boccaporto, e risalì un momento dopo cogli abiti che Dantès indossò con una gioia indicibile. — Ora vi occorre altro? chiese il padrone. — Un tozzo di pane ed un altro sorso di questo eccellente rum che ho di già assaggiato, essendo gran tempo che non ho mangiato. — Infatto erano circa quarant’ore che non aveva toccato cibo. Fu portato a Dantès un po’ di pane, e Jacopo gli presentò la zucca. — Timone a basso-bordo, gridò il capitano volgendosi verso il timoniere. Dantès volse lo sguardo alla stessa parte portandosi la zucca alla bocca, ma la zucca rimase a mezz’aria. — Osserva, domandò il padrone; che cosa accade nel castello d’If? Di fatto, una piccola nube bianca, la quale aveva fermata l’attenzione di Dantès, sembrava coronare il ciglione del baluardo al sud del castello d’If. Dopo un secondo, il rumore di una lontana esplosione venne ad estinguersi a bordo della tartana. I marinari alzarono la testa guardandosi l’un l’altro. — Ma che vuol dir ciò? domandò il padrone. — Questa notte sarà evaso qualche prigioniero dal castello, disse Dantès, ed ora tirano il cannone per dare l’allarme. Il padrone fissò lo sguardo sul giovinotto, che dicendo queste parole si era portata la zucca alla bocca; ma lo vide assaporare il liquore con tanta calma e soddisfazione, che se pure ebbe un qualche sospetto, questo non fece che attraversargli lo spirito, e tosto svanì. — Ecco un rum che è diabolicamente forte, disse Dantès, asciugandosi con la manica della camicia la fronte che grondava sudore. — In ogni caso, mormorò il padrone guardandolo, tanto meglio, perchè così avrò fatto acquisto di un brav’uomo. — Sotto pretesto d’essere stanco, Dantès chiese allora di assidersi al timone. Il timoniere ben contento di essere sollevato dalle sue funzioni, consultò coll’occhio il padrone, che gli fe’ segno colla testa che poteva rimettere nelle mani del nuovo compagno la sbarra. Dantès così situato potè restare cogli occhi fissamente rivolti alla parte di Marsiglia. — Oggi quanti ne abbiamo del mese? domandò Dantès a Jacopo che era venuto a sedersi vicino a lui dopo aver perduto di vista il castello d’If. — 28 febbraio: rispose questi. — Di qual anno? domandò ancora Dantès. — Come! di qual anno?... voi domandate di qual anno? — Sì, rispose il giovine, vi domando di qual anno. — Avete dimenticato in che anno siamo? — Che volete? È stata sì grande la paura di questa notte, disse ridendo Dantès, (per cui poco ha mancato non perdessi la vita) che la mia memoria n’è rimasta interamente sconvolta: vi domando dunque di qual anno siamo noi ai 28 febbraio? — Dell’anno 1829, disse Jacopo. Erano giusto 14 anni che Dantès era stato arrestato. Egli era entrato nel castello d’If di 19 anni, e ne usciva di 33. Un doloroso sorriso passò sulle sue labbra; domandavasi che fosse avvenuto di Mercedès durante questo tempo, in cui ella lo aveva dovuto credere morto. Quindi un lampo d’ira s’accese ne’ suoi occhi pensando a quei tre uomini ai quali doveva una sì lunga e penosa carcerazione, e rinnovò contro Danglars, Fernando e Villefort quel giuramento d’implacabile vendetta che aveva già pronunciato in prigione; giuramento che non era più una vana minaccia, poichè a quell’ora, il più abile veleggiatore del Mediterraneo non avrebbe certo potuto raggiungere la piccola tartana che navigava a gonfie vele alla volta di Livorno. XXII. — I CONTRABBANDIERI. Dantès non aveva ancora passato un giorno intero a bordo, che già sapeva con chi aveva che fare. Senza essere stato alla scuola del vecchio Faria, il degno padrone della _Giovane Amelia_ (era il nome della tartana genovese) sapeva presso a poco tutte le lingue che si parlano intorno a questo gran lago, chiamato il Mediterraneo, dall’araba fino alla provenzale; perciò senza aver bisogno d’interpreti, persone talvolta noiose, tal altra indiscrete; questa conoscenza delle lingue gli offeriva grandi facilitazioni per conferire, sia coi bastimenti che incontrava in mare, sia colle piccole barche che rilevava lungo le coste, sia finalmente con quella gente senza nome, senza patria, senza stato apparente, che è sempre in gran numero sulle spiagge vicine ai porti di mare, e che vive di quei misteriosi e celati mezzi, che bisogna credere le vengano dall’alto, poichè non hanno alcun mezzo di esistenza visibile ad occhio nudo. S’indovinerà facilmente che Dantès era a bordo di un bastimento di contrabbandieri. Per questo il padrone, sulle prime, lo aveva ricevuto a bordo con una specie di diffidenza, egli era molto conosciuto da tutti i doganieri della costa, e siccome v’era fra lui e questi signori un perfetto accordo di furberie più destre le une delle altre, così aveva per un momento pensato che Dantès non fosse che un emissario della signora gabella, la quale impiegasse questo ingegnoso mezzo per scoprire qualcuno dei segreti del mestiere; ma il modo brillante con cui Dantès si era tratto d’impaccio nella prova di dirigere il cammino più rettamente, l’aveva del tutto convinto; in seguito poi quando aveva veduto quella nube bianca che ondeggiava qual pennacchio sul bastione del castello d’If, ed aveva inteso la lontana esplosione, ebbe per un momento l’idea d’aver ricevuto a bordo colui al quale, come per l’entrata dei re in una città, viene accordato l’onore dello sparo del cannone. Bisogna però dirlo, ciò lo avrebbe inquietato meno, di quel che se il sopraggiunto fosse appartenuto alla dogana; ma anche questa seconda supposizione era tosto svanita, come la prima, alla vista della perfetta tranquillità della sua recluta. Edmondo aveva dunque il vantaggio di conoscere ciò che era il suo padrone, mentre questi non sapeva chi egli fosse. Da qualunque lato veniva preso dal padrone, o dai camerati, egli tenne fermo, e non fece alcuna confessione dando moltissimi particolari su Napoli e su Malta, che conosceva al pari di Marsiglia, e sostenendo sempre con precisione la narrazione in modo da fare onore alla memoria. I Genovesi adunque per quanto siano accorti, si lasciarono gabbare da Edmondo, in favor del quale parlavano la sua affabilità, la sua esperienza nautica, e soprattutto la saggia sua simulazione. Forse ancora quei Genovesi eran come quelle persone di mondo che non sanno se non quel che devono sapere, e non credono mai che quello che loro importa di credere. In questa reciproca situazione giunsero a Livorno. Edmondo doveva tentare ivi una prima prova, ed era di sapere s’egli riconoscerebbe sè stesso dopo 14 anni che non si era veduto: aveva conservata un’idea abbastanza precisa di ciò che era da giovinotto, voleva vedere ciò che era divenuto da uomo. Agli occhi dei suoi camerati, il suo voto era terminato; aveva già preso terra più di venti volte a Livorno. Conosceva un barbiere nella via Ferdinanda, entrò da quello per farsi tagliare la barba ed i capelli. Il barbiere guardò con meraviglia quest’uomo dalla barba folta e nera e dai lunghi capelli, che rassomigliava ad una delle belle teste del Tiziano. A quest’epoca non era ancora venuta la moda della barba e dei capelli così lunghi, oggi un barbiere si maraviglierebbe soltanto, se qualcuno dotato di sì grandi vantaggi naturali acconsentisse volontariamente a privarsene. Il barbiere livornese però si mise all’opera senza fare osservazioni. Allorchè l’operazione fu compita, quando Edmondo sentì il mento perfettamente raso, quando i capelli furon ridotti alla ordinaria lunghezza, domandò uno specchio e si guardò. Come si disse, egli avea allora 33 anni, ed i suoi quattordici anni di prigionia avevano apportato, per dir così, un gran cambiamento morale nella sua fisonomia. Dantès era entrato nel castello d’If con quel viso rotondo, ridente, aperto, che è proprio del giovine felice, al quale i primi anni della vita sono stati avventurosi, e che calcola sull’avvenire come sopra una naturale deduzione del passato. Tutto ciò era molto cangiato. L’ovale del volto si era di molto allungato; la bocca ridente aveva assunte quelle linee serrate che indicano la risoluzione, le sopracciglia si erano inarcate sotto una ruga unica e pensante, gli occhi si erano abituati ad una profonda tristezza, dal fondo della quale trasparivano a quando a quando i cupi baleni della misantropia e dell’odio; la carnagione priva da sì lungo tempo della luce del giorno e dei raggi del sole, aveva preso quel color pallido che fa, quando il viso è circondato da capelli e barbette nere, la bellezza aristocratica degli abitanti del Nord. La scienza profonda, che aveva acquistata, ripercuotendo per tutto il viso, lo aveva ornato di un’aureola d’intelligente sicurezza. Inoltre, quantunque molto alto, aveva acquistato quel vigore membruto di un corpo avvezzo sempre a concentrare le forze su sè stesso. All’eleganza delle forme nervose e gracili, era succeduta la solidità delle forme arrotondite e muscolari. Quanto alla voce, le preghiere, i singhiozzi, e le imprecazioni, l’avevano cambiata in modo tale, che ora si presentava di un suono di strana dolcezza, ed ora di un accento rozzo e quasi rauco. Inoltre gli occhi mantenuti costantemente o nella oscurità, o in una debole luce, avevano acquistato la facoltà di distinguere nella notte gli oggetti a guisa della iena e del lupo. Edmondo sorrise nel vedersi, era impossibile che il suo miglior amico, se pure gliene rimaneva uno, lo avesse riconosciuto; perchè non si conosceva da sè stesso. Il padrone della _Giovane Amelia_, che aveva molta premura a mantenere fra’ suoi un uomo del merito di Edmondo, gli aveva proposto qualche anticipazione sulla parte dei futuri benefici, ch’egli, Dantès, aveva accettata. Sua prima cura, uscendo dal barbiere che aveva operata in lui questa metamorfosi, fu di entrare in un magazzino, e di comprarsi un vestito completo da marinaio: vale a dire un calzone bianco, una camicia a righe, ed un berretto rosso. Così vestito, e riportando a Jacopo la camicia ed i calzoni, egli si presentò nuovamente al padrone della _Giovane Amelia_ al quale fu obbligato di ripetere la sua storia. Il padrone non voleva riconoscere in questo marinaio zerbino ed elegante, l’uomo dalla folta barba, dai capelli misti all’alga, e dal corpo bagnato d’acqua di mare, che aveva raccolto nudo e semivivo sul ponte del suo naviglio. Spinto dalle sue buone sembianze, rinnovò adunque a Dantès le proposizioni d’ingaggio; ma Dantès che aveva le sue mire non voleva accettarle che per tre mesi. Del resto l’equipaggio della _Giovane Amelia_ era molto attivo, perchè sottoposto agli ordini di un capitano che aveva presa l’abitudine di non perdere il suo tempo. Non era da otto giorni giunto a Livorno, che già gli sporgenti fianchi del naviglio erano riempiti di mussoline colorate, di cotoni proibiti, di polvere inglese e di tabacco, su i quali oggetti la dogana aveva dimenticato di porre il bollo. Si trattava di far uscire ciò da Livorno, porto franco, per sbarcarlo sulle rive della Corsica, di dove alcuni speculatori s’incaricavano di passare il carico in Francia. Si partì. Edmondo solcò questo mare azzurro, primo orizzonte della sua gioventù, che aveva riveduto tanto spesso nei sogni della sua prigione. Lasciò a destra la Gorgona, a sinistra la Pianosa, e si avanzò verso la patria di Paoli e di Napoleone. La dimane salendo sul ponte, il che faceva sempre di buon’ora, il padrone ritrovò Dantès appoggiato al parapetto del bastimento con istrana espressione guardando un ammasso di scogli di granito, che il sole nascente coloriva di rosea tinta: era l’isola di Monte-Cristo. La _Giovane Amelia_ la lasciò a tre quarti di miglio sulla sinistra, e continuò il suo viaggio verso la Corsica. Dantès pensava nel passare lungo questa isola (che per lui aveva un nome tanto sonoro) non aver che a balzare in mare, e in mezz’ora sarebbe su quella terra promessa. Ma giunto là, che farebbe egli senza gli utensili necessari per iscoprire il tesoro; senza armi per difenderlo? D’altra parte che direbbero i marinari? che penserebbe il padrone? Era d’uopo aspettare. Egli aveva aspettata la libertà per 14 anni, poteva bene aspettare or che era libero, sei mesi ed anche un anno le ricchezze. Non avrebbe accettata la libertà senza le ricchezze, se gli fosse stata proposta? del resto questa ricchezza non era ancor del tutto chimerica? Nata nel cervello malato del povero Faria, non era fors’anche morta con lui? È vero che quella lettera di Guido Spada era stranamente precisa, e Dantès la ripeteva da un capo all’altro non avendone dimenticata una parola. Giunse la sera, Edmondo vide l’isola passare per tutte quelle tinte e gradazioni di colori che il crepuscolo porta seco, e perdersi del tutto nelle tenebre: ma non per lui che aveva lo sguardo abituato all’oscurità del carcere; egli senza dubbio continuò a scorgerla, perchè fu l’ultimo a discendere dal ponte. La dimane si svegliarono all’altezza d’Aleria: bordeggiarono tutta la giornata; la sera si videro dei fuochi sulla costa. Alla disposizione di questi fuochi fu riconosciuto che senza dubbio si sarebbe sbarcato, perchè un fanale salì nel posto della bandiera al corno del piccolo bastimento, che si accostò a tiro di fucile alla riva. Dantès si accorse che il padrone della _Giovane Amelia_ aveva portato sopra ponte, nell’eseguire la manovra per accostarsi a terra, alcune colubrine, simili ai fucili da cavalletto, che senza fare gran rumore potevano cacciare alla distanza di un miglio una palla da 4 a 12 once. Questa cautela però fu inutile; per quella sera si compì tutta la operazione pulitamente e tranquillamente. Quattro scialuppe si accostarono con poco rumore al piccolo bastimento, che, certamente per far loro onore, mise in mare la propria; e queste cinque scialuppe si portarono tanto bene, che a punta di giorno tutto il carico dal bordo della tartana genovese era passato in terra ferma. Il padrone della _Giovane Amelia_ era uomo di tanto ordine nelle sue cose, che la stessa notte si fe’ il reparto dei guadagni del primo scarico; ciascun marinaro ebbe cento lire toscane di sua parte. Ma la spedizione non era finita: si volse la prua verso la Sardegna; si trattava di ritornare a caricare il bastimento che era stato scaricato. La seconda operazione si fece tanto felicemente quanto la prima; la _Giovane Amelia_ era secondata dalla fortuna. Il nuovo carico fu pel ducato di Lucca. Questo si componeva quasi esclusivamente di sigari dell’Avana e di vino di Xeres e di Malaga. Là però ebbero a battersi colla dogana, l’eterna nemica del padrone della _Giovane Amelia_. Un doganiere rimase sul terreno, e due marinari furono feriti, Dantès era uno dei due: una palla gli aveva trapassata la spalla sinistra. Dantès era felice per questa scaramuccia, e quasi contento della sua ferita: questa esperienza gli aveva con fermezza fatto conoscere di qual occhio sapesse guardare il pericolo, e con qual cuore tollerarne i patimenti. Aveva guardato il pericolo ridendo, e ricevendo il colpo aveva detto come il greco filosofo. «Dolore, tu non sei un male.» Inoltre, guardando il doganiere ferito e morto, fosse calore del sangue nell’azione, o freddezza di umani sentimenti, non aveva provato che una leggerissima impressione. Dantès era sulla strada che voleva percorrere, e che tendeva alla meta cui voleva giungere: cioè sulla via di petrificarsi il cuore in petto. Del resto, Jacopo che vedendolo cadere lo aveva creduto morto, si era precipitato su di lui, e gli aveva prodigato tutte quelle cure proprie di un buon camerata. Questa gente non era adunque così buona come avrebbe voluto il dottore Pangloss; ma non era così cattiva come avrebbe creduto Dantès: poichè quest’uomo, che null’altro poteva aspettarsi dal suo compagno che di ereditare la sua parte di guadagno, provava una viva afflizione di vederlo ucciso, fortunatamente però, come si disse, Dantès non era che ferito. Mercè alcune erbe, raccolte in certe congiunture, e vendute ai contrabbandieri da certe vecchie Sarde, la ferita si cicatrizzò ben presto; Edmondo allora volle tentare Jacopo, offrendogli in compenso delle sue cure, una porzione della sua presa; ma Jacopo la ricusò con indignazione. Questo era il risultato di una specie di devozione, che Jacopo aveva consacrata ad Edmondo fin dal primo momento che lo aveva veduto, e di una certa affezione che Edmondo portava a Jacopo. Ma quest’ultimo non voleva di più, egli aveva indovinato istintivamente in Edmondo quella superiorità alla sua posizione, che Dantès era giunto a nascondere agli altri: ed il bravo marinaro era contento di quel poco di affezione che gli veniva concessa. Così nelle lunghe giornate che passavano a bordo, quando il naviglio scorreva con sicurezza su l’azzurro mare, e che non aveva bisogno, pel vento che spirava, che del solo timoniere per dirigerlo, Edmondo si faceva istruttore di Jacopo con una carta alla mano, come Faria aveva fatto con lui. Gli mostrava la sporgenza delle coste, le variazioni della bussola, gl’insegnava a leggere in quel gran libro aperto al di sopra delle nostre teste, che si chiama cielo, e dove Dio ha scritta la sua onnipotenza sull’azzurra volta con lettere di brillanti. E quando Jacopo gli domandava. «A che serve imparare tutte queste cose ad un povero marinaro come sono io?» Edmondo rispondeva «chi lo sa? forse un giorno potresti essere capitano di bastimento; il tuo compatriotta Bonaparte non divenne imperatore?» Dimenticammo di dire che Jacopo era Corso. Due mesi e mezzo erano già passati in queste gite successive. Edmondo era divenuto così bravo contrabbandiere, come altra volta era stato ardito marinaro: aveva fatto conoscenza con tutti i contrabbandieri della costa: aveva imparati quei segni massonici, per mezzo dei quali questi semi-pirati si riconoscono fra di loro. Era passato e ripassato venti volte innanzi l’isola di Monte-Cristo, ma non aveva mai trovato l’occasione di potervi sbarcare: aveva per ciò presa una risoluzione, ed era, (terminato il suo impegno col padrone della _Giovane Amelia_) noleggiare una piccola barca per proprio conto, avendo già economizzato un centinaio di piastre nelle sue corse, e con un pretesto qualunque recarsi all’isola di Monte-Cristo. Là farebbe le sue ricerche in tutta libertà... ma non interamente, che le sue azioni sarebbero state spiate da chi conduceva seco... in questo mondo qualche cosa bisogna pure arrischiare. La prigione aveva reso Edmondo prudente, ed avrebbe voluto non essere obbligato ad arrischiar nulla: aveva un bel cercare; nella sua immaginazione, per quanto fervida, non poteva ritrovare altro mezzo di giungere all’isola di Monte-Cristo, che facendovisi trasportare. Dantès ondeggiava in questa esitazione, allorchè il padrone che aveva in lui posta molta confidenza, e che aveva gran volontà di conservarselo da presso, lo prese una sera pel braccio, e lo condusse in una osteria in via dell’Olio, nella quale erano abituati di radunarsi quanto vi ha di meglio in contrabbandieri a Livorno. Là d’ordinario si trattavano gli affari della costa. Dantès era già entrato altre due o tre volte in questa borsa marittima, e vedendo questi arditi corsari forniti da tutto un littorale due mila leghe circa di circonferenza, domandava a sè stesso di qual forza potrebbe disporre quell’uomo, che giungesse a dare l’impulso della sua volontà a tutte quelle fila riunite o divergenti. Questa volta trattavasi di un affare di grande importanza; di un bastimento carico di drappi turchi, stoffe di levante, e di casimiro; bisognava ritrovare un terreno neutro ove operare il cambio, poi tentare di gettare questi oggetti sulle coste di Francia. Il premio era enorme se vi fossero riusciti, circa 50, o 60 piastre per ciascuno. Il padrone della _Giovane Amelia_ propose l’isola di Monte-Cristo per luogo di sbarco, perchè essendo completamente deserta, e non avendo nè soldati, nè doganieri, sembra posta in mezzo al mare, fino dai tempi dell’Olimpo dei pagani, da Mercurio, questo dio dei commercianti e dei ladri, classi da noi separate, se non distinte, ma che l’antichità, a ciò che sembra, metteva nella stessa categoria. Al nome di Monte-Cristo, Dantès fremè di gioia, si alzò per nascondere la sua emozione, fe’ un giro in quella affumicata taverna, ove tutti gl’idiomi conosciuti di questo mondo venivano a fondersi nella lingua francese. Quando ritornò ad avvicinarsi ai due interlocutori, era già stabilito di prender terra all’isola di Monte-Cristo, e di partir per questa spedizione la notte seguente. Consultato Edmondo, egli fu d’avviso che l’isola offriva tutte le sicurezze possibili, e che le grandi imprese per riuscir bene, abbisognavano di essere mandate presto ad effetto. Non fu dunque cambiata cosa alcuna allo stabilito programma. Rimase convenuto che si sarebbero fatti i necessari apparecchi per la dimane a sera, e che si procurerebbe, se il mare era buono ed il vento favorevole, di essere la sera dopo nelle acque dell’isola neutra. XXIII. — L’ISOLA DI MONTE-CRISTO. Finalmente Dantès, per una di quelle inattese fortune, che qualche volta sopravvengono a coloro che il destino è stanco di perseguitare, stava per giungere alla meta con un mezzo semplice e naturale, e mettere piede in quell’isola senza ispirare verun sospetto ad alcuno. Una notte lo separava ancora dalla partenza, per sì lungo tempo desiderata ed attesa. Questa fu una delle notti più febbrili per Dantès: se gli presentarono alla mente tutte le possibilità buone e cattive: se chiudeva gli occhi vedeva la lettera di Guido Spada scritta in caratteri sfolgoranti sul muro: se dormiva, i sogni più strani venivano a tumultuare nel cervello, discendeva in grotte che avevano il pavimento di smeraldi, le pareti di rubini, le stalattiti di diamanti; le perle cadevano come le gocce di acqua, che d’ordinario filtrano nei sotterranei. Edmondo rapito, meravigliato, si riempiva le saccocce di pietre preziose; poi veniva in pieno giorno, e queste gioie si convertivano in semplici sassolini. Allora tentava di rientrare in queste grotte meravigliose che travedeva soltanto, ma il cammino si contorceva in infiniti spirali; l’ingresso ridiveniva invisibile; e cercava inutilmente di richiamarsi alla stanca memoria quelle misteriose e magiche parole che in altri tempi aprivano all’arabo pescatore le splendide caverne di Alì-Babà. Tutto era inutile: lo svanito tesoro era ritornato in proprietà dei geni della terra, ai quali egli aveva avuto per un momento la speranza di poterlo togliere. Successe il giorno quasi colla stessa febbre della notte, ma la logica venne in aiuto all’immaginazione di Dantès, e potè stabilire un disegno meno incerto e dubbioso. Venne la sera, e con essa i preparativi della partenza: questi erano per Edmondo un mezzo di nascondere la propria agitazione. Un poco alla volta aveva presa l’abitudine di comandare ai compagni, come se fosse stato il padron del bastimento; e siccome i suoi ordini erano sempre chiari, precisi, e facili ad eseguirsi, i compagni non solo l’obbedivano con prontezza, ma anche con piacere. Il vecchio padrone lo lasciava fare, avendo riconosciuta la superiorità di Dantès non solo sui compagni, ma anche su sè stesso; vedeva nel giovinotto il suo successore naturale, ed era dolente di non avere una figlia per stringere questa bella alleanza. Alle sette di sera tutto fu in ordine, a sette ore e dieci minuti si voltava intorno al faro, al momento che questo veniva acceso. Il mare era placido, con fresco venticello di sud-est. Navigavasi sotto un cielo chiaro, in cui Dio pure faceva risplendere successivamente i suoi fari, ciascuno dei quali è un mondo. Dantès dichiarò, che tutti potevano andare a dormire, e ch’ei s’incaricava del timone. Quando il maltese, che così veniva chiamato Dantès a bordo, faceva una simile dichiarazione, bastava; e ciascuno andava a riposare tranquillamente. Ciò era accaduto qualche altra volta. Dantès rigettato dalla solitudine nel mondo, provava di tempo in tempo un imperioso bisogno di restar solo. Ora qual solitudine più immensa ad un tempo e più poetica, di quella di un bastimento che nella oscurità della notte ondeggia isolato sul mare nel silenzio della immensità, e sotto lo sguardo del Signore? In quella notte però la solitudine fu popolata dai suoi pensieri, la notte illuminata dalle sue illusioni, il silenzio animato dalle sue promesse. Quando il padrone si svegliò, la navicella correva a vele gonfie: non esisteva un lembo di tela che non fosse gonfiato dal vento: facevano più di due leghe e mezzo l’ora. L’isola di Monte-Cristo s’ingrandiva sull’orizzonte. Edmondo rese il timone al padrone, e andò a sua volta a stendersi sulla branda: ma ad onta della notte vegliata, non potè chiudere occhio. Due ore dopo risalì sul ponte; il bastimento era sul punto di sorpassare l’isola d’Elba; si trovava all’altezza di Marciana, e al di sotto dell’isola piana e verde della Pianosa. Si vedeva luccicare fra l’azzurro del cielo la sommità raggiante dell’isola di Monte-Cristo. Dantès ordinò al timoniere di volgere a sinistra per lasciare la Pianosa a destra; egli aveva calcolato che questa manovra doveva abbreviare la strada di due o tre nodi. Alle cinque di sera ebbero la vista completa dell’isola, mercè quella limpida atmosfera che è particolare alla luce che mandano gli ultimi raggi del sole al tramonto. Edmondo divorò con gli occhi questa massa di scogli che sembravano tinti di tutti i colori del crepuscolo dal roseo vivo fino al blu scuro; a quando a quando gli salivano al volto ardenti vampe: la fronte diveniva di porpora, una nube rossastra gli passava davanti agli occhi. Giammai giuocatore, la cui fortuna è tutta riposta sur una carta, provò tanta angoscia, quanta ne sentiva Edmondo nei suoi parosismi di speranza. Ritornò la notte. Alle dieci di sera si approdò. La _Giovane Amelia_ era la prima al convegno. Dantès ad onta del suo impero su sè stesso non potè contenersi; egli pel primo saltò sulla riva. Se lo avesse osato, avrebbe come Bruto baciata la terra. Era oscura la notte; ma alle undici la luna sorse di mezzo al mare, e ne inargentò le crespe: quindi i raggi cominciarono a screziarsi di bianche cascate di luce sugli scogli ammassati di quest’altro Pelione. L’isola era conosciuta dall’equipaggio della _Giovane Amelia_; era una delle sue ordinarie stazioni. Quanto a Dantès, l’aveva veduta in ciascuno dei suoi viaggi in Levante, ma non vi era mai disceso. Egli interrogò Jacopo. — Dove passiamo la notte? — A bordo della tartana, rispose Jacopo. — Non staremmo meglio nelle grotte? — E in quali grotte? — Nelle grotte dell’isola. — Io non vi conosco grotte, disse Jacopo. Un freddo sudore passò sulla fronte di Dantès. — Non vi sono grotte a Monte-Cristo? domandò egli. — No. Dantès rimase per un momento stordito, poi pensò che queste grotte potevano essersi ricoperte per un qualche accidente, od essere state chiuse per maggior cautela dallo stesso Spada. In questo caso tutto stava nel ritrovare la perduta apertura. Era inutile cercarla nella notte; Dantès rimise dunque le sue ricerche alla dimane: d’altra parte un segnale inalberato a mezza lega in mare, ed al quale rispondeva con uno simile la _Giovane Amelia_, indicò ch’era giunto il momento di accingersi all’operazione. Il bastimento che aveva ritardato, rassicurato dal segnale che doveva far conoscere all’ultimo giunto tutta la sicurezza per potersi abboccare, apparve ben presto bianco e silenzioso come un fantasma, e venne a gettare l’ancora presso la riva. Il trasporto delle merci cominciò in quel punto. Dantès, mentre lavorava, pensava all’_hourra_ di gioia, che con una sola parola poteva provocare in tutti quegli uomini, se diceva ad alta voce l’incessante pensiero che gli rumoreggiava all’orecchio, e lo turbava: ma lungi dal rivelare il suo magnifico segreto, temeva già di aver detto troppo, e di avere risvegliati dei sospetti col suo andare e venire, e colle ripetute domande, colle minuziose osservazioni, e la sua preoccupazione: fortunatamente però che in lui, per questa volta almeno, il doloroso passato riflettevagli sul viso una indelebile tristezza, e che gli slanci d’ilarità intraveduti sotto questa nube non erano che lampi. Nessuno adunque dubitava di cosa alcuna: ed allorchè la dimane prendendo il fucile, i pallini e la polvere, Dantès manifestò il desiderio di andare a tirare qualcuna di quelle numerose capre selvagge che si vedevano saltare di roccia in roccia, non si attribuì questa sua escursione che all’amore per la caccia, ed al desiderio della solitudine! non vi fu che Jacopo che insistè per seguirlo. Dantès non volle opporvisi temendo d’inspirar sospetti, se spingeva tropp’oltre la sua ripugnanza ad essere accompagnato. Ma appena ebbe fatto un quarto di lega, presentatasi l’occasione di tirare ed uccidere un capriuolo, inviò Jacopo a portarlo ai compagni, invitandoli a cuocerlo, e a dargli il segnale quando sarebbe cotto per mangiarlo, col trarre un colpo di fucile. Qualche frutto secco, ed un fiasco di vino di Montepulciano dovevano compiere il pranzo. Dantès continuò il cammino voltandosi di tempo in tempo. Giunto alla sommità di una roccia, vide mille piedi al di sotto di lui i compagni, che raggiunti da Jacopo, già si occupavano attivamente dei preparativi del pranzo, aumentato, mercè la bravura d’Edmondo d’un piatto principale. Edmondo li guardò un momento con quel tristo e dolce sorriso proprio delle persone superiori. «Fra due ore coloro partiranno ricchi di 50 piastre, per andare a cercar di guadagnarne altre 50 col rischio della loro vita: poi ritorneranno ricchi di lire 600, per andare a dilapidarle in una città qualsisia coll’orgoglio dei sultani, e la confidenza dei nababi. Oggi la speranza fa che io disprezzi la loro ricchezza, che mi appare profonda miseria: domani forse il disinganno mi obbligherà guardare questa profonda miseria come la maggiore delle fortune... Oh! no, gridò Edmondo: questo non sarà. Il sapiente, l’infallibile Faria non può essersi ingannato su questo solo punto. D’altra parte meglio morire che continuare a condurre questa vita miserabile e vile.» Così Dantès, che tre mesi prima non desiderava che la libertà, non era più contento di questa, ma voleva eziandio le ricchezze. Il difetto non era di Dantès, ma della nostra natura che ci crea desideri infiniti. Frattanto per una strada che si perdeva fra due muraglie di scogli, lungo il cammino che percorreva il torrente, e che secondo ogni probabilità non era stata mai calcata da piede umano, Dantès si era avvicinato alla direzione in cui supponeva dover essere le grotte. Seguendo la spiaggia del mare, ed esaminando i più piccoli oggetti con una seria attenzione, credè notare sur alcune rocce degli scavi operati della mano dell’uomo. Il tempo che cuopre tutte le cose fisiche col manto dell’obblio, sembrava avere rispettati questi segni, tracciati con una certa regolarità, e nello scopo probabilmente di servir di guida, segni che poi sparivano sotto i cespugli di mirto che si univano in grossi mazzi carichi di fiori, o sotto i licheni parassiti. Bisognava allora che Dantès allontanasse i mazzi di fiori o sollevasse il musco per ritrovare i segni che lo guidavano per questo laberinto, segni, che per altro avevan dato buona speranza ad Edmondo. Perchè non potevano essere stati tracciati dallo Spada per poter servire, in caso di catastrofe ch’egli non aveva preveduto così completa, di guida al nipote? Questo luogo solitario era ben quello che conveniva ad un uomo che voleva seppellire un tesoro. Soltanto questi segni visibili avrebbero potuto attirare lo sguardo di qualche altro oltre quelli per cui erano fatti: e l’isola dalle tetre muraglie aveva ella conservato fedelmente il segreto? Frattanto a cinquanta passi dal porto sembrò ad Edmondo, sempre celato agli sguardi de’ compagni per la ineguaglianza del suolo, che i segni cessassero, senza però metter capo ad alcuna grotta. Una grossa roccia rotonda, posta sopra una solida base era la sola meta a cui sembravano guidare. Edmondo pensò allora che invece d’essere giunto al termine, poteva benissimo non essere arrivato che a scoprire il principio: per conseguenza fe’ un giro in contrario, e ritornò in dietro calcando la stessa via. In questo mentre i suoi compagni preparavano il pranzo, attingevano l’acqua alla sorgente, trasportavano il pane e le frutta a terra, e facevano cuocere il capriuolo: e nel punto in cui lo toglievano dallo improvvisato spiedo scorsero Edmondo, che leggero e ardito come uno scoiattolo, saltava di roccia in roccia: tirarono allora il colpo per avvertirlo. Il cacciatore cambiò subito direzione, e ritornò a loro correndo. Ma nel momento che tutti lo seguivano collo sguardo nella specie di voli che faceva, tacciando di temerità la sua sveltezza; come per dar ragione ai loro timori, gli venne meno un piede, fu visto oscillare sulla vetta di uno scoglio, gettare un grido, e sparire. Tutti balzarono di un solo slancio, perchè tutti amavano Edmondo ad onta della sua superiorità; Jacopo però fu il primo a raggiungerlo. Egli trovò Dantès steso, insanguinato, e quasi privo di sensi: era rotolato da un’altezza di 10 a 12 piedi. Gli fu introdotto in bocca qualche sorso di rum, e questo rimedio, che altra volta gli era stato di tanta efficacia, produsse il medesimo effetto. Edmondo riaprì gli occhi, e si lagnò di un vivo dolore al ginocchio, d’un gran peso alla testa, e d’un forte spasimo ai reni. Lo volevano trasportare fino alla riva; ma quando fu toccato, quantunque Jacopo dirigesse l’operazione, dichiarò lamentandosi, che non si sentiva la forza di sopportare il trasporto. S’intende, che di pranzo per Edmondo non si parlò neppure, ma volle che i suoi camerati, non avendo le sue stesse ragioni per fare digiuno, ritornassero al loro posto. Quanto a lui, pretendeva di non aver bisogno di altro che di un poco di riposo, e che al loro ritorno essi lo troverebbero assai meglio. I marinari non si fecero molto pregare; avevano fame, l’odore del capriuolo giungeva fino a loro, e fra lupi di mare non vi sono molte cerimonie. Ritornarono un’ora dopo. Tuttociò che Edmondo aveva potuto fare era stato di trascinarsi per una dozzina di passi per appoggiarsi sur un sasso coperto di musco. Ma lungi dal calmarsi, i dolori di Dantès sembrava che fossero aumentati d’intensità. Il vecchio padrone che era costretto a partire nella mattinata, per depositare il carico sulle frontiere del Piemonte e della Francia, fra Nizza e Fréjus, insistè perchè si sforzasse ad alzarsi. Dantès fece sforzi sovrumani per arrendersi a questo invito: ma a ciascuno di essi ricadde lamentandosi ed impallidendo. — Ha rotti i reni, disse a bassa voce il padrone; non importa, è un buon compagno, non bisogna abbandonarlo; cerchiamo di trasportarlo fino alla tartana. — Dantès dichiarò che preferiva morire ove si trovava, piuttosto che sopportare i dolori che gli causava qualunque movimento per quanto piccolo si fosse. — Ebbene! disse il padrone; avvenga ciò che vuole; non sarà mai detto che noi lasciamo un bravo compagno senza aiuto. Non partiremo che questa sera. — Questa proposizione fe’ molta meraviglia ai marinai, quantunque non vi fosse pur uno che facesse obbiezione. Il padrone era un uomo molto rigoroso, ed era la prima volta che lo si vedesse rinunciare ad una impresa, od anche soltanto ritardarla. Dantès del pari non volle sopportare che si facesse in suo favore una infrazione alle regole di disciplina stabilite a bordo. — No, diss’egli, io fui mal cauto, ed io debbo portare la pena della mia poca destrezza: lasciatemi una piccola provvigione di biscotto, un fucile, della polvere e delle palle per ammazzare dei capretti ed anche per difendermi, ed una zappa per costruirmi una specie di casetta, nel caso che voi tardaste molto a ritornare a prendermi. — Ma tu morrai di fame, disse il padrone. — Amo piuttosto questo, rispose Edmondo, che di soffrire gli inauditi dolori, che mi fa provare il più piccolo movimento. Il padrone si volse al bastimento che ondeggiava con un principio di preparativo nel piccolo porto, pronto a riprendere il mare quando gli apparecchi fossero del tutto compiti. — Che vuoi tu dunque, o maltese, che facciamo! diss’egli, non possiamo abbandonarti così, e neppure aspettare lungamente. — Partite! partite! gridò Dantès. — Staremo assenti almeno otto giorni, e bisognerà eziandio deviare dalla nostra via per venirti a prendere. — Ascoltate, disse Dantès; se incontrate qualche barca peschereccia che fra due o tre giorni venga in questi paraggi, raccomandatemi al padrone, io pagherò 25 piastre pel mio ritorno a Livorno; e se non ne ritroverete, ritornate. — Ascoltate, padron Baldi, vi è un mezzo per conciliar tutto, disse Jacopo, partite; io resterò alla cura del ferito. — E rinuncierai alla tua parte di divisione, disse Edmondo, per restar meco? — Sì, e senza dispiacere, rispose Jacopo. — Tu sei un brav’uomo, disse Edmondo, e Dio ti compenserà della tua buona volontà. Ma io non ho bisogno d’alcuno, grazie: un giorno o due di riposo mi rimetteranno, e spero ritrovare fra questi scogli alcune erbe eccellenti per le contusioni. Uno strano sorriso passò sulle labbra di Dantès; strinse la mano a Jacopo con effusione, ma rimase irremovibile nella sua risoluzione di rimanere, e di rimaner solo. I contrabbandieri lasciarono ad Edmondo ciò che aveva domandato, e lo abbandonarono, non senza voltarsi molte volte facendogli tutti i segni di un cordiale addio, ai quali Edmondo rispondeva con una sola mano, come se non potesse muovere il restante del corpo. Poi, quando furono disparsi: — È strano, mormorò Dantès ridendo, che in mezzo ad uomini di tal fatta si trovino prove di amicizia e di devozione. — Allora trascinossi con cautela fino alla sommità di una roccia, che gli nascondeva la vista del mare, e di là vide la tartana compiere i preparativi, levar l’ancora, librarsi come una lodola che sta per spiccare il volo, e partire. In capo ad un ora ella era disparsa del tutto, o almeno era impossibile di più vederla dal luogo ove era rimasto il ferito. Dantès si alzò più lesto e più leggiero di un capriuolo fra i mirti e le lentische, su quelle rocce selvagge, prese il fucile con una mano, coll’altra la zappa, e corse a quella roccia presso la quale finivano i segni che aveva notati sulle altre. — Ed ora, gridò egli ricordandosi la storia dell’arabo pescatore raccontatagli da Faria, ora, apriti o Sesamo! XXIV. — L’ABBAGLIAMENTO. Il sole era pervenuto a circa un terzo del suo corso, i raggi di maggio cadevano caldi e vivificanti su queste rocce che sembravano anch’esse sensibili a questo calore. Migliaia di cicale invisibili fra i cespugli, facevano sentire il loro mormorio monotono e continuo. Le foglie dei mirti e degli ulivi si agitavano tremanti, e mandavano un rumore quasi metallico. A ciascun passo che faceva Edmondo sul riscaldato granito fuggivano dei mosconi che sembravano smeraldi. Si vedevano da lungi balzare, sul pendio inclinato dell’isola, le capre selvagge che vi attirano qualche volta i cacciatori; in una parola l’isola era abitata, vivente, animata, e ciò non pertanto Edmondo si sentiva solo, sotto la mano di Dio. Egli provava una non so quale emozione, molto somigliante alla paura. Era quella diffidenza del pieno giorno, che fa supporre, anche nel deserto, che vi possano essere degli occhi inquisitori aperti ad osservarci. Questo sentimento fu sì forte, che al momento di cominciare il lavoro, Edmondo si fermò, depose la zappa, riprese il fucile, salì un’ultima volta su la roccia più elevata dell’isola, e di là girò lo sguardo attentamente su tutto ciò che lo circondava. Ma, dobbiamo dirlo, ciò che attirò la sua attenzione, non fu la poetica Corsica di cui egli poteva perfino distinguere le case, non la Sardegna, a lui quasi sconosciuta, che le fa seguito, non l’isola d’Elba dai giganteschi ricordi, e finalmente non quella linea impercettibile che si estende sull’orizzonte, e che, all’occhio esercitato del marinaro, rivela la situazione della superba Genova, e della commerciante Livorno; no, ma fu il brigantino ch’era partito a punto di giorno e la tartana partita da poco. Il primo, stava per sparire nello stretto di S. Bonifazio; l’altra seguendo la strada opposta costeggiava la Corsica per oltrepassarla. Questa vista rassicurò Edmondo: ricondusse allora lo sguardo sugli oggetti che lo circondavano più da vicino: si vide sul punto più elevato della conica isola, piccola statua di questo immenso piedistallo: intorno a lui non v’era un uomo, non una barca: niente altro che l’azzurro mare che veniva a percuotere la base dell’isola, ornandola di una eterna frangia d’argento. Allora discese con passo rapido, ma prudente; temeva troppo in un simile momento un accidente simile a quello che aveva tanto abilmente e felicemente simulato. Dantès come abbiamo detto, aveva ripercorso il cammino, guidato dai solchi scavati sulle rocce, ed aveva veduto che questa linea conduceva ad un piccolo seno nascosto come un bagno di antica ninfa. Questo seno era abbastanza profondo nel centro, perchè un piccolo bastimento del genere delle Speronare potesse entrarvi, e rimanervi nascosto. Allora, seguendo il filo delle induzioni, quel filo che fra le mani di Faria aveva veduto guidare in una maniera così ingegnosa fra il dedalo delle probabilità, pensò che Guido Spada, nello scopo di non farsi vedere, fosse approdato a questo seno, quivi nascosto il piccolo naviglio, avesse seguita la linea indicata dalle intaccature, e nella estremità di essa sepolto il tesoro. Questa supposizione ricondusse Dantès presso la roccia circolare. Una cosa soltanto lo inquietava, e sconvolgeva tutte le sue idee in dinamica: come erasi potuto, senza impiegare forze considerevoli, innalzare questa roccia, che pesava forse cinque o sei migliaia, sulla specie di base su cui era posta? D’improvviso fu colpito da un’idea. Invece di farla salire, disse tra sè, l’avranno fatta discendere. Ed egli stesso si slanciò al di sopra della roccia, per cercare il posto della sua primitiva base. Infatto vide ben presto, ch’era stata praticata una leggera inclinazione, la roccia aveva strisciato sulla base, ed era venuta a fermarsi nella direzione in cui un’altra roccia, grossa come una pietra da taglio ordinaria gli aveva servito di base. Erano stati impiegati dei sassolini e delle pietre per far sparire ogni traccia di mancanza di continuità, questo piccolo lavoro da muratore era stato ricoperto di terra vegetabile, vi era nata l’erba, ed il musco vi si era esteso, qualche seme di mirto e di lentischia vi si erano fermati, e l’antico avanzo di roccia sembrava attaccato al suolo. Dantès sollevò con cautela la terra, e riconobbe, o credè riconoscere tutto questo ingegnoso artificio. Allora si accinse a distruggere colla zappa questo muro intermediario, cementato dal tempo; dopo un lavoro di dieci minuti il muro cedè, e rimase aperto un foro pel quale potevasi introdurre un braccio. Dantès andò a troncare l’olivo più grosso in cui si abbattè, lo spogliò dei rami, l’introdusse nel foro, e ne fece una leva; ma la roccia era ad un tempo troppo pesante, e incastrata troppo solidamente sull’inferiore, che forza umana non era bastante a smuoverla, fosse stata pur quella d’Ercole. Dantès riflettè allora esser necessario assaltar la roccia stessa, ma con qual mezzo? Girò lo sguardo intorno a sè come fanno gli uomini impacciati, e questo cadde sul corno di bufalo pieno di polvere che avevagli lasciato Jacopo; egli sorrise: l’invenzione infernale avrebbe compita l’opera. Coll’aiuto della zappa, Dantès scavò fra la roccia superiore e quella sopra cui era posta, un condotto di mina simile a quello che fanno i guastatori, quando vogliono risparmiare alle braccia dell’uomo una troppo lunga fatica. Quindi lo riempì di polvere ben compressa e sfilando il fazzoletto, e immergendolo nella polvere, ne fe’ una miccia, e messovi fuoco si allontanò. L’esplosione non si fece attendere; la roccia superiore per un momento fu sollevata dall’incalcolabile forza, quella inferiore andò in pezzi. Dalla piccola apertura, che sul principio aveva praticata Dantès, uscì buon numero d’insetti frementi ed un enorme serpente, guardiano di questo cammino misterioso, il quale strisciando su sè stesso disparve. Dantès si avvicinò. La roccia superiore, rimasta ormai senza appoggio pendeva sull’abisso. L’intrepido cercatore vi girò attorno, scelse il punto più vacillante, appoggiò la sua leva fra gl’intacchi, e a guisa di Sisifo s’incurvò con tutta la forza contro la roccia, la quale di già spostata dall’esplosione traballò. Dantès raddoppiò di sforzi. Si sarebbe detto ch’egli era un nuovo Titano che sradicava le montagne per far la guerra al padre degli Dei. Finalmente la roccia cedè, rotolò, balzò, si precipitò, e disparve immergendosi nel mare. Essa lasciò scoperto un vano circolare che metteva in vista un anello di ferro impiombato nel mezzo di una pietra quadrata. Dantès gettò un grido di gioia e di stupore. Giammai più magnifico risultato aveva coronato un primo tentativo. Volle continuare, ma le gambe gli tremavano così fortemente, il cuore gli batteva con tanta violenza, una nube gli passava tanto ardente davanti agli occhi, che fu costretto di fermarsi. Questo momento di esitazione però durò quanto un lampo. Edmondo passò la leva nell’anello, l’alzò vigorosamente, e la pietra spostata si aprì, scoprendo il rapido pendìo di una specie di scala infossantesi nell’ombra di una grotta di più in più oscura. Un altro vi si sarebbe precipitato, avrebbe gettato grida di esultanza e di gioia: Dantès si fermò, impallidì, dubitò. — Vediamo, diss’egli, siamo uomini. Avvezzi all’avversità, non ci lasciamo abbattere da un disinganno, o senza questo avrei io tanto sofferto? Il cuore si rompe allorchè, dopo essere stato dilatato oltre misura dalla speranza, ritorna su sè stesso e si ricompone nella fredda realtà. Faria non fe’ che un sogno; Guido Spada nulla ha seppellito in questa grotta; forse anche non vi è mai venuto, o se vi venne, Cesare Borgia, l’intrepido avventuriere, l’infaticabile capo ladrone vi sarà approdato dopo di lui, avrà seguiti i medesimi segni che ho seguiti io, avrà come me sollevata questa pietra, e, disceso prima di me, nulla avrà lasciato da prendere a chi veniva dopo lui. — Dantès restò un momento immobile, pensieroso, cogli occhi fissi sopra quest’apertura tenebrosa e continua. — Sì, sì, questa è un’avventura da trovar posto nella vita, mista di oscurità e di luce, di questo reale bandito. In quel tessuto di strani casi che compose la trama diaspra della sua esistenza, questo favoloso avvenimento ha dovuto incatenarsi invincibilmente ad altri fatti. Sì, Borgia è venuto una notte qui, tenendo in una mano una fiaccola, nell’altra una spada, nel mentre che a venti passi da lui distante, forse a piedi di quello scoglio, stavano cupi e minacciosi due sgherri spiando la terra, l’aria ed il mare, mentre che il padrone entrava, come sto per fare io, in quest’antro scuotendo le tenebre col suo formidabile e fiammeggiante braccio. Sì, ma di quei sgherri ai quali avrà dovuto comunicare il segreto, che ne avrà fatto Borgia? si domandò Dantès. Ciò che fecero, rispose egli stesso sorridendo, dei becchini d’Alarico, che vennero sotterrati col seppellito. Ora che io non calcolo più su nulla, ora che sarebbe pazza cosa il conservar qualche speranza, questa avventura non è più per me che una mera curiosità. E restò ancora per poco tempo immobile e meditabondo. — Però se vi fosse venuto, riprese Dantès, se avesse ritrovato e portato il tesoro, Borgia, l’uomo che paragonava l’Italia ad un carciofo, e che la mangiava foglia per foglia, Borgia sapeva troppo bene impiegare il tempo per non perderne a rimettere questa roccia sulla base... discendiamo. Allora discese, il sorriso del dubbio sfiorava sulle sue labbra che mormoravano quest’ultima parola dell’umana saggezza: — Può darsi!... Ma in vece delle tenebre che si aspettava di ritrovare, in vece di un’atmosfera opaca e trista, Dantès non vide che una gran luce decomposta in un chiarore azzurrognolo; l’aria e la luce filtravano non solo dall’apertura da lui praticata, ma ancora per delle screpolature invisibili fra le rocce dalla parte esterna, e attraverso le quali si vedeva il colore turchino del cielo, e ove si congiungevano i rami tremolanti dei verdi cespugli e i ligamenti spinosi e parassiti dei rovi. Dopo qualche secondo di dimora in questa grotta, la cui atmosfera piuttosto odorosa che fetida, stava alla temperatura dell’isola come l’ombra al sole, lo sguardo di Dantès, abituato come si disse, alle tenebre, potè esplorare gli angoli più reconditi della caverna; essa era di granito di cui le faccette sparse di pagliuole risplendevano come diamanti. — Ahimè! esclamò Dantès sorridendo, ecco senza fallo i tesori che avrà lasciato lo Spada, e il buon Faria vedendo in sogno questi muri risplendenti, si sarà fermato in queste ricche speranze!... — Si ricordò poi le precise parole del testamento che sapeva a memoria. «Nell’angolo più lontano della seconda apertura». Or Dantès non era penetrato che nella prima grotta, gli abbisognava dunque cercare l’entrata della seconda. Si orizzontò allora. Questa seconda grotta doveva naturalmente internarsi verso il centro dell’isola. Esaminò gli strati delle pietre, e andò a battere sur una delle pareti che gli parve quella ove doveva essere l’apertura, nascosta senza dubbio per maggior cautela. Con la zappa ripercosse le pareti ad intervalli, tramandando la roccia un rumore sì sordo e debole che faceva scorrere il sudore sulla fronte di Dantès. Finalmente sembrò al perseverante minatore che una parte del muro di granito risuonasse, e rispondesse con un eco più sordo e più profondo all’appello che gli veniva fatto. Avvicinò lo sguardo ardente al muro, e ritrovò, col tatto da prigioniero, ciò che niun altro avrebbe forse riconosciuto: cioè che là doveva essere un’apertura. Però, onde non fare un lavoro inutile, Dantès, che, a guisa di Cesare Borgia, aveva studiato il valore del tempo, esplorò le altre pareti colla zappa, percosse il suolo col calcio del fucile, smosse la sabbia nei luoghi sospetti, e non avendo ritrovato nè riconosciuto nulla, ritornò alla parte di muro che rendeva quel suono consolatore. Egli la percosse di nuovo e con maggior forza. Allora vide una cosa singolare; sotto i colpi dell’istrumento, una specie d’intonaco come quello che si applica sui muri per dipingervi a fresco, si sollevava e cadeva in croste, scoprendo una pietra biancastra e granellosa, come quelle da taglio. L’apertura della roccia era stata chiusa con pietre di altra natura, quindi vi avevano steso l’intonaco, era stata imitata la tinta e la cristallizzazione del granito. Dantès percosse allora colla parte tagliente della zappa, questa penetrò per un pollice nella porta a muro. Era là che bisognava lavorare. Per uno strano mistero dell’umana organizzazione, più si avveravano, e si accumulavano le prove che Faria non doveva essersi ingannato, e più il cuore di Dantès indebolito e stanco si lasciava andare in preda al dubbio, e quasi allo scoramento. Questa nuova esperienza, che avrebbe dovuto infondergli forza novella, gli tolse al contrario quella che rimanevagli; la zappa discendendo sfuggivagli quasi dalle mani, la depose al suolo, si asciugò la fronte, e risalì la scala, sul pretesto di vedere se qualcuno lo spiava, ma in realtà perchè aveva bisogno d’aria, perchè si sentiva sul punto di svenire. L’isola era deserta, e il sole nel suo zenit sembrava coprirla col suo occhio di fuoco; in lontano alcune piccole barche pescherecce spiegavano le vele su di un mare azzurro come il zaffiro. Dantès non aveva ancora mangiato nulla: ma in questo momento era ben lontano dall’aver voglia di mangiare; trangugiò un po’ di rum, e rientrò nella grotta col cuore serrato. La zappa che gli era sembrata così pesante era ridivenuta leggiera; egli la sollevò come avrebbe fatto di una piuma, e si mise vigorosamente al lavoro. Dopo qualche colpo, si accorse che le pietre non erano cementate, ma soltanto le une poste sulle altre, e ricoperte da quell’intonaco di cui abbiamo parlato; introdusse in una fessura la punta dell’istrumento, gravitò col corpo sul manico, e vide con gioia la pietra girare, come su i cardini, e cadere ai suoi piedi. Da quel momento Dantès non ebbe più che a tirare a sè col ferro della zappa ciascuna pietra, che a sua volta rotolò vicino alla prima. Egli avrebbe potuto entrare fin dalla prima apertura, ma ritardando di qualche minuto aveva prolungato la certezza aggrappandosi alla speranza. Finalmente dopo una nuova esitazione di un minuto, Dantès passò dalla prima nella seconda grotta; questa era più bassa, più oscura, e di un aspetto più spaventoso della prima. L’aria, che non vi era penetrata che dall’apertura testè fatta, conservava quello odore mefitico, che Dantès si era meravigliato di non ritrovare nella prima: aspettò allora che l’aria esterna ravvivasse questa morta atmosfera, quindi entrò a sinistra dell’apertura. Eravi un angolo profondo e oscuro; ma, per l’occhio di Dantès non v’erano tenebre. Scandagliò la seconda grotta: era vuota come la prima. Il tesoro, se v’era, stava seppellito in quest’angolo oscuro. L’ora dell’angoscia era giunta; due piedi di terra da scavarsi era tutto ciò che restava a Dantès fra il sommo della gioia e il sommo della disperazione. Egli si avanzò verso l’angolo, e, come preso da una momentanea risoluzione, si diè al lavoro. Al quinto o sesto colpo di zappa il ferro risuonò sopra un altro ferro. Giammai tocco funebre di campana a stormo produsse un simile effetto su colui che l’intese. Dantès non avrebbe ritrovato altra cosa che lo avesse potuto far diventar più pallido. Egli osservò ai lati del luogo da lui già esplorato, ritrovò lo stesso suono. — È un baule di legno cerchiato di ferro, diss’egli. Passò in quel punto un’ombra rapida intercettando la luce: Dantès lasciò cadere la zappa, afferrò il fucile, ripassò per l’apertura, e si slanciò all’aperto. Era una capra selvaggia che aveva saltato la prima entrata della grotta, e mangiava a qualche passo di distanza. Sarebbe stata una bella occasione per assicurarsi il pranzo; ma Dantès ebbe timore che lo sparo del fucile richiamasse qualcuno. Riflettè un momento, tagliò dei rami di un albero resinoso, e andò ad accenderli al fuoco ancor fumante, ove i contrabbandieri avevano cotto il pranzo, e ritornò con questa torcia: non voleva perdere alcuna particolarità di ciò che stava per vedere. Avvicinò la torcia alla buca informe e non compita, e riconobbe che non si era ingannato; i colpi avevano alternativamente colpito sul ferro e sul legno. Piantò la torcia in terra, e si rimise all’opera. In un momento fu scavata una fossa di tre piedi di lunghezza e due di larghezza, e potè allora riconoscere un baule di legno di quercia con cerchi di ferro cesellato. Nel mezzo del coperchio risplendeva, sopra una placca d’argento che la terra non aveva potuto arrugginire, l’arme della famiglia Spada, cioè una spada messa di piatto sopra uno scudo ovale, come sono gli scudi italiani. Dantès la riconobbe facilmente, perchè Faria l’aveva più volte a lui disegnata. Da quel momento non vi era più dubbio, il tesoro v’era in effetti; non avrebbero prese tante cautele per rimettere in quel posto un baule vuoto. In un momento tutti i lati del baule o forziere furono messi allo scoperto, ed ei vide poco alla volta, comparire la serratura nel mezzo, posta fra due cinte di ferro, e le maniglie alle pareti laterali; tutto era cesellato, come si usava in quell’epoca in cui l’arte rendeva preziosi anche i più vili metalli. Dantès prese il baule per le maniglie, e si provò a sollevarlo, era impossibile. Allora tentò di aprirlo: la serratura e le cinte lo tenevano ben chiuso: questi fedeli custodi sembravano non voler rendere il tesoro: Dantès introdusse la parte tagliente della zappa tra il fondo ed il coperchio, gravitò con tutto il corpo sul manico di quella, ed il coperchio, dopo aver prodotto un forte rumore, andò in pezzi. Una larga apertura dell’asse rendeva i ferramenti inutili, caddero anch’essi, stringendo tuttavia con le loro unghie tenaci gli avanzi del coperchio caduto con essi, ed il baule fu aperto. Una febbre vertiginosa s’impadronì di Dantès; egli prese il fucile, lo caricò, e se lo pose vicino. Dapprima chiuse gli occhi come fanno i fanciulli, per scorgere nella notte sfavillante della loro immaginazione più stelle che non possono contarsi in un cielo ancora illuminato, quindi li riaprì, e rimase abbagliato. Tre divisioni compartivano il baule; nella prima brillavano dei fulgidi scudi d’oro dai gialli riflessi; nella seconda delle verghe d’oro non brunite, ma disposte in buon ordine, esse però non avevano dell’oro che il peso ed il valore; nella terza finalmente, piena a metà, Edmondo rimosse ed alzò a manate i diamanti, le perle e i rubini che qual cascata sfavillante facevano nel ricadere gli uni sugli altri il rumore della grandine sui vetri. Dopo aver toccato, palpato, immerso le mani tremanti nell’oro e nelle pietre, Edmondo si rialzò e si diè a correre attraverso la caverna colla fremente esaltazione di un uomo che sta per diventar pazzo. Saltò sopra una roccia da cui poteva scoprire il mare, e non vide nulla; egli era solo, solissimo con queste ricchezze incalcolabili, inaudite, favolose, che gli appartenevano. Ma sognava o era sveglio? Aveva bisogno di rivedere il suo oro, e nello stesso tempo sentiva non aver la forza di sostenerne la vista; per un momento si compresse le mani sulla testa come per impedire che la ragione andasse via, poi si slanciò attraversò l’isola senza seguire, non dirò un sentiero, perchè nell’isola di Monte-Cristo non ve ne sono, ma tampoco una direzione stabilita; faceva fuggire le capre selvagge, e spaventava gli uccelli marini colle sue grida e col suo gesticolare. Indi, per un altro giro ritornò, dubitando ancora, e precipitandosi dalla prima grotta nella seconda, e trovandosi al cospetto di questa cava d’oro e di diamanti, cadde in ginocchio, comprimendosi con ambe le mani i moti convulsivi del cuore che balzava, e mormorando una preghiera intelligibile a Dio soltanto. Poco dopo si sentì più tranquillo, e pertanto più felice; poichè in quell’ora soltanto cominciava a credere alla sua felicità. Si mise a contare la sua fortuna; vi erano circa mille verghe d’oro che pesavano ciascuna da due a tre libbre; quindi ammonticchiò venticinque mila scudi d’oro che potevano avere il valore ciascuno di ottanta franchi, moneta di Francia, tutti coll’effigie di Papa Alessandro VI e dei suoi predecessori, e si accorse che il compartimento non era vuotato che a metà; finalmente misurò dieci volte la capacità delle sue due mani in perle, pietre, e diamanti, molti dei quali, legati dai migliori gioiellieri di quell’epoca, presentavano per questo un valore considerevole, oltre quello intrinseco. Dantès vide il giorno abbassarsi ed estinguersi a poco a poco. Temè di esser sorpreso se restava nella grotta, e ne uscì col fucile alla mano. Un po’ di biscotto e qualche goccia di vino furono la sua cena. Quindi rimise la pietra, vi si sdraiò sopra, e dormì appena qualche ora, coprendo col corpo l’ingresso della grotta. Questa notte fu una di quelle terribili ad un tempo e deliziose, come quest’uomo dalle grandi emozioni ne aveva già passate due o tre nella sua vita. XXV. — LO SCONOSCIUTO. Fecesi giorno: Dantès l’aspettava da lungo tempo ad occhi aperti. Ai primi albori si alzò; salì, come la sera, sulla roccia elevata dell’isola, per esplorarne i dintorni: ma tutto era deserto. Edmondo rimosse la pietra, discese, si riempì le saccocce di pietre preziose, rimise il meglio che potè l’asse ed i ferramenti al coperchio del baule, lo ricoprì di terra, vi gettò sopra della sabbia per rendere il luogo smosso di fresco come il resto del suolo, uscì dalla grotta, rimise la pietra, ammassò su questa dei sassi di differente grossezza, ne riempì gl’intervalli con della terra, vi piantò dei mirti e dell’eriche, innaffiò queste piante novelle, affinchè sembrassero vecchie, cancellò le impronte dei suoi passi ripetuti intorno a questo luogo, e attese con impazienza il ritorno dei compagni. Difatto or non si trattava più di passare il tempo a guardare quest’oro e questi diamanti, e di restare a Monte-Cristo come un drago a sorvegliare il tesoro: bisognava ritornare alla vita, fra gli uomini, e prendere nella società il rango, l’influenza ed il potere che in questo mondo danno le ricchezze, prima e più grande delle forze di cui possa disporre la creatura umana. I contrabbandieri ritornarono il sesto giorno. Dantès riconobbe da lontano l’andamento ed il moto della _Giovane Amelia_; si trascinò fino al porto come il Filotete ferito, ed allorquando i compagni approdarono, annunciò loro, lagnandosi ancora, di avere ottenuto un sensibile miglioramento; indi a sua volta ascoltò il racconto degli avventurieri. Essi erano riusciti, è vero; ma appena avevano deposto il carico, erano stati avvertiti che un _brick_ di sorveglianza a Tolone, usciva dal porto e si dirigeva alla lor volta; allora erano fuggiti a tratto di freccia lagnandosi che Dantès, il quale sapeva dare una velocità maggiore al bastimento, non fosse stato là a dirigerlo. Infatto eransi avveduti ben presto del bastimento cacciatore che li inseguiva; ma coll’aiuto della notte, e passando la punta del capo Corso erano giunti a fuggire. In sostanza questo viaggio non era stato cattivo, e tutti, particolarmente Jacopo, erano dispiaciuti che Dantès non fosse stato con loro per ottenere la propria parte di utile da lor riportata, e che ammontava a 50 piastre. Edmondo rimase impenetrabile, e non sorrise nemmeno alla enumerazione dei vantaggi di cui avrebbe potuto aver parte se avesse abbandonata l’isola; siccome la _Giovane Amelia_ non era venuta a Monte-Cristo che per prenderlo, s’imbarcò subito la stessa sera, e seguì il suo padrone a Livorno; dove appena giunto, andò da un ebreo e vendè per 25 mila franchi ciascuno quattro dei suoi più piccoli diamanti. L’ebreo avrebbe potuto informarsi come un pescatore trovavasi possessore di simili oggetti, ma se ne guardò bene, perchè vi guadagnava mille franchi sopra ciascuno. La dimane Dantès comprò una barca nuova che regalò a Jacopo, aggiungendo a questo dono cento piastre per provvedersi dell’equipaggio; e ciò a condizione che Jacopo andrebbe a Marsiglia a chieder notizie di un vecchio chiamato Luigi Dantès, che abitava nei viali di Meillan, e di una giovinetta dimorante nel villaggio dei Catalani, che si chiamava Mercedès. Jacopo credè di sognare. Ma Edmondo gli raccontò che erasi fatto marinaro per una bizzarria, e perchè la sua famiglia non gli voleva passare il danaro necessario per le spese minute, ma giungendo a Livorno era entrato in possesso della eredità di uno zio che lo aveva istituito erede universale. L’educazione elevata di Dantès dava a questa storia tale un’impronta di verità, che Jacopo non dubitò nemmen per poco che il suo antico compagno non gli dicesse il vero. D’altra parte, essendo terminato l’impegno di Edmondo col padrone della _Giovane Amelia_ prese congedo dal vecchio marinaro, che dapprima tentò di ritenerlo, ma che intesa come Jacopo la storia dell’eredità, rinunciò perfino alla speranza di vincere la risoluzione del suo antico compagno. La dimane Jacopo mise alla vela per Marsiglia; egli doveva ritrovare Edmondo a Monte-Cristo. Lo stesso giorno Dantès partì senza dire ove andava, prendendo congedo dall’equipaggio della _Giovane Amelia_ col dare una splendida gratificazione, e dal padrone col promettergli di fargli avere un giorno o l’altro sue notizie: e si recò a Genova. Nel momento in cui arrivava veniva provato un piccolo _yacht_ ordinato da un inglese, che, avendo inteso dire essere i Genovesi i migliori costruttori del Mediterraneo, aveva ordinato un _yacht_ a Genova. L’inglese aveva convenuto il prezzo per 40 mila franchi, Dantès ne offrì 60 mila a condizione che il bastimento gli sarebbe stato consegnato lo stesso giorno. L’inglese era andato a fare un giro in Isvizzera aspettando che il bastimento fosse terminato; non doveva ritornare che fra tre settimane od un mese, e il costruttore pensò che avrebbe avuto il tempo di rimetterne un altro sul cantiere. Dantès condusse il costruttore da un ebreo, passò con lui nello stanzino dietro la bottega, e l’ebreo contò 60 mila franchi al costruttore che offerse a Dantès i suoi servigi per comporgli un equipaggio, ma questi lo ringraziò dicendogli che aveva l’abitudine di navigar solo, e che l’unica cosa che desiderava si era, che nel suo gabinetto a capo del letto vi fosse un armadio a segreti con tre divisioni pure a segreti: dette la misura dei compartimenti, che furono eseguiti la dimane. Due ore dopo Dantès uscì dal porto di Genova, scortato dagli sguardi di una folla di curiosi che volevano vedere lo Spagnuolo che aveva l’abitudine di navigar solo. Dantès se ne cavò a meraviglia: coll’aiuto del solo timone, senza aver bisogno di lasciarlo, fece fare al bastimento tutte le evoluzioni necessarie; si sarebbe detto un essere intelligente pronto ad obbedire al più piccolo impulso, ed egli convenne seco stesso che i Genovesi meritavano la loro riputazione di primi costruttori navali del mondo. I curiosi seguirono con lo sguardo il piccolo bastimento, fino a che l’ebbero perduto di vista, ed allora cominciarono le discussioni per sapere ove era diretto: alcuni opinarono per la Corsica, altri per l’isola d’Elba; questi proposero scommesse che andava in Ispagna, altri sostennero che andava in Affrica, nessuno pensò a nominare l’isola di Monte-Cristo. Dantès non pertanto colà si recava: e vi giunse sul finir del secondo giorno. Il naviglio era molto veliero, e avea percorsa la distanza in 35 ore. Dantès aveva perfettamente riconosciuto la situazione della costa, invece di approdare al consueto porto gettò l’ancora nel piccolo seno. L’isola era deserta; non appariva esservi approdato alcuno dopo la sua partenza, andò al tesoro; tutto era nello stesso stato in cui lo avea lasciato. La domani sera, l’immensa sua fortuna era stata trasportata a bordo del _yacht_, e racchiusa nell’armadio a compartimenti e segreti. Dantès aspettò ancora otto giorni: durante i quali fe’ manovrare il suo _yacht_ attorno l’isola, provandolo come uno scudiero prova un cavallo: e ne conobbe tutte le qualità ed i difetti; si promise di aumentare le une e di rimediare agli altri. L’ottavo giorno vide un piccolo bastimento che veniva alla sua volta a vele gonfie e riconobbe la barca di Jacopo: fe’ un segnale a cui Jacopo rispose, e due ore dopo la barca era vicina al _yacht_. Egli aveva una trista risposta a ciascuna delle due domande fatte da Edmondo: il vecchio Dantès era morto; Mercedès era disparsa. Edmondo ascoltò queste due notizie con viso tranquillo; ma discese subito a terra proibendo che alcuno lo seguisse. Due ore dopo ritornò; due uomini della barca di Jacopo passarono sul suo _yacht_ per aiutarlo a manovrare e ordinò di metter capo su Marsiglia. Egli prevedeva la morte di suo padre; ma di Mercedès che n’era avvenuto? Senza divulgare il suo segreto, Edmondo non poteva dare istruzioni sufficienti ad un messo; d’altra parte ei voleva prendere altre informazioni, per le quali non poteva fidarsi che di sè stesso. Il suo specchio lo aveva rassicurato a Livorno che non correva alcun pericolo di essere riconosciuto, tanto più che ora aveva a sua disposizione tutti i mezzi per contraffarsi. Una mattina adunque, il _yacht_ seguito dalla piccola barca, entrò bravamente nel porto di Marsiglia, e si fermò appunto dirimpetto al luogo di fatale rimembranza, ove venne imbarcato Dantès quella sera che lo trasportarono nel castello d’If. Non fu certamente senza una specie di fremito che vide nella lancia della Sanità venire alla sua volta un gendarme. Ma Dantès con quella perfetta sicurezza di sè che aveva acquistata, gli presentò un passaporto inglese di cui si era provveduto a Livorno, e mediante il lascia-passare straniero, molto più rispettato in Francia di quello dei nazionali, discese senza difficoltà a terra. La prima cosa che scoperse mettendo il piede sulla Cannebière, fu uno degli antichi marinari del _Faraone_. Quest’uomo avea servito sotto i suoi ordini, e si trovava là come un mezzo per assicurare Dantès sui cambiamenti che si erano operati in lui. Andò difilato da quest’uomo, e gli fe’ molte interrogazioni alle quali questi rispondeva senza neppure lasciar supporre, nè dalle parole, nè dalla fisonomia, ricordarsi di aver mai veduto quello che gl’indirizzava la parola. Dantès gli fe’ dono d’una moneta per ringraziarlo delle sue informazioni, un momento dopo sentì il brav’uomo che gli correva dietro, ei si volse. — Perdono, signore, disse il marinaro, vi siete certamente sbagliato, avete creduto di darmi una moneta da 40 soldi, e mi avete dato un napoleone doppio. — Infatto, amico mio, disse Dantès, io mi era sbagliato, ma siccome la vostra onestà merita una ricompensa, così eccovene un altro che vi prego di accettare per bere alla mia salute coi vostri compagni. — Questo fu talmente stordito dal regalo, che non pensò nemmeno a ringraziare colui che glielo faceva, lo guardò e si allontanò dicendo: — Questi è un qualche nababbo che viene dalle Indie. Dantès continuò la sua strada; ciascun passo che faceva gli opprimeva il cuore con una nuova emozione; tutti i suoi ricordi d’infanzia, ricordi indelebili, eternamente presenti al suo pensiero erano là che sorgevano su ciascuna piazza, su ciascun angolo di strada, su ciascun crocicchio di via. Giungendo all’estremità della strada di Noailles, nel vedere i viali di Meillan sentì le ginocchia piegarglisi, e poco mancò non cadesse sotto le ruote di una carrozza, finalmente giunse alla casa già abitata da suo padre. I nasturzi e le clematidi erano disparse dalla pergola, ove altra volta la mano tremante del vecchio le trapiantava con cura. Dantès si appoggiò contro un albero, e per qualche tempo restò pensieroso riguardando gli ultimi piani di quell’umile e povera casa; finalmente si avanzò verso la porta, ne superò il limitare, e domandò se vi fosse un alloggio vuoto, e tanto insistè per visitare il quinto piano, che quantunque questo fosse occupato, il portinaro salì e domandò per parte di uno straniero alle persone che lo abitavano il permesso di vedere le due camere di cui si componeva. Occupavano questo piccolo appartamento un giovine ed una giovane maritati da otto giorni soltanto. Vedendo questi giovani sposi Dantès mandò un profondo sospiro. Del rimanente però nulla più v’era che gli richiamasse alla memoria l’appartamento di suo padre: non v’era più la stessa carta sulle pareti, non più quei vecchi mobili, quegli amici dell’infanzia d’Edmondo, vivi al suo pensiero nei loro più piccoli particolari, tutto era cambiato. Non v’erano che le muraglie che fossero le stesse. Dantès si volse dalla parte del letto, che era nello stesso posto in cui lo teneva l’antico pigionale; suo malgrado gli occhi gli si bagnarono di lagrime: in questo posto il vecchio doveva aver reso l’ultimo sospiro nominando suo figlio. I due giovani guardavano con meraviglia quest’uomo dalla fronte severa, sulle guance del quale scorrevano due grosse lagrime senza che il viso si movesse. Ma come ogni dolore porta seco la sua religione, i giovani non fecero alcuna domanda allo sconosciuto; solo si ritirarono addietro per lasciarlo piangere a tutt’agio, e quando uscì, lo accompagnarono, dicendogli che poteva ritornare quando voleva, e che la loro povera casa gli sarebbe sempre stata ospitaliera. Passando dal piano di sotto, Edmondo si fermò avanti un’altra porta, e domandò se abitava sempre lì un sartore chiamato Caderousse, ma il portinaro gli rispose che l’uomo di cui parlava avendo fatti cattivi affari, era andato ad abitare sulla strada da Bellegarde a Beaucaire, ove conduceva l’albergo del Ponte di Gard. Dantès discese, domandò l’indirizzo del proprietario della casa sui viali di Meillan, andò da lui, fecesi annunziare sotto il nome di lord Wilmor (nome e titolo che stavano scritti sul passaporto) e comprò quella piccola casa per la somma di 25mila fr. il che era almeno 10mila fr. più di quel che valeva, ma Dantès, se gli avessero chiesto mezzo milione, lo avrebbe pagato. Lo stesso giorno i giovani che abitavano il quinto piano furono prevenuti dal notaro che aveva stipulato il contratto, che il nuovo proprietario concedeva loro la scelta di un altro appartamento in tutta la casa, senza aumentare in verun modo di pigione, a condizione che cedessero le due camere che occupavano. Questo strano avvenimento fu materia di discorsi per più di otto giorni a quanti erano soliti di frequentare i viali di Meillan, e fece fare mille congetture, di cui neppur una fu esatta. Ma ciò che più di tutto imbrogliò i cervelli, e turbò tutti gli spiriti, fu di vedere nella stessa sera quel medesimo uomo, che la mattina era stato veduto entrare nella casa dei viali di Meillan, passeggiare nel piccolo villaggio dei Catalani, ed entrare in una povera casa di pescatori, ove restò più di due ore a domandar notizie d’individui parte morti, parte da più anni disparsi. La dimane le persone, presso le quali egli era entrato per fare tutte queste domande, ricevettero in dono una nuovissima barca catalana, guernita di due scorticarie e di altre reti da pescare; questa brava gente avrebbe voluto ringraziare il generoso interrogatore, ma avevano veduto, che dopo avere egli dato alcuni ordini ad un marinaio, era montato a cavallo ed uscito da Marsiglia per la porta di Aix. XXVI. — L’ALBERGO DEL PONTE DI GARD. Coloro che hanno percorso a piedi il mezzogiorno della Francia avranno potuto notare fra Bellegarde e Beaucaire, circa a mezza strada dal villaggio alla città, ma pure un po’ più presso a Beaucaire che a Bellegarde, un piccolo albergo, fuori del quale sta appesa una tavola che stride al più piccolo vento, e su cui è grottescamente dipinto il Ponte di Gard. Questo piccolo albergo, prendendo per direzione il corso del Rodano, è situato dalla parte sinistra della strada, voltando le spalle al fiume; vi è unito ciò che nella Linguadoca vien chiamato giardino, vale a dire che il lato opposto a quello che tiene aperta la porta ai viaggiatori, porge sopra un recinto chiuso su cui vegetano alcuni ulivi, qualche fico selvaggio, colle foglie inargentate dalla polvere della strada; fra i loro intervalli nascono, invece di legumi, il pepe d’India, le cipolline, e lo zafferano; finalmente in uno degli angoli, come una sentinella dimenticata, cresce un gran girasole, lanciando in alto il suo fusto malinconico e flessibile, ed aprendo a ventaglio la cima. Tutti questi alberi grandi e piccoli sono tutti piegati nella direzione del maestrale, uno dei tre flagelli della Provenza. Qua e là sulla circostante pianura, che rassomiglia ad un gran lago di polvere, vegetano alcune spighe di frumento che gli ortolani del paese coltivano senza dubbio per curiosità, e ciascuna delle quali serve di ricovero ad una cicala che perseguita col suo canto aspro e monotono il viaggiatore perdutosi in questa Tebaide. Da sette o otto anni circa questo piccolo albergo era condotto da un uomo ed una donna che avevano per soli domestici una cameriera chiamata Trinetta ed uno stalliere che rispondeva al nome di Pacaud, doppia cooperazione, che del resto era più che sufficiente ai bisogni del servizio, dappoichè un canale scavato fra Beaucaire e Aigues-mortes aveva fatto sostituire vittoriosamente i battelli ai barrocci, e le barche alle _diligenze_. Questo canale, come per rendere più vivi i dispiaceri dei disgraziati albergatori che rovinava, passava fra il Rodano che lo alimenta, e la strada che lo dissecca, a cento passi circa dall’albergo di cui abbiamo dato una breve ma fedele descrizione. Non dimentichiamo un cane, vecchio guardiano per la notte e che abbaiava ciò nonostante contro i passeggieri così nel giorno come fra le tenebre, tanto aveva perduto poco alla volta l’abitudine di vedere viaggiatori. Il conduttore di questo piccolo albergo era un uomo dai 40 ai 42 anni, grande, secco e nerboruto, vero tipo meridionale, cogli occhi infossati e vivaci, col naso a becco d’aquila e i denti bianchi come quelli di un animale carnivoro. I capelli che sembravano, ad onta dei primi soffi dell’età, non potersi risolvere a diventar bianchi, erano come la barba, che portava lunga e ad uso di collare, fitti, crespi e appena sparsi di qualche pelo grigio: il colorito naturalmente scuro era ricoperto ancora da una nuova patina nerastra, presa dall’abitudine che aveva il povero diavolo, di starsi dalla mattina alla sera sul limitare della porta, per vedere se o a piedi, o in carrozza giungeva qualche avventore, aspettativa, che quasi sempre andava perduta, e durante la quale egli non opponeva alcun preservativo all’azione dei raggi divoratori del sole sul suo viso, fuorchè un fazzoletto rosso annodato sulla testa secondo il costume dei mulattieri spagnuoli. Quest’uomo è un’antica nostra conoscenza, è Gaspero Caderousse. Sua moglie al contrario, che nubile si chiamava Maddalena Radelle, era una donna pallida, magra e malaticcia. Nata nei contorni d’Arles aveva veduto, conservando tutte le tracce primitive della bellezza tradizionale delle sue compatriotte, il suo viso scomporsi lentamente negli accessi quasi continui di una di quelle febbri sorde, tanto comuni alle popolazioni vicine agli stagni di _Aigues-mortes_ ed alle paludi della _Camargue_. Ella stava adunque quasi sempre seduta e tremante nel fondo della sua camera situata al primo piano, o stesa sur un sofà, o appoggiata contro il letto, mentre che suo marito faceva la guardia consueta alla porta della casa, fazione che egli prolungava tanto più volentieri, in quanto che ogni volta che si accostava alla sua aspra metà, questa lo perseguitava con eterne lagnanze contro la sorte, alle quali suo marito non rispondeva d’ordinario che con queste filosofiche parole: — Taci là, Carconta! Dio vuole così! Questo soprannome era dato a Maddalena Radelle, perchè era nata nel piccolo villaggio della Carconta, posto fra Salon e Lambèse. Or secondo un costume del paese, le persone vengono quasi sempre chiamate con un soprannome, e suo marito aveva sostituito questo vocabolo alla parola Maddalena troppo dolce, e forse poco sonora pel suo rozzo linguaggio. Però ad onta di questa pretesa rassegnazione ai decreti della Provvidenza, non si creda che il nostro albergatore non sentisse profondamente lo stato deplorabile in cui lo aveva ridotto quel miserabile canale di Beaucaire, e che egli fosse invulnerabile alle incessanti lamentazioni con cui lo perseguitava sua moglie. Era, come tutti i meridionali, un uomo moderato e senza grandi bisogni, ma pieno di vanità per tutte le cose esteriori. Per tal modo nei tempi della sua prosperità, non lasciava mai passare nè una festa di villaggio, nè una processione senza farvisi vedere con la sua Carconta; l’uno col suo costume pittoresco degli uomini del mezzogiorno, e che partecipa ad un tempo del catalano e dell’andaluso, l’altra col grazioso abito delle donne d’Arles, che sembra preso dalla Grecia e dall’Arabia. Ma un poco per volta, catene da orologio, collane, cinture a mille colori, giubbe gallonate, vesti di velluto, calze ricamate, ghette variopinte, scarpe con fibbie d’argento erano sparite; e Gaspero Caderousse, non potendo più farsi vedere nell’altezza del suo passato splendore, aveva rinunciato per sè e per sua moglie a tutte queste pompe mondane, di cui sentiva, rodendosi sordamente il cuore, i festevoli rumori fino sulla soglia del suo povero albergo, che continuava a conservare ancora più come un ricovero che come una speculazione. Caderousse, secondo la sua abitudine, erasi fermato una gran parte della mattina avanti la porta, girando lo sguardo malinconico da una piccola zolla intorno a cui erano alcune galline, alle due estremità della strada deserta che si perdevano una al mezzogiorno e l’altra al nord; quando d’improvviso la voce aspra di sua moglie lo costrinse ad abbandonare il posto. Egli rientrò brontolando e salì al primo piano, lasciando però sempre aperta e spalancata la porta, come per invitare i viaggiatori a non dimenticarlo passando. Nel momento che Caderousse entrava, la grande strada di cui abbiamo parlato, e che veniva percorsa dal suo sguardo, era nuda, e solitaria quanto il deserto, dalla parte di mezzogiorno: si estendeva bianca ed infinita fra due file d’alberi sottili, e si comprenderà facilmente che nessun viaggiatore libero di scegliere un’altra ora del giorno si sarebbe avventurato in questo spaventevole Sahara. Ciò non ostante, contro tutte le probabilità, se Caderousse fosse rimasto al suo posto avrebbe potuto scorgere dalla parte di Bellegarde, un cavaliere ed un cavallo camminare con quell’andamento cortese ed amichevole che indica le migliori relazioni fra l’uomo e l’animale; il cavallo era di razza ungherese, e andava comodamente al trotto; il cavaliere era un prete vestito di nero col cappello a tre angoli. Ad onta dell’eccessivo calore d’un sole ardente nell’ora del mezzogiorno, essi non andavano che di un trotto molto regolato. Questo gruppo, giunto dinanzi alla porta, si fermò. Sarebbe stato difficile il risolvere se l’uomo fermò il cavallo, o il cavallo fermò l’uomo; in ogni modo il cavaliere mise il piede a terra, e tirando l’animale per le redini, lo legò ad un arpione di uno sportello rovinato, che non reggeva più se non sopra un cardine; quindi avanzandosi verso la porta, e asciugandosi la fronte grondante sudore con un fazzoletto di cotone rosso, l’abate battè tre colpi sul limitare, col puntale di ferro del bastone che aveva in mano. Tosto il gran cane nero si alzò, fece qualche passo, abbaiando e mostrando i denti bianchi ed acuti, doppia dimostrazione ostile, che provava la poca abitudine che aveva della società. Subito dopo, un passo grave rumoreggiò sulla scala di legno che si arrampicava lungo il muro, e per la quale discendeva, curvandosi all’indietro, l’oste del povero albergo, sulla soglia del quale stava il prete. — Eccomi! diceva Caderousse tutto maravigliato; eccomi! vuoi tu tacerti, Margotin! non abbiate paura, signore, egli abbaia, ma non morde. Voi desiderate del vino, n’è vero? perchè fa un sole tremendo... Ah! perdono, interruppe Caderousse, vedendo con quale specie di passeggiere parlava; perdono, io non sapeva chi avevo l’onore di ricevere. Che desiderate, sig. abate? sono ai vostri ordini. Il prete guardò quest’uomo per due o tre secondi con una attenzione straordinaria, e sembrò cercasse ancora di attirare sopra di sè l’attenzione dell’albergatore; ma vedendo che i lineamenti di costui non esprimevano altro sentimento che la sorpresa di non avere una risposta, giudicò fosse tempo di finirla e disse con un accento italiano ben pronunziato: — Non siete voi il sig. Caderousse? — Sì signore, disse l’oste, forse meravigliato ancora più della domanda che del silenzio; sono effettivamente Gaspero Caderousse per servirvi. — Gaspero Caderousse?... Sì,... credo bene che sia questo il nome e cognome. Voi dimoravate in altro tempo sui viali di Meillan, n’è vero, al quarto piano? — Precisamente. — Ed esercitavate la professione di sartore? — Sì, ma la mia professione andò male, fa tanto caldo in Marsiglia, che credo, finirà che nessuno si vestirà più. Ma a proposito di calore, non volete voi prender qualche cosa per rinfrescarvi, signor abate? — Sia pure. Datemi una bottiglia del miglior vino che abbiate, e poi riprenderemo la conversazione, se non vi dispiace, al punto in cui la lasciamo. — Come vi farà più piacere, sig. abate, — disse Caderousse, e per non perdere l’occasione di esitare una delle ultime bottiglie di vino di Cahors che gli restavano, Caderousse si affrettò ad alzare una botola che copriva un’apertura fatta nel pavimento della camera a pian terreno che serviva ad un tempo di sala e di cucina. Allorchè in capo a cinque minuti ricomparve, ritrovò l’abate assiso sur uno sgabello col gomito appoggiato su di una lunga tavola; mentre che Margotin, sembrando aver fatto pace con lui, aspettava, che contro il solito questo singolare viaggiatore prendesse qualche cosa, allungava su la coscia il suo collo scarno, e l’occhio languente. — Siete solo? domandò l’abate all’oste, mentre che questi gli metteva davanti la bottiglia, ed il bicchiere. — Oh! mio Dio, sì solo o circa, poichè io ho una moglie che non mi può aiutare in cosa alcuna, attesochè la povera Carconta è quasi sempre malata. — Ah! siete ammogliato, disse l’abate con una specie d’interessamento, girando intorno a sè uno sguardo, che sembrava stimare il tenue valore del meschino mobilio della camera. — Vi accorgete che non sono ricco, n’è vero? disse sospirando Caderousse, ma per essere fortunato in questo mondo non basta sempre l’essere onesto uomo. L’abate fissò uno sguardo indagatore su di lui. — Sì, un onesto uomo; di ciò posso vantarmi, disse l’oste sostenendo lo sguardo dell’abate, con una mano sul petto e alzando la testa di basso in alto, e, ai giorni nostri non tutti possono dire altrettanto. — Tanto meglio, se è vero ciò, di cui vi vantate; poichè io ho la ferma convinzione che presto o tardi l’uomo onesto viene ricompensato, ed il perverso punito. — Il vostro stato vi fa dir così, sig. abate, il vostro stato vi fa dir così, ripetè Caderousse con un’amara espressione. Il fatto però ci mostra che noi siamo liberi di poter credere il contrario di ciò che dite. — Avete torto di parlar così, disse l’abate, perché forse fra momenti sarò per voi una prova di ciò che asserisco. — Che volete dire? domandò Caderousse con meraviglia. — Voglio dire, che prima di tutto bisogna che mi assicuri se voi siete realmente quello col quale devo aver che fare. — Quali prove volete che io vi dia? — Avete voi conosciuto nel 1814, o 1815, un marinaio che si chiamava Dantès? — Dantès! se io ho conosciuto il povero Edmondo? Lo credo bene! era anzi uno dei miei migliori amici! gridò Caderousse il cui volto erasi fatto color di porpora, mentre che l’occhio chiaro e sicuro dell’abate sembrava dilatarsi per coprire interamente colui che interrogava. — Sì, io credo che infatto si chiamasse Edmondo. — Se egli si chiamava Edmondo? il giovinotto! lo credo bene! tanto è vero, quanto io mi chiamo Gaspero Caderousse. E che n’è divenuto, signore, di questo povero Edmondo? continuò l’albergatore, l’avreste voi conosciuto? ov’è al presente? è libero? è felice? — È morto prigioniero, più disperato e più miserabile dei forzati che trascinano la catena al bagno di Tolone. Un pallore mortale successe al rossore che si era sparso sulle prime sul viso di Caderousse. Egli si alzò, e l’abate lo vide asciugarsi una lagrima con un canto del fazzoletto che gli serviva di berretto. — Povero giovinotto, mormorò Caderousse. Ebbene ecco ancora un’altra prova di ciò che io vi diceva, che il destino in questa vita non è favorevole che ai malvagi... Ah! continuò Caderousse con quel linguaggio animato delle genti del mezzogiorno, questo mondo va di male in peggio. Che piova dunque una volta dal cielo per due giorni polvere da cannone, e poi subito dopo, un’ora di fuoco! così sarà tutto finito. — Sembra che voi amaste molto di cuore questo giovine? domandò l’abate. — Sì, io lo amava molto, disse Caderousse, quantunque debba rimproverarmi di averne per un momento invidiata la felicità. Ma dopo, ve lo giuro, parola di Caderousse, ne ho pianto molto la sorte infelice. Fecesi un momento di silenzio, durante il quale lo sguardo fisso dell’abate non cessò di studiare la fisonomia mobile dell’albergatore. — E voi lo avete conosciuto, il povero giovine? continuò Caderousse. — Io fui chiamato al suo letto di morte per prestargli gli ultimi uffici, rispose l’abate. — E di che male è morto? domandò Caderousse con voce soffocata. — E di qual male si muore in prigione all’età di trent’anni, se non è la prigione stessa che uccide? Caderousse asciugò il sudore che gli cadeva dalla fronte. — Ciò che vi ha di strano in tutto questo, riprese l’abate, si è che Dantès, al letto di morte, mi ha giurato di non sapere, la vera causa della sua prigionia. — È vero, è vero, mormorò Caderousse, egli non poteva saperla; no, il povero giovine non mentiva. — Ed è appunto perciò che mi ha incaricato di porre in chiaro ciò che non aveva mai potuto rischiarare da sè stesso; e di riabilitare la sua memoria, se questa avesse ricevuta qualche macchia. E lo sguardo dell’abate divenendo sempre più fisso, divorò l’espressione quasi tetra che apparve sul viso di Caderousse. — Un ricco inglese, continuò l’abate, che fu suo compagno di prigione, e che venne liberato alla seconda restaurazione, era possessore di un diamante di gran valore. Uscendo di prigione, siccome Dantès lo aveva assistito come un fratello in una lunga malattia che aveva sofferto, volle lasciargli una testimonianza della sua riconoscenza, e gli regalò questo diamante. Dantès invece di servirsene per sedurre i carcerieri, che d’altra parte potevano prenderlo, e poi tradirlo, lo custodì sempre gelosamente pel caso che uscisse di prigione; poichè se fosse uscito la sua fortuna era assicurata colla vendita di quel solo diamante. — Era dunque, domandò Caderousse con occhi ardenti, un diamante di sommo valore? — Tutto è relativo, rispose l’abate; era di gran valore per Edmondo; è stato stimato 50 mila franchi. — 50 mila franchi! esclamò Caderousse; sarà stato grosso come una noce? — No, disse l’abate, ma ne potrete giudicare da voi stesso avendolo io in dosso. — Caderousse sembrò cercare con gli occhi sotto le vesti dell’abate il deposito di cui parlava. L’abate cavò di saccoccia una scatolina di marrocchino nero, l’aprì, e fece brillare innanzi agli occhi abbagliati di Caderousse la sfavillante meraviglia, legata sopra un anello di lavoro ammirabile. — E questo vale 50 mila franchi? domandò avidamente Caderousse. — Senza la legatura, che ancor essa è di un certo valore; — indi chiuse la scatoletta, e rimise in saccoccia il diamante che continuava a sfavillare nel fondo della immaginazione di Caderousse. — Ma come vi trovate possessore di questo diamante? domandò Caderousse; Edmondo vi ha dunque costituito suo erede? — No, ma suo esecutore testamentario. Io aveva tre buoni amici ed una fidanzata, mi diss’egli; tutti e quattro, ne son certo, mi compiangono amaramente; uno di questi miei buoni amici si chiama Caderousse. (Caderousse fremè). — L’altro, continuò l’abate senza mostrare di essersi accorto dell’emozione di Caderousse, si chiamava Danglars; il terzo, soggiunse, benchè mio rivale, mi amava egualmente. Un sorriso diabolico illuminò la fisonomia di Caderousse, che fece un movimento per interrompere l’abate. — Aspettate, disse l’abate, lasciatemi finire, e se avrete qualche osservazione a farmi, la farete in breve. «L’altro, sebbene mio rivale, mi amava egualmente, e si chiamava Fernando; in quanto alla mia fidanzata, il suo nome era....» Io non mi ricordo più il nome della fidanzata, disse l’abate. — Mercedès, soggiunse Caderousse. — Ah sì, è vero, riprese l’abate con sorriso soffocato, Mercedès... — Ebbene? dimandò Caderousse. — Datemi una bottiglia d’acqua, disse l’abate. — Caderousse si sollecitò ad obbedire. L’abate empì il bicchiere, e bevette qualche sorso. — A che n’eravamo noi? domandò di poi posando il bicchiere sulla tavola. La fidanzata si chiamava Mercedès; sì, è questo. «Voi andrete da Mercedès... (è Dantès che parla, capite bene?). E venderete questo diamante, ne farete cinque parti, e le dividerete fra questi miei buoni amici, i soli esseri che mi hanno amato su questa terra!» — In che modo cinque parti? disse Caderousse; non avete nominate che quattro persone. — Perchè la quinta è morta, da quanto mi è stato detto... era essa il padre di Dantès. — Pur troppo, è vero! disse Caderousse commosso dalle passioni che si urtavano nel suo cuore; pur troppo! sì, il pover’uomo è morto! — Ho saputo quest’avvenimento a Marsiglia, rispose l’abate sforzandosi di comparire indifferente; ma è tanto tempo che è avvenuta questa morte, che non ho potuto raccogliere nessun particolare.... sapreste voi dirmi qualche cosa di quel vecchio? — Eh! disse Caderousse, chi lo può sapere meglio di me? Io abitava porta a porta col buon uomo... Oh mio Dio! sì, un anno appena dopo la sparizione di suo figlio, morì il povero vecchio! — Ma di che morì? — I medici nominarono la sua malattia; è morto di una gastro-enterite, credo: quelli che lo conoscevano dicevano che era morto di dolore... e io, che l’ho quasi veduto morire, dico che è morto... — Caderousse si fermò. — Morto di che? riprese con ansietà l’abate. — Morto di fame. — Di fame! gridò l’abate scuotendosi sullo sgabello... di fame!... il più vile degli animali non muore di fame; i cani che vanno errando per le contrade trovano una mano compassionevole che loro getta un tozzo di pane! e un uomo, un cristiano è morto di fame in mezzo ad altri uomini, che si dicono cristiani come lui! impossibile! oh! ciò è impossibile! — Dissi ciò che dissi, riprese Caderousse. — Tu hai torto, disse una voce dalle scale; di che ti mischi? — I due uomini si voltarono e videro tra le sbarre della scala la testa malaticcia della Carconta. Essa erasi trascinata fin là, ed ascoltava la conversazione, assisa sull’ultimo scalino colla testa appoggiata sulle ginocchia. — Di che vieni tu a mischiarti, o moglie? disse Caderousse. Questo signore domanda delle informazioni, la cortesia vuole che gli si diano. — Ma prudenza vuole che ti taccia. Chi ti dice con quali intenzioni ti si vuol far parlare, imbecille! — Con una intenzione eccellente, ve ne rispondo io, disse l’abate. Vostro marito adunque non ha nulla a temere, purchè mi risponda francamente. — Nulla a temere... Sì, si comincia con delle belle promesse, poi uno si contenta di dire che non vi ha nulla a temere, quindi se ne va senza custodir una parola di ciò che è stato detto, e un bel mattino cade la disgrazia sopra una povera famiglia senza che si sappia da che parte viene. — State tranquilla, buona donna, rispose l’abate, la disgrazia non vi verrà da parte mia, ve lo garantisco. La Carconta brontolò qualche parola che non si potè capire, lasciò ricadere sulle ginocchia la testa che per un momento aveva sollevata, e continuò a tremare per la febbre, lasciando suo marito libero di continuare la conversazione, ma situandosi in modo da non perderne una parola. Frattanto l’abate aveva bevuto qualche sorso d’acqua e si era rimesso. — Ma, riprese egli, questo disgraziato vecchio era adunque talmente abbandonato da tutti che dovè perire di una tal morte? — Oh! signore, riprese Caderousse, Mercedès la catalana ed il sig. Morrel non lo avevano abbandonato; ma il povero vecchio aveva presa una profonda antipatia per Fernando, quello stesso, continuò Caderousse con sorriso ironico, che Dantès vi disse essere uno dei suoi amici. — Ma dunque non lo era? domandò l’abate. — Gaspero, Gaspero, mormorò la donna dall’alto della scala; fa bene attenzione a ciò che stai per dire. — Caderousse fece un movimento d’impazienza e senza dare veruna risposta a quella che lo interrompeva: — Si può egli mai essere l’amico di quello a cui si vuol portar via la fidanzata? rispose egli all’abate. Dantès, che aveva il cuore d’oro, chiamava tutti coloro suoi amici... povero Edmondo... eppure è meglio che non abbia saputo nulla, avrebbe durata troppo fatica a perdonar in punto di morte... quantunque, che che se ne dica, continuò Caderousse col suo linguaggio che non mancava di una specie di rozza poesia, ho più paura della maledizione dei morti che dell’odio dei vivi. — Imbecille, gli disse la Carconta. — Sapete voi dunque, continuò l’abate, ciò che questo Fernando ha fatto contro Dantès? — Se lo so? lo credo bene! — Parlate allora. — Gaspero, fa ciò che vuoi, sei il padrone, disse la moglie, ma se mi dai retta, non dirai nulla. — Questa volta, moglie mia, credo che tu abbia ragione. — Così voi non volete dir nulla, riprese l’abate. — E a che serve? disse Caderousse. Se Edmondo fosse vivo, e che una volta per tutte venisse da me per conoscere tutti i suoi amici e nemici, io parlerei; ma egli ora è sotterra, per quanto mi avete detto, non può più avere odii, non può più vendicarsi, dimentichiamo tutto. — Volete allora, disse l’abate, che io dia a questi individui, che voi mi qualificate per indegni e falsi amici, una ricompensa destinata alla fedeltà? — È vero, avete ragione, disse Caderousse. D’altra parte ora a che servirebbe loro, il legato del povero Edmondo, sarebbe una goccia d’acqua caduta in mare. — Senza calcolare che quella gente può schiacciarti con un gesto, disse la moglie. — Ed in qual modo? coloro adunque sono divenuti ricchi e potenti? — Voi dunque non sapete la loro storia? — No, raccontatemela. Caderousse parve riflettere un momento. — No, in verità, diss’egli, sarebbe troppo lunga. — Siete libero di tacervi, amico mio, disse l’abate con l’accento della più grande indifferenza, ed io rispetto i vostri scrupoli, d’altra parte il vostro modo di condurvi è veramente da uomo dabbene; non ne parliamo adunque più. Di che cosa era io incaricato? di una semplice formalità: venderò adunque questo diamante. — E lo cavò di saccoccia facendolo brillare una seconda volta innanzi agli occhi di Caderousse. — Vieni adunque a vedere, moglie mia, disse questi con voce rauca. — Un diamante! disse la Carconta levandosi e discendendo, con passo abbastanza fermo, la scala. E che cosa è dunque questo diamante? — Ah! tu non hai inteso? disse Caderousse; è un diamante che il giovine ci ha lasciato in legato; prima a suo padre, poi ai suoi tre amici Fernando, Danglars ed io, e a Mercedès sua fidanzata; questo diamante costa 50mila fr. — Oh! il bel gioiello! diss’ella. — Il quinto allora di questa somma appartiene a noi? disse Caderousse. — Sì, rispose l’abate, e più la parte del padre che mi credo autorizzato a ripartire su voi quattro. — E perchè su noi quattro? domandò la Carconta. — Perchè voi siete i quattro amici d’Edmondo. — Non sono amici coloro che tradiscono, mormorò sottovoce a sua volta la donna. — Sì, sì, disse Caderousse, e ciò diceva anch’io. È quasi una profanazione, quasi un sacrilegio, il dare una ricompensa al tradimento e fors’anche al delitto. — Siete voi che lo volete, rispose tranquillamente l’abate, rimettendo il diamante nella tasca della sottana; ora datemi l’indirizzo degli amici di Edmondo affinchè io possa eseguire le sue ultime volontà. Il sudore colava a grosse gocce dalla fronte di Caderousse; egli vide l’abate alzarsi, e dirigersi verso la porta, come per dare un’occhiata d’avviso al cavallo e ritornare. Caderousse e sua moglie si guardavano con una espressione indicibile. — Il diamante sarebbe tutto nostro... per intero! disse Caderousse. — Lo credi tu, rispose la donna. — Un uomo del suo sacro carattere non vorrà ingannarci. — Fa come vuoi, disse la donna: in quanto a me, non me ne mischio. — E tutta tremante, riprese la via delle scale, i denti le battevano, ad onta che facesse un caldo ardente. Sull’ultimo scalino si fermò un momento: — Rifletteteci bene, Gaspero, diss’ella. — Io sono risoluto, rispose Caderousse. — La Carconta rientrò sospirando nella sua camera: il piancito si sentì stridere sotto i suoi passi fino a che ebbe raggiunto il sofà sul quale cadde assisa come un corpo morto. — A che siete voi risoluto? domandò l’abate. — A dirvi tutto, rispose Caderousse. — In verità, credo che sia ciò che vi ha di meglio a farsi; non che io abbia alcuna importanza a saper cose che voi vorreste nascondere, ma finalmente, se potreste condurmi a distribuire i legati secondo i voti del testatore, ciò sarebbe molto meglio. — Lo spero, rispose Caderousse con le guance infiammate dal rossore della speranza e della cupidigia. — Io vi ascolto, disse l’abate. — Aspettate, riprese Caderousse, potremmo essere interrotti nel punto più importante, e sarebbe disgradevole; d’altra parte è inutile che si sappia, che voi siete venuto qui. — Andò alla porta dell’albergo che chiuse, e per maggior cautela vi mise la sbarra della notte. In questo intervallo l’abate scelse il posto per ascoltare a suo bell’agio; si assise in un angolo in modo da rimanere nell’ombra, mentre che la luce sarebbe caduta pienamente sul viso del suo interlocutore. In quanto a lui colla testa inclinata, le mani giunte o piuttosto serrate, si preparava ad ascoltare attentamente. Caderousse avvicinò uno sgabello, e si assise in faccia all’abate. — Sovvienti che io non ti ho spinto a nulla, disse la voce tremolante della Carconta, come se, attraverso al pavimento, avesse potuto vedere la scena che si stava preparando. — Sta bene, sta bene, disse Caderousse; non ne parliamo più; prendo tutto su di me. — E incominciò così. XXVII. — IL RACCONTO. — Prima di tutto, disse Caderousse, debbo pregarvi di promettermi una cosa. — E quale? domandò l’abate. — Che non si saprà mai che io vi ho dato questi particolari, in caso che aveste bisogno di farne qualche uso; perchè quelli di cui sto per parlarvi sono ricchi e potenti, e se avessero a toccarmi ancora colla sola punta di un dito mi stritolerebbero come vetro. — State tranquillo, mio buon amico, vi assicuro sul mio carattere che le vostre parole moriranno nel mio seno. Ricordatevi che non abbiamo altro scopo che di eseguire degnamente le ultime volontà del nostro amico. Parlate adunque senza riguardi e senza prevenzione di odio; dite la verità tutta intera. Io non conosco, e forse non conoscerò mai le persone di cui siete per parlarmi; d’altra parte sono italiano e non francese, e dopo compite l’ultime volontà di un moribondo ritorno in patria. Questa sicura promessa parve assicurare del tutto Caderousse. — Ebbene! in questo caso, disse Caderousse, io voglio dirvi anche più, io devo disingannarvi sulle amicizie che il povero Edmondo credeva sincere e affettuose. — Cominciamo da suo padre, se vi piace. Edmondo mi ha parlato molto di questo vecchio pel quale nutriva un grandissimo amore. — L’istoria è trista, disse Caderousse, tentennando la testa. Voi probabilmente ne conoscerete il principio. — Sì, Edmondo mi ha raccontato le cose fino al momento in cui fu arrestato, in una piccola osteria vicino Marsiglia. — Alla _Réserve_. Oh! mio Dio, sì io vedo ancora la cosa come se accadesse ora. — Non fu al pranzo dei suoi sponsali? — Sì, a quel pranzo che ebbe un allegro principio e un tristo fine. Un commissario di polizia seguito da quattro fucilieri entrò, e Dantès fu arrestato. — Ecco fin dove giunge quello che so io, disse l’abate. Dantès stesso non sapeva che ciò che gli era puramente personale; poichè non ha più riveduto nessuna delle cinque persone che ho nominato, nè ha più inteso parlare di loro. — Dopochè Dantès fu arrestato il sig. Morrel corse per prendere delle informazioni; esse furono tristissime. Il vecchio Dantès ritornò solo in casa sua, piegò gli abiti di nozze piangendo, passò tutta la giornata in andare e venire per la sua camera, e la sera non dormì; io che abitava sotto di lui, lo sentii in moto tutta la notte; io stesso, debbo dirlo, parimente non dormii: il dolore di questo povero padre mi faceva molto male, e ciascuno dei suoi passi ripercuotevami nel cuore, come se mi avesse in effetto posto il piede sul petto. La dimane Mercedès venne a Marsiglia per implorare la protezione del sig. de Villefort; ma nulla ottenne; dopo andò subito a far visita al vecchio. Quando lo vide così tristo ed abbattuto, che aveva passata tutta la notte senza riposare, e non aveva mangiato nel giorno innanzi, volle condurlo seco per prenderne cura; ma il vecchio non ha mai voluto acconsentirvi. No, diceva egli, non lascerò mai questa casa perchè son certo che il mio povero figlio mi ama sopra ogni altra cosa, e se esce di prigione, correrà a visitare me pel primo. Che direbbe se non fossi là ad aspettarlo? Io ascoltava tutto dal pianerottolo, perchè avrei desiderato che Mercedès avesse persuaso il vecchio a seguirla; quei passi ripetuti e giorno e notte sulla mia testa, non mi lasciavano avere un momento di riposo. — E voi non salivate mai a consolarlo? — Ah! sig. abate, non si giunge mai a consolare che coloro che vogliono esser consolati, ed egli non voleva esserlo. D’altra parte, non so perchè, sembrava che avesse repugnanza a vedermi. Una notte però, che intesi i suoi singhiozzi, non potei più resistere, e salii: ma quando giunsi alla porta, non singhiozzava più; pregava. Egli ritrovava parole eloquentissime, suppliche pietose che ora non saprei ripetere: era più che pietà, era più che dolore, ed io che non sono bigotto, diceva a me stesso «son ben felice d’esser solo e di non aver figli, perchè se io fossi padre e soffrissi un dolore come quello di questo povero vecchio, non potendo ritrovare nella mia memoria, nè nel mio cuore tutto ciò che egli dice al buon Dio, me ne andrei dritto dritto a precipitarmi nel mare per non soffrire più lungamente.» — Povero padre! mormorò l’abate. — Di giorno in giorno egli viveva più solo e più isolato; spesso il sig. Morrel o Mercedès venivano per vederlo, ma la sua porta era chiusa; e, quantunque fossero ben sicuri che era in casa, non rispondeva ad alcuno. Un giorno che contro il solito ricevè Mercedès, e che la povera ragazza, quantunque essa pure disperata, cercava confortarlo; «Credimi, figlia mia, egli disse, Edmondo è morto, e invece di aspettar lui, egli aspetta noi... Io sono ben fortunato, perchè essendo più vecchio, sarò il primo a rivederlo.» — Per quanto uno sia buono, si stanca ben presto di vedere le persone che vi attristano: il vecchio Dantès finì per rimanere affatto solo. Io non vedeva più salire da lui alcuno, se non a quando a quando certi sconosciuti che discendevano poi con degli involti mal nascosti: conobbi in seguito che cosa erano quegl’involti, egli vendeva a poco a poco tutto ciò che aveva, per vivere. Finalmente il buon uomo terminò i suoi poveri arredi... era debitore di tre rate di pigione; fu minacciato di esser cacciato; domandò una dilazione di otto giorni, che gli venne accordata. Io so questi particolari perchè l’esattore entrò da me, uscendo da lui. Nei primi tre giorni lo intesi camminare come d’ordinario; ma nel quarto non sentii più nulla. Mi arrischiai a salire, la porta era chiusa; guardai traverso la serratura, e lo vidi tanto pallido ed estenuato, che credendolo malato ne feci prevenire il sig. Morrel e corsi da Mercedès. Tutti e due si sollecitarono a venire. Morrel condusse seco un medico, che osservando in lui una gastro-enterite ordinò la dieta. Io era presente, signore, non dimenticherò mai il sorriso del vecchio a questa condizione. Da quel momento egli aprì la porta; aveva una scusa per non mangiar più: «il medico aveva ordinata la dieta.» L’abate mandò una specie di gemito. — Questa istoria desta in voi dell’interessamento? disse Caderousse. — Sì, rispose l’abate; essa è commovente. — Mercedès ritornò: ella lo trovò così cambiato che come la prima volta, lo voleva far trasportare nella sua capanna. Questo era pure il parere di Morrel; ma il vecchio gridò tanto, che essi ebbero paura. Mercedès restò al capezzale del letto, Morrel si allontanò facendo segno alla catalana ch’ei lasciava una borsa sul caminetto. Ma, forte dell’ordinazione del medico, il vecchio non volle prender nulla. Finalmente, dopo nove giorni di disperazione e di astinenza, il vecchio spirò, maledicendo quelli che erano stati causa della sua disgrazia, e dicendo a Mercedès: «Se un giorno vedrete il mio Edmondo, ditegli che io muoio benedicendolo.» L’abate si alzò, fe’ due giri intorno alla camera portando la mano fremente all’arida gola. — E voi credete che egli sia morto...? — Di fame... signore, disse Caderousse, ne rispondo io, quanto è vero che siamo qui. L’abate prese con mano convulsa il bicchiere d’acqua ancora a metà, lo vuotò di un fiato, e si rimise a sedere con gli occhi rossi e le guance pallide. — Confessate che fu una gran disgrazia, diss’egli con voce rauca. — E tanto più grande, perchè causata da finta amicizia. — Passiamo adunque a questi uomini, disse l’abate; ma pensatevi bene, continuò egli con un tuono quasi minaccioso, vi siete impegnato a dirmi tutto; sentiamo dunque, chi son quelli che hanno fatto morire il figlio di disperazione, ed il padre di fame? — Fernando e Danglars, due uomini gelosi di Edmondo, uno per amore, l’altro per ambizione. — Ed in qual modo si manifestò questa loro gelosia? — Essi denunziarono Edmondo come messo bonapartista. — Ma chi dei due lo denunciò? chi dei due fu il vero colpevole? — Tutti e due, l’uno scrisse la lettera, l’altro la mise alla posta. — Questa lettera dove fu scritta? — All’osteria stessa della _Réserve_ il giorno prima degli sponsali. — Sta bene, sta bene, mormorò l’abate. Oh! Faria! Faria! come conoscevi bene gli uomini e le cose! — Che dite, signore? domandò Caderousse. — Niente! continuate. — Danglars scrisse la denunzia con la mano sinistra, perchè non fosse riconosciuto il carattere, e Fernando l’inviò. — Ma, gridò d’improvviso l’abate, voi eravate là! — Io? disse Caderousse meravigliato, e chi vi ha detto che v’era? — L’abate s’accorse che erasi lasciato troppo trasportare. — Nessuno, disse egli, ma per essere così bene informato di tutti questi particolari, bisogna essere stato presente. — È vero, disse Caderousse con voce soffocata: io vi era. — E non vi siete opposto a quest’infamia? disse l’abate; voi dunque siete loro complice. — Signore, essi mi avevano fatto tanto bere che quasi avevo perduto la ragione: non vedeva più che attraverso una nebbia. Dissi quanto poteva dire un uomo in quello stato, ma essi mi risposero, essere stato uno scherzo che avevano voluto fare, e che non avrebbe avuto alcuna conseguenza. — Va bene, disse l’abate, voi avete parlato con franchezza; e l’accusarsi in tal modo è un meritare il perdono. — Disgraziatamente Edmondo è morto, e non mi ha perdonato. — Egli ignorava tutto ciò. — Ma ora forse lo saprà. Si dice che i morti sappian tutto. Fecesi un momento di silenzio: l’abate si era alzato e passeggiava pensieroso, ritornò al suo posto e si assise di bel nuovo. — Voi mi avete nominato due o tre volte un certo sig. Morrel, diss’egli. Chi era quest’uomo? — Era l’armatore del _Faraone_, il padrone e protettore di Dantès. — E qual parte ha sostenuto in tutta questa trista faccenda? — La parte dell’uomo onesto, coraggioso e affezionato. Venti volte fu ad intercedere per Edmondo; quando ritornò l’Imperatore scrisse, pregò, minacciò, e tanto che, nella seconda restaurazione fu grandemente perseguitato come bonapartista. Dieci volte, come vi ho detto, è venuto dal padre di Dantès per ritrovarlo in casa sua, e il giorno prima della sua morte aveva lasciato sul caminetto una borsa colla quale furono pagati i debiti del buon uomo e le spese dei funerali; dimodochè il povero vecchio, potè almeno morire come aveva vissuto senza far danno ad alcuno. Sono io ancora possessore di quella borsa, una borsa di cordonetto rosso. — E questo sig. Morrel vive ancora? — Sì, disse Caderousse. — In questo caso dev’essere un uomo benedetto dal cielo, dev’esser ricco... felice? — Caderousse sorrise amaramente. — Sì, felice come lo sono io, diss’egli. — Come! Morrel sarebbe disgraziato! gridò l’abate. — Egli è vicino alla miseria, e peggio ancora, è vicino al disonore. — E come? — Sì, rispose Caderousse; dopo vent’anni di fatiche, dopo essersi acquistato il posto più onorevole nel commercio di Marsiglia, Morrel è rovinato da cima a fondo. In due anni ha perduto cinque bastimenti, sofferto tre fallimenti terribili ed ora non ha più altre speranze che in quello stesso _Faraone_, che era comandato dal povero Dantès, e che deve ritornare dalle Indie con un carico di cocciniglia e d’indaco. Se questo bastimento si perde come gli altri, è rovinato del tutto. — E il disgraziato ha moglie, figli? — Sì, ha una moglie che in tutte queste avversità si è condotta come una santa; ha una figlia che stava per isposare l’uomo da lei amato, e la famiglia del quale si è opposta ad un matrimonio colla figlia di un rovinato; finalmente ha un figlio sotto-tenente nell’esercito. Ma voi lo capirete bene, tutto ciò invece di sollevarlo non fa che raddoppiare il dolore del pover’uomo; se fosse stato solo si sarebbe bruciate le cervella, e tutto sarebbe finito. — Ciò è spaventevole! mormorò l’abate. — Ecco come in questa vita viene ricompensata la virtù, disse Caderousse. Osservate, io che non ho mai fatto una cattiva azione a nessuno, meno quella che vi ho raccontato, sono nella miseria; dopo che avrò veduto morire la povera mia moglie di febbre senza poter fare nulla per lei, morirò di fame come è morto il padre di Dantès, mentre che Fernando e Danglars nuotano nell’oro. — E come avviene ciò? — Perchè ad essi tutto gira in bene, nel mentre che ai galantuomini gira in male. — Che è divenuto di questo Danglars, il più colpevole, n’è vero, l’instigatore? — Che n’è divenuto? egli abbandonò Marsiglia con una raccomandazione di Morrel, che ignorava il suo delitto, e potè entrare commesso d’ordine presso un banchiere spagnuolo. All’epoca della guerra di Spagna, s’incaricò di una parte delle forniture dell’esercito francese, e fece fortuna: allora con questo primo danaro, speculò sui fondi pubblici, ed ha triplicato, e quadruplicato i suoi capitali, e, vedovo egli pure della figlia del suo banchiere, sposò una vedova, la sig.ª di Nargonne, figlia di de Servieux ciambellano del Re attuale, e che gode dei più grandi favori in corte. Divenuto milionario lo hanno creato conte, dimodochè ora è il conte Danglars che ha un palazzo nella strada di Mont-Blanc, dieci cavalli nelle scuderie, sei lacchè in anticamera, e non so quanti milioni in casa. — Ah! fece l’abate con un’espressione singolare; ed egli è felice. — Ah! felice, chi può dir questo? la felicità e l’infelicità sono il segreto delle mura, le mura hanno orecchie, ma non lingua, se uno è felice con una grande fortuna, Danglars è felice. — E Fernando? — Fernando? è tutt’altra cosa. — Ma come mai un povero pescatore catalano senza risorse e senza educazione ha potuto fare una fortuna? ciò mi sorprende, ve lo confesso. — E ciò pure sorprende tutti; bisogna che nella sua vita siavi qualche strano segreto che nessuno sa. — Ma finalmente per quali gradini visibili ha potuto salire a quest’alta fortuna od a quest’alta posizione? — Ad entrambe, signore, ad entrambe: egli ha fortuna insieme e posizione. — Ma è una favola che mi raccontate? — Ne ha tutte le sembianze, ma è una cosa reale, ascoltate e risolvete voi stesso. Pochi giorni prima che ritornasse Dantès, Fernando era caduto in coscrizione. I Borboni lo lasciarono stare tranquillo ai Catalani, ma al ritorno di Napoleone fu ordinata una leva straordinaria, e Fernando fu costretto a partire. Io pure partii; ma essendo più vecchio di Fernando, ed avendo da poco sposata la mia povera moglie, fui inviato soltanto sulle coste. Fernando, incorporato nelle schiere attive, venne mandato col suo reggimento alla frontiera, ed assistè alla battaglia; egli era di piantone alla porta di un generale che aveva segrete relazioni con l’inimico, e che quella notte stessa doveva riunirsi agl’inglesi, il quale gli propose di accompagnarlo; Fernando accettò, abbandonò il posto e seguì il generale. Ciò che avrebbe fatto passare un consiglio di guerra a Fernando, gli servì di raccomandazione. Rientrò in Francia con la spallina di sotto-tenente; e siccome non gli mancava la protezione del suo generale, che in allora godeva molto favore, divenne capitano nel 1823, alla epoca della prima guerra di Spagna, vale a dire al tempo in cui Danglars arrischiava le sue speculazioni. Siccome Fernando si poteva considerare quasi spagnuolo, fu inviato a Madrid per esplorarvi lo spirito dei suoi compatriotti: là ritrovò Danglars, si abboccarono insieme, promise al suo generale l’appoggio dei regii della capitale e delle province, e ricevè delle promesse, assunse sul suo conto degl’impegni, guidò il reggimento per sentieri a lui solo noti, fra le gole guardate dai regii, e finalmente in questa breve campagna rese servigi tali, che dopo la presa di Trocadero venne nominato colonnello, e ricevette la croce di ufficiale della Legion d’Onore unitamente al titolo di Barone. — Destino! destino! mormorò l’abate. — Sì, ma ascoltate, che non è ancor tutto. Finita la guerra di Spagna, la carriera di Fernando si trovava messa a rischio dalla lunga pace che doveva regnare in Europa; la Grecia soltanto era sollevata contro la Turchia, e cominciava la guerra della sua indipendenza; tutti gli occhi erano sopra Atene; era di moda il compiangere e sostenere i Greci. Fernando domandò ed ottenne il permesso di andare al servizio della Grecia, continuando però a comparire inscritto sui registri dell’esercito. Qualche tempo dopo si seppe che il Barone di Morcerf, che tale era il nome che portava, era entrato al servizio d’Alì-Pascià col grado di generale istruttore. Alì-Pascià fu ucciso come sapete; ma prima di morire ricompensò i servigi di Fernando lasciandogli una somma considerevole, colla quale tornò in Francia ove gli venne confermato il grado di Tenente-Generale. — Dimodochè in oggi..., domandò l’abate. — Dimodochè in oggi, proseguì Caderousse, egli è conte, e deputato, possiede un palazzo magnifico a Parigi strada di Helder N. 27. L’abate aprì la bocca, ma rimase un momento come un uomo che esita, quindi facendo uno sforzo su sè stesso: — E Mercedès? diss’egli, venni assicurato che ella disparve. — Disparve, disse Caderousse, come sparisce il sole per rialzarsi la dimane più risplendente. — Ella pure ha fatto fortuna? domandò l’abate con un sorriso ironico. — Mercedès a quest’ora si ritrova d’essere una delle più grandi dame di Parigi, riprese Caderousse. — Continuate, disse l’abate; mi sembra di ascoltare il racconto di un sogno. Ma io stesso ho veduto cose sì straordinarie che mi sorprendono poco quelle che voi mi dite. — Mercedès dapprima fu disperata pel colpo che le tolse il suo Edmondo. Vi ho detto le sue istanze presso il sig. de Villefort e la sua devozione pel padre di Dantès. In mezzo alla sua disperazione un altro dolore venne a colpirla, e questo fu la partenza di Fernando di cui ella ignorava il delitto, e che considerava come un fratello. Fernando partì e Mercedès rimase sola. Tre mesi passarono in lagrime; nessuna notizia di Fernando; null’altro avanti gli occhi che un vecchio moribondo per la disperazione. Una sera, dopo essere rimasta tutto il giorno assisa, come era sua abitudine, presso l’angolo delle due strade che dai Catalani conducono a Marsiglia, ritornò nella capanna, trista più del consueto; nè l’amante, nè l’amico ritornavano da una di quelle due strade e non riceveva notizie nè dell’uno nè dell’altro. «D’improvviso le sembrò udire un passo conosciuto, si volse con ansietà, la porta s’aprì, e vide comparire Fernando coll’uniforme di sotto-tenente. Non era la metà di ciò che piangeva, ma era una parte della sua vita passata che ritornava a lei. Mercedès strinse le mani di Fernando con trasporto tale, che questi credè fosse amore per lui, mentre non era che la gioia di non esser più sola al mondo, e di vedere un amico dopo sì lunghe ore di trista solitudine; e poi bisogna pur dirlo, Fernando non era mai stato odiato, egli non era amato, ecco tutto; un altro occupava interamente il cuore di Mercedès; quest’altro era assente... era disparso... forse morto... A quest’ultima idea Mercedès scoppiò in singhiozzi, e si contorse le braccia pel dolore; ma quest’idea, ch’ella respingeva altre volte, quando le veniva da un altro suggerita, ora le veniva spontaneamente da sè sola allo spirito; d’altra parte il vecchio Dantès non cessava di dirle «il nostro Edmondo è morto, se non fosse morto ritornerebbe.» «Il vecchio morì, come vi dissi, se fosse vissuto, Mercedès forse non diveniva mai la moglie di un altro, perchè il buon vecchio sarebbe sempre rimasto là a rimproverarle ognora la sua infedeltà. Fernando lo capì e non ritornò che quando seppe la morte del vecchio. Questa volta era tenente. Nel primo viaggio non aveva detto una parola d’amore a Mercedès; nel secondo le ricordò che l’amava sempre. Mercedès domandò sei mesi ancora per aspettare e piangere Edmondo». — Gran cosa! disse l’abate con un sorriso amaro, non erano che diciotto mesi in tutto. Che può domandare di più l’amante più adorato? poi mormorò queste parole del poeta inglese. — _Frailty, thy name is woman!_ = _Fragilità, sei femmina!_ — Sei mesi dopo, riprese Caderousse si effettuò il matrimonio nella chiesa degli _Accoules_. — Era la medesima chiesa ove doveva sposare Edmondo, mormorò l’abate; il marito solo era cambiato, ecco tutto. — Mercedès adunque si maritò, continuò Caderousse; e quantunque agli occhi di tutti sembrasse tranquilla, ella però svenne passando davanti la _Réserve_, ove diciotto mesi prima erano stati celebrati gli sponsali con colui che avrebbe veduto di amare tuttora, se avesse osato di guardare nel fondo del cuore. Fernando più felice, ma non più tranquillo, poichè io l’ho allora veduto, e temeva sempre il ritorno di Edmondo, Fernando si occupò subito di spatriare con sua moglie e di esiliarsi insiem con lei; vi erano troppi pericoli a temere, e nello stesso tempo troppi ricordi da combattere restando ai Catalani. Otto giorni dopo le nozze partirono. — Rivedeste più Mercedès? domandò l’abate. — Sì, nel momento della guerra di Spagna a Perpignano, ove Fernando l’aveva lasciata; ella si occupava dell’educazione di suo figlio. L’abate rabbrividì. — Di suo figlio? diss’egli. — Sì, rispose Caderousse, del piccolo Alberto. — Ma per istruire questo figlio, continuò l’abate, avrà ricevuto anch’essa un’educazione? Mi sembra di avere inteso dire da Edmondo che era figlia di un semplice pescatore, bella, ma non istruita. — Oh! disse Caderousse, conosceva egli dunque così male la propria fidanzata? Mercedès avrebbe potuto divenir regina, se la corona dovesse posare soltanto sulle teste più belle, e più intelligenti. La sua fortuna ingrandiva da sè, ed ella diveniva grande con la sua fortuna. Ella imparava il disegno, la musica; tutto. D’altra parte io credo, sia detto fra noi, che non facesse tuttociò che per distrarsi, per dimenticare, e che non mettesse tante cose in testa che per combattere quelle che avea in cuore. Ma ora che tutto deve dirsi, continuò Caderousse; la fortuna, e gli onori l’hanno senza dubbio consolata. Ella è ricca, è contessa, e ciò non pertanto... — Caderousse si fermò. — Ciò non pertanto, che? domandò l’abate. — Ciò non pertanto son sicuro che non è felice. — E che cosa ve lo fa credere? — Ebbene; quando io stesso mi sono ritrovato troppo disgraziato, ho pensato che i miei antichi amici mi avrebbero aiutato in qualche cosa. Mi sono presentato a Danglars, che non mi ha voluto neppure ricevere. Sono stato da Fernando, e mi ha fatto passare cento franchi per le mani del cameriere. — Così non li vedeste, nè l’uno nè l’altro. — No, ma videmi bene la signora de Morcerf. — E come? — Quando sono uscito, una borsa cadde ai miei piedi; essa conteneva 25 luigi. Alzai la testa e vidi Mercedès che chiudeva il balcone. — E de Villefort? domandò l’abate. — Oh! egli non era mio amico, non lo conoscevo, non avevo nulla a domandargli. — Ma non sapete ciò che sia accaduto di lui, e qual parte abbia preso alla disgrazia di Edmondo? — No; so soltanto che qualche tempo dopo averlo fatto arrestare, sposò madamigella di S. Méran, e ben presto lasciò Marsiglia. Senza dubbio la fortuna gli avrà sorriso come agli altri, senza dubbio egli sarà ricco come Danglars, considerato come Fernando; io solo, lo vedete, io solo sono rimasto povero, miserabile, e dimenticato da tutti. — V’ingannate, amico mio, disse l’abate: qualche volta può sembrare che Dio dimentichi qualcuno; ma viene il giorno della giustizia, viene il giorno in cui si ricorda, ed eccovene una prova. — A queste parole l’abate cavò il diamante dalla saccoccia, e presentandolo a Caderousse: — Prendete, gli disse, prendete questo diamante, poichè è vostro. — Come? a me solo? gridò Caderousse; ah! signore, non vi burlate di me? — Questo diamante doveva essere diviso fra gli amici di Edmondo: Edmondo non aveva che un solo amico, la divisione diventa dunque inutile. Prendete questo diamante, e vendetelo; vale 50mila fr., ve lo ripeto, e spero che questa somma basterà per togliervi dalla miseria. — Oh! signore, disse Caderousse avanzando timidamente una mano, mentre con l’altra si asciugava il sudore che gli stillava dalla fronte; oh! non vi fate uno scherzo della felicità, o della disperazione di un uomo! — Io so ciò che è la felicità, e ciò che è la disperazione, e non mi prenderei mai giuoco di questi sentimenti, rispose l’abate. Prendete adunque, ma in cambio... Caderousse, che già toccava il diamante, ritirò la mano. L’abate sorrise. — In cambio, continuò egli, regalatemi quella borsa di seta rossa che il sig. Morrel avea lasciata sul caminetto del vecchio Dantès, e che mi avete detto essere ancora nelle vostre mani. — Caderousse sempre maravigliato, aprì un grand’armadio di quercia, e dette all’abate una lunga borsa di seta di un rosso scolorato, e intorno alla quale scorrevano due anelli, stati in altro tempo dorati. L’abate la prese, ed in sua vece dette il diamante a Caderousse. — Oh! voi siete un uomo di Dio, gridò Caderousse; perchè in verità nessuno sapeva che Edmondo vi avesse dato questo diamante, ed avreste potuto conservarlo per voi. — Bene, disse l’abate a sè stesso, tu l’avresti fatto, a ciò che sembra. Indi si alzò, prese il cappello, ed i guanti. — Soprattutto, quanto mi avete detto è del tutto vero, posso credervi su tutti i punti? — Vi giuro sul mio onore, e per quanto vi è di più sacro che non vi ho detto una parola che non sia vera. — Basta così, disse l’abate convinto, sta bene; che questo danaro possa esservi di profitto. Addio, io ritorno lontano dagli uomini che fanno tanto male ai loro simili. E l’abate, liberandosi a gran fatica dall’entusiastiche dimostrazioni di Caderousse, levò da sè stesso la sbarra della porta, uscì, risalì a cavallo, salutò un’ultima volta l’albergatore che si confondeva in addii clamorosi, e partì, seguendo la stessa direzione che aveva tenuta nel venire. Quando Caderousse si volse, vide dietro a sè la Carconta più pallida, e più tremante che mai: — Ed è ben vero ciò che ho inteso? diss’ella. — Che cosa? che egli ci ha dato il diamante per noi soli? disse Caderousse quasi pazzo dalla gioia. — Sì. — Non vi è nulla di più vero, poichè eccolo qua. — La donna lo guardò un momento, poi riprese con voce rauca: — E se fosse falso? Caderousse impallidì, e traballò: — Falso, mormorò egli, falso... e perchè quest’uomo avrebbe dovuto regalarmi un diamante falso? — Per avere il tuo segreto senza pagarlo. Caderousse rimase un momento stordito sotto il peso di questa supposizione. — Oh! diss’egli, dopo breve silenzio, e prendendo il cappello che mise sul fazzoletto che teneva annodato intorno alla testa, lo sapremo ben presto. — Ed in qual modo? — Oggi è la fiera a Beaucaire; vi sono dei gioiellieri di Parigi; vado a farlo vedere. Tu guarda la casa; fra due ore sarò di ritorno. E Caderousse si slanciò fuori di casa prendendo a tutta corsa la strada opposta a quella tenuta dallo sconosciuto. — 50 mila franchi! mormorò la Carconta rimasta sola; è danaro... ma non è una fortuna. XXVIII. — I REGISTRI DELLE PRIGIONI. La dimane del giorno in cui accadde la scena che abbiam descritta, un uomo di 30 a 32 anni vestito con un soprabito blu, coi pantaloni di nankin, e il giubbetto bianco, avendo ad un tempo l’andamento e l’accento britannico, si presentò al Sindaco di Marsiglia. — Signore, gli disse, io sono il primo commesso della Casa Thomson e French di Roma; noi siamo da dieci anni in relazione colla casa Morrel e Figlio di Marsiglia, abbiamo speso circa cento mila franchi in questa relazione, e non siamo senza inquietudini, attesochè ci vien fatto credere che questa casa minacci rovina: vengo dunque espressamente da Roma per domandarvi le informazioni di questa casa. — Signore, rispose il Sindaco, io so effettivamente che da quattro a cinque anni la disgrazia sembra perseguitare il sig. Morrel: egli ha successivamente perduto quattro o cinque bastimenti, sofferti tre o quattro fallimenti; ma non mi appartiene quantunque io stesso sia suo creditore per una dozzina di migliaia di franchi, di dare informazioni sul suo stato, e sulla sua fortuna. Domandatemi come Sindaco ciò che penso del sig. Morrel, ed io vi risponderò che egli è un uomo rigorosamente probo, e che sino al presente ha sempre adempito i suoi impegni con la più perfetta esattezza. Ecco tutto ciò che posso dirvi, se volete saperne di più, indirizzatevi al signor de Boville, ispettore delle prigioni, strada di Nouailles N. 15; credo che egli abbia 200 mila franchi posti sulla casa Morrel, e se vi è realmente qualche cosa a temersi lo ritroverete molto più informato di me, atteso che la sua somma è molto più considerevole della mia. L’inglese parve apprezzare questa grande delicatezza, salutò, uscì, e s’incamminò con quel passo proprio dei figli della Gran Brettagna verso la strada indicata. Il signor de Boville era nel suo gabinetto. L’inglese vedendolo, fece un movimento di sorpresa che sembrava indicare non esser quella la prima volta ch’egli si ritrovava al cospetto di colui al quale faceva una visita. In quanto a de Boville, la sua disperazione lasciava facilmente scorgere, che tutte le facoltà dello spirito, assorte nel pensiero che l’occupava in quel momento, non lasciavano nè alla sua memoria, nè alla sua immaginazione il piacere di divagarsi nel passato. L’inglese, colla flemma propria della sua nazione, gli presentò la questione, circa nei medesimi termini che aveva usati col Sindaco di Marsiglia. — Oh! signore, gridò de Boville, i vostri timori disgraziatamente non possono essere più fondati, e voi avete innanzi agli occhi un uomo disperato. Avevo posto 200 mila fr. sulla casa Morrel: essi erano la dote di mia figlia che contava maritare fra 15 giorni; dovevano essere rimborsati centomila il 15 di questo mese, e centomila il 15 del venturo. Aveva dato avviso a Morrel del desiderio di essere rimborsato esattamente, ed ecco, non è mezz’ora, è venuto da me Morrel per dirmi, che se il suo bastimento il _Faraone_ non rientrava in porto prima del 15, egli si trovava nell’impossibilità di fare il pagamento. — Ma questa, disse l’inglese, è una specie di dilazione. — Dite piuttosto, o signore, che questo rassomiglia ad un fallimento! gridò de Boville disperato. — L’inglese parve riflettere un momento, poi disse: — Per tal modo questo credito v’inspira dei timori? — Vale a dire, lo riguardo come perduto. — E bene! io lo compro. — Voi? — Sì, io. — Ma con un enorme ribasso, senza dubbio? — No, mediante 200 mila fr.; la nostra casa, soggiunse l’inglese ridendo, non fa simili affari. — E voi pagate?... — Danaro contante. — E l’inglese cavò di saccoccia un involto di biglietti di banca che potevano formare il doppio della somma che il sig. de Boville temeva di perdere. Un lampo di gioia passò sul viso di de Boville; ciò nonostante fece uno sforzo per contenersi. — Signore, debbo prevenirvi, che secondo tutte le probabilità, voi non ricaverete il sei per cento di questa somma. — Ciò non mi riguarda, rispose l’inglese; riguarda la casa Thomson e French, in nome della quale io opero. Forse ella può avere qualche interesse a sollecitare la rovina di una casa rivale. Ma ciò che io so, si è che sono pronto a contarvi questa somma, contro la gira che mi farete dietro le cambiali; soltanto chiederò un diritto di senseria. — Come! signore; è giustissimo, gridò de Boville. La commissione è ordinariamente il mezzo per cento; volete voi il due? il cinque? ancor più, non avete che a parlare. — Signore! soggiunse ridendo l’inglese, io sono come la mia casa, non faccio di questa specie di affari; no; la mia senseria è d’un’altra natura. — Parlate adunque, vi ascolto. — Voi siete ispettore delle prigioni? — Da 14 anni e più. — Voi terrete registro di entrata ed uscita? — Senza dubbio. — A questi registri devono essere unite delle note relative ai prigionieri? — Ciascun prigioniero ha la sua filza. — Ebbene! signore, io sono stato allevato in Roma da un tale che disparve d’improvviso. Seppi dipoi che egli era stato detenuto nel castello d’If, e vorrei avere qualche particolare sulla sua morte. — Come lo chiamavate? — Lo scienziato Faria. — Oh! me ne ricordo perfettamente, esclamò de Boville, egli era pazzo. — Si diceva. — Oh! lo era certamente. — È possibile! e quale era il suo genere di pazzia? — Pretendeva di sapere dove stava nascosto un immenso tesoro, ed offriva delle somme considerevoli al governo se avesse voluto metterlo in libertà. — Povero diavolo! ed è morto? — Sì, sono cinque, o sei mesi al più, in febbraio scorso. — Voi avete una felice memoria, per ricordarvi così le date. — Io mi ricordo questa, perchè la morte del povero diavolo fu accompagnata da un singolare accidente. — Si potrebbe conoscere questo accidente? domandò l’inglese con una espressione di curiosità, che un freddo osservatore si sarebbe maravigliato di ritrovare sul suo viso flemmatico. — Oh! senza difficoltà: la prigione di Faria era lontana da 45 a 50 piedi circa da quella di un certo bonapartista, uno di quelli che avevano più di tutti contribuito al ritorno dell’usurpatore nel 1815, uomo molto risoluto, e molto pericoloso. — Veramente! disse l’inglese. — Sì, rispose de Boville, ho avuto occasione di vedere quest’uomo nel 1816 o 1817, non si discendeva nel suo carcere senza essere scortati da un picchetto di soldati; quest’uomo mi ha fatto una profonda impressione, e non dimenticherò mai il suo viso. L’inglese fece un impercettibile sorriso. — Voi dicevate adunque che le due carceri... — Erano separate da una distanza di 50 piedi, continuò de Boville; ma sembra che questo Edmondo Dantès... — Quest’uomo pericoloso si chiamava...? — Edmondo Dantès, sì signore; sembra che questo Edmondo Dantès si fosse procurato degli utensili, o ne avesse costruiti, fatto si è che fu ritrovato un corridore sotterraneo per mezzo del quale i due prigionieri comunicavano insieme. — Questo corridore sarà stato fatto senza dubbio collo scopo di una evasione. — Certamente, ma per disgrazia dei prigionieri, Faria fu colpito da una catalessia, e morì. — Capisco che ciò dovette sospendere il disegno di evasione. — Pel morto, sì, rispose de Boville, ma non pel vivo; questo Dantès al contrario vi ritrovò un mezzo per sollecitare la sua fuga; egli senza dubbio pensava che i morti del castello d’If fossero seppelliti in un ordinario cimitero; trasportò il defunto nella sua camera, prese posto nel sacco entro cui era stato cucito, ed aspettò il momento che lo avrebbero seppellito. — Era un espediente rischioso e che esigeva non poco coraggio, riprese l’inglese. — Oh! vi ho detto che costui era un uomo molto pericoloso; fortunatamente però che egli stesso ha liberato il governo dai timori che aveva su questo soggetto. — Ed in qual modo? — Come! non lo immaginate? — No. — Il castello d’If non ha cimitero; ed i morti si gettano semplicemente in mare dopo avere attaccata ai loro piedi una palla da 36. — Ebbene? disse l’inglese come se avesse difficoltà a capire. — Ebbene! gli fu attaccata una palla da 36 ai piedi, e fu gettato in mare. — Davvero! gridò l’inglese. — Sì signore, continuò l’ispettore. Capirete quale sarà stata la meraviglia del fuggitivo allorchè si sentì precipitare dall’alto al basso del castello. Avrei voluto vedere la sua figura in quel momento. — Sarebbe stato difficile. — Non importa, disse Boville, che la certezza di rimborsare i suoi 200 mila fr. metteva di buon umore; me la figuro. — E dette uno scoppio di risa. — Ed io pure, disse l’inglese: e si mise a ridere anche egli, ma come fanno gl’Inglesi, vale a dire sulla punta dei denti. — In tal modo, continuò l’inglese, in tal modo il fuggitivo fu annegato? — Bello, e bene. — Di maniera che il governatore del castello fu liberato ad un tempo da un furioso, e da un pazzo. — Precisamente. — Ma sarà stato compilato una specie di atto su questo avvenimento? domandò l’inglese. — Sì, sì, l’atto mortuario. Voi capirete bene, i parenti di questo Dantès, se egli ne ha, potrebbero aver qualche interessamento per assicurarsi se è vivo, o morto. — Di modo che, essi possono essere tranquilli se hanno ereditato da lui. Egli è morto, e morto davvero. — Oh! mio Dio, sì, e ne verrà rilasciato il certificato ogni qual volta lo vorranno. — Così sia, disse l’inglese. Ma ritorniamo ai registri. — È vero. Questa storia ci aveva divagati; perdono. — Perdono di che? della storia? al contrario; essa mi è sembrata molto curiosa. — E lo è di fatto. Così voi desideravate vedere tutto ciò che è relativo al vostro povero precettore, che era la stessa dolcezza? — Ciò mi farà un vero piacere. — Passiamo nel mio gabinetto, e vi mostrerò le relative carte. Ed entrambi passarono nel gabinetto di studio del sig. de Boville. Tutto era effettivamente nell’ordine più perfetto: ciascun registro era al suo numero, ciascuna filza nella sua casella. L’ispettore fe’ sedere l’inglese in una poltrona, e depose davanti a lui il registro, e le filze relative al castello d’If, dandogli tutto il comodo di sfogliarle, nel mentre che, egli stesso seduto in un angolo mettevasi a leggere un giornale. L’inglese trovò finalmente la filza relativa al suo istruttore Faria, ma sembrò che la storia raccontatagli da de Boville avesse in lui destato grande interessamento; chè dopo aver preso conoscenza di queste prime carte, continuò a sfogliare fino a che ritrovò quella che riguardava Edmondo Dantès. Là ritrovò ogni cosa al suo posto, denunzia, interrogatorio, petizione di Morrel, postille di Villefort. Egli piegò chetamente la denunzia, e se la pose in saccoccia, lesse l’interrogatorio, e vide che non era stato segnato il nome di Noirtier, percorse la domanda in data del 10 aprile 1815, nella quale Morrel, dietro il consiglio del sostituto, esagerava con eccellente intenzione (poichè allora regnava Napoleone) i servigi che Dantès aveva resi alla causa imperiale, servigi che il certificato di Villefort rendeva incontrastabili. Allora capì tutto. Questa domanda a Napoleone trattenuta da Villefort, era diventata sotto la seconda restaurazione un’arma terribile nelle mani del procuratore del Re. Egli non si maravigliò dunque più, sfogliando il registro, di ritrovare in nota al suo nome quanto segue: | Bonapartista arrabbiato; | ha preso parte attiva | al ritorno dall’Isola Edmondo Dantès | d’Elba; da tenersi | nella più gran segreta | e sotto la più stretta | sorveglianza. Al disotto di queste linee stava scritto di altro carattere. «Vista la nota qui sopra, _nulla a farsi_.» Soltanto paragonando il carattere del registro con quello del certificato posto ai piedi della domanda di Morrel, egli acquistò la certezza che la nota del registro era dello stesso carattere del certificato, cioè scritta dalla mano di Villefort. In quanto alla nota che l’accompagnava, l’inglese capì che doveva essere stata scritta da qualche ispettore che avea preso interessamento momentaneamente alla situazione di Dantès, ma che i recapiti citati avevano messo nell’impossibilità di darvi corso. Come si disse l’ispettore, per discrezione, e per non incomodare nelle sue ricerche l’allievo di Faria, si era allontanato, e leggeva _le Drapeau blanc_. Egli adunque non vide l’inglese piegare e mettersi in saccoccia la denunzia scritta da Danglars sotto il pergolato della _Réserve_, e che portava il bollo della posta di Marsiglia, 28 febbraio. Ma bisogna dirlo, se lo avesse veduto, annetteva sì poca importanza a questa carta, e tanta ai suoi 200 mila franchi per opporsi a ciò che faceva l’inglese, per quanto fosse irregolare. — Grazie, disse questi chiudendo con romore il registro. Ho veduto quanto mi abbisognava: ora sta a me a mantenere la mia promessa: fatemi una semplice girata del vostro credilo; confessate in essa di avere ricevuto il contante, ed io vi pago subito questa somma. — Cedè il posto al sig. de Boville, che vi si assise senza complimenti, e si affrettò di fare la chiesta _girata_, nel mentre che l’inglese contava i biglietti di banca all’angolo della tavola. XXIX. — LA CASA MORREL. Colui che avesse lasciato Marsiglia qualche anno prima, conoscendo l’interno della casa di Morrel, e che vi fosse rientrato all’epoca in cui siamo arrivati, vi avrebbe scorto un grandissimo cambiamento. Invece di quell’aura di vita, di comodo e di felicità, che per così dire esala da una casa che sia in corso di prospera fortuna: invece di quelle allegre figure che si fanno vedere dietro le portiere delle finestre, di quei commessi affaccendati che attraversano i corridori con una penna cacciata dietro l’orecchio, invece di quel cortile ingombro di balle, rimbombante di grida e di risa dei facchini, avrebbe trovato fin dal primo sguardo, un non so che di tristezza e di morte in questi corridori deserti e in questo vuoto cortile. Dei tanti impiegati che in altri tempi popolavano gli scrittoi, appena due ne rimanevano; uno era Emmanuele Raymond, giovine di 23 anni, l’innamorato della figlia di Morrel, ed era tuttavia rimasto nel banco, quantunque i suoi parenti avessero fatto di tutto per togliervelo; l’altro era un vecchio cassiere, losco, chiamato Coclite, soprannome che eragli stato dato dai giovani che in altro tempo popolavano questo alveare fragoroso, in oggi quasi disabitato, e che aveva così bene e così perfettamente sostituito il suo vero nome, che secondo ogni probabilità, non si sarebbe neppur voltato, se oggi non lo avessero chiamato con questo soprannome. Egli era rimasto al servizio di Morrel, e nella situazione di questo bravo uomo si era operato uno strano cambiamento, mentre era salito al grado di cassiere, era contemporaneamente disceso al rango di domestico. Ciò non gl’impediva di essere lo stesso Coclite, buono, paziente, affezionato, ma inflessibile sui punti di aritmetica, solo argomento sul quale avrebbe resistito contro il mondo intero, compreso il sig. Morrel, non conoscendo che la sua tavola pittagorica, che sapeva sulle punte delle dita, qualunque fosse il modo con cui gliela presentavano, qualunque fosse l’errore nel quale avessero tentato di farlo cadere. In mezzo alla tristezza generale che aveva invaso la casa Morrel, Coclite però era il solo che fosse rimasto impassibile. Ora, che nessuno s’inganni, questa impassibilità non proveniva da mancanza di affezione, ma al contrario da una inalterabile convinzione. Come i topi che, si dice, abbandonino poco a poco un bastimento che da qualche tempo è condannato dal destino a perire in mare, dimodocchè questi ospiti egoisti lo hanno completamente abbandonato al momento che si leva l’ancora; così tutta quella folla di commessi e d’impiegati che traevano la loro sussistenza dalla casa dell’armatore avevano un poco per volta resi deserti gli scrittoi ed i magazzini; Coclite li aveva veduti allontanare senza neppur pensare a rendersi conto della causa della loro partenza: tutto, come lo abbiam detto, si riduceva per Coclite ad una quistione di cifre, e da venti anni che era in casa Morrel aveva sempre veduto effettuarsi i pagamenti a cassa aperta con tale una regolarità da non fargli credere che questa avesse potuto variare, ed i pagamenti sospendersi, più di quanto un mugnaio che possiede un mulino messo in moto da un canale abbondante di acqua, può credere che un giorno o l’altro quest’acqua possa venir meno. Infatto fin allora, nulla era ancor sopraggiunto a portare ostacolo alla convinzione di Coclite. Gli ultimi giorni dello scorso mese erano passati con una rigorosa puntualità. Coclite aveva notato un errore di settanta centesimi commesso da Morrel in suo pregiudizio, e lo stesso giorno aveva riportato i quattordici soldi di eccedenza a Morrel, che con un sorriso malinconico li aveva presi e lasciati cadere in un cassetto quasi vuoto, dicendo: — Bravo, Coclite, voi siete la perla dei cassieri. E Coclite si era ritirato soddisfatto in modo, che non si sarebbe potuto esserlo di più, perchè un elogio di Morrel, di questa perla degli uomini onesti di Marsiglia, lusingava Coclite molto più che una gratificazione di 50 scudi. Ma dopo la fine di quel mese così vittoriosamente compito, Morrel aveva passato ore crudeli; per farvi fronte aveva riunite tutte le sue risorse e temendo egli stesso che il rumore delle sue ristrettezze non si spandesse in Marsiglia vedendolo ricorrere a simili estremi, era andato a fare un viaggio alla fiera di Beaucaire per vendere qualche gioiello che apparteneva a sua moglie ed a sua figlia, non che una parte della sua argenteria: con tal sacrificio tutto era ancora passato per una volta ad onore della casa Morrel. Ma la cassa era rimasta completamente vuota. Il credito, spaventato dal rumore che correva, si era allontanato col suo ordinario egoismo, e per far fronte ai 100 mila fr. da pagarsi il dì 15 di quel mese al signor de Boville, e agli altri 100 mila fr: che scadevano il 15 del successivo mese, Morrel non aveva realtà o altra speranza che nel ritorno del _Faraone_ di cui un bastimento che aveva levata l’ancora di conserva con lui e che era arrivato in porto, aveva annunziata la partenza. Ma questo legno che veniva da Calcutta come il _Faraone_, era già arrivato da 15 giorni, mentrechè del _Faraone_ non si aveva alcuna notizia. In questo stato di cose la dimane del giorno in cui aveva concluso l’affare con de Boville, da noi raccontato, l’incaricato della casa Thomson e French di Roma si presentò al sig. Morrel. Lo ricevette Emmanuele. Il giovine che si spaventava ad ogni nuova figura, perchè ella annunziava un nuovo creditore che nella sua inquietudine veniva ad interrogare il capo della casa, volle risparmiare al padrone la noia di questa visita: interrogò il nuovo arrivato il quale dichiarò che non aveva cosa alcuna da dire: ma che voleva parlare a Morrel in persona. Emmanuele sospirando chiamò Coclite; questi comparve e ricevette l’ordine di condurre lo straniero dal sig. Morrel: Coclite camminò avanti e lo straniero lo seguì. Sulla scala incontrarono una bella giovinetta di 17 anni che guardò lo straniero con inquietudine; Coclite non osservò questa espressione del viso di lei, che però non isfuggì al forestiero. — Il sig. Morrel è nel suo gabinetto, n’è vero, madamigella Giulia? domandò il cassiere. — Sì, almeno credo di sì, disse la giovinetta con esitazione; guardate dapprima, Coclite, e se mio padre vi è, annunziate il signore. — È inutile l’annunziarmi, madamigella, rispose l’inglese, il Sig. Morrel non conosce il mio nome. Questo brav’uomo ha da dirgli soltanto che io sono il primo commesso della casa Thomson e French di Roma, colla quale la Casa di vostro padre è in relazione. — La giovinetta impallidì e continuò a discendere, mentre che Coclite e lo straniero continuavano a salire. Ella entrò nel luogo ove era lo scrittoio d’Emmanuele; e Coclite, col mezzo di una chiave di cui era possessore, e che annunciava la sua familiarità col principale, aprì una porta del secondo piano, introdusse lo straniero in un’anticamera, aprì una seconda porta che richiuse dietro a sè, e dopo aver lasciato solo per un momento l’inviato della casa Thomson e French, ricomparve facendogli segno di poter entrare. L’inglese entrando trovò il sig. Morrel assiso avanti al suo scrittoio impallidendo all’aspetto delle colonne spaventose dei registri su cui stava scritto il suo passivo. Vedendo lo straniero, Morrel chiuse i registri, si alzò, prese una sedia, e quando lo vide seduto, egli pure si assise. Quattordici anni avevano cambiato assai la fisonomia del negoziante, il quale, di 36 anni al principio di questa storia stava per compiere i 50. I capelli erano incanutiti, la fronte si era solcata di due profonde rughe, e lo sguardo, in altri tempi così fermo e sicuro, era divenuto vago ed irresoluto, e sembrava dovesse sempre temere di fissarsi sopra un uomo o sopra un’idea. L’inglese lo guardò con un sentimento di curiosità misto ad interessamento. — Signore, disse Morrel a cui questo esame sembrava raddoppiare il mal essere, voi desideravate parlarmi? — Sì, signore. Voi sapete da qual parte io vengo, è vero? — A quanto mi ha detto il cassiere, da parte della casa Thomson e French. — Vi ha detto la verità. La casa Thomson e French ha tre in 400 mila franchi da pagare in Francia, parte nel mese corrente e parte nel vicino mese, e conoscendo la vostra rigorosa esattezza ha riunito tutte le cambiali che ha potuto ritrovare con la vostra firma, e mi ha incaricato, a seconda che queste scadono, di ritirare i fondi da voi, e di impiegarli. — Morrel mandò un profondo sospiro, e passò la mano sulla fronte coperta di sudore. — Voi dunque, signore, domandò Morrel, avete delle cambiali firmate da me? — Sì, signore, e per una somma abbastanza considerevole. — Per qual somma? domandò Morrel, con voce che invano cercava di render sicura. — Ma, ecco qui, disse l’inglese levandosi di saccoccia un plico, primieramente due gire di 200 mila fr. del sig. de Boville, dell’Ispettore delle prigioni. Convenite voi di dovergli questa somma? — Sì, signore, è un investimento che egli ha fatto nel mio banco al 4 e mezzo per cento, saranno ben presto cinque anni. — E che voi dovete rimborsare?... — Metà ai 15 di questo mese, l’altra metà ai 15 del prossimo venturo. — Per questi è detto; ora ecco 82,500 fr. per la fine del corrente; queste sono cambiali firmate da voi e passate al nostro ordine da terzi giratari. — Le riconosco, disse Morrel, al quale saliva al viso il rossore della vergogna, pensando che per la prima volta in sua vita non avrebbe potuto fare onore alla sua firma. — Sta tutto qui? — No, signore, io ho ancora per la fine del mese venturo queste altre cambiali che sono passate dalla casa Pascale alla casa Wild e Turner di Marsiglia, 55 mila fr. circa, in tutto sono 287,500 fr. Ciò che soffriva lo sfortunato Morrel in questa enumerazione è impossibile poterlo descrivere: — 287,500 fr., ripetè egli macchinalmente. — Sì, rispose l’inglese, il quale continuò dopo un momento di silenzio, non vi nasconderò, signor Morrel, che mentre tutti fanno gli elogi della vostra probità senza macchia fino al presente, corre una sorda voce per Marsiglia, che voi non siate in istato di far fronte ai vostri affari. — A questa introduzione, quasi brutale, Morrel impallidì spaventevolmente. — Signore, diss’egli, fino a questo momento, e sono più di 24 anni che ho ricevuto la casa dalle mani di mio padre, e che egli aveva diretta per 35 anni, fino a questo momento una cambiale sottoscritta da Morrel e F. non fu presentata alla cassa senza essere pagata. — Sì, lo so, rispose l’inglese, ma da uomo d’onore, parlate francamente, pagherete tal somma con la stessa esattezza? Morrel rabbrividì e guardò colui che gli parlava in tal modo con una maggior sicurezza di quello che non aveva ancor fatto. — Ad una domanda fatta con tanta franchezza, diss’egli, bisogna dare una risposta egualmente franca. Sì, signore, io pagherò, se, come spero, il mio bastimento giunge a buon porto, poichè il suo arrivo mi renderà quel credito che mi fu tolto dagli accidenti successivi di cui sono stato la vittima. Ma se per disgrazia il _Faraone_, ultima risorsa sulla quale io conto, mi mancasse... Le lagrime sgorgarono dagli occhi del povero armatore. — Ebbene? domandò l’interlocutore, se quest’ultima risorsa vi mancasse? — Ebbene, se quest’ultima risorsa mi mancasse, continuò Morrel, quantunque sia cosa crudele a dire... ma abituato ormai alla sventura bisogna che mi abitui all’onta... Ebbene! allora credo che sarei obbligato a sospendere i pagamenti. — E non avete amici che possano aiutarvi in tal congiuntura? — Morrel sorrise tristamente. — In commercio, signore, diss’egli, non si hanno che corrispondenti. — È vero, mormorò l’inglese. Per tal modo non avete più che una sola speranza? — Una sola, ed ultima. — Dimodochè se questa fallisce... — Sono perduto, signore, compiutamente perduto! — Quando sono venuto da voi, un bastimento entrava nel porto. — Lo so, signore. Un giovine che è rimasto fedele alla mia cattiva fortuna passa una parte del suo tempo in un belvedere situato sulla cima della mia casa, nella speranza di venire pel primo ad annunziarmi una buona notizia. Da lui ho saputo l’entrata in porto di questo bastimento — E non è il vostro? — No; è un naviglio bordolese _la Gironda_, esso pure viene dalle Indie, ma non è quello che aspetto. — Forse avrà notizie del _Faraone_. — Fa egli d’uopo che ve lo dica? io temo quasi tanto di chiedere notizie del mio bastimento, quanto di restare nella incertezza, la quale è pure una speranza. Quindi Morrel aggiunse con voce commossa: — Questo ritardo non è naturale: il _Faraone_ è partito da Calcutta il 5 febbraio, e dovrebbe essere in porto già da un mese. — Ma che è questo, disse l’inglese tendendo l’orecchio; che vuol dire questo rumore? — Oh! mio Dio! mio Dio! gridò Morrel impallidendo, che vi è ancora di nuovo. Infatto un gran rumore si fe’ sentire sulle scale, un andare e venire, e s’intese perfino un grido di dolore. Morrel si alzò per andare ad aprire la porta, ma le forze gli vennero meno, e ricadde sulla sedia. I due uomini rimasero in faccia l’un dell’altro, Morrel non aveva membro che non tremasse, lo straniero guardavalo con una espressione di profonda pietà. Il rumore era cessato, ciò nonostante sarebbesi detto che Morrel aspettava qualche cosa; questo rumore aveva dovuto avere un principio, e doveva avere un fine. Sembrò allo straniero che qualcuno salisse pian piano la scala, e molte persone si fossero fermate sul pianerottolo. Una chiave venne introdotta nella serratura della prima porta, e questa cigolò sui cardini. — Non vi son che due persone che han la chiave di questa porta, mormorò Morrel; Coclite e Giulia. Nello stesso tempo la seconda porta si aprì, e comparve la giovinetta, pallida e colle guance bagnate di lagrime. Morrel si alzò tutto tremante, e si appoggiò ai bracciuoli del seggiolone, perchè non avrebbe avuto la forza di sostenersi in piedi. La sua voce voleva interrogare, ma voce più non aveva. — Oh! padre mio! disse la giovinetta giungendo le mani, perdonatemi di essere messaggera di una trista notizia. Morrel si ricoprì di un pallore mortale; Giulia venne a gettarsi fra le sue braccia. — Oh! padre mio! diss’ella, coraggio! — E così, il _Faraone_ è perduto? domandò Morrel con voce soffocata. — La giovinetta non rispose, ma fece un segno affermativo con la testa che teneva appoggiata al petto del padre. — E l’equipaggio? domandò Morrel. — Salvato, disse la giovinetta, salvato da quello della _Gironda_ entrato or ora nel porto. — Morrel alzò le mani al cielo con una espressione di sublime rassegnazione e riconoscenza. — Grazie, grazie, mio Dio! disse Morrel; almeno voi non colpite che me solo. — Per quanto flemmatico fosse l’inglese, una lagrima gli bagnò le palpebre. — Entrate, disse Morrel, entrate perchè suppongo che voi sarete tutti alla porta. Infatto aveva appena pronunciate queste parole, che la signora Morrel entrò singhiozzando, Emmanuele la seguiva; nel fondo dell’anticamera si vedevano le rozze figure di sette o otto marinari seminudi. Alla vista di quegli uomini l’inglese rabbrividì: fe’ un passo per andar loro incontro, ma si contenne, ed invece si nascose nell’angolo più oscuro ed appartato del gabinetto. La signora Morrel andò ad assidersi presso il marito, prese fra le sue le mani di lui, mentre che Giulia restava in piedi appoggiata al petto del padre. Emmanuele era rimasto a metà della stanza e sembrava servir di legame fra il gruppo della famiglia Morrel, e i marinari che stavano fermi sulla porta. — E come avvenne questo infortunio? domandò Morrel. — Avvicinatevi Penelon, disse il giovine, e raccontate il caso. — Un vecchio marinaro, abbronzito dal sole dell’equatore, si avanzò ravvolgendo fra le mani gli avanzi di un cappello. — Buon giorno, Sig. Morrel, diss’egli come se avesse lasciato Marsiglia dal giorno precedente o giungesse da Tolone, o da Aix. — Buon giorno, amico mio, disse l’armatore non potendo fare a meno di sorridere in mezzo alle lagrime; ma dov’è il capitano? — Il capitano è rimasto malato a Palma; ma se piace a Dio, è cosa da nulla, e voi lo vedrete giungere fra qualche giorno, tanto bene in salute quanto voi ed io. — Sta bene... ora parlate Penelon, disse Morrel. Penelon fece passare da una parte all’altra della bocca il tabacco che masticava, quindi ponendo la mano davanti, lanciò nell’anticamera un getto di saliva nerastra, avanzò il piede e si equilibrò sulle anche: «Noi eravamo circa qualche cosa più o meno fra il capo-Blanc e il capo-Boyador camminando con una buona brezza di sud-sud-ovest dopo essere stati senza muoverci otto giorni per la calma, quando il capitano Gaumard mi si avvicina; bisogna che sappiate, che allora io era al timone, e mi dice: «Papà Penelon, che pensate voi di quelle nubi che s’innalzano laggiù sull’orizzonte?» — Io le guardava precisamente in quel momento. «Che ne penso io capitano? Io ne penso che s’innalzano un poco più presto di quello che ne abbiano diritto, e che sono più nere di quello che si convenga a nuvoli che non abbiano cattive intenzioni.» «Questo è pure il mio avviso, disse il capitano, e vado subito a prendere le necessarie cautele. Noi abbiamo le vele troppo spiegate pel vento che farà in breve... Olà, eh! preparatevi a serrare le vele, ed a mandare a basso quella di trinchetto.» Era tempo; non fu appena eseguito l’ordine, che il vento infuriava su noi e il bastimento dava di banda. «Bene! disse il capitano, abbiamo ancora troppa tela, accomoda, o serra la gran vela.» Cinque minuti dopo la gran vela era chiusa, e noi camminavamo colla mezzana, colla vela di gabbia e i parrocchetti. «Ebbene! Papà Penelon, dissemi il Capitano, che avete, scuotete la testa?» — «Gli è perchè nel vostro posto, vedete, non resterei in così bel cammino.» — «Credo che tu abbia ragione, vecchio, diss’egli, noi avremo in breve un colpo di vento.» «Ah! capitano, gli rispondo io, chi volesse riscattare con un colpo di vento ciò che si prepara laggiù, guadagnerebbe assai; questa è una buona e bella tempesta dove io non mi rinvengo.» Vale a dire che si vedeva venire il vento come si vede la polvere a Montredon; fortunatamente che aveva che fare con un uomo che lo conosceva. «Attenti a prendere tre terzaroli nelle gabbie, gridò il capitano, allarga le boline, braccio al vento, abbasso i pennoni!» — Ciò non era abbastanza in quei paraggi, disse l’inglese, io avrei preso quattro terzaroli, e mi sarei spacciato della mezzana. — Questa voce ferma, sonora ed inattesa fece scuotere tutti. Penelon mise la mano sugli occhi e guardò colui che rivedeva con tanta aggiustatezza la manovra del suo capitano. — Noi facemmo ancor meglio, signore, disse il vecchio con un certo rispetto, perchè caricammo a orza la brigantina, e mettemmo le barre al vento per correre avanti la tempesta. Dieci minuti dopo caricammo le gabbie e ce ne andammo senza vele. — L’inglese scosse la testa: — Il bastimento era troppo vecchio per arrischiar questo, diss’egli. — È vero! è detto giustamente! questo fu quello che ci perdè. In capo a 12 ore che eravamo trabalzati come se il diavolo avesse preso l’armi, si dichiarò una via d’acqua. «— Penelon, mi disse il capitano, credo che coliamo a fondo; dammi la sbarra del timone, e discendi alla stiva.» «Gli do la sbarra, e discendo; vi erano già tre piedi di acqua. «Risalgo gridando — «Alle pompe! alle pompe!» Ebbene! sì! egli era troppo tardi. Tutti ci mettemmo all’opera e io credo che quanta più ne cavavamo più ne entrava. — «Ah! in fede mia, diss’io dopo quattro ore di lavoro, giacchè noi coliamo, lasciamoci colare; già non si muore che una volta.» «— È così che tu dai l’esempio, maestro Penelon? disse il capitano; ebbene! aspetta! aspetta!» egli andò nel gabinetto a prendere un paio di pistole. «Il primo che lascia la pompa, disse egli, gli brucio le cervella!» — Bravo! disse l’inglese. — Non c’è nulla che infonda tanto coraggio quanto le buone ragioni, continuò il marinaro, tanto più che in questo mentre il tempo si era rischiarato, e il vento cominciava a indebolire; non è però men vero che l’acqua saliva sempre; non molto, ma circa due pollici l’ora, vedete, sembra che non sia niente, ma in 12 ore non sono men di 24 pollici, che fan due piedi; e tre che ne avevamo già, formano cinque; ciò vuol dire che quando un bastimento ha cinque piedi d’acqua nel ventre, può già passare per un idropico. «Andiamo, disse il capitano, basta così, ed il sig. Morrel non avrà nulla a rimproverarci: abbiamo fatto tutto ciò che si è potuto fare per salvare il bastimento; bisogna ora cercare di salvare gli uomini. Alla scialuppa, giovinotti, e più presto che si può.» — Ascoltate, sig. Morrel, continuò Penelon, noi amavamo molto il _Faraone_; ma per grande che sia l’amore che i marinari portano al loro bastimento, essi però amano sempre di più la loro pelle. Così noi non ce lo facemmo ripetere due volte; con ciò però, che il bastimento aprendosi sembrava dirci: «andatevene dunque! ma andatevene dunque!» «E non mentiva il povero _Faraone_; noi lo sentivamo abbassarsi sotto i nostri piedi. Tanto fu, con un giro di mano la scialuppa era in mare, e in un batter d’occhio gli otto marinari erano dentro. Il capitano fu l’ultimo a discendere, o piuttosto no, egli non discese; non voleva abbandonare il naviglio, fui io che lo presi abbracciandogli il corpo e lo gettai ai camerati, dopo di che saltai io pure a mia volta. Ed era tempo. Appena ebbi fatto il salto, il ponte si spaccò con un rumore tale, che si sarebbe detta una bordata di un vascello da 48. Dieci minuti dopo affondò in avanti, poi in dietro, quindi si mise a girare su sè stesso, come un cane che corre dietro la propria coda; finalmente, buona sera alla compagnia, brrrrru! tutto fu finito, il _Faraone_ non v’era più! «In quanto a noi, siamo stati tre giorni senza bere e senza mangiare, ed era tale la nostra fame che già si cominciava a parlare di fare alla sorte per sapere chi alimenterebbe gli altri, quando scoprimmo la _Gironda_, le facemmo dei segnali, ella ci vide, volse capo verso di noi, ci spedì la sua scialuppa e ci raccolse. Ecco come è andata, sig. Morrel, parola d’onore! sulla fede di marinaro! n’è vero compagni?» Un mormorio generale d’approvazione indicò che il narratore aveva riunito tutti i suffragi per la verità del racconto ed il pittoresco dei particolari dati. — Bene, amici miei, disse Morrel, voi siete brava gente; io già sapeva che nella disgrazia che mi sarebbe toccata, niuno avrebbe avuto colpa fuorchè il mio destino: questa è la volontà di Dio, e non la colpa degli uomini. Adoriamo la volontà di Dio. Ora ditemi quanto vi debbo per il vostro soldo! — Oh! bah! non parliamo di questo, signor Morrel. — Al contrario, parliamone, disse l’armatore con un tristo sorriso. — Ebbene! dobbiamo avere tre mesi di soldo; disse Penelon. — Coclite pagate 200 fr. a ciascuno di questi bravi uomini. In altri tempi, amici miei, avrei detto: date loro cento fr. a ciascuno di gratificazione, ma i tempi sono disgraziati, cari amici, e il poco di danaro che mi resta non è più mio; scusatemi adunque, e non per questo non cessate dall’amarmi. Penelon fece una mossaccia di tenerezza, si volse ai compagni, cambiò con loro qualche parola e replicò: — Per quello che riguarda a ciò, sig. Morrel, diss’egli masticando tabacco, e lanciando nell’anticamera un secondo getto di saliva che andò a tener compagnia al primo, per quello che riguarda a ciò... — A che? — Al danaro. — Ebbene? — Ebbene! sig. Morrel, i camerati dicono che pel momento son loro sufficienti 50 fr. per ciascuno, e che pel resto aspetteranno. — Grazie, amici miei, grazie! gridò Morrel commosso fino al cuore; siete tutti brava gente; ma prendete! prendete! e se trovate un buon servizio, entratevi pure; siete liberi. Quest’ultima parte della frase produsse un effetto prodigioso sui degni marinari; essi guardaronsi gli uni e gli altri con aspetto scomposto. Penelon, a cui mancava il fiato, poco mancò non inghiottisse la boccata di tabacco; fortunatamente portò a tempo la mano alla gola: — Come! sig. Morrel, diss’egli con voce soffocata, come! voi ci licenziate, siete dunque malcontento di noi? — No, figli miei, disse l’armatore; no, non sono malcontento di voi, tutto il contrario; no, io non vi licenzio. Ma che volete farci, non ho più bisogno di marinari. — Come? non avete più bastimenti? disse Penelon, ebbene! ne farete costruire degli altri; aspetteremo. Grazie a Dio noi sappiamo ciò che vuol dire... — Io non ho più danari per far costruire bastimenti, disse l’armatore con un tristo sorriso. Quindi non posso accettare la vostra offerta, per quanto ella sia cortese. — Ebbene! se non avete più danari, allora non dovete pagarci; faremo come ha fatto il povero _Faraone_, correremo in secco, ecco tutto. — Basta, basta, amici miei, disse Morrel soffocato dall’emozione; basta ve ne prego; ci rivedremo in tempi migliori. Emmanuele, accompagnateli e invigilate affinchè siano compiti i miei desideri. — Almeno a rivederci, n’è vero sig. Morrel? disse Penelon. — Sì, amici miei, almeno lo spero. Andate. — E fece un segno a Coclite che camminò avanti; i marinari seguirono il cassiere. Emmanuele lor tenne dietro. — Ora, disse l’armatore a sua moglie, ed a sua figlia, lasciatemi solo un momento, poichè debbo parlare con questo signore. — E indicò con gli occhi il mandatario della casa Thomson e French che era rimasto in piedi ed immobile in un angolo durante tutta questa scena, alla quale egli non aveva presa altra parte che quella delle poche parole che abbiamo riportate. Le due donne alzarono gli occhi sullo straniero che avevano compiutamente obbliato, e si ritirarono; ma nel ritirarsi la giovinetta lanciò a quest’uomo uno sguardo di sublime preghiera al quale egli corrispose con un sorriso, che un freddo osservatore si sarebbe maravigliato di vedere spuntare su questo viso di ghiaccio. I due uomini rimasero nuovamente soli. — Ebbene! signore, disse Morrel lasciandosi ricadere sul suo seggio, avete tutto veduto ed inteso, non ho più altro da aggiungere. — Io ho veduto, disse l’inglese, che vi è sopraggiunta una nuova disgrazia, immeritata come le altre, e ciò mi ha confermato nel desiderio di esservi aggradevole. — Oh signore! disse Morrel. — Vediamo, continuò lo straniero, sono uno dei vostri principali creditori, n’è vero? — Voi siete almeno quello che possiede le cambiali a più corta scadenza. — Desiderate voi una dilazione per pagarmi? — Una dilazione potrebbe salvarmi l’onore, disse Morrel, e per conseguenza la vita. — Quanto tempo desiderate? Morrel esitò: — Due mesi, diss’egli. — Bene, fece lo straniero, ve ne darò tre. — Ma, credete che la casa Thomson e French... — State tranquillo, prendo tutto sopra di me. Oggi siamo ai 5 giugno? — Sì. — Ebbene, rinnovatemi tutti questi biglietti al 5 settembre, e il 5 settembre ad ore 11 del mattino mi presenterò da voi. — La pendola in quel momento segnava appunto le 11 precise. — Vi aspetterò, signore, disse Morrel, e sarete pagato, o io sarò morto. Queste ultime parole furono pronunciate a sì bassa voce che lo straniero non potè intenderle. Le cambiali furono rinnovate; vennero stracciate le antiche, ed il povero armatore si trovò almeno ad avere innanzi a sè tre mesi per potere riunire le sue ultime risorse. L’inglese ricevette i suoi ringraziamenti colla flemma particolare alla sua nazione, e prese congedo da Morrel, che lo ricondusse benedicendolo, fino alla porta. Sulla scala incontrò Giulia; la giovinetta faceva sembiante di discendere, ma in realtà lo aspettava. — Oh! Signore! disse ella giungendo le mani. — Madamigella, disse lo straniero, voi un giorno riceverete una lettera firmata... SINDBAD IL MARINARO... fate appuntino ciò che vi dirà questa lettera, per quanto strana vi possa sembrare la raccomandazione. — Sì, signore, rispose Giulia. — Mi promettete voi di farlo? — Ve lo giuro. — Basta così! addio madamigella; siate sempre buona e savia fanciulla come siete, ed ho fiducia che Iddio vi ricompenserà, dandovi per marito Emmanuele. — Giulia mandò un piccolo grido, divenne rossa come una ciliegia, e si attenne al passamano per non cadere. Lo straniero continuò il cammino facendole un gesto di addio. Nel cortile egli incontrò Penelon che teneva un rotolo di cento fr. in ciascuna mano, e che sembrava non potersi risolvere a portarli via. — Venite, amico mio; gli diss’egli, ho bisogno di parlarvi. XXX. — IL 5 SETTEMBRE. Questa dilazione accordata dal mandatario della casa Thomson e French, al momento in cui Morrel meno se lo aspettava, parve al povero armatore uno di quei ritorni di ben essere che annunziano all’uomo la sorte essersi alla fine stancata di perseguitarlo. Lo stesso giorno raccontò a sua figlia, e ad Emmanuele ciò che eragli accaduto; e un poco di speranza, se non di tranquillità, rientrò nella famiglia. Disgraziatamente però Morrel non aveva affari soltanto con la casa Thomson e French che si era mostrata tanto facile ad un accomodamento; com’egli lo aveva detto, nel commercio si hanno corrispondenti, e non amici. Allorchè vi pensava profondamente, non comprendeva neppur questa condotta generosa della casa Thomson e French verso di lui, e non si spiegava ciò, che con questa riflessione superlativamente egoista, che questa casa doveva aver detto: val meglio sostenere quest’uomo che ci deve quasi 300 mila fr., e avere questa somma in capo a tre mesi, di quello che sollecitarne la rovina, e avere il sei o l’otto per cento del capitale. Disgraziatamente, fosse odio, fosse acciecamento, tutti i corrispondenti di Morrel non fecero la stessa riflessione, anzi qualcuno fece la riflessione in contrario. Le cambiali sottoscritte da Morrel furono presentate alla cassa con uno scrupoloso rigore, e, mercè la dilazione accordata dall’inglese furono pagate a cassa aperta da Coclite il quale continuò a rimanersi nella sua tranquillità fatidica. Il solo Morrel vide con terrore, che se avesse dovuto rimborsare al 15 i 100 mila fr. di de Boville, e al 30 i 32,500 fr. di cambiali, per le quali, come per quelle dell’Ispettore delle prigioni aveva ottenuta una dilazione, sarebbe stato fin da quel mese un uomo perduto. L’opinione di tutti i negozianti di Marsiglia era, che Morrel non avrebbe potuto sostenere tutti i rovesci successivi che l’opprimevano. Fu dunque grande la meraviglia allorchè vidersi compiere i pagamenti della fine del mese coll’ordinaria esattezza. Ciò non pertanto nemmen per questo ritornò fiducia negli animi, e fu giudicato a voce unanime, che alla fine del venturo mese sarebbe stato depositato il bilancio del disgraziato armatore. Tutto il mese passò dunque in isforzi inauditi per parte di Morrel, onde riunire tutte le sue risorse. In altri tempi le sue cedole, a qualunque data esse fossero, erano prese con confidenza, ed anzi domandate. Morrel tentò di negoziare delle cedole colla scadenza di 90 giorni, e trovò tutti i banchi chiusi. Fortunatamente aveva egli pure qualche incasso, sul quale poteva contare e questo fu fatto; così si trovò ancora in istato di far fronte ai suoi obblighi quando giunse la fine di luglio. D’altra parte il mandatario della casa Thomson e French non era più stato veduto a Marsiglia. La dimane della sua visita a Morrel era sparito: or siccome in Marsiglia non aveva avuto a trattare che col Sindaco, coll’Ispettore delle prigioni, e con Morrel, così il suo passaggio non aveva lasciato altra traccia che i ricordi diversi che ne conservavano queste tre persone. In quanto ai marinari del _Faraone_ sembrava che avessero ritrovato da impiegarsi, poichè essi pure erano spariti. Il capitano Gaumard rimessosi dalla malattia che lo aveva trattenuto a Palma ritornò egli pure: esitò a presentarsi al sig. Morrel; ma questi, saputo il suo arrivo, andò di persona a ritrovarlo. Il degno armatore sapeva di già pel racconto di Penelon la coraggiosa condotta che aveva tenuta il capitano durante tutta questa avaria, e si sforzò di consolarlo. Gli portò l’ammontare del suo soldo, che il capitano Gaumard non avrebbe certamente osato di andare a riscuotere. Quando Morrel discese la scala incontrò Penelon che saliva: questi aveva, a quanto sembrava, fatto un buon uso del danaro, poichè era vestito tutto di nuovo. Riconoscendo il suo armatore il degno timoniero parve molto impacciato; si ritirò nell’angolo più lontano del pianerottolo, masticando il tabacco a diritta e a sinistra, e girando due grossi occhi spaventati, non rispose che con una timida pressione alla stretta di mano che gli offerse Morrel colla sua ordinaria cordialità. Morrel attribuì l’impaccio di Penelon all’eleganza del vestito; era evidente che non era entrato di proprio conto in tanto lusso; e chiaramente appariva trovarsi di già impegnato a bordo di un qualche altro bastimento, e la sua vergogna venivagli da ciò che non aveva, se è lecito esprimersi così, portato per un tempo maggiore il lutto del _Faraone_. Forse ancora recavasi dal capitano Gaumard per metterlo a parte della sua fortuna, e per fargli delle esibizioni per parte del nuovo padrone. — Brava gente! disse Morrel allontanandosi, possa il vostro nuovo padrone amarvi come vi amava io, ed essere più felice di quel che io non sono!... Passò il mese d’agosto in tentativi, senza posa rinnovati da Morrel, per rialzare il suo credito, o per aprirsene un nuovo. Il 20 agosto seppesi a Marsiglia che aveva preso un posto nella _Malle-Poste_, e allora tutti opinarono che alla fine del mese verrebbe depositato il bilancio, e che Morrel era partito prima per non assistere a quest’atto crudele, delegando senza dubbio il suo primo commesso Emmanuele, e il cassiere Coclite. Ma contro ogni previsione allorchè giunse il 31 agosto, la cassa si aprì secondo il solito. Coclite apparve dietro la inferriata, tranquillo come il giusto di Orazio, esaminò colla stessa attenzione le cedole che gli vennero presentate, e pagò le tratte dalla prima all’ultima colla stessa esattezza. Vennero parimente presentati due rimborsi che erano stati preveduti da Morrel, e Coclite li pagò con la medesima puntualità propria dell’armatore. Nessuno ne capiva niente, ed i profeti delle cattive notizie con una particolare ostinazione rimettevano il fallimento alla fine del settembre. Morrel giunse il primo del mese. Era atteso da tutta la famiglia colla più grande ansietà: mentre contavano sull’esito del suo viaggio a Parigi come sull’ultima via di salute. Morrel aveva pensato a Danglars, in oggi milionario, ed un giorno suo sottoposto, poichè fu la raccomandazione di Morrel che fece entrare Danglars al servizio del banchiere spagnuolo presso il quale aveva cominciata la sua immensa fortuna. Si diceva che Danglars era possessore di sei ad otto milioni, e che godeva un credito illimitato. Danglars senza levarsi uno scudo di saccoccia poteva salvare Morrel: non aveva che a garantire un imprestito, e Morrel era salvato. Morrel da lungo tempo aveva pensato a Danglars; ma vi sono alcune istintive ripulsioni di cui non sappiam farci padroni; egli aveva aspettato fino a che gli era stato possibile, prima di ricorrere a quest’ultimo mezzo. E ne aveva avuto ragione, poichè ritornava oppresso dall’umiliazione, e dal rifiuto. Al ritorno non manifestò alcun lamento, non proferì alcuna recriminazione; aveva stesa la mano amichevolmente ad Emmanuele, si era chiuso nel gabinetto del secondo piano, e aveva chiesto di Coclite. Dissero le due donne ad Emmanuele, noi siamo perdute. Quindi, in un breve conciliabolo tenuto fra di loro, convennero che Giulia avrebbe scritto al fratello, che era in guarnigione a Nimes, di venire sul momento. Le povere donne sentivano di avere bisogno di tutte le loro forze per sostenere il colpo che le minacciava; d’altra parte Massimiliano Morrel, quantunque nell’età di 22 anni, aveva già una grande influenza sopra suo padre. Egli era un giovine fermo, e destro. Al momento in cui si era trattato di abbracciare una carriera, suo padre non aveva voluto imporgli uno stato, ma aveva consultato il genio del giovine Massimiliano. Questi allora dichiarò di voler seguire la carriera militare; aveva per conseguenza fatti degli eccellenti studii, era entrato per concorso nella scuola Politecnica, e n’era uscito sottotenente al 53º di linea. Dopo un anno che occupava questo posto, aveva di già la promessa che alla prima occasione verrebbe nominato tenente. Nel reggimento, Massimiliano Morrel era citato come il più rigido osservatore, non solo di tutti gli obblighi imposti al soldato, ma ancora di tutti i doveri propri all’uomo, e non veniva chiamato con altro nome, che con quello di stoico. Non fa mestieri dire che la maggior parte di coloro che lo chiamavano con un tal soprannome lo ripetevano per averlo inteso dire, ma non sapevano che cosa volesse significare. La madre e la sorella il chiamavano in loro soccorso per sostenerle nella grave congiuntura che sentivano bene di esser prossime ad incontrare. Esse non si erano ingannate sulla gravità di questa congiuntura, perchè un momento dopo che Morrel era entrato nel suo gabinetto con Coclite, Giulia vide uscire quest’ultimo pallido, tremante, e col viso tutto sconvolto. Ella volle interrogarlo quando le passò vicino; ma il bravo uomo continuò a discendere la scala con una precipitazione che non eragli solita, e si contentò di gridare alzando le braccia al cielo: — Oh! madamigella, madamigella! quale orribile disgrazia, e chi avrebbe mai creduto questo! Poco dopo, Giulia il vide risalire portando due, o tre grossi registri, e un sacchetto di monete. Morrel consultò i registri, aprì il portafogli, contò le monete. Tutte le sue risorse ascendevano a sei o ottomila fr. I suoi crediti realizzabili fino al giorno 5, a quattro o cinque mila; ciò che formava in contante, a dir molto, un attivo di 14 mila fr. per far fronte ad una cambiale di 287,500 fr. Non vi era neppur mezzo di offrire una simil somma a conto. Però quando Morrel discese per pranzare, sembrava assai tranquillo: il che spaventò le due donne assai più che non avrebbe potuto fare il più grande abbattimento. Dopo pranzo Morrel aveva l’abitudine di uscire; egli andava a prendere il caffè al circolo dei Phocèens, o a leggere il _Sémaphore_: quel giorno non uscì, risalì nel suo gabinetto. Quanto a Coclite, sembrava completamente ebete. Durante una parte del giorno erasi trattenuto in cortile, assiso sur una pietra, la testa nuda, esposto ad un sole di 30 gradi. Emmanuele cercava di tranquillare le donne, ma non aveva sufficiente eloquenza. Il giovine era troppo al corrente degli affari per non conoscere che una grande catastrofe era imminente sulla famiglia Morrel. Venne la notte; le due donne vegliarono nella speranza che Morrel discendendo dal gabinetto sarebbe passato da loro; ma lo intesero passare dalla loro porta, camminando sulla punta dei piedi, per timore forse di essere chiamato: tesero le orecchie, e udirono che entrò in camera sua, e si chiuse a molla per di dentro. La sig.ª Morrel mandò sua figlia a dormire; quindi, mezz’ora dopo che Giulia si era ritirata, si alzò, si tolse le scarpe, entrò nel corridoio affine di vedere dalla serratura ciò che faceva suo marito; s’accorse allora d’un’ombra che si ritirava. Era Giulia che, inquieta anch’essa, aveva preceduto sua madre. La giovinetta le andò incontro dicendole: — Egli scrive. — Le due donne avevano avuto lo stesso pensiero senza esserselo comunicato. La sig.ª Morrel si abbassò al buco della serratura. Infatto Morrel scriveva: ma ciò che non vide la figlia, lo notò la madre; Morrel scriveva sopra carta bollata. Le venne tosto la terribile idea che facesse il suo testamento; rabbrividì e non ebbe forza di dire una parola. La dimane Morrel sembrava perfettamente tranquillo; si fermò allo scrittoio come d’ordinario, discese a far colazione, solo, dopo pranzo, fe’ sedere sua figlia a sè vicino, strinse la testa della giovinetta col suo braccio, e la tenne lungamente contro il petto. La sera, Giulia disse a sua madre che per quanto in apparenza sembrasse tranquillo, ella aveva notato che il cuore di suo padre batteva violentemente. Nello stesso modo passarono gli altri due giorni. Il 4 settembre verso sera, Morrel chiese a sua figlia la chiave del suo gabinetto. Giulia rabbrividì a questa domanda che gli sembrò di cattivo augurio. Perchè dunque suo padre domandavagli questa chiave che ella aveva sempre avuto, e che non erale mai stata tolta, meno nell’infanzia in quei giorni in cui volevasi castigare? La giovinetta guardò Morrel: — E che ho fatto io di male, padre mio, diss’ella, perchè mi riprendiate questa chiave? — Niente, figlia mia, rispose lo sventurato Morrel a cui questa semplice domanda fece sgorgare le lagrime dagli occhi, nulla; solo ne ho bisogno. — Giulia finse di cercare la chiave. — L’avrò lasciata in camera mia, diss’ella. — Uscì, ma invece di andare nella sua camera discese a consigliarsi con Emmanuele. — Non restituite la chiave a vostro padre, disse questi, e domattina, se è possibile, non lo lasciate solo un momento. — Ella cercò invano di interrogare Emmanuele, ma questi non sapeva altro, o non volle dire di più. Durante tutta la notte del 4 al 5 settembre la sig.ª Morrel restò coll’orecchio contro la bussola, fino a tre ore del mattino, intese suo marito camminare con agitazione nella camera; solo dopo le tre si gettò sul letto. Le due donne passarono insieme il resto della notte. Fino dalla sera antecedente aspettavano Massimiliano. Alle otto Morrel entrò nella loro camera: egli era tranquillo, ma gli si leggeva sul viso pallido e smunto l’agitazione della notte. Le donne non osarono di chiedergli se aveva riposato bene. Morrel fu più affabile con sua moglie, più tenero con sua figlia di quel che nol fosse mai stato, egli non si stancava di guardare ad abbracciare la povera ragazza. Giulia si ricordò la raccomandazione di Emmanuele, e volle accompagnare il padre quando uscì, ma questi la respinse con dolcezza, dicendole: — Resta con tua madre; — Giulia volle insistere. — Io lo voglio, disse Morrel — Era la prima volta che Morrel diceva a sua figlia: «io lo voglio!!!» Ma egli lo disse con tale accento di paterna dolcezza, che Giulia non osò di fare un passo più avanti. Ella rimase allo stesso posto, ritta, muta ed immobile. Pochi momenti dopo la porta si aprì, ed ella sentì due braccia che la circondavano ed un bacio che le veniva impresso sulla fronte. Alzò gli occhi, e mandò un’esclamazione di gioia. — Massimiliano! fratello mio! gridò ella. A queste grida la sig.ª Morrel accorse, e si gettò fra le braccia del figlio. — Madre mia! disse il giovine guardando alternativamente la madre e la sorella; che avvenne? La vostra lettera mi ha spaventato e io accorro! — Giulia, disse la sig.ª Morrel, facendo un segno al figlio, va a dire a tuo padre che è giunto Massimiliano. — La giovinetta si slanciò fuori dell’appartamento; ma sul primo gradino della scala incontrò un uomo che teneva una lettera in mano. — Non siete voi madamigella Giulia Morrel? disse quest’uomo con un accento italiano il più puro. — Sì, rispose Giulia balbettando; ma che volete? non vi conosco. — Leggete questa lettera, disse l’uomo, presentandole il biglietto. — Giulia esitava. — Ne va della salute di vostro padre! disse il messaggero. — La giovinetta gli tolse il biglietto dalle mani, poi l’aprì e lesse con ansietà. «Portatevi in questo medesimo punto ai viali di Meillan, entrate nella casa N. 15; domandate al portinaro la chiave della camera del quinto piano; entratevi; prendete sull’angolo del caminetto una borsa di cordonetto di seta, rossa, recatela subito a vostro padre. È indispensabile che l’abbia prima delle undici. Voi mi avete promesso di obbedirmi ciecamente; invoco la vostra promessa.» «SINDBAD IL MARINARO» La giovinetta gettò un grido di gioia, volle interrogare l’uomo che le aveva rimesso il biglietto, ma questi era già disparso. Ella riportò allora gli occhi sul biglietto per leggerlo una seconda volta, si accorse che vi era un post scriptum; e lo lesse. «È importante che adempiate questa missione in persona, e sola; se verrete in compagnia o che altri si presenti in vece vostra, il portinaro vi risponderà che non sa ciò che volete dire.» Questo _post-scriptum_ fu una forte repressione alla gioia della giovinetta. Aveva ella a temer qualche cosa? Poteva esser questo un laccio che le si tendeva? la sua innocenza non le permetteva di sapere quali erano i pericoli che poteva correre una giovinetta della sua età. Ma non v’è bisogno di conoscere i pericoli per temerli; anzi vi è una cosa notevole ed è che si temono precisamente di più i pericoli che non si conoscono. Giulia esitò; risolvè di domandar consiglio, ma per uno strano sentimento non lo chiese nè a sua madre nè a suo fratello, ricorse ad Emmanuele. Ella discese, gli raccontò l’accaduto nel giorno in cui il mandatario della casa Thomson e French venne da suo padre; dissegli la scena della scala, gli ripetè la promessa che aveva fatto, e gli mostrò la lettera. — Bisogna andarvi, madamigella, disse Emmanuele. — Andarvi? mormorò Giulia. — Sì, vi accompagnerò. — Ma non avete letto che debbo andarvi sola? — Voi sarete egualmente sola; io vi aspetterò all’angolo della strada Musée, e se tardate in modo da farmi nascere qualche inquietudine, verrò a raggiungervi, e ve ne rispondo; disgraziati coloro di cui avrete a lamentarvi! — In tal modo, Emmanuele, riprese esitando la giovinetta, il vostro consiglio è che io mi porti a questo invito? — Sì, il messaggero non vi ha detto che si tratta della salute di vostro padre? — Ma, finalmente che pericolo corre mio padre? domandò la giovinetta. — Emmanuele esitò un momento, ma il desiderio che la giovinetta si risolvesse sul momento e senza ritardo la vinse. — Ascoltate diss’egli, non è oggi il 5 settembre? — Sì. — Oggi alle undici vostro padre deve pagare circa 300mila fr. — Sì, lo sappiamo. — Ebbene! disse Emmanuele, egli non ne ha neppur 15mila in cassa. — E allora, che avverrà? — Avverrà che se oggi prima delle undici non ritrova qualcuno che gli venga in aiuto, vostro padre sarà obbligato, a mezzodì, di dichiararsi fallito. — Ah! venite, gridò la giovinetta trascinando seco Emmanuele. In questo mentre la sig.ª Morrel aveva detto tutto a suo figlio. Il giovine sapeva bene che in conseguenza delle successive disgrazie sovraggiunte a suo padre, erano state introdotte molte modificazioni nelle spese di casa; ma non sapeva che le cose fossero giunte a tal segno. Rimase annichilito; quindi d’un subito si slanciò fuori dell’appartamento, salì rapidamente le scale credendo di ritrovare il padre nel gabinetto; ma battè invano. Mentre era alla porta sentì che quella dell’appartamento si apriva, si volse e vide suo padre. Invece di risalire direttamente al suo gabinetto, Morrel era rientrato nella sua camera, e ne usciva allora soltanto; egli mandò un grido di sorpresa scorgendo Massimiliano, poichè ne ignorava l’arrivo. Rimase immobile al suo posto, strinse col braccio sinistro un oggetto che teneva nascosto sotto l’abito. Massimiliano discese sollecitamente la scala e si gettò al collo di suo padre; ma d’improvviso egli dette addietro, lasciando soltanto la destra appoggiata al petto di Morrel. — Padre mio, diss’egli diventando pallido come la morte, e perchè avete un paio di pistole sotto l’abito? — Oh! ecco ciò che io temeva, disse Morrel. — Padre mio... padre mio! in nome del cielo, gridò il giovine, che volete far di queste armi? — Massimiliano, rispose Morrel tenendo lo sguardo fisso sul figlio, tu sei un uomo ed un uomo d’onore; vieni, te lo dirò. — E Morrel salì con passo sicuro fino al suo gabinetto, mentre che Massimiliano lo seguiva barcollando: aprì di poi la porta, e la richiuse dopo che fu passato il figlio, quindi traversò l’anticamera, s’avvicinò allo scrittoio, depose le pistole sull’angolo della tavola, e mostrò a suo figlio colla punta del dito un registro aperto; sur esso era fedelmente trasportato lo stato esatto della sua situazione; Morrel doveva pagare fra mezz’ora 287,500 fr. ed in tutto ne possedeva 15,257. — Leggi! disse Morrel. — Il giovine lesse e rimase un momento annientato. Morrel non diceva una parola: che avrebbe egli potuto dire o aggiungere all’inesorabile decreto delle cifre? — E voi, padre mio, avete fatto tutto il possibile per prevenire questa disgrazia? disse dopo breve silenzio il giovine. — Sì, rispose Morrel. — Non contate sopra alcun rimborso? — No. — Avete esauste tutte le risorse? — Tutte. — E fra mezz’ora... aggiunse egli con voce cupa, il nostro nome sarà disonorato? — Il sangue lava il disonore, disse Morrel. — Avete ragione, padre mio, ora vi comprendo. — Quindi stese la mano verso le pistole. — Ve n’è una per voi ed un’altra per me, diss’egli: grazie! Morrel gli fermò la mano. — E tua madre... e tua sorella... chi le nutrirà? — Un fremito corse per tutte le membra del giovine. — Padre mio, diss’egli, pensate che con ciò che mi dite io possa vivere? — Sì, te lo dico, riprese Morrel, perchè questo è il tuo dovere; tu hai lo spirito tranquillo e forte, Massimiliano... tu non sei uno dei soliti uomini; nulla ti comando, nulla io ti ordino, e sol ti dico: «esamina la situazione come se tu vi fossi straniero, e giudicala da te stesso.» — Il giovine riflettè un momento, quindi l’espressione della più sublime rassegnazione passò nei suoi occhi; solo si tolse con un movimento tristo e lento la spallina e la mozzetta, distintivi del suo grado. — Sta bene, disse egli tendendo la mano a Morrel, morite in pace, padre mio, io vivrò. — Morrel fece un movimento per gettarsi alle ginocchia del figlio. Massimiliano lo raccolse fra le braccia, e per un momento questi due nobili cuori batterono l’un contro l’altro. — Tu sai che non è per mia colpa? disse Morrel. Massimiliano sorrise. — So, padre mio, che siete l’uomo più onesto che m’abbia mai conosciuto. — Sta bene, è detto tutto: ora ritorna da tua madre e da tua sorella. — Padre mio, disse il giovine piegando un ginocchio, beneditemi! Morrel prese la testa di suo figlio fra le mani, l’avvicinò a sè, e v’impresse molti baci dicendo: — Oh! sì, sì, ti benedico nel mio nome, e nel nome di tre generazioni di uomini irreprensibili. Ascolta adunque ciò che essi ti dicono colla mia voce: l’edifizio che la sventura ha distrutto, può essere riedificato dalla divina Provvidenza. Sapendomi morto in questo modo, i più inesorabili avranno pietà di me; a te forse sarà accordata una dilazione che a me sarebbe stata negata; allora cerca che la parola infame non sia pronunziata; mettiti all’opera, lavora, giovine! lotta ardentemente e con coraggio; vivi tu, tua madre, e tua sorella del puro necessario, affinchè giorno per giorno i beni di coloro ai quali io devo, si aumentino e fruttifichino fra le tue mani. Pensa che sarà un bel giorno, un gran giorno, un giorno solenne quello della riabilitazione, il giorno in cui, da questo stesso scrittoio, tu potrai dire: «mio padre è morto perchè non poteva fare ciò che ho fatto io, ma egli è morto tranquillo, perchè morendo sapeva che io lo avrei fatto.» — Oh! padre mio, padre mio, gridò il giovine, se pure poteste vivere. — Se io vivo tutto è perduto: se io vivo, la premura si cambia in dubbio, la pietà in accanimento; se io vivo, non sono più che un uomo che ha mancato alla sua parola, che ha fallito i suoi impegni, non ho più in fine che una bancarotta. Se muoio, al contrario, pensateci bene Massimiliano, il mio cadavere non è più che quello di un onest’uomo disgraziato. Vivo, i miei migliori amici evitano la mia casa: morto, Marsiglia intera mi seguirà piangendo fino all’ultima mia dimora. Vivo, tu avresti onta del mio nome; morto, puoi alzare la testa e dire ad alta voce: «sono il figlio di colui che si è ucciso, perchè è stato costretto di dover per la prima volta mancare alla sua parola.» Il giovine mandò un gemito, ma parve rassegnato. Era la seconda volta che la convinzione rientrava nel suo cuore, ma non nel suo spirito. — Ora, disse Morrel, lasciami solo, e cerca di allontanare le donne. — Non volete rivedere mia sorella? domandò Massimiliano. — Un’ultima e sorda speranza era nascosta pel giovine in questo incontro, ecco perchè lo proponeva. Morrel scosse la testa. — L’ho veduta questa mattina, diss’egli, e le ho detto addio. — Non avete voi alcuna raccomandazione particolare da farmi, padre mio? domandò Massimiliano con voce alterata. — Sì figlio mio, una raccomandazione sacra. — Dite, padre mio. — La casa Thomson e French è la sola che per umanità, o forse per egoismo (ma non sta a me il leggere nel cuore degli uomini) è la sola che abbia avuto pietà di me. Il suo mandatario, quello che fra dieci minuti si presenterà per riscuotere una tratta di 287,500 fr., egli, non dirò mi abbia accordato, ma mi ha offerta una dilazione di tre mesi; questa casa sia rimborsata per la prima, figlio mio, che quest’uomo ti sia sacro. — Sì, padre mio, disse Massimiliano. — Ed ora, anche una volta, addio: disse Morrel; va, va; ho bisogno di restar solo; troverai il mio testamento nello scrigno della camera da letto. — Il giovine rimase in piedi ed inerte, senza avere che la forza della volontà, ma non quella dell’esecuzione. — Ascolta, Massimiliano, disse suo padre, supponi che io sia un soldato come te, che abbia ricevuto l’ordine di dar la scalata ad un bastione, e che tu sapessi che vado incontro ad una certa morte nell’assalirlo, non mi diresti tu come mi dicevi poco fa: «andate padre mio perchè vi disonorereste restando, e val meglio la morte che l’onta»? — Sì sì, disse il giovine, sì; e stringendo convulsivamente tra le braccia il padre: — Coraggio, padre mio, diss’egli. E si slanciò verso il gabinetto. Quando il figlio fu uscito Morrel rimase un momento in piedi cogli occhi fissi sulla porta, quindi tese la mano, tirò la corda del campanello e suonò. Di lì a poco, comparve Coclite. Non era più l’uomo di prima, questi tre giorni di convinzione lo avevano atterrato. Il pensiero che la casa Morrel sospendeva i pagamenti lo curvava al suolo più che non avrebbero fatto altri vent’anni accumulati sul suo capo. — Mio buon Coclite, disse Morrel con un accento di cui sarebbe difficile dire l’espressione, tu resterai nell’anticamera. Quando verrà quel signore che venne già or son tre mesi, lo conosci? il mandatario della casa Thomson e French, verrai ad annunziarmelo. — Coclite non rispose; fe’ un segno affermativo colla testa, andò a sedersi nell’anticamera ed aspettò. Morrel ricadde sulla sedia, gli occhi si volsero verso l’orologio: gli rimanevano ancora sette minuti in tutto; la lancetta camminava con una rapidità incredibile, gli sembrava vederla andare. Ciò che in quel momento passò nello spirito di quest’uomo, che, giovine ancora, in conseguenza di un ragionamento falso in sè stesso, quantunque tal non sembrasse in apparenza, stava per prepararsi a dividersi da tutto ciò che di più caro aveva al mondo, e per abbandonare una vita piena per lui di tutte le dolcezze della famiglia, è impossibile poterlo spiegare; sarebbe stato mestieri esservi presente per averne un’idea, la fronte era ricoperta di sudore, e ciò nonostante rassegnata, gli occhi bagnati di lagrime, ma pur rivolti al cielo. La lancetta camminava sempre: le pistole erano cariche; allungò la mano, ne prese una e mormorò il nome di sua figlia; depose l’arma mortale, prese la penna e scrisse alcune parole. Gli sembrava di non avere ancora detto abbastanza addio a questa figlia prediletta; ritornò a guardar l’orologio; egli non contava più i minuti, ma i secondi. Riprese l’arma colla bocca semi-aperta e gli occhi fissi alla pendola; poi rabbrividì al rumore che egli stesso faceva nel caricar l’acciarino. In questo momento un sudore più freddo gli passò sulla fronte, un’ansia più mortale gli strinse il cuore; intese la porta delle scale cigolare sui gangheri, aprirsi quella del suo gabinetto; l’orologio stava per battere le undici. Morrel non si volse, aspettava che Coclite pronunciasse le fatali parole: «Il mandatario della casa Thomson e French»; avvicinò l’arme alla bocca... d’improvviso invece della voce di Coclite intese un grido... era la voce di sua figlia... si volse allora e riconobbe Giulia; la pistola gli sfuggì di mano. — Padre mio! gridò la giovinetta ansante, e quasi morente di gioia, salvato! voi siete salvato! e gli si gettò fra le braccia, alzando in alto colla mano la borsa di cordonetto di seta rossa. — Salvato! figlia mia, che vuoi tu dire? — Sì, salvato! guardate, guardate, disse la giovinetta. Morrel prese la borsa e rabbrividì, perchè una lontana rimembranza gli ricordava che quell’oggetto eragli in altro tempo appartenuto. Da una parte era la cambiale dei 287,500 fr., già _quietanzata_, dall’altra vi era un diamante della grossezza di una nocciuola con queste tre parole scritte sopra un po’ di pergamena: «dote di Giulia.» Morrel si passò la mano sulla fronte: credeva sognare. Nel medesimo punto l’orologio battè le 11. Il martello battè per lui come se ciascun colpo avesse ripercosso sul cuore. — Raccontami, figlia mia, diss’egli, spiegati. Ove ritrovasti tu questa borsa? — Nella casa N. 15 dei viali di Meillan, sull’angolo di un caminetto di una meschina cameretta del quinto piano. — Ma, gridò Morrel: questa borsa non è tua. Giulia presentò allora a suo padre la lettera che aveva ricevuta la mattina. — E sei andata sola in quella casa? disse Morrel dopo averla letta. — Emmanuele mi accompagnava, egli doveva aspettarmi all’angolo della strada _Museé_; ma cosa strana, al mio ritorno non v’era più. — Sig. Morrel? gridò una voce dalle scale, sig. Morrel! — Questa è la sua voce, disse Giulia. Nel medesimo tempo entrò Emmanuele col viso sconvolto dalla gioia e dalla emozione. — Il _Faraone!_ gridò egli; il _Faraone!_ — Ebbene che, il _Faraone_! siete pazzo, Emmanuele? sapete bene che colò a fondo. — Il _Faraone_,! signore, il fanale ha dato il segnale del _Faraone_! il _Faraone_ entra in questo momento nel porto. Morrel ricadde sulla sedia; le forze gli mancarono; la sua intelligenza non era capace ad ordinare questa serie di avvenimenti incredibili, inauditi e favolosi. Suo figlio entrò a sua volta. — Padre mio, gridò Massimiliano, che dicevate dunque che il _Faraone_ era perduto? il fanale lo ha segnalato, ed entra in porto in questo momento. — Amici miei, disse Morrel, se ciò fosse, bisognerebbe credere ad un miracolo! Ma è impossibile! impossibile! Tuttociò, quantunque sembrasse incredibile, era pur vero, la borsa che teneva in mano, la cambiale _quietanzata_, ed il magnifico diamante. — Ah! signore, disse Coclite a sua volta, e che vuol dir questo? il _Faraone_! — Andiamo, figli miei, disse Morrel alzandosi, andiamo a vedere, che il cielo abbia pietà di noi se questa fosse una falsa nuova. — Essi discesero; a metà delle scale aspettava la sig.ª Morrel; la poveretta non aveva avuto il coraggio di salire. In un momento furono alla Cannebière. Una gran folla era sul porto. Tutta questa folla si divise per lasciar libero il passaggio alla famiglia Morrel. — Il _Faraone_! il _Faraone_! dicevasi da ogni lato, da ogni bocca. Infatto cosa maravigliosa, inaudita, dirimpetto alla torre S. Giovanni un bastimento portava sulla poppa queste parole scritte a grandi lettere bianche «_Faraone: Morrel e figlio di Marsiglia_» Questo bastimento era assolutamente della stessa portata e della stessa forma dell’altro _Faraone_, ed era carico egualmente d’indaco e di cocciniglia, gettò l’ancora, ammainò le vele; sul ponte il capitano Gaumard dava i suoi ordini, e Penelon faceva segnali a Morrel. Non v’era più da dubitarne, eravi la testimonianza dei sensi, e quella di diecimila e più persone. Mentre Morrel e suo figlio si abbracciavano fra gli applausi di tutta la città, testimone di questo prodigio, un uomo, il cui viso era per metà coperto da una barba nera, e che, nascosto dietro il casotto di una sentinella, contemplava questa scena di tenerezza, mormorava queste parole: — Nobil cuore, sii felice; sii benedetto per tutto ciò che ancora farai, e la mia riconoscenza resti nell’oscurità come il tuo benefizio. E con un sorriso che rivelava la gioia e la felicità, abbandonò il luogo dove si era nascosto, e senza essere osservato da alcuno, tanto tutti erano occupati dell’avvenimento della giornata, discese una di quelle piccole gradinate che servono di scalo, e chiamò — Jacopo! Jacopo! Jacopo! Allora un battello venne a lui, lo ricevette a bordo, e lo trasportò ad un _yacht_ riccamente guarnito, sul ponte del quale ei balzò colla leggerezza d’un marinaro; di là, guardò ancora una volta Morrel, che piangendo di gioia distribuiva amichevoli strette di mano a tutta quella folla, ringraziando con uno sguardo singolare l’invisibile benefattore che gli sembrava dover cercare in cielo. — Ora, disse l’uomo sconosciuto, addio bontà, addio umanità, addio riconoscenza... addio a tutti quei sentimenti che inteneriscono il cuore!... A queste parole fe’ un segnale, e, come se non avesse atteso che ciò per partire, il _yacht_ prese tosto il mare. XXXI. — ITALIA — SINDBAD IL MARINARO. Verso il principio del 1838 si trovavano a Firenze due giovani che appartenevano alla società più elegante di Parigi: uno era il visconte Alberto de Morcerf, l’altro il barone Franz d’Épinay. Avevano stabilito fra loro che sarebbero andati a passar quel carnevale a Roma, ove Franz, che abitava l’Italia da più di quattro anni, avrebbe fatto da cicerone ad Alberto. Or, siccome non è piccola cosa l’andare il carnevale a Roma, particolarmente quando non si vuole andare a dormire sulla piazza del Popolo, o al Foro Romano, essi scrissero a Pastrini proprietario dell’albergo di Londra sulla Piazza di Spagna per pregarlo di serbar loro un comodo appartamento. Pastrini rispose che non aveva più che due camere e un gabinetto al secondo piano, che loro offriva mediante la modica retribuzione di un luigi al giorno. I due giovani accettarono; quindi Alberto volendo mettere a profitto il tempo che gli rimaneva, partì per Napoli. Franz rimase a Firenze. Dopo aver goduto qualche tempo dei piaceri che procura la Città dei Medici, dopo aver lungamente passeggiato in quell’Eden che viene chiamato le cascine, dopo essere stato ricevuto da quegli ospiti magnifici che si chiamano Corsini, Montfort, Poniatowski, gli prese fantasia, essendo già stato a visitare la Corsica, culla di Bonaparte, di andare a vedere l’isola d’Elba, questo luogo della gran fermata di Napoleone. Una sera dunque staccò una barchetta dall’anello di ferro che la fermava al porto di Livorno, vi si sdraiò in fondo, avvolto nel suo mantello, dicendo ai marinari queste sole parole: — All’isola d’Elba! La barca lasciò il porto, come un uccello lascia il nido, e la dimane Franz era a Portoferraio: ei traversò l’isola imperiale seguendo tutte quelle tracce che vi hanno lasciato i passi del gigante, e andò ad imbarcarsi a Marciana. Due ore dopo aver lasciata la terra la riguadagnò di nuovo per isbarcare alla Pianosa, ove veniva assicurato che avrebbe trovata una quantità di pernici rosse. La caccia fu cattiva; Franz ammazzò a gran stento poche pernici magre, e, come fanno tutti i cacciatori che si sono stancati senza alcun pro, risalì nella barca di assai cattivo umore. — Se V. E. volesse, gli disse il padrone della barca, potrebbe fare una bella caccia. — E dove? — Vedete voi quell’isola? continuò il marinaro stendendo il dito verso mezzogiorno, indicando una massa conica che usciva dal mezzo del mare tinta di un bellissimo color d’indaco. — Ebbene! che cosa è quell’isola? domandò Franz. — È l’isola di Monte-Cristo, rispose il Livornese. — Ma io non ho licenza di andare a caccia in quell’isola. — V. E. non ne ha bisogno; l’isola è deserta. — Oh! per bacco! un’isola deserta in mezzo al Mediterraneo, è una cosa curiosa. — È naturale, eccellenza. Questa isola è un ammasso di scogli, e in tutta la sua estensione non vi è forse un palmo di terreno coltivabile. — E a chi appartiene? — Alla Toscana. — E qual selvaggiume vi si trova? — Migliaia di capre selvagge. — Che vivono leccando delle pietre? disse Franz con un sorriso d’incredulità. — No, ma sfrondando le macchie, i mirti, e gli altri pruni che nascono tra i massi. — Ma dove dormirò io? — O a terra, o nelle grotte, o a bordo avvolto nel vostro mantello. D’altra parte se V. E. lo desidera, potremo partir subito dopo la caccia; ella sa che noi navighiamo tanto di giorno quanto di notte, e che quando non lavorano le vele, lavoriamo coi remi. Rimanendogli ancora del tempo prima di raggiungere il compagno, e non avendo più inquietudini per l’alloggio in Roma, Franz accettò la proposizione di ricompensarsi della sua prima caccia. Alla risposta affermativa, i marinari si cambiarono alcune parole a voce bassa. — Ebbene! che abbiamo di nuovo? domandò egli; sarebbe sopraggiunta qualche difficoltà? — No, rispose il padrone; ma dobbiamo prevenire V. E. che l’isola di Monte-Cristo è in contumacia. — E che significa questo? — Vuol dire che siccome Monte-Cristo è inabitato, e qualche volta serve di fermata a contrabbandieri, e pirati che vengono dalla Sardegna, dalla Corsica, dall’Affrica, se un qualche segno denunzia il nostro soggiorno nell’isola, saremo costretti, al nostro ritorno in Livorno, di fare una quarantena di sei giorni. — Diavolo! ecco, ciò cambia specie; sei giorni! sarebbe troppo. — Ma chi dirà che V. E. è stato a Monte-Cristo? — Oh! questo non importa. — Oh! ma non sarò io certamente, gridò Gaetano. — E neppur noi, dissero i marinari. — In questo caso, andiamo a Monte-Cristo. Il padrone comandò la manovra; si volse capo sull’isola, e la barca cominciò ad essere diretta a quella parte. Franz lasciò compiere l’operazione, e quando fu preso il nuovo cammino, quando la vela fu gonfiata dalla brezza, e i quattro marinari ebbero preso il loro posto, tre davanti, ed uno al timone, riannodò la conversazione. — Mio caro Gaetano, disse al padrone, voi mi diceste, credo, l’isola di Monte-Cristo servire di rifugio a contrabbandieri, e a pirati, e ciò mi pare bene altro selvaggiume che le capre selvatiche. — Sì, eccellenza, e questa è la verità. — Conosceva bene esservi dei contrabbandieri, ma credeva che dopo la presa di Algeri, e la distruzione della reggenza, i pirati non esistessero più che nei romanzi di Cooper e del capitano Marryat. — Ebbene V. E. si sbaglia; accade dei pirati come degli assassini, che quantunque sieno creduti esterminati, pure aggrediscono tutti i giorni i viaggiatori fin sotto le porte delle città, siccome accadde presso Velletri, saranno appena sei mesi. Se V. E. abitasse Livorno, come facciam noi, sentirebbe dire di tempo in tempo che un piccolo bastimento carico di mercanzie, o che un bel _yacht_ inglese che era aspettato a Bastia, a Portoferraio, o a Civita-vecchia, non è più arrivato, e non si sa che ne sia avvenuto, e che senza dubbio si sarà rotto contro qualche scoglio. Ora, lo scoglio che ha incontrato è una barca bassa e stretta, montata da sei, od otto uomini che lo hanno sorpreso, e saccheggiato in una notte oscura e tempestosa, nei dintorni di un qualche isolotto selvaggio ed inabitato, non diversamente dagli assassini che arrestano e spogliano una carrozza di posta all’angolo di un bosco. — Ma finalmente, riprese Franz sempre steso nella barca, e perchè quelli ai quali accadono simili disgrazie non fanno le loro denunzie? perchè non richiamano essi su questi pirati la vendetta del governo francese, sardo, o toscano? — Perchè? disse ridendo Gaetano. — Sì perchè? — Perchè prima si trasporta dal bastimento o dal _yacht_ sulla barca, tutto ciò che vi è di meglio da prendersi; quindi si legano mani e piedi a tutto l’equipaggio, e si attacca al collo di ciascuno una palla da 24, poi si fa un bel foro, come quello di un barile, nella chiglia del bastimento catturato, si risale sul ponte, si chiude il boccaporto, e si passa sulla barca. In capo a dieci minuti il bastimento comincia a lamentarsi, e gemere. Un poco alla volta affonda. Dapprima cala una delle sue parti, poi cala l’altra, poi la rialza, quindi s’immerge di nuovo affondandosi sempre più. D’improvviso scoppia un rumore simile a quello di una cannonata: è l’acqua che infrange il ponte. Allora il bastimento si agita, come si dibatte chi sta per annegarsi, divenendo sempre più pesante. Ben presto l’acqua troppo compressa nelle cavità si slancia da tutte le aperture, simile alle colonne liquide che gettano dalle narici le gigantesche balene. Finalmente manda un ultimo strepito, fa un giro su sè stesso, ed affonda scavando nell’abisso una vasta tromba che per un momento si aggira, si ricolma a poco a poco, e finisce per cancellarsi del tutto, tanto bene che in capo a cinque minuti non v’è che l’occhio di Dio che possa andare a discernere nel fondo del mare il bastimento disparso. Comprenderete ora in qual modo il bastimento non ritorna in porto, e perchè l’equipaggio non fa le sue querele? Se Gaetano avesse raccontata la cosa prima di proporre la spedizione, è probabile che Franz vi avrebbe pensato due volte prima d’imprenderla; ma la barca vogava nella direzione dell’isola, e gli sembrò che sarebbe stata una viltà ritornare addietro. Franz era uno di quegli uomini che non corrono mai incontro al pericolo, ma che se il pericolo viene innanzi a loro, conservano una prontezza d’animo inalterabile per combatterlo: era uno di quegli uomini di volontà pacifica che guardano un pericolo della vita come un avversario in un duello, che ne calcolano i movimenti, che ne studiano la forza, che rinculano spesso per prender fiato, e per non comparir vili, finalmente che, conoscendo con un solo sguardo tutti i loro vantaggi, ammazzano con un sol colpo. — Bah! riprese egli, io ho traversata la Sicilia, e la Calabria, ho navigato due mesi nell’Arcipelago, e non ho giammai veduto l’ombra di un bandito o di un pirata. — Non ho detto ciò a V. E., disse Gaetano, per farle rinunciare al suo disegno; ella mi ha interrogato, ed io le ho risposto. — Sì, mio caro Gaetano la vostra conversazione è attraente; e siccome voglio goderne il più lungamente possibile, così andiamo a Monte-Cristo. — Frattanto si accostavano rapidamente al termine del loro viaggio, il vento era favorevole, e la barca faceva sei miglia l’ora. A seconda che si accostavano, l’isola sembrava sorgere gigantesca dal seno del mare, e traverso l’atmosfera limpida degli ultimi raggi del giorno, si distinguevano, come le palle ammonticchiate in un arsenale, gli scogli messi a piramide l’un sopra l’altro, e negli interstizi dei quali si vedevano rosseggiare le macchie, e verdeggiare gli alberi. In quanto ai marinari, quantunque sembrassero perfettamente tranquilli, era però evidente che la loro vigilanza stava all’erta, e che i loro sguardi investigavano il vasto specchio su cui scorrevano, e l’orizzonte del quale era soltanto popolato da qualche barca pescareccia le cui vele bianche si libravano, come allodole, sulla cima dei flutti. Essi ormai erano distanti soltanto una quindicina di miglia da Monte-Cristo quando il sole declinava dietro la Corsica, di cui le montagne comparivano a destra delineando sul cielo il loro irregolare profilo, e mostrando ancora illuminata l’estremità di quella massa di pietre, che pari al gigante Adamastor, s’innalzavano davanti la barca. Poco per volta l’ombra salì dal mare, e sembrò scacciare dinanzi a sè gli ultimi riflessi del giorno che stava per finire; poi il raggio luminoso fu spinto fino alla cima del cono, ove si fermò un momento, come il pennacchio infiammato di un vulcano; finalmente l’ombra sempre crescente invase progressivamente la sommità come aveva invaso la base, e l’isola non apparve più che una montagna grigia che andava sempre più oscurandosi: mezz’ora dopo era notte perfetta. Fortunatamente che i marinari erano nei loro abitual paraggi, e che conoscevano fin l’ultimo degli scogli dell’arcipelago toscano; poichè in mezzo all’oscurità profonda nella quale era involta la barca, Franz non sarebbe stato del tutto senza inquietudine. La Corsica era intieramente disparsa, e l’isola di Monte-Cristo era anch’essa divenuta invisibile; ma i marinari sembravano avere a guisa di lince la facoltà di veder fra le tenebre, e il pilota che regolava il timone non mostrava il più piccolo dubbio. Era passata circa un’ora dopo il tramonto del sole quando Franz credè scorgere ad un quarto di miglio a sinistra una massa nera, ma era tanto impossibile di distinguere ciò che fosse, che temendo di promuovere la giovialità dei marinari equivocando una nube con la terra ferma, si rimase zitto. D’improvviso apparve una gran luce; la terra poteva bene assomigliarsi ad una nube, ma quel fuoco non poteva credersi una meteora. — Che cosa è quella luce? domandò Franz. — Zitto! disse Gaetano, è un fuoco. — Ma voi diceste che l’isola è disabitata? — Dissi che non aveva una popolazione fissa, ma dissi pure che questo luogo era una fermata dei contrabbandieri. — E dei pirati? — E dei pirati, continuò Gaetano ripetendo le parole di Franz; ed è perciò che ho dato ordine di passare avanti, poichè, come vedete, ora il fuoco è dietro a noi. — Ma questo fuoco, continuò Franz, mi sembra piuttosto un motivo di sicurezza che d’inquietudine: gente che temesse di essere veduta non accenderebbe il fuoco. — Oh! questo non vuol dir niente, rispose Gaetano, se voi in mezzo a questa oscurità poteste giudicare della posizione dell’isola, vedreste che questo fuoco acceso nel punto ove è, non può essere scorto, nè dalla Corsica, nè dalla Pianosa, ma soltanto in alto mare. — Credete che ci annunzi cattiva compagnia? — Questo è quello di che bisognerà assicurarci, rispose Gaetano il quale teneva sempre gli occhi fissi sull’isola. — E come volete assicurarvene? — State a vedere. A queste parole Gaetano tenne un breve consiglio coi compagni, e dopo cinque minuti venne eseguita nel più gran silenzio una manovra mercè la quale in un memento fu virato di bordo; allora si riprese il cammino già fatto, e qualche secondo dopo questo cambiamento di direzione il fuoco disparve nascosto dietro a un sollevamento del terreno. Allora il pilota dette al piccolo bastimento, con una girata di timone, una nuova direzione, e si avvicinarono visibilmente all’isola che più non era distante che 50 passi. Gaetano tolse la vela, e la barca rimase stazionaria. Tutto ciò fu fatto nel più gran silenzio; dopo il cambiamento di direzione non era stata pronunciata una parola a bordo. Gaetano, che aveva proposta la spedizione, ne aveva presa sopra di sè tutta la responsabilità. Gli altri tre marinari mentre preparavano i remi, e stavano pronti a fuggire remando, non toglievano lo sguardo da lui per eseguire quella qualunque manovra che lor venisse ordinata da un gesto, e che mercè l’oscurità si sarebbe potuta eseguire molto facilmente. Franz visitava le armi colla prontezza d’animo che abbiamo in lui riconosciuta; aveva due fucili a due canne, ed una carabina; li caricò, si assicurò degli acciarini, e aspettò. Durante questo tempo Gaetano si era tolto il cappotto e la camicia, aveva assicurati i calzoni intorno ai fianchi, e siccome avea i piedi nudi, si risparmiò la pena di levarsi le calze e le scarpe. Una volta così abbigliato, si mise l’indice della mano davanti alle labbra per ordinare il più profondo silenzio, e si lasciò immergere nel mare; nuotò verso l’isola con tal cautela che riesciva impossibile il discernere il più piccolo rumore. Potevasi soltanto seguire collo sguardo la traccia del suo tragitto dal solco fosforescente che eccitavano i suoi movimenti. Questo solco ben presto disparve: era segno evidente che Gaetano aveva preso terra. Sul piccolo bastimento rimasero tutti immobili per una mezz’ora, scorsa la quale videsi ricomparire dalla riva alla barca il solco luminoso. In pochi momenti Gaetano aveva raggiunta la barca. — Ebbene? fecero ad un tempo Franz e i tre marinari. — Ebbene! diss’egli, sono contrabbandieri spagnuoli; essi hanno soltanto con loro due banditi corsi. — E che fanno questi coi contrabbandieri spagnuoli? — Eh! mio Dio! eccellenza, rispose Gaetano con un accento di vivo amore del prossimo, bisogna bene aiutarsi gli uni con gli altri. Spesse volte i banditi vengono un poco troppo pressati su la terra dai gendarmi e dai carabinieri; ebbene! allora ritrovano una barca, ed in essa dei buoni diavoli come noi; vengono a domandarci l’ospitalità nella nostra casa galleggiante. Si può fare a meno di prestare soccorso ad un povero diavolo perseguitato? noi li riceviamo a bordo, e per maggior sicurezza prendiamo il largo. Ciò non costa nulla, e salva la libertà, o per lo meno la vita, a qualcuno dei nostri simili, il quale, all’occasione, sa essere riconoscente al servigio reso, indicandoci un buon luogo ove sbarcare le nostre mercanzie senza essere incomodati dai curiosi. — Va bene, disse Franz, anche voi, mio caro Gaetano, siete dunque un po’ contrabbandiere? — Eh! che volete, disse con un sorriso impossibile a descriversi, si fa un po’ di tutto; bisogna pur vivere: — Allora voi siete con persone di conoscenza quando vi trovate cogli abitanti che a quest’ora sono a Monte-Cristo. — Circa; noi marinari abbiamo alcuni segni per riconoscerci. — E credete che non avrem nulla a temere sbarcando anche noi? — Assolutamente nulla! i contrabbandieri non sono ladri! — Ma questi due banditi corsi... riprese Franz, calcolando prima tutte le eventualità del pericolo. — Eh! mio Dio, disse Gaetano, non è colpa loro se sono banditi, ma colpa altrui. — In che modo? — Senza dubbio! essi sono perseguitati non per altro, che per aver fatta la pelle a qualcuno, mossi da spirito di vendetta, (del che non li lodo già io), ma pure accade così. — Che intendete voi col fare la pelle? avere assassinato un uomo? disse Franz, continuando le sue investigazioni. — Intendo avere ucciso un nemico! rispose il pilota, il che è molto diverso. — Ebbene, disse il giovine, andiamo dunque a domandare ospitalità ai contrabbandieri, ed ai banditi. Credete voi che ci verrà accordata? — Senza alcun dubbio. — Quanti sono? — Tre contrabbandieri, e due banditi. — Va bene! è appunto la nostra cifra; noi siamo in forza eguale nel caso che questi signori mostrassero cattive intenzioni, e per conseguenza in istato di potere contenerli. Per l’ultima volta adunque andiamo a Monte-Cristo. — Sì, eccellenza; ma voi ci permettete ancora di prendere qualche cautela. — Ed in qual modo, mio caro; siate saggio come Nestore, e prudente come Ulisse; fo ancora più di permettervelo, ve ne prego. — Ebbene! silenzio allora! disse Gaetano. Tutti tacquero. Per un uomo come Franz che osservava tutte le cose nel loro vero punto di vista, la situazione, senz’essere pericolosa, non era però priva di una certa gravità. Egli si trovava nella più profonda oscurità, isolato in mezzo al mare con marinari che non conosceva, e che non avevano alcuna ragione di essergli affezionati, che sapevano ch’egli aveva nella ventriera qualche migliaio di franchi, e che per più volte, se non invidiate almeno esaminate con molta curiosità le sue armi, che erano bellissime. Da altra parte egli approdava con questa sorta di uomini in una isola la quale sebbene portasse un nome molto religioso, non sembrava, mercè i tre contrabbandieri e i due banditi, promettere un’ospitalità molto caritatevole; poi la storia dei bastimenti mandati a fondo, che nel giorno gli era sembrata esagerata, la notte gli apparve verosimile. Per tal modo posto fra questi due pericoli, forse immaginari, ma fors’anche reali, non abbandonava i suoi uomini con gli occhi, nè il fucile con la mano. In questo mentre i marinari avevano nuovamente spiegata la vela, ed avevano ripreso il solco già calcolato coll’andare e rivenire. Attraverso l’oscurità, Franz, un poco abituato alle tenebre, distingueva il gigante di granito che la barca andava costeggiando; poi finalmente, oltrepassando di nuovo l’angolo di una roccia, scoperse il fuoco che brillava più vivamente che mai, e intorno al quale erano assise quattro, o cinque persone. Il riverbero del fuoco si estendeva a un centinaio di passi nel mare. Gaetano costeggiò la luce, mantenendo sempre la barca nella parte meno illuminata; quindi quando essa fu tutta dirimpetto al fuoco, volse capo su di quello, ed entrò bravamente nel circolo luminoso, intuonando una canzone da pescatori di cui cantava le strofe egli solo, ed i compagni ripetevano in coro il ritornello. Alla prima parola della canzone, gli uomini assisi intorno al fuoco si erano alzati, ed eransi avvicinati allo scalo, cogli occhi fissi sulla barca, sforzandosi visibilmente di giudicarne la forza, e d’indovinarne le intenzioni. Ben presto parve che avessero fatto un esame sufficiente, e ad eccezione di uno che rimase in piedi a fare la sentinella, gli altri andarono a sedersi intorno al fuoco davanti al quale veniva arrostito un capretto tutto intero. Quando il battello fu giunto a 20 passi dalla terra, l’uomo che stava in sentinella sulla spiaggia fece macchinalmente colla carabina un atto simile a quello di un soldato in fazione quando aspetta la pattuglia; e gridò chi vive? in dialetto sardo. Franz caricò freddamente i due fucili. Gaetano cambiò con quest’uomo alcune parole che il viaggiatore non capì, ma che dovevano necessariamente riguardarlo, perchè Gaetano volgendosi gli chiese. — V. E. vuol dire il suo nome o conservare l’incognito? — Il mio nome deve essere del tutto sconosciuto a questi signori, rispose Franz; dunque dite loro soltanto che io sono un francese che viaggia per diletto. Allorchè Gaetano ebbe trasmessa questa risposta, la sentinella dette un ordine ad uno degli uomini assisi intorno al fuoco che subito si alzò, e disparve fra le rocce. Successe un silenzio di qualche minuto. Ciascuno sembrava preoccupato dei proprii affari: Franz dello sbarco, i marinari delle vele, i contrabbandieri del loro capretto; ma in mezzo a questa apparente noncuranza tutti si osservarono attentamente. L’uomo che erasi allontanato ricomparve ben tosto dal lato opposto a quello da cui era disparso; fece un segno colla testa alla sentinella che voltandosi alla barca si limitò di dire, _s’accomodi_. Il _s’accomodi_ degl’italiani non è traducibile in altra lingua: significa ad un tempo, «Venite, entrate, siate il ben venuto, fate come se foste in casa vostra, voi siete il padrone;» il _s’accomodi_, è quella frase turca di Molière che meravigliava tanto il gentiluomo borghese per la quantità di significati che conteneva. I marinari non se lo fecero dir due volte; in due colpi di remi, la barca toccò terra: Gaetano saltò a prua, cambiò ancora qualche parola a voce bassa con la sentinella, i compagni discesero l’un dopo l’altro, quindi finalmente toccò a Franz. Egli aveva uno dei fucili a bandoliera: Gaetano l’altro: uno dei marinari teneva la carabina. Il vestito era un misto del costume di un artista e di un elegante, non ispirò perciò alcun sospetto ai suoi ospiti e per conseguenza nessuna inquietudine. Fermata la barca alla spiaggia, si avviarono per cercare un comodo sito al bivacco; ma la direzione che presero non piaceva al contrabbandiere che faceva le funzioni di vigilatore, perchè gridò a Gaetano: — Non andate da quella parte! Gaetano balbettò una scusa, e senza aggiungere parola si avanzò dalla parte opposta, mentre che due marinari accesero dei tronchi d’albero al fuoco per illuminare il sentiero. Fecero circa trenta passi e si fermarono sopra una piccola spianata, tutta circondata di rocce nelle quali erano stati scolpiti alcuni sedili, incavati in modo che vi si poteva stare seduti al coperto. Intorno intorno verdeggiavano alcune querce selvagge e dei cespugli di mirto. Franz prese uno dei tronchi accesi che servivano di torcia, e fu il primo a riconoscere dalla comodità del luogo, che questa doveva essere una delle stazioni abituali dei visitatori dell’isola di Monte-Cristo. In quanto alla sua aspettativa di avvenimenti, essa era cessata, una volta messo piede a terra, una volta veduta la disposizione se non amichevole, almeno indifferente dei suoi ospiti, ogni preoccupazione era disparsa, e all’odore del capretto che arrostivasi nel vicino bivacco, la preoccupazione erasi cambiata in appetito. Egli disse due parole a Gaetano su questo nuovo incidente, e questi rispose che nulla era più facile quanto l’allestire una cena in pochi minuti, avendo essi nella barca del pane, del vino, le sei pernici prese alla caccia, e un buon fuoco per farle arrostire. — D’altra parte, aggiunse egli, se V. E. si trova tentato dall’odore del capretto, posso andare dai nostri vicini con due dei vostri uccelli ed offrirli in cambio di un pezzo del loro quadrupede. — Fate, disse Franz, fate pure Gaetano; voi siete nato veramente col genio di negoziare. In questo tempo i marinari avevano svelte delle macchie, e fatti dei fasci di mirto e di querce verdi, ai quali avevano messo il fuoco, il che presentava un focolare molto rispettabile. Franz aspettò adunque con impazienza (annasando sempre l’odore di capretto) il ritorno del pilota, ed allorchè questi ricomparve, si presentò a lui con un aspetto molto preoccupato. — Ebbene! domandò egli, che abbiamo di nuovo? è stata rifiutata la nostra offerta? — Al contrario, disse Gaetano; il capo, a cui è stato detto che voi siete un gentiluomo francese, v’invita a cena con lui. — Va bene, disse Franz, è un uomo molto incivilito questo capo, ed io non vedo il perchè dovrei ricusare, tanto più che porto meco la mia parte di cena. — Oh! non è questo, egli ha di che cenare e al di là del bisogno; ma mette una singolare condizione alla vostra presentazione in casa sua. — In casa sua? riprese il giovine; egli ha dunque fatto costruire una casa? — No, ma non per questo cessa dall’avere un appartamento molto comodo, almeno a quanto si assicura. — Voi dunque conoscete questo capo? — Ne ho soltanto inteso parlare. — In bene od in male? — In tutti e due i modi. — Che diavolo! e qual è la condizione che m’impone? — Che vi lasciate bendar gli occhi, e che non tentiate di togliervi la benda che allorquando ve lo dirà egli stesso. Franz esplorò per quanto gli fu possibile lo sguardo di Gaetano per sapere ciò che nascondeva questa proposizione. — Oh! diavolo, riprese questi, rispondendo al pensiero di Franz, lo so bene, la cosa merita molta riflessione. — Che fareste voi al caso mio? disse il giovine. — Io, che non ho niente da perdere, accetterei. — Accettereste? — Non foss’altro che per curiosità. — Vi è dunque qualche cosa di curioso da vedere presso questo capo? — Ascoltate, disse Gaetano abbassando la voce, io non so se tutto ciò che si dice è vero. — Si fermò guardando attorno se alcun estraneo lo ascoltava. — E che si dice? — Si dice che questo capo abiti un palazzo sotterraneo in paragone del quale il palazzo Pitti è poca cosa. — Questo è un sogno! disse Franz. — Oh! non è un sogno, è una realtà. Cama, il pilota del _S. Ferdinando_, vi entrò un giorno, e ne uscì tutto meravigliato, dicendo che simili tesori non si ritrovano che nei racconti delle fate. — Ma sapete voi, disse Franz, che con simili parole mi fareste credere di dover discendere nella caverna d’Alì-Babà? — Vi dico ciò che mi è stato detto, eccellenza. — Allora voi mi consigliate di accettare? — Oh! non dico questo; V. E. faccia ciò che meglio crede: non vorrei darle un consiglio in una simile congiuntura. Franz riflettè per qualche momento: e comprese che quest’uomo così ricco non poteva aver preso di mira lui che non portava altro che qualche migliaio di franchi; e siccome in tutto questo non intravedeva che un’eccellente cena, accettò. Gaetano andò a portare la risposta. Noi abbiam detto che Franz era prudente; e per questo volle raccogliere quanti più particolari gli fu possibile sopra un ospite così strano e misterioso. Si volse adunque ad un marinaro, che durante questo tempo aveva spennato le pernici colla gravità di un uomo superbo delle sue funzioni, e gli chiese con che questi uomini avevano potuto approdare, mentre non vedeva nè barche, nè speronare, nè tartane. — Oh! non è questo che mi dà pensiero, disse il marinaro, perchè conosco il bastimento sul quale montano. — È un bel bastimento? — Io ne desidero a V. E. uno simile per fare il giro del mondo — E di qual forza è? — Di circa cento tonnellate. Del resto è un bastimento di fantasia, un _yacht_, come dicono gl’Inglesi, ma costruito in modo da potersi tenere in mare per un lungo viaggio. — E dove è stato costruito? — Non so; ma credo a Genova. — E come mai un capo di contrabbandieri, continuò Franz, osa di far costruire un _yacht_ deputato al suo clandestino commercio, nel porto di Genova? — Non ho detto che il proprietario di questo _yacht_ fosse un capo di contrabbandieri. — No, ma mi sembra che lo abbia detto Gaetano. — Gaetano aveva veduto gli uomini dell’equipaggio da lontano, e quando lo disse non aveva ancora parlato ad alcuno. — Ma se quest’uomo non è un capo di contrabbandieri, chi è dunque? — È un ricco signore che viaggia per diletto. — Andiamo avanti, pensò Franz, il personaggio diventa sempre più misterioso, poichè i racconti sono diversi. — E come si chiama? — Quando gli si domanda, risponde che si chiama Sindbad il marinaro ma dubito che questo non sia il suo vero nome. — Sindbad il marinaro? — Sì. — E dove abita questo signore? — Sul mare. — Di qual paese è? — Non lo so. — L’avete voi mai veduto? — Qualche volta. — Che uomo è? — V. E. ne giudicherà da sè stessa. — E dove mi riceverà? — Senza dubbio nel palazzo sotterraneo di cui vi ha parlato Gaetano. — E non avete mai avuto la curiosità, quando siete venuto a fermarvi qui ed avete trovata l’isola deserta, di cercare a penetrare in questo palazzo incantato? — Oh! davvero, eccellenza, e più d’una volta ancora, ma le nostre ricerche sono sempre riuscite inutili. Noi abbiamo cercata la grotta in tutte le parti, e non abbiamo ritrovato il più piccolo passaggio. Si dice però che la porta non si apra con una chiave ma con una parola magica. — Andiamo pur innanzi, mormorò Franz, eccomi capitato in uno dei racconti delle _Mille e una Notte_. — S. E. vi aspetta, disse una voce dietro a lui, che egli riconobbe per quella della sentinella. Il nuovo arrivato era accompagnato da due altri uomini dell’equipaggio del _yacht_. Per tutta risposta Franz si cavò di tasca il fazzoletto e lo presentò a colui che aveva parlato. Senza dire una parola furongli bendati gli occhi con tanta cautela che indicava il timore che commettesse qualche indiscretezza; dopo di ciò gli fu fatto giurare che non avrebbe tentato in nessun modo di togliersi la benda prima che fosse invitato a farlo. Egli giurò. Allora i due uomini lo presero ciascuno per un braccio e camminò guidato da essi e preceduto dalla sentinella. Dopo una trentina di passi sentì dal calore della brace e dall’odore sempre più appetitoso del capretto che egli ripassava davanti al bivacco, quindi vennegli fatta continuare la strada per un altri 50 passi, inoltrandosi evidentemente verso la parte ove la sentinella non aveva permesso a Gaetano di penetrare, proibizione che ora veniva spiegata. Ben presto un cangiamento di atmosfera avvertì Franz che entrava in un sotterraneo. Dopo alcuni secondi di cammino intese aprirsi una porta, e gli sembrò che l’atmosfera cangiasse di natura, diventasse tiepida e profumata, e s’accorse allora che i piedi posavano sopra un tappeto fitto e morbido; in quel momento le guide lo abbandonarono. Fecesi un breve silenzio, ed una voce disse in buon francese, quantunque con un accento straniero: — Signore, voi siete il benvenuto in mia casa, e potete togliervi la benda. — Come si crederà facilmente, Franz non si fece ripetere l’invito due volte, si levò il fazzoletto, e si ritrovò dirimpetto ad un uomo dai 38 ai 40 anni che portava il costume tunisino, vale a dire una callotta rossa con una lunga nappa di seta turchina, una veste di panno nero tutta ricamata d’oro, pantaloni color sangue di bue larghi e gonfi, le ghette dello stesso colore orlate d’oro come la veste, e le pianelle gialle, una magnifica sciarpa di cachemir, cingevagli la vita al di sopra dei fianchi, e un piccolo cangiarro acuto e ricurvo passava dentro alla cintura. Quantunque di un pallore quasi livido quest’uomo aveva una fisonomia mollo bella, gli occhi erano vivi e penetranti, il naso dritto e quasi a livello della fronte indicava il tipo greco in tutta la sua purezza, e i denti bianchi come perle spiccavano mirabilmente sotto i baffi neri che li circondavano. Soltanto questo pallore era strano, sarebbesi detto un uomo rinchiuso da lungo tempo in una tomba e che non avesse potuto riprendere l’incarnato dei vivi. Senz’essere di grande persona, egli del resto era ben fatto, e come gli uomini del mezzogiorno, aveva le mani e i piedi piccoli, ma ciò che meravigliò Franz, che aveva trattato di visionario Gaetano, fu la sontuosità degli arredi. Tutta la camera era parata di stoffa turca di color cremisi tessuta a fiori d’oro. In un voto eravi una specie di divano sormontato da un trofeo di armi arabe coi foderi di argento dorato e tempestate di pietre risplendenti; dal soffitto pendeva una lampada di cristallo di Venezia e di un color grazioso e i piedi posavano sopra un tappeto turco; erano magnifiche le portiere poste alla porta per la quale entrò Franz, e davanti un’altra che metteva in una seconda camera che sembrava splendidamente illuminata. L’ospite lasciò Franz per alcuni momenti in balia della sua sorpresa, e questi furono da lui impiegati a rendere esame per esame, non avendo lasciato un momento dall’investigarlo da capo a piedi. — Signore, diss’egli finalmente, vi chiedo perdono delle cautele che sono costretto a prendere con quelli che vengono qui introdotti; ma siccome la maggior parte dell’anno quest’isola è deserta, se il segreto di questa dimora fosse conosciuto, al mio ritorno senza dubbio troverei questo mio recinto in cattivo stato, cosa che mi dispiacerebbe immensamente, non per la perdita che ciò mi causerebbe, ma perchè non avrei più la certezza di potermi separare dal resto della terra quando me ne vien la volontà. Frattanto cercherò di farvi dimenticare questo piccolo disturbo coll’offrirvi ciò che voi non avreste certamente creduto di ritrovar mai in quest’isola, una cena passabile ed un letto abbastanza buono. — In fede mia, mio caro ospite, rispose Franz, non vedo il perchè dobbiate fare scuse: ho sempre veduto che si bendano gli occhi alle persone che entrano nei palazzi incantati; vedete Raoul negli _Ugonotti_, e veramente non posso lamentarmi perchè ciò che mi mostrate fa seguito alle meraviglie delle _Mille e una Notte_. — Ah! io potrei dirvi come Lucullo, se avessi saputo di avere l’onore di una vostra visita, mi vi sarei preparato. Ma infine metto a vostra disposizione il mio eremitaggio tale quale si è; e vi offro la mia cena, per quanto sia poca cosa. Alì, è all’ordine? Nel medesimo punto la portiera si sollevò, e un moro della Nubia, nero come l’ebano, e vestito di una semplice tonaca bianca, fece segno al padrone che poteva passare nella camera da pranzo. — Ora, disse lo sconosciuto a Franz, io non so se siate del mio avviso, ma trovo che non vi è niente di più incomodo quanto di restare due o tre ore in due, senza sapere con qual nome o con qual titolo chiamarsi. Io rispetto troppo, notate bene, le leggi della ospitalità per non domandarvi nè il nome nè il titolo; vi prego soltanto di indicarmi una frase con la quale possa indirizzarvi la parola. In quanto a me, per levarvi ogni incomodo, vi dirò che hanno l’abitudine di chiamarmi Sindbad il marinaro. — Ed io, rispose Franz, vi dirò, che siccome non mi manca altro, per essere nella situazione di Aladino, che la famosa lampada meravigliosa, così non trovo alcuna difficoltà che pel momento mi chiamiate Aladino. Per questo non andremo fuori d’Oriente, ove son tentato di credere di essere stato trasportato dalla potenza di qualche buon genio. — Ebbene! signor Aladino, disse lo strano Anfitrione, avete inteso che tutto è all’ordine? abbiate dunque il disturbo di passare nella camera da pranzo, il vostro umilissimo servitore andrà innanzi per indicarvi il cammino. — A queste parole venne sollevata la portiera, e Sindbad passò effettivamente avanti a Franz. Franz passava da incanto in incanto: la tavola era splendidamente apparecchiata. Una volta convinto di questo punto importante girò lo sguardo intorno a sè. La sala da pranzo non era meno splendida dell’altra, essa era tutta in marmo con bassorilievi antichi del maggior prezzo, e ai quattro angoli di questa sala alquanto bislunga stavano quattro statue con in capo dei cestelli contenenti delle piramidi di frutta magnifiche; vi erano degli ananassi di Sicilia, delle mele granate di Malaga, dei portogalli dell’isole Baleari, delle pesche di Francia e dei datteri di Tunisi. La cena poi si componeva di un fagiano arrostito circondato di merli di Corsica, di un cosciotto di cinghiale colla gelatina, di un quarto di capretto alla tartara, e di una gigantesca ragusta; gl’intervalli tra i piatti erano riempiti da piattini che contenevano principi di tavola. I piatti erano d’argento, i piattini di porcellana del Giappone. Franz si strofinò gli occhi per assicurarsi bene che non travedeva. Alì solo era impiegato a fare il servizio e se ne disimpegnava molto bene. Il convitato ne fece complimento al suo ospite. — Sì, rispose questi facendo gli onori della cena con molta disinvoltura, sì, questo povero diavolo mi è molto affezionato, e fa il meglio che può. Egli si ricorda che gli ho salvata la vita, e siccome amava molto la vita, a quanto pare, mi professa della riconoscenza per avergliela conservata. — Alì, quantunque non intendesse una parola di francese, accorgendosi dagli sguardi di Sindbad che parlavasi di lui, si avvicinò alla tavola prese la mano del padrone, e la baciò. — Sarei troppo indiscreto, signor Sindbad, se vi chiedessi in quale combinazione faceste un così bell’atto? — Oh! mio Dio! è una cosa ben semplice. Sembra che il furbo avesse ronzato vicino al serraglio del Bey di Tunisi, più di quel che fosse conveniente ad uno del suo colore, dimodochè venne condannato dal Bey ad avere la lingua, la mano, e la testa tagliate; la lingua il primo giorno, la mano il secondo e la testa il terzo. Io aveva sempre desiderato di avere un muto al mio servizio; aspettai che gli fosse tagliata la lingua, e andai a proporre al Bey di darmelo in cambio di un magnifico fucile a due canne che il giorno prima erami sembrato avesse ridestato i desideri di S. A. Egli stette per un momento in forse, tanto gli premeva di finirla con questo povero diavolo. Ma io aggiunsi subito al fucile un coltello da caccia inglese col quale avevo rotto l’Yatagan di S. A. dimodochè il Bey risolvette a fargli grazia della mano e della testa; alla condizione però che non avrebbe mai più messo il piede a Tunisi. La raccomandazione era inutile. Quando il miscredente vede le coste d’Affrica, per quanto siano lontane, corre a salvarsi nel fondo del bastimento, e non si può farlo uscire di là che quando si è fuori delle viste della terza parte del mondo. Franz restò un poco muto e pensieroso cercando ciò che doveva pensare della crudele bonarietà colla quale il suo ospite gli aveva fatto questo racconto. — E voi passate la vostra vita, diss’egli cercando di cambiare la conversazione, viaggiando come il degno marinaro di cui avete preso il nome? — Sì, è un voto che feci in tempi nei quali non credeva di poterlo compiere, disse lo sconosciuto sorridendo; ne ho fatti pure alcuni altri in questo modo, e spero ben presto poterli compiere. Quantunque Sindbad avesse pronunziate queste parole colla più grande pacatezza, pure i suoi occhi avevano lanciato uno sguardo di selvaggia ferocia. — Voi avete molto sofferto, signore? diss’egli. Sindbad fremè e lo guardò fissamente. — Da che lo arguite? diss’egli. — Da tutto, riprese Franz: dalla vostra voce, dal vostro sguardo e dalla vita stessa che conducete. — Io! conduco la vita più felice che si conosca, una vera vita da Pascià: mi piace un luogo, vi resto; me ne annoio, parto, sono libero come l’uccello, ho le ali come quello. Le genti che mi circondano mi obbediscono; a quando a quando mi diverto ad inceppare la giustizia umana o togliendole un bandito che cerca, o un reo che perseguita. Poi ho la mia giustizia tutta propria, giustizia alta e bassa senza dilazione e senza appello, che condanna, o assolve ed alla quale nessuno ha niente da rivedere. Ah! se aveste gustata la mia vita, non ne vorreste altra, e non rientrereste giammai nel mondo ammenochè non vi aveste da compiere un qualche gran disegno. — Una vendetta per esempio, disse Franz. Lo sconosciuto fissò sul giovine uno di quei sguardi che penetrano nel più profondo del cuore e del pensiero: — E perchè una vendetta? domandò egli. — Perchè, soggiunse Franz, voi avete l’aspetto di un uomo che, perseguitato dalla società, ha qualche terribile conto da mettere in regola con essa. — Ebbene! fece Sindbad ridendo con quello strano riso che mostrava i denti bianchi ed acuti, voi non l’avete indovinato; tal quale voi mi vedete, io sono una specie di filantropo e forse un giorno anderò a Parigi per far concorrenza col signor Appert l’uomo dal piccolo mantello blu. — E sarà questa la prima volta che farete questo viaggio. — Oh! mio Dio sì, ho l’aspetto di essere ben poco curioso, n’è egli vero? ma vi assicuro che non fu colpa mia se ho ritardato tanto; ciò accadrà da un giorno all’altro. — E pensate voi di farlo presto questo viaggio? — Non lo so ancora; dipende da congiunture sottoposte ad incerte combinazioni. — Io vorrei esservi al tempo in cui vi verrete, cercherei di rendervi, per quanto mi fosse possibile, l’ospitalità che sì largamente mi prodigate a Monte-Cristo. — Accetterei la vostra offerta con gran piacere, rispose l’ospite; ma disgraziatamente, se vi vado, ciò sarà forse incognito. — Frattanto la cena si avanzava e sembrava essere stata preparata soltanto per Franz, perchè era molto se lo sconosciuto avea toccato colle estremità dei denti uno o due piatti dello splendido festino che aveva offerto e al quale il suo inatteso convitato aveva fatto così largamente onore. Finalmente Alì portò le frutta, o piuttosto prese i cestelli sul capo delle statue e li posò sulla tavola. Fra i quattro cestelli pose una tazza d’argento dorato, chiusa da un coperchio dello stesso metallo. Il rispetto col quale Alì aveva portata questa tazza punse la curiosità di Franz. Egli alzò il coperchio e vide una specie di pasta verdastra che rassomigliava alle confetture d’Angelica, ma che eragli del tutto sconosciuta. Rimise il coperchio senza aver saputo che cosa conteneva la tazza, e volgendo gli occhi sul suo ospite lo vide che sorrideva del suo impaccio. — Voi non potete indovinare, disse questi, quale specie di commestibile contenga questo piccolo vaso, e ciò vi dà da pensare, n’è vero? — Lo confesso. — Ebbene! questa specie di confettura verde è nientemeno l’ambrosia che Ebe serviva alla tavola di Giove. — Ma questa ambrosia, disse Franz, passando per le mani degli uomini, avrà certamente perduto il nome celeste per prenderne uno umano? in lingua volgare come si chiama questo ingrediente dal quale non sento però di avere grande simpatia? — Ah! ecco precisamente, gridò Sindbad; spesse volte noi passiamo molto vicini ad una fortuna senza vederla, senza guardarla, senza riconoscerla. Siete voi un uomo positivo, e l’oro è il vostro Dio? gustate di questa, e le miniere del Perù, di Guzarate, e della Golconda vi saranno aperte. Siete voi un uomo d’immaginazione? siete voi poeta? gustate di questa, e le barriere del possibile dispariranno; vi si apriranno i campi dell’infinito, e passeggerete libero di cuore, di spirito nei dominii senza confine dell’ideale. Siete ambizioso? correte dietro le grandezze della terra? gustate di questa, e dopo un’ora sarete Re, non Re di un piccolo regno nascosto in un angolo d’Europa, come la Francia, la Spagna, o l’Inghilterra, ma sarete il Re del mondo, il Re dell’universo. Il vostro trono sarà eretto sopra la montagna di Satanasso, e senza aver bisogno di fargli omaggio, senza essere costretto di baciarne gli artigli, sarete il sovrano padrone di tutti i regni della terra. Non vi tenta ciò che vi offro, dite? non vi sembra cosa facile? osservate! — A queste parole scoprì la piccola tazza d’argento dorato che conteneva la sostanza tanto lodata, prese un cucchiarino da caffè di questa confettura magica, la portò alla bocca, e l’assaporò lentamente cogli occhi semichiusi, e la testa rovesciata in addietro. Franz gli lasciò tutto il tempo di sorbire il suo cibo favorito; poi quando vide che ritornava un poco in sè: — Ma finalmente che cosa è questa vivanda preziosa? — Avete voi mai inteso parlare del Vecchio della montagna, quello stesso che volle fare assassinare Filippo Augusto? — Senza dubbio. — Ebbene! voi sapete che egli regnava in una ricca vallata dominata dalla montagna da cui aveva preso il suo nome pittoresco. In questa vallata erano magnifici giardini piantati da Hassen-Ben-Sabah, e in questi giardini dei padiglioni isolati: in questi faceva entrare i suoi eletti, e là faceva loro mangiare, disse Marco Polo, una certa erba che li trasportava nell’Eden, in mezzo a piante sempre fiorite, a frutti sempre maturi, e a donne le più seducenti. Ora ciò che questi giovani felici prendevano per una realtà non era che un sogno, ma sì dolce, sì inebriante, sì voluttuoso sogno, che si vendevano interamente a colui che loro lo impartiva, e l’obbedivano ciecamente. Essi andavano a colpire in capo al mondo la vittima designata, morivano fra i tormenti della tortura senza lamentarsi, nella sola idea che quella morte che soffrivano non era che un passaggio a quella vita di delizie di cui l’erba misteriosa, ora avanti a voi, avevagli dato un saggio. — Allora, gridò Franz, questa è l’hatchis. Sì, io la conosco almeno di nome. — Precisamente, voi avete detto il suo vero nome signor Aladino, questo è l’hatchis, tutto ciò si fa di meglio e di più puro in hatchis ad Alessandria, l’hatchis d’Abou-Gor, il gran confetturiere, l’uomo unico, l’uomo al quale si dovrebbe fabbricare un palazzo con questa iscrizione: _Al mercante della felicità: il mondo riconoscente._ — Sapete voi, disse Franz, che mi viene la volontà di giudicare da me stesso quanto vi ha di vero nell’esagerazione dei vostri elogi? — Giudicatene da voi stesso; ma non chiamatevi soddisfatto di un primo esperimento. Come in tutte le altre cose bisogna abituare i sensi ad una nuova impressione, sia essa dolce o violenta, sia triste o gioconda. Vi è una lotta della natura contro questa portentosa sostanza, della natura che non è fatta per la gioia, e che si avviticchia al dolore. Bisogna che la natura vinta soccomba nel conflitto; bisogna che la realtà succeda al sogno, e allora il sogno regna come padrone, allora è il sogno che addiventa la vita, e la vita diviene il sogno; ma qual differenza in questa trasfigurazione! vale a dire che paragonando i dolori dell’esistenza reale ai godimenti della fittizia, non vorrete più vivere, ma vorrete sempre sognare. Quando lascerete il vostro mondo per passare nel mondo degli altri, vi sembrerà di passare ad una primavera napoletana, ad un inverno della Lapponia. Vi sembrerà lasciare l’Eden per la terra, il cielo per l’inferno. Gustate dell’hatchis, mio caro, gustatene! — Per tutta risposta Franz prese un cucchiaio di questa pasta maravigliosa misurato sulla quantità che ne aveva presa il suo Anfitrione, e lo portò alla bocca. — Diavolo, diss’egli dopo avere inghiottita questa pasta divina, io non so se il resultato sarà aggradevole quanto voi dite, ma la sostanza non mi sembra tanto saporosa quanto l’affermavate. — Perchè le papille del vostro palato non sono ancora adatte alla sublimità della sostanza che gustano. Ditemi, la prima volta che gustaste le ostriche, il thè, il porter, i tartufi, le assaporaste voi con tanto piacere quanto ne aveste poi in seguilo? comprendereste voi il piacere che provavano i Romani nel condire i fagiani coll’assa fetida, ed i chinesi che mangiano i nidi delle rondinelle? eh! mio Dio, no. Ebbene! accade lo stesso dell’hatchis: mangiatene soltanto otto giorni di seguito, e poi, nessun nutrimento al mondo vi sembrerà della squisitezza di questo che in oggi vi sembra forse fetido, e nauseante. Ma ora passiamo nella camera vicina, e Alì ci servirà il caffè, e ci darà la pipa. Tutti e due si alzarono, e mentre che quello cui si è dato il nome di Sindbad, e da noi così chiamato per avere una denominazione qualunque onde distinguerlo dal suo convitato, dava alcuni ordini al suo domestico, Franz entrò nella camera attigua. Questa era arredata più semplicemente quantunque non meno riccamente; di forma rotonda, ed un gran divano le girava intorno. Ma il divano, i muri, il soffitto, e il pavimento erano tutti ricoperti di magnifiche pelli lisce e morbide come il più morbido tappeto, erano pelli di leoni d’Atlas dalle possenti criniere, pelli di tigri del Bengal dalle calde righe, pelli di pantere del Capo, macchiate scherzosamente come quella che apparve a Dante; finalmente pelli d’orsi della Siberia, e di volpi della Norvegia, e tutte gettate in profusione le une sulle altre dimodochè si sarebbe creduto di camminare su i prati più fioriti, e di riposare su i letti più soffici. Tutti e due si stesero sopra i divani, una quantità di pipe colle canne di gelsomino e le imboccature d’ambra erano alla portata della mano, e già preparate affinchè non si avesse la noia di fumare due volte nella stessa: ne presero una per ciascuno. Alì le accese, ed uscì per andare a prendere il caffè. Fuvvi un poco di silenzio, durante il quale Sindbad si lasciò trasportare dai pensieri che sembrava l’occupassero senza posa anche in mezzo alla sua conversazione, e Franz si abbandonò a quella muta esaltazione nella quale cadesi quasi sempre fumando eccellente tabacco, che sembra portar via colla fumata tutte le pene dello spirito, e rendere al fumatore in loro vece tutti i sogni dell’anima. Alì portò il caffè. — Come lo prendete? disse l’incognito; alla francese o alla turca, forte o leggiero, col zucchero o senza, filtrato o bollito? scegliete; ve n’è del preparato in tutti i modi. — Lo prenderò alla turca, disse Franz. — E avete ragione: ciò prova che avete delle disposizioni per la vita orientale. Ah! gli orientali, sono i soli che sappiano vivere. In quanto a me, soggiunse egli, con un di quei sorrisi singolari che non sfuggono ad un giovine, quando avrò finiti i miei affari a Parigi, andrò a morire in Oriente, e se vorrete ritrovarmi bisognerà che mi cerchiate o al Cairo, o a Bagdad, o a Ispahan. — In fede mia, disse Franz, questa sarà la cosa più facile del mondo, perchè sembrami che mi spuntino le ali d’aquila, e con queste farei il giro del mondo in 24 ore. — Ah! Ah! è l’hatchis che opera; ebbene! aprite le ali, e volatevene nelle regioni sovrumane; non temete, vegliasi su voi, e se, come quelle d’Icaro, le vostre ali si liquefanno al sole, noi siamo qui per ricevervi. — Di poi disse qualche parola araba ad Alì, che fece un segno d’obbedienza, e si ritirò, ma senza allontanarsi. In quanto a Franz, una strana trasformazione si operava in lui: tutta la fatica fisica della giornata, tutta la preoccupazione di spirito che avevano fatta nascere gli avvenimenti della sera, sparivano come in un primo momento di riposo in cui si vive abbastanza per sentire che il sonno viene. Sembrava che il corpo acquistasse una leggerezza fuori del materiale, lo spirito s’illuminasse in un modo inaudito, i suoi sensi sembravano raddoppiare le loro facoltà. L’orizzonte si allargava, ma non più questo orizzonte cupo sul quale si spiega un vago terrore, e che aveva osservato prima del suo sonno, ma un orizzonte azzurro, trasparente, vasto, con tutto ciò che il mare ha di bello, che il sole ha di raggi, che la brezza ha di profumo; quindi in mezzo al canto dei suoi marinari, canto sì limpido, e sì chiaro che se ne sarebbe fatto un’armonia celeste se si fosse potuto notare, egli vedeva comparire l’isola di Monte-Cristo, non più come uno scoglio minaccioso sui flutti, ma come un’oasi perduta nel deserto; poi a seconda che la barca s’avvicinava, i canti divenivano più numerosi, poichè un’armonia incantatrice e misteriosa saliva da quest’isola al cielo, come se qualche fata come Lorelay, o qualche mago come Amfione avesse voluto attirarvi qualche spirito, o fabbricarvi una città. Finalmente la barca toccò la riva, ma senza scossa, nella stessa guisa che le labbra toccano le labbra, e sembrò a Franz di entrare nella grotta senza che cessasse questa incantevole musica; discese, o meglio gli sembrò discendere qualche scalino respirando un’aria fresca ed imbalsamata come quella che deve circondare l’isola di Circe, composta di tanti profumi da far andar in estasi, di ardori tali, che fanno bruciare i sensi, e rivide tutto ciò che aveva veduto prima del sogno, cominciando dall’ospite fantastico Sindbad fino ad Alì il muto servitore; poi gli sembrò che tutto si cancellasse, e si confondesse sotto i suoi occhi come le ultime ombre di una lanterna magica che si spenga, e si ritrovò nella camera delle statue, illuminata soltanto da una di quelle lampade antiche e pallide che ardono nel mezzo della notte sul sonno della voluttà. Erano bene le stesse statue belle per le forme, e per la poesia, cogli occhi magnetici, coi capelli abbondanti; erano Frine, Cleopatra, Messalina, le tre donne più celebri per la loro dissolutezza; poi nel mezzo di queste s’introduceva una di quelle ombre calme, una di quelle visioni dolci che sembrano coprir di un velo i propri occhi verginali rimpetto a queste impurità del marmo. Allora gli sembrò che queste tre statue avessero riuniti i loro amori per un sol uomo e che questi fosse lui; che si avvicinassero ove egli faceva un secondo sogno, coi piedi coperti dalle loro lunghe, e bianche tonache, coi capelli cadenti ad onde, con una di quelle attitudini irresistibili, con uno di quei sguardi inflessibili e ardenti pari a quello che vibra il serpente all’uccello, e che egli si abbandonasse a quei sguardi, dolorosi come un laccio, voluttuosi come un bacio. Sembrò a Franz di chiudere gli occhi, e attraverso l’ultimo sguardo che aveva girato intorno a sè travedere la statua pudica che si velava interamente; quindi, i suoi occhi chiusi alle cose reali, i suoi sensi si aprirono alle impressioni impossibili. Allora, per Franz che subiva la prima volta l’impero dell’hatchis, fu una voluttà, un amore come quello che prometteva il Vecchio della Montagna ai suoi seguaci. XXXII. — RISVEGLIAMENTO. Allorchè Franz ritornò in sè, gli oggetti esteriori sembrarongli una seconda parte del suo sogno; si credè in un sepolcro ove a stento penetrava appena un raggio di sole, a guisa di uno sguardo di pietà; stese la mano, e sentì del marmo; si mise a sedere, e si trovò avvolto nel mantello sopra un letto di zolle secche molto molli ed odorifere. Tutta la visione era sparita; e, come se le statue non fossero state che ombre uscite dai sepolcri durante il suo sogno, erano disparse al suo svegliarsi. Fece qualche passo verso il punto di dove veniva la luce; e da tutta l’agitazione del sonno succedeva la calma della realtà. Videsi in una grotta, si avanzò dalla parte dell’apertura, ed attraverso la porta centinata, scoprì un bel cielo blu, ed un mare azzurro. L’aria e l’acqua rispondevano ai raggi del sole mattutino; i marinari erano assisi sulla riva, discorrendo, e ridendo; alla distanza di dieci passi la barca ondeggiava sul mare trattenuta dall’ancora. Allora egli gustò per qualche tempo quella fresca brezza che passavagli sulla fronte; ascoltò il debole rumore dell’onda che moriva sulla spiaggia lasciando sulle rocce un contorno di schiuma bianca come l’argento; si lasciò andare senza riflettere, senza pensare, a quell’incanto celeste che hanno le cose della natura particolarmente quando si esce da un sogno fantastico: poi un poco alla volta la vita esterna così pacifica, così grande, gli ricordò la inverisimiglianza del suo sogno, ed i trascorsi fatti cominciarono a rientrare nella sua memoria. Si sovvenne dell’arrivo nell’isola, del modo con cui fu presentato al capo dei contrabbandieri, del palazzo sotterraneo pieno di splendore, dell’eccellente cena, e del cucchiaio di hatchis. Solo, in faccia a questa realtà, e in pieno giorno, gli sembrò che fosse almeno un anno che tali cose fossero avvenute, tanto il sogno che aveva fatto si era impresso nel suo pensiero, e aveva preso forza nel suo spirito. Per tal modo a quando a quando la sua immaginazione faceva apparire in mezzo ai marinari, o traversare uno scoglio, o librarsi sulla barca, una di quelle ombre che avevano ricolma la sua notte di sguardi e di baci. Del rimanente egli aveva la testa del tutto libera, e il corpo perfettamente riposato; non alcuna pesantezza nel cervello; che anzi al contrario risentiva un certo benessere generale, ed attraenza maggiore a godere dell’aria e del sole. Si avvicinò adunque con ilarità ai marinari. Come lo videro essi si alzarono, ed il padrone si avvicinò a lui. — Il sig. Sindbad, gli disse, ci ha incaricati dei suoi complimenti per V. E., e ci ha detto di esprimervi il dispiacere che ha di non potere prendere congedo di persona, ma spera che lo scuserete quando saprete che un affare importantissimo lo ha chiamato a Malaga. — È dunque vero, mio caro Gaetano, disse Franz, tutto ciò che mi è accaduto? esiste in realtà un uomo che mi ha offerta un’ospitalità regale, e che è partito durante il mio sonno? — È tanto vero, che potete vedere là il suo piccolo _yacht_ che si allontana a vele gonfie, e se volete prendere il cannocchiale potrete scorgere probabilmente il vostro ospite in mezzo al suo equipaggio. — Dicendo queste parole Gaetano stendeva il braccio nella direzione di un piccolo bastimento che faceva vela verso la punta meridionale della Corsica. Franz prese un piccolo cannocchiale, lo mise al punto della sua vista, e lo diresse verso il luogo indicato. Gaetano non s’ingannava; sulla poppa del bastimento vedeva il misterioso suo ospite, che ritto, e voltato dalla sua parte teneva egli pure il cannocchiale puntato verso di lui. Egli era vestito collo stesso costume con cui era apparso la sera innanzi al suo convitato, e come s’accorse di essere guardato agitò il fazzoletto in segno di addio. Franz resegli il saluto, e cavando egli pure il fazzoletto lo agitava del pari. Dopo un minuto una piccola nube di fumo sorse a poppa del bastimento, si staccò graziosamente dal di dietro, e salì lentamente in alto, quindi una debole esplosione giunse fino a Franz. — Sentite, sentite? disse Gaetano; eccolo là che vi dice addio. — Il giovine prese la carabina, e la scaricò in aria, ma senza speranza che il rumore potesse superare la distanza che separava il _yacht_ dalla costa. — Che comanda V. E.? disse Gaetano. — Che procuriate di accender subito una torcia. — Ah! sì, capisco, disse Gaetano, per cercare l’entrata dell’appartamento nascosto. Con molto piacere, eccellenza, se la cosa vi diverte, e vi darò subito la torcia che chiedete. Ma io pure ebbi la vostra idea, e per tre o quattro volte ho stancata la mia fantasia, ed ho finito per dovere rinunciarvi: Giovanni, soggiunse egli, accendi una torcia. Giovanni obbedì, Franz prese la torcia, ed entrò nel sotterraneo seguito da Gaetano. Egli riconobbe il posto ove erasi svegliato, dal letto di zolle ancora tutto scomposto; ma non gli valse girare la torcia sopra tutta la superficie della grotta; non vide nulla, eccetto qualche traccia di fumo che manifestava che altri pure avevano tentata inutilmente la stessa investigazione. Ciò nonostante non lasciò un piede di quel muro di granito, impenetrabile come l’avvenire, senza esaminarlo. Egli non vide una screpolatura senza che v’introducesse la lama del coltello da caccia; non osservò alcun punto sporgere senza comprimerlo nella speranza che cedesse; ma tutto inutile, e senza alcun resultato perdè due ore in questa ricerca. Alfine rinunciò ad ogni ulteriore indagine. Gaetano trionfava. Quando Franz ritornò sulla spiaggia, il _yacht_ non compariva più che come un punto bianco sull’orizzonte; ricorse al cannocchiale, ma anche con questo istrumento nulla distinse. Gaetano gli ricordò che era venuto per cacciare le capre, il che sembrava avesse dimenticato: prese il fucile, si mise a percorrere l’isola in quel modo che fa un uomo che compie un dovere invece di prendersi un diletto, e in capo ad un quarto d’ora aveva già ucciso una capra, e due capretti. Ma queste capre quantunque selvagge e fuggiasche come i camosci, avevano troppa rassomiglianza colle nostre capre domestiche, per cui Franz non le considerava come selvaggiume. Dipoi idee ben molto più possenti ne occupavano lo spirito. Fin dalla scorsa sera egli tenevasi per il vero eroe di un racconto favoloso delle _Mille e una Notte_, e sentivasi ricondotto verso la grotta da una forza invincibile. Allora, ad onta della inutilità della sua prima perquisizione, ne cominciò una seconda, dopo di aver detto a Gaetano di fare arrostire uno dei capretti. Questa seconda visita durò molto tempo, poichè quando ritornò il capretto era arrostito, e la colazione preparata. Franz si assise nel luogo in cui la sera innanzi avea ricevuto l’invito della cena per parte del suo ospite misterioso, e scoperse ancora come una punta bianca il piccolo _yacht_ che continuava ad inoltrarsi verso la Corsica. — Ma, diss’egli a Gaetano, non mi avete annunziato che Sindbad faceva vela per Malaga, mentre mi sembra che vada direttamente verso Porto-Vecchio. — Non vi ricordate più, rispose il marinaro, che fra la gente che componeva il suo equipaggio si trovavano per il momento due banditi corsi? — È vero! andrà a depositarli sulla costa. — Precisamente. Ah! questo è un individuo, gridò Gaetano, che non teme cosa alcuna, per quanto mi vien detto, e che per fare un servizio ad un povero uomo devierebbe il suo viaggio di 50 leghe. — Ma questo genere di servizio potrebbe metterlo a cimento col magistrato del paese ove esercita questo genere di filantropia, disse Franz. — Ebbene! soggiunse Gaetano ridendo, che cosa fanno a lui i magistrati? egli se la ride! Non hanno che a tentare di perseguitarlo. Dapprima il suo _yacht_ non è un naviglio, ma un uccello, e darebbe tre nodi sopra 12 ad una fregata; e poi non ha che a gettarsi egli stesso sulla costa e in ogni luogo troverebbe amici. — Ciò che vi era di più chiaro in tutta questa faccenda si era, che Sindbad, l’ospite di Franz, aveva l’onore di essere in relazione con tutti i contrabbandieri ed i banditi di tutte le coste del Mediterraneo, la qual cosa però non lasciava di tenerlo in una strana posizione. Franz non aveva più cos’alcuna che lo ritenesse a Monte-Cristo; aveva perduto ogni speranza di ritrovare il segreto della grotta; si sollecitò dunque a far colazione, ordinando ai suoi uomini di tener pronta la barca pel momento che avrebbe finito; mezz’ora dopo egli era a bordo. Gettò un ultimo sguardo sul _yacht_ che stava per disparire nel golfo di Porto-Vecchio. Dette il segnale della partenza. Nello stesso momento in cui la barca si metteva in movimento il _yacht_ spariva, e con lui si cancellava l’ultima realtà della notte precedente: per tal modo la cena, Sindbad, l’hatchis, e le statue, tutto cominciava per Franz a confondersi nello stesso sogno. La barca camminò tutto il giorno e tutta la notte: e la dimane quando il sole si alzava, l’isola di Monte-Cristo era a sua volta disparsa. Messo piede a terra, Franz dimenticò momentaneamente almeno, gli avvenimenti che erano passati, per non occuparsi più che dei suoi affari di piacere, o di obbligo in Firenze, e di raggiungere il compagno che lo aspettava a Roma: partì adunque col corriere e il sabato sera si ritrovava sulla piazza della Dogana. L’appartamento, come si disse, era già stato fissato da qualche tempo; non restava adunque che di recarsi all’albergo di Pastrini; il che non era molto facile mentre la folla ingombrava le strade, e Roma era già in preda a quel rumore sordo e febbrile che precede i grandi avvenimenti. Ora, a Roma, non vi son che quattro grandi avvenimenti in un anno, il carnevale, la settimana santa, il Corpusdomini, e la festa di S. Pietro. Tutto il restante dell’anno la città ricade nella sua solita apatia, stato intermediario fra la vita e la morte, che la rende simile ad una specie di stazione fra questo mondo e l’altro; stazione sublime, alta, piena di poesia e di carattere, che Franz aveva già fatta cinque o sei volte, e che aveva sempre ritrovata più meravigliosa, e più fantastica. Finalmente traversò quella folla che sempre più s’ingrossava, e giunse all’albergo. Alla prima domanda gli fu risposto con quella impertinenza propria dei cocchieri delle carrozze da rimessa o dei grandi locandieri, che non vi era posto per lui all’albergo di Londra. Allora inviò il suo biglietto a Pastrini, e fecesi reclamare da Alberto de Morcerf. Il mezzo riuscì, e Pastrini accorse egli stesso scusandosi di avere fatto aspettare S. E., rimproverando i servi, prendendo il lume dalla mano del servitore di piazza che erasi già impadronito del viaggiatore, e si disponeva a condurlo nelle camere di Alberto, quando questi gli venne incontro. L’appartamento fissato componevasi di due piccole stanze, ed un gabinetto. Le due camere davano sulla strada, particolarità che Pastrini fece valere come se vi aggiungesse un merito inapprezzabile. Il rimanente del piano era dato in fitto ad un ricco personaggio, creduto, o Maltese o Siciliano; ma che l’albergatore non potè dire precisamente a quale delle due nazioni appartenesse. — Tutto va bene, signor Pastrini, disse Franz, ma ci vorrebbe subito una cena qual si sia per questa sera, ed una carrozza per domani e pei giorni successivi. — In quanto alla cena sarete subito serviti; ma in quanto alla carrozza... — Come in quanto alla carrozza! gridò Alberto; un momento, un momento, non scherziamo, Pastrini, ci abbisogna una carrozza. — Eccellenza, disse l’albergatore, si farà tutto quello che si potrà per averne una; ecco ciò che posso dirvi. — E quando avremo la risposta? domandò Franz. — Domani mattina, rispose l’albergatore. — Che diavolo! disse Alberto, si pagherà più cara, ecco tutto... si sa come accade: da Drake e da Aaron si paga 20 fr. nei giorni ordinarii, e 30 o 35 fr. in occasione di feste, mettete 5 fr. di giunta che farà 40, e non ne parliamo più. — Ho ben paura, che questi signori, quand’anche offrano il doppio, non possano ritrovarla. — Allora che si facciano attaccare i cavalli alla mia... essa è un poco scrostata pel viaggio, ma non importa. — Non si troveranno cavalli. Alberto guardò Franz come un uomo cui venga data una risposta che sembri incomprensibile. — Capite Franz, non vi saranno cavalli? Ma si potranno avere cavalli di posta? — Sono tutti impegnati da 15 giorni, e non restano ora assolutamente che quelli destinati al necessario servizio. — Che ne dite? domandò Franz. — Io dico che allorquando una cosa è al di sopra della mia intelligenza, ho l’abitudine di non fermarmici, e di passare avanti. La cena è pronta? — Sì, eccellenza. — Ebbene! per ora ceniamo. — Ma la carrozza, e i cavalli? disse Franz. — State tranquillo, amico caro, essi verranno da sè; non si tratterà che di fissare il prezzo. — E Morcerf con quella ammirabile filosofia dell’uomo che nulla crede impossibile, fino a che la borsa è gaia, e il portafogli guarnito, cenò, andò a riposare, e sognò essere al Corso in una carrozza a sei cavalli. XXXIII. — I BRIGANTI. La dimane Franz si svegliò pel primo e appena desto suonò. Il tintinnio del campanello risuonava ancora quando Pastrini entrò in persona. — Ebbene! disse l’albergatore trionfante, e senza aspettare che Franz lo interrogasse, faceva bene io ieri sera a non prometter niente; voi avete aspettato troppo tardi a risolvervi, e adesso non v’è neppur una carrozza da nolo in Roma, pei tre ultimi giorni, s’intende. — Sì, rispose Franz, vale a dire per quelli in cui essa è assolutamente necessaria. — Che c’è? domandò Alberto entrando: non si trovano carrozze? — Precisamente, mio caro amico, rispose Franz, e voi avete indovinato al primo colpo. — Ebbene! è una gran bella città, questa vostra città eterna! — Cioè, eccellenza, riprese Pastrini, che desiderava mantenere la capitale del mondo cristiano in un certo decoro in faccia ai viaggiatori, non vi sono più carrozze da domenica mattina a martedì sera; ma da oggi a Domenica ne troverete cinquanta, se le volete. — Non è poco, disse Alberto; oggi siamo a giovedì; chi sa di qui a domenica quello che può accadere. — Accadrà l’arrivo di dieci, o dodici mila forestieri, rispose Franz, i quali renderanno la difficoltà sempre più grande. — Amico mio, disse Morcerf, godiamo del presente, e non ci prendiamo cura per l’avvenire. — Almeno, domandò Franz, potremo avere una finestra? — Su che strada? — Sul Corso, per bacco. — Ah sì! una finestra, esclamò Pastrini, impossibilissimo; ne restava una al quinto piano del Palazzo Doria, ed è stata appigionata ad un Principe russo per venti zecchini il giorno. I due giovani si guardarono con aria stupefatta. — Ebbene, mio caro, disse Franz ad Alberto, sapete ciò che torna meglio di fare? di andare a finire il carnevale a Venezia; almeno là, se non troviamo carrozze, ritroveremo gondole. — Oh! in fede mia, gridò Alberto, ho risoluto di vedere il carnevale di Roma, e lo vedrò, fosse ancora sopra una panchetta. — Bravo, gridò Franz, è un’idea magnifica, particolarmente per ispegnere i moccolotti; ci maschereremo da pulcinelli, e faremo un effetto meraviglioso. — Le loro eccellenze desiderano sempre la carrozza fino a domenica? — Per bacco, disse Alberto, credete che noi siamo persone da correre le strade di Roma a piedi come i portieri, e i cursori? — Vado ad eseguire gli ordini delle loro eccellenze, disse Pastrini; le prevengo soltanto che la carrozza costerà sei scudi il giorno. — Ed io, mio caro Pastrini disse Franz, che non sono il milionario nostro vicino, vi prevengo per parte mia che essendo la quarta volta che vengo a Roma, conosco il prezzo delle carrozze per i giorni ordinari, le domeniche, e le feste; vi daremo dodici piastre per oggi, domani, e dopo domani, e voi ci troverete ancora un non piccolo guadagno. — Ma Eccellenza... disse Pastrini tentando di ribellarsi. — Andate, andate mio caro, disse Franz, o vado da me stesso a fare il prezzo dal padrone delle rimesse, che conosco bene; è un mio vecchio amico che mi ha già rubato non poco danaro, e che nella speranza di rubarmene dell’altro accetterà anche per un prezzo minore di quel che io v’offro; perdereste la differenza, e questa sarebbe colpa vostra. — Non vi prendete questo incomodo, eccellenza, disse Pastrini col sorriso dello speculatore di locanda che si confessa vinto, farò il meglio che potrò, e voi sarete contento. — A meraviglia, ecco ciò che si chiama parlare. — Quando volete la carrozza? — Fra un’ora. — Fra un’ora sarà alla porta. — Un’ora dopo effettivamente la carrozza aspettava i due giovani; era un modesto calesse, che attesa la solennità della congiuntura era salito al grado di carrozza da rimessa. Ma qualunque fosse la mediocre apparenza, i due giovani sarebbero stati ben contenti di avere un eguale veicolo per gli ultimi tre giorni del carnevale. — Eccellenza, gridò il servitore di piazza vedendo Franz mettere il naso alla finestra, vuole che faccia avvicinare la carrozza al palazzo? Per quanto Franz fosse abituato all’enfasi italiana, il suo primo movimento fu di guardarsi attorno; ma a lui stesso venivano dirette quelle parole. Franz era l’eccellenza, il calesse era la carrozza, il palazzo era l’albergo di Londra. Tutto il genio di lode della nazione era in queste sole frasi. Franz, ed Alberto discesero, la carrozza si avvicinò al palazzo, le loro eccellenze allungarono le gambe sui posti davanti, e il cicerone saltò nel sedile di dietro. — Dove vogliono andare le loro Eccellenze? — Prima a S. Pietro, e poi al Colosseo, disse Alberto da vero parigino. — Ma egli non sapeva una cosa, cioè che vi vuole un giorno per veder S. Pietro, e un mese per istudiarlo. La giornata fu tutta impiegata nel veder S. Pietro. D’improvviso i due amici si accorsero che il giorno declinava. Franz cavò l’orologio, erano le quattro e mezzo. Ritornarono all’albergo; giunti alla porta, Franz dette ordine al cocchiere di tenersi pronto per le otto, voleva egli far vedere ad Alberto il Colosseo al chiaro di luna, come avevagli fatto vedere S. Pietro in pieno giorno. Allorchè si fa vedere ad un amico una Città che si è già veduta ci si mette quella civetteria che usasi quando s’indica una donna della quale si è stato l’amante. In conseguenza Franz indicò al cocchiere il suo itinerario; doveva uscire dalla porta del popolo, andare intorno le mura esterne della Città, e rientrare dalla porta S. Giovanni. In tal modo il Colosseo comparisce d’improvviso, e senza che il Campidoglio, il Foro, l’Arco di Settimio Severo, il tempio di Antonino e Faustina, e la Via-Sacra abbiano servito di gradazione posta sulla strada per rammemorarlo. Si misero a pranzo: Pastrini aveva promesso a’ suoi ospiti un eccellente desinare, gliene dette uno passabile, non v’era nulla a dirvi. Alla fine del pranzo entrò egli stesso; Franz sulle prime credè che fosse venuto per ricevere i loro complimenti, e si apparecchiava a farglieli, allorchè alle prime parole egli lo interruppe. — Eccellenza, diss’egli, sono lusingato della vostra approvazione, ma non fu questo il motivo che mi fe’ salire da voi. — È forse per venirci a dire che avete ritrovato la carrozza? domandò Alberto accendendo il sigaro. — Anche meno, ed anzi V. E. farà bene a non pensarci più. In Roma le cose, o si possono o non si possono. Quando vi si è detto che non si possono, tutto è finito. — A Parigi, è molto più comodo; quando una cosa non si può avere, la si paga il doppio, e si ha sul momento ciò che si domanda. — Sento sempre dire la stessa cosa da tutti i francesi, disse Pastrini punto alcun poco, e non so comprendere come con tante meraviglie che sono a Parigi, i parigini viaggino. — Ma è così, disse Alberto mandando flemmaticamente una fumata al soffitto e rovesciando il capo addietro sopra una poltrona; non vi sono che i pazzi, e gli oziosi come noi che viaggino; la gente di buon senso non lascia la casa della strada di Helder, il baluardo di Gand, e il caffè di Parigi. Non fa mestieri di dire che egli abitava nella strada suddetta, che tutti i giorni faceva la sua passeggiata in tutta eleganza sul baluardo suddetto, e che pranzava tutti i giorni nel solo caffè in cui si può pranzare, e quando ancora si è in buona relazione coi camerieri. Pastrini restò un momento silenzioso; era evidente che meditava sulla risposta che avevagli data Alberto, risposta che senza dubbio non gli pareva molto chiara. — Ma in fine, disse Franz a sua volta, interrompendo le riflessioni geografiche del suo albergatore, voi eravate venuto con un qualche scopo: volete esporci l’oggetto della vostra visita? — Oh! è vero; eccolo: avete ordinato la carrozza per le otto. — Sicuramente. — Avete l’intenzione di visitare il Coliseo! — Cioè il Colosseo. — È la stessa cosa. — Sia. — Avete detto al vostro cocchiere di uscir dalla porta del Popolo, e fare il giro delle mura per rientrare dalla porta S. Giovanni! — Queste sono le mie precise parole. — Ebbene! questo itinerario è impossibile, od almeno molto pericoloso. — Pericoloso! perchè? — A cagione del famoso Luigi Vampa. — Primieramente, mio caro Pastrini, chi è questo famoso Luigi Vampa? domandò Alberto. Egli può essere famosissimo a Roma, ma vi assicuro che è perfettamente sconosciuto a Parigi. — Come! voi non lo conoscete! — Non ho quest’onore. — Ebbene! quest’è un bandito, vicino al quale i Decesari, e i Gasperoni sono una specie di chierichetti. — Attenti! Alberto, gridò Franz, ecco dunque finalmente un brigante! — Vi prevengo, mio caro Pastrini, che io non crederò una parola di tutto ciò che siete per dirci; perciò parlate quanto volete, che io vi ascolto. — V’era una volta... — Ebbene! avanti adunque. Pastrini si volse dalla parte di Franz sembrandogli il più ragionevole dei due giovani. Bisogna rendere giustizia al brav’uomo: egli aveva alloggiati molti francesi, ma non aveva mai ben capite alcune parti di ciò che essi chiamano il loro spirito. — Eccellenza, diss’egli con gravità, indirizzandosi come si disse a Franz, se mi credete un racconta-storie è inutile che vi dica ciò che volevo dirvi: posso però assicurarvi che lo facevo per la premura che ho per le loro eccellenze. — Alberto non vi ha detto che voi siate un racconta-storie, mio caro Pastrini, vi ha detto soltanto che non vi crederà. Ma io vi crederò, state tranquillo: parlate dunque. — Però convenite, eccellenza, che se si mette in dubbio la sincerità delle mie parole... — Mio caro, voi siete più suscettibile di Cassandra, che pure era una indovina, e alla quale nessuno credeva; mentre che voi siete sicuro di essere creduto almeno dalla metà del vostro uditorio. Sedetevi, diteci chi è questo sig. Vampa. — Ve lo dissi, eccellenza, è uno di quei banditi di cui non abbiamo mai avuto l’uguale dall’epoca di Mastrilli. — Ebbene! che rapporto ha questo bandito coll’ordine che ho dato al cocchiere di partire da porta del Popolo, e di rientrare per porta S. Giovanni? — V’è, rispose Pastrini, che potreste uscir dall’una, ma dubiterei che potreste entrare dall’altra. — E perchè? domandò Franz. — Perchè quando è venuta la notte, non si è sempre in sicurezza in queste vicinanze. — Parola d’onore? gridò Alberto. Pastrini sempre punto nel fondo dell’anima pei dubbi emessi da Alberto sulla sua veracità, rispose: — Sig. conte, ciò che dico non è per voi, è pel vostro compagno di viaggio che conosce Roma, e sa benissimo che su questi argomenti non si scherza. — Mio caro, disse Alberto volgendosi a Franz, ecco ritrovata un’ammirabile avventura: empiamo il nostro calesse di pistole, di tromboni, e di fucili a due canne, Luigi Vampa viene per arrestarci, e noi invece arrestiamo lui: lo portiamo a Roma, ne facciamo un omaggio al senato Romano: se il senatore domanda che può fare per dimostrarci la sua riconoscenza, reclamiamo puramente e semplicemente una carrozza e due cavalli delle scuderie del senatore: e gli ultimi tre giorni godiamo del carnevale in carrozza, senza calcolare che il popolo romano riconoscente potrebbe incoronarci in Campidoglio, e proclamarci, come Curzio e Orazio Coclite, i salvatori della patria. Non è possibile poter descrivere i diversi atteggiamenti del viso di Pastrini, durante questo discorso. — In primo luogo, domandò Franz ad Alberto, dove prenderete queste pistole, questi tromboni, e questi fucili a due canne, coi quali volete riempire la vostra carrozza? — Il fatto sta, che certamente non potrei prenderli nel mio arsenale, diss’egli, perchè a Terracina mi è stato tolto perfino il mio coltello a pugnale; e a voi? — Mi hanno fatto altrettanto ad Acquapendente. — Così, mio caro Pastrini, disse Alberto accendendo un secondo sigaro al residuo del primo, sapete che questa è una misura comodissima per i banditi? — S. E. sa che non c’è l’uso di difendersi quando si viene aggrediti dai banditi, rispose Pastrini che non voleva mettersi a cimento con osservazioni sulle leggi che vi sono ai confini. — Come! gridò Alberto, il cui coraggio si rivoltava all’idea di lasciarsi svaligiare senza dir niente; come! non c’è l’uso? — No, perchè qualunque difesa sarebbe inutile; che volete fare contro una dozzina di assassini che escono da un fosso, da un antro o da un acquedotto, e vi mettono nello stesso tempo le armi alla faccia! — Ah! per bacco! voglio farmi ammazzare! gridò Alberto. — L’albergatore si volse verso Franz con una espressione che voleva dire: davvero eccellenza, il vostro camerata è pazzo. — Mio caro Alberto, soggiunse Franz, la vostra risposta è sublime, e merita il _dovea morir!_ del vecchio Cornelio; soltanto, quando Orazio rispondeva questo, si trattava della salute di Roma, e la cosa era abbastanza importante; ma in quanto a noi non si tratterebbe che di un capriccio, e sarebbe ridicolo l’arrischiare la propria vita per soddisfare un tal capriccio. — Ah! per bacco! gridò Pastrini, alla buon’ora, questo si chiama parlare! — Alberto si versò un bicchiere di lacrima-christi, che bevve a sorsate, frammettendovi un brontolio di parole confuse che nessuno potè intendere. — Ebbene Pastrini, riprese Franz, ora che il mio compagno si è calmato, e che voi avete potuto apprezzare le mie disposizioni pacifiche, sentiamo: chi è questo sig. Luigi Vampa? è giovine o vecchio? è contadino o patrizio? descrivetecelo affinchè se lo avessimo per caso da incontrare nelle società, come _Giovanni Sbogar_, o _Lara_, lo possiamo almeno riconoscere. — Non vi potevate rivolgere meglio che a me per averne esatti particolari poichè ho conosciuto Luigi Vampa da ragazzo, e un giorno anzi che caddi nelle sue mani, andando da Ferentino ad Alatri, si sovvenne, fortunatamente per me, della nostra antica conoscenza; e non solo mi lasciò andare liberamente senza esigere da me verun riscatto, ma eziandio volle farmi il regalo di un bell’orologio, e raccontarmi tutta la sua storia. — Vediamo l’orologio, disse Alberto. Pastrini cavò dal taschino un magnifico orologio a cilindro di Breguet, col nome dell’autore, il bollo di Parigi e una corona da conte. — Eccolo qui, diss’egli. — Poffare! fece Alberto; ve ne faccio i miei complimenti. Io ne ho uno presso a poco come questo, che costa tremila fr.: Eccolo, e cavò l’orologio dal taschino del giubbetto. — Sentiamo ora la storia, disse Franz tirando una sedia avanti, e facendo segno a Pastrini di sedersi. — Le loro eccellenze mi permettono...? disse l’albergatore. — Per bacco! disse Alberto, non siete già un predicatore, mio caro, per parlare sempre in piedi. L’albergatore si assise dopo aver fatto un saluto rispettoso a ciascuno dei suoi due futuri uditori, come per indicare ch’egli era pronto a dar loro quei particolari di Vampa ch’essi avessero domandato. — A noi! disse Franz arrestando Pastrini al momento che stava per aprire la bocca: voi dicevate d’aver conosciuto Luigi Vampa quando era ragazzo; è dunque molto giovine ancora? — Lo credo bene! ha appena 22 anni! è un galeotto che andrà molto avanti, state pur sicuri. — Che ne dite Alberto? è una bella cosa a 22 anni essersi già formata una riputazione, disse Franz. — Sì certamente, alla sua età! Alessandro, Cesare e Napoleone non erano tanto avanti, e sì che questi hanno fatto dipoi qualche rumore nel mondo. — E così, riprese Franz volgendosi all’albergatore, l’eroe di cui ora sentiremo la storia, non ha che 22 anni? — Appena, come ebbi l’onore di dirvi. — È grande o piccolo? — Di mezzana persona, presso a poco come lei; disse l’albergatore designando Alberto. — Grazie del paragone, disse quegli inchinandosi. — Avanti, Pastrini, riprese Franz, sorridendo della suscettibilità del suo amico. E a qual classe della società appartiene? — Era un semplice pastore, addetto alla fattoria del conte S. Felice situata fra Palestrina e il lago di Gabri: nacque a Pampinara e fino dall’età di 5 anni entrò al servizio del conte. Suo padre, pastore anch’esso in Anagni, possedeva una piccola mandra e viveva della lana dei montoni e del prodotto delle pecore che veniva a vendere a Roma. Fin da fanciullo il piccolo Vampa aveva un’indole strana. Un giorno, all’età di 7 anni, andò a ritrovare il curato di Palestrina, e lo pregò d’insegnargli a leggere. Era una cosa assai difficile, perchè il pastorello non poteva lasciare le pecore. Ma il buon curato andava tutti i giorni a dire la messa in un piccolo borgo, troppo povero e troppo poco considerevole per poter mantenervi un prete, e che, non avendo neppure un nome, era conosciuto sotto quello di Borgo. Egli offrì a Luigi di trovarsi sulla strada che percorreva nell’ora del ritorno, e di dargli così la lezione, prevenendolo che questa sarebbe stata corta, e che per conseguenza avrebbe dovuto applicarsi molto da sè per renderla profittevole. Il fanciullo accettò con gioia. Luigi conduceva tutti i giorni il gregge a pascolare sulla strada da Palestrina al Borgo; e la mattina alle nove il curato passava: il prete ed il fanciullo si sedevano sulla riva di un fosso, e il giovine pastorello prendeva la lezione sul breviario del curato. Il prete fece fare a Roma da un maestro di calligrafia tre esemplari di alfabeto, uno grande, uno mezzano e l’altro piccolo, e gli fece vedere, che imitando quegli esemplari sopra una pietra di lavagna, coll’aiuto di una punta di ferro, poteva imparare a scrivere: la sera stessa, quando ebbe rinchiuso il gregge nell’ovile, il piccolo Vampa corse dal fabbro ferraio di Palestrina, prese un grosso chiodo, lo arroventò, lo martellò, lo arrotondì, e ne formò una specie di stiletto antico: la dimane unì una quantità di pezzi di lavagna, e si mise all’opera. Dopo tre mesi egli sapeva scrivere. «Il curato, meravigliato di questa profonda intelligenza, e ammirando tutta questa attitudine, gli fece regalo di parecchi quaderni di carta, di alcune penne, e di un temperino. Allora ebbe a fare un altro studio; ma uno studio ch’era ben poca cosa dopo il primo. Otto giorni dopo maneggiava la penna come prima lo stiletto. Il curato raccontò quest’aneddoto al conte di San-Felice, che volle vedere il pastorello, lo fece leggere e scrivere innanzi a sè, ordinò al suo intendente di farlo mangiare coi domestici, assegnandogli due scudi al mese. Con questo danaro Luigi comprò dei libri e delle matite. Di fatto egli applicava a tutti gli oggetti il suo spirito d’imitazione, e, a guisa di Giotto fanciullo, copiava sulle lavagne le pecore, gli alberi, le case. Poi colla punta del temperino cominciò a tagliare dei pezzi di legno, e a dar loro tutte le forme che voleva. Pinelli pure, l’artista popolare, aveva cominciato così. «Una ragazzina di sei in sette anni, cioè un poco più giovane di Vampa, era pur essa alla custodia delle pecore in una vicina tenuta, presso Palestrina: questa bambina era orfana, nata a Valmontone, e si chiamava Teresa. I due fanciulli s’incontravano, sedevano l’un presso all’altra, lasciavano le loro mandre mischiarsi e pascere insieme, discorrevano, ridevano, scherzavano; poi la sera separavano il gregge del conte San-Felice da quello del Barone Cervetri, e si lasciavano, promettendosi di ritrovarsi la dimane. «La dimane infatto mantenevano la parola, e crescevano in età da una parte e dall’altra. Vampa compì i 12 anni, e Teresa gli undici. Frattanto i loro istinti naturali si sviluppavano. A lato del gusto per le arti, che Luigi aveva spinto tant’oltre quanto è permesso di poterlo fare nella solitudine, egli era ad intervalli triste, ardente a scosse, collerico per capriccio, burbero sempre. Nessuno dei giovani di Pampinara, di Palestrina e di Valmontone aveva potuto non solo prendere alcuna influenza su di lui, nè tampoco divenire suo compagno. Il suo temperamento assoluto e l’essere sempre disposto ad esigere, e non mai a lasciarsi piegare ad alcuna concessione, gli allontanava ogni movimento amichevole, ed ogni dimostrazione di simpatia. Teresa sola comandava con una parola, con un gesto, con uno sguardo a questa indole, che piegava sotto la mano di una donna, ma che sotto quella di un uomo si sarebbe irritata fino all’eccesso. Teresa al contrario era vivace, vispa e gaia, ma eccessivamente civetta; i due scudi che Luigi riceveva dall’intendente di San-Felice, il ricavato di tutti i piccoli lavori in intaglio che vendeva ai mercanti di giuocarelli in Roma, si tramutavano in pendenti di perle, in collane di cristallo, in spilli d’oro per la mercè di questa prodigalità del giovine amico. Teresa era la più bella e la più elegante di tutte le contadine delle vicinanze di Roma. I due giovani continuavano a crescere, passando le giornate insieme, e si abbandonavano senza opposizione a tutti gl’istinti primitivi della loro natura; così, nelle loro conversazioni, nei loro desideri, nei loro castelli in aria, Vampa si figurava sempre capitano di vascello, o generale, o governatore di una provincia: Teresa si vedeva ricca, vestita delle più belle stoffe, seguita da servitori in livrea; quindi quando essi avevano passata un’intera giornata a circondare il loro avvenire di questi folli e brillanti arabeschi, si separavano per ricondurre ciascuno la loro mandra alla stalla, ricadendo dall’altezza dei loro sogni alla umiliante realtà della loro condizione. «Il giovine pastore disse un giorno all’intendente del conte, che aveva veduto un lupo uscir dalle montagne della Sabina e ronzare attorno al gregge. L’intendente gli dette un fucile; era ciò che ambiva Vampa. Questo fucile trovavasi ad avere per caso una eccellente canna di Brescia che mandava la palla come quella di una carabina inglese; l’incassatura soltanto era stata in qualche modo guastata dal conte mentre dava la caccia alla volpe, e per questo messo fra gli scarti. Ciò però non era di nessuna difficoltà per un intagliatore come Vampa. Egli esaminò la forma primitiva, calcolò ciò che bisognava cambiare per metterla in un migliore aspetto, fece un’altra incassatura zeppa di ornamenti così meravigliosi, che certamente avrebbe ritrovato a guadagnarvi una ventina di scudi, del solo incasso, se fosse venuto a venderlo in città. Ma si era astenuto dall’operar così; un fucile era stato da gran tempo il sogno del giovine. In tutti i paesi il primo bisogno che prova ogni cuor forte, ogni struttura possente, è quello di un’arma, che assicuri nello stesso tempo l’assalto e la difesa, e facendo terribile chi la porta, spesso lo fa pur anche divenir temuto. Da quel punto Vampa impiegò nell’esercizio del fucile tutti i momenti che gli rimanevano liberi: comprò della polvere e delle palle, e tutto gli serviva di bersaglio: il tronco di un olivo, triste, pallido, e cenerino, che vegeta sul declive delle montagne della Sabina; la volpe che nella sera usciva dalla tana per cominciare la caccia notturna; l’aquila che s’innalzava per l’aria. Ben presto diventò così valente, che Teresa, superato quel primo ribrezzo che le produceva sul principio la detonazione, si divertiva nel vedere il giovine compagno situare la palla ove aveva indicato, così giustamente, come se ve l’avesse gettata colla mano. «Una sera, un lupo uscì effettivamente da un bosco vicino al quale i due giovani avevano l’abitudine di starsi; il lupo non aveva fatti dieci passi sulla pianura che già era morto; Vampa, altero di questo bel colpo, sel caricò sulle spalle e lo portò alla fattoria. Tutti questi particolari davano a Luigi una certa riputazione nei dintorni della fattoria: l’uomo superiore, in qualunque luogo si trovi si forma una clientela d’ammiratori. Nei luoghi circonvicini si parlava di questo giovine pastore come del più destro, del più forte, e del più bravo contadino che fosse a dieci leghe di circonferenza; e quantunque Teresa, in un circolo più esteso ancora, passasse per la più bella delle giovinette della Sabina, pure nessuno si arrischiava dirle una parola d’amore, perchè si sapeva amata da Vampa. E frattanto i due giovani non si erano mai detto che si amavano. Essi avevano vegetato l’uno accanto all’altro, come due alberi che uniscono le loro radici nel suolo, che intrecciano i loro rami nell’aria, il loro profumo nel cielo; soltanto era in loro lo stesso desiderio di vedersi; questo desiderio divenne bisogno, ed era per loro assai più facile il comprendere che cosa sia la morte, di quello che una separazione anche di un sol giorno. Teresa aveva allora 16 anni e Vampa 17. «In quel tempo cominciavasi a parlar molto di una banda di briganti, che si ordinava sui monti Lepini. Il brigantaggio, per quante efficacissime misure siansi prese, non è stato mai affatto distrutto nelle nostre vicinanze. Qualche volta manca un capo, ma quando se ne presenta uno è difficile che manchi di una banda. Il celebre Cucumetto, circondato negli Abbruzzi, cacciato dal regno di Napoli ove sostenne una vera guerra, aveva traversato il Garigliano come Manfredi, ed era venuto fra Sonnino e Giuperno, a rifugiarsi sulle rive dell’Amasina, egli si occupava a riordinare una banda che avrebbe camminato sulle orme di Gasparone e di Decesaris, cui sperava ben presto di sorpassare. Molti giovanotti di Palestrina, di Frascati, e di Pampinara disparvero. Sulle prime si stette in pena sul loro conto, ma ben presto si seppe ch’erano andati a raggiungere la banda di Cucumetto. In capo a poco tempo Cucumetto diventò l’oggetto dell’attenzione generale. Venivano ovunque citati dei tratti di questo capo bandito di una estrema audacia, e di rivoltante brutalità. «Le storie di ogni genere che si raccontavano di questo capo bandito, formavano spesso l’oggetto delle conversazioni di Luigi e di Teresa. La giovinetta tremava molto a questi racconti; ma Vampa la tranquillava battendo in terra il suo bel fucile che mandava così dritta la palla: poi, quando non era del tutto tranquilla, le faceva vedere un qualche corvo posato sopra una frasca secca di un albero, metteva il fucile alla guancia, premeva sul grilletto, e l’animale colpito cadeva ai piedi dell’albero. Frattanto il tempo passava, i due giovinetti avevano stabilito sposarsi quando Vampa avesse avuto 20 anni, Teresa 19. Erano orfani entrambi; entrambi non avevano altri permessi a chiedere che quello dei loro disegni sull’avvenire. S’intesero due o tre colpi di fucile, quindi un uomo uscì dal bosco presso al quale i due giovani erano soliti far pascolare i loro armenti, e corse verso di loro. Giunto alla portata della voce, gridò tutto ansante. — Io sono inseguito, potete voi nascondermi? «I due giovani riconobbero ben presto che il fuggitivo doveva essere un bandito: ma fra i banditi ed i paesani romani vi è una innata simpatia, che fa sì, che il secondo è sempre disposto a rendere servigio al primo. Vampa, senza dire una parola, corse ad una pietra che chiudeva l’ingresso di una grotta, scoprì quest’entrata tirando a sè la pietra, fece segno al fuggitivo di entrare in questo asilo sconosciuto a tutti, rimise la pietra tosto che fu entrato, e ritornò a sedersi vicino a Teresa. Quasi subito dopo, quattro carabinieri a cavallo comparvero sul confine del bosco. Tre sembravano essere alla ricerca del fuggitivo, il quarto trascinava pel collo un bandito prigioniero. Essi esplorarono il luogo con un colpo d’occhio, s’accorsero dei due giovani, accorsero di galoppo alla loro volta, e l’interrogarono; ma questi risposero che nulla avevano veduto. «— È dispiacevole, disse il brigadiere, perchè quello che cerchiamo è il capo. — Cucumetto? non poterono fare a meno di gridare insieme Luigi e Teresa. — Sì, rispose il brigadiere, e siccome la sua testa porta la taglia di mille scudi romani, così voi ne avreste guadagnati 500 se ci aveste aiutati a prenderlo. — I due giovani si guardarono reciprocamente. Il brigadiere ebbe un raggio di speranza. 500 scudi romani fanno circa 3 mila fr.; e 3 mila fr. sono una fortuna per due poveri orfanelli che sono sul punto di maritarsi. «— Sì, è dispiacevole, disse Vampa, ma non abbiamo veduto nessuno. — Allora i carabinieri percorsero il luogo in tutte le sue diverse direzioni, ma inutilmente: quindi successivamente disparvero. Allora Vampa andò a togliere la pietra, e Cucumetto uscì. Egli aveva veduto attraverso una fessura della porta di macigno i due giovani discorrere coi carabinieri; non aveva alcun dubbio sull’argomento della conversazione; aveva letto sul volto di Teresa e di Luigi l’inalterabile risoluzione di non consegnarlo; cavò di saccoccia una borsa d’oro per fargliene dono. Ma Vampa rialzò la testa con fierezza; quanto a Teresa i suoi occhi brillarono pensando a tutto ciò che ella potrebbe comprare di ricchi gioielli, e belli abiti con quella borsa d’oro. «Cucumetto era un satana molto abile, solo aveva preso la forma di bandito invece di serpente: egli s’accorse di questo sguardo, riconobbe in Teresa una degna figlia d’Eva, e rientrò nella foresta rivolgendosi più volte, col pretesto di salutare i suoi liberatori. Il tempo del carnevale si avvicinava, il conte di Sanfelice annunziò un gran ballo mascherato al quale fu invitato quanto Roma aveva di più elegante. Teresa aveva gran volontà di vedere questo ballo. «Luigi domandò al suo protettore, l’intendente, il permesso di assistervi per lui e per lei, nascosti in mezzo alla servitù della casa; permesso che venne loro accordato. «Il ballo veniva dato dal conte particolarmente per fare cosa grata a sua figlia Carmela ch’egli adorava. Carmela era precisamente dell’età e della persona di Teresa, la quale era per lo meno tanto bella quanto Carmela. La sera del ballo Teresa si mise quanto aveva di più bello, i suoi spilli di maggior valore, i gioielli di cristallo più rilucenti. Ella aveva il costume delle donne di Frascati; Luigi aveva l’abito tanto pittoresco del paesano romano in giorno di festa. Entrambi si mischiarono, come avevano promesso, fra i servitori ed i paesani. «Il festino era magnifico. Non solo la villa era tutta illuminata, ma migliaia di lampioni a colori erano appesi ai rami degli alberi nel giardino: così ben presto l’onda degli accorsi straripò dal palazzo sulle terrazze, e dalle terrazze nei viali. Ad ogni crociera vi era una orchestra, trattamenti, e rinfreschi; coloro che passeggiavano si fermavano, formavano delle quadriglie, e ognuno ballava ove più gli piaceva. Carmela portava il costume delle donne di Sonnino: aveva la pettinatura intrecciata di perle, gli spilli dei capelli erano d’oro, e di diamanti, il busto era di seta turca a gran fiori di broccato, la giubba e le gonnelle di cachemire: il senale di mussolino delle Indie, i bottoni della giubba altrettante pietre preziose; altre due delle sue compagne portavano il costume delle donne della Riccia. Quattro giovani dei più ricchi e delle famiglie più nobili di Roma l’accompagnavano, essi erano vestiti da paesani d’Albano, di Velletri, di Civita-Castellana, e di Sora. Non fa mestieri dire che questi costumi da paesani, come quelli da paesana, erano risplendenti d’oro e di pietre. Venne a Carmela l’idea di fare una quadriglia uniforme; mancava però una donna. Carmela guardò intorno a sè, e fra le invitate non trovò alcuna che portasse un costume analogo al suo ed a quello delle sue compagne. Il conte di San-Felice le mostrò fra le contadine Teresa, che stava appoggiata al braccio di Luigi. «— Me lo permettete, padre mio? disse Carmela. «— Senza dubbio, rispose il conte; non siamo in carnevale? «Carmela si accostò ad un giovine che l’accompagnava, e gli disse alcune parole a bassa voce, indicandogli col dito la giovinetta. Il giovine si volse, seguì cogli occhi la direzione della bella mano che gli serviva da indicatore, fece un gesto di obbedienza, e andò ad invitare Teresa perchè venisse a figurare nella quadriglia diretta dalla figlia del conte. Teresa sentì come una fiamma salirle al viso. Interrogò d’uno sguardo Luigi: non v’era mezzo di rifiutare: Luigi lasciò lentamente sdrucciolare il braccio di Teresa che teneva sotto al suo, e Teresa si allontanò condotta dal suo elegante cavaliere, e tutta tremante venne a prendere il posto nella quadriglia aristocratica. Certamente per un’artista l’esatto e severo costume di Teresa, avrebbe avuto tutt’altro carattere che quello di Carmela e delle sue compagne, ma Teresa era una giovanetta frivola, e civetta, i ricami del mussolino, le palme della cintura, lo splendore del cachemire l’abbagliavano, il riflesso dei zaffiri, e dei diamanti la rendevano pazza. Dall’altra parte, Luigi sentiva nascere in sè un sentimento sconosciuto; era come un dolore sordo lo mordesse sulle prime il cuore, e di là corresse fremendo nelle sue vene, e s’impadronisse di tutto il corpo. «Egli non perdeva un momento d’occhio i piccoli movimenti di Teresa, e del suo cavaliere; allorchè le loro mani si toccavano provava delle vertigini, le arterie gli battevano con violenza, e sarebbesi detto che il suono di una campana ripercuotesse le sue vibrazioni all’orecchio di lui. Allorchè parlavan fra di loro, quantunque Teresa ascoltasse timidamente e con gli occhi bassi i discorsi del cavaliere, siccome Luigi leggeva negli occhi ardenti del bel giovine che questi discorsi erano elogi, gli sembrava che la terra girasse sotto di lui, e che tutte le voci dell’inferno gli soffiassero idee di uccisioni, e di assassinio. Allora, temendo lasciarsi trasportare a qualche pazzia si aggrappava con una mano all’albero contro il quale era appoggiato, e coll’altra stringeva con un movimento convulsivo il pugnale dal manico intagliato che era passato nella sua cinta, e che senza accorgersene qualche volta cavava dal fodero quasi interamente. «Luigi era geloso, egli capiva che Teresa poteva sfuggirgli, trasportata dalla sua natura orgogliosa e ambiziosa, e frattanto la forosetta che sulle prime era timida, e quasi spaventata, erasi ben presto rimessa. Si disse che Teresa era bella. Questo però non era tutto, Teresa era graziosa, di quella grazia selvaggia molto più possente che la nostra grazia studiata, ed affettata. Ella ebbe quasi gli onori della quadriglia, e se fu invidiosa della figlia del Conte di S. Felice, non oseremo dire che Carmela non fosse di lei gelosa. Così a forza di complimenti il suo bel cavaliere la ricondusse al posto ove l’aveva presa, ed ove l’aspettava Luigi. «Due, o tre volte nel tempo del ballo la giovinetta aveva volto lo sguardo su lui, e ciascuna volta lo aveva veduto più pallido, e con i lineamenti più alterati. Una volta ancora i suoi occhi rimasero abbagliati come da un lampo di sinistro augurio nel vedere la lama del coltello cavata per metà dal fodero; quasi tremando riprese il braccio dell’amante. La quadriglia ebbe i suoi felici successi, e sembrava evidente che si sarebbe discorso di ripeterla una seconda volta. Carmela sola vi si opponeva, ma il Conte di S. Felice pregò tanto teneramente la figlia, che finalmente v’acconsentì. «Tosto uno dei cavalieri si slanciò per invitare Teresa senza la quale era impossibile che si potesse fare la quadriglia, ma la giovinetta era di già sparita. Infatto Luigi non avrebbe avuta la forza di sopportare un secondo esperimento, e parte per persuasione, e parte per forza, aveva trascinato Teresa da un’altra parte del giardino. Teresa aveva ceduto suo malgrado; ma aveva veduto la figura scomposta del giovine, e capiva dal suo silenzio, interrotto da un fremito nervoso, che in lui passava qualche cosa di strano. Essa pure non era esente da un’interna agitazione; e quantunque non avesse fatto niente di male, comprendeva che Luigi avrebbe avuto ragione di farle dei rimproveri; su che? non lo sapeva; ma si accorgeva ciò nonostante che questi sarebbero stati ben meritati. Pur nulla meno, con gran sorpresa di Teresa, Luigi si stette muto, e durante il rimanente della sera le sue labbra non dissero più una parola. Solo, allorchè il freddo della notte avea costretti tutti gl’invitati a lasciare i giardini, e che le porte della villa furono chiuse per dar luogo alla festa interna, ricondusse alla sua casa Teresa, poi quand’ella fu entrata, le disse: «— Teresa, che pensavi tu quando ballavi dirimpetto alla contessina di S. Felice? «— Pensava, rispose la giovinetta con tutta la franchezza dell’animo suo, che io darei la metà della mia vita per essere abbigliata come lei. «— E che ti diceva il tuo cavaliere? «— Mi diceva che dipendeva soltanto da me, e che non dovevo dire che una parola per ottener questo. «— Egli aveva ragione, rispose Luigi. Lo desideri tu così ardentemente come tu dici? «— Sì.» — Ebbene! tu l’avrai. «La giovinetta maravigliata, alzò la testa per interrogarlo, ma il suo viso era così tetro e così terribile, che la parola le si agghiacciò sulle labbra. D’altra parte dicendo queste parole Luigi si era allontanato. Teresa lo seguì con gli sguardi fra le tenebre fino a che ella potè scorgerlo. Poi quando fu sparito rientrò sospirando nella sua cameretta. «Questa medesima notte accadde un grande avvenimento che fu giudicato il prodotto, senza alcun dubbio, della imprudenza di qualche servitore, che aveva usata negligenza nello spegnere i lumi: la villa S. Felice prese fuoco, precisamente dalla parte dell’appartamento della bella Carmela. Svegliata nel mezzo del sonno dalla luce delle fiamme, era saltata dal letto, si era inviluppata nella veste da camera, ed aveva tentato di fuggire dalla porta; ma il corridore pel quale abbisognava che passasse ere già tutto in preda all’incendio. Allora rientrò nella sua camera, chiamando ad alte grida soccorso, quando la sua finestra, posta a venti piedi dal suolo si aperse, un giovine contadino si slanciò nell’appartamento, la prese fra le braccia, e con una forza e destrezza sovrumana la trasportò sull’erba del prato ove rimase svenuta. Allorchè riprese l’uso dei sensi, il padre le era vicino, tutti i servitori la circondavano portando soccorsi. Un lato intero della villa fu bruciato; ma non premeva, poichè Carmela era sana e salva. Venne ovunque cercato il suo liberatore, ma questi non ricomparve più; fu domandato di lui a tutti, ma nessuno lo aveva veduto. «Quanto a Carmela ella era così turbata che non lo aveva riconosciuto. Del rimanente, siccome il conte era immensamente ricco, se si eccettui il pericolo corso da Carmela, e che gli sembrò dal modo miracoloso con cui era stata salvata, piuttosto un novello favore della provvidenza che una disgrazia reale, fu ben poca cosa per lui la perdita di ciò che avevan consumato le fiamme. «La dimane nell’ora consueta i due giovani si ritrovarono sul confine della foresta. Luigi era arrivato pel primo. Egli venne incontro alla giovinetta con molta allegria, e sembrava avere completamente dimenticata la scena della sera innanzi. Teresa era manifestamente pensierosa, ma vedendo la disposizione di animo di Luigi, simulò un’allegra non curanza che era la base della sua indole, quando qualche passione non veniva a disturbarla. Luigi prese sotto il braccio Teresa, e la condusse fino all’apertura della grotta; là si fermò. La giovinetta conoscendo che doveva esservi qualche cosa di straordinario lo guardò fissamente. «— Teresa, disse Luigi, ieri sera tu mi dicesti che avresti dato metà della tua vita per avere un costume uguale a quello della figlia del conte. «— Certamente, disse Teresa con meraviglia, ma era ben pazza quando esternava un simil desiderio. «— Ed io ti ho risposto: sta bene, tu l’avrai. «— Sì, soggiunse la giovinetta, la cui meraviglia si aumentava od ogni parola di Luigi; ma tu certamente hai risposto così, solo per farmi piacere. «— Non ti ho mai promesso cosa che non ti abbia data, Teresa, disse con orgoglio Luigi: entra nella grotta, e vestiti. «A queste parole allontanò la pietra, e fece vedere a Teresa la grotta illuminata da due candele, che ardevano ai lati di un magnifico specchio. Sopra una tavola rustica fatta da Luigi, erano distesi gli spilli di diamanti, e la collana di perle; sopra una panca vicina era depositato il rimanente del vestiario. Teresa mandò un grido di gioia, e senza informarsi donde veniva questo vestito, senza prendere il tempo di ringraziare Luigi, si slanciò nella grotta trasformata in gabinetto da toletta. Luigi respinse la pietra dietro ad essa, poichè s’accorse che sulla cresta di una piccola collina, che impediva di vedere Palestrina dal posto in cui stava, un viaggiatore a cavallo si era fermato un momento, incerto sulla strada da tenere, e che compariva sull’azzurro del cielo con quella nettezza di contorno particolare alle vedute in lontananza dei paesi meridionali. «Lo straniero vedendo Luigi, mise il cavallo al galoppo, e venne alla sua volta. Luigi non si era ingannato; il viaggiatore che andava da Palestrina a Tivoli era incerto sul cammino da prendere. Il giovine glielo indicò; ma siccome ad un quarto di miglio la strada si divideva in tre, e il viaggiatore giunto a questo luogo poteva nuovamente sbagliare, pregò Luigi di servirgli di guida: questi depose a terra il mantello, si pose sulla spalla la carabina, e liberato così dal pesante vestito camminò davanti al viaggiatore con quel passo rapido del montanaro, che un cavallo a stento può seguire. «In dieci minuti, Luigi ed il viaggiatore si trovarono al crocivio indicato dal giovine pastore. Giunto là, con un gesto maestoso a guisa di un imperatore, stese la mano, e indicò al viaggiatore quella delle tre vie che doveva seguire. — Ecco la vostra strada, eccellenza, voi ora non potete più sbagliare. — E tu prendi la tua ricompensa, disse il viaggiatore offrendo al pastore alcune piccole monete. — Grazie, disse Luigi ritirando la mano, io rendo un servizio, non lo vendo. — Ma, disse il viaggiatore, che del resto sembrava abituato a quella differenza che passa tra la servilità dell’uomo di città, e l’orgoglio del campagnuolo, se tu rifiuti una mercede, accetterai un regalo? «— Ah! sì, questa è un’altra cosa. — Ebbene, disse il viaggiatore, prendi questi due zecchini di Venezia, e dalli alla tua fidanzata per acquistarsi un paio di pendenti. «— E voi allora prendete questo pugnale, disse il pastore, non ne ritroverete uno la cui impugnatura sia meglio intagliata, da Albano a Civita-Castellana. — Lo accetto disse il viaggiatore, ma allora sono io che ti resto obbligato, perchè il pugnale vale molto più di due zecchini. «— Per un mercante può essere, ma non per me che l’ho intagliato io stesso, e mi costa appena uno scudo. «— Come ti chiami tu? domandò il viaggiatore. «— Luigi Vampa, rispose il pastore collo stesso tuono come se avesse risposto: Alessandro re di Macedonia; e voi? «— Io, disse il viaggiatore, mi chiamo Sindbad il marinaro.» Franz d’Épinay mise un grido di sorpresa. — Sindbad il marinaro! diss’egli. — Sì, rispose il narratore, è il nome che il viaggiatore disse a Vampa essere il suo. — Ebbene! che avete voi da dire in contrario a questo nome? interruppe Alberto; questo è un bellissimo nome e le avventure di chi lo portava mi hanno divertito assaissimo nella mia prima gioventù. — Franz non insistè. Il nome di Sindbad il marinaro, come si capirà bene, aveva risvegliato in lui una quantità di ricordi, non diversamente da quello che aveva fatto la sera innanzi il nome di conte di Monte-Cristo: — Continuate, disse all’albergatore. «Vampa mise sdegnosamente i due zecchini in saccoccia e riprese lentamente il cammino pel quale era venuto. Giunto a due o trecento passi della grotta gli parve di sentire un grido. Si fermò ascoltando da qual parte venisse questo grido. Dopo un secondo, intese pronunziare distintamente il suo nome; la voce veniva dalla parte della grotta. «Balzò come un camoscio, e mentre correva, caricava il fucile, e in meno di un minuto era sulla sommità della piccola collina opposta a quella ove aveva scoperto il viaggiatore. Là si fecero più distinte le grida «aiuto, soccorso!» Girò gli occhi sullo spazio che dominava; un uomo rapiva Teresa come il centauro Nesso Deianira. Quest’uomo, che si dirigeva verso il bosco, aveva già percorso tre quarti del cammino dalla grotta alla foresta. Vampa misurò l’intervallo; quest’uomo aveva già duecento passi di vantaggio su lui, non vi era possibilità di raggiungerlo prima che entrasse nel bosco. Il giovine si ferma come se i suoi piedi avessero messo radice: appoggia l’incasso del fucile alla spalla, leva lentamente la canna nella direzione del rapitore, lo segue un secondo nella corsa, e fa fuoco. Il rapitore si fermò sul punto; le ginocchia gli si piegarono, e cadde trascinando nella sua caduta Teresa la quale si alzò subito, ed il fuggito restò steso dibattendosi nelle ultime convulsioni dell’agonia. Vampa si slanciò verso Teresa, che era a dieci passi dal moribondo, ed alla quale erano a sua volta venute meno le gambe cadendo in ginocchio. Allora al giovine venne il terribile sospetto che la palla che aveva colpito l’avversario avesse puranco ferita la fidanzata. Fortunatamente però non fu; il solo terrore aveva paralizzate le forze di Teresa. Allorquando Luigi fu ben sicuro che era sana e salva, si volse verso il ferito; era di già morto, colle pugna serrate, la bocca contratta dal dolore, e i capelli ritti dal sudore dell’agonia; gli occhi erano rimasti aperti e minacciosi. «Vampa si avvicinò al cadavere e riconobbe Cucumetto. Dal giorno in cui il bandito fu salvato dai due giovani, erasi innamorato di Teresa, ed aveva giurato che la giovine sarebbe stata sua. Da quel giorno, l’aveva spiata con assiduità; e, profittando del momento in cui il suo amante l’aveva lasciata sola per andare ad indicare la strada al viaggiatore, l’aveva involata e già la credeva sua, quando la palla di Vampa, diretta dal colpo d’occhio infallibile del giovine pastore gli aveva traversato il cuore. Vampa lo guardò un momento senza che la minima emozione si presentasse sul suo viso, nel mentre che Teresa al contrario, tutta tremante ancora, non osava avvicinarsi al morto bandito che a piccoli passi, e gettava esitando uno sguardo sul cadavere al di sotto della spalla del suo amante. Dopo un momento Vampa si rivolse verso la sua innamorata. «— Ah! ah! diss’egli, sta bene, tu sei di già vestita. Or tocca a me a fare la mia toletta. «Infatto Teresa era vestita da capo a piedi col costume della figlia del conte S. Felice. Vampa prese il corpo di Cucumetto fra le braccia, e lo trasportò nella grotta, mentre che Teresa l’aspettava di fuori. Se fosse passato allora un altro viaggiatore, avrebbe veduto una cosa strana; cioè una pastorella guardare il gregge, vestita di cachemire coi pendenti alle orecchie, una collana di perle, degli spilli di diamanti, e dei bottoni di zaffiri, di smeraldi e di rubini. Senza dubbio sarebbesi creduto di ritornare ai tempi di Florian: e di ritorno a Parigi, avrebbe assicurato di avere incontrata la pastorella delle Alpi ai piedi dei monti Sabini. A capo di un quarto d’ora, Vampa uscì dalla grotta. Il suo costume non era meno elegante, nel suo genere, di quello di Teresa. Aveva una veste di velluto granato coi bottoni d’oro cesellati, un giubbetto di seta tutto ricoperto di galloni, una sciarpa annodata intorno al collo, un porta cartucce tutto in oro ed in seta rossa e verde, i pantaloni di velluto celeste attaccati al di sotto del ginocchio colle fibbie di diamanti, le ghette di pelle di daino ricamate con mille arabeschi, ed un cappello su cui sventolavano dei nastri di ogni colore; due catene da orologio pendevano dalla sua cintura ed un magnifico pugnale era attaccato al porta cartucce. «Teresa gettò un grido di ammirazione; Vampa sotto questo abito rassomigliava ad una pittura di Léopold Robert o di Schnetz. Egli aveva vestito il costume completo di Cucumetto. Il giovine s’accorse dell’effetto che produceva nella sua fidanzata, ed un sorriso di orgoglio gli sfiorò le labbra. — Or dimmi Teresa, sei pronta a dividere la mia sorte qualunque essa possa essere? «— Oh! sì, gridò la giovinetta con entusiasmo. «— A seguirmi ovunque andrò? — Anche in capo al mondo! «— Allora prendi il mio braccio, e partiamo, poichè non abbiam tempo da perdere. «La giovinetta intrecciò il suo al braccio dell’innamorato, senza neppur domandargli ove la conduceva; perchè in questo momento le sembrava bello, superbo e potente come il Nume della guerra. E tutti e due s’incamminarono verso la foresta di cui in breve tempo sorpassarono il confine. «Non fa bisogno di dire che Vampa conosceva tutti i sentieri della montagna; egli s’inoltrò dunque nella foresta senza esitare neppur per poco, e quantunque non vi fosse praticata alcuna strada, riconosceva la direzione che doveva seguire dal solo guardare gli alberi ed i cespugli; essi camminarono in tal guisa per circa un’ora e un quarto. «Dopo questo tempo giunsero nel punto più fitto del bosco. Un torrente il cui letto era secco, conduceva in una gola profonda. Vampa prese questo strano sentiero, che incassato fra le due rive, e ottenebrato dall’ombra degli alberi sembrava il sentiero d’Averno di cui parla Virgilio. Teresa ritornata timorosa all’aspetto di questo luogo selvaggio e deserto si stringeva contro la guida senza dir parola; ma siccome lo vedeva camminare con un passo sempre uguale, siccome una calma sempre profonda irradiava il suo viso, ella stessa aveva la forza di dissimulare la sua emozione. «D’un subito, dieci passi lontano da loro, un uomo sembrò staccarsi da un albero dietro cui era nascosto, e prendendo col suo fucile di mira Vampa, gridò: «— Non fare un passo di più o sei morto. «— Andiamo, via! disse Vampa facendo con la mano un gesto di disprezzo, nel mentre che Teresa non dissimulando il suo terrore, si stringeva sempre più contro di lui; e che i lupi forse si sbranano fra di loro? «— Chi sei tu? dimandò la sentinella. — Io sono Luigi Vampa, il pastore della fattoria di S. Felice. — Che vuoi tu? «— Voglio parlare ai tuoi compagni che sono su lo spianato di Rocca-Bianca. «— Allora seguimi, disse la sentinella, o piuttosto, giacchè sai la strada, cammina avanti. «Vampa sorrise con aria di disprezzo alla cautela di questo bandito, passò avanti con Teresa, e continuò il suo cammino collo stesso passo fermo e tranquillo che lo aveva condotto fin là. Dopo cinque minuti, il bandito fece loro il segno di fermarsi. Essi obbedirono. Il bandito imitò tre volte il grido del corvo, un altro grido eguale rispose a questo triplice appello. — Ora tu puoi continuare la strada, disse il bandito. — Luigi e Teresa si rimisero in cammino: ma, a seconda che s’inoltravano, Teresa tremante si serrava sempre più contro il suo amante; infatto attraverso gli alberi si vedevano comparire degli uomini e scintillare delle canne di fucile. Lo spianato di Rocca-Bianca era sulla sommità di una piccola montagna, che altre volte doveva certamente essere stata un piccolo vulcano, vulcano estinto prima che Romolo e Remo disertassero da Alba per andare a fabbricar Roma. Teresa e Luigi giunsero alla sommità e nello stesso tempo si ritrovarono circondati da una ventina di banditi. «— Ecco un giovine che vi cerca, e che desidera parlarvi, disse la sentinella. — Che vuole egli da noi? chiese colui che in assenza del capo faceva le provvisorie funzioni di capitano. «— Voglio dirvi che mi sono annoiato di fare il mestiere del pastore, disse Vampa. «— Ah! capisco, disse il luogotenente, e tu vieni a domandarci di entrare nelle nostre file? — Che sia il benvenuto, gridarono molti banditi di Ferrusino, di Pampinara, e d’Anagni i quali avevano riconosciuto Luigi Vampa. «— Sì, ma io vengo ancora a chiedervi un’altra cosa, oltre di esser vostro compagno. — E che vieni tu a chiederci? dissero con meraviglia i banditi. — Io vengo a domandarvi di esser fatto vostro capitano, disse il giovine. — I banditi dettero in una gran risata. — E che hai tu fatto per aspirare a questo onore? domandò il luogotenente. — Io ho ammazzato il vostro capo Cucumetto, di cui porto le spoglie, disse Luigi, ed ho messo il fuoco alla villa di S. Felice per dare il corredo di nozze alla mia fidanzata. — Un’ora dopo, Luigi Vampa era stato eletto capitano nel posto di Cucumetto.» — Ebbene mio caro Alberto, disse Franz volgendosi all’amico, che pensate ora di questo cittadino Luigi Vampa? — Io dico che questo è un _Mythe_, rispose Alberto, e che non ha mai esistito. — E che significa questo _Mythe_, domandò Pastrini. — Sarebbe troppo lungo a spiegarsi, mio caro Pastrini, rispose Franz. E voi dite adunque che maestro Vampa esercita in questo momento la sua professione in queste vicinanze? — E con un tale ardire che nessun bandito ne ha mai dato esempio uguale. — E la polizia non cerca d’impadronirsene? — Che volete? egli è d’accordo ad un tempo coi pastori della pianura, coi pescatori del Tevere e i contrabbandieri della costa. Se si cerca nelle montagne è sul fiume; se si perseguita sul fiume, prende l’alto mare; poi d’improvviso quando si crede che sia rifugiato nell’isola del Giglio, di Gianuti, o di Monte-Cristo, si vede ricomparire in Albano, a Tivoli o alla Riccia. — E qual è il suo modo di operare verso i viaggiatori? — Eh! mio Dio! è semplicissimo; a seconda della distanza che si è dalla città, egli accorda loro otto ore, dodici ore, un giorno per pagare il loro riscatto; quando è passato il tempo accorda ancora un’ora di grazia. Al sessantesimo minuto di quest’ora se non ha il riscatto, fa saltare le cervella del prigioniero con un colpo di pistola, o gli pianta un pugnale nel cuore, e tutto è finito. — Ebbene! Alberto, domandò Franz al suo compagno, siete ancora disposto ad andare al Colosseo per la strada fuori delle mura? — Certamente, disse Alberto, se la strada è più pittoresca. In questo momento batterono le nove, la porta s’aprì, e il cocchiere comparve. — Eccellenza, diss’egli, la carrozza è alla porta. — Ebbene! disse Franz, andiamo al Colosseo. — Per la porta del Popolo, eccellenza, o per le strade interne? — Per le strade interne, per bacco! per le strade interne, gridò Franz. — Ah! mio caro, disse Alberto, alzandosi ed accendendo il suo terzo sigaro, in verità io vi credeva più coraggioso. Dopo queste parole i due giovani discesero le scale e salirono in carrozza. XXXIV. — LE APPARIZIONI. Franz aveva ritrovata una via di mezzo, perchè Alberto potesse giungere al Colosseo senza passare davanti ad alcuna rovina antica, e per conseguenza senza che alcuna preparazione graduata togliesse neppure un cubito alle gigantesche proporzioni del Colosseo. Questa fu di passare per la via Sabina, voltare ad angolo retto davanti a S. Maria Maggiore e giungere per la via Urbana e S. Pietro in Vincoli alla via del Colosseo. D’altra parte questo itinerario offriva ancora un altro vantaggio, quello di non distrarre con altre impressioni Franz da quella prodotta in lui dalla storia raccontata dal Pastrini, e nella quale vi si trovava mischiato il suo anfitrione di Monte-Cristo. Perciò erasi appoggiato col gomito nell’angolo, ed era ricaduto in quelle mille interrogazioni che infinite volte aveva di già fatte a sè stesso, e nelle quali mai era riuscito a darsi una risposta soddisfacente. Un’altra cosa avevagli ancora fatto risovvenire il suo amico Sindbad il marinaro, e questa era la relazione tra i banditi ed i marinari. Ciò che aveva detto Pastrini sul rifugio che Vampa ritrovava nelle barche dei pescatori e dei contrabbandieri, ricordava a Franz quei due banditi corsi ch’egli aveva ritrovato cenare insieme all’equipaggio del piccolo _yacht_, che deviando a bella posta dal suo cammino aveva approdato a Porto-Vecchio col solo scopo di metterli a terra. Il nome che il suo ospite davasi di conte di Monte-Cristo, pronunciato dall’albergatore della locanda di Londra, gli provava che colui sosteneva la stessa parte filantropica sulle coste di Piombino, di Civitavecchia, d’Ostia e di Gaeta, come su quelle di Corsica, di Toscana, di Spagna, non meno che su quelle di Tunisi e di Palermo. Era una prova che egli abbracciava un circolo di relazioni molto esteso. Ma per quanto queste riflessioni fossero presenti sullo spirito del giovine, esse svanirono quando cominciò a farsi scorgere davanti a sè il tetro e gigantesco spettro del Colosseo fra le aperture del quale la luna faceva passare quei lunghi e pallidi raggi, che sembra cadano dagli occhi dei fantasmi. La carrozza si fermò a qualche passo dalla Fontana denominata Meta Sudans. Il cocchiere aprì la portiera, i due giovani saltarono a terra, e si trovarono in faccia ad un cicerone che sembrava uscito di sotto terra. Quello dell’albergo pure li aveva seguiti, e così ne ebbero due. Del resto però è impossibile di potere evitare a Roma questo lusso di guide; oltre il cicerone generale che s’impadronisce di voi dal momento che mettete il piede sulla porta di un albergo o di una locanda, e che non vi abbandona che il giorno in cui mettete piede fuor della città, vi è pure un cicerone addetto a ciascun monumento; si giudichi dunque se si può restar privi di cicerone al Colosseo, vale a dire al monumento per eccellenza, che faceva dire a Marziale: «Che Memfi cessi di vantare i barbari miracoli delle sue piramidi, che cessino di essere vantate le meraviglie di Babilonia; tutto deve annichilirsi davanti l’opera immensa dell’anfiteatro dei Cesari, e tutte le voci della celebrità devono riunirsi per lodare questo monumento.» Franz ed Alberto non tentarono nemmeno di sottrarsi alla tirannide ciceroniana, molto più poi sarebbe stato difficile al Colosseo, perchè ivi le sole guide hanno il diritto di percorrere i diversi punti praticabili del monumento, colle torcie accese. Non fecero dunque alcuna resistenza, e si abbandonarono anima e corpo ai loro conduttori. Franz conosceva di già questa passeggiata per averla fatta dieci altre volte; ma siccome il suo compagno, più novizio, metteva per la prima volta il piede nell’anfiteatro di Flavio Vespasiano, debbo confessarlo a sua lode, non ostante il cicaleggiare ignorante delle guide, egli era commosso da vive impressioni. In fatto non è possibile, senza vederlo, formarsi un’idea della maestà di una simile rovina, le cui proporzioni sono eziandio tutte raddoppiate dalla misteriosa chiarezza di quella luna meridionale, i raggi della quale sembrano i crepuscoli d’occidente. Il pensatore Franz, appena fatti cento passi sotto i portici interni, lasciò Alberto alle guide, che non volevano rinunciare ai diritti loro particolari, la fossa dei Leoni, le stanze dei Gladiatori, il Palco dei Cesari, e salì per una scala mezzo rovinata, facendo loro continuare il metodico giro, si assise all’ombra di una colonna, dirimpetto ad una curva che gli permetteva di potere abbracciare collo sguardo il gigante di marmo in tutta la sua estensione. Franz era là da circa un quarto d’ora, nascosto dall’ombra della colonna, ed occupato a guardare Alberto che, accompagnato da coloro che gli portavano le torce, usciva in quel momento da un romitorio, posto all’altra estremità del Colosseo, simili ad ombre che seguano un fuoco fatuo; discendevano di scalino in scalino verso il luogo che era riservato alle vestali, allorchè gli sembrò udire il rumore di una pietra, che si staccasse e cadesse dalla scala ch’egli pure aveva ascesa per portarsi al luogo che occupava. Certo che non è cosa rara il sentir cadere una pietra che sotto i piedi del tempio si stacca e va a rotolare nell’abisso: ma questa volta gli sembrò fosse il piede di un uomo sotto il quale si staccava, e che il rumore dei passi giungesse fino a lui, sebbene chi li causava facesse tutto per renderli impercettibili. Di fatto, dopo un momento, comparve un uomo, uscendo gradatamente dall’ombra a seconda che saliva la scala, la cui apertura, posta dirimpetto a Franz era illuminata dalla luna, ma i gradini si perdevano nell’oscurità a seconda che si discendeva. Questi poteva essere un viaggiatore come lui, che preferiva una meditazione solitaria al ciarlare insignificante delle guide, e per conseguenza la sua comparsa nulla aveva di sorprendente: ma all’esitazione colla quale salì gli ultimi scalini, al modo con cui, giunto sul piano, si fermò e parve mettersi in ascolto, era evidente, essere egli venuto là con qualcuno. Per un movimento istintivo Franz si nascose quanto più potè dietro la colonna. A dieci passi dal luogo ove si trovavano entrambi, la volta era diroccata, e, da una apertura rotonda come quella di un pozzo, lasciava vedere il cielo tutto brillante di stelle. Attorno a questa che forse da qualche secolo dava passaggio ai raggi della luna, vegetavano dei cespugli il cui verde spiccava con vigore sul pallido azzurro del firmamento, mentre che grandi frasche, e mazzi di ellera pendevano da questa terrazza superiore, e ondulavano sotto la volta a guisa di corde fluttuanti. Il personaggio che aveva attirata l’attenzione di Franz era posto in una mezza ombra che non gli permetteva di distinguerne i tratti, ma che però non era abbastanza oscura per impedirgli di conoscerne i particolari del vestito. Egli era avvolto in un gran mantello scuro, un lembo del quale, gettato sulla spalla sinistra, gli copriva la parte inferiore del viso, mentre che un cappello a larghe tese copriva la parte superiore. L’estremità sola del vestito era illuminata dai raggi obbliqui della luna che passavano dall’apertura, e che permettevano di distinguere i calzoni neri, che elegantemente finivano sur un paio di stivali di pelle lucida. Quest’uomo apparteneva evidentemente se non alla aristocratica, almeno alla buona società. Erano già trascorsi alcuni minuti da che egli trovavasi là, e già cominciava a dare qualche segno d’impazienza, allorchè fecesi sentire un piccolo rumore nella terra soprapposta. Nel medesimo punto un’ombra intercettò la luce; un uomo apparve all’orlo dell’apertura, gettò uno sguardo penetrante nelle tenebre, e scoperse l’uomo dal mantello: tosto sorreggendosi ad un pugno di quelle frasche e di quei rami d’ellera ondulante, si lasciò scivolare, e, giunto a tre o quattro piedi dal suolo, saltò leggermente a terra. Questi era interamente vestito da Trasteverino. — Scusatemi eccellenza, se vi ho fatto aspettare, disse in dialetto romano; però non sono in ritardo che di pochi minuti; le dieci sono sonate or ora a S. Giovanni in Laterano. — Sono stato io che sono venuto prima, e non voi che avete ritardato, rispose lo straniero nel più puro toscano; non facciamo cerimonie, perchè quand’anche mi aveste fatto aspettare, sarei ben certo che non sarebbe stato per qualche motivo dipendente dalla vostra volontà. — Ed avete ragione, eccellenza, vengo da castel S. Angelo, ed ho avuto tutte le difficoltà possibili per poter parlare a Beppe. — Chi e questo Beppe? — Beppe è un impiegato delle prigioni al quale io passo una piccola rendita mensile per sapere ciò che succede in castello. — Ah! ah! vedo bene che siete un uomo pieno di cautele, mio caro. — Che volete, eccellenza, non si sa ciò che può accadere: forse io pure sarò un giorno o l’altro preso nella rete, come quel povero Peppino, ed avrò io pure bisogno di un sorcio per rodere qualche maglia della mia prigione. — Alle corte, che avete saputo? — Che martedì vi saranno due esecuzioni, a due ore, siccome è solito qui in certe ricorrenze particolari. Uno dei condannati sarà impiccato; è un miserabile che ha ucciso quella stessa persona che lo aveva allevato, e questi non merita alcun interessamento; l’altro sarà decapitato, e questi è il povero Peppino. — Che volete, mio caro, voi ispirate un terrore così grande non solo al governo pontificio, ma eziandio agli stati vicini, che assolutamente si vuol dare un esempio. — Ma Peppino non faceva neppur parte della mia banda; era un povero pastore che non ha commesso altro delitto, che quello di fornirci di viveri. — E ciò lo costituisce vostro complice in piena regola. Anzi vedete che gli si usano dei riguardi. Invece di appiccarlo come faranno a voi se mai vi metteranno le mani addosso, si contentano di ghigliottinarlo. E vedete bene che daranno due spettacoli differenti. — Senza contar quello che gli preparo io, e che non si aspettano, soggiunse il Trasteverino. — Mio caro, permettetemi di dirvi che mi sembrate del tutto disposto a fare qualche sciocchezza. — Sono disposto a far di tutto per impedire l’esecuzione di quel povero diavolo, che si trova nell’impaccio per avermi servito. Io mi terrei per un vile, se non facessi qualche cosa per questo bravo giovane. — E che farete? — Metterò una ventina di uomini intorno al patibolo, e quando vi verrà condotto, ad un segnale che darò io, ci slanceremo col pugnale alla mano sulla scorta, e lo porteremo via. — Questa è una cosa troppo eventuale, ed io ritengo che il mio disegno sia migliore del vostro. — E quale è il disegno di V. E.? — Io farei in modo di parlare ad uno che conosco pregandolo ad ottenere che la esecuzione si differisse a quest’altro anno: quindi nel corso dell’anno, tornerò a parlare con commovente eloquenza ad un altro tale che pure conosco, e lo farei evadere di prigione. — Siete voi sicuro della riuscita? — _Parbleu!_ disse in francese l’uomo dal mantello. — Che vuol dire? domandò il Trasteverino. — Vuol dire che io da solo farò più colle mie insinuanti espressioni che voi con tutta la vostra gente coi loro pugnali, le loro pistole, le loro carabine ed i loro tromboni. Lasciatemi dunque fare. — A meraviglia! ma ricordatevi bene che, se non ci riuscite, ci terremo sempre preparati. — Tenetevi sempre preparati, se così vi piace, ma siate certi che avrò la sua grazia. — Ricordatevi che martedì è dopo domani. Voi non avete più che il solo domani. — Sta bene, ma un giorno si compone di 24 ore, ciascun’ora di 60 minuti, ciascun minuto di 60 secondi, e in 86m, 400 secondi si fanno moltissime cose. — Come sapremo se V. E. è riuscita? — È semplicissimo: ho preso in fitto le tre ultime finestre del caffè Ruspoli, se ho ottenuta la grazia, le due finestre ai lati avranno un tappeto di damasco giallo, e quella di mezzo ne avrà uno di damasco bianco con una croce rossa. — Sta benissimo; e da chi farete presentar la grazia? — Inviatemi uno dei vostri uomini travestito da confratello, e la consegnerò a lui. Mediante questo travestimento, egli potrà giungere fino ai piedi del patibolo, e rimetterà il foglio al capo della confraternita che lo passerà al carnefice. Frattanto, fate sapere questa notizia a Peppino che egli non abbia a morire di paura o non abbia a divenir pazzo, che sarebbe lo stesso che farci fare un’opera buona inutilmente. — Ascoltate, eccellenza, disse il Trasteverino, io vi sono affezionato, ve ne siete convinto? — Lo spero almeno. — Ebbene, se voi salvate Peppino, la mia non sarà più affezione, ma per l’avvenire sarà cieca obbedienza. — Ebbene, fa attenzione a ciò che tu dici, mio caro, forse un giorno avrò a ricordarti questo discorso, forse un giorno io pure avrò bisogno di te... — Allora, eccellenza, mi troverete nel momento del bisogno, come io avrò trovato voi; allora, foste ancora all’altra estremità del mondo, non avreste che a scrivermi: «fate questo» ed io lo farei sulla fede di... — Zitto, disse lo sconosciuto, sento del romore. — Sono viaggiatori che visitano il Colosseo. — È inutile che ci trovino insieme. Queste spie di guide potrebbero riconoscervi, e per quanto sia onorevole la vostra relazione, pur nonostante se si sapesse che siamo uniti in amicizia, questo legame mi farebbe perdere non poco il mio credito. — E così, se voi avrete la grazia?... — La finestra del mezzo avrà il tappeto bianco con una croce rossa. — Se non la ottenete....? — Tutte e tre le finestre saranno addobbate coi tappeti gialli. — E allora?... — Allora, menate il pugnale a vostro piacere, vi prometto di essere là per vedervi fare. — Addio, eccellenza; io conto sopra di voi, e voi contate sopra di me. — A queste parole il Trasteverino disparve per la scala, mentre che lo sconosciuto, coprendosi più che mai il viso col mantello, passò a due passi da Franz, e discese nell’arena per la gradinata esterna. Un minuto dopo, Franz intese il suo nome ripetersi sotto le volte: era Alberto che lo chiamava; egli aspettò per rispondere, che i due interlocutori si fossero allontanati, non avendo gran volontà che si sapesse da loro esservi stato un testimonio, il quale, se non aveva veduto i loro volti, non aveva però perduto una parola della loro conversazione; dieci minuti dopo, Franz percorreva la strada per andare alla piazza di Spagna ascoltando con una distrazione molto impertinente la dotta dissertazione che Alberto faceva, dietro la testimonianza di Plinio e Calpurnio, sulle reti guarnite di punte di ferro che impedivano agli animali feroci di slanciarsi sugli spettatori. Egli lo lasciò discorrere senza contradirlo; aveva troppa fretta di trovarsi solo, per pensare senza distrazione a quanto era avvenuto vicino a lui. Di questi due uomini l’uno certamente era straniero, ed era la prima volta che lo vedeva e lo sentiva; ma non era così dell’altro, e quantunque Franz non ne avesse distinte le forme del viso, sempre nascoste nell’ombra o nel mantello, l’accento di questa voce lo aveva troppo colpito la prima volta che avevala intesa, perchè potesse mai più risuonare a lui vicino senza riconoscerla. Vi era particolarmente nelle intonazioni ironiche qualche cosa di stridulo e di metallico che lo aveva fatto rabbrividire fra le rovine del Colosseo, non meno che nella grotta di Monte-Cristo; per tal modo egli era ben convinto che questi non era se non che Sindbad il marinaro. In tutt’altra congiuntura, la curiosità che gli veniva inspirata da quest’uomo sarebbe stata sì grande, che egli sarebbesi fatto riconoscere; ma in questa occasione, la conversazione che aveva intesa era troppo intima per non essere trattenuto dal timore che una sua comparsa non sarebbe stata troppo gradita; egli avevalo adunque lasciato allontanare, come si è veduto, ma ripromettevasi, se lo avesse incontrato un’altra volta, di non lasciarsi sfuggire una seconda occasione come aveva fatto per la prima. Franz era troppo preoccupato per potere dormire bene. La notte fu da lui impiegata a passare e ripassare nello spirito tutte le più minute particolarità che avevano relazione all’uomo della grotta, e allo sconosciuto del Colosseo, e che tendevano a formare uno stesso individuo di questi due personaggi; e più Franz ci pensava, più si convinceva della sua opinione. Egli si addormì sul far del giorno, per il che svegliossi molto tardi. Alberto, da vero parigino, aveva già prese le sue mire per la serata. Egli aveva mandato a cercare un palco al teatro Argentina. Franz aveva molte lettere da scrivere in Francia, e abbandonò la carrozza ad Alberto per tutta la giornata. Alle cinque questi ritornò; aveva già portate le lettere di raccomandazione, ricevuto inviti per tutte le conversazioni serali, e veduto Roma. Un giorno era bastato ad Alberto per far tutto questo, ed aveva ancora avuto il tempo d’informarsi dell’opera che si cantava, e degli attori che la eseguivano. L’opera portava per titolo la _Parisina_; gli attori erano Coselli, Moriani, e la Spech. I nostri due giovani non erano disgraziati, come si vede: essi avrebbero intesa la musica di una delle migliori opere dell’Autore della _Lucia di Lammermoor_, cantata da tre artisti più rinomati d’Italia. Alberto non avea mai potuto abituarsi ai teatri oltramontani, nell’orchestra dei quali non è permesso d’andare e che non hanno nè palchi, nè logge scoperte; ciò era penoso per un uomo che avea il suo posto agl’_Italiani_, e nella loggia infernale all’Opera. Ciò però non gl’impediva di vestirsi con acconciature tutte le volte che andava al teatro con Franz, tolette perdute, perchè, bisogna confessarlo a vergogna di uno dei rappresentanti più degni del nostro bonton, in quattro mesi che viaggiava l’Italia in tutti i sensi, non aveva avuta ancora alcuna avventura. Alberto qualche volta cercava di scherzare su questo argomento; ma nel fondo del cuore era grandemente mortificato, egli, Alberto Morcerf, uno dei giovani più scapati non aveva ancora fatta alcuna conquista. La cosa era ancor tanto più penosa, che, secondo l’abitudine modesta dei nostri cari compatriotti, Alberto era partito da Parigi con la ferina convinzione di avere in Italia il più felice successo, e di ritornare a formar la delizia del Baluardo di Gand col racconto delle sue buone avventure. Ahimè! non ne aveva avuta alcuna: le graziose contesse Genovesi, Fiorentine, e Napoletane si erano conservate pei loro mariti, pei loro amanti, ed Alberto aveva acquistata la crudele convinzione, che le Italiane sanno essere almeno fedeli: non voglio però dire che in Italia, come in ogni altro luogo, non vi sieno le loro eccezioni. Eppure Alberto non era solo un cavaliere molto elegante, ma aveva ancor dello spirito; più, era visconte, visconte di nobiltà recente, ciò è vero; ma oggi che non si fanno più le prove, che importa, che la propria nobiltà porti la data del 1399, o del 1815? Oltre a tutto ciò egli avea 50 mila lire di rendita; e questo è molto più di quanto bisogna, come si vede, per essere un giovine alla moda in Parigi. Era dunque un poco umiliante il non essere stato ancora seriamente osservato da alcuna signora nelle città in cui aveva soggiornato. Ma egli avea stabilito di rivendicarsi nel carnevale, essendo questo un tempo di libertà in tutti i paesi della terra in cui è introdotta questa istituzione, e nella quale anche i più stoici cadono in qualche follia. Ora, siccome il carnevale si apriva la dimane, era necessario che Alberto facesse conoscere il suo programma prima di quest’apertura. Alberto adunque, con questa idea, aveva preso in fitto uno dei palchi più esposti al teatro, e prima di portarvisi fece una toletta irreprensibile. Era al primo ordine, che tien luogo della galleria in Francia, del resto però le tre prime file di palchi sono egualmente ed indistintamente aristocratiche, e per questo si chiamano gli ordini nobili. Questo palco nel quale si poteva stare in dodici senza pigiarsi, era costato molto meno che non sarebbero costati quattro posti in una loggia all’Ambigu. Alberto aveva ancora un’altra speranza, ed era, che se giungeva a prendere un posto nel cuore di qualche bella romana, ciò lo avrebbe naturalmente condotto puranche a conquistare un posto nella carrozza, e per conseguenza a vedere il corso dall’alto di una carrozza aristocratica, e da una finestra principesca. Tutte queste considerazioni lo rendevano dunque di una estrema mobilità. Egli volgeva le spalle agli attori, sporgeva per metà fuori del palco, guardando tutte le più belle donne con un cannocchiale lungo sei pollici, cosa che non invitava alcuna signora a ricompensare di un solo sguardo, anche di semplice curiosità, tutti i movimenti che si dava Alberto. Di fatto ciascuna parlava dei suoi affari, dei suoi piaceri, del carnevale che cominciava la dimane, senza fare attenzione nè agli attori, nè alla musica, ad eccezione dei migliori motivi, chè allora ciascuno si volgeva verso il palco scenico, sia per sentire un recitativo di Coselli, sia per applaudire a qualche bella nota del Moriani, sia per gridare bravo alla Spech. Indi le particolari conversazioni riprendevano il loro corso abituale. Verso la fine del secondo atto si aprì la porta di un palco rimasto vuoto fino allora, e Franz vide entrarvi una persona alla quale egli aveva avuto l’onore di essere stato presentato a Parigi e che credeva ancora in Francia. Alberto vide il movimento che fece il suo amico a questa comparsa, e volgendosi a lui: — Conoscete forse quella signora? diss’egli. — Sì, che ve ne pare? — Graziosa, mio caro, e bionda. Oh! che capelli adorabili! È una francese? Come si chiama? — La Contessa G***. — Oh! io la conosco di nome, esclamò Alberto; dicono che sia tanto spiritosa quanto è bella. Per bacco! avrei potuto farmi presentare a lei a Parigi all’ultimo ballo della de Villefort, ov’era, e non la ho curata, sono un gran stupido! — Volete che io ripari a questo torto? domandò Franz. — Come! voi la conoscete con abbastanza intimità per presentarmi nel suo palco? — Io non ho avuto l’onore che di parlarle tre o quattro volte in mia vita, ma a tutto rigore ciò basta per non commettere una inconvenienza. In questo momento la contessa riconobbe Franz, e colla mano gli fece un saluto grazioso, al quale egli rispose con un rispettoso inchino di testa. — Ma mi sembra che siate molto nelle sue grazie? disse Alberto. — Ebbene! ecco ciò che v’inganna, e che a noi francesi farà fare sempre mille sciocchezze all’estero; ed è di sottomettere tutto ai nostri punti di vista parigini. Nella Spagna, e soprattutto in Italia, non giudicate mai della intimità delle persone sulla libertà dei rapporti. Noi ci siamo trovati simpatici colla contessa, ed ecco tutto. — Simpatici di cuore? domandò ridendo Alberto. — No, di spirito; rispose seriamente Franz. — Ed in quale occasione? — Nell’occasione di una passeggiata al Colosseo, come quella che abbiamo fatto insieme. — Al chiaro di luna? — Sì. — Soli? — Quasi. — Ed avete parlato... — Di morti. — Ah! doveva essere una cosa assai piacevole. Ebbene vi prometto che se avrò la fortuna d’essere il cavaliere della bella contessa in una simile passeggiata, non le parlerò che di vivi. — E forse farete male. — Frattanto, presentatemi alla contessa come mi avete promesso. — Subito che sarà calato il sipario. — Quanto è lungo questo diavolo di primo atto! — Ascoltate il finale, è bellissimo, e Coselli lo canta mirabilmente. — Sì, ma che portamento! — Non si può però essere più drammatici della Spech. — Quando si è intesa la Sontag e la Malibran... — Non trovate eccellente il metodo di Moriani? — A me non piacciono i bruni che cantano biondo. — Ah! mio caro, disse Franz volgendosi, mentre Alberto continuava a puntare col suo cannocchiale, in verità siete molto difficile a contentarvi. Finalmente calò il sipario con grande soddisfazione del visconte di Morcerf, che prese il cappello, dette colla mano un’assestata ai capelli, alla cravatta, ai manichetti, e fe’ osservare a Franz ch’egli aspettava. E siccome la contessa, che Franz interrogava con lo sguardo, avevagli fatto un segno impercettibile cogli occhi, per fargli conoscere che sarebbe stato il ben venuto, così non tardò a soddisfare la premura di Alberto, e mentre faceva il giro del corridoio, il compagno che lo seguiva approfittava di questi momenti per accomodare le false pieghe, che i movimenti del collo avevano potuto produrre sul colletto della camicia, e sui rovesci dell’abito; in questo batterono alla porta del N. 4 che era il palco occupato dalla contessa. Prestamente il giovine che sedeva a lato della contessa sul davanti del palco, si alzò cedendo il posto, giusta il costume italiano, al nuovo arrivato, che deve poi cederlo a sua volta quando entra un’altra visita. Franz presentò Alberto alla contessa come uno dei giovani parigini più distinti per la sua posizione sociale, e pel suo spirito, cosa d’altra parte vera, perchè a Parigi e nel circolo in cui viveva Alberto era ritenuto per un cavaliere irreprensibile. Egli aggiunse che afflitto di non aver potuto approfittare del soggiorno della contessa a Parigi per farsi presentare a lei, lo aveva incaricato di riparare a questo errore, missione della quale si disimpegnava pregando la contessa, presso la quale aveva bisogno egli stesso di un introduttore, di perdonare la sua indiscretezza. La contessa rispose facendo un grazioso saluto ad Alberto e stendendo la mano a Franz. Invitato da lei, Alberto prese il posto rimasto vuoto sul davanti, e Franz si assise nella seconda fila presso la contessa. Alberto aveva ritrovato un eccellente argomento di conversazione, era Parigi; parlava alla contessa delle loro comuni conoscenze. Franz capì ch’egli era sul terreno che gli conveniva, lasciollo andare, e chiestogli il gigantesco cannocchiale, si mise anch’egli ad esplorare il teatro. Sola, sul davanti di un palco al terz’ordine, in faccia ad essi, era una donna quanto può dirsi bella, con un costume alla greca, portato con tanta disinvoltura, che compariva evidente essere quello il suo costume ordinario. Dietro ad essa, nell’ombra delineavasi la forma di un uomo di cui era impossibile distinguere il viso. Franz interruppe la conversazione di Alberto colla contessa per chiedere a quest’ultima se conosceva la bella Albanese che tanto era degna di attirare l’attenzione non solo degli uomini, ma ben anche delle donne. — No, diss’ella, tutto ciò che io so, si è che trovasi a Roma dal principio della stagione: perchè all’apertura del teatro l’ho veduta ove è ora, e da un mese non è mancata ad una rappresentazione, ora accompagnata dall’uomo che è con lei in questo momento, ora semplicemente seguita da un domestico moro. — Come la trovate contessa? — Estremamente bella. Medora doveva rassomigliare a questa donna. Franz e la contessa si contraccambiarono un sorriso; poi questa riprese il dialogo con Alberto, e Franz, seguitò a fissare la bella Albanese. Il sipario si alzò per la rappresentazione del ballo. Era uno dei buoni balli italiani, messo in iscena dal famoso Henry, che come coreografo, si è fatta in Italia una riputazione colossale, che poi il disgraziato perdè al Teatro Nautico, uno di quei balli ove dal primo personaggio fino all’ultima comparsa tutti prendono una parte così attiva all’azione, che 150 persone fanno nello stesso tempo lo stesso gesto, ed alzano insieme o il medesimo braccio, o la medesima gamba. Questo ballo era intitolato Dorliska. Franz era troppo preoccupato della sua bella greca per potersi occupare del ballo. Quanto a lei, prendeva un manifesto piacere a questo spettacolo, piacere che formava una singolare opposizione colla non curanza di quello che l’accompagnava, e che durante tutta la rappresentazione coreografica non fece un movimento, sembrando che in mezzo al rumore infernale che facevano le trombe, i cembali, e i cappelli chinesi in orchestra, egli si godesse le celestiali dolcezze di un sonno pacifico. Finalmente il ballo terminò, ed il sipario calò in mezzo agli applausi frenetici di una platea entusiasta. Mercè quest’abitudine di separare col ballo i due atti dell’opera, gli intermezzi fra un atto e l’altro sono cortissimi in Italia: i cantanti hanno tutto il tempo di riposarsi e di fare i loro travestimenti mentre che i ballerini eseguiscono le loro danze. L’introduzione del second’atto cominciò. Franz vide che, ai primi colpi d’archetto, il dormiente andava alzandosi lentamente, e si avvicinava alla greca, che si volse per dirigerli qualche parola, quindi tornò ad appoggiarsi al davanti del palco. La figura però dell’interlocutore si teneva sempre fra l’ombra, e Franz non poteva distinguerne i tratti del volto. Rialzato il sipario, gli attori attirarono necessariamente l’attenzione di Franz: gli occhi lasciarono per un momento il palco della bella greca per dirigersi alla scena. Il secondo atto, come ognuno sa, comincia col duetto del sogno: Parisina, dormendo, lasciasi sfuggire, davanti ad Azzo, il segreto del suo amore per Ugo. Lo sposo tradito passa per tutti i furori della gelosia, fino a che, convinto che la moglie è infedele, la sveglia per annunziarle la sua vicina vendetta. Questo duetto è uno dei più belli, dei più espressivi, dei più terribili usciti dalla penna di Donizetti. Franz lo sentiva per la terza volta, e quantunque non passasse per un melomaniaco arrabbiato, produsse su lui un effetto profondo. Egli per conseguenza stava per congiungere i suoi applausi a quelli del pubblico, allorchè le sue mani, atteggiate a percuotersi, restarono allontanate; ed i bravi che gli sfuggivano di bocca, si estinsero sulle labbra. L’uomo del palco si era alzato in piedi e la sua testa veniva rischiarata dalla luce: Franz riconosceva in lui il misterioso abitante di Monte-Cristo, quello che la sera innanzi gli era sembrato di aver riconosciuto fra le rovine del Colosseo alla voce ed alla persona. Non v’era più dubbio, lo strano viaggiatore abitava in Roma. Senza fallo la fisonomia di Franz era in armonia al turbamento che gettava nel suo spirito quest’apparizione, poichè la contessa lo guardò, scoppiò in una risata, e gli chiese ciò che avesse. — Signora contessa, rispose Franz, poco fa vi ho domandato se conoscevate quella donna albanese; ora vi domanderò se conoscete suo marito. — Niente più di lei, rispose la contessa. — L’avete mai osservato? — Ecco una domanda alla francese! Sapete bene che per noi italiane non vi ha alcun altro uomo al mondo se non che quello che amiamo! — È giusto, rispose Franz. — In ogni modo, diss’ella applicando ai suoi occhi il cannocchiale di Alberto, e dirigendolo verso il palco, egli dev’essere un qualche disotterrato, qualche morto uscito dalla tomba col permesso dei becchini, poichè mi sembra spaventosamente pallido. — Egli è sempre così, rispose Franz. — Voi dunque lo conoscete? domandò la contessa; allora sono io che vi domando chi è. — Credo di averlo veduto altre volte, e mi sembra di riconoscerlo. — Infatto, diss’ella, facendo un movimento colle sue belle spalle, come se un brivido le percorresse le vene, capisco che quando un tal uomo si è veduto una volta non si dimentica più. L’effetto che Franz aveva provato non era dunque un’impressione particolare, perchè un altro l’aveva risentita al pari di lui. — Ebbene! domandò allora alla contessa dopo che l’ebbe guardato una seconda volta, che pensate di quell’uomo? — A me sembra che sia lord Ruthwen in carne ed ossa. — Infatto questo nuovo ricordo di Lord Byron colpì Franz: se qualcuno poteva fargli credere l’esistenza dei Vampiri, era quest’uomo. — Bisogna che io sappia chi è, disse Franz alzandosi. — Oh! no, gridò la contessa; no, non mi lasciate, ho calcolato su voi per accompagnarmi a casa, ed or vi trattengo. — Come! veramente, gli disse Franz, accostandosele all’orecchio, avete paura. — Ascoltate, gli diss’ella, Byron mi ha giurato che credeva ai Vampiri, mi ha assicurato di averne veduti, e me ne ha descritto i loro visi; ebbene! assomigliano perfettamente a quell’uomo là, con i capelli neri, grandi occhi brillanti di una strana fiamma, quel pallone mortale; poi aggiungete che non è con una donna come tutte le altre; è con una straniera... una greca... una scismatica... senza dubbio con una maga al par di lui... ve ne prego, non partite. Domani vi metterete sulle ricerche, se così vi aggrada, ma questa sera io vi dichiaro che vi ritengo impegnato. — Franz insistè. — Ascoltate, diss’ella, alzandosi, io me ne vado; non posso fermarmi sino alla fine dello spettacolo, perchè ho gente in casa che mi aspetta; sareste così poco galante da negarmi la vostra compagnia? — Franz non aveva altra risposta a dare che prendere il cappello, aprire la porta, e presentare il braccio alla contessa. E questo fece. La contessa era veramente molto commossa: lo stesso Franz non poteva sfuggire ad un certo terrore superstizioso, tanto più naturale in quanto che nella contessa era il prodotto di una sensazione distinta, ed in lui il resultato di strani ricordi. Nel salire in carrozza sentì che la contessa tremava. Egli la ricondusse fino a casa: non era vero che era attesa; gliene fece perciò dei rimproveri. — In verità, diss’ella, io non mi sento bene ed ho bisogno di esser sola, la vista di quell’uomo mi ha tutta sconvolta. Franz fece atto di ridere. — Non ridete, gli diss’ella, da altra parte voi non ne avete la volontà. Promettetemi una cosa. — E quale? — Promettetemela. — Tutto quel che vorrete, eccetto di rinunziare a scoprire chi è quell’uomo. Ho dei motivi che non posso dirvi per desiderare di sapere chi sia, donde venga, e dove vada. — Donde venga, nol so, ma dove vada, vel posso dire a colpo sicuro; va all’inferno. — Ritorniamo alla promessa che volevate esigere da me. — Ah! trattasi di tornare direttamente all’albergo e procurare di non veder questa sera quell’uomo. Vi è una certa affinità fra le persone che si lasciano e quelle che si raggiungono; non vogliate servire di conduttore fra quest’uomo e me. Domani corretegli dietro come più vi aggrada, ma non me lo presentate mai, se non volete vedermi morire di paura. Dopo ciò buona sera, cercate di dormir bene, quanto a me sento che non dormirò — A queste parole la contessa si allontanò da Franz, lasciandolo irresoluto per sapere se erasi divertita alle sue spalle, o se aveva veramente risentita la paura espressa. Ritornando all’albergo, Franz ritrovò Alberto in veste da camera, con larghi calzoni, e voluttuosamente disteso sopra una poltrona fumando un sigaro. — Ah! siete voi! diss’egli; in fede mia non vi aspettavo che domattina. — Mio caro Alberto, rispose Franz, son ben persuaso di trovar l’occasione di dirvi una volta per sempre che avete la più falsa idea delle donne italiane; sembrami pertanto che le vostre sconfitte amorose avrebbero dovuto farvela perdere. — Che volete, non c’è niente da capire con queste diavole di donne; esse vi danno la mano, ve la stringono, vi parlano a bassa voce all’orecchio, si fanno riaccompagnare a casa: con un quarto di questo modo di fare una parigina perderebbe la sua riputazione. — Eh! questo accade precisamente perchè esse nulla hanno a nascondere, perchè vivono in pieno giorno, che le donne usano tanto pochi riguardi nel bel paese là ove il _sì_ suona come dice Dante. D’altra parte vedeste bene che la contessa ha avuto veramente paura. — Paura! di che? di quell’onest’uomo che era in faccia a noi con quella bella greca? Ma io ho voluto vederci chiaro quando sono usciti, e sono loro andato incontro nel corridoio. Non so dove diavolo avete prese tutte le vostre idee dell’altro mondo! è un bellissimo giovine messo molto elegantemente, e gli abiti hanno l’aspetto d’esser fatti in Francia da Blin o da Humann. È un poco pallido, è vero, ma voi sapete che il pallore è un marchio di distinzione. Franz sorrise, perchè Alberto aveva molta pretensione di esser pallido. — Io pure, disse Franz, sono convinto che le idee della contessa su quest’uomo non hanno senso comune. Ha egli parlato vicino a voi ed avete intesa qualcuna delle sue parole? — Egli ha parlato, ma in dialetto; ho riconosciuto l’idioma a qualche parola greca sfigurata. Bisogna che sappiate, mio caro, che in collegio io era molto valente nel greco. — Parlava adunque un dialetto greco? — È probabile. — Non vi ha dubbio, mormorò Franz, è lui. — Che dite?... — Niente... ma che facevate voi là? — Io vi preparava una sorpresa. — Quale? — Sapete che è impossibile di ritrovare una carrozza? — Perbacco! dopochè abbiamo tentato tutto ciò che era umanamente possibile di fare. — Ebbene! io ho un’idea meravigliosa. Franz guardò Alberto, come un uomo che non avesse gran fiducia nella sua immaginazione. — Mio caro, disse Alberto, voi mi onorate di uno sguardo tale, che meriterebbe che vi domandassi una soddisfazione. — Io sono disposto a darvela, amico mio, se la vostra idea è tanto ingegnosa quanto dite. — Ascoltate. — Ascolto. — Non v’è mezzo di procurarsi una carrozza? — No. — Neppur cavalli? — No, egualmente. — Ma sarà facile procurarsi un carretto? — Forse. — E un paio di bovi? — È probabile. — Ebbene! mio caro, ecco ciò che ci conviene. Io faccio ornare il carretto, ci mascheriamo da mietitori napoletani, e rappresentiamo al naturale il magnifico quadro di Leopoldo Robert. Se per una maggiore rassomiglianza la contessa volesse vestirsi alla foggia delle donne di Pozzuoli o di Sorrento, compirebbe la mascherata, ed ella è tanto bella che verrebbe presa per l’originale del quadro. — Perbacco! gridò Franz, questa volta avete ragione, ecco un’idea veramente felice. — E tutta nazionale, rinnovata dai re dei poltroni, mio caro. Ah! signori romani voi credete che si voglia andare a piedi come lazzaroni, e ciò perchè avete penuria di carrozze e di cavalli, ebbene! ne inventeremo. — E avete voi già partecipato a qualcuno questa trionfante invenzione? — Al nostro albergatore. Quando sono ritornato, l’ho fatto salire, e gli ho esposti i miei desideri; egli mi ha assicurato che non vi è nulla di più facile. Io voleva far dorare le corna dei bovi, ma egli mi ha detto che ciò richiederebbe almeno tre giorni: bisognerà dunque che passiamo sopra a questa superfluità. — E dove è egli? — Chi? — Il nostro albergatore. — In cerca del necessario, domani forse sarebbe tardi. — Di maniera che ci darà la risposta questa stessa sera? — Io l’aspetto. — A queste parole la porta si aprì, e Pastrini avanzò la testa: — È permesso? diss’egli. — Certamente, gridò Franz. — Ebbene! disse Alberto, avete rinvenuto il carretto ricercato ed i bovi domandati? — Ho ritrovato anche meglio di ciò, rispose egli con un’aria indicante essere perfettamente soddisfatto di sè stesso. — Ah! mio caro Pastrini, guardatevi, disse Alberto; il meglio è nemico del bene. — Le V. E. si fidino di me, disse Pastrini col tuono di persona sicura di sè. — Ma finalmente che c’è? domandò Franz a sua volta. — Sapete, disse l’albergatore, che il conte di Monte-Cristo abita su questo medesimo piano. — Credo bene, che lo sappiamo, disse Alberto, poichè è per lui che noi siamo alloggiati come due studenti della strada Saint-Nicolas-du-Chardonnet. — Ebbene! egli sa il vostro impaccio, e vi offre col mio mezzo due posti nella sua carrozza, e due posti alle sue finestre del palazzo Ruspoli. Alberto e Franz si guardarono. — Ma, domandò Alberto, dobbiamo accettare l’offerta di questo straniero? di un uomo che non conosciamo? — Che uomo è questo conte di Monte-Cristo? domandò Franz all’albergatore. — Un ricchissimo signore siciliano o maltese, non lo so precisamente, ma nobile come un Borghesi, e ricco come una miniera d’oro. — Mi sembra, disse Franz, che se questo signore avesse avuto le maniere che decanta il nostro albergatore, avrebbe dovuto farci giungere il suo invito in altro modo, o con un biglietto, o... In questo momento fu battuto alla porta. — Entrate, disse Franz. Un domestico in elegante livrea comparve sulla soglia della camera: — Vengo per parte del conte di Monte-Cristo a recare questo biglietto pel sig. Franz di Épinay e pel sig. visconte Alberto di Morcerf, diss’egli. E consegnò all’albergatore il biglietto che questi passò ai giovani. — Il sig. conte di Monte-Cristo, continuò il domestico, domanda a questi signori il permesso di potersi presentare a loro, come vicino, domattina; egli avrà l’onore d’informarsi in che ora saranno visibili. — In fede mia, disse Alberto a Franz, non vi è niente a ridire; qui c’è tutto. — Dite al conte, rispose Franz, che sarà nostro l’onore di fargli la visita. — Il domestico si ritirò. — Ecco ciò che si chiama fare un assalto di eleganza, disse Alberto, andiamo avanti! davvero avete ragione, Pastrini, il vostro conte di Monte-Cristo è un uomo che conosce perfettamente le convenienze. — Allora voi accettate la sua offerta, disse Pastrini. — In fede mia, sì, rispose Alberto. Pure ve lo confesso, mi dispiace pel nostro carretto da mietitori; e se non vi fosse stata la finestra del palazzo Ruspoli per compensare ciò che perdiamo, credo che ritornerei al mio primo disegno: che ne dite Franz? — Dico che sono precisamente le finestre del palazzo Ruspoli che mi hanno fatto risolvere ad accettare, rispose Franz. Infatto quest’offerta dei due posti ad una finestra del palazzo Ruspoli aveva ricordato a Franz la conversazione intesa alle rovine del Colosseo, fra lo sconosciuto ed il Trasteverino, conversazione nella quale l’uomo dal mantello scuro si era impegnato di ottenere la grazia del condannato. Or se questi era, come tutto lo faceva credere a Franz, il medesimo che gli era apparso al teatro Argentina, egli lo riconoscerebbe senza dubbio, ed allora non avrebbe più alcun ostacolo a soddisfare la sua curiosità sul conto di lui. Franz passò buona parte della notte nel pensare alle due apparizioni, e nel desiderare la dimane. Infatto, la dimane tutto doveva schiarirsi, e a meno che il suo ospite di Monte-Cristo non possedesse l’anello di Gyges, e mercè questo la facoltà di rendersi invisibile, era evidente che questa volta non gli sfuggirebbe. Si svegliò prima delle otto. In quanto ad Alberto, siccome non aveva gli stessi motivi di Franz per essere mattinante, dormiva ancora tranquillamente. Franz fece chiamare l’albergatore, che si presentò coi soliti ossequi. — Pastrini, gli disse egli, non vi deve essere oggi una esecuzione? — Sì: eccellenza; ma se lo domandate per avere una finestra è troppo tardi. — No, rispose Franz, d’altra parte se volessi assolutamente vedere questo spettacolo, credo che ritroverei un posto sul monte Pincio. — Oh! io presumeva che V. E. non volesse mettersi con tutta quella canaglia di cui il Pincio è in qualche modo l’anfiteatro naturale. — È probabile che non vi andrò, disse Franz; ma desidererei qualche particolarità. — Quale? — Vorrei sapere il numero dei condannati, i loro nomi, e il genere del loro supplizio. — Non poteva cadere più in acconcio, eccellenza; precisamente in questo momento mi hanno portato le tavolette. — Che cosa sono queste tavolette? — Le tavolette sono quadretti di legno che vengono attaccati agli angoli delle contrade il dì prima dell’esecuzione e sulle quali sono inscritti i nomi dei condannati, la causa della loro condanna ed il genere di supplizio. Questo avviso ha per iscopo d’invitare i fedeli a pregar Dio di concedere ai colpevoli un sincero pentimento. — E ve le portano perchè uniate le vostre preghiere a quelle dei fedeli? domandò Franz. — No, eccellenza, io me la sono intesa con quello che le attacca, e me ne porta una copia, come un altro mi porterebbe un avviso dello spettacolo, affinchè se qualcuno dei miei forestieri desidera assistere all’esecuzione, sia prevenuto. — Ma questa è proprio un’attenzione delicata! — Oh! disse Pastrini, non faccio per vantarmi, ma cerco di fare tutto il possibile per soddisfare i nobili avventori che mi onorano della loro confidenza. — Me ne avveggo, e lo ripeterò a chi vorrà intenderlo, siatene pur sicuro. Frattanto desidererei una di queste tavolette. — È presto fatto, disse l’albergatore, aprendo la porta, ne ho fatto mettere una qui sul pianerottolo. Uscì, staccò la tavoletta e la presentò a Franz. Ecco le parole dell’affisso patibolario. «Si rende noto a tutti che martedì 22 febbraio, primo giorno di carnevale, saranno per decreto del Tribunale della Rota, giustiziati sulla piazza del popolo i nominati Andrea Rondolo, reo di assassinio sulla persona di un rispettabilissimo cittadino di Roma; ed il nominato Peppino detto _Rocca Priori_, convinto di complicità col detestabile bandito Luigi Vampa, e gli uomini della sua banda. Il primo sarà impiccato, ed il secondo decapitato. Le anime caritatevoli sono pregate di domandare a Dio un sincero pentimento per questi due infelici condannati.» Questo era ciò che Franz aveva inteso fra le rovine del Colosseo, e non era stata cambiata alcuna cosa al programma: i nomi dei condannati, la causa del supplizio e il genere di esecuzione erano esattamente gli stessi. Così, secondo ogni probabilità, il Trasteverino non era altro che il bandito Luigi Vampa, e l’uomo dal mantello scuro Sindbad il marinaro, che a Roma come a Portovecchio e a Tunisi proseguiva il corso delle sue filantropiche spedizioni. Frattanto il tempo passava, erano le nove, e Franz si disponeva di andare a svegliare Alberto, allorquando con sua grande sorpresa lo vide uscir di camera vestito di tutto punto. — Ebbene! disse Franz all’albergatore, ora che siamo all’ordine tutti e due, credete che potremmo presentarci al conte di Monte-Cristo? — Certamente; egli ha l’abitudine di alzarsi di buon mattino, e sono sicuro che è alzato da più di due ore. — E credete che non sarà un’indiscretezza il fargli visita a quest’ora? — No, certamente. — In questo caso, Alberto se siete pronto... — Perfettamente pronto. — Andiamo a ringraziare il nostro vicino della sua cortesia. — Andiamo. Franz e Alberto non avevano che il pianerottolo da attraversare. L’albergatore li precedeva, e suonò in loro vece; un domestico venne ad aprire. — I signori Francesi, disse l’albergatore. Il domestico s’inchinò e fece loro segno di entrare. Essi traversarono due camere ammobigliate con un lusso che non credevano ritrovare nell’albergo di Pastrini, e furono introdotti in un salotto di una perfetta eleganza. Un tappeto di Turchia era steso sul pavimento, e i mobili più comodi offrivano i loro cuscini imbottiti e presentavano gli schienali inclinati in addietro. Magnifici quadri di pennello maestro, frammezzati da trofei di splendidissime armi, erano appesi alle pareti, e ricche portiere di trapunto pendevano davanti a tutte le aperture. — Se le loro eccellenze vogliono sedersi, disse il domestico, io vado ad avvisare il signor conte. E disparve da una porta. Al momento in cui questa si aprì, il suono di una _guzla_ giunse fino ai due amici, ma si estinse subito; la porta, richiusa quasi nello stesso momento che fu aperta, non aveva lasciato passare nel salone che, per così dire, una buffata d’armonia. Franz ed Alberto si cambiarono uno sguardo, e tornarono a volgere la loro attenzione sui mobili, sui quadri e sulle armi. A questa seconda ispezione tutto sembrò loro ancor più magnifico che alla prima. — Ebbene! domandò Franz al suo amico, che ne dite? — In fede mia, mio caro, dico che bisogna che il nostro vicino sia un qualche agente di cambio che ha giuocato sui ribassi dei fondi spagnuoli, o qualche principe che viaggia in incognito. — Zitto, gli disse Franz, questo è ciò che sapremo in breve, poichè eccolo. Infatto il rumore di una porta che girava sui cardini si fe’ sentire ai visitatori, e quasi subito fu alzata una portiera che lasciò passare il proprietario di tutte queste ricchezze. Alberto gli andò incontro, ma Franz rimase al suo posto. Quegli che entrava era infatto l’uomo dal mantello scuro del Colosseo, lo sconosciuto del palco, l’ospite misterioso di Monte-Cristo. XXXV. — IL PATIBOLO. — Signori, disse entrando il Conte di Monte-Cristo, abbiate le mie scuse per essermi lasciato prevenire; ma avrei avuto timore di essere indiscreto venendo più presto da voi. D’altra parte mi avevate fatto dire che sareste venuti, ed io mi sono trattenuto a vostra disposizione. — Franz ed io dobbiamo farvi mille ringraziamenti, sig. conte, disse Alberto; voi ci avete tolti da un grande impaccio, e noi stavamo per inventare un qualche veicolo fantastico al momento che ci mandaste il vostro grazioso invito. — Eh! mio Dio! signori, rispose il conte facendo segno cogli occhi a’ due giovani di sedersi sopra un divano, la colpa è di questo imbecille di Pastrini che non mi ha detto prima il vostro impaccio, e vi ha lasciati per così lungo tempo nell’incertezza; solo e isolato come sono qui, non cercava che un’occasione di far conoscenza coi miei vicini. Cosicchè tosto che seppi poter esservi utile a qualche cosa, avete veduto con qual fretta ho afferrata l’occasione di prestarvi i miei servigi. I due giovani s’inchinarono. Franz non aveva ancora trovata una sola parola da dire, egli non aveva ancora presa alcuna risoluzione, e poichè il conte sembrava non avesse volontà di riconoscerlo, o alcun desiderio di essere riconosciuto da lui, non sapeva se doveva fare allusione al passato con qualche parola qualunque, o lasciare il tempo all’avvenire per portargli nuove pruove. Del resto essendo sicuro che era lo stesso di quello della sera innanzi nel palco, non poteva egualmente assicurare che fosse quello che era al Colosseo due sere prima: risolvè adunque di lasciar camminare le cose senza fare alcuna osservazione diretta al conte. D’altra parte egli aveva una superiorità su lui, era padrone del suo secreto, mentre che al contrario il conte non poteva avere alcun ascendente su Franz, che nulla aveva a nascondere. Frattanto mentre aspettava avvenimenti naturali, risolvè di far cadere la conversazione sopra un punto che potesse sempre condurre degli schiarimenti su di alcuni dubbi. — Signor conte, gli disse, voi ci avete offerto due posti nella vostra carrozza, ed altri due nelle vostre finestre del palazzo Ruspoli; potreste ora indicarci come potremmo fare per procurarci un posto, qualunque siasi, sulla piazza del popolo? — Ah! sì, è vero, disse il conte in modo distratto, ma guardando Morcerf con sostenuta attenzione, vi deve essere, se non sbaglio nella Piazza del popolo qualche cosa di simile ad una esecuzione? — Sì, rispose Franz vedendo che egli veniva da sè stesso dove voleva condurlo. — Aspettate, aspettate, credo di aver detto ieri al mio intendente di occuparsi di questo, e forse potrò rendervi ancora questo piccolo servigio. — Allungò una mano, e tirò il cordone del campanello. Sul momento videsi entrare un individuo dai 45 ai 50 anni che rassomigliava come due gocce d’acqua a quel contrabbandiere che aveva introdotto Franz nella grotta, ma che non fece menomamente sembiante di riconoscerlo. Si accorse allora che la parola era passata. — Bertuccio, disse il conte, vi siete incaricato come vi ordinai ieri, di ritrovarmi una finestra sulla Piazza del Popolo? — Sì, eccellenza, rispose l’intendente, ma era troppo tardi. — Come, disse il conte, increspando il sopracciglio, vi aveva pure ordinato di ritrovarne una? — E V. E. l’avrà; è una finestra che era stata data in fitto al principe Lobagneff; ma sono stato costretto di pagarla cento... — Sta bene, sta bene, Bertuccio; risparmiate a questi signori dei particolari inutili; voi avete la finestra e questo è l’importante. Date l’indirizzo della casa al cocchiere, e trattenetevi sulla scala per condurci. Basta così: andate. L’intendente salutò, e fece un passo per ritirarsi. — Aspettate! riprese il conte, fatemi il piacere di domandare a Pastrini se ha ricevuta la tavoletta, e se vuole inviarmi il programma della esecuzione. — È inutile, rispose Franz cavando il portafogli di saccoccia, ho avuto queste tavolette sotto gli occhi, e le ho copiate, eccole. — Sta bene; allora Bertuccio potete ritirarvi, non ho più bisogno di voi. Che ci avvisino soltanto quando sarà pronta la colazione. Questi signori, continuò egli volgendo ai due amici, mi faranno l’onore di far colazione meco? — In vero, sig. conte, disse Alberto, sarebbe un abusare... — No, al contrario, voi mi fate un vero piacere; mi renderete tuttociò a Parigi, l’uno o l’altro, e forse anche tutti e due. Bertuccio, ordinate che preparino per tre. E prese il foglio dalle mani di Franz. — Noi dicevamo adunque, continuò col tuono con cui avrebbe letto un tutt’altro avviso «che saranno giustiziati oggi 22 febbraio i nominati Andrea Rondolo, reo d’assassinio sulla persona di un rispettabilissimo cittadino di Roma, e il nominato Peppino detto _Rocca Priori_ convinto di complicità col detestabile bandito Luigi Vampa, e gli uomini della sua banda.» Hum! «il primo sarà impiccato, e il secondo decapitato.» Sì, infatto precisamente così doveva andare la faccenda, ma io credo che da ieri sia sopraggiunto qualche cambiamento nell’ordine della cerimonia. — Ah! disse Franz. — Sì, ieri dal cardinale R..., presso il quale ho passata la serata era questione di qualche cosa come di una dilazione accordata ad uno dei due condannati. — Ad Andrea Rondolo? domandò Franz. — No... rispose negligentemente il conte, all’altro... e guardando il foglio come per ricordarsi il nome, a Peppino detto _Rocca Priori_. Questo vi priverà di vedere l’azione della ghigliottina, ma vi resta a vedere l’altra esecuzione, che è un supplizio molto imponente, quando si vede per la prima volta, ed anche per la seconda, nel mentre che l’altro, che voi certo dovete conoscere, è troppo semplice, troppo spedito, e nulla vi è d’inaspettato. La mannaia non isbaglia, non trema, non colpisce in falso, non si ripente trenta volte come il soldato che tagliava la testa al conte di Chalais, ed al quale forse era stato raccomandato il paziente da Richelieu. Ah! aggiunse il conte con un tuono disprezzante, non mi parlate degli Europei per le esecuzioni capitali, essi non se ne intendono affatto, e sono nella vera infanzia, o piuttosto nella decrepitezza in rapporto a quelle. — In verità, sig. conte, rispose Franz, direbbesi che voi avete fatto uno studio comparato dei supplizi nei diversi popoli del mondo. — Ve ne sono pochi almeno che io non abbia veduti. — Ed avete ritrovato piacere ad assistere a questi spettacoli? — Il mio primo sentimento fu la ripugnanza, il secondo l’indifferenza, il terzo la curiosità. — La curiosità? la parola è veramente terribile, sapete? — Perchè? non vi ha nella vita una preoccupazione più grave di quella della morte; ebbene! non è curioso lo studiare in quanti differenti modi l’anima può uscir dal corpo, e come, secondo i naturali, i temperamenti, ed anche i costumi dei paesi, gl’individui sopportino questo supremo passaggio. — Non vi capisco bene, disse Franz; spiegatevi perchè non potete credere quanto punga la mia curiosità, ciò che mi dite. — Ascoltate dunque, disse il conte, ed il suo viso s’infiltrò di fiele nello stesso modo che il viso di un altro si colora col sangue. Se un uomo avesse fatto morire fra torture inaudite, in mezzo a tormenti senza fine, vostro padre, vostra madre, la vostra amica, uno di quegli esseri in fine che quando vengono sradicati dal nostro cuore vi lasciano un vuoto eterno ed una piaga sempre sanguinosa, credete che fosse sufficiente la riparazione che vi accorda la società, perchè il ferro della ghigliottina è passato fra la base dell’occipite, e i muscoli trapezzi dell’uccisore, e perchè colui che vi ha fatto soffrire degli anni di morali sofferenze, ha provato qualche secondo di fisico dolore? — Sì, lo so, risposo Franz, la giustizia umana è insufficiente, come consolatrice delle angosce sofferte; essa può versar sangue, per sangue, e niente più; non bisogna però chiederle più di quello che può dare. — Io ora vi propongo un altro caso materiale, riprese il conte, quello in cui la società, attaccata dalla morte di un individuo nella base sulla quale riposa, punisce la morte colla morte. Ma non vi sono dei milioni di dolori dai quali possono essere straziati i visceri dell’uomo, senza che la società se ne occupi menomamente, senza ch’ella gli offra il mezzo insufficiente di castigo di cui parlavamo or ora? Non vi sono dei delitti pei quali il palo dei turchi, i truogoli dei persiani, i nervi attorcigliati degl’indiani sarebbero supplizi troppo gentili, e che non pertanto la società indifferente lascia senza punizione?... rispondetemi, non vi sono questi delitti? — Sì, ed il duello è appena appena tollerato in alcuni paesi per punirli. — Ah! il duello, gridò il conte, graziosa maniera di giungere alla meta, quando questa è la vendetta! Un uomo vi rapisce l’amica, seduce vostra moglie, disonora vostra figlia: di una vita intera, che aveva il diritto di aspettare da Dio la parte di felicità che egli ha promesso ad ogni uomo nel crearlo, ha formato un’esistenza di dolore, di miseria, o di infamia, e voi vi credete vendicato perchè a quest’uomo, che vi ha messo il delirio nell’anima e la disperazione nel cuore, avete passato il petto con la spada, o traversata la testa con una palla? E poi! senza calcolare che spesso è il reo che riporta il vantaggio nel duello, e viene così scolpato agli occhi del mondo. No, no, continuò il conte, se avessi mai a vendicarmi, non mi vendicherei così. — Voi disapprovate dunque il duello? dunque non vi battereste in duello? domandò a sua volta Alberto meravigliato nel sentire emettere una tale teoria. — No certamente, non mi batterei, disse il conte. — Ma, disse Franz al conte, con questa teoria che vi costituisse giudice ed esecutore nella vostra propria causa, sarebbe difficile contenervi nei limiti per fuggire gli estremi, che sono sempre pericolosi; e converrete meco senza difficoltà, che l’odio è cieco, la collera sorda, e colui che si mesce la vendetta, corre pericolo di bere una bevanda amara. — Anche questo può esser vero, e qualche volta abbiamo veduto avverato ciò che ora affermate; ma, d’altra parte il peggio che potrebbe accadere ad un tale che avesse violato la legge, sarebbe d’incorrere in quest’ultimo servizio di cui parlavamo or ora, quello cioè che la filantropica rivoluzione francese ha sostituito allo squarto ed alla ruota. Ebbene! che cosa è questo supplizio, se egli si è vendicato? In verità sono quasi dispiacente che, secondo tutte le probabilità, questo miserabile Q Peppino non venga decapitato come si dice, vedreste il tempo che vi s’impiega, e se merita neppur la pena di parlarne. Ma sul mio onore noi facciamo una conversazione singolare per essere il primo giorno di carnevale. Come diavolo è avvenuto? Ah! mi ricordo: voi mi avete domandato un posto alla mia finestra; ebbene! sia, voi l’avrete; ma frattanto andiamo a tavola, poichè ecco che vengono ad annunciare che tutto è in ordine. Infatto un domestico aprì una delle quattro porte del salotto e fece intendere la consueta frase: — È servito in tavola! I due giovani si alzarono e passarono nella sala da pranzo. Durante la colazione, che riuscì eccellente, e fu servita con estrema ricercatezza, Franz cercò cogli occhi lo sguardo d’Alberto, per leggervi l’impressione che dovevano necessariamente avergli fatte le parole del loro ospite; ma sia che nella sua abituale non curanza, non vi avesse prestata grande attenzione, sia che la massima dal conte di Monte-Cristo esternata rapporto al duello lo avesse con lui riconciliato, sia finalmente che gli antecedenti raccontati, conosciuti particolarmente da Franz, avessero raddoppiato per lui solo l’effetto delle teorie del conte, non si accorse che il compagno fosse menomamente preoccupato; ed anzi Alberto faceva onore alla colazione come un uomo condannato da quattro o cinque mesi ad una cucina ben differente dalla sua; quanto al conte era in preda ad una preoccupazione troppo viva, che pareva inspirata dalla persona di Alberto, assaggiò appena ciascun piatto; sarebbesi detto nel mettersi a tavola con i suoi convitati adempisse ad un semplice dovere di gentilezza, e che aspettava la loro partenza per farsi portare qualche cibo strano e particolare. Ciò ricordava suo malgrado a Franz, il terrore che il conte aveva inspirato alla contessa G... e la convinzione in cui l’aveva lasciata che il conte, l’uomo che le aveva mostrato nel palco in faccia a lui, era un Vampiro. Alla fine della colazione, Franz cavò l’orologio. — Ebbene! dissegli il conte, che fate dunque? — Ci scuserete, signor conte, rispose Franz, ma noi abbiamo ancora mille cose da fare. — E quali? — Noi non abbiamo abiti da maschera, ed oggi il mascherarsi è di rigore. — Non vi occupate di questo. A quanto sembra abbiamo sulla piazza del Popolo una camera particolare; vi farò portare gli abiti che m’indicherete e ci maschereremo là. — Dopo l’esecuzione? gridò Franz. — Senza dubbio, dopo, nel tempo, o prima, come vorrete. — In faccia al patibolo? — Che discorso è questo? Noi che saremo presenti alla festa, staremo però nella nostra camera particolare. — Sentite, signor conte, vi ho riflettuto bene, disse Franz, io vi ringrazio della vostra gentilezza. Mi contenterò di accettare un posto nella vostra carrozza, ed uno alla finestra del palazzo Ruspoli; vi lascio in libertà di disporre del mio posto alla finestra della piazza del Popolo. — Ma voi perdete, ve ne prevengo, una cosa molto curiosa, rispose il conte. — Me la racconterete, rispose Franz, e sono convinto che dalla vostra bocca il racconto mi farà quasi tanta impressione, quanta ne potrei ricevere nel vedere il fatto. D’altra parte più di una volta ho già fatta la risoluzione di assistere ad una esecuzione, e non mi vi sono mai potuto risolvere; e voi, Alberto? — Io, rispose il visconte, ho veduto giustiziare Castaing; ma credo di essere stato un poco ubbriaco quel giorno, perchè era il primo dì che uscivo di collegio. — Ma, soggiunse il conte, non è una ragione, perchè se non avete fatta una cosa a Parigi non la dobbiate neppur fare all’estero: quando si viaggia è per istruirsi: quando si cambia luogo, è per vedere. Pensate adunque quale meschina figura fareste, quando vi si facessero delle dimande relativamente a queste esecuzioni che debbono oggi farsi in Roma, e voi non sapeste rispondere altro che non le vidi. E poi, dicesi che il condannato sia un infame malandrino, un birbante che ha ucciso a colpi di alare un buon canonico che avevalo allevato come figlio. Se viaggiaste in Ispagna, non andreste voi a vedere i combattimenti dei tori? ebbene! figuratevi che sia un combattimento quello che andiamo a vedere; risovvenitevi degli antichi romani al Circo, delle caccie ove venivano uccisi trecento leoni e un centinaio di uomini; risovvenitevi di quegli ottantamila spettatori che battevano le mani, di quelle sagge matrone che vi conducevano le loro figlie per maritarle, e di quelle graziose vestali dalle mani bianche che col pollice facevano un graziosissimo e piccolo segno che voleva dire: «via, non siate pigri, finite di ammazzarmi quell’uomo che è mezzo morto.» — Vi andate voi Alberto? domandò Franz. — In fede mia sì, io esitava come voi, ma l’eloquenza del conte mi ha determinato. — Andiamoci dunque, poichè lo volete, disse Franz, ma nel recarmi alla piazza dei Popolo desidererei passare per il Corso; è possibile, signor conte? — A piedi sì, in carrozza non è permesso. — Ebbene! vi andrò a piedi. — Ma avete tanta necessità di passare per il Corso? — Sì, ho qualche cosa a vedere. — Ebbene! passiamo tutti pel Corso, manderemo la carrozza per la strada del Babbuino ad aspettarci sulla piazza del Popolo. Del resto anch’io ho piacere di passare per il Corso onde vedere se sono stati eseguiti alcuni ordini che ho dati. — Eccellenza, disse un domestico aprendo la porta, un uomo vestito da confratello della buona morte chiede parlarvi. — Ah! sì, disse il conte, so che cos’è. Signori, volete avere la compiacenza di rientrare nel salotto? Ritroverete sulla tavola di mezzo degli eccellenti sigari dell’Avana; vi raggiungerò fra poco. I due giovani si alzarono ed uscirono da una porta, mentre che il conte, dopo aver rinnovato loro le sue scuse, uscì dall’altra. — Alberto che era un gran dilettante di sigari, e che non contava come piccolo sacrificio quello di esser privo dei sigari del caffè di Parigi, da che era in Italia, si avvicinò alla tavola, e mandò un grido di gioia, nel riconoscere dei veri _puros_. — Ebbene! gli domandò Franz, che pensate voi del conte di Monte-Cristo? — Che ne penso? disse Alberto grandemente meravigliato che il suo compagno gli facesse una simile interrogazione; penso che è un uomo carissimo, che fa a maraviglia gli onori di casa sua, che ha molto studiato, che ha riflettuto assai, che è come Bruto della scuola stoica, e, aggiunse mandando una voluttuosa fumata che salì a spirale verso il soffitto, e che oltre tutto ciò possiede eccellenti sigari. Questa era l’opinione d’Alberto sul conte; ora siccome era noto a Franz che Alberto aveva la pretensione di non farsi mai un’opinione degli uomini e delle cose che dopo mature riflessioni, così Franz non tentò di cambiar niente alla sua. — Ma, diss’egli, avete voi notato una cosa singolare? — E quale? — L’attenzione con cui vi guardava. Alberto riflettè alcun poco. — Ah! diss’egli con un sospiro, nulla di meraviglioso in questo: sono assente da Parigi da quasi un anno, e debbo avere degli abiti di un taglio dell’altro mondo. Il conte mi avrà preso per un provinciale; disingannatelo, caro amico, e ditegli, ve ne prego, alla prima occasione, che non è vero. — Franz sorrise, un momento dopo rientrò il conte: — Eccomi signori, diss’egli, e tutto per voi; ho già dati gli ordini. La carrozza andrà alla piazza del Popolo per la sua strada, e noi vi andremo per la nostra, se lo desiderate ancora, cioè per la strada del Corso. Su via, prendete dunque qualcuno di questi sigari, signor Morcerf, aggiunse, strisciando in un modo singolare le sillabe di questo nome che pronunziava per la prima volta. — In fede mia, con gran piacere, disse Alberto, perchè i vostri sigari italiani sono ancora peggiori di quelli della privativa regia; quando verrete a Parigi vi renderò tutto questo. — Ed io non rifiuto, conto di andarvi per qualche giorno, e poichè voi lo permettete, verrò a battere alla vostra porta. Andiamo, signori, andiamo, non abbiamo tempo da perdere; è mezzogiorno e mezzo, partiamo. Tutti e tre discesero. Allora il cocchiere prese gli ordini dal padrone, seguì la via del Babbuino, mentre che i pedoni risalivano per la piazza di Spagna, e per la via Frattina che conduceva direttamente fra il palazzo Fiano e il palazzo Ruspoli. Gli sguardi di Franz furono diretti alle finestre di quest’ultimo palazzo; non aveva dimenticato il segnale convenuto al Colosseo, fra l’uomo del mantello scuro ed il Trasteverino: — Quali sono le vostre finestre? domandò egli al conte col tuono più naturale che potesse prendere. — Le tre ultime, rispos’egli, con una negligenza non affettata, perchè non poteva indovinare con quale scopo gli veniva fatta questa interrogazione. Gli sguardi di Franz si portarono rapidamente sulle tre finestre. Quelle laterali erano parate con un tappeto di damasco giallo, e quella di mezzo con un tappeto di damasco bianco che portava una croce rossa. L’uomo dal mantello scuro aveva dunque mantenuta la parola al Trasteverino, e non v’era più dubbio, era precisamente il conte. Le tre finestre erano ancora vuote. Da tutte parti si facevano preparativi; si mettevano al posto le sedie, si ergevano palchi, si paravano le finestre. Le maschere non potevano comparire, le carrozze non potevano entrare che dopo il suono della campana del Campidoglio; ma si sentivano le maschere dietro a tutte le finestre e le carrozze dietro a tutte le porte. Franz, Alberto ed il conte continuarono a discendere lungo il Corso; a seconda che si avvicinavano alla piazza del Popolo, la folla diveniva più fitta, e al di sopra delle teste di questa folla, si vedevano due cose, l’obelisco sormontato da una croce, che indica il centro della piazza, e al davanti dell’obelisco, precisamente al punto di corrispondenza visuale delle tre strade del Babbuino, del Corso, e di Ripetta, i due travi supremi del patibolo, fra i quali brillava l’acciaio forbito della falce. All’angolo della strada era l’intendente del conte che aspettava il padrone. La finestra presa in fitto, a quel prezzo senza dubbio esorbitante che il conte non aveva voluto far conoscere ai convitati, apparteneva al secondo piano del gran palazzo situato fra la strada del Babbuino e il monte Pincio, era una specie di gabinetto che comunicava con una camera da dormire; ma chiudendo la porta di questa, quelli che avevano preso in fitto il gabinetto stavano come in casa loro: sulle sedie erano disposti i vestiti di maschera da pagliaccio di seta bianca e celeste della più grande eleganza. — Avendomi voi lasciata la scelta dei costumi, disse il conte ai due amici, ho fatto preparare questi. Primieramente saranno ciò che di meglio verrà indossato in quest’anno, poi sono ciò che vi ha di più comodo pei confetti, attesochè la farina non vi si scorge. Franz non intese che imperfettamente le parole del conte, e forse non apprezzò col suo giusto valore questa nuova gentilezza, poichè tutta la sua attenzione era rivolta allo spettacolo che presentava la piazza del Popolo ed all’istrumento terribile che ne formava in quell’ora il principale ornamento. Era la prima volta che Franz vedeva una ghigliottina. Noi diciamo ghigliottina, perchè la falce romana è presso a poco della stessa forma del nostro istrumento di morte. La falce che ha la forma di una mezza luna che taglia dalla parte convessa, cade da minore altezza, ecco tutta la diversità! Due uomini, seduti sulla tavola ad altalena, ove viene steso il condannato, mentre aspettavano, mangiavano a quanto sembrò a Franz, del pane e della salciccia; l’un d’essi sollevò l’asse e ne estrasse un fiasco di vino, ne bevè e passò il fiasco al suo camerata; essi erano gli aiutanti del carnefice! — A questo solo aspetto, Franz aveva inteso venirgli il sudore fin dalla radice dei capelli. — I condannati erano stati trasportati fin dalla sera innanzi, dalle carceri nuove alla chiesa di S. Maria del popolo, ed avevano passata tutta la notte assistiti ciascuno da due preti in una cappella di conforteria chiusa da un cancello, davanti al quale passeggiavano le sentinelle cambiate d’ora in ora. Una doppia fila di carabinieri posti da ciascun lato della chiesa si estendeva fino al patibolo, intorno al quale formava un circolo di dieci piedi di spazio, che serviva di strada fra la ghigliottina ed il popolo. Tutto il resto della piazza sembrava un selciato di teste d’uomini e di donne delle quali molte avevano i loro bambini sulle spalle, e questi erano i meglio situati perchè venivano ad aver la testa al di sopra delle altre. Il monte Pincio sembrava un vasto anfiteatro i cui gradini fossero stati caricati di spettatori; le finestre delle due chiese che formano l’angolo delle strade del Babbuino e di Ripetta col Corso, rigurgitavano di curiosi privilegiati; gli scalini dei peristili sembravano un’onda moventesi e variopinta che una marea incessante spingesse verso il portico, ciascuna sporgenza o rilievo di muro che potesse dare appoggio ad un uomo aveva la sua statua vivente. Ciò che diceva il conte era dunque vero: ciò che vi ha di più curioso nella vita è lo spettacolo della morte. E frattanto in vece del silenzio, che sembrava dovere essere comandato nella solennità di un tale spettacolo, un gran rumore usciva da quella folla; rumore composto di risa, di urli, di gridi giocosi; era ancora evidente, come lo aveva detto il conte, che a questa esecuzione interverrebbe una gran moltitudine di popolo pel fatto non già, ma perchè andava per caso a coincidere col principio del carnevale. D’improvviso questo rumore cessò come per incanto; la porta della chiesa era stata aperta. La confraternita detta di S. Giovanni decollato comparve, ciascun membro era vestito di un sacco grigio aperto soltanto agli occhi, e teneva in mano una torcia accesa, il capo di questa confraternita apriva la strada. Dietro ai confratelli veniva un uomo di alta persona, nudo, ad eccezione dei calzoni di tela, ad un lato de’ quali stava attaccato un gran coltello nascosto nel fodero; e portava sulla spalla destra una quantità di corda affatto nuova; costui era il carnefice; aveva inoltre i sandali attaccati al basso della gamba per mezzo di funicelle. Dietro al carnefice camminavano, nell’ordine in cui dovevano esser giustiziati, prima Peppino e poi Andrea; ciascuno accompagnato da due preti. Nè l’uno nè l’altro avevano gli occhi bendati. Peppino camminava con passo molto sicuro; senza dubbio egli era stato avvisato di ciò che gli si preparava. Andrea era sostenuto sotto le braccia da un prete. Entrambi baciavano di tempo in tempo il simbolo della Redenzione che veniva lor presentato dal confessore. Franz sentì che solo questa vista gli faceva venir meno le gambe, guardò Alberto. Egli era pallido come la sua camicia e per un movimento meccanico gettò lungi da sè il sigaro, quantunque non lo avesse fumato che a metà. Il conte solo pareva impassibile. Anzi eravi di più, una leggiera tinta rosea sembrava volere irrompere dal pallore livido delle sue guance. Il naso si dilatava come quello di un animale selvaggio che odora il sangue, e le labbra lasciavano vedere i denti piccoli bianchi ed acuti, come quelli di un lupo dorato d’Affrica. E ciò non ostante il viso aveva una espressione di dolcezza sorridente, che Franz non avevagli mai veduta; gli occhi soprattutto erano ammirabili per la mansuetudine. Frattanto i due condannati continuavano a camminare verso il patibolo, ed a seconda che avanzavano si potevano distinguere i tratti del loro viso. Peppino era un bel giovine dai 24 a 26 anni di colorito scuro pel sole, con lo sguardo libero e selvaggio; portava la testa alta, e sembrava odorare il vento per conoscere da che parte gli sarebbe arrivato il liberatore. Andrea era grasso e corto: il viso, trivialmente crudele, non indicava la sua età, ciò non ostante poteva avere circa trent’anni. Nella prigione erasi lasciata crescere la barba. La testa pendolava sopra una delle spalle, le gambe gli si piegavano sotto; tutto il suo essere sembrava obbedire ad un movimento materiale, nel quale la sua volontà non prendeva parte alcuna. — Sembrami, disse Franz, al conte, avermi voi annunziato non esservi che una sola esecuzione. — Vi ho detto la verità, rispose egli freddamente. — Frattanto ecco due condannati. — Sì, ma di questi due l’uno è sul punto di morire, l’altro vivrà ancora lunghi anni. — Ma se deve venire la grazia non vi è tempo da perdere. — Ed appunto eccola che viene; guardate, disse il conte. Difatto nel medesimo punto in cui Peppino giungeva ai piedi del patibolo, un penitente che sembrava essere venuto tardi, passò la fila senza che i soldati facessero ostacolo al suo passaggio, e venendo avanti presentò al capo della confraternita un foglio piegato in quattro parti. Lo sguardo ardente di Peppino non aveva perduto alcuno di questi particolari; il capo della confraternita spiegò la carta, la lesse ed alzò la mano: — Il Signore sia benedetto e sua Santità sia lodata, diss’egli ad alta ed intelligibile voce, vi è la grazia della vita di uno dei due condannati. — Grazia! gridò il popolo con un sol grido, vi è la grazia? — A questa parola di grazia, Andrea si scosse e alzò la testa: — Grazia, per chi? gridò egli. Peppino restò immobile, muto ed anelante. — Vi è la grazia dalla pena di morte per Peppino detto _Rocca Priori_, disse il capo della confraternita. — E passò il foglio nelle mani del comandante dei carabinieri che dopo averlo letto tornò a renderlo. — Grazia per Peppino! gridò Andrea interamente tolto dallo stato di torpore in cui sembrava fosse immerso. Perchè grazia per lui e non per me? Noi dovevamo morire insieme, erami stato promesso che sarebbe morto prima di me, e non vi è diritto di farmi morir solo; non voglio morir solo, non lo voglio. E si attaccò alle braccia dei due preti torcendosi, urlando, ruggendo e facendo sforzi insensati per resistere al carnefice che voleva, a quell’impeto imprevisto, legargli nuovamente le mani. Il carnefice fece un segno ai suoi aiutanti i quali saltarono abbasso del patibolo, e vennero ad impadronirsi del condannato. — Che accade dunque? domandò Franz al conte, perchè la distanza non gli permetteva di bene intendere le parole. — Che accade? disse il conte, non lo indovinate? Accade che quella creatura umana che va alla morte, è divenuta furiosa perchè il suo simile non muore con essa, e che, se si lasciasse fare, lo sbranerebbe colle unghie e coi denti piuttosto che lasciarlo godere della vita di cui sarà in breve privato. Oh! uomini! uomini! razza di coccodrilli, come disse Karl Moor, gridò il conte stendendo i due pugni verso tutta quella folla, come vi riconosco bene, e in ogni tempo siete sempre degni di voi stessi. Infatto Andrea, e i due aiutanti del carnefice si rotolavano nella polvere, ed il condannato gridava sempre «egli deve morire, io voglio che muoia, non hanno il diritto di farmi morire solo.» — Guardate; guardate, disse il conte afferrando ciascuno dei due giovani per la mano; guardate, perchè sull’anima mia è una cosa curiosa: ecco un uomo che era rassegnato alla sua sorte, che camminava al patibolo, che andava a morire come un vile, è vero, ma pure andava a morire senza resistenza e senza recriminazione. Sapete ciò che gli dava qualche forza? sapete ciò che lo consolava? sapete ciò che gli faceva prendere il supplizio con pazienza? era un altro che divideva le angosce, un altro che moriva come lui, un altro che moriva prima di lui. Conducete due montoni alla beccheria, o due bovi all’ammazzatoio, e fate intendere, se vi riesce, ad uno di questi che il suo compagno non morrà, il montone, cred’io, belerà di gioia, il bove muggirà di piacere; ma l’uomo a cui Iddio ha imposto per prima, per unica, per suprema legge l’amore del prossimo, l’uomo a cui Iddio ha dato la parola per esprimere il pensiero, ora vedetelo qui con i vostri propri occhi, che dà nelle furie perchè va a morir solo, perchè sa che il compagno è salvo. In verità, non me lo sarei mai aspettato! ecco là non più terrore, non più rassegnazione; oh! disgraziata creatura! quanto lagrimevole è la tua sorte! — E il conte rise, ma di un riso terribile che faceva comprendere ch’egli aveva orribilmente sofferto per poter giungere a ridere in tal modo. Frattanto la lotta continuava, ed era spettacolo orribile a vedersi. I due aiutanti portavano Andrea sul patibolo; tutto il popolo aveva preso partito contro di lui, e ventimila voci mandavano un sol grido: «alla morte! alla morte!» Franz lasciavasi andare in addietro; ma il conte riprese il braccio, e lo trattenne sul davanti della finestra. — E che fate! diss’egli, avete pietà? in fede mia ella è ben situata! se sentiste gridare, al cane arrabbiato, prendereste il vostro fucile, vi appostereste sulla strada, e tirereste senza misericordia a piccola distanza sulla povera bestia, che in fin del conto non sarebbe rea che di essere stata morsa da un altro cane, rendendo ciò che gli fu fatto; ed ecco qua che avete pietà di un uomo che non fu morso da alcun altro, e che ciò non ostante ha ucciso il suo benefattore, e che ora non potendo più uccidere, perchè ha le mani legate, vuole a tutta forza veder morire il compagno d’infortunio? no, no, guardate, guardate. Ogni raccomandazione sarebbesi resa inutile, Franz era come affascinato dall’orribile spettacolo. I due aiutanti avevano portato a gran stento il paziente fino a piè della scala fatale. Allora sì che incominciò una lotta terribile. Il misero si dibatteva, si contorceva, e puntava i piedi gittandosi con tutta la persona all’indietro. Uno di que’ due tentò d’acquistare sopra di lui qualche vantaggio col salire alcuni scalini dalla sua parte, e tirarlo a sè mentre l’altro lo avrebbe sospinto all’insù. In quel frattempo il carnefice lo afferrò per la vita, e lo sollevò da terra. Trovatosi il misero senza punto d’appoggio e tirato e sospinto, in un attimo fu sotto al laccio. — A tal vista Franz non potè trattenersi più lungamente, si ritirò in addietro, e andò a cadere sur una sedia, mezzo svenuto. Alberto, cogli occhi chiusi, restava in piedi, ma aggrappato al telaio della finestra, senza l’aiuto del quale sarebbe certamente caduto. Il conte solo era in piedi, e trionfante come l’angelo del male. XXXVI. — IL CARNEVALE DI ROMA. Quando Franz ritornò in sè, vide Alberto che beveva un bicchier d’acqua, e la sua pallidezza indicava che ne aveva avuto gran bisogno; il conte cominciava già ad indossare il vestito da pagliaccio. Dette macchinalmente un’occhiata sulla piazza, tutto era disparso, patibolo, carnefice, vittime; non restava più che il popolo affollato, rumoreggiante, allegro. La campana del Campidoglio suonava l’apertura del carnevale. — Ebbene, domandò egli al conte, che è dunque accaduto? — Niente, assolutamente niente, diss’egli, solo il carnevale è cominciato, mascheriamoci presto. — In fatto, rispose Franz, non resta più di tutta questa scena che la traccia di un sogno. — E non fu che un sogno, non fu che un incubo, quello che aveste. — Sì, ma il condannato? — È un sogno anch’esso, solo egli è rimasto addormentato, e voi vi siete risvegliato; e chi può dire quale di voi due sia il privilegiato? — Ma Peppino, domandò Franz, che ne avvenne? — Peppino è un giovine di senso che non ha il più piccolo amor proprio, e che contro l’abitudine degli uomini che sono furiosi allor quando nessuno si occupa di loro, è rimasto soddisfatto di vedere che l’attenzione generale si portava tutta sul suo camerata; per conseguenza ha profittato di questa distrazione per schizzar fra la folla, e sparire, senza nemmeno ringraziare quei degni preti che lo avevano accompagnato. In fede mia l’uomo è un animale molto ingrato, ed egoista... Ma vestitevi; osservate il sig. de Morcerf, ve ne dà l’esempio. Infatto Alberto passava macchinalmente i calzoni di seta bianca al di sopra dei suoi di panno nero, e degli stivali inverniciati. — Ebbene? Alberto, domandò Franz, siete in istato di far follie? su rispondete francamente. — No, diss’egli, ma in verità sono contento di aver veduto una cosa simile, e comprendo ciò che diceva il signor conte: cioè che allora quando uno ha potuto una volta abituarsi ad un simile spettacolo, questo sia il solo che dà ancora qualche emozione. — Senza contare che in quel momento soltanto si possono fare studi sulle indoli, disse il conte; sul primo scalino del patibolo la morte strappa la maschera che si è portata in tutta la vita, ed il vero viso comparisce. Bisogna convenirne, quello di Andrea non era bello a vedersi, era un infame ributtante!... vestiamoci, ho bisogno di vedere delle maschere di cera, e di stucco per consolarmi delle maschere di carne. — Sarebbe stato ridicolo per Franz di fare la signorina, e non seguire l’esempio che gli veniva dato dai due compagni. Si mise adunque il suo vestiario, si collocò sul viso la maschera che non era certamente più pallida del suo volto. Compiuto il travestimento discesero. La carrozza aspettava alla porta, piena di confetti, e di mazzetti di fiori: essa si mise in fila. È difficile il formarsi un’idea di un’opposizione così compiuta quanto quella che erasi operata. In vece dello spettacolo di morte, tetro e silenzioso, la piazza del Popolo presentava l’aspetto di una folta e rumorosa orgia. Una quantità di maschere facevansi veder da ogni parte, uscendo dalle porte, dalle finestre: le carrozze che sboccavano da tutti gli angoli delle strade, piene di pagliacci, d’arlecchini, di dominò, di marchesi, di trasteverini, di grotteschi, di cavalieri, di contadini, tutto ciò gridando, gesticolando, lanciando uova piene di farina, confetti, e mazzetti; aggredendo colle parole, e coi proiettili, amici e stranieri, conoscenti e non conoscenti, senza che alcuno abbia il diritto di lamentarsene, senza che alcuno faccia altro che ridere. Franz e Alberto erano a guisa di due uomini che per essere distratti da un violento dispiacere venissero condotti in un’orgia, e che a seconda che bevono, e s’inebriano, sentono inspessirsi un velo fra il passato, ed il presente. Essi vedevano sempre, o per meglio dire continuavano a sentire in loro gli effetti di ciò che avevano veduto. Ma poco a poco l’ubriachezza generale li guadagnava; sembrò che la vacillante ragione stesse per abbandonarli; conoscevano uno strano bisogno di prender parte a quel rumore, a quel movimento, a quella vertigine. Un pugno di confetti che gettato da una carrozza vicina colse Morcerf, e che, coprendolo di polvere unitamente ai due compagni gli punse il collo, e tutte le parti del viso che non erano garantite dalla maschera, come se gli avessero gettato un pugno di spilli, terminò di spingerlo alla lotta generale, alla quale erano già impegnate tutte le maschere che incontravano. Si alzò a sua volta nella carrozza; raccolse a piene mani confetti nei sacchi, e con tutto il vigore e la destrezza di cui era capace, lanciò uova e confetti ai vicini. Da quel momento il combattimento era impegnato. La memoria di ciò che avevano veduto mezz’ora prima si cancellava affatto dallo spirito di questi giovani, tanto lo spettacolo mobile, insensato, e variopinto che avevano sotto gli occhi, era venuto a far loro diversione. In quanto al conte non era mai stato, come si disse, per un sol momento commosso. Di fatto, che alcuno s’immagini quella grande e bella strada del Corso ornata da un’estremità all’altra di palazzi a quattro o cinque piani con tutte le loro ringhiere addobbate, con tutte le finestre coi tappeti. A queste ringhiere e a queste finestre, trecento mila spettatori, patriotti, italiani, stranieri, venuti da tutte e quattro le parti del mondo; tutte le aristocrazie riunite; aristocrazie di nascita, di danaro, di genio; donne graziose esse stesse sotto l’influenza di questo spettacolo, che si curvano sulle ringhiere, sporgono fuori dalle finestre, fanno piovere sulle carrozze che passano una grandine di confetti che lor viene contraccambiata in mazzetti; l’atmosfera è tutta ingombra di confetti che discendono, e di fiori che volano; poi sul selciato della strada una folla allegra, incessante, pazza, con costumi insensati, cavoli giganteschi che passeggiano, teste di bufalo che muggiscono sopra il corpo dell’uomo, cani che sembrano comminare sui piedi di dietro, e si avrà una debole idea di ciò che è il Carnevale di Roma. Al secondo giro, il conte fece fermare la carrozza, e domandò ai compagni il permesso di allontanarsi lasciando a loro disposizione la carrozza. Franz alzò gli occhi: erano dirimpetto al palazzo Ruspoli, e alla finestra di mezzo, a quella che aveva il tappeto di damasco bianco con una croce rossa, era un dominò blu, sotto il quale l’immaginazione di Franz si figurò senz’altro la bella greca del teatro Argentina. — Signori, disse il conte saltando a terra, quando sarete stanchi di essere attori, e che vorrete ritornare spettatori, sapete che avete i posti alle mie finestre; frattanto disponete del cocchiere, della carrozza e dei domestici. Abbiamo dimenticato di dire che il cocchiere del conte era vestito con gravità di una pelle d’orso nero, esattamente simile a quella d’Odry nell’_Orso ed il Pascià_, e che i due servitori che stavano in piedi dietro la carrozza avevano il costume delle scimmie verdi, perfettamente adattato alla loro corporatura, con maschere a molla colle quali essi facevano delle boccacce a coloro che passavano. Franz ringraziò il conte della gentile offerta. In quanto ad Alberto era in via di scherzi con una carrozza piena di contadine romane, fermata come quella del conte da uno di quei riposi tanto comuni nelle file, cui egli tempestava di mazzetti. Disgraziatamente per lui la fila riprese il movimento, e mentre discendeva la piazza del Popolo, la carrozza che aveva attirata la sua attenzione risaliva verso la piazza di Venezia: — Ah! mio caro, disse egli a Franz, non avete veduto quel calesse pieno di contadine romane? — No. — Ebbene! sono sicuro che sono delle graziose signore... — Quale disgrazia che voi siate mascherato, mio caro Alberto! disse Franz, questo sarebbe stato il momento di rifarvi di tutti i vostri sconcerti amorosi. — Oh! rispose egli, metà ridendo, metà convinto, spero bene che il carnevale non trascorrerà senza apportarmi qualche buona avventura. — Ad onta di questa speranza d’Alberto tutto il giorno passò senz’altra avventura che l’incontro due o tre volte rinnovato del calesse che portava le contadinelle romane: in uno di questi, fosse caso, oppure studio, la maschera cadde dal volto d’Alberto, ed egli approfittò di questa congiuntura per prendere quanti mazzetti potè, e gettarli nel calesse. Senza dubbio una delle graziose signore che Alberto indovinava sotto il costume di contadine fu colpita da questa galanteria, e quando le due carrozze ritornarono ad incontrarsi, gettò un mazzetto di violette nella carrozza dei due amici. Alberto vi si precipitò sopra, e siccome Franz non aveva alcun motivo di credere che fosse stato a lui diretto, lo lasciò impadronirsene. Alberto lo mise vittoriosamente in petto, e la carrozza continuò il corso trionfante. — Ebbene, gli disse Franz, ecco il principio di un’avventura. — Ridete, quanto volete, rispose egli, ma credo veramente di sì; perciò non lascio più questo mazzetto. — Per bacco! lo credo bene, rispose Franz ridendo, è un segnate di riconoscimento. — Lo scherzo, del rimanente, prese ben presto l’indole della realtà, mentre allorquando, sempre condotti dalla fila, Franz ed Alberto incontrarono di nuovo la carrozza delle contadine, quella che aveva gettato il mazzetto ad Alberto, battè le mani vedendo che lo aveva messo in petto. — Bravo! mio caro, bravo, gli disse Franz, ecco che la cosa si prepara a meraviglia, volete che vi lasci? avete più piacere di restare solo? — No, diss’egli, no, non imbrogliamo niente: non vo’ lasciarmi accalappiare come uno stupido alla prima dimostrazione, ad un convegno sotto l’orologio, come diciamo al ballo dell’_Opera_. Se la bella contadina ha volontà di spingere la cosa più innanzi la ritroveremo domani, o piuttosto ella troverà noi; allora mi darà segno di esistenza, ed io vedrò ciò che mi converrà di fare. — In vero, mio caro Alberto, disse Franz, voi siete saggio come Nestore e prudente come Ulisse, e se la vostra Circe giunge a trasformarvi in una bestia qualunque, bisognerà che sia molto destra e possente. — Alberto aveva ragione: la bella incognita aveva risoluto senza dubbio di non spingere le cose più in là in quel giorno, perchè quantunque facessero ancora diversi giri, non rividero più la carrozza che cercavano con attenzione, e che sicuramente era sparita per una delle vie traverse. Allora ritornarono al palazzo Ruspoli; ma il conte pure era sparito col dominò blu, le due finestre parate col damasco giallo continuarono però ad essere occupate da persone senza dubbio da lui invitate. In questo momento la medesima campana che aveva suonato l’apertura della mascherata, suonò il ritiro, la fila del Corso si ruppe al momento, e in un punto tutte le carrozze disparvero per le strade traverse. Franz ed Alberto erano in quel momento dirimpetto alla via delle Muratte; il cocchiere sfilò senza dir niente, giunto alla piazza di Spagna si fermò davanti all’albergo. La prima cura di Franz fu d’informarsi del conte per esprimergli il dispiacere di non essere andato in tempo a riprenderlo; ma Pastrini lo tranquillò dicendogli che il conte di Monte-Cristo aveva ordinata un’altra carrozza per lui, e che questa era andata a prenderlo alle quattro sul palazzo Ruspoli. Era inoltre incaricato da parte sua di offrire ai due amici la chiave del suo palco al teatro Argentina. Franz interrogò Alberto sulle disposizioni; ma questi aveva grandi disegni da mettere in esecuzione prima di pensare ad andare al teatro: in conseguenza, invece di rispondergli, s’informò se Pastrini avesse potuto procurargli un sartore. — Un sartore! e perchè farne? domandò l’albergatore. — Per farci da oggi a domani degli abiti da contadini romani più eleganti che sia possibile. Pastrini scosse la testa: — Farvi da oggi a domani due abiti? gridò egli, questa è, domando perdono a V. E., una vera domanda alla francese. Due abiti quando da oggi a otto giorni non trovereste certamente un sartore che volesse attaccarvi sei bottoni ad un gilè, quand’anche li pagaste uno scudo l’uno. — Bisogna dunque rinunciare a procurarsi gli abiti che io desideravo? — No, perchè li ritroveremo belli e fatti. Lasciatene a me la cura, e domani quando vi svegliate, troverete una collezione di cappelli, di vestiti e di calzoni di cui rimarrete soddisfatto. — Mio caro, disse Franz ad Alberto, rimettiamoci al nostro albergatore; egli ci ha di già provato che è un uomo pieno di risorse, pranziamo dunque tranquillamente e dopo il pranzo andiamo a vedere l’_Italiana in Algeri_. — Sì; ma pensate Pastrini che il signore ed io annettiamo la più alta importanza ad avere gli abiti che vi abbiamo dimandati. Pastrini assicurò un’ultima volta i suoi ospiti che non avevano ad inquietarsi di niente, e che sarebbero stati serviti a seconda dei loro desideri. Alberto e Franz dopo ciò risalirono per torsi gli abiti da pagliacci. Alberto nello spogliarsi, custodì con la più gran cura il mazzetto di viole; questo era il segno di riconoscimento per la dimane. I due amici si misero a tavola; ma pranzando, Alberto non potè far a meno di osservare la notabile differenza fra i meriti rispettivi del cuoco di Pastrini, e quello del conte di Monte-Cristo. Ora la verità costrinse Franz a confessare, ad onta delle prevenzioni che sembrava avere contro il conte, che il parallelo non era vantaggioso pel cuoco di Pastrini. Alle frutta un domestico venne ad informarsi a quale ora desideravano la carrozza. Alberto e Franz guardaronsi, temendo realmente di essere indiscreti. Il domestico li capì: — S. E. il conte di Monte-Cristo fa saper loro, avere egli dato ordini positivi, perchè la carrozza restasse sempre agli ordini delle loro signorie; potran perciò disporne liberamente senza essere indiscreti. I giovani risolvettero di approfittare fino alla fine della cortesia del conte, ed ordinarono di mettere in ordine mentre che si cambiavano gli abiti portanti i segni dei numerosi combattimenti a cui avevano preso parte nella giornata. Dopo questa cautela, passarono al teatro Argentina, ove presero posto nel palco del conte. Durante il primo atto la contessa G*** entrò nel suo palco. Il primo sguardo si diresse, dalla parte ove la sera innanzi aveva veduto il singolare sconosciuto, dimodochè vide subito Franz ed Alberto nel palco di colui sul conto del quale aveva espresso a Franz, non erano 24 ore, una strana opinione. Diresse il suo occhialino su di lui con tanta assiduità, che Franz capì bene sarebbe stata una crudeltà a ritardare per maggior tempo il soddisfar la curiosità di lei. Così profittando del privilegio accordato agli spettatori dei teatri italiani, che consiste nel convertire il teatro in una sala di ricevimento, i due amici lasciarono il palco per presentare i loro omaggi alla contessa. Appena entrati nel palco ella fece un segno a Franz di mettersi al posto d’onore, ed Alberto questa volta si pose vicino a lei. — Ebbene, diss’ella, accordando appena a Franz il tempo di sedersi, sembra che non abbiate avuto niente di più urgente, quanto di fare la conoscenza col nuovo Lord Ruthwen, ed eccovi ora i migliori amici del mondo! — Senza essere inoltrati, quanto dite, in una reciproca amicizia, rispose Franz, non posso negare, di aver noi abusato tutto il giorno della sua gentilezza. — Come tutto il giorno? — In fede mia questa è la vera parola che conviene. Questa mattina abbiamo accettata da lui una colazione; durante tutto il tempo delle maschere abbiamo girato il Corso nella sua carrozza; e finalmente questa sera veniamo allo spettacolo nel suo palco. — Voi dunque lo conoscete? — Sì, e no. — E come ciò? — Questa è una lunga storia. — Che voi mi racconterete? — Essa vi farà paura. — Ragione di più. — Aspettate almeno che abbia uno sviluppo. — Sia così: amo le storie compiute; frattanto com’è che vi siete trovati a contatto? Chi vi ha presentati a lui? — Nessuno; al contrario egli si è fatto presentare a noi ieri sera dopo che vi ho lasciata. — Per mezzo di chi? — Oh! mio Dio, con un mezzo molto triviale, con quello del nostro albergatore. — È dunque alloggiato all’Albergo di Londra con voi? — Non solo nel medesimo albergo, ma nello stesso piano. — E come si chiama? dovete al certo conoscerne il nome. — Perfettamente: il conte di Monte-Cristo. — Non è un nome di famiglia antica. — No, è il nome dell’isola che ha comprato. — Ed egli è conte? — Conte toscano. — Finalmente ci adatteremo a questo come agli altri, riprese la contessa che era di una delle più grandi ed antiche famiglie delle vicinanze di Venezia. E che uomo è? — Domandatene al visconte de Morcerf. — Voi sentite, signore, vengo rimessa al vostro giudizio. — Noi saremmo incontentabili, se non lo trovassimo grazioso, rispose Alberto; un amico da dieci anni non avrebbe fatto più di quello che egli ha fatto, e ciò con tanta grazia, delicatezza e cortesia, che fanno conoscere in lui un vero uomo di mondo. — Badiamo, disse la contessa ridendo, vedrete che il mio Vampiro non sarà che un qualche nuovo arricchito che vuol farsi perdonare i suoi milioni. Ed essa l’avete veduta? — Chi, essa? domandò Franz ridendo. — La bella greca di ieri sera. — No. Credo bene aver inteso il suono della sua _Guzla_, ma ella è rimasta perfettamente invisibile. — Vale a dire, quando voi dite invisibile, mio caro Franz, disse Alberto, è soltanto per fare il misterioso. Per chi avete dunque preso quel dominò blu che era alla finestra parata di damasco bianco del palazzo Ruspoli? — Il conte adunque aveva tre finestre al palazzo Ruspoli? — Sì, siete voi passata pel Corso? — Sì, e chi non è passato pel Corso in quest’oggi? — Ebbene! avete osservate due finestre parate di damasco giallo, ed una di damasco bianco con una croce rossa? Queste tre finestre erano del conte. — Davvero! questi dunque è un nababbo? sapete quanto costano tre finestre come quelle per gli otto giorni del carnevale? ed aggiungete nel palazzo Ruspoli che è nella più bella situazione del Corso? — Due o trecento scudi romani. — Dite piuttosto due o tremila. — Oh! diavolo. — È forse dalla sua isola che ritrae queste rendite? — La sua isola non gli frutta un baiocco. — Perchè dunque l’ha comprata? — Per fantasia. — Dunque egli è un originale? — Il fatto si è, disse Alberto, che mi è sembrato molto eccentrico. Se abitasse Parigi, se frequentasse i nostri teatri vi direi o che è un tristo celiatore che fa da modello, o che è un povero diavolo che si è perduto nella moderna letteratura. In verità questa mattina è venuto fuori con due o tre scappate degne di Didier o d’Antony. In questo momento entrò una visita, e secondo l’uso, Alberto dovette cedere il posto all’ultimo arrivato; questa congiuntura ebbe per resultato non solo il cambiamento del luogo, ma ancora quello dell’argomento della conversazione. Un’ora dopo i due amici ritornavano all’albergo. Pastrini erasi di già occupato dei loro abiti da maschera per la dimane, e promise loro che rimarrebbero soddisfatti della sua intelligente alacrità. La dimane infatto alle nove entrò nella camera di Franz con un sartore carico di otto o dieci costumi da contadini romani. I due amici ne scelsero due simili, e che andavano bene alla loro corporatura, incaricarono l’albergatore di far cucire del nastro a ciascuno dei cappelli, e di procurar loro due di quelle belle sciarpe di seta a righe traverse con colori vivi, di cui gli uomini del popolo sono soliti cingersi la vita nei giorni di festa. Alberto aveva fretta di vedere qual figura avrebbe fatto col nuovo abito che componevasi di una giacca e un pantalone di velluto blu, di calze ad angoli ricamati, di scarpe colle fibbie e di un gilè di seta. Il giovine, del resto, non poteva che guadagnarci con questo abito pittoresco, e quando la sciarpa ebbe cinto gli eleganti fianchi, quando il cappello, leggermente piegato sopra una orecchia lasciò cadere un gran mazzo di nastri, Franz fu costretto di confessare che i costumi hanno sovente una gran parte nella superiorità fisica che si accorda ad alcuni popoli. I Turchi nei tempi addietro, tanto pittoreschi colle loro zimarre lunghe, di colori vivi, non sono ora ributtanti coi soprabiti blu abbottonati, e la calotta greca che lor dà l’aspetto di una bottiglia di vino col turacciolo rosso? Franz fece i suoi rallegramenti ad Alberto, che rimasto in piedi avanti lo specchio sorrideva a sè stesso con un’aria di soddisfazione che nulla aveva di equivoco. In questo mentre entrò il conte di Monte-Cristo: — Signori, disse loro, per quanto sia gradevole un compagno di piacere, la libertà è ancora più aggradevole. Vengo ad annunziarvi che per oggi ed i giorni successivi lascio a vostra disposizione la carrozza di cui vi siete serviti ieri. Il nostro albergatore vi avrà detto che ne ho prese in fitto tre o quattro; voi dunque non me ne private: usatene liberamente sia per andare ai divertimenti, sia pei vostri affari. Il nostro luogo di convegno, se avremo qualche cosa a dirci, sarà il palazzo Ruspoli. I due giovani volevano fare qualche osservazione, ma essi non avevano realmente alcuna buona ragione per rifiutare un’offerta che d’altra parte aggradivano assai, e terminarono coll’accettare. Il conte di Monte-Cristo restò circa un quarto d’ora con loro parlando di tutto con molta facilità. Egli era, come si è potuto osservare, molto al corrente della letteratura di tutti i paesi. Un colpo d’occhio ai muri delle sue camere provava a Franz e ad Alberto che egli era amante di quadri. Qualche parola senza pretensione, lasciata cadere di passaggio, provò loro che non era estraneo alle scienze e sembrava soprattutto che si fosse particolarmente occupato di chimica. I due amici non avevano la pretensione di restituire al conte la colazione che loro aveva data; sarebbe stata una cattiva burla, offrirgli in cambio della sua eccellente tavola, l’ordinario molto mediocre di Pastrini. Essi lo dissero francamente, ed egli ricevette le loro scuse come uomo che apprezzava la loro delicatezza. Alberto era tanto rapito dalle maniere del conte, che, se non fosse stato così fornito di scienza, lo avrebbe creduto un vero gentiluomo. La libertà di disporre interamente della carrozza lo ricolmava di gioia, aveva le sue mire sulle graziose contadinelle e siccome erano apparse il giorno innanzi in una elegantissima carrozza, era ben contento di continuare a comparire su questo punto in uno stato di eguaglianza con esse. A un’ora e mezzo i due giovani discesero; il cocchiere ed i servitori avevano avuto l’idea di soprapporre alle loro pelli di bestia le livree, cosa che dava loro un aspetto anche più grottesco del giorno innanzi, e che procurò loro i rallegramenti di Franz e di Alberto il quale aveva attaccato sentimentalmente all’occhiello della giacca il mazzetto di viole appassite. Al primo suono della campana partirono, e si precipitarono nella grande strada del Corso per la via Vittoria. Al secondo giro un mazzetto di viole fresche partì da un calesse carico di pagliaccine, e venne a cadere in quello del conte; e ciò indicò ad Alberto ed al suo amico, che le contadinelle del giorno innanzi avevano cambiato costume; e fosse caso, o un sentimento uguale a quello che aveva fatto operare i due amici, mentre che con tutta galanteria avevano preso il loro costume, esse dalla loro parte avevano preso quello dei due compagni. Alberto adattò il mazzetto di viole fresche nel posto dell’altro; ma conservò il mazzetto appassito in mano, e quando incontrò di nuovo il calesse, egli lo portò amorosamente alle labbra, atto che destò l’allegria non solo di quella che lo aveva gettato, ma ancora di tutte le sue pazze compagne. La giornata non fu meno animata della precedente. Anzi è probabile che un profondo osservatore vi avrebbe potuto riconoscere un aumento di rumore e di allegria. In un momento, videro il conte alla finestra, ma quando la carrozza ripassò era già disparso. È inutile il dire che il cambio delle civetterie tra Alberto e la pagliaccina dei mazzetti di viole durò tutta la giornata. La sera quando rientrarono, Franz ritrovò una lettera dell’ambasciata; venivagli annunziato che la dimane avrebbe avuto l’onore di essere ricevuto da sua Santità. In tutti i suoi viaggi precedenti che aveva fatto a Roma aveva chiesto ed ottenuto lo stesso favore; e tanto per religione che per riconoscenza non aveva voluto mettere il piede nella capitale del mondo cristiano senza umiliare il suo rispettoso omaggio ai piè di uno dei successori di S. Pietro che ha dato il raro esempio di tutte le virtù: egli non poteva adunque in quel giorno pensare al carnevale; poichè, ad onta della bontà di cui egli circonda la sua grandezza, è sempre con un rispetto pieno di profonda emozione che uno si appresta ad inchinarsi davanti a questo nobile e santo vecchio. Uscendo dal Vaticano, Franz ritornò direttamente all’albergo, evitando ancora di passare per la strada del Corso. Egli portava seco un tesoro di pietosi pensieri ai quali sarebbe stata una profanazione il contatto delle folli allegrezze delle maschere. Alle cinque e dieci minuti Alberto rientrò; era al colmo della gioia; la pagliaccina aveva ripreso il costume da contadinella, e nell’incontrare la carrozza d’Alberto erasi levata per un momento la maschera. Ella era graziosissima. Franz fece i suoi complimenti ad Alberto che li ricevè come da persona che riconosca essergli dovuti. Aveva osservato, diceva esso, da alcuni segni d’eleganza inimitabile, che la sua bella sconosciuta doveva appartenere alla più alta aristocrazia. Quindi risolvette scriverle la dimane. Franz, mentre riceveva questa confidenza, osservò che Alberto aveva qualche cosa a chiedergli, e ciò nonostante esitava a domandare. Egli insistè dichiarandogli esser pronto a fare per la sua felicità tutti i sacrifici che fossero in suo potere. Alberto si fece pregare, precisamente tanto tempo quanto ne esige un’amichevole cortesia; quindi finalmente confessò a Franz che renderebbegli un sommo servigio abbandonando per la dimane la carrozza a lui solo. Alberto attribuiva all’assenza del suo amico l’estrema bontà che aveva avuto la bella contadina nell’alzare la maschera. Si capirà che Franz non era tanto egoista per trattenere Alberto nel bel mezzo di un’avventura che prometteva di riuscire ad un tempo gradita alla sua curiosità, e lusinghiera per il suo amor proprio. Egli conosceva abbastanza la poca secretezza del suo degno amico per esser sicuro che lo avrebbe tenuto al corrente di tutti i più piccoli particolari della sua buona fortuna; e siccome, da tre o quattro anni che percorreva l’Italia in tutti i sensi, non aveva avuta mai la combinazione di cominciare neppure un simile intrigo per conto suo, Franz non era dispiacente d’imparare come vanno le cose in simili affari. Promise dunque ad Alberto che per la dimane si contenterebbe di guardare lo spettacolo dalle finestre del palazzo Ruspoli. Infatto il giorno dopo vide passare e ripassare Alberto. Egli aveva un enorme mazzo di fiori senza dubbio incaricato di essere il portatore del biglietto amoroso. Questa probabilità si cambiò in certezza quando Franz rivide il medesimo mazzo, notevole per un giro di camelie bianche, fra le mani della graziosa pagliaccina vestita di seta color di rosa. Così la sera non era più gioia ma delirio. Alberto non dubitava che la bella incognita non gli avesse risposto collo stesso mazzetto. Franz ne prevenne i desideri dicendogli che tutto quel rumore lo stancava, e che era risoluto ad impiegare la giornata seguente a rivedere il suo album, e a prendere annotazioni. Del resto, Alberto non erasi ingannato nelle sue previsioni; il giorno dopo Franz lo vide entrare di slancio nella camera scuotendo con trionfo un involtino di carta che teneva per uno degli angoli: — Ebbene! mi sono sbagliato? — Ha dunque risposto? gridò Franz. — Leggete. Questa parola fu pronunziata con una intonazione di voce impossibile a descriversi. Franz prese il biglietto, e lesse: «Martedì sera, alle sette, discendete dalla carrozza dirimpetto alla via dei Pontefici, e seguite la contadina romana che vi strapperà il vostro moccoletto, quando arriverete al primo gradino della chiesa di S. Gaetano. Abbiate cura, perchè ella possa riconoscervi, di mettere un nastro color di rosa sulla spalla del vostro costume da pagliaccio. «Da oggi in là voi non mi rivedrete più. «Costanza e discrezione.» — Ebbene! diss’egli a Franz, quando ebbe finita questa lettura, che ne pensate, mio caro? — Penso, rispose Franz, che la cosa prende l’indole di un’avventura molto piacevole. — Questo è pure il mio parere, ed ho gran timore che andrete solo al ballo del principe T... Franz ed Alberto avevano ricevuto in quella stessa mattina il biglietto d’invito del celebre banchiere romano. — State in guardia, disse Franz, tutta l’aristocrazia sarà dal principe, e se la vostra bella sconosciuta appartiene realmente alla nobiltà, non potrà fare a meno d’intervenirvi. — Che v’intervenga o no, io conservo l’opinione che ho di lei, continuò Alberto. Voi avete il biglietto; sapete la meschina educazione che ricevono in Italia le donne del mezzo ceto[2]; ebbene! rileggete il biglietto, osservate il carattere, e trovatemi uno sbaglio di lingua, o di ortografia. — Infatto il carattere era elegante, l’ortografia irreprensibile. — Voi siete dei predestinati, disse Franz, nel rendere ad Alberto per la seconda volta il biglietto. — Ridete quanto vi piace, scherzate a vostro bell’agio, riprese Alberto; io sono innamorato. — Oh! mio Dio, voi mi spaventate, gridò Franz, vedo bene che non solamente andrò solo al ballo del principe, ma ancora che ritornerò solo a Firenze. — Il fatto è che, se la mia sconosciuta è amabile quanto è bella, vi dichiaro che mi stabilisco a Roma per sei settimane almeno. Io adoro Roma, e poi ho sempre avuto un trasporto straordinario per l’archeologia. — Ancora un altro o due di questi incontri, e non dispero di vedervi membro dell’accademia di belle lettere. Senza dubbio Alberto si accingeva a discutere seriamente sui diritti che poteva avere ad un seggio nell’accademia, ma vennero in quel momento ad annunziare che il pranzo era all’ordine; l’amore in Alberto non era contrario all’appetito, si affrettò, dunque col suo amico a mettersi a tavola, risoluto di riprendere la discussione dopo il pranzo. Dopo il pranzo fu annunziato il conte di Monte-Cristo. Da due giorni i due amici non lo avevano veduto. Un affare lo aveva chiamato a Civitavecchia, almeno per quanto disse Pastrini. Egli era partito nella sera del giorno innanzi, e già si ritrovava di ritorno da un’ora. Il conte fu grazioso. Sia che stesse all’erta, sia che l’occasione non isvegliasse in lui le fibre acrimoniose, che certi particolari avevano di già fatto risuonare due o tre volte nelle sue parole, egli mantennesi presso a poco come tutt’altro uomo. Egli era per Franz un vero enigma. Il conte non poteva dubitare che il giovine viaggiatore non lo avesse riconosciuto, e ciò non pertanto, non avea detto una sola parola dopo il loro nuovo incontro che potesse indicare averlo egli veduto altrove. Per la sua parte Franz, qualunque fosse la volontà che avesse di fare allusione al loro primo incontro, il timore di far cosa disaggradevole ad un uomo che aveva ricolmato sì lui come il suo amico di gentilezze, lo trattenne; continuò dunque a mantenersi riservato come il conte. Il conte aveva saputo che i due amici avevano voluto far prendere un palco al teatro Argentina, e che erasi lor risposto non esservene alcuno. Per conseguenza portava loro la chiave del suo; almeno questo era l’apparente motivo della sua visita. Franz ed Alberto fecero qualche difficoltà, allegando il timore di privarne lui; ma il conte rispose che andando quella sera al teatro Valle, il suo palco al teatro Argentina sarebbe rimasto vuoto. Questa assicurazione risolvette i due amici ad accettare. Franz erasi un poco per volta abituato a quel pallore del conte, che avevalo tanto colpito la prima volta che lo aveva veduto. Egli non poteva fare a meno di render giustizia alla bellezza della sua testa severa, della quale questo pallore era il solo difetto o forse la principal bellezza. Vero eroe di Byron, Franz non poteva non solo vederlo, ma neppur pensare a lui, senza immaginarsi quel viso tetro sulle spalle di Manfredi o sotto la cotta d’armi di Lara. Egli aveva sulla fronte quella piega che indica la presenza incessante di un amaro pensiero, aveva quegli occhi ardenti che leggono nel più profondo delle anime, quel labbro superbo e disprezzante che dà alle parole quella particolare indole che fa sì che esse s’imprimano profondamente nella memoria di chi le ascolta. Il conte non era più giovane, aveva 40 anni almeno, ma ciò nonostante ben si capiva che era fatto per vincerla sui giovani coi quali sarebbesi trovato. In realtà, e ciò per un’ultima rassomiglianza cogli eroi fantastici del poeta inglese, il conte sembrava avere il dono dell’affascinazione. Alberto era incantato della fortuna che aveva avuto insieme con Franz d’incontrare un uomo simile. Franz era meno entusiasta; ciò nonostante sotto l’influenza che esercita un uomo superiore su gli spiriti di coloro che lo circondano. Egli pensava al disegno, che il conte aveva di già manifestato due o tre volte, di andare a Parigi, e non dubitava che col suo naturale eccentrico, col viso caratteristico e colla fortuna colossale, ottenuto non avesse grandissimo effetto. Però non desiderava di trovarsi a Parigi quando quegli vi fosse. La serata fu passata come si passano ordinariamente al teatro in Italia, non ad ascoltare i cantanti, ma a fare delle visite ed a discorrere. La contessa G*** voleva ricondurre la conversazione sul conte, ma Franz le annunziò che aveva qualche cosa di più nuovo da narrarle, e ad onta delle dimostrazioni di falsa modestia, alle quali si lasciò andare Alberto, raccontò alla contessa il grande avvenimento che da tre giorni formava l’oggetto della preoccupazione dei due amici. Siccome questi intrighi non son rari nè in Italia, nè altrove, almeno se devesi credere ai viaggiatori, la contessa non fece menomamente la incredula, e felicitò Alberto sul principio di un’avventura che prometteva di terminare in un modo assai soddisfacente. Si lasciarono, promettendosi di ritrovarsi al ballo del principe T... al quale era stata invitata tutta Roma. La dama del mazzetto mantenne la parola: nè il giorno dopo nè l’altro ella dette segno ad Alberto di esistere. Finalmente giunse il martedì, l’ultimo ed il più rumoroso giorno del carnevale. Il martedì, i teatri si aprono alle dieci del mattino, perchè dopo le otto della sera entrasi in quaresima. Il martedì, tutti quelli che per mancanza di tempo, di entusiasmo o di danaro non hanno preso parte alle precedenti feste si mischiano all’ultimo baccanale, si lasciano trascinare dall’orgia, e tributano la loro parte di rumore e di movimento al rumore ed al movimento generale. Dalle due fino alle cinque, Franz ed Alberto, stettero nella fila del Corso battagliando a pugni di confetti colle carrozze della fila opposta, colle finestre, e coi pedoni che circolano fra i piedi dei cavalli, fra le ruote delle carrozze, senza che accada mai in mezzo a questa spaventosa mischia un solo accidente, una sola disputa, una sola rissa. Sotto questo rapporto gl’Italiani sono il popolo per eccellenza. Le feste per essi sono vere feste. L’autore di questa storia, che ha abitato l’Italia cinque o sei anni non si ricorda mai di avere veduta una sola solennità turbata da uno di quegli avvenimenti che servono di corollario alle nostre. Alberto trionfava col suo costume da pagliaccio. Egli aveva sopra una spalla un nastro color di rosa, le cui estremità gli cadevano fino al garetto, per non produrre alcuna confusione fra lui e Franz, che d’altra parte aveva conservato il vestito da contadino romano. Più il giorno si avanzava, e più il tumulto diveniva grande; non eravi su tutto quel selciato, in tutte quelle carrozze, a tutte quelle finestre, una bocca muta, un braccio ozioso; era un vero uragano umano, composto di un tuono di grida, e di una tempesta di confetti, di mazzetti, d’aranci e di fiori. Alle tre la esplosione dei mortaletti tirati ad un tempo sulla piazza del Popolo e su quella di Venezia, rompendo a grande stento quest’orribile tumulto, annunciò che stavano per cominciare le corse. Le corse ed i moccoli sono gli episodi particolari degli ultimi giorni di Carnevale. Allo sparo dei mortaletti le carrozze rompono nello stesso punto le file e voltano ciascuna nella strada traversa più vicina al luogo ove si ritrovano. Tutte queste evoluzioni si fanno con una meravigliosa rapidità, e ciò senza che la polizia si occupi menomamente di assegnare a ciascuno il suo posto, o di tracciare a ciascuna la sua strada. I pedoni si ritirano contro il muro dei palazzi, quindi si sente un rumore di cavalli e uno sguainar di sciabole. Un plotone di Carabinieri, che ne presenta 15 di fronte, percorre al galoppo in tutta la lunghezza il Corso, che fa sgombrare per dar posto alla corsa dei barberi. Quando il plotone arriva al palazzo di Venezia, il rumore di un’altra batteria di mortaletti avvisa che la strada è libera. Quasi subito, in mezzo ad un clamore immenso, universale, inaudito, si videro passare come ombre sette o otto cavalli eccitati dalle grida di 300mila persone e dalle castagnette di ferro appuntato che loro balzano sul dorso, poi il cannone di castel S. Angiolo tirò tre colpi, e ciò per annunziare che il numero 3 aveva vinto. Subito senz’altro segnale che quello, le carrozze si rimisero in movimento, rifluendo verso il Corso, uscendo da tutte le strade come torrenti contenuti per un momento, che gettatisi tutti insieme nel letto del fiume cui alimentano, e l’onda immensa riprese più rapida che mai il suo corso fra le due rive di granito. Soltanto un nuovo elemento di rumore e di movimento erasi ancora mischiato a questa folla; entrarono in iscena i mercanti di moccoli. I moccoli, o moccoletti sono ceri che variano dalla grossezza del cero pasquale fino a quella della coda di un sorcio, e risvegliano negli attori della grande scena, con cui termina il carnevale romano, due opposte preoccupazioni: 1.º Quella di conservare acceso il suo moccoletto. 2.º Quella di spegnere il moccoletto degli altri. Avviene del moccoletto ciò che accade della vita degli uomini. Essi per quanto è in poter loro, si adoprano a conservarla, e sebbene certi che presto o tardi aver debba il suo fine, pur nonostante hanno indagato e scoperto mille modi per reciderla e toglierla innanzi tempo; è vero che per questa suprema operazione il diavolo non ha mancato di venirgli in aiuto. Il moccoletto si accende avvicinandolo ad un lume qualunque. Ma chi potrà descrivere i mille mezzi inventati per ispegnere il moccoletto, i soffietti giganteschi, gli spegnitoi _mostri_, i ventagli sovrumani. Ciascuno si sollecitò a comprare i moccoletti, e Franz ed Alberto fecero come tutti gli altri. La notte si avvicinava rapidamente, e già al grido: _Moccoli!_ ripetuto dalle voci stridule degl’industriosi, due o tre stelle cominciarono a brillare al di sopra della folla. Fu come un segnale. In dieci minuti, 50 mila lumi scintillarono discendenti dalla piazza di Venezia a quella del Popolo, e risalenti da quella del Popolo a quella di Venezia. Si sarebbe detta la festa dei fuochi fatui. Chi non ha veduto questa festa, è impossibile che se ne possa formare un’idea. Supponete tutte le stelle che si stacchino dal cielo, e vengano a formare sulla terra una danza insensata; il tutto accompagnato da grida che orecchio umano non ha mai potuto sentire sul rimanente della superficie del globo. È particolarmente in questo momento che non evvi più distinzione sociale. Il facchino attacca il Principe, questi il Trasteverino, il Trasteverino il borghese, ciascuno soffiando, spegnendo, riaccendendo. Se il vecchio Eolo comparisse in quel momento sarebbe proclamato re dei moccoletti, ed Aquilone l’erede presuntivo alla corona. Questa corsa folle e fiammeggiante, durò circa due ore; la strada del Corso era rischiarata come in pieno giorno, si distinguevano i lineamenti degli spettatori fino al terzo, o quarto piano. Di cinque minuti in cinque minuti Alberto guardava l’orologio; finalmente esso segnò le sette. I due amici si ritrovavano a poca distanza dalla via dei Pontefici; Alberto saltò fuori dalla carrozza col suo moccoletto in mano. Due, o tre maschere vollero avvicinarsi per ispegnerlo, o per toglierlo; ma da bravo _boxeur_, Alberto li rinviò gli uni dopo gli altri dieci passi distanti da lui, continuando la sua corsa verso la chiesa di S. Giacomo. I gradini, erano carichi di curiosi, e di maschere che lottavano per istrapparsi il moccoletto dalle mani. Franz seguiva con gli occhi Alberto, e lo vide mettere il piè sul primo scalino, poi quasi subito una maschera che portava il ben conosciuto costume della contadina dal mazzetto, allungò il braccio, e gli tolse il moccoletto senza ch’egli facesse la più piccola resistenza. Franz era troppo lontano per sentire le parole che si scambiarono, ma senza dubbio non furono ostili, poichè vide allontanarsi Alberto tenendo sotto il braccio la contadinella. Per qualche tempo li seguì in mezzo alla folla, ma alla via del Macello li perdè di vista. D’improvviso il suono della campana che dà il segnale della chiusa del Carnevale si fe’ sentire, e nel medesimo punto tutti i moccoli si spensero come per incanto. Sarebbesi detto che un solo ed immenso colpo di vento li aveva tutti annientati. Franz si trovò nell’oscurità più profonda. Allora tutte le grida cessarono come se il soffio possente che aveva spento i lumi, avesse portato via nel medesimo tempo il rumore. Non s’intese più che il rotolar delle carrozze che riconducevano le maschere alle loro case; non si videro più che pochi lumi brillare dietro le finestre. ... Il Carnevale era finito. XXXVII. — LE CATACOMBE DI S. SEBASTIANO. Forse Franz non aveva mai provato in vita sua una impressione così rapida, un passaggio così improvviso dall’allegria alla tristezza, quanto in questo momento; sarebbesi detto che per opera del soffio di qualche demone della notte, Roma era stata cambiata in una vasta sepoltura. Per una combinazione che aumentava ancora l’intensità delle tenebre, la luna essendo mancante, non sorgeva che dopo le undici; e le strade per le quali passava il giovine erano immerse nella più profonda oscurità. Del rimanente però il tragitto era corto, e in capo a dieci minuti la sua carrozza, o per meglio dire quella del conte, era davanti all’albergo di Londra. Il pranzo era all’ordine: ma siccome Alberto aveva dato avviso che non contava di tornare presto, così Franz si mise a tavola senza di lui. Pastrini, che era accostumato a vederli pranzare insieme, s’informò della ragione dell’assenza di lui: ma Franz si limitò a rispondergli che Alberto aveva dovuto recarsi ad un invito ricevuto il giorno innanzi. Il subitaneo spegnersi dei moccoletti, l’oscurità che era succeduta alla luce, il silenzio che aveva sostituito l’immenso rumore, avevano impresso nello spirito di Franz una certa melanconia che non era esente da inquietudine. Pranzò taciturno, ad onta delle officiose premure dell’albergatore, che entrò due o tre volte per sentire se gli bisognasse cosa alcuna. Franz aveva stabilito di aspettare Alberto il più tardi possibile. Ordinò dunque la carrozza per le undici, pregando Pastrini di mandarlo ad avvisare tosto che fosse tornato Alberto all’albergo, qualunque ne potesse essere il motivo. Alle undici Alberto non era ancora ritornato. Franz si vestì, e partendo avvisò l’albergatore che avrebbe passata la notte dal principe Torlonia. La casa del principe Torlonia è una delle più belle case di Roma; sua moglie è una delle discendenti della famiglia Colonna, e disimpegna gli onori di famiglia in modo perfetto: ne risulta quindi che le feste del principe banchiere hanno una celebrità europea. Franz ed Alberto erano giunti in Roma con lettere di raccomandazione per lui, perciò la prima interrogazione che il principe gli fece, fu di chiedere che fosse avvenuto del compagno di viaggio. Franz rispose che lo aveva lasciato pochi momenti prima che si spegnessero i moccoletti, e che lo aveva perduto di vista nella via del Macello. — Dunque non è ritornato a casa? domandò il principe. — L’ho aspettato fino adesso: rispose Franz. — E sapete dove sia andato? — Precisamente no: ciò non ostante credo che si tratti di qualche cosa di simile ad un convegno. — Diavolo! disse il principe: è un brutto giorno, o per meglio dire una cattiva sera per far tardi, n’è vero, contessa? Queste ultime parole erano dirette alla contessa G***, che giungeva allora, e che passeggiava al braccio del fratello del principe, il Duca di Bracciano. — Io trovo al contrario che questa è una bellissima notte, e quelli che sono qui non avranno a lamentarsi d’altro se non che passi troppo presto. — Ma io, riprese sorridendo il principe, non parlo di quelli che sono qui, essi non corrono altro pericolo che, gli uomini d’innamorarsi di voi, e le donne ammalarsi di gelosia vedendovi così bella: parlo di coloro che scorrono le strade di Roma. — Eh! mio Dio! e chi volete che scorra le strade di Roma a quest’ora, se non quei che vengono al ballo? — Il nostro amico Alberto de Morcerf, signora contessa, che io ho lasciato mentre seguiva la sua bella incognita verso le sette di sera, rispose Franz, e che dopo non ho più riveduto. — Come! non sapete dove sia? — Niente affatto. — Ha seco le armi? — È vestito da pagliaccio... — Non avreste dovuto lasciarlo andare, disse il principe a Franz, voi che conoscete Roma meglio di lui. — Sì davvero! sarebbe stato lo stesso che aver voluto fermare il numero tre dei barberi che oggi ha vinto il premio della corsa, rispose Franz, e poi che volete che gli accada? — Chi lo sa? la notte è oscura, ed il Tevere è molto vicino alla via Macello!... Franz sentì un fremito scorrergli per le vene, sentendo le idee del principe e della contessa essere così bene d’accordo co’ suoi timori personali. — Per questo ho avvisato l’albergatore, che avevo l’onore di passare qui la notte, disse Franz; e debbono venire ad avvertirmi qui, appena ritorna. — Osservate, disse il principe a Franz, ecco appunto un mio domestico, che credo cerchi di voi. Il principe non s’ingannava: subito che il domestico ebbe scoperto Franz si avvicinò a lui, e gli disse: — Eccellenza, l’albergatore di Londra vi fa avvisato, che alla locanda vi è un uomo che vi aspetta con una lettera del conte di Morcerf. — Con una lettera del conte! gridò Franz. — Sì. — E chi è quest’uomo? — Non lo so. — E perchè non è venuto a portarmela qui? — Il messaggiero non mi ha data alcuna spiegazione. — E dov’è il messaggiero? — È partito subito che mi ha veduto entrare nella sala per cercarvi. — Oh! mio Dio, disse la contessa a Franz, andate presto: povero giovine! forse gli è accaduta qualche disgrazia. — Corro subito, disse Franz. — Vi rivedremo per sapere le notizie? chiese la contessa — Sì, se la cosa non è grave: altrimenti non posso prevedere ciò che farò io stesso. — In ogni evento siate prudente, disse la contessa. — Oh! state tranquilla. — Franz prese il cappello, e partì in tutta fretta. Egli aveva licenziata la carrozza, ordinandola per le due. Ma per fortuna la casa del principe, che corrisponde da una parte sul Corso, e dall’altra sulla piazza dei SS. Apostoli, è a dieci minuti di cammino dall’albergo di Londra. Avvicinandosi all’albergo Franz vide un uomo ritto in mezzo alla strada avvolto in un gran mantello; non dubitò che questi fosse il messaggiero d’Alberto; rimase però meravigliato che questi fosse il primo ad indirigergli la parola: — Che volete, Eccellenza? diss’egli, facendo un passo indietro come uno che voglia tenersi in guardia. — Non siete voi, chiese Franz, che mi avete portato una lettera del conte di Morcerf? — V. E. abita all’albergo di Pastrini? — Sì. — V. E. è il compagno di viaggio del conte? — Sì. — Come si chiama? — Il barone Franz d’Épinay. — È precisamente V. E. quegli cui è diretta questa lettera. — Vi abbisogna risposta? domandò Franz nel prendere la lettera dalle sue mani. — Sì, o almeno il vostro amico lo spera. — Allora salite da me che ve la darò. — Sarà meglio che l’aspetti qui, disse ridendo il messaggiero. — E perchè? — V. E. lo capirà meglio quando avrà letta la lettera. — Allora vi tornerò a ritrovare qui? — Senza dubbio. Franz entrò e per le scale s’imbattè in Pastrini. — Ebbene? gli domandò questi. — Ebbene! che? rispose Franz. — Avete veduto l’uomo che desiderava parlarvi per parte del vostro amico? — Sì, l’ho veduto, rispose Franz, e mi ha consegnata questa lettera. Vi prego di fare accendere un lume nella mia camera. — L’albergatore dette ordine ad un domestico di precedere Franz col lume. Il giovine aveva osservata un’aria spaventata sul viso di Pastrini, il che non aveva fatto che raddoppiargli la curiosità di leggere la lettera d’Alberto: si accostò al candeliere, tosto che fu accesa la candela, e spiegò il foglio. La lettera era scritta e firmata dalla mano d’Alberto. Franz la lesse due volte, tanto era lontano dal figurarsi il contenuto. Eccola riportata letteralmente. «Mio caro amico, subito che avrete ricevuta la presente abbiate la compiacenza di prendere nel mio portafogli, che troverete nel cassettino del mio scrigno, la credenziale: uniteci la vostra, se non basta. Correte da Torlonia, e ritirate da lui sul momento quattro mila scudi, che consegnerete al latore della presente. Preme grandemente che questa somma mi giunga senza alcun ritardo. Non insisto di più, contando su voi come voi potreste contare su di me. «Vostro amico. ALBERTO DE MORCERF. «P. S. _I believe now to Italian banditi_[3]. Sotto a queste righe erano scritte da mano sconosciuta le seguenti parole: «Se alle sei di mattina i quattro mila scudi non sono nelle mie mani, alle sette il conte Alberto avrà cessato di vivere. LUIGI VAMPA. Questa seconda sottoscrizione spiegò ogni cosa a Franz, che capì l’avversione mostrata dal messaggiero a salire in camera; la strada gli sembrava più sicura. Alberto era caduto nelle mani di quel famoso capo di banditi, alla cui esistenza non voleva credere. Non v’era tempo a perdere, corse allo scrigno, l’aprì, e nel cassettino indicato ritrovò il portafogli, ed in esso la credenziale di seimila scudi in tutto, ma Alberto ne aveva di già presi tremila. Franz non aveva alcuna credenziale; essendo stabilito a Firenze, ed essendo venuto a Roma per passarvi gli otto giorni del carnevale non aveva preso che un centinaio di luigi, e non gliene rimanevano che appena 50. Gli mancavano dunque sette o ottocento scudi per poter riunire, fra lui ed Alberto, la somma richiesta. È vero che in simile congiuntura Franz poteva calcolare sulla gentilezza di Torlonia. Egli si disponeva dunque di ritornare al palazzo del principe senza perdere un momento, quando d’improvviso gli venne alla mente una felice idea. Pensò al conte di Monte-Cristo. Egli stava per far chiamare Pastrini, quando questi si presentò alla porta. — Mio caro Pastrini, credete che il conte sia in casa? — Sì, eccellenza, è entrato or ora. — Avrà avuto tempo d’andare a letto? — Non credo. — Allora suonate alla sua porta, ve ne prego, e domandate in mio nome il permesso di potermi presentare a lui. — Pastrini si affrettò ad eseguire la commissione; cinque minuti dopo rientrò: — Il conte aspetta V. E., diss’egli. — Franz traversò il pianerottolo; un domestico lo introdusse dal conte. Egli era in un piccolo gabinetto che Franz non aveva per anche veduto, tutto circondato da un divano: il conte gli venne incontro: — Oh! qual buon vento vi conduce da me in quest’ora? gli disse; venite forse a chiedermi da cena? Per bacco! sarebbe davvero una bella gentilezza per parte vostra. — No, vengo a parlarvi di un affare di gran momento. — Di un affare! disse il conte, fissandolo con quello sguardo scrutatore che gli era proprio; e di quale affare? — Siamo soli? — Il conte andò alla porta, poi ritornò. — Assolutamente soli, diss’egli. Franz gli presentò la lettera d’Alberto: — Leggete, gli disse. Il conte lesse la lettera. — Ah! ah! fece egli. — Avete veduto il _post-scriptum?_ — Sì, lo vedo bene. «Se alle sei di mattina i quattro mila scudi non sono nelle mie mani, alle sette il conte Alberto avrà cessato di vivere. LUIGI VAMPA. — Che ne dite? domandò Franz. — Avete la somma che viene richiesta? — Sì, meno ottocento scudi. — Il conte si accostò allo scrigno e ne trasse un cassettino pieno d’oro: — Io spero, diss’egli a Franz, che non vorrete farmi l’ingiuria di dirigervi a tutt’altri fuorchè a me. — Vedete che all’opposto, sono venuto direttamente da voi, disse Franz. — Ed io ve ne ringrazio: prendete. — E fece segno a Franz di prendere nel cassettino. — Ma è poi assolutamente necessario di mandare questa somma a Luigi Vampa? chiese il giovine fissando a sua volta lo sguardo sul conte. — Diavolo! giudicatene da voi stesso: il post-scriptum è preciso. — Mi sembra che se voleste prendervi l’incomodo di pensarvi, forse ritrovereste un mezzo per semplificare di molto la faccenda, disse Franz. — E quale? chiese il conte meravigliato. — Per esempio, se andassimo insieme a ritrovar Luigi Vampa, son sicuro che non vi negherebbe la libertà di Alberto. — A me? quale influenza volete che abbia su questo bandito? — Non gli avete testè reso uno di quei servigi che non si dimenticano più? — E quale? — Non avete salvato la vita a Peppino? — Ah! ah! fece il conte; e chi ve lo ha detto? — Che importa a voi questo? io lo so. Il conte rimase per un momento muto col sopracciglio aggrottato. — E se io andassi a ritrovar Vampa, mi accompagnereste voi? — Quando la mia compagnia non vi fosse disaggradevole. — Ebbene! sia: la notte è bella; una passeggiata nella campagna romana non può farci che bene. — Bisognerà prendere armi? — Per far che cosa? — Danaro? — È inutile. Dove si trova l’uomo che ha portato questo biglietto? — Nella strada. — Aspetta la risposta? — Sì. — Bisogna sapere dove andremo: ora lo chiamerò. — È inutile, egli non ha voluto salire. — Da voi forse, ma da me non farà nessuna difficoltà. Il conte aprì la finestra del gabinetto che corrispondeva sulla strada, e fischiò in un modo particolare. L’uomo dal mantello si staccò dal muro cui era appoggiato e si avanzò fino al mezzo della strada. — Salite, disse il conte, con quel tuono con cui si darebbe un ordine al servitore. Il messaggiero obbedì senza indugio, senza esitazione anzi con sollecitudine. Saliti i quattro scalini dell’andito, entrò nell’albergo, ed in cinque secondi era già alla porta del gabinetto. — Ah! sei tu, Peppino disse il conte. Ma Peppino, invece di rispondergli, gli si gettò alle ginocchia, prese le mani del conte, e v’impresse a più riprese le labbra. — Ah! ah! disse il conte: tu non hai ancora dimenticato che ti ho salvata la vita? è singolare! eppure sono già scorsi otto giorni. — No, eccellenza, non lo dimenticherò mai, rispose Peppino coll’accento della più viva riconoscenza. — Mai? è troppo lungo; però è ancora molto che tu lo creda. Alzati e rispondimi. Peppino gettò uno sguardo inquieto su Franz. — Oh! Oh! tu puoi parlare davanti a S. E., disse il conte, poichè è un mio amico. Voi permettete che vi dia questo titolo? disse in francese volgendosi a Franz, ciò è necessario per ridestare la confidenza in costui. — Potete parlare in mia presenza, essendo io un amico del conte. — Alla buon’ora, disse Peppino volgendosi al conte, V. E. m’interroghi, ed io risponderò. — In che modo il conte Alberto è caduto nelle mani di Luigi? — Eccellenza! la carrozza del francese ha incrociata più di una volta quella di Teresa. — L’amica del capo? — Sì, il francese le ha fatto gli occhi dolci. Teresa si è divertita a rispondergli; il francese le ha gettato dei mazzetti, ella glie ne ha ricambiati, e tutto ciò, s’intende bene, col consenso del capo che era nella stessa carrozza. — Come! gridò Franz, Luigi Vampa era nella carrozza delle contadine romane? — Era quegli che guidava, mascherato da cocchiere, rispose Peppino. — E poi? chiese il conte. — Ebbene? in seguito il francese si levò la maschera; Teresa, sempre col permesso del capo, fece altrettanto; il francese domandò un convegno, Teresa l’accordò; soltanto fu Beppe che si trovò sugli scalini della chiesa di S. Giacomo. — Come! interruppe nuovamente Franz, quella persona che gli strappò il moccoletto?... — Era un giovine di 15 anni, rispose Peppino: ma il vostro amico non deve vergognarsi d’essere stato ingannato da lui, egli ne ha ingannati molti altri. — E Beppe lo ha condotto fuori le mura? domandò il conte. — Precisamente. Una carrozza li aspettava alla fine della strada Macello, Beppe vi salì, invitando il francese a seguirlo, egli non se lo fece dire due volte. Offerse con tutta galanteria la destra a Beppe, e gli si assise vicino; questi gli annunziò allora che lo avrebbe condotto in una villa a tre miglia da Roma; il francese lo assicurò di essere pronto a seguirlo in capo al mondo. Il cocchiere si avviò subito per la strada di Ripetta, giunse alla porta S. Paolo, e a dugento passi nella campagna, siccome il francese diventava un poco troppo imprudente, in fede mia, Beppe gli appuntò un paio di pistole alla gola, il cocchiere fermò subito i cavalli, e rivolgendosi sul sedile, fece altrettanto. Nello stesso tempo quattro dei nostri che erano nascosti dietro le rive dell’Almo si sono slanciati agli sportelli. Il francese aveva buona volontà di difendersi, e per poco non ha strangolato Beppe, a quanto ho inteso dire; ma non v’era da far nulla contro cinque uomini armati, ed è stato costretto ad arrendersi: allora fu fatto scendere di carrozza, e seguendo l’argine della piccola riviera, fu condotto da Teresa e Luigi che lo aspettavano nelle catacombe di S. Sebastiano. — Va bene! disse il conte volgendosi a Franz; mi pare che questa storia ne valga bene un’altra; che ne dite voi che ve ne intendete? — Io dico che la troverei ridicola, se fosse avvenuta a tutt’altri che al mio amico. — Fatto è, disse il conte, che se non mi aveste ritrovato in casa, questa era un’avventura che sarebbe costata un poco cara al vostro amico: ma tranquillatevi, egli ne sarà riscattato solo con un poco di paura. — E noi andiamo a trovarlo? domandò Franz. — Per bacco! tanto più perchè si trova in una località molto pittoresca. Conoscete le catacombe di S. Sebastiano? — No, non vi sono mai disceso; aveva però stabilito che un qualche giorno vi sarei andato. — Ebbene, ecco trovata l’occasione, e sarà difficile ritrovarne una migliore. Avete all’ordine la vostra carrozza? — No. — N’importa: io ho l’uso di farne stare una sempre pronta notte e giorno. — In ordine! — Sì, io sono molto capriccioso: vi confesso che qualche volta, alzandomi alla fine del pranzo, o nel mezzo della notte, mi prende la volontà di portarmi in un punto qualunque del mondo, e parto. — Il conte dette un tocco al campanello, il cameriere comparve. — Fate uscire la carrozza dalla rimessa, diss’egli, levate le pistole che stanno nelle saccocce; è inutile di svegliare il cocchiere, Alì guiderà. Dopo un momento s’intese il rumore della carrozza, che si fermò davanti alla porta. Il conte guardò l’orologio. — Mezz’ora dopo mezza notte, diss’egli, noi avremmo potuto partire tra cinque ore, e giungere ancora in tempo; ma questo ritardo forse avrebbe fatta passare una cattiva notte al vostro compagno; val dunque meglio andare di corsa a toglierlo dalle mani degl’infedeli. Siete sempre risoluto di accompagnarmi. — Più che mai. — Ebbene! andiamo adunque. Franz ed il conte uscirono seguiti da Peppino. Alla porta trovarono la carrozza. Alì era in _serpa_; Franz riconobbe lo schiavo muto della grotta di Monte-Cristo. Salirono in carrozza aperta; Peppino si pose vicino ad Alì e partirono al galoppo. Alì aveva già ricevuti gli ordini; poichè prese la strada del Corso, e traversò Campo Vaccino, percorse quella di S. Gregorio, e giunse alla porta di S. Sebastiano; ivi il portinaro volle fare qualche difficoltà, ma il conte di Monte-Cristo presentò un permesso del governatore di Roma di potere entrare ed uscire dalla città in qualunque ora del giorno e della notte; fu dunque aperta la porta; ed il portinaro ricevette un luigi pel suo incomodo, e passarono. La strada che percorreva la carrozza era l’antica via Appia, tutta costeggiata da antichi sepolcri. A quando a quando, al chiarore della luna che sorgeva, sembrava a Franz di vedere una specie di sentinella staccarsi da un rudero: ma ad un segnale di Peppino questa spariva immediatamente fra le ombre. Poco prima del circo di Caracalla la carrozza si fermò, Peppino venne ad aprire lo sportello, e Franz ed il conte discesero. — Fra dieci minuti, disse il conte al compagno, saremo arrivati. — Indi prese Peppino a parte, gli dette un ordine a bassa voce, e questi partì dopo essersi munito di una torcia presa nella cassetta della carrozza. Scorsero ancora cinque minuti, nei quali Franz vide il pastore inoltrarsi fra gli andirivieni del terreno che forma il suolo ineguale della campagna romana, e perdersi fra l’alta erba rossastra che sembra l’irta criniera di qualche gigantesco Leone. — Ora, disse il conte, seguiamolo. Entrambi s’inoltrarono nello stesso sentiero, che dopo cento passi li condusse per un piano inclinato in una piccola vallata. Ben presto videro due uomini parlarsi fra le ombre. — Dobbiam continuare ad inoltrarci? domandò Franz al conte, o aspettare? — Avanti, Peppino deve avere avvisata la sentinella del nostro arrivo. — In fatto uno di quei due uomini era Peppino, l’altro un bandito posto alle vedette. Franz ed il conte si avvicinarono, il bandito li salutò. — Eccellenza, disse Peppino volgendosi al conte, se vuole seguirmi, l’ingresso alle catacombe è qui a due passi. — Sta bene, disse il conte, cammina avanti. In fatto dietro ad un folto cespuglio, ed in mezzo a diverse rocce, si presentava un’apertura per la quale un uomo poteva appena passare. Peppino fu il primo a scivolare entro questa fenditura: ma appena ebbe fatto qualche passo il passaggio si allargò. Allora si fermò, accese la torcia, e si volse a vedere se era seguito. Il conte erasi introdotto pel primo per questa specie di spiraglio, e Franz venne dopo di lui. Il terreno si abbassava con una inclinazione dolce, e si allargava a seconda che s’internavano; ciò non ostante però Franz ed il conte erano obbligati a camminare ricurvi, ed avrebbero durato fatica a passare tutti e due di fronte. In tal modo fecero circa cinquanta passi, quindi si fermarono al grido di _chi vive?_; nello stesso tempo videro brillare la canna di un fucile al chiarore della loro stessa torcia. — _Amici!_ rispose Peppino: e si avanzò solo, disse alcune parole a bassa voce a questa seconda sentinella, che, come la prima li salutò facendo segno ai notturni visitatori che potevano passare. Dietro la sentinella v’era una scala di circa venti gradini. Franz ed il conte li discesero e si ritrovarono in una specie di crocivio mortuario. Da questo punto divergevano cinque vie come i raggi di una stella, e le pareti delle mura scavate a guisa di nicchie soprapponentisi che avevano la forma di sepolture, indicavano che finalmente erano penetrati nelle catacombe. In una di queste cavità, di cui era impossibile calcolare l’estensione, si vedevano screziare alcuni riflessi di luce. Il conte mise la mano sulla spalla di Franz: — Volete vedere un accampamento di banditi immersi nel sonno? — Sì, davvero, rispose Franz. — Ebbene, venite con me... Peppino, smorza la torcia. Peppino obbedì, e Franz ed il conte si trovarono nella più profonda oscurità, soltanto a circa 50 passi davanti a loro, si vedevano lungo i muri alcuni raggi rossastri di luce, divenuti ancora più visibili dopo che Peppino ebbe spenta la torcia. Essi avanzarono silenziosamente; il conte guidava Franz come se avesse avuta la singolare facoltà di vederci fra le tenebre. Del rimanente anche lo stesso Franz acquistava maggior pratica del luogo a seconda che s’inoltravano verso quel chiarore di luce che lor serviva di guida. Tre arcate, delle quali quella di mezzo serviva di porta, dettero loro passaggio. Esse da una parte mettevano nel corridore ove erano Franz ed il conte, e dall’altra in una sala quadrata, tutta circondata da nicchie come quelle di cui abbiamo parlato. In mezzo di questa s’ergevano quattro pietre che altra volta avevano servito d’altare, come lo indicava la croce che eravi ancor sovrapposta. Una sola lampada, posta sopra un fusto di colonna, illuminava con una luce pallida e vacillante la strana scena, che si presentava agli occhi dei due notturni visitatori nascosti nelle ombre. Un uomo era seduto, col gomito appoggiato a questa colonna, e leggeva, voltando le spalle alle arcate, per l’apertura delle quali era osservato dai nuovi arrivati. Questi era il capo della banda, Luigi Vampa. Intorno a lui, atteggiati secondo il proprio capriccio, stavano stesi, e avvolti nei loro mantelli, o addossati ad una specie di banco di pietra che circondava questo Colombario, una ventina circa di briganti; ciascuno teneva la carabina a portata della mano. Nel fondo, silenziosa, e appena visibile si scorgeva una sentinella, che a guisa di un’ombra passeggiava in su e in giù davanti ad una specie di apertura, che non da altro si distingueva, se non dal comparire più fitte le tenebre in quella direzione. Allorchè il conte credè che Franz avesse ricreati abbastanza gli sguardi con questo quadro pittoresco, portò l’indice alle labbra per raccomandare il silenzio, e salendo i tre scalini che dal corridore mettevano nel Colombario, entrò nella sala dall’arcata di mezzo, e si avanzò verso Vampa, tanto profondamente immerso nella lettura, che non intese il rumore dei passi. — Chi è là? gridò la sentinella meno preoccupata di lui, e che vide al chiarore della lampada due specie d’ombre ingrandirsi dietro al suo capo. A questo grido, Vampa si alzò prestamente, togliendo nello stesso tempo dalla cintura le pistole. In un momento i banditi furono in piedi, e venti canne di carabine erano dirette sopra il conte. — Ebbene! disse tranquillamente questi, con una voce del tutto placida, e senza che un solo dei muscoli del suo viso si contraesse; ebbene! mio caro Vampa, mi sembra di vedere molti preparativi per ricevere un amico. — Abbasso le armi! gridò il capo facendo un segno imperativo con una mano, mentre che con l’altra si levava rispettosamente il cappello. Quindi volgendosi verso il singolare personaggio che dominava tutta questa scena: — Perdono, sig. conte, gli disse, ma io era così lontano dall’aspettarmi l’onore di una vostra visita, che non vi aveva riconosciuto. — Sembra che voi abbiate poca memoria su tutte le cose, Vampa, disse il conte, e che non solo vi scordiate della fisonomia delle persone, ma ancora delle condizioni fatte con esse. — E quali condizioni ho io mai potuto dimenticare, sig. conte? domandò il bandito come farebbe un uomo, che se ha commesso un fallo non desidera che di ripararlo. — Non è stato fra noi convenuto, disse il conte, che vi sarebbe stata sacra non solo la mia persona, ma ben anche quella di tutti i miei amici? — E in che ho mancato al trattato, eccellenza? — Questa sera avete rapito e trasportato qui il visconte Alberto de Morcerf: ebbene, continuò il conte con un accento che fece rabbrividire Franz, questo giovine è uno de’ miei amici, egli abita nello stesso albergo ove sto io, per otto giorni è stato al Corso nella mia carrozza, e frattanto, ve lo ripeto, lo avete rapito, lo avete trasportato qui, e, aggiunse il conte cavando di saccoccia la lettera, gli avete imposto un riscatto come fosse stato un primo arrivato. — E perchè voi altri non mi avete avvisato di tutto questo? disse il capo volgendosi ai suoi uomini, che indietreggiavan tutti ad un suo sguardo; perchè mi avete esposto in tal guisa a mancare alla mia parola con un uomo come il signor conte che tiene tutte le nostre vite nelle sue mani? Per...! Se potessi credere che uno di voi sapeva che il giovine era amico di S. E., gli brucerei le cervella colle mie proprie mani. — Ebbene! disse il conte volgendosi a Franz, non vi aveva detto che qui sotto doveva esservi un qualche equivoco? — Come! non siete solo? domandò Vampa con inquietezza. — Sono con colui cui era diretta questa lettera, ed al quale ho voluto provare, che Luigi Vampa era un uomo di parola. Avanzatevi, eccellenza, disse egli a Franz, ecco qui il signor Luigi Vampa, che vi dirà esser dolente dello sbaglio commesso. Franz si avanzò, ed il capo dei banditi gli andò incontro di qualche passo: — Siate il ben venuto in mezzo a noi, eccellenza, gli diss’egli; voi avete inteso ciò che ha detto il signor conte, e ciò che gli ho risposto; aggiungerò che non vorrei, per i quattro mila scudi che aveva fissato di riscatto, che ciò fosse accaduto. — Ma, disse Franz guardando con inquietudine a sè d’intorno, e dov’è il prigioniero? non lo vedo... — Spero bene che non gli sarà accaduto cosa alcuna? domandò il conte aggrottando il sopracciglio. — Il prigioniero è là, disse Vampa mostrando colla mano il luogo oscuro avanti al quale passeggiava il bandito in fazione, e vado io stesso ad annunziargli esser libero. Il capo si avanzò verso il luogo, da lui indicato come prigione d’Alberto; il conte e Franz lo seguirono. — Che fa il prigioniero? domandò Vampa alla sentinella. — Sulla mia parola, rispose questi, l’ignoro: da più di un’ora non l’ho inteso muovere. — Venite, eccellenza, disse Vampa. Il conte e Franz salirono sette o otto scalini sempre preceduti dal capo, che tirò un catenaccio e spinse avanti una porta. Allora, al chiarore di una lampada simile a quella che illuminava il Colombario, si potè vedere Alberto, avvolto in un mantello che gli aveva prestato un bandito, steso in un angolo, dormire del sonno più profondo. — Andiamo, disse il conte con quel sorriso che gli era particolare: non c’è male per un uomo che doveva essere fucilato domattina alle sette. Vampa guardò con una certa ammirazione Alberto che dormiva, e scorgevasi in lui non essere insensibile a questa prova di coraggio. — Avete ragione, signor conte, diss’egli, quest’uomo dev’essere uno dei vostri amici. Indi accostandosi ad Alberto e toccandogli la spalla: — Eccellenza, diss’egli, si svegli, se le fa piacere. Alberto stese le braccia, si strofinò le palpebre, e si svegliò: — Ah! ah! diss’egli, siete voi capitano? Per bacco! avreste ben potuto lasciarmi dormire: io faceva un grazioso sogno: sognava di ballare una galoppa da Torlonia colla contessa G***. — Guardò all’orologio che si era riserbato per poter giudicare da sè stesso del tempo trascorso: — Un’ora e mezzo dopo mezza notte; e perchè diavolo mi svegliate a quest’ora? — Per dirvi che siete libero, Eccellenza. — Caro mio, soggiunse Alberto con una perfetta prontezza d’animo, ricordatevi bene in avvenire di questa massima di Napoleone il grande: «non mi svegliate che per le cattive notizie.» Se mi aveste lasciato dormire, avrei terminata la mia galoppa, e ve ne sarei stato riconoscente per tutta la mia vita... Il mio riscatto è dunque stato pagato? — No, Eccellenza. — Ebbene! in qual modo dunque son libero? — Qualcuno, a cui non posso nulla negare, è venuto a reclamarvi. — Fin qui? — Fin qui. — Oh per bacco! questo qualcuno è una persona molto amabile. — Alberto guardò intorno a sè, e s’avvide di Franz. — Come? diss’egli, siete voi, mio caro Franz, che spingete tant’oltre la vostra amicizia? — Non sono io, rispose Franz, ma il nostro conte di Monte-Cristo. — Ah! per bacco! il sig. conte! disse Alberto accomodandosi la cravatta ed i manichini: siete un uomo veramente prezioso, e spero che vorrete considerarmi come a voi riconoscente per tutta la vita, primieramente per l’affare della carrozza, e poi per questo. — E in così dire stese la mano al conte, che fremette al momento di dargli la sua, che però gli diede. Il bandito osservava tutta questa scena con volto stupefatto: era evidentemente avvezzo a vedere i suoi prigionieri tremare davanti a lui, ed ora ne aveva innanzi a sè uno, la cui burlevole indole non aveva sofferta alcuna alterazione; in quanto a Franz, era contentissimo che Alberto, anche in faccia ad un bandito, avesse saputo sostenere l’onore nazionale. — Mio caro Alberto, gli disse, se volete sollecitarvi, avremo ancora il tempo di andare a finire la notte da Torlonia. Riprenderete la vostra galoppa al punto in cui l’avete interrotta, di modo che non serberete alcun rancore col sig. Luigi Vampa, che in tutto quest’affare si è condotto da vero galantuomo. — Ah! sì da vero, diss’egli; avete ragione, e noi potremmo giungervi a due ore... Sig. Luigi, continuò Alberto, vi è alcun’altra formalità da compiersi prima di prendere commiato da V. E.? — Nessuna, signore, rispose il bandito, e voi siete libero come l’aria. — In questo caso, buona ed allegra vita. Venite, signori, venite. — Ed Alberto, seguito da Franz e dal conte, discese la scala, e traversò la sala quadrata. Tutti i banditi erano in piedi col cappello in mano. — Peppino, disse il capo, dammi la torcia. — Ebbene! che volete fare? domandò il conte. — Vi accompagno, questo è il più piccolo onore che possa tributare a V. E. — E togliendo la torcia accesa dalle mani del pastore, camminò avanti ai suoi ospiti, non come un cameriere che compie un atto di servitù, ma come un re che preceda degli ambasciatori; giunto alla porta, s’inchinò: — Ora, signor conte, diss’egli, vi rinnovo le mie scuse, e spero che non conserverete alcun risentimento sull’accaduto. — No, mio caro Vampa, disse il conte, d’altra parte emendate i vostri errori in un modo così compito, che si è quasi costretti esservi obbligati per averli commessi. — Signori, riprese il capo volgendosi ai due giovani, forse l’invito non vi sembrerà molto attraente, ma se mai vi venisse la volontà di farmi una seconda visita, qui ed in qualunque altro luogo ove potessi essere, voi sarete sempre i ben venuti. Franz ed Alberto lo salutarono. Il conte uscì pel primo, Alberto lo seguì, Franz restava l’ultimo. — V. E. ha forse qualche cosa a chiedermi? disse Vampa. — Sì, lo confesso, rispose Franz; sarei curioso di sapere qual era l’opera che leggevate con tanta attenzione quando noi siamo arrivati. — I Commentarii di Giulio Cesare, sono il mio libro prediletto. — Ebbene! non venite? domandò Alberto. — Subito, rispose Franz, eccomi. — Ed uscì a sua volta dallo spiraglio; fatto qualche passo nella pianura: — Ah! perdonatemi, disse Alberto, tornando indietro, volete permettermi capitano? — Ed accese il sigaro alla torcia di Vampa. — Ora, signor conte, disse Alberto, ho grandissima premura di finire la notte dal principe Torlonia. La carrozza fu ritrovata al luogo ove era stata lasciata. Il conte disse una sola parola araba ad Alì, ed i cavalli partirono pancia a terra. Erano le due precise all’orologio d’Alberto, quando i due amici entrarono nella sala da ballo. Il loro ritorno fu un avvenimento, ma siccome rientrarono insieme, così tutti i timori che si erano concepiti sul conto d’Alberto cessarono sul momento. — Signora, disse il visconte de Morcerf, avanzandosi verso la contessa, ieri voi aveste la bontà di promettermi una galoppa, vengo un po’ tardi a reclamare questa graziosa promessa, ma il mio amico, che voi sapete quanto è sincero, potrà farvi fede che non fu colpa mia. — E siccome in quel momento l’orchestra dava il segnale di un valtz, Alberto passò il braccio attorno alla vita della contessa e disparve con essa fra il nembo dei ballerini. In questo tempo Franz andava pensando al singolare fremito percorso su tutte le membra del conte di Monte-Cristo nel momento in cui era stato, in certo qual modo costretto, a stringere la mano ad Alberto. XXXVIII. — IL CONVEGNO. La dimane nel levarsi, la prima parola di Alberto fu di proporre a Franz di fare una visita al conte. Egli lo aveva di già ringraziato la sera innanzi, ma capiva benissimo che un servigio come quello resogli dal conte, meritava bene due ringraziamenti. Franz che provava un’attrattiva, mista a terrore, che lo spingeva verso il conte di Monte-Cristo, non volle lasciarlo andar solo da quest’uomo, e lo accompagnò. Entrambi furono introdotti: cinque minuti dopo comparve il conte. — Signor conte, disse Alberto andandogli incontro, permettetemi di ripetervi questa mattina ciò che malamente vi ho detto la scorsa notte; che non dimenticherò mai in qual congiuntura mi siate venuto in aiuto; e mi ricorderò sempre che vi devo la vita o poco meno. — Mio caro vicino, rispose il conte ridendo, voi esagerate le vostre obbligazioni verso di me; non mi dovete che una piccola economia di una ventina di migliaia di fr. sul vostro preventivo del viaggio, ed ecco tutto: vedete bene che non bisogna parlarne. Per vostra parte, aggiunse egli, ricevete i miei rallegramenti; avete dimostrato un’ammirabile prontezza d’animo, e gran disinvoltura. — Che serve conte? disse Alberto: mi sono immaginato di avere avuta una cattiva contesa, ed esser corsa una sfida; volli far comprendere una cosa a questi banditi, ed è che in tutti i paesi del mondo gli uomini si battono, ma che non vi sono che i francesi che si battono ridendo. Ciò non ostante, non essendo per questo men grande l’obbligazione che vi professo, vengo a chiedervi, se per mezzo dei miei amici o per mezzo delle mie riconoscenze potessi esservi utile in qualche cosa. Mio padre, il conte di Morcerf d’origine spagnuola, gode di un’alta posizione in Francia ed in Ispagna, vengo a mettere me e tutte le persone che mi amano a vostra disposizione. — Ebbene! disse il conte; vi confesso sig. de Morcerf, che mi aspettava da voi una simile esibizione, e che l’accetto con tutto il cuore. Io aveva già fissati i miei pensieri su di voi per chiedervi un gran favore. — Quale? — Non sono mai stato a Parigi, e non conosco Parigi. — Da vero! gridò Alberto, voi avete potuto vivere fino adesso senza veder Parigi? pare incredibile. — Eppure è così. Ma io sento con voi che una più lunga ignoranza della capitale del mondo intelligente è impossibile. Vi è di più: forse avrei fatto da lungo tempo questo viaggio indispensabile, se avessi conosciuto qualcuno che mi avesse potuto introdurre in quel mondo ove io non ho alcuna relazione. — Oh! un uomo come voi! gridò Alberto. — Siete molto buono. Ma siccome non riconosco in me stesso altro merito che quello di poter fare concorso, come milionario, ai vostri più ricchi banchieri, e che non vado a Parigi per speculare sulla borsa, questa piccola particolarità mi ha trattenuto. Ora la vostra offerta mi vi risolve. Vediamo: v’impegnate mio caro de Morcerf (il conte strisciò questa parola con un singolare sorriso) allorquando sarò in Francia d’aprirmi le porte di quel mondo, ove sarò uno straniero al pari di un Huron, o di un Cinese? — In quanto a ciò, mio caro conte, a meraviglia e con tutto il cuore, rispose Alberto, e tanto più volentieri (mio caro Franz non vi burlate tanto di me), che sono richiamato a Parigi da una lettera che ricevo questa mane stessa, ed in cui si parla di una trattativa con una casa molto rispettabile e che ha le migliori relazioni col bel mondo Parigino. — Trattativa di matrimonio? disse ridendo Franz. — Qual meraviglia? sì, perciò quando ritornerete a Parigi mi troverete uomo posato, e forse padre di famiglia. Ciò starà bene colla mia gravità naturale, n’è vero? In ogni modo, conte, ve lo ripeto, io ed i miei siamo tutti in corpo ed anima a vostra disposizione. — Ed io accetto, disse il conte; perchè vi assicuro che non mi mancava che questa occasione per effettuare un disegno che rumino da lungo tempo. Franz non dubitò un momento che non fosse quello di cui erasi lasciato sfuggire qualche parola nella grotta di Monte-Cristo, e guardò il conte mentre diceva queste parole, per tentare di sorprendere sulla sua fisonomia qualche rivelazione dei disegni che conducevano a Parigi: ma era molto difficile penetrar nell’animo di quest’uomo, particolarmente quand’egli lo velava con un sorriso. — Ma osserviamo, conte, soggiunse Alberto contento di poter presentare un uomo come il conte di Monte-Cristo; non sarà già questo un qualche disegno in aria, come se ne fanno mille in viaggio, e che, fabbricati sulla sabbia, vengono poi distrutti al primo soffio di vento? — No, sul mio onore, disse il conte, voglio andare a Parigi, ho bisogno d’andarvi. — E quando sarà? — Quando vi sarete voi stesso? — Io? disse Alberto, oh! mio Dio! fra 15 giorni, o al più fra tre settimane; il tempo necessario per il ritorno, e null’altro. — Ebbene! vi accordo tre mesi, vedete che vi do una larga misura. — E fra tre mesi, gridò Alberto con gioia, verrete a battere alla mia porta. — Volete un convegno anche pel preciso giorno e per l’ora, disse il conte, vi prevengo però che sono di una esattezza da far disperare. — Il giorno e l’ora precisa! disse Alberto, ciò andrà a meraviglia. — Ebbene! sia così. — Egli stese la mano verso un calendario attaccato presso lo specchio. — Oggi siamo ai 21 febbraio; cavò l’orologio, e sono le 10 e mezzo del mattino, volete aspettarmi il 21 maggio prossimo alle 10 e mezzo del mattino? — A meraviglia! disse Alberto; la colazione sarà preparata. — Ove abitate? — Strada di _Helder_ n. 27. — Voi vi trattate in casa vostra da scapolo, ed io non vi sarò d’incomodo? — Io abito in casa di mio padre, ma in un padiglione nel fondo del cortile interamente separato. — Va bene; — il conte aprì il taccuino e scrisse: Strada di Helder, n. 27, 21 maggio, alle 10 e mezzo del mattino. — Ed ora, disse il conte, rimettendosi il taccuino in saccoccia, siate tranquillo, la sfera della vostra pendola non sarà più esatta di me. — Vi rivedrò prima della vostra partenza? domandò Alberto. — Secondo quando partirete? — Parto domani sera alle cinque. — In questo caso vi do il mio addio. Ho alcuni affari a Napoli, e non sarò di ritorno qui che sabato sera o domenica mattina. E voi, soggiunse volgendosi a Franz, partite voi pure, sig. conte? — Sì. — Per la Francia? — No, per Venezia. Resto ancora un anno o due in Italia. — Noi dunque non ci rivedremo a Parigi? — Temo di non avere quest’onore. — Animo dunque, signori, buon viaggio, disse il conte ai due amici stendendo ad essi la mano. Era la prima volta che Franz toccava la mano di quest’uomo; egli rabbrividì, perchè essa era ghiaccio come quella di un morto. — Per l’ultima volta, disse Alberto, resta bene stabilito sulla parola d’onore, è vero? strada di Helder n. 27, li 21 Maggio alle 10 e mezzo del mattino? — Li 21 maggio, alle 10 e mezzo del mattino strada di Helder n. 27, ripetè il conte. — Che avete? disse Alberto a Franz nel rientrare nelle loro stanze, mi sembrate molto afflitto. — Sì, disse Franz, ve lo confesso, il conte è un uomo singolare, e vedo con inquietudine questo convegno che vi ha dato a Parigi. — Questo convegno... con inquietudine? E perchè? ma siete pazzo, mio caro Franz! gridò Alberto. — Che volete? pazzo o no, la cosa va così. — Ascoltate, ripetè Alberto; sono ben contento che mi si presenti un’occasione di dirvi, che vi ho sempre ritrovato di una gran freddezza col conte, mentr’egli per sua parte è sempre stato ben diverso con noi. Avete qualche cosa in particolare contro di lui? — Può darsi. — Ma l’avevate veduto in qualche altro luogo prima d’incontrarlo qui? — Precisamente. — E dove? — Mi promettete di non dir mai una parola di quanto sono per raccontarvi? — Ve lo prometto. — Sta bene: ascoltatemi dunque. Allora Franz raccontò ad Alberto la sua escursione all’isola di Monte-Cristo, in qual modo vi aveva ritrovato un equipaggio di contrabbandieri, e fra questo due banditi corsi. Egli calcò su tutti i particolari dell’ospitalità fattucchiera che il conte gli aveva data nella sua grotta delle _mille e una notte_, gli descrisse la cena, l’_hatchis_, le statue, la realtà, il sogno e come al suo svegliarsi altro non restava più, come prova e ricordo di tanti avvenimenti che il piccolo _yacht_ che faceva vela sull’orizzonte per Porto-Vecchio. Indi passò a Roma, alla notte del Colosseo, al dialogo che aveva inteso fra lui e Vampa, conversazione relativa a Peppino, e nella quale il conte aveva promesso di ottenere la grazia del bandito, promessa che aveva mantenuta, come ne avranno potuto giudicare i nostri lettori. Finalmente giunse all’avventura della notte precedente, all’impaccio in cui si era ritrovato vedendosi mancare 7, o 800 scudi per completare la somma; in fino all’idea che gli era venuta di ricorrere al conte, idea che ebbe un resultato tanto soddisfacente ad un tempo e pittoresco. Alberto ascoltava Franz con tutta l’attenzione. — Ebbene! diss’egli, quando questi ebbe finito, e che v’è di riprovevole in tutto questo? il conte è viaggiatore, ha un bastimento proprio perchè è uomo ricco. Andate a Portsmouth o a Southampton e ritroverete questi porti ingombri di _yacht_ appartenenti a ricchi inglesi che hanno la stessa fantasia. Per sapere ove fermarsi nelle sue escursioni, per non cibarsi di questa terribile cucina che avvelena me da mesi, e voi da 4 anni, per non giacere su questi letti abbominevoli nei quali non si può dormire, si è fatto ammobiliare un piccolo pian terreno a Monte-Cristo; e temendo che il governo toscano non gli desse congedo, e che tutti i suoi mobili andassero perduti, ha comprato l’isola, e ne ha assunto il nome. Mio caro, frugate nella vostra memoria, e ditemi quante persone di nostra conoscenza prendono il nome di proprietà che non hanno mai avute? — Ma, disse Franz, e questi banditi corsi che erano fra il suo equipaggio?... — Ebbene! che v’è di meraviglioso? Capite meglio di qualunque altro che i banditi corsi non sono ladri, ma fuggitivi, perché una qualche _vendetta_ li ha esiliati dalle loro città o dai villaggi; si possono dunque vedere senza mettersi a rischio. In quanto a me dichiaro, che se un giorno dovessi andare in Corsica, prima di farmi presentare, a modo di dire, al governatore od al Prefetto, mi farei presentare ai banditi di Colomba: sempre che vi si possa mettere la mano sopra, io li ritrovo gentili. — Ma Vampa e la sua banda, soggiunse Franz, sono banditi che fermano per rubare, non lo negherete, spero? che dite adunque dell’influenza che il conte ha su tal razza di gente? — Dirò, che dovendo la vita, secondo tutte le apparenze, a questa influenza, non spetta a me il criticarla troppo da vicino. Così invece di fargliene, come voi, un delitto capitale, troverete giusto che io lo scusi, se non di avermi salvata la vita, il che sarebbe un poco troppo esagerato, almeno di avermi fatto risparmiare 4mila scudi, che fanno 24mila lire della nostra moneta, somma per la quale non mi avrebbero tanto stimato in Francia. — Ebbene! ecco precisamente: di che paese è il conte, che lingua parla? quali sono i suoi mezzi di sussistenza? da dove gli viene la sua immensa fortuna? Quale è stata questa prima parte della sua vita misteriosa ed incognita, che ha sparso sulla seconda una tinta oscura e misantropica? Ecco ciò che nel vostro posto vorrei sapere. — Mio caro Franz, quando leggendo la mia lettera vi siete accorto che avevamo bisogno dell’influenza del conte, siete andato a dirgli: «Alberto conte de Morcerf corre un pericolo, aiutatemi a toglierlo d’impiccio», n’è vero? — Sì. — Allora vi ha egli domandato: «e chi è questo signor Alberto de Morcerf? Donde gli viene il suo nome? Donde gli viene la sua fortuna? Quali sono i suoi mezzi di sussistenza? qual è il suo paese? dove è nato?» vi ha egli fatte tutte queste interrogazioni? dite? — No, lo confesso. — Egli è venuto, ecco tutto; mi ha tolto dalle mani del sig. Vampa, ove ad onta di tutte le mie apparenze piene di disinvoltura, come voi diceste, io vi faceva una tristissima figura, lo confesso: ebbene! mio caro; quando in cambio di simile servigio egli mi domanda di far per lui ciò che si fa tutti i giorni pel primo principe russo o italiano che passa per Parigi, vale a dire di presentarlo nelle società, volete che gli neghi questo? Via dunque, Franz, siete pazzo! Bisogna convenire, che contro il solito, questa volta tutte le buone ragioni eran dalla parte d’Alberto. — Finalmente, rispose Franz con un sospiro, fate come volete, mio caro visconte, perchè tutto quel che mi dite è persuasivo, lo confesso, ma è altrettanto vero che il conte di Monte-Cristo è un uomo strano. — Il conte di Monte-Cristo è un uomo filantropo: egli non vi ha detto con quale scopo viene a Parigi: ebbene! viene per concorrere al premio di Monthyon, e se ad ottenerlo non gli manca che il mio voto, glielo darò. Dopo ciò non parliamo più di questo: mettiamoci a tavola, e dopo andiamo a fare un’ultima visita a S. Pietro. Fu fatto come aveva detto Alberto, e il giorno dopo alle 5 p. m. i due giovani si lasciarono, Alberto de Morcerf per ritornare a Parigi, e Franz d’Épinay per passare una quindicina di giorni a Venezia. Ma Alberto, prima di salire in carrozza, consegnò al cameriere dell’albergo, tanto aveva paura che il convitato mancasse al convegno, un biglietto da visita pel conte di Monte-Cristo, sul quale al di sotto delle parole «Visconte Alberto de Morcerf» aveva scritto colla matita: — _21 Maggio, alle 10 e mezzo a. m. Strada Helder. N. 27_. XXXIX. — LA COLAZIONE. Nella casa strada Helder in cui Alberto de Morcerf aveva dato in Roma convegno al conte di Monte-Cristo, tutto veniva preparato nel mattino del 21 maggio, per fare onore alla parola data dal giovine. Alberto abitava un padiglione posto sull’angolo di un gran cortile rimpetto ad un altro stabile deputato ai comuni. Due sole finestre di questo padiglione guardavano sulla strada, delle altre tre davano sul cortile, e due sul giardino. Fra questo cortile ed il giardino, s’ergeva sebbene fabbricata con cattivo gusto d’architettura imperiale, l’abitazione elegante e vasta del conte e della contessa de Morcerf. Su tutta la larghezza del fabbricato girava un muro, che metteva sulla strada, ad intervalli guernito da sovrapposti vasi di fiori, e diviso nel mezzo da un gran cancello a lance dorate, che serviva per le entrate di parata: una piccola porta, addossata all’abitazione del portinaro dava passaggio ai padroni e servitori quando entravano o uscivano a piedi. Nella scelta del padiglione destinato per abitazione d’Alberto si scorgeva la delicata previdenza di una madre, che non volendo dividersi dal figlio, aveva però capito che un giovine dell’età d’Alberto aveva bisogno di tutta la sua libertà. Dall’altra parte dobbiamo convenirne, si scorgeva pure l’intelligente egoismo del giovine, perduto in questa vita libera ed oziosa, propria dei figli di famiglia, al quale veniva, come all’uccello, dorata la sua gabbia. Da queste due finestre che guardavano sulla strada, Alberto poteva fare le sue esplorazioni all’esterno: vista tanto necessaria ai giovani che vogliono vedere passare innanzi ai loro occhi il proprio orizzonte, fosse pur quello della strada; fatta la sua esplorazione, se gli sembrava meritare un esame più profondo, Alberto poteva, per darsi alle proprie ricerche, uscir da una piccola porta che era dirimpetto all’altra di cui abbiamo parlato presso all’abitazione del portinaro, e che merita una particolare menzione. Era una piccola porta, che sarebbesi detto dimenticata da tutti dal momento che fu fabbricata la casa, e sarebbesi creduta condannata a rimaner sempre chiusa, tanto sembrava meschina e polverosa, ma i catenacci e i gangheri erano talmente bene unti, che indicavano l’uso continuo e misterioso. Questa piccola porta segreta faceva concorrenza colle altre due, e si burlava del portinaro, di cui sfuggiva alla vigilanza ed alla responsabilità, aprendosi come la famosa porta della caverna delle _Mille e una notte_, a guisa del Sesamo incantato di Alì-Babà, per mezzo di qualche parola cabalistica, o di qualche segno convenuto pronunciato dalla più dolce voce, od eseguito dalla più bella mano del mondo. Alla fine di un corridoio vasto e silenzioso, col quale comunicava e che formava anticamera, s’apriva a destra la sala da pranzo d’Alberto, che guardava il cortile, ed a sinistra la sua piccola camera da ricevere che guardava il giardino. Cespugli, e piante parassite si aprivano a ventaglio davanti alle finestre, e nascondevano al cortile ed al giardino l’interno di queste camere, le sole al piano terreno, che potevano essere esposte agli sguardi degl’importuni. Al primo piano queste due camere si ripetevano, aumentate da una terza che corrispondeva alla sottoposta anticamera: erano la camera da letto, quella da ricevere, ed un gabinetto. La sala del piano terreno era una specie di divano algerino destinato ai fumatori. Il gabinetto del primo piano metteva nella camera da letto, e per una porta invisibile aveva comunicazione colle scale. Si ponga mente alle cautele. Al di sopra di questo primo piano spaziava un vasto studio, ingrandito coll’atterrare i muri di divisione, pandemonio che disputava l’artista al damerino. Là erano rifugiati ed affastellati tutti i successivi capricci d’Alberto: i corni da caccia, i bassi, i flauti, un’orchestra completa, poichè per un momento ebbe non il gusto ma la fantasia della musica. I cavalletti, i tavolozzi, i pastelli, poichè alla fantasia della musica era succeduta la fatuità della pittura: finalmente i fioretti, i guanti da pugillatore, gli squadroni, e i bastoni d’ogni genere, poichè, seguendo il costume dei giovani alla moda, Alberto coltivava, con maggiore perseveranza di quel che non aveva fatto la musica e la pittura, le tre arti che formano il compimento dell’educazione da _Lions_, vale a dire la scherma, i pugni, ed il bastone, ed in questa camera destinata agli esercizi corporali, riceveva successivamente, Grisier, Cooks, e Carlo Lacour. Il rimanente della mobilia di questa sala privilegiata, si componeva di vecchi forzieri dei tempi di Francesco I, ripieni di porcellane della China, di vasi del Giappone, di terraglie di Luca della Robbia e di piatti di Bernardo di Palissy; di antichi seggioloni, ove forse erasi assiso Enrico IV o Sully, Luigi XIII o Richelieu, poichè due di essi ornati di uno scudo intagliato, ove sopra un campo azzurro brillavano i tre gigli di Francia sormontati dalla corona reale, uscivano visibilmente dal guardaroba del Louvre, o per lo meno da qualche castello reale. Sur essi erano gettate alla rinfusa ricche stoffe a vivi colori, tinte al sole della Persia o ricamate dalle dita delle donne di Calcutta o di Chandernayor. Ciò che si stessero a far là queste stoffe non si sarebbe potuto dire; aspettavano, ricreando gli occhi, un destino sconosciuto anche al loro stesso proprietario, e mentre aspettavano, rischiaravano l’appartamento coi loro riflessi dorati. Nel posto più apparente sorgeva un piano forte, fabbricato da Roller e Blanchet di legno di rosa, della forma delle nostre sale di Lilliputiens, racchiudendo ciò non pertanto un’orchestra nella sua stretta e sonora capacità, e sopraccaricato dai capi d’opera di Beethoven, di Weber, di Mozart, d’Haydn, di Crètry, e di Porpora. Quindi, lungo tutti i muri, sopra le porte, nel soffitto, erano disposte spade, pugnali, stocchi, mazze dorate, e complete armature, damascate, incrostate; arborari, massi di minerali, uccelli imbottiti di crini, che tenevano le ali aperte ad un volo immobile, colle penne color di fuoco, col becco che non chiudono mai. Non occorre dire, che questa era la stanza di predilezione di Alberto. Però, il giorno del convegno, il giovine in abito di mezza gala aveva fissato il suo quartier generale nel salotto del pian terreno. Ivi, sur una tavola, circondata da un divano largo e morbido, tutti i tabacchi sconosciuti, dal giallo di Pietroburgo fino al nero del Sinai passando per il porto-ricco, e il latakiè, erano racchiusi in vasi di terraglia smaltata che sono l’adorazione degli olandesi. Vicini ad essi, in cassette di legni odorosi, erano schierati per ordine di grandezza, e di qualità i sigari puros, regalia, avana ecc.; finalmente in un armadio aperto una collezione di pipe di Germania, di Turchia, coi bocchini d’ambra, ornate di corallo, e di fregi incrostati d’oro, con lunghe canne di marrocchino ripiegate a guisa di serpenti, aspettavano il capriccio o la simpatia dei fumatori. Alberto aveva presieduto da sè stesso all’ordinamento, o piuttosto a quel disordine simmetrico che, dopo il caffè i convitati di una colazione alla moderna amano di osservare per mezzo al fumo che loro sfugge di bocca dirigendosi al soffitto in lunghe e capricciose spirali. Alle 10 meno un quarto entrò un cameriere, che unitamente ad un _groom_ di 15 anni, il quale parlava soltanto l’inglese, e rispondeva al nome di John, erano i soli domestici di Alberto. Ben inteso ch’egli poteva disporre del cuoco di casa nei giorni ordinari, e negli straordinari il cacciatore del conte era a sua disposizione. Questo cameriere, che si chiamava Germano e che godeva tutta la confidenza del giovine padrone, teneva in mano un pacco di giornali che depose sul tavolo, ed alcune lettere che consegnò ad Alberto, il quale vi gettò sopra uno sguardo indifferente, ne scelse due con minuti caratteri, e con sopraccarta profumata, le dissigillò, e le lesse con qualche attenzione. — Come sono arrivate queste lettere? domandò egli. — Una è venuta per la posta, l’altra l’ha portata il cameriere della sig.ª Danglars. — Fate dire alla sig.ª Danglars che accetto il posto che mi offre nel suo palco... aspettate, in giornata passerete da Rosa; le direte che andrò, come m’invita a cenare da lei uscendo dall’_Opera_, e le porterete sei bottiglie di vino assortito di Cipro, di Xeres, di Malaga ed un barile di ostriche d’Ostenda... prendete le ostriche da Borel, e raccomandategli che sono per me. — A che ora comanda sia in ordine la tavola? — Che ora abbiamo! — Manca un quarto alle dieci. — Ebbene ordinate per le 10 e mezzo precise... Debray sarà forse obbligato di andare al suo ministero... e d’altra parte... (Alberto consultò il suo taccuino) questa è l’ora che ho indicata al conte, li 21 maggio alle 10 e mezzo a. m.; quantunque non faccia gran fondamento sulla promessa, desidero di essere esatto. A proposito sapete se la sig.ª contessa sia alzata? — Se il sig. Visconte lo desidera, andrò ad informarmene. — Sì... le chiederete una delle cassettine da liquori, poichè la mia è incompleta: le direte che avrò l’onore d’andar da lei verso le tre, e che le domando permesso di presentarle un signore. Il cameriere uscito, Alberto si gettò sul divano, stracciò la fascetta a due o tre giornali, guardò gli annunzi degli spettacoli, fece la boccaccia vedendo che si rappresentava un’opera e non un ballo; cercò invano quegli annunzi di profumeria un oppiato pel dolore dei denti di cui gli era stato parlato, e gettò l’uno dopo l’altro i tre giornali più in voga a Parigi, mormorando in mezzo ad uno sbadiglio prolungato: — In verità questi giornali divengono di giorno in giorno sempre più noiosi. In questo mentre una carrozza si fermò avanti la porta, ed un momento dopo il cameriere rientrò annunziando il signor Luciano Debray. Un giovine biondo, alto, pallido, coll’occhio grigio e fermo, colle labbra sottili e fredde, coll’abito blu a bottoni cisellati, la cravatta bianca, una lente di cristallo sospesa ad un filo di seta, e che per uno sforzo del tendine sopracciliare e del tendine zigomatico arrivava a fissare avanti la cavità dell’occhio destro, entrò senza sorridere, senza parlare, con un portamento semi-ufficiale: — Buon giorno, Luciano, buon giorno! disse Alberto. Ah! voi mi spaventate, mio caro, colla vostra esattezza! Ma che dico? esattezza! Voi che non aspettava che per ultimo, giungete alle 10 meno 5 minuti, mentre il convegno definitivo non è che alle 10 e mezzo? Quest’è un miracolo! Il ministero sarebbe forse caduto? — No, carissimo, disse il giovine gettandosi sul divano, tranquillatevi, trattiamo sempre, ma non cediamo mai, e comincio a credere che passeremo bonariamente alla immobilità, senza contare che gli affari della penisola vanno in modo da consolidarsi pienamente. — Ah! è vero, scacciate Don Carlos dalla Spagna. — No, carissimo, non confondete le cose; lo riconduciamo all’altra frontiera della Francia, e gli offriamo una ospitalità da re a Bourges. — A Bourges? — Sì, egli non avrà a lagnarsi; Bourges è la capitale del re Carlo VII. Come! voi non sapete nulla di tutto ciò? Tutta Parigi lo sa da ieri, e avanti ieri la cosa era già stata traspirata alla borsa, perchè Danglars (non so con qual mezzo quest’uomo ha le notizie nello stesso tempo di noi) perchè Danglars ha arrischiato sul rialzo de’ fondi; e vi ha guadagnato un milione. — E voi una nuova decorazione, a quanto parmi: poichè vedo una striscia blu aumentata alla vostra spranghetta. — Eh! mi hanno inviato la decorazione di Carlo III, rispose negligentemente Debray. — Andiamo, non fate tanto l’indifferente, e confessate che avete avuto piacere a riceverla. — In fede mia, sì, come compimento di toletta, una placca sta bene sopra un abito nero abbottonato, è cosa elegante. — E, disse ridendo Morcerf, si ha l’aspetto del principe di Galles, o simili. — Ecco adunque, carissimo, il perchè mi vedete così di buon’ora. — Perchè avete la placca di Carlo III e volevate darmi questa notizia? — No, ma perchè ho passata tutta la notte a spedir lettere; 25 dispacci diplomatici. Ritornato in casa questa mattina a giorno, voleva dormire, ma mi ha assalito il dolor di testa, e mi sono rialzato per montare un’ora a cavallo. A Boulogne sono stato preso dalla noia, e dalla fame, due nemici che raramente vanno insieme, e che ciò non pertanto, si sono collegati contro di me: una specie di alleanza Carlo-repubblicana; allora mi sono ricordato che questa mane v’era festa in casa vostra, ed eccomi qua: ho fame, nutritemi: sono annoiato, divagatemi. — Questo è il mio dovere d’anfitrione, amico caro, disse Alberto suonando pel cameriere, mentre che Luciano colla sua bacchettina, col pomo cesellato ed incrostato di turchinette, faceva saltare i giornali spiegati; — Germano, un bicchiere di Xeres, ed un biscotto. Frattanto, mio caro Luciano, ecco dei sigari di contrabbando, bene inteso: v’invito a fumarli, e a persuadere il vostro ministro a vendercene degli eguali, invece delle foglie di noce che condanna i buoni cittadini a fumare. — Peste! me ne guarderò bene. Quando questi vi venissero dal governo non li vorreste più, e li ritrovereste esecrabili. D’altra parte ciò non ha rapporto coll’interno, spetta alle finanze; indirizzatevi al signor Humann, sezione delle contribuzioni indirette, corridore A, N. 26. — In verità, disse Alberto, mi sorprendete per le vostre estese cognizioni. Ma prendete un sigaro! — Ah! caro conte, disse Luciano accendendo un sigaro ad una candela color di rosa in una bugìa d’argento dorato, e rovesciandosi sul divano, quanto siete felice, per non avere nulla da fare! in verità, non conoscete la vostra felicità! — E che fareste dunque, mio caro rappacificatore di regni, rispose Morcerf con una leggera ironia: se non aveste nulla da fare? Come! segretario particolare di persona influente, lanciato ad un tempo nella gran cabala europea e nei piccoli intrighi di Parigi; avendo dei re, e meglio ancora, delle regine da proteggere, dei partiti da riunire, delle elezioni da dirigere; facendo più nel vostro gabinetto e col vostro telegrafo di quel che non ha fatto Napoleone sui campi di battaglia colla spada, e colle vittorie; possedendo 25 mila lire di rendita, oltre il vostro impiego, un cavallo di cui Château-Renaud vi ha offerto 400 luigi e non glielo avete voluto dare, un sarto che non vi sbaglia mai un calzone; avendo l’_Opera_, il Jockey-Club, e il teatro delle varietà, non trovate dunque che tutto ciò sia buono per distrarvi? Ebbene, sia, vi distrarrò io. — Ed in qual modo? — Col farvi fare una nuova conoscenza. — Un uomo o una donna? — Un uomo. — Oh! ne conosco di già troppi. — Ma è uno come non ne conoscete quello di cui vi parlo. — E di dove viene dunque? di capo al mondo? — Fors’anche di più lontano. — Oh! diavolo! spero bene che non sia quegli che deve portare la nostra colazione? — No, siate tranquillo, la nostra colazione è nelle cucine materne. Ma dunque avete fame? — Sì, lo confesso, per quanto sia umiliante il dirlo. E ciò non ostante ieri ho pranzato dal sig. de Villefort: e non so se abbiate mai notato, che si pranza molto male dalle persone di tribunale: direbbesi che hanno sempre dei rimorsi. — Ah! per bacco! voi disprezzate i pranzi degli altri come se si pranzasse bene dai vostri ministri. — Sì, ma non invitiamo la gente di _bonton_ almeno; e se non fossimo obbligati ad invitare quei miserabili che pensano, e quel che più importa, che danno buoni voti, ci guarderemmo, come dalla peste, di pranzare in casa nostra; questo vi prego a volerlo credere sul serio. — Allora, mio caro, prendete un altro bicchiere di Xeres ed un altro biscotto. — Il vostro vino di Spagna è eccellente; vedete bene che abbiamo avuto gran ragione a rappacificare quel paese. — E ciò vi procurerà il tosone d’oro. — Credo che questa mattina abbiate adottato il sistema di nutrirmi di fumo. — Eh! questo è quanto diverte più lo stomaco; convenitene; ma ascoltate: sento appunto la voce di Beauchamp nell’anticamera, disputerete insieme, e ciò vi farà attendere con maggior pazienza. — A proposito di che? — A proposito di giornali. — Ah! caro amico, disse Luciano, con un sovrano disprezzo, io leggo forse giornali? — Ragione di più, allora disputerete maggiormente. — Il Sig. Beauchamp, annunziò il cameriere. — Entrate, entrate! penna terribile! disse Alberto alzandosi e andando incontro al giovine: ecco qui Debray che vi detesta senza leggervi, almeno a quanto ha detto. — Egli ha ben ragione, disse Beauchamp, si conduce come me; io lo critico senza sapere quel che fa... Buon giorno commendatore. — Ah! lo sapete di già? rispose il segretario particolare, scambiando col giornalista una stretta di mano ed un sorriso. — Per bacco! riprese Beauchamp. — E che se ne dice nel mondo? — In qual mondo? abbiamo molti mondi nell’anno di grazia 1838. — Eh! nel mondo critico-politico di cui siete uno dei _lions_. — Ma si dice che la cosa è giustissima. — Andiamo, andiamo, non c’è male, disse Luciano; perchè mai non siete uno dei nostri, mio caro Beauchamp? Con tanto spirito quanto ne possedete, fareste fortuna in tre o quattro anni. — Non aspetto che una cosa per seguire il vostro consiglio. Ora, una sola parola a voi, caro Alberto, poichè bisogna bene che lasci respirare Luciano: facciamo colazione o pranziamo? perchè io ho _la camera_ che mi aspetta. Non sono tutte rose, come vedete, nel nostro mestiere. — Faremo soltanto colazione; non aspettiamo più che due persone, e ci metteremo a tavola subito che saranno giunte. — E chi aspettate? disse Beauchamp. — Un gentiluomo, ed un diplomatico, rispose Alberto. — Allora è l’affare di due piccole ore pel gentiluomo; e di due grandi ore pel diplomatico: ritornerò alle frutta. Serbatemi delle fragole, del caffè, e dei sigari: mangerò una costolina alla camera. — Non ne fate niente, Beauchamp. Quando anche il gentiluomo fosse un Montmorency, e l’altro uno dei primi diplomatici, faremo colazione alle 11 precise; frattanto fate come Debray, assaggiate il mio Xeres, ed i miei biscotti. — Andiamo dunque, sia così, resto. Bisogna assolutamente che questa mane mi distragga. — Buono! eccovi come Debray: mi sembra però che quando il ministero è tristo l’opposizione debba essere allegra! — Ah! vedete, amico caro, ciò nasce perchè non sapete da che cosa sono minacciato. Questa mattina sentirò alla camera dei deputati un discorso di Danglars, e questa sera in casa di sua moglie una tragedia di un pari di Francia. — Capisco: avete bisogno di far provvigione d’ilarità. — Non dite dunque male dei discorsi di Danglars, egli vota per voi, è dell’opposizione. — Ecco, per bacco! dove sta il male: io aspetto che lo mandiate a discorrere al Lussemburgo per riderne a mio bell’agio. — Caro mio, disse Alberto a Beauchamp, si vede bene che gli affari di Spagna sono accomodati, questa mattina siete di un’asprezza stomachevole. Ricordatevi dunque che la cronaca parigina porta trattative di un matrimonio fra me ed Eugenia Danglars. Non posso dunque, in coscienza, lasciarvi parlar male dell’eloquenza di un uomo, che un giorno o l’altro può dirmi: «signor visconte, sapete che assegno in dote due milioni a mia figlia.» — Su, via! disse Beauchamp, questo matrimonio non si farà mai. Il re ha potuto farlo conte, ma non potrà mai farlo diventar gentiluomo, ed il conte de Morcerf è una spada troppo aristocratica per acconsentire, per due meschini milioni, ad una cattiva alleanza. Il visconte de Morcerf non deve sposare che una marchesa. — Due milioni, rispose Alberto, sono una bella cosa. — Questo è il capitale sociale di un teatro dei baluardi, o di una strada di ferro dal giardino delle piante a Râpèe. — Lasciatelo dire, Morcerf, riprese con noncuranza Debray, ed ammogliatevi. Voi sposate la cifra che sta scritta sopra un sacco, n’è vero? ebbene! che v’importa! è meglio allora su questa cifra un blasone di meno ed un zero di più; avete 7 merli nelle vostre armi, ne darete tre a vostra moglie, e ve ne resteranno ancor quattro. — In fede mia, credo che abbiate ragione, Luciano, rispose con distrazione Alberto. — Eh certamente! d’altra parte è milionario e nobile come un bastardo: cioè, come potrebbe esserlo. — Zitto! non dite questo, Debray, rispose ridendo Beauchamp: poichè ecco qui Château-Renaud che per guarirvi dalla manìa di paradossare su tutto, vi passerebbe a traverso il corpo la spada di Renaud di Montauban, suo avolo. — Egli allora derogherebbe, rispose Luciano, perchè io sono un villano, villanissimo. — Bene! gridò Beauchamp, ecco il ministero che canta da pastore. Eh! come finiremo? — Il sig. Château-Renaud! il sig. Massimiliano Morrel! disse il cameriere, annunziando i due nuovi convitati. — Il numero è completo! disse Beauchamp, e noi andiamo a far colazione; perchè se non isbaglio, non aspettavate che due persone, Alberto? — Morrel! mormorò Alberto! e chi è costui? Ma prima che avesse terminato, il sig. de Château-Renaud, bel giovine di 30 anni, gentiluomo dalla testa ai piedi, vale a dire, coll’aspetto di un Guiche e lo spirito di un Mortemart, aveva preso Alberto per la mano. — Permettetemi, mio caro, gli diss’egli, di presentarvi il sig. Massimiliano Morrel, capitano dei _Spahis_ (specie di cavalieri affricani) mio amico, e di più mio salvatore. Del rimanente egli si presenta abbastanza bene da sè stesso, salutate il mio eroe, visconte. E si scostò per lasciar vedere questo grande e nobile giovine, dalla fronte larga, dallo sguardo penetrante, dai baffi neri, che i nostri lettori si ricorderanno di aver veduto a Marsiglia in una congiuntura molto più drammatica, e che non avran certo dimenticata. Una ricca uniforme metà francese, e metà orientale, mirabilmente portata, faceva comparire il suo largo petto decorato della croce della legione d’onore, e l’inquadratura svelta delle sue forme. Il giovine ufficiale s’inchinò con pulita eleganza; Morrel era grazioso in tutti i suoi movimenti perchè era forte. — Signore, disse Alberto con affettuosa cortesia, il barone di Château-Renaud ben sapeva tutto il piacere che mi procurava nel farmi fare la vostra conoscenza. Voi siete uno de’ suoi amici, signore; siate ancora uno dei nostri. — Benissimo, disse Château-Renaud, e desiderate, mio caro visconte, che presentandosi l’occasione faccia per voi quel che ha fatto per me. — E che ha dunque fatto? domandò Alberto. — Oh! non è mestieri di parlarne, il signore esagera. — Come! è mestieri di parlarne! la vita non vale la pena che se ne parli?... In vero avete troppa filosofia nelle vostre parole, mio caro Morrel... Andrà bene per voi ch’esponete la vostra vita tutti i giorni, ma per me che l’ho esposta una volta per caso... — Ciò che scorgo di più chiaro in tutto ciò, barone, è che il capitano Morrel vi ha salvata la vita. — Oh! mio Dio! sì, semplicemente, replicò Château-Renaud. — E in quale occasione? domandò Beauchamp. — Beauchamp amico mio, sapete ch’io muoio di fame! disse Debray; non andate dunque nelle storie. — Ebbene! ma io, disse Beauchamp, non impedisco che si mettano a tavola... Château-Renaud ci racconterà ciò a tavola. — Signori, disse Morcerf, non sono che le 10 e un quarto, e noi aspettiamo un altro convitato. — Ah! è vero, un diplomatico, riprese Debray. — Un diplomatico, o qualche altra cosa, non so niente: ciò che so, si è che lo incaricai di un’ambasciata per conto mio, da lui disimpegnata con tanta mia soddisfazione che se fossi stato re, lo avrei fatto cavaliere di tutti i miei ordini ad un tempo, ancorchè avessi avuto a mia disposizione il Toson d’Oro e la Giarrettiera. — Allora, dappoichè non si va ancora a tavola, disse Debray, versatevi un altro bicchiere di Xeres come abbiamo fatto noi, e raccontateci la vostra storia, barone. — Voi tutti sapete che mi venne il capriccio di andare in Affrica? — Strada tracciatavi dai vostri antenati, mio caro Château-Renaud, disse con galanteria Morcerf. — Sì, ma dubito che non vi sarete andato, com’essi, per liberare il santo sepolcro. — Avete ragione, Beauchamp, disse il giovine aristocratico, fu solo per tirare il mio colpo di pistola come dilettante. Il duello mi ripugna, come voi sapete, da poi che due testimoni, che io aveva scelti per accomodare una contesa, mi costrinsero a rompere un braccio ad uno dei miei migliori amici... eh! per bacco a quel povero Franz d’Épinay, che voi tutti conoscete. — Ah! è vero, vi batteste in allora, molto tempo fa,... ed a proposito di che? — Il diavolo mi porti se me ne ricordo! disse Château-Renaud; ma ciò che mi ricordo perfettamente si è che, avendo vergogna di lasciar dormire un ingegno come il mio, ho voluto provare sugli Arabi delle pistole nuove di cui aveva avuto dono. In conseguenza m’imbarcai per Orano; di lì passai a Costantina, e giunsi precisamente in tempo per veder levare l’assedio. Mi misi in ritirata come gli altri. Per 48 ore sopportai abbastanza bene la pioggia di giorno, e la neve di notte; finalmente nella terza mattina il cavallo morì di freddo. Povera bestia! accostumato alle coperte ed al braciere della scuderia... un cavallo arabo che si è trovato spatriato per aver rinvenuto appena dieci gradi di freddo in Arabia. — Per ciò volevate comprare il mio cavallo inglese, disse Debray; supponendo forse che sopporterebbe il freddo meglio del vostro arabo. — Siete in errore, poichè ho fatto voto di non ritornare più in Affrica. — Voi dunque avete avuto paura; domandò Beauchamp. — In fede mia sì, lo confesso, disse Château-Renaud; e ne ho avuto ben d’onde! Il mio cavallo dunque era morto; io faceva la mia ritirata a piedi, sei arabi vennero al galoppo per tagliarmi la testa, ne ammazzai due con due colpi del mio fucile, due colle mie due pistole; ma ne restavano altri due, ed io era disarmato. L’uno mi prese pei capelli, per questo ora li porto corti, non si sa mai ciò che può accadere; l’altro mi circondò il collo col suo _yatagan_, e già sentiva il freddo acuto del ferro, quando questo signore che vedete, caricò a sua volta sopra di essi, atterrò quello che mi teneva pei capelli con un colpo di pistola, e colla sciabola spiccò la testa a quello che si apparecchiava a tagliarmi la gola. Questo signore si era imposto in quel giorno l’obbligo di salvare un uomo, la combinazione volle che questi foss’io: quando diventerò ricco voglio far fare da Klugmann o da Marochetti una statua che rappresenti l’accaduto. — Sì, disse sorridendo Morrel; era il 5 settembre, cioè l’anniversario del giorno in cui mio padre fu miracolosamente salvato; così, per quanto è in mio potere, celebro tutti gli anni questo giorno con qualche azione. — Eroica, n’è vero? interruppe Château-Renaud; alle corte fui l’eletto, ma qui non sta il tutto. Dopo avermi salvato dal ferro mi salvò dal freddo dandomi, non già una metà del suo mantello come fece, non mi ricordo chi, ma tutto intero. Poi dalla fame, dividendo meco, indovinate un poco che cosa? — Un pasticcio di Felix? chiese Beauchamp. — No, il suo cavallo, di cui mangiammo entrambi un pezzo con grandissimo appetito; sebbene fosse un poco duro... — Il cavallo? domandò ridendo Morcerf. — No, il sacrificio, rispose Château-Renaud. Domandate a Debray se sacrificherebbe il suo cavallo inglese per un estraneo? — Per un estraneo, no; per un amico potrebbe darsi, rispose Debray. — Ed io pronosticai che sareste divenuto mio amico, signor conte, disse Morrel; d’altra parte ho già avuto l’onore di dirvelo: eroismo o no, sacrificio o no, doveva un olocausto alla cattiva fortuna, in compenso del favore che altravolta ci aveva fatta la buona. — Questa storia a cui Morrel fa allusione, è una bellissima storia che poi vi racconterà un giorno, quando avrete fatto con lui una più estesa conoscenza; per oggi approvvigioniamo lo stomaco, e non la memoria. A che ora fate colazione? — Alle 10 e mezzo. — Precise? domandò Debray cavando l’orologio. — Oh! mi accorderete 5 minuti di tolleranza, disse Morcerf, poichè io pure aspetto un salvatore — Di chi? — Di me per bacco! rispose Morcerf. Credete forse che non possa essere salvato come un altro, e che non vi siano che gli Arabi che tagliano la testa? La nostra colazione è una colazione filantropica, ed avremo alla nostra tavola, spero almeno, due benefattori dell’umanità. — E come faremo? disse Debray, non abbiamo che un sol premio Monthyon? — Ebbene! verrà dato a qualcuno che nulla abbia fatto per meritarlo, disse Beauchamp, in questo modo d’ordinario fa l’accademia per togliersi da qualunque impaccio. — E di dove viene? domandò Debray, scusate l’insistenza; avete di già, lo so bene, risposto a questa domanda, ma molto vagamente perchè possa permettermi di potervela fare una seconda volta. — In verità, disse Alberto, non lo so. Quando l’ho invitato, or son tre mesi, era a Roma, ma da quel tempo chi può dire il viaggio che ha fatto? — E lo credete capace di essere esatto? — Lo credo capace di tutto, rispose Morcerf. — Fate attenzione che, compresi i minuti di tolleranza, non ne mancano più che dieci. — Ebbene! ne approfitterò per dirvi una parola sul mio convitato. — Perdono disse Beauchamp: vi sarà materia per un _fogliettone_ in ciò che siete per narrare? — Sì, certamente, disse Morcerf, ed anche dei più curiosi. — Allora raccontate, poichè vedo bene che non potrò andare alla _Camera_, e bisogna che ne abbia un compenso. — Io ero a Roma nell’ultimo carnevale. — Questo lo sappiamo di già, disse Beauchamp. — Ma ciò che non sapete si è, che fui rapito dai Briganti. — Non vi sono più briganti, disse Debray. — Ve ne sono, e ve ne sono anche degli orridi, cioè ammirabili, mentre ne ho trovati dei belli ma da far paura. — Vediamo, mio caro Alberto, disse Debray; confessate che il vostro cuoco è in ritardo, che le ostriche non sono ancora giunte da Marennes o da Ostenda, e che a guisa della sig.ª di Maintenon, volete sostituire un racconto ad un piatto. Ditelo, mio caro, siamo abbastanza di buona compagnia per perdonarvelo, e per ascoltare la vostra storia; tuttochè sembri favolosa. — Ed io vi dico, per quanto possa comparir favolosa, che ve la garantisco per vera dal principio alla fine. I briganti adunque mi avevano condotto in un luogo molto tristo, chiamato le Catacombe di S. Sebastiano. — Lo conosco, disse Château-Renaud, e per poco non vi presi le febbri. — Ed io ho fatto ancora più; l’ebbi realmente. Mi fu annunziato che ero prigioniero, salvo il riscatto, una bagattella, 4 mila scudi romani, circa 26 mila lire tornesi. Disgraziatamente non ne aveva più che 1,500, era alla fine del mio viaggio, e il mio credito era esausto. Scrissi a Franz. Ah perbacco! Franz era là, e potete chiedergli se mentisco di una virgola; scrissi dunque a Franz che se non giungeva alle 6 del mattino coi 4 mila scudi, alle 6 e 10 minuti sarei passato all’eterna gloria, e Luigi Vampa, questo è il nome del capo dei briganti, vi prego a crederlo, mi avrebbe mantenuta scrupolosamente la sua parola. — Ma Franz sarà giunto coi 4 mila scudi? disse Château-Renaud. Che diavolo! non può trovarsi in impaccio per 4 mila scudi chi porta il nome di Franz d’Épinay o d’Alberto de Morcerf! — No, ma egli giunse solamente, e semplicemente accompagnato dal convitato che vi ho annunziato, e che spero potervi presentare. — E che! è dunque Ercole che uccide Caco questo signore? un Perseo che libera Andromeda? — No, è un uomo in circa della mia corporatura. — Armato fino ai denti? — Non aveva neppure un ferro da calzetta. — Egli dunque contrattò il vostro riscatto? — Disse due parole all’orecchio del capo ed io fui liberato. — Anzi gli fecero perfino le scuse d’avervi arrestato, disse Beauchamp. — Precisamente, rispose Morcerf — Ma che! era dunque l’Ariosto quest’uomo? — No, era semplicemente il conte di Monte-Cristo. — Non v’è nessuno che si chiami così, disse Debray. — Io non credo, soggiunse Château-Renaud colla presenza d’animo dell’uomo che tiene sulla punta delle dita tutte le genealogie delle famiglie nobili dell’Europa; chi è che conosca in alcuna parte un conte di Monte-Cristo? — È forse un qualche casato proveniente dalla Terra Santa, disse Beauchamp, uno dei suoi avi avrà posseduto il Calvario, come i Mortmart il Mar morto. — Perdono, disse Massimiliano, ma io credo di potervi togliere d’impaccio, signori: Monte-Cristo è una piccola isola, di cui ho sovente inteso parlare dai marinari impiegati da mio padre; un grano di sabbia in mezzo al Mediterraneo, un atomo nell’infinito. — Ed è perfettamente ciò, signore, disse Alberto. Ebbene! di questo grano di sabbia, di questo atomo è signore e re colui di cui vi parlo; egli avrà comprato il diploma di conte in qualche parte della Toscana. — È dunque ricco il vostro conte? — In fede mia, lo credo! — Ma ciò deve vedersi, mi sembra? — Ecco ciò che v’inganna, Debray. — Io non vi capisco affatto. — Avete letto le _Mille e una notte_? — Per bacco! bella domanda! — Ebbene! sapete se le persone che vi si vedono sono ricche o povere? se i loro grani di frumento sono rubini o diamanti? essi hanno l’aspetto di miserabili pescatori, n’è vero? voi li trattate come tali, e d’un subito vi aprono qualche caverna misteriosa, e vi trovate un tesoro da comprare le Indie: il mio conte di Monte-Cristo è uno di quei pescatori: ha perfino un nome tolto da quella professione, si chiama Sindbad il marinaro, e possiede una caverna piena d’oro. — L’avete veduta? domandò Beauchamp. — Io no; Franz sì. Ma zitti! non bisogna dire una parola di tutto ciò davanti a lui. Franz vi discese cogli occhi bendati, e fu servito da uomini muti, e da donne, in paragone delle quali Cleopatra non era, a quanto pare che una _lorette_. Soltanto delle donne egli non è ben sicuro, attesochè esse non apparvero che dopo aver mangiato dell’_hatchis_; di modo che potrebbe darsi che quelle che ha prese per donne, non fossero state bonariamente che statue. I giovani amici guardarono Morcerf con uno sguardo che voleva dire: — Ma che mio caro, diventate voi insensato, o vi burlate di noi? — In fatto, disse Morrel pensieroso, ho inteso raccontare anch’io da un vecchio marinaro, chiamato Penelon qualche cosa di consimile a ciò che dice il signor di Morcerf. — Ah! fece Alberto, sono ben fortunato che Morrel venga in mio aiuto. Vi dispiace, n’è vero, ch’egli getti un gomitolo di filo nel mio laberinto? — Perdonate, mio caro ma ci raccontate cose tanto inverisimili... — Ah! per bacco! perchè i vostri ambasciatori, i vostri consoli non ve ne parlano! essi non ne hanno il tempo, hanno troppo da fare nel molestare i loro compatriotti che viaggiano. — Ah! ecco che v’inquietate, e ve la prendete coi nostri poveri diplomatici. Eh! mio Dio! con che volete che vi proteggano? la _Camera_ corrode ogni giorno i loro stipendi, ed ora è al punto di non trovarne più. Volete diventare ambasciatore? vi farò nominare a Costantinopoli. — No, perchè il sultano alla prima nota in favore di Mehemet-Alì, mi manderebbe il cordone, e i miei segretari mi strangolerebbero. — Vedete bene! disse Debray. — Sì, tutto ciò non toglie che esiste il mio conte di Monte-Cristo! — Per bacco! tutti gli uomini esistono, bel miracolo! — Tutti gli uomini esistono, ma non in simili condizioni. Tutti gli uomini non hanno schiavi neri, gallerie principesche, armi alla Casauba, cavalli da 6 mila franchi l’uno, e greche _mantenute_. — L’avete voi veduta la Greca da lui _mantenuta_? — Sì, l’ho veduta ed intesa; veduta al teatro Valle, intesa un giorno che facevo colazione dal conte. — Il vostro uomo straordinario dunque mangia? — In fede mia, che mangia! e tanto poco, che non merita la pena di parlarne. — Voi vedrete poi che sarà un vampiro. — Ridete, se volete, questa era l’opinione della contessa G***, che, come voi sapete, ha conosciuto lord Ruthwen. — Ah! buono! disse Beauchamp, ecco per un uomo non giornalista, il simile del famoso serpente di mare del _Constitutionel_; un vampiro, perfettamente! — Occhio rossiccio, la cui pupilla si dilata e restringe a volontà, disse Debray, volto ad angolo sviluppato, fronte spaziosa, tinta livida, barba nera, denti bianchi ed acuti, compitezza tutta particolare. — Ebbene! precisamente è tutto ciò, Luciano, disse Morcerf, ed i connotati sono riportati a puntino. Sì, compitezza acuta ed incisiva. Quest’uomo spesso mi ha fatto fremere, e particolarmente un giorno, fra gli altri, che guardavamo insieme una esecuzione, ho creduto di essere presso a svenirmi, molto più per vederlo e sentirlo ragionare freddamente su tutti i supplizi della terra, di quella che per guardare il carnefice eseguire il suo ufficio, e sentire le grida del paziente. — E non vi ha condotto fra le rovine del Colosseo per succhiarvi il sangue, Morcerf? disse Beauchamp. — Ovvero dopo avervi liberato non vi ha fatto firmare qualche pergamena color di fuoco, in virtù della quale gli cediate la vostra anima? — Scherzate! scherzate quanto volete, signori! disse Morcerf punto sul vivo. Quando osservo voi altri belli parigini, abituati al baluardo di Gand, passeggiatori del bosco di Boulogne, e mi ricordo di quest’uomo, mi pare che non siamo della stessa specie. — Me ne glorio, disse Beauchamp. — Il vostro conte di Monte-Cristo, soggiunse Château-Renaud, è però sempre un galantuomo nelle ore d’ozio, salvo però le sue piccole intelligenze coi banditi Italiani. — Ma se non vi sono banditi Italiani! soggiunse Debray. — Non vi sono vampiri! disse Beauchamp. — Non esiste il conte di Monte-Cristo! riprese Debray. — Ascoltate, caro Alberto, suonano le dieci e mezzo. — Confessate che avete veduto un fantasma, e andiamo a far colazione, disse Beauchamp. Ma la vibrazione dell’orologio a pendolo non era ancora estinta, quando la porta si aprì, e Germano annunziò: — S. E. il conte di Monte-Cristo! Tutti gli uditori fecero loro malgrado un movimento che dinotava la preoccupazione da Morcerf infiltrata nelle loro anime col suo racconto. Alberto stesso non potè esimersi da una commozione momentanea. Non era stato inteso nè carrozza sulla strada, nè passi nell’anticamera; la porta stessa si era aperta senza rumore. Il conte comparve sul limitare, vestito colla più grande semplicità, ma il _lion_ più esigente non avrebbe saputo trovarvi la più piccola mancanza. Tutto era di un gusto squisito, tutto usciva dalle mani dei più eleganti fornitori, abiti, cappello, biancheria. Sembrava avere appena 35 anni, ma ciò che sorprese tutti si fu l’estrema rassomiglianza col ritratto che ne aveva descritto Debray. Il conte si avanzò sorridendo in mezzo al salotto, e andò direttamente da Alberto, che venendogli incontro gli offerse con trasporto la mano. — L’esattezza, disse Monte-Cristo, è la gentilezza dei re, per quanto ha preteso, io credo, uno dei vostri sovrani. Ma qualunque sia la loro buona volontà, non è però sempre quella dei viaggiatori. Però io spero, mio caro visconte, che mi scuserete, in grazia della mia buona volontà, i due o tre secondi di ritardo al nostro convegno; 500 leghe non si fanno senza qualche contrattempo, particolarmente in Francia ove è proibito, a quanto sembra, di battere i postiglioni. — Signor conte, rispose Alberto, io era sul punto di annunziare la vostra visita ad alcuni dei miei amici, da me riuniti ad occasione della promessa che mi faceste, e che ho l’onore di presentarvi. Questi signori sono, il conte di Château-Renaud, la cui nobiltà risale a 12 Pari, i cui antenati hanno avuto posto alla tavola rotonda: Luciano Debray, segretario particolare del ministro dell’Interno; Beauchamp, terribile giornalista, il terrore del governo francese, e di cui forse, ad onta dalla sua celebrità non avrete inteso parlare in Italia, atteso che il suo giornale non vi può entrare; finalmente Massimiliano Morrel capitano degli _Spahis_. — A questo nome, il conte, che fino allora aveva salutato cortesemente, ma con una freddezza ed una impassibilità tutta inglese, fe’ suo malgrado un passo in avanti, ed una leggera tinta vermiglia passò come un lampo sulle sue pallide guance: — Il signore porta l’uniforme dei nuovi vincitori francesi? diss’egli, è una bell’uniforme. Non sarebbe stato possibile poter dire quale fosse il sentimento che dava alla voce del conte una così profonda vibrazione e che faceva brillare suo malgrado l’occhio tanto bello, tanto sereno e limpido, quando non aveva alcun motivo per velarlo. — Voi non avevate mai veduti i nostri affricani, sig. conte? disse Alberto. — Giammai, replicò il conte, ritornato perfettamente padrone di sè stesso. — Ebbene, sig. conte, sotto quest’uniforme batte uno dei cuori più bravi e più nobili dell’esercito... — Oh! sig. conte, interruppe Morrel. — Lasciatemi dire, capitano... Non ha guari, continuò Alberto, abbiamo inteso un tratto così eroico del signore, che, quantunque io lo veda oggi per la prima volta, reclamo da lui il favore di potervelo presentare come un mio amico. — E sarebbesi potuto anche a queste parole, scorgere nel conte quello strano sguardo di fissazione, quel rossore fuggitivo, e quel leggero tremore della palpebra, che in lui dinotava emozione: — Ah il signore ha un cuor nobile, disse il conte; tanto meglio! Questa specie di esclamazione che corrispondeva piuttosto col pensiero del conte, che col discorso d’Alberto sorprese tutti, ma particolarmente Morrel, che guardò il conte di Monte-Cristo con istupore. Ma in pari tempo il tuono della voce era stato sì dolce e per così dire sì soave, che, per quanto strana fosse apparsa questa esclamazione non v’era ragione in alcun modo d’offendersene. — Perchè dunque ne dubiterebbe egli? disse Beauchamp a Château-Renaud. — In verità, ripose questi, che, coll’abitudine del _gran mondo_ e la chiarezza pel suo colpo d’occhio aristocratico, aveva penetrato in Monte-Cristo tutto ciò che era in lui penetrabile, in verità Alberto non ci ha ingannati, è un personaggio singolare questo conte; che ne dite Morrel? — In fede mia, rispose questi, ha l’occhio franco e la voce simpatica di modo che mi piace ad onta della bizzarra riflessione che ha fatta sul conto mio. — Signore! disse Alberto, Germano m’avvisa che la colazione è all’ordine. Mio caro conte, permettetemi che v’insegni la strada. — Passarono silenziosamente nella sala da pranzo, e ciascuno si mise al suo posto. — Signori, disse il conte sedendosi, permettetemi una confessione che sarà la mia scusa per tutte le inconvenienze che potrò commettere: sono forestiere ma forestiere a tal punto che questa è la prima volta che vengo a Parigi. La vita francese mi è dunque perfettamente sconosciuta, non avendo fino ad ora seguita che la sola orientale, la più antipatica alle buone tradizioni parigine. Vi prego dunque a scusarmi se ritroverete in me qualche cosa di troppo turco, o di troppo arabo. Detto ciò, signori, facciamo colazione. — Dal modo come ha detto tutto ciò, mormorò Beauchamp, si conosce che è un gran signore. — Un gran signore straniero, soggiunse Debray. — Un gran signore cosmopolita, disse Château-Renaud. Ognuno ricorderà che il conte era un convitato sobrio. Alberto ne fece le sue osservazioni, e manifestò il timore che non avesse a dispiacergli la vita parigina fin dal suo bel principio nella parte più materiale, è vero, ma nello stesso tempo più necessaria: — Mio caro conte, diss’egli, voi mi vedete colpito da un timore, ed è che la cucina della strada d’Helder non abbia a dispiacervi tanto, quanto quella della piazza di Spagna. Avrei dovuto chiedervi ciò che più vi gusta, o farvi preparare qualche piatto di vostra fantasia. — Se voi mi conosceste di più, rispose sorridendo il conte, non vi preoccupereste di una cosa quasi umiliante per un viaggiatore quale io sono, che ha successivamente vissuto con maccheroni a Napoli, con polenta a Milano, con olla pudrida a Valenza, con riso asciutto a Costantinopoli, con karrick nelle Indie, e con nidi di rondinelle nella China. Non vi è una cucina particolare per un cosmopolita come sono io: mangio di tutto, ed in ogni luogo; solo mangio poco, ed oggi che voi mi rimproverate la mia sobrietà, sono in una delle giornate del mio massimo appetito, perchè da ieri mattina non ho più mangiato. — Come da ieri mattina? esclamarono i convitati, non avete mangiato da 26 ore? — No, rispose il conte, fui obbligato di deviare dalla mia strada per portarmi a Nimes a prendere in quei dintorni alcune informazioni, di modo che era un poco in ritardo; e non ho voluto fermarmi. — Ma avrete mangiato in carrozza? chiese Morcerf. — No, ho dormito, come mi succede quando mi annoio senza avere il coraggio di distrarmi, o quando ho fame senza aver volontà di mangiare. — Ma dunque, comandate al sonno? domandò Morrel. — Presso a poco. — Avete voi una ricetta per questo? — Infallibile. — Ecco ciò che sarebbe eccellente per noi Affricani, che non abbiamo sempre che mangiare, e che difficilmente abbiamo di che bere, disse Morrel. — Sì, disse il conte, disgraziatamente la mia ricetta, buona per un uomo come me, che conduco una vita di eccezione, sarebbe molto pericolosa applicata ad un esercito che non si sveglierebbe più, quando se ne avesse bisogno. — Si può sapere che è questa ricetta? chiese Debray. — Oh! mio Dio! sì, disse il conte, non ne faccio alcun segreto; è un mischio di eccellente oppio che io stesso sono stato a cercare a Canton per esser certo d’averlo puro, e del miglior _hatchis_ che si raccolga in Oriente, cioè fra il Tigri e l’Eufrate. Si riuniscono questi due ingredienti in porzioni eguali, e se ne formano delle specie di pillole che s’inghiottiscono quando uno ne ha bisogno. L’effetto si produce dieci minuti dopo. Domandatene al barone Franz d’Épinay, che credo un giorno ne abbia gustato. — Sì, rispose Morcerf, me ne ha detto qualche parola, ed anzi ne ha conservato grata memoria. — Ma, disse Beauchamp, che nella sua qualità di giornalista era molto incredulo, porterete sempre questa droga con voi? — Sempre, rispose il conte di Monte-Cristo. — Sarei indiscreto se vi domandassi di vedere queste pillole? continuò Beauchamp nella speranza di cogliere lo straniero in fallo. — No, signore, rispose il conte. E cavò di tasca una maravigliosa bomboniera scavata in un solo smeraldo, e chiusa con un fermaglio d’oro, che, aprendosi, dava passaggio ad una pillola di color verdastro della grossezza di un pisello. Questa pillola aveva un odore acre e penetrante; ve ne erano 4, o 5 nella cavità dello smeraldo che ne poteva contenere circa una dozzina. La bomboniera fece il giro della tavola, ed i convitati se la facevano passare più per esaminare la magnificenza dell’ammirabile smeraldo che per guardare e fiutare le pillole che conteneva. — È forse il vostro cuoco che vi prepara questo regalo? domandò Beauchamp. — No, signore, disse il conte di Monte-Cristo; non abbandono in tal modo i miei piaceri reali all’arbitrio di mani indegne; sono abbastanza buon chimico per prepararmi da me stesso queste pillole. — Questo è uno smeraldo ammirabile, ed è il più grosso che abbia mai veduto, quantunque mia madre abbia qualche gioia di famiglia molto notevole, disse Château-Renaud. — Di questi ne aveva tre, soggiunse il conte di Monte-Cristo; uno ne regalai al Gran signore che ne ha adornata la sua sciabola; l’altro a persona che non debbo nominare; il terzo l’ho riserbato per me, e l’ho fatto scavare, la qual cosa gli ha tolto la metà del valore, ma lo ha reso più comodo per l’uso al quale l’ho destinato. Ciascuno guardò il conte di Monte-Cristo con meraviglia; parlava con tanta semplicità, che faceva conoscere ad evidenza essere vero ciò che diceva, o essere pazzo: ciò non ostante lo smeraldo che rimaneva nelle sue mani faceva piuttosto inclinare a credere la prima supposizione. — E che vi hanno dato in contraccambio le persone cui avete fatti simili doni? chiese Debray. — Il Gran-signore mi concesse la libertà di una donna, rispose il conte; l’altra persona la vita di un uomo. Di modo che per due volte sono stato così possente, come se fossi nato sui gradini di un trono. — E forse fu Peppino che liberaste, n’è vero? gridò Morcerf; a lui forse applicaste il vostro diritto di grazia? — Può darsi, disse Monte-Cristo sorridendo. — Sig. conte, disse Morcerf, non potete formarvi un’idea del piacere che provo nel sentirvi parlare in tal modo. Vi aveva di già annunziato ai miei amici come un uomo favoloso, come un mago delle _Mille e una Notte_, come uno stregone del medio evo; ma i parigini sono persone talmente sottili nei paradossi, che prendono per capricci dell’immaginazione le verità più incontrastabili, quando esse non entrano nelle condizioni della loro giornaliera esistenza. Per esempio, ecco Debray che legge, e Beauchamp che stampa tutti i giorni, essere stato fermato e spogliato sul baluardo qualche membro Jockey-Club in ritardo, che furono assassinate quattro persone sulla strada Saint-Denis o nel sobborgo San-Germano; che sono stati arrestati 4, 10, 20 ladri, sia in un caffè sul baluardo del Tempio, sia alle Terme di Giulio, e negano l’esistenza dei banditi nelle Maremme, nella Campagna Romana, e nelle paludi Pontine. Dite dunque voi stesso, ve ne prego, signor conte, che sono stato preso da questi banditi, e che, senza la vostra generosa intercessione, io oggi aspetterei, secondo tutte le probabilità, la resurrezione finale nelle catacombe di San Sebastiano, invece di dar loro da colazione nella mia piccola ed indegna casa strada di Helder. — Bah! voi mi avete promesso di non parlarmi più di questa miseria. — Non sono io che vi ho fatto questa promessa, sig. conte, gridò Morcerf, sarà stato qualche altro cui avete reso un simile servigio, e che ora confondete con me. Parliamone anzi, ve ne prego; perchè se vi risolvete a parlare di questa particolarità, non solo ridirete alcune cose che so, ma molte altre ancora che non so. — Ma mi sembra che in tutto questo affare, soggiunse il conte ridendo, abbiate sostenuto una parte di troppa importanza, per sapere al par di me tutto ciò che è accaduto. — Volete promettermi, che, se dico tutto quel che so, mi direte tutto quello che non so? — È troppo giusto, rispose Monte-Cristo. — Ebbene! soggiunse Morcerf, dovesse il mio amor proprio ancora soffrirne, mi sono creduto per tre giorni l’oggetto delle civetterie di una maschera che aveva presa per discendente delle Tulie, o delle Poppee, nel mentre che ero puramente e semplicemente l’oggetto delle frascherie di una contadina; e notate bene che dico contadina per non dire villana. Ciò che io so si è, che a guisa di un gonzo, più gonzo ancora di colui di cui si parlava non ha guari, ho preso per questa persona un giovine bandito dai 15 ai 16 anni, col mento imberbe, la vita sottile, che al momento in cui voleva emanciparmi fino a depositare un bacio sulla sua casta spalla, mi ha messo le pistole alla gola, e coll’aiuto di altri sette o 8 banditi, mi ha condotto o piuttosto mi ha trascinato nel fondo delle catacombe di San Sebastiano, ove trovai un capo di banditi molto letterato, in fede mia, che leggeva i commentari di Giulio Cesare, e che si è degnato d’interrompere la lettura per dirmi che se la dimane alle 6 del mattino non aveva versati 4 mila scudi nella sua cassa alle sei ed un quarto avrei perfettamente cessato di vivere. La lettera vi è, essa è nelle mani di Franz, firmata da me, con _post-scriptum_ di Mastro Luigi Vampa. Se ne dubitate, scriverò a Franz che farà legalizzare le firme. Ecco ciò che so. Or quello che mi resta a sapere si è, come mai, voi, sig. conte, siate giunto ad incutere ai banditi di Roma un sì gran rispetto, ad essi che nulla rispettano. Vi confesso che Franz ed io ne fummo rapiti d’ammirazione. — Niente di più semplice, signore, rispose il conte, io conosceva il famoso Vampa da più di dieci anni. Quand’egli era ancor giovine e pastore, un giorno gli regalai, non mi sovviene ora qual moneta d’oro, perchè m’indicò la strada, ed egli, per non avere niente del mio, mi dette in cambio un pugnale, intagliato colle sue mani, e che voi forse avrete notato nella mia collezione d’armi. Col tempo, sia ch’egli dimenticasse questo ricambio di piccoli regali che doveva mantenere l’amicizia fra di noi, sia che non mi avesse riconosciuto, tentò di arrestarmi; ma io al contrario arrestai lui con una dozzina dei suoi compagni. In allora poteva abbandonarlo alla giustizia romana che è speditiva, e che si sarebbe ancora sollecitata di più a suo riguardo, ma non lo feci; invece lo rimandai con tutti i suoi. — A condizione che non peccassero più, disse il giornalista ridendo. Vedo con piacere ch’essi hanno mantenuta scrupolosamente la parola. — No, signore, rispose Monte-Cristo, a condizione che rispettassero sempre me ed i miei amici. — Alla buon’ora, gridò Château-Renaud, ecco il primo uomo coraggioso che sento predicare lealmente e brutalmente l’egoismo; ciò è bellissimo, bravo! signor conte. — Almeno ciò è molto franco, disse Morrel; ma sono sicuro che il conte non si è pentito di avere una volta mancato a questi principi, che ora ci ha esposti in modo così assoluto. — Ed in qual modo ho mancato ai miei principi, signore? domandò Monte-Cristo che di tempo in tempo non poteva esimersi dal guardare Massimiliano con tanta attenzione, che già due o tre volte l’ardito giovine era stato costretto ad abbassar gli occhi, rimpetto allo sguardo limpido e chiaro del conte. — Mi sembra, rispose Morrel, che liberando il sig. di Morcerf che non conoscevate voi servivate al prossimo, ed alla società... — Di cui egli fa il più bell’ornamento, disse con gravità Beauchamp, vuotando in un sol fiato un bicchiere di Champagne. — Sig. conte, gridò Morcerf, eccovi preso dal ragionamento, voi, uno dei più aspri logici che io conosca. E starete a vedere, che quanto prima vi sarà dimostrato, che in vece d’essere un egoista, siete un filantropo. Ah! voi vi spacciate per Orientale, Levantino, Maltese, Indiano, Chinese, Selvaggio, vi chiamate Monte-Cristo per nome di famiglia, Sindbad il marinaro per nome di battesimo, ed eccovi, che il primo giorno che mettete il piede in Parigi, già possedete il più gran merito, od il più gran difetto della nostra eccentricità parigina, vale a dire vi usurpate i vizi che non avete! — Mio caro visconte, disse Monte-Cristo, non vedo in tutto ciò che ho detto o fatto, una sola parola che possa meritarmi, per parte vostra e di questi signori, l’elogio che ricevo. Voi non mi eravate estraneo, poichè vi avevo data una colazione, vi aveva prestata per otto giorni una carrozza, avevamo veduto insieme passare le maschere pel Corso, e perchè avevamo guardato dalla stessa finestra della piazza del Popolo quella esecuzione che vi fece tanta impressione che quasi sveniste. Ora, lo domando a questi signori, poteva io lasciare il mio ospite nelle mani di quei spaventosi banditi, come voi li chiamate? D’altra parte lo sapete, aveva nel salvarvi un secondo fine, qual era quello di servirmi di voi per introdurmi nella società di Parigi quando fossi venuto a visitare la Francia. Per qualche tempo avete potuto considerare questa risoluzione come un disegno vago ed incerto; ma oggi lo vedete, è una bella e buona realtà, alla quale bisogna che vi sottomettiate, sotto pena di mancare alla vostra parola. — Ed io la manterrò, disse Morcerf, ma temo che presto vi cadrà ogni illusione, mio caro conte, voi, avvezzo ai luoghi pieni d’avventure, agli avvenimenti pittoreschi, ai fantastici orizzonti. Presso noi non vi accadrà il più piccolo episodio di quelli cui la vita fantastica vi ha abituato. Il nostro Chimboraco è Montmartre; il nostro _Himalaya_ è il monte Valérien, il nostro _Gran Deserto_ è la pianura di Grenelle, e vi forano ancora un pozzo artesiano perchè le carovane vi trovino dell’acqua. Noi abbiamo dei ladri ed anche molti, quantunque non ve ne siano tanti quanti si dice; ma essi temono egualmente la più piccola spia come il più gran signore; finalmente la Francia è un paese così prosaico, e Parigi una città tanto incivilita, che non troverete, cercando ancora per tutti gli 85 nostri dipartimenti (dico 85 dipartimenti, perchè, ben inteso eccettuo la Corsica dalla Francia) che non troverete una sola montagna in cui non vi sia un telegrafo, la più piccola grotta un poco oscura nella quale un commissario di polizia non abbia fatto porre un becco a gas. Non vi è dunque che un solo servigio che posso rendervi, mio caro conte, e per questo mi metto interamente a vostra disposizione; ed è di presentarvi ovunque, e farvi presentare dai miei amici; abbenchè voi per questo non abbiate bisogno d’alcuno: col vostro nome, la vostra fortuna, ed il vostro spirito (Monte-Cristo s’inchinò con un sorriso leggermente ironico), ognuno si presenta ovunque da sè stesso, ed ovunque è ben ricevuto. In realtà adunque non posso essere buono per voi che ad una cosa sola: se l’abitudine della vita parigina, se la esperienza dei nostri comodi, se la conoscenza dei nostri bazar possono raccomandarmi a voi mi metto a vostra disposizione per ritrovarvi una conveniente abitazione. Non oso proporvi di farvi parte del mio alloggio, come ho partecipato del vostro a Roma, non professo l’egoismo ma sono egoista per eccellenza; perchè il mio alloggio non potrebbe contenere oltre me neppure un’ombra.... a meno che non fosse quella di una donna. — Ah! fece il conte, ecco una riserva del tutto matrimoniale; voi infatto a Roma mi avete detto qualche parola di un matrimonio in trattativa; debbo congratularmi sulla vostra prossima felicità? — La cosa è sempre allo stato di disegno, sig. Conte. — E chi dice disegno, soggiunse Debray, vuol dire eventualità. — No, no, disse Morcerf; mio padre vi ha dell’impegno, e spero fra poco di presentarvi se non mia moglie, almeno la mia fidanzata in madamigella Eugenia Danglars. — Eugenia Danglars! riprese Monte-Cristo; aspettate dunque; suo padre non è il Conte Danglars? — Sì rispose Morcerf; ma conte di nuova formazione. — Oh! che importa! rispose Monte-Cristo, s’egli ha reso allo stato dei servigi che gli abbiano meritata questa distinzione. — Servigi enormi, disse Beauchamp. Quantunque liberale nell’anima, nel 1829, completò un prestito di sei milioni a Carlo X che lo ha, sulla mia fede, fatto conte e cavaliere della legione d’onore, di modo che egli porta la decorazione non al taschino del giubbetto, come si potrebbe credere, ma bell’e bene all’occhiello dell’abito. — Ah! disse Morcerf ridendo, Beauchamp, riserbate questi frizzi per inserirli sul _Corsaire_ o sul _Charivari_; ma in mia presenza risparmiate il mio futuro suocero. — Quindi volgendosi a Monte-Cristo: — Ma voi poco fa ne pronunciaste il nome come se conosceste il conte? — Non lo conosco, disse negligentemente Monte-Cristo, ma probabilmente non tarderò molto a fare la sua conoscenza, atteso che ho dei crediti aperti su lui dalla casa Richard e Blount di Londra, Arstein e Esheles di Vienna, Thomson e French di Roma. — Pronunciando questi due ultimi nomi, Monte-Cristo guardò colla coda dell’occhio Massimiliano Morrel. Se lo straniero aveva calcolato di produrre dell’effetto sopra Massimiliano Morrel, non s’era ingannato. Massimiliano si commosse come se avesse ricevuta una scossa elettrica. — Thomson e French! diss’egli, conoscete questa casa signore? — Sono i miei banchieri nella capitale del mondo cristiano, rispose tranquillamente il conte: posso esservi giovevole con essi? — Ah! signore, voi potreste aiutarmi forse in certe ricerche, che fino ad oggi sono state infruttuose. In altro tempo questa casa ha reso un grandissimo servigio alla nostra, e non so perchè, essa ha sempre negato di avercelo reso. — Sono ai vostri comandi, rispose Monte-Cristo inchinandosi. — Ma noi, disse Morcerf, ci siamo allontanati in modo particolare ed a proposito di Danglars dall’argomento della conversazione. Si trattava di ritrovare una casa conveniente al conte di Monte-Cristo. Andiamo signori, orizzontiamoci per averne un’idea: ove alloggeremo questo nuovo ospite del gran Parigi? — Nel sobborgo _San Germano_, disse Château-Renaud; là il signore ritroverà una graziosa abitazione posta fra il cortile ed il giardino. — Bah! Château-Renaud, disse Debray, voi non conoscete che il vostro tristo ed ammuffito sobborgo _San Germano_; non lo ascoltate, signor conte, alloggiate _Chaussée-d’Antin_, è il vero centro di Parigi. — Baluardo dell’_Opera_, disse Beauchamp; al primo piano, una casa con ringhiera; il signor conte vi farà portare dei cuscini di broccato d’argento, e vedrà, fumando la sua pipa turca, o inghiottendo le sue pillole, tutta la capitale sfilare sotto i suoi occhi. — E voi, disse Château-Renaud, voi Sig. Morrel non avete alcuna idea? nulla proponete. — Anzi, disse il giovine militare, al contrario, ne ho una, ma aspettava che il signore si fosse lasciato tentare da qualcuna delle brillanti proposizioni che gli sono state fatte. Ora, non avendo egli risposto, credo potergli offrire un appartamento in una casa piccola ma graziosa, tutta alla Pompadour, che mia sorella ha preso in fitto da circa un anno nella strada Meslay. — Voi avete una sorella? domandò Monte-Cristo. — Sì, signore, ed una eccellente sorella. — Maritata? — Ben presto saranno 9 anni. — E felice? domandò di nuovo il conte. — Tanto felice, quanto è permesso d’esserlo a creatura umana, rispose Massimiliano. Ella sposò l’uomo che amava, quello che ci rimase fedele nella nostra avversa fortuna, Emmanuele Herbaut. — Monte-Cristo sorrise impercettibilmente. — Io abito là durante il mio semestre, continuò Massimiliano, e di unita a mio cognato Emmanuele noi saremo a disposizione del sig. conte per tutte quelle informazioni che potesse desiderare. — Un momento, gridò Alberto prima che Monte-Cristo avesse avuto il tempo di rispondere; ponete mente a ciò che fate, volete rinchiudere un viaggiatore, come Sindbad il marinaro, nella vita di famiglia. Un uomo che è venuto a vedere Parigi, volete farlo diventare un patriarca? — Oh! no, rispose Morrel sorridendo, mia sorella ha 25 anni, mio cognato 30: sono giovani, allegri, e felici; d’altra parte il sig. conte avrà il proprio appartamento, e non incontrerà gli ospiti che quando gli piacerà di scendere da loro. — Grazie, signore, grazie, disse Monte-Cristo, mi contenterò di essere da voi presentato a vostra sorella ed a vostro cognato, se volete farmi questo onore: ma non posso accettare le offerte di nessuno di questi signori, attesochè ho già la mia abitazione preparata. — Come! gridò Morcerf, voi andate a smontare ad una locanda? sarebbe troppo disdicevole per voi. — Ma stava io forse tanto male a Roma? domandò Monte-Cristo. — Per bacco! a Roma, disse Morcerf, avevate speso 50 mila scudi per farvi ammobiliare un appartamento, e presumo che non sarete tutti i giorni disposto ad una simile spesa. — Non è ciò che mi ha trattenuto, rispose Monte-Cristo; aveva stabilito d’avere una casa a Parigi, intendo una casa mia. Ho mandato avanti il mio cameriere, ed a quest’ora deve già averla comprata, e fatta ammobiliare. — Ma diteci dunque, che avete un cameriere che conosce Parigi, gridò Beauchamp. — È la prima volta, signore, ch’egli, come me viene in Francia, è moro, e non parla, disse Monte-Cristo. — Allora è Alì? domandò Alberto in mezzo alla sorpresa generale. — Sì, è Alì, egli stesso, il mio Nubiese, il mio Moro, che voi, cred’io, avete veduto a Roma. — Sì, certamente, rispose Morcerf, me lo ricordo benissimo. — Ma come mai avete voi incaricato uno della Nubia di comprarvi una casa a Parigi, e un muto di farvela ammobiliare? Il povero disgraziato avrà fatte tutte le cose di traverso. — Disingannatevi, signore, anzi sono certo che avrà scelto ogni cosa a seconda del mio gusto; poichè voi sapete che il mio gusto non è quello di tutti; è giunto or sono otto giorni, avrà percorsa tutta la città con quell’istinto naturale che userebbe un bravo cane da caccia che andasse cacciando da sè solo; egli conosce i miei capricci, le mie fantasie, i miei bisogni; avrà ordinato tutto a modo mio; sapeva che sarei arrivato qui alle dieci; fin dalle 9 mi aspettava alla barriera di Fontainebleau. Mi ha consegnato questo biglietto, che è il mio nuovo indirizzo: prendete e leggete. — _Campi-Elisi_ n. 30, lesse Morcerf. — Ah! è veramente originale! non potè far di meno di dire Beauchamp. — E grandemente principesca! aggiunse Château-Renaud. — Come, voi non conoscete la vostra casa? domandò Debray. — No, disse Monte-Cristo. Vi dissi già che non voleva tardare al convegno. Feci la mia toletta in carrozza, e sono venuto a discendere alla porta del visconte. I giovani si guardarono l’un l’altro; essi non sapevano se Monte-Cristo avesse voluto rappresentare una commedia; ma tutto ciò che usciva dalla bocca di quest’uomo, aveva, non ostante la sua originalità, una tale impronta di semplicità, che non potevasi supporre ch’egli avesse dovuto mentire. D’altra parte, perchè avrebbe egli mentito? — Bisognerà dunque contentarsi di rendere al sig. conte, disse Beauchamp, tutti quei piccoli servigi che saranno in nostro potere. Io, nella mia qualità di giornalista, gli apro tutti i teatri di Parigi. — Grazie, signore, disse sorridendo Monte-Cristo, il mio intendente ha di già ricevuto l’ordine di prendere in fitto un palco in ciascuno d’essi. — E il vostro intendente è pure uno della Nubia, un muto? domandò Debray. — No, signore, egli è semplicemente un vostro compatriotta, se pure un Corso è compatriotta di qualcuno; ma voi lo conoscete, sig. de Morcerf. — Sarebbe egli per caso quel bravo Bertuccio, che è così esperto a prendere in fitto le finestre? — Precisamente, e voi lo avete veduto da me, quel giorno ch’ebbi l’onore di avervi a colazione meco. È un bravissimo uomo, che è stato un po’ soldato, un po’ contrabbandiere, un po’ infine di tutto ciò che si può essere. Non giurerei neppure che non abbia avuto qualche intrigo colla polizia, per una miseria, qualche cosa di consimile ad un colpo di coltello. — Ed avete scelto quest’onesto cittadino del mondo, per vostro intendente, sig. conte? disse Debray; e quanto vi ruba ogni anno? — Ebbene! parola d’onore! disse il conte, niente più di un altro, ne sono sicuro; ma mi conviene, non conosce l’impossibilità, ed io lo tengo. — Allora, disse Château-Renaud, eccovi con una casa montata; voi avete un’abitazione ai Campi-Elisi, domestico, intendente: non vi manca più che una moglie. Alberto sorrise: pensava alla bella Greca veduta nel palco del conte al teatro Valle, e al teatro Argentina. Da lungo tempo erano passati alle frutta, ed ai sigari. — Mio caro, disse Debray alzandosi, sono le due e mezzo, il vostro convito è grazioso, ma non vi è buona compagnia che non si sia obbligati di lasciare, e qualche volta ancora per una cattiva; bisogna che ritorni al ministero. Parlerò del conte al ministero, e bisognerà bene che sappiamo chi sia. — Astenetevene, disse Morcerf, i più maligni vi hanno rinunciato. — Bah! noi abbiamo tre milioni, per la nostra polizia; è vero che sono quasi sempre spesi prima; ma non importa: resterà ben sempre un 50mila fr. da impiegarsi in questo. — E quando saprete chi è, me lo direte? — Ve lo prometto. A rivederci, Alberto. Signori, servo umilissimo. — Ed uscendo, Debray gridò ad alta voce: — Fate avanzare. — Buono, disse Beauchamp ad Alberto, io non andrò alla camera, ma avrò ad offrire ai miei lettori molto di meglio che un discorso del sig. Danglars. — Di grazia, Beauchamp, disse Morcerf, neppure una parola, ve ne supplico; non mi togliete il merito di presentarlo, e di spiegarlo. N’è vero ch’egli è curioso? — Anche molto meglio che ciò, rispose Château-Renaud, egli è veramente uno degli uomini più straordinari che abbia mai veduto in vita mia. Venite Morrel? — Solo il tempo di dare il mio biglietto al sig. conte, che vorrà promettermi di venire a farci una visita, strada Meslay n. 14. — State sicuro che non mancherò, signore, disse inchinandosi il conte. — E Massimiliano Morrel uscì col barone di Château-Renaud, lasciando Monte-Cristo solo con Morcerf. XL. — LA PRESENTAZIONE. Quando Alberto si trovò da solo a solo con Monte-Cristo: — Sig. conte, gli disse, permettetemi di dar principio al mio ufficio di cicerone col darvi la descrizione dell’appartamento di uno scapolo. Abituato ai palazzi d’Italia, non sarà piccolo studio per voi il calcolare in quanti piedi quadrati può vivere un giovine che passa per non essere male alloggiato. Passando noi da una camera all’altra apriremo le finestre, perchè possiate respirare. Monte-Cristo conosceva già il salotto, e la camera da pranzo del piano terreno. Alberto lo condusse da prima nel suo studio, ciascuno si ricorderà che questa era la stanza di predilezione d’Alberto. Monte-Cristo era un valente conoscitore di tutte le cose che Alberto aveva ammassate in questa stanza; antichi scrigni, porcellane del Giappone, stoffe d’Oriente, specchi di Venezia, armi di tutti i paesi del mondo, ogni cosa gli era famigliare, e al primo colpo d’occhio riconosceva il secolo, il paese, l’origine. Morcerf erasi creduto di dover tutto spiegare, ed al contrario egli faceva sotto la direzione del conte un corso completo di archeologia, mineralogia, e storia naturale. Discesero quindi al primo piano. Alberto introdusse il suo ospite nella camera di ricevimento, tappezzata di capi d’opera dei moderni pittori. V’erano paesaggi di Dupré dai lunghi canneti, dagli alberi slanciati, dalle vacche che pascolavano sotto un cielo maraviglioso; cavalieri arabi di Delacroix coi lunghi _burnous_ bianchi, coi cinti brillantati, colle armi damaschine, i cavalli de’ quali mordevansi con rabbia, mentre che gli uomini si laceravano colla mazza di ferro; v’erano acquarelli di Boulanger, che rappresentavano tutti _Nostra-donna di Parigi_ con quel vigore che rende il pittore emulo del poeta; quadri di Diaz che fa i fiori più belli dei fiori, il sole più brillante del sole; disegni di Dechamp tanto coloriti quanto quelli di Salvator Rosa, ma più poetici; quadri a pastello di Giraud e di Müller che rappresentavano fanciulli colle teste da angeli, e le donne colle sembianze di vergini; abbozzi tolti dall’album di Dauzats nel suo viaggio in Oriente, fatti colla matita in pochi secondi stando o sulla sella di un cammello, o sulla cupola di una moschea; finalmente tutto ciò che l’arte moderna può dare in cambio ed in compenso dell’arte perduta e svanita coi secoli passati. Alberto supponeva di potere almeno questa volta mostrare qualche cosa di nuovo al suo strano viaggiatore; ma con sua grande sorpresa, questi, senza aver bisogno di guardare le sottoscrizioni, di cui alcune erano segnate soltanto colle iniziali, a ciascun’opera assegnava il nome dell’autore, e in modo tale che era facile accorgersi che, non solo gli erano noti i nomi di questi autori, ma che le loro opere erano state studiate ed apprezzate giustamente da lui. Da questa camera si passò a quella da dormire. Questa era un modello di eleganza ad un tempo e di gusto severo: là non v’era che un sol ritratto; ma segnato col nome di Leopoldo Robert, risplendente in una cornice d’oro massiccio. Questo quadro attirò subito l’attenzione del conte, perchè fece tosto tre passi rapidi ed andò a fermarsi davanti ad esso. Era quello di una donna giovane da 25 a 26 anni, con colorito bianco, sguardo acuto, velato sotto una palpebra languente; essa portava il costume pittoresco delle pescatrici catalane colla giubba rossa e nera, e gli spilli faccettati nei capelli guardava il mare, e l’elegante profilo si staccava sopra il doppio azzurro delle onde e del cielo. La luce della camera era oscura, senza di che Alberto sarebbesi accorto del pallore livido che si era sparso sulle guance del conte, ed avrebbe scoperto il fremito convulso che gli sfiorò le spalle ed il petto. Vi fu un momento di silenzio, nel quale Monte-Cristo restò fisso coll’occhio sulla pittura. — Voi avete qui una bella amica, visconte, disse Monte-Cristo con una voce perfettamente tranquilla; e questo costume, certamente costume di ballo, le sta a meraviglia. — Ah! signore, ecco uno sbaglio ch’io non vi perdonerei, se vicino a questo ritratto voi ne aveste veduto qualche altro. Voi non conoscete mia madre, signore; è lei che vedete in questo quadro; essa si fece ritrattare così saranno sette o 8 anni. Questo costume è di fantasia, a quanto pare, e la rassomiglianza è tanto grande, che mi pare sempre di vedere mia madre tale quale era nel 1830. La contessa fece fare questo ritratto in assenza del conte. Senza dubbio credeva di preparargli una dolce sorpresa pel ritorno; ma, cosa bizzarra, questo ritratto dispiacque a mio padre; ed il merito della pittura, che come vedete è una delle più belle opere di Leopoldo Robert, non potè vincerla sulla sua antipatia. È vero, sia detto fra noi, mio caro sig. conte, che mio padre è uno dei pari più assidui al Lussemburgo, un generale rinomato per la teoria, ma è un conoscitore di arti dei più mediocri; non è lo stesso però di mia madre, che dipinge in modo notevole, e che, stimando troppo questo lavoro per separarsene del tutto, l’ha regalato a me, perchè qui fosse meno esposto a dispiacere al sig. Morcerf, di cui vi farò vedere a suo tempo il ritratto dipinto da Gros. Perdonatemi se vi parlo in tal guisa di cose intime di famiglia; ma siccome avrò l’onore di presentarvi fra momenti al conte, vi dico tutto ciò, perchè non vi avesse a sfuggire qualche elogio di questo quadro in sua presenza. Del rimanente però, ha una trista influenza; è difficile che mia madre venga in camera mia senza fermarsi a contemplarlo, e più difficile ancora che lo contempli senza piangere. La nube che portò questa pittura in famiglia, è del resto la sola che sia insorta fra il conte e la contessa, che, sebbene maritati da più di 20 anni, sono uniti come se fosse il primo giorno. Monte-Cristo vibrò una rapida occhiata sur Alberto, come per cercare un fine nascosto alle sue parole, ma apparve evidente che il giovine le aveva pronunciate con tutta semplicità. — Ora, disse Alberto, avete veduto tutte le mie ricchezze, sig. conte, permettetemi di offrirvele, per quanto sieno indegne di voi; consideratevi come in casa vostra, e per mettervi ancora a maggior comodo vostro, abbiate la bontà di accompagnarmi dal sig. de Morcerf, al quale scrissi da Roma il servigio che mi avete reso, e cui ho annunziata la visita che mi avevate promessa, e, posso assicurarvene, il conte e la contessa aspettano con impazienza che loro sia permesso di ringraziarvene; siete un poco singolare in tutte le cose, lo so, sig. conte, e forse le scene di famiglia non hanno molta azione su Sindbad il marinaro: avete vedute tante scene! Frattanto però accettate ciò che vi propongo come iniziativa alla vita parigina, vita di cortesie, di visite e di presentazioni. Monte-Cristo s’inchinò senza rispondere: egli accettò la proposta senza entusiasmo e senza rincrescimento, come una di quelle convenienze sociali, di cui ciascun uomo, come si deve, si fa un dovere. Alberto chiamò il cameriere, e gli ordinò d’andare a prevenire il sig. e la sig.ª de Morcerf del prossimo arrivo del conte di Monte-Cristo. Alberto lo seguì col conte. Giungendo nell’anticamera del conte, vedevasi, al di sopra della porta che metteva nel salotto, uno scudo, che dai ricchi fregi che lo circondavano, e dall’armonia cogli arredi della stanza, scorgevasi in quanto conto fosse tenuto. Monte-Cristo si fermò davanti a questo blasone e lo esaminò con attenzione. — Sette merli d’oro a stormo, in campo azzurro. Questa senza dubbio è l’arme della vostra famiglia, domandò egli. Facendo astrazione dai pezzi del blasone che mi permettono di decifrarla, sono molto ignorante in materia araldica; io conte per caso, fatto in Toscana per aver fondata una commenda di Santo-Stefano, e che mi sarei contentato d’essere semplicemente un gran signore, se non mi fosse più volte ripetuto, che per uno che viaggia molto, un titolo è cosa necessaria. E di fatto il portare un’arme allo sportello della carrozza è cosa molto utile, non foss’altro che per non essere visitati dai doganieri. Scusatemi dunque se vi ho fatta questa domanda. — Essa non è punto indiscreta, disse Morcerf colla semplicità della convinzione, e avete colto nel vero: queste sono le nostre armi, vale a dire, quelle del capo della famiglia, di mio padre; ma esse, come vedete, sono inquartate con un altro scudo, che è composto di gole con torri d’argento e che proviene dal capo della famiglia di mia madre. Dal lato di donna io sono spagnuolo, ma la famiglia Morcerf è francese, a quanto ho inteso dire, è ancora una delle più antiche del mezzodì della Francia. — Sì, rispose Monte-Cristo, è quello che viene indicato dai merli. Quasi tutti i pellegrini armati che tentarono o fecero la conquista della terra santa, presero per loro armi, o croci, simbolo della missione alla quale si erano astretti con voto, o uccelli di passaggio, simbolo del lungo viaggio che imprendevano, e supponendo ancora che non fosse che a tempo di S. Luigi; ciò nonostante vi fa risalire al XIII secolo, il che è ancora bello. — Ciò è possibile, disse Morcerf; in un angolo del gabinetto di mio padre vi è un albero genealogico che ci dirà questo, sul quale in altri tempi io aveva scritto dei commentari, che avrebbero edificato d’Hozier e Jaucourt. Ora non ci penso più, e ciò non ostante vi dirò, sig. conte, e questo rientra nelle mie attribuzioni di cicerone, che già cominciano di nuovo ad occuparsi di queste cose, sotto il nostro governo popolare. — Ebbene! allora il vostro governo dovrebbe scegliere nel suo passato qualche cosa di meglio che quelle due tavole che ho vedute sui vostri monumenti, e che non hanno alcun senso araldico. Quanto a voi, visconte, riprese Monte-Cristo ritornando a Morcerf; voi siete più fortunato del vostro governo, perchè le vostre armi sono veramente belle, e parlano all’immaginazione. Sì, voi siete ad un tempo della Provenza e della Spagna; e ciò mi spiega, (se il ritratto che mi avete mostrato è rassomigliante) il color bruno che tanto ammirai sul viso della nobile catalana. — Avrebbe bisognato essere Edipo, o lo stesso sfinge per indovinare l’ironia che mise il conte in queste parole, coperte in apparenza dalla maggior gentilezza: per cui Morcerf lo ringraziò con un sorriso, e, passando il primo, per insegnargli la strada, spinse la porta che, come si disse, metteva nel salotto di ricevimento. Nel luogo più esposto di questo salotto si vedeva egualmente un ritratto; era quello di un uomo dai 35, ai 40 anni, vestito coll’uniforme di ufficiale generale, portando la doppia spallina particolare ai gradi superiori; la decorazione della legion d’onore al collo, il che indicava esser egli commendatore, e sul petto a dritta la placca di grande ufficiale dell’ordine del Salvatore, a sinistra quella di gran-croce dell’ordine di Carlo III, ciò che indicava che la persona rappresentata da questo ritratto aveva fatto le guerre di Grecia e di Spagna, o ciò che torna perfettamente lo stesso in materia di decorazioni, avere adempita qualche missione diplomatica nei due paesi. Monte-Cristo era occupato a guardare questo ritratto con non minore premura di quel che aveva fatto l’altro, allorchè la porta laterale si aprì, ed egli trovossi in faccia al conte di Morcerf in persona. Era un uomo fra i 40 ai 45 anni, ma che ne dimostrava almeno 50, i cui baffi e sopraccigli nerissimi spiccavano stranamente coi capelli quasi bianchi tagliati corti a spazzola giusta l’uso militare. Era vestito da borghese, e portava all’occhiello un nastro le cui strisce a diversi colori indicavano i vari ordini di cui era decorato. Quest’uomo entrò con passo nobile, ma con una specie di fretta, Monte-Cristo l’osservò inoltrarsi senza muover passo; si sarebbe detto che i piedi erano inchiodati al pavimento, come gli occhi sul viso del conte. — Padre mio, disse il giovine, ho l’onore di presentarvi il sig. conte di Monte-Cristo, quel generoso amico che ho avuto la fortuna d’incontrare nelle difficili congiunture che sapete. — Signore, voi siete il ben venuto fra noi, disse il conte di Morcerf salutando Monte-Cristo con un sorriso, nel salvare alla mia famiglia l’unico suo erede, avete reso alla nostra casa un servigio che vi merita la nostra eterna riconoscenza. — Dicendo queste parole il conte di Morcerf indicava una seggiola a bracciuoli a Monte-Cristo, nel medesimo tempo ch’egli stesso si sedeva in faccia alla finestra. Quanto a Monte-Cristo, prendendo la seggiola indicata dal conte di Morcerf, si situò in modo da rimanere nascosto nell’ombra delle grandi tende di velluto, ed a leggere di là sui tratti impressi dalle fatiche e dalle cure del conte, scritte in ciascuna ruga venuta innanzi tempo. — La contessa, disse Morcerf, era alla toletta, allorchè il visconte l’ha fatta prevenire della visita che avrebbe avuto l’onore di ricevere; ella sta per discendere, e fra dieci minuti sarà in salotto. — È molto onore per me, disse Monte-Cristo, di essere messo in rapporto, fin dal primo giorno in cui sono in Parigi, con un uomo il cui merito è eguale alla riputazione, e pel quale la fortuna giusta questa volta, non ha commesso errore: ma non ha essa ancora nelle pianure di Mitidia o nelle montagne dell’Atlante, un bastone da Maresciallo da offrirvi? — Oh! replicò Morcerf arrossendo alcun poco, io ho lasciato il servizio, signore. Nominato pari sotto la restaurazione, era nella prima campagna, e serviva sotto gli ordini del maresciallo Bourmont; potea dunque pretendere un comando superiore, e chi sa ciò che sarebbe accaduto, se la dinastia primogenita rimaneva sul trono? Ma la rivoluzione di luglio, a quanto sembra, era abbastanza gloriosa per potersi permettere d’essere ingrata; ella lo fu per tutti i servigi che non portavano la data del periodo imperiale; chiesi dunque la dimissione, perchè, quando uno ha guadagnato come me, le spalline sul campo di battaglia, non sa egualmente manovrare sul terreno sdrucciolevole delle sale. Ho lasciata la spada, e mi sono ingolfato nella politica; mi dedico all’industria e studio le arti utili. Nei vent’anni che sono rimasto al servizio ne aveva il desiderio, ma non ne aveva avuto il tempo. — Sono queste idee che portano la superiorità della vostra nazione sugli altri paesi, signore, rispose Monte-Cristo. Gentiluomo uscito da una gran famiglia, possedendo una bella fortuna, avete sulle prime voluto acquistarvi i primi gradi come oscuro soldato, la qual cosa è molto rara; quindi divenuto generale, pari di Francia, commendatore della legion d’onore, acconsentite ad incominciare un secondo noviziato, senz’altra ricompensa che quella d’essere un giorno utile ai vostri simili... Ah! signore, ecco quello che può veramente dirsi bello; dirò anche più, sublime. Alberto guardava ed ascoltava Monte-Cristo con meraviglia: egli non era avvezzo a vederlo alzarsi a simili idee d’entusiasmo. — Ahimè! continuò lo straniero, senza dubbio per far disparire l’impercettibile nube che era passata sulla fronte di Morcerf, noi non facciamo così in Italia, cresciamo secondo la nostra razza e la nostra specie, e conserviamo la stessa corteccia, la stessa dimensione, e dirò ancora la stessa inutilità per tutta la vita. — Ma, signore, per un uomo del vostro merito, l’Italia non può essere sua patria, e la Francia vi apre le braccia: corrispondete alla sua chiamata, la Francia forse non sarà ingrata con tutti; essa è accostumata ad accogliere generosamente gli stranieri. — Eh! padre mio, si vede bene che non conoscete il conte di Monte-Cristo. Le sue soddisfazioni sono al di fuori di questo mondo; egli non aspira agli onori, e ne prende soltanto quanti ne possono stare sul suo passaporto. — Ecco l’espressione più giusta che abbia mai inteso sul conto mio; rispose lo straniero. — Il signore è stato padrone del suo avvenire: ecco perchè ha scelto un sentiero di fiori, disse sospirando de Morcerf. — Precisamente, signore, replicò Monte-Cristo con uno di quei sorrisi che un pittore non potrà mai riprodurre, e che un fisiologo sarebbe disperato ad analizzare. — Se non avessi avuto timore di stancare il sig. conte, disse il generale evidentemente lusingato dalle parole di Monte-Cristo, lo avrei condotto alla _Camera_; oggi vi è una seduta curiosa per chi non conosce i nostri moderni senatori. — Vi sarò molto riconoscente se vorrete rinnovarmi questa offerta un’altra volta; ma oggi sono stato lusingato dalla speranza di essere presentato alla sig.ª contessa, ed aspetterò. — Ah! ecco appunto mia madre, gridò Alberto. Di fatto Monte-Cristo rivolgendosi velocemente vide la sig.ª de Morcerf sul limitare della porta opposta a quella per cui era entrato il marito; immobile e pallida; ella, tosto che Monte-Cristo si volse dalla sua parte, lasciò cadere il braccio che, non si sa perchè, s’era appoggiato sulla maniglia dorata; stava là, da qualche secondo, ed aveva inteso le ultime parole pronunciate dal viaggiatore oltramontano. Questi si alzò e salutò profondamente la contessa, che s’inchinò anch’essa, muta e cerimoniosa. — Eh! mio Dio! signora che avete? domandò il conte, sarebbe forse il calore di questo salotto che vi fa male? — State poco bene, madre mia? gridò il visconte lanciandosi incontro a Mercedès. — Essa li ringraziò entrambi con un sorriso. — No, diss’ella, ma io ho provata una certa emozione nel vedere per la prima volta colui, senza l’aiuto del quale ora saremmo immersi nelle lagrime, e nel lutto. Signore, continuò la contessa avanzandosi colla maestà di una regina, vi debbo la vita di mio figlio, e per questo benefizio vi benedico. Ora vi sono grata del piacere che mi procurate offrendomi l’occasione di ringraziarvi come vi ho benedetto, cioè con tutto il cuore. Il conte s’inchinò, ma più profondamente della prima volta; egli era ancora più pallido di Mercedès. — Signora, diss’egli, il sig. conte e voi mi ringraziate troppo esuberantemente di un’azione semplicissima. Salvare un uomo, risparmiare un tormento al padre, economizzare la sensibilità di una donna, ciò non chiamasi fare un’opera buona, ma fare un atto di umanità. A queste parole pronunciate con dolcezza, e con isquisita gentilezza, la sig.ª de Morcerf rispose con accento profondo: — È una fortuna per mio figlio, l’avervi per amico, e ringrazio Dio che ha in tal modo disposte le cose. — E Mercedès alzò gli occhi al cielo con una gratitudine così infinita, che il conte credè vedervi tremolare due lagrime. Il sig. de Morcerf si avvicinò a lei: — Signora, ho già fatto le mie scuse al sig. conte per essere obbligato a lasciarlo: vi prego di rinnovarle. La seduta si è aperta alle due, ora sono le tre, ed io sono obbligato a parlare. — Andate, signore, cercherò di fare dimenticare la vostra assenza al nostro ospite, disse la contessa collo stesso accento di sensibilità; il sig. conte, proseguì la contessa volgendosi a Monte-Cristo, vorrà egli farci la grazia di passare il resto del giorno con noi? — Grazie, signora, sono, credetelo, riconoscente nel modo più grande alla vostra offerta; ma questa mattina sono disceso dalla carrozza da viaggio alla vostra porta. Non so come sia installato a Parigi, dove, appena mi è noto. È una inquietezza leggera, lo so, non per tanto è da considerarsi. — Avremo questo piacere un’altra volta almeno, ce lo promettete? domandò la contessa. Monte-Cristo s’inchinò senza rispondere, ma il gesto poteva passare per un consenso. — Allora io non vi trattengo, signore, disse la contessa, poichè non voglio che la mia riconoscenza divenga o una importunità, o una indiscretezza. — Mio caro conte, disse Alberto, se lo volete, cercherò di corrispondere alla vostra graziosa cortesia di Roma col mettere là una carrozza a vostra disposizione, fino a che abbiate avuto il tempo di provvedervi del vostro equipaggio. — Mille grazie alla vostra cortese offerta, visconte, disse Monte-Cristo, ma presumo che Bertuccio avrà convenientemente impiegate le quattr’ore che gli ho concesse, e che troverò alla porta una carrozza qualunque già attaccata. Alberto era abituato a queste maniere del conte; sapeva che come Nerone, egli era alla ricerca dell’impossibile, di nulla più si meravigliava; soltanto volle giudicare da sè stesso in qual modo erano stati eseguiti gli ordini di lui e lo accompagnò fino alla porta di strada. Monte-Cristo non s’era sbagliato; appena comparve nell’anticamera del conte de Morcerf, uno staffiere, lo stesso che a Roma era venuto a portare il biglietto del conte ai due giovani, e ad annunziar loro la sua visita, si era slanciato fuori dal peristilio, di modo che giungendo al portone, l’illustre viaggiatore trovò la carrozza che lo aspettava. Era un _coupé_ della fabbrica di Keller, e due cavalli, pei quali Drake aveva, secondo che sapevano tutti i _Lions_ di Parigi, rifiutato il giorno innanzi 18 mila fr. — Signore, disse il conte ad Alberto, non vi propongo di accompagnarmi fino da me, non potrei mostrarvi che una casa improvvisata, e sul rapporto degl’improvvisi ho una riputazione da riservare. Accordatemi un giorno, ed allora permettetemi d’invitarvi: sarò più sicuro di non mancare alle leggi dell’ospitalità. — Se mi chiedete un giorno, sig. conte, sono tranquillo: non sarà più una casa che mi mostrerete, ma un palazzo. Voi dovete avere in vero qualche genio a vostra disposizione. — In fede mia continuate a crederlo, disse Monte-Cristo, mettendo il piede sul montatoio guarnito in velluto del suo splendido equipaggio: ciò potrà essermi utile, signore. E si lanciò nella carrozza, che si chiuse dietro a lui e partì al galoppo, ma non tanto rapidamente che il conte non potesse accorgersi del movimento impercettibile che smosse la tenda del salotto ove aveva lasciato la sig.ª de Morcerf. Quando Alberto ritornò da sua madre, ritrovò la contessa nel gabinetto, gettata sopra un seggiolone di velluto; tutta la camera essendo nell’ombra, non lasciava scorgere che la foglietta d’oro sfavillante attaccata qua e là o sul corpo di qualche vaso, o agli angoli di qualche quadro. Alberto non potè vedere il volto della contessa nascosto sotto la nube del velo che le circondava la testa come un’aureola di vapore, ma gli sembrò che la voce fosse alterata; distinse ancora fra gli odori di rose e vainiglie della giardiniera, la traccia aspra e mordente del sale d’aceto, sopra una delle tazze cisellate del caminetto; di fatto la boccettina della contessa, tolta dal suo astuccio di velluto, attirò l’inquieta attenzione del giovine. — Soffrite, madre mia? gridò egli entrando; o vi sareste sentita male mentre io non c’ero? — Io? no, Alberto, ma capirete, queste rose, queste tuberose, questi fiori di arancio incomodano nei primi calori quando non si è ancora abituati, sì violenti profumi... — Allora; madre mia, disse Alberto portando la mano al campanello, bisogna farli portare nella vostra anticamera: siete veramente indisposta; anche poco fa, quando entraste, eravate molto pallida. — Ero pallida, dite voi, Alberto? — Di un pallore che vi sta a meraviglia, madre mia, ma che però non ha spaventato meno mio padre e me. — Vostro padre ve ne ha parlato? domandò vivacemente Mercedès. — No, signora, ma fu a voi stessa che diresse questa osservazione. — Non me ne ricordo, disse la contessa. Entrò un cameriere, chiamato dal suono del campanello tirato da Alberto. — Portate questi fiori in anticamera, o nel gabinetto della toletta, disse il visconte, essi fanno male alla sig.ª contessa. — Il cameriere obbedì. Vi fu un abbastanza lungo silenzio che durò tutto il tempo dello sgombero. — Che è dunque questo nome di Monte-Cristo? chiese la contessa quando il domestico uscì portando via l’ultimo vaso di fiori. È un nome di famiglia, un nome di una terra, o un semplice titolo? — Questo è, io credo, un titolo, madre, e nient’altro. Il conte ha comprata un’isola nell’arcipelago toscano, ed ha, per quanto ha detto egli stesso questa mattina, fondata una commenda. Voi sapete che ciò si usa per santo Stefano di Firenze, per san Gregorio Costantiniano di Parma, ed anche per l’ordine di Malta. Del rimanente non ha alcuna pretensione di nobiltà, e si chiama un conte per caso, quantunque l’opinione generale di Roma fosse che il conte sia un gran signore. — I suoi modi sono eccellenti, per quanto ho potuto giudicarne nei pochi momenti che si è trattenuto. — Oh! perfetti, madre mia, anzi tanto perfetti, che sorpassano molto tutto ciò che ho conosciuto di più aristocratico nelle tre nobiltà più orgogliose d’Europa, cioè nella nobiltà Inglese, Spagnuola, e Germanica. — La contessa riflettè un momento, poi dopo una breve esitazione riprese: — Avete veduto, mio caro Alberto... questa è una domanda da madre che vi faccio, lo capirete, avete veduto il signor di Monte-Cristo nel suo interno? voi avete della perspicacia, voi avete uso di mondo, e un tatto maggiore di quello che d’ordinario si ha alla vostra età; credete che il conte sia quello che comparisce realmente d’essere? — E che comparisce egli? — Voi stesso lo avete detto non ha guari, un gran signore. — Vi ho detto, madre mia, ch’egli era ritenuto per tale. — Ma che ne pensate voi? — Io non ho, ve lo confesso, un’opinione ben fissa su di lui, lo credo Maltese. — Io non v’interrogo sulla sua origine, ma v’interrogo sulla sua persona. — Ah! sulla sua persona è tutt’altro; ed ho vedute tante cose strane di lui, che se voleste che vi dicessi ciò che ne penso, vi risponderei che lo riguardo volentieri come uno degli uomini di Byron, che la disgrazia ha marcati con un sugello fatale; qualche Manfredo, qualche Lara, qualche Werner, come uno di quegli avanzi infine di vecchia famiglia che, diseredati della fortuna paterna, ne hanno ritrovata una colla forza del loro genio avventuriero che li ha posti al di sopra delle leggi della società... Dico che Monte-Cristo è un’isola in mezzo al Mediterraneo, senza abitanti, senza guarnigione, asilo di contrabbandieri di tutte le nazioni, di pirati di tutti i paesi. Chi sa che questi degni industriosi non paghino al loro signore il diritto d’asilo? — È possibile, disse la contessa con astrazione. — Ma non importa, riprese il giovine, contrabbandiere o no, converrete, madre mia (perchè l’avete veduto) il sig. conte di Monte-Cristo è un uomo notevole, ed avrà i più grandi successi nelle sale di Parigi. E questa mattina da me ha incominciato il suo ingresso nel mondo destando in tutti ammirazione, perfino in Château-Renaud. — E che età potrà avere il conte? chiese Mercedès attaccando visibilmente grande importanza a questa interrogazione. — Avrà 35, o 36 anni, madre mia. — Così giovine! è impossibile, disse Mercedès, rispondendo contemporaneamente a ciò che le diceva Alberto, e a ciò che le diceva il proprio pensiero. — Eppure questa è la verità; tre o quattro volte mi ha detto, e certamente senza premeditazione: «Alla tal epoca aveva 5 anni, alla tal altra 10, alla tal altra 12.» Io che ero ritenuto all’erta dalla curiosità su questi particolari, ho riavvicinate le date, e non l’ho mai ritrovato in fallo. L’età di quest’uomo singolare, che non ha età, è dunque, ne sono sicuro, di 35 anni. Per sopra più, ricordatevi, madre mia, quanto è vivace il suo sguardo, come sono neri i capelli, e come la fronte, sebbene pallida, è esente da rughe; questa è una natura non solo vigorosa, ma ancor giovane. La contessa abbassò il capo come sotto un’onda troppo pesante d’amari pensieri. — E quest’uomo ha stretta amicizia con voi? domandò ella con un fremito nervoso. — Lo credo, madre mia. — E voi... lo amate egualmente? — Egli mi piace, che che ne dica Franz d’Épinay che lo voleva far comparire ai miei occhi come un uomo uscito dall’altro mondo. — La contessa fece un movimento di terrore: — Alberto, diss’ella con voce alterata; io vi ho sempre messo in guardia contro le nuove conoscenze. Ora siete un uomo, e potreste dar consigli a me stessa; ciò non pertanto vi ripeterò. Siate prudente, Alberto. — Mia cara madre, perchè il consiglio fosse approfittevole, bisognerebbe che io sapessi di che cosa debbo non fidarmi. Il conte non giuoca mai, il conte non beve che dell’acqua dorata con qualche goccia di vino di Spagna, il conte si è annunziato tanto ricco, che non potrebbe chiedermi in prestito del danaro senza esporsi a farsi ridere sul naso; che volete dunque che io tema per parte del conte? — Voi avete ragione, disse la contessa, ed i miei terrori sono folli, particolarmente avendo per oggetto un uomo che vi ha salvata la vita. A proposito, Alberto, vostro padre lo ha ricevuto bene? è necessario che noi siamo più che convenienti col conte. Il sig. de Morcerf qualche volta è preoccupato, i suoi affari lo rendono astratto, e potrebbe darsi, senza volerlo... — Mio padre si è condotto perfettamente, interruppe Alberto; dirò di più, egli è sembrato grandemente lusingato dei due o tre complimenti più accorti, che il conte gli ha strisciati tanto fortunatamente quanto a proposito, come se lo avesse conosciuto da 30 anni. Ciascuna di queste piccole frecce di lode ha dovuto solleticare mio padre, soggiunse Alberto ridendo, poichè si sono lasciati come i due più grandi amici del mondo, ed il sig. de Morcerf lo voleva perfino condurre alla _Camera_ per fargli sentire il suo discorso. La contessa non rispose; essa era assorta in un’astrazione così profonda che i suoi occhi eransi chiusi poco a poco. Il giovine in piedi a lei dinanzi la guardava con quell’amor filiale che è ancor più tenero e più affettuoso nei figli, le madri dei quali sono ancor giovani e belle; poi, dopo aver veduto gli occhi di lei chiudersi, l’ascoltò respirare un momento nella sua dolce immobilità, e, credendola assopita, si allontanò sulla punta dei piedi, chiudendo con cautela la porta della camera ove lasciava sua madre. — Che diavolo d’uomo! mormorò egli scuotendo la testa, gli aveva ben predetto laggiù che avrebbe fatta gran sensazione al nostro mondo; io ne calcolo l’effetto sur un termometro infallibile. Mia madre lo ha osservato, dunque bisogna dire ch’egli sia molto notevole. — Indi discese nelle scuderie, non senza un segreto dispetto, perchè il caso aveva portato che il conte di Monte-Cristo si fosse provveduto d’una pariglia, che mandava i suoi bai al numero secondo nell’animo dei veri intelligenti. — Davvero, diss’egli, gli uomini non sono tutti eguali, bisognerà che preghi mio padre di sviluppare questo teorema alla _Camera_ alta. XLI. — BERTUCCIO. In questo mentre il conte era giunto alla sua abitazione; aveva impiegati sei minuti a percorrere la distanza, il che era stato sufficiente, perchè fosse veduto da una ventina di giovani che, conoscendo il prezzo dell’equipaggio che non avevano potuto acquistare essi stessi, avevano messe le loro cavalcature al galoppo, per vedere lo splendido signore che aveva cavalli da 10 mila fr. l’uno. La casa scelta da Alì, e che doveva servire per residenza di città a Monte-Cristo, era situata a destra salendo ai Campi-Elisi, posta fra il cortile ed il giardino; un gruppo di ramosi alberi che s’innalzava in mezzo al cortile, copriva una parte della facciata; intorno a questo gruppo si partivano a guisa di due braccia, due viali che dal cancello portavano le carrozze ad una doppia scalinata, sopra ciascun gradino della quale era un vaso di porcellana pieno di fiori. Questa casa isolata nel centro di un vasto spazio, oltre l’ingresso principale, aveva pure un’altra entrata sulla strada Ponthieu. Prima ancora che il cocchiere avesse data la voce al portinaro, il robusto cancello girò sopra i suoi gangheri; era stato veduto giungere il conte, ed a Parigi, come a Roma, e come ovunque, era servito colla rapidità del fulmine. Il cocchiere adunque entrò, descrisse il mezzo cerchio senza rallentare la corsa, ed il cancello era già richiuso, quando le ruote rumoreggiavano ancora sulla sabbia del viale. La carrozza si fermò alla parte sinistra della scalinata, due uomini comparvero allo sportello; uno era Alì, che sorrise al suo padrone con una incredibile gioia, e che si trovò pago di un semplice sguardo di Monte-Cristo. L’altro salutò umilmente, ed offrì il braccio al conte per aiutarlo a discendere di carrozza. — Grazie, Bertuccio, disse il conte, saltando leggermente i tre scalini; ed il notaro? — È nel salotto, eccellenza, rispose Bertuccio. — Ed i viglietti di visita che vi ho ordinato di fare stampare appena avuto il numero della casa? — Sig. conte, è fatto tutto; sono stato dal migliore incisore del Palazzo Reale, che ha eseguito il rame in mia presenza, e, tirato il primo viglietto, giusta i vostri ordini, fu nel medesimo punto portato al sig. Danglars, deputato, strada Chaussée-d’Antin n. 7; gli altri sono sul caminetto della camera da dormire di vostra eccellenza. — Va bene: che ora è? — Le quattro. Monte-Cristo consegnò il cappello, i guanti, ed il bastone allo stesso staffiere francese che si era slanciato fuori dell’anticamera del conte de Morcerf per fare inoltrare la carrozza, quindi passò nel piccolo salotto, condotto da Bertuccio, che gl’insegnava la strada. — Ecco dei mobili meschini in quest’anticamera, spero bene che ne verrò presto spacciato, disse Monte-Cristo. Bertuccio s’inchinò. Come lo aveva detto l’intendente, il notaro aspettava nel piccolo salotto. Era un’onesta figura di secondo _chierico_ di Parigi, elevato alla dignità insuperabile di notaro distrettuale. — Il signore è il notaro incaricato di vendere la casa di campagna che voglio comprare? domandò Monte-Cristo. — Sì, sig. conte, rispose il notaro. — L’atto di vendita è disteso? — Sì, signor conte. — L’avete con voi? — Eccolo qui. — Perfettamente. E dove è situata questa casa che compro? domandò negligentemente Monte-Cristo per metà al notaro e per metà a Bertuccio. L’intendente fece un gesto che indicava, non lo so. Il notaro guardò il conte con istupore: — Come? diss’egli, il sig. conte non sa ove sia posta la casa che compra? — No, in fede mia, disse il conte. — Il sig. conte non la conosce? — E come diavolo la posso conoscere? Giungo da Cadice questa mattina, non sono mai stato a Parigi, ed è la prima volta che metto il piede in Francia. — Allora è tutt’altro, rispose il notaro; la casa che compra il sig. conte è situata ad Auteuil. — A queste parole Bertuccio impallidì visibilmente. — E dove è Auteuil? chiese Monte-Cristo. — A pochi passi di qui, signor conte, disse il notaro, poco dopo Passy, in una bellissima posizione, nel centro del bosco di Boulogne. — Tanto vicino! disse Monte-Cristo; ma questa non è una campagna. Come diavolo siete andato a scegliermi una casa alle porte di Parigi, Bertuccio? — Io! gridò l’intendente con una strana sollecitudine, no certamente; non sono stato io l’incaricato del sig. conte per pigliare una casa: prego il sig. conte a risovvenirsene bene, e ad interrogare i suoi ricordi. — Ah! è giusto, disse Monte-Cristo; ora mi ricordo, ho letto quest’annunzio in un giornale, e mi sono lasciato sedurre dal titolo menzognero di _Casa di campagna_. — Siete ancora in tempo, disse con vivacità Bertuccio, e se V. E. vuole incaricarmi di cercare un altro luogo, io gli troverò ciò che vi ha di meglio, sia ad Enghien, sia a Fontenay-aux-Roses, sia a Bellevue — No, in fede mia, disse con trascuranza Monte-Cristo; poichè ho questa, la conserverò. — Il signore ha ragione, disse prestamente il notaro che temeva di perdere le sue propine, questa è una graziosa proprietà: acque vive, boschi folti, abitazione aggradevole, quantunque abbandonata da lungo tempo, senza calcolare la mobilia, che, sebbene vecchia, ha del valore, particolarmente in oggi che si cercano le anticaglie. Perdono, ma credo bene che il sig. conte avrà il gusto della sua epoca. — Dunque è conveniente? soggiunse Monte-Cristo. — Ah signore, è ancora meglio, è magnifica. — Presto! non ci lasciamo sfuggire l’occasione, disse Monte-Cristo. Il contratto sig. notaro? — Ed egli sottoscrisse sollecitamente dopo di aver data un’occhiata nella parte dell’atto ove stavano segnati i nomi dei proprietari, e la situazione della villa. — Bertuccio, diss’egli, date 55 mila fr. al signore. L’intendente uscì con passo mal fermo, e ritornò con un pacchetto di biglietti di banca che il notaro contò nel modo che fanno gli uomini che hanno l’abitudine di non ricevere il danaro che dopo la tara legale. — Ed ora, domandò il conte, sono adempite tutte le formalità? — Tutte, signor conte. — Avete le chiavi? — Sono nelle mani del portinaro che custodisce la casa; ma ecco l’ordine che gli ho dato d’installare il signore nella sua nuova proprietà. — Va benissimo. — E Monte-Cristo fece al notaro un segno colla testa, che voleva dire: — Signore, non ho più bisogno di voi, andatevene. — Ma, disse l’onesto notaro, mi sembra che il sig. conte abbia sbagliato; non sono che 50 mila fr. tutto compreso. — E i vostri onorari? — Vengono pagati colla stessa somma, sig. conte. — Ma disse, non siete venuto qui da Auteuil? — Sì, senza dubbio. — Ebbene! bisogna compensare il vostro incomodo, disse il conte. E lo congedò con un gesto. Il notaro uscì andando all’indietro, e salutando fino a terra; era la prima volta, dal giorno in cui aveva presa la sua iscrizione, che trovava un simile cliente. — Accompagnate il signore, disse il conte a Bertuccio. E l’intendente uscì dietro il notaro. Appena il conte fu solo, cavò di tasca un portafogli con serratura, lo aprì con una chiavetta che portava al collo, e che non lasciava mai. Dopo aver cercato un momento si fermò sopra un foglietto su cui erano segnate alcune annotazioni, le confrontò coll’atto di vendita deposto sulla tavola, e raccogliendo la memoria: — Auteuil, strada della Fontana n. 28; è questa, diss’egli: ora mi debbo attenere ad una confessione ottenuta per mezzo dell’idea religiosa, o strappata dal terrore fisico? Del rimanente fra un’ora saprò tutto. Bertuccio! gridò egli battendo un colpo con una specie di piccolo martello a manico elastico sopra di un campanello, che rese un suono acuto e prolungato simile a quello del _tam-tam_. L’intendente comparve sulla soglia. — Bertuccio, non mi avete voi detto altra volta aver viaggiato in Francia? — In alcune parti della Francia, sì, eccellenza. — Conoscerete senza dubbio i dintorni di Parigi? — No, eccellenza, no, rispose l’intendente con una specie di tremito nervoso, che Monte-Cristo, grande conoscitore in fatto di emozioni, attribuì con ragione ad una viva inquietudine. — Mi rincresce che non abbiate visitati i dintorni di Parigi, perchè voglio questa stessa sera vedere la mia nuova proprietà, e venendo con me, mi avreste dato senza dubbio utili informazioni. — Ad Auteuil? gridò Bertuccio, il cui colorito colore di rame divenne quasi livido. Io andare ad Auteuil! — Ebbene, che vi ha di meraviglioso, che venghiate ad Auteuil, ve lo domando? Quando io dimorerò ad Auteuil, bisognerà bene che vi venghiate, poichè fate parte della famiglia. Bertuccio abbassò la testa davanti allo sguardo imperioso del padrone, restò immobile, e senza rispondere. — Ebbene! che vi accade? Voi mi obbligherete dunque di suonare una seconda volta per la carrozza? disse Monte-Cristo col tuono con cui Luigi XIV pronunciò il suo famoso: «poco ha mancato che io non aspettassi!» Bertuccio non fece che uno sbalzo dal piccolo salotto all’anticamera, e gridò con voce rauca: — I cavalli di S. E. Monte-Cristo scrisse due o tre lettere, e mentre sigillava l’ultima, l’intendente ricomparve. — La carrozza di S. E. è alla porta, diss’egli. — Ebbene prendete i vostri guanti ed il cappello. — È dunque vero che vengo con S. E., gridò Bertuccio. — Senza dubbio, bisogna bene che diate i vostri ordini, mentre conto d’abitare quella casa. — Sarebbe stato senza esempio che si fosse fatta una replica a ciò che ingiungeva il conte; per cui l’intendente, senza fare alcuna obbiezione, seguì il padrone che montò in carrozza, e gli fece segno di fare altrettanto. L’intendente si assise rispettosamente nel sedile davanti. XLII. — LA CASA D’AUTEUIL. Monte-Cristo aveva osservato, nel discendere la scalinata, che Bertuccio si era segnato al modo dei Corsi, vale a dire, fendendo l’aria in croce col pollice, e che prendendo posto nella carrozza aveva mormorata una breve preghiera. Tutt’altri che un uomo curioso avrebbe avuto pietà della repugnanza che il degno intendente aveva manifestata per questa passeggiata fuori delle mura, ideata dal conte. Ma a ciò che sembrava, questi era troppo curioso per dispensare Bertuccio da quel piccolo viaggio. In 20 minuti furono ad Auteuil. L’emozione dell’intendente era stata sempre crescente. Nell’entrare nel villaggio, Bertuccio raggruppato in un angolo della carrozza, cominciò a guardare con un’emozione febbrile tutte le case avanti alle quali passavano. — Farete fermare strada della Fontana, n. 28, disse il conte fissando senza pietà lo sguardo sull’intendente al quale dava quest’ordine. Il sudore salì al viso di Bertuccio, che non per tanto obbedì, e sporgendo fuori della carrozza gridò al cocchiere. — Strada della Fontana N. 28. Questo N. 28 era situato all’estremità opposta del villaggio. Durante il viaggio era sopraggiunta la notte, o piuttosto una nube nera carica di elettricità dava a quelle tenebre premature l’apparenza e la solennità di un episodio drammatico, la carrozza si fermò, lo staffiere si precipitò allo sportello che aprì. — Ebbene! disse il conte, non discendete, Bertuccio? allora rimarrete in carrozza? Ma a che diavolo pensate questa sera? — Bertuccio si precipitò dalla portiera e presentò la spalla al conte, che questa volta vi si appoggiò, e discese ad uno ad uno i tre gradini del montatore. — Picchiate, disse il conte, ed annunciatemi. Bertuccio bussò, la porta si aprì e comparve il portinaro. — Chi è? domandò egli. — È il nuovo padrone, brav’uomo, disse lo staffiere. E stese al portinaro il biglietto di riconoscimento dato dal notaro. — La casa è dunque venduta? domandò il portinaro, ed è questo signore che viene ad abitarla? — Sì, amico mio, disse il conte; farò in modo che non abbiate a desiderar l’antico padrone. — Ah! signore, non ho molto a desiderarlo, perchè lo vedevamo tanto raramente; sono più di 5 anni che non è venuto, ed in fede mia, ha fatto molto bene a vendere una casa che non gli fruttava niente. — Come si chiamava il vostro antico padrone? — Il marchese di Saint-Méran. Ah! non ha certamente venduto la casa per quel che gli costava, ne sono ben sicuro. — Il marchese di Saint-Méran! riprese Monte-Cristo, mi sembra che questo nome non mi sia ignoto, disse il conte; il marchese di Saint-Méran... — E parve cercare nella sua memoria. — Un vecchio gentiluomo, continuò il portinaro, era servitore fedele dei Borboni; aveva una figlia unica che maritò al sig. de Villefort, stato procuratore del re a Nimes, e poi a Versailles. — Monte-Cristo vibrò uno sguardo che incontrò Bertuccio, che aveva il viso più livido del muro contro il quale si appoggiava per non cadere. — E questa figlia non morì? domandò Monte-Cristo; mi sembra di averlo inteso dire. — Sì signore, è già vent’un anno; e d’allora non abbiamo più veduto che tre volte il povero marchese. — Grazie, grazie, disse Monte-Cristo, giudicando dalla prostrazione dell’intendente non potere più lungamente toccare questa corda, senza correre rischio di romperla; grazie! datemi un lume, brav’uomo. — Vi accompagnerò io, signore? — No, è inutile, Bertuccio mi farà lume. E Monte-Cristo accompagnò queste parole col dono di due monete d’oro, che causarono una esplosione di benedizioni e sospiri. — Ah! signore: disse il portinaro, dopo aver cercato inutilmente sulla pietra del caminetto e sui mobili vicini, la disgrazia è che qui non ho candelieri. — Prendete un fanale della carrozza, Bertuccio, e fatemi vedere gli appartamenti. — L’intendente obbedì, senza osservazioni, ma era facile lo scorgere, dal tremito della mano che portava il fanale, ciò che gli costava l’obbedire. Fu percorso un pian terreno molto vasto; un primo piano composto di un salone, di una sala da bagno, e due camere da dormire, e giunsero ad una scala a chiocciola che metteva in giardino. — Osservate! ecco una scala secreta, disse il conte; questa è molto comoda. Fatemi lume, Bertuccio, andate avanti, e vediamo dove essa ci condurrà. — Signore, disse Bertuccio, mette al giardino. — E come lo sapete? — Cioè, voleva dire, che deve mettervi. — Ebbene, assicuriamocene. — Bertuccio mandò un sospiro, e andò avanti. La scala metteva effettivamente in giardino. Alla porta esterna l’intendente si fermò. — Andiamo dunque, Bertuccio, disse il conte. — Ma quegli, al quale erano dirette queste parole, si trovava assordito, stupidito, annientato. Gli occhi stravolti cercavano intorno a lui le tracce di un passato terribile, e colle mani irrigidite cercava di allontanare delle spaventose rimembranze. — Ebbene! insistè il conte. — No, no; gridò Bertuccio, deponendo il fanale in un angolo del muro interno; no signore, non andrò più avanti, è impossibile! — Sarebbe a dire? articolò la voce irresistibile di Monte-Cristo. — Ma vedete bene, signore, che questo non è naturale, gridò l’intendente, che avendo una casa da comprare a Parigi, voi la compriate precisamente ad Auteuil, e che comprandola ad Auteuil, questa casa sia precisamente il N. 28 della strada Fontana. Ah! perchè mai non vi ho tutto detto laggiù, signore! Voi certamente non mi avreste ordinato di seguirvi. Io sperava che la casa del sig. conte fosse tutt’altra che questa. Come se non vi fosse altra casa in Auteuil che quella dell’assassinio! — Oh! oh! disse Monte-Cristo, fermandosi; che villana parola avete voi pronunciata? Diavolo d’uomo! Corso arrabbiato! sempre dei misteri, o delle superstizioni! Vediamo, prendete questo fanale e visitiamo il giardino, con me, spero che non avrete paura. — Bertuccio raccolse il fanale, ed obbedì. La porta aprendosi, lasciò vedere un cielo cupo, nel quale la luna si sforzava invano di lottare contro un mare di nubi che la coprivano coi loro vapori oscuri, che illuminava per un momento, e che in seguito si perdeva più cupa ancora, nel profondo dell’infinito. — L’intendente voleva piegare sulla sinistra. — No, signore, e perchè andare sotto i viali? disse Monte-Cristo, ecco qui un bel praticello, andiamo diritto. — Bertuccio asciugò il sudore che gl’irrigava la fronte, ma obbedì; ciò non ostante continuava a tenere sulla sinistra. Monte-Cristo al contrario piegava a dritta; giunto presso un gruppo d’alberi si fermò. L’intendente non potè contenersi. — Allontanatevi! signore, allontanatevi, gridò, voi siete precisamente sul luogo! — E qual luogo? — Sul luogo ov’egli cadde. — Mio caro Bertuccio, ritornate in voi stesso, ve lo esorto, non siamo qui nè a Sartena, nè a Corte. Questa non è una macchia, ma un giardino inglese, mal custodito, ne convengo, ma che non pertanto non bisogna calunniare. — Signore, non rimanete là, ve ne supplico! — Io credo che diventate pazzo, padron Bertuccio, disse freddamente il conte; se così è, avvisatemene che vi farò rinchiudere in qualche casa di salute, prima che succeda una disgrazia. — Ahimè! eccellenza, disse Bertuccio scuotendo la testa, e piegando le mani con un’attitudine che avrebbe fatto ridere il conte, se pensieri di superiore importanza non lo avessero preoccupato in quel momento, e reso molto attento alle più piccole espansioni di quella coscienza timorosa. — Ahimè! la disgrazia è accaduta. — Bertuccio, disse il conte, sono al caso di dirvi, che mentre gesticolate, voi contorcete le braccia, e stralunate gli occhi come un ossesso, dal corpo del quale il diavolo non voglia uscire; ora ho sempre notato che il diavolo più ostinato ad uscire è un segreto. Io vi sapeva Corso, vi conoscevo taciturno ruminando sempre qualche vecchia storia di vendetta, e vi perdonava questo in Italia, sebbene anche in Italia questa specie di cose non siano inezie; ma in Francia si tiene sempre l’assassinio di assai cattivo genere; vi sono gendarmi che se ne occupano, giudici che lo condannano, patiboli che lo vendicano. — Bertuccio congiunse le mani, e, siccome nell’eseguire queste diverse evoluzioni non lasciava il fanale, la luce venne a rischiarargli il volto sconvolto. Monte-Cristo per un momento lo esaminò come a Roma aveva osservato il supplizio di Andrea; indi con un tuono di voce che fece scorrere un brivido pel corpo del povero intendente: — L’abate Busoni mi ha dunque ingannato, diss’egli, quando, dopo il suo viaggio in Francia nel 1829, v’inviò a me, munito di una lettera di raccomandazione, nella quale mi lodava le vostre preziose qualità. Ebbene! scriverò all’abate; lo renderò garante del suo protetto, ed allora saprò senza dubbio che cosa è tutto questo affare di assassinio. Vi prevengo soltanto, Bertuccio, che quando io vivo in un paese, ho l’abitudine d’uniformarmi alle sue leggi, e che non ho punto volontà d’intrigarmi per voi colla giustizia di Francia. — Non fate questo, eccellenza; vi ho servito fedelmente, n’è vero? gridò Bertuccio alla disperazione; sono stato un galantuomo, e per quanto ho potuto, ho fatto ancora delle buone azioni. — Non dico di no, rispose il conte, ma per che diavolo adunque siete ora agitato in tal guisa? Questo è un cattivo segno; una coscienza pura non porta tanta pallidezza sulle guance, tanta febbre nelle mani di un uomo... — Ma, sig. conte, interruppe con esitanza Bertuccio, non mi avete detto voi stesso, che l’abate Busoni, che fu quello che raccolse la mia confessione nelle carceri di Nimes, vi aveva prevenuto, inviandomi a voi, avere io un forte rimprovero a farmi? — Sì, ma siccome egli v’indirizzava a me dicendomi che avrei ritrovato in voi un eccellente intendente, io credetti che voi aveste rubato, ecco tutto! — Oh! sig. conte! fece Bertuccio con dolore. — Ovvero che, essendo voi Corso, non avevate potuto resistere al desiderio di far la pelle a qualcuno, come vien detto nel vostro paese per antifrasi, quando al contrario ne disfate una. — Ebbene, sì, mio signore, sì, mio buon signore, è questo, gridò Bertuccio gettandosi alle ginocchia del conte; sì, fu una vendetta, lo giuro, una semplice vendetta. — Capisco, ma ciò che non capisco si è, come questa casa vi galvanizzi in tal modo. — Eppure, la cosa è ben naturale, poichè in questa casa si compì la vendetta. — Che! in casa mia? — Oh! signore, essa non era ancora vostra, rispose ingenuamente Bertuccio. — Ma di chi era dunque? Del sig. marchese di Saint-Méran, ci ha detto, credo il portinaro. Che diavolo adunque avevate da vendicarvi col marchese di Saint-Méran? — Ah! non fu di lui, signore, fu di un altro. — Ecco una strana combinazione, disse Monte-Cristo, sembrando cedere alle sue riflessioni: voi vi trovate in tal modo per caso, senza alcun preparativo, in una casa ove è accaduta una scena che vi dà tanti terribili rimorsi. — Signore, disse l’intendente, pare che sia una specie di fatalità che porta tutto questo, ne sono ben sicuro; primieramente voi comprate una casa in Auteuil; questa casa è precisamente quella ove ho commesso l’assassinio; discendete nel giardino, e giusto per la scala per cui egli discese; vi fermate, e giusto nel luogo ov’egli ricevette il colpo; a due passi da quest’albero era la fossa ov’egli aveva seppellito il fanciullo; tutto ciò non può essere opera del caso. — Ebbene! vediamo, sig. Corso, io suppongo sempre tutto ciò che si vuole; d’altra parte bisogna saper fare delle concessioni agli spiriti ammalati. Vediamo: richiamate il vostro spirito e raccontatemi ciò. — Io non l’ho mai raccontato che una sola volta, signore, e fu all’abate Busoni. Simili cose, soggiunse Bertuccio scuotendo la testa, non si raccontano che sotto il suggello della confessione. — Allora, mio caro Bertuccio, ritroverete giusto che io vi rimandi al vostro confessore, vi farete con lui certosino o bernardino, e ragionerete sui vostri segreti. Ma io, io ho paura di un ospite spaventato da simili fantasmi, non amo che le mie genti non abbiano il coraggio di passare di notte pel giardino. Poi, ve lo confesso, sarei poco curioso di vedermi qualche visita del commissario di polizia; poichè imparatelo bene Bertuccio, corre voce che in alcun luogo la giustizia si paghi perchè si taccia; ma in Francia al contrario non si paga mai che quando si parla. Peste! vi credeva bene un poco Corso, un poco contrabbandiere, un bravo intendente, ma ora m’avveggo che avete ancora altre corde al vostro arco. Voi perciò non siete più al mio servizio, Bertuccio. — Ah! signore signore! gridò l’intendente colpito dal terrore di questa minaccia. Ah! se non dipende che da questo perchè io rimanga al vostro servizio, parlerò, dirò tutto; e se vi lascio, sarà soltanto per andare al patibolo! — Adesso è un’altra cosa, disse Monte-Cristo, ma se voleste mentire rifletteteci bene; non parlate affatto. — No, signore, ve lo giuro sulla salute dell’anima mia, vi dirò tutto! perchè lo stesso abate Busoni non ha saputo che una parte del segreto. Ma prima, ve ne supplico, allontanatevi da questo platano; osservate, la luna va a rischiarare quella nube, e là, posto come voi siete, avvolto in quel mantello che mi nasconde la vostra corporatura, e che rassomiglia a quello del sig. de Villefort... — Come! gridò Monte-Cristo, fu de Villefort... — V. E. lo conosce? — Sì. — Che ha sposata la figlia del marchese di Saint-Méran. — Sì, e che negli uffici godeva la riputazione del più onest’uomo, del più severo e del più rigido magistrato? — Ebbene! signore, gridò Bertuccio; quest’uomo d’irreprensibile reputazione... — Ebbene! — Era un infame. — Bah! disse Monte-Cristo, impossibile! — E ciò pertanto è come vi dico. — Ah! veramente! disse Monte-Cristo, e ne avete le prove? — Le aveva, almeno. — E le avete perdute, malaccorto? — Sì, ma cercando bene si possono ritrovare. — In verità? disse il conte, raccontatemi ciò, Bertuccio! perchè comincia ad importarmi da vero. E il conte, cantarellando una piccola aria della _Lucia_, andò ad assidersi sopra un banco, mentre che Bertuccio lo seguiva concentrando la sua memoria, restando in piedi davanti a lui. XLIII. — LA VENDETTA. — Da dove desiderate, sig. conte, che cominci il racconto? domandò Bertuccio. — Da dove volete; disse Monte-Cristo, mentre non ne so assolutamente niente. — Credeva che V. E. avesse già saputo che... — Sì, qualche particolare senza dubbio, ma sono passati sette o otto anni, e nulla più mi ricordo. — Allora posso, senza tema d’annoiare V. E... — Raccontate, mi farete le veci di un giornale. — Le cose rimontano al 1815. — Ah! ah! fece Monte-Cristo, il 1815 non fu ieri. — No, signore, ciò non pertanto i più piccoli particolari mi sono talmente presenti al pensiero, come se ne fossimo soltanto alla dimane. Io aveva un fratello maggiore che era al servizio dell’imperatore. Egli era stato fatto sotto-tenente in un reggimento composto tutto di Corsi: era il mio unico amico, noi eravamo rimasti orfani egli a 18, io a 5 anni; e mi aveva allevato come se fossi stato un suo figlio. Egli si ammogliò nel 1814 sotto i Borboni; l’imperatore ritornò dall’isola d’Elba, e mio fratello riprese subito servizio; ferito leggermente a Waterloo, si ritirò coll’esercito dietro la Loira. — Ma questa è la storia dei cento giorni che voi fate, Bertuccio, ed ella è già stata fatta, se non mi sbaglio. — Scusatemi, eccellenza, ma questi primi particolari sono necessarii, e voi mi avete promesso d’essere paziente. — Avanti! avanti! io non ho che una parola. — Un giorno ricevemmo una lettera, bisogna dirvi che abitavamo nel piccolo villaggio di Rogliano, all’estremità del capo Corso: essa era di mio fratello il quale ne diceva, che l’esercito era stato licenziato, e che ei ritornava per Châteauroux, Clermont-Ferrand, le Puy, e Nimes, e che se avevo qualche danaro gliel facessi tenere a Nimes ad un albergatore di nostra conoscenza col quale aveva qualche relazione... — Di contrabbandi, interruppe il conte. — Eh! mio Dio! bisogna bene che tutti vivano. — Certamente; continuate dunque. — Io amava teneramente mio fratello, ve l’ho detto, per cui risolvetti di non inviargli il denaro, ma di portarlo io stesso. Possedevo un migliaio di fr., ne lasciai 500 ad Assunta, che tale era il nome di mia cognata; presi gli altri 500, e mi misi in viaggio per Nimes; questa era cosa facile, aveva la mia barca, un carico da fare per mare; tutto secondava il mio disegno. Ma, fatto il carico, il vento divenne contrario, di modo che stemmo tre o quattro giorni senza potere entrare nel Rodano. Finalmente vi riuscimmo; risaliti fino ad Arles, lasciai la barca fra Bellegarde e Beaucaire, e presi la via di Nimes; quest’era il momento in cui accadeva il famoso massacro del mezzogiorno. Due o tre briganti chiamati Trestaillon, Truphemy, e Graffan, scannavano sulle strade tutti quelli che credevano bonapartisti. Senza dubbio il sig. conte avrà inteso parlare di questi assassini. — Sì, ma vagamente; allora era lontano dalla Francia. — Entrando a Nimes si camminava, alla lettera, nel sangue; a ciascun passo s’incontravano cadaveri; gli assassini, ordinati in bande, uccidevano, saccheggiavano, bruciavano. Alla vista di tanta carneficina, mi prese un tremito, non per me; io, semplice pescatore corso, non aveva gran che a temere, anzi per noi contrabbandieri, quelli erano buoni tempi; ma per mio fratello, soldato dell’impero, che ritornava dall’esercito della Loira colla sua uniforme, le spalline, e che per conseguenza aveva tutto a temere. — Corsi dal nostro albergatore, i miei presentimenti non mi avevano ingannato; mio fratello era giunto il giorno innanzi a Nimes, ed alla stessa porta di quello a cui andava a chiedere ospitalità era stato assassinato. Feci tutto il possibile al mondo per riconoscerne gli uccisori, ma nessuno osò dirmi i loro nomi, tanto erano temuti. Pensai allora a questa giustizia francese, di cui tanto mi era stato parlato, e che nulla teme, e mi presentai al procuratore del re. — E questo procuratore del re si chiamava Villefort? chiese negligentemente Monte-Cristo. — Sì, eccellenza, veniva da Marsiglia ov’era stato sostituto. Il suo zelo gli aveva procurato l’avanzamento. Era stato uno dei primi, si diceva, che aveva annunziato al governo lo sbarco all’isola d’Elba. — Dunque, riprese Monte-Cristo, vi presentaste a lui. — Signore, gli dissi, mio fratello è stato assassinato ieri nelle strade di Nimes, non so da chi, ma è nella vostra missione di saperlo. Voi siete qui il capo della giustizia, e spetta alla giustizia il vendicare quelli ch’essa non ha saputo difendere. «— E che cosa era vostro fratello? domandò il procuratore del re. — Sottotenente nel battaglione Corso. «— Un soldato dell’usurpatore, allora... — Un soldato dell’esercito francese. — Ebbene! replicò egli, si è servito della spada, ed è morto di spada. — Voi v’ingannate, signore, egli perì sotto il pugnale. — E che volete che gli faccia? rispose il magistrato. — Ma ve l’ho di già detto; voglio che lo vendichiate. — E di chi? — Dei suoi assassini. «— E che, li conosco io? — Fateli cercare. «— Per farne che? Vostro fratello avrà avuta qualche contesa, e si sarà battuto in duello. Tutti questi vecchi soldati cadono in eccessi, che loro riuscivano bene sotto l’impero, ma che ora lor riescono male; adesso le nostre genti del mezzo giorno non amano nè i soldati, nè gli eccessi. «— Signore, non è per me che vi prego. Io piangerei, o mi vendicherei, ecco tutto; ma il mio povero fratello aveva una moglie. Se accadesse anche a me qualche disgrazia, questa povera donna morirebbe di fame, perchè il solo lavoro di mio fratello la faceva vivere. Ottenete per lei una piccola pensione dal governo. «— Ciascuna rivoluzione ha la sua catastrofe; vostro fratello è rimasto vittima di questa, è una disgrazia, ma il governo nulla deve perciò alla vostra famiglia. Se dovessimo giudicare tutte le vendette che i partigiani dell’usurpatore si sono prese su quelli del re, quando aveano il potere, vostro fratello oggi forse sarebbe condannato a morte. Ciò che accade è naturale, perchè è la legge di rappresaglia. «— E che! signore, gridai io, è mai possibile che voi parliate così, voi, magistrato!... «— Tutti questi Corsi sono pazzi, sulla mia parola, rispose de Villefort; credono ancora che il loro compatriotta sia imperatore. Voi sbagliate nell’epoca; dovevate venirmi a dir questo due mesi sono. Oggi è troppo tardi; andatevene dunque, e se non volete andare, vi farò ricondurre. «Io lo guardai un momento per vedere, se con una nuova preghiera, vi fosse stato qualche cosa da sperare. Quest’uomo era di pietra. Io mi avvicinai a lui: — Ebbene, gli dissi a mezza voce, poichè voi conoscete tanto bene i Corsi dovete sapere in qual modo essi mantengono la loro parola. Voi trovate che hanno fatto bene ad uccidere mio fratello, che era bonapartista, perchè voi siete regio; ebbene! io che sono egualmente bonapartista, vi dichiaro una cosa; ed è, che vi ammazzerò. Da questo momento vi dichiaro la vendetta; per cui cautelatevi bene, e guardatevi come meglio potete; poichè la prima volta che ci ritroveremo faccia a faccia, sarà segno che è giunta l’ultima vostra ora. «Dopo ciò, prima ancora che si fosse rimesso dalla sorpresa, aprii la porta e fuggii.» — Ah! ah! disse Monte-Cristo, colla vostra onesta figura, fate di queste cose, Bertuccio, ed anche ad un procuratore del re? Va bene! Ma sapeva egli almeno ciò che voleva dire la parola vendetta? — Egli lo sapeva tanto bene, che da quel giorno non uscì più solo, e si turò in casa, facendomi cercare da per tutto. Fortunatamente io era tanto ben nascosto, che non mi potè trovare. Allora fu preso dalla paura; tremò di restare più lungamente a Nimes; sollecitò una permuta di residenza, e siccome era realmente persona d’influenza, si fece nominare a Versailles; ma, voi lo sapete, non vi sono distanze per un Corso che ha giurato di vendicarsi del suo nemico, e la sua carrozza, per quanto fosse bene condotta, non ha mai avuto più di una mezza giornata di vantaggio su me, sebbene lo seguissi a piedi. L’importante non era d’ucciderlo, cento volte ne avrei trovata l’occasione; ma di ucciderlo senza essere scoperto, e particolarmente senza essere arrestato. Oramai non era più indipendente, avevo da proteggere e da nutrire mia cognata. Per tre mesi lo appostai, e per tre mesi egli non fece un passo, un movimento, una passeggiata senza che il mio sguardo non lo seguisse ovunque andava. Finalmente scopersi ch’egli veniva misteriosamente ad Auteuil, lo seguii, e lo vidi entrare in questa casa ove siamo; soltanto, invece d’entrare, come tutti dalla porta grande della strada, egli veniva o a cavallo, o in carrozza, e lasciando il cavallo o la carrozza all’albergo, entrava per quella piccola porta che vedete là. Monte-Cristo fece colla testa un segno che provava, che ad onta dell’oscurità, distingueva infatto l’entrata indicata da Bertuccio. «Io non ero più necessario a Versailles, e mi stabilii ad Auteuil, e presi le mie misure. Se voleva prenderlo era evidentemente qui che doveva tendere il laccio. La casa apparteneva, come il portinaro lo ha detto a V. E., al sig. marchese di Saint-Méran, suocero del sig. de Villefort. Il sig. de Saint-Méran abitava Marsiglia, e per conseguenza questa casa gli era inutile, così si diceva ch’era stata appigionata ad una giovane vedova, che non si conosceva sotto altro nome se non con quello di baronessa. Di fatto una sera che guardavo al di sopra del muro, vidi una donna giovane, e bella che girava sola per questo giardino, su cui non domina alcuna finestra straniera, ella guardava spesso dalla parte della piccola porta, e compresi che quella sera aspettava il sig. de Villefort. Allorchè fu abbastanza vicina a me, perchè non ostante l’oscurità, potessi distinguerne i lineamenti, vidi una bella giovane di 18 a 19 anni, grande e bionda. Siccome ell’era con una semplice giubba, e niente poteva impedirmi dal vederne la corporatura, m’accorsi ch’era incinta, e che la gravidanza era ancor molto inoltrata. «Pochi momenti dopo fu aperta la piccola porta; entrò un uomo, la giovane corse più che potè incontro a lui. «Questi era de Villefort. Giudicai che uscendo, particolarmente se di notte, doveva traversare da solo il giardino in tutta la sua lunghezza. — Avete poi mai saputo il nome di questa donna? domandò il conte. — No, eccellenza, rispose Bertuccio, voi vedrete che non ebbi il tempo d’informarmene — Continuate. «Forse quella stessa sera avrei potuto uccidere il procuratore del re, riprese Bertuccio; ma non conosceva ancora abbastanza il giardino in tutti i suoi particolari. Temeva di non poterlo lasciare freddo morto, e di non poter fuggire se qualcuno accorresse alle sue grida. Rimisi la bisogna pel futuro convegno; e perchè nulla avesse a sfuggirmi, presi in fitto una piccola camera che guardava lungo il muro del giardino. Tre giorni dopo, alle sette di sera, vidi un domestico uscir dalla casa a cavallo, e prendere al galoppo la strada che mette a Sèvres; supposi che sarebbe andato a Versailles, e non m’ingannai. Tre ore dopo ritornò l’uomo coperto di polvere; il viaggio era compito. Dieci minuti dopo un altr’uomo a piedi, avvolto in un mantello, apriva la piccola porta del giardino, e la richiudeva dietro a sè. «Discesi rapidamente. Quantunque non avessi veduto il viso di Villefort, lo riconobbi al battito del mio cuore; traversai la strada, raggiunsi un pilastrino posto all’angolo del muro, coll’aiuto del quale aveva guardato entro al giardino la prima volta. Questa volta però non mi contentai di guardare, cavai di saccoccia il coltello, mi assicurai che la punta fosse bene aguzza, e saltai al di sopra del muro. «La mia prima cura fu di correre alla porta; egli aveva lasciata la chiave dentro la serratura dalla parte interna, avendo soltanto preso la cautela di darvi un doppio giro. «Niente adunque poteva opporsi alla mia fuga da quel lato; il giardino era di forma bislunga; nel mezzo la terra era coperta da una folta e molle erbetta ad uso dei giardini inglesi, agli angoli di questo prato erano gruppi di alberi, con folti rami, in allora frammischiati dai fiori d’autunno. Per recarsi dalla piccola porta alla casa, tanto entrando, quanto uscendo, Villefort era obbligato di passare davanti a questi gruppi d’alberi. Era la fine di settembre: il vento soffiava con forza; una luna pallida e languente velata ad ogni momento da grossi nuvoli che scorrevano pel cielo, rischiarava la sabbia dei viali che conducevano alla casa, ma non poteva fendere l’oscurità di questi gruppi fronzuti, fra i quali un uomo poteva tenersi nascosto senza timore di essere scoperto. Io mi nascosi in quello, presso al quale doveva passare Villefort; non appena vi era che, in mezzo ai soffi del vento che curvava i rami degli alberi al di sopra della mia fronte, mi parve distinguere dei gemiti. Ma voi sapete, o per meglio dire, non sapete, sig. conte, che quegli che aspetta il momento di commettere un assassinio, crede sempre sentire passare delle strida sorde nell’aria. Trascorsero due ore, nelle quali, a più riprese, credei sentire ripetersi i medesimi gemiti. Suonò mezza notte. «L’ultimo tocco vibrava ancora cupo e sonoro, quando scopersi una debole luce illuminare le finestre della scala segreta per la quale noi poco fa siamo discesi. «La porta s’aprì, e comparve l’uomo dal mantello. «Quest’era il momento terribile, da molto tempo io mi vi era preparato; cavai il coltello, l’apersi, e mi tenni pronto. «L’uomo dal mantello veniva direttamente a me; e a seconda che si avanzava nello spazio scoperto, mi pareva scorgere che tenesse in mano un’arme: ebbi timore, non di una lotta, ma di non riuscire. Quando fu a pochi passi da me, riconobbi che ciò che io aveva preso per un’arma, non era altro che una vanga. Non aveva ancora potuto immaginarmi a quale scopo il sig. de Villefort teneva una vanga in mano, quando egli si fermò sull’orlo del gruppo d’alberi, gettò uno sguardo intorno a sè, e si mise a scavare una fossa nella terra: allora m’accorsi ch’egli teneva qualche cosa sotto il mantello, che depose sull’erba per essere più libero nei suoi movimenti: un po’ di curiosità, lo confesso, si frammischiò al mio odio; volli vedere ciò che era venuto a fare là Villefort: rimasi immobile, senza tirare il fiato, ed aspettai. «Quindi mi venne un’idea, che vidi confermarsi, quando il procuratore del re cavò dal mantello una cassetta lunga due piedi, e larga da sei ad otto pollici. Lasciai deporre la cassetta nella fossa, che poi riempì di terra, poi su questa terra smossa pestò i piedi per fare sparire l’opera notturna. Allora mi slanciai su lui, e gli conficcai il coltello nel petto dicendogli: «— Io sono Giovanni Bertuccio! la tua morte per mio fratello, il tuo tesoro per la vedova di lui: vedi bene che la mia vendetta è più completa di quel ch’io sperava. — Non so s’egli intese queste parole, ma credo di no; poichè cadde senza mandare un gemito; sentii l’onda del suo sangue scorrermi ardente sulle mani e sul viso; ma io era ebbro, era in delirio; questo sangue mi rinfrescava invece di bruciarmi. In un secondo dissotterrai la cassetta colla vanga, poi, perchè nessuno si accorgesse che l’avevo portata via, riempii io pure la fossa, gettai la vanga al di là del muro, e mi slanciai fuori della porta che chiusi a doppio giro per di fuori, portando meco la chiave. — Va bene, disse Monte-Cristo, quest’era, a quanto vedo, un piccolo assassinio complicato con furto. — No, eccellenza, rispose Bertuccio; era una vendetta accompagnata da una restituzione. — E la somma almeno era forte? — Non era danaro. — Ah! sì mi ricordo, disse Monte-Cristo: non avete voi parlato di un fanciullo? — Precisamente, eccellenza. Io corsi fino al fiume, m’assisi sulla sponda, e sollecitato di vedere ciò che contenesse la cassetta, ne feci saltar via la serratura col coltello. «In un panno di tela-battista era avvolto un fanciullo nato allora; il viso era livido, le mani violette annunziavano che egli era rimasto vittima di un’asfissia causata dal funicolo che aveva naturalmente avvolto intorno al collo. Siccome però non era ancora freddo, esitai a gettarlo nell’acqua che scorreva a’ miei piedi; infatto dopo un momento mi parve sentire un leggiero battito nella regione del cuore; gli liberai il collo dal cordone che lo attorniava, e siccome era stato infermiere all’ospedale di Bastia, feci tutto ciò che avrebbe potuto fare un medico in simile occasione, cioè, gli soffiai coraggiosamente dell’aria nei polmoni, dopo un quarto d’ora di sforzi inauditi, lo vidi respirare, e intesi un grido sfuggirgli dal petto. Io pure gettai un grido, ma un grido di gioia. Dio dunque non mi maledice, dissi a me stesso, poichè permette che io ridoni la vita ad una creatura umana in cambio della vita che ho tolto ad un altra. — E che faceste di questo fanciullo? domandò Monte-Cristo; egli era un bagaglio molto impacciante per uno che doveva fuggire. — Per questo non ebbi per un momento l’idea di ritenerlo. Ma sapeva che a Parigi vi è un ospizio, ove sono ricevute queste povere creature. Passando per la barriera, dichiarai aver trovato questo fanciullo sulla strada, e presi le mie informazioni. La cassetta faceva testimonianza: la biancheria di battista indicava che il fanciullo apparteneva a persone ricche; il sangue di cui io era asperso poteva appartenere tanto al fanciullo quanto a qualunque altro individuo. Non mi venne fatta alcuna obbiezione, mi fu indicato l’ospizio che era situato all’estremità della strada Enfer, e dopo di aver presa la cautela di tagliare il pannolino in due parti, di maniera che una delle lettere che lo marcava continuasse ad avvolgere il fanciullo, mi riserbai l’altra, deposi il fardello nella ruota, e fuggii a gambe. Quindici giorni dopo io era di ritorno a Rogliano, e diceva ad Assunta: — Consolati, sorella mia; Israele è morto, ma l’ho vendicato. «Allora ella mi chiese la spiegazione di queste parole, e io le raccontai tutto l’accaduto: — Giovanni, mi disse Assunta, tu avresti dovuto portarmi quel fanciullo; noi gli avremmo fatte le veci dei genitori che ha perduti, lo avremmo chiamato Benedetto; e mercè questa buona azione Dio ci avrebbe benedetti effettivamente. — Per risposta le consegnai la metà del pannolino che aveva conservata, per poter far reclamare il fanciullo un giorno che fossimo divenuti più ricchi. — E con quali lettere era marcato questo pannolino? domandò Monte-Cristo. — Con un L. ed un N. sormontate dalla corona baronale. — Credo, Dio mel perdoni, che voi facciate uso di termini araldici, Bertuccio! e dove avete fatti questi studi? — Al vostro servizio, sig. conte, dove s’impara ogni cosa. — Continuate, son curioso di sapere altre due cose. — E quali, signore? — Ciò che avvenne di questo ragazzo; non mi diceste che era un fanciullo? — No, signore, non mi ricordo di avervi detto ciò. — Ah! credeva averlo inteso, mi sarò sbagliato. — No, non vi siete sbagliato, perchè effettivamente era un fanciullo; ma V. E. desiderava sapere due cose, qual è la seconda? — La seconda era il delitto di cui foste accusato quando chiedeste un confessore, e che l’abate Busoni venne a vostra richiesta a ritrovarvi nelle prigioni di Nimes. — Questa storia forse sarà troppo lunga, eccellenza. — Che importa? sono appena le dieci, sapete che non dormo, e suppongo che dal vostro lato non avrete gran volontà di dormire. — Bertuccio s’inchinò, e riprese la narrazione. — Io, parte per iscacciare le tristi rimembranze che mi assediavano, parte per sovvenire ai bisogni della povera vedova, mi rimisi con ordine al mestiere di contrabbandiere, divenuto più facile per l’affievolimento delle leggi che succede sempre alle rivoluzioni. Le coste del Mezzodì particolarmente erano mal custodite, a cagione delle continue sommosse che succedevano, ora in Avignone, ora a Nimes, ora ad Uzès. Noi approfittammo di questa specie di tregua che ci veniva accordata dal governo per annodare delle relazioni su tutto il littorale. Dopo l’assassinio di mio fratello nelle strade di Nimes, non aveva voluto più entrare in quella città; l’albergatore, col quale noi facevamo affari, vedendo che non volevamo più andar a lui, era venuto da noi, ed aveva fissata una soccorsale al suo albergo, sulla strada di Bellegarde a Beaucaire all’insegna del _Ponte di Gard_. In tal modo avevamo, sia dalla parte d’Aigues-mortes, sia a Martigues, sia a Bouc, una dozzina di luoghi, ove depositavamo le nostre mercanzie, ed ove, al bisogno, trovavamo un rifugio per metterci in salvo dai doganieri e dai gendarmi. È un mestiere che frutta molto quello del contrabbandiere, quando uno ci si applica con una certa intelligenza secondata da buona dose di vigoria; quanto a me, viveva nelle montagne, avendo conservato un doppio motivo di temere i gendarmi e i doganieri, atteso che, qualunque comparsa davanti ad un giudice, poteva indurre un processo, vale a dire una escursione nel passato, nel quale poteva scoprirsi qualche cosa di più importante che non sono sigari di contrabbando, o barili d’acqua-vite che circolano senza il lasciapassare. Così, preferendo mille volte la morte ad un arresto, conduceva a buon fine operazioni maravigliose, e che, più di una volta, mi convinsero, che la troppa cura che ci prendiamo del nostro corpo, è quasi sempre il solo ostacolo alla buona riuscita di quei disegni, che han bisogno di una risoluzione, e di una esecuzione vigorosa e determinata. In fatto una volta che siasi fatto il sacrificio della propria vita, non si è più simili agli altri uomini, e chiunque ha presa questa risoluzione, ha sentito centuplicarsi le forze, ed allargarsi l’orizzonte. — Anche la filosofia! Bertuccio, voi dunque avete un poco di tutto nella vostra vita? — Oh! perdono, eccellenza! — No, no, è solo perchè la filosofia alle 10 e mezzo di sera è un poco troppo tardi. Fuori di questa non ho altra osservazione da fare, atteso che la trovo esatta, ciò che non si può dire di tutte le filosofie. — Le mie corse divennero dunque sempre più estese, sempre più fruttuose. Assunta era l’economa; e la nostra fortuna andava ingigantendosi. Un giorno che io partiva per una corsa: — Va, diss’ella, al tuo ritorno io ti preparo una sorpresa. — Io l’interrogai, ma inutilmente: ella non volle dirmi di più; ed io partii. La corsa durò quasi sei settimane, noi eravamo stati a Lucca a caricare dell’olio, ed a Livorno a prendere cotoni inglesi; il nostro sbarco si effettuò senza contrari eventi, tirammo i nostri guadagni, e ritornammo allegri e contenti. — Rientrando in casa, la prima cosa che vidi nel luogo più esposto della camera d’Assunta, in una cuna sontuosa, relativamente al resto dell’appartamento, fu un fanciullo di sette in otto mesi; misi un grido di gioia. Il solo momento di tristezza che provai dopo l’uccisione del procuratore del re, fu quello in cui abbandonai quel fanciullo. Non è mestieri di dire che non ebbi mai rimorsi per l’assassinio in sè stesso. La povera Assunta aveva indovinato tutto: approfittando della mia assenza, munita della metà del pannolino, ed avendo scritto, per non dimenticarlo, il giorno e l’ora precisa in cui il fanciullo era stato deposto all’ospizio, era andata a Parigi a reclamarlo. Non le venne fatta alcuna obbiezione, e le fu reso il fanciullo. Ah! vi confesso sig. conte, che vedendo questa creatura dormire nella cuna, il petto mi si gonfiò, e mi scorsero le lagrime: — In verità, Assunta, gridai tu sei una buona donna, ed il Signore ti benedirà. — Mostrava che tu avevi fede, disse Monte-Cristo. — Ahimè! eccellenza, riprese Bertuccio, Iddio però fece strumento della mia punizione questo stesso fanciullo. Giammai si dichiarò più prematuramente una natura più perversa; e ciò non pertanto non si può dire che venisse male allevato, poichè mia sorella lo trattava come il figlio di un principe; era un ragazzo di bellissimo aspetto, con occhi cilestri di quella tinta delle terraglie chinesi tanto bene in armonia col bianco latteo del fondo: solamente i capelli di un biondo troppo vivo, davano al suo viso una strana indole, che raddoppiava la vivacità dello sguardo, e la malizia del sorriso. Disgraziatamente vi ha un proverbio che dice: essere i rossi o buoni del tutto o del tutto cattivi: il proverbio non mentiva sul conto di Benedetto, che fin dalla sua prima infanzia si manifestò del tutto cattivo. È vero altresì che la dolcezza di sua madre incorò le sue prime inclinazioni; mia sorella andava continuamente al mercato della città, situato a 5 leghe di distanza, per comprare i primi frutti ed i dolci più delicati per questo fanciullo, il quale preferiva agli aranci di Palma, ed alle conserve di Genova, le castagne rubate al vicino traversando le siepi, o le mele secche del granaio di lui, mentre che aveva a sua disposizione le castagne e le mele del nostro orticello. «Un giorno, (Benedetto poteva avere 5, o 6 anni) il vicino Wasilio, che, secondo l’uso del nostro paese, non riponeva mai nè la sua borsa nè i suoi gioielli, perchè il sig. conte sa meglio di qualunque altro che in Corsica non vi sono ladri, il vicino Wasilio si lamentò con noi che gli era disparso un luigi; si credè che avesse contato male, ma egli pretendeva di essere sicuro del fatto suo. In quel giorno Benedetto aveva lasciata la casa di buon mattino, e quando lo vedemmo ritornare la sera, si trascinava dietro una scimmia che diceva di aver trovata, colla catena e tutto, legata ad un albero; da più di un mese il cattivo ragazzo, il quale non sapeva più che immaginare, era voglioso di avere una scimmia. Un battelliere ch’era passato di Rogliano, e che aveva molti di questi animali che lo avevano divertito coi loro esercizi, gli aveva senza dubbio inspirata questa malaugurata fantasia. — Nei nostri boschi non si trovano scimmie, e molto meno belle e incatenate, gli diss’io; confessami dunque come ti sei procurata questa. — Benedetto sostenne la menzogna, e l’accompagnò con tali particolari che facevano più onore alla sua immaginazione che alla sua veracità; io m’irritai, egli si mise a ridere; io lo minacciai, egli fece due passi addietro: — Tu non puoi battermi, diss’egli, tu non ne hai il diritto, perchè non sei mio padre. — Noi ignorammo sempre chi gli aveva rivelato questo fatale segreto, che per parte nostra era stato gelosamente custodito: che che ne fosse, questa risposta, nella quale il ragazzo si faceva interamente conoscere, quasi mi spaventò, ed il mio braccio ch’erasi alzato, ricadde senza percuotere il colpevole. Il fanciullo trionfò, e questa vittoria gli dette un’audacia tale, che da quel giorno tutto il danaro d’Assunta, il cui amore sembrava aumentarsi a seconda che egli se ne rendeva meno degno, fu speso in capricci ch’ella non sapeva combattere, ed in follie che non aveva il coraggio d’impedire. Quando io era a Rogliano, le cose camminavano meno male, ma quando partiva Benedetto diventava il capo di casa, e tutto andava alla peggio. Dell’età di 10, o 11 anni tutti i suoi compagni erano scelti fra giovani di 18, a 20 anni, e fra i più cattivi soggetti di Bastia e di Corte, e già per qualche scappata, che meritava un nome più serio, la giustizia ci aveva dati avvisi. Io ne fui spaventato: qualunque interrogatorio poteva avere conseguenze funeste; io era precisamente allora obbligato ad allontanarmi dalla Corsica per una spedizione importante; vi riflettei lungamente, e col presentimento d’evitare qualche disgrazia, risolvetti condur meco Benedetto. Sperava che la vita attiva e faticosa del contrabbandiere, la disciplina severa del bordo, cambierebbero questa indole vicina a corrompersi, se già non era spaventosamente corrotta. Presi dunque Benedetto a parte, e gli feci la proposizione di seguirmi, circondandola con tutte quelle promesse che possono sedurre un giovine di 12 anni. Egli mi lasciò parlare fino alla fine, e quand’ebbi terminato scoppiò in una risata, dicendo: — Siete pazzo, zio mio (egli mi chiamava così quand’era di buon umore), io cambiare la vita che meno, con quella che menate voi? Il mio buono ed eccellente non far niente, colle orribili fatiche che vi siete imposto? passare la notte al freddo, il giorno al caldo, nascondersi continuamente, ricevere schioppettate, e tutto questo per guadagnare un poco di danaro? Del danaro ne ho quanto ne voglio, madre Assunta me ne dà, quanto a lei ne domando; vedete bene che sarei un imbecille se accettassi la vostra proposizione. — Io rimasi stupefatto da quell’audacia, e da quel ragionamento. Benedetto ritornò a giuocare coi suoi compagni, e lo vidi che mi mostrava ad essi come un idiota. — Grazioso fanciullo! mormorò Monte-Cristo. — Ah! se fosse stato mio rispose Bertuccio, se fosse stato mio figlio, o pur anche mio nipote, lo avrei ricondotto sul retto sentiero, perchè la coscienza dà la forza. Ma l’idea di percuotere un fanciullo, di cui aveva ucciso il padre mi rendeva impossibile ogni correzione. Detti buoni consigli a mia cognata, che nelle nostre discussioni prendeva sempre la difesa del piccolo disgraziato; e siccome mi confessò che in varie volte le erano mancate somme considerevoli, le indicai un luogo ov’ella poteva nascondere il nostro piccolo tesoro. In quanto a me, la mia risoluzione era presa. Benedetto sapeva perfettamente leggere, scrivere, e fare i conti, perchè quando per caso egli si voleva occupare a studiare, imparava in un giorno ciò che agli altri abbisognava una settimana. La mia risoluzione, diceva, era presa; doveva ingaggiarlo come segretario sopra un bastimento a lungo corso, e, senza prevenirlo di niente, farlo prendere un bel mattino, e trasportare a bordo; in questo modo raccomandandolo al capitano, tutto il suo avvenire dipendeva da lui. «Stabilito questo disegno partii per la Francia. «Tutte le nostre operazioni dovevano questa volta eseguirsi nel golfo di Lione, e si rendevano ogni giorno più difficili, perchè eravamo nel 1829. La tranquillità era perfettamente ristabilita, e per conseguenza il servizio delle coste ritornato più regolare e più severo che mai. Questa sorveglianza era ancora aumentata momentaneamente per la fiera di Beaucaire che allora si apriva. «I principi della nostra spedizione si eseguirono senza impaccio. Noi ancorammo la barca, che aveva un doppio fondo nel quale nascondevamo le nostre mercanzie di contrabbando, in mezzo ad una quantità di battelli che stavano fitti alle due rive del Rodano da Beaucaire fino ad Arles. Giunti là, cominciammo di notte tempo a scaricare le merci proibite, ed a farle passare in città per mezzo di gente in relazione cogli albergatori, nelle case dei quali facevamo i depositi. Sia che la buona riuscita ci rendesse imprudenti, sia che fossimo stati traditi, una sera, verso le 5 p. m. mentre stavamo per metterci a tavola, accorse tutto affannato il nostro piccolo mozzo, dicendo che aveva veduto una squadra di doganieri dirigersi alla nostra volta. Non era precisamente la squadra che ci spaventava; da un momento all’altro, e particolarmente allora si vedevano compagnie intere pattugliare e girare sulle sponde del Rodano; ma le cautele che, al dire del mozzo, questa squadra prendeva per non essere veduta. In un punto noi eravamo in piedi, ma era già troppo tardi: la nostra barca, che evidentemente formava l’oggetto delle loro ricerche, era circondata. Fra i doganieri distinsi qualche gendarme; e tanto timido alla vista di questi, quanto era bravo alla vista di qualunque altro corpo militare, discesi sotto il ponte, e strisciando da un finestrello, mi lasciai calare nel fiume, quindi mi misi a nuotare sott’acqua, non respirando che a lunghi intervalli tanto bene, che senza esser veduto raggiunsi un canale fatto di nuovo, e che poneva il Rodano in comunicazione col canale che da Beaucaire mette ad Aigues-mortes. Una volta giunto là, era salvo, poichè poteva seguire senza essere veduto per quella direzione. Arrivai dunque al canale senza sinistri. Non era nè a caso, nè senza premeditazione che aveva seguito questa via; ho già parlato a V. E. di un albergatore di Nimes, che aveva impiantata una piccola osteria fra Bellegarde e Beaucaire. — Sì disse Monte-Cristo, me ne ricordo perfettamente, questo degno galantuomo, se non erro, era uno dei vostri associati? — Precisamente, rispose Bertuccio, ma da sette ad 8 anni aveva ceduto il suo stabilimento ad un antico sartore di Marsiglia, che dopo essersi rovinato nel suo stato, aveva voluto tentare di fare la sua fortuna in un altro. Non fa mestieri dire che le corrispondenze che avevamo col primo proprietario furono mantenute col secondo; adunque a quest’uomo contava chiedere un asilo. — E come chiamavasi? domandò il conte di Monte-Cristo che sembrava cominciare a prendere qualche interessamento al racconto di Bertuccio. — Si chiamava Gaspero Caderousse, egli era ammogliato con una donna del villaggio di Carconte, che non conoscevamo per altro nome, che per quello del suo villaggio; una povera donna colpita dalle febbri maremmane, che si moriva di languidezza. In quanto all’uomo egli era gagliardo e robusto dai 40 ai 50 anni, che più d’una volta, in difficili congiunture aveva date prove di prontezza d’animo e di coraggio. — E dicevate, domandò Monte-Cristo, che tali cose accadevano verso l’anno?... — 1829, signor conte. — In qual mese? — Nel mese di giugno. — Al principio o alla fine? — Precisamente la sera del 3. — Ah! fece Monte-Cristo, il 3 giugno 1829... va bene, continuate. — Era dunque a Caderousse, che io contava di domandare un asilo; ma secondo il solito anche nelle congiunture ordinarie non entravamo da lui per la porta che dava sulla strada, e risolvetti di non derogare alle abitudini, scavalcai la siepe del giardino, camminai carpone fra gli ulivi, e i fichi selvatici, e pervenni, nel dubbio che Caderousse potesse aver qualche viaggiatore nell’albergo, ad un soppalco nel quale avevo più di una volta passata la notte tanto bene, quanto nel miglior letto. Questo soppalco non era diviso dalla sala comune del piano terreno dell’albergo che da un tramezzo di assi, nel quale eransi praticate delle fenditure a bella posta, perchè di là potessimo spiare il momento opportuno di far conoscere che eravamo nelle vicinanze. Io voleva vedere se Caderousse era solo, fargli il segno del mio arrivo, terminare con lui il pasto interrotto dall’apparizione dei doganieri; indi profittare dell’uragano che preparavasi per raggiungere le rive del Rodano, ed assicurarmi di ciò ch’era accaduto alla barca ed a quelli che v’erano dentro. Mi calai dunque nel soppalco, e fu fortuna, perchè quasi nello stesso punto Caderousse entrava in casa sua con uno sconosciuto. Mi tenni cheto, ed aspettai, non già colla mira di scoprire i segreti dell’albergatore, ma perchè non poteva fare altrimenti; e d’altra parte la stessa cosa era già accaduta dieci altre volte. L’uomo che accompagnava Caderousse era evidentemente forestiero al Mezzogiorno della Francia: era uno di quei mercanti da fiera che vengono a vendere i loro gioielli alla fiera di Beaucaire, e che in un mese che questa dura, fanno affari per 50 ed anche per cento mila fr. Caderousse entrò vivacemente, e pel primo, indi vedendo la sala vuota secondo il solito, e soltanto guardata dal cane, chiamò la moglie: — Ehi! Carconta, diss’egli: quel degno uomo del prete non ci ha ingannati, il diamante è buono — Fecesi sentire un’esclamazione di gioia, e quasi subito la scala scricchiolò sotto un passo appesantito dalla debolezza e dalla malattia. — Che dici? domandò la donna più pallida di un morto. — Dico che il diamante è buono, ed ecco qui il signore, che è uno dei primi gioiellieri di Parigi, disposto a darci 50 mila fr., sol che gli proviamo esser veramente nostro; egli vuole che tu gli racconti, come gli ho già raccontato io, in qual modo miracoloso il diamante è caduto nelle nostre mani. Frattanto, signore, sedetevi, se vi piace, e siccome la stagione è calda, vado a cercare con che rinfrescarvi. «Il gioielliere esaminò con visibile attenzione l’interno dell’albergo, e la miseria manifesta di coloro che stavano per vendergli un diamante che sembrava uscito dallo scrigno di un re. — Raccontate, signora, diss’egli, volendo senza dubbio profittare dell’assenza del marito, perchè non vi fosse alcun segno per parte di costui, e per vedere se i due racconti corrispondevano bene uno coll’altro. — Eh! mio Dio, disse la donna con volubilità, è una benedizione del cielo che eravamo ben lungi dall’aspettarci. Immaginatevi, caro signore, che mio marito era unito in amicizia, fin dal 1814 o 1815 con un marinaro chiamato Edmondo Dantès. Questo povero giovine non aveva dimenticato Caderousse, che lo aveva obbliato del tutto, e gli ha lasciato morendo il diamante che avete veduto. — Ma in qual modo n’era egli divenuto possessore? domandò il gioielliere. Egli lo aveva dunque prima d’entrare in prigione? — No, signore, ma in prigione ha fatto la conoscenza, a quanto pare, di un inglese ricchissimo; e siccome il suo compagno di camera fu malato, e Dantès lo trattò come se fosse stato un fratello, così, l’inglese uscendo dal carcere lasciò al povero Dantès, che meno fortunato di lui è morto in prigione, questo diamante ch’egli a sua volta ci ha lasciato in legato a noi morendo, e che il degno abate ci ha rimesso questa mattina. — È in realtà lo stesso racconto, mormorò il gioielliere, e, in fin dei conti, la storia può essere vera, per quanto comparisca inverosimile a primo aspetto. Non vi è dunque che il prezzo sul quale non siamo ancora d’accordo. — Come! non siamo d’accordo! disse Caderousse; io credeva che aveste acconsentito al prezzo che ve ne ho domandato. — Cioè, rispose il gioielliere, al prezzo di 40 mila fr. che vi ho offerti. — 40 mila fr., gridò la Carconta; non lo venderemo certamente per questo prezzo. L’abate ci ha detto che ne vale 50 mila, senza calcolare la legatura. — E come si chiamava quest’abate, domandò l’istancabile interrogatore. — L’abate Busoni, rispose la donna. — È dunque uno straniero? — Credo che sia un Italiano delle vicinanze di Mantova. — Mostratemi questo diamante, riprese il gioielliere, che lo riveda una seconda volta; spesso si giudicano male le pietre a prima vista. — Caderousse cavò di saccoccia un piccolo astuccio di marrocchino nero, l’aprì e lo passò al gioielliere. «Alla vista di questo diamante grosso quanto una piccola nocciuola, me lo ricordo come se lo vedessi ancora, gli occhi della Carconta sfavillarono di cupidigia. — E che pensavate di tutto ciò, signor ascoltatore alle porte? domandò Monte-Cristo, aggiustavate fede a questa bella favola? — Sì, eccellenza, non riteneva Caderousse per un uomo cattivo, e lo credeva incapace di aver commesso un delitto, e fors’anche un furto. — Questo fa più onore al vostro cuore che alla vostra esperienza, Bertuccio. Avevate conosciuto questo Edmondo Dantès di cui si parlava? — No, eccellenza, fino allora non ne aveva mai inteso parlare, e dopo nemmeno tranne una sola volta dallo stesso abate Busoni, quando lo vidi nelle prigioni di Nimes. — Bene, continuate. — Il gioielliere prese l’anello dalle mani di Caderousse, cavò di saccoccia un paio di piccole pinzette d’acciaio, e un bilancino di rame; poi allontanando le punte d’oro che ritenevano la pietra nell’anello, fece uscire il diamante dal suo alveolo, e lo pesò scrupolosamente nel bilancino. «— Giungerò fino a 45 mila fr., diss’egli, ma non darò un soldo di più; siccome questo era il vero prezzo dell’anello, non ho preso meco che questa somma precisamente. «— Oh! per questo, ritornerò con voi a Beaucaire per prender gli altri 5 mila fr. — No, disse il gioielliere restituendo a Caderousse l’anello ed il diamante: questo non vale di più; e sono anzi dolente di avervi offerto questa somma, atteso che la pietra ha un difetto che non aveva veduto prima; ma non importa, io non ho che una parola, ho detto 45 mila fr., e non mi ritiro. — Almeno rimettete il diamante nell’anello, disse con asprezza la Carconta. «Egli ritornò ad incassare la pietra. — Bene, bene, bene, disse Caderousse, rimettendosi in saccoccia l’astuccio, si venderà ad un altro. — Sì, rispose il gioielliere, ma un altro non sarà così corrente come sono io; un altro non si contenterà delle informazioni che mi avete date; non è cosa naturale che un uomo come voi possegga un anello di 50 mila fr.; egli ne darà parte ai magistrati, e bisognerà ritrovare l’abate Busoni, e gli abbati che regalano diamanti da due mila luigi, sono rari; la giustizia comincerà col mettervi le mani sopra, sarete messo in prigione, e se siete riconosciuto innocente verrete messo in libertà dopo tre o quattro mesi di prigionia, l’anello o si sarà perduto in ispese di giudizio, o vi sarà restituito con una pietra falsa che costerà 3 fr. invece di 50 mila, e voglio anche ammettere 55 mila, ma voi converrete meco, mio brav’uomo, si corrono sempre certi rischi a comprare. — Caderousse e sua moglie s’interrogarono con uno sguardo. — No disse Caderousse, noi non siamo abbastanza ricchi per perdere 5 mila fr. «— Come volete, mio caro amico, io però avevo portato, come vedete, bella moneta. — E con una mano cavò di saccoccia un pugno d’oro che fece risplendere avanti gli occhi abbarbagliati degli albergatori, e con l’altra un pacchetto di biglietti di banca. Una forte pugna agitava visibilmente l’animo di Caderousse; era evidente che quel piccolo astuccio di marrocchino, che girava e rigirava nelle sue mani, non gli sembrava corrispondere, come valore, alla somma enorme che gli affascinava gli occhi. Egli si volse a sua moglie: «— Che dici tu? le domandò a bassa voce. «— Daglielo, daglielo, diss’ella; s’egli ritorna a Beaucaire senza il diamante, ci denunzierà, e come lo ha detto, chi sa se potremo più ritrovare l’abate Busoni? «— Ebbene, sia così, disse Caderousse, prendete il diamante per 45 mila fr., ma mia moglie vuole una catena d’oro, ed un paio di buccole d’argento. — Il gioielliere cavò di tasca una scatola lunga e piatta che conteneva molti campioni degli oggetti domandati: — Prendete, diss’egli, io sono andante negli affari; scegliete. — La donna scelse una collana d’oro che poteva costare 5 luigi, ed il marito un paio di buccole del valore di 5 fr. — Spero che non vi lamenterete? disse il gioielliere. — L’abate aveva detto che costava 50 mila fr. mormorò Caderousse. — Andiamo, andiamo, date adunque! che uomo terribile, disse il gioielliere togliendogli di mano il diamante; io vi sborso 45 mila fr., 2,500 fr. di rendita, vale a dire, una fortuna come vorrei averla io, e non siete ancora contento! «— Ed i 45 mila fr., domandò Caderousse con voce rauca, vediamo, ove sono? — Eccoli, disse il gioielliere. — E contò sulla tavola 15 mila fr. in oro, e 30 mila in biglietti di banca. — Aspettate che accenda una lucerna, disse Carconta, non ci si vede più, e si potrebbe sbagliare. — In fatto durante questa discussione era sopraggiunta la notte, e colla notte l’uragano che minacciava da più di una mezz’ora. Si sentiva in lontano rumoreggiare sordamente il tuono; ma nè il gioielliere, nè Carconta, nè Caderousse sembravano occuparsene, tanto tutti e tre erano ossessi dal demonio del guadagno. «Io stesso provai una strana fascinazione alla vista di quell’oro, e di quei biglietti. Mi sembrava di fare un sogno; e come succede nei sogni, mi sentiva inchiodato al mio posto. Caderousse contò e ricontò l’oro e i biglietti: quindi li passò alla moglie, che li contò e ricontò anch’essa. In questo mentre il gioielliere faceva specchiare il lume sul diamante, che faceva luccicare dei lampi da far dimenticare quelli ch’erano precursori dell’uragano, e che già cominciavano ad infiammare le finestre. — Ebbene! c’è il vostro conto? domandò il gioielliere. — Sì, disse Caderousse, dammi il portafogli, e trovami un sacchetto, Carconta. «Carconta aprì un armadio, e ritornò portando un vecchio portafogli di cuoio, dal quale furono tolte alcune lettere sudice, ed in loro vece furono messi i biglietti, ed un sacchetto nel quale erano racchiusi i due o tre scudi da sei lire, che probabilmente formavano tutta la fortuna della miserabile famiglia. — Eh! disse Caderousse, quantunque mi abbiate alleggerito forse di un 10 mila fr., volete cenare con noi? ve l’offro di buon cuore. «— Grazie, disse il gioielliere; deve essersi fatto tardi, e bisogna che ritorni a Beaucaire, perchè mia moglie starebbe in pena. — E cavò l’orologio. — Per bacco! gridò egli, quanto prima le nove, non sarò a Beaucaire prima della mezza notte. Addio miei piccoli figli; se per caso ritornassero degli abbati Busoni, pensate a me. «— Fra dieci giorni non sarete più a Beaucaire, disse Caderousse, poichè la fiera finisce nella settimana ventura. «— No, ma questo non importa, scrivetemi a Parigi, sig. Giovanni, Palazzo Reale, galleria delle pietre, n. 45: farò il viaggio espressamente se ne vale la pena. «Uno scroscio di fulmine rintronò, accompagnato da un lampo così vivo, che tolse quasi il chiarore della lucerna. «— Oh! oh! disse Caderousse, e volete partire con questo tempo? — Oh! non ho paura del tuono, disse il gioielliere. «— E dei ladri? domandò Carconta: la strada non è mai molto sicura in tempo di fiera. «— Oh! quanto ai ladri, ecco ciò che tengo per loro. «E cavò di saccoccia un paio di piccole pistole cariche fino alla bocca. — Ecco, diss’egli, dei cani che abbaiano e mordono nello stesso tempo: queste sono pei due primi che avessero brama del vostro diamante, padre Caderousse. «Caderousse e sua moglie si ricambiarono una cupa occhiata: sembrava che entrambi avessero contemporaneamente qualche terribile pensiero. — Allora, buon viaggio, disse Caderousse. — Grazie, rispose il gioielliere. — E preso il bastone che aveva posato contro un vecchio baule uscì. Nell’atto che aprì la porta entrò un colpo di vento, che per poco non ispense la lucerna. «— Oh! diss’egli, va a farsi un bel tempo, ed io ho due leghe da camminare con questo tempo! «— Restate, disse Caderousse, dormirete qui. «— Sì, restate, disse Carconta con voce mal ferma; avremo per voi tutte le cure. «— No, bisogna ch’io vada a dormire a Beaucaire. Addio. «Caderousse andò lentamente fino sul limitare della porta. «— Non si distingue nè cielo nè terra, disse il gioielliere già fuori di casa. Debbo prendere a destra o a sinistra? «— A destra, disse Caderousse; non v’è da sbagliare, la strada è fiancheggiata d’alberi da ambe le parti. «— Va bene, vi sono, disse la voce quasi estinta in lontano. «— Chiudi dunque la porta, disse Carconta: a me non piacciono le porte aperte quando tuona. «— E quando v’è del danaro in casa, n’è vero? rispose Caderousse, dando un doppio giro alla serratura. — Egli rientrò, andò all’armadio, ne cavò il sacchetto ed il portafogli, ed entrambi si misero a contare per la terza volta l’oro ed i biglietti. «Io non ho mai veduto una espressione simile a quella di quei due visi, di cui una debole lampada rischiarava la cupidigia. La donna particolarmente era schifosa: il tremito febbrile che abitualmente l’animava, s’era raddoppiato. Il suo viso di pallido era divenuto livido; gli occhi incavati fiammeggiavano. — Perchè dunque, domandò ella, gli hai offerto di dormire qui? — Ma, rispose Caderousse con un tremito, perchè... perchè non avesse la pena di ritornare a Beaucaire. — Ah! disse la donna con una espressione impossibile a ripetersi, credeva che fosse per un altro fine. «— Donna, donna! gridò Caderousse, perchè hai simili idee? e perchè, avendole, non le riserbi tutte per te? «— È lo stesso, disse Carconta dopo un momento di silenzio: tu non sei un uomo. — Come sarebbe a dire? disse Caderousse. — Se fossi stato un uomo, egli non sarebbe uscito di qui. — Donna! — Oppure non arriverebbe a Beaucaire. «— Donna! — La strada fa un gomito, egli è obbligato di seguire la strada, mentre lungo il canale s’accorcia. «— Donna! Tu offendi il buon Dio... Tieni, ascolta... «In fatto s’intese uno spaventoso tuono, nello stesso tempo un lampo rossastro infiammò tutta la sala, mentre il fulmine, decrescendo lentamente, sembrava allontanarsi di mala voglia dalla casa maledetta. — Gesù! disse Carconta segnandosi. — Nello stesso tempo, ed in mezzo a quel silenzio di terrore che ordinariamente succede allo scroscio d’un fulmine, s’intese battere alla porta. Caderousse e sua moglie fremettero, e si guardarono spaventati. — Chi va là? gridò Caderousse alzandosi, e riunendo in un sol monte l’oro ed i biglietti ch’erano sparsi per la tavola, e che coprì con le mani. — Son io, disse una voce. — E chi siete? «— Eh! per bacco! Giovanni il gioielliere! — Ebbene! che dici ora? riprese Carconta con un terribile sorriso, che io offendeva il cielo? ecco che il cielo pietoso ce lo rimanda! «Caderousse ricadde pallido ed anelante sulla sedia. «Carconta, al contrario si alzò, e andò con passo fermo ad aprire la porta. — Entrate dunque, caro sig. Giovanni. «— In fede mia, disse il gioielliere irrigato dalla pioggia, pare che il diavolo non voglia ch’io ritorni a Beaucaire questa sera. Le più corte pazzie sono le migliori, mio caro Caderousse; mi avete offerto ospitalità, l’accetto, e vengo a dormire da voi. — Caderousse balbettò qualche parola, asciugandosi il sudore che gli grondava dalla fronte. «Carconta richiuse la porta a doppio giro di chiave, tosto che fu entrato il gioielliere. XLIV. — LA PIOGGIA DI SANGUE. «Il gioielliere entrando girò uno sguardo investigatore intorno a sè; ma nulla poteva fargli nascere sospetti, se non ne aveva, e nulla confermarglieli quando ne avesse avuti. «Caderousse copriva sempre con ambo le mani i biglietti, e l’oro. Carconta sorrideva al suo ospite il più graziosamente che poteva. — Ah! ah! disse il gioielliere, sembra che abbiate paura di non aver ricevuto il conto vostro: che ritornavate a contare il vostro tesoro prima della mia partenza? «— No, disse Caderousse, ma l’avvenimento che ce ne mette in possesso è così inatteso, che non vi possiamo ancora aggiustar fede, e quando non abbiamo la prova materiale sotto gli occhi, ci pare sempre di sognare. — Il gioielliere sorrise. — Avete viaggiatori nel vostro albergo? domandò egli. — No, rispose Caderousse, non diamo da dormire; siamo troppo vicini alla città e nessuno vi si ferma. «— Allora vi procuro un grandissimo incomodo? «— Incomodarci voi! mio caro signore, disse con grazia Carconta, niente affatto; ve lo giuro. — Vediamo, dove mi metterete? — Nella camera in alto. — Ma quella non è la vostra camera? — Oh! non importa; abbiamo un secondo letto nella camera di fianco a questa. — Caderousse guardò con meraviglia la moglie. Il gioielliere canterellò una piccola canzonetta mentre si riscaldava il dorso ad una fascina che Carconta aveva accesa al caminetto per riscaldare il suo ospite. In questo mentre ella portava sopra un angolo della tavola, su cui aveva messa una salvietta, i magri avanzi di un pranzo al quale unì due o tre uova fresche. «Caderousse aveva nuovamente racchiusi i biglietti nel portafogli, l’oro nel sacchetto, ed il tutto nell’armadio. Egli passeggiava in lungo ed in largo, cupo e meditabondo, alzando a quando a quando la testa sul gioielliere, che stava fumando davanti al caminetto, e che a seconda che si asciugava da un lato, si voltava dall’altro. — Ecco qua, disse Carconta mettendo una bottiglia sulla tavola, quando vorrete cenare, tutto è all’ordine. — E voi? domandò Giovanni. «— Io non cenerò, rispose Caderousse. — Abbiamo pranzato tardissimo, si affrettò a dire Carconta. — Cenerò dunque solo? disse il gioielliere. — Vi serviremo, disse Carconta con una premura, che non le era naturale, neppure cogli ospiti del suo paese. — Di tempo in tempo Caderousse lanciava su lei degli sguardi rapidi come il baleno. L’uragano continuava. — Sentite? sentite? disse Carconta; avete fatto molto bene, in fede mia, a ritornare. — Ciò non impedisce che se il temporale diminuisce durante la mia cena, io ritorni a mettermi in via. — Spira maestrale, disse Caderousse scuotendo la testa, avremo questo tempo fino a domani. E dicendo ciò, mandò un sospiro. — In fede mia, disse il gioielliere mettendosi a tavola, tanto peggio per quelli che sono di fuori. — Sì, soggiunse Carconta, essi passeranno una cattiva notte. — Il gioielliere cominciò la cena, e la Carconta continuò ad avere per lui tutte quelle piccole premure di un’attiva albergatrice; essa d’ordinario così dispettosa e strana era divenuta il modello della pulitezza e della previsione. Se il gioielliere l’avesse conosciuta per lo innanzi, si sarebbe certamente meravigliato di un sì gran cangiamento, e ciò non avrebbe mancato di inspirargli qualche sospetto. In quanto a Caderousse, egli non diceva una parola; continuava la sua passeggiata, e sembrava perfino esitasse a guardare l’ospite. Quando la cena fu terminata Caderousse andò egli stesso ad aprire la porta. — Credo che l’uragano si calmi, diss’egli. — Ma nello stesso momento, come per dargli una mentita, un terribile scroscio di tuono fece tremare la casa, e l’impeto del vento pervenne a spegnere la lucerna. Caderousse richiuse la porta, e sua moglie accese una candela al fuoco che stava estinguendosi. — Prendete, diss’ella al gioielliere, dovete essere stanco, ho messo delle lenzuola di bucato al letto, salite per riposarvi, e dormite bene. — Giovanni si fermò ancora un momento per assicurarsi che il temporale non si calmava, e quando fu fatto certo che il tuono e la pioggia non facevano che aumentare, augurò la buona notte ai suoi albergatori, e salì la scala. «Egli passava al di sopra della mia testa, e sentiva ciascuno scalino scricchiolare sotto i suoi passi. «Carconta lo seguì con occhio avido, mentre che Caderousse gli voltò le spalle, e non guardò neppure da quella parte. «Tutti questi particolari che mi sono poi ritornati in memoria dopo quel tempo, non mi fecero in allora alcuna impressione mentre avvenivano sotto i miei occhi, e non v’era nulla di straordinario in ciò che accadeva, ed eccettuata la storia del diamante che mi sembrava un poco inverosimile, tutto andava in regola. Così, essendo spossato dalla fatica, e contando di approfittare del primo riposo che la tempesta avrebbe accordato agli elementi, risolvetti di dormire lì alcune ore, e di allontanarmi nel mezzo della notte. Io sentiva nella camera superiore che anche il gioielliere faceva tutti i preparativi per passare la notte il meglio che potesse. Ben presto il letto gemè sotto il peso di lui: egli era andato a riposare. Sentiva i miei occhi chiudersi mio malgrado, e siccome non aveva concepito alcun sospetto, così non misi alcun ostacolo al mio sonno. Gettai un ultimo sguardo nell’interno della cucina. Caderousse era assiso di fianco ad una lunga tavola, sur una di quelle panche di legno, che negli alberghi dei villaggi tengono le veci di sedie. Egli mi voltava le spalle, sì che non potei vederne i lineamenti; ma fosse ancor stato nella situazione contraria, nulla avrei potuto vedere, poichè teneva il viso sepolto nelle mani. «La Carconta lo guardò per qualche tempo, poi si strinse nelle spalle e andò a sedersi vicino a lui. «In questo mentre la fiamma morente si appiccò ad un avanzo di legno ch’ella aveva dimenticato; una luce un poco più viva illuminò l’interno. Carconta teneva gli occhi fissi sul marito, e siccome questi rimaneva sempre nella stessa posizione, la vidi stendere verso di lui la scarna mano, e toccarlo in fronte. Caderousse fremette. Mi sembrò che la donna movesse le labbra, ma sia ch’ella parlasse troppo piano, sia che i miei sensi fossero già presi dal sonno, il rumore della sua parola non giunse fino a me. Io non ci vedeva neppur più, che come a traverso una nebbia, e con quella incertezza annunziatrice del sonno, nella quale si crede di cominciare a sognare. Finalmente i miei occhi si chiusero, e perdei la conoscenza di me stesso. «Io era nel più profondo del mio sonno, quando fui svegliato da un colpo di pistola seguito da un grido terribile. Alcuni passi barcollanti rumoreggiarono sul piancito della camera, ed una massa inerte venne a cadere dalla scala precisamente sopra la mia testa. «Io non era ancora ben padrone di me. Intesi dei gemiti, poi delle grida soffocate come quelle che accompagnano una lotta. Un ultimo grido, che terminò in un gemito prolungato, venne a togliermi del tutto dal mio letargo. Mi sollevai sopra un braccio, aprii gli occhi, che non videro niente nelle tenebre, e portai la mano alla fronte, sulla quale mi pareva che cadesse, dalle fenditure della scala, una pioggia tiepida ed abbondante. Il più profondo silenzio era succeduto a questo spaventoso rumore; intesi il passo di un uomo che camminava al di sopra; questi passi fecero scricchiolare la scala; l’uomo discese nella camera inferiore, si avvicinò al caminetto, ed accese una candela. Era Caderousse; egli aveva il viso pallido, e la camicia insanguinata. Accesa la candela risalì rapidamente la scala, e intesi di nuovo i suoi passi rapidi ed inquieti. Un momento dopo ritornò a discendere; teneva in una mano l’astuccio, e si assicurò che entro v’era ancora il diamante. Cercò un momento in quale delle sue saccocce doveva metterlo; quindi, senza dubbio, non ritenendo la saccoccia per un nascondiglio abbastanza sicuro, lo avvolse nel fazzoletto rosso, e se lo aggirò intorno al collo. Poi corse all’armadio, ne cavò i biglietti e l’oro e mise gli uni nelle tasche dei suoi calzoni, l’altro nella saccoccia del suo abito, prese due o tre camice, si slanciò verso la porta, e disparve nell’oscurità. Allora tutto venne per me chiaro e manifesto; mi figurai l’accaduto, come se fossi stato il vero reo. Mi sembrò sentire dei gemiti: il gioielliere poteva non essere ancora morto; forse poteva riparare, apportandogli soccorso, una parte di quel male, che non aveva fatto, ma che aveva lasciato fare. Appoggiai le spalle contro l’assito di quella specie di tamburo che mi separava dalla sala inferiore, l’assito cedè, ed io mi ritrovai in casa. Corsi a prendere la candela, e mi slanciai verso la scala; un corpo la sbarrava di traverso, era il cadavere della Carconta. Il colpo di pistola che aveva inteso era stato scaricato per lei, aveva la gola trapassata da parte a parte, ed oltre a questa doppia apertura che gettava a rivi, vomitava il sangue dalla bocca. Ella era morta del tutto. Scavalcai il suo corpo, e passai. La camera offriva l’aspetto del più spaventoso disordine. Due o tre mobili erano rovesciati; il lenzuolo al quale si era aggrappato il disgraziato gioielliere era steso per la camera; egli stesso giaceva per terra, colla testa appoggiata contro il muro, nuotando in un mare di sangue, che scaturiva da tre larghe ferite riportate sul petto. Nella quarta era rimasto un lungo coltello da cucina di cui non si vedeva che il manico. Inciampai nella seconda pistola, che non aveva preso fuoco, perchè forse la polvere era bagnata. Mi avvicinai al gioielliere; effettivamente egli non era morto; al rumore che feci, al movimento particolarmente del piancito, aprì gli occhi stravolti, giunse a fissarli un momento su me, agitò le labbra come se avesse voluto parlare, e spirò. Questo truce spettacolo mi aveva reso quasi insensato. Dal momento che non poteva più arrecare soccorso ad alcuno, io non provai che un solo bisogno, quello cioè di fuggire. Mi precipitai dalla scala, cacciandomi le mani nei capelli, e mandando un ruggito di terrore. Nella sala terrena vi erano 5, o 6 doganieri, e due o tre gendarmi. Un intero picchetto d’armati. S’impadronirono di me; io non tentai nemmeno di fare resistenza, non era più padrone dei miei sensi. Tentai parlare e non emisi che qualche grido inarticolato. Vidi che i doganieri ed i gendarmi mi mostravano a dito; volsi gli occhi su me stesso, e m’accorsi allora ch’era tutto pieno di sangue. Quella pioggia tiepida, che avevo sentito cadermi sopra dalle fenditure dei gradini della scala, era il sangue di Carconta. Mostrai col dito il luogo ov’era nascosto. «— Che vuoi dire? domandò un gendarme. «Un doganiere andò a vedere. «— Vuol dire ch’egli è passato di là, rispose egli. — E mostrò l’apertura per la quale effettivamente io era passato. Allora capii che venivo preso per l’assassino. Ricuperai la voce, e ritrovai la forza; mi sciolsi dalle mani dei due uomini che mi tenevano, gridando: — Non sono stato io! non sono stato io! «Due gendarmi mi presero di mira colla carabina. «— Se fai un movimento, mi dissero, sei morto. «— Ma, gridai, se vi ripeto che non sono stato io. «— Tu racconterai la tua storiella ai giudici di Nimes, risposero essi. Frattanto vieni con noi; e se abbiamo un buon consiglio a darti, si è di non fare resistenza. — Questa non era la mia intenzione, io era spossato dalla sorpresa e dal terrore. Mi furono messe le manette, fui attaccato alla coda di un cavallo, e fui condotto a Nimes. Era seguito da un doganiere che mi aveva perduto di vista nelle vicinanze della casa, e pensando che avrei passata ivi tutta la notte andò ad avvisare i compagni, che giunsero in tempo per sentire di lontano il colpo di pistola, e per cogliere me, entrando, in mezzo a tante prove di reità, sì che capii benissimo quanto mi sarebbe costato a poter far conoscere la mia innocenza. Non aveva che un sol punto d’appoggio; e la mia prima domanda che feci al _giudice d’istruzione_ fu una preghiera perchè fosse ricercato un certo abate Busoni, che in quel giorno si era fermato all’albergo del _Ponte di Gard_. Se Caderousse aveva inventata una storia, se quest’abate non esisteva, era evidentemente perduto, a meno che non fosse arrestato Caderousse, e confessasse tutto. «Scorsero due mesi, durante i quali, debbo dirlo a lode dei miei giudici, furono fatte tutte le possibili ricerche per ritrovare quello che lor domandava. Aveva già perduta ogni speranza, Caderousse non era stato arrestato. Io era vicino ad essere giudicato nella prima seduta, allorchè li 8 settembre, cioè tre mesi e 5 giorni dopo l’avvenimento, l’abate Busoni, sul quale non sperava più, si presentò alle carceri, dicendo che sapeva che un prigioniero desiderava parlargli. Egli aveva saputo, diceva, la cosa a Marsiglia, e si affrettava a corrispondere al mio desiderio. Capirete con quale ardore lo ricevetti; gli raccontai tutto ciò di cui era stato testimonio, cominciai con esitanza la storia del diamante; contro ogni mia aspettativa, essa era vera punto per punto, e contro ogni mia aspettativa ancora egli aggiustò un’intera credenza a tutto ciò che gli dissi. Allora convinto dalla sua dolce carità, ravvisando in lui una profonda conoscenza dei costumi del mio paese, e pensando che la parola del perdono del solo delitto che aveva commesso in mia vita, poteva forse uscire dalle sua labbra tanto caritatevoli, gli raccontai, sotto il suggello di confessione, l’avventura d’Auteuil con tutti i suoi particolari. Ciò che aveva fatto per attraenza ottenne il medesimo resultato che se lo avessi fatto per secondo fine. La confessione di questo primo assassinio, che niente mi costringeva a confessare, gli provò ch’io non aveva commesso il secondo: egli mi lasciò, dicendomi di sperare e promettendomi di fare ciò che sarebbe stato in suo potere per convincere i giudici della mia innocenza. «Ebbi di fatto la prova ch’egli si era occupato di me, quando vidi addolcirsi i trattamenti che riceveva nella mia prigione, e seppi che veniva differito il mio giudizio alle sedute che sarebbero venute dopo quelle che già si erano radunate. In quest’intervallo la Provvidenza volle che Caderousse fosse arrestato all’estero, e ricondotto in Francia. Egli confessò tutto, aggravando la moglie della premeditazione, e particolarmente della istigazione: e fu condannato alla galera in vita, ed io fui messo in libertà. — E fu allora, disse Monte-Cristo, che vi presentaste a me colla lettera dell’abate Busoni. — Sì, eccellenza, egli aveva preso per me un particolare interessamento. — Il vostro stato di contrabbandiere vi perderà, mi diss’egli, se voi uscite di qui, lasciatelo. «— Ma, padre mio, gli chiesi, come volete che faccia a vivere e a far vivere la mia povera cognata? «— Uno dei miei penitenti, mi disse egli, mi ha in molta stima, e mi ha incaricato di trovargli un uomo di confidenza. Volete essere quest’uomo? vi dirigerò a lui. «— Oh! padre mio, gridai, quanta bontà! «— Ma mi giurate che non avrò mai a pentirmene? «Stesi la mano per fare il mio giuramento. «— È inutile, diss’egli, conosco ed amo i Corsi: ecco la mia raccomandazione. — E scrisse le poche linee ch’io vi portai, e per le quali V. E. ebbe la bontà di prendermi al suo servigio. Ora domando con orgoglio a V. E.: ha ella mai avuto a lamentarsi di me? — No, rispose il conte, e lo dico con piacere, siete un buon servitore, quantunque manchiate di confidenza. — Io signor conte! — Sì, voi. E come va: avete una cognata ed un figlio adottivo, e non mi avete mai parlato di loro? — Ahimè! eccellenza, questo è quanto mi rimane a dirvi, ed è la parte più trista della mia vita. Io partii per la Corsica: aveva fretta, come potete bene immaginarvi, d’andare a consolare quella ch’io chiamava mia sorella, ma quando giunsi a Rogliano, trovai la casa in lutto. Era accaduta una scena orribile, e di cui i vicini conservavano ancora memoria! La mia povera sorella, giusta quanto io le aveva consigliato, resistè alle pretensioni di Benedetto, che ad ogni momento voleva tutto il danaro di casa. Una mattina ei la minacciò, e poi disparve per tutto il giorno. Ella pianse, quella povera Assunta aveva pel miserabile una tenerezza materna. Giunse la sera, e lo aspettò senza andare in letto. Allorchè alle undici entrò con due dei suoi amici, compagni di tutte le sue follie, ella gli stese le braccia ma questi s’impossessarono di lei, ed uno dei tre, io temo che non sia stato quel diabolico fanciullo, l’uno dei tre gridò: «— Diamole la tortura, bisognerà bene allora che confessi ove tiene nascosto il suo danaro. — Il vicino Wasilio per l’appunto era a Bastia, e sua moglie soltanto era rimasta in casa. Nessuno eccettuata lei, poteva vedere o sentire ciò che accadeva in casa mia. Due di loro tenevano ferma la povera Assunta, che non potendo credere alla possibilità di un simile eccesso, sorrideva a quelli che ne divenivano i carnefici, il terzo andò a barricare le porte e le finestre, indi ritornò, e tutti e tre riuniti, soffocando le grida che il terrore le strappava in faccia a questi preparativi che divenivano sempre più seri, avvicinarono i piedi di Assunta ad un braciere sul quale essi contavano per farle confessare dove era stato nascosto il piccolo tesoro; ma nella lotta il fuoco le si appiccò alle vesti: lasciarono allora la paziente per non essere bruciati anche essi. Fra le fiamme ella corse alla porta, ma era chiusa, si slanciò verso le finestre, ma erano barricate. Allora la vicina intese dei gridi orribili; era Assunta che chiamava soccorso. Ben presto la sua voce fu soffocata, e le grida divennero gemiti; la dimane, dopo una notte di terrore, e d’angoscia, quando la moglie di Wasilio si avventurò ad uscir di casa, e fare aprire la porta dal giudice, fu ritrovata la povera Assunta per metà bruciata, ma che respirava ancora; gli armadi sforzati, ed il piccolo tesoro sparito. Benedetto aveva lasciato Rogliano per non ritornarvi più, e da quel giorno non l’ho più nè veduto, nè ho inteso parlare di lui. Dopo queste triste notizie, venni da V. E. Io non poteva più parlarvi di Benedetto, perchè era sparito, nè di Assunta perchè era morta. — E che avete pensato di ciò? domandò Monte-Cristo. — Che questo era stato il castigo del delitto che io aveva commesso, rispose Bertuccio. Ah! questi Villefort, sono una razza maledetta! — Lo credo anch’io, mormorò il conte con accento lugubre. — Ed ora, n’è vero, riprese Bertuccio, V. E. comprenderà, che questa casa che d’allora non avevo più veduta, che questo giardino ove mi sono ritrovato d’improvviso, che questo luogo ove ho ammazzato un uomo, devono avermi procurato triste commozioni, delle quali avete voluto conoscere l’origine; poi perchè in fine non sono sicuro che davanti a me, là, ai miei piedi, Villefort non sia stato sepolto nella fossa ch’egli aveva scavata per suo figlio. — Infatto tutto è possibile, disse Monte-Cristo levandosi dal banco su cui era assiso; ed anche, soggiunse a bassa voce, che il procuratore del re non sia morto. L’abate Busoni ha fatto bene ad indirizzarvi a me. E voi parimente avete fatto bene a raccontarmi la vostra storia, perchè non avrò più cattivi pensieri a vostro riguardo. In quanto a codesto mal chiamato Benedetto, non avete mai cercato di sapere ciò che ne sia avvenuto? — Giammai. S’io avessi saputo ov’egli era, invece d’andare a lui, sarei fuggito come davanti ad un mostro. No, fortunatamente, non ne ho inteso mai parlare da chicchesia al mondo; e spero che sia morto. — Non lo sperate, Bertuccio, disse il conte; i cattivi non muoiono così, poichè sembra che Dio li prenda sotto la sua custodia per farne gli strumenti della sua giustizia. — Sia, disse Bertuccio. Tutto ciò però che io domando al cielo si è che non lo abbia mai a rivedere. Ora, continuò l’intendente abbassando la testa, voi sapete tutto, sig. conte, siete il mio giudice quaggiù, non vorrete dirmi qualche parola di consolazione? — In fatto avete ragione, ed io posso dirvi ciò che vi direbbe l’abate Busoni. Quegli che avete colpito, meritava un castigo per ciò che aveva fatto a voi e fors’anche a qualcun altro. Benedetto, s’egli vive, servirà a qualche giustizia divina, poi a sua volta sarà anch’esso punito. In quanto a voi, non avete che un rimprovero a farvi: chiedetevi perchè, avendo salvato questo fanciullo dalla morte non lo avete reso a sua madre; là sta il delitto, Bertuccio. — Sì signore, là sta il mio delitto, ed il vero delitto, perchè in questo sono stato un vile. Una volta che avevo richiamato alla vita il fanciullo, non avevo più che una sola cosa da fare, voi lo diceste, era di farlo sapere a sua madre. Ma per conseguir ciò, mi necessitava fare delle ricerche, attirare l’attenzione, e forse scoprirmi; non volli morire, era attaccato alla vita pel sostentamento di mia sorella; per l’amore di sè stesso, innato in ciascuno, di rimaner sani e liberi nelle nostre vendette; quindi finalmente, era attaccato alla vita anche per l’amore stesso della vita. Oh! non sono un bravo, come lo era mio fratello! — E Bertuccio si nascose il viso fra le mani. Monte-Cristo fissò su lui un lungo e indefinito sguardo, indi dopo un momento di silenzio reso ancora più solenne dall’ora e dal luogo. — Per terminare degnamente questa conversazione che sarà l’ultima su tali avventure, Bertuccio, disse il conte, ritenete bene le mie parole, le ho spesso intese pronunciare dallo stesso abate Busoni. A tutti i mali vi sono due rimedii, il tempo ed il silenzio. Ora, Bertuccio, lasciatemi passeggiare un momento in questo giardino; ciò che porta a voi una emozione ripugnante, autore di questa orribile scena, sarà per me una sensazione quasi dolce, che darà un doppio prezzo a questa proprietà. Gli alberi non piacciono se non perchè danno ombra, e l’ombra stessa non piace se non perchè è piena di sogni e di visioni. Ecco che compro un giardino, credendo d’acquistare un semplice recinto circondato di muri, e d’improvviso esso si cambia in un giardino pieno di fantasmi non descritti nel contratto. Io amo i fantasmi, e non ho mai inteso dire che i morti abbiano in seimila anni, fatto tanto male, quanto ne fanno i vivi in un solo giorno. Rientrate dunque, Bertuccio, e andate a dormire in pace. Bertuccio s’inchinò profondamente davanti al conte, e si allontanò mandando un sospiro. Monte-Cristo rimase solo; e facendo quattro passi in avanti, mormorò: — Qui, vicino a questa pianta la fossa in cui fu deposto il fanciullo; laggiù la piccola porta per cui si entrava nel giardino; in quest’angolo la scala segreta che conduce alla camera da letto. Credo di non aver bisogno di descrivere tutto ciò nel mio taccuino, perchè ecco qua, davanti ai miei occhi, intorno a me, sotto i miei piedi, il piano in rilievo; il piano vivente. — Ed il conte dopo un ultimo giro in quel giardino andò a trovare la sua carrozza. Bertuccio che lo vide astratto, s’assise presso il cocchiere. La carrozza riprese la strada di Parigi. La sera stessa, al suo ritorno nella casa dei Campi-Elisi, il conte di Monte-Cristo visitò tutta l’abitazione come avrebbe potuto fare hun uomo a cui essa fosse stata famigliare da molti anni; neppure una volta, sebbene andasse pel primo, aprì una porta per un’altra, o prese un corridore o una scala che non lo conducesse direttamente nel luogo ove aveva stabilito d’andare. Alì lo accompagnava in questa visita notturna. Il conte dette a Bertuccio molti ordini per l’abbellimento e la nuova distribuzione degli appartamenti; e cavando l’orologio disse all’attento moro: — Sono le 11 e mezzo, Haydée non può tardare a giungere. Sono state avvertite le cameriere francesi? Alì stese la mano verso l’appartamento destinato alla bella Greca (talmente isolato, che nascondendo la porta dietro la tappezzeria, la casa poteva essere visitata per intero, senza che alcuno avesse potuto sospettare esservi un salotto e due camere abitate), mostrò il numero tre colla mano sinistra, e su questa mano, messa a piatto, appoggiò la testa, e chiuse gli occhi a guisa di dormiente. — Ah! fece Monte-Cristo, abituato a questo linguaggio, sono tre che aspettano nella camera da letto, non è così? — Sì, fece Alì, agitando la testa d’alto in basso. — La signora sarà stanca questa sera, e senza dubbio vorrà dormire, continuò Monte-Cristo, che nessuno la faccia parlare; le cameriere francesi devono soltanto salutare la loro nuova padrona e ritirarsi; voi sorveglierete perchè la cameriera greca non abbia comunicazione colle cameriere francesi. — Alì s’inchinò. Ben presto fu inteso chiamare il portinaro; il cancello s’aprì, una carrozza percorse il viale e si fermò davanti alla scalinata. Il conte discese; la portiera era già aperta, egli stese la mano ad una giovane avvolta in un manto di seta verde ricamato in oro che la copriva tutta, fin dalla testa. Allora, preceduti da Alì che portava una torcia col profumo di rose, la giovane fu condotta al suo appartamento, quindi il conte si ritirò nel padiglione che erasi riserbato. Mezz’ora dopo mezza notte tutti i lumi erano spenti nella casa, sarebbesi potuto credere che tutti dormissero. XLV. — IL CREDITO ILLIMITATO. La dimane verso le due dopo mezzo giorno, una carrozza calesse tirata da due magnifici cavalli inglesi, si fermò davanti alla porta di Monte-Cristo; un uomo vestito con un abito blu, con bottoni di seta dello stesso colore, un gilè bianco sormontato da una enorme catena d’oro, con pantaloni neri, acconciato con capelli talmente neri e che discendevano tanto in basso sulle sopracciglia, da dubitare che non fossero naturali, tanto erano poco in armonia colle rughe sottoposte che non giungevano a nascondere; un uomo finalmente di 50 a 55 anni, e che cercava di dimostrarne 40, cavò la testa del finestrino della carrozza, sullo sportello della quale era dipinta una corona di barone, e mandò il _groom_ a dimandare al portinaro, se il conte di Monte-Cristo era in casa. Mentre aspettava, quest’uomo osservava con un’attenzione così minuta, che quasi era impertinente, l’esterno della casa, quanto poteva distinguersi dal giardino, e la livrea di quei domestici che si potevano vedere andare e venire. L’occhio n’era vivace, ma piuttosto furbo che spiritoso. Le labbra erano così sottili che in vece di sporgere infuori si ripiegavano in dentro. Finalmente la larghezza e la protuberanza degli zigomi, segno infallibile d’astuzia, la depressione della fronte, il rigonfiamento dell’occipite che sorpassava un paio d’orecchie che non erano punto aristocratiche, contribuivano a dare per ciascun fisonomista un’indole ributtante alla fisonomia di questo personaggio, che molto si raccomandava agli occhi del volgo pei suoi magnifici cavalli, per l’enorme diamante che portava alla camicia, e pel nastro rosso che si estendeva da un capo all’altro della bottoniera dell’abito. Il _groom_ bussò all’invetriata del portinaro, domandando: — Non è qui che abita il conte di Monte-Cristo? — È qui che abita S. E., rispose il portinaro, ma... E consultò con uno sguardo Alì, che fece un segno negativo. — Ma? domandò il _groom_. — S. E. non è visibile, rispose il portinaro. — In questo caso, ecco il biglietto di visita del mio padrone, il barone Danglars: voi lo consegnerete al conte di Monte-Cristo, e gli direte che andando alla _Camera_, il mio padrone è passato di qui per avere l’onore di vederlo. — Io non parlo a S. E., rispose il portinaro, però il cameriere farà l’ambasciata. — Il _groom_ ritornò alla carrozza. — Ebbene? domandò Danglars. — Il ragazzo, abbastanza svergognato dalla lezione che aveva ricevuta, ripetè al padrone la risposta che gli aveva data il portinaro. — Oh! fece questi, è dunque un principe questo signore che viene detto eccellenza, e di cui il solo cameriere abbia il diritto di parlargli? Non importa, poichè ha un credito su me, bisogna bene che lo veda quando avrà bisogno di danaro. — E Danglars si rigettò nel fondo della carrozza, gridando al cocchiere in modo che si sarebbe sentito dall’altra parte della strada: — Alla _Camera_ dei Deputati! Fra una griglia del padiglione, Monte-Cristo, avvisato in tempo, aveva veduto il barone, e lo aveva osservato, coll’aiuto di un eccellente occhialino, con non minore attenzione di quella che Danglars stesso aveva mossa ad analizzare la casa, il giardino, e le livree. — Davvero, diss’egli con un gesto di disgusto e facendo rientrare le lenti dell’occhialino nel loro manico d’avorio; Ah! davvero che quest’uomo è una laida creatura. Come mai, dalla prima volta che lo vedono, non riconoscono il serpente dalla fronte appiattita, l’avvoltoio dal cranio rotondeggiante, lo sparviere dal becco stracciante? Alì, gridò egli: indi battè un colpo sul campanello di rame. — Alì comparve. — Chiamate Bertuccio, diss’egli. Nello stesso momento entrò Bertuccio. — V. E. mi faceva chiamare? disse l’intendente. — Sì, signore, disse il conte. Avete veduti i cavalli che si sono fermati davanti alla mia porta? — Certamente, eccellenza; sono ancor molto belli. — E come accade dunque, disse Monte-Cristo aggrottando il sopracciglio, che mentre ho ordinato i due più bei cavalli che fossero a Parigi, vi siano ancora dei cavalli più belli dei miei, che non siano nelle mie scuderie? — All’aggrottarsi delle sopracciglia, ed al tuono severo di quella voce, Alì abbassò la testa ed impallidì. — Non è tua colpa, buon Alì, disse in arabo il conte con una dolcezza che non sarebbesi creduto poterla incontrare nè nella sua voce, nè sul suo viso, tu non t’intendi di cavalli inglesi. — La serenità ricomparve sui lineamenti d’Alì. — Signor conte, disse Bertuccio, i cavalli di cui mi parlate non erano da vendersi. Monte-Cristo si strinse nelle spalle: — Sappiate, signor intendente, diss’egli, che tutto è sempre da vendersi per chi sa fissare il prezzo. — Il sig. Danglars li ha pagati 16 mila fr. sig. conte. — Ebbene, bisognava offrirgliene 32 mila; egli è un banchiere, ed un banchiere non lascia mai sfuggirsi l’occasione di raddoppiare il suo capitale. — Il sig. conte parla sul serio? domandò Bertuccio. Monte-Cristo guardò l’intendente come un uomo meravigliato che si fosse ardito fargli una simile interrogazione. — Questa sera, diss’egli, ho una visita da restituire, voglio che quei due cavalli siano attaccati alla mia carrozza con finimenti nuovi. — Bertuccio si ritirò salutando; vicino alla porta si fermò: — A che ora, diss’egli, V. E. conta di fare la visita? — Alle cinque, disse Monte-Cristo. — Farò osservare a V. E. che sono già le due, si arrischiò a dire l’intendente. — Lo so, si contentò di rispondere Monte-Cristo. Poi rivolgendosi ad Alì. — Fate passare tutti i cavalli davanti alla signora, diss’egli, e che ella scelga la pariglia che più le piace; e che mi faccia dire se vuole pranzar meco; in questo caso che sia apparecchiato nell’appartamento di lei. Andate, discendendo mandatemi il cameriere. — Non appena uscito Alì, entrò il cameriere. — Battistino, disse il conte, è ormai un anno che voi siete al mio servizio; questo è il tempo di esperimento che d’ordinario fisso alla mia servitù: son contento di voi. — Battistino s’inchinò. — Resta ora a sapersi se voi siete contento di me. — Oh! sig. conte! si affrettò di dire Battistino. — Ascoltatemi fino alla fine, riprese il conte. Voi avete 1500 fr. l’anno di salario, vale a dire il soldo di un buono e bravo ufficiale che arrischia la sua vita tutti i giorni; avete una tavola che molti capi di ufficio, servitori disgraziati, infinitamente più occupati di voi, non potrebbero desiderare di meglio. Domestico, voi stesso avete dei domestici che hanno cura della vostra biancheria e dei vostri effetti. Oltre a 1500 fr. di paga, voi mi rubate negli acquisti del mio vestiario, circa altri 1500 fr. ogni anno. — Oh! eccellenza! — Io non me ne lamento, Battistino, questa è cosa naturale; però desidererei che la cosa si limitasse qui. Voi dunque non ritrovereste in alcun altro luogo un posto simile a quel che vi ha dato la vostra buona fortuna. Io non percuoto mai la mia servitù, non bestemmio mai, non mentisco mai, non vado mai in collera, perdono sempre uno sbaglio, mai però una negligenza od una dimenticanza. I miei ordini sono ordinariamente brevi, ma chiari e precisi; amo meglio di ripeterli due ed anco tre volte che vederli male interpretati. Sono abbastanza ricco per sapere tutto quel che voglio sapere, e sono curiosissimo, ve ne prevengo. Se io sapessi adunque che voi aveste parlato di me in bene od in male, che aveste fatti dei commenti sulle mie azioni, sorvegliata la mia condotta, uscireste sul momento da casa mia: io non avverto un servitore che una sola volta. Ora siete avvertito. Andate! — Battistino s’inchinò e fece tre o quattro passi per ritirarsi. — A proposito, riprese il conte, dimenticava di dirvi che ogni anno io metto a frutto un certo capitale sulla vita dei miei domestici. Quelli che licenzio dal mio servizio perdono necessariamente questa somma, che va in profitto di quelli che rimangono, e della quale andranno in possesso dopo la mia morte. È passato l’anno che siete al mio servizio, ed il vostro capitale è già incominciato; sappiatelo far continuare. — Questo discorso, fatto davanti ad Alì che rimaneva impassibile, poichè non capiva una parola di francese, produsse su Battistino un effetto che sarà facile ad essere capito da quelli che hanno qualche poco studiata la fisiologia del domestico francese. — Cercherò di conformarmi su tutti punti alla volontà di V. E., diss’egli, e per far meglio, seguirò l’esempio di Alì. — Oh! niente affatto, disse il conte con una freddezza di marmo. Alì ha molti difetti mescolati alle sue qualità; non vi modellate dunque su di lui, perchè egli è un’eccezione; egli non ha stipendio, non è un domestico, è uno schiavo, è il mio cane; se non facesse il suo dovere, non lo caccerei, ma lo ammazzerei. — Battistino aprì due grandi occhi. — Voi ne dubitate? disse Monte-Cristo. — E ripetè in arabo ad Alì le stesse parole che aveva dette in francese a Battistino. Alì ascoltò, sorrise, si avvicinò al padrone, mise un ginocchio a terra e gli baciò rispettosamente la mano. Questo piccolo corollario alla lezione mise al colmo lo stupore di Battistino, cui il conte fece segno di ritirarsi, ed Alì lo seguì. Entrambi passarono nel suo gabinetto, e là si trattennero lungamente. Alle cinque il conte battè tre colpi sul campanello. Un colpo chiamava Alì, due colpi Battistino, tre colpi Bertuccio. L’intendente entrò. — I miei cavalli! disse Monte-Cristo. — Sono attaccati alla carrozza, eccellenza, rispose Bertuccio. Devo accompagnar V. E.? — No, soltanto il cocchiere, Battistino, ed Alì. Il conte discese e vide attaccati alla sua carrozza i cavalli che nella mattina aveva ammirati alla carrozza di Danglars. Passando vicino ad essi vi gettò un’occhiata: — Di fatto, sono belli, diss’egli, e voi avete fatto bene a comprarli, solo lo avete fatto un poco tardi. — Ho durato molta fatica ad averli, e sono costati un po’ cari. — Non per questo i cavalli sono meno belli; disse il conte stringendosi nelle spalle. — Se V. E. è soddisfatta, disse Bertuccio, tutto va bene; dove va V. E.? — Strada Chaussée-d’Antin dal barone Danglars. Questa conversazione si faceva dall’alto della scalinata. Bertuccio fece un passo per discendere il primo scalino. — Aspettate signore, disse Monte-Cristo. Ho bisogno di una terra in Normandia sulla riva del mare, per esempio fra Havre e Boulogne. Vi do uno spazio vasto, come vedete. Bisognerebbe che in questo luogo vi fosse un piccolo porto, un piccolo seno, una piccola baia, ove potesse entrare ed uscire la mia corvetta, essa non pesca che 15 piedi d’acqua. Il bastimento sarà sempre in ordine per mettere alla vela, a qualunque ora del giorno o della notte mi piaccia di dargli il segnale. Voi v’informerete da tutti i notari di una proprietà che abbia le condizioni che vi ho dette; quando l’avrete trovata, andrete a visitarla, e se rimarrete contento la comprerete in vostro nome. La corvetta deve essere in viaggio per Fécamp, non è vero? — La stessa sera che noi abbiamo lasciato Marsiglia, io la vidi mettere alla vela. — Ed il _yacht_? — Il _yacht_ ha ordine di star fermo alle Martigues. — Va bene; voi corrisponderete di tanto in tanto coi due padroni che comandano affinchè essi non si addormentino. — E pel battello a vapore? — Non è a Châlons? — Sì. — Gli stessi ordini che pei due bastimenti a vela. — Bene! — Subito che sarà comprata questa proprietà mi fisserete dei cambi di 10 in 10 leghe tanto sulla strada del nord, che su quella del mezzo giorno. — V. E. può fidarsi di me. — Il conte fece un segno di soddisfazione, discese i gradini, e saltò nella carrozza, che trascinata al trotto dalla magnifica pariglia non si fermò che alla porta del banchiere. — Danglars presiedeva una commissione nominata per una strada di ferro, allorchè vennero ad annunziargli la visita del conte di Monte-Cristo. La seduta del resto era quasi finita. Al nome del conte egli si alzò: — Signori, diss’egli indirizzandosi ai suoi colleghi fra i quali v’erano molti onorevoli membri dell’una e dell’altra camera; perdonatemi se vi lascio così; ma immaginatevi che la casa Thomson e French di Roma m’indirizza un certo conte di Monte-Cristo aprendogli su di me un credito illimitato. Questo è lo scherzo più buffo che i miei corrispondenti all’estero si siano permessi verso di me. In fede mia, lo capirete bene, sono preso e trattenuto dalla più grande curiosità. Questa mattina sono passato da questo preteso conte; se fosse un vero conte, capirete bene, che non sarebbe così ricco: il signore non era visibile. Che ve ne pare? Queste maniere che si permette il nostro Monte-Cristo non sono esse proprie di qualche Altezza o di qualche bella donna? Del rimanente, la casa ai Campi-Elisi, che è sua, me ne sono informato, mi sembrò molto conveniente. Ma un credito illimitato, riprese Danglars ridendo col suo villano sorriso, rende molto esigente il banchiere sul quale viene aperto. Ho dunque fretta di vedere il nostro uomo. Mi credo mistificato. Ma quelli laggiù non sanno con chi hanno che fare: riderà bene chi riderà l’ultimo... — Terminando queste parole, e dandogli un’enfasi che gli gonfiò le narici lasciò i suoi ospiti, e passò in un salone bianco e oro che faceva gran chiasso nella Chaussée-d’Antin. Là aveva ordinato che fosse introdotto il visitatore onde abbagliarlo di primo colpo. Il conte era in piedi, e stava considerando alcune copie dell’Albano e del Fattore vendute per originali al banchiere, e che, per quanto fossero copie, spiccavano molto sugli arabeschi di oro di tutti i colori che adornavano la volta. Al rumore che Danglars fece entrando, il conte si rivolse. Danglars fe’ una leggiera inclinazione di testa, indicando colla mano al conte di sedersi in una seggiola di legno dorato, con cuscini di seta bianca broccata in oro. Il conte si assise. — Ho l’onore di parlare al sig. di Monte-Cristo? — Ed io, rispose il conte, al sig. barone Danglars, cavaliere della legion di onore, membro della _Camera_ dei Deputati? — Monte-Cristo ridiceva tutti i titoli che aveva ritrovati sul biglietto da visita del barone. — Danglars sentì la botta e si morse le labbra: — Scusatemi, signore, diss’egli, di non avervi dato subito il titolo sotto il quale mi siete stato annunziato; ma voi lo sapete, noi viviamo sotto un governo popolare, ed io sono un rappresentante degl’interessi del popolo. — Di modo che, rispose Monte-Cristo, conservando l’abitudine di farvi chiamare barone, avete perduta quella di chiamare gli altri conte. — Ah! non vi pongo nessun’idea, neppure per me, disse negligentemente Danglars; mi hanno fatto barone e cavaliere della legione d’onore pei servigi resi, ma... — Ma voi avete abdicato ai titoli, come in altro tempo hanno fatto Montmorency e la Fayette? quest’è un bell’esempio da seguire, signore. — Però non del tutto, riprese Danglars impacciato; pei domestici capirete... — Sì, voi siete barone per la servitù, e cittadino pei giornalisti, e pei vostri committenti. Queste sono gradazioni applicatissime al governo costituzionale. Capisco perfettamente. Danglars si morse le labbra; egli vide che su quel terreno non era della forza di Monte-Cristo, cercò dunque di venire sopra un terreno che gli era più famigliare. — Sig. conte, diss’egli inchinandosi, ho ricevuto una lettera d’avviso dalla casa Thomson e French. — Ne sono contento, sig. Barone. Permettetemi di trattarvi come la vostra servitù; è una cattiva abitudine presa nei paesi ove vi sono ancora dei baroni, precisamente perchè non se ne fanno più. Ne sono contento, diceva; non avrò bisogno di presentarmi io stesso, la qual cosa è sempre impacciante. Voi dunque avete ricevuto una lettera d’avviso? — Sì, rispose Danglars; ma vi confesso che non ne ho bene inteso il senso. — Bah! — Ed anzi aveva avuto l’onore di passare da voi per domandarvene la spiegazione. — Fatelo, signore, eccomi, io ascolto, e sono pronto a rispondervi. — Questa lettera, rispose Danglars, credo d’averla meco. — Si frugò per le tasche. — Eccola, sì. Questa lettera apre al sig. conte di Monte-Cristo un credito illimitato sulla mia casa. — Ebbene, sig. barone, che vi trovate d’oscuro? — Niente, signore, fuorchè la parola _illimitato_... — Ebbene, questa parola non è forse francese? capirete che sono Anglo-alemanni che scrivono. — Oh! sia, signore, e dalla parte della sintassi non vi è niente da dire, ma non è così dal lato della contabilità. — È che la casa Thomson e French, chiese Monte-Cristo coll’aria più ingenua che avesse potuto assumere, non è a vostro avviso abbastanza sicura, sig. barone? Diavolo! mi spiacerebbe, perchè ho depositati ad essi alcuni capitali! — Ah! perfettamente sicura, rispose Danglars con un sorriso quasi beffardo, ma la parola _illimitato_, in materia di finanza, è tanto vaga, che... — Che è illimitata, n’è vero? disse Monte-Cristo. — Precisamente questo voleva dire. Ora il vago è dubbio, ed il saggio dice, astienti dal dubbio. — Che è quanto dire, rispose Monte-Cristo, che se la casa Thomson e French è disposta a fare delle pazzie, la casa Danglars non è disposta a seguirne l’esempio. — Come ciò, sig. conte. — Sì senza dubbio, Thomson e French fanno gli affari senza cifre; ma il sig. Danglars ha un limite alle sue; è un uomo saggio, come le diceva poco fa. — Signore! rispose orgogliosamente il banchiere, nessuno ha ancora fatti i conti alla mia cassa. — Allora, rispose freddamente Monte-Cristo, sembra che sarò io che comincerò. — E chi vi ha detto questo? — Le spiegazioni che voi mi chiedete, e che si rassomigliano molto all’esitazione. Danglars si morse le labbra; era la seconda volta che veniva abbattuto da quest’uomo, e questa volta sopra un terreno ch’era il suo. La sua compitezza mordace non era che apparente e toccava quell’estremo che si accosta alla impertinenza. Monte-Cristo al contrario sorrideva colla buona grazia del mondo, e quando voleva, possedeva una cert’aria ingenua che gli dava molti vantaggi. — Finalmente, signore, disse Danglars dopo un momento di silenzio, cercherò di farmi intendere, pregandovi di fissare voi stesso la somma che contate riscuotere da me. — Ma, signore, rispose Monte-Cristo, risoluto a non perdere un pollice di terreno nella discussione, se ho chiesto un credito illimitato su voi, fu precisamente perchè non sapeva di qual somma poteva aver io bisogno. — Il banchiere credè che finalmente fosse giunto il momento da prendere il sopravvento; si rovesciò sul suo seggio, e con un grossolano ed orgoglioso sorriso: — Ah! signore non abbiate alcun timore nel desiderare, potrete convincervi che le cifre della casa Danglars, per quanto siano limitate, possono soddisfare alle più grandi esigenze, e potreste anche chiedermi un milione. — Sarebbe a dire? disse Monte-Cristo. — Dico un milione, disse Danglars colla sostenutezza dello stolido. — E a che mi servirebbe un milione? disse il conte. Buon Dio! signore, se non mi fosse abbisognato che un milione, non avrei fatto aprire un credito su voi per una simile miseria. Un milione! ma ho sempre un milione nel mio portafogli, o nel mio scrigno da viaggio. — E Monte-Cristo cavò dal piccolo taccuino, entro cui teneva i biglietti da visita, due boni di 500 mila fr. l’uno, pagabili dal tesoro al portatore. Bisognava accoppare, e non pungere un uomo come Danglars. Il colpo di mazza fece il suo effetto, il banchiere vacillò, ed ebbe la vertigine, spalancò su Monte-Cristo due occhi ebeti, la cui pupilla si dilatò spaventevolmente. — Vediamo, confessatemi, disse Monte-Cristo, che diffidate della casa Thomson e French? Mio Dio! La cosa è semplicissima. Io però ho preveduto il caso, e sebbene estraneo agli affari ho preso le mie cautele. Ecco dunque due altre lettere simili a quella che vi fu scritta; una è della casa Arstein e Eskeles di Vienna sopra il sig. barone Rothschild, l’altra è della casa Baring di Londra sul sig. Laffitte. Dite una parola, signore, ed io vi toglierò qualunque preoccupazione, presentandomi all’una o all’altra di queste due case. — Era finita: Danglars fu vinto; egli aprì con un visibile tremore la lettera d’Alemagna e quella di Londra che gli venivano presentate sulla punta delle dita dal conte, verificò l’autenticità delle firme, tanto minuziosamente, che sarebbe stato un insulto per Monte-Cristo, se non avesse fatta la parte della confusione del banchiere. — Oh! signore, ecco tre firme che valgono bene dei milioni, disse Danglars alzandosi come per salutare la potenza dell’oro personificata nell’uomo che aveva davanti. Tre crediti illimitati sulle nostre tre prime case! Perdonatemi sig. conte, ma mentre cesso di essere diffidente, mi sarà permesso d’essere meravigliato. — Oh non sarà già una casa come la vostra, quella che si maraviglia di ciò! disse Monte-Cristo con tutta la cortesia; così adunque mi manderete qualche poco di danaro, n’è vero? — Parlate, sig. conte, sono ai vostri ordini. — Ebbene! ora che c’intendiamo, perchè già c’intendiamo, n’è vero? Danglars fece un segno affermativo colla testa. — E non avrete più diffidenza? continuò Monte-Cristo. — Oh! non ne ho mai avuta, gridò il banchiere. — No, desideravate una prova; ecco tutto. Ebbene! ripetè il conte, ora che c’intendiamo, ora che non avete più alcuna diffidenza, fissiamo se volete, una somma generale pel primo anno, sei milioni, per esempio. — Sei milioni, sia! disse Danglars soffocato. — Se mi bisognerà di più, disse Monte-Cristo con trascuranza, metteremo di più, ma non conto di restare che un anno in Francia, e non credo d’oltrepassare questa somma... però vedremo... per cominciare, fatemi portare domani 300 mila fr.: sarò in casa fino a mezzo giorno, se non vi sarò, lascerò la ricevuta al mio intendente. — Il danaro sarà in casa vostra domattina alle dieci sig. conte, rispose Danglars. Volete oro, argento, o biglietti di banca? — Metà oro, e metà biglietti se vi piace. — Ed il conte si alzò. — Debbo confessarvi una cosa, disse Danglars a sua volta; io credeva avere delle cognizioni esatte su tutte le belle fortune d’Europa, e ciò non pertanto la vostra, che mi sembra considerevole, mi era, ve lo confesso, del tutto sconosciuta, ella è recente? — No, signore, rispose Monte-Cristo, al contrario è di vecchia data. Era una specie di tesoro di famiglia che era proibito di toccare, e di cui gl’interessi andando ad accumularsi hanno triplicato il capitale: l’epoca fissata dal testatore è scaduta da pochi anni soltanto, e non è che da pochi anni che io ne uso; la vostra ignoranza su questo argomento è naturale; del rimanente voi la conoscerete meglio fra qualche tempo. — Ed il conte accompagnò queste parole con uno di quei languidi sorrisi che facevano tanta paura a Franz d’Épinay. — Coi vostri gusti, e colle vostre intenzioni, signore, spiegherete nella nostra capitale un lusso che ci schiaccerà tutti, noi altri poveri piccoli milionari; frattanto, siccome mi sembrate dilettante, mentre quando sono entrato guardavate i miei quadri, vi domando il permesso di farvi vedere la mia galleria, tutti quadri antichi, tutti quadri di maestri, garantiti come tali: io non amo i moderni. — Avete ragione, perchè hanno in generale un gran difetto, quello cioè di non avere ancora avuto il tempo di diventare antichi. — Poi potrò mostrarvi qualche statua di Torvaldsen, di Bartolini, di Canova, tutti artisti stranieri, come ben sapete: io non stimo gli artisti francesi. — Voi avete diritto d’essere ingiusto con loro, signore, essi sono vostri compatriotti. — Ma tutto questo sarà per un altro giorno quando avremo fatta miglior conoscenza: per oggi mi contenterò se però mel permettete, di presentarvi alla signora Danglars: scusate la mia premura, ma un cliente come voi, fa quasi parte della famiglia. — Monte-Cristo s’inchinò come per fargli comprendere che accettava l’onore che voleva fargli. Danglars suonò, un lacchè, vestito con una livrea sontuosa, comparve. — La sig.ª baronessa è in casa? domandò Danglars. — Sì, sig. barone, rispose il lacchè. — Sola? — No, la signora ha gente. — Non sarà indiscrezione il presentarvi presente qualcuno; è vero, sig. conte? non siete in incognito? — No, riprese sorridendo Monte-Cristo, non mi riconosco questo diritto. — E chi è dalla signora? il sig. Debray? domandò Danglars con una bonarietà che fece sorridere internamente Monte-Cristo, di già informato dei trasparenti segreti della casa del banchiere. — Il sig. Debray, sì, sig. barone, rispose il lacchè. Danglars fece un segno colla testa. Poi si volse verso Monte-Cristo. — Il sig. Luciano Debray è un nostro antico amico, segretario intimo del ministro dell’interno; in quanto a mia moglie, ella ha derogato sposandomi, perchè appartiene ad un’antica famiglia, era madamigella de Servieres, vedova in prime nozze del colonnello marchese de Nargonne. — Non ho ancora l’onore di conoscere la sig.ª baronessa Danglars; ma ho di già incontrato il sig. Debray. — Bah! disse Danglars e dove? — In casa del sig. de Morcerf. — Ah! voi conoscete il piccolo visconte, disse Danglars. — Ci siamo trovati insieme a Roma al tempo del Carnevale. — Ah! sì, disse Danglars, ho sentito dire qualche cosa di un’avventura singolare con banditi o ladri fra certe rovine! egli fu salvato miracolosamente. Credo che abbia raccontato qualche cosa di simile a mia moglie ed a mia figlia al suo ritorno dall’Italia. — La sig.ª baronessa aspetta questi signori, ritornò a dire il lacchè. — Vado avanti per indicarvi la strada, disse Danglars salutando. — Ed io vi seguo, soggiunse Monte-Cristo. XLVI. — LA PARIGLIA GRIGIO-POMELLATA. Il barone, seguito dal conte, traversò una lunga fila d’appartamenti notevoli per la pesante loro sontuosità, ed il loro fastoso cattivo gusto, e giunse fino al gabinetto della sig.ª Danglars, piccola camera ottangolare parata di seta color rosa, ricoperta di mussola d’India; le seggiole erano di vecchio legno dorato coperte di vecchie stoffe: le sopraporte rappresentavano paesaggi del genere di Boucher: finalmente due piccoli medaglioni a pastello, in armonia col rimanente del mobilio, facevano di questa piccola camera, il solo locale della casa che avesse un qualche carattere: è vero ch’era sfuggita al piano generale stabilito fra Danglars ed il suo architetto, una delle più alte e più eminenti celebrità dell’impero, e la baronessa e Debray soli si riserbarono di decorarla. Così il signor Danglars, grande ammiratore dell’antico, al modo che lo intendeva il Direttorio, disprezzava moltissimo questo elegante piccolo ridotto, ove del resto non era ammesso senza farsi scusare la sua venuta conducendo qualcuno; non era dunque in realtà Danglars che presentava, era al contrario egli il presentato, e ch’era bene o male ricevuto, a seconda che la fisonomia del visitatore era aggradita o disaggradita dalla baronessa. La sig.ª Danglars, la cui bellezza poteva ancora essere citata ad onta dei suoi 36 anni, era al piano-forte, piccolo capo d’opera d’intarsiatura, nel mentre che Luciano Debray, seduto ad un tavolino da lavoro, sfogliava un album. Luciano aveva già avuto il tempo prima dell’arrivo di raccontare alla baronessa molte cose relative al conte. Si conosce già quanta impressione Monte-Cristo avesse fatta nei convitati alla colazione d’Alberto; impressione, che per quanto poco _impressionabile_, non erasi ancor cancellata in Debray. La curiosità della sig.ª Danglars eccitata dalle informazioni anche di Morcerf, e dalle recenti di Debray, era dunque al colmo. Perciò questo accomodamento al piano-forte, ed all’album, non era che una di quelle piccole furberie del mondo, per mezzo delle quali si velano le più forti preoccupazioni. La baronessa ricevette Danglars con un sorriso, cosa che per parte sua era molto comune; quanto al conte, egli ricevette, in cambio del suo saluto, una cerimoniosa, ma nello stesso tempo graziosa riverenza. Luciano dal canto suo scambiò col conte un saluto di mezza conoscenza, e con Danglars un gesto d’intimità. — Signora baronessa, disse Danglars, permettetemi che io vi presenti il sig. conte di Monte-Cristo, che mi viene indirizzato dai miei corrispondenti di Roma colle raccomandazioni più vive; non ho che una parola da dire per farlo subito diventare il favorito di tutte le nostre più belle dame; egli viene a Parigi coll’intenzione di restarvi un anno, e di spendervi sei milioni in questo solo anno; ciò promette una serie infinita di balli, di pranzi, di festini nei quali voglio sperare che il sig. conte non vorrà dimenticarci, come certamente noi non lo dimenticheremo nelle nostre piccole feste. — Quantunque la presentazione fosse composta di troppo grossolane lodi, in generale, è una cosa tanto rara che un uomo venga a Parigi per spendervi in un anno la fortuna di un principe, che la sig.ª Danglars dette una occhiata al conte non priva d’interessamento. — E siete giunto? domandò la baronessa. — Da ieri mattina, signora. — E venite, secondo la vostra abitudine a quanto mi è stato detto, di capo al mondo. — Da Cadice, questa volta, puramente e semplicemente da Cadice. — Ah! giungete in una trista stagione; Parigi nell’estate è detestabile; non vi sono più nè balli, nè riunioni, nè feste. L’opera italiana è a Londra, l’opera francese è da per tutto, fuorchè a Parigi; e in quanto al teatro francese, voi sapete che non è più in alcun luogo. Non ci resta dunque per distrarci che qualche disgraziata corsa al Campo di Marte, ed a Satory. Farete voi correre, sig. conte? — Io, signora, farò tutto ciò che si fa a Parigi, rispose Monte-Cristo, se avrò la fortuna di ritrovare qualcuno che m’informi convenientemente delle abitudini francesi. — Siete dilettante di cavalli, sig. conte? — Io ho passata una parte della mia vita in Oriente, e gli orientali, voi lo sapete, non stimano che due cose in questo mondo: la nobiltà dei cavalli, e la bellezza delle donne. — Ah! signor conte; avreste dovuto avere la galanteria di mettere le donne per le prime. — Vedete, signora, che io aveva ben ragione testè d’augurarmi un precettore che mi fosse di guida nelle abitudini francesi. — In questo momento entrò la cameriera favorita della sig.ª baronessa Danglars, ed avvicinandosi alla padrona le mormorò alcune parole all’orecchio. La signora Danglars impallidì. — Impossibile! diss’ella. — Eppure questa è l’esatta verità, signora, rispose la cameriera. La sig.ª Danglars si volse al marito: — E sarà vero signore? domandò la baronessa. — Che cosa? domandò Danglars visibilmente agitato. — Ciò che mi disse questa donzella? — E che cosa vi ha detto? — Che al momento che il _mio_ cocchiere è andato per attaccare i _miei_ cavalli alla _mia_ carrozza, non li ha trovati in iscuderia; che significa ciò? io lo domando? — Signora, disse Danglars, ascoltatemi. — Oh! io vi ascolto, signore, perchè sono ben curiosa di sentire ciò che voi mi saprete dire: io farò questi signori giudici fra noi, e comincerò per dir loro come stanno le cose: signori; continuò la baronessa, il sig. barone Danglars ha dieci cavalli in iscuderia; fra essi ve ne sono due che sono i miei grigi-pomellati. Ebbene! al momento in cui la sig.ª Villefort mi chiede in prestito la mia carrozza, ed io la prometto a lei per domani al bosco, ecco che i due cavalli non si trovano più. Il signor Danglars avrà trovato a guadagnarvi sopra qualche migliaio di franchi. Oh! che razza villana, mio Dio! che è quella degli speculatori. — Signora, rispose Danglars, i cavalli erano troppo vivaci, essi avevano appena quattro anni, e mi facevano delle paure orribili per voi. — Eh! ben sapete, disse la baronessa, che da un mese ho al mio servizio il miglior cocchiere di Parigi, a meno che non lo abbiate venduto coi cavalli. — Amica cara, ve ne troverò degli uguali, ed anche dei più belli, se sarà possibile, ma che saranno cavalli docili e quieti che non ispireranno simili terrori. La baronessa si strinse nelle spalle coll’aria del più profondo disprezzo. Danglars non fece mostra d’essersi accorto di questo gesto più che coniugale, e volgendosi a Monte-Cristo: — In verità mi dispiace di non avervi conosciuto prima, sig. conte, diss’egli; voi montate la vostra casa? — Sì, disse il conte. — Ve li avrei proposti; chè io li ho ceduti per niente, ma, come vi dissi, voleva disfarmene, sono cavalli da giovani. — Signore, disse il conte, io vi ringrazio; ne ho acquistati questa mattina due molto buoni, e non a caro prezzo. Anzi, guardate, signor Debray, voi siete conoscitore, io credo? — Mentre che Debray si avvicinava alla finestra, Danglars si accostò a sua moglie. — Immaginatevi, signora, diss’egli a bassa voce, sono venuti ad offrirmi un prezzo esorbitante di quei cavalli. Non so chi sia il pazzo sulla via di rovinarsi che mi ha inviato questa mattina il suo intendente, ma il fatto è che vi ho guadagnato 16 mila fr. Non mi rimproverate, io ne darò a voi 4 mila, e due mila ad Eugenia. La signora Danglars lasciò cadere su Danglars uno sguardo terribile. — Oh! mio Dio! gridò Debray. — Che cos’è? domandò la baronessa. — Ma non m’inganno certo, quelli sono i vostri cavalli, attaccati alla carrozza del conte. — I miei grigi-pomellati? gridò la signora Danglars. E si slanciò verso la finestra: — In fatto sono essi... Danglars rimase stupefatto. — Possibile? disse Monte-Cristo, fingendo meraviglia. — È incredibile! mormorò il banchiere. — La Baronessa disse due parole all’orecchio di Debray, che a sua volta si accostò al conte: — La baronessa mi fa chiedere quanto ve li ha fatti pagare suo marito. — Non lo so bene, disse il conte, è una sorpresa che mi ha fatta il mio intendente, e credo che mi costi 30 mila fr. Debray andò a riportare la risposta alla baronessa. Danglars era così pallido, e così sconcertato che il conte fece mostra d’averne pietà: — Vedete come sono ingrate le donne, diss’egli, questa previdenza per parte vostra non ha commosso per nulla la baronessa; ingrata non è la parola adatta, dovrei dire pazza; ma che volete farci? siamo sempre ciò che nuoce, per cui la più corta, credetemi, barone mio, è quella di lasciarle far sempre di testa loro; se almeno se la rompono, non hanno a prendersela che con sè stesse. Danglars non rispose una parola: egli prevedeva prossima ad avvenire una scena disastrosa; le sopracciglia della baronessa eransi già aggrottate, e, come quelle di Giove Olimpico, presagivano un uragano. Debray che lo sentiva ingrossare, prese pretesto di un affare, e partì. Monte-Cristo che non voleva, col restar più lungamente, guastare la posizione di cui contava approfittarsi, salutò la sig.ª Danglars e si ritirò, abbandonando il barone alla collera della moglie. — Buono! pensò Monte-Cristo nel ritirarsi, sono pervenuto ove voleva giungere, ecco che tengo nelle mie mani la pace della famiglia, e che con un sol tratto vado a guadagnarmi il cuore del signore e della signora, quale felicità!... Ma in mezzo a tutto questo non sono stato presentato a madamigella Eugenia Danglars, che pure avrei desiderato molto di conoscere. Ma, soggiunse egli con quel sorriso suo particolare; eccoci a Parigi, ed abbiamo innanzi a noi il tempo... ciò sarà per il seguito. Con queste riflessioni il conte montò in carrozza, e rientrò in casa sua. Due ore dopo la sig.ª Danglars ricevette una graziosa lettera dal conte di Monte-Cristo, nella quale le diceva, che non volendo cominciare il suo ingresso nel mondo parigino facendo disperare una bella donna, la supplicava di riprendere i suoi cavalli. Essi avevano gli stessi finimenti che ella aveva veduti la mattina, soltanto in ciascuna rosetta che portavano sotto l’orecchia, il conte aveva fatto mettere un diamante. Danglars ebbe pure una lettera. Il conte con essa gli chiedeva il permesso di condonare alla baronessa un capriccio da milionaria, e lo pregava di scusare il modo orientale con cui era accompagnato il rinvio dei cavalli. La sera il conte partì per Auteuil, accompagnato da Alì. La dimane verso le tre, Alì fu chiamato da un tocco del campanello, ed entrò nel gabinetto del conte. — Alì, diss’egli, tu mi hai spesso fatto capire la tua destrezza nel lanciare il laccio? Alì fece segno di sì, e si raddrizzò con fierezza. — Bene!... così col laccio tu fermeresti un bove? Alì fece segno colla testa di sì. — Una tigre? — Alì fece il medesimo segno. — Un leone? Alì fece il gesto dell’uomo che lancia il laccio, ed imitò un ruggito strangolato. — Bene! capisco, tu hai fatta la caccia del leone. — Alì fece un segno orgoglioso colla testa. — Ma, arresteresti tu nella loro corsa due cavalli furibondi? — Alì sorrise. — Ebbene ascolta, disse Monte-Cristo; in breve passerà di qui una carrozza trascinata da due cavalli grigi pomellati che avranno tolta la mano, gli stessi che io aveva ieri. Dovessi tu farti schiacciare, bisogna che fermi questa carrozza davanti alla mia porta. Alì discese nella strada, e tracciò davanti alla porta una linea nella polve; quindi rientrò e mostrò la linea al conte che lo aveva seguito cogli occhi. Il conte gli battè dolcemente sulla spalla, era il suo modo di ringraziare Alì; poi il moro andò a fumare la pipa sul luogo in cui la strada formava angolo colla casa, nel mentre che Monte-Cristo si ritirava senza più occuparsi di niente. Frattanto, verso le 3, vale a dire nell’ora in cui Monte-Cristo aspettava la carrozza, si sarebbero potuti notare in lui i segni quasi impercettibili di una leggiera impazienza; egli passeggiava in una camera che guardava sulla strada, tendendo ad intervalli l’orecchio, e andando a quando a quando alla finestra da dove scorgeva Alì, che mandava sbuffate di fumo a regolari intervalli, come se il Nubiano si fosse soltanto occupato di questa importante operazione. D’improvviso s’intese un rotolar lontano ma che si avvicinava colla rapidità del fulmine, quindi comparve una carrozza, il cui cocchiere tentava inutilmente di trattenere i cavalli che si avanzavano furiosi, coi peli irti, e che si slanciavano con impeto insensato. In essa, una giovane signora ed un fanciullo di 7 a 8 anni, che tenevansi abbracciati, avevano perduto, per l’eccesso della paura, perfino la forza di mandare un grido. Sarebbe bastato un sasso sulla strada, o un tronco d’albero staccato, per tritolare la carrozza che già scricchiolava tenendo il mezzo della strada; sentivansi nella via le grida di terrore di coloro che la vedevano venire. In un baleno Alì depone la pipa, cava il laccio, lo lancia, avvolge con triplice giro le gambe davanti del cavallo di sinistra, si lascia trascinare per tre o quattro passi dalla violenza dell’impulso, ma dopo questi tre o quattro passi, il cavallo allacciato si abbatte, cade sul timone che spezza, e paralizza così gli sforzi che fa il cavallo rimasto in piedi per continuare la corsa; il cocchiere approfitta di questo momento di respiro per gettarsi giù dal suo seggio, ma già Alì ha afferrato colle sue dita di ferro il secondo cavallo, il quale nitrendo di dolore si stende convulsivamente vicino al suo compagno. Per tutto ciò non necessitò che il tempo che occorre ad una palla per cogliere nel segno. Ciò non pertanto bastò perchè un uomo dalla casa avanti la quale accadeva questo accidente si slanciasse fuori accompagnato da molti servitori. Nel mentre che il cocchiere apre la portiera, quegli toglie dalla carrozza la dama che con una mano era aggrappata al cuscino, coll’altra stringeva al petto il figlio svenuto. Monte-Cristo li trasporta entrambi nel salone, e li deposita sur un _canapè_. — Non temete più niente, signora, le disse egli, voi siete salva. — La donna ritornò in sè e per risposta gli presentò il figlio con uno sguardo più eloquente di tutte le preghiere. In fatto il fanciullo era sempre svenuto. — Sì, signora, capisco, disse il conte esaminando il fanciullo; ma state tranquilla, non gli è accaduto alcun male, la sola paura lo ha messo in questo stato. — Ah! signore, gridò la madre, non dite questo soltanto per tranquillarmi! Vedete come è pallido? figlio mio! figlio mio! mio Edoardo! rispondi dunque a tua madre. Ah! signore! mandate a cercare un medico, la mia fortuna è a chi mi restituisce il figlio! — Monte-Cristo fece un gesto per calmare la madre desolata, ed aprendo un bauletto ne cavò una piccola bottiglia di cristallo di Boemia incrostata d’oro, contenente un liquore rosso come il sangue, e ne lasciò cadere una sola goccia sulle labbra del fanciullo, il quale quantunque sempre pallido, riaprì subito gli occhi. A questa vista la gioia della madre divenne quasi un delirio: — Ove son’io? gridò ella, e a chi devo tanta felicità dopo una prova sì crudele? — Voi siete, signora, rispose Monte-Cristo, in casa di un uomo felice di avervi potuto risparmiare un dispiacere. — Oh! maledetta curiosità! disse la dama; tutta Parigi parla di questi magnifici cavalli della sig.ª Danglars, ed io ho avuta la follia di volerli sperimentare. — Come! gridò il conte con una sorpresa recitata stupendamente, questi cavalli sono quelli della baronessa Danglars? — Sì, signore, la conoscete voi? — La signora Danglars?.... ho questo onore, e la mia gioia è doppia nel vedervi salva dal pericolo che vi hanno fatto correre questi cavalli, mentre voi avreste potuto addebitarne me: io aveva acquistati questi cavalli dal barone, ma la baronessa mi parve talmente afflitta, che glieli rimandai ieri, pregandola a volerli accettare dalle mie mani. — Ma allora dunque siete il conte di Monte-Cristo di cui mi ha tanto parlato ieri Erminia? — Sì, signora, disse il conte. — Ed io, signore, Luigia di Villefort. — Il conte la salutò come se questo cognome gli arrivasse del tutto nuovo. — Oh! quanto vi sarà riconoscente il sig. de Villefort, riprese Luigia, perchè finalmente vi dovrà la vita di noi due, voi gli avete reso la moglie ed il figlio; certamente, senza il generoso vostro servitore, questo caro fanciullo ed io saremmo rimasti uccisi. — Pur troppo! signora; fremo ancora pensando al pericolo che avete corso. — Oh! spero che mi permetterete di compensare degnamente lo zelo di quest’uomo. — Signora, rispose Monte-Cristo, non mi guastate Alì ve ne prego, nè con elogi, nè con ricompense; non voglio che prenda queste abitudini. Alì è mio schiavo; salvandovi la vita ha servito me, ed è suo dovere il servirmi. — Ma egli ha arrischiata la sua vita! disse la sig.ª de Villefort, alla quale questo tuono di padrone imponeva in un modo singolare. — Ed io ho salvata la sua, signora, rispose Monte-Cristo, per conseguenza essa mi appartiene. — La sig.ª de Villefort si tacque: forse rifletteva a quest’uomo, che dal primo momento faceva tanta impressione sugli spiriti. Durante questi momenti di silenzio, il conte potè considerare con suo comodo quel fanciullo, che la madre copriva di tanti baci. Egli era piccolo, gracile, bianco di pelle come i fanciulli rossi, ad onta che una foresta di capelli neri, ribelli ad ogni acconciatura, ne coprisse la fronte rotondeggiante, e cadendo sulle spalle ne contornasse il viso, e raddoppiasse la vivacità degli occhi pieni di furba malizia e di giovanile cattiveria; la bocca, appena ritornata vermiglia, era sottile nelle labbra, e larga nell’apertura: i lineamenti di questo fanciullo di otto anni, annunciavano un’età almeno di 12 anni. Il primo movimento fu di sciogliersi, con una rozza scossa, dalle braccia di sua madre, e di andare ad aprire il bauletto da dove il conte aveva tratta la boccetta d’elixir: quindi, senza domandare il permesso ad alcuno e giusta quanto sogliono fare i fanciulli avvezzi a soddisfare tutti i loro capricci, si mise a levare il turacciolo a tutte le ampolle: — Non toccate queste, amico mio, disse prestamente il conte, alcuni di questi liquori sono pericolosi non solamente a beversi, ma ancora ad odorarsi. — La sig.ª de Villefort impallidì ed arrestò il braccio di suo figlio che ricondusse a sè; ma appena sedato il suo timore, gettò sul bauletto un corto ma espressivo sguardo, che il conte prese di volo. In questo momento entrò Alì. La sig.ª de Villefort fece un movimento di gioia, e tirando più vicino a sè il fanciullo; — Edoardo, gli disse, vedi, questo buon servitore? Egli è stato molto coraggioso, perchè ha esposto la sua vita per fermare i cavalli che ci trascinavano, e la carrozza ch’era vicina a fracassarsi, ringrazialo dunque, perchè, senza lui, a quest’ora forse saremmo morti. — Il fanciullo allungò le labbra, e voltò sdegnosamente la testa: — È troppo brutto, diss’egli. — Il conte sorrise come se il fanciullo compiesse una delle sue speranze. Quanto alla sig.ª de Villefort, sgridò il figlio tanto blandamente, che non avrebbe certamente dato nel genio di Giovan-Giacomo Rousseau, se il piccolo Edoardo si fosse chiamato Emilio. — Vedi tu, disse in arabo il conte ad Alì, questa signora prega suo figlio di ringraziarti per la vita che tu hai salvata ad entrambi, ed il fanciullo risponde che sei troppo brutto. — Alì per un momento volse la testa intelligente, ed osservò il fanciullo apparentemente senza espressione, ma un semplice tremito della sua narice fece accorto Monte-Cristo, ch’era rimasto ferito nell’anima. — Signore, chiese la sig.ª de Villefort alzandosi per ritirarsi, questa casa è la vostra abitazione continua? — No, signora, rispose il conte, è una specie di luogo di riposo, che ho acquistato: io abito all’entrata dei Campi-Elisi n. 30. Ma vedo che voi siete del tutto rimessa e che desiderate ritirarvi. Ho ordinato che siano attaccati alla mia carrozza quei medesimi cavalli; e Alì, quel servitore così brutto, diss’egli sorridendo al fanciullo, avrà l’onore di condurvi a casa, mentre che il vostro cocchiere resterà qui per fare accomodare la vettura. Così appena terminata questa piccola faccenda indispensabile, una delle mie pariglie lo ricondurrà direttamente dalla sig.ª Danglars. — Ma, disse la sig.ª de Villefort, non avrò mai il coraggio di ritornare con gli stessi cavalli. — Oh! vedrete, signora, che sotto la mano d’Alì diventeranno docili come agnelli. In fatto Alì si era avvicinato ai cavalli, che a grande stento era riuscito a far ritornare in piedi. Egli teneva in mano una piccola spugna imbevuta d’aceto aromatico; ne strofinò le narici e le tempia ai cavalli, coperti di sudore e di schiuma, e quasi subito si misero a soffiare fortemente, e a fremere in tutte le loro membra per qualche secondo. Quindi in mezzo ad una folla numerosa richiamata dall’avvenimento e dalla rottura della carrozza innanzi la casa, Alì fe’ attaccare i cavalli al _coupé_ del conte, riunì le redini, salì sul seggio, e, con grande stupore di tutti gli assistenti che avevano veduto questi cavalli slanciati come da un turbine, fu obbligato ad usare vigorosamente la frusta per farli partire, e anche non potè ottenere dai famosi grigio-pomellati, ora stupidi, petrificati, morti, che un trotto tanto mal sicuro e languido che abbisognò alla sig.ª de Villefort, impiegare quasi due ore per giungere al sobborgo Sant’Onorato ove abitava. Appena giunta in casa, e calmate le prime emozioni di famiglia, ella scrisse subito il seguente biglietto alla sig.ª Danglars. «Cara Erminia. «Sono stata miracolosamente salvata in un con mio figlio da quello stesso conte di Monte-Cristo, di cui ieri sera voi mi avete tanto parlato, e che era lungi dal credere che avrei veduto ªoggi. Ieri mi parlaste di lui con un entusiasmo tale ch’io non potei far a meno di scherzarne con tutto il mio piccolo spirito, ma oggi ritrovo questo entusiasmo molto al disotto dell’uomo che lo ispirava. I vostri cavalli avevano presa la mano a Ranelangh come se fossero stati invasi dalla frenesia, e noi probabilmente saremmo andati in pezzi, Edoardo ed io, contro il primo albero della strada, od il primo muro del villaggio, quando un arabo, un moro, uno della Nubia, un uomo nero infine, al servizio del conte, ha, dietro un suo cenno, io credo, fermato lo slancio dei cavalli col rischio di essere egli stesso ucciso, ed è proprio un miracolo che non lo sia stato. Allora il conte è accorso, e ci ha portati in casa sua, ed ha richiamato mio figlio alla vita. Nella sua carrozza fui ricondotta a casa; domani vi sarà rimandata la vostra. Ritroverete i vostri cavalli avviliti dopo questo accidente; sono divenuti come ebeti; si direbbe che non possono perdonare a sè stessi di essersi lasciati vincere da un uomo. Il conte mi ha incaricato di dirvi che due giorni di riposo sulla paglia, e l’orzo per solo nutrimento, si rimetteranno nello stesso stato florido, vale a dire spaventoso, come lo erano ieri. «Addio! non vi ringrazio della mia passeggiata; e ciò non pertanto, quando vi rifletto, è un’ingratitudine il conservarvi rancore pel capriccio della vostra pariglia, poichè ad esso devo il piacere d’aver veduto il conte di Monte-Cristo, e l’illustre forestiero mi sembra, prescindendo dai milioni di cui può disporre, un problema sì curioso e così importante, che conto di studiarlo ad ogni costo, dovessi ancora rifare un’altra passeggiata al bosco coi vostri proprii cavalli. «Edoardo ha sopportato l’avventura con un coraggio miracoloso. Egli è svenuto, ma non ha mandato un grido prima, nè versata una lagrima dopo. Direte ancora che il mio amore materno mi acceca, ma vi è un’anima di ferro in quel piccolo corpo così gracile e così delicato. «La nostra cara Valentina dice molte cose alla vostra cara Eugenia; io vi abbraccio di tutto cuore. LUIGIA DE VILLEFORT. — «P. S. Fatemi dunque trovare in casa vostra in qualunque modo col conte di Monte-Cristo, voglio assolutamente rivederlo. Del resto però, ho ottenuto dal sig. de Villefort che gli faccia una visita; spero che gliela restituirà.» Nella sera, l’avventura d’Auteuil formava l’argomento di tutte le conversazioni; Alberto la raccontava a sua madre, Château-Renaud nel Jockey-Club, Debray nella sala del ministro, Beauchamp stesso fece al conte la galanteria d’inserire nel suo giornale, sotto la rubrica dei _Fatti diversi_, un racconto di venti lunghe linee, che situò il nobile straniero come un eroe presso tutte le donne dell’aristocrazia. Molte persone andarono a farsi inscrivere nell’anticamera della sig.ª de Villefort, per avere poi il diritto di rinnovare la loro visita in tempo utile, e di sentire dalla bocca di lei tutti i particolari di questa pittoresca avventura. In quanto al sig. de Villefort, come lo aveva scritto Luigia, indossò un abito nero, guanti bianchi, e salì nella sua carrozza, che si fermò alla porta n. 30 all’entrata dei Campi-Elisi. XLVII. — IDEOLOGIA. Se il conte di Monte-Cristo avesse vissuto da lungo tempo nella società parigina avrebbe apprezzato in tutto il suo valore la dimostrazione che gli faceva Villefort colla sua visita. Ben veduto alla corte, tanto se regnava un re del ramo primogenito o del ramo cadetto, tanto se governava un ministro dottrinario, che liberale o conservatore; riputato abile da tutti, come si reputano generalmente abili tutte le persone che non hanno mai provati sinistri politici; odiato da molti ma caldamente protetto da certuni senza però essere amato da alcuno, il sig. de Villefort teneva un alto posto nella magistratura, e si teneva a questa altezza come un Harlay, o come un Molè. Il suo salone, rimodernato da una giovane sposa e da una figlia di primo letto dell’età appena di 18 anni, non era però uno di quei saloni severi di Parigi, in cui si osserva il culto delle tradizioni, e la religione dell’etichetta. La fredda cortesia, la fedeltà assoluta ai principii del governo, un disprezzo profondo delle teorie e dei teoretici, un odio grande alla ideologia, tali erano gli elementi della vita interna e pubblica professati dal sig. de Villefort. Egli non era solamente un magistrato, era quasi un diplomatico. Le sue relazioni colla vecchia corte, di cui parlava sempre con dignità e rispetto, lo facevano rispettare dalla nuova; sapeva tante cose, che non solo era sempre blandito ma spesso ancora consultato; egli abitava una fortezza inespugnabile. Questa fortezza era la sua carica di procuratore del re, di cui si avvaleva meravigliosamente, e che avrebbe lasciata soltanto per esser fatto deputato, e per cambiare così la neutralità in opposizione. In generale faceva o rendeva raramente visite, sua moglie le faceva in sua vece, cosa accettata in questa società, ove si teneva conto delle gravi e numerose occupazioni del magistrato, ciò che in realtà non era che un calcolo d’orgoglio, una quint’essenza d’aristocrazia, l’applicazione infine di quest’assioma: _fa mostra di stimarti e sarai stimato_, assioma le mille volte più utile nella nostra società di quello dei greci: _conosci te da te stesso_, sostituito ai nostri giorni dall’arte meno difficile e più vantaggiosa del conoscere gli altri. Pei suoi amici Villefort era un possente protettore; pei suoi nemici un avversario sordo, ma accanito; per gl’indifferenti la statua della legge fatta uomo: aspetto altero, fisonomia impassibile, sguardo fosco ed appannato, o insolentemente penetrante e scrutatore; tal era l’uomo di cui quattro rivoluzioni, abilmente ammassate l’una sull’altra, avevano da prima costruito, poscia cementato il piedistallo. Il signor de Villefort aveva la riputazione d’essere l’uomo meno curioso e meno allegro della Francia. Egli dava un ballo tutti gli anni, ma non vi compariva che per un quarto d’ora, cioè 45 minuti di meno che non fa il re ai suoi; egli non si vedeva mai nè ai teatri, nè nei luoghi pubblici; qualche volta, ma raramente, faceva una partita di _Whist_, ma allora avevasi cura di scegliergli giuocatori degni di lui: qualche ambasciatore, qualche primo presidente o infine qualche duchessa primogenita. Ecco qual era l’uomo la cui carrozza si era fermata davanti alla porta del conte di Monte-Cristo. Il cameriere annunziò il sig. de Villefort, al momento in cui il conte, chinato sopra una gran tavola, seguiva sur una carta geografica, un itinerario da Pietroburgo alla China. Il procuratore del re entrò con quello stesso passo grave e misurato, con cui era solito andare al tribunale; era lo stesso uomo, che noi abbiamo veduto sostituto a Marsiglia. La natura, consentanea ai suoi principi, nulla aveva cambiato in costui nel corso che aveva dovuto seguire. Di snello egli era divenuto magro, di pallido giallo, gli occhi infossati erano cavi, gli occhiali legati in oro appoggiati sull’orbita, sembravano ora far parte del viso; eccettuata la cravatta bianca tutto il rimanente del suo vestire era completamente nero; e questo color funebre non era interrotto che dalla striscia della fettuccia rossa che si mostrava impercettibilmente dall’occhiello del suo abito, e che sembrava una linea di sangue tirata col pennello. Per quanto Monte-Cristo fosse padrone di sè, esaminò con una visibile curiosità, rendendogli il saluto, il magistrato che, diffidente per abitudine, e poco credulo soprattutto alle maraviglie sociali, era più disposto di vedere nel nobile straniero, chiamato Monte-Cristo, un cavaliere d’industria che tentasse un nuovo teatro, o un malfattore in istato di rottura di bando, di quello che un principe dello stato romano, od un sultano delle _Mille ed una notte_. — Signore, disse Villefort, con quel tuono lamentevole che assumono i magistrati nei loro periodi oratori, e di cui non vogliono o non possono disfarsi nella conversazione; signore, il servigio segnalato che ieri avete reso a mia moglie ed a mio figlio mi fanno un dovere di ringraziarvi. Vengo dunque a compiere questo dovere, e ad esprimervi tutta la mia riconoscenza. — E nel pronunciare queste parole, l’occhio severo del magistrato nulla aveva perduto della sua abituale arroganza. Queste parole che aveva dette, le aveva articolate colla voce da procurator generale, con quella rigidità inflessibile di collo e di spalle, che faceva dire ai suoi adulatori, come noi lo ripetiamo, ch’egli era la statua vivente della legge. — Signore, disse il conte a sua volta con una freddezza di gelo, io sono molto fortunato di aver potuto conservare un figlio a sua madre, perchè si dice che il sentimento di maternità sia il più possente com’è il più santo di tutti, e questa fortuna che mi sono procurata vi dispensava, signore, dal compiere un dovere di cui la esecuzione certamente m’onora, poichè so che il signor de Villefort non prodiga il favore che mi fa, ma che, per quanto ciò sia prezioso non ostante non vale per me la interna soddisfazione. Villefort meravigliato di questa uscita cui non si aspettava, fremè come un soldato che sente il colpo che gli viene dato, ad onta dell’armatura di cui è coperto, ed una piega sdegnosa del suo labbro, indicò che da bel principio egli non riteneva il conte di Monte-Cristo per un gentiluomo bene educato. Girò gli occhi intorno a sè, come per riattaccare su qualche cosa la conversazione che era già caduta e che sembrava essersi infranta cadendo. Vide la carta che studiava Monte-Cristo quando egli entrò, e riprese: — Vi occupate di geografia, signore? Questo è un ricco studio, per voi particolarmente, che, a quanto si assicura, avete già veduti tanti paesi quanti ne sono incisi su quella carta. — Sì, signore, rispose il conte; io ho voluto fare sulla specie umana presa in massa ciò che voi fate ogni giorno sulle eccezioni, vale a dire uno studio fisiologico. Ho pensato che mi sarebbe più facile discendere dal tutto al particolare, che dal particolare salire al tutto. È un assioma algebrico che vuole che si proceda dal conosciuto allo sconosciuto e non dallo sconosciuto al conosciuto... Ma sedetevi dunque, io ve ne supplico. — E Monte-Cristo indicò colla mano al procuratore del Re una sedia, che questi dovette inoltrare da sè stesso, nel mentre ch’egli non ebbe che quella di lasciarsi ricadere sulla stessa, su cui era inginocchiato quando entrò il procuratore del Re; in questo modo il conte si ritrovò per metà voltato verso il suo visitatore avendo le spalle alla finestra ed il gomito appoggiato alla carta geografica che pel momento formava il soggetto della conversazione, la quale prendeva, come era accaduto da Morcerf e da Danglars, una piega del tutto analoga se non alla situazione, almeno al personaggio. — Ah! voi filosofate, riprese Villefort dopo un momento di silenzio, durante il quale, come un atleta che incontra un forte avversario, aveva riunite le sue forze. Ebbene! signore, parola d’onore, se come voi non avessi nulla da fare, cercherei un’occupazione men trista. — È vero, signore, rispose Monte-Cristo, e l’uomo è un laido bruco se si osserva col microscopio solare; ma voi avete detto, che io non ho niente da fare. Vediamo, credereste per caso di aver voi qualche cosa da fare? o, per parlare più chiaramente, signore, credete che ciò che fate possa chiamarsi qualche cosa? — Lo stupore di Villefort raddoppiò a questo secondo colpo così brutalmente vibrato dal suo strano avversario; era gran tempo che il magistrato non si era sentito dire un paradosso di questa forza, o piuttosto, per parlare più rettamente, era la prima volta che lo sentiva. Il procuratore del re si mise all’opera per rispondere. — Signore, diss’egli, voi siete straniero, e, lo dite voi stesso, io credo, una parte della vostra vita l’avete passata nei paesi orientali; non sapete dunque come la giustizia umana, speditiva in quelle contrade, ha presso noi un andamento prudente e misurato? — Sia, signore, sia, è il _piede zoppo_ degli antichi. So tutto questo, perchè è particolarmente della giustizia di tutti i paesi che mi sono occupato, è la procedura criminale di tutte le nazioni che io ho paragonata colla giustizia naturale; e debbo dirlo, signore, è ancora la legge dei popoli primitivi, la legge del _taglione_ che ho ritrovata la più conforme al bisogno e la più speditiva. — Se questa legge fosse adottata semplificherebbe molto i nostri codici, ed allora pel colpo che ne riceverebbero i nostri magistrati, come dicevate or ora, non avrebbero più gran cosa da fare. — Ciò accadrà forse nell’avvenire, disse Monte-Cristo; sapete che le invenzioni umane progrediscono dal composto al semplice, e che il semplice è sempre la perfezione. — Mentre si aspetta questo avvenire però, disse il magistrato, vi sono i nostri codici coi loro articoli contraddittorii tolti dai gallici costumi, dalle leggi romane, e dagli usi franchi; ora la conoscenza di tutte queste leggi, ne converrete, non si acquista che con lunghi lavori ed abbisogna un lungo studio per acquistare tale conoscenza, ed una grande possanza di testa perchè non si abbia a dimenticare, una volta acquistata. — Io sono del vostro parere, signore, ma tutto ciò che sapete in riguardo a questo codice francese, lo so io pure, ma non solamente riguardo a questo codice, ma a quello di tutte le nazioni: le leggi indiane, turche, giapponesi mi sono tanto famigliari quanto le leggi francesi; aveva dunque ragione di dire che relativamente (perchè tutto è relativo) a tutto ciò che ho fatto io, voi avete fatto ben poco, e che relativamente a quanto ho imparato io, voi avete ben molto da imparare. — Ma con quale scopo avete voi appreso tutto ciò? riprese Villefort meravigliato. Monte-Cristo sorrise: — Bene, signore, diss’egli; io vedo che ad onta della reputazione per la quale si ritiene un uomo superiore agli altri, voi vedete ogni cosa sotto il punto di vista materiale e volgare della società, cominciando dall’uomo e terminando all’uomo, cioè sotto il punto di vista più ristretto, più circoscritto che sia stato permesso all’umana intelligenza d’abbracciare. — Spiegatevi, disse Villefort sempre più maravigliato, non vi capisco... molto bene. — Dico, signore, che cogli occhi fissi sulla organizzazione sociale delle nazioni, voi non vedete che le molle della macchina, e non conoscete davanti a voi, e intorno a voi che i titolari dei posti, i cui diplomi sono stati firmati dai ministri o dal re, e che gli uomini che Iddio ha messo al di sopra dei titolati, dei ministri, e dei re, dando loro una missione da compiere e non un posto da occupare, io dico, che questi sfuggono alla vostra corta vista. Ciò è proprio dell’umana debolezza, e degli organi deboli ed incompleti. Tobia prendeva l’angiolo che doveva rendergli la vista per un giovine comune; le nazioni prendevano Attila, che doveva annientarle, per un conquistatore come tutti gli altri, e fu d’uopo che entrambi svelassero la loro missione celeste perchè gli uomini la conoscessero. Abbisognò che uno dicesse «io sono l’angelo del Signore» e l’altro «io sono il martello di Dio,» perchè la missione divina d’entrambi fosse rivelata. — Allora, disse Villefort con istupore sempre crescente, e credendo di parlare ad un pazzo o ad un ispirato, voi vi considerate come uno di questi esseri straordinari che avete nominato. — E perchè no? disse freddamente Monte-Cristo. — Perdonatemi, signore, riprese Villefort sbalordito, ma mi scuserete se, presentandomi a voi, non sapeva di presentarmi ad un uomo, il cui sapere ed il cui spirito sorpassavano di tanto il sapere e lo spirito ordinario ed abituale degli uomini. Non è usanza, fra noi infelici corrotti dall’incivilimento, che i gentiluomini possessori come voi di un’immensa fortuna, almeno a ciò che mi si assicura, notate bene che io non interrogo, ma ripeto soltanto ciò che ho inteso, non è usanza fra noi, diceva, che questi privilegiati dalle ricchezze perdano il loro tempo in ispeculazioni sociali, in astrazioni filosofiche, fatte tutt’al più per consolare quelli che la sorte ha diseredati dei beni della terra. — Eh! signore, riprese il conte, siete voi dunque giunto al posto eminente che occupate senza aver mai fatta, o incontrata qualche eccezione? e non esercitate mai il vostro sguardo, che pure avrebbe bisogno di molta finezza e sicurezza, ad indovinare con un sol colpo chi è caduto sotto di questo sguardo? Un magistrato non dovrebb’egli essere, non il migliore applicatore della legge, non il più furbo interprete delle oscurità della cabala, ma uno specchio d’acciaio per provare i cuori, una pietra di paragone per assaggiare l’oro che in ciascun’anima si trova sempre misto a più o meno lega? — Signore, disse Villefort, voi mi confondete, non ho mai inteso parlare come fate voi. — Egli è perchè siete sempre rimasto racchiuso fra il cerchio delle condizioni generali, perchè non avete mai osato innalzarvi con un batter d’ali nelle sfere superiori che sono popolate d’esseri invisibili ed eccezionali. — Ammettete dunque, signore, che vi sieno queste sfere, e che gli esseri eccezionali ed invisibili si mischino a noi? — E perchè no? vedete voi forse l’aria che respirate, e senza la quale non potreste vivere? — Allora non vediamo questi esseri di cui parlate? — Voi li potete vedere ogni qual volta quegli esseri si materializzano; voi li toccate allora, li urtate, parlate loro, essi vi rispondono. — Ah! disse Villefort sorridendo, vi confesso che vorrei essere avvisato quando uno di questi esseri si ritroverà meco in contatto. — Voi siete stato servito a seconda del vostro desiderio, signore; poichè testè siete stato avvisato, ed ora pure vi avviso. — Così, voi stesso... — Io sono uno di questi esseri eccezionali, sì, signore, io lo credo; sino ad oggi nessun uomo si è ritrovato in una posizione simile alla mia. I regni dei re sono circoscritti, sia dalle montagne, sia dai fiumi, sia da un cambiamento di costumi o di favella. Il mio regno è grande come il mondo, perchè non sono nè italiano, nè francese, nè indiano, nè americano, nè spagnuolo: io sono cosmopolita. Nessuno può dire di avermi veduto nascere, Dio solo sa quale terra mi vedrà morire. Io adotto tutti i costumi, io parlo tutte le lingue; voi mi credete francese, non è vero, perchè parlo il francese colla stessa facilità e purezza di voi? Ebbene! Alì, il mio moro, mi crede Arabo; Bertuccio, il mio intendente, mi crede Romano; Haydée, la mia schiava, mi crede Greco. Dunque capirete, che non essendo di alcun paese, non domandando protezione ad alcun governo, non riconoscendo alcun uomo per mio fratello, non un solo scrupolo che arresta i potenti, non un solo ostacolo che paralizza i deboli, può nè arrestarmi nè paralizzarmi. Non ho che due avversarii, non dirò due vincitori, perchè li sottometto colla persistenza; la distanza ed il tempo. Il terzo, ed è il più terribile, sta nella mia condizione di mortale. Ciò solo può fermarmi nella strada che percorro, e prima che abbia conseguito lo scopo a cui miro; tutto il resto, l’ho calcolato. Ciò che gli uomini chiamano capricci della fortuna, vale a dire la ruina, i cambiamenti, le eventualità, le ho tutte prevedute, e se qualcuna può colpirmi, nessuna può rovesciarmi. A meno che non muoia, sarò sempre ciò che sono, ecco perchè vi dico cose che voi non avete mai intese, neppure dalla bocca dei re, perchè i re hanno bisogno di voi, e gli altri uomini hanno paura di voi. Chi è quegli che non supponga, in una società ordinata tanto ridicolmente quanto la nostra: «forse un giorno posso aver che fare col procuratore del re»? — Ma voi stesso potete dir questo, perchè, dal momento che abitate la Francia, siete naturalmente sottoposto alle leggi francesi. — Lo so, signore, rispose Monte-Cristo, ma quando devo andare in un paese, comincio dallo studiare, con mezzi che mi sono particolari, tutti gli uomini dai quali posso avere qualche cosa da sperare o da temere, e giungo a conoscerli molto bene, forse meglio ancora di quello che non si conoscono da sè stessi. Ciò porta ad un resultato, che, il procuratore del re, qualunque egli fosse, con cui avessi da fare sarebbe certissimamente più impacciato di me. — Ciò vuol dire, riprese con esitanza Villefort, che la natura umana è debole, ed ogni uomo, secondo voi, ha commesso qualche... sbaglio. — Sbaglio... o delitto, rispose negligentemente Monte-Cristo. — E che voi solo fra gli uomini, che non riconosceste per fratelli, come avete detto voi stesso, riprese Villefort con voce leggermente alterata, e che voi solo siete perfetto. — Non perfetto, rispose il conte, impenetrabile, ecco tutto. Ma tronchiamo quest’argomento, signore; se la conversazione vi dispiace, molto più che voi non vi trovate maggiormente minacciato dalla mia doppia vista, di quello che io lo sia dalla vostra giustizia. — No! signore, disse vivamente Villefort, che senza dubbio temeva comparisse aver abbandonato il terreno; no! colla vostra brillante e quasi sublime conversazione mi avete innalzato al di sopra dei livelli ordinarii; noi non parliamo più, dissertiamo. Ora, voi sapete come i professori in cattedra, ed i filosofi nelle loro dispute, si dicono qualche volta delle crudeli verità. Fingiamo adunque di fare una disputa sociale e filosofica, vi dirò dunque, per quanto vi sembri duro: «Caro fratello voi sacrificate all’orgoglio; voi siete al di sopra degli altri, ma al di sopra di voi sta Dio!» — Al di sopra di tutti, signore, rispose Monte-Cristo con un accento così profondo che Villefort ne fremette involontariamente. Ho il mio orgoglio per gli uomini, serpenti sempre pronti a drizzarsi contro colui che li sorpassa di fronte, senza schiacciarli col piede; ma lo depongo davanti a Dio, che mi ha tolto dal niente per farmi quel che sono. — Allora, sig. conte, vi ammiro, disse Villefort che per la prima volta, in questo strano dialogo, impiegava questa formula aristocratica collo straniero, che fino allora aveva soltanto chiamato signore. Sì, ve lo dico, se siete realmente forte, superiore, sano o impenetrabile, ciò che torna la stessa cosa, siate superbo, questa è la legge della dominazione. Ma voi pertanto avrete una qualche ambizione? — Ne ho avuta una, signore. — E quale? — Ho ambito di essere fatto strumento della Provvidenza. Villefort guardò Monte-Cristo con somma meraviglia. — Signor conte, diss’egli, non avete voi parenti? — No, signore, son solo in questo mondo. — Tanto peggio! — Perchè? domandò Monte-Cristo. — Perchè avreste potuto vedere uno spettacolo atto ad infrangere il vostro orgoglio. Non temete che la morte, diceste? — Non dico di temerla; dico ch’ella sola può arrestarmi. — E la vecchiaia? — La mia missione sarà compita prima che sia vecchio. — E la pazzia? — Poco ha mancato che non diventassi pazzo, e voi sapete l’assioma, _non due volte nello stesso, non bis in idem:_ è un assioma criminale, e perciò della vostra sfera. — Signore, vi è ancora un’altra cosa da temersi oltre la morte, la vecchiaia, o la pazzia; vi è, per esempio, l’apoplessia, questo colpo di fulmine che vi colpisce senza distruggervi, ma dopo il quale però tutto è finito; siete sempre voi, e ciò non ostante non siete più voi. Venite, se vi piace, a continuare questa conversazione, venite in casa mia, sig. conte, un giorno che abbiate volontà d’incontrarvi in un avversario capace di comprendervi ed avido di confutarvi, e vi mostrerò mio padre, il sig. Noirtier de Villefort, uno dei più focosi giacobini della rivoluzione francese, vale a dire la più brillante audacia messa al servizio della più vigorosa organizzazione; un uomo che, come voi, non aveva forse veduto tutti i regni della terra, ma aveva aiutato a rovesciarne uno dei più forti; un uomo finalmente che, come voi, pretendeva di essere un inviato da Dio, dall’Essere supremo, dalla Provvidenza. Ebbene! signore, la rottura di un vaso sanguigno in un lobo del cervello ha rovinato tutto questo; non in un giorno, non in un’ora, ma in un secondo. Il giorno prima il sig. Noirtier, antico giacobino, antico senatore, antico carbonaro, rideva della ghigliottina, rideva del cannone, rideva del pugnale; il sig. Noirtier che giuocava colle rivoluzioni, egli per cui la Francia non era che una vasta scacchiera della quale pedine, torri, cavalli e regina dovevano sacrificarsi perchè il re ricevesse scacco-matto, il sig. Noirtier tanto temuto e temibile, era il giorno dopo quel povero Noirtier, vecchio immobile, abbandonato alla volontà dell’essere più debole della casa, vale a dire della sua nipote Valentina; infine un cadavere muto ed agghiacciato, che vive senza gioie, e spero, senza soffrire. — Ahimè! signore, questo spettacolo non è nuovo nè ai miei occhi, nè al mio pensiero, disse Monte-Cristo; sono alcun poco medico, e qui rammenterò che la Provvidenza si appalesa nei fatti che ci cadono sotto gli occhi, e non potete negarlo. Cento autori, dopo Socrate, dopo Seneca, hanno fatto in prosa ed in versi il ravvicinamento che avete fatto voi; ciò non pertanto capisco che le sofferenze di un padre possono operare grandi cangiamenti nello spirito del figlio; verrò, signore, poichè mi v’impegnate, verrò a contemplare, a profitto della mia umiltà, questo tristo spettacolo, che deve molto contristare la vostra casa. — Questo certamente sarebbe, se il cielo non mi avesse dato un largo compenso. In faccia del vecchio che discende trascinandosi nella tomba, sorgono due figli che entrano nella vita; Valentina figlia della mia prima moglie Renata di Saint-Méran, ed Edoardo, quel fanciullo cui avete salvata la vita. — E che concludete da questo confronto, signore? — Concludo, rispose Villefort, che mio padre, travolto dalle passioni, ha commesso qualcuno di quegli errori che sfuggono all’umana giustizia, ma che si attirano la giustizia di Dio!.... e che Dio non volendo punire che un solo, non ha percosso che lui solo. Monte-Cristo col sorriso sulle labbra, mandò nel profondo del cuore un ruggito, che avrebbe fatto fuggire Villefort, se lo avesse inteso. — Addio, signore, riprese il magistrato che si era alzato da qualche tempo e parlava in piedi; io parto portando meco una memoria di voi piena di stima e che, spero, vi potrà essere più aggradita quando mi conoscerete meglio; poichè non sono un uomo leggero quanto può credersi. D’altra parte vi siete formato della sig.ª de Villefort un’amica eterna. — Il conte salutò, e si contentò di accompagnare Villefort soltanto fino alla porta del gabinetto, questi raggiunse la carrozza, preceduto da due lacchè, che, dietro un segno del loro padrone, si affrettarono di fargli aprire. Indi quando il procuratore del re fu disparso: — Andiamo, disse Monte-Cristo, cavando a stento un sospiro dal petto oppresso; andiamo, abbiamo preso abbastanza di questo veleno, ora che il cuore ne è pieno, andiamo a cercarne l’antidoto! — E battè un colpo sul campanello sonoro. — Salgo dalla signora, diss’egli ad Alì, che fra mezz’ora la carrozza sia pronta! XLVIII. — HAYDÉE. Si ricorderanno i nostri lettori quali erano le recenti, o per meglio dire le antiche conoscenze del conte di Monte-Cristo, che abitavano in via Meslay: Massimiliano, Giulia, ed Emmanuele. La speranza di questa buona visita che voleva fare, quei pochi momenti che avrebbe passati, da questa luce di paradiso sdrucciolando nell’inferno in che si era volontariamente posto, avevano sparsa la più graziosa serenità sul viso del conte, dal momento che Villefort era partito, e che Alì, il quale era accorso al noto tocco, erasi ritirato sulla punta dei piedi. Era mezzo giorno, il conte si era riserbata un’ora per salire da Haydée. La giovane greca era, come abbiamo detto, in un appartamento interamente separato da quello del conte, per intero ammobiliato all’uso orientale; vale a dire i pavimenti coperti di fitti tappeti di Turchia, stoffe di broccato cadevano lungo i muri, ed in ciascuna camera un largo divano girava intorno con pile di cuscini che si spostavano a volontà di quelli che se ne servivano. Haydée aveva tre donne francesi ed una greca. Le tre francesi stavano nella prima camera, pronte ad accorrere al suono di un piccolo campanello d’oro, e ad obbedire agli ordini della schiava greca, la quale sapeva abbastanza il francese per trasmettere la volontà della sua padrona alle tre cameriere, cui Monte-Cristo aveva raccomandato di avere per Haydée i riguardi che si sarebbero potuti avere per una regina. Ella era nella camera più remota del suo appartamento, cioè in una specie di gabinetto rotondo, che prendeva lume soltanto dall’alto, e la luce passava per cristalli colorati in rosa: seduta per terra sopra cuscini di seta blu broccata in argento, circondando la testa col braccio destro mollemente rotondeggiante, mentre che il sinistro teneva fisso alle labbra il tubo di corallo al quale era incassata la canna flessibile di una pipa turca, che non lasciava giungere alla bocca il vapore, se non dopo di essere stato profumato dall’acqua di benzoino a traverso la quale la sua dolce inspirazione lo sforzava di passare. Quanto al vestito era quello delle donne dell’Epiro, cioè, calzoni di seta bianca ricamati a fiori di rose, che lasciavano scoperti due piedi da fanciullo che si sarebber creduti di marmo di Paros, se non si fossero veduti agitare due piccoli zandali colla punta ricurva, orlati d’oro e di perle; una veste a lunghe righe blu e bianche, con larghe maniche aperte per le braccia con ricami d’argento, e bottoni di perle; finalmente una specie di corsaletto che si allacciava al di sotto del seno con tre bottoni di diamanti. Quanto alla parte inferiore del corsaletto, e superiore dei calzoni, essa era perduta in una di quelle cinture, a vivi colori e a larghe frange, che in oggi formano l’ambizione delle nostre eleganti parigine. La testa era acconciata con una piccola calotta d’oro, orlata di perle, inclinata sopra un lato, e al disotto della callotta, dalla parte su cui era inclinata, una bella rosa naturale color porpora, spiccava intrecciata a capelli così neri che sembravano blu. In quanto alla bellezza del viso, era la bella greca in tutta la purezza del suo tipo, coi grandi occhi neri vellutati, la fronte di marmo, il naso dritto, le labbra di corallo, e i denti di perle. E su questo grazioso insieme, il fiore della gioventù era sparso con tutto il suo splendore e profumo. Haydée poteva avere 19, o 20 anni. Monte-Cristo chiamò la sua schiava greca, e fece domandare ad Haydée il permesso di entrare da lei. Per sola risposta, Haydée fece segno alla schiava di rimuovere la portiera. Monte-Cristo s’avanzò. Ella si sollevò sul gomito del braccio che teneva la pipa, e stendendo al conte la mano, lo accolse con un sorriso. — Perchè, diss’ella nella lingua sonora delle figlie di Sparta e d’Atene, perchè mi fai tu domandare il permesso d’entrare da me? Non sei più il mio padrone? non son più la tua schiava? Monte-Cristo sorrise a sua volta: — Haydée, non sapete?... — Perchè non mi dici _tu_, come d’ordinario? interruppe la giovane greca; ho dunque commesso qualche mancanza? in questo caso bisogna punirmi, ma non dirmi _voi_. — Haydée, disse il conte, tu sai che siamo in Francia, e per conseguenza che sei libera? — Libera di far che? domandò la giovane. — Libera di lasciarmi. — Di lasciarti!... e perchè dovrei lasciarti? — Che so io?... vedremo gente... — Non voglio vedere nessuno. — E se in mezzo ai bei giovani che incontrerai, qualcuno ti piacesse, non sarò tanto ingiusto... — Non ho veduto altri, che mio padre e te. — Povera fanciulla, disse Monte-Cristo; ti ricordi di tuo padre, Haydée? — La giovane sorrise: — Egli è qua, è qua, diss’ella mettendo la mano sul cuore e sugli occhi. — Ora, Haydée, tu sai che sei libera, che sei padrona, regina; puoi conservare il tuo costume, o lasciarlo a tuo capriccio; resterai qui quanto vuoi restarvi, uscirai quando il vuoi; vi sarà sempre una carrozza attaccata per te; Alì e Myrtho t’accompagneranno ovunque, e saranno ai tuoi ordini. Soltanto di una sola cosa ti prego; conserva il segreto della tua nascita, non dire una parola del tuo passato; non pronunziare in alcuna occasione il nome dell’illustre tuo padre, nè quello della tua povera madre. — Te l’ho già detto, non voglio vedere nessuno. — Ascolta, Haydée, questa reclusione del tutto orientale forse sarà impossibile a Parigi; continua ad apprendere il genere di vita dei nostri paesi del Nord, come lo hai fatto a Roma, a Firenze, a Milano, e a Madrid; ciò ti servirà sempre, tanto se continui a vivere qui, come se ritorni in Oriente. — La giovane alzò gli occhi sul conte, e rispose: — E che ritorniam forse in Oriente, n’è vero, mio signore? — Sì, disse Monte-Cristo. Ma credi tu che ti abituerai qui? — Ebbene! che mi domandi, signore? — Temo che tu non ti annoi. — No, signore, perchè quando sono sola ho grandi ricordi, rivedo immensi quadri, mi si presentano grandi orizzonti col Pindo e coll’Olimpo in lontananza. Poi ho nel cuore tre sentimenti coi quali uno non si annoia mai: la malinconia, l’amore, e la riconoscenza. — Sei una degna figlia dell’Epiro; Haydée, graziosa e poetica, si vede che discendi da quella famiglia di dee che è nata nel tuo paese. Sii dunque tranquilla. Il conte disposto in tal modo alla visita che voleva fare a Morrel ed alla sua famiglia, partì mormorando alcuni versi di Pindaro. Secondo i suoi ordini, la carrozza era preparata, vi salì, e questa come sempre, partì al galoppo. IL. — LA FAMIGLIA MORREL. In pochi minuti la carrozza giunse strada Meslay n.º 7. La casa era bianca, ridente, e preceduta da un cortile con due praticelli guerniti di belli fiori. Nel portinaro che gli aprì la porta, il conte riconobbe il vecchio Coclite, ma come ognuno ricorderà, questi non aveva che un occhio, ed in nove anni quest’occhio era ancora considerevolmente indebolito. Coclite non riconobbe il conte. La carrozza, per fermarsi davanti l’entrata, doveva voltare onde evitare un piccolo getto d’acqua che cadeva in un bacino di rocce; magnificenza che aveva eccitata la gelosia del quartiere, e che era causa che questa casa venisse chiamata la _piccola Versailles_. È superfluo il dire che nel bacino guizzavano in quantità pesci gialli e rossi. La casa eretta sopra le cucine e le cantine, aveva, oltre il piano terreno, due piani e le soffitte. I giovani l’avevano acquistata colle dipendenze, che consistevano in un laboratorio, in due padiglioni nel fondo del giardino, e nel giardino stesso. Emmanuele aveva veduto, a primo colpo d’occhio, che in questa disposizione di locali v’era una piccola speculazione da farsi: si era riservata la casa, la metà del giardino, e aveva tirata una linea, cioè, fabbricato un piccolo muro fra lui ed il laboratorio, che aveva dato in fitto in un coi padiglioni e la porzione rimasta di giardino; di modo che si trovava alloggiato per una somma molto modica, e tanto ben chiuso, quanto il più scrupoloso proprietario di una casa del sobborgo San-Germano. La sala da pranzo era di quercia, il salotto di mogano e di velluto blu, la camera da dormire di cedro e di damasco verde; vi era inoltre un gabinetto di studio per Emmanuele che nulla studiava, ed un salotto per musica per Giulia che non n’era dilettante. Il secondo piano per intero era dedicato a Massimiliano; egli aveva in quello una ripetizione esatta dell’appartamento della sorella, meno che la sala da pranzo convertita in sala di bigliardo, ove conduceva i suoi amici. Sorvegliava da sè stesso il suo cavallo, e fumava il sigaro all’ingresso del giardino, quando la carrozza del conte si fermò alla porta. Coclite aprì la porta, come abbiamo detto, e Battistino si slanciò dal sedile, chiedendo se il sig. e la sig.ª Herbault ed il sig. Massimiliano Morrel erano visibili pel conte di Monte-Cristo. — Pel conte di Monte-Cristo! gridò Morrel gettando il sigaro, e slanciandosi avanti al visitatore; lo credo bene che siamo visibili per lui, ah! grazie, cento volte grazie, sig. conte, di non avere dimenticata la vostra premessa. — Ed il giovine officiale strinse così cordialmente la mano del conte, che questi non potè ingannarsi sulla franchezza della manifestazione, e vide bene ch’era stato aspettato con impazienza e ricevuto con premura. — Venite, venite, disse Massimiliano, voglio servirvi d’introduttore; un uomo come voi siete, non deve essere annunziato da un domestico, mia sorella è in giardino a strappar le rose appassite; mio cognato legge i suoi giornali favoriti, _la Presse_ ed il _Débats_ a sei passi da lei lontano, perchè ovunque si ritrova la signora Herbault, si ritrova Emmanuele, e vice versa. Il rumore dei passi fe’ alzare la testa ad una giovane donna di 20 a 25 anni, abbigliata con una veste da camera di seta, e che sfogliava con una cura particolare un magnifico rosaio. Questa donna era la nostra piccola Giulia, divenuta, come le era stato predetto dal mandatario della casa Thomson e French, la moglie di Emmanuele Herbault. Vedendo uno straniero mandò un piccolo grido. Massimiliano si mise a ridere: — Non ti scomodare, sorella mia, diss’egli, il sig. conte è a Parigi da soli due o tre giorni, ma sa già che cosa è una censuaria del Marais, e se non lo sa tu glielo insegnerai. — Ah! signore, condurvi così, disse Giulia, è un tradimento di mio fratello che non ha per sua sorella la più piccola galanteria... Penelon!... Penelon!... Un vecchio che zappava intorno ad un rosaio bianco del Bengala, piantò la zappa in terra e si avvicinò, col berretto in mano, dissimulando il meglio che poteva l’avanzo di sigaro che stava masticando, e che nascondeva nel fondo della guancia. Qualche capello bianco inargentava la sua fitta capellatura, nel mentre che il color bronzino e l’occhio ardito e vivo annunciavano un vecchio marinaro, imbrunito sotto il sole dell’equatore, e disseccato al soffio delle tempeste: — Mi pare che mi abbiate chiamato, madamigella Giulia, diss’egli, eccomi. — Penelon aveva conservato l’abitudine di chiamare la figlia del suo padrone madamigella Giulia, e non aveva mai potuto prendere quella di chiamarla sig.ª Herbault. — Penelon, disse Giulia, andate a prevenire Emmanuele della buona visita che abbiamo, mentre che Massimiliano condurrà il signore nel salotto. — Indi volgendosi a Monte-Cristo: — Il signore mi permetterà di fuggire un minuto, n’è vero? diss’ella. — E senza aspettare il consenso del conte, si slanciò dietro un gruppo d’alberi, e rientrò in casa per un viale laterale. — E che! mio caro Morrel, disse Monte-Cristo, m’avveggo bene con dispiacere ch’io faccio rivoluzione nella vostra famiglia. — Guardate, guardate, disse Massimiliano ridendo, vedete laggiù il marito, che, da sua parte, va a cambiare la veste da camera in un abito? Oh! è perchè voi siete conosciuto nella strada Meslay, voi eravate annunziato, vi prego di crederlo. — Mi sembra che abbiate qui una felice famiglia, disse il conte rispondendo al suo pensiero. — Oh! sì, ve ne garantisco, sig. conte; che volete? nulla manca loro per essere felici, sono giovani, sono allegri, si amano, e, colle loro 25 mila lire di rendita, si figurano possedere le ricchezze di Rothschild. — È poco però 25 mila lire di rendita, disse Monte-Cristo con una dolcezza così soave che penetrò il cuore di Massimiliano, come avrebbe potuto farlo la voce di un tenero padre; ma non si fermeranno lì i nostri giovani, diverrano a loro volta milionari. Il vostro cognato è avvocato... medico? — Era negoziante, sig. conte, ed aveva presa la ditta del mio padre. Il sig. Morrel è morto lasciando 500 mila fr. di fondi; io ne aveva una metà, e mia sorella l’altra, perchè non eravamo che due figli. Suo marito, che l’aveva sposata senza avere altro patrimonio che la sua nobile probità, la sua intelligenza di prim’ordine, e la sua riputazione senza macchia, ha voluto possedere egual somma che sua moglie. Egli lavorò fin ch’ebbe accumulati 250 mila fr.; sei anni bastarono. Era, ve lo giuro sig. conte, un commovente spettacolo il vedere questi due giovani sì laboriosi, sì uniti, destinati per la loro capacità alla più gran fortuna, e che, non avendo voluto fare alcun cambiamento nelle abitudini della casa paterna, hanno messo sei anni per accumulare ciò, che dei novatori avrebbero potuto fare in due o tre; così, Marsiglia risuona tuttora delle lodi che non ha potuto rifiutare a tanta abnegazione. Finalmente un giorno Emmanuele venne a ritrovare sua moglie che compiva di pagare le scadenze: «— Giulia, le diss’egli, ecco l’ultimo rollo di 100 fr. riscosso da Coclite, e che compie i 250 mila fr. che abbiamo fissato come limite del nostro guadagno. Sarai tu soddisfatta di questo poco di cui d’ora innanzi bisognerà che ci contentiamo? Ascolta, la casa ogni anno fa affari per un milione di fr., e può produrre un utile di 40mila fr.; venderemo, se vogliamo, la clientela in un’ora per 300 mila fr. perchè ecco qui una lettera del sig. Delaunay che ce li offre in cambio dei nostri fondi, ch’egli vuole riunire ai suoi. Pensa a ciò che credi che si debba fare. — Amico mio, disse mia sorella, la ditta Morrel non può essere portata che da un Morrel. Salvare per sempre il nome di nostro padre da qualunque evento della fortuna, non vale più dei 300 mila fr.? — Lo pensava anche io, disse Emmanuele; pure ho voluto sentire il tuo parere. — Ebbene, amico mio, eccolo. Tutti i nostri incassi sono fatti, tutte le nostre obbligazioni pagate; possiamo tirare un rigo al disotto dei conti di questa quindicina, e chiudere il banco; facciamolo. «Il che fu fatto nello stesso momento. Erano le tre; alle tre e un quarto un cliente si presentò per fare assicurare il tragitto di due bastimenti; era un guadagno sicuro di 15 mila fr. in contanti: «— Signore, gli disse Emmanuele, abbiate la bontà di volgervi per queste assicurazioni a qualcun altro dei nostri confratelli, per esempio al sig. Delaunay, in quanto a noi, abbiamo lasciati gli affari. «— E da quanto tempo? domandò il cliente meravigliato. «— Da un quarto d’ora. — Ed ecco, o signore, continuò sorridendo Massimiliano, in qual modo mia sorella e mio cognato non hanno che 25 mila lire di rendita. Massimiliano terminava appena questa narrazione, durante la quale il cuore del conte erasi sempre più dilatato, allorchè Emmanuele ricomparve restaurato di un abito e di un cappello. Egli salutò in modo da far conoscere che sapeva la visita, quindi, dopo aver fatto fare al conte il giro del piccolo recinto fiorito, lo condusse verso la casa. Il salotto era già imbalsamato dai fiori che stavano con gran stento contenuti in un immenso vaso del Giappone a maniche naturali. Giulia convenientemente vestita, ed elegantemente pettinata (aveva esauste tutte le sue forze in dieci minuti!), si presentò sull’ingresso per ricevere il conte. Si sentivano cinguettare gli uccelli di una vicina uccelliera; i rami di falso ebano, e dell’acacia rosea venivano coi loro grappoli di fiori ad ornare i panneggiamenti di velluto blu. Tutto respirava calma in questo grazioso piccolo ritiro; dal canto degli uccelli fino al sorriso dei padroni. Il conte, fin dal suo entrare nella casa, si era di già impregnato di questa felicità; perciò restava muto e astratto, dimenticando di esser guardato ed atteso per riprendere la conversazione interrotta dopo i primi complimenti. Egli s’accorse del suo silenzio che diveniva quasi inconveniente, e strappandosi con isforzo dalla sua astrazione: — Signora, diss’egli finalmente, perdonatemi, una emozione che deve maravigliare voi, assuefatta a questa pace ed a questa felicità; ma per me è cosa tanto nuova la soddisfazione sul viso umano, che non mi stanco di contemplare voi e vostro marito. — Siamo di fatto molto felici, signore, replicò Giulia; ma abbiamo sofferto tanto lungamente, che ben poche persone hanno conquistata la loro felicità ad un sì caro prezzo. La curiosità si dipinse sui lineamenti del conte. — Oh! questa è una storia di famiglia, come vi diceva l’altro giorno Château-Renaud, riprese Massimiliano; per voi, sig. conte, assuefatto a vedere illustri infortunii, e splendide gioie, vi sarebbe poco interessamento in questo quadro familiare. Tuttavolta abbiamo, come diceva Giulia, sofferti vivi dolori, quantunque circoscritti in questo piccolo quadro. — E Dio versò su voi, come versa su tutti, la consolazione sulle disgrazie? domandò Monte-Cristo. — Sì, sig. conte, lo possiamo dire, perchè ha fatto per noi, ciò che potrebbe fare pei suoi eletti; ci ha inviato uno dei suoi angeli. — Le guance del conte divennero rosse, ed ei tossì per avere un mezzo di dissimulare la sua emozione, portando alla bocca il fazzoletto. — Coloro che nacquero in una culla di porpora e che non hanno mai desiderato cosa alcuna, disse Emmanuele, non sanno ciò che sia il bene della vita; nello stesso modo che non conoscono il valore di un cielo puro e sereno coloro che non hanno mai messa la loro vita in balia di quattro assi gettati sopra un mare in furore. Monte-Cristo si alzò, e senza risponder nulla, poichè al tremolio della sua voce avrebbero forse riconosciuta l’emozione da cui egli era agitato, si mise a percorrere il salotto passo passo. — La nostra magnificenza vi farà sorridere? disse Massimiliano che seguiva cogli occhi Monte-Cristo. — No, no, rispose Monte-Cristo molto pallido, e comprimendosi con una mano i battiti del cuore, nel mentre coll’altra mostrava al giovine una campana di cristallo, sotto la quale una borsa di seta stava preziosamente stesa sopra un cuscino di velluto nero; domando soltanto a che serve questa borsa che da una parte mi sembra che contenga una carta, e dall’altra un bel diamante. Massimiliano assumendo un’aria grave rispose: — Questo, sig. conte, è il più prezioso dei nostri tesori di famiglia. — In fatti questo diamante è molto bello, replicò il conte. — Oh! mio fratello non vi parla già del prezzo della pietra quantunque sia stimata 100 mila fr. egli vuole solamente dirvi che gli oggetti che racchiude questa borsa son le reliquie di quell’angelo di cui vi parlavamo or’ora. — Ecco ciò che non saprei capire, e che ciò non ostante non debbo domandare, signora, replicò Monte-Cristo inchinandosi; perdonatemi, io non voleva essere indiscreto. — Indiscreto, dite voi? Oh! quanto al contrario ci rendete contenti, sig. conte, offrendoci un’occasione di trattenerci su questo argomento! se noi nascondessimo come un segreto la bell’azione che ci ricorda questa borsa, non la terremmo così esposta alla vista di tutti. Oh! vorressimo poterla pubblicare in tutto l’universo, perchè un fremito del nostro sconosciuto benefattore ci svelasse la sua presenza. — Davvero? fece Monte-Cristo con voce soffocata. — Signore, disse Massimiliano sollevando la campana di cristallo e baciando divotamente la borsa di seta, questa ha toccato la mano di un uomo pel quale mio padre è stato salvato dalla morte, dalla rovina, e dall’infamia; di un uomo mercè il quale, noi poveri ragazzi, destinati alla miseria ed alle lagrime, possiamo sentire oggi le persone esaltarsi per la nostra felicità. Questa lettera (e Massimiliano cavò il biglietto dalla borsa e lo presentò al conte) questa lettera fu scritta da lui, un giorno in cui mio padre aveva presa una risoluzione molto disperata, e questo diamante fu dato in dote a mia sorella da questo generoso sconosciuto. Monte-Cristo aprì la lettera e la lesse con un’indefinibile espressione di felicità; era il biglietto che i nostri lettori conoscono, diretto a Giulia, e firmato _Sindbad il marinaro_. — Sconosciuto, diceste? per tal modo l’uomo che vi ha reso questo servigio vi è rimasto ignoto? — Sì, signore, non abbiamo mai avuta la fortuna di stringergli la mano! non fu però per nostra mancanza di non aver chiesto a Dio questa grazia, riprese Massimiliano; ma in tutto questo affare vi fu una così misteriosa direzione che non siamo ancora giunti a comprender niente: il tutto fu guidato da una mano invisibile, potente come quella di un mago. — Oh! disse Giulia, non ho ancora perduta del tutto la speranza di poter un giorno giungere a baciare quella mano, come ora bacio questa borsa che fu da essa toccata. Sono quattr’anni, Penelon era a Trieste: Penelon, sig. conte, è quel bravo marinaro che avete veduto colla zappa alla mano, e che da secondo-mastro è diventato giardiniere, Penelon era dunque a Trieste, vide sullo scalo un inglese che stava per imbarcarsi sopra un _yacht_, e riconobbe in lui quello che venne da mio padre il 5 giugno 1829, e che mi scrisse questo biglietto il 5 settembre. Era bene lo stesso, a quanto egli assicura; ma non osò di parlargli. — Un inglese! fece Monte-Cristo astratto, e che si trovava impacciato ad ogni sguardo di Giulia. — Sì, riprese Massimiliano, un inglese che si presentò da noi come mandatario della casa Thomson e French di Roma. Ecco perchè allorquando l’altro giorno diceste da Morcerf che Thomson e French erano i vostri banchieri, mi avete veduto esultare. In nome del cielo, signore, quanto vi abbiamo detto accadde nel 1829; avete conosciuto questo inglese? — Ma non mi avete detto pure che la casa Thomson e French ha costantemente negato di avervi reso questo servigio? — Sì. — Allora, quest’inglese non potrebbe essere un uomo che riconoscente verso vostro padre di qualche buona azione che forse aveva anch’egli dimenticata, avesse preso questo pretesto per rendergli un servizio? — Tutto è supponibile in simile congiuntura, anche un miracolo. — Come si chiamava? domandò Monte-Cristo. — Non ha lasciato altro nome, rispose Giulia guardando il conte con una profonda attenzione, che quello che ha firmato in calce a questo biglietto: _Sindbad il marinaro_. — Evidentemente questo non è un nome ma un soprannome. Quindi, poichè Giulia lo guardava più attentamente ancora, e sembrava cogliere a volo qualche rassomiglianza alle note della sua voce. — Vediamo continuò egli, non è un uomo della mia persona, forse è un poco più grande, un poco più magro, imprigionato in un’alta cravatta, abbandonato in un abito stretto, e sempre con la matita alla mano. — Oh! ma dunque lo conoscete? gridò Giulia cogli occhi scintillanti di gioia. — No, disse Monte-Cristo. Ho conosciuto un lord Wilmore che spargeva in tal modo tratti di generosità. — Senza farsi conoscere? — Era un uomo bizzarro che non credeva alla riconoscenza. — Oh! mio Dio! gridò Giulia con un sublime accento e giungendo le mani, e a che cosa credeva dunque il disgraziato? — Egli non vi credeva, almeno al tempo in cui l’ho conosciuto, disse Monte-Cristo, al quale questa voce dal fondo dell’anima aveva agitato fin l’ultima fibra, ma da quel tempo forse avrà avuto qualche prova che la riconoscenza esiste. — E voi conoscete quest’uomo? chiese Emmanuele. — Oh! se lo conoscete, gridò Giulia, dite, dite, potete guidarci a lui, mostrarcelo, dirci dov’è? Dite dunque, Massimiliano, dite dunque, Emmanuele, se lo ritrovassimo bisognerebbe bene che egli credesse alla memoria del cuore. Monte-Cristo sentì due lagrime cadergli dagli occhi, fece ancora qualche passo nel salotto. — In nome del cielo, signore, disse Massimiliano, se sapete qualche cosa di quest’uomo, diteci ciò che sapete. — Ahimè! disse Monte-Cristo comprimendo l’emozione della sua voce, se il vostro benefattore, è lord Wilmore, temo che non lo ritroverete mai. Io l’ho lasciato due o tre anni fa a Palermo; ed egli partiva per paesi tanto favolosi, che dubito che non ritorni più. — Ah! signore, siete crudele, gridò Giulia con spavento. E le lagrime discesero dagli occhi della giovine sposa. — Signora, disse con gravità Monte-Cristo divorando collo sguardo le due perle liquide che scorrevano sulla guancia di Giulia, se lord Wilmore avesse veduto ciò che vedo io qui, egli amerebbe ancora la vita, perchè le lagrime che voi versate lo rappacificherebbero col genere umano. — E stese la mano a Giulia che gli presentò la sua, trascinata com’era dallo sguardo e dall’accento del conte. — Ma questo lord Wilmore, diss’ella, riattaccandosi ad un’ultima speranza, aveva un paese, una famiglia, dei parenti, infine era conosciuto? e non potressimo?... — Oh! non cercate niente, signora, disse il conte, non fabbricate dolci chimere sopra queste parole che io mi sono lasciato sfuggire. No, lord Wilmore probabilmente non è l’uomo che cercate, egli era mio amico, conosceva tutti i suoi segreti, e non mi ha raccontato mai niente di tutto ciò. — Non vi ha mai detto niente di tutto ciò? gridò Giulia. — Niente. — Mai una parola che avesse potuto farvi supporre? — Giammai. — Ciò non ostante lo avete nominato subito. — Ah! sapete... in simili casi, si suppone. — Ah! sorella mia, sorella mia, disse Massimiliano venendo in soccorso al conte, il signore ha ragione. Ricordati ciò che ci diceva spesso il nostro buon padre: Non è un inglese che ci ha procurata questa fortuna. Monte-Cristo rabbrividì: — Vostro padre diceva, sig. Morrel?... riprese vivamente il conte. — Mio padre, signore, vedeva in quest’azione un miracolo. Mio padre credeva ad un benefattore uscito per noi dalla tomba. Oh! qual commovente superstizione, signore, era questa; e, mentre io stesso non vi credeva, era ben lontano dal voler distruggere questa credenza nel suo nobile cuore! Così, quante mai volte vi pensava egli, pronunciando a bassa voce un nome, un nome di un amico molto caro, un nome di un amico perduto! E quando fu vicino a morte, quando l’approssimarsi dell’eternità ebbe dato al suo spirito qualche cosa della chiaroveggenza della tomba, questo pensiero, che fino allora non era che un dubbio, divenne una convinzione: e le ultime parole che pronunziò morendo furono queste: «Massimiliano, egli era Edmondo Dantès!». Il pallore del conte, che da qualche minuto andava crescendo, divenne spaventoso a queste parole. Tutto il sangue venne ad affluirgli al cuore, egli non poteva parlare, cavò l’orologio come se avesse dimenticata l’ora, prese il cappello, e fece alla signora Herbault un complimento momentaneo ed impacciato, e stringendo la mano ad Emmanuele e Massimiliano: — Signora, diss’egli: permettetemi di venire qualche volta a presentarvi i miei doveri. Io amo la vostra casa, e vi sono riconoscente della vostra accoglienza; è la prima volta da molt’anni che è passato il tempo senza accorgermene. — Ed uscì a passi precipitati. — Che uomo singolare è questo conte, disse Emmanuele. — Sì, disse Massimiliano, ma sono sicuro che ha un cuore eccellente, e certamente amante. — Ed a me, disse Giulia, la sua voce ha toccato il cuore, e due o tre volte mi è sembrato che non fosse la prima volta che la sentiva. L. — PIRAMO E TISBE. A due terzi del sobborgo Sant’Onorato, dietro una bella casa fra le notevoli abitazioni di questo quartiere si estende un vasto giardino di cui i marroni fronzuti sorpassano le enormi muraglie, alte come bastioni, e che lasciano al giunger della primavera cadere i loro fiori color bianco e rosa in due vasi di pietra scannellata, posti parallelamente sopra due pilastri quadrangolari, nei quali era incassato un cancello di ferro dei tempi di Luigi XIII. Questo grandioso ingresso è condannato, ad onta dei magnifici giranei che vegetano nei due vasi, e che librano al vento le loro foglie marmorizzate ed i loro fiori di porpora dall’epoca in cui i proprietarii del casamento, e ciò da gran tempo, si sono ristretti a dividere la casa dal cortile piantato d’alberi che mette al sobborgo, dal giardino che chiude questo cancello, che altra volta metteva in un magnifico parco di frutti annesso alla proprietà. Ma da che il demone della speculazione tirò una linea, cioè una strada all’estremità di questo parco, e da che la strada prese un nome e anche prima d’esistere mercè una placca di vetro imbrunito, si pensò a vender questo parco per fabbricar sulla strada e far concorrenza a questa grande arteria di Parigi, che chiamasi sobborgo Sant’Onorato. In materia di speculazioni però l’uomo propone e il danaro dispone: la strada battezzata morì in fasce, il comprator del parco dopo averlo interamente pagato, non potè trovare a rivenderlo per la somma che voleva; ed in aspettativa di un innalzamento di prezzo che da un giorno all’altro poteva rivalerlo delle perdite passate, e del suo capitale, si contentò d’appigionare questo recinto ad ortolani per 300 fr. annui. Era questo un danaro impiegato al mezzo per cento il che non è caro pei tempi che corrono; essendovi persone che lo impiegano al 30, e nondimeno lo trovano impiegato male. Intanto il cancello che altre volte metteva sul parco, è condannato, e la ruggine ne rode i gangheri: ma v’è ancor peggio, perchè gl’ignobili sguardi degli ortolani non avessero a lordare l’interno del recinto aristocratico, un tavolato fu applicato alle sbarre fino all’altezza di sei piedi. Vero è che le assi non son tanto ben connesse da non potervisi introdurre uno sguardo furtivo, ma questa casa ha costumi severi e non teme le indiscrezioni. In quest’orto invece di cavoli o carote, di piselli o meloni, vegeta un alto trifoglio, che fa fede che ancor si pensa a questo luogo abbandonato. Una piccola porta bassa che apresi sulla strada in quistione dà ingresso a questo terreno circondato da mura, che i pigionali hanno abbandonato per cagione della sua sterilità, e che da otto giorni in vece di fruttare un mezzo per cento come per lo passato non frutta più niente affatto. Dalla parte del casamento i marroni di cui abbiamo parlato coronavano la muraglia, ciò però non impediva che altre piante di lusso stendessero i loro rami fioriti fra quelli avidi di aria. In un angolo ove il fogliame era talmente fitto che la luce appena poteva penetrarvi alcun poco, un largo banco di pietra ed alcune seggiole da giardino indicavano esser quello un luogo favorito, o di ritirata di qualcuno degli abitatori della casa situata a cento passi di distanza, e che appena si poteva scorgere fra i recinti di verdura che l’avviluppavano: finalmente la scelta di questo asilo misterioso era giustificata ad un tempo dall’assenza del sole, dalla continua freschezza anche nei giorni della più bruciante estate, dal cinguettio degli uccelli, e dall’allontanamento dalla casa e dalla strada, cioè dagli affari e dal rumore. Verso la sera di una di quelle più calde giornate che la primavera possa accordare agli abitanti di Parigi v’era su questo banco di pietra un libro, un ombrellino, un cestello da lavoro, ed un fazzoletto di battista, di cui era cominciata l’orlatura, e non lungi da questo banco, vicino al cancello in piedi davanti all’assito, coll’occhio applicato ad una di quelle fenditure, che lasciavano vedere l’esterno, una giovinetta che fissava lo sguardo nel terreno deserto che noi conosciamo. Quasi nello stesso momento la piccola porta di quel terreno aprivasi senza far rumore e un giovine grande vigoroso vestito con una _blouse_ di tela greggia, con un berretto di velluto nero, ma di cui i baffi, la barba, ed i capelli estremamente acconciati erano alcun poco in opposizione con questo vestito popolare, dopo un rapido sguardo girato intorno a sè per assicurarsi se era da alcuno spiato, passando da quella porta che richiudevasi dietro a lui, si diresse con passo precipitato verso il cancello. Alla vista di quegli che aspettava, probabilmente forse non in quel costume, la giovinetta dette addietro. Siccome a traverso la fessura della piccola porta il giovine con quello sguardo che non è proprio che degli amanti, aveva già veduto ondeggiare una veste bianca ed una larga cintura blu, si slanciò verso il recinto ed applicando la bocca ad una apertura: — Non abbiate paura, Valentina, sono io. La giovinetta si ravvicinò: — Oh! perchè dunque siete venuto così tardi quest’oggi? Sapete che quanto prima si va a pranzo, e che mi ha fatto d’uopo di molta politica e prontezza per ispacciarmi di mia matrigna che mi sorveglia, della cameriera che mi spioneggia, e di mio fratello che mi tormenta, per venire a lavorare qui a quest’orlatura, che ho ben paura non sarà finita per ora? Quando poi vi sarete scusato sul vostro ritardo, mi direte che significa questo nuovo costume che avete adottato, e che è stato quasi cagione che non vi abbia riconosciuto. — Cara Valentina, voi siete troppo al di sopra del mio amore, perchè io osi parlarvene, e ciò non ostante tutte le volte che vi vedo, ho bisogno di dirvi che vi adoro perchè l’eco delle mie proprie parole mi accarezzi dolcemente il cuore, quando non vi vedo più. Ora vi ringrazio della vostra sgridata, essa è del tutto lusinghiera, perchè mi prova, non oso dire che mi aspettavate, ma che pensavate a me. Volevate sapere la causa del mio ritardo, ed il motivo del mio travestimento; ve lo dirò, e spero che vorrete scusarmi: ho fatto l’elezione di uno stato. — Di uno stato!... che volete mai dire Massimiliano? E siamo dunque così felici perchè possiate parlare scherzando delle cose che ci riguardano? — Oh! il cielo me ne guardi, disse il giovine, di scherzare con ciò che è la mia vita! ma stanco di essere un uomo che corre i campi e che scala le mura, seriamente spaventato dall’idea che mi faceste nascere l’altra sera che vostro padre un giorno o l’altro mi avrebbe fatto giudicare come un ladro, cosa che metterebbe a cimento l’onore di tutto l’esercito francese, non meno spaventato dalla possibilità che qualcuno si meravigli di vedermi continuamente ronzare intorno a questo terreno, ove non c’è la più piccola cittadella da assediare, o il più piccolo _blockhaus_ da difendere, così da capitano dei _spahis_, mi sono fatto ortolano, ed ho adottato il vestiario della mia nuova professione. — Buono quale follia! — Ella è al contrario la cosa più saggia, che abbia fatto in vita mia, perchè essa ci garantisce ogni sicurezza; io sono stato a ritrovare il proprietario di questo recinto, la scritta coll’antico fittaiuolo era finita ed io l’ho preso di nuovo in fitto. Tutto questo trifoglio che vedete è mio, Valentina, nulla può impedirmi d’ora innanzi di far fabbricare una capanna fra questo fieno, e di vivere a venti passi lontano da voi. Oh! io non posso contenere la mia gioia e la mia fortuna. Concepite, Valentina che si possa giungere a pagare tutto questo? È impossibile, n’è vero? Eppure tutta questa felicità, tutta questa fortuna, tutta questa gioia, per le quali avrei dato dieci anni della mia vita, mi costano, indovinate un poco?... 500 fr. l’anno pagabili per trimestre. Per tal modo d’ora innanzi non vi è più nulla da temere. Io sono qui in casa mia, posso mettere delle scale contro il mio muro e guardarvi per di sopra, ed ho il dritto, senza che una qualche pattuglia venga a disturbarmi, di dirvi che vi amo, fino a tanto che la vostra fierezza non si adonti di sentirsi dire questa parola dalla bocca di un povero giornaliero vestito con la blouse e coperto con un berretto. — Valentina mandò un piccolo grido di gioia, poi d’un subito: — Ahimè! Massimiliano, diss’ella tristamente, e come se una gelosa nube fosse d’improvviso venuta a velare i raggi del sole che illuminava il suo cuore; ora noi saremo troppo liberi, la nostra felicità ci farà tentare Dio; abuseremo della nostra sicurezza, e questa ci perderà. — Potete voi dir questo, amica mia, a me, che da quando vi conobbi, ogni giorno vi do prove che ho subordinati i miei pensieri e la mia vita alla vostra vita ed ai vostri pensieri? Chi vi ha ispirato confidenza in me? il mio onore n’è vero? Quando mi avete detto che un vago istinto v’assicurava che correvate un gran pericolo, io ho messo i miei affetti ai vostri ordini, senza chiedervi altra ricompensa che la felicità di servirvi. Da quel tempo vi ho io dato con una parola, con un gesto, il motivo di pentirvi di avermi distinto fra quelli che avrebbero dato la loro vita per voi? Voi mi avete detto, povera fanciulla, che eravate stata fidanzata al sig. d’Épinay, che vostro padre aveva stabilito questo matrimonio, vale a dire ch’esso era certo, perchè tutto ciò che vuole il sig. de Villefort accade infallibilmente. Ebbene io sono rimasto fra le ombre aspettando tutto, non dalla mia volontà, non dalla vostra, ma dagli avvenimenti, dalla provvidenza, da Dio, e frattanto voi mi amate, voi avete avuto pietà di me, Valentina, me lo avete detto; ed io vi ringrazio di questa dolce parola, che vi prego di ripetermi di tempo in tempo, e che mi farà dimenticare tutto. — Ed ecco ciò che vi ha dato ardimento, Massimiliano, ecco ciò che rende la mia vita dolce ad un tempo ed infelice al punto, che spesso domando a me stessa, se sia meglio per me il dispiacere che mi causava altre volte il rigore di mia matrigna e la sua cieca preferenza per suo figlio, o la felicità piena di pericoli che provo nel vedervi. — Di pericoli! gridò Massimiliano; potete dire una parola sì aspra e sì ingiusta! avete mai veduto uno schiavo più sottomesso di me? Voi mi avete permesso di dirigervi qualche volta la parola, Valentina, ma mi avete proibito di seguirvi, ed io ho ubbidito. Da che ho ritrovato il mezzo di penetrare in questo recinto, di parlare con voi a traverso questa porta, di essere sì vicino a voi senza vedervi, ditelo, ho io mai domandato di toccare l’estremità del vostro vestito a traverso questo cancello? ho io mai fatto un passo per superare queste mura, ridicolo ostacolo per la mia forza e la mia giovinezza? Mai un rimprovero sul vostro rigore, mai un desiderio espresso chiaramente: sono stato ligio alla mia parola, come un cavaliere dei tempi antichi, confessatelo almeno, perchè io non vi abbia a credere ingiusta. — È vero, disse Valentina passando fra due assi l’apice di uno de’ suoi diti affilati, sul quale Massimiliano posò le labbra, è vero, voi siete, un onesto amico. Ma finalmente non avete operato che col sentimento del vostro _interesse_, mio caro Massimiliano; ben sapevate che nel giorno in cui lo schiavo fosse divenuto esigente, avrebbe tutto perduto. Voi avete promesso l’amicizia di un fratello a me, che non ho amici, che sono dimenticata dal padre, perseguitata dalla matrigna, che non ho per consolazione che un vecchio immobile, muto, agghiacciato, la cui mano non può stringere la mia, il cui occhio soltanto può parlarmi, di cui il cuore batte senza dubbio per me di un residuo di calore. Derisione amara della sorte che fu nemica a me, vittima di tutti coloro che sono più forti di me, e che mi danno un cadavere per appoggio, e per amico. Oh! veramente Massimiliano, ve lo ripeto, son ben infelice, e voi avete ragione di amarmi per me e non per voi. — Valentina, disse il giovine con una profonda emozione, non dirò che amo soltanto voi a questo mondo, perchè amo ancora mia sorella e mio cognato, ma per loro provo un amore dolce e tranquillo, che non rassomiglia in nulla a quello con cui amo voi: quando penso a voi il sangue mi bolle, il petto si gonfia, il cuore irrompe, ma questa forza, quest’ardore, questa potenza sovrumana io l’impegnerò ad amar voi soltanto fino al giorno che mi direte d’impiegarli per servirvi. Il sig. Franz d’Épinay starà assente ancora un anno, si dice; in un anno quante eventualità favorevoli possono accadere! Dunque speriamo sempre; è cosa tanto buona, tanto dolce lo sperare! Ma aspettando, voi Valentina, voi che mi rimproverate il mio egoismo che cosa siete stata per me? la bella e fredda statua della Venere pudica. In contraccambio di questo affetto, di questa obbedienza, di questa riserva, che mi avete voi promesso? nulla; che mi avete voi accordato? ben poca cosa. Voi mi parlate del sig. d’Épinay, vostro fidanzato, e sospirate all’idea d’essere un giorno sua. Vediamo, Valentina, è forse soltanto questo quello che avete nell’anima? Che? io v’impegno la mia vita, vi do tutto me stesso, vi consacro fino al più insignificante battito del mio cuore, e quando sono tutto vostro, quando vi dico in segreto che morrò se vi perdo, voi non vi spaventate alla sola idea di dover divenire di un altro. Oh! Valentina, Valentina! se io fossi ciò che voi siete! se io mi sapessi amato, come voi siete sicura che io vi amo, io già avrei passato la mano fra le sbarre di questo cancello, ed avrei stretta quella del povero Massimiliano, dicendogli: «A voi, a voi solo, Massimiliano, in questo mondo e nell’altro.» Valentina non rispose, ma il giovine l’intese sospirare e piangere. La reazione fu sollecita su Massimiliano: — Oh gridò egli, Valentina, Valentina! dimenticate le mie parole, se in esse vi è qualche cosa che possa offendervi! — No, diss’ella, voi avete ragione: ma non vedete che io sono una povera creatura abbandonata in una casa straniera; e la cui volontà è stata annullata da dieci anni, giorno per giorno, ora per ora, minuto per minuto dalla volontà di ferro dei padroni che gravitano su di me? Nessuno sa quello che io soffro, ed io non l’ho detto ad altri che a voi. In apparenza, ed agli occhi di tutto il mondo, tutti sono buoni con me, tutti affettuosi, ed in realtà tutti mi sono nemici. Il mondo dice: «Il sig. de Villefort è troppo grave e troppo severo per essere molto tenero con sua figlia, ma ella ha avuto almeno la felicità di ritrovare nella sig.ª de Villefort una seconda madre.» Ebbene il mondo s’inganna, mio padre m’abbandona con indifferenza, e mia matrigna mi odia con un accanimento tanto più terribile, in quanto che è velato da un eterno sorriso. — Odiarvi! Valentina! e come mai può farsi? — Ahimè, amico mio, sono forzata a confessarvi che quest’odio per me, viene da un sentimento quasi naturale. Ella adora suo figlio, mio fratello Edoardo. — Ebbene? — Ebbene! mi sembra strano immischiare a quel che dicevamo una quistione di denaro; ebbene! amico mio credo almeno che il mio odio venga di là. Siccome ella non ha beni di sua parte, ed io sono già ricca anche dal solo lato di mia madre, fortuna che mi verrà un giorno raddoppiata da quella del sig. e della sig.ª di Saint-Méran, che deve ricadere su me, ebbene! credo ch’ella sia invidiosa. Oh! mio Dio! se io potessi regalarle la metà di questa fortuna e ritrovarmi presso il sig. de Villefort come una figlia nella casa di suo padre, lo farei in questo medesimo punto. — Povera Valentina! — Sì, mi sento incatenata, e nello stesso tempo sono così debole, che mi sembra che questi ceppi mi sostengano, ed ho paura a romperli. D’altra parte mio padre non è quel tal uomo di cui si possano infrangere impunemente gli ordini; egli è possente contro di me, e lo sarebbe ancora contro di voi, lo sarebbe contro il re stesso coperto come egli è da un irreprensibile passato, e da una posizione quasi inattaccabile. Oh! Massimiliano, ve lo giuro, non combatto perchè temo d’infranger voi al pari di me in questa lotta. — Ma finalmente, Valentina, riprese Massimiliano, perchè disperarvi così, e vedere l’avvenire sempre tetro? — Oh! amico mio, perchè lo giudico dal passato. — Ciò nonostante vediamo, se io non sia un partito illustre sotto il punto di vista della nobiltà, però sono unito per più di un motivo alla società nella quale vivete; il tempo in cui vi erano due Francie nella Francia, più non v’è; le più elevate famiglie della monarchia si sono fuse in quelle dell’impero; l’aristocrazia della lancia ha sposato la nobiltà del cannone. Ebbene! io appartengo a quest’ultima; ho una bella carriera innanzi a me nell’esercito, ho una fortuna limitata; la memoria infine di mio padre è onorata nel nostro paese, come quella di uno dei più onesti negozianti che abbiano mai esistito. Dico nel nostro paese, Valentina, perchè voi siete quasi di Marsiglia. — Non mi parlate di Marsiglia, Massimiliano, questa sola parola mi ricorda la mia buona madre, quell’angelo che fu compianto da tutti, e che, dopo di avere vegliato sulla sua figlia durante il breve soggiorno in questa terra, veglia ancora su lei, almeno lo spero, dall’alto del suo soggiorno nel cielo. Oh! se la mia povera madre vivesse! Massimiliano, non avrei più nulla a temere; le direi che vi amo, ed ella ci proteggerebbe. — Ahimè, Valentina, disse Massimiliano, s’ella vivesse, io certamente non vi conoscerei, perchè voi lo avete detto, s’ella vivesse voi sareste felice, e Valentina felice mi avrebbe guardato con isdegno dall’alto della sua grandezza. — Ah! amico mio, gridò Valentina, questa volta siete voi l’ingiusto... ma ditemi... — Che volete che vi dica? riprese Massimiliano, vedendo ch’essa esitava. — Ditemi, continuò la giovinetta, in Marsiglia nei tempi passati vi fu mai qualche cagione di dissensioni fra la vostra famiglia e mio padre? — No, che io sappia, rispose Massimiliano, se non è che vostro padre era un parteggiano zelante dei Borboni, ed il mio un uomo affezionato all’imperatore. Ciò è, a quanto presumo, la sola causa di cattiva intelligenza fra loro. Ma perchè mi fate questa domanda, Valentina? — Ve lo dirò, riprese la giovinetta, perchè voi dovete sapere tutto. Ebbene era il giorno in cui fu pubblicata nei giornali la vostra nomina di ufficiale della legione d’onore. Noi eravamo tutti nella camera di mio nonno, il sig. Noirtier, e di più vi era ancora il sig. Danglars, quel banchiere i cui cavalli per poco non hanno ucciso mia madre e mio fratello. Io leggeva ad alta voce il giornale a mio nonno, mentre gli altri signori discorrevano fra di loro sul probabile matrimonio fra il Sig. de Morcerf, e la signorina Danglars, allorquando, come diceva, io giunsi al paragrafo che vi concerneva; io era ben felice... ma altrettanto tremante di dover pronunciare ad alta voce il vostro nome, e lo avrei fors’anche omesso, senza il timore che fosse stato male interpretato il mio silenzio; io dunque riunii tutto il mio coraggio e lessi. — Cara Valentina! — Ebbene tosto che risuonò il vostro nome, mio padre volse la testa, io era così persuasa, vedete come sono folle! che tutti sarebbero stati colpiti da questo nome come da un fulmine, che credetti di vedere fremere mio padre, ed anche il sig. Danglars, quantunque però sia sicura che fu una mia illusione. «— Morrel! disse mio padre, fermatevi, ed aggrottò il sopracciglio. Sarebbe mai uno di quei Morrel di Marsiglia, uno di quegli arrabbiati bonapartisti che ci hanno procurato tanto male nel 1815? «— Sì, rispose il sig. Danglars, credo anzi che sia il figlio dell’antico armatore. — Davvero, disse Massimiliano, e che rispose vostro padre? — Una cosa orribile che non ho il coraggio di ridirvi. — Dite pure, riprese sorridendo Massimiliano. «— Il loro imperatore, continuò egli con uno sguardo truce, sapeva mettere tutti questi fanatici al loro posto, ei li chiamava carne da cannone, ed era il solo nome che meritassero. Vedo però con gioia che il nuovo governo rimette in vigore questo salutare principio. Se per questo soltanto vuol conservare l’Algeria, farei le mie felicitazioni al governo, quantunque ci costi un poco troppo cara». — Difatto questa è una politica un po’ brutale, disse Massimiliano, ma non arrossite, amica mia, di ciò che può aver detto il sig. de Villefort; mio padre non la cedeva al vostro su questo argomento, e ripeteva continuamente: «perchè dunque l’imperatore che fa tante belle cose, non fa un reggimento di giudici ed avvocati, e non li manda sempre al primo fuoco?» Lo vedete, amica cara, che i partiti si corrispondono pel pittoresco della espressione, e per la dolcezza del pensiero. Ma il sig. Danglars che ha detto di questa uscita del procuratore del re? — Oh! egli si mise a ridere di quel sorriso sardonico che gli è particolare, e che io trovo feroce; poi si alzarono, e momenti dopo partirono. M’accorsi allora soltanto che il mio buon nonno era molto agitato. Bisogna che sappiate, Massimiliano, che io sola indovino le agitazioni di questo povero paralitico, e d’altra parte già dubitavo che la conversazione, che aveva avuto luogo, dovesse averlo molto agitato, perchè non usando più alcun riguardo nel parlare, presente questo povero vecchio, avevano detto male dell’imperatore, e a quanto sembrami, egli deve essere stato fanatico dell’imperatore. — E di fatto è uno dei nomi più conosciuti dell’impero; è stato senatore ed ha preso parte, come saprete, a tutte le cospirazioni bonapartiste che hanno avuto luogo sotto la restaurazione. — Sì, sento qualche volta dire a bassa voce alcune cose consimili, che mi sembrano strane; il nonno bonapartista, il padre regio, che volete che ne capisca?... «Io mi voltai dunque verso di lui, egli m’indicò collo sguardo il giornale. — Che avete mio nonno? gli diss’io, siete contento? — Egli fece segno di sì. — Di ciò che ha detto mio padre? chiesi io. — Fece segno di no. — Di ciò che ha detto il sig. Danglars? — Fece ancora segno di no. «— È dunque perchè il sig. Morrel (non osai dire Massimiliano), ha avuto la nomina di ufficiale della legione d’onore.? — Fe’ segno di sì. Lo credereste, Massimiliano? Era contento perchè eravate stato nominato ufficiale della legion d’onore, egli che non vi conosce; questa è forse una follia da sua parte, perchè dicono che ritorna fanciullo, ma l’amo ancora di più per questo _sì_. — La cosa è bizzarra, pensò Massimiliano; vostro padre mi odierebbe dunque, mentre vostro nonno al contrario... oh! quale stranezza son questi amori e questi odii di partito! — Zitto, gridò d’improvviso Valentina, nascondetevi, salvatevi, vien gente. — Massimiliano corse ad una zappa, e si mise a zappare il trifoglio senza pietà. — Madamigella, madamigella, gridò una voce dietro gli alberi, la sig.ª de Villefort vi cerca, e vi chiama da per tutto. Vi è una visita in salotto. — Una visita! disse Valentina agitata, e chi è che ci fa questa visita? — Un gran signore, un principe a quanto dicono, il conte di Monte-Cristo. — Vengo, disse ad alta voce Valentina. — Questa parola fece tremare dall’altra parte del cancello, colui al quale la parola _vengo_ di Valentina serviva di addio. — Oh! disse a sè stesso Massimiliano appoggiandosi pensieroso alla zappa, come mai il conte di Monte-Cristo conosce il sig. de Villefort?... LI. — TOSSICOLOGIA. Era realmente il conte di Monte-Cristo che entrava dalla sig.ª de Villefort, colla intenzione di restituirle la visita che il procuratore del re gli aveva fatta, ed a questo nome tutta la casa, come lo si può ben figurare, s’era messa in emozione. La sig.ª de Villefort, che non era sola nel salotto, quando fu annunziato il conte, fece subito chiamare suo figlio, perchè rinnovasse i ringraziamenti al conte, ed Edoardo, che da due giorni non aveva cessato di sentir parlare di questo gran personaggio, accorse in fretta, non per ubbidire a sua madre, non per ringraziare il conte, ma per fare qualche osservazione, e così pronunciare uno di quei lazzi che facevano dire a sua madre: oh! che cattivo fanciullo; ma bisogna pure che gli perdoni; ha tanto spirito! Dopo i primi complimenti d’uso, il conte domandò del sig. de Villefort: — Mio marito è andato a pranzo dal sig. cancelliere, rispose la giovane sposa; è partito sono pochi momenti, e sarà bene dispiaciuto, ne son sicura, di essere stato privato della fortuna di vedervi. — Gli altri due visitatori che avevano preceduto il conte nel salotto, e che lo divoravano cogli occhi, si ritirarono dopo quel tempo conveniente che esige l’educazione e la curiosità. — A proposito, che fa dunque tua sorella Valentina? domandò la sig.ª de Villefort ad Edoardo; ch’ella sia prevenuta affinchè abbia l’onore di presentarla al sig. conte. — Avete una figlia, signora? domandò il conte; ma ella deve essere una bambina. — È la figlia del sig. de Villefort, replicò la giovane sposa; una figlia del primo matrimonio; una bella giovinetta. — Ma malinconica, interruppe il giovine Edoardo, strappando per farsene un pennacchio al cappello una penna di una magnifica ara, che gridava pel dolore nella gabbia dorata. La signora de Villefort si limitò a dire. — Quieto, Edoardo! Poi soggiunse. — Questo giovine stordito ha quasi ragione, e ripete ora ciò che ha sentito dire da me molte volte con dolore; perchè madamigella de Villefort, per quanto facciano per distrarla, è di un’indole trista, di un umore taciturno, che spesso nuoce all’effetto della sua bellezza. Ma ella non viene, Edoardo vedete dunque perchè. — Perchè la cercano dove non è. — Dove la cercano? — Dal nonno Noirtier. — E credete che non sia là? — No, no, no, no, no, non v’è, rispose Edoardo. — E dov’è, se lo sapete, ditelo. — Ella è sotto il gran marronaio, continuò il cattivo ragazzo offrendo, non ostante le grida di sua madre, delle mosche ancora vive al pappagallo che sembrava molto ghiotto di un tal selvaggiume. — La sig.ª de Villefort stese la mano per suonare, e per indicare alla cameriera ove stava Valentina quando ella stessa entrò. Difatti sembrava trista, e guardandola attentamente si sarebbero potute scorgere nei suoi occhi le tracce delle lagrime. Valentina, che per la rapidità del racconto, abbiamo presentato ai nostri lettori senza farla conoscere, era un’alta e snella figura, di 19 anni, coi capelli castagni chiari, la persona languida, e marcata di quella squisita distinzione che qualificava sua madre; le sue mani bianche ed affilate, il collo d’avorio, le guance ombrate di fuggevoli colori, le davano, a primo aspetto l’aria di quelle belle inglesi, che con molta poesia sono state paragonate nelle loro mosse a dei cigni che si specchino. Ella entrò dunque, e vedendo vicino a sua madre lo straniero di cui aveva tanto inteso parlare, salutò, senza alcuna smorfia di giovinetta, e senza abbassare gli occhi, con una grazia che raddoppiò l’attenzione del conte, il quale si alzò. — Madamigella de Villefort, mia figliastra, disse la sig.ª de Villefort a Monte-Cristo inchinandosi sul sofà, e mostrando colla mano Valentina. — Ed il sig. di Monte-Cristo, re della China, imperatore della Cochinchina, disse il ragazzo impertinente lanciando uno sguardo alla sorella. Questa volta la sig.ª de Villefort impallidì, e quasi si adirò contro questo flagello domestico che rispondeva al nome di Edoardo: ma il conte al contrario sorrise e parve guardasse il fanciullo con compiacenza, il che portò al colmo la gioia e l’entusiasmo della madre. — Ma signora, riprese il conte riannodando la conversazione, e guardando ora la sig.ª de Villefort, ed ora Valentina, è egli possibile che io abbia avuto l’onore di veder voi e madamigella in qualche altro luogo? Or ora di già vi pensava, e quando entrò madamigella, la sua vista è stata un chiarore di più gettato sur una confusa rimembranza; perdonatemi questa parola. — Non è probabile signore; madamigella de Villefort ama poco la società, e noi usciamo raramente. — Ma non è in società che ho veduto tanto madamigella che voi, come pure questo grazioso folletto. La società parigina d’altra parte mi è affatto sconosciuta, perchè, credo di avere avuto l’onore di dirvelo, sono a Parigi da pochi giorni. No, se permettete che mi ricordi... aspettate... — Il conte appoggiò la mano alla fronte come per concentrare le idee. — No, all’estero... è... non so bene. Ma mi sembra che questo ricordo sia collegato con un bel sole, e con una specie di festa religiosa... Madamigella teneva dei fiori in mano, il fanciullo correva dietro un bel pavone in un giardino, e voi signora eravate sotto un pergolato di foglie... aiutatemi dunque, signora; forse quanto vi dico non vi fa risovvenire di qualche cosa? — No in verità, rispose la sig.ª de Villefort; eppure mi sembra che se vi avessi incontrato in qualche luogo, il ricordo di voi mi sarebbe rimasto in memoria. — Il sig. conte ci avrà forse vedute in Italia, disse timidamente Valentina. — Di fatto in Italia... siete stata in Italia, madamigella? — La signora ed io ci fummo saranno circa due anni; i medici temevano pel mio petto, e mi avevano raccomandata l’aria di Napoli. Passammo per Bologna, Perugia, e Roma. — Ah! è vero madamigella, gridò Monte-Cristo, come se questa piccola indicazione gli fosse bastata per fissare tutte le sue rimembranze. Fu a Perugia, il giorno di una festa, nell’osteria della locanda della Posta, ove la combinazione ci riunì, voi, madamigella, vostro figlio ed io. — Mi ricordo perfettamente di Perugia, della locanda della Posta, della festa di cui mi parlate, disse la sig.ª de Villefort, ma ho un bell’interrogare i miei ricordi, ed ho onta della mia poca memoria; io non mi sovvengo di avere avuto l’onore di vedervi. — È singolare, neppure io, disse Valentina alzando i suoi begli occhi sul conte di Monte-Cristo. — Ah! me ne ricordo, disse Edoardo. — Vi aiuterò, signora, riprese il conte. La giornata era calda, aspettavate dei cavalli che non venivano a cagione della solennità. Madamigella si allontanò nel fondo del giardino, vostro figlio disparve correndo dietro al pavone. — E lo raggiunsi, mamma, tu sai, disse Edoardo, che anzi gli strappai tre penne dalla coda. — Voi signora, vi fermaste sotto il pergolato di viti; non vi ricordate più che mentre eravate assisa sur un banco di pietra, e mentre, come vi diceva, madamigella de Villefort e vostro figlio erano assenti, di aver parlato lungamente con qualcuno? — Sì, da vero sì, disse la giovane sposa arrossendo; me ne sovvengo; con un uomo avviluppato in un lungo mantello di lana... con un medico, credo. — Precisamente signora; quest’uomo era io; abitava da 15 giorni in quell’albergo ove aveva guarito il mio cameriere dalla febbre, ed il mio locandiere dalla itterizia; di modo che era creduto un gran dottore. Noi parlammo lungamente, signora, di cose indifferenti, del Perugino, di Raffaello, delle abitudini, dei costumi, e di quella famosa acqua-tofana di cui alcuni, vi era stato detto, conservavano ancora il segreto a Perugia? — Ah! è vero, disse vivamente la sig.ª de Villefort, con una certa inquietudine, me ne ricordo. — Non so più che mi diceste in particolare, signora, riprese il conte con una perfetta tranquillità, ma mi sovvengo benissimo, che dividendo voi pure l’errore generale, che si era sparso sul conto mio, mi consultaste sulla salute di madamigella de Villefort. — Ma però, signore, voi eravate realmente medico poichè guariste degl’infermi. — Molière o Beaumarchais vi risponderebbero, signora, che appunto perchè non era medico, non ho potuto guarire i miei malati; ma essi si sono guariti da sè. Mi limiterò a dirvi, che ho studiato molto profondamente la chimica, le scienze naturali, ma soltanto come dilettante.... capite. In questo momento suonarono le sei. — Sono le sei, disse la sig.ª de Villefort visibilmente agitata; Valentina non andate a vedere se vostro nonno è all’ordine per pranzare? — Valentina si alzò, e salutando il conte, uscì dalla camera senza pronunciare una parola. — Oh! mio Dio! signora, sarebbe mai per colpa mia che licenziate madamigella? disse il conte quando fu partita Valentina. — No, da vero, rispose vivacemente la giovane sposa; ma questa è l’ora nella quale facciamo fare al sig. Noirtier il suo tristo pasto, che sostiene la sua anche più trista esistenza. Sapete signore, in quale deplorabile stato è il padre di mio marito? — Sì, signora, il sig. de Villefort me ne ha parlato; credo una paralisi? — Pur troppo! sì, nel povero vecchio vi è completa assenza di movimenti, l’anima sola veglia in quella macchina umana, ed anche pallida e tremante come una lampada vicina ad estinguersi... Ma perdono, signore, di trattenervi sui nostri domestici infortuni, io vi ho interrotto al momento che dicevate di essere un abile chimico. — Oh! io non diceva questo, signora, rispose il conte con un sorriso, bene diversamente ho studiato la chimica, perchè risoluto a vivere particolarmente in Oriente ho voluto seguire l’esempio del re Mitridate. — _Mitridates rex Ponticus_, disse lo stordito ragazzo stracciando dei profili in un magnifico album; quello che faceva colazione tutte le mattine con una tazza di veleno col fior di latte. — Edoardo! cattivo ragazzo! gridò la sig.ª de Villefort strappando il libro mutilato dalle mani del figlio, siete insopportabile, andate a raggiungere vostra sorella Valentina presso il nonno. — L’album, disse Edoardo. — Come, l’album? — Sì, lo voglio... — Perchè avete stracciato i disegni? — Perchè ciò mi diverte. — Andatevene; andate! — Non me ne andrò, se prima non mi si dà l’album, disse il fanciullo ponendosi in una gran seggiola. — Prendete e lasciateci tranquilli, disse la sig.ª de Villefort. — E dette l’album ad Edoardo che partì accompagnato da sua madre. — Il conte seguì cogli occhi la sig.ª de Villefort. — Vediamo s’ella chiude la porta dietro a lui mormorò egli. — La sig.ª de Villefort chiuse la porta con la più gran cura dietro al fanciullo, il conte fece mostra di non accorgersene. Indi gettando un ultimo sguardo intorno e sè la giovane sposa si mise a sedere sulla poltrona. — Permettetemi di farvi osservare, signora, disse il conte con quella bonarietà che gli conosciamo, esser voi un poco severa con questo grazioso folletto. — È ben necessario, signore, replicò la signora de Villefort con un vero tuono di madre. — Egli recitava il suo _Cornelius Nepos_, parlando del re Mitridate, disse il conte, e voi lo avete interrotto in una citazione, che prova, che il suo precettore non ha perduto il tempo con lui, e che vostro figlio è molto avanti per la sua età. — Il fatto è, sig. conte, riprese la madre dolcemente lusingata, ch’egli ha una grande facilità, e che impara tutto ciò che vuole; non ha che un difetto, ed è di avere troppa forza di volontà, ma a proposito di ciò ch’egli diceva, credete forse che Mitridate usasse queste cautele e che esse fossero efficaci? — Lo credo tanto bene, signora, che io che vi parlo ne ho usato per non essere avvelenato a Napoli, a Palermo, a Livorno, vale a dire in tre occasioni nelle quali senza queste cautele vi avrei potuto lasciare la vita. — Ed il mezzo è riuscito? — Perfettamente. — Sì, è vero, mi ricordo che voi mi avete già detto qualche cosa di somigliante a Perugia. — Veramente! fece il conte con una sorpresa mirabilmente simulata, io non me ne rammento. — Io vi domandai se i veleni operavano egualmente colla stessa energia sugli uomini del Nord, che su quelli del mezzogiorno, e voi mi rispondeste, anzi che i temperamenti freddi e linfatici dei settentrionali non presentano la stessa attitudine che la ricca ed energica natura delle persone del mezzogiorno. — È vero, disse Monte-Cristo, ho veduto dei Russi divorare senza essere incomodati sostanze vegetabili che avrebbero ucciso infallibilmente un Napoletano ed un Arabo. — Per tal modo credete voi che il risultato sarebbe più sicuro fra noi che in Oriente, e in mezzo alle nostre nebbie ed alle nostre piogge un uomo si potrebbe più facilmente che in regioni calde, abituare a questo lento e progressivo assorbimento del veleno? — Certamente, ben inteso però che non si fosse premunito di antidoto che contro il veleno a cui si fosse assuefatto. — Oh! capisco; ed in qual modo ve ne abituereste voi, per esempio; ovvero in qual modo ve ne siete già abituato? — Supponete che sappiate già prima di qual veleno si voglia usare contro di voi; supponete che sia della _brucnina_.... — La _brucnina_ si cava dalla _falsa angustura_, io credo, disse la sig.ª de Villefort. — Precisamente signora, disse Monte-Cristo; ma veggo bene che mi resta poco ad insegnarvi, abbiatene le mie congratulazioni; simili erudizioni sono rare nelle donne. — Oh! ve lo confesso signore, io ho il più vivo trasporto per le scienze occulte, che parlano all’immaginazione a guisa di una poesia, e si risolvono in cifre come una equazione algebrica; ma continuate, vi prego; ciò che mi dite m’importa al più alto punto. — Ebbene, riprese Monte-Cristo, supponete che questo veleno sia la _brucnina_, per esempio, e che ne prendiate un millesimo di grammo il primo giorno, due il secondo ecc. Ebbene! in capo a 10 giorni ne prenderete un centigrammo, in capo a venti giorni aumentando di un altro milligrammo, ne prenderete tre centigrammi, vale a dire una dose che supporterete senz’alcuno inconveniente, e che sarebbe pericolosissima per un’altra persona che non avesse prese le stesse cautele di voi; finalmente in capo ad un mese, bevendo dell’acqua nello stesso bicchiere, voi ammazzerete una persona che beve di quest’acqua, nello stesso tempo che voi senz’accorgervi che da un piccolo mal essere, che v’era una sostanza velenosa mescolata a quell’acqua. — Voi non conoscete altri contravveleni? — Non ne conosco altri. — Aveva spesso letta e riletta questa storia di Mitridate, disse la sig.ª de Villefort, e l’aveva creduta una favola. — No signora, contro il solito delle storie, questa è una verità; ma ciò che mi dite signora, ciò che mi domandate non è il risultato di una domanda capricciosa, da poichè sono già due anni che mi avete fatte le stesse interrogazioni, ed ora mi dite che la storia di Mitridate vi preoccupa da molto tempo. — È vero, signore, i due studi favoriti della mia gioventù, sono stati la botanica e la mineralogia, e quando poi ho saputo che l’uso di questi semplici spiegava spesso tutta la storia dei popoli, e tutta la vita degl’individui d’Oriente, nello stesso modo con cui i fiori spiegano tutt’i loro pensieri amorosi; mi è dispiaciuto di non essere un uomo per non poter diventare un Flamel, un Fontana od un Cabanis. — Tanto più signora, riprese Monte-Cristo, che gli orientali non si limitano, come Mitridate, a servirsi dei veleni, come una corazza, ma se ne servono eziandio come pugnali; la scienza nelle loro mani diventa non solo un’arme difensiva, ma anche offensiva, l’una serve loro contro le sofferenze fisiche, l’altra contro i loro nemici; coll’oppio, colla bella donna, coll’_hatchis_ si procurano sogni di felicità che il cielo ha realmente negati; con la falsa angustura, col legno di brionia, col lauro ceraso addormentano quelli che vorrebbero svegliarli. Non vi è una fra le donne egiziane, turche, o greche, che qui chiamate buone donne, e che non sappia in fatto di chimica di che farvi stupire un medico. — Davvero! disse la sig.ª de Villefort, di cui gli occhi brillavano di uno strano fuoco a questa conversazione. — Eh! mio Dio sì, signora. I drammi segreti d’Oriente si annodano e si sciolgono così, dalla pianta che fa amare fino a quella che fa morire; dalla bevanda che vi rapisce in estasi, fino a quella che può far discendere un uomo nella sepoltura. Vi sono tante gradazioni di ogni genere, quanti sono i capricci e le bizzarrie dell’umana natura, fisica, e morale, e dirò di più, l’arte di queste chimiche sa adattare ammirabilmente il rimedio ed i mali ai propri bisogni d’amore, e ai propri desideri di vendetta. — Ma, signore, riprese la giovane sposa, queste società orientali in mezzo alle quali avete passato gran parte della vostra esistenza sono dunque fantastiche come i racconti che ci vengono da questi bei paesi? Un uomo dunque può esservi ucciso impunemente? È dunque una realtà la Bagdad o la Bassora del sig. Galand? I sultani e i visir che reggono queste società, e che costituiscono ciò che si chiamerebbe in Francia il governo sono dunque nel serio tanti Harun-al-Rascid e tanti Giaffar, che non solo perdonano ad un avvelenatore, ma lo fanno ancora primo ministro, se questo delitto è stato ingegnoso; e che in questo caso ne fanno stampare la storia in lettere d’oro per divertirsene nelle loro ore di noia? — No, signora, il fantastico non v’è più, neppure in Oriente; vi sono laggiù pure mascherati con altri nomi e nascosti sotto altri costumi, dei commissari di polizia, dei giudici d’istruzione, dei procuratori del re, e degli esperti. Vi s’impicca, vi si taglia la testa, vi s’impala molto aggradevolmente; ma i delinquenti, da esperti frodatori, hanno saputo illudere la giustizia umana ed assicurare il successo delle loro imprese con abili combinazioni. Presso noi un imbecille ossesso dal demonio dell’odio e della cupidigia che ha un nemico da distruggere o un gran parente da annichilire, va da uno speziale, gli dà un nome falso, che tanto più facilmente fa scoprire il suo vero, e compra cinque o sei grammi d’arsenico; s’egli è molto furbo, va da cinque o sei speziali, e non è che cinque o sei volte conosciuto meglio; poi quando possiede il suo specifico, amministra al nemico, o al gran parente, una dose d’arsenico che farebbe crepare un elefante od un rinoceronte, e che senza rima, nè ragione fa mandare alla sua vittima urli tali da mettere tutto il quartiere sossopra. Allora giunge un nuvolo di messi di polizia e di gendarmi; si manda a cercare un medico, che apre il morto, e ne raccoglie nello stomaco e negl’intestini l’arsenico a cucchiaiate; il giorno dopo cento giornali raccontano il fatto col nome della vittima e dell’uccisore. Fin dalla stessa sera lo speziale, o gli speziali, viene o vengono a dire «sono io che ho venduto l’arsenico al signore» e piuttosto che non riconoscere il compratore ne riconoscerebbero venti; allora il goffo reo è preso, imprigionato, interrogato, confrontato, confuso, condannato e ghigliottinato; o se è una donna di qualche entità, viene imprigionata a vita. Ecco, signora, il modo con cui i nostri settentrionali intendono la chimica. Desrues però la intendeva meglio, debbo confessarlo. — Che volete, signore, non tutti hanno i segreti dei Medici! o dei Borgia! disse la giovane sposa ridendo. — Ora, disse il conte stringendosi nelle spalle, volete che vi dica qual è la causa di tutte queste inezie? si è che sui vostri teatri, a quanto ho potuto giudicarne io stesso dalla lettura delle opere che vi si rappresentano, si vede sempre qualcuno inghiottire il contenuto di un’ampolla, mordere la legatura di un anello, e cadere intirizzito cadavere, 5 minuti dopo cala il sipario, gli spettatori si disperdono, s’ignorano le conseguenze dell’omicidio, non si vede mai nè il commissario di polizia colla sciarpa, nè il caporale coi suoi quattr’uomini, e ciò autorizza i cervelli meschini a credere che le cose finiscano così. Ma uscite un po’ dalla Francia, andate ad Aleppo o al Cairo, e vedrete passeggiare per le strade persone tutte fresche e color di rosa, delle quali il diavolo zoppo, se vi toccasse col suo mantello, potrebbe dirvi, «Questo signore è avvelenato da tre settimane e sarà morto fra un mese». — Ma allora, disse la signora de Villefort, hanno dunque ritrovato il segreto di questa famosa acqua-tofana, che in Perugia mi si diceva perduto. — Eh! signora, e che forse fra gli uomini si perde qualche cosa? Le arti si spostano e fanno il giro del mondo, le cose cambiano di nome, ecco tutto, l’uomo volgare s’inganna, ma è sempre lo stesso resultato, il veleno. Ciascun veleno opera particolarmente sur un tale o tal’altro organo, l’uno sullo stomaco, l’altro sul cervello, l’altro infine sugl’intestini. Ebbene, il veleno determina una tosse, questa un’infiammazione di petto o qualunque altra malattia iscritta nel libro della scienza, cosa però che non le impedisce di essere del tutto mortale, e che quand’anche non lo fosse lo diverrebbe mercè i rimedi che gli sarebbero somministrati da ingenui medici, che in generale sono cattivi chimici, e che volteranno in favore o contro la malattia come vi piacerà; ed ecco un uomo ucciso con arte, e con tutte le regole, nel quale la giustizia non ha che ridire, come diceva un orribile chimico, mio amico, l’eccellente Adelmonte di Taormina in Sicilia che aveva molto studiato i fenomeni nazionali. — È spaventoso, ma ammirabile, disse la giovane sposa immobile per l’attenzione; lo confesso, credeva che tutte queste storie fossero invenzioni del medio evo. — Sì, senza dubbio, ma che si sono anche meglio perfezionate a’ giorni nostri. A che volete dunque che servano i tempi, gl’incoraggiamenti, le medaglie, le croci, i premi Monthyon, se non per condurre la società alla sua più grande perfezione? Ora l’uomo non sarà perfetto, che quando saprà cercare e distruggere, dunque la metà del cammino è fatta. — Di modo che, riprese la sig.ª de Villefort, ritornando invariabilmente al suo scopo, i veleni dei Medici, dei Borgia, dei Renati, dei Ruggieri, e più tardi probabilmente del barone di Trenk, di cui ha tanto abusato l’odierno dramma ed il romanzo... — Erano oggetti d’arte, signora, non altro, riprese il conte, credete che il vero sapiente s’indirizzi bonariamente allo stesso individuo? No, davvero. La scienza ama il recondito, i giri di forza, l’ideale, se ciò si può dire. Così a mo’ d’esempio, questo eccellente Adelmonte di cui vi parlava or ora ha fatto su questo rapporto delle eccellenti esperienze: ve ne citerò una sola. Aveva un bellissimo giardino pieno di legumi, di fiori, e di frutti. Egli sceglieva il più umile di tutti questi legumi, per esempio, un cavolo. Per tre giorni lo innaffiava con una soluzione di arsenico; il terzo giorno il cavolo cadeva malato ed appassiva; era il momento di tagliarlo; per tutti sembrava maturo e conservava la normale apparenza; per Adelmonte solo era avvelenato. Allora egli portava il cavolo a casa, e prendeva un coniglio (Adelmonte aveva una collezione di conigli, di gatti, di porcellini d’India, che in nulla cedeva alla collezione di legumi, di fiori e di frutti), prendeva dunque un coniglio e gli faceva mangiare una foglia di cavolo; il coniglio moriva. Quale sarebbe il giudice d’istruzione che potrebbe trovare a ridire su ciò? e qual procuratore del re ha mai sognato di stabilire una requisitoria contro Magendie o Flourens sul conto dei conigli, dei porcellini d’India e dei gatti che hanno ucciso? Nessuno, ecco dunque un coniglio morto senza che la giustizia se ne inquieti. Morto il coniglio Adelmonte lo faceva sventrare dalla sua cuoca e gettar gl’intestini sopra un letamaio. Su questo un pollo va a beccare gl’intestini, cade malato a sua volta e muore la dimane. Mentre che si dibatte nelle convulsioni dell’agonia passa un avvoltoio (vi sono molti avvoltoi nel paese di Adelmonte), piomba sul cadavere, lo porta sur una roccia e pranza. Tre giorni dopo il povero avvoltoio, che dopo questo pasto si è trovato costantemente indisposto, si sente preso da un capogiro nel più alto del suo volo, rotola per l’aria e viene a cadere di piombo in un vostro vivaio di pesci; voi sapete che il luccio, l’anguilla, la morena mangiano golosamente, essi mordono l’avvoltoio. Ebbene supponete che la dimane venga servito alla vostra tavola, uno di questi lucci, una di queste anguille, una di queste morene, avvelenata alla quarta generazione, il vostro convitato che lo sarà alla quinta, morrà in capo ad otto o dieci giorni di dolori d’intestini, di male al cuore, di ascesso al piloro. Verrà fatta l’autopsia, e i medici diranno: l’individuo è morto di un tumore al fegato o di una febbre tifoida. — Ma, disse la signora de Villefort, tutte queste particolarità che voi collegate le une alle altre possono essere rotte dal più piccolo accidente; l’avvoltoio può non passare in tempo, o cadere a cento passi dal vivaio. — Ma ecco dove sta precisamente l’arte. Per essere un gran chimico in Oriente, bisogna saper prendere l’occasione; e vi si giunge. La signora de Villefort era astratta: — Ma, diss’ella, l’arsenico è indelebile; in qualunque modo venga assorbito si trova sempre nel corpo umano, dal momento che vi sia stato introdotto in quantità sufficiente per dare la morte. — Bene, gridò Monte-Cristo, bene! ecco precisamente ciò che dissi al buono Adelmonte. Egli ristette, sorrise e mi rispose con un proverbio siciliano, che credo pure sia egualmente un proverbio francese, «figlio mio il mondo non fu fatto in un giorno, ma in sette, ritornate domenica». La domenica successiva vi andai, invece di avere innaffiato il suo cavolo colla dissoluzione di arsenicale, lo aveva innaffiato con una dissoluzione di sali a base di stricnina _strichnon colubrina_ come dicono gli scienziati. Questa volta il cavolo non aveva l’aspetto malato, per cui il coniglio non ne diffidava, e cinque minuti dopo era morto. Il pollo lo mangiò, ed il giorno dopo esso era morto. Allora noi facemmo da avvoltoi, prendemmo il pollo che venne aperto. Questa volta tutti i sintomi particolari erano spariti, e non restavano che i sintomi generali. Nessuna indicazione sugli organi, esasperazione soltanto del sistema nervoso, e traccia di congestione cerebrale, nient’altro, il pollo non era stato avvelenato, era morto d’apoplessia. È un caso raro nei polli, lo so, ma comunissimo nell’uomo. La signora de Villefort sembrava sempre più astratta: — È una fortuna, diss’ella, che tali sostanze non possono essere preparate che dai chimici, perchè in verità una metà del mondo avvelenerebbe l’altra. — Da chimici, e da quelli che si occupano di chimica, rispose negligentemente Monte-Cristo. — E poi, disse la sig.ª de Villefort strappandosi da sè stessa e con forza dai suoi pensieri, per quanto più sapientemente preparato, il delitto è sempre un delitto; e se sfugge alle umane investigazioni non isfugge però allo sguardo di Dio. Gli orientali sono più coraggiosi di noi nei casi di coscienza, perchè hanno soppresso l’inferno; ecco tutto. — Eh! signora, questo è un pensiero che deve naturalmente nascere in un’anima onesta come la vostra, ma che i sofismi sradicano ben presto nei perversi. La vita dell’uomo scorre facendo tali cose, e la sua intelligenza si stanca a segnarle. Voi troverete ben poche persone che vadano bestialmente a piantare un coltello nel cuore del loro simile, o a ministrar loro una dose d’arsenico, come quella di cui vi parlava or ora. Questa è veramente una eccentricità ed una bestialità. Per giungere a ciò bisogna che il sangue si riscaldi a 36 gradi, che il polso batta a 86 pulsazioni, e che l’anima esca dai limiti ordinari. Ma se come si usa in filologia, si passa dalla parola al sinonimo mitigato, voi fate una semplice eliminazione, invece di commettere un’ignobile assassinio, se allontanate puramente e semplicemente dal vostro sentiero colui che vi dà incomodo, e ciò senza scossa, senza violenza, senza l’apparecchio di quelle sofferenze che, diventando un supplizio, fanno della vostra vittima un martire, e di chi opera un carnefice in tutta l’estensione del termine; se non vi è nè sangue, nè urli, nè contorsioni, nè soprattutto la pericolosa momentaneità del compimento, allora voi sfuggite ai colpi della legge umana che vi dice «Non disturbate la società» Ecco come procedono e riescono le genti d’Oriente, persone gravi e flemmatiche, che s’inquietano poco sulla questione del tempo nelle combinazioni di una certa importanza. — Resta la coscienza, disse la sig.ª de Villefort con voce commossa soffocando un sospiro. — Monte-Cristo voleva continuare, ma essa lo interruppe come per cambiar discorso: — Tutto mi conduce a stimarvi, diss’ella, per un gran chimico; e quell’elixir che avete fatto prendere a mio figlio, e che lo ha richiamato sì tosto alla vita... — Oh! non ve ne fidate, la interruppe Monte-Cristo. Una goccia di quell’elixir bastò per richiamare vostro figlio alla vita mentre stava per morire, ma tre gocce gli avrebbero spinto il sangue ai polmoni, in modo da procurargli forti palpitazioni di cuore, sei gocce gli avrebbero sospesa la respirazione, e lo avrebbero posto in una sincope molto più grave di quella in cui si ritrovava, dieci lo avrebbero fulminato. Sapete, signora, in qual modo lo allontanai prestamente da quelle ampolle che egli aveva l’imprudenza di toccare? — È dunque un veleno terribile? — Oh! mio Dio! no, bisogna da prima ammettere questo, che la parola veleno non v’è, quindi in medicina si servono dei veleni più violenti, che divengono, pel modo con cui sono ministrati, i rimedi più salutari. — Che cosa è dunque allora? — È una sapiente preparazione del mio amico, l’eccellente Adelmonte, e di cui mi ha insegnato a servirmi. — Oh! disse la sig.ª de Villefort, questo dev’essere un eccellente antispasmodico. — Sovrano rimedio, signora, lo avete veduto, rispose il conte, ed io ne faccio uso frequentemente, con tutta la prudenza possibile ben inteso, soggiunse egli ridendo. — Lo credo, in quanto a me, sì nervosa e sì facile a svenirmi avrei bisogno di un dottore Adelmonte per inventarmi dei mezzi di farmi respirare liberamente, e per tranquillarmi sul timore che provo di morire un bel giorno soffocata. Frattanto, siccome è difficile di ritrovar ciò in Francia, e che il vostro amico non sarà disposto a fare per me un viaggio a Parigi, io faccio uso degli antispasmodici del sig. Planch, e la sua menta e le gocce di Hoffman occupano un gran posto in casa mia. Osservate, ecco le pastiglie che mi faccio fare espressamente; sono a dose doppia. Monte-Cristo aprì la scatola di madreperla che gli presentava la giovane sposa, ed odorò le pastiglie come un’intelligente, capace di apprezzare questa preparazione. — Esse sono squisite, diss’egli, ma sottomesse alla necessità della deglutizione che spesse volte è una funzione impossibile a farsi da una persona svenuta. Amo meglio il mio specifico. — Ma certamente io pure lo preferirei, particolarmente dopo gli effetti che ne ho veduti: senza dubbio sarà un segreto, nè son tanto indiscreta da domandarvelo. — Ma io sono abbastanza galante per offrirvelo. — Oh! signore. — Soltanto ricordatevi d’una cosa, ed è che a piccola dose è un rimedio, ad alta dose è un veleno. Una goccia rende la vita, come lo avete veduto, cinque o sei ammazzerebbero infallibilmente ed in un modo tanto più terribile, che disciolte in un bicchier di vino non ne altererebbero momentaneamente il gusto... mi cheto perchè sembrerebbe che avessi l’aria di consigliarvi. — Le sei e mezzo erano suonate, fu annunziato un amico della sig.ª de Villefort che veniva a pranzo da lei. — Se io avessi l’onore di avervi già veduto per la terza o quarta volta, invece d’essere la seconda, avrei pure l’onore d’essere vostr’amica, invece di avere soltanto la fortuna d’esservi obbligata; insisterei perchè rimaneste a pranzo, e non mi lascerei abbattere da un primo rifiuto. — Mille grazie, signora, rispose Monte-Cristo, io ho un impegno al quale non posso mancare. Ho promesso di condurre a teatro una principessa greca mia amica, che non è ancora stata all’_Opera_, e conta su di me per andarvi. — Andate dunque, ma non dimenticate la mia ricetta. — E come mai, signora, per far ciò bisognerebbe dimenticare l’ora di conversazione che ho passato con voi, il che è affatto impossibile. — Monte-Cristo salutò e partì. La signora de Villefort rimase astratta. — Ecco un uomo strano, diss’ella, e che mi ha l’aspetto di chiamarsi Adelmonte per nome di battesimo. In quanto a Monte-Cristo il risultato aveva sorpassato la sua aspettativa. — Andiamo, diss’egli partendo, ecco una buona terra; sono convinto che il seme che vi si lascia cadere non abortisce. Il giorno dopo fedele alla sua promessa inviò la ricetta. LII. — ROBERTO IL DIAVOLO. La scusa dell’opera era tanto migliore ad addursi in quanto che in quella sera vi era solennità per l’accademia reale di musica. Lavasseur, dopo una lunga indisposizione, si riproduceva rappresentando la parte di Bertram, e come accade sempre, l’opera del maestro di moda aveva chiamata la più brillante società di Parigi. Morcerf, come la maggior parte dei giovani ricchi, aveva il suo posto fisso in orchestra, più dieci palchi di persone di sua conoscenza cui poteva dimandare un posto, senza calcolare quello al quale aveva diritto nel palco dei _lions_. Château-Renaud aveva il posto vicino al suo. Beauchamp, nella qualità di giornalista, aveva posto da per tutto. Quella sera Luciano Debray riteneva a sua disposizione il palco del ministro, e lo aveva offerto al conte di Morcerf, il quale dietro il rifiuto di Mercedès, lo aveva inviato a Danglars, facendogli dire che quella sera avrebbe probabilmente fatto una visita alla baronessa ed a sua figlia, se queste signore avessero accettato il palco che lor proponeva. Queste dame eransi ben guardate dal rifiutare. Nessuno è più ingordo di un palco che non costa niente, quanto un milionario. In quanto a Danglars aveva dichiarato che i suoi principi politici, e la qualità di deputato dell’opposizione, non gli permettevano di andare nel palco del ministro. In conseguenza la baronessa aveva scritto a Luciano di venirla a prendere, dappoichè non poteva andare all’_Opera_ sola con Eugenia. Infatto se le due dame vi fossero andate sole, sarebbesi ciò ritrovato di cattivo gusto; mentre che nulla v’era a ridire, se madamigella Danglars, andava all’_Opera_ con sua madre... bisogna pure prendere il mondo come è fatto. Il sipario si alzò, come d’ordinario, col teatro quasi vuoto. Questa è ancora una delle abitudini della società elegante parigina, che va allo spettacolo quando è già cominciato; e ne risulta che, per gli spettatori già arrivati, il primo atto passa senza esser guardato ed ascoltato, ma nel vedere gli spettatori che giungono a non ascoltare altro che il rumore delle porte e quello delle conversazioni. — Guarda! disse d’improvviso Alberto, vedendo aprirsi un palco laterale del prim’ordine, la contessa G***. — E chi è questa contessa G***? domandò Château-Renaud. — Oh! per bacco, barone, ecco una domanda che non vi perdono; chiedete chi è la contessa G***? — Oh! è vero, disse Château-Renaud, non è quella graziosa veneziana? — Precisamente. — In questo momento la contessa G*** s’accorse d’Alberto, e scambiò con lui un saluto accompagnato da un sorriso. — La conoscete, disse Château-Renaud? — Sì, fece Alberto, le fui presentato a Roma da Franz. — Vorreste rendermi a Parigi lo stesso favore? — Ben volentieri. — Zitti, gridò il pubblico. — I due giovani continuarono la loro conversazione, senza sembrare di menomamente inquietarsi del desiderio che manifestava la platea di sentire la musica. — Ella era alle corse del Campo di Marte, disse Château-Renaud. — Di fatto oggi vi erano le corse, eravate impegnato? — Oh! per una miseria, 50 luigi. — Chi ha vinto? — _Nautilus_, io scommetteva per lui. — Ma vi erano tre corse? — Sì, vi era il premio del Jockey-Club, una coppa d’oro. Anzi è accaduto una cosa bizzarra. — E quale? — Zitti dunque, gridò il pubblico. — Hanno vinto questa corsa un cavallo ed un jockey del tutto sconosciuti. — Come? — Oh! mio Dio, sì; nessuno aveva fatta attenzione ad un cavallo inscritto sotto il nome di _Vampa_, e ad un jockey iscritto sotto il nome _Job_, quando d’un subito si è veduto inoltrarsi un ammirabile sauro, ed un jockey grosso come un pugno; sono stati costretti di caricarlo di 20 libbre di piombo in saccoccia, cosa che non gli ha impedito di giungere alla meta tre lunghezze di cavallo prima d’_Ariel_ e _Barbaro_ che correvano con lui. — E non si è saputo a chi apparteneva il cavallo ed il jockey? — No. — Diceste che il cavallo era iscritto sotto il nome di... — _Vampa._ — Ne so più di voi, so a chi apparteneva il cavallo. — Silenzio dunque, gridò per la terza volta la platea. Questa volta gli urli erano sì grandi, che i due giovani si accorsero finalmente ch’erano ad essi indirizzati dal pubblico. Si volsero un momento, cercando in questa folla chi si rendesse garante di ciò che essi consideravano come un’insolenza; ma nessuno reiterò l’invito, ed essi si volsero verso la scena. In questo mentre si apriva il palco del ministero, e la sig.ª Danglars con la figlia e Luciano Debray prendevano i loro posti. — Ah! ah! disse Château-Renaud, ecco delle persone di vostra conoscenza, visconte; che diavolo guardate a dritta? siete cercato da quest’altra parte. Alberto si volse ed i suoi occhi s’incontrarono in quelli della baronessa Danglars, che gli fece un piccolo saluto col ventaglio. In quanto a madamigella Eugenia, fu molto se i suoi occhi si abbassarono fino all’orchestra. — In verità, mio caro, disse Château-Renaud, non capisco, prescindendo dalla cattiva alleanza che non credo sia ciò che vi preoccupi molto, quel che potete avere contro madamigella Danglars; e pure in verità è una bellissima giovane. — Bellissima certamente, disse Alberto, ma vi confesso che in fatto di bellezza, amerei meglio qualche cosa di più dolce, di più soave, infine di più femminino. — Ecco i giovani che non si contentano mai, disse Château-Renaud, che nella sua qualità di uomo di 30 anni assumeva un’aria paterna. E come, mio caro, vi si ritrova una fidanzata costruita sul modello di Diana cacciatrice, e non siete contento! — Ebbene! precisamente l’avrei desiderata piuttosto del genere della Venere di Milo, o di Capua. Questa Diana cacciatrice, sempre in mezzo alle sue ninfe, mi spaventa un poco; ho paura che mi tratti come Atteone. — Di fatto un colpo d’occhio che si fosse dato sulla giovane, poteva quasi spiegare il sentimento che aveva esposto Morcerf. Eugenia Danglars era bella, ma, come lo aveva detto Alberto, di una bellezza un poco sostenuta, i capelli erano di un bel nero, ma nel loro ondeggiamento naturale si rinveniva qualche cosa di restio alla mano che voleva impor loro la sua volontà; gli occhi, neri come i capelli, sottoposti a magnifiche sopracciglia, che non avevano che un difetto, quello cioè di aggrottarsi qualche volta, erano particolarmente notevoli per una espressione di fermezza ch’erasi meravigliati di ritrovare in una donna; il naso aveva quelle proporzioni esatte che un bravo scultore darebbe alla statua di Giunone, soltanto la bocca era un po’ grande, ma guarnita di bei denti che facevano risaltare le labbra il cui carminio troppo vivo risaltava sul pallore del viso; finalmente un nero neo posto all’angolo della bocca e più largo di quello che ordinariamente sono questi capricci della natura, compiva di dare a questa fisonomia un’indole risoluta, ciò che spaventava alcun poco Morcerf. Del rimanente tutto il restante della persona di Eugenia corrispondeva a questa testa che abbiamo procurato di descrivere. Essa era, come l’aveva detto Château-Renaud, la Diana cacciatrice, ma con qualche cosa di più fermo e di più maschio nella sua bellezza. In quanto all’educazione che aveva ricevuta, se vi era un rimprovero a farsi era che sembrava in alcuni punti, come nella sua fisonomia più propria dell’altro sesso. Difatto parlava due o tre lingue, disegnava facilmente, faceva versi e componeva musica, era soprattutto appassionata per quest’ultima arte, che studiava con una delle amiche del conservatorio, giovanetta senza beni di fortuna, ma che a quanto veniva assicurato aveva tutte le disposizioni possibili per divenire una eccellente cantante; si diceva che un gran compositore portava a questa giovanetta un interessamento quasi paterno, e la faceva studiare nella speranza che un giorno avrebbe fatto una gran fortuna con la sua voce. La possibilità che Luisa d’Armilly (era il nome della giovane virtuosa) potesse un giorno andare sul teatro, faceva sì che madamigella Danglars, quantunque la ricevesse in casa, non si facesse vedere con essa in pubblico. Del resto senz’avere nella casa del banchiere il posto indipendente di un’amica, Luisa godeva di una posizione superiore a quella delle istitutrici ordinarie. Qualche secondo dopo l’ingresso della sig.ª Danglars nel palco, era calato il sipario, ed in grazia di quella facoltà data dalla lunghezza degl’intermezzi fra un atto e l’altro, viene lasciato tutto il comodo di andare a passeggiare nella scala o di fare delle visite per una mezz’ora; i posti dell’orchestra si erano quasi del tutto vuotati. Morcerf e Château-Renaud erano usciti pei primi. Per un momento la sig.ª Danglars credette che questa sollecitudine di Alberto avesse per iscopo di farle i suoi complimenti, e si era inclinata all’orecchio della figlia per annunziarle questa visita; ma colei erasi contentata di scuotere la testa, sorridendo, e nello stesso tempo, come per provare quanto era fondata la negativa d’Eugenia, Morcerf comparve nel palco di fianco del prim’ordine: era quello della contessa G***. — Ah! eccovi qui, signor viaggiatore, disse questa stendendogli la mano con tutta la cordialità di un’antica conoscenza, è un bel tratto di amabilità per voi di avermi riconosciuta, e soprattutto d’avermi accordata la preferenza della prima visita. — Credetemi, signora, che se avessi conosciuto prima il vostro arrivo in Parigi, ed avessi saputo il vostro indirizzo, non avrei aspettato così tardi. Ma vogliate permettermi di presentarvi il sig. barone de Château-Renaud, mio amico, uno dei pochi galantuomini che rimangano ancora alla Francia, e dal quale ho saputo che voi eravate alle corse del Campo di Marte. Château-Renaud salutò. — Ah! voi eravate alle corse, signore, disse con vivacità la contessa. — Sì signora. — Ebbene, riprese la contessa G***, sapreste dirmi di chi era il cavallo che ha vinto il premio del Jockey-Club? — No signora, e poco fa faceva la stessa interrogazione ad Alberto. — Vi avete molta premura sig.ª contessa, domandò Alberto. — A che? — A conoscere il padrone del cavallo. — Infinitamente... immaginatevi... ma sapreste, visconte, chi egli sia? — Signora, sembra che voleste contare una storia; avete detto immaginatevi... — Ebbene! immaginatevi che quel grazioso cavallo sauro e quel bello e piccolo Jockey dalla casacca color di rosa, mi avevano a prima vista inspirata una così vera simpatia che io faceva voti per l’uno e per l’altro, come precisamente se avessi scommesso per loro la metà dei miei beni; per cui quando essi giunsero alla meta, sorpassando gli altri corridori di tre lunghezze di cavallo, ne fui così contenta, che mi misi a battere le mani come una pazza. Figuratevi il mio stupore allorchè rientrando in casa, ho incontrato per le scale il piccolo Jockey color di rosa; credetti che il vincitore della corsa abitasse per caso nella stessa casa, ove sono, quando aprendo la porta del mio salotto, la prima cosa che vidi, fu la coppa d’oro che formava il premio guadagnato dal cavallo e Jockey sconosciuti. Nella coppa v’era un pezzetto di carta sul quale erano scritte queste parole: «Alla contessa G***, Lord Ruthwen.» — È precisamente lui, disse Morcerf. — Come è precisamente lui, chi volete dire? — Voglio dire che è lord Ruthwen in persona. — Quale lord Ruthwen? — Il mostro, il vampiro, quello del teatro Argentina. — Davvero, gridò la contessa egli è dunque qui? — Precisamente. — E voi lo vedete, lo ricevete, andate da lui. — Egli è mio amico intimo, ed anche il sig. di Château-Renaud ha l’onore di conoscerlo. — Ma che cosa può farvi credere che sia il vincitore? — Il suo cavallo inscritto sotto il nome di _Vampa_. — Ebbene avanti. — Non vi ricordate il nome di quel famoso bandito che mi fece prigioniero? — Ah! è vero. — E dalle mani del quale, il conte mi cavò miracolosamente? — È un fatto. — Egli si chiamava _Vampa_, vedete bene che è lui. — Ma perchè ha inviata questa coppa a me? — Primieramente sig.ª contessa, perchè gli aveva parlato molto di voi, come potete ben crederlo, secondo perchè sarà rimasto soddisfatto di aver qui ritrovato una compatriotta, e contento dell’interessamento che questa compatriotta prendeva per lui. — Spero bene che non gli avrete mai raccontate le pazzie che si sono dette sul conto suo? — In fede mia non lo giurerei, e questo modo d’offrirvi la coppa sotto il nome di lord Ruthwen.... — Ma è orribile, l’avrà con me mortalmente! — Il suo procedere è quello di un nemico? — No, lo confesso. — Ebbene! — Dunque egli è a Parigi? — Sì. — E che sensazione ha fatta? — Se ne è parlato otto giorni, disse Alberto, poi è succeduta l’incoronazione della Regina d’Inghilterra, ed il rubamento dei diamanti di madamigella Mars, e non si è più parlato che di questo. — Mio caro, disse Château-Renaud, si vede bene che il conte è vostro amico, e lo trattate come tale. Non credete sig.ª contessa a ciò che vi dice Alberto, in tutta Parigi non si fa altro discorso che del conte di Monte-Cristo. Egli ha cominciato a regalare alla sig.ª Danglars un paio di cavalli che gli sono costati 30 mila fr., poi ha salvato la vita alla sig.ª de Villefort, poi ha guadagnato, a quanto sembra, il premio della corsa del Jockey-Club. Io sostengo al contrario, qualunque sia l’opinione di Morcerf, che in questo momento tutti si occupano ancora del conte, e che non si occuperanno per un buon mese ancora che di lui, molto più se continua a fare delle eccentricità, le quali del resto sembrano la sua buona maniera di vivere. — È possibile, disse Morcerf, ma frattanto chi ha dunque ripreso il palco dallo ambasciatore di Russia? — Qual è? disse la contessa. — Quello fra l’intercolonio del prim’ordine; mi sembra rimesso a nuovo del tutto. — È vero, disse Château-Renaud; non v’era alcuno durante il primo atto? — Dove? — In quel palco. — No, riprese la contessa, non vi ho veduto alcuno; così, continuò, ritornando alla prima conversazione, credete che il vostro conte di Monte-Cristo, sia stato quello che ha guadagnato il premio? — Ne son sicuro. — E che mi ha inviato la coppa? — Senz’alcun dubbio. — Ma io non lo conosco, ed ho volontà di rimandargliela. — Oh! non lo fate, ve ne manderebbe un’altra tagliata in un qualche zaffiro, o scavata in un qualche rubino. Questi sono i suoi modi di operare; che volete, bisogna prenderlo com’è. — In questo mentre s’intesero i campanelli che avvisavano che il secondo atto stava per cominciare. Alberto si alzò per andare a prendere il suo posto. — Vi rivedrò? domandò la contessa. — Nell’intermezzo degli atti se lo permettete, verrò a sentire se posso esservi utile in qualche cosa a Parigi. — Signori, disse la contessa, il sabbato la sera sto in casa per ricevere gli amici, strada di Rivoli n. 22. Entrambi siete avvisati. — I due giovani salutarono ed uscirono. Rientrando in platea videro tutti in piedi con gli occhi fissi sopra un sol punto del teatro, i loro sguardi seguirono quelli della direzione generale, e si fermarono sul palco che prima apparteneva all’ambasciatore di Russia. Vi era entrato un uomo vestito di nero di 35 a 40 anni, con una donna che portava un costume orientale. La donna era della più gran bellezza, ed il vestito di tale ricchezza che tutti gli occhi, come si disse, si erano rivolti su lei. — Ah! disse Alberto, è Monte-Cristo e la sua greca. In fatti erano il conte ed Haydée. In meno di un momento la giovane greca era l’oggetto dell’attenzione non solo della platea, ma di tutto il teatro; le donne sporgevansi dai palchi per vedere risplendere al chiarore dei lumi quella cascata di diamanti. Il secondo atto passò in mezzo a quel sordo rumore che nelle riunioni ammassate indica un grande avvenimento. Nessuno pensò a gridare silenzio. Questa donna così bella, così giovane, così raggiante, era il più bello spettacolo che si potesse vedere. Questa volta un segno della sig.ª Danglars indicò chiaramente ad Alberto che la baronessa desiderava avere da lui visita, finito l’atto. Morcerf era di troppo buon gusto per non farsi aspettare, quando gli veniva chiaramente indicato ch’era aspettato. L’atto finì, ed ei si affrettò di salire al palco sul proscenio. Salutò le due dame e stese la mano a Debray. La baronessa lo accolse con un grazioso sorriso ed Eugenia colla sua freddezza abituale. — In fede mia, mio caro, disse Debray, voi vedete un uomo al suo termine, e che vi chiama in aiuto per sollevarlo. Ecco qui, la signora che mi ammazza di interrogazioni sul conte, e che vuole ch’io sappia di dov’è, di dove viene, ove va: in fede mia non sono Cagliostro, e per togliermi d’impaccio, ho detto: «Domandate tutto ciò a Morcerf, egli conosce sulla punta delle dita il suo Monte-Cristo»; allora vi hanno fatto segno. — Non è incredibile, disse la baronessa, che quando si ha un mezzo milione di fondi segreti a sua disposizione, non si sia meglio istruiti di lui? — Signora, disse Luciano, vi prego di credere che se avessi mezzo milione a mia disposizione, lo impiegherei in tutt’altro, che nel prendere informazioni su Monte-Cristo, che ai miei occhi non ha altro merito, se non quello di essere due volte ricco più di un nababbo: ma ho ceduta la parola a Morcerf; accomodatevi con lui, in ciò non ho più nulla a fare. — Un nababbo non mi avrebbe al certo mandato a regalare un paio di cavalli di 30 mila fr. con quattro diamanti da cinque mila fr. l’uno. — Oh! disse ridendo Morcerf, i diamanti sono la sua manìa. Io credo che, a guisa di Potemkin, ne abbia sempre in saccoccia, e che ne semini lungo la strada, come il piccolo Poucet faceva dei sassolini. — Ne avrà trovata qualche miniera, disse la signora; sapete che ha un credito illimitato sul barone? — Nol sapeva, ma dev’esser così, rispose Alberto. — E che ha avvisato il sig. Danglars che conta di stare a Parigi un anno e di spendervi sei milioni? — Questi è lo _schach_ di Persia che viaggia in incognito. — E quella donna, sig. Luciano, disse Eugenia, avete osservato quanto è bella? — In verità madamigella, non conosco che voi per far giustizia alle persone del vostro sesso. — Luciano si accostò all’occhio l’occhialino: — Graziosa! diss’egli. — Ed il sig. de Morcerf sa chi sia quella signora? — Madamigella, disse Alberto, rispondo a questa quasi diretta interpellazione; ne so presso a poco, come di tutto ciò che riguarda il personaggio misterioso di cui si parla. Quella signora è una greca. — Ciò si conosce facilmente dal vestito, e non mi dite con ciò nulla di più di quello che a quest’ora sa tutto il teatro. — Sono mortificato, disse Morcerf, di essere un cicerone tanto ignorante; ma debbo confessarvi che le mie cognizioni si limitano a ciò solo. So di più ch’ella è amante di musica, perchè un giorno che feci colazione dal conte, intesi il suono di una _guzla_ che certamente veniva da lei. — Il vostro conte riceve? domandò la sig.ª Danglars. — In un modo assai splendido, ve lo giuro. — Bisogna che io obblighi il sig. Danglars ad offrirgli un pranzo, un ballo, affinchè ce lo restituisca. — Come! andreste da lui, disse Debray ridendo. — E perchè no? con mio marito! — Ma questo misterioso conte è celibe. — Vedete che non è vero, disse ridendo la baronessa mostrando la bella greca. — Quella donna è una schiava, a quanto ci ha detto: ve ne ricordate, alla vostra colazione, Morcerf. — Converrete mio caro Luciano, disse la baronessa, ch’ella ha piuttosto l’aspetto di qualche principessa. — Delle _mille e una notte._ — Non dico delle _mille e una notte_; ma che cosa forma la principessa, caro mio? i diamanti; ed essa ne è ricoperta. — Ella ne ha anche troppi, disse Eugenia; sarebbe ancor più bella senza; perchè il collo ed i polsi, che sono di forme bellissime, avrebbero maggior spicco. — Oh! l’artista, sentite, disse la sig.ª Danglars, come è entusiasta. — Amo tutto ciò che è bello, disse Eugenia. — Ma che ne dite del conte, mi sembra che non ci sia male. — Il conte, disse Eugenia, come se non avesse ancora pensato a guardarlo; il conte è molto pallido. — Di questo pallore precisamente, disse Morcerf, noi studiamo conoscere la causa. — La contessa G*** pretende, voi lo sapete, che sia un vampiro. — È dunque di ritorno la contessa? domandò la baronessa. — Nel palco di fianco, diss’Eugenia, quasi in faccia al nostro, quella donna con quei bei capelli biondi, è lei. — Ah! disse la sig.ª Danglars. Sapete ciò che dovreste fare Morcerf? — Ordinate signora. — Dovreste andare a fare una visita al vostro conte di Monte-Cristo e condurcelo. — Perchè farne? diss’Eugenia. — Per parlare con lui, non sei tu curiosa di vederlo? — Niente affatto. — Strana fanciulla, mormorò la baronessa. — Oh! disse Morcerf, probabilmente verrà da sè. Osservate, vi ha veduta, signora, e vi saluta. — La baronessa rese il saluto al conte accompagnandolo con un grazioso sorriso. — Andiamo, disse Morcerf, io mi sacrifico, vi lascio per andare a vedere se ci è modo di parlargli. — Andate nel palco, la cosa è semplicissima. — Ma io non sono stato presentato. — A chi? — Alla bella greca. — Ma diceste essere una schiava? — Sì, ma voi pretendete che sia una principessa... Spero che quando mi vedrà uscire, uscirà anch’egli. — È possibile, andate. — Vado. — Morcerf salutò ed uscì. Effettivamente al momento che passava davanti al palco del conte, la porta si aprì: il conte disse alcune parole in arabo ad Alì, che stava nel corridore, e prese il braccio di Morcerf: Alì chiuse la porta, e si tenne in piedi davanti ad essa; nel corridoio v’era una riunione di gente avanti al moro. — In verità, disse Monte-Cristo, il vostro Parigi è una strana città, ed i vostri Parigini una popolazione singolare. Si direbbe che questa è la prima volta che vedano un moro; guardate come si affollano intorno a questo povero Alì, che non sa che voglia dir questo. Vi dico però che un Parigino può andare a Tunisi, a Costantinopoli, a Bagdad, al Cairo e non gli faranno cerchio intorno. — Ciò è perchè i vostri orientali sono persone sensate, e non guardano, che ciò che merita la pena d’essere guardato: ma credetemi, Alì non gode di questa popolarità se non perchè vi appartiene, ed in questo momento voi siete l’uomo di moda. — Davvero! E chi mi ha procurato questo favore? — Per bacco voi stesso, voi regalate delle pariglie da migliaia di luigi, salvate la vita alle mogli dei procuratori del re; fate correre sotto il nome del maggiore Black dei cavalli di puro sangue, e dei jockey grossi come formiche; finalmente vincete delle coppe d’oro, e le mandate in regalo a delle belle donne. — E chi diavolo vi ha raccontato tutte queste fole? — Per bacco! la prima la sig.ª Danglars, che muore dalla volontà di vedervi nel suo palco, o piuttosto di farvici vedere, la seconda il giornale di Beauchamp; e la terza la mia propria immaginazione. Perchè nominaste il vostro cavallo _Vampa_ se volevate conservare l’incognito? — Ah! è vero! disse il conte, fu un’imprudenza. Ma ditemi dunque, il conte di Morcerf non viene qualche volta all’_Opera_? L’ho cercato dappertutto cogli occhi, ma non l’ho scorto da nessuna parte. — Egli verrà questa sera. — E dove? — Nel palco della baronessa, credo. — Quella graziosa giovane che è con lei è sua figlia? — Sì. — Ve ne faccio i miei rallegramenti. Morcerf sorrise: — Parleremo di ciò in altro momento, e con particolarità, disse egli. Che ne dite della musica? — Di quale musica? — Ma... di quella che avete intesa. — Dico che è bellissima per musica composta da un compositore umano, e cantata da uccelli bipedi, e senza penne come diceva Diogene. Quando voglio sentire della musica quale non è stata mai sentita da orecchio umano dormo. — Ebbene! qui siete situato a meraviglia; dormite, dormite, l’_Opera_ non è stata inventata per altro scopo. — No, in verità la vostra orchestra fa troppo rumore, perchè io possa dormire del sonno di cui vi parlo, mi abbisogna calma, silenzio, ed una certa preparazione... — Ah! il famoso _hatchis_. — Precisamente, visconte, quando vorrete sentire della musica venite a cena da me. — Ma ne ho già inteso venendovi a fare colazione, disse Morcerf. — A Roma? — Sì. — Ah! sarà stata la _guzla_ di Haydée. Sì la povera esiliata si diverte qualche volta a suonare delle arie del suo paese. — Morcerf non insistè più; dalla sua parte il conte si tacque. In questo momento suonarono i campanelli. — Voi mi scuserete? disse il conte riprendendo la via del suo palco. — Come dunque! — Fate mille complimenti alla Contessa G*** per parte del suo vampiro. — Ed alla baronessa? — Le direte che avrò l’onore, se mi permette, di andarle a protestare i miei omaggi nella serata. Il terz’atto cominciò. Durante lo stesso il conte de Morcerf venne come aveva promesso a raggiungere la sig.ª Danglars. Il conte non era uno di quegli uomini che fanno rivoluzione in un teatro; per cui nessuno s’accorse del suo arrivo, meno quelli nel palco dei quali venne a prendere posto. Ciò non ostante Monte-Cristo lo vide, ed un leggero sorriso gli sfiorò le labbra. In quanto ad Haydée nulla vide finchè il sipario rimase alzato; come tutte le nature primitive ella adorava tutto ciò che parla all’orecchio ed agli occhi. Il terzo atto passò come d’ordinario. Le madamigelle Noblet, Julia, e Leroux eseguirono i loro soliti intermezzi; il principe di Granata fu sfidato da Roberto-Mario; finalmente questo maestoso re che voi sapete, fece il giro della scena, per mostrare il suo manto di velluto, tenendo sua figlia per mano, poi calò il sipario, e la platea sgorgò nella sala e nei corridori. Il conte uscì dal palco ed un momento dopo fu veduto in quello della baronessa Danglars, la quale non potè contenere un leggero grido di sorpresa misto a gioia: — Ah! venite dunque, sig. conte, gridò ella, perchè in verità ho sommo desiderio di unire i miei ringraziamenti verbali a quelli che vi ho già scritti. — Oh! signora, vi ricordate ancora di questa miseria, io l’aveva già dimenticata. — Sì!, ma ciò che non si dimentica, sig. conte si è che il giorno seguente salvaste la mia buon’amica, la sig.ª de Villefort dal pericolo che le facevano correre i miei cavalli. — Questa volta pure io non merito i vostri ringraziamenti. Alì, il mio moro ebbe la fortuna di rendere alla sig.ª de Villefort questo importante servigio. — Ma fu pure Alì, domandò il conte di Morcerf, che salvò mio figlio dalle mani dei banditi romani? — No, sig. conte, disse Monte-Cristo stringendo la mano che gli stendeva il generale, questa volta accetto i ringraziamenti, per conto mio, ma voi me li avete già fatti, li ho ricevuti, ed in verità sono felice di ritrovarvi tanto riconoscente. Fatemi dunque l’onore, vi prego, sig.ª baronessa, di presentarmi a madamigella vostra figlia. — Oh! voi siete già presentato, almeno di nome, perchè sono due o tre giorni che non si parla che di voi; Eugenia, continuò la baronessa voltandosi verso sua figlia, il sig. conte di Monte-Cristo. — Il conte s’inchinò, madamigella Danglars fece un leggero movimento con la testa: — Voi siete in palco con una bellissima signora, sig. conte, diss’Eugenia, è vostra figlia? — No, madamigella, disse Monte-Cristo maravigliato da questa estrema ingenuità, o da questa sorprendente destrezza! è una povera greca di cui io sono il tutore. — Come si chiama?... — Haydée, rispose Monte-Cristo. — Una greca, mormorò il conte di Morcerf. — Sì, conte, disse la sig.ª Danglars, e ditemi se alla corte d’Alì-Tebelen, ove avete servito gloriosamente, avete mai veduto un costume così ammirabile, quanto è quello che abbiamo innanzi agli occhi. — Ah! disse Monte-Cristo, voi avete servito a Giannina? — Sono stato generale istruttore delle soldatesche del Pascià, rispose Morcerf, e la mia piccola fortuna, non lo nascondo, mi viene dalla liberalità di questo illustre capo albanese. — Guardate dunque, insistè la sig.ª Danglars. — E dove? balbettò Morcerf. — Osservate, disse Monte-Cristo. — E circondando il conte col braccio, sporse con lui fuori del palco. In questo momento Haydée che cercava cogli occhi il conte scoperse la sua pallida testa vicino a quella di Morcerf che teneva abbracciato. Questa vista produsse sulla giovanetta l’effetto della testa di Medusa; fece un movimento colla testa in avanti, come per divorarli entrambi collo sguardo; poi quasi subito si gettò in addietro, mandando un debole grido, che fu però inteso dalle persone che le erano vicine, e da Alì che aperse subito la porta. — Osservate! disse Eugenia, che accade alla vostra pupilla, sig. conte? si direbbe che si senta male. — Sembra, disse il conte, ma non vi spaventate, madamigella Haydée è molto nervosa, per conseguenza molto sensibile agli odori; un profumo che le sia antipatico basta per farla svenire; ma, soggiunse il conte, cavando una boccettina di saccoccia, ho qui il rimedio. E dopo avere salutato la baronessa e la figlia, collo stesso e solo saluto strinse nuovamente la mano a Morcerf e a Debray, ed uscì dal palco della sig.ª Danglars. Quando rientrò nel suo, Haydée era ancora molto pallida; appena gli strinse la mano, Monte-Cristo s’accorse essere fredda ad un tempo ed umida. — E con chi dunque parlavi, signore? domandò Haydée. — Col conte di Morcerf, rispose Monte-Cristo, che è stato al servizio del tuo illustre padre, e che confessa di dovergli la sua fortuna. — Ah! miserabile, egli lo vendè ai Turchi; e questa fortuna fu il premio del suo tradimento. Tu dunque non sapevi questo, mio caro signore? — Aveva sentito dire qualche parola su questo proposito in Epiro, disse Monte-Cristo, ma ne ignoro i particolari; vieni, figlia mia, tu me li racconterai, devono essere curiosi. — Oh! sì vieni, vieni; mi sembra che morrei se dovessi stare più lungamente in faccia di quest’uomo. Ed Haydée s’alzò prestamente, s’inviluppò nella sua _burnous_ di _cachemire_ bianco, orlata di perle e di corallo ed uscì al momento in cui si alzava il sipario pel quarto atto. — Guardate se quest’uomo fa nulla di quel che fanno gli altri! disse la contessa G*** ad Alberto ch’era ritornato da lei, ascolta attentamente il terzo atto del _Roberto_, e se ne va al momento che sta per cominciare il quarto. LIII. — ALTO E BASSO DEI FONDI. Qualche giorno dopo questo incontro Alberto di Morcerf andò a far visita al conte di Monte-Cristo nella sua casa ai Campi-Elisi, che aveva già preso quell’aspetto di palazzo, che il conte mercè le sue immense ricchezze sapeva imprimere alle sue abitazioni anche più passaggiere. Egli veniva a rinnovargli i ringraziamenti della sig.ª Danglars che aveva già ricevuti in una lettera firmata baronessa Danglars, nata Erminia di Servieux. Alberto era accompagnato da Luciano Debray, il quale unì alle parole dell’amico qualche complimento, non al certo ufficiale, ma di cui il conte mercè il suo fino colpo d’occhio non poteva non sospettar la sorgente. Gli sembrò perfino che Luciano venisse a visitarlo mosso da un doppio sentimento di curiosità, di cui la metà emanasse dalla strada Chaussée-d’Antin; di fatto poteva supporre, senza timore di sbagliarsi, che la sig.ª Danglars non potendo coi suoi propri occhi ispezionare lo appartamento di un uomo che regalava cavalli da 30 mila fr. ed andava all’_Opera_ con una greca che portava il valore di un milione in diamanti, aveva incaricato gli occhi per i quali era solita vedere, di darle su ciò qualche informazione; ma il conte non parve sospettare la minima correlazione fra la visita di Luciano e la curiosità della baronessa. — Voi siete in rapporto quasi continuo col barone Danglars? domandò ad Alberto. — Sì, sig. conte, sapete ciò che vi ho detto. — Dunque resta sempre fermo? — Oggi più che mai, disse Luciano, è affar concluso. E giudicando senza dubbio che questa parola mista alla conversazione gli desse il diritto di restarne estraneo, si pose la lente legata in tartaruga all’occhio, e col pomo del bastoncino in bocca, fe’ il giro della camera esaminando e le armi ed i quadri. — Ah! disse Monte-Cristo, ma a quanto mi diceste, non avrei creduto ad una così sollecita soluzione. — Che volete? le cose camminano da sè; quando voi non pensate a loro, esse pensano a voi, e quando vi volgete, siete meravigliato del viaggio che hanno fatto. Mio padre ed il sig. Danglars hanno servito insieme in Ispagna, mio padre nell’esercito, Danglars nelle forniture. In questo modo mio padre, rovinato dalle rivoluzioni, e Danglars che non aveva mai avuto patrimonio, gettarono le prime fondamenta, mio padre della sua fortuna politico-militare che è bella, Danglars della sua politico-commerciale che è ammirabile. — Sì, infatto, disse Monte-Cristo, credo che nella visita che gli ho fatta, il sig. Danglars mi abbia parlato di ciò, e continuò dando uno sguardo al lato dov’era Luciano che stava sfogliando un album, è bella madamigella Eugenia?... perchè io credo di ricordarmi ch’ella si chiami Eugenia. — Molto bella, o piuttosto molto avvenente, disse Alberto, ma di una bellezza che non apprezzo; sono un indegno. — Ne parlate già come se foste suo marito. — Oh! fece Alberto, dando anch’egli uno sguardo a ciò che faceva Luciano. — Sapete, disse Monte-Cristo abbassando la voce, che non mi sembrate molto entusiasmato per questo matrimonio? — Madamigella Danglars è troppo ricca per me, e ciò mi spaventa, disse Morcerf. — Baie! disse Monte-Cristo, questa poi è una bella ragione? E non siete ricco voi pure? — Mio padre ha qualche cosa... circa 50 mila lire di rendita, e maritandomi me ne cederà forse 10 o 12. — La cosa è alquanto modesta, particolarmente a Parigi; ma in questo mondo il tutto non sta nelle ricchezze, e non è piccola cosa l’avere un nome ed un’alta posizione in società. Il vostro nome è celebre, la vostra posizione magnifica, e poi il conte di Morcerf è un soldato, ed è cosa ricercata la integerrimità di Baiardo, e la povertà di Duguesclin collegate insieme, il disinteresse è il più bel raggio di sole al quale possa balenare una nobile spada. Al contrario trovo questo matrimonio convenientissimo, voi nobiliterete la sig.ª Danglars, ella vi arricchirà! Alberto scosse la testa e rimase pensieroso. — Vi sono ancora altre cose, diss’egli. — Vi confesso, che non giungo a comprendere tanta ripugnanza per una giovinetta ricca e bella. — Oh! mio Dio! questa ripugnanza, se pur vi è, non viene tutta per parte mia. — Ma da qual parte dunque? perchè mi diceste che vostro padre desiderava questo matrimonio. — Per parte di mia madre, che ha un occhio prudente e sicuro. Ebbene ella non sorride a quest’unione, ha una certa non so quale prevenzione contro i Danglars. — Oh! disse il conte con un tuono di voce un po’ caricato, ciò si capisce; la sig.ª contessa di Morcerf che è la stessa distinzione, aristocrazia, e delicatezza personificata, esita alquanto a toccare una mano ordinaria, callosa e brutale. — Non so se di fatto sia così, disse Alberto, ma quel che so si è, che mi sembra che questo matrimonio, se si effettua, la renderà infelice. Vi doveva già essere un congresso di famiglia sei settimane or sono per parlare di affari, ma sono stato affetto talmente forte dall’emicrania. — Vera! disse il conte sorridendo. — Oh! sì, vera; la paura senza fallo... e la riunione fu aggiornata a due mesi. Non v’è nulla che solleciti, come capite, non ho ancora 21 anno, ed Eugenia non ne ha che 17, ma i due mesi compiono nella settimana ventura. Bisognerà sottoporvisi. Non potete immaginare, mio caro conte, come io sia impacciato. Ah! quanto siete felice voi che siete libero! — Ebbene! restate libero voi pure; vi domando un poco chi ve lo impedisce? — Oh! questo sarebbe un troppo crudele disinganno per mio padre, se non isposassi madamigella Danglars. — Sposatela dunque, disse il conte con una particolare stretta di spalle. — Sì, disse Morcerf, ma questo per mia madre non sarà un disinganno ma un dolore. — Ed allora non la sposate, disse il conte. — Vedrò, proverò, mi consiglierete, n’è vero? se vi è possibile, mi torrete da quest’impaccio. Oh! per non procurare un dispiacere alla mia ottima madre credo che mi disgusterei anche il padre. Monte-Cristo si voltò, egli era commosso: — Che! diss’egli a Debray ch’era seduto in una profonda seggiola in un angolo del salotto, tenendo con una mano il lapis, coll’altra un portafogli, e che fate dunque là? fate uno schizzo nel genere di Poussin? — Io, rispose tranquillamente, sì davvero uno schizzo! amo molto la pittura per questo! Ma questa volta faccio all’opposto, scrivo dei numeri. — Dei numeri! — Sì, calcolo, e ciò riguarda voi indirettamente, visconte, calcolo ciò che la casa Danglars ha dovuto guadagnare sull’ultima alzata dei fondi di Haïti: da 206 i fondi sono saliti fino a 409 in tre giorni ed il prudente banchiere ne aveva acquistati molti a 206. Deve averci guadagnato 300 mila lire. — Non è il suo più bel colpo, disse Morcerf; non ha guadagnato un milione in quest’anno coi boni di Spagna? — Ascoltate, mio caro, disse Luciano, qui vi è il sig. conte di Monte-Cristo che vi dirà come dicono gl’italiani, _Denaro e santità, Metà della metà_ — ed è ancora molto: per tal modo quando mi si raccontano simili storie, mi stringo nelle spalle. — Ma voi parlate d’Haïti? disse Monte-Cristo. — Oh! Haïti è un’altra cosa, Haïti è il giuoco dell’_écarté_ pel traffico usurario dei biglietti del commercio francese, si può amare la _rollina_, prediligere il _Whist_, affollarsi al _boston_, ma poi ognuno si stancherà sempre di tutti questi giuochi e si tornerà all’_écarté_ che è un capo d’opera. Così il sig. Danglars ieri ha venduto a 405 e si è intascato 300 mila fr. Se avesse aspettato fin oggi i fondi ricadevano a 205 ed invece di guadagnare 300 mila fr. ne avrebbe perduto 20 o 25 mila. — E per qual motivo i fondi sonosi riabbassati da 409 a 205? vi chiedo scusa, ma sono molto addietro nella conoscenza di quest’intrighi di borsa. — Perchè, rispose ridendo Alberto, le notizie si succedono, ma non si rassomigliano. — Ah! diavolo, fece il conte, il sig. Danglars arrischia di guadagnare e di perdere 300 mila fr. in un giorno? Egli è dunque enormemente ricco. — Non è lui, gridò con vivacità Luciano, è la sig.ª Danglars. Ella è veramente intrepida! — Ma voi, Luciano, che siete ragionevole e che conoscete la instabilità delle notizie, poichè ne siete alla sorgente, dovreste impedirlo, disse con un sorriso Morcerf. — Come potrò farlo io, se suo marito non ci riesce? domandò Luciano; voi conoscete l’indole della baronessa, nessuno ha influenza su lei, ed ella non fa che ciò che vuole. — Oh! s’io fossi al vostro posto, disse Alberto. — Ebbene? — La guarirei; questo sarebbe un buon servizio da rendersi al suo futuro genero. — E in qual modo? — Oh! è ben facile; le darei una buona lezione. — Una lezione? — Sì, la vostra posiziono come segretario del ministro vi dà una grande autorità per le notizie, voi non aprite la bocca che i sensali di cambi non stenografizzino subito le vostre parole; fatele perdere un centinaio di migliaia di fr. per volta, e ciò la renderà prudente. — Non capisco, balbettò Luciano. — Eppure la cosa è chiara, rispose il giovine con un’ingenuità senz’affettazione, un bel mattino annunciatele qualche cosa d’inaudito, una notizia telegrafica che voi solo possiate sapere; ciò farà salire i fondi, ella giuocherà il suo colpo di borsa, e perderà certamente, quando la dimane Beauchamp scriverà nel suo giornale: «È falso che persone bene informate abbiano saputo la tale notizia, essa è del tutto inesatta.» Luciano si mise a ridere sull’estremità delle labbra. Monte-Cristo sebbene apparentemente indifferente non aveva perduto una parola di questo discorso, ed il suo sguardo penetrante aveva perfino preteso di scoprire un segreto nell’impaccio del segretario intimo; da quest’impaccio, ch’era pienamente sfuggito ad Alberto, risultò che la visita fu abbreviata da Luciano, poichè non si sentiva più a suo agio. Il conte accompagnandolo alla porta gli disse alcune parole a voce bassa, alle quali rispose: — Ben volentieri, accetto. Il conte ritornò dopo al giovine Morcerf. — Non credete voi, riflettendovi bene, di avere avuto torto di parlar così di vostra suocera in presenza di Debray? — Conte, disse Morcerf, ve ne prego, non date alla baronessa questo nome prima del tempo. — Da vero adunque, e senz’esagerazione, la contessa è contraria a tal punto a questo matrimonio? — A tal punto che viene raramente dalla mia famiglia, e mia madre, credo non sia stata più di una o due volte in sua vita a far visita alla sig.ª Danglars. — Allora, disse il conte, eccomi incoraggiato a parlarvi apertamente. Il sig. Danglars è il mio banchiere, il sig. de Villefort mi ha ricolmato di gentilezze in ringraziamento della fortunata combinazione che mi ha messo al caso di potergli rendere un servizio. Indovino sotto tutto ciò un buon numero di pranzi e di festini. Ora per non sembrare d’intracciar tutto a bella posta, ed anche per prendere l’iniziativa se così vi piace, ho ideato di riunire nel mio casino di campagna d’Auteuil il sig. e la sig.ª Danglars, il sig. e la sig.ª di Villefort. Se v’invito a questo pranzo unitamente al conte ed alla contessa di Morcerf, non avrebbe questo l’apparenza di un convegno matrimoniale, o almeno la contessa di Morcerf, non volterà la cosa in tal modo, particolarmente se il barone Danglars mi fa l’onore di condurvi sua figlia? Allora vostra madre mi prenderà in orrore ed io nol voglio menomamente. Al contrario ho tutta la premura, e ditelo a lei ogni qualvolta se ne presenti l’occasione, di conservarmi il meglio che sia possibile nel suo spirito. — In fede mia, disse Morcerf, vi ringrazio della franchezza che adoperate meco ed accetto l’esclusione che mi proponete. Mi dite che desiderate di conservarvi il meglio che sia possibile nel cuore di mia madre, vi assicuro che vi siete già a meraviglia. — Lo credete? disse Monte-Cristo con interessamento. — Oh! ne sono sicuro; quando l’altro giorno ci lasciaste, abbiamo parlato buona pezza di voi. Ma ritorniamo a ciò che dicevamo. Se mia madre potesse sapere, ed arrischierò a dirglielo, questo riguardo che le usate son certo che ve ne sarebbe grata, sebben mio padre dal canto suo ne sarebbe furioso. Il conte si mise a ridere. — Ebbene, eccovi avvisato. Ma vi rifletto, non solo vostro padre sarà furioso; il sig. e la sig.ª Danglars mi considereranno come uomo di cattivi modi. Sanno che fra noi passa una certa intimità, che anzi siete la mia più antica conoscenza parigina, e non ritrovandovi alla mia villa, mi chiederanno perchè non vi abbia invitato. Pensate almeno a munirvi di un impegno anteriore che abbia qualche apparenza di probabilità, e di cui mi darete avviso con un bigliettino. Ben sapete che i banchieri non riconoscono valide che le cose scritte. — Farò anche meglio, disse Alberto, mia madre suole andare a respirare l’aria del mare; in che giorno è fissato il vostro pranzo? — Per sabato. — Oggi è martedì, va bene, domani sera partiamo, dopo domani mattina saremo a Tréport. Sapete, sig. conte, che siete un cortese amico per mettere così le persone fuor di ogni intrigo? — Io? in verità mi stimate più di quel che valgo, desidero farvi cosa grata, ecco tutto. — In che giorno avete mandati gl’inviti? — Oggi stesso. — Bene, corro dal sig. Danglars, gli annunzio che domani mia madre ed io lasciamo Parigi. Non vi ho veduto, e per conseguenza non so nulla del vostro pranzo. — Pazzo che siete, ed il sig. Debray che vi ha veduto da me? — Ah! è giusto. — Al contrario io vi ho veduto e vi ho invitato qui senza cerimonie; e voi mi avete risposto candidamente che non potevate essere mio convitato, perché domani partivate per Tréport. — Va bene; ciò è concluso, ma verrete a visitare mia madre prima di domani? — Prima di domani è difficile. Poi verrei a disturbare i vostri preparativi di partenza. — Dunque fate ancor meglio, voi non eravate che un uomo grazioso, diventereste un uomo adorabile. — E che debbo fare per giungere a questa sublimità? — Oggi siete libero come l’aria, venite a pranzo con me. Noi saremo in piccola brigata: voi, mia madre ed io. Avete appena veduto mia madre, così la conoscerete da vicino. È una donna molto notevole, e mi spiace solo che non ve ne sia una uguale con vent’anni di meno, poichè vi assicuro che vi sarebbe presto una contessa ed una viscontessa Morcerf. Quanto a mio padre non lo troverete in casa, egli fa parte di una commissione, e pranza dal gran referendario. Venite, parleremo di viaggi; voi che avete veduto il mondo intero ci racconterete le vostre avventure, ci direte la storia di quella bella greca che dite essere vostra schiava, e che trattate come una principessa. Andiamo, accettate, mia madre ve ne saprà grado. — Mille grazie, disse il conte; l’invito non può essere più bello, e mi spiace vivamente di non poterlo accettare. Non sono libero come credete, al contrario ho un convegno importantissimo. — Ah! state in guardia, mi avete insegnato in qual modo, in fatto di pranzi uno può disimpegnarsi da un invito disaggradevole. Mi abbisogna una prova. Fortunatamente non sono un banchiere come Danglars, ma vi prevengo che sono incredulo quanto lui. — Ed io vi do subito la prova, disse il conte; e suonò. — Hum! fece Morcerf ecco già due volte che ricusate di pranzare con mia madre. Questa è una risoluzione stabilita. Monte-Cristo rabbrividì: — Ah! non lo credete, eppure, ecco la mia pruova. Battistino entrò e si fermò sulla porta aspettando. — Io non era stato prevenuto della vostra visita, n’è vero? — Diamine, siete un uomo tanto straordinario, che non ne risponderei. — Non poteva almeno immaginare che mi avreste invitato a pranzo? — Oh! in quanto a ciò; è probabile. — Ebbene! Ascoltate; Battistino, che vi ho detto questa mattina quando vi ho chiamato nel mio gabinetto di studio? — Di far chiudere la porta del palazzo appena suonate le cinque, disse il cameriere. — E poi? — Oh! sig. conte... disse Alberto. — No, no voglio assolutamente tormi quella riputazione d’uomo misterioso che mi avete fatta, mio caro visconte, è troppo difficile di rappresentare sempre la parte di Manfredi. Voglio vivere in una casa di cristallo... E poi, continuate Battistino. — E poi di non ricevere che il sig. maggiore Bartolommeo Cavalcanti e suo figlio. — Capite, il maggiore Bartolommeo Cavalcanti; un uomo della più antica nobiltà d’Italia, e di cui Dante si è preso la pena d’essere l’Hozier; vi ricordate, o non vi ricordate, nel X canto dell’Inferno; di più, un grazioso giovine della vostra età circa, e vostro stesso titolo, e che fa il suo primo ingresso nel mondo parigino coi milioni di suo padre. Il maggiore questa sera mi conduce suo figlio Andrea, il _contino_, come noi diciamo in Italia; egli me lo affida; lo presenterò se ha qualche merito, voi mi aiuterete, n’è vero? — Senza dubbio. Il maggiore Cavalcanti è dunque un vostro antico amico? chiese Alberto. — Niente affatto: è un degno signore molto educato, modesto, e discreto, come se ne trovano una quantità in Italia fra i discendenti decaduti delle antiche famiglie. L’ho veduto più volte tanto a Bologna, che a Firenze e Lucca, e mi ha avvisato del suo arrivo. Le conoscenze di viaggio sono esigenti; ovunque reclamano quell’amicizia che loro si è dimostrata una volta per caso; come se l’uomo incivilito, che sa vivere un’ora senza curarsi di sapere con chi, non avesse sempre i suoi riservati pensieri! Questo buon maggiore ritorna a rivedere Parigi che non vide che di passaggio sotto l’impero, quando andò a gelare a Mosca. Gli darò un buon pranzo, mi lascerà suo figlio, gli prometterò di sorvegliarlo, ma gli lascerò fare tutte quelle follie che gli piacerà di fare, e saremo pari. — A meraviglia, m’accorgo che siete un prezioso mentore. Addio dunque, ritorneremo domenica. A proposito, ho ricevuto notizie di Franz. — Ah! davvero? disse Monte-Cristo; il soggiorno d’Italia gli piace sempre? — Credo di sì; però vi desidera. Dice che eravate il sole di Roma, e che senza di voi vi fa buio; non so se giunge fino a dire che vi piova. — Si è dunque ricreduto sul conto mio? — Al contrario persiste a credervi un essere fantastico in primo grado; ecco perchè vi desidera. — Grazioso giovinotto, disse Monte-Cristo, e pel quale ho sentito una viva simpatia fin dalla prima sera in cui lo vidi cercare una cena qualunque, ed in cui volle accettare la mia. Egli è, credo, il figlio del generale d’Épinay? — Precisamente. — Lo stesso che fu così miserabilmente assassinato nel 1815? — Dai bonapartisti. — È vero, in fede mia io l’amo! Non vi è anche per lui qualche disegno di matrimonio? — Sì, deve sposare la figlia del sig. de Villefort. — Davvero? — Come io devo sposare quella del barone Danglars; riprese Alberto sorridendo. — Voi ridete? — Sì. — Perchè ridete? — Rido, perchè mi sembra di vedere da quel lato tanta simpatia nel matrimonio, quanta ne vedo da un altro lato fra madamigella Danglars e me. Ma veramente, mio caro conte, parliamo delle donne, come le donne degli uomini, questo è imperdonabile. — Alberto si alzò. — Volete andarvene? — La domanda è buona, sono due ore che vi assedio, e voi avete la gentilezza di chiedermi se voglio andarmene? In verità, conte, siete l’uomo più gentile della terra! La vostra servitù com’è educata! Battistino particolarmente. Non ho mai potuto averne uno simile. I miei sembrano tutti modellarsi su quelli del teatro francese, che precisamente perchè non hanno che una parola da dire, vengono sempre a dirla sulla scala. Se mai aveste a disfarvi di Battistino vi prego darmi la preferenza. — Resta stabilito, visconte. — Ma qui non è tutto, aspettate, fate i miei complimenti al vostro discreto Lucchese Cavalcante dei Cavalcanti; e se per caso avesse intenzione di dar moglie a suo figlio, trovategli una donna molto ricca, molto nobile almeno dal lato di sua madre, e baronessa dal lato di suo padre, io vi aiuterò a trovarla. — Oh! oh! rispose Monte-Cristo, da vero, siamo a questi termini? — Sì. — In fede mia non bisogna giurare su niente. — Ah! conte, gridò Morcerf, qual servizio mi rendereste! E come io vi amerei cento volte di più ancora, se mercè vostra potessi restare celibe, altri dieci anni almeno! — Tutto è possibile, rispose con gravità Monte-Cristo. E prendendo congedo da Alberto rientrò nel suo gabinetto, e battè tre colpi sul campanello. Bertuccio comparve. — Bertuccio, sapete che sabato ho ricevimento nel mio casino d’Auteuil. Bertuccio ebbe un leggero fremito: — Bene, signore. — Ho bisogno di voi, continuò il conte, perchè tutto sia disposto convenientemente. Quella casa è bella, o per lo meno può diventare bella. — Per far ciò bisognerebbe cambiar tutto, sig. conte, ogni cosa è invecchiata. — Cambiate dunque tutto, ad eccezione di una camera sola, della camera da letto di damasco rosso. Anzi, la lascerete assolutamente come si trova. — Bertuccio s’inchinò. — Non toccherete niente neppure nel giardino; ma del cortile per esempio fatene tutto ciò che volete, gradirò anzi assaissimo se sarà ridotto in modo da non essere più conosciuto. — Farò il possibile perchè il sig. conte rimanga contento; sarei più tranquillo però se volesse dirmi le sue intenzioni sul pranzo. — In verità, disse il conte, da che siamo a Parigi vi trovo sconcertato e tremante; dunque non mi conoscete più? — Ma infine V. E. potrebbe dirmi chi riceve? — Non so ancora niente, e voi pure non avete bisogno di saperlo. Lucullo pranza da Lucullo; ecco tutto. Bertuccio s’inchinò e partì. LIV. — IL MAGGIORE CAVALCANTI. Nè il conte, nè Battistino avevano mentito annunciando a Morcerf questa visita del maggiore Lucchese, che serviva a Monte-Cristo di pretesto per rifiutare il pranzo ch’eragli stato offerto. Battevano le sette, e già da due ore Bertuccio, giusta l’ordine ricevuto, era partito per Auteuil, quando una carrozza di piazza si fermò al cancello, e fuggì vergognosa subito dopo aver deposto a terra un uomo di circa 50 anni, vestito con uno di quei soprabiti verdi con alamari neri, la cui specie sembra non potersi estinguere in Europa. Larghe brache di panno blu, stivali abbastanza puliti, sebbene la vernice fosse incerta, e le suola un po’ troppo grosse, guanti di daino, un cappello che per la forma si accostava a quello di un gendarme, un colletto nero con un orlo bianco, che se non fosse stato portato di piena volontà del proprietario, sarebbesi potuto credere uno di quei cerchi di ferro a cui si attaccano pel collo i malfattori alla berlina; tal era il pittoresco abbigliamento della persona che picchiò al cancello domandando se all’entrata dei Campi-Elisi n. 30 abitasse il conte di Monte-Cristo, e che dietro la risposta affermativa del portinaro, entrò, richiuse la porta, e si diresse alla scalinata. La testa piccola e ad angoli di quest’uomo, i capelli grigi, i fitti baffi lo fecero riconoscere da Battistino che aveva gli esatti connotati del visitatore da lui aspettato nel vestibolo. Per tal modo appena pronunciato il suo nome in faccia all’intelligente servitore, Monte-Cristo era già avvisato del suo arrivo. Lo straniero fu introdotto nella sala più semplicemente messa. Il conte ivi lo aspettava, e gli andò incontro sorridendo: — Ah! caro signore, siate il benvenuto; io vi aspettava. — Davvero, disse il Lucchese, V. E. mi aspettava? — Sì, ero stato avvisato per oggi del vostro arrivo alle 7. — Del mio arrivo? Cosicchè eravate prevenuto? — Perfettamente. — Oh! tanto meglio! Temeva, lo confesso, che avessero dimenticata questa piccola cautela. — Quale? — Quella di prevenirvi. — Oh! no! — Ma siete sicuro di non ingannarvi? — Ne son sicuro. — Ma veramente V. E. aspettava me alle sette? — Veramente voi. D’altra parte verifichiamo. — Oh! se mi aspettavate, non vale la pena.... — No, no, disse Monte-Cristo. Il Lucchese parve alquanto commuoversi. — Vediamo, non siete il marchese Bartolommeo Cavalcanti? — Bartolommeo Cavalcanti, sta bene. — E maggiore al servizio dell’Austria? — Io era dunque maggiore? domandò timidamente il vecchio soldato. — Sì, disse Monte-Cristo, eravate maggiore; questo è il nome che si dà in Francia al grado che avevate in Italia. — Buono, disse il Lucchese, non domando meglio, capite... — D’altra parte non venite qui di vostra spontanea elezione, riprese Monte-Cristo — Oh! sì certamente. — Voi mi siete stato indirizzato da qualcuno. — Sì. — Dall’eccellente abate Busoni. — Da lui precisamente! gridò tutto contento il Lucchese. — Ed avete una lettera? — Eccola. — Per bacco, vedete bene che tutto corrisponde. Datemela dunque. — E Monte-Cristo prese la lettera che aprì e lesse. Il maggiore guardava il conte con occhi spalancati e meravigliati che si portavano con curiosità in giro sopra ciascun oggetto della camera, ma che ritornavano invariabilmente sul suo scrigno. — È ben lui... questo caro Busoni «il maggior Cavalcanti, un degno patrizio Lucchese, discendente dal Cavalcanti di Firenze, continuò Monte-Cristo leggendo a voce alta, e che gode una fortuna di mezzo milione di rendita.» Mezzo milione, salute! mio caro Cavalcanti. — Vi è un mezzo milione? domandò il Lucchese. — In tutte le lettere; e dev’essere così, l’abate Busoni è l’uomo che conosce meglio di tutti le più grandi fortune di Europa. — Eh? vada per un mezzo milione, disse il Lucchese, ma parola di onore non credeva che andasse tant’alto. — Perchè avete un’intendente che vi ruba; che volete, caro sig. Cavalcanti, bisogna adattarsi. — Voi m’illuminate, disse il Lucchese con gravità, lo metterò alla porta. Monte-Cristo continuò a leggere: «E al quale non manca che una cosa per essere felice.» — Oh! sì una sola cosa, disse il Lucchese con un sospiro. — «Di ritrovare un figlio adorato, rapito nella sua prima gioventù, o da nemici della sua famiglia o da zingari.» — All’età di 5 anni, signore, disse il Lucchese con un profondo sospiro ed alzando gli occhi al cielo. — Povero padre! disse Monte-Cristo. «Io gli rendo la speranza, gli rendo la vita, sig. conte, annunziandogli che questo figlio, che da 15 anni cerca invano, voi potete farglielo ritrovare.» Il Lucchese guardò Monte-Cristo con una indefinibile espressione d’inquietudine. — Lo posso, rispose Monte-Cristo. Il maggiore riprese coraggio. — Ah! ah! la lettera è dunque vera fino alla fine? — Avreste potuto dubitarne? — No, mai! E come lo potevo? ad un uomo grave ricoperto di un rispettabile carattere non sarebbe permessa una simile celia: ma voi non avete letto tutto, eccellenza! — Ah! è vero, disse Monte-Cristo, v’è un _post-scriptum_. — «Per non procurare al maggior Cavalcanti l’impaccio di spostare dei fondi dal suo banchiere gli mando una tratta di 2,000 fr. per le spese del viaggio e gli apro credito su voi per 48 mila fr. che rimanete a darmi.» Il maggiore seguiva cogli occhi questo post-scriptum con una visibile ansietà. — Bene, si contentò di dire il conte. — Ha detto bene, mormorò il Lucchese? — E così, signore? riprese egli. — E così? domandò Monte-Cristo. — Il post-scriptum è accettato da voi collo stesso favore come tutto il resto della lettera? — Certamente. Ho conti con l’abate Busoni; non so se sieno precisamente 48 mila lire che ancora resto a dargli; ma in caso non guasteremo i nostri affari per qualche biglietto di banca. E che! voi dunque attaccate una grande importanza a questo _post-scriptum_, caro sig. Cavalcanti? — Vi confesserò, disse il Lucchese, che pieno di fiducia nella firma dell’abate Busoni, non mi sono provveduto di altri fondi; di modo che se mi mancasse questa risorsa, mi troverei molto impacciato a Parigi. — È possibile che un uomo come voi possa mai trovarsi impacciato in alcun luogo? disse Monte-Cristo; via dunque! — Diavolo, non conoscendo alcuno, disse il Lucchese. — Ma siete conosciuto. — Sì son conosciuto di modo che... — Terminate, caro sig. Cavalcanti. — Di modo che mi pagherete questi 48 mila fr. — Alla vostra prima domanda. Il maggiore girava gli occhi stralunati. — Ma sedetevi dunque, disse Monte-Cristo, da vero che non so più quel che mi faccio... è un quarto d’ora che vi tengo qui in piedi... — Non ci fate attenzione. — Il maggiore avanzò una seggiola e vi si assise. — Ora, disse il conte, volete prendere qualche cosa? un bicchiere di Xeres, di Porto, d’Alicante? — D’Alicante, poichè lo volete, è il mio vino prediletto. — Ne ho dell’eccellente. E con un biscotto, n’è vero? — Con un biscotto poichè mi forzate. Monte-Cristo suonò, Battistino comparve, il conte s’avvicinò a lui. — Ebbene?... domandò a voce bassa. — Il giovine è di là, rispose il cameriere collo stesso tuono. — Buono! dove lo avete fatto passare? — Nel salotto blu come ordinò V. E. — A meraviglia, portate del vino d’Alicante e dei biscotti. — Battistino uscì. — In verità, disse il Lucchese, vi do un incomodo che mi riempie di confusione. — Che dite mai? Battistino rientrò coi bicchieri, il vino ed i biscotti. Il conte riempì un bicchiere, e versò nell’altro soltanto alcune gocce del liquido rubino che conteneva la bottiglia tutta ricoperta di tela di ragno, e di tutti quegli altri segni che indicano la vecchiaia del vino, molto più sicuramente che non fanno le rughe sulla fronte dell’uomo. Il maggiore non s’ingannò nella scelta, prese il bicchiere pieno ed il biscotto. Il conte ordinò a Battistino di depositare la sotto coppa alla portata della mano del suo ospite, che cominciò dal gustare l’Alicante colla estremità delle labbra, facendo una boccaccia di soddisfazione ed introdusse delicatamente il biscotto nel bicchiere. — Così signore, disse Monte-Cristo, voi abitate Lucca, siete ricco, siete nobile, godete della stima universale, possedete tutto ciò che può formare un uomo felice? — Tutto, eccellenza, disse il maggiore inghiottendo il suo biscotto, assolutamente tutto. — E non manca che una cosa per fare la vostra felicità? — Una sola, disse il Lucchese. — Di ritrovar vostro figlio? — Ah! fece il maggiore prendendo un secondo biscotto, ma anche questo mi mancava. — Il degno Lucchese alzò gli occhi al cielo e tentò uno sforzo per sospirare. — Ora vediamo, sig. Cavalcanti, che cosa è questo figlio che tanto deplorate; perchè mi fu detto, che siete rimasto lungamente celibe. — Lo credevano signore, disse il maggiore, ed io stesso... — Sì, riprese il conte, e voi stesso avete accreditata questa voce. Un peccato di gioventù che volevate nascondere agli occhi di tutti. Il Lucchese si ricompose, prese le maniere più placide e più degne nello stesso tempo, ed abbassando modestamente gli occhi, sia per assicurare la sua condotta, sia per aiutare la sua immaginazione guardando di sott’occhio il conte il cui sorriso a fior di labbra annunziava sempre la stessa benevola curiosità. — Sì signore, voleva nascondere questo fallo agli occhi di tutti. — Non per voi. — Oh! per me no certamente, disse il maggiore con un sorriso scuotendo la testa. — Ma per sua madre, replicò il conte. — Per sua madre! gridò il Lucchese, prendendo il terzo biscotto; per la sua povera madre. — Bevete dunque caro signore, disse Monte-Cristo versando al Lucchese un secondo bicchiere d’Alicante; l’emozione vi soffoca. — Per la sua povera madre! mormorò il Lucchese, provando se la forza della volontà avesse il potere di operare sulla glandula lagrimale, affine d’inumidire con una falsa lagrima l’angolo dell’occhio. — Che apparteneva ad una delle prime famiglie d’Italia? — Patrizia di Fiesole, sig. conte! — E si chiamava? — Desiderate saperne il nome? — È inutile che me lo diciate, lo so. — Il sig. conte sa tutto, disse il Lucchese inchinandosi. — Oliva Corsinari, n’è vero? — Oliva Corsinari! — Marchesa? — Marchesa! — Ed avete finito collo sposarla, ad onta degli ostacoli di famiglia. — Mio Dio, sì, ho finito in tal modo. — E portate le vostre carte in regola? — Quali carte? domandò il Lucchese. — L’atto di matrimonio con Oliva Corsinari, e l’atto di nascita di vostro figlio? — La fede di nascita di mio figlio? — Sì, l’atto di nascita di Andrea Cavalcanti; vostro figlio, non si chiama egli Andrea? — Credo di sì, disse il Lucchese. — Come! voi lo credete? — Diavolo, non oso affermarlo, è tanto tempo che l’ho perduto. — È giusto, disse Monte-Cristo. Avete dunque tutte queste carte? — Signore, con dispiacere debbo annunciarvi che non essendo stato prevenuto di munirmi di questi atti non ho curato di prenderli meco. — Ah! diavolo, fece Monte-Cristo. — Erano dunque assolutamente necessarii? — Indispensabili. — Il Lucchese si grattò la fronte. — Ah! per bacco, diss’egli, indispensabili. — Senza dubbio, se qui venissero mossi dei dubbi sulla legalità del vostro matrimonio, sulla legittimità di vostro figlio. — È giusto, disse il Lucchese, potrebbero insorgere dubbii. — Sarebbe tormentoso per questo giovine. — Sarebbe fatale. — Ciò potrebbe mandargli a monte qualche magnifico matrimonio. — Oh! peccato! — In Francia, lo saprete, vi è molto rigore, in Francia vi è il matrimonio civile, e per maritarsi civilmente vi vogliono le fedi d’identità. — Ecco la disgrazia; non ho queste carte. — Fortunatamente le ho io, disse Monte-Cristo. — Voi? — Sì. — Le avete? — Le ho. — Ah! disse il Lucchese, che vedendo lo scopo del suo viaggio fallire per la mancanza di queste carte, temeva che questa dimenticanza non facesse insorgere qualche difficoltà sull’argomento delle 48 mila lire; ah! per esempio, ecco una fortuna. Sì, riprese egli, perchè non ci avrei pensato. — Per bacco, credo bene, non si può sempre pensare a tutto. Ma fortunatamente l’abate Busoni vi ha pensato in vece vostra. — Guardate un po’ quanto è amabile questo caro abate! — È un uomo pieno di cautele. — È un uomo ammirabile! disse il Lucchese, ve le ha egli inviate? — Eccole qui... — Il Lucchese congiunse le mani in segno di ammirazione. — Voi avete sposato Oliva Corsinari a Monte Catini; ecco il certificato. — Sì, da vero eccolo, disse il maggiore, guardandolo con meraviglia. — Ed ecco la fede di nascita di Andrea Cavalcanti rilasciata a Seravezza. — Tutto è in regola, disse il maggiore. — Allora, prendete queste carte, delle quali non so che farne, le darete a vostro figlio che le custodirà con cura. — Lo credo bene... s’egli le perdesse... — Ebbene! s’egli le perdesse? domandò Monte-Cristo. — Ebbene! riprese il Lucchese, sarebbe obbligato di scrivere laggiù, e vi sarebbero delle grandi difficoltà a procurarsene delle altre. — In fatto sarebbe difficilissimo, disse Monte-Cristo. — Quas’impossibile, rispose il Lucchese. — Son ben contento che comprendiate il valore di queste carte. — Vale a dire le riguardo impagabili. — Ora, quanto alla madre del giovine... — Quanto alla madre del giovine... ripetè il maggiore con inquietudine. — In quanto alla Marchesa Corsinari. — Mio Dio, disse il Lucchese sotto i passi del quale sembravano nascere le difficoltà; si avrà forse bisogno di lei? — No signore, rispose Monte-Cristo, d’altra parte non ha ella... — Sia così, sia così, disse il maggiore ella ha... — Pagato il suo tributo alla natura. — Ahimè! sì, disse vivamente il Lucchese. — Seppi, riprese il conte, ch’era morta da dieci anni. — Ed io ne piango ancora la morte, disse il maggiore cavando di saccoccia un fazzoletto a quadretti ed asciugandosi alternativamente ora l’orlo dell’occhio destro, ora quello dell’occhio sinistro. — Che volete farci, disse Monte-Cristo, noi tutti siamo mortali. Ora capirete mio caro ch’è inutile che si sappia in Francia che voi siete stato diviso da vostro figlio per 15 anni. Tutte queste storie di zingari che rapiscono i ragazzi, non hanno credito presso di noi. Voi lo avete inviato per la sua educazione in un collegio di provincia, e volete ch’egli la compisca in mezzo al _gran mondo_ di Parigi. Ecco perchè avete lasciato Viareggio ove abitate dopo la morte di vostra moglie. Ciò basterà. — Lo credete? — Certamente. — Va benissimo allora. — Se mai venisse scoperta qualche cosa di questa separazione. — Ah! sì, e che dovrei dire allora? — Che un precettore infedele, venduto ai nemici della vostra famiglia... — Ai Corsinari? — Certamente... ha rapito questo figliuolo, perchè si estinguesse il vostro nome. — È giusto perchè è figlio unico... — Bene, ora che tutto è combinato, che le vostre rimembranze essendo state rinnovate, non vi tradiranno, avrete certamente indovinato che vi ho preparato una sorpresa? — Aggradevole? domandò il Lucchese. — Ah! disse Monte-Cristo, ben m’avveggo che non si può ingannare l’occhio più di quel che non si possa ingannare il cuore di un padre. — Hum! fece il maggiore. — Vi è stata fatta qualche rivelazione indiscreta, o avete indovinato ch’egli è là. — Chi è là? — Il vostro figlio, il vostro Andrea. — L’ho indovinato, rispose il Lucchese colla più gran flemma del mondo, così egli è qui? — In questa stessa casa, disse Monte-Cristo, il cameriere poco fa mi ha avvisato del suo arrivo. — Ah! benissimo, benissimo! disse il maggiore allacciandosi gli alamari della sua polacca. — Mio caro signore, disse Monte-Cristo, concepisco tutta la vostra emozione, e bisogna accordarvi un po’ di tempo per rimettervi, voglio pure disporre il giovine a questo incontro tanto desiderato, giacchè presumo che non sia meno impaziente di voi. — Lo credo, disse Cavalcanti. — Ebbene, fra un quarto d’ora saremo qui. — Voi dunque me lo conducete? portate la bontà fino al punto di presentarmelo voi stesso? — No, non voglio pormi fra il padre ed il figlio, sarete soli, ma state tranquillo, nel caso che la voce del sangue rimanesse muta, non potrete ingannarvi; egli entrerà da questa porta. È un bel giovinetto biondo, forse anche un po’ troppo biondo, con modi tutti che prevengono in suo favore, vedrete. — A proposito, disse il maggiore, sapete che non ho portato meco che i due mila fr. che mi ha fatto passare il buon abate Busoni. Su questi ho levato le spese di viaggio... e... — Ed avete bisogno di denaro, è troppo giusto. Prendete, ecco qui un conto pari, otto biglietti di mille fr.; or ve ne devo altri 40 mila. — V. E. vuole che le faccia la ricevuta? disse il marchese facendo scivolare i biglietti nella saccoccia interna della polacca. — Perchè farne? disse il conte. — Ma per darvene discarico nel conto dell’abate Busoni. — Ebbene, mi farete una ricevuta generale quando vi sborserò gli ultimi 40 mila fr.; fra galantuomini sono inutili queste cautele. — Ah! sì è vero, disse il maggiore; fra galantuomini... — Mi permetterete una piccola raccomandazione, n’è vero? — E come mai, la domando. — Non sarebbe mal fatto, se lasciate questa polacca. — Davvero, disse il maggiore guardando con una certa compiacenza il suo soprabito. — Sì, questa a Viareggio si porta ancora, ma è già gran tempo che questo vestito per quanto sia elegante, è passato di moda a Parigi. — Mi rincresce, disse il Lucchese. — Ma se vi ci siete affezionato, potrete rimetterla al ritorno. — Ma intanto che metterò? — Ciò che troverete nei vostri bauli. — Come nei miei bauli? Non ho portato meco che il porta mantello. — Con voi lo credo; e perchè avreste dovuto impacciarvi? D’altra parte un vecchio militare desidera marciare con un piccolo fardello. — Ecco precisamente perchè... — Ma voi siete un uomo pieno di cautele, e perciò avete mandato avanti i vostri bauli. Sono giunti ieri all’albergo dei Principi, strada Richelieu, ove avete fatto fissare il vostro alloggio. — Allora in questi bauli?... — Presumo che avrete avuta la cautela di farvi racchiudere dal vostro cameriere tutto ciò che vi poteva abbisognare, abiti da città, abiti d’uniforme. Nelle grandi congiunture vestirete l’uniforme, il che fa sempre bene. Non dimenticate poi le decorazioni. In Francia se ne beffano ancora, ma le portano sempre. — Benissimo, benissimo, benissimo, disse il maggiore passando da uno stordimento in un altro. — Ed ora che il vostro cuore si è rafforzato contro le sensazioni troppo vive, preparatevi, mio caro Cavalcanti, a rivedere il vostro Andrea. E facendo un grazioso saluto al Lucchese rapito in estasi, Monte-Cristo disparve dietro la portiera. LV. — ANDREA CAVALCANTI. Il conte di Monte-Cristo entrò nel salotto vicino, che Battistino aveva indicato col nome di salotto blu, e dov’era stato preceduto da un giovine di portamento disinvolto vestito con sufficiente eleganza, che mezz’ora prima era stato gettato alla porta del palazzo da un _cabriolet_ di piazza. Battistino non aveva penato a riconoscerlo; era realmente quel giovine alto coi capelli biondi, colla tinta vermiglia sopra una candidissima pelle, come gli era stato contradistinto dal padrone. Il giovine era negligentemente steso sur un sofà percuotendosi lo stivale con un sottile bastoncino a pomo d’oro; scorgendo Monte-Cristo si alzò prestamente. — Il signore è il conte di Monte-Cristo? — Sì signore, rispose questi, e credo di aver l’onore di parlare al sig. conte Andrea Cavalcanti. — Il conte Andrea Cavalcanti, riprese il giovine accompagnando queste parole con un saluto di disinvoltura. — Dovete avere una lettera che vi accredita meco? — Non ve ne parlavo per cagione della firma che mi è sembrata strana. — Sindbad il marinaro, non è così? — Precisamente, or siccome non ho mai conosciuto altro Sindbad il marinaro che quello delle _mille e una notte_... — Ebbene! egli è uno dei suoi discendenti, uno dei miei amici, molto ricco, un inglese, qualche cosa più che stravagante, quasi pazzo, il cui vero nome è Lord Wilmore. — Ah! ecco ciò che mi spiega ogni cosa, disse Andrea, allora tutto va a meraviglia. Egli è quello stesso inglese che conobbi... a... sì; benissimo, sig. conte, vi son servo. — Se ciò che avete l’onore di dirmi è vero, spero che vorrete favorirmi dei particolari sulla vostra famiglia. — Volentieri, rispose il giovine con una volubilità che provava la sicurezza della sua memoria. Io sono, come diceste, il conte Andrea Cavalcanti, figlio del maggiore Bartolommeo, discendente dai Cavalcanti iscritti al libro d’oro di Firenze. La nostra famiglia quantunque ancora ricca, poichè mio padre gode di mezzo milione di rendita, ha provato moltissimi infortuni, ed io stesso, signore, all’età di 5 anni sono stato rapito da un aio infedele, di modo che da 19 anni non ho più riveduto l’autore dei miei giorni. Dacchè ho l’età della ragione, dacchè sono libero e padrone di me, lo cerco, ma inutilmente. Finalmente questa lettera del nostro amico Sindbad mi annunzia, ch’egli è a Parigi, e mi permette d’indirizzarmi a voi per averne notizia. — In verità, signore, tutto ciò che mi raccontate è molto importante, disse il conte che guardava con una tetra soddisfazione questa fisonomia disinvolta, marcata di una beltà simile a quella dell’angelo cattivo; ed avete fatto benissimo a conformarvi in tutto e per tutto all’invito del buon amico Sindbad, perchè vostro padre in fatto è qui e vi cerca. Il conte fin dal suo entrare nel salotto non aveva perduto di vista il giovine, ne aveva ammirato la sicurezza dello sguardo e della voce, ma a queste parole tanto naturali, _vostro padre è qui e vi cerca_, il giovine Andrea fece uno sbalzo gridando: — Mio padre! mio padre qui? — Senza dubbio, rispose Monte-Cristo, vostro padre il maggiore Bartolommeo Cavalcanti. — L’impressione di terrore sparsa sui tratti del giovine si cancellò quasi subito. — Ah! sì è vero, il maggiore Bartolommeo Cavalcanti. E voi dite, sig. conte, ch’egli è qui, questo caro padre? — Sì, signore, aggiungerò ancora che l’ho lasciato in questo punto; la storia che mi ha raccontata di questo prediletto figlio altra volta perduto, mi ha molto commosso, in verità, i suoi dolori, i timori, le speranze su tal soggetto formerebbero un poema commovente. Finalmente un giorno ricevette notizie che gli annunziavano che i rapitori di suo figlio offrivano di renderlo o d’indicare ove egli era mercè una forte somma. Ma niuna cosa ritenne questo buon padre, la somma fu inviata alle frontiere del Piemonte unitamente ad un passaporto regolare per l’Italia. Voi eravate nel mezzogiorno della Francia, credo? — Sì signore, rispose Andrea con impaccio; era nel mezzogiorno della Francia. — Una vettura doveva aspettarvi a Nizza? — Precisamente così, signore, essa mi condusse da Nizza a Genova, da Genova a Torino, da Torino a Chambery, da Chambery a Pont-de Beauvoisin, e di lì a Parigi. — A meraviglia, sperava sempre rincontrarvi in cammino, poichè questa era la strada che faceva egli stesso, ecco perchè il vostro itinerario era stato in tal modo tracciato. — Ma, disse Andrea, se questo caro padre mi avesse incontrato temo che non mi avrebbe riconosciuto; sono qualche poco cangiato da che l’ho perduto di vista. — Oh! la voce del sangue, disse Monte-Cristo. — Ah! sì è vero, riprese il giovine, io non pensava alla voce del sangue! — Ora, riprese Monte-Cristo, una sola cosa agita il marchese Cavalcanti, ed è ciò che avete fatto durante la vostra lontananza, ed il modo col quale siete stato trattato dai vostri persecutori; è il desiderio di sapere se hanno avuto per la vostra nascita i riguardi che le si dovevano, finalmente se per le sofferenze morali alle quali siete stato esposto, sofferenze cento volte peggiori delle fisiche, le vostre facoltà di cui siete stato dotato largamente dalla natura abbian sofferto qualche indebolimento, e se voi stesso credete poter rispondere e sostenere nella società il rango che vi appartiene. — Signore, balbettò il giovine stordito, spero che nessun falso rapporto... — Intesi parlare di voi per la prima volta dal mio amico Wilmore, il filantropo. Seppi che vi aveva ritrovato in una posizione molto dolorosa, però non so quale, non avendogli fatta alcun’interrogazione, essendo poco curioso. Le vostre disgrazie lo hanno interessato, dunque voi eravate in istato di potere inspirare interessamento. Mi disse che voleva rendervi nel mondo la posizione che avevate perduta, che cercava vostro padre, e che lo avrebbe ritrovato, a quanto sembra poichè è di là: finalmente mi ha prevenuto ieri del vostro arrivo, dandomi ancora alcune istruzioni relative alle vostre ricchezze: ecco tutto; so che questo mio buon amico Wilmore è un originale, ma nello stesso tempo siccome è un uomo sicuro, ricco quanto una miniera d’oro, e che per conseguenza può soddisfare le sue originalità senza ch’esse lo rovinino, ho promesso di seguire le sue istruzioni. Ora, signore, non vi offendete della mia domanda; siccome sarò obbligato di farvi un poco da padre, desidererei sapere se le disgrazie che vi sono accadute, disgrazie indipendenti dalla vostra volontà, e che non diminuiscono in alcun modo la stima che vi porto, vi abbiano reso estraneo alquanto a questo mondo nel quale le vostre ricchezze vi chiamano a fare una così buona figura. — Signore, rispose il giovine riprendendo il suo contegno sicuro, a seconda che il conte parlava, rassicuratevi su questo punto: i rapitori che mi hanno allontanato da mio padre, e che senza dubbio avevano per iscopo di rendermi a lui più tardi, come hanno fatto, hanno calcolato che per cavare un buon partito da me, bisognava lasciarmi tutto il mio valore personale, ed anzi aumentarlo ancora, se era possibile: ho dunque ricevuto una buona educazione e sono stato trattato dai miei rapitori, nello stesso modo circa con cui nell’Asia minore erano trattati gli schiavi dai loro maestri che erano o grammatici, o medici, o filosofi, per venderli ad un più caro prezzo nel mercato di Roma. Monte-Cristo sorrise con soddisfazione; egli non aveva sperato tanto dal sig. Andrea Cavalcanti, a quanto sembrava. — D’altra parte, riprese il giovine, se vi fosse qualche difetto nella mia educazione o piuttosto nelle abitudini di società, si avrà, suppongo, l’indulgenza di scusarmi in considerazione delle disgrazie che hanno accompagnato la mia nascita, e perseguitata la mia gioventù. — Ebbene! disse Monte-Cristo negligentemente; farete ciò che vorrete, conte, perchè voi siete il padrone, e ciò spetta a voi; ma non direi un motto di tutte queste avventure; la vostra storia è un romanzo, ed il mondo che adora i romanzi chiusi fra due copertine di carta gialla, diffida stranamente di quelli che vede legati in carta velina vivente, fossero puranche dorati come potete esserlo voi. Ecco la difficoltà che mi permetterò di farvi notare; tosto che avrete raccontata a qualcuno la vostra commovente storia essa verrà del tutto snaturata nella società. Non sarete più un giovine ritrovato, ma un giovine perduto. Sarete obbligato di prendere la posizione di Antony, ed il tempo degli Antony è un poco passato. Forse avreste un incontro di curiosità, ma tutti non amano farsi centro di osservazioni, argomento di commentarii, ciò forse vi stancherebbe ancor troppo. — Credo che abbiate ragione, sig. conte, disse il giovine impallidendo suo malgrado sotto l’influenza dello sguardo di Monte-Cristo, questo è un grande inconveniente. — Oh! non bisogna però esagerarselo, disse Monte-Cristo, perchè allora per evitare un errore si cadrebbe in una follia. No, non si tratta che di stabilire un disegno di condotta, e per un uomo intelligente come voi, esso è tanto più facile ad adottarsi in quanto che è conforme ai vostri interessi; bisognerà combattere con testimonianze ed onorevoli amicizie tutto ciò che può avere di oscuro la vostra vita passata. Andrea perdè visibilmente il coraggio. — Mi offrirò volentieri per voi come garante, disse Monte-Cristo, ma in me è un’abitudine morale di dubitare sempre dei miei migliori amici, ed un bisogno di cercare di far dubitare gli altri; per tal modo io rappresenterei una parte fuori del mio carattere come dicono i tragici, e mi esporrei a farmi fischiare, il che è inutile. — Pure, sig. conte, disse Andrea con audacia, in riguardo a Lord Wilmore che mi ha raccomandato a voi... — Sì, certamente, rispose Monte-Cristo; ma Lord Wilmore non mi ha lasciato ignorare, caro sig. Andrea, che avete avuto una gioventù alquanto procellosa... Oh! disse il conte vedendo il movimento che faceva Andrea, non vi domando delle confessioni, d’altra parte perchè non aveste ad aver bisogno di alcuno, fu fatto venire da Lucca il sig. marchese Cavalcanti vostro padre. — Ah! voi mi tranquillate signore; l’ho lasciato da sì lungo tempo che non avevo più di lui alcuna rimembranza. — E poi sapete che le molte ricchezze fanno chiudere un occhio sopra varie cose. — Mio padre è dunque realmente ricco, signore? — Milionario... 500 mila lire di rendita. — Allora, domandò il giovine con ansietà, mi troverò ben presto in una posizione... aggradevole? — Delle più aggradevoli, mio caro signore, vi assegna 50 mila lire di rendita per ogni anno durante il tempo che resterete a Parigi. — Ma... in questo caso vi resterò sempre? — Oh! chi può rispondere delle congiunture, mio caro signore? l’uomo propone ed Iddio dispone. Andrea mandò un sospiro: — Ma finalmente per tutto il tempo che resterò a Parigi e... che nessuna occasione mi sforzerà di abbandonare; questo danaro di cui mi parlavate poco fa mi sarà assicurato? — Oh! perfettamente. — Da mio padre? domandò Andrea con inquietudine. — Sì, ma garantito da Lord Wilmore, che ha sulla domanda di vostro padre aperto un credito di 5 mila fr. il mese presso il sig. Danglars, uno dei più sicuri banchieri di Parigi. — E mio padre conta di restare lungamente a Parigi? — Soltanto qualche giorno, rispose Monte-Cristo, il suo servizio non gli permette di assentarsi più di due o tre settimane. — Oh! che caro padre! disse Andrea visibilmente incantato per questa pronta partenza. — Per cui, soggiunse Monte-Cristo facendo sembiante d’ingannarsi sull’accento di queste parole, per cui non voglio ritardare più oltre di un solo momento la vostra riunione. Siete preparato ad abbracciare questo degno sig. Cavalcanti? — Spero che non ne dubiterete. — Ebbene, entrate dunque nel salotto, mio giovine amico e vi troverete vostro padre che vi aspetta. — Andrea fece un profondo saluto al conte ed entrò nel salotto. — Il conte lo seguì con lo sguardo ed avendolo veduto sparire, spinse una molla corrispondente ad un quadro che scostandosi dal muro lasciava penetrare la vista nell’interno del salotto, per mezzo d’una fessura maestrevolmente disposta. Andrea chiuse la porta dietro a sè, e si avanzò verso il maggiore, che si alzò appena inteso il rumore dei passi che si avvicinavano. — Ah! signore e caro padre, disse Andrea ad alta voce, ed in modo che il conte lo sentisse al di là della porta chiusa, siete veramente voi? — Buon giorno, caro figlio, disse con gravità il maggiore. — Dopo tanti anni di separazione, ripetè Andrea, continuando a guardare dal lato della porta, quale fortuna di rivederci! — Difatto la separazione è stata lunga. — E non ci abbracciamo signore? riprese Andrea. — Come vi piace, figlio mio, soggiunse il maggiore. E i due uomini si abbracciarono al modo degli attori del teatro francese, cioè situando la testa al disopra delle spalle. — Eccoci dunque riuniti, disse Andrea. — Eccoci riuniti, ripetè il maggiore. — Per non più separarci? — Sia; però credo, mio caro figlio, che ora considerate la Francia come la vostra seconda patria. — Il fatto è che sarei disperato se dovessi lasciar Parigi. — Ed io, capirete, non saprei vivere fuori di Lucca; ritornerò dunque in Italia appena il potrò. — Ma, caro padre, prima di partire mi consegnerete, n’è vero, le carte con le quali contestar possa la mia nascita? — Senza dubbio, son venuto espressamente per questo ed ho già molto sofferto per ritrovarvi, da non farlo una seconda volta; ciò occuperebbe il restante dei miei giorni. — E le carte? — Eccole. — Andrea afferrò avidamente la fede di matrimonio di suo padre e quella della sua nascita, e le percorse con una rapidità ed abitudine che dinotavano un colpo d’occhio esercitato, ed un vivo interessamento; appena terminato, un’indefinibile gioia gli brillò sulla fronte, e guardando il maggiore con uno strano sorriso: — E che! diss’egli in buon toscano, non vi son più galere in Italia? Il maggiore si raddrizzò: — E perchè? diss’egli. — Perchè vi si fabbricano impunemente certificati simili; per la metà di questo, caro padre, in Francia vi manderebbero a respirare per cinque anni l’aria di Tolone. — Come sarebbe a dire? sclamò il Lucchese sforzandosi d’assumere un tuono maestoso. — Mio caro sig. Cavalcanti, disse Andrea stringendo il braccio al maggiore, quanto vi pagano per essere mio padre... Il maggiore volea parlare; ma Andrea soggiunse abbassando la voce: — Zitto, sarò il primo a darvi l’esempio di confidenza, a me danno 50 mila fr. l’anno per esser vostro figlio; per conseguenza capirete bene, che non sarò mai disposto a negare che voi siete mio padre. Il maggiore guardò con inquietudine a sè dintorno. — Eh! state pur tranquillo, siamo soli, disse Andrea; e d’altra parte noi parliamo in italiano. — Ebbene! ripetè il Lucchese, a me danno 50 mila fr. per una sola volta. — Sig. Cavalcanti, credete ai racconti delle fate? — Prima non vi credeva, ma adesso bisogna che vi creda. — Avete dunque avuto delle prove? — Il maggiore cavò dal taschino un pugno di monete d’oro: — Palpabili, come vedete. — Credete dunque, ch’io possa aggiustar fede alle promesse fatte? — Lo credo. — E questo brav’uomo del conte le manterrà? — Sicuramente, ma capirete che per giungere allo scopo, bisogna che noi rappresentiamo bene la parte impostane. — In qual modo dunque? — Io di tenero padre. — Ed io di figlio rispettoso, dapoicchè essi desiderano che io discenda da voi? — Chi essi? — Diavolo nol so, quelli che vi hanno scritto, non avete ricevuta una lettera? — Da un certo abate Busoni. — Che non conoscete? — Che non ho mai veduto. — Che diceva questa lettera? — Voi al certo non mi tradirete? — Me ne guarderei bene; abbiamo eguali interessi. — Allora tenete; ed il maggiore presentò la lettera al giovine. — Andrea lesse a voce bassa: «Voi siete povero, un’infelice vecchiaia vi attende; volete diventare, se non ricco, almeno indipendente? Partite sul momento per Parigi, per reclamare dal conte di Monte-Cristo, Campi-Elisi n. 30, il figlio che avete avuto con la marchesa Corsinari, e che vi fu rapito nell’età di 5 anni. «Egli chiamasi Andrea Cavalcanti. Perchè non abbiate alcun dubbio sulle intenzioni che il sottoscritto ha di rendersi a voi vantaggioso, troverete qui unite: «1. Un bono di 2400 lire toscane pagabili dal sig. Gozzi in Firenze. «2. Una lettera di presentazione pel sig. di Monte-Cristo sul quale vi apro un credito della somma di 48 mila fr. «Siate dal conte li 26 maggio alle sette p. m.» ABATE BUSONI. — È questa. — Come? è questa? che intendete dire? domandò il maggiore. — Dico che ne ho ricevuta una presso a poco come questa. — Voi? — Sì, io. — Dall’abate Busoni? — No. — Da chi dunque? Da un inglese, da un certo Wilmore, che prende il nome di Sindbad il marinaro... — E che voi non conoscete più che io l’abate Busoni? — È un fatto, ma sono più avanti di voi. — L’avete veduto? — Sì una volta. — E dove? — Ecco ciò che precisamente non posso dirvi, voi ne sapreste quanto me, e ciò è inutile. — E quella lettera vi diceva? — Leggete: «Voi siete povero, e non avete che un avvenire miserabile; volete avere un nome, esser libero, esser ricco?» — Per bacco! fece il giovine librandosi sui talloni, come se una simile interrogazione gli fosse stata fatta veramente in quel punto. «Prendete la carrozza di posta che troverete già allestita uscendo da Nizza per la porta di Genova. Passate per Torino, Chambery, e Pont-de-Voisin, e recatevi a Parigi. Presentatevi al sig. conte di Monte-Cristo, entrate dai Campi-Elisi il 26 maggio alle 7 p. m. e domandategli di vostro padre. Voi siete figlio del marchese Bartolommeo Cavalcanti, e della marchesa Oliva Corsinari, come l’attestano le carte che vi saran rimesse dal marchese, e che vi permetteranno di potervi presentare con questo nome nella società di Parigi. In quanto al vostro rango, una rendita di 50 mila lire l’anno vi metterà in istato di poterlo sostenere. Unito alla presente troverete un bono di 5 mila lire pagabili dal sig. Ferrea di Nizza, ed una lettera di presentazione sul conte di Monte-Cristo, incaricato da me di provvedere ai vostri bisogni.» SINDBAD IL MARINARO. — Hum! fece il maggiore, benissimo! avete veduto il conte? — L’ho lasciato or ora. — Ed egli ha ratificato?... — Tutto. — Ne capite qualche cosa? — No in fede mia. — In questa faccenda v’è certamente un merlotto. — In ogni caso non sarem, nè io, nè voi. — No certamente. — Ebbene allora... — Poco c’importa, n’è vero?... — Precisamente, ciò voleva dire anch’io, andiamo fino alla fine e sempre uniti. — Vedrete che son degno di giuocare alla vostra partita. — Non ne ho dubitato neppur un momento, caro padre. — Voi mi fate onore, caro figlio. Monte-Cristo scelse questo momento per entrar nel salotto. Sentendo il rumore dei suoi passi, i due uomini si gettarono nelle braccia l’uno dell’altro, il conte li trovò abbracciati: — Ebbene, marchese, disse egli, sembra che abbiate trovato un figlio a seconda del vostro cuore. — Ah! conte, la gioia mi soffoca. — E voi? — Ah! signore, la felicità mi opprime. — Padre fortunato, figlio avventuroso, sclamò Monte-Cristo. — Una sola cosa mi rattrista, disse il maggiore, la necessità di dover così presto lasciar Parigi. — Non partirete prima che vi abbia presentato a qualche amico. — Sono agli ordini del sig. conte. — Or via, giovinotto, confessatevi. — A chi? — A vostro padre, ditegli qualche cosa sullo stato delle vostre finanze. — Ah! diavolo disse Andrea, voi toccate la corda sensibile... — Capite, maggiore, disse Monte-Cristo. — Senza dubbio. — Egli dice che ha bisogno di danaro. — E che volete che ci faccia io? — Che gliene diate, per bacco! — Io? — Sì, voi! Monte-Cristo si pose fra loro: — Prendete, disse ad Andrea, lasciandogli scorrer tra le mani dei biglietti di banca. — E che cos’è? — La risposta di vostro padre; non gli avete fatto capire che avevate bisogno di danaro? — Ebbene? — Ebbene, ed egli m’incarica di rimettervi questi. — In conto delle mie rendite? — No, per le spese d’istallazione. — Oh! caro padre! — Silenzio, disse Monte-Cristo; vedete bene ch’egli non vuole che vi dica che vengano da lui. — Apprezzo questa delicatezza, disse Andrea nascondendo i biglietti nella saccoccia del calzone. — Sta bene, disse Monte-Cristo, ora andate! — E quando avrem l’onore di rivedere il sig. conte? domandò il maggiore. — Sabato, se vi piace; avrò parecchie persone a pranzo nella mia casa d’Auteuil, strada Fontana n. 28, fra esse il sig. Danglars, vostro banchiere; vi presenterò a lui, bisogna ben che faccia la conoscenza di entrambi per isborsarvi il vostro danaro. — In gran tenuta? domandò a mezza voce il maggiore. — Sì! uniforme, decorazioni, e calzoni corti. — Ed io? domandò Andrea. — Oh! voi con gran semplicità: calzoni neri, stivali verniciati, gilè bianco, abito nero o blu; andate da _Blin_, o _Véronique_ per abbigliarvi; se non ne sapete gl’indirizzi, Battistino ve li darà, se prendete cavalli servitevi da _Devedeux_, e se comprate un _phaéton_ andate da _Baptiste_. — A che ora potrem presentarci? — Alle sei e mezzo. — Sta bene, disse il maggiore portando la mano al cappello. I due Cavalcanti salutarono il conte e partirono. Il conte si avvicinò alla finestra e li vide che attraversavano il cortile, tenendosi sotto il braccio: — In verità, diss’egli, ecco due gran miserabili! peccato che non siano veramente padre e figlio. — Dopo un momento di cupa riflessione: — Andiamo dai Morrel, credo che il disprezzo mi accori ancor più dell’odio. LVI. — IL RECINTO A TRIFOGLIO. È d’uopo che i nostri lettori ci permettano di ricondurli a quel recinto che confina coll’abitazione del sig. de Villefort, e dietro il cancello investito dai marroni troveremo delle persone di nostra conoscenza. Questa volta Massimiliano era giunto il primo: era egli che teneva l’occhio volto all’assito cercando nel fondo del giardino un’ombra fra gli alberi ed attendendo il calpestio d’uno stivaletto di seta sulla sabbia dei viali. Finalmente il tanto desiderato calpestio si fe’ sentire, ma invece di una furon due le ombre che si avvicinarono. Il ritardo era causato dalla visita della sig.ª Danglars e di Eugenia, ch’erasi prolungata oltre l’ora in cui Valentina era attesa. Allora per non mancare al suo ritrovo la giovinetta aveva proposto a madamigella Danglars una passeggiata nel giardino, volendo far vedere a Massimiliano non esser da lei causato il ritardo, pel quale certamente ella soffriva. Il giovine capì tutto con quella rapidità d’induzione propria degli amanti, ed il suo cuore ne fu sollevato. D’altra parte senza giungere a portata di voce, Valentina diresse la sua passeggiata in modo che Massimiliano potesse vederla passare e ripassare; e ad ogni giro uno sguardo celato alla compagna, ma vibrato dalla parte del cancello, e dal giovine raccolto, gli diceva: — «Abbiate pazienza, vedete che non è mia colpa.» — Massimiliano infatti acquistava pazienza, ammirando il contrasto che vi era fra quelle due giovanette, tra la bionda dagli occhi languidi e dal corpo leggermente inclinato come un bel salice; e la bruna dagli occhi vivi e dal corpo ritto come un pioppo: non è necessario il dirlo, in questo contrasto tutto il vantaggio stava dal lato di Valentina, almeno nel cuor del giovine. Dopo mezz’ora di passeggiata le due giovanette s’allontanarono; Massimiliano capì esser giunto il termine della visita della sig.ª Danglars. Infatto un momento dopo comparve Valentina sola. Per timore che qualche indiscreto sguardo non ne seguisse il ritorno, ella veniva pian piano; ed invece di avanzarsi direttamente verso il cancello, andò ad assidersi sur un banco, dopo aver senz’affettazione esaminato ogni gruppo d’albero ed internato lo sguardo nel fondo di tutti i viali; prese queste cautele corse al cancello. — Buon giorno Valentina, disse una voce — Buon giorno Massimiliano, vi ho fatto attendere, ma ne avete veduto la causa. — Ho veduto Madamigella Danglars, non vi credeva in sì stretta amicizia con lei. — E chi vi ha detto che siam strette amiche? — Nessuno, ma ho potuto scorgerlo dal modo come vi tenevate pel braccio, e come parlavate, si sarebber dette due compagne di conservatorio che si facevan le lor confidenze. — Sì, è vero, infatto, disse Valentina, ella mi confessava la sua avversione al matrimonio col sig. de Morcerf; ed io la mia infelicità in isposare il sig. d’Épinay. — Cara la mia Valentina! — Sapete, amico mio, avete scorta quest’apparenza di abbandono fra me ed Eugenia, perchè parlando dell’uomo che non amava, pensavo a quello che amo. — Quanto siete buona, mia Valentina, avete in voi stessa una cosa che Eugenia non avrà mai: l’attrattiva indefinibile che per la donna è ciò che il profumo è pel fiore, il sapore pel frutto, che non è tutto in un fiore d’esser bello, in un frutto d’esser buono. — L’amor vostro vi fa vedere così la cosa. — No, Valentina, ve lo giuro; sentite; poco fa io vi guardava entrambe, e sul mio onore rendendo giustizia alla bellezza di Eugenia non poteva comprendere come un uomo si possa innamorar di lei. — Egli è perchè io stava là, e la mia presenza vi rendeva ingiusto. — No, ma ditemi... una domanda di semplice curiosità, che emana da certe idee che mi son fatto di madamigella Danglars. — Oh! queste idee saran certamente ingiuste sebbene io non sappia quali sieno; quando giudicate noi povere donne, non ci dobbiamo aspettare indulgenza. — Ma siete poi ben giuste quando vi giudicate l’un l’altra fra di voi. — Egli è perchè nei nostri giudizii vi son quasi sempre mischiate le passioni. — È forse perchè Eugenia ama qualche altro, che ella teme il matrimonio col sig. de Morcerf? — Massimiliano, vi ho già detto che non sono la sua intima amica. — Oh! mio Dio, senza essere amiche intime le giovinette si fan delle confidenze... convenite meco, che voi le avete fatta qualche interrogazione su quest’argomento... vi veggo sorridere... sentiamo, che cosa vi ha detto? — Mi ha detto che non amava alcuno, disse Valentina, che aveva in orrore il matrimonio, che la sua maggiore gioia sarebbe di menare una vita libera ed indipendente, e che quasi desiderava che suo padre perdesse la sua fortuna per divenire artista come la sua amica Luigia d’Armilly. — Ah! vedete dunque... — Ebbene, ciò che cosa prova? domandò Valentina. — Nulla, rispose sorridendo Massimiliano. — Allora, disse Valentina, perchè ora voi sorridete? — Ah! vedete bene che anche voi guardate, proseguì Massimiliano. — Volete che mi allontani? — No, no, torniamo a noi. — Sì è vero, perchè abbiamo appena dieci minuti da stare insieme. — Dio mio! gridò costernato Massimiliano. — Sì, avete ragione, disse malinconicamente Valentina, avete in me una povera amica, quale esistenza è la vostra, avete tanto ben fatto per essere felice! credetemi, io mel rimprovero amaramente. — Ebbene, che v’importa Valentina se anche in tal guisa io mi trovo felice? — Grazie, sperate per entrambi, Massimiliano, ciò mi rende per metà felice. — E che cosa dunque vi accade ancora, o Valentina, che dovete ora lasciarmi sì presto? — Non so; la sig.ª di Villefort m’ha fatto dire dovermi fare una comunicazione dalla quale ella dice, dipende metà della mia fortuna. Eh! mio Dio! ch’essi se la prendan tutta, son ricca abbastanza, ma almeno dopo averla presa, mi lascino tranquilla e libera. — Ma non temete voi che questa comunicazione sia qualche notizia intorno il vostro matrimonio? — Nol credo... — Però ascoltatemi Valentina, ma non vi spaventate. — Credete tranquillarmi, dicendomi ciò, Massimiliano? — Perdono; avete ragione, sono un uomo brutale; ebbene voleva dirvi che giorni sono ho incontrato il sig. de Morcerf. — Ebbene? — Il sig. Franz è suo amico, come voi ben sapete. — Sì, ebbene? — Ebbene egli ha ricevuto da Franz una lettera con cui lo avvisa del suo vicino ritorno. Valentina impallidì, ed appoggiò la testa contro il cancello: — Ah! mio Dio, diss’ella, sarà presto! Ma no, una tale comunicazione non mi verrebbe dalla sig.ª de Villefort. — Perchè? — Perchè... nol so... ma sembrami che la sig.ª de Villefort, senza opporvisi francamente, non abbia simpatia per questo matrimonio. — Va bene, Valentina, dovrò finire per adorare la sig.ª de Villefort. — Oh! non v’affrettate, Massimiliano, disse Valentina con amaro sorriso. — Alla fin fine, se le è antipatico questo matrimonio, non fosse altro che per romperlo, ella forse darebbe ascolto a qualche altra proposta. — Nol credete, la sig.ª de Villefort non respinge i mariti, ma il matrimonio. — Come? il matrimonio? se tanto detesta il matrimonio perchè si è maritata? — Voi non mi capite, Massimiliano; quando un anno fa le parlai di ritirarmi in un convento, ad onta delle osservazioni ch’ella si era creduta in dovere di farmi, aveva adottata la mia proposizione con gioia; ed a sua istigazione, mio padre vi aveva acconsentito, ne son sicura, non vi fu che il povero nonno che mi trattenne; non potete figurarvi quanta espressione vi sia negli occhi di questo povero vecchio, che non ama che me sola al mondo, e che (Dio mi perdoni se dico una bestemmia) in questo mondo non è amato che da me sola; se sapeste quando apprese la mia risoluzione, in qual modo mi ha guardato, quanti rimproveri vi erano in quegli sguardi, quanta disperazione in quelle lagrime che scorrevano senza lamenti e senza sospiri su quelle guance immobili: ah! Massimiliano, io provai alcun che come di rimorso, e mi sono gettata ai suoi piedi gridando: — Perdono! perdono! padre mio, faranno di me ciò che vorranno, ma io non vi lascerò mai. — Allora alzò gli occhi al cielo. Massimiliano, io posso soffrire molto; questo sguardo del mio buon vecchio nonno mi ha ricompensato di tutto ciò che soffrirò. — Cara Valentina, voi siete un angelo, ed io non so come abbia potuto meritare (sciabolando a dritta e a sinistra dei Beduini, a meno che Dio non abbia preso in considerazione ch’essi sono infedeli) che voi vi riveliate a me. Ma finalmente vediamo Valentina, quale dunque può essere la premura così forte della sig.ª de Villefort, perchè non abbiate a maritarvi? — Non avete inteso ciò che vi diceva poco fa, che cioè, io sono ricca, Massimiliano, troppo ricca? io ho dal lato di mia madre quasi cinquanta mila lire di rendita, mio nonno e mia nonna, il marchese e la marchesa di Saint-Méran, devono lasciarmene altrettanto; il sig. Noirtier ha egualmente l’intenzione di farmi sua unica erede. Ne risulta adunque, comparativamente a me, che mio fratello Edoardo che non aspetta dal lato di sua madre alcuna ricchezza, è povero. Ora la sig.ª de Villefort ama questo fanciullo all’adorazione, e se io fossi entrata in un monastero, tutt’i miei beni concentrati sopra mio padre che erediterebbe dal marchese, dalla marchesa, e da me, sarebbero venuti a suo figlio. — Questa cupidità in una donna giovane e bella è molto strana! — Notate però che tutto ciò non è per essa, Massimiliano, ma per suo figlio, e ciò che voi le rimproverate come un difetto, sotto il punto di vista dell’amor materno è quasi una virtù. — Ma vediamo, Valentina, disse Morrel, se voi rilascereste una porzione di questi beni a questo figlio. — Ma quale sarà il mezzo di fare una simile proposizione, disse Valentina, e particolarmente con una donna che continuamente ha sulla bocca la parola disinteressamento? — Valentina, mi permettete voi di parlare di questo affare con un amico? Valentina fremette: — Ad un amico? diss’ella, mio Dio, Massimiliano, un fremito mi percorre le membra, nel sentirvi parlar così! ad un amico, e chi è dunque questo amico? — Ascoltate, Valentina, avete mai sentito per qualcuno una di quelle simpatie irresistibili che fanno sì, che vedendo ancora una persona per la prima volta, voi credete conoscerla da lungo tempo, e vi domandate dove e quando l’avete veduta: e tanto che non potendo ricordarvi nè il luogo, nè il tempo, giungete a credere, che ciò fu in un mondo anteriore al nostro, e che questa simpatia non sia che una rimembranza che si risvegli? — Sì. — Ebbene! ecco ciò che io ho provato la prima volta che ho veduto quest’uomo straordinario. — Un uomo straordinario? — Sì. — Che voi conoscete da lungo tempo allora? — Da otto o dieci giorni. — E chiamate vostro amico un uomo che conoscete da soli otto giorni? Oh! Massimiliano, vi credeva molto più avaro di questo bel nome di amico. — Voi in logica avete ragione, Valentina, ma dite ciò che volete, niuna cosa mi farà retrocedere su questo sentimento istintivo. Credo che quest’uomo sarà immischiato a tutto ciò che mi accadrà di bene nell’avvenire, che perfino il suo sguardo profondo sembra conoscere e la sua mano possente dirigere. — È dunque un indovino? disse sorridendo Valentina. — In fede mia, son tentato a credere che spesso indovini.... particolarmente il bene. — Oh! disse Valentina tristamente, fatemi conoscere quest’uomo, che io sappia da costui, se sarò amata abbastanza per esser ricompensata di tutto ciò che ho sofferto. — Pover’amica! ma voi lo conoscete. — Io? — Sì. È quegli che ha salvato la vita a vostra matrigna ed a suo figlio. — Il conte di Monte-Cristo? — Egli stesso. — Oh! gridò Valentina, egli non può mai essere mio amico, lo è troppo di mia matrigna. — Il conte amico di vostra matrigna? Valentina, il mio istinto mi avrebbe ingannato a questo punto? son sicuro che voi vi sbagliate. — Oh! se sapeste Massimiliano, non è più Edoardo che regna nella casa, ma il conte ricercato dalla sig.ª de Villefort, che vede in lui il riassunto delle umane conoscenze, ammirato, intendete? ammirato da mio padre, che dice di non aver mai inteso formolare con maggiore eloquenza le idee più sublimi, idolatrato da Edoardo che ad onta della sua paura pe’ grandi occhi neri del conte, corre da lui tosto che lo vede giungere e gli apre la mano, ove ritrova sempre qualche scherzo ammirabile: il sig. di Monte-Cristo quando è dalla sig.ª de Villefort, è come fosse in casa sua. — Ebbene! cara Valentina, se le cose sono così, come dite, dovete di già risentire o risentirete ben presto gli effetti della sua presenza. Egli incontra Alberto de Morcerf in Italia, e ciò per sottrarlo dalle mani dei briganti, vede la sig.ª Danglars, e ciò per farle un regalo da re; vostra matrigna e vostro fratello passano davanti alla sua porta, e ciò perchè il suo moro salvi loro la vita. Quest’uomo ha evidentemente ricevuto il potere di avere influenza sugli avvenimenti, sugli uomini, e sulle cose. Non ho mai veduto gusti più semplici collegati ad una più alta magnificenza. Il suo sorriso è sì dolce quando me lo indirizza, che io dimentico come gli altri trovino il suo sorriso amaro: oh! ditemi, Valentina, vi ha egli sorriso in tal modo? Se lo ha fatto, sarete felice. — No, disse la giovinetta, egli mi guarda appena, o piuttosto se passo per caso, volge lo sguardo altrove. Oh! Non è generoso, non ha quello sguardo profondo che legge nell’interno dei cuori, e che voi gli supponete a torto; poichè se avesse avuto questo sguardo, avrebbe veduto che io sono l’infelice, perchè se fosse generoso, vedendomi sola e trista nel mezzo di questa famiglia, mi avrebbe protetta con quella influenza ch’egli esercita; e poichè rappresenta, a quanto pretendete, la parte di sole, avrebbe riscaldato il mio cuore ad uno dei suoi raggi. Voi dite che vi ama, Massimiliano; che ne sapete? gli uomini fanno sempre viso grazioso ad un ufficiale alto 5 piedi ed 8 pollici come voi; che ha lunghi baffi, ed una gran sciabola, ma credono di potere schiacciare senza timore una povera giovinetta che piange. — Ah! Valentina, v’ingannate, ve lo giuro! — Se fosse altrimenti, se mi trattasse diplomaticamente, cioè come un uomo che vuole in un modo o nell’altro paoneggiare la famiglia, mi avrebbe, non fosse stato che una sola volta, onorata di quel sorriso che voi tanto mi vantate, ma no, mi ha veduta disgraziata, capisce che non posso essergli buona a niente, e non fa attenzione a me. Chi sa invece per fare la corte a mio padre, alla signora de Villefort, a mio fratello, che non mi perseguiti tanto, quando sarà in suo potere di farlo? vediamo francamente, Massimiliano, io non sono una donna che si debba disprezzare così senza ragione; voi me lo avete detto... Ah! perdonate, continuò la giovinetta vedendo la impressione che producevano le sue parole su Massimiliano, sono cattiva, e vi dico su quest’uomo cose che non sapeva neppure di avere in cuore. Ascoltate, non nego che quest’influenza di cui mi parlate, vi sia, e che egli non la eserciti anche su me; ma s’egli la esercita, è in un modo nocivo e corruttore, come lo vedete, dei vostri buoni pensieri. — Sta bene, Valentina, disse Morrel con un sospiro, non ne parliamo più, non gli dirò niente. — Ahimè! amico mio, disse Valentina, io vi affliggo, lo vedo; oh! ma finalmente non chiedo di meglio che di esser convinta, dite che ha dunque fatto per voi questo conte di Monte-Cristo? — Voi mi mettete in un grande impaccio domandandomi ciò che ha fatto il conte per me; niente d’ostensibile, lo so bene. Vi ho già detto che la mia affezione per lui è tutta d’istinto, e che nulla ha di ragionato. Il sole mi ha forse fatto qualche cosa? no; egli mi riscalda e colla sua luce io vedo, ecco tutto. Il tale o tal altro profumo ha fatto qualche cosa per me? no, il suo odore ricrea aggradevolmente uno dei miei sensi, non ho altra cosa a dire quando mi si domanda perchè io vanti quel tale profumo. La mia amicizia per lui è strana, com’è la sua per me. Una voce segreta m’avverte che vi è qualche cosa più di un semplice caso in quest’amicizia impreveduta e reciproca, trovo della correlazione perfino nei suoi più segreti pensieri, fra le mie azioni ed i miei pensieri. Voi forse riderete di me, Valentina, ma da che conosco quest’uomo mi è venuta l’assurda idea, che tutto ciò che mi accade di bene provenga da lui; ciò non ostante ho vissuto trent’anni senza aver mai avuto bisogno di questo protettore, n’è vero? non importa, sentite un esempio. Egli mi ha invitato a pranzo per sabato, questa è una cosa naturale al punto in cui siamo? ebbene! che ho saputo dopo? che vostro padre è invitato a questo pranzo, che vostra madre vi verrà. M’incontrerò con essi, e chi sa ciò che potrà risultare per l’avvenire da questo incontro? ecco delle particolarità semplicissime in apparenza; ciò non ostante vi scorgo dentro qualche cosa che mi sorprende, vi pongo una strana confidenza. Mi dico che il conte, quest’uomo singolare che indovina tutto, ha voluto farmi ritrovare col sig. e colla sig.ª de Villefort, e qualche volta cerco, ve lo giuro, di leggere nei suoi occhi se ha indovinato il mio amore. — Mio buon amico, disse Valentina, se non sentissi da voi che ragionamenti simili, vi prenderei per un visionario: ed avrei una vera paura, pel vostro buon senso. Non è forse un puro caso quest’incontro? In verità rifletteteci dunque. Mio padre che non esce mai è stato dieci volte sul punto di negare questo invito alla sig.ª de Villefort, la quale al contrario arde dal desiderio di vedere in sua casa questo straordinario nababbo, ed a gran stento ella ottenne che l’avrebbe accompagnata. No, no, credetemi, per voi Massimiliano, non ho altri a cui chiedere soccorso, che a mio nonno, un cadavere; altr’appoggio che in mia madre, un’ombra... — Sento che avete ragione, Valentina, e che la logica sta dalla vostra parte, disse Massimiliano, ma la vostra dolce voce, sempre così possente in me oggi non mi convince. — E la vostra ancor meno, disse Valentina, e vi confesso che se non avete altro esempio da citarmi... — Ne ho uno, disse Massimiliano esitando, ma in vero, Valentina, m’è forza confessarlo, è ancor più assurdo del primo. — Tanto peggio, disse sorridendo Valentina. — Eppur, continuò Morrel, non è meno concludente per me, uomo tutto d’ispirazione e di sentimento, e che ho qualche volta in dieci anni che servo, dovuto la vita ad uno di quei lampi interni, che vi dicono di fare un movimento innanzi o indietro, perchè la palla che vi deve uccidere, vi passi d’accanto. — Caro Massimiliano, perchè non fare onore alle preghiere in questa deviazione delle palle? quando siete in Africa, non prego più Dio per me, nè per mia madre, ma sol per voi. — Sì, dacchè vi conosco, disse sorridendo Morrel, ma prima che vi conoscessi, Valentina. — Vediamo, non volete essermi debitore di cos’alcuna, cattivo, tornate dunque a questo esempio che voi stesso confessate assurdo. — Ebbene! guardate fra gli assi, ed osservate laggiù a quell’albero il nuovo cavallo col quale son venuto. — Oh! che bestia ammirabile! perchè non lo avete condotto vicino al cancello? gli avrei parlato, ed egli mi avrebbe intesa. — Infatto come lo vedete, è un animale di gran prezzo, disse Massimiliano; voi sapete che la mia fortuna è limitata, e che io altro non sono, come si dice, che un uomo ragionevole. Ebbene! avevo veduto da un mercante di cavalli questo magnifico Médéah, così lo chiamo, ne chiesi il prezzo, mi fu risposto 4500 fr., dovetti astenermi, come ben lo capirete, dal trovarlo tanto bello, e partii col cuore molto grosso, perchè il cavallo mi aveva guardato teneramente, mi aveva accarezzato con la testa, ed aveva corvettato sotto di me nel modo più elegante e grazioso. La stessa sera aveva in mia casa alcuni amici, il sig. Château-Renaud, il sig. Debray, e 5 o sei altri cattivi soggetti, che avete la fortuna di non conoscere neppur di nome. Ho proposta una partita di _bouillotte_; non giuoco mai perchè non sono abbastanza ricco da poter perdere, nè abbastanza povero per desiderare di vincere; io era in casa mia, e non altro avevo a fare che far prendere un mazzo di carte, e così feci. Quando ci mettemmo al tavolino, giunse il sig. di Monte-Cristo, si giuocò ed io vinsi, oso appena confessarvelo, Valentina, guadagnai 5 mila fr. Noi ci lasciammo a mezza notte; io non potei più contenermi, presi un _cabriolet_, e mi feci condurre dal mercante di cavalli. Palpitante suonai, egli venne ad aprirmi, e dovette prendermi per pazzo; io mi slanciai dall’altra parte della porta appena aperta; entrai in iscuderia, guardai alla rastrelliera. Oh! fortuna! Médéah rodeva il fieno; prendo una sella, gliela metto sul dorso, gli pongo le redini; poi depositando i 4500 fr. fra le mani del mercante stupefatto, ritorno, o piuttosto passo la notte a passeggiare nei Campi-Elisi. Ebbene! ho veduto il lume alla finestra del conte: e mi è perfino sembrato di scorgere l’ombra dietro la tenda. Or Valentina, giurerei, che il conte ha saputo che desideravo questo cavallo, e che ha espressamente perduto per farmelo guadagnare. — Mio caro Massimiliano, disse Valentina, siete troppo fantastico... non mi amerete lungamente: un uomo sì poetico non saprebbe fissarsi a suo piacere in una passione monotona come la nostra, ma sentite... mi chiamano... — Oh! Valentina, disse Massimiliano per la piccola fessura dell’assito... — Avevamo detto, Massimiliano, che saremmo stati l’una per l’altro due voci, due ombre! — Come vi piacerà, Valentina. LVII. — IL SIG. NOIRTIER DE VILLEFORT. Ecco ciò che accadde nella casa del procuratore del re dopo la partenza della sig.ª Danglars e di sua figlia durante la conversazione che abbiamo riferita. Il sig. de Villefort era entrato nella camera di suo padre, seguito dalla sig.ª de Villefort; in quanto a Valentina noi sappiamo dov’era. Entrambi dopo aver salutato il vecchio e congedato Barrois, antico domestico, che era al loro servizio da 25 anni, avevano preso posto ai suoi lati. Il sig. Noirtier assiso in una gran poltrona a carrucole, dove veniva posto la mattina, e dove era levato la sera, seduto davanti ad uno specchio che riflettendo tutto l’appartamento gli permetteva di vedere, senza fare alcun movimento, divenuto impossibile, chi entrava nella sua camera, chi ne usciva, e tutto ciò che si faceva intorno a lui; il sig. Noirtier immobile come un cadavere guardava con occhi intelligenti e vivi i suoi figli, la cui cerimoniosa riverenza gli annunciava qualche dimostrazione ufficiale ed inattesa. La vista e l’udito erano i due soli sensi, che a guisa di due scintille animavano questa materia umana di già per tre quarti apparecchiata per la tomba: ed anche di questi due sensi un solo poteva rilevare all’esterno la vita interna che animava la statua; e lo sguardo che denunziava questa vita interna era paragonabile ad una di quelle luci lontane che, durante la notte, avvisano il viaggiatore perduto in un deserto che vi è ancora un essere esistente che veglia in quel silenzio ed in quella oscurità. Così nell’occhio nero del vecchio Noirtier sormontato da un sopracciglio pur nero, mentre che la capigliatura, ch’egli portava lunga e pendente sulle spalle, era bianca; in quest’occhio, come accade in ciascun organo dell’uomo, esercitato a spese degli altri organi, si erano concentrate tutta l’attività, tutta la destrezza, tutta la forza, tutta l’intelligenza, sparse altra volta in questo corpo ed in questo spirito. Certamente mancavano il gesto del braccio, il suono della voce e l’attitudine del corpo; ma quell’occhio possente suppliva a tutto, egli comandava cogli occhi, ringraziava cogli occhi; era un cadavere cogli occhi vivi, e niente poteva essere qualche volta più spaventoso di questo viso di marmo, nell’atto del quale si accendeva una collera o rispondeva una gioia. Tre persone soltanto sapevano comprendere il linguaggio di questo povero paralitico. Villefort, Valentina, ed il vecchio domestico di cui abbiamo già parlato. Ma siccome Villefort non vedeva suo padre che rare volte, e per così dire solo quando non ne poteva far di meno; siccome quando lo vedeva, non cercava di compiacerlo comprendendolo; tutta la felicità del vecchio era riposta nella sua nipote Valentina la quale era giunta a forza di affezione, di amore, e di pazienza a comprendere con lo sguardo tutti i pensieri di Noirtier. A questo linguaggio muto o inintelligibile per tutt’altri, ella rispondeva con tutta la sua voce, tutta la sua fisonomia, tutta la sua anima, di modo che si stabilivano dei dialoghi animati fra questa giovinetta e questa pretesa argilla quasi ritornata polvere, e che ciò non ostante era ancora un uomo di un immenso sapere, di un’inaudita penetrazione, e di una volontà così possente quanto può essere l’anima racchiusa in una materia che poco si presta. Valentina aveva dunque risoluto lo strano problema di capire il pensiero del vecchio, per fargli comprendere il suo, e mercè questo studio era ben raro che per le cose ordinarie della vita, ella non indovinasse con precisione il desiderio di quest’anima vivente, o di questo cadavere per metà insensibile. Quanto al domestico, siccome serviva il padrone da 25 anni come abbiamo detto, egli conosceva tanto bene tutte le abitudini di lui ch’era ben difficile che Noirtier avesse bisogno di domandare qualche cosa; Villefort per conseguenza non aveva bisogno dei soccorsi nè dell’uno, nè dell’altro, per intavolare con suo padre la strana conversazione che veniva ad incominciare. Egli stesso, lo dicemmo, conosceva perfettamente il vocabolario del vecchio, e se non se ne serviva più spesso, era per noia o per indifferenza. Egli dunque lasciò discendere Valentina in giardino, allontanò Barrois, e dopo aver preso posto alla destra di suo padre, mentre che la sig.ª de Villefort sedeva alla sinistra di lui: — Signore, disse, non vi maravigliate che Valentina non sia salita con noi, e che io abbia allontanato Barrois, perchè la conferenza che siamo per avere è una di quelle che non può essere fatta, nè davanti ad una giovinetta, nè davanti ad un domestico; la sig.ª de Villefort ed io abbiamo una comunicazione a farvi. Il viso di Noirtier restò impassibile durante questo preambolo, mentre che al contrario l’occhio di Villefort sembrava scrutinare fino nel più profondo del cuore del vecchio. — Questa comunicazione, continuò il procuratore del re col suo tuono ghiacciato, e che sembrava non ammettere mai contestazioni, siamo sicuri, la signora de Villefort ed io, che vi farà piacere. L’occhio del vecchio continuò a restare immobile, ascoltava e niente più. — Signore, riprese Villefort, noi maritiamo Valentina. Una figura di cera non sarebbe a questa notizia rimasta più fredda di quel che fece la figura del vecchio. — Il matrimonio avrà luogo fra tre mesi, riprese Villefort. La sig.ª de Villefort prese a sua volta la parola e si affrettò di aggiungere: — Abbiamo pensato che questa notizia avrebbe dell’interessamento per voi, signore, d’altra parte Valentina parve sempre attirar tutta la vostra attenzione, non ci rimane dunque altro a dirvi, se non che il nome del giovine che le vien destinato; egli è uno dei più onorevoli _partiti_, ai quali possa aspirare Valentina; vi sono ricchezze, un bel nome, e delle garanzie sicure di felicità nella condotta e nei gusti di colui che le destiniamo, ed il cui nome non dev’esservi sconosciuto: si tratta del sig. Franz de Quesnel, barone d’Épinay. Villefort durante il piccolo discorso di sua moglie attaccava sul vecchio uno sguardo più attento che mai. Allorchè la sig.ª de Villefort pronunziò il nome di Franz, l’occhio di Noirtier, che suo figlio conosceva tanto bene, fremette; e le pupille dilatandosi come fossero state due labbra al momento di dire una parola, lasciarono travedere un baleno. Il procuratore del Re, che sapeva gli antichi rapporti di inimicizia politica tra suo padre ed il padre di Franz, capì questo fuoco e quest’agitazione, ma ciò non ostante lo lasciò passare come non veduto, e riattaccando la parola ove sua moglie l’aveva lasciata: — Signore, diss’egli, è importante, lo capite bene, essendo così vicina a compiere i 19 anni, che Valentina sia finalmente stabilita. Non ostante non vi abbiamo dimenticato nelle trattative, e ci siamo assicurati prima che il marito di Valentina accetterebbe di vivere se non con noi, la qual cosa incomoderebbe forse le loro private faccende domestiche, almeno che voi, che siete il prediletto di Valentina, e che per vostra parte sembrate portarle un’affezione uguale, viviate con loro, dimodochè non perderete alcuna delle vostre abitudini, ed avrete soltanto due figli che vi sorveglieranno invece di una sola. Il lampo dello sguardo di Noirtier divenne sanguigno... certamente passava qualche cosa di spaventoso nell’animo di questo vecchio. Certamente il grido del dolore o della collera gli saliva alla gola, e non potendo scoppiare lo soffocavano, perchè il viso divenne color di porpora e le labbra livide. Villefort aprì tranquillamente una finestra, dicendo: — Fa troppo caldo qui, e questo calore fa male al sig. Noirtier. — Poi ritornò, ma senza sedersi. — Questo matrimonio, soggiunse la sig.ª de Villefort, piace al sig. d’Épinay ed alla sua famiglia, la quale d’altra parte non si compone che di uno zio e di una zia, sua madre morì nel darlo alla luce; suo padre essendo stato assassinato morì nel 1815, cioè quando il fanciullo aveva due anni appena, egli ora non dipende che dalla sua volontà. — Assassinio misterioso, disse Villefort, di cui gli autori sono rimasti sconosciuti, quantunque il sospetto si era sparso senza urtare sulla testa di molte persone. Noirtier fece un tale sforzo che le labbra si contrassero come per sorridere. — Ora, continuò Villefort, i veri colpevoli, quelli che sanno di aver commesso il delitto, quelli su i quali può discendere la giustizia degli uomini durante la loro vita, e la giustizia di Dio dopo la loro morte, sarebbero ben felici di essere nel nostro posto, e di avere una figlia da offrire al sig. Franz d’Épinay per ispegnere fino nell’apparenza questo sospetto. Noirtier si era placato con una di quelle forze che non sarebbesi potuto aspettare da questa organizzazione quasi scomposta. — Sì, comprendo, rispose egli con uno sguardo a Villefort, e questo sguardo esprimeva ancora lo sdegno profondo e la collera intelligente. Villefort dal suo lato, rispose a questo sguardo, nel quale aveva letto ciò che contenevasi, con una leggera stretta di spalle. Indi fece segno a sua moglie di alzarsi. — Ora signore, disse la sig.ª de Villefort, aggradite il nostro rispetto. Permettete che Edoardo venga a presentarvi i suoi ossequi? — Erasi convenuto che il vecchio esprimeva la sua approvazione chiudendo gli occhi, ed il suo rifiuto socchiudendoli a più riprese, e quando li alzava al cielo era segno che aveva qualche desiderio da esprimere. Quando chiedeva di Valentina serrava l’occhio dritto; se domandava di Barrois chiudeva l’occhio sinistro. Alla proposizione della sig.ª de Villefort socchiuse vivamente gli occhi. Questa riconoscendo l’evidente rifiuto si morse le labbra: — Vi manderò dunque Valentina, disse allora. — Sì, fece il vecchio chiudendo gli occhi con vivacità. I signori de Villefort salutarono il vecchio ed uscirono ordinando che si chiamasse Valentina, di già avvisata che avrebbe avuto qualche cosa da fare nella giornata presso il signor Noirtier. Quando uscirono entrava Valentina ancor tutta color di rosa per la emozione provata. Non le fu bisogno che di uno sguardo per capire come soffriva il nonno e quante cose avrebbe avuto a dirle. — Oh! buon papà, gridò ella, e che cosa ti è dunque accaduto. Ti hanno afflitto, n’è vero, tu sei in collera. — Sì, fece egli chiudendo gli occhi. — Contro chi dunque? Contro mio padre?... no, contro la sig.ª di Villefort?... no, contro di me? — Il vecchio fece segno di sì. — Contro di me? riprese Valentina maravigliata. Il vecchio rinnovò il segno affermativo. — E che cosa ti ho dunque fatto, caro e buon papà? gridò Valentina. Non vi fu alcuna risposta, ella continuò: — Io non ti ho veduto nella giornata, ti hanno dunque riportata qualche cosa sul conto mio. — Sì; disse lo sguardo del vecchio con vivacità. — Vediamo dunque. Mio Dio! ti giuro, buon padre... ah!... il sig. e la sig.ª de Villefort escono di qui, n’è vero? — Sì. — Ed essi ti han detto queste cose che ti dispiacciono? Vuoi che io vada a domandarle a loro, per avere il mezzo di scusarmi teco? — No, no, fece lo sguardo. — Ma tu mi spaventi, che ti han potuto dire? Ed ella cercava. — Oh! l’ho indovinato, disse abbassando la voce ed avvicinandosi al vecchio. Ti hanno forse parlato del mio matrimonio? — Sì, replicò lo sguardo corrucciato. — Capisco, tu l’hai meco pel mio silenzio. Oh! vedi, fu perchè mi avevano raccomandato di non dirti niente, perchè nulla mi avevano detto, e che soltanto aveva strappato di soppiatto qualche parola per indiscretezza, ecco perchè sono stata così riservata teco. Perdonami buon papà Noirtier. Ritornato fisso ed immobile lo sguardo sembrava rispondere, non è soltanto il tuo silenzio che mi affligge. — Che cosa è dunque? domandò la giovinetta, credi forse che io possa abbandonarti, buon padre, e che il mio matrimonio mi renda smemorata? — No, disse il vecchio. — Allora ti hanno detto, che il sig. d’Épinay acconsentiva che dimorassimo insieme. — Sì. — Allora perchè sei in collera? — Gli occhi del vecchio assunsero un’espressione d’infinita dolcezza. — Sì, capisco; disse Valentina, perchè mi ami. — Il vecchio fece segno di sì. — E temi ch’io sia disgraziata? — Sì. — Tu non ami il sig. Franz? Gli occhi ripeterono tre o quattro volte: — No, no, no. — Ma sei molto afflitto buon padre? Ebbene, ascolta, disse Valentina mettendosi in ginocchio davanti a Noirtier e passandogli le braccia intorno al collo, io pure sono molto afflitta, poichè io pure non amo il sig. Franz d’Épinay. Un baleno di gioia passò avanti gli occhi del nonno. — Quando volli ritirarmi in convento, ti ricordi di essere stato tanto in collera meco? — Una lagrima inumidì l’arida palpebra del vecchio. — Ebbene, continuò Valentina, lo faceva per isfuggire questo matrimonio che è la mia disperazione. — Il respiro di Noirtier divenne anelante. — Allora questo matrimonio ti fa gran dispiacere, buon padre. Oh! mio Dio! se tu potessi aiutarmi, se noi due potessimo rompere il loro disegno. Ma sei senza forza contro essi, tu che hai uno spirito così vivo, e una volontà così ferma; ma quando si tratta di lottare sei tanto debole, ed anzi più debole, che non sono io. Ohimè! Saresti stato per me un protettore possente nei giorni della tua forza e della tua salute, ma ora non puoi fare altro che capirmi, e rallegrarti, o affliggerti meco; questa è l’ultima fortuna che Iddio ha voluto lasciarmi insieme con le altre. A queste parole vi fu negli occhi di Noirtier una tale espressione di malizia e di profondità che la giovinetta credè leggervi queste parole: — T’inganni, posso ancor molto per te. — Puoi qualche cosa per me, caro e buon papà? tradusse Valentina. — Sì. — Noirtier alzò gli occhi al cielo. Questo era il segnale convenuto fra lui e Valentina, quando aveva bisogno di qualche cosa. — Che vuoi, caro padre, vediamo? — Valentina cercò un momento nel suo spirito, espresse ad alta voce i suoi pensieri a seconda che essi si presentavano, e vedendo che a tutto quello che poteva dire, il vecchio rispondeva costantemente di no: — Andiamo, fec’ella, ricorriamo ad altri mezzi giacchè sono così stupida! — Allora recitò una dopo l’altra tutte le lettere dell’alfabeto, dall’_a_ fino alla _n_, mentre che il suo sorriso interrogava l’occhio del paralitico, alla lettera _n_ Noirtier fece segno di sì. — Ah! disse Valentina la cosa dunque che desiderate comincia dalla lettera _n_, ebbene vediamo ciò che si deve aggiungere alla lettera _n_. _Na, ne, ni, no_... — Sì, sì, sì, fece il vecchio — Ah! è no. — Sì. — Valentina andò a cercare un dizionario che posò sul leggio davanti a Noirtier; ella l’apri e quando ebbe veduti gli occhi del vecchio fissarsi su i fogli, il suo dito scorse rapidamente le colonne dell’alto al basso. L’esercizio (da sei anni Noirtier era caduto nel tristo stato in cui si ritrovava), le aveva rese le prove così facili, ed indovinava così presto il pensiero del vecchio, come egli stesso lo avrebbe potuto cercare in un dizionario. Alla parola _notaro_ Noirtier le fece segno di fermarsi. — _Notaro_, diss’ella, vuoi un notaro, buon papà? Il vecchio fece segno che desiderava effettivamente un notaro. — Bisogna dunque mandare a cercare un notaro? domandò Valentina. — Sì, fece il paralitico. — Mio padre deve saperlo? — Sì. — Hai fretta di avere questo notaro? — Sì. — Allora vado per fartelo cercare sul momento, caro padre. È forse questo tutto ciò che vuoi? — Sì. Valentina corse al campanello e chiamò un domestico per far venire il sig. e la sig.ª de Villefort in camera del nonno. — Sei tu contento, disse Valentina? Sì, lo credo bene! non è molto facile a trovar ciò. — E la giovinetta sorrise al vecchio come lo avrebbe fatto ad un fanciullo. Il sig. de Villefort rientrò condotto da Barrois. — Che volete, signore? domandò al paralitico. — Mio nonno disse Valentina, domanda un notaro. A questa strana e soprattutto inattesa domanda il sig. de Villefort scambiò uno sguardo col paralitico. — Sì, fece quest’ultimo con una fermezza che indicava, che con l’aiuto di Valentina, e del servitore che già sapeva ciò che desiderava, era pronto a sostenere la lotta. — Voi domandate il notaro? ripetè Villefort. — Sì. — Per che farne? — Noirtier non rispondeva. — Ma perchè avete bisogno di notaro? domandò Villefort. — Ma finalmente, disse Barrois pronto ad insistere con quella perseveranza abituale ai vecchi domestici, se il signore vuole un notaro, è perchè apparentemente ne ha bisogno. Così lo vado a cercar subito. Barrois non conosceva altro padrone che Noirtier, e non ammetteva che la sua volontà fosse contestata menomamente. — Sì, voglio un notaro, fece il vecchio chiudendo gli occhi con un aria di sfida, e come se avesse detto, vediamo un poco se vi sarà qualcuno che osi opporsi a ciò che voglio. — Vi sarà un notaro, poichè ne volete assolutamente uno signore, ma mi scuserò con lui, e scuserò voi stesso perchè la scena sarà molto ridicola. — Non importa, disse Barrois, vado subito a cercarlo. Ed il vecchio uscì trionfante. LVIII. — IL TESTAMENTO. Al momento in cui Barrois uscì, Noirtier guardò Valentina con quell’interessamento malizioso, che annunzia in un tempo tante cose. La giovinetta capì quello sguardo, e lo capì anche Villefort, perchè la sua fronte si oscurò ed il sopracciglio si aggrottò. Prese una sedia e si stabilì nella camera del paralitico per aspettare. Noirtier lo guardava fare con la più perfetta indifferenza, ma coll’angolo dell’occhio aveva già ordinato a Valentina di non inquietarsi e di restare ella pure. Tre quarti d’ora dopo rientrò il domestico col notaro. — Signore, disse Villefort dopo i primi saluti, voi siete stato chiamato dal sig. Noirtier de Villefort che qui vedete; una paralisi generale gli ha tolto l’uso delle membra e della voce, e noi soltanto ed a gran stento giungiamo ad afferrare qualche brano dei suoi pensieri. Noirtier fece coll’occhio una chiamata a Valentina, chiamata talmente seria ed imperativa ch’ella rispose sul momento: — Io, signore, capisco tutto ciò che vuol dire mio nonno. — È vero, soggiunse Barrois, tutto, assolutamente tutto come io lo diceva al signore venendo qua. — Permettete, signore, e voi pure madamigella, disse il notaro indirizzandosi a Villefort ed a Valentina; questo è uno di quei casi in cui il pubblico ufficiale non può procedere inconsideratamente senza assumere una responsabilità pericolosa. La prima necessità, perchè l’atto sia valevole è che il notaro sia ben convinto che sia fedelmente interpretata la volontà di quello che l’ha dettata. Ora io non posso essere sicuro dell’approvazione o della disapprovazione di un cliente che non parla, e siccome l’oggetto dei suoi desideri e delle sue ripugnanze non può essermi provato chiaramente, atteso il suo mutismo, il mio ministero, oltre di essere inutile sarebbe esercitato illegalmente. Il notaro fece un passo per ritirarsi. Un impercettibile sorriso di trionfo si disegnò sulle labbra del procuratore del Re. Da sua parte Noirtier guardò Valentina, con tale una espressione di dolore ch’ella si pose davanti al notaro: — Signore, diss’ella, il linguaggio ch’io parlo con mio nonno, è un linguaggio che si può imparare facilmente, e come lo comprendo io, sono in istato di poterlo in pochi minuti far comprendere egualmente a voi. Che vi abbisogna, per giungere alla perfetta edificazione della vostra coscienza? — Ciò che è necessario, affinchè i nostri atti sieno valevoli, Madamigella, rispose il notaro, è la certezza dell’approvazione. Si può far testamento malato di corpo, ma bisogna sempre farlo sano di spirito. — Ebbene! signore, con due segni voi acquisterete la certezza che mio nonno ha sempre goduto fin qui la pienezza delle sue facoltà intellettuali. Il sig. Noirtier, privato della voce, privato dei movimenti, chiude gli occhi quando vuol dire di sì, e batte le palpebre a più riprese quando vuol dire di no. Voi ora ne sapete abbastanza per parlare col sig. Noirtier, provatevici. — Lo sguardo che il vecchio vibrò a Valentina era sì pieno di tenerezza e di riconoscenza che fu capito dallo stesso notaro. — Voi avete inteso e compreso ciò che ha detto vostra nipote, signore? domandò il notaro. — Noirtier chiuse dolcemente gli occhi e dopo un momento li riaprì. — Ed approvate ciò che ha detto, cioè che i segni da lei indicati sono quelli col mezzo dei quali fate comprendere i vostri pensieri? — Sì, fece ancora il vecchio. — Siete voi che mi avete fatto chiamare? — Sì. — Per fare il vostro testamento? — Sì. — E non volete che mi ritiri senza averlo fatto? Il paralitico battè fortemente le palpebre degli occhi a più riprese. — Ebbene, signore, lo capite ora? domandò la giovinetta, e la vostra coscienza potrà stare tranquilla? Ma prima che il notaro avesse potuto rispondere il sig. de Villefort lo tirò in disparte. — Signore, credete che un uomo possa impunemente sopportare un colpo fisico così terribile quanto quello che ha provato il sig. Noirtier de Villefort, senza che il morale non abbia gravemente a risentirsene? — Non è precisamente ciò che m’inquieta, ma domando in qual modo giungeremo ad indovinare i pensieri per provocare le risposte. — Non vedete dunque ch’è impossibile? Valentina ed il vecchio intesero questo dialogo. Noirtier fermò il suo sguardo così fiero, e così risoluto su Valentina, che questo sguardo esigeva evidentemente una risposta. — Signore, diss’ella, non v’inquietate per questo; per quanto sia difficile, o piuttosto per quanto vi sembri difficile, di scoprire il pensiero di mio nonno, ve lo rivelerò in modo da togliervi ogni dubbio su questo argomento; sono già sei anni ch’io sono presso il sig. Noirtier; che vi dica egli stesso, se in sei anni un solo dei pensieri è rimasto sepolto nel suo cuore per non avermelo potuto far comprendere. — No, fece il vecchio. — Proviamo dunque, disse il notaro; accettate voi madamigella per vostra interprete? — Il paralitico fece segno di sì. — Bene vediamo: signore, che desiderate da me, e quale atto è quello che volete che io faccia? — Valentina articolò tutte le lettere dell’alfabeto fino alla lettera T. A questa lettera l’eloquente occhio di Noirtier la fermò. — È la lettera T che il signore domanda, la cosa è visibile. — Aspettate, disse Valentina; poi voltandosi da suo nonno: ta... te.... — Il vecchio la fermò alla seconda di queste sillabe. Allora Valentina prese il dizionario e sotto gli occhi dell’attento notaro sfogliò le pagine. — _Testamento_ indicò il suo dito fermato dal colpo d’occhio di Noirtier. — _Testamento_, gridò il notaro, la cosa è visibile, il signore vuol fare testamento. — Sì, fece Noirtier a più riprese. — Ecco ciò che può dirsi veramente maraviglioso, signore, disse il notaro a Villefort stupefatto, convenitene. — In fatto, replicò egli, questo testamento sarà ancora più maraviglioso: poichè ritengo che gli articoli non si potranno estendere sulla carta parola per parola senza l’intelligente aspirazione di mia figlia. Ora Valentina sarà forse una parte troppo interessata a questo testamento per essere interprete conveniente delle oscure volontà del sig. Noirtier de Villefort? — No, no, no, fece il paralitico. — Come, disse il sig. de Villefort, Valentina non è interessata nel vostro testamento? — No, fece Noirtier. — Signore, disse il notaro incantato di questa prova, promettendosi di raccontare in società i particolari di questo pittoresco episodio; signore, nulla mi sembra or più facile di quel che poco fa riguardava come impossibile; e questo testamento sarà semplicemente un testamento mistico, vale a dire preveduto e permesso dalla legge, purchè sia letto alla presenza di sette testimoni, approvato dal testatore avanti ad essi, e chiuso dal notaro sempre alla loro presenza. In quanto al tempo, durerà appena poco più degli ordinari testamenti. Da prima vi sono le formole consuete, che sono di rubrica, e sono sempre le stesse; in quanto ai particolari saranno somministrati dallo stato medesimo degli affari del testatore, e da voi che avendoli amministrati li conoscerete. D’altra parte perchè quest’atto non possa essere attaccato, noi vi daremo la più completa autenticità, uno dei miei confratelli mi servirà d’aiutante, e contro l’uso assisterà alla dettatura. Siete soddisfatto, signore? continuò il notaro volgendosi al vecchio. — Sì, rispose Noirtier contento di essere capito. — E che farà? — chiedeva a sè stesso Villefort, cui l’alta sua posizione imponeva tutta la riserva, e che d’altra parte non poteva indovinare a quale scopo tendesse suo padre. Si volse dunque per mandare a cercare il secondo notaro indicato dal primo; ma Barrois che aveva tutto inteso, e indovinato il desiderio del padrone, era già partito. Allora il procuratore del Re fece dire a sua moglie di salire. In capo ad un quarto d’ora tutta la famiglia era riunita nella camera del paralitico, ed il secondo notaro era giunto. In poche parole i due ufficiali ministeriali si ritrovarono d’accordo. Fu letta a Noirtier una formula di testamento vago, insignificante, quindi per cominciare la investigazione per così dire, della sua intelligenza, il primo notaro gli disse: — Quando si fa testamento, signore, è in favore di qualcuno, o a pregiudizio di qualche altro. — Sì, fece Noirtier. — Avete qualche idea sulla cifra della vostra fortuna? — Sì. — Vi nominerò alcune cifre che saliranno progressivamente; mi fermerete quando sarò giunto a quella che credete possa essere il vostro ammontare. — Sì. In questo interrogatorio vi era una specie di solennità; d’altra parte la lotta dell’intelligenza contro la materia non poteva mai essere stata più visibile, e se questo non era uno spettacolo sublime, come vedremo, per lo meno era curioso. Fu fatto cerchio intorno a Noirtier, il secondo notaro era assiso ad un tavolo pronto a scrivere; il primo notaro stava in piedi davanti a lui e lo interrogava. — La vostra fortuna sorpassa i 300 mila fr.? domandò. Noirtier fece segno di sì. — Possedete 400 mila fr.? — domandò il notaro. Noirtier restò immobile. — 500 mila?... La stessa immobilità. — 600 mila?... 700 mila?... 800 mila?... 900 mila? — Noirtier fece segno di sì. — Dunque possedete 900 mila fr.? — Sì. — In immobili? domandò il notaro. — Noirtier fece segno di no. — In iscrizioni di rendite? — Noirtier fece segno di sì. — Queste iscrizioni sono nelle vostre mani? Un colpo d’occhio diretto a Barrois fece uscire il vecchio servitore, che ritornò un momento dopo con una piccola cassetta. — Permettete che si apra la cassetta? domandò il notaro. Noirtier fece segno di sì. Fu aperta la cassetta e si ritrovarono le iscrizioni sul Gran Libro per 900 mila fr. Il primo notaro passò una dopo l’altra ciascuna iscrizione al suo collega: il conto era quello annunziato da Noirtier. — In realtà è così, diss’egli; ciò dimostra evidentemente che la sua intelligenza è in tutta la forza ed estensione; — indi ritornando al paralitico: — Dunque, voi possedete 900 mila fr. di capitali, che nel modo con cui sono situati devono produrvi circa 40 mila lire di rendita? — Sì, fece Noirtier. — A chi desiderate lasciare questa fortuna? — Oh! disse la sig.ª de Villefort, su ciò non cade dubbio, il sig. Noirtier ama unicamente sua nipote, madamigella Valentina de Villefort: ella ne ha avuto tutta la cura per sei anni; colla sua assiduità ha saputo procurarsi l’affezione di suo nonno, e direi quasi la sua riconoscenza; è dunque giusto che raccolga il premio della sua affezione. L’occhio di Noirtier sfavillò un baleno, come per far conoscere che non si lasciava facilmente ingannare dal falso assenso dato dalla sig.ª de Villefort alle intenzioni che in lui supponeva. — È dunque a madamigella de Villefort che lasciate 900 mila fr.? — domandò il notaro, che credeva di non aver più altro da fare che registrare questa clausola, ma che però voleva essere ben sicuro dell’assenso di Noirtier, e far constare questo assenso da tutt’i testimoni di questa straordinaria scena. Valentina aveva fatto un passo addietro e piangeva ad occhi bassi. Il vecchio la guardò un momento coll’espressione della più profonda tenerezza; poi voltandosi verso il notaro, socchiuse gli occhi nel modo più significativo. — No? disse il notaro, come, non costituite vostra erede universale madamigella de Villefort? Noirtier fece di no. — Voi non vi sbagliate? gridò il notaro meravigliato, dite effettivamente di no? — No! ripetè Noirtier, no! — Valentina rialzò la lesta; ella era stupefatta, non dell’essere diseredata, ma di aver eccitato quel sentimento che d’ordinario detta simili atti. Ma Noirtier la guardava con un’espressione di tenerezza così profonda ch’ella gridò: — Oh! buon padre, non mi togliete che le vostre ricchezze, ma mi lasciate sempre il cuore? — Oh! sì, sì certamente, dissero gli occhi del paralitico chiudendosi con una espressione alla quale non poteva ingannarsi. — Grazie, grazie, mormorò la giovinetta. Frattanto questo rifiuto aveva fatto nascere nel cuore della sig.ª de Villefort una inattesa speranza; e si avvicinò al vecchio: — Allora dunque a vostro nipote Edoardo de Villefort lasciate la vostra fortuna? domandò la madre. Gli occhi di Noirtier si chiusero in un modo che esprimeva quasi l’odio. — No, fece il notaro, allora sarà a vostro figlio qui presente? — No, replicò il vecchio. I due notari, si guardarono stupefatti; Villefort e sua moglie arrossirono l’uno per l’onta, l’altra pel dispetto. — Ma che vi abbiamo dunque fatto, padre? disse Valentina, voi dunque non ci amate più? Lo sguardo del vecchio passò rapidamente sul figlio, sulla nuora, e si fermò su Valentina con una espressione di profonda tenerezza: — Ebbene! diss’ella, se tu mi ami, nonno mio, cerca di collegare questo amore con ciò che stai facendo in questo momento. Tu mi conosci, sai che non ho mai pensato alle tue ricchezze, d’altra parte dicono che sia ricca dal lato di mia madre, fors’anco troppo ricca; spiegati dunque. Noirtier fissò l’ardente suo sguardo sulla mano di Valentina: — La mia mano? — Sì, fece Noirtier. — La sua mano, ripeterono tutti gli assistenti. — Ah! signore, vedete bene che tutto è inutile, e che il mio povero padre è pazzo, disse Villefort. — Oh! gridò d’improvviso Valentina, ora capisco; il mio matrimonio, nonno, n’è vero? — Sì, sì, sì, ripetè tre volte il paralitico vibrando un baleno ogni volta che si rialzavano le sue palpebre. — Tu sei in collera pel mio matrimonio, n’è vero? — Sì. — Ma ciò è assurdo, disse Villefort. — Perdono, signore, disse il notaro, tutto ciò al contrario è molto ragionato, e mi sembra che si colleghi perfettamente a quanto si sta facendo. — Tu non vuoi ch’io sposi il sig. Franz d’Épinay? — No, non voglio, espresse l’occhio del vecchio. — E diseredate vostra nipote, disse il notaro, perchè fa un matrimonio che non è di vostro genio? — Sì, rispose Noirtier. — Di modo che senza di questo matrimonio sarebbe vostra erede? — Sì. — Un profondo silenzio si sparse allora in quelli che circondavano il vecchio. I due notari si consultavano. Valentina con le mani incrociate, guardava suo nonno con un sorriso riconoscente. Villefort si mordeva le sottili sue labbra: la sig.ª de Villefort non poteva reprimere un sentimento di gioia, che suo malgrado le si spandeva sul viso. — Ma, disse finalmente Villefort rompendo pel primo questo silenzio, mi sembra che io sia il solo giudice delle convenienze che stanno in favore di questa unione, il solo padrone della mano di mia figlia; voglio che sposi il sig. Franz d’Épinay, e lo sposerà. — Valentina cadde piangendo sopra una sedia. — Signore, disse il notaro indirizzandosi al vecchio, che contate di fare dei vostri capitali nel caso che madamigella Valentina sposi il sig. Franz? Il vecchio rimase immobile. — Ciò non pertanto volete disporne? — Sì, fece Noirtier. — In favore di qualcuno della vostra famiglia? — No. — In favore dei poveri allora? — Sì. — Ma, disse il notaro, sapete che la legge si oppone che vengano interamente spogliati i vostri figli? — Sì. — Dunque non disponete che della parte che la legge vi autorizza a distrarre. — Noirtier restò immobile. — Continuate a voler disporre di tutto? — Sì. — Ma dopo la vostra morte verrà attaccato il vostro testamento. — No. — Mio padre mi conosce, disse Villefort, sa che la sua volontà sarà sacra per me; d’altra parte comprende che nella mia posizione, non posso muovere lite contro i poveri. L’occhio di Noirtier espresse il trionfo. — Che risolvete, signore? domandò il notaro a Villefort. — Niente! questa è una risoluzione presa nello spirito di mio padre, ed io so che mio padre non cambia le sue risoluzioni. Dunque mi rassegno. Questi 900 mila fr. usciranno dalla famiglia per arricchir gli ospedali; ma non cederò al capriccio del vecchio, ed oprerò a seconda della mia coscienza. — E Villefort si ritirò colla moglie lasciando suo padre libero di testare come più gli aggradiva. Nello stesso giorno fu fatto il testamento, furono ritrovati i testimoni, fu approvato dal vecchio, chiuso alla loro presenza e deposto presso Descamps il notaro della famiglia. LIX. — IL TELEGRAFO. I coniugi Villefort rientrando nel loro appartamento, seppero che il conte di Monte-Cristo essendo venuto a far loro una visita era stato introdotto nel salotto ove li aspettava. La sig.ª de Villefort troppo commossa per essere in istato di potere sì tosto entrare, passò per la sua camera da letto, mentre che il procuratore del Re più padrone di sè stesso si avanzò direttamente verso il salotto. Ma per quanto sapesse dominare le sue sensazioni, per quanto cercasse ricomporre il viso, Villefort non potè allontanare tanto bene la nube dalla sua fronte, che al conte, il cui sorriso brillava raggiante, non dinotasse quell’aria tetra e cogitabonda. — Oh! mio Dio! disse Monte-Cristo dopo i primi complimenti; che avete dunque sig. de Villefort? sono forse giunto in un momento in cui stavate sostenendo qualche accusa un poco troppo capitale? Villefort tentò di ridere: — No, sig. conte, disse, qui non vi è altra vittima fuori di me, sono io che perdo la causa, ed il caso, l’ostinazione, la pazzia han vibrata la sentenza. — Che intendete di dire? domandò Monte-Cristo con un interessamento benissimo dissimulato. Vi è forse accaduto in realtà qualche grave disgrazia? — Oh! sig. conte, disse Villefort con una calma piena d’amarezza; ciò non vale neppur la pena di parlarne; quasi niente, una semplice perdita di denaro. — In fatto, rispose Monte-Cristo, una perdita di danari è poca cosa per chi goda una fortuna come la vostra, ed uno spirito filosofico ed elevato come il vostro. — Per cui, rispose Villefort, non è la perdita del danaro che m’inquieta, quantunque 900 mila fr. possono ben valere un dispiacere, ma mi risento particolarmente di questa disposizione della sorte, del caso, della fatalità, non so come nominare la potenza che dirige il colpo che mi percuote, che rovescia le mie speranze di fortuna, e distrugge quasi l’avvenire di mia figlia, pel capriccio di un vecchio ricaduto nella infanzia. — Eh! mio Dio! ma che cosa è dunque? gridò il conte, 900 mila fr. avete detto? ma in verità questa somma merita, che se ne affligga anche un filosofo. E chi vi procura questo dispiacere? — Mio padre di cui vi ho parlato. — Il sig. Noirtier? Davvero? Non mi diceste che era colpito interamente dalla paralisi, e che tutte le sue facoltà erano annichilite? — Sì, le sue facoltà fisiche, perchè non può nè muoversi nè parlare, con tutto ciò però pensa, vuole, opera come vedete. L’ho lasciato da cinque minuti ed in questo momento è occupato a dettare un testamento a due notari. — Ma allora dunque ha parlato? — Fa di più, si fa capire. — Ed in che modo? — Per mezzo dello sguardo, i suoi occhi hanno continuato a vivere, e come vedete essi uccidono. — Amico, disse la sig.ª de Villefort, che entrava in quel punto, forse voi esagerate la vostra situazione. — Signora... disse il conte inchinandosi. La sig.ª de Villefort lo salutò col più grazioso sorriso. — Ma che cosa dunque mi racconta il sig. de Villefort? domandò Monte-Cristo, e quale disgrazia incomprensibile?... — Incomprensibile, questa per l’appunto è la vera parola; riprese il procuratore del Re alzando le spalle, un capriccio da vecchio. — E non vi è modo di farlo smettere dalla sua risoluzione? — Vi sarebbe, disse la sig.ª de Villefort, e dipende anzi da mio marito, che questo testamento, invece di essere fatto a danno di Valentina, sia fatto in favore di lei. Il conte accorgendosi che i due sposi cominciavano a parlarsi con parabole, assunse l’apparenza dell’uomo distratto, e guardò colla più profonda attenzione, e colla più manifesta approvazione Edoardo che versava dell’inchiostro nei beveratoi degli uccelli. — Mia cara, disse Villefort rispondendo a sua moglie, sapete che amo poco l’assumere il tuono patriarcale in casa mia, e che non ho mai creduto che i destini dell’universo dipendessero da un mio movimento di capo. Ciò non pertanto è necessario che le mie risoluzioni vengano rispettate in casa mia, e che la follia di un vecchio ed il capriccio di una fanciulla non rovescino un disegno stabilito nel mio spirito da molti anni. Il barone d’Épinay era mio amico, lo sapete, ed una alleanza con suo figlio era conveniente. — Credete, disse la sig.ª de Villefort, che Valentina sia d’accordo con lui?... in fatto... ella è sempre stata contraria a questo matrimonio, e non sarei maravigliata che tutto ciò che abbiamo veduto ed inteso, non sia che l’esecuzione di un disegno concertato fra loro. — Signora, disse Villefort, non si rinunzia così, credetemi, ad una fortuna di 900 mila fr. — Ella rinunciava ancora al mondo, signore, poichè un anno fa voleva entrare in un monastero. — Ebbene, io vi dico che questo matrimonio deve farsi. — Ad onta della volontà di vostro padre? disse la sig.ª de Villefort toccando così un’altra corda, ciò è ben grave! Monte-Cristo faceva sembiante di non ascoltare, e non perdeva neppure una parola di ciò che dicevano. — N’importa, riprese Villefort, e posso dire che ho sempre rispettato mio padre, perchè al sentimento naturale della discendenza si univa in me la conoscenza della sua superiorità morale, perchè infine un padre è sempre sacro per due titoli, sacro come nostro autore, sacro come nostro padrone; ma oggi devo rinunziare a riconoscere una intelligenza in un vecchio che, per una semplice memoria di odio contro il padre, perseguita il figlio in tal modo; sarebbe dunque ridicolo in me conformare la mia condotta ai suoi capricci: continuerò ad avere il più gran rispetto pel sig. Noirtier; soffrirò senza lamentarmene la punizione pecuniaria che m’infligge; ma resterò irremovibile nella mia volontà ed il mondo giudicherà da qual lato sia la vera ragione. In conseguenza, mariterò mia figlia al barone Franz d’Épinay, perchè questo matrimonio è, a mio avviso, buono ed onorevole, e perchè in fine voglio maritare mia figlia a chi più mi piace. — E che! disse il conte, del quale il procuratore del Re aveva costantemente sollecitata l’approvazione collo sguardo; e che! il sig. Noirtier disereda madamigella Valentina perchè sta per isposare il barone Franz d’Épinay? — Eh! mio Dio! sì o signore; ecco la ragione, disse Villefort stringendosi nelle spalle. — La ragione visibile, almeno, soggiunse la sig.ª de Villefort. — La vera ragione, credetemi, io conosco mio padre. — E come si capisce? rispose la giovane sposa. In che il sig. d’Épinay può dispiacer più di un altro al sig. Noirtier? — In fatto, disse il conte, io ho conosciuto il sig. Franz d’Épinay; il figlio del generale Quesnel, n’è vero, fatto barone d’Épinay dal re Luigi XVIII? — Precisamente, rispose Villefort. — Ebbene! ma egli è un giovine grazioso, mi sembra. — Per cui non è che un pretesto, ne sono certa, disse la sig.ª de Villefort; i vecchi sono tiranni nelle loro affezioni: il sig. Noirtier non vuole che sua nipote si mariti. — Ma, disse Monte-Cristo, non conoscete la causa di quest’odio? — Eh! mio Dio! chi può saperla?... — Forse qualche antipatia politica... — Di fatto mio padre ed il padre d’Épinay hanno vissuto nei tempi burrascosi, dei quali non ho veduto che gli ultimi giorni, disse Villefort. — Vostro padre non era bonapartista? domandò Monte-Cristo. Mi sembra ricordarmi che mi avete detto qualche cosa su ciò. — Mio padre prima d’ogni altra cosa è stato Giacobino, trasportato dalla emozione fuori dai confini della prudenza, e la toga da senatore che Napoleone gli aveva gettata sulle spalle, non faceva che mascherare l’uomo vecchio, senza averlo cambiato. Quando mio padre cospirava, non era per l’imperatore, era contro i Borboni, perchè egli non ha mai combattuto per le utopie non realizzabili, ma per le cose possibili, ed ha applicato alla riuscita di queste cose possibili le terribili teorie di Montaigne che non indietreggiava davanti a qualunque ostacolo. — Ebbene! disse Monte-Cristo, il sig. Noirtier ed il sig. d’Épinay si saranno incontrati sul campo della politica, il sig. d’Épinay, quantunque avesse servito sotto Napoleone, avrebbe forse conservato nel fondo del cuore qualche sentimento realista? e non è lo stesso che fu assassinato uscendo da un club napoleonico, ov’era stato attirato nella speranza di ritrovarvi un fratello? Villefort guardò il conte quasi con terrore. — M’inganno forse? domandò Monte-Cristo. — No, signore, disse la sig.ª de Villefort, anzi è precisamente così; ed appunto per quanto avete detto, e per vedere estinti questi odii antichi, il sig. de Villefort aveva avuta l’idea di fare amare i figli dei padri che si erano odiati. — Idea sublime! idea piena di carità, ed alla quale tutto il mondo deve applaudire. In fatto, sarà bello il sentire madamigella Noirtier de Villefort chiamarsi la sig.ª Franz d’Épinay. Villefort rabbrividì, e guardò Monte-Cristo come se avesse voluto leggere nel fondo del cuore con quale intenzione avesse pronunciate queste parole. Ma il conte conservò il benevolo sorriso impresso sulle sue labbra, ed ancor questa volta, ad onta della penetrazione del suo sguardo, il procuratore del Re non vide al di là dell’epidermide... — Perciò, riprese Villefort, quantunque sia una gran disgrazia per Valentina di perdere le ricchezze di suo nonno, penso che il matrimonio non verrà meno per questo; io non credo che il sig. d’Épinay indietreggi in faccia di questo scacco pecuniario; vedrà che io valgo forse più della somma, io che la sacrifico al desiderio di mantenere la mia parola. Calcolerà inoltre che Valentina è ricca anche coi soli beni di sua madre amministrati dal sig. e dalla sig.ª di Saint-Méran, suoi avi materni che la prediligono con tutta la tenerezza. — E che meritano bene di essere amati al modo che Valentina ha fatto col sig. Noirtier, disse la sig.ª de Villefort; d’altra parte essi verranno a Parigi fra un mese al più, e Valentina, sarà dispensata dal seppellirsi come ha fatto fin qui presso il sig. Noirtier. — Il conte ascoltava con compiacenza la voce discordante di questi amor-propri feriti, e di questi interessi falliti. — Ma mi sembra, disse dopo un momento di silenzio, e vi chiedo prima perdono di ciò che sono per dirvi; mi sembra che se il sig. Noirtier disereda madamigella de Villefort, colpevole di volersi maritare con un giovine di cui egli detesta il padre, non ha lo stesso da rimproverare a questo caro Edoardo. — N’è vero, gridò la sig.ª de Villefort con una intonazione impossibile a descriversi, che questa è una odiosa ingiustizia? Questo povero Edoardo è nipote del sig. Noirtier egualmente che Valentina, e ciò non ostante se Valentina non avesse dovuto sposare il sig. Franz, il sig. Noirtier le lasciava tutti i suoi beni; e per sopra più, Edoardo porta il nome della famiglia, e ciò non impedirebbe, quando anche Valentina venisse diseredata dal nonno, che ella fosse sempre tre volte più ricca di lui. Lanciato questo colpo, il conte ascoltò, ma non parlò più. — Basta, riprese Villefort, basta, sig. conte, cessiamo, vi prego, d’intrattenerci di queste miserie di famiglia; sì è vero, la mia fortuna andrà ad ingrossare le rendite dei poveri, che in oggi sono i veri ricchi. Sì, mio padre mi avrà privato di una legittima speranza e senza una ragione; ma io avrò operato da uomo di sentimento, da uomo di cuore. Il sig. d’Épinay al quale avevo promesso la rendita di questa somma, la riceverà, dovessi ancora impormi le più crudeli privazioni. — Però, riprese la signora de Villefort, ritornando alla sola idea che mormorava senza posa in suo cuore, sarebbe forse stato meglio il confidare questa disavventura al sig. d’Épinay, e ch’egli stesso ritirasse la sua parola. — Oh! sarebbe una gran disgrazia! gridò Villefort. — Una gran disgrazia? ripetè Monte-Cristo. — Senza dubbio, riprese Villefort raddolcendosi; un matrimonio fallito, anche per causa d’interesse, è sempre sfavorevole per una giovanetta; poi, antiche voci ch’io voleva estinguere, riprenderebbero consistenza. Ma no, non sarà niente; il sig. d’Épinay, se è un onest’uomo, si ritroverà ancor più impegnato dopo che Valentina è stata diseredata, di quel che lo era prima, altrimenti egli oprerebbe col semplice scopo dell’avarizia; no, questo è impossibile. — Io la penso come il sig. de Villefort, disse Monte-Cristo fissando lo sguardo sopra la sig.ª de Villefort; e se io fossi abbastanza fra il numero dei suoi amici, per permettermi di dargli un consiglio, lo inviterei, (poichè il sig. d’Épinay sarà in breve di ritorno per quanto almeno mi è stato detto) ad annodare l’affare così strettamente, che non si possa più sciogliere; impegnerei finalmente una partita, la cui riuscita dev’essere tanto onorevole pel sig. de Villefort. Quest’ultimo si alzò, trasportato da una gioia visibile, mentre che sua moglie impallidiva leggermente. — Bene, diss’egli, ecco ciò ch’io domandava, ed io mi prevarrò dell’opinione di un consigliere come siete voi, disse stendendo la mano a Monte-Cristo. Per tal modo adunque, che tutti qui considerino quel che oggi è accaduto come non avvenuto; nulla v’è di cambiato nei miei disegni. — Signore, disse il conte, il mondo, per quanto sia ingiusto, vi saprà grado della vostra risoluzione; i vostri amici ne saranno orgogliosi; ed il sig. d’Épinay, dovesse ancora sposare madamigella Valentina senza dote, ciò che non potrà essere, sarà superbo di potere entrare in una famiglia ove si sa innalzarsi all’altezza di simili sacrifici per mantenere la parola data. — Dicendo queste parole il conte s’era alzato e si disponeva a partire. — Voi ci lasciate, sig. conte? disse la sig.ª de Villefort. — Vi sono costretto, signora, io veniva soltanto a rammentarvi la vostra promessa per sabato. — Temevate che la dimenticassimo? — Siete troppo buona, ma il sig. de Villefort ha occupazioni sì gravi, e qualche volta sì urgenti... — Mio marito ha data la sua parola, signore, disse la giovane sposa; ed avete veduto che la mantiene quand’anche vi è da perdere tutto, a più forte ragione quando vi è tutto da guadagnare. — La riunione ha luogo alla vostra casa dei Campi-Elisi? — No disse Monte-Cristo, e ciò renderà il vostro sacrificio anche più meritorio, è in campagna. — In campagna? — Sì. — E dov’è? vicino a Parigi? — Alle porte, ad una mezza lega dalla barriera, ad Auteuil. — Ad Auteuil! gridò Villefort. Ah! è vero, la signora mi disse che abitavate ad Auteuil, poichè nella vostra casa la trasportarono. E in qual posizione d’Auteuil? — Strada della Fontana. — Strada della Fontana! riprese Villefort con voce strangolata; ed a qual numero? — Al numero 28. — Ma fu dunque venduta a voi la casa del sig. di Saint-Méran? — Del sig. di Saint-Méran? domandò Monte-Cristo. Questa casa apparteneva dunque al sig. di Saint-Méran? — Sì, rispose la sig.ª de Villefort; e credereste una cosa? — Quale? — Voi trovate bella questa casa, n’è vero? — Graziosa. — Ebbene! mio marito non ha voluto mai abitarla. — Oh! riprese Monte-Cristo, questa in verità è una prevenzione di cui non mi saprei render conto. — Non mi piace Auteuil, signore, rispose il procuratore del Re facendo uno sforzo sopra sè stesso. — Ma non sarò tanto disgraziato, spero, disse con inquietudine Monte-Cristo, perchè quest’antipatia mi privi del bene di ricevervi? — No, credetemi farò tutto ciò che potrò, balbettò Villefort. — Oh! rispose Monte-Cristo, non ammetto scuse. Sabato alle sei vi aspetto, e se non verrete, crederò che so io? che su questa casa disabitata graviti da vent’anni qualche lugubre tradizione, qualche sanguinosa leggenda. — Vi verrò, sig. conte, disse vivamente Villefort. — Grazie, disse Monte-Cristo. Ora bisogna che mi permettiate di prendere congedo da voi. — In fatto avevate detto di essere costretto a lasciarci, sig. conte, disse la sig.ª de Villefort, e voi ci dicevate, voler fare ancora qualche cosa, quando siete stato interrotto per passare ad un’altra idea. — In verità signora, disse Monte-Cristo, non so se oserò di dirvi ove vado. — Bah! dite pure. — Io vado, da vero allocco che sono, a visitare una cosa che spesso mi ha tenuto distratto per delle ore intere. — Quale? — Un telegrafo: ecco la parola lanciata. — Un telegrafo? ripetè la sig.ª de Villefort. — Eh! mio Dio, sì, un telegrafo. Ho veduto qualche volta in capo di una strada sopra un poggio, un giorno di bel sole, innalzarsi queste braccia nere e snodate, simili alle zampe di una immensa coleoptra, e ciò non fu mai senza emozione, ve lo giuro, perchè pensava che questi segni bizzarri fendendo l’aria con precisione, e portando a trecento leghe la volontà sconosciuta di un uomo assiso ad una tavola ad un altr’uomo assiso all’estremità della linea davanti ad un’altra tavola, si disegnavano o sul grigio della nuvola, o sull’azzurro dei cieli per la sola forza del volere di questo capo possente. Allora io credeva ai geni, alle silfidi, ai folletti, infine a tutti i poteri occulti, e rideva. Ora, non mi era mai venuta la volontà di vedere da vicino questi grossi insetti dal ventre bianco, dalle zampe nere e magre, perchè temeva di ritrovare sotto le loro ali di pietra il piccolo genio umano, ben saputo, bene imburrato di scienza, di cabala, o di cancelleria. Ma ecco che un bel mattino intesi che il motore di ciascun telegrafo era un povero diavolo d’impiegato a 1200 fr. l’anno, occupato tutto il giorno a guardare, non il cielo come l’astronomo, non l’acqua come il pescatore, non il paesaggio come un cervello vòto; ma invece l’insetto dal ventre bianco e dalle zampe nere, suo corrispondente, situato 4, o 5 leghe lontano da lui. Allora mi son sentito prendere da un desiderio curioso di vedere da vicino questa crisalide vivente, e di assistere alla commedia che dal fondo della sua buccia ella dà all’altra crisalide tirandogli uno dopo gli altri alcuni capi della cordicella. — E voi volete andare là? — Sì, vi vado. — A qual telegrafo? a quello del ministero dell’Interno, o a quello dell’osservatorio? — Oh! no, troverei là delle persone che vorrebbero costringermi ad imparare delle cose che desidero ignorare, e che mi spiegherebbero contro mia voglia un mistero che essi non conoscono. Diavolo, voglio conservare quelle illusioni che ho sugl’insetti; è ben molto che abbia perduto quelle che avevo sugli uomini. Non andrò dunque, nè al telegrafo del ministero dell’Interno, nè a quello dell’osservatorio. Ciò che mi abbisogna, è il telegrafo in piena campagna per ritrovarvi il solo buon uomo petrificato nella sua torre. — Siete un singolar gran signore, disse Villefort. — Qual linea mi consigliate di studiare? — Quella che in oggi è la più occupata. — Bene! quella di Spagna dunque? — Precisamente. Volete una lettera del ministero perchè vi facciano delle spiegazioni?... — Ma no, disse Monte-Cristo, poichè vi dico che al contrario io non ci voglio capir niente. Dal momento in cui capissi qualche cosa, non vi sarebbe più telegrafo, non vi sarebbe più che un segno del signor Duchâtel, o del signor Montalivet trasmessi al prefetto di Baiona, travestiti in due parole greche: _téle, graphéin_. È la bestia dalle zampe nere, la parola misteriosa che io voglio conservare in tutta la sua purezza ed in tutta la mia venerazione. — Andate dunque, perchè fra due ore sarà notte, e voi allora non vedreste più niente. — Diavolo! voi mi spaventate! qual è il più vicino? — Sulla strada di Baiona? — Sì, sia sulla strada di Baiona! — È quello di Chàtillon. — E dopo quello di Chàtillon? — Quello della torre Montlhéry, io credo. — Grazie! a rivederci! sabato io vi racconterò le mie impressioni. Alla porta il conte s’incontrò coi due notari che avevano diseredata Valentina, e che si ritiravano incantati di aver fatto un atto che avrebbe certamente procurato loro un grande onore. LX. — MEZZO DI LIBERARE UN GIARDINIERE DAI GHIRI CHE GLI MANGIANO LE PESCHE. Non nella stessa sera come aveva detto, ma la dimane mattina, il conte di Monte-Cristo uscì dalla barriera d’Enfer, prese la strada di Orléans, oltrepassò il villaggio di Linas senza fermarsi al telegrafo, che, precisamente al momento in cui il conte passava, faceva muovere le sue lunghe braccia scarne, e raggiunse la torre di Montlhéry situata come ognun sa, sul punto più elevato della pianura che porta questo nome. A piè della collina il conte discese di carrozza, e per un piccolo sentiero circolare, largo da 15 a 20 pollici, cominciò a salire la montagna; giunto alla sommità si trovò fermato da una siepe sulla quale alcune frutta verdi erano succedute ai fiori color di rosa e bianchi. Monte-Cristo cercò la porta del piccolo recinto, e non istette molto a trovarla. Era un piccolo cancello di legno che girava su gangheri di giunco, e si chiudeva con un chiodo ed una funicella. In un momento il conte fu al caso di conoscere il meccanismo, e la porta fu aperta. Si trovò allora in un piccolo giardino di circa 20 piedi di lunghezza, 12 di larghezza, limitato da una parte dalla siepe nella quale era unito il meccanismo ingegnoso che abbiam descritto sotto nome di cancello, e dall’altra dalla vecchia torre tutta ricoperta di ellera, e disseminata di garofani ed altri fiori. Non si sarebbe detto, vedendola così guernita e fiorita (come una bisavola cui i piccoli nipoti augurino il giorno della sua festa) che essa potesse raccontare dei drammi assai terribili, se aggiungesse una voce alle orecchie minaccevoli che un vecchio proverbio attribuisce alle muraglie. Si percorreva questo giardino lungo un piccolo viale ricoperto di sabbia rossa, sul quale sporgevano, con un tuono che avrebbe rallegrato l’occhio di Delacroix, nostro Rubens moderno, un contorno di bue grasso, vecchio di molti anni. Questo viale aveva la forma di un 8, e girava innalzandosi, in modo da poter fare una passeggiata di 60 piedi in un giardino lungo 20. Giammai Flora, la ridente e fresca dea dei giardinieri latini, non era stata onorata da un culto così minuzioso, e così puro quanto quello che le veniva reso in questo piccolo recinto. Infatto dei 25 rosai che componevano il giardino, non una foglia portava la traccia della mosca, non un piccolo stelo di grancigna verde che isterilisce e consuma le piante che crescono a lei vicino. Non mancava umidità a questo giardino, la terra nera come la mota e l’opacità del fogliame degli alberi lo dicevano abbastanza; d’altra parte l’umidità artificiale avrebbe prontamente supplito alla naturale, mercè il foro pieno d’acqua scavato in un angolo del giardino, e nel quale stazionavano sopra un panno verde una rana ed un rospo che, per l’incompatibilità senza dubbio dei loro umori si voltavano sempre, e si mantenevano ai due punti opposti del circolo coi loro dorsi voltati l’un contro l’altro. Non un’erba nei viali, non una pianta parassita vicino alle piante; una piccola donnicciuola pulisce, e monda con minor cura il suo girannio, il cactus, e gli altri fiori della sua giardiniera di porcellana di quel che non faceva il padrone fino allora invisibile del piccolo recinto. Monte-Cristo si fermò dopo aver chiusa la porta aggrappando la cordicella al chiodo, e con uno sguardo abbracciò tutta la proprietà: — Sembra, diss’egli, che l’uomo del telegrafo abbia dei giardinieri ad anno, o ch’egli si abbandoni appassionatamente all’agricoltura. D’improvviso inciampò in qualche cosa nascosta dietro una carriola ripiena di foglie: questo qualche cosa si raddrizzò lasciando sfuggire un’esclamazione che dipingeva la sua meraviglia, e Monte-Cristo si trovò in faccia di un uomo di circa 50 anni che raccoglieva delle fragole cui situava sopra foglie di viti. Vi erano circa 12 foglie, e quasi altrettante fragole. Il buon uomo nel rialzarsi, per poco non lasciò cadere le fragole, le foglie, ed il piatto. — Fate la vostra raccolta, disse Monte-Cristo. — Perdono, rispose il buon uomo portando la mano alla berretta, non sono lassù, è vero, ma ne sono disceso in questo medesimo punto. — Non voglio incomodarvi per niente, raccogliete le vostre fragole se pur ve ne rimangono ancora. — Me ne rimangono ancora 10, disse l’uomo, perchè eccone qui 11, e ne aveva 21, 5 di più dell’anno scorso. Ma non è da meravigliarsi; quest’anno la primavera è stata calda, e ciò che abbisogna alle fragole, è il calore. Ecco perchè, invece di 16 che ne ebbi l’anno passato, in quest’anno ne ho, guardate, 12 di già raccolte, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19.... ah! mio Dio! me ne mancano due, e v’erano ancor ieri, io ve le ho contate, ne sono sicuro... il figlio della madre Simona me le avrà rubate; io l’ho visto ronzare questa mattina. Ah! piccolo birbo di ladro di recinti, non sa dunque a che lo può condurre questo? — Infatto, è grave, ma voi farete la parte della gioventù del delinquente, e della sua ghiottoneria. — Certamente, disse il giardiniere; ciò non ostante non è cosa meno disaggradevole. Ma ancora una volta perdono, signore: è forse un mio superiore che ho fatto in tal modo aspettare? — ed intanto esaminava con un sguardo timoroso il conte ed il suo abito blu. — Tranquillatevi, amico mio, disse il conte con quel sorriso ch’egli faceva a seconda della sua volontà tanto terribile e tanto benevolo, e che questa volta non esprimeva se non che la benevolenza: io non sono un vostro superiore che viene a fare una ispezione, ma un semplice viaggiatore condotto dalla curiosità, e che già comincia a rimproverarsi la sua visita, vedendo che vi fa perdere il vostro tempo. — Oh! il mio tempo non è caro, replicò il buon uomo con un sorriso di malinconia. Però è il tempo del governo, e non dovrei perderlo, ma ho ricevuto il segnale che mi annunziava di poter riposare un’ora, gettò uno sguardo sulla meridiana solare (perchè vi era tutto nel recinto della torre di Montlhéry, anche una meridiana solare) e voi lo vedete ho ancora dieci minuti di avanzo, poi le mie fragole erano mature, e un giorno di più... d’altra parte, lo credereste, signore, i ghiri le mangiano! — In fede mia, no, non l’avrei creduto, rispose gravemente Monte-Cristo; sono cattivi vicini, signore, i ghiri, per noi che non li mangiamo morti nel miele, come facevano i romani. — Ah! i romani li mangiavano? disse il giardiniere. — Io lessi ciò in Petronio, disse il conte. — Davvero non devono esser buoni, quantunque si dica: grasso come un ghiro. E non è maraviglioso, signore, che i ghiri siano grassi, atteso che dormono tutta la santa giornata, e non si svegliano che per rosicare tutta la notte. Osservate, l’anno passato aveva 4 albicocche, essi ne hanno consumato una; avevo una pesca, una sola, è vero che è un frutto raro; ebbene! l’hanno divorato per metà dalla parte del muro; una pesca superba, eccellente: non ne aveva mai mangiati dei migliori. — Voi l’avete mangiata? domandò Monte-Cristo. — Cioè la metà che restava, capirete bene; era squisita. Ah peccato! quei signori non scelgono il peggior boccone. Fanno come il figlio della madre Simona, egli non ha scelto le più cattive fragole! Ma quest’anno non andrà così, siate tranquillo, ciò non accadrà più, dovessi, quando i frutti sono per maturare, passare tutta la notte in sentinella. Monte-Cristo ne aveva veduto abbastanza. Ciascun uomo ha la sua passione che lo rode internamente nel fondo del cuore, come ciascun frutto ha il suo verme; quello dell’uomo del telegrafo era l’orticoltura. Egli si mise a raccogliere le foglie di vite che nascondevano i grappoli al sole, ed in questo modo si conquistò il cuore del giardiniere. — Il signore è venuto per vedere il telegrafo? diss’egli. — Sì, se però non è proibito dai regolamenti. — Oh! non è proibito affatto, disse il giardiniere, atteso che non vi è niente di pericoloso, poichè nessuno sa, nè può sapere ciò che diciamo. — Mi è stato detto infatto, riprese il conte, che voi ripetete i segnali senza capirli voi stessi. — Certamente, e sono ben contento che sia così. — Perchè siete contento che sia così? — Perchè, in questo modo, non ho alcuna responsabilità, sono una macchina, e nient’altro, e purchè faccia le mie funzioni, non mi si domanda di più. — Diavolo! fece Monte-Cristo in sè stesso, sarei forse caduto per caso sopra un uomo senza ambizione, per bacco! sarebbe una disgrazia. — Signore, disse il giardiniere guardando la meridiana, i dieci minuti sono vicini a spirare, ed io ritorno al mio posto. Avete piacere a salir meco? — Vi seguo. — Monte-Cristo entrò infatto nella torre divisa in tre piani; il piano terreno contava alcuni istromenti d’agricoltura, come zappe, rastrelliere, innaffiatoi attaccati al muro; e questo era tutto il mobilio. Il secondo era l’abitazione ordinaria, o piuttosto notturna dell’impiegato; conteneva alcuni poveri utensili d’uso, un letto, una tavola, due sedie, una fontana di pietra bigia, più alcune erbe secche attaccate al soffitto, e che il conte riconobbe per piselli da sementi, fagiolini di Spagna, dei quali il buon uomo conservava i grani nella sua scodella di cocco. Egli aveva messi i bigliettini a tutte queste sementi, con quella cura che potrebbe fare il botanico del _Giardino delle Piante_. — Vi vuol molto tempo a studiare la telegrafia, signore? domandò Monte-Cristo. — Lo studio non è lungo, ma il soprannumerariato. — E quanto si riceve di paga? — Mille franchi, signore. — Non è gran cosa. — No, ma come vedete si ha l’alloggio. — Monte-Cristo guardò la camera: — Purchè non si mettano pretensioni nell’alloggio. Passarono al terzo piano; era la camera del telegrafo. Monte-Cristo guardò attorno attorno le due maniglie di ferro che servono a mettere in moto la macchina: — Ciò è molto importante, diss’egli, ma alla lunga questa è una vita che deve sembrare un po’ insipida. — Sì, nel principio occasiona dei torcicolli per guardare, ma in capo ad un anno o due vi ci assuefacciamo; poi abbiamo le nostre ore di ricreazione, e i nostri giorni di congedo. — I vostri giorni di congedo? — Sì. — E quali? — Quelli in cui fa nebbia. — Ah! è giusto. — Per me, quelli sono i miei giorni di festa; in quei giorni scendo nel giardino, e pianto, taglio, accomodo, lego, insomma il tempo passa. — Da quanto tempo siete qui? — Da dieci anni, e 5 di soprannumerario che fanno 15. — Quanti anni avete?... — 55 anni. — Quanto tempo di servizio vi bisogna per aver la pensione? — Oh! signore, 25 anni. — E quant’è questa pensione? — Cento scudi. — Povera umanità! mormorò Monte-Cristo. — Come dite, signore?... domandò l’impiegato. — Dico che tutto ciò è importante. — Che cosa? — Tutto ciò che mi mostrate... e non capite assolutamente niente dei vostri segni? — Assolutamente niente. — Voi non avete mai provato a capirli? — Mai; per che farne? — Ciò non ostante vi sono dei segnali che s’indirizzano a voi particolarmente? — Senza dubbio. — Questi li capirete? — Sì, sono sempre gli stessi. — E dicono?... — _Niente di nuovo_... o _voi avete un’ora_... o _a dimani_. — Queste sono cose assolutamente indifferenti... Ma guardate, non vedete il vostro corrispondente che si mette in movimento? — Ah! è vero, grazie, signore. — E che vi dice? è qualche cosa che capite? — Sì, mi domanda se sono in ordine. — E voi gli rispondete? — Coi medesimi segnali, che nello stesso tempo che avvisano al mio corrispondente di destra che io sono in ordine, invitano pure il corrispondente di sinistra a tenersi anche egli preparato. — È molto ingegnoso, disse il conte. — Starete a vedere, riprese con orgoglio il buon uomo, fra 5 minuti parlerà. — Allora io ho 5 minuti, disse Monte-Cristo, è più del tempo che mi abbisogna. Mio caro signore, disse egli, mi permettete di farvi una dimanda? — Dite — Amate molto l’agricoltura? — Con passione. — E sareste felice, se invece di avere una terrazza di 20 piedi, aveste un recinto di due iugeri? — Signore, ne farei un paradiso terrestre. — Coi vostri mille fr. vivete male? — Molto male, ma infine vivo. — Sì, ma non avete che un miserabile giardino. — Ah! è vero, il giardino non è grande. — Ed anche, tale quale è, è popolato da ghiri che divorano tutto. — Questo è il mio flagello. — Ditemi se aveste la disgrazia di voltare la testa quando il corrispondente di destra è in movimento? — Io non lo vedrei. — Allora che vi accadrebbe? — Che non potrei ripetere i segnali. — E dopo?... — Mi accadrebbe che non avendoli ripetuti per negligenza sarei messo in multa. — Di quanto? — Di cento fr. — Il decimo della vostra rendita. — Ah!... fece l’impiegato. — Ciò vi è mai accaduto? disse Monte-Cristo. — Una sola volta, che potava un rosaio. — Bene; ora se vi avvisaste di cambiare un segnale, o di trasmetterne un altro? — Allora è diverso, sarei licenziato, e perderei la pensione. — Di 500 fr.? — Cento scudi, sì, signore: così capirete bene che non lo farò mai. — Neppure per 15 anni della vostra paga? Vediamo, ciò merita riflessione, eh? — Per 15 mila fr.? Signore, voi volete tentarmi — Precisamente! 15 mila fr. — Signore, lasciatemi guardare il mio corrispondente di destra! — Al contrario; non lo guardate, ma invece guardate qui. — Che cosa è questo? — Come! non conoscete questi piccoli pezzi di carta? — Biglietti di banca! — Quadrati; e sono 15. — E per chi sono? — Per voi. — Per me! gridò l’impiegato soffocato. — Oh! mio Dio! sì, vostri in piena proprietà. — Ecco il corrispondente di destra che si muove. — Lasciatelo muovere. — Mi avete distratto, e sono già in multa. — Questa vi costerà 100 fr. vedete bene che ora avete tutta la premura di prendere i 15 biglietti di banca. — Signore, il mio corrispondente di dritta s’impazienta e raddoppia i segnali. — Lasciatelo fare e prendete. Il conte mise l’involto nelle mani dell’impiegato. — Ora, ciò non è tutto, coi vostri 15 mila fr. non vivreste. — Avrò sempre il mio posto. — No, lo perderete; perchè ora farete un altro segno diverso da quello del vostro corrispondente. — Ah! signore, che mi proponete? — Una fanciullaggine. — Signore, a meno che non vi sia costretto... — E conto bene di costringervi effettivamente. — E Monte-Cristo cavò di saccoccia un altro mazzetto di biglietti. — Ecco altri dieci mila fr. coi 15, che avete in saccoccia faranno 25 mila. Con 5 mila fr. comprerete una piccola casetta e due iugeri di terra, con gli altri 20 mila, vi farete una rendita di mille fr. — Un giardino di due iugeri? — E mille fr. di rendita. — Mio Dio! mio Dio! — Ma prendete dunque! E Monte-Cristo mise per forza i dieci biglietti nella mano dell’impiegato. — Ma che devo io fare? — Niente di difficile. — Ma pure? — Ripetere i segni che qui vedete. — Monte-Cristo cavò di saccoccia una carta su cui erano bene disegnati tre segnali coi numeri che indicavano l’ordine col quale dovevano essere fatti. — E questo non sarà lungo, come vedete. — Sì, ma.. — Ciò è pel raccolto che avrete di pesche, e del resto... Il pensiero del raccolto la vinse; rosso per la febbre, e sudando a grosse gocce, il buon uomo seguì l’uno dopo l’altro i tre segnali dati dal conte, ad onta delle spaventose dislocazioni del corrispondente di destra che, non comprendendo niente di questo cambiamento, cominciava a credere che l’uomo delle pesche fosse divenuto pazzo. In quanto al corrispondente di sinistra, ripetè coscienziosamente i medesimi segnali, che furono raccolti definitivamente dal ministero dell’Interno. — Ora eccovi ricco, disse Monte-Cristo. — Sì, rispose l’impiegato, ma a qual prezzo? — Ascoltate, amico mio, disse Monte-Cristo; non voglio che abbiate rimorsi, credetemi dunque, non avete fatto torto ad alcuno, ed avete servito a giustissimi disegni. L’impiegato guardava i biglietti di banca, li contava, li palpava; ora era pallido, ora rosso; finalmente si precipitò nella sua camera per bere un bicchier d’acqua, ma non ebbe forza di giungere fino alla fontana, e svenne in mezzo ai fagiuoli secchi. Cinque minuti dopo che la notizia telegrafica giunse al ministero, Debray fece attaccare i cavalli al suo _coupé_ e corse all’abitazione di Danglars: — Vostro marito ha delle polizze del prestito spagnuolo? diss’egli alla baronessa. — Lo credo bene! ne ha per sei milioni. — Ch’egli le venda subito a qualunque prezzo si sia. — E perchè questo? — Perchè Carlo si è salvato da Bourges ed è rientrato in Spagna. — E come lo sapete? — Per bacco! disse Debray stringendosi nelle spalle, come so le notizie? La baronessa non se lo fece ripetere due volte: corse dal marito, il quale recossi subito dal suo agente di cambio, e gli ordinò di vendere a qualunque prezzo. Quando fu veduto che Danglars vendeva, si abbassarono subito i fondi spagnuoli. Danglars vi perdè 500 mila fr., ma si spacciò di tutte queste polizze. La sera si lesse nel _Messager_ il seguente dispaccio telegrafico. «Il re Don Carlo è sfuggito alla sorveglianza che si esercitava su di lui a Bourges, ed è rientrato in Spagna dalla frontiera della Catalogna. Barcellona si è sollevata in suo favore.» In tutta la serata non vi fu altro discorso che della previdenza di Danglars che aveva vendute le sue polizze, e della fortuna dell’usuraio che non perdeva che soli 500 mila fr. sotto un bel colpo. Quelli che avevano conservato le loro polizze o le avevano comprate da Danglars, si ritennero rovinati, e passarono una cattiva notte. La dimane si lesse nel _Moniteur_: «Senza alcun fondamento il _Messager_ ha ieri annunziato la fuga di don Carlo e la rivolta di Barcellona. «Il re don Carlo non ha lasciato Bourges, e la Penisola gode la più profonda tranquillità. Un segnale telegrafico, male interpretato a causa della nebbia, ha causato questo errore.» I fondi risalirono di una cifra doppia di quella da cui erano discesi. Ciò produsse, fra la perdita e la mancanza del guadagno, la differenza di un milione per Danglars. — Buono! disse Monte-Cristo a Morrel, che si trovava da lui al momento in cui venne annunziato questo strano rovescio di borsa, di cui Danglars era stato la vittima. Con 25 mila fr. ho fatto una scoperta che avrei pagata cento mila. — Che avete dunque scoperto? domandò Massimiliano. — Ho scoperto il modo di liberare un giardiniere dai ghiri che gli mangiavano le pesche. LXI. — I FANTASMI. A prima vista, ed esaminata dal di fuori, la casa d’Auteuil nulla aveva di splendido, nè di tutto ciò che avrebbe potuto aspettarsi da una casa deputata ad abitazione del magnifico conte di Monte-Cristo; ma questa semplicità dipendeva dalla volontà del padrone, che aveva positivamente ordinato che nulla fosse cambiato all’esterno; e per convincersene non vi era di bisogno che penetrare nell’interno. Di fatto appena la porta era aperta, lo spettacolo cambiava. Bertuccio aveva oltrepassato sè stesso pel gusto del mobilio, e la rapidità della esecuzione: come in altri tempi il duca d’Antin aveva fatto abbattere in una notte un viale di alberi che incomodava la vista di Luigi XIV, così in tre giorni Bertuccio aveva fatto piantare nel cortile interamente nudo, dei bei pioppi e dei sicomori, fatti trasportare colle loro enormi masse di radici, che ombreggiavano la facciata principale della casa, davanti la quale, invece del selciato, mezzo guastato dall’erba, si stendeva un prato di zolle, la cui verde crosta era stata posta quella stessa mattina, e formava un vasto tappeto ove brillavano ancora le gocce di acqua di cui era stato innaffiato. Del rimanente gli ordini emanavano dal conte; egli stesso aveva rimesso a Bertuccio un disegno ov’erano indicati il numero delle piante ed il posto ove dovevano essere situate, la forma e lo spazio del prato che dovevano sostituire il selciato. Veduta così, la casa era divenuta irriconoscibile; e Bertuccio stesso protestava che non la riconoscerebbe più, circondata com’era dal suo quadro di verdura. L’intendente non sarebbe stato mal contento, da che vi era, di far soffrire pur qualche cambiamento al giardino, ma il conte aveva positivamente proibito che si toccasse. Bertuccio se ne risarcì col far ricolmare di fiori le anticamere, le scale, e i caminetti. Ciò che annunziava l’estrema abilità dell’intendente e la profonda scienza del padrone, l’uno nel servire, l’altro nel farsi servire, si era che questa casa, deserta da vent’anni, così cupa e trista anche il giorno innanzi, tutta impregnata di quel disgustoso odore del tempo, aveva preso in un giorno, coll’aspetto della vita, i profumi che preferiva il padrone, e perfino il grado della sua luce favorita; era che il conte giungendo, avrebbe sotto i suoi occhi i quadri che preferiva, nelle anticamere i cani di cui amava le carezze, gli uccelli di cui amava il canto; si era che tutta questa casa, risvegliata dal suo lungo sonno come il palazzo della Bella del bosco dormente, viveva, cantava, si rallegrava, a guisa di quelle case che noi abbiamo lungamente predilette, e nelle quali, quando per disgrazia le abbandoniamo, vi lasciamo una metà dell’anima nostra. I domestici andavano e venivano allegri in quella bella corte; gli uni possessori delle cucine, e scorrendo come se avessero sempre abitata questa casa, sopra scale restaurate il giorno innanzi; gli altri popolavano le rimesse, ove le carrozze, numerate e fissate, sembravano installate da 50 anni, e le scuderie ove i cavalli schierati alle rastrelliere rispondevano col loro nitrito ai palafrenieri che parlavano ad essi infinitamente con maggior rispetto di quello che molti domestici parlino coi loro padroni. La biblioteca era distribuita in due scansie, alle due pareti laterali di una camera, e conteneva circa due mila volumi: tutto un compartimento era destinato ai romanzi moderni, e quello che aveva veduta la luce il giorno innanzi, era già collocato al suo posto, pavoneggiandosi nella sua legatura rossa e oro. Dall’altra parte della casa, e facendo simmetria alla biblioteca, v’era la stufa, ripiena di piante rare che si rallegravano di trovarsi in gran vasi del Giappone, e in mezzo ad essa, meraviglia ad un tempo degli occhi e dell’odorato, un bigliardo che si sarebbe detto abbandonato da meno d’un’ora dai giuocatori, che avevano lasciato morire i birilli sul tappeto. Una sola camera era stata rispettata dal magnifico Bertuccio. Davanti ad essa, situata all’angolo del primo piano, ed a cui si poteva salire dalla scala maggiore, e discendere dalla scala segreta, i domestici passavano con curiosità, e Bertuccio con terrore. Il conte arrivò alle cinque precise, seguito da Alì, davanti alla casa d’Auteuil. Bertuccio aspettava quest’arrivo, con una impazienza mista ad inquietudine, egli sperava qualche congratulazione di approvazione, mentre ne temeva l’aggrottamento delle sopracciglia. Monte-Cristo disceso nel cortile, percorse tutta la casa, e fece un giro nel giardino, silenzioso, e senza dare il minimo segno nè di approvazione nè di mal contento. Soltanto entrando nella sua camera da dormire, situata dalla parte opposta della camera chiusa, stese la mano al cassetto di un piccolo mobile di legno rosa, che aveva già osservato nel primo viaggio. — Questo non può servire, diss’egli, che a mettervi dei guanti. — Infatto, eccellenza, rispose tutto contento Bertuccio, aprite e vi troverete dei guanti. — Negli altri mobili ancora, il conte ritrovò quello che contava di ritrovarvi, bottiglie, sigari, bigiotterie ecc. — Bene! diss’egli ancora. E Bertuccio si ritirò coll’anima trasportata, tanto era grande, potente, e reale l’influenza di quest’uomo su tutto ciò che lo circondava. Alle sei precise s’intese scalpitare un cavallo davanti alla porta di ingresso. Era il nostro capitano dei _Spahis_ che giungeva sopra _Médéah_. Monte-Cristo l’aspettava nel vestibolo col sorriso sulle labbra. — Eccomi pel primo, ne sono ben sicuro, gridò Morrel; l’ho fatto espressamente per avervi un momento tutto a me solo, prima degli altri. Giulia, ed Emmanuele vi dicono milioni di cose. Ah! sapete che questo luogo è magnifico? ditemi, conte, i vostri domestici avranno cura del mio cavallo? — Siatene tranquillo, essi se ne intendono. — Ha bisogno di essere ben bene strofinato, se sapeste di che passo è venuto! è una vera tromba. — Diavolo! lo credo bene, un cavallo di 5 mila fr.! disse Monte-Cristo col tuono di un padre che parli a suo figlio. — Vi rincrescono? disse Morrel con un franco sorriso. — Io! Dio me ne guardi! rispose il conte, mi spiacerebbe soltanto che il cavallo non fosse buono. — È tanto buono, mio caro conte, che Château-Renaud, l’uomo più intelligente di cavalli di tutta la Francia, e Debray, che monta i cavalli arabi del ministero, corrono dietro a me in questo momento, e sono un poco indietro, come vedete, ed essi sono seguiti dai cavalli della baronessa Danglars, che vanno di un trotto da poter fare almeno sei leghe l’ora. — Dunque saranno vicini? domandò Monte-Cristo. — A voi, eccoli. — Infatto nello stesso momento un _coupé_ con due cavalli tutti fumanti, e due cavalli da sella anelanti giunsero al cancello della casa, che si aprì davanti a loro; subito dopo il _coupé_ descrisse il suo mezzo cerchio, e venne a fermarsi davanti alla gradinata seguito dai due cavalieri. In un punto Debray mise il piede a terra, e si trovò allo sportello. Offrì la mano alla baronessa, che nel discendere gli fece un gesto impercettibile a tutti, meno che a Monte-Cristo che nulla perdè di vista; e in questo gesto vide rilucere un piccolo biglietto bianco tanto impercettibile, quanto il gesto, che passò dalla mano di madama Danglars in quella del segretario del ministro con una facilità, che indicava l’abitudine di questa manovra. Dietro sua moglie discese il banchiere, pallido come se invece di uscire da un _coupé_ fosse uscito da un sepolcro. La signora Danglars gettò intorno a sè uno sguardo rapido ed investigatore, che Monte-Cristo soltanto potè comprendere, e col quale essa abbracciò il cortile, il peristilio e la facciata della casa; poi reprimendo una leggera emozione che sarebbe certamente comparsa sul suo viso, se fosse stato permesso al viso d’impallidire, salì la scalinata, dicendo al sig. Morrel: — Signore, se foste nel numero dei miei amici vi chiederei se voleste vendere il vostro cavallo. Morrel fece un sorriso che molto rassomigliava ad una boccaccia, e si voltò verso Monte-Cristo come per pregarlo di toglierlo dall’impaccio in cui si ritrovava. Il conte lo capì; — Ah! signora, rispose egli, perchè mai questa domanda non è diretta a me? — Con voi, signore, disse la baronessa, non si ha il diritto di desiderare niente, perchè si è troppo sicuri di ottenere. Così era al sig. Morrel... — Disgraziatamente, riprese il conte, sono testimonio che il sig. Morrel non può cedervi il suo cavallo, essendo messo a rischio il suo onore. — Ed in che modo? — Egli ha scommesso di domare _Médéah_ nello spazio di sei mesi. Comprenderete ora, baronessa, che se egli se ne privasse prima del termine della scommessa, non solo la perderebbe, ma si direbbe di più che ha avuto paura; ed un capitano di _Spahis_, anche per soddisfare un capriccio di una bella donna, il che, a mio avviso, è una delle cose più sacre di questo mondo, non può lasciar correre questa voce. — Voi vedete, signora... disse Morrel indirizzando a Monte-Cristo, un sorriso di riconoscenza. — Mi sembra d’altra parte, disse Danglars con un tuono rozzo mal nascosto da un sorriso villano, che abbiate cavalli bastanti. Non era fra le abitudini della sig.ª Danglars il lasciar passare simili assalti senza rispondervi, e ciò non ostante con gran meraviglia dei giovani, ella fe’ sembiante di non capire e non rispose niente. Monte-Cristo sorrideva a questo silenzio, che annunziava una umiltà fuori dell’ordinario, mentre che mostrava alla baronessa due immensi vasi di porcellana della China, sui quali serpeggiavano delle vegetazioni marine di una grossezza, e di un lavoro tale, che la sola natura poteva avere queste ricchezze, questo materiale, questo genio. La baronessa era maravigliata. — Eh! qui dentro si potrebbe piantare uno dei marroni delle Tuglierie, diss’ella, come mai hanno dunque potuto far cuocere simili enormità? — Ah! signora, disse Monte-Cristo, non bisogna domandar questo a noi, fabbricanti di statuette, e di vetro appannato; è un’opera di altra età, è una specie d’opera dei genii della terra e del mare. — E come mai, e di qual epoca può essere? — Non lo so; soltanto ho inteso dire che un Imperatore della China aveva fatto costruire un forno espressamente, in cui un dopo l’altro, aveva fatto cuocere 12 vasi come questo. Due si ruppero sotto l’ardore del fuoco: gli altri furono calati a trecento braccia nel fondo del mare. Il mare, che sapeva ciò che richiedevasi da lui, gettò sur essi delle liane, contorse i suoi coralli, incrostò le sue conchiglie; il tutto fu cementato per 200 anni sotto queste profondità inaudite, poichè una rivoluzione rapì l’Imperatore che aveva voluto fare questo esperimento, e non lasciò che il processo verbale che constatava la cottura dei vasi, e la loro calata nel fondo del mare. Dopo 200 anni si ritrovò il processo verbale, e si pensò a cavare i vasi. I nuotatori andarono, sotto macchine fatte espressamente, alla scoperta nella baia ove erano stati gettati; ma di dieci non ne furono più ritrovati che tre, gli altri erano stati o dispersi, o rotti dai flutti. Io amo questi vasi, nel fondo dei quali qualche volta mi figuro che dei mostri di forme spaventose, e misteriose, come quelli che vedono i soli nuotatori quando si affondano molto, hanno fissato con meraviglia il loro sguardo sinistro e freddo, e nei quali hanno dormito delle miriadi di piccoli pesci che si rifugiavano per salvarsi dalla persecuzione dei loro nemici. — Durante questo tempo Danglars, poco amatore di curiosità, strappava distrattamente, l’uno dopo l’altro, i fiori di un magnifico arancio; quando ebbe finito quell’arancio, si volse ad un cactus; ma questo di un’indole meno tollerante dell’arancio, lo punse oltraggiosamente. Allora rabbrividì, e si strofinò gli occhi come se si svegliasse da un sogno. — Signore, gli disse Monte-Cristo sorridendo, voi siete tanto amatore di quadri, ed avete delle cose magnifiche, non vi raccomando perciò i miei, però, ecco due Hobbema, un Paolo Potter, un Mieris, due Gérard Dow, un Raffaello, un Van Dyck, un Zurbaran, e due o tre Murillo, degni di esservi presentati. — Guarda! disse Debray, un Hobbema che io riconosco. — Ah! davvero! — Sì, vennero a proporlo al Museo. — Che non ne ha, credo? arrischiò di dire Monte-Cristo. — No, e ciò non ostante ha rifiutato di comprarlo. — E perchè? domandò Château-Renaud. — Siete grazioso; perchè il governo non è abbastanza ricco. — Ah! perdono, disse Château-Renaud. Io sento dire simili cose tutti i giorni da otto anni e non mi vi posso abituare. — Sarà per l’avvenire, disse Debray. — Non lo credo, rispose Château-Renaud. — Il maggiore Bartolommeo Cavalcanti, il conte Andrea Cavalcanti, annunziò Battistino. Un colletto di raso nero che usciva dalle mani del fabbricante, una barba fatta di recente, due baffi grigi, un occhio sicuro, un abito da maggiore adorno di tre placche e cinque croci, in somma una tenuta irreprensibile di vecchio soldato, tale apparve il maggiore Bartolommeo Cavalcanti, quel tenero padre che noi conosciamo. Vicino a lui, coperto di abiti nuovi, si avanzava col sorriso sulle labbra il conte Andrea Cavalcanti, quel rispettoso figlio che egualmente conosciamo. I tre giovani parlavano insieme, i loro sguardi si portavano dal padre al figlio, e si fermarono naturalmente più lungo tempo su questo ultimo, cui particolarmente esaminarono. — Cavalcanti! fece Debray. — Un bel nome, disse Morrel, capperi! — Sì, disse Château-Renaud, è vero, questi Italiani hanno bei nomi, ma vestono male. — Siete difficile a contentare, riprese Debray, i suoi abiti sono di un eccellente sartore, e affatto nuovi. — Ecco precisamente ciò che rimprovero loro. Questo signore ha l’aspetto di vestirsi oggi per la prima volta. — Chi sono questi signori? domandò Danglars al conte di Monte-Cristo. — Avete inteso, i Cavalcanti. — Ciò non mi dice che il loro nome e niente di più. — Ah! è vero, non siete al corrente della nostra nobiltà italiana; chi dice Cavalcanti, dice razza di principi. — Bella fortuna? domandò il banchiere. — Favolosa. — Che cosa fanno? — Provano di spenderla senza potervi riuscire. Hanno da altra parte crediti su voi, a quanto mi dissero l’altro giorno quando vennero a farmi visita. Io anzi li ho invitati per voi, ve li presenterò. — Ma mi sembra, che parlino con molta purezza il francese, disse Danglars. — Il figlio è stato allevato in un collegio del mezzo giorno, a Marsiglia, o nelle vicinanze. Lo ritroverete nell’entusiasmo. — Di che cosa? domandò la baronessa. — Delle francesi, signora, vuole assolutamente prender moglie a Parigi. — Bella idea! disse Danglars alzando le spalle. La signora Danglars guardò suo marito con un’espressione che, in un altro momento, sarebbe stata foriera di un uragano; ma per la seconda volta ella si tacque. — Il barone sembra molto tetro quest’oggi, disse Monte-Cristo alla sig.ª Danglars: lo voglion forse far ministro? — Non ancora, credo in vece che abbia speculato alla borsa, e che abbia perduto, e non sa con chi prendersela. — Il signore, e la signora de Villefort, gridò Battistino. I due personaggi annunziati entravano; il sig. de Villefort, ad onta del suo gran potere su sè stesso, era visibilmente commosso. Toccandogli la mano, Monte-Cristo si accorse che tremava: — Non vi sono che le donne per sapere dissimulare, disse fra sè stesso Monte-Cristo guardando la sig.ª Danglars, che sorrideva al procuratore del Re, e che abbracciava la moglie di lui. Dopo i primi complimenti, il conte vide Bertuccio che, occupato fino allora degli affari del suo ufficio, s’introduceva in un piccolo salotto attiguo a quello nel quale erano tutti riuniti. Egli andò a lui. — Che volete, Bertuccio? — V. E. non mi ha detto ancora il numero dei convitati. — Ah! è vero. — Quante coperte? — Contate voi stesso. — Sono giunti tutti, eccellenza? — Sì. Bertuccio introdusse lo sguardo a traverso la porta socchiusa. Monte-Cristo gli teneva fissi gli occhi in viso. — Oh! mio Dio! gridò egli. — Che c’è dunque? domandò il conte. — Quella donna!... quella donna!... — Quale? — Quella vestita di bianco, e con tanti diamanti!... la bionda!... — La signora Danglars? — Non so come si chiami. Ma è dessa! signore, è dessa! — Chi? — La donna del giardino! quella che era incinta! quella che passeggiava aspettando... aspettando.... Bertuccio rimase a bocca aperta pallido, e coi capelli irti. — Aspettando chi? — Bertuccio senza rispondere, mostrò Villefort col dito, presso a poco col medesimo gesto con cui Macbeth mostrò Banco. — Oh!... Oh!... mormorò finalmente! vedete? — Che? chi? — Lui! — Lui!... Il sig. procuratore del Re Villefort? senza dubbio lo vedo. — Ma dunque non l’ho ucciso! — Ah! ma credo che diventiate pazzo, mio bravo Bertuccio. — Ma egli dunque non è morto? — Eh! no, egli non è morto, lo vedete bene: invece di colpire fra la sesta e la settima costa sinistra, come fanno i vostri compatrioti, avrete colpito più alto o più basso; e le persone di giustizia hanno l’anima bene incavigliata al corpo; o piuttosto non è vero ciò che mi avete raccontato, fu un sogno della vostra immaginazione, un’allucinazione del vostro spirito; vi sarete addormentato avendo mal digerita la vostra vendetta; ella vi avrà pesato sullo stomaco, avete avuto l’incubo, ecco tutto. Vediamo, richiamate la vostra calma e contate: il signore e la signora de Villefort, due; il signore, e la signora Danglars, quattro; il sig. Château-Renaud, il sig. Debray, il sig. Morrel, sette; il maggiore Bartolommeo Cavalcanti, otto. — Otto, ripetè Bertuccio. — Aspettate dunque! avete molto fretta di andarvene! dimenticate uno dei miei convitati, che diavolo! Guardate un poco a sinistra... ecco là... il signor Andrea Cavalcanti, quel giovine in abito nero che guarda il quadro di Murillo, che ora si volta. — Questa volta Bertuccio cominciò un grido, che lo sguardo di Monte-Cristo gli spense sulle labbra: — Benedetto! mormorò egli a bassa voce, fatalità! — Ecco le sei e mezzo che suonano, Bertuccio, disse severamente il conte, questa è l’ora in cui ho dato l’ordine che si mettesse in tavola; sapete che non amo aspettare. E Monte-Cristo rientrò nel salotto ove lo aspettavano i suoi convitati, nel mentre che Bertuccio rientrava nella sala da pranzo, appoggiandosi contro i muri. Cinque minuti dopo, le due porte della sala si aprirono, Bertuccio comparve, e facendo come Vatel a Chantilly un ultimo ed eroico sforzo: — Signor conte è in tavola, diss’egli. Monte-Cristo offerse il braccio alla sig.ª de Villefort. — Signor de Villefort, diss’egli, fate voi il cavaliere alla baronessa Danglars, ve ne prego. Villefort obbedì, e tutti passarono nella sala da pranzo. LXII. — IL PRANZO. Era evidente che nel passare alla sala da pranzo, uno stesso sentimento animava tutti i convitati. Essi chiedevansi quale bizzarra influenza li aveva radunati tutti in questa casa, e per quanto alcuni si trovassero inquieti e maravigliati di trovarvisi, pure nessuno avrebbe voluto non esservi. Non ostante che le relazioni di recente data, la posizione eccentrica, ed isolata, le ricchezze sconosciute e quasi favolose del conte imponessero un dovere agli uomini di essere circospetti, ed alle donne una legge di non penetrare in questa casa ove non v’era una moglie per riceverle; pure uomini e donne, avevano passato sopra, gli uni alla circospezione, le altre alla convenienza, e la curiosità, che li stuzzicava, li aveva trasportati al di sopra di tutto. Non v’era alcuno, fino ai Cavalcanti padre e figlio, che, l’uno per la sua rozzezza, l’altro per la sua disinvoltura non sembrassero preoccupati per trovarsi uniti presso quest’uomo di cui ignoravano lo scopo, e ad altri uomini che vedevano per la prima volta. La sig.ª Danglars aveva fatto un movimento vedendo, dietro l’invito di Monte-Cristo, il sig. de Villefort avvicinarsi ad essa per offerirle il braccio, ed il sig. de Villefort aveva sentito il suo sguardo scomporsi sotto gli occhiali d’oro quando il braccio della baronessa si posò sul suo. Nessuno di questi due movimenti era sfuggito al conte, e già, in questa semplice messa a contatto degl’individui, v’era un grande interessamento per l’osservatore di questa scena. Il sig. de Villefort aveva alla sua destra la baronessa Danglars, ed a sinistra Morrel. Il conte era assiso fra la sig.ª de Villefort e Danglars. Gli altri intervalli erano riempiti da Debray seduto fra Cavalcanti padre e Cavalcanti figlio, e da Château-Renaud seduto fra la sig.ª de Villefort e Morrel. Il convito fu magnifico; Monte-Cristo si era preso l’assunto di rovesciare completamente la simmetria parigina, e di dare più alla curiosità che all’appetito dei suoi convitati il cibo che desideravano. Fu un festino orientale quello che fu offerto, ma orientale in tal modo quale potevano esserlo i festini delle fate arabe. Tutti i frutti che le quattro parti del mondo possono versare intatti e saporosi nel corno d’abbondanza dell’Europa, erano riuniti ed ammonticchiati in piramidi entro vasi della China e sottocoppe del Giappone. Gli uccelli rari, colla parte più brillante delle loro penne, pesci mostruosi stesi su lastre d’argento, tutti i vini dell’Arcipelago, dell’Asia minore, del Capo, racchiusi in ampolle di forme bizzarre, la vista delle quali sembrava aggiungere anche qualche cosa di più al sapore di questi vini, passarono successivamente in giro, (come una di quelle riviste che Apicius passava coi suoi convitati) davanti a questi parigini, che comprendevano ben potersi spendere mille luigi in un pranzo di dieci persone, ma a condizione che, come Cleopatra, si mangiassero delle perle, o che, come Lorenzo dei Medici, si bevesse dell’oro fuso. Monte-Cristo vide lo stupore generale, e si mise a ridere ed a scherzare ad alta voce: — Signori, diss’egli, ammettete, n’è vero? che giunti ad un certo grado di fortuna, non vi è più di necessario che il superfluo, come queste signore ammetteranno, che giunti ad un certo grado di esaltazione, non vi è più di positivo che l’ideale. Ora seguendo il ragionamento, che cosa è il maraviglioso? quello che non comprendiamo. Qual è il bene che crediamo veramente da desiderarsi? quel che non possiamo avere. Ora, veder cose che non posso comprendere, procurarmi cose impossibili ad aversi, questo è lo studio della mia vita. Vi giungo con due mezzi; il danaro e la volontà; impiego per conseguire una fantasia la stessa perseveranza che, per esempio, voi mettete, sig. Danglars, a creare una linea di strada ferrata; voi sig. de Villefort, a far condannare un uomo alla morte; voi, sig. Debray, a pacificare un regno; voi, sig. Château-Renaud a piacere ad una donna; e voi, Morrel, a domare un cavallo che nessuno ha potuto montare. Così, per esempio, vedete questi due pesci, nati l’uno a 50 leghe da Pietroburgo, l’altro a due leghe da Napoli. Non è dilettevole il poterli riunire sulla stessa tavola? — Quali son dunque questi pesci? domandò Danglars. — Ecco qua il sig. Château-Renaud, che ha abitata la Russia, che vi dirà il nome dell’uno, ed il sig. maggiore Cavalcanti, che è italiano, che vi dirà il nome dell’altro. — Questo qui, disse Château-Renaud, è, credo, uno _sterlet_. — E questo, disse Cavalcanti, una lampreda, se non sbaglio. — Ora, sig. Danglars, domandate a questi due signori ove si pescano questi due pesci. — Ma, disse Château-Renaud, gli _sterlet_ si pescano soltanto nella Volga. — Ed io, disse Cavalcanti, non conosco che il Fusaro che fornisca lamprede di questa grossezza. — Ebbene! precisamente, l’uno viene dalla Volga, e l’altro dal lago del Fusaro. — Impossibile! gridarono ad un tempo tutti i convitati. — Ebbene! ecco appunto ciò che mi diverte, disse Monte-Cristo. Io sono come Nerone, _desidero l’impossibile_, ecco ciò che diverte voi stessi in questo momento; ecco finalmente ciò che fa che questa carne, che forse in realtà non vale quella del salmone e del persico, in breve vi parrà squisita; egli è perchè nel vostro spirito vi sembrava impossibile di procurarvela: eppure eccola qui. — Ma come han fatto a trasportarli a Parigi? — Eh! mio Dio, nulla di più semplice: questi due pesci sono stati portati, ciascuno entro una gran tinozza imbottita internamente una di ramoscelli e d’erbe del fiume, l’altra di giunchi e di piante del lago, sono state messe in un forgone fatto espressamente, ed in tal modo hanno vissuto lo _sterlet_ 12 giorni, e la lampreda 8; ed entrambi vivevano perfettamente quando si è impadronito di loro il cuoco per farli morire uno nel latte, l’altro nel vino. Voi non lo credete, sig. Danglars? — Almeno ne dubito, rispose Danglars col suo grossolano sorriso. — Battistino, disse Monte-Cristo, fate portare l’altro _sterlet_, e l’altra lampreda, sapete, quelli che sono venuti nelle altre tinozze e che vivono ancora. Danglars aprì due occhi ebeti; l’assemblea battè le mani. Quattro domestici portarono due tinozze guarnite di piante marine, in ciascuna delle quali palpitava un pesce simile ai due ch’erano stati serviti in tavola. — Ma perchè due di ciascuna specie? domandò Danglars. — Perchè uno poteva morire, rispose semplicemente Monte-Cristo. — Siete veramente un uomo prodigioso, disse Danglars; ed il filosofo ha un bel dire, è una bella cosa essere ricchi. — E soprattutto di aver delle idee, disse la sig.ª Danglars. — Oh! non mi fate onore per questo, signora, ciò era molto in voga presso i Romani; e Plinio racconta che si mandavano da Ostia a Roma, con delle mute di schiavi che li portavano sulla loro testa, dei pesci di quella specie che chiamavano _mulus_, e che, dal ritratto che ne fa è probabilmente l’orata. Era pure un lusso l’averli vivi, ed uno spettacolo divertente quello di vederli morire, perchè morendo cambiavano tre o quattro volte il colore delle loro scaglie, a guisa di un arcobaleno che svapori, passavano da tutte le gradazioni del prisma; dopo di che li mandavano al cuoco. La loro agonia faceva parte del loro merito; se non li vedevano vivi, li disprezzavano morti. — Sì, disse Debray, ma da Ostia a Roma non vi sono che sette o otto leghe. — Ah! è vero! disse Monte-Cristo; ma dove starebbe il merito di venire 1800 anni dopo Lucullo, se non si facesse meglio di lui? — I due Cavalcanti aprivano gli occhi enormi, ma avevano il buon senso di non dire una parola. — Tutto ciò è molto ammirabile, disse Château-Renaud; però ciò che io ammiro di più si è, lo confesso, l’ammirabile prontezza colla quale siete servito. N’è vero, avete comprata questa casa sono appena 5 o 6 giorni? — Tutto al più, in fede mia, disse Monte-Cristo. — Ebbene, sono sicuro che in otto giorni ha sofferta una completa trasformazione; se non mi sbaglio essa aveva un’entrata diversa da questa, ed il cortile era selciato ed orrido, mentre che oggi esso è un magnifico prato verde, ornato di alberi che sembrano avere cento anni. — Che volete! disse il conte, amo la verdura e l’ombra. — In fatto, disse la sig.ª de Villefort, per l’addietro si entrava da una porta che aprivasi sulla strada, ed il giorno della mia miracolosa liberazione, fu dalla strada, me ne ricordo, che mi faceste entrare in casa. — Sì, signora, disse Monte-Cristo, ma dopo ho preferito un ingresso che mi permettesse di guardare il bosco di Boulogne a traverso il cancello. — In quattro giorni, disse Morrel, questo è un prodigio! — In fatto, disse Château-Renaud, d’una vecchia casa farne una casa nuova, è una cosa miracolosa, perchè in addietro era molto vecchia, ed anche molto trista. Mi ricordo d’essere stato incaricato da mia madre di visitarla, quando il sig. conte di Saint-Méran la mise in vendita, sono due o tre anni. — Il sig. di Saint-Méran, disse la sig.ª de Villefort; ma questa casa dunque apparteneva al sig. di Saint-Méran, prima che la compraste voi, sig. conte? — Parmi di sì, rispose Monte-Cristo. — Come, non sapete da chi avete comprata una casa? — In fede mia no, il mio intendente si occupa di questi particolari. — È vero che da circa dieci anni non era stata abitata, disse Château-Renaud, ed era una gran tristezza vederla sempre colle sue persiane chiuse, le porte serrate, ed il cortile pieno d’erba. In verità se non fosse appartenuta al suocero di un procuratore del Re, si sarebbe potuta prendere per una di quelle case maledette ove sia stato consumato qualche gran delitto. Villefort, che fino allora non aveva ancora toccato nessuno dei 4 o 5 bicchieri di vini straordinari posti davanti a lui, ne prese uno a caso e lo vuotò d’un sol fiato. Monte-Cristo lasciò passare un momento; poi, in mezzo al silenzio succeduto alle parole di Château-Renaud: — È bizzarro, sig. barone, diss’egli, ma mi sono venuti gli stessi pensieri quando vi entrai la prima volta; e questa casa mi parve sì lugubre che non l’avrei mai comprata, se l’intendente non lo avesse già fatto per me. Probabilmente il furbo aveva ricevuta qualche senseria dal notaro. — È probabile, balbettò Villefort sforzandosi di sorridere, ma credete ch’io non entro per niente in questa corruzione. Il sig. di Saint-Méran ha voluto che questa casa, che forma parte della dote di sua nipote, fosse venduta, perchè se fosse ancora rimasta tre o quattro anni disabitata, sarebbe caduta in rovina. — Questa volta Morrel impallidì. — Vi era particolarmente una camera, continuò Monte-Cristo; ah! mio Dio! ben semplice in apparenza, una camera come tutte le altre; parata di damasco rosso, che mi è sembrata, non so perchè, drammatica all’estremo. — E perchè? domandò Debray, perchè drammatica? — Si può forse render conto delle sensazioni d’istinto? disse Monte-Cristo. Non vi sono forse delle località ove ci sembra di respirare un’aria malinconica? e perchè? non se ne sa niente; per una collegazione d’idee, per un capriccio del pensiero che vi trasporta ad altri tempi, ad altri luoghi, che forse non hanno alcun rapporto coi tempi ed i luoghi ove ci troviamo; tanto fa, che questa camera mi ricorda ammirabilmente quella della marchesa di Gange, o quella di Desdemona. Eh! in fede mia, sentite, giacchè abbiamo finito di pranzare, bisogna che ve la mostri: indi discenderemo nel giardino a prendere il caffè; dopo il pranzo, lo spettacolo. Monte-Cristo fece un segno per interrogare i convitati; la sig.ª de Villefort si alzò, Monte-Cristo fece altrettanto, e tutti imitarono il loro esempio. Villefort e la sig.ª Danglars rimasero ancora qualche tempo come inchiodati sulle loro sedie; essi interrogavano con gli occhi freddi, muti, agghiacciati. — Avete inteso? disse la sig.ª Danglars. — Bisogna andarvi, rispose Villefort alzandosi ed offrendole il braccio. Tutti si erano già sparsi per la casa, spinti dalla curiosità, perchè tutti pensavano bene che la visita non sarebbesi limitata a questa camera, e che nello stesso tempo avrebbero percorso tutto il rimanente di questa abitazione dalla quale Monte-Cristo aveva saputo cavare un palazzo. Ciascuno dunque si slanciò per le porte aperte. Monte-Cristo aspettava i due che ritardavano; dipoi quando alla loro volta furono passati, chiuse la marcia con un sorriso che, se si fosse potuto comprendere, avrebbe spaventato i convitati molto più di quella camera nella quale stavano per entrare. Si cominciò infatto dal percorrere gli appartamenti, le camere erano ammobiliate all’orientale con divani e cuscini ovunque invece di letti, pipe ed armi invece di mobili; i saloni adorni dei più bei quadri degli antichi maestri; i gabinetti erano tappezzati di stoffe della China, a colori capricciosi, a disegni fantastici, a tessuti maravigliosi; quindi finalmente si giunse alla famosa camera. Essa nulla aveva di particolare, se non che, quantunque non fosse che sul declinare del giorno, essa non era punto illuminata, ed era rimasta nella sua vetustà; mentre tutte le altre camere avevano rivestito una nuova decorazione. Queste due cause bastavano in fatto per darle una tinta lugubre. — Uh! gridò la signora de Villefort, è spaventosa di fatto. La sig.ª Danglars provò di balbettare alcune parole che non furono intese. Molte osservazioni sorsero e s’incrociarono, di cui il resultato si fu che in fatto la camera di damasco rosso aveva un aspetto sinistro. — N’è vero? disse Monte-Cristo. Vedete dunque come questo letto è bizzarramente posto, quali tetri sanguinosi paramenti! e questi due ritratti a pastello che l’umidità ha fatto impallidire, non sembrano essi dire colle loro labbra smunte, e i loro occhi spaventati: «io ho veduto» — Villefort divenne livido; la sig.ª Danglars cadde sopra una sedia presso al caminetto. — Oh! disse la sig.ª de Villefort sorridendo, avete il coraggio di sedervi sopra questa sedia, su cui forse è stato commesso il delitto? — La sig.ª Danglars si alzò, prestamente. — E poi disse Monte-Cristo, qui non sta il tutto. — Che vi è dunque ancora? domandò Debray, cui non isfuggiva la emozione della sig.ª Danglars. — Ah! sì, che vi è ancora? domandò Danglars, perchè fin qui non vi trovo gran cosa, e voi sig. Cavalcanti? — Ah! disse questi, abbiamo a Pisa la torre d’Ugolino, a Ferrara la prigione di Tasso, e a Rimini la camera di Paolo e Francesca. — Sì, ma non avete questa piccola scala segreta, disse Monte-Cristo aprendo una porta nascosta sotto la tappezzeria; guardatela, e dite ciò che ne pensate. — Qual sinistra curva di scala, disse Château-Renaud ridendo. — Il fatto è, disse Debray, che non so se sia il vino di Chio che concilia la malinconia, ma certamente vedo tutta questa casa in nero. — In quanto a Morrel, dappoichè ebbe inteso parlare della dote di Valentina, era rimasto tristo, e non aveva pronunziato una parola. — Non v’immaginate, riprese Monte-Cristo, un Otello, od un Ganges qualunque, discendere passo a passo in una notte tetra e burrascosa, questa scala con qualche lugubre fardello, che si solleciti di nascondere alla vista degli uomini, se non allo sguardo di Dio? La sig.ª Danglars svenne a metà al braccio di Villefort, che fu egli stesso costretto di addossarsi al muro. — Ah! mio Dio! signora, gridò Debray, che avete dunque? come impallidite! — Che cos’ha? disse la signora de Villefort, è cosa semplice: il sig. di Monte-Cristo ci racconta delle storie spaventose, nell’intenzione senza dubbio di farci morire della paura. — Ma sì, disse Villefort, infatto, conte, voi spaventate queste signore. — Che avete dunque? ripetè a bassa voce Debray alla sig.ª Danglars. — Niente, niente, diss’ella facendo uno sforzo, ho bisogno d’aria, ecco tutto. — Volete discendere in giardino? domandò Debray offrendo il braccio alla sig.ª Danglars ed avanzandosi verso la scala segreta. — No, diss’ella, amo ancor meglio restare qui. — In verità, disse Monte-Cristo, avete paura sul serio? — No, disse la sig.ª Danglars; ma avete un modo di supporre le cose che dà all’illusione l’aspetto della realtà. — Oh! mio Dio, disse Monte-Cristo sorridendo, e tutto questo è un affare d’immaginazione; perchè non potrebbe egualmente rappresentarsi questa camera come quella di una buona e bella madre di famiglia? Questo letto con le pareti color di porpora come un letto visitato dalla dea Lucina? e questa scala misteriosa, come il passaggio pel quale dolcemente, e per non disturbare il sonno riparatore della addormentata, passi il medico, o la nutrice, o il padre stesso portando il fanciullo che dorme?... Questa volta la sig.ª Danglars, invece di rasserenarsi a questa dolce pittura, gettò un gemito e svenne del tutto. — La signora Danglars sta male, balbettò Villefort; forse bisognerà trasportarla nella sua carrozza. — Oh! mio Dio! disse Monte-Cristo, ed io che ho dimenticata la mia boccettina! — Io ho la mia, disse la sig.ª de Villefort, e passò a Monte-Cristo una boccettina ripiena di un liquore rosso, simile a quello di cui il conte sperimentò sopra Edoardo la benefica influenza. — Ah! fece Monte-Cristo prendendola dalle mani della sig.ª de Villefort. — Si, mormorò questa, dietro le vostre indicazioni ho provato. — E vi è riuscito? — Lo credo. La sig.ª Danglars era stata trasportata nella camera vicina; Monte-Cristo lasciò cadere sulle labbra di lei una goccia del liquore rosso, ed ella ritornò tosto in sè. — Oh! diss’ella, qual sogno spaventoso! Villefort le strinse fortemente il braccio, per farle capire che non aveva sognato. Fu cercato il sig. Danglars, ma poco disposto alle impressioni poetiche, egli era disceso in giardino, e parlava col sig. Cavalcanti padre di un disegno di strada ferrata da Livorno a Firenze. Monte-Cristo sembrava disperato: egli prese il braccio della sig.ª Danglars, e la condusse in giardino, ove fu ritrovato il sig. Danglars che prendeva il caffè tra i signori Cavalcanti padre e figlio. — In verità signora, le diss’egli, è vero che vi ho molto spaventata? — No, signore, ma sapete, le cose fanno la impressione a seconda delle disposizioni di spirito in cui ci troviamo. Villefort si sforzò di ridere. — E allora, diss’egli, capirete bene che basta una supposizione, una chimera... — Ebbene! disse Monte-Cristo, non mi crederete, se volete; ma ho la convinzione che sia stato commesso un delitto in questa casa. — Fate attenzione, disse la sig.ª de Villefort, abbiam qui il procuratore del Re. — In fede mia, riprese Monte-Cristo, poichè si dà questa combinazione, ne approfitterò per fare la mia dichiarazione. — La vostra dichiarazione? disse Villefort. — Sì, ed alla presenza di testimonii. — Tutto ciò è molto importante, disse Debray, e se vi fu realmente delitto, faremo mirabilmente la digestione. — Vi fu delitto, disse Monte-Cristo, venite di qui, signori; sig. de Villefort venite; affinchè la dichiarazione sia valevole, dev’essere fatta alle autorità competenti. Monte-Cristo, preso il braccio di Villefort, e mentre stringeva sotto il suo quello della sig.ª Danglars, trascinò il procuratore del Re fin sotto il platano ove l’ombra era più fitta. Tutti gli altri convitati li seguivano. — Tenete, disse Monte-Cristo, qui, in questo medesimo luogo, e batteva col piede la terra, qui per ringiovanire questi alberi già vecchi, ho fatto scavare il terreno, e mettere del concime; ebbene i miei lavoratori nello scavare hanno dissotterrato un baule, ma piuttosto i ferramenti di un baule, nel mezzo dei quali fu trovato uno scheletro di un bambino neonato. Questa non è fantasmagoria, spero? Monte-Cristo sentì intirizzirsi il braccio della sig.ª Danglars, e fremere il pugno di Villefort. — Un fanciullo neonato, ripetè Debray; diavolo! la cosa diventa seria, mi sembra. — Ebbene, disse Château-Renaud, io non mi sbagliava adunque quando poco fa pretendeva che le cose avevano un’anima, ed un viso come gli uomini, e che esse portavano sulla loro fisonomia il riverbero dei loro intestini. La casa era trista perchè aveva dei rimorsi, essa aveva dei rimorsi perchè nascondeva un delitto. — Oh! chi dice che sia stato un delitto? riprese Villefort tentando un ultimo sforzo. — Come! un fanciullo seppellito vivo in un giardino, non è un delitto? gridò Monte-Cristo. Come chiamate voi quest’azione, sig. procuratore del Re? — Ma chi dice ch’egli fu seppellito vivo? — Perchè seppellirlo là, se era morto? questo giardino non è stato mai un cimitero. — Qual è la pena per gl’infanticidi in questo paese? domandò ingenuamente il maggiore Cavalcanti. — Oh mio Dio! si taglia loro semplicemente il collo, rispose Danglars. — Ah! si taglia loro il collo, fece Cavalcanti. — Lo credo... n’è vero sig. de Villefort? domandò Monte-Cristo. — Sì, signor conte, rispose questi con un accento che non aveva più dell’umano. — Monte-Cristo vide che questo era tutto quel che potevasi sopportare dai due individui pei quali era stata preparata questa scena, e non volendo spinger le cose più oltre: — Ma il caffè, signori, disse egli; mi sembra che lo dimentichiamo. — E ricondusse i convitati verso la tavola posta nel mezzo del praticello. — In verità, sig. conte, disse la sig.ª Danglars, ho vergogna di confessare la mia debolezza, ma tutte queste storie spaventose mi hanno atterrita; vi prego lasciarmi sedere. — Ed ella cadde sopra una sedia. Monte-Cristo la salutò e si avvicinò alla sig.ª de Villefort. — Credo che la sig.ª Danglars abbia ancora bisogno della vostra boccettina, diss’egli. Ma prima che la sig.ª de Villefort si fosse avvicinata alla sua amica, il procuratore del Re aveva già detto all’orecchio della sig.ª Danglars: — Bisogna che io vi parli. — Quando? — Domani. — Dove? — Al mio ufficio, al tribunale, se volete, quello è ancora il luogo più sicuro. — Vi verrò. In questo momento si avvicinò la sig.ª de Villefort. — Grazie, mia cara amica, disse la sig.ª Danglars provando di sorridere, non ho più niente, mi sento assai meglio. LXIII. — IL MENDICO. La serata s’inoltrava; la sig.ª de Villefort aveva manifestato il desiderio di ritornare a Parigi, il che non aveva osato di fare la sig.ª Danglars, ad onta del mal’essere evidente che provava. Alla domanda di sua moglie, il sig. de Villefort dette pel primo il segnale della partenza: offrì un posto nel suo _landau_ alla sig.ª Danglars, affinchè fosse assistita dalle cure di sua moglie. Quanto al sig. Danglars, assorbito in una delle conversazioni più importanti d’industria col sig. Cavalcanti, non fece alcuna attenzione a tutto ciò che accadeva. Monte-Cristo, mentre domandava la boccettina alla sig.ª de Villefort, aveva notato che il sig. Villefort si era avvicinato alla sig.ª Danglars, e, guidato dalla situazione, aveva indovinato ciò che le aveva detto, quantunque avesse parlato tanto a bassa voce che era molto se la sig.ª Danglars stessa lo aveva inteso. Egli lasciò partire, senza opporsi ad alcun accomodamento, Morrel, Debray, e Château-Renaud a cavallo, e montare le due dame nel _landau_ del sig. de Villefort; dal suo lato Danglars, di più in più incantato di Cavalcanti padre, lo invitò a salire con lui nel suo _coupé_. Quanto ad Andrea Cavalcanti, egli raggiunse il suo _tilbury_, che l’aspettava davanti alla porta, e di cui un _groom_, che esagerava i comodi della moda inglese, gli teneva, rizzandosi sulla punta degli stivali, l’enorme cavallo grigio-ferro. Andrea non aveva parlato molto durante il pranzo, perchè era un giovine molto intelligente, e naturalmente aveva provato il timore di dire qualche sciocchezza in mezzo a convitati ricchi e possenti, fra i quali il suo occhio dilatato non discerneva senza qualche timore un procuratore del Re. In seguito era stato accaparrato dal sig. Danglars, che dopo un rapido colpo d’occhio sul vecchio maggiore, dal collo intirizzito, e su suo figlio ancora un poco timido, e riavvicinando tutti questi sintomi dell’ospitalità di Monte-Cristo aveva pensato di aver che fare con qualche nababbo venuto a Parigi per perfezionare il suo unico figlio nella vita sociale. Egli aveva dunque contemplato con una indicibile compiacenza l’enorme diamante che brillava al dito mignolo del maggiore, poichè questi da uomo prudente ed esperimentato, per timore che non giungesse qualche disgrazia ai suoi biglietti di banca, li aveva subito dopo convertiti in un oggetto di valore. Poi dopo il pranzo, sempre sotto il pretesto d’industria e di viaggio, aveva interrogato il padre ed il figlio sulla loro maniera di vivere, e costoro prevenuti che su Danglars era stato aperto il loro credito, all’uno di 48 mila fr., all’altro quello annuale di 50 mila lire, erano stati graziosi e pieni di affabilità per il banchiere, ai domestici del quale, se non si fossero ritenuti, avrebbero stretta la mano, tanto la loro riconoscenza provava il bisogno di espandersi. Una cosa soprattutto aumentò la considerazione, e direm quasi la venerazione di Danglars per Cavalcanti. Questi fedele al detto d’Orazio, _non meravigliarti di nulla_, si era contentato, come è stato veduto, di far prova di scienza nel dire da qual lago si estraevano le migliori lamprede; indi ne aveva mangiata la sua parte senza dire una parola. Danglars aveva da ciò concluso che queste specie di sontuosità erano familiari all’illustre discendente dei Cavalcanti, che forse a Lucca non mangiava che trote fatte venire dalla Svizzera, o raguste inviategli dalla Brettagna per mezzo di apparecchi simili a quelli di cui il conte si era servito per far venire le lamprede dal lago del Fusaro, e gli _sterlet_ dal fiume Volga. Così egli accolse con una benevolenza pronunciatissima queste parole di Cavalcanti: — Domani, signore, avrò l’onore di farvi una visita per affari. — Ed io signore, aveva risposto Danglars, sarò fortunato di ricevervi. — Su di che avea proposto a Cavalcanti, se però ciò non lo privava troppo di separarsi da suo figlio, di ricondurlo all’albergo dei Principi. Cavalcanti aveva risposto che da lungo tempo suo figlio aveva l’abitudine di condurre la sua vita indipendente; e che per conseguenza egli aveva i suoi cavalli, e le sue carrozze, e che, non essendo venuti insieme, non vedeva nessuna difficoltà perchè ritornassero divisi. Il maggiore era dunque salito nella carrozza di Danglars, ed il banchiere si era assiso al suo fianco, sempre più incantato delle idee di ordine, e dell’economia di quest’uomo, che pur dava a suo figlio 50 mila fr. l’anno, ciò che supponeva una fortuna di 5, o 6 mila lire di rendita. Quanto ad Andrea, cominciò, per darsi aria, dal rimproverare il suo _groom_, perchè invece di venirlo a prendere alla scalinata, lo avesse aspettato alla porta del cortile, cosa che gli aveva procurato l’incomodo di fare una trentina di passi a piedi per cercare il suo _tilbury_. Il _groom_ ricevette il rimprovero con umiltà, colla mano sinistra prese il morso per trattenere il cavallo impaziente che batteva il terreno col piede, mentre con la destra offriva le redini ad Andrea, che le prese, e posò leggermente lo stivale verniciato sul montatoio. In questo momento una mano si appoggiò sulla sua spalla. Il giovine si volse indietro pensando che Danglars, o Monte-Cristo avessero dimenticato qualche cosa a dirgli, e ritornassero al momento di partire. Ma invece dell’uno o dell’altro non iscoprì che una strana figura; arsa dal sole, circondata da una barba da modello con occhi brillanti come carboni accesi, ed un sorriso ironico apparso sopra una bocca su cui brillavano, disposti in ordine, e senza che ne mancasse alcuno, 32 denti bianchi, acuti, ed allineati come quelli di un lupo o di una iena. Un fazzoletto a quadrati rossi copriva questa testa con capelli grigiastri e terrei, una giacca delle più sporche e stracciate copriva questo gran corpo magro ed osseo, di cui sembrava che le ossa, come quelle di uno scheletro, dovessero scricchiolare camminando; finalmente la mano che si appoggiava sulla spalla d’Andrea, e che fu la prima cosa che vide il giovine, gli parve di una dimensione gigantesca. Andrea riconobbe questa figura al chiarore della lanterna del suo _tilbury_, ovvero fu soltanto colpito dall’orribile aspetto di questo interlocutore? non saprem dirlo; ma il fatto è che egli fremette, ed indietreggiò vivamente: — Che pretendete da me? diss’egli. — Perdono! rispose l’uomo portando la mano al fazzoletto rosso, forse v’incomodo, ma è perchè ho bisogno di parlarvi. — La sera non si domanda l’elemosina, disse il _groom_ tentando con un movimento di spacciare il suo padrone da questo importuno. — Io non domando l’elemosina, mio bel ragazzo, disse l’uomo sconosciuto al domestico con uno sguardo così ironico, ed un sorriso così spaventoso, che questi si allontanò; desidero soltanto dire due parole al vostro principale che 15 giorni or sono mi ha incaricato di una commissione. — Vediamo, disse a sua volta Andrea, con abbastanza forza, perchè il domestico non si accorgesse del suo turbamento, che volete? dite presto, amico mio. — Io vorrei... io vorrei... disse a bassa voce l’uomo del fazzoletto rosso, che mi risparmiaste l’incomodo di ritornare a Parigi a piedi: sono molto stanco, e siccome non ho pranzato tanto bene quanto te, appena posso tenermi in piedi. — Il giovine rabbrividì a questa strana famigliarità. — Ma finalmente, gli diss’egli, vediamo, che volete? — Ebbene voglio che tu mi lasci salire nella tua bella carrozza, e che mi conduca. — Andrea impallidì, ma non rispose. — Oh! mio Dio sì, disse l’uomo dal fazzoletto rosso immergendo le mani nelle saccocce: e guardando il giovine con occhi provocatori; questa è un’idea che mi è venuta, capisci mio piccolo Benedetto? — A questo nome, il giovine riflettè senza dubbio, perchè si avvicinò al _groom_, e gli disse: — Quest’uomo fu da me effettivamente incaricato di una commissione di cui deve rendermi conto. Andate a piedi fino alla barriera; là prenderete un _cabriolet_, per non ritardare troppo. Il servitore rimase sorpreso, e si allontanò. — Lasciami almeno raggiunger l’ombra, disse Andrea. — Oh! in quanto a questo, io stesso ti condurrò in un bel posto, aspetta, disse l’uomo dal fazzoletto rosso. E preso il cavallo pel morso, condusse il _tilbury_ in un luogo ove era effettivamente impossibile a chicchessia al mondo di vedere l’onore che gli accordava Andrea. — Oh! no, diss’egli, non è per la gloria di montare nella tua bella carrozza; no, è soltanto perchè sono affaticato, e poi perchè ho ancora a parlare alcun poco d’affari teco. — Vediamo, salite, disse il giovine. — Era rincrescevole che non facesse giorno, perchè sarebbe stato uno spettacolo curioso quello di questo malandrino, seduto con tutto comodo sopra i cuscini ricamati vicino al conduttore del _tilbury_. Andrea spinse il cavallo fino all’ultima casa del villaggio senza dire una sola parola al compagno, che, dal suo lato, sorrideva e conservava il silenzio, come se fosse stato esaltato dal passeggiare in una così buona locomotiva. Una volta fuori d’Auteuil, Andrea guardò intorno a sè per assicurarsi senza dubbio che nessuno poteva nè vederli nè sentirli, e allora, fermando il cavallo, ed incrociando le braccia davanti all’uomo dal fazzoletto rosso: — A noi, diss’egli, perchè venite a disturbarmi nella mia tranquillità? — Ma tu stesso, ragazzo mio, perchè diffidi di me? — E in che mi sono diffidato di voi? — In che? lo domandi? noi ci lasciammo al ponte di Var, mi dicesti che andavi a viaggiare in Piemonte ed in Toscana, e niente di tutto questo, tu vieni a Parigi? — Ed in che cosa v’incomoda questo? — In niente; spero anzi che ciò mi aiuterà. — Ah! ah! disse Andrea, voi speculate su di me. — Andiamo, ecco che già cominciano le grosse parole. — Il fatto è che avrete torto, padron Caderousse, ve ne prevengo. — Eh mio Dio, non t’incomodare, devi però sapere che cosa è l’infortunio; ebbene! l’infortunio, rende geloso. Io ti credeva percorrente il Piemonte e la Toscana, costretto a farti facchino, o cicerone; ti compiangeva dal fondo del mio cuore come potrei piangere un figlio: sai che io ti ho sempre chiamato mio figlio? — Avanti, avanti. — Pazienza, dunque, polvere da cannone! — Ne ho della pazienza, vediamo, terminate. — Ed io ti vedo passare dalla barriera Bonshommes con un _groom_, con un _tilbury_, con abiti nuovi fiammanti. E che? hai forse scoperto una miniera, o comprata una carica di agente di cambio? — Dimodochè, come lo confessate, siete geloso? — No, son contento, tanto contento che ho voluto fare i miei complimenti al mio piccolo; ma siccome io non era vestito regolarmente, ho preso le mie cautele per non metterti a cimento. — Belle cautele, disse Andrea, voi mi fermate davanti al mio domestico. — Eh! che vuoi figlio mio? io ti fermo quando posso afferrarti. Tu hai un cavallo molto vivace, un _tilbury_ molto leggero, guizzi naturalmente come un’anguilla; se non ti avessi fermato questa sera, correva il rischio di non poterti raggiungere. — Vedete bene che non mi nascondo. — Sei ben fortunato, ed io vorrei poter dire altrettanto: ma io mi nascondo, senza contare che aveva timore che tu non mi riconoscessi; ma tu mi hai riconosciuto, aggiunse Caderousse con un cattivo sorriso, sei molto gentile. — Vediamo, disse Andrea, che vi abbisogna? — Ah! non mi tratti più in tu! è una cattiva cosa, Benedetto; un antico camerata! guardati, perchè diventerò esigente. — Questa minaccia fece cadere la collera al giovine; il vento della prepotenza vi aveva soffiato sopra. Egli rimise il cavallo al trotto. — È male per te stesso, Caderousse, diss’egli, di prendertela in tal modo con un antico camerata, come dicevi tu stesso poco fa; tu sei Marsigliese, io sono... — Tu lo sai dunque, ciò che ora tu sei? — No, ma sono stato allevato in Corsica, tu sei vecchio e testardo, io sono giovine e puntiglioso. Fra gente come noi, le minacce sono cattive, e tutto deve combinarsi all’amichevole. È forse mia colpa, se la sorte, che continua ad essere cattiva per te, è al contrario buona per me? — È dunque buona, la sorte? Non è dunque un _groom_ ad imprestito, non è un _tilbury_ ad imprestito, non sono abiti ad imprestito quelli che abbiamo? Buono! tanto meglio, disse Caderousse con occhi che brillavano di cupidigia. — Oh! lo vedi bene, e tu lo sai, poichè mi fermi, disse Andrea animandosi sempre più. Se avessi avuto un fazzoletto come il tuo sulla testa, una giacca unta e lacera sulle spalle, e stivali rotti ai piedi non mi avresti riconosciuto. — Vedi bene che ora mi disprezzi, piccolo, hai torto: adesso che ti ho ritrovato, niente m’impedisce d’essere vestito a nuovo come un altro, atteso che conosco il tuo buon cuore: se tu hai due abiti me ne darai uno; io ti dava la mia porzione di minestra e di fagiuoli quanto tu avevi troppo fame. — È vero, disse Andrea. — Che appetito avevi! hai tu sempre buon appetito? — Ma sì, disse Andrea ridendo. — Come devi aver mangiato da quel principe dal quale esci. — Non è un principe, ma soltanto un conte. — Un conte, ma ricco eh? — Sì, ma non fidartene, è un signore che non ha l’aria comoda. — Oh! mio Dio, sta pur tranquillo! non si ha alcun disegno sul tuo conte, e ti lascerà tutto per te solo. Ma, soggiunse Caderousse, riprendendo quel sinistro sorriso che gli aveva già sfiorate le labbra, bisogna dar qualche cosa per questo, capisci. — Vediamo che ti abbisogna? — Credo che con cento fr. il mese... viverei... — Con cento fr.? — Ma male, capisci bene; ma con... 150 fr. sarei molto fortunato. — Eccotene 200, disse Andrea. E mise nelle mani di Caderousse dieci luigi d’oro. — Buono, fece Caderousse. — Presentati dal portinaro, il primo di ogni mese, e là ne ritroverai altrettanti. — Andiamo, ecco che ancora tu mi umilii. — E in qual modo? — Mi metti in rapporto con dei servitori; no, vedi non voglio avere da fare che con te. — Ebbene! sia così; domanda di me il primo di tutti i mesi, almeno fino a tanto che riceverò la mia rendita tu riceverai la tua. — Andiamo, andiamo, vedo bene che non m’era ingannato; sei un bravo ragazzo, ed è una benedizione quando la fortuna si versa sopra gente come te. Vediamo, raccontami la tua buona avventura. — Che bisogno hai di saperla? domandò Cavalcanti. — Buono! anche diffidenza? — Ebbene, ho ritrovato mio padre. — Un padre vero? — Diavolo! fin che pagherà.... — Tu lo crederai, e lo onorerai; è giusto. — Il maggiore Cavalcanti. — Ed egli si contenta di te? — Fino al presente pare che gli basti. — E chi ti ha fatto ritrovare quel padre? — Il conte di Monte-Cristo. — Quello dal quale esci? — Sì. — Di’ dunque, cerca di collocarmi presso lui come un gran parente, giacchè ne tieni l’agenzia. — Sia, gli parlerò di te; ma frattanto che farai tu? — Sei troppo buono di occuparti di ciò, disse Caderousse. — Mi sembra, che come tu prendi interessamento a me io possa bene a mia volta prendere qualche informazione. — È giusto... Prenderò in fitto una camera in una casa onesta, mi coprirò di abiti decenti, mi farò radere la barba tutti i giorni, e andrò a leggere i giornali al caffè. La sera entrerò allo spettacolo in un qualche teatro, ed avrò l’aspetto di un fornaro in ritiro: è il mio sogno prediletto. — Andiamo, è buono! Se vorrai mettere questi disegni in esecuzione, ed essere saggio, tutto andrà a meraviglia. — Ecco qua il sig. Bossuet!... e tu, che diventerai? pari di Francia? — Eh! eh! disse Andrea, chi sa? — Il sig. maggior Cavalcanti forse lo è.... ma disgraziatamente è abolita l’eredità. — Non parliamo di politica, Caderousse!... Ed ora che hai ciò che vuoi, e che siamo arrivati, salta abbasso, e sparisci! — No, amico caro. — Come, no? — Ma riflettici dunque, mio piccolo, un fazzoletto rosso sulla testa, quasi senza scarpe, senza carte affatto, e dieci napoleoni d’oro in saccoccia, senza calcolare ciò che v’era prima, e che forma precisamente 500 fr. sarei infallibilmente arrestato alla barriera! allora sarei forzato per giustificarmi, di dire che sei stato tu che mi hai dato questi dieci napoleoni; di là informazioni, interrogatori; apprendono che ho lasciato Tolone senza avere avuto il congedo, e vengo scortato di brigata in brigata fino alla spiaggia del Mediterraneo, e ritorno puramente e semplicemente il numero 105, e addio al mio sogno di rassomigliare ad un fornaro in ritiro! No, figlio mio; preferisco di restare onorevolmente nella capitale. — Andrea aggrottò il sopracciglio; era, come se ne vantò da sè stesso, una cattiva testa il figlio putativo del maggior Cavalcanti. Si fermò un momento, gettò uno sguardo rapido intorno a sè, e quando terminò di compiere il giro investigatore, la mano discese innocentemente nella saccoccia ove cominciava ad accarezzare il sopraguardia di una pistola da tasca. Ma nel tempo stesso Caderousse, che non perdeva di vista il compagno passava le mani dietro il dorso, ed apriva dolcemente un lungo coltello spagnuolo che portava indosso per ogni evento. I due amici, come si vede, erano degni d’intendersi, e si capivano; la mano di Andrea uscì inoffensiva dalla tasca e risalì fino ai baffi che accarezzò per qualche tempo. — Buon Caderousse, diss’egli, dunque sarai contento! — Farò tutto il possibile per esserlo, rispose l’albergatore del ponte di Gard ripiegando la lama del coltello. — Rientriamo dunque in Parigi. Ma come vuoi fare a passare la barriera senza svegliare sospetti? mi sembra che abbigliato così, rischi più in carrozza che a piedi. — Aspetta, disse Caderousse, vedrai. Prese la pellegrina ad alto colletto che il _groom_ esiliato dal _tilbury_ aveva lasciata al suo posto, e se la mise indosso, quindi il cappello di Cavalcanti, e se lo pose sulla testa; dopo ciò assunse la posizione ardita di un domestico di buona famiglia. — Ed io, disse Andrea, resterò senza niente in testa? — Peuh! fece Caderousse, tira tanto vento che ben può esserti caduto il cappello. — Andiamo dunque, disse Andrea, e finiamola. — E chi è che ti ferma, disse Caderousse, non sono già io, lo spero? — Zitto! fece Cavalcanti. Passarono la barriera senza alcun accidente. Alla prima strada traversa, Andrea fermò il cavallo, e Caderousse balzò a terra. — Ebbene! disse Andrea, il mantello del mio domestico, ed il mio cappello? — Ah! rispose Caderousse, tu non vorrai certamente che io mi raffreddi. — Ma io? — Tu sei giovine mentre io comincio a farmi vecchio; a rivederci, Benedetto. — E s’internò nel viottolo ove sparì. — Ahimè! disse Andrea mandando un sospiro, non si potrà dunque essere completamente felice in questo mondo? LXIV. — SCENA CONIUGALE. Sulla piazza di Luigi XV i tre giovani si erano divisi, Morrel aveva preso per i Baluardi, Château-Renaud era voltato sul ponte della Rivoluzione, e Debray aveva seguito la riviera. Morrel e Château-Renaud, secondo ogni probabilità, raggiunsero i domestici focolari, come si dice tuttavia dalla tribuna delle camere nei discorsi ben fatti, ed al teatro della strada Richelieu nelle rappresentazioni bene scritte; ma non fece lo stesso Debray. Giunto al portello del Louvre, voltò a sinistra, traversò il Carousel a gran trotto, infilò per la strada Saint-Roch, sboccò per quella della Michodière, e giunse alla porta della sig.ª Danglars al momento in cui il _landau_ del sig. de Villefort, dopo aver deposto il procuratore del Re e la moglie nel sobborgo Sant’Onorato, si fermava per far discendere la baronessa alla sua abitazione. Debray, come uomo familiare nella casa, entrò pel primo nel cortile, gettò le redini nelle mani di uno stalliere, e ritornò alla portiera a ricevere la sig.ª Danglars, alla quale offerse il braccio per ricondurla nei suoi appartamenti. — Che avete dunque, Erminia, disse Debray, e perchè vi sentiste tanto male al racconto di quella storia o piuttosto favola del conte? — Perchè dopo il pranzo ero orribilmente indisposta. — Ma no, Erminia, riprese Debray, non mi fareste creder questo. Voi, al contrario, eravate in ottime disposizioni quando siete giunta dal conte. Il sig. Danglars era alquanto sguaiato, è vero, ma so quanto caso facciate del suo mal’umore; qualcuno deve avervi disgustata. Raccontatemelo; sapete bene ch’io non soffrirò mai che vi sia fatta una qualche impertinenza. — V’ingannate, Luciano, ve ne assicuro, e le cose sono come vi ho detto; fu il cattivo umore di cui vi siete accorto, e di cui non vi parlai, credendo che non ne valesse la pena. Era evidente che la sig.ª Danglars trovavasi sotto l’influenza di una di quelle irritazioni nervose, di cui le donne spesso non possono render conto a sè stesse, o che, come lo aveva indovinato Debray, aveva provato qualche emozione nascosta che non voleva confessare ad alcuno. Da uomo assuefatto a riconoscere i vapori come uno degli elementi della vita femminina, non insistè più oltre, aspettando il momento opportuno o di nuova interrogazione, o di una confessione di _motu proprio_. Alla porta della camera la baronessa incontrò madamigella Cornelia, la sua cameriera di confidenza. — Che fa mia figlia? domandò la sig.ª Danglars. — Ella ha studiato tutta la sera, rispose madamigella Cornelia, quindi è andata a letto. — Mi sembrava però d’aver sentito suonare il piano-forte. — È madamigella Luigia d’Armilly che suona, mentre la signorina è in letto. — Bene, disse la sig.ª Danglars, venite a spogliarmi. Entrarono nella camera da letto, Debray si stese sopra un gran _canapè_, e la sig.ª Danglars passò con Cornelia nel gabinetto di toletta. — Mio caro Luciano, disse la sig.ª Danglars a traverso la portiera del gabinetto, vi lamentate sempre perchè Eugenia non vi indirizza la parola. — Signora, disse Luciano scherzando col cagnolino della baronessa, che, riconoscendo in lui la qualità d’amico di casa, aveva l’abitudine di fargli mille carezze, non sono il solo che le faccia simili recriminazioni, e credo di aver inteso Morcerf lagnarsi l’altro giorno con voi stessa, per non poter cavare una sola parola di bocca alla sua fidanzata. — È vero, disse la sig.ª Danglars, ma credo che una di queste mattine cambierà tutto ciò, e voi vedrete Eugenia entrare nel vostro gabinetto. — Nel mio gabinetto! da me? — Vale a dire, in quello del ministro. — E per che fare? — Per domandarvi una scrittura all’Opera. In verità non ho mai veduto un tale fanatismo per la musica; è cosa ridicola per una persona di mondo! Debray sorrise: — Ebbene! diss’egli, ch’ella venga col consenso del barone e col vostro, e noi le faremo questa scrittura, e procureremo che sia a seconda del suo merito; quantunque siamo ben poveri per pagare come si conviene un merito uguale al suo. — Andate, Cornelia, disse la sig.ª Danglars, io non ho più bisogno di voi. — Cornelia disparve, ed un momento dopo la sig.ª Danglars uscì dal suo gabinetto con un elegante abito da camera, e venne a sedersi presso a Debray. Luciano la guardò per un momento in silenzio: — Vediamo, Erminia, rispondetemi francamente: qualche cosa vi ha punto, n’è vero? — Niente, riprese la baronessa; — e ciò non pertanto, siccome si sentiva soffocare, si alzò, cercò di respirare, e andò a guardarsi in uno specchio. — Io sono da far paura questa sera, diss’ella. — Debray si alzò sorridendo per andare a tranquillare la baronessa su questo argomento, quando d’improvviso la porta si aprì, comparve il sig. Danglars; Debray si rimise a sedere. Al rumore della porta la sig.ª Danglars si voltò, e guardò suo marito con una meraviglia, che non si curò menomamente di dissimulare. — Buona sera, signora, disse il banchiere; buona sera, sig. Debray. — La baronessa credette senza dubbio che questa visita impreveduta significasse qualche cosa come il desiderio di riparare alle amare parole ch’erano sfuggite al barone nella giornata. Ella si armò di un’aria di dignità, e voltandosi verso Luciano senza rispondere a suo marito: — Leggetemi dunque qualche cosa, sig. Debray. Debray che per questa visita si era sulle prime alquanto inquietato, si rimise alla calma della baronessa, e stese la mano verso il libro indicato, in mezzo al quale stava un coltello di tartaruca incrostato d’oro. — Perdono, disse il banchiere, ma voi vi stancherete, baronessa, vegliando ad ora così tarda; sono le undici, ed il sig. Debray abita molto lontano di qui. Debray rimase preso da stupore, non perchè il tuono di Danglars non fosse tranquillo e gentile, ma finalmente perchè a traverso di questa calma e di questa gentilezza si scorgeva una certa velleità di fare, contro il solito, tutt’altro che favorevole alla volontà di sua moglie. La baronessa pure fu sorpresa, e manifestò la sua meraviglia con uno sguardo che senza dubbio avrebbe dato a pensare a suo marito, se questi non avesse avuto gli occhi su di un giornale, sopra cui cercava la chiusa della rendita. Ne risultò quindi che questo sguardo tanto fiero fu gettato in pura perdita, e non fece il suo effetto. — Signor Luciano, disse la baronessa, vi dichiaro che non ho la più piccola volontà di dormire, che ho mille cose da raccontarvi questa sera, e che voi passerete la notte ascoltandomi, doveste pur dormire in piedi. — Sono ai vostri ordini, rispose flemmaticamente Luciano. — Mio caro sig. Debray, disse a sua volta il banchiere, non vi uccidete, vi prego, ad ascoltare questa notte le follie della sig.ª Danglars, perchè le potrete ascoltare egualmente anche domani; ma questa sera è per me, me la riserbo e la consacrerò, se mel permettete, per parlare di gravi interessi con mia moglie. — Questa volta il colpo era tanto ben diretto, e cadeva a perpendicolo in modo, che ne rimasero storditi la baronessa e Luciano: entrambi s’interrogarono collo sguardo come per chiedersi aiuto reciproco contro quest’aggressione del padron di casa il quale trionfò, e la forza rimase dal lato del marito. — Non vogliate però credere che io vi scacci, mio caro Debray, continuò Danglars; no, niente affatto; una congiuntura imprevista mi obbliga questa sera ad avere una conversazione con la baronessa; ciò accade abbastanza di raro perchè non si abbia a conservarmi risentimento. Debray balbettò qualche parola, salutò ed uscì urtando negli angoli, come Natano nell’_Atalia_. — È incredibile, disse quando fu chiusa la porta, come questi mariti, che pur troviamo tanto ridicoli, prendano facilmente il sopravvento su noi! — Partito Luciano, Danglars s’istallò nel suo posto, sul canapè, chiuse il libro rimasto aperto, e prendendo un atteggiamento orribilmente pieno di pretensioni, continuò a scherzare col cagnolino. Ma siccome il cane, che non aveva per lui la stessa simpatia, che per Luciano, lo voleva mordere, lo prese per la pelle del collo, e lo inviò dall’altra parte della camera sopra una poltrona. L’animale traversando lo spazio gettò un grido; ma giunto alla sua destinazione si appiattò dietro un cuscino, e stupefatto da questo trattamento al quale non era avvezzo si mantenne muto e senza movimento. — Sapete, signore, disse la baronessa senza batter ciglio, che fate dei progressi! ordinariamente non eravate che rozzo; questa sera siete brutale. — Egli è perchè questa sera sono di maggior cattivo umore che d’ordinario, rispose Danglars. Erminia guardò il banchiere con sommo sdegno; ordinariamente queste occhiate esasperavano l’orgoglioso Danglars, ma questa sera sembrava appena farvi attenzione. — E che importa a me il vostro cattivo umore? rispose la baronessa irritata dalla impassibilità di suo marito; tali cose mi riguardan forse? Racchiudete i vostri cattivi umori nel vostro appartamento, o consegnateli ai vostri banchi, e poichè avete dei commessi che pagate, passate sur essi i vostri cattivi umori. — No, rispose Danglars, voi andate fuori dal diritto cammino nei vostri consigli, signora; per cui non li seguirò. I miei banchi sono il mio Pactolo, come dice, credo, Demoustier, e non voglio nè tormentarne il corso nè turbarne la calma. I miei commessi sono uomini onesti, che mi fan guadagnare la mia fortuna, e che pago a tasse infinitamente al di sotto di quel che meritano, se li stimo da quel che mi producono; non posso dunque mettermi in collera con essi; quelli contro i quali mi metterò in collera, sono le persone che mangiano i miei pranzi, che stroppiano i miei cavalli e rovinano la mia cassa. — E chi son adunque queste persone, che rovinano la vostra cassa? spiegatevi più chiaramente ve ne prego. — Oh! state tranquilla; se parlo enigmaticamente, non conto di lasciarvi lunga pezza cercare il significato delle mie parole, riprese Danglars, le persone che rovinano la mia cassa sono quelle che vi cavano 700 mila lire in un’ora. — Non vi capisco, disse la baronessa cercando di nascondere la forte emozione della voce, ed il rossore del viso. — Voi al contrario mi capite benissimo, disse Danglars: ma se continua la vostra cattiva volontà, vi dirò che ho perduto 700 mila fr. sul prestito spagnuolo. — Ah! disse la baronessa beffeggiandolo, son fors’io garante di questa perdita? — E perchè no? — È colpa mia se avete perduto settecento mila fr.? — In ogni modo non fu mia. — Una volta per sempre, signore, riprese aspramente la baronessa, vi ho detto di non parlarmi mai di cassa; questo è un linguaggio che non ho imparato nè presso i miei parenti nè nella casa del mio primo marito. — Lo credo bene, disse Danglars, non avevano un soldo nè l’uno nè l’altro. — Ragion di più perchè non abbia potuto imparare da essi il gergo della banca, che mi strazia qui le orecchie dalla mattina alla sera; questo rumore di scudi che si contano e ricontano m’è odioso; e non so che vi sia suono più disgustoso di quello, se si eccettui la vostra voce. — In verità, disse Danglars, mi riesce strano! credeva che voi pigliaste interessamento alle mie operazioni! — Io! e chi ha potuto farvi credere simile sciocchezza? — Voi stessa. — Ah! è curioso! — Senza dubbio. — Vorrei bene che mi faceste conoscere in quale occasione. — Oh! mio Dio! è cosa facile. Nel mese di febbraio ora scorso mi avete parlato per la prima dei fondi d’Haïti; avete sognato che un bastimento entrava nel porto d’Havre, portando la notizia che un pagamento che si credeva aggiornato alle calende greche, si sarebbe effettuato: conosco la lucidità del vostro senno; feci dunque sotto mano comprare tutte le polizze che ho potuto ritrovare sul debito di Haïti, ed ho guadagnato 400 mila fr. di cui ve ne sono stati regolarmente rimessi cento. Voi ne avete fatto ciò che avete voluto, e questo non mi riguarda. Nel mese di Marzo si parlava della concessione di una strada ferrata. Si presentavano tre società offrendo eguali guarentigie. Voi mi diceste che il vostro istinto (e quantunque vi crediate estranea alle speculazioni, credo invece il vostro istinto molto sviluppato in certe materie) vi faceva credere che il privilegio sarebbe stato accordato alla società del mezzogiorno. Io mi sono fatto iscrivere nel medesimo punto per i due terzi delle azioni di questa società. Il privilegio le fu in realtà accordato; come lo aveva preveduto, le azioni hanno triplicato il loro valore, ed io ho incassato un milione, sul quale vi sono stati retribuiti 250 mila fr. a titolo di spillatico. Come avete impiegati questi 250 mila fr.? ciò non mi riguarda affatto. — E a che volete venirne, signore? gridò la baronessa fremendo di dispetto, e d’impazienza. — Pazienza, signora, vi giungerò. — È una fortuna! — In aprile foste a pranzo dal ministro, si parlò della Spagna, voi ascoltaste una segreta conversazione; si trattava dell’espulsione di don Carlo; io comprai dei fondi spagnuoli. L’espulsione si effettuò, ed il giorno in cui Carlo V ripassò la Bidassoa, io guadagnai 600 mila fr., e vi furono pagati mille scudi; essi erano vostri, e ne avete disposto a seconda della vostra fantasia, ed io non ve ne domando conto; ma non è men vero che voi avete ricevuto in quest’anno 500 mila lire. — Ebbene! in seguito? signore. — Ah! sì; in seguito! precisamente dopo tutto questo la cosa s’è guastata. — Voi avete certi modi di parlare... in verità... — Essi mi richiamano le mie idee, e ciò è quanto mi abbisogna... In seguito, fu tre giorni sono questo in seguito. Tre giorni sono adunque, avete parlato di politica al sig. Debray, ed avete creduto di vedere nelle sue parole che don Carlo era rientrato in Ispagna; allora io vendo le mie polizze, la notizia si spande, sorge un timor panico, non vendo più, regalo: la dimane si riconosce che la notizia era falsa, e sopra questa falsa notizia ho perduto 700 mila fr. — Ebbene? — Ebbene! da poichè vi regalo un quarto quando guadagno, mi dovete dunque un quarto quando perdo; il quarto di 700 mila fr. è 175 mila fr. — Ma ciò che mi dite è una stravaganza, e non vedo in che modo mischiate il nome di Debray a tutta questa storia. — Perchè se mai non aveste per caso i 175 mila fr. che reclamo, li prendereste in prestito dai vostri amici, ed il sig. Debray ne è uno. — Finiamola! gridò la baronessa. — Oh! signora, non facciamo gesti, non facciamo drammi moderni, se non mi sforzerete a dirvi, che di qui vedo il sig. Debray sogghignare vicino ai 500 mila fr. che voi gli avete contati in quest’anno, e dire a sè stesso aver trovato ciò che non son potuti giungere a trovare i più esperti giuocatori, vale a dire una rollina ove si guadagna senza puntare e non si perde quando si perde. La baronessa volle irrompere: — Miserabile! diss’ella, osereste dire che non sapevate ciò di cui or mi fate un rimprovero? — Non vi dico che sapeva, nè vi dico che non sapeva, vi dico: osservate la mia condotta da quattro anni che non siete mia moglie, e che non sono più vostro marito, e vedrete s’ella è sempre stata consentanea con sè stessa. Qualche tempo prima della nostra rottura, avete desiderato di studiare la musica con quel famoso baritono che fece tanto incontro al teatro Italiano; io volli studiare il ballo con quella famosa ballerina che fece tanto chiasso a Londra, ciò mi costò tanto per voi che per me circa centomila fr.; io nulla ho detto perchè ci vuole l’armonia nelle famiglie; centomila fr. perchè la moglie impari a fondo la musica, ed il marito il ballo non è molto caro. Ben presto eccovi disgustata del canto, e vi vien voglia di studiare la diplomazia con un segretario del ministro; vi lascio studiare; poichè ciò nulla mi preme, quando pagate le lezioni dalla vostra cassetta; ma or m’accorgo che avete preso di mira la mia, e che il vostro studio mi può costare 700 mila fr. il mese... Alto là, signora, la cosa non può andar così, o il diplomatico darà le sue lezioni gratuite, ed io lo tollererò, ovvero non metterà più piede in casa mia. — Oh! quest’è troppo; gridò Erminia soffocata. — Ma, disse Danglars, vedo con piacere che non vi siete fermata qua e che avete volontariamente obbedito all’assioma del codice «la moglie deve seguire il marito»; ma ragioniamo. Io non mi son mai mischiato dei vostri affari che pel vostro bene, fate voi pure altrettanto; la mia cassa, voi dite che non vi riguarda? sia, ma operate colla vostra; e non empite, nè vuotate la mia. D’altra parte chi sa che ciò non sia un colpo di stiletto politico? che il ministro furioso di vedermi nella opposizione, e geloso delle simpatie popolari che mi suscito, non se la intenda col sig. Debray; chi ha mai veduto una notizia telegrafica falsa, cioè l’impossibile, o il quasi impossibile; dei segnali affatto diversi dati dagli ultimi telegrafi? ciò senza dubbio è stato fatto espressamente per me. — Signore, disse umilmente la baronessa, voi non ignorate che quest’impiegato è stato scacciato, e sarebbe stato chiamato in giudizio se non si fosse salvato con la fuga, il che prova la sua follia, o la sua reità; quest’è un errore. — Sì, che fa ridere gli stupidi, che fa passare una cattiva notte al ministero, che fa coprir di nero molta carta ai segretarii di Stato; ma che a me costa 700 mila fr. — Ma, signore, disse d’improvviso Erminia, poichè tutto ciò deriva a quanto sembra dal sig. Debray, perchè invece di dirlo a lui direttamente, lo dite a me? — Conosco forse il sig. Debray? io! lo voglio forse conoscere, voglio forse sapere se dà consigli; li seguo forse? arrischio? voi fate tutto questo; non io. — Mi sembra però che dal momento che ne profittate... Danglars si strinse nelle spalle: — Sono le gran pazze creature queste donne che si credono geni, perchè hanno saputo condurre una diecina d’intrighi in modo da non essere affisse a tutte le cantonate di Parigi! Ma pensate dunque, se aveste nascoste le vostre sregolatezze allo stesso vostro marito, che è l’_a b c_ dell’arte, perchè la maggior parte del tempo i mariti non vogliono vedere, ciò non pertanto non sareste meno una pallida copia di ciò che fanno la metà delle vostre amiche, le donne di mondo. Ma non è così per me. Io ho veduto, ed ho veduto sempre, in 16 anni circa, voi forse mi avrete nascosto un pensiero, ma non una dimostrazione, non un atto, uno sbaglio; mentre che, dal vostro canto, vi applaudivate della vostra furberia, e credevate fermamente d’ingannarmi; che cosa ne risultò? Che mercè la mia pretesa ignoranza, dal sig. de Villefort fino al sig. Debray, non vi fu mai uno dei vostri amici, che non tramasse avanti a me. Non ve ne fu uno che non mi trattasse da padron di casa, mia unica pretensione presso voi; finalmente non ve ne fu uno che abbia osato dirvi di me, ciò che ve ne dico io stesso in questa sera. Io vi permetto di rendermi odioso, ma v’impedirò di rendermi ridicolo: ed in particolare vi proibisco positivamente, e sopra ogni altra cosa, di rovinarmi. Fino al momento in cui fu pronunziato il nome di Villefort, la baronessa aveva sostenuta una ferma apparenza; ma a questo nome era impallidita, ed alzandosi come mossa da uno scatto, aveva stese le braccia come per scongiurare una apparizione, e fatti tre passi verso suo marito, come per istrappargli la fine del segreto che non conosceva, o che forse, per qualche odioso secondo fine, come presso a poco lo erano tutti quei di Danglars, non voleva lasciarsi sfuggire. — Sig. de Villefort! che significa ciò? disse la baronessa. — Vuol significare, riprese Danglars che il sig. de Nargonne, vostro primo marito, non essendo nè un filosofo nè un banchiere, e forse essendo l’uno e l’altro, e vedendo che non v’era da cavare alcun partito da un procuratore del Re, è morto dal dispiacere e dalla collera... Ma io sono brutale; non solamente lo so, ma me ne vanto; è uno dei miei espedienti nelle mie speculazioni commerciali; perchè invece di ammazzare, si è fatto ammazzare egli stesso? Perchè non aveva una cassa da salvare, ma io mi devo conservare per la mia cassa. Il sig. Debray, mio socio, mi ha fatto perdere 700 mila fr.; che egli sopporti la sua porzione di perdita, e noi continueremo i nostri affari, se no, mi si dichiari fallito per questi 175 mila fr., e sparisca. Eh! mio Dio! è un grazioso giovine, lo so, quando le sue notizie sono esatte; ma quando esse nol sono, ve ne sono cinquanta al mondo che valgono più di lui. La sig.ª Danglars era atterrita, pure fece un estremo sforzo per rispondere a questo ultimo assalto. Essa cadde sopra un seggio pensando a Villefort, alla scena del pranzo, a quella strana serie di disgrazie che da qualche giorno piombavano una dopo l’altra sulla sua casa, e convertivano in iscandalosi dibattimenti la perfetta calma della sua famiglia. Danglars non la guardò neppure, quantunque ella facesse tutto quel che poteva per isvenire. Egli aprì la porta della camera da letto senza aggiungere alcun’altra parola, e ritornò nel suo appartamento; di modo che la sig.ª Danglars, rinvenendo dal suo _semi-svenimento_, potè credere ch’ella aveva soltanto fatto un cattivo sogno. LXV. — DISEGNI DI MATRIMONIO. Il giorno seguente, nell’ora che Debray era solito di scegliere per venire a fare una piccola visita alla sig.ª Danglars nell’andare al suo ufficio, il suo _coupé_ non apparve nel cortile. In quell’ora, cioè mezz’ora dopo mezzogiorno, la sig.ª Danglars ordinò la sua carrozza ed uscì. Danglars, posto dietro una tenda, aveva spiato questa uscita che aspettava, dette l’ordine d’essere avvisato tosto che fosse ritornata la signora, ma alle due non era ancora rientrata. Alle due domandò i suoi cavalli, si portò alla _Camera_, e si fece inscrivere per parlare contro il _preventivo delle spese_. Da mezzo giorno alle due, Danglars era rimasto nel suo gabinetto dissigillando dispacci, e diventando ognor più tetro, ammassando cifre, e ricevendo visite, tra le altre quella del maggiore Cavalcanti, che si presentò nell’ora annunziata il giorno avanti per terminare il suo affare col banchiere. Uscendo dalla _Camera_, Danglars, che aveva dati molti segni di grande agitazione durante la seduta, e che sopra tutto era stato più acerbo che mai contro il ministero risalì in carrozza, ed ordinò al cocchiere di condurlo all’ingresso dei Campi-Elisi n. 30. Monte-Cristo era in casa; soltanto era con uno, e pregava Danglars di aspettarlo un momento nel salone. Mentre il banchiere aspettava, la porta si aprì, e vide entrare un uomo vestito da abate che invece d’aspettare come lui, più familiare di lui senza dubbio nella casa, lo salutò, ed entrando nell’interno degli appartamenti, disparve. Un momento dopo, la porta per la quale era entrato il prete, si riaprì, e comparve Monte-Cristo. — Perdono, diss’egli, caro barone, ma uno dei miei buoni amici, l’abate Busoni che avete potuto veder passare, è giunto a Parigi; era molto tempo che eravam divisi, e non ho avuto il coraggio di lasciarlo subito; spero che in favore della causa mi scuserete di avervi fatto aspettare. — Come, disse Danglars, è cosa semplicissima, sono io che ho scelto male il momento, e mi ritiro. — Niente affatto, anzi al contrario sedetevi. Ma, buon Dio! mi avete un aspetto molto pensieroso; in verità mi spaventate; un capitalista afflitto è come una cometa, presagisce sempre qualche gran disgrazia al mondo. — Io ho, mio caro signore, che la cattiva fortuna pesa su me da qualche giorno, e che non ricevo che sinistre notizie. — Ah! mio Dio! avete forse avuto qualche altra ricaduta alla borsa? — No, ne sono guarito, almeno per qualche giorno. Si tratta semplicemente per me di un fallimento a Trieste. — Davvero? Il banchiere fallito sarebbe forse Jacopo Manfredi? — Precisamente! Un uomo che ogni anno, non so per quanto tempo, faceva meco affari per otto, 900 mila fr. Mai uno sbaglio, mai un ritardo; un uomo allegro che pagava come un principe. Mi metto in credito di un milione con lui, ed il mio diavolo non vuole che Jacopo Manfredi sospenda i pagamenti? — Davvero? — È una fatalità inaudita. Tiro sopra lui 600 mila lire che ritornano senz’essere pagate, e di più sono ancora possessore di altre 400 mila lire di cambiali firmate da lui, e pagabili alla fine del corrente dal suo corrispondente di Parigi, siamo ai 30, mando a riscuoterle... ah! sì! il corrispondente è sparito. Col mio affare di Spagna, ciò mi fa una bella fine di mese. — Ma è veramente una perdita il vostro affare di Spagna? — Certamente, nient’altro che 700 mila fr. — Come diavolo avete mai fatto un simile errore? — Eh! è stata colpa di mia moglie. Ella ha sognato che don Carlo era ritornato in Spagna; ella crede ai sogni. È magnetismo, dic’ella, e quando sogna una cosa, questa cosa, per quanto essa assicura, deve infallibilmente accadere. Su questa convinzione io le permetto di arrischiare; ella ha la sua cassetta, ed il suo agente di cambio, ella rischia, ed ella perde. È vero che non è mio denaro, ma suo quello con cui si arrischia; però non importa, capirete che quando escono 700 mila fr. dalla cassetta della moglie, il marito se ne accorge sempre alcun poco. Come! non sapevate ciò? Ma la cosa ha fatto pure un enorme romore. — È vero, ne aveva inteso parlare, ma non ne sapeva i particolari; e poi non si può essere più ignoranti di me in questi affari di borsa. — E voi non arrischiate mai? — Io? e come volete che arrischi se ho già tanti incomodi per tenere in regola le mie rendite? sarei forzato, oltre il mio intendente, di prendere ancora un commesso ed un cassiere. Ma a proposito di Spagna, mi sembra che la baronessa non avesse del tutto sognato la rientrata di Don Carlo. I giornali non hanno detto qualche cosa su questo argomento? — Voi dunque credete ai giornali? — Io? niente affatto; ma mi sembrava che questo onesto _Messager_ facesse eccezione alla regola, e non annunziasse che le notizie certe, e le notizie telegrafiche. — Ebbene! ecco ciò che è inesplicabile, riprese Danglars; appunto la rientrata di don Carlo era una notizia telegrafica. — Dimodochè, disse Monte-Cristo, in questo mese perdete circa un milione e 700 mila fr. — Non è circa, è precisamente la somma che perdo. — Diavolo! per una fortuna di terz’ordine, disse Monte-Cristo, questo è un brutto colpo. — Di terz’ordine! disse Danglars, che diavolo intendete di dire? — Senza dubbio, continuò Monte-Cristo, io faccio tre categorie sulle fortune: fortune di primo ordine, fortune di secondo ordine, fortune di terzo ordine: chiamo fortune di primo ordine quelle che si compongono di tesori che si hanno sotto le mani, le terre, le miniere, le rendite sui grandi stati come la Francia, l’Austria, e l’Inghilterra, purchè questi tesori, queste miniere, queste rendite formino un totale di un centinaio di milioni! chiamo fortune di second’ordine le imprese manifatturiere, le imprese di associazione, i vice-reami, i principati che non sorpassano un milione e cento mila fr. di rendita, il tutto formante un capitale di un 500 milioni; finalmente, chiamo fortune di terzo ordine, i capitali fruttiferi per interessi composti, i guadagni dipendenti dall’altrui volontà, o dalle combinazioni della sorte che un fallimento scomoda, ed una notizia telegrafica rovina! le banche, le speculazioni eventuali, le operazioni sottomesse a quelle combinazioni della fatalità, che si potrebbe chiamare forza minatrice, paragonandola alla maggiore che è la forza naturale, il tutto formante un capitale fittizio, o reale di un 15 milioni circa. Non è questa la vostra posizione? — Ma diavolo! sì, rispose Danglars. — Ne risulta che con sei finali di mese come questa, continuò imperturbabilmente Monte-Cristo, una casa di terzo ordine si troverebbe all’agonia. — Oh! disse Danglars con un sorriso molto pallido, come vi ci trasportate! — Mettiamo sette mesi, replicò Monte-Cristo nel medesimo tuono. Ditemi: avete mai pensato qualche volta che sette volte un milione e 700 mila fr. fanno 12 milioni circa?... no?... ebbene! avete ragione, perchè con simili riflessioni, non si impegnerebbero mai i propri capitali, che sono per l’uomo finanziere ciò che è la pelle all’uomo incivilito. Noi abbiamo i nostri abiti più o meno sontuosi, questo è il nostro credito! ma quando l’uomo muore non ha che la pelle! di modo che uscendo dagli affari non avete il vostro capitale reale, 5 o 6 milioni al più! poichè le fortune di terzo ordine non rappresentano che il terzo o il quarto delle loro apparenze, come la locomotiva della strada ferrata non è sempre in mezzo al fumo che l’inviluppa e l’ingrandisce, che una macchina più o meno forte. Ebbene, su questi 5, o 6 milioni che formano il vostro attivo reale, ne avete perduti circa due, che diminuiscono d’altrettanto la vostra fortuna fittizia, o il vostro credito! vale a dire mio caro Danglars, che la vostra pelle è stata aperta da una sanguisuga che replicata quattro volte porterebbe la morte. Eh! eh! fate attenzione. Avete bisogno di danaro? volete che ve ne presti? — Come siete mai cattivo calcolatore! gridò Danglars chiamando in suo soccorso tutta la filosofia, e tutta la dissimulazione dell’apparenza! a quest’ora il danaro è già rientrato nel mio scrigno con altre speculazioni che sono riuscite. Il sangue esce per i salassi, e rientra colla nutrizione: ho perduto una battaglia in Spagna, sono stato battuto a Trieste, ma la mia armata navale delle Indie avrà preso qualche galeone, i miei pionieri del Messico avranno scoperto qualche miniera. — Benissimo! benissimo! ma la cicatrice resta, ed alla prima perdita si riaprirà. — No, perchè io cammino sulle certezze, continuò Danglars, colla facondia giocosa del ciarlatano (il cui stato è di innalzare il suo credito) per rovesciare il mio credito bisognerebbe che crollassero tre governi. — Diavolo! ciò si è veduto. — Che la terra manchi di raccolto. — Ricordatevi le sette vacche grasse, e le sette vacche magre. — O che il mare si ritirasse come ai tempi di Faraone; e poi vi sono molti mari, ed i miei vascelli ne rimarrebbero liberi per fare le loro carovane. — Tanto meglio, caro sig. Danglars, disse Monte-Cristo, ed io vedo che mi ero sbagliato, e che voi rientrate nelle fortune di secondo ordine. — Credo di potere aspirare a questo onore, disse Danglars con uno di quei sorrisi composti che facevano a Monte-Cristo l’effetto di una di quelle lune impiastricciate, di cui i cattivi pittori intonacano le loro rovine; ma giacchè siamo a parlare d’affari, soggiunse egli contento di ritrovare questo mezzo di cambiare la conversazione, ditemi dunque un poco ciò che io posso fare per il sig. Cavalcanti. — Dargli del danaro, se egli ha su voi un credito che vi sembri buono. — Eccellente! si è presentato questa mattina con una cambiale di 40 mila fr. pagabile a vista sopra di voi, firmata Busoni, e rimandata da voi a me colla vostra girata! capirete che io gli ho contati sul momento 40 biglietti quadrati. Monte-Cristo fece un segno di testa che indicava la sua adesione. — Ma ciò non è tutto, continuava Danglars; egli ha aperto a suo figlio un credito sopra di me. — E quanto, se non è indiscretezza, ha assegnato al giovine? — Cinque mila fr. il mese. — Sessanta mila fr. l’anno. Io ne dubitava, disse Monte-Cristo alzando le spalle, sono veri spilorci i Cavalcanti. Che può fare un giovine con 5 mila fr. il mese? — Ma capirete che se il giovine ha bisogno di qualche mille franchi di più... — Non ne fate niente, il padre ve li lascerebbe in conto vostro; non conoscete tutti questi milionarii oltramontani: sono veri Arpagoni. E da chi gli è stato aperto il credito? — Oh! dalla casa Fenzi, una delle migliori di Firenze. — Non voglio dire che perderete, tanto vale, ma tenete i vostri conti nei stretti limiti della lettera. — Non avreste dunque fiducia in questi Cavalcanti? — Darei loro dieci milioni sulla loro firma. La loro fortuna entra in quelle di second’ordine di cui or vi parlava. — È tanto semplice che lo avrei preso per un maggiore, niente di più. — E voi gli avreste fatto onore, perchè avete ragione, egli non paga di apparenza. Quando l’ho veduto per la prima volta mi ha fatto l’effetto di un sotto tenente ammuffito sotto la spallina. — Il giovine è migliore, disse Danglars. — Sì, forse un po’ timido; ma in sostanza mi è sembrato conveniente. Io ne era un poco inquieto. — E perchè? — Perchè voi lo avete veduto da me quasi al suo ingresso nel mondo, per quanto almeno mi è stato detto. Egli ha viaggiato con un precettore severissimo, e non era mai venuto a Parigi. — Tutti questi Italiani di distinzione hanno l’abitudine d’imparentarsi fra di loro, n’è vero? dimandò negligentemente Danglars, essi amano di accumulare le loro fortune. — D’ordinario fan così, è vero; ma Cavalcanti è un originale che non fa niente come gli altri. Nessuno mi torrà l’idea, che abbia mandato in Francia suo figlio perchè vi ritrovi moglie. — Lo credete? — Ne son sicuro. — Ed avete inteso parlare della sua fortuna? — Non si parla che di ciò, se non che gli uni accordano loro dei milioni, gli altri pretendono che non posseggano un paolo. — E la vostra opinione? — Non bisogna farvi sopra alcun fondamento essendo del tutto personale. — Ma in fine... — La mia opinione è che tutti questi vecchi potestà, tutti questi antichi condottieri, poichè questi Cavalcanti hanno comandato degli eserciti, hanno comandato delle province; la mia opinione, diceva, è che essi han seppellito dei milioni in luoghi conosciuti soltanto dai loro antenati, e che fan conoscere ai loro primogeniti di generazione in generazione, e la prova si è che essi sono tutti gialli e secchi come i loro fiorini dei tempi della repubblica, di cui conservano il riverbero a forza di guardarli. — Perfettamente disse Danglars, e ciò è tanto vero in quando che non si sa che abbiano un palmo di terreno. — Almeno molto poco; non conosco ai Cavalcanti che il solo palazzo che hanno in Lucca. — Ah! hanno un palazzo? disse ridendo Danglars; ciò è già qualche cosa. — Sì, ed anche lo danno in fitto al ministero delle finanze, mentre che egli abita in una casetta. Oh! ve l’ho già detto; credo il buon uomo avaro. — Andiamo, andiamo; voi non l’adulate punto. — Ascoltate, lo conosco appena; credo di averlo veduto tre volte in vita mia; ciò che ne so, è per parte dell’abate Busoni, e da lui stesso; egli mi parlava questa mattina dei suoi progetti sopra suo figlio, e mi lasciava travedere che stanco di veder dormire dei capitali considerevoli in Italia, vorrebbe trovare un mezzo, sia in Francia, sia in Inghilterra di far fruttare i suoi milioni: ma notate bene che, quantunque io abbia la più gran fiducia nell’abate Busoni personalmente, non rispondo di niente. — Non importa, grazie del cliente che mi avete procurato; questo è un gran bel nome da iscrivere sui miei registri, e il mio cassiere, al quale ho spiegato ciò che erano i Cavalcanti, ne va superbo. A proposito, e questa è una semplice spiegazione al _turista_, quando questi personaggi dan moglie ai loro figli gli assegnano alcuna dote? — Eh! mio Dio! cioè, secondo: ho conosciuto un principe italiano ricco come una miniera d’oro, uno dei primi nomi della Toscana, che quando i figli si ammogliavano a suo genio, loro assegnava dei milioni, e quando contro il suo beneplacito, si contentava di assegnar loro una rendita di 30 scudi il mese. Ammettiamo che Andrea si ammogli secondo le vedute di suo padre, allora gli assegnerà forse uno, due, tre milioni. Se ciò fosse colla figlia di un banchiere, per esempio, forse prenderebbe un interesse nella casa del suocero di suo figlio; poi supponete a lato di ciò che la nuora gli dispiacesse; buona notte, il padre Cavalcanti mette la mano sulla chiave dello scrigno, dà un doppio giro alla serratura, ed ecco maestro Andrea obbligato a vivere come un figlio di famiglia Parigino segnando le carte, o giuocando a dadi falsi. — Questo giovine ritroverà una principessa Bavarese o Peruviana; egli vorrà una corona chiusa, un _Eldorado_ traversato dalla _Potosa_. — No; tutti questi gran signori dall’altra parte dei monti sposano frequentemente delle semplici mortali. Ma perchè mi fate tutte queste domande, caro sig. Danglars, avete forse intenzione di collocare Andrea? — In fede mia non mi sembrerebbe una cattiva speculazione; io sono uno speculatore. — Ma non con madamigella Danglars; io presumo non vorrete fare scannare questo povero Andrea da Alberto? — Alberto, disse Danglars, alzando le spalle; ah sì, bene! egli se ne cura ben poco! — Ma egli è fidanzato a vostra figlia, credo? — Cioè il sig. de Morcerf ed io abbiamo qualche volta parlato di questo matrimonio, ma la sig.ª de Morcerf ed Alberto... — Non mi direte che questo non è un buon _partito_? — Eh! eh! madamigella Danglars vale bene un Morcerf, mi sembra! — La dote di madamigella Danglars sarà bella in fatto, e non ne dubito, particolarmente se il telegrafo non fa più nuove pazzie. — Oh! non è soltanto la dote... ma a proposito ditemi dunque? — E che? — Per qual motivo non avete invitato al vostro pranzo Morcerf e la sua famiglia? — Lo aveva già fatto, ma egli mi ha addotto un viaggio a Dieppe colla sig.ª de Morcerf, alla quale è stato raccomandato di respirare l’aria di mare. — Sì, sì, disse Danglars ridendo, essa le deve far bene. — E perchè? — Perchè è l’aria che ha respirato nella sua gioventù. — Monte-Cristo lasciò cadere l’epigramma senza mostrare d’avervi fatta attenzione. — Ma finalmente, disse il conte, se Alberto non è così ricco come madamigella Danglars, non potete però negare che non porti un bel nome? — Sia, ma io amo altrettanto il mio, disse Danglars. — Certamente il vostro nome è popolare, ed ha ornato il titolo di cui si è creduto onorarlo; ma siete un uomo troppo intelligente per non aver compreso che, per alcuni pregiudizi troppo profondamente radicati per poterli svellere, una nobiltà di cinque secoli vale molto più di una nobiltà di venti anni. — Ed ecco precisamente il perchè, disse Danglars con un sorriso che si sforzava di rendere sardonico, ecco perchè io preferirei il sig. Andrea Cavalcanti ad Alberto de Morcerf. — Ma ciò non ostante credo, disse Monte-Cristo, che i Morcerf non la cedano ai Cavalcanti? — I Morcerf!... sentite, mio caro conte, siete un galantuomo, n’è vero? — Io credo. — E di più conoscitore dei blasoni? — Un poco. — Ebbene! guardate il colore del mio; esso è più solido di quello del blasone di Morcerf. — E perchè? — Perchè, se io non sono barone di nascita, almeno mi chiamo Danglars. — E poi? — Mentre che egli non si chiama Morcerf. — Come! egli non si chiama Morcerf? — Niente affatto. — Eh! via dunque! — Io da qualcuno sono stato fatto barone, di modo che lo sono; egli si è fatto conte da sè, per cui non lo è. — Impossibile! — Ascoltate mio caro conte, continuò Danglars, il sig. de Morcerf è mio amico, o piuttosto una mia conoscenza di trent’anni; sapete che faccio buon mercato dei miei stemmi, poichè non ho mai dimenticato da dove sono partito. — Questa è una pruova, disse Monte-Cristo, o di una grande umiltà, o di un grande orgoglio. — Ebbene! quando era semplice commesso, Morcerf era semplice pescatore. — E allora si chiamava? — Fernando. — Senz’altro? — Fernando Mondego. — Ne siete sicuro? — Per bacco! Mi ha venduto abbastanza pesce perchè lo conosca. — Allora perchè volevate dargli vostra figlia? — Perchè Fernando e Danglars erano due nobili, due ricchi, due fortunati di fresca data, in fondo uno valeva l’altro, se si eccettuino alcune cose che si sono dette di lui, e che non si sono mai potute dire di me. — Che dunque? — Niente. — Ah! sì, ora capisco; ciò che mi dite mi rinfresca la memoria a proposito del nome di Fernando Mondego. Ho inteso pronunciare questo nome in Grecia. — A proposito dell’affare di Alì-Pascià? — Precisamente. — Ecco il mistero, riprese Danglars, e vi confesso che avrei pagato molto per iscoprirlo. — Non era difficile, se ne aveste avuta gran volontà. — Ed in che modo? — Senza dubbio avrete qualche corrispondente in Grecia? — Per bacco! — A Giannina? — Ne ho da per tutto. — Ebbene, scrivete al vostro corrispondente di Giannina, e domandategli qual parte ha fatta nella catastrofe di Alì-Tebelen un francese chiamato Fernando. — Avete ragione! gridò Danglars alzandosi con vivacità, scriverò oggi stesso. — Fatelo. — Vado a scrivere. — E se avete qualche notizia scandalosa... — Ve la comunicherò. — Mi farete un piacere Danglars si slanciò fuori dell’appartamento, e non fece che un balzo fino alla sua carrozza. LXVI. — Il GABINETTO DEL PROCURATOR DEL RE. Lasciamo il banchiere ritornare a gran trotto e seguiamo la sig.ª Danglars nella sua escursione: ella mezz’ora dopo mezzo giorno, aveva ordinati i cavalli, ed era uscita in carrozza. Si diresse dalla parte del sobborgo San Germano, prese la strada della Senna, e fece fermare al passaggio del Ponte-nuovo, ivi discese, e traversò il passaggio. Era vestita con molta semplicità, come si conviene ad una donna di buon genere che esce la mattina. In Strada Génégaud, montò in una vettura da nolo indicando come termine della sua corsa la strada Harlay. Appena entrata in carrozza, levò di saccoccia un velo nero molto fitto, che attaccò al suo cappello di paglia; quindi si rimise il cappello in testa, e vide con piacere, guardandosi in un piccolo specchio tascabile, che non si poteva discernere di lei che la pelle bianca, e la pupilla scintillante. La carrozza prese pel Ponte-nuovo ed entrò per la piazza Dauphine nel cortile di Harlay; fu pagata nell’aprire la portiera, e la sig.ª Danglars, slanciandosi verso la scala, che salì con leggerezza, giunse ben presto alla sala dei _Passi-Perduti_. Quella mattina v’erano molti affari, ed ancora molta più gente affaccendata al Palazzo. Le persone affaccendate non guardano molto le donne; la sig.ª Danglars traversò adunque la sala senz’essere osservata più di altre dieci donne che stavano ad aspettare i loro avvocati. Vi era folla nell’anticamera del sig. de Villefort, ma la sig.ª Danglars non ebbe neppure il bisogno di pronunciare il suo nome; tosto che apparve, un usciere si alzò, venne a lei, le chiese se fosse la persona a cui il sig. procuratore del Re aveva dato convegno, e sulla sua risposta affermativa, la condusse, per un corridoio riservato, nel gabinetto del sig. de Villefort. Il magistrato, seduto sopra un seggio, scriveva tenendo le spalle voltate alla porta; la intese aprirsi, e l’usciere pronunciare queste parole: «Entrate, signora.» La porta si rinchiuse senza che avesse fatto il più piccolo movimento; ma tosto che sentì allontanarsi il rumore dei passi dell’usciere, si voltò prestamente, mise il catenaccio, tirò le tende, e visitò tutti gli angoli del gabinetto. Quindi, allorchè ebbe acquistata la certezza che non poteva essere nè veduto nè udito da alcuno: — Grazie, signora, diss’egli, grazie della vostra esattezza. — E le offrì una sedia che la sig.ª Danglars accettò, perchè il cuore le batteva tanto fortemente che si sentiva vicino a soffocare. — Ecco, disse il procuratore del Re sedendo egli pure, e facendo descrivere un mezzo cerchio al suo seggio in modo da trovarsi dirimpetto alla sig.ª Danglars, ecco passato ben lungo tempo, signora, che non ho avuto la fortuna di parlare da solo con voi, e con mio sommo dispiacere ci ritroviamo per intavolare una conversazione molto dolorosa. — Ciò non pertanto, signore, avete veduto che sono venuta, quantunque questa conversazione debba riuscire assai più dolorosa per me che per voi. Villefort sorrise amaramente: — È dunque vero, disse egli rispondendo piuttosto al proprio pensiero che alle parole della sig.ª Danglars, che tutte le nostre azioni lasciano le loro tracce, le une tetre, le altre luminose nel nostro passato? È dunque vero che tutti i passi della nostra vita rassomigliano all’andamento del rettile sulla sabbia e fanno un solco? Ahimè! per molti questo solco è quello delle loro lagrime. — Signore, voi comprendete la mia emozione, n’è vero? disse la sig.ª Danglars, abbiatemi dunque dei riguardi, ve ne prego. Questa camera entro cui sono passati tanti colpevoli tremanti e vergognosi, questo seggio su cui mi sto a mia volta vergognosa e tremante!... Oh! io ho bisogno di tutta la mia ragione per non vedere in me una donna molto colpevole, ed in voi un giudice minaccioso. Villefort scosse la testa, e mandò un sospiro: — Ed io dico a me stesso; che il mio posto non è sul seggio del giudice, ma sul banco dell’accusato. — Voi? disse la sig.ª Danglars maravigliata. — Sì, io. — Credo che per parte vostra, signore, il vostro puritanismo esageri la situazione, disse la sig.ª Danglars, il cui bell’occhio si illuminò di un fuggitivo fulgore. Questi solchi di cui parlavate or ora, sono stati tracciati da tutta la gioventù ardente. Nel fondo delle passioni, al di là dei piaceri, vi è sempre un poco di rimorso; è perciò che l’Evangelo, questa eterna risorsa degl’infelici, ha dato per conforto a noi povere donne l’ammirabile parabola della giovane peccatrice, e della donna adultera. Così, ve lo confesso, riportandomi ai delirii della mia gioventù, qualche volta penso che Dio me li perdonerà, poichè se essi non possono trovare scusa, troveranno mercede in compenso dei patimenti sofferti dopo; ma voi, che avete a temere di tutto ciò, voi altri uomini, che il mondo scusa, e che lo scandalo nobilita? — Signora, replicò Villefort, mi conoscete, non sono un ipocrita, o almeno non faccio l’ipocrita, senza qualche ragione. Se la mia fronte è severa, i molti infortunii l’offuscarono; se il mio cuore si è petrificato, è stato per poter sopportare i cozzi che ha ricevuto: non era così nella mia gioventù, non era così nella sera dei miei sponsali, quando eravamo tutti assisi intorno ad una tavola della strada _Cours_ a Marsiglia. Ma da quel tempo tutto si è cambiato in me, ed intorno a me. La mia vita si è consumata a perseguire cose difficili, e ad infrangere nelle difficoltà tutti coloro che, volontariamente, o involontariamente, per determinata intenzione o per caso s’incontrarono sul mio sentiero a suscitarmi difficoltà. È difficile che ciò che si desidera ardentemente, non sia conteso ardentemente da coloro i quali han voluto ottenerlo, o dai quali si tenta strapparlo. Così, la maggior parte delle cattive azioni degli uomini sono venute loro incontro, mascherate dalle sembianze della necessità; quindi commessa la cattiva azione in un momento d’esaltazione, di timore, o di delirio, si vede che si sarebbe potuto passarle vicino evitandola. Il mezzo che sarebbe stato buono da impiegarsi, e che non si è veduto, ciechi che s’era, si presenta ai nostri occhi facile e semplice, e dite a voi stessi: «E come mai non ho fatto questo, invece di fare quest’altro?» Voi donne, al contrario, ben difficilmente siete tormentate dai rimorsi, perchè raramente la risoluzione viene da voi; le vostre sventure vi sono quasi sempre imposte, i vostri sbagli son quasi sempre i delitti degli altri. — In ogni modo, signore, convenitene, se ho commesso un errore, rispose la sig.ª Danglars, sia ancora stato personale, ieri sera ne ho ricevuto una severa punizione. — Povera donna! disse Villefort stringendole la mano, troppo severa per le vostre forze, perchè per due volte poco vi è mancato a soccombere, e pure... deggio io dirvelo?... raccogliete tutto il vostro coraggio, perchè non siete ancora alla fine. — Mio Dio! che vi è dunque ancora? — Non vedete che il passato, signora, certamente è tetro, ebbene figuratevi un avvenire... spaventoso certamente... sanguinoso forse!... — La baronessa conosceva la calma di Villefort, essa fu così spaventata dalla sua esaltazione, che aprì la bocca per gridare, ma il grido le si estinse in gola. — E come mai è risorto questo terribile passato, gridò Villefort; come mai dal fondo della tomba, dal fondo dei nostri cuori ove dormiva, è uscito come fantasma, per far impallidire le nostre guance ed arrossir le nostre fronti? — Ahimè! diss’Erminia, senza dubbio il caso! — Il caso! riprese Villefort, no, no, non è il caso! — Ma sì, non fu una combinazione fatale, non è stato il caso che ha operato tutto ciò? Non fu per caso che il conte di Monte-Cristo ha comprata quella dimora? non fu per caso ch’egli fece scavare la terra? non fu per caso finalmente che quel disgraziato fanciullo fu dissotterrato ai piedi di quell’albero? Povera ed innocente creatura! nata da me, cui non ho mai potuto dare un bacio, ma per la quale ho sparso tante lagrime! Ah! il mio cuore è volato per intero incontro al conte, quando ha parlato di questa cara spoglia ritrovata sotto i fiori. — Ebbene! no, signora, ecco quanto avevo di terribile a dirvi, rispose Villefort con sorda voce, non si è trovata alcuna spoglia sotto i fiori, no, non vi è stato alcun fanciullo dissotterrato; no, non bisogna piangere, no non bisogna gemere, bisogna tremare. — Che volete dire? gridò la sig.ª Danglars rabbrividendo. — Voglio dire, che il sig. di Monte-Cristo nello scavare ai piedi di quell’albero, non ha potuto trovare nè scheletro di fanciullo, nè ferramenti di cassetta, perchè sotto a questi alberi non v’era nè l’uno nè l’altro. — Non v’era nè l’uno nè l’altro? replicò la sig.ª Danglars fissando sul procuratore del re certi occhi, di cui la spaventosa dilatazione delle pupille indicava il terrore; non deponeste dunque là la povera creatura? Perchè ingannarmi? con quale scopo, dite? — Fu là, ma ascoltatemi, e compiangerete me, che per vent’anni, senza parteciparvene la più piccola parte, ho portato il peso dei dolori che sono per dirvi. — Mio Dio! mi spaventate! ma n’importa, vi ascolto. — Sapete come passò quella notte dolorosa, in cui voi eravate spirante sul vostro letto, in quella camera di damasco rosso, mentre ch’io, non meno anelante di voi, aspettava la vostra liberazione. Il fanciullo nacque, mi fu consegnato, senza movimenti, senza respirazione, senza voce: noi lo credemmo morto. La sig.ª Danglars fece un movimento rapido, come se avesse voluto slanciarsi dalla sedia. Ma Villefort la fermò giungendo le mani, come per implorarne l’attenzione: — Noi lo credemmo morto, ripetè egli; io lo misi in una cassetta che doveva tenergli luogo di bara; discesi in giardino, scavai una fossa, e ve lo seppellii in fretta. Terminava appena di coprirlo di terra, che il braccio del Corso si stese contro di me. Vidi come un’ombra drizzarsi, come un lampo sfolgorare. Sentii un dolore, volli gridare, un agghiacciato brivido mi percorse tutte le membra, e mi serrò la gola... Caddi moribondo, e mi credei ucciso: non dimenticherò mai il vostro sublime coraggio, quando, ritornato in me, mi trascinai spirante fino ai piè della scala, ove, spirante voi pure, veniste incontro a me. Necessitava custodire il silenzio sulla terribile catastrofe; voi aveste il coraggio di ritornare in casa vostra, sostenuta dalla vostra balia; un duello fu il pretesto della mia ferita. Contr’ogni aspettativa, il silenzio ci fu mantenuto, fui trasportato a Versailles, per tre mesi lottai colla morte; finalmente, quando sembrò che mi riattaccassi alla vita, mi fu ordinato il sole e l’aria del Mezzogiorno. Quattro uomini mi portarono da Parigi a Châlons, facendo sei leghe il giorno. La sig.ª de Villefort seguiva la barella nella sua carrozza. A Châlons fui imbarcato sulla Saona, quindi passai sul Rodano, e per la sola forza della corrente discesi fino ad Arles, poi da Arles ripresi la lettiga e continuai la strada per Marsiglia. La mia convalescenza durò sei mesi; non sentiva più parlare di voi, non osava informarmi di ciò che n’era avvenuto. Quando ritornai a Parigi sentii che, vedova del sig. de Nargonne, avevate sposato il sig. Danglars. A qual cosa aveva sempre pensato dal momento che ricuperai la conoscenza? incessantemente alla stessa cosa, a quel cadavere di fanciullo, che ciascuna notte nei miei sonni sorgeva dal seno della terra, e si fermava al di sopra della fossa minacciandomi collo sguardo e col gesto. Per cui, appena ritornato a Parigi m’informai, la casa non era stata frequentata nè visitata da alcuno dal momento che ne eravamo usciti, ma era stata data in fitto per nove anni. Andai a ritrovare quegli che l’aveva presa in fitto, finsi di avere un gran desiderio di non veder passare in mani estranee una casa che apparteneva al padre ed alla madre di mia moglie, offersi una buona uscita perchè fosse rotta la scrittura, mi fu chiesto seimila fr., ne avrei dati diecimila, pur ventimila. Li aveva indosso, feci soscrivere su due piedi la rinunzia; quindi, allorchè fui possessore di questa tanto desiderata cessione, partii al galoppo per Auteuil. Nessuno era entrato nella casa dal momento che ne era uscito io. Erano le cinque dopo mezzogiorno, salii nella camera rossa ed aspettai la notte. «Là, tutto ciò che io mi ripeteva da un anno nella continua mia agonia, si rappresentò al mio pensiero molto più minaccioso che mai. Questo Corso che mi aveva dichiarata la sua vendetta, che mi aveva seguito da Nimes a Parigi, questo Corso che era nascosto nel giardino, che mi aveva ferito, aveva certamente veduto scavare la fossa, mi aveva veduto seppellire il fanciullo, egli poteva giungere a conoscervi, forse vi conosceva già... non vi avrebbe un giorno fatto pagare il segreto di questo terribile affare?... non sarebbe stata questa per lui una ben dolce vendetta, quando avesse saputo che io non ero morto della sua pugnalata? era dunque urgente che prima di ogni altra cosa, con qualunque siasi rischio, facessi sparire le tracce di questo fatto passato, che ne distruggessi le materiali vestigia; vi sarebbe sempre rimasta abbastanza realtà nella mia memoria; per ciò aveva fatto annullare la scrittura, per ciò era venuto, per ciò io aspettava. Giunse la notte, la lasciai bene oscurare; io era senza lume in quella camera, dove i soffi del vento agitavano il cortinaggio, dietro il quale mi pareva sempre vedere nascondersi qualche spia; a quando a quando fremevo, mi sembrava dietro a me, e in quel letto, sentire i vostri lamenti, non osava voltarmi. Il cuore batteva nel silenzio, ed io lo sentiva battere sì violentemente, che credeva che si sarebbe riaperta la mia ferita; finalmente intesi spegnersi gli uni dopo gli altri tutti i rumori della campagna. Capii che non aveva più nulla a temere, che non poteva essere nè veduto nè inteso, e risolvetti di discendere. «Ascoltate, Erminia, io mi credo tanto coraggioso, quanto un altro uomo; ma quando mi cavai dal petto questa piccola chiave della scala segreta, che aveva ritrovata nei miei abiti, che entrambi amavamo tanto, e che voi avete voluto attaccare ad un anello d’oro; allorchè aprii la porta, allorchè a traverso alla finestra vidi una pallida luna gettare sugli scalini a chiocciola una striscia di luce bianca simile ad uno spettro, mi rattenni al muro, fui vicino a gridare; mi sembrava di diventar matto. Finalmente giunsi a divenir padrone di me stesso. Discesi la scala, scalino per scalino; la sola cosa che non aveva potuto vincere era uno strano tremore che mi aveva preso le ginocchia: mi aggrappai alla rampa; se l’avessi lasciata un momento sarei precipitato. «Giunsi alla porta di basso; al di fuori di essa una zappa era appoggiata al muro; la presi, e m’inoltrai verso il gruppo d’alberi: mi era munito di una lanterna cieca; in mezzo al prato mi fermai per accenderla, indi continuai il cammino. Novembre stava per finire, tutta la verdura del giardino era sparita, gli alberi non erano più che scheletri con lunghe braccia scarne, e le morte foglie rumoreggiavano con la sabbia sotto i miei piedi. «Lo spavento mi colpì sì fortemente il cuore che nell’avvicinarmi agli alberi cavai una pistola di tasca e la caricai: credeva sempre vedere la figura del Corso comparire a traverso dei rami. Osservai nei luoghi più folti con la lanterna cieca; essi erano vuoti. Gettai gli occhi ovunque intorno a me, io era realmente solo; nessun rumore turbava il silenzio della notte, se non il canto di una civetta. Attaccai la lanterna ad un ramo forcuto che aveva già notato un anno avanti, nella stessa direzione ove mi fermai per iscavare la fossa. L’erba durante l’estate era cresciuta moltissimo in questo luogo, e, giunto l’autunno, nessuno era là venuto per tagliarla. Però un luogo meno fornito attirò la mia attenzione; era evidente che là io voltai la terra: mi misi all’opera. Era finalmente giunta quell’ora che aspettavo da un anno! Ma come speravo, come lavoravo, come esaminavo ogni zolla di terra, credendo sentire della resistenza all’estremità della mia zappa; niente! eppure aveva fatto una buca due volte più grande della prima. Credetti di essermi ingannato, di avere sbagliato il posto; mi orizzontai, guardai gli alberi, cercai di riconoscere i particolari che mi avevano colpito. Una brezza fredda ed acuta fischiava a traverso i rami spogliati, e ciò non pertanto il sudore mi grondava dalla fronte. Mi ricordai che avevo ricevuto il colpo di pugnale nel momento che stava pestando la terra per fare sparire le tracce della fossa, mentre pestava questa terra mi appoggiava ad un falso ebano; dietro a me era una roccia artificiale destinata a servire da banco a chi passeggiava, perchè cadendo la mia mano che aveva lasciata la zappa aveva sentito il freddo della pietra: caddi situandomi nella stessa posizione, mi rialzai, e mi rimisi a scavare allargando la fossa; niente, sempre niente: la cassetta non v’era più. — La cassetta non v’era più! mormorò la sig.ª Danglars. — Non crediate che mi limitassi a questo tentativo, esaminai tutto il dintorno; pensai che l’assassino avendo dissotterrata la cassetta, credendo che fosse un tesoro, avesse voluto impadronirsene, e l’avesse portata via, ma poi accorgendosi dell’errore avesse egli pure scavato una fossa, e ve l’avesse deposta; niente. Quindi mi venne l’idea che senza prendere tante cautele, l’avesse puramente e semplicemente gettata in un qualche angolo. In questa ultima ipotesi mi abbisognava per fare le mie ricerche aspettare il giorno: risalii nella camera ed aspettai. Venne il giorno, discesi di nuovo, la mia prima visita fu intorno al gruppo d’alberi, sperava di ritrovarvi delle tracce che mi fossero sfuggite nell’oscurità. Io aveva rivoltata la terra sopra una superficie di venti piedi quadrati, e per una profondità di più di due piedi, una giornata sarebbe appena bastata ad un operaio salariato per far ciò che io aveva fatto in un’ora. Niente, non vidi assolutamente niente. Allora mi misi alla ricerca della cassetta; secondo le supposizioni che aveva fatte, doveva essere sul sentiero che conduceva alla porticella di uscita; ma questa nuova investigazione fu tanto inutile quanto la prima, e col cuore serrato, ritornai agli alberi, che essi pure non mi lasciavano più alcuna speranza. — Oh! gridò la sig.ª Danglars, vi era da diventarne pazzo. — Lo sperai un momento, disse Villefort, ma non ebbi questa fortuna; però richiamando la mia forza, e per conseguenza le mie idee: perchè quest’uomo avrebbe portato via quel cadavere? domandavo a me stesso. — Ma voi lo avete detto, per avere una prova. — Oh! no, signora, non poteva più essere questo; non si conserva un cadavere per un anno; si porta ad un magistrato, e si fa la sua deposizione. Ora non era accaduto niente di tutto ciò. — Ebbene, allora?... domandò Erminia palpitante. — Allora? vi è qualche cosa di più terribile, di più fatale, di più spaventoso per noi, ed è che il fanciullo forse era vivo, e che l’assassino lo aveva salvato. La sig.ª Danglars mandò un grido terribile afferrando le mani di Villefort: — Mio figlio era vivo? diss’ella, avete seppellito mio figlio vivo, signore! non eravate sicuro che era morto, e lo avete seppellito! ah!.. La sig.ª Danglars si era alzata, e stava ritta davanti al procuratore del Re, di cui teneva strette le mani tra le sue delicate, quasi minacciosa. — Che so io? vi dico ciò come vi direi qualunque altra cosa, rispose Villefort con una immobilità di sguardo che indicava che questo uomo così potente era vicino a toccare la follia, o la disperazione. — Ah! mio figlio, mio povero figlio! gridò la baronessa ricadendo sulla sedia, e soffocando i singulti col fazzoletto. Villefort ritornò in sè, e comprese che per divergere l’uragano materno che si accumulava sulla sua testa, bisognava far passare nella sig.ª Danglars il terrore che egli stesso provava: — Comprendete che se la cosa è così, diss’egli alzandosi ed avvicinandosi alla baronessa per parlare a voce anche più bassa, siam perduti; questo fanciullo vive, e qualcuno sa che egli vive, qualcuno è in possesso del nostro segreto; e poichè Monte-Cristo parla in faccia nostra di un fanciullo dissotterrato là ove questo fanciullo non è più, egli è certamente in possesso di questo segreto. — Dio giusto! Dio vendicatore! mormorò la sig.ª Danglars. Villefort non rispose che con una specie di ruggito. — Ma questo figlio, signore? riprese la madre ostinata. — Oh! quanto l’ho cercato! riprese Villefort contorcendosi le braccia, quante volte l’ho chiamato nelle mie lunghe notti senza sonno! quante volte ho desiderato una ricchezza da re, per acquistare un milione di segreti da un milione d’uomini, e per trovare il mio segreto nel loro? Finalmente un giorno che per la centesima volta riprendeva la zappa, domandando a me stesso per la centesima volta ciò che questo Corso avesse potuto fare del fanciullo; un fanciullo impaccia un fuggitivo; forse accorgendosi che era ancor vivo lo aveva gettato nel fiume. — Oh! impossibile! gridò la sig.ª Danglars, si assassina un uomo per vendetta, non si annega a sangue freddo un fanciullo! — Forse, continuò Villefort, lo aveva portato all’ospizio degli esposti. — Oh! sì! sì! gridò la baronessa, mio figlio è là, signore! — Io corsi all’ospizio, ed intesi che quella notte stessa, la notte del 20 settembre, un fanciullo era stato deposto nella ruota; era inviluppato in una mezza salvietta di tela fina stracciata ad arte. Questa metà di salvietta portava una metà di corona da barone, e la lettera L. — È quello, è quello! gridò la sig.ª Danglars, la mia biancheria era marcata in tal modo; il sig. di Nargonne era barone, e si chiamava Luigi; le salviette erano tutte marcate in tal modo. Grazie, mio Dio, mio figlio non è morto! — No, egli non è morto. — E voi me lo dite? mi dite questo senza temere di farmi morire di gioia, signore? ov’è, ov’è mio figlio? Villefort alzò le spalle — Lo so io forse? e credete che se il sapessi, vi farei passare per tutte queste prove, e per tutte queste gradazioni come farebbe un drammatico, od un romanziere? no, io non lo so. Una donna, circa sei mesi dopo, era stata a reclamare il fanciullo, coll’altra metà della salvietta. Questa donna aveva somministrate tutte le guarentigie che esige la legge, e le fu rimesso. — Ma bisogna informarsi di questa donna... scoprirla. — E di che credete che mi sia occupato, signora? ho simulata una istruzione giudiziaria, ed ho messo in cerca, ed in azione, quanto la polizia possiede di fine lime, e di destri messi. Le sue tracce furono ritrovate a Châlons; ma a Châlons si sono perdute. — Perdute? — Sì, perdute; perdute per sempre. La sig.ª Danglars aveva ascoltato questo racconto con un sospiro, una lagrima, un grido per ciascuna particolarità. — E qui sta il tutto? e vi siete limitato a ciò? — Oh no, disse Villefort, non ho mai cessato di cercare, di continuare ad informarmi, però dopo due o tre anni mi era alquanto rallentato. Oggi però ritornerò a cominciare con maggior accanimento che mai, e vi riuscirò perchè non è più la coscienza che mi vi spinge, ma bensì la paura. — Ma, il conte di Monte-Cristo non sa niente; senza di che, mi sembra, non ci cercherebbe come fa. — Oh! la cattiveria degli uomini è grandemente profonda, disse Villefort, poichè è più profonda della bontà di Dio. Avete osservati gli occhi di quest’uomo mentre ci parlava? l’avete qualche volta esaminato profondamente? — Senza dubbio egli è bizzarro; ma ecco tutto; una cosa soltanto mi ha colpito, ed è che di tutto quello squisito pranzo che ci ha dato, nulla ha toccato. — Sì, sì! disse Villefort, io pure l’ho notato. Se avessi saputo ciò che so ora, non avrei toccato niente; avrei creduto che avesse voluto avvelenarci. — E vi sareste sbagliato, ben lo vedete. — Sì, senza dubbio; ma, credetemi, quest’uomo nasconde altri disegni, ecco perchè vi ho voluto vedere, ecco perchè ho domandato parlarvi, ecco perchè ho voluto premunirvi contro tutti, ma particolarmente contro di lui. Ditemi, continuò Villefort fissando gli occhi sulla baronessa ancor più profondamente che non aveva fatto fino allora, ditemi non avete parlato del nostro legame con alcuno? — Giammai, con alcuno, disse la baronessa arrossendo; ve lo giuro. — Non avete l’abitudine di scrivere la sera ciò che vi è accaduto nel giorno? non fate il vostro giornale? — No! ahimè! la mia vita passa, trasportata dalle frivolezze, e la dimentico io stessa. — Non parlate sognando? — Ho un sonno da fanciullo. — Capisco ciò che mi resta a fare, riprese Villefort; prima di otto giorni saprò chi è questo sig. di Monte-Cristo, di dove viene, ove va, e per qual ragione parla alla nostra presenza di fanciulli dissotterrati nel suo giardino. Villefort pronunciò queste parole con un accento che avrebbe fatto fremere il conte se lo avesse potuto sentire. Indi strinse la mano alla baronessa che aveva ripugnanza a dargliela, e la ricondusse con rispetto fino alla porta. La sig.ª Danglars riprese un’altra vettura da nolo che la ricondusse al passaggio, alla parte opposta del quale ritrovò la sua carrozza ed il cocchiere che, aspettandola, dormiva tranquillamente al suo posto. LXVII. — UN BALLO IN ESTATE. Nello stesso giorno verso l’ora in cui la sig.ª Danglars teneva la seduta che abbiam descritta nel gabinetto del procuratore del Re, una carrozza da viaggio entrando nella strada Helder, s’introduceva per la porta n. 27 e si fermava nel cortile. Un momento dopo si apriva lo sportello e la sig.ª de Morcerf ne discendeva, appoggiandosi al braccio di suo figlio. Appena Alberto ebbe accompagnata sua madre alle stanze di lei, ordinando un bagno ed i suoi cavalli, si fece condurre ai _Campi-Elisi_ dal conte di Monte-Cristo. Il conte lo ricevette col suo abituale sorriso. Era cosa straordinaria; non sembrava mai di poter fare un passo in avanti nel cuore di quest’uomo. Quelli che volevano, per dir così, sforzare il passaggio della sua intimità, ritrovavano un muro. Morcerf, che accorreva a lui a braccia aperte, lasciò vedendolo, ad onta del suo sorriso amichevole, cadere le braccia, ed osò appena stendergli la mano. Dal suo canto Monte-Cristo gliela toccò come faceva sempre, ma senza stringerla. — Ebbene! eccomi, diss’egli, caro conte. — Siate il ben venuto. — Sono arrivato da un’ora. — Da Dieppe? — No, da Tréport, la mia prima visita è per voi. — È grazioso per parte vostra, disse Monte-Cristo nel modo con cui avrebbe detta qualunque altra cosa. — Ebbene! vediamo che novità vi sono? — Novità! le chiedete a me, ad uno straniero! — M’intendo io: quando vi chiedo novità, vi chiedo se avete fatto qualche cosa per me. — Mi avete voi dunque incaricato di qualche commissione? disse Monte-Cristo fingendo d’essere inquieto. — Via, via, disse Alberto: non simulate indifferenza; si dice che vi sono delle sensazioni simpatiche che attraversano le distanze. Ebbene a Tréport ho ricevuto la mia scossa elettrica; se non avete operato per me, almeno avete pensato a me. — Ciò è possibile, disse Monte-Cristo. Ho di fatto pensato a voi, ma la corrente elettrica di cui era il conduttore operava, ve lo confesso, indipendentemente dalla mia volontà. — Da vero, raccontatemi, ve ne prego. — È facile. Il sig. Danglars ha pranzato da me. — Lo so bene, poichè per fuggire la sua presenza, mia madre ed io partimmo. — Ma ha pranzato ancora col sig. Andrea Cavalcanti. — Il vostro principe italiano. — Non esageriamo, il sig. Andrea si dà soltanto il titolo di conte. — Si dà dite voi? — Dico, si dà. — Dunque non lo è? — E lo so io? egli se lo dà, io lo do a lui, tutti a lui lo danno, non è come se lo avesse? — Uomo strano; avanti! ebbene? — Ebbene! che? — Il sig. Danglars ha dunque pranzato qui? — Sì. — Col vostro conte Andrea Cavalcanti? — Col conte Andrea Cavalcanti, il marchese suo padre, la sig.ª Danglars, il sig. e la sig.ª de Villefort, il sig. Debray, Massimiliano Morrel, e poi chi altro ancora?... Aspettate.... Ah! il sig. Château-Renaud. — Si è parlato di me? — Non se ne è detta una parola. — Tanto peggio. — Perchè tanto peggio? mi pare che se siete stato dimenticato, non fu fatto, che quel che desideravate! — Mio caro conte, se non si è parlato di me, è segno che vi pensano molto; ed allora sono alla disperazione. — Che v’importa, quando madamigella Danglars non era nel numero di quelli che qui vi pensavano: Ah! è vero, ella poteva pensarvi da casa sua. — Oh! in quanto a questo, no, ne sono sicuro, o, s’ella vi pensava, fu certo allo stesso modo che io pensava a lei. — Commovente simpatia! disse il conte. Allora vi detestate? — Ascoltate, disse Morcerf, se madamigella Danglars fosse donna da prendere pietà del martirio ch’io non soffro per lei, e da ricompensarmene al di fuori delle convenzioni matrimoniali stabilite fra le nostre due famiglie, ciò mi andrebbe a meraviglia. Alle corte, credo che madamigella Danglars sarebbe una graziosissima amica, ma come moglie, diavolo... — Così questo è il vostro modo di pensare sulla vostra fidanzata? — Un poco brutale, è vero, ma per lo meno esatto. — Siete difficile, visconte. — Sì, perchè spesso penso ad una cosa impossibile. — A quale? — A trovarmi per moglie una donna come quella che mio padre ha trovato per lui. Monte-Cristo impallidì, e guardò Alberto che scherzava con delle magnifiche pistole, delle quali faceva rapidamente scoccare le suste. — Dunque vostro padre è stato molto felice? diss’egli. — Sapete la mia opinione sul conto di mia madre, sig. conte: un angiolo del cielo: voi la vedete bella ancora, spiritosa sempre, più buona che mai. Giungo da Tréport; per tutt’altro figlio, eh! mio Dio! accompagnare sua madre sarebbe una compiacenza od un sacrificio. Ma io, io passo quattro giorni da solo a sola con lei, più soddisfatto, più poetico ancora di quel che se avessi accompagnato a Tréport la regina Mab, o Titania. — Questa è una perfezione, che dispera, e voi date a quanti vi sentono gran volontà di restare celibi. — Ecco precisamente, rispose Morcerf, perchè, sapendo ch’esiste al mondo una donna perfetta, non mi curo di sposare madamigella Danglars. Avete mai notato come il nostro egoismo riveste dei colori più brillanti tutto ciò che ci appartiene? Il diamante che luccicava nella invetriata di Merlé o di Fossin diventa più bello ancora dopo che è nostro; ma se l’evidenza ci sforza a conoscere che ve n’è un altro di un’acqua più pura, e che voi siate condannato a portare eternamente questo diamante inferiore all’altro, capite quanto dev’essere il soffrire. Ecco perchè io balzerò di gioia il giorno in cui madamigella Danglars si accorgerà che non sono che un meschino atomo, e che ho appena tante centinaia di mille fr. per quanti milioni ha lei. Monte-Cristo sorrise. — Io aveva ben pensato ad una cosa, continuò Alberto. Franz ama le cose eccentriche; voleva che si innamorasse di madamigella Danglars, ma ad onta di quattro lettere che gli ho scritto nello stile più spaventoso, egli mi ha imperturbabilmente risposto: «Io sono eccentrico, è vero, ma la mia eccentricità non giunge fino a ritirare la mia parola quando l’ho impegnata.» — Ecco ciò che io chiamo trasporto d’amicizia, dare ad un altro per moglie la donna che non si vorrebbe per sè, che nella condizione d’amica. Alberto sorrise. — A proposito, giunge questo caro Franz; ma poco v’importa, voi non lo amate credo? — Io! disse Monte-Cristo; eh! mio caro visconte, e da che arguite che io non amo il sig. Franz? Caro visconte, io amo tutto il mondo. — Ed io sono compreso in tutto il mondo... grazie. — Oh! non confondiamo, disse Monte-Cristo; amo tutto il mondo nel modo che Dio ci ordina di amare il nostro prossimo, cristianamente; ma non odio che certe determinate persone. Ritorniamo al sig. Franz; dite che ritorna? — Sì, chiamato dal sig. de Villefort, anch’egli arrabbiato tanto, a ciò che sembra, per maritare madamigella Valentina, quanto Danglars per maritar madamigella Eugenia. Pare certamente che lo stato più faticoso sia quello di essere padre di giovanette adulte; sembra che questo dia loro la febbre, e che il loro polso batta 80 volte il minuto fin tanto che non se ne siano spacciati. — Ma il sig. d’Épinay non vi rassomiglia; sembra ch’egli prenda il suo male con pazienza. — Anche meglio così, che egli lo prende sul serio; si mette già la cravatta bianca e parla della sua famiglia. Del resto ha per Villefort grandissimo rispetto. — Meritato, non è vero? — Villefort è sempre passato per un uom severo, ma giusto. — Alla buon’ora, eccone finalmente uno, disse Monte-Cristo, che non trattate come quel povero Danglars. — Forse dipenderà dal non essere obbligato a sposarne la figlia, disse Alberto ridendo. — In verità, mio caro signore, ripetè Monte-Cristo, siete di una fatuità stomachevole. — Io? — Sì voi... prendete un sigaro. — Ben volentieri, e perchè son fatuo? — Ma perchè state là a difendervi, a dibattervi per non voler sposare madamigella Danglars. Oh mio Dio! lasciate andare le cose, e forse non sarete il primo a ritirar la parola. — Bah! fece Alberto aprendo due grandi occhi. — Eh! senza dubbio, sig. visconte, non vi si metterà per forza la testa fra le porte; che diavolo! Via, sul serio, avete volontà di romperla? — Pagherei cento mila franchi per questo. — Ebbene! siete felice: il sig. Danglars è disposto a pagare il doppio per giungere alla stessa meta. — Ed è vero questa felicità? disse Alberto, che però dicendo ciò non potè far a meno di impedire che non passasse una impercettibile nube sul suo viso. Ma, mio caro conte, il sig. Danglars ha dunque dei motivi?... — Ah! eccoli là, natura orgogliosa ed egoista! alla buon’ora, ritrovo l’uomo che vuole lacerare l’amor-proprio degli altri a colpi di mannaia, e che grida quando si fora il suo con una spilla. — No, ma perchè mi sembra che il sig. Danglars... — Dovesse essere contentissimo di voi, non è vero? Ebbene il sig. Danglars è un uomo di cattivo gusto, ma è ancor più contento di un altro... — E di chi dunque? — Non lo so; studiate, guardate, afferrate le allusioni al loro passaggio, e ricavatene profitto per voi. — Buono, capisco; ascoltate, mia madre... no! non mia madre, mi sbaglio, mio padre ha concepito l’idea di dare una festa di ballo. — Una festa di ballo in questa stagione dell’anno? — I balli in estate sono alla moda. — Se non vi fossero, la contessa non avrebbe che a desiderarlo, e ve li metterebbero. — Non c’è male; capirete che questi sono balli di sangue purissimo; quelli che restano a Parigi nel mese di Giugno sono veri parigini. Vorreste incaricarvi di un invito per i sig. Cavalcanti? — Fra quanti giorni avrà luogo questo ballo? — Sabato. — Il sig. Cavalcanti padre sarà partito. — Ma il sig. Cavalcanti figlio vi rimane. Volete voi incaricarvi di accompagnarvelo? — Sentite visconte, non lo conosco. — Non lo conoscete? — No, l’ho veduto per la prima volta tre o quattro giorni sono, e non ne rispondo per niente. — Ma voi però lo ricevete? — Io, è un’altra cosa; mi è stato raccomandato da un bravo abate, che potrebbe anch’egli essere stato ingannato. Invitatelo direttamente, sta bene, ma non mi chiedete di presentarlo; se in seguito dovesse sposare madamigella Danglars, mi accusereste di maneggio, e vi vorreste tagliar la gola meco; d’altra parte non so se vi andrò io stesso. — Dove? — Al vostro ballo. — E perchè non ci verrete? — Primieramente non mi avete ancora invitato. — Vengo espressamente per portarvi il vostro invito. — Oh! siete troppo gentile, ma posso esserne impedito. — Quando vi avrò detta una cosa, sarete abbastanza amabile per sacrificarci tutti i vostri impedimenti. — Dite. — Mia madre ve ne prega. — La contessa de Morcerf? riprese Monte-Cristo rabbrividendo. — Ah! conte, disse Alberto, vi prevengo, che la sig.ª de Morcerf, parla meco liberamente; e se non vi siete sentito scricchiolare le fibre simpatiche di cui vi parlavo or ora, è segno che ne siete del tutto privo, mentre per quattro giorni non abbiam fatto che parlare di voi. — Di me? in verità voi mi ricolmate... — Ascoltate, questo è il privilegio della vostra posizione, quando si è un problema vivente. — Ah! son dunque un problema pure per vostra madre? In verità, l’avrei creduta troppo ragionevole per abbandonarsi a simili traviamenti d’immaginazione! — Così, verrete sabato? — Poichè la sig.ª de Morcerf me lo comanda. — Siete obbligante. — Ed il sig. Danglars? — Oh! ha già ricevuto il suo triplice invito; mio padre se n’è incaricato. Cercheremo pure di avere il gran d’Aguesseau, il sig. de Villefort; ma ne disperiamo ancora. — Non bisogna mai disperare di niente, dice il proverbio. — Ballate, caro conte? — Io? — Sì, voi; che vi sarebbe di maraviglioso se ballaste? — Ah! infatto fin tanto che non si sono oltrepassati i quarant’anni.... No, non ballo; ma amo veder ballare. E la sig.ª de Morcerf balla? — Mai; parlerete, ella ha tanta volontà di parlar con voi! — Da vero? — Vi dichiaro che siete il primo uomo pel quale mia madre ha manifestato una simile curiosità. — Alberto prese il cappello e si alzò; il conte lo ricondusse fino alla porta. — Mi faccio un rimprovero, diss’egli fermandolo sull’alto della scalinata. — E quale? — Sono stato indiscreto: non doveva parlarvi del sig. Danglars. — Al contrario, parlatemene pure, spesso, sempre; ma nello stesso modo. — Bene! A proposito, quando arriverà d’Épinay? — Fra 5, 6 giorni al più. — E quando prenderà moglie? — Subito che giungono il sig. e la sig.ª di Saint-Méran. — Conducetemelo dunque tosto che sarà a Parigi. Quantunque pretendiate che non l’ami, vi dichiaro che sarò fortunato di rivederlo. — Benissimo, i vostri ordini saranno eseguiti. A rivederci. Sabato, in ogni caso, di certo, non è vero? — Come dunque! ho data la mia parola. — Il conte seguì con gli occhi Alberto, salutandolo colla mano: indi quando fu risalito sul suo _phaéton_, si rivoltò, e trovando Bertuccio dietro di sè: — Ebbene? domandò egli. — Ella è andata al palazzo, rispose l’intendente. — E vi si è fermata lungo tempo? — Un’ora e mezzo. — Ed è rientrata in sua casa? — Direttamente. — Ebbene! caro Bertuccio, disse il conte, se ora mi resta un consiglio da darvi, si è di vedere se in Normandia ritroviate quella piccola terra di cui vi ho parlato. Bertuccio lo salutò, e siccome i suoi desideri erano in perfetta armonia coll’ordine che aveva ricevuto, partì nella stessa sera. LXVIII. — LE INFORMAZIONI. De Villefort mantenne la parola alla signora Danglars, e particolarmente a sè stesso; di sapere in qual modo il conte di Monte-Cristo avea potuto conoscere la storia della casa di Auteuil: scrisse nello stesso giorno ad un certo sig. de Boville, che, dopo di essere stato in altri tempi ispettore delle prigioni, era impiegato con un grado superiore alla polizia di sicurezza, per avere le informazioni che desiderava, e questi chiese due giorni per sapere con giustizia da chi potrebbe informarsene. Passati i due primi giorni, de Villefort ricevette la lettera seguente. «La persona che si chiama il conte di Monte-Cristo è conosciuta particolarmente da lord Wilmore, ricco forestiero che qualche volta si vede a Parigi, e che presentemente vi si trova: egli è conosciuto egualmente dall’abate Busoni, prete siciliano di grande riputazione in Oriente, ove ha fatto moltissime buone opere.» Il sig. de Villefort rispose coll’ordine di prendere sopra questi due stranieri le informazioni più sollecite, e più precise; la dimane a sera i suoi ordini erano eseguiti, ed ecco le informazioni che ne riceveva: «L’abate, il quale non era a Parigi che per un mese, abitava dietro S. Sulpicio, in una piccola casa composta di un sol piano al disopra, e di un pian terreno; quattro camere, due in alto e due in basso formavano tutta l’abitazione, di cui egli era l’unico inquilino. «Le due camere di basso si componevano di una sala da pranzo con tavola, sedie, e credenza di noce, e di un salotto tinto in bianco senz’ornamenti, senza tappeto, e senza orologio a pendolo. Si vedeva che l’abate per sè stesso si limitava agli oggetti di stretta necessità. «È vero che egli preferiva di abitare il primo piano: composto di un salotto, tutto ricoperto di libri di teologia, e di pergamene, fra le quali lo si vedeva seppellire, al dir del suo cameriere, per mesi interi; era in realtà piuttosto una biblioteca che un salotto. Questo cameriere guardava i visitatori a traverso di una specie di feritoia, ed allorchè la loro figura gli era sconosciuta o non gli piaceva, rispondeva che il sig. abate non era a Parigi; ciò contentava molti, sapendo che l’abate viaggiava spesso, e che qualche volta restava assente lungo tempo. Del resto che sia in casa, o no, che si trovi a Parigi o al Cairo, l’abate regala sempre, e la feritoia serve di ruota alle elemosine che il cameriere distribuisce incessantemente a nome del suo padrone. «L’altra camera situata vicino alla biblioteca, era una camera da dormire. Un letto senza tende, quattro sedie, ed un canapè di velluto d’Utrecht giallone, ne formavano con un inginocchiatoio tutto il mobilio. «Quanto a lord Wilmore, abitava strada Fontaine-Saint-George. Era uno di quegli inglesi _toristi_, che mangiano tutta la loro fortuna in viaggi: prendeva in fitto e mobigliato l’appartamento in cui abitava, e nel quale passava solo due ore del giorno, e vi dormiva raramente. Una delle sue manie era di non volere assolutamente parlare la lingua francese, che però scriveva, assicuravasi, con molta purezza». La dimane del giorno in cui erano giunte queste preziose informazioni al procuratore del re, un uomo, che discendeva di carrozza all’angolo della strada Férou, venne a bussare ad una piccola porta tinta di verde oliva, e domandò dell’abate Busoni. — L’abate è uscito fin da questa mattina, rispose il cameriere. — Potrei non contentarmi di questa risposta, disse il visitatore, poichè vengo per parte di una persona, per la quale si è sempre in casa. Ma vogliate rimettere all’abate Busoni... — Vi ho già detto che non c’è, riprese il cameriere. — Allora, quando ritornerà, consegnategli questa carta e questo foglio sigillato. Questa sera alle otto il sig. abate sarà in casa? — Oh! senza dubbio, a meno che non sia occupato nei suoi lavori, perchè allora è lo stesso che se fosse uscito. — Ritornerò dunque questa sera nell’ora convenuta, riprese il visitatore; e si ritirò. — Infatto all’ora indicata, lo stesso uomo ritornò nella stessa carrozza, ma questa volta, invece di fermarsi all’angolo della strada Férou, si fermò davanti alla porta verde. Bussò, gli fu aperto, ed entrò. Ai segni di rispetto di cui fu prodigo il cameriere verso di lui, comprese che la lettera aveva fatto l’effetto desiderato. — Il sig. abate è in casa? — Sì, lavora nella sua biblioteca, ma aspetta il signore, rispose il servitore. — Lo straniero salì una scala abbastanza ripida, e davanti una tavola, la cui superficie era inondata dalla luce che concentrava un gran paralume, mentre che il resto dell’appartamento era nell’ombra, scoperse l’abate in abito ecclesiastico, colla testa coperta da una di quelle grandi cocolle, sotto le quali si nascondevano il cranio i saggi in uso del medio evo. — Ho l’onore di parlare al sig. Busoni? domandò il visitatore. — Sì, signore, rispose l’abate; e voi siete la persona che il sig. de Boville, antico intendente delle prigioni, m’invia per parte del sig. prefetto di polizia? — Precisamente, signore. — Uno degli uffiziali soprapposti alla pubblica sicurezza di Parigi? — Sì, signore, rispose lo straniero con una specie di esitazione, e sopra tutto con un poco di rossore. L’abate si accomodò i grandi occhiali che gli coprivano gli occhi, e si mise a sedere, facendo segno al visitatore di fare altrettanto: — Io vi ascolto, signore, disse l’abate con un accento italiano il più pronunziato. — La missione di cui sono stato incaricato, signore, riprese il visitatore calcando sopra ciascuna parola come se esse avessero avuto pena ad uscire, è una missione di confidenza tanto per quegli che la compie, quanto per quegli per mezzo del quale si compie. — L’abate s’inchinò. — Sì, riprese lo straniero, la vostra probità, sig. abate, è tanto conosciuta dal prefetto di polizia, ch’egli come magistrato vuol da voi sapere una cosa che importa a questa sicurezza pubblica, a nome della quale sono stato eletto deputato: speriamo dunque, che non vi saranno nè legami di amicizia, nè considerazioni umane che possano impegnarvi a nascondere la verità alla giustizia. — Purchè, signore, le cose che v’importa sapere non tocchino in alcun modo gli scrupoli della mia coscienza: son prete, ed i segreti della confessione devono rimanere fra me e la giustizia di Dio, e non fra me e la giustizia umana. — Oh! siate tranquillo, sig. abate. — A queste parole, l’abate, passando dalla sua parte il paralume lo alzò dalla parte opposta, di modo che illuminando il viso dello straniero, il suo rimaneva sempre nell’ombra. — Perdono, signore abate, disse l’inviato del prefetto di polizia, ma questa luce mi stanca terribilmente la vista. — L’abate abbassò il cartone verde. — Ora, signore, vi ascolto, parlate. — Eccomi al fatto. Conoscete il sig. di Monte-Cristo? — Volete parlare del sig. Zaccone, presumo? — Zaccone!... Non si chiama dunque Monte-Cristo? — Monte-Cristo è il nome di una terra, o piuttosto di uno scoglio, e non il nome di famiglia. — Ebbene! sia; non discutiamo sulle parole, e poichè il sig. di Monte-Cristo ed il sig. Zaccone sono lo stesso uomo... — Assolutamente lo stesso. — Parliamo del sig. Zaccone. — Sia. — Vi domandava se lo conoscete? — Molto. — Chi è egli? — Il figlio di un ricco armatore di Malta. — Sì, lo so bene, questo è quanto dicesi; ma, capirete, la polizia non può contentarsi di un _dicesi_. — Ciò non ostante, riprese l’abate con un sorriso del tutto affabile, quando questo _dicesi_ è la verità, bisogna bene che tutti se ne contentino, e che la polizia faccia come gli altri. — Ma siete sicuro di ciò che dite? — Come! se ne son sicuro? — Osservate, signore, che non ho alcun sospetto sulla vostra buona fede. Vi dico, siete sicuro? — Ascoltate, ho conosciuto il sig. Zaccone padre, e mentre ero fanciullo ho scherzato dieci volte con suo figlio nei cantieri di costruzione. — Ma pure questo titolo di conte?... — Sapete, che si compra. — In Italia? — Da per tutto. — Ma queste ricchezze immense, a quanto dicesi. — Oh! in quanto a ciò, immense, è una parola. — Quanto credete che possegga? — Oh! egli avrà bene da 150 a 200 mila lire di rendita. — Ah! ecco ciò che è ragionevole, disse il visitatore, ma si parlava di tre, di quattro milioni! — Due cento mila lire di rendita, fanno precisamente un capitale di quattro milioni. — Ma si parlava di tre, o quattro milioni di rendita. — Oh! ciò non è credibile. — E voi conoscete la sua isola di Monte-Cristo? — Certamente; chiunque viene da Palermo, da Napoli, o da Roma in Francia, per la via di mare, la conosce, perchè è passato vicino ad essa, e l’ha veduta passando. — È un soggiorno incantevole a quanto assicurasi. — Non è che un semplice scoglio. — E perchè dunque il conte ha comprato uno scoglio? — Precisamente per essere conte. In Italia per diventar conte vi è ancora bisogno di una contea. — Avrete senza dubbio inteso parlar delle avventure della gioventù del sig. Zaccone. — Il padre? — No, il figlio. — Ah! ecco ove cominciano le mie incertezze, perchè di lì ho perduto di vista il giovine camerata. — Egli ha fatto la guerra? — Credo che abbia servito. — In quale arma? — Nella marina. — Vediamo, non siete il suo confessore? — No, signore; lo credo luterano. — Come, luterano? — Dico, che credo; non affermo. D’altra parte credevo che in Francia fosse stata stabilita la libertà dei culti. — Senza dubbio, per cui non ci occupiamo in questo momento delle sue credenze ma delle sue azioni; in nome del sig. prefetto di polizia, vi intimo di dire tutto ciò che ne sapete. — Egli passa per un uomo molto caritatevole. In Roma è stato fatto cavaliere del Cristo, per gli eminenti servigi resi ai cristiani d’Oriente; ha cinque o sei croci per servigi resi ai principi o agli stati. — E non le porta? — No, ma ne va superbo; dice che ama più le ricompense accordate ai benefattori dell’umanità, che quelle accordate ai distruttori degli uomini. — È dunque un _quacquero_. — Precisamente. — Si conosce che abbia amici? — Sì, perchè ha per amici tutti quelli che lo conoscono. — Ma finalmente avrà qualche nemico? — Un solo. — Come si chiama? — Lord Wilmore. — Dov’è egli? — In questo momento si ritrova a Parigi. — E può darmi informazioni? — Preziose. Egli era nell’India nello stesso tempo di Zaccone. — Sapete dove stia? — In qualche parte della Chaussée-d’Antin; ma non so nè il numero, nè la strada. — Siete in urto con questo inglese? — Io amo Zaccone, egli lo detesta; siamo freddi per questa ragione. — Sig. abate, credete che il conte di Monte-Cristo sia mai stato in Francia prima di questo viaggio, e che cosa sia venuto a fare a Parigi? — Ah! per questo poi posso rispondervene asseverantemente: egli non c’è mai stato, mentre si è rivolto a me, saran sei mesi, per avere le informazioni che desiderava. Dal mio lato, siccome non sapeva a qual epoca io stesso sarei ritornato a Parigi, gli ho indirizzato il sig. Cavalcanti. — Andrea? — No; Bartolommeo, il padre. — Benissimo, signore; non ho più a domandarvi che una cosa, e vi intimo in nome dell’onore, dell’umanità, e della religione di rispondermi senza raggiri di parole. — Dite pure, signore. — Sapete voi con quale scopo il sig. di Monte-Cristo ha comprato una casa ad Auteuil? — Certamente, poichè me lo ha detto. — Con quale scopo, signore? — Con quello di fondarvi un ospizio per gli alienati, del genere di quello fondato a Palermo dal barone Pisani. Conoscete questo ospizio? — Di fama, sì, signore. — Ella è una istituzione magnifica. — E con questo, l’abate salutò lo straniero come uomo che desiderava far conoscere che non sarebbe dispiacente a rimettersi al lavoro interrotto. Il visitatore sia che capisse il desiderio dell’abate, sia che fosse al termine delle sue interrogazioni, si alzò a sua volta; l’abate lo ricondusse fino alla porta. — Voi fate delle splendide elemosine, disse il visitatore, e quantunque si dica che siete ricco, oserei offrirvi qualche cosa per i vostri poveri; dal canto vostro sdegnereste accettare la mia offerta? — Grazie, signore, non v’è che una cosa sola di cui io sia geloso in questo mondo, ed è che il bene che io faccio venga da me soltanto. Questa è una risoluzione invariabile. Ma cercate signore, e ritroverete: pur troppo sul sentiero di ciascun ricco, si urta in molte miserie! — L’abate salutò un’ultima volta aprendo la porta: lo straniero salutò anch’egli, ed uscì. La carrozza lo condusse direttamente dal sig. Villefort. Un’ora dopo, la carrozza uscì nuovamente, e questa volta si diresse verso la strada Fontaine-Saint-George. Al n. 5 si fermò: là abitava lord Wilmore. Lo straniero aveva scritto a lord Wilmore per domandargli un convegno che questi aveva fissato per le dieci. Così, siccome lo inviato del sig. prefetto di polizia era giunto dieci minuti prima delle dieci, gli fu risposto che lord Wilmore, che era l’esattezza e la puntualità in persona, non era ancora rientrato, ma che rientrerebbe per certo al batter delle dieci. Il visitatore aspettò nella sala, che nulla aveva di notevole, ed era come tutte le sale degli appartamenti ammobigliati. Un caminetto con due vasi di Sèvres moderni, un orologio a pendolo con un Amore che teneva l’arco, uno specchio in due pezzi. Da ciascun lato di questo specchio vi era un’incisione, una rappresentante Omero portante la sua guida, l’altra Belisario chiedendo l’elemosina; una carta grigia sul muro, un tavolo ricoperto da un tappeto rosso stampato in nero, tale era la sala di lord Wilmore. Essa era illuminata da due globi di vetro appannato che non spandevano che una debolissima luce, disposta espressamente per gli occhi stanchi dell’inviato dal sig. prefetto di polizia. In capo a dieci minuti suonarono le dieci; al quinto colpo, la porta si aprì, e comparve lord Wilmore. Era un uomo piuttosto grande, aveva le barbette rade e rosse, la pelle bianca, ed i capelli biondi grigiastri; era vestito con tutta la eccentricità inglese, cioè, portava un abito blu coi bottoni di oro e col colletto alto ed imbottito, un gilè di casimiro bianco, ed un calzone di nanchina, tre pollici troppo corto, ma che i sottopiedi della stessa roba impedivano di risalire fino alle ginocchia. La sua prima parola entrando, fu: — Sapete, o signore, che io non parlo il francese. — So almeno che non amate parlare la nostra lingua, rispose l’inviato del prefetto di polizia. — Ma potete parlarla, riprese Lord Wilmore; perchè se non la parlo, la capisco. — Ed io, riprese il visitatore, cambiando l’idioma, parlo abbastanza facilmente l’inglese per sostenere la conversazione in questa lingua. Non vi incomodate dunque, signore, e gli presentò la lettera d’introduzione. Questi la lesse con tutta la flemma anglicana; poi, quando ebbe terminato: — Capisco, diss’egli in inglese, capisco benissimo. Allora cominciarono le interrogazioni. Esse furono presso a poco le stesse di quelle indirizzate all’abate Busoni. Ma siccome Lord Wilmore, nella sua qualità di nemico del conte di Monte-Cristo, non vi metteva la stessa ritenutezza dell’abate, furono molto più estese; raccontò la gioventù di Monte-Cristo, che, secondo lui, era entrato al servizio all’età di dieci anni presso uno di quei piccoli sovrani dell’India che fanno la guerra agl’Inglesi; là lo aveva incontrato per la prima volta, ed essi avevano combattuto l’un contro l’altro; in questa guerra Zaccone era stato fatto prigioniero, e mandato in Inghilterra, messo su i pontoni, di dove era fuggito a nuoto. Allora aveva incominciato i suoi duelli, le sue passioni; giunta l’insurrezione della Grecia, aveva servito nelle file dei Greci. Mentre che era al loro servizio, aveva scoperto una miniera d’argento nelle montagne della Tessaglia, ma si era ben guardato dal parlarne con chicchesia. Dopo la battaglia di Navarrino, e quando il governo Greco fu consolidato, domandò al re Ottone un privilegio per lo scavo di questa miniera, e gli fu accordato. Di là venne quella immensa fortuna che poteva, secondo Lord Wilmore, calcolarsi a due milioni di rendita, la quale però poteva d’improvviso cessare, se la miniera cessava. — Ma, sapete perchè sia venuto in Francia? — Vuole speculare sulle strade ferrate, disse Lord Wilmore; e poi, essendo un valente chimico, ed un fisico non men distinto, ha scoperto un nuovo telegrafo di cui cerca l’applicazione. — Quanto spenderà circa ogni anno? — Oh! cinque, o sei cento mila fr. tutto al più, disse Lord Wilmore; egli è avaro. Era evidente che l’odio faceva parlare l’inglese, e che, non sapendo qual cosa rimproverare al conte, gli rimproverava la sua avarizia. — Sapete qualche cosa della sua casa d’Auteuil? — Sì certamente. — Ebbene che ne sapete? — Domandate con quale scopo l’ha comprata? — Sì. — Ebbene! il conte è uno speculatore che certamente si rovinerà in esperimenti ed in utopie: egli pretende che ad Auteuil, nelle vicinanze della casa che ha comprato, vi sia una corrente di acqua minerale, che può rivaleggiare con le acque di Bagnères di Luchon, e di Cauterets. Egli vuol fare della sua compra un _bad-haus_ come dicono in Germania: ha già due o tre volte rivoltata tutta la terra del giardino, per ritrovare la famosa corrente d’acqua; e siccome non l’ha potuta scoprire, vedrete che in breve comprerà tutte le case che circondano la sua. Adesso, siccome l’ho con lui, e che spero che nella sua strada di ferro, nel suo telegrafo elettrico, o nella sua speculazione dei bagni possa rovinarsi, lo seguito per godere della sua sconfitta che non può tardare di accadergli, o presto o tardi. — E perchè l’odiate? domandò il visitatore. — L’odio, rispose Lord Wilmore, perchè passando in Inghilterra ha sedotto la moglie di uno dei miei amici. — Ma se l’odiate, perchè non cercate di vendicarvi di lui? — Mi sono già battuto tre volte col conte, la prima volta alla pistola, la seconda alla spada, la terza allo squadrone: ma la prima volta mi ha rotto un braccio, la seconda mi ha traversato il polmone, la terza mi ha fatto questa ferita. L’Inglese rivoltò il colletto della camicia che gli saliva fino alle orecchie, e mostrò una cicatrice, il rossore della quale indicava una data recente. — Dimodochè io l’ho con lui sempre più, ripetè l’Inglese, ed egli certamente non morirà che per mia mano. — Ciò era quanto voleva sapere il visitatore, o piuttosto tutto ciò che sembrava sapesse l’Inglese. Egli adunque si alzò, e dopo avere salutato Lord Wilmore, che gli rispose con quella rigidezza e politezza propria degli Inglesi, si ritirò. Dal suo canto, Lord Wilmore, dopo avere inteso chiudersi la porta di strada dietro a lui, rientrò nella camera da dormire, ove con un giro di mano perdette i capelli biondi, le barbette rosse, la falsa mascella, e la cicatrice, per ritrovare i capelli neri, il colorito pallido, ed i denti di perla del conte di Monte-Cristo. È vero altresì che il sig. de Villefort, e non l’inviato del prefetto di polizia, fu quegli che rientrò in casa del sig. de Villefort. LXIX. — LA FESTA DI BALLO. Eravamo giunti alle più calde giornate del mese di luglio, allorchè venne a presentarsi a sua volta, nell’ordine dei tempi, quel sabato in cui doveva aver luogo il ballo del sig. de Morcerf. Erano le dieci della sera: i grandi alberi del giardino del palazzo del conte si ergevano con vigore, sotto un cielo ove scorrevano, presentando un fondo azzurro disseminato di stelle d’oro, gli ultimi vapori di un uragano che aveva minacciosamente mormorato tutta la giornata. Nelle sale del pian terreno sentivasi il rumore della musica, e lo strisciare dei _valzer_ e della galoppa, mentre che i raggi luminosi delle lampade passavano a traverso le aperture delle persiane. Il giardino era stato abbandonato ad una diecina di servitori, ai quali la padrona di casa, rassicurata dal tempo che sempre più si rasserenava, aveva dato ordine di preparare la cena. Fino a quel momento erasi esitato se la cena dovesse farsi nella sala da pranzo, o sotto una lunga tenda di traliccio innalzata sul prato. Quel bel cielo azzurro, tutto sparso di stelle, aveva risoluto il problema in favore della tenda e del prato. Si illuminavano i viali del giardino con lampioni a colore, come si usa in Italia, e si sopraccaricava di candele e di fiori la tavola da cena, come si usa in tutti i paesi in cui si capisce un poco il vero lusso della tavola, il più raro di tutti i lussi, quando si vuole ottenere il perfetto. Nel momento che la contessa di Morcerf rientrava nelle sale, dopo aver dati gli ultimi ordini, queste cominciavano a riempirsi d’invitati attirati dalla graziosa ospitalità della contessa, molto più che della distinta posizione del conte; perchè si era sicuri che questa festa offrirebbe, mercè il buon gusto di Mercedès, qualche particolare degno di essere raccontato, o al bisogno copiato. La sig.ª Danglars, cui gli avvenimenti che abbiam narrati avevano inspirata una profonda inquietezza, esitava di andare dalla sig.ª di Morcerf, allorquando nella mattinata la sua carrozza incontrò quella di Villefort: il quale le aveva fatto un segno, e le due carrozze si erano avvicinate, e dai finestrelli: — Andate dalla sig.ª de Morcerf, n’è vero? aveva domandato il procuratore del Re. — No! aveva risposto la sig.ª Danglars, soffro troppo. — Avete torto; sarebbe importante che vi ci vedessero. — Ebbene vi andrò. — E le due carrozze ripresero il loro corso in senso opposto. La sig.ª Danglars era dunque venuta non solamente bella della sua propria bellezza, ma ancora abbagliante pel lusso; ella entrava da una porta, nel momento in cui Mercedès entrava dall’altra. La contessa mandò avanti Alberto ad incontrare la sig.ª Danglars; Alberto si avanzò, fece alla baronessa i complimenti meritati per la sua toletta, e le prese il braccio per condurla a quel posto che le sarebbe piaciuto di scegliere. Alberto guardò intorno a sè. — Voi cercate mia figlia? disse sorridendo la baronessa. — Lo confesso, avreste avuta la crudeltà di non condurla? — Rassicuratevi, ella ha incontrato madamigella de Villefort, e ne ha preso il braccio; osservate lì che ci seguono tutte e due vestite di bianco, l’una con un mazzetto di camelie, l’altra con un mazzetto di miosoti; ma ditemi adunque.... — Che cercate voi pure? domandò sorridendo Alberto. — Questa sera non avete il conte di Monte-Cristo? — Diecisette! rispose Alberto — Che volete dire? — Voglio dire, che così va bene, rispose il visconte ridendo, e che voi siete la 17ª persona che mi fa la stessa domanda; il conte va avanti!... fategli i miei rallegramenti. — E rispondete voi a tutti come a me? — Ah! è vero, non vi ho risposto; tranquillatevi, signora; avremo l’uomo alla moda, siamo fra i suoi privilegiati. — Eravate all’_Opera_ ier sera? — No. — Egli v’era. — Davvero! l’eccentrico ha fatto qualche originalità? — Può farsi vedere senza farne? Ballava la Essler nel _Diavolo Zoppo_; la principessa greca era trasportata in estasi. Dopo la _cachucha_, ha infilato un anello magnifico di brillanti nel nastro che legava il suo mazzetto di fiori, e lo ha gettato alla graziosa ballerina, la quale al terzo atto, per farle onore, si è presentata col suo anello in dito. E la sua principessa l’avrete questa sera? — No, bisogna rimanerne privi; la sua posizione nella casa del conte non è abbastanza stabilita. — Basta, lasciatemi qui, e salutate la sig.ª de Villefort, disse la baronessa; vedo che muore dal desiderio di parlarvi. — Alberto salutò la sig.ª Danglars, e si inoltrò verso la sig.ª de Villefort: — Scommetto, disse Alberto interrompendola, che so ciò che volete dirmi? — Ah! bravo, disse la sig.ª de Villefort. — Se indovino giusto, ne converrete? — Sì. — Stavate per chiedermi se veniva il conte di Monte-Cristo. — Niente affatto. Non è di lui che mi occupo in questo momento. Voleva chiedervi se avete notizia di Franz. — Sì, ieri. — Che vi diceva? — Che partiva contemporaneamente alla lettera. — Bene. Ora, il conte...? — Il conte verrà, siate tranquilla. — Sapete che Monte-Cristo ha un altro nome? — No, non lo sapeva. — Monte-Cristo è il nome di un isola, ma egli ha ancora un nome di famiglia. — Non l’ho mai sentito pronunciare. — Ebbene! son più avanti di voi, si chiama Zaccone. — Ciò è possibile. — Egli è maltese. — Ciò pure è possibile. — Figlio di un armatore. — Oh! ma, davvero che dovreste raccontare simili cose ad alta voce, ne otterreste un grandissimo incontro. — Ha servito nelle Indie, possiede una miniera d’argento nella Tessaglia, e viene a Parigi per fondare uno stabilimento di acque minerali ad Auteuil. — Ebbene! disse Morcerf, ecco delle notizie! mi permettete di divulgarle? — Sì, ma poco a poco, una a una, senza dire che vengano da me. — E perchè? — Perchè è quasi un segreto sorpreso. — A chi? — Alla polizia. — Allora queste notizie si spargevano... — Ier sera, in casa del prefetto. Parigi si è commossa, lo capirete bene, alla vista di un lusso così straordinario, e la polizia ha prese le sue informazioni. — Sta bene! non vi sarebbe mancato che avessero arrestato il conte come vagabondo, sotto pretesto che è troppo ricco. — In fede mia, ciò era quanto poteva accadergli, se le informazioni non fossero state così favorevoli. — Povero conte! Egli non pensa neppure al pericolo che ha corso. — Lo credo bene. — Allora è una carità l’avvisarlo. Al suo arrivo non mancherò. — In questo momento un bel giovine cogli occhi vivi, coi capelli neri, coi baffi lucidi, venne a salutare rispettosamente la sig.ª de Villefort. Alberto gli stese la mano. — Signora, disse Alberto, ho l’onore di presentarvi il sig. Massimiliano Morrel, capitano dei _Spahis_, uno dei nostri buoni, e soprattutto bravi ufficiali. — Ho già avuto il piacere d’incontrare il signore ad Auteuil, in casa del conte di Monte-Cristo, rispose la sig.ª de Villefort rivoltandosi con una marcata freddezza. Questa risposta, e soprattutto il tuono con cui fu fatta, strinsero il cuore del povero Morrel, ma gli era preparato un compenso: nel voltarsi vide sul limitare della porta una bella e bianca figura, i cui occhi blu dilatati, e senza una apparente espressione si attaccavano su lui; mentre che il mazzetto di miosotis saliva lentamente verso le labbra. Questo saluto fu così bene inteso, che Morrel colla stessa espressione di sguardo, avvicinò anch’egli il fazzoletto alla bocca; e le due statue viventi, il cui cuore batteva tanto fortemente sotto l’apparente marmo dei loro visi, separate l’una dall’altra quant’era larga la sala, dimenticarono un momento sè stesse, o per dir meglio dimenticarono la folla in questa muta contemplazione. Avrebbero potuto restar così per lungo tempo perduti l’uno nell’altro senza che alcuno s’accorgesse del loro obblìo d’ogni cosa; ma entrava il conte di Monte-Cristo. Abbiamo già detto, fosse prestigio fatuo, o naturale, il conte attirava l’attenzione universale su di sè in qualunque luogo si presentasse. Non il suo abito nero, irreprensibile nel taglio, ma semplice e senza decorazioni; non il gilè bianco senza alcun ricamo, non il calzone che cadeva su di un piede della forma più delicata, attiravano l’attenzione; ma il colorito pallido, i capelli neri ondati, il viso tranquillo e sereno, l’occhio profondo e melanconico; la bocca disegnata con finitezza maravigliosa, e che prendeva tanto facilmente l’espressione dell’alto sdegno, che faceva che tutti gli occhi si fissassero su di lui. Vi potevano essere uomini più belli, ma non ve ne potevano essere più _significanti_ (ci sia permessa questa espressione). E forse non si sarebbe fatto attenzione a tutto ciò, se non vi fosse stata, sotto a tutto questo, una misteriosa storia, dorata da un’immensa fortuna. Che che ne sia, egli s’inoltrò sotto il peso degli sguardi e nello scambio di piccoli saluti, fino alla sig.ª de Morcerf, che, in piedi davanti al caminetto guernito di fiori, lo aveva veduto comparire da uno specchio posto di contro alla porta e si era preparata a riceverlo. Ella dunque si voltò verso lui, con un sorriso composto, nello stesso momento ch’egli si inchinava davanti a lei. Senza dubbio ella credè che il conte le avrebbe parlato; dal suo lato, il conte credè che ella gli avrebbe indirizzata la parola; ma da ambedue le parti restarono muti, tanto sembrava loro indegna d’entrambi una finzione; e dopo essersi scambiato il saluto, Monte-Cristo si diresse verso Alberto, che gli veniva incontro a mano aperta. — Avete veduta mia madre? domandò Alberto. — Ho avuto l’onore di salutarla, disse il conte, ma non ho per anche veduto il vostro sig. padre. — Osservate! parla laggiù di politica in quel piccolo gruppo di grandi celebrità. — Da vero! disse Monte-Cristo, quei signori che vedo là sono celebrità? non l’avrei pensato. E di qual specie? vi sono delle celebrità di tutte le specie, come sapete. — Primieramente vi è uno scienziato, quel signore grande e secco; ha scoperto nella campagna romana una specie di lucertola che ha una vertebra di più delle altre, ed è ritornato per far parte all’Istituto di questa scoperta. La cosa fu per lungo tempo contestata; ma finalmente il vantaggio è rimasto all’uomo secco. La vertebra aveva fatto un gran fracasso nel mondo sapiente, il sig. grande e secco, che era solamente cavaliere della legion d’onore, ne fu nominato ufficiale. — Alla buon’ora! disse Monte-Cristo. Ecco una croce che mi sembra data saggiamente; allora, se ritrova una seconda vertebra, lo faranno commendatore. — È probabile, disse Morcerf. — E quell’altro che ha avuta la singolare idea d’imbacuccarsi in un abito blu orlato di verde; chi può mai essere? — Non è sua l’idea di affibbiarsi quell’abito; ma della repubblica, che, come sapete, era ben poco artista; e che volendo dare un’uniforme agli accademici, pregò David di disegnar loro un abito. — Ah! da vero; in tal guisa quel signore è un accademico? — Da otto giorni fa parte della dotta assemblea. — E qual è il suo merito, la sua specialità? — La sua specialità? credo, ch’egli conficchi gli aghi nella testa dei conigli, faccia mangiare della robbia ai polli, ed estragga con ossa di balena la midolla spinale ai cani. — E per questo è dell’accademia delle scienze? — No, dell’accademia di Francia. — Ma che cosa ha dunque che fare l’accademia francese con tutto questo? — Ve lo dirò; sembra... — Che queste esperienze abbiano fatto fare un gran passo alla scienza, senza dubbio? — No, ma che scriva con molto buon stile. — Ciò deve, disse Monte-Cristo, lusingare enormemente l’amor proprio dei cani ai quali viene tolta la midolla spinale. — Alberto si mise a ridere. — E quell’altro? domandò il conte. — Ah! l’abito blu-bordò? — Sì. — È un collega del conte; quegli che si è opposto il più calorosamente alla proposizione che la camera dei pari abbia un’uniforme. Ha avuto un grand’incontro alla tribuna su questo argomento; era in cattivo aspetto ai fogli liberali, ma si è riconciliato con essoloro; e si dice che verrà nominato ambasciatore. — E quali sono i suoi titoli per essere divenuto pari? — Ha scritto due o tre opere comiche, ha preso 4 o 5 azioni al _Siècle_, ed ha dato il voto in favore del ministero per cinque o sei anni. — Bravo! visconte, disse Monte-Cristo ridendo, voi siete uno spiritoso cicerone; ora mi farete un favore, non è vero? — Quale? — Non mi presenterete a quei signori, e se domandano di essermi presentati, mi preverrete. In questo momento il conte sentì una mano posarsi sul suo braccio; si voltò, era Danglars. — Ah! siete voi, barone? diss’egli. — Perchè mi chiamate barone? sapete bene che non metto importanza al mio titolo. Non son come voi, visconte, voi ci pretendete, non è vero? — Certamente, rispose Alberto, perchè se non fossi visconte, non sarei più niente, mentre che voi potreste sacrificare il vostro titolo di barone, e restereste sempre milionario. — Ch’è il più bel titolo sotto il governo di luglio. — Disgraziatamente, disse Monte-Cristo, non si è sempre milionari a vita, come si può essere barone, pari di Francia, o Accademico; ne facciano fede i milionari Frank e Poulmann di Francfort che hanno fatto bancarotta. — Davvero? disse Danglars impallidendo. — Sulla mia parola, ne ho ricevuta la notizia questa sera da un corriere: aveva qualche cosa, circa un milione, sopr’essi, ma, avvertito in tempo, ne ho fatto esigere il rimborso sarà circa un mese. — Ah! mio Dio! riprese Danglars, hanno fatta tratta sopra di me per 200 mila fr. — Ebbene! eccovi avvisato. La loro firma non vale più che il 5 per cento. — Sì, ma io sono avvisato troppo tardi.... ho fatto onore alla loro firma. — Buono! disse Monte-Cristo. Ecco altri 200 mila fr. che sono andati a raggiungere... — Zitto, disse Danglars: non parlate dunque di questi affari... (indi avvicinandosi a Monte-Cristo): particolarmente in presenza del sig. Cavalcanti figlio, aggiunse il banchiere, che, pronunciando queste parole, si voltò sorridendo dalla parte del giovine. Morcerf aveva lasciato il conte per parlare a sua madre. Danglars lo lasciò per salutare Cavalcanti figlio. Monte-Cristo si ritrovò per un momento solo. Frattanto il caldo cominciava a divenire eccessivo. I camerieri circolavano per le sale con sottocoppe cariche di frutti e di gelati. Monte-Cristo si asciugò col fazzoletto il viso bagnato di sudore; ma dette addietro, quando la sottocoppa gli passò davanti, e nulla prese per rinfrescarsi. La signora de Morcerf non lo perdeva di vista; ella vide passare la sottocoppa senza prender niente; afferrò perfino il movimento che fece nell’allontanarsi. — Alberto, diss’ella, avete osservato che il conte non ha voluto mai accettare un pranzo dal sig. de Morcerf. — Sì, ma ha accettata una colazione da me, poichè per questa colazione ha fatto il suo ingresso nella società. — Da voi non è dal conte, mormorò Mercedès, e da che egli è qui, io l’ho esaminato... e non ha ancor preso nulla. — Il conte è molto sobrio. — Mercedès sorrise tristamente. — Riavvicinatevi a lui, diss’ella, ed alla prima sottocoppa che passa, insistete. — E perchè, madre mia? — Fatemi questo piacere, Alberto, disse Mercedès. Alberto baciò la mano di sua madre, ed andò a situarsi vicino al conte. Passò un’altra sottocoppa carica come le precedenti; ella vide Alberto insistere presso il conte, prendere ancora un gelato e presentarglielo, ma egli rifiutò ostinatamente. — Ebbene! diss’ella, vedete, ha rifiutato. — Ma in che cosa può preoccuparvi questo? — Lo sapete, Alberto, le donne sono singolari. Avrei veduto con piacere il conte prendere qualche cosa in casa mia, fosse anche stato un solo grano di melagranata. Del resto forse non saprà adattarsi ai costumi francesi, forse preferirà qualche cosa d’altro. — Mio Dio! no, l’ho veduto in Italia prendere di tutto; senza dubbio questa sera sarà indisposto. — Poi, disse la contessa, avendo sempre abitato nei climi ardenti, forse sarà men sensibile a questo caldo. — Non lo credo, poichè si lagnava di sentirsi soffocare; domandava anzi perchè, avendo già aperte le finestre, non aprano pure le persiane. — In fatto questo è il mezzo per assicurarmi se questa astinenza è un disegno prestabilito: — Ed ella uscì dalla sala. Un momento dopo si aprirono le persiane, e si potè a traverso i gelsomini, e le clematidi che tappezzavano le finestre, vedere tutto il giardino illuminato con lanterne, e la cena imbandita sotto una tenda. Ballerini e ballerine, giuocatori e ciarloni, mandarono un grido di gioia, tutti quei polmoni alterati aspiravano con delizia l’aria che entrava a torrenti. Nello stesso punto ricomparve Mercedès, più pallida di quando era uscita, ma con quella fermezza d’aspetto ch’era in lei notevole in certe occasioni. Ella andò direttamente al gruppo di cui suo marito era il centro. — Non trattenete questi signori qui, sig. conte, diss’ella, essi ameranno meglio, se non giuocano, respirare nel giardino, che soffocare in questa sala. — Ah! signora, disse un vecchio generale molto galante, che nel 1809 aveva cantato: _Nel partire per la Siria_, non andremo soli nel giardino. — Sia, disse Mercedès, vi darò il buon esempio. E voltandosi verso Monte-Cristo: — Sig. conte, diss’ella, fatemi l’onore di offrirmi il braccio. — Il conte quasi vacillò a queste semplici parole; poi guardò un momento Mercedès, questo momento ebbe la rapidità del baleno, eppure sembrò alla contessa che durasse un secolo, tanti pensieri aveva Monte-Cristo ammassati in questo sguardo. Egli offrì il braccio alla contessa, che vi si appoggiò, o, per meglio dire, lo sfiorò colla sua piccola mano, ed entrambi discesero dai gradini della scalinata. Dietro ad essi, e per l’altra parte della scalinata, si slanciarono nel giardino, colle più romorose esclamazioni di piacere, una ventina di passeggianti. LXX. — IL PANE ED IL SALE. La sig.ª de Morcerf entrò col suo compagno sotto una volta di foglie formata da un viale di tigli che conduceva ad una stufa. — Faceva troppo caldo nella sala, n’è vero, sig. conte? — Sì, signora, ed è stata una eccellente idea la vostra di fare aprire le porte e le persiane. — Terminando queste parole il conte s’accorse che la mano di Mercedès tremava. — Ma voi, diss’egli, con questa veste leggera e senz’altro preservativo intorno al collo che questa sciarpa di velo, avrete freddo. — Sapete dove vi conduco? disse la contessa senza rispondere alla domanda di Monte-Cristo. — No, signora, ma, lo vedete, non fo resistenza. — A quella stufa che vedete là, in fondo al viale. Il conte guardò Mercedès come per interrogarla; ma ella continuò il cammino senza dir parola, e dal suo canto Monte-Cristo divenne muto. Giunsero al fabbricato tutto guernito di frutti magnifici che, dal principio di luglio, giungono alla loro maturità in questa temperatura sempre calcolata per sostituire il calore del sole, tanto spesso assente da noi. La contessa lasciò il braccio di Monte-Cristo, e colse un grappolo di uva moscatella. — Prendete, sig. conte, disse ella con un sorriso fatto più tristo da due lagrime che le spuntavano dagli occhi; prendete, la nostra uva di Francia non è paragonabile, lo so, alle vostre della Sicilia e di Cipro, ma sarete indulgente pel nostro debole sole del Nord. Il conte s’inchinò, e fece un passo in addietro. — La rifiutate? disse Mercedès con voce tremante. — Signora, rispose Monte-Cristo, vi prego umilmente di scusarmi, ma non mangio mai moscatello. Mercedès lasciò cadere il grappolo sospirando. Una pesca magnifica pendeva da una spalliera vicina, riscaldata pur dal calore artificiale della stufa. Mercedès si avvicinò al frutto vellutato e lo colse. — Allora prendete questa pesca, diss’ella. — Il conte fece lo stesso gesto di rifiuto. — Oh! ancora? in verità son disgraziata. — Un lungo silenzio seguì questa scena; la pesca, come il grappolo d’uva, era rotolata al suolo. — Sig. conte, riprese Mercedès guardando Monte-Cristo con occhio supplichevole, vi è un commovente costume in Arabia che fa eternamente amici quelli che hanno fra loro diviso il pane ed il sale sotto il medesimo tetto. — Lo conosco, ma noi siamo in Francia e non nell’Arabia; ed in Francia non vi è divisione di pane e di sale, come non vi sono amicizie eterne. — Ma finalmente, disse la contessa palpitante con gli occhi fissi su quelli di Monte-Cristo, del quale riafferrava quasi convulsivamente il braccio con ambe le mani, noi siamo amici, n’è vero? — Il sangue affluì al cuore del conte, che divenne pallido come la morte, poi rifluendo dal cuore alla gola, ne invase le guance; e gli occhi nuotarono nel vago per qualche secondo, come quelli di un uomo colpito da improvviso bagliore: — Certamente che siamo amici, signora, replicò egli; e d’altra parte perchè non dovremmo esserlo? — Grazie, diss’ella. E si rimise a camminare. — Signore, riprese dopo dieci minuti di silenziosa passeggiata, è vero che avete veduto tanto, tanto viaggiato, e sofferto? — Ho sofferto moltissimo. — Ma ora siete felice? — Senza dubbio, perchè ora nessuno mi sente lamentare. — E la vostra felicità presente vi fa l’anima più dolce? — No; essa uguaglia la mia passata miseria. — Non siete ammogliato? — Ammogliato! no, rispose Monte-Cristo fremendo, chi ha potuto dirvi ciò? — Non mi fu detto, ma più di una volta siete stato veduto condurre all’_Opera_ una bella e giovane donna. — È una schiava che ho comprato a Costantinopoli, la figlia di un principe, della quale ho formato una figlia, non avendo altre affezioni in questo mondo. — Vivete dunque solo? — Vivo solo. — Non avete sorelle... figli... padre?... — Non ho alcuno. — Come potete viver così, senza che niente vi attacchi alla vita? — Non è mia colpa, signora. A Malta amavo una giovinetta, e stava per isposarla, quando sopraggiunse la guerra e m’involò da lei lontano, rapito come da un turbine. Credetti ch’ella mi avesse amato abbastanza per aspettarmi, per restarmi fedele anche alla tomba. Quando ritornai era maritata. Questa è la storia di tutti gli uomini che sono passati per l’età di vent’anni; aveva forse il cuore più debole degli altri, ed ho sofferto più di quel che avrebbero fatto al mio posto. — La contessa si fermò un momento come se avesse avuto bisogno di fermarsi per potere respirare: — Sì; diss’ella, e quest’amore vi è rimasto nel cuore... Non si ama davvero che una sola volta... Ed avete mai più riveduta questa donna? — Giammai. — Giammai? — Non son più ritornato nel paese dov’ella era. — A Malta? dunque, ella è a Malta? — Lo penso. — E le avete perdonato quanto vi ha fatto soffrire? — A lei, sì. — Ma ad essa soltanto; odiate sempre quelli che vi hanno da lei diviso? — Perchè dovrei odiarli? La contessa si pose dirimpetto a Monte-Cristo; ella teneva ancora in mano un resto del grappolo profumato: — Prendete, diss’ella. — Non mangio mai moscatello, signora. La contessa gettò il grappolo nel cespuglio di fiori più vicino con un gesto di disperazione: — Inflessibile! Monte-Cristo restò così impassibile come se il rimprovero non fosse stato a lui diretto. Alberto accorreva in quel momento. — Oh! madre mia! diss’egli, una gran disgrazia! — Che cosa è accaduto? domandò la contessa raddrizzandosi, come se dopo il sogno fosse giunta la realtà; una disgrazia, avete detto? infatto devono accaderne! — Il sig. de Villefort è qui. — Ebbene? — Viene a cercare sua moglie e sua figlia. — E perchè? — Perchè la marchesa di Saint-Méran è giunta a Parigi, portando la notizia che il sig. di Saint-Méran è morto alla prima posta lasciando Marsiglia. La sig.ª de Villefort ch’era molto allegra, non voleva nè comprendere nè credere questa disgrazia; ma madamigella Valentina, alle prime parole, per quante cautele avesse preso suo padre, ha indovinato tutto; questo colpo l’ha atterrata come un fulmine, ed è caduta svenuta. — E che cosa è il conte di Saint-Méran a madamigella de Villefort? chiese il conte. — Suo avo materno. Veniva per ottenere il matrimonio di sua nipote con Franz. — Ah! davvero! — Ecco Franz aggiornato. Perchè di Saint-Méran non è egualmente avo di madamigella Danglars? — Alberto! Alberto! disse la sig.ª di Morcerf col tuono di un dolce rimprovero; che dite? Ah! conte, voi per cui egli ha tanta considerazione, ditegli dunque che ha parlato male. — Ella fece qualche passo in avanti. Monte-Cristo la guardò così stranamente, e con una espressione astratta e ad un tempo improntata di una affettuosa ammirazione, che ella ritornò addietro. Allora ella gli prese la mano, nello stesso tempo che stringeva quella del figlio, ed unendole entrambe: — Siamo amici, n’è vero? diss’ella. — Oh! vostro amico, signora, non ho questa pretensione, disse il conte, ma in ogni caso son sempre vostro rispettabilissimo servitore. — La contessa partì con un’inesprimibile stringimento di cuore, e, prima che avesse fatto dieci passi, il conte la vide mettersi il fazzoletto agli occhi. — E che, non siete forse d’accordo con mia madre? domandò Alberto meravigliato. — Al contrario, rispose il conte, poichè ella mi ha detto presente voi che siamo amici. Rientrarono nella sala che era stata allora lasciata da Valentina, dal signore, e dalla sig.ª de Villefort. È superfluo il dire che Morrel partì dietro ad essi. LXXI. — LA SIGNORA DI SAINT-MÉRAN. Una scena lugubre infatto accadeva in casa del sig. de Villefort. Dopo la partenza delle due signore per la festa di ballo, ove tutte le istanze della sig.ª de Villefort non avevano potuto determinare suo marito ad accompagnarla, il procurator del Re, secondo il suo costume, si era chiuso nel gabinetto con una filza di carte, che avrebbe spaventato tutt’altro, ma che, nei tempi ordinarii della sua vita, bastava appena per soddisfare il forte appetito del lavoratore. Questa volta la filza di carte conteneva cose di pura forma, Villefort non si rinchiudeva per lavorare, ma per riflettere; e chiusa la porta ordinò di non essere disturbato che per cose d’importanza; si assise sopra un seggio, e si mise a riandare anche una volta nella memoria tutto ciò che, da sette o otto giorni, faceva straripare la coppa dei suoi tetri dispiaceri, dei suoi amari ricordi. Allora, invece di portar la mano sul monte di carte ammassate davanti a lui, aprì un tiratoio dello scrittoio; fece scattare un segreto e cavò fuori un plico che conteneva le sue note personali, manoscritto prezioso, nel quale aveva classificato e distinto, con cifre conosciute da lui solo, i nomi di tutti coloro che, nella sua carriera politica, ne’ suoi affari d’interesse pecuniario, nelle sue cause criminali e nei suoi misteriosi amori, eran diventati suoi nemici. Il numero n’era formidabile, oggi che aveva cominciato a tremare; e ciò non ostante tutti questi nomi, per quanto possenti o temibili si fossero, lo avevan fatto ben molte volte sorridere, come sorride il viaggiatore che dalla più alta montagna guarda ai suoi piedi gli acuti picchi, le strade impraticabili, gli orli dei precipizi pei quali si è tanto lungamente arrampicato per poter giungere a quell’altezza. Quando ebbe ripassati bene tutti questi nomi nella memoria, quando li ebbe ben studiati, commentati sulle sue liste, scosse la testa: — No, mormorò egli, nessuno di questi nemici avrebbe atteso pazientemente ed operosamente fino al giorno in cui siamo, per venirmi ora a schiacciare con questo segreto. Qualche volta, come dice Hamlet, il romore dalle cose più profondamente seppellite sotto terra, sorge, e, come il fuoco nel fosforo, corre follemente per l’aria; ma queste son fiamme che illuminano in un momento per stravolgere il cervello. La storia sarà stata raccontata dal Corso a qualche prete, che la avrà a sua volta raccontata. Il sig. di Monte-Cristo l’avrà saputa, e per venirne in chiaro... ma con qual pro venirne in chiaro? riprendeva Villefort dopo un momento di riflessione, qual premura il sig. di Monte-Cristo, il sig. Zaccone, il figlio di un armatore di Malta, il proprietario di una miniera d’argento nella Tessaglia, che vien per la prima volta in Francia, ha da venire in chiaro di un fatto cupo, misterioso, ed inutile come questo? In mezzo alle informazioni incoerenti che mi sono state date da quell’abate Busoni, e da Lord Wilmore, da questo amico, e da quel nemico, una sola cosa ne spicca chiara, precisa, ai miei occhi: ed è che in nessun tempo, in nessun caso, in nessuna congiuntura egli non può avere avuto il più piccolo contatto con me. Ma Villefort ripeteva spesso queste parole a sè stesso senza credere a quanto diceva. Il più terribile per lui non era una rivelazione, perchè poteva negare, od anche rispondere: egli s’inquietava poco di quel _Mane_, _Thècel_, _Pharès_, che appariva d’improvviso in lettere di sangue sul muro; ma ciò che io inquietava, era di conoscere il corpo al quale apparteneva la mano che le aveva tracciate. Al momento che tentava di tranquillar sè stesso, ed in cui, invece di quell’avvenire politico che nei suoi sogni d’ambizione aveva qualche volta traveduto, egli si componeva, nel timore di svegliare questo nemico addormentato da sì lungo tempo, un avvenire ristretto alle gioie di famiglia, un romore di carrozza rimbombò nel cortile, indi intese sulla scala passi di una persona di età, poi dei singhiozzi e dei sospiri, come ne trovano i servitori quando vogliono divenire _interessanti_ pel dolore dei loro padroni. Si sollecitò di levare il chiavistello del gabinetto, e ben presto, senza essere annunciata entrò una vecchia dama, collo scialle sul braccio, ed il cappello in mano. I capelli imbiancati coprivano una fronte scura come l’avorio ingiallito, e gli occhi negli angoli dei quali l’età aveva solcato profonde rughe, sparivano quasi del tutto sotto il gonfiore prodotto dal pianto: — Oh! signore, diss’ella, qual disgrazia! Io pur ne morrò. — E cadendo sul seggio più vicino alla porta, irruppe in singhiozzi. I domestici, in piè sul limitare, non osavano più venire avanti, guardavano il vecchio servitore di Noirtier, che, avendo inteso questo romore dalla camera del padrone, era accorso egli pure, e si teneva dietro gli altri. Villefort si alzò, e corse incontro a sua suocera, perchè era ella stessa. — Eh! mio Dio, signora, domandò egli, che è accaduto, che cosa vi sconvolge così? ed il sig. di Saint-Méran? — È morto, disse la vecchia marchesa senza espressioni e con una specie di stupore. Villefort indietreggiò di un passo, e battè le mani una contro l’altra: — Morto!... morto così... subitamente? — Sono otto giorni, continuò la sig.ª di Saint-Méran, che dopo avere pranzato montammo insieme in carrozza. Il signor di Saint-Méran era indisposto da qualche giorno; però l’idea di rivedere la nostra cara Valentina lo rendeva coraggioso, e, ad onta dei suoi dolori, aveva voluto partire, allorquando, a sei leghe da Marsiglia, dopo aver mangiate le consuete pastiglie, fu preso da un sonno profondo, che non mi sembrava naturale; ciò nonostante esitai a svegliarlo, quando mi sembrò che il viso diventasse rosso, e le arterie delle tempia battessero più violentemente del solito. Ma pure, siccome era sopraggiunta la notte, ed io non vedeva più niente, lo lasciai dormire; ben tosto mandò un grido sordo e straziante come quello di un uomo che soffre in un sogno, e con improvviso movimento rovesciò la testa in addietro. Chiamai il cameriere, feci fermare il postiglione, chiamai il sig. di Saint-Méran, gli feci respirare la mia boccetta di sali, tutto era finito, era morto, ed al lato del suo cadavere io giunsi fino ad Aix. Villefort rimase stupefatto, colla bocca aperta. — E voi chiamaste un medico? — Nello stesso momento; ma, come ve l’ho già detto, era troppo tardi. — Senza dubbio, ma almeno egli poteva riconoscere di qual malattia era morto il povero marchese. — Mio Dio! sì, me l’ha detto, sembra che sia stata un’apoplessia fulminante. — Ed allora che avete fatto? — Il sig. di Saint-Méran aveva sempre detto, che se moriva lontano da Parigi, desiderava che il suo corpo fosse ricondotto nella sepoltura di famiglia; l’ho fatto mettere in una cassa di piombo, e lo precedo di pochi giorni. — Oh! mio Dio, povera madre! disse Villefort: simili cure dopo un tale colpo nella vostra età! — Dio mi ha dato la forza sino alla fine; d’altra parte il caro marchese avrebbe fatto per me ciò che ho fatto per lui. È vero che dal momento in cui l’ho lasciato laggiù, mi sembra di esser pazza: non posso piangere; alla mia età già non vi sono più lagrime: però mi sembra che fino a tanto che si soffre, si dovrebbe poter piangere. Dov’è Valentina, signore? è per lei che ritorniamo, voglio vedere Valentina. Villefort pensò che sarebbe stato orribile il rispondere che Valentina era al ballo; disse soltanto alla marchesa, che sua nipote era uscita con la matrigna, e che andavano a prevenirla. — In questo medesimo punto signore, ve ne supplico! — Villefort mise il braccio sotto quello della sig.ª di Saint-Méran, e la condusse al suo appartamento. — Riposatevi, diss’egli, madre mia. — La marchesa alzò la testa a queste parole, e vedendo quell’uomo che le ricordava questa figlia tanto pianta, e che rivedeva per lei stessa in Valentina, si sentì colpita da questo nome di madre, si sciolse in lagrime, e cadde in ginocchio avanti una sedia, sulla quale nascose la sua testa venerabile. Villefort la raccomandò alle cure delle cameriere, mentre che il vecchio Barrois risaliva tutto ansante dal suo padrone; perchè niente spaventa tanto i vecchi che allorquando la morte abbandona un momento i loro fianchi per colpire un altro vecchio. Indi, mentre che la sig.ª di Saint-Méran, sempre inginocchiata, pregava dal fondo del cuore, mandò a cercare una carrozza di piazza, e venne egli stesso in casa della sig.ª de Morcerf, per ricondurre a casa sua la moglie e la figlia. Egli era tanto pallido quando apparve sulla porta della sala, che Valentina corse a lui gridando: — Oh! padre mio! qual disgrazia è accaduta? — Vostra nonna è giunta, disse il sig. de Villefort. — E mio nonno? domandò la giovinetta tremante. Il sig. de Villefort non rispose, se non che offrendo il braccio a sua figlia. Ed era tempo: Valentina, presa da una vertigine, traballava; la sig.ª de Villefort si affrettò a sostenerla, ed aiutò suo marito a trascinarla verso la carrozza, dicendo: — Questo può dirsi strano! chi avrebbe mai potuto dubitar di ciò? — E tutta questa famiglia desolata se ne fuggiva così, gettando la tristezza come un velo nero sul resto della società. A piè della scala, Valentina trovò Barrois che l’aspettava. — Il sig. Noirtier desidera di vedervi questa sera, diss’egli a bassa voce. — Ditegli che andrò da lui quando uscirò dalla camera di mia nonna. — Nella delicatezza della sua anima, la giovinetta capì bene che quella che aveva più di tutti bisogno di lei in quell’ora, era la sig.ª di Saint-Méran. Valentina ritrovò la sua avola in letto; mute carezze, rigonfiamenti dolorosi di cuore, sospiri interrotti, lagrime brucianti, ecco quali furono i soli particolari raccontabili di questa conversazione, alla quale assisteva stando sotto al braccio di suo marito, la sig.ª de Villefort, piena di rispetto, almeno apparente, per la povera vedova. In capo ad un minuto essa si accostò all’orecchio del marito. — Col vostro permesso, diss’ella, è meglio che mi ritiri, perchè mi sembra che la mia vista affligga ancor di più vostra suocera. — La sig.ª di Saint-Méran l’intese: — Sì, sì, diss’ella all’orecchio di Valentina, che se ne vada: ma tu resta. — La sig.ª de Villefort uscì, e Valentina rimase sola vicina al letto della nonna, perchè il procurator del Re, costernato da questa morte imprevista, seguì sua moglie. Frattanto Barrois era risalito la prima volta dal vecchio Noirtier; questi, inteso tutto il rumore che si faceva in casa, aveva inviato il vecchio servitore ad informarsi. Al ritorno quest’occhio sì vivo e soprattutto sì intelligente interrogò il messaggiero: — Ah! signore, disse Barrois, è accaduta una grande disgrazia. È giunta la signora di Saint-Méran, e suo marito è morto. — Noirtier lasciossi cader la testa sul petto come uomo oppresso, o come uomo che pensa, indi chiuse un occhio solo. — La sig.ª Valentina? disse Barrois. — Noirtier fece segno di sì. — Ella è ad un ballo, il signore lo sa bene ed è venuta a dirgli addio in gran toletta. Noirtier chiuse di nuovo l’occhio sinistro. — Sì, volete vederla. — Il vecchio fece il segno indicante che ciò era quando desiderava. — Ebbene si andrà a cercarla, senza dubbio, dalla sig.ª de Morcerf; l’aspetterò al suo ritorno, e le dirò di salire da voi. È questo? — Sì, rispose il paralitico. Barrois stette dunque esplorando il ritorno di Valentina, e, come lo abbiam veduto al ritorno di lei le espose il desiderio del nonno. Valentina salì dal sig. Noirtier, al momento in cui usciva dalle camere della sig.ª di Saint-Méran, che per quanto fosse agitata aveva finalmente terminato per soccombere alla fatica, e dormiva di un sonno febbrile. Le avevano avvicinato alla portata della mano una piccola tavola sulla quale era una caraffa di Orzata, sua bibita abituale, ed un bicchiere. Valentina venne ad abbracciare il vecchio che la guardò tanto teneramente, che la giovinetta sentì di nuovo scaturir le lagrime, delle quali credeva si fosse disseccata la sorgente. — Il vecchio insisteva con uno sguardo. — Sì, sì, disse Valentina, vuoi dire che ho sempre un buon nonno, n’è vero? — Il vecchio fece segno che ciò aveva voluto esprimere collo sguardo. — Senza di che, che cosa diventerei? mio Dio! Era un’ora dopo la mezzanotte. Barrois, che aveva volontà di andarsene egli pure a letto, fece osservare che dopo una serata così dolorosa, tutti avevan bisogno di riposo. Il vecchio non volle dire che il suo riposo era quello di veder sua nipote: congedò Valentina, alla quale effettivamente il dolore e la fatica avevano dato le apparenze di chi soffra. La dimane entrando nella camera di sua nonna, la ritrovò in letto, la febbre non si era sedata; anzi tutto il contrario, un fuoco nascosto trapelava dagli occhi della vecchia marchesa, che sembrava in preda ad una violenta irritazione nervosa. — Oh! mio Dio! mia buona nonna, soffrite anche di più? — No, figlia mia, no, disse la sig.ª di Saint-Méran; ma aspettavo con impazienza che tu giungessi, per mandare a chiamare tuo padre. — Mio padre? domandò Valentina inquieta. — Sì, voglio parlargli. — Valentina non osò opporsi al desiderio dell’ava, ed un momento dopo entrò Villefort. — Signore, disse la sig.ª di Saint-Méran senza impiegare alcun giro di parole, e come se le fosse sembrato che le mancasse il tempo, mi avete scritto che si tratta di un disegno di matrimonio per questa ragazza? — Sì, signora, riprese Villefort; è anzi più che un disegno, è già una convenzione. — Vostro genero si chiama Franz d’Épinay? — Sì, signora. — È il figlio del generale d’Épinay, che è dei nostri, n’è vero, e che fu assassinato qualche giorno prima che l’usurpatore ritornasse dall’Isola d’Elba? — Sì, egli stesso. — Questa parentela colla nipote di un giacobino, non gli ripugna? — Le nostre dissensioni civili si sono fortunatamente estinte, madre mia, disse Villefort; il sig. d’Épinay era quasi un fanciullo alla morte di suo padre; conosce pochissimo il sig. Noirtier, e lo vedrà, se non con piacere almeno con indifferenza. — È un partito bene assortito? — Sotto tutti i rapporti, ed il giovine gode della stima universale; è uno degli uomini più distinti che io conosca. Durante tutta questa conversazione Valentina era rimasta muta: — Ebbene! signore, disse dopo qualche secondo di riflessione la sig.ª di Saint-Méran, bisogna sollecitare, perchè poco mi resta da vivere. — Voi, signora! voi buona mammà! gridarono ad un tempo il sig. de Villefort e Valentina. — So quel che dico, bisogna dunque sollecitare, affinchè, non avendo più sua madre, abbia almeno una nonna per benedire il matrimonio: sono la sola che le resto dal lato della povera Renata, che avete sì presto dimenticata. — Ah! signora, disse Villefort, obbliate che bisognava dare una madre a questa povera fanciulla, che non l’aveva più. — Una matrigna non è una madre, signore. Ma non è ciò di che si tratta, si tratta di Valentina; lasciamo dunque i morti tranquilli. — Tutto ciò era detto con una tale volubilità, ed un tale accento, che vi era qualche cosa in questa conversazione, rassomigliante ad un principio di delirio. — Sarà fatto il tutto a seconda dei vostri desiderii, disse Villefort, e ciò tanto meglio in quanto che il vostro desiderio combina puranche col mio; e tosto che arrivi a Parigi il sig. d’Épinay... — Mia buona madre, le convenienze, il lutto così recente... vorrete fare un matrimonio sotto così tristi auspici? — Figlia mia, interruppe vivamente l’avola, non facciamo queste insussistenti riflessioni che impediscono agli spiriti leggeri di fabbricare solidamente il loro avvenire. Io pure sono stata maritata al letto di morte di mia madre, e non sono stata per questo infelice. — Ancora questa idea di morte, riprese Villefort. — Ancora! sempre!... vi dico che sto per morire, ebbene! prima di morire, voglio aver veduto mio genero; voglio infine conoscerlo, per venirlo poi a ritrovare dal fondo della mia tomba se non sarà quel che deve essere, quel che bisogna ch’egli sia. — Signora, disse Villefort, bisogna che allontaniate da voi queste idee esaltate, che quasi toccano alla follia; i morti una volta rinchiusi nella tomba, vi rimangono senza muoversi più. — Oh! sì, buona mammà, calmati! disse Valentina. — Ed io vi dico, signore, che la cosa non è così come voi credete. Questa notte ho dormito ma... di un sonno terribile; perchè mi vedeva in qualche modo dormire, come se la mia anima avesse già sciolto i legami col corpo: gli occhi, che mi sforzava d’aprire, si rinchiudevano mio malgrado; e ciò non ostante so bene che ciò sembrerà impossibile a voi, signore, in modo particolare, ma io, coi miei occhi chiusi, ho veduto, nel luogo ove siete, ho veduto da quell’angolo ov’è la porticella che mette nel gabinetto di toletta della sig.ª de Villefort, ho veduto entrare senza rumore un’ombra bianca. Valentina mandò un grido. — Era la febbre che vi agitava, disse Villefort. — Dubitatene quanto volete, io però son sicura di quel che vi dico. Ho veduta un’ombra bianca, ed ho inteso rimescolare entro al mio bicchiere... prendete, quello stesso che è lì, lì, sulla tavola. — Oh! buona mammà, quest’era un sogno. — Era tanto poco un sogno, che ho steso la mano verso il campanello, ed a questo gesto l’ombra disparve. La cameriera entrò allora con un lume. — Ma avete veduto qualcuno? — I fantasmi non si mostrano che a quelli che devono vederli: era l’anima di mio marito. Ebbene, se l’anima di mio marito ritorna per chiamarmi, perchè non dovrà ritornare per difendere mia nipote? Il vincolo è ancor più diretto mi sembra. — Oh! signora, non date pascolo a queste lugubri idee; voi vivrete lungamente felice, amata, onorata, e vi faremo dimenticare... — Giammai! giammai! Quando ritorna il sig. d’Épinay? — Lo aspettiamo da un momento all’altro. — Sta bene; tosto che sia arrivato prevenitemi. Sollecitiamoci, vorrei pure avere un notaro per assicurarmi che tutti i nostri beni passeranno a Valentina. — Oh! madre mia, mormorò Valentina appoggiando le labbra sull’ardente fronte dell’ava; dunque volete farmi morire? voi avete la febbre. Non è un notaro che bisogna chiamare, ma un medico! — Un medico? io non soffro; ho sete ecco tutto. — Che bevete buona mammà? — Come, sempre, tu lo sai bene, la mia aranciata. Il bicchiere è lì su quella tavola; dammelo Valentina; — questa versò l’aranciata dalla bottiglia nel bicchiere, e lo prese con un certo spavento per porgerlo a sua nonna, perchè era lo stesso bicchiere, a quanto ella pretendeva, toccato dall’ombra. La marchesa vuotò il bicchiere d’un sol fiato: indi si rivoltò sul cuscino, ripetendo: il notaro! il notaro! Il sig. de Villefort uscì, Valentina si assise vicino al letto della nonna. La povera fanciulla sembrava aver gran bisogno ella pure del medico, che aveva raccomandato alla sua ava. Un rossore simile ad una fiamma le bruciava gli zigomi delle guance, la respirazione era anelante, ed il polso batteva come se avesse avuto la febbre. Ciò avveniva perchè la povera fanciulla pensava alla disperazione di Massimiliano, quando avrebbe saputo che la sig.ª di Saint-Méran, invece di essere una loro alleata, operava senza saperlo, come se fosse stata una nemica. Più di una volta Valentina aveva pensato di svelare tutto a sua nonna e non avrebbe esitato un sol momento, se Massimiliano Morrel si fosse chiamato Alberto di Morcerf, ovvero Raoul di Château-Renaud: ma Morrel era di estrazione plebea, e Valentina sapeva il disprezzo che l’orgogliosa marchesa di Saint-Méran portava a tutto quel che non era della sua razza. Il suo segreto era dunque sempre, al momento che stava per svelarsi, ricacciato nel cuore da questa trista certezza che ella lo svelerebbe inutilmente, e che una volta conosciutosi questo segreto da suo padre e da sua matrigna, tutto sarebbe perduto. Due ore circa passarono così. La sig.ª di Saint-Méran dormiva d’un sonno ardente, ed agitato. Fu annunziato il notaro. Quantunque quest’annunzio fosse fatto molto a bassa voce, la sig.ª di Saint-Méran si alzò dal suo origliere. — Il notaro? diss’ella, che venga. — Il notaro era alla porta, ed entrò: — Vattene, Valentina, disse la sig.ª di Saint-Méran, e lasciami col notaro. La giovinetta baciò la sua avola in fronte, ed uscì col fazzoletto agli occhi. Alla porta ritrovò il cameriere, che le disse che il medico aspettava nella sala. Valentina discese rapidamente. Il medico era un amico di famiglia, ed uno dei più abili: amava molto Valentina da lui veduta nascere: aveva una figlia dell’età circa di madamigella de Villefort, ma nata da una madre etica, la sua vita era un continuo timore sul conto di sua figlia. — Oh! disse Valentina, caro sig. d’Avrigny, vi aspettavamo con molta impazienza. Ma prima di tutto, come stanno Maddalena ed Antonietta? — Maddalena era la figlia del dottore d’Avrigny, ed Antonietta la nipote. Il sig. d’Avrigny sorrise tristamente: — Benissimo Antonietta, diss’egli, ed abbastanza bene Maddalena. Ma voi, cara fanciulla, mi avete mandato a chiamare? non è, nè vostro padre, ne la sig.ª de Villefort malata? in quanto a voi quantunque sia visibile che non possiamo spacciarci dai nostri nervi, non presumo che abbiate bisogno di me in altro, che per raccomandarvi di non lasciare che la vostra immaginazione batta la campagna? Valentina arrossì; il sig. d’Avrigny spingeva la scienza dell’indovinare fin quasi al miracolo, perchè era uno di quei medici che curava sempre il fisico per mezzo del morale. — No, diss’ella, è per la mia povera nonna: sapete la disgrazia che ci è accaduta, n’è vero? — Non so niente, disse il sig. d’Avrigny. — Ahimè! riprese Valentina comprimendo i singhiozzi, mio nonno è morto. — Il sig. di Saint-Méran? — Sì. — Improvvisamente? — Con un attacco d’apoplessia fulminante. — Di una apoplessia? ripetè il medico. — Sì, di modo che la povera nonna è colpita dall’idea che suo marito, ch’ella non aveva mai lasciato, la chiami, e che andrà presto a raggiungerlo. Oh, signor d’Avrigny, ve la raccomando moltissimo la mia nonna. — Ove si trova? — Nella sua camera col notaro. — Ed il sig. Noirtier? — Sempre lo stesso, una lucidità perfetta: ma la medesima immobilità, lo stesso mutismo. — E lo stesso amore per voi, è vero, cara fanciulla? — Sì, disse Valentina sospirando, egli mi ama molto. — E chi non vi amerebbe? — Valentina sorrise tristamente. — E che cosa si sente la nonna? — Un’esaltazione nervosa particolare, un sonno agitato e strano; pretendeva questa mattina che durante il sonno, la sua anima era disgiunta dai legami del corpo, e di aver veduto un fantasma entrare nella camera, ed inteso il rumore che faceva il preteso fantasma nel toccare il suo bicchiere. — È singolare, disse il dottore; non sapeva che la sig.ª di Saint-Méran soffrisse di queste allucinazioni. — È la prima volta che l’ho veduta così, disse Valentina, e questa mattina mi ha fatto gran paura; l’ho creduta folle; e mio padre, voi sig. d’Avrigny conoscete certamente l’indole seria di mio padre, è sembrato molto impressionato. — Ma andiamo a vedere, disse il sig. d’Avrigny, ciò che mi raccontate, mi sembra strano. Il notaro discendeva, e vennero a prevenir Valentina che sua nonna era sola. — Salite, diss’ella al dottore. — E voi? — Non ho coraggio, ella mi aveva proibito di mandarvi a chiamare; poi come dite, io stessa sono molto agitata, febbricitante, e mal disposta; vado invece a fare un piccolo giro nel giardino per rimettermi. — Il dottore strinse la mano a Valentina, e, mentre ch’ei saliva alla nonna, la giovinetta discendeva dalla scalinata. Non abbiamo bisogno di dire qual fosse la parte di giardino favorita a Valentina. Dopo aver fatto due o tre giri sul praticello che circondava la casa, dopo aver raccolto una rosa per metterla alla cintura, o nei capelli, s’inoltrava sotto il viale ombroso che conduceva al banco, poi dal banco andava al cancello. Questa volta Valentina fece, secondo la sua abitudine, due o tre giri in mezzo ai fiori, ma senza raccoglierli; il lutto del cuore, che non aveva avuto ancora il tempo di estendersi sulla sua persona, rigettava questo semplice ornamento; indi s’incamminò verso il viale. A seconda che si inoltrava, le parve sentire una voce che pronunziasse il suo nome. Ella si fermò maravigliata. Questa volta la voce giunse più distinta al suo orecchio, ed ella riconobbe esser quella di Massimiliano. LXXII. — LA PROMESSA. Era in fatto Morrel che dalla sera innanzi non viveva più: con quell’istinto particolare agli amanti, ed alle madri, aveva indovinato, che in seguito di questo ritorno della sig.ª di Saint-Méran, e della morte del marchese, succedeva qualche cosa in casa di Villefort che interessava il suo amore per Valentina. Come si vedrà, i suoi presentimenti si erano avverati; non era più una semplice inquietudine quella che lo conduceva così sconvolto e tremante al cancello dei marroni. Ma Valentina non era prevenuta dell’aspettativa di Morrel, questa non era l’ora in cui ordinariamente vedevansi, e fu un puro caso, o se si vuol meglio, una fortunata simpatia che la condusse al giardino. Quando ella comparve, Morrel la chiamò: ella accorse al cancello. — Voi a quest’ora? diss’ella. — Sì, vengo a cercare ed a portare cattive notizie. — È dunque la casa dell’infortunio? parlate, ma in verità, la somma dei dolori è già sufficiente. — Cara Valentina, ascoltatemi bene, perchè tutto ciò che sono per dirvi è solenne. A qual epoca contano di maritarvi? — Ascoltate, nulla voglio nascondervi, Massimiliano. Questa mattina han parlato del mio matrimonio, e mia nonna, sulla quale aveva calcolato come sopra un appoggio che non ci sarebbe mancato, non solo si è dichiarata pel matrimonio, ma lo desidera ancora a tal punto, che la sola lontananza del sig. Franz, lo ritarda, e che la dimane del suo arrivo il contratto sarà firmato. — Un penoso sospiro uscì dal petto del giovine, che guardò lungamente e tristamente la sua diletta. — Ah! rispose egli a voce bassa, è spaventoso il sentir dire tranquillamente dalla donna che si ama; «il momento del nostro supplizio è fissato; fra poche ore avrà luogo. Ma non importa, bisogna che la cosa sia così, e dal canto mio non vi apporrò alcuna opposizione.» Ebbene! poichè non si aspetta che l’arrivo del sig. d’Épinay per sottoscrivere il contratto, e che voi sarete sua la dimane del suo arrivo, domani voi apparterrete a lui, perchè egli è giunto a Parigi questa mattina. — Valentina mandò un grido. — Io era dal conte di Monte-Cristo, sarà un’ora, disse Morrel; noi parlavamo, egli del dolore della vostra casa, ed io del dolore vostro, quando d’improvviso si sente scorrere una carrozza nel cortile. Ascoltate! fino allora io non credeva ai presentimenti, ma or bisogna ben che io vi creda: al rumore di quella carrozza sono stato investito da un fremito in tutto il corpo: ben presto intesi dei passi sulla scala. Finalmente si apre la porta, Alberto de Morcerf entra pel primo, stavo per dubitare di me stesso, stavo per credere d’essermi ingannato, quando dietro a lui s’avanza un altro giovine, ed il conte esclama: «— Ah! sig. barone Franz d’Épinay!» «Quant’ho di forza e di coraggio io lo raccolsi per contenermi. Forse impallidii, forse tremai, ma a colpo sicuro sono rimasto col sorriso sulle labbra; cinque minuti dopo sono uscito senza avere inteso una parola di ciò che fu detto in quei cinque minuti; ero annientato. — Povero Massimiliano! mormorò Valentina. — Osservatemi, Valentina. Vediamo, rispondetemi come ad un uomo al quale la vostra risposta deve dare la vita o la morte: che contate di fare? — Valentina abbassò la testa; ella era oppressa. — Ascoltate, disse Morrel, non è la prima volta che voi pensate alla situazione a cui siamo giunti: essa è grave, è pressante, è suprema; non credo che questo sia il momento di abbandonarsi ad uno sterile dolore: ciò è buono per quelli che vogliono soffrire a loro agio, e vi sono di queste persone; ma chiunque si sente la volontà di lottare, non perde un tempo prezioso, e rimbalza immediatamente alla fortuna il colpo con cui fu colpito. Avete volontà di lottare contro l’avversa sorte, dite, Valentina? Questo è quanto vi domando. Valentina fremette, e guardò Morrel con occhi spaventati. L’idea di resistere a suo padre, a sua nonna, in fine a tutta la famiglia, non le era ancor venuta. — Che dite, Massimiliano? e qual cosa chiamate una lotta? dite piuttosto un sacrilegio. Che? io lottare contro l’ordine di mio padre, contro il desiderio della mia ava moribonda? questo è impossibile. (Morrel fece un movimento.) Voi avete un cuore troppo nobile per non potere fare a meno di comprendermi, e mi comprendete tanto bene, che vi ho ridotto al silenzio. Lottare io! Dio me ne salvi! No, no, riserbo tutta la mia forza per lottare contro me stessa, e per bere le mie lagrime, come voi dite; in quanto ad affliggere mio padre, in quanto al turbare gli ultimi momenti di mia nonna, giammai! — Avete ragione, disse flemmaticamente Morrel. — In qual modo me lo dite, gridò Valentina offesa. — Vi dico ciò, come un uomo che vi ammira, madamigella! — Madamigella, gridò Valentina: oh egoista! egli mi vede alla disperazione, e finge di non capirmi. — V’ingannate, anzi vi capisco perfettamente. Voi non volete contrariare il sig. de Villefort, non volete disobbedire alla marchesa, e domani sottoscriverete il contratto che deve unirvi a vostro marito. — Ma, mio Dio! posso fare altrimenti? — Non bisogna appellarsene a me, perchè sono un cattivo giudice in questa causa, ed il mio egoismo mi accecherà. — Che mi avreste dunque proposto, Morrel, se mi aveste ritrovata disposta ad accettare la vostra proposizione? sentiamo, rispondete, non si tratta di dire «fate male», si tratta di dare un consiglio. — Mi dite ciò seriamente, Valentina? e devo io darvi questo consiglio, dite? — Certamente, caro Massimiliano, perchè se è buono, io lo seguirò: sapete bene che mi sono interamente data alle mie affezioni. — Valentina, disse Morrel compiendo di staccare un’asse di già sconnessa; ho la testa sconvolta, vedete bene, da un’ora le idee più insensate hanno percorso una per volta nel mio spirito. Oh! nel caso che rifiutaste il mio consiglio... — Ebbene! questo consiglio? — Eccolo, Valentina. La giovane alzò gli occhi al cielo e mandò un sospiro. — Io son libero, riprese Massimiliano, sono abbastanza ricco per noi due, sarete mia moglie. — Voi mi fate tremare, disse la giovinetta. — Seguitemi, continuò Morrel, vi condurrò da mia sorella che è degna d’essere ancora vostra sorella; c’imbarcheremo per Algeri, per l’Inghilterra, o per l’America; se non preferite che ci ritiriamo insieme in qualche provincia, ove aspetteremo che qualche amico abbia vinta la resistenza della vostra famiglia. Valentina scosse la testa: — Io me lo aspettava, Massimiliano, diss’ella: questo è un consiglio insensato, e sarei ancor più insensata di voi, se non vi fermassi con queste sole parole: «impossibile Morrel, impossibile». — Soffrirete dunque la vostra sorte tal quale si presenta, senza neppur tentare di combatterla? — Sì, dovessi ancora morire! — Ebbene! Valentina, vi ripeterò di nuovo che avete ragione; infatto io sono un pazzo, e voi mi provate che la passione acceca gli spiriti più giusti. Grazie, dunque, a voi che ragionate senza passione. Sia dunque così: è cosa intesa; domani sarete irrevocabilmente promessa al sig. d’Épinay, non già con quella formalità teatrale che fu immaginata per sciogliere gl’interessi delle commedie, e che si chiama la sottoscrizione del contratto; ma per vostra propria volontà. — Anche una volta mi ponete alla disperazione, Morrel, disse Valentina; e ricacciate il pugnale nella ferita! Che fareste, dite, se vostra sorella ascoltasse un consiglio come quello che mi date? — Madamigella, rispose Morrel con un amaro sorriso, sono un egoista, e nella mia qualità d’egoista, non penso a quel che farebbero gli altri nella mia posizione, ma a quel che conto di fare io. Penso che vi conosco da un anno; che ho riposto, dal giorno in cui vi conobbi, tutte le possibilità di felicità nel vostro amore: che venne un giorno in cui mi diceste che mi amavate, che da quel giorno fissai le sorti del mio avvenire sul vostro possesso, giacchè il possedervi era la mia vita. Or non penso più a niente, dico solo a me stesso che le eventualità si sono voltate, che credei aver guadagnata la felicità, e l’ho invece perduta. Ciò accade sempre al giuocatore che perde non solo quel che aveva, ma pur quello che non aveva. Morrel pronunciò queste parole colla più perfetta calma; Valentina lo guardò coi suoi grandi occhi scrutatori, e cercando di non lasciar penetrare quelli di Morrel fino al subbuglio che già si agitava nel fondo del suo cuore: — Ma infine, che farete? — Ho l’onore di dirvi addio, madamigella, chiamando in testimonio Iddio, che sente le mie parole, e legge nel fondo del mio cuore, che vi desidero una vita molto pacifica e felice, e tanto ripiena di contentezza, che non vi rimanga neppur posto per la mia memoria; addio, Valentina, addio! disse Morrel inchinandosi. — Dove andate? gridò, allungando la mano a traverso il cancello, ed afferrando Massimiliano per l’abito, la giovinetta che comprendeva dall’interna sua agitazione che la calma del suo amante non poteva essere reale; dove andate? — Vado ad occuparmi di non arrecare un nuovo dispiacere alla vostra famiglia, e dare un esempio che potranno seguire tutte le oneste persone che si troveranno nella mia posizione. — Prima di lasciarmi ditemi ciò che volete fare. Il giovine sorrise con tristezza. — Oh! parlate! parlate! disse Valentina, ve ne prego! — La vostra risoluzione si è forse cambiata, Valentina? — Non può cambiarsi, infelice! voi ben lo sapete! — Allora, addio, Valentina! Questa scosse il cancello con una forza di cui non si sarebbe creduta capace, e siccome Morrel si allontanava, passò le due mani attraverso le sbarre, e congiungendole contorcendosi le braccia: — Che andate a fare? voglio saperlo! dove andate? — Oh! siate tranquilla, disse Massimiliano fermandosi a tre passi dalla porta; la mia intenzione non è di rendere un altro uomo garante dei rigori che la sorte riserba a me solo. Un altro minaccerebbe di andare a trovare Franz, provocarlo, e battersi con lui; tutto ciò sarebbe da insensato. Che ha che fare il sig. Franz con tutto ciò? egli mi ha veduto questa mattina per la prima volta, ha già dimenticato di avermi veduto; non sapeva neppure che io esistessi quando furono fatte le convenzioni fra le vostre due famiglie, per mezzo delle quali fu risoluto che voi due sareste stati l’una dell’altro: non ho dunque che fare col sig. Franz, e, ve lo giuro, non me la prenderò con lui. — Ma con chi ve la prenderete? con me? — Con voi, Valentina? oh! Dio me ne guardi! la donna è sacra! — Con voi stesso allora: disgraziato, con voi stesso. — Sono io il colpevole, n’è vero? disse Morrel. — Massimiliano, disse Valentina, venite qui, lo voglio. Massimiliano si avvicinò col suo dolce sorriso, e se non fosse stato il pallore del viso, sarebbesi detto che era nel suo stato ordinario. — Ascoltatemi, mia adorata Valentina, le persone come noi che non hanno mai avuto un pensiero di cui abbiano ad arrossire davanti al mondo, davanti i parenti, e a Dio, possono leggere nel cuore l’uno dell’altro a libro aperto. Io non ho mai fatto il romantico, non sono un eroe malinconico, non rappresento nè un Manfredi, nè un Antony; ma senza parole, senza proteste, senza giuramenti, ho messa la mia vita in voi, voi mi venite meno, ed avete ragione di far così, ve l’ho detto, ve lo ripeto; ma finalmente mi venite meno, e la mia vita è perduta. Dal momento che vi allontanate da me, Valentina, io resto solo nel mondo. Mia sorella è felice con suo marito, riprese dopo breve pausa Massimiliano, suo marito non è che un mio cognato, vale a dire un uomo che le convenzioni sociali soltanto uniscono a me; nessuno dunque sulla terra ha bisogno della mia esistenza divenuta inutile. Ecco ciò che io farò: aspetterò fino all’ultimo, che voi siate maritata, perchè non voglio perdere l’ombra di una delle inattese combinazioni che qualche volta ci riserba il destino, perchè finalmente di qui a là Franz d’Épinay può morire; al momento in cui voi vi avvicinate a lui il fulmine può cadere sull’altare: tutto sembra credibile al condannato a morte, per lui tutto è possibile; invoca, aspetta anche un miracolo per lui solo, da che si tratta della salvezza della sua vita. Io dunque aspetterò fino all’ultimo momento, e quando la mia infelicità sarà certa, senza rimedio, senza speranze, scriverò una lettera di confidenza a mio cognato, un’altra lettera al prefetto di polizia per dar loro avviso del mio disegno, e nell’angolo di un qualche bosco, sulle rive di qualche fosso, sulle sponde di qualche fiume, mi farò saltare le cervella, tanto vero, quanto che son il figlio del più onesto uomo che abbia vissuto in Francia. Un tremito convulso agitò le membra di Valentina, ella lasciò il cancello che teneva con ambe le mani, le braccia ricaddero abbandonate, e due grosse lagrime gli scorsero sulle guance. Il giovine rimase davanti a lei tetro e risoluto. — Oh! per pietà, diss’ella, vivrete n’è vero? — No, sul mio onore, disse Massimiliano. Ma che importa a voi? avrete fatto il vostro dovere, e vi rimarrà la vostra coscienza. Valentina cadde in ginocchio comprimendosi il cuore, che si rompeva: — Massimiliano, diss’ella, amico mio, mio fratello sulla terra, mio sposo nel cielo, te ne prego, fa come faccio io, vivi e soffri, un giorno forse saremo riuniti. — Addio, Valentina, riprese Morrel. — Mio Dio, disse Valentina alzando le mani al cielo con una sublime espressione, voi lo vedete, ho fatto tutto ciò che ho potuto per restare una figlia sottomessa; ho pregato, supplicato, implorato; egli non ha ascoltato le mie preghiere, le mie suppliche, le mie lagrime. Ebbene, continuò ella asciugando le lagrime, e riprendendo la sua fermezza, ebbene! non voglio morire di rimorsi, amo piuttosto morire di vergogna: vivrete, Massimiliano, ed io non sarò di alcuno, fuorchè di voi. Morrel che aveva già fatto nuovamente qualche passo per allontanarsi, era ritornato di nuovo, pallido di gioia, col cuore commosso, tenendo a traverso il cancello, nelle sue mani quelle di Valentina. — Valentina, diss’egli, amica cara, non è così che bisogna parlarmi, altrimenti bisogna lasciarmi morire. Perchè dovrò ottenervi dalla violenza, se mi amate come vi amo? mi sforzate a vivere per umanità? ecco tutto, in questo caso, amo piuttosto morire. — Infatto, mormorò Valentina, chi è che mi ama in questo mondo? lui. Chi mi ha consolato in tutti i miei dolori? lui. Su chi riposano le mie speranze? su chi si ferma la mia vista sconvolta? su chi riposa il mio cuore stillante sangue? su lui, lui, sempre lui. Ebbene tu hai ragione a tua volta; Massimiliano, ti seguirò; abbandonerò la casa paterna, tutto! oh! ingrata che sono, gridò Valentina singhiozzando, tutto, anche il mio buon nonno che dimenticava! — No, disse Massimiliano, non lo lascerai. Non mi dicesti che il sig. Noirtier sembrò provare qualche simpatia per me? ebbene! prima di fuggire gli dirai tutto, ti farai un’egida davanti a Dio del suo consenso; poi subito dopo maritati egli verrà con noi, ed invece di uno avrà due nipoti. Tu mi hai detto come ti parla, e come tu gli rispondi; imparerò ben presto questa lingua commovente di segni; va Valentina. Oh! te lo giuro, invece della disperazione che ci aspetta, ti prometto la felicità. — Oh! guarda, Massimiliano, guarda qual è la tua possanza su di me, tu mi fai quasi credere quanto mi dici, e pure ciò che mi dici è insensato; perchè mio padre mi maledirà; perchè lo conosco, egli ha il cuore insensibile, non mi perdonerà mai. Pure, ascoltami, Massimiliano, se per artefizio, per preghiera, per accidente, che so io, se finalmente con qualche mezzo qualunque posso ritardare il matrimonio, mi aspetterai, n’è vero? — Sì, lo giuro come mi giurate che questo spaventoso matrimonio non si farà mai, e che quand’anche vi trascinassero davanti al magistrato, o davanti al prete, direte sempre di no. — Te lo giuro, Massimiliano, per tutto ciò che v’è di più sacro al mondo, per mia madre. — Allora aspettiamo, disse Morrel. — Sì, aspettiamo, riprese Valentina che respirava a questa parola, vi sono tante combinazioni che possono salvare due infelici come noi. — Mi fido a voi, Valentina, disse Morrel, tuttocciò che farete sarà ben fatto; soltanto se non si ascoltano le vostre preghiere, se vostro padre, se la sig.ª di Saint-Méran, esigono che il sig. d’Épinay sia chiamato domani a firmare il contratto.... — Allora avete la mia parola, Morrel. — Invece di firmare... — Vengo a raggiungervi, e fuggiremo; ma di qui a là, non tentiamo Iddio; Morrel, non ci vediamo più; è un miracolo, è una provvidenza, che non siamo stati ancor sorpresi; se lo fossimo, se si sapesse come ci vediamo, non avremmo più alcun espediente. — Avete ragione, Valentina; ma come sapere... — Dal notaio, il signor Deschamps, e da me stessa, vi scriverò. — Bene! grazie! adorata Valentina, riprese Massimiliano. — Sia così, disse Valentina, io pure vi dirò, tutto ciò che farete sarà ben fatto; ebbene siete contento di vostra moglie? disse tristamente la giovinetta. — Mia adorata Valentina, è ben poco il dir di sì. — Ditelo sempre. A rivederci disse Valentina, togliendosi con uno sforzo dalla sua felicità: a rivederci. — Io dunque avrò una vostra lettera? — Sì. — Grazie mia cara sposa, a rivederci. Valentina fuggì sotto i tigli. Morrel ascoltò gli ultimi rumori della sua veste fluttuante contro i cespugli, e dei piedi che facevano scricchiolare la sabbia, alzò gli occhi al cielo con un ineffabile sorriso, per ringraziarlo perchè permetteva che fosse amato in tal guisa, e anch’egli disparve. Il giovine rientrò in casa sua, ed aspettò durante tutto il resto della sera, ed il dì seguente senza nulla ricevere. Finalmente il secondo giorno verso le dieci del mattino, mentre stava per andare da Deschamps, ricevè dalla posta un bigliettino, che riconobbe essere di Valentina, quantunque non avesse mai veduto il suo scritto. Esso era concepito in questi termini; «Lagrime, suppliche, preghiere, nulla hanno ottenuto. Ieri per due ore sono stata nella chiesa di S. Filippo di Roule e per due ore ho pregato Dio dal fondo della mia anima; Dio non ha voluto esaudirmi, e le soscrizioni del contratto sono fissate per questa sera alle nove. Non ho che una parola sola come non ho che un sol cuore, Morrel, questa parola è impegnata con voi, questo cuore è vostro. Vostra Sposa VALENTINA DE VILLEFORT. «P. S. La mia povera nonna, va di male in peggio: ieri sera la sua esaltazione è giunta al delirio, oggi il suo delirio è quasi una pazzia: mi amerete, per farmi dimenticare che l’avrò abbandonata in questo stato? Credo che nascondano a mio nonno Noirtier che la sottoscrizione del contratto deve aver luogo questa sera.» Morrel non si limitò alle informazioni che gli dava Valentina: andò dal notaro, che gli confermò la notizia che la sottoscrizione del contratto era fissata per le nove della sera. Indi passò da Monte-Cristo; e là ne seppe di più: Franz era venuto ad annunziargli questa solennità; dal suo canto la sig.ª de Villefort aveva scritto un biglietto al conte, per pregarlo di scusarla se non lo invitava; ma la morte del sig. di Saint-Méran, e lo stato in cui si trovava la vedova, stendevano sopra questa riunione un velo di tristezza, di cui non voleva offuscare la fronte del conte, cui ella desiderava ogni sorta di felicità. La sera innanzi Franz era stato presentato alla sig.ª di Saint-Méran, che aveva lasciato il letto per questa cerimonia, ma che lo raggiunse subito dopo. Morrel, è cosa facile a comprendersi, era in uno stato di agitazione che non poteva sfuggire ad un occhio tanto penetrante, quanto quello del conte; per cui Monte-Cristo fu per lui più affettuoso che mai; tanto affettuoso che due o tre volte Massimiliano fu sul punto di confessargli tutto: ma si ricordò la formale promessa data a Valentina, ed il segreto rimase sepolto nel fondo del suo cuore. Lesse, e rilesse venti volte nel corso della giornata la lettera di Valentina. Era la prima volta ch’ella gli scriveva, ed in quale occasione! ciascuna volta che rileggeva questa lettera, rinnovava a sè stesso il giuramento di render felice Valentina, e pensava con una inesprimibile agitazione a quel momento in cui Valentina giugnerebbe. A quando a quando dei fremiti scorrevano per tutto il corpo di Morrel. Ma quando trascorse il mezzogiorno, quando Morrel sentì avvicinarsi l’ora, provò il bisogno di restar solo; il sangue bolliva; le semplici domande, la sola voce di un amico l’avrebbero irritato: si rinchiuse in casa sua, provò di leggere; ma lo sguardo strisciò sulle pagine senza nulla capire e finì col gettare il libro, per ritornare a meditare per la decima volta il disegno: le scale, il recinto. Finalmente l’ora si avvicinò. Giammai un uomo veramente innamorato ha lasciato fare all’orologio il suo pacifico cammino. Morrel tormentò tanto il suo che finì col segnare le otto e mezzo, quando non erano ancora le sei. Allora disse a sè stesso, che era giunta l’ora di partire, che le nove erano effettivamente l’ora della sottoscrizione del contratto, ma che, secondo ogni probabilità, Valentina non aspetterebbe questa inutile sottoscrizione; per conseguenza, Morrel, dopo essere partito dalla strada Meslay alle otto e mezzo del suo orologio, entrò nel recinto quando le otto suonavano a S. Filippo di Roule. Poco a poco cadde il giorno. Allora Morrel uscì dal nascondiglio, e col cuore palpitante venne a guardare alle fenditure del cancello; non v’era ancora alcuno. Suonarono le otto e mezzo. Una mezz’ora passò nell’aspettare; Morrel passeggiava in lungo ed in largo, quindi, ad intervalli sempre più vicini, veniva ad applicare l’occhio alle assi. Il giardino si oscurava sempre più, ma nella oscurità cercava invano la veste bianca, nel silenzio ascoltava inutilmente il romore dei passi. La casa, che si scuopriva attraverso il fogliame restava tetra, e non presentava alcuno dei caratteri di una casa che si apre per un avvenimento tanto importante, quanto lo è la sottoscrizione di un contratto di matrimonio. Morrel consultò l’orologio che suonò le nove e tre quarti, ma quasi subito dopo lo stesso suono dell’orologio già inteso due o tre volte ratificò l’errore della sua ripetizione e suonò le nove e mezzo. Era già mezz’ora di aspettativa di più di quel che aveva fissato la stessa Valentina: ella aveva detto le nove, anzi piuttosto prima che dopo. Questo fu il momento più terribile pel cuore del giovine, sul quale ciascun secondo cadeva come un martello di piombo. Il più debole rumore di foglie, il più piccolo soffio di vento chiamava la sua attenzione, e faceva spuntare il suo freddo sudore; allora, tutto tremante, accomodava la scala, e, per non perder tempo, metteva il piede sul primo scalino. In mezzo a queste alternative di timore e di speranze, in mezzo a questi stringimenti di cuore, suonarono le dieci all’orologio della chiesa. — Oh! mormorò Massimiliano con terrore, è impossibile che la sottoscrizione di un contratto duri così lungamente, a meno che avvenimenti imprevisti non sian sopraggiunti, ho misurato tutte le possibilità, calcolato il tempo di durata di tutte le formalità, è dunque accaduta qualche cosa. Ed allora un poco passeggiava davanti al cancello, un poco veniva ad appoggiare la fronte bruciante sul gelido ferro. Valentina sarebbe forse svenuta dopo il contratto? o sarebbe forse stata fermata mentre fuggiva? Erano le due sole ipotesi alle quali poteva fermarsi il giovine, entrambe disperanti. L’idea sulla quale si fermò, fu che a metà della fuga stessa fosse venuta meno la forza a Valentina, e che fosse caduta svenuta in mezzo a qualche viale. — Oh! se fosse così, gridò egli slanciandosi alla sommità della scala, la perderei, e per mia colpa! Il demone che gli aveva soffiato questo pensiero non lo lasciò più, e ronzò al suo orecchio con quella perseveranza che fa sì che alcuni dubbi, in capo a pochi momenti, per la forza del ragionamento, diventino convinzioni. Gli occhi che cercavano di fendere la crescente oscurità, credevano di veder sotto l’ombroso viale un oggetto steso; Morrel arrischiò perfino a chiamare, e gli sembrò che il vento portasse fino a lui un lamento inarticolato. Finalmente battè ancora la mezz’ora: era impossibile di poter pazientare più lungamente, tutto era supponibile; le tempia di Massimiliano battevano con forza, cavalcò il muro, e saltò dall’altra parte. Egli era nella proprietà di Villefort, vi penetrava per mezzo d’una scalata; pensò allora alle conseguenze che poteva avere una simile azione; ma non era arrivato tant’oltre per ritornare addietro. Per qualche tratto andò rasente il muro, e, traversando il viale con un salto, si slanciò nel fondo degli alberi. In un momento fu all’estremità di questo boschetto. Dal punto in cui era giunto, si poteva scorgere la casa. Allora si assicurò di una cosa ch’egli aveva già potuto sospettare: e fu che invece dei lumi che si credeva di veder risplendere a ciascuna finestra, com’è naturale nei giorni di cerimonia, non vide altro che una massa grigia e velata ancora da un grande strato d’ombra, che proiettava un’immensa nube distesa avanti la luna. Un lume scorreva a quando a quando come perduto, e passava davanti a tre finestre del primo piano. Queste erano quelle dell’appartamento della sig.ª di Saint-Méran. Un altro lume restava immobile dietro un tendinaggio rosso: ch’era quello della camera della sig.ª de Villefort. Morrel indovinò tutto questo. Tante erano le volte, che per seguire Valentina col pensiero in tutte le ore del giorno, ch’egli si era fatto descrivere il piano di questa casa, che conosceva senza aver veduta. Il giovine fu ancora più spaventato da questa oscurità e da questo silenzio, di quel che lo fosse stato per l’assenza di Valentina. Perduto, folle per dolore, risoluto a cimentar tutto per rivedere Valentina, ed assicurarsi dell’infortunio che presentiva, qualunque fosse, Morrel arrivò all’orlo del boschetto, e s’apparecchiava a traversare il praticello di fiori quanto più poteva sollecitamente, del tutto allo scoperto, quando giunse fino a lui il suono di voci assai lontane, ma che il vento gli portava. A questo rumore fece un passo addietro, di già uscito a mezzo dalle foglie, si celò compiutamente, e restò immobile e muto ravvolto nella oscurità. La sua risoluzione era presa; s’era Valentina sola, egli l’avvertirebbe con una parola al passaggio di lei: se Valentina era accompagnata, almeno la vedrebbe, e si assicurerebbe che non le era accaduta alcuna disgrazia: se fossero estranei afferrerebbe qualche parola della loro conversazione e giungerebbe a comprendere un mistero fino allora per lui inesplicabile. La luna uscì dalle nubi che la nascondevano, e sulla porta della scalinata Morrel vide comparire il sig. de Villefort in compagnia di un uomo vestito di nero. Essi scesero gli scalini, e s’inoltrarono nel boschetto. Non avevano ancora fatti quattro passi, che in quest’uomo vestito di nero Morrel aveva riconosciuto il dottore d’Avrigny. Il giovine, vedendoli venire alla sua volta, indietreggiò macchinalmente in faccia a loro, fino a che urtò nel tronco di un albero che formava il centro del boschetto; là fu costretto di fermarsi. Ben presto la sabbia cessò di stridere sotto i piedi de’ due passeggiatori. — Ah! caro dottore, disse il procuratore del Re, ecco che il cielo si dichiara avverso alla mia casa. Qual morte orribile! qual colpo di fulmine! Non cercate di consolarmi; ahimè! non vi sono consolazioni per simili disgrazie, la piaga è troppo viva e troppo profonda; morta! morta! Un sudor freddo fece agghiacciare la fronte del giovine, e battere i denti. Chi dunque era morta in questa casa, che lo stesso Villefort diceva maledetta? — Mio caro sig. de Villefort, rispose il medico con un accento che raddoppiò il terrore del giovine, non vi ho qui condotto per consolarvi, anzi tutto al contrario. — Che volete dire? domandò il procurator del Re spaventato. — Voglio dirvi, che dietro alla disgrazia che vi è accaduta, ve ne è un’altra fors’anche maggiore. — Oh! mio Dio! mormorò Villefort giungendo le mani, che volete dirmi ancora? — Siamo ben sicuri d’essere soli? — Oh! sì, siamo soli. Ma che significano tutte queste cautele? — Significano ch’io ho una confidenza terribile a farvi, disse il dottore; sediamoci. — Villefort cadde piuttosto che assidersi sopra un banco. Il dottore rimase in piedi davanti a lui, tenendogli una mano sopra una spalla. Morrel, agghiacciato dallo spavento, con una mano si reggeva la fronte, e coll’altra si teneva compresso il cuore per timore che si sentissero le sue pulsazioni: — Morta! morta! ripetè nel suo pensiero colla voce del suo cuore, ed egli stesso si sentiva morire. — Parlate, dottore, vi ascolto, disse Villefort; capite, sono preparato a tutto. — La sig.ª di Saint-Méran era avanzata in età, non vi è dubbio, ma godeva ancora di una eccellente salute. Morrel per la prima volta respirò dopo dieci minuti. — Il dolore l’ha uccisa; disse Villefort, sì, il dispiacere, dottore! l’abitudine per 40 anni di vivere col marchese... — Non fu il dispiacere, caro Villefort, disse il dottore. I dispiaceri possono uccidere, quantunque i casi sian molto rari, ma non uccidono in un giorno, in un’ora, in dieci minuti. — Villefort nulla rispose, soltanto alzò la testa che fino allora aveva tenuta bassa, e guardò il dottore con occhi atterriti. — Eravate là, durante l’agonia? domandò il dottore d’Avrigny. — Senza dubbio, rispose il procuratore del Re, mi diceste a bassa voce che non mi allontanassi. — Avete osservati i sintomi del male sotto cui ha dovuto soccombere la sig.ª Saint-Méran? — Certamente; ella ha avuto tre assalti successivi, con qualche minuto di distanza gli uni dagli altri, e ciascuna volta eran fra loro vicini e più forti. Quando siete giunto, già da qualche minuto la sig.ª di Saint-Méran era anelante; allora ebbe una crisi che io credetti un semplice assalto nervoso, e non ho cominciato a spaventarmi realmente che quando la vidi sollevare dal letto, coi membri ed il collo irrigiditi. Allora dal vostro viso compresi che la cosa era più grave di quel che io credeva. Cessata la crisi, cercava i vostri occhi, ma essi non s’incontrarono coi miei. Voi tenevate fra le vostre dita il polso, ne contavate le pulsazioni, e comparve la seconda crisi, più terribile della prima; gli stessi movimenti nervosi si riprodussero, e la bocca si contrasse, e divenne violetta. Alla terza ella spirò. Io aveva già riconosciuto il tetano fin dalla fine della prima crisi; voi mi confermaste in questa opinione. — Sì, alla presenza di tutti, disse il dottore; ma or siam soli. — Che volete dirmi, mio Dio? — Che i sintomi del tetano e dell’avvelenamento colle sostanze vegetabili, sono assolutamente gli stessi. — Villefort si rizzò in piedi, poi, dopo un minuto d’immobilità e di silenzio, ricadde sul banco. — Oh! mio Dio! dottore, pensate bene a quel che ora mi dite! Morrel non sapeva se faceva un sogno, o vegliava. — Ascoltate, conosco l’importanza della mia dichiarazione, ed il carattere della persona cui la indirizzo. — Parlate all’amico o al magistrato? domandò Villefort. — All’amico soltanto in questo momento; i rapporti fra i sintomi del tetano e quelli dell’avvelenamento colle sostanze vegetabili sono talmente identici, che se mi bisognasse firmare quant’io vi dico, vi dichiaro che esiterei. Per cui ve lo ripeto, non è al magistrato ch’io parlo, ma all’amico. Ebbene! dico all’amico; «Nei tre quarti d’ora che ha durato, ho studiata l’agonia, le convulsioni, e la morte della sig.ª di Saint-Méran; e nella mia convinzione, non solo ella è morta avvelenata, ma direi pure, qual veleno l’ha uccisa.» — Signore! signore! — Tutto v’era, sonnolenza interrotta da crisi nervose, sopraeccitazione del cervello. La sig.ª di Saint-Méran è morta per una dose violenta di brucnina o di stricnina che senza dubbio per caso, o forse per errore le è stata ministrata. Villefort afferrò la mano del dottore: — Oh! è impossibile, diss’egli, sogno, mio Dio! sogno! È spaventoso il sentire simili cose da un uomo come voi! In nome del cielo, ve ne supplico, caro dottore, ditemi che potete esservi sbagliato. — Senza dubbio lo posso, ma... non lo credo. — Dottore, abbiate pietà di me; da qualche giorno mi accadono cose tanto inaudite, che credo alla possibilità di diventar pazzo. — La sig.ª di Saint-Méran è stata visitata da altro medico? — Da nessuno. — È stata presa alla spezieria altra ricetta che non mi sia stata fatta vedere? — Nessuna. — Aveva qualche nemico? — Non le ne conosco alcuno. — V’è qualcuno che abbia premura della sua morte? — Ma no, mio Dio! ma no, mia figlia ne è la sola ereditiera, Valentina sola... Oh! se mi potesse venire un simile pensiero, mi conficcherei da me stesso un pugnale nel cuore per punirlo di aver potuto per un sol momento fermarsi sopra un tal pensiero. — Oh! gridò a sua volta d’Avrigny, caro amico, non piaccia a Dio che io accusi qualcuno; non parlo che di un accidente, di un errore, capite bene? ma accidente, o errore, il fatto è là che parla a bassa voce nella mia coscienza, la quale esige però che io ve ne parli ad alta voce. Pigliate le vostre informazioni. — A chi? come? di qual cosa? — Vediamo, Barrois il vecchio domestico si sarebbe sbagliato, e dato alla sig.ª di Saint-Méran qualche bevanda preparata pel suo padrone? — Per mio padre? — Sì. — Ma come una bevanda preparata per il sig. Noirtier può avvelenare la sig.ª di Saint-Méran? — Niente di più semplice: sapete che in certe malattie i veleni divengono rimedi; la paralisi è una di queste malattie. Da circa tre mesi, per esempio, dopo aver tutto tentato per rendere il movimento della parola al sig. Noirtier, ho risoluto tentare un ultimo mezzo; lo curo con la brucnina; così nell’ultima bevanda che ho ordinata per lui, ve ne erano sei centigrammi; essi, senza azione sugli organi paralizzati del sig. Noirtier, ed ai quali egli si è avvezzato, bastano per ammazzare qualunque altra persona. — Mio caro dottore, non vi è nessuna comunicazione fra l’appartamento del sig. Noirtier, e quello della sig.ª di Saint-Méran, e Barrois non è mai entrato nelle camere di mia suocera. Finalmente quantunque io vi conosca per l’uomo più abile, e soprattutto più coscienzioso del mondo, quantunque in tutt’altra congiuntura la vostra parola sia per me una fiaccola che guida al par della luce del sole, pure ho bisogno, ad onta di questa convinzione, di appoggiarmi su questo assioma, _lo sbagliare è dell’uomo._ — Ascoltate, Villefort, disse il dottore, conoscete uno dei miei confratelli nel quale possiate avere la stessa confidenza che in me? — Perchè dite ciò? a che volete venirne? — Chiamatelo, gli dirò ciò che ho veduto, ciò che ho osservato, e poi faremo l’autopsia. — E troverete le tracce dell’avvelenamento? — No, niente del veleno, non ho detto questo, ma constateremo l’esasperazione del sistema, riconosceremo l’asfissia patente, incontestabile, e vi diremo caro Villefort: «se per negligenza accadde una tal cosa, vegliate su i vostri servitori: se per odio, vegliate su i vostri nemici!» — Oh! mio Dio! che mi proponete mai, d’Avrigny, rispose Villefort abbattuto; dal momento che vi sarà un altro oltre voi nel segreto, vi vorrà un processo, ed in casa mia è impossibile! Pertanto, se lo volete, se lo esigete assolutamente, lo farò. Infatto, io forse dovrò dar seguito a quest’affare; il mio carattere me lo comanda. Ma dottore, mi vedete di già penetrato di tristezza: introdurre nella mia casa un sì grande scandalo, dopo un sì gran dolore! oh! mia moglie, e mia figlia ne morrebbero; dottore, lo sapete, un uomo non è stato procuratore del Re per venti anni senza essersi fatto buon numero di nemici; ed i miei son molti. Quest’affare scandaloso sarà per essi un trionfo che li farà esultare di gioia, e coprirà me di vergogna, perdonatemi queste idee mondane. Se foste un egoista, non oserei parlarvi così; ma siete un uomo, conoscete gli altri uomini; dottore, non mi avete detto niente, n’è vero? — Mio caro sig. de Villefort, rispose il dottore costernato, il mio primo dovere è la umanità; se avessi salvata la sig.ª di Saint-Méran, se la scienza avesse avuto il potere di farlo; ma ella è morta, ed io devo me stesso ai vivi. Seppelliamo nel più profondo dei nostri cuori questo terribile segreto: permetterò, se gli occhi di qualcuno si aprono su ciò, che sia imputato a mia ignoranza il silenzio che avrò conservato. Però, signore, cercate sempre, ed operosamente, perchè forse ciò non si fermerà qui... e quando avrete trovato il colpevole, se pur lo ritrovate, vi dirò: «voi viete magistrato, fate ciò che volete!». — Oh! grazie, dottore! disse Villefort con indicibile gioia, non ho mai avuto amico miglior di voi. — E quasi che avesse temuto che il dottore d’Avrigny non si pentisse di questa promessa, si alzò, e trascinò il dottore dalla parte della casa. Essi si allontanarono. Morrel come se avesse avuto bisogno di respirare, mise fuori la testa dai tigli, e la luna illuminò quel viso tanto pallido, che sarebbesi potuto prendere per un fantasma. — Dio mi protegge con un manifesto, ma terribile modo! diss’egli. Ma Valentina! povera amica! resisterà a tanti dolori? — Dicendo queste parole guardava alternativamente la finestra con le tende rosse, e le tre finestre con le tende bianche. La luce era quasi compiutamente disparsa dalla finestra con le tende rosse. Senza dubbio la sig.ª de Villefort aveva spento il suo lume, ed il solo lume da notte mandava qualche riflesso ai vetri. All’estremità del fabbricato, al contrario, vide aprirsi una delle tre finestre con le tende bianche. Una candela posta sul caminetto mandò al di fuori qualche raggio della sua pallida luce, ed un’ombra venne per un momento ad appoggiarsi al balcone. Morrel fremette; gli sembrò avere inteso un singulto. Non era meraviglioso che quest’anima ordinariamente tanto coraggiosa e forte, ora sconvolta ed esaltata dalle due più forti passioni dell’uomo, l’amore e la paura, si fosse indebolita al punto da soffrire le allucinazioni superstiziose. Quantunque fosse impossibile, nascosto come egli era, che l’occhio di Valentina lo distinguesse, pure gli parve di vedersi chiamato dall’ombra della finestra; il suo spirito sconvolto glielo diceva, il cuore ardente glielo ripeteva. Questo doppio errore divenne una realtà irresistibile, e, per uno di quegli slanci incomprensibili della gioventù, balzò fuori del nascondiglio, e in due salti, col pericolo di essere veduto, di spaventare Valentina, di dare l’allarme, se alla giovinetta sfuggiva un qualche grido involontario, traversò il prato, che la luna faceva largo e chiaro come un lago; e raggiunta la fila dei cassettoni degli aranci che si estendevano davanti alla casa, giunse ai gradini della scalinata, che salì rapidamente, e spinse la porta, che si aprì senza alcuna resistenza davanti a lui. Valentina non lo aveva veduto, gli occhi innalzati al cielo seguivano una nube d’argento che strisciava l’azzurro, e la cui forma era quella di un’ombra che sale al cielo; il suo spirito poetico ed esaltato le diceva che quella era l’ombra di sua nonna. Frattanto Morrel aveva traversata l’anticamera e ritrovata la rampa della scala; i tappeti stesi sugli scalini tennero nascosto il romore dei suoi passi: d’altra parte Morrel era giunto a quel punto di esaltamento che non lo avrebbe spaventato la presenza stessa del sig. de Villefort. Se questi si fosse presentato ai suoi occhi, la risoluzione era presa: gli si avvicinava, gli confessava tutto, pregandolo di scusare, ed approvare quest’amore che lo univa a sua figlia... Morrel era pazzo. Per fortuna non vide alcuno; particolarmente allora quella tal conoscenza che aveva imparato da Valentina sul piano interno della casa gli servì; giunse senza alcun incidente in alto alla scala, e come arrivato là, si orizzontava, un singhiozzo, di cui riconobbe l’espressione, gli indicò il cammino che doveva prendere; si voltò: una porta era socchiusa, e lasciava giungere a lui il riflesso di una lampada, ed il suono della voce che gemeva. Spinse questa porta ed entrò. Nel fondo di una alcova, sotto un bianco drappo che ne ricopriva la testa, e designava la forma, giaceva la morta, più spaventosa ancora agli occhi di Morrel dopo la rivelazione segreta di cui il caso lo avea fatto possessore. Di fianco al letto, in ginocchio, colla testa sepolta nei cuscini di una larga poltrona, Valentina tremante, e sollevata dai singhiozzi, stendeva al di sopra, della testa, che non si vedeva, ambo le mani giunte ed irrigidite: aveva lasciata la finestra aperta, e pregava ad alta voce con accenti che avrebber commosso il cuore più insensibile; la parola le sfuggiva dalle labbra, rapida, incoerente, inintelligibile. La luna strisciando a traverso la apertura delle persiane, faceva impallidire la luce della lampada, e dava un fondo azzurro alle funebri tinte in questo quadro di desolazione. Morrel non potè resistere a questo spettacolo; egli non era di una pietà esemplare, non era facile alle impressioni; ma Valentina sofferente, piangente, e torcentesi le braccia, avanti ai suoi occhi era più di quanto poteva sopportare in silenzio. Egli mandò un sospiro, mormorò un nome, e la testa bagnata dalle lagrime, ed impietrata sui velluti del seggio, si rialzò, e rimase voltata verso di lui. Valentina lo vide, e non manifestò alcuna meraviglia. Non vi sono più emozioni intermedie per un cuore gonfio di supremo dolore. Morrel le stese la mano, Valentina per tutta scusa del perchè non era stata a ritrovarlo, gli mostrò il cadavere che giaceva sotto il funebre drappo, e ricominciò i singulti. Nè l’uno, nè l’altra osavano parlarsi in questa camera. Ciascuno esitava a rompere quel silenzio che sembrava venisse raccomandato dalla morte ritta in piedi in un qualche angolo, col dito sulle labbra. Finalmente Valentina osò parlare per la prima: — Amico, diss’ella, come mai siete qui? Ahimè! vi direi: «siate il ben venuto» se non fosse la morte che vi avesse aperta la porta di questa casa. — Valentina, disse Morrel con voce tremante, e con le mani giunte, io era là dalle otto e mezzo; non vi vedeva venire: fui preso dall’inquietudine, ho saltato il muro, son penetrato nel giardino; allora delle voci che si intrattenevano sul fatale accidente... — Quali voci? domandò Valentina. Morrel fremette perchè tutta la conversazione del dottore e di Villefort gli ritornava al pensiero, ed a traverso del drappo, credeva veder quelle braccia contorte, quel collo irrigidito, quelle labbra violette: — Le voci dei vostri domestici, diss’egli, mi hanno appreso tutto. — Ma venir fin qui, è lo stesso che perderci, amico mio, disse Valentina senza collera e senza spavento. — Perdonatemi, rispose Morrel col medesimo tuono, mi ritiro. — No, disse Valentina, sareste incontrato, restate. — Ma se qui venissero?... — La giovane scosse la testa: — Nessuno verrà, siate tranquillo, ecco la nostra salva guardia. — E mostrò la forma del cadavere modellata dal drappo che la copriva. — Ma che è accaduto del sig. d’Épinay? — Il sig. Franz è venuto per soscrivere il contratto al momento in cui mia nonna rendeva l’ultimo sospiro: ma ciò che raddoppia il mio dolore, si è che questa povera e cara avola, morendo, mi ordinò che si compiesse il matrimonio il più presto possibile. — Ascoltate! disse Morrel. I due giovani fecero silenzio. S’intese una porta aprirsi, e dei passi fecero scricchiolare il piancito del corridoio ed i gradini della scala: — È mio padre che esce dal suo gabinetto, disse Valentina. — E che riconduce il dottore, soggiunse Morrel. — Come sapete che è il dottore? domandò Valentina meravigliata. — Lo presumo, disse Morrel. — Valentina guardò il giovine. Frattanto s’intese chiudere la porta di strada. Il sig. de Villefort andò inoltre a dare un doppio giro di chiave a quella del giardino, indi risalì le scale. Giunto nell’anticamera si fermò un momento, come esitante se dovesse entrare nel suo appartamento, o nella camera della sig.ª di Saint-Méran. Morrel si gettò dietro una portiera. Valentina non fece alcun movimento: si sarebbe detto che il sommo dolore la poneva al di sopra degli ordinari timori. Ma de Villefort entrò nelle sue stanze. — Ora, disse Valentina, non potete più uscire nè dalla porta del giardino, nè da quella di strada. Morrel la guardò con meraviglia. — Ora, diss’ella, non vi è più che una uscita sicura e permessa, ed è quella dello appartamento del mio nonno. — Ella si alzò: — Venite. — E dove? domandò Massimiliano. — Da mio nonno. — Io, dal sig. Noirtier? — Sì. — Pensateci bene, Valentina. — Vi penso, e da lungo tempo. Non ho più che questo amico al mondo, ed entrambi abbiam bisogno di lui. — State attenta, Valentina, disse Morrel esitando a fare ciò che gli ordinava la giovinetta, state attenta, la benda mi è caduta dagli occhi. Venendo qui, ho commesso un atto di pazzia. Avete voi stessa tutta la vostra ragione, cara amica. — Sì, disse Valentina, e non ho che uno scrupolo al mondo, quello di lasciar soli questi ultimi avanzi della mia povera nonna, che mi sono incaricata di vegliare. — Valentina, disse Morrel, la morte è sacra per sè stessa. — Sì, rispose la giovinetta; d’altra parte sarà per poco, venite. — Valentina traversò il corridoio, e discese una piccola scala che conduceva dal sig. Noirtier. Morrel la seguiva in punta di piedi. Giunti sul piano dell’appartamento ritrovarono il vecchio domestico. — Barrois, disse Valentina, chiudete la porta, e non lasciate entrare nessuno. Ella entrò per la prima. Noirtier, ancora seduto al suo seggio, attento al più piccolo rumore, istruito dal vecchio servitore di tutto ciò che accadeva, fissò gli sguardi avidi all’entrata della camera; vide Valentina, ed il suo occhio brillò. Vi era nel portamento, nell’attitudine della giovinetta qualche cosa di grave, e di solenne che sorprese il vegliardo: epperò lo sguardo ch’era brillante divenne interrogatore. — Caro padre, diss’ella a bassa voce, ascoltami bene: tu sai che la buona nonna Saint-Méran è morta sarà un’ora, e che adesso, eccetto te, non ho più alcuno che mi ami in questo mondo. — Un’espressione d’infinita tenerezza passò sugli occhi del vecchio. — È dunque a te solo, che io debbo confidar tutti i miei dispiaceri, e le mie speranze? Il paralitico fece segno di sì. Valentina prese Massimiliano per la mano: — Allora diss’ella, guarda bene questo signore. Il vecchio fissò lo sguardo scrutatore, e leggermente maravigliato su Morrel. — Questi è il sig. Massimiliano Morrel, diss’ella, il figlio di quell’onesto negoziante di Marsiglia di cui tu avrai senza dubbio inteso parlare. — Sì, fece il vecchio. — È un nome irreprensibile che Massimiliano è in via di rendere glorioso, perchè a trent’anni è capitano degli _Spahis_, ed ufficiale della legione d’onore. Il vecchio fece segno che se ne ricordava. — Ebbene! buon papà, disse Valentina mettendosi in ginocchio e mostrando Massimiliano con una mano, io l’amo, e non sarò mai d’altri che di lui! se mi sforzeranno di sposarne un altro, mi lascerò morire, o mi ucciderò. Gli occhi del paralitico esprimevano una folla di pensieri tumultuosi. — Tu ami il sig. Morrel, n’è vero, buon papà? domandò la giovinetta. — Sì, fece il vecchio immobile. — E vuoi tu proteggerci, noi siamo i tuoi figli, contro la volontà di mio padre? Noirtier fissò lo sguardo intelligente su Morrel, quasi avesse voluto dire: — Per questo, vedremo. Massimiliano capì: — Madamigella, diss’egli, voi avete un sacro dovere da compiere nella camera di vostra nonna; volete permettermi di aver l’onore di parlare un momento col sig. Noirtier? — Sì, sì, è questo, fece l’occhio del vecchio; poi guardò Valentina con inquietudine. — Come farà egli per intenderti, vuoi dire, buon nonno. — Sì. — Oh! sta tranquillo; abbiamo tanto spesso parlato di te, che egli sa bene il modo di trattenersi teco. Poi volgendosi a Morrel con un’adorabile sorriso, velato però da una profonda tristezza: — Egli sa tutto quel che so io, diss’ella. — Valentina si alzò, avvicinò una sedia per Morrel, raccomandando a Barrois di non lasciare entrare nessuno, e dopo avere teneramente abbracciato suo nonno, e detto addio tristamente a Morrel, partì. Allora Morrel per provare a Noirtier che egli aveva la confidenza di Valentina, e che conosceva tutti i loro segreti, prese il dizionario, la penna, e la carta, e pose il tutto sopra una tavola su cui stava il lume: — Ma primieramente, disse Morrel, permettetemi, signore, di raccontarvi chi sono io, come amo madamigella Valentina, e quali sono le mie vedute sul conto di lei. — Ascolto, fece Noirtier. Era uno spettacolo imponente questo vecchio, inutile fardello in apparenza, diventato il solo protettore, il solo appoggio, il solo giudice dei due giovani amanti, belli, e robusti che entravano nella vita. La sua figura nobile ed austera imponeva a Morrel, che cominciò il racconto tremando. Narrò allora come aveva conosciuto, come aveva amato Valentina, e come questa nel suo isolamento, e nel suo infortunio, aveva accolta l’offerta della sua devozione. Gli disse qual era la sua nascita, la sua posizione, la sua fortuna; e più d’una volta interrogò lo sguardo del paralitico che gli rispondeva: — Sta bene; continuate. — Ora, disse Morrel, quando ebbe finita questa prima parte del suo racconto, ora, che vi ho detto, signore, il mio amore, e le mie speranze, debbo dirvi i miei disegni? — Sì, fece il vecchio. — Ebbene! ecco ciò che noi avevamo risoluto. Allora raccontò tutto a Noirtier, in qual modo un calessino aspettava nel recinto, come contava rapire Valentina, condurla da sua sorella, sposarla, e, in una rispettosa aspettativa, sperare il perdono dal sig. de Villefort. — No, disse Noirtier. — No, rispose Morrel, non è così, che si deve fare? — No. — Questo disegno non ha il vostro assenso? — No. — Ebbene! vi è un altro mezzo, disse Morrel. Lo sguardo interrogatore del vecchio domandò: quale? — Andrò a ritrovare il sig. Franz d’Épinay; sono contento di potervi dir questo in assenza di madamigella di Villefort; mi condurrò in modo di sforzarlo ad essere un galantuomo. Lo sguardo di Noirtier continuò ad interrogare. — Ciò che farò? — Sì. — Eccolo: andrò a trovarlo, gli racconterò i legami che mi uniscono a madamigella Valentina; se gli è uomo delicato, proverà la sua delicatezza rinunciando da sè stesso alla mano della fidanzata, e la mia amicizia e devozione gli sono da questo momento devolute per sempre fino alla morte; se rifiuta, sia che l’interesse lo spinga, sia che un ridicolo orgoglio lo faccia persistere, dopo avergli provato che egli costringerebbe la mia sposa, che Valentina mi ama, e non può amare altri che me, mi batterei con lui, dandogli tutti i vantaggi, o l’ucciderò, o egli ucciderà me; se l’uccido, non sposerà Valentina, se mi uccide son ben sicuro che Valentina non lo sposerà. Noirtier considerava con un piacere indicibile questa nobile e sincera fisonomia, sulla quale si dipingevano tutti i sentimenti che la sua lingua esprimeva, aggiungendovi coll’espressione di un bel viso, tutto ciò che il colorito aggiunge ad un disegno solido e vero. Frattanto quando Morrel ebbe finito di parlare, Noirtier chiuse gli occhi a più riprese, che, come ben sappiamo, era il suo modo di esprimere no. — No? disse Morrel, voi dunque disapprovate ancora questo secondo disegno al pari del primo? — Sì lo disapprovo, accennò il vecchio. — Ma che fare allora, signore? domandò Morrel. Le ultime parole della sig.ª di Saint-Méran sono state che il matrimonio di sua nipote non si faccia aspettare; debbo lasciar compiere le cose? — Noirtier rimase immobile. — Comprendo, disse Morrel, debbo aspettare. — Sì. — Ma ogni ritardo può perderci. Valentina è sola, senza forza; e sarà costretta come un fanciullo. Entrato qui miracolosamente per saper ciò che accade, ammesso miracolosamente alla vostra presenza, ragionevolmente non posso sperare che si rinnovino queste buone avventure. Credetemi, non vi è che l’una o l’altra delle due risoluzioni che vi propongo (perdonate questa mia vanità alla giovinezza) che sia buona; ditemi quale delle due preferireste: autorizzereste madamigella Valentina a confidarsi al mio onore? — No. — Preferite che vada a ritrovare il sig. d’Épinay? — No. — Ma da chi verrà il soccorso che aspettiamo? dal caso? — No. — Da voi? — Sì. — Capite bene, ciò che vi domando, scusate la mia insistenza, perchè la mia vita sta nella vostra risposta; la nostra salute ci verrà da voi? — Sì. — Ne siete sicuro? — Sì. — Mel garantite? — Sì. E nello sguardo che dava questa affermativa vi era tal fermezza, da non dar luogo a dubitare della volontà, se non della possanza. — Oh! grazie, signore, mille volte grazie! ma in qual modo, a meno che un miracolo non vi renda la parola, il gesto, il movimento, in qual modo potrete, inchiodato in questo seggio, muto ed immobile, opporvi a questo matrimonio? — Un sorriso rischiarò il viso del vecchio... è un sorriso strano quello degli occhi sur un viso immobile! — Debbo dunque aspettare? domandò il giovine. — Sì. — Ma il contratto?... — Ricomparve il medesimo sorriso. — Volete dirmi che non sarà firmato? — Sì, fece il vecchio. — Il contratto dunque non sarà firmato? gridò Morrel. Oh! perdonatemi, signore! all’annunzio di una gran felicità, è ben permesso il dubitare. — No, disse il vecchio paralitico. — Ad onta di questa assicurazione, Morrel esitava a credere. Questa promessa di un vecchio impotente era sì strana che invece di provenire da una forza di volontà, poteva emanare da un indebolimento di organi; non è naturale che l’insensato che ignora la sua follia, pretenda effettuare cose al di sopra del suo potere? il debole parla dei pesi che innalza, il timido dei giganti che affronta, il povero del tesoro che maneggia, il più umile dei contadini, per causa del suo orgoglio, si chiama Giove. Sia che Noirtier comprendesse l’irresolutezza del giovine, sia che non aggiustasse compiutamente fede alla docilità che aveva mostrato, lo guardò fissamente. — Che volete signore? domandò Morrel, che vi rinnovi la promessa di nulla tentare? La sguardo di Noirtier rimase fermo e stabile, come per dire che una promessa non bastava, indi passò dal viso alla mano. — Volete che giuri? domandò Massimiliano. — Sì, fece il paralitico con la stessa solennità, lo voglio. Morrel capì che il vecchio metteva grande importanza a questo giuramento. Egli stese la mano. — Sul mio onore vi giuro di aspettare ciò che avrete risoluto di fare contro del sig. d’Épinay. — Bene, fecero gli occhi del vecchio. — Ora, signore, ordinate che mi ritiri? — Sì. — Senza rivedere madamigella? — Sì. Morrel fece un segno col quale indicava esser pronto ad obbedire: — Permettete intanto, signore, che vostro figlio vi abbracci, come ha fatto or ora vostra figlia. Non vi era da sbagliare nella espressione degli occhi di Noirtier. Il giovine posò sulla fronte del vecchio le sue labbra; indi lo salutò una seconda volta, e partì. Sul pianerottolo trovò Barrois avvisato da Valentina, che lo guidò nei giri di un corridoio oscuro, che conduceva per una piccola porta nel giardino. Giunto là, Morrel si portò al cancello; arrampicandosi su di una spalliera di carpini, giunse ben presto alla sommità del muro, e per mezzo di una scala, in un secondo fu nel recinto messo a trifoglio, ove il suo calessino lo aspettava sempre. Vi montò ed abbattuto da tante emozioni, ma col cuore più libero, verso mezzanotte rientrò nella strada Meslay, si gettò sul letto, e dormì come se fosse stato in una profonda ubbriachezza. LXXIII. — LA TOMBA DELLA FAMIGLIA VILLEFORT. Due giorni dopo, una folla considerevole si trovava riunita, verso le sei del mattino, alla porta del sig. de Villefort, ed erasi veduto inoltrare una lunga fila di carrozze di lutto, e di carrozze particolari, lungo tutto il sobborgo Sant’Onorato e la strada Pépinière. In mezzo ad esse ve n’era una di forma particolare, e che sembrava aver fatto un lungo viaggio. Era una specie di _forgone_ tinto in nero, e che si era ritrovato tra i primi al convegno. Furono prese informazioni, e si seppe che, per una strana coincidenza, questa carrozza racchiudeva il corpo del signor di Saint-Méran, e che quelli ch’eran venuti per un sol convoglio, seguiterebbero due cadaveri. Il marchese di Saint-Méran, uno dei dignitarii più zelanti e fedeli del re Luigi XVIII, e del re Carlo X, aveva conservato gran numero di amici, che uniti alle persone che le sociali convenienze mettevano in relazione con Villefort, formavano un seguito considerevole. Furon tosto prevenute tutte le autorità, e si ottenne che i due convogli sarebbero usciti nel medesimo tempo. Una seconda carrozza, addobbata con la stessa pompa mortuaria, fu condotta davanti alla porta del sig. de Villefort, e la cassa trasportata dal forgone di posta fu messa sulla carrozza funebre. I due corpi dovevano essere seppelliti nel cimitero del Padre-Lachaise, ove da lungo tempo il sig. de Villefort aveva fatto inalzare la tomba destinata alla sepoltura di tutta la sua famiglia, ed ove era già stato deposto il corpo della povera Renata, che suo padre e sua madre venivano a raggiungere dopo dieci anni di separazione. Parigi, sempre curiosa, e commossa per le pompe funebri, vide con un religioso silenzio passare lo splendido corteggio che accompagnava alla loro ultima dimora due nomi di quella vecchia aristocrazia, i più celebri per lo spirito di tradizione, per la sicurezza del commercio, e per l’ostinata devozione ai principi. Nella stessa carrozza da lutto Beauchamp, Debray, e Château-Renaud s’intrattenevano su queste morti quasi subitanee. — Ho veduto la sig.ª di Saint-Méran l’anno scorso ancora in Marsiglia, diceva Château-Renaud; io ritornava dall’Algeria; era una persona destinata a vivere cent’anni, mercè la sua perfetta salute, lo spirito sempre pronto, e la sua prodigiosa alacrità. Quanti anni aveva? — Sessantasei anni, rispose Alberto, almeno a quanto Franz mi ha assicurato. Ma non è l’età che l’ha uccisa, è il dispiacere che ha sofferto per la morte del marchese: sembra che dopo questa morte, che l’aveva violentemente colpita, non abbia ripresa compiutamente la ragione. — Ma in fine di che male è morta? domandò Debray. — Di una congestione cerebrale, a quanto sembra, o di una apoplessia fulminante. — Non è forse la stessa cosa? — Presso a poco. — Di apoplessia dice Beauchamp, è difficile a credersi. La sig.ª di Saint-Méran, che io pure ho veduta una o due volte in mia vita, era piccola, gracile di forme, e di costituzione molto più nervosa che sanguigna; le apoplessie prodotte da dispiaceri son molto rare in un corpo di costituzione come quella della sig.ª di Saint-Méran. — In ogni caso, disse Alberto, qualunque sia la malattia, o il medico che la uccise, ecco il sig. de Villefort, o piuttosto madamigella Valentina, o meglio ancora il nostro amico Franz in possesso di una magnifica eredità; 80 mila lire di rendita, credo. — Eredità che sarà quasi raddoppiata alla morte di quel vecchio giacobino di Noirtier. — Quello è un nonno tenace, disse Beauchamp; _Tenacem propositi virum_; egli ha promesso colla morte che avrebbe veduto seppellire tutti i suoi eredi. Sulla mia parola ci riuscirà. È quello stesso vecchio della convenzione del ’93 che diceva a Napoleone nel 1814: «Voi decadete perchè il vostro impero è un giovine stelo affaticato pel soverchio crescere; prendete la repubblica per tutore, e ritorniamo con una buona costituzione sui campi di battaglia, e vi garantisco 500 mila soldati, un altro Marengo, ed un secondo Austerlitz. Le idee non muoiono, sire, qualche volta sonnacchiano, ma si risvegliano poi più forti che prima di addormentarsi.» — Sembra, disse Alberto, che per lui gli uomini siano come l’idee; ciò che mi mette in pensiero, si è di sapere, cioè, in qual modo Franz d’Épinay si accomoderà col vecchio nonno, e che non può fare a meno della sposa di lui; ma, a proposito, Franz dov’è? — Nella prima carrozza col sig. de Villefort, che lo considera già come uno di famiglia. In ciascuna delle carrozze che formavano il corteggio funebre, la conversazione era presso a poco uguale; ognuno si meravigliava di queste due morti sì rapide e sì vicine, ma in nessuna si sospettava il terribile segreto, che il dottore d’Avrigny aveva svelato al sig. de Villefort nella passeggiata notturna. In capo circa ad un’ora di cammino, giunsero al cimitero: era una giornata tranquilla, ma cupa, e per conseguenza in armonia colla funerea cerimonia che si compiva. Fra i gruppi che si dirigevano verso la tomba della famiglia, Château-Renaud riconobbe Morrel, venuto solo ed in _cabriolet_: egli passeggiava solo, pallidissimo e silenzioso sul piccolo sentiero costeggiato da bossi. — Voi qui? disse Château-Renaud passando il braccio sotto quello del capitano; conoscete il sig. de Villefort? Come va che non vi ho mai incontrato in sua casa? — Non è il sig. de Villefort che io conosco, ma la sig.ª de Saint-Méran. In questo momento Alberto li raggiunse con Franz. — Il luogo è scelto male per una presentazione, disse Alberto; ma non importa, non siamo superstiziosi. Sig. Morrel, permettetemi che vi presenti il sig. Franz d’Épinay, un eccellente compagno di viaggio col quale ho fatto il giro d’Italia. Mio caro Franz, il sig. Massimiliano Morrel è un eccellente amico che ho acquistato nella tua assenza, e del quale tu sentirai spesso ricordarti il suo nome nella mia conversazione ogni qualvolta io dovrò parlare di coraggio, di spirito e di amabilità. Morrel ebbe un momento d’indecisione; egli chiese a sè stesso se poteva dirsi un tratto di riprovevole ipocrisia il fare un saluto amichevole a quell’uomo ch’egli combatteva alla sordina: ma gli ritornavano al pensiero e la gravità della circostanza, ed il suo giuramento, si sforzò dunque di non fare apparire niente sul suo viso, e salutò Franz con qualche ritegno. — Madamigella de Villefort è molto afflitta, non è vero? disse Debray a Franz. — Oh! signore, rispose Franz, di un’afflizione inesprimibile; questa mattina era così abbattuta che appena l’ho riconosciuta. Queste parole in apparenza tanto semplici, lacerarono il cuore di Morrel. Costui aveva dunque veduta Valentina, le aveva parlato? Fu allora che il giovine e fervido ufficiale ebbe bisogno di tutte le sue forze per resistere al desiderio di violare il suo giuramento. Prese sotto il braccio Château-Renaud e lo trascinò rapidamente verso la tomba, davanti la quale gli incaricati alle pompe funebri, avevano deposte le due casse. — Magnifica abitazione, disse Beauchamp dando uno sguardo al mausoleo, palazzo d’estate, e palazzo d’inverno. Verrà pure la vostra volta di venirci ad abitare, caro d’Épinay, perchè sarete ben presto della famiglia. Io nella mia qualità di filosofo, voglio una piccola casa di campagna, una capanna laggiù sotto gli alberi, e non voglio tanti macigni sul mio povero corpo. Morendo, dirò a quelli che mi circonderanno ciò che scriveva Voltaire a Piron: «vado in campagna» e tutto sarà finito... Andiamo, per bacco! Franz, ci vuol coraggio, vostra moglie eredita. — Davvero, Beauchamp, disse Franz, vi siete fatto insopportabile. Gli affari politici vi hanno data l’abitudine di ridere di tutto, e gli uomini che maneggiano gli affari, l’abitudine di non credere a niente. Ma finalmente, quando avete la fortuna di trovarvi con uomini comuni, e la fortuna di lasciare per un momento la politica, cercate di riprendere il vostro cuore che voi lasciate nella stanza di deposito dei bastoni della _Camera_ dei Deputati, o della _Camera_ dei Pari. — Eh! mio Dio! che cosa è la vita? una fermata nell’anticamera della morte. — Io prendo Beauchamp in fallo, disse Alberto, e si ritirò a quattro passi dietro Franz, lasciando Beauchamp continuare le sue dissertazioni filosofiche con Debray. La tomba della famiglia di Villefort formava una specie di quadrato di pietre bianche dell’altezza di circa venti piedi; una interna separazione divideva i due compartimenti, la famiglia di Saint-Méran, e la famiglia Villefort, e ciascun compartimento aveva la sua porta d’entrata. Non si vedevano, come nelle altre tombe, quegli ignobili tiratori soprapposti, dei quali una economica distribuzione racchiude i morti con iscrizione che rassomiglia ad una etichetta; tutto ciò che si vedeva sulle prime era un’anticamera cupa e scura separata da un muro di vera tomba. Era nel mezzo di questo muro che si aprivano le due porte di cui parlammo or ora, e che comunicavano alle sepolture Villefort, e Saint-Méran. Là potevansi esalare in libertà i dolori senza che gli spensierati passeggiatori che fanno di una visita al cimitero una partita di campagna, o un appuntamento amoroso, venissero a disturbare col loro canto, colle loro grida, o colle loro corse, la muta contemplazione, o la preghiera bagnata di lagrime dell’abitante della tomba. I due cadaveri furono portati nella tomba a diritta; era quella della famiglia di Saint-Méran. Entrambi furono deposti sopra dei preparati cavalletti, che aspettavano da qualche tempo le loro spoglie mortali; Villefort, Franz, ed alcuni altri prossimi parenti penetrarono soli nel santuario. Siccome le cerimonie religiose si erano terminate alla porta, e non v’era discorso da farsi, gli assistenti si separarono subito; Château-Renaud, Alberto, e Morrel si ritirarono da una parte, e Debray e Beauchamp da un’altra. Franz rimase col sig. de Villefort; alla porta del cimitero, Morrel si fermò col primo pretesto che gli venne al pensiero; egli vide sortire Franz ed il signor de Villefort in una carrozza di lutto, e concepì un cattivo presagio da questo avvicinamento. Egli ritornò dunque a Parigi, e quantunque fosse nella stessa carrozza di Château-Renaud e Alberto, egli non intese una parola di quel che dissero i due compagni. In fatti, quando Franz stava per lasciare il signor de Villefort: — Signor barone, aveva detto questi, quando potrò rivedervi? — Quando voi vorrete, signore, aveva risposto Franz. — Il più presto possibile. — Io sono ai vostri ordini, signore; se vi piace, possiamo ritornare assieme. — Se ciò non vi disturba in alcun modo. — In nessuno. Fu così, che il futuro suocero e il futuro genero salirono nella stessa carrozza, e che Morrel, vedendoli passare, concepì con ragione gravi inquietudini. Villefort e Franz ritornarono al sobborgo Saint-Honoré. Il procuratore del Re senza entrare da nessuno, senza parlare nè a sua moglie nè a sua figlia, fece passare il giovine nel suo gabinetto, e mostrandogli una sedia: — Signor d’Épinay, diss’egli, io debbo ricordarvi, che il momento non sarà forse tanto male scelto, quanto potrebbe credersi sul principio, perchè l’obbedienza ai morti, è la prima offerta che bisogna deporre sul loro cataletto; io debbo dunque ricordarvi il voto espresso dalla sig.ª di Saint-Méran fatto or son due giorni al suo letto di agonia, ed è, che il matrimonio di Valentina non soffra ritardo. Voi sapete che gli affari della defunta sono in perfetta regola; che il suo testamento assicura a Valentina tutta la fortuna di Saint-Méran; il notaro mi ha mostrato ieri questi atti che permettono di potere redigere in un modo definitivo il contratto di matrimonio. Voi potete vedere il notaro, e dirgli per parte mia che vi comunichi queste carte. Il notaro è il sig. Deschamps, piazza Beauveau, sobborgo Saint-Honoré. — Signore, rispose d’Épinay, questo forse non è il momento per madamigella Valentina, immersa come ella è nel dolore, di pensare ad uno sposo; in verità io temerei... — Valentina, interruppe il signor de Villefort, non avrà desiderio più intenso di quello di compiere le ultime intenzioni di sua nonna; perciò io vi garantisco che le difficoltà non nasceranno per parte sua. — In questo caso, signore, rispose Franz, siccome non verranno egualmente da parte mia, voi potete fare ciò che più vi conviene; la mia parola è impegnata, ed io l’adempirò, non solo con piacere, ma ancora con fortuna. — Allora, disse Villefort, non abbiamo più nulla che ci arresti; il contratto doveva esser firmato tre giorni sono, noi lo troveremo dunque già preparato; e si potrà firmare oggi stesso. — Ma il lutto? disse esitando Franz. — Siate tranquillo, signore, rispose Villefort; non sarà in casa mia, che verranno noncurate le convenienze. Madamigella de Villefort potrà ritirarsi, durante i tre mesi voluti, nella sua terra di Saint-Méran, io dico sua terra, perchè da oggi questa proprietà è sua. Là, fra otto giorni, se voi lo volete senza romore, senza lusso, senza fasto, sarà concluso il matrimonio civile. Era un desiderio della signora di Saint-Méran che sua nipote si maritasse in quella terra; concluso il matrimonio, signore, voi potrete ritornare a Parigi mentre che vostra moglie passerà il tempo del lutto colla sua matrigna. — Come vi piacerà, signore, disse Franz. — Allora, riprese il sig. de Villefort, abbiate la pena di aspettare un poco che fra una mezz’ora Valentina discenderà nel salotto. Manderò a cercare Deschamps; noi leggeremo e firmeremo il contratto in una sola seduta, e fino da questa sera, la signora de Villefort condurrà Valentina nella sua terra, ove fra otto giorni noi anderemo a raggiungerla. — Signore, disse Franz, io ho una domanda a farvi. — E quale? — Io desidero che Alberto de Morcerf, e Raoul di Château-Renaud siano presenti a questa sottoscrizione; voi sapete che questi sono i miei due testimoni. — Una mezz’ora basta a prevenirli; volete voi andare a cercarli da voi stesso, o volete mandarli a cercare? — Preferisco l’andarvi da me, signore. — Vi aspetto dunque fra una mezz’ora, e fra una mezz’ora Valentina sarà pronta. Franz salutò il sig. de Villefort, e sortì. Appena la porta di strada fu chiusa dietro al giovine, Villefort mandò a prevenire Valentina che doveva discendere nel salotto fra una mezz’ora perchè si aspettavano il notaro, e i testimoni del sig. d’Épinay. Questa notizia inaspettata produsse una gran sensazione nella famiglia. La sig.ª de Villefort non voleva crederci, e Valentina ne rimase atterrata come da un colpo di fulmine. Ella guardò intorno a sè, come per cercare a chi poteva domandare soccorso. Ella volle discendere da suo nonno; ma incontrò per la scala il sig. de Villefort, che la prese per un braccio, e la condusse in salotto. Nell’anticamera Valentina incontrò Barrois, e gettò al vecchio servitore uno sguardo di disperazione. Un istante dopo di Valentina, la signora de Villefort entrò in salotto col piccolo Edoardo. Era visibile che la giovane sposa aveva avuta una gran parte sui dispiaceri di famiglia; ella era pallida, e sembrava orribilmente stanca. Ella si assise, prese Edoardo sulle sue ginocchia, e di tratto in tratto comprimeva con movimenti quasi convulsivi contro il suo petto questo fanciullo, sul quale sembrava concentrarsi tutta intera la sua vita. Ben presto s’intesero due carrozze entrare nel cortile. Una era quella del notaro, l’altra quella di Franz con i suoi amici. In un istante tutti si riunirono nel salotto. Valentina era così pallida, che si vedevano delinearsi le vene blu delle sue tempie intorno ai suoi occhi, e scorrere lungo le sue guance. Franz non potè esimersi dal provare una forte emozione. Château-Renaud e Alberto, si guardavano con meraviglia; la cerimonia che stava per cominciare, non era men trista di quella che da poco era finita. La signora de Villefort si era situata all’ombra, dietro una tenda di velluto, e siccome era sempre inchinata sopra suo figlio, era difficile di leggere sul suo viso ciò che accadeva nel suo cuore. Il sig. de Villefort era, come sempre, impassibile. Il notaro dopo avere, col metodo ordinario alle persone legali, distribuite sulla tavola le carte, avea preso posto sul suo seggio, e dopo avere inalzati i suoi occhiali, si voltò verso Franz: — Siete voi il sig. Franz de Quesnel, barone d’Épinay? domandò egli, quantunque lo sapesse perfettamente. — Sì, signore, rispose Franz. Il notaro gli fece un inchino. — Debbo dunque prevenirvi, signore, diss’egli, e ciò per parte del sig. de Villefort, che il vostro matrimonio progettato con madamigella de Villefort, ha fatto cambiare le disposizioni testamentarie del signor de Noirtier verso sua nipote, e che egli aliena interamente la fortuna che le doveva trasmettere. Sollecitiamo di aggiungere, continuò il notaro, che il testatore non avendo il diritto di alienare che una sola parte della sua fortuna, e che avendo alienato tutto, il testamento non resisterà agli attacchi, e sarà dichiarato nullo, e come non avvenuto. — Sì, disse Villefort, soltanto io vi prevengo in antecedenza, sig. d’Épinay, che finchè vivrò il testamento di mio padre non sarà mai messo in lite; la mia posizione mi proibisce fin l’ombra di questo scandalo. — Signore, disse Franz, io sono dolente che si sia intavolata una simile questione in faccia di Valentina. Io non mi sono mai informato della cifra della sua fortuna, che per quanto possa venire ridotta sarà sempre maggiore della mia. Ciò che la mia famiglia ha cercato nella alleanza col signor de Villefort, si è la considerazione; ciò che cerco io, è la felicità. Valentina fece un segno impercettibile di ringraziamento, nel mentre che due silenziose lagrime scorrevano sulle sue guance. — D’altronde, signore, disse Villefort indirizzandosi al suo futuro genero, fatta astrazione da questa perdita di una parte delle vostre speranze, questo inatteso testamento non ha niente che debba offendervi personalmente; ciò si spiega colla debolezza di spirito del sig. Noirtier. Ciò che dispiace a mio padre, non è che mia figlia si sposi con voi, ma che mia figlia prenda marito; una unione con qualunque altro, gli sarebbe egualmente dispiaciuta. La vecchiaia è egoista, signore, e madamigella de Villefort faceva al sig. Noirtier una fedele compagnia che non potrà più fargli la sig.ª baronessa d’Épinay. Lo stato infelice nel quale si ritrova mio padre, fa che gli si parli raramente di affari seri, che la debolezza del suo spirito non gli permetta di seguire, e sono pienamente convinto che a quest’ora mentre conserva la memoria che sua nipote si marita, non si ricorda più neppure il nome di quello che sta per diventare suo nipote. Appena il sig. de Villefort terminava queste parole alle quali Franz rispondeva con un saluto, a un tratto si aprì la porta del salotto, e comparve Barrois. — Signori, signori, diss’egli con una voce stranamente ferma per un servitore che parla ai suoi padroni in una circostanza così solenne, signori, il sig. Noirtier de Villefort desidera parlare sul momento al sig. Franz de Quesnel barone d’Épinay. Egli pure, come aveva fatto il notaro, affinchè non potesse nascere alcun errore di persona aveva dato al fidanzato tutti i suoi titoli. Villefort rabbrividì, la signora de Villefort lasciò scivolare suo figlio dalle sue ginocchia. Valentina si alzò pallida e muta come una statua. Alberto e Château-Renaud si scambiarono un secondo sguardo più meravigliati ancora di prima. Il notaro guardò Villefort. — È impossibile, disse il procuratore del re; d’altronde il sig. d’Épinay non può in questo momento lasciare il salotto. — È precisamente in questo momento, riprese Barrois colla stessa fermezza, che il sig. Noirtier mio padrone desidera parlare di affari importanti al sig. Franz d’Épinay. — Parla adunque adesso il mio nonno Noirtier? domandò Edoardo con la sua abituale impertinenza. Ma questo lazzo non fece ridere neppure la sig.ª de Villefort, tanto gli spiriti erano preoccupati, tanto la situazione sembrava solenne. — Dite al sig. Noirtier, riprese Villefort, che ciò ch’egli domanda non si può fare. — Allora il sig. Noirtier previene questi signori, riprese Barrois, che si farà subito portare lui stesso nel salotto. Lo stupore era al colmo. Una specie di sorriso si disegnò sul viso della signora de Villefort. Valentina, quasi senza suo consenso, alzò gli occhi al soffitto per ringraziare il cielo. — Valentina, disse il sig. de Villefort, andate un poco a sentire, vi prego che cosa è questa nuova fantasia di vostro nonno. Valentina fece prestamente qualche passo per sortire, ma il sig. de Villefort cambiò di avviso. — Aspettate, diss’egli, io vi accompagno. — Perdono, signore, disse Franz a sua volta, mi sembra che, essendo io quello che il sig. Noirtier ha fatto domandare, stia particolarmente a me di arrendermi ai suoi desideri. D’altronde io sarei fortunato di potergli presentare i miei rispetti non avendo ancora avuta l’occasione di sollecitare questa fortuna. — Oh! mio Dio, disse Villefort con una invisibile inquietudine, non v’incomodate. — Scusatemi, signore, disse Franz col tuono di un uomo che ha presa una risoluzione, io desidero di non tralasciare questa occasione per provare al sig. Noirtier quanto avrebbe torto di concepire verso di me delle ripugnanze che sono deciso a vincere, qualunque esse sieno, con un profondo attaccamento. E senza lasciarsi ritenere più lungamente da Villefort, Franz pure si alzò e seguì Valentina, la quale discendeva di già la scala con la gioia di un naufrago che mette la mano sopra uno scoglio. Il sig. de Villefort li seguì entrambi. Château-Renaud e Morcerf si scambiarono un terzo sguardo più meravigliato ancora dei due precedenti. LXXIV. — PROCESSO VERBALE. Noirtier aspettava, vestito di nero, ed installato nel suo seggio a bracciuoli. Allora quando furono entrate le tre persone che calcolava dovessero venire, egli guardò la porta, che fu subito chiusa dal suo cameriere. — State attenta, disse sotto voce Villefort a Valentina che non poteva celare la sua gioia, che se il sig. Noirtier vi comunica cose che potessero impedire il vostro matrimonio, io vi proibisco di capirle. Valentina arrossì, ma non rispose. Villefort si avvicinò a Noirtier. — Ecco il signor Franz d’Épinay, gli disse; voi lo avete fatto chiamare, signore, egli si è arreso ai vostri desiderii. Senza dubbio noi desideravamo questa visita da lungo tempo, e sarei contento se questa vi provasse quando poco è fondata la vostra opposizione ad un tal matrimonio. Noirtier non rispose che con uno sguardo che fece correre un brivido per le vene di Villefort. Egli fece coll’occhio segno a Valentina di accostarsi. In un momento, mercè i mezzi di cui era abituata a servirsi nelle conversazioni con suo nonno, ella trovò la parola _chiave_. Allora ella consultò lo sguardo del paralitico, che si fissò al tiratore di un piccolo mobile posto fra le due finestre. Ella aprì il tiratore e ritrovò effettivamente una chiave. Quando ella ebbe questa chiave, e che il vecchio le fece segno che era veramente quella che domandava, gli occhi del paralitico si diressero verso un _secrétaire_ dimenticato da molti anni, e che si credeva non racchiudesse che delle cartacce inutili. — Volete che io apra il _secrétaire_? domandò Valentina. — Sì, fece il vecchio. — Che io apra i cassetti? — Sì. — Quelli dai lati? — No. — Quello di mezzo? — Sì. Valentina aprì e ne cavò un piego di carte. — È questo che desiderate, mio buon nonno? diss’ella. — No. Ella cavò allora tutte le altre carte, fino a che non rimase assolutamente niente nel cassetto. — Ma il cassetto è vuoto ora, diss’ella. Gli occhi del vecchio erano fissi sul dizionario. — Sì, buon nonno, io vi capisco, disse la giovinetta. Ed ella ripetè una dopo l’altra tutte le lettere dell’alfabeto; Noirtier si fermò alla lettera _S_. Ella aprì il dizionario e cercò fino alla parola _segreto_. — Oh! vi è un segreto? disse Valentina. — Sì, fece Noirtier. Noirtier guardò la porta dalla quale era sortito il domestico. — Barrois? diss’ella. — Sì, fece Noirtier. — Volete ch’io lo chiami? — Sì. Valentina andò alla porta e chiamò Barrois. Durante questo tempo il sudore dell’impazienza irrigava le guance di Villefort, e Franz rimaneva stupefatto per la meraviglia. Il vecchio servitore ricomparve. — Barrois, disse Valentina, mio nonno mi ha ordinato di prendere la chiave da quel mobile, di aprire questo _secrétaire_, e di tirare il cassettino; ora, in questo cassettino vi è un segreto, e sembra che voi dobbiate conoscerlo, apritelo. Barrois guardò il vecchio. — Obbedite, disse l’occhio intelligente di Noirtier. Barrois obbedì; aprì un doppio fondo, e apparve un plico di carte annodate con un nastro nero. — È questo che volete; signore? domandò Barrois. — Sì, fece Noirtier. — A chi volete che si diano queste carte: al signor de Villefort? — No. — A madamigella Valentina? — No. — Al sig. Franz d’Épinay? — Sì. Franz meravigliato fece un passo avanti. — A me, signore? diss’egli. — Sì. Franz ricevette il piego dalle mani di Barrois, gettò gli occhi sulla sopraccarta e lesse: «Per essere depositato dopo la mia morte presso il mio amico il generale Durand; egli stesso morendo lascerà a suo figlio questo piego, coll’ingiunzione di conservarlo come contenente un foglio della più alta importanza.» — Ebbene, signore, domandò Franz, che volete che io faccia di questo piego? — Che voi, per certo lo conserviate sigillato come trovasi, disse il procuratore del Re. — No, no, rispose prestamente Noirtier. — Desiderate voi forse che il signore lo legga? domandò Valentina. — Sì, rispose il vecchio. — Voi intendete sig. barone, mio nonno vi prega di leggere quella carta, disse Valentina. — Sì, rispose il vecchio. — Allora, sediamoci, fece Villefort con impazienza, perchè vi s’impiegherà del tempo. — Sedetevi, fece coll’occhio il vecchio. Villefort si assise, ma Valentina restò in piedi allato del nonno appoggiata al suo seggio, e Franz in piedi davanti a lui. Egli teneva il misterioso foglio fra le mani. — Leggete, dissero gli occhi del vecchio. Franz dissigillò il piego, e fecesi un gran silenzio nella camera. In mezzo a questo silenzio egli lesse: _Estratto dai processi verbali di una seduta del club bonapartista della strada Saint-Jacques tenutasi il 5 Febbraio 1815_ Franz si fermò. — Il cinque febbraio 1815 fu il giorno in cui mio padre venne assassinato! diss’egli. Valentina e Villefort rimasero muti. Il solo occhio del vecchio disse chiaramente: — Continuate. — Ma fu nel sortire da questo club, continuò Franz, che mio padre disparve. Lo sguardo di Noirtier continuò a dire: — Leggete. Egli riprese. «I sottoscritti Luigi Giacomo Beaurepaire luogo-tenente-colonnello d’artiglieria; Stefano Duchampy generale di brigata, e Claudio Lecharpal, direttore delle acque e foreste. «Dichiarano che il 4 Febbraio 1815 giunse una lettera dall’Isola d’Elba, che raccomandava alla benevolenza ed alla confidenza dei membri del club bonapartista il generale Flaviano de Quesnel, che, avendo servito l’imperatore dal 1804 al 1814, doveva essere tutto dedicato alla dinastia napoleonica, ad onta del titolo di barone che Luigi XVIII aveva aggiunto alla sua terra d’Épinay. «In conseguenza fu indirizzato un biglietto al generale Quesnel, in cui lo si pregava di assistere alla seduta dell’indomani 5. Il biglietto non indicava nè la strada, nè il numero della casa in cui si teneva la riunione; esso non portava alcuna sottoscrizione, ma annunziava al generale che, s’egli voleva tenersi in ordine, si sarebbe andato a prenderlo alle 9 di sera. «La seduta aveva luogo dalle nove della sera a mezza notte. «A nove ore il presidente del club si presentò dal generale; il generale era pronto; il presidente gli disse che una delle condizioni alla sua introduzione era, ch’egli ignorerebbe eternamente il luogo della riunione, e che si lascerebbe bendare gli occhi, giurando di non cercare di alzare la benda. «Il generale Quesnel accettò la condizione, e promise sul suo onore che non avrebbe tentato di vedere il luogo ove si conduceva. «Il generale aveva fatta preparare la sua carrozza, ma il presidente gli disse ch’era impossibile servirsene, atteso che sarebbe stato inutile il bendare gli occhi del padrone, se il cocchiere rimaneva ad occhi aperti, e riconosceva le strade per le quali passava. «— Come fare allora? domandò il generale. «— Io ho la mia carrozza, disse il presidente. «— Siete dunque tanto sicuro del vostro cocchiere da confidargli un segreto che giudicate imprudente di dire al mio? «— Il nostro cocchiere è un membro del club, disse il presidente; noi saremo guidati da un consigliere di stato. «— Allora, disse ridendo il generale, correremo un altro pericolo, quello cioè di rovesciare. «Noi trascriviamo questo scherzo come una prova che il generale non è stato menomamente forzato ad assistere alla seduta, e che vi è intervenuto di pieno suo aggradimento. «Una volta saliti in carrozza, il presidente ricordò al generale la promessa fatta di lasciarsi bendare gli occhi. Il generale non mise alcuna opposizione a questa formalità; un fazzoletto, preparato a tale effetto nella carrozza, fece l’affare. «Strada facendo, il presidente credè accorgersi che il generale cercava di guardare sotto la sua benda: gli ricordò il suo giuramento. «— Ah! è vero, disse il generale. «La carrozza si fermò davanti un viale della strada di Saint-Jacques. Il generale discese appoggiandosi al braccio del presidente, di cui egli ignorava la dignità, e che prendeva per un semplice membro del club; si traversò il viale, si montò ad un piano, e si entrò nella camera delle deliberazioni. «La seduta era cominciata. I membri del club, avvisati della specie di presentazione che doveva farsi quella sera, si ritrovavano in numero completo. Giunto in mezzo alla sala, il generale fu invitato a togliersi la benda. Egli si arrese tosto all’invito, e parve molto maravigliato di ritrovare un sì gran numero di persone di sua conoscenza, appartenere ad una società di cui fino allora non aveva neppure sospettata l’esistenza. «Fu interrogato sulle sue opinioni, ma egli si limitò a dire, che le lettere dell’isola dell’Elba avevano dovuto farlo conoscere...» Franz s’interruppe. — Mio padre era realista, diss’egli, non vi era bisogno d’interrogarlo sulle sue opinioni; esse erano conosciute. — E di là, disse Villefort, veniva la mia amicizia con vostro padre, mio caro Franz; si fa presto amicizia quando si dividono le stesse opinioni. — Leggete, continuò l’occhio del vecchio. Franz continuò. «Il presidente prese allora la parola per impegnare il generale a spiegarsi esplicitamente; ma il sig. de Quesnel rispose che prima di tutto desiderava sapere ciò che si attendeva da lui. «Allora fu data comunicazione al generale di quella stessa lettera dell’isola d’Elba che lo raccomandava al club come un uomo sul concorso del quale si poteva contare. Un paragrafo tutto intero esponeva il probabile ritorno dall’Isola e prometteva una nuova lettera con più ampi dettagli all’arrivo del _Faraone_, bastimento appartenente all’armatore Morrel di Marsiglia, il di cui capitano era interamente devoto all’imperatore. «Durante questa lettura il generale, sul quale si era creduto poter contare, come sopra un fratello, dette al contrario dei segni di mal contento e di visibile ripugnanza. «Terminata la lettura, egli dimorò silenzioso e col sopracciglio aggrottato. «— Ebbene! domandò il presidente, che dite di questa lettera, sig. generale? «— Io dico che è poco tempo che si è prestato il giuramento al re Luigi XVIII, per violarlo di già a benefizio dell’ex-imperatore. «Questa volta la risposta era troppo chiara perchè si potesse dubitare dei suoi sentimenti. «— Generale, disse il presidente, per noi non vi è più re Luigi XVIII, non vi è più ex-imperatore. Vi è soltanto Sua Maestà l’imperatore e re, allontanato da dieci mesi dalla Francia, suo Stato, dalla violenza e dal tradimento. «— Perdono, signori, può darsi che per voi non esista un re Luigi XVIII, ma vi è per me, attesochè mi ha fatto barone e maresciallo di campo, ed io non dimenticherò mai che devo questi due titoli al di lui felice ritorno in Francia. «— Signore, disse il presidente alzandosi, e col tuono il più serio, ponete mente a ciò che dite; le vostre parole ci addimostrano chiaramente che all’isola d’Elba si sono ingannati sul conto vostro, e che hanno ingannato noi! La comunicazione che vi è stata fatta fu in riguardo alla confidenza che si aveva in voi, e per conseguenza ad un sentimento che vi onora. Noi però eravamo nell’errore; un titolo ed un grado vi hanno posto al seguito del nuovo governo che noi vogliamo rovesciare. Noi non vi costringevamo a prestarci il vostro concorso; noi non arruoliamo nessuno contro la propria coscienza e volontà, ma vi sforzeremo ad agire da galantuomo, anche nel caso che non vi foste disposto. «— Voi chiamate essere un galantuomo, conoscere la vostra cospirazione e non rivelarla! Io chiamo ciò essere vostro complice. Voi vedete che io sono ancora più franco di voi...» — Ah! padre mio! disse Franz interrompendosi, capisco ora perchè l’hanno assassinato. Valentina non potè stare dal volgere uno sguardo su Franz; il giovine era veramente bello nel suo entusiasmo. Villefort passeggiava dietro a lui in lungo ed in largo. Noirtier seguiva cogli occhi l’espressione di ciascuno, e conservava la sua attitudine degna e severa. Franz ritornò al manoscritto e continuò: «— Signore, disse il presidente, vi si pregò di portarvi nel seno dell’assemblea, e non vi si strascinò per forza; vi si propose di farvi bendar gli occhi, voi accettaste. Quando voi avete acconsentito a questa doppia domanda, voi sapevate benissimo che noi non ci occupavamo di assicurare il trono di Luigi XVIII, senza di che non ci saressimo prese tante premure di nasconderci alla polizia. Ora, voi lo capirete, sarebbe troppo comodo di potersi mettere una maschera col mezzo della quale sorprendere il segreto delle persone, e non avere poi altro da fare che togliersi questa maschera per perdere quelli che si sono in voi fidati. No, no, voi per primo dovrete dire francamente se siete pel re che a caso ora governa, o per Sua Maestà l’imperatore. «— Io sono realista, rispose il generale, io ho fatto giuramento a Luigi XVIII, io manterrò il mio giuramento. «Queste parole furono seguite da un mormorio generale, e potevasi scorgere dallo sguardo di molti dei membri che componevano il club, ch’essi discutevano il modo di far pentire il sig. d’Épinay di queste imprudenti parole. «Il presidente si alzò di nuovo e impose silenzio. «— Signore, diss’egli, voi siete un uomo troppo sensato per non comprendere le conseguenze della situazione in cui noi ci troviamo gli uni in faccia agli altri, e la vostra stessa franchezza ci detta le condizioni che ci rimangono a farvi. Voi dunque dovete giurare sul vostro onore di non rivelar niente di tutto ciò che avete veduto ed inteso. «Il generale portò la mano alla sua spada e gridò: «— Se voi parlate di onore, cominciate dal non stravisare le sue leggi, e non imponete niente colla violenza. «— E voi, signore, continuò il presidente con una calma forse più terribile della collera del generale, non toccate la vostra spada, questo è un consiglio che vi do. «Il generale girò intorno a sè degli sguardi da cui trapelava un principio d’inquietudine. «Però egli non si piegò ancora, al contrario, richiamando la sua forza: «— Io non giurerò, diss’egli. «— Allora, signore, voi morrete, rispose tranquillamente il presidente. «Il sig. d’Épinay divenne pallidissimo; guardò una seconda volta intorno a sè; molti membri del club brandivano, o cercavano armi sotto i loro mantelli. «— Generale, disse il presidente, siate tranquillo, voi siete in mezzo a uomini di onore che tenteranno ogni via di convincervi, prima di giungere all’ultimo estremo contro di voi; ma egualmente, voi lo diceste, voi vi trovate in mezzo a cospiratori, voi possedete il nostro segreto, fa d’uopo restituircelo. «Un silenzio pieno di significato seguì queste parole, e siccome il generale non rispondeva niente: «— Chiudete le porte, disse il presidente agli uscieri. «Un eguale silenzio di morte tenne dietro a queste parole. «Allora il generale si avanzò, e facendo un violento sforzo su sè stesso: «— Io ho un figlio, disse, e devo pensare a lui nel ritrovarmi in mezzo a degli assassini. «— Generale, disse con nobiltà il capo dell’assemblea, un uomo solo ha sempre il diritto d’insultarne cinquanta, è il privilegio della debolezza. Soltanto egli ha torto di far uso di questo diritto. Credete a me, generale, giurate e non insultate. «Il generale domato anche questa volta dalla superiorità del capo dell’assemblea, esitò un istante; ma finalmente inoltrandosi fino al banco del presidente: «— Qual è la formula? domandò egli. «— Eccola: «Io giuro sul mio onore di non rivelare a chi che sia al mondo ciò che ho veduto ed inteso il cinque febbraio 1815 fra le nove e le dieci ore di sera, e dichiaro essere meritevole di morte se io infrango il mio giuramento.» «Il generale parve provare un fremito nervoso, che per qualche secondo gli impedì di poter rispondere; finalmente, sormontando ogni manifesta ripugnanza, pronunciò il richiesto giuramento, ma con una voce tanto bassa, che a gran stento fu inteso; cosicchè molti membri vollero ch’egli lo ripetesse a voce più alta e più distinta, il che fu fatto. «— Ora desidero ritirarmi, disse il generale, sono io finalmente libero? «Il presidente si alzò, scelse tre membri dell’assemblea per accompagnarlo, e montò in carrozza col generale, dopo avergli bendati gli occhi. «Nel numero di questi tre membri era il cocchiere che li aveva condotti. «Gli altri membri del club si separarono in silenzio. «— Dove volete voi che vi conduciamo? demandò il presidente. «— Ovunque possa essere liberato dalla vostra presenza, rispose il sig. d’Épinay. «— Signore, riprese allora il presidente, guardatevi, voi qui non siete più nell’assemblea, non avete più a che fare se non con uomini isolati; non l’insultate adunque se non volete essere responsabile dell’insulto. «Ma invece di capire questo linguaggio, il sig. d’Épinay rispose: «— Voi siete sempre tanto coraggioso nella vostra carrozza come nella vostra assemblea, per la ragione, signore, che quattro uomini sono sempre più forti di un solo. «Il presidente fece fermare la carrozza. «Erano precisamente nelle vicinanze dello scalo degli Ormes ove si ritrova la scalinata che discende sulla riviera. «— Perchè fate voi fermar qui? domandò il generale d’Épinay. «— Perchè, signore, disse il presidente, voi avete insultato un uomo, e quest’uomo non vuol fare un passo di più senza domandarvi una leale riparazione. «— Anche un altro modo d’assassinare! disse il generale stringendosi nelle spalle. «— Non fate rumore, signore, rispose il presidente, se non volete che consideri voi pure come uno di quegli uomini che voi designavate or ora, vale a dire, come un vile che prende per suo scudo la sua stessa viltà. Voi siete solo, ed uno solo vi risponderà; voi avete una spada al fianco, io ne ho una in questa canna; voi non avete testimoni, uno di questi signori sarà il vostro. Ora se ciò vi conviene, potete togliervi la benda. «Il generale si strappò nello stesso istante il fazzoletto che aveva innanzi agli occhi. «— Finalmente, diss’egli, saprò con chi ho a che fare. «Fu aperta la carrozza; i quattro uomini discesero...» Franz s’interruppe anche una volta e si asciugò un freddo sudore che colava dalla sua fronte; vi era qualche cosa di spaventoso a vedere un figlio, tremante e pallido, leggere ad alta voce i dettagli, fino allora ignorati, della morte di suo padre. Valentina congiunse le mani come se fosse stata pregando. Noirtier guardava Villefort con una espressione quasi sublime di disprezzo e di orgoglio. Franz continuò: «Si era, come abbiamo detto, ai cinque di Febbraio. Da tre mesi gelava a cinque o sei gradi; la scalinata era tutta ricoperta di ghiaccio; il generale era grosso e grande, il presidente gli additò la parte del declive per discendere. «I due testimoni seguivano dietro. «Faceva una notte oscura, il terreno della scala alla riviera era umido di neve e di brina, si vedeva l’acqua scorrere, nera, profonda, e trasportava dei massi di ghiaccio. «Uno dei testimoni andò a trovare una lanterna in un battello da carbone, ed al chiarore di questa lanterna furono esaminate le armi. «La spada del presidente, ch’era semplicemente, com’egli aveva detto, la spada che portava nella canna, era cinque pollici più corta di quella del suo avversario, e non aveva guardia. «Il generale d’Épinay propose di tirare a sorte le due spade; ma il presidente rispose ch’era egli che aveva provocato, e che nel provocare aveva preteso che ciascuno si servisse delle proprie armi. «I testimoni tentarono d’insistere; il presidente impose loro silenzio. «Fu posta la lanterna in terra, i due avversari si misero ai due lati: cominciò il combattimento. «La luce faceva delle due spade due lampi. Quanto agli uomini era molto se appena si discernevano, tanto era fitta la oscurità di quella notte. «Il sig. generale d’Épinay passava per una delle migliori lame dell’armata. Ma fu stretto tanto vivamente fino dalle prime botte ch’egli ruppe la misura e, rompendo, cadde. «I due testimoni lo credettero ucciso, ma il suo avversario che sapeva di non averlo toccato gli presentò la mano per aiutarlo ad alzarsi. Questa circostanza invece di calmarlo, irritò il generale che piombò a sua volta sopra il suo avversario. «Ma il suo avversario non ruppe di un palmo. Ricevendolo sulla sua spada, tre volte il generale indietrò, si trovò troppo impegnato, e ritornò alla carica. «La terza volta, egli cadde ancora. «Fu creduto che scivolasse come la prima volta; però i testimoni vedendo che non si rialzava, si accostarono a lui, e tentarono di rimetterlo in piedi; ma quegli che l’aveva preso intorno al corpo sentì la sua mano umida e calda. «Era sangue. «Il generale che era quasi svenuto, riprese i sentimenti. «— Ah! diss’egli, mi hanno mandato qualche spadaccino, qualche maestro d’armi di reggimento. «Il presidente senza rispondere, si avvicinò a quello dei due testimoni che teneva la lanterna, e, sollevando la manica, mostrò il suo braccio traforato da due colpi di spada; poi, aprendosi il suo abito, e sbottonandosi il gilè, fece vedere il suo fianco rotto da una terza ferita. «Ciò non ostante egli non aveva mandato un sospiro. «Il generale d’Épinay entrò in agonia, e spirò cinque minuti dopo...» Franz lesse queste ultime parole con una voce così soffocata, che appena si potè intendere, e dopo aver letto si fermò, portando la sua mano sugli occhi come per scacciarne un sogno. Ma dopo un istante di silenzio, egli continuò: «Il presidente rimontò la scala dopo avere rimessa la spada nella canna; una traccia di sangue segnava il suo tragitto sulla neve. Egli non era ancora in alto della scalinata che intese un tonfo sordo nell’acqua; era il corpo del generale che i testimoni avevano gettato nel fiume dopo avere constatata la sua morte. «In fede di che noi abbiamo segnata la presente per stabilire la verità dei fatti, per paura che un momento arrivi in cui uno degli attori di questa terribile scena non si trovi accusato di omicidio premeditato, o di falsario alle leggi d’onore. _Sottoscritti_ Beaurepaire, Duchampy e Lecharpal. Quando Franz ebbe terminata questa lettura tanto terribile per un figlio, quando Valentina, pallida per l’emozione, ebbe asciugato una lagrima, quando Villefort tremante e rannicchiato in un cantone, ebbe tentato scongiurare l’uragano per mezzo di sguardi supplichevoli diretti al vecchio implacabile: — Signore, disse d’Épinay a Noirtier, dappoichè voi conoscete questa terribile storia in tutti i suoi dettagli, dacchè voi l’avete fatta testificare da firme onorevoli, dacchè finalmente voi sembrate prendere interesse per me, quantunque il vostro interesse non si sia ancora rivelato che per mezzo del dolore, non mi rifiutate un’ultima soddisfazione, ditemi il nome del presidente del club, che io conosca finalmente quello che ha ucciso il mio povero padre. Villefort cercò, come un alienato, la maniglia della porta; Valentina, che aveva compreso prima di tutti la risposta del vecchio, e che spesso aveva notato nel suo avambraccio le tracce di due colpi di spada, si addietrò di un passo. — Nel nome del cielo! madamigella, disse Franz indirizzandosi alla sua fidanzata, unitevi a me, che io sappia il nome di quell’uomo che mi ha reso orfano a due anni! Valentina restò immobile, e muta. — Sentite, signore, disse Villefort, credetemi, non prolungate questa orribile scena; i nomi d’altronde sono stati nascosti ad arte. Mio padre stesso non conosce questo presidente, e, se lo conosce non potrebbe dirlo, i nomi proprii non si trovano nel dizionario. — Oh! disgrazia! gridò Franz, la sola speranza che mi ha sostenuto durante tutta questa lettura, e che mi ha data la forza di andare fino alla fine, era di conoscere almeno il nome di colui che ha ucciso mio padre! signore! gridò egli voltandosi a Noirtier, in nome del cielo! fate ciò che voi potrete... giungete, io ve ne supplico, a indicarmi, o farmi comprendere... — Sì, rispose Noirtier. — Oh! madamigella! madamigella! gridò Franz, vostro nonno ha fatto segno che vuole indicarmi... quest’uomo... aiutatemi... voi lo capite... concedetemi il vostro soccorso... Noirtier guardò il dizionario. Franz lo prese con un tremito nervoso, e pronunciò successivamente le lettere dell’alfabeto fino alla lettera vocale _I_. A questa lettera il vecchio fece segno di sì. — _I_? ripetè Franz. Il dito del giovane strisciò sulle parole, ma a tutte le parole Noirtier rispondeva con un segno negativo. Valentina nascondeva la sua testa fra le sue mani. Finalmente Franz giunse alla parola _IO_. — Sì! fece il vecchio. — Voi! gridò Franz, i di cui capelli si drizzarono sulla sua testa; voi, sig. Noirtier, siete voi che avete ucciso mio padre? — Sì, rispose Noirtier fissando sul giovine uno sguardo maestoso. Franz cadde sopra un seggio. Villefort aprì la porta e fuggì, perchè gli balenava al pensiero l’idea di soffocare quell’avanzo di esistenza, che ancora restava nel cuore del terribile vecchio. LXXV. — I PROGRESSI DEL SIG. CAVALCANTI FIGLIO. Frattanto il sig. Cavalcanti padre era partito per andare a riprendere il suo servizio, non già nell’armata di Sua Maestà l’imperatore d’Austria, ma alla rotina dei bagni di Lucca di cui egli era uno dei più assidui cortigiani. Non fa d’uopo il dire che egli aveva ritirato colla più scrupolosa esattezza fino all’ultimo paolo della somma che gli era stata destinata pel suo viaggio, e per la ricompensa delle maniere maestose e solenni colle quali aveva rappresentata la parte di padre. Il sig. Andrea aveva ereditato, a questa partenza, tutte le carte che constatavano che egli aveva avuto l’onore di essere il figlio del marchese Bartolommeo, e della marchesa Oliva Corsinari. Egli era dunque presso a poco inscritto in questa società parigina, tanto facile a ricevere gli stranieri ed a trattarli, non dietro quello che sono, ma dietro le apparenze di ciò che vogliono comparire. D’altronde che cosa si richiede da un giovine a Parigi? di parlare presso a poco la sua lingua, di essere vestito convenientemente, di essere un bel giuocatore, e di pagare in oro. Non è mestieri di dirlo che si è meno esigenti per un forestiere, che per un parigino. Andrea dunque aveva preso in una quindicina di giorni una posizione abbastanza buona; lo chiamavano sig. conte, si diceva che avesse cinquantamila lire di rendita, e si parlava degli immensi tesori sepolti da suo padre nei sotterranei di Seravezza. Uno scienziato davanti al quale venivano menzionate queste ultime circostanze come un fatto, dichiarò avere veduti i sotterranei di cui si parlava, il che dette un gran peso alle asserzioni finora dubbie e nello stato di fluttuazione, e che da quel momento presero l’aspetto della consistenza reale. Le cose erano a tal punto in questo circolo della società parigina ove abbiamo introdotti i nostri lettori, allorchè Monte-Cristo venne a fare visita alla signora Danglars. Il sig. Danglars era sortito, ma fu proposto al conte d’introdurlo presso la baronessa che allora era visibile, ed egli accettò. Non era mai senza una specie di brivido nervoso che la signora Danglars sentiva pronunziare il nome di Monte-Cristo dopo il pranzo d’Auteuil, e gli avvenimenti che lo susseguirono. Se la presenza del conte non seguiva il romore del suo nome, la sensazione dolorosa diveniva più intensa; se al contrario il conte compariva, la sua figura aperta, i suoi occhi brillanti, la sua amabilità, la sua stessa galanteria per la signora Danglars, scacciavano ben presto fin l’ultima espressione del timore; sembrava impossibile alla baronessa che un uomo così grazioso all’esterno potesse nutrire contro essa dei malvagi disegni; d’altronde, i cuori i più corrotti non possono credere al male, se non che facendolo riposare sopra un qualunque interesse; il male inutile, e senza causa ripugna come una anomalia. Allorchè Monte-Cristo entrò nel gabinetto, ove noi abbiamo già una volta introdotti i nostri lettori, ed ove la baronessa seguiva con occhio molto inquieto alcuni disegni che le passava sua figlia, dopo averli guardati col sig. Cavalcanti figlio, la sua presenza produsse l’effetto ordinario, e fu sorridendo che, dopo essere stata qualche poco sconvolta al suo nome, la baronessa ricevette il conte. Questi dal canto suo abbracciò tutta la scena con un colpo d’occhio. Vicino alla baronessa, e quasi stesa sopra una poltrona, stava gettata Eugenia, e Cavalcanti in piedi. Cavalcanti vestito di nero come un eroe di Goethe, scarpe verniciate, e calze di seta bianca a giorno, passava una mano molto bianca, e molto pulita, nei suoi capelli biondi, in mezzo dei quali scintillava un diamante, che, malgrado i consigli di Monte-Cristo, il vanitoso giovine non aveva potuto resistere al desiderio di passarsi al dito mignolo. Questo movimento era accompagnato da sguardi assassini lanciati sopra madamigella Danglars, e da sospiri inviati al medesimo indirizzo che gli sguardi. Madamigella Danglars era sempre la medesima, vale a dire bella, fredda, e motteggiatrice. Non le sfuggiva un solo dei sospiri, un solo degli sguardi d’Andrea; si sarebbe detto ch’essi strisciavano sulla corazza di Minerva; corazza che alcuni filosofi pretendono che qualche volta ricuopra il petto di Safo. Eugenia salutò freddamente il conte, e approfittò delle prime preoccupazioni della conversazione per ritirarsi nella sua stanza da studio, da dove ben tosto esalarono due voci scherzose e rumorose, miste ai primi accordi di un piano, e fecero sapere a Monte-Cristo, che madamigella Danglars preferiva alla sua ed a quella di Cavalcanti, la società di madamigella Luigia d’Armilly sua maestra di canto. Fu allora particolarmente che, parlando colla signora Danglars, e sembrando assorbito nella conversazione, il conte rimarcò la sollecitudine del sig. Andrea Cavalcanti, il suo modo di andare ad ascoltare la musica alla porta che non osava sorpassare, e di manifestare la sua ammirazione. Ben presto rientrò il banchiere. Il suo primo sguardo fu per Monte-Cristo, è vero, ma il secondo fu per Andrea. In quanto a sua moglie, egli la salutò con quel modo che molti mariti salutano le loro mogli. — Queste signorine forse non vi hanno invitato a far musica assieme? domandò Danglars ad Andrea. — Ahimè! no, signore, rispose Andrea con un sospiro più rimarchevole ancora degli altri. Danglars si avanzò tosto alla porta di comunicazione e l’aprì. Si videro allora le due giovinette assise sul medesimo seggio davanti il medesimo piano. Esse suonavano ciascuna con una mano, esercizio al quale si erano abituate per fantasia, e nel quale erano riuscite di una valentia rimarchevole. Madamigella d’Armilly, che allora si scorgeva, formava, con Eugenia, mercè l’inquadratura della porta, uno di quei quadri vivi come se ne fa spesso in Germania; era di una bellezza molto rimarchevole, o piuttosto di una gentilezza squisita. Era una piccola donna sottile e bionda come una fata, con due gran mazzi di ricci che cadevano sul suo collo, un poco troppo lungo, a guisa di quello che il Perugino qualche volta dà alle sue figure, e gli occhi velati dalla fatica. Si diceva che ella avesse il petto debole, e che come Antonia, del _Violino di Cremona_, sarebbe morta un giorno cantando. Monte-Cristo introdusse uno sguardo rapido e curioso in quel gineceo; era la prima volta che vedeva madamigella d’Armilly di cui aveva inteso parlare tanto spesso in quella casa. — Ebbene! domandò il banchiere a sua figlia, noi altri dunque siamo esclusi? Allora condusse il giovine nella piccola sala e, fosse caso o arte, la porta fu respinta dietro Andrea in modo che, dal luogo ove erano seduti Monte-Cristo e la baronessa, non si potesse vedere niente. Ma siccome il banchiere aveva seguito Andrea, la signora Danglars non parve rimarcare questa circostanza. Poco dopo il conte intese la voce d’Andrea mettersi in accordo col piano, accompagnando una canzone corsa. Nel mentre che il conte ascoltava sorridendo questa canzone, che gli faceva dimenticare Andrea per ricordarsi di Benedetto, la signora Danglars vantava a Monte-Cristo la forza di animo di suo marito, che in quella mattina ancora aveva perduto tre o quattrocento mila fr. in un fallimento milanese. E difatto, l’elogio era meritato; perchè, se il conte non lo avesse saputo dalla baronessa, o da uno di quei mezzi che forse aveva per sapere tutto, la figura del barone non ne avrebbe dato il più piccolo indizio. — Buono! pensò Monte-Cristo, egli è già arrivato al punto di dover tenere nascosto ciò che perde; un mese fa, egli se ne vantava. Quindi alzando la voce. — Oh! signora, disse il conte, il sig. Danglars conosce così bene la borsa, che potrà sempre guadagnare là, ciò che perde in altra parte. — Io vedo che voi dividete l’errore comune, disse la signora Danglars. — E qual è questo errore? disse Monte-Cristo. — È che il sig. Danglars speculi sui fondi, mentre non specula mai. — Ah! sì, è vero, signora, mi ricordo che Debray mi ha detto... A proposito, ma che cosa è dunque avvenuto di Debray? sono tre o quattro giorni che non l’ho veduto. — Io pure, disse la signora Danglars con una meravigliosa indifferenza. Ma voi avete cominciata una frase che è rimasta interrotta. — E quale? — Il Sig. Debray vi ha detto... avete cominciato. — Ah! è vero; il sig. Debray mi ha detto che eravate voi che facevate sacrifici al demone dell’azzardo. — Ho avuto questo gusto per qualche tempo, lo confesso, ma ora non l’ho più. — E voi avete torto, signora. Eh! mio Dio le vicende della fortuna sono precarie; e se io fossi stato donna, e che la combinazione mi avesse fatta moglie di un banchiere, qualunque fosse stata la confidenza che avessi avuto nella prospera sorte di mio marito, avrei sempre cominciato dall’assicurarmi uno stato indipendente, avessi dovuto anche acquistare questa fortuna affidando i miei interessi in mani che non gli fossero conosciute. La sig.ª Danglars arrossì suo malgrado. — Vedete, disse Monte-Cristo come se non si fosse accorto di niente, si parla di un bel colpo che è stato fatto ieri sui boni di Napoli. — Io non ne ho, disse con vivacità la baronessa, e non ne ho mai avuti; ma in verità abbiamo parlato abbastanza di borsa fin qui, sig. conte; noi sembriamo due agenti di cambio. Parliamo un poco di questi poveri Villefort, così tormentati in questi momenti dalla fatalità. — Che cosa dunque è loro accaduto? domandò Monte-Cristo colla più perfetta semplicità. — Ma, voi lo saprete, dopo aver perduto il sig. di Saint-Méran, tre o quattro giorni dopo la sua partenza, hanno ora perduta la marchesa, tre o quattro giorni dopo il suo arrivo. — Ah! è vero, disse Monte-Cristo, l’ho sentito; ma come dice Claudio ad Hamlet, è una legge di natura; i loro padri sono morti prima di loro, ed essi li avevano pianti: essi moriranno prima dei loro figli, e questi li piangeranno. — Ma qui non sta il tutto. — Come non è tutto? — No; voi sapete che dovevano maritare la loro figlia... — Al sig. Franz d’Épinay... È forse andato a monte il matrimonio? — Ieri mattina, a quanto sembra Franz ha loro resa la parola. — Ah! davvero?... E si sanno i motivi di questa rottura? — No. — Cosa mi annunziate! buon Dio! signora... Ed il sig. de Villefort come sopporta queste disgrazie? — Come sempre, con filosofia. In questo momento Danglars ritornò solo. — Ebbene! disse la baronessa, voi lasciate il sig. Cavalcanti con vostra figlia? — E madamigella d’Armilly, disse il banchiere, per chi la prendete dunque? Poi, voltandosi a Monte-Cristo: — Che grazioso giovine, è vero sig. conte, che è il principe Cavalcanti?.... soltanto, è egli veramente principe? — Io non lo garantisco, disse Monte-Cristo. Mi fu presentato suo padre come Marchese; egli sarebbe conte allora; ma io credo ch’egli stesso non metta gran pretensione a questo titolo. — Perchè? disse il banchiere. S’egli è principe ha torto di non vantarsene. A ciascuno ciò che è di diritto. Io non amo che si rinneghi la propria origine. — Ah! voi siete un poco democratico, disse Monte-Cristo sorridendo. — Ma vedete, disse la baronessa, a che cosa vi esponete; se per caso venisse il sig. de Morcerf, troverebbe il sig. Cavalcanti in una camera, ov’egli, fidanzato d’Eugenia, non ha mai avuto il permesso d’entrare. — Voi fate bene a dire se per caso, poichè, in verità, si vede tanto raramente, che si potrebbe proprio dire che è stato il caso che l’ha condotto. — Ma infine, s’egli venisse e ritrovasse questo giovine vicino a vostra figlia, egli potrebbe esser mal contento. — Egli? oh mio Dio! voi v’ingannate; il sig. Alberto non ci fa l’onore d’essere geloso della sua fidanzata; non l’ama abbastanza per venire a questo. D’altronde che importa a me s’egli è o non è malcontento? — Però al punto in cui noi siamo... — Sì, al punto in cui noi siamo: volete voi sapere a che punto siamo? A questo, che alla festa di sua madre egli ha ballato una sola volta con mia figlia, ed il sig. Cavalcanti ha ballato con lei tre volte, senza neppure che se ne sia accorto. — Il sig. visconte Alberto de Morcerf, annunziò il cameriere. La baronessa si alzò prestamente. Ella voleva passare nella stanza di studio della figlia, quando Danglars la trattenne pel braccio. — Lasciate, diss’egli. Ella lo guardò meravigliata. Monte-Cristo finse di non aver veduto tutto questo giuoco da scena. Alberto entrò: era molto bello, e molto allegro. Egli salutò la baronessa con familiarità, Monte-Cristo con affezione. Poi voltandosi verso la baronessa: — Volete permettermi, sig.ª, le disse, di chiedervi come sta madamigella Danglars? — Benissimo, signore, rispose allegramente Danglars; in questo momento prova della musica nel piccolo salotto in compagnia del sig. Cavalcanti. Alberto conservò la sua aria tranquilla ed indifferente: forse provava internamente qualche poco di dispetto, ma sentiva lo sguardo di Monte-Cristo fisso su lui: — Il sig. Cavalcanti ha una bellissima voce di tenore, diss’egli, e madamigella Eugenia è un magnifico soprano, senza calcolare che suona il pianoforte come un Thalberg. Questo dev’essere un sorprendente concerto. — Il fatto è, disse Danglars, che vanno perfettamente di accordo. — Alberto parve non aver osservato questo equivoco di parole, così grossolano, che la sig.ª Danglars ne arrossì. — Io pure, continuò il giovine, son dilettante, per quanto almeno dicono i miei maestri. Ebbene! cosa strana, non ho mai potuto ancora accordare la mia voce con alcun’altra voce, e colle voci da soprano in particolare, ancor meno che con tutte le altre. Danglars fece un piccolo sorriso che significava: — Ma inquietati dunque! — Così, diss’egli sperando di spingere le cose al punto che desiderava, il principe e mia figlia ieri hanno formata l’ammirazione generale. Ieri non eravate là, signor de Morcerf? — Qual principe? domandò Alberto. — Il principe Cavalcanti, riprese Danglars che si ostinava a voler dar sempre questo titolo al giovine. — Ah! perdono, disse Alberto, non sapeva che fosse principe. Ah! il principe Cavalcanti ha cantato ieri con Eugenia? In verità ciò doveva rapire in estasi, e mi spiace vivamente di non averli intesi. Ma non ho potuto arrendermi al vostro invito, perchè sono stato sforzato di accompagnare la signora de Morcerf dalla baronessa de Château-Renaud madre, ove cantavano i tedeschi. — Poi dopo un breve silenzio, e come se non si fosse parlato di niente: — Mi sarà permesso, disse Morcerf, di presentare i miei omaggi a madamigella Danglars? — Oh! aspettate, ve ne supplico, disse il banchiere fermando il giovine; sentite la deliziosa cavatina? Ta, ta, ta, ti, ta, ti, ta, ta; trasporta! sta per finire... un solo secondo. Perfettamente! bravo! bravo! — Ed il banchiere si mise ad applaudire con frenesia. — In fatto, disse Alberto, è squisita. È impossibile di capir meglio la musica del proprio paese quanto il principe Cavalcanti; avete detto principe, è vero? D’altra parte s’egli non è principe, si farà fare, ciò è facile in Italia. Ma per ritornare ai nostri adorabili cantanti, dovreste farci un piacere, sig. Danglars, senza dir loro che vi sia un’estraneo, dovreste pregare madamigella Danglars ed il sig. Cavalcanti di cominciare un altro _pezzo_. È una cosa tanto deliziosa il godere la musica, in un poco di distanza, in una mezza luce, senz’essere veduti, senza vedere, e per conseguenza senza incomodare i cantanti, che per tal modo possono lasciarsi trasportare da tutto l’istinto del proprio genio, e da tutto lo slancio del proprio cuore. — Questa volta Danglars fu sconcertato dalla flemma del giovine, e prese Monte-Cristo a parte. — Ebbene! disse, che ve ne pare del nostro amoroso? — Diavolo! mi sembra un poco freddo, è incontrastabile; ma che volete, vi siete impegnato, riprese Monte-Cristo. — Senza dubbio mi sono impegnato, ma a dare mia figlia ad un uomo che l’ami, e non ad un uomo che non l’ama punto. Vedetelo là freddo come un marmo, orgoglioso come suo padre; se fosse ricco ancora, se avesse la fortuna dei Cavalcanti, vi si potrebbe passar sopra. In fede mia non ho ancora consultata mia figlia, ma s’ella avesse buon gusto... — Ah! disse Monte-Cristo, non so se è la mia amicizia per lui che mi acceca, ma vi assicuro che il sig. de Morcerf è un grazioso giovine, e che presto o tardi giungerà a qualche cosa; perchè finalmente la posizione di suo padre è eccellente. — Hum! fece Danglars. — Perchè questo dubbio? — Vi è sempre il passato... questo passato oscuro. — Ma il passato del padre non ha che veder coi figli... non vi montate la testa; un mese fa trovavate essere eccellente cosa il fare questo matrimonio... capirete, sono afflittissimo: fu in casa mia che voi avete veduto questo giovine Cavalcanti, che io non conosco, ve lo ripeto. — Lo conosco io, disse Danglars, e basta così. — Lo conoscete? avete dunque prese informazioni sul suo conto? domandò Monte-Cristo. — E v’è bisogno di ciò? a prima vista non si sa subito con chi si ha che fare?... primieramente è ricco... — Io non lo assicuro. — Voi però rispondete per lui? — Di una miseria, di 50 mila fr. — Egli ha un’educazione distinta. — Hum! fece a sua volta Monte-Cristo. — Sa di musica. — Tutti gl’Italiani ne sanno. — Vedete, conte, siete ingiusto. — Ebbene! sì, lo confesso, vedo con pena, conoscendo i vostri impegni coi Morcerf, che venga in tal modo a gettarsi di traverso, ed abusare della sua fortuna. Danglars si mise a ridere. — Oh! come siete puritano! diss’egli: ma ciò accade tutti i giorni nel mondo. — Voi però non potete romperla così, mio caro Danglars; i Morcerf contano su questo matrimonio. — Vi contano? — Positivamente. — Allora che si spieghino: dovreste gettare due parole su questo argomento al padre, caro conte, voi che siete tanto nelle buone grazie della famiglia... — Io? e dove diavolo avete veduto questo? — Ma, al loro ballo, mi sembra. Come! la contessa, la orgogliosa Mercedès, la sdegnosa catalana, che si degnò appena d’aprire la bocca alle sue più antiche conoscenze, vi ha preso pel braccio, è uscita con voi nel giardino, si è internata nei viali, e non è ricomparsa che mezz’ora dopo. — Ah! barone! c’impedite di sentire; disse Alberto, per un melomaniaco come voi questa è una barbarie! — Sta bene! sta bene! sig. motteggiatore, disse Danglars. Indi volgendosi a Monte-Cristo: — V’incaricate di dir ciò al padre? — Volentieri, se lo desiderate. — Ma che questa volta si faccia in un modo esplicito e definitivo; soprattutto ch’egli mi domandi mia figlia, che fissi un giorno, che dichiari le condizioni pel danaro, finalmente che si stabilisca o che si rompa; ma non più dilazioni. — Ebbene! la rimostranza sarà fatta. — Non vi dirò che lo aspetto con piacere, ma infine l’aspetto; un banchiere, voi lo sapete, deve essere schiavo della sua parola. — E Danglars mandò uno di quei sospiri che mandava Cavalcanti mezz’ora prima. — Bravo, bravo, gridò Morcerf, facendo parodia al banchiere; ed applaudendo alla fine del pezzo. Danglars cominciava già a guardare Alberto di traverso, quando gli vennero a dire due parole all’orecchio. — Ritorno, disse il banchiere a Monte-Cristo, aspettatemi, avrò forse a dirvi due parole or ora, ed uscì. — La baronessa approfittò dell’assenza di suo marito per aprire la porta della camera di studio di sua figlia, e videsi il sig. Andrea alzarsi come una statua, assiso davanti al pianoforte con madamigella Eugenia; Alberto salutò sorridendo madamigella Danglars, che senza sembrare menomamente turbata, gli rese il saluto colla consueta freddezza. Cavalcanti parve evidentemente impacciato; salutò Morcerf, che gli rese il saluto coll’aria più impertinente del mondo. Allora Alberto cominciò a diffondersi in elogi sulla voce di madamigella Danglars, e sul dispiacere che provava per non aver potuto assistere, per ciò che gli era stato detto alla serata dal giorno innanzi. Cavalcanti lasciato a sè stesso, prese a parte Monte-Cristo. — Vediamo, disse la sig.ª Danglars. Bastano la musica ed i complimenti come questi, volete prendere il thè? — Vieni, Luigia, disse madamigella Danglars alla sua amica. — Passarono nel salotto vicino ove effettivamente era preparato il thè. Al momento in cui si cominciava, all’uso inglese, a lasciare i cucchiarini entro le tazze, la porta si riaprì, ed entrò Danglars visibilmente agitato. Monte-Cristo soprattutto osservò questa agitazione, ed interrogò il banchiere coll’occhio. — Ebbene, disse Danglars, ricevo in questo momento il mio corriere dalla Grecia. — Ah! ah! e per questo siete stato chiamato? — Sì. — Come sta il re Ottone? domandò Alberto col tuono più annoiato. — Danglars lo guardò di traverso senza rispondergli, e Monte-Cristo si voltò per nascondere il senso di pietà che era comparso sul suo viso, ma che tosto disparve. — Ce ne andremo insieme, n’è vero? disse Alberto al conte. — Sì, se lo volete. — Alberto nulla poteva comprendere di ciò che riguardava il banchiere; così volgendosi verso Monte-Cristo che aveva perfettamente capito: — Avete veduto, diss’egli, come mi ha guardato? — Sì, rispose il conte; ma trovate qualche cosa di particolare nel suo sguardo? — Lo credo bene; che vuol dire colle sue notizie di Grecia? — E come volete che lo sappia io? — Perchè, a quanto presumo, avete delle intelligenze in quel paese. — Monte-Cristo sorrise, come si sorride sempre quando uno si vuol esimere dal rispondere. — Osservate, disse Alberto, eccolo che si avvicina a voi; vado a fare i miei complimenti a madamigella Danglars sul suo cameo, così il padre avrà il tempo di parlarvi. — Se le fate dei complimenti, fateli almeno sulla sua voce, disse Monte-Cristo. — No, ciò è quello che fanno tutti. — Mio caro Visconte, avete la fatuità dell’impertinenza. Alberto si avanzò verso Eugenia col sorriso sulle labbra. In questo frattempo Danglars si accostò all’orecchio del conte: — Voi mi avete dato un eccellente consiglio, diss’egli. V’è una intera ed orribile storia sopra queste due sole parole, Fernando e Giannina. — Ah! bah! fece Monte-Cristo. — Sì, vi racconterò tutto, ma conducete via il giovine; sarei troppo impacciato di restare ora con lui. — È ciò che faccio, egli mi accompagna. Ora è sempre necessario che vi mandi il padre? — Sì, più che mai. — Bene. — Il conte fece un segno ad Alberto. Entrambi salutarono le signore ed uscirono: Alberto con un’aria perfettamente indifferente pel disprezzo di madamigella Danglars; Monte-Cristo rinnovando alla sig.ª Danglars il consiglio sulla prudenza che deve avere la moglie di un banchiere di assicurarsi il suo avvenire. Cavalcanti rimase padrone del c ampo di battaglia. LXXVI. — HAYDÉE. Appena i cavalli del conte ebbero voltato l’angolo del baluardo, Alberto si voltò verso di lui scoppiando in una risata troppo rumorosa per non far scorgere che era sforzata. — Ebbene! gli diss’egli, vi domanderò, come il re Carlo IX domandava a Caterina de’ Medici dopo _la Saint-Barthelemy_, come ritrovate che abbia rappresentata la mia piccola parte? — A che proposito? domandò Monte-Cristo. — A proposito della installazione del mio rivale in casa del sig. Danglars... — Qual rivale? — Per bacco! il vostro protetto, il sig. Cavalcanti! — Non diciamo cattivi scherzi, non proteggo affatto il sig. Andrea, almeno presso il sig. Danglars. — Mi farei forse un rimprovero, se il giovine avesse bisogno di protezione. Ma, fortunatamente per me, può farne senza. — Come! e credete ch’egli faccia la sua corte? — Me ne garantisco; fa delle girate d’occhi da sospirante, e modula delle note da innamorato; aspira alla mano della superba Eugenia. — Che v’importa, se non si pensa che a voi! — Non dite questo, mio caro conte, mi si scava il terreno sotto da due lati. — Come da due lati? — Senza dubbio: madamigella Eugenia mi ha risposto appena, e madamigella d’Armilly sua confidente non mi ha risposto affatto. — Sì, ma il padre vi adora, disse Monte-Cristo. — Egli? al contrario, mi ha piantato mille pugnali nel cuore, pugnali però colla lama che rientra nel manico, pugnali da tragedia, ma ch’egli crede reali. — La gelosia indica l’affezione. — Sì, ma non son geloso. — Egli lo è. — Di chi? di Debray? — No, di voi. — Di me? ci scommetto che prima di otto giorni mi ha chiusa la porta sul naso. — V’ingannate, caro visconte. — Una prova. — La volete? — Sì. — Sono incaricato di pregare il conte de Morcerf di fare una domanda definitiva al barone. — Da chi? — Dallo stesso barone. — Oh! disse Alberto con tutta la baloccaggine di cui era capace, nol farete, è vero caro conte? — V’ingannate, Alberto, lo farò poichè l’ho promesso. — Allora, disse Alberto con un sospiro, pare che vi stia molto a cuore ch’io prenda moglie. — Ho a cuore di stare in armonia con tutti. Ma a proposito di Debray, non lo vedo più dalla baronessa. — C’è del torbido. — Colla signora? — No, col signore. — Si è accorto di qualche cosa? — Ah! il bello scherzo! — Credete che lo sospettasse? disse Monte-Cristo con una graziosa ingenuità. — Ma che! di dove venite dunque, caro conte? — Dal Congo, se volete. — Non è ancora abbastanza lontano. — Conosco forse i vostri mariti parigini? — Eh! i mariti sono uguali ovunque. Dal momento che in un qualunque paese avete studiato un individuo, avete conosciuta la razza. — Ma allora che cosa ha potuto intorbidare Debray con Danglars? sembravano intendersi così bene! disse Monte-Cristo con un rinnovamento d’ingenuità. — Ah! ecco! rientriamo nei misteri d’Iside, ed io non ne sono iniziato. Quando il sig. Cavalcanti sarà della famiglia, potrete domandarlo a lui. La carrozza si fermò: — Eccoci arrivati, disse Monte-Cristo, non sono che le dieci e mezzo, salite dunque. — Ben volentieri. — La mia carrozza vi riaccompagnerà. — No, grazie, il mio _coupé_ deve averci seguiti. — Infatto eccolo, disse Monte-Cristo, saltando a terra. Tutti e due s’introdussero in casa. Il salotto era illuminato, essi vi rientrarono. — Ci farete fare il thè, Battistino, disse Monte-Cristo. Battistino uscì senza fiatare; due secondi dopo ricomparve con una sottocoppa compiutamente servita, e che come le colazioni nelle commedie di fate, sembrava uscir di sotto terra. — In verità, disse Morcerf, ciò che ammiro in voi, non è la vostra ricchezza, vi son forse persone più ricche di voi; non è il vostro spirito, Beaumarchais ne aveva di più, se non ne aveva altrettanto, è il vostro modo di essere servito; senza che vi sia risposta una parola, al minuto, al secondo, come se s’indovinasse dal modo con cui suonate quello che desiderate, e come se tutto ciò che desiderate avere, sia già pronto. — Ciò che dite è in parte vero. Si sanno le mie abitudini; per esempio, state a vedere, non desiderate voi di fare qualche cosa mentre bevete il thè? — Per bacco! desidero fumare. Monte-Cristo si avvicinò al campanello e battè un colpo. In capo ad un secondo si aprì una porta riservata, e comparve Alì con due pipe turche ripiene di eccellente latakiè. — È maraviglioso, disse Morcerf. — Ma no, è cosa semplicissima, riprese Monte-Cristo; Alì sa, che prendendo il thè o il caffè, ordinariamente io fumo; sa che ho domandato il thè, sa che sono rientrato con voi, sente chiamarsi, e non dubita del perchè; e siccome egli è di un paese in cui l’ospitalità si esercita particolarmente con la pipa, invece di una _chibouque_, ne porta due. — Questa certamente è una spiegazione come un’altra; non è però men vero che non siete che voi... oh! ma che cosa è ciò che sento? — E Morcerf s’inclinò verso la porta dalla quale effettivamente emanavano dei suoni come quelli di una chitarra. — Davvero, caro visconte, siete destinato a sentire della musica; non fuggite il pianoforte di madamigella Danglars, se non per cadere nella _guzla_ di Haydée. — Haydée! che nome adorabile! vi son dunque delle donne che veramente si chiamano Haydée, oltre quelle che sono nominate nei poemi di Lord Byron? — Certamente; Haydée è un nome molto raro in Francia, ma molto comune in Albania e nell’Epiro; è come se voi diceste per esempio Castità, Pudore, Innocenza; è una specie di nome di battesimo, come dicono i cristiani. — Oh! quanto è grazioso! disse Alberto, quanto vedrei volentieri le nostre francesi chiamarsi madamigella Bontà, madamigella Silenzio, madamigella Carità cristiana! dite adunque, se madamigella Danglars invece di chiamarsi Chiara-Maria-Eugenia, come la chiamano, si chiamasse madamigella Castità-Pudore-Innocenza Danglars, che effetto farebbe nelle pubblicazioni matrimoniali. — Pazzo! disse il conte, non scherzate così ad alta voce, Haydée potrebbe sentirvi. — Ed ella se ne inquieterebbe? — No, disse il conte con la sua aria sostenuta. — È buona? domandò Alberto. — Non è bontà, è dovere: una schiava non deve inquietarsi contro del padrone. — Andiamo, via! ora non scherzate voi stesso. Forse che vi sono ancora degli schiavi? — Senza dubbio, poichè Haydée è mia schiava. — Infatto voi non fate niente, e non avete niente come gli altri. Schiava del sig. conte di Monte-Cristo! è una posizione in Francia. Al modo con cui voi rimescolate l’oro, è un impiego che deve costare almeno centomila scudi l’anno. — Centomila scudi! la povera giovinetta ne ha posseduti ben altri che questi; ella è venuta al mondo, ed ha dormito sopra tesori tali, che quelli delle _Mille e una notte_ sono ben poca cosa. — È dunque veramente una principessa? — Lo avete detto, ed anche una delle più grandi del suo paese. — Io non ne dubitava. Ma in che modo una gran principessa è divenuta schiava? — Come Dionigi il tiranno diventò maestro di scuola? la eventualità della guerra, caro visconte, e il capriccio della fortuna. — Ed il suo nome è un segreto? — Per tutti, sì; ma non per voi, siete dei miei amici e tacerete, non è vero, se promettete di tacere? — Oh! parola d’onore! — Conoscete la storia del pascià di Giannina? — Di Alì-Tebelen? senza dubbio, poichè al suo servizio mio padre ha fatto fortuna. — È vero, lo aveva dimenticato. — Ebbene! che cosa è Haydée ad Alì-Tebelen? — Semplicemente sua figlia. — Come? la figlia di Alì pascià!... — E della bella Vasiliki. — Ed è vostra schiava? — Oh! mio Dio, sì. — In che modo? — Diavolo! un giorno sono passato sul mercato di Costantinopoli, e l’ho comprata. — È cosa splendida! con voi, mio caro conte, non si vive, ma si sogna. Ora ascoltate, forse sarò troppo indiscreto per quanto sono a domandarvi. — Dite pure. — Ma poichè voi uscite con essa, poichè la conducete all’_Opera_... posso bene arrischiare di domandarvelo. — Potete arrischiare di domandarmi tutto quel che volete. — Ebbene, caro conte, presentatemi alla vostra principessa. — Volentieri; ma a due condizioni. — Le accetto da ora. — La prima si è che non confiderete mai ad alcuno questa presentazione. — Benissimo! Morcerf stese la mano, lo giuro. — La seconda che non le direte che vostro padre ha servito il suo. — Lo giuro anche questo. — A meraviglia, vi sapeva un uomo d’onore. Il conte battè di nuovo sul campanello; Alì ricomparve. — Prevenite Haydée, gli diss’egli, che vado a prendere il caffè da lei, e fatele comprendere, che le domando il permesso di presentarle uno dei miei amici. — Alì s’inchinò, ed uscì. — In tal modo, è convenuto, nessuna interrogazione diretta, caro visconte; se desiderate sapere qualche cosa domandatelo a me, che lo domanderò a lei. — Siam convenuti. Alì ricomparve per la terza volta, e tenne la portiera sollevata per indicare al padrone e ad Alberto che potevano passare. — Entriamo, disse Monte-Cristo. Alberto passò una mano nei capelli, si arricciò i baffi; il conte riprese il cappello, si mise i guanti, e lo precedè nell’appartamento sorvegliato da Alì, come sentinella avanzata, e difeso dalle tre cameriere francesi comandate da Myrthe, come una piazza. Haydée aspettava nella prima camera, che era il salotto, con due grandi occhi dilatati dalla sorpresa; perchè era la prima volta che un altro uomo, oltre Monte-Cristo, giungeva fino a lei; ella era seduta sopra un sofà in un angolo, colle gambe incrociate, e si era fatto per così dire un nido delle stoffe di seta broccate e rigate più ricche d’Oriente. Vicino ad essa giacea l’istrumento, il cui suono l’aveva denunziata; in quella posizione era graziosissima. Scoprendo Monte-Cristo, si sollevò con quel doppio sorriso di figlia e di amante che non apparteneva che a lei sola; Monte-Cristo andò a lei, e le stese la mano. Alberto era rimasto sulla porta, sotto l’impero di quella strana beltà, che vedeva per la prima volta, e di cui non si poteva far un’idea in Francia. — Chi conduci tu, domandò in greco la giovanetta a Monte-Cristo; un fratello, un amico, una semplice conoscenza, od un nemico? — Un amico, disse Monte-Cristo nella stessa lingua. — Il suo nome? — Il conte Alberto, quello stesso che in Roma liberai dalle mani dei banditi. — In qual lingua vuoi che gli parli? — Monte-Cristo si voltò ad Alberto: — Sapete il greco moderno? domandò egli al giovine. — Ahimè! disse Alberto, neppure il greco antico, giammai Omero e Platone hanno avuto uno scolaro più tristo, e direi quasi, più sdegnoso di me. — Allora, disse Haydée, provando colla domanda stessa che faceva, ch’ella aveva inteso l’interrogazione di Monte-Cristo e la risposta d’Alberto, parlerò in francese, od in italiano, se tuttavolta il mio signore vuole che io parli. Monte-Cristo riflettè un momento. — Tu parlerai in italiano, diss’egli. Poi voltandosi ad Alberto: — Mi spiace che non intendiate il greco moderno, o il greco antico, che Haydée parla ammirabilmente; la povera fanciulla sarà costretta di parlarvi in italiano, cosa che forse vi darà una falsa idea di lei. — Egli fece un segno ad Haydée. — Sia il ben venuto l’amico che viene col mio signore, e mio padrone, disse la giovane in eccellente toscano, e con quel dolce accento romano, che fa la lingua di Dante tanto sonora, quanto quella d’Omero; Alì, portate il caffè, e le pipe. Ed Haydée fece un segno con la mano ad Alberto di avvicinarsi, mentre che Alì si ritirava per eseguire gli ordini della giovane padrona. Monte-Cristo mostrò ad Alberto due _pliant_, e ciascuno andò a prendere il suo per avvicinarlo ad una specie di candelabro, di cui un paniere formava il centro, sopraccaricato di fiori naturali, di disegni, di album, e di musica. Alì rientrò, portando il caffè e le pipe; in quanto a Battistino questa parte di appartamento gli era interdetta. Alberto rifiutò la pipa che gli presentava il moro. — Oh! prendete, prendete, disse Monte-Cristo; Haydée è quasi incivilita, quanto una parigina: il fumo di Avana le riesce disaggradevole, perchè non ama i cattivi odori; ma, lo sapete, il tabacco di Oriente è un profumo. — Alì uscì. Le tazze di caffè erano tutte preparate; era stata aggiunta soltanto una zuccheriera per Alberto. Monte-Cristo ed Haydée bevevano il liquore arabo alla maniera degli Arabi, vale a dire senza zucchero. Haydée allungò la mano, prese colla punta delle dita rosee ed affilate la tazza di porcellana del Giappone, e la portò alle labbra con l’ingenuo piacere di un fanciullo che beve o mangia una cosa che gli piace. Nello stesso tempo entrarono due donne, portando due sottocoppe piene di gelati e di sorbetti, che depositarono sopra due piccole tavole destinate a tal uopo. — Mio caro ospite, e voi, signora, disse Alberto in italiano, scusate il mio stupore: sono del tutto stordito, ed è molto naturale; ecco che mi ritrovo in Oriente, nel vero Oriente; non disgraziatamente tal quale l’ho veduto, ma tal quale l’ho sognato, nel seno di Parigi; poco fa sentiva roteare gli omnibus, e tentennare i campanelli dei mercanti di limonata. Oh! signora, perchè mai non so parlare il greco! la vostra conversazione, unita a tutto ciò che ne circonda d’incantevole, mi comporrebbe una serata di cui mi ricorderei sempre. — Io parlo abbastanza bene l’italiano per discorrere con voi, signore, disse tranquillamente Haydée, e se amate l’oriente, farò tutto il possibile per farvelo ritrovare qui. — Di che posso parlare? domandò a bassa voce Alberto a Monte-Cristo. — Di tutto ciò che vorrete; del suo paese, della sua gioventù, delle sue rimembranze, indi, se lo desiderate meglio, di Roma, di Napoli, o di Firenze. — Oh! disse Alberto, non sarebbe compenso l’avere innanzi a sè una greca per parlarle di tutto ciò, di cui si parlerebbe ad una parigina; lasciatemi parlarle dell’Oriente. — Questa è la conversazione che le è più aggradevole. Alberto si voltò verso Haydée: — In quale età la signora ha lasciata la Grecia? domandò. — Di cinque anni. — E vi ricordate della vostra patria? — Quando chiudo gli occhi, rivedo tutto ciò che ho veduto. Vi sono due sguardi: lo sguardo del corpo che può qualche volta dimenticarsi, e quello dell’anima che non si dimentica mai. — Qual è l’epoca più remota di cui possiate ricordarvi? — Io camminava appena; mia madre, che si chiamava Vasiliki, e Vasiliki vuol dire _reale_, aggiunse la giovinetta sollevando la testa, mia madre mi prendeva per la mano, ed entrambe coperte da un velo, dopo aver messo nel fondo della borsa tutto l’oro che possedevamo, andavamo a domandare l’elemosina pei prigionieri dicendo: «Colui che dà ai poveri, presta all’Eterno.» Indi, quando la borsa era piena, ritornavamo al palazzo, e senza dir niente a mio padre, mandavamo tutto il danaro della questua, in cui ci avevano preso per povere donne, allo elemosiniere del convento, che lo divideva fra i prigionieri. — Ed allora quant’anni avevate? — Tre anni, disse Haydée. — Vi ricorderete dunque di tutto ciò che accadde intorno a voi dall’età di tre anni? — Di tutto. — Conte, disse sottovoce Morcerf a Monte-Cristo, dovreste permettere alla signora di raccontarci qualche cosa della sua storia; mi avete proibito di parlarle di mio padre, ma forse me ne parlerà ella stessa; oh! quanto sarei felice di sentire il nostro nome uscir da una bocca così bella. Monte-Cristo si voltò ad Haydée, e con un segno di sopracciglio, col quale le indicava di accordare la più grande attenzione alla raccomandazione che stava per farle, le disse in greco: — Raccontaci la sorte di tuo padre, ma guardati dal nominare nè il traditore nè il tradimento. Haydée mandò un lungo sospiro, ed una tetra nube passò su quella fronte sì pura. — Che le avete detto? domandò sottovoce Morcerf. — Le ho ripetuto che siete un amico, e ch’ella non ha a nascondersi in faccia vostra. — Così, il vostro pietoso pellegrinaggio, disse Alberto, a pro dei prigionieri è la prima rimembranza; e l’altra? — L’altra? Io mi veggo sotto l’ombra dei sicomori vicina ad un lago: scorgo ancora, a traverso il fogliame, lo specchio tremolante; contro il più vecchio e fronzuto, mio padre era assiso sopra cuscini, ed io, debole creatura, mentre che mia madre era stesa ai suoi piedi, scherzava colla sua barba bianca, che gli discendeva sul petto, e col _cangiar_ dalla impugnatura di diamanti, che gli pendeva dalla cintura; indi di tempo in tempo venivano a lui degli Albanesi che gli dicevano alcune parole cui non facevo attenzione, ed alle quali egli rispondeva sempre collo stesso tuono di voce: Uccidete! o Fate grazia! — È strano, disse Alberto, l’udire simili cose dalla bocca di una giovanetta in tutt’altro luogo che sul teatro, ed il dover dire a sè stesso: «Questa non è una finzione.» E, domandò egli, come con un orizzonte così poetico, come con queste rimembranze meravigliose ritrovate la Francia? — Credo che sia un bel paese, disse Haydée, ma vedo la Francia tale quale è, perchè la vedo con gli occhi di donna, mentre che, mi sembra, al contrario, che non ho veduto il mio paese che con gli occhi di fanciulla, e sempre avvolto da una nebbia tetra o luminosa, a seconda che le mie rimembranze mi rappresentano la mia patria, o come un luogo di dolcezze, o come un luogo di amari patimenti. — Così giovane, signora, disse Alberto, cedendo suo malgrado alla forza della leggerezza, in che modo avete potuto soffrire? — Haydée volse gli occhi verso Monte-Cristo il quale con un segno impercettibile mormorò: — _Eipè_ (racconta). — Niente compone tanto il fondo dell’anima quanto le prime rimembranze, e fatta astrazione delle due che vi ho dette, tutte le altre sono tristissime. — Parlate, signora, disse Alberto, vi giuro che vi ascolto con una inesprimibile felicità. Haydée sorrise tristamente: — Volete dunque che vi racconti gli altri miei ricordi? diss’ella. — Ve ne supplico, disse Alberto. — Ebbene! aveva quattro anni quando una sera fui svegliata da mia madre. Noi eravamo nel palazzo di Giannina; ella mi prese sui cuscini sui quali riposava, ed aprendo gli occhi, vidi i suoi ripieni di grosse lagrime. «Ella mi trasportò fuori senza dir parola. «Vedendola piangere stava per piangere io pure. «— Silenzio, fanciulla! diss’ella. Spesso, ad onta delle consolazioni o delle minacce materne, capricciosa, come tutti i fanciulli, continuavo a piangere; ma quella volta v’era negli occhi della mia povera madre una tale intonazione di terrore, che io mi tacqui nel medesimo punto. «Ella mi trasportava rapidamente. Vidi allora che discendevamo una larga scala; davanti a noi tutte le donne di mia madre, portando dei bauli, dei sacchetti, degli oggetti di ornamento, dei gioielli, e delle borse d’oro, discendevano, o piuttosto si precipitavano dalla medesima scala. «Dietro alle donne veniva una guardia di venti uomini, armati di lunghi fucili e di pistole, e vestiti con quel costume che voi conoscete in Francia dopo che la Grecia è ritornata una nazione. Eravi qualche cosa di sinistro, questa lunga fila di schiavi e di donne mezzo appesantite dal sonno, o almeno io mi figurava così, io, che forse credeva gli altri addormiti, perchè era male svegliata. «Per le scale correvano ombre gigantesche, che le torce di frassino facevano tremare contro le volte. «— Facciam presto! disse una voce dal fondo della galleria. Questa voce fece incurvare tutti, come il vento passando sulla pianura fa curvare un campo di spighe. «Essa mi fece rabbrividire... era la voce di mio padre. «Egli camminava l’ultimo, rivestito delle sue splendide vesti, tenendo in mano la carabina, regalatagli dal vostro imperatore; ed appoggiato al suo fedele Selim ci spingeva avanti, come un pastore col suo gregge sparso. «Mio padre, era quell’uomo illustre che l’Europa ha conosciuto sotto il nome d’Alì-Tebelen, pascià di Giannina, e davanti al quale la Turchia ha tremato. Alberto, senza sapere perchè, fremeva nel sentire queste parole pronunciate con un accento indefinibile di fermezza e di dignità; gli sembrò che qualche cosa di tetro e spaventoso tralucesse dagli occhi della giovanetta quando, simile ad una pitonessa che evoca uno spettro, risvegliò la memoria di quella insanguinata figura, che la sua morte fece comparire gigantesca agli occhi dell’Europa contemporanea. — Ben presto, continuò Haydée, la marcia si fermò, noi eravamo a piè della scala, e sulla riva del lago. Mia madre mi premeva contro il suo petto anelante, ed io vidi, a due passi dietro a noi, mio padre che girava da ogni lato lo sguardo inquieto. Davanti a noi rimanevano ancor quattro scalini, ed al termine del quarto ondulava una barca. «Dal luogo ove eravamo si vedeva innalzarsi nel mezzo del lago una massa nera; era il chiosco (_padiglione sui terrazzi dei giardini turchi_) al quale ci portavamo; e che mi sembrava ad una distanza considerevole, forse a cagione della oscurità: discendemmo nella barca, mi sovvengo che i remi non facevano alcun rumore toccando l’acqua: mi chinai per guardarli, eran fasciati colle cinture dei nostri Palicari. «Nella barca, oltre i rematori, non v’eran che le donne, mio padre, mia madre, Selim, ed io. I Palicari erano rimasti sulla riva del lago, pronti a sostenere la ritirata, inginocchiati sull’ultimo gradino, facendosi riparo degli altri tre, nel caso che fossero stati attaccati. «La nostra barca andava come il vento. «— Perchè la barca va così forte? domandai a mia madre. «— Zitta, figlia mia, diss’ella, perchè noi fuggiamo. «Non capii perchè mio padre fuggiva, egli, che poteva tutto, egli davanti al quale d’ordinario fuggivano gli altri, egli che aveva presa per divisa: «ESSI MI ODIANO, DUNQUE MI TEMONO! «In fatto era una fuga che mio padre operava sul lago. Mi fu detto dipoi che la guarnigione del castello di Giannina, stanca dal lungo servizio...» Qui Haydée fermò lo sguardo espressivo su Monte-Cristo, il cui occhio non aveva più lasciati i suoi. La giovanetta continuò dunque lentamente come fa chi inventa e chi sopprime. — Voi dicevate, signora, riprese Alberto che accordava la più grande attenzione a questo racconto, che la guarnigione di Giannina, stanca dal lungo servizio... — Aveva trattato col seraschiere Kourchid inviato dal Sultano per impadronirsi di mio padre, il quale prese allora la risoluzione di ritirarsi, dopo aver spedito al sultano un ufficiale franco, nel quale aveva tutta la confidenza, nell’asilo ch’egli stesso si era preparato da lungo tempo, e che chiamava _kataphygion_ vale a dire rifugio. — Di quest’ufficiale, domandò Alberto, ricordate il nome? Monte-Cristo scambiò colla giovanetta uno sguardo rapido come un baleno, che rimase inosservato a Morcerf. — No, diss’ella, nol ricordo; ma forse più tardi me ne sovverrò, e lo dirò. — Alberto stava per pronunciare il nome di suo padre, allorchè Monte-Cristo alzò dolcemente il dito in segno di silenzio. Il giovine si ricordò il giuramento, e tacque. «Era verso questo chiosco che noi vogavamo. «Un pianterreno ornato di arabeschi bagnava i suoi terrazzi nell’acqua, ed un primo piano che guardava sul lago, ecco quanto il palazzo offriva di visibile agli occhi. «Ma al disotto del pianterreno, prolungandosi nell’isola stava un sotterraneo, vasta caverna ove fummo condotti, mia madre, io, e le nostre donne, ed ove giacevano formando un sol monticello, 60 mila borse, e 200 barili. In queste borse v’erano 25 milioni in oro, e nei barili 30 mila libbre di polvere. Vicino a questi ultimi stava Selim, quel favorito di mio padre, di cui vi ho parlato; egli vegliava giorno e notte, colla lancia alla mano, nell’estremità della quale ardeva una miccia accesa: aveva l’ordine di far saltare chiosco, guardie, pascià, donne e oro, al primo segnale di mio padre; mi ricordo che i nostri schiavi conoscendo questo terribile vicino, passavano il giorno e la notte a piangere, pregare e gemere. Non vi saprei dire quanti giorni siam rimasti così. A quell’ora ignorava ancora che cosa fosse il tempo. Qualche volta, ma raramente, mio padre faceva chiamar me e mia madre sulla terrazza del palazzo; eran per me le mie ore di festa, poichè nel sotterraneo non vedeva che ombre gementi, e la lancia ardente di Selim. «Mio padre, seduto davanti ad una grande apertura, fissava un tetro sguardo sulla profondità dell’orizzonte, interrogando ciascun punto nero che compariva sul lago, mentre che mia madre, semi-stesa vicina a lui, gli appoggiava la testa sulla spalla, ed io scherzavo ai suoi piedi ammirando, con quella meraviglia dell’infanzia che ingrandisce sempre gli oggetti, il pendio del Pinto che s’ergeva sull’orizzonte, i castelli di Giannina che uscivan bianchi ed angolati dalle acque blu del lago, i tuffi immensi di verdura oscura attaccati come licheni alle rocce della montagna, che di lontano sembravano musco, e da vicino son giganteschi abeti e mirti immensi. Una mattina mio padre ci mandò a cercare; mia madre avea pianto tutta la notte; noi lo trovammo assai tranquillo, ma più pallido che d’ordinario. «— Abbi pazienza, Vasiliki, diss’egli. Oggi tutto sarà finito, oggi giunge il firmato del Sultano, e la mia sorte sarà risoluta. Se la grazia è intera, ritorneremo trionfanti a Giannina; se le notizie son cattive, fuggiremo questa notte. «— Ma se non ci lasciano fuggire? disse mia madre. «— Oh! sii tranquilla, rispose Alì sorridendo; Selim e la sua lancia accesa mi rispondono di loro. Essi vorrebbero che io morissi, ma non a condizione di morire meco. «Mia madre rispondeva con sospiri a queste consolazioni che non partivano dal cuor di mio padre. «Ella gli preparò l’acqua ghiacciata che mio padre beveva ogni momento, poichè dopo la sua ritirata nel chiosco era arso da una febbre ardente; gli profumò la bianca barba, e gli accese la pipa, di cui qualche volta, per ore intere, seguiva distrattamente con gli occhi il fumo che volteggiava nell’aria. D’improvviso egli fece un movimento sì rapido ch’io n’ebbi gran paura: indi senza staccare gli occhi dal punto che fissava la sua attenzione, domandò il cannocchiale. Mia madre glielo passò, più bianca della statua contro cui si appoggiò. Vidi la mano di mio padre tremare. «— Una barca!... due, tre!... mormorò mio padre; quattro!... — E si alzò brandendo le armi, e versando, me ne sovvengo, della polvere nel bacinetto delle pistole: «— Vasiliki, diss’egli a mia madre con un visibile fremito, fra mezz’ora sapremo la risposta del sublime imperatore; ritirati nel sotterraneo con Haydée. «— Io non voglio lasciarvi, disse Vasiliki, se voi morrete, mio padrone, voglio morire con voi. «— Andate presso Selim! gridò mio padre. «— Addio, signore! mormorò mia madre obbediente, pieghevole come all’avvicinarsi della morte. «— Traete con voi Vasiliki! disse mio padre ai suoi Palicari. — Ma io che veniva dimenticata, corsi a lui, stendendo le mie mani dalla sua parte; egli mi vide, ed inchinandosi verso me, mi premè la fronte con le sue labbra. «Oh! quel bacio, quello fu l’ultimo, ed esso è sempre qua, sulla mia fronte. Nel discendere distinguemmo, a traverso le inferriate della terrazza, le barche che ingrandivano sul lago, e che, simili non molto prima a punti neri, sembravano già uccelli, radenti la superficie delle acque. In questo mentre, nel chiosco, venti Palicari, seduti a piè di mio padre e nascosti dai cespugli, spiavano con occhi sanguinosi l’arrivo di questi battelli, e tenevano pronti i loro lunghi fucili incrostati d’avorio e di argento: cartucce in gran numero erano sparse sul terreno. Mio padre guardava l’orologio, e passeggiava con angoscia. Ecco ciò che mi colpì quando lasciai mio padre dopo l’ultimo bacio che ricevetti da lui. Mia madre ed io traversammo il sotterraneo. Selim era sempre al suo posto; egli ci sorrise con tristezza. Noi andammo a cercar dei cuscini dall’altra parte della caverna, e venimmo a sedere vicino a Selim: nei grandi pericoli si cercano i cuori affezionati, e sebbene fossi fanciulla, sentiva per istinto che una gran disgrazia si aggravava sul nostro capo. «Erano le quattro della sera, ma benchè il giorno fosse chiaro e lucente al di fuori, noi eravamo immersi nell’oscurità del sotterraneo. Una sola luce brillava nella caverna, a guisa di una tremante stella sopra un nero cielo, e questa era la miccia di Selim. Mia madre era cristiana, e pregava. «Selim ripeteva a quando a quando queste sante parole: «— Dio è grande! — mia madre però aveva ancora qualche speranza. Nel discendere le era sembrato di riconoscere il Franco ch’era stato inviato a Costantinopoli, e nel quale mio padre aveva riposta ogni confidenza, perchè sapeva che i soldati del sultano francese sono ordinariamente nobili e generosi. Ella si avanzò di qualche passo verso la scala, ed ascoltò. Si avvicinano, diss’ella; purchè portino la pace e la vita! «— Che temi tu, Vasiliki? rispose Selim colla sua voce soave ad un tempo e fiera. Se essi non portano la pace, darem loro la guerra; se non portano la vita darem loro la morte. — E ravvivava la bragia della lancia con un gesto che lo faceva assomigliare a Dionisio dell’antica Creta. Ma io, che era così fanciulla e così ingenua, aveva paura di questo coraggio che trovava feroce ed insensato, e mi atterriva di quella morte spaventosa nell’aria e fra le fiamme. Mia madre provava le stesse impressioni perchè la sentiva fremere. «— Mio Dio! mio Dio! mamma, gridai, siam forse vicine a morire? — Ed alla mia voce raddoppiarono i pianti e le preghiere degli schiavi. «— Fanciulla, mi disse Vasiliki, Dio ti salvi dal dovere un giorno desiderare questa morte che oggi ti spaventa. Indi a bassa voce: «— Selim, diss’ella, qual è la consegna che tieni dal tuo padrone? «— S’egli m’invia il suo pugnale è segno che il sultano rifiuta di ritornarlo in grazia, ed io do fuoco; se m’invia il suo anello è segno che il sultano gli perdona ed io libero la polveriera. «— Amico, riprese mia madre, quando giungerà l’ordine del padrone, se t’invia il pugnale invece di ucciderci entrambe con questa morte che ne spaventa, ti stenderemo la gola, e tu ci ucciderai con quel pugnale. «— Sì, Vasiliki, rispose tranquillamente Selim. «D’improvviso sentimmo come grandi grida; eran grida di gioia; il nome del Franco ch’era stato inviato a Costantinopoli echeggiava ripetuto dai nostri Palicari; era evidente che riportava la risposta del sublime imperatore, e che questa era favorevole.» — E voi non vi ricordate il suo nome? disse Morcerf pronto ad aiutare la memoria della narratrice. Monte-Cristo fe’ un cenno. — Non me ne ricordo, rispose Haydée. «Il romore raddoppiava; rumoreggiavano passi più vicini; si discendeva la scala del sotterraneo. Selim preparò la sua lancia. Ben presto comparve un’ombra nell’incerto crepuscolo che formavano i raggi del giorno penetrati fino nell’entrata del sotterraneo. «— Chi sei tu? gridò Selim. Ma chiunque tu sia, non fare un passo di più. «— Gloria al sultano! disse l’ombra. È fatta piena grazia al visir Alì; e non solo ha salva la vita, ma gli vengon resi i suoi beni e la sua fortuna. «Mia madre mandò un grido di gioia e mi strinse al suo cuore. «— Fermati, le disse Selim, vedendo ch’ella si slanciava di già per uscire. Tu sai che mi abbisogna l’anello. «— È giusto, disse mia madre. E cadde in ginocchio sollevandomi verso il cielo, come se mentre pregava Dio per me volesse ancor sollevarmi verso lui.» Haydée si fermò, vinta da tale emozione che il sudore le colava dalla pallida fronte, e che la voce soffocata sembrava non poter sorpassare l’arida sua gola. Monte-Cristo versò un po’ d’acqua gelata in un bicchiere, e lo presentò a lei dicendo con una dolcezza da cui trapelava un’ombra di comando: — Coraggio, figlia mia. — In questo mentre i nostri occhi, abituati all’oscurità, avevano riconosciuto l’inviato del sultano, egli era un amico. Selim lo aveva riconosciuto, ma il bravo giovine non sapeva che una cosa: obbedire! «— In nome di chi vieni tu? diss’egli. «— Vengo in nome del nostro padrone, Alì-Tebelen. «— Se vieni in nome di Tebelen, tu hai da sapere ciò che devi rimettermi. «— Sì, disse l’inviato, ti porto il suo anello. — E nello stesso tempo alzò la mano al di sopra della testa, ma era troppo lontano, e faceva troppo buio perchè Selim potesse, dal luogo ov’era, distinguere e conoscere l’oggetto che gli presentava. «— Io non vedo ciò che tu tieni, disse Selim. «— Avvicinati, disse il messaggiero, oppure mi avvicinerò io. «— Nè l’uno, nè l’altro, rispose il giovine soldato, deponi nel posto ove sei, sotto quel raggio di luce, l’oggetto che tu mi mostri, e ritirati fin che io l’abbia veduto. «— Ecco, disse il messaggiero. E si ritirò dopo aver deposto il segno di riconoscimento nel luogo indicato. «Ed il nostro cuore palpitava, perchè l’oggetto ci sembrava effettivamente un anello. Soltanto era l’anello di mio padre? Selim, tenendo sempre in mano la miccia accesa, andò all’apertura, s’inchinò contento sotto il raggio di luce, e raccolse il segnale. «— L’anello del padrone, diss’egli baciandolo, sta bene! e rovesciando la miccia contro terra, vi pestò sopra, e la spense. — Il messaggiere mandò un grido di gioia e battè le mani. A questo segnale, quattro soldati del serraschiere Kourchid accorsero, e Selim cadde trapassato da cinque colpi di pugnale. Ciascuno aveva dato il suo. E frattanto, ebbri pel loro delitto, quantunque ancora pallidi per la paura, irruppero nel sotterraneo, cercando da per tutto se vi era fuoco, e rotolandosi sui sacchi d’oro. «In questo mentre mia madre mi prese fra le sue braccia, e agile, balzando per sinuosità conosciute da noi soli, giunse fino alla scala segreta del chiosco nel quale regnava uno spaventoso tumulto. Le sale basse erano interamente popolate di Tchodoars di Kourchid, vale a dire di nostri nemici. Nel momento che mia madre stava per spingere la piccola porta, sentimmo la voce del pascià risuonare terribile e minacciosa. Mia madre si pose in ascolto alle fessure delle assi, si trovava per caso un’apertura davanti la mia, e io guardava. «— Che volete? diceva mio padre a persone che tenevano in mano una carta con caratteri d’oro. «— Che vogliamo? rispondeva uno di costoro, comunicarvi la volontà di Sua Altezza. Vedi tu il firmano? «— Lo vedo, disse mio padre. — Ebbene! leggi, egli domanda la tua testa. — Mio padre mandò uno scoppio di risa più spaventoso che non avrebbe fatto una minaccia, e non aveva ancora cessato, che due colpi di pistola erano usciti dalle sue mani, ed avevano uccisi due uomini. I Palicari, ch’eran tutti distesi intorno a mio padre colla faccia contro il suolo, si alzarono allora e fecero fuoco. La camera si riempì di fracasso, di fumo e di fiamme. Nel medesimo punto il fuoco incominciò dall’altra parte, e le palle vennero a forare le assi intorno a noi. Oh! quanto era bello! quanto era grande il Visir Alì-Tebelen, mio padre in mezzo alle palle, colla scimitarra alla mano, il viso nero dalla polvere! oh! come fuggivano i suoi nemici! «— Selim! Selim! guardiano del fuoco, gridò egli, fa il tuo dovere! «— Selim è morto, rispose una voce che sembrava uscita dai profondi del chiosco, e tu Alì, sei perduto! — Nello stesso tempo si fece sentire una sorda detonazione, ed il piancito saltò in ischegge tutto all’intorno di mio padre. I Tchodoars tiravano a traverso il piancito di legno: tre o quattro Palicari caddero feriti dal basso all’alto con ferite che loro laceravano tutto il corpo. Mio padre ruggì, introdusse le dita nei fori delle palle, e strappò un asse tutta intera. Ma nello stesso tempo venti colpi di fuoco scoppiarono da questa apertura, e le fiamme, uscendo come da un cratere di vulcano, si appiccarono alle tende e le arsero. In mezzo di tutto questo spaventoso tumulto, in mezzo a queste grida terribili, due colpi più distinti dagli altri, due grida più strazianti sopra le altre grida mi agghiacciarono di terrore. Queste due esplosioni avevano colpito mortalmente mio padre, che aveva mandate queste grida. Però egli era rimasto in piedi, aggrappato ad una finestra. Mia madre squassava la porta per andare a morire con lui, ma la porta era chiusa per di dentro. A lui d’intorno i Palicari si contorcevano nelle convulsioni dell’agonia; due o tre che erano senza ferite, o feriti leggermente, si slanciarono dalle finestre. Nello stesso tempo il piancito tutto intero scricchiolò rotto per di sotto; mio padre cadde sopra un ginocchio, e subito venti braccia si stesero armate di sciabole, di pistole e di pugnali, venti colpi colpirono nel tempo stesso un uomo, e mio padre disparve fra un turbine di fuoco, attizzato da questi demoni ruggenti, come se l’inferno si fosse aperto sotto i suoi piedi. «Io mi sentii rotolare a terra; era mia madre che cadeva svenuta.» Haydée lasciò cadere le braccia mandando un gemito, e guardando il conte, come per domandargli s’era contento della sua obbedienza. Il conte si alzò, andò a lei, la prese per mano, e le disse in greco: — Riposati, cara fanciulla, e riprendi coraggio, pensando che vi è un Dio che punisce i traditori. — Ecco una spaventevole storia, conte, disse Alberto atterrito dal pallore d’Haydée, ed ora mi pento d’essere stato così crudelmente indiscreto. — Non è niente, rispose Monte-Cristo: indi mettendo la mano sulla testa della giovanetta: — Haydée, continuò egli, è una donna coraggiosa, e qualche volta ha trovato sollievo nel racconto delle sue sventure. — Perchè mio signore, disse vivamente la giovanetta, le mie sventure mi ricordano i tuoi beneficii. Alberto la guardò con curiosità, perchè ella non aveva ancora raccontato ciò che egli desiderava più di sapere, vale a dire in qual modo era divenuta schiava del conte. Haydée vide contemporaneamente espresso lo stesso desiderio tanto negli occhi di Alberto che in quelli del conte; e continuò: — Quando mia madre ricuperò l’uso dei sensi, noi eravamo davanti al serraschiere: — Uccidetemi, diss’ella, ma risparmiate l’onore alla vedova di Alì. «— Non è a me che tu ti devi rivolgere, disse Kourchid. «— E a chi dunque? — Al tuo nuovo padrone. «— Qual è? — Eccolo. — E Kourchid ci mostrò uno di quelli che avevan contribuito alla morte di mio padre, continuò la giovanetta con una cupa collera. — Allora, domandò Alberto, diveniste proprietà di quest’uomo? — No, rispose Haydée, egli non osò ritenerci, ci vendè a dei mercanti di schiavi che andavano a Costantinopoli: traversammo la Grecia e giungemmo morenti alla porta imperiale, ingombra di curiosi che si aprivano per lasciarci passare, quando d’improvviso mia madre seguì cogli occhi la direzione degli occhi di tutti, gettò un grido, e cadde mostrando una testa al di sopra di questa porta. «Al di sopra di quella testa, erano scritte queste parole. QUESTA È LA TESTA DEL PASCIÀ DI GIANNINA. «Cercai piangendo di rialzar mia madre... era morta! «Io fui portata al _bazar_, un ricco armeno mi comprò, mi fece istruire, mi procurò dei maestri, e quando ebbi tredici anni mi vendè al sultano Mahomud.» — Dal quale, riprese Monte-Cristo, io la riscattai, come vi dissi, Alberto, per mezzo di quello smeraldo eguale a questo in cui metto le mie pastiglie di _hatchis_. Alberto era rimasto stordito per ciò che aveva inteso. — Terminate la vostra tazza di caffè, gli disse Monte-Cristo; la storia è finita. LXXVII. — CI SCRIVONO DA GIANNINA. Franz era uscito dalla camera di Noirtier così tremante, e così fuor di sè, che Valentina stessa aveva avuta pietà di lui. Villefort, che non aveva articolato che poche parole senz’ordine, e ch’era fuggito nel suo gabinetto, ricevette due ore dopo la seguente lettera. «Dopo ciò che è stato rivelato questa mattina, il sig. Noirtier de Villefort non potrà supporre che un’alleanza sia possibile fra la sua famiglia e quella del sig. Franz d’Épinay, il quale ha orrore nel pensare che il sig. de Villefort, che sembrava conoscesse gli avvenimenti raccontati questa mattina, non lo abbia prevenuto in questo pensiero.» Chiunque avesse veduto in questo momento il magistrato, curvato sotto il colpo, non avrebbe creduto ch’egli l’avesse preveduto; di fatto non avrebbe pensato che suo padre avesse spinta la sua franchezza, o piuttosto la sua rozzezza, fino a raccontare una simile storia. È vero che il sig. Noirtier, sdegnoso dell’opinione di suo figlio, non si era occupato di schiarire i fatti agli occhi di Villefort, e che questi aveva sempre creduto che il generale Quesnel, o barone d’Épinay, secondo che si vorrà chiamare, o col nome che si era fatto, o con quello che gli era stato fatto, fosse morto assassinato, e non ucciso lealmente in duello. Questa lettera così aspra da un giovine, fino allora tanto rispettoso, era mortale per l’orgoglio di un uomo come Villefort. Appena fu nel suo gabinetto entrò sua moglie. L’uscita di Franz chiamato da Noirtier, aveva così fattamente maravigliato tutti, che la posizione della sig.ª de Villefort, rimasta sola col notaro ed i testimoni, divenne di momento in momento più impacciante. Allora ella aveva presa la sua risoluzione ed era uscita annunciando che andava a raccogliere le notizie. Il sig. de Villefort si contentò di dirle, che in seguito di alcune spiegazioni tra lui, il sig. Noirtier ed il sig. Franz d’Épinay, il matrimonio di Valentina con Franz era rotto. Era difficile a riportar quest’ambasciata a coloro che aspettavano; così, la sig.ª de Villefort rientrando, si limitò a dire, che il sig. Noirtier avendo avuto nel principio della conferenza una specie di attacco di apoplessia, il contratto era naturalmente differito a qualche giorno. Questa notizia, per quanto fosse falsa, giungeva tanto singolarmente al seguito delle altre due disgrazie dello stesso genere, che gli uditori si guardarono meravigliati, e si ritirarono senza dir parola. In questo mentre Valentina, felice ad un tempo e spaventata, dopo avere abbracciato e ringraziato il debole vecchio, che aveva in tal modo rotta una catena ch’ella riguardava già come indissolubile, aveva domandato di ritirarsi nelle sue camere per rimettersi, e Noirtier le aveva accordato il permesso che sollecitava. Ma invece di risalire da lei, Valentina, una volta uscita, prese il corridore, ed uscendo dalla piccola porta, si slanciò nel giardino. In mezzo a tutti gli avvenimenti che venivano ad accatastarsi gli uni sugli altri, un sordo terrore le aveva costantemente compresso il cuore. Ella si aspettava da un momento all’altro di vedersi comparire Morrel, pallido e minaccioso, come il Laird di Ravenswood al contratto di Lucia di Lammermoor. Di fatto era tempo che andasse al cancello. Massimiliano, che aveva sospettato quel che sarebbe accaduto, quando vide Franz lasciare il cimitero in compagnia del sig. de Villefort, lo aveva seguito; poi, dopo averlo veduto entrare, lo aveva pur anche veduto uscire e rientrare nuovamente in compagnia di Alberto e Château-Renaud. Per lui non vi era dunque più alcun dubbio. Allora si era gettato nel recinto, pronto a qualunque avvenimento, ben certo che al primo momento di libertà, che potrebbe afferrare, Valentina sarebbe corsa a lui. Egli non s’era ingannato; il suo occhio attaccato alle assi, vide infatto comparir la giovanetta che senza prendere le usate cautele, correva al cancello. Al primo colpo d’occhio che gettò sur essa, Massimiliano si fe’ tranquillo; alla prima parola che pronunciò, balzò di gioia. — Salvi, disse Valentina. — Salvi! ripetè Morrel non potendo credere a tanta felicità; ma da chi? — Da mio nonno. Oh! amatelo molto Morrel! Questi giurò d’amare il vecchio con tutta l’anima sua. — Ma com’è accaduto? domandò Morrel, quale strano mezzo ha egli impiegato? — Valentina aprì la bocca per raccontar tutto, ma pensò che in fondo a tutto ciò vi era un segreto terribile che non apparteneva soltanto a suo nonno. — Più tardi, diss’ella, vi racconterò tutto. — Ma quando? — Quando sarò vostra moglie. Questo era un mettere la conversazione sur un campo che rendeva facile a Morrel l’intendere tutto: egli per tal modo capì ancora che doveva contentarsi di ciò che sapeva, e che ciò era abbastanza per quel giorno. Però non acconsentì a ritirarsi che sulla promessa che Valentina sarebbe ritornata la dimane a sera. Ella promise ciò che volle Morrel. Tutto era cambiato ai loro occhi, e certo ora era men difficile a Valentina il credere che avrebbe potuto maritarsi con Morrel, di quel che un’ora prima non avrebbe sposato il sig. Franz. In questo tempo la sig.ª de Villefort era salita dal sig. Noirtier, il quale la guardò con quell’occhio cupo e severo con cui era assuefatto a riceverla: — Signore, gli diss’ella, non ho bisogno di dirvi che il matrimonio di Valentina è rotto poichè qui si operò questa rottura. Noirtier rimase impassibile. — Ma ciò che voi non sapete sig., è che io sono stata sempre contraria a questo matrimonio, e che si faceva mio malgrado. — Noirtier guardò sua nuora come uno che aspetti una spiegazione. — Ora, poichè questo matrimonio, pel quale conoscevo la vostra ripugnanza, è rotto, vengo a farvi una rimostranza che non possono farvi nè il sig. de Villefort, nè Valentina. Gli occhi di Noirtier chiesero qual fosse questa rimostranza. — Vengo per pregarvi, signore, come la sola che ne ha il diritto, perchè sono la sola cui nulla frutterà; vengo a pregarvi di rendere, non dirò i vostri favori, ella li ha sempre goduti, ma la vostra fortuna a vostra nipote. Gli occhi di Noirtier rimasero un momento incerti: essi cercavano evidentemente i motivi di questa rimostranza, e non li potevano ritrovare. — Posso sperare, signore, disse la signora de Villefort, che le vostre intenzioni siano in armonia colla preghiera che vi faccio? — Sì, fece Noirtier. — In questo caso mi ritiro, riconoscente ad un tempo e felice. — E, salutando il sig. de Noirtier, si ritirò. In fatto il giorno dopo Noirtier fece venire il notaro; fu stracciato il primo testamento, ne fu fatto un secondo, nel quale lasciava tutta la sua fortuna a Valentina, sotto la condizione che non si fosse separata da lui. Alcune persone allora calcolarono pel mondo, che madamigella de Villefort, ereditiera del marchese e della marchesa di Saint-Méran, e rientrata nella grazia di suo nonno, avrebbe un giorno potuto godere di una rendita di 300 mila fr. annui. Mentre che si rompeva questo matrimonio presso i Villefort, il conte de Morcerf aveva ricevuta la visita di Monte-Cristo, e per far vedere la sua premura a Danglars, indossò la grande uniforme di luogotenente generale, cui aveva fatto ornare di tutte le decorazioni, ed ordinò i suoi migliori cavalli. Morcerf così abbigliato si fece condurre alla strada della Chaussée-d’Antin, e si fe’ annunziare a Danglars che stava facendo il bilancio della fine del mese. Da qualche tempo non era quello il momento da scegliersi per ritrovare il banchiere di buon umore. Così, all’aspetto del suo antico amico, Danglars prese un’aria maestosa, e si stabilì nel suo seggio. Morcerf ordinariamente così serio, aveva assunta un’aria ridente ed affabile; in conseguenza, quasi sicuro d’essere ben accolto fino dalle sue prime parole, non fece punto il diplomatico, ed andò direttamente e di un sol tratto alla meta: — Barone, diss’egli, eccomi. Da lungo tempo ci aggiriamo attorno alle parole d’altra volta... — Morcerf si aspettava, a questi detti, di vedere rasserenata la figura del banchiere, il cui sussiego egli attribuiva al proprio silenzio; ma al contrario questa figura divenne, cosa che pareva quasi impossibile, più impassibile e più fredda ancora. Ecco perchè Morcerf si era fermato a metà della frase... — Quali parole, sig. conte? domandò il banchiere, come se cercasse invano nel suo spirito la spiegazione di ciò che voleva dire il generale. — Oh! disse il conte, voi siete amante della formalità, e mi rammentate che il cerimoniale deve eseguirsi secondo tutti i riti. Benissimo! in fede mia. Perdonatemi, ma siccome non ho che un sol figlio, e questa è la prima volta, sono ancora novizio; andiamo, io mi adatto. — E Morcerf, con un sorriso sforzato, si alzò, fece una profonda riverenza a Danglars, e gli disse: — Sig. barone, ho l’onore di domandarvi la mano di madamigella Eugenia Danglars, vostra figlia, per mio figlio il visconte Alberto de Morcerf. Ma Danglars, invece di accogliere queste parole con quel fervore che Morcerf si aspettava da lui, aggrottò il sopracciglio, e, senza invitare il conte, che era rimasto in piedi, a sedersi di nuovo: — Sig. conte, diss’egli, prima di potervi rispondere avrò bisogno di riflettervi. — Di riflettervi! riprese Morcerf di più in più meravigliato; non avete dunque avuto il tempo di riflettervi da otto anni circa che parliamo di questo matrimonio? — Sig. conte, tutti i giorni accadono cose per le quali le riflessioni che si credevano fatte sono da rifarsi. — E come? non vi comprendo più, barone! — Voglio dire, che da 15 giorni nuove congiunture... — Permettetemi, disse Morcerf, non è già questa una commedia che rappresentiamo? — Ed in qual modo una commedia? — Sì, spieghiamoci categoricamente. — Non chiedo di meglio. — Avete veduto il conte di Monte-Cristo? — Lo vedo spessissimo, disse Danglars, è uno de’ miei amici. — Ebbene! una delle ultime volte che lo avete veduto, gli avete detto ch’io sembravo smemorato, irresoluto sul conto di questo matrimonio? — È vero. — Ebbene! eccomi: non sono nè irresoluto nè smemorato, lo vedete, poichè vengo a reclamare che mantenghiate la vostra parola. — Danglars non rispose. — Avete voi così presto cambiato d’avviso, soggiunse Morcerf, o non avete provocata la mia domanda che per darvi il piacere d’umiliarmi? Danglars capì che, s’egli continuava la conversazione sul tuono col quale l’aveva incominciata, la cosa poteva voltarsi a male per lui. — Sig. conte, dovete essere a buon dritto meravigliato della mia riserva, lo capisco, così credetemi, sono il primo ad affliggermene; credetemi bene ch’ella mi è imposta da imperiose congiunture. — Queste sono parole in aria, e forse potrebbero soddisfare il primo arrivato; ma il conte di Morcerf non è un primo arrivato, e quando un uomo come lui viene a ritrovare un altr’uomo e gli ricorda la parola data, e questi manca alla sua parola, ha il diritto di esigere sul momento che almeno gli venga addotta una buona ragione. Danglars era vile, ma non voleva comparirlo; fu punto dal tuono che aveva preso Morcerf: — Non è certo una buona ragione quella che mi manca. — Che pretendete dire? — Che ho la buona ragione, ma che è difficile a darsi. — Capite frattanto, disse Morcerf, che io non posso appagarmi delle vostre reticenze, ed una cosa in ogni modo mi sembra chiara, ed è che voi rifiutate la mia alleanza. — No signore, sospendo la mia risoluzione, ecco tutto. — Ma non avrete però la pretensione, credo, che mi abbia a sottoscrivere ai vostri capricci, al punto d’aspettare tranquillamente ed umilmente il ritorno del vostro favore? — Allora sig. conte, se non potete aspettare, consideriamo i nostri disegni come non fatti. Il conte si morse le labbra fino al sangue per non irrompere, come lo avrebbe portato a fare la sua indole superba ed irritabile: però, conoscendo che in simile congiuntura il ridicolo sarebbe caduto dalla parte di lui, aveva già cominciato ad accostarsi alla porta del salotto, allorchè, pentendosi, ritornò addietro. Una fosca nube era passata sulla sua fronte, lasciandovi invece di offeso orgoglio una vaga inquietezza. — Vediamo, diss’egli, caro Danglars, noi ci conosciamo da molti anni, e per conseguenza dobbiamo averci dei riguardi l’un per l’altro. Voi mi dovete una spiegazione, ed è che almeno io sappia a qual disgraziato avvenimento mio figlio debba la perdita delle vostre buone intenzioni a suo vantaggio. — Non è un affare personale al visconte, ecco tutto ciò che posso dirvi, rispose Danglars, che ritornava impertinente vedendo Morcerf addolcirsi. — Ed a chi dunque è personale? domandò con voce alterata Morcerf, la cui fronte si coprì di pallore. Danglars al quale non isfuggiva veruno di questi sintomi, fissò su lui uno sguardo più sicuro di quello che non era solito di fare: — Ringraziatemi, se non mi spiego maggiormente, diss’egli. Un tremito nervoso, che senza dubbio veniva dalla collera trattenuta, agitava Morcerf: — Ho il diritto, rispose questi facendo un violento sforzo su se stesso, di esigere che vi spieghiate: è dunque contro la sig.ª de Morcerf che avete qualche cosa? È la mia fortuna che non è sufficiente? Son forse le mie opinioni, che essendo contrarie alle vostre... — Niente di tutto queste, signore, disse Danglars; sarei imperdonabile, perchè mi sono impegnato conoscendo tutto ciò. No, non cercate di più, son mortificato di costringervi a fare questo esame di coscienza; fermiamoci qui, credetemi. Prendiamo un termine medio di dilazione, che non sia nè una rottura, nè un impegno. Niente ne sollecita; mio Dio! mia figlia ha 17 anni, e vostro figlio ventuno. Nella nostra fermata il tempo passerà; condurrà gli avvenimenti, le cose che sembrano oscure oggi, possono divenir chiare domani; qualche volta con una parola in un giorno cadono le più crudeli calunnie. — Calunnie, diceste, signore? gridò Morcerf diventando livido. Son forse calunniato? — Sig. conte, vi dico di non spiegarci di più. — Mi abbisognerà soffrir tranquillamente questo rifiuto? — Penoso soprattutto per me, perchè io contava sull’onore della nostra alleanza, ed un matrimonio andato a monte, fa sempre, più torto alla fidanzata che al fidanzato. — Sta bene, signore, non ne parliamo più, disse Morcerf. — E, strofinando i guanti per la rabbia, uscì dall’appartamento. Danglars notò che neppure una sola volta Morcerf aveva osato di domandare, se il matrimonio andava a monte per causa sua. La sera egli ebbe una lunga conferenza con molti amici, ed il sig. Cavalcanti, che si era costantemente fermato nel salotto delle signore, uscì l’ultimo dalla casa del banchiere. La dimane svegliandosi, Danglars domandò i giornali che gli furono tosto portati: egli ne scartò tre o quattro, e prese l’_Imparziale_; quello di cui Beauchamp era il redattore. Ruppe rapidamente le fascette, l’aprì con una precipitazione nervosa, passò sdegnosamente sul _premier Paris_, e giunto ai _fatti diversi_, si fermò col suo finissimo sorriso sopra un periodo fra-lineato, che cominciava con queste parole: «_Ci scrivono da Giannina_. — Buono, diss’egli dopo di averlo letto; ecco un piccolo principio d’articolo sul colonnello Fernando, che, secondo tutte le probabilità, mi dispenserà dal dare delle spiegazioni al sig. conte di Morcerf. — Nello stesso momento, vale a dire mentre suonavano le nove del mattino, Alberto de Morcerf, vestito di nero, abbottonato metodicamente, col portamento agitato, si presentò alla casa dei Campi-Elisi. — Il sig. conte è uscito, sarà mezz’ora, disse il portinaro. — Ha egli condotto seco Battistino? domandò Morcerf. — No, signore. — Chiamate Battistino, voglio parlargli. Il portinaro andò in persona a cercare il cameriere, ed un momento dopo ritornò con lui. — Vi chiedo scusa, disse Alberto, della mia indiscretezza, ma ho voluto domandare a voi stesso, se il vostro padrone è realmente uscito. — Sì, signore, riprese Battistino. — Anche per me? — So quanto il mio padrone è contento di ricevere il signore, e mi guarderei bene di confonderlo in una misura generale. — Tu hai ragione, perchè debbo parlargli di un affare serio. Credi che tarderà a ritornare? — No, perchè ha ordinata la colazione per le dieci. — Bene, vado a fare un giro ai Campi-Elisi, alle dieci sarò qui; se il sig. conte rientra prima di me, ditegli che lo prego di aspettarmi. — Non mancherò, il signore può stare tranquillo. Alberto lasciò alla porta del conte il _cabriolet_ di piazza che aveva preso, ed andò a passeggiare a piedi. Passando davanti al viale delle _Vedove_ credè riconoscere i cavalli del conte, ch’erano fermi davanti alla porta del tiro di bersaglio di Gosset; si avvicinò, e dopo aver riconosciuti i cavalli, riconobbe il cocchiere: — Il sig. conte è al tiro del bersaglio? gli domandò Morcerf. — Sì, signore, rispose il cocchiere. — Infatto molti colpi regolari si eran fatti sentire da che Morcerf si era accostato al bersaglio. Egli entrò. Nel primo giardino stava il servitore. — Perdono, diss’egli, ma il sig. Visconte abbia la bontà di aspettare un momento. — E perchè questo, Filippo? domandò Alberto, ch’essendo uno di quelli che frequentavano spesso quel luogo, si meravigliava di questo ostacolo che non capiva. — Perchè la persona che si esercita in questo momento, ha preso il bersaglio a sè, e non tira mai in presenza di altri. — Neppure presente voi, Filippo? — Vedete, signore, sono alla porta. — E chi gli carica le pistole? — Il suo domestico. — Un moro? — Sì, un nero. — È lui. — Voi dunque conoscete questo signore? — Vengo a cercarlo; è un mio amico. — Oh! allora è un’altra cosa; entrerò per prevenirlo. E Filippo spinto dalla propria curiosità, entrò nella capanna di assi. Un secondo dopo Monte-Cristo comparve solo sulla soglia. — Perdono di perseguitarvi fin qui, mio caro conte disse Alberto; ma comincio dal dirvi, che non è colpa della vostra servitù, e che io solo sono l’indiscreto. Mi sono presentato alla vostra abitazione, e mi fu detto che eravate a passeggiare, ma che sareste rientrato alle dieci per fare colazione. Mi sono messo a passeggiare io pure per aspettare le dieci, e passeggiando ho riconosciuto i vostri cavalli e la vostra carrozza. — Ciò che mi dite, mi fa sperare che venghiate a chiedermi una colazione. — No, grazie, non si tratta di far colazione a quest’ora: forse la faremo più tardi, ma in cattiva compagnia, per bacco! — Che diavolo mi dite? — Mio caro conte, oggi mi batto. — Voi? e per far che? — Per battermi, per bacco! — Sì, capisco bene, ma a cagione di che? Ci si batte per tante cause, capite bene. — Per causa d’onore. — Ah! quest’è serio. — Tanto serio, che vengo a pregarvi di farmi un favore. — E quale? — Quello di essere mio testimonio. — Allora ciò diventa grave, non ne parliamo qui; ritorniamo a casa mia. Alì, dammi dell’acqua. Il conte rovesciò le maniche, e passò nel piccolo vestibolo che precedeva il luogo del bersaglio, ed ove coloro che tiravano avevano l’abitudine di lavarsi le mani. — Entrate dunque, sig. visconte, e vedete una cosa singolare, disse a bassa voce Filippo ad Alberto. Morcerf entrò. Sulla placca del bersaglio invece di esservi attaccati i segni, vi erano incollate delle carte da gioco. In distanza, Morcerf credè che fosse un giuoco intero, v’era dall’asso fino al dieci. — Ah! ah! fece Alberto, eravate in voglia di giuocare al _picchetto?_ — No, era in voglia di fare un giuoco di carte. — E in che modo? — Sono assi, e due, che voi vedete, e soltanto le mie palle li hanno convertiti in tre, in quattro, in cinque, in sei, in nove, e dieci. — Alberto si avvicinò. In fatto le palle avevano, a linee egualmente distanti e perfettamente esatte, riempiti i segni mancanti, e forate le carte nel posto ove dovevano essere dipinte. Andando alla placca, Morcerf raccolse diverse rondinelle che avevano avuta l’imprudenza di passare alla portata delle pistole del conte, e ch’egli aveva abbattute. — Diavolo! fece Morcerf. — Che volete, caro visconte, disse Monte-Cristo asciugandosi le mani con biancheria portata da Alì, bisogna bene ch’io occupi i miei momenti d’ozio; ma venite, vi aspetto. Entrambi montarono nel _coupé_ di Monte-Cristo, che in capo a pochi momenti li depose alla porta n. 30. Monte-Cristo condusse Morcerf nel suo gabinetto, e gli mostrò una sedia. Tutti e due sedettero. — Ora parliamo tranquillamente, disse il conte. — Vedete ch’io sono perfettamente tranquillo. — Con chi volete battervi? — Con Beauchamp. — Uno dei vostri amici! — È sempre con amici che uno si batte. — Ma vi vuole almeno una ragione. — E ne ho una. — E che vi ha fatto? — Vi è nel suo giornale di ieri sera... Ma prendete, leggete. — Alberto stese a Monte-Cristo un giornale ove lesse queste parole; «_Ci scrivono da Giannina_: — Un fatto fin qui ignorato, o per lo meno inedito, è giunto a nostra conoscenza: le fortezze che difendevano la città sono state vendute ai Turchi da un uffiziale francese, nel quale il Visir Alì-Tebelen aveva riposta tutta la sua confidenza, e che si chiamava Fernando». — Ebbene! disse Monte-Cristo, e che cosa vi è che vi urti? che importa a voi che i forti di Giannina siano stati venduti da un uffiziale francese per nome Fernando? — M’importa, perchè mio padre, il conte de Morcerf, si chiama Fernando per nome di battesimo. — E vostro padre serviva Alì-Pascià? — Vale a dire ch’egli combatteva per l’indipendenza della Grecia; ecco dov’è la calunnia. — A noi, caro visconte, parliamo ragionevolmente; ditemi un po’, chi diavolo sa in Francia che l’uffiziale Fernando è lo stesso nome del conte di Morcerf, o chi si occupa a quest’ora di Giannina che è stata presa nel 1822 o 1823, io credo? — Ecco precisamente dov’è la perfidia: si è lasciato passarvi sopra il tempo, poi oggi si ritorna sur avvenimenti dimenticati per farne uscire uno scandalo che può ledere un’alta posizione. Ebbene! erede del nome di mio padre, non voglio che vi ondeggi neppure un’ombra di sospetto: invierò a Beauchamp, il cui giornale ha pubblicata questa nota, due testimoni, ed egli la ritratterà. — Beauchamp nulla ritratterà. — Allora ci batteremo. — No, non vi batterete, perchè Beauchamp vi risponderà che nell’esercito greco potevano esservi cinquanta uffiziali che si chiamavano Fernando. — Noi ci batteremo ad onta di questa risposta... oh! voglio che questa sparisca... Mio padre, un sì nobile soldato, una così illustre carriera... — Ovvero, disse il conte, egli metterà: «Noi abbiamo tutto il fondamento di credere che questo Fernando non abbia niente di comune col conte di Morcerf, il cui nome di battesimo è egualmente Fernando.» — Mi abbisogna una ritrattazione piena ed intera; io non mi contenterei di questa! — E volete mandargli i vostri testimoni? — Sì. — Avete torto. — Vale a dire mi negate il favore che veniva a chiedervi. — Ah! conoscete le mie teorie sul duello, vi ho fatta la mia proposta a Roma: ve ne ricordate? — Però, caro conte, questa mattina, anzi poco fa, vi ho trovato nell’esercizio di una occupazione che non sta in armonia colle vostre teorie. — Perchè, mio caro, non bisogna mai essere esclusivi. Quando si vive con pazzi, bisogna pur anche fare il noviziato da insensato; da un momento all’altro qualche cervello bollente, che non avrà maggior ragione di muovermi querela di quel che voi ne abbiate di cercar querela con Beauchamp, mi verrà a trovare per la prima frivolezza fatta, o mi manderà i suoi testimoni, o m’insulterà in un luogo pubblico: ebbene! questo cervello bollente bisogna bene che io lo uccida. — Ammettete dunque che voi stesso vi battereste? or dunque perchè non volete ch’io mi batta? — Non dico che non vi dobbiate battere, dico soltanto che il duello è una cosa grave, ed alla quale bisogna riflettere. — Vi ha egli riflettuto per insultare mio padre? — S’egli non vi ha riflettuto, e ve lo confessa, non bisogna averla con lui. — Ah! siete troppo indulgente. — E voi troppo rigoroso. Vediamo, suppongo... ascoltate bene questo, ma non andate in collera per ciò che vi dico! suppongo che il fatto raccontato sia vero... — Un figlio non deve ammettere una simile supposizione contro l’onore di suo padre. — Siamo in un’epoca in cui si ammettono tante cose! — È precisamente il vizio dell’epoca. — Avreste la pretensione di riformarla? — Sì, in rapporto a ciò che mi spetta. — Eh! mio Dio! che rigorista che siete. — Io sono così. — Siete inaccessibile ai buoni consigli? — No, quando mi vengono da un amico. — E mi credete vostro amico? — Sì. — Ebbene, prima d’inviare i vostri testimoni a Beauchamp, informatevi. — E da chi? — Per bacco! da Haydée, per esempio. — Immischiare una donna in questo affare! che può ella farvi? — Per esempio, dichiarare che vostro padre non è entrato per niente nella disfatta e nella morte del suo, ovvero chiarirvi su questo argomento, nel caso che vostro padre avesse avuta la disgrazia..... — Vi ho già detto, caro conte, che non posso ammettere una simile supposizione. — Rifiutate dunque questo mezzo? — Lo rifiuto. — Allora un ultimo consiglio. — Sia! ma l’ultimo. — Voi non lo volete? — Al contrario ve lo domando. — Non mandate i vostri testimonii a Beauchamp. — Come? — Andate voi stesso a ritrovarlo. — Ciò è contro tutti gli usi. — Il vostro affare è al di fuori degli affari ordinari. — E perchè debbo andarvi io stesso, sentiamo? — Perchè in tal modo la cosa resterà fra voi e Beauchamp: s’egli è disposto a ritrattarsi, bisogna lasciargli il merito della buona volontà, la ritrattazione non per questo sarà men fatta. S’egli rifiuta al contrario, vi sarà tempo di ammettere due estranei al vostro segreto. — Non saranno due estranei, saranno due amici. — Gli amici di oggi sono i nemici di domani. — Oh! per esempio! — Testimonio Beauchamp. — Così?... — Così, vi raccomando la prudenza. — Credete che debba andar io stesso a ritrovare Beauchamp? — Sì, e solo. — Solo?... credo che abbiate ragione. — Andate, ma farete anche meglio se non vi andate affatto. — È impossibile. — Fate dunque così; sarà sempre meglio di quel che volevate fare. — Ma, nel caso, che ad onta di tutte le mie cautele, di tutti i miei riguardi, avessi ad avere un duello, mi farete da testimonio? — Mio caro visconte, disse Monte-Cristo con una gravità suprema, avete esperimentato che a tempo e luogo son tutto a voi dedicato; ma il servigio che mi chiedete esce dal cerchio di quelli che possa rendervi. — E perchè? — Forse lo saprete un giorno. — E frattanto?... — Domando la vostra indulgenza pel mio segreto. — Sta bene. Prenderò Franz e Château-Renaud. — Prendete Franz e Château-Renaud, ed a meraviglia. — Ma infine, se avrò a battermi, mi darete almeno una piccola lezione di spada o di pistola? — No, anche questa è una cosa impossibile. — Che uomo singolare che siete! andate! allora voi non volete immischiarvene per niente? — Per niente assolutamente. — Non se ne parli più. Addio conte. — Addio, visconte. — Morcerf prese il cappello ed uscì. Alla porta trovò il suo _cabriolet_, e, contenendo il meglio che poteva la sua collera, si fece condurre da Beauchamp; questi era all’ufficio del suo giornale. Beauchamp era in uno studio oscuro e polveroso, come sono dalla fondazione tutti gli uffizii dei giornali. Gli fu annunciato Alberto de Morcerf. Si fece ripetere due volte l’annunzio; indi, non convinto ancora, gridò: — Entrate! Alberto comparve. Beauchamp mandò un’esclamazione di sorpresa vedendo il suo amico oltrepassare i pacchi del giornale, e pestare con un piede male esercitato i giornali di tutte le grandezze che tappezzavano non già il piancito, ma le pietre rosse del suo uffizio. — Per di qui! caro Alberto! diss’egli stendendo la mano al giovine; qual diavolo vi conduce? siete perduto come il piccolo Poucet, o venite a chiedermi una colazione? Procurate di trovarvi una sedia; osservate, laggiù, vicino a quel girannio. — Beauchamp, è del vostro giornale che vengo a parlarvi. — Voi, Morcerf? che desiderate? — Una rettificazione. — Voi una rettificazione? A proposito di che? Ma sedete. — Grazie, rispose Alberto per la seconda volta, e con un leggero segno di testa. — Spiegatevi. — Una rettificazione sopra un fatto che offende l’onore di un membro della mia famiglia, ripigliò Morcerf. — Via! disse Beauchamp sorpreso. Che fatto? Non può essere. — Il fatto che vi fu scritto da Giannina. — Da Giannina? — Sì, da Giannina. Davvero avete l’aria d’ignorare ciò che qui mi conduce? — Sul mio onore!... Battista, un giornale di ieri. — È inutile, vi porto il mio. — Beauchamp lesse brontolando: «Ci scrivono da Giannina etc. etc. — Comprenderete che il fatto è grave, disse Morcerf, quando Beauchamp ebbe finito. — Quest’uffiziale è un vostro parente? — Sì, disse Alberto arrossendo. — Ebbene! che volete che io faccia per aggradirvi? disse Beauchamp con dolcezza. — Vorrei, caro Beauchamp, che ritrattaste questo fatto. Beauchamp guardò Alberto con una attenzione, che annunziava certo molta benevolenza: — Vediamo, diss’egli, ciò andrà ad impegnarci in una lunga diceria; perchè una ritrattazione è sempre una cosa grave. Sedetevi; rileggerò queste tre o quattro righe. — Alberto si assise, e Beauchamp rilesse le linee incriminate dal suo amico con più attenzione della prima volta: — Ebbene! lo vedete, disse Alberto con fermezza ed asprezza ancora, si è insultato nel vostro giornale uno della mia famiglia, ed io voglio una ritrattazione. — Voi... volete? — Sì, voglio. — Permettetemi di dirvi che non siete parlamentario. — Non voglio esserlo, replicò il giovine alzandosi: esigo la ritrattazione del fatto che avete annunziato ieri, e l’otterrò: siete abbastanza mio amico, continuò Alberto colle labbra serrate, vedendo che dal canto suo Beauchamp cominciava ad alzare la testa sdegnosa, e come tale mi conoscete, io spero, per comprendere la mia tenacità in simile occasione. — Se son vostro amico, Morcerf, finirete per farmelo dimenticare, con parole come quelle di poco fa... ma vediamo, non ci disgustiamo, o almeno non ancora... siete inquieto, irritato e punto... vediamo, chi è questo parente che si chiama Fernando? — È mio padre, disse Alberto, egli stesso, e non altri, il sig. Fernando Mondego, conte di Morcerf, un vecchio militare che ha veduto venti campi di battaglia, e del quale si vogliono coprire le nobili cicatrici col fango impuro raccolto nel ruscello. — Vostro padre! disse Beauchamp, allora è un altro affare; capisco la vostra indignazione. Rileggiamo adunque. E tornò a leggere la nota, pesando questa volta ciascuna parola. — Ma dove vedete, domandò Beauchamp, che il Fernando del giornale sia vostro padre? — In nessun luogo, lo so bene; ma altri lo vedranno. Ed è perciò che voglio che il fatto sia smentito. Alla parola _voglio_ Beauchamp alzò gli occhi su Morcerf, ed abbassandoli quasi subito, restò un momento pensieroso. — Voi smentirete questo fatto? ripetè Morcerf con una collera crescente, quantunque sempre concentrata. — Sì, disse Beauchamp. — Ah! alla buon’ora! disse Alberto. — Ma quando mi sarà assicurato che il fatto è falso. — In che modo? — Sì, la cosa vale la pena d’essere rischiarata, ed io la rischiarerò. — Ma che vedete dunque da rischiarare in tutto questo, signore? disse Alberto alterato fuori di ogni misura. Se non credete che sia mio padre, ditelo subito, se credete che sia lui, rendetemi ragione di questa opinione! — Beauchamp guardò Alberto con un sorriso che gli era particolare, e che sapeva prendere la gradazione di tutte le passioni. — Signore, ripetè egli (poichè vi è un signore) se è per domandarmi ragione che siete venuto qui, bisognava farlo dal bel principio, e non venire a parlare di amicizia, e di altre cose oziose, come quelle che ho la pazienza di ascoltare da più di mezz’ora. È su questo terreno che dobbiam d’ora in avanti camminare? — Sì, se non ritrattate l’infame calunnia! — Un momento! non fate minacce, se vi piace, sig. Alberto Mondego visconte de Morcerf; non ne tollero dai nemici, molto meno dai miei amici; dunque volete che smentisca il fatto sul generale Fernando, fatto al quale non ho, sul mio onore, avuta alcuna parte. — Sì, voglio! disse Alberto, la cui testa cominciava ad esaltarsi. — Senza di che ci batteremo? continuò Beauchamp colla medesima calma. — Sì, riprese Alberto alzando la voce. — Ebbene! disse Beauchamp, ecco la mia risposta, caro signore: questo fatto non è stato inserito da me, non lo conosceva; ma voi avete, colla vostra dimostrazione, attirata la mia attenzione su di esso; ella vi ci si attacca; sussisterà adunque fin che non sia smentito, o confermato da chi di diritto. — Signore! disse Alberto alzandosi, avrò dunque l’onore di mandarvi i miei testimoni, discuterete con loro sul luogo e sulle armi. — Perfettamente, caro signore. — E questa sera se vi piace, o domani mattina al più tardi, c’incontreremo. — No! no! sarò sul terreno quando abbisognerà, ed a mio avviso (ho il diritto della scelta poichè sono stato io che ho ricevuto la sfida) l’ora non è ancor giunta. So che tirate benissimo di spada, io la tiro passabilmente; so che cogliete tre colpi sopra cinque nel nero del bersaglio, questa forza è quasi eguale alla mia; so che un duello fra noi sarà un duello serio, perchè voi siete coraggioso, ed io... io lo sono altrettanto. Non voglio dunque espormi ad uccidervi, o ad essere ucciso io stesso da voi, senza una causa. Sono io, che vado, a mia volta a piantare la questione ca-te-go-ri-ca-men-te. Esigete voi questa ritrattazione al punto di uccidermi se non la faccio, quantunque vi ho detto, vi ho ripetuto, quantunque vi ho affermato sul mio onore che non conosceva il fatto, quantunque vi dichiaro finalmente che è impossibile a tutt’altro che a un don Japhet come voi d’indovinare il conte di Morcerf sotto questo nome di Fernando? — Lo esigo assolutamente. — Ebbene! caro signore, acconsento a tagliarmi la gola con voi, ma voglio tre settimane; fra tre settimane mi troverete per dirvi... «sì, il fatto è falso, lo cancello,» ovvero... «sì il fatto è vero, e cavo la spada dal fodero, o le pistole dall’astuccio a vostra scelta.» — Tre settimane, gridò Alberto, ma son tre secoli durante i quali son disonorato. — Se foste rimasto mio amico vi avrei detto: pazienza amico; voi vi siete fatto mio nemico, ed io vi dico: che importa a me, signore? — Ebbene! fra tre settimane, sia! disse Morcerf. Ma pensateci bene, non vi sarà dilazione, nè sotterfugio che possa dispensarvi... — Sig. Alberto de Morcerf, disse Beauchamp alzandosi anch’egli, non posso gettarvi dalla finestra, che fra tre settimane, vale a dire fra ventuno giorni, e voi non avete il diritto d’insultarmi che allora; siamo ai 29 agosto, ai 19 adunque del mese di settembre. Fin là, credetemi, ed è un consiglio da gentiluomo che vi do, risparmiamoci gli abbaiamenti di due cani mastini incatenati ad una certa distanza. — E Beauchamp, salutando gravemente il giovine, gli voltò le spalle ed entrò nella stamperia. Alberto si vendicò sopra una fila di giornali, che disperse frustandoli a colpi di bastone, dopo di che partì, non senza essersi voltato due o tre volte verso la porta della stamperia. Mentre che frustava il davanti del suo _cabriolet_, dopo aver frustate le innocenti carte, Alberto scoprì, traversando il baluardo, Morrel, che col naso all’aria, l’occhio svegliato, e le braccia sciolte, passava davanti ai bagni chinesi, venendo dalla parte di San Martino, e andando da quella della Maddalena. — Ah! diss’egli sospirando, ecco un uomo felice. Per caso Alberto non s’ingannava. LXXVIII. — LA LIMONATA. Infatto Morrel era molto felice. Il sig. Noirtier lo aveva mandato a cercare, ed aveva tanta fretta di sapere ciò che voleva, che non aveva preso il _cabriolet_, fidandosi molto più delle sue gambe, che di quelle di un cavallo di piazza; egli dunque era partito correndo dalla strada Meslay, e si portava al sobborgo Sant’Onorato. Morrel camminava con un passo ginnastico, ed il povero Barrois lo seguiva alla meglio. Morrel aveva trentun’anno, Barrois ne aveva sessanta; Morrel era ebbro d’amore, Barrois era alterato dallo eccessivo calore. Questi due uomini, così divisi d’interessi e di età, rassomigliavano alle due linee che formano un triangolo, allontanate alla base, e riunite alla sommità. La sommità era Noirtier, il quale aveva inviato a cercare Morrel, raccomandandogli di far presto, raccomandazione che Morrel seguiva alla lettera con gran disperazione di Barrois. Giungendo, Morrel non era neppure riscaldato; l’amore somministra le ali; ma Barrois, che da lungo tempo non era più innamorato, Barrois nuotava. Il vecchio servitore fece entrare Morrel dalla porta segreta, chiuse quella del gabinetto, e ben presto lo strofinare di una veste sul piancito annunziò la visita di Valentina, bella da incantare sotto il suo abito di lutto. Il sogno diveniva così dolce, che Morrel avrebbe fatto anche a meno di conversare col sig. Noirtier; ma la poltrona del vecchio rotolò ben presto sul pavimento, ed egli entrò. Noirtier accolse con uno sguardo benevolo, i ringraziamenti che Morrel gli prodigava per quella maravigliosa intervenzione che aveva salvati Valentina e lui dalla disperazione. Indi lo sguardo di Morrel andava a provocare, sul nuovo favore che gli veniva accordato, la giovinetta che, timida e assisa lungi da Morrel, aspettava di essere costretta a parlare. Noirtier la guardò anch’egli. — Bisogna dunque che io dica ciò di che mi avete incaricata? domandò ella. — Sì, fece Noirtier. — Sig. Morrel, il mio buon papà Noirtier aveva mille cose a dirvi, che da tre giorni egli ha detto a me; oggi vi manda a cercare perchè io ve le ripeta; ve le ripeterò adunque, poichè mi ha scelta per suo interprete, senza cangiare una parola alle sue intenzioni. — Oh! io ascolto con molta impazienza, rispose il giovine. Valentina abbassò gli occhi; questo fu un presagio che parve dolce a Morrel. Valentina non era debole che nella felicità. — Mio padre vuol lasciare questa casa, diss’ella; Barrois si occupa di cercargli un appartamento conveniente. — Ma voi, madamigella, disse Morrel, voi che siete così cara, e così necessaria al sig. Noirtier....? — Io, riprese la giovanetta, non lascerò punto mio nonno, è una cosa già convenuta fra lui e me. Il mio appartamento sarà vicino al suo; o avrò il consenso del sig. de Villefort per andare ad abitare col nonno, o me lo rifiuterà: nel primo caso parto fin da questo momento; nel secondo, aspetto la mia maggior età, che viene fra dieci mesi. Allora sarò libera, avrò una fortuna indipendente, e... — E?... domandò Morrel. — E colla autorizzazione del mio nonno, manterrò la promessa che vi ho fatta. Valentina pronunciò queste ultime parole con voce sì bassa, che Morrel non avrebbe potuto intenderle senza l’interesse che aveva a divorarle. — Non è questo il vostro pensiero buon papà? aggiunse Valentina indirizzandosi a Noirtier. — Sì, fece il vecchio. — Una volta in casa del mio nonno, il sig. Morrel potrà venire a vedermi in presenza di questo buono e degno protettore: se il legame che unisce i nostri cuori, forse ignoranti o capricciosi, che aveva cominciato a formare, sembra convenevole, e offre delle garenzie di futura felicità alla nostra esperienza (ahimè! si dice, i cuori infiammati dagli ostacoli si raffreddano nella sicurezza) allora il sig. Morrel potrà domandarmi a me stessa, io lo aspetterò. — Oh! gridò Morrel, tentato d’inginocchiarsi davanti al vecchio, oh! che ho mai fatto di bene nella mia vita da meritarmi tanta felicità? — Fin là, continuò la giovinetta con la sua voce pura e severa, rispetteremo le convenienze, la stessa volontà dei nostri parenti, purchè non tenda a separarci per sempre; in una parola, e io ripeto questa parola perchè dice tutto, noi aspetteremo. — Ed i sacrifici che questa parola impone, disse Morrel, io giuro di compierli, non già con rassegnazione, ma con felicità. — Così, continuò Valentina con uno sguardo dolce al cuore di Massimiliano, non più imprudenze, amico mio, non mettete a cimento quella che da questo momento si considera come destinata a portare onorevolmente e degnamente il vostro nome. — Morrel si appoggiò la mano sul cuore. Frattanto Noirtier li guardava entrambi con tenerezza. Barrois, che era rimasto nel fondo come un uomo a cui non si ha niente a nascondere, sorrideva asciugandosi le grosse gocce d’acqua che gli cadevano dalla calva fronte. — Oh! mio Dio, come è riscaldato questo buon Barrois, disse Valentina. — Ah! disse Barrois, è perchè ho corso bene, ma il sig. Morrel, debbo rendergli questa giustizia, correva ancor più di me. — Noirtier indicò coll’occhio una sottocoppa sulla quale era preparata una bottiglia di limonata, ed un bicchiere. Ciò che mancava nella bottiglia era stato bevuto mezz’ora prima dal sig. Noirtier. — Prendi, buon Barrois, disse la giovanetta, prendi che già vedo che tu covi con gli occhi questa bottiglia smezzata. — Il fatto è, disse Barrois, che muoio di sete, e che io beverò ben volentieri un bicchiere di limonata alla vostra salute. — Bevi dunque, disse Valentina, e ritorna subito. Barrois portò via la sottocoppa, ed appena fu nel corridore, a traverso alla porta che aveva dimenticato di chiudere, fu veduto rovesciare indietro la testa per vuotare il bicchiere che Valentina gli aveva empito. — Valentina e Morrel si facevano i loro addii in presenza di Noirtier, quando s’intese risonare il campanello della scala di Villefort. Questo era il segnale di una visita. Valentina guardò l’orologio a pendolo. — È mezzogiorno, diss’ella, e oggi è sabato buon papà, questi senza dubbio è il dottore. Noirtier fece segno indicante che di fatto doveva essere lui. — Egli vien qui, bisogna che il sig. Morrel se ne vada, non è vero, buon papà? — Sì, rispose il vecchio. — Barrois! chiamò Valentina; Barrois! venite! — Barrois vi accompagnerà fino alla porta, disse Valentina a Morrel; ed ora ricordatevi una cosa, sig. ufficiale, ed è che il mio buon papà vi raccomanda di non tentare alcuna dimostrazione capace di mettere a rischio la nostra felicità. — Ho promesso di aspettare, ed aspetterò. In questo momento entrò Barrois. — Chi ha suonato? domandò Valentina. — Il sig. dottore d’Avrigny, disse Barrois traballando sulle gambe. — Ebbene che avete dunque, Barrois? domandò Valentina. Il vecchio non rispose, guardava il padrone con occhi stravolti, mentre che con la sua mano increspata cercava un appoggio per rimanere in piedi. — Ma egli sta per cadere! gridò Morrel. In fatto il tremito da cui Barrois era preso aumentava gradatamente; i tratti del viso, alterati dai movimenti convulsivi dei muscoli della faccia, annunziavano un assalto nervoso assai intenso. Noirtier, vedendo Barrois così sconvolto, moltiplicava gli sguardi nei quali si dipingevano, intelligibili e palpitanti, tutte le emozioni che agitavano il cuore dell’uomo. Barrois fece qualche passo verso il padrone. — Ah! mio Dio! mio Dio! signore! diss’egli, ma che ho dunque?... io soffro.... non ci vedo più... mille punte di fuoco mi attraversano il cranio. Oh! non mi toccate, non mi toccate! Infatto gli occhi divennero sporgenti ed incerti, la testa si rovesciava in dietro, mentre che la parte inferiore del corpo si irrigidiva. Valentina spaventata mandò un grido, Morrel la prese nelle braccia come per difenderla da un qualche sconosciuto periglio. — Sig. d’Avrigny! sig. d’Avrigny! gridò Valentina con voce soffocata, a noi! al soccorso! — Barrois girò su sè stesso, fece tre passi in addietro, vacillò, e venne a cadere ai piedi di Noirtier, sul ginocchio del quale appoggiò la mano gridando: — Mio padrone! mio padrone! — In questo mentre il sig. de Villefort, attirato dalle grida, comparve sulla soglia della camera. Morrel lasciò Valentina a metà svenuta, e gettandosi in addietro, si nascose nell’angolo della camera, e disparve dietro una tenda. Pallido come se avesse veduto uno spettro sorgere davanti a sè, egli attaccò uno sguardo di ghiaccio sull’infelice moribondo. Noirtier bolliva d’impazienza e di terrore; la sua anima volava in soccorso al povero vecchio, suo amico piuttosto che domestico. Si vedeva il combattimento terribile della vita e della morte tradursi sopra la sua fronte dal gonfiamento delle vene e la contrazione di qualche muscolo rimasto vivo intorno ai suoi occhi. Barrois colla faccia agitata, gli occhi iniettati di sangue, il collo rovesciato in addietro, giaceva battendo il pavimento con le mani, mentre che al contrario le sue gambe intirizzite sembravano doversi rompere piuttosto che piegarsi. Una leggera schiuma gli colava dalle labbra e respirava affannosamente. Villefort stupefatto restò un minuto cogli occhi fissi su questo quadro, che attirò i suoi sguardi dal primo entrare nella camera. Egli non vide Morrel: — Dottore! gridò slanciandosi verso la porta, venite venite! — Signora! signora! gridò Valentina chiamando sua matrigna, ed urtando nelle pareti della scala, venite! e portate la vostra boccettina di sali. — Che cosa è? domandò la voce metallica e sostenuta della signora de Villefort. — Oh! venite! venite! — Ma dov’è dunque il dottore? gridò Villefort; dov’è? La sig.ª de Villefort discese lentamente; si sentivano scricchiolare le assi sotto i suoi piedi. Con una mano teneva il fazzoletto col quale si asciugava il viso, coll’altra la boccettina del sale inglese. Il suo primo sguardo giungendo alla porta fu per Noirtier, il suo sembiante, salva l’emozione ben naturale in una simile congiuntura annunziava una salute costante; il suo secondo colpo d’occhio si abbattè nel moribondo. — Ha mangiato da poco? domandò la sig.ª de Villefort eludendo la domanda. — Ma in nome del cielo, signora; dov’è andato dunque il dottore? È entrato da voi. Questa è una apoplessia, come vedete bene, che con una cavata di sangue si può salvare. — Ella impallidì, ed il suo occhio trabalzò, per così dire, dal servitore sul padrone. — Signora, disse Valentina, egli non ha fatto colazione, ma ha corso molto questa mattina per eseguire una commissione di cui l’avea incaricato mio nonno. Al ritorno soltanto ha preso una limonata. — Ah! fece la signora de Villefort, perchè non ha preso del vino? è molto cattiva la limonata. — La limonata era là sotto la sua mano, nella bottiglia del buon papà; il povero Barrois aveva sete, ha bevuto ciò che ha trovato. — La sig.ª de Villefort fremette, Noirtier la circondò di uno sguardo profondo. — Egli ha il collo così corto! disse ella. — Signora, disse Villefort, vi domando dov’è il sig. d’Avrigny, in nome del cielo, rispondete! — È nella camera di Edoardo che si trova un po’ incomodato, disse la sig.ª de Villefort che non poteva eludere più lungamente. — Villefort si slanciò per la scala per andarlo a cercare egli stesso. — Prendete, disse la giovane sposa dando la boccettina a Valentina, risalgo nelle mie stanze poichè non posso sopportare la vista del sangue. Ed ella seguì suo marito. Morrel uscì dall’angolo oscuro dove si era ritirato, ed ove non era stato veduto da alcuno, tanto era grande la preoccupazione. — Partite presto, Massimiliano! gli disse Valentina, ed aspettate che io vi richiami. Andate! Morrel consultò Noirtier con un gesto. Noirtier, che aveva conservato tutta la sua prontezza d’animo gli fece segno di sì. Egli si strinse la mano di Valentina contro il cuore, ed uscì dal corridore nascosto. Nello stesso tempo Villefort ed il dottore rientravano dalla parte opposta. Barrois cominciava a ritornare in sè: la crisi era passata, la parola ritornava gemente, ed egli si sollevava sur un gomito. D’Avrigny e Villefort portarono Barrois sopra un sofà. — Che cosa ordinate, dottore? domandò Villefort. — Che mi si porti dell’acqua, e dell’etere. Ne avete in casa? — Sì. — Che si corra a cercarmi dell’olio di trementina e dell’emetico. — Andate! disse Villefort. — E frattanto che tutti si ritirino, disse il dottore. — Io pure? domandò timidamente Valentina. — Sì, madamigella, voi sopra tutti! disse bruscamente il dottore. — Valentina guardò il sig. d’Avrigny con meraviglia, baciò in fronte il sig. Noirtier, ed uscì. Dietro a lei il dottore chiuse la porta con aria cupa. — Osservate! osservate dottore, eccolo che rinviene; questo non era che un attacco di poca importanza. — D’Avrigny, sorrise con aria cupa: — Come vi sentite, Barrois? — Un poco meglio, signore. — Potete bere un bicchier di etere? — Mi proverò, ma non mi toccate. — Perchè? — Perchè mi sembra che se mi toccaste, foss’anche colla sola punta di un dito, l’accesso mi ritornerebbe. — Bevete. — Barrois prese il bicchiere, se l’avvicinò alle labbra violette, e ne vuotò circa la metà. — Dove soffrite? domandò il dottore. — Da per tutto; provo spaventosissimi crampi. — Avete dei bagliori alla vista? — Sì. — Del tintinnio alle orecchie? — Spaventoso. — Quando vi è cominciato? — Momenti sono. — Rapidamente? — Come il fulmine! — Niente ieri? ieri l’altro? — Niente. — Neppure sonnolenza? peso? — No. — Che avete mangiato quest’oggi? — Non ho mangiato niente, ho bevuto soltanto un po’ di limonata del signore, ecco tutto. — E Barrois fece con la testa un segno per indicare Noirtier, che immobile, nel suo seggio, contemplava questa terribile scena, senza perderne un movimento, senza lasciare sfuggire una parola. — Dov’è la limonata? domandò vivamente il dottore. — Nella caraffa in cucina. — Volete che vada a cercarla? domandò Villefort. — No, restate qui, e procurate di far bere al malato il restante di questo bicchier d’acqua. — Ma questa limonata... — Vi vado io stesso. — D’Avrigny fece un salto, aprì la porta, si slanciò dalle scale, e poco mancò che non rovesciasse la sig.ª de Villefort, che pur discendeva in cucina. Ella mandò un grido. D’Avrigny non vi fece neppure attenzione, trasportato come era dalla possanza di una sola idea; saltò i tre o quattro ultimi scalini, e scoperse la bottiglia per tre quarti vuota sulla sua sottocoppa. Vi piombò sopra, come un’aquila sulla sua preda. Anelante, risalì al pian terreno, e rientrò nella camera. La sig.ª de Villefort risaliva lentamente la scala che conduceva da lei. — Era veramente questa bottiglia quella che era qui? domandò d’Avrigny. — Sì, signor dottore. — Questa limonata è la stessa che avete bevuta? — Lo credo. — Che gusto ci avete sentito? — Un gusto amaro. Il dottore versò qualche goccia di limonata nel concavo della mano, l’aspirò colle labbra, e dopo averne sciacquata le bocca come si fa quando si vuole gustare il vino, sputò il liquido nel caminetto. — È la stessa, diss’egli. E voi sig. Noirtier ne avete bevuto? — Sì, fece il vecchio. — Avete trovato il medesimo gusto amaro? — Sì, fece il vecchio. — Ah! signor dottore, gridò Barrois, ecco che mi riprende! mio Dio, signore, abbiate pietà di me! Il dottore corse al malato: — Questo emetico, Villefort, guardate se viene. Villefort si slanciò gridando: — L’emetico! l’emetico! l’hanno portato? — Nessuno rispose. Il terrore più profondo regnava nella casa. — Se io avessi un mezzo di soffiargli dell’aria nei polmoni, disse d’Avrigny, guardando intorno a lui, avrei il mezzo di prevenire l’asfissia. Ma no! niente, niente! — Ah! signore, gridava Barrois, mi lascerete morire senza soccorso, oh! io moro! mio Dio! io moro! — Una penna! una penna! domandò il dottore; ne vide una sulla tavola. Egli tentò d’introdurre la penna nella bocca del malato, che faceva in mezzo alle sue convulsioni, inutili sforzi per vomitare; le mascelle erano talmente strette che la penna non potè passarvi. Barrois era in preda ad un assalto nervoso anche più intenso del primo. Era scivolato dal sofà, e si contorceva sul pavimento. Il dottore lo lasciò in preda a questo accesso, al quale non poteva portare sollievo alcuno, e ritornando a Noirtier: — Come vi sentite? gli disse precipitosamente, e sotto voce; bene? — Sì. — Leggero di stomaco, o pesante? leggero? — Sì. — Come quando pigliate la pillola che vi fo dare tutte le domeniche? — Sì. — Barrois ha fatto la vostra limonata? — Sì. — Siete stato voi che l’avete sollecitato a beverne? — No. — È stato il sig. de Villefort? — No. — La signora? — No. — Fu dunque Valentina allora? — Sì. Un sospiro di Barrois, uno sbadiglio che gli faceva scricchiolare le ossa della mascella, richiamarono l’attenzione di d’Avrigny; egli lasciò il sig. Noirtier, e corse al malato: — Barrois, gli disse, potete parlare? Barrois balbettò qualche parola inintelligibile. — Fate uno sforzo, amico mio. — Barrois riaprì gli occhi sanguinolenti. — Chi ha fatto la limonata? — Io. — L’avete subito portata al vostro padrone dopo di averla fatta? — No. — L’avete lasciata in qualche luogo allora. — In credenza; fui chiamato. — Chi la portò qui? — Madamigella Valentina. D’Avrigny si battè la fronte: — Oh! mio Dio! mio Dio! — Dottore! gridò Barrois che sentiva avvicinarsi un terzo accesso. — Ma non porteran dunque l’emetico? gridò il dottore. — Eccone un bicchiere già preparato, disse Villefort rientrando. — Da chi? — Dal giovane della farmacia che è venuto con me. — Bevete. — Impossibile dottore, è troppo tardi; ho la gola che si restringe! oh! il cuore! la testa... quale inferno!... e dovrò soffrir lungamente così? — No, disse il dottore, ben presto non soffrirete più. — Ah! capisco! gridò il disgraziato; mio Dio! abbiate pietà di me! — E gettando un grido, cadde rovesciato in addietro, come colpito dal fulmine. D’Avrigny gli mise una mano sul cuore, gli avvicinò uno specchio alle labbra. — Ebbene? domandò Villefort. — Andate a dire in cucina che mi portino subito dello sciroppo di viole. — Villefort discese nel medesimo punto. — Non vi spaventate sig. Noirtier, disse d’Avrigny; trasporto il malato in un’altra camera per cavargli sangue; davvero questa sorte d’accessi sono un tristo spettacolo da vedersi. — E prendendo Barrois per sotto le braccia, lo trascinò in una camera vicina; ma subito dopo rientrò da Noirtier per prendere il resto della limonata. Noirtier chiuse l’occhio dritto. — Valentina, n’è vero? volete Valentina? dico subito, che ve la mandino. Villefort risaliva; d’Avrigny lo incontrò nel corridoio. — Ebbene? domandò egli. — Venite, disse d’Avrigny. E lo condusse nella camera. — Sempre svenuto? domandò il procuratore del Re. — Egli è morto. — Villefort dette addietro di due o tre passi, congiunse le mani al disopra della testa, e con una commiserazione non equivoca: — Morto così prontamente? diss’egli guardando il cadavere. — Sì, molto prestamente, è vero! disse d’Avrigny; ma ciò non vi deve maravigliare: il sig. e la sig.ª di Saint-Méran sono morti essi pure così prestamente. Oh! si muore presto in vostra casa, sig. de Villefort. — Che! gridò il magistrato con un accento d’onore e di costernazione, ritornate a questa terribile idea? — Sempre, disse d’Avrigny con solennità, perchè essa non mi ha abbandonato un momento; e perchè siate ben convinto che questa volta non m’inganno ascoltatemi bene. Villefort tremava convulsivamente. — Vi è un veleno che ammazza senza quasi lasciare traccia veruna. Questo veleno io lo conosco bene, l’ho studiato in tutti gli accidenti che apporta, in tutti i fenomeni che produce. Questo veleno l’ho riconosciuto poco fa in questo povero Barrois, come lo aveva egualmente riconosciuto nella sig.ª di Saint-Méran: vi è un modo di osservarne la presenza: egli ridona il colore blu alla carta di tornasole arrossita con un acido, e tinge in verde lo sciroppo di violette. Noi non abbiamo la carta di tornasole; ma osservate, ecco che portano lo sciroppo di violette che ho domandato. Infatto si sentivano dei passi nel corridoio; il dottore aprì alquanto la porta, prese dalle mani della cameriera un vaso nel fondo del quale vi erano due o tre cucchiai di sciroppo, e richiuse la porta. — Guardate, diss’egli al procuratore del Re, a cui il cuore batteva sì fortemente, che si sarebbe potuto sentire; ecco in questa tazza lo sciroppo di violette, ed in questa bottiglia il rimanente della limonata bevuta da Noirtier e Barrois. Se la limonata è pura ed inoffensiva, lo sciroppo conserverà il suo colore; se è avvelenata, lo sciroppo deve diventar verde. Osservate! Il dottore versò lentamente qualche goccia di limonata nella tazza, e si vide nello stesso punto formarsi nel fondo della stessa un cambiamento di colore che da prima prese la gradazione del blu; poi dal zaffiro passò all’opale, e dall’opale allo smeraldo. Giunto a quest’ultimo colore, per così dire, si fissò; l’esperienza non lasciava più alcun dubbio. — L’infelice Barrois è stato avvelenato colla falsa angustura, o con la noce di S. Ignazio, disse d’Avrigny; ora lo asserirei davanti agli uomini, e davanti a Dio. Villefort nulla disse; ma alzò le braccia al cielo, aprì gli occhi stravolti, e cadde annientato sopra una sedia. LXXIX. — L’ACCUSA. Il sig. d’Avrigny richiamò ben presto a sè stesso il magistrato che sembrava un secondo cadavere in questa funebre camera: — Oh! la morte è nella mia casa, gridò Villefort. — Dite pure il delitto, ripetè il dottore. — Sig. d’Avrigny, gridò Villefort, non posso esprimervi tutto ciò che succede in me in questo momento: è spavento, dolore, follia. — Sì, disse d’Avrigny con una calma imponente, ma credo che sia tempo di mettere una diga a questo torrente di mortalità. In quanto a me, non mi sento capace di poter sopportare più a lungo simile segreto senza la speranza di farne uscir ben presto la vendetta per la società e per le vittime. Villefort girò attorno a sè un tetro sguardo: — In casa mia! — Via, magistrato, disse d’Avrigny, siate uomo; interprete della legge, onoratevi con una completa immolazione. — Voi mi fate fremere, dottore! volete che io mi immoli? precisamente questa è la parola: sospettate dunque qualcuno? — Non sospetto alcuno; la morte batte alla vostra porta, entra, va, non cieca, ma intelligente com’è, di camera in camera. Ebbene io ne seguo la traccia, ne riconosco il passaggio; adotto la saggezza degli antichi, vado a tastoni, perchè la mia amicizia per la vostra famiglia, il mio rispetto per voi, sono come due bende che mi siano state messe agli occhi; ebbene... — Oh! parlate, parlate, dottore, avrò coraggio. — Ebbene! signore, voi avete in casa vostra, nel seno della vostra casa, forse nella vostra famiglia, uno di quegli orribili fenomeni come ciascun secolo ne produce qualcuno. Locusta ed Agrippina, perchè vivevano nel medesimo tempo erano una eccezione che provava il furore della provvidenza per perdere l’impero Romano lordato da tanti delitti. Brunehault e Fredegonda sono i resultati del lavoro penoso di una civilizzazione alla sua genesi, nella quale l’uomo impara ad assopire lo spirito, fosse ancora per inviarlo nelle tenebre. Ebbene, tutte queste donne erano state, o erano ancora giovani e belle. Si era veduto fiorire sulla lor fronte, e sulla fronte fioriva ancora questo stesso fiore d’innocenza che si trova parimente sulla fronte della colpevole che è in vostra casa. Villefort mandò un grido, congiunse le mani, e guardò il dottore con un gesto supplichevole. Questi però continuò senza pietà: — Guarda a chi è vantaggioso il delitto, dice un assioma di giurisprudenza. — Dottore; gridò Villefort, ahimè! dottore, quante volte la giustizia degli uomini non si è ingannata sopra queste funeste parole? io non so, ma mi sembra che questo delitto... — Ah! voi confessate dunque finalmente che vi è delitto? — Sì, lo riconosco. Che volete? bisogna bene; ma lasciatemi continuare. Mi sembra, diceva, che questo delitto cada soltanto sopra di me, e non sulle vittime: sospetto qualche disastro per me sotto tutti questi strani disastri. — Oh! uomo, mormorò d’Avrigny, che si mostra il più egoista di tutti gli animali, che vuol credere sempre che la terra giri, che il sole brilli e che la morte si affatichi tutto per lui solo; formica che mormora della provvidenza dall’alto di un filo d’erba! e quelli che hanno perduta la vita, non han perduto qualche cosa? il sig. di Saint-Méran, la sig.ª di Saint-Méran, il sig. Noirtier. — Come, il sig. Noirtier... — Sì, credete che si sia voluto uccidere questo disgraziato servitore? no, no... come il Pollonio di Shakespeare, egli è morto per un altro. Il sig. Noirtier doveva bere la limonata, è Noirtier che l’ha bevuta secondo l’ordine logico delle cose... l’altro non l’ha bevuta che per accidente; e quantunque sia stato Barrois quello che è morto, pure era Noirtier quegli che doveva morire. — Ma allora come va che mio padre non ha sofferto? — Ve l’ho già detto una sera nel giardino, dopo la morte della sig.ª di Saint-Méran, perchè il suo corpo è divenuto a guisa di uno stesso veleno; perchè la dose per lui insignificante, era mortale per un altro; perchè finalmente nessuno sa, e neppure l’assassino, che da un anno io curo con la brucnina la paralisi del sig. Noirtier, mentre che l’assassino non ignora, e se ne è assicurato con l’esperienza, che la brucnina è un veleno violento. — Mio Dio! mormorò Villefort contorcendosi le braccia. — Seguitate la traccia del delinquente; egli uccide il sig. di Saint-Méran... — Oh! dottore! — Lo giurerei; ciò che mi è stato detto dei sintomi si accorda troppo bene con ciò che ho veduto coi miei proprii occhi. Villefort cessò di combattere, e mandò un gemito. — Egli uccide il signore di Saint-Méran, ripetè il dottore, egli uccide la sig.ª di Saint-Méran, doppia eredità da raccogliere (Villefort asciugò il sudore che gli colava dalla fronte). — Il sig. Noirtier, ripetè con la sua voce implacabile d’Avrigny, il sig. Noirtier aveva non ha guari fatto un testamento contro la vostra famiglia in favore dei poveri; il sig. Noirtier viene risparmiato perchè non si aspetta niente da lui. Ma egli non appena ne ha fatto un secondo, che per timore che si penta e non ne faccia un terzo, vien colpito: il testamento fu fatto ier l’altro, credo; voi lo vedete, non si è perduto tempo. — Oh! grazia! sig. d’Avrigny. — Nessuna grazia, signore! il medico ha una missione sacra sulla terra; e per adempirla egli risale fino alle sorgenti della vita, e discende nelle misteriose tenebre della morte. Quando il delitto è stato commesso, sta al medico il dire: eccolo là! — Grazia per mia figlia, signore! mormorò Villefort. — Vedete bene che siete stato voi che l’avete nominata, voi, suo padre! — Grazia per Valentina! ascoltate, è impossibile! amerei meglio accusare me stesso! Valentina, un cuore di diamante, un giglio d’innocenza! — Nessuna grazia, signor procuratore del Re, il delitto è flagrante. Madamigella de Villefort ha impacchettati colle sue mani i medicamenti che furono inviati al sig. di Saint-Méran, ed il sig. di Saint-Méran è morto. Madamigella de Villefort ha preparato l’orzata alla sig.ª di Saint-Méran, ed ella è morta. Madamigella de Villefort ha preso dalle mani di Barrois, che si è mandato fuori, la bottiglia di limonata che il vecchio ordinariamente vuota nella mattinata, ed il vecchio non è sfuggito, che per un miracolo. Madamigella de Villefort è la colpevole! ella è l’avvelenatrice! sig. procuratore del Re, vi denunzio madamigella de Villefort; fate il vostro dovere! — Dottore, non resisto più, non mi difendo più, vi credo; ma risparmiate la mia vita, il mio onore! — Sig. de Villefort, riprese il dottore con una forza crescente, vi sono delle congiunture in cui sorpasso tutti i limiti della sciocca circospezione umana. Se vostra figlia avesse commesso soltanto un primo delitto, e la vedessi meditarne un secondo, vi direi: «avvertitela, punitela, che ella passi il resto della sua vita in un qualche ritiro, in un qualche convento a piangere e pregare.» Se avesse commesso un secondo delitto, vi direi: «prendete, sig. de Villefort, ecco un veleno che non conosce l’avvelenatrice, un veleno che non ha conosciuto antidoto, pronto come il pensiero, rapido come il lampo, mortale come il fulmine; datele questo veleno, raccomandate la sua anima a Dio, e salvate così il vostro onore e i vostri giorni, perchè ora sta a voi il divenire la vittima, ed io la vedo avvicinarsi al capezzale coi suoi sorrisi ipocriti, e le sue dolci esortazioni. Infelice voi, se non siete il primo a percuotere!» ecco ciò che vi direi se ella non avesse ucciso che due persone, ma, ella ha veduto l’agonia di tre, ella ha contemplato tre moribondi, si è inginocchiata vicino a tre cadaveri; al patibolo l’avvelenatrice! al patibolo! Voi parlate del vostro onore? fate ciò che vi dico, e l’immortalità vi aspetta. Villefort cadde in ginocchio: — Aspettate, diss’egli, io non ho la forza che voi avete, o piuttosto che voi stesso non avreste se, invece di mia figlia Valentina, si trattasse di vostra figlia Maddalena. (Il dottore impallidì.) Dottore, ogni uomo è figlio di donna, è nato per soffrire e morire; dottore, soffrirò, ed aspetterò la morte. — Ma, disse d’Avrigny, essa sarà lenta... la vedrete avvicinarsi dopo che avrà colpito vostro padre, vostra moglie, e forse vostro figlio ancora. Villefort, soffocando, strinse il braccio del dottore. — Ascoltatemi! gridò egli, compiangetemi, soccorretemi.... No, mia figlia.... non è colpevole... Trascinatela davanti ad un tribunale; dirò sempre: no mia figlia non è colpevole... Non vi è delitto in casa mia; perchè allorquando il delitto entra da qualche parte è come la morte: non entra mai solo. Ascoltate, che importa a voi che io muoia assassinato?... Siete mio amico, siete un uomo, avete un cuore?.. No, siete un medico!... Ebbene! ve lo dico, no, mia figlia non sarà trascinata da me nelle mani del carnefice!... Ah! ecco un’idea che mi divora, che mi spinge come un insensato a lacerarmi il petto con le unghie!... E se voi v’ingannaste! se fosse un altro invece di mia figlia!.... Se un giorno venissi pallido come uno spettro a dirvi: Assassino! tu hai uccisa mia figlia! Vedete, se ciò accadesse, son cristiano, sig. d’Avrigny, e ciò nonostante forse mi ucciderei! — Sta bene, disse il dottore dopo un momento di silenzio, aspetterò. — Villefort lo guardò come se dubitasse ancora delle sue parole. — Soltanto, continuò d’Avrigny con voce lenta e solenne, se qualcuno della vostra casa cade malato, se voi stesso vi sentiste male, non mi chiamate, perchè non verrò più. Io voglio divider con voi questo segreto terribile, ma non voglio che la vergogna ed i rimorsi vadano in me fruttificandosi ed ingrandendosi nella mia coscienza, come il delitto e l’infelicità s’ingrandiranno, e fruttificheranno nella vostra casa. — Per tal modo dottore, mi abbandonate? — Sì, perchè non posso più seguirvi, e non mi fermo che ai piedi del patibolo. Verrà qualche altra rivelazione che porterà la fine di questa terribile tragedia. Addio. — Dottore, ve ne supplico! — Tutti gli orrori che lordano il mio pensiero mi fanno la vostra casa odiosa e fatale. Addio, signore. — Una parola, una parola sola ancora dottore! vi ritirate, mi lasciate in tutto l’orrore della situazione, orrore che voi avete aumentato con ciò che mi avete rivelato. Ma che si dirà della morte subitanea di questo vecchio servitore? — È giusto, accompagnatemi. — Il dottore uscì pel primo, de Villefort lo seguì, i domestici inquieti erano nel corridoio, e sulle scale da dove doveva passare il medico. — Signore, disse d’Avrigny a Villefort parlando ad alta voce ed in modo che tutti lo sentissero, il povero Barrois era da qualche anno troppo sedentario; abituato in altri tempi a correre col padrone, a cavallo o in carrozza, le quattro parti d’Europa, egli si è ucciso con questo servizio monotono intorno ad una poltrona. Il sangue è divenuto pesante. Egli era grasso, aveva il collo grosso e corto, è stato colpito da una apoplessia fulminante, ed io sono stato avvertito troppo tardi. A proposito, aggiunse egli a bassa voce, abbiate cura di gettare nelle ceneri quella tazza collo sciroppo di violette. — Il dottore, senza toccar la mano di Villefort, senza ritornare su ciò che aveva detto, uscì accompagnato dalle lagrime e dai lamenti di tutte le persone di casa. La sera stessa, tutti i domestici di Villefort che si erano radunati in cucina, e che avevano lungamente parlato fra loro, vennero a domandare alla sig.ª de Villefort il permesso di ritirarsi dal servizio. Nessuna istanza, nessuna proposizione di aumento di paga potè trattenerli; a tutte le parole, essi rispondevano: — Vogliamo andarcene perchè la morte è entrata nella casa. — Essi partiron dunque ad onta delle preghiere che loro furono fatte, testimoniando i loro vivissimi dispiaceri, per dovere abbandonare così buoni padroni, e particolarmente madamigella Valentina tanto buona, tanto benefattrice, tanto affabile; Villefort a queste parole guardò Valentina. Ella piangeva. Cosa strana! in mezzo all’emozione che gli fecero provare queste lagrime, guardò ancora la sig.ª de Villefort, e gli sembrò che un sorriso fuggitivo e sinistro fosse passato sulle sue labbra sottili, come quelle meteore che si vedono strisciare, funeste fra due nubi nel fondo di un cielo tempestoso. LXXX. — LA CAMERA DEL FORNAIO IN RITIRO. La sera stessa del giorno in cui il conte de Morcerf era uscito da Danglars con una vergogna ed un furore, che il rifiuto del banchiere rendè concepibile, il signor Cavalcanti, coi capelli arricciati e lucenti, i baffi appuntati, i guanti bianchi che si modellavano sulle unghie, era entrato, quasi in piedi sul suo _phaéton_, nel cortile del banchiere della Chaussée-d’Antin. In capo a dieci minuti di presentazione nel salone, aveva ritrovato il mezzo di confinare Danglars nel vano di una finestra, e là dopo un destro preambolo, aveva esposto i tormenti della sua vita dopo la partenza del nobile suo padre. Dopo questa partenza egli aveva, nella famiglia del banchiere, ove era stato ricevuto come un figlio, trovato tutte le garenzie di felicità, che un uomo deve sempre cercare prima dei capricci della passione; ed in quanto alla passione stessa, aveva avuto la felicità di ritrovarla nei begli occhi di madamigella Danglars. Danglars ascoltava coll’attenzione più profonda; erano già due o tre giorni che aspettava questa dichiarazione, e quando finalmente giunse, il suo occhio si dilatò di tanto, quanto si era corrugato ascoltando Morcerf. Ciò non per tanto non volle accogliere la proposizione del giovine, senza fare qualche osservazione di coscienza: — Sig. Andrea, gli disse, non siete ancora un po’ troppo giovine per pensare ad ammogliarvi? — Ma no, sig., riprese Cavalcanti; almeno non lo trovo; in Italia i gran signori in generale, si maritano giovini; questo è un costume logico: la vita è così piena di casi, che si deve afferrare la fortuna tosto che passa alla nostra portata. — Però, signore, disse Danglars, ammettendo che le vostre proposizioni, che mi onorano, siano aggradite da mia moglie e da mia figlia, con chi tratteremo gl’interessi? questo mi sembra un affare importante che i soli padri sanno convenevolmente trattare per la felicità dei loro figli. — Signore, mio padre è un uomo saggio, pieno di convenienza e di ragione. Egli ha preveduto il caso probabile che io potessi provare il desiderio di stabilirmi in Francia: egli dunque partendo, mi ha lasciato con tutte le carte che contestano la mia identità, ed una lettera, colla quale mi assicura, nel caso che io faccia una scelta che gli sia aggradita, 150 mila lire di rendita dal giorno del mio matrimonio. Da quanto posso giudicare, questo è il quarto delle rendite di mio padre. — Ma, disse Danglars, ho sempre avuto intenzione di dare a mia figlia 500 mila franchi maritandola; ella inoltre è la mia sola erede. — Ebbene! disse Andrea, vedete, la cosa sarà per il meglio, supponendo che la mia domanda non sia respinta dalla baronessa Danglars, e da madamigella Eugenia, eccoci alla testa di 165 mila lire di rendita. Supponiamo che io ottenga dal marchese che invece di pagarmi la rendita, mi ceda il capitale (cosa che non sarà facile, lo so bene, ma neppure impossibile), voi farete fruttare questi due o tre milioni, e due o tre milioni fra le vostre abili mani, possono sempre riportare il dieci per cento. — Io non prendo mai che al quattro, disse il banchiere, ed anche al tre e mezzo. Ma a mio genero prenderò al cinque, e poi divideremo i benefizi. — Ebbene! a meraviglia, suocero, — disse Cavalcanti lasciandosi trasportare qualche poco da quella volgare natura che ad onta dei suoi sforzi, faceva a quando a quando oscurare la vernice aristocratica con cui cercava di coprirla. Ma ricomponendosi riprese: — Oh! perdono, signore, diss’egli, vedete, la sola speranza mi rende quasi pazzo, che sarebbe dunque la realtà? — Ma, disse Danglars, che, dal suo canto, non s’accorgeva quanto questa conversazione, disinteressata sulle prime, piegava prontamente all’agenzia d’affari, vi è senza dubbio una porzione della vostra fortuna che vostro padre non può rifiutarvi? — E quale? domandò il giovine. — Quella che vi proviene da vostra madre. — Certamente quella che viene da mia madre Oliva Corsinari. — E a quanto può ammontare questa fortuna? — In fede mia, disse Andrea, vi assicuro, che non ho mai fermato il mio pensiero su questo argomento; ma stimo che possa essere per lo meno di due milioni. Danglars risentì quella specie di soffocamento inebriante che sente o l’avaro che ritrova un tesoro perduto, o l’uomo vicino ad annegarsi che sente sotto i suoi piedi la terra solida invece del vuoto nel quale stava per ingoiarsi. — Ebbene, signore, disse Andrea salutando il banchiere con un tenero rispetto, posso sperare?... — Sig. Andrea, disse Danglars, sperate, e credete bene che se nessun ostacolo per parte vostra non arresta l’andamento di questo affare, si può ritenere concluso. — Ah! mi penetrate di gioia, signore! disse Andrea. — Ma, riprese Danglars riflettendo, come accade che il sig. conte di Monte-Cristo, vostro protettore in questo mondo parigino, non sia venuto con voi a farmi questa domanda? Andrea arrossì impercettibilmente: — Io vengo dalla casa del conte, diss’egli: è incontrastabile che egli sia un uomo grazioso, ma è di una originalità inconcepibile; mi ha grandemente approvato, anzi mi ha detto che non credeva che mio padre esitasse a darmi il capitale invece della rendita; mi ha promesso la sua influenza per ottenere questo da lui; ma mi ha dichiarato che personalmente non aveva mai preso, e non prenderebbe mai sopra di sè la garenzia di fare una domanda di matrimonio: debbo rendergli però questa giustizia, si è degnato di aggiungere che, se egli aveva mai deplorata questa repugnanza, era in mio riguardo, poichè pensava che la ideata unione sarebbe felice e bene assortita. Del rimanente, se non vuol fare cosa alcuna officialmente, si riserva a rispondervi, mi ha detto, quando voi gli parlerete... — Benissimo. — Ora, disse Andrea col suo grazioso sorriso, ho finito di parlare al suocero, e m’indirizzo al banchiere. — Che volete da lui, vediamo? disse ridendo Danglars. — Dopo domani devo riscuotere qualche cosa, come quattro mila fr. da voi, ma il conte ha capito che il mese nel quale siamo per entrare mi condurrebbe forse a fare un di più di spese, per le quali la mia piccola rendita da celibe non mi sarebbe sufficiente, ed ecco un bono di ventimila fr. che egli mi ha, non dirò regalato, ma offerto. È firmato dalla sua mano come vedete; vi conviene? — Portatemene come questo per un milione, ed io ve lo prendo, disse Danglars mettendolo nella saccoccia; ditemi a che ora domani vi fa comodo, ed il mio giovine di cassa passerà da voi coll’ammontare di venti mila franchi. — Alle dieci del mattino, se volete; più presto sarà meglio; vorrei domani andare in campagna. — Sia; alle dieci; siete sempre all’albergo dei Principi? — Sì. — La dimane, con una esattezza che faceva onore alla puntualità del banchiere, i 24 mila fr. erano dal giovine, che uscì effettivamente, lasciando al portiere duecento fr. per Caderousse. Questa uscita, per parte di Andrea, aveva per scopo principale quello di evitare il pericoloso amico: per cui rientrò la sera il più tardi possibile. Ma appena ebbe messo piede sul lastricato del cortile, che ritrovò davanti a sè il portinaro dell’Albergo, che lo aspettava col berretto in mano. — Signore, diss’egli, quell’uomo è venuto. — Qual uomo? domandò negligentemente Andrea, come se avesse dimenticato colui, del quale al contrario si ricordava troppo bene. — Quello a cui V. E. ha fatto quel piccolo assegno. — Ah! sì, disse Andrea, quell’antico servitore di mio padre. Ebbene, gli avete dati i 200 fr. che vi ho lasciati? — Sì, eccellenza, precisamente. (Andrea si faceva chiamare eccellenza) Ma, continuò il portinaro, non ha voluto prenderli. — Andrea impallidì; ma essendo notte, nessuno lo vide impallidire: — Come! non ha voluto prenderli? diss’egli con voce maggiormente commossa. — No, voleva parlare a V. E. Ho risposto che eravate uscito, egli insistè, ma finalmente è sembrato convincersi, e mi ha data questa lettera che portava seco già sigillata. — Vediamo, disse Andrea. — Egli lesse al chiarore del fanale del _phaéton_: «Tu sai dove abito; domani ti aspetto alle nove del mattino.» Andrea guardò il sigillo per vedere se era stato forzato, e se sguardi indiscreti avevano potuto penetrare nell’interno della lettera; ma ella era piegata in tale modo, con un tal lusso di pieghe e di angoli, che per leggerla avrebbe abbisognato rompere il sigillo, il quale era perfettamente intatto. — Benissimo, diss’egli. Povero uomo! è un eccellente creatura. — E lasciò il portinaro edificato da queste parole non sapendo chi dovesse ammirare di più, se il giovine padrone, o il vecchio servitore. — Staccate presto, e salite da me, disse Andrea al _groom_. Ed in due salti il giovine fu nella sua camera, e bruciò la lettera di Caderousse, di cui fece sparire per fino le ceneri. Egli terminava quest’operazione quando entrava il domestico. — Tu sei della mia stessa corporatura, Pietro. — Ho questo onore, eccellenza, rispose il servitore. — Tu devi avere un’altra livrea nuova che ti fu portata ieri; siccome ho alcune cosucce da intendermi con una crestaia alla quale non posso dire nè il mio nome, nè la mia condizione; prestami la tua livrea, e dammi pure le tue carte affinchè io possa, se fa bisogno, dormire in un albergo. Pietro obbedì. Cinque minuti dopo, Andrea compiutamente travestito prendeva un _cabriolet_, e si faceva condurre all’albergo del Caval Rosso, a Picpus. Il giorno dopo uscì da quest’albergo senza essere osservato; discese il sobborgo Sant’Antonio, seguì il baluardo fino alla strada Ménilmontant, e fermandosi alla porta della terza casa a sinistra, cercava in mancanza di portinaro, da chi prendere informazioni. — Che cercate, mio bel giovinotto? domandò la fruttaiola di faccia. — Il sig. Pailletin, mia cara, rispose Andrea. — Un fornaio ritirato? domandò la fruttaiola. — Precisamente. — Nel fondo del cortile a sinistra al terzo piano. Andrea prese la strada indicata, ed al terzo piano ritrovò una zampa di lepre, che tirò a sè con un sentimento di cattivo umore, di cui si risentì lo stesso movimento precipitato del campanello. Un momento dopo la figura di Caderousse comparve sotto la gelosia praticata nella porta. — Ah! tu sei esatto. E nel dir così tolse i catenacci. — Per bacco! disse Andrea entrando. — E gittò avanti a sè il berretto di livrea, il quale, non essendovi sedia, cadde a terra, e fece rotolando il giro della camera. — Andiamo, andiamo, disse Caderousse, non t’inquietare, mio piccolo, guarda un poco la colazione che avremo: niente di meno che tutte cose che ti piacciono, tuono dell’aria! Andrea sentì infatto un odore di cucina, i cui grossolani aromi non mancavano di una certa attrattiva per uno stomaco affamato: era la mescolanza dello strutto e dell’aglio che distinguevano la cucina provenzale di una classe inferiore: e soprattutto l’aspro profumo della noce moscata e del garofano. Tutto ciò esalava da due piatti pieni e coperti, posti sopra due fornelli, e da una casseruola che arrostiva nel forno da campagna. Nella stanza vicina Andrea vide inoltre una tavola molto pulita, preparata con due piatti, due bottiglie di vino sigillate, l’una di verde, e l’altra di rosso, di una buona misura di acquavite in una bottiglia, ed una fruttiera in forma di una gran foglia di cavolo, posta con arte sopra una salvietta pulita. — Che te ne sembra, mio piccolo? disse Caderousse; hein! come tutto ciò imbalsama! ah diavolo! lo so bene, laggiù io era cuoco: ti ricordi come si leccavano le dita alla mia cucina? e tu pel primo ne hai gustato dei miei intingoli, e non li disprezzavi, credo? — E Caderousse si mise a preparare un supplemento di cipolle. — Sta bene, sta bene, disse Andrea col male umore; per bacco! se mi hai incomodato solo per venire a fare colazione con te, il diavolo ti porti! — Figlio mio, disse sentenziosamente Caderousse, mangiando si parla; e poi, ingrato che sei! non hai dunque piacere a vedere un poco il tuo amico? io ne piango dalla contentezza. — Caderousse infatto piangeva realmente; solo sarebbe stato difficile dire, se era la gioia o le cipolle che portavano una leggera irritazione sulla glandula lagrimale dell’antico albergatore del Ponte di Gard. — Taci dunque ipocrita! disse Andrea, mi ami tu? — Sì, io t’amo, o il diavolo mi porti: è una debolezza, disse Caderousse, lo so bene, ma essa è più forte di me. — Ciò non ti ha impedito di avermi fatto venir qui con qualche perfidia. — Via dunque! disse Caderousse asciugando al suo grembiale il largo coltello; se non ti amassi, sopporterei forse la vita miserabile che mi fai fare? guarda un poco, tu hai sulle spalle l’abito del tuo domestico, dunque, hai un domestico, io non ne ho, e sono costretto di pulire i miei legumi da me stesso: tu disprezzi la mia cucina, perchè pranzi, o alla tavola rotonda, o all’albergo dei Principi, o al caffè di Parigi. Ebbene! io pure potrei avere un domestico, potrei avere un _tilbury_; potrei pranzare ove volessi; ebbene! perchè dunque me ne privo? per non darti della pena, mio piccolo Benedetto. Parla, confessa soltanto che lo potrei, hein! — Ed uno sguardo perfettamente chiaro di Caderousse terminò il senso della frase. — Allora, disse Andrea, ammettiamo che mi ami: allora perchè esigi che io venga a far colazione teco? — Ma per vederti, mio piccolo. — Per vedermi, e a che serve? dappoichè abbiamo già fatto le nostre condizioni... — Eh! caro amico, disse Caderousse, vi sono forse testamenti senza codicilli? Ma tu sei venuto primieramente per far colazione, non è vero? ebbene! andiamo, sediamoci, e cominciamo con queste alici e questo butirro fresco che ho messo sopra delle foglie di vite espressamente per te, cattivo... Ah! sì, tu guardi la mia camera, le mie quattro sedie di paglia, le mie stampe a tre fr. il quadro. Diavolo! questo non è l’albergo dei Principi. — Andiamo, sei già disgustato del presente; non sei più felice, tu che non domandavi che di avere l’aspetto di un fornaro in ritiro? — Caderousse mandò un sospiro. — Ebbene, che hai a dirmi? hai veduto il tuo sogno effettuato. — Ho a dirti che fu un sogno; un fornaio in ritiro, mio povero Benedetto, è ricco, cioè ha rendite. — Per bacco, tu ne hai delle rendite! — Io? — Sì tu, poichè ti ho assegnato duecento fr. Caderousse si strinse nelle spalle: — È una cosa umiliante, diss’egli, di ricevere in tal modo del danaro dato di mala voglia, che può mancare da un giorno all’altro: vedi bene che sono obbligato di fare delle economie pel caso in cui la tua prosperità non durasse. Eh! amico mio, la fortuna è incostante, come diceva l’elemosiniere del... reggimento: io so bene, scellerato, che la tua prosperità è immensa; tu stai per isposare la figlia di Danglars. — Come! di Danglars? — Eh, certamente, di Danglars! vi è forse bisogno che dica del barone Danglars? sarebbe lo stesso che dicessi del conte Benedetto... Era un mio amico Danglars, e se non aveva la memoria così debole, doveva invitarmi alle tue nozze, attesochè egli è venuto alle mie... Sì, sì, sì, alle mie! diavolo! egli non era così superbo in quei tempi, era piccolo commesso presso l’ottimo sig. Morrel. Ho pranzato più di una volta con lui ed il conte di Morcerf... vedi che ho delle belle conoscenze, e che se volessi coltivarle un poco, ci potremmo incontrare nelle stesse conversazioni. — Su via! la tua gelosia ti fa vedere l’arcobaleno. — Sta bene, Benedetto mio, si sa ciò che si dice. Forse un giorno si potrà mettere il proprio abito da festa, e si andrà a dire ad un gran portone: «una decorazione, se vi piace!» Mentre aspettiamo, siedi, e mangiamo. Caderousse dette l’esempio, e si mise a far colazione con buon appetito, mentre faceva l’elogio di tutte le vivande che metteva in tavola davanti al suo ospite. Questi sembrava aver preso la sua risoluzione, stappò bravamente le bottiglie, ed attaccò un arrostito merluzzo condito coll’aglio ed olio. — Ah! compare, disse Caderousse, sembra che tu ti raccomodi col tuo antico padrone di locanda? — In fede mia, sì, rispose Andrea, presso il quale, giovine e vigoroso come era, sul momento l’appetito la vinceva sopra ogni altra cosa. — E trovi che questo è buono, birbo? — Tanto buono che non capisco, come un uomo che cucina e che mangia così buoni bocconi, possa trovare che la vita è cattiva. — Vedi tu, disse Caderousse, egli è perchè tutta la mia felicità è guastata da un sol pensiero. — E quale? — Quello di vivere alle spese di un amico, io che ho sempre guadagnata la mia esistenza da me solo. — Oh! oh! che ciò non ti dia pensiero, disse Andrea, ne ho abbastanza per due, non t’incomodare. — No, davvero: tu mi crederai se vuoi, ma alla fine di ogni mese, provo dei rimorsi. — Buon Caderousse! — Al punto che ieri non ho voluto prendere i 200 fr. — Sì, perchè volevi parlar meco; ma fu veramente per rimorsi, vediamo? — Il vero rimorso; e poi mi era venuta un’idea. Andrea fremette; egli fremeva sempre quando venivano delle idee a Caderousse. — È una cosa trista, vedi tu, continuò, quella di essere sempre nell’aspettativa della fine del mese. — Eh! disse filosoficamente Andrea, risoluto di far parlare il suo amico, la vita non viene da noi passata in una continua aspettativa? io per esempio, faccio altra cosa? ebbene, ho pazienza, non è vero? — Sì, perchè invece di aspettare duecento miserabili fr. ne aspetti cinque o sei mila, forse dieci mila, fors’anche dodici, mila; poichè sei un misterioso; laggiù avevi sempre qualche cosarella che cercavi di nascondere a questo povero amico Caderousse. Fortunatamente che l’amico Caderousse di cui si parla aveva il naso fino. — Andiamo, ecco che ti metti di nuovo a divergere il discorso, disse Andrea, a parlare, e riparlare sempre del passato! ma a che pro rivangare certe cose, te lo domando? — Ah! è perchè tu hai ventun’anno, e puoi dimenticare il passato; io ne ho cinquanta e son costretto di ricordarmene. Ma non importa, ritorniamo agli affari. — Sì. — Io voleva dire, che se fossi al tuo posto... — Ebbene? — Io realizzerei... — Come tu realizzeresti... — Sì, domanderei un semestre anticipato, sia sotto il pretesto di diventare elettore, e di voler comprare una fattoria, poi col mio semestre me ne scapperei. — Io? to, to, fece Andrea, questo forse non è mal pensato! — Mio caro amico disse Caderousse, mangia alla mia cucina, e segui i miei consigli; non te ne troverai male, nè moralmente, nè fisicamente. — Ebbene! ma, disse Andrea, perchè non segui tu stesso il consiglio che mi dai? perchè non realizzi tu un semestre, od anche un anno, e non ti ritiri a Bruxelles? invece di avere le sembianze di un fornaro in ritiro, avrai quelle di un fallito in esercizio delle sue funzioni: ciò è pensato bene. — Ma come diavolo vuoi tu che mi ritiri con 1200 fr.? — Ah! Caderousse, disse Andrea, come diventi esigente, son due mesi che morivi dalla fame. — L’appetito viene mangiando, disse Caderousse mostrando i denti come una scimia quando ride, e come una tigre quando ruggisce. Così, aggiunse egli troncando con questi medesimi denti, bianchi ed acuti ad onta dell’età, un’enorme boccata di pane, ho stabilito il mio disegno. I disegni di Caderousse spaventavano Andrea ancora più delle sue idee; le idee non erano che il germe, il disegno era la realizzazione. — Vediamo questo disegno, diss’egli, dev’esser bello! — E perchè no? il disegno mercè il quale abbiam lasciato lo stabilimento del sig. Chose, da chi veniva, hein? da me, suppongo: non era cattivo, mi sembra, perchè eccoci qua. — Io non dico, riprese Andrea, che qualche volta non ne abbia dei buoni; ma in fine vediamo la tua idea. — Vediamo, proseguì Caderousse, puoi tu, tu, senza sborsare un soldo, farmi avere un 15 mila fr.?... No, non è abbastanza 15 mila fr. non posso ritornare un uomo onesto per meno di trenta mila fr. — No, rispose seccamente Andrea, no, non lo posso. — Tu non mi hai capito, a quanto sembra, rispose freddamente Caderousse con aspetto tranquillo: ti ho detto, senza sborsare un soldo. — Tu certamente non vorrai che io rubi, per guastare tutto il mio affare, e col mio anche il tuo, e perchè abbiano poi a ricondurci laggiù? — Oh! io, disse Caderousse, per me, è lo stesso che mi riprendano, o no; ho un corpo furbo, un corpo particolare, mi annoio qualche volta perfino dei miei camerati; non sono come te, uomo senza cuore, che non vorresti rivederli più! Andrea fece più che fremere, questa volta impallidì, e disse: — Vediamo, Caderousse, non facciamo bestialità. — Eh! no, sta tranquillo, mio caro Benedetto; indicami piuttosto un piccolo mezzo di guadagnare questi trenta mila fr. senza mischiarti di niente; tu mi lascerai fare, ecco tutto! — Ebbene! vedrò, cercherò! disse Andrea. — Ma mentre si aspetta porterai la mia mesata almeno a 500 fr. non è vero? io ho una manìa, vorrei prendermi una governante. — Ebbene, avrai i tuoi 500 fr., disse Andrea; ma questo sarà troppo pesante per me, povero Caderousse... Tu abusi.... — Bah! giacchè tu attingi in casse che non hanno fondo. — Questa è la verità, ed il mio protettore è eccellente per me. — Questo caro protettore, disse Caderousse, non ti fa dunque un assegno mensile di...? — Cinque mila franchi, disse Andrea. — Tante migliaia, quante centinaia vuoi darmi, riprese Caderousse; in verità non vi sono che i bastardi che abbiano fortuna. Cinque mila franchi il mese... Che diavolo puoi farti di tutta questa somma? — Eh! mio Dio! è ben presto spesa; così io pure sono come te, amerei meglio avere il mio capitale. — Un capitale!... sì... capisco, tutti desidererebbero avere un capitale. — Ebbene! me ne verrà fatto uno. — E chi è che te lo farà? il tuo principe? — Sì, il mio principe; disgraziatamente bisogna che io aspetti. — Che aspetti che cosa? domandò Caderousse. — La sua morte. — La morte del tuo Principe? — Sì. — Ed in che modo? — Perchè sono stato notato nel suo testamento. — Davvero? — Parola d’onore! — Per quanto? — Per 500 mila fr. — Niente altro che questo? grazia del poco! — La cosa sta, come te la dico. — Su, via, non è possibile. — Caderousse; tu sei mio amico? — Ed in che modo! per la vita, e per la morte. — Ebbene ti dirò un segreto. — Di’. — Io credo... Andrea si fermò guardando intorno intorno. — Che credi...? non aver paura, per bacco! siam soli. — Credo di aver ritrovato mio padre. — Il tuo vero padre? — Sì. — Non il padre Cavalcanti? — No, poichè quello è partito; il vero, come tu dici. — E questo padre è... — Ebbene! Caderousse, questi è il conte di Monte-Cristo. — Bah! — Sì; tu capisci; allora tutto si spiega. Egli non può confessarmi ciò ad alta voce, per quanto sembra, ma mi fa riconoscere dal sig. Cavalcanti al quale regala 50 mila fr. per questo. — Cinquanta mila fr. per esser tuo padre! ma avrei accettato per la metà del prezzo, forse per ventimila, per quindicimila; come non hai pensato a me? — E che sapeva tutto questo, io? tutto ciò che si è combinato fu combinato nella mia assenza, mentre che eravam laggiù. — Ah! è vero, e tu dici che nel suo testamento?... — Egli mi lascia 500 mila lire. — Ne sei tu sicuro? — Egli me lo ha mostrato; ma questo non è il tutto. — Vi sarà un codicillo, come ti diceva poco fa? — Probabilmente. — E in questo codicillo? — Egli mi riconosce. — Oh! il buon uomo che è tuo padre! disse Caderousse facendo volare per l’aria una salvietta, che riprendeva dipoi con ambe le mani. — Ecco! di’ ora che ho dei segreti per te. — No, e la tua confidenza ti onora ai miei occhi. E il tuo principe padre è dunque ricco, ricchissimo? — Lo credo bene. Egli non conosce a che cosa ammonti la sua fortuna — È egli possibile? — Diamine! lo vedo bene, io che sono ricevuto ad ogni ora. L’altro giorno vi era un giovine di banca che gli portava 50 mila franchi in un portafoglio grosso come un piatto; ieri il suo banchiere che portava cento mila fr. in oro. Caderousse era stupefatto; gli sembrava che le parole del giovine avessero il suono di metallo, e che egli sentisse precipitare delle cascate di luigi: — E tu vai in quella casa? gridò egli con ingenuità. — Quando io voglio. — Caderousse rimase pensieroso un momento. Era facile vedere che egli ruminava nel suo spirito qualche pensiero. Poi d’improvviso: — Quanto amerei vedere tutto ciò, gridò egli, e come tutto ciò deve esser bello! — Il fatto è, disse Andrea, che è magnifico! — E non abita all’entrata dei Campi-Elisi? — Al n.º 30. — Ah! disse Caderousse, al n.º 30? — Sì, una bella casa isolata fra il cortile, ed il giardino, non vi è che quella. — È possibile, ma non è l’esterno che mi occupa, è l’interno: i bei mobili, hein! che cosa vi dev’esser mai là dentro? — Hai tu veduto qualche volta la Tuglierie? — No. — Ebbene, è ancora più bello. — Dici davvero, Andrea? dev’essere cosa buona l’abbassarsi quando questo buon sig. di Monte-Cristo lascia cadere la sua borsa? — Ah! mio Dio, non val la pena di aspettare questo momento, disse Andrea, il danaro abbonda in quella casa come i frutti in un giardino. — Di’, dunque, dovresti condurmivi un giorno con te... — È mai possibile, e con qual titolo? — Hai ragione, ma tu mi hai fatto venire l’acqua alla bocca, e bisogna assolutamente che io veda tutto ciò; troverò un mezzo. — Non facciamo sciocchezze, Caderousse! — Io mi presenterò come spazzatore. — Non ne ha bisogno, perchè vi son tappeti in ogni luogo. — Ah! peccato! allora bisogna che io mi contenti di vedere ciò con l’immaginazione. — Questo è ciò che puoi fare di meglio, credimi. — Cerca almeno di farmi comprendere quel che può essere. — Come vuoi tu? — Niente di più facile; il palazzo è grande? — Nè troppo grande, nè troppo piccolo. — Ma come è distribuito? — Diamine! avrei bisogno dell’inchiostro e della carta per fartene la pianta. — Eccone! disse avidamente Caderousse. — Ed andò a cercare sopra un vecchio scrittoio un foglio di carta bianca, l’inchiostro, ed una penna: — Prendi, tracciamo tutto ciò sulla carta, figlio mio. Andrea prese la penna con un impercettibile sorriso, e cominciò: — La casa, come ti ho detto, è posta fra un giardino ed il cortile; vedi in questo modo. — Ed Andrea fece la pianta del giardino, del cortile, e della casa. — Le mura sono alte? — No; otto, o dieci piedi tutto al più. — Ciò non è troppo prudente, disse Caderousse. — Nel cortile vi sono dei cassettoni d’aranci, dei praticelli, dei fiori, dei cespugli. — Ma non dei lacci da lupo? — No. — Le scuderie? — Lateralmente alle due parti del cancello, vedi tu, là. — Ed Andrea continuava la pianta. — Vediamo il pian terreno, disse Caderousse. — Al pian terreno, sala da pranzo, due salotti, sala del bigliardo, scala nel vestibolo, e piccola scala segreta. — Le finestre? — Finestre magnifiche, sì belle, e larghe che in fede mia, credo che un uomo della mia persona passerebbe per il vano di uno di quei cristalli. — E perchè diavolo si fa uso delle scale quando si han simili finestre? — Che vuoi tu? il lusso. — Ma vi sono persiane? — Sì, persiane, ma di cui non si servono mai. È un originale Monte-Cristo che ama vedere il cielo anche durante la notte. — Ed i domestici dove dormono? — Oh! essi hanno la loro casa particolare. Figuratevi un buon padiglione entrando a dritta, dove si custodiscono le scale; ebbene! sopra questo padiglione vi è una quantità di camere per i domestici con campanelli corrispondenti alle camere. — Oh diavolo, dei campanelli! — Che dici?... — Io, niente. Dico che costerà caro a situare i campanelli; ed a che servono? te lo domando? — In altri tempi vi era un cane che passeggiava la notte nel cortile, ma lo hanno condotto alla casa d’Auteuil, tu sai a quella in cui sei venuto? — Sì. — Io glielo diceva anche ieri: «È una cosa imprudente per parte vostra, sig. conte; perchè quando andate ad Auteuil, e conducete i vostri domestici, la casa resta sola.» — «Ebbene? domandò; e dopo?» — «Ebbene! un qualche bel giorno vi ruberanno.» — E che cosa ha egli risposto? — Ha risposto: «ebbene! che danno mi porta se qualcuno mi ruba?» — Andrea, egli avrà un qualche scrigno a macchina. — Ed in che modo? — Sì, che prende il ladro per una briglia, e che lo giuoca in aria. Mi è stato detto che all’ultima esposizione ve ne erano di questo genere. — Egli non ha che un semplice scrigno di acacia, al quale ho sempre veduta attaccata la chiave. — E non gli rubano mai? — No, le persone che lo servono gli sono tutte affezionate. — Quanto vi sarà in quello scrigno, hein! quanta moneta? — Vi sarà forse... non si può sapere ciò che vi sarà. — E dove sta questo? — Al primo piano. — Fammi dunque la pianta del primo piano, mio piccolo, come mi hai fatta quella del pian terreno. — È facile. — Ed Andrea riprese la penna: — Al primo piano, vedi vi è l’anticamera, gran salone; a destra del salone biblioteca e gabinetto da lavoro; a sinistra del salone una camera da dormire, e gabinetto da toletta, ed in questo precisamente sta il famoso scrigno. — Vi sono finestre al gabinetto di toletta? — Due, una qua, e una là. — E Andrea disegnò due finestre alla camera che, sul primo, faceva l’angolo, e che figurava come un quadrato meno grande, aggiunto al quadrato lungo della camera da dormire. Caderousse divenne astratto: — E va spesso ad Auteuil? — Due tre volte la settimana; domani per esempio deve passarvi la giornata e la notte. — Ne sei ben sicuro? — Mi ha invitato ad andarvi a pranzo. — Alla buon’ora, ecco ciò che si può chiamare esistenza! disse Caderousse; casa in città, casa in campagna. — Ecco ciò che vuol dir esser ricchi. — E ci vai tu, a pranzo. — Probabilmente. — Quando vi pranzi, vi dormi ancora? — Quando ciò mi fa piacere; sono in casa del conte, come se fossi in casa mia. — Caderousse guardò il giovine come per strappargli la verità dal fondo del cuore. Ma Andrea cavò un porta-sigari di saccoccia, ne prese uno d’Avana, l’accese tranquillamente, e cominciò a fumarlo senza affettazione. — Quando vuoi i tuoi 500 fr.? domandò a Caderousse. — Ma anche subito se tu li hai. — Andrea tirò fuori di saccoccia 25 luigi. — Dei gialletti? disse Caderousse; no grazie. — Ebbene li disprezzi? — Al contrario li stimo; ma non ne voglio. — Tu guadagnerai nel cambio, imbecille: l’oro ha un aggio di cinque soldi. — Sarà, e poi il cambia monete fa seguire l’amico Caderousse, e poi gli mettono le mani sopra, e poi bisognerà che dica quali sono i suoi fattori che gli pagano queste rendite in oro. Non facciamo bestialità, mio piccolo; argento semplicemente, pezzi rotondi coll’effigie di un principe qualunque. Tutti al mondo possono avere una moneta da cinque fr. — Capisci bene che non posso avere 500 fr. d’argento in saccoccia; avrei avuto bisogno di un facchino. — Ebbene! lasciali dunque al tuo portinaro; è un bravo uomo, andrò a prenderli. — Oggi? — No, domani, oggi non ho il tempo. — Ebbene, sia domani, quando parto per Auteuil, li lascerò. — Posso contarci sopra? — Perfettamente. — Egli è perchè vado a fissare una governante. — Fissa pure, ma tutto sarà finito, n’è vero? non mi tormenterai più? — Giammai. — Caderousse era diventato così meditabondo, che Andrea temè di essere forzato ad accorgersi di questo cambiamento. Raddoppiò adunque la sua allegria e la sua indifferenza. — Come sei allegro, disse Caderousse, si direbbe che già possiedi la tua eredità. — No disgraziatamente!... ma il giorno in cui la riceverò... mi ricorderò degli amici, non ti dico che questo. — Sì, siccome tu hai buona memoria, giustamente... — Che vuoi? credeva che tu volessi rimproverarmi. — Io? oh! quale idea! io che al contrario ti voglio anche dare un consiglio da amico... — E quale? — Quello di lasciar qui, quel diamante che tu hai al dito. E che! tu vuoi dunque farci prendere tutti e due, a fare simili bestialità? — E perchè? disse Andrea. — Come! tu prendi una livrea, ti travesti da servitore, e conservi al dito un diamante di quattro in cinque mila fr.? — Peste! come stimi giusto! perchè non ti fanno commissario-stimatore? — Conosco il valore dei diamanti perchè ne ho avuti. — Ti consiglio a vantartene! disse Andrea, che, senza corrucciarsi, come lo temeva Caderousse per questa nuova estorsione, lasciò con tutta compiacenza l’anello. — Caderousse lo guardò tanto da vicino, che fece chiaramente conoscere, che egli esaminava se gli spigoli del taglio erano ben vivi. — È un diamante falso, disse Caderousse. — Su via! fece Andrea, scherzi? — Oh! non ti affliggere, si può provare. — E Caderousse andò alla finestra e strisciando il diamante sul vetro, l’intese crepitare: — _Confiteor_! disse Caderousse mettendosi lo anello nel dito piccolo, mi sono sbagliato; ma questi ladri di gioiellieri imitano tanto bene le pietre vere, che non si ha più coraggio di andare a rubare nelle loro botteghe, e questo è ancora un altro ramo d’industria paralizzato. — Ebbene! disse Andrea, hai finito? hai ancora qualche cosa da domandarmi? ti abbisogna il mio vestito, il mio berretto? Non ti prender pena fino a tanto che ci sei. — No, alla fine tu sei un bravo compagno. Non ti trattengo di più, e cercherò di guarire la mia ambizione. — Ma guardati che nel vendere questo diamante, non ti accada ciò che temevi per le monete d’oro. — Io non lo venderò, sta pure tranquillo. — No, da oggi a domani almeno, pensò il giovine. — Furbo felice! disse Caderousse, tu te ne vai a trovare i tuoi servitori, i tuoi cavalli, la tua carrozza, e la tua fidanzata? — Ma, sì, disse Andrea. — Di’ dunque, spero che tu mi farai un bel regalo di nozze il giorno che sposerai la figlia dell’amico mio Danglars? — Ti ho già detto, che è una immaginazione che ti sei messo in testa. — E quanto di dote? — Ma ti dico... — Un milione? Andrea alzò le spalle. — Vada per un milione, disse Caderousse; tu non ne avrai mai tanti, quanti te ne desidero. — Grazie, disse il giovine. — Oh! è di buon cuore, aggiunse Caderousse ridendo del suo riso grossolano. Aspetta che ti accompagni. — Non ne val la pena. — Tutt’altro. — E perchè? — Oh! perchè vi è un piccolo segreto alla porta; cautela che ho creduto di dover adottare; serratura Huret e Fichet, riveduta e corretta da Gaspero Caderousse: te ne fabbricherò una simile, quando diventerai capitalista. — Grazie; ti farò prevenire otto giorni prima. Essi si separarono. Caderousse restò sul pianerottolo, fino a che ebbe veduto Andrea, non solo discendere dai tre piani, ma ancora traversare il cortile. Allora rientrò precipitosamente, richiuse la porta con cura, e si mise a studiare, come un profondo architetto, la pianta che gli aveva lasciata Andrea. — Questo caro Benedetto, diss’egli, credo non sarà dispiaciuto di ereditare, e che quegli che solleciterà il giorno in cui deve palpare i suoi 500 mila fr. non sarà il suo più cattivo amico. LXXXI. — LA ROTTURA. La dimane del giorno in cui ebbe luogo la conversazione che abbiam descritta, il conte di Monte-Cristo partì effettivamente per Auteuil con Alì, diversi domestici ed alcuni cavalli che voleva provare. Ciò che particolarmente aveva determinata questa partenza, alla quale non pensava nemmeno il giorno innanzi, ed alla quale neppure Andrea pensava più di lui, fu l’arrivo di Bertuccio, che ritornato dalla Normandia, portava le notizie della casa e della corvetta. La casa era in ordine, e la corvetta, giunta da otto giorni, era all’àncora in un piccolo seno, ove, dopo adempite tutte le formalità che si esigevano, era pronta, con i suoi sei uomini d’equipaggio, a riprendere il mare. Il conte lodò lo zelo di Bertuccio, e lo invitò a tenersi pronto ad una sollecita partenza, non dovendo il suo soggiorno in Francia prolungarsi al di là di un mese. — Ora, gli diss’egli, posso aver bisogno di andare da Parigi a Trèport in una notte. Voglio dei cambii di cavalli stazionati sulla strada, che mi permettano di fare 50 leghe in dieci ore. — V. E. aveva già manifestato questo desiderio, rispose Bertuccio, ed i cavalli sono già appostati nei luoghi più convenienti; vale a dire in quei villaggi ove ordinariamente non si ferma nessuno. — Sta bene, disse Monte-Cristo, io resto qui un giorno o due, per conseguenza preparatevi. — Allorchè Bertuccio stava per uscire e per ordinare tutto ciò che aveva rapporto a questa soggiorno, Battistino aprì la porta, portando una lettera sopra un vassoio d’argento dorato: — Che venite a far qui? domandò il conte vedendolo tutto coperto di polvere, non vi ho fatto chiamare, mi sembra? Battistino senza rispondere si avvicinò al conte, e gli presentò la lettera. — Importante e pressante, diss’egli. Il conte aprì la lettera e lesse. «Il sig. conte di Monte-Cristo è avvisato che in questa stessa notte, un uomo s’introdurrà nella sua casa dei Campi-Elisi per sottrarre delle carte, ch’egli crede chiuse nel suo scrigno del gabinetto di toletta: si conosce il conte di Monte-Cristo abbastanza coraggioso, per non avere da ricorrere all’intervento della polizia, intervento che potrebbe mettere a rischio grandemente quegli che dà questo avviso. Il sig. conte, sia da un’apertura che metta dalla camera da letto nel gabinetto, sia nascondendosi nel medesimo gabinetto, potrà farsi giustizia da sè stesso. Molte persone e cautele apparenti allontanerebbero certamente il malfattore, e farebbero perdere al sig. di Monte-Cristo l’occasione di conoscere un nemico, che il caso ha fatto scoprire alla persona che dà questo avviso al conte, avviso che non avrebbe forse più l’occasione di rinnovare, se, andando a vuoto questa prima impresa, il malfattore ne ritentasse un’altra.» Il primo movimento del conte fu quello di credere che fosse una furberia del ladro, laccio grossolano, che gli scuopriva un pericolo mediocre per esporlo ad uno più grave. Stava dunque per far portare la lettera ad un commissario di polizia, ad onta della raccomandazione dell’anonimo, quando d’improvviso gli venne l’idea, che poteva essere effettivamente qualche suo nemico particolare, che egli solo poteva riconoscere, e dal quale, se la cosa era così, egli solo poteva trarre partito, come aveva fatto Fiesque del Moro che aveva voluto assassinarlo. Noi conosciamo il conte, non abbiamo quindi bisogno di dire ch’era uno spirito pieno d’audacia e di vigoria, che si contorceva contro l’impossibile con quella energia ch’è la caratteristica degli uomini superiori. Per mezzo della vita che aveva condotta, e per quella risoluzione presa di non addietrare avanti a cosa alcuna, il conte era giunto a gustare delle gioie sconosciute nelle lotte ch’egli imprendeva alle volte contro la natura, e contro il mondo. — Essi non vogliono rubarmi le mie carte, disse Monte-Cristo, vogliono uccidermi; non sono ladri, ma assassini. Non voglio che il sig. Prefetto di polizia si mischi nei miei affari particolari; sono abbastanza ricco, per sgravare in questo il preventivo della sua amministrazione. — Il conte richiamò Battistino, ch’era uscito dalla camera dopo aver data la lettera. — Voi ritornerete a Parigi, e ricondurrete qui tutta la servitù che è rimasta. Ho bisogno che tutti siano qui ad Auteuil. — Ma non resterà dunque nessuno in casa, sig. conte? — No, vi rimarrà il portinaro. — Ma il sig. conte rifletterà, che vi è distanza fra il casotto del portinaro e la casa. — Ebbene? — Ebbene! si potrebbero svaligiare tutti gli appartamenti, senza che il portinaro sentisse il più piccol rumore. — E da chi si dovrebbe fare? — Dai ladri. — Siete uno stupido, Battistino; che i ladri mi svaligino tutta la casa, non mi disgusteranno tanto, quanto un servizio fatto male. — Battistino s’inchinò. — Voi mi avete inteso, disse il conte; conducete qui tutta la servitù, dal primo fino all’ultimo; ma che tutto resti nello stato ordinario: chiuderete le persiane del pianterreno, e nient’altro. — E quelle del primo? — Sapete che non si chiudono mai. Andate. — Il conte fece dire che pranzava nella sua camera, e che non voleva essere servito che da Alì. Pranzò con tranquillità e con la sua abituale sobrietà, e, dopo il pranzo, facendo segno ad Alì di seguirlo, uscì dalla porticina, raggiunse il bosco di Boulogne come se passeggiasse, prese senza affettazione la strada di Parigi, ed al cader della notte si trovò dirimpetto alla sua casa vicino ai Campi-Elisi. Tutto era oscuro: soltanto una debole lampada ardeva nell’alloggio del portinaro, distante circa una quarantina di passi dalla casa, come aveva detto Battistino. Frattanto Monte-Cristo si addossava ad un albero, con quel colpo d’occhio che sbagliava raramente, esplorò il doppio viale, esaminò quelli che passavano, ed affondò uno sguardo nelle strade vicine. In capo a dieci minuti, fu perfettamente convinto che nessuno lo incomodava. Corse alla porta con Alì, entrò precipitosamente, e per una piccola scala di servizio, di cui aveva la chiave, rientrò nella sua camera da dormire senza aprire, nè smuovere una sola tenda, senza che il portinaro potesse neppur dubitare che la casa, che egli credeva vuota, aveva ritrovato il suo principale abitante. Giunto nella camera da dormire, il conte fece segno ad Alì di fermarsi, indi passò nel gabinetto, che esaminò; tutto vi era nello stato abituale. Il prezioso scrigno era al suo posto, e la chiave di contro: egli lo chiuse a doppio giro, prese la chiave, e tornò nella camera da dormire, asportò la ribaditura degli occhielli del catenaccio, e rientrò. In questo mentre, Alì portava sopra una tavola le armi che il conte stesso gli aveva domandate, vale a dire una carabina corta, un paio di pistole a doppio tiro, le cui canne soprapposte permettevano di prendere la mira con tale certezza come se fossero state pistole da bersaglio. Armato in tal guisa, il conte poteva tenere fra le sue mani la vita di cinque uomini suoi nemici. Erano le nove e mezzo circa, il conte ed Alì mangiarono in fretta del pane, e bevettero un bicchiere di vino di Spagna, indi Monte-Cristo fece scorrere uno di quei quadri mobili, che gli permettevano di vedere una stanza stando nell’altra; egli aveva assai vicine le pistole, la carabina; ed Alì, in piedi vicino a lui, teneva alla mano una di quelle azze arabe, che non hanno ancora cangiato forma dall’epoca delle crociate. Da una finestra della camera da dormire, simile a quella del gabinetto, il conte poteva vedere sulla strada. In tal modo passarono due ore; faceva l’oscurità più profonda, e ciò non pertanto Alì, mercè la sua natura selvaggia, ed il conte mercè la facoltà acquistata, distinguevano in questa notte fin la più piccola oscillazione degli alberi nel cortile. Da lungo tempo, il lume dell’alloggio del portinaro era stato spento. Era da presumersi che l’assalto, se pur vi doveva essere, si sarebbe effettuato per mezzo della scalata del pianterreno, e non per mezzo di una scalata data ad una finestra. Nelle idee di Monte-Cristo, i malfattori tentavano alla sua vita, non al suo danaro. Era dunque nella sua camera da dormire, ch’essi si attaccherebbero, e perverrebbero nella sua camera da dormire, sia per la segreta, sia per la finestra del gabinetto. Mise Alì davanti la porta della scala; ed egli continuò a sorvegliare il gabinetto. Le undici e tre quarti suonarono all’orologio degl’Invalidi; il vento di ponente portava col suo umido soffio la lugubre vibrazione dei tre colpi. Allorchè stava per svanire il suono dell’ultimo tocco, il conte credè sentire un romore leggero dalla parte del gabinetto; questo primo romore, o piuttosto questo primo stridore, fu seguito da un secondo, poi da un terzo; al quarto, il conte sapeva di che trattavasi. Una mano ferma, ed esercitata era intenta a tagliare i quattro lati di un vetro per mezzo di un diamante. Il conte sentì battersi più rapidamente il cuore. Per quanto l’uomo sia indurito nel pericolo, per quanto sia ben prevenuto contro di esso, capisce sempre dal fremito del cuore e dal brivido della persona l’enorme differenza tra il sogno e la realtà, fra il disegno e l’esecuzione. Ciò non ostante Monte-Cristo non fece che un segno per prevenire Alì; questi, comprendendo che il pericolo era dalla parte del gabinetto, fece un passo per avvicinarsi al padrone. Monte-Cristo era avido di sapere con quale e con quanti nemici aveva da fare. La finestra su cui si lavorava era dirimpetto all’apertura per la quale il conte penetrava col suo sguardo nel gabinetto. I suoi occhi adunque si fissarono verso la finestra: egli vide un’ombra disegnarsi più densa nella oscurità; indi un vetro diventò del tutto opaco, come se vi fosse stato incollato per di fuori un foglio di carta, poscia il vetro crepitò senza cadere. Dall’apertura praticata s’introdusse un braccio che cercava il catenaccetto; un secondo dopo la finestra girò sui cardini, ed un uomo entrò. L’uomo era solo. — Ecco un ardito birbante, mormorò il conte! — In questo momento egli sentì che Alì gli toccava leggermente la spalla; si voltò ed Alì gli mostrò la finestra della camera ov’erano, la quale guardava sulla strada; Monte-Cristo fece tre passi verso questa finestra, egli conosceva la squisita delicatezza dei sensi del suo fedele servitore. Infatto vide un altro uomo che si staccava da una porta, e, montando sopra un rialto, sembrava cercasse di vedere ciò che accadeva in casa del conte: — Buono! diss’egli, sono in due; l’uno opera; l’altro sta alle vedette. Fece segno ad Alì di non perdere di vista l’uomo della strada, e ritornò a quello del gabinetto. Il tagliatore di vetri era entrato, e si orizzontava con le braccia stese in avanti. Finalmente parve essersi reso conto di ogni cosa; vi erano due porte nel gabinetto, andò a mettere il catenaccio ad entrambe. Allorchè si avvicinò a quella della camera da dormire, Monte-Cristo credè che venisse per entrare, e preparò una delle pistole; ma non intese semplicemente che il romore dei catenacci striscianti su i loro anelli di cuoio. Questa era una cautela e niente altro; il notturno visitatore ignorando l’operazione fatta dal conte di togliere le fermezze dei ganci, poteva ora mai credersi in casa sua, ed operare con tutta tranquillità. Solo e libero in tutti i movimenti, l’uomo cavò allora dalla sua larga bisaccia qualche cosa che il conte non potè distinguere, la posò sopra un tavolino, indi andò direttamente allo scrigno, lo palpò nella direzione della serratura, e s’accorse che, contro la sua aspettativa, mancava la chiave. Ma il tagliatore di vetri era un uomo pieno di cautele, ed aveva tutto preveduto; il conte intese ben presto il rumore della collisione del ferro contro il ferro, che produce quando si manovra con pezzi di chiave informe, che portano i chiavettieri quando si mandano a chiamare per aprire una porta, e che appellansi comunemente grimaldelli, ma dai ladri hanno avuto il nome di rosignuoli, senza dubbio a cagione del piacere che essi provano nel sentire il loro canto notturno, allorchè stridono contro i contrarii della serratura. — Ah! ah! mormorò Monte-Cristo con un sorriso di sconcerto, non è che un ladro. Ma l’uomo nella oscurità non poteva scegliere l’istrumento conveniente. Fu allora che ricorse a quel qualche cosa che aveva deposto sul tavolino; fece giuocare una molla, e subito una luce pallida, ma però abbastanza viva per poter vedere, inviò il suo riflesso dorato sulle mani e sul viso di quest’uomo. — Guarda, fece d’improvviso Monte-Cristo addietrandosi con un movimento di sorpresa, è... — Alì alzò l’azza. — Non ti muovere, gli disse Monte-Cristo a bassa voce, lascia l’azza, che qui non abbiam più bisogno di armi. Indi aggiunse qualche parola abbassando ancor più la voce, perchè l’esclamazione di sorpresa del conte, per quanto fosse stata debole, pure era bastata per fare rabbrividire l’uomo che era rimasto nell’attitudine dell’antico Arruotino. Fu un ordine che dette il conte, perchè subito dopo Alì si allontanò sulla punta dei piedi, staccò dai muri dell’alcova un vestito nero, ed un cappello triangolare. In questo mentre, Monte-Cristo si toglieva rapidamente l’abito, il gilè, e la camicia, e si poteva, mercè il raggio di luce che filtrava dalla fessura della parete, riconoscere che il conte portava sul petto una di quelle soffici e fine tuniche di maglia d’acciaio, le cui ultime, in questa Francia ove non si temono più i pugnali, furono forse portate dal re Luigi XVI. Questa tunica disparve ben presto sotto una lunga sottana, come i capelli del conte sotto una parrucca chiericale: il cappello posto su questa parrucca terminò di cambiare il conte in un abate. Frattanto l’uomo non sentendo più niente, si era rialzato, e, durante il tempo che impiegò Monte-Cristo a fare la sua metamorfosi, era andato direttamente allo scrigno, la cui serratura cominciava di già a scricchiare sotto il _rosignuolo_: — Buono! mormorò il conte, il quale certamente stava tranquillo per qualche segreto del fabbro ferraio che doveva essere sconosciuto allo sforzatore di serrature, per quanto si fosse abile, buono! tu ne hai ancora per qualche minuto. — Egli andò alla finestra. L’uomo che aveva veduto salire sul rialto ne era disceso, e passeggiava sempre sulla strada; ma, cosa singolare! invece di inquietarsi di quelli che potevano venire, sia dall’ingresso dei Campi-Elisi, sia dal sobborgo Sant’Onorato, non sembrava preoccupato che di ciò che accadeva in casa del conte, e tutti i suoi movimenti avevano per iscopo di guardare ciò che si faceva nel gabinetto. Monte-Cristo d’improvviso si battè la fronte, e lasciò scorrere su le sue labbra semi-aperte un sorriso silenzioso. Indi avvicinandosi ad Alì: — Sta qui, gli disse a bassa voce, nascosto nella oscurità, e qualunque sia la cosa che succede, non entrare, e non farti vedere se non ti chiamo pel tuo nome. — Alì fece segno con la testa che aveva inteso, e che avrebbe obbedito; allora Monte-Cristo cavò da un armadio una candela già accesa, e nel momento in cui il ladro era più che mai occupato alla serratura, aprì dolcemente la porta, avendo cura che la luce del lume che teneva in mano cadesse tutta sul suo viso. La porta girò così dolcemente che il ladro non ne intese il rumore. Ma, con sua gran sorpresa, vide d’improvviso la camera illuminarsi. Egli si voltò. — Buona sera, caro sig. Caderousse! disse Monte-Cristo; che diavolo venite voi a far qui in quest’ora? — L’abate Busoni! gridò Caderousse. E non sapendo come fosse avvenuta questa strana apparizione fin presso lui, poichè aveva chiuse le porte, lasciò cadere il mazzo di chiavi false, e restò immobile, e come colpito da stupore. Il conte andò a situarsi fra Caderousse e la finestra, togliendo per tal modo al ladro spaventato l’unico mezzo di ritirata. — L’abate Busoni! ripetè Caderousse fissando sul conte due occhi stravolti. — Ebbene! senza dubbio, l’abate Busoni, ripetè Monte-Cristo, egli medesimo, in persona, ed io sono ben contento che mi riconosciate, caro sig. Caderousse; ciò prova che abbiamo buona memoria, perchè, se non mi sbaglio, sono oramai dieci anni che non ci siam veduti. Questa calma, quest’ironia, questa possanza colpirono lo spirito di Caderousse con un terrore vertiginoso. — L’abate!... l’abate... mormorò egli stringendo i pugni, e stridendo i denti. — Voi volevate rubare al conte di Monte-Cristo? — Sig. abate, mormorò Caderousse cercando di guadagnare la sinistra che gli veniva intercettata senza pietà dal conte, sig. abate, non so... vi prego di credere, vi giuro... — Un vetro tagliato, continuò il conte, una lanterna cieca, un mazzo di grimaldelli, uno scrigno per metà sforzato: l’affare è chiaro. Caderousse si strangolava con la cravatta, cercava un angolo per nascondersi, un foro per cui passare. — Andiamo, vedo che siete sempre lo stesso, sig. assassino. — Sig. abate, da poichè sapete tutto, saprete che non sono stato io, ma Carconta; ciò è stato riconosciuto dal processo, poichè essi non mi hanno condannato che alla galera. — Voi dunque avete finito il vostro tempo, poichè vi trovo sulla strada di farvici ricondurre? — No, sig. abate, sono stato liberato da qualcuno. — Questo qualcuno ha reso un bel servizio alla società! — Ah! disse Caderousse, io però aveva promesso... — In tal modo siete in rottura di bando? — Pur troppo! sì, disse Caderousse inquietissimo. — Pessima recidiva... ciò vi condurrà, se non mi sbaglio, sulla piazza di Grève. Tanto peggio, tanto peggio, diavolo, come dicono i mondani del mio paese. — Sig. abate, ho ceduto ad una tentazione... — Tutti i delinquenti dicono così. — Il bisogno... — Cessate adunque! disse sdegnosamente Busoni, il bisogno può strascinare a domandare l’elemosina, a rubare a un fornaio, non venire a sforzare uno scrigno in una casa che si crede disabitata. Ed allorquando il gioielliere Giovanni venne da voi per contarvi 45 mila fr. in cambio del diamante che io vi aveva dato, e che lo avete ucciso per avere il diamante ed il danaro, fu pure il bisogno? — Perdono, sig. abate, disse Caderousse; voi mi avete salvato una volta, salvatemi ancora una seconda volta. — Ciò non m’incoraggia. — Siete solo, domandò Caderousse giungendo le mani, o avete di lì i gendarmi già pronti per prendermi? — Son solo, disse l’abate, ed avrei ancora pietà di voi, e vi lascerei andare, col rischio di nuove disgrazie che possono esser procurate da questa mia debolezza, se mi diceste la verità. — Ah! sig. abate, gridò Caderousse congiungendo le mani, ed avvicinandosi di un altro passo a Monte-Cristo, posso ben dire che siete mio salvatore. — Pretendete di essere stato liberato dalla galera. — Oh! su questo, fede di Caderousse, sig. abate! — Chi vi liberò? — Un inglese. — Come si chiamava. — Lord Wilmore. — Lo conosco: saprò dunque se mentite. — Sig. abate, dico la pura verità. — Quest’inglese dunque vi proteggeva. — Non proteggeva me, ma un giovine corso mio compagno di catena. — Come si chiamava questo giovine corso? — Si chiamava Benedetto. — Questo è un nome di battesimo? — Egli non ne avea altri, perchè era bastardo. — Allora questo giovine, è evaso con voi? — Sì. — Ed in che modo? — Noi lavoravamo a Saint-Mandrier, vicino a Tolone. Conoscete Saint-Mandrier? — Sì, lo conosco. — Ebbene! mentre che si dormiva, dal mezzogiorno ad un’ora... — I forzati fanno la sesta! compiangete quei birbanti! disse l’abate. — Diamine! disse Caderousse, non si può sempre lavorare, non siam cani. — Fortunatamente per i cani, riprese Monte-Cristo. — Mentre adunque gli altri facevano la sesta, ci siamo allontanati un poco, abbiamo segate le nostre catene con una lima di cui ci aveva provveduti l’inglese, e ci siamo salvati a nuoto. — E che cosa è avvenuto di questo Benedetto? — Non ne so niente! — Ciò nonostante dovete saperlo. — No, in verità. Noi ci siamo separati a Hyères. E per dare più peso alla sua protesta, Caderousse fece ancora un passo verso l’abate, che rimase immobile al suo posto tuttora tranquillo, ed interrogando. — Voi mentite! disse l’abate Busoni con un accento d’irresistibile autorità. — Sig. abate!... — Voi mentite! quest’uomo è ancora vostro amico, e vi servite di lui forse come di un complice. — Oh! sig. abate! — Da che avete lasciato Tolone, come avete vissuto? — Come ho potuto. — Mentite! riprese per la terza volta l’abate con un accento ancor più imperativo. (Caderousse, spaventato, guardò il conte). Voi avete vissuto, riprese questi, col danaro che vi è stato dato. — Ebbene! è vero, disse Caderousse. Benedetto è diventato figlio di un gran signore. — In qual modo può egli esser figlio di un gran signore? — Figlio naturale. — E chi è questo gran signore? — Il conte di Monte-Cristo, quello in casa di cui siamo. — Benedetto figlio del conte? riprese Monte-Cristo meravigliato a sua volta. — Diamine! bisogna ben crederlo, poichè il conte gli ha trovato un falso padre, poichè il conte gli passa 4 mila fr. il mese, poichè il conte gli lascia 500 mila fr. nel suo testamento. — Ah! ah! fece il falso abate che cominciava a comprendere; e che nome porta questo giovine? — Si chiama Andrea Cavalcanti. — Allora questi è un giovine che il mio amico, il conte di Monte-Cristo, riceve in casa sua, e che sta per isposare la figlia del banchiere Danglars? — Precisamente. — E voi tollerate ciò, impossibile! voi che conoscete la sua vita ed i suoi delitti! — Perchè volete che io impedisca al mio compagno di riuscire? disse Caderousse. — È giusto, non sta a voi l’avvisare il sig. Danglars, sta a me. — Sig. abate, voi non lo farete.... — E perchè? — Perchè in tal modo ci farete perdere il nostro pane. — E credete, che per conservare il pane a miserabili come voi, mi farei il fautore dei loro raggiri, il complice dei loro delitti. — Sig. abate... disse Caderousse avvicinandosi. — Io dirò tutto. — A chi? — Al sig. Danglars. — Tuono dell’aria! gridò Caderousse cavando un coltello dal gilè già aperto, e percuotendo il conte nel mezzo del petto, tu non dirai niente, abate! — A gran sorpresa di Caderousse, il pugnale, invece di penetrare nel petto del conte, ribalzò smussato. Nello stesso tempo il conte afferrò colla mano sinistra il polso dell’assassino, e lo contorse con tal forza, che il coltello gli cadde dalle dita intirizzite, e Caderousse mandò un forte grido di dolore: ma il conte, senza fermarsi a questo grido, continuò a contorcere, fino a che, col braccio quasi lussato, egli da prima cadde in ginocchio, indi colla faccia contro terra. Il conte gli appoggiò un piede sulla testa, e gli disse: — non so chi mi trattenga dallo schiacciarti il cranio, scellerato! — Ah! grazia! grazia! gridò Caderousse. Il conte ritirò il piede: — Sorgi! diss’egli. Caderousse si rialzò: — Potenza di Dio! che mano avete voi sig. abate! disse Caderousse, strofinandosi il braccio quasi morto per le tenaglie di carne che lo avevano stretto. — Silenzio, Dio mi dà la forza di domare una bestia feroce come sei tu. — Ouf! fece Caderousse tutto addolorato. — Prendi questa penna e questa carta, e scrivi ciò che ti detto. — Io non so scrivere, sig. abate. — Tu menti; prendi questa penna, e scrivi! — Caderousse, soggiogato da questa forza superiore, si assise e scrisse. «Signore, l’uomo che voi ricevete in casa vostra, ed al quale voi destinate vostra figlia, è un antico forzato, sfuggito con me dalla galera di Tolone; egli portava il n. 59, ed io il n. 58. Si chiama Benedetto; ma egli stesso non sa il suo cognome, non avendo mai conosciuti i suoi genitori.» — Firma! continuò il conte. — Ma dunque volete perdermi. — Se volessi perderti, imbecille, ti strascinerei fino al primo corpo di guardia; d’altra parte, prima che il tuo biglietto sia recapitato all’indirizzo, è probabile che tu non abbia più nulla a temere; firma dunque. — Caderousse firmò. — L’indirizzo: _Al sig. Barone Danglars banchiere, strada della Chaussée-d’Antin_. Caderousse scrisse l’indirizzo. L’abate prese il biglietto: — Ora, diss’egli, sta bene, vattene. — Per dove? — Per dove sei venuto. — Volete che io esca da questa finestra? — Ci sei entrato. — Voi meditate qualche cosa contro di me, sig. abate? — Imbecille, che vuoi che io mediti? — Perchè dunque non aprirmi la porta? — Con qual vantaggio vuoi svegliare il portinaro? — Sig. abate, ditemi che volete la mia morte. — Voglio ciò che vuole Iddio. — Ma giuratemi che non mi colpirete mentre discenderò. — Pazzo e vile che sei! — Che volete far di me? — Lo domando a te! ho cercato di fare di te un uomo felice, e non ne ho fatto che un assassino! — Sig. abate, tentate una seconda prova. — Sia! disse il conte, ascolta, sai che sono uom di parola. — Sì, disse Caderousse. — Se tu rientri in casa tua sano e salvo... — A meno che ciò non venga da voi, che ho a temere? — Se rientri in casa tua sano e salvo, lascia Parigi, lascia la Francia, ed in qualunque luogo sarai, fino a che tu ti condurrai onestamente, ti farò passare una piccola pensione; poichè se tu rientri in casa tua sano e salvo... — Ebbene? domandò Caderousse fremendo. — Ebbene! crederò allora che Dio ti ha perdonato, e ti perdonerò io pure. — Quanto è vero che sono cristiano, balbettò rinculando Caderousse, voi mi fate morire di paura! — Andiamo, vattene! disse il conte mostrando col dito la finestra a Caderousse. — Questi, ancora mal rassicurato da tale promessa, cavalcò la finestra, e mise il piede sulla scala. Là si fermò tremando. — Ora discendi, disse l’abate incrociando le braccia sul petto. Caderousse cominciò a capire che non aveva niente da temere da questo lato, e discese. Allora il conte si avvicinò colla candela, di modo che un altro uomo potè distinguere dai Campi-Elisi un uomo che discendeva da una finestra illuminata. — Che fate dunque sig. abate, disse Caderousse; se passasse una pattuglia... — E soffiò sulla candela. Indi continuò a discendere; ma non fu che allorquando sentì il suolo del giardino sotto i suoi piedi, che si credè sufficientemente sicuro. Monte-Cristo rientrò nella sua camera da dormire, e gettando un rapido colpo d’occhio dal giardino alla strada, vide da prima Caderousse che, dopo essere disceso, faceva un giro nel giardino, poscia piantare la scala all’estremità del muro, affine di uscire da un altro posto diverso da quello pel quale era entrato. Indi passando dal giardino alla strada, vide l’uomo, che sembrava aspettare, correre parallelamente nella strada, e situarsi dietro l’angolo stesso, vicino al quale Caderousse stava per discendere. Caderousse salì lentamente sulla scala, e giunto agli ultimi gradini, passò la testa per disopra la cresta del muro per assicurarsi che la strada era del tutto solitaria. Non si vedeva nessuno, non si sentiva alcun rumore. Suonò un’ora all’orologio degl’Invalidi. Allora Caderousse si mise a cavallo sulla cresta della muraglia, e tirando a sè la scala, la passò per disopra al muro, indi si mise a discendere, o piuttosto si lasciò strisciare lungo i due montanti, manovra che operò con tale sveltezza, che provava l’abitudine che aveva in questo esercizio. Ma lanciato una volta sul pendio, non potè fermarsi. Invano vide un uomo scagliarsi fra l’ombre, al momento in cui era a mezza strada; invano vide un braccio alzarsi, al momento che toccava la terra; prima che avesse potuto mettersi in difesa, questo braccio lo colpì tanto furiosamente nel dorso, che abbandonò la scala, gridando. — Soccorso! — Un secondo colpo gli giunse quasi subito nel fianco, ed egli cadde gridando: — All’uccisore! — Finalmente, siccome si rotolava per terra, l’avversario lo prese per i capelli, e gli portò un terzo colpo nel petto. Questa volta Caderousse volle gridare ancora, ma non potè mandare che un gemito, e fremendo lasciò scorrere i tre rivi di sangue che uscivano dalle sue tre ferite. L’assassino, vedendo ch’egli non gridava più gli sollevò la testa per i capelli; Caderousse aveva gli occhi chiusi e la bocca contorta. L’assassino lo credè morto, lasciò ricadere la testa, e disparve. Allora Caderousse sentendolo allontanarsi, si raddrizzò sul gomito; ed in un supremo sforzo, gridò con voce morente: — All’assassino! io moro! sig. abate venite a me! Questa lugubre chiamata fendè le ombre della notte. La porta della scala segreta si aprì, indi la piccola porta del giardino, ed Alì ed il suo padrone accorsero coi lumi. LXXXII. — LA MANO DI DIO. Caderousse continuava a gridare con voce lamentevole: — Sig. abate, soccorso! soccorso! — Che c’è? domandò Monte-Cristo. — Venite in mio soccorso; sono stato assassinato. — Eccoci! coraggio. — Ah! è finita, giungete troppo tardi; giungete per vedermi morire. Che colpi! quanto sangue! — Ed egli svenne. Alì ed il suo padrone presero il ferito, e lo trasportarono in una camera. Là Monte-Cristo fece segno ad Alì di spogliarlo, e riconobbe le tre terribili ferite da cui era stato colpito. — Mio Dio! diss’egli. — Alì guardò il padrone come per domandargli ciò che doveva fare. — Va a cercare il procuratore del Re Villefort, che dimora nel sobborgo Sant’Onorato, e conducilo qui; nel passare, sveglierai il portinaro, e gli dirai che vada a cercare un medico. — Alì obbedì, e lasciò il finto abate solo con Caderousse sempre svenuto. Allorchè il disgraziato riaprì gli occhi, il conte, assiso pochi passi da lui lontano, lo guardava con una tetra espressione di pietà, e le sue labbra, che si agitavano, sembravano mormorare una preghiera. — Un chirurgo, sig. abate, un chirurgo! disse Caderousse. — Si è mandato a cercarlo, rispose l’abate. — So bene che è inutile, in quanto alla vita, ma potrà forse darmi forza, e voglio avere il tempo di fare la mia dichiarazione. — Su di che? — Sul mio assassino. — Lo conoscete voi dunque? — Sì, io l’ho conosciuto! sì lo conosco, fu Benedetto. — Quel giovine Corso? — Egli stesso. — Il vostro compagno? — Sì. Dopo avermi dato il disegno della casa del conte, sperando senza dubbio che io l’uccidessi, e che per tal mezzo egli ne diventerebbe l’erede, o che egli uccidesse me, e sarebbe così spacciato di me, mi aspettò sulla strada, e mi ha assassinato. — Nello stesso tempo che ho mandato a cercare un medico ho pur fatto chiamare il procurator del Re. — Egli giungerà troppo tardi, disse Caderousse, sento che tutto il sangue se ne va. — Aspettate, disse Monte-Cristo; — ed uscì: cinque secondi dopo rientrò con una boccettina. Gli occhi del moribondo, spaventosi per la loro immobilità, non avevano in quest’assenza lasciato un momento quella porta, dalla quale egli indovinava per istinto che stava per venirgli un qualche soccorso. — Spicciatevi, sig. abate, sento che torno a svenire. Monte-Cristo si avvicinò, e versò sulle labbra paonazze del ferito tre o quattro gocce del liquido che conteneva la boccettina. Caderousse mandò un sospiro. — Oh! diss’egli, voi mi versate in seno la vita; ancora... ancora... — Due gocce di più vi ucciderebbero, rispose l’abate. — Oh! che venga dunque qualcuno al quale io possa denunziare il miserabile. — Volete che io scriva la vostra deposizione? voi la firmerete. — Sì, disse Caderousse, i cui occhi brillavano per la speranza di questa postuma vendetta. Monte-Cristo scrisse, «Io moro assassinato dal Corso Benedetto, mio compagno di catena a Tolone sotto il n. 59.» — Spicciatevi, spicciatevi, disse Caderousse, o io non potrò più firmarla. — Monte-Cristo presentò la penna a Caderousse che raccolse tutte le sue forze, firmò, e ricadde nel suo letto dicendo: — Voi racconterete il resto, sig. abate; direte che egli si fa chiamare Andrea Cavalcanti, ch’alloggia nell’albergo dei Principi, che... ah! mio Dio, ecco che moro! E Caderousse svenne per la seconda volta. L’abate gli fece respirare l’odore della boccettina, il ferito riaprì gli occhi. Il suo desiderio di vendetta non lo aveva abbandonato durante lo svenimento. — Ah! direte tutto questo, non è vero, signor abate? — Tutto questo, sì, ed altre cose ancora — Che direte? — Io dirò, che vi aveva dato la pianta di questa casa nella speranza che il conte vi uccidesse; dirò ch’egli aveva prevenuto il conte con un biglietto; dirò che il conte era assente, e che sono stato io che ho ricevuto questo biglietto, e che ho vegliato per aspettarvi. — Ed egli sarà ghigliottinato, non è vero? disse Caderousse; me lo promettete, io muoio con questa speranza, questa mi aiuterà a morire. — Dirò, continuò il conte, ch’egli è giunto dopo di voi, ch’è stato all’agguato tutto il tempo che siete stato qui, che quando vi ha veduto uscire, egli è corso all’angolo del muro, si è nascosto... — Voi dunque avete veduto tutto ciò? — Ricordatevi le mie parole: «e se tu rientri in casa tua sano e salvo, crederò che Dio ti abbia perdonato, e ti perdonerò io pure.» — E voi non mi avete avvertito, gridò Caderousse cercando di sollevarsi sul gomito; sapevate che avrei corso pericolo di essere ucciso uscendo di qui, e non mi avete avvertito? — No, perchè nella mano di Benedetto vedevo la Giustizia di Dio. — Caderousse lo guardò con istupore. — E poi, disse l’abate, Dio è pieno di misericordia per tutti, come lo è stato per te: egli è padre prima di essere giudice. — Ah! voi dunque credete in Dio? disse Caderousse. — Se avessi avuto la disgrazia di non averci creduto fino al presente, ci crederei vedendoti. Caderousse alzò le pugna serrate al Cielo. — Ascolta, disse l’abate stendendo la mano sul ferito, come per comandargli la fede, guarda ciò che ha fatto per te questo Dio, che tu ricusi di riconoscere nel tuo ultimo momento: egli ti aveva data salute, lavoro sicuro, ed anche amici, la vita finalmente tale quale deve presentarsi all’uomo per esser docile colla calma della coscienza e la soddisfazione dei desideri, che non sono in opposizione alla legge divina; invece di essere contento di questi doni del signore, così raramente accordati da lui nella loro pienezza, guarda ciò che ne hai fatto: ti sei abbandonato al non far niente, ed alla ubbriachezza e nella ubbriachezza hai tradito uno dei tuoi migliori amici. — Soccorso! gridò Caderousse, non ho bisogno di un prete, ma di un medico; forse non sono ferito mortalmente, forse non sono ancora per morire, forse mi potran salvare. — No, sei tanto ben ferito mortalmente che senza le tre gocce del liquore che ti ho dato, saresti già spirato. Ascolta. — Ah! mormorò Caderousse, che prete strano che siete, invece di consolare i moribondi, li fate disperare. — Ascolta, continuò l’abate; quando hai tradito il tuo amico, Dio ha cominciato non a punirti, ma ad avvisarti; tu sei caduto nella miseria, hai sofferta la fame, tu eri passato ad invidiare la metà di una vita, che potevi passare ad acquistarla, e già pensavi al delitto scusandoti colla necessità, quando Dio fece per te un miracolo, quando Dio per le mie mani t’inviò nel seno della tua miseria, una fortuna brillante per te, disgraziato, che non avevi mai posseduto niente. Ma questa fortuna inattesa, non isperata, inaudita non ti bastò più, dal momento che la possedevi, volesti raddoppiarla: con qual mezzo? quello di un omicidio: l’hai raddoppiata, e Dio allora te l’ha tolta, conducendoti avanti all’umana giustizia. — Non sono stato io, disse Caderousse, che ho voluto uccidere l’ebreo; fu la Carconta. — Sì, disse Monte-Cristo. Così la misericordia di Dio non rivolse lo sguardo da te neppur questa volta, perchè la sua giustizia ti avrebbe messo a morte; ma Dio sempre misericordioso, permise che i tuoi giudici si commovessero alle tue parole, e ti lasciassero la vita. — Per bacco! per inviarmi alla galera a vita; bella grazia. — Questa grazia, miserabile! tu però la considerasti come una vera grazia quando ti fu fatta. Il tuo cuore vile, che tremava davanti alla morte, balzò di gioia all’annunzio della tua perpetua infamia, perchè dicesti a te stesso come tutti i forzati: «nella galera vi è una porta, non vi è una tomba.» Ed avevi ragione, perchè la porta della tua galera è aperta per te in un modo non isperato: un inglese visita Tolone, egli aveva fatto voto di togliere gli uomini dall’infamia, la sua scelta cadde sul tuo compagno, una seconda fortuna discende per te dal cielo, ritrovi danaro ad un tempo e tranquillità, puoi ricominciare a vivere la vita di tutti gli uomini, tu che eri stato condannato a vivere quella soltanto dei forzati; allora, miserabile, ti metti a tentare Dio una terza volta: non ne ho abbastanza, dicesti, quando avevi più di quel che mai tu abbia posseduto, e commetti un terzo delitto, senza ragione, senza scusa. Dio si è stancato, Dio ti ha punito. Caderousse si indeboliva a vista d’occhio: — Da bere! diss’egli; io ho sete... io brucio! — Monte-Cristo gli dette un bicchiere d’acqua: — Scellerato Benedetto, disse Caderousse restituendo il bicchiere; egli però fuggirà... — Nessuno sfuggirà, sono io che te lo dico, Caderousse... Benedetto sarà punito! — Allora sarete punito voi pure, disse Caderousse; perchè non avete fatto il dovere del vostro ministero... voi dovevate impedire a Benedetto di uccidermi. — Io! disse il conte con un sorriso che agghiacciò di spavento il moribondo, io impedire a Benedetto di ucciderti, al momento in cui tu spezzavi il tuo coltello contro la cotta di maglia che mi copriva il petto?... Sì, forse, se ti avessi ritrovato umile e pentito, avrei impedito a Benedetto di ucciderti; ma ti ho ritrovato orgoglioso e sanguinario. — Io non credo in Dio! urlò Caderousse, tu pure non vi credi... tu menti... tu menti! — Taci, disse l’abate, perchè fai uscir fuori del tuo corpo le ultime gocce di sangue... Ah! tu non credi in Dio, mentre muori colpito dalla sua giustizia!... Ah! tu non credi in Dio, e Dio, che frattanto non chiede che una preghiera, una lagrima per perdonare... Dio che poteva dirigere il pugnale dell’assassino in modo che tu spirassi sul colpo... Dio ti ha dato un quarto d’ora per pentirti... Rientra dunque in te stesso disgraziato, e pentiti! — No, disse Caderousse, io non mi pento, non vi è Dio, non vi è Provvidenza. — Vi è Dio, vi è Provvidenza, disse Monte-Cristo, e la prova si è, che tu sei là gemente, disperato, rinnegando Dio, e che io sono qui ritto davanti a te, ricco, felice, sano e salvo, e giungendo le mani davanti a questo Dio, al quale tu ti sforzi non credere, ma al quale pure tu credi nel fondo del tuo cuore. — Ma chi siete dunque allora? domandò Caderousse fissando gli occhi moribondi sul conte. — Guardami bene, disse Monte-Cristo prendendo il lume, ed avvicinandolo al viso. — Ebbene! l’abate... Busoni. — Monte-Cristo si levò la parrucca che lo sfigurava, e lasciò ricadere i suoi bei capelli neri che inquadravano tanto armoniosamente il suo pallido viso. — Oh! disse Caderousse spaventato, se non fossero questi capelli neri, direi che siete l’Inglese, direi che voi siete Lord Wilmore. — Io non sono, nè l’abate Busoni, nè Lord Wilmore, disse Monte-Cristo; guarda meglio, guarda più lontano, guarda nelle tue prime rimembranze. In queste parole del conte vi era una vibrazione magnetica nella quale furon vivificati i sensi sfiniti del miserabile ferito. — Oh! in fatto, diss’egli, mi sembra di avervi veduto... di avervi conosciuto in altri tempi... ma chi dunque siete allora? e perchè, se mi avete veduto e conosciuto, mi lasciate morire? — Perchè non vi ha cosa alcuna che possa salvarti, Caderousse; perchè le tue ferite sono mortali. Se tu avessi potuto essere salvato avrei veduto un’ultima misericordia del Signore, ed io pure sarei accorso per restituirti alla vita ed al pentimento, te lo giuro per la tomba di mio padre. — Per la tomba di tuo padre! disse Caderousse rianimato da un’ultima scintilla, e sollevandosi per vedere più da vicino l’uomo che faceva questo giuramento, sacro a tutti gli uomini; eh! chi sei tu dunque? — Il conte non aveva cessato dal seguire i progressi dell’agonia; egli capì che questo slancio della vita era l’ultimo, si avvicinò al moribondo, e coprendolo con uno sguardo pacifico e tristo ad un tempo. — Io sono... gli disse all’orecchio, io sono... — E le labbra appena aperte, lasciarono passare un nome pronunciato tanto a bassa voce, che il conte sembrava temesse di sentirlo egli pure. Caderousse, che si era alzato sulle ginocchia stese le braccia, fece di tutto per indietreggiare, poi giungendo le mani, ed alzandole con un estremo sforzo: — Oh! mio Dio! diss’egli, perdono per avervi rinnegato; voi esistete, sì voi esistete, e nella vostra infinita misericordia e giustizia, voi siete il padre, il giudice degli uomini. Mio Dio, e Signore, non vi ho per lungo tempo conosciuto! mio Dio, e Signore perdonatemi, mio Dio, e Signore ricevetemi! Caderousse chiuse gli occhi, cadde rovesciato in addietro con un ultimo sospiro. Il sangue si fermò subito sulle labbra delle sue larghe ferite. Egli era morto. — _Uno!_ disse misteriosamente il conte, cogli occhi fissi sul cadavere già sfigurato per questa morte terribile. Dieci minuti dopo, il medico ed il procuratore del Re giunsero, condotti, l’uno dal portinaro, l’altro da Alì, e furono ricevuti dall’abate Busoni, che pregava vicino al morto. LXXXIII. — BEAUCHAMP. Per quindici giorni in Parigi non si parlò d’altro, che del tentativo di rubamento, fatto con tanta audacia, in casa del conte: il moribondo aveva firmata una dichiarazione che indicava Benedetto come il suo assassino. La polizia fu invitata a lanciare tutti i suoi messi sulle tracce dell’omicida. Il coltello di Caderousse, la lanterna cieca, il mazzo di grimaldelli, e gli abiti, meno il gilè che non potè ritrovarsi, furono deposti alla polizia, il corpo fu trasportato alla Morgue. Il conte rispondeva a tutti, che quest’avventura era accaduta mentre che egli era nella sua casa d’Auteuil, e che per conseguenza non sapeva che ciò che gli aveva raccontato l’abate Busoni, che in questa sera, per una strana combinazione, aveva domandato di passare la notte in sua casa, affine di consultare alcuni libri preziosi, che aveva nella sua biblioteca. Bertuccio solo impallidiva tutte le volte che veniva pronunciato in sua presenza il nome di Benedetto; ma non vi era alcun motivo, perchè qualcuno si accorgesse del pallore di Bertuccio. Villefort, chiamato a constatare il delitto, aveva reclamato a sè l’affare, ed aveva impresa l’istruzione con quell’ardore appassionato, che egli metteva in tutte le cause criminali, nelle quali era chiamato a portare la parola. Ma tre settimane eran già passate senza che le ricerche più operose avessero condotto ad alcun resultato, e si cominciava a dimenticare il rubamento tentato alla casa del conte, e l’assassinio del ladro commesso dal suo complice, per occuparsi del vicino matrimonio di madamigella Danglars col conte Andrea Cavalcanti. Questo matrimonio era quasi dichiarato, ed il giovine veniva ricevuto in casa del banchiere col titolo di fidanzato. Erasi scritto al sig. Cavalcanti padre che aveva molto approvato questo matrimonio, e che, esprimendo tutto il suo dispiacere, perchè il servizio gl’impediva assolutamente di lasciare Parma, ov’era di guarnigione, dichiarava acconsentire di dare un capitale di 150 mila lire di rendita. Era convenuto che i tre milioni sarebbero stati collocati nel banco Danglars, ov’egli li farebbe valere; alcune persone avevano tentato di dare dei dubbi al giovine sulla solidità della posizione del suo futuro suocero, che da qualche tempo provava alla borsa reiterate perdite; ma il giovine con un disinteressamento ed una confidenza sublime, rigettò tutti questi vani propositi sui quali ebbe la delicatezza di non dire neppure una parola al barone. Per questo il barone adorava il conte Andrea Cavalcanti. Non era però lo stesso dal lato di madamigella Danglars. Nel suo odio istintivo contro il matrimonio, aveva accolto Andrea come un mezzo atto ad allontanare Morcerf; ma ora che Andrea si avvicinava troppo, incominciava a provare per lui una visibile repulsione. Forse il barone se ne era accorto; ma siccome non poteva attribuire questa ripulsione se non che ad un capriccio, aveva fatto sembiante di non accorgersene. Frattanto la dilazione domandata da Beauchamp era quasi percorsa. Del rimanente, Morcerf aveva potuto apprezzare il valore del consiglio di Monte-Cristo, quando questi gli aveva detto di lasciar cadere le cose da sè stesse. Nessuno aveva rilevato la nota sul generale, e nessuno aveva ravvisato nel generale che aveva venduta la fortezza di Giannina, il nobile conte che sedeva alla camera dei Pari. Alberto però non si credeva meno insultato, perchè in quelle poche linee che lo avevano ferito vi era certamente l’intenzione di offenderlo. Inoltre, il modo con cui Beauchamp aveva terminata la conferenza, lasciava amare rimembranze nel suo cuore. Egli dunque accarezzava nel suo spirito l’idea di questo duello, del quale egli sperava, se Beauchamp voleva prestarvisi, di coprire la vera causa, anche ai suoi testimonii. In quanto a Beauchamp, nessuno lo aveva più veduto dopo il giorno della visita, che gli aveva fatta Alberto, ed a tutti quelli che andavano a domandare di lui si rispondeva che era assente per un viaggio di qualche giorno. Ov’era, nessuno lo sapeva. Una mattina Alberto fu svegliato dal suo cameriere, che gli annunciò Beauchamp. Alberto si strofinò gli occhi, ordinò che si facesse aspettare Beauchamp nella piccola sala da fumare nel pian terreno, si vestì prestamente, e discese. Trovò Beauchamp che passeggiava in lungo ed in largo: come lo vide, Beauchamp si fermò. — La dimostrazione che voi tentate, presentandovi in casa mia da voi stesso, e senza aspettare la visita che io contava di farvi in questo stesso giorno, mi sembra di buono augurio, signore, disse Alberto; vediamo, dite presto, debbo stendervi la mano dicendo: «Beauchamp, confessate un torto, e conservatemi un amico?» Ovvero debbo semplicemente domandarvi: «Quali sono le vostre armi?» — Alberto, disse Beauchamp con una tristezza che colpì il giovine di stupore, sediamo da prima, e parliamo. — Ma mi sembra, che prima di sederci, dobbiate rispondermi? — Alberto, disse il giornalista, vi sono delle occasioni in cui la difficoltà è precisamente nella risposta. — Io ve la renderò facile, signore, ripetendovi la domanda; volete ritrattarvi, sì, o no? — Morcerf, non bisogna limitarsi a rispondere sì o no alle domande che riguardano l’onore, la posizione sociale, la vita di un uomo, quale è il sig. tenente generale conte de Morcerf, pari di Francia... — E che si fa allora? — Si fa ciò che ho fatto io, Alberto; si dice: il danaro, il tempo, e la fatica sono un nulla, allorchè si tratta della riputazione e degl’interessi di una intera famiglia; si dice: se incrocio la spada, o se stringo lo scatto di una pistola sopra un uomo, al quale per due anni ho stretta la mano, bisogna che io sappia almeno perchè faccio una cosa simile; finalmente per giungere sul terreno col cuore in riposo, e quella coscienza tranquilla di cui abbisogna un uomo, quando fa di mestieri, che col suo braccio si salvi la vita... — Ebbene? domandò Morcerf con impazienza, che vuol dir ciò? — Ciò vuol dire, che io vengo da Giannina. — Da Giannina? voi! — Sì: io. — Impossibile! — Mio caro Alberto; eccovi il mio passaporto; guardate i visti: Ginevra, Milano, Venezia, Trieste, Delvino, Giannina; crederete alla polizia di una repubblica, di un regno, di un impero? Alberto gettò gli occhi sul passaporto, e li rialzò meravigliati sopra Beauchamp; — Voi siete stato a Giannina. — Alberto, se foste stato uno straniero, uno sconosciuto, un semplice lord, come quell’inglese che tre o quattro mesi fa venne a chiedermi soddisfazione, e che ho ucciso per ispacciarmene, capirete che non mi sarei dato una briga simile; ma ho creduto di dovervi dare questo contrassegno di stima. Ho impiegato otto giorni nell’andare, otto giorni a ritornare, più quattro giorni di quarantina, e quarantotto ore di soggiorno; tutto questo forma le mie tre settimane. Sono giunto questa notte, ed eccomi qua. — Mio Dio, quanti giri di parole, Beauchamp, e quanto tardate a dirmi ciò che aspetto da voi! — Egli è in verità, Alberto... — Si direbbe che esitate... — Sì; io ho paura... — Voi avete paura di confessare che il vostro corrispondente vi aveva ingannato? Oh! lasciate l’amor proprio, Beauchamp; confessate: il vostro coraggio non può essere messo in dubbio. — Oh! non è questo, mormorò il giornalista; al contrario... Alberto impallidì spaventosamente: egli tentò di parlare ma la parola spirò sulle sue labbra. — Amico mio, disse Beauchamp col tuono più affettuoso, credetemi, sarei felice di potervi fare le mie scuse, e ve le farei con tutto il cuore; ma ahimè!... — Ma che? — La nota aveva ragione, amico mio. — Come! quell’ufficiale francese... — Sì. — Quel Fernando? — Sì. — Quel traditore che cedè la fortezza dell’uomo di cui era al servizio... — Perdonatemi di dirvi ciò che vi dico, amico mio, quest’uomo, è vostro padre! Alberto fece un movimento furioso per slanciarsi su Beauchamp; ma questi lo trattenne, più collo sguardo dolce che colla mano stesa. — Osservate, amico mio, diss’egli cavando di saccoccia un foglio, ecco la prova. — Alberto aprì il foglio; era un attestato di quattro dei più notabili abitanti di Giannina, che contestavano qualmente il colonnello Fernando Mondego, colonnello istruttore, al servizio del Visir Alì-Tebelen, aveva ceduto la fortezza di Giannina, ricevendone in compenso due mila borse. Le firme erano legalizzate dal console. Alberto vacillò, e cadde atterrato sopra una sedia. Questa volta non v’era più alcun dubbio, il nome della sua famiglia vi era in tutte lettere. Così, dopo un momento di mutuo silenzio e di dolore, il suo cuore si sgonfiò, le vene del collo s’inturgidirono; un torrente di lagrime gli sgorgò dagli occhi. Beauchamp, che aveva guardato il giovine con una profonda pietà, mentre cedeva al parossismo del dolore, si avvicinò a lui. — Alberto, diss’egli, voi ora mi capite, non è vero? io ho voluto veder tutto, giudicare tutto da me stesso, sperando che la spiegazione sarebbe stata favorevole a vostro padre, e che avrei potuto rendergli compiuta giustizia. Ma, al contrario, le informazioni prese contestano che questo ufficiale istruttore, che questo Fernando Mondego, elevato da Alì-Pascià al titolo di generale governatore, non è altro che il conte Fernando de Morcerf; allora sono ritornato, ricordatevi l’onore che mi avete fatto di ammettermi alla vostra amicizia, e sono accorso a voi. Alberto, sempre immobile sul seggio, si teneva le mani sugli occhi, come avesse voluto impedire alla luce di arrivare fino a lui: — Io sono accorso, continuò Beauchamp, per dirvi: Alberto, gli errori dei nostri padri, in quei tempi di azione e di reazione, non possono ricadere sui figli, Alberto, ben pochi hanno traversato quelle rivoluzioni, in mezzo alle quali siam nati, senza che qualche macchia di fango o di sangue abbia lordato la loro uniforme da soldato, o la loro toga da giudice. Alberto, nessuno al mondo, ora che ho tutte le prove, ora che sono padrone del vostro segreto, può sforzarmi ad un combattimento che la vostra coscienza, ne sono certo, si rimprovererebbe come un delitto; ma ciò che non potete esigere da me, io stesso vengo ad offrirvelo. Queste prove, queste rivelazioni, questi attestati che io solo posseggo, volete che spariscano? questo terribile segreto, volete che resti fra voi e me? confidate alla mia parola d’onore? egli non uscirà mai dalla mia bocca; dite, lo volete Alberto? Alberto si slanciò al collo di Beauchamp: — Ah! nobile cuore! — Prendete, disse Beauchamp presentandogli il foglio. Alberto lo afferrò con mano convulsa, lo strinse, lo spiegazzò, pensò di stracciarlo; ma temendo che la più piccola particella trasportata dal vento non venisse un giorno a percuoterlo sulla fronte, andò alla candela, sempre accesa per i sigari, e ne consumò fin l’ultimo frammento. — Che tutto ciò si dimentichi come un sogno cattivo, disse Beauchamp, si sperda come queste ultime faville che corrono sulla carta annerita, che tutto ciò svanisca, come quest’ultimo fumo che sfugge da queste mute ceneri. — Sì, sì, disse Alberto, e che non vi rimanga che l’eterna amicizia che i miei figli trasmetteranno ai vostri, amicizia che mi ricorderà sempre che il sangue delle mie vene, la vita del mio corpo, l’onore del mio nome, le debbo soltanto a voi; perchè se una tal cosa fosse stata conosciuta, oh! Beauchamp, vi dichiaro che mi sarei bruciate le cervella... oh, no, povera madre! perchè non avrei voluto ucciderla con lo stesso colpo... avrei espatriato. — Caro Alberto! disse Beauchamp. — Ma il giovine si tolse ben presto da questa gioia inattesa, e per così dire fatidica, e ricadde più profondamente nella sua tristezza. — Ebbene, domandò Beauchamp, vediamo, che vi è di nuovo, amico mio? — C’è, disse Alberto, che ho qualche cosa che mi lacera il cuore. Ascoltate, Beauchamp. Non so togliermi, così in un secondo da quel rispetto, da quella confidenza, e da quell’orgoglio, che inspira ad un figlio il nome senza macchia di suo padre. Oh! Beauchamp come dovrò ora presentarmi a lui? manderò in addietro la mia fronte quando egli vi avvicinerà le labbra? ritirerò la mia mano quando egli mi stenderà la sua?... Beauchamp, sono il più infelice degli uomini. Ah! madre mia, mia povera madre, disse Alberto guardando, a traverso dei suoi occhi che nuotavano nelle lagrime il ritratto di sua madre, se aveste saputo ciò, quanto avreste dovuto soffrire. — Coraggio, disse Beauchamp, coraggio, amico! — Ma di dove veniva questa prima nota inserita nel vostro giornale? gridò Alberto; dietro a tutto ciò vi è un odio sconosciuto, un nemico invisibile. — Ebbene! disse Beauchamp, ragione di più. Coraggio, non fate comparire alcuna traccia d’emozione sul vostro viso; portate questo dolore in voi, come la nube porta in sè la rovina e la morte; segreto fatale che non si comprende che al momento in cui scoppia la tempesta. Andate, amico, riserbate le vostre forze pel momento in cui verrà fatto questo scoppio. — Oh! ma credete dunque che noi non siamo giunti a termine? disse Alberto spaventato. — Ma... non credo niente, amico mio; ma finalmente tutto è possibile. A proposito... — Che cosa? domandò Alberto vedendo Beauchamp esitare. — Sposate sempre madamigella Danglars? — A qual proposito mi domandate questo in un simile momento, Beauchamp? — Perchè nel mio spirito la rottura o il compimento di questo matrimonio, si riattaccano all’oggetto che ne occupa. — In che modo? disse Alberto, la cui fronte s’infiammò, credete che il sig. Danglars... — Vi domando soltanto a che punto siete con questo matrimonio. Che diavolo! non vedete nelle mie parole altre cose che quelle che vi metto, e non date loro un’importanza maggiore di quella che non hanno. — No, disse Alberto, il matrimonio è rotto. — Bene, disse Beauchamp. — Indi, vedendo che il giovine ricadeva nella sua melanconia: — Osservate, Alberto, diss’egli, se credete a me, sarebbe bene che uscissimo; un giro al bosco in _phaéton_, o a cavallo vi distrarrà; indi ritorneremo per far colazione in qualche luogo, e voi andrete per i vostri affari ed io per i miei. — Volentieri, disse Alberto, ma usciamo a piedi, mi sembra che un poco di fatica mi farà bene. — Sia, disse Beauchamp. — Ed i due amici uscendo a piedi s’avviarono al baluardo. Giunti alla Maddalena: — Sentite, disse Beauchamp, giacchè siamo sulla strada, andiamo un poco a vedere il sig. di Monte-Cristo, egli vi distrarrà; è un uomo ammirabile per rimettere gli spiriti, in quanto che non fa mai domande; ora, a mio avviso, la gente che non fa interrogazioni è la più abile consolatrice. — Andiamo pure da lui, disse Alberto, io lo amo. LXXXIV. — IL VIAGGIO. Monte-Cristo mandò un grido di gioia vedendo i due giovani insieme. — Ah! ah! diss’egli! ebbene! spero che tutto sarà finito, spiegato, accomodato? — Sì, disse Beauchamp. Romori assurdi che sono caduti da sè stessi, e che ora, se si rinnovassero, mi avrebbero per il loro primo antagonista. Non ne parliamo più. — Alberto vi dirà, riprese il conte, che questo era il consiglio ch’io stesso gli aveva dato. Osservate, voi mi vedete compire la più esecrabile mattinata che abbia mai passata. — E che cosa fate? mi sembra che siate occupato a mettere in ordine le vostre carte? — Le mie carte? grazie a Dio no; vi è sempre ordine nelle mie carte, un ordine meraviglioso, atteso che non ho carte; sono le carte del sig. Cavalcanti. — Del sig. Cavalcanti? domandò Beauchamp. — Eh! sì, non sapete ch’è un giovinotto ch’è stato lanciato nella società dal conte? disse Morcerf. — No, intendiamoci bene, riprese Monte-Cristo: non ho lanciato alcuno, ed il sig. Cavalcanti molto meno. — E che sposerà madamigella Danglars in vece mia, cosa che, continuò Alberto sforzandosi di sorridere, come potete bene immaginare, mi addolora assaissimo, caro Beauchamp. — E che? venite forse dal confine del mondo? domandò Monte-Cristo, voi, un giornalista il marito della _Renommée_! Tutto Parigi non parla che di questo. — E siete voi, conte, che avete fatto questo matrimonio? — Io? oh! silenzio, sig. novellista, non raccontate simili cose; io! mio Dio! fare un matrimonio! No, voi non mi conoscete; mi vi sono anzi opposto con tutto il mio potere, ho ricusato di fare la domanda. — Ah! capisco, per causa del nostro amico Alberto? — Per causa mia? disse il giovine; oh! no, in fede mia! Il conte mi farà giustizia di certificare, che l’ho sempre pregato al contrario di rompere questo matrimonio che fortunatamente è rotto. Il conte pretende però che io non debba ringraziare lui. — Ascoltate, disse Monte-Cristo, sono entrato tanto poco in questo affare, che ora sono trattato freddamente dal futuro genero; dal giovine. Non vi è che madamigella Eugenia la quale conoscendo a qual punto io era poco disposto a farle perdere la sua cara libertà, mi abbia conservato un poco d’affezione. — E dite che questo matrimonio è sul punto d’effettuarsi? — Oh! mio Dio! sì, ad onta di tutto ciò che ho potuto dire: non conosco il giovine, lo si pretende ricco e di buona famiglia, ma per me tali cose non son che un semplice _si dice_: ho ripetuto tutto questo fino alla sazietà al sig. Danglars, ma egli si è ostinato col suo Lucchese. Sono perfino giunto a fargli parte di una particolarità, che per me è gravissima: il giovine è stato cambiato a balia, allevato dai zingari, o perduto dal suo precettore, non so troppo bene. Ma quello ch’io so, si è che suo padre lo ha perduto di vista per più di dieci anni; ciò che ha fatto durante questi dieci anni di vita errante, Dio solo lo sa; le sue carte, eccole. Io le mando a loro, ma me ne lavo le mani. — E madamigella d’Armilly, domandò Beauchamp, che cera vi fa, che le portate via la sua allieva? — Diamine! non so troppo: ma sembra che ella parta per l’Italia. La sig.ª Danglars mi ha parlato di lei, e mi ha domandate delle lettere per gl’impresarii: io le ho date due righe pel direttore del teatro Valle, che mi ha qualche obbligazione. Ma che avete dunque, Alberto? avete l’aria ben trista; sareste forse, senza accorgervene, innamorato di madamigella Danglars? — No, ch’io sappia, disse Alberto sorridendo amaramente. Beauchamp si mise a guardare i quadri. — Ma finalmente, continuò Monte-Cristo, non siete del solito umore. Sentiamo, che cosa avete? — Ho l’emicrania, disse Alberto. — Ebbene! caro visconte, disse Monte-Cristo, ho per questi casi un rimedio infallibile da proporvi; rimedio che è sempre riuscito a me stesso, ogni qualvolta ho sofferto qualche contrarietà. — E quale? domandò il giovine. — Il cambiar luogo. — Davvero? disse Alberto. — Sì, e sentite; siccome in questo momento soffro eccessive contrarietà, cambio luogo. Vogliamo cambiarlo insieme? — Voi delle contrarietà, disse Beauchamp; e su che? — Per bacco! voi ne parlate molto indifferentemente, vorrei vedervi con una causa criminale che si istituisse in casa vostra! — Una causa criminale! qual causa criminale? — Eh! quella che il sig. de Villefort istituisce contro il mio amabile assassino, una specie di brigante fuggito dalla galera, a quanto sembra. — Ah! è vero, disse Beauchamp, ha fatto chiasso sui giornali. Che cosa è questo Caderousse? — Ebbene... mi sembra che sia un provenzale. Il sig. de Villefort ne ha inteso parlare quando era a Marsiglia, ed il sig. Danglars si ricorda di averlo veduto; ne risulta che il sig. procuratore del Re prende l’affare molto a cuore, molto più, ch’egli ha, a quanto sembra premurato al più alto grado il prefetto di polizia, e che, mercè questa premura di cui gli sono riconoscente che non si potrebbe dir di più, mi s’inviano tutti i banditi, che da quindici giorni si possono raccogliere in Parigi, e nelle vicinanze, sotto il pretesto ch’essi sono gli assassini di Caderousse, d’onde ne risulta che in tre mesi, se continua, non vi sarà più un ladro o un assassino, in questo regno di Francia, che non conosca la pianta della mia casa sulla punta delle dita. Per cui prendo la risoluzione di abbandonarla loro interamente, e di andarmene tanto lontano, quanto mi potrà portare la terra. Venite con me, visconte, io vi conduco. — Volentieri. — Allora è convenuto? — Sì, ma dove andremo? — Ve l’ho detto, dove l’aria è più pura, ed il rumore dorme; ove, per quanto uno sia orgoglioso, si sente umile, e si ritrova piccolo. Amo questa umiliazione io, che son chiamato padron dell’Universo come Augusto. — Ma infine ove andate? — Al mare, visconte, al mare: sono un marinaro, vedete; da fanciullo sono stato cullato fra le braccia del vecchio Oceano e sul seno della bella Amfitride; ho scherzato col mantello verde dell’uno, e colla gonna azzurra dell’altra. Amo il mare come si può amare un amico, e quando è lungo tempo che non lo vedo, smanio per esso. — Andiamo, conte, andiamo! — Al mare? — Sì. — Voi accettate? — Io accetto. — Ebbene! visconte, questa sera nel mio cortile vi sarà una _brisca_ da viaggio in cui potremo stenderci come nel proprio letto; a questa _brisca_ saranno attaccati quattro cavalli di posta. Sig. Beauchamp, vi si sta in quattro comodamente, volete venire con noi? — Grazie, vengo ora dal mare. — Come! venite dal mare? — Sì, o quasi; ritorno da un piccolo viaggio alle isole Borromee. — Che importa, venite egualmente! disse Alberto. — No, caro Morcerf, dovete capire dal modo che io rifiuto, che la cosa è impossibile. D’altra parte è importante ch’io resti a Parigi, disse parlando a bassa voce, non fosse per altro, che per sorvegliare la cassetta del giornale. — Ah! siete un ottimo ed eccellente amico, disse Alberto, sì, avete ragione, vegliate, sorvegliate, Beauchamp, e cercate di scoprire l’inimico dal quale ebbe origine questa nota. Alberto e Beauchamp si separarono; la loro ultima stretta di mano racchiudeva tutto ciò che le loro labbra non potevano esprimere in faccia allo straniero. — È un eccellente giovine Beauchamp, disse Monte-Cristo dopo la partenza del giornalista, non è vero, Alberto? — Oh! sì, un uomo di cuore, ve lo garantisco; così che io l’amo con tutta l’anima mia. Ma ora che siamo soli, quantunque la cosa per me sia la stessa, dove andiamo? — In Normandia, se a voi non dispiace. — A meraviglia: saremo del tutto in campagna, non è vero? nessuna società, nessun vicino? — Saremo a quattro occhi, con cavalli per correre, cani per cacciare, barche per pescare, ed ecco tutto. — Questo è quello che mi abbisogna. Avviso mia madre, e sono ai vostri ordini. — Ma, disse Monte-Cristo, vi daranno il permesso? — Di che? — Di venire in Normandia? — A me? e che non sono più libero? — Di andare ove vi piace solo, lo so bene, poichè vi ho incontrato scappato per l’Italia. — Ebbene? — Ma di venire con l’uomo misterioso che si chiama il conte di Monte-Cristo... — Voi avete poca memoria, conte. — In che modo? — Non vi ho detta tutta la simpatia che mia madre vi porta? — Spesso la donna cambia, ha detto Francesco I; la donna è un’onda, ha detto Shakespeare: l’uno fu un gran re, l’altro un gran poeta; ed entrambi dovevan conoscere la donna. — Sì, la donna, ma mia madre non è la donna, è una donna. — Permettete ad un povero straniero di non conoscere tutta la sottigliezza di questo giuoco di parole. — Voglio dire che mia madre è avara dei suoi sentimenti, ma una volta che li ha concessi, è per sempre. — Ah! davvero? disse sospirando Monte-Cristo; e credete ch’ella mi faccia l’onore di accordarmi un qualche sentimento di più d’una perfetta indifferenza? — Ascoltate! ve l’ho già detto e ve lo ripeto, riprese Morcerf; bisogna bene che siate un uomo molto straordinario e molto superiore agli altri, perchè mia madre si è lasciata prendere, non dirò dalla curiosità, ma dall’interessamento che avete saputo inspirarle. Quando siamo soli, non parla che di voi. — Vi dice ella di non fidarvi di questo Manfredi? — Al contrario mi dice: «Morcerf, credo che il conte abbia un nobile naturale; cerca di farti amare da lui.» Monte-Cristo girò gli occhi e mandò un sospiro: — Ah! da vero? — Di modo che capirete, continuò Alberto, che invece di opporsi al mio viaggio, ella lo approverà di tutto cuore, poichè entra nelle raccomandazioni che mi fa ogni giorno. — Andate dunque, disse Monte-Cristo. Questa sera siate qui alle cinque, arriveremo laggiù a mezza notte o ad un’ora. — Come, a Tréport...? — Tréport, o nelle vicinanze. — Non ci abbisognano che otto ore per fare 48 leghe? — È anche molto, disse Monte-Cristo. — Siete davvero l’uomo dei prodigi, e giungerete non solo a superare le strade ferrate, che non è molto difficile particolarmente in Francia, ma eziandio a correre più presto di una notizia pel telegrafo. — Frattanto, visconte; siccome ci occorrono sempre sette od otto ore per giungere laggiù, siate esatto. — State tranquillo: non ho altro a fare che prepararmici. — Alle cinque adunque. — Alle cinque. — Alberto sorrise. Monte-Cristo, dopo avergli fatto sorridendo un segno colla testa, restò un momento pensieroso, e come assorbito da una profonda meditazione. Finalmente, passando la mano sulla fronte come per allontanare una distrazione, andò al campanello e battè due colpi. Non appena compiti i due colpi percossi da Monte-Cristo, entrò Bertuccio: — Bertuccio, diss’egli, non dopo domani, non domani, come da prima aveva pensato, ma questa sera stessa ho stabilito d’andare in Normandia: da ora alle cinque vi è già maggior tempo di quello che vi abbisogna: farete preparare i cavalli del primo appostamento; il sig. de Morcerf mi accompagna. Andate. Bertuccio obbedì, ed un corriere corse a Pontoise ad annunziare, che la carrozza di posta sarebbe passata alle sei precise; il palafreniere di Pontoise ne inviò un altro al secondo appostamento, e questi un altro al terzo; e, sei ore dopo, tutti i cavalli di cambio disposti lungo la strada erano prevenuti. Prima di partire il conte salì da Haydée, le annunziò la sua partenza, le disse il luogo ove andava, e mise tutta la casa sotto i suoi ordini. Alberto fu esatto. Il viaggio, taciturno sul principio, si aprì ben presto per l’effetto fisico della rapidità. Morcerf non aveva un’idea di sì grande celerità. — In fatto, disse Monte-Cristo, colla vostra posta che fa due leghe l’ora, con quella stupida legge che proibisce al viaggiatore di sorpassare l’altro senza averne ottenuto il permesso, che fa sì che un viaggiatore ammalato o catarroso ha il diritto di tenersi a seguito i viaggiatori allegri e che stanno bene, non vi è locomozione che sia possibile; io evito questo inconveniente, viaggiando col mio proprio postiglione ed i miei proprii cavalli, non è vero, Alì? — E il conte mise fuori la testa dallo sportello, ed emise un piccolo grido di eccitazione che pose le ali ai piedi dei cavalli; non correvano più, volavano. La carrozza roteò come un fulmine sul pavimento reale, e ciascuno si voltava per veder passare la meteora fiammeggiate. Alì, ripetendo questo grido sorrideva, mostrando i denti bianchi, stringendo fra le sue robuste mani le redini spumeggianti, spronando i cavalli, le criniere dei quali andavano sparpagliate al vento; Alì, il figlio del deserto, si ritrovava nel suo elemento. — Ma dove diavolo trovate simili cavalli? domandò Alberto; li fate forse fare espressamente? — Precisamente, disse il conte; sono sei anni che ritrovai in Ungheria un famoso stallone rinomato per la sua celerità; lo comprai, non so bene per quanto, perchè fu Bertuccio che lo pagò. Nello stesso anno ebbe trentadue figli. Ora tutta passeremo in rivista la progenitura di questo medesimo padre. Essi sono tutti eguali, neri, senza alcuna macchia, fuorchè una stella in fronte, poichè a questa privilegiata razza furono destinate cavalle tutte scelte come si scelgono ai pascià tutte le favorite. — È ammirabile!... ma ditemi, che fate di tutti questi cavalli? — Lo vedete, viaggio con essi. — Ma non viaggiate sempre! — Quando non ne avrò più bisogno, Bertuccio li venderà, e pretendo che vi guadagnerà 30 o 40 mila fr. — Ma in Europa non vi sarà un principe così ricco per comprarli. — Allora li venderò ad un qualche semplice Visir d’Oriente, che vuoterà il suo tesoro per comprarli, e che riempirà il suo tesoro facendo amministrare delle bastonate sotto la pianta dei piedi dei suoi sudditi. — Conte, volete che vi comunichi un pensiero che mi è venuto? — Fatelo pure. — È che, dopo voi, il sig. Bertuccio deve essere il più ricco privato d’Europa. — Ebbene vi sbagliate, visconte; sono sicuro, che se rovesciate le saccocce di Bertuccio, non ci ritroverete il valore di dieci soldi. — E perchè? domandò il giovine, Bertuccio è dunque un fenomeno?... Ah! mio caro conte; non vi ingolfate troppo nel meraviglioso, o ch’io non vi crederò più, ve ne prevengo. — Non ritroverete mai il meraviglioso vicino a me, Alberto: cifre e ragione, ecco tutto; ora ascoltate questo dilemma: un intendente ruba, ma perchè ruba? — Diavolo! perchè è nella sua natura, mi sembra, disse Alberto; ruba per rubare. — Ebbene! no, v’ingannate. Ruba perchè ha moglie, figli, desiderii ambiziosi per lui e per la sua famiglia; egli ruba, perchè non è sicuro di non più lasciar il padrone, e vuol farsi un avvenire. Ebbene, Bertuccio è solo al mondo; usa della mia borsa senza rendermene conto, è sicuro di non lasciarmi mai. — E perchè? — Perchè io non potrei ritrovarne uno migliore. — Vi aggirate in un circolo vizioso: quello delle probabilità. — Oh! no, sono in quello delle certezze; il buon servitore è per me quello, sul quale ho diritto della vita e della morte. — E voi avete sopra Bertuccio diritto di vita e di morte? — Sì, rispose freddamente il conte. — Vi sono delle parole che chiudono la conversazione come una porta di ferro; il sì del conte era una di quelle parole. Il rimanente del viaggio si compì colla stessa celerità; i trentadue cavalli divisi in otto appostamenti, fecero 47 leghe in otto ore. Si giunse nel mezzo della notte alla porta di un bel parco; il portinaro era in piedi, e teneva il cancello aperto, essendo stato avvertito dal palafreniere dell’ultimo appostamento. Erano le due e mezzo del mattino, Alberto fu condotto nel suo appartamento. Ritrovò preparato un bagno ed una cena. Il domestico che aveva fatta la strada nel seggio dietro la carrozza, fu messo a sua disposizione. Battistino che aveva fatta la strada nel seggio davanti, stava agli ordini del conte. Alberto prese il bagno, cenò, e se ne andò a letto. Tutta la notte fu cullato dal melanconico rumore delle ondate. Alzandosi andò direttamente alla finestra, l’aprì, e si trovò sur un piccolo terrazzo che guardava innanzi a sè nel mare cioè nell’immensità, mentre alla parte posteriore un bel parco conduceva in una piccola foresta. In un seno del lido di una certa grandezza, galleggiava una piccola corvetta, di stretta carena, con alberatura svelta, e che portava al corno una bandiera con lo stemma di Monte-Cristo, stemma che rappresentava una montagna d’oro sopra un mare azzurro. Intorno alla goletta eravi una quantità di piccole barchette che appartenevano ai pescatori dei villaggi vicini, e sembravano umili sudditi che aspettassero gli ordini della loro regina. Là, come in tutti i luoghi in cui si fermava Monte-Cristo, fosse anche per due o tre giorni soltanto, la vita era ordinata al termometro di tutti i comodi e piaceri; in tal modo il vivere diveniva facile nello stesso momento. Alberto ritrovò nella sua anticamera due fucili, e tutti gli attrezzi necessarii ad un cacciatore. Un’altra camera, nel piano terreno, era consacrata a tutti quegli utensili ed a quelle macchinette ingegnose che gl’Inglesi, grandi pescatori perchè sono pazienti ed oziosi, non hanno ancora potuto fare adottare ai metodici pescatori francesi. Tutta la giornata si passò in questi diversi esercizii, nei quali Monte-Cristo era eccellente; furono uccisi una dozzina di fagiani nel parco, furono pescate delle trote nei ruscelli, si pranzò in un padiglione chinese che dava sul mare, e fu servito il thè nella biblioteca. Verso la sera del terzo giorno, Alberto, spossato dalla fatica di questa laboriosa vita che sembrava uno scherzo per Monte-Cristo, dormiva sopra un sofà vicino ad una finestra, mentre che il conte faceva con un architetto il piano di una stufa che voleva istituire nella casa, allorchè il rumore di un cavallo tritando la breccia della strada fece alzare la testa al giovine; guardò per la finestra, e, con una sorpresa delle più disaggradevoli, scoperse nel cortile il suo cameriere, dal quale non aveva voluto farsi seguire per non impacciare troppo Monte-Cristo. — Florentin qui! gridò egli balzando dal sofà; è forse ammalata mia madre? — E si precipitò verso la porta della camera. Monte-Cristo lo seguì cogli occhi, e lo vide fermare il suo cameriere che, tutto anelante, cavò di saccoccia un piccolo piego sigillato: esso conteneva una lettera ed un giornale. — Di chi è questa lettera? domandò con vivacità Alberto. — Del sig. Beauchamp, rispose Florentin. — È dunque Beauchamp che vi manda qui? — Sì, signore. Mi ha dato il danaro necessario per viaggiare, mi ha fatto condurre un cavallo di posta, e mi ha fatto promettere che non mi sarei fermato fino a che non vi avessi raggiunto, signore: ho fatto la strada in quindici ore. Alberto aprì la lettera fremendo; alle prime righe mandò un grido; afferrò il giornale con un visibile tremito. D’improvviso gli occhi gli si oscurarono, le gambe gli vennero meno, e, vicino a cadere, si appoggiò a Florentin, che stese le braccia per sostenerlo. — Povero giovine! mormorò Monte-Cristo tanto sommessamente che neppure egli potè sentire il rumore di queste parole di compassione che pronunziava; è dunque fissato che le mancanze dei padri debbano ricadere sui figli fino alla terza od alla quarta generazione! — In questo mentre Alberto aveva ricuperate le sue forze, e continuando a leggere si scuoteva i capelli bagnati di sudore sulla fronte, e scartazzando lettera e giornale: — Florentin, disse egli, il vostro cavallo è in istato di riprendere la strada di Parigi? — È un cattivo ronzino di posta, stroppiato. — Oh! e com’era la famiglia quando l’avete lasciata? — Molto tranquilla; ma ritornando dall’abitazione del sig. Beauchamp, ho ritrovato la signora immersa nel pianto. Ella mi aveva fatto chiamare per sapere quando sareste stato di ritorno. Allora le ho detto che veniva a cercarvi per parte del sig. Beauchamp. Il suo primo movimento è stato quello di stendere il braccio come per fermarmi, ma dopo un minuto di riflessione: «sì, andate, Florentin, ella ha detto, e ch’egli ritorni.» — Sì, madre mia, sì, disse Alberto, ritorno, sii tranquilla, e disgrazia all’infame!... Ma, prima di tutto bisogna che io parta. — E riprese il cammino della camera ove aveva lasciato Monte-Cristo. Egli non era più lo stesso uomo, e cinque minuti erano stati sufficienti per operare in Alberto una trista metamorfosi; era uscito dal suo stato ordinario, e rientrava colla voce alterata, il viso solcato da un rossore febbrile; l’occhio sfavillante sotto palpebre venate di blu, e l’andamento vacillante come quello di un uomo ubriaco. — Conte, diss’egli, grazie della vostra ospitalità, della quale avrei voluto godere più lungamente, ma bisogna che io ritorni a Parigi. — E che cosa è dunque accaduto? — Una gran disgrazia; ma permettetemi di partire, si tratta di cosa molto più preziosa della mia vita. Non mi fate domande, conte, ve ne supplico, ma datemi un cavallo! — Le mie scuderie sono al vostro servizio, visconte, disse Monte-Cristo; ma voi andate a morire di fatica correndo la posta a cavallo; prendete un calesse, un _coupé_, una qualche carrozza. — No, sarebbe troppo lunga, e poi ho bisogno di questa fatica di cui voi temete; essa mi farà del bene. Alberto fece alcuni passi in tondo, come un uomo colpito da una palla, e andò a cadere sopra una sedia vicina alla porta. Monte-Cristo non vide questo secondo colpo di debolezza; egli era alla finestra gridando: — Alì, un cavallo per il sig. de Morcerf! che si affrettino, egli ha premura. Queste parole resero la vita ad Alberto; si slanciò fuori della camera, il conte lo seguì. — Grazie, mormorò il giovine balzando in sella. Voi ritornerete il più presto che potrete, Florentin. Vi è nessuna parola d’ordine perchè mi cambino il cavallo, conte? — Nient’altro che rilasciare quello che cavalcate; ve ne inselleranno sul momento un altro. Alberto stava per islanciarsi e si fermò. — Voi forse ritroverete strana, insensata la mia partenza, disse il giovine; non comprenderete come poche righe di un giornale possano mettere un uomo alla disperazione. Ebbene, aggiunse egli, gettandogli il giornale, leggete queste, ma solo quando sarò partito, affinchè non abbiate a vedere il mio rossore. E mentre che il conte raccoglieva il giornale, egli piantò gli speroni, che allora erano stati attaccati ai suoi stivali, nel ventre del cavallo, che, meravigliato che vi potesse essere un cavaliere che credesse esservi bisogno di simile istrumento per lui, partì, come un dardo di freccia. Il conte seguì il giovine cogli occhi e con un sentimento di compassione infinita, e non fu che allora quando fu intieramente sparito che, riportando gli occhi sul giornale, lesse ciò che segue: «Quell’ufficiale francese al servizio di Alì-Pascià di Giannina, di cui parlava tre settimane sono il giornale l’_Impartial_, e che non soltanto vendè la fortezza di Giannina, ma ben anche il suo benefattore ai Turchi, si chiamava di fatto in quell’epoca Fernando, come lo ha detto il nostro onorevole confratello; ma d’allora, ha aggiunto al suo vero nome un titolo di nobiltà, ed un nome di terra. In oggi si chiama il sig. conte di Morcerf, e fa parte della _Camera_ dei Pari.» In tal modo adunque, questo terribile segreto, che Beauchamp aveva seppellito con tanta generosità, ricompariva come un fantasma armato, ed un altro giornale, crudelmente informato, aveva pubblicato, il giorno dopo la partenza d’Alberto per la Normandia, le poche linee che poco mancarono a far divenir pazzo il giovine. LXXXV. — IL GIUDIZIO. Alle otto del mattino, Alberto cadde come un fulmine in casa di Beauchamp. Il cameriere era prevenuto; egli introdusse Morcerf nella camera del suo padrone, ch’era allora entrato in bagno. — Ebbene? gli disse Alberto. — Ebbene! io vi aspettava, rispose Beauchamp. — Eccomi, non vi dirò, Beauchamp, che vi credo troppo leale e troppo buono, perchè non abbiate parlato a chi che siasi di tutto ciò; no, amico mio. D’altra parte il messaggio che mi avete spedito mi è una guarentigia della vostra affezione. Per cui, non perdiamo tempo in preamboli; avete voi qualche idea sulla parte da dove possa venire questo colpo? — Ve ne dirò due parole in breve. — Ma prima, amico mio, dovete dirmi tutti i particolari della storia di questo abbominevole tradimento. E Beauchamp raccontò al giovine, schiacciato sotto il peso dell’onta e del dolore, i fatti che racconteremo in tutta la loro semplicità. La mattina dell’antivigilia, l’articolo era comparso in un giornale, tutt’altro che l’_Impartial_, e ciò che dava ancora maggior gravità all’affare, in un giornale molto diffuso per appartenere al governo. Beauchamp faceva colazione quando gli venne sott’occhi la nota; mandò subito a prendere un _cabriolet_, senza finire il pasto, e corse alla direzione del giornale. Quantunque egli professasse sentimenti politici diametralmente opposti a quelli del gerente del giornale accusatore, Beauchamp, cosa che qualche volta accade, e diremo anche di sovente, era suo intimo amico. Allorchè egli giunse da lui, il gerente leggeva il proprio giornale, e sembrava compiacersi per vedere in una prima colonna sotto la data di _Parigi_ un articolo sullo zucchero di barbabietola, che probabilmente coincideva col suo modo di vedere. — Ah! per bacco! disse Beauchamp, poichè voi avete fra le mani il vostro giornale, mio caro ***, non ho bisogno di dirvi ciò che mi conduce a voi. — Sareste per caso parteggiano dello zucchero di canna? domandò il gerente del giornale ministeriale. — No, sono estraneo alla questione; vengo per tutt’altro. — Per che cosa venite? — Per l’articolo Morcerf. — Ah! sì, davvero: non è un articolo curioso? — Tanto curioso, che correte il rischio d’essere citato per diffamazione, mi sembra, e che con ciò arrischiate pure un processo molto pericoloso. — Niente affatto; colla nota abbiamo ricevuto tutti i documenti in appoggio, e siam perfettamente convinti, che il sig. de Morcerf rimarrà tranquillo: d’altra parte questo è un servigio che si rende al paese, col denunziare i nomi di coloro che sono immeritevoli degli onori che godono. Beauchamp rimase interdetto: — Ma chi dunque vi ha tanto bene informato? perchè il mio giornale, che ha risvegliata l’attenzione del primo, è stato costretto dall’astenersi d’andar più oltre per mancanza di prove. E non pertanto noi siamo più interessati di voi di smascherare il sig. de Morcerf, poichè egli è della _Camera_ dei Pari, e noi scriviamo per l’opposizione. — Oh! mio Dio, la cosa fu semplicissima: non siam noi che siam corsi dietro allo scandalo, fu esso che venne a ritrovarci; ci è giunto un uomo da Giannina portando il formidabile registro, e siccome esitavamo a gettarci sulla via delle accuse, ci ha manifestato che se ci fossimo ricusati, l’articolo sarebbe comparso sopra un altro giornale. In fede mia, lo sapete, Beauchamp, che cosa sia una notizia importante; e non abbiamo voluto lasciar perdere quella. Ora il colpo è dato; esso è terribile, e rimbomberà fino ai confini di Europa. Beauchamp capì che non v’era più che abbassare la testa, ed uscì disperato per mandare un corriere a Morcerf. Ma ciò che aveva potuto scrivere ad Alberto, perchè le cose che siamo per raccontare avvennero dopo la partenza del corriere, si fu, che alla _Camera_ dei Pari, in quello stesso giorno regnava una grande agitazione, e si era manifestata nei gruppi di questa alta assemblea, ordinariamente tanto tranquilla. Quasi tutti erano giunti prima dell’ora e conversavano sul sinistro avvenimento che stava per occupare l’attenzione del pubblico, e per fissarla sopra uno dei membri più distinti e più conosciuti di quell’illustre corpo. Erano letture a bassa voce dell’articolo, commentarii e ricambii di rimembranze che precisavano ancor meglio i fatti. Il conte de Morcerf non era amato fra i suoi colleghi. Come tutti gl’innalzati da poco, era stato costretto, per mantenersi al suo rango, di osservare un eccesso di sostenutezza. L’antica nobiltà rideva di lui; gl’ingegni lo ripudiavano; le glorie pure lo disprezzavano per istinto. Il conte era giunto a quell’estremo doloroso della vittima espiatoria. Il solo conte de Morcerf nulla sapeva. Egli non riceveva il giornale su cui era riportata la notizia infamatoria, ed aveva passata tutta la mattinata a scriver lettere, ed a provare un cavallo. Giunse dunque all’ora solita, colla testa alta, l’occhio superbo, il portamento insolente; discese di carrozza, oltrepassò i corridori, ed entrò nella sala, senza notare la esitazione degli uscieri, ed i semisaluti dei colleghi. Quando Morcerf entrò, la seduta era già aperta da mezz’ora. Quantunque il conte ignorasse, come abbiam detto, tutto ciò che era accaduto, e per conseguenza in nulla avesse cambiato il suo portamento, pure agli occhi di tutti parve più superbo che d’ordinario, e la sua presenza in questa occasione parve talmente insultante a quest’assemblea tanto gelosa del proprio onore, che tutti osservarono una inconvenienza, molti una bravata, alcuni un insulto. Era evidente che tutta la _Camera_ ardeva dal desiderio di impiantare una discussione. Si vedeva il giornale accusatore nelle mani di tutti; ma, come sempre, ciascuno esitava a prendere sopra di sè la guarentigia dell’assalto. Finalmente uno di questi onorevoli pari, nemico dichiarato del conte de Morcerf, salì alla tribuna con una solennità che annunziava essere giunto il momento che si aspettava. Fu fatto uno spaventoso silenzio; Morcerf solo ignorava la causa della profonda attenzione, che questa volta si prestava ad un oratore che non si aveva sempre l’abitudine d’ascoltare con tanta compiacenza. Il conte lasciò passare tranquillamente il preambolo per mezzo del quale l’oratore stabiliva ch’egli era per parlare di cose talmente gravi, sacre, e vitali per la camera, ch’egli reclamava tutta l’attenzione dei suoi colleghi. Alle prime parole di Giannina e del colonnello Fernando, il conte de Morcerf impallidì così orribilmente, che non vi fu che un fremito in tutta l’assemblea, ove tutti gli sguardi si concentrarono sul conte. Le ferite mortali hanno questo di particolare, ch’esse si nascondono, ma non si chiudono; sempre dolorose, sempre pronte a grondare sangue quando si toccano, esse rimangono vive e sensibili nel cuore. Terminata la lettura dell’articolo sempre in mezzo allo stesso silenzio, interrotto allora da un fremito che cessò al momento in cui si vide che l’oratore stava per riprendere nuovamente la parola, l’accusatore espose il suo scrupolo, e si mise a stabilire in qual modo la sua impresa era difficile; era l’onore del sig. de Morcerf, era quello di tutta la camera intera che pretendeva di difendere eccitando un dibattimento che doveva attaccarsi ad argomenti personali che resultano sempre tanto rumorosi. Finalmente concluse perchè fosse ordinato un processo abbastanza rapido per confondere la calunnia, prima che avesse il tempo d’ingigantire, e per ristabilire il sig. de Morcerf, vendicandolo, nel posto che la pubblica opinione gli aveva formato da lungo tempo. Morcerf era così oppresso, così tremante in faccia di questa immensa ed inattesa calamità, che appena potè balbettare alcune parole, guardando i suoi confratelli con occhio stravolto. Questa timidezza, che si poteva ancora spiegare per lo stupore che porta all’innocente l’onta del delitto, gli conciliò simpatia in alcuni. Gli uomini veramente generosi sono sempre pronti a divenir misericordiosi, quando la disgrazia del loro nemico oltrepassa i limiti della loro collera. Il presidente mise a voti se doveva aver luogo la causa; fu votato per mezzo dell’alzarsi e sedersi, e fu risoluto che si aprirebbe il giudizio. Fu domandato al conte quanto tempo gli abbisognava per prepararsi alla sua giustificazione. Era rientrato il coraggio in Morcerf, da che si era sentito essere ancor vivo dopo un così orribile colpo. — Signori Pari, rispose egli, non è già col tempo che si respinge un assalto come quello che in oggi mi viene diretto da nemici, rimasti fra l’ombre della loro oscurità. È come un fulmine che devo rispondere al baleno che per un momento mi ha abbagliato! Ah! perchè mai non mi è dato invece di questa giustificazione, di dover spargere il mio sangue per provare ai miei nobili colleghi che son degno di camminare al loro fianco! — Queste parole produssero una favorevole impressione per l’accusato. — Io domando dunque, diss’egli, che il processo abbia luogo il più presto possibile, ed io somministrerò alla camera tutte le prove necessarie per la sua efficacia. — Qual giorno fissate? domandò il presidente. — Mi metto da oggi a disposizione della _Camera_. Il presidente suonò il campanello: — La camera è di parere, domandò egli, che esso abbia luogo oggi stesso? — Sì, fu l’unanime risposta dell’assemblea. Fu nominata una commissione di dodici membri per esaminare i documenti che doveva presentare Morcerf. L’ora della prima seduta di questa commissione fu stabilita alle otto della sera, negli ufficii della _Camera_. Se fossero state necessarie diverse sedute sarebbero state fatte alla stessa ora, e nello stesso luogo. Presa questa risoluzione, Morcerf domandò il permesso di ritirarsi. Egli doveva radunare i documenti già da lui preparati da lungo tempo, per far fronte a questo uragano preveduto dalla sua astuta ed indomabile indole. Beauchamp raccontò all’amico tutto ciò che fin qui abbiam narrato; solamente il suo racconto aveva sul nostro il vantaggio che hanno le cose vive sulle morte. Alberto lo ascoltò ora fremendo di speranza, ora fremendo di collera, ora di vergogna; poichè, dalla confidenza di Beauchamp, sapeva che suo padre era colpevole; e si domandava in che modo, da poichè era colpevole, poteva giungere a provare la sua innocenza. Giunto al punto ove siamo, Beauchamp si fermò. — E in seguito? domandò Alberto. — Amico mio, questa domanda mi trascina ad un’orribile necessità. Volete sapere il resto? — Bisogna necessariamente che io lo sappia, amico mio, e desidero saperlo piuttosto dalla vostra bocca che da qualunque altra. — Ebbene, riprese Beauchamp, preparate tutto il vostro coraggio, non ne avete mai avuto tanto bisogno. Alberto si passò una mano sulla fronte per assicurarsi di tutto il suo coraggio, come un uomo che si prepara a difendere la propria vita, prova la sua corazza, e fa piegare la lama della sua spada. Si sentì forte, perchè prese la febbre per energia: — Avanti! diss’egli. — Giunse la sera, continuò Beauchamp. Tutto Parigi era nell’aspettativa di questo avvenimento. Molti pretendevano che vostro padre non avesse che a mostrarsi per far crollare tutta l’accusa; molti pure dicevano che il conte non si sarebbe presentato; ve ne erano certuni che assicuravano di averlo veduto partire per Bruxelles, altri andarono alla polizia per vedere se era vero, che il conte fosse andato a prendere il passaporto. Io vi confesserò che feci tutto il possibile, continuò Beauchamp, per ottenere da uno dei membri della commissione, un giovine Pari mio amico, di essere introdotto in una specie di tribuna. Alle sette egli venne a prendermi, e prima che alcuno fosse giunto, mi raccomandò al portiere, che mi chiuse in una specie di palco. Io era nascosto da una colonna, e perduto nell’oscurità più profonda; potei sperare che avrei veduta ed intesa la terribile scena che stava per svolgersi. Alle otto precise tutti erano giunti. Il sig. de Morcerf entrò all’ultimo tocco delle otto. Egli teneva in mano alcune carte e dal suo contegno sembrava essere tranquillo; contro il solito, il suo andamento era semplice, il vestire ricercato e severo, e, secondo il costume degli antichi militari, portava l’abito abbottonato d’alto in basso. La sua presenza produsse il migliore effetto: la commissione era lungi dall’essergli ostile, e molti dei suoi membri andarono incontro al conte, e gli strinsero la mano. Alberto sentì che il suo cuore era crivellato da tutti questi particolari, e ciò non ostante in mezzo al suo dolore s’introduceva un sentimento di riconoscenza; avrebbe voluto potere abbracciare questi uomini che avevano dato a suo padre questa dimostrazione di stima in un tale impaccio pel suo onore. — In questo momento entrò un usciere e rimise una lettera al presidente: «— Voi avete la parola sig. de Morcerf, disse il presidente mentre dissigillava la lettera. «Il conte incominciò la sua apologia, e vi assicuro Alberto, continuò Beauchamp, ch’egli spiegò una eloquenza ed una abilità straordinaria. Egli produsse dei documenti che provavano che il visir di Giannina lo aveva, fino all’ultima sua ora, onorato della confidenza, poichè lo aveva incaricato di una negoziazione di vita e di morte collo stesso imperatore. Mostrò l’anello segnale del comando, e col quale Alì-Pascià sigillava d’ordinario le sue lettere; e che questi gli aveva dato perchè egli potesse, al suo ritorno, qualunque fosse stata l’ora del giorno e della notte, penetrare fino a lui, fosse pur stato nell’_harem_. Disgraziatamente, diss’egli, le sue trattative erano andate a vuoto, e quando era ritornato per difendere il suo benefattore, questi era già morto. Ma, disse il conte, morendo, Alì-Pascià, tanto era grande la sua fiducia, gli aveva confidata la sua favorita e la sua figlia. Alberto rabbrividì a queste parole, poichè a seconda che Beauchamp parlava, gli ritornava al pensiero tutto il racconto di Haydée. Egli si ricordava ciò che la bella greca aveva detto del messaggio, di questo anello, e del modo con cui ella era stata venduta e condotta in ischiavitù. — E qual fu l’effetto del discorso del conte? domandò con ansietà Alberto. — Vi confesso ch’esso commosse me e tutta la commissione, continuò Beauchamp. «Frattanto il presidente gettò negligentemente gli occhi sulla lettera che gli era stata portata, ma le prime linee risvegliarono tutta la sua attenzione; egli la lesse, poi la rilesse, e fissando gli occhi sopra il sig. de Morcerf: — Signor conte, diss’egli, voi ci avete detto che il visir di Giannina vi aveva confidato sua moglie e sua figlia? «— Sì, signore, rispose Morcerf, ma in ciò come in tutto il rimanente, la sventura mi perseguitava. Al mio ritorno, Vasiliki e sua figlia Haydée erano sparite. — Le conoscevate? «— La mia intimità col Pascià, e la somma confidenza che aveva nella mia fedeltà, mi avevano permesso di vederle più di venti volte. «— Avete nessuna idea di ciò che sia di loro accaduto? «— Sì, signore. Ho inteso dire ch’erano soggiaciute al loro dispiacere e fors’anche alla loro miseria. Io non era ricco, la mia vita era circondata da grandi pericoli, non potei mettermi alla loro ricerca, con mio sommo dispiacere. «Il presidente aggrottò impercettibilmente il sopracciglio: — Signori, diss’egli, avete inteso e tenuto dietro al sig. conte de Morcerf nelle sue spiegazioni. Sig. conte, potete in appoggio del vostro racconto fornirci qualche testimonio? «— Ahimè! no, signore, rispose il conte; tutti quelli che circondavano il visir, e che mi hanno conosciuto alla sua corte, sono o morti o dispersi. Io solo, credo, io solo dei miei compatriotti sono sopravvissuto a questa spaventosa guerra; non ho che le lettere di Alì-Tebelen, e le ho poste sotto i vostri occhi; non ho che l’anello, pegno della sua volontà, ed eccolo; finalmente ho la prova più convincente che possa fornire, cioè, dopo un assalto anonimo, l’assenza di ogni testimonianza contro la mia parola d’onore; e la purezza di tutta la mia vita militare. — Un mormorio d’approvazione corse per tutta l’assemblea in questo momento, Alberto, e se non fosse sopravvenuto alcun altro nuovo incidente la causa di vostro padre era vinta. Non restava più che andare ai voti, allorchè il presidente prese la parola. «— Signori, diss’egli, e voi, sig. conte de Morcerf, non sarete mal contenti, presumo, di sentire un testimonio importantissimo, a quanto assicura, e che viene ad offrirsi da sè stesso: questo testimonio, non ne dubitiamo, dopo ciò che ha detto il conte, è chiamato a provare la perfetta innocenza del nostro collega. Ecco la lettera che ho ricevuta a questo riguardo; desiderate che vi sia letta, o risolvete che sia passata oltre, senza fermarci a questo incidente? — Il signor de Morcerf impallidì, e raggrinzò le mani sulle carte che aveva davanti, e che rumoreggiarono sotto le sue dita. «La risposta della commissione fu per la lettura: quanto al conte, egli era passivo, e non aveva opinione da emettere. «In conseguenza il presidente lesse la lettera seguente: «Signor Presidente. «Io posso fornire alla commissione giudicante, incaricata ad esaminare la condotta in Epiro ed in Macedonia del Luogotenente generale conte de Morcerf, le informazioni più positive.» «Il presidente fece una corta pausa. Il conte de Morcerf impallidì, il presidente interrogò collo sguardo gli uditori. «— Continuate! fu gridato da tutte le parti. «Il presidente riprese: «Io era sul luogo alla morte d’Alì-Pascià; assisteva ai suoi ultimi momenti; so che cosa è avvenuto di Vasiliki e di Haydée: mi metto a disposizione della commissione, ed anzi reclamo l’onore di farmi ascoltare. Sarò nel vestibolo della _Camera_ quando vi sarà rimesso il presente biglietto.» «— E chi è questo testimonio, o piuttosto questo nemico? domandò il conte con una voce in cui era facile notare la profonda alterazione. «— Lo sapremo ben presto, signore, rispose il presidente. La commissione è di avviso di sentire questo testimonio? «— Sì, sì, dissero ad un tempo tutte le voci. — Fu richiamato l’usciere. — Usciere, domandò il presidente, vi è qualcuno che aspetta nel vestibolo? — Sì, sig. presidente. «E chi? — Una donna accompagnata da un servitore. «Tutti si guardarono in viso l’un l’altro. «— Fate entrare questa donna, disse il presidente. «Cinque minuti dopo, ricomparve l’usciere; tutti gli occhi erano fissi sulla porta, ed io stesso, disse Beauchamp, io prendeva parte alla generale aspettativa ed ansietà. «Dietro all’usciere camminava una donna avvolta in un lungo velo che la nascondeva interamente. S’indovinava bene, alle forme che tradiva questo velo, ai profumi che ne esalavano, la presenza di una donna giovane ed elegante ma nient’altro. Il presidente la pregò di alzare il velo, ed allora si potè vedere una donna vestita alla greca, ed inoltre una bellezza sorprendente. — Ah! disse Morcerf, era dessa. — Come, essa? — Sì, Haydée. — Chi ve lo ha detto? — Ahimè! l’indovino. Ma continuate, Beauchamp, ve ne prego. Voi vedete ch’io sono tranquillo e forte. E frattanto dobbiamo accostarci allo scioglimento. «— Il sig. de Morcerf guardava questa donna, continuò Beauchamp, con sorpresa mista a spavento. Per lui era la vita o la morte che stava per uscire da questa graziosa bocca. Per tutti gli altri era un’avventura così strana e così piena di curiosità, che la salvezza o la perdita del sig. de Morcerf non entrava già più in questo avvenimento che come un elemento secondario. «Il presidente con un segno della mano offerse una sedia a questa giovane, ma ella fece un segno colla testa che restava in piedi. In quanto al conte, era ricaduto sul suo seggio, ed era manifesto che le gambe ricusavano di sostenerlo. «— Signora, disse il presidente, avete scritto alla commissione per darle delle informazioni sull’affare di Giannina, e voi avete avanzato che siete stata testimone oculare di questi avvenimenti. «— E lo fui di fatto, rispose la sconosciuta con una voce piena di vezzosa malinconia, e marcata da una sonorità particolare alle voci orientali. «— Però, permettetemi di dirvi, che allora dovevate essere molto giovane. «— Aveva quattr’anni; ma siccome allora gli avvenimenti avevano per me un’importanza sublime, non mi è sfuggita, nè si è cancellata dalla mia mente una sola particolarità. «— Ma quale importanza avevano dunque per voi questi avvenimenti? e chi siete perchè questa catastrofe vi abbia prodotto una sì grande impressione? «— Si trattava della vita e della morte di mio padre, rispose la giovinetta, ed io mi chiamo Haydée, figlia d’Alì-Tebelen, pascià di Giannina, e di Vasiliki sua moglie prediletta. «Il rossore modesto e fiero ad un tempo che imporporò le guance della giovane, il fuoco dello sguardo, e la maestà della rivelazione produssero su tutta l’assemblea un effetto inesprimibile. In quanto al conte, non sarebbe stato più annichilito, se il fulmine cadendo a lui dappresso gli avesse scavato un abisso ai suoi piedi. — Signora, riprese il presidente, dopo essersi inchinato con rispetto, permettetemi una semplice domanda, che non è un dubbio, e questa domanda sarà l’ultima, potete giustificare l’autenticità di ciò che dite? «— Lo posso, signore, disse Haydée cavando dal di sotto del suo velo una borsa profumata; perchè ecco la fede della mia nascita redatta da mio padre, e soscritta dai suoi principali uffiziali; perchè ecco qui la mia fede di battesimo, avendo mio padre acconsentito che venissi allevata nella religione di mia madre, atto firmato dal primate di Macedonia e dell’Epiro, munito del suo sigillo; ecco finalmente, e questo senza dubbio è il più importante, l’atto di vendita che fu fatta di me e di mia madre al mercante armeno El-Kobbir dall’uffiziale francese, che nel suo infame mercato colla Porta, si era riservata per sua parte di bottino la figlia e la moglie del suo benefattore, che vendè per la somma di mille borse, vale a dire per circa quattrocento mila fr. «Un pallore verdastro invadeva le guance del conte de Morcerf, gli occhi s’iniettavano di sangue all’annunzio di queste terribili imputazioni, che furono accolte dall’assemblea con un lugubre silenzio. Haydée, sempre tranquilla ma molto più minacciosa nella sua calma, che non lo sarebbe stata nella sua collera, stendeva al presidente l’atto di vendita redatto in lingua araba. Siccome si era preveduto che qualcuno degli atti prodotti da Morcerf, sarebbero stati redatti in arabo, in greco, o in turco, l’interprete della _Camera_ era stato prevenuto, e fu chiamato. «Uno dei nobili Pari, a cui la lingua araba era familiare, per averla appresa nella famosa campagna dell’Egitto, seguì con gli occhi sulla carta velina la lettura che il traduttore ne faceva ad alta voce. «Io, El-Kobbir, mercante di schiavi, e fornitore dell’_harem_ di S. A., riconosco di aver ricevuto per rimetterlo al sublime imperatore, dal sig. franco conte di Monte-Cristo, uno smeraldo stimato del valore di mille borse, per prezzo di una giovine schiava cristiana, dell’età di undici anni, di nome Haydée, e figlia riconosciuta del defunto Alì-Tebelen, pascià di Giannina, e di Vasiliki sua favorita; la quale mi era stata venduta sette anni sono unitamente a sua madre, che morì giungendo a Costantinopoli, da un colonnello franco, al servizio del Visir Alì-Tebelen, chiamato Fernando Mondego. La suddetta vendita mi era stata fatta per conto di Sua Altezza, per la quale aveva il mandato, mediante la somma di mille borse. «Fatto a Costantinopoli coll’autorizzazione di S. A. l’anno 1247 dell’egira.» «_Firmato_ El-Kobbir.» «Per dare al presente atto ogni fede, ogni credenza ed ogni autenticità, sarà munito del sigillo imperiale, che il venditore si obbliga di farvi apporre. «Vicino alla firma del mercante, si vedeva infatto il sigillo del sublime imperatore. A questa lettura, e a questa vista successe un terribile silenzio; il conte non aveva più che lo sguardo, e questo sguardo, attaccato suo malgrado sopra Haydée, era di fiamma e di sangue. «— Signora, disse il presidente, si potrebbe interrogare il conte di Monte-Cristo, che credo sia a Parigi e vicino a voi? «— Signore, rispose Haydée, il conte di Monte-Cristo, mio secondo padre, trovasi da tre giorni in Normandia. «— Ma allora, signora, disse il presidente, chi vi ha consigliato questa dimostrazione, di cui la corte vi ringrazia, e che d’altra parte è ben naturale per la vostra nascita e per le vostre disgrazie? «— Signore, rispose Haydée, questa dimostrazione mi è stata consigliata dal mio rispetto e dal mio dolore. Dio mi perdoni! ho sempre pensato a vendicare il mio illustre padre. Ora, quando ho messo il piede in Francia, quando ho saputo che il traditore abitava Parigi, le mie orecchie ed i miei occhi sono rimasti costantemente aperti. Io vivo ritirata nella casa del mio nobile protettore, ma vivo così, perchè amo l’ombra ed il silenzio, che mi permettono di vivere col mio pensiero e col mio raccoglimento. Ma il sig. conte di Monte-Cristo mi circonda di cure paterne, e niente mi è estraneo di ciò che concerne la vita del _gran mondo_; io però ne accetto soltanto il lontano rumore. Così, leggo tutti i giornali, come mi vengono inviati, tutti gli _album_, come ricevo tutte le melodie: ed è seguendo, senza prestarmivi, la vita degli altri, che ho saputo ciò che è accaduto questa mattina alla _Camera_ dei Pari, e ciò che doveva accadere questa sera... allora ho scritto. «— Per tal modo il sig. conte di Monte-Cristo non entra per niente in questa dimostrazione? «— Egli la ignora del tutto, signore, ed anzi non ho che un timore, ed è quello che la disapprovi; però è un bel giorno per me, continuò la giovanetta alzando al cielo uno sguardo tutto ardente di fiamme, quello in cui finalmente ritrovo l’occasione di vendicare mio padre! «In tutto questo tempo il conte non aveva pronunciata una parola; i suoi colleghi lo guardavano, e senza dubbio compiangevano questa fortuna infranta sotto il soffio profumato di una donna; la sua disgrazia gli si andava a poco a poco scrivendo sulla fronte, a linee sinistre. «— Sig. de Morcerf, disse il presidente, riconoscete la sig.ª per figlia d’Alì-Tebelen, pascià di Giannina? «— No, disse Morcerf, facendo uno sforzo per alzarsi, ed è una trama ordita dai miei nemici. «Haydée che teneva gli occhi fissi verso la porta, come se aspettasse qualcuno, si volse all’improvviso, e, vedendo il conte in piedi, mandò un grido terribile. «— Tu non mi riconosci? diss’ella; ebbene! io, fortunatamente riconosco te! tu sei Fernando Mondego, l’uffiziale franco che istruiva le soldatesche del mio nobile padre. Sei tu che hai venduta la fortezza di Giannina! sei tu che, inviato a Costantinopoli per trattare direttamente della vita o della morte del tuo benefattore, hai riportato un falso _firmano_ che accordava grazia intera! sei tu, che con questo _firmano_ hai ottenuto da mio padre l’anello che doveva farti obbedire da Selim, il guardiano del fuoco! sei tu, che hai pugnalato Selim! sei tu, che hai venduto mia madre e me al mercante El-Kobbir! Assassino! assassino! assassino! Tu hai ancora sulla fronte il sangue del tuo padrone! Guardate tutti! — Queste parole furono pronunciate con un tale entusiasmo di verità, che tutti gli occhi si voltarono verso la fronte del conte, e ch’egli stesso vi portò la mano, come se avesse sentito, tiepido ancora, il sangue d’Alì. «— Riconoscete dunque positivamente il conte de Morcerf essere lo stesso, che l’ufficiale Fernando Mondego? «— Sì, lo riconosco! gridò Haydée. Ah! madre mia! tu mi hai detto: «Tu eri libera, tu avevi un padre che ti amava, tu eri destinata ad essere quasi una regina! Guarda bene quest’uomo, egli ti ha fatta schiava, ha fatto innalzare sull’estremità di un’asta la testa di tuo padre, ci ha vendute, ci ha traditi tutti! Guarda bene la sua mano destra, quella che ha una larga cicatrice; se tu dimenticassi il suo viso, lo riconoscerai da questa mano, sulla quale sono cadute una ad una tutte le monete d’oro del mercante El-Kobbir!» Se lo riconosco! oh! che dica se ora egli pure riconosce me! «Ciascuna parola cadeva come una falce su Morcerf, e strappava una parte della sua energia; alle ultime parole egli nascose prestamente, e suo malgrado, la mano nel petto, mutilata infatto da una ferita; e ricadde sul seggio, inabissato in una cupa disperazione. Questa scena aveva sconvolti gli spiriti di tutta l’assemblea, come vedonsi sconvolgere le foglie sotto il possente vento del nord. «— Sig. conte de Morcerf, disse il presidente, non vi lasciate abbattere, rispondete; la giustizia della corte è suprema ed eguale per tutti, essa non vi lascerà schiacciare dai vostri nemici, senza lasciarvi i mezzi di combatterli. Volete che io ordini a due membri de la commissione di andare a fare un viaggio a Giannina? parlate! «Morcerf nulla rispose. Allora tutti i membri della commissione si guardarono con una specie di terrore. Si conosceva l’indole energica e violenta del conte; abbisognava una prostrazione ben terribile per annichilire la difesa di quest’uomo; bisognava finalmente pensare, che a questo silenzio, che somigliava ad un sonno, sarebbe succeduto un risvegliamento, che somiglierebbe ad un fulmine. «— Ebbene? gli domandò il presidente, che risolvete? «— Niente! disse il conte con voce sorda alzandosi. «— La figlia d’Alì-Tebelen, disse il presidente, ha dunque dichiarata realmente la verità? ella è dunque realmente quel testimonio terribile al quale, come sempre accade, il reo non ha coraggio di dire: _NO_? Voi dunque avete realmente fatte tutte quelle cose di cui siete accusato? «Il conte girò intorno a sè uno sguardo disperato che avrebbe commosso le tigri, ma che non poteva disarmare i giudici; indi alzò gli occhi verso la volta, ma li abbassò tosto, come se avesse temuto che quella aprendosi, non facesse risplendere un altro tribunale, che si chiama cielo, ed un altro giudice che si chiama Dio. Allora, con un subitaneo movimento, strappò i bottoni di quell’abito chiuso che lo soffocava, ed uscì dalla sala come un uomo insensato; i suoi passi ripercuoterono per un momento sotto la volta sonora; indi ben presto il rotearsi della carrozza che lo trascinava al galoppo rintronò con fracasso sotto il portico del fiorentino edificio. — Signori, disse il presidente, quando il silenzio fu ristabilito, il sig. conte de Morcerf è convinto di fellonia, di tradimento, d’indegnità? «— Si! — risposero a voce unanime tutti i membri della commissione processante. Haydée aveva assistito fino alla fine della seduta; ella intese pronunciare la sentenza del conte, senza che un solo dei lineamenti del suo viso esprimesse o la gioia o la pietà. Allora riportando il velo sul suo viso, salutò maestosamente i consiglieri, ed uscì di quel passo con cui Virgilio vedeva camminare le sue dee. LXXXVI. — LA PROVOCAZIONE. — Allora, continuò Beauchamp, approfittai del silenzio e dell’oscurità della sala per uscire senza essere veduto. «L’usciere che mi aveva introdotto mi aspettava alla porta. Egli mi condusse attraverso alcuni corridori fino ad una porticella che dava sulla strada Vaugirard: uscii coll’anima addolorata ad un tempo ed entusiasmata, perdonatemi questa espressione, Alberto, addolorata per ciò che ha rapporto a voi, entusiasmata per la nobiltà di questa giovanetta seguitando la vendetta paterna. Sì, ve lo giuro Alberto, qualunque sia la parte da cui viene questa rivelazione, dico che può venire da un nemico, ma esso non è che l’istrumento della Provvidenza. — Alberto si teneva la testa fra le mani; rialzò il viso rosso per la vergogna e bagnato di lagrime, ed afferrando il braccio di Beauchamp: — Amico, diss’egli, la mia vita è finita: mi rimane, non a dire come voi che la Provvidenza mi ha vibrato il colpo, ma a cercare chi è l’uomo che mi perseguita colla sua inimicizia; quando lo conoscerò, o io ucciderò quest’uomo o egli ucciderà me; ora conto sulla vostra amicizia per aiutarmi, Beauchamp, se tuttavolta il disprezzo non l’ha già uccisa nel vostro cuore. — Il disprezzo, amico mio! ed in che questa disgrazia vi riguarda? No, grazie a Dio! non siamo in quei tempi in cui un ingiusto pregiudizio rendeva i figli garanti delle azioni dei padri. Riandate tutta la vostra vita, Alberto; ella data da ieri, è vero; ma giammai aurora di un bel giorno fu più pura della vostra alba. No, credetemi, voi siete ricco; lasciate la Francia, tutto si dimentica in questa grande Babilonia che ha un’esistenza agitata e gusti passaggieri; ritornerete fra tre o quattro anni, avrete sposata qualche principessa russa, e nessuno penserà più a quello che è accaduto da sedici anni. — Grazie, caro Beauchamp, grazie dell’eccellente intenzione che dettavano le vostre parole, ma la cosa non può andar così; vi ho spiegato il mio desiderio; ora se abbisogna, cambierò la parola desiderio in quella di volontà: capirete bene che interessato come sono in quest’affare, non posso veder la cosa con lo stesso occhio con cui la vedete voi. Ciò che a voi sembra venir da una sorgente celeste, a me sembra sorger da un luogo men puro. La Provvidenza, vel confesso, mi sembra affatto estranea a tutto ciò, e fortunatamente, perchè invece dell’invisibile o dell’impalpabile messaggiere delle punizioni celesti, troverò un essere palpabile e visibile su cui mi vendicherò; oh! sì, ve lo giuro, di quanto soffro da un mese; rientrerò nella vita umana e materiale, e se siete ancor mio amico, Beauchamp, come lo dite, aiutatemi a ritrovar la mano, che ha scagliato il colpo. — Allora sia così, disse Beauchamp, e se vi sta a cuore ch’io discenda sulla terra, lo farò; se vi sta a cuore di mettervi in cerca di un nemico vi aiuterò; e lo troverò perchè importa quasi tanto al mio onore che al vostro di ritrovarlo. — Ebbene, allora Beauchamp, in questo punto, senza ritardo, cominciamo le nostre investigazioni. Ciascun minuto di ritardo è una eternità per me, il denunciatore non è ancor punito, egli può dunque sperare di non esserlo più, e sul mio onore, s’egli lo spera, s’inganna. — Ebbene, ascoltatemi, Morcerf. — Ah! Beauchamp, vedo che voi sapete qualche cosa; sentite, voi mi ridate la vita. — Non vi dico che questa sia la realtà, Alberto; ma per lo meno è un chiaror nelle tenebre; e seguendo questo chiarore saremo forse condotti alla meta. — Dite, vedete bene ch’io balzo d’impazienza. — Ebbene, vi racconterò ciò che non ho voluto dirvi al mio ritorno da Giannina. Io andai naturalmente dal primo banchiere della città per prendere le mie informazioni; alla prima parola che dissi dell’affare, prima ancora che fosse stato pronunciato il nome di vostro padre: — Ah! diss’egli, indovino che cosa qui vi conduce. — Come! perchè? «— Perchè sono appena quindici giorni che sono stato richiesto sullo stesso soggetto. «— Da chi? — Da un banchiere di Parigi mio corrispondente. — Come si chiama? — Il sig. Danglars.» — Egli! gridò Alberto, infatto da lungo tempo ei perseguita il mio povero padre col suo odio, e colla sua gelosia; egli, l’uomo che si crede popolare, che non sa perdonare al conte de Morcerf d’essere Pari di Francia. E, sentite, questa rottura di matrimonio senza darne una ragione, sì... dipende da ciò. — Informatevi, Alberto, non vi lasciate da ora trasportare, e se la cosa è vera... — Oh! sì, gridò il giovine, e se la cosa è vera, egli mi pagherà tutto ciò che ho sofferto. — State in guardia, Morcerf, egli è un uom già vecchio. — Avrò riguardo all’onore della mia famiglia; s’egli odiava mio padre, perchè non ha colpito mio padre? oh! no; ha avuto paura di ritrovarsi in faccia ad un uomo. — Alberto, io non vi condanno, ma operate con prudenza. — Oh! non abbiate paura; d’altra parte mi accompagnerete, Beauchamp; le cose solenni devono essere trattate davanti ad un testimonio. Prima della fine di questa giornata, se il sig. Danglars è il reo, egli avrà cessato di vivere, o io sarò morto. Per bacco! Beauchamp, vo’ fare dei bei funerali al mio onore. — Ebbene! allora quando si sono prese tali risoluzioni, Alberto, bisogna sul momento metterle ad esecuzione. Volete andare dal sig. Danglars? partiamo. — Fu mandato a chiamare un _cabriolet_ di piazza. Nell’entrare nel palazzo del banchiere, videro alla porta il _phaéton_ ed il domestico del sig. Andrea Cavalcanti. — Ah! per bacco! ecco a chi va bene! disse Alberto con voce cupa. Se il sig. Danglars non vuol battersi meco, gli ucciderò suo genero. Egli deve essere uomo da accettare una sfida, dovrebbe battersi, è un Cavalcanti! — Fu annunciato il giovine al banchiere, che, al nome di Alberto, sapendo che cosa era accaduto il giorno innanzi, gli fece proibire l’ingresso. Ma era troppo tardi, Alberto aveva seguito il lacchè; intese l’ordine dato, e violentando la porta, penetrò, seguito da Beauchamp, fino nel gabinetto del banchiere. — Ma signore, gridò questi, non si è più padroni in casa di ricevere chi si vuole, e ricusare chi non si vuole? mi sembra che voi lo dimentichiate in un modo strano. — No, signore, disse freddamente Alberto; vi sono delle occasioni, e voi siete in una di queste, in cui abbisogna, salvo il caso di viltà, vi offro questo rifugio, essere in casa sua almeno per certe persone. — Allora che volete dunque, o signore? — Voglio, disse Morcerf avvicinandosi senza sembrare di fare attenzione a Cavalcanti che si era appoggiato al caminetto, voglio proporvi un convegno in un luogo appartato, in cui nessuno possa disturbarci per dieci minuti, non vi domando di più; ove di due uomini che si saranno incontrati, uno rimarrà sul terreno. — Danglars impallidì, Cavalcanti fece un movimento, Alberto si voltò verso il giovine: — Oh! mio Dio! diss’egli, venite voi pure, se vi piace, sig. conte, avete il diritto di esservi, siete quasi della famiglia, e io do questa specie di convegno a quante persone si trovano per accettarlo. — Cavalcanti guardò con aria stupefatta Danglars, il quale, facendo uno sforzo, si levò, e si avanzò fra i due giovani. L’assalto d’Alberto ad Andrea lo poneva sopra un altro terreno; e sperava che la visita d’Alberto avesse uno scopo diverso da quello che si era figurato sul principio. — E che! signore, diss’egli ad Alberto: se venite qui a muover lite al signore, perchè lo preferisco a voi, vi prevengo che ne farò oggetto di causa davanti al procuratore del Re. — Vi sbagliate, signore, disse Morcerf con un tetro sorriso, non parlo di matrimonio, e non mi sono indirizzato al sig. Cavalcanti se non perchè mi è sembrato che per un momento abbia avuta l’intenzione d’intervenire nella nostra discussione. E poi sentite, voi avete ragione, diss’egli, io cerco contesa oggi con tutti; ma siate tranquillo, sig. Danglars, l’anteriorità spetta a voi. — Signore, rispose Danglars pallido per la collera e per la paura, vi avverto che, allorquando ho la disgrazia d’incontrare sul mio sentiero un cane arrabbiato, lo ammazzo, e che lungi dal credermi colpevole, mi sembra di avere reso un servizio alla società. Ora se siete arrabbiato, e tentate di mordermi, vi prevengo che vi ammazzerò senza pietà. È forse mia colpa, se vostro padre è disonorato? — Sì, miserabile! gridò Morcerf, è colpa tua. Danglars fece un passo indietro. — Colpa mia? ma siete pazzo! forse conosco la storia greca? forse ho viaggiato in quei paesi? ho consigliato vostro padre di vendere la fortezza di Giannina? di tradire...? — Silenzio! disse Alberto con voce sorda. No, non siete stato voi che direttamente avete fatto questo strepito, e causato questa disgrazia, ma siete stato voi che ipocritamente l’avete instigata. — Io! — Sì, voi! donde viene la rivelazione? — Mi sembra che il giornale ve lo abbia detto; da Giannina, per bacco! — Chi ha scritto a Giannina? — Mi sembra, che tutti possano scrivere a Giannina. — Un solo però vi ha scritto, e questi siete voi. — Io ho scritto senza dubbio; mi sembra che quando uno marita sua figlia ad un giovine, possa prendere delle informazioni sulla famiglia di questo giovine; non è soltanto un diritto, ma un dovere. — Voi avete scritto, signore, disse Alberto, sapendo perfettamente la risposta che vi sarebbe venuta. — Io! Ah! vi giuro bene, gridò Danglars, con una confidenza ed una sicurezza che venivano ancor meno dalla sua paura, forse che dalla premura che sentiva pel disgraziato giovine, vi giuro, che non avrei mai pensato a scrivere a Giannina. Conosco forse la catastrofe di Alì-Pascià, io? — Allora qualcuno vi ha spinto a scrivere? — Certamente. — Voi siete stato instigato? — Sì. — Chi è stato?... terminate... dite... — Per bacco! niente di più semplice, io parlava degli antecedenti di vostro padre, diceva che la sorgente della fortuna era sempre rimasta oscura. La persona mi domandò in che luogo vostro padre aveva fatta questa fortuna: risposi, «in Grecia.» Allora mi disse «ebbene, scrivete a Giannina.» — E chi vi ha dato questo consiglio? — Per bacco! il conte di Monte-Cristo vostro amico. — Il conte di Monte-Cristo vi ha detto di scrivere a Giannina? — Sì, ed io ho scritto. Volete vedere la mia corrispondenza? ve la mostrerò. — Alberto e Beauchamp si guardarono. — Signore, disse allora Beauchamp che non aveva preso ancora la parola, mi sembra che voi accusiate il conte, che è assente da Parigi, e che non può giustificarsi in questo momento. — Non accuso alcuno, signore, disse Danglars, racconto; e ripeterò davanti al sig. conte di Monte-Cristo, ciò che ho detto davanti a voi. — Ed il conte sa qual è la risposta che avete ricevuta? — Io la mostrai a lui. — Sapeva che il nome di battesimo di mio padre era Fernando ed il suo cognome di famiglia Mondego. — Sì, glie lo aveva detto da lungo tempo; per soprappiù, non ho fatto in ciò che quel che avrebbe fatto qualunque al mio posto, e fors’anche molto meno. Quando la dimane di questa risposta, sollecitato dal sig. di Monte-Cristo, venne vostro padre a domandarmi officialmente mia figlia, come si fa quando la si vuol finire, rifiutai brevemente, è vero, ma senza spiegazioni, senza rumori. Infatto, perchè avrei dovuto far del rumore? che cosa poteva importarmi dell’onore o del disonore dei Morcerf? Ciò non faceva nè alzare, nè abbassare le pubbliche rendite. Alberto sentì il rossore salirgli alla fronte; non v’era più alcun dubbio. Danglars si difendeva colla bassezza, ma colla sicurezza di un uomo che dice, se non tutta la verità, almeno una parte di verità, non per coscienza, ma per terrore. D’altra parte che cercava Morcerf? non il più o meno di reità di Danglars, o di Monte-Cristo, ma un uomo che rispondesse alla offesa grave o leggiera, un uomo che si battesse, ed era evidente che Danglars non si batterebbe. E quindi ciascuna delle cose dimenticate o inosservate ritornavano visibili ai suoi occhi e presenti al suo pensiero. Monte-Cristo sapeva tutto, poichè avea comprata la figlia di Alì-Pascià; ora, sapendo tutto, aveva incaricato Danglars di scrivere a Giannina. Conosciuta la risposta, aveva acconsentito al desiderio, manifestato da Alberto, di essere presentato ad Haydée; una volta davanti ad essa, aveva lasciato cadere il discorso sulla morte d’Alì senza opporsi al racconto di Haydée (ma avendo senza dubbio dato alla giovinetta, nelle poche parole che aveva pronunziato in greco, le sue istruzioni che non avevano permesso a Morcerf di riconoscere suo padre); del resto non aveva pregato Morcerf di non pronunciare il nome di suo padre davanti ad Haydée? Finalmente aveva condotto Alberto in Normandia nel momento in cui sapeva che doveva nascere il gran susurro. Non v’era più da dubitarne, tutto ciò era uno studio, e Monte-Cristo senza dubbio se la intendeva con i nemici di suo padre. Alberto prese Beauchamp in un angolo, e gli comunicò tutte queste idee: — Voi avete ragione, disse questi, il sig. Danglars non entra in questo affare che per la parte brutale e materiale, ed al sig. di Monte-Cristo voi dovete domandare una spiegazione. Alberto si rivoltò: — Signore, disse egli a Danglars, capirete che io non prendo ancora da voi un congedo definitivo; mi resta a sapere se le vostre recriminazioni sono giuste, e vado sul momento ad assicurarmene presso il sig. conte di Monte-Cristo. — E salutando il banchiere, uscì con Beauchamp, senza sembrare di occuparsi menomamente di Cavalcanti. Danglars li ricondusse fino alla porta, rinnovando ad Alberto l’assicurazione che nessun motivo di odio personale lo guidava contro il sig. conte de Morcerf. LXXXVII. — L’INSULTO. Alla porta del banchiere, Beauchamp fermò Morcerf. — Ascoltate; or ora vi ho detto in casa Danglars, che al sig. di Monte-Cristo dovevate domandare una spiegazione? — Sì: e noi andiamo da lui. — Un momento, prima di andare dal conte, riflettete. — A che cosa? — Alla gravità del passo. — È forse più grave, che andar dal sig. Danglars? — Sì, il sig. Danglars è un uomo di danaro, e, voi lo sapete, gli uomini di danaro sanno troppo bene il capitale che arrischiano per battersi facilmente. L’altro, al contrario, è un gentiluomo, almeno in apparenza; e non temete sotto il gentiluomo di ritrovare il bravo? — Temo solo di trovare un uomo che non si batta. — Oh! siate tranquillo, egli si batterà. Ho anzi paura che si batta troppo bene; state in guardia! — Amico, disse Morcerf, con un bel sorriso, questo è ciò che io domando, questo è ciò che mi può accadere di più avventuroso, vale a dire di essere ucciso per mio padre: ciò salverà noi tutti. — Vostra madre ne morrà. — Povera madre! disse Alberto passando la mano sopra i suoi occhi, lo so bene, ma vale meglio che io muoia per questo che morire di vergogna. — Siete ben risoluto, Alberto? Andiamo dunque! — Ma credete che lo troviamo? — Egli doveva ritornare poche ore dopo di me, e certamente sarà arrivato. — Essi salirono e si fecero condurre all’entrata dei Campi-Elisi n. 30. Beauchamp voleva discendere solo, ma Alberto fece osservare che questo affare, uscendo dalle regole ordinarie, gli permetteva di allontanarsi dall’etichetta del duello. Il giovine operava in modo che Beauchamp non aveva altro a fare, che a prestarsi a tutte le sue volontà; egli cedè dunque a Morcerf, e si contentò di seguirlo. Alberto non fece che uno slancio dal casotto del portinaro alla scalinata. Battistino lo ricevette. Il conte era effettivamente arrivato, ma era nel bagno, ed aveva proibito di ricevere chicchessia. — Ma dopo il bagno? domandò Morcerf. — Il signore pranzerà. — E dopo il pranzo? — Il signore dormirà un’ora. — E dopo? — Dopo anderà all’_Opera_. — Ne siete sicuro? domandò Alberto. — Perfettamente sicuro! il signore ha ordinato i cavalli per le otto precise. — Benissimo! replicò Alberto, ecco quanto voleva sapere. — Indi volgendosi a Beauchamp: — Se avete qualche cosa da fare, Beauchamp, fatelo presto; se avete ritrovi per questa sera, aggiornateli a domani. Capirete che io conto su voi per andare all’_Opera_. Se potete, conducete con voi Château-Renaud. Beauchamp approfittò del permesso, e lasciò Alberto, dopo avergli promesso d’andarlo a prendere alle otto meno un quarto. Rientrato in casa, Alberto avvisò con un biglietto Franz, Debray, e Morrel, del desiderio che aveva di vederli in quella sera all’_Opera_. Indi andò a visitare sua madre, che dopo l’avvenimento del giorno innanzi aveva fatto dire non essere visibile, e stava ritirata nella sua camera. Egli la ritrovò in letto, oppressa dal dolore di quella pubblica umiliazione. La visita d’Alberto produsse quell’effetto che è da immaginarsi; ella strinse la mano al figlio, ed irruppe in singhiozzi. Però queste lagrime la sollevarono. Alberto rimase un momento in piedi e muto vicino al letto di sua madre. Si scorgeva dal suo pallido viso, e dal sopracciglio aggrottato, che il desiderio di vendetta andava sempre più radicandosi nel suo cuore. — Madre mia, proruppe Alberto, conoscete voi nessun nemico del sig. Morcerf? Mercedès fremette; ella aveva osservato che il giovine non aveva detto di mio padre. — Amico mio, diss’ella, gli uomini nella posizione del conte hanno molti nemici ch’essi non conoscono. D’altra parte i nemici che si conoscono, sapete, non sono i più pericolosi. — Sì, lo so; ed è per questo che mi rivolgo a tutta la vostra perspicacia. Madre mia, siete una donna superiore alle altre, e cui niente sfugge! — Perchè mi dite questo? — Perchè avete notato, per esempio, che la sera che abbiamo dato il ballo, il sig. di Monte-Cristo non ha voluto prender niente in casa nostra. Mercedès alzandosi tutta tremante sul suo braccio, ardente per la febbre: — Il sig. di Monte-Cristo! gridò ella, e qual rapporto avrebb’egli colla domanda che mi fate? — Voi lo sapete, madre mia, il sig. di Monte-Cristo è un uomo d’Oriente, e gli orientali per conservare la loro libertà di vendetta non mangiano nè bevono mai in casa dei loro nemici. — Il sig. di Monte-Cristo nemico? riprese Mercedès più pallida del lenzuolo che la copriva. Chi vi ha detto questo? siete folle, Alberto. Il sig. di Monte-Cristo non ha usato con noi che gentilezze. Il sig. di Monte-Cristo vi ha salvata la vita, e voi stesso ce lo avete presentato. Oh! ve ne prego, figlio mio, se avete una simile idea, allontanatela, e se io ho una raccomandazione a farvi, anzi dirò di più, se ho una preghiera da indirizzarvi, quella si è che vi mantenghiate in armonia con quest’uomo. — Madre mia, replicò il giovine con uno sguardo sinistro, avete le vostre ragioni per dirmi di usare de’ riguardi a quest’uomo? — Io? gridò Mercedès arrossendo con quella rapidità con cui aveva impallidito, e ritornando quasi subito più pallida ancora di prima. — Sì; senza dubbio, e questa ragione non è, riprese Alberto, perchè quest’uomo può farci del male? Mercedès fremette, e fissando sopra suo figlio uno sguardo scrutatore: — Voi mi parlate in un modo strano, e mi sembra che abbiate delle singolari prevenzioni. E che vi ha dunque fatto il conte? sono tre giorni che eravate con lui in Normandia, sono tre giorni che io lo riguardava, e lo riguardavate voi stesso, come uno dei vostri migliori amici.. Un sorriso ironico sfiorò le labbra d’Alberto. Mercedès vide questo sorriso, e con il doppio istinto di donna e di madre, indovinò tutto: ma prudente e forte seppe nascondere il suo turbamento ed i suoi fremiti. Alberto lasciò cadere la conversazione; un momento dopo la contessa la riannodò. — Voi siete venuto a chiedermi come stava, diss’ella; vi risponderò francamente, amico mio, mi sento bene. Voi fermatevi qui, Alberto; mi dovreste tenere compagnia. Ho bisogno di non rimaner sola. — Madre mia, disse il giovine, mi presterei ai vostri ordini, e voi sapete con quale felicità, se un affare importante non mi obbligasse a dovervi lasciare tutta la serata. — Ah! benissimo, rispose Mercedès con un sospiro, andate, non voglio rendervi schiavo della vostra pietà filiale. Alberto fece sembiante di non capire, salutò sua madre ed uscì. Appena il giovine ebbe chiusa la porta, Mercedès fece chiamare un servitore di confidenza, e gli ordinò di seguire Alberto ovunque andasse nella serata, e di venirlene a rendere conto sul momento. Indi suonò per la sua cameriera, e quantunque fosse assai debole, si fece vestire per esser pronta ad ogni avvenimento. La commissione data al lacchè non era difficile ad eseguirsi. Alberto rientrò nelle sue camere, e si rivestì con una specie di ricercata severità. Beauchamp giunse alle otto meno dieci minuti; egli aveva veduto Château-Renaud che gli aveva promesso di trovarsi in orchestra prima dell’alzata del sipario. Salirono entrambi nel _coupé_ d’Alberto che, non avendo alcun motivo di nascondere ove andava, disse ad alta voce: — All’_Opera_. Nella sua impazienza era entrato prima assai dell’alzata del sipario. Château-Renaud era al suo posto; avvisato di tutto da Beauchamp, Alberto non aveva alcuna spiegazione da dargli. La condotta di questo figlio che cercava di vendicare suo padre era così semplice, che Château-Renaud non osò neppure di dissuaderlo e si contentò di rinnovargli l’assicurazione ch’egli era a sua disposizione. Debray non era ancora giunto, ma Alberto sapeva che difficilmente mancava ad una rappresentazione. Alberto andò errando pel teatro fino all’alzata del sipario. Egli sperava d’incontrare Monte-Cristo, o nei corridoi o per le scale; il campanello lo richiamò al suo posto, ed andò a sedersi in orchestra fra Beauchamp e Château-Renaud. Ma Alberto non levò un momento gli occhi dal palco dell’intercolunnio, che durante tutto il primo atto sembrava ostinarsi a rimanere vuoto. Finalmente, mentre Alberto per la centesima volta guardava l’orologio, al principio del second’atto la porta del palco si aprì, e Monte-Cristo vestito di nero, entrò e si appoggiò al parapetto per guardare in platea; Morrel lo seguì, cercando cogli occhi sua sorella e suo cognato. Egli li scoperse in un palco del second’ordine e loro fece un segno. Il conte, gettando il suo colpo d’occhio circolare nella sala, scoperse una testa pallida, e due occhi scintillanti, che sembravano evidentemente attirare i suoi sguardi; egli riconobbe Alberto, ma l’espressione ch’egli notò in questo viso contraffatto lo consigliò senza dubbio di far sembiante di non averlo osservato. Senza far dunque alcun movimento che scoprisse il suo pensiero, si assise, cavò l’occhialetto dall’astuccio, e guardò da un’altra parte. Ma senza sembrare di guardare Alberto il conte non lo perdeva di vista ed allora quando fu calato il sipario alla fine del secondo atto, il suo colpo d’occhio infallibile e sicuro seguì il giovine che usciva dall’orchestra accompagnato dai suoi due amici. Indi la stessa testa ricomparve ai cristalli di un palco posto di rimpetto al suo. Il conte sentì approssimarglisi la tempesta, e quando intese la chiave girare nella serratura del suo palco, quantunque in quello stesso punto parlasse a Morrel col viso più ridente, il conte sapeva che cosa doveva aspettarsi, e si era preparato a tutto. La porta s’apri. Monte-Cristo si voltò soltanto allora, e vide Alberto livido e tremante; dietro a lui erano Beauchamp e Château-Renaud. — Osservate! gridò egli con quella benevola gentilezza che distingueva il suo saluto dalla fatua civiltà della società, ecco il mio cavaliere giunto alla meta. Buona sera sig. de Morcerf. — Ed il viso di quest’uomo straordinariamente padrone di sè stesso, esprimeva la più perfetta cordialità. Morrel si ricordò soltanto allora della lettera che aveva ricevuta dal visconte, e nella quale, senz’altra spiegazione, questi lo pregava di ritrovarsi all’_Opera_, e capì subito che stava per accadere qualche cosa di terribile. — Noi non veniamo qui per ricambiarci ipocrite gentilezze, o false apparenze d’amicizia, disse il giovine, veniamo a domandarvi una spiegazione sig. conte. La voce tremante del giovine durava fatica e passare fra i suoi denti stretti. — Una spiegazione all’_Opera_? disse il conte con un tuono così tranquillo, ed un colpo d’occhio così penetrante, che si riconobbe da questa doppia caratteristica l’uomo eternamente padrone di sè stesso. Per quanto sia poco familiare alle costumanze parigine, non avrei creduto, signore, che qui si domandassero spiegazioni. — Però, quando le persone si tengono nascoste, disse Alberto, quando non si può giungere fino a loro sotto il pretesto che son al bagno, a tavola, o a letto, bisogna bene indirizzarsi loro ove si trovano. — Io non sono difficile a ritrovare, perchè ieri ancora, ho buona memoria, il signore era in casa mia. — Ieri, disse il giovine, cui incominciava a confondersi la testa, era in casa vostra, perchè non sapeva chi foste. E dicendo queste parole, Alberto aveva alzata la voce in modo da farsi sentire dalle persone dei palchi vicini, e da quelle che passavano pel corridoio. Per ciò, le persone dei palchi si voltarono, quelle del corridoio si fermarono dietro Beauchamp e Château-Renaud al rumore di questo alterco. — E di dove venite adunque, signore? disse Monte-Cristo senza la menoma apparente emozione: non mi sembrate godere tutto il vostro buon senso. — Purchè io capisca le vostre perfidie, signore, e giunga a farvi capire che io voglio vendicarmene, sarò sempre abbastanza ragionevole, disse Alberto furioso. — Signore, non vi capisco, replicò Monte-Cristo, e quand’anche vi capissi, parlereste sempre troppo forte; qui sono in casa mia, signore, ed io solo ho qui il diritto d’alzare la voce al di sopra degli altri; uscite, signore! E Monte-Cristo mostrò la porta ad Alberto con un ammirabile gesto di comando. — Ah! vi farei uscire di casa vostra? riprese Alberto spiegazzando un guanto colle sue mani convulse, che Monte-Cristo non perdeva di vista. — Bene, bene! disse flemmaticamente Monte-Cristo, voi mi cercate contesa, signore, lo vedo; ma voglio darvi un consiglio, visconte, e ritenetelo bene; è un cattivo costume quello di far del susurro nel provocare; il rumore non accomoda a tutti, sig. de Morcerf. — A questo nome, un mormorio di meraviglia passò come un fremito in tutti gli uditori di questa scena. Fin dal giorno innanzi il nome di Morcerf era nella bocca di tutti. Alberto, meglio degli altri, e prima di tutti, comprese l’allusione, e fece un gesto per gettare il guanto sul viso del conte; ma Morrel gli afferrò il pugno, mentre che Beauchamp e Château-Renaud, temendo che la scena non oltrepassasse i limiti di una provocazione, lo ritenevano per di dietro. Monte-Cristo, senza alzarsi, inchinandosi sulla sedia, stese soltanto la mano, e prendendo dalle mani increspate del giovine il guanto umido e contorto: — Signore, diss’egli con un accento terribile, ritengo il vostro guanto come gettato, e ve lo rimetterò avvolto intorno ad una palla. Ora, uscite di casa mia, o chiamo i miei servitori, e vi faccio gettare alla porta. Ebbro, atterrito, cogli occhi sanguinolenti, Alberto fece due passi in addietro. Morrel ne approfittò per chiudere la porta. Monte-Cristo riprese l’occhialino e si mise a guardare come se non fosse accaduto niente di straordinario. Quest’uomo aveva un cuore di bronzo ed un viso di marmo. Morrel gli si accostò all’orecchio: — Che gli avete fatto? — Io? niente, almeno personalmente, disse Monte-Cristo. — Però questa scena deve avere una causa? — L’avventura del conte de Morcerf esaspera il giovine disgraziato. — Vi avete forse qualche parte? — Fu per mezzo di Haydée che la _Camera_ venne istruita del tradimento del padre di lui. — Di fatto, disse Morrel, mi fu detto; ma io non voleva credere, che questa schiava greca che ho veduto qui, in questo stesso palco, fosse la figlia d’Alì-Pascià. — Eppure è la verità. — Oh! mio Dio! ora comprendo tutto, disse Morrel, questa scena era premeditata. — In qual modo? — Sì, Alberto mi ha scritto di trovarmi questa sera all’_Opera_, era per farmi testimonio dell’insulto che voleva usarvi. — Probabilmente, disse Monte-Cristo colla sua imperturbabile tranquillità. — Ma che farete di lui? — Di chi? — D’Alberto! — D’Alberto, riprese Monte-Cristo collo stesso tuono, che ne farò, Massimiliano? Tanto è vero che siete qui, e che vi stringo la mano, quanto che io lo ucciderò domani prima delle dieci a. m., ecco ciò che io ne farò. — Morrel a sua volta prese fra le sue la mano di Monte-Cristo, e rabbrividì nel sentire questa mano placida e fredda. — Ah! conte, gli disse, suo padre lo ama tanto! — Non mi state a dire tali cose, altrimenti lo farò soffrire! gridò Monte-Cristo col primo movimento di collera che fino allora sembrasse provare. — Morrel stupefatto lasciò ricadere la mano di Monte-Cristo. — Conte! Conte! diss’egli. — Caro Massimiliano, ascoltate dunque in che adorabile modo Duprez canta questo verso; _O Matilde idolo del mio cor_! Morrel capì che non v’era più niente da dire. Il sipario che si era alzato al finire della scena d’Alberto, tornò a calare; quasi subito dopo fu battuto alla sua porta. — Entrate, disse Monte-Cristo, senza che la sua voce manifestasse la menoma emozione. — Beauchamp comparve. — Buona sera, sig. Beauchamp, disse Monte-Cristo, come se vedesse il giornalista per la prima volta nella serata; sedete adunque. Beauchamp salutò, entrò, e si assise: — Signore, diss’egli a Monte-Cristo, or ora io accompagnava, come avrete potuto vedere, il sig. de Morcerf. — Ciò vuol dire, riprese Monte-Cristo ridendo, che voi probabilmente avrete pranzato insieme. Sono ben contento di vedere, signor Beauchamp, che siete più sobrio di lui. — Signore, disse Beauchamp, Alberto ha avuto, ne convengo, torto nel lasciarsi trasportare, e vengo per proprio mio conto a farvene delle scuse. Ora che le mie scuse sono fatte, le mie, intendete bene signor conte? vengo a dirvi che vi credo troppo galantuomo per ricusarvi dal darmi delle spiegazioni sul soggetto delle vostre relazioni colle persone di Giannina! indi aggiungerò due parole sul conto della giovine greca. — Monte-Cristo fece con gli occhi e con le labbra, un piccolo gesto che comandava il silenzio: — Andiamo, aggiunse egli ridendo, ecco tutte le mie speranze distrutte. — In qual modo? domandò Beauchamp. — Senza dubbio, voi vi affannate di farmi un credito di eccentricità; io sono a parer vostro, un Lara, un Manfredi, un Lord Ruthwen; indi passato il momento di vedermi eccentrico, guastate il mio tipo, tentate di farmi diventare un uomo oscuro; mi volete comune volgare; infine mi domandate quelle spiegazioni. Su via! sig. Beauchamp, voi volete ridere. — Frattanto, riprese Beauchamp con alterigia, vi sono delle congiunture in cui la probità ordina... — Sig. Beauchamp, interruppe l’uomo strano, chi comanda al conte di Monte-Cristo è il conte di Monte-Cristo. Così dunque non dite una parola di più su questo argomento, se vi aggrada; faccio ciò che voglio, sig. Beauchamp, e credetemi, è sempre fatto benissimo. — Signore, le persone oneste non si pagano con questa moneta; sono necessarie delle guarentigie all’onore. — Signore, sono una garanzia vivente, rispose Monte-Cristo impassibile, i cui occhi però s’infiammavano di lampi minacciosi. Entrambi abbiamo nelle vene del sangue, che abbiamo volontà di versare, ecco la nostra mutua garanzia. Riportate questa risposta al visconte, e ditegli che domani alle dieci, avrò veduto il colore del suo. — Non rimane adunque, disse Beauchamp, che di stabilire le condizioni del combattimento. — Ciò ancora mi è del tutto indifferente, signore, disse il conte di Monte-Cristo; era dunque inutile di venirmi a disturbare allo spettacolo per una cosa di sì poco momento. In Francia, uno si batte alla spada o alla pistola; nelle colonie si preferisce la carabina; nell’Arabia si adopera il pugnale. Dite al vostro cliente, che, quantunque sia io l’insultato, gli lascio la scelta delle armi, e che accetterò tutto senza contestazione; tutto, intendete bene? tutto, anche il combattimento per mezzo della sorte, cosa che sempre è stupida. Ma per me è un affare diverso, sono sicuro di vincere. — Sicuro di vincere? ripetè Beauchamp guardando il conte con occhio atterrito. — Eh! certamente, disse Monte-Cristo, alzando leggermente le spalle. Senza ciò non mi batterei col sig. de Morcerf. Lo ucciderò, ciò è necessario, e sarà fatto. Soltanto non fate neppure una parola di tutto ciò in casa mia questa sera, indicatemi l’arme e l’ora, non amo di farmi sentire. — Alla pistola, alle otto del mattino, al bosco di Vincennes, disse Beauchamp sconcertato, non sapendo se aveva che fare con un fanfarone tracotante, o con un essere soprannaturale. — Sta bene, signore, disse Monte-Cristo; ora che tutto è in regola, lasciatemi sentire lo spettacolo, ve ne prego, e dite al vostro amico Alberto di non ritornare questa sera; egli si farebbe un torto con tutte le sue brutalità di cattivo gusto; che ritorni a casa, e che dorma. — Beauchamp uscì tutto maravigliato. — Ora, disse Monte-Cristo voltandosi a Morrel, conto su voi, n’è vero? — Certamente, disse Morrel, e potete disporre di me, conte; però... — Che cosa? — Sarebbe importante, che conoscessi la vera causa... — Vale a dire che rifiutate? — No. — La vera causa Morrel, disse il conte, il giovine che cammina alla cieca non la conosce neppur lui. La vera causa non è conosciuta che da me e dal cielo; ma vi do la mia parola d’onore, Morrel, che il cielo la conosce, e sarà a nostro favore. — Basta così, conte, disse Morrel. Chi è il vostro secondo testimonio? — Non conosco nessuno a Parigi cui dare questo onore, che voi Morrel e vostro cognato Emmanuele. Credete che egli vorrà rendermi questo favore? — Vi garantisco per lui, come per me, conte. — Bene! ciò è quanto mi abbisogna. Domattina alle sette sarete da me, non è vero? — Vi saremo. — Zitto! ecco che si rialza il sipario, ascoltiamo. Ho il costume di non perdere una nota di quest’opera; è tanto adorabile la musica del _Guglielmo Tell_. LXXXVIII. — LA NOTTE. Il sig. di Monte-Cristo aspettò, secondo il solito, che Duprez avesse cantato il suo famoso _Seguitemi!_ e allora soltanto si alzò ed uscì. Alla porta Morrel lo lasciò, rinnovandogli la promessa di essere da lui, con Emmanuele, la dimane alle sette precise: indi montò nel suo _coupé_, sempre tranquillo e sorridente. Cinque minuti dopo era in casa sua. Bisognava soltanto non conoscere il conte per lasciarsi ingannare dalla espressione colla quale, entrando in casa, disse ad Alì: — Datemi le mie pistole dalla incassatura d’avorio. Alì portò il cassettino al suo padrone, e questi si mise ad esaminare le armi con quella premura tanto naturale ad un uomo che sta per affidare la sua vita ad un poco di ferro e di piombo. Erano pistole particolari, che Monte-Cristo aveva fatto costruire appositamente per tirare al bersaglio nel suo appartamento. Una _capsula_ bastava per cacciare una palla, e, dalla camera vicina, non si sarebbe potuto credere che il conte stava, come si dice in termine di bersaglio, esercitandosi la mano. Stava brandendo l’arma colla mano, e cercando la mira sur un piccolo pezzetto di tela che serviva di bersaglio, allor quando si aprì la porta del suo gabinetto ed entrò Battistino. Ma prima ancora che avesse aperta la bocca, il conte si accorse dalla porta rimasta semi-aperta, di una donna velata in piedi, posta alla debole luce della camera vicina, e che aveva seguito Battistino. Ella aveva scorto il conte colla pistola alla mano, vedeva due spade sopra una tavola, e si slanciò dentro. Battistino consultò con uno sguardo il suo padrone. Il conte fece un segno, Battistino si ritirò, e chiuse la porta dietro a sè. — Chi siete voi, signora? disse il conte alla donna velata. L’incognita gettò uno sguardo intorno a sè per assicurarsi, se veramente erano soli; poi inchinandosi come se avesse voluto inginocchiarsi, congiunse le mani, e coll’accento della disperazione: — Edmondo, diss’ella, voi non ucciderete mio figlio! Il conte fece un passo in addietro, gettò un debole grido, e lasciò cadersi l’arme di mano: — Che nome avete pronunciato, sig.ª de Morcerf? diss’egli. — Il vostro! gridò ella gettando il velo, il vostro che, sola io forse non ho dimenticato mai; Edmondo, non è la sig.ª de Morcerf che viene da voi, è Mercedès. — Mercedès è morta, signora, disse Monte-Cristo, ed io non conosco più alcuna che porti questo nome. — Mercedès vive, signore, e Mercedès vi ricorda, poichè sola vi ha riconosciuto quando vi vide, ed anche senza vedervi alla vostra voce. Edmondo, al solo accento della vostra voce, e da quel tempo ella vi ha seguito passo passo, ella vi sorveglia, vi teme, non ha avuto bisogno di cercare la mano, da cui partiva il colpo che ha percosso il sig. de Morcerf. — Fernando, volete dire, signora, riprese Monte-Cristo con un’amara ironia; poichè siamo in corso di ricordarci i nostri nomi, ricordiamoceli tutti. — E Monte-Cristo aveva pronunciato il nome di Fernando, con una tale espressione di odio, che Mercedès sentì il brivido dello spavento scorrerle per tutto il corpo. — Vedete bene, che non mi sono ingannata, gridò Mercedès, e che ho ragione di dirvi: risparmiatemi il figlio! — E chi vi ha detto, che io odio vostro figlio? — Nessuno, mio Dio! Ma una madre è dotata di una doppia vista: ho indovinato tutto: l’ho seguito questa sera all’_Opera_, e, nascosta in un _baignoire_[4] ho veduto tutto. — Allora, se avete veduto tutto, signora, avrete veduto che il figlio di Fernando mi ha insultato pubblicamente? — Oh! per pietà! — Avrete veduto, continuò il conte, che mi avrebbe gettato il guanto in faccia, se uno dei miei amici, Morrel, non gli avesse fermato il braccio. — Ascoltatemi; anche mio figlio vi ha indovinato, ed attribuisce a voi tutta la disgrazia che opprime suo padre. — Signora, disse Monte-Cristo, voi confondete: non è già una disgrazia, è un castigo. Non sono già io che opprimo il sig. de Morcerf, è la Provvidenza che lo colpisce. — Che importa a voi, Edmondo, di Giannina e del suo Visir? che torto ha fatto a voi Fernando Mondego, tradendo Alì-Tebelen? — E tutto questo, rispose Monte-Cristo, tutto questo è un affare fra il capitano franco e la figlia di Vasiliki. Ciò non mi riguarda, avete ragione; e se ho giurato di vendicarmi, non è del capitano franco, nè del sig. de Morcerf, ma bensì del pescatore Fernando, marito della catalana Mercedès. — Ah! signore, gridò la contessa, qual terribile vendetta per una colpa, che la fatalità mi ha fatto commettere, poichè la vera colpevole sono io, Edmondo, e se avete a vendicarvi di qualcuno, è di me, che ho mancato, costrettavi dalla vostra assenza, e dal mio isolamento. — Ma, gridò Monte-Cristo, perchè sono io stato assente? perchè siete voi rimasta isolata? — Perchè foste arrestato, perchè eravate prigioniero. — E perchè era io arrestato? perchè era prigioniero? — Lo ignoro, disse Mercedès. — Sì, voi lo ignorate, signora, almeno lo spero. Ebbene! ve lo dirò. Io era arrestato, io era prigioniero, perchè sotto il pergolato dell’osteria la _Réserve_, la stessa vigilia del giorno in cui doveva sposarvi, un uomo, chiamato Danglars, scrisse questa lettera che il pescatore Fernando s’incaricò di rimettere da sè stesso alla posta. — E Monte-Cristo, andando allo scrigno fece uscire un cassettino, da cui estrasse un foglio che aveva perduto il suo primitivo colore, e la cui scrittura aveva preso quello della ruggine, ch’egli mise sotto gli occhi di Mercedès. Era questa la lettera di Danglars al procuratore del re, che il giorno in cui aveva pagati i 200 mila fr. al sig. de Boville, il conte di Monte-Cristo, travestito da commesso della casa Thomson e French, aveva sottratto dalla filza di Edmondo Dantès. Mercedès lesse con ispavento le linee seguenti. «Il sig. Procuratore del Re è avvisato da un amico del Trono e della Religione, che il nominato Edmondo Dantès secondo nel bastimento il _Faraone_, giunto questa mattina da Smyrne, dopo aver toccato Napoli e Porto Ferrajo, è stato incaricato da Murat di una lettera per l’Usurpatore, e dall’Usurpatore di una lettera pel Comitato Bonapartista di Parigi. Si avrà la prova del suo delitto arrestandolo, poichè si troverà questa lettera, o nelle sue tasche, o presso suo padre, o nel suo gabinetto a bordo del _Faraone_.» — Oh! mio Dio! fece Mercedès passando la mano sulla sua fronte bagnata di sudore; e questa lettera... — L’ho comprata per 200 mila fr. signora, disse Monte-Cristo; ma è ancora a buon mercato, perchè ella in oggi mi permette di giustificarmi ai vostri occhi. — E il resultato di questa lettera? — Voi lo sapete, signora, fu il mio arresto. Quello però che non sapete è, che io sono stato per quattordici anni ad un quarto di lega distante da voi, in una prigione segreta del castello d’If. Ciò che non sapete è, che ogni giorno di questi quattordici anni ho rinnovato il mio giuramento di vendetta che avevo fatto il primo giorno, e non pertanto ignorava, che voi aveste sposato Fernando, il mio denunziatore, e che mio padre fosse morto, e morto di fame! — Giusto Iddio! gridò Mercedès vacillando. — Ecco ciò ch’io ho saputo nell’uscire di prigione, quattordici anni dopo esservi entrato, ed ecco quello che mi ha indotto a giurare su Mercedès viva e su mio padre estinto, di vendicarmi, e... e io mi vendico. — E siete sicuro che il disgraziato Fernando ha fatto ciò? — Sull’anima mia, egli ha fatto quel che vi ho detto: d’altra parte ciò non è molto più odioso che, francese di adozione, essere passato nelle file degl’inglesi; spagnuolo di nascita, aver combattuto contro gli spagnuoli; stipendiato da Alì, avere tradito ed assassinato Alì. In faccia a simili cose, che è la lettera che avete or letta? una mistificazione galante che deve perdonare, lo vedo e lo confesso, la donna che ha sposato quest’uomo, ma che non perdona l’amante che doveva sposarla. Ebbene! i francesi non si sono vendicati del traditore; gli spagnuoli non hanno fucilato il traditore; Alì, sepolto nella sua tomba, ha lasciato impunito il traditore; ma io, tradito, assassinato, gettato vivo in una tomba, dalla quale sono uscito per un miracolo, io debbo vendicarmi. La povera donna lasciò ricadere la testa e le mani; le gambe le si piegarono sotto, e cadde in ginocchio. — Perdonate, Edmondo, diss’ella, perdonate per me che vi amo ancora! — La dignità della sposa mise un freno allo slancio dell’amante e della madre. La sua fronte s’inchinò fino a toccare il tappeto. Il conte si slanciò davanti a lei, e la rialzò. Allora assisa sopra una sedia, ella potè, a traverso le sue lagrime, guardare il pallido viso di Monte-Cristo, al quale il dolore e l’odio imprimevano ancora un’indole minacciosa: — Che io non ischiacci questa razza maledetta! mormorò egli, impossibile, signora, impossibile! — Edmondo, disse la povera madre tentando tutti i mezzi, mio Dio! quando vi chiamo Edmondo, perchè non mi chiamate Mercedès? — Mercedès! ripetè Monte-Cristo, Mercedès! Ebbene! sì, avete ragione, questo nome mi è dolce ancora a pronunziare, ed ecco la prima volta, dopo lunghi anni, ch’egli risuona così chiaro all’uscir dalle mie labbra. Ah! Mercedès! il vostro nome io l’ho pronunciato coi sospiri della malinconia, coi gemiti del dolore, colla rabbia della disperazione; l’ho pronunciato agghiacciato pel freddo, attrappito sulla paglia della mia prigione; l’ho pronunciato, divorato dal caldo; l’ho pronunciato rotolandomi sul pavimento del mio carcere. Mercedès, bisogna ch’io mi vendichi, perchè ho sofferto per quattordici anni, per quattordici anni ho maledetto, per quattordici anni ho pianto, ho maledetto. Or, ve lo ripeto, Mercedès, bisogna che mi vendichi! Ed il conte temendo di cedere alle lagrime di quella che aveva amata tanto, chiamava in soccorso del suo odio la rimembranza del passato. — Vendicatevi, Edmondo, gridò la povera madre, ma vendicatevi sui colpevoli, vendicatevi su di me, ma non vi vendicate sul figlio mio! — Edmondo, continuò Mercedès colle braccia stese verso il conte, da che vi ho conosciuto ho adorato il vostro nome, ho rispettata la vostra memoria; Edmondo, amico mio, non mi costringete a cancellare questa immagine nobile e pura, che incessantemente ha riverberato sul mio cuore. Edmondo! se sapeste tutte le preghiere che ho innalzato a Dio per voi, fino a che vi ho sperato vivo, e dopo che vi ho creduto morto! sì, morto, ahimè! io credeva il vostro cadavere sepolto nel fondo di qualche torre; credeva il vostro corpo precipitato in qualcuno di quegli abissi, in cui i carcerieri rotolano i morti, ed io vi piangeva! Io, che poteva per voi, Edmondo, se non pregare e piangere? Ascoltatemi: per dieci anni ho fatto ogni notte lo stesso sogno. Si disse che voi avevate tentato di fuggire, che avevate preso il posto di un altro prigioniero, che vi eravate introdotto nel sacco mortuario, e che allora quando avevano gettato il cadavere vivente dall’alto al basso del castello d’If, e che il grido che avevate emesso nell’infrangervi sugli scogli, aveva solo rivelata la sostituzione ai vostri becchini, divenuti i vostri carnefici. Ebbene! Edmondo, ve lo giuro sulla testa di questo figlio pel quale io v’imploro, Edmondo, per dieci anni ho veduto ogni notte gli uomini che libravano qualche cosa d’informe e di sconosciuto dall’alto della roccia; per dieci anni ho inteso ogni notte un grido terribile che mi ha risvegliata, rabbrividita, agghiacciata. Ed io pure, credetemi, per quanto sia rea, io pure ho sofferto molto! — Avete sentito morire vostro padre nella vostra assenza? gridò Monte-Cristo, cacciandosi le mani fra i capelli; avete veduta la donna che amavate, stendere la sua mano al vostro rivale, nel tempo che gorgogliavate nell’abisso di un vortice?... — No, interruppe Mercedès, ma ho veduto colui che amava pronto a divenire l’uccisore di mio figlio! Mercedès pronunciò queste parole con un dolore così possente, con un accento così disperato, che a questo accento un singhiozzo sfuggì dalla gola del conte. Il leone era domato, il vendicatore era vinto: — Che chiedete da me, diss’egli, che vostro figlio viva? Ebbene, egli vivrà!... Mercedès mandò un grido che fece scaturire due lagrime dalle pupille di Monte-Cristo, ma queste due lagrime disparvero quasi tosto, poichè senza dubbio si staccò dal cielo un angiolo per raccoglierle, essendo esse assai più preziose al Signore che le più ricche perle di Guzarate e di Ofir. — Oh! gridò ella, afferrando la mano del conte ed appressandosela alle labbra, oh! grazie, Edmondo, grazie! Eccoti tal quale ti ho sempre sognato, tal quale ti ho sempre amato. Oh! ora posso dirlo. — Tanto più, rispose Monte-Cristo, che il povero Edmondo non avrà molto tempo da essere amato. La morte rientra nella tomba, il fantasma rientra nella notte. — Che intendete di dire, Edmondo? — Dico che, poichè l’ordinate, bisogna morire. — Morire! e chi è che dice questo? chi parla di morire? d’onde vi ritornano simili idee di morte? — Voi non supporrete che, oltraggiato pubblicamente, in faccia a tutto un teatro, in presenza dei vostri amici e di quelli di vostro figlio, provocato da un giovinetto che si glorierebbe del mio perdono come di una vittoria, non supporrete, diceva, che io abbia il desiderio di vivere un sol momento. Ciò che io ho amato di più, dopo di voi, Mercedès, è me stesso, vale a dire la mia dignità, vale a dire quella forza che mi rendeva superiore agli altri uomini; ch’era la mia vita. Con una parola, voi la rompete. Io moro. — Ma questo duello non avrà luogo, Edmondo, poichè voi perdonate... — Avrà luogo, signora, disse solennemente Monte-Cristo. Soltanto, invece del sangue di vostro figlio che doveva bagnare il terreno, sarà il mio che sgorgherà. Mercedès mandò un grido, e si slanciò verso Monte-Cristo; ma d’improvviso ella si fermò. — Edmondo, diss’ella, vi è un Dio al di sopra di noi, poichè io vi ho riveduto, ed io confido in Lui dal più profondo del mio cuore. Aspettando il suo appoggio, mi affido alla vostra parola. Voi avete detto che mio figlio vivrà; egli vivrà, non è vero? — Egli vivrà, sì, signora, disse Monte-Cristo sorpreso che senz’altra esclamazione, senza altra meraviglia, Mercedès avesse accettato l’eroico sacrificio che le faceva. Mercedès stese la mano al conte. — Edmondo, diss’ella, mentre i suoi occhi si bagnavano di lagrime guardando quello a cui indirizzava queste parole, quanto è bello dal canto vostro, come è grande ciò che avete fatto! quanto è sublime l’avere avuto pietà di una povera donna che si offriva a voi con tutte le probabilità contrarie alla speranza? Ahimè! sono invecchiata pei dispiaceri più ancora che per gli anni; non posso neppur più rammentare al mio Edmondo con uno sguardo quella Mercedès d’altravolta ch’egli passava tante ore a contemplare. Ah! credetemi, Edmondo, vi ho detto che io pure ho sofferto molto; ve lo ripeto; è ben tristo il vedersi passare la vita senza ricordarsi una sola gioia, senza conservare una sola speranza; ma ciò prova che tutto non è finito sulla terra. No! tutto non è finito, lo sento da ciò che mi rimane ancora nel cuore. Oh! ve lo ripeto. Edmondo, è cosa bella, grande, sublime il perdonare come voi fate! — Voi dite ciò, Mercedès? e che direste se sapeste tutta l’estensione del sacrificio che vi faccio? Voi non ne avete una idea, o piuttosto, no, no, voi non potrete mai farvi una idea di ciò ch’io perdo perdendo la vita in questo momento. Mercedès guardò il conte con un’aria che dipingeva ad un tempo la sua meraviglia, la sua ammirazione, e la sua riconoscenza. Monte-Cristo si appoggiò la fronte sulle mani ardenti, come se essa non potesse più da sè sola sostenere il peso dei suoi pensieri. — Edmondo, disse Mercedès, non ho più che una parola a dirvi. — Il conte sorrise amaramente. — Edmondo, continuò ella, voi vedrete che se la mia fronte è impallidita, se i miei occhi sono spenti, se la mia bellezza è perduta, se finalmente non rassomiglio più a quella stessa Mercedès per le forme del viso, voi vedrete ch’ella è sempre la stessa nel cuore!... Addio dunque, Edmondo; non ho più nulla da chiedere al cielo... vi ho riveduto, e riveduto egualmente nobile e grande come in altri tempi. Addio, Edmondo... e grazie! — Ma il conte non rispose. Mercedès aveva riaperta la porta del gabinetto, ed era partita prima ancora ch’egli fosse rinvenuto dalla dolorosa e profonda distrazione in cui lo aveva immerso la sua fallita vendetta. Suonava un’ora all’orologio degl’Invalidi quando la carrozza che trasportava la sig.ª de Morcerf, scorrendo sul terreno dei Campi-Elisi, fece rialzare la testa al conte di Monte-Cristo: — Insensato, io mi doveva svellere il cuore il giorno in cui risolvetti di vendicarmi. LXXXIX. — L’INCONTRO. Dopo la partenza di Mercedès tutto ricadde nell’ombra presso Monte-Cristo. Intorno a lui ed entro lui il suo pensiero si fermò; il suo spirito energico si addormì, come fa il corpo dopo una eccessiva fatica. — Che! disse a sè stesso, mentre la lampada e le candele si consumavano tristamente, e che i servitori aspettavano con impazienza nell’anticamera; che! ecco l’edificio così lentamente preparato, elevato con tante pene e tanti affanni, che crolla ad un colpo, con una sola parola, sotto un soffio! Ebbene! sono io che mi credeva qualche cosa? sono io di cui andava tanto superbo? sono io che mi era veduto sì piccolo nel carcere d’If, e che era riuscito a rendermi così grande? sono io la cui salma domani sarà un poco di polvere? Ahimè, non è già la morte del corpo quella che io piango; questa distruzione della materia non è il riposo cui tutto tende, cui aspira ogni infelice? quella calma della materia alla quale m’incamminava per la strada dolorosa della fame quando Faria comparve nel mio carcere? che cosa è la morte per me? un grado di più nella calma, e forse due nel silenzio. No, non è dunque la cessazione della esistenza che io piango, che il mio spirito sopravvivrà; ma la rovina dei miei disegni così lentamente elaborati, così faticosamente costrutti, è questo che amaramente io piango. La Provvidenza, che io aveva loro creduta favorevole, è dunque ad essi contraria? Dio non vuol dunque che si compiano? Questo fardello che io aveva sollevato quasi tanto pesante quanto il mondo, e che io aveva creduto di poter portare fino al termine, era secondo i miei desideri, ma non secondo la mia forza; secondo la mia volontà, ma non secondo il mio potere. Bisognerà che io lo deponga giunto appena alla metà della mia corsa? Oh! diventerei io forse fatalista, che quattordici anni di disperazione e dieci di speranze avevan formato previdente? E tutto questo, tutto questo, mio Dio! perchè il mio cuore, che credeva morto, non era che assopito; perchè si è risvegliato, perchè ha battuto, perchè ho ceduto al dolore che questo battito sollevava dal fondo del mio petto per mezzo della voce di una donna! E frattanto, continuò il conte, inabissandosi sempre più nelle previsioni di questo domani terribile che aveva accettato Mercedès; e frattanto è impossibile che questa donna, che ha un cuore sì nobile, abbia in tal modo per egoismo, acconsentito a lasciarmi uccidere... io così pieno di forza d’esistenza! è impossibile ch’ella spinga a questo punto, l’amore, o piuttosto il delirio materno! Vi sono delle virtù in cui l’esagerazione sarebbe un delitto. Ma, ella avrà immaginato qualche scena poetica; verrà a gettarsi fra le spade, e sarà una cosa ridicola per la posizione sublime da me fattami. E il rossore dell’orgoglio salì alla faccia del conte. — Ridicolo, ripetè egli, e il ridicolo ricadrà su di me... io ridicolo! andiamo, amo ancor più il morire. E a forza di esagerarsi in tal modo le combinazioni che potevano accadere il dimane nel quale si era condannato promettendo a Mercedès che lascerebbe vivere suo figlio, il conte terminò col dirsi: — Pazzie! pazzie! pazzie! il mettersi come una meta inerte davanti alla mira del giovine! È necessario, lo farò. — E prendendo una penna, e cavando un foglio dall’armadio, scrisse alcune linee in piè di questo foglio, che altro non era che il suo testamento fatto dal suo arrivo in Parigi, ed estese una specie di codicillo nel quale faceva capire la sua morte anche agli uomini meno creduli. — Io faccio questo, pel solo onor mio, e per umiliare me stesso agli occhi miei. È indispensabile che questi miserabili, che un Danglars, un Villefort, un Morcerf non si figurino d’essersi spacciati di me per opera del solo caso, che il solo caso li abbia liberati del loro nemico. Che sappiano, al contrario, che se la deliberata punizione non ha avuto luogo, fu perchè è stata corretta dalla mia sola volontà; che il castigo evitato in questo mondo li aspetta nell’altro, e ch’essi non hanno fatto altro cambio che quello del tempo colla eternità. Mentre ondeggiava in queste cupe incertezze, sogni cattivi di un uomo svegliato dal dolore, venne il giorno ad imbiancare i vetri ed a rischiarare sotto le sue mani la carta azzurra sulla quale trascinava l’ultima sua giustificazione. Erano le cinque del mattino. D’improvviso giunse al suo orecchio un leggero rumore. Monte-Cristo credè avere inteso qualche cosa, come un sospiro soffocato; volse la testa, guardò intorno a sè, e non vide alcuno. Soltanto il rumore si ripetè molto distintamente, perchè al dubbio successe la certezza. Allora il conte si alzò, aprì dolcemente la porta del salotto, e sopra una sedia, colla sua bella testa pallida ed inclinata in addietro, vide Haydée che si era posta a traverso alla porta, affinchè egli non potesse uscire senza vederla; ma il sonno così possente nella gioventù, l’aveva sorpresa dopo la fatica di una lunga veglia. Il rumore che fece la porta nell’aprirsi non potè scuotere Haydée dal suo sonno. Monte-Cristo fissò su di lei uno sguardo pieno di dolcezza e di dolore. — Ella si è ricordata che aveva un figlio, ed io ho dimenticato che ho una figlia! Indi scuotendo tristamente la testa: — Povera Haydée! diss’egli, ha voluto vedermi, ha voluto parlarmi, ella ha temuto o indovinato qualche cosa... Oh! io non posso partire senza dirle addio, non posso morire senza confidarla a qualcuno. E raggiunse dolcemente di nuovo il suo posto, e scrisse sotto alle linee già vergate. «Faccio legato a Massimiliano Morrel, capitano degli _Spahis_ e figlio del mio antico padrone Pietro Morrel armatore in Marsiglia della somma di venti milioni, di cui ne sarà da lui offerta una parte a sua sorella Giulia ed a suo cognato Emmanuele, quando però non creda che questo aumento di fortuna possa nuocere alla loro felicità. Questi venti milioni sono sepolti nella mia grotta dell’isola di Monte-Cristo, di cui Bertuccio conosce il segreto. «Se il suo cuore è libero, e voglia sposare Haydée, figlia d’Alì pascià di Giannina, che io ho allevata coll’amore di un padre, e ch’ha avuto per me l’amore e la tenerezza di una figlia, egli esaudirà, non dirò l’ultima mia volontà, ma l’ultimo mio desiderio. «Il presente testamento ha già fatta Haydée erede del resto della mia fortuna, consistente in terre, rendite sull’Inghilterra, l’Austria, e l’Olanda, mobili dei miei diversi palazzi e case, e che, prelevati i venti milioni, altri legati fatti ai miei servitori ecc. formerà una somma che potrà ammontare a sessanta milioni.» Terminava appena di scrivere quest’ultima linea, quando un grido emesso dietro a lui gli fece cadere la penna dalla mano: — Haydée; diss’egli; voi avete letto. In fatto la giovanetta, risvegliata dal chiarore del giorno che aveva colpito le sue pupille, si era alzata e si era avvicinata al conte senza che i suoi passi leggeri, ed assorbiti dal tappeto, fossero stati intesi: — Oh! mio signore, diss’ella giungendo le mani, perchè scrivete così a quest’ora? Perchè mi lasciate così la vostra fortuna? Mio signore, mi abbandonate forse? — Vado a fare un viaggio, cara fanciulla, disse Monte-Cristo con espressione di malinconia e di tenerezza infinita, e se mi accadesse qualche disgrazia... — Il conte si fermò. — Ebbene?.... domandò la giovanetta con un accento di autorità che il conte non le conosceva che lo fece fremere. — Ebbene! se mi accade qualche disgrazia, riprese Monte-Cristo, voglio che mia figlia sia felice. Haydée sorrise tristamente scuotendo la testa. — Voi pensate a morire, mio signore? diss’ella. — È un pensiero salutare, figlia mia, ha detto il saggio. — Ebbene, se voi morite, disse ella, lasciate pure la vostra fortuna in legato ad altri eredi; perchè se voi morite... io non avrò più bisogno di niente. — E prendendo il foglio ella lo stracciò in quattro pezzi che gettò in mezzo al salotto. Indi spossata da questo tratto di energia tanto poco comune ad una schiava, cadde non più addormentata ma svenuta sul pavimento. Monte-Cristo si chinò vers’ella, la sollevò fra le sue braccia; e vedendo questa bella tinta impallidita, questi begli occhi chiusi, questo bel corpo inanimato e come abbandonato, gli venne per la prima volta l’idea che ella lo amasse ben altrimenti che una figlia ama suo padre. — Me lasso! mormorò egli con un profondo scoraggiamento, avrei ancora potuto esser felice. Indi portò Haydée fino all’appartamento di lei, la rimise sempre svenuta, fra le mani delle sue donne e, rientrando nel gabinetto, che questa volta chiuse attentamente, ricopiò il distrutto testamento. Mentre terminava, si fece sentire il rumore di un _cabriolet_ che entrava nel cortile. Monte-Cristo si avvicinò alla finestra, e vide discendere Massimiliano ed Emmanuele. — Buono! diss’egli, è giunta l’ora! — Sigillò il suo testamento con triplo sigillo. Un momento dopo intese un rumore di passi nella sala, ed andò ad aprire egli stesso. Morrel comparve sulla soglia. Egli aveva anticipata l’ora di venti minuti. — Io vengo forse troppo presto, sig. conte, diss’egli; ma vi confesso francamente che non ho potuto dormire un minuto, e che è accaduto lo stesso a tutta la famiglia. Io aveva molto bisogno di vedere la vostra coraggiosa fermezza per ricuperarla io pure. Monte-Cristo non potè contenersi a questa prova di affezione, e non fu la sua mano che stese al giovine, ma le braccia che gli aprì. — Morrel, gli disse con voce commossa, è per me un bel giorno quello in cui mi sento amato da un uomo come voi. Buon giorno, sig. Emmanuele. Voi dunque venite con me, Massimiliano? — Per bacco! disse il giovine capitano, ne avete dubitato? — Ma pure se avessi torto... — Ascoltate, vi ho guardato ieri durante tutta la scena di sfida, ho pensato alla vostra fermezza tutta questa notte, e ho detto che la giustizia doveva essere dalla parte vostra o che non si doveva fare più alcun calcolo sul viso degli uomini. — Però, Morrel, Alberto è vostro amico? — Una semplice conoscenza, conte. — Voi lo avete veduto per la prima volta lo stesso giorno che vedeste me? — Sì, è vero; ma che volete? bisogna che voi me lo ricordiate, perchè io me ne sovvenga. — Grazie, Morrel, indi battendo un colpo sul campanello: — Prendi, disse egli ad Alì che comparve subito, fa portare questo al mio notaro; è il mio testamento, Morrel. Quando sarò morto andrete a prenderne conoscenza. — Come! gridò Morrel, voi morto? — E non bisogna sempre preveder tutto, amico caro? Ma che cosa avete fatto ieri sera dopo avermi lasciato? — Sono stato al caffè Tortoni, ove, come me lo aspettava, vi ho ritrovato Beauchamp e Château-Renaud; vi confesso che li cercava. — Per farne che, quando tutto era già convenuto? — Ascoltate, conte; l’affare è grave ed inevitabile. — Ne dubitavate voi? — No, l’offesa è stata pubblica e ciascuno già ne parla. — Ebbene? — Ebbene! io sperava far cambiare le armi, sostituire la spada alla pistola. La pistola è cieca. — Vi siete riuscito? domandò vivamente Monte-Cristo con una impercettibile luce di speranza. — No, perchè si conosce la vostra forza alla spada. — Bah! chi mi ha dunque tradito? — I maestri di scherma che voi avete battuti. — E voi non vi siete riuscito? — Essi hanno ricusato positivamente. — Morrel, disse il conte, mi avete voi mai veduto tirare alla pistola? — Mai. — Ebbene! noi abbiamo il tempo; guardate. Monte-Cristo prese le pistole che aveva in mano quando Mercedès entrò, ed attaccando un asso di fiori contro il muro, in quattro colpi portò via successivamente le quattro branche del fiore. A ciascun colpo Morrel impallidiva. Esaminò le palle colle quali Monte-Cristo eseguiva questo esercizio, e vide che esse non erano più grosse dei pallini da lepre. — È cosa spaventosa, disse egli; guardate dunque Emmanuele! — Indi voltandosi verso Monte-Cristo: — Conte, disse egli, in nome del cielo, non uccidete Alberto! il disgraziato ha una madre! — È giusto, disse Monte-Cristo, io non l’ho. Queste parole furono pronunciate con un tuono che fece fremere Morrel. — Voi siete l’offeso, conte. — Senza dubbio, e che volete dire con ciò? — Voglio dire che siete il primo a tirare. — Io tiro pel primo? — Oh! questo io l’ho preteso; noi facciamo loro abbastanza concessioni perchè essi ci facciano questa. — E a quanti passi? — A venti. Uno spaventoso sorriso passò sulle labbra del conte. — Morrel, diss’egli, non dimenticate quel che or ora avete veduto. — Così, disse il giovine, io conto sulla vostra emozione per salvare Alberto. — Io commosso? disse Monte-Cristo. — O sulla vostra generosità, amico mio; sicuro come siete del vostro colpo, posso dirvi una cosa che sarebbe ridicola se la dicessi ad un altro. — E quale? — Rompetegli un braccio, feritelo, ma non lo uccidete. — Morrel, ascoltate anche questo, disse il conte, io non ho bisogno di essere incoraggiato per avere dei riguardi a Morcerf; il sig. de Morcerf, ve lo avviso prima, sarà ben trattato, egli ritornerà tranquillamente ed intatto, nel mentre che io... — Ebbene! voi? — Oh! è un’altra cosa, sarò trasportato... — Su via, dunque! gridò Morrel fuor di sè. — La cosa accadrà come ve l’annunzio, mio caro Morrel, il sig. de Morcerf mi ucciderà. Morrel guardò il conte come uomo che non capisce più. — Conte, che è dunque accaduto da ier sera in qua? — Ciò che accadde a Bruto la vigilia della battaglia di Filippi; ho veduto un fantasma. — E questo fantasma? — Questo fantasma, Morrel, mi ha detto che ho vissuto abbastanza. Massimiliano ed Emmanuele si guardarono; Monte-Cristo cavò l’orologio; — Partiamo, disse egli; sono le sette e cinque minuti, ed il ritrovo è per le otto precise. Una carrozza li aspettava coi cavalli di già attaccati. Monte-Cristo vi salì con i suoi due testimoni. Traversando il corridore, Monte-Cristo si era fermato per ascoltare avanti di una porta, e Massimiliano ed Emmanuele che per discrezione avevano fatto qualche passo in avanti, crederono sentire rispondere con un sospiro ed un singhiozzo. Ott’ore suonarono al punto in cui giungevano al convegno: — Eccoci arrivati, disse Morrel mettendo la testa fuori dello sportello, e noi siamo i primi. — Il signore mi scuserà, disse Battistino che aveva seguito il suo padrone con un indicibile terrore, ma credo di scorgere una carrozza laggiù sotto quegli alberi. Monte-Cristo saltò leggermente a basso dal calesse, e dette la mano ad Emmanuele e a Massimiliano per aiutarli a smontare. Massimiliano trattenne la mano del conte fra le sue. — Alla buon’ora, diss’egli, ecco una mano come io desidero vederla in un uomo la cui vita riposa sulla bontà della sua causa. — Infatto, disse Emmanuele, scorgo due giovani che passeggiano, e che sembrano aspettare. — Monte-Cristo tirò Morrel, non a parte, ma un passo o due dietro suo cognato. — Massimiliano, gli domandò egli, avete il cuor libero? — Morrel guardò Monte-Cristo con meraviglia. — Io non vi domando una confidenza, amico caro, vi indirizzo una semplice domanda; rispondete sì o no, ciò è quanto vi chiedo. — Io amo una giovinetta, conte. — L’amate voi molto? — Più della mia vita. — Andiamo, disse Monte-Cristo, ecco un’altra speranza che mi sfugge. — Poi dopo un sospiro: — Povera Haydée! mormorò egli. — In verità, conte, gridò Morrel, se vi conoscessi meno, vi crederei men bravo di quel che siete. — Perchè io penso a qualcuno che lascerò e che sospiro? Andiamo dunque, Morrel, è un soldato che deve intendersi così poco di coraggio, è forse la morte che io temo? e che cosa mi fa mai, a me che ho passato venti anni fra la vita e la morte, il vivere ed il morire? d’altra parte siate tranquillo, Morrel, questa debolezza, se pure è tale, è per voi solo. — Alla buon’ora, disse Morrel, ecco quel che si chiama parlare. A proposito, avete portate le vostre armi? — Io, per farne che? spero bene che questi signori avranno le loro. — Vado ad informarmene, disse Morrel. — Sì, ma non fate negoziazioni, capite? — Oh! siate tranquillo. — Morrel si avanzò verso Beauchamp e Château-Renaud. Questi vedendo il movimento di Massimiliano fecero qualche passo incontro a lui. I tre giovani si salutarono, se non con affabilità, almeno con cortesia. — Perdono, signori, disse Morrel, ma io non iscorgo il sig. de Morcerf. — Questa mattina, rispose Château-Renaud, ci ha fatto avvisare che ci raggiungerebbe soltanto sul terreno. — Ah! fece Morrel. — Beauchamp cavò l’orologio: — Ott’ore e cinque minuti, non vi è tempo perduto, sig. Morrel, diss’egli. — Oh! rispose Massimiliano, non è con questa intenzione che io lo diceva. — Del resto, interruppe Château-Renaud, ecco una carrozza. — Infatto una carrozza si avanzava al gran trotto da uno dei viali che mettevano capo allo spiazzo ove essi si trovavano. — Signori, disse Morrel, senza dubbio vi sarete muniti delle pistole? il sig. di Monte-Cristo dichiara di renunciare al diritto che aveva di servirsi delle sue. — Noi abbiamo preveduto questa delicatezza per parte del conte, sig. Morrel, rispose Beauchamp, e io ho portato delle armi che ho comprato otto o dieci giorni sono, credendo di dovermene servire per un affare di questo genere. Esse sono perfettamente nuove e non hanno ancora servito ad alcuno, volete visitarle? — Oh! sig. Beauchamp, disse Morrel inchinandosi, quando voi assicurate che il sig. de Morcerf non conosce quest’armi, crederete bene, non è vero, che mi basta la vostra parola? — Signori, disse Château-Renaud, non è Morcerf che arriva in questa carrozza, in fede mia! sono Franz e Debray. Infatto i due giovani enunciati si avanzavano. — Voi qui, signori! disse Château-Renaud cambiando con ciascuno una stretta di mano; e per quale combinazione? — Perchè, disse Debray, Alberto ci ha fatto dire questa mattina di ritrovarci sul terreno. — Beauchamp e Château-Renaud si guardarono con aria di stupore. — Signori, disse Morrel, io credo di capire come va la faccenda. — Sentiamo! — Jeri, dopo il mezzo giorno, ho ricevuto una lettera dal sig. de Morcerf, che mi diceva di trovarmi all’_Opera_. — Ed io pure, disse Debray. — Ed io pure, disse Franz. — E noi pure, dissero ad un tempo Château-Renaud e Beauchamp. — Voleva che fossimo presenti alla sfida, disse Morrel: oggi vuole che siamo presenti al duello. — Sì, dissero i giovani, è così, signor Massimiliano, e secondo ogni probabilità, avete indovinato giustamente. — Ma con tutto ciò, mormorò Château-Renaud, Alberto non si vede, ed è già in ritardo di dieci minuti. — Eccolo, disse Beauchamp, egli è a cavallo; osservate, viene a tutta carriera, seguito dal suo domestico. — Che imprudenza! disse Château-Renaud, venire a cavallo per battersi alla pistola! gli aveva tanto bene insegnata la lezione! — E poi osservate, disse Beauchamp, col goletto alla cravatta, coll’abito aperto, con un gilè bianco; e perchè non si è fatto ancora disegnare un bersaglio nello stomaco? sarebbe stata più semplice, e tutto sarebbe finito più presto! Frattanto Alberto era giunto a dieci passi dal gruppo che formavano i cinque giovani; saltò a terra e gettò le redini sulle braccia del domestico, indi si avvicinò. Egli era pallido, i suoi occhi erano rossi e gonfi, si vedeva che non aveva dormito un minuto in tutta la notte. Su tutta la sua fisonomia era sparsa una nube di tristezza che non gli era naturale; — Grazie, signori, diss’egli, di aver voluto portarvi al mio invito; credetemi, vi sono così riconoscente per questa dimostrazione di amicizia, che non si può dir di più. — Morrel, all’avvicinarsi d’Alberto, aveva fatto una dozzina di passi in addietro, e si teneva in disparte. — A voi pure, Morrel, disse Alberto, sono diretti i miei ringraziamenti; avvicinatevi pure, non vi siete di più. — Signore, disse Massimiliano, voi forse non sapete che io sono il testimonio di Monte-Cristo? — Io non ne era sicuro, ma ne dubitava. Tanto meglio! Più uomini d’onore vi saranno e più sarò soddisfatto. — Sig. Morrel; disse Château-Renaud, voi potete annunziare al sig. conte di Monte-Cristo che il sig. Morcerf è giunto, e che siamo a sua disposizione. Morrel fece un movimento per adempiere la commissione. Nello stesso tempo Beauchamp cavò dalla carrozza la cassetta delle pistole. — Aspettate, signori, disse Alberto; io ho due parole da dire al sig. di Monte-Cristo. — In segreto? domandò Morrel. — No, signore, in presenza di tutti. I testimoni d’Alberto si guardarono con sorpresa; Franz e Debray si scambiarono alcune parole a bassa voce, e Morrel, contento di questo inatteso accidente, andò a cercare il conte che passeggiava in un altro viale con Emmanuele. — Che cosa vuole da me? domandò Monte-Cristo. — Non lo so, ma chiede di parlarvi. — Oh! disse Monte-Cristo, che non si arrischi ad oltraggiarmi di nuovo! — Non credo che questa sia la sua intenzione. Il conte s’inoltrò, accompagnato da Massimiliano e da Emmanuele. Il suo viso tranquillo e pieno di serenità faceva un contrasto assai strano col viso sconvolto d’Alberto, che dal suo lato si avvicinava seguito dai quattro giovani. A tre passi l’uno dall’altro, Alberto ed il conte si fermarono: — Signori, disse Alberto, avvicinatevi; desidero che non vada perduta una parola di quanto avrò l’onore di dire al sig. conte di Monte-Cristo; perchè quel che avrò l’onore di dirgli deve essere ripetuto da voi a chi vorrà sentirlo, per quanto strano vi possa sembrare il mio discorso. — Io aspetto, signore, disse il conte. — Signore, disse Alberto con voce da prima tremante, ma che poi andò sempre più a farsi sicura: signore, io vi rimproverava di avere divulgata la condotta di mio padre nell’Epiro; perchè, per quanto fosse colpevole il sig. de Morcerf, non credeva che voi aveste il diritto di punirlo. Ma oggi io so, signore, che voi avete questo diritto. Non è già il tradimento che Fernando Mondego fece ad Alì-Pascià quello che mi rende così pronto a scusarvi, ma il tradimento che usò a voi il pescatore Fernando; sono le disgrazie inudite che hanno fatto seguito a questo tradimento. Per questo io lo dico, e lo proclamo ad alta voce: sì, signore, voi avete avuto ragione di vendicarvi di mio padre, ed io, suo figlio, vi ringrazio di non avergli fatto di più. — Se fosse caduto un fulmine in mezzo agli spettatori di questa scena inattesa, non li avrebbe tanto stupefatti quanto questa dichiarazione di Alberto. In quanto a Monte-Cristo, i suoi occhi erano rivolti al cielo con una espressione d’infinita riconoscenza, e non poteva abbastanza ammirare come questa natura focosa d’Alberto, di cui aveva ammirato il coraggio fra i banditi di Roma, si fosse potuta così d’improvviso piegare ad una tanta umiliazione. Tosto riconobbe l’influenza di Mercedès, e capì come questo nobile cuore non si era opposto al suo sacrificio, sapendo già che sarebbe riuscito vano. — Ora, signore, disse Alberto, se voi ritrovate che siano sufficienti le scuse che vi ho fatte, datemi la vostra mano, vi prego. Dopo il merito così raro dell’infallibilità, che sembra appartenervi, il primo di tutti gli altri meriti, a mio avviso, è quello di sapere confessare i suoi torti. Ma questa confessione appartiene a me solo. Io operava bene, secondo il parere degli uomini, ma voi operavate bene secondo il volere della Provvidenza. Un angelo solo poteva salvare l’uno di noi dalla morte certa omai o per l’uno o per l’altro, e l’angiolo è comparso, se non per fare di noi due amici (che pur troppo la fatalità rende la cosa impossibile) almeno per fare di noi due uomini che si stimino. Monte-Cristo, coll’occhio umido, il petto anelante, la bocca semi-aperta, stese una mano ad Alberto ch’egli strinse con un sentimento che rassomigliava ad un rispettoso spavento. — Signori, diss’egli, il sig. di Monte-Cristo aggradisce ed accetta le mie scuse. Io aveva operato troppo precipitosamente contro di lui, la precipitazione dà cattivi consigli: io aveva operato male. Ora il mio sbaglio è riparato. Spero bene che la società non mi taccerà di vile, perchè ho fatto ciò che la mia coscienza mi ha ordinato di fare. Ma, in ogni caso, se qualcuno si sbagliasse sul conto mio, soggiunse il giovine rialzando la testa con orgoglio, e come se indirizzasse la sfida ai suoi amici ed ai suoi nemici, cercherò di rettificare le opinioni. — Che cosa è dunque accaduto in questa notte? domandò Beauchamp a Château-Renaud, mi sembra che noi ci facciamo una gran trista parte. — Infatto ciò che ora ha fatto Alberto, o dev’essere molto meschino o molto bello, rispose il barone. — Ah! vediamo, domandò Debray a Franz, che significa tutto ciò? Come! il conte di Monte-Cristo disonora il sig. de Morcerf, ed ha ragione agli occhi del figlio! In quanto a Monte-Cristo, colla fronte chinata, le braccia inerti, oppresso dal peso di ventiquattr’anni di reminiscenze, non pensava nè ad Alberto, nè a Beauchamp, nè a Château-Renaud, nè ad alcuno di quelli che si trovavano là: pensava a quella coraggiosa donna ch’era venuta a chiedergli la vita del figlio, alla quale egli aveva offerta la sua, ch’ella salvava con lo avere scoperto un segreto terribile di famiglia capace di togliere per sempre dal cuore del giovine qualunque sentimento di pietà filiale. XC. — LA MADRE ED IL FIGLIO. Il conte di Monte-Cristo salutò i giovani con un sorriso pieno di malinconia e di dignità, e risalì nella sua carrozza con Massimiliano ed Emmanuele. Alberto, Beauchamp, e Château-Renaud rimasero soli sul campo di battaglia. Il giovine fissò sui suoi testimoni uno sguardo che, senz’essere timido sembrava però ciò non ostante chiedere il loro parere sull’accaduto. — In fede mia! mio caro amico disse Beauchamp pel primo, sia che avesse maggiore sensibilità, sia che avesse minore dissimulazione, permettetemi di congratularmi con voi; ecco uno scioglimento molto inatteso ad un dispiacevole affare. Alberto restò muto e concentrato nella sua astrazione. Château-Renaud si contentò di battere contro lo stivale col suo bastoncino: — Non partiamo? diss’egli dopo questo impacciante silenzio. — Quando vi piacerà, rispose Beauchamp; lasciatemi soltanto il tempo di fare i miei complimenti a Morcerf; egli ha fatto in quest’oggi una così gran prova di cavalleresca generosità, tanto rara... — Oh! sì, disse Château-Renaud. — È cosa magnifica, continuò Beauchamp, il poter conservare su sè stessi un impero così grande! — Certamente; in quanto a me ne sarei stato incapace, disse Château-Renaud con una freddezza espressiva. — Signori, interruppe Alberto, credo che non abbiate capito che fra il sig. conte di Monte-Cristo e me è accaduto qualche cosa di molto grave... — Sia pure, sia pure, disse subito Beauchamp, ma tutti i nostri rodomonti non sarebbero a portata di conoscere il vostro eroismo, e presto o tardi sareste costretto di spiegarlo con un poco più d’energia di quello che convenga alla salute del vostro corpo, ed alla durata della vostra vita. Volete ch’io vi dia un consiglio da amico? Partite per Napoli, per l’Aja, o per Pietroburgo, paesi tranquilli in cui gli uomini se la intendono di più sul vero punto d’onore che presso noi teste ardenti di parigini. Una volta là, esercitatevi molto a tirare al bersaglio colla pistola, e a fare delle finte di terza e di quarta colla spada; rendetevi o abbastanza dimenticato per ritornare pacificamente in Francia fra qualche anno, o abbastanza rispettabile negli esercizii accademici per conquistare la vostra tranquillità. Non è così sig. Château-Renaud, non ho io ragione? — Questo precisamente è pure il mio parere. Non vi è niente che procuri i veri duelli, quanto un duello che non ha avuto luogo. — Grazie, signori, rispose Alberto con un sorriso; seguirò il vostro consiglio, non perchè me lo avete dato, ma perchè era la mia intenzione quella di lasciare la Francia. Io vi ringrazio egualmente del favore che mi avete reso, onorandomi da testimonii. Esso è profondamente impresso nel mio cuore, poichè, dopo le parole che ho sentito, non mi ricordo più che di esso. — Château-Renaud e Beauchamp si guardarono. L’impressione era eguale sopra entrambi, e l’accento col quale Alberto aveva pronunciato il suo ringraziamento era marcato di una tale risoluzione, che la posizione si sarebbe fatta impacciante per tutti, se la conversazione si fosse continuata. — Addio Alberto, disse tosto Beauchamp stendendo negligentemente la sua mano al giovine, senza che questi dasse a divedere di uscire dalla sua letargia. Infatto egli non rispose all’offerta di questa mano. — Addio, disse a sua volta Château-Renaud, tenendo colla mano sinistra il bastoncino, e salutando con la destra. Le labbra del giovine mormorarono appena: addio! il suo sguardo era più esplicito; egli racchiudeva un poema intero di collere trattenute, d’orgogliosi sdegni, di generose indignazioni. Quando i due testimoni furono risaliti in carrozza, conservò per qualche tempo la sua posizione immobile e malinconica. Indi d’improvviso, staccando il suo cavallo dal piccolo albero intorno al quale era stata annodata la redine, saltò leggermente in sella, e riprese al galoppo la strada di Parigi. Un quarto d’ora dopo rientrava nel palazzo della strada Helder. Discendendo da cavallo, gli sembrò, dietro la cortina della finestra della camera da letto del conte, di scorgere la pallida figura di suo padre; Alberto girò la testa con un sospiro, e rientrò nel suo padiglione. Giunto là, gettò un ultimo sguardo sopra tutte queste ricchezze che gli avevano resa la vita così dolce e così felice fin dall’infanzia, guardò ancora una volta questi quadri, le figure dei quali gli sembravano sorridergli, e tutti i paesaggi gli sembrarono animarsi di vivi colori. Staccò poscia dalla sua intelaiatura di quercia il ritratto di sua madre, che arrotolò, lasciando vuoto e nero il quadro d’oro che lo circondava. Poscia mise in ordine le sue belle armi turche, i suoi bei fucili inglesi, le sue porcellane del Giappone, le sue coppe cisellate, i suoi bronzi artistici, marcati Feuchères o Barye, visitò gli armadii e pose le chiavi a ciascuno d’essi; gettò in un cassetto del suo scrigno che lasciò aperto, tutto il danaro che portava seco in saccoccia, vi aggiunse i mille gioielli di fantasia, che riempivano le sue coppe, i suoi scrigni, le sue scansie; fece un inventario esatto e preciso di tutto, e situò questo inventario nel luogo più esposto della tavola, dopo averla spacciata da tutti i libri e da tutte le carte che la ingombravano. Al principio di questo lavoro, il suo domestico, ad onta dell’ordine che gli aveva dato Alberto di lasciarlo solo, era entrato nella sua camera. — Che volete? gli chiese Alberto con un accento più tristo che corrucciato. — Perdono, signore, rispose il cameriere; è vero che mi avevate proibito di incomodarvi, ma il sig. conte de Morcerf mi ha fatto chiamare. — Ebbene? domandò Alberto. — Non ho voluto portarmi presso il sig. conte, senza ricevere i vostri ordini, signore. — E perchè questo? — Perchè il sig. conte saprà senza dubbio, che io, signore, vi ho accompagnato sul terreno. — È probabile, disse Alberto. — E se mi fa chiamare, è senza dubbio per interrogarmi su ciò che è accaduto laggiù. Che devo io rispondere? — La verità. — Allora debbo dirgli ancora che il duello non si è effettuato? — Voi gli direte che io ho chiesto scusa al sig. di Monte-Cristo. Andate. — Il cameriere s’inchinò e partì. Allora Alberto si rimise a fare il suo inventario. Mentre compiva il lavoro, lo scalpitìo di due cavalli nel cortile, ed il rumore delle ruote di una carrozza attirarono la sua attenzione; si avvicinò alla finestra e vide suo padre salire nel calesse e partire. Non appena il portone fu richiuso dietro al conte, che Alberto si diresse verso l’appartamento di sua madre, e siccome non ritrovò nessuno in sala per annunziarlo, penetrò fin nella camera da dormire di Mercedès, e, col cuore gonfio per quanto vedeva e quanto indovinava, si fermò sulla soglia. Come se la medesima anima avesse animato questi due corpi, Mercedès faceva nelle sue camere ciò che Alberto aveva fatto nelle proprie. Tutto era stato messo in ordine; i merletti, le guarnizioni, i gioielli, la biancheria, il danaro, erano schierati nel fondo dei cassetti, dei quali la contessa metteva insieme le chiavi con cura. Alberto vide tutti questi preparativi; egli comprese tutto, e gridando «Madre mia!» andò a gittare le sue braccia intorno al collo di Mercedès. Quel pittore che avesse potuto copiare l’espressione di queste due figure, avrebbe certamente fatto un bel quadro. Infatto tutti questi preparativi, prodotti da un’energica risoluzione che non avevano fatto paura ad Alberto per sè stesso, lo spaventavano per sua madre: — Che fate voi dunque? domandò egli. — Che avete fatto voi? rispose ella. — Oh! madre mia, gridò Alberto commosso al punto di non poter parlare, non può essere di voi come di me; no, voi non potete aver risoluto ciò che io ho stabilito, poichè vengo a prevenirvi che dico addio alla vostra casa, ed a voi. — Io pure, Alberto, rispose Mercedès, io pure parto. Aveva contato, lo confesso, che mio figlio mi avrebbe accompagnata; mi sono io ingannata? — Madre mia, disse Alberto con fermezza, non posso farvi dividere la sorte che destino a me stesso; bisogna che da ora innanzi io viva senza nome e senza fortuna; per cominciare il noviziato di questa cruda esistenza, fa d’uopo che io chieda in prestito ad un amico il pane che mangerò da questo momento fino a quello in cui potrò guadagnarmene. Così mia buona madre, me ne vado diritto da Franz a pregarlo di prestarmi quella piccola somma che ho calcolato essermi necessaria. — Tu, mio povero figlio, gridò Mercedès, soffrire la fame! non dirlo, infrangeresti tutte le mie risoluzioni. — Ma non parliamo delle mie, madre mia, rispose Alberto. Io sono giovine, sono forte, credo di essere coraggioso, e fin da ieri ho imparato che cosa può la mia volontà. Ahimè! madre mia, vi sono degli esseri che hanno sofferto tanto, e che non solo non sono morti, ma che ancora hanno edificato una nuova fortuna, sugli avanzi di tutte le speranze che Dio avea loro date! Io ho saputo questo, madre mia, ho veduto questi uomini; so che dal fondo dell’abisso in cui li aveva immersi il loro nemico, essi si sono rialzati con tanto vigore e tanta gloria, che hanno dominato il loro antico vincitore e lo hanno a sua volta precipitato. No, madre mia, no: io ho rotto da quest’oggi col passato, e non ne accetto più niente, neppure il mio nome, perchè, voi lo capite, non è vero madre mia? vostro figlio non può portare il nome di un uomo che deve arrossire davanti ad un altro uomo. — Alberto, figlio mio, disse Mercedès, se io avessi avuto un cuore più forte, sarebbe stato questo il consiglio che ti avrei dato; la tua coscienza ti ha parlato quando la mia spenta voce taceva; ascolta la tua coscienza, figlio mio. Tu avevi degli amici, Alberto, tronca momentaneamente ogni rapporto con loro, ma non disperare, in nome di tua madre! La vita è ancor bella alla tua età, mio caro Alberto, perchè tu hai appena ventidue anni; e siccome ad un cuore così puro quale è il tuo abbisogna un nome senza macchia, prendi quello di mio padre: egli si chiamava Herrera. Io ti conosco, Alberto mio; qualunque sia la carriera che tu segua, in breve tempo renderai questo nome illustre. Allora, amico mio, ricomparisci nel mondo più splendido ancora pel lustro delle tue passate disavventure; e se non avesse da accadere così ad onta di tutte le mie previsioni, lasciami almeno questa speranza, a me che non avrò più altro pensiero, a me che non ho più un avvenire e per la quale la tomba comincia dalla soglia di questa casa. — Io farò secondo i vostri desiderii, madre mia, disse il giovine; sì, io divido la vostra speranza: la collera del cielo non perseguiterà voi così pura, me così innocente. Ma poichè noi siamo risoluti, si operi prontamente. Il sig. de Morcerf ha lasciato il palazzo sarà circa mezz’ora; l’occasione, come vedete, è favorevole per evitare il rumore e le spiegazioni. — Io vi aspetto, figlio mio, disse Mercedès. Alberto corse tosto sul baluardo da dove ritornò in una vettura da nolo che doveva condurli fuori del palazzo; si ricordò di una certa piccola casa ammobiliata, nella strada dei SS. Padri, ove sua madre troverebbe un alloggio modesto ma decente; ritornò adunque a prender la contessa. Nel momento in cui la carrozza si fermava davanti alla casa, e quando Alberto ne discendeva, un uomo si avvicinò a lui e gli consegnò una lettera. Alberto riconobbe l’intendente di Monte-Cristo. — Dal conte, disse Bertuccio. Alberto prese la lettera, l’aprì, la lesse. Dopo averla letta, cercò cogli occhi Bertuccio; ma questi era sparito mentre il giovine leggeva. Allora Alberto colle lagrime agli occhi, il petto gonfio dall’emozione rientrò nella camera di Mercedès, e senza pronunziare una sola parola le presentò la lettera. Mercedès lesse: «Alberto. «Nel farvi conoscere che io ho penetrato il disegno al quale siete sul punto di abbandonarvi, credo di dimostrarvi egualmente che ne comprendo la delicatezza. Eccovi libero, voi lasciate il palazzo del conte, vi ritirate con vostra madre, libera al par di voi; ma riflettetevi, Alberto; voi le dovete più di quel che potete pagarle, povero e nobil cuore che siete. Conservate per voi la lotta, reclamate per voi le sofferenze, ma risparmiatele quella prima miseria che accompagnerà inevitabilmente i vostri primi sforzi; poichè ella non merita nemmeno il riverbero della disgrazia che in oggi la colpisce, e la provvidenza non vuole che l’innocente paghi pel colpevole. «Io so che voi lasciate entrambi la casa della strada Helder senza portarvi via niente. Non cercate scoprire in qual modo l’ho saputo. Io lo so: e basta. Ascoltate, Alberto. «Ventiquattro anni or sono, io ritornava molto fiero nella mia patria. Aveva una fidanzata, Alberto, una santa giovinetta che io adorava, e portava alla mia fidanzata 150 luigi accumulati penosamente colle mie fatiche senza riposo. Questo danaro era per lei, io lo destinava a lei, e sapendo quanto il mare è perfido, aveva seppellito il nostro tesoro in un piccolo giardino della casa che mio padre abitava a Marsiglia sopra i viali di Meillan. Vostra madre, Alberto, conosce bene questa povera casa. Ultimamente, venendo a Parigi, sono passato da Marsiglia. Sono andato a vedere questa casa dei dolorosi ricordi, e la sera, con una vanga alla mano, ho esplorato l’angolo ove era sepolto il mio tesoro. La cassetta di ferro era ancora nel medesimo posto, nessuno l’aveva toccata; ella è presso un bel fico, piantato da mio padre il giorno della mia nascita, che la ricopre colla sua ombra. «Ebbene! Alberto, questo danaro, che in altro tempo doveva provvedere alla vita ed alla tranquillità di questa donna che io adorava, ecco che oggi, per una strana e dolorosa combinazione, ha ritrovato lo stesso uso. «Oh! capite bene il mio pensiero; io che potrei offrire dei milioni a questa povera donna, le rendo soltanto il tozzo di pane nero dimenticato sotto il mio povero tetto, dal giorno in cui fui separato per sempre da lei. «Voi siete un uomo generoso, Alberto, ma ciò non ostante siete forse acciecato dall’orgoglio o dal risentimento; se ricusate, se domandate ad un altro ciò che io ho il diritto di offrirvi, dirò che siete poco generoso nel ricusare la vita di vostra madre offerta da un uomo a cui vostro padre ha fatto morire il padre suo negli orrori della fame e della disperazione.» Finita questa lettura, Alberto restò pallido ed immobile aspettando ciò che avrebbe risoluto sua madre. Mercedès alzò al cielo uno sguardo di una ineffabile espressione. — Io accetto, disse ella; egli ha il diritto di pagare la dote che io porterò in un convento, — e mettendo la lettera sul suo cuore, prese il braccio di suo figlio, e con un passo più sicuro di quel che forse ella stessa si aspettava, prese la via delle scale. XCI. — Il SUICIDIO. Frattanto Monte-Cristo, egli pure, era rientrato in città con Emmanuele e Massimiliano. Il ritorno fu allegro. Emmanuele non dissimulava la gioia di aver veduto succedere la pace alla guerra, e confessava altamente i suoi gusti filantropici. Morrel, in un angolo della carrozza, lasciava evaporare in parole l’allegria di suo cognato, e conservava per sè una gioia altrettanto sincera, ma che brillava soltanto dai suoi occhi. Alla barriera del Trono fu incontrato Bertuccio; egli aspettava là, immobile come una sentinella al suo posto. Monte-Cristo cavò la testa dallo sportello, cambiò con lui qualche parola a bassa voce, e l’intendente disparve. — Sig. conte, disse Emmanuele, giungendo vicino alla piazza Reale, fatemi smontare, vi prego, alla mia porta affinchè mia moglie non abbia ad avere anche un momento di più di pena nè per voi nè per me. — Se non fosse ridicolo l’andare a far mostra del proprio trionfo, disse Morrel, inviterei il sig. conte ad entrar da noi; ma il sig. conte senza dubbio ha egli pure dei cuori tremanti da tranquillare. Eccoci arrivati, Emmanuele, salutiamo il nostro amico, e lasciamolo continuare la sua strada. — Un momento, disse Monte-Cristo, non mi private così in un sol punto dei miei due compagni; voi Emmanuele rientrate presso la vostra graziosa moglie, alla quale v’incarico di presentare i miei complimenti; e voi, Morrel, accompagnatemi fino ai Campi-Elisi. — A meraviglia, disse Massimiliano; tanto più che ho alcune faccende nel vostro quartiere, conte. — Dobbiamo aspettarvi per fare la colazione? domandò Emmanuele. — No, rispose il giovine. — Lo sportello si richiuse, e la carrozza continuò la sua strada. — Guardate come io vi ho portato fortuna! disse Morrel quando fu solo col conte. Non vi avete pensato? — Sì, certo, disse Monte-Cristo, ed ecco perchè vorrei sempre tenervi vicino a me. — È miracoloso! continuò Morrel, rispondendo al suo proprio pensiero. — Che cosa? disse Monte-Cristo. — Quel che è accaduto. — Sì, rispose il conte con un sorriso, voi avete usato del termine conveniente, Morrel, è miracoloso! — Perchè, riprese Morrel, Alberto è coraggioso. — Coraggiosissimo, disse Monte-Cristo; l’ho veduto dormire mentre gli stava sospeso sul capo il pugnale. — Ed io so ch’egli si è battuto due volte, e si è battuto molto bene, disse Morrel; conciliate dunque ciò colla sua condotta di questa mattina! — È stata la vostra influenza, riprese sorridendo Monte-Cristo. — È fortuna per Alberto che non sia soldato. — E perchè? — Fare delle scuse sul terreno! fece il giovine Capitano scuotendo la testa. — Andiamo, disse il conte con dolcezza, non andate a cadere nei pregiudizi degli uomini ordinari, Morrel. Non converrete, poichè Alberto è coraggioso, che egli non può esser vile? che bisogna ch’egli abbia avuto una forte ragione per operare come ha fatto questa mattina, e che, non pertanto, la sua condotta è piuttosto eroica che tutt’altro? — Senza dubbio, rispose Morrel; ma dirò come lo spagnuolo: «oggi è stato meno coraggioso di ieri.» — Voi farete colazione meco, n’è vero Morrel? disse il conte per troncare la conversazione. — No, io vi lascio alle dieci. — Il vostro ritrovo è dunque per far colazione? Morrel sorrise e scosse la testa. — Eppure bisognerà bene che facciate colazione in qualche luogo? riprese il conte. — E se non avessi fame? disse il giovine. — Oh! fece il conte, non conosco che due sentimenti che tolgono in tal modo l’appetito; il dolore (ma siccome vi vedo abbastanza allegro, fortunatamente non è questo) e l’amore. Ora, dopo ciò che mi avete detto in proposito del vostro cuore, mi è permesso di credere... — In fede mia! replicò gaiamente Morrel, non dico di no. — E voi non mi raccontate nulla, Massimiliano? riprese il conte con un tuono così vivo che si scorgeva il piacere che avrebbe preso a conoscere questo segreto. — Questa mattina vi ho fatto conoscere che aveva un cuore? Per tutta risposta Monte-Cristo stese la mano al giovine. — Ebbene! continuò questi, dappoichè questo cuore non è più con voi al bosco di Vincennes, egli è andato ad un’altra parte, ed io vado a cercarlo. — Andate, disse lentamente il conte, andate, amico caro; ma di grazia, se provaste qualche ostacolo, ricordatevi che ho qualche potere in questo mondo, e che sono felice d’impiegarlo a profitto delle persone che amo, ed io v’amo moltissimo, Morrel. — Bene, disse il giovine, me ne sovverrò (come i fanciulli egoisti si sovvengono dei loro parenti quando hanno bisogno di loro); quando avrò bisogno di voi, e forse questo momento verrà, m’indirizzerò a voi, conte. — Bene, io ritengo la vostra parola. Addio dunque. — A rivederci. — Erano giunti alla porta della casa dei Campi-Elisi. Monte-Cristo aprì lo sportello, Morrel balzò sul pavimento, Bertuccio aspettava sulla scalinata. Morrel disparve all’ingresso di Marigny, e Monte-Cristo camminò incontro a Bertuccio. — Ebbene? domandò egli. — Ebbene! rispose l’intendente; ella lascia la casa. — E suo figlio? — Florentin, suo cameriere, crede che faccia altrettanto. — Venite. — Monte-Cristo condusse Bertuccio nel suo gabinetto, scrisse la lettera che conosciamo, e la rimise all’intendente. — Andate, diss’egli, e fate con diligenza... A proposito fate avvisare Haydée ch’io sono ritornato. — Eccomi, disse la giovinetta, che al rumore della carrozza era già discesa, e di cui il viso raggiava di gioia, nel rivedere il conte salvo. Bertuccio uscì. Tutti i trasporti di una figlia nel rivedere un padre prediletto, tutti i delirii di un’amica nel rivedere l’amante adorato, Haydée li provò nei primi momenti del ritorno da lei atteso con tanta impazienza. Certamente, quantunque meno espansiva, la gioia di Monte-Cristo non era men grande; la gioia, pei cuori che hanno lungamente sofferto, è simile alla rugiada delle terre disseccate dal sole; come le terre assorbono la pioggia benefattrice che cade sovr’esse, e niente ne appare al di fuori. Da qualche giorno Monte-Cristo capiva una cosa, che da qualche tempo non osava credere, ed era, che v’erano due Mercedès al mondo, e ch’egli poteva ancora essere felice su questa terra; il suo occhio avido di felicità si immergeva avidamente negli umidi sguardi d’Haydée, quando d’improvviso la porta si aprì. Il conte aggrottò il sopracciglio. — Il sig. de Morcerf! disse Battistino, come se questa sola parola racchiudesse tutta la sua scusa. In fatto il viso del conte si rischiarò. — Quale? domandò egli, il visconte o il conte? — Il conte. — Mio Dio! gridò Haydée, non è ancora dunque finita? — Non so se sia finita, fanciulla mia diletta, disse Monte-Cristo prendendo le mani della figlia adottiva; ma ciò che so si è che tu non hai nulla a temere. — Oh! se frattanto il miserabile... — Quest’uomo non ha alcun potere sopra di me Haydée, disse Monte-Cristo; nè quando aveva a che fare con suo figlio vi era di che temere. — Oh! ciò che io ho sofferto, disse la giovinetta, tu non lo saprai mai, mio signore. Monte-Cristo sorrise. — Per la tomba di mio padre! ti giuro, Haydée, che se accade disgrazia a qualcuno, non sarà a me. — Io ti credo, mio signore, come se mi parlasse una voce dal cielo, disse la giovinetta. — Oh! mio Dio! mormorò il conte, permettereste voi che io potessi ancora amare? Fate entrare il sig. conte de Morcerf nel salotto, — diss’egli a Battistino mentre riconduceva la bella greca nelle sue camere per la scala segreta. Una parola di spiegazione su questa visita, attesa forse da Monte-Cristo, ma inaspettata senza dubbio dai nostri lettori. Mentre che Mercedès, come abbiamo detto, faceva nelle sue camere l’inventario che Alberto aveva già fatto nelle proprie; mentre classificava i suoi gioielli, chiudeva i cassetti, riuniva le chiavi, affine di lasciar tutto nell’ordine più perfetto, ella non si era accorta che una testa pallida e sinistra era comparsa alla invetriata di una porta che lasciava passare la luce ad un corridore; di là non solo si poteva vedere, ma si poteva ancora sentire. Questi che guardava così, senza essere, secondo tutte le probabilità, nè veduto nè inteso, vide dunque ed intese tutto ciò che accadeva presso la signora de Morcerf. Da questa porta con vetri, l’uomo dal viso pallido si portò nella camera da dormire del conte di Morcerf, e giunto là, sollevò con una mano contratta la tendina della finestra che guardava nel cortile. Per dieci minuti restò così immobile e muto, ascoltando i battiti del proprio cuore. Per lui dieci minuti erano molto lunghi. Fu allora che Alberto ritornò dal suo ritrovo, scoperse suo padre che stava alle vedette sul suo ritorno dietro la tendina, e voltò la testa. L’occhio del conte si dilatò: sapeva che l’insulto d’Alberto a Monte-Cristo era stato terribile, che un simile insulto, in tutti i paesi del mondo, trascinava ad un duello a morte. Ora, Alberto ritornava sano e salvo, dunque il conte era vendicato. Un lampo di gioia indicibile illuminò quel lugubre viso, come fa un ultimo raggio di sole prima di perdersi nelle nubi, che sembrano meno il suo letto di quello che la sua tomba. Ma, noi lo abbiamo detto, egli aspettava invano che il giovine salisse nel suo appartamento per rendergli conto del suo trionfo. Che suo figlio, prima di andarsi a battere, non avesse voluto vedere suo padre di cui andava a vendicare l’onore, ciò si comprende; ma, una volta questo onore vendicato, perchè questo figlio non veniva a gettarsi fra le braccia di suo padre? Fu allora che il conte, non vedendo venire Alberto, inviò a cercare il suo domestico. Si sa che Alberto lo aveva autorizzato a non tener nascosta la verità a suo padre. Dieci minuti dopo si vide comparire sulla scalinata il generale de Morcerf, vestito in abito nero, col goletto alla militare, i calzoni neri, e i guanti neri. A quanto pare, aveva già dati degli ordini anteriori, poichè appena aveva egli toccato l’ultimo gradino della scala, che la sua carrozza di già attaccata uscì dalla rimessa, e venne a fermarsi dinanzi a lui: il suo cameriere vi gettò dentro un mantello alla militare, instecchito per le due spade che avvolgeva; quindi, chiuso lo sportello, si assise vicino al cocchiere, che s’inchinò davanti al calesse per domandar l’ordine. — Ai Campi-Elisi, disse il generale, al palazzo del conte di Monte-Cristo. I cavalli si slanciarono sotto il colpo di frusta che li circondò; cinque minuti dopo essi si fermarono alla casa del conte. Il sig. de Morcerf aprì da sè lo sportello, la carrozza andava ancora, ed egli saltò come un giovine, al cancello, suonò, e disparve dalla porta aperta in compagnia del cameriere. Un minuto secondo dopo Battistino annunciava al signor conte di Monte-Cristo, il conte de Morcerf, e Monte-Cristo, riconducendo Haydée, dava l’ordine che il conte de Morcerf fosse introdotto nel salotto. Il generale misurava coi passi per la terza volta tutta la lunghezza del salotto, quando, rivoltandosi, vide Monte-Cristo in piedi sulla soglia! — Ah! è il sig. de Morcerf, disse tranquillamente Monte-Cristo; credeva di aver male inteso. — Sì, son io: disse il conte con una spaventevole contrazion di labbra che gli impediva di articolar le parole. — Ora dunque non mi resta che a sapere la causa, disse Monte-Cristo, che mi procura il piacere di vedere il sig. de Morcerf così di buon’ora. — Questa mattina avete avuto un incontro con mio figlio? — Voi sapete questo? rispose il conte. — So pure che mio figlio aveva buone ragioni per desiderar di battersi con voi, e di far tutto ciò che poteva per uccidervi. — In fatto, signore, egli ne aveva di buonissime; ma voi vedete che, ad onta di queste ragioni, non mi ha ucciso, ed anzi non si è neppure battuto. — E ciò non pertanto vi considerava come la causa del disonore di suo padre, non meno che la causa della terribile rovina che in questo momento opprime la mia famiglia. — È vero, riprese Monte-Cristo colla sua calma spaventosa; causa secondaria, per esempio, e non principale. — Senza dubbio voi gli avrete fatta qualche scusa, e data qualche spiegazione? — Io non gli ho data nessuna spiegazione, ed è stato lui che mi ha chiesto scusa. — Ma a che cosa attribuite questa sua condotta? — Probabilmente alla convinzione che in tutto questo affare vi era un uomo più colpevole di me. — E chi è quest’uomo? — Suo padre. — Sia, disse il conte impallidendo; ma sapete che anche il più colpevole non ama sentirsi convincere della sua reità. — Lo so... così, io mi era preparato a ciò che accade in questo momento. — Voi vi eravate preparato a ritrovare in mio figlio un vile? gridò il conte. — Alberto de Morcerf non è un vile! disse Monte-Cristo. — Un uomo che tiene in mano una spada, un uomo che, alla portata di questa spada, ha un nemico mortale; quest’uomo, se non si batte, è un vile! A che non è egli qui? che io glie lo dica! — Signore, rispose freddamente Monte-Cristo, io non presumo che voi siate venuto a ritrovarmi per raccontarmi i vostri piccoli affari di famiglia. Andate a dire tutto questo ad Alberto, forse sarà egli che vi risponderà. — Oh! no! no! replicò il generale con un sorriso che sparì non sì tosto comparso; a noi! voi avete ragione, io non sono venuto qui per questo! Io sono venuto per dirvi, che io pure vi riguardo per un mio nemico! Sono venuto per dirvi che vi odio per istinto! che mi sembra d’avervi sempre conosciuto, sempre odiato! e che finalmente, poichè i giovani di questo secolo non si battono più, sta a noi il batterci... È questo pure il vostro parere signore? — Precisamente. Così, quando vi ho detto che mi era preparato a quanto accade, m’intendeva di parlare dell’onore della vostra visita. — Tanto meglio... i vostri preparativi son dunque fatti? — Essi lo sono sempre, signore. — Sapete che noi ci batteremo fino alla morte di uno di noi due! disse il generale con i denti stretti per la rabbia. — Fino alla morte di uno di noi due, ripetè il conte di Monte-Cristo facendo un leggiero movimento di testa. — Partiamo allora, non abbiamo bisogno di testimoni. — In fatto, è inutile, ci conosciamo tanto bene! — Al contrario, disse il conte, non ci conosciamo. — Bah! disse Monte-Cristo colla stessa flemma da disperare, vediamo un poco. Non siete voi il soldato Fernando che disertò la vigilia della battaglia di Waterloo? Non siete voi il sotto-tenente Fernando che ha servito di guida e di spia all’esercito francese in Ispagna? Non siete voi il capitano Fernando che ha tradito, venduto, assassinato il suo benefattore, Alì? E tutti questi Fernandi riuniti non hanno essi formato il tenente generale conte de Morcerf, pari di Francia? — Oh! gridò il generale colpito da queste parole come da un ferro arroventato; oh! miserabile che mi rimproveri la mia onta, nel momento forse in cui tu stai per uccidermi! no, non ti ho detto d’esserti sconosciuto; so bene, demonio, che tu hai penetrato nella notte del passato, e che tu hai letto al chiarore di qual fiaccola, io l’ignoro! tutte le pagine della mia vita; ma forse ho ancora più onore, nel mio obbrobrio, che tu sotto le tue pompose apparenze. No, no, io ti sono conosciuto, lo so, ma sei tu che io non conosco, avventuriere ricoperto d’oro e di gemme: tu ti sei fatto chiamare a Parigi conte di Monte-Cristo; in Italia Sindbad il marinaio; a Malta che so io? l’ho dimenticato. Ma è il tuo vero nome quello che ti domando, è il tuo vero nome quello ch’io voglio sapere, fra i tuoi cento nomi, affinchè io lo pronunci sul terreno del combattimento, nel punto in cui t’immergerò la mia spada nel cuore. Il conte di Monte-Cristo impallidì in un modo terribile, il suo occhio bieco s’infuocò, fece uno sbalzo nel gabinetto attinente alla sua camera, ed in men di un secondo, si strappò la cravatta, l’abito ed il gilè, indossò una piccola giacca da marinaro, si mise un cappello da un uomo di bastimento, sotto il quale si sciolsero i suoi lunghi capelli neri. Ritornò così, spaventevole, implacabile, camminando colle braccia incrociate incontro al generale, che l’aspettava, e che sentendo i suoi denti stridere, e le sue gambe piegarglisi sotto, rinculò di un passo, e non si fermò che trovando in una tavola un punto d’appoggio per la sua mano increspata. — Fernando, gli gridò il conte, dei miei cento nomi, non avrei bisogno che di dirtene un solo per fulminarti: ma questo nome tu lo indovini, non è vero? o piuttosto tu te lo ricordi? poichè ad onta di tutti i miei dispiaceri, di tutte le mie torture, io oggi ti mostro un viso che la felicità dalla vendetta ringiovanisce, un viso che tu devi aver veduto molte volte nei tuoi sogni dopo il tuo matrimonio... con Mercedès, mia fidanzata! Il generale rimase colla testa rovesciata in addietro, le mani stese, lo sguardo fisso, divorando in silenzio questo terribile spettacolo; indi andando a cercare il muro, come per ritrovare un punto d’appoggio, vi si strisciò lentamente fino alla porta, dalla quale uscì all’indietro, lasciando sfuggire questo solo grido lugubre, lamentevole, dilaniante. — Edmondo Dantès! — Indi, con dei sospiri che nulla avevano dell’umano, si trascinò fino al peristilio della casa, traversò il cortile come un uomo ubbriaco, e cadde fra le braccia del suo cameriere mormorando soltanto con voce inintelligibile: — A casa! a casa! Cammin facendo, la freschezza dell’aria, e l’onta che gli causava l’attenzione della sua servitù, lo rimisero in istato di raccogliere le sue idee; ma il tragitto fu corto, e a seconda che si avvicinava alla sua abitazione, il conte sentiva rinnovarsi tutte le sue angosce. A qualche passo dalla casa fece fermare e discese. La porta del palazzo era aperta in tutta la sua grandezza; una vettura da nolo sorpresa di essere chiamata in quella magnifica dimora, stazionava in mezzo al cortile; il conte la guardò con terrore, ma senza aver coraggio d’interrogare alcuno, e si slanciò verso il suo appartamento. Due persone discendevano la scala; egli non ebbe che il tempo di gettarsi in un gabinetto per evitarle. Era Mercedès appoggiata al braccio di suo figlio che abbandonavano la casa. Essi passarono a due linee dal disgraziato, che nascosto dietro la portiera di damasco, fu sfiorato in qualche modo dalla veste di seta di Mercedès, e sentì il tiepido alito di queste parole pronunciate da suo figlio: — Coraggio, madre mia! venite, venite, noi qui non siamo più in casa nostra. — Le parole si estinsero, i passi si allontanarono. Il generale si raddrizzò tenendosi sospeso colle mani increspate alla portiera di damasco; egli comprimeva il più orribile singulto che fosse mai uscito dal petto di un padre, abbandonato ad un tempo dalla moglie, e dal figlio. Ben presto intese sbattere lo sportello della carrozza, poi la voce del cocchiere; indi la pesante macchina rintronò nei vetri; allora si slanciò nella sua camera da dormire per vedere anche una volta tutto ciò che aveva amato nel mondo; ma la carrozza partì, senza che la testa di Mercedès o quella d’Alberto fosse comparsa al finestrello per dare alla casa solitaria, per dare al padre ed allo sposo abbandonato, l’ultimo sguardo, l’addio ed il rammarico, vale a dire il perdono. Così, al momento stesso in cui le ruote della carrozza rintronavano sul pavimento posto sotto la volta, s’intese un colpo di arme da fuoco, ed un tetro fumo uscì da uno dei vetri di quella finestra della camera da dormire, infranto dalla forza di quella esplosione. XCII. — VALENTINA. S’indovinerà facilmente che cosa aveva da fare Morrel, e con chi aveva ritrovo. Morrel dunque, lasciando Monte-Cristo, s’incamminò lentamente verso la casa di de Villefort. Noi diciamo lentamente, perchè Morrel aveva più di mezz’ora, per fare cinquecento passi; ma ad onta di questo tempo più che sufficiente, si era affrettato a lasciare Monte-Cristo, avendo desiderio di rimaner solo coi suoi pensieri. Egli sapeva bene la sua ora: l’ora nella quale Valentina, assistendo alla colazione di Noirtier, era sicura di non essere disturbata in questo pietoso dovere. Noirtier e Valentina gli avevano accordato due visite la settimana, ed egli veniva ad approfittar dei suoi diritti: alla per fine giunse, Valentina lo aspettava. Inquieta, quasi astratta, lo prese per la mano e lo condusse davanti a suo nonno. Questa inquietudine spinta, come lo diremo, fin quasi alla follia, veniva dal rumore che aveva fatta l’avventura di Morcerf; nel _gran mondo_, si sapeva (il gran mondo sa sempre tutto) l’avventura dell’_Opera_. In casa di de Villefort nessuno dubitava che questa non fosse seguita da un duello; Valentina, col suo istinto di donna, aveva indovinato che Morrel sarebbe stato il testimonio di Monte-Cristo, e col coraggio ben cognito del giovine, con quell’amicizia profonda, che ella conosceva in lui pel conte, temeva, che non si sarebbe limitato alla semplice parte passiva di testimonio, che gli era stata assegnata. Si comprenderà adunque con quale avidità furono domandati i particolari, dati e ricevuti, e Morrel potè leggere una indicibile gioia negli occhi della sua diletta, quando ella seppe che questo terribile affare aveva avuto uno scioglimento non meno felice che inatteso. — Ora, disse Valentina facendo segno a Morrel di sedersi accanto al vecchio, e sedendo ella stessa sullo scanno ove riposavano i piedi di lui, ora parliamo un poco dei nostri affari. Voi sapete Massimiliano che il mio buon nonno aveva avuto per un momento l’idea di abbandonare la casa, e di prendere un appartamento fuori del palazzo del sig. de Villefort? — Sì, certo, disse Massimiliano, io mi ricordo questo disegno, e vi aveva ancora molto applaudito. — Ebbene! disse Valentina, applaudite ancora, Massimiliano, poichè il buon nonno lo rinnova. — Bravo! disse Massimiliano. — E sapete, disse Valentina, qual ragione dà il buon nonno per lasciare la casa? — Noirtier guardava la fanciulla per imporle silenzio con l’occhio; ma Valentina non guardava punto Noirtier; i suoi occhi, il suo sguardo, il suo sorriso erano tutti per Morrel. — Oh! qualunque sia la ragione che addurrà il sig. Noirtier, gridò Morrel, dichiaro che ella è buona. — Eccellente, disse Valentina; egli pretende che l’aria del sobborgo Sant’Onorato non val niente per la mia salute. — Infatto, disse Morrel, ascoltate, Valentina; il sig. Noirtier potrebbe realmente aver ragione; da quindici giorni ritrovo che la vostra salute si è alterata. — Sì, un poco, è vero, rispose Valentina; così il buon nonno si è costituito mio medico, e siccome sa di tutto, ho la più gran confidenza in lui. — Ma finalmente è dunque vero che voi soffrite, Valentina? domandò sollecitamente Morrel. — Oh! mio Dio, questo non si chiama soffrire: risento un mal essere generale, ecco tutto; ho perduto l’appetito e mi sembra che il mio stomaco sostenga una lotta per abituarsi a qualche cosa. — Noirtier non perdeva una delle parole di Valentina. — E quale è la cura che seguite per questa sconosciuta malattia? — Oh! semplicissima, disse Valentina, prendo tutte le mattine una cucchiaiata della mistura che si porta a mio nonno; quando dico una cucchiaiata, intendo che ho incominciato col prenderne una; ora però ne prendo di già quattro; mio nonno pretende che questa sia una panacea universale. — Valentina sorrideva; ma vi era qualche cosa di tristo e sofferente in questo sorriso. Massimiliano ebbro di amore la guardava in silenzio: ella era bella, ma il suo pallore aveva preso una tinta più bianca, i suoi occhi brillavano di un fuoco ardente più che d’ordinario, e le sue mani, che ordinariamente erano di un bianco d’avorio, sembravano di cera con una velatura giallastra, che le copriva nello stesso tempo. Da Valentina il giovine portò gli occhi su Noirtier; questi considerava con quella strana e profonda intelligenza la giovinetta assorbita nel suo amore; ma egli pure, come Morrel, scorgeva queste tracce di un sordo soffrire, così poco visibile che era sfuggito agli occhi di tutti, eccetto che a quelli dell’amante e del nonno. — Ma, disse Morrel, questa mistura di cui siete giunta a prender quattro cucchiai, io la credeva un medicamento per il sig. Noirtier? — Io so che è molto amara, rispose Valentina, tanto amara, che tutto ciò che bevo dopo di essa, mi sembra avere lo stesso gusto. — Noirtier guardò sua nipote in modo da interrogarla. — Sì, buon nonno, disse Valentina, è così, come vi diceva. Or ora, prima di venire da voi, ho bevuto un bicchier d’acqua inzuccherata; ebbene! ne ho lasciata la metà, tanto quest’acqua mi è sembrata amara. Noirtier impallidì, e fece segno che voleva parlare. Valentina si alzò per andare a cercare il dizionario. Noirtier la seguiva cogli occhi, e con una visibile angoscia. Difatto il sangue saliva alla testa della giovinetta, e le guance le si coloravano. — Osserva! diss’ella senza perder nulla della sua allegria, è singolare: un abbagliamento! È dunque il sole che mi ha percosso negli occhi?... Ed ella si appoggiò al parapetto della finestra. — Non vi è sole, disse Morrel inquieto anche più della espressione del viso di Noirtier, che della indisposizione di Valentina. Egli corse a Valentina. La giovinetta sorrise. — Rassicuratevi, buon papà, disse ella a Noirtier, rassicuratevi, Massimiliano, non è niente, e la cosa è già passata; ma ascoltate!... non è il rumore di una carrozza quello che io sento nel cortile? Ella aprì la porta di Noirtier, corse ad una finestra del corridoio, e ritornò precipitosamente. — Sì, disse ella, è la sig.ª Danglars con sua figlia che vengono a farci una visita. Addio, mi salvo, perchè verrebbero a cercarmi qui, o piuttosto, a rivederci, restate presso il nonno, sig. Massimiliano, vi prometto di non far nulla per trattenerle. Morrel la seguì con gli occhi, la vide chiudere la porta, e la sentì salire la piccola scala che metteva ad un tempo nella camera della sig.ª de Villefort e nelle sue. Dal momento che disparve, Noirtier fece segno a Morrel di prendere il dizionario. Morrel obbedì; guidato da Valentina, si era prestamente abituato a capire il vecchio. Però, per quanto si fosse abituato, siccome bisognava passare in rivista una gran parte delle lettere dell’alfabeto e ritrovare ciascuna parola nel dizionario, non fu che in capo a dieci minuti che il pensiero del vecchio fu tradotto in queste parole. «Cercate il bicchier d’acqua e la bottiglia che sono in camera di Valentina.» — Morrel suonò subito pel domestico che aveva sostituito Barrois, ed in nome di Noirtier gli dette quest’ordine. Il domestico ritornò un momento dopo. La bottiglia ed il bicchiere erano completamente vuoti. Noirtier fece segno che voleva parlare: — Perchè il bicchiere e la bottiglia son vuoti? domandò egli. Valentina ha detto che non avea bevuto che la metà. La traduzione di questa nuova domanda occupò ancora altri cinque minuti: — Io non so, disse il domestico; ma la cameriera è nell’appartamento di madamigella Valentina, forse sarà stata ella che l’avrà vuotata. — Domandatele il perchè, disse Morrel, traducendo questa volta il pensiero di Noirtier collo sguardo. Il domestico uscì, e quasi subito dopo rientrò. — Madamigella Valentina è passata per la sua camera per portarsi in quelle della sig.ª de Villefort, disse egli; e nel passare, siccome aveva sete, ha bevuto ciò che rimaneva nel bicchiere; in quanto alla bottiglia, il sig. Edoardo l’ha vuotata per fare un laghetto alle sue anitre. Noirtier alzò gli occhi al cielo come fa un giuocatore che giuoca in un punto tutto ciò che possede. Da quel momento gli occhi del vecchio si fissarono sulla porta e non lasciarono più questa direzione. Era difatto la sig.ª Danglars e sua figlia che Valentina avea vedute; erano state condotte nella camera della sig.ª de Villefort, che aveva detto di riceverle nel suo appartamento; ecco perchè Valentina era passata per le stanze di lei, essendo la sua camera allo stesso piano di quella di Valentina, e le due camere non erano divise che da quella di Edoardo. Le due signore entrarono nel salotto con quella sostenutezza officiale che presagisce una comunicazione. Fra persone della stessa società una gradazione è presto presa. La sig.ª de Villefort rispose a questa solennità con altrettanta solennità. Ed in questo momento Valentina entrò, e le riverenze ricominciarono da capo: — Cara amica, disse la baronessa, mentre che le due giovinette si prendevano per la mano, vengo con Eugenia ad annunziarvi per la prima il vicinissimo matrimonio di mia figlia col principe Cavalcanti. — Il banchiere popolare aveva ritrovato che questo titolo stava meglio che quello di conte. — Allora permettete che io vi faccia i miei sinceri rallegramenti, rispose la sig.ª de Villefort. Il sig. principe Cavalcanti sembra un giovine di rare qualità. — Ascoltate, disse la baronessa sorridendo; se noi parliamo come due amiche, debbo dirvi che il principe non ci sembra ancora quel che sarà. Egli ha in sè un po’ di quella stravaganza, che a noi francesi ci fa riconoscere al primo colpo d’occhio un gentiluomo italiano o tedesco. Però annunzia molto buon cuore, molta acutezza di spirito, ed in quanto alle convenienze, il sig. Danglars pretende che la sua fortuna sia _maestosa_: questa è la sua parola. — E poi, disse Eugenia nello sfogliare l’album della sig.ª de Villefort, aggiungete, signora, che voi avete una inclinazione particolare per questo giovine. — Eh, disse la sig.ª de Villefort, non ho bisogno di domandarvi se voi prendete parte a questa inclinazione? — Io! rispose Eugenia colla sua serietà ordinaria, oh! niente affatto, signora; la mia propria vocazione non è d’incatenarmi colle cure di famiglia, e coi capricci di un uomo qualunque si sia. La mia vocazione era di essere artista, e per conseguenza libera nel cuore, nel pensiero, e nelle azioni. Eugenia pronunziò queste parole con un accento così vibrato e così fermo, che il rossore salì al viso di Valentina. La timida fanciulla non poteva comprendere questa natura vigorosa, che null’aveva di comune colle solite timidezze della donna. — Del resto, continuò ella, poichè sono destinata ad essere maritata di buona o di cattiva voglia, debbo ringraziare la Provvidenza che mi abbia procurato il disprezzo del sig. Alberto de Morcerf; senza questa Provvidenza, oggi sarei la moglie di un uomo perduto nell’onore. — È pur troppo vero, disse la baronessa con quella strana ingenuità che qualche volta si ritrova nelle gran signore; è pur troppo vero, senza questa esitanza dei Morcerf, mia figlia avrebbe sposato il sig. Alberto; il generale vi aveva molta premura; era anzi venuto per costringere il sig. Danglars a dare la sua parola; noi l’abbiamo scappata bella. — Ma, disse timidamente Valentina, forse che l’onta del padre ricade sul figlio? Il sig. Alberto mi sembra innocente di tutti questi tradimenti del generale. — Perdono, cara amica, disse l’implacabile giovinetta, il sig. Alberto ne reclama, e ne merita la sua parte: pare che dopo avere ieri sera provocato Monte-Cristo all’Opera, oggi gli abbia fatto le sue scuse sul terreno. — Impossibile! disse la sig.ª de Villefort. — Ah! mia cara, disse la sig.ª Danglars, con quella stessa ingenuità che abbiamo segnalata; la cosa è certa, io la so dal sig. Debray, che era presente alle spiegazioni. Valentina pure sapeva la verità, ma non rispose. Respinta da una parola nelle sue rimembranze, si ritrovava col pensiero nella camera di Noirtier, ove Morrel l’aspettava. Immersa in questa specie di contemplazione, Valentina aveva da qualche minuto cessato di prender parte alla conversazione; le sarebbe stato perfino impossibile di ripetere ciò ch’ella aveva detto pochi minuti prima, quando d’improvviso la mano della sig.ª Danglars, appoggiandosi sur un braccio di lei la tolse da questa distrazione. — Che c’è signora? disse Valentina rabbrividendo al contatto delle dita della sig.ª Danglars. — C’è, che voi, disse la baronessa, state senza dubbio male. — Io? fece la giovinetta passandosi la mano sull’ardente fronte. — Sì; guardatevi in questo specchio, avete arrossito ed impallidito tre o quattro volte nello spazio di un minuto. — Infatto, gridò Eugenia, tu sei molto pallida. — Oh! non te ne inquietare, Eugenia, io sono così da qualche giorno. — E per quanto la giovinetta fosse poco astuta, capì che quella era una buona occasione per uscire. D’altra parte la sig.ª de Villefort venne in suo soccorso: — Ritiratevi, Valentina, diss’ella, voi soffrite realmente e queste signore vorranno perdonarvi; bevete un bicchiere d’acqua e ciò vi rimetterà. — Valentina abbracciò Eugenia, salutò la sig.ª Danglars di già in piedi per partire, ed uscì. — Questa povera ragazza, disse la sig.ª de Villefort quando Valentina andò via, mi tiene in grandissima pena per la sua salute, e non mi meraviglierei che le accadesse qualche grave accidente. — Frattanto Valentina, con una specie d’esaltazione di cui non sapeva rendersi conto, aveva traversata la camera d’Edoardo senza rispondere non so a quale impertinenza del fanciullo, e dalla sua camera aveva raggiunta la scaletta. Aveva già discesi tutti gli scalini, meno gli ultimi tre; ella sentiva già la voce di Morrel, allorquando una nube le passò davanti gli occhi, il piede irrigidito sbagliò lo scalino, le mani non ebbero più forza per sostenersi al mantegno, e, rasente la ringhiera, rotolò anzi che discendere dall’alto dei tre ultimi gradini. Morrel non fece che uno sbalzo, aprì la porta, e trovò Valentina stesa sul pianerottolo. Rapido come il lampo, l’alzò fra le braccia, ed andò a deporla sopra un seggio. Valentina riaprì gli occhi. — Oh! quanto sono mal destra, diss’ella con una febbrile volubilità; non so io dunque più tenermi ritta! dimenticava che vi sono tre scalini prima del pianerottolo. — Vi siete forse ferita, Valentina? gridò Morrel, oh! mio Dio! mio Dio!... — Valentina guardò intorno a sè; vide il più profondo spavento espresso dagli occhi di Noirtier. — Rassicurati, nonno mio, diss’ella sforzandosi di sorridere; non è niente, non è niente... ho avuto un capo giro. — Anche un altro sbalordimento! disse Morrel giungendo le mani, fateci attenzione, Valentina, ve ne supplico. — Ma no, disse Valentina, ma no, vi dico che tutto è passato, e che non è niente. Ora lasciate, che vi dia una notizia: fra otto giorni Eugenia si marita, e fra tre giorni vi è una specie di gran festino, un trattenimento di sponsali. Noi siamo tutti invitati, mio padre, la sig.ª de Villefort, ed io... Almeno a quanto mi è sembrato di capire. — E quando avverrà che tocchi a noi l’occuparci di questi particolari? Oh! Valentina, voi che avete tanto potere sul vostro buon nonno, cercate che vi risponda: _ben presto_. — Così, domandò Valentina, contate su di me, per stimolare la lentezza, e per risvegliare la memoria del nonno? — Sì, gridò Morrel, mio Dio! mio Dio! fate presto. Fino a che voi non sarete mia, Valentina, mi sembrerà sempre che possiate sfuggirmi. — Oh! rispose Valentina con un movimento convulsivo, oh! in verità, Massimiliano, siete troppo timoroso per essere un uffiziale, per essere un soldato che, dicesi, non ha mai conosciuto che cosa sia paura. Ah! ah! ah! — Ed ella scoppiò in una risata stridula e dolorosa, le braccia si torsero e si contorsero, la testa si rovesciò sul seggio, e rimase senza movimenti: il grido di terrore che Iddio incatenava sulle labbra di Noirtier, scaturì dal suo sguardo. Morrel lo comprese, si trattava di chiamare soccorso. Il giovine si attaccò al campanello, la cameriera che era nell’appartamento di Valentina, ed il domestico accorsero simultaneamente. Valentina era così pallida, così fredda, così inanimata, che senza ascoltare ciò che loro dicevasi, la paura che vegliava in questa maledetta casa li assalse, ed essi si slanciarono nel corridoio gridando soccorso. La sig.ª Danglars ed Eugenia uscivano in questo momento, esse furono in tempo da essere informate della causa di tutto questo susurro. — Se lo aveva predetto! gridò la sig.ª de Villefort; povera ragazza! XCIII. — LA CONFESSIONE. Nello stesso punto s’intese la voce del sig. de Villefort che gridava dal suo gabinetto. — Che è stato? Morrel consultò con uno sguardo Noirtier, che allora aveva ripreso tutta la prontezza d’animo, e con un colpo d’occhio gli indicò il gabinetto ove già un’altra volta, in una occasione presso a poco simile, si era rifugiato. Non ebbe che il tempo di prendere il cappello, e di gettarvisi anelante. Si sentivano già i passi del procuratore del Re nel corridoio. Villefort si precipitò nella camera, corse a Valentina e la prese fra le sue braccia: — Un medico! un medico! il sig. d’Avrigny, gridò Villefort; o piuttosto vi andrò io stesso. — E si slanciò fuori dell’appartamento. Dall’altra porta si slanciò Morrel. Egli era stato colpito nel cuore da una spaventevole rimembranza. La conversazione fra il sig. de Villefort ed il dottore, che aveva inteso nel giardino la notte in cui morì la sig.ª de Saint-Méran, gli ritornò tutta alla memoria, questi sintomi portati ad un grado meno spaventoso, erano gli stessi che avevano preceduta la morte di Barrois. Nello stesso tempo gli era sembrato di sentire un rumore al suo orecchio, quella voce di Monte-Cristo che gli aveva detto, erano circa due ore appena: — Qualunque cosa possiate avere bisogno, venite da me, io posso molto. — Più rapido del pensiero corse dunque dal sobborgo Sant’Onorato nella strada Matignon, e dalla strada Matignon all’ingresso dei Campi-Elisi. In questo mentre il sig. de Villefort giungeva in un _cabriolet_ di piazza alla porta del sig. d’Avrigny; suonò con tanta violenza che il portinaro venne ad aprirgli tutto spaventato. Villefort balzò sulle scale senza aver la forza di dire una parola. Il portinaro lo conosceva e lo lasciò passare gridando soltanto: — Nel suo gabinetto, sig. procuratore del Re, nel suo gabinetto! — Villefort ne spingeva già, anzi ne sfondava la porta: — Ah! disse il dottore, siete voi? — Sì, disse Villefort richiudendo la porta dietro a sè; sì, dottore, sono io che vengo a chiedervi a mia volta se siamo soli; dottore, la mia casa è una casa maledetta? — Che! disse questi con apparente freddezza, ma con profonda emozione interna, avete ancor qualche altro malato? — Sì, dottore, gridò Villefort afferrandosi con mano convulsa un pugno di capelli, sì! — Lo sguardo d’Avrigny significava: — Io ve lo aveva predetto. — Indi le sue labbra articolarono lentamente queste parole: — Chi sta dunque per morire in casa vostra? e qual nuova vittima va ad accusarvi di debolezza avanti a Dio? Un doloroso singhiozzo scaturì dal cuore di Villefort, s’avvicinò al medico, ed afferrandolo pel braccio: — Valentina. — Vostra figlia! gridò d’Avrigny preso da dolore e da sorpresa. — Vedete che vi sbagliavate, mormorò il magistrato; venite a vederla, e sul suo letto di dolore chiedetele scusa di averla sospettata. — Ciascuna volta che voi mi avete chiamato, disse il sig. d’Avrigny, era sempre troppo tardi; non importa, vengo, ma affrettiamoci, signore; coi nemici che battono in casa vostra non vi è tempo da perdere. — Oh! questa volta, dottore, non mi rimprovererete più la mia debolezza; riconoscerò l’assassino e lo colpirò. — Tentiamo prima di salvare la vittima, poi penseremo a vendicarla, disse d’Avrigny. Venite! Ed il _cabriolet_ che aveva condotto Villefort lo riaccompagnò al gran trotto in unione al sig. d’Avrigny, nello stesso tempo in cui dal canto suo Morrel batteva al portone di Monte-Cristo. Il conte era nel suo gabinetto, e, molto pensieroso, leggeva una parola che Bertuccio gli aveva inviato in tutta fretta. Per lui come pel conte erano passate molte cose in queste due ore; poichè il giovine che lo aveva lasciato col sorriso sulle labbra, adesso ritornava col viso tutto sconvolto. Egli si alzò, e corse davanti a Morrel. — Che cosa c’è dunque, Massimiliano? gli domandò; siete pallido, e la vostra fronte è irrigata dal sudore. Morrel cadde sopra un seggio: — Sì, disse egli, io sono venuto in fretta; ho bisogno di parlarvi. — Stanno tutti bene in casa vostra? domandò il conte con una benevolenza affettuosa sulla sincerità della quale nessuno avrebbe potuto ingannarsi. — Grazie, conte, grazie, disse il giovine impacciato visibilmente per cominciare la conversazione; sì, nella mia famiglia tutti stanno bene. — Tanto meglio; però voi avete qualche cosa a dirmi? — Sì, disse Morrel, è vero, esco da una casa dove è entrata la morte, per ricorrere a voi. — Uscite forse dalla casa del sig. Morcerf? — No, è morto qualcuno in casa del sig. Morcerf? — Il generale si è bruciato le cervella, rispose freddamente Monte-Cristo. — Oh! disgrazia orribile! gridò Massimiliano. — Non però la contessa, non però Alberto, disse Monte-Cristo; val meglio un padre ed uno sposo morto, che un padre ed uno sposo disonorato; il sangue laverà l’infamia. — Povera contessa! disse Massimiliano, è lei che compiango soprattutto, una donna così nobile! — Compiangete egualmente Alberto, Massimiliano, poichè, credetelo, egli è un figlio degno della contessa. Ma ritorniamo a voi; voi accorrevate a me, avete detto; avrei la fortuna che voi aveste bisogno di me? — Sì, ho bisogno di voi, cioè ho corso come un insensato per vedere se mi poteste portar soccorso in una congiuntura in cui Dio solo può soccorrermi. — Dite pure, disse Monte-Cristo. — Oh! disse Morrel, in verità non so se mi è permesso di rivelare un tal segreto ad orecchie umane; ma la fatalità mi vi spinge, la necessità mi vi costringe; conte... Morrel si fermò esitando. — Credete voi che io vi ami? disse Monte-Cristo prendendo affettuosamente la mano del giovine fra le sue. — Oh! voi m’incoraggiate! e poichè qualche cosa mi dice qui (Morrel pose la mano sul suo cuore) che io non debbo aver segreti per voi... — Avete ragione, è Dio che parla al vostro cuore, ed il cuore parla a voi. Riditemi ciò che vi dice il cuore. — Conte, volete permettermi di inviare Battistino a domandare per parte vostra le notizie di una persona che conoscete? — Io mi sono messo a vostra disposizione, a più forte ragione vi metto i miei domestici. — Ah! è che io non vivrò fino a tanto che non avrò la certezza che ella sta meglio. — Volete che io suoni per Battistino? — No, vado a parlargli io stesso. — Morrel uscì, chiamò Battistino, e gli disse alcune parole a bassa voce. Il cameriere partì correndo. — È fatto? domandò Monte-Cristo vedendo ricomparire Morrel. — Sì, ed io sono un poco più tranquillo. — Voi sapete che aspetto, disse Monte-Cristo sorridendo. — Sì, ed io parlo. Ascoltate. Una sera mi ritrovava in un giardino; era nascosto dietro un gruppo di alberi; nessuno si pensava che io potessi esser lì. Due persone passarono vicino a me, permettetemi che provvisoriamente vi taccia i nomi; esse parlavano a bassa voce, e pure io aveva una tale premura a sentire le loro parole, che non perdetti un accento di quanto esse dissero. — Ciò si annunzia lugubremente, a giudicarne dal vostro pallore e dal vostro fremito, Morrel. — Oh! sì, molto lugubremente amico mio; era morto qualcuno in casa del padrone del giardino in cui mi ritrovava; uno di questi due personaggi di cui ascoltava la conversazione, era il padrone del giardino e l’altro un medico. Ora il primo confidava al secondo i suoi timori ed i suoi dolori, poichè questa era la seconda volta in un mese che la morte piombava rapida ed imprevista su questa casa, che si credeva designata da qualche angiolo sterminatore alla collera di Dio. — Ah! ah! disse Monte-Cristo guardando fissamente il giovine, e girando il suo seggio, con un movimento impercettibile, in modo da situarsi nell’ombra mentre che la luce cadeva sul viso di Massimiliano. — Sì, continuò questi, la morte era entrata due volte in questa casa in meno di un mese. — E che rispondeva il dottore? domandò Monte-Cristo. — Egli rispondeva... egli rispondeva che questa morte non era naturale, e che bisognava attribuirla... — A che? — Al veleno! — Davvero! disse Monte-Cristo con quella tosse leggera che nei momenti di somma emozione, gli serviva a mascherare sia il suo rossore, sia il suo pallore, sia l’attenzione stessa con la quale ascoltava; davvero, Massimiliano, avete inteso tali cose? — Sì, caro conte, le ho intese, ed il dottore aggiungeva che se simili avvenimenti si fossero rinnovati, egli si credeva obbligato di appellarne alla giustizia. — Monte-Cristo ascoltava o sembrava ascoltare con la più gran calma. — Ebbene! disse Massimiliano, la morte ha colpito una terza volta, conte, e a che cosa credete voi che m’impegni la conoscenza di questo segreto? — Mio caro amico, disse Monte-Cristo, mi sembra che raccontiate un’avventura che ciascuno di noi sa a memoria. La casa in cui voi avete sentito questo discorso, la conosco, una casa in cui vi ha un giardino, un padre di famiglia, un dottore, una casa in cui vi sono state tre strane morti ed inattese. Ebbene! guardatemi, io che non ho intercettata alcuna confidenza, e che ciò nonostante so tuttociò tanto bene quanto voi, ho forse degli scrupoli di coscienza? No! ciò non mi riguarda. Voi dite che un angiolo sterminatore sembra designare questa casa alla collera del Signore; ebbene! chi vi dice che la vostra supposizione non sia una realtà? Non vedete le cose che non vogliono vedere quelli che han premura a vederle. Se è la giustizia e non la collera di Dio che passeggia in questa casa, Massimiliano, voltate la testa, e lasciate passare la giustizia di Dio. Morrel fremette. Vi era qualche cosa ad un tempo di lugubre, di solenne e di terribile negli accenti del conte. — D’altra parte, continuò egli con un cambiamento di voce così marcato che si sarebbe detto che queste ultime parole non uscivano dalla bocca del medesimo uomo; chi vi dice che ciò dovrà ricominciare? — Ciò ricomincia, conte, ed ecco perchè accorro a voi. — Ebbene! che volete che vi faccia, Morrel? vorreste per caso che prevenissi il procuratore del Re? Monte-Cristo articolò queste ultime parole con una tal chiarezza, ed un accento così vibrato, che Morrel, alzandosi ad un colpo, gridò: — Conte! conte! voi sapete di che voglio parlarvi, non è vero? — Perfettamente, mio buon amico, ed io ve lo proverò mettendo il punto sull’i, e piuttosto i nomi sugli uomini. Voi siete stato a passeggiare una sera nel giardino del sig. de Villefort; da quanto mi dite, presumo che fosse la sera in cui morì la sig.ª de Saint-Méran. Voi avete inteso il sig. de Villefort parlare col sig. d’Avrigny, sulla morte del sig. de Saint-Méran, e su quella non meno meravigliosa della baronessa. Il sig. d’Avrigny diceva di credere ad un avvelenamento, ed anzi a due avvelenamenti; ed ecco voi, uomo onesto per eccellenza, ecco voi da quel momento occupato a palpare il vostro cuore, a gettare la sonda nella vostra coscienza per sapere se dovete rivelare questo segreto oppure tacerlo. Noi non siamo più nel medio evo, caro amico, non vi sono più i franchi giudici; che diavolo volete domandare a queste genti? coscienza, che vuoi tu da me? come disse Sterne. Eh! mio caro, lasciateli dormire se dormono, lasciateli impallidire nelle loro veglie se non dormono, e, per l’amor di Dio, dormite voi che non avete rimorsi che v’impediscano di poter dormire. — Un orribile dolore si diffuse sui lineamenti di Morrel; egli afferrò la mano di Monte-Cristo. — Ma ciò ricomincia! vi dico io. — Ebbene! disse il conte meravigliato di questa insistenza della quale non capiva niente, e guardando Massimiliano più attentamente, lasciate ricominciare: questa è una famiglia di Atridi; Dio li ha condannati, ed essi soffriranno la loro sentenza; spariranno tutti come quelle casette che fabbricano i fanciulli con le carte piegate, e che cadono le une dopo le altre sotto il soffio del loro creatore, ve ne fosse ancora duecento. Fu il sig. de Saint-Méran tre mesi sono; fu la signora di Saint-Méran due mesi sono; fu Barrois l’altro giorno; oggi sarà il vecchio Noirtier o la giovane Valentina. — Voi lo sapevate? gridò Morrel in un tal parosismo di terrore che Monte-Cristo ne rabbrividì, cui la caduta del cielo avrebbe ritrovato impassibile; lo sapevate, e non dicevate niente? — E che m’importa! riprese Monte-Cristo stringendosi nelle spalle, conosco forse quella gente? bisogna forse che salvi l’uno per perder l’altro? in fede mia no, poichè fra il colpevole e la vittima non ho alcuna preferenza. — Ma io, gridò Morrel urlando dal dolore, io l’amo! — Voi amate chi? gridò Monte-Cristo balzando in piedi, ed afferrando le due mani che Morrel alzava, contorcendosi, verso il cielo. — Io amo perdutamente, amo da insensato; amo come un uomo che darebbe tutto il suo sangue per risparmiarle una lagrima, amo Valentina de Villefort, che si assassina in questo momento, intendete bene? l’amo, e domando a Dio ed a voi, in qual modo posso salvarla! Monte-Cristo mandò un grido così selvaggio che appena se ne possono fare un’idea coloro che hanno inteso il ruggito del leone ferito: — Infelice! gridò egli torcendosi a sua volta le mani, infelice! tu ami Valentina! tu ami questa figlia di una razza maledetta! — Giammai Morrel aveva veduto una simile espressione; giammai un occhio così terribile aveva balenato avanti il suo viso, giammai il genio del terrore, che egli aveva veduto tante volte comparire, sia sui campi di battaglia, sia nelle notti omicide dell’Algeria, non aveva scosso intorno a lui dei fuochi più sinistri. Egli rinculò spaventato. In quanto a Monte-Cristo, dopo questo scoppio e questo susurro, chiuse un momento gli occhi, come abbagliato dai lampi interni; durante questo momento, si raccolse con tanta possanza, che si vedeva poco a poco tranquillarsi il movimento ondulatorio del suo petto gonfio dalla tempesta, come si vedono dopo il temporale fondersi sotto il sole i flutti turbolenti e schiumeggianti. Questo silenzio, questo raccoglimento, questa lotta, durarono venti secondi circa. Indi il conte rialzò la sua pallida fronte: — Voi vedete, disse egli con voce appena alterata, mio caro amico, in qual modo Iddio sa punire della loro indifferenza gli uomini più fanfaroni e più freddi davanti ai terribili spettacoli che loro si offrono. Io che guardava assistendo impassibile e curioso: che guardava lo sviluppo di questa lugubre tragedia; io che, simile all’angiolo del male, rideva del male che fanno gli uomini al sicuro dietro il segreto (il segreto è facile a custodirsi dai ricchi e dai possenti), ecco che a mia volta mi sento morso da questo serpente di cui guardava la marcia tortuosa, e morso al cuore. Morrel mandò un sordo gemito. — Andiamo, andiamo, continuò il conte, bastano i pianti fin qui, siate uomo, siate forte, siate pieno di speranza, poichè io son qui, poichè io veglio su voi. — Morrel scosse tristamente la testa. — Io vi dico di sperare, mi capite? gridò Monte-Cristo. Sappiate che non ho mai mentito, e che non mi sbaglio mai. È mezzogiorno, Massimiliano; ringraziate il cielo di essere venuto a mezzogiorno invece di venire questa sera, invece di venire domattina. Ascoltate dunque ciò che sono per dirvi, Morrel: è mezzogiorno, se Valentina non è morta a quest’ora, ella non morrà più. — Oh! mio Dio! gridò Morrel, l’ho lasciata moribonda, — e Monte-Cristo appoggiò una mano sulla fronte. Che cosa bolliva in quella testa carica di segreti? che cosa diceva a quello spirito, implacabile ad un tempo ed umano, l’angiolo luminoso, o l’angiolo delle tenebre? Dio solo lo sa! Monte-Cristo rilevò la fronte anche una volta, e questa volta essa era placida come quella di un fanciullo che si sveglia: — Massimiliano, diss’egli, ritornate tranquillamente in casa vostra; vi ordino di non fare una dimostrazione, di non lasciare fluttuare sul vostro viso l’ombra di una preoccupazione, vi darò le notizie; andate. — Mio Dio! mio Dio! disse Morrel, voi mi spaventate, conte, colla vostra pacatezza. Potete dunque qualche cosa di più che un uomo? Siete un angelo? — E il giovine che non aveva mai addietrato di un passo davanti ad alcun pericolo, addietrava in faccia a Monte-Cristo, vinto da un indicibile terrore. Monte-Cristo lo guardò con un sorriso così malinconico e così dolce che Massimiliano si sentì spuntare le lagrime sugli occhi. — Io posso molto, amico mio, rispose il conte, andate: ho bisogno di restar solo. — Morrel soggiogato da quel prodigioso ascendente che Monte-Cristo esercitava su tutti quelli che lo circondavano, non cercò neppure di sottrarvisi, strinse la mano del conte e partì. Alla porta soltanto si fermò per aspettare Battistino, che vide comparire dal fondo della strada Matignon, e che ritornava correndo. Frattanto Villefort e d’Avrigny si erano affrettati. Al loro ritorno Valentina era ancora svenuta, ed il medico aveva esaminata l’ammalata con tutta quella cura che esigevano le cose, e con una profondità che era raddoppiata dalla conoscenza del segreto. Villefort sospeso dalle sue labbra e dal suo sguardo aspettava con ansietà il resultato del suo esame. Noirtier, più pallido della giovinetta, più avido di uno scioglimento che Villefort stesso, aspettava egli pure, e tutto si faceva in lui sensibilità ed intelligenza. Finalmente d’Avrigny lasciò sfuggirsi lentamente queste parole: — Ella vive ancora. — Ancora? gridò Villefort: che terribile parola avete pronunziata! — Sì, ella vive ancora, e ne son ben sorpreso. — Ma ella è salva? domandò il padre. — Sì, poichè vive. — In questo momento lo sguardo di d’Avrigny s’abbattè in quello di Noirtier. Esso scintillava di una gioia così straordinaria, di un pensiero talmente ricco e fecondo, che il medico ne rimase colpito. Egli lasciò ricadere sul seggio la giovinetta, le cui labbra appena si distinguevano, tanto eran pallide e bianche, ed all’unisono con tutto il rimanente del viso, e restò immobile guardando Noirtier, da cui ogni movimento del dottore era atteso e commentato. — Signore, disse allora d’Avrigny a Villefort, chiamate la cameriera di madamigella Valentina, se vi aggrada. Villefort lasciò la testa di sua figlia che sosteneva e corse egli stesso a chiamare la cameriera. Tosto che Villefort ebbe chiusa la porta, d’Avrigny si accostò al vecchio: — Avete qualche cosa da dirmi? Il vecchio strinse con espressione gli occhi, nel modo, come ben si ricorderà, con cui voleva indicare l’affermativa. — A me solo? — Sì, fece Noirtier. — Bene, io resterò con voi. — In questo momento Villefort rientrò, seguito dalla cameriera; e dietro questa la signora de Villefort. — Ma che cosa ha dunque questa cara fanciulla? gridò ella; è uscita dalle mie camere, lagnandosi di essere indisposta, ma non avrei creduto che fosse una cosa così seria. E la giovane sposa, colle lagrime agli occhi, e con tutti i segni dell’affezione di una vera madre, si avvicinò a Valentina, di cui prese la mano. D’Avrigny continuava a guardare Noirtier; egli vide gli occhi del vecchio dilatarsi ed arrotondarsi, le guance rilasciarsi e tremare; il sudore gli stillava dalla fronte. — Ah! fece egli involontariamente seguendo la direzione degli sguardi di Noirtier, cioè fissando i suoi occhi sulla sig.ª de Villefort che ripeteva: — Questa povera fanciulla starà meglio nel suo letto. Venite, Fanny, noi ve l’adageremo. Il sig. d’Avrigny che vedeva in questa proposizione un mezzo di restar solo con Noirtier, fece segno colla testa che questo era effettivamente ciò che v’era di meglio a farsi, ma ordinò che non prendesse che quel che le avrebbe ordinato. Fu trasportata Valentina, che aveva ricuperato l’uso dei sensi, ma che era incapace di fare e quasi di parlare, tanto le sue membra erano infrante dalla scossa che aveva sofferta. Però ebbe la forza di salutare con una mossa d’occhi suo nonno, a cui sembrava che strappassero l’anima nel trasportarla. D’Avrigny seguì l’ammalata, terminò le sue prescrizioni, ordinò a Villefort di prendere un _cabriolet_, di andare in persona dal farmacista per far preparare alla sua presenza le pozioni ordinate, di riportarle egli stesso, ed aspettarlo nella camera di sua figlia. Indi, dopo di aver rinnovata l’ingiunzione di non lasciar prender niente a Valentina, ritornò a discendere da Noirtier, chiuse accuratamente le porte, e dopo essersi assicurato che nessuno lo ascoltava: — Vediamo, diss’egli; sapete qualche cosa sulla malattia di vostra nipote? — Sì, fece il vecchio. — Ascoltate, non abbiamo tempo da perdere; v’interrogherò e voi mi risponderete. — Noirtier fece segno ch’era pronto a rispondere: — Avete preveduto l’accidente che oggi accade a Valentina? — Sì. — D’Avrigny riflettè un momento; poi riavvicinandosi a Noirtier: — Perdonatemi ciò che io sto per dirvi, soggiunse, ma non deve essere trascurato nessun incidente nella situazione terribile in cui siamo: avete veduto morire il povero Barrois? — Noirtier levò gli occhi al cielo. — Sapete voi di che cosa è morto? domandò d’Avrigny posando la mano sulla spalla del vecchio. — Sì. — Credete che la morte sia stata naturale? Qualche cosa come un sorriso si abbozzò sulle inerti labbra di Noirtier. — Allora vi è venuta l’idea che Barrois sia stato avvelenato? — Sì. — Credete che il veleno di cui rimase vittima fosse destinato per lui? — No. — Credete che la stessa mano che colpì Barrois, volendo colpire un altro, sia quella che colpisce Valentina? — Sì. — Ella dunque anderà a soccombere nello stesso modo? domandò d’Avrigny fissando il suo sguardo profondo sopra Noirtier. — Ed aspettò l’effetto di questa frase sul vecchio. — No! rispose egli con un’aria di trionfo che avrebbe potuto divergere tutte le congetture del più abile indovino. — Allora sperate? disse d’Avrigny con sorpresa. — Sì. — Che cosa sperate? — Il vecchio fece comprendere cogli occhi che non poteva rispondere: — Ah! sì, è vero, mormorò d’Avrigny. Indi ritornando a Noirtier. — Sperate che l’assassino si stancherà? — No. — Allora sperate che il veleno non farà il suo effetto sopra Valentina? — Sì. — Poichè io non vi manifesto niente di nuovo, non è vero, aggiunse d’Avrigny, col dirvi che si è tentato di avvelenarla. — Il vecchio fece segno con gli occhi che egli non aveva alcun dubbio su questo argomento. — Allora, come sperate voi che Valentina si salverà? Noirtier tenne gli sguardi fissi sempre sulla stessa direzione; d’Avrigny la seguì, e vide che si dirigeva sopra una bottiglia contenente la pozione che gli veniva data tutte le mattine. — Ah! ah! disse d’Avrigny colpito da una subitanea idea, avreste avuto il pensiero... — Noirtier non lo lasciò terminare. — Sì, fece egli. — Di premunirla contro il veleno... — Sì. — Abituandola a poco a poco... — Sì, sì, sì, fece Noirtier incantato d’essere inteso. — Infatto mi avete inteso dire che entrava della brucnina nella pozione che vi do? — Sì. — Ed accostumandola a questo veleno avete voluto neutralizzare gli effetti di un veleno simile? La stessa gioia trionfante di Noirtier. — E voi ci siete arrivato di fatto, gridò d’Avrigny. Senza questa cautela, Valentina oggi sarebbe stata uccisa, uccisa senza nessun soccorso, uccisa senza misericordia; la scossa è stata violenta, ma non ne è rimasta che spossata, e per questa volta almeno Valentina non morrà. Una gioia sovrumana appannava gli occhi del vecchio, alzati con un’espressione d’infinita riconoscenza. In questo momento entrò Villefort. — Prendete, dottore, ecco ciò che avete ordinato. — Questa pozione è stata preparata in vostra presenza? — Sì, rispose il procuratore del Re. — Essa non è uscita dalle vostre mani? — No. D’Avrigny prese la bottiglia, versò qualche goccia del contenuto nel cavo della mano, e l’assaporò: — Bene, diss’egli, andiamo da Valentina, darò le mie istruzioni a tutti, e voi sorveglierete, voi stesso sig. de Villefort, perchè nessuno se ne allontani. — Nel momento in cui d’Avrigny entrava nella camera di Valentina, accompagnato dal sig. de Villefort, un prete italiano, di aspetto severo, con parole placide e risolute prendeva a pigione per suo uso, la casa attigua al palazzo abitato dal sig. de Villefort. Non si potè sapere in virtù di quale traslocazione i tre inquilini di questa casa sgombrarono due ore dopo; ma la voce che corse generale nel quartiere fu, che la casa non era abbastanza sicura nelle fondamenta, e minacciava di rovinare; cosa però che non impedì al nuovo pigionale di stabilirvisi col suo modesto mobilio, il giorno stesso verso le cinque. Questo fitto fu fatto per tre, sei o nove anni col nuovo locatario, che, secondo l’abitudine stabilita fra i proprietari, pagò sei mesi anticipati; ei si chiamava Giacomo Busoni. Furono immediatamente chiamati gli operai, e la notte stessa, quei pochi passeggeri che avendo fatto tardi e che passarono per di là, videro con sorpresa i falegnami ed i muratori occupati a puntellare colle loro opere la casa vacillante. XCIV. — IL PADRE E LA FIGLIA. Abbiamo veduto nel precedente capitolo, la sig.ª Danglars venire ad annunciare officialmente alla sig.ª de Villefort il vicino matrimonio di madamigella Eugenia Danglars col sig. Andrea Cavalcanti. Questo annunzio officiale, che indicava o sembrava indicare una risoluzione presa da tutte le parti interessate a questo grande affare, era però stato preceduto da una scena di cui dobbiamo render conto ai nostri lettori; li pregheremo dunque di fare un passo indietro, e di trasportarsi la mattina stessa della giornata delle grandi catastrofi, in quel bel salotto così ben dorato che loro abbiamo fatto conoscere, e che formava l’orgoglio del suo proprietario, il barone Danglars. In questo salotto, infatto, verso le dieci del mattino, passeggiava da qualche minuto, pensieroso e visibilmente agitato, il banchiere stesso, guardando a ciascuna porta, e fermandosi a ciascun rumore. Allora quando la somma della sua pazienza fu esausta, chiamò il cameriere. — Stefano, gli disse, guardate dunque perchè madamigella Eugenia mi ha detto di aspettarla in questo salotto, e sappiatemi dire perchè mi fa aspettare tanto tempo. — Dopo ch’ebbe esalata questa sbuffata d’impazienza, il barone riprese un po’ di calma. Infatto madamigella Danglars, al suo svegliarsi, aveva fatto chiedere una udienza a suo padre, ed aveva designato il salotto dorato come luogo di questa udienza. La singolarità di tale capriccio, e soprattutto il suo carattere ufficiale, non avevano mediocremente sorpreso il banchiere, che aveva subito obbedito ai desiderii di sua figlia portandosi pel primo nel salotto. Stefano ritornò ben presto dalla sua ambasciata: — La cameriera di madamigella, diss’egli, mi ha annunziato che madamigella compiva la toletta, e che non avrebbe tardato molto a giungere. — Danglars fece un segno con la testa che indicava ch’egli era soddisfatto. Danglars in faccia alla società, ed in faccia ancora alle sue persone di servizio, affettava la bonomia, ed il padre affettuoso e debole: era un brano della parte che si era imposto nella commedia popolare che rappresentava; era una fisonomia che aveva adottato, e che sembrava convenirgli, come conveniva ai profili delle maschere di padre del teatro antico di avere a destra il labbro rivoltato e ridente, nel mentre che a sinistra avevano il labbro abbassato e petulante. Sollecitiamoci di dire che, nella intimità, il labbro rialzato e ridente ricalava a livello del labbro abbassato e petulante; di modo che, nella maggior parte del tempo, la bonomia spariva per dar posto al marito brutale ed al padre assoluto. — Perchè diavolo questa pazza, che vuole parlarmi, a quanto pretende, mormorava Danglars, non viene semplicemente nel mio gabinetto, pensava egli, e perchè soprattutto vuole parlarmi? — Egli ravvolgeva per la ventesima volta questo pensiero inquietante nel cervello, quando la porta si aprì, e comparve Eugenia, vestita di seta nera broccata con fiori pallidi dello stesso colore, coi capelli acconciati, e coi guanti, come se si fosse trattato d’andare a sedere sopra il suo buon seggio del Teatro Italiano. — Che vi è dunque, Eugenia, e perchè nel salotto di visita, mentre si sta egualmente bene nel mio gabinetto? — Voi avete perfettamente ragione, signore, — rispose Eugenia, facendo segno a suo padre che poteva sedersi, — impiantando le due questioni che riassumono tutta la conversazione che avremo. Io dunque risponderò ad entrambe, e, contro le leggi dell’abitudine, dapprima alla seconda essendo la meno complessiva; ho scelto il salotto, signore, per luogo di convegno per evitare le impressioni disaggradevoli e le influenze del gabinetto di un banchiere. Quei libri di cassa, per quanto siano ben dorati, quei cassetti chiusi come le porte di una fortezza, quelle masse di biglietti di banca che vengono non si sa di dove, e quella quantità di lettere che vengono dall’Inghilterra, dalla Olanda, dalla Spagna, dalle Indie, dalla China, e dal Perù, in generale operano stranamente sullo spirito di un padre, e gli fanno dimenticare che nel mondo vi è un interesse più grande e più sacro di quello della posizione sociale e l’opinione dei suoi committenti: ho dunque preferito questo salotto dove voi vedete, sorridenti e felici nei loro quadri magnifici, il vostro ritratto, il mio, quello di mia madre, e molte specie di paesaggi villerecci e pastorali che inteneriscono. Io mi fido molto al potere delle impressioni esterne; forse, a vostro riguardo particolarmente, m’inganno; ma che volete? non sarei artista se non mi restasse qualche illusione. — Benissimo, rispose il sig. Danglars che aveva ascoltata tutta questa tirata con un’imperturbabile pacatezza, ma senza comprenderne una parola, assorto come era, a guisa d’ogni altro uomo pieno di affari, a cercare il filo della propria idea nelle idee del suo interlocutore. — Ecco dunque il secondo punto spiegato, o presso a poco, disse Eugenia senza il minimo turbamento e con quella sostenutezza maschile che distingueva il suo gesto e la sua parola, e voi mi sembrate soddisfatto della spiegazione. Ora veniamo al primo: mi domandate perchè vi ho chiesta questa udienza, ve lo dirò in due parole, signore; eccole: non voglio sposare il conte Andrea Cavalcanti. Danglars fece un salto sulla sedia, e per la scossa alzò ad un tempo e braccia ed occhi al cielo. — Mio Dio, sì signore, continuò Eugenia, sempre egualmente tranquilla; siete meravigliato, lo vedo bene; poichè da quando tutta questa piccola faccenda è in trattativa, io non ho mai manifestata la più piccola opposizione, certa come era sempre, giunto il momento, d’opporre francamente alle persone che non mi hanno consultato, ed alle cose che mi hanno dispiaciuto, una volontà franca ed assoluta. Però questa volta, la tranquillità, la passività, come dicono i filosofi veniva da un’altra sorgente: veniva da ciò che, figlia sottomessa ed affezionata... (un leggiero sorriso si disegnò sulle labbra purpuree della giovanetta) mi voleva accostumare all’obbedienza. — Ebbene? domandò Danglars. — Ebbene! signore, riprese Eugenia, ho provato fino all’estremo delle mie forze, ed ora che è giunto il momento, ad onta di tutti gli sforzi che ho tentati su me stessa, mi sento incapace di obbedire. — Ma finalmente, disse Danglars che, spirito secondario, sembrava dapprima tutto assorbito dal peso di questa implacabile logica, la cui flemma accusava tanta premeditazione e forza di volontà, la ragione di questo rifiuto, Eugenia? la ragione? — La ragione, replicò la giovanetta, oh! mio Dio! non è già perchè egli sia più brutto, più stolido, o più disaggradevole di un altro, no; il sig. Andrea Cavalcanti può anzi passare, per quelli che guardano gli uomini dal viso e dalla persona, per essere un bel modello. Non è neppure perchè il mio cuore sia stato toccato meno da lui che da tutt’altro; questa sarebbe una ragione da giovanetta che esce di conservatorio, che io riguardo del tutto al di sotto di me; non amo assolutamente alcuno, signore, lo sapete bene, non è vero? non vedo dunque perchè, senza un’assoluta necessità, andrò a legare eternamente la mia vita ad un compagno. Il saggio non ha egli detto in un luogo: «_Niente di troppo;_» e in un altro: «_portate tutto con voi stesso_»? Mi hanno ancora fatto apprendere questi due aforismi in latino ed in greco; l’uno, credo, è di Fedro, l’altro di Bias. Ebbene! caro padre, nel naufragio della vita, poichè la vita è un naufragio eterno delle nostre speranze, getto in mare tutto quanto ho di inutile nel mio bagaglio, ecco tutto, e resto con la mia volontà, disposta a vivere perfettamente sola, e per conseguenza perfettamente libera. — Disgraziata! disgraziata! mormorò Danglars impallidendo, poichè conosceva da una lunga esperienza la solidità dell’ostacolo che così d’improvviso incontrava. — Disgraziata! riprese Eugenia, disgraziata! dite voi, signore? Ma no, in verità l’esclamazione mi sembra del tutto affettata e teatrale. Felice, al contrario, poichè ve lo domando, che cosa mi manca? Il mondo mi trova bella, ciò è già qualche cosa per essere accolta favorevolmente! amo le buone accoglienze; esse rallegrano il viso; e quelli che mi ascolteranno mi sembreranno allora meno brutti. Io sono dotata di qualche poco di spirito, e di una certa sensibilità relativa, che mi permette di tirare dalla esistenza generale, per farlo entrare nella mia, ciò che vi trovo di buono, come fa la scimmia allorquando rompe la noce verde per cavare ciò che essa contiene. Io sono ricca, poichè voi avete una delle più belle fortune di Francia, perchè io sono figlia unica, e voi non siete così tenace al punto in cui lo sono i padri del quartiere Saint-Martin e della Gaieté, che diseredano le loro figlie, perchè esse non vogliono dar loro dei nipoti; d’altra parte la legge previdente vi ha tolto il diritto di diseredarmi, almeno del tutto, come vi toglie il potere di costringermi a sposare un signore tale o tal altro. Così, bella, spiritosa, adorna di qualche dote, come si dice all’_Opera Comica_, e ricca, ma questa è felicità, signore, perchè dunque mi chiamate disgraziata? Danglars, vedendo sua figlia sorridente e fiera fino all’insolenza, non potè reprimere un momento di brutalità che si tradì con uno scoppio di voce, ma questo fu il solo. Sotto lo sguardo interrogatore di sua figlia, dirimpetto a questo bel sopracciglio nero increspato per l’interrogazione, si rivoltò con prudenza e si calmò tosto, domato dalla mano di ferro della circospezione: — Infatto, figlia mia, rispose egli con un sorriso, voi siete tutto ciò che vi vantate di essere, ad eccezione di una sola cosa, non voglio dirvi rozzamente qual sia, desidero piuttosto di lasciarvela indovinare. Eugenia guardò Danglars, molto sorpresa che le venisse contestato uno dei fiori della corona d’orgoglio che ella si era posta superbamente sulla testa. — Figlia mia, continuò il banchiere, voi mi avete perfettamente spiegati quali sono i sentimenti che presiedano alle risoluzioni di una figlia come voi, quando ella ha risoluto di non maritarsi; spetta ora a me il dirvi quali sono i motivi di un padre, come sono io, quando ha risoluto che sua figlia si mariterà. — Eugenia s’inchinò, non già come una figlia sottomessa che ascolta, ma come un avversario pronto a discutere su ciò che ascolta. — Figlia mia, continuò Danglars, quando un padre domanda a sua figlia di prendere uno sposo, ha sempre una qualche ragione per desiderare questo matrimonio. Gli uni sono presi dalla manìa che voi dicevate or ora di vedersi rivivere nei loro nipoti. Io comincerò dal dirvi che non ho questa debolezza: le gioie di famiglia mi sono quasi del tutto indifferenti: posso confessar questo ad una figlia che so essere abbastanza filosofa per comprendere questa indifferenza e per non farmene un delitto. — Alla buon’ora, parliamo francamente, ciò mi piace. — Oh! disse Danglars, vedete che senza dividere in tesi generali la vostra simpatia per la franchezza, mi vi sottometto quando credo che la occasione mi v’inviti: continuerò adunque: vi propongo un marito, non per voi, poichè, in verità, non pensava a voi menomamente in questo momento (voi amate la franchezza, e mi sembra che questa lo sia); ma perchè io aveva bisogno che voi prendeste questo sposo il più presto possibile, per certe combinazioni commerciali che sono in questo momento a portata di stabilire. Eugenia fece un movimento. — La cosa è precisamente come ho l’onore di dirvi, figlia mia, e non per questo dovete essere meco inquieta; perchè siete voi che mi vi costringete; è mio malgrado, lo capirete bene, che entro in queste spiegazioni aritmetiche, con un’artista come voi, che teme d’entrare in un gabinetto di un banchiere per timore di ricevervi, i filosofi dicono così, per timore di ricevervi delle impressioni o delle sensazioni disaggradevoli o antipoetiche. Ma in questo gabinetto di banchiere, nel quale però vi siete compiaciuta di entrare ieri l’altro per venire a domandarmi i mille franchi che accordo ogni mese alle vostre fantasie, sappiate, mia cara signorina, che s’imparano molte cose anche per l’uso delle giovanette che non vogliono maritarsi. Vi si impara, per esempio, e per riguardo alla vostra suscettibilità nervosa, ve lo insegno in questo salotto, vi si impara che il credito di un banchiere è la sua vita fisica e morale, che il credito sostiene l’uomo come il soffio anima il corpo; ed il sig. Monte-Cristo mi fece un giorno un discorso su questo proposito che non dimenticherò giammai. Vi si impara, che a seconda che il credito si ritira, il corpo diviene cadavere, e che ciò è quanto deve accadere in brevissimo tempo al banchiere che si onora di essere il padre di una figlia che ha sì buona logica. Ma Eugenia, invece di curvarsi, si raddrizzò d’improvviso: — Rovinato! disse ella. — Voi avete ritrovato la giusta espressione, figlia mia, la buona espressione, disse Danglars grattandosi il petto con le unghie, continuando a conservare sulla rozza figura il sorriso dell’uomo senza cuore, ma non senza spirito; rovinato! precisamente. — Ah! fece Eugenia. — Sì, rovinato! ebbene! eccolo dunque conosciuto questo segreto pieno d’orrore! Ora, figlia mia, imparate dalla mia bocca in qual modo questa disgrazia può, per mezzo vostro, divenir minore non dirò per me, ma per voi. — Oh! gridò Eugenia, siete un cattivo fisonomista, signore, se vi figurate che per me io deploro la catastrofe che mi esponete. Io rovinata! e che m’importa? non mi resta il mio ingegno? non posso come la Pasta, come la Malibran, come la Grisi, procurarmi ciò che voi mi avreste potuto dare, qualunque fosse la vostra fortuna, cento o cento cinquantamila lire di rendita che non dovrei che a me sola, e che invece di giungermi come mi giungono questi poveri dodicimila fr. che mi date con dei sguardi arrabbiati e delle parole di rimprovero sulla mia prodigalità, mi verrebbero accompagnati dalle acclamazioni, dai _bravo_, e dai fiori? e quando non avessi questa virtù della quale il vostro sorriso mi fa vedere che dubitate, non mi resterebbe ancora questo furioso amore per la indipendenza che mi terrebbe sempre le veci di tutti i tesori, e che domina in me fin più dell’istinto della conservazione? no, non è per me che mi rattristo, saprei sempre cavarmi bene d’impaccio; i miei libri, i miei pennelli, il mio piano-forte, tutte cose che non costano molto care e che potrei sempre procurarmi, mi resteranno sempre: crederete forse che io mi affligga per la sig.ª Danglars? disingannatevi pure; o io mi inganno all’ingrosso, o mia madre ha già prese tutte le cautele contro la catastrofe che vi minaccia e che passerà senza toccarla; ella si è messa al sicuro lo spero; e non fu vegliando su di me che ha potuto distrarsi dalle sue preoccupazioni di fortuna; poichè, grazie a Dio ella mi ha lasciata tutta la mia indipendenza sotto il pretesto che io amava la mia libertà. Oh! no, signore, dalla mia infanzia, ho veduto accadere troppe cose intorno a me, le ho tutte troppo bene capite, perchè la disgrazia faccia su di me maggiore impressione di quel che meriti di fare; da che mi conosco, non sono stata amata da alcuno; tanto peggio! Ciò mi ha condotto naturalmente a non amare nessuno, tanto meglio! Ora voi avete la mia professione di fede. — Allora, disse Danglars, pallido di un dolore che non prendeva la sua sorgente dall’offeso amore paterno, allora, madamigella, persistete a voler consumare la mia rovina? — La vostra rovina? Io, disse Eugenia, consumare la vostra rovina? Che intendete di dire? Non capisco. — Tanto meglio, mi lasciate un raggio di speranza; ascoltate. — Ascolto, disse Eugenia guardando così fissamente suo padre, che gli bisognò uno sforzo per non abbassare gli occhi sotto lo sguardo possente della giovanetta. — Il sig. Cavalcanti, continuò Danglars, vi sposa, e sposandovi porta tre milioni di dote che deposita nella mia cassa. — Ah! benissimo, fece con supremo disprezzo Eugenia, mentre lisciava i guanti uno sull’altro. — Credete che io voglia abusarmi di questi tre milioni? disse Danglars, niente affatto. Questi tre milioni sono destinati a produrne almeno dieci: ho ottenuto, con un banchiere mio confratello, la concessione di una strada ferrata, sola industria, che ai nostri giorni, presenta la favolosa eventualità di successo immediato che altra volta Law applicò per i buoni parigini, quelle eterne goffaggini della speculazione, ad un Mississipì fantastico. Col mio calcolo si deve possedere un milionesimo di _rail_, come si possedeva in altri tempi un iugero di terra incolto sulle rive dell’Ohio. Questa è una investitura ipotecaria, che è un progresso come vedete, poichè si avrà almeno quindici, venti, cento libre di ferro in cambio del proprio danaro! Ebbene! devo di qui ad otto giorni depositare per conto mio quattro milioni, questi quattro milioni, ve lo dico, ne produrranno almeno dieci o dodici. — Ma durante la visita che vi ho fatta ier l’altro, signore, e di cui vi dovete ben ricordare, vi ho veduto incassare, mi pare che questo sia il termine, non è vero? cinque milioni e mezzo. Voi anzi mi avete mostrata la somma in due _boni_ sul tesoro, e vi maravigliavate come un pezzo di carta che aveva un sì gran valore, non abbagliasse i miei sguardi come avrebbe fatto un lampo. — Sì, ma questi cinque milioni e mezzo non son miei, eran soltanto una gran prova della fiducia che si aveva in me; il mio titolo di banchiere popolare mi ha meritata la confidenza degli ospedali, ed i cinque milioni e mezzo sono degli ospedali; in tutt’altri tempi non esiterei un momento a servirmene, ma oggi si sanno le grandi perdite che ho fatte, e come vi dissi, il credito comincia ad allontanarsi da me. Da un momento all’altro l’amministrazione può reclamarmi il deposito, e se io l’avessi impiegato in altre cose, sarei costretto di fare un fallimento vergognoso: non disprezzo i fallimenti, ma quelli che arricchiscono, intendiamoci bene, non quelli che rovinano. Ora se voi sposate il sig. Cavalcanti, e che io tocchi i tre milioni della dote, o che per lo meno si creda che io li tocchi, il mio credito si ristabilisce, e la mia fortuna, che da un mese o due si è ingolfata in abissi scavati sotto i miei piedi da una fatalità inconcepibile, si rinnova, mi capite ora? — Perfettamente; mi mettete in pegno per tre milioni? — Più la somma è forte, più essa è lusinghiera, e vi dà una idea del vostro valore. — Grazie. Anche un’ultima parola, signore; mi promettete di servirvi di quanto vorrete della cifra di questa dote che deve portarvi il sig. Cavalcanti, ma di non toccare la somma? Questo non è un affare d’egoismo, è un affare di delicatezza: voglio cooperare a riedificare la vostra fortuna, ma non voglio essere la complice della rovina degli altri. — Ma vi ho detto, gridò Danglars, che questi tre milioni... — Credete di togliervi d’impaccio, signore, senza aver bisogno di toccare questi tre milioni? — Io spero, ma sempre alla condizione che, facendosi il matrimonio, esso rassodi il mio credito. — Potrete pagare al sig. Cavalcanti i 500 mila fr. che mi assegnate nel contratto? — Al ritorno dall’uffizio del _Maire_, gli saranno contati. — Bene! — In che modo, bene? che volete dire? — Vo’ dire che, chiedendomi la firma, mi lasciate perfettamente libera della mia persona? — Assolutamente. — Allora, _bene_, come vi diceva, signore; son pronta a sposare il Sig. Cavalcanti. — Ma qual è la vostra idea? — Ah! questo è un mio segreto. Dove sarebbe la mia superiorità su voi, se, avendo il vostro segreto, vi svelassi il mio? Danglars si morse le labbra: — Così, diss’egli, siete pronta a fare tutte le visite officiali che sono indispensabili, assolutamente. — Sì, rispose Eugenia. — Ed a sottoscrivere il contratto fra tre giorni? — Sì. — Allora io pure vi dico, _bene_! — E Danglars prese la mano della figlia e la strinse con ambo le sue. Ma cosa straordinaria, durante questa stretta di mano, il padre non osò di dire: «Grazie, figlia mia!» e la figlia non ebbe un sorriso per suo padre. — La conferenza è finita? domandò Eugenia alzandosi. — Danglars fece segno con la testa che non aveva più niente da dire. Cinque minuti dopo, il pianoforte risuonò sotto le dita di madamigella d’Armilly, e madamigella Danglars cantava la maledizione di Barbantino nella Desdemone. Alla fine del _pezzo_, entrò Stefano ed annunziò ad Eugenia che i cavalli erano attaccati alla carrozza, e che la baronessa l’aspettava per fare le visite. Abbiamo vedute le due donne passare dalla sig.ª de Villefort; di dove uscirono per continuare le loro corse. XCV. — IL CONTRATTO. Tre giorni dopo la scena che abbiam raccontata, vale a dire verso le 5 p. m. del giorno fissato per la sottoscrizione del contratto di matrimonio fra madamigella Eugenia Danglars, ed Andrea Cavalcanti, che il banchiere si era ostinato a mantenere principe; quando una fresca brezza faceva tremolare tutte le foglie del piccolo giardino, posto davanti alla casa del conte di Monte-Cristo, nel momento in cui questi si preparava ad uscire, e nel mentre che i cavalli lo aspettavano battendo le zampe, trattenuti dalla mano del cocchiere già a cassetta da un quarto d’ora, l’elegante _phaéton_ col quale abbiam già più volte fatta conoscenza, e particolarmente nella serata d’Auteuil, venne a girare rapidamente intorno all’angolo della porta d’entrata, e lanciò anzi che deporre sulla scalinata il sig. Andrea Cavalcanti, così splendido, così raggiante, come se dal canto suo, fosse stato sul punto di sposare una principessa. Egli s’informò della salute del conte con quella famigliarità che gli era abituale, e montando leggermente al primo piano, lo incontrò sull’alto della scala. Alla vista del giovine il conte si fermò. In quanto al giovine era lanciato, e quando lo era, niuna cosa lo tratteneva. — Eh! buon giorno, caro sig. conte di Monte-Cristo, diss’egli al conte. — Sig. Andrea! fe’ questi con voce per metà beffarda, come state? — A meraviglia! come vedete; vengo a parlare con voi di mille cose; ma prima di tutto, voi uscivate? — Io usciva, signore. — Allora, per non farvi ritardare, monterò, nel vostro calesse, e Tom ci seguirà conducendo il _phaéton_. — No, disse con un impercettibile sorriso di disprezzo il conte, che non si curava di essere veduto in compagnia del giovine; no, preferisco di darvi udienza qui, caro sig. Andrea; si parla meglio in una camera, e non si ha il cocchiere che può sorprendervi a volo le parole. — Il conte rientrò dunque in un piccolo salotto che faceva parte del primo piano; si assise, ed incrociando le gambe, fece segno al giovine di sedere egli pure. Andrea prese l’aspetto più ridente. — Voi sapete, caro conte, che la cerimonia deve aver luogo questa sera? alle nove si firma il contratto in casa del suocero. — Ah! da vero? disse Monte-Cristo. — Come! è forse una notizia che vi do? e non eravate prevenuto dal sig. Danglars? — Sì, disse il conte, ieri ho ricevuto una sua lettera; ma parmi non vi fosse indicata l’ora. — È possibile, il suocero avrà contato sulla pubblica notorietà. — Ebbene! disse Monte-Cristo, eccovi felice, sig. Cavalcanti: è una delle alleanze meglio assortite, quella che incontrate; e poi madamigella Danglars è bella. — Ma sì, rispose Cavalcanti con accento pien di modestia. — Ella è soprattutto ricca, almeno a quanto io credo. — Molto ricca, credete? ripetè il giovine. — Senza dubbio; si dice che il sig. Danglars nasconda per lo meno la metà della sua fortuna. — Ed egli confessa quindici o venti milioni, disse Andrea con uno sguardo sfavillante di gioia. — Senza contare, aggiunse Monte-Cristo, che è alla vigilia d’entrare in un genere di speculazione, di già un poco in uso negli Stati-Uniti ed in Inghilterra, ma del tutto nuovo in Francia. — Sì, sì, so di che volete parlare; la strada di ferro che gli è stata aggiudicata, non è vero? — Egli guadagnerà almeno, è la voce universale, almeno dieci milioni in quest’affare. — Dieci milioni, è magnifico! disse Cavalcanti che s’inebriava a questo rumore metallico di parole dorate. — Senza contare, riprese Monte-Cristo, che tutta questa fortuna riverrà su voi, e che è giustizia, poichè madamigella Danglars è figlia unica. D’altra parte la vostra propria fortuna, vostro padre almeno me l’ha detto, è quasi uguale a quella della vostra fidanzata. Ma lasciamo un poco gli affari monetari. Sapete, sig. Andrea, che voi avete maneggiato questo affare molto abilmente e molto prestamente? — Non c’è male, io era nato per essere diplomatico. — Ebbene! vi si farà entrare in diplomazia. La diplomazia, lo sapete, non s’impara; è una cosa d’istinto... Il cuore è dunque preso? — In verità, ne ho paura, rispose Andrea col tuono con cui aveva veduto al teatro francese Dorante o Valeria rispondere ad Alceste. — Siete dunque un poco amato? — Bisogna bene poichè ella mi sposa, disse Andrea con un sorriso vincitore. Ma però non dimentichiamo il punto principale. — E quale? — Ed è che in tutto questo sono stato particolarmente aiutato. — Bah! — Certamente. — Dalle congiunture. — No, da voi. — Da me? lasciate dunque, principe, disse Monte-Cristo calcando con affettazione su questo titolo. E che ho potuto far io per voi? forse che non bastavano il vostro merito e la vostra posizione sociale? — No, disse Andrea, no; e voi avete un bel dire, sig. conte, io sostengo, che la posizione di un uomo quale voi siete, ha fatto di più che il mio nome, la mia posizione sociale ed il mio merito. — V’ingannate compiutamente, signore, disse con freddezza Monte-Cristo che sentiva la perfida furberia del giovine, e che capì la portata delle sue parole; non acquistaste la mia protezione che dopo che ebbi prese le mie informazioni della influenza del vostro sig. padre; poichè finalmente chi ha procurato a me, che non aveva mai veduto nè voi nè l’illustre autore dei vostri giorni, la fortuna di fare la vostra conoscenza? Sono stati due miei buoni amici, lord Wilmore, e l’abate Busoni. Chi mi ha intonato, non già ad esservi garante, ma a proteggervi? Fu il nome di vostro padre così conosciuto e così onorato in Italia; personalmente io non vi conosco. — Questa calma, questa perfetta sicurezza, fecero conoscere ad Andrea che pel momento era trascinato da una mano più muscolosa della sua, e che la conversazione non poteva facilmente rompersi. — Sia; ma, diss’egli; mio padre ha dunque realmente una così gran fortuna, sig. conte? — Pare di sì, signore, rispose Monte-Cristo. — Sapete se la dote che mi ha promessa sia giunta? — Io ne ho ricevuta la lettera d’avviso. — Ma i tre milioni? — Saranno per viaggio, secondo tutte le probabilità. — Io dunque li toccherò realmente? — Ma, diamine! riprese il conte, mi sembra che fino adesso, signore, il danaro non vi sia mancato. Andrea fu talmente sorpreso, che non potè far a meno di rimanere astratto per qualche minuto. — Allora, diss’egli, uscendo dalla sua distrazione, mi rimane a farvi una domanda, e questa, lo capirete, quand’anche vi riuscisse disaggradevole... — Parlate, disse Monte-Cristo. — Mi sono messo in relazione, mercè la mia fortuna, con molte persone distinte, ed ho eziandio, pel momento almeno, una folla d’amici. Ma, ammogliandomi, come faccio, in faccia a tutta la società parigina, devo essere sostenuto da un nome illustre, ed in mancanza della mano paterna, è una mano possente che deve condurmi all’altare. Ora, mio padre non viene a Parigi, non è vero? — Egli è vecchio, coperto di ferite, e soffre: corre pericolo di morire ogni volta che viaggia. — Capisco. Ebbene! io vengo a farvi una domanda. — A me? — Sì, a voi. — E quale, mio Dio? — Ebbene! è di sostituirlo. — Eh! mio caro signore! che! dopo le numerose relazioni che ho avuto l’onore di avere con voi, mi conoscete tanto male da farmi una simile domanda? domandatemi un prestito di mezzo milione, e quantunque esso sia molto difficile, pure, parola d’onore! m’incomodereste meno. Sappiate dunque, credeva d’avervelo già detto, che nella sua partecipazione morale, particolarmente alle cose di questo mondo, giammai il conte di Monte-Cristo non ha cessato di apportare gli scrupoli, e dirò di più le superstizioni degli uomini d’Oriente. Io, che ho un serraglio al Cairo, uno a Smirne, ed uno a Costantinopoli, presiedere ad un matrimonio? mai! — Così, voi ricusate? — Nettamente; foste pur mio figlio, mio fratello. — Ah! gridò Andrea sconcertato, ma come fare allora? — Voi avete cento amici, lo avete detto voi stesso. — Son d’accordo, ma voi mi presentaste al sig. Danglars. — Niente affatto, ristabiliamo i fatti in tutta la loro verità: sono stato io che vi ho fatto pranzare con lui ad Auteuil, e foste voi che vi presentaste da voi stesso; diavolo! questo è ben diverso. — Sì, ma il mio matrimonio voi l’avete aiutato. — Io! in alcun modo, vi prego di crederlo; ma ricordatevi dunque ciò che vi dissi quando siete venuto a chiedermi di fare la domanda: «Oh! io non faccio mai matrimonii, mio caro principe, questo è un principio da me stabilito.» Andrea si morse le labbra: — Ma finalmente, diss’egli, voi almeno vi ritroverete là? — Vi sarà tutta Parigi? — Oh! certamente! — Ebbene! vi sarò io come tutta Parigi, disse il conte. — Voi firmerete il contratto? — Oh! non vi vedo alcun inconveniente, ed i miei scrupoli non vanno fin là. — Infine, giacchè non volete accordarmi di più, debbo contentarmi di ciò che mi date: un’ultima parola, conte. — Come dunque? — Un consiglio. — State in guardia; un consiglio è peggio di un servizio. — Oh! questo potete darmelo senza cimentarvi. — Dite. — La dote di mia moglie è di 500 mila lire? — Questa almeno è la cifra annunziatami da Danglars. — Debbo riceverla, o lasciarla nelle mani del notaro? — Ecco, in generale, come si trattano queste cose quando si vuole che succedano con una certa galanteria. I vostri due notari prendono nota del contratto per la dimane o il dopo domani: poi si scambiano le doti, delle quali si danno mutuamente ricevuta; indi, celebrato il matrimonio, mettono i milioni a vostra disposizione, come capo della comunità. — Gli è perchè, disse Andrea con una certa inquietudine mal dissimulata, mi sembrava di avere inteso dire dal mio futuro suocero, che egli aveva intenzione d’investire i nostri fondi in quel famoso affare delle strade ferrate di cui voi mi parlavate or ora. — Ebbene! ma, riprese Monte-Cristo, questo è, a quanto assicurasi da tutti, il mezzo che i vostri capitali siano triplicati in un anno. Il sig. barone Danglars è un buon padre, e sa far bene i suoi conti. — Andiamo dunque, disse Andrea, tutto va bene, salvo il vostro rifiuto che tuttavolta mi ferisce il cuore. — Non lo attribuite che a scrupoli molto naturali in simili congiunture. — Andiamo, sia dunque fatto come volete. A questa sera alle nove. — A questa sera. — E non ostante una leggera resistenza per parte di Monte-Cristo, le cui labbra impallidirono, ma che conservarono però il loro sorriso di cerimonia, Andrea prese la mano del conte, la strinse, saltò nel suo _phaéton_ e disparve. Le quattro o cinque ore che gli restavano fino alle nove, Andrea le impiegò in corse, in visite che interessavano questi amici di cui aveva parlato, a comparire dal banchiere con tutto il lusso dei loro equipaggi, abbagliandoli colle promesse di quelle azioni che in seguito fecero girare tutte le teste, e di cui Danglars in quel momento aveva l’iniziativa. Infatto alle otto e mezzo della sera la gran sala di Danglars, la galleria attigua a questa sala, e le tre altre sale di quel piano, eran piene di una folla profumata, poco attirata dalla simpatia, ma molto da quell’irresistibile bisogno di ritrovarsi là ove si sa che accade qualche cosa di nuovo. Un accademico direbbe che le serate di società sono una collezione di fiori che attirano le incostanti api affamate, insetti irrequieti. Non fa mestieri di dire che le sale erano risplendenti di cera, che la luce scorreva ad onde dai candelabri d’oro, alle tende di seta e su tutti quei mobili di cattivo gusto, che non avevano per loro che la ricchezza sfolgorante in tutto il suo splendore. Madamigella Eugenia era vestita con la semplicità più elegante: una rosa bianca perduta per metà nei suoi capelli neri ebano, componeva tutto il suo abbigliamento, che non era arricchito dal più piccolo gioiello. Soltanto si poteva leggere su gli occhi di lei quella perfetta sicurezza destinata a smentire ciò che questa candida toletta aveva di volgarmente verginale ai proprii occhi. La sig.ª Danglars, a trenta passi da lei, parlava con Debray, Beauchamp e Château-Renaud. Debray aveva fatto il suo ritorno in quella casa nell’occasione di questa grande solennità, ma come tutti gli altri, e senza alcun privilegio particolare. Il sig. Danglars, circondato da deputati e da uomini di finanze, spiegava una nuova teoria di contribuzioni, che contava di mettere in esercizio quando la forza delle cose avrebbe costretto il governo di chiamarlo al ministero. Andrea, tenendo sotto il braccio i più noti _dandys_ dell’_Opera_, spiegava loro abbastanza impertinentemente, atteso che aveva bisogno di essere ardito per sembrare disinvolto, i suoi disegni della sua futura vita, ed i progressi che contava di far fare nel lusso, con le sue 175 mila lire di rendita, alla moda parigina. La folla generale si aggirava nelle sale come un flusso e riflusso di turchine, di rubini, di smeraldi, d’opali e di diamanti. Come da pertutto, si osservava che le più vecchie donne erano le meglio abbigliate, e le più brutte quelle che si mostravano con maggiore ostinazione. Se v’era qualche bel giglio bianco, qualche rosa soave e profumata, bisognava cercarla e scoprirla nascosta in qualche angolo da una madre col turbante, o da una zia coll’uccello del paradiso. A ciascun momento, in mezzo a questa calca, a questo mormorio, a queste risa, un cameriere lanciava un nome conosciuto nelle finanze, rispettato nell’esercito, o illustre nelle lettere; allora un debole movimento nei gruppi accoglieva questo nome. Ma per uno che aveva il privilegio di far fremere queste orde umane, quanti ne passavano o accolti dalla indifferenza, o derisi dallo sdegno! Al momento in cui la sfera della pendola massiccia, che rappresentava Endimione addormito, marcava le nove sul suo quadrante d’oro, ed in cui la molla, fedele riproduttrice del pensiero della macchina, scoccava le nove, il nome del conte di Monte-Cristo risuonò esso pure, e come spinta da una fiamma elettrica, tutta l’assemblea si voltò verso la porta. Il conte era vestito di nero, e colla sua solita semplicità, il gilè bianco delineava il suo vasto e nobile petto, la cravatta nera sembrava di una freschezza singolare, tanto spiccava sotto il languido pallor della sua pelle; per solo gioiello portava una catena da gilè così sottile, che appena si scorgeva il piccolo filetto d’oro staccarsi sul picchè bianco. Fu fatto un cerchio intorno alla porta. Il conte con un sol colpo d’occhio scoperse la sig.ª Danglars ad una estremità della sala, il sig. Danglars all’altra, e madamigella Eugenia davanti a lui. Egli si avvicinò da prima alla baronessa che parlava colla sig.ª de Villefort, venuta sola, Valentina era sempre malata; e senza deviare, tanto il sentiero si apriva davanti a lui, passò dalla baronessa ad Eugenia, cui complimentò con termini così rapidi e così riservati, che l’orgogliosa artista ne fu tocca. Vicino a lei era madamigella Luigia di Armilly, che ringraziò il conte delle lettere di raccomandazione che le aveva graziosamente date per l’Italia, e di cui ella contava, gli disse, di far presto uso. Lasciando queste signore, si voltò, e si ritrovò presso a Danglars, che si era avvicinato per stringergli la mano. Compiti questi tre doveri sociali, Monte-Cristo si fermò movendo intorno a sè quello sguardo sicuro, pieno di quella particolare espressione delle genti di gran società e particolarmente di una certa portata, sguardo che sembra dire: ho fatto ciò che doveva, ora gli altri facciano a me ciò che mi è dovuto. Andrea, che era in un salotto attiguo, sentì quella specie di fremito che Monte-Cristo aveva impresso alla folla, e corse a salutare il conte. Lo ritrovò compiutamente circondato; si disputavano le sue parole, come accade generalmente alle persone che parlano poco, e che non dicono mai una parola senza significato. I notari fecero la loro entrata in quel momento, e vennero ad installare le loro scritture bollate sui velluti ricamati in oro, che coprivano la tavola preparata per la soscrizione, tavola di legno dorato intagliata a zampe di leone. Uno dei notari si mise a sedere, l’altro rimase in piedi; si stava per procedere alla lettura del contratto, che la metà di Parigi, presente questa solennità, doveva sottoscrivere. Ciascuno prese posto, o piuttosto le donne fecero un circolo, mentre che gli uomini, più indifferenti sul punto dello _stile energico_, come dice Boileaux, fecero i loro comentarii sull’agitazione febbrile di Andrea, sulla attenzione del sig. Danglars, sulla impassibilità di Eugenia, e sul modo lesto e giocoso con cui la baronessa trattava questo importante affare. Il contratto fu letto in mezzo al più profondo silenzio: ma terminata la lettura il rumore ricominciò subito nelle sale, raddoppiato da quello che era prima; queste somme brillanti, questi milioni rotolanti nell’avvenire dei due giovani, e che venivano a completare l’esposizione che se ne era fatta, in una camera esclusivamente consacrata a questo oggetto, del corredo della maritata e dei diamanti della giovane sposa, avevano risuonato con tutto il loro prestigio nella gelosa assemblea. Le grazie di madamigella Danglars ne venivano raddoppiate agli occhi dei giovani, e pel momento esse eclissavano lo splendore del sole. In quanto alle donne, non vi è bisogno di dirlo, mentre invidiavano questi milioni, credevano di non averne bisogno per esser belle. Andrea, stretto fra i suoi amici, complimentato, adulato cominciava a credere alla realtà del sogno che faceva; era sul punto di perdere la testa. Il notaro prese solennemente la penna fra due dita, l’alzò al di sopra della testa e disse: — Signori, si passa a sottoscrivere il contratto. — Il barone doveva firmare pel primo; indi il rappresentante dei poteri del sig. Cavalcanti padre, poi la baronessa, in seguito i futuri coniugi, come si dice in questo abominevole stile che ha il suo corso sulla carta bollata. Il barone prese la penna e sottoscrisse, poi il rappresentante del padre. La baronessa si avvicinò tenendo sotto il braccio la signora de Villefort. — Amica mia, disse ella, prendendo la penna, non è una cosa disperante? un inatteso incidente, giunto in questo affare dell’assassinio e del rubamento, di cui il sig. conte di Monte-Cristo per poco non è rimasto vittima, ci priva del piacere di avere il sig. de Villefort. — Oh! mio Dio! fece Danglars collo stesso tuono con cui avrebbe detto: «Ciò mi è del tutto indifferente.» — Mio Dio! disse Monte-Cristo nell’avvicinarsi, credo di esser io la causa involontaria di questa assenza. — Come! voi conte? disse la sig.ª Danglars sottoscrivendo. Se fosse così, guardatevi, non vel perdonerò mai. Andrea tendeva le orecchie. — Non è certamente per colpa mia, disse il conte; così desidero di constatarlo. Si ascoltò avidamente: Monte-Cristo, che tanto raramente schiudeva le labbra, stava per parlare. — Voi vi ricorderete, disse il conte in mezzo al più profondo silenzio, che fu in mia casa che morì quel disgraziato che era venuto per rubarmi, e che uscendo di mia casa fu ucciso, a quanto si crede, dal suo complice? — Sì, disse Danglars. — Ebbene! per arrecargli soccorso fu spogliato, e i suoi abiti furono gettati in un angolo da dove la giustizia li raccolse; ma la giustizia, prendendo l’abito ed i calzoni per depositarli al tribunale, aveva dimenticato il gilè. Andrea impallidì visibilmente e si ritirò dolcemente dalla parte della porta; vedeva comparire una nube sull’orizzonte, e questa gli sembrava racchiudere nei suoi fianchi una tempesta. — Ebbene, oggi si è ritrovato questo disgraziato gilè, tutto ricoperto di sangue e perforato nella direzione del cuore. — Le dame mandarono un grido, e due o tre di loro si prepararono a svenire. — Mi fu portato. Nessuno poteva indovinare di dove veniva questo cencio; io solo pensai che era probabilmente il gilè della vittima, il mio cameriere però frugando con ribrezzo e cautela questa funebre reliquia, ha sentito una carta nella saccoccia, e l’ha cavata: questo era un biglietto diretto a chi? a voi, barone. — A me? gridò Danglars. — Oh! mio Dio sì, a voi; son pervenuto a leggere il vostro nome sotto il sangue di cui è macchiato questo biglietto, rispose Monte-Cristo in mezzo alla irruzione della sorpresa generale. — Ma, domandò la sig.ª Danglars, guardando suo marito con inquietudine, in che modo ciò impedisce il sig. de Villefort?... — È semplicissimo, signora, rispose Monte-Cristo, questo gilè e questa lettera erano ciò che si chiamano _pezzi di convinzione_; la lettera e il gilè io l’ho inviati al sig. procuratore del Re: capite, mio caro barone, la via legale è più sicura in materia criminale, era forse qualche macchinazione contro di voi. — Andrea guardò fissamente Monte-Cristo, e disparve nella seconda sala. — È possibile, quest’uomo assassinato non era un antico forzato? — Sì, rispose il conte, un antico forzato, Caderousse. Danglars impallidì leggermente, Andrea lasciò la seconda sala ed entrò nell’anticamera. — Ma firmate dunque, disse Monte-Cristo; mi accorgo che il mio racconto ha messa tutta la società in azione, e ne domando umilmente perdono a voi, signora baronessa, ed a madamigella Danglars. La baronessa, che aveva firmato, rimise la penna al notaro. — Sig. principe Cavalcanti; disse il notaro, sig. principe Cavalcanti, dove siete? — Andrea! Andrea! ripeterono molte voci di quei giovani che erano di già arrivati a quel grado di intimità col nobile italiano da chiamarlo col suo nome di battesimo. — Chiamate dunque il principe! prevenitelo dunque che sta a lui il firmare! gridò Danglars ad un cameriere. Ma nel medesimo punto rifluì la folla degli assistenti spaventata, nella sala principale, come se qualche terribile mostro fosse entrato negli appartamenti, _cercando quello che doveva divorare_. Vi era infatto qualche cosa di che rinculare, spaventarsi, gridare. Un ufficiale di gendarmeria situava due gendarmi alla porta di ciascuna sala, e si avanzava verso Danglars, preceduto da un commissario di polizia cinto della sua sciarpa. La sig.ª Danglars gettò un grido e svenne. Il sig. Danglars, che si credeva minacciato (certe coscienze non sono mai tranquille) offrì agli occhi dei suoi convitati un viso sconvolto dal terrore. — Che vi è dunque, signore? domandò Monte-Cristo avanzandosi verso il commissario. — Chi di voi signori, domandò il magistrato senza rispondere al conte, si chiama Andrea Cavalcanti? Un grido di stupore partì da tutti gli angoli della sala. Si cercò; si interrogò. — Ma che cosa è dunque questo Andrea Cavalcanti? domandò Danglars quasi fuor di sè. — Un antico forzato sfuggito dalle galere di Tolone. — E che delitto ha commesso? — Egli è prevenuto, disse il commissario colla sua voce impassibile, di avere assassinato il nominato Caderousse, suo compagno di catena, al momento in cui questi uscì dal conte di Monte-Cristo. — Monte-Cristo gettò uno sguardo rapido intorno a sè... Andrea era sparito. XCVI. — LA STRADA DEL BELGIO. Alcuni minuti dopo la scena di confusione prodotta nelle sale del sig. Danglars per la comparsa inattesa del brigadiere di gendarmeria e per la rivelazione che ne era stata la conseguenza, il vasto palazzo si era vuotato, con una rapidità simile a quella che avrebbe prodotto l’annunzio di un caso di peste o di colera-morbus accaduto in mezzo ai convitati: in pochi minuti da tutte le porte, da tutte le uscite, ciascuno si era affrettato di ritirarsi, o piuttosto di fuggire; perchè questa era una di quelle congiunture nelle quali non bisogna neppure tentare di dare quelle cerimoniose consolazioni che sono solite a rendersi nelle grandi catastrofi dai migliori amici tanto importuni. Non era rimasto nel palazzo del banchiere che Danglars, chiuso nel suo gabinetto, e facendo la sua deposizione fra le mani del sotto-ufficiale di gendarmeria; che la sig.ª Danglars, spaventata, nel gabinetto che conosciamo, ed Eugenia, che, coll’occhio altero ed il labbro sdegnoso, si era ritirata nella sua camera colla sua inseparabil compagna, madamigella Luigia d’Armilly. In quanto ai numerosi domestici, più numerosi ancora in quella sera, che d’ordinario, perchè vi erano stati aggiunti, in occasione della festa, i sorbettieri, i cerimonieri e i maestri di casa del _Caffè di Parigi_, voltando contro il loro padrone la collera di ciò ch’essi chiamavano il loro affronto stazionavano a gruppi nell’officio, nelle cucine, nelle loro camere inquietandosi molto poco del servizio, che del resto si ritrovava naturalmente interrotto. In mezzo a questi differenti personaggi, frementi per interessi diversi, due soli meritano che ci occupiamo di loro: madamigella Eugenia Danglars, e madamigella Luigia d’Armilly. La giovane fidanzata, lo abbiamo detto, si era ritirata con aria altera, col labbro sdegnoso, e con l’andamento di una regina oltraggiata, seguita dalla sua compagna più pallida e più commossa di lei. Giungendo nella sua camera, Eugenia chiuse la porta per di dentro, mentre che Luigia cadeva sur una sedia. — Oh! mio Dio! mio Dio! che cosa orribile! disse la giovane cantante; e chi poteva dubitare di questo? il sig. Andrea Cavalcanti... un assassino... un forzato fuggito dalla galera.... un forzato!... — Un sorriso ironico increspò le labbra di Eugenia. — In verità, io era predestinata, diss’ella: sfuggo da Morcerf per cadere in Cavalcanti. — Oh! non confondiamo l’uno con l’altro, Eugenia. — Taci, tutti gli uomini sono infami, son felice di poter far di più che detestarli: or li disprezzo. — Che faremo? domandò Luigia. — Ciò che dovevamo fare fra tre giorni... partire. — Così, quantunque non ti mariti più, tu vuoi sempre... — Ascolta, Luigia; ho in orrore questa vita della società sempre ordinata, misurata, regolata come un nostro foglio di musica. Ciò che sempre ho desiderato, voluto, ciò che ha formato la mia ambizione, è stata sempre la vita dell’artista, la vita libera, indipendente, in cui non si ha a render conto che a sè. Restare, per far che? perchè si tenti fra un mese di maritarmi nuovamente; a chi, al sig. Debray forse come ne è stato per un momento parola? No, Luigia, no; l’avventura di questa sera mi servirà di scusa; io non ne cercava, non ne domandava, Dio mi ha inviato questa, essa sia la benvenuta. — Come tu sei forte e coraggiosa! — Non mi conosci ancora? Andiamo, Luigia, parliamo dei nostri affari. La carrozza di posta... — È fortunatamente comprata da tre giorni. — L’hai fatta condurre dove dobbiam prenderla? — Sì. — Il nostro passaporto? — Eccolo. Ed Eugenia colla sua abituale freddezza, spiegò la carta bollata e lesse. «Sig. Leone d’Armilly, dell’età di venti anni, professione artista; capelli neri, occhi neri; viaggiando con sua sorella.» — A meraviglia! con che mezzo tel sei procurato? — Andando dal sig. di Monte-Cristo a chiedere delle lettere di raccomandazione per gl’impresari dei teatri di Roma e di Napoli, gli ho espresso i miei timori di viaggiare da donna; egli li ha perfettamente capiti, si è messo a mia disposizione per procurarmi un passaporto da uomo, e due giorni dopo ho ricevuto questo, al quale ho aggiunto di mia propria mano: _viaggiando con sua sorella_. — Ebbene, disse allegramente Eugenia, non si tratta più che di fare i nostri bauli; partiremo la sera della sottoscrizione del contratto, invece di partire la sera delle nozze; ecco tutto. — Rifletteteci bene, Eugenia. — Oh! tutte le mie riflessioni sono fatte; sono stanca di non sentire parlare che di riporti, di fine del mese, dell’alzarsi e abbassarsi dei fondi spagnuoli, dei _boni_ di Haïti. Invece di tutto ciò, l’aria, la libertà, il canto degli uccelli, la pianura della Lombardia, i canali di Venezia, i palazzi di Roma, la spiaggia di Napoli. Quanto possediamo, Luigia? La giovanetta che s’interrogava cavò da uno scrigno intarsiato un piccolo portafogli colla serratura che aprì, e nel quale contò 23 biglietti di banca. — Ventitremila franchi, diss’ella. — E per altrettanto almeno di perle, di diamanti, e di gioielli, disse Eugenia: siamo ricche. Con 45mila franchi abbiam di che vivere da principesse per due anni, o convenevolmente per quattro. Ma prima di sei mesi, tu colla musica, io colla voce, avrem raddoppiato il capitale. Andiamo, incaricati del danaro, io m’incarico del bauletto dei gioielli, dimodochè se una di noi due avesse la disgrazia di perdere il suo tesoro, l’altra avrebbe sempre il suo. Ora, la valigia, sollecitiamoci; la valigia. — Aspetta, disse Luigia andando ad ascoltare alla porta della sig.ª Danglars. — Che temi tu? — Che qualcuno non ci sorprenda. — La porta è chiusa. — Che non ci ordinino d’aprire. — Che l’ordinino se vogliono, noi non apriremo. — Tu sei una vera amazzone, Eugenia! — E le due giovanette, con una prodigiosa attività, si misero ad affastellare in un baule tutti gli oggetti da viaggio di cui esse credevano di aver bisogno. — Ecco fatto, disse Eugenia; or mentre io cambio di costume, tu chiudi la valigia. — Ma io non posso, non ho forza; chiudila tu. — Ah! è giusto, disse ridendo Eugenia, dimenticava che io sono Ercole, e tu la pallida Omfale. E la giovanetta appoggiando il ginocchio sul coperchio del baule, contrasse le braccia bianche e muscolose fin che le due parti furon riunite, e madamigella d’Armilly passasse il lucchetto negli anelli delle due spranche. Terminata questa operazione, Eugenia aprì un cassetto, del quale portava indosso la chiave, e ne cavò un mantello da viaggio di seta violetta ovattato: — Prendi, diss’ella, tu vedi che ho pensato a tutto, con questo mantello tu non avrai freddo. — Ma tu? — Oh! io non ho mai freddo, tu lo sai bene; d’altra parte con questi abiti da uomo... — Tu ti vesti qui? — Senza dubbio. — Ma ne avrai il tempo? — Non aver la minima inquietudine, poltrona; tutte le nostre genti sono occupate dal grande affare. D’altra parte, vi è niente di maraviglioso, quando si pensa alla grande disposizione, in cui devo essere, e che io mi sia rinchiusa? — Sì, è vero, tu mi tranquilli... — Vieni dunque, aiutami. — E dal medesimo cassetto dal quale aveva tolto il mantello, che aveva regalato a madamigella d’Armilly, e col quale questa si era coperte le spalle, cavò un abbigliamento completo da uomo, dagli stivaletti fino al cappello, con una provvisione di biancheria in cui non vi era niente di superfluo, ma in cui nulla mancava del necessario. Allora, con prestezza che faceva conoscere che senza dubbio, non era la prima volta che vestiva gli abiti di un altro sesso, Eugenia calzò gli stivaletti, infilò i pantaloni, si annodò la cravatta, abbottonò fino al collo un gilè a due petti, ed indossò un soprabito che delineava la sua corporatura svelta e ben fatta. — Oh! benissimo! in verità benissimo! disse Luigia guardandola con ammirazione; ma questi bei capelli neri, queste trecce magnifiche, che facevano sospirare d’invidia tutte le donne, potranno essere contenute sotto un cappello da viaggio come questo? — Tu starai a vedere, disse Eugenia. — Ed afferrando colla mano sinistra la folta treccia, sulla quale appena arrivavano a riunirsi le sue lunghe dita, colla destra prese una forbice, e ben presto sentissi stridere l’acciaro in mezzo della lunga e splendida chioma, che cadde tutta intera ai piedi della giovanetta, rovesciata in addietro per allontanarla dal soprabito. Indi, abbattuta la treccia superiore, passò a quelle sulle tempia, che abbattè successivamente senza lasciarsi sfuggire il minimo atto di dispiacere: al contrario, gli occhi brillarono più vivi e più allegri del consueto sotto le sopracciglia nere come l’ebano: — Oh! che capelli magnifici! disse Luigia con rincrescimento. — E non sto cento volte meglio così? gridò Eugenia lisciandosi gli sparsi boccoli della sua pettinatura divenuta mascolina, e non mi trovi ancor più bella così? — Oh! tu sei sempre bella! ma ora dove andiamo? — A Bruxelles, se vuoi, è la frontiera più vicina; raggiungeremo Bruxelles, Liegi, Aix-la-Chapelle; risaliremo il Reno fino a Strasburgo, traverseremo la Svizzera, e discenderemo in Italia per il San-Gottardo; ti accomoda così? — Sì. — Ma che cosa guardi? — Io guardo te. In verità, tu sei così adorabile, si direbbe che mi hai rapita. — E poffar di bacco! si avrebbe ragione. — Oh! io credo che tu abbia ragione, Eugenia! E le due giovanette, che ciascuno avrebbe credute immerse nelle lagrime, l’una per conto proprio, l’altra per affezione alla sua amica, scoppiarono in una risata, facendo sparire tutte le tracce più visibili del disordine che naturalmente aveva accompagnato gli apparecchi della loro evasione. Indi, avendo spenti i lumi, coll’occhio interrogatore, l’orecchie all’erta, il collo teso, le due fuggitive aprirono la porta di un gabinetto di toletta che metteva in una sala interna e di là fino al cortile, Eugenia camminando la prima, e sostenendo con un braccio l’ansa della valigia, dall’altra parte sostenuta da madamigella Armilly sollevandola appena con ambe le mani. Suonava mezza notte, il cortile era vuoto. Il portinaro vegliava ancora. Eugenia si accostò dolcemente, e vide dai vetri il degno svizzero che dormiva in fondo al casotto sdraiato sul sofà. Ella ritornò verso Luigia, riprese il baule che per un momento aveva deposto a terra, ed entrambe, seguendo l’ombra proiettata dal muro, raggiunsero la volta. Eugenia fe’ nascondere Luigia in un angolo della porta, in modo che il portinaro, se per caso avesse voluto alzarsi, non avesse veduta che una persona. Indi offrendosi al pieno raggio del lampione che illuminava il cortile: — La porta! gridò ella colla sua più bella voce da contralto, battendo sulla invetriata. Il portinaro si alzò, come lo aveva preveduto Eugenia, e fece ancora qualche passo per riconoscere la persona che usciva, ma vedendo un giovinotto che batteva impazientemente il bastoncino sui calzoni, aprì sul momento. Luigia tosto si strisciò come un serpente dalla porta semi-aperta, e balzò leggermente di fuori. Eugenia, tranquilla in apparenza, quantunque, secondo ogni probabilità, il suo cuore contasse più pulsazioni che d’ordinario, uscì a sua volta. Passava un commissionario, fu incaricato di portare il baule; indi le due giovanette gl’indicarono come meta della loro corsa la strada della Vittoria n. 36. Esse camminarono dietro a quest’uomo, la cui presenza tranquillava Luigia; in quanto ad Eugenia, era forte come Giuditta, o come Dalila. Si giunse al numero indicato. Eugenia ordinò al commissionario di depositare il baule, gli regalò alcune monete, e dopo aver battuto ad una persiana, lo licenziò. Questa persiana era quella di una piccola curandaia di già prevenuta, che non era ancora andata a dormire. Ella aprì. — Madamigella, disse Eugenia, fate cavare dal portinaro la carrozza dalla rimessa, e mandate a prendere i cavalli al palazzo della posta. Ecco cinque fr. per l’incomodo che gli diamo. — In vero, disse Luigia, ti ammiro, e direi quasi, ti rispetto. — La curandaia guardava con meraviglia; ma siccome era stato convenuto che vi sarebbero venti luigi per lei, non fece la più piccola osservazione. Un quarto d’ora dopo, il portinaro ritornava conducendo il postiglione ed i cavalli che, in un giro di mano, furono attaccati alla carrozza, sulla quale il portinaro assicurò il baule per mezzo di una corda e di uno strettoio. — Ecco il passaporto, disse il postiglione; che strada prendiamo? — Quella di Fontainebleau, rispose Eugenia con voce quasi maschile. — Ebbene! che dici dunque? domandò Luigia. — Rendo il cambio, disse Eugenia; questa donna alla quale diamo venti luigi può tradirci per quaranta: sul baluardo prenderemo un’altra direzione. — E la giovanetta si slanciò nella brisca, preparata con tutti i comodi, senza neppure toccare il montatore. Un quarto d’ora dopo, il postiglione, rimesso nel diritto sentiero, oltrepassava, facendo schioppettare la frusta, il cancello della barriera Saint-Martin. — Ah! disse Luigia respirando, eccoci dunque uscite di Parigi. — Sì, mia cara, e il ratto è bello e bene combinato. — Sì, ma senza violenza. — Farò valere questo, come _circostanza attenuante_, rispose Eugenia. — Queste parole si perderono col rumore che facea la carrozza sul selciato della Villette. Il sig. Danglars non avea più figlia. XCVII. — L’ALBERGO DELLA CAMPANA E DELLA BOTTIGLIA. Ed ora lasciamo madamigella Danglars e la sua amica scorrere sulla strada di Bruxelles, e ritorniamo al povero Andrea Cavalcanti, così disgraziatamente fermato nello scatto della sua fortuna. Ad onta della sua giovane età, Andrea Cavalcanti era un uomo molto destro ed intelligente. Così ai primi rumori che penetrarono nelle sale, lo abbiam veduto gradatamente accostarsi alla porta, traversare una o due camere, e finalmente sparire. Una cosa che abbiam dimenticato di ricordare, e che, non pertanto, non deve essere omessa, si è che in una di queste due camere, che dovè traversare, stava esposto il corredo della sposa: scrigni di diamanti, scialli di casimiro, merletti di Valencienne, veli di Inghilterra, e tutto ciò infine, che in questo mondo vi è di oggetti tentatori, il cui nome soltanto fa balzare di gioia il cuore delle giovanette, e che concorre a formare ciò che i francesi chiamano _corbeille_. Ora, passando da questa camera, cosa che prova che non solo il giovine era molto destro e molto intelligente, ma ancor molto previdente, egli afferrò l’astuccio che conteneva il più ricco adornamento in brillanti di quanti erano là esposti. Munito di questo compagno Andrea si era sentito di metà più leggero, per saltare dalla finestra, e sfuggir dalle mani dei gendarmi. Grande e snello come l’antico giostratore, muscoloso come uno spartano, Andrea aveva fatta una corsa di un quarto d’ora senza sapere ove andava, e nello scopo soltanto d’allontanarsi dal luogo, ove per poco non era stato arrestato. Partendo dalla strada Mont-Blanc, con quell’istinto dei ladri per le barriere, che i lepri hanno per i cespugli, si era ritrovato in capo alla strada Lafayette. Là, soffocato, anelante, si fermò: era perfettamente solo, ed aveva alla sinistra il recinto di San Lazzaro, vasto deserto; alla destra Parigi in tutta la sua profondità. — Sono io perduto? domandò a sè stesso. No, posso usare un’attività superiore a quella dei miei nemici. La mia salvezza è dunque divenuta semplicemente una questione di miriametri. — In quel momento scoprì, salendo l’alto del sobborgo Poissoniére, un _cabriolet_ di piazza, il cui cocchiere meditabondo, fumando la pipa, sembrava voler raggiungere l’estremità opposta del sobborgo Saint-Denis ove senza dubbio faceva la sua stazione ordinaria. — Ehi! amico! disse Benedetto. — Che c’è? domandò il cocchiere. — Il vostro cavallo è stanco? — Stanco! ah sì davvero! non ha fatto niente in tutta la santa giornata. Quattro cattive corse e venti soldi di mancia; in tutto sette fr. ed io devo darne dieci al padrone! — Volete aggiungere a questi sette fr. altri venti? — Con piacere, venti fr. non sono da disprezzarsi. Che si deve fare? sentiamo. — Una cosa facilissima, semprechè il cavallo non sia stanco. — Vi dico che andrà come un zeffiro; il tutto sta di dire da qual parte volete che io vada. — Dalla parte del Louvres. — Ah! ah! lo conosco: il paese del ratafià! — Precisamente. Si tratta semplicemente di raggiungere un amico, col quale domani mattina debbo andare alla caccia a Chapelle-en-Serval. Doveva aspettarmi qui fino alle undici e mezzo, è mezza notte; egli si sarà stancato di aspettarmi, e sarà partito solo. — È probabile. — Ebbene, volete tentare di raggiungerlo? — Non chiedo di meglio. — Ma se noi non lo raggiungiamo di qui a Bourget, avrete venti fr. Se non lo raggiungiamo di qui a Louvres, trenta. — E se lo raggiungiamo? — Quaranta, disse Andrea che aveva avuto un momento di esitazione, ma che aveva riflettuto che non arrischiava niente a promettere. — Così va bene! disse il cocchiere. Montate, e in cammino! Andrea montò nel _cabriolet_ che, con una rapida corsa, traversò il sobborgo Saint-Denis, costeggiò il sobborgo Saint-Martin, traversò la barriera, e infilò nella interminabile Villette. Si aveva un bel fare a raggiungere questo amico chimerico; però a quando a quando ai passaggieri in ritardo, alle bettole ancora aperte, Cavalcanti chiedeva informazioni di un _cabriolet_ verde, attaccato ad un cavallo baio-scuro; e, siccome sulla strada dei Paesi-Bassi circola un buon numero di _cabriolet_ dei quali nove decimi son verdi, le informazioni piovevano ad ogni passo. Tutti lo avevano sempre poco prima veduto passare; non aveva più di 500 passi di vantaggio, non ne aveva più di 200, non ne aveva più di cento; finalmente si raggiungeva, si sorpassava, non era quello. Una volta il _cabriolet_ fu passato egli pure, da un calesse rapidamente trasportato al galoppo da due buoni cavalli da posta: — Ah! disse a sè stesso Cavalcanti, se avessi quel calesse, quei due buoni cavalli, e soprattutto il passaporto che abbisogna per prenderli! Ed egli sospirò profondamente. Questo calesse era quello che trasportava madamigella Danglars e madamigella d’Armilly. — Andiamo! andiamo! disse Andrea, non possiamo tardare a raggiungerlo. — Il povero cavallo riprese il trotto arrabbiato che aveva continuato dalla barriera, e giunse fumante a Louvres. — Ah! disse Andrea, vedo bene che non raggiungerò il mio amico, e che ammazzerei il vostro cavallo. Così adunque val meglio che mi fermi. Ecco i vostri trenta fr., io me ne vado a dormire al Cavallo-Rosso, e nella prima carrozza nella quale troverò un posto, lo prenderò. Buona sera, amico mio. — Ed Andrea, dopo aver messe sei monete da 5 fr. nella mano del cocchiere, saltò lestamente sul battuto della strada. Il cocchiere mise allegramente la somma in saccoccia, e riprese al passo la strada di Parigi; Andrea finse di andare al Cavallo-Rosso; ma dopo essersi fermato un momento alla porta, aspettando che il rumore del _cabriolet_ si perdesse all’orizzonte, riprese la sua strada, e con un passo ginnastico molto svelto, compì una corsa di due leghe. Là egli si riposò; doveva essere vicino alla Chapelle-en-Serval ove aveva detto di andare. Non era la fatica che fermava Andrea Cavalcanti, ma il bisogno di prendere una risoluzione, la necessità di adottare un disegno. Montare in diligenza era impossibile; prendere la posta egualmente. Per viaggiare nell’uno o nell’altro modo il passaporto è di prima necessità. Dimorare nel dipartimento dell’Oise, vale a dire in uno dei dipartimenti più scoperti, e più sorvegliati della Francia era egualmente impossibile, soprattutto ad un uomo come Andrea, esperto in materia criminale. Egli si sedè sulle rive del fosso, lasciossi cader la testa fra le mani e riflettè. Dieci minuti dopo rialzò la testa: la risoluzione era già presa. Coprì di polvere una parte del _palettò_ che aveva avuto il tempo di staccare dall’anticamera, e di abbottonarsi al di sopra del suo abito da ballo, e giungendo alla Chapelle-en-Serval andò a battere arditamente alla porta del solo albergo del paese. L’oste venne ad aprire. — Amico mio, disse Andrea, io andava da Morte-Fontaine a Senlis, quando il mio cavallo, che è un animale cattivo, ha fatto una scartata, e mi ha cacciato a dieci passi. Questa notte mi necessita di giungere a Compiègne sotto pena di causare le più vive inquietudini alla mia famiglia, avreste un cavallo da darmi in fitto? — Buono o cattivo, un albergatore ha sempre un cavallo. L’albergatore della Chapelle-en-Serval chiamò il garzone di stalla, gli ordinò d’insellare il _Bianco_, e risvegliò suo figlio, ragazzo di sette anni, il quale doveva montare in groppa del signore, per ricondurre il quadrupede. Andrea pagò venti fr. all’albergatore e, cavandoli di saccoccia, lasciò cadere un biglietto di visita. Questo biglietto era quello di uno dei suoi amici del caffè di Parigi, dimodochè l’albergatore, quando Andrea fu partito, ed ebbe raccolto il biglietto di saccoccia, fu convinto di aver dato infatto il suo cavallo al sig. conte de Maulion strada S. Domenico n. 25: erano il nome e l’indirizzo che si trovavano sul biglietto. Il _Bianco_ non andava presto, ma andava con un passo uguale e continuo; in tre ore e mezzo Andrea fece le nove leghe che lo separavano da Compiègne; suonavano le quattro all’orologio del Palazzo di Città, quando giunse sulla piazza dove si fermano le diligenze. A Compiègne vi è un eccellente albergo, di cui si ricordano quelli stessi che non vi hanno alloggiato che una sola volta. Andrea, che vi aveva fatta una fermata in una delle sue corse nei dintorni di Parigi, si risovvenne dell’albergo della Campana e della Bottiglia: si orizzontò, vide al chiaror del lampione la tabella indicatrice, e dopo aver congedato il fanciullo, al quale regalò quanto aveva di piccola moneta, andò a battere alla porta riflettendo con molta aggiustatezza, che egli aveva tre o quattro ore di vantaggio, e che il meglio era di premunirsi con un buon sonno, ed una buona cena, contro le fatiche future. Il cameriere gli venne ad aprire. — Amico mio, disse Andrea, vengo da S. Giovanni del Bosco, ove ho pranzato; contava prendere la carrozza che passa a mezza notte, ma mi son perduto come uno stupido, e son già quattro ore che passeggio nella foresta. Datemi una di queste belle camerine che danno sul cortile, e fatemi portare un pollo freddo ed una bottiglia di vino di Bordò. Il cameriere non ebbe alcun sospetto: Andrea parlava con la più perfetta tranquillità; il sigaro in bocca e le mani nelle saccocce del _palettò_; i suoi abiti erano eleganti, la barba fatta di recente, gli stivali irreprensibili; aveva l’aspetto di un vicino che avesse fatto tardi, ecco tutto. Mentre il cameriere preparava la sua camera l’ostessa si alzò; Andrea l’accolse col più grazioso sorriso, e le domandò se poteva avere la camera n. 3 in cui aveva già dormito l’ultima volta che era passato da Compiègne; disgraziatamente il n. 3 era preso da un giovine che viaggiava con sua sorella. Andrea parve disperato; egli non si consolò che allorquando l’ostessa lo ebbe assicurato che il n. 7, che si stava preparando, aveva assolutamente la medesima disposizione del n. 3, e scaldandosi i piedi, e parlando delle ultime corse di Chantilly, aspettò che gli venisse annunziato che la camera era in ordine. Non era senza ragione che Andrea aveva parlato di quei belli appartamenti che davano sul cortile; il cortile dell’albergo della Campana aveva una triplice fila di galleria che gli dava l’aspetto di un anfiteatro, con i suoi gelsomini e le sue clematidi, che salivano lungo le colonne leggiere come una decorazione naturale e uno dei più graziosi ingressi d’albergo che sieno al mondo. Il pollo era fresco, il vino vecchio, il fuoco chiaro e favillante; Andrea cenando si sorprese del suo buon appetito, come se nulla gli fosse accaduto, indi andò a letto, e si addormentò subito con quel sonno implacabile che l’uomo di trent’anni trova sempre, anche quando ha dei rimorsi. Ora noi siamo sforzati di confessare che Andrea avrebbe potuto avere dei rimorsi, ma che non ne aveva. Ecco qual era l’idea di Andrea, idea che gli aveva portata la maggior parte della sua sicurezza. Col giorno si sarebbe alzato, uscirebbe dall’albergo dopo aver pagato scrupolosamente i suoi conti; s’internerebbe nella foresta, comprerebbe, sotto pretesto di fare degli studii di pittura, l’ospitalità di un contadino; si procurerebbe un abito da campagnuolo spogliandosi della pelle di leone per prendere quella dell’artista; indi colle mani terrose, i capelli imbruniti da un pettine di piombo, colla tinta della pelle alterata da una preparazione di cui i suoi antichi camerati gli avevan data la ricetta, di foresta in foresta giungerebbe alla frontiera più vicina, camminando la notte, dormendo il giorno nel bosco, senza avvicinarsi ai luoghi abitati che per comprare a quando a quando del pane. Superata una volta la frontiera, Andrea avrebbe fatto denari coi suoi diamanti, riunito il prezzo che ne avrebbe ricavato, ad una diecina di biglietti di banca che portava sempre indosso per qualunque accidente, si ritroverebbe ancora padrone di un 50 mila fr. che non sembravano alla sua filosofia un peggio andare troppo rigoroso. D’altra parte egli contava molto sulla premura che avevano i Danglars ad estinguere il rumore della loro disavventura. Ecco perchè, oltre la stanchezza, Andrea dormì così presto e così bene. D’altra parte per esser sveglio di buon mattino, Andrea non aveva chiuse le persiane, si era soltanto contentato di mettere il catenaccio alla porta, e di tenere aperto, sulla sua tavola da notte, un certo coltello molto puntuto, di cui conosceva la eccellente tempra, e che non lasciava mai. Circa alle sette del mattino fu svegliato da un raggio di sole che gli veniva tiepido e brillante sul viso. In tutti i cervelli bene organizzati l’idea dominante, (ve ne è sempre una) è quella che dopo essersi addormita per l’ultima, illumina per la prima il pensiero nello svegliarsi. Andrea non aveva ancora interamente aperti gli occhi, che il suo pensiero dominante già lo possedeva, e gli soffiava all’orecchio che aveva dormito troppo lungamente. Saltò a basso dal letto e corse ad una finestra. Un gendarme traversava il cortile. Un gendarme è uno di quegli oggetti che più colpiscono in questo mondo, anche per l’occhio di un uomo senza inquietudini; ma per ogni coscienza timorosa e che ha qualche motivo di esserlo, il giallo, il blu ed il bianco di cui si compone la sua uniforme, diventano colori spaventevoli: — Perchè un gendarme? domandò a sè stesso Andrea: indi si rispose con quella logica che il lettore ha di già notato in lui: — Un gendarme non ha niente che debba meravigliare in un’osteria: non ce ne meravigliamo adunque, ma vestiamoci. — Ed il giovine si vestì con una rapidità che non aveva potuto fargli perdere il suo cameriere, durante i pochi mesi di vita elegante che aveva condotta a Parigi. — Buono! disse Andrea nel vestirsi, aspetterò che sia partito, e quando sarà partito lui, signerò io. — E mentre diceva queste parole, e mettendosi la cravatta, ritornò dolcemente alla finestra, e sollevò una seconda volta la tendina di mussola. Non solo il primo gendarme non era partito, ma il giovine scoperse una seconda uniforme blu, gialla e bianca alla fine della scala, la sola per la quale si poteva discendere, mentre che una terza a cavallo e colla carabina in mano stava di sentinella sulla porta di strada, la sola per la quale si poteva uscire. Questo terzo gendarme era significativo all’ultimo grado; perchè davanti a lui si estendeva un semi-cerchio di curiosi che bloccavano ermeticamente la porta dell’albergo. — Io son cercato! fu il primo pensiero di Andrea. Diavolo! — Il pallore investi la fronte del giovine, egli guardò intorno a sè con ansietà. La sua camera, come tutte quelle di questo piano, non aveva altra uscita che dalla galleria esterna scoperta agli sguardi di tutti. — Io son perduto! fu il suo secondo pensiero. — Infatto per un uomo nella situazione di Andrea, l’arresto voleva dire: sedute, giudizio, morte, morte senza misericordia e senza dilazione. Per un momento egli compresse convulsivamente la testa fra le mani; e poco mancò che non diventasse pazzo dalla paura. Ma ben presto, da questa folla di pensieri che si urtavano nella sua testa ne uscì un pensiero di speranza; un pallido sorriso si delineò sulle sue labbra tremanti e sulle guance contratte: guardò intorno a sè; gli oggetti che cercava si ritrovavano riuniti sul marmo di un tavolino: erano una penna, un calamaio e della carta: ed ei scrisse, con una mano alla quale comandò di esser ferma, le linee seguenti sul primo foglio del quaderno. «Io non ho danaro per pagare, ma sono un uomo onesto; lascio in pegno questo spillo che vale dieci volte la spesa che ho fatto. Mi si perdonerà di essere fuggito alla punta del giorno, io era vergognoso!» Levò lo spillo dalla sua cravatta e lo depose sul foglio. Ciò fatto, invece di lasciare i catenacci, li levò, socchiuse anzi la porta, come se fosse uscito dalla sua camera dimenticando di chiuderla, ed arrampicandosi nella cappa del camino, come un uomo già avvezzo a questa specie di ginnastica, attirò innanzi a sè il paracamino ricoperto con una carta che rappresentava Achille in casa di Deidamia; cancellò coi piedi anche la traccia dei passi nella camera, e scalò la cappa che gli offriva la sola via di salvezza nella quale sperava ancora. In questo momento il primo gendarme che aveva colpito la vista di Andrea saliva la scala, preceduto da un commissario di polizia, e sostenuto dal secondo gendarme che guardava l’estremità della scala, il quale poteva egli stesso aspettare rinforzo da quello che stazionava alla porta. Ecco a che cosa Andrea doveva questa visita, che con tanta pena si era dispensata dal ricevere. Alla punta del giorno, i telegrafi erano stati messi in moto in tutte le direzioni e ciascuna località ch’era stata avvisata, quasi immediatamente aveva risvegliato le autorità e lanciata la forza pubblica alla ricerca dell’uccisore di Caderousse. Compiègne, residenza reale; Compiègne città di caccia; Compiègne, città di guarnigione, è abbondantemente provvista di autorità, di gendarmi e di commissari di polizia. Le visite eran dunque cominciate subito dopo l’ordine, ed essendo telegrafico, l’osteria della Campana e della Bottiglia, la prima osteria della città, si era naturalmente incominciato da lei. Del resto dopo il rapporto delle sentinelle che erano state di guardia durante la notte al Palazzo di Città (il Palazzo di Città era attiguo all’albergo della Campana), era stato constatato che diversi viaggiatori erano discesi durante la notte al detto albergo. La sentinella che era stata rilevata alle sei del mattino si ricordava ancora, che al momento in cui era stata messa in fazione, vale a dire a quattro ore e alcuni minuti, aveva veduto che un giovine che cavalcava un cavallo bianco con un ragazzetto in groppa, era andato a bussare all’albergo della Campana apertosi davanti a lui, e chiuso dopo di lui. Su questo giovine, che aveva fatto tanto tardi si erano fermati tutti i sospetti. Or questo giovine non era altro che Andrea! Per la sicurezza di questi dati, il commissario di polizia ed il gendarme, che era un brigadiere, s’incamminavano verso la porta di Andrea. Questa porta era socchiusa. — Oh! oh! disse il brigadiere, vecchia volpe nutrita nelle furberie dello stato, cattivo indizio una porta aperta! l’avrei meglio amata chiusa con triplice catenaccio. Infatto la piccola lettera e lo spillo lasciati da Andrea sulla tavola confermarono, o piuttosto appoggiarono la trista verità: Andrea era fuggito. Noi diciamo appoggiarono, perchè il brigadiere non era uomo da arrendersi ad una sola prova. Guardò intorno a sè, cacciò l’occhio sotto il letto, spiegò le tende, aprì gli armadii, e finalmente si fermò al caminetto. Mercè le cautele di Andrea, non era rimasta alcuna traccia del suo passaggio nelle ceneri. Però questa era una uscita; ed in simili congiunture, tutte le uscite devono formare l’oggetto di una seria investigazione. Il brigadiere si fece dunque portare una fascina e della paglia, ne fece un inviluppo, e lo calcò nel caminetto come avrebbe fatto in un mortaio da bomba, e vi appiccò il fuoco. Il fuoco fece crepitare le pareti della cappa; una colonna opaca di fumo ai slanciò pel condotto e salì verso il cielo, ma non vide cadere il prigioniere come si aspettava. Ciò era perchè Andrea, in lotta colla società fin dalla giovinezza, valeva bene un gendarme, fosse anche stato elevato al grado rispettabile di brigadiere; prevedendo dunque l’incendio, era salito sul tetto, e si era nascosto dietro il comignolo. Per un momento ebbe qualche speranza di essersi salvato, perchè intese il brigadiere che, chiamando i due compagni diceva loro ad alta voce, «non c’è più.» Ma allungando dolcemente il collo, vide i due gendarmi che, invece di ritirarsi, come sembrava naturale dopo un simile annunzio, raddoppiavano l’attenzione. Allora a sua volta girò intorno a sè lo sguardo: il Palazzo di Città, fabbrica colossale del sedicesimo secolo, s’innalzava come un tetro muro alla sua destra, e, per le aperture del monumento, si poteva scorgere in tutti gli angoli e contro angoli del tetto, come dall’alto della montagna si vede nella vallata. Andrea comprese che in breve avrebbe veduto comparire la testa del brigadiere di gendarmeria a qualcuna di quelle aperture. Scoperto, egli era perduto, una caccia sul tetto non gli si presentava con probabilità di successo. Risolvè dunque di ritornare a discendere, non per lo stesso camino da cui era venuto, ma per un camino analogo. Cercò con gli occhi quella cappa di camino che non mandava fumo, la raggiunse andando carpone sul tetto, e disparve dal suo orifizio senza essere stato veduto da alcuno. Un momento dopo si aprì una piccola finestra del Palazzo di Città, e lasciò vedere la testa del brigadiere di gendarmeria, che rimase per alcuni minuti immobile, come uno di quei bassi rilievi di pietra che decoravano il fabbricato, indi con un lungo sospiro d’inquietudine la testa disparve. Il brigadiere tranquillo e degno, come la legge di cui era il rappresentante, passò senza rispondere alle mille interrogazioni della folla riunita sulla piazza e rientrò nell’albergo: — Ebbene? domandarono alla loro volta i due gendarmi. — Ebbene! figli miei, rispose il brigadiere, bisogna veramente che il brigante sia evaso questa mattina di buon’ora; ma ora lo faremo seguire sulla strada di Villers-Cotterêts e di Noyon, e faremo frugare la foresta, ove lo raggiungeremo infallibilmente. L’onorevole funzionario aveva appena finita la frase, con quel tuono particolare proprio ai brigadieri di gendarmeria, nel pronunziare questo avverbio sonoro, allor quando un lungo grido di spavento, accompagnato dal tintinnio di un campanello, echeggiarono nel cortile dell’albergo. — Oh! oh! che cosa è questo? gridò il brigadiere. — Ecco un viaggiatore che sembra aver molta fretta, disse l’oste; a qual numero suonano? — Al numero 3. — Correte, cameriere. — In questo momento le grida ed il rumore del campanello raddoppiarono, il cameriere si mise a correre. — No, fermatevi! disse il brigadiere trattenendolo, quello che suona fa conoscere che chiede ben altra cosa che un cameriere, gli manderemo un gendarme per servirlo. Chi alloggia al n. 3? — Il giovinetto giunto con sua sorella questa notte per la posta, e che ha domandato una camera a due letti. Il campanello suonò per la terza volta con una intonazione piena d’angoscia. — A me, signor commissario! seguitemi, ed affrettate il passo! disse il brigadiere. — Un momento, disse l’oste, nella camera numero 3 vi sono due uscite, una interna e l’altra esterna. — Buono! disse il brigadiere, prenderò l’interna, è il mio dipartimento. Le carabine sono cariche? — Sì, brigadiere. — Ebbene! voi altri vegliate all’esterno, e se vuol fuggire, fuoco addosso: è un gran colpevole, a quanto dice il telegrafo. — Il brigadiere, seguito dal commissario, disparve subito per la scala interna accompagnato dal rumore che le sue rivelazioni sopra Andrea avevano ridestato nella folla. Ecco ciò ch’era accaduto. Andrea era disceso con molta destrezza fin oltre la metà del camino, ma giunto là, un piede gli era mancato, e, ad onta dell’appoggio delle mani, era disceso con maggior prestezza, e soprattutto con maggior susurro di quel che avrebbe desiderato. Non sarebbe stato niente, se la camera fosse stata solitaria, ma per disgrazia, era abitata. Due donne dormivano in un letto, questo rumore le aveva svegliate, i loro sguardi si eran fissati sul punto, da dove veniva il rumore, e, dall’apertura del caminetto, avevan veduto comparire un uomo. Una di queste due donne, la bionda, aveva mandato quel grido terribile che aveva echeggiato per tutta la casa, mentre l’altra, che era bruna, slanciandosi al cordone del campanello, aveva dato l’allarme, agitandolo con tutte le sue forze. Come si vede, Andrea cadeva di disgrazia in disgrazia. — Per pietà! gridò egli, pallido, confuso, senza vedere le persone alle quali s’indirizzava; per pietà! non chiamate, salvatemi! non voglio farvi del male. — Andrea! l’assassino! gridò una delle due donne. — Eugenia, madamigella Danglars! mormorò Cavalcanti, passando dallo spavento allo stupore. — Soccorso! soccorso! gridò madamigella d’Armilly levando il cordone del campanello dalle mani inerti d’Eugenia, e suonando con forza maggiore ancora della compagna. — Salvatemi! non mi perseguitate! disse Andrea giungendo le mani, per pietà per grazia, non mi consegnate alla forza! — È troppo tardi, salgono, rispose Eugenia. — Ebbene! nascondetemi in qualche luogo: direte che avete avuta paura senza motivi d’aver paura: allontanerete i sospetti, mi avrete salvata la vita. — Ebbene, sia, disgraziato! riprendete la via per la quale siete venuto; partite, e non diremo niente. — Eccolo! gridò una voce sul pianerottolo: io lo vedo. In fatto il brigadiere aveva accostato l’occhio al buco della serratura ed aveva scoperto Andrea in piedi e supplicante. Un violento colpo d’incassatura fe’ saltare il catenaccio, due altri fecero saltare i gangheri; la porta infranta cadde al di dentro. Andrea corse all’altra porta che metteva nella galleria del cortile, volle precipitarvisi dopo aperta. I due gendarmi erano là con le carabine in mira. Andrea si fermò su due piedi; ritto, pallido, col corpo un poco rovesciato in dietro, teneva il suo inutile coltello nella mano intirizzita: — Fuggite dunque! gridò madamigella di Armilly nel cuore della quale rientrava la pietà, a seconda che ne usciva lo spavento, fuggite dunque. — O uccidetevi! disse Eugenia col tuono e coll’atteggiamento di una di quelle vestali che nel circo ordinavano coll’indice al gladiatore vittorioso di finire l’avversario atterrato. — Andrea fremette e guardò la giovinetta con un sorriso di disprezzo col quale provò che la corruzione non comprendeva questa sublime ferocia dell’onore. — Uccidermi, disse egli gettando il coltello, per far che? — Ma lo diceste, gridò la Danglars, sarete condannato a morte, e giustiziato come l’ultimo dei delinquenti. — Bah! replicò Cavalcanti incrociando le braccia, si hanno amici. — Il brigadiere si avanzò verso di lui con la sciabola alla mano. — Andiamo, andiamo, disse Cavalcanti, acquietatevi, mio bravo uomo, non val la pena di fare tanto schiamazzo, perchè io mi arrendo. — Ed egli stese le sue mani alle manette. Le due giovanette guardarono con terrore questa schifosa metamorfosi che si operava sotto i loro occhi, l’uomo di società che si spogliava del suo inviluppo per ritornare un uomo di galera. Andrea si rivolse verso di esse, e col sorriso dell’impudenza: — Avete qualche commissione per il vostro sig. padre, madamigella Eugenia? disse egli, poichè secondo tutte le probabilità torno a Parigi. — Eugenia nascose la testa fra le mani. — Oh! oh! disse Andrea, non vi è ragione di essere vergognosa, ed io non son malcontento che abbiate presa la posta per corrermi dietro... non era forse quasi vostro marito? — e detto questo lazzo, Andrea uscì lasciando le due fuggitive in preda alle sofferenze dell’onta ed ai commentarii dell’assemblea. Un’ora dopo, vestite entrambe dei loro abiti da donna, montavano nel calesse da posta. Era stata chiusa la porta dell’albergo per sottrarle ai primi sguardi; ma non si potè evitare quando questa fu riaperta, di passare in mezzo ad una doppia fila di curiosi, cogli occhi fiammeggianti e le labbra mormoranti. Eugenia abbassò le tendine, ma se ella non vedeva più, sentiva ancora il rumore delle ingiurie che giungeva fino a lei. — Oh! perchè il mondo non è un deserto? gridò ella gettandosi nelle braccia di madamigella d’Armilly cogli occhi sfavillanti di rabbia, che facevano desiderare a Nerone che tutto il mondo romano avesse una sola testa per poterla tagliare di un colpo solo. La dimane esse discesero all’albergo delle Fiandre a Bruxelles. Fin dal giorno innanzi Andrea era incarcerato alla Conciergerie. XCVIII. — LA LEGGE. Si è veduto con quale tranquillità madamigella Danglars e madamigella d’Armilly avevano potuto compiere la loro trasformazione, e la loro fuga: era perchè ciascuno si occupava dei proprii affari, in modo da non potersi incaricar di quelli degli altri. Lasceremo il banchiere col sudore alla fronte, porre in fila, dirimpetto al fantasma del fallimento, le enormi colonne del suo passivo, e seguiremo la baronessa che, dopo essere rimasta un momento schiacciata sotto la violenza del colpo che l’aveva atterrata, era andata a ritrovare il suo consigliere ordinario, il sig. Luciano Debray. Egli è che infatto la baronessa calcolava su questo matrimonio, per abbandonare finalmente la tutela che, con una figlia dell’indole di Eugenia, non cessava di essere molto penosa; egli è che in questa specie di contratti taciti che mantengono i legami di gerarchia in una famiglia, la madre non è realmente padrona di sua figlia, se non che a condizione di essere continuamente per essa un esempio di saggezza e un tipo di perfezione. Ora la sig.ª Danglars temeva la perspicacia di Eugenia, ed i consigli di madamigella d’Armilly; ella aveva sorpresi alcuni sguardi sdegnosi, lanciati da sua figlia a Debray, sguardi che sembravano significare che sua figlia conosceva tutto il mistero delle sue relazioni galanti e pecuniarie col segretario intimo, mentre che una interpretazione più sagace e più approfondita, avrebbe al contrario dimostrato alla baronessa, che Eugenia detestava Debray, non già perchè egli era nella casa paterna una pietra d’inciampo e di scandalo, ma perchè ella lo riguardava nella categoria di quei bipedi che Platone cercava di non chiamare più uomini, e che Diogene designava per parafrasi animali a due piedi e senza penne. La sig.ª Danglars, nel suo modo di vedere, (e disgraziatamente a questo mondo tutti hanno il loro modo di vedere a sè proprio, che impedisce di vedere il modo con cui vedono gli altri) era dunque infinitamente dolente che fosse andato a monte anche questo matrimonio di Eugenia, non perchè esso fosse conveniente, bene accoppiato, e dovesse formare la felicità di sua figlia, ma perchè le rendeva tutta la sua libertà. Ella corse adunque, come lo abbiam detto, da Debray, che dopo avere, come tutta Parigi, assistito alla serata del contratto ed allo scandalo che ne era stata la conseguenza, si era affrettato di ritirarsi al suo _club_, ove con alcuni amici parlava dell’avvenimento che formava in quell’ora la conversazione di tre quarti di questa città eminentemente pettegola, che si chiama la capitale del mondo. Al momento in cui la sig.ª Danglars, vestita con un abito nero, e nascosta sotto un lungo velo, saliva la scala che conduceva all’appartamento di Debray, ad onta della certezza che le aveva data il portinaro che il giovine non era ancora rientrato, Debray si occupava a respingere le argomentazioni di un amico che tentava di provargli, che dopo il terribile scandalo che aveva avuto luogo, era suo dovere come amico di casa di sposare madamigella Eugenia Danglars e i suoi due milioni. Debray si difendeva come un uomo che non chiede che di esser vinto; poichè spesso questa idea si era presentata da sè stessa al suo spirito; ma siccome conosceva Eugenia, e la sua indole indipendente ed altiera, assumeva a quando a quando un’attitudine completamente difensiva, dicendo che questa unione era impossibile, lasciandosi tutta volta sordamente stuzzicare dalle idee cattive, che al dire di tutti i moralisti, preoccupano incessantemente l’uomo più probo e più puro, vegliando al fondo della sua anima. Il thè, il giuoco, la conversazione importante, come si crederà, poichè vi si discutevano affari così gravi, durarono fino ad un’ora del mattino. Durante questo tempo, la sig.ª Danglars, introdotta dal cameriere di Luciano, aspettava velata e palpitante, nel piccolo salotto verde, fra due cestelle di fiori che ella stessa aveva inviate la mattina, e che Debray, bisogna dirlo, aveva egli stesso accomodate, distribuite, montate, con una cura, che fece perdonare la sua assenza alla povera donna. Alle undici e 40 minuti, la signora Danglars, stanca di attendere inutilmente, risalì in carrozza e si fece ricondurre a casa sua. Le donne di una certa condizione hanno questo di comune con le crestaie di buona avventura, che queste non ritornano ordinariamente mai dopo la mezza notte. La baronessa rientrò nel palazzo con tanta cautela, quanta ne aveva impiegata Eugenia nell’uscirne; ella salì leggermente, col cuore stretto, la scala del suo appartamento, contiguo, come si sa, a quello di Eugenia; temeva tanto di provocare qualche movimento, perchè credeva così fermamente, povera donna, rispettabile almeno in questo punto, all’innocenza di sua figlia, ed alla fedeltà del focolare paterno! Rientrata nelle sue stanze, ascoltò alla porta di Eugenia, indi, non sentendo alcun rumore, tentò di entrare; ma era stato messo il catenaccio. La sig.ª Danglars credè che Eugenia, stanca dalle forti emozioni della serata, si fosse messa in letto e che dormisse. Ella chiamò la cameriera, e la interrogò. — Madamigella Eugenia, rispose la cameriera, è rientrata nel suo appartamento con madamigella d’Armilly, indi hanno preso il thè insieme, dopo di che mi hanno congedata dicendo che non avevano più bisogno di me. — Da questo momento la cameriera si era ritirata nella sua camera, e credeva, come tutti gli altri di casa, che le due giovanette fossero nel loro appartamento. La sig.ª Danglars dunque andò a letto senza l’ombra di un sospetto; ma tranquilla sugl’individui, il suo spirito si portò sugli avvenimenti. A seconda che le idee si rischiaravamo nella sua testa, ingrandivano le proporzioni della scena del contratto: non era più uno scandalo, ma un fracasso, non era più un’onta, ma un’ignominia. Suo malgrado allora, la baronessa si ricordò che ella era stata senza pietà per la povera Mercedès, colpita non ha guari nel suo sposo e nel suo figlio di una sventura così grande. — Eugenia, diceva a se stessa, è perduta, e noi egualmente. L’affare tal quale sarà rappresentato, ci ricopre d’obbrobrio; poichè, in una società come la nostra, certe ridicolezze sono piaghe vive, sanguinose ed incurabili. Quale felicità, mormorava ella, che Dio abbia dato ad Eugenia un’indole così stravagante che mi ha fatto più di una volta tremare! Ed il suo sguardo riconoscente si alzava verso il cielo dove la misteriosa provvidenza dispone tutto in antecedenza, a seconda degli avvenimenti che devono accadere; e da un difetto, e qualche volta anche da un vizio, ne fa una contentezza: indi il suo pensiero oltrepassò lo spazio, come fa stendendo le ali l’uccello da un abisso, e si fermò su Cavalcanti. Questo Andrea era un miserabile, un ladro, un assassino; e ciò nonostante possedeva dei modi che indicavano una mezza educazione, quasi compita; questo Andrea si era presentato nella società coll’apparenza di una gran fortuna, e coll’appoggio di nomi onorevoli. Come veder chiaro in questo dedalo? a chi indirizzarsi per uscire da questa crudele posizione? Debray, al quale ella aveva ricorso col primo slancio della donna che cerca un soccorso nell’uomo che ama, e che qualche volta la perde, Debray non poteva darle che un consiglio: era qualche altro più possente di lui al quale doveva indirizzarsi. La baronessa pensò allora al sig. de Villefort. Egli aveva voluto fare arrestare Cavalcanti; senza pietà, aveva portata la confusione in mezzo alla sua famiglia come se fosse stata una famiglia estranea. Ma no; riflettendovi; non era un uomo senza pietà il procuratore del Re; era un magistrato schiavo dei suoi doveri, un amico leale e coraggioso, che brutalmente sì, ma con mano sicura, aveva vibrato il colpo di scalpello nella corruzione; non era un boia, era un chirurgo che aveva voluto isolare agli occhi di tutto il mondo l’onore della famiglia Danglars, dalla ignominia di questo giovine perduto che essi presentavano alla società come il loro genero. Dal momento che il sig. de Villefort, amico della famiglia Danglars, operava in tal modo, non vi era più da supporre che il banchiere avesse saputo nulla di più o avesse preso alcuna parte alle mene d’Andrea. La condotta di de Villefort, riflettendovi bene, compariva dunque alla baronessa sotto un aspetto, che si spiegava a loro comune vantaggio. Ma la inflessibilità del procuratore del Re doveva fermarsi a questo punto; ella sarebbe andata a trovarlo la dimane, ed avrebbe da lui ottenuto, se non che mancasse ai suoi doveri di magistrato, almeno che lasciasse andar le cose con tutta la pienezza della sua indulgenza. La baronessa invocherebbe il passato, supplicherebbe in nome del tempo colpevole, ma felice; il sig. de Villefort assopirebbe l’affare, o almeno lascerebbe (e per giungere a questo non avrebbe che voltar gli occhi da un’altra parte) fuggire Cavalcanti, e non continuerebbe il processo che sotto l’ombra del reo che si dice in contumacia. Allora soltanto ella si addormì più tranquilla. La dimane alle nove, ella si alzò, e senza chiamare la cameriera, senza dar segno d’esistenza a chi che sia, si abbigliò, e, vestita colla stessa semplicità della sera innanzi, discese la scala, uscì dal palazzo, camminò fino alla strada di _Provenza_, salì in una carrozza da nolo, e si fece condurre alla casa del sig. de Villefort. Da un mese questa casa maledetta presentava l’aspetto lugubre di un lazzaretto in cui si fosse dichiarato la peste: una parte degli appartamenti erano chiusi all’interno ed all’esterno. Le persiane chiuse non si aprivano che per momenti, onde dare un poco l’aria. Si vedeva allora comparire a queste finestre la testa spaventata di un lacchè, indi la finestra si rinchiudeva come la lapide di una tomba ricade sur una sepoltura, ed i vicini si dicevano a bassa voce: forse che siamo per vedere un’altra bara uscire dalla casa del sig. procuratore del Re? La signora Danglars fu presa da un tremito all’aspetto di questa casa desolata; ella discese di carrozza, e colle ginocchia tremanti, si accostò a quella porta chiusa e suonò. Non fu che dopo la terza volta ch’ella ebbe fatto risuonare il campanello, che col suo lugubre tintinnio sembrava partecipare alla tristezza generale, che un portinaro comparve ad uno sportello della porta, grande appena abbastanza per lasciare passare le sue parole. Egli vide una donna, una donna di distinzione, una donna vestita elegantemente, e ciò non ostante la porta continuò a restare sempre chiusa. — Ma, aprite dunque! disse la baronessa. — Prima di tutto, signora, chi siete? domandò il portinaro. — Chi sono io? ma voi mi conoscete. — Noi non conosciamo più nessuno, signora. — Ma siete pazzo, amico mio, gridò la baronessa. — Da parte di chi venite? — Oh questo è forte! — Signora, scusatemi ma questo è l’ordine: il vostro nome? — La baronessa Danglars, mi avrete veduta venti volte. — È possibile, signora. Ora chi volete? — Oh! quanto siete strambo! ed io mi lagnerò col sig. de Villefort della impertinenza della sua servitù. — Signora, questa non è impertinenza, ma cautela; nessuno entra più qui senza una parola d’ordine del sig. dottor d’Avrigny, o senza aver parlato al sig. procuratore del Re. — Ebbene, è precisamente a lui che debbo parlare. — Per affare di premura? — Dovete bene accorgervene, dappoichè non sono ancora risalita in carrozza. Ma finiamola: ecco il mio biglietto di visita, portatelo al vostro padrone. — La signora aspetterà il mio ritorno? — Sì, andate. Il portinaro richiuse lo sportello lasciando la baronessa sulla strada. La baronessa, è vero, non aspettò lungamente; un momento dopo la porta si aprì in una larghezza sufficiente da dar passaggio alla sig.ª Danglars: ella passò, e la porta si richiuse subito dopo dietro a lei. Arrivati nel cortile, il portinaro senza perdere un momento di vista la porta, cavò un fischietto e fischiò. Il cameriere del sig. de Villefort comparve sulla scala. — La signora scuserà questo brav’uomo, diss’egli venendo incontro alla baronessa, ma i suoi ordini sono precisi: il sig. de Villefort mi ha incaricato di dire alla signora, che egli non poteva fare altrimenti. Nel cortile vi era un fornitore, introdotto con le stesse cautele, di cui si esaminavano le mercanzie. La baronessa salì la scala: e le causava una grandissima impressione quella tristezza, che dilatava, per così dire, il circolo della sua, e, sempre guidata dal cameriere, fu introdotta nel gabinetto del magistrato, senza che la sua guida l’avesse un momento perduta di vista. Per quanto la sig.ª Danglars fosse preoccupata dal motivo che la guidava in quel luogo, il ricevimento che le era stato fatto da tutto quel servitorame le era sembrato così indegno, ch’ella cominciò dal lamentarsene. Ma Villefort sollevò la testa appesantita dal dolore, e la guardò con un sorriso così triste, che le lagnanze le si spensero sulle labbra. — Scusate i miei servitori per un terrore di cui non posso lor fare un delitto; caduti in sospetto, sono divenuti sospettosi. — La sig.ª Danglars aveva spesse volte sentito a parlare in società di quel terrore che accusava Villefort, ma ella non avrebbe mai potuto credere, se non lo avesse sperimentato coi proprii occhi, che questo sentimento avesse potuto essere portato ad un tal punto. — Voi pure, diss’ella, siete dunque infelice! — Sì, signora, rispose il magistrato. — Voi dunque allora mi compiangerete? — Sinceramente, signora. — Capirete ciò che mi conduce a voi? — Voi venite per parlarmi di quanto vi accade, non è vero? — Sì, signore, una terribile disgrazia. — Vale a dire una sventura. — Una sventura! gridò la baronessa. — Ahimè! signora, rispose il procuratore del re colla sua calma imperturbabile, son giunto a non chiamare disgrazia che le cose irreparabili. — Signore, credete voi che si dimenticherà? — Tutto si dimentica, signora, disse Villefort; il matrimonio di vostra figlia si farà domani, se non si fa oggi; fra otto giorni, se non si fa domani, e non credo che sia vostra idea desiderare il fidanzato di madamigella Eugenia. La sig.ª Danglars guardò Villefort stupefatta di vedergli questa tranquillità quasi scherzosa: — Sono io venuta qui da un amico? domandò ella con tuono pieno di dolorosa dignità. — Voi sapete che sì, signora, rispose Villefort, le cui guance si copersero, nel fare questa assicurazione, di un leggero rossore. — In fatto questa assicurazione faceva allusione ad avvenimenti diversi da quelli che occupavano in questo momento la baronessa e lui: — Ebbene! allora, disse la baronessa, siate più affettuoso, mio caro Villefort, portatevi da amico, e non da magistrato, e quando io mi ritrovo profondamente infelice, non mi dite d’essere gaia. Villefort s’inchinò. — Quando sento a parlare di disgrazie, signora, diss’egli, ho preso da tre mesi la dolorosa abitudine di pensare alle mie, ed ancora nel mio spirito si fa, mio malgrado, questa egoistica operazione di parallelo. Ecco perchè, in faccia alle mie disgrazie, le vostre mi sembrano disavventure; ecco perchè, vicino alla mia funesta posizione, la vostra mi sembra una posizione da invidiarsi; ma ciò vi dispiace, lasciamolo. Voi dicevate, signora... — Io veniva per sapere, a che ne è l’affare di questo impostore? — Impostore! replicò Villefort; davvero, signora, voi avete stabilito di esagerare sul conto vostro alcune cose, e di attenuarne altre; impostore; il sig. Andrea Cavalcanti, o piuttosto il sig. Benedetto, vi sbagliate, signora, il sig. Benedetto è bello e bene un assassino. — Signore, non nego l’aggiustatezza della vostra rettificazione, ma più vi armerete severamente contro questo disgraziato, più colpirete la nostra famiglia. Vediamo, dimenticatelo per un momento; invece di perseguitarlo, lasciatelo fuggire. — Voi venite troppo tardi, gli ordini sono stati già dati. — Ebbene! se si arresta... Credete che verrà arrestato? — Io lo spero. — Se si arresta, (ascoltate, sento sempre dire che le prigioni rigurgitano) ebbene, lasciatelo in prigione. Il procuratore del Re fece un movimento negativo. — Almeno fino a che mia figlia si sia maritata! — Impossibile, signora, la giustizia ha le sue formalità. — Anche per me? disse la baronessa metà ridente e metà seria. — Villefort la guardò con uno sguardo con cui esplorava il pensiero. — Sì, io so quel che volete dire, riprese egli; voi fate allusione a quei rumori sparsi nella società, che tutti questi morti che da tre mesi mi vestono a lutto, che questa morte alla quale è sfuggita Valentina quasi per miracolo, non sien naturali? — Io non pensava a ciò, disse vivamente la sig.ª Danglars. — Se vi pensavate, era giusto, perchè non potete far a meno di pensarvi, e di dire a voi stessa sotto voce: — Tu che perseguiti il delitto, rispondi, come va dunque che intorno a te vi sono dei delitti che restano impuniti? La baronessa impallidì. — Voi vi dicevate così, non è vero, signora? — Ebbene! lo confesso. — Io vi risponderò. Villefort avvicinò la sua sedia al seggio della sig.ª Danglars; indi appoggiando le due mani sullo scrittoio, e prendendo una intonazione più sorda del consueto: — Vi sono dei delitti che restano impuniti, diss’egli, perchè non si conoscono i rei, e si teme di colpire una testa innocente invece della colpevole. Ma quando questi colpevoli saranno conosciuti, chiunque essi siano, lo giuro, morranno. Ora, dopo il giuramento che ho fatto, e che manterrò, signora, avrete il coraggio di chiedermi grazia per quel miserabile? — Eh! signore, riprese la baronessa, siete sicuro ch’egli sia tanto colpevole quanto si dice? — Ascoltate, ecco la sua filza: Benedetto, condannato da prima a cinque anni di galera per falsario, nell’età di sedici anni; il giovine prometteva bene, come vedete; indi evaso, poi assassino. — E chi è questo disgraziato? — E chi lo sa! un vagabondo, un Corso. — Non è stato dunque reclamato da nessuno? — Da nessuno, non si conoscono i suoi parenti. — Ma quell’uomo ch’era venuto da Lucca? — Un altro barattiere come lui, forse il suo complice. La baronessa congiunse le mani: — Villefort! diss’ella con la sua più dolce ed accarezzante intenzione. — Per bacco! signora, rispose il procurator del Re, con una fermezza che non era esente da secchezza. Non mi domandate dunque mai grazia per un delinquente! Chi sono io? la legge. Forse che la legge ha occhi per vedere la vostra tristezza? forse che la legge ha orecchi per sentire la dolce vostra voce? forse che la legge ha una memoria per fare l’applicazione dei vostri delicati pensieri? No, signora no, la legge ordina, e quando la legge ordina, colpisce! mi direte che sono un essere vivente, e non un codice, un uomo, e non un volume; guardatemi, signora, guardate intorno a me; gli uomini, mi hanno essi trattato come un fratello? mi hanno amato? hanno avuto dei riguardi per me? mi hanno risparmiato? qualcuno ha domandato grazia pel sig. de Villefort, e questo qualcuno ha ottenuta la grazia del sig. de Villefort? No! no! no! percosso, sempre percosso! Voi persistete, donna, o piuttosto sirena che siete, a guardarmi con quell’occhio attraente ed espressivo che mi ricorda che io debbo arrossire. Ebbene! sia, sì, arrossirò di ciò che sapete, e forse forse di altre cose! Ma finalmente, dopo che ho mancato a me stesso, e forse più fortemente degli altri, ebbene! da quel tempo io ho scosso le vesti degli altri, per ritrovar l’ulcera, e l’ho sempre ritrovata, a dir di più, ho ritrovato con felicità, con gioia, questo suggello della debolezza, o della umana perversità! poichè ciascun uomo che riconosceva colpevole, e ciascun colpevole che io colpiva, mi sembrava una prova vivente, e una prova novella, che io non era una schifosa eccezione! Ahimè! ahimè! ahimè! tutti gli uomini non sono cattivi, non sono cattivi, signora, proviamoli, e colpiamo i cattivi! Villefort pronunciò queste ultime parole con una rabbia febbrile, che dava al suo linguaggio una feroce eloquenza. — Ma, riprese la sig.ª Danglars provando di tentare un ultimo sforzo, voi dite che questo giovine è un vagabondo, un orfano, un abbandonato da tutti. — Tanto peggio! o piuttosto tanto meglio; la provvidenza ha disposto così, perchè nessuno abbia da pianger su lui. — Questo è un accanirsi sul debole, signore. — Il debole che assassina. — Il disonore ricade sulla mia famiglia. — Non ho forse la morte nella mia? — Ah! signore, gridò la baronessa, voi siete senza pietà per gli altri! ebbene, son io che ve lo dico, gli altri saranno senza pietà per voi! — Sia! disse Villefort innalzando le braccia al cielo. — Rimettete almeno la causa di questo disgraziato, se lo arrestano, alle prossime sedute, ciò accorderà almeno sei mesi di tempo acciò venga tutto dimenticato. — No, disse Villefort, ho ancora cinque giorni: l’informazione del processo è fatta; cinque giorni è un tempo anche maggiore di quel che mi abbisogna; del resto, non capite, signora, che io pure ho bisogno di dimenticare? Ebbene! quando lavoro, e lavoro notte e giorno, vi sono dei momenti in cui dimentico me stesso; e quando non mi sovvengo di me, sono felice alla maniera dei morti; ma questo è anche meglio che soffrire. — Signore, egli è fuggito: lasciatelo fuggire, l’inerzia è una clemenza facile. — Ma io vi dico che è troppo tardi; alla punta del giorno il telegrafo lavorava, ed a quest’ora forse... — Signore, disse un cameriere entrando, un dragone ha portato questo dispaccio del ministro dell’Interno. Villefort afferrò la lettera, e la dissigillò. La sig.ª Danglars fremette di terrore, Villefort rabbrividì di gioia. — Arrestato! gridò Villefort; è stato arrestato a Compiègne; è finito. La sig.ª Danglars si alzò fredda e pallida: — Addio, signore, diss’ella. — Addio, signora, rispose il procurator del Re quasi allegro nel ricondurla fino alla porta. Indi ritornando allo scrittoio: — Andiamo, diss’egli percuotendo la lettera col dorso della mano destra; aveva un falsario, aveva tre furti, aveva due incendi, non mi mancava che un assassinio, eccolo; la sessione sarà bella! IC. — L’APPARIZIONE. Come lo aveva detto il procurator del Re alla sig.ª Danglars, Valentina non era ancor rimessa. Spossata dalla fatica, ella era infatto obbligata a letto, e fu nella sua camera, e dalla bocca della sig.ª de Villefort, ch’ella seppe gli avvenimenti che abbiam raccontati, vale a dire, la fuga di Eugenia e l’arresto di Cavalcanti, o piuttosto di Benedetto, come portava contro di lui l’accusa d’assassinio. Ma Valentina era così debole, che questo racconto non le fece forse tutto quell’effetto che avrebbe prodotto su lei, quando fosse stata nel pieno possesso della sua salute. Infatto, non furono che vaghe idee, formule irrisolute, mischiate a strani pensieri, ed a fantasmi fuggitivi, quali sono quelli che nascono in un cervello malato, o che passano davanti agli occhi, ma ben presto si cancellano, per lasciar riprendere tutte le loro forze alle sensazioni personali. Durante il giorno, Valentina era ancora mantenuta nella realtà dalla presenza di Noirtier, che si faceva portare nella camera di sua nipote, e si tratteneva là covando Valentina col suo sguardo paterno; indi, quando ritornava da Palazzo, era a sua volta il sig. de Villefort che passava una o due ore fra suo padre e sua figlia. Alle sei Villefort si ritirava nel suo gabinetto; alle otto veniva il sig. d’Avrigny che portava da sè stesso la pozione della notte, preparata per la giovanetta; indi Noirtier veniva trasportato nelle sue stanze. Allora un’infermiera scelta dal dottore, sostituiva tutti, ed essa stessa non si ritirava, che verso le dieci o le undici, quando Valentina si era addormentata. Nel discendere rimetteva le chiavi della camera di Valentina al sig. de Villefort stesso, di modo che non si poteva più entrare dalla malata, se non che traversando dall’appartamento della sig.ª de Villefort, e dalla camera del piccolo Edoardo. Morrel veniva tutte le mattine da Noirtier, per sentire le notizie di Valentina; ma Morrel, cosa straordinaria, sembrava di giorno in giorno meno inquieto. Prima di tutto perchè di giorno in giorno Valentina, quantunque in preda ad una esaltazione nervosa, stava meglio; indi Monte-Cristo non gli aveva detto, quando tutto perduto corse a lui, che se in due ore Valentina non era morta, era salva? Ora, Valentina viveva ancora, ed erano passati quattro giorni. Questa esaltazione nervosa, di cui abbiam parlato, perseguitava Valentina fino nel suo sonno, o piuttosto nello stato di sonnolenza che succedeva alla veglia: era allora che nel silenzio della notte e nella mezza oscurità che lasciava regnare il lume notturno posto sul caminetto, che bruciava nel suo inviluppo d’alabastro, essa vedeva passare quelle ombre che vanno a popolare la camera dei malati, e che scuotono la febbre dalle loro ali fremebonde. Allora le sembrava di vedere a volte Morrel che le stendeva le braccia, a volte degli esseri quasi stranieri alla sua vista ordinaria, come il conte di Monte-Cristo; non vi era fino ai mobili, che in questi momenti di delirio, non le sembrassero muoversi, ed errare: e ciò durava così fino alle due o alle tre dopo la mezza notte, momento in cui un sonno di piombo s’impadroniva della giovanetta, e la conduceva fino a giorno. La sera che seguiva quella mattina, in cui Valentina aveva appreso la fuga di Eugenia e l’arresto di Benedetto, ed in cui, dopo essersi immischiati un momento alle sensazioni della propria esistenza, questi avvenimenti cominciavano ad uscire a poco a poco dal suo pensiero, dopo la successiva realtà di Villefort, di d’Avrigny, e di Noirtier, mentre che suonavano le undici all’orologio di San Filippo di Roule, e che l’infermiera, dopo aver messa alla portata della mano della malata la bevanda preparata dal dottore, e chiusa la porta della camera, ascoltava fremendo, nella camera da lavoro ove era ritirata, i comentari dei domestici, ed arricchiva la sua memoria delle lugubri istorie, che da tre mesi spaventavano le serate dell’anticamera del procurator del Re, una scena inattesa accadeva in questa camera chiusa tanto accuratamente. Erano già dieci minuti circa che la infermiera si era ritirata. Valentina, in preda da un’ora a quella febbre che ritornava ogni notte, lasciava la testa, non più sottomessa alla sua volontà, continuare quel lavorio attivo monotono ed implacabile del cervello che si affatica a riprodurre incessantemente gli stessi pensieri o a generare le stesse immagini. Dal lucignolo del lume notturno si slanciavano mille e mille raggi tutti abbelliti di strane significazioni, quando d’un subito al suo riflesso tremulo, Valentina credè vedere la scansia dei suoi libri, posta di fianco al caminetto in uno scavo del muro, aprirsi lentamente, senza che i cardini sui quali essa sembrava raggirarsi producessero il minimo rumore. In altri tempi Valentina avrebbe afferrato il campanello, e ne avrebbe tirato il cordone per chiamare soccorso: ma niente la meravigliava più nella situazione in cui si ritrovava. Ella aveva la coscienza che tutte queste visioni che la circondavano erano le figlie del suo delirio, e questa convinzione le era venuta da ciò, che la mattina non era mai rimasta alcuna traccia di tutti quei fantasmi della notte che sparivano col giorno. Dietro la porta comparve una figura umana. Valentina si era, mercè la sua febbre, troppo familiarizzata con questa specie di apparizione per spaventarsi; ella aperse soltanto due grand’occhi sperando di riconoscere Morrel. La figura continuò ad avanzarsi verso il letto, indi si fermò, e parve ascoltare con profonda attenzione. In questo momento un riflesso del lume andò sul viso del notturno visitatore. — Non è lui, mormorò ella. Ed aspettò convinta di sognare, che questo uomo, come accade nei sogni, sparisse, o si cambiasse in qualche altra persona. Si toccò soltanto il polso, e sentendolo battere violentemente, si ricordò che il miglior mezzo di fare sparire queste importune visioni, era quello di bere; la freschezza della bevanda, composta d’altra parte nello scopo di calmare le agitazioni di cui Valentina si era lamentata col dottore, che facendole diminuire la febbre, le arrecava un rinnovamento di sensazione del cervello; quando ella aveva bevuto per un momento si sentiva meglio. Valentina stese dunque la mano a fine di prendere il bicchiere dal piatto di cristallo su cui posava, ma mentre che ella allungava fuori del letto il braccio tremante, l’apparizione fece ancora due passi più sollecitamente degli altri e giunse così vicina alla giovanetta, che ella ne intese il soffio, e credè sentire la pressione della sua mano. Questa volta l’illusione o piuttosto la realtà sorpassava tutto ciò che Valentina aveva provato fino allora; ella si cominciò a credere realmente viva e sveglia; ebbe la coscienza che godeva di tutta la sua ragione, e fremette. La pressione che aveva risentita Valentina, aveva per iscopo di fermarle il braccio. Valentina lo ritirò lentamente a sè. Allora questa figura, da cui non poteva staccare lo sguardo, e che sembrava piuttosto protettrice che minacciante, prese il bicchiere, e si avvicinò al lume e guardò la bevanda, come se avesse voluto giudicarne la trasparenza e la limpidezza. Ma questa prima prova non bastò a quest’uomo, o piuttosto a questo fantasma, poichè camminava così dolcemente, che il tappeto soffocava il rumore dei suoi passi; quest’uomo prese dal bicchiere un cucchiaio di bevanda e l’inghiottì. Valentina guardava ciò che accadeva davanti ai suoi occhi con un profondo sentimento di stupore. Ella credeva bene che tutto ciò era vicino a sparire per dar posto ad un altro quadro; ma l’uomo, invece di svanire come un’ombra, si riavvicinò a lei, e stendendo il bicchiere a Valentina, e con una voce piena di emozione: — Ora, diss’egli, bevete!... — Valentina rabbrividì. Questa era la prima volta che una delle sue visioni le parlava con quel suono vivente; aprì la bocca per mandare un grido. L’uomo posò un dito sulle labbra. — Il sig. di Monte-Cristo! mormorò ella. — Allo spavento che si dipinse negli occhi della giovanetta, al tremito delle sue mani, al gesto rapido che fece per nascondersi sotto le lenzuola, si poteva conoscere l’ultima lotta del dubbio contro la convinzione; ciò nonostante la presenza di Monte-Cristo nella sua camera in simile ora, la sua entrata misteriosa, fantastica, inesplicabile da un muro, sembravano una impossibilità alla sconvolta ragione di Valentina. — Non chiamate, non vi spaventate, disse il conte, non abbiate neppure in fondo al cuore l’ombra di un sospetto, di una inquietudine; l’uomo che vedete innanzi a voi (perchè infatto questa volta avete ragione, Valentina, e questa non è un’illusione), l’uomo che vedete innanzi a voi è il più tenero padre, il più rispettoso amico che possiate figurarvi. — Valentina non trovò niente da rispondere; aveva una paura così grande di questa voce, che le rivelava la reale presenza di colui che parlava, che temeva di associarvi la sua, ma il suo sguardo spaventato voleva dire: se le vostre intenzioni son pure, perchè siete qui? Colla sua meravigliosa sagacità il conte capì tutto ciò che accadeva nel cuore della giovinetta. — Ascoltatemi, disse egli, o piuttosto guardatemi, vedete i miei occhi arrossiti e il mio viso più pallido ancora dell’ordinario? questo è perchè da quattro notti non ho più chiuso l’occhio un minuto; da quattro notti veglio su voi, vi proteggo, vi conservo al nostro amico Massimiliano. Un’onda di sangue montò rapidamente alle guance dell’ammalata; poichè il nome che avea pronunziato il conte le toglieva il residuo di diffidenza che le aveva inspirato. — Massimiliano!... ripetè Valentina, tanto questo nome le sembrava dolce a pronunziare; Massimiliano! egli dunque vi ha confessato tutto? — Tutto: mi ha detto che la vostra vita era la sua, ed io gli ho promesso che vivreste. — Voi gli avete promesso che io vivrei? — Sì. — Infatto, signore, avete parlato di vigilanza e di protezione. Siete dunque medico? — Sì, ed il migliore che il cielo possa ora mandarvi, credetemi. — Voi dite che vegliate? e dove? non vi ho veduto. Il conte stese la mano nella direzione della scansia: — Io era nascosto dietro a quella porta, disse egli; questa porta mette in una casa vicina che ho presa in fitto. Valentina per un momento di pudico orgoglio, voltò gli occhi e con un sovrano terrore: — Signore, diss’ella, ciò che voi avete fatto è una demenza senza esempio, e questa protezione che mi avete accordata assomiglia molto ad un insulto. — Valentina, diss’egli, durante questa lunga veglia, ecco le sole cose che ho vedute: quali persone venivano da voi, quali alimenti vi preparavano, quali bevande vi servivano, poi quando queste bevande mi sembravano pericolose, come ho fatto ora, vuotava il vostro bicchiere e sostituiva al vostro veleno una bevanda benefattrice, che invece della morte che vi era stata preparata, facesse circolare la vita nelle vostre vene. — Il veleno! la morte! gridò Valentina, credendosi nuovamente sotto l’impero di qualche febbrile allucinazione; che dite dunque, signore? — Zitta! figlia mia, disse Monte-Cristo portando nuovamente il dito alle labbra; ho detto il veleno, ho detto la morte, ciò ripeto, la morte; ma prima bevete questo. Il conte cavò dalla saccoccia una boccettina contenente un liquore rosso del quale versò alcune goccie nel bicchiere; — E quando avrete bevuto non pigliate più niente in tutta la notte. — Valentina allungò la mano; ma appena ebbe toccato il bicchiere la ritirò con ispavento. — Monte-Cristo prese il bicchiere, ne bevè la metà, e lo presentò a Valentina che trangugiò sorridendo il restante del liquore che conteneva, — Oh! sì, diss’ella, riconosco il gusto delle mie bevande notturne, e quest’acqua che apportava un poco di freddo al mio petto, un poco di calma al mio cervello. Grazie, signore, grazie. — Ecco in che modo avete vissuto da quattro notti, Valentina, disse il conte; ma in che modo viveva io? Oh! quali ore crudeli mi avete fatto passare! Oh! quali terribili torture non ho sofferto, quando vedeva versare nel vostro bicchiere il veleno mortale, quanto tremava che aveste il tempo di beverlo, prima che io avessi quello di spanderlo nel caminetto! — Voi dite, signore, riprese Valentina al colmo del terrore, che avete sofferto mille torture, vedendo versare nel mio bicchiere un veleno mortale? Ma se avete veduto versare il veleno nel mio bicchiere, avrete pur veduto la persona che lo versava? — Sì. — Valentina si sollevò a sedere riportando sul suo petto più pallido della neve, la battista ricamata ancor molle dal sudore freddo del delirio al quale cominciava ad associarsi il sudore più ghiacciante ancora del terrore: — Voi l’avete veduta? ripetè la giovanetta. — Sì, disse una seconda volta il conte. — Ciò che mi dite è terribile, signore, ciò che mi volete far credere ha qualche cosa di infernale. Che! nella casa di mio padre! nella mia camera! sul mio letto di patimento si continua ad assassinarmi? Oh! ritrattatevi, signore, voi tentate la mia coscienza, voi bestemmiate la divina bontà; è impossibile, ciò non può essere. — Siete voi dunque la prima che questa mano colpisce, Valentina? non avete veduto cadere intorno a voi il sig. de Saint-Méran, Barrois? non avreste veduto cadere il sig. Noirtier, se la cura che egli fa da tre anni non lo avesse protetto, combattendo il veleno coll’abitudine del veleno? — Oh! mio Dio! fu dunque per questo, disse Valentina, che da circa un mese il mio buon nonno esige che io prenda una parte della sua pozione? — E queste pozioni, disse Monte-Cristo, hanno un gusto amaro come quello della scorza d’arancio mezza secca. — Sì, mio Dio! sì! — Oh! ciò mi spiega tutto, disse Monte-Cristo; egli sa che qui si avvelena, e forse chi avvelena. Egli ha premunito voi, sua figlia prediletta, contro la sostanza mortale, e la sostanza mortale è venuta a spezzarsi contro questo principio di abitudine; ecco in qual modo vivete ancora: cosa che non sapeva spiegare, dopo che eravate stata avvelenata con una sostanza che non la perdona. — Ma chi è dunque l’assassino, l’uccisore? — Io prima vi domanderò: non avete mai veduto entrare nessuno nella notte in questa vostra camera? — Può darsi. Spesso ho creduto veder passar delle ombre, che si avvicinavano, si allontanavano, e sparivano. — Per cui non conoscete chi attenta alla vostra vita? — No; e perchè vi può essere qualcuno che desideri la mia morte? — Lo conoscerete in breve, disse Monte-Cristo tendendo le orecchie. — E in che modo? disse Valentina, guardando con terrore intorno a sè. — Perchè questa sera, non avete più nè febbre nè delirio, perchè questa sera siete ben svegliata, perchè ora suona la mezzanotte, e questa è l’ora degli assassini. — Mio Dio! mio Dio! disse Valentina asciugandosi con la mano il sudore che le stillava dalla fronte. Infatto mezzanotte suonava lentamente e tristemente; si sarebbe detto che ciascun colpo del martello di bronzo ripercuoteva sul cuore della giovanetta! — Valentina, continuò il conte, richiamate tutte le forze in vostro soccorso, comprimete il vostro cuore nel petto, chiudete la vostra voce nella gola, fingete di dormire, e vedrete, vedrete... Valentina afferrò la mano del conte: — Mi sembra di sentir del rumore, ritiratevi. — Addio, o piuttosto a rivederci, rispose il conte; — indi con un sorriso così tristo e così paterno, che la giovanetta ne fu penetrata da riconoscenza, raggiunse sulla punta dei piedi la porta dietro la scansia. Ma fermandosi prima di richiuderla dietro a sè: — Non un gesto, diss’egli, non una parola; che vi si creda addormita, senza di che, forse sareste uccisa prima che avessi il tempo d’accorrere. E dopo questa spaventosa ingiunzione, il conte disparve dietro la scansia, che si richiuse sollecitamente dopo il suo passaggio. C. — LOCUSTA. Valentina rimase sola; due altri orologi a pendolo, che erano in ritardo con quello di San Filippo di Roule, suonarono ancora mezza notte a differenti intervalli. Indi, ad eccezione del rumore di qualche carrozza lontana, tutto ricadde nel silenzio. Allora l’attenzione di Valentina si concentrò sulla pendola della sua camera, nella quale il bilanciere marcava i secondi. Ella se li mise a contare ed osservò ch’erano il doppio più lenti delle pulsazioni del suo cuore. E frattanto ella ancora dubitava: l’inoffensiva Valentina non si poteva figurare che qualcuno desiderasse la sua morte; perchè? con quale scopo? che male aveva ella fatto da poterle suscitare un nemico? Non v’era timore ch’ella si addormisse. Una sola idea, una idea terribile teneva il suo spirito attento: era che potesse essere qualcuno che avesse tentato d’avvelenarla, e che stava per tentarlo una seconda volta. Se questa volta una tal persona, stanca di vedere l’inefficacia del veleno, come lo aveva detto Monte-Cristo, avesse ricorso al ferro, se il conte non avesse avuto il tempo di accorrere? se ella fosse prossima all’ultimo suo momento? Se non avesse più potuto rivedere Morrel? A questo pensiero, che la copriva ad un tempo di livido pallore, e di agghiacciato sudore, Valentina era preparata ad afferrare il cordone del campanello, ed a chiamare soccorso. Ma le sembrava vedere, a traverso la scansia dei libri sfavillare l’occhio del conte, quest’occhio che vegliava sul suo avvenire, che, quando vi pensava, l’opprimeva di una tale vergogna, ch’ella domandava a se stessa, se mai la riconoscenza giungerebbe a cancellare il penoso effetto dell’indiscreta amicizia del conte. Venti minuti, venti eterni minuti passarono in tal modo, poi altri dieci minuti ancora; finalmente la pendola stridendo un minuto secondo prima; finì col battere un colpo sulla molla sonora. In questo stesso momento, il grattare impercettibile di un’unghia contro il legno della scansia avvisò Valentina che il conte vegliava, e le raccomandava di vegliare. In fatto dalla parte opposta, vale a dire verso la camera di Edoardo, sembrò a Valentina di sentire cigolare il piancito di legno, ella tese l’orecchio, trattenne la respirazione quasi soffocata; si sentì stridere la maniglia della serratura, e la porta girò sopra i gangheri. Valentina si era sollevata sul gomito, ed appena ebbe il tempo di lasciarsi ricadere sul letto coprendosi gli occhi con un braccio. Indi tremante, agitata, col cuore stretto da indicibile spavento, ella aspettò. Qualcuno si avvicinò al letto e ne sfiorò il cortinaggio. Valentina raccolse tutte le sue forze, e lasciò sentire quel mormorio regolare della respirazione, che annunzia un sonno tranquillo. — Valentina! disse una voce sommessa. La giovanetta fremette fino al fondo del cuore, ma non rispose. — Valentina! ripetè con lo stesso tuono la stessa voce. — Il medesimo silenzio: Valentina aveva promesso di non svegliarsi. Poscia rimase immobile. Soltanto ella intese il rumore appena sensibile di un liquido che cadeva in un bicchiere ch’ella aveva vuotato. Allora ella osò, sotto il riparo del suo braccio steso, di socchiudere le palpebre. Ella vide una donna, in pettinatore bianco, che vuotava nel suo bicchiere un liquore che prima era contenuto in una boccetta. In questo breve momento, Valentina forse trattenne la respirazione o fece senza dubbio qualche movimento, poichè la donna inquieta, si fermò e si chinò sul letto per meglio vedere s’ella dormiva realmente: era la sig.ª de Villefort. Valentina, nel riconoscere sua matrigna, fu presa da un fremito acuto che impresse un movimento al suo letto. La sig.ª de Villefort si addossò tosto al muro, e là, nascosta dietro al cortinaggio del letto, muta e attenta, spiò fino al minimo dei movimenti di Valentina. Questa si ricordò le terribili parole di Monte-Cristo, e le era sembrato nella mano che non teneva la boccetta, di veder brillare una specie di coltello lungo e affilato. Allora Valentina, richiamando tutto il potere della volontà in soccorso, si sforzò di chiudere gli occhi; ma questa funzione del più timoroso dei nostri sensi, questa funzione d’ordinario così semplice, diveniva in questo momento quasi impossibile ad eseguirsi, tanto l’avida curiosità faceva sforzi per respingere questa palpebra e riconoscere la verità. Però, rassicurata dal silenzio nel quale aveva ricominciato a farsi sentire il rumore eguale della respirazione di Valentina, e che ella dormiva, la sig.ª de Villefort stese di nuovo il braccio, e, rimanendo per metà nascosta dietro il cortinaggio riunito al capezzale del letto, terminò di vuotare nel bicchiere di Valentina il contenuto della sua boccetta. Indi si ritirò senza che il minimo rumore avvertisse Valentina ch’ella era partita. Il grattare di un’unghia nella scansia tolse Valentina da quello stato di torpore nel quale era immersa, e che rassomigliava ad un’asfissia. Ella sollevò la testa a stento, la scansia, sempre silenziosamente, girò una seconda volta e Monte-Cristo ricomparve. — Ebbene! domandò il conte, dubitereste ancora? — Oh! mio Dio! mormorò la giovanetta. — Avete veduto? — Ahimè! — Valentina mandò un gemito. — Sì, diss’ella, ma non vi posso credere. — Desiderate piuttosto morire, e far morire Massimiliano?... — Mio Dio! mio Dio! ripetè la giovanetta quasi smarrita; ma non posso dunque lasciare la casa? salvarmi? — Valentina, la mano che vi perseguita vi raggiungerà da per tutto; a forza d’oro, verranno sedotti i vostri domestici, e si presenterà a voi la morte mascherata sotto tutti gli aspetti, nell’acqua inzuccherata che beverete, nel frutto che coglierete dall’albero... — Ma non mi avete detto che la cautela presa dal mio buon nonno mi aveva premunito contro il veleno? — Contro uno dei veleni, ed anche non impiegato a forte dose; si cambierà il veleno o si aumenterà la dose. Egli prese il bicchiere e vi accostò le labbra. — E guardate, diss’egli, ciò è già fatto. Non è più colla brucnina che vi si avvelena, è con un semplice narcotico. Riconosco il gusto dell’alcool nel quale è stato sciolto. Se aveste bevuto ciò che la sig.ª de Villefort ha versato in questo bicchiere, Valentina! sareste perduta! — Ma; mio Dio! perchè dunque son perseguitata in tal modo? — Come! voi siete tanto buona, tanto dolce, tanto poco credula del male, che non avete capito, Valentina? — No, disse la giovanetta, non le ho mai fatto male. — Ma voi siete ricca, Valentina, avete 200 mila lire di rendita, e le togliete a suo figlio. — In che modo? I miei beni mi vengon dai miei parenti. — Senza dubbio, e se il sig. e la sig.ª di Saint-Méran son morti, fu perchè voi ereditaste dai vostri parenti; ecco perchè, dal giorno in cui anche il sig. Noirtier vi fece sua erede, egli fu condannato a morte: ora è la vostra volta, voi dovete morire, Valentina; e ciò affinchè vostro padre erediti da voi, e vostro fratello divenuto figlio unico, erediti da vostro padre. — Edoardo? ed è per lui che si commettono tanti delitti? — Ah! voi capite finalmente. — Ah! mio Dio! purchè tutto questo non ricada su lui! — Voi siete un angiolo, Valentina. — Ma hanno dunque rinunciato ad uccidere mio nonno? — Si è riflettuto che, morta voi, meno il caso di una diseredazione, i beni di lui andranno naturalmente a vostro fratello, e si è pensato che questo delitto, in fin dei conti, era inutile, ed anzi doppiamente pericoloso a commetterlo. — Ed è nello spirito di una donna che ha potuto nascere una simile combinazione? Oh! mio Dio! mio Dio! — Ricordatevi Perugia, il pergolato dell’albergo della Posta, l’uomo del mantello scuro che vostra madre interrogava sull’_acqua-tofana_; ebbene da allora tutto questo infernale disegno ha maturato nel suo cervello. — Oh! signore, gridò la giovanetta struggendosi in lagrime, quando è così, vedo bene che son condannata a morire. — No, Valentina, no, poichè io ho preveduti tutti i complotti; no, perchè la nostra nemica è vinta, poichè è indovinata; no, voi vivrete, Valentina, vivrete per amare ed essere amata, vivrete per essere felice, e per rendere felice un cuor nobile; ma, Valentina, per vivere, bisogna avere piena confidenza in me. — Ordinate, signore, che debbo fare? — Bisogna inghiottire ciecamente quel che vi darò. — Oh! Dio mi è testimonio, gridò Valentina, che se fossi sola amerei meglio lasciarmi uccidere. — Non vi confiderete a nessuno, neppur a vostro padre? — Mio padre non entra in questo spaventoso complotto, non è vero signore? disse Valentina giungendo le mani. — No. Eppure vostro padre, uomo abituato alle scuse criminali, deve avere dei sospetti che tutte queste morti che accadono nella sua casa non siano naturali. Vostro padre, avrebbe dovuto vegliare su voi, avrebbe dovuto essere a quest’ora nel posto che occupo io; avrebbe dovuto aver di già vuotato questo bicchiere; avrebbe dovuto infine indirizzarsi contro l’assassino. Spettro contro spettro, — mormorò egli terminando la sua frase sotto voce. — Signore, farò di tutto per vivere, perchè vi son due esseri al mondo che mi amano, e che morrebbero se io morissi: mio nonno e Massimiliano. — Io veglierò su loro come ho vegliato su voi. — Ebbene, disponete di me, — disse Valentina: indi soggiunse a bassa voce: — Oh mio Dio! che accadrà di me? — Qualunque cosa vi accada, Valentina, non vi spaventate se soffrite, se perdete la vista, l’udito, il tatto, non temete di niente; se vi risvegliate senza saper dove siete, non abbiate paura, doveste nello svegliarvi, trovarvi in qualche caverna sepolcrale, o chiusa in una bara; richiamate subito il vostro spirito e dite a voi stessa: «In questo momento un amico, un padre, un uomo che vuole la mia felicità e quella di Massimiliano, veglia su me.» — Ahimè! ahimè! quale terribile estremità! — Valentina; preferite denunziar la vostra matrigna? — Amerei meglio morir cento volte! oh! sì, morire! — No, voi non morrete, qualunque cosa vi accada, mi promettete, che non vi lamenterete, che spererete! — Io penserò a Massimiliano. — Siete la mia prediletta; io sol posso salvarvi, vi salverò. Valentina al colmo del terrore congiunse le mani (ella s’accorgeva bene che era giunto il momento di domandare a Dio coraggio), e si dirizzò per pregare, mormorando delle parole interrotte, e dimenticando che le sue bianche spalle non avevano altro velo che la lunga capigliatura, e che le si vedeva battere il cuore sotto il fino merletto del corpetto da notte. Il conte appoggiò dolcemente la mano sul braccio della giovanetta, ricondusse fino al collo il trapunto di velluto, e con un sorriso tutto paterno: — Figlia mia, diss’egli, credete nella mia affezione, come credete nella bontà di Dio, e nell’amore di Massimiliano. Valentina fissò su lui uno sguardo di riconoscenza, e restò docile, come un fanciullo, sotto i suoi veli. Allora il conte cavò dal taschino del gilè la scatola di smeraldo, sollevò il coperchio d’oro, e versò nella mano di Valentina una piccola pastiglia rotonda della grandezza di un pisello. Valentina la prese coll’altra mano, e guardò il conte attentamente: vi era sui lineamenti di questo intrepido protettore un riflesso della maestà della celeste possanza. Era evidente che Valentina lo interrogava collo sguardo. — Sì, rispose questi. — Valentina portò la pastiglia alla bocca, e l’inghiottì. — Ed ora, a rivederci, figlia mia, diss’egli; vado a provar di dormire perchè ora siete salvata. — Andate, disse Valentina; qualunque cosa mi accada, vi prometto non aver paura. — Monte-Cristo tenne lungamente gli occhi fissi sulla giovanetta, che a poco a poco si addormiva, vinta dalla forza del narcotico che il conte le aveva dato. Allora prese il bicchiere, ne vuotò tre quarti nel caminetto, perchè si fosse potuto credere che Valentina avesse bevuto ciò che mancava, lo rimise sul tavolino da notte; indi passando dietro alla scansia, disparve, dopo aver dato un ultimo sguardo a Valentina, che si addormiva con quella confidenza e candore con cui un angiolo riposa ai piedi del Signore. CI. — VALENTINA. Il lume da notte continuava ad ardere sul caminetto di Valentina, consumando le ultime gocce d’olio che galleggiavano ancora sull’acqua; di già un cerchio più rossigno colorava l’alabastro del globo, di già la fiamma più viva lasciava sentire gli ultimi crepitii che sembrano, negli esseri inanimati, le ultime convulsioni dell’agonia, tanto spesso paragonate a quelle delle povere creature umane: una luce cupa e sinistra rifletteva un colore opale sul cortinaggio bianco e sulle coperte della giovanetta. Tutti i rumori della strada erano cessati per questa volta, ed il silenzio interno era spaventoso. Allora si aprì la porta della camera di Edoardo, ed una testa, che abbiamo già veduta un’altra volta, comparve sullo specchio opposto alla porta. Era la sig.ª de Villefort che ritornava per vedere l’effetto della sua bevanda. Ella si fermò sulla soglia, ascoltò il crepitio della lampada, solo rumore percettibile in questa camera, che si sarebbe creduta deserta, indi si avanzò dolcemente verso la tavola da notte per vedere se il bicchiere di Valentina era stato vuotato. Non ve ne era che un quarto, come abbiam veduto. La sig.ª de Villefort lo prese, e lo andò a versare nelle ceneri, che ella smosse per facilitare l’assorbimento del liquido, indi pulì con cura il cristallo, lo asciugò col proprio fazzoletto, e lo rimise sulla tavola da notte. Se lo sguardo di qualcuno avesse potuto penetrare nell’interno di quella camera avrebbe veduta l’esitanza della sig.ª de Villefort nel fissare i suoi occhi su Valentina ed accostarsi al letto. Quella lugubre luce, quel silenzio, quella terribile poesia della notte, venivano senza fallo a cambiarsi colla spaventevole poesia della sua coscienza; l’avvelenatrice aveva paura di guardare l’opera sua. Prese finalmente ardire, allontanò la cortina, si appoggiò al capezzale del letto, e si curvò su Valentina. La giovinetta non respirava più; i suoi denti chiusi a metà, non lasciavano sfuggire un atomo di quel soffio che manifesta la vita; le labbra imbiancandosi avevan cessato di fremere; gli occhi velati da un vapore violetto, che sembrava essersi infiltrato sotto la pelle, formavano una sporgenza più bianca nella direzione in cui il globo gonfiava la palpebra, e le lunghe ciglia nere rigavano una pelle già pallida come la cera. La sig.ª de Villefort contemplò quel viso con una espressione eloquentissima nella sua immobilità; allora si aumentò il suo ardire, e sollevò la sua mano sul cuore della giovanetta... Esso era muto e agghiacciato. Ciò che batteva sotto la sua mano, erano le arterie delle sue dita; ella ritirò la mano rabbrividita. Il braccio di Valentina pendeva fuori del letto; questo braccio, con tutta la sua parte superiore dalla spalla al cubito sembrava modellato su quello di una delle Grazie di Germano Pilon; ma l’avambraccio leggermente deforme per un increspamento, ed il polso di una forma purissima, si appoggiavano, un poco irrigiditi, e colle dita allontanate, sull’acacia del letto. La radice delle unghie era bluastra. Per la sig.ª de Villefort non v’era più dubbio, tutto era finito; l’opera terribile, l’ultima che volesse compire, era consumata. L’avvelenatrice nulla più aveva da fare in quella camera; ella addietrò con tanta cautela ch’era visibile ch’ella temeva il romor dei suoi piedi sul tappeto; ma nel ritirarsi teneva ancora sollevata la cortina, assorbendo quello spettacolo della morte, che porta in sè una irresistibile attrazione fin che la morte non ha prodotta la decomposizione, ma soltanto la immobilità; mentre finchè dura il mistero, non vi è ancora il ribrezzo. I minuti passavano, la sig.ª de Villefort sembrava non potersi staccare da quella cortina che teneva sospesa come una sindone al disopra della testa di Valentina. Ella pagò il suo tributo alla meditazione. La meditazione del delitto deve essere il rimorso. In questo momento i crepitii del lume raddoppiarono. A questo romore la sig.ª de Villefort fremette, e lasciò ricadere la cortina. Nello stesso punto il lume si spense, e la camera fu immersa in una spaventosa oscurità. Allora la pendola suonò le quattro e mezzo. L’avvelenatrice, spaventata da queste successive commozioni, cercò a tastoni la porta, e rientrò nelle sue camere col sudore dell’angoscia sulla fronte. L’oscurità continuò per due ore dopo. Indi, a poco a poco, una sinistra e debole luce penetrò nell’appartamento, filtrando dagli interstizi delle persiane, poscia si fe’ maggiore, e venne a restituire il colore e la forma agli oggetti ed ai corpi. Fu in questo momento che si sentì per le scale la tosse della infermiera che entrò nella camera di Valentina, con una tazza in mano. Per un padre, per un’amante il primo sguardo sarebbe stato risolutivo, Valentina era morta; per questa mercenaria, Valentina dormiva. — Buono! diss’ella avvicinandosi alla tavola da notte, ella ha bevuto una parte della sua pozione, il bicchiere è a due terzi vuoto; — indi andò al caminetto, riaccese il fuoco, s’istallò in una poltrona, e quantunque uscisse allora dal letto approfittò del sonno di Valentina per dormire ancora alcuni momenti. La pendola la svegliò suonando le otto. Allora meravigliata di questo sonno ostinato, spaventata da quel braccio pendente fuori del letto, e che l’addormentata non aveva ancora ricondotto a sè, ella si avanzò verso il letto, ed allora soltanto notò quelle labbra fredde, e quel petto agghiacciato. Voleva riportare il braccio vicino al corpo, ma il braccio non obbedì che con una certa rigidezza spaventosa, sulla quale non poteva ingannarsi un’infermiera. Mandò un orribile grido. Indi correndo alla porta: — Soccorso! gridò ella, soccorso! — Come soccorso? chiese dal fondo della scala il sig. d’Avrigny. — Era l’ora in cui il dottore aveva presa l’abitudine di venire. — Come soccorso? gridò la voce del sig. de Villefort uscendo precipitosamente dal gabinetto; dottore, avete udito chiamar soccorso? — Sì, sì, montiamo, rispose il sig. d’Avrigny, montiamo presto; è dalla camera di Valentina. — Ma prima che il padre ed il dottore fossero entrati, gl’inservienti che si ritrovavano nello stesso piano, sparsi per le camere o pei corridori, erano entrati, e vedendo Valentina pallida ed immobile sul letto, alzando le mani al cielo, vacillavano come se avessero avuto le vertigini. — Chiamate la sig.ª de Villefort, svegliate la sig.ª de Villefort, — gridò il procurator del Re, dalla porta della camera, nella quale sembrava non osasse entrare. Ma i domestici, invece di rispondere, guardavano il sig. d’Avrigny ch’era entrato, era corso a Valentina e la sollevava sulle braccia: — Anche questa... mormorò egli, lasciandola ricadere. Oh! mio Dio! mio Dio! e quando vi stancherete? Villefort si slanciò nell’appartamento: — Che dite, mio Dio! gridò alzando le mani al cielo, dottore! — Dico che Valentina è morta, rispose il sig. d’Avrigny con voce solenne, e terribile nella sua solennità. Il sig. de Villefort stramazzò, come se le gambe si fossero incrociate, e cadde colla testa contro il letto di Valentina. Alle parole del dottore, alle grida del padre i domestici spaventati fuggirono mandando sorde imprecazioni. S’intesero pei corridori e per le sale i loro passi precipitati, poscia un movimento nei cortili, indi tutto finì; il rumore si estinse; dal primo fino all’ultimo, essi avevano disertato da quella casa maledetta. In quel momento la sig.ª de Villefort, col braccio per metà infilzato nel pettinatore da mattina, sollevava la portiera; per un momento restò sulla soglia in atto di interrogare gli assistenti, e chiamando in suo aiuto alcune lagrime ribelli. D’un subito ella fece un passo, o piuttosto uno sbalzo colle braccia stese verso la tavola da notte: aveva veduto d’Avrigny piegarsi con curiosità su questa tavola, e prendere il bicchiere ch’ella era certa di aver vuotato nella notte. Il bicchiere si ritrovava pieno per un terzo, precisamente come era quando ella ne aveva gettato il contenuto nelle ceneri. Lo spettro di Valentina ritto davanti l’avvelenatrice avrebbe prodotto minor effetto su di lei. Di fatto era quello il colore della bevanda che aveva versata nel bicchiere di Valentina, e da questa bevuta; era quello il veleno che non poteva ingannare l’occhio del sig. d’Avrigny, e che d’Avrigny guardava attentamente; era quello un miracolo che senza dubbio faceva Dio, affinchè restasse, ad onta di tutte le cautele prese dall’assassino, una prova, una denunzia del delitto. Frattanto, mentre la sig.ª de Villefort era rimasta immobile, come la statua del terrore, mentre Villefort, colla testa nascosta nelle lenzuola del letto mortuario, non vedeva niente di ciò che accadeva intorno a lui, d’Avrigny si avvicinava alla finestra per meglio esaminare coll’occhio il contenuto del bicchiere, e gustandone una goccia presa sulla punta di un dito: — Ah! mormorò egli, ora non è più la brucnina; vediamo che cosa è! — Allora corse ad uno degli armadii della camera di Valentina, armadio trasformato in farmacia, e cavando dalla sua piccola nicchia d’argento una boccetta d’acido nitrico, ne lasciò cadere alcune gocce nello opale del liquido, che in un subito si cambiò in un mezzo bicchiere di sangue vermiglio. — Ah! fece d’Avrigny coll’orrore del giudice a cui si scopre la verità, e colla soddisfazione dello scienziato a cui si svela un problema. La sig.ª de Villefort si girò un minuto su sè stessa, i suoi occhi lanciarono fiamme, indi si spensero; ella cercò vacillante la porta colla mano, e disparve. Un momento dopo s’intese il rumore di un corpo che cadde sull’assito. Ma nessuno vi fece attenzione; la infermiera stava occupata a guardare l’analisi chimica, Villefort era sempre annientato. Il sig. d’Avrigny soltanto aveva seguito con gli occhi la sig.ª de Villefort, ed aveva notata la sua precipitata sparizione. Egli sollevò la portiera della camera di Valentina, ed il suo sguardo, a traverso dell’appartamento di Edoardo, potè penetrare in quello della sig.ª de Villefort, ch’egli vide priva di sensi e stesa sul piancito: — Andate a soccorrere la sig.ª de Villefort, diss’egli all’infermiera, ella si sente male! — Ma madamigella Valentina? balbettò questa. — Madamigella Valentina non ha più bisogno di soccorsi, d’Avrigny disse, poichè ella è morta. — Morta! morta! sospirò Villefort nel suo parossismo, tanto più dilaniante, che questa era una notizia incognita, inudita pel suo cuore di bronzo. — Morta! dite voi? gridò una terza voce; chi ha detto che Valentina sia morta? — I due personaggi si rivolsero, e sulla porta scopersero Morrel dritto in piedi, pallido, sconvolto, e terribile. Ecco ciò ch’era accaduto. All’ora solita, e per la piccola porta che conduceva al sig. Noirtier, Morrel si era presentato. Contro il solito ritrovò la porta aperta; non ebbe dunque bisogno di suonare il campanello: entrò. Nel vestibolo aspettò un momento chiamando un domestico qualunque che lo introducesse presso il sig. Noirtier. Ma nessuno aveva risposto; i domestici, come si sa, eran tutti disertati dalla casa. Ma Morrel in quel giorno non aveva alcun particolare motivo di inquietudine. Egli aveva la promessa di Monte-Cristo, che Valentina sarebbe vissuta, e fino a quel giorno la promessa era stata mantenuta fedelmente. Ogni sera il conte gli dava delle buone notizie che la dimane venivano confermate dallo stesso sig. Noirtier. Però questa solitudine gli sembrò cosa singolare; chiamò una seconda, una terza volta, ma sempre lo stesso silenzio. Allora risolvette salire. La porta del sig. Noirtier era aperta come tutte le altre. La prima cosa che vide, fu il vecchio nel suo seggio, al suo posto ordinario; ma gli occhi dilatati sembravano esprimere un interno spavento, che veniva ancor confermato dallo strano pallore sparso su tutti i suoi lineamenti. — Come state, signore? domandò il giovine non senza un certo stringimento di cuore. — Bene, fece il vecchio col suo battere di palpebra. Ma la sua fisonomia sembrò aumentar d’inquietudine. — Voi siete preoccupato, continuò Morrel, avete bisogno di qualche cosa; volete che chiami qualcuno dei servitori? — Sì, fece Noirtier. Morrel si sospese al cordone del campanello, ma ebbe un bel tirare fino a romperlo, non venne alcuno. Egli si voltò verso Noirtier; il pallore e l’angoscia andavano crescendo sul viso del vecchio: — Ma, Dio mio! disse Morrel, ma perchè non viene qualcuno? forse che vi è un malato nella casa? — Gli occhi di Noirtier sembrarono sul punto di schizzare dalle loro orbite: — Ma che avete dunque? continuò Morrel, voi mi spaventate... Valentina, Valentina... — Sì, sì, fece Noirtier. Massimiliano aprì la bocca per parlare, ma la lingua non potè articolare alcuna parola: egli vacillò e si rattenne ad un mobile: indi stese la mano verso la porta. — Sì, sì, sì, fece il vecchio. — Massimiliano si slanciò verso la piccola scala, che montò in due salti, mentre Noirtier sembrava gridargli cogli occhi: — Più presto! più presto! — Bastò un minuto al giovine per traversare molte camere solitarie, come tutto il rimanente della casa, e per giunger fino a quella di Valentina: non ebbe bisogno di spingere la porta, essa era aperta in tutta la sua grandezza. Un singhiozzo fu il primo rumore che sentì, egli vide, come attraverso una nube, una figura nera inginocchiata e perduta in un ammasso confuso di drappi bianchi. Il timore, lo spaventevole timore, lo inchiodava sulla soglia. Fu allora che intese una voce che diceva: — Valentina è morta, — e una seconda voce che, come un eco, rispondeva: — Morta! morta! CII. — MASSIMILIANO. Villefort si rialzò quasi vergognoso di essere stato sorpreso nell’accesso di questo dolore. Il terribile stato che egli esercitava da 25 anni, era giunto a farne più o meno che un uomo. Il suo sguardo, un momento perduto, si fissò su Morrel. — Chi siete voi, signore? disse egli, voi che dimenticate che non si entra così in una casa abitata dalla morte? Uscite! signore, uscite! — Ma Morrel restava immobile; egli non poteva staccare gli occhi dal terribile spettacolo di questo letto in disordine, e dalla pallida figura che vi era stesa sopra. — Uscite! capite? gridò Villefort mentre d’Avrigny si avanzava dal suo canto per far uscire Morrel. Questi guardò con aria smarrita il cadavere, quei due uomini, tutta la camera, sembrò esitare un momento, aprì la bocca, indi finalmente, non trovando una parola da pronunziare, e dall’innumerevole ammasso d’idee fatali che agitavano il suo cervello, ritornò addietro cacciandosi le mani fra i capelli, in modo tale che de Villefort e d’Avrigny, un momento distratti dalla loro preoccupazione, dopo averlo seguito con gli sguardi, scambiarono fra di loro un’occhiata che voleva dire: — Egli è pazzo! Ma prima che fossero passati cinque minuti, s’intese gemere la scala sotto un peso considerevole, e si vide Morrel che, con una forza sovrumana, sollevava il seggio di Noirtier colle braccia e portava il vecchio al primo piano della scala. Morrel posò il seggio a terra e lo rotolò rapidamente fino nella camera di Valentina. Tutto questo si eseguì con una forza raddoppiata dalla esaltazione frenetica del giovine. Ma una cosa era spaventosa soprattutto; la figura di Noirtier, avanzandosi verso il letto di Valentina, spinto da Morrel, la figura di Noirtier sulla quale l’intelligenza spiegava tutti i suoi espedienti, di cui gli occhi riunivano tutta la loro possanza per supplire alle altre facoltà. Così questo viso pallido, collo sguardo infiammato, fu per de Villefort una spaventevole apparizione. Ogni volta che egli si era ritrovato a contatto con suo padre, era sempre accaduto qualche cosa di terribile. — Guardate ciò che essi ne han fatto! gridò Morrel appoggiato ancora con una mano allo schienale del seggio che aveva spinto fin contro il letto, e l’altra stesa verso Valentina, guardate! padre mio, guardate! Villefort rinculò di un passo e guardò con meraviglia questo giovine che gli era quasi sconosciuto e che chiamava Noirtier suo padre. In questo momento tutta l’anima del vecchio sembrò passare nei suoi occhi, che da prima s’iniettarono di sangue, indi gli si gonfiarono le vene del collo, un colore bluastro, come quello che invade la pelle dell’epilettico, gli coprì il collo, le guance, e le tempia; non mancava a questa esplosione interna di tutto l’essere, se non che un grido e questo uscì, per così dire, da tutti i pori, spaventoso nel suo mutismo, dilaniante nel suo silenzio. D’Avrigny si precipitò verso il vecchio, e gli fece respirare un violento revulsivo. — Signore, gridò Morrel afferrando la mano inerte del paralitico, si domanda chi son io, e qual diritto ho di essere qui. Oh! voi che lo sapete, ditelo, ditelo! — E la voce del giovine si spense con un singulto. In quanto al vecchio, la sua respirazione anelante gli scuoteva il petto. Si sarebbe detto che egli era in preda a quelle agitazioni che precedono l’agonia. Finalmente alcune lagrime stillarono dagli occhi di Noirtier, più felice del giovine che singhiozzava senza poter piangere. Non potendo piegare la testa, chiuse gli occhi. — Dite, continuò Morrel con voce strangolata, dite che io era il suo fidanzato! dite che ella era la mia nobile amica, il mio solo amore sulla terra; dite, che questo cadavere mi appartiene! — ed il giovine, dando il terribile spettacolo di una gran forza che si rompe, cadde pesantemente in ginocchio davanti a questo letto, che le sue dita increspate strinsero con violenza. Questo dolore era così penetrante che d’Avrigny si voltò per nascondere la sua emozione, e che Villefort, senza chiedere altra spiegazione, attirato da quella specie di magnetismo che ci spinge verso quelli che hanno amato coloro che noi piangiamo, stese la mano al giovine. Ma Morrel che nulla vedeva, aveva presa la mano agghiacciata di Valentina, e, non potendo piangere, mordeva le lenzuola arrossendo. Per qualche tempo non s’intese in questa camera che il conflitto dei singulti, delle imprecazioni, e della preghiera. E frattanto un rumore dominava tutto questo: era la respirazione rauca e straziante, che sembrava, ad ogni ripresa d’aria, rompere le molle della vita nel petto di Noirtier. Finalmente Villefort, il più padrone di sè stesso fra tutti, dopo aver per così dire ceduto per qualche tempo il suo posto a Massimiliano, prese la parola: — Signore, diss’egli a Massimiliano, voi amavate Valentina, dite voi, eravate suo fidanzato, ignoravo questo amore, questo impegno; eppure, io suo padre, vi perdono; poichè, lo vedo, il vostro dolore è grande, reale e vero. Del resto in me pure il dolore è grande, perchè resti nel mio cuore posto alla collera. Ma, voi lo vedete, l’angiolo che speravate ha lasciato la terra, ella non sa più che fare delle adorazioni degli uomini, ella che a quest’ora, adora il Signore; fate dunque i vostri addii alla trista spoglia, che ella ha dimenticato fra noi; stringete un’ultima volta la mano che aspettavate, e separatevi da lei per sempre; Valentina or non ha più bisogno che di un prete che la benedica. — Vi sbagliate, signore, gridò Morrel, rialzandosi sur un ginocchio, col cuore traversato da un dolore più acuto di quelli da lui finora intesi, vi sbagliate! Valentina, è morta, e nel modo che è morta, non solo ha bisogno di un prete ma ancora di un vendicatore; sig. de Villefort, mandate a cercare il prete, io sarò il suo vendicatore. — Che volete dire, signore? mormorò Villefort, tremante per questa nuova inspirazione del delirio di Morrel. — Voglio dire, continuò Morrel, che in voi esistono due esseri, signore; il padre ha pianto abbastanza, ora il procurator del Re cominci il suo ministero. Gli occhi di Noirtier sfavillarono, d’Avrigny si avvicinò. — Signore, continuò il giovine, raccogliendo dagli occhi di tutti gli assistenti i sentimenti che si risvegliavano sui loro volti, so quel che dico, e voi sapete, tanto bene quanto me, tutto ciò che son per dire: Valentina è morta assassinata! — Villefort abbassò la testa; d’Avrigny avanzò ancora di un passo; Noirtier fece di sì cogli occhi. — Ora, signore, continuò Morrel, ai tempi in cui viviamo, una creatura, ancorchè non così giovane, così bella, così adorabile, una creatura non dispare sì violentemente dal mondo senza che si domandi conto della sua sparizione. Andiamo! sig. procurator del Re, aggiunse Morrel con una veemenza sempre crescente, non vi sia pietà! vi denunzio il delitto, cercate l’assassino! — E il suo occhio implacabile interrogava Villefort, che dal canto suo sollecitava uno sguardo, ora da Noirtier, ora da d’Avrigny. Ma invece di trovar soccorso da suo padre e dal dottore, Villefort non ritrovò in essi che uno sguardo tanto inflessibile, quanto quello di Morrel. — Sì, fece il vecchio. — Certamente, disse d’Avrigny. — Signore, replicò Villefort, tentando di lottare ancor contro questa triplice volontà, e contro la propria emozione; signore, vi sbagliate, non si commettono delitti in casa mia, la fatalità mi colpisce, Dio mi prova, è orribile a pensarsi, ma in casa mia non si assassina nessuno! Gli occhi di Noirtier fiammeggiarono, d’Avrigny aprì la bocca per parlare. Morrel stese la mano raccomandando il silenzio: — Ed io vi dico che qui si uccide! gridò Morrel abbassando la voce, ma senza perder nulla della sua terribile vibrazione: vi dico che questa è la quarta vittima, che si colpisce in quattro mesi! vi dico che si era già provato una volta, quattro giorni sono, di avvelenare Valentina, e che questo delitto era andato a vuoto, mercè le cautele che avea prese il sig. Noirtier! vi dico che fu raddoppiata la dose o cambiata la natura del veleno, e questa volta è riuscito! vi dico che voi sapete tutto ciò tanto ben quanto me, poichè il signore, che è qui presente, ve ne ha avvisato e come medico, e come amico. — Oh! siete in delirio! disse Villefort, tentando invan di battersi entro il cerchio in cui era stato ristretto. — Io sono in delirio! gridò Morrel: ebbene! me ne appello al sig. d’Avrigny stesso. Domandategli, signore, se si ricorda ancora delle parole che ha pronunziate nel vostro giardino, nel giardino di questo palazzo, la sera stessa della morte della sig.ª de Saint-Méran, allor quando entrambi, voi e lui, credevate esser soli; vi trattenevate su questa morte tragica nella quale quella fatalità di cui parlate, e Dio che accusavate ingiustamente, non potevano esser contati che per una sola cosa, vale a dire per aver creato l’assassino di Valentina! — Villefort e d’Avrigny si guardarono. — Sì, sì, ricordatevi, disse Morrel, perchè quelle parole, che credevate sciolte al silenzio ed alla solitudine, sono cadute nelle mie orecchie. Certamente da quella sera, vedendo la colpevole compiacenza del sig. de Villefort pei suoi, avrei dovuto scoprir tutto alle autorità; non sarei complice come lo sono in questo momento della tua morte Valentina! mia Valentina prediletta! ma il complice diventerà il vendicatore; questo quarto omicidio è in flagrante, è visibile agli occhi di tutti, e se tuo padre ti abbandona, Valentina, sta a me, te lo giuro, di perseguitare l’assassino. E questa volta, come se la natura avesse avuto alfine pietà di questa vigorosa organizzazione, pronta ad infrangersi in virtù della propria forza, le parole gli si spensero nella gola, il petto scoppiò in singulti, le lagrime, tanto lungamente ribelli, scaturirono dai suoi occhi, si piegò su sè stesso, e ricadde in ginocchio e piangente vicino al letto di Valentina. Allora toccò la sua volta a d’Avrigny: — Ed io pure, disse con voce forte, io pure mi unisco al sig. Morrel per domandarvi giustizia del delitto; poichè il mio cuore si ribella all’idea che la mia vile compiacenza ha incoraggiato l’assassino! — Oh! mio Dio! mio Dio! mormorò Villefort annientato. — Morrel rialzò la testa, e leggendo negli occhi del vecchio che lanciavano fiamme soprannaturali: — Osservate, diss’egli, il sig. Noirtier vuol parlare. — Sì, fece Noirtier con una espressione tanto più terribile, che tutte le facoltà di questo povero vecchio impotente eran concentrate nello sguardo. — Conoscete l’assassino? disse Morrel. — Sì, replicò Noirtier. — E ci guiderete? gridò il giovine. Ascoltiamo, sig. d’Avrigny, ascoltiamo. — Noirtier indirizzò all’infelice Morrel un sorriso malinconico, uno di quei sorrisi con gli occhi che tante volte avevan resa felice Valentina, e in tal modo fissò la sua attenzione: indi, avendo attaccati, per così dire, gli occhi del suo interlocutore ai suoi, li voltò verso la porta. — Volete che io esca, signore? gridò dolorosamente Morrel. — Sì! fece Noirtier. — Ahimè! ahimè! signore, ma abbiate dunque pietà di me! — Gli occhi del vecchio restarono irremovibilmente fissi verso la porta. — Potrò almeno ritornare? domandò Morrel. — Sì. — Debbo uscir solo? — No. — Chi deve dunque venir meco, il sig. procuratore del Re? — No. — Il dottore? — Sì. — Volete restar solo col sig. de Villefort? — Sì. — Ma potrà egli capirvi? — Sì. — Oh! disse il sig. de Villefort quasi contento che la contestazione si facesse a quattr’occhi; oh! siate tranquillo, capisco benissimo mio padre. — E mentre diceva così, con una viva espressione di gioia, gli sbattevano i denti con violenza. D’Avrigny prese il braccio di Morrel, e trascinò il giovine nella camera vicina. Si fece allora in tutta quella casa un silenzio più profondo di quello della morte. Finalmente, in capo ad un quarto d’ora, si fece sentire un passo vacillante, e Villefort comparve sulla soglia del salotto ove si trattenevano d’Avrigny e Morrel, l’uno assorto, l’altro soffocato: — Venite, diss’egli. E li ricondusse presso il seggio di Noirtier. Morrel allora guardò attentamente Villefort. La faccia del procurator del Re era livida, larghe macchie color di ruggine ne vergavan la fronte; fra le dita era una penna contorta in mille modi e rotta in diversi pezzi. — Signori, diss’egli con voce soffocata a d’Avrigny ed a Morrel, la vostra parola d’onore che l’orribile segreto rimarrà sepolto fra di noi? — I due uomini fecero un movimento: — Io ve ne scongiuro!... continuò Villefort. — Ma, disse Morrel, il colpevole! l’uccisore!... l’assassino!... — Siate tranquilli, signori, sarà fatta giustizia, disse Villefort. Mio padre mi ha rivelato il nome del colpevole; mio padre ha sete di vendetta al par di voi, eppur mio padre vi scongiura come me di conservare il segreto del delitto. Non è vero, padre mio? — Sì, fece risolutamente Noirtier. — Morrel lasciò sfuggire un movimento d’orrore e d’incredulità. — Oh! gridò Villefort, fermando Morrel per un braccio, oh! signore, se mio padre, l’uomo che conoscete inflessibile, vi fa questa domanda, è perchè sa, siate tranquilli, è perchè sa che Valentina sarà terribilmente vendicata. Non è vero, padre mio? — Il vecchio fece segno di sì. Villefort continuò: — Egli mi conosce, ed è la sua parola che io impegno. Tranquillatevi dunque signore; tre giorni, non vi domando che tre giorni, è il meno che potreste domandare alla giustizia, e fra tre giorni la vendetta che avrò presa dell’uccisor di mia figlia, farà fremere fin dal profondo del cuore, anche gli uomini più indifferenti. Dicendo queste parole, egli strideva i denti, e scuoteva la mano inerte del vecchio. — Tutto ciò che vien promesso, sarà mantenuto, sig. Noirtier? domandò Morrel mentre d’Avrigny lo interrogava con lo sguardo. — Sì, fece il vecchio con uno sguardo di sinistra gioia. — Giurate dunque, signori, disse Villefort congiungendo le mani di d’Avrigny e di Massimiliano; giurate che avrete pietà dell’onore di mia famiglia, e che mi lascerete la cura di vendicarla? — D’Avrigny si voltò, e mormorò un sì ben debole; ma Morrel strappò la sua mano da quella del magistrato, si precipitò verso il letto, impresse le sue labbra sulle labbra agghiacciate di Valentina, e fuggì col lungo gemito di un’anima che s’ingolfa nella disperazione. Abbiam detto che tutti i domestici erano spariti; il sig. de Villefort fu dunque obbligato di pregare d’Avrigny d’incaricarsi di tutti quegli atti, così numerosi e delicati, che seco trascina la morte nelle nostre grandi città; e particolarmente una morte accompagnata da particolarità così sospette. In quanto a Noirtier, era qualche cosa di terribile il vedere questo dolore senza movimenti, questa disperazione senza gesti, queste lagrime senza voce. Villefort rientrò nel gabinetto; d’Avrigny andò a cercare il medico della municipalità, che adempiva le funzioni d’ispettore dei trapassati; e che si chiama con tanta energia il _medico dei morti_. Noirtier non volle più lasciare la salma di sua nipote. Una mezz’ora dopo il sig. d’Avrigny ritornò col suo confratello; erano state chiuse le porte di strada, e siccome il portinaro pure era disparso con tutti gli altri servitori, Villefort stesso andò ad aprire. Ma si fermò sul pianerottolo, non aveva più il coraggio di rientrare nella camera mortuaria, ove i due medici entraron soli. Noirtier era vicino al letto, pallido come la morte; com’essa immobile e muto. Il medico dei morti si avvicinò con la indifferenza dell’uomo che è assuefatto a passare la metà della vita fra cadaveri, sollevò il drappo che copriva la giovanetta, ed aprì un poco le labbra di lei. — Oh! disse d’Avrigny sospirando, povera fanciulla! ella è realmente morta, andate. — Sì, rispose laconicamente il medico, lasciando ricadere il drappo che copriva il viso di Valentina. Noirtier fe’ sentire un sordo rantolo, d’Avrigny si voltò, gli occhi del vecchio sfavillavano; il buon dottore capì che Noirtier reclamava la vista di sua nipote; si riaccostò al letto, e mentre il medico dei morti si lavava le dita nell’acqua col cloruro, scoperse quel placido e pallido viso, che rassomigliava a quello di un angelo addormentato. Una lagrima ricomparve all’angolo dell’occhio di Noirtier, e fu il ringraziamento che ricevè il dottore. Il medico dei morti scrisse il suo processo verbale sull’angolo di una tavola, nella stessa camera di Valentina, ed adempita questa suprema formalità, uscì ricondotto dal dottore. Villefort aspettava che discendessero, e comparve alla porta del suo gabinetto. In poche parole ringraziò il medico, e voltandosi a d’Avrigny: — E ora, diss’egli, il prete? — Avete un ecclesiastico che desideriate più particolarmente d’incaricare di pregare per Valentina? — No, disse Villefort, andate a cercare il più vicino. — Il più vicino, disse il medico dei morti, è un buon abate italiano che è venuto a dimorar nella casa contigua alla vostra; volete che nel passare lo prevenga? — D’Avrigny, disse Villefort, volete avere la bontà di accompagnare il signore? Ecco la chiave perchè possiate entrare ed uscire a vostro piacere: ricondurrete il prete e v’incaricherete di situarlo nella camera della mia povera figlia. — Desiderate parlargli, amico mio? — Desidero di restar solo: mi scuserete, n’è vero? Un prete deve comprendere tutti i dolori, anche il dolore paterno. — Ed il sig. de Villefort, consegnando un apritutto a d’Avrigny, salutò un’ultima volta il dottore straniero, rientrò nel suo gabinetto, e vi si mise a lavorare. Per alcune organizzazioni, il lavoro è un rimedio a tutti i dolori. Nel momento in cui discendevano nella strada, scopersero un uomo vestito in sottana che stava sulla soglia della porta vicina. — Ecco quello di cui vi parlava, — disse il medico dei morti a d’Avrigny. Questi andò incontro all’ecclesiastico; — Signore, diss’egli, sareste disposto di rendere un gran favore ad un disgraziato padre che ha perduto sua figlia, al sig. procuratore del Re Villefort? — Ah! signore, rispose il prete con un accento italiano dei più pronunciati, sì, lo so, la morte è nella sua casa. — Allora non ho più bisogno di dirvi qual genere di favore ei si aspetti da voi? — Io stesso veniva ad offrirmi, disse il prete; è nella nostra missione l’andar incontro ai nostri doveri. — È una giovanetta. — Sì, l’ho saputo dai domestici che fuggivano di casa: si chiamava Valentina, ed ho già cominciato a pregar per lei. — Grazie, grazie, signore, disse d’Avrigny; e poichè avete di già cominciato ad esercitare il santo vostro ministero, degnatevi di continuarlo: vi sederete vicino alla morta, e tutta una famiglia sepolta nel lutto vi sarà grandemente riconoscente. — Vi vado, signore, ed oso dire, che non saranno mai state fatte preghiere più fervide delle mie. — D’Avrigny prese l’abate per la mano, e senza incontrare Villefort, chiuso nel suo gabinetto, lo condusse fino alla camera di Valentina, della quale i becchini non dovevano impadronirsi che la sera susseguente. Entrando nella camera, lo sguardo di Noirtier si era abbattuto in quello dell’abate, e senza dubbio credè leggervi qualche cosa di particolare, perchè non lo lasciò più. D’Avrigny raccomandò al prete non solo la morta, ma anche il vivo, ed il prete gli promise di dare le sue preghiere alla morta, e di prestare le sue cure a Noirtier. L’abate vi si obbligò solennemente, e, senza dubbio, per non essere disturbato nelle sue preghiere, e perchè Noirtier non fosse disturbato nel suo dolore, andò tosto che d’Avrigny ebbe lasciata la camera, a chiudere le serrature, non solo della porta dalla quale era uscito d’Avrigny, ma ancor di quella che metteva nelle stanze della sig.ª de Villefort. CIII. — LA FIRMA DI DANGLARS. Il giorno dopo sorse tristo e nuvoloso. I becchini nella notte avevano compito il loro funebre ufficio, accomodato il corpo, deposto sul letto, avvolto nel sudario che ricuopre lugubremente i trapassati, prestando loro (che che si dica di eguaglianza in faccia alla morte) un’ultima testimonianza del lusso ch’essi amavano durante la vita. Il sudario non era altro che una pezza di magnifica battista, che la giovanetta aveva comprata quindici giorni prima. Nella serata, uomini chiamati a questo effetto avevano trasportato Noirtier dalla camera di Valentina nella sua, e, contro ogni aspettativa, il vecchio non aveva fatta alcuna difficoltà ad allontanarsi dal corpo di sua nipote. L’abate Busoni aveva vegliato fino a giorno, ed a giorno si era ritirato in casa sua senza chiamar nessuno. Verso le otto della mattina, d’Avrigny era ritornato; egli aveva incontrato Villefort che passava da Noirtier, e lo aveva accompagnato per sapere in che modo il vecchio aveva passata la notte. Essi lo ritrovarono nel suo gran seggio, che gli serviva ancora di letto, dormendo un sonno dolce e quasi sorridente. Entrambi si fermarono maravigliati sul limitare della porta. — Osservate, disse d’Avrigny a Villefort che guardava suo padre addormentato; osservate, la natura sa calmare i più vivi dolori, certamente non si dirà che Noirtier non amava sua nipote, eppure egli dorme. — Sì, ed avete ragione rispose Villefort con sorpresa, egli dorme, ed è strano, poichè la più piccola contrarietà lo tiene svegliato delle notti intere. — Il dolore lo ha atterrato, replicò d’Avrigny. Ed entrambi ritornavano pensierosi al gabinetto del procuratore del Re: — Osservate! non ho dormito, disse Villefort mostrando a d’Avrigny il suo letto intatto; il dolore non mi ha atterrato: son due notti che non dormo; ma invece, guardate il mio scrittoio, ho io scritto, mio Dio! in queste due notti?... ho sfogliato filze, ho annotato quest’atto d’accusa contro Benedetto!... oh! lavoro, lavoro, lavoro! mia gioia, mia rabbia, appartiene a te l’atterrare tutti i miei dolori! — E strinse convulsivamente la mano a d’Avrigny. — Avete voi bisogno di me? domandò il dottore. — No, soltanto vi prego di ritornare alle undici; a mezzo giorno ha luogo.... la partenza... mio Dio! povera la mia figlia! povera figlia mia! — Il procuratore del Re ritornando uomo, alzò gli occhi al cielo e mandò un sospiro. — Sarete voi nella sala di ricevimento? — No, ho un cugino che s’incarica di questo tristo onore: io lavorerò, dottore, quando lavoro tutto sparisce. Infatto il dottore non era giunto alla porta, che il procurator del Re si era messo al lavoro. Sulla scalinata d’Avrigny incontrò questo parente di cui gli aveva parlato Villefort; personaggio insignificante in questa storia, come in quella famiglia, uno di quegli esseri che sono destinati nascendo a rappresentare in società la parte della inutilità. Era puntuale, vestito di nero, col velo crespo al braccio, e si era portato da suo cugino con una figura che si era fatta, e che contava di conservare finchè vi fosse stato bisogno, per lasciarla poi in seguito. All’undici le carrozze funebri rumoreggiavano sul selciato del cortile, e la strada del sobborgo Sant’Onorato si riempiva del mormorio della folla, avida egualmente delle gioie e dei lutti dei ricchi, e che corre ad un mortorio pomposo colla stessa fretta che al matrimonio di una duchessa. A poco a poco la sala mortuaria si riempì, e si vide giungere da prima una parte delle nostre antiche conoscenze, come sarebbe Debray, Beauchamp, Château-Renaud, quindi tutte le persone più illustri del tribunale, delle camere, della letteratura, dell’esercito, poichè il sig. de Villefort occupava il primo rango di un’alta posizione sociale, meno per la sua carica, che per i suoi meriti personali. Il cugino stava alla porta e faceva entrare tutti, e per gl’indifferenti era un gran sollievo, bisogna dirlo, quello di ritrovar là una persona indifferente, che non esigeva dagl’invitati una fisonomia mentita, o false lagrime, come avrebbe fatto un padre, un fratello, un fidanzato. Quelli che si conoscevano si chiamavano collo sguardo e si riunivano in gruppi. Uno di questi gruppi era composto di Debray, di Château-Renaud, e di Beauchamp. — Povera giovanetta! disse Debray pagando, del resto, come ciascuno, quasi suo malgrado, un tributo a questo doloroso avvenimento. Povera giovanetta! così ricca! così bella! Lo avreste pensato, Château-Renaud, quando venimmo, circa due settimane o un mese al più, per firmare il contratto, che poi non fu firmato? — In fede mia no, disse Château-Renaud. — La conoscevate? — Aveva parlato una o due volte con lei, al ballo della sig.ª de Morcerf, fra le altre; ella mi sembrò graziosa, quantunque di uno spirito un po’ malinconico. Ov’è sua matrigna, lo sapete? — È andata a passare questo giorno con la moglie di questo degno signore che ci riceve. — E chi è costui? forse un deputato? — No, disse Beauchamp; son condannato a vedere i nostri onorevoli tutti i giorni, ed egli mi è incognito. — Avete parlato di questa morte nel vostro giornale? — L’articolo non è mio, ma se ne è parlato; e dubito che aggradisca al sig. de Villefort. Vi è detto, credo: che se quattro morti successive avessero luogo in tutt’altra casa che in quella del procuratore del Re, il sig. procurator del Re se ne sarebbe certamente commosso. — Del resto, disse Château-Renaud, il dottore d’Avrigny, che è il medico di mia madre, pretende che Villefort ne sia disperato. Ma che cercate dunque, Debray? — Cerco il conte di Monte-Cristo, rispose il giovine. — L’ho incontrato sul baluardo, lo credo sul punto di partire; andava dal suo banchiere, disse Beauchamp. — Dal suo banchiere? il suo banchiere non è Danglars? domandò Château-Renaud a Debray. — Io credo di sì, rispose il segretario intimo con un leggero impaccio; ma il conte di Monte-Cristo non è solo che manca qui; non vedo Morrel. — Morrel! la conosceva forse? domandò Château-Renaud. — Credo che sia stato presentato solo alla sig.ª de Villefort. — Non importa, avrebbe dovuto venire, disse Debray; di che parlerà egli questa sera? Questi funerali sono la notizia della giornata; ma zitti, attenti, ecco il ministro della Giustizia. Beauchamp aveva detto il vero; portandosi all’invito mortuario, aveva incontrato Monte-Cristo, che dal canto suo si dirigeva all’abitazione di Danglars, strada Chaussée-d’Antin. Il banchiere aveva dalla finestra riconosciuta la carrozza del conte che entrava nel cortile, e gli era venuto incontro con un viso tristo, ma affabile. — Ebbene, conte, diss’egli stendendo la mano a Monte-Cristo, venite a farmi una visita di condoglianza; in verità la disgrazia è entrata nella mia casa; ed al momento in cui vi ho scorto, stava interrogando me stesso se avevo fatta alcuna imprecazione a questi poveri Morcerf, cosa che avrebbe giustificato il proverbio: a chi vuol male accade male. Ebbene! sulla mia parola, no, non ho augurato male a Morcerf; egli era forse un orgoglioso, per un uomo venuto dal niente, come me, e che doveva tutto a sè stesso, come me; ma ciascuno ha i suoi difetti. Ah! state in guardia, conte, gli uomini della nostra generazione... ma perdono, conte, voi non siete della nostra generazione, siete ancor giovine. Gli uomini della nostra generazione non sono punto fortunati in questo anno: ne fa fede il nostro puritano procurator del Re Villefort, che ha perduto sua figlia. Così ricapitoliamo: Villefort, come dicevamo, perde tutta la sua famiglia in un modo così strano; Morcerf disonorato ed ucciso; io coperto di ridicolo per la scelleratezza di questo Benedetto, e poi... — E poi che? domandò il conte. — Ahimè! lo ignorate? — Qualche nuova disgrazia? — Mia figlia... — Madamigella Danglars? — Eugenia ci lascia. — Oh! che mi dite mai! — La verità, mio caro conte! quanto siete mai fortunato di non aver nè moglie nè figli! — Voi lo credete? — Ah! mio Dio! — E che dicevate di madamigella Danglars? — Ella non ha potuto sopportare l’affronto che ci ha fatto questo miserabile, e mi ha chiesto il permesso di viaggiare. — Ed è partita? — L’altra notte. — Colla sig.ª Danglars? — No, con una nostra parente... Ma ciò nullameno la perderemo, questa cara Eugenia; poichè dubito, col naturale che le conosco, ch’ella non acconsenta giammai a ritornare in Francia! — Che volete caro barone? disse Monte-Cristo, dispiaceri di famiglia, dispiaceri che potrebbero opprimere un povero diavolo che avesse riposta tutta la sua fortuna nella figlia, ma sopportabile da un milionario quale voi siete. I filosofi hanno un bel che dire, e gli uomini pratici daranno loro sempre una mentita su ciò, il danaro consola molte afflizioni, e voi dovete esser consolato prima di qualunque altro, se ammettete la virtù di questo balsamo salutare; voi il re dei finanzieri, il punto d’intersecazione di tutti i poteri. — Danglars lanciò un colpo d’occhio obliquo sul conte, per vedere se scherzava, o se parlava sul serio. — Sì, diss’egli, il fatto è, che se la fortuna consola, io debbo esser consolato, perchè son ricco. — Tanto ricco, caro barone, che le vostre ricchezze rassomigliano alle piramidi; se si vogliono demolire, nessuno l’osa, su qualcuno l’osasse, nol potrebbe. Danglars sorrise sulla bonomia del conte. — Ciò mi ricorda, diss’egli, che quando siete entrato io stava facendo cinque piccoli boni. Ne aveva già firmati due, volete permettermi di fare gli altri tre? — Fate, mio caro barone, fate. — Vi fu un momento di silenzio, durante il quale s’intese stridere la penna del banchiere, mentre che Monte-Cristo guardava gl’intagli dorati del soffitto. — _Boni_ di Spagna, disse Monte-Cristo, di Haïti, di Napoli? — No, disse Danglars col suo viso singolare, boni ai latore, sulla banca di Francia; osservate, aggiuns’egli, sig. conte, voi che siete l’imperatore della finanza, se io ne sono il re. Avete veduti molti pezzi di questa grandezza che valgono ciascuno un milione? — Monte-Cristo prese in mano, come per pesarli, i cinque pezzi di carta che gli presentava orgogliosamente Danglars, e lesse: «Piaccia al sig. Reggente della Banca di far pagare al mio ordine, e sui fondi da me depositati la somma di un milione, valuta in conto, «BARONE DANGLARS» — Uno, due, tre, quattro e cinque, fece Monte-Cristo, cinque milioni, in che modo lavorate, sig. Creso! — Ecco come faccio gli affari! disse Danglars. — È meraviglioso, se soprattutto, come non dubito, questa somma vien pagata in contanti. — Essa lo sarà. — È una bella cosa l’avere un credito simile. In verità non è che in Francia ove si vedono tali cose; cinque pezzi di carta valer cinque milioni, bisogna vederlo per crederlo. — Ne dubitate voi? — No. — Lo dite in un certo modo... Pigliate, prendetevi questo piacere; conducete il mio commesso alla banca, e vedrete uscirlo con tanti boni sul tesoro per la stessa somma. — No, disse Monte-Cristo, piegando i cinque biglietti, in fede mia, la cosa è troppo curiosa e ne farò io stesso l’esperimento. Il mio credito presso voi era fra noi convenuto in sei milioni, ho preso 900 mila fr., son cinque milioni, e altri cento mila fr. che restate a darmi: prendo questi cinque pezzi di carta, che credo buoni alla sola vista della vostra firma, ed ecco una ricevuta generale di sei milioni che regolarizzano il nostro conto. Io l’aveva già preparata perchè, bisogna che vi dica, che ho molto bisogno di danaro in oggi. — E con una mano Monte-Cristo mise i cinque biglietti in tasca, mentre coll’altra presentava la ricevuta al banchiere. Un fulmine caduto ai piedi di Danglars non lo avrebbe oppresso di spavento e di terrore più grande. — Che! balbettò egli, che! sig. conte! voi prendete questo danaro? ma perdono, questo è danaro che debbo agli ospizii, un deposito, ed io avevo promesso di pagar questa mattina. — Ah! disse Monte-Cristo, allora l’affare è diverso: non ho alcuna premura precisamente a questi cinque biglietti, pagatemi in altra valuta. Era per mia curiosità che aveva presi questi, affin di poter dire nella società che, senza alcun avviso, senza chiedermi cinque minuti di dilazione, la casa Danglars mi aveva pagati cinque milioni in contante! ciò sarebbe stato notevole! Ma ecco i vostri biglietti, e vi ripeto, pagatemi in altra valuta, e fatemene degli altri. E stese i cinque biglietti a Danglars, che livido, da prima allungò la mano come un avvoltoio allunga gli artigli a traverso le sbarre della gabbia per ritener la carne che si tenta di levargli. Ma poscia si pentì, fece uno sforzo violento su sè stesso, e si contenne: indi si vide il sorriso arrotondare a poco a poco i lineamenti del suo viso sconvolto. — Veniamo al fatto, diss’egli, la vostra ricevuta val danaro contante? — Oh! mio Dio! sì, e se foste a Roma, la casa Thomson e French, su di una mia ricevuta non farebbe minor difficoltà a pagarvi di quel che fate voi a pagar me. — Perdono, sig. conte, perdono! — Posso dunque conservare questi biglietti? — Sì, disse Danglars asciugandosi il sudore che gli stillava dai capelli; conservateli, conservateli. Monte-Cristo rimise i cinque biglietti in saccoccia con quell’intraducibile movimento che vuol dire: — Diamine! rifletteteci, se vi pentite, siete ancora in tempo. — No, disse Danglars, no, conservate la mia firma. Ma lo sapete, nessuno è tanto pieno di formalità quanto un uomo di danaro; io destinava questi fondi agli ospizii, e per un momento avrei creduto derubarli, non dando loro precisamente questi; come uno scudo non valesse quanto un altro scudo. Scusate! — E si mise a ridere rumorosamente, ma di un riso nervoso. — Io scuso, disse graziosamente Monte-Cristo, e metto in saccoccia. — E mise i boni dentro al suo portafogli. — Ma, disse Danglars, v’è ancora una somma di cento mila fr. — Oh! bagattella, disse Monte-Cristo, l’aggio deve montar circa a questa somma, tenetela, e sarem pari. — Conte, disse Danglars, parlate sul serio? — Monte-Cristo lo guardò con una serietà che toccava l’impertinenza. E s’incamminava verso la porta, giusto nel punto in cui il cameriere annunziava il sig. de Boville, ricevitor generale degli ospizii. — In fede mia, disse Monte-Cristo, sembra che io sia giunto in tempo per goder delle vostre firme, esse sono in disputa. — Danglars impallidì una seconda volta, e si affrettò a prendere congedo dal conte; il quale rispose con un cerimonioso saluto a quello di de Boville, che stava in piedi nella camera da ricevimento, e che, passato Monte-Cristo, fu subito introdotto nel gabinetto del sig. Danglars. Si sarebbe potuto vedere il viso così serio del conte illuminarsi di un passeggiero sorriso nel vedere il portafogli che teneva in mano il ricevitore degli ospizii. Alla porta ritrovò la sua carrozza, e si fece condurre sul momento alla banca. In questo mentre Danglars, comprimendo tutta la sua emozione, veniva incontro al ricevitor generale. Non fa mestieri di dire che il sorriso e la graziosità erano profondamente impresse sulle labbra di lui. — Buon giorno, diss’egli, mio caro creditore, poichè scommetterei ch’è il creditore che giunge. — Avete indovinato giustamente, sig. barone, disse il sig. de Boville; gli ospizii si presentano a voi nella mia persona. Gli ammalati, le vedove, gli orfani vengono per mio mezzo a domandarvi una elemosina di cinque milioni. — E si dice che gli orfani son da compiangere! disse Danglars prolungando lo scherzo! poveri fanciulli! — Eccomi che vengo in loro nome: disse il sig. de Boville; dovete aver ricevuta la mia lettera di ieri? — Sì. — Sono qui colla mia ricevuta. — Mio caro sig. de Boville, disse Danglars, i vostri malati, le vostre vedove, i vostri orfani avranno, se acconsentite, la bontà d’aspettare ventiquattr’ore, che il sig. di Monte-Cristo, che voi avete veduto uscir di qui... n’è vero? — Sì, ebbene? — Ebbene il sig. di Monte-Cristo portava seco i loro cinque milioni. — In che modo? — Il conte aveva un credito illimitato su di me, credito aperto dalla casa Thomson e French di Roma; egli è venuto a domandarmi la somma di cinque milioni in un sol colpo; gli ho dato un _bono_ sulla banca: i miei fondi stanno deposti là, e capirete che io temerei, ritirando dalle mani del Reggente dieci milioni tutti in un giorno, non avesse a sembrare cosa troppo strana. In due giorni, aggiunse Danglars sorridendo, è affare diverso. — Allora dunque, gridò il sig. de Boville col tuono di una completa incredulità, cinque milioni a quel signore che è uscito poco fa, e che mi ha salutato come se lo conoscessi? — Può darsi ch’egli conosca voi senza che voi conosciate lui. Il sig. di Monte-Cristo conosce tutti: ecco la sua ricevuta. Fate come l’apostolo che non voleva credere, guardate e toccate. — Il sig. de Boville prese il foglio che gli presentò Danglars, e lesse: «Ho ricevuto dal sig. barone Danglars la somma di cinque milioni e 900 mila fr., di cui egli si rimborserà a suo piacere sulla casa Thomson e French di Roma.» «CONTE DI MONTE-CRISTO» — In fede mia è vero! disse questi. — Conoscete la casa Thomson e French? — Sì, disse il sig. de Boville; ho fatto un’altra volta un affare di 200 mila fr. con questa, ma dopo non ne ho inteso più parlare. — È una delle migliori case d’Europa, disse Danglars rigettando negligentemente sullo scrittoio la ricevuta di Monte-Cristo che aveva ritirata dalle mani di de Boville. — Ed ei teneva così cinque milioni su voi; ma che! è un nababbo questo conte di Monte-Cristo? — In fede mia egli non so che cosa sia; ma aveva tre crediti illimitati, uno su me, uno su Rothschild, e uno su Laffitte, e, aggiunse negligentemente Danglars, come vedete, ha dato a me la preferenza, lasciandomi centomila fr. per l’aggio del cambio. Il sig. de Boville dette tutti i segni della più alta ammirazione. — Bisognerà che io vada a visitarlo, e che ottenga da lui qualche pia fondazione. — Oh! è come se l’aveste già: le sue elemosine sole montano a più di 20 mila fr. il mese. — È cosa magnifica! d’altra parte gli citerò l’esempio della sig.ª de Morcerf, e di suo figlio. — Quale esempio? — Essi hanno donata tutta la loro fortuna agli ospizii. — Quale fortuna? — La loro fortuna, quella del generale de Morcerf defunto. — E a che proposito? — Al proposito ch’essi non vogliono beni così miseramente acquistati. — E di che cosa vivranno? — La madre si ritira in provincia, ed il figlio si arruola. — Senti! senti! questi sì che sono scrupoli! — Ho fatto registrare ieri l’atto di donazione. — E quanto possedevano? — Oh! non era gran cosa, un milione e 300 mila fr. Ma ritorniamo ai nostri milioni. — Volentieri, disse Danglars colla maggior naturalezza del mondo. Avete dunque molta fretta di ritirare questo danaro? — Ma sì, il riscontro di cassa si fa domani. — Domani! perchè non lo avete detto subito! ma è un secolo, domani! a che ora succede la verifica di cassa? — Alle due pomeridiane. — Mandate a mezzogiorno, disse Danglars col suo sorriso. Il sig. de Boville non rispondeva gran cosa, faceva di sì colla testa, ed andava voltando e rivoltando il suo portafogli fra le mani. — Ma ora che vi penso, disse Danglars, fate anche meglio. — Che volete che io faccia? — La ricevuta di Monte-Cristo vale danaro contante: passate con questa ricevuta da Rothschild o da Laffitte; essi ve la prenderanno sul momento. — Quantunque da pagarsi a Roma? — Certamente; non vi potrà costare che un piccolo sconto di sei o settemila fr. — Il ricevitore fece uno sbalzo in addietro. — In fede mia, no, desidero di aspettar domani, come dicevate. — Ho creduto per un momento, perdonatemi, disse Danglars con una estrema impudenza, ho creduto che aveste un piccolo _deficit_, una piccola mancanza da riempire. — Oh! fece il ricevitore. — Ascoltate, ciò si è veduto, e, in questo caso, si fa un sacrificio. — Grazie a Dio no, disse il sig. de Boville. — Allora, a domani, n’è vero, mio caro sig. ricevitore? — Sì, a domani, ma senza fallo? — Anche! ma ridete! mandate a mezzogiorno e la banca sarà avvisata. — Verrò io stesso. — Meglio ancora, perchè ciò mi procurerà il piacere di rivedervi. — E si strinsero la mano. — A proposito, disse il sig. de Boville, non andate al funerale di questa povera madamigella de Villefort, che ho incontrato sul baluardo? — No, disse il banchiere, sono ancora un poco ridicolo dopo l’affare di Benedetto, e faccio un tuffo. — Bah! avete torto; è forse colpa vostra? — Ascoltate, mio caro ricevitore, quando si porta un nome senza macchia come il mio, si è suscettibili. — Tutti vi compiangono, siatene persuaso, e soprattutto si compiange madamigella vostra figlia. — Povera Eugenia! fece Danglars con un profondo sospiro! saprete ch’ella entra in monastero? — No. — Non è che disgraziatamente troppo vero. La dimane dell’avvenimento, ella ha risoluto partire con una religiosa sua amica, ed è andata a cercare un convento dei più severi in Italia o in Spagna. — Oh! è terribile! — Ed il sig. de Boville si ritirò dopo questa esclamazione, facendo al padre mille complimenti di condoglianza. Ma non fu appena fuori, che Danglars, con una energia di gesto che potranno soltanto intendere quelli che hanno veduto rappresentare Robert Macaire da Frederick, gridò: — Imbecille!!! — E chiudendo la quietanza di Monte-Cristo in un piccolo portafogli. — Vieni a mezzogiorno, diss’egli, e a mezzogiorno, io sarò lontano. Indi si chiuse a doppio giro di chiave, vuotò tutti i cassettini della cassa, riunì un 50 mila fr. in biglietti di banca, bruciò diverse carte, ne pose altre in evidenza, scrisse una lettera che sigillò e sulla quale mise per soprascritta: «Alla signora baronessa Danglars.» — Questa sera, mormorò egli, io stesso la metterò sulla sua toletta. Indi, cavando da un cassetto un passaporto: — Buono! diss’egli, è ancora valido per due mesi. CIV. — IL CIMITERO DEL PADRE LACHAISE. Il sig. de Boville aveva di fatto incontrato il convoglio funebre che conduceva Valentina all’ultima sua dimora. Il tempo era tetro e nuvoloso; un vento ancora tiepido, ma di già mortale per le foglie ingiallite, le staccava dai rami poco a poco spogliati, e le faceva veleggiare sulla folla immensa che ingombrava i baluardi. Il sig. de Villefort, puro parigino, riguardava il cimitero del Padre-Lachaise, come il solo degno di ricevere le spoglie mortali di una famiglia parigina. Gli altri gli sembravano cimiteri da campagna, appartamenti ammobigliati della morte. Soltanto al Padre-Lachaise un trapassato di buona società poteva essere alloggiato come in casa sua. Come abbiam veduto, egli aveva comprato la concessione a perpetuità sulla quale s’innalzava il monumento popolato così prontamente da tutti i morti della sua prima famiglia. Si leggeva sul frontone del mausoleo: FAMIGLIA SAINT-MÉRAN E VILLEFORT Perchè tale era stata l’ultima volontà della povera Renata madre di Valentina. Era dunque verso il Padre-Lachaise che s’incamminava il pomposo corteggio, partito dal sobborgo Sant’Onorato. Fu traversato tutto Parigi, fu preso pel sobborgo del Tempio, indi pei baluardi esterni fino al cimitero. Più di 50 carrozze padronali seguivano venti carrozze di lutto, e dietro a queste 50 carrozze, più di 500 persone ancora camminavano a piedi. Erano quasi tutti giovinetti che questa morte di Valentina aveva colpiti come un fulmine, e che, ad onta del vapore ghiacciale del secolo, e del prosaismo del tempo soffrirono l’influenza poetica di questa bella, di questa casta, di questa adorabile giovanetta, divelta nel suo fiore. All’uscire di Parigi si vide giungere rapidamente una carrozza trasportata da quattro cavalli, che d’improvviso si fermarono, irrigidendo i loro nervosi garetti, come fossero state suste d’acciaio: era il sig. di Monte-Cristo. Il conte discese di carrozza, e venne a confondersi fra la folla che camminava a piedi dietro il carro funebre. Château-Renaud lo scoperse, discese subito dal suo _coupé_ e venne ad unirsi a lui, Beauchamp egualmente lasciò il _cabriolet_ di rimessa nel quale si ritrovava. Il conte guardava attentamente fra tutti gli interstizii che lasciava la folla; egli cercava visibilmente qualcuno; finalmente non potè più contenersi. — Ov’è Morrel? domandò egli. Qualcuno di voi, signori, sa niente ove sia? — Ci siam già fatti questa domanda fin dalla casa mortuaria, disse Château-Renaud, poichè nessun di noi lo ha scorto. Il conte tacque, ma continuò a guardare intorno a sè. Finalmente si giunse al cimitero. L’occhio penetrante di Monte-Cristo guardò in tutti i boschetti, e ben presto perdè tutte le inquietudini: un’ombra aveva strisciato sotto i neri cipressi, e Monte-Cristo senza dubbio scopriva in essa l’oggetto che cercava. Si sa che cosa è un seppellimento in questa città di morti: gruppi neri disseminati nei bianchi viali, un silenzio del cielo e della terra, rotto soltanto dal rumore dello spezzarsi di qualche ramo, dell’affondarsi di qualche siepe intorno alla tomba; poi il canto malinconico dei preti al quale viene qua e là mischiato un singhiozzo sfuggito da un cespuglio di fiori, sotto il quale si vede qualche donna prostrata con le mani giunte. L’ombra che aveva notata Monte-Cristo traversò rapidamente il sentiero che passava dietro la tomba di Abelardo ed Eloisa e venne a situarsi, cogli assistenti ai becchini alla testa dei cavalli che trascinavano il corpo, e del medesimo passo pervenne alla direzione scelta per la sepoltura. Ciascuno guardava qualche cosa. Monte-Cristo non guardava che quest’ombra appena osservata da quelli che l’avvicinavano. Due volte il conte uscì dalle file per vedere se le mani di quest’uomo cercavano qualche arma nascosta nei propri abiti. Quest’ombra, quando il corteo si fermò, fu riconosciuta esser quella di Morrel che, coll’abito nero abbottonato fino al collo, la fronte livida, le guance solcate, il cappello ammaccato in più posti dalle sue mani convulsive, si era appoggiato ad un albero situato sur un rialto che dominava il mausoleo, in modo da non perdere alcuno dei particolari della funebre cerimonia che si compiva. Tutto terminò secondo l’uso. Alcuni uomini, e, come sempre, erano i meno impressionati, alcuni uomini pronunciarono dei discorsi. Gli uni compiansero questa morte prematura; gli altri si estesero sul dolore di suo padre; ve ne furono degl’ingegnosi per ritrovar che questa giovanetta aveva più di una volta sollecitato il sig. de Villefort in favor di quei colpevoli sulla testa dei quali egli teneva alzata la spada della giustizia; finalmente si terminarono le metafore fiorite ed i periodi dolorosi, cementando in tutti i modi le sentenze di Malherbe e Duperier. Monte-Cristo nulla ascoltava, nulla vedeva, o piuttosto non vedeva che Morrel, di cui la calma e l’immobilità formavano uno spettacolo spaventoso per colui che solo poteva leggere ciò che accadeva nel fondo del cuore del giovine ufficiale. — Osserva, disse d’improvviso Beauchamp a Debray, ecco là Morrel! dove diavolo si è andato a cacciare! — Ed essi lo fecero notare a Château-Renaud. — Come è pallido! disse questi fremendo. — Avrà freddo, replicò Debray. — No, disse lentamente Château-Renaud, credo che sia commosso: egli è un uomo impressionabilissimo. — Bah! disse Debray, appena conosceva madamigella de Villefort; l’avete detto voi stesso. — È vero. Però, mi ricordo che al ballo della sig.ª de Morcerf ha ballato tre volte con lei; sapete, conte, che a quel ballo voi produceste un grande effetto? — No, non lo so, rispose Monte-Cristo, senza sapere a che rispondeva, nè a chi, tanto era occupato a sorvegliare Morrel, le cui guance si animavano come accade a quelli che comprimono realmente la loro respirazione. — I discorsi son finiti; addio, signori, disse bruscamente il conte. — E dette il segnale della partenza, sparendo senza saper per dove fosse passato. La festa mortuaria era terminata, e gli assistenti ripresero la strada di Parigi. Château-Renaud solo cercò un momento Morrel con gli occhi; ma, mentre aveva seguito il conte con gli occhi al punto che si allontanava, Morrel aveva lasciato il suo posto, e Château-Renaud, dopo averlo invano cercato, aveva seguito Debray e Beauchamp. Monte-Cristo si era gettato fra i tigli, e nascosto dietro una larga tomba, spiava fino il più piccolo movimento di Morrel, che a poco a poco si accostò al Mausoleo, abbandonato prima dai curiosi e poi dagli operai. Morrel guardò d’intorno a lui lentamente e vagamente, ma al momento in cui il suo sguardo abbracciava la parte di cerchio opposta alla sua, Monte-Cristo si riavvicinò ancora di una diecina di passi senza essere stato veduto. Il giovine s’inginocchiò. Il conte col collo teso, l’occhio fisso e dilatato, i calcagni piegati come per islanciarsi al primo segnale, continuava ad avvicinarsi a Morrel. Morrel chinò la fronte fin sulla pietra, abbracciò il cancello con ambe le mani, e mormorò: — Oh! Valentina! — Il cuore del conte fu spezzato dalla esplosione di queste due sole parole; egli fece anche un passo, e battendo sulla spalla di Morrel: — Siete voi, amico caro, disse egli; io vi cercava. — Monte-Cristo si aspettava rimproveri e recriminazioni: egli s’ingannava. Morrel si voltò dalla sua parte e con una calma apparente: — Il vedete, disse egli, io pregava! — Lo sguardo scrutatore di Monte-Cristo percorse il giovine dai piedi alla testa. Dopo questo esame sembrò più tranquillo. — Volete che vi riconduca a Parigi? disse egli. — No, grazie. — Finalmente desiderate qualche cosa? — Lasciatemi pregare. — Il conte si inginocchiò senza fare una sola obbiezione, ma fu per prendere un nuovo posto di dove egli non perdeva un sol gesto di Morrel, che finalmente si alzò, si pulì i ginocchi imbianchiti dalla polvere, e riprese la strada di Parigi, senza voltare una sola volta la testa. Massimiliano discese lentamente la strada della Roquette. Il conte rimandò la carrozza, che stazionava alla porta del cimitero, e lo seguì a cento passi di distanza. Massimiliano traversò il canale, e rientrò nella strada Meslay per la parte dei baluardi. Cinque minuti dopo che la porta fu chiusa da Morrel, ella si riaprì per Monte-Cristo. Giulia era all’entrata del giardino, ove guardava colla più profonda attenzione mastro Penelon che, prendendo la sua professione di giardiniere sul serio, lavorava intorno ad un rosaio del Bengal. — Ah! sig. conte di Monte-Cristo! gridò ella con quella gioia che manifestava d’ordinario ciascun membro della famiglia, quando Monte-Cristo faceva visita nella strada Meslay. — Massimiliano è entrato ora, n’è vero, signora? dimandò il conte. — Credo di averlo veduto passare, sì, riprese la giovine sposa; ma vi prego, chiamate Emmanuele. — Perdono, signora, bisogna che io salga al momento da Massimiliano, replicò Monte-Cristo; ho da dirgli qualche cosa della più alta importanza. — Andate dunque, fece ella, accompagnandolo con suo grazioso sorriso fin che non fu disparso per le scale. Monte-Cristo raggiunse ben presto il secondo piano, che separava il pian terreno dall’appartamento di Massimiliano. Giunto sul pianerottolo ascoltò, nessun rumore si faceva sentire. Come nella maggior parte delle case antiche abitate da un sol padrone, il pianerottolo non era chiuso che da una sola porta coi vetri, alla quale non v’era chiave. Massimiliano si era rinchiuso per di dentro, ed era impossibile penetrare al di là della porta, una tendina di seta rossa foderava i vetri. L’ansietà del conte si manifestò per mezzo di un vivo rossore, sintomo di emozione poco ordinario presso questo uomo impassibile. — Che fare? mormorò egli. — E riflettè un minuto: — Suonare? riprese egli; Oh! no! spesso il rumore di un campanello, vale a dire di una visita, accelera la risoluzione di quelli che si ritrovano nella situazione in cui dev’essere Massimiliano in questo momento ed allora al rumore del campanello risponde un altro rumore. — Monte-Cristo fremette dalla testa ai piedi, e siccome in lui la risoluzione aveva la rapidità del lampo, dette un colpo col gomito contro un cristallo della invetrata, che andò in pezzi, indi sollevò la tendina, e vide Morrel davanti ad uno scrittoio con una penna in mano, che aveva fatto uno sbalzo sulla sua sedia al rumore del cristallo rotto. — Non è niente, disse il conte, mille perdoni! caro amico, ho scivolato, e nello scivolare ho percosso col gomito sul cristallo; poichè è rotto me ne approfitto per entrare da voi, non v’incomodate. — E passando il braccio dal vano prodotto per la rottura del vetro, il conte aprì la porta. Morrel si alzò evidentemente contrariato, e venne incontro a Monte-Cristo più per barricargli il passaggio che per andarlo a ricevere: — In fede mia; disse Monte-Cristo strofinandosi il gomito, la colpa è dei vostri domestici, i vostri pianciti sono lisciati come gli specchi. — Vi siete ferito, signore? domandò freddamente Morrel. — Non so. Ma che facevate dunque là? scrivevate? — Io? — Voi avete le dita macchiate d’inchiostro. — Sì, è vero, rispose Morrel, ciò mi accade qualche volta, quantunque io sia militare. — Monte-Cristo fece qualche passo nell’appartamento, e Massimiliano fu obbligato di lasciarlo passare, ma lo seguì. — Voi scrivevate? riprese Monte-Cristo con uno sguardo impacciante per la sua immobilità. — Ho già avuto l’onore di dirvi di sì, disse Morrel. Il conte gettò uno sguardo intorno a sè. — Le vostre pistole di fianco al calamaio? disse egli, mostrando col dito a Morrel le armi poste sul suo scrittoio. — Parto per un viaggio, rispose con dispetto Massimiliano. — Amico mio! disse Monte-Cristo con una voce piena di una infinita dolcezza. — Signore? — Amico mio, non fate risoluzioni estreme, ve ne supplico. — Io risoluzioni estreme! disse Morrel stringendo le spalle, che ritrovate di risoluzione estrema in un viaggio? — Massimiliano, disse Monte-Cristo, deponiamo ciascun di noi la maschera che in questo momento portiamo. Massimiliano, non abusate di questa calma di comando più di quello che non abuso di voi colla mia frivola sollecitudine. Capirete bene, che per aver fatto ciò che ho fatto, per aver rotto un vetro, violato il segreto della camera di un amico, bisognava che avessi una reale inquietudine, o piuttosto una terribile convinzione? Morrel, voi volevate uccidervi. — Bah! disse Morrel fremendo. Di dove cavate queste idee? — Vi dico che volevate uccidervi, continuò il conte col medesimo tuono di voce, ed eccone la pruova. — Ed avvicinandosi allo scrittoio, sollevò il foglio bianco che il giovine aveva gettato sulla lettera incominciata, e prese la lettera. Morrel si slanciò per levargliela di mano. Ma Monte-Cristo prevedeva il movimento, e lo prevenne afferrando Massimiliano per un polso e fermandolo come la catena di acciaio ferma la molla nel mezzo della sua evoluzione. — Vedete bene, che volevate uccidervi, Morrel, disse il conte; ciò sta scritto! — Ebbene! gridò Morrel, passando senza transizione dall’apparenza della calma alla espressione della violenza; ebbene! quando ciò fosse, quando avessi risoluto di voltar su di me la canna di questa pistola, chi me lo impedirà? chi avrà il coraggio d’impedirmelo? quando io dirò: Tutte le mie speranze sono rovinate; il mio cuore è spezzato, la mia vita è estinta, non vi è più che lutto e disgusto intorno a me; la terra è divenuta cenere, ogni voce umana mi dilania; quando dirò; è una pietà lasciarmi morire, perchè se non mi lasciate morire, perdo la ragione, diventerò pazzo! Vediamo, dite, signore, quando dirò così, quando si vedrà che lo dico con le angosce e le lagrime del cuore, mi si risponderà forse; avete torto? Mi si impedirà di non esser più infelice? dite, signore, dite; avreste forse voi questo coraggio? — Sì, Morrel, fece il conte con una voce, la cui calma contrastava stranamente colla esaltazione del giovine. — Voi! gridò Morrel, con una espressione crescente di collera e di rimprovero; voi che mi avete ingannato con una assurda speranza, che mi avete trattenuto, cullato, addormito con vane promesse, mentre avrei potuto con qualche colpo rumoroso, con qualche estrema risoluzione, salvarla, o almeno vederla morir fra le mie braccia; voi che affettate tutti gli espedienti dell’intelligenza, tutte le potenze della materia; voi che rappresentate, o che almeno fate sembiante di rappresentar sulla terra un emissario della Provvidenza, e che non avete neppur il potere di dare un contraveleno ad una giovanetta avvelenata! ah! in verità, signore, mi fareste pietà, se non mi fareste orrore! — Morrel!... — Sì, mi avete detto di deporre la maschera, ebbene! siate soddisfatto, la depongo. Sì, quando mi avete seguito al cimitero, sì ho ancora risposto, perchè il mio cuore è buono; quando siete entrato qui, vi ho lasciato venire fin qui... Ma poichè venite a bravare fin dentro la mia camera, ove mi era ritirato come dentro una tomba; poichè apportate una nuova tortura a me, che credeva di averle stancate tutte, conte di Monte-Cristo, mio preteso benefattore, conte di Monte-Cristo, salvatore universale, siate soddisfatto, vedrete morire il vostro amico. E Morrel, col sorriso della demenza sulle labbra, si slanciò una seconda volta verso le pistole. Monte-Cristo, pallido come uno spettro, ma coll’occhio abbagliante di luce, stese la mano sulle armi, e disse all’insensato: — Ed io, ed io vi ripeto che non vi ucciderete! — Impeditemelo dunque! replicò Morrel con un ultimo slancio, che come il primo, venne ad infrangersi contro il braccio d’acciaio del conte. — Ve lo impedirò! — Ma chi siete dunque per arrogarvi questo tirannico diritto verso le creature viventi e pensanti? — Chi sono io? ripetè Monte-Cristo. Ascoltate, sono il solo uomo al mondo che abbia il diritto di dirvi: Morrel, non voglio che oggi muoia il figlio di tuo padre. — E Monte-Cristo, maestoso, trasfigurato, sublime, si avanzò colle due braccia incrociate verso il giovine, che palpitante suo malgrado per la possanza di quest’uomo, rinculò di un passo! — Perchè parlate di mio padre? balbettò egli, perchè mischiate la rimembranza di mio padre con ciò che mi accade oggi? — Perchè io son quello che salvò la vita a tuo padre, un giorno che voleva uccidersi come oggi il vuoi tu; perchè io sono quell’uomo che mandò la borsa alla tua giovane sorella, ed il _Faraone_ al vecchio Morrel; perchè io sono Edmondo Dantès che ti ha fatto scherzare sulle sue ginocchia, quando eri fanciullo! — Morrel fece ancora un passo in addietro vacillante, anelante, soffocato, oppresso; indi d’un subito le sue forze lo abbandonarono, e, con un grido, cadde prosternato ai piedi di Monte-Cristo: poscia in quella ammirabile natura si fece un movimento di rigenerazione improvvisa e compiuta: si rialzò, balzò fuori della camera, e si precipitò nella scala gridando con tutta la forza della sua voce: — Giulia! Giulia! Emmanuele! Emmanuele! Monte-Cristo volle slanciarsi a sua volta, ma Massimiliano si sarebbe piuttosto fatto uccidere che lasciare la maniglia della porta che tirava a sè il conte. Alle grida di Massimiliano, Giulia, Emmanuele ed alcuni domestici accorsero spaventati. Morrel li prese per le mani, e riaprendo la porta: — In ginocchio! gridò egli con voce soffocata dai singulti; in ginocchio! questi è il salvatore, questi è il benefattore di nostro padre! egli è..., stava per dire: egli è Edmondo Dantès! — Il conte lo fermò afferrandogli un braccio. Giulia si slanciò sulla mano del conte, Emmanuele lo abbracciò come un nume tutelare; Morrel cadde per la seconda volta alle sue ginocchia e battè colla fronte la terra. Allora l’uomo di bronzo sentì il suo cuore dilatarsi nel petto, un getto di fiamma divorante si partì dalla sua gola, e gli salì agli occhi, chinò la testa, e pianse. Avvenne in questa camera, e per alcuni momenti, un concerto di lagrime e di gemiti sublimi. Giulia fu appena rimessa dalla profonda emozione che aveva provata, che balzò fuori della camera, discese un piano, corse alla sala con gioia ineffabile, e sollevò la campana di cristallo che ricopriva la borsa data dallo sconosciuto nella casa dei viali di Meillan. In questo mentre Emmanuele con voce interrotta diceva al conte: — Oh! sig. conte, come mai, sentendoci parlare così spesso del nostro sconosciuto benefattore, come mai vedendoci ricordare la sua memoria con tanta riconoscenza ed adorazione, come mai avete aspettato fino ad oggi per farvi riconoscere? Oh! questa è crudeltà verso di noi, ed oserei quasi dire, sig. conte, verso di voi medesimo. — Ascoltate, amico mio, disse il conte, ed io posso chiamarvi così, poichè, senza che voi lo pensaste, siete amico mio da undici anni; la scoperta di questo segreto è stata la conseguenza di un grande avvenimento, che voi dovete ignorare. Dio mi è testimonio, che avrei desiderato tenerlo nascosto nel fondo del mio cuore per tutto il tempo della mia vita. Vostro fratello Massimiliano me lo ha strappato per mezzo di violenze di cui si pente, ne sono sicuro. Indi vedendo Massimiliano che si era gettato in un angolo contro un sofà, restando però sempre in ginocchio: — Vegliate su lui, soggiunse a bassa voce Monte-Cristo, stringendo in modo significativo la mano di Emmanuele. — Perchè questo? domandò il giovine meravigliato. — Non posso dirvi di più; ma vegliate su lui. Emmanuele girò per la camera uno sguardo circolare, e scoperse le pistole di Morrel. I suoi occhi si fissarono spaventati su queste armi, ch’egli designò a Monte-Cristo, levando lentamente un dito alla loro altezza. Monte-Cristo chinò la testa. Emmanuele fece un movimento verso le pistole: — Lasciate, disse il conte. Indi andando da Morrel, lo prese per la mano; i movimenti tumultuosi che avevano per un momento scosso il cuore del giovine, avevan ceduto il posto ad uno stupore profondo. Giulia risalì, ella teneva in mano la borsa di seta, e due lagrime brillanti e gioiose le rilucevano sulle guance, come due gocce di mattutina rugiada. — Ecco la reliquia, diss’ella; non crediate ch’essa mi sia men cara dopo che mi è stato rivelato il salvatore. — Figlia mia, rispose Monte-Cristo arrossendo, permettetemi di riprendere questa borsa; dopo che voi conoscete i lineamenti del mio viso, non voglio essere ricordato alla vostra memoria che per mezzo dell’affezione che vi prego d’accordarmi. — Oh! disse Giulia stringendo la borsa sul suo cuore, no, no, ve ne supplico, perchè un giorno potete lasciarci, perchè un giorno disgraziatamente, ci lascerete, non è vero? — Ci avete indovinato, signora rispose Monte-Cristo sorridendo; fra otto giorni, avrò lasciata questa città, ove tante persone che avevano meritata la vendetta celeste vivevano felici, mentre mio padre moriva di fame e di dolore. Annunziando la sua vicina partenza, Monte-Cristo teneva gli occhi fissi su Morrel, e notò che queste parole, avrò lasciata questa città, erano state dette senza togliere Morrel dal suo letargo; capì allora che bisognava sostenere un’ultima lotta col dolore del suo amico, e prendendo le mani di Giulia e di Emmanuele, ch’egli riunì stringendole fra le sue, disse loro colla dolce autorità di un padre: — Miei buoni amici, vi prego di lasciarmi solo con Massimiliano. — Questo era un mezzo per Giulia di portar via questa preziosa reliquia, di cui Monte-Cristo dimenticava di parlare. Ella trascinò vivamente seco suo marito: — Lasciamoli, diss’ella. — Il conte rimase solo con Morrel, che restava immobile come una statua. — Vediamo, disse il conte toccandogli una spalla col suo dito di fiamma, Massimiliano, ritornate finalmente un uomo? — Sì, perchè comincio nuovamente a soffrire. La fronte del conte si corrugò, abbandonato, come il sembrava, ad una cupa esitazione: — Massimiliano! Massimiliano! queste idee in cui t’ingolfi sono indegne di un cristiano. — Oh! tranquillatevi, amico, disse Morrel rialzando la testa e mostrando al conte un sorriso di una ineffabile tristezza, non son più io che cercherò la morte. — Così, non più armi, non più disperazione? — No, poichè ho di meglio, per guarirmi dal mio dolore, che la canna di una pistola o la punta di un coltello. — Povero pazzo!... che avete dunque? — Ho lo stesso mio dolore che mi ucciderà. — Amico, disse Monte-Cristo con una malinconia eguale alla sua, ascoltatemi. Un giorno in un momento di disperazione, io, come te, volli uccidermi. Tuo padre un giorno egualmente disperato, ha pure voluto uccidersi. Se qualcuno avesse voluto dire a tuo padre, nel momento che dirigeva la canna della pistola verso la sua fronte; se qualcuno mi avesse voluto dire, quando rigettavo dal mio letto il pane del prigioniero che non aveva toccato da tre giorni; se qualcuno finalmente in quei supremi momenti ci avesse voluto dire: Vivete, e verrà un giorno in cui sarete felici, ed in cui benedirete la vita; da qualunque parte ci fosse venuta questa voce, noi l’avremmo accolta col sorriso del dubbio o coll’angoscia della incredulità; eppure quante volte tuo padre abbracciandoti, non ha benedetta la vita? quante volte io stesso... — Ah! gridò Morrel interrompendo il conte, voi non avevate perduta che la vostra libertà, mio padre non aveva perdute che le sue ricchezze; e io? io ho perduto Valentina. — Guardami, Morrel, disse Monte-Cristo con quella solennità che in certe occasioni lo faceva così grande e persuasivo; guardami, non ho nè lagrime sugli occhi, nè febbre nelle vene; eppure ti vedo soffrire, Massimiliano, vedo soffrir te, che amo come amerei un mio figlio. Ebbene! ciò non ti dice, Morrel, che il dolore è come la vita, e che al di là vi è sempre qualche cosa di sconosciuto? Ora se ti prego, se ti ordino di vivere, Morrel, è nella convinzione che un giorno tu mi ringrazierai di averti conservata la vita. — Mio Dio! gridò il giovine, che mi dite mai, conte, fate attenzione, forse non avete mai amato? — Fanciullo! rispose il conte. — Con amore, riprese Morrel, io m’intendo. Io sono soldato da che sono uomo, sono giunto fino ai 29 anni senza amare, perchè nessuna delle sensazioni che ho provato fin là merita di chiamarsi amore. Ebbene! a 29 anni ho veduto Valentina; dunque l’amo da quasi due anni; ho potuto leggere tutte le virtù di figlia e di donna scritte dalla mano stessa del Signore in quel cuore aperto per me come un libro. Conte, vi era per me, con Valentina, una felicità infinita, immensa, sconosciuta; una felicità troppo grande, troppo superiore a questo mondo, poichè questo mondo non me l’ha data; ciò è quanto dire che, senza Valentina, non vi è per me sulla terra che disperazione e desolazione. — Io vi dico di sperare, ripetè il conte. — State guardingo, allora, ripeterò io pure, disse Morrel, perchè voi cercate a persuadermi, e mi farete perdere la ragione; perchè mi fareste credere ch’io posso rivedere Valentina. — Il conte sorrise. — Amico mio, padre mio, gridò Morrel, esaltato, state in guardia, vi ripeterò per la terza volta, poichè l’ascendente che prendete su di me mi spaventa: state in guardia sul senso delle vostre parole, perchè ecco qua, i miei occhi si rianimano, il mio cuore si riaccende e rinasce. State in guardia, perchè mi farete credere a cose soprannaturali. Io vi obbedirei se mi comandaste di rialzare la pietra sepolcrale della figlia della vedova; camminerei sulle onde come l’apostolo, se mi faceste segno colla mano di camminare sui flutti; state in guardia perchè io obbedirei! — Spera, amico mio, ripetè il conte. — Ah! disse Morrel ricadendo da tutta l’altezza della sua esaltazione nell’abisso della sua tristezza, ah! vi prendete giuoco di me: fate come queste buone madri, o per meglio dire, come queste madri egoiste che calmano con parole melliflue i dolori del fanciullo, perchè le sue grida le stancano. No, amico mio, no, io aveva torto di dirvi di stare in guardia, no, non temete di niente, seppellirò il mio dolore con tanta cura nel più profondo del petto, lo renderò così oscuro e segreto, che non avrete neppur la pena di compiangermi. Addio, amico mio; addio! — Al contrario, disse il conte, da questo momento, Massimiliano, tu vivrai vicino a me, e con me, e non mi lascerai più, e fra otto giorni avremo lasciata dietro di noi la Francia. — E mi dite sempre di sperare? — Ti dico sempre di sperare, perchè so il mezzo di guarirti. — Conte, voi mi rattristate anche di più, se è possibile: non vedete come resultato del colpo che mi percuote se non che un dolore sciocco, e credete consolarmi con un mezzo sciocco, un viaggio. E Morrel scosse la testa con una sdegnosa incredulità. — Che vuoi che ti dica? riprese Monte-Cristo. Ho fiducia nelle mie promesse, lasciami fare l’esperienza. — Conte, voi prolungate la mia agonia, ecco tutto. — Così, disse il conte, debole cuore che sei, non hai la forza di regalare al tuo amico qualche giorno per la prova che vuol tentare! Vediamo, sai di che cosa è capace il conte di Monte-Cristo? sai che egli comanda molte potenze terrestri? sai che egli ha abbastanza fede in Dio per ottenere dei miracoli da colui che ha detto che l’uomo colla fede, può sollevare una montagna? ebbene! questo miracolo che io spero, aspettalo, oppure... — Oppure... ripetè Morrel. — Oppure guardati, Morrel, ti chiamerò ingrato. — Conte, abbiate pietà di me. — Ho talmente pietà di te, Massimiliano, ascoltami bene, ho talmente pietà di te, che se non guarisci dentro un mese, giorno per giorno, ora per ora, rammenta bene le mie parole, Morrel, io stesso ti metterò davanti alla canna di due pistole cariche, o ad una tazza del più sicuro veleno d’Italia, di un veleno più infallibile, più pronto, credimi, di quello che ha uccisa Valentina. — Me lo promettete? — Sì, perchè io pure sono un uomo, io pure ho sofferto, io pure come ti ho detto, volli morire, e spesso, anche dopo che si è allontanato da me l’infortunio, io pure ho pensato alle delizie del sonno eterno. — Voi dunque mi promettete ciò con sicurezza, conte? — Non tel prometto, ma tel giuro, disse Monte-Cristo. — Fra un mese, sul vostro onore, se non sarò consolato, mi lascerete libero della mia vita, e qualunque cosa io faccia, non mi chiamerete ingrato? — Fra un mese, in questo stesso giorno, Massimiliano, fra un mese, in questa stessa ora, la data è sacra, Massimiliano, oggi siamo al 5 di settembre; ed oggi son dieci anni che io salvai tuo padre che voleva morire. Morrel afferrò le mani del conte e le baciò; il conte lo lasciò fare, come se avesse conosciuto che questo tratto gli era dovuto. — Fra un mese, continuò Monte-Cristo, tu avrai sulla tavola, davanti alla quale saremo entrambi assisi, delle buone armi ed una morte dolce; ma in compenso mi prometti di aspettar fino a quell’ora e di vivere? — Oh! a mia volta, gridò Morrel, ve lo giuro! Monte-Cristo attirò il giovine sul suo cuore e ve lo tenne lungamente: — Ed ora, disse egli, da questo giorno tu verrai a dimorar meco; prenderai l’appartamento di Haydée, e una figlia almeno sarà sostituita da mio figlio. — Haydée! disse Morrel; e che è dunque avvenuto di lei? — Ella è partita questa notte. — Per lasciarvi? — Per aspettarmi... tienti dunque pronto a venirmi a raggiungere alla strada dei Campi-Elisi, e fammi uscire di qui senza che io sia veduto da alcuno. — Massimiliano abbassò la testa ed obbedì, come un fanciullo o come un apostolo. CV. — LA DIVISIONE. In questa casa della strada di San-Germano dei Prati, che Alberto de Morcerf aveva scelto per sua madre e per lui, il primo piano composto di un piccolo appartamento completo, era dato in fitto ad un personaggio molto misterioso. Era un uomo di cui lo stesso portinaro non aveva mai potuto vedere il viso, sia che entrasse o che uscisse; poichè l’inverno immergeva il mento in una di quelle cravatte rosse che portano i cocchieri delle buone famiglie, quando aspettano i loro padroni all’uscita del teatro, e l’estate si soffiava sempre il naso, precisamente nel momento in cui avrebbe potuto esser veduto nel passare davanti al casotto del portinaro. Bisogna dirlo, contro tutte le abitudini in uso, quest’inquilino di casa, non era stato mai spiato da alcuno, poichè correva la voce che questo incognito nascondesse un individuo di alta posizione e che aveva le _braccia lunghe_, ciò fece rispettare le sue misteriose apparizioni. Le sue visite erano ordinariamente ad epoche fisse, quantunque qualche volta fossero o anticipate o ritardate. Ma quasi sempre, inverno o estate che fosse, verso le quattro p. m. egli prendeva possesso del suo appartamento, ove non passava mai la notte. Nell’inverno una discreta serva accendeva il fuoco alle tre e mezzo, e questa aveva la sopraintendenza dell’appartamento: nell’estate la stessa serva preparava il ghiaccio alle tre e mezzo. Alle quattro come abbiam detto, entrava il misterioso personaggio. Venti minuti dopo di lui, una carrozza si fermava davanti alla casa; una donna vestita di nero o di blu scuro, ma sempre avviluppata in un gran velo, ne discendeva, passava come un’ombra davanti al posto del portinaro, saliva la scala, senza che si sentisse scrocchiare un solo scalino sotto il suo piede leggero. Non era mai accaduto che le si fosse domandato dove andava. Il suo viso, come quello dello sconosciuto, era dunque perfettamente estraneo alle due guardie della porta; questi portinari modelli erano i soli, forse, dell’immensa confraternita dei portinari della capitale, che fossero capaci di una simile discrezione. Non fa mestieri di dire ch’ella non saliva più in alto del primo piano: picchiava ad una porta in un modo particolare; la porta si apriva, poi si richiudeva ermeticamente, e tutto era fatto. Per uscire dall’appartamento, la stessa manovra che per entrarvi. La sconosciuta usciva per la prima, sempre velata, e risaliva nella sua carrozza, che alle volte partiva da una parte, alle volte da un’altra della strada; indi, venti minuti dopo, lo sconosciuto uscendo egli pure immerso nella cravatta, o nascosto nel fazzoletto spariva egli pure. La dimane del giorno in cui il conte di Monte-Cristo aveva fatta la sua visita a Danglars, giorno in cui fu data sepoltura a Valentina, l’abitante misterioso entrò verso le dieci della mattina, invece di rientrare, come il solito, verso le quattro p. m. Quasi subito dopo, e senza conservare l’ordinario intervallo, giunse una carrozza di piazza e la dama velata salì rapidamente la scala. La porta si aprì e si chiuse. Ma prima ancora che la dama fosse entrata, ella aveva esclamato: — Oh! Luciano! oh amico mio! — Di modo che il portinaro, che senza volerlo aveva intese queste esclamazioni, seppe allora per la prima volta che il suo pigionale si chiamava Luciano; ma siccome era un portinaro modello, si promise di non dirlo neppure a sua moglie: — Ebbene! che c’è, mia cara amica? — domandò quello di cui la confusione e la fretta della dama velata avevan scoperto il nome al portinaro, — parlate, dite. — Amico mio, posso contar su di voi? — Certamente, e lo sapete bene; ma che c’è? il vostro biglietto di questa mattina mi ha gettato in una terribile perplessità. Questa precipitazione, questo disordine del vostro scritto; vediamo, tranquillatevi, o spaventate me pure del tutto! — Luciano, un grande avvenimento! disse la dama fissando su Luciano uno sguardo scrutatore; il sig. Danglars è partito questa notte. — Partito il sig. Danglars! e dove è andato? — L’ignoro. — Come! lo ignorate? è dunque partito per non ritornar più? — Senza dubbio! alle dieci di sera, i suoi cavalli lo hanno condotto alla barriera Charenton, là egli ha ritrovata una berlina di posta con i cavalli già attaccati, vi è montato dentro col suo cameriere, dicendo al cocchiere che andava a Fontainebleau. — Ebbene! che dicevate dunque? — Aspettate, amico mio; mi ha lasciata una lettera! — Una lettera? — Sì, leggetela. — E la baronessa cavò dalla sua borsa una lettera dissigillata che presentò a Debray. Debray, prima di leggerla, esitò un momento, come se avesse voluto tentare di indovinare ciò ch’essa conteneva, o piuttosto come se, qualunque fosse il contenuto, avesse già presa una risoluzione. Dopo qualche secondo le sue idee erano certamente fissate, perchè lesse. Ecco che cosa conteneva questo biglietto, che aveva gettato un così gran turbamento nel cuore della sig.ª Danglars. «Signora e fedelissima sposa.» Senza pensarvi, Debray si fermò e guardò la baronessa, che arrossì fino agli occhi: — Leggete, diss’ella. Debray continuò. «Quando riceverete questa lettera, non avrete più marito! Oh! non prendete l’allarme con troppo calore; non avrete più marito come non avete più figlia: vale a dire che sarò sopra una delle 30, o 40 strade che conducono fuori della Francia. Io vi debbo delle spiegazioni, e siccome siete donna da comprenderle benissimo, ve le darò. Attenta dunque! Questa mattina mi è sopraggiunto un rimborso di cinque milioni, ed io l’ho fatto: un altro quasi della stessa somma lo ha susseguito quasi immediatamente; l’ho aggiornato a domani, ed oggi parto per evitare questo domani, che sarebbe per me troppo pernicioso ad aspettarsi; capirete benissimo, signora e preziosissima sposa? Io dico capirete, perchè voi conoscete i miei affari tanto bene quanto me, li sapete anzi meglio di me; atteso che, se si trattasse di dire dov’è passata una buona metà delle mie ricchezze, non ha guari ancora rilevanti, io ne sarei incapace, mentre voi al contrario, ne son certo, ve ne caverete perfettamente. Poichè le donne hanno degli istinti di una sicurezza infallibile; esse spiegano, con un’algebra particolare che hanno inventato, anche il maraviglioso. Io che non conosco che le mie cifre, nulla ho più saputo dal giorno in cui le mie cifre mi hanno ingannato. «Avete qualche volta ammirato la rapidità della mia caduta, signora? Siete rimasta un poco abbagliata da questa incandescente fusione delle mie verghe d’oro? ve lo confesso, non vi ho veduto che fuoco; speriamo che abbiate ritrovato un poco d’oro fra queste ceneri. Con questa consolante speranza mi allontano, signora e prudentissima sposa, senza che la mia coscienza mi rimproveri menomamente l’abbandonarvi: a voi restano degli amici, le ceneri di cui vi parlava, e, per colmo di felicità, la libertà, che mi affretto a restituirvi. Però, signora, è giunto il momento di porre in questo paragrafo una parola d’intima spiegazione. Fin che io ho sperato che voi lavoravate pel bene della nostra casa, per la fortuna di nostra figlia, ho chiusi gli occhi, ma siccome avete fatto della mia casa una vasta rovina, non voglio servire alla fondazione della fortuna degli altri: vi ho presa ricca, ma poco onorata. Perdonatemi di parlarvi con franchezza, ma siccome probabilmente non parlo che per noi due, non vedo il perchè dovrei foderare le mie parole. Ho aumentata la nostra fortuna, che per anni è andata sempre in aumento, fino al momento in cui, catastrofi sconosciute, inintelligibili anche per me, son venute a prendersela corpo a corpo, ed a rovesciarla, senza che io possa dire che vi sia stato menomamente colpa mia. «Voi, signora, avete lavorato soltanto ad accrescere la vostra, e vi siete riuscita; io ne son moralmente convinto: vi lascio dunque come vi ho presa, ricca, ma poco onorata. «Addio, io pure da questo giorno, lavorerò per conto mio. Credete a tutta la mia riconoscenza per l’esempio che mi avete dato, e che io seguirò. «Vostro affezionatissimo marito. «BARONE DANGLARS» La baronessa aveva seguito cogli occhi Debray, durante questa lunga e penosa lettura; ella aveva veduto, ad onta del suo potere ben conosciuto su di lui, il giovine cambiare una o due volte di colore. Quando ebbe finito ripigliò lentamente la lettera, e riprese la sua abitudine pensierosa: — Ebbene? domandò la sig.ª Danglars con una ansietà facile a comprendersi. — Ebbene! signora, ripetè macchinalmente Debray. — Che idea v’ispira questa lettera? — Oh! questo è ben semplicissimo, mi ispira l’idea che il sig. Danglars è partito con dei sospetti. — Senza dubbio; ma ciò è quanto avete a dirmi? — Non vi capisco, disse Debray con una freddezza di ghiaccio. — Egli è partito! partito del tutto! per non ritornar più! — Oh! fece Debray, non lo credete, baronessa. — No, ve lo dico io, non ritornerà più. Lo conosco, è un uomo inamovibile in tutte le risoluzioni che partono dal suo interesse. Se mi avesse giudicata utile a qualche cosa, mi avrebbe presa seco. Egli mi lascia a Parigi, e questo è il segno che la nostra separazione può servire ai suoi disegni; ella è dunque irrevocabile, io son libera per sempre, aggiunse la sig.ª Danglars colla stessa espressione di preghiera. Ma Debray, invece di rispondere, la lasciò in quella angosciosa interrogazione dello sguardo e del pensiero: — Oh! diss’ella finalmente, voi non mi rispondete, signore? — Non ho che una domanda a farvi, che contate di divenire? — Lo chiedeva a voi stesso, rispose la baronessa palpitando. — Ah! fece Debray, è dunque un consiglio che chiedete a me? — Sì, disse la baronessa col cuore serrato. — Allora se mi chiedete, un consiglio, vi consiglio di viaggiare. — Di viaggiare! mormorò la sig.ª Danglars. — Certamente; come ha detto Danglars, voi siete ricca, e perfettamente libera. Un’assenza da Parigi sarà necessaria assolutamente, almeno per quanto credo; dopo lo strepitoso fracasso che hanno fatto i due matrimoni andati a monte di madamigella Eugenia, e la duplice sparizione di vostra figlia e di vostro marito. È soltanto necessario che tutta la società sappia che siete povera, e vi creda abbandonata; perchè non si menerebbe buona, alla moglie del banchiere fallito, la sua ricchezza, e l’opulenza della sua casa. Per primo caso, basta che restiate a Parigi soltanto 15 giorni, raccontando specialmente a tutti che siete stata abbandonata, e raccontando ai vostri migliori amici, che andranno a ripeterlo ovunque, in che modo siete stata lasciata; indi partirete dal vostro palazzo, lasciandovi tutti i gioielli, i crediti della vostra dote, e ciascuno loderà il vostro disinteressamento. Allora vi sapranno abbandonata, e vi crederan povera; poichè io solo conosco la vostra situazione finanziaria, e son pronto a rendervi i vostri conti da socio leale. — La baronessa pallida, atterrita, aveva ascoltato questo discorso con tanto spavento e disperazione, quanta era stata la calma e l’indifferenza che vi aveva impiegata Debray nel pronunziarlo: — Abbandonata! ripetè ella, oh! da vero abbandonata... sì, avete ragione, signore, e nessuno avrà dubbi sul mio abbandono. — Queste furono le sole parole che questa donna così altera, così violenta potè rispondere a Debray. — Ma ricca, anzi ricchissima, continuò Debray cavando dal suo portafogli e stendendo sul tavolo alcune carte in esso contenute. — La sig.ª Danglars lo lasciò fare, essendo solo occupata a contenere i battiti del cuore, ed a ritenere le lagrime che sentiva spuntare all’angolo delle palpebre. Ma finalmente il sentimento della dignità la vinse nella baronessa; e se non riuscì a comprimere il cuore, ottenne almeno di non versare una lagrima. — Signora, disse Debray, son circa sei mesi che siamo in società, voi avete somministrato il capitale dei fondi in centomila fr.; nel mese d’aprile di questo anno ebbe luogo la nostra società: in maggio cominciarono le nostre operazioni. «In maggio abbiam guadagnato 450 mila fr. In giugno l’utile è montato a 900 mila fr. In luglio abbiamo fatta un’aggiunta di un milione e 700 mila fr.; lo sapete, fu sui fondi di Spagna. In agosto perdemmo, sul principio del mese, 300 mila fr. ma il 15 dello stesso mese li abbiamo riguadagnati, ed alla fine abbiamo preso la nostra rivincita, perchè i nostri conti, messi in chiaro, dal giorno della nostra associazione fino a ieri, in cui li ho chiusi, ci danno un attivo di due milioni e 400 mila fr., vale a dire un milione e 200 mila fr. per ciascuno. Ora, continuò Debray, compulsando il libro de’ conti col metodo e la tranquillità di un agente di cambio, troviamo 80 mila fr. dei frutti di questa somma rimasta fra le mie mani... — Ma, interruppe la baronessa, che son questi frutti, quando non si è mai messa questa somma a cambio? — Vi chiedo scusa, signora, disse freddamente Debray; aveva da voi l’autorizzazione di far fruttare questo danaro, e me ne son prevalso. Sono dunque altri 40 mila fr. di vostra parte sugl’interessi, più i cento mila fr. del primo capitale di fondo, vale a dire, un milione e 340 mila fr. di vostra parte. Ho avuta la cautela ieri l’altro di mobilizzare tutto il vostro danaro; non è molto tempo, come vedete, e si sarebbe detto che io dubitava di essere in breve chiamato a rendervi i conti. Il vostro danaro è là; metà in biglietti di banca, metà in _boni_ al latore: ho detto là, ed è vero, perchè, siccome non credeva la mia casa abbastanza sicura, siccome non credeva i notari abbastanza segreti, e le proprietà parlano ancora più dei notari, e siccome finalmente voi non avevate il diritto di comprare niente nè di posseder niente fuori della comunione coniugale; io ho custodita tutta questa somma, che in oggi forma il vostro stato, in una cassetta sigillata nel fondo di questo armadio, e per maggior sicurezza ho fatto da falegname io stesso. Adesso, continuò Debray, aprendo prima l’armadio, e poi la cassetta, adesso, signora, ecco qui 800 biglietti da mille fr. l’uno, che rassomigliano, come vedete, ad un grosso album rilegato in ferro; vi unisco un mazzetto di biglietti sulle rendite per 25 mila fr., indi una cambiale di 110 mila fr. che eccola qui, sul mio banchiere, a vista al latore, e siccome il mio banchiere non è il sig. Danglars, così la cambiale sarà pagata, potete star tranquilla. — La sig.ª Danglars prese macchinalmente la cambiale a vista, i boni sulle rendite, ed il pacco di biglietti di banca. Questa enorme fortuna sembrava ben poca cosa, disposta là sul tavolo. La sig.ª Danglars, con gli occhi asciutti, ma il petto gonfio di singulti, la riunì, chiuse l’astuccio d’acciaio nella borsa, mise i biglietti sulle rendite, e la cambiale a vista nel suo portafogli, ed in piedi, pallida e muta, aspettava una dolce parola che la consolasse per essere così ricca. Ma ella aspettò invano. — Ora, signora, disse Debray, voi avete una esistenza magnifica, qualche cosa che si accosta ad una rendita di 60 mila fr., il che diventa enorme per una donna che non potrà tener società almeno per un anno. Questo è un privilegio per tutte le fantasie che vi passeranno per la mente: senza calcolare, che se trovate che la vostra parte non sia sufficiente, potete venire ad attingere nella mia, signora, ed io sono disposto ad offrirvela; oh! a titolo di prestito, ben inteso, tutto ciò che possedo, vale a dire un milione e 60 mila fr. sono a vostra disposizione. — Grazie, signore, rispose la baronessa; capirete bene che mi avete rimesso molto di più di quel che bisogna ad una povera donna che non conta per molto tempo di ricomparire nella società... — Debray fu per un momento meravigliato, ma si rimise, fe’ un gesto, che si poteva spiegare per un mezzo di esprimere in una formula anche più civile questo pensiero. — Farete come più vi piacerà. — La sig.ª Danglars aveva forse fino allora sperato qualche cosa, ma quando vide il gesto di noncuranza ch’era sfuggito a Debray, e lo sguardo obliquo da cui esso era stato accompagnato, come pure la riverenza profonda, ed il significante silenzio che lo seguirono, rialzò la testa, aprì la porta, e senza furore, senza scosse, come senza esitazione, si slanciò per la scala, sdegnando per fino d’indirizzare un ultimo saluto a colui che la lasciava partire in questo modo. — Bah! disse Debray quando ella fu partita, bei disegni che son questi! ella resterà nel suo palazzo, leggerà dei romanzi e giuocherà al _Faraone_, non potendo più giuocare alla borsa. — E riprese il suo libro dei conti, tirando un rigo sulle somme che aveva pagate. — Mi resta un milione e 60 mila fr., diss’egli. Che disgrazia che madamigella di Villefort sia morta! quella giovinetta mi sarebbe convenuta sotto tutti i rapporti, ed io l’avrei sposata. — E flemmaticamente, secondo la sua abitudine, aspettò che fossero passati venti minuti dopo la partenza della sig.ª Danglars per uscir a sua volta. Durante questi venti minuti, Debray non fece che cifre tenendo sulla tavola e vicino a lui l’orologio da taschino. Quel personaggio diabolico che ogni fortunata immaginazione avrebbe potuto creare con maggiore o minore felicità, se Lesage non ne avesse presa la proprietà in un capo d’opera, Asmodeo, che toglieva i coperchi dalle case per vedervi dentro, avrebbe goduto di un singolare spettacolo se avesse tolta, al momento in cui Debray faceva le sue cifre, la crosta della piccola casa della strada San-Germano dei Prati. Al disopra di questa camera in cui Debray aveva fatta la sua divisione colla sig.ª Danglars di due milioni e mezzo, vi era un’altra camera popolata egualmente da abitanti di nostra conoscenza, che han rappresentata una parte molto importante negli avvenimenti da noi raccontati. In questa camera vi erano Mercedès ed Alberto. Mercedès aveva fatto molti cambiamenti in pochi giorni, non già che anche nei tempi della maggior ricchezza, ella fosse attaccata al fasto orgoglioso che spicca visibilmente in tutte le condizioni, e fa sì che non si riconosca più la donna tosto ch’ella vi comparisce sotto abiti più semplici; non già nemmeno ch’ella fosse caduta in quello stato di depressione in cui si cade quando si è costretti di rivestire la livrea della miseria; no, Mercedès era cambiata, perchè il suo occhio non brillava più, perchè la sua bocca non sorrideva più, perchè finalmente un perpetuo impaccio arrestava sulle sue labbra la rapida parola che altre volte lasciava sempre preparata. Non era la povertà che avviliva lo spirito di Mercedès: non la mancanza di coraggio che le rendeva pesante la sua povertà. Mercedès discesa dal centro in cui viveva, perduta nella novella sfera che si era scelta, come quelle persone che escono da una sala splendidamente illuminata per passare subitaneamente nelle tenebre, Mercedès sembrava una regina discesa dal suo palazzo in una capanna, e che, ridotta al puro necessario, non si riconosceva nè dal vasellame di argilla, ch’era obbligata di portare da sè sulla tavola, nè dalla cuccetta succeduta al suo letto. Di fatto la bella Catalana, o la nobile contessa, non aveva più nè il suo sguardo fiero, nè il suo grazioso sorriso, perchè, chiudendo gli occhi su ciò che la circondava, non vedeva che oggetti affliggenti. Era una camera parata con una di quelle carte a chiaro e scuro grigio, che i proprietari economi scelgono di preferenza come le meno facili a sporcarsi, era un pavimento senza tappeti, mobili che richiamavan l’attenzione, e costringevano la vista a fermarsi sulla povertà di un falso lusso, tutte cose finalmente che rompevano coi loro tuoni disaccordi l’armonia così necessaria ad occhi abituati ad un insieme elegante. La sig.ª de Morcerf viveva là dal momento che aveva abbandonato il suo palazzo; la testa le girava in questo eterno silenzio, come gira ad un viaggiatore che si ritrova sull’orlo di un abisso; accorgendosi che ad ogni minuto Alberto la guardava di nascosto per giudicar dello stato del cuore, ella si era obbligata ad un monotono sorriso delle labbra, che in assenza di quel fuoco così dolce del sorriso dei suoi occhi, faceva l’effetto di una semplice riverberazione di luce, vale a dire di una chiarezza senza colore. Dal canto suo, Alberto era preoccupato, impacciato, legato da un avanzo di lusso, che gl’impediva d’essere della condizione sua attuale; egli voleva uscire senza guanti, e ritrovava le mani troppo bianche; voleva correre per la città a piedi, e ritrovava gli stivali troppo ben verniciati. Però queste due creature così nobili e così intelligenti, riunite indissolubilmente dai legami dell’amor materno e filiale, erano riuscite ad intendersi senza parlar di niente e ad economizzare tutte le preparazioni che si devono fra amici, per istabilire quella verità materiale da cui dipende la vita. Alberto finalmente aveva potuto dire a sua madre senza farla impallidire: — Madre mia, non abbiam più danaro. Mercedès non aveva mai più conosciuta la vera miseria, ella stessa aveva spesso in gioventù parlato di povertà; ma non era la stessa cosa; bisogno e necessità sono due sinonimi fra i quali vi è una grandissima diversità. Ai Catalani, Mercedès aveva bisogno di mille cose, ma non mancava mai di certe altre. Fino a che le lenze erano buone si prendeva pesce, fino a che si vendeva pesce, si prendeva filo per formar delle reti. E poi isolata da amici, non avendo che un amore, il quale non entrava per nulla nelle materiali particolarità della sua situazione, si pensava a sè, ciascuno a sè, nient’altro che a sè. Mercedès, del poco che aveva, ne faceva parte tanto generosamente quant’era possibile: in oggi ella aveva da fare due parti, e con niente. L’inverno si avvicinava, Mercedès in questa camera nuda e di già fredda non aveva fuoco, ella a cui un calorifero a mille branche riscaldava poco prima tutta la casa, dalle anticamere fino al gabinetto. Ella non aveva neppure un piccolo fiore, ella, il cui appartamento si poteva dire una stufa calda, popolata di fiori a prezzo d’oro! Ma ella aveva un figlio!... L’esaltazione di un dovere forse esagerato, li aveva sostenuti fin là nelle sfere superiori. L’esaltazione è quasi un entusiasmo, e l’entusiasmo rende insensibili alle cose della terra. Ma l’entusiasmo si era sedato, ed era stato necessario di ridiscendere a poco a poco dal paese dei sogni al mondo della realtà. Bisognava finalmente parlare del positivo, dopo avere esausto l’ideale. — Madre mia, diceva Alberto nello stesso tempo che la sig.ª Danglars discendeva la scala, contiamo un poco le nostre ricchezze, se vi aggrada: ho bisogno di un totale per riscaldarmi ai miei disegni. — Totale: niente, disse Mercedès con un doloroso sorriso. — Non può essere, madre mia; totale: primieramente tre mila fr. ed ho la pretensione con tre mila fr. di preparare a noi due una adorabile esistenza. — Fanciullo, sospirò Mercedès. — Eh! mia buona madre, disse il giovine, pur troppo io vi ho speso molto danaro per conoscerne ora il prezzo! È una cosa enorme, vedete, tre mila fr., ed ho fabbricato su questa somma un avvenire miracoloso d’eterna sicurezza. — Voi parlate così, amico mio, continuò la povera madre: ma prima di tutto accetterem noi questa somma di tre mila fr.? disse Mercedès arrossendo. — Questa è cosa convenuta, mi sembra, disse Alberto con tuono fermo; l’accettiamo tanto più che non l’abbiamo, perchè essi sono, come ben sapete, sepolti nel giardino di quella piccola casa dei viali di Meillan, a Marsiglia. Con 200 fr., continuò Alberto, andremo entrambi a Marsiglia. — Con 200 fr.! lo credete voi, Alberto? — Oh! in quanto a questo ho prese le mie informazioni all’ufficio delle diligenze e dei battelli a vapore, ed i miei calcoli sono fatti. Voi fisserete il vostro posto per Châlons nel _coupé_, vedete, madre mia, che vi tratto da regina; 35 fr. — Alberto prese una penna e scrisse. _Coupè_ di qui a Châlons fr. 35 Da Châlons a Lione, col battello a vapore » 6 Da Lione ad Avignone sempre col battello a vapore » 16 Da Avignone a Marsiglia » 7 Spese di strada » 50 —————— Totale fr. 114 — Mettiamo centoventi, soggiunse Alberto sorridendo, vedete che son generoso, n’è vero, madre mia? — Ma tu, mio povero figlio? — Io? e non avete veduto che mi riserbo 80 fr.? Un giovine, madre mia, non ha bisogno di tanti comodi; so del resto che cosa è il viaggiare. — In carrozza di posta, e col tuo cameriere? — In ogni modo, madre mia... — Ebbene! sia, disse Mercedès, ma questi 200 fr.? — Questi 200 fr. eccoli, e di più, eccone ancora altri 200 fr. Sentite, ho venduto il mio orologio, cento fr., e la catena 300: come son fortunato! delle catenelle che valgono tre volte l’orologio. Sempre per la famosa istoria delle cose superflue. Eccoci dunque ricchi, poichè invece di 114 fr. che vi abbisognavano per fare il vostro viaggio, ne avete 250. — Ma dobbiamo pagare qualche cosa in questa casa? — Trenta fr., ma li pago io, sui miei 150: questa è cosa convenuta; e poichè a tutto rigore non mi abbisognano che 80 fr. per fare il mio viaggio, vedete che io nuoto nel lusso. Ma qui non è tutto: che dite di questo, madre mia? Ed Alberto cavò da un piccolo portafogli con fermaglio d’oro (unico resto della sua antica galanteria, o fors’anche qualche tenero ricordo di una di quelle donne che battevano alla piccola porta) un biglietto di mille fr. — Che cosa è questo? domandò Mercedès. — Un biglietto di mille fr., madre mia. — Ma di dove ti vengono questi mille fr.? — Ascoltate, madre mia, ma non vi commovete troppo. Ed Alberto si alzò, andò a baciare sua madre nelle guance, e si fermò a guardarla: — Voi non vi potete formare un’idea, madre mia, del come vi ritrovo bella! disse il giovine con un profondo amor filiale; siete in verità la più bella, come siete la più virtuosa delle donne che ho conosciute. — Caro figlio, disse Mercedès, sforzandosi invano di trattenere una lagrima che le spuntava dal ciglio. — In verità, non vi mancava che di divenire infelice per cambiare il mio amore in adorazione. — Non sono infelice, fin che mi resta mio figlio, disse Mercedès; non sarò infelice fin che l’avrò. — Ah! precisamente, disse Alberto; ma ecco ove comincia la prova, sapete ciò che abbiam convenuto? — Abbiam dunque convenuto qualche cosa? — Si è convenuto che voi abiterete Marsiglia, e che io partirò per l’Affrica, ove invece del nome che ho lasciato, mi farò il nome che ho assunto. — Mercedès mandò un sospiro: — Ebbene! madre mia, da ieri sono ingaggiato negli _Spahis_, aggiunse il giovine abbassando gli occhi con una certa vergogna, poichè non sapeva egli stesso quanto v’era di sublime nel suo abbassamento, o piuttosto ho creduto che il mio corpo era mio, e che poteva venderlo: mi sono venduto, come si dice, aggiunse egli tentando di sorridere, più caro di quel che non credeva di valere, vale a dire per duemila fr. — Per cui questi mille fr.?... disse fremendo Mercedès. — Son la metà della somma, madre mia, l’altra verrà fra un anno. — Mercedès alzò gli occhi al cielo con una espressione, che nessuna cosa saprebbe indicare, e le due lagrime trattenute agli angoli delle sue palpebre, sgorgarono sotto l’emozione interna, e caddero silenziosamente lungo le sue guance: — Il prezzo del sangue! mormorò ella. — Sì, se io sarò ucciso, disse ridendo Morcerf; ma ti assicuro, mia buona madre, che al contrario sono nella intenzione di difendere vigorosamente questa mia povera pelle; non mi sono mai sentito tanta buona volontà di vivere, come in questo momento. — Mio Dio! mio Dio! fece Mercedès. — Del resto, perchè dunque volete che io sia ucciso, madre mia? forse che Lamorcière, quest’altro Ney del mezzogiorno è stato ucciso? forse che Changarnier è stato ucciso? forse che Bedeau è stato ucciso? forse che Morrel, che noi conosciamo, è stato ucciso? Pensate dunque alla vostra gioia, madre mia, quando mi vedrete ritornare con un’uniforme ricamata! vi dichiaro che con quella sarò superbo, e che ho scelto questo reggimento per galanteria. Mercedès sospirò, mentre si sforzava di sorridere; ella capiva, questa santa madre, che stava male a lei il lasciar portare a suo figlio tutto il peso del sacrificio. — Ebbene dunque! riprese Alberto, capite, madre mia, ecco già più di quattromila fr. assicurati per voi; con questi vivrete due buoni anni. — Lo credi tu? disse Mercedès. — Queste parole erano sfuggite alla contessa, e con un dolore così vero, che il loro vero senso non isfuggì ad Alberto. Egli sentì restringersi il cuore, e prendendo la mano di sua madre, la stringeva teneramente fra le sue: — Sì, voi vivrete, diss’egli. — Vivrò, disse Mercedès, ma tu non partirai, n’è vero? — Madre mia, io partirò, disse Alberto, con voce placida e ferma; voi mi amate troppo per non lasciarmi ozioso ed inutile; d’altra parte io mi sono firmato. — Tu farai a seconda della tua volontà, figlio, ed io farò secondo la volontà di Dio. — Non già secondo la mia volontà, madre mia, ma secondo la ragione, secondo la necessità. Noi siamo due creature disperate, non è vero? Che cosa è più la vita per voi in oggi? niente. Che cosa è più la vita per me? Oh! ben poca cosa senza di voi, madre mia; credetelo; perchè senza di voi questa vita, avrebbe cessato dal giorno in cui concepii qualche dubbio sull’onore di mio padre, e ne rinnegai il nome! Finalmente io vivo, se voi mi promettete di sperare ancora; se mi lasciate la cura della vostra futura felicità, voi raddoppierete la mia forza. Allora andrò laggiù a ritrovare il governatore dell’Algeria; è un cuore leale e soprattutto eminentemente soldato: gli racconterò la mia lugubre istoria, lo pregherò d’andar voltando di tempo in tempo gli occhi alla parte ove io sarò, e s’egli mi mantiene la parola, s’egli mi guarda quando io combatto, prima che compian sei mesi, o sarò morto o sarò uffiziale. Se sono uffiziale la vostra sorte è assicurata, madre mia, perchè allora avrò del danaro per voi e per me, e di più un nuovo nome di cui saremo orgogliosi, poichè quello sarà il vostro vero nome. Se sono ucciso... cara madre, voi morirete se vi piace, ed allora i nostri infortunii avran termine nei loro stessi eccessi. — Sta bene, rispose Mercedès col suo nobile ed eloquente sguardo: hai ragione, figlio mio; proviamo a certe persone che ci stanno ad osservare, e che aspettano le nostre azioni per giudicarci, che noi siam per lo meno degni di essere compianti. — Ma, bando ad ogni funebre idea, cara madre! gridò il giovine: vi giuro che siamo, o almeno che potremo essere felicissimi: siete una donna piena ad un tempo di spirito e di rassegnazione; io sono divenuto semplice nei miei gusti, e senza passioni, almeno spero. Una volta al servizio, eccomi ricco. Una volta che sarete in casa del sig. Dantès, eccovi tranquilla. Proviamo! ve ne prego, madre mia. — Sì, proviamo, figlio mio, perchè tu devi vivere, perchè tu devi esser felice, rispose Mercedès. — Per cui, madre mia, ecco fatta la nostra divisione, aggiunse il giovine affettando uno sguardo di comodità; possiam partire oggi stesso. Andiamo, come vi ho detto, ho fermato il vostro posto. — Ma il tuo, figlio mio? — Debbo ancora restar qui altri due o tre giorni, madre mia; questo sarà un principio di separazione, ed abbiamo bisogno di abituarci; mi necessitano alcune raccomandazioni, alcune informazioni sull’Algeria; vi raggiungerò a Marsiglia. — Ebbene! sia così, partiamo! disse Mercedès avviluppandosi nel solo scialle che aveva portato seco, e che per caso si trovava di essere nero e di gran valore; partiamo! Alberto raccolse in fretta le sue carte, suonò per pagare i trenta fr. che doveva al padron di casa, ed offrendo il braccio a sua madre, discese la scala. Qualcuno discendeva davanti a loro; e sentendo di seta sugli scalini, si rivoltò. — Debray! mormorò Alberto. — Voi, Morcerf! — rispose il segretario intimo del ministro, fermandosi sullo scalino su cui si ritrovava. La curiosità la vinse in Debray sul desiderio di conservare l’incognito. Sembravagli infatto curioso di ritrovare in questa casa remota quel giovine, la cui disgraziata avventura aveva fatta tanto chiasso in Parigi. — Morcerf! — ripetè Debray. Indi scorgendo nella mezza oscurità le forme ancor giovani di una donna velata: — Oh! perdono! soggiunse con un mezzo sorriso, vi lascio, Alberto. — Questi capì il pensiero di Debray. — Madre mia, diss’egli voltandosi verso Mercedès, è il sig. Debray, segretario intimo del ministro dell’Interno, un mio antico amico. — Come! antico! balbettò Debray; che volete dire? — Dico questo, sig. Debray, perchè in oggi non ho e non devo più avere amici: vi ringrazio anzi moltissimo di avermi voluto riconoscere, signore. — Debray risalì due scalini, e venne a dare una energica stretta di mano al suo interlocutore: — Credete, Alberto, diss’egli con tutta l’emozione che si può avere, che io ho preso una parte profonda alla disgrazia che vi colpisce, e che mi metto a vostra disposizione in tutto per tutto. — Grazie, signore, disse sorridendo Alberto; ma in mezzo a questa disgrazia noi siam rimasti abbastanza ricchi per non aver bisogno di ricorrere a nessuno: lasciamo Parigi, e, pagato il nostro viaggio, ci rimangono ancora cinque mila fr. Il rossore salì alla fronte di Debray, che portava un milione nel suo portafogli; e per quanto fosse poco poetico questo spirito esatto, non potè a meno di riflettere che la stessa casa aveva contenuto poco prima, due donne delle quali una, giustamente disonorata, se ne andava con un milione e 500mila fr. sotto le pieghe del suo scialle, e l’altra ingiustamente colpita, ma sublime nella sua infelicità, si riteneva ricca per pochi denari. Questo parallelo sviò le sue combinazioni di gentilezza; la filosofia dell’esempio lo oppresse; balbettò qualche parola di generica civiltà, e discese rapidamente. Ma la sera stessa egli era già compratore di una bella casa scelta sul baluardo della Maddalena, che dava una rendita di cinque mila lire. La dimane nell’ora in cui Debray firmava il contratto, cioè verso le 5 p. m., la sig.ª de Morcerf, dopo aver teneramente abbracciato suo figlio, e dopo essere stata teneramente abbracciata da lui, salì nel _coupé_ della diligenza, che si rinchiuse sur essa. Un uomo era nascosto nel cortile dell’amministrazione Laffitte, dietro una di quelle finestre centinate del piano terreno che sormontano tutti gli ufficii: vide partire la diligenza, vide Alberto allontanarsi. Allora ei si passò la mano sulla fronte carica di dubbii, dicendo: — Ahimè! con qual mezzo restituirò a questi due innocenti la felicità che loro ho tolta?... Dio mi aiuterà! CVI. — LA FOSSA DEI LEONI. Uno dei quartieri della _Force_, quello che racchiude i detenuti più arrischiosi e più pericolosi, si chiama il cortile di S. Bernardo. I prigionieri, nel loro gergo energico, l’hanno soprannominata la _fossa dei leoni_, probabilmente perchè i detenuti che ivi sono racchiusi spesso mordono le inferriate, e non di rado i carcerieri. Questa è una prigione nella prigione; le mura hanno una grossezza il doppio delle altre. Ogni giorno un carceriere esplora con somma cura le inferriate massicce; e si riconosce dalla persona erculea, dagli sguardi freddi ed incisivi dei guardiani, che sono stati scelti per regnare col terrore sul loro popolo, e con l’attività della intelligenza. Il prato di questo quartiere è circondato da mura enormi, sulle quali penetra obliquamente il sole, quando si risolve a penetrare in questo golfo di laidume fisico e morale. È là, su questo prato che fin dalla mattina vanno errando pensierosi, feroci, impalliditi, come ombre, gli uomini che la giustizia tiene incurvati sotto la mannaia che sta aguzzando. Si vedono addossarsi, raggrupparsi contro il muro, che assorbe e ritiene la maggior parte del loro calore; essi rimangono là, parlando a due a due, il più spesso isolati coll’occhio rivolto incessantemente verso la porta, che si apre per chiamare qualcuno degli abitanti di questo lugubre soggiorno, o per vomitare nel golfo una nuova feccia tolta dal crogiuolo della società. Il cortile di S. Bernardo ha il suo parlatorio particolare, è un quadrato oblungo, diviso in due parti da due inferriate, piantate parallelamente a tre piedi di distanza l’uno dall’altra, di modo che il visitatore non possa stringere la mano del prigioniero, o passargli qualche oggetto. Questo parlatorio è oscuro, umido, ed orribile in tutti i punti, particolarmente quando si pensa alle orribili confidenze che sono passate per quelle inferriate, che hanno arrugginito il ferro delle sbarre. Però, questo luogo, per quanto sia spaventoso, è un eliso ove vengono a temperarsi, in una società sperata, gustata, questi uomini ai quali son contati i giorni; tanto è raro che qualcuno esca dalla fossa dei Leoni, per andare in tutt’altro luogo che non sia la barriera San Giacomo, o la galera, o il carcere cellulare! In questo cortile che abbiam descritto, e che trasuda una fetida umidità, passeggiava, colle mani nelle saccocce del suo abito, un giovine osservato con molta curiosità dagli abitanti della fossa. Sarebbe passato per un giovine elegante pel taglio dei suoi abiti, se questi non fossero stati in lembi; però essi non erano usati, il panno era fino e lucido, e nei punti in cui era intatto, riprendeva facilmente il suo lustro sotto la mano accarezzante del prigioniero, che cercava di farne un abito nuovo. Applicava eziandio la stessa cura a chiudere una camicia di battista considerevolmente cambiata di colore dalla sua entrata in prigione; su i suoi stivali verniciati passava e ripassava un angolo di un fazzoletto con le iniziali ricamate e sormontate da una corona araldica. Alcuni pensionarii della fossa dei Leoni consideravano con manifesta premura la ricercata toletta del prigioniere: — Osserva, ecco là il principe che si fa bello, disse uno dei ladri. — Egli è bellissimo naturalmente, disse un altro, e solo che avesse un pettine ed un poco di pomata, eclisserebbe tutti i signori dei guanti bianchi. — Il suo abito doveva essere ben nuovo, e gli stivali molto bene risplendere. È lusinghiero per noi l’avere di confratelli come si deve; e quei briganti di gendarmi son ben vili. Invidiosi! avere stracciata una toletta come quella! — Sembra che debba essere un soggetto famoso, disse un altro, egli ha fatto di tutto... e nel genere grande... viene di laggiù, così giovine! Ah! è una cosa superba!... — E l’obbietto di questa schifosa ammirazione sembrava gustare gli elogi, o il vapore degli elogi, perchè non sentiva le parole. Terminata la sua toletta, si avvicinò alla porta della cantina alla quale stava appoggiato il carceriere di guardia. — Vediamo, signore, diss’egli, prestatemi venti fr., li riavrete ben presto; con me non si corre alcun rischio. Pensate che ho dei parenti che hanno più milioni di quel che voi avete danari... Vediamo, venti fr. ve ne prego, affinchè possa comprare un paio di pianelle ed una veste da camera. Io soffro orribilmente a stare sempre in abito e cogli stivali... che abito! signore, per un principe Cavalcanti. Il guardiano gli voltò il dorso, e si strinse nelle spalle; egli non rise neppur di queste parole che avrebbero fatto ilare ogni altra fronte; perchè quest’uomo ne aveva intesi molti altri, o piuttosto aveva sempre udita la stessa cosa. — Andate, signore, siete un uomo senza visceri, ed io vi farò perdere il vostro impiego. — Questa parola fece rivolgere il guardiano, che questa volta si lasciò sfuggire un gran scoppio di risa. Allora i prigionieri si avvicinarono tutti, e fecero cerchio: — io vi dico, continuò Andrea, che con questa miserabile somma posso procacciarmi un abito ed una camera, affine di poter ricevere in un modo decente la visita illustre che aspetto da un momento all’altro. — Egli ha ragione! ha ragione! dissero i prigionieri... Perdinci! si vede ben ch’è un uomo come si deve! — Ebbene! prestategli voi altri venti fr.! disse il guardiano appoggiandosi sull’altra sua spalla colossale, forse che non dovete ciò ad un camerata? — Non sono il camerata di costoro, disse orgogliosamente il giovine, non m’insultate, non avete questo diritto! — Lo sentite? disse il guardiano con un sinistro sorriso, egli vi accomoda molto bene! prestategli dunque venti fr.! I ladri si guardarono con un sordo mormorio, e una tempesta, provocata più dalle parole del guardiano che da quelle di Andrea, cominciò a rumoreggiare intorno al prigioniero aristocratico. Il guardiano, sicuro di poter padroneggiare il susurro, quando il tumulto si facesse troppo forte, li lasciava poco a poco alterarsi per fare un brutto giuoco all’importuno sollecitatore, e procurarsi così una ricreazione durante la lunga guardia della sua giornata. Di già i ladri si avvicinavano ad Andrea, parte dicendo: — La ciabatta! la ciabatta! — Crudele operazione, che consisteva a torturare con colpi non già di ciabatta, ma di scarpa ferrata, un confratello caduto in disgrazia di questi signori. Gli altri proponevano l’anguilla; altro genere di ricreazione che consisteva nel riempire di sabbia, di sassolini, e di grossi soldi, quando ne avevano, un fazzoletto attorcigliato, che i carnefici scaricano come un flagello sulle spalle e la testa del paziente. — Frustiamo il bel signore, dissero alcuni altri, il sig. uomo onesto! — Ma Andrea, volgendosi verso di loro, fece d’occhietto, gonfiò colla lingua la sua guancia, e fe sentire un scoppietto con la lingua, che equivaleva a mille segni di convenzione, fra banditi, costretti a tacersi. Questo era un segno massonico che gli era stato insegnato da Caderousse. Essi lo riconobbero per uno dei loro. Tosto i fazzoletti ricaddero, la ciabatta ferrata rientrò nel piede del principale aguzzino. S’intese qualche voce proclamare che il signore aveva ragione, che il signore poteva a modo suo essere un uomo onesto, e che i prigionieri volevano dare l’esempio di libertà di coscienza. L’ammutinamento addietrò. Il guardiano ne fu talmente stupefatto che prese tosto Andrea per le mani e si mise a frugarlo, attribuendo a qualche manifestazione più significante, di quel che all’affascinazione, questo cambiamento subitaneo degli abitanti della fossa dei Leoni. Andrea si lasciò frugare non senza fare forti proteste. D’improvviso una voce si fe’ subito sentire dalla porta: — Benedetto! gridò un ispettore. — Il guardiano lasciò la sua preda. — Mi chiamano! disse Andrea. — Al parlatorio! disse la voce. — Vedete se vengo visitato?.. Oh! mio signore, starete a vedere se si può impunemente trattare un Cavalcanti come un uomo ordinario! — Ed Andrea, traversando il cortile come un’ombra, si precipitò alla porta, lasciando nella ammirazione i suoi confratelli ed il guardiano. Era di fatto chiamato al parlatorio, ed era cosa da meravigliarsene anche dallo stesso Andrea; poichè l’astuto giovinetto, nel suo entrare alla _Force_, invece di usare, come le genti comuni, del benefizio di poter scrivere per farsi reclamare, aveva osservato il più stoico silenzio. — Io sono, diceva egli, evidentemente protetto da qualche potente; tutto me lo prova: questa fortuna improvvisa, la facilità con cui ho appianato tutti gli ostacoli, una famiglia improvvisata, un nome illustre divenuto mia proprietà, l’oro che pioveva a me dintorno, le alleanze più magnifiche promesse alla mia ambizione. Un momentaneo obblìo della mia fortuna, l’assenza del mio protettore mi han perduto, ma non del tutto, non per sempre! La mano si è ritirata per un momento, essa deve ritornare su di me, o riafferrarmi di nuovo al momento in cui mi credeva vicino a piombare nel precipizio. Perchè arrischierò un’ultima imprudenza nello scrivere? forse mi alienerei il mio protettore! Egli possiede due mezzi per togliermi d’impaccio; l’evasione misteriosa comprata a prezzo d’oro, o sforzare la mano ai giudici per ottener la mia assoluzione. Aspettiamo a parlare ed operare che mi sia provato che sono stato abbandonato, e allora... Andrea aveva fabbricato il suo disegno, che ben si può credere abile; il disgraziato era intrepido all’attacco, ed astuto nella difesa. La miseria della prigione in comune, le privazioni di ogni genere, egli le aveva sopportate; però poco a poco il suo naturale, o piuttosto l’abitudine aveva preso il sopravvento. Andrea soffriva per ritrovarsi nudo, sporco, affamato, il tempo per lui era lungo. Fu in questo momento di noia che l’ispettore lo chiamò al parlatorio. Andrea sentì il suo cuore balzare di gioia. Era troppo presto perchè quella fosse una chiamata del suo giudice istruttore, e troppo tardi perchè fosse una chiamata del direttore delle prigioni o del medico. Dietro l’inferriata del parlatorio, ove Andrea fu introdotto, egli scoperse, coi suoi grand’occhi, dilatati ancor più da un’avida curiosità, la figura cupa ed intelligente di Bertuccio, che guardava con una dolorosa meraviglia le inferriate, le porte sprangate, e l’ombra che si agitava dietro le sbarre incrociate. — Ah! fece Andrea toccato nel cuore. — Buon giorno, Benedetto, disse Bertuccio colla sua voce chiara e sonora. — Voi! voi! disse il giovine guardando con ispavento intorno a sè. — Tu non mi conosci più? disse Bertuccio, disgraziato! — Silenzio! ma silenzio dunque! fece Andrea che conosceva la finezza dell’udito di quelle muraglie. Mio Dio, non parlate così ad alta voce! — Tu vorresti parlar meco, disse Bertuccio, da solo a solo, non è vero? — Sì, sì! disse Andrea. — Sta bene. E Bertuccio frugando nella saccoccia, fece un segno ad un guardiano che si vedeva dietro la invetriata di un finestrello: — Leggete! diss’egli. — Che cosa è quello? disse Andrea. — L’ordine di condurti in una camera e di installarviti, e di lasciarmi comunicare liberamente teco. — Oh! fece Andrea, balzando di gioia. — E subito dopo, ripiegandosi su sè stesso, diceva: — Ancora il protettore sconosciuto! io non son dimenticato! si cerca il segreto, da poichè mi si vuol parlare in una camera isolata. Essi sono in mio potere... Bertuccio è stato inviato dal protettore! Il guardiano conferì un momento con un superiore, indi aprì le due porte sprangate, e li condusse in una camera del primo piano che guardava nel cortile; Andrea non stava più in sè dalla gioia. La camera era imbiancata a calce, come è l’uso delle prigioni; aveva un aspetto di allegria che sembrava raggiante al prigioniere. Un braciere, un letto, una cassa, una tavola, ne formavano il sontuoso mobilio. Bertuccio si assise sulla cassa, Andrea si gettò sul letto; il guardiano si ritirò. — Sentiamo, disse l’intendente, che cosa hai da dirmi? — E voi? disse Andrea. — Ma parla prima... — Oh! no; siete voi che avete molte cose da dirmi; poichè siete venuto a trovarmi. — Ebbene! sia. Tu hai continuato il corso delle tue scelleratezze; hai rubato, hai assassinato... — Buono! Se è per dirmi tali cose che mi avete fatto condurre in una camera appartata, tanto valeva che non v’incomodaste; so tutte queste cose. Ve ne sono altre invece che non so. Parliamo di quelle, se vi aggrada. Chi vi ha mandato? — Oh! oh! voi andate per le corte, sig. Benedetto. — Non è vero? e alla meta. Soprattutto risparmiamo le inutili parole. Chi vi manda? — Nessuno. — E come sapeste che io era in prigione? — È molto tempo che ti aveva riconosciuto per quell’insolente zerbinotto che guidava tanto leggiadramente un cavallo ai Campi-Elisi. — I Campi-Elisi... Ah! ah! noi bruciamo, come si dice al giuoco della pinzetta... I Campi-Elisi!... A noi, parliamo un poco di mio padre, lo volete? — Chi sono io, dunque? — Voi, mio bravo signore, siete mio padre adottivo... Ma non siete voi, m’immagino, che avete disposto in mio favore di un centinaio di mille fr. che ho divorati in pochi mesi; non siete voi che mi avete provveduto di un padre italiano e gentiluomo; non siete stato voi che mi avete fatto entrare nella società, e invitato ad un certo pranzo, che parmi ancora di mangiare, ad Auteuil, colla miglior compagnia di Parigi, con un certo procuratore del re, di cui ho avuto grandissimo torto a non coltivar la conoscenza, che in questo momento mi sarebbe stata utile; non siete stato voi finalmente che mi avete fatto garanzia per uno o due milioni, quando mi è accaduto l’accidente fatale della scoperta del vaso delle rose... Sentiamo, parlate, stimabile Corso, parlate... — Che vuoi tu ch’io ti dica? — Io ti aiuterò. Parlavi dei Campi-Elisi poco fa, mio degno padre putativo. — Ebbene? — Ebbene! ai Campi-Elisi vi abita un signore molto ricco. — In casa del quale tu hai rubato ed assassinato, n’è vero? — Io credo di sì. — Il sig. conte di Monte-Cristo. — Siete voi che lo avete nominato, come dice Racine... Ebbene! debbo gettarmi fra le sue braccia, soffocarlo contro il petto gridando: «Padre mio! padre mio!» come dice Pixérécourt? — Non scherziamo, rispose gravemente Bertuccio, e che un tal nome non sia qui in tal modo pronunziato. — Bah! fece Andrea un poco stordito dal sussiego e dall’attitudine del sig. Bertuccio, e perchè no? — Perchè colui, che porta questo nome, è troppo favorito dal cielo per essere il padre di un miserabile qual siete. — Oh! oh! gran paroloni!... — E grandi effetti se non avrete riguardi. — Minacce!... non temo niente... io dirò... — Credete voi di avere a che fare con dei pigmei della vostra specie? disse Bertuccio con un tuono così tranquillo, ed uno sguardo così sicuro, che Andrea ne fu commosso fino al profondo delle viscere. Credete di aver che fare coi vostri scellerati compagni di galera, o coi vostri ingenui ingannati della società?... Benedetto, siete in mani terribili; esse vogliono bensì aprirsi per soccorrervi, profittatene. Non scherzate però col fulmine che per un momento depongono ma che possono riprendere, se tentate di incomodarle nel libero loro movimento. — Padre mio... voglio sapere chi è mio padre... disse l’ostinato; vi morirò, se abbisogna, ma lo saprò. Che può fare a me lo scandalo? del bene... del credito... _dei reclami_... come dice Beauchamp il giornalista. Ma voi altri, persone dell’alta società, avete sempre qualche cosa da perdere nello scandalo, ad onta dei vostri milioni, e dei vostri stemmi gentilizi... A noi, chi è mio padre? — Son venuto per dirtelo. — Ah! gridò Benedetto con gli occhi scintillanti di gioia. In questo momento si aprì la porta, ed il carceriere indirizzandosi a Bertuccio. — Perdono, signore, diss’egli, ma il giudice d’istruzione aspetta il prigioniere. — È la chiusura del mio interrogatorio, disse Andrea al degno intendente, al diavolo l’importuno! — Io ritornerò domani, disse Bertuccio. — Andrea gli stese la mano, Bertuccio conservò la sua in saccoccia, solo vi fece risuonare alcune monete. — Era quel che voleva dirvi, fe’ Andrea con un sorriso scomposto, ma soggiogato dalla strana tranquillità di Bertuccio. — Mi sarei sbagliato? — disse a sè stesso nel montare in carrozza oblunga colle persiane di ferro, che viene volgarmente chiamata il paniere dell’insalata: — vedremo! così a domani, aggiunse egli voltandosi verso Bertuccio. — A domani, rispose l’intendente. CVII. — IL GIUDICE. Si ricorderà il lettore che l’abate Busoni era rimasto solo con Noirtier nella camera mortuaria, e che il nonno ed il prete si eran costituiti i guardiani del corpo della giovinetta. Forse le esortazioni dell’abate, la sua dolce carità, la sua parola persuasiva avevan reso il coraggio al vecchio; poichè dal momento ch’egli aveva potuto conferire col prete, invece della disperazione che sulle prime si era impadronita di lui, tutto annunziava in Noirtier una grande rassegnazione, una calma grandemente sorprendente per tutti quelli che si ricordavano l’affezione profonda portata da lui a Valentina. Il sig. de Villefort non aveva più veduto il vecchio dalla mattina di questa morte. Tutte le persone di servizio erano state rinnovate, un altro cameriere era stato impegnato per lui, un altro servitore per Noirtier; due donne erano entrate al servizio della sig.ª de Villefort; tutti, perfino il portinaro ed il cocchiere offrivano visi nuovi che si erano eretti, per così dire, fra i diversi padroni di questa casa maledetta, ed avevano intercettate le relazioni di già molto fredde che v’erano fra di loro. D’altra parte le sedute si aprivano fra due o tre giorni, e Villefort, chiuso nel suo gabinetto, proseguiva con una febbrile attività la procedura ordita contro l’assassino di Caderousse. Quest’affare, come tutti quelli in cui Monte-Cristo si ritrovava immischiato, aveva fatto gran rumore nella società parigina. Le prove non erano convincenti, poichè si fondavano sopra alcune parole scritte da un forzato moribondo, antico compagno di galera di quello che veniva accusato, e che poteva accusare il suo compagno o per odio o per vendetta: si era formata la sola coscienza del magistrato; il procurator del Re aveva finito col dare a sè stesso la terribile convinzione, che Benedetto era colpevole, e ch’egli doveva cavare da questa difficile vittoria uno di quei godimenti di amor proprio, che sol potevano risvegliare un poco le fibre del suo cuore agghiacciato. Il processo adunque s’istruiva, mercè il lavoro incessante di Villefort, che voleva con questo fare l’apertura delle vicine sedute. Per cui era stato obbligato di star ritirato più che mai, affin di evitare di rispondere alla prodigiosa quantità di domande che gli venivano indirizzate per ottenere dei biglietti d’udienza. E poi era scorso tanto poco tempo, da che la povera Valentina era stata trasportata nella tomba; il dolore della famiglia era ancora sì recente, che nessuno si maravigliava di vedere il padre così rigorosamente assorto nel suo dovere, cioè nell’unica distrazione ch’egli poteva provare nel dolore. Una sola volta, ed era la dimane del giorno in cui Benedetto aveva ricevuto una seconda visita da Bertuccio, nella quale questi aveva dovuto nominargli suo padre; la dimane di questo giorno, (domenica) una sola volta, dicevamo, Villefort aveva veduto suo padre: fu nel momento in cui il magistrato, infuocato dalla fatica, era disceso nel giardino del suo palazzo; e cupo, curvo sotto un implacabile pensiero, simile a Tarquinio quando faceva saltare in aria colla sua bacchettina le teste dei papaveri più elevati, il sig. de Villefort col suo bastone abbatteva i lunghi ed inariditi steli delle rose d’ogni mese che ergevansi lungo i viali, come spettri di quei fiori così brillanti nella stagione che era scorsa. Già più d’una volta aveva percorso in lungo tutto il giardino, ed era giunto a quel famoso cancello che metteva sul recinto abbandonato, ritornando sempre per lo stesso viale, riprendendo sempre la sua passeggiata col medesimo passo e con lo stesso gesto, quando i suoi occhi si portarono macchinalmente verso la casa, nella quale sentiva scherzare rumorosamente suo figlio, ritornato dal collegio per passare la domenica ed il lunedì presso sua madre. In questo movimento vide ad una delle finestre aperte, il sig. Noirtier, che si era fatto trascinare nel suo seggiolone fin contro questa finestra per goder degli ultimi raggi di un sole ancor caldo che salutava i fiori morenti dei volubili, e le foglie arrossite delle vergini viti che tappezzavano il muro ed oltrepassavano la finestra. L’occhio del vecchio era fisso sur un punto solo che Villefort non iscopriva che imperfettamente. Questo sguardo di Noirtier era così pieno di odio, così selvaggio, così ardente di impazienza, che il procuratore del Re, abile ad afferrare tutte le impressioni di questo viso che tanto ben conosceva, si allontanò dalla linea che percorreva, per vedere su qual cosa o su qual persona cadeva questo significativo sguardo. Allora vide, sotto un gruppo di tigli coi rami già quasi sguarniti, la sig.ª de Villefort che, assisa con un libro in mano, interrompeva di tempo in tempo la sua lettura per sorridere a suo figlio, o per ribalzargli la palla elastica, che ostinatamente lanciava dalla sala nel giardino. Villefort impallidì, poichè capì che cosa voleva dire il vecchio. Noirtier guardava sempre lo stesso soggetto; ma all’improvviso il suo sguardo si portò dalla moglie al marito, e Villefort stesso dovette allora soffrire l’attacco di quegli occhi fulminanti, che nel cangiare di oggetto, avean pure cambiato il linguaggio, senza tuttavolta perder niente della loro espressione minacciosa. La sig.ª de Villefort, estranea a tutte queste passioni i cui fuochi incrociati passavano al di sopra della sua testa, riteneva in quel momento la palla a suo figlio, facendogli cenno di venirla a prendere con un bacio; ma Edoardo si fece pregare lungamente, la carezza materna non gli sembrava probabilmente una ricompensa sufficiente per l’incomodo che doveva prendersi; finalmente si risolvè, saltò dalla finestra nel mezzo di un cespuglio di vainiglie e di margherite regine, e corse alla sig.ª de Villefort colla fronte coperta di sudore: ella gli asciugò la fronte, posò le sue labbra su questo quasi avorio, e rimandò il fanciullo colla palla in una mano, e con un pugno di confetti nell’altra. Villefort attirato da una invincibile attrazione, come l’uccello è attirato dal serpente, si avvicinò alla casa; e secondo che si avvicinava, lo sguardo di Noirtier si abbassava seguendolo, ed il fuoco delle sue pupille sembrava prendere un tal grado di incandescenza, che Villefort si sentiva divorato da lui fino al fondo del cuore. Infatto si leggeva in questo sguardo un sanguinoso rimprovero, e nello stesso tempo una terribile minaccia. Allora le pupille e gli occhi di Noirtier si alzarono al cielo come se ricordasse a suo figlio un giuramento dimenticato. — Sta bene! signore, replicò Villefort dal fondo del cortile, sta bene! abbiate pazienza anche per un giorno; ciò che ho detto è detto. Noirtier parve sedato da queste parole, e i suoi occhi si voltarono con indifferenza da un’altra parte. Villefort si sbottonò violentemente l’abito che lo soffocava, si passò una mano livida sulla fronte e rientrò nel suo gabinetto. La notte scorse fredda e tranquilla; tutti andarono a letto e dormirono come d’ordinario in questa casa. Solo, come egualmente d’ordinario, Villefort non andò in letto quando vi andarono gli altri, e lavorò fino alle cinque del mattino, per riveder gli ultimi interrogatorii fatti il giorno innanzi dai magistrati istruttori, e confrontare le deposizioni dei testimonii, ed a spargere la chiarezza in tutto il suo atto d’accusa, uno dei più energici, e dei più abilmente concepiti che avesse mai esteso. Era la dimane il lunedì in cui doveva aver luogo la prima seduta della Corte delle _Assise_. Quel giorno, Villefort lo vide spuntare tetro e sinistro, e la sua luce bluastra venne a far rilucere sulla carta le linee tracciate con l’inchiostro rosso. Il magistrato che si era per un momento addormito, mentre la sua lucerna mandava gli ultimi sospiri, si risvegliò al crepitio del lucignolo che stava per ispegnersi, colle dita umide ed imporporate come se le avesse intinte nel sangue: aprì la finestra, una gran striscia color d’arancio traversava in lontano il cielo e troncava in due l’ombra dei sottili pioppi che si disegnavano sull’orizzonte. Nel campo del trifoglio, al di là del cancello dei marroni, un’allodola saliva verso il cielo, facendo sentire il suo canto chiaro e mattutino. L’aria umida dell’alba inondò la testa di Villefort, e gli rinfrescò la memoria: — Sarà per oggi, diss’egli con uno sforzo; oggi l’uomo che terrà la spada della giustizia nella sua mano, deve colpire ovunque si ritrovano dei colpevoli. I suoi sguardi si portarono suo malgrado in traccia della finestra di Noirtier, la finestra in cui il giorno innanzi aveva veduto il vecchio. La tenda era tirata. Eppure l’immagine di suo padre gli era talmente presente, che si voltò a questa finestra chiusa come se fosse stata aperta, e tuttor vedesse il vecchio in atto di minacciare. — Sì, mormorò egli, sì, sii tranquillo. La testa gli cadde sul petto, e colla testa così inchinata, fe’ il giro del gabinetto, indi finalmente si gettò vestito sur un sofà, meno per dormire che per ammorbidire le sue membra intirizzite dalla fatica, e dal freddo del lavoro che penetra fin dentro la midolla delle ossa. Un poco per volta tutti gl’individui della famiglia si risvegliarono: Villefort, dal suo gabinetto, intese i successivi rumori che costituiscono, per così dire, la vita della casa, le porte messe in movimento, il tintinnio del campanello della sig.ª de Villefort che chiamava la cameriera, i primi gridi del fanciullo che si alzava allegro e contento, come sogliono fare tutti i fanciulli della sua età. Villefort suonò egli pure. Il nuovo cameriere entrò da lui portandogli i giornali ed una tazza di cioccolata. — Che cosa mi portate? domandò Villefort. — Una tazza di cioccolata. — Non l’ho domandata, chi si prende dunque questa cura di me? — La signora; ella ha detto che il signore oggi parlerà molto senza dubbio nella causa dell’assassinio, e che avrà bisogno di rinforzarsi. Ed il cameriere depose sulla tavola vicina al sofà, tavola come tutte le altre sopraccaricata di carte, la tazza d’argento dorata. Il cameriere uscì. Villefort guardò un momento la tazza con sembiante cupo, indi d’un subito la prese con un movimento convulsivo, e ne bevve d’un solo fiato il contenuto. Si sarebbe detto che egli sperava che questa bevanda fosse stata mortale, e che chiamava la morte per liberarlo da un dovere che gli comandava una cosa più difficile del morire: indi si alzò e passeggiò pel suo gabinetto con una specie di sorriso, terribile a vedersi. Il cioccolato era inoffensivo, ed il sig. de Villefort non ne provò alcun danno. L’ora della colazione giunse, ed il sig. de Villefort non comparve a tavola. Il cameriere rientrò nel gabinetto. — La sig.ª fa avvisato il signore, disse egli, che sono suonate le undici, e che l’udienza è per mezzogiorno. — Ebbene! fece Villefort, avanti? — La signora ha fatta la sua toletta: ella è pronta, e chiede se andrà in compagnia del signore? — E dove? — Al palazzo. — Per far che? — La sig.ª dice che desidera assistere a questa seduta. — Ah! fece Villefort con un accento quasi spaventoso, il desidera! — Il domestico rinculò di un passo: — Se il signore desidera uscire solo, andrò a dirlo alla signora. Villefort restò un momento muto, egli si raschiava colle unghie la pallida guancia circondata da una barba nera ebano. — Dite alla signora, rispose egli finalmente, che io desidero di parlarle, e che la prego di aspettarmi nelle sue camere. — Sì, signore. — Poi ritornate per farmi la barba e per vestirmi. — Sul momento. — Il cameriere disparve di fatto per ricomparire, fece la barba a Villefort, e lo aiutò a vestirsi solennemente di nero. Indi quando ciò fu finito: — La signora ha detto che ella aspettava il signore tosto che avesse finito di vestirsi. — Vi vado. — E Villefort, colle filze di carte sotto il braccio, col cappello in mano, si diresse verso l’appartamento di sua moglie. Alla porta egli si fermò, si asciugò col fazzoletto il sudore che gli colava sulla livida fronte. Indi spinse la porta. La sig.ª de Villefort era assisa sur un divano, sfogliando con impazienza dei giornali e degli opuscoli che il giovine Edoardo si divertiva a mettere in pezzi, prima ancora che sua madre avesse avuto il tempo di terminarne la lettura. Ella era completamente vestita per uscire; il cappello l’aspettava posto sopra una sedia, ella aveva messo i guanti. — Ah! eccovi finalmente, disse colla sua voce naturale e tranquilla; mio Dio! quanto siete pallido, signore! dunque lavorate tutta la notte? perchè non siete venuto a far colazione con noi? Ebbene! mi condurrete voi, o andrò sola con Edoardo? — La sig.ª de Villefort, come si vede, aveva moltiplicate le domande per ottenere una risposta; ma il sig. de Villefort era rimasto freddo e muto come una statua. — Edoardo, disse Villefort fissando sul fanciullo uno sguardo imperativo, andate a scherzare nella sala, bisogna che io parli a vostra madre. — La sig.ª de Villefort vedendo questo freddo portamento, questo tuono risoluto, questi preparativi preliminari assai strani, fremette. Edoardo aveva alzata la testa, aveva guardato sua madre, vedendo che ella non confermava l’ordine del sig. de Villefort, si era rimesso a tagliar la testa ai suoi soldati di piombo. — Edoardo! gridò il sig. de Villefort così rozzamente che il fanciullo balzò sul tappeto, mi capite? andate! Il fanciullo, che non era abituato a questo trattamento, si alzò in piedi ed impallidì, sarebbe stato difficile il dire se era la collera o la paura. Suo padre andò da lui, lo prese per un braccio, e lo baciò sulla fronte: — Va, diss’egli, figlio mio, va. — Il sig. de Villefort andò alla porta e la chiuse dietro a lui con doppio giro di chiave. — Oh! mio Dio, fece la giovano sposa guardando suo marito fin nel profondo dell’anima, e sforzando un sorriso che agghiacciò l’impassibilità di Villefort, che c’è dunque? — Signora, dove mettete il veleno di cui vi servite ordinariamente? — articolò chiaramente e senza preamboli il magistrato, postosi fra la moglie e la porta. La sig.ª de Villefort provò ciò che deve provare la lodola quando vede il falco restringere i suoi cerchi mortali sulla testa. Un tuono rauco, tronco, che non era nè un grido nè un sospiro, le sfuggì dal petto, ed ella impallidì fino a diventar livida. — Signore, disse ella, io.... io non capisco. — E siccome si era sollevata in un parossismo di terrore, in un secondo parossismo, senza dubbio più forte del primo, si lasciò ricadere sul cuscino del divano. — Io vi domandava, continuò Villefort con voce perfettamente tranquilla, in qual luogo nascondete il veleno col quale avete ucciso mio suocero il sig. di Saint-Méran, mia suocera, Barrois, e mia figlia Valentina. — Ah! gridò la sig.ª de Villefort giungendo le mani, che dite mai? — Non appartiene a voi l’interrogarmi, a voi sta il rispondere! — Al giudice o al marito? balbettò la sig.ª de Villefort. — Al giudice, signora! al giudice! — Era uno spettacolo terribile il vedere il pallore di questa donna, l’angoscia del suo sguardo, il tremito di tutto il suo corpo. — Ah! signore! mormorò ella, ah! signore!:.. e non disse altro. — Voi non rispondete, signora! gridò il terribile interrogatore: indi soggiunse, con un sorriso che spaventava ancor più della sua collera; è vero però che non negate! Ella fece un movimento. — E non potreste negarlo, aggiunse Villefort, stendendo la mano verso di lei come per afferrarla in nome della giustizia; avete compiti questi diversi delitti con una impudente furberia, ma che però non poteva ingannare le persone disposte per la loro affezione ad esser cieche sul vostro conto. Fin dalla morte della sig.ª de Saint-Méran, ho saputo che v’era un avvelenatore in casa mia, il sig. d’Avrigny me ne aveva prevenuto; dopo la morte di Barrois, Dio mi perdoni, i miei sospetti si son portati sopra un altro, sur un angelo! i miei sospetti, che anche quando non vi è delitto, vegliano incessantemente accesi nel fondo del mio cuore, ma dopo la morte di Valentina non vi è più alcun dubbio per me, signora, e non solo per me, ma ancora per altri; così il vostro delitto conosciuto ora da due persone, sospettato da molti, diventerà pubblico, e, come vi diceva or ora, non è più un marito che vi parla, è un giudice! La giovane sposa nascose il viso fra le mani. — Oh! signore, ve ne supplico, non credete alle apparenze. — Sareste vile? gridò Villefort con un accento di disprezzo. In fatto ho sempre notato che gli avvelenatori son sempre vili. Sareste vile, voi che avete avuto l’orribile coraggio di vedere spirare davanti ai vostri occhi due vecchi ed una giovanetta assassinata da voi? — Signore! Signore! — Sareste vile, continuò Villefort con una crescente esaltazione, voi che avete contati uno a uno i minuti di quattro agonie? voi che avete combinato i vostri disegni infernali, rimescolate le vostre infami bevande con una abilità ed una precisione sì miracolosa? Voi che avete sì ben calcolato tutto, avreste dimenticato di calcolare una cosa sola, vale a dire che potevate essere condotta alla rivelazione dei vostri delitti? Oh! questo è impossibile, ed avrete riserbato qualche veleno più dolce, più sottile, e più mortale degli altri, per isfuggire alla punizione che vi è dovuta... lo avrete fatto, almeno lo spero. — La sig.ª de Villefort si contorse le mani, e cadde in ginocchio. — Lo so bene.... lo so bene, disse egli, confessate; ma la confessione fatta ai giudici, la confessione fatta nell’ultimo momento, la confessione fatta quando non si può più negare, è una confessione che non diminuisce niente la punizione che essi infliggono al colpevole! — La punizione! gridò la sig.ª de Villefort, signore! avete pronunziato due volte questa parola! — Senza dubbio. Forse che per essere quattro volte colpevole avete creduto di sfuggirla? forse che per essere la moglie di quello che domanda la punizione degli altri rei, avete creduto che la vostra punizione non vi sarebbe stata? No! signora, no! Chiunque sia, il patibolo aspetta l’avvelenatore, se soprattutto, come vi diceva poco fa, l’avvelenatore non ha avuto la cura di conservare per sè qualche goccia del suo più sicuro veleno. — La sig.ª de Villefort mandò un grido selvaggio, e lo schifoso ed indomabile terrore invase i suoi lineamenti scomposti. — Oh! non temete il patibolo, signora, disse il magistrato, se mi avete ben capito dovete avere capito che non potete morire sopra un patibolo. — No, io non ho capito; cosa volete dire? balbettò la disgraziata donna completamente atterrata. — Voglio dire, che la moglie del primo magistrato della capitale non macchierà colla sua infamia un nome rimasto senza macchia, e non disonorerà nel medesimo tempo suo marito e suo figlio. — No! oh! no? — Ebbene! signora, questa sarà una buona azione per parte vostra, ed io ve ne ringrazio. — Mi ringraziate, e di che? — Di ciò che avete detto. — E che cosa ho io detto? ho perduto la testa; non comprendo più niente, mio Dio! mio Dio! — Ed ella si alzò coi capelli sparsi, e le labbra schiumose. — Voi avete risposto, signora, a quella interrogazione che vi ho fatta entrando qui; dove avete il veleno di cui d’ordinario vi servite? — La sig.ª de Villefort alzò le braccia al cielo, e battè convulsivamente le mani l’una contro l’altra: — No, no, vociferò ella; no, voi non volete questo. — Ciò che io non voglio, signora, si è che compariate al patibolo, capite? rispose Villefort. — Oh! signore, grazia! — Ciò che io voglio, è che sia fatta giustizia. Io sono sulla terra per punire, signora, aggiunse egli con uno sguardo fiammeggiante, e tutt’altra donna, fosse ancora una regina, io la manderei al carnefice; ma per voi sarò misericordioso: vi ho detto: non avete voi, signora, conservato qualche goccia del vostro veleno più dolce, più pronto, più sicuro? — Oh! perdonatemi, signore, lasciatemi vivere! — Ella è vile, disse Villefort. — Pensate che son vostra moglie! — Io penso che voi siete un’avvelenatrice. — In nome del cielo!.... — No! — In nome dell’amore che avete avuto per me! — No! no! — In nome di nostro figlio! ah! lasciatemi vivere! — No! no! no! vi dico; se vi lascio vivere, verrà un giorno che ucciderete lui come tutti gli altri. — Io! uccidere mio figlio! gridò questa madre selvaggia slanciandosi verso Villefort; io uccidere il mio Edoardo!... ah! ah! ah! — Ed un riso spaventoso, un riso di demonio, un riso di pazza compì la frase e si perdè in un rantolo sanguinoso. La sig.ª de Villefort era caduta ai piedi di suo marito. Villefort si era avvicinato a lei: — Pensateci, signora, diss’egli, se al mio ritorno non è stata fatta giustizia, vi denunzio di mia propria bocca, e vi arresto colle mie proprie mani. — Ella ascoltava anelante, abbattuta, oppressa; il suo occhio solo viveva in lei e copriva un fuoco terribile. — Voi mi capite! disse Villefort; vado alla seduta per chiedere la morte d’un’assassino... Se al mio ritorno vi ritrovo viva, questa sera dormirete alla _Conciergerie_. — La sig.ª de Villefort mandò un sospiro, i suoi nervi si distesero, ella stramazzò sul tappeto. Il procurator del Re sembrò provare un movimento di pietà, la guardò men severamente, ed inchinandosi leggermente ad essa: — Addio, signora, diss’egli; addio! — Questo addio cadde come un coltello mortale sul cuore della sig.ª de Villefort. Ella svenne. Il procurator del Re uscì, e, nell’uscire, chiuse la porta a doppio giro. CVIII. — LE ASSISE. L’affare di Benedetto, come si diceva allora al Palazzo e nella società, aveva prodotto una enorme sensazione. Uno dei frequentatori del Caffè di Parigi, del baluardo di Gand, e del bosco di Boulogne, il falso Cavalcanti, durante il tempo che era rimasto a Parigi, e nei due o tre mesi in cui aveva fatto un mondo di conoscenze. I giornali avevano raccontato le diverse stazioni del prevenuto nella sua vita di galera; ne risultava la più viva curiosità, in tutti coloro particolarmente che avevan conosciuto di persona il principe Andrea Cavalcanti; per cui questi erano soprattutto risoluti ad arrischiare qualunque cosa per andare a vedere sul banco degli accusati il sig. Benedetto, l’assassino del suo compagno di catena. Per molte persone, Benedetto era se non una vittima, almeno un errore della giustizia: si era veduto a Parigi il sig. Cavalcanti padre, e si aspettava di vederlo di nuovo comparire per reclamare il suo illustre rampollo. Un buon numero di persone che non avevano mai inteso parlare del famoso soprabito alla polacca col quale era sbarcato presso il conte di Monte-Cristo, si erano sentiti colpire dall’aria di dignità, dalla nobiltà, e dalla scienza di mondo che aveva mostrato il vecchio patrizio, il quale, bisogna dirlo, sembrava un signore perfetto, tutte le volte che non parlava o non faceva calcoli d’aritmetica. In quanto allo stesso accusato, molte persone si ricordavano di averlo veduto così amabile, così bello, così prodigo, ch’essi amavan meglio credere qualche macchinazione per parte di un nemico, come se ne trova in questo mondo, in cui le grandi fortune elevano i mezzi di fare il male ed il bene all’altezza del maraviglioso ed alla potenza dell’inaudito. Ciascuno accorse adunque alla seduta della Corte delle Assise, gli uni per gustare lo spettacolo, gli altri per commentarlo. Fin dalle sette del mattino si faceva la fila al cancello, ed un’ora prima dell’apertura della seduta, la sala era già piena di persone privilegiate. Prima dell’ingresso della Corte, e qualche volta anche dopo, una sala d’udienza nei giorni dei grandi processi rassomiglia molto ad una sala di conversazione, in cui molte persone si riconoscono, si parlano, quando sono abbastanza vicini da non perdere i loro posti, si fanno segni quando son separati da un troppo gran numero di popolo, d’avvocati e di gendarmi. Era una di quelle magnifiche giornate di autunno che qualche volta ci compensano di un’estate assente o accorciata; le nubi che il sig. de Villefort aveva vedute la mattina velare il sole nascente, si erano dissipate come per magìa, e lasciavano risplendere in tutta la sua purezza uno degli ultimi, uno dei più bei giorni di settembre. Beauchamp, uno dei re della stampa e che per conseguenza ha il suo trono da per tutto, guardava coll’occhialino a dritta e a sinistra. Egli scoperse Château-Renaud e Debray che eran giunti a guadagnarsi le buone grazie di un sergente di città, e lo avevano risoluto a mettersi dietro di loro invece di stargli davanti, come sarebbe stato di suo diritto. Il degno messo aveva odorato il segretario intimo del ministro ed il milionario; egli si mostrò pieno di riguardi per i suoi nobili vicini, e lor permise anche di andare a fare una visita a Beauchamp, promettendo di conservare loro i posti. — Ebbene! disse Beauchamp, noi dunque veniamo a vedere il nostro amico! — Eh! mio Dio! sì! rispose Debray, questo degno principe; vadano al diavolo tutti i principi senza principato. — Un uomo che ha avuto Dante per genealogista, e che rimonta alla _Divina Commedia_! — Nobiltà da corda, disse flemmaticamente Château-Renaud. — Egli sarà condannato, n’è vero? domandò Debray. — Eh! caro mio, rispose il giornalista, è a voi, mi sembra, che bisogna domandarlo: voi conoscete meglio di noi l’aria degli uffizii; avete veduto il presidente all’ultima _soirée_ del vostro ministro? — Sì. — E che vi ha detto? — Una cosa che vi maraviglierà. — Ah! parlate dunque presto, amico caro, è tanto tempo che non abbiam più detto niente su questo argomento. — Ebbene! mi ha detto che Benedetto, che si ritiene come una fenice di astuzia, come un gigante di furberia, non è che un borsaiolo molto subalterno, molto stupido, e del tutto indegno delle esperienze che si faranno, dopo la sua morte sopra i suoi organi frenologici. — Bah! fece Beauchamp; egli però rappresentava molto passabilmente la parte di principe. — Per voi Beauchamp, che detestate questi disgraziati principi e che siete incantato ogni qual volta potete ritrovare in loro dei modi cattivi; ma non per me che adoro per istinto la nobiltà, e che rilevo una famiglia aristocratica, qualunque ella sia, da vero bracco del blasone. — Così, non avete mai creduto al suo principato? — Alla sua aria da principe, sì... al suo principato no. — Non c’è male, disse Debray; vi assicuro che per tutt’altri che per voi poteva passare; l’ho veduto dai ministri. — Ah! sì, disse Château-Renaud; sì davvero che i nostri ministri se ne intendono di principi! — Vi è del buon senso in quanto dite Château-Renaud, rispose Beauchamp ridendo clamorosamente; la frase è corta, ma bella: vi chiedo il permesso di poterne usare nel mio rendi-conto. — Prendetela, mio caro Beauchamp, disse Château-Renaud, vi regalo la mia frase per quanto vale. — Ma, disse Debray a Beauchamp, se ho parlato al presidente, voi dovete aver parlato al procuratore del Re? — Impossibile! da otto giorni il sig. de Villefort si tien celato; ciò è naturale: questa strana sequela di dispiaceri domestici, coronati dalla morte non meno strana di sua figlia... — Morte strana! che dite dunque Beauchamp? — Ah! sì, fate dunque l’interrogatore, sotto il pretesto che ciò che accade fra la nobiltà di toga non lo sapete, disse Beauchamp applicandosi la lente all’occhio e sforzandosi di tenerla ferma col solo sopracciglio. — Mio caro signore, disse Château-Renaud, permettetemi di dirvi che, per tenere così la lente voi non siete della forza di Debray. Debray, date dunque una lezione al sig. Beauchamp. — Osservate, disse Beauchamp, non mi sbaglio. — Che è dunque? — È lei. — Chi è? — La si diceva partita. — Madamigella Eugenia? domandò Château-Renaud, sarebbe di già ritornata? — No, ma sua madre. — La sig.ª Danglars? — Andiamo, disse Château-Renaud, è impossibile; dieci giorni dopo la fuga di sua figlia, tre giorni dopo il fallimento di suo marito! — Debray arrossì leggermente e seguì la direzione dello sguardo di Beauchamp. — Andiamo diss’egli, è una donna velata, una donna sconosciuta, qualche principessa straniera, forse anche la madre del principe Cavalcanti; ma voi dicevate o piuttosto volevate dire una cosa molto interessante, Beauchamp, mi sembra. — Io? — Sì, parlavate della strana morte di Valentina. — Ah! è vero: ma perchè la sig.ª de Villefort non è qui? — Povera e cara donna! disse Debray, ella senza dubbio è occupata a distillare l’acqua di melissa, per gli ospedali, ed a comporre dei cosmetici per sè e per le sue amiche: sapete che ella ha speso per questo divertimento due o tre mila scudi per anno, a quanto si assicura. Veniamo al fatto, avete ragione, perchè non è qui la sig.ª de Villefort? l’avrei veduta con molto piacere, amo molto questa donna. — Ed io, disse Château-Renaud, la detesto. — Perchè? — Non so niente. Perchè si ama e perchè si detesta? la detesto per antipatia. — O sempre per istinto. — Può darsi... ma torniamo a ciò che dicevate, Beauchamp. — Ebbene? non siete curiosi di saper perchè si muore così spesso ed all’improvviso in casa Villefort? — Spesso! la parola è bella, disse Château-Renaud. — La parola è vera in casa del sig. de Villefort, ma torniamo a lui. — In fede mia! disse Debray, vi confesso che non perdo di vista questa casa apparata a lutto da tre mesi, e ieri l’altro ancora, a proposito della morte di Valentina, la sig.ª *** me ne parlava. — E chi è la sig.ª ***? domandò Château-Renaud. — La moglie del ministro; per bacco! — Ah! perdono, disse Château-Renaud, io non vado dai ministri, lascio andarvi i principi. — Voi non eravate che bello, ora diventate fulminante, caro barone; abbiate pietà di noi, altrimenti ci brucerete come un altro Giove. — Non dirò più niente, disse Château-Renaud; ma che diavolo! abbiate pietà di me, non mi date la replica. — Vediamo, cerchiamo di giungere alla meta del nostro dialogo, Beauchamp; vi diceva dunque che ieri l’altro la sig.ª *** mi domandava delle informazioni su questo argomento; istruitemi, ed io istruirò lei. — Ebbene! signori, se si muore così spesso, io mantengo la frase, nella casa Villefort, ciò è perchè nella casa vi è un assassino. — I giovani rabbrividirono poichè già più d’una volta era loro venuta la stessa idea. — E chi è questo assassino? domandarono tutti ad un tempo. — Il giovine Edoardo. — Uno scoppio di risa dei due uditori non isconcertò in alcun modo l’oratore, che continuò: — Sì, signori, il giovine Edoardo, fanciullo fenomeno-logico che uccide già come il padre e la madre. — Questo è uno scherzo? — Niente affatto; ieri ho preso uno dei domestici che è uscito dalla casa del sig. de Villefort: ascoltate bene questo. — Noi ascoltiamo. — E che io licenzio domani, perchè mangia enormemente per rimettersi dal digiuno di terrore che si era imposto in quella casa. Ebbene? sembra che questo caro fanciullo abbia messo la mano su qualche boccetta di droghe di cui egli usa di tempo in tempo contro quelli che gli dispiacciono. Primieramente toccò al nonno ed alla nonna Saint-Méran, che gli dispiacquero, e loro versò alcune gocce del suo elixir: tre gocce bastano; indi toccò al bravo Barrois, vecchio servitore del Nonno Noirtier, il quale sgridava a quando a quando l’amabile monello; ei gli versò tre gocce del suo elixir; e fu fatta; così accadde pure alla povera Valentina, che non lo sgridava, ma di cui egli era geloso: le versò tre gocce del suo elixir, e per essa come per tutti gli altri tutto fu finito. — Ma che diavol di racconto ci fate? disse Château-Renaud. — Sì, disse Beauchamp, un racconto dell’altro mondo n’è vero? — È un’assurdità, disse Debray. — Ah! riprese Beauchamp, ecco che già cercate mezzi dilatorii! che diavolo, domandatelo al mio domestico, o piuttosto a quello che domani non sarà più mio domestico; questa è la voce che corre in tutta la famiglia. — Ma questo elixir, dov’è? qual è? — Diamine! il fanciullo lo nasconde. — Dove l’ha preso? — Nel laboratorio di sua madre. — Sua madre ha dunque dei veleni nel suo laboratorio? — Lo so io forse? mi fate delle domande da procurator del Re: ripeto ciò che mi è stato detto, ecco tutto; vi cito nome ed autore: non posso far di più; il povero diavolo non mangiava più dallo spavento. — È incredibile! — Ma, no, mio caro, ciò non è incredibile del tutto: avete veduto l’anno scorso quel fanciullo della strada Richelieu che si divertiva ad uccidere i suoi fratelli e le sue sorelle immergendo loro delle spille nelle orecchie mentre dormivano. La generazione che viene dopo di noi, è molto precoce, mio caro! — Caro mio, disse Château-Renaud, scommetto che voi non credete una parola di tutto ciò che ci avete raccontato... Ma non vedo il conte di Monte-Cristo; come mai non è qui? — Egli è degenerato, fece Debray; e poi non vorrà comparire davanti a tutti, che è stato ingannato da tutti questi Cavalcanti i quali sono venuti a lui con delle false lettere credenziali, di modo che egli si trova allo scoperto di un centinaio di migliaia di franchi, ipotecati sul suo principato. — A proposito, domandò Beauchamp, come sta Morrel? — In fede mia, disse il gentiluomo, sono stato tre volte in casa sua, e non l’ho mai ritrovato, però sua sorella non mi è sembrata inquieta, e mi ha detto, con molto buon viso, che non lo ha più veduto da due o tre giorni, ma che è certa ch’egli sta bene. — Ah! ora che vi penso! il conte di Monte-Cristo non può venire nella sala! disse Beauchamp. — E perchè? — Perchè egli è attore nel dramma. — Ma forse egli pur ha assassinato qualcuno? domandò Debray. — Ma no, è lui, al contrario, che hanno voluto assassinare: sapete bene che uscendo dalla sua casa quel degno signore di Caderousse è stato assassinato dal suo giovine amico Benedetto: sapete bene che in casa sua fu trovato quel famoso gilè nel quale era la lettera che venne a sconvolgere la sottoscrizione del contratto di matrimonio: vedetelo, è là tutto insanguinato come capo di convinzione. — Ah! molto bene! — Zitti! signori, ecco la Corte; ai nostri posti! Infatto si fece sentire un gran rumore nel pretorio; il sergente di città chiamò i due protetti con un _hem!_ energico, e l’usciere comparendo sulla soglia della sala delle deliberazioni, gridò con quella voce aspra che gli uscieri avevano fin dal tempo di Beaumarchais: — La corte, signori! CIX. — L’ATTO D’ACCUSA. I giudici si collocarono ai loro seggi in mezzo al più profondo silenzio; i giurati si assisero al loro posto; il sig. de Villefort, oggetto dell’attenzione, e direm quasi dell’ammirazione generale, si pose col berretto in testa, sul suo seggio, girando uno sguardo tranquillo intorno a sè. Ciascuno guardava con maraviglia questa figura grave e severa, sulla impassibilità della quale sembrava che i dolori personali non avessero alcuna possa, e si guardava con una specie di terrore quell’uomo estraneo all’emozioni dell’umanità. — Gendarmi! disse il presidente, conducete l’accusato. A queste parole, la pubblica attenzione divenne più attiva, e tutti gli occhi si fissarono sulla porta dalla quale doveva entrare Benedetto. Ben presto questa porta si aprì e comparve l’accusato. La impressione fu la stessa su tutti, e nessuno s’ingannò alla espressione della sua fisonomia; i suoi lineamenti non portavano l’impronta di quella profonda emozione che fa affluire il sangue al cuore e scolora la fronte e le guance. Le mani, graziosamente poste, una per tenere il cappello, l’altra all’apertura del gilè di _picchè_ bianco, non erano agitate da alcun fremito; l’occhio era placido ed anzi brillante. Appena entrato nella sala, lo sguardo del giovine si mise a percorrere tutte le file dei giudici e degli assistenti, e si fermò più lungamente sul presidente e particolarmente sul procuratore del Re. Vicino ad Andrea si pose l’avvocato ch’egli aveva scelto, avvocato nominato di ufficio (poichè Andrea non aveva voluto occuparsi di questi particolari, ai quali sembrava non attaccasse alcuna importanza), giovine dai capelli d’un biondo chiaro, col viso rosso da una emozione cento volte più sensibile di quella del prevenuto. Il presidente domandò la lettura dell’atto di accusa, redatto, come si sa, dalla penna abile ed implacabile di Villefort. Durante questa lettura, che fu lunga, e che per tutt’altri sarebbe stata opprimente, la pubblica attenzione non cessò di portarsi sur Andrea, che ne sostenne il peso colla tranquillità d’animo di uno Spartano. Giammai Villefort non era forse stato così conciso nè così eloquente: il delitto era rappresentato sotto i colori più vivi: gli antecedenti del prigioniero, la sua trasfigurazione, la filiazione dei suoi atti da una età molto tenera, erano dedotti con tutta l’abilità che la pratica della vita e la conoscenza del cuore umano poteva somministrare ad uno spirito così elevato, qual era quello del procuratore del Re. Con questo solo preambolo, Benedetto era perduto per sempre nella pubblica opinione, mentre essa aspettava, che fosse punito più materialmente dalla legge. Andrea non presentò la minima attenzione alle successive accuse che si elevavano e ricadevano su di lui: il sig. de Villefort che lo esaminava spesso, e che senza dubbio continuava sur esso gli studii psicologici che aveva avuto così spesso l’occasione di fare sopra altri accusati, il sig. de Villefort non potè una sola volta fargli abbassare gli occhi, per quanta fosse la fermezza e la profondità del suo sguardo. Finalmente terminò la lettura. — Accusato, disse il presidente, il vostro nome e cognome. Andrea si alzò: — Perdonatemi, disse egli con una voce tranquilla, il cui suono vibrava perfettamente puro, vedo che voi imprendete un ordine di domande nel quale non posso seguirvi: ho la pretensione, che starà a me il giustificare in seguito, di essere una eccezione agli ordinarii accusati. Vogliate dunque, ve ne prego, permettermi di rispondere seguendo un ordine diverso; non risponderò neppure a tutto. — Il presidente sorpreso guardò i giurati, che guardarono il procurator del Re. Una gran sorpresa si manifestò in tutta l’assemblea. Ma Andrea non parve menomamente commoversi: — La vostra età? disse il presidente; risponderete a questa domanda? — A questa, come alle altre, risponderò, ma a suo tempo. — La vostra età? ripetè il magistrato. — Ho 21 anno, o piuttosto li avrò fra qualche giorno, essendo nato nella notte del 27 al 28 settembre 1817. Il sig. de Villefort, che era occupato a prendere una nota, alzò la testa nel sentire questa data. — Dove siete nato? continuò il presidente. — Ad Auteuil, vicino a Parigi, rispose Benedetto. Il sig. de Villefort alzò una seconda volta la testa, guardò Benedetto come se avesse guardato la testa di Medusa, e divenne livido. In quanto a Benedetto, portò graziosamente alle sue labbra l’angolo di un fazzoletto di fina battista. — La vostra professione? domandò il presidente. — Prima ho fatto il falsario, disse Andrea con la massima tranquillità del mondo; in seguito son passato a fare il ladro, e recentemente mi son fatto assassino. — Un mormorio o piuttosto una tempesta di indignazione e di sorpresa scoppiò in tutte le parti della sala; i giudici stessi lo guardarono stupefatti, i giurati manifestarono il più gran disgusto per quel cinismo, che tanto poco si aspettavano da un uomo elegante. Il sig. de Villefort appoggiò una mano sulla sua fronte che, di pallida era divenuta rossa e bollente; di repente si alzò, guardando intorno a sè come un uomo demente: gli mancava l’aria. — Cercate qualche cosa, sig. procurator del Re? domandò Benedetto col suo sorriso più obbligante. — Il sig. de Villefort non rispose, tornò a sedersi o, per meglio dire, ricadde nel suo seggio. — È forse adesso pervenuto, che voi acconsentite di dire il vostro nome? domandò il presidente. L’affettazione brutale che avete messa nell’enumerare i vostri differenti delitti, che avete qualificati per vostra professione; la specie di punto di onore che vi attaccate, cosa di cui, in nome della morale e del rispetto dovuto alla umanità, la corte deve biasimarvi severamente, ecco forse la ragione che vi ha fatto ritardare a dire il vostro nome: volevate far spiccare questo nome per mezzo dei titoli che lo precedono. — Pare incredibile, sig. presidente, disse Benedetto col tuono di voce più grazioso e colle maniere più gentili, che voi abbiate letto così bene nel fondo del mio pensiero; fu infatto con questo scopo che vi pregai d’invertire l’ordine delle domande. — Lo stupore era al colmo; non vi era più nelle parole dell’accusato nè sfrontatezza, nè cinismo; l’uditorio commosso presentiva un qualche fulmine rumoreggiante nel fondo di questa tetra nube. — Ebbene! disse il presidente, il vostro nome? — Non posso dirvi il mio nome, perchè non lo so; ma so quello di mio padre e posso dirvelo. Un doloroso abbagliamento acciecò Villefort: si videro cadere dalle guance alcune gocce di sudore ripetute sui fogli, ch’egli rimescolava con mano convulsiva e smarrita. — Allora dite il nome di vostro padre, riprese il presidente. — Non un soffio, non un respiro turbava il silenzio di questa immensa assemblea; tutti aspettavano. — Mio padre è un procurator del Re, rispose tranquillamente Andrea. — Procuratore del Re! disse con istupore il presidente senza notare lo svolgimento che si operava sulla figura del sig. de Villefort; procurator del Re! — Sì, e poichè volete saperne il nome... si chiama de Villefort! — L’espressione così lungamente trattenuta dal rispetto che si porta in seduta alla giustizia, si fece campo, come un tuono, dal fondo di tutti i petti; la corte stessa non pensò a reprimere questo movimento della moltitudine. Le interiezioni, le ingiurie scagliate contro Benedetto che rimaneva impassibile, i gesti energici, il movimento dei gendarmi, il sogghigno di quella parte fangosa che, in tutte le assemblee, sale alle superficie nei movimenti di commozione e di scandalo, tutto ciò durò cinque minuti, prima che i magistrati e gli uscieri fossero riusciti a ristabilire il silenzio. In mezzo a tutto questo rumore si sentiva la voce del presidente che gridava: — Vi prendete giuoco della giustizia, accusato, ed oserete dare ai vostri concittadini lo spettacolo di una corruzione che, in una epoca che però non lascia niente a desiderare sotto questo rapporto, non avrebbe ancora avuto il suo eguale! — Dieci persone si sollecitavano intorno al procuratore del Re, a metà oppresso sul suo seggio, e gli offrivano consolazioni, incoraggiamenti, proteste di zelo e di simpatia. La calma si era ristabilita nella sala, ad eccezione d’un punto in cui un gruppo abbastanza numeroso si agitava e si urtava. Una donna, dicevasi, era svenuta; le si era fatto respirare dei sali, e si andava rimettendo. Andrea, durante tutto questo tumulto, aveva voltata la sua faccia sorridente verso l’assemblea; indi, appoggiandosi con una mano sul riparo di quercia del banco, e ciò con l’attitudine più graziosa: — Signori, diss’egli, non piaccia a Dio che io cerchi d’insultare la corte e di fare, in presenza di questa onorevole assemblea, un inutile scandalo. Mi si domanda quanti anni ho, lo dico; mi si domanda ove sono nato, io rispondo; mi si domanda il mio nome, non posso dirlo, perchè i miei genitori mi hanno abbandonato. Ma posso bene senza dire il mio nome, poichè non lo so, dire quello di mio padre: ora, lo ripeto, mio padre si chiama de Villefort, e son pronto a provarlo. Nell’accento di questo giovine vi era una certezza, una convinzione, una energia che ridussero il tumulto in silenzio. Gli sguardi si voltarono un momento sul procuratore del Re, che conservava nel suo posto la immobilità di un uomo che il fulmine abbia cambiato in cadavere. — Signori, continuò Andrea comandando il silenzio col gesto e colla voce, vi devo la prova e la spiegazione delle mie parole. — Ma, gridò il presidente irritato, nella istruzione avete dichiarato di chiamarvi Benedetto, avete detto di essere orfano, e vi siete assegnata la Corsica per patria. — Io nell’istruzione ho detto ciò che mi conveniva di dire, poichè non voleva che s’indebolisse o che si sospendesse, il che non sarebbe mancato di accadere, il fragore solenne che voleva dare alle parole. Or vi ripeto che sono nato ad Auteuil nella notte del 27 al 28 settembre 1817, e che sono figlio del sig. procurator del Re Villefort. Ne volete voi delle particolarità? sono pronto a darvele. Nacqui al primo piano della casa N. 28, strada della Fontana, in una camera parata di damasco rosso. Mio padre mi raccolse nelle sue braccia dicendo a mia madre che io era morto, mi avvolse in un pannolino marcato con le lettere L ed N, e mi portò entro una cassetta in giardino ove mi seppellì vivo. — Un fremito percorse tutti gli assistenti, quando videro che la sicurezza del prevenuto ingrandiva a seconda dello spavento del sig. de Villefort. — Ma come sapete voi tutti questi particolari? domandò il presidente. — Ve lo dirò, sig. presidente. Nel giardino in cui mio padre mi aveva sepolto, si era introdotto in quella stessa notte un uomo che l’odiava mortalmente, e che lo appostava da lungo tempo per compiere su lui una vendetta Corsa. L’uomo si era nascosto dietro un albero; egli vide mio padre nascondere un deposito sotto terra, e lo percosse con un colpo di coltello, mentre terminava questa operazione: indi, credendo che questo deposito fosse un qualche tesoro, lo dissotterrò e mi trovò ancor vivo. Quest’uomo mi portò all’ospizio dei trovatelli ove fui inscritto sotto il N. 37. Tre mesi dopo sua cognata fece il viaggio da Rogliano a Parigi per venirmi a cercare, mi reclamò come suo figlio e mi portò seco. Ecco in che modo, quantunque nato ad Auteuil, fui allevato in Corsica. — Vi fu un momento di silenzio così profondo, che, senza l’ansietà che si vedeva respirare da mille petti, si sarebbe creduta vuota la sala. — Continuate, disse la voce del presidente. — Certamente, continuò Benedetto, io poteva essere felice presso questa brava gente, che mi adorava; ma il mio naturale, non so se perverso sin dal nascer mio, o se per la società dei perversi si pervertisse, e col crescer degli anni più perverso si facesse, alla fine la vinse su tutte le virtù che mia madre adottiva cercava di versarmi in seno; ingrandii nel male, e giunsi a commettere dei delitti. Un giorno, finalmente, in cui malediceva la provvidenza per avermi fatto, io diceva, così cattivo per vedermi precipitato in uno stato così schifoso, mio padre adottivo mi disse: «non bestemmiare, disgraziato! poichè Dio ti ha dato alla luce senza collera, il delitto viene da tuo padre e non da te, nè da altri; da tuo padre che ti aveva destinato all’inferno se tu morivi, alla miseria se un miracolo ti conservava in vita.» Da quel giorno cessai di bestemmiare, ma maledii mio padre; ed ecco perchè ho fatto qui sentire le parole, che voi mi avete rimproverate, sig. presidente; ecco perchè ho causato lo scandalo di cui freme ancora questa assemblea. Se questo è un delitto di più, punitemi; ma se vi ho convinto che dal giorno in cui nacqui il mio destino si faceva fatale, doloroso, lamentevole, amaro, compiangetemi! — Ma vostra madre? domandò il presidente. — Mia madre mi credeva morto, mia madre non era colpevole: non ho voluto saperne il nome, e non la conosco. In questo momento un grido acuto, che terminò in un singulto, s’intese nel mezzo del gruppo che circondava, come lo abbiamo detto, una donna. Questa donna cadde in un violento attacco di nervi, fu portata fuori dal pretorio, nel tempo che si trasportava, il fitto velo che le nascondeva il viso si scostò, e fu riconosciuta la sig.ª Danglars. Ad onta dell’oppressione dei suoi sensi snervati, ad onta del ronzio che fremeva alle sue orecchie, e della specie di follia che sconvolgeva il suo cervello, Villefort la riconobbe, e si sollevò. — Le prove? le prove? disse il presidente; prevenuto, ricordatevi che questo tessuto d’orrori ha bisogno di essere sostenuto colle prove più luminose. — Le prove? disse Benedetto ridendo, le volete? — Sì. — Ebbene! guardate il sig. de Villefort, e poi domandatemi ancora delle prove. — Ciascuno si voltò verso il procurator del Re, che sotto il peso di questi mille sguardi indirizzati su di lui, si avanzò nel recinto del tribunale, vacillando coi capelli in disordine ed il viso solcato dalla pressione delle sue unghie. L’assemblea intera mandò un lungo mormorio di maraviglia. — Mi si domandano delle prove, padre mio, disse Benedetto a Villefort, volete che io loro le dia? — No, balbettò de Villefort con voce soffocata, è inutile. — Come inutile? gridò il presidente; che intendete dire? — Intendo dire, gridò il procuratore del Re, che io mi dibatterei invano sotto la pressa mortale che mi schiaccia; signori, io sono, lo riconosco, colpito dalla mano di Dio vendicatore. Non date prove! non ve ne bisognano: tutto ciò che ha detto questo giovine è vero. Un silenzio cupo e pesante come quello che precede le catastrofi della natura, avvolse nel suo manto di piombo tutti gli assistenti, ai quali si drizzavano i capelli sulla lesta. — E che! sig. de Villefort, gridò il presidente, voi non cedete ad una allucinazione! che! voi godete della pienezza delle vostre facoltà mentali! si concepirebbe facilmente come un’accusa così strana, così imprevista, così terribile, avesse potuto turbare il vostro spirito; vediamo, rimettetevi. — Il procuratore del Re scosse la testa. I suoi denti sbatterono con violenza come nell’uomo divorato dalla febbre, e non pertanto egli era d’un pallore mortale. — Io godo di tutte le mie facoltà, signore, disse egli; il corpo soffre, e ciò si capisce: mi riconosco colpevole di tutto ciò che questo giovine ha pronunziato contro di me e fin da questo momento mi metto in casa mia a disposizione del procuratore del Re mio successore. E pronunziando queste parole con voce sorda e quasi estinta, il sig. de Villefort si diresse vacillando verso la porta, che con un movimento macchinale gli venne aperta dall’usciere di servizio. L’assemblea, tutta intera, rimase muta e costernata da questa rivelazione e da questa confessione, che facevano uno scioglimento così terribile alle diverse peripezie che da quindici giorni agitavano l’alta società parigina. — Ebbene! disse Beauchamp, che ci vengano ora a dire che non v’è il dramma in natura. — In fede mia, disse Château-Renaud, amerei meglio finirla come il sig. de Morcerf: un colpo di pistola mi sembrava più dolce dopo una simile catastrofe. — E poi ammazza, disse Beauchamp. — Ed io che per un momento avevo avuto l’idea di sposare sua figlia! disse Debray. Ha fatto bene a morire, mio Dio! la povera fanciulla! — La seduta è finita, signori, disse il presidente, e la causa viene rimessa alla prossima sessione. L’affare deve essere istruito di nuovo, e confidato ad un altro magistrato. In quanto ad Andrea sempre così tranquillo e molto più _interessante_, lasciò la sala scortato dai gendarmi, che gli usarono involontariamente dei riguardi. — Ebbene! che ne pensate di tutto ciò, mio bravo uomo! domandò Debray al sergente di città facendogli sdrucciolare un luigi nella mano. — Vi saranno delle _circostanze attenuanti_! rispose questi. CX. — L’ESPIAZIONE. Il sig. de Villefort aveva veduto aprirsi davanti a sè le file della folla, per quanto fosse compatta. I grandi dolori sono talmente venerabili, che non vi è esempio, anche nei tempi più disgraziati, che il primo movimento della folla riunita non sia stato un movimento di simpatia per una gran catastrofe. Molte persone odiate sono state assassinate in una sommossa; difficilmente un disgraziato, fosse pur reo, è stato insultato dagli uomini che assistevano al suo giudizio di morte. Villefort traversò adunque il sentiero di spettatori, di guardie, di messi del Palazzo, e si allontanò, riconosciuto colpevole dalla propria confessione, ma protetto dal suo dolore. Vi sono delle situazioni che gli uomini afferrano per loro istinto, ma che non possono commentare col loro spirito; il più gran poeta, in questo caso, è colui che manda il grido più veemente e più naturale. La folla prende questo grido per un intiero racconto, ed ha ragione di contentarsene, e più ragione ancora di ritrovarlo sublime quando è vero. Del resto, sarebbe difficile di dire lo stato di stupore nel quale si trovava Villefort uscendo dal Palazzo, e di dipingere quella febbre che faceva battere tutte le sue arterie, che irrigidiva le sue fibre, che gonfiava e rompeva tutte le sue vene, e che disseccava ciascun punto del suo corpo mortale con un milione di patimenti. Villefort si trascinò lungo i corridori, guidato soltanto dall’abitudine, si gettò dalle spalle la toga magistrale, non perchè pensasse lasciarla per convenienza, ma perchè ella era un fardello opprimente, una veste di Nesso feconda di torture: giunse vacillando fino al cortile Delfino, riconobbe la sua carrozza, risvegliò il cocchiere, nell’aprirla da sè stesso, e si lasciò cadere sui cuscini mostrando col dito la direzione del sobborgo Sant’Onorato. Il cocchiere partì. Tutto il peso della sua crollata fortuna veniva a ricadergli sulla testa, e lo schiacciava: egli non ne sapeva le conseguenze; non le aveva misurate; le sentiva; non ragionava sul codice, come fa il freddo assassino che ne comenta un articolo conosciuto. Egli aveva Dio in fondo al cuore. — Dio, mormorava egli senza neppure sapere ciò che diceva, Dio! Dio! — Non vedeva che Dio dietro la frana che si era formata. La carrozza andava con prestezza; Villefort, nell’agitarsi sul cuscino, sentì qualche cosa che lo incomodava. Portò la mano a quest’oggetto: era un ventaglio dimenticato dalla sig.ª de Villefort, fra il cuscino e lo schienale della carrozza; questo ventaglio risvegliò in lui un ricordo, e questo fu come un lampo in mezzo alla notte; pensò allora a sua moglie... — Oh! gridò egli come se un ferro rovente gli avesse trapassato il cuore. — Infatto da un’ora non aveva più sotto gli occhi che una prospettiva della sua miseria, ed ecco che di repente se ne offriva al suo spirito un’altra non meno terribile. Questa moglie! egli aveva fatto con lei la parte di giudice inesorabile, l’aveva condannata a morte, ed ella, colpita dal terrore, oppressa dai rimorsi, inabissata sotto l’onta che le aveva fatta coll’eloquenza della sua irreprensibile virtù, ella, povera donna, debole e senza difesa contro un potere assoluto e supremo, ella forse si preparava in quel momento medesimo a morire! Era scorsa un’ora dal momento della sua condanna; senza dubbio in quel momento ella ripassava tutti i suoi delitti nella memoria, domandava grazia a Dio, scriveva per implorare in ginocchio il perdono del suo virtuoso consorte, perdono che ella comprava con la sua morte. — Villefort mandò un secondo ruggito di dolore e di rabbia. — Ah! gridò egli rotolandosi sulla seta della sua carrozza, questa donna non è divenuta rea, se non perchè mi ha toccato. Io traspiro il delitto, ed ella ha contratto il delitto come si contrae il tifo, il colera, la peste, ed io la punisco!... Io oso dirle pentitevi e morite... Io... Oh! no! no! ella vivrà... mi seguirà... Noi fuggiremo, lascieremo la Francia dietro di noi finchè la terra potrà portarci. Io le parlava di patibolo!... Gran Dio! come mai ho osato di pronunziar questa parola! me pure aspetta il patibolo!... Noi fuggiremo... Sì, mi confesserò a lei; sì, tutti i giorni le dirò umiliandomi, che io pure ho commesso un delitto... Oh! alleanza della tigre col serpente! Oh! degna moglie di un marito quale sono io!... È necessario che ella viva, è necessario che la mia infamia faccia impallidire la sua! — E Villefort rompendo un cristallo del davanti: — Presto! gridò con una voce che fece balzare il cocchiere sul seggio. — I cavalli, trasportati dalla paura, volarono fino alla casa. — Sì! sì! ripeteva a sè stesso Villefort a seconda che si avvicinava alla casa, sì, bisogna che questa donna viva, bisogna ch’ella si penta e che allevi mio figlio, il mio povero figlio, il solo, coll’indistruggibile vecchio, che è sopravvissuto alla distruzione della mia famiglia. Ella lo ama, per lui ella ha fatto tutto. Non bisogna mai disperare del cuore di una madre che ama suo figlio; ella si pentirà: nessuno saprà che fu colpevole; questi delitti commessi in casa mia e di cui la società già s’inquieta, saranno dimenticati col tempo, e se qualche nemico se ne risovverrà, ebbene! io li prenderò sulla lista dei miei delitti. Uno, due, tre di più, che importa: mia moglie si salverà portando seco dell’oro, e soprattutto portando seco mio figlio, lungi dal golfo in cui mi sembra che il mondo debba cadere con me. Ella vivrà, sarà ancora felice, poichè tutto il suo amore è riposto in suo figlio, e suo figlio non la lascerà. Io avrò fatta una buona azione; questa mi alleggerisce il cuore. Ed il procuratore del re respirò più liberamente. La carrozza si fermò nel cortile del palazzo. Villefort si slanciò dal montatoio sulla scala; vide i domestici sorpresi per vederlo ritornare così presto; non lesse altro sulla loro fisonomia; nessuno gli indirizzò la parola; si fermavano davanti a lui come d’ordinario, per lasciarlo passare: ecco tutto. Egli passò davanti alla camera di Noirtier, e, dalla porta semiaperta, vide due ombre, ma non si curò di sapere chi stava con suo padre; altrove lo attirava la sua inquietudine: — Andiamo, diss’egli salendo la scaletta che conduceva al pianerottolo che metteva all’appartamento di sua moglie ed alla camera vuota di Valentina; andiamo, qui nulla è stato cambiato. — Prima di tutto chiuse la porta del pianerottolo. — Bisogna che nessuno ci disturbi, diss’egli; bisogna che io possa parlarle liberamente, accusarmi davanti a lei, dirle tutto... — Si avvicinò alla porta, mise la mano sulla maniglia di cristallo, la porta cedè. — Non è chiusa! bene! benissimo! mormorò egli. Ed entrò nel salotto ove tutte le sere si erigeva un letto per Edoardo; poichè quantunque in collegio, Edoardo ritornava la sera; sua madre non aveva mai voluto nella notte separarsi da lui. Con un colpo d’occhio abbracciò tutto il salotto: — Nessuno! diss’egli; ella è certamente nella stanza da dormire. — Si slanciò verso la porta. Vi era il catenaccio, si fermò fremendo. — Luigia! gridò egli. Gli sembrò sentir smuovere un mobile. — Luigia! ripetè. — Chi è là? domandò la voce di quella che veniva chiamata. — Gli sembrò che questa voce fosse più debole dell’ordinario. — Aprite, aprite, gridò Villefort, sono io! Ma ad onta di quest’ordine, e del tuono angoscioso col quale era stato dato, la porta non si aprì. Villefort la sfondò con un calcio. All’entrata della camera che metteva nel suo gabinetto, la sig.ª de Villefort era in piedi, pallida, coi lineamenti contratti e con gli occhi che guardavano con una spaventosa immobilità. — Luigia, Luigia, diss’egli, che avete? parlate! — La giovane sposa stese verso di lui la mano intirizzita e livida. — Tutto è fatto, signore, diss’ella con un rantolo che sembrava squarciarle la gola, che volete dunque ancora di più? — E cadde sul tappeto. Villefort corse a lei, le afferrò la mano. Questa mano stringeva convulsivamente una boccetta di cristallo col turacciolo d’oro... La signora de Villefort era morta. Villefort, ebbro d’orrore, rinculò fin sul limitare della camera e guardò il cadavere: — Mio figlio! gridò egli d’un subito, dov’è mio figlio? Edoardo! Edoardo! — E si precipitò fuor dell’appartamento gridando: — Edoardo! Edoardo! — Questo nome era pronunciato con tale un accento d’angoscia che i domestici accorsero. — Mio figlio, dov’è mio figlio? domandò Villefort, che si allontani dalla casa... ch’egli non veda... — Il sig. Edoardo non è a basso, signore, rispose il cameriere. — Senza dubbio scherzerà in giardino; cercate! cercate! — No signore; sua madre lo ha chiamato sarà circa mezz’ora, il sig. Edoardo è entrato nella stanza della signora, e non è più uscito. — Un sudore di ghiaccio inondò la fronte di Villefort, i piedi traballarono sul pavimento, le idee cominciarono a girargli nella testa, come il sistema di ruote disordinate d’un orologio che si rompe. — Presso la signora, — mormorò egli, e ritornò lentamente indietro, asciugandosi la fronte con una mano, appoggiandosi con l’altra alla parete del muro. Rientrando nella camera bisognava rivedere il corpo della disgraziata consorte. Per chiamare Edoardo, bisognava risvegliare l’eco in quell’appartamento cambiato in un feretro: il parlare era un risvegliare il silenzio della tomba. Villefort sentì la lingua paralizzarglisi in bocca. — Edoardo! Edoardo! balbettò egli. — Il fanciullo non rispondeva. Il cadavere della sig.ª de Villefort era steso a traverso la porta del gabinetto nel quale si ritrovava necessariamente Edoardo, questo cadavere sembrava vegliare sulla soglia cogli occhi fissi ed aperti, con una spaventevole e misteriosa ironia sulle labbra. Dietro il cadavere, la portiera rialzata lasciava scorgere una parte del gabinetto, un piano-forte, e l’estremità di un divano di seta blu. Villefort fece tre o quattro passi in avanti, e sul divano vide suo figlio steso. Il fanciullo senza dubbio dormiva. Il disgraziato ebbe un lampo di gioia, un raggio di pura luce discese in quell’inferno nel quale si dibatteva: non si trattava dunque che di passare al di sopra del cadavere, entrar nel gabinetto, prendere il fanciullo fra le braccia, e fuggir con lui lontano. Villefort non era più quell’essere la cui squisita corruzione facevano il tipo dell’uomo invilito: era una tigre colpita a morte, che lascia i denti rotti nella sua ultima ferita: ei non aveva più paura dei pregiudizii, ma dei fantasmi. Fece uno slancio e saltò al disopra del cadavere, come se si trattasse di oltrepassare un braciere ardente; rialzò il fanciullo fra le braccia, lo scosse, il chiamò: ma il fanciullo non rispose; portò le sue avide labbra sulle guance di lui, ma esse eran livide, agghiacciate; ne palpò le membra, erano irrigidite, gli appoggiò la mano sul cuore... il cuore più non batteva, il fanciullo era morto. Un foglio piegato in quattro cadde dal petto di Edoardo. Villefort fulminato si lasciò cadere sulle sue ginocchia, il fanciullo gli sfuggì dalle braccia inerti, e rotolò a lato della madre. Villefort raccolse il foglio, riconobbe il carattere di sua moglie, e lo percorse avidamente: ecco ciò che conteneva: «Voi sapete se io era buona madre, poichè per mio figlio mi resi colpevole! una buona madre non parte senza suo figlio!» Villefort non poteva credere alla sua ragione, si trascinò verso il corpo di Edoardo, e lo esaminò anco una volta con quell’attenzione che mette la lionessa nel guardare il lioncello morto; indi un grido gli sfuggì dal petto: — Dio! sempre Dio! — Queste due vittime lo spaventavano; ei sentiva l’orrore della solitudine popolata da due cadaveri: fin allora sostenuto dalla rabbia, da quell’immensa facoltà degli uomini forti, dalla disperazione, da quell’impeto irresistibile dell’agonia, che spingeva i Titani a dar la scalata al cielo. Villefort curvò la testa sotto il peso del dolore, si rialzò sulle ginocchia, scosse i capelli umidi pel sudore, irti per lo spavento, e colui che non aveva mai avuto pietà d’alcuno, andò a ritrovare il vecchio suo padre per aver nella sua debolezza qualcuno a cui raccontare la sua infelicità, qualcuno presso cui piangere; discese la scaletta che conosciamo, entrò nella camera di Noirtier; questi sembrava attento ad ascoltare tanto affettuosamente, quanto lo permetteva la sua immobilità l’abate Busoni, sempre tranquillo e freddo come il solito; Villefort riconoscendo l’abate si portò la mano alla fronte, il passato gli ritornò come uno di quei flutti che sollevano più schiuma degli altri; si risovvenne dalla visita che aveva fatto all’abate alcuni giorni dopo il pranzo d’Auteuil, e di quella fattagli il giorno stesso della morte di Valentina. — Voi qui, signore, diss’egli, voi dunque non comparite che per iscortar la morte? — Busoni si alzò; e vedendo l’alterazione del viso del magistrato, lo splendor feroce dei suoi occhi, capì, o credè capire che la scena delle Assise era compita: egli ignorava il resto. — Son venuto per pregare sul corpo di vostra figlia, — rispose l’abate. — E oggi che cosa venite a fare? — Vengo a dirvi che voi mi avete pagato abbastanza il vostro debito, e che da questo momento vado a pregare Iddio, affinchè pure si contenti come me. — Mio Dio! fece Villefort addietrando con lo spavento sulla fronte, questa non è la voce dell’abate Busoni. — No! — L’abate si strappò la falsa tonsura, scosse la testa, ed i lunghi capelli neri, cessando di essere compressi, ricaddero sulle sue spalle ed inquadrarono il pallido suo viso: — Questo è il viso del sig. di Monte-Cristo, gridò Villefort con gli occhi stravolti. — Non è neppur questo sig. procuratore del Re, cercate meglio, e più lontano. — Questa voce dove mai l’ho intesa per la prima volta? — L’avete intesa per la prima volta a Marsiglia, sono ventitrè anni, il giorno dei vostri sponsali con madamigella de Saint-Méran. Cercate nei vostri registri. — Voi non siete Busoni? non siete Monte-Cristo? Mio Dio siete quel nemico nascosto, implacabile, mortale!... io senza dubbio ho fatto qualche cosa contro di voi a Marsiglia; oh! me disgraziato! — Sì, tu hai ragione, così disse il conte incrociando le braccia sul suo largo petto; cerca! cerca! — Ma che ti ho dunque fatto? gridò Villefort il cui spirito già ondeggiava sul limitare ove si confondono la ragione e la demenza in una caligine che non è più nè sogno nè veglia; che ti ho io dunque fatto? di’! parla! parla! — Voi mi avete condannato ad una morte lenta e schifosa, avete ucciso mio padre, mi avete tolto l’amore colla libertà, e la felicità con l’amore! — Chi siete? chi siete dunque? mio Dio! — Sono lo spettro d’un disgraziato che avete sepolto nelle carceri del castello d’If. A questo spettro uscito finalmente dalla sua tomba, il cielo ha messo la maschera del conte di Monte-Cristo, e lo ha ricoperto di diamanti e d’oro perchè non lo riconosciate che oggi. — Ah! ti riconosco, ti riconosco! disse il procuratore del Re; tu sei... — Sono Edmondo Dantès! — Tu sei Edmondo Dantès! gridò il procuratore del Re, afferrando il conte pel pugno; allora vieni! E lo trascinò per la scala, per la quale Monte-Cristo meravigliato lo seguì, ignorando egli stesso ove il procuratore del Re lo conducesse, prevedendo qualche nuova catastrofe. — Osserva! Edmondo Dantès, diss’egli mostrando al conte il cadavere di sua moglie ed il corpo di suo figlio, osserva! guarda, sei tu ben vendicato?... Monte-Cristo impallidì a quest’orribile spettacolo, comprese che aveva oltrepassato i diritti della vendetta. E si gettò con un sentimento d’angoscia inesprimibile sul corpo del fanciullo, gli riaprì gli occhi, ne tastò il polso, e si slanciò con lui nella camera di Valentina, che chiuse a doppio giro. — Il figlio mio! gridò Villefort, egli m’invola il cadavere di mio figlio! Oh! maledizione! infelicità! morte su te! — E volle slanciarsi dietro a Monte-Cristo; ma, come in un sogno, sentì i piedi prendere radice, gli occhi si dilatarono in un modo da rompere le orbite, le dita, ricurvate sulla carne del petto, vi si internarono gradatamente finchè il sangue arrossì le sue unghie; le vene delle tempia si gonfiarono di spiriti bollenti che andarono a sollevare la volta troppo stretta del suo cranio, ed immersero il cervello in un diluvio di fuoco. Questa immobilità durò molti minuti, fino a che fu compito lo spaventoso rovescio della sua ragione. Allora mandò un grido seguito da un lungo scoppio di risa, e si precipitò per le scale. Un quarto d’ora dopo, si riaprì la camera di Valentina, ricomparve il conte di Monte-Cristo pallido, coll’occhio tetro, il petto oppresso, tutti i lineamenti della sua figura, ordinariamente così tranquilla, erano sconvolti dal dolore. Egli teneva fra le sue braccia il fanciullo al quale nessun soccorso aveva potuto rendere la vita. Mise un ginocchio a terra, e lo depose religiosamente vicino a sua madre, colla testa appoggiata sul petto di lei: indi, rialzandosi, uscì, ed incontrando un domestico sulla scala: — Dov’è il sig. de Villefort? domandò egli. Il domestico senza rispondere, con la mano gli additò la parte che conduceva al giardino. Monte-Cristo discese la scalinata, si avanzò verso il luogo designato, e vide in mezzo ai servitori, che facevano cerchio intorno a lui, Villefort con una vanga in mano che frugava la terra con una specie di rabbia: — Non è ancor qui, diceva egli; non è ancor qui! E frugava un poco più lontano. Monte-Cristo si avvicinò a lui e gli disse a bassa voce con un tuono quasi umile: — Signore, avete perduto un figlio; ma... Villefort lo interruppe: egli non aveva nè ascoltato nè inteso. — Oh! lo ritroverò, diss’egli; avete un bel pretendere ch’egli non c’è più, lo ritroverò, dovessi cercarlo fino al giorno del giudizio finale. — Monte-Cristo addietrò con terrore. — Oh! diss’egli; è pazzo! — E, come avesse temuto che i muri della casa maledetta crollasser su di lui, si slanciò nella strada, dubitando per la prima volta se aveva o no il diritto di fare quel che aveva fatto. — Oh! basta, basta così, salviamo l’ultimo. E rientrando in casa sua, Monte-Cristo incontrò Morrel, che entrava nel palazzo dei Campi-Elisi. — Preparatevi, Massimiliano, gli disse con un sorriso, domani lasciamo Parigi. — Non avete più niente da fare? domandò Morrel. — No, rispose Monte-Cristo, e Dio voglia che non abbia fatto anche troppo. — La dimane infatto essi partirono. Bertuccio restava presso il sig. Noirtier. CXI. — LA PARTENZA. Gli avvenimenti che erano accaduti tenevano occupata tutta Parigi. Emmanuele e sua moglie se li raccontavano, con una sorpresa ben naturale, nel loro salotto della strada Meslay; confrontavano queste tre catastrofi tanto improvvise, quanto inattese, di Morcerf, di Danglars e di Villefort. Massimiliano, che era venuto a far loro una visita, li ascoltava, o piuttosto assisteva alla loro conversazione, immerso nella sua insensibilità abituale. — In verità, diceva Giulia, non si direbbe, Emmanuele, che tutte queste ricche persone, ieri così felici, avessero dimenticato, nel calcolo sul quale avevano stabilita la loro fortuna, la loro felicità e la loro considerazione, la parte dovuta al genio cattivo, e che questi, come nelle cattive fate dei racconti di Perrault, che avevano dimenticato d’invitare a qualche nozze, o a qualche festino, fosse poi comparso d’improvviso per vendicarsi di questa fatale dimenticanza. — Quanti disastri, diceva Emmanuele pensando a Morcerf e a Danglars. — Quanti patimenti! diceva Giulia, ricordandosi di Valentina, che per un istinto di donna non voleva nominare davanti a suo fratello. — Se è Dio che li ha colpiti, diceva Emmanuele, ciò è perchè Dio, che è la suprema bontà, nulla ha ritrovato nella vita passata di quelle genti, che meritasse l’attenuazione della pena, e perchè quella gente era maledetta. — Non sei tu ben temerario nel tuo giudizio, Emmanuele? disse Giulia. Quando mio padre, colla pistola alla mano, era sul punto di bruciarsi le cervella, se qualcuno avesse detto, come tu dicevi: quest’uomo ha meritata la sua pena, questo qualcuno non si sarebbe sbagliato? — Sì, ma Dio non ha permesso che nostro padre soccombesse, come non ha permesso che Abramo sacrificasse suo figlio; al patriarca, come a noi, inviò un angelo che tagliò a mezza strada le ali alla morte. Terminava appena di pronunziare queste parole, quando risuonò il campanello. Era il segnale dato dal portinaro che giungeva una visita. Quasi nel medesimo punto si aprì la porta del salotto, e comparve il conte di Monte-Cristo sulla soglia. Fu un doppio grido di gioia per parte dei due giovani sposi. Massimiliano rialzò la testa, e la lasciò tosto ricadere. — Massimiliano, disse il conte senza far sembiante di notare le diverse impressioni che la sua presenza aveva prodotte nei suoi ospiti; io vengo a cercarvi. — A cercarmi? disse Morrel, come se fosse uscito da un sogno. — Sì, disse Monte-Cristo, non è convenuto che vi avrei condotto meco, non vi ho prevenuto ieri di tenervi pronto? — Eccomi, disse Massimiliano, era venuto a dir loro addio. — E dove andate, sig. conte? domandò Giulia. — Da prima a Marsiglia, signora. — A Marsiglia! ripeterono insieme i due sposi. — Sì, e vi prendo vostro fratello. — Ah! disse Giulia, riconducetelo guarito. Morrel voltò la faccia per nascondere il vivo rossore. — Vi siete dunque accorti che non istava bene? — Sì, rispose la giovane sposa, ed ho paura ch’egli si annoi a stare con noi. — Io lo distrarrò, riprese il conte. — Son pronto, signore, disse Morrel, addio, miei buoni amici, addio Emmanuele, addio Giulia! — Come! addio? gridò Giulia; voi partite così subito, senza preparativi, senza passaporti? — Questi sono particolari che raddoppiano il dispiacere delle separazioni, disse Monte-Cristo, e Massimiliano, ne sono sicuro, avrà operato con cautela, questo è quanto io gli aveva raccomandato. — Ho il mio passaporto, e la mia valigia è fatta, disse Morrel colla sua monotona tranquillità. — Benissimo, disse Monte-Cristo sorridendo, si riconosce l’esattezza di un buon soldato. — E ci lasciate in tal modo? disse Giulia, sul momento, voi non ci accordate neppur un giorno, neppure un’ora? — La mia carrozza è alla porta, signora; è necessario che fra cinque giorni io sia a Roma. — Ma Massimiliano non va a Roma? disse Emmanuele. — Io vado ove piacerà al conte di condurmi, io appartengo a lui anche per un mese. — Oh! mio Dio, in che modo lo dice, sig. conte! — Massimiliano mi accompagna, disse il conte con la sua persuasiva affabilità, tranquillatevi adunque sul conto di vostro fratello. — Addio sorella mia! ripetè Morrel; addio Emmanuele. — Egli mi strazia il cuore con la sua non curanza, disse Giulia! oh! Massimiliano, tu ci nascondi qualche cosa. — Bah! disse Monte-Cristo, lo vedrete ritornare gaio, allegro e contento. — Massimiliano lanciò a Monte-Cristo uno sguardo quasi sdegnoso, quasi irritato. — Partiamo! disse il conte. — Prima che partiate, sig. conte, disse Giulia, permetteteci di dirvi tutto ciò che l’altro giorno... — Signora, rispose il conte prendendole le mani, tutto ciò che direste non varrà mai ciò che io leggo nei vostri occhi, ciò che il vostro cuore ha pensato, ciò che il mio ha sentito. Come i benefattori da romanzo, avrei dovuto partire senza rivedervi; ma questa virtù sarebbe stata al di sopra delle mie forze, perchè sono un uomo debole e vanitoso, perchè lo sguardo timido, ilare e tenero dei miei simili mi fa del bene. Ora io parto, e spingo l’egoismo fino a dirvi: non mi dimenticate, amici miei, poichè probabilmente non mi rivedrete più. — Non vi rivedremo più! gridò Emmanuele, mentre che due grosse lagrime scorrevano sulle guance di Giulia, non vi rivedremo più! non siete dunque un uomo, siete un angiolo che ci lascia, risalite al cielo dopo essere comparso sulla terra per farvi del bene! — Non parlate così, riprese vivamente Monte-Cristo, non dite mai tali cose, amici miei; gli angeli non fanno mai del male, essi sanno a qual punto debbano fermarsi: il caso, le occasioni, le combinazioni non sono mai più forti di loro. No, io sono un uomo, Emmanuele, e la vostra ammirazione è tanto ingiusta quanto sono profanazioni le vostre parole, — e strinse sulle labbra la mano di Giulia che si precipitò fra le sue braccia, mentre stendeva l’altra mano ad Emmanuele; indi, strappandosi da questa casa, dolce nido di cui la felicità era l’ospite, con un segno attirò dietro a sè Massimiliano, passivo, insensibile e costernato come era dal momento della morte di Valentina. — Rendete la gioia a mio fratello! — disse Giulia all’orecchio di Monte-Cristo: questi le strinse la mano come l’aveva a lei stretta undici anni prima sulla scala che conduceva al gabinetto di Morrel. — Vi fidate sempre di Sindbad il Marinaro? le domandò egli sorridendo. — Oh! sì! — Ebbene dunque! addormentatevi in pace e nella confidenza del Signore. — Come lo abbiam detto, la carrozza di posta aspettava, quattro vigorosi cavalli sollevavan le criniere, e battevano il pavimento con impazienza. Ai piè della scalinata, Alì aspettava col viso lucido pel sudore; sembrava giungere da lunga corsa. — Ebbene! gli domandò il conte in arabo, sei stato dal vecchio? — Alì fece segno di sì. — E gli hai aperta la lettera sotto gli occhi nel modo che ti aveva ordinato? — Sì, fece ancora rispettosamente lo schiavo. — E che cosa ha detto, o piuttosto che cosa ha fatto? Alì si pose sotto la luce, in modo che il padrone potesse vederlo, ed imitando colla sua intelligenza la fisonomia del vecchio, chiuse gli occhi come faceva Noirtier quando voleva dire: sì. — Bene! egli accetta, disse Monte-Cristo, partiamo! — Non aveva appena lasciata sfuggire questa parola, che già la carrozza si mosse, ed i cavalli sollevarono dal pavimento un nembo di polvere misto a scintille. Massimiliano si accomodò nel suo angolo senza dire una parola. Passò una mezz’ora: la carrozza si fermò di repente; il conte aveva tirata la funicella di seta che corrispondeva al dito d’Alì. Il moro discese ed aprì lo sportello. La notte sfavillava di stelle. Erano all’alto della salita di _Villejuif_, sulla spianata di dove si vede Parigi, che, come un tetro mare, agita i suoi milioni di lumi che sembrano flutti fosforescenti, più numerosi, più appassionati, più mobili, più furiosi, più avidi di quelli dell’oceano irritato, flutti che non conoscono la calma del vasto mare, che si urtano sempre, che schiumeggiano sempre, che sempre inghiottiscono!.... Il conte restò solo, e dopo un segno della sua mano, la carrozza fece alcuni passi in avanti. Allora considerò lungamente, colle braccia incrociate, questa fornace ove vengono a fondersi, a torcersi tutte quelle idee che si slanciano dal golfo bollente per andare ad agitare il mondo; indi allorchè ebbe ben fermato il suo sguardo possente sopra questa babilonia: — Gran città! mormorò egli inchinando la testa e giungendo le mani come se avesse pregato; sono meno di sei mesi che io ho oltrepassato le tue porte. Io credeva che lo spirito della Provvidenza mi vi avesse condotto, ora me ne riconduce trionfante; il segreto della mia speranza nelle tue mura io l’ho confidato soltanto a Dio, che solo ha potuto leggere nel mio cuore, egli solo conosce che mi ritiro senza odio, senza orgoglio, ma non senza dispiaceri: egli solo sa che io non ho fatto uso nè per me nè per vane cause del potere di cui mi ha fornito. O gran città! nel tuo seno palpitante io ritrovai ciò che cercava; minatore paziente, ho rimescolate le tue viscere per farne uscire il male; ora la mia opera è compita, quella che ho creduta la mia missione è terminata; ora tu non puoi più offrirmi nè gioie nè dolori, addio! Parigi! addio! — Il suo sguardo passeggiò ancora sulla vasta pianura, come quello di un genio notturno; indi passando la sua mano sulla sua fronte, risalì nella carrozza che si chiuse dietro di lui, e che disparve ben presto dall’altra parte della salita fra un turbine di polvere e di rumore. CXII. — LA CASA DEI VIALI DI MEILLAN. Essi fecero dieci leghe senza pronunziare una sola parola. Morrel meditava, Monte-Cristo lo guardava meditare. — Morrel, gli disse il conte, vi sareste forse pentito di avermi seguito? — No, sig. conte; ma di lasciar Parigi... — Se io avessi creduto che la vostra felicità vi aspettava a Parigi, Morrel, vi ci avrei lasciato. — È a Parigi che Valentina riposa, ed il lasciare Parigi è un perderla una seconda volta. — Massimiliano, disse il conte, gli amici che abbiam perduti non riposano nella terra, essi sono sepolti nel nostro cuore, e Dio volle così, perchè noi ne fossimo sempre accompagnati. Ho due amici che mi accompagnano sempre in tal modo, uno di questi mi ha dato la vita, l’altro mi ha dato l’intelligenza. Lo spirito d’entrambi è in me. Io li consulto nei dubbi, e, se faccio qualche cosa di bene, lo debbo ai loro consigli. Consultate la voce del vostro cuore, Morrel, e domandategli se dovete continuare a farvi cattivo viso. — Amico mio, disse Massimiliano, la voce del mio cuore è ben trista e non mi promette che infortunii. — È proprio degli spiriti indeboliti il vedere tutte le cose attraverso un velo nero; è l’anima che forma a sè stessa i suoi orizzonti: la vostra anima è tetra, ed essa vi fa vedere un cielo tempestoso. — Ciò può essere vero, disse Massimiliano. — E ricadde nelle sue astrazioni. Il viaggio si fece con quella meravigliosa rapidità ch’era una delle prerogative del conte: le città passarono come ombre sulla loro strada; gli alberi, scossi dal primo vento d’autunno, sembravano venir loro incontro come giganti scapigliati, che fuggissero rapidamente tosto che li avevano raggiunti. La dimane di buon mattino, giunsero a Châlons, ove li aspettava il battello a vapore del conte; senza perdere un minuto, la vettura fu trasportata a bordo, i due viaggiatori erano già imbarcati. Il battello era tagliato per la corsa, lo si sarebbe detto un pirogo indiano; le sue due ruote sembravano due ali, Morrel stesso provava quella specie d’inebriamento che produce la prestezza, e qualche volta il vento, che faceva ondeggiare i suoi capelli, sembrava atto per un momento ad allontanare le nubi della sua fronte. In quanto al conte, a seconda che si allontanava da Parigi, una serenità quasi sovrumana sembrava circondarlo come un’aureola; si sarebbe detto un esiliato che ritornava nella patria. Ben presto Marsiglia, bianca, tiepida e viva: Marsiglia, la sorella cadetta di Tiro e di Cartagine, lor succeduta nell’impero del Mediterraneo; Marsiglia, sempre più giovane a seconda che invecchia, comparve ai loro occhi. Era per entrambi un aspetto fecondo di rimembranze quella torre rotonda, quel forte san Nicola, e il Palazzo di Città di Puget, questo porto cogli scali di selce ove entrambi avevano scherzato da fanciulli. Così si fermarono entrambi di comune accordo sulla Cannebière. Una nave partiva per Algieri, i colli, i passeggieri ammassati sul ponte, la folla dei parenti, degli amici, che dicevano addio, che gridavano, che piangevano, spettacolo sempre commovente, anche per quelli che assistono ogni giorno a questo spettacolo; questo movimento non potè distrarre Massimiliano, da un’idea che aveva afferrata, dal momento in cui aveva messo il piede sui larghi dadi dello scalo. — Osservate, diss’egli, stringendo il braccio di Monte-Cristo, ecco il luogo ove si fermò mio padre quando il _Faraone_ entrò in porto; qui il bravo uomo, che voi salvaste dalla morte e dal disonore, si gettò fra le mie braccia; sento ancora l’impressione delle sue lagrime sul mio viso, ed egli non piangeva solo, molti piangevano nel vederci piangere. — Monte-Cristo sorrise: — Io era là, diss’egli mostrando a Morrel l’angolo di una strada. — Mentre diceva così, e nella direzione che indicava il conte, s’intese un gemito doloroso, e si vide una donna che faceva segni ad un passeggiero che stava sulla nave in partenza. Questa donna era velata; Monte-Cristo la seguì con gli occhi, con una emozione, che Morrel avrebbe facilmente notata, se all’opposto del conte, i suoi occhi non fossero stati fissi sul bastimento. — Oh! mio Dio! gridò Morrel, quel giovine che saluta col cappello, quel giovine in uniforme, con la contro spallina da sottotenente, è Alberto de Morcerf! — Sì, disse Monte-Cristo, io lo aveva riconosciuto. — In che modo? guardate dalla parte opposta. Il conte sorrise, come faceva quando non voleva rispondere. I suoi occhi si riportarono sulla donna velata che disparve all’angolo della strada. Egli allora si rivolse: — Amico caro, diss’egli a Massimiliano, non avete alcuna cosa da fare in questa città? — Ho da piangere sulla tomba di mio padre. — Sta bene, andate ed aspettatemi laggiù; vi raggiungerò, io pure ho una pietosa visita da fare. Morrel lasciò cadere la sua mano in quella che gli tendeva il conte, indi, con un movimento di testa, di cui sarebbe impossibile esprimere la malinconia, lasciò il conte e si diresse verso l’est della città. Monte-Cristo, allontanatosi Massimiliano, restò nello stesso luogo fin che fu passato, indi s’incamminò verso i viali di Meillan, affine di ritrovare quella piccola casa, che il principio di questa nostra istoria avrà reso famigliare ai nostri lettori. Ella si eleva ancora all’ombra dei tigli che servono di passeggiata agli oziosi Marsigliesi, tappezzata di vasti festoni di vite che s’incrociano sulla pietra ingiallita dall’ardente sole del mezzogiorno in braccia annerite e disseccate per l’età. Due scalini di pietra consunti dallo stropicciamento dei piedi conducevano alla porta d’entrata, porta fatta di tre assi che ad onta delle riparazioni annuali non avevano conosciuto il mastice e la pittura, aspettando pazientemente che ritornasse l’umidità per riavvivarle. Questa casa tutta graziosa, ad onta della sua antichità, tutta allegra, ad onta della sua apparente miseria, era pur quella che abitava altra volta il padre di Dantès. Soltanto il vecchio abitava il soffitto, ed il conte aveva messa la casa tutta intera a disposizione di Mercedès. Là entrò la donna del lungo velo che Monte-Cristo aveva veduta allontanarsi dal naviglio in partenza; ella ne chiudeva la porta al momento stesso in cui egli compariva all’angolo della strada, di modo che egli la vide sparire quasi subito dopo che la rinvenne. Per lui gli scalini usati erano antiche conoscenze, sapeva meglio di alcun altro aprire quella vecchia porta, in cui un chiodo a larga testa serviva per sollevare il nottolino. Così egli senza bussare, senza prevenire, come un amico, come un ospite, entrò. In capo ad un corridore lastricato di selci, apriva, ricco di calore di sole e di luce, un piccolo giardino, quel medesimo in cui, al posto indicato, Mercedès aveva ritrovata la somma di cui la delicatezza del conte aveva fatto risalire il deposito a ventiquattro anni; dalla soglia della porta di strada si scoprivano i primi alberi di questo giardino. Giunto sulla soglia, Monte-Cristo intese un sospiro che rassomigliava ad un singulto: questo sospiro guidò il suo sguardo, e sotto un pergolato di gelsomini della Virginia, dalle foglie fitte e dai lunghi fiori color di porpora, scoperse Mercedès assisa, inchinata e piangente. Ella aveva rialzato il velo, e sola in faccia al cielo, col viso nascosto nelle mani, dava libero sfogo ai sospiri e ai singulti, così lungamente contenuti per la presenza di suo figlio. Monte-Cristo fece qualche passo in avanti; la sabbia strideva sotto i suoi piedi. Mercedès rialzò la testa e mandò un grido di spavento vedendo un uomo davanti a lei. — Signora, disse il conte, non è più in mio potere di apportarvi la felicità, ma vi offro la consolazione: degnatevi di accettarla come proveniente da un amico. — Sono infatto molto disgraziata, son sola al mondo...! non aveva che mio figlio, ed egli mi ha lasciata. — Ed ha fatto bene, signora, replicò il conte, e ciò è prova di un cuor nobile: egli ha capito che ogni uomo deve un tributo alla sua patria, gli uni col loro ingegno, gli altri colla loro industria; questi colle loro veglie, quelli col loro sangue. Restando con voi avrebbe consumata vicino a voi la sua vita divenuta inutile; non avrebbe potuto accostumarsi ai vostri dolori: sarebbe divenuto odioso a sè stesso per impotenza; diventerà grande e forte lottando contro la sua avversità ch’egli cangerà in fortuna. Lasciatelo ricostruire il vostro e l’avvenire d’entrambi, signora; io oso promettervi ch’egli si ritrova fra mani sicure. — Oh! disse la povera donna scuotendo tristamente la testa, questa fortuna di cui parlate, e che dal fondo del mio cuore prego Dio che gli venga concessa, io non la godrò. Tante cose si sono infrante contro di me, ed intorno a me che mi sento vicina alla tomba. Voi avete fatto bene, sig. conte, di avvicinarmi al luogo ove sono stata felice. Nel luogo ove si è stati felici là si deve morire. — Ahimè! disse Monte-Cristo, tutte le vostre parole, signora, cadono amare e brucianti sul mio cuore; tanto più amare e più brucianti che voi avete ragione di odiarmi; sono stato io la causa di tutti i vostri mali; perchè non mi compiangete voi invece di accusarmi! voi così mi renderete molto più disgraziato ancora. — Io odiarvi, accusare voi, voi, Edmondo... odiare, accusare l’uomo che ha salvata la vita di mio figlio, poichè non era forse vostra fatale e sanguinosa intenzione quella di uccidere al sig. de Morcerf questo figlio di cui egli andava superbo? Oh! guardatemi, e vedrete se vi è in me l’apparenza di un rimprovero. — Il conte sollevò il suo sguardo e lo fermò su Mercedès, che per metà in piedi, stendeva le mani verso di lui. — Oh! guardatemi, continuò ella con un sentimento di profonda malinconia; in oggi si può sopportare tutto lo splendore dei miei occhi, non è più il tempo in cui io veniva a sorridere ad Edmondo Dantès, che mi aspettava lassù alla finestra di quella soffitta, che abitava il suo vecchio padre... da quel tempo sono scorsi molti giorni dolorosi, che hanno scavato come un abisso fra me e quel tempo. Io accusare voi, Edmondo, odiarvi, amico mio! no! è me che accuso e che odio! oh! miserabile che sono, gridò ella giungendo le mani ed alzando gli occhi al cielo, sono io stata punita...? io aveva la religione, l’innocenza, l’amore, questi tre beni che formano gli angeli, e, miserabile che sono stata, ho dubitato di Dio. — Monte-Cristo fece un passo verso di lei, e le stese silenziosamente la mano. — No, diss’ella ritirando dolcemente la sua, no, amico mio, non mi toccate: mi avete risparmiata, e ciò non ostante io era la più colpevole di quanti avete colpito. Tutti gli altri hanno operato per odio, per cupidigia, per egoismo; ma io ho operato per viltà. Essi desideravano, io ho avuto paura. No, non mi stringete la mano, Edmondo; voi meditate qualche parola affettuosa, lo sento, non la dite, riserbatela per un’altra, non ne sono più degna. Guardate... (ella scoperse del tutto il suo viso) guardate, le disgrazie hanno fatto i miei capelli grigi; i miei occhi hanno versato tante lagrime, che essi sono accerchiati di vene violette; la mia fronte si riempie di rughe. Voi, al contrario, Edmondo, siete sempre giovine, sempre bello, sempre altiero, e perchè avete avuta la forza, e perchè vi siete confidato in Dio, e Dio vi ha sostenuto. Io, sono stata vile, l’ho rinnegato, e Dio mi ha abbandonata. — Mercedès si struggeva in lagrime; il cuore della donna si spezzava all’urto delle rimembranze. Monte-Cristo le baciò rispettosamente la mano; ma ella sentì che questo bacio era senza ardore, come quello che il conte avrebbe deposte sulla mano di marmo di una statua. — Vi sono, continuò ella, delle esistenze predestinate cui al primo fallo si spezza tutto il loro avvenire. Io vi credeva morto, avrei dovuto morire; poichè a che cosa mi ha servito il portare eternamente il vostro lutto nel mio cuore? a formare di una donna di 39 anni una donna di cinquant’anni, ecco tutto. A che ha servito che io sola fra tutti vi abbia riconosciuto? ho soltanto salvato mio figlio. Non doveva io egualmente salvare l’uomo, per quanto fosse colpevole, che aveva accettato per marito? però io l’ho lasciato morire; che dico, mio Dio! io ho contribuito alla sua morte, colla mia vile insensibilità, col mio disprezzo, non ricordandomi o non volendo ricordarmi che per me egli diventò spergiuro e traditore! A che serve finalmente che io abbia accompagnato mio figlio fin qui, se qui lo abbandono, se qui lo lascio partire, se qui lo getto su quella terra divoratrice dell’Affrica! Oh! io sono stata vile! ho rinnegato il mio amore, e, come i rinnegati, porto disgrazia a tutto ciò che mi circonda! — No, Mercedès, disse Monte-Cristo, no; riprendete migliore opinione di voi stessa. No, voi siete una nobile e buona donna, mi avete disarmato col vostro dolore. Esaminate il passato, esaminate il presente, cercate d’indovinare l’avvenire; i più spaventosi infortunii, le più crudeli sofferenze, l’abbandono di tutti quelli che mi amavano, la persecuzione di coloro che non mi conoscevano, ecco la prima parte della mia vita; indi dopo la prigionia, la solitudine, la miseria; l’aria, la libertà, una fortuna così rumorosa, così fatidica, così smisurata, che, a meno di essere cieco, ho dovuto pensare che Iddio me la inviava con dei grandi disegni. Da quel momento questa fortuna mi è sembrata un sacerdozio, d’allora, non più un pensiero in me per questa vita di cui voi, povera donna, avete qualche volta assaporata la dolcezza; non più un’ora di calma; io mi sono sentito spinto come la nube di fuoco è spinta nel cielo per andare a bruciare le città maledette. Come questi avventurosi capitani che s’imbarcano per un viaggio pericoloso, che meditano una pericolosa spedizione, io preparava i viveri, caricava le armi, ammassava i mezzi di assalto e di difesa, abituando il corpo agli esercizii più violenti, lo spirito alle cose più faticose, imparando al braccio l’uccidere, assuefacendo gli occhi a veder uccidere, a veder soffrire, la bocca a sorridere agli spettacoli più terribili; di buono, di confidente, di smemorato che era, mi son fatto vendicativo, dissimulatore, cattivo, o piuttosto impassibile come la sorda e cieca fatalità. Allora mi sono slanciato nella via che mi era aperta, ho oltrepassato lo spazio, ho toccata la meta: infelici coloro che ho incontrati sulla mia strada! — Basta! disse Mercedès, basta Edmondo! credete a quella che sola ha potuto riconoscervi, e sola pur anche ha saputo comprendervi? Ora, quella che se l’aveste incontrata sulla strada l’avreste infranta come un vetro, ha dovuto pur anche ammirarvi, Edmondo! Come vi è un abisso fra me ed il passato, vi è un abisso fra voi e gli altri uomini; e la mia più dolorosa tortura, ve lo dirò, è di fare dei confronti, perchè non vi è niente al mondo che vi valga, che vi rassomigli. Ora, ditemi addio, Edmondo, e separiamoci. — Prima che io vi lasci, che desiderate voi, Mercedès? — Non desidero che una cosa sola, che mio figlio sia felice. — Pregate il Signore, che solo tiene l’esistenza degli uomini fra le sue mani, di allontanare da lui la morte, io m’incarico del resto. — Grazie, Edmondo. — Ma voi, Mercedès? — Io non ho bisogno di niente, vivo fra due tombe; l’una è quella di Edmondo Dantès, morto da lungo tempo; io l’amava! Questa parola non siede più bene sulle mie labbra, ma il mio cuore si risovviene ancora, e per niente al mondo vorrei perdere la memoria del cuore. L’altra è quella di un uomo stato ucciso da Edmondo Dantès: è mio debito di piangere il morto. — Vostro figlio sarà felice, signora, ripetè il conte. — Allora io pure sarò felice quanto potrò esserlo. — Ma... infine... che farete? — Mercedès sorrise tristamente: — Dirvi che io vivrò in questo paese come la Mercedès di altra volta, vale a dire lavorando, non lo credereste; non sono più atta che a pregare, e non ho bisogno di lavorare; il piccolo tesoro sepolto da voi, si ritrovò al posto che avete indicato; si cercherà chi sono io, si domanderà che faccio, non si saprà come vivo, che importa? questo è un affare fra Dio, voi e me. — Mercedès, disse il conte, non ve ne faccio un rimprovero, ma voi avete esagerato il sacrificio, abbandonando tutta la fortuna fatta dal sig. de Morcerf, la cui metà vi apparteneva di diritto per la vostra economia e vigilanza. — Io vedo ciò che mi volete proporre; ma non posso accettare, mio figlio me lo proibirebbe. — Per cui mi guarderei bene dal fare cosa alcuna per voi che non avesse l’approvazione di Alberto: saprò le sue intenzioni e mi vi sottometterò. Ma se egli accetta ciò che voglio fare, lo imiterete senza ripugnanza? — Voi sapete, Edmondo, che non sono una creatura pensante; non ho altra determinazione, se non quella di non determinarmi a niente. Dio mi ha talmente scossa nelle sue tempeste, che ho perduta la volontà: sono fra le sue mani, come un passero fra gli artigli dell’aquila. Egli non vuole che io muoia, poichè vivo. Se egli mi manderà dei soccorsi, è segno che lo vorrà, ed io li prenderò. — State all’erta, signora, disse Monte-Cristo, non è così che si adora Iddio! Dio vuole essere compreso, vuole che si conosca la sua possanza: egli è per questo che ci ha dato il libero arbitrio. — Disgraziato! gridò Mercedès, non mi parlate così, lasciatemi l’illusione che non aveva il libero arbitrio, senza di che, che cosa mi resterebbe per salvarmi dalla disperazione? — Monte-Cristo impallidì leggermente ed abbassò la testa, oppresso dalla veemenza del dolore. — Non volete dirmi, a rivederci? fece egli stendendole la mano. — Al contrario, vi dirò a rivederci, replicò Mercedès, mostrandogli solennemente il cielo; questo è un provarvi che io spero ancora. — E dopo aver toccata la mano del conte colla sua mano tremante, Mercedès si slanciò nelle scale, e disparve dagli occhi del conte. Monte-Cristo allora uscì lentamente dalla casa e riprese la strada del porto. Ma Mercedès non lo vide allontanarsi quantunque ella fosse alla finestra della piccola camera del padre di Dantès. I suoi occhi cercavano di lontano il bastimento che trasportava suo figlio verso il vasto mare. È però vero che la sua voce, come suo malgrado, mormorava sommessamente: — Edmondo! Edmondo! Edmondo! CXIII. — IL PASSATO. Il conte uscì coll’anima oppressa da questa casa ove lasciava Mercedès per non rivederla mai più, secondo tutte le probabilità. Dopo la morte del piccolo Edoardo, si era operato un gran cangiamento in Monte-Cristo. Giunto al sommo della sua vendetta pel declive lento e tortuoso che aveva seguito, vide dall’altra parte della montagna l’abisso del dubbio. Vi era di più: la conversazione che aveva avuto con Mercedès aveva risvegliato tante rimembranze nel suo cuore, che queste stesse rimembranze avevano bisogno di essere combattute. Un uomo della tempra del conte non poteva fluttuare lungamente in questa malinconia, che può far vivere gli spiriti volgari dando loro una apparente originalità, ma che uccide le anime elevate. Il conte diceva a sè stesso che per essere giunto quasi a biasimarsi, bisognava che si fosse introdotto un qualche sbaglio nei suoi calcoli. — Io guardo male il passato, diss’egli, e non posso essermi in tal modo sbagliato. Che! continuava, lo scopo che mi era proposto sarebbe forse insensato? che! avrei percorsa una falsa strada per dieci anni? che! un’ora sarebbe bastata per provare all’architetto che l’opera di tutte le sue speranze era un’opera se non impossibile almeno perversa. Io non voglio abituarmi a questa idea, mi renderebbe pazzo. Ciò che manca ai miei ragionamenti d’oggi, è l’apprezzamento esatto del passato dall’altra estremità dell’orizzonte. Infatto a seconda che s’avanza, il passato, simile al paesaggio a traverso il quale si passa, si cancella dalla memoria a seconda che si allontana. Mi accade ciò che accade a coloro che si sono feriti in sogno, essi guardano e sentono la loro ferita e non si ricordano di averla ricevuta. Andiamo dunque, uomo rigenerato; andiamo, ricco stravagante, andiamo, dormente risvegliato; andiamo, visionario possente; andiamo, milionario invincibile, riprendi per un momento questa funesta prospettiva della tua vita miserabile ed affamata, ripassa pel sentiero in cui ti ha spinto la tua stella, in cui ti ha condotto l’infortunio, in cui ti ha ricevuto la disperazione; troppi diamanti, troppo oro, troppa felicità, irradiano oggi sul cristallo di questo specchio ove Monte-Cristo guarda Dantès; nascondi questi diamanti, imbratta quest’oro, cancella questi raggi; ricco, ritorna povero; libero, ritorna prigioniero; risuscitato, ritorna cadavere. — Tali cose dicendo a sè stesso Monte-Cristo percorreva la strada della _Caisserie_, era la stessa per la quale, vent’anni prima, era stato condotto da una guardia silenziosa e notturna; queste case coll’aspetto ridente e animato erano in quella notte tetre, mute e chiuse. — Eppure sono le stesse, mormorò Monte-Cristo. Soltanto allora faceva notte, e oggi è giorno chiaro, è il sole che rischiara tutto ciò e che rende tutto gaio. Egli discese allo scalo San Lorenzo e si avanzò verso la _Consigne_, era il punto ove fu imbarcato. Un battello da passeggiata ivi era a poca distanza; Monte-Cristo chiamò il barcaruolo, che tosto remò alla sua volta, colla fretta che mettono in questo esercizio i battellieri che sfiorano l’onda con una buona barca. Il tempo era magnifico, il viaggio fu una festa. Il sole discendeva all’orizzonte, rosso e fiammeggiante, nei flutti che si arrossavano al suo avvicinarsi; il mare, liscio come uno specchio, s’increspava qualche volta sotto il guizzo dei pesci che, perseguitati da qualche nascosto nemico, si slanciavano fuori dell’acqua per chiedere la loro salvezza ad un altro elemento; finalmente sull’orizzonte si vedevano passare bianche e graziose come gabbiani viaggiatori, le barche dei pescatori che ritornavano alle Martigues, o i bastimenti mercantili carichi per la Corsica o per la Spagna. Ad onta di queste barche coi graziosi contorni, ad onta di questa luce dorata che inondava il paesaggio, il conte, avvolto nel suo mantello, si ricordava a uno a uno di tutti i particolari del terribile viaggio: quel lume unico ed isolato che ardeva ai Catalani, quella vista del castello d’If che gli fece comprendere il luogo ove lo conducevano, quella lotta coi gendarmi allora quando volle precipitarsi in mare, la sua disperazione quando si sentì vinto, e quella sensazione di freddo al contatto della estremità della canna di carabina applicata sulle tempia come un anello di ghiaccio. A poco a poco come quelle sorgenti disseccate dalla state che, allora quando si ammassano le nubi d’autunno, s’inumidiscono a poco a poco e cominciano a trasudare goccia a goccia, il conte di Monte-Cristo sentì trapelare nel suo petto goccia a goccia quel vecchio fiele stravasato, che aveva altra volta inondato il cuore d’Edmondo Dantès. Per lui non vi fu più bel cielo, più barche graziose, più luce ardente; il cielo si velò di nubi, l’apparizione del tetro gigante che si chiama il castello d’If lo fece rabbrividire, come se gli fosse comparso di repente il fantasma d’un nemico mortale. Istintivamente il conte addietrò fino all’estremità della barca. Il barcaiuolo aveva un bel che dire colla sua voce più accarezzante: — Noi siamo a terra, signore. — Monte-Cristo si ricordò che in questo medesimo luogo, su questo medesimo scoglio, era stato trascinato violentemente dalle sue guardie, che lo avevano sforzato a salire questa cordonata pungendogli i reni colla punta di una baionetta. La strada era sembrata molto lunga in altro tempo a Dantès; Monte-Cristo l’aveva ritrovata cortissima; ciascun colpo di remo, coll’acqua che avea fatta spruzzare, aveva ridestato in lui un milione di pensieri e di ricordi. Dopo la rivoluzione di luglio non vi erano più prigionieri al castello d’If, un picchetto destinato ad impedire il contrabbando abitava solo i corpi di guardia; un portinaro aspettava i curiosi alla porta per mostrar loro questo monumento di terrore, divenuto un monumento di curiosità. Eppure, quantunque fosse istruito di tutto ciò, quando entrò sotto la volta, quando discese la nera scala, quando fu condotto al carcere che aveva chiesto di vedere, un gelido pallore investì la sua fronte, il cui freddo sudore fu respinto fino al cuore. Il portinaro che lo conduceva era là soltanto dal 1830. Fu condotto nel suo proprio carcere. Rivide la pallida luce che filtrava dallo stretto spiraglio, rivide il posto ove era il letto, tolto di poi, e dietro a questo letto, quantunque ammurata, ma visibile ancora per le sue pietre più nuove, rivide l’apertura scavata dall’amico Faria. Monte-Cristo sentì le gambe indebolirsi, prese uno sgabello di legno e vi si assise sopra. — Si racconta qualche storia su questo castello oltre quella dell’imprigionamento di Mirabeau? domandò il conte; vi è qualche tradizione su queste lugubri dimore, ove si esita a credere che uomini vivi possano giammai esser stati racchiusi? — Sì, signore, disse il portinaro, e su questa stessa prigione il carceriere Antonio me ne ha raccontata una. Monte-Cristo fremette. Antonio era stato il suo carceriere, egli ne aveva quasi dimenticato il nome ed il viso; ma al sentire pronunziare il suo nome, lo rivide tal qual era, colla figura circondata da barba, la veste bruna, ed il mazzo di chiavi di cui gli sembrava ancora risentire il tintinnio. Il conte si rivolse, e credè vederlo nell’ombra del corridore, resa più oscura dalla luce della torcia che ardeva nelle mani del portinaro. — Signore, vuole ella ch’io la racconti? domandò il portinaro. — Sì, fece il conte di Monte-Cristo, dite. E si mise la mano sul petto per comprimere i frequenti battiti del cuore spaventato dal sentirsi raccontare la sua propria istoria. — Dite, ripetè egli. — Questo carcere, riprese il portinaro, era abitato da un prigioniero, è molto tempo, un uomo pericoloso, a quanto sembrava, e tanto più pericoloso, in quanto che era pieno d’industria. Un altro uomo abitava questo stesso castello nello stesso tempo di lui; questi però non era cattivo, era un povero uomo scienziato divenuto pazzo. — Ah! sì, pazzo! ripetè Monte-Cristo, qual era la sua pazzia? — Egli offriva dei milioni se gli si fosse voluta rendere la libertà. — Monte-Cristo alzò gli occhi al cielo, ma egli non vide il cielo; vi era una separazione di pietra fra lui e il firmamento. Pensò allora che v’era stata una separazione non meno compatta fra Faria che offriva dei tesori, e gli occhi di coloro ai quali venivano offerti quei tesori. — I prigionieri potean vedersi? domandò Monte-Cristo. — Oh! no, signore, era espressamente proibito: ma essi delusero la proibizione scavando un passaggio che andava da una prigione all’altra. — Chi fu dei due quello che scavò il passaggio? — Oh! fu certamente il giovine, disse il portinaro; il giovine era industrioso e forte, mentre che il povero scienziato era vecchio e debole; d’altra parte, egli aveva lo spirito troppo vacillante per tener fissa un’idea. — Ciechi... mormorò Monte-Cristo. — Tanto è vero, continuò il portinaro, che il giovine scavò questo passaggio, con che? non si sa: ma egli lo scavò, e la prova si è che se ne vedono ancora le tracce; a voi, le vedete? e avvicinò la torcia al muro. — Ah! sì! davvero, fece il conte con una voce affievolita per la emozione. — Ne risultò che i due prigionieri comunicarono insieme. Quanto tempo durasse questa comunicazione, non si sa: un giorno il vecchio cadde malato e morì. Indovinate un poco che cosa fece il giovine? disse il custode interrompendosi: trasportò il defunto e lo pose nel proprio letto col naso al muro, indi ritornò nel carcere vuoto, chiuse il foro, e si cacciò dentro al sacco del morto. Avreste mai avuta una simile idea? — Monte-Cristo chiuse gli occhi, e tornò a risentire tutte le impressioni che aveva provate allorquando quella grossa tela, ancor fredda pel cadavere che vi era stato, gli strofinava il viso. Il custode continuò: — Sentite, ecco quale era il suo disegno: credeva che nel castello d’If i morti si seppellissero, e siccome non dubitava che si fossero fatte grandi spese per il sotterramento dei prigionieri, così calcolava di potere essere in istato di rialzare la terra con le sue spalle; ma disgraziatamente in questo castello vi era un altro costume che distruggeva tutt’i suoi disegni: i morti non si seppellivano; si attaccava loro ai piedi una grossa palla da cannone, e si lanciavano in mare, il che fu fatto. Il nostro uomo fu gettato all’acqua dall’alto della galleria; il giorno dopo si ritrovò il vero morto nel suo letto, e fu indovinato tutto, poichè i becchini dissero allora, cosa che non avevano osato di dire prima, cioè che quando il corpo fu lanciato nel vuoto, essi avevano inteso un grido terribile soffocato nello stesso punto dall’acqua nella quale era disparso. Il conte respirava con pena, il sudore gli colava dalla fronte, l’angoscia gli stringeva il cuore. — No! mormorò egli, no! quel dubbio che io provai, era un principio d’obblio! ma qui il cuore si riapre di nuovo e ritorna affamato di vendetta... E del prigioniero, domandò egli, se n’è mai sentito parlare? — Giammai, giammai; capirete bene che delle due l’una: o egli è caduto a piatto, e siccome cadeva da una cinquantina di piedi d’altezza, sarà rimasto ucciso sul colpo. — Voi avete detto che gli era stata attaccata una palla ai piedi! sarà caduto ritto. — O egli è caduto ritto, riprese il portinaro, e allora il peso della palla lo avrà trascinato al fondo, ove è rimasto, povero uomo. — Voi lo compiangete? — In fede mia, sì, quantunque egli fosse nel suo elemento. — Che volete dire con ciò? — Che correva una voce che quel disgraziato fosse stato in altri tempi ufficiale di marina detenuto come bonapartista. — Davvero! mormorò il conte, Dio ti ha fatto per galleggiare al di sopra dei flutti e delle fiamme. Così il povero marinaro vivo nella memoria di qualche narratore, si racconta la sua terribile istoria all’angolo del caminetto, e si freme al momento in cui fendè lo spazio per essere inghiottito nel fondo del mare... Non si è mai saputo il suo nome? domandò il conte alzando la voce. — Ah! sì disse il guardiano in che modo? egli non era conosciuto che sotto il nome del n.º 34. — Villefort! Villefort! mormorò Monte-Cristo, ecco, ciò che molte volte tu avrai dovuto dirti quando il mio spettro importunava le tue veglie. — Il sig. vuol continuare la visita? domandò il portinaro. — Sì, volete mostrarmi la camera dello scienziato? — Ah! del N. 27. — Sì, del N. 27, ripetè Monte-Cristo. E gli sembrò ancora sentire la voce di Faria quando gli aveva domandato il suo nome, e gli aveva gridato il proprio numero a traverso il muro. — Venite. — Aspettate, disse Monte-Cristo, che io getti un ultimo sguardo su tutta la superficie di questo carcere. — Ciò cade a proposito, disse la guida, ho dimenticata la chiave dell’altro. — Andate a prenderla. — Vi lascio la torcia. — No, portatela con voi. — Ma voi resterete all’oscuro. — Io la notte ci vedo. — To’, come lui? — Chi lui? — Il N. 34. Si dice che egli si era talmente abituato all’oscurità, che avrebbe veduto una spilla nell’angolo più oscuro di questo carcere. — Egli è però stato necessario una diecina d’anni per giungere a questo, mormorò il conte. La guida si allontanò portando seco la torcia. Il conte aveva detto il vero: dopo che era rimasto alcuni secondi nell’oscurità, cominciò a distinguere tutto come a giorno chiaro. Allora egli guardò d’intorno a sè, riconobbe realmente bene il suo carcere. — Sì, diss’egli, ecco la pietra sulla quale io sedeva! ecco l’impronta delle mie spalle che hanno consunto il muro! ecco la traccia del sangue che colò dalla mia fronte il giorno in cui volli infrangermi la testa contro le mura!... Oh! queste cifre... me ne ricordo... io le feci un giorno che calcolava l’età di mio padre per sapere se lo avrei veduto vivo; e l’età di Mercedès per sapere se l’avrei ritrovata libera... ebbi un momento di speranza dopo aver compito questo calcolo... io contava senza la fame, e senza l’infedeltà. — Ed un riso amaro sfuggì dalla bocca del conte. Vide come in un sogno suo padre portato alla tomba.... Mercedès condotta all’altare! sull’altra parete del muro un’iscrizione colpì la sua vista. Ella si staccava, ancor bianca, sul muro verdastro: — MIO DIO, vi lesse Monte-Cristo, CONSERVATEMI LA MEMORIA. — Oh! sì gridò egli, ecco la sola preghiera dei miei ultimi tempi: non chiedeva più la libertà, chiedeva la memoria, temeva di divenire pazzo, e dimenticare tutto; mio Dio, mi avete conservata la memoria, ed io mi sono ricordato di tutto. Grazie, grazie, mio Dio! — In questo momento la luce della torcia risplendeva sul muro: era la guida che discendeva. Monte-Cristo andò ad incontrarla. — Seguitemi, diss’egli; — e senza aver bisogno di ritornare verso il chiaro, lo fece continuare per un corridore sotterraneo che lo condusse ad un’altra entrata. Là pure Monte-Cristo fu assalito da una folla di pensieri. La prima cosa che colpì i suoi occhi, fu la meridiana tracciata sul muro, per mezzo della quale Faria contava le ore, indi i resti del letto sul quale il povero prigioniero era morto. A questa vista, il conte invece di provare le angosce sentite nel suo carcere, provò un dolce e tenero sentimento; il sentimento della riconoscenza gli gonfiò il cuore, e due lagrime scorsero dagli occhi. — È qui, disse la guida, che abitava il pazzo, è per di là che il giovine lo veniva a ritrovare, — ed egli fece vedere a Monte-Cristo l’apertura del passaggio che da questa parte era rimasta aperta. — Al colore della pietra, continuò egli, un esperto ha riconosciuto che doveva essere almeno dieci anni che i due prigionieri comunicavano insieme. Povera gente, essi dovevano essersi molto annoiati in questi dieci anni! Dantès cavò alcuni luigi di saccoccia, e stese la mano verso quest’uomo che lo compiangeva per la seconda volta senza conoscerlo. Il portinaro li ricevette, credendo ricevere della piccola moneta; ma allora quando al chiarore della torcia riconobbe il valore della somma, che gli era stata data dal visitatore: — Signore, diss’egli, voi vi siete sbagliato. — In che modo? — Mi avete dato dell’oro. — Lo so. — Come! lo sapete? — Sì. — La vostra intenzione è dunque stata di darmi dell’oro? — Sì. — Dunque posso conservarlo in buona coscienza? — Sì. Ed il custode guardò Monte-Cristo con meraviglia. — _È onestà!_ disse il conte come Hamlet. — Signore, rispose il portinaro che non osava credere alla sua fortuna, non capisco la vostra generosità. — Eppure è facile a comprendersi, amico mio, disse il conte: io sono stato marinaro, e la vostra storia ha dovuto commovermi più di qualunque altro. — Allora, signore, disse la guida, poichè voi siete così generoso, voi meritate che io vi offra qualche cosa. — Che hai da offrirmi, conchiglie, lavori di paglia? grazie. — No, qualche cosa che ha rapporto colla storia che vi narrava. — Davvero! gridò vivamente il conte, che cosa è dunque? — Ascoltate, disse il portinaro, ecco ciò che è accaduto: io dissi fra me stesso: si ritrova sempre qualche cosa nella camera di un prigioniero, quando questi vi è rimasto quindici anni, e mi sono messo ad esplorare i muri. — Ah! gridò Monte-Cristo ricordandosi del doppio nascondiglio. — A forza di ricerche ritrovai che il muro risuonava sotto il capezzale del letto e sotto il caminetto. — Sì, disse Monte-Cristo, sì! — Levai le pietre ed ho ritrovato... — Una scala di corde, degli utensili! gridò il conte. — E come lo sapete? domandò il portinaro con meraviglia. — Non lo so, ma lo indovino, disse il conte; ordinariamente è ciò che ritrovasi nei nascondigli dei prigionieri. — Sì, disse la guida, una scala di corda, e degli utensili. — E tu li hai ancora? gridò Monte-Cristo. — No, signore; ho venduto questi diversi oggetti ad alcuni visitatori! ma mi resta un’altra cosa. — Che cosa dunque? domandò il conte con impazienza. — Mi resta una specie di libro scritto sopra strisce di tela. — Oh! gridò Monte-Cristo, ti resta questo libro? — Non so se sia un libro, disse il custode. — Va, a cercarlo, disse il conte, e se è quel che io presumo, sta pur tranquillo! non avrai a pentirtene. — Io corro, signore. — E la guida uscì. Allora egli andò ad inginocchiarsi pietosamente davanti ai resti di questo letto che per lui era stato dalla morte convertito in un altare. — Oh! mio secondo padre, diss’egli, tu mi hai data la libertà, la scienza, la ricchezza, se dal fondo della tua tomba resta ancora qualche cosa che freme alla voce di quelli che sono rimasti sulla terra, se nella trasfigurazione che soffre il cadavere qualche cosa di animato si agita nei luoghi ove noi abbiamo molto amato o molto sofferto, nobile cuore, spirito superiore, anima profonda, con una parola, con un segno, con una rivelazione qualunque, te ne scongiuro, in nome di questo amore paterno che tu mi accordavi, e del rispetto filiale che ti portava, toglimi questo resto di dubbio, fa che si cambi in convinzione, e sgombra il rimorso. Il conte abbassò la testa e congiunse le mani. — Prendete, signore! disse una voce dietro a lui. — Monte-Cristo rabbrividì, e si voltò. Il portinaro gli stese quelle strisce di tela su cui Faria aveva sparso tutti i tesori della sua scienza. Questo manoscritto era la grande opera di Faria di cui abbiam parlato. Il conte se ne impadronì in tutta fretta, ed i suoi occhi fin dal principio caddero sull’epigrafe, egli lesse: «_Tu strapperai i denti al drago, e calpesterai sotto i tuoi piedi i leoni, ha detto il Signore._» — Ah! gridò egli, ecco la risposta! Grazie padre mio, grazie! — E cavando di saccoccia un piccolo portafogli che conteneva dieci biglietti di banca di mille fr. ciascuno: — prendi, diss’egli, questo portafogli. — Voi me lo regalate? — Sì, ma a condizione che tu non vi guarderai dentro che quando io sarò partito. — E ponendosi sul petto la reliquia che aveva ritrovata, e che per lui aveva il prezzo del più gran tesoro, si slanciò fuori del sotterraneo, e rimontando nella barca: — A Marsiglia! diss’egli. — Indi allontanandosi cogli occhi fissi sulla tetra prigione: — Infortunio! diss’egli a coloro che mi hanno fatto rinchiudere in questo tetro carcere, e a coloro che hanno dimenticato che io vi era rinchiuso. — E ripassando davanti ai Catalani, il conte si rivoltò, ed avviluppando la testa nel suo mantello, mormorò il nome di una donna. La vittoria era completa, il conte aveva per due volte atterrato ogni dubbio. Questo nome, ch’egli pronunciò con una espressione di tenerezza che si accostava all’amore, era il nome d’Haydée. Mettendo piede a terra, Monte-Cristo s’incamminò verso il cimitero ove sapeva di ritrovare Morrel. Là pure, dieci anni prima, aveva pietosamente cercata una tomba in quel cimitero, e l’aveva cercata inutilmente. Egli, che ritornava in Francia con dei milioni, non aveva potuto ritrovare la tomba di suo padre morto di fame. Morrel vi aveva ben fatto mettere una croce, ma essa era caduta. Il degno negoziante era stato più fortunato; morto fra le braccia dei suoi figli, fu condotto da loro a riposare vicino a sua moglie che lo aveva preceduto di due anni nell’eternità. Due larghe pietre di marmo, sulle quali erano scritti i loro nomi, stavano stese l’una vicina l’altra in un piccolo recinto chiuso da una balaustrata di ferro ed ombreggiato da quattro cipressi. Massimiliano era appoggiato ad uno di questi alberi, e fissava sulle due tombe gli occhi che non vedevano. Il suo dolore era profondo, quasi smarrito. — Massimiliano, gli disse il conte, non è lì che devi guardare; è là! E gli mostrò il cielo. — I morti sono dappertutto, disse Morrel: non è ciò che voi stesso mi avete detto quando uscivam da Parigi? — Massimiliano, disse il conte, viaggio facendo, mi avete domandato di fermarvi qualche giorno a Marsiglia: avete sempre lo stesso desiderio? — Non ho più alcun desiderio, disse Morrel, mi sembra soltanto che aspetterei meno penosamente a Marsiglia che in qualunque altro luogo. — Tanto meglio, Massimiliano, perchè io vi lascio, e porto meco la vostra parola, non è vero? — Ah! io la dimenticherò, conte, disse Massimiliano. — No! non la dimenticherete, prima di tutto perchè siete un uomo d’onore, Morrel, perchè lo avete giurato; perchè tornerete a giurarlo. — Oh! conte, abbiate pietà di me! son così infelice! — Ho conosciuto un uomo più infelice di voi. — Impossibile. — Ah! disse Monte-Cristo, è uno degli orgogli della nostra povera umanità, quello che un uomo si crede sempre più disgraziato di un altro disgraziato che piange e deplora vicino a lui. — Che vi è più disgraziato dell’uomo che ha perduto il solo bene che amava e desiderava al mondo? — Ascoltate, Morrel, disse Monte-Cristo, e fissate un momento il vostro pensiero su ciò che sono per dirvi: ho conosciuto un uomo che, come voi, aveva fatto riposare tutte le sue speranze di felicità sopra una donna. Quest’uomo era giovine, aveva un vecchio padre ch’egli amava, una fidanzata che egli adorava; era sul punto di sposarla; per uno di quei capricci della sorte, che farebbe quasi dimenticare la bontà di Dio, se Dio poi non si rivelasse più tardi, mostrando che tutto è per lui un mezzo di condurre alla sua unità infinita, quando di repente per un capriccio di sorte, gli fu tolta la libertà, la fidanzata, l’avvenire che sognava e che credeva suo (poichè cieco ch’egli era non poteva leggere che nel presente) per seppellirlo nel fondo di un carcere. — Ah! fece Morrel, si esce dal carcere in capo ad otto giorni, ad un mese, ad un anno. — Egli vi restò quattordici anni, Morrel, disse il conte ponendo una mano sulla spalla del giovine. Massimiliano fremette: — Quattordici anni, mormorò egli. — Quattordici anni, ripetè il conte: egli pure, in questi 14 anni, ebbe dei momenti di disperazione; egli pure, come voi, Morrel, si credeva il più disgraziato degli uomini; volle uccidersi. — Ebbene? domandò Morrel. — Ebbene! nel momento supremo, Dio si rivelò a lui con questo mezzo umano; forse al primo punto non comprese questa misericordia infinita del Signore, poichè vi vuol del tempo agli occhi velati di lagrime, per schiudersi del tutto, ma in fine egli prese pazienza, ed aspettò. Un giorno uscì dalla sua tomba trasfigurato, ricco, possente; il suo primo grido fu per suo padre; suo padre era morto. — A me pure il padre è morto, disse Morrel. — Sì, ma vostro padre è morto fra le vostre braccia, amico, felice, onorato, ricco, pieno di giorni; suo padre invece morì povero, disperato, e di fame, e allora quando dieci anni dopo la sua morte suo figlio ne cercò la tomba, la tomba pure era disparsa, e nessuno potè dirgli: è là che riposa nel Signore il cuore che ti ha tanto amato: questo era un figlio più disgraziato di voi, Morrel, poichè quegli non sapeva neppure ove ritrovare la tomba di suo padre. — Ma, gli restava almeno la donna che egli aveva amata. — Voi vi sbagliate, Morrel; questa donna... — Era morta? — Peggio ancora: ella era stata infedele, aveva sposato uno dei persecutori del suo fidanzato: vedete dunque, Morrel, che quest’uomo era più disgraziato amante di voi. — Ed a quest’uomo, Dio ha inviata la consolazione? — Gli ha inviata la calma. — E quest’uomo potrà ancora un giorno essere felice? — Io lo spero, Massimiliano. — Il giovine lasciò cadersi la testa sul petto: — Voi avete la mia promessa, diss’egli, dopo un minuto di silenzio e stendendo la mano a Monte-Cristo: ricordatevi soltanto che... — Il 5 ottobre, Morrel, io vi aspetto all’isola di Monte-Cristo. Il 4 un _yacht_ vi aspetterà nel porto di Bastia; questo _yacht_ si chiamerà l’_Euro_: voi vi nominerete al capitano, che vi condurrà da me; è convenuto, non è vero, Massimiliano? — È convenuto, conte, ed io farò ciò che ho detto; ma ricordatevi che il 5 ottobre... — Fanciullo che non sa ancora che cosa sia la promessa di un uomo... vi ho detto venti volte, che se in quel giorno volete ancora morire, io vi aiuterò, Morrel. Addio. — Voi mi lasciate? — Sì, ho alcune faccende in Italia; vi lascio solo, solo alle prese colla vostra infelicità, solo con quell’aquila dalle ali possenti che il Signore invia ai suoi eletti, per trasportarli ai suoi piedi. — Quando partite? — Sul momento; il battello a vapore mi aspetta, fra un’ora sarò molto lungi da voi; mi accompagnate fino al porto? — Io sono tutto per voi, conte. — Abbracciatemi. Morrel scortò il conte fino al porto: di già il fumo usciva come un immenso pennacchio dal tubo nero che lo lanciava al cielo. Ben presto il naviglio partì, e un’ora dopo, come lo aveva detto Monte-Cristo, questo fumo biancastro, appena era visibile sull’orizzonte ingombrato dalla prima nebbia della notte. CXIV. — PEPPINO. Al momento stesso in cui il battello a vapore del conte spariva dietro il capo Morgiou, un uomo correva la posta da Firenze a Roma, passando dalla piccola città d’Acquapendente. Egli camminava abbastanza presto per far molta strada, senza tutta volta divenir sospetto. Vestito con un soprabito che il viaggio aveva consumato, ma che lasciava vedere brillante e fresco il nastro della Legion d’Onore ripetuto sul suo abito, questo uomo, non solo da questo doppio segno, ma ancora dall’accento col quale parlava al postiglione doveva essere riconosciuto per francese. Una prova ancora ch’egli era nato nel paese della lingua universale è ch’egli non sapeva altre parole d’italiano, che quelle della musica che possono come il _goddam_ di Figaro, sostituir tutte le finezze di una lingua particolare. — _Allegro!_ diceva egli ai postiglioni ad ogni salita: _moderato!_ faceva ad ogni discesa. — E Dio sa se vi sono salite e discese da Firenze a Roma per la strada d’Acquapendente! Queste due parole, del resto, facevano molto ridere le brave genti alle quali erano indirizzate. In faccia alla città eterna, vale a dire giungendo alla Storta, punto da dove si scorge Roma, il viaggiatore non provò quel sentimento di entusiastica curiosità, che spinge ogni straniero ad alzarsi dal fondo della carrozza, per scorgere la famosa cupola di S. Pietro, che si vede molto prima di distinguere qualunque altra cosa. No, egli cavò soltanto il suo portafoglio di saccoccia, e da esso una carta piegata in quattro, che spiegò e ripiegò con una attenzione che rassomigliava a rispetto, e si limitò a dire. — Buono! io l’ho sempre. — La carrozza oltrepassò la porta del Popolo, prese a sinistra e si fermò di rimpetto al palazzo di Spagna. Mastro Pastrini nostra antica conoscenza, ricevette il viaggiatore sul limitare della porta col cappello in mano. Il viaggiatore discese, ordinò un buon pranzo e s’informò dell’indirizzo della casa Thomson e French, che gli fu indicato sul momento; questa casa era una delle più conosciute di Roma. Ella era situata in via dei Banchi, vicino al ponte sant’Angelo. A Roma, come dappertutto, l’arrivo d’una carrozza di posta è un avvenimento. Dieci giovani discendenti da Mario e dai Gracchi, coi piedi nudi, i gomiti stracciati, ma il pugno sull’anca, e il braccio pittorescamente ricurvo al di sopra della testa, guardavano il viaggiatore, la carrozza e i cavalli; a questi birichini della città per eccellenza, si erano uniti una cinquantina di balordi dello stato romano, di quelli che fanno dei cerchi sputando nell’acqua del Tevere dall’alto del ponte di castel sant’Angelo quando nel Tevere vi è acqua. Ora, siccome i monelli e i balordi di Roma più felici di quelli di Parigi, capiscono tutte le lingue, e particolarmente la francese, capirono che il viaggiatore domandava un appartamento, da pranzo, e finalmente l’indirizzo della casa Thomson e French. Ne risultò che allora quando il nuovo arrivato uscì dall’albergo col cicerone d’uso, un uomo si staccò dal gruppo dei curiosi, e senza esser notato dal viaggiatore, senza sembrare di essere osservato dalla sua guida, camminò a poca distanza dallo straniero, seguendolo con tanta maestria, quanta ne avrebbe potuta avere un messo della polizia parigina. Il francese era così stimolato dalla fretta di fare la sua visita alla casa Thomson e French, che non ebbe il tempo d’aspettare che i cavalli fossero attaccati; la carrozza doveva raggiungerlo per la strada, e aspettarlo alla porta del banchiere. Arrivarono senza che la carrozza li avesse raggiunti. Il francese entrò lasciando la sua guida in anticamera che subito si mise a far conversazione con due o tre di quegli industriosi senza industria, o meglio di una di quelle mille industrie che si esercitano a Roma, alla porta dei banchieri, delle chiese, delle ruine, dei musei o dei teatri. Nello stesso tempo del francese entrò pure l’uomo che si era staccato dal gruppo dei curiosi; il francese bussò ai vetri della bussola e penetrò nella prima camera. — I sig. Thomson e French? domandò lo straniero. — Una specie di lacchè si alzò dietro un segno di un commesso di confidenza, guardiano formale del primo ufficio. — Chi debbo annunziare? domandò il lacchè disponendosi a camminare davanti al forestiere. — Il sig. barone Danglars, rispose il viaggiatore. — Venite, disse il lacchè. — Fu aperta una porta; il lacchè ed il barone disparvero per essa. L’uomo che era entrato dietro Danglars si assise sopra un banco. Il commesso continuò a scrivere per circa cinque minuti; durante i quali l’uomo seduto conservò il più profondo silenzio e la più assoluta immobilità. Indi la penna cessò di stridere sulla carta; alzò la testa, guardò attentamente attorno a sè e dopo essersi assicurato che si ritrovava a quattr’occhi: — Ah! ah! diss’egli, eccoti qui, Peppino! — Sì! rispose questi laconicamente. — Hai odorato alcun che di buono intorno a questo signore? — Non vi è gran merito per questo, ne siamo stati avvisati. — Tu sai dunque ciò che egli viene a far qui, curioso. — Viene a riscuotere; rimane soltanto a sapersi la somma. — Ti si dirà quanto prima, amico. — Ma non mi darai, come l’altro dì, delle false informazioni. — Che intendi dire, di chi vuoi parlare? sarebbe forse di quell’inglese, che giorni sono portò via tremila scudi? — No, quello aveva in realtà i tremila scudi, e li abbiamo saputi ritrovare: m’intendo di parlare del principe russo; tu ci avevi accusato trentamila lire, e non ne abbiamo ritrovate che ventidue. — Avrete cercato male. — È stato Luigi Vampa che ha fatto la perquisizione. — In questo caso, avrà avuto dei debiti da pagare. — Un russo? — Ovvero avrà speso il danaro. — Questo è il più possibile di tutto. — È sicurissimo; ma, lasciatemi andare al mio osservatorio, altrimenti il francese farà il fatto suo, senza che io possa sapere il positivo della cifra. — Peppino fece un segno affermativo con la testa, e si mise ad osservare alcune incisioni appese al muro, mentre che il commesso spariva dalla stessa porta che aveva dato passaggio al lacchè ed al barone. In capo a circa dieci minuti, ricomparve il commesso tutto raggiante. — Ebbene? domandò Peppino al suo amico. — All’erta! all’erta! disse il commesso, la somma è rotonda. — Da cinque a sei milioni, n’è vero? — Sì, tu sai la cifra? — Sopra una ricevuta di S. E. il conte di Monte-Cristo e della quale è stato accreditato sopra Roma, Venezia e Vienna. — È così, in che modo sei tu tanto bene informato? — Te l’ho detto, siamo stati prevenuti, riprese Peppino. — Allora, perchè ti sei indirizzato a me? — Per essere ben sicuro che questo era l’uomo col quale avevam che fare. — È veramente lui... cinque milioni. Una bella somma eh! Peppino? — Sì. — Ma non ne avremo mai altrettanti. — Almeno, rispose filosoficamente Peppino, avremo gli avanzi. — Zitto! ecco il nostro uomo. — Il commesso riprese la sua penna, e Peppino ritornò di nuovo ad osservare i rami. Danglars comparve irradiato, accompagnato da un banchiere che lo ricondusse fino alla porta. A seconda delle convenzioni, la carrozza che doveva ricondurre Danglars, aspettava davanti alla porta di Thomson e French. Il cicerone ne teneva lo sportello aperto; il cicerone è un essere molto complimentoso e compiacente, che si può impiegare in ogni cosa. Danglars saltò nella carrozza, leggero come un giovine di vent’anni. Il cicerone chiuse lo sportello, e salì vicino al cocchiere. Peppino montò nel posto di dietro. — S. E. vuol ella andare a vedere San Pietro? domandò il cicerone. — Per farne che? rispose il barone. — Diamine! per vedere! — Non sono venuto a Roma per vedere, disse ad alta voce Danglars; indi aggiunse sommessamente con un rapido sorriso: sono venuto per toccare. — Ed in fatto toccò il portafoglio, nel quale aveva chiusa una lettera. — Allora S. E. va...? — All’Albergo. — Casa Pastrini! disse il cicerone al cocchiere. — E la carrozza partì rapida come una carrozza padronale. Dieci minuti dopo, il barone era rientrato nel suo appartamento, e Peppino si era istallato sur un banco posto contro un muro vicino alla porta, dopo aver detto alcune parole all’orecchio di uno di quei discendenti di Mario e dei Gracchi che abbiam segnalato al principio di questo capitolo, il quale discendente prese la strada del Campidoglio con tutta la sveltezza delle sue gambe. Danglars era stanco, soddisfatto, e aveva sonno. Egli si mise in letto, pose il suo portafogli sotto il capezzale, e si addormì. Peppino aveva del tempo superfluo; giuocò alla morra con dei facchini, perdè due o tre scudi, e, per consolarsi, bevè un fiasco di vino d’Orvieto. La dimane, Danglars si svegliò tardi, quantunque fosse andato a letto di buon’ora; erano cinque o sei notti che non dormiva, o che dormiva malissimo. Fece una copiosa colazione, e poco curante, come lo aveva detto, di vedere le bellezze della città eterna, ordinò i cavalli da posta per mezzogiorno. Ma Danglars aveva contato senza le formalità della polizia, e senza la lentezza del mastro di posta. I cavalli giunsero soltanto alle due, e il cicerone non portò il passaporto coi visti che alle tre. Tutti questi preparativi avevano richiamato davanti alla porta di Mastro Pastrini un buon numero di oziosi. I discendenti dei Gracchi e di Mario, non mancavano. Il barone traversò trionfalmente questi gruppi, che lo chiamavano eccellenza per avere un baiocco. Siccome Danglars, uomo popolarissimo, come si sa, si era contentato di farsi chiamare barone fino a quel momento, e non era ancora stato trattato col titolo d’eccellenza, questo titolo lo lusingò, e distribuì una dozzina di paoli a tutta quella canaglia. — Che strada? domandò il postiglione in italiano. — Strada d’Ancona, rispose il barone. — Mastro Pastrini tradusse la domanda e la risposta, e la carrozza partì al galoppo. Danglars voleva effettivamente passare a Venezia, e realizzarvi una parte della sua fortuna, indi da Venezia andare a Vienna e realizzarvi il resto. La sua intenzione era di fissarsi in quest’ultima città di piaceri. Appena ebbe fatto due leghe nella campagna di Roma, cominciò a cader la notte: Danglars non aveva creduto di dover partire così tardi, altrimenti sarebbe rimasto, egli domandò al postiglione quanto v’era per giungere alla prima città. — _Non capisco_! rispose in italiano il postiglione. Danglars fece un movimento colla testa, che voleva dire: — Benissimo. La carrozza continuò la sua strada. — Mi fermerò alla prima posta, — diceva fra sè Danglars: intanto egli provava ancora un resto di quel benessere che aveva risentito la sera innanzi, e che gli aveva procurato una così buona notte: era mollemente steso nella sua buona carrozza inglese, a doppie molle; e si sentiva strascinato dal galoppo di due buoni cavalli; la posta era di sette leghe, egli lo sapeva. Che fare quando uno è banchiere, ed ha fatto facilmente banca rotta? Danglars pensò dieci minuti a sua moglie rimasta a Parigi; altri dieci minuti a sua figlia che girava il mondo con madamigella d’Armilly; dette dieci minuti ai suoi creditori e al modo in cui impiegherebbe il loro danaro; indi non avendo più niente da fare, chiuse gli occhi e si addormentò. Qualche volta però, scosso da un urto più forte degli altri, Danglars riapriva gli occhi; allora si sentiva sempre trasportato dalla stessa celerità attraverso quella stessa campagna di Roma tutta seminata di ruderi d’acquedotti, che sembrano giganti di granito, pietrificati a mezzo della loro corsa. Ma la notte era fredda, oscura e piovosa, ed era miglior partito per un uomo mezzo assopito, il rimanere in fondo della carrozza con gli occhi chiusi, di quel che mettere la testa fuori dello sportello per domandare dov’era al postiglione, che non sapeva rispondere nient’altro che, _non capisco_. Danglars continuò dunque a dormire, dicendosi che sarebbe sempre stato in tempo a svegliarsi quando gli cambiavano i cavalli. La carrozza si fermò; Danglars, pensò che finalmente giungeva al posto desiderato. Riaprì gli occhi, guardò a traverso il cristallo, credendo di ritrovarsi in mezzo a qualche città, o almeno a qualche villaggio; ma non vide che una specie di capanna isolata, e tre o quattro uomini che andavano e venivano come ombre: Danglars aspettò un momento che il postiglione che aveva finita la corsa, venisse a reclamare il danaro della posta; contava di approfittare di quest’occasione per chiedere qualche informazione al suo nuovo conduttore; ma i cavalli furono staccati e cambiati senza che nessuno andasse a chiedere del danaro al viaggiatore. Danglars meravigliato, aprì lo sportello; ma una mano vigorosa lo chiuse subito, e la carrozza partì. — Ehi! disse al postiglione, ehi! _mio caro_! Questa pure era una parola italiana di una romanza che Danglars aveva ritenuta a memoria quando sua figlia cantava dei duetti col Principe Cavalcanti. Ma il mio caro non gli rispose una parola. Danglars si contentò allora di calare il cristallo e di dire in francese, mettendo fuori la testa: — Ehi! amico dove andiamo dunque? — _Dentro la testa!_ gridò una voce grave ed imperiosa, accompagnata da un gesto minaccioso. Danglars capì che _dentro la testa_, voleva dire _rentrez la tête_. Egli faceva, come ben si vede, rapidi progressi nella lingua italiana; obbedì perciò non senza inquietudine, e siccome questa inquietudine aumentava di minuto in minuto, in capo ad alcuni momenti, il suo spirito (in vece del vuoto che abbiamo segnalato al momento in cui si metteva in viaggio, e che gli aveva procurato il sonno) si trovò riempito di una quantità di pensieri atti gli uni più degli altri a tenere svegliato l’interesse del viaggiatore, e soprattutto di un viaggiatore che si ritrovava nella situazione di Danglars. I suoi occhi nell’oscurità delle tenebre presero quel grado di acutezza che le forti emozioni comunicano nel primo momento, ma poi cessa più tardi per essere stato troppo esercitato. Prima di aver paura si vede giustamente; quando si ha paura si vede in confuso. Danglars vide un uomo avvolto in un mantello che galoppava allo sportello della diritta. — Un qualche gendarme, diss’egli. Sarei forse stato segnalato dal telegrafo francese alle autorità pontificie? Egli risolvè di uscire da questa ansietà. — Dove mi conducete voi? domandò sempre in francese. — _Dentro la testa!_ ripetè la stessa voce col medesimo accento di minaccia. — Danglars si voltò verso lo sportello della sinistra. Un altro uomo a cavallo galoppava allo sportello della sinistra. — Davvero, diceva tra sè Danglars col sudore sulla fronte, io sono stato preso. — E si gettò nel fondo della carrozza, non per dormire questa volta, ma per pensare. Un momento dopo si alzò la luna. Dal fondo della carrozza fissò il suo sguardo nella campagna. Egli rivide allora questi grandi acquedotti, fantasmi di pietra, che aveva notato passando; se non che, invece di averli a diritta, egli li aveva a sinistra. Capì allora che avevano fatto fare un mezzo giro alla carrozza e che lo riconducevano a Roma. — Oh! me disgraziato! mormorò egli, avranno ottenuta la mia estradizione. — La carrozza continuò a correre con una spaventosa velocità. Un’ora passò terribile, poichè ad ogni nuovo indizio gettato sul suo passaggio, il fuggitivo riconosceva in modo da non poterne dubitare, che lo si riconduceva indietro. Finalmente rivide una massa oscura contro la quale sembrava che la carrozza andasse ad urtare. Ma la carrozza girò, e corse lungo questa massa oscura, che altro non era che il cinto di muro che circonda Roma. — Oh! oh! mormorò Danglars, noi non rientriamo in città? dunque non è la giustizia che mi arresta. Buon Dio! un’altra idea, sarebbe forse... — I capelli gli si drizzarono. Egli si ricordò le interessanti istorie dei banditi della campagna di Roma, tanto poco credute a Parigi, che Alberto de Morcerf aveva raccontato alla sig.ª Danglars e ad Eugenia, quando vi erano le trattative pel giovine visconte, di diventare il figlio dell’una, ed il marito dell’altra. — Forse ladri! mormorò egli. — Di repente la carrozza ruotò sur un terreno più duro del suolo di una strada sabbiosa: Danglars arrischiò uno sguardo alle due parti della strada; vide dei monumenti di forme strane, e il suo pensiero preoccupato dal racconto di Morcerf, che ora si presentava a lui con tutti i suoi particolari, il suo pensiero gli disse che doveva essere sulla via Appia. A sinistra della carrozza in una specie di vallata si vedeva uno scavo circolare. Era il circo di Caracalla. Dietro una parola dell’uomo che galoppava a diritta della carrozza, questa si fermò. Nello stesso tempo lo sportello della sinistra si aprì. — Scendi! comandò una voce. — Danglars discese nello stesso punto; egli non parlava ancora l’italiano, ma cominciava già a capirlo. Più morto che vivo, il barone guardò intorno a sè. Quattro uomini lo circondavano, senza contare il postiglione. — _Di qua_, — disse uno dei quattro uomini discendendo per un piccolo sentiero che conduceva dalla via Appia in mezzo alle ineguaglianze del terreno della campagna romana. Danglars seguì la sua guida senza discussione, e non ebbe bisogno di voltarsi per sapere che egli era seguito da altri tre uomini. Però gli sembrò che questi uomini si fermassero come in sentinella a distanze quasi uguali. Dopo circa dieci minuti di cammino, durante i quali Danglars non cambiò neppure una parola colla sua guida, egli si ritrovò fra un poggio ed un cespuglio formato da alta erba; tre uomini in piedi e muti formavano un triangolo di cui egli si ritrovava nel centro. Egli volle parlare; la sua lingua s’impacciò. — _Avanti_, — disse la medesima voce coll’accento breve ed imperioso. Questa volta Danglars capì doppiamente: capì dalla parola e dal gesto, poichè l’uomo che camminava dietro a lui lo spinse così rozzamente in avanti che andò ad urtare contro la sua guida. Ma era il nostro amico Peppino che si inoltrò fra le alte erbe per una sinuosità che le faine e le volpi potevano soltanto riconoscere per un cammino praticabile. Peppino si fermò davanti ad una roccia sormontata da un fitto cespuglio; questa roccia, spaccata come una palpebra, concesse il passaggio al giovine che vi sparì, come spariscono dalle loro botole i diavoli delle nostre streghe. La voce ed il gesto di quello che seguiva Danglars impegnarono il banchiere a fare altrettanto. Non vi era più da dubitare, il fallito francese aveva a che fare coi briganti. Danglars eseguì come un uomo posto fra due terribili pericoli e che la paura rende coraggioso. Ad onta del suo ventre, abbastanza mal disposto per penetrare nelle crepacce della campagna romana, s’infiltrò dietro a Peppino, e lasciandosi strisciare, chiudendo gli occhi, cadde in piedi. Toccando la terra egli riaprì gli occhi. Il cammino era largo ma nero. Peppino poco curandosi di essere riconosciuto ora che si trovava in casa sua, battè l’acciarino ed accese una torcia. Altri due uomini discesero appresso a Danglars, formando la retroguardia; e spingendo Danglars quando per caso si fermava, lo fecero giungere per un dolce declive al centro di un croce-via di sinistra apparenza. Infatto le pareti dei muri scavate a sepolture soprapposte le une alle altre, sembravano, in mezzo alle pietre bianche, aprire quegli occhi neri e profondi che si vedono nei cranii dei morti. La sentinella fece battere contro la sua mano sinistra il calcio della carabina e domandò: — Chi vive? — Amici! Amici! disse Peppino. Dov’è il capitano? — Là, disse la sentinella, mostrando per di sopra alla sua spalla una specie di gran sala scavata nella roccia, e la cui luce si rifletteva nei corridori per mezzo di grandi aperture concentriche. — Buona preda, capitano, buona preda, disse Peppino in italiano. — E prendendo Danglars pel colletto del soprabito, lo condusse verso un’apertura che rassomigliava ad una porta, e per la quale si penetrava nella sala in cui sembrava che il capitano avesse formato il suo alloggio. — È questo quell’uomo? domandò colui che leggeva con molta attenzione la vita di Alessandro in Plutarco. — Lui stesso, capitano, lui stesso. — Benissimo; mostratemelo. — Dietro quest’ordine abbastanza impertinente, Peppino avvicinò così bruscamente la sua torcia al viso di Danglars, che questi indietrò vivamente per non avere le sopracciglia bruciate. Questo viso sconvolto offriva tutti i sintomi di un pallido e vergognoso terrore. — Quest’uomo è stanco, disse il capitano, che si conduca tosto al suo letto. — Oh! mormorò Danglars, questo letto sarà probabilmente uno dei sepolcri che sono scavati nel muro, questo sonno sarà la morte che un pugnale, che già veggo sfavillare nell’ombre, sarà per procurarmi. — Infatto nella profonda oscurità dell’immensa sala si vedevano sollevarsi, sulle loro cuccette d’erbe secche o di pelli di lupi, i compagni di quest’uomo, che Alberto de Morcerf aveva trovato leggendo _i Commentarii di Giulio Cesare_, e che Danglars trovava leggendo _le Vite di Plutarco_. Il banchiere mandò un sordo gemito e seguì la sua guida; egli non ebbe coraggio nè di pregare nè di gridare: non aveva più nè forza nè volontà, nè potenza nè sentimento; egli andava perchè lo trascinavano. Urtò in una scalinata, e comprese che aveva una scala davanti a sè; egli alzò macchinalmente i piedi quattro o cinque volte. Allora si aprì davanti a lui una porta bassa; egli si abbassò macchinalmente per non urtare con la fronte, e si ritrovò in una cella tagliata nella roccia. Questa cella era conveniente, sebbene nuda; asciutta quantunque situata sotto terra ad una profondità incommensurabile. Un letto fatto di erbe secche, e ricoperto di pelli di capre, era non già eretto, ma steso in un angolo della cella. Danglars, nello scoprirlo, credè vedervi il simbolo radiante della sua salute. — Oh! sia lodato Iddio! mormorò egli; è un vero letto. — Era la seconda volta, in un’ora, ch’egli invocava il nome di Dio; e ciò non gli era accaduto da più di dieci anni. — _Ecco_, disse la guida. E, spingendo Danglars nella cella, chiuse la porta dietro a lui. Il catenaccio cigolò; Danglars era prigioniero. D’altra parte, se non vi fosse stato il catenaccio, avrebbe abbisognato un miracolo per passare in mezzo alla guarnigione che in quel punto custodiva le catacombe di San Sebastiano, e che era accampata intorno al suo capo, nel quale i nostri lettori avranno certamente riconosciuto il famoso Luigi Vampa. Danglars pure aveva riconosciuto questo bandito, all’esistenza del quale non aveva voluto credere, quando Morcerf cercava di naturalizzarlo in Francia. Non solo egli lo aveva riconosciuto, ma aveva egualmente riconosciuta la cella nella quale Alberto era stato rinchiuso, e che, secondo tutte le probabilità, era l’alloggio dei forestieri. Queste rimembranze, sulle quali del resto Danglars si estendeva con una certa gioia, gli rendevano la tranquillità. Dal momento in cui non lo avevano ucciso subito, i banditi non avevano più volontà di ucciderlo. Era stato arrestato per essere derubato, e siccome non aveva seco che pochi luigi, gli avrebbero posto un riscatto. Si ricordò che Morcerf era stato tassato di una certa somma, di circa quattromila scudi; e siccome egli si attribuiva un’apparenza molto più importante di Alberto, fissò da sè stesso nel suo spirito il proprio riscatto ad ottomila scudi; 48 mila lire. Gli restava ancora una somma di circa cinque milioni e 50 mila fr. Con questa somma ognuno può cavarsi d’impaccio in ogni luogo. Dunque, quasi certo di togliersi d’impaccio, attesochè non vi è esempio che si sia tassato un uomo per più di cinque milioni e 50 mila lire, Danglars si stese sul suo letto, ove, dopo essersi girato e rigirato due o tre volte, si addormentò colla tranquillità dell’eroe di cui Luigi Vampa leggeva la storia. CXV. — LA CARTA DI LUIGI VAMPA. Ad ogni sonno, che non sia quello temuto da Danglars, vi è il suo svegliarsi. Danglars si svegliò. Per un parigino abituato al cortinaggio di seta, alle pareti vellutate dei muri, al profumo che manda il legno imbianchito nel caminetto, e che discende dalle volte di seta, lo svegliarsi in una grotta di pietra scabrosa deve essere come un sogno di cattiva qualità. Tastando i suoi lenzuoli di pelle di capra, Danglars doveva credere di sognare i Lapponi. Ma in simile congiuntura bastò un secondo per cambiare il dubbio nella più robusta certezza. — Sì, sì, mormorò egli, io sono nelle mani dei banditi di cui ci parlò Alberto de Morcerf. — Il suo primo movimento fu di respirare, per assicurarsi che non era stato ferito: era un mezzo che aveva ritrovato in _Don Chisciotte_, il solo libro, non che avesse letto, ma di cui si ricordasse qualche cosa. — No, diss’egli, essi non mi hanno nè ucciso nè ferito, ma essi forse mi avranno derubato. — E portò prestamente le mani alle sue saccocce. Esse erano intatte: i cento luigi, che si era riserbati in contanti per fare il suo viaggio da Roma a Venezia, erano realmente nella saccoccia del pantalone, ed il portafogli nel quale si ritrovava la lettera di credito per cinque milioni e 50 mila fr. era nella saccoccia da petto del suo abito. — Che singolari banditi! disse da sè stesso; mi hanno lasciato la borsa ed il portafogli! come lo diceva ieri quando mi misi in letto, essi m’imporranno un riscatto. Guarda! ho ancora il mio orologio! sentiamo un poco che ora è. — L’orologio di Danglars, capo d’opera di Breguet, che aveva caricato con cura il giorno avanti, prima di mettersi in viaggio, suonò le cinque e mezzo della mattina. Senza esso, Danglars sarebbe rimasto incerto sull’ora, la luce del giorno non penetrava nella cella. Era egli necessario eccitare una spiegazione dei banditi? aspettar pazientemente ch’essi la domandassero? l’ultima alternativa era la più prudente: Danglars aspettò. Egli aspettò fino a mezzogiorno. In tutto questo tempo una sentinella aveva vegliato alla sua porta. Alle otto del mattino, la sentinella era stata cambiata. Allora era venuto voglia a Danglars di vedere da chi fosse guardato. Aveva notato che alcuni raggi di luce, non già del giorno, ma della lampada, filtravano traverso le fessure della porta mal congiunta; egli si accostò ad una di queste fessure al momento in cui il bandito beveva alcune sorsate d’acquavite, le quali, mercè l’otre di pelle che le conteneva, spandevano un odore che molto ripugnava a Danglars. — _Pouah!_ — fece egli rinculando fino al fondo della sua cella. A mezzo giorno l’uomo dell’acquavite fu sostituito da un’altra fazione. Danglars ebbe la curiosità di guardare il suo nuovo guardiano: egli si accostò di nuovo alla fessura. Questi era un bandito atletico, un Golia dagli occhi grossi, dalle labbra rivoltate, e dal naso schiacciato; i capelli rossigni cadevano sulle spalle a bande contorte a guisa di serpenti. — Oh! oh! questi rassomiglia più ad una belva che ad una creatura umana; in ogni caso, son vecchio ed abbastanza coriaceo, grosso e bianco non son buono a mangiare. — Come si vede, Danglars aveva ancora abbastanza presenza di spirito per scherzare. Nello stesso punto come per provargli che non era una belva, il guardiano si assise in faccia alla porta della sua cella, cavò dalla sua bisaccia del pane nero, della cipolla e del formaggio, ch’egli si mise subito a divorare. — Che il diavolo mi porti! disse Danglars gettando a traverso della fessura della porta un colpo d’occhio sul pranzo del bandito: se capisco come si possa fare a mangiare simili porcherie. — Andò a sedersi sopra le sue pelli, che gli ricordarono l’odore d’acquavite della prima sentinella. Ma Danglars aveva un bel fare, ed i segreti della natura sono incomprensibili, vi è un’eloquenza in certi inviti materiali che indirizzano le più grossolane sostanze agli stomachi digiuni. Danglars sentì d’improvviso che il suo non aveva fondi in quel momento, e allora vide l’uomo men brutto, il pane meno nero, il formaggio più fresco. Infatto quelle cipolle crude, orribile alimento del selvaggio, gli ricordarono certi sughi di Robert e certi intingoli che il suo cuciniere eseguiva in un modo sorprendente, quando Danglars gli diceva: Sig. Deniseau, fatemi per oggi un buon piattino. Si alzò e andò a bussare alla porta. Il bandito alzò la testa. Danglars vide ch’era stato inteso, e raddoppiò. — _Che c’è?_ domandò il bandito. — Dite dunque! amico, fece Danglars suonando il tamburo con le dita contro la porta, mi sembra che sarebbe ora che si pensasse a nutrire me pure! — Ma sia che egli non capisse il francese, sia che non avesse ricevuto ordini sul conto del nutrimento di Danglars, il gigante si rimise a mangiare. Danglars sentì umiliato il suo orgoglio, e, non volendo maggiormente mettersi a cimento con quella belva, andò a raggrupparsi sulle pelli, e non disse più una parola. Passarono quattr’ore; il gigante fu sostituito da un altro bandito; Danglars, che soffriva orribili stiragliamenti di stomaco, si alzò dolcemente, applicò l’occhio alle fenditure della porta, e riconobbe la figura intelligente della sua guida. Infatto era Peppino che si preparava a montar la guardia la più dolce possibile, sedendosi in faccia alla porta e ponendosi fra le gambe una teglia di terra che conteneva caldi e profumanti piselli, cotti in fricassea sul lardo. Vicino a questi piselli Peppino depose ancora un bel paniere di uva fresca di Velletri, ed un fiasco di vino d’Orvieto, Peppino era un goloso. Vedendo questi preparativi gastronomici venne l’acquolina in bocca a Danglars. — Ah! ah! disse il prigioniero, vediamo un poco se questi è più trattabile degli altri. — E bussò gentilmente alla sua porta. — Eccomi, — disse il bandito, che, frequentando la casa di mastro Pastrini, aveva finito per imparare il francese perfino nei suoi dialetti. Infatto venne ad aprire. Danglars lo riconobbe per quello che gli aveva gridato in un modo così furioso: «_dentro la testa_.» Ma non era più l’ora delle recriminazioni; assunse l’aspetto il più aggradevole, e con un grazioso sorriso: — Perdono, signore, diss’egli, non si darà da pranzo a me pure? — Come mai! gridò Peppino, V. E. avrebbe fame, per caso? — Per caso è una parola graziosa, mormorò Danglars, sono precisamente ventiquattr’ore che non ho mangiato. Ma sì, signore, aggiunse egli alzando la voce, io ho fame, ed anche molta fame. — E V. E. vuol mangiare? — Sul momento, se è possibile. — Niente di più facile, disse Peppino; qui si può procurare tutto ciò che desidera, pagando, beninteso, come si usa presso tutti gli onesti cristiani. — Ciò s’intende! gridò Danglars, quantunque in verità le persone che arrestano, e che imprigionano, dovrebbero almeno nutrire i loro prigionieri. — Ah! eccellenza, ripetè Peppino, qui non c’è questo uso. — Questa è una cattiva ragione, riprese Danglars, che contava di addolcire il suo guardiano colla sua amabilità, eppure io mi contento. Vediamo, che mi si serva da mangiare — Sul momento, eccellenza, che cosa desiderate? E Peppino depose la sua teglia per terra in modo tale che il fumo salisse direttamente alle narici di Danglars. — Comandate, continuò egli. — Avete delle cucine? domandò il banchiere. — Come! se abbiamo delle cucine? cucine perfette! — E dei cuochi? — Eccellenti! — Ebbene! un pollo, un pesce, del selvaggiume, non importa quello che è, purchè si mangi. — Come piacerà a V. E.; dicevamo dunque un pollo, è vero? — Sì, un pollo. — Peppino si voltò, e gridò con tutta la forza dei suoi polmoni: — Un pollo per S. E. — La voce di Peppino vibrava ancora sotto le volte, che già compariva un giovinotto, bello, svelto, e mezzo nudo come gli antichi portatori di pesce; egli portò il pollo sopra un piatto d’argento, e il pollo si reggeva solo sulla testa. — Uno si crederebbe al _Caffè di Parigi_, mormorò Danglars. — Eccolo! eccellenza, — disse Peppino prendendo il pollo dalle mani del giovine bandito, e deponendolo sopra una tavola tarlata, che con uno sgabello e il letto di pelli, formava il complesso della mobilia della cella. Danglars domandò un coltello ed una forchetta. — Eccoli! eccellenza, — disse Peppino offrendo un coltello colla punta smussa e una forchetta di legno. Danglars prese il coltello con una mano e la forchetta con l’altra, e si mise in atto di tagliare il volatile. — Perdono, eccellenza, disse Peppino, ponendo una mano sulla spalla del banchiere; qui si paga prima di mangiare; si potrebbe non essere contenti uscendo... — Ah! ah! fece Danglars, non è più come a Parigi, senza contare che probabilmente essi mi scorticheranno; ma facciamo le cose da grandi. Vediamo, ho sempre inteso parlare del buon mercato della vita in Italia; un pollo non deve valere più di dodici soldi a Roma. Eccoti, diss’egli, un luigi, e lo gettò a Peppino. — Peppino raccolse il luigi, Danglars accostò il coltello al pollo. — Un momento, eccellenza, disse Peppino rialzandosi; un momento. V. E. mi deve ancora qualche cosa. — Quando diceva che mi avrebbero scorticato! — mormorò Danglars, indi, risoluto di prendere il suo partito da questa estorsione: — Vediamo, quando vi devo ancora per questo etico volatile? domandò egli. — V. E. mi ha dato un luigi a conto. — Un luigi a conto! Un luigi a conto sopra un pollo? — Senza dubbio, a conto. — Bene... avanti! avanti! — Non son più che 4999 luigi che V. E. mi deve. — Danglars aprì due occhi enormi all’annunzio di questa burla gigantesca. — Ah! furbissimo, mormorò egli, in verità furbissimo! — E volle rimettersi a tagliare il pollo; ma Peppino gli fermò la mano destra con la mano sinistra, e stese l’altra sua mano. — Andiamo, diss’egli. — Che! voi non scherzate? disse Danglars. — Noi non scherziamo mai, riprese Peppino con serietà. — Come! cento mila fr. per un pollo! — Eccellenza, è impossibile il poter credere quanta pena ci costi l’allevare un pollo in queste maledette grotte. — Andiamo! andiamo! disse Danglars, io ritrovo ciò molto buffo, molto divertente, in verità; ma siccome ho fame, così lasciatemi mangiare. Prendete, ecco qua un altro luigi per voi, amico mio. — Con ciò il vostro debito non sarà più che di 4998 luigi, disse Peppino conservando la medesima prontezza d’animo; colla pazienza vi si giungerà. — Oh! in quanto a questo, disse Danglars stomacato dalla perseveranza di questo scherzo, in quanto a questo giammai. Andate al diavolo, non sapete con chi avete da fare. Peppino fece un segno al giovine bandito, e questi allungò tosto le due mani, e portò via prestamente il pollo. Danglars si gettò sul suo letto di pelli. Peppino chiuse la porta e si rimise a mangiare i suoi piselli sul lardo. Danglars non poteva vedere ciò che faceva Peppino, ma dallo sbattersi dei denti del bandito, non lasciava alcun dubbio al prigioniere sull’esercizio che lo teneva occupato. Era chiaro ch’egli mangiava, e che mangiava rumorosamente, come fanno le persone mal educate. — Ingordo! disse Danglars. Peppino fece sembiante di non capire, e senza neppure voltare la testa, continuò a mangiare con una saggia lentezza. Lo stomaco di Danglars gli sembrava perforato come la tinozza delle Danaidi, e non poteva credere ch’egli non giungerebbe mai a riempirlo. Però prese pazienza anche una mezz’ora; questa mezz’ora gli parve un secolo. Egli si alzò e andò di nuovo davanti alla porta. — Vediamo, signore, diss’egli, non mi fate languire lungamente, e ditemi d’un sol colpo ciò che si vuole da me? — Ma, eccellenza, dite piuttosto ciò che volete da noi... Dateci i vostri ordini e li eseguiremo. — Allora per prima cosa aprite. — Peppino aprì. — Io voglio, disse Danglars, perdinci! voglio mangiare! — Avete fame? — E del resto lo sapete. — Che cosa desidera di mangiare V. E.? — Un tozzo di pane secco, poichè i polli sono di un prezzo esorbitante in questi maledetti scavi. — Del pane! sia, disse Peppino. Olà! del pane! Il giovine servente portò un piccolo pane. — Eccolo, disse Peppino. — Quanto costa? domandò Danglars. — 4998 luigi. Vi sono già due luigi pagati. — Come, un pane cento mila fr.? — Cento mila fr., disse Peppino. — Ma voi domandavate cento mila fr. per un pollo! — Noi non serviamo alla carta, ma al prezzo fisso. Che si mangi poco, che si mangi molto, che si chiedano dieci piatti o un solo è sempre la stessa cifra. — Ecco un altro scherzo! amico caro, vi dichiaro che questa è un’assurdità, una stupidità! ditemi piuttosto che volete che io muoia di fame, e tutto sarà finito. — Ma no, eccellenza, siete voi che volete commettere un suicidio. Pagate e mangiate. — E con che debbo pagare, triplo animale? disse Danglars esasperato. Credi forse che si portino cento mila fr. in saccoccia? — Voi avete cinque milioni e 50 mila fr. nella vostra, eccellenza, disse Peppino; ciò è buono per cinquanta polli a centomila fr. e un mezzo pollo a 50 mila. — Danglars fremette, la benda gli cadde dagli occhi; era bensì uno scherzo, ma alfine lo capiva. Bisogna pure rendergli giustizia, perchè da quel momento non vedeva più questo scherzo essere così stupido come prima. — Vediamo, diss’egli, vediamo; pagando questi cento mila fr. mi riterrete voi assoluto, e potrò mangiare con tutto il mio comodo? — Senza dubbio, disse Peppino. — Ma in che modo dovrò io pagarli? fece Danglars respirando più liberamente. — Non vi è niente di più facile; voi avete un credito aperto presso i sig. Thomson e French, via dei Banchi a Roma; datemi un _buono_ di 4998 luigi su questi signori, ed il nostro banchiere lo sconterà. — Danglars volle almeno darsi il merito della buona volontà, prese la penna e la carta che gli presentò Peppino: scrisse la cedola e firmò: — Prendete, diss’egli, ecco il vostro buono al latore. — E voi, ecco il vostro pollo. — Danglars squartò il pollo sospirando: poichè gli sembrava molto magro per una somma così grossa. In quanto a Peppino lesse attentamente il foglio, se lo mise in saccoccia, e continuò a mangiare i suoi piselli. CXVI. — IL PERDONO. Il giorno dopo Danglars ebbe nuovamente fame; l’aria in quella caverna era oltre ogni credere appetitosa; il prigioniere credè che, per quel giorno, non avrebbe avuto alcuna spesa da fare; da uomo economico aveva nascosto una metà del pollo ed un poco di pane in un angolo della sua cella. Ma non ebbe tosto mangiato, che gli venne sete: egli non aveva calcolato su questo. Lottò contro la sete fino al momento in cui si sentì la lingua disseccata attaccarsi al palato. Allora, non potendo più resistere al fuoco che lo divorava, egli chiamò. La sentinella aprì la porta, era un viso nuovo. Pensò che era meglio per lui aver che fare con una vecchia conoscenza. E chiamò Peppino. — Eccomi, eccellenza, disse il bandito presentandosi con una premura che parve di buon augurio a Danglars, che desiderate? — Da bere, disse il prigioniero. — Eccellenza, disse Peppino, sapete che il vino è di un prezzo esorbitante nelle vicinanze di Roma. — Allora datemi dell’acqua, disse Danglars. — Oh! l’acqua è più rara del vino, ora vi è siccità! — Andiamo, disse Danglars, noi ricominciamo la storia di ieri. — E, mentre sorrideva per avere l’aria di scherzare, il disgraziato sentiva il sudore bagnargli le tempia. — Io vi ho già detto, eccellenza, rispose con gravità Peppino, che noi non vendiamo alla minuta. — Ebbene! vediamo allora, datemene una bottiglia. — Di quale? — Di quel che costa meno. — Costan tutti lo stesso prezzo. — E qual n’è il prezzo? — 25 mila fr. la bottiglia. — Dite, gridò Danglars con un’amarezza che il solo Arpagone avrebbe potuto notare sul diapason della voce umana, dite che volete spogliarmi, e ciò sarà più presto fatto di quel che divorarmi in tal modo a brani a brani. — È possibile, disse Peppino, che questa sia l’idea del padrone. — Il padrone, chi è dunque? — Quello al quale vi condussi innanzi ieri. — E dov’è? — Qui. — Fate che io lo veda. — È facile. — Un minuto dopo Luigi Vampa era davanti a lui: — Voi mi chiamate? domandò egli al prigioniere. — Siete voi, signore, il capo di queste genti che mi hanno qui condotto? — Sì, eccellenza; perchè? — Che desiderate per il mio riscatto? parlate. — Semplicemente i cinque milioni che portate indosso. Danglars sentì un orribile spasimo lacerargli il cuore. — Io non ho che questi al mondo, signore, questo è il residuo di una immensa ricchezza; se me li togliete val meglio che mi togliate la vita. — A noi è proibito di versare il sangue di V. E. — E da chi vi è stato proibito? — Da quello al quale obbediamo. — Voi dunque obbedite a qualcuno? — Sì, ad un capo. — Io credeva che voi stesso foste il capo. — Io sono il capo di questi uomini ma un altro uomo è il capo mio. — E questo capo obbedisce egli a qualcuno? — Sì. — A chi? — A Dio. — Danglars rimase un momento pensieroso: — Io non vi capisco, diss’egli. — È probabile. — Questo capo che vi ha ordinato di trattarmi in tal modo? — Sì. — Con quale scopo? — Io non lo so. — Ma la mia borsa si vuoterà. — È probabile. — Sentiamo, disse Danglars, volete un milione? — No. — Due milioni? — No. — Tre milioni?... quattro... Vediamo, quattro? ve li do alla condizione che voi mi lasciate andare. — Perchè mi offrite voi i milioni di ciò che ne vale 5? disse Vampa; questa è un’usura, sig. banchiere. — Prendete tutto! vi dico, gridò Danglars, e uccidetemi. — Andiamo, andiamo, calmatevi, eccellenza, vi farete rimescolare il sangue, cosa che vi apporterà un appetito da mangiare un milione al giorno; siate dunque più economico; per bacco! — Ma quando non avrò più danaro per pagarvi? — Allora avrete fame. — Avrò fame? disse Danglars tremante. — È probabile, rispose flemmaticamente Vampa. — Ma voi dite che non volete uccidermi? — No. — E volete lasciarmi morir di fame? — Questa è una cosa diversa. — Ebbene! miserabili, gridò Danglars, io scomporrò i vostri infami calcoli; morire per morire, tanto fa finirla subito; fatemi soffrire, torturatemi, uccidetemi, ma non avrete più la mia firma. — Come piacerà a V. E., disse Vampa; — ed uscì dalla cellula. Danglars si gettò ruggendo sul suo letto di pelli. Chi erano questi uomini? chi era questo capo visibile? chi era l’altro capo invisibile? quale idea avevan su di lui? quando tutti potevano riscattarsi, perchè egli solo non lo poteva? Oh! certamente la morte, una morte pronta e violenta era un buon mezzo di deludere questi nemici accaniti, che sembravano continuare su di lui una incomprensibile vendetta. Sì, ma morire! Forse per la prima volta nella sua lunga carriera, Danglars pensava alla morte col desiderio ed il timore di morire; ma era giunto il momento per lui di fissare la sua vista sullo spettro implacabile che si erge davanti ad ogni creatura, e che, ad ogni pulsazione del cuore, dice a lui stesso: — tu morrai! — Danglars rassomigliava a quelle bestie feroci che la caccia anima, poichè le dispera, e che a forza di disperazione riescono qualche volta a salvarsi. Ei pensò ad una evasione. Ma le mura erano la roccia stessa, ed alla sola uscita che conduceva fuor della cella vi era un uomo che leggeva; dietro a questo uomo si vedevano passare e ripassare delle ombre armate di fucili. La sua risoluzione di non firmare durò due giorni, dopo di che domandò gli alimenti ed offrì un milione. Gli fu servita una magnifica colazione, e fu preso il milione. Da quel momento la vita del disgraziato prigioniere fu una distrazione continua. Egli aveva tanto sofferto che non voleva più esporsi a soffrire, e soffriva tutte le esigenze; in capo a dodici giorni, il dopo pranzo in cui aveva desinato come nei suoi più bei giorni della sua fortuna, fece i suoi conti e si accorse che aveva dato tante tratte pagabili al latore che non gli rimanevano più che cinquantamila franchi. Allora nacque in lui una strana reazione; egli che aveva abbandonati cinque milioni, tentò di salvare i 50 mila fr. che gli restavano; piuttosto che cederli risolvè di riprendere una vita di privazioni, ebbe dei lampi di speranza che si accostavano alla follia; egli che da sì gran tempo aveva dimenticato Dio, vi pensò per dire a sè stesso, che Dio qualche volta fa dei miracoli; che la caverna poteva inabissarsi; che i carabinieri pontificii potevano scoprire questo maledetto ritiro, e venire in suo soccorso; che allora gli resterebbero questi 50 mila fr.; che quest’era una somma sufficiente per impedire ad un uomo di morire di fame; egli pregò Dio di conservargli questi cinquantamila fr. e pregando pianse. Tre giorni passarono così durante i quali il nome di Dio fu costantemente, se non nel suo cuore almeno sulle sue labbra; ad intervalli aveva dei momenti di delirio, durante i quali credeva di vedere, a traverso una finestra, una povera camera ed un vecchio agonizzante sopra un lettuccio. Questo vecchio, pure, moriva di fame. Il quarto giorno, non era più un uomo, era un cadavere vivente, egli aveva raccolto per terra perfino le ultime molliche dei suoi antichi pasti, e cominciò a divorare la stuoia di cui era coperto il suolo. Allora supplicò Peppino, come si supplica l’Angelo custode, a dargli qualche nutrimento; e gli offrì mille fr. per una boccata di pane. Peppino non rispose. Nel quinto giorno si strascinò all’entrata della cella. — Ma voi dunque non siete un cristiano, diss’egli ergendosi sui ginocchi; voi volete assassinare un uomo che è vostro fratello in Dio? Amici miei di altri tempi, amici miei di altri tempi! — mormorò egli: e cadde colla faccia contro terra. Indi alzandosi con una specie di disperazione: — Il capo! gridò egli, il capo! — Eccomi! disse Vampa comparendo subito; che desiderate ancora? — Prendete il mio ultimo oro, balbettò Danglars stendendo il portafogli, e lasciatemi vivere qui, in questa caverna; non domando più la libertà, non domando che di vivere. — Voi dunque soffrite molto? domandò Vampa. — Oh! sì, io soffro, e crudelmente! — Eppure vi sono stati degli uomini che hanno sofferto anche più di voi. — Io non lo credo. — È un fatto! quelli che sono morti di fame. Danglars pensò a quel vecchio che durante le sue allucinazioni, egli vedeva a traverso la finestra della sua povera camera, gemere sul suo letto. Battè la fronte per terra mandando un forte gemito: — Sì, diss’egli, è vero; ve ne sono che hanno sofferto anche più di me, ma almeno quelli erano martiri. — Vi pentite voi alfine? disse una voce cupa e solenne, che fece drizzare i capelli sulla testa di Danglars. Il suo sguardo indebolito cercò di distinguere gli oggetti, e vide dietro al bandito un uomo avvolto nel suo mantello, e perduto nell’ombra di un pilastro di pietra. — E di che debbo pentirmi? balbettò Danglars. — Di tutto il male che avete fatto, disse la stessa voce. — Oh! sì, io mi pento! — gridò Danglars, percuotendosi il petto col suo scarno pugno. — Allora io vi perdono, — disse l’uomo gettando il mantello, e facendo un passo avanti per esporsi meglio alla luce. — Il conte di Monte-Cristo! — disse Danglars più pallido pel terrore, che non lo era un momento prima per la fame e la miseria. — Voi vi sbagliate; non sono il conte di Monte-Cristo. — E chi siete voi dunque? — Io sono colui che voi avete venduto, denunziato, disonorato; son colui di cui avete prostituita la fidanzata; son colui sul quale avete camminato per innalzare le vostre ricchezze; son colui al quale avete fatto morire il padre di fame; son colui che vi aveva condannato a morire di fame, e che ciò non ostante vi perdona, perchè egli pure ha bisogno di perdono; io sono Edmondo Dantès! — Danglars non mandò che un grido, e cadde prosternato. — Rialzatevi, disse il conte, voi avete salva la vita. Un’egual fortuna non è avvenuta ai vostri due altri complici: l’uno è pazzo, l’altro è morto! conservate i 50 mila fr. che vi restano, ve ne faccio un regalo; in quanto ai vostri cinque milioni rubati agli ospizii, essi sono di già stati restituiti loro da una mano sconosciuta. Ora mangiate e bevete; questa sera io vi faccio mio ospite. Vampa, quando quest’uomo si sarà rimesso, sia posto in libertà. — Danglars rimase ancora prosternato, mentre che il conte si allontanava; quando egli rialzò la testa, non vide più che una specie di ombra che spariva nel corridore, e davanti alla quale s’inchinavano i banditi. Come il conte aveva ordinato, Danglars fu servito da Vampa, che gli fece portare il miglior vino e i più bei frutti d’Italia, e che, avendolo indi fatto montare nella sua carrozza da posta, lo lasciò sulla strada appoggiato ad un albero. Egli vi restò fino a giorno, ignorando ove era. A giorno s’accorse che era vicino ad un ruscello! egli aveva sete, e si trascinò fino ad esso. Nell’abbassarsi per bevervi, s’accorse che i suoi capelli erano divenuti bianchi. CXVII. — IL CINQUE OTTOBRE. Erano circa le sei di sera; un giorno di color opale, nel quale un bel sole di autunno infiltrava i suoi raggi d’oro, cadendo dal cielo sul mare azzurrognolo. Il calore del giorno si era estinto gradatamente, e cominciava a farsi sentire quella brezza leggiera, che sembra la respirazione della natura, nel risvegliarsi dopo l’ardente sesta del mezzogiorno, e che porta di riva in riva il profumo degli alberi misto all’acre sentore del mare. Sovra questo immenso lago che si estende da Gibilterra ai Dardanelli, e da Venezia a Tunisi, un leggiero _yacht_, di forma pura ed elegante strisciava nei primi vapori della sera. Il suo movimento era quello di un cigno che apre le sue ali al vento e che sembra lambire l’acqua. Esso si avanzava, rapido ad un tempo e grazioso, e lasciando dietro a sè un solco fosforescente. Poco a poco il sole, di cui abbiam salutato gli ultimi raggi, era scomparso dall’orizzonte occidentale, ma, come per dar ragione ai brillanti sogni della mitologia, i suoi fuochi indiscreti, ricomparendo alla sommità di ciascun flutto, sembravano rivelare che il Dio della fiamma era andato a nascondersi nel seno di Anfitrite, la quale tentava invano di celare il suo amante fra le pieghe del suo manto azzurro. Il _yacht_ avanzava rapidamente quantunque in apparenza vi fosse solo abbastanza vento per agitare la capigliatura a boccoli di una giovanetta. In piedi sulla prua, un uomo d’alta persona, di carnagione bronzina, coll’occhio dilatato vedeva venire innanzi a sè la terra sotto la forma di una tetra massa disposta a cono, e che usciva dal mezzo dei flutti come un immenso cappello alla catalana. — È quella l’isola di Monte-Cristo? — domandò con voce grave e marcata da profonda tristezza il viaggiatore, agli ordini del quale sembrava che momentaneamente fosse sottoposto il piccolo _yacht_. — Sì, eccellenza, rispose il padrone, noi arriviamo. — Noi arriviamo! mormorò il viaggiatore con un indefinibile accento di melanconia: indi soggiunse a bassa voce: — Sì, quello sarà il porto. — E ritornò ad immergersi nel suo pensiero che traspirava da un sorriso più tristo che non sarebbero state le lagrime. Alcuni minuti dopo si scoperse a terra una fiamma che tosto si spense, e il rumore di un arme da fuoco giunse fino al _yacht_. — Eccellenza, disse il padrone, ecco il segnale di terra, volete rispondervi voi stesso? — Che segnale? domandò quegli. — Il padrone stese la mano verso l’isola ai fianchi della quale s’avvicinavano, isolata e biancastra, additando un largo pennacchio di fumo che si squarciava allargandosi. — Ah! sì, diss’egli come se uscisse da un sogno; date. — Il padrone gli stese una carabina già carica; il viaggiatore la prese, l’alzò lentamente e fece fuoco in aria. Dieci minuti dopo si ammainavano le vele, e si gettava l’ancora a 500 passi dal porto. La lancia era già in mare con quattro rematori e il pilota; il viaggiatore discese, e invece di sedere a poppa, per lui coperta da un tappeto, rimase in piedi a prua colle braccia incrociate. I rematori aspettavano coi remi alzati, come gli uccelli che si asciugano le ali. — Andate! disse il viaggiatore. — Gli otto remi caddero in mare di un sol colpo senza far spruzzare una sola goccia di acqua; indi la barca, cedendo all’impulsione, strisciò rapidamente. In quel punto giunsero ad un piccolo seno formato da scavi naturali; la barca toccò fondo sulla fina sabbia. — Eccellenza, disse il pilota, montate sulle spalle di due dei nostri uomini, essi vi porteranno a terra. Il giovine rispose a questo invito con un gesto di completa indifferenza, si liberò le gambe dalla barca, e si lasciò calare nell’acqua che gli giunse fino alla cintola. — Ah! eccellenza, mormorò il pilota, avete fatto male a far così, ci farete sgridare dal nostro padrone. Il giovine continuò ad avanzarsi verso la riva seguendo i due marinari che sceglievano il miglior fondo. Dopo una trentina di passi erano a terra, il giovine scuoteva i piedi sopra un terreno secco, e cercava con gli occhi intorno a sè il cammino probabile che gli verrebbe indicato, poichè faceva assolutamente notte; al momento in cui voltava la testa una mano si posò sulla sua spalla, ed una voce lo fece rabbrividire. — Buon giorno Massimiliano, diceva questa voce, voi siete esatto, io ve ne ringrazio. — Siete voi, conte, gridò il giovine, con un movimento che rassomigliava alla gioia, e stringendo con ambe le mani la mano di Monte-Cristo. — Sì, voi lo vedete, così esatto quanto voi stesso; ma voi siete grondante, caro amico, bisogna cambiarvi di vestito, come diceva Calipso a Telemaco. Venite adunque, vi è per di qua un alloggio preparato per voi e nel quale dimenticherete la stanchezza ed il freddo. — Monte-Cristo s’accorse che Morrel si voltava, egli aspettò. Il giovine infatto, vedendo con sorpresa che non era stata detta una parola da quelli che lo avevano là portato, ch’egli non li aveva pagati e che ciò non ostante erano partiti. Si sentiva anzi di già il battere dei remi della barca che ritornava al piccolo _yacht_. — Ah! sì, disse il conte, voi cercate i vostri marinari? — Senza dubbio; io non ho loro dato niente; e ciò non ostante sono partiti. — Non vi occupate di questo, Massimiliano, disse ridendo Monte-Cristo, ho un contratto colla marina, perchè gli accessi alla mia isola siano franchi da qualunque spesa: sono _abbonato_ come si direbbe nei paesi inciviliti. — Morrel guardò il conte con meraviglia. — Conte, diss’egli, voi non siete più lo stesso qui che a Parigi. — In che modo? — Sì, voi ridete. — La fronte di Monte-Cristo si corrugò d’un subito: — Avete ragione di richiamare me a me stesso, Massimiliano, diss’egli: il rivedervi era per me una felicità ma passeggiera. — Oh! no, no, conte, gridò Morrel stringendogli di nuovo le mani, ridete, al contrario, siate felice, e provatemi colla vostra indifferenza che la vita non è cattiva che per coloro che soffrono. Oh! voi siete caritatevole, siete buono, siete grande, ed è solo per darmi coraggio che affettate questa ilarità. — Vi sbagliate, gli è perchè sono effettivamente contento. — Allora mi dimenticate, tanto meglio! — In che modo? — Sì, poichè lo sapete, amico, come diceva il gladiatore entrando nel circo al sublime imperatore, io dico a voi: «quello che va a morte, vi saluta.» — Non siete consolato? domandò Monte-Cristo con uno strano sguardo. — Oh! fece Morrel con uno sguardo pieno d’amarezza, avete creduto realmente che io potessi esserlo? — Ascoltate, disse il conte, voi intendete bene il senso delle mie parole, non è vero, Massimiliano? non mi prendete per un uomo volgare, per un istrumento che emette dei suoni vaghi e privi di senso? Quando io vi domando se siete consolato, vi parlo da uomo pel quale il cuore umano non ha più segreti. Ebbene! Morrel, discendiamo insieme nel fondo del vostro cuore, ed esploriamolo. Evvi ancora quella impaziente foga di dolore che fa balzare il corpo come balza il leone ferito da un colpo di moschetto? vi è sempre quella sete divorante che non si estingue che nella tomba? vi è ancora quella idealità di dispiacere che lancia il vivo fuori della vita, in traccia della morte? ovvero vi è soltanto la prostrazione del coraggio spossato, la noia che soffoca i raggi di speranza che vorrebbero rilucere? vi è la perdita della memoria che produce l’impotenza delle lagrime? Oh! mio caro amico, se la cosa è così, se non avete più altre forze che in Dio, altri sguardi che nel cielo, Massimiliano, voi siete consolato, non vi lamentate più. — Conte, disse Morrel con tuono di voce dolce e fermo; ascoltatemi, come si ascolta un uomo che parla col dito steso verso la terra, gli occhi verso il cielo; io sono venuto vicino a voi per morire fra le braccia di un amico. Certamente amo ancora qualcuno: amo mia sorella Giulia, amo suo marito Emmanuele; ma ho bisogno che mi si aprano delle braccia forti, e che mi si sorrida nell’ultimo mio momento; mia sorella si struggerebbe in lagrime e svenirebbe; io vedrei soffrire, ed ho sofferto abbastanza: Emmanuele mi strapperebbe l’arme dalle mani e riempirebbe la casa delle sue grida; voi, conte, voi di cui io ho la parola, mi condurrete dolcemente e con tenerezza, n’è vero, fino alle porte della morte? — Amico, disse il conte, non mi resta ancora che un dubbio; avreste voi così poca forza da mettere dell’orgoglio nell’esagerare il vostro dolore? — No, osservate; io sono tranquillo, disse Morrel stendendo la mano al conte, e il mio polso non batte nè più forte nè più lentamente dell’ordinario: mi ritrovo al termine della mia strada e non andrò di più avanti. Voi mi avete parlato di aspettare e di sperare; sapete ciò che avete fatto al disgraziato, saggio che siete? io ho aspettato un mese, vale a dire ho sofferto un mese di più. Io ho sperato; (l’uomo è una povera e miserabile creatura!) che cosa ho sperato? non lo so, qualche cosa di sconosciuto, d’assurdo, d’insensato; un prodigio!... E quale? Dio solo può dirlo che ha mischiato alla nostra ragione il sentimento della speranza. Sì, ho aspettato; ho sperato, e da un quarto d’ora che parliamo mi avete cento volte, senza saperlo, torturato e lacerato il cuore, poichè ciascuna delle vostre parole mi ha provato che non vi era più speranza per me. Oh! conte, quanto riposerò dolcemente e voluttuosamente nella morte! Morrel pronunziò quest’ultime parole con un’esplosione di energia che fece fremere il conte. — Amico mio, continuò Morrel, vedendo che il conte taceva, voi mi avete designato il 5 ottobre come termine della dilazione che mi avete domandata... amico, oggi è il 5 ottobre... — Morrel cavò l’orologio: — Sono nove ore, ho ancora tre ore da vivere. — Sia, rispose Monte-Cristo, venite. — Morrel seguì macchinalmente il conte, ed essi erano già nella grotta che Massimiliano non se ne era ancora accorto. Egli trovò i tappeti sotto i suoi piedi, si aprì una porta, dolci profumi lo avvilupparono, una viva luce colpì i suoi occhi. Morrel si fermò esitando ad inoltrarsi; egli non si fidava delle snervate delizie che lo circondavano. Monte-Cristo lo attirò dolcemente: — Non fa mestieri, disse il conte, che noi impieghiamo le tre ore che ci rimangono come quegli antichi Romani che, condannati da Nerone loro imperatore e loro erede, si mettevano a tavola coronati di fiori, ed aspiravano la morte tra i profumi delle vainiglie e delle rose? Morrel sorrise: — Come vorrete, disse egli; la morte è sempre morte, vale a dire l’oblio, vale a dire il riposo, vale a dire l’assenza della vita, e per conseguenza dei dolori della terra. — Egli si assise, Monte-Cristo si pose in faccia a lui; erano in quella maravigliosa sala da pranzo che abbiam già descritta, e dove statue di marmo portavano sulle loro teste cestellini sempre pieni di fiori e di frutti. Morrel aveva guardato tutto vagamente, ed era possibile che non avesse veduto niente. — Parliamo da uomini, diss’egli guardando fissamente il conte. — Parlate! rispose questi. — Conte, riprese Morrel, avete in voi raccolto tutte le conoscenze umane, e mi fate l’effetto di essere disceso da un mondo più inoltrato e più erudito del nostro. — Nelle vostre parole vi è qualche cosa di vero, Morrel, disse il conte con quel sorriso melanconico che lo faceva così bello: sono disceso da un pianeta che si chiama il dolore. — Io credo tutto ciò che mi dite, senza cercare di approfondirne il senso, conte! e la prova si è che voi mi avete detto di sperare, ed ho quasi sperato: avrò dunque il coraggio di dirvi come se foste già morto una volta: come è doloroso il morire? — Monte-Cristo guardava Morrel con una indefinibile espressione di tenerezza. — Sì, disse egli! sì, senza dubbio è molto doloroso, se voi troncate brutalmente questo mortale inviluppo che domanda ostinatamente di vivere. Se voi fate stridere la vostra carne sotto i denti impercettibili di un pugnale! se vi trapassate con una palla intelligente, e sempre pronta a scartarsi dalla strada del vostro cervello, che il minimo urto addolora, certamente voi soffrirete, e lascerete odiosamente la vita, trovandola nel mezzo della vostra disperata agonia, migliore che un riposo comprato ad un così caro prezzo. — Sì, lo capisco, disse Morrel, la morte, come la vita, ha i suoi segreti di dolore e di voluttà: il tutto dipende dal saperli conoscere. — Precisamente, Massimiliano, e voi avete detta una gran parola. La morte è, a seconda delle cure che noi poniamo nel metterci in bene o in male con lei, o una amica che ci culla dolcemente quanto una nutrice, o una nemica che strappa violentemente l’anima dal corpo. Un giorno, quando il nostro mondo avrà vissuto ancora un migliaio d’anni, quando si sarà reso padrone di tutte le forze distruggitrici della natura per farle servire al ben essere generale dell’umanità, quando l’uomo saprà, come voi desideravate or ora, i segreti della morte, la morte diverrà così dolce e così voluttuosa quanto il sonno gustato fra le braccia di una diletta consorte. — E se voi voleste morire, sapreste morire in tal modo? — Sì. Morrel gli stese la mano. — Capisco ora, diss’egli, perchè mi avete dato convegno qui in quest’isola disabitata, nel mezzo dell’Oceano, in questo palazzo sotterraneo, sepolcro da destare invidia ad un Faraone: gli è perchè voi mi amate, non è vero conte? è perchè mi amate abbastanza per darmi una di queste morti di cui parlavate or ora, una morte senza agonia, una morte che mi permetta di estinguermi pronunziando il nome di Valentina e stringendovi la mano? — Sì, avete colto al segno Morrel, disse il conte con semplicità, ed è così che io la intendo. — Grazie; l’idea che domani non soffrirò più è soave al mio povero cuore. — Non vi dispiace di niente? domandò Monte-Cristo. — No! rispose Morrel. — Neppur di me? domandò il conte con profonda emozione. — Morrel si fermò; il suo occhio così puro di repente si oscurò, indi brillò di straordinaria luce! una grossa lagrima gli scaturì e scorse scavando un solco d’argento sulla sua guancia. — Che! disse il conte, lasciate ancora qualche cosa con dispiacere sulla terra, e voi morite! — Oh! ve ne supplico, gridò Morrel con voce indebolita, non mi dite una parola di più conte, non prolungate il mio supplizio. — Il conte credè che Morrel si fosse indebolito. Questa credenza di un momento risuscitò in lui l’orribile dubbio già atterrato una volta al castello d’If. — Io mi occupo, pensò egli, di restituire quest’uomo alla felicità, guardo questa restituzione come un peso gettato nella bilancia sul piatto opposto a quello in cui ho gettato tanto male. Ora, se io mi sbagliassi, se quest’uomo non fosse abbastanza infelice per meritare la felicità che gli destino? ahimè che addiverrebbe di me che non posso dimenticare il male se non facendo il bene! — indi rivolgendosi a Morrel: — Ascoltate, Morrel, disse Monte-Cristo, io non ho alcun parente al mondo, voi lo sapete: mi sono abituato a considerarvi come un mio figlio. Ebbene! per salvare questo mio figlio, io sacrificherei la mia vita, a più forte ragione, le mie ricchezze. — Che intendete dire? — Intendo dire, Morrel, che voi volete lasciare la vita, perchè non conoscete tutti i piaceri che la vita concede ai possessori di grandi ricchezze. Massimiliano, io posseggo quasi cento milioni, io ve li dono; con una simile fortuna voi potrete ottenere qualunque risultato vi proporrete. Siete ambizioso? tutte le carriere vi saranno aperte. Mettete sotto sopra il mondo, cambiatene la faccia, abbandonatevi ad opere insensate, ma vivete. — Conte, io ho la vostra parola, rispose freddamente Morrel; e, aggiunse egli cavando l’orologio, sono le undici e tre quarti. — Morrel! ci pensate voi, sotto i miei occhi, nella mia casa?... — Allora, lasciatemi partire, disse Massimiliano divenuto tetro, oppure io crederò che voi non mi amate per me, ma per voi! — E si alzò. — Sta bene, disse Monte-Cristo, il cui viso si rischiarò a queste parole; voi lo volete, Morrel, voi siete inflessibile; sì, siete profondamente infelice, e lo avete detto, un miracolo soltanto potrebbe guarirvi; sedete adunque, Morrel, e aspettate. — Morrel obbedì; Monte-Cristo si alzò a sua volta ed andò a frugare in un armadio chiuso diligentemente, di cui portava la chiave sospesa ad una catenella d’oro; prese un piccolo bauletto d’argento, maravigliosamente scolpito e cesellato. Posò il bauletto sulla tavola: indi aprendolo ne cavò una scatola d’oro il cui coperchio si alzava premendo una molla. Questa scatola conteneva una sostanza untuosa, quasi solida, di cui il colore era indefinibile, mercè il riflesso dell’oro forbito, dei zaffiri, dei rubini, e degli smeraldi che contornavano la scatola. Era un miscuglio di azzurro, di porpora e d’oro. Il conte prese una piccola quantità di questa sostanza con un cucchiaio d’argento dorato, e l’offrì a Morrel, fissando su lui un lungo sguardo. Allora si potè vedere che questa sostanza era verdastra. — Ecco ciò che voi mi avete domandato, diss’egli. Ecco ciò che io vi ho promesso. — Vivo ancora, disse il giovine, prendendo il cucchiaio dalle mani di Monte-Cristo, vi ringrazio dal fondo del mio cuore. — Il conte prese un altro cucchiaio, e lo immerse una seconda volta nella scatola d’oro: — Che fate voi, amico? domandò Morrel, fermandogli la mano. — In fede mia, Morrel, credo di esser stanco quanto voi della vita, e poichè si presenta l’occasione.... — Fermate! gridò il giovine, voi che amate, voi che siete amato, oh! non fate ciò che faccio io; per parte vostra sarebbe un delitto. Addio, mio nobile e generoso amico, addio, io vado a dire a Valentina tutto ciò che voi avete fatto per me. — E lentamente, senz’altra esitazione che una lunga stretta colla mano sinistra, che stendeva al conte, Morrel inghiottì, o piuttosto assaporò la misteriosa sostanza offerta da Monte-Cristo. Allora entrambi si tacquero. Alì, silenzioso ed attento portò il tabacco e le pipe, servì il caffè e disparve. Poco a poco le lampade impallidirono nelle mani delle statue di marmo che le sostenevano, e i profumi dei vasi sembrarono meno penetranti a Morrel. Assiso a lui di faccia, Monte-Cristo lo guardava dal fondo dell’ombra, e Morrel non vedeva brillare che gli occhi del conte. Un immenso dolore s’impadronì del giovine: sentì la pipa sfuggirgli di mano; gli oggetti perdevano la loro forma e il loro colore; i suoi occhi turbati vedevano aprirsi come porte e tende nei muri: — Amico, diss’egli, io sento che muoio; grazie! — Fece uno sforzo per stendergli un’ultima volta la mano, ma la mano ricadde senza forze vicino a lui. Allora gli sembrò che Monte-Cristo sorridesse, non più del suo strano e spaventoso sorriso che molte volte gli aveva fatto intravvedere i misteri di quest’anima profonda, ma colla benevolenza compassionevole che i padri hanno pei loro figli irragionevoli. Nello stesso tempo il conte ingrandiva ai suoi occhi; la sua persona, quasi raddoppiata si disegnava sulle tendine rosse, egli aveva i capelli neri gettati in addietro, e compariva in piedi e fiero. Morrel abbattuto e vinto, si rovesciò sul divano; un torpore voluttuoso s’insinuò nelle sue vene. Un cambiamento d’idee mobilizzò la sua fronte, come una nuova disposizione di disegni muove il caleidoscopio. Steso, snervato, anelante, Morrel non sentì più niente della vita in lui, se non questo sogno: gli sembrava di entrare a gonfie vele in quel vago delirio che precede quell’antro sconosciuto, che si chiama morte. Tentò anche una volta di stendere la mano al conte, ma questa volta la sua mano non si mosse nemmeno; volle articolare un ultimo addio, la sua lingua gli cadde pesantemente in gola, come una pietra che chiudesse un sepolcro. I suoi occhi carichi di languore si chiusero suo malgrado; però dietro alle sue palpebre si agitava un’immagine ch’egli riconobbe ad onta della oscurità da cui si credeva avviluppato. Era il conte che aveva aperta una porta. Tosto un’immensa chiarezza irradiò dalla camera vicina, o piuttosto da un palazzo meraviglioso, venne inondata di luce la sala ove Morrel si lasciava in braccio alla sua dolce agonia. Allora egli vide venire sulla soglia di questa sala e sul limitare di queste due camere una donna di meravigliosa bellezza. Pallida, e dolcemente sorridente, ella sembrava l’angiolo della misericordia. — È forse il cielo che già si apre per me? pensò il moribondo; quest’angiolo rassomiglia a quello che ho perduto. — Monte-Cristo mostrò col dito alla giovanetta il sofà su cui riposava Morrel. Ella si avanzò verso di lui con le mani giunte e il sorriso sulle labbra. — Valentina! Valentina! — gridò Morrel nel fondo dell’anima sua. Ma la bocca non proferì alcun suono; e, come se tutte le sue forze fossero unite in questa emozione interna, mandò un sospiro, e chiuse gli occhi. Valentina si precipitò verso di lui. Le labbra di Morrel fecero ancor un movimento. — Egli vi chiama, disse il conte, egli vi chiama dal fondo del suo sonno; colui al quale voi avete confidato il vostro destino, dal quale la morte ha voluto separarvi! ma io era là per fortuna, ed ho vinta la morte! Valentina, d’ora in avanti non dovete separarvi più sulla terra! poichè per ritrovarvi, egli si precipitava nella tomba. Senza di me, sareste morti entrambi! possa Iddio tenermi a calcolo queste due esistenze che ho salvate! — Valentina afferrò la mano di Monte-Cristo, ed in uno slancio di gioia irresistibile, la portò alle sue labbra. — Oh! ringraziatemi bene, disse il conte, oh! riditemi, senza stancarvi di ridirlo, riditemi che io vi ho resa felice! non sapete quanto io abbia bisogno di questa certezza. — Oh! sì, sì, io vi ringrazio con tutta l’anima mia, disse Valentina, e se dubitate che i miei ringraziamenti non siano sinceri, ebbene! domandate ad Haydée, interrogate la mia sorella prediletta Haydée, che dal momento della nostra partenza dalla Francia mi ha fatto aspettare pazientemente, parlandomi di voi, e del felice giorno che oggi risplende per me. — Voi dunque amate Haydée? domandò Monte-Cristo con una emozione che si sforzava invano di dissimulare. — Oh! con tutta l’anima mia! — Ebbene! ascoltate, ho una grazia da chiedervi. — A me, gran Dio! sarei abbastanza felice per...? — Sì; voi avete chiamata Haydée vostra sorella, ch’ella lo sia in fatto, Valentina; rendete a lei tutto ciò che voi credete di dovere a me! proteggetela voi e Morrel, poichè (la voce del conte era vicina ad estinguersi nella sua gola), poichè d’ora innanzi ella sarà sola al mondo... — Sola al mondo! ripetè una voce dietro il conte, e perchè? — Monte-Cristo si voltò. Haydée era là, ritta, pallida ed agghiacciata, guardando il conte con un gesto d’immortale stupore: — Perchè domani, figlia mia, tu sarai libera, rispose il conte; perchè tu riprenderai nel mondo il posto che ti è dovuto, perchè non voglio che il mio destino oscuri il tuo. Figlia di principe! ti restituisco le ricchezze ed il nome di tuo padre. — Haydée impallidì, aprì i suoi occhi diafani come la vergine che si raccomanda a Dio, e con voce resa rauca per le lagrime: — Dunque, mio signore, tu mi lasci? disse ella. — Haydée! Haydée! tu sei giovane, tu sei bella; dimentica perfino il mio nome, e sii felice! — Sta bene, disse Haydée, i tuoi ordini saranno eseguiti, mio signore; dimenticherò perfino il tuo nome, e sarò felice. Ella fece un passo in addietro per ritirarsi. — Oh! mio Dio, gridò Valentina, mentre sosteneva la testa appesantita di Morrel sopra la sua spalla, non vedete dunque quant’ella soffre? Haydée le disse con una espressione dilaniante: — Perchè vuoi dunque, sorella mia, che egli mi comprenda? egli è mio padrone, io sono la sua schiava; egli ha il diritto di non veder niente. — Il conte fremette agli accenti di questa voce che andò a risvegliare per fino le fibre più secrete del suo cuore; i suoi occhi s’incontrarono in quelli della giovanetta, e non ne poterono sostenere la forza. — Mio Dio! mio Dio! disse Monte-Cristo, sarebbe dunque vero quanto mi lasciate supporre, Haydée? voi dunque sareste felice se non mi lasciaste? — Io sono giovane, amo la vita che tu mi hai resa sempre così dolce, e mi dispiacerebbe di morire. — Ciò dunque vuol dire che se io ti lasciassi, Haydée?... — Io morirei, mio signore, sì! — Tu dunque mi ami? — Oh! Valentina, egli chiede se io l’amo! Valentina, digli dunque se tu ami Massimiliano! Il conte sentì il suo petto allargarsi ed il suo cuore dilatarsi, aprì le braccia, Haydée vi si slanciò, gettando un grido. — Oh! sì, io t’amo, diss’ella, t’amo come si ama il padre, il fratello, il marito! io t’amo come si ama la vita, perchè tu sei per me il più bello, il migliore, il più grande degli esseri creati! — Ebbene! sia dunque fatto come tu vuoi, angelo mio diletto! disse il conte; Dio mi ha suscitato contro i miei nemici, e chi mi ha fatto vincitore? Dio! io lo vedo bene. Egli non vuol mettere il pentimento in mezzo alla mia vittoria! io voleva punirmi, Dio vuol perdonarmi. Amami dunque, Haydée! chi sa? il tuo amore forse mi farà obbliare ciò che è necessario che io obblii. — Ma che dici dunque mio signore? domandò la giovanetta. — Io dico, che una tua parola, Haydée, mi ha illuminato di più che i venti anni della mia saggezza: non ho più che te al mondo, Haydée! per te mi riattacco alla vita, per te posso ancora essere felice od infelice! — Lo ascolti tu, Valentina! gridò Haydée, egli dice, che per me può soffrire, per me che darei la mia vita per lui! Il conte si raccolse un minuto: — Ah! io intravedo la verità! diss’egli. Oh! Vieni, Haydée, vieni... E stretta la mano di Valentina disparve con Haydée. Circa un’ora passò durante la quale anelante, senza voce, cogli occhi fissi, Valentina restò vicino a Morrel. Finalmente ella sentì battere il cuore di lui, un soffio impercettibile aprì le labbra di lui e quel leggero fremito che annunzia il ritorno della vita, percosse tutto il corpo del giovine. Finalmente gli occhi si riaprirono, ma sulle prime fissi e come insensati; indi gli ritornò la vista, precisa, reale; colla vista il sentimento, e col sentimento il dolore: — Oh! gridò egli coll’accento della disperazione, io vivo ancora, il conte mi ha ingannato! e stese la mano sulla tavola, ed afferrò un coltello. — Amico, disse Valentina col suo adorabile sorriso, svegliati adunque, e guarda dalla mia parte. Morrel mandò un gran grido, e, delirante, pieno di dubbio, come abbagliato da una visione celeste, cadde alle ginocchia di lei. La dimane ai primi raggi del giorno, Morrel e Valentina passeggiavano sotto il braccio l’uno dell’altro, sulla spiaggia. Valentina raccontava a Morrel in che modo Monte-Cristo era apparso nella sua camera, come le aveva tutto svelato, come le aveva fatto toccar col dito il delitto, e come finalmente l’avea miracolosamente salvata dalla morte, lasciando credere a tutti ch’ella era morta realmente. Essi avevano ritrovata aperta la porta della grotta, ed erano usciti; il cielo lasciava ancora risplendere sul suo azzurro mattutino le ultime stelle della notte. Allora Morrel scoprì, nella penombra di un gruppo di rocce, un uomo che aspettava un segnale per inoltrarsi; egli lo mostrò a Valentina: — Ah! è Jacopo! diss’ella, il capitano del _yacht_. E con un gesto ella lo chiamò. — Avete qualche cosa a dirci? domandò Morrel. — Ho da rimettervi questa lettera per parte del conte. — Del conte! esclamarono entrambi i giovani. — Sì, leggete. — Morrel aprì la lettera e lesse: «Mio caro Massimiliano, «Ritroverete per voi una feluca all’ancora, Jacopo vi condurrà a Livorno, ove il sig. Noirtier aspetta sua nipote, che egli vuol benedire prima che vi segua all’altare. Tutto ciò che è in questa grotta, amico mio, la mia casa ai Campi-Elisi e il mio piccolo castello di Trèport sono i regali di nozze che fa Edmondo Dantès al figlio del suo padrone Morrel; Madamigella de Villefort vorrà bene prenderne la metà, poichè la supplico di dare ai poveri di Parigi tutte le ricchezze che le possono venire dal lato di suo padre divenuto demente, e dal lato di suo fratello morto in settembre con sua madre. «Dite all’angiolo che veglierà sulla vostra vita, Morrel, di pregare qualche volta per un uomo che, simile a Satana, follemente per un momento si è creduto uguale a Dio, e che ha riconosciuto, con tutta l’umiltà di un cristiano, che nelle mani soltanto di Dio sta il supremo potere e la infinita sapienza. Queste preghiere addolciranno forse i rimorsi ch’egli porta seco nel fondo del suo cuore. «In quanto a voi, Morrel, ecco tutto il segreto della condotta che ho tenuto verso voi: non vi è nè felicità nè infelicità in questo mondo, vi è soltanto il paragone di uno stato ad un altro, ecco tutto. Quello che ha provato l’estremo infortunio è atto a gustare la suprema felicità. Bisogna aver voluto morire, Massimiliano, per sapere qual bene è il vivere. «Vivete dunque e siate felici, figli prediletti del mio cuore, e non dimenticate mai che, fino al giorno in cui Iddio si degnerà di svelare all’uomo l’avvenire, tutta l’umana saggezza sarà riposta in queste due parole: _Aspettare e sperare._ Vostro amico EDMONDO DANTÈS _Conte di Monte-Cristo_.» Durante la lettura di questa lettera, che le apprendeva la follia di suo padre e la morte di suo fratello, morte e follia ch’ella ignorava, Valentina impallidì, un doloroso sospiro le sfuggì dal petto, e lagrime non meno pungenti per essere silenziose scorsero sulle sue guance; la sua felicità le costava ben cara! Morrel guardò intorno a sè con inquietudine: — Ma, diss’egli, in verità il conte esagera la sua generosità; Valentina si contenterà della mia modesta fortuna. Dov’è il conte, amico mio? conducetemi a lui. Jacopo stese la mano verso l’orizzonte. — Che! che volete dire? domandò Valentina; dov’è il conte? dov’è Haydée? — Guardate, disse Jacopo. — Gli occhi dei due giovani si fissarono sulla linea indicata dal marinaro; e sulla linea di un blu cupo che separava all’orizzonte il cielo dal Mediterraneo, si scoperse una bianca vela, grande come l’ala di un gabbiano. — Partito! gridò Morrel; partito! Addio, amico mio, addio padre mio. — Partita! mormorò Valentina. Addio, amica mia! addio sorella mia! — Chi sa se li rivedremo mai più? disse Morrel asciugandosi una lagrima. — Amico mio, disse Valentina, il conte non ci ha egli lasciato scritto che l’umana saggezza tutta intera sta riposta in queste due parole: _Aspettare e sperare_? FINE. INDICE Capitolo Pag. I. Marsiglia — L’arrivo 1 II. Il padre ed il figlio 5 III. I Catalani 8 IV. Il complotto 13 V. Il pranzo degli sponsali 16 VI. Il sostituto del procuratore del Re 22 VII. L’interrogatorio 27 VIII. Il castello d’If 32 IX. La sera degli sponsali 38 X. Il piccolo gabinetto delle Tuglierie 41 XI. Il lupo di Corsica 43 XII. Il padre ed il figlio 46 XIII. I Cento Giorni 50 XIV. Il prigioniero furioso ed il prigioniero pazzo 54 XV. Il numero 34 ed il numero 27 59 XVI. Lo scienziato 67 XVII. La camera dello scienziato 71 XVIII. Il tesoro 80 XIX. Il terzo accesso 85 XX. Il cimitero del castello d’If 89 XXI. L’isola di Tiboulen 92 XXII. I contrabbandieri 98 XXIII. L’isola di Monte-Cristo 101 XXIV. L’abbagliamento 105 XXV. Lo sconosciuto 109 XXVI. L’albergo del ponte di Gard 112 XXVII. Il racconto 119 XXVIII. I registri delle prigioni 124 XXIX. La casa Morrel 127 XXX. Il 5 settembre 134 XXXI. Italia — Sindbad il marinaro 141 XXXII. Risvegliamento 152 XXXIII. I briganti 155 XXXIV. Le apparizioni 167 XXXV. Il patibolo 177 XXXVI. Il Carnevale di Roma 184 XXXVII. Le catacombe di San Sebastiano 193 XXXVIII. Il convegno 201 XXXIX. La colazione 204 XL. La presentazione 220 XLI. Bertuccio 226 XLII. La casa d’Auteuil 228 XLIII. La vendetta 232 XLIV. La pioggia di sangue 242 XLV. Il credito illimitato 248 XLVI. La pariglia grigio-pomellata 253 XLVII. Ideologia 259 XLVIII. Haydée 264 IL. La famiglia Morrel 265 L. Piramo e Tisbe 270 LI. Tossicologia 275 LII. Roberto il diavolo 282 LIII. Alto e basso dei fondi 289 LIV. Il maggiore Cavalcanti 294 LV. Andrea Cavalcanti 298 LVI. Il recinto a trifoglio 303 LVII. Il signor Noirtier de Villefort 308 LVIII. Il testamento 312 LIX. Il telegrafo 315 LX. Mezzo di liberare un giardiniere dai ghiri che gli mangiano le pesche 320 LXI. I fantasmi 324 LXII. Il pranzo 328 LXIII. Il mendico 333 LXIV. Scena coniugale 338 LXV. Disegni di matrimonio 342 LXVI. Il gabinetto del procurator del Re 347 LXVII. Un ballo in estate 352 LXVIII. Le informazioni 355 LXIX. La festa di ballo 359 LXX. Il pane ed il sale 363 LXXI. La signora di Saint-Méran 365 LXXII. La promessa 370 LXXIII. La tomba della famiglia Villefort 383 LXXIV. Processo verbale 388 LXXV. I progressi del sig. Cavalcanti figlio 394 LXXVI. Haydée 399 LXXVII. Ci scrivono da Giannina 408 LXXVIII. La limonata 416 LXXIX. L’accusa 421 LXXX. La camera del fornaio in ritiro 424 LXXXI. La rottura 432 LXXXII. La mano di Dio 438 LXXXIII. Beauchamp 441 LXXXIV. Il viaggio 444 LXXXV. Il giudizio 450 LXXXVI. La provocazione 456 LXXXVII. L’insulto 459 LXXXVIII. La notte 464 LXXXIX. L’incontro 468 XC. La madre ed il figlio 473 XCI. Il suicidio 476 XCII. Valentina 481 XCIII. La confessione 484 XCIV. Il padre e la figlia 490 XCV. Il contratto 494 XCVI. La strada del Belgio 500 XCVII. L’albergo della Campana e della Bottiglia 504 XCVIII. La legge 508 IC. L’apparizione 513 C. Locusta 517 CI. Valentina 519 CII. Massimiliano 522 CIII. La firma di Danglars 527 CIV. Il cimitero del Padre Lachaise 532 CV. La divisione 538 CVI. La fossa dei leoni 546 CVII. Il giudice 549 CVIII. Le Assise 554 CIX. L’atto d’accusa 557 CX. L’espiazione 560 CXI. La partenza 564 CXII. La casa dei viali di Meillan 567 CXIII. Il passato 570 CXIV. Peppino 576 CXV. La carta di Luigi Vampa 582 CXVI. Il perdono 585 CXVII. Il cinque ottobre 587 NOTE: [1] _Monte-Cristo, piccola isola del mar Tirreno sulla costa occidentale del Granducato di Toscana vicino a Gianuti a 14 leghe dalla provincia di Siena da cui dipende, e a 10 leghe Sud dall’isola d’Elba. Lat. Nord 42° 20′ 26″ long. E. 7° 57′ 55″, anticamente detta_ Oglaia. (_Nota del Trad. Napol._) [2] _Ognun sa che in Italia, forse più che altrove, le donne non solo del mezzo ceto, ma anche del ceto infimo ricevono o per mezzo di istituti particolari, o per mezzo degli Asili Infantili, quella decente educazione scevra da ogni caricatura che può giungere a formare delle oneste mogli ed eccellenti madri di famiglia. Questa è cosa ormai tanto conosciuta che l’asserzione del sig. Dumas ha ben poca figura in confronto ai continui elogi, che uomini di merito e coscienziosi, tanto Italiani che esteri, elargiscono a quella non piccola classe di persone di ambo i sessi che in Italia si occupa per l’incremento dell’educazione, in ispecie delle donne. (T.)_ [3] _Io credo ora ai banditi Italiani._ [4] _I francesi chiamano _baignoire_ alcuni palchi del piano terreno, che sono chiusi sul davanti da un graticcio; genere di palchi poco morale, ma tutto proprio del teatro francese. (T.)_ Nota del Trascrittore L'ortografia originale è stata mantenuta, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici (soprattutto incoerenze nei nomi dei personaggi, le cui diverse varianti sono state riportate alla stessa grafia). È stato necessario apportare numerose correzioni alla punteggiatura, in particolare nei dialoghi, per rendere più comprensibile il testo. Per comodità di lettura un indice è stato creato a fine volume. *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK IL CONTE DI MONTE-CRISTO *** Updated editions will replace the previous one—the old editions will be renamed. Creating the works from print editions not protected by U.S. copyright law means that no one owns a United States copyright in these works, so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the United States without permission and without paying copyright royalties. Special rules, set forth in the General Terms of Use part of this license, apply to copying and distributing Project Gutenberg™ electronic works to protect the PROJECT GUTENBERG™ concept and trademark. Project Gutenberg is a registered trademark, and may not be used if you charge for an eBook, except by following the terms of the trademark license, including paying royalties for use of the Project Gutenberg trademark. 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