The Project Gutenberg eBook of Angiola Maria: Storia domestica This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook. Title: Angiola Maria: Storia domestica Author: Giulio Carcano Release date: March 9, 2021 [eBook #64766] Language: Italian Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by the HathiTrust Digital Library) *** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK ANGIOLA MARIA: STORIA DOMESTICA *** [Illustrazione: Angiola Maria] ANGIOLA MARIA STORIA DOMESTICA DI GIULIO CARCANO TERZA EDIZIONE, COLL'AGGIUNTA INEDITA DEL MANOSCRITTO DEL VICECURATO MILANO PER L'EDITORE PIETRO MANZONI LIBRAIO MDCCCXLV. TIP. GUGLIELMINI. ANGIOLA MARIA A CORINNA O spirito gentile, Che nel silenzio a visitarmi scendi; E a un angelo simile La più ascosa del cor favella intendi: Dimmi, qual luce è questa Che splende alla deserta anima mia? E qual memoria desta L'amica del pensier malinconia? Luce è d'amor, che move Dall'ignota virtù de la bellezza; Malinconia, che piove La segreta del pianto alma dolcezza! — In tempo lieto io vidi La tua sembianza, e ancor mi sei presente; E ancora mi sorridi, E all'arcano tuo raggio arde la mente. La tua fronte serena È quasi all'alma trasparente velo; E l'occhio che balena Par che dica alla terra: Io son del cielo! Diva solinga e pura, Questi adunque ti sacro umili fiori; Prole di zolla oscura, Da te cercan la vita ed i colori. Li colsi sull'aurora, Nè perduta avran forse ogni fragranza; V'è una lagrima ancora: È la lagrima pia della speranza! Marzo, 1839. LIBRO PRIMO. 1. Con due ale sollevasi l'uomo da terra, cioè con la semplicità e con la purità: semplicità dev'essere nell'intenzione, purità nell'affezione. — Non è creatura così piccola e vile che non rappresenti la divina bontà. 2. Il cuor puro trapassa il cielo e l'inferno. _Tommaso da Kempis._ PROLOGO. Non è poesia senza verità e senza virtù. Se la Musa non veste il semplice manto della Verità; se la Virtù non le insegna il suo casto e tranquillo sorriso, le creazioni della poesia saranno indifferenti, o vane; poichè l'arte non è solamente figlia dell'inspirazione, ma anche della sapienza. Allora il poeta non avrà il suo più dolce premio, quell'intimo assenso ch'è la risposta dell'anima; non troverà nessuno che consacri a lui un pensiero, un affetto. — Il cuore poi ha sempre bisogno d'amare; esso sente bensì e gusta quanto accarezzi la sua parte di creta, ma intende e ama ciò che solleva la sua parte più bella, la coscienza. Per chi studia il cuore e le sue migliori affezioni, che nutrono le virtù semplici e domestiche, anche la vita della più umile creatura, anche la storia segreta dell'anima più modesta, sono una lezione sublime, quant'è il meditar sulla sorte dell'uomo grande e caduto, sull'età delle nazioni, sui fatti terribili e sanguinosi degli uomini. E noi, deh! non vogliamo crederci e parer peggiori di quello che siamo: le grandi virtù son rare, e per questo appunto son grandi; ma la virtù modesta, la virtù docile e vera abita in mezzo di noi. E tu, sempre che la cerchi, ad ogni passo puoi incontrarti in essa; e la ritrovi ne' piccoli e ne' potenti; e più spesso forse nella casa che nel palazzo, perchè, se non foss'altro, i più vivono nelle case, i pochi ne' palazzi. — Ond'io penso, che una fedele pittura della vita onesta e innocente sia studio più gentile e miglior pascolo dell'anima, che non la trista notomía d'una società fattizia e malata, di che grandemente si compiacquero molti; poichè, mentre questa non fa che serrarti il cuore e stillarti nell'anima il dubbio, lo sconforto e l'egoismo, quella invece nutre l'amore e procaccia l'esempio. L'innocenza poi ha in sè stessa un incanto di semplicità così vero, una dolcezza di vita e di costume sì schietta, che l'anima più severa e restia non può a meno di sentirne la bellezza, di donarle grazia, amicizia, o se non altro, di dimostrarle rispetto. Egli è ciò che v'ha in terra di più celeste! Ma anch'essa, questa virtù tutta sorriso e fiducia, è fuggitiva e pellegrina nel mondo. Dapprima il cielo, il sole, la bella natura, la contentezza dell'oggi e del dimani, tutto è per lei. Essa cerca l'amore, senza invidia e senza sospetto; è felice, e ha bisogno che gli altri sieno felici con essa. — È il fanciullo, il quale non conosce che suo padre e sua madre, e ama chiunque folleggi con lui e gli compiaccia; i suoi pensieri son lieti, come una fresca corona di rose sulla sua testa infantile. Se non che, troppo presto il pianto domanda il suo diritto, e l'alba della vita dura per poco. Dice un filosofo, che l'uomo è sì grande, che la sua grandezza appare anche in ciò, ch'egli si conosce misero. Così, quand'esso sente il peso de' suoi dolori, trova in sè medesimo una forza novella: la speranza. Questa gli dona la consolazione dell'amicizia, la dolcezza dell'amore; ed egli, incapace di sprezzar sè medesimo, sente pur sempre d'esser capace del bene. Allora l'amore solleva il cuore, consiglia la fede, suscita la volontà; e così tutti i nostri giorni fossero come quelli in cui veramente amiamo! Ma il cammino della vita è difficile. Il potere degli avvenimenti, dell'opinione, del costume crea nell'uomo, per dir così, una seconda natura; e questa, il più delle volte, soggioga la prima. Onde i più fortunati son coloro che, senza fallire la via, toccano alla meta, e che hanno saviezza abbastanza per vivere in pace con sè stessi, o coraggio abbastanza per soffrire. E anch'essa, la debole creatura che solo nacque per amare o per piangere, anch'essa, che vide morirsi d'intorno i più bei fiori della vita, conserva nel cuore un tesoro, la sua rassegnazione e la sua fede. L'angustia del dubbio, il languore dell'abbandono logorano la sua fragile esistenza; pure essa sostiene le prove della sventura, che son lunghe e dolorose, perchè la sventura è fedele. Ella è sola quaggiù, ma Dio è sopra di lei! E l'ultimo sacrifizio che fa un'anima innocente, è il più bello, il più sublime testimonio della virtù abitatrice della terra. — Così la storia d'una vita semplice e giusta può esprimersi in tre parole: innocenza, amore e sacrifizio. I. UNA DOMENICA. Chi vede un'alba di primavera nella nostra bella Italia, in questo cielo così quieto e trasparente della Lombardia, e non sente aprirsi libero il cuore e l'anima sollevarsi leggiera e serena, come al respirare un'aria che la nutre, ch'è la sua, non ebbe certamente, nè avrà mai, quel senso divino, che Dante, con sublime verità, chiamava intelletto d'amore. Questo sentimento così grande e puro non è gioia, nè maraviglia; non è nemmeno un'estasi; è l'intimo affetto della bellezza della natura, è vera poesia. Se tu hai contemplato qualche volta una di queste aurore, là sulle rive beate del lago di Como, dimmi, non ti nacque nell'anima un pensiero almeno, che la vita vi può esser più felice, gli anni più lenti e men gravi, il cuore più giusto, più in pace? E non pregasti allora, che Dio rendesse migliori i figli di questa dolce patria, dove si piacque di crear così bella e benedetta la natura? — Se tu non facesti questo voto, io lo feci per te! Era una mattina piena d'incanto. — La primavera cominciava appena; la limpidezza dell'aria e lo splendore del cielo, l'armonia della vita e della natura, tutto era bellezza e mistero. È il bel tempo, che il poeta sogna la gioventù del mondo, i giorni della creazione, quando terra e cielo forse non avevano che un nome; è il bel tempo, che rinnova que' miracoli della produzione, i quali all'uomo semplice e saggio si manifestano nelle grandi provvidenze della materia e della forza; che al ricco ozioso ristora la stanca complessione, e al povero contadino fa la promessa d'una buona annata. Allora noi sentiam più forte il bisogno d'amare i nostri fratelli, d'amar la terra dove nascemmo, i luoghi dove il nostro cuore apprese tanti cari nomi, fece tanti bei sogni nell'innocenza e nell'amore, e dove anche abbiam dovuto gustare i primi dolori, e piangere la prima volta! O nostra patria! — Ecco il sole, che nella pienezza della sua luce suscita l'allegrezza nel cielo, sparge la fecondità nelle campagne, la tranquillità nella vita, e l'amore nell'anima di tutti! Ecco interminate pianure, su cui l'occhio si perde; ecco laghi che ripetono il sereno del cielo, e fiumi maestosi, e acque irrigatrici; ecco campagne verdeggianti di gelsi, fiorenti di messi; colline liete d'una perpetua ubertà; monti che un'assidua coltura rivestì di vigneti e di pascoli, di casolari e di borgate! Qui la bellezza del cielo e della terra, la frequenza degli uomini, la leggiadria delle donne... È la terra de' nostri padri, dell'antica nostra religione, delle poche sante memorie che ancora ci rimangono. Non si cerchi di più. Il giovine ha bisogno della gloria, e della felicità, e ne vuole almeno la sembianza! Quel giorno era una domenica. — Dalle sponde e per le costiere de' monti che coronano le acque tranquille del lago di Como, s'udiva a intervalli ripetersi per l'aria e confondersi, a cento distanze, quasi in allegro accordo, uno scampanare di festa dai paesetti, de' quali è seminata quella beata parte di terra. Il più bello di quella scena, la ridente prospettiva di tanti villaggi che illuminati dal sole si specchiano nelle onde, quel misto di luce e di colori, quelle indefinite temperanze di vapori e d'ombre, tutto ciò sfida del pari il pennello del pittore e la magia della parola. Non son altro che poveri casali sparsi qua e là, sul dosso d'una collina, sulla costa d'un monte, o a fior dell'acqua; spicca solamente fra essi qualche casa più alta dell'altre, dipinta di bianco e circondata da una vite verdeggiante, o protetta dal bizzarro fogliame di qualche albero antico. Eppure sono i luoghi che t'accontentan l'occhio e il cuore, e che, veduti una volta, non sai più dimenticare. Al solo volger dello sguardo, su d'ogni punta che si prolunga nell'acqua, vedi bei villaggi distendersi a lungo della sponda, l'uno più dell'altro pittoresco e ameno, che sembrano sorti fuor del lago per incantesimo: su di ciascuna riva, su di ciascun'erta, arrestano la tua attenzione nobili e vasti palazzi degni di principi, a' quali ascendi per un ampio ordine di scaglioni; villette solitarie ed eleganti, che s'elevano al piede o sul fianco della montagna, ricinte di giardini tutti in fiore, adorne di piante rare e strane, consolate d'ombre perenni; più in su, la meschina casupola del montanaro e l'angusto suo campicello; poi la costiera si fa più ripida; spesseggiano gli arboscelli, e salendo ancora, non discerni che larghi strati bigiognoli d'ardesia, erbe grame che ne tappezzano i fianchi, e il saltellare d'acque montane. — Dall'una all'altra parte ti si presentano innanzi, ad uno, a due, a tre, i paesetti, quale sopra una pendice boscosa, quale sopra un ciglione tagliato a perpendìcolo, o in un seno di lago, o a cavaliere d'una roccia nuda e sporgente; mucchi di case, che ti sembran colà annidate per un giuoco dell'uomo: e se sollevi gli occhi fino a' vertici più alti, vedi disegnarsi nell'azzurro del cielo i contorni d'un'antica chiesa votiva, ch'è solitaria custode delle valli sottoposte. Eccoti in faccia un bel promontorio, coronato d'alcuni gruppi di pini, ove dal poggio fino alla scesa siede il più vago paese che ti si dipinga alla veduta; scena pittoresca di case modeste e tranquille, d'ombrosi vigneti e d'orti aprichi; pacifico asilo che seduce e invita nel suo seno l'uomo stanco delle cose di quaggiù. E dietro a questo superbo spettacolo d'acque, di piante e d'abitari, vedi altri monti; e dietro a quelli, altre cime, le Alpi; poi tutto l'orizzonte lucido e fiammeggiante, il sole che sparge una luce infinita, purissima sull'inquieta superficie del lago, e regna nel mezzo del cielo in tutta la solennità del suo splendore, come lo sguardo di Dio che si riposa sulla terra per risvegliarla alla vita. — Oh! per dire una sì gran maraviglia ci vuol ben altro che la mia povera penna. La piccola chiesa gotica di **** era aperta; e si vedeva il buon popolo della pieve entrarvi frettoloso e divoto, in fila, a gruppi, a brigatelle, mentre che le campane replicavano ancora l'ultimo tocco della messa della domenica. Per le viuzze oscure e chiuse dalle povere abitazioni, per le callaie bistorte e fiancheggiate d'un muricciolo di ciottoli, che sboccano nella piazzetta, da ogni casa, da ogni porta del dintorno, si vedevan salire, calare, incontrarsi donne, uomini e fanciulli: le madri si menavan dietro le figliuole, mentre i garzoncelli, nel loro bell'abito delle feste, correvan saltellando, come vispi capretti, sulla riva e pel greto; le fanciulle camminavano leste leste e raccolte fra i piccoli crocchii, che i compari e i giovani del paese andavan facendo qua e là sul sagrato della chiesa, fino a che la campana tacesse. Era proprio una bella gente; faccie floride e vivaci, fronti contente, aperte, su ciascuna delle quali avresti potuto legger la bontà del montanaro, mista a non so che d'ardito e di sagace, ond'è noto fra noi chi nacque sul lago; la bontà lombarda, e la toscana sottigliezza. I giovani sfoggiavano i loro acuminati cappelli a larga tesa, ornati d'un fibbiaglio d'acciajo, il farsetto nuovo di fustagno verde e le ampie brache di grosso velluto nero; nè più si contava fra essi che qualche vecchio fedele ancora al giubbone, all'alta cintura di cuoio e a' calzeroni di lana avvoltati sopra il ginocchio, in quella foggia che suol chiamarsi anche da noi _barulè_. Le fanciulle invece portavano addoppiato sulla testa un fazzoletto di vivaci colori, che copriva quella bella corona di spadine d'argento, onde le contadine lombarde hanno trapunte le trecce; andavano, quasi tutte del pari, vestite d'una semplice sottana di tela turchina, e di certi busti o giubberelli di seta o di rascia, rossi o cilestri, allacciati allo sparato delle maniche e del petto da molti galanetti di fettuccie, ch'erano una grazia. E mentre passavano, alcuna di quelle belle montanine lasciava indietro una rapida occhiata furtiva sui gruppi de' giovinotti del paese, forse cercando il suo innamorato; e qualch'altra si stringeva alla compagna, per nascondersi a uno sguardo audace che la cercava; ma la compagna volgeva il capo, e la tradiva con risa mal represse. A ciascuna giovinetta che di là s'avviasse, bisogna pur dirlo, que' garzoni arditi lanciavano di soppiatto una parolina, un motto, un sogghigno; e certo ch'eran da compatire, chè in piccolo paese si conoscono tutti, come fossero una famiglia. Ma quando videro di lontano venire alla volta della chiesa due donne vestite di nero, essi tacquero subito; e, con certo rispetto, si tirarono in disparte. Quelle due donne erano madre e figlia; una, curva della persona, portava sul volto magro e già rugoso, sebbene non apparisse molto vecchia, i segni del dolore che accorcia l'età; l'altra era giovinetta e fresca, ma così pallida e bianca, che nessuno, in quell'abito oscuro, e sotto quello zendado nero, l'avrebbe detta una contadina. Era il suo viso di gracile contorno e d'un ovale perfetto; gli occhi, che parevano ancora rossi del piangere, teneva chini a terra; e le mani, congiunte sopra il seno con un fare onesto e rassegnato, raccoglievano lo zendado d'intorno al sottile suo busto. Essa non era grande della persona, ma snella e graziosa del portamento; e più di tutto i suoi piccoli piedi, che spiccavano sotto le pieghe della nera sottana, rapivano gli occhi. In somma, v'era in lei qualche cosa di gentile e di raro, che al primo vederla non avresti pensato mai la fosse nata da povere genti, in un oscuro villaggio; chè invece pareva, sì dilicata e contegnosa ch'ell'era, allevata nel seno di ben più eletta condizione. Eppure era un fiore bello e modesto di quell'ignoto terreno, cresciuto in quell'aria libera e viva. Già tutti erano entrati nella piccola chiesa; dove, in silenzio e con una quiete consueta, si dividevano, gli uomini a parte destra, le donne a sinistra, savio costume antico che ancor dura nelle nostre campagne. Al cominciar della messa, s'inginocchiavano tutti al punto stesso, come i figliuoli che aspettano la benedizione del loro padre. E in quel giorno, era un loro fratello, un giovin prete del paese, che, in vece del vecchio curato, offriva per essi al Signore il divino Sacrifizio. La sua voce era chiara, solenne, ma commossa: le semplici parole del messale, cantate da lui con severa cadenza, avevano un non so che di tremolo e malinconico. Tutti que' contadini, in un sincero raccoglimento, parevano ascoltare con più divota attenzione quelle ripetute orazioni, ch'essi non intendevano, ma che accompagnavano nella fede e nella giustizia de' loro cuori. Ma quando il prete si rivolgeva dalla mensa dell'altare per dire: _Pregate, o fratelli!_ — o per ripetere quelle sante parole: _Il Signore sia con voi!_ essi guardavansi l'un l'altro in atto di compassione; poichè s'erano accorti ch'egli aveva pianto, e che nel presentare al Signore i voti de' suoi fratelli aveva pur domandato per sè consolazione e pace. Ma v'erano nella chiesa due donne che intendevano la pienezza di quel dolore, perchè ne portavano anch'esse una gran parte; erano quelle stesse, vestite a bruno, alle quali, mentre passavano poco prima, i buoni contadini avevan dimostrato certa onoranza e rispetto. Oh nessuno colà, in quel giorno, pregava con tanto fervore, con tanta pietà, come quelle due donne! Quand'ebbe finita la messa e benedetto il piccol popolo, il giovine sacerdote si rivolse, e con voce piana e tranquilla disse dall'altare una di quelle parabole evangeliche, piene di semplicità affettuosa, di santa benevolenza, che scendon nell'intimo de' cuori con la soavità del virtuoso consiglio e nella divina schiettezza della verità. Le sue parole non eran cercate, nè mandate a memoria: egli parlava semplicemente, parlava il linguaggio dell'anima religiosa; e un cuore pieno di fede e di speranza era sulle sue labbra. La grandezza di quella dottrina, che con l'unico precetto d'una vita divina quaggiù, spiegata a esempio delle virtù umane, ha rinnovato la faccia della terra, rivelavasi nell'umile verità delle sue parole; e la santità di quella morale che consola e che persuade, adatta alla severa ragione del saggio, come a' naturali intelletti di que' contadini, inspirava ne' loro cuori la contentezza della pace e della fratellanza — perchè egli parlava loro d'una giustizia incolpabile e del terrore de' cattivi in mezzo al trionfo, delle afflizioni di questa terra e del contraccambio preparato lassù, di carità e di preghiere, di perdono e di rassegnazione. Intanto un giovin signore era entrato nella chiesa; e messosi in un canto, senza che molti s'addassero della sua presenza, si rimase con attenta maraviglia, per seguir le parole che il prete allora proferiva con accento più rapido e commosso, e ch'eran queste: — O miei fratelli, io lo domando a voi, e fra voi, a ciascun di coloro a' quali il Signore ha già mandato le sue prove, se non sia vero che nel tempo della disgrazia noi ci ricordiam della religione, noi sentiamo il bisogno di credere in essa, e confessiamo ch'è la verità! Allora corriamo a inginocchiarci all'altare, e domandiam di poter pregare e di piangere; poichè gli uomini non risposero alle nostre parole di dolore, e il nostro cuore non trovò pace nelle speranze terrene. Ah sì! non c'è umana superbia, la quale non cada dopo un'ora di miseria. — Oh! lasciate che sia disprezzato colui che mette la sua ragione nel cielo, e la sua fede nel Signore! Egli sa la verità più del filosofo che tentenna nell'oscurità del dubbio, e più del grande che ride e si dimentica. I'ho conosciuto, o miei fratelli, questi uomini che si chiamano i sapienti, e quelli che voi credete felici e potenti come i maghi, perchè son ricchi e hanno un gran nome: io le ho vedute queste grandi felicità, che i piccoli invidiano senza nè manco indovinarle — deh! che valgon mai, con le loro eterne menzogne, co' piaceri pagati a peso d'oro, e più di tutto con quella nausea di sazietà che le accompagna! — Sì! lo credete! nessun uomo quaggiù ha il diritto d'esser più felice del suo fratello! — Tutti posson esserlo del pari, perocchè lo stesso Libro è aperto a tutti, e la felicità è nella _verità_, e la contentezza nella _giustizia_. Gli è meglio patire, come il povero, come voi; e benedir al Signore, quando vi concede il vostro pane quotidiano, quando manda un lungo sonno di riposo sulle vostre coltri non invidiate, che non vivere schiavo delle usurpazioni, de' pregiudizii di quel mondo che non conoscete, e veder tutti i giorni il disinganno faccia a faccia, e crescere il proprio bene a scapito di quello degli altri. Il Signore ha vissuto nel tempo, è venuto fra noi, e ha voluto esser l'ultimo degli uomini: nessuno maledica dunque al Signore nella povertà e nella disgrazia!.. Egli v'ha dato l'allegrezza del cielo, l'aspetto d'una natura sorridente e feconda: Egli ha tolto a voi e a tutti i vostri fratelli che vivono in questa parte di terra, un nome potente, temuto una volta, e adesso dimenticato, inutile!.. Ma il Signore ha detto: Siate sempre fratelli, amatevi sempre! E io vi ripeto nel nome di lui: Ricordatevi che il Signore ha in mano il passato e l'avvenire, ch'egli suscita dal peccato la rigenerazione, dalla morte l'eternità! Educate nella rettitudine e nell'amore i vostri figliuoli, perchè essi vi consoleranno, e piangeranno quando voi sarete morti, e terranno sempre nel loro cuore la vostra memoria. — Oh! io non ho mai parlato a voi con tanta effusione di cuore come in questo giorno, nel quale invano gli occhi miei van cercando una cara testa canuta in mezzo di voi, la testa del padre mio, che con tanta gioia avrei veduto levarsi intenta alle mie povere parole, sotto le vôlte di questa chiesa. — Sia pace all'anima di quell'onesto vecchio! Oh ditelo voi pure con me, e perdonatemi, se domando la vostra preghiera anche per un dolore ch'è tutto mio.... La vostra preghiera, o fratelli, è per un giusto! — Il prete s'interruppe a queste parole, e un singhiozzo mal represso, e un pianto a gran pena trattenuto, s'udirono scoppiare in un angolo della chiesetta. Erano le due donne vestite di nero, le quali avevan cercato in vano di soffocare un affanno recente, al ricordarsi dell'uomo di cui parlavano le malinconiche parole del prete. Il giovin signore volse uno sguardo a quella parte, e si sentì commosso, poichè indovinò il segreto d'una sventura così involontariamente confessata, di un dolore così sincero. Egli guardò ancora, e vide sotto il velo bruno, ond'era ricoperta la giovinetta, l'eloquente pallidezza d'una fronte verginale e addolorata, ch'era stata dinanzi rosea di freschezza e sorridente; vide due occhi neri che piangevano tacitamente, un volto bianco e soave che s'inchinava, che gli ricordava uno di que' volti d'angiolo dipinti da Raffaello. Anche il prete fermò, quasi non volendo, gli occhi a quel lato, ma subito ne li distolse: le due donne erano sua madre e sua sorella. — Egli continuava: — La vita è breve, l'affanno è passeggiero anch'esso; ma verrà tempo che tutti i dolori saranno consolati. Non invidiate a coloro che stanno in alto, e non desiderate che venga il giorno di poterli calpestare e disprezzare voi pure, com'essi forse fanno adesso con voi; perchè il Signore ha benedetto l'uomo che patisce, e beato è colui che muore con maggior carico d'amore e di dolore!... Pregate, o miei fratelli, pregate per voi, per i vostri figliuoli, per i vostri poveri morti!... E quando, la sera, ve ne state raccolti in devoti crocchietti dinanzi alle vostre porte, dicendo in comune le vostre preghiere, o insegnando a ripetere a' vostri fanciulli il paternostro, non vi sconfortate se i cattivi passano e ridono. Essi non conoscono il tesoro d'una tranquilla coscienza, nè la contentezza delle anime semplici e credenti. E così io parlo a voi, perchè il profeta del Signore ha detto — e qui il prete levava la fronte con un ardor solenne, e il suo aspetto era acceso d'un sacro entusiasmo: — Lo spirito di Dio è sopra di me, perchè Dio m'ha consacrato, e mi mandò a portar la sua parola a' mansueti di cuore, a medicare gli addolorati, a prometter l'indulgenza a' prigioni, e la libertà a quelli che stanno rinchiusi. Egli mi mandò a predicare il tempo della misericordia e il giorno della vendetta, a consolar tutti quelli che piangono, a dar loro la corona per la cenere, il balsamo della gioia per il lutto, il manto della lode per le sofferte angustie. E costoro saranno chiamati i forti della giustizia, la radice della gloria del Signore. Perchè, come la terra produce i suoi frutti, e come l'orto gérmina la sua semente, così il Signore farà sorgere la giustizia e la santità in faccia a tutte le genti. — Il sacerdote benedisse il popolo, e scese dall'altare. E il giovine se n'andò, maravigliato di questa semplice eloquenza, che a lui parve sublime; se n'andò meditando a quella scena di dolore sì schietto e religioso, della quale l'aveva fatto testimonio il caso. Pensava alle due donne, al prete, a quella gente commossa, all'umile chiesa; nè ricordavasi d'aver provato mai un senso così mestamente pietoso, come quello che toccava allora il suo cuore. II. SUL TERRAZZO. Una villa, che ancora si vede, a breve distanza di ****, sorgere sulla riva destra del lago, fabbricata nello stile malinconico e severo dell'architettura del secolo passato, ha un bel terrazzo, che su d'una roccia stagliata stendesi alquanto nell'acqua, e lascia allo sguardo abbracciare la pittoresca veduta di quelle cinque miglia di lago, chiuse tra Como e la punta di Torno. Su quel terrazzo, che è come il prolungamento d'un'ala della casa, andavano e venivano, nella stessa mattina, alcuni servi per apparecchiar la consueta colezione de' loro padroni, una colezione all'inglese. E di fatto, una famiglia inglese aveva preso a pigione la villa per tutta la state di quell'anno. Era un vecchio signore venuto co' suoi figliuoli a cercare, sotto il ridente nostro cielo lombardo, alcuni mesi di salutar riposo dalle fatiche dell'aristocrazia. Avevano lasciato per la prima volta il cielo nebbioso di Londra e lo splendido tumulto della vita politica e cittadina; chè un viaggio sul continente è, per l'inglese, medicina d'ogni rovescio; per l'inglese che, in casa sua, tesse tranquillamente la politica delle cinque parti del mondo; e fuori, sen va a centellare con egual costanza il suo tè sui ghiacci del gran San Bernardo, e all'ombra delle Piramidi. — Vieni, Elisa! diceva una bionda giovinetta, correndo fuori colla più graziosa sveltezza su quel terrazzo. Vieni, dunque! chè le dieci ore sono testè sonate al villaggio, e il mio buon appetito me ne avverte. Nostro padre verrà subito anch'esso. — Eccomi, cara! le rispondeva uscendo Elisa, la sorella di Vittorina. Che bel giorno! che bel cielo! io aveva letto e sentito dir tante cose dell'Italia, ma non pensavo che fosse sì bella! — Bada prima, o sorella, a servire il tè! e poi, farai le tue contemplazioni alla buon'ora. Pensa a noi, te ne prego, o fantastica creatura. Vedi mo! quest'aria, che in te risveglia la poesia, in me stuzzica l'appetito! Ma l'Elisa, ch'era la sorella maggiore, una giovinetta pallida, malinconica e bella come la Malvina d'Ossian, non dava pensiero alla premura di Vittorina. Ella s'era abbandonata mollemente sul poggiuolo del terrazzo, e distratta guardava l'acqua del lago, che rompevasi con monotono gorgoglío al piede del sasso: e diceva sotto voce, parlando con sè stessa: — O mia povera madre! se tu pure fossi qui con noi! Io t'ho conosciuta appena: ero sì piccina ancora, quando n'abbandonasti per andare in paradiso!... Ma pure mi ricordo di te, mi ricordo de' tuoi baci, delle tue carezze.... Tu eri malinconica! Oh se tu fossi qui con noi, io non piangerei, ma così!... — E sollevava la faccia al sereno del cielo. Venne in quella sul terrazzo un vecchio signore, d'alta statura, di contegno serio e severo. Egli salutò d'un cenno della mano le due giovinette, poi si mise a sedere. Vittorina gli corse al fianco, e lo baciò in fronte, con una tenerezza infantile, dicendogli: — Buon giorno, padre mio! come state? — Bene. — Volete ch'io serva il tè? Io farei subito colezione ben volentieri! Ma non siate così brusco: l'aria di questo paese non vi rallegra? — Sì, quel che vuoi, cara. Ma l'Elisa che fa? — Eccomi, padre mio! perdonate, io era distratta ne' miei pensieri. Nel mentre le due sorelle apprestavano il tè, lord Guglielmo Leslie se ne stava taciturno, corrucciato in viso, e le gomita appoggiate alla tavola in atto d'interno dispetto; le due giovinette si sogguardavano tacitamente a ora a ora. Ma la fronte di Vittorina era serena e gaia, e sulla sua bocca scherzava sempre un ingenuo sorriso; Elisa invece levava gli occhi azzurri e intenti, e pareva voler leggere nella cupa meditazione del padre, perchè sentiva il bisogno di dividere il suo dolore e di confortarlo. Quella era dunque una mattina assai mesta, in faccia a un cielo incantevole, nel giorno più bello della primavera. Dopo un lungo silenzio, e poi ch'ebbero finita la colezione, Elisa si rivolgeva a suo padre, e vincendo una certa titubanza, dicevagli con tutta soavità: — Perdonategli, padre mio, perdonate al nostro buon Arnoldo! Ditemi che non è vero che voi non l'amiate più!.. dunque, se l'amate ancora... — Chi mi parla di colui?... rispose con piglio severo il lord. — È la vostra Elisa, padre mio, la vostra Elisa a cui pur volete tanto bene... Ma voi ne volete anche ad Arnoldo, e nel vostro cuore gli perdonate, non è vero? — Finitela, riprese il padre suo, finitela! Guai a chi mi parla di riconciliazione con quell'uomo indegno!... È troppo! — E battè con tal impeto di rabbia il pugno sulla tavola, che la povera Elisa si levò sbigottita; e Vittorina, che già stava per aggiunger la sua alla preghiera della sorella, balzò indietro, e mise un grido di spavento. Il vecchio lord, mormorando ancora — È troppo! — aggrottava le ciglia: poi, alzatosi dispettosamente, volgeva le spalle alle figliuole, e rientrato in casa, chiudevasi dietro le imposte. Elisa e Vittorina rimasero guardandosi l'una l'altra, e senza osar seguirlo cogli occhi, nè dir parola. Lord Guglielmo Leslie discendeva da una famiglia antica e chiara. I Leslie avevano avuta non l'ultima parte nelle vicende politiche del loro paese; e quantunque fossero scaduti da quell'antico splendore di potenza famigliare che i secoli e le ricchezze avevano sancita, nondimeno serbavan tuttavia gli avanzi d'un orgoglio aristocratico, e di quella superbia, direi quasi dinastica, che i severi Inglesi, più che tutti gli altri, seppero conservare in mezzo a tutte le loro cittadine libertà e a' loro civili procedimenti. Non c'è popolo, che al pari degl'Inglesi sia così ostinato e sdegnoso mantenitore de' privilegi e delle franchigie che i nobili vantano sui cittadini, e che nel mentre combatte in pace e in guerra per la causa della libertà delle nazioni, conservi con tanta gelosia i suoi privilegi e diritti; i quali almeno non sono, colà come altrove, una boria ridicola, poichè posano saldi sopra una base di fatto, come il cammino degli avvenimenti e le vicende del poter civile ve li hanno essenzialmente stabiliti. I Leslie di Falconbridge tenevano ancora alcuni vasti poderi in una delle più colte contrade del mezzodì d'Inghilterra. Al principiar del nostro secolo, non eran rimasti di quella famiglia che due fratelli, lord Giorgio e sir Guglielmo. Il primo, dopo che sostenne una grave magistratura dello Stato, andò a ritirarsi nelle sue terre, in seguito d'una mutazione del ministero; e il re aveva premiato le sue fatiche e il suo prudente ritirarsi a tempo col titolo di barone. Ma lord Giorgio non aveva figliuoli, e la sua recente dignità doveva passar nella linea cadetta. Sir Guglielmo dunque tenne aperti gli occhi sull'andar delle cose; accarezzò sempre le opinioni del fratel suo, e aspettò il giorno che gli avrebbe dato nuovi diritti e nuovi doveri. Nella futura grandezza dell'unico suo figliuolo Arnoldo, egli concentrava tutta la sua stessa potenza e quella del nome della sua famiglia, del quale era così geloso veneratore. Altero per costume e per educazione, tenace, fino allo scrupolo, della sua antica nobiltà e delle domestiche abitudini alle quali era stato ligio per tant'anni, dal tempo che viveva nell'antico castello di suo padre, là nell'Hampshire, sir Guglielmo pareva dispettoso d'invecchiare, senza vedere che le sue speranze s'avverassero mai. Non dirò ch'egli avesse desiderata la morte di suo fratello lord Giorgio, per venire in possessione delle sue grandi tenute e per andarne esso pure a sedersi nel parlamento; ma stava ad aspettarla, perchè Giorgio era d'alcuni anni più vecchio di lui, e di salute logora e fiacca. A quarant'anni, sir Guglielmo s'era ammogliato con Arabella Randale, che l'aveva fatto padre d'Arnoldo e di quelle due care giovinette, Elisa e Vittorina. La povera Arabella non era stata felice! Sacrificata, come pur troppo avvien di sovente anche fra noi, all'orgoglio e all'interesse, era stata gettata, qual vittima, nelle braccia d'un uomo ch'ella non amava, e che le tolse il suo per darle un nome, che non le fece palpitare soavemente il cuore, se non quando divenne il nome de' suoi figli. Ma l'anima sua era pia, la sua volontà docile e rassegnata. Tutta la vita di lei, che non fu lunga, era stata uno studio costante e secreto d'amar l'uomo ch'erale toccato a compagno, di cercare le più sane e oneste idee della mente di quest'uomo, le sue virtù sebben piccole, e le affezioni del suo cuore, per rispettarlo e amarlo in quelle. Ma sir Guglielmo era uno di coloro a' quali la natura sembra aver rifiutato il dovere amoroso di marito e di padre. Agitato da continui pensieri di fumo e d'ambizione, travagliato da mala vicenda nella sua domestica economia, egli era quasi sempre meditabondo, accigliato, dispettoso: fosse il cielo torbido o sereno, si raccontasse di fortune o di miserie, si spargesse la gioia o il dolore nella famiglia o ne' circoli, sempre la stessa nube era sulla sua fronte, lo stesso amaro sorriso sulle sue labbra. Non mai egli sovvenne la disgraziata sua donna di quelle consolazioni che cancellano tante memorie penose, nè mai le fu largo di quelle sollecite cure che medicano anche le più triste piaghe della vita. Arabella aveva vent'anni quando fu maritata a sir Guglielmo; a trentadue ella moriva, moriva portando seco tutto il cordoglio della sua vita sconosciuta e negletta. Aveva compiuto il sacrifizio di tutto ciò che v'ha di più sacro, la fede e l'amore; e non lasciava in terra che un pensiero di rammarico e un ultimo ardente desiderio: il pensiero de' suoi tre figliuoli, i quali, così giovani ancora, restavano senza di lei: il desiderio ch'essi almeno, più di lei, fossero felici. Dopo la morte di sua moglie, sir Guglielmo si mise dentro, assai più che prima non avesse fatto, nelle pubbliche cose. Egli si dimostrò allora uno de' più caldi sostenitori del partito _tory_, come già era sempre stato; e adoperò nome, fatiche e promesse al trionfo della sua parte. Sebbene non fosse quel che si chiama uom di Stato, e i più lo tenessero in conto di persona di comune levatura, nondimeno aveva quella prudenza politica che insegna di non arrischiar mai troppo, e quell'accorgimento che consiglia i mediocri ad appoggiarsi a' potenti senza farseli necessari, e a giovarsi a tempo di loro, facendo sembiante d'ajutarli. Mandò, com'è quasi legge pe' ricchi inglesi, il suo Arnoldo a viaggiar sul continente; affinchè poi, tornato in patria, si ponesse fra i candidati delle elezioni, per cominciare la sua via politica nel parlamento. Egl'intanto menò splendida vita in Londra, fece illustri amicizie, e molto profuse della sua ricchezza. Alla fine, lord Giorgio era morto nel suo feudal castello dell'Hampshire; e per accontentare la lunga aspettativa e la boria gentilesca del fratel suo, l'aveva chiamato unico e universale suo erede. Sir Guglielmo, divenuto così lord Leslie, vedeva avverarsi una dopo l'altra le sue speranze già da lungo tempo mature. Richiamò allora dal continente suo figlio Arnoldo, impaziente d'aprirgli un avvenire più sicuro e splendido; di preparargli una condizione, che non solamente gli procacciasse rispetto, ma facesse rumore e invidia. Arnoldo abbandonava a malincuore, e colla speranza di rivederle, le bellissime spiaggie di Mergellina, di Baja e di Pozzuoli, ove trovavasi allora; abbandonava la delizia di quel mare e di quel cielo veramente italiani, per ritornarsene, ignaro della domestica fortuna che l'aspettava, nel seno della superba Londra. Qui vide suo padre acceso più che mai di volontà d'onori e di ricchezze, attorniato di favoreggiatori e di nuovi amici; i quali vivevano tutti del suo credito e de' suoi conviti, e vendevansi a gara alla sua potenza. Il giovine amava le solenni memorie domestiche, e l'antica grandezza della sua famiglia così severa, veneranda e tranquilla, di cui il pensiero de' suoi prim'anni gli risvegliava la poetica ricordanza. Ma allora il suo cuore non era più il cuor del fanciullo; Arnoldo non era più quel di prima. Educato dall'esperienza de' viaggi, dallo spettacolo di tanti e variati costumi, dagli avvenimenti che dovunque parevano incalzarlo, dagli stessi suoi pensieri che si maturavano a una volontà più tenace e a più costanti proponimenti, il giovine si persuadeva che il tumulto della vita civile non era per l'uomo che sortì da natura affetti generosi ma tranquilli, non era per lui. Egli era entrato nell'onesta casa del cittadino di Parigi, e nella soffitta del povero operaio di Lione; stanco dalla lunga via sotto gli ardori del sole d'estate, s'era riposato all'ombra d'una vecchia quercia spagnuola, in mezzo a una banda di _guerrilleros_, che dormivano d'intorno a lui sicuri e spensierati, sul nudo terreno, co' fidi loro moschetti a lato; aveva durato molte notti sotto il tetto d'un casolare svizzero, in cima delle Alpi, alla vista delle eterne ghiacciaie, e del paese povero e libero; s'era adagiato nella barca del gondoliere veneziano, e aveva vogato nel navicello del pescatore di Napoli. Allora egli aveva sentito forte più che mai nel cuore la voce misteriosa della verità e della bellezza, che spiegano allo sguardo sempre e da per tutto una poesia potente e divina, nello spettacolo della natura e nelle vicissitudini del cielo e del mare, nella religione della povertà e nell'entusiasmo degli umani sacrifizi; allora aveva meditato a sè stesso, e aveva conosciuto che ben poca cosa diventano, in faccia d'una provvidenza così grande, le glorie storiche e l'orgoglio d'una famiglia che conta i nomi degli avi e de' redati poderi, nè si giova delle larghe fortune, che per far nuova grandezza e per ambizioni maggiori. Il cuore d'Arnoldo era buono e mite; generoso, com'è il giovine a vent'anni, ardente di trovar nella vita la bellezza e l'amore, come il poeta nelle sue prime inspirazioni, egli avrebbe fatto rinuncia del suo avvenire e forse della sua stessa fortuna, preparata con sì lunga solerzia, per una vita oscura e modesta, ma consolata dalla benevolenza, dall'amore, dalla semplice e tranquilla amicizia. L'arte della vita per lui altro non era ancora che il bel sogno della virtù. Una sera, lord Leslie, all'uscir della Camera de' Pari, chiamò con gran mistero il figlio nel suo gabinetto. E con insolita amorevolezza, e con la fronte serena, egli ch'era sempre accigliato e di scarse parole, s'aperse con Arnoldo, gli disse d'avere spesa tutta la sua vita per lui; gli ragionò della grandezza della sua casa, dell'onoranza degli avi; e conchiuse col proporgli un illustre accasamento, che doveva ristorar la sua ricchezza, crescere il favore del suo nome, e a lui medesimo aprire la luminosa via degli onori. In sulle prime, il giovine ristette mutolo e scontento; ma poi non potè rifiutare a suo padre di conoscere almeno la damigella che doveva essergli promessa sposa: e la cosa stette intanto segreta. La vide dunque, e la conobbe; essa era bella, orgogliosa e leggiera; era fatta per i piccoli trionfi del gran mondo, non per viver nel cuore d'un uomo. Arnoldo sentì subito che non avrebbe potuto amarla mai; vide che, insieme alla fanciulla, gli era necessario sposare anche la causa de' parenti di lei, gli parve quasi d'esser venduto; e a questo repugnava. Aperse allora la sua risoluzione al padre, che impaziente aspettava, e lo scongiurò di comandargli qualunque sacrifizio, fuorchè quello del suo cuore. Levò la testa il lord in atto di maraviglia, impallidì a quella negativa improvvisa; e congedò, senza dir nulla, ma in superbo atto, il ribelle figliuolo. Lord Leslie aveva già impegnata la sua parola a' genitori della fanciulla; e quello strano rifiuto d'Arnoldo rovesciava tutto l'edificio delle sue speranze. Poichè invano ebbe intromessi i consigli d'alcuni autorevoli parenti per vincere l'ostinata ripulsa del figliuolo, risolvè di lasciar l'Inghilterra, e se ne venne con rapido viaggio in Italia, insieme con Elisa e Vittorina. Arnoldo, ignaro affatto di quella subitanea partenza, e dolente dell'ingiusto sdegno del padre, ascoltò il buon pensiero di seguitarlo, per tornar più presto che potesse in pace con lui. Partì non molto dipoi, e lo raggiunse, ch'egli era di fresco arrivato. Io non dirò come il padre e il figlio s'incontrassero sul terrazzo della villa di ****, nè dirò le lagrime e le preghiere delle due giovinette, che tentarono invano di mitigare la cupa collera di quell'uomo sdegnato. — Io sono figliuol vostro, diceva Arnoldo supplichevole, e voglio starmi con voi! Se voi non mi perdonate ancora, aspetterò che il tempo e la conoscenza delle mie virtuose intenzioni mi tornino alla grazia vostra. Sì, avrò pazienza, finchè voi non pronunziate sul mio capo la maledizione!... Lord Leslie pareva commosso; ma non cedette, nè rispose che questo: — Andatevene, sconsigliato! Io non vi rivedrò finchè non abbiate fatto miglior senno. — E ogni ragione fu inutile. Ma Arnoldo non rinunciò alla sua virtuosa speranza. Prese a pigione una piccola casa, che non era a più d'un miglio di quella villa; abbastanza contento, se gli avvenisse d'incontrar le sue buone sorelle o sul lago, o sui sentieri della montagna. Con esse, egli ingannava molte ore, ragionando di tante care cose, di tante memorie che portava nel cuore. La storia di codesta vicenda famigliare potrà, cred'io, spiegare la sdegnosa tristezza del lord, e l'amorevole preghiera delle due fanciulle, in quella mattina. III. A DIPORTO SUL LAGO. Le due sorelle eran restate per alcun tempo sul terrazzo, dopo che il padre loro s'era ritirato. Mortificate e timide, come chi sente ripetersi la negativa di cosa già prima domandata nè ottenuta mai, esse guardavansi e tacevano. I loro pensieri eran diversi, ma i loro cuori eran del paro sbigottiti per quell'ostinato dispetto; nè sapevan come mai un padre potesse, quantunque offeso, non aprire per il primo le braccia a un figlio che prega. Avventurate! elleno si ricordano ancora della madre loro, e di quell'amore con cui le accarezzò fanciullette; elle non sanno di che sia capace un antico orgoglio, quand'è caduto da un'alta speranza. Elisa fu la prima che, avvicinandosi a sua sorella e abbracciandola con gran dolcezza d'affetto, le propose di scendere nella piccola barca, e di andarsene così sole a diporto lungo le rive del lago, che lucido e trasparente, al par del cielo, pareva le invitasse: quella buona fanciulla sperava che forse le sarebbe accaduto di vedere di lontano il suo Arnoldo, o di mandargli un saluto; e questa fiducia la consolava dell'amarezza che il rimprovero paterno le aveva gettato nel cuore. — Eran due giorni, ch'essa non incontravasi col fratello, e il segreto timore ch'egli potesse abbandonar que' luoghi, e toglierle la cara speranza, che pur nutriva, di riconciliarlo col padre, le angustiava i pensieri. Alla proposta della sorella, la leggiera nuvola di mestizia, che aveva offuscato la placida fronte di Vittorina, si dileguò; e la sua bocca s'aperse al sorriso e alla risposta d'un lieto consenso. Discesero inosservate, attraversarono l'ombreggiato viale del giardino, e calarono fino alla dàrsena; la quale aprivasi, come una grotta silenziosa, appiedi del terrazzo. Qui Vittorina, con un grido di gioia, balzò in una delle due barchette assicurate a grossi anelli di ferro; distaccò ella stessa colle sue piccole mani la catena che la legava al masso, e distese la destra, per prender quella d'Elisa; la quale, con maggior ritrosia, arrischiando un passo dall'ultimo scalino della sponda che le acque lambivano, la seguiva nella barca. Allora Vittorina, dato di piglio all'un de' remi, l'appuntò con agile movimento contro la muraglia, e sospinse la barchetta fuor della darsena, sì bene come l'avrebbe fatto un robusto navicellaio. E quando furono un po' al largo, affidò l'altro remo a Elisa, dicendole: — Via, sorella, aiutami almeno, se vuoi che andiamo innanzi. Già tu se' una cattiva barcaiuola, lo so! ma ti farò io da maestra. Dunque... guarda! — Non così! Tien saldo quel remo — allunga la destra — allenta adesso! — così! Non lo levar tant'alto, e fa che il remo si tuffi senza strepito, e senza mandar quegli sprazzi d'acqua... così! bene! Tien dietro a me, d'accordo, se no, vedi! la barca tentenna come una tròttola. Aspetta — adesso!... — E la giovinetta rideva di cuore. La barca leggera andava scorrendo lungo la costiera, sotto l'ombra oscura che gli annosi macchioni e i massi scheggiati, coperti d'eriche e di musco, gettavano sulle onde. E le due soavi figure delle giovinette rematrici si disegnavan leggiadramente sul fondo della verde parete della riva; la quale pareva via via fuggisse, a mano a mano che il battello col suo continuo ondeggiamento si dilungava nel lago, quieto e scintillante come lo zaffiro. Esse erano tutt'e due vestite d'un semplice abito bianco, e cinte d'un nero grembiule di seta, a foggia di guarnelletto; entrambe portavano una ciarpetta di velo color di rosa, ripiegata d'intorno la persona, e allacciata dietro con un nodo vezzoso; e, seguendo la vicenda de' remi, s'alzavano e s'abbassavano insieme le giovenili loro teste, ch'eran coperte d'un leggiadro cappello di paglia annodato di sotto il mento; ma i bianchi veletti de' loro cappelli svolazzavano all'indietro, scherzosamente agitati dalla fresca brezzolina, che spirava lungo i dossi e i pendii delle montagne del lago; perchè da quella parte non era disceso ancora il raggio del sole già alto. Allorchè d'un buon tratto di lago si furono allontanate dalla villa, le due sorelle allentarono i remi, lasciando andar la barchetta al capriccio dell'onde; ma le onde erano sì tranquille, e parevan cullare il legno con sì grazioso moto, che Elisa e Vittorina, rapite dalla magica scena che si distendeva loro d'intorno, sedettero, deposti i remi sulla piccola prora, l'una accanto all'altra. E mentre tenevansi soavemente abbracciate, le anime loro erravano negli amorosi pensieri e nelle divine fantasie, che non si risvegliano fuorchè in mezzo a que' luoghi felici, nell'ora splendida del meriggio, mentre disopra i casolari d'ogni paesetto del lago vedi levarsi, come una nuvoletta sottile, una lunga striscia di fumo, e dai campanili delle chiese sparse sulle montagne, odi echeggiare in un aereo concerto il sacro saluto del mezzogiorno. Così stettero per qualche tempo ad ammirare quel delizioso paese, che con sì grande e variato spettacolo di movimento e di quiete, e con sì superba armonia di cielo, d'acqua e di monti, ampiamente presentavasi dinanzi ai loro sguardi. Poi, quasi mosse da uno stesso pensiero, gli occhi loro s'arrestarono su quel mucchio di case che formano la terra di ****, cercando sul pendio del piccolo promontorio una casa nota, la quale sorgeva più in alto dell'altre, all'ombra d'un verde poggio. Stettero fisse per lunga pezza alle finestre di quella casa; era là che il loro Arnoldo dimorava. Ma quelle imposte non s'apersero; e per quanto Elisa e Vittorina cercassero con gli occhi, nulla poteron vedere. — Io temo che neppur quest'oggi non gli possiamo dire una parola, cominciò allora Elisa. — Fors'egli se ne va errando su per la montagna, soggiunse la sorella. — O forse... non è più qui! — Oh non lo credere! — E poi, come colpita da un'idea: Vuoi tu sapere s'egli è qui? Poniamci a cantare! Egli ne sentirà, si getterà in una barca, raggiungerà la nostra, e noi saremo contente. A te! — Ma se nostro padre di lontano ci scoprisse?... — Eh! vuoi che ne proibisca di cantare? E poi, scommetto che adesso egli è già immerso nella lettura de' suoi eterni giornali: jeri n'ha ricevuto un grosso piego da Londra; e certo, per tre o quattr'ore non sente più nulla; dorme nella sua politica. — Or bene? — A te dunque! Canta la romanza che quel giovine italiano ha scritta l'anno scorso sul tuo albo. È patetica, e piace tanto ad Arnoldo! — Elisa non voleva: ma Vittorina, stringendosele più vicino in quel suo vezzo leggiadro, ne la pregava con un bacio. — Ed Elisa cantò. IL RICORDO CANZONE DI ELISA. Egli è solo! — E la fida memoria Già l'estrema sua lagrima elìce: Chi può dargli col tardo consiglio Anche un'ora del tempo felice?.. Egli è solo! alla gioja, al dolore Più non s'apre il ferito suo core. Muti, eterni i suoi giorni si volgono: Pur nell'ora del vespro romita S'addormenta il pensier dell'esiglio, Il suo cuor si risveglia alla vita. Ei contempla del duol nella piena La sua parte di cielo serena! — Ahi! degli anni sull'alba alle lagrime, Infelice! le luci schiudea: Sulla povera cuna deserta La piangente sua madre vedea!.. Ella è morta! — Nè a lui più rimane Che invocar la suprema domane! Chi può dirgli: Quel giorno che perdesi T'è promessa d'un giorno più lieto? Quando ogni ora di lutto è coverta, Quando tace ogni gaudio segreto, Nè v'ha raggio che allegri e dipinga Il sentier di sua vita raminga? Ha perduto l'amore e la patria, Fin la stanca speranza ha perduta! La materna memoria era viva... Morì anch'essa nell'anima muta! Non ha un seno in cui pianga o s'asconda, Non ha un cor che al suo grido risponda. Un estranio terreno raccoglie, Il suo pianto e il negletto suo frale. Presso al mar, sul confin della riva. Col sorriso d'un ultimo vale, Splendi, o sole, a la fin del viaggio, La sua croce saluta d'un raggio! Così cantava, ma la voce della giovinetta era malinconica e lenta, e il suo canto morì sull'acque del lago, come il gemito d'una colomba. — Che buona Elisa! disse, scuotendo la testa, la gaia Vittorina. E come vuoi che Arnoldo ci senta, se tu canti con una voce patetica, come la sciagura che la tua canzone ricorda?... Oh! vedo che tocca a me! la mia voce è più lieta, più viva; e se nostro fratello non è lontano di qui una lega, scommetto che risponderà al nostro richiamo! — E la vezzosa sorella si fece essa pure a cantare. La voce di lei era limpida, giojosa ed acuta; e mentre gli accenti che scioglieva dall'innocente suo labbro, vibravano in vivace gorgheggio per quell'aere così tranquillo, il suo roseo volto coloravasi d'un'insolita vivezza, e gli occhi suoi scintillavano d'una leggiadria, d'un fuoco, che parevano chiamare i baci. IL DESIO. CANZONE DI VITTORINA. I giorni che fuggìro Non richiamar, donzella! L'età primiera è bella, È dolce il suo sospiro! Ma la gentil tua vita Fu a l'avvenir nudrita. Ascolta, o giovinetta, D'amor la pia parola! Non pianger tutta sola Ne' tuoi pensier negletta; Come deserto fiore, Che non olezza e muore. Non sai che la tua viva Gota scolora intanto, Che già vi solca il pianto La ruga intempestiva? Che quando amor vorrai, Ei non verrà più mai?... Se il sovvenir le preme, L'ore a volar son tarde. Senti il mio cor com'arde, Come sospira e teme! Non sa il dolor che sia, Ma il primo amor desía. D'una pudica rosa Sempre le trecce io m'orno; E allor che splenda il giorno, Che mi diran: Se' sposa! Porrò sul vergin cuore La rosa dell'amore! Non era finita la canzone, che le due sorelle discernevano, al basso della costiera, un giovine agitare un fazzoletto bianco; un giovine che subito avevan riconosciuto. Ravvisarlo, e gettarsi sopra i remi, e vogare entrambe con lena eguale alla volta della riva, fu un istante. Raggiavano di sincera gioja le care fisonomie delle fanciulle; e pareva ch'Elisa avesse in un momento imparato a tuffare il suo remo con quella destrezza, che poco prima Vittorina studiavasi invano d'insegnarle. IV. NELLA CASETTA. Intanto che la barca leggiera delle due giovinette solca a dilungo le placide acque del lago, entriamo in una piccola casa del paesello, la quale sorge poco sopra della riva, sull'orlo d'una facile discesa, e par quasi nascondersi dietro il lento dosso che forma l'ultima radice della montagna. Un cortiletto le s'allarga sul davanti; e il muricciolo che lo circonda, cala sino al filo dell'acqua. Sopra la porticella bassa e quadrata, a cui si sale per quattro scalini rozzi e malsicuri, e sulle due finestre inferriate dell'angusto pian terreno, una delle quali rischiara una povera ma decente cucina, e l'altra un salottino dipinto a verde ma umido e nudo, vedi stendersi all'infuori un bel pergolato, ricco di novello fogliame e di pendenti tralci gemmati. Al di su poi della pergola, s'aprono alcune altre finestre ineguali; e le impannate dischiuse vi lasciano entrare la piena luce di quel bel sole. Fuori d'una finestretta, ch'è presso all'angolo manco della casa, e sul cui margine s'intrecciano e arrampicano i viticchi del convòlvolo silvestre tutti fioriti di candide campanelle, vedi svolazzare una leggiera tendicciuola. Era quella la casa del povero Andrea. Colà, pochi giorni innanzi, quell'uom dabbene era morto, lasciandovi sole Caterina, la sua donna, e Angiola Maria la sua cara figliuola. In tempi migliori, quando viveva ancora il conte Francesco ****, signore della villa, in quell'anno abitata dalla famiglia inglese, fu l'Andrea il fattor della casa, l'intendente, il factotum di quel buon padrone. Eppure, com'egli era sempre stato un uomo onesto, così, al contrario di quel che al solito si vede, benchè agente dell'altrui, non aveva mai saputo avanzar nulla per sè. E per ciò quando, morto il suo antico signore e venduta la villa, egli venne lasciato in libertà, fu abbastanza contento di potersi ritirare in quell'umile casetta che lo aveva veduto nascere, e donde poteva ancora scorger di lontano il palazzo, come sempre continuava a chiamarlo, il palazzo del vecchio conte. Egli non ebbe più cuore, l'Andrea, di mettersi al servizio di qualch'altro padrone; e neppure per diventare il più ricco fittaiuolo della _Bassa_, avrebbe acconsentito di abbandonare la riva del suo lago, l'acqua sulla quale era nato. E se ne morì contento in quel fidato ricovero, in faccia ai monti e a quel cielo ch'egli aveva amato sempre come cosa sua. I suoi settant'anni eran corsi in tanta oscurità, in tanta quiete! Carlo, il suo figliuolo maggiore, era in quel tempo vicecurato in un povero paese della Valtellina: e anche questa fortuna, egli la doveva al conte Francesco, il quale alcuni anni prima aveva fondato apposta un piccolo beneficio per il giovane abate. La signora contessa poi, un'aurea donna, piena di bontà e d'amore, aveva posta una singolare affezione nella piccola Angiola Maria; e siccome dal cielo erale stata negata la consolazione d'aver de' figliuoli, così ella si teneva cara la fanciulletta, come se la fosse sua propria. Gli è inutile ch'io vi dica, perchè ben lo pensate, che, ogni volta la buona contessa Anna venisse a passare i più lieti mesi dell'anno nella villa del lago, la prima cosa a chiedere era della piccola Maria. Quella ragazzetta era così graziosa e bellina fin da' suoi primi anni, aveva il volto così ritondetto e color di rosa, e i capegli tra il biondo e il bruno così lucidi e inanellati che rubava al primo vederla i baci e le carezze di tutti. Le sua voce ancor fanciullesca aveva già quell'insinuante dolcezza ch'è segno di un'anima timida e amorosa: e il suo ingenuo parlare e le schiette domande che faceva, dimostravan che la sua nascente ragione era semplice e retta, e che già la sua mente era commossa dal trepido desiderio di pensare e di conoscere. La contessa Anna dunque rapiva spesso alla madre quella cara creaturina sì bella, ch'era la sua piccola delizia. E qualche volta poi la condusse con sè alla città; nè poco ci voleva allora per vincere una certa ritrosìa del buon Andrea, il quale finiva ad obbedire, perchè la era volontà dei padroni, ma in cuor suo pensava che da quella domestichezza co' signori non ne poteva venir bene per una povera figliuola come la sua. Alla madre invece, la pareva una benedizione del cielo; ella si trovava, è vero, come perduta, quand'era sola, ma il suo orgoglio materno, ben naturale, n'era consolato, chè vedeva crescer sì bianca e bella la figliuola, ch'ella chiamava sua perla, sua ricchezza. Quando la fanciulla si fe' più grandicella, la contessa se la teneva più sovente in compagnia, talvolta per le lunghe ore della mattina, talvolta per l'intera giornata, e le prodigava ogni cura, con sollecitudine quasi materna. Sotto gli occhi suoi, la fanciulla imparò a legger que' libri, che sono l'amore delle tenere menti appena s'apron facili agli accorti consigli del senno; e di que' libri, una Storia Sacra, tutta adornata di belle figure miniate, era il suo prediletto. Poi, seduta accanto dell'amorosa protettrice, Maria attendeva a qualche gentil lavoro d'ago o di spola; o si piaceva, sullo stesso scrittojo della contessa, di sgorbiar fogli di carta, copiando e ricopiando il nome della buona signora e quelli di suo padre, della mamma e del fratello; e quest'era la sua gran gioja. Oh! quanto l'amorevole donna era dolcemente rapita da quell'anima candida e ingenua, ch'essa vedeva a poco a poco prender come una nuova vita, alle semplici lezioni del bello e della virtù! Oh quanto era commossa dalle parole di Maria che rispondevano alle sue, dall'affetto di quella innocente che le chiedeva la grazia d'un bacio, dalle stesse sue lagrime, quando, per qualche lieve cruccio, il suo picciol cuore non trovava altra risposta che un largo pianto! — Quella era una beatitudine, e assai sovente la contessa, dopo d'aver a lungo contemplata la fanciulla, si faceva mesta, e pensava che felicità sarebbe stata la sua, se anch'ella avesse potuto sentirsi chiamar madre, se anche a lei avesse il cielo concessa una figliuola come quella. Ma la felicità di questi anni doveva presto finire. Il conte Francesco morì, e l'ottima sua compagna lo seguì presto al sepolcro. Erano svaniti i bei sogni di mamma Caterina; il compare Andrea aveva avuto ragione. Angiola Maria non abbandonò più la casa paterna, ma pur vi crebbe bella e serena com'era sempre stata; perchè quell'impronta virtuosa che il suo cuore aveva ricevuto, non poteva cancellarsi più. Pareva che la giovinetta portasse la pace e il bene con sè; il vecchio suo padre menava giorni tranquilli, d'altro non ragionando che delle sue lontane memorie, de' tempi burrascosi della sua gioventù, e de' suoi buoni padroni; e Caterina divideva colla figliuola le poche faccende della casa, serbando però sempre le più dure per sè, e paga abbastanza nella sua tenerezza di vedersi sorridere d'intorno quel fior sì gentile della sua Maria. Solo il giovine vicecurato mancava a compire la loro felicità: la parrocchia era lontana dalla sua terra, e la strada era rotta e aspra, a traverso di monti e vallate. Pure, una o due volte l'anno, egli veniva nel seno de' suoi cari, veniva a sparger di letizia le tranquille abitudini di quella domestica esistenza. Ma il buon Andrea cominciava a sentire il peso della vecchiezza. Già da tre o quattr'anni egli aveva appeso sopra il capezzale del suo letto il fedele archibugio, l'unica sua gloria, l'ultima sua amicizia; dopo ch'eragli morto il suo vecchio cane Azor, stato un tempo custode della villa, e poi suo compagno nella disgrazia, Andrea non era uscito mai più alla caccia del gallo di montagna o del camoscio sulle balze del Legnone, nè a quella degli anitrini e degli smerghi nelle paludi di Colico e del forte di Fuentes. Oramai altro spasso non si dava che quello di pigliar soletto ogni mattina il sentiero della riva, fino all'antico palazzo, e di riposare, in faccia al sole, sul sedile di sasso che stava ancora presso la porta della fattoria. Era la sua più cara abitudine; le ore gli fuggivano in pace, e la sua mente serena gli si dipingeva sulla fronte calva, ma senza rughe. Un giorno, l'ora consueta passò; e come non fu veduto tornare a casa, la sua Maria venne con passo rapido e con cuore inquieto fino alla villa; ma si rassicurò quando lo vide seduto all'usato posto, che pareva dormisse. La fanciulla s'avvicinò, quietamente sedette presso di lui, e temendo di risvegliarlo, se ne stava a contemplarlo in atto d'amore.... Quando, chinandosi più vicino al suo volto, s'accorse che non dormiva; i suoi occhi erano aperti, travolti, senza sguardo; il capo piegato sul petto, immobile, la bocca stranamente contraffatta. Allora spaventata levossi, lo prese per una mano, era fredda, insensibile, lo chiamò a nome più volte, e non rispose; lo riscosse fortemente.... e lo vide cader rovescioni da un lato sopra il sedile, come un cadavere. Diede un alto grido di terrore la fanciulla, chiamò soccorso: due giovani del paese che passavano al basso della riva, salirono a quella volta; e un pescatore non lontano che udì quel grido, lasciò la sua barca e accorse anch'esso. Trasportarono a casa il povero vecchio che credettero morto, e lo deposero sul suo letto; non mi domandate come lo ricevesse la sua donna, che lagrime fosser quelle dell'infelice figliuola! — Ma il medico del paese, che non fu tardo a correre, trovò che il pover uomo aveva ancora un fil di vita; egli era stato colpito d'apoplessìa, ed era morto di mezzo la persona. Andrea si ridestò ancora una volta; guardò, e riconobbe quelle sventurate di Caterina e di Maria, e le benedisse co' tremanti segni della mano, chè non potè colle parole. Alcuni dì appresso egli aveva finito di patire. Gli uomini che fanno vita di mondo dicono che la povera gente ha ruvida la pelle, che il suo dolore è simile alla sua allegrezza, ridicolo e rumoroso, come lo scoppiar de' mortai in una sagra di villaggio; l'indomani quel ch'è stato è stato. Io non so se sia così, ma son persuaso che il dolore della gente semplice e buona del popolo è più vivo e sincero di quello de' grandi, ne' lor magnifici funerali e nell'ereditarie gramaglie. Fra noi, nelle colte e fiorenti città, gli uomini nascono e muoiono, ridono, piangono, gavazzano e si disperano, tutti nello stesso momento, uno accanto all'altro; e sovente un sol piano di casa, una sola parete, dividon l'orgia d'un convito dall'agonia d'un moribondo; nessuno lo sa, nessuno se ne cura. L'etichetta poi, tra i profumati suoi codici, ha pur quello del dolore; il vestire a lutto è prescritto a mesi, a giorni; il bruno è una legge sancita per tutti, fuorchè pel gran cancelliere di Francia e per i nepoti del papa; padre, madre, fratelli, avoli, zii, moglie, marito, cugini primi, secondi, eccetera, a ciascheduno il suo, nemmeno un'ora di più; è la tariffa del dolore pesato, direi quasi, a once e dramme. Si lasciano le case ov'è entrata la morte, si chiudono a chiave le camere del _caro defunto_, si spediscono cento lettere dolorose coll'orliccio nero, si fa stampare l'indispensabile necrologia, si ricevon le visite d'una monotona e ceremoniosa condoglianza, si vestono di nero i fanciulletti che sorridono, e il servidorame che susurra e conta sulle dita il sospirato assegnamento vitalizio. E intanto che si deplora la luttuosa morte, con tutta l'energia della vita si disuggellano e confrontano i testamenti, si frugano e si compitano i codicilli. Ma io venero il dolore della povera gente, quello schietto e rozzo dolore che non conia frasi, e di conforto non vuol saperne. Nessuno, fuorchè il buon campagnuolo, mi parla più del suo nonno _buon'anima_; nessuno, fuorchè la vecchia massaia, o la sposa de' nostri contadi, quando ricorda alcuno de' suoi che non è più, ne accompagna il suo nome con quel santo augurio: _Gesù per lui!_ Ma torniamo nella solitaria casetta d'Andrea. Il giovine vicecurato sedeva presso la finestra del salottino, tenendo nelle mani il suo breviario socchiuso. Egli alzava a quando a quando la testa, e volgendo gli sguardi fuor della piccola finestra, perchè solo il cielo fosse testimonio del suo sospiro, gemeva sommessamente; poi restava immobile, e si lasciava cader il volume sulle ginocchia. Allora i suoi pensieri erravano lontano; le memorie del dolore, le memorie di questa terra, si mischiavano alle interrotte frasi de' salmi che le sue labbra recitavano susurrando. Intanto sua madre e sua sorella, affaccendate negli apparecchi d'un parco desinare, andavano e venivano, a passi cauti, in quella e nell'altra stanza, ch'era la cucina; e scambiavan fra loro poche e sommesse parole, per non turbare la sua meditazione e la sua preghiera. Un'ora di poi, il piccol desco fu pronto. La tavola era coperta d'una tovaglia nostrale, ma pulita e bianca; a ciascuno de' tre lati una modesta posata e una seggiola di paglia; all'altro capo della tavola fumava la minestra allora versata in una capace scodella a manichi rabescati e dipinta di fiori azzurri, avanzo di qualche vecchia eredità. Le due donne sedettero l'una dirimpetto all'altra, senza parlare; e un momento appresso, il prete ripose il suo libro, e venne a collocarsi in mezzo di loro. Al cominciar del desinare, che presentava una strana mischianza di festivo nell'arredo, e di malinconico nelle persone che vi sedevano, nessuno de' tre ruppe il silenzio. Guardavansi a ora a ora l'un l'altro; e la madre, che trangugiava a stento qualche cucchiaiata di minestra, non poteva distaccare gli occhi dalla faccia del figlio, e pareva fare una gran resistenza al piangere. — Via, mamma, che fate? disse alla fine il prete con certa bruschezza; non v'accorate in questa maniera: non avete già pianto abbastanza? — Oh! siete voi che parlate così, don Carlo? rispose rammaricata la buona donna. Non v'ho veduto piangere anche voi che adesso mi rimproverate? Jeri, quando siete capitato qui, e che io vi son venuta incontro sull'uscio, non v'ho veduto forse far tutto per nascondermi le lagrime? — O mamma! in quel momento... — Lo so, che faceste per amor mio, per non mi crucciar di più; ma quando avete lasciato cadere la testa, qui, sulla mia spalla, e m'abbracciaste stretta stretta, io mi sono accorta che voi piangevate... E stamane, quando faceste quella bella predica, che non ne ho sentito mai l'uguale, nemmeno in duomo a Como, non avevate anche voi gli occhi rossi, e non vi tremava la voce? — Sì, sì, è vero! buona mamma, perdonatemi! Ma bisogna peraltro esser cristiani, pensar che Dio ha voluto così, che stiamo quaggiù per soffrire, e rassegnarci. Quando ci tocca il male, pensiamo al bene che prima il Signore ne ha fatto. Così noi benediremo sempre il suo nome! Il nostro povero padre almeno è morto vecchio: e non avremmo potuto forse perderlo tanto tempo innanzi, se Dio avesse voluto?... — Oh! tu hai ragione, Carlo, disse allora sua sorella. Il Signore non abbandona mai! Egli che ci manda i travagli, ci darà sempre anche la forza di sostenerli. — Buona Maria, tu sei un angelo! È la tua innocenza che parla: oh che tu possa essere sempre così rassegnata! Tocca a te di sostenere il coraggio di nostra madre... E anche il mio, sai, perchè sento che ho bisogno delle tue parole; mi sforzo di parer franco, ma sono afflitto e perduto d'animo. Poi tacevano tutti e tre, e si riguardavano alternamente in segreto. Solo la vecchia madre, non dimentica dalla sua abitudine di buona massaia, levavasi a ogni tratto da sedere, per toglier dal treppiè sul quale cuocevano e apprestare a' suoi figli le due vivande ch'ella stessa aveva ammanite; un piatto di lùppoli conditi, e una bragiuola. Ma poi ch'ella era di nuovo seduta, non poteva star di ripetere: Quando penso che quella buon'anima di vostro padre non ebbe la consolazione di vedervi diventar curato, o don Carlo, nè di sentirvi a predicar sì bene, nè ebbe la gioia di seder a tavola con voi, là, a quel posto ch'è vôto, e di bere insieme a voi una bottiglia di quel suo vin vecchio, l'ultimo avanzo della cantina del signor conte!... E dire, che anche lui, il signor conte, quel re degli uomini, è morto già da tant'anni!... Oh se Dio m'avesse almeno chiamata lassù, me, prima del povero Andrea!... — Fareste meglio a tacere, cara mamma! Voi siete una benedetta donna! Che pensieri, per carità, che pensieri vi girano in mente! Guardate adesso! col vostro dire, anche Maria non fa che mandar giù lagrime. Via, dunque, parliam d'altro. Di forestieri ne son capitati quest'anno? — Credo che sì, Maria rispose. — Certo, aggiunse la madre: un signore inglese è venuto a star nel palazzo, e vi resterà per tutto l'anno. Pochi dì innanzi morire, Andrea gli aveva parlato a quel signore, e anche alle sue figliuole, che son così belle... E pensare che il poveruomo, adesso, non c'è più! — Povera mamma! è impossibile parlar d'altro! disse Maria. O mio Carlo, se almeno tu fossi stato qui cinque giorni fa, quando è succeduta la disgrazia, e ch'io non sapeva trovare una parola di conforto da dire a nostra madre! Io domandava alla Madonna il coraggio, ma alla mamma non sapevo dir altro che: il Signore ha voluto così... E poi, dopo trattenute le lagrime un pezzo, che mi scoppiava il cuore, anch'io finiva a pianger con lei. — Oh così l'avessi potuto, com'io voleva, trovarmi fra voi! O Maria, se tu sapessi qual colpo fu per me il ricevere la tua lettera, che senza dirmi il pericolo di nostro padre mi fece tremare per la sua vita!... E non poter subito correre a vederlo!... Il curato era anch'esso inchiodato in letto da una malattia ostinata; io non poteva, io non doveva partire. Il Signore mi consegnò dell'altre anime; e non m'era permesso abbandonar quelle, nemmeno per accompagnar l'anima di mio padre nel suo transito da questo mondo all'altro. In che stato io mi fossi, pensate! — Ecco qui! e voi, don Carlo, perchè adesso mi parlate così? Forse per tenermi su allegra? disse sua madre. — Il signor curato, quantunque si sentisse ancora male, mi stimolava a correr qui; e mi diceva, oh ne lo rimeriti il cielo! che per lui l'andava meglio, che si sarebbe trascinato giù del letto, e avrebbe in qualche modo servita la parrocchia... Eppure aspettai; la più dura prova ch'io soffersi, fu questa! Ma c'è sempre il rimedio della provvidenza; due giorni appresso, il signor curato era sano, che mi parve un miracolo. E io partii allora, e fu egli stesso che m'imprestò il suo biroccio, e mi mise le redini in mano... Ah! io sperava ancora d'arrivare in tempo. — O Carlo, Carlo!.. lo interruppe Maria scuotendo mestamente il capo. — Non fu così! pazienza. E il buon prete lasciava cader fra le mani la testa. E qui nuove lagrime invano soffocate da una parte e dall'altra, e affettuose occhiate e strette di mano, come per annodare più forte que' legami d'amore che la morte aveva rallentato. Finito il piccolo desinare, che in quel dì non fu condito nè dalla fame nè dalla contentezza, ragionarono insieme de' pochi fatti loro, e di quel ben di Dio ch'era loro rimasto: e consisteva tutto in un po' di terra sulla falda della montagna, e in un magro capitale di cinquemila lire, avanzo de' sudori dell'onesto castaldo, ch'egli stesso pochi anni prima aveva messo a traffico ne' magli di ferro, là sopra di Lecco. Un altro tenue peculio di tremila lire aveva lasciato la buona defunta contessa, nel suo testamento, in dote a Maria; ma gli eredi, con certe loro scuse di passività da purgare e di attività da liquidare, non avevan pagato mai quel piccolo legato; e poi se n'erano scordati, e l'Andrea non aveva avuto cuore nè fronte di cercar più nulla; perchè, diceva, quella era roba de' signori, e in giustizia a lui non avrebbe dovuto toccare. L'unico voto di don Carlo sarebbe stato che le due donne potessero lasciar il paese, e venir a stabilirsi con lui, nella sua parrocchia di Valtellina. E anch'esse lo volevano, chè pesava loro il pensiero della futura solitudine: ma quest'era impossibile. Bisognava vender la casa, vender la terra, fare de' grossi sacrifizii; e tutto questo per andare a stentar la vita in un paese lontano, solitario, sepolto nel grembo d'una vallata infeconda, dove non abita che uno sparso e povero popolo di mandriani e di caprai; i quali al cominciar dell'inverno lasciano i loro dirupi per calare al piano, ne' dintorni delle città, e non tornare alle abbandonate case che allo squagliarsi delle nevi. Nel durar delle lunghe invernate, era colà il buon prete conforto e sostegno d'una grama moltitudine di vecchi, di donne, e fanciulli, che rimanevano nell'alpestre villaggio; egli divideva con loro la scarsa rendita del suo beneficio, e tutti lo benedicevano. — Che avrebber mai fatto sua madre e sua sorella, in quella solitudine squallida e malsana? — Sentite dunque, disse don Carlo alle due donne. Poichè il mio paroco me l'ha consentito, io resterò qui con voi, tre o quattro settimane, finchè abbia fatto quel che c'è a fare in queste triste congiunture. Messo che avrò in sesto i nostri pochi interessi, tornerò al mio romitorio. Io per me rinuncio alla parte che mi può toccare, e voglio che quel poco che abbiamo, non è vero, mamma? serva per voi, e per te, Maria, per te, quando troverai qualche onesto partito. E in appresso, se il Signore farà ch'io possa venir paroco in qualche paese men tristo e più vicino a voi, per esempio, qui sul lago... allora v'aprirò la mia casa, v'aprirò le mie braccia, e dirò a tutte e due: Venite a star con me, a consolarmi la vita. Oh allora sì che mi parrà ancora d'esser felice! — Caterina e Maria eran commosse e persuase; esse guardavan con tacita tenerezza il prete, che oramai era l'unico loro angelo protettore. E il prete, levatosi e fattosi vicino a sua madre, strinse tra le sue mani la destra della buona vecchia che piangeva, e la baciò con verecondo rispetto. Poi la sorella gli stese la sua; ed egli stringendola del paro, se la pose sul cuore, con una forza d'affetto che non può dirsi. Indi a poco uscì della casetta. V. UNA PRIMA CONOSCENZA. Il giorno se n'andava, e il sole declinando al più sereno tramonto che mai rallegrasse la primavera, spargeva una luce d'oro e di fuoco nel purissimo orizzonte dell'Alpi lontane; una luce, che scemando a mano a mano nella diffusa interminata armonia degli splendidi suoi colori, dal rosso di fiamma, fino al croceo porporino e al roseo morente nell'azzurro, pareva mandar gli ultimi saluti del giorno alla nostra parte d'Italia. E intanto un leggero vapore s'innalzava, s'innalzava lentamente sulle acque del lago, che risplendevano ancora di quell'argentina e tranquilla varietà de' riflessi dell'occidente, commosse dalla freschissima brezza a una lieve increspatura; un leggero vapore, che non era una nebbia, ma pareva quell'immenso velo di luce quieta che l'iride quasi sempre spiega al cessar d'un temporale; era come un etereo profumo, che si levasse per imbalsamar l'aria sempre pura e per rivestire di nuova incerta bellezza le rive deliziose. E quel velo trasparente, aereo, dilatavasi a poco a poco in tutto il cielo, conciliando quella pensierosa malinconia, ch'è tanto cara alle anime che vivon di sè stesse e delle loro memorie, quando le rapisce la contemplazione dell'infinito, donde nè l'occhio nè il cuore vorrebbero staccarsi giammai. Per una stradetta solinga, che discendeva con facile declivio alla riva del lago, se n'andava passeggiando lento lento il giovine vicecurato; e arrestavasi talora, sollevando distrattamente gli occhi al cielo, o fissandoli con una cupa immobilità sul terreno, così come lo movevan le molte angustie in che era posta la sua mente. Erano i suoi pensieri d'una tristezza insolita, inquieta; erano i pensieri del suo avvenire e di quello di due creature tanto amate, e per lui sacre allora più che mai. Alla svolta del sentiero, mentre il prete affrettava involontariamente i passi, quasi tenendo dietro alla foga delle idee che lo crucciavano, uno sconosciuto, il quale presso al margine della strada era seduto sulla rovina d'un di que' rozzi ponti che attraversano i torrentelli di quelle rive, levossi d'improvviso. E, chiuso un libro che stava leggendo, s'avanzò incontro al vicecurato, e si tolse con atto cortese di saluto il berretto; quest'era un dire: mi preme di far la vostra conoscenza. Era il giovine Arnoldo. Sulle prime don Carlo, il quale aveva tutt'altra voglia che di parlare, e peggio con uno sconosciuto, pensò di risponder al saluto, e salutando andarsene per la sua via, come fece; ma l'altro, che apposta gli s'era fatto incontro, con deciso animo di parlargli, ne lo trattenne con instanza rispettosa, e in atto di scusa gli disse: — Mi perdoni, signor abate, se ardisco così d'attraversare il sentiero della sua passeggiata. Io però ringrazio la fortuna che m'ha fatto incontrar con lei. — Signore, non so veramente a che io debba questa sua gentilezza. — Signor abate, ella non mi conosce; non sa nè manco chi io mi sia; e io, al contrario, sebbene non sappia il suo nome, io la conosco, e la stimo con sincerità. — Come? non saprei davvero... — Ma prima, la mi permetta che io mi faccia conoscere a lei, quantunque ciò forse poco importi. Io sono inglese, e mi chiamo Arnoldo Leslie. — Forse, ella è della famiglia del lord che dimora là, nella villa ****? — Io sono della sua famiglia! sono suo figlio. — Così rispose, con un sospiro represso, il giovine, e ristette pensoso alcun tempo, poi soggiunse: — Stamane, io passava a caso per la piazza del paese: vidi aperte le porte della chiesa, a cui nella loro divota sincerità concorrevano i contadini d'ogni parte, e udii il suono d'una voce che parlava alla raccolta moltitudine. Non so da che proposito io fossi condotto, quando venni nel piccolo tempio; so bene che appena v'entrai e intesi poche parole di quel discorso, io mi sentii conciliato a certa tristezza, a cui mai non rispondevano i miei poco lieti pensieri. — Oh! se le pareti d'una povera chiesa di campagna son meschine e nude, le rende auguste la solennità de' misteri che vi si spiegano! — Ma voi parlaste a quella gente con tale semplicità d'affetto e di parole, che non credetti quasi a me stesso, tanto io era lontano dell'aspettarmi di trovare in quell'oscuro tempio chi ragionasse di Dio e della virtù con tale mitezza di pensieri e insieme con tanta efficacia. Oh! i'ho sentita nel mio cuore, e letta su que' volti rozzi e intenti de' vostri ascoltatori la pietà semplice e religiosa, quella pietà che finora io non ho incontrato mai nè sotto gli archi de' santuarj delle più superbe città, nè in Roma stessa, fra le auguste pareti di San Pietro. — Mi perdoni, signore! Ella mi vuol far merito di quanto forse fu solo effetto d'un particolare sentimento del suo cuore. D'altra parte, io non dissi se non quello che l'anima mia e la povera condizione di que' buoni contadini mi chiamavano alla memoria. — Oh! io me n'avvidi, signor abate; voi parlaste secondo il cuore, e il cuore è tutto! Ma quando uscii della chiesa, più che non maravigliassi della schietta sapienza delle ascoltate verità, io sentiva in me stesso il desiderio di conoscer più davvicino colui che le aveva pronunziate. Sì! non solamente nella sua voce e nell'efficace convincimento delle parole, ma nel suo volto, nel girare degli occhi, nella commozione che tutto l'agitava, io indovinai in lui un uomo d'alti pensieri e d'anima generosa, l'uomo che ha sofferto e pianto, che ha studiato e conosciuto, l'uomo della sventura e del sacrifizio. — Ella si piace, signore, di far del romanzesco, cred'io! disse don Carlo con un tal sorriso di scontento. — No, non è così! riprese serio il giovine, a cui quella dura risposta spiacque. — Mi fa maraviglia l'udire, soggiunse il vicecurato, che un giovine, come lei, nell'ardore dell'età e della fortuna, s'occupi di cercar quegli uomini oscuri e per lo più dal mondo disprezzati, che vivono in un cantuccio della terra, per consacrare questi poveri anni al bene di pochi loro fratelli. Del resto, le confesso, io non veggo altra generosità nel sacrifizio che feci, se non quella che mille altri, al par di me, conduce per la stessa via. E queste parole egli diceva con una certa poco nascosta intenzione di tagliare a mezzo un colloquio che gli pareva strano, e l'impacciava. Ma il giovine Arnoldo, benchè il vedesse, dimostrò di non se ne accorgere, e continuò con un far d'amichevole premura, mentre teneva dietro a' passi del prete, che lentamente s'era mosso per il suo sentiero: — Io ben lo vedo, voi siete sorpreso forse che un uomo, nato sotto altro cielo, e cresciuto ne' principii d'un'altra fede, qui venga a cercar la conoscenza d'un prete cattolico, in un paese romito e senz'altra ragione o scusa, che quella d'una sua buona volontà. Questo vi parrà certo un capriccio... Ma se sapeste!... Io son solo! e spero d'aver ritrovato in voi un'anima che m'intenda e mi compatisca: oh perdonatemi dunque! — O mio buon signore, questa simpatia, non so se di pensieri o di sentimento, che vi spinse a cercar di me, solo perchè il caso vi portò a udire alcune poche parole, che non son già mie, ma del Vangelo; questa simpatia vostra, cred'io, scemerebbe ben presto, se voi poteste gettar uno sguardo nel mio cuore. Esso è come un libro di poche pagine, è una storia di solitario dolore; e la storia del dolore è sempre monotona e grave ad altrui! — È dunque vero? e a ciò io m'aspettava. Voi dunque avete sofferto?... — Ma, buon Dio! che domandate voi da me? — Quel ch'io domandi? nol so. — E il giovine rimase di nuovo mutolo e pensoso. E intanto, seguendo quasi involontariamente il pendio del sentiero, essi eran discesi a lenti passi fin presso la riva del lago; e poi, continuando taciturni tutt'e due per la costiera folta d'arboscelli e cespugli, salivano dall'altro lato del ridente promontorio di ****, donde, nell'orizzonte più vasto e vaporoso, la più bella ed estesa parte del Lario, illuminata da quel pacifico tramonto, spiegavasi in magica lontananza agli attoniti loro sguardi. Ma il vicecurato, più sovente che non riguardasse a quello spettacolo ben noto al suo cuore, volgeva gli occhi sulla fisonomia del giovine inglese; il quale sollevava la faccia commossa da non so che di mesto e sdegnoso insieme, come chi frema d'un pensiero che vorrebbe cacciarsi di mente, e non può. Pareva che il prete volesse indovinare i segreti di quell'animo giovenile e ardente, che per certo non aveva volontà ed affetti, quali tutti hanno: e sebbene don Carlo sentisse, in quel doloroso momento della sua vita, desiderio di tutt'altra cosa che di nuovi amici, pure la strana maniera con che il giovine forestiero gli cercò amicizia e conforto, la sincerità che rivelavasi nell'espressione malinconica della sua brama, e anche la speranza di poter in qualche modo far del bene a un'anima creata forse per miglior destino; tutto parve s'unisse nel suo cuore a consigliarlo di rispondere a quel fraterno richiamo. Arnoldo intanto camminavagli a fianco, e tuttavia nutriva pensiero di guadagnarsene la fiducia, perchè le parole gravi e contegnose del prete gli dimostravan chiaramente, ch'egli non era di coloro i quali nel volger d'un'ora ti sono amici; amici a posta d'ognuno, che ti rubano i tuoi e ti vendono i loro segreti, se pur ne hanno; che si sfiatano in protestazioni di servitù e di fede, e poi, il giorno appresso se avviene, ti rinfacciano amaramente l'angoscia che hai deposta nel loro cuore; usurpatori del nome santo dell'amicizia, infami che ti si prostrano a' piedi quando la buona fortuna ti sorride, e dappoi, se ti coglie la sventura, ti gettano il fango sul viso, ti guardano in cagnesco e sogghignano. Ad Arnoldo dunque non rincrebbe quell'esitanza del giovin prete, e quell'inquieta tema d'aprire il cuor suo, che rivelavano in un'anima severa e forte un pudore quasi verginale. Egli vide però che, per farsi amico di quest'uomo, gli era d'uopo avvicinarsegli con semplicità e fede, e dimostrargli di esser degno dell'affetto che a lui domandava. Gli si rivolse quindi, e — Mi duole, disse, d'avervi forse sviato dal vostro diporto della sera. Se la mia compagnia vi disturba, vi prego a scusarmi; io vi lascio. Don Carlo, il quale un momento prima avrebbe forse risposto: Fate come v'aggrada, — allora conobbe che la scusa del giovin forestiero era dettata da una dilicata civiltà, schiva sempre di troppa instanza, e sentì un segreto rimorso della ritrosia con cui prima aveva accolto le parole di lui. E poi, se in quel momento si lasciavan così, forse tutto era finito fra loro. E perciò, quando Arnoldo si volse per riprendere il già battuto sentiero, e' gli accennò di fermarsi, e disse: — Oh no! signore: la vostra compagnia m'onora, e vi son grato. Oggi poi, e massime in questo momento, ho bisogno di distrarre i miei pensieri, perchè la vista di questi luoghi, in vece di consolarmi, come io sperava, mi rattrista. Io non so se questo giovi, ma la memoria, che ha un gran potere sopra di noi, la memoria qualche volta pesa e opprime. In questi luoghi io vissi fanciullo, vissi circondato d'illusioni e di poesia, accarezzato dalle speranze, e adesso.... — Eppure io credeva, Arnoldo rispose, che una scena bella com'è questa potesse calmare il dolore di qualunque ferita morale. È qui che s'impara a pensar veramente; qui, il cuore è libero e largo. La solitudine è madre de' grandi concepimenti, e in faccia a questa natura sempre stupenda e tranquilla... — Ah, non v'illudete, o signore! È questa una parte di terra, come qualunque altra; e anche qui il dolore ha la sua casa, il dolore più grande forse della consolazione che pur vi si ritrova. Se non temessi d'annojarvi, io vi darei un testimonio di ciò in me stesso. Credete a me, la natura è dappertutto bella e amica, e gli è dal nostro cuore che nasce la sventura; anzi bisogna dire che noi stessi la vogliamo, bisogna credere il dolore una necessità, com'è il desiderio d'esser felice... Signore! la mia tristezza contrasta colla serenità del giorno che tramonta — indi a poco soggiunse con voce tremante di commovimento: — Ma, s'io vi dicessi che appena cinque giorni fa, in questi luoghi, è morto mio padre, che alla sua donna ed alla figlia sua non rimane più nessuno al mondo, tranne il povero prete che vi parla?... Oh pensando a loro, bisogna ch'io pianga!... Arnoldo senti stringersi il cuore; la verità di quel filiale cordoglio lo compunse vivamente; e il pensiero tremendo, improvviso, ch'egli pure forse avrebbe potuto perdere un padre, il suo vecchio padre che l'aveva sdegnosamente cacciato dal suo seno, lo toccò d'involontario raccapriccio. Egli prese allora la mano del giovin prete, e la strinse in atto di affettuoso rispetto. Intanto s'era fatto notte. Don Carlo levò gli occhi, e: — Io veggo, disse, là in fondo, tra quel gruppo di case, un lume passar dall'una all'altra finestra della mia dimora. Là stanno le due donne abbandonate; esse m'aspettano, e io so che han bisogno di consolazione. Permettete dunque, signore, ch'io vi lasci; pure vi ringrazio di cuore della bontà che mi voleste dimostrare, e vi domando scusa della mestizia delle mie parole. Perdonatemi! e se mai non vi fosse discaro di visitare un prete sconosciuto e solitario, quella è la mia casetta! Voi siete sì cortese, ch'io vi rivedrò sempre volontieri. Buona notte, signore! E se n'andò. Arnoldo stette ancora per lungo tempo in quello stesso luogo, chè la notte era bella e stellata, e il suo cuore commosso da mille pensieri. VI. DALLO SPEZIALE. A chi di noi non accadde più d'una volta, alla campagna, ne' bei giorni de' nostri autunni, di sedere in circolo al convegno che sovente si raccoglie nella bottega dello speziale? A chi non toccò di trovarsi talora in mezzo a' consueti frequentatori di quell'officina, primario centro, anzi cuore del villaggio, condotto dallo spasso, dal non saper che fare, o dall'abitudine, fra que' meschini ragionari di grandi cose, fra quella gara di vecchie piacevolezze, avvicendate dalle rancide novelle politiche e cittadine, o da un eterno ricambio degli stessi motti e delle stesse avventure, quotidiano alimento di baie, di pettegolezzi, di piccoli intrighi? La bottega dello speziale è la camera legislativa, è l'accademia, il club, il caffè, l'aula enciclopedica del paese. Non v'e forse quistione di Stato o conflitto ministeriale in alcuno de' cinque grandi gabinetti europei, e fin nel Divano del Gran Signore, che la ragione non ne sia attaccata, combattuta, difesa, pesata e decisa nella bottega d'uno speziale di villaggio; non v'è causa di pace e di guerra, nè dispaccio telegrafico, nè legge nuova di Stati e di Comuni, che là non sia letta, meditata e commentata, da disgradarne quasi que' barbassori Pari e deputati di Francia e d'Inghilterra. E tutto questo sulla fede d'un solo testo, ma inesausto, irrefragabile e bollato, quello d'una grama gazzetta di provincia; la quale, aspettata con bramosa curiosità, vi capita fresca fresca, al più presto, cinque o sei dì dopo la data che ha in fronte. Dunque, come in tutte le nostre ville, il convegno delle persone importanti di **** era nella OFFICINA CHIMICO-FARMACEUTICA DI SAMUELE D****. Così era scritto al sommo della porta di quella bottega, in parole inesplicabili e scomunicate per que' buoni terrazzani. La qual bottega s'apriva a doppii e massicci battenti sull'angolo che fanno la piccola piazza e la principal via del paese. I soliti frequentatori di quella erano il signor curato, il medico condotto, l'agente comunale, un vecchio signorotto, che figurava come una delle importanze, o, per dirlo alla moderna, delle notabilità del paese; e il primo deputato, grosso possidente di quel territorio. Gli altri due deputati, sebbene per la dignità della carica ne vantassero il diritto, non vi capitavan che rade volte, perchè le erano persone dozzinali, che scrivendo il loro nome avevano il vizio di lasciar sempre fuori qualche sillaba; come diceva, geloso dell'uficio suo, il loro collega. Una sera — la settimana susseguente al giorno che abbiamo descritto — sedevano appunto a circolo nella bottega dello speziale, il signor curato, l'agente comunale e il vecchio signorotto. Era costui uno di que' piccoli _nabab_ del lago, specie di persone affatto particolare del paese; uno di quelli, che partiti in gioventù col bastone e il fardelletto del merciajolo sulle spalle (nel contado li chiamano _barometta_), vanno pellegrinando per Francia e per Inghilterra; e fatto un po' di fortuna, tornano alla casupola in cui nacquero, la fanno rifabbricare più alta d'un piano e tutta intonacata di bianco, e riposano in essa il resto della vita, facendosi dar del signore, e raccontando mirabilia di quel che han fatto o veduto. Il curato poi era un uomo sui sessant'anni, di fisonomia benevola, di persona ritonda e soda, in somma una buona pasta di vecchiotto, che pareva fatto per vivere in santa pace i suoi cent'anni; di costume era piacente, purchè non gli mettessero la mattana addosso, com'era non il rado, la fiocaggine d'una infreddatura toccata nel quotidiano suo passeggio sulla bass'ora, o la noja d'una stentata digestione, dopo un desinare d'etichetta presso alcuno de' signorazzi che villeggiasse nella contrada. Il curato dunque, il quale, al solito, se ne stava a suo grand'agio sdraiato in un seggiolone, che il signor Samuele aveva collocato nel miglior cantuccio della stanza, proprio per il signor curato _exclusive_ (così egli soleva dire), leggeva, al lume d'una fumosa candela, la gazzetta arrivata allor allora per il procaccio del distretto. I tre circostanti pendevano da quella lettura, come la gente del buon tempo antico dalle parole dell'Oracolo: solamente il signor Gaspero (quest'era il nome del vecchio signorotto) dimenava qualche volta il capo in atto di dissentimento, o sogghignava con un cotal suo vezzo, lasciando vedere due file di denti lisci e ben saldati. Lo speziale e l'agente, a bocca aperta, stavano intenti alle parole del curato, che leggendo si piaceva di frastagliar quelle politiche novità d'alcune sue chiose e considerazioni, giudicate voi se fossero profonde! — «Il ministero inglese, se si deve prestar fede a' rumori che corrono, sta per mutarsi.» — L'ho detto io, che la doveva finir così! Era impossibile durarla!... Non c'è stato buon sangue mai, mai, tra que' signori delle Camere e i ministri! La è curiosa da vero, voler governare loro signori, e non esser d'accordo giammai nel darla, la legge! eh! eh!... — Propio tale quale nel nostro convocato, dove ognuno vuol dire il suo sproposito! commentò l'agente della comune. — Sì! sì! ma, zitto! badate. — «Dicesi che lord **** voglia dare la sua dimissione. Jeri mattina, Sua Grazia s'è trasferito dal re; e si pretende che quanto prima il nobile lord deporrà nelle mani di S. M. il portafogli.» — Ma bravo! così avrei fatto anch'io! deporre il portafogli! bravo il mio lord ****! — «Se la crisi si verificasse, e se così di subito il ministero fosse disciolto, il partito de' _whigs_ ne scapiterebbe, perchè, attesa la chiusura delle Camere, le notevoli riforme, che stavansi maturando dai radicali, sarebbero aggiornate fino alle nuove sessioni; e la buona riuscita ne diventerebbe più ardua.» — Conseguenza chiara come il sole! — Il partito dei whigs? Cos'è questo _whigs_? saltò su a domandare, con una smorfia innocente, l'agente comunale. — E i radicali?... Che voglion dire? chiese anch'egli il signor Samuele. — I whigs? i radicali? rispose il curato, con un'aria di compassione. Che cosa sono?... Se nol sanno nemmen essi che cosa sieno! I whigs sono un partito, i radicali sono un altro partito, e voi sapete che i partiti, non si domanda cosa sieno: gente nemica d'altra gente! Ma i galantuomini non sono di nessun partito; perchè galantuomo è chi vive in pace con tutto il mondo.... Oh andiam innanzi. — Adagio, adagio! prese a dire allora con un far d'importanza il signor Gaspero, che fra coloro era tenuto in conto d'uomo di gran criterio, perchè aveva veduto al mondo più che Ulisse, al suo tempo, dopo la caduta di Troja. Egli, intanto che il curato parlava, aveva sorriso fra sè e sè con una compiacenza segreta. Se volete, vel dirò io cosa sono i _whigs inglesi_! Dovete sapere che là, come dappertutto, i signori e i poveri diavoli si guardan di traverso, per gelosia, per invidia, per prepotenza, che so io... e cercan sempre di guadagnarla gli uni sugli altri, perchè nel mondo, vedete, la cammina così! I primi dunque si chiamano i _whigs_, gli altri i _tories_, mi pare... o viceversa, ch'è poi lo stesso, perchè non è il nome che fa la cosa. Avete capito? Adesso continui pure, signor curato. — «La compagnia delle Indie Orientali tenne nella passata settimana una sessione, alla quale sono intervenuti, eccetera...» salto questo paragrafo e questa filza di nomi indiavolati, perchè non la mi pare una notizia di peso. — Ma però, mi dica di grazia, tornò a domandar lo speziale, che compagnia è questa? l'ho udita menzionar le tante volte nella gazzetta. — Dev'essere, rispondeva ancora il curato, una società d'uomini dotti, filosofi, letterati e simil gente, i quali da lungo tempo hanno mandato in que' paesi a cercarvi le antichità; con che fine poi, non so. — Oh! oh! ma lei s'inganna, caro signor curato! lo interruppe un'altra volta il signor Gaspero col suo risolino. La compagnia delle Indie è una società di negozianti, tutti ricconi sfondolati: altro che letterati! altro che dotti! — Oibò! questa poi non me la bevo, replicava il curato, stizzito per quella nuova interruzione, e punto sul vivo. So ben che lei mi canzona! Cosa devon fare de' negozianti in que' paesi di barbarie, di miseria? Ma solamente la spesa del viaggio!... E poi, là... con quelle belle usanze d'impalare e bruciar vivi!... Se lo sanno i poveri missionari, a cui tocca di portar un po' di vita cristiana fra que' diavoli incarnati d'Indiani!... Negozianti? oh! oh! — Ma io l'ho veduta l'Inghilterra, sa lei, signor curato? l'ho girata in lungo e in largo; e di questi Marc'Antonii, che parlan di milioni, come noi di scudi, io n'ho veduti e conosciuti parecchi, come conosco lei. E a me bisogna credere, chè de' paesi n'ho attraversati tanti, che quasi non me ne ricordo più i nomi. — Sarà un'altra compagnia; ma questa non può, essere... — Eppure, caro signor curato, questa volta... — Scommetto che non è una compagnia di mercanti... — Che la fosse una compagnia comica?... domandò, per vedere d'accomodar le partite, l'agente comunale. — Eh! tacete voi!... E qui il povero curato, che in tutto il tempo di sua vita non aveva mai viaggiato più in giù di Como e più in su di Colico, sentiva scaldarsi il sangue, e fissando il suo contradditore: Questa volta, dice, eh! mi pare anche a me d'aver letto la mia parte di buoni libri, e ciò val tanto quanto il suo aver viaggiato, perchè quelli che scrivono han sempre ragione, e ne sanno un po' più di me e di lei... dunque, per dincibacco! mio caro signor Gaspero, posso aver ragione io, e lei torto!... — Ma la si quieti, don Gioachimo, e mi badi... — Eh le zucche! continuava l'altro, gettando sulla tavola la gazzetta, con una stizza da non dire. Lei l'ha sempre con me; già è un pezzo che me ne sono accorto. — Io?... — Sempre contraddirmi, sempre! tutto! È cosa incredibile! Scommetto che se dico che adesso è notte, lei sosterrà ch'è giorno chiaro! Gli è proprio un dispetto! — Ma, caro signor curato, la si calmi!... — Ma lei ha ragione! ma sarà come vuole... E, così dicendo, lo speziale e l'agente a stento lo trattenevano nel suo seggiolone, chè già stava per alzarsi sdegnosamente, e aveva ripigliato la canna e il cappello per andarsene. Nè poco ci volle per farlo rimanere; andava borbottando che già erasi fatto troppo tardo, e ch'egli aveva la testa a ben altre cose che a quelle bazzecole: e così mulinando fra sè stesso, tirava fuori a ogni momento dal taschino de' calzoni il suo grosso oriuolo d'argento, e studiava le ore e i minuti. Il signor Gaspero, che dal canto suo ben sapeva d'aver ragione, trascinandosi la seggiola dietro, aveva voltate le spalle al curato, e susurrava anch'egli: Che ignorante ostinato! Sicuro, quest'oggi ha fatto una cattiva digestione. E forse la cosa non sarebbe finita così, se in quel momento non foss'entrato nella bottega, con un far frettoloso e straordinario, e con una ciera tutta nuova il signor dottore. — Gran novità, signori! una cosa che non m'è capitata mai: indovinate mo, signor Samuele, donde vengo? — Che so io? da un'avventura galante. — Eh! non ho di questi belli spassi! E lei, signor Gaspero? — Ma... non saprei! forse da una vincita a tarocchi? — Eh via! tutt'altro. — Ma dunque da che? domandarono a una volta l'agente e lo speziale. E il dottore con voce seria, bassa, come rivelasse un mistero: — Vengo in questo punto dalla villa ****, dove fui chiamato, per visitar quel signore inglese, quel lord, ch'è venuto a starvi due mesi fa, e che adesso minaccia di lasciar qui le ossa! — Oh!... sclamarono a coro, lo speziale, l'agente, il curato e il signor Gaspero. — Se la è così, soggiunse poi il primo d'essi, voi gli avrete dunque parlato, a quest'uomo così ricco e così arrabbiato, che nessuno ancora ha veduto ch'è tampoco, perchè se ne sta sempre chiuso laggiù nel palazzotto, come l'orso nella sua tana. — Dite, l'avete veduto? — Veduto? no, veduto veramente, no! — Come? bravo dottore! disse ridendo sonoramente il signor Gaspero. Ma che razza di visita gli avete fatto? — Dirò, ecco qui cosa fu. Io me n'andava stasera solo e quieto a casa mia, al batter delle nove, e stavo per metter la chiave nella toppa della porta, quando mi si fa incontro, e mi ferma, tagliando l'aria con un gesto, un uomo alto, vestito di nero, meglio ch'io non sia. Domando che cosa voglia; non risponde, toglie fuor di tasca una letterina, e me la consegna. Io non poteva leggerla al chiaror di luna; dunque entro in casa, e invitato colui a salire, gli domando se aspetti risposta; egli mi fa segno col capo di no, e si pianta ritto, là, presso la porta. Salgo le scale, chiamo mia sorella Cecilia, che corra col lume: era al buio ancora la stordita! Basta, quando Dio volle, ella comparve col candeliere, e io, che morivo di voglia d'uscir del dubbio, apersi la lettera; era linda, lucida, e scritta d'un caratterino d'amore, bello da baciare... — O dottore, lei torna giovine di vent'anni! disse il signor Gaspero. — Eh! confesso che alla prima la credetti una dichiarazione amorosa... Era firmata _Elisa Leslie_... ma lessi! non dicev'altro, se non che subito, e in segreto, dovessi andare alla villa, dietro il latore del biglietto, per la premura d'un malato. Discesi dunque, e dicendo: Son qua, seguitai l'uomo nero e muto, che poi seppi essere un cameriere del lord. Mi fece entrar nel palazzo per una porta nascosta e per un andito nella cucina; di là, salita una scaletta torta e buia, mi mise, dentro un salotto, dove mi disse d'aspettare, e mi piantò solo. Alla fine comparve una bella giovine, una delle figliuole del lord... Non vi ricordate d'averle vedute talvolta a diporto giù per il lago?... Bene, era la più grande, la più smorta delle due; essa mi salutò con grazia, e mi disse, tutta affannosa, e pregandomi di non parlare con anima viva, che l'ammalato era suo padre; che da lungo tempo una tetra malinconia lo travagliava, e che pochi giorni innanzi, al ricevere non so che cattive notizie d'Inghilterra, aveva avuto un accesso di forti convulsioni, che risvegliarono una tosse sanguigna; che nella mattina poi, le convulsioni e la tosse avevano spiegata una spaventosa violenza: la povera giovinetta parlava e insieme piangeva, e mi scongiurava che salvassi suo padre. Fu allora che, fatto un passo, domandai di veder l'ammalato; e la fanciulla: Oh gli è impossibile, disse, trattenendomi; mio padre non vuol vedere nessuno, nessuno fuor di me e di mia sorella; l'ha giurato! nè, per quanto noi l'abbiam pregato, non ci permise mai di chiamar un medico; egli non fa altro che ripetere di voler morire!... E bene, che avrei dovuto fare? come vedere, conoscere, ponderare?... Io avevo un bel replicare: Senza la diàgnosi, cosa si fa? la fanciulla tornava da capo a pregare, a piangere. Era un impiccio nuovo per me!... Pensai, studiai, diedi un'occhiata mentale a tutta la mia teoria, perchè pratica sui lord non ne ho mai fatta... infine, scrissi queste pozioni e quest'empiastro, che faranno o no, come Dio vuole. E ora, a voi, signor Samuele! Spedite le ricette; premura e attenzione, che ci avrete il vostro conto! E gittò sulla tavola dello speziale due lunghe indicifrabili scritture, che preparavano sa il cielo quali cose! Il signor Samuele si piantò gli occhiali sulla gobba del naso, e si mise a studiarle. — Ora viene il buono, continuava il dottore; io aveva raccomandato alla signorina una rigorosa cura morale e uno scrupoloso trattamento dietetico dell'ammalato, ed essa mi congedava col miglior garbo del mondo, ringraziandomi mille volte — manco male! Partita lei, tornò quel cameriere, e cavandosi con atto di singolar rispetto il cappello, mi mise nelle mani un cartoccetto, e m'accompagnò fino alla porticina. Io presi la via inverso il paese; e cammin facendo, il raggio della luna, che stasera è sì bella e tonda, mi fece naturalmente pensare di guardar nella cartolina: l'apersi, guardai... mi pareva e non mi pareva una moneta piccola, gialla... oh! oh! foss'oro! Il cuore mi battè subito, e qui giunto, entrai nel primo uscio, dove vidi lume... dite mo? era un luigi d'oro, un buon luigi doppio, perchè gl'inglesi non contan che luigi e ghinee... Ecco qui — e tolse fuori la moneta ancora incartocciata — non è vero, signor Gaspero, lei che n'avrà vedute di questa razza, non è genuino, di peso?... Che bel curare i lord! La è un'avventura questa? vi pare?... Qui non ci son baie. — Ma bravo dottore! queste sono visite di nuova stampa per voi, disse il signor Gaspero. — Oh sì! proprio, nè sarà l'ultima, spero. — Bravo, bravo! ma quel lord! chi sa mai quel che ci cova qui sotto? soggiunse l'agente. Lo speziale intanto aveva messo sossopra la sua officina, e ingombrata la tavola d'una folla di boccie, vasi e fiaschetti. Rimboccate le maniche della giubba fino al gomito, stava stemperando e mescolando unguenti, siroppi e giulebbi, con uno scrupolo di scienza, degno di que' due barbuti figuroni, onde un vecchio pittore comasco aveva istoriate le grosse imposte della sua bottega, e che volean dire Ippocrate e Galeno. VII. SCENA DI FAMIGLIA. In una stanza solitaria, abbandonata del palazzo, lord Leslie nascondeva sè stesso e la sua cupa tristezza allo sguardo di tutti. Nessuno v'aveva mai messo piede, fuori delle sue figliuole e d'un antico famigliare, favorito del padrone, come son que' buoni vecchi che contan più di quarant'anni di servigio in una casa. La stanza non guardava al lago, ma al fianco della montagna, e solo la rischiaravano verso sera i pallidi riflessi del sole cadente. Un letto di foggia antica e chiuso da verdi cortine di seta, era collocato nell'alcova che s'apriva nel fondo: allato, un gran seggiolone a bracciuoli coperto di velluto damascato, una tavola con le gambe a rabeschi, e sopravi una guantiera con tazze di cristallo e vaselli d'argento. Pendevano dalle pareti gli antichi ritratti di famiglia, quell'ultime memorie de' nostri vecchi, che oramai non hanno altro rifugio che i cameroni e gli anditi buj delle ville deserte, se pur non albergano capovolti, in mucchio, su le soffitte o ne' soppalchi delle nostre case, o non sono dagli stessi figli e nipoti, come succede, mandati all'incanto su pe' muricciuoli. — Un armadio di legno nero intarsiato, uno scrittoio ingombro di carte e libri alla rinfusa, e poche seggiole rivestite di coperture di saja verde, compivano la suppellettile di quella trista dimora. Già da venti lunghi giorni il lord era là, inchiodato nel suo letto dall'improvviso malore che l'aveva colto; era là, con la sola compagnia de' suoi foschi pensieri e delle sue speranze antiche, richiamate con un accoramento febbrile, assaporate quasi per crucciarsi l'animo con la loro memoria. Le sue figliuole, que' due angioli che il Signore gli aveva mandato, perchè fossero la sua più fedele consolazione nella vôta esistenza, pareva che gli venissero in uggia anch'esse. Quand'erano a fianco del suo letto, sedute insieme nell'ampio seggiolone, con le leggiadre lor teste abbandonate su gli stessi origlieri che lo sorreggevano; quando venivano a confortarlo con quelle parole che a' figli nessuno insegna, e ch'essi soli sanno trovar sì bene, egli non sentiva l'armonia delle care voci, che avrebbero versato sul suo cuore ferito il balsamo dell'amore. Assorto ne' pensieri che lo facevan dispettoso d'ogni altra cosa, egli voltavasi bruscamente dall'altro lato, se una d'esse lo chiamava teneramente col nome di padre; e poi le congedava con mal piglio, dicendo di volere star solo e di non aver bisogno delle lor fanciullesche carezze. Piangevan silenziosamente le buone giovinette al suo duro parlare, e se n'andavano mute e lente; ma, uscite appena, compativano insieme al povero padre, chè il suo male l'avesse fatto inquieto ed aspro; e si confortavano a vicenda ad aver pazienza, chè forse, con l'amorose loro sollecitudini, avrebbero medicato il dolore di lui, e vinta la sua ostinata tristezza. E si fermavano nella vicina stanza, origliando a ogni più lieve rumore; e riscosse, appena che uno sfogo improvviso di tosse turbasse il caro ammalato, accorrevan di novo al suo fianco; e lo pregavano, col pianto sugli occhi, che per amor loro bevesse alcuna delle pozioni che gli apprestavano per temperare quella sua angoscia convulsiva. Ma non gli svelarono mai che un medico le avesse ordinate; sarebbe stato lo stesso che dirgli di spezzarne le boccie contro la parete; bensì, con pietoso inganno, rassicuravano sempre ch'eran semplici calmanti da esse loro apparecchiati. Ma le innocenti non sapevano che la principal cagione di quel male fosse l'ira dell'egoismo ingannato che lo rodeva, fosse l'estrema rovina delle sue lunghe fatiche, l'ultimo crollo d'un edifizio a cui per tutta la vita aveva lavorato, l'edifizio della sua grandezza! Le novelle a lui venute d'Inghilterra per lettere e per gazzette, e confermate pur troppo presto, avevano rivelato a lord Leslie che tutto il suo credito, un tempo così potente, era perduto, che le sue mene politiche cagionavano la caduta della sua stessa fazione; e che le nuove elezioni della sua contea, ultima speranza a lui rimasta, erano cadute sopra individui della parte opposta, e, fra quelli, sul più conosciuto suo civile nemico. E di più, gli toccò perfino di legger ne' giornali la storia della sua rottura col figlio, travolta, esagerata, come si suole, commentata per suo discredito, quasi fosse stata una domestica tirannide. Tutto ciò, e anche meno sarebbe certo bastato, finì a suscitare nella sua logora vita un subitano rovescio; la malattia che da lungo tempo covava, si spiegò violenta; e senza l'amore e la paziente attenzione di quelle soavi creature d'Elisa e Vittorina, lord Leslie avrebbe forse dovuto soggiacere a quell'ultima offesa dell'orgoglio già vulnerato. Non era la mattina, ed Elisa, a passo cauto, leggero, entrava nella camera del padre ammalato; il suo cuore batteva di speranza e di segreto timore. Ella rimosse con mano tremante la verde cortina dell'alcova, si sollevò lieve su la persona, e guardò. — Suo padre pareva dormire d'un sonno tranquillo; perchè il respirar di lui non era più sì affannoso, e la calva sua fronte, che ombravano due ciocche di grigi capegli, era pallida e serena. La buona figlia sentì allargarsi il cuore, levò al cielo gli occhi, domandò una benedizione all'anima di sua madre, perchè le dèsse forza di compiere il generoso proposito, per cui quel giorno ell'era venuta così di buon'ora nella stanza paterna. E poi lenta avanzando, s'adagiò cheta cheta nella seggiola, accanto al capezzale di suo padre; e abbandonata a' pensieri ond'era pieno il suo animo verginale, si perdette ne' sogni dell'avvenire, in quell'estasi che un'intemerata speranza dipinge come d'un'iride di felicità. Intanto, senza ch'ella se ne fosse accorta, il padre s'era svegliato; e il primo oggetto che gli appariva, era l'amorosa fanciulla sedutagli accanto, era quella sembianza angelica e pura, che la faceva parere cosa non mortale. Egli, senza pur muoversi, la guardava, ned ella s'era ancora riscossa; la guardava, non l'aveva creduta mai così bella. — Povero padre! quel pensiero d'innocente orgoglio nasceva nel suo cuore forse per la prima volta! Continuava a contemplarla, e sentiva un piacere mite, segreto, che non aveva provato mai. Allora trasse una mano fuor delle coltri, e strinse con dolce forza il braccio della figlia, ch'essa pianamente aveva poggiato su la sponda del letto. Elisa a un tratto si risentì, e le parve che il padre leggesse ne' suoi pensieri, che quello sguardo la penetrasse sino in fondo al cuore... I suoi sogni eran sì belli! Arrossendo per subitanea tema, si chinò verso di lui, e disse: — O mio padre! io era venuta a spiare il momento che vi sareste svegliato, e intanto i miei pensieri m'avevano rapita lontano lontano, ch'io quasi vi dimenticava; o mio caro povero padre! — Buona Elisa! tu mi vuoi bene, lo so! tu mi sei cara, adesso più che mai! rispondeva l'ammalato con tale accento di mitezza insolita, che la figlia non credette quasi a sè stessa. — E potrei non amarvi? Ma ditemi prima che avete passato una notte quieta, e che state meglio di jeri... — Sì, sì! Sto bene, bene da vero. — Corro dunque a dirlo a Vittorina, che aspetta qui fuori questa buona novella. Pure, siete assai pallido, e la vostra mano arde e trema... — Non importa, io sto bene! perchè, sappi, il mio male è qui, qui dentro!... E con la destra si premeva il cuore. — O padre mio! che pena mi danno le vostre parole! Oh non dite così; dite che noi possiam consolarvi, poichè nostra è una parte del vostro dolore! Deh fatevi cuore, siate giusto con voi medesimo! E se troppo vi pesa, come dite voi, la cattiveria degli uomini, oh copriteli di disprezzo e d'obblio! E guardate a noi, pensate alle vostre due figlie, e anche al vostro... sì, al povero... Ma s'arrestò d'improvviso, e chinò gli occhi a terra, sbigottita da uno sguardo terribile di suo padre. — Finite! Che cosa volevate dire? chiese il lord con tono severo, ma fatto più dolce in viso. — Oh nulla! Elisa rispondeva. Io non so, io parlava come il cuore mi suggeriva... mi compatite? — No! voi lo sapete pure, che non si deve pronunziar quel nome dinanzi a me: bisogna dimenticarlo! — Dimenticarlo?... non lo potrei. È mio fratello! — Egli non è più mio figlio, e io non lo vedrò mai più! Ho già cancellato dalla memoria anche il suo nome. — Dio! s'io fossi quell'infelice, ne sarei morta! — Tu, buona fanciulla, non m'avresti fatto il male ch'egli mi fece! — Ma se ora ne piangesse, se non parlasse che di voi, se non avesse altra speranza che del vostro perdono, che di vedervi una volta? — Egli? oh come t'inganni! Tu non conosci gli uomini, tu non sai come certi cuori son fatti! V'ha de' figli che calpesterebbero il cadavere del padre, se fosse messo a traverso della loro via!... — Ah non parlate così! Egli... era buono; e forse, se il vostro sdegno... — Eh non sai tu, che quell'uomo ha rovesciata la mia più lieta fortuna, l'opera di tutta la mia vita? È lui, che ha gettato nel fango la canizie di suo padre, lui che mi lima i giorni, che mi precipita prima del tempo nella fossa! — E il lord s'era levato su la persona, e il suo volto ardeva di tutto l'antico sdegno: ma, indi a poco, raccolse le coltri, e s'abbandonò, come oppresso, sugli origlieri, dicendo con voce mutata: — Via! non parliam più di lui! non affrettiamo con un impeto inutile l'ora fatale che non tarderà a venire! Povera Elisa! tu sola mi resti, tu che intendi cosa sia il segreto dolore di tuo padre. Tua sorella è troppo giovinetta, è ingenua, spensierata; essa vede le rughe della mia fronte, ma non la ferita del mio cuore. — O padre mio, se sapeste, non io sola, ma tutti piangiamo per voi... Oh! ricordatevi che l'ultimo voto di nostra madre fu la felicità e la pace di noi tutti... e che invece!... perchè, anche lui... — Lui! sempre lui! Sa egli forse ch'io son qui, presso a morire, in terra straniera, e per sua colpa? Io giuro che se il sa, ne ride! — Gran Dio!... proruppe la figlia, e si coperse con le mani il volto già bagnato di lagrime. No, non è vero! oh se sapeste!... — Ma voi, che sapete di colui?... dov'è? dite... dite! rispondete a vostro padre. — È qui!... balbettò allora con voce timida e sommessa la giovinetta; qui, ne' dintorni. No, egli non era partito, come voi avete creduto. Son due mesi che se ne sta in una povera casa, non lontano di noi, nascondendosi a tutti, e a voi più che a tutti, perchè l'avete con sì gran collera scacciato. Era questo il nostro gran segreto!... Oh perdonateci! Quante volte egli volle tornare, gettarsi dinanzi a voi, stringer le vostre ginocchia, e giurare di sagrificar tutto al più piccolo vostro volere!... — Che sento? Egli è qui? Ha dunque dimenticato che nulla v'è più di comune fra noi? E perchè non è partito, perchè non lascia ch'io sopporti in pace questo male? — Egli aspetta il vostro perdono... — E intanto che aspetta... io qui languisco, dimenticato da tutti... Oh! aspetti, aspetti pure, ch'io morirò ben presto, e porterò con me nella fossa il nome di mio padre!... Aimè, che ho vissuto infelice per morire infelice! Oh s'egli non avesse spezzato ogni legame fra noi, se venisse a sostenere il mio capo, a dirmi una parola di compassione!... Ma no! egli non verrà. Il suo cuore non è impastato che di bassezza e d'egoismo. Se fosse qui, mi lascerebbe languire, finire così, senza cercar di vedermi? — Ah signore, voi lo dite? ah ditelo un'altra volta, e lo vedrete inginocchiarsi a' piedi del vostro letto, piangere, domandarvi la vostra benedizione! Ricordatevi, padre mio, ricordatevi che voi l'avete respinto dal vostro seno! Dite adesso una pietosa parola. Ma, voi l'avete già detta!... e Arnoldo, ah! lasciate ch'io vi confidi tutto, Arnoldo è là che v'ascolta, che piange nelle braccia di Vittorina... E così parlando con inesprimibile dolcezza d'amore, ella correva affannosa all'uscio della stanza, e — Vieni, diceva, mio povero Arnoldo, vieni! tuo padre ti perdona! ah ringraziane Dio!... Entrava Arnoldo, pallido, sommesso, e fatto umile dal gran dolore. Il vedere suo padre così mutato, così invecchiato in due mesi, gli spezzò il cuore d'affanno. In quel momento, egli sentiva la forza di rinunziar per lui a ogni speranza, a ogni volere. Oh! nulla avrebb'egli osato negare a quel vecchio, che per la prima volta vedeva giacere oppresso sotto la muta sentenza d'una morte aspettata. S'avanzava lentamente, s'avvicinava al letto, china al terreno la testa, coprendosi d'una mano gli occhi; piangeva, nè sapeva trovar parole a spiegar la piena degli affetti, che sì forte in quel momento lo conturbavano. Egli rivedeva suo padre, lo rivedeva più mite e meno ingiusto; e la speranza di consolarci giorni travagliati di quell'uomo caduto, gli faceva parer men dura la parola d'accusa che stava per pronunziare contro sè stesso. L'immagine di un padre prostrato in una prematura vecchiezza, portante il peso d'una sciagura quantunque voluta, lo ferì nel più vivo del cuore. Egli cadde in ginocchio a' piedi del letto di lui. Lord Leslie sentivasi, pur non sapendo come, trascinato da un'angoscia segreta a perdonare, a dimenticare il passato, a rivivere come un tempo nell'unico suo figlio. Sollevossi allora sul letto; e alzando la sua testa calva e superba, nell'impeto d'un prepotente pensiero, stese la destra ad Arnoldo; il quale con rispetto la strinse, chinando su di essa la fronte. Ma il lord non disse una parola; il suo volto non fu rischiarato dal sorriso, il suo sguardo non si levò al cielo. Fu una pace gelida, incerta. Pareva che un destino, col quale entrambi avessero tentato di lottare invano, li riunisse in quel momento. Nel cuore del figlio, l'interno contento era temperato da un grave dolore, ma nel suo volto, più che gioja e dolore, leggevansi timidezza e rispetto: in vece l'impassibile e severa fronte del padre non era da nessun affetto rasserenata; le rughe, che da tanto tempo la solcavano, non erano scomparse, gli occhi suoi non furon bagnati d'una lagrima, il suo sguardo fu lucido e fisso. — Era lo strano e fiero contrasto di due cuori concitati e diversi; e quasi faceva terrore la verità di quella scena semplice e muta! Ma le due giovinette eran tutte commosse. Elisa, piena di gioja, perchè quella pace era stata opera sua, nascondeva nel seno di sua sorella il volto e le lagrime della tenerezza. E Vittorina teneva fissi gli occhi sopra di lei, e col sorriso d'un gaudio celeste la baciava in fronte. VIII. AMICIZIA. In quel mezzo, dopo il primo incontro d'Arnoldo e di don Carlo lungo il solitario sentiero della montagna, la conoscenza loro s'era fatta non solamente più fidata e più stretta, ma, grazie al costume, all'alterna stima, e allo stesso giovenile entusiasmo del cuore, era divenuta oramai una vita compagnevole e intima. Il giovine inglese non ebbe a male quella prima peritosa accoglienza del vicecurato; e il giorno dopo il loro incontro, come gli aveva permesso, venne a visitarlo, e seppe con maniere riverenti e modeste cattivarsene l'attenzione e la fiducia. Quella stessa mattina, quando nel partire attraversò il salotto a terreno della casa, il giovine rivide le due donne che aveva notate nella chiesa, la domenica innanzi; e il prete, accompagnandolo fino alla porta, gli disse ch'erano sua madre e sua sorella. La prima, al suo passare, aveva fatta una riverenza; ma la fanciulla non aveva sollevato la testa dal lavoro al quale stava intesa. Don Carlo, tornando col pensiero al novello colloquio avuto con Arnoldo, conobbe che l'anima di questo giovine non era solo dilicata e onesta, ma degna ancora di studio, e di raro pregio. Si persuase che Arnoldo non era uno di quegli scioperati che viaggian per paesi, di cui non sanno che il nome, d'altro non solleciti che degli agi e piaceri che abbandonarono in casa loro. Poco gli bastò per intendere che l'anima di lui era calda di nobili affetti e di volontà generosa, che lo spettacolo di tante cose nuove vedute e cercate aveva messo nel suo cuore, non logorato ancora da impetuose speranze, nè da violente passioni, un'incerta tristezza di pensieri, un'involontaria e immatura dubbiezza di tutto. Era la timidità d'una mente degna di miglior sorte; era l'inerzia d'una vita giovine e negletta che ripiegasi, per dir così, sopra sè stessa, nell'indifferenza delle cose che la circondano; era l'uomo che s'abbandona per non si rialzar forse mai, se la sventura nol trascini alla disperazione, o l'ebbrezza della fortuna non l'acciechi con un delirio. Arnoldo aveva cuore schietto e ardente. Egli non era creato per le compassate e meschine passioni, che nella nostra società trovano sempre la loro nicchia: ma a lui mancava quella costante energia del volere, che sola dà forza per trionfare delle grette apparenze di virtù che il mondo accarezza, e per non farsi reo di quelle piccole infamie, con cui si pensa bene spesso di guadagnar la stima degli altri. Benchè nato in quella casta privilegiata, che di per sè stessa chiamasi il gran mondo, egli cercava un'aria men corrotta; ma volle, per dir così, venire a transazione co' suoi affetti, con la sua coscienza; e non seppe più vivere nè d'illusioni, nè di dolori. Anzi non potè gettarsi di dosso la noja che gli si fece compagna, quando vide andarsene in fumo tutte le felicità, tutte le virtù che aveva amate; quand'egli, che si credeva così esperto della vita, conobbe che il mondo era ben diverso da' suoi sogni, e confessò d'esser novizio. Allora ritornò alla memoria de' suoi primi anni; tornò fanciullo nel grembo di sua madre, alla meditazione di quell'ore felici, quando ignorava che cosa fossero la gloria, la felicità, l'amore, nè d'altro si nutriva che delle belle speranze dell'avvenire, educato dalle sante parole dell'affetto materno e da' semplici consigli della sapienza. Ma, aimè! quello fu l'ultimo incanto della giovinezza; sentì di non poter più riposare nel passato, si trovò solo. Eppure l'anima sua era sempre travagliata dal desiderio della vita e del riposo, perchè in essa il fuoco della virtù non era spento; e viveva tuttavia, benchè negletto, in un angolo del suo cuore, un barlume di fede. Le vicende de' rapidi e diversi viaggi, che sovente trascinano al cinismo e alla noja, conciliarono in vece l'anima d'Arnoldo all'amor della pace e della solitudine. Da quel tempo, una tinta di non so quale malinconia fu sparsa in tutti i suoi pensieri. Rifece allora gli studii della adolescenza, amò la semplice verità, e si persuase che la miglior felicità che sia lecito sperar quaggiù, consiste in una vita libera e operosa, in una vita spesa a profitto altrui nell'onestà di tranquilla fortuna, senz'aspettare di esser dagli uomini ricambiati del bene che facciamo, ma con l'intima fede che il bene di per sè stesso produrrà lieti frutti quando che sia. Pure per lungo tempo, abbandonato com'egli era, nulla meditò, nulla fece; e la coscienza della virtù non era altro ancora che un bel voto de' suoi pensieri. Alla sua vita mancava tuttavia l'alito primo, il conforto dell'amore e dell'esempio, che dà il coraggio dell'azione. E giunto a quell'ora, in cui è forza lottare fra il disinganno e la speranza, l'anima sua o si giaceva prostrata nell'inazione, o gemeva della sua inutilità, come sotto il peso d'un vecchio rimorso. Lo sguardo cauto e sagace del vicecurato aveva indovinata la vita di quel giovine, che non era fatto per un destino infelice, e pareva volerlo. Il loro colloquio gli spiegò ben presto tutto il profondo d'un cuore, che a caro prezzo comprava l'amara lezione dell'esistenza. Ma egli, a cui era toccato d'assaggiare innanzi tempo di ben più fieri dolori, egli che nella sua ora aveva, come un uom disperato, combattuto e vinto, sentì allora una segreta e dolce compassione di quell'abbandonata giovinezza, e si compiacque nella fiducia di consolarla e di sostenerla. Così, dopo pochi amichevoli ragionamenti, l'uno e l'altro furon lieti di quella fortuita conoscenza; e s'erano raccontati a vicenda que' riposti segreti che apprezza e serba la sola amicizia. Intanto Arnoldo tenne per gran ventura che il vicecurato, per alcune domestiche ragioni e pel ritardo messo della pretura di **** a regolar la tutela della giovine Maria, dovesse rimanere più a lungo che prima non pensasse. E, dal canto suo, don Carlo divideva di buon grado col giovine forestiero le ore di libertà. Essi furono veramenti amici. E in que' luoghi pieni di vita, nella tranquillità di quelle rive sempre liete e sempre nuove, i loro cuori sentivano più forte il bisogno di rallegrarsi nella concordia de' pensieri, nell'adorazione della bellezza, e più di tutto di gustare il sublime del desiderio e il dolce del compianto. — Allorchè il tumulto del mondo non disturba la maestà della natura, oh come il cuore si versa nel contraccambio delle più intime virtù consigliate dalla religiosa estasi della contemplazione! oh come è bello e grande il credere e lo sperare insieme! Un giorno, abbandonati all'inquieto corso d'una barca leggera, quand'era il lago conturbato a più rapito ondeggiamento, sotto lo spirare del _tivàno_ dell'Alpi, essi confidavano i liberi pensieri, i voti misteriosi d'una più lieta aspettativa al cielo schietto e azzurro, e nell'alterna vicenda del remigare vedevano fuggirsi a fianco le rive, i palazzi, le ville; poi, quando il vento taceva e il lago tornava quieto, miravano l'acqua disotto ripetere, come un'instabile interminata scena, il bel paese, e disopra le nubi abbracciarsi e ravvolgersi sorvolando i vertici della montagna — come se l'anima arcana della natura tutta si risentisse in un'armonica commozione di vita. Un altro giorno invece, seguivano le viottole più erte e dirupate della costiera, e su su pel monte a lungo inerpicandosi salivano con una gioia selvaggia di libertà; contenti di trovarsi soli e dimenticati su le più ardue vette, di guardare di là, per ogni parte, fin dove l'occhio poteva, l'ampio orizzonte delle pianure, de' laghi, delle Alpi e del cielo, come un immenso oceano di luce e di colori! — E là, su quelle cime, sedevano su la dispersa rovina d'un casolare sfasciato dall'acque montane, o sul tronco d'un vecchio albero sradicato dal fulmine e marcito dal tempo; e disopra i loro capi non vedevano sollevarsi che qualche rado cucuzzolo di monte, con la sua veste di neve agghiacciata, o qualche rozza croce di legno, piantata nel crepaccio d'un masso forse da un povero pastore, chi sa da quant'anni. E più d'una volta cercavano nuovi sentieri sui fianchi dell'alpe dove il terreno, scemo d'umori e di fecondità, cessa d'esser ricoperto d'erba e ombreggiato di piante, dove non altro s'incontra che qualche rara segreta sorgente col suo fresco zampillo d'un fil d'acqua, o un'ampia zolla rivestita di muscosa verzura, o d'un rosato tappeto di ciclamini. E, su per que' dossi, il giovine Arnoldo andava cercando con mano paziente l'erbe più rare e le pianticelle mirabili e sconosciute, che pare l'aria vi cresca con più facile germoglio, solo per la pastura d'un branco errante di capre. Perchè egli aveva messo studio e amore a quella cara scienza dell'erbe e delle piante, che ama e intende la natura, e insegna con solitaria consolazione che in ogni angolo della terra v'è una virtù misteriosa, una bellezza. Una mattina, Arnoldo e don Carlo sedevano sur uno degli alti terrazzi della malinconica e deserta Pliniana. Il cielo era cinericcio e nebbioso; e i loro pensieri sentivano di quella solenne quiete della natura, che pare più muta e mesta, s'è una giornata avversa della sua più bella stagione. Arnoldo tenevasi spiegato sulle ginocchia il suo albo, e disegnava lo schizzo della veduta che gli s'apriva dinanzi — quella fuga di monti dietro un monotono velo di nebbia; lo spumoso torrente che si rovescia da un'erta cima a fianco del vetusto palagio; quel cielo bigio, uniforme, che gli richiamava al pensiero il cielo della patria, una delle scene della sua mesta e cara contrada, quel sacro cantuccio di terra, in cui riposavano le ossa di sua madre. Don Carlo, poco lontano di lui, meditava scrivendo sopra un foglietto, che appoggiato a un volume della Bibbia e' si teneva fra mano. Quando Arnoldo ebbe finito il suo disegno, s'avvicinò all'amico, e gli si mise accanto, in atto d'aspettare: ma quegli non si riscosse, e continuava a scrivere. — Che scrivete, don Carlo? domandò Arnoldo. — Amico mio, sono pensieri ch'io vo gettando su questa carta, tali quali m'ardono in cuore, schietti, nudi; egli è un ritorno innocente alla giovinezza già passata per me, la quale non m'è più che una memoria. Che volete? Noi italiani, noi figli di questo cielo e di questa terra, oh no! non possiam distaccarlo dal cuor nostro l'amore della poesia, che succhiamo forse col latte delle nostre madri, che beviamo coll'aria del nostro paese... L'armonia del canto è la più pura voce dell'anima!.. E io, vedete, qui, in quest'ora di solitudine, in questo luogo sublime, sento risvegliarmisi nel pensiero i miei sogni d'una volta, parmi ancora d'esser giovine, italiano, poeta!... — Oh il vostro sentire è nobile e bello! ditemi, ve ne prego, leggetemi il vostro canto: chè anche il cuore di chi nacque di là dell'Alpi sente e batte più forte, se la parola della bellezza lo scuote. — Deh! che volete mai ch'io pensi e scriva? Non è, ve l'ho detto, che la tarda rimembranza d'un tempo che non torna più. Ora, la mia sorte è certa e tranquilla, e il mio cuore contento. Fare a' miei fratelli quel poco di bene che per me si possa, nella condizione in che mi pose la provvidenza, questo fu il primo mio voto, e sarà l'ultimo. — Ma come potete voi col cuore sì caldo, con la mente fatta pura dal fuoco dell'ingegno?... lo interruppe Arnoldo. — Dimenticate l'uomo, e non guardate in me che il povero prete. Io sono un nulla agli occhi del mondo, ma c'è delle anime che non mi disprezzano. Sono que' pochi miei fratelli che vedono in me il loro unico protettore; per essi, io sono il mediatore fra i travagli di questa terra e la consolazione del Signore. Io parlo loro di semplici e sublimi verità, ed essi m'ascoltano; io raccolgo la confessione della loro debolezza, e li conforto al meglio; me li veggo inginocchiati ai piedi, e fo sopra d'essi il segno della croce, il segno del perdono; io battezzo i lor bambini, e seggo accanto del loro letto di morte, e le anime n'accompagno al Creatore, benedicendole... Che altra umana felicità poss'io invidiare?.. Oh! chi intende la grandezza di questa divina missione, e la compie con quella forza, che sola la fede può dare, non ha altro affetto quaggiù, non ha altro voto, se non che sia fatta la volontà del Signore sulla terra come nel cielo! — Queste son cose sublimi, e il vostro proposito è grande, come la virtù ch'è necessaria per adempirlo. Ma io credo, amico, che il dir addio alla gloria della scienza, alla dolcezza della vita, all'onore della patria stessa, vi debba esser costato un gran sacrifizio! e forse... — Deh! chi mi assicurava che sarei venuto in fama, che avrei trovato nella gloria il compenso della vita spesa per la sapienza? e ciò foss'anche, gli è poi vero che sia questa una felicità, o almeno un riposo de' nostri desiderii?... Ah! credetelo a me! io, dimenticato nella mia oscurità, vivo più contento di voi... E la sola cosa che adesso sparga di mestizia i miei giorni è il pensiero di mia madre e di mia sorella. Povere e buone creature! esse non avranno l'appoggio che di me aspettavano... — Ma che cosa potreste far di più per loro? Nel tempo che siete qui, non avete voi preparata loro una condizione onesta e sicura?... — Sì; ma io dovrò abbandonarle. Pochi giorni ancora, e tornerò dove mi chiama il mio debito sacro, che già per troppo tempo l'ho dimenticato. Oh! Dio mi conceda ch'io possa una volta vederle tutte e due vicine a me, sotto il mio tetto, ch'io viva con loro, sì... perchè io le amo, vedete! sono i soli legami che mi uniscono alla terra: mia madre, la donna amorevole e pietosa! mia sorella, l'angiolo della modestia e della pazienza!... — Non v'affliggete per loro; la virtù che si nasconde è sempre felice. Su via, aprite l'animo a più lieti pensieri; e se non è troppo esiger da voi, leggetemi ciò che avete scritto stamane, ve ne prego! Il vicecurato stette alquanto a guardar taciturno il suo giovine amico; e poi levatosi lesse: LA VOCE DELLA FEDE. I Perchè il mesto a la terra estremo vale, Anima mia, ti rinovella il pianto? — Poni giù il peso del dolor mortale, Pensa che solo il sagrifizio è santo! E tu, Signor, della speranza l'ale Dona al sospiro dell'ultimo canto; E tu l'adempi, se nel ciel non muore, La preghiera del pianto e dell'amore! II Quando, de' miei prim'anni in sul sentiero, Sparsa di fior la terra a me s'aprío, Con volo incauto il giovenil pensiero I fantasmi seguì d'ogni desio! Era un sogno la vita! il vel leggiero D'un'iri circonfusa la vestío; E 'l sol le rise di sua luce blanda, E amor la cinse de la sua ghirlanda. III O mia terra! o miei voti! — Io vi credea Il supremo confin d'ogni speranza: Altra prece il mio labbro non avea, Il mio cor non ardea d'altra fidanza; Io cantava di voi, di voi piangea, E appena un'ombra muta ora m'avanza; Quasi memoria di perduta voce, Quasi in terra deserta unica croce! — IV O Verità! quando tremante e anelo Del tuo regno alle sfere il guardo alzai, E quando all'infinita eco del cielo Il mio profondo gemito affidai, Perchè dal grembo dell'immobil velo, Mandato un raggio, un raggio tuo non m'hai? Perchè tace al mio cuor la luce eterna Dello spirto d'amor che ti governa? V Oh! il divino tuo sol ch'arde e non pare, Riluca al declinar degli anni rei! Se l'alme sofferenti ha Dio più care, Spargi di duolo tutti i giorni miei! Tu la solinga lampa dell'altare, Tu del martirio la corona sei! L'angelo dell'estrema dipartita, Il primo dì della seconda vita. — VI O Verità! ti credo anch'io, ti sento! E il verbo adoro de la gran promessa, Che il tuo libro mi schiuse in novo accento, Retaggio eterno d'una prole oppressa! Tu il ciel m'additi, e tempri il mio lamento, Tu splendi, e l'ombra arcana ha luce anch'essa! Già spira il tuo divin soffio sull'alma, Che ne deliba la siderea calma. VII Benedetta quell'ora, e benedetto L'astro che mi snebbiò la fosca via! Più non sorge dal cor mortale affetto; Altro è il fonte che l'anima sitía. La fè diemmi l'amor dell'intelletto, D'un secolo cadente all'agonia! Ed io baciai come un terreno santo Il suol che bevve de' fratelli il pianto. VIII Adempi, o Dio, la mia speranza, e scenda Del tuo servo nel cor l'alta parola; Sì che a' fratelli la virtude ei renda, Che l'opre edúca, ed il patir consola. Dammi l'accento che il perdono apprenda, Dammi l'amor che a nova età sia scola! All'avvenir promesso il cor nutrica, Apri il volume de la grazia antica! — IX Ecco il tempio e l'altare, ecco la Croce! Oh! ch'io mi prostri su la sacra pietra. Signor, questa ch'io sento è la tua voce! La tua voce è la fè che mi penétra. Stanco è lo spirto della pugna atroce; Geme, e la pace de' tuoi santi impetra; Contempla il fin d'ogni creata cosa, E nell'amplesso dell'Uom-Dio riposa. X Addio, sogni mortali! E tu fugace Ne le mie notti ombra evocata, addio! Qui nel sacro ricinto, ove si tace Dell'alma sconsolata ogni desio, Assiso al raggio dell'eterna face, L'aurora invoco del tuo regno, o Dio! Che renda all'uom di tua promessa erede Un amore, una patria ed una fede! Lesse questo canto con voce grave e commossa il giovin prete; poi sollevò gli occhi e li tenne lungamente fissi nella faccia china e pensosa del suo ascoltatore. Ma su la corrugata fronte di lui, nell'obliqua e muta guardatura, egli vide balenare un ascoso pensiero; su quella fisonomia indovinò una segreta ironia, un'intenzione amara, che mal suo grado s'appalesava. Tacquero entrambi un poco; poi Arnoldo, come facesse forza a sè medesimo, — Amico, interrogava, parlatemi di cuore: quanto avete qui scritto, lo sentite voi veramente? Crederò che il vostro cuore abbia per sempre trovato, come voi lo dite, quel riposo, quella rassegnazione ch'è un'incredibile virtù, e fa sì che la fede divenga coscienza in voi? — O amico, rispose l'altro, fin adesso noi non abbiamo mai seriamente discorso intorno a sì gravi cose; ma io ben conobbi tutta la vostra vita dal primo giorno che m'incontrai con voi: io ho penetrato il cuor vostro e la sua piaga!... Lasciate che io la scopra a voi stesso; è la mancanza d'una fede!... Povero giovine, io vi compiango! — Oh sì! proruppe l'altro, dopo una solenne pausa, compiangetemi! Non so dir che tumulto s'agiti qui dentro talvolta! Non so dir con quale ardore cercassi anch'io questa che voi chiamate virtù, certezza e verità, la fede! — ma non la trovai. Tutto calpestato, tutto diseccato e morto! Io penso che la fede non sia più che il rifugio dell'anime semplici, ingenue, fiacche: in quanto a me, non la vidi che in una povera chiesa di montagna, in un'officina, in un tugurio... e, anche là, fu un mistero per me! Ma voi... ma chi ha dubitato una volta, chi ha pianto per la sete della scienza, chi ha numerato in un cuore i bàttiti della virtù, e le convulsioni del delitto... Oh io vi credeva di tempra più forte e disdegnosa! — Uomo ingannato! tu non sai quanto ti costi la tua illusione, o che debolezza sia questa che tu stimi forza! Tu non vedi con quell'occhio di pace con cui io guardo agli uomini, alle cose, per ascendere fino a Colui che gli uni e le altre ha fatto. Ma forse, verrà qualche momento nella tua vita... — Eh! lasciamo un proposito del quale non possiamo convenire, e non sia questo che turbi la nostra amicizia... Ma l'ora è tarda, e non vorrei che il cattivo tempo ne cogliesse. Seguitiamo per quella via, se così vi piace, e torniamo a casa dalla parte di terra. L'altro si mosse senza far nuove parole; ma nel resto del cammino fin al paese, il loro ragionare fu più contegnoso e più cauto del solito. IX. AMORE. Ma in quell'amicizia, che il giovine forestiero aveva cercata con tanto studio, non si nascondeva un'altra cura più gelosa e segreta, un pensiero più intimo, più ardente, il primo pensiero dell'amore, l'imagine di Maria? Il giovine non può esser mesto a vent'anni: egli non vuole allora la malinconia e la meditazione, ma ha bisogno d'un affetto più potente che l'aiuti, che gli faccia sentire il fremito della vita; sia l'amore o l'ambizione, la gloria o la scienza, sia l'avvenire o la fede che lo commuova, gli è forza che il suo entusiasmo si nutra e viva. Guai a colui che a vent'anni ha il fiele dell'amarezza nel cuore, e il ghigno del disprezzo sul labbro! È nella solitudine, nella pace della campagna, che il giovine è più inchinevole alla dolcezza d'un affetto. Nel seno d'una bella e tranquilla natura, noi siamo, o almeno ne par d'essere, più virtuosi; crediam più facilmente all'amicizia, ascoltiamo il consiglio della benevolenza, gustiamo la pietà, cerchiamo l'amore. Non tutti pensano che sia così, ma non conta: non sono io il primo che così pensi e creda. Arnoldo fra gli altri così credeva. Nella vita solinga, abbandonata che menava in quel villaggio, presso a suo padre, alla sua famiglia, e costretto a nascondersi, a divorare in segreto il suo cordoglio, aspettando pur con fiducia che qualche raggio amico lo riconducesse nel seno de' suoi, la coscienza del giovine e saggio vicecurato era stata una gioia, una felicità per lui. Trovandosi solo, egli sentiva la necessità di cercar un amico che temperasse il suo sconforto, e lo compatisse. E questa sì cara amichevole servitù nessuno gli avrebbe potuto prestare meglio che don Carlo, il quale de' dolori di questa terra aveva abbastanza veduto per poterli prendere sul serio. Qui Arnoldo gli scoperse perchè ruppe col padre suo; e di quella domestica guerra di cui molti avrebber riso, egli vide e conobbe tutta l'acerbità e il disgusto. E non solo ne patì per l'amico, ma gli consigliò di tornare in pace a ogni patto, dicendogli che la collera del padre non poteva esser vinta che dall'amore delle sue sorelle. Ma quando Arnoldo si rallegrava con sè stesso dell'amico acquistato, una memoria più cara gli si risvegliava nell'anima. Si ricordava di quel giorno in cui aveva ascoltata la predica del vicecurato, là nella chiesa del paese. Pensava a quella bellissima e modesta creatura, che aveva veduto pregare, inginocchiata presso la madre, a quella sembianza malinconica e pur così serena nel dolore, a quel volto candido sotto il nero zendado. Egli aveva accompagnato con la sua la preghiera che allora faceva l'anima sofferente della fanciulla. Poi si ricordava che il dì appresso, quand'egli era ito a visitare il prete nella sua casetta, aveva riveduta la fanciulla, e al rivederla s'era turbato: ella invece non aveva sollevato gli occhi, non s'era quasi accorta di lui; e la piccola scortesia gli era dispiaciuta. Questa memoria ei la serbava come un segreto; ma non ardiva ancora d'interrogare il proprio cuore, quantunque il dubbio, in cui egli era, gli fosse assai penoso. Ma poi, di volta in volta ch'egli tornava alla casetta del lago, e quando, fatto più dimestico con le due donne, vide la semplice bonarietà della madre dell'amico suo, e scoperse l'anima delicata e sensitiva della sorella di lui, allora provò una gioia tranquilla e solitaria, una consolazione che non aveva gustata da tanto tempo. Respinto dalla sua, parevagli quasi d'aver trovato un'altra famiglia; i suoi pensieri, che prima erano agitati da un gran tumulto di cose, i dubbii cocenti che sempre lo travagliavano, le speranze incerte, le visioni che disturbavano i suoi sonni e la sua solitudine, tutto il cuor suo si faceva sereno, si riposava, appena egli passasse il limitare di quell'umile casa — dove non era nessun rumore, fuorchè il lento batter del fiotto al basso del muricciolo dell'angusto cortile; dove non era nessun'ombra fuorchè quella della verde tettoia formata dalla vecchia vite che saliva bistorta accanto all'uscio della casa. Al primo avvicinarsi a Maria, egli non poco si maravigliò, chè gli parve di trovare in essa una rara modestia, una riserbatezza semplice insieme e sicura, insomma una soavità di costume che, alla prima, annunziava non solo la bellezza nativa del cuore, ma anche lo studio e la squisitezza de' modi. Il suo portamento era timido, ma aveva non so qual vezzo; il sorriso rado e quieto, il parlare assai modesto, ma vero; e quel che più toccava il cuore, era il suono dolcissimo della sua voce. Ella portava sempre un vestitino schietto, semplicissimo, ch'era povero ma mondo, e fatto dalle stesse sue mani; i suoi bei capegli eran pettinati con gran cura; le sue mani bianche, come quelle d'una damigella. Ben vedevasi ch'ella conosceva d'esser nata in umile stato; ma che pur non aveva dimenticata ancora la gentilezza delle consuetudini d'una volta, la più eletta educazione della sua prima età. Arnoldo trovava Maria spesso taciturna e pensierosa. Egli non le aveva parlato quasi mai, quantunque la vedesse sovente; perchè ben di rado ella e sua madre discendevano nel salottino a terreno, quando il giovine vi si trovava in compagnia del vicecurato. Quindi Arnoldo ardeva del desiderio di conoscere i pensieri di quell'anima pudica e ritrosa, che pareva chiudere in sè stessa un tesoro di dolcezza e d'amore. E cominciò a pensare che la giovinetta doveva sentir con dolore la povertà della sua condizione, perchè il suo cuore era stato un giorno accarezzato dalle grazie della vita; a pensare ch'ella aveva la virtù d'esser felice ancora nell'oscura sua tranquillità, e che forse sentiva più forti que' nobili affetti di che il fratel suo gli ragionava sempre con tanto ardore. Arnoldo aveva egli potuto legger nel cuore di Maria?... O era il suo un incauto sospetto, un fumo che appannava il limpido specchio di quell'anima pura?... L'idea che Maria fosse degna di miglior sorte, la fiducia di sollevarla, di darle una vita novella, lo sedusse, lo vinse: il suo pensiero non corse più in là. Egli dunque s'abbandonò a quelle nuove e gentili illusioni. Un amore poetico, misterioso, un amore non rivelato, e tranquillo ancora nella sua purezza, gli suscitò nel cuore sogni tutti novi, che gli promettevan tuttavia qualche cosa di celeste in terra. Questo amore era il suo più prezioso segreto; uno sguardo, una parola non l'avevano tradito ancora. Dopo molto esitare e molto pentirsi, risolvette di tacersi e aspettare, con la sola speranza, che la simpatia di quell'anima candida nascesse spontanea per lui.... Nel principio dell'amore il giovine, non pensa che al suo cuore sol basterà per poco quella solitaria delizia; ch'egli ben presto cercherà, vorrà corrispondenza d'affetto: egli non pensa che tranquillo può essere il sorriso della virtù, non quello della passione, e che, sparita la prima aurora dell'amore, esso non gli dipingerà più la vita co' suoi bei colori; ma l'abitudine l'avrà circondata della muta sua nebbia! e allora verrà il tempo del disinganno, e fors'anche del rimorso. E non era la prima volta che Arnoldo amasse. Ma erano stati amori d'ebbrezza e di delirio; amori di un giorno, d'un'ora: visioni fugaci e lusinghiere di donne bianche e rosee, di semidive trasparenti sotto i ben foggiati merletti, fra l'onda delle trine e dei veli, ne' molli velluti, o nelle pelliccie profumate; erano stati capricci di facili seduzioni, usurpate dolcezze, e misteriosi ritrovi; gioie sparse di fiele e sfuggenti più rapide che non fosser venute, lasciandosi dietro un torpore, un tedio, se pur non era affanno e dispetto. Fino allora, dell'amore egli s'era fatto giuoco, come le donne s'eran fatto giuoco di lui: le grandi, le infelici passioni, colle quali si pretende di dare una tempra così romanzesca alla nostra società, egli soleva chiamarle le passioni a buon mercato. Si può perdonargli, perchè quando amò per la prima volta, credeva che l'amore fosse tutt'altra cosa! Ma ora quel cruccio e quell'amarezza avevano ceduto il luogo ad altri voti, ad altri pensieri. Egli non credeva ancora all'amore, ma pur credeva all'incanto della bellezza; e già si sentiva migliore, da quel punto in cui una povera fanciulla, che nol cercava, che non lo guardava, era divenuta, per dir così, la forma ideale delle sue fantasie. E non sapeva che quel divino soffio che spira la vita alla bellezza, è amore! Già eran passati alcuni giorni da che Arnoldo era tornato in grazia del padre; e non avendo in quel tempo riveduto l'amico, lasciò la villa e prese il sentiero lungo il lago che conduceva alla casetta. L'acqua era quietissima; la sera bella, ma senza luna; ed egli pensieroso più dell'usato. Bussò. Chi venne ad aprirgli fu Marta, la vedova d'un pescatore, che Caterina, dopo la morte di suo marito, aveva fatto venire in casa sua per le bisogne domestiche, e per non rimaner tutta sola con la figliuola, quando don Carlo fosse partito. La Marta, che già conosceva il giovine, — Non c'è nessuno, signore! disse, restando su la porta. Don Carlo è dal signor curato di qui, e Caterina e Maria sono ite in chiesa al rosario; nè son tornate ancora. — Dunque me n'andrò! disse Arnoldo, col cuor malcontento. — Ma, se volesse fermarsi, possono tardar poco... — Oh non importa!... Ma sì, aspetterò, bisogna ch'io parli a don Carlo. — E seguendo la donna, attraversò le due stanze a terreno, e per la scala che riusciva in un canto del salotto, ascese nella camera dell'amico. Marta pose giù sur uno scrittoio il lume, e se n'andò. Poco stante, egli s'accorse che le due donne eran tornate a casa, intese la voce di Maria che cercava di Marta, quella voce che gli era sì cara. Poi rispondersi, bisbigliare fra loro, e non far zitto... Certo Marta aveva detto alle donne ch'egli era là, ed esse s'eran ritirate nell'ultima cameretta, dall'altra parte della casa. Intanto Arnoldo aspettava. E lo sguardo suo errava distratto su le carte e su' pochi libri, de' quali era sparso lo scrittoio del prete: un volume delle OPERE DI SANT'AGOSTINO, un TOMMASO DA KEMPIS, un DANTE di vecchia edizione, il BREVIARIO e la BIBBIA; e qua e là, fra que' volumi, vide gettati a caso alcuni fogli e quaderni manoscritti. Ne prese uno, l'aperse e lo guardò. Eran pensieri scritti in uno o in altro giorno, nel tempo della solitudine, in ore di tristezza o di meditazione. Egli lesse in que' fogli amare parole, parole di sconforto e di sdegno, dettate, senza dubbio, da una potente e gelosa cura, e poi temperate da un voto di pace, da un ricordo di pietà o di rassegnazione, da un augurio di virtuosa coscienza. Una pagina, ch'egli scorse con rapido sguardo, diceva: A' 30 d'aprile 18.. «Il mio povero padre è morto! — E io non lo vidi nella sua ultima ora, io non ebbi il conforto di bagnar del mio pianto la sua testa moribonda! — Oh che lagrime io avrei sparse, e con che fervide parole pregato!.... Ma no: anche questa misera speranza doveva esser vana. — È un'altra prova che il Signore mi ha mandata!...» A' 2 di maggio. «.... Le lagrime di mia madre, il dolore tacito e rassegnato della mia dolce sorella, hanno umiliata l'anima mia. E a me tocca di consolarle, a me di sorridere, col cuore serrato dall'affanno! Datemi forza, o Signore; e benedite, benedite sempre a quelle pietose e cristiane creature! E più sotto, a caratteri rapidi, intralciati, che mostravan la foga dello scrivere: «.... Perchè il cielo è così sereno, e la natura così feconda e lieta? — Una storia di secoli di sangue, inutile insegnamento a' miei fratelli — una contrada senza nome e senza avvenire — un'età grave a sè stessa — uomini vili e ciechi, che non sanno se vivano e perchè...! Non è uno scherno della provvidenza?... O forse è la pena d'un eterno peccato, la dimenticanza della prima virtù che Dio ci ha data, la virtù del volere?... No! no! via da me questi mortali e terribili pensieri! — Non ho madre e sorella, a cui preparare una sorte migliore, non ho tanti poveretti a' quali un dovere più sacro della vita e della morte mi lega per sempre?............ Volse la pagina e continuò: «— Jeri ho incontrato quel giovine straniero. Non so perchè egli brami sì forte di conoscermi e di leggermi in cuore. Pure, l'anima sua mi pare schietta e nobile; vorrei rivederlo, perchè mi sarebbe dolce lo spargere qualche consolazione in un cuor ben fatto, in una vita giovine e capace di bene. — Stasera, quando raccontai a mia madre l'impensato incontro, Maria mi disse d'aver veduto più d'una volta quel solitario giovine, che da qualche tempo dimora in questi contorni; e avend'io soggiunto ch'era un gentiluomo inglese, si maravigliò che cercasse di farsi amico mio. — Buona fanciulla, le dissi, tu non sai di quali oscuri mezzi talvolta si valga il Signore per il nostro bene! Chi sa che quell'anima traviata e deserta non trovi nella calma delle mie parole, e nella povera virtù d'un uomo ignoto, com'io sono, un occulto consiglio, un nuovo conforto a miglior meta, la prima parola forse d'una verità aspettata, e non pur conosciuta!... Allora, io ben m'avvidi, il puro intelletto dell'ingenua fanciulla comprese d'un lampo il mio segreto proposito. Oh la purezza del cuore e del costume sono la più vera luce del pensiero!... — «— Buona e infelice Maria! Io penso bene spesso a te, e ti compiango, perchè l'anima tua parmi destinata a sofferir molto quaggiù. Il tuo cuore sente troppo, e troppo di buon'ora tu hai gustato i piaceri dell'anima, per viver contenta nella tua meschina sorte.... Ecco a che si riduce la benevolenza del ricco! — Con te, io non ho mai fatto parola di ciò... Ma oggi bastò una lagrima che ti cadde dagli occhi ad agghiacciarmi il cuore. Ella mi parlava del giovine forestiero. Oh! con qual accento, con qual sorriso celeste mi disse: Egli dev'esser buono, e pare infelice! E tu devi consolarlo, o fratello: oh se le tue parole gli toccassero il cuore!... Io non potrei sopportare il pensiero ch'esso abbia ad andar perduto in questo mondo e nell'altro!.......... Arnoldo non lesse più innanzi. Gettò dispettoso il libro, un amaro sogghigno errava su le sue labbra. Egli ristette, lo sguardo fisso, le braccia serrate al petto, con un brivido nel cuore e uno strano tumulto ne' pensieri. Dopo alcun tempo don Carlo, tornato a casa, salì nella stanza; e, veduto l'amico in atto di sì profonda occupazione, che non s'accorse del venir suo, lentamente gli s'avvicinò. — Arnoldo, voi m'avete aspettato, non è vero? — Siete voi? rispose, riscotendosi, il giovine. Sì, venni a cercarvi. Da alcuni giorni io non vi ho veduto; e temevo quasi non foste partito. — Converrà bene ch'io vi lasci presto; e forse non resterò qui oltre domani... — Come? — Gli è già parecchie settimane ch'io son qui. Oramai, le poche brighe che domandavano la mia presenza, sono finite. Jeri mi fu consegnata la tutela di mia sorella, e di quel poco ben di Dio che le tocca, e quest'oggi ho riscossa porzione d'un vecchio credito, che mio padre teneva verso un tale di Lecco. Adesso, mi richiama altrove un dovere assai più sacro. — V'assicuro che mi sa male che voi partiate. Ma, vel prometto, verrò a trovarvi, e vi scriverò. Il vostro nome non è di quelli che si dimenticano sì presto; e la conoscenza nostra, io spero, non morrà, come tante che profanano la virtù e la fiducia dell'amicizia. — Dio il voglia! E quanto a me, vi confesso che una certa tristezza m'assale nel lasciar questa mia povera casa, e mia madre, e Maria... Esse qui resteranno, con la compagnia di molti travagli; e io non potrò, solo e lontano di loro... — Oh non pensate! finchè io starò qui, verrò di frequente a visitare la buona vostra madre; e poi condurrò meco le mie sorelle, e farò conoscer loro Maria. Ed esse s'ameranno certo, perchè anche Elisa e Vittorina sono due amorose fanciulle... Oh voi noi sapete ancora! Ho seguito il vostro consiglio; e furon esse che calmarono lo sdegno di mio padre, che m'han condotto nel suo seno... Da che non ci siam veduti, la pace fu fatta: io domandai perdono a mio padre d'una colpa non mia; ma lo feci di cuore, perchè da tanto tempo non avevo inteso la sua voce! — È dunque vero? Oh voi siete felice! Il cuor vostro gusterà una di quelle gioie non concesse che alla virtù cristiana d'umiliarsi. Don Carlo ringraziò l'amico per quella sua cortese promessa; e poi, prima di prender commiato, volle dirla anche a sua madre. Usciti di là e passati per un piccolo corridore, vennero nella stanza dov'erano le donne, le quali non aspettavano quella visita. Era la cameretta di Maria. La parete ignuda e bianca; da un lato un letticciuolo, a capo del quale pendeva un quadretto dipinto, l'immagine della Madonna addolorata; e più sotto, una candela benedetta e un crocifisso d'argento. Il letticciuolo coperto d'una coltre di color cilestro; e le lenzuola ripiegate sovr'essa eran sì candide, che non parevano ancor tocche. Da un altro lato, una piccola finestra che guardava nel cortile verso il lago, mezzo nascosta da una tendetta bianca. Qualche seggiole di paglia, un rozzo tavolino, suvvi una piccola spera, e un vecchio armadio in un canto, compivano la suppellettile della cameretta. Arnoldo sentì una tacita gioia in cuore, quando il suo sguardo s'arrestò su quella scena modesta e casalinga. I raggi pallidi, che fuggivan di sotto il coperchio della lucerna, mandavano una quieta luce su l'angelica faccia della fanciulla, e su le piccole sue mani intese a lavorar di maglie; i suoi bruni capegli rilucevan lisci e spartiti su la fronte, e le ricadevan dietro le orecchie in folte e facili anella, fino a toccarle il seno, china come ell'era; una veste semplice di percallo cenerino, e un nero fazzoletto appuntato nella cintura aggiungevano una grazia pudica al contorno della sua leggiadra persona. La madre sedeva anch'ella presso la tavola, occupata a rimendar con l'ago alcuni suoi lini; e la vecchia Marta più addietro, presso la parete e sur un trespolo, era attenta all'arcolaio, e dipanava. — Il lume della lucerna, che disegnava con varia movenza d'ombre e di chiarore quel gruppo sì raccolto, dava all'umile scena un incanto di quiete e d'armonia: pareva uno di quei cari quadretti fiamminghi, così semplici, così veri. — Sapete, madre mia? disse don Carlo entrando; bisogna ch'io parta domani: ho deciso. — Come? io non ne sapevo nulla: gli è propio vero? domani, doman mattina?... dimandò con turbato accento Maria, e sollevò la faccia. E voleva dir di più, ma s'accorse che con suo fratello anche un altro era là; chinò il capo, e ristette tra pentita e peritosa di quella domanda, che le era uscita del cuore. — È necessario, rispose il prete; chè io restai qui con voi più ancora che non avrei dovuto. E Caterina intanto scuoteva la testa, in atto di rassegnazione malcontenta, e mormorava piano: Già son avvezza a mandar giù di più amari bocconi... dunque pazienza! — Sì! abbiate pazienza anche stavolta, mamma Caterina, la confortava Arnoldo. La speranza del rivedersi è intanto qualche cosa: io poi vi darò spesso notizie del figliuol vostro, perchè gli ho promesso d'andare a visitarlo a ****. — Lei è propio un buon signore! rispose, facendo le sue grazie, là madre. — Oh sì! aggiunse Maria con una voce soave, ma così timida e fioca, che Arnoldo l'intese appena. — Fatevi pur cuore, nè fate star di malanimo anche me. Già bisogna ch'egli sia così! diceva don Carlo. — Ma crediate, amico, riprese Arnoldo, ch'io m'ero assuefatto così bene a passare i dì con voi, in questa contrada! Errando con voi da qualsiasi banda, ogni paesello, ogni villa aveva la sua storia, ogni montagna, ogni rupe il suo nome; e temo che mi costerà il divezzarmi... — Lei è un signore, soggiungeva Caterina, e non vorrà pensare a noi... — Che dite? anzi, se non me lo negate, voglio far conoscere le mie sorelle a voi e a vostra figlia, che siete così amorevoli e buone. — Oh Signore! noi avremo vergogna, rispose la madre. — No, non può essere, ve n'assicuro. — Oh noi desideriamo tanto di conoscerle, soggiunse vivamente e arrossendo alcun poco Maria; noi le ameremo! Quella sera, l'ultima che don Carlo passava presso de' suoi, chi sa per quanto tempo, egli rimase fino ad ora tarda con le donne, le quali a malincuore pensavano al domani. Anche Arnoldo stette un buon pezzo in quella modesta compagnia, in mezzo a' que' dolci colloqui familiari, in cui si ripetono tante lievi e care cose, e s'avvicendan parole, di consiglio, di ricordo, d'aspettazione. L'animo suo era pieno d'una pura contentezza; e quando, salutato di novo l'amico, tornò per la riva del lago alla villa, egli ripensava alla buona famiglia, e gli pareva che il suo cuore rimanesse là, in quell'angusta cameretta. X. LE TRE FANCIULLE. Al domani, il vicecurato si mise in via per la sua parrocchia. Caterina non potè trattenere alcune lagrime, mentre ch'esso, facendo per montar nel biroccio, le prese una mano, e le disse: — Addio dunque, mamma; state bene, e tenetevi su allegra! Maria invece non pianse, e se ne stava, indifferente quasi, a guardar il fratello che partiva. Se non che, quand'egli si distaccò da loro, la fanciulla se gli avvicinò, e appoggiate le mani alla spalla di lui, e lasciando cadere su quelle la testa, con voce sommessa gli disse: — Non crediate già, Carlo, che non m'incresca il vedervi andar via; ma, se anche non vi dico niente, pensate che vi tengo sempre nel cuore. E voi? Oh vi ricorderete di me; non è vero? e qualche volta anche mi scriverete, perchè le vostre parole fanno la mia vita... Ah voi, adesso, o Carlo, siete per me padre, fratello e tutto! Il fratello la guardò con tenerezza, ma non seppe rispondere. Le strinse la mano con amore; e poi montò nel calessino che partì. Passarono quindici giorni. E la vita di Caterina e della figliuola, non segnata d'altro avvenimento, che dall'alternarsi della domestica giornata, volgeva silenziosa e solitaria; perchè la lontananza del vicecurato, il quale per alcun tempo aveva mitigato alle due donne l'amarezza della vita, lasciava allora un altro vuoto ne' loro pensieri, e faceva quasi parer inutili quelle quotidiane cure, che prima eran per esse un'abitudine, una necessità. Intanto credevano che anche Arnoldo le avesse dimenticate; egli non era più ritornato a quella povera dimora; e una volta Caterina scappò a dire: Fidatevi delle parole de' signori! per me, non ci credo più! — Ben le aveva soggiunto Maria: Che volete, mamma, che venga a far qui da noi quel signore? Egli avrà ben altre cose da pensare! — Ma la vecchia replicava che quel giovine s'era fatto amico del suo don Carlo, e che appunto per ciò doveva essere un po' diverso dagli altri; e poi, che nessuno gli aveva cercato di venirle a trovare; e ch'esse, infin de' conti, avrebbero tanto e tanto mangiato con lo stesso appetito la loro minestra. — Avete ragione, mamma! aveva risposto Maria mestamente: noi siamo poveri, ed egli non verrà più! Appunto la mattina di quel giorno, ch'ebbero menzionato fra loro per la prima volta il nome del giovine forestiero, Maria, sedendo presso il murettino del lago a guardar le barche che radevano la riva, intese un vicino rumore di voci nuove e allegre. Si levò curiosa per correre alla porta; e, in quella, vide entrar nel cortiletto le due damigelle inglesi, accompagnate da Arnoldo. Ella rimase d'improvviso interdetta, muta, e sentì un tremito segreto; ma poi ripigliò cuore, e mosse verso le gentili visitatrici: era sopravvenuta intanto anche sua madre. Entraron nella saletta, e Arnoldo presentò alla buona comare e a Maria le sorelle, dicendo: — Elisa e Vittorina desiderano di conoscervi; voi sarete amiche, perchè i cuori, come i vostri, s'intendono sempre! Maria arrossì, e non sapeva che dire; ma ritirandosi un poco susurrò: — Oh questo sarà uno de' più bei giorni per me! — Sì, sì, esclamò allegramente Vittorina. Voglio che stiamo insieme; voi verrete sul lago nella nostra barchetta; voi c'insegnerete le belle canzoni delle montagne, sarete la nostra guida sui sentieri dell'alpe. Ah sì! dobbiamo passar di belle ore in compagnia. Anche Elisa avvicinavasi a Maria, e la pigliava con affetto per mano, dicendole: — Noi ci vorremo bene, come vostro fratello e Arnoldo, non è vero? Egli, sapete, ci parlò sovente con tanto amore di lui, di vostra madre e di voi. Non abbiate soggezione di noi; la vostra fisonomia è tanto dolce e bella! — Non mi mortificate così: io sono una povera fanciulla, e voi... — Noi, riprese l'Elisa, siamo ben liete di conoscervi; e se vostra madre è sì buona per non dirne di no, torneremo domani, per condurvi con noi alla villa; e sarà una giornata di contentezza. — E vi mostreremo, aggiunse Vittorina, cento cose belle; i nostri anelli, gli smanigli, le collane, le ciarpette e tant'altri vezzi, che sono una maraviglia a vederli. E ne daremo anche a voi, pensate! ch'e' devono stare pur bene a quel vostro collo, sì sottile e bianco! — Tu se' proprio uno spiritello! disse Arnoldo, mentre Maria alle parole della giovinetta chinava la faccia sul seno, e di novo arrossiva. Allora Vittorina, in atto di tenerezza infantile, le gettò le braccia al collo, e col suo pronto sorriso: — Perdonami, o Maria! ho creduto di farti piacere col dirti che sei bella! — Tu verrai, Maria, aggiunse Elisa, non è vero? dillo! vogliam raccontarci tante cose! Perchè, sai, adesso noi possiamo godere in pace questo tempo sì allegro, questo cielo sì bello! Adesso, noi non tremiamo più per la vita di nostro padre; egli era ammalato, ammalato assai, ma dopo che Arnoldo tornò, sta molto meglio. — Buona Caterina, riprese Arnoldo allora, fu appunto per causa di mio padre che non venni prima a trovarvi; ma son contento, chè vi veggo di buona ciera e serena. — Graziadio! rispose la vecchia. — Voi avrete forse pensato ch'io v'avessi dimenticata? — Nemmen per sogno! E Caterina fu presta ad acconsentire alla graziosa premura che le due damigelle le avevano fatta. Era un grand'onore per lei vedere la sua figliuola cercata da due signorine così leggiadre e buone, e il suo amor proprio non n'era poco lusingato; perchè pensava che in ogni maniera non poteva esser che una fortuna quella conoscenza. Ben presto le tre giovinette divennero amiche, come se già da un anno si fossero conosciute. E quasi ogni giorno, Elisa e Vittorina venivano a cercar di Maria, e con essa dividevano l'allegrezza di tutte l'ore. Bene spesso le avresti vedute seder in crocchio sul terrazzo della villa, intese allo studio de' loro disegni e lavori, al canto di care e semplici melodie, o abbandonate a fanciulleschi e sinceri colloqui. E talvolta anche il vecchio lord, che oramai era convalescente, sedendosi nel suo seggiolone in un angolo del terrazzo, contemplava in atto di segreta gioia quelle tre testoline giovani e aeree, che si chinavano e si levavano con un tripudio irrequieto, con un sorriso più eloquente d'ogni parola; e l'ampio foglio del _Times_, ch'egli si teneva spiegato sotto gli occhi, cadeva allora dimenticato su le sue ginocchia; e nel suo cuore l'arida politica cedeva il posto alla dolcezza d'un senso affatto novo. Più sovente le fanciulle andavano a diporto per i paesi della riva, o facevano una corsa su la montagna, e Arnoldo veniva con esse in compagnia. Era un alternar di risa schiette e d'allegri modi, un dolce motteggiare, un mescersi di voci argute e soavi, una corrispondenza di gioia e d'affetto. Alcuna volta invece, al levar della luna, essendo il tempo chiarissimo, e l'aria consolata dalla freschezza della sera, le tre fanciulle discendevano di nascosto nel giardino della villa, e sen venivano all'ombra per la riva bruna del lago. Poi calate chetamente nella loro fida barchetta, davano a gran lena ne' remi, e pigliavano il largo. La luna si rifletteva bellissima nel lago, come in uno specchio; ma, a ora a ora, l'acqua commossa da uno spirar di vento leggero pareva tutta risplendente di tremole scagliette d'argento. Quel fianco delle montagne, su cui spargevasi il pieno chiarore della luna, pareva circonfuso dalla vaporosa luce d'un incantesimo, e ne spiccavano i seni e i dossi, i paesetti e le case; l'opposto fianco invece si perdeva in un'ombra uguale e fitta, che nulla interrompeva, tranne il luccicare di qualche picciol lume, qua e là, dal balcone d'una villa, o dalla porta d'un casolare. E la barca delle giovinette fuggiva rapida su l'onde, come se avesse l'ale, e portasse le fate abitatrici di quella poetica contrada. Poi, quando tornavano alla riva, vedevasi quella barchetta fermarsi al piede dell'alto terrazzo; e l'aria taciturna risonava dell'armonia d'una prediletta canzone. UN CHIAROR DI LUNA. INSIEME Sei cheta, o notte, ma non sei mesta, Quando riluce sereno il ciel! L'ora beata d'amore è questa, Questa è del canto l'ora fedel! Andiam compagne! La notte è bella; Stacchiam dal lido la navicella. Aura di sera — spira leggiera; Geme alla sponda — l'onda che muor. La luna è chiara, splendon le stelle; Le tre sorelle — cantan d'amor! La luna è chiara, Cantan d'amor! VITTORINA Io sono lieta, non ho pensieri; Tutto è sorriso d'amor per me! L'oggi è fuggito, fuggito è l'ieri; Oltre il domani speme non v'è. Ma quando l'alma brilla contenta, Oh! perchè l'ora non va più lenta? Odi una stanca — voce che manca? Di veglia è grido, che dà il pastor. Ve' il lume errante d'una facella, La barca è quella — del pescator; Canta, o sorella, Canta d'amor! ELISA Lieta è dell'ore l'aerea danza, La vita a un roseo vespro è simíl; E il dïadema della speranza È della sera l'astro gentil, La cui tranquilla luce amorosa Sulla mia fronte lieve riposa. Per l'aure lente — l'arpa gemente Diffonde un suono che cerca il cor! Vedi alla bruna sua finestrella La damigella — china sui fior! Canta, o sorella, Canta d'amor! Fra l'una e l'altra canzone era una pausa; e le ultime voci s'andavan perdendo a poco a poco nell'aria silenziosa della notte, sì che quasi non poteva dirsi se il canto fosse venuto dalla terra, o dal cielo. E pareva che ciascuna delle due sorelle volesse all'accento confidare il segreto del proprio pensiero. Quando poi toccava a Maria a cantare, essa che non aveva avuto altro maestro che il cuore, e che solo col fino senso dell'orecchio misurava l'armonia, sapeva esprimere tutta la soavità, tutta la malinconia dell'anima sua nelle fresche e semplici note della sua voce. MARIA Nel ciel romito ho un astro anch'io, Che nessun vide, nessuno amò! Pudico raggio, deh splendi al mio Povero core che ti trovò!... Io t'amo, o stella, che sempre vegli, Ed amo l'onda dove ti spegli. De' giorni il fiore — s'inchina e muore, Breve è l'affanno, sacro il dolor: Dal basso esilio, l'alma più bella Alla sua stella — ritorna ancor. Canta, o sorella, Canta d'amor! INSIEME O cielo amico, ciel di zaffiro, Ah ne risplendi sempre così! Senza una nube, senza un sospiro Di nostra vita trapassi il dì; Nè rio pensiero mai turbi il core, Che solo cerca silenzio e amore! Aura di sera — spira leggiera, Geme alla sponda — l'onda che muor. La luna è chiara, splendon le stelle: Le tre sorelle — cantan d'amor. La luna è chiara, Cantan d'amor! Il più sovente, venuta la sera, le due damigelle accompagnavano Maria alla casa di sua madre; e là s'intrattenevano alquanto a frascheggiare con la vecchia Marta, e a raccontare la lieta giornata alla buona mamma Caterina, come già la chiamavano. E la buona mamma Caterina quasi ne piangeva di consolazione. In questa dolce e sollazzevole amicizia corsero così due mesi, i due mesi dell'estate: e su quella felicissima riva, dove gli ardori del sirio e del sollione sono temperati dalla freschezza dell'acque, e dal respiro quotidiano de' venti della pianura e dell'alpe, e ristorati dall'ombra delle montagne e dal silenzio perenne della natura, le tre fanciulle gustavano una contentezza così serena, che non avrebbero cercato di più. Quando la gioia è vera il cuore crede ch'essa durerà sempre! Anche Arnoldo non era mai stato lieto come allora, e quasi gli pareva un sogno la sua felicità. In quel tempo d'una confidente esistenza, in que' giorni fuggevoli e uguali, egli lasciava che l'anima sua errasse in balìa di facili illusioni; i suoi pensieri non eran più quelli d'una volta; egli trovava in essi una quiete insolita; e diceva che una stella nova e più pura era comparsa nel suo cielo. Arnoldo amava la povera Maria, e l'amava sinceramente. Eppure spesso, quand'era solo e domandava a sè stesso, se Maria, nella sua innocenza, avesse potuto indovinar quel segreto ch'egli aveva sì caro; un sospetto sorgeva a turbarlo con voce importuna, dipingendogli alla mente quell'angiolo come una povera creatura, ch'egli voleva far sua vittima per abbandonarla poi nella sciagura. Allora l'amor suo gli pareva una menzogna, le sue parole uno scherno crudele, ogni suo sguardo furtivo un'infame seduzione. Ma quand'essa era là, in mezzo alle sue sorelle, folleggiante e graziosa come Vittorina, tenera e meditabonda come Elisa; quando, con quella pura sua voce, gli cercava l'anima dolcemente, o la rapiva con la magia d'una sua canzone montanina, allora le fosche fantasie acchetavansi; egli credeva all'amore, credeva al suo cuore e a Dio. E la fanciulla? — Povera innocente! tu ancora non sai che sia l'amore d'un uomo! Nessuno ha gettato mai sopra di te un solo di quegli sguardi che consumano come fiamma, e lasciano un solco nel cuore; nessuno t'ha detto una parola, per rivelarti che l'abbandono del cuore e del pensiero ci può costar tante lagrime e tanto sacrifizio. Tu non ami che tua madre, il fratel tuo, Dio, il cielo, il tuo villaggio e i tuoi fiori!... Oh guardati, e ti salva dall'amore, finchè hai tempo ancora! L'anima tua è tuttavia pura e soave; essa trema, come una rosa tocca dal primo vento. Perchè abbandonasti il cantuccio della stanza di tua madre, e la tua piccola finestra incoronata di fiori? Aimè! gli occhi di chi non conosce l'amarezza del pianto che si versa quando l'innocenza è morta, guardano al futuro attraverso il prisma ingannevole del presente; e il cuore, se non è ferito, non crede al dolore! — Povera Maria! oh come tu benediresti a quella voce che ti dicesse: Tu se' troppo ingenua, tu se' troppo sicura di te stessa! XI. SULLA BASS'ORA. La Malizia, questa losca sorella della Bugia, questa fata capricciosa e segreta, la quale, sebben zoppichi su le sue grucce ineguali, pur tanto cammina che bene spesso vince della mano la Verità; la Malizia, ospite vecchia del nostro mondo, è stata sempre, per quanto si faccia o si dica, la regina delle cose, e ha codice, ragione e diritto; perchè forse la provvidenza le permise d'attecchire, crescere e moltiplicarsi, come la gramigna nel campo, di spiegarsi e regnare, come le nubi nel cielo. La Malizia passeggia sotto le vôlte dipinte delle case de' grandi, vestita d'un giubba trapunta di frastagli d'oro o d'uno splendido saio, siede alle mense e ne' circoli del bel mondo, coperta le spalle di màrtora o d'ermellino, di sete indiane, di veli aerei; trotta per le vie sotto l'abito modesto del cittadino; studia, medita, scribacchia anch'essa, come il più grave filosofo; ha il suo scanno nel cantuccio del focolare del borghigiano, e la rozza panca di legno sotto la tettoia del contadino; s'adagia a sua posta nel caffè, nella bottega, nel palchetto del teatro; sbircia, sogghigna, ciancia, gracchia, trincia a destra, a sinistra; e a sentirla, gli è sempre per amor del bene, o per onor del vero. — Nessuno dunque maraviglierà, cred'io, ch'ella avesse culto e alunni anche su quella beata riva del lago, tra le poche case del nostro paesetto. Su la bass'ora d'un bel dì, il signor curato passeggiava nella piccola spianata che si stendeva dinanzi la sua casa, in compagnia di quel signor Gaspero, il vecchio signorotto, del quale abbiam già fatta la conoscenza; e discorrevano fra loro a tutto bell'agio. Benchè costoro, come vedemmo, non fossero i migliori amici del mondo, e l'uno non andasse molto a sangue all'altro, pure lo star insieme e la necessità di tenersi in credito, facevano che si cercassero come due vecchi colleghi, o piuttosto come due gelose potestà rivali. E poi, don Gioachino non era uomo da legarsela al dito per qualche motto lanciato alla sua pretensione politica o letteraria, chè anzi piccavasi di non se ne far gran caso, come se si fosse trattato d'un complimento. — Ehi! signor Gaspero, diceva il curato, se foste venuto mezz'ora fa, v'avrei fatto sedere alla mia tavola tale e qual era; ne vengo or ora. Eh! un desinarino da povero curato, ma da galantuomo; poco ma buono! è il mio assioma.... ah! ah! — Oh lo so per esperienza! si mangia bene da voi.... — Non fo per dire, ma la mia Sabina sa il fatto suo: da un par d'anni poi ne son contentone. Quest'oggi, vedete, m'ha regalato un bel pezzo di stufato fumante, con certe cipollette in sugo, che parevan perle; e poi una fricasséa di polli, che valeva un Perù!... — Corbezzoli! la è una dottorona la vostra serva; scommetto ch'ella sa a menadito tutto il _Cuoco Piemontese_, e che la vi corregge anche i testi latini delle vostre prediche. — Ah! ah! sempre di buon umore il nostro signor Gaspero! — Che volete, curato? Se non si cerca di passare, il meno mal che si possa, questi quattr'anni di vita che ci avanzano.... — Buon per voi, che sul vostro non tempesta mai!... Ma per me, v'assicuro ch'io conto delle giornate brusche, e che qualche volta mi tocca di roder catene. — Canzonate, o dite da vero? Chi fa mai più beata vita della vostra? — Voi volete parlare, ma non le pigliate su voi quelle che mi toccano, proprio a me, che doverle inghiottire, la è dura! Ma, ma!... è meglio non pensarci, chè basterebbe a farmi far cattiva digestione. — Ma via! che avete? dite su: non son forse vostro amico, io? — Sì! voi siete un galantuomo, ma a questo mondo c'è dei birbanti. Io che non ho mai avuti impicci, sentite mo che cosa mi capita! — La settimana passata, fo una giterella a Como, per non so che miei interessi.... certo poco danaro, che ho messo da parte in tant'anni, e che ho voluto portare io stesso, in confidenza, ad un legale di là, un po' mio parente, perchè me ne cavi una cinquantina di lire d'interesse... Mo, vedete! Eran sei anni che non mettevo il piede in quella maladetta città; e sta, che quell'unica volta che ci casco, trovo un avviso che mi chiama, là.... da... (E qui gli bisbigliò a mezza voce un bel nome tondo.) Mi capite? Così è... proprio da lui! Bisognò dunque trottar subito... là dov'ero aspettato. Non vi dico nulla!.... Cose grosse, cose di fuoco; mi voglion mettere in compromesso, mi vogliono giuocare sicuro, io che non ho mai fatto nè detto male a nessuno... — Ma che diamine mai?... — Lo sapete voi? lo so anch'io. Fu un serio e lungo interrogatorio di lui, di lui stesso... capite? — E vi dico la verità, che la flemma delle sue domande mi faceva sudare, nello stesso tempo che la serietà delle sue occhiate mi metteva i brividi. E tutto, indovinate mo?... per amor di quel sapientaccio presontuoso di don Carlo. — Oh!... — Che so io de' garbugli che può avere colui?... E bene, sul conto suo, mi domandò più di cento cose; e ch'io sapevo, e che dovevo sapere... che quel prete era nativo di qui; ch'io conoscevo quali corrispondenze avesse, perchè quest'estate passasse qui tre mesi, e che ci doveva essere la sua buona ragione; che discorsi, che vita facesse, e che so io... Vi dico che avevo tanto di testa! Cercava ben io di rimbeccar quelle antifone alla meglio, ma era peggio! Io aveva bel dire, la responsabilità è sempre del povero paroco... E poi, sentite questa! — Non è la prima volta, conchius'egli infine nel congedarmi, che voi date serii motivi di censura!... sue precise parole. Figuratevi che condizione fosse la mia, a questi schietti complimenti! — Ma non siete arrivato a capire?... — Poco o niente. Furono avvertimenti sordi, misteriosi, consigli dati a mezz'aria, lasciati indovinare; ma, se non fallo, qui ci cova sotto qualche cosa di... — Di che? — Eh signor Gaspero! penso ch'io sono una bestia a ciarlar tanto di queste materie così gravi: lasciamo andare, lasciamo andare.... — Ehi, m'offendete! dite su! Credete ch'io sia un bamboccio o un birbone? Parlate! — Ma! ma! ma!... voi non sapete che brutto rischio si corre.... — Ditelo, che lo saprò. — In somma, in somma! volete propio saperlo?... Io credo che ci sia in aria qualcosa di torbido, di marcio, cioè di... rrrr... E nell'orecchio dello strabiliato compagno finì una terribile parola. — Bah!... E qui tacquero tutt'e due, e si guardarono in faccia un pezzo l'un l'altro, senza batter palpebra. Poi il signor curato, levando lentamente una mano, e mettendo l' indice a traverso le labbra, diede all'amico un'occhiata di gran significazione, come per dirgli: Silenzio, per amor del cielo! E l'altro, facendosi piccino e stringendosi nelle spalle, rispose con la stessa smorfia. In quel mezzo, altri capitavano su la spianata, e camminando sbadatamente andavan di lungo pe' fatti loro; se non che, due d'essi, veduti ch'ebbero don Gioachino e il signor Gaspero, attraversarono la strada, e vennero difilati alla volta loro. Erano il dottore e il deputato politico del paese. I quattro fecero tra loro le solite scambievoli cortesie, con una sberrettata che rese l'uno all'altro in aristocratica solennità, a grand'edificazione de' villani che di là passavano. La conversazione interrotta si rannodò; e fu lo stesso curato che per il primo pigliò la parola, sollecito di mutar l'argomento, e pauroso non fosse mai per iscappare al signor Gaspero qualche allusione alla confidenza fattagli. — Dunque, che c'è di nuovo, signor Mauro? disse, voltandosi al deputato politico. — Eh! che vuol mai ch'io sappia, io! rispose quegli. Lei, don Gioachino, lei che sa di politica, che vive di giornali, me le racconterà le notizie. — Oh sant'iddio! L'ho detto tante volte, caro mio signor Mauro, ch'io non m'impaccio di faccende mondane! Io vivo in questa tana, come un tasso di montagna... Io non c'entro, io non c'entro, lo dico e lo protesto! io dormo all'ombra del mio campanile, e di queste cose che bruciano, me ne lavo le mani. Questa protesta, che non sarebbe certo uscita di bocca al curato in altro tempo, gli fu allora suggerita dalla fresca tema di vedersi a qualche brutto giuoco, per la maledetta smania che aveva di pesare su la sua bilancia i destini d'Europa. Il buon uomo s'era ingannato: nessuno badava, più che agli abitatori della luna, alla congrega dottrinaria dello speziale; ma allora la paura era entrata in corpo al povero don Gioachino, e per lui era lo stesso che se l'avessero tenuto per un Robespierre in saio nero. — Dunque, mutiam discorso, seguitò, perchè vedete bene!... Già, non è bisogno dirne di più;.. Gli astanti capirono, o credettero di capire, quella reticenza. E il signor Gaspero, che aveva la chiave del mistero, — Or via, disse, volete che ce n'andiamo in compagnia giù fino alla riva? Non può star molto, che passi il Vapore... — Andiamo! risposero. — E anche lei, signor curato, soggiunse il deputato politico; via! venga, non si faccia pregare. Cammin facendo cianciarono, al solito, di cose inutili. Ma poco stante, il dottore, additando una barchetta che prendeva il largo: — Guardate! disse, non è quella laggiù la barchetta delle nostre damine inglesi, qui della villa? — Ah si! è proprio quella! già si sa, il dottore ha buoni occhi, e conosce le belle fanciulle un miglio lontano. — Via, signor Gaspero! So ben che lei scherza: non me n'intendo io. — Eh voi siete un giovinotto, signor Paolino, un dottore di primo pelo! Caspita, che su' trent'anni, come voi adesso, ne feci anch'io delle belle, e qui e via di qui; ma era il secolo passato, amico, quel tempo di cui adesso si ride.. povera gente! — Buon pro le facciano, padron mio, ma le ripeto, lei s'inganna a partito! — Andate là, volpone dottorato, che avete buon gusto. Già lo sappiamo anche noi; è quella dagli occhi cilestri, dall'aria sentimentale! ah! ah!... diceva il deputato. — Anche voi volete spassarvi alle mie spalle, signor Mauro? — Via, confessate, signor Paolino, non è così? non è quella del bigliettino color di rosa, quella del luigi doppio? L'avete pur raccontata voi la storiella. — Oh andate al malanno, ch'io vi mando! rispose piccato il dottore. — Ehi! la vi pizzica? ripetè l'altro, dunque è segno ch'è vero! — Ah! ah! quest'è bella, è nuova di conio. Il dottore muore dietro all'Inglesina! oh me la godo proprio... E il signor Gaspero, con quella sua ciera piacente, rideva, rideva di gusto. — Ma via, finitela! lasciatelo stare quel povero figliuolo, se non volete che gli salti la mosca, continuando così come fate a dargli la soia, soggiunse il curato. — Se voglion pigliarsi il bel tempo, lasciateli dire. Magàri la fosse così! Intanto eran giunti alla strada che fiancheggia la riva. La barchetta, ch'era stata la cagione innocente di quel cicaleccio, passava rapida, alla distanza d'un trar di pietra; ond'è ch'essi videro le due giovinette e Maria, che guardavano verso di loro, ridendo e motteggiando con una sì schietta allegria, ch'era un'invidia. Arnoldo remava, e Vittorina, seduta su la poppa, governava il timone, a ogni momento volgendone l'ala a suo capriccio, sicchè il battello vogava in isbieco, come per obliqua via, lasciandosi dietro su l'onda un lungo solco schiumoso e serpeggiante. — E quella martorella, scappò fuori a dire il curato, levando con la punta dirizzata verso la barca la sua lunga canna dal pome d'osso bianco; la tosa d'Andrea, ch'è divenuta damigella delle due _milordine_, eh! che ve ne pare? — Quella giovine sa il suo conto! disse il dottore. — Oh sì, da vero, il curato ripigliò; ma questa sua confidenza io non l'approvo, son cose fuori di posto: una ragazza, una contadina, un'ignorantella, vedetela là, che vuol fare la burbanzosa, la superbetta, mettere il gonnellino di moda, capricci! e far pensare intanto, e far dire... No, non va bene! causa quella testa matta di suo fratello prete, che anch'esso ha la sua vena di dolce! vuol comparir filosofo, politico, romantico... Oh la vedrà bella anch'esso, la vedrà bella!... — Ma, lei non è il curato? dimandò il signor Mauro; non tocca a lei a dare una buona rammanzina alla ragazza, un'altra a sua madre, e ricondurre all'ovile la pecorella smarrita, come lor signori dicono in pulpito tante volte? — Ehi son parole: ci vuol altri che me! È l'ingordigia, la sete di far quattrini. La vecchia tale e quale la conoscete, fa la bigotta, ma le premono i comodi e la cucina; e poi, vuol mettere da parte, per que' pochi dì che le restano a campare... e la figlia è la sua insegna! — Oibò! oibò! che dite mai, curato? l'interruppe il signor Gaspero, queste son cose... — Cose da non credere, ma che son vere! Pensate forse ch'io sia qui, come si suol dire, il bastone della scopa? So, vedo e conosco! — Ma non basta, bisogna... — Bisogna che questi villani non sieno teste di scoglio, come sono. Ma che ci posso far io? e' la sarebbe come se volessi asciugar il lago col mio cappello. Non hanno badato mai alle parole del loro paroco! il qual paroco non ha più di due polmoni, che, una volta asciutti, non possono riempirsi di fiato, come una tinozza di vino! — Ah! ah! ma che v'importa a voi, che la giovine, la quale è poi savia e buona, vada con quei signori? — A me, come me, certo che no! ma se, per causa sua, avessi de' pasticci? Io ci vedo da lontano... Quel vecchio milord, che sarà luterano, puritano, manicheo, o qualche cosa di simile, fa una strana vita, la vita del mistero... Il suo signor figlio poi... — Dite un po': è forse quello che aveva fatta tant'amicizia col vicecurato? — Giusto! E colui, poteva far di peggio? Pensate! un prete, che deve sempre guardar bene a tutto quel che fa e che dice, un prete, com'è lui, viaggiar su per i monti, andar giù per il lago, in compagnia d'un forestiero libertino, d'un... dio sa che cosa? Già, è sempre stato un bel capo colui!... E mi ci voglion tirar dentro per i capegli, me? Oh se la sbagliano! Io me ne lavo le mani, non ne voglio saper nulla, faccian loro! Son pazzo a pensarci su... Non è egli vero, che non tocca a me? — Del prete, rispondeva sempre il signor Gaspero, del prete io non parlo! Siete l'autorità ecclesiastica del paese, la prima! Ma della giovine, chi vi può dir nulla? Eh via! chiudete un occhio, e lasciate che l'acqua vada in giù; perchè alla fine, non è essa padrona del suo? E potendo far la sua fortuna, la sarebbe una baggea a star lì, sempre appiccicata alla sottana di sua madre! — Bravo il nostro signor Gasperino! dicevagli il deputato, nel dargli d'una palma su la spalla: già l'ho sempre sentito far l'avvocato delle belle donne! Ora poi, che si tratta della graziosa figliuola d'Andrea... ch'è veramente un bel fiore di primavera, un fiore che, scommetto, vorrebbe trapiantar volentieri nel suo giardino! — Ehi, Mauro, che spropositi mi dite? cosa volete ch'io faccia, co' miei sessantacinque anni, col mio peso e con la mia mezza parrucca?... Ho altre fantasie; sono stato giovine anch'io, e al mio tempo, non fo per dire, era un giovinotto un po' più vivo di quelli del dì d'oggi... non so se mi capite! Ho avuti i miei grilli, e me la sono spassata alla buon'ora! E ho fatto anch'io, come si dice, le mie campagne, sono stato attore anch'io, ma adesso mi conviene accontentarmi della parte di spettatore; e ridere, quando c'è da ridere, della commedia che il mondo mi fa d'intorno. — Non faccia troppo il filosofo, caro signor Gaspero, soggiunse il dottore, contento, a dir poco, di rendergli di rimbalzo le parole che motteggiando gli aveva dette a principio della via. Anche sul suo conto, se ne sa qualcosa. E ne so una io... e se non me l'avesse raccontata quel brav'uomo d'Andrea, non la direi... I suoi sessantacinque anni? Non gli credete, al signor Gaspero, quando dice che gli pesano; ha i suoi capricci ancora, un grillo che gli mette il prurito da un pezzo; e se non fosse che... — Via è matto il dottore, disse l'allegro vecchio. — Matto io? sarà; ma nol fu già lei, signor mio, quando sottomano, alla sorda, lasciò sentire al padre della Maria, che cosa penserebbe se mai fosse capitato un partito alla sua povera figliuola, un partito come va; e se saprebbe farglielo parer buono; un uomo un po' sugli anni sì, ma vegeto, sano; e poi, persona di credito, particolare danaroso... Ehi, dica: non è così, signor Gaspero? — Che bravo poetai che rima! crollando il capo quegli diceva. — Altro che poeta! Lo so ben io! Se non fosse stato il buon galantuomo a rispondere, come pochi pur troppo rispondono in questi casi: Ma, io non ho che questa tosa, e ch'ella se lo trovi il marito, e sia contenta. Sono un povero diavolo, gli è vero; ma è meglio pochi stracci e cuor contento, che non abbondanza di fuori, e cuor voto di dentro... Non è così? — Pigliatelo, vi dico, il dottore! tenetelo saldo, ch'è matto, matto da legare! — E che mal ci sarebbe se la fosse come lui dice? soggiunse il deputato. — Ma sì, che mal ci sarebbe? ripetè il signor Gaspero. — Bene, dico io!... Ma sapete, conchiudeva il curato, che le nostre sono ciance da far ridere i morti? E mi pare che tutti siate un po' in cimberli, a chiacchierar così in pubblico di donnette e d'amori, come fanno i giovinotti della città al caffè! Oh finiamola, ch'è tempo! Ecco appunto il signor Samuele, che viene a questa volta. Ehi, ehi! signor Samuele, venite qua! Non vi pare che sia il Vapore quello laggiù in fondo, sotto la punta di Laglio?... Ohe, non vi dicon niente i vostri occhiali? — Mi pare e non mi pare; lo speziale rispose, levando il naso, e mettendo il rovescio della mano alla fronte, a mo' di visiera. Ed esso e gli altri s'aggrupparono sur un monticello della riva, per aspettare, con la loro quotidiana curiosità, il passaggio di quella barca che da pochi anni aveva segnato un nuovo e grave avvenimento nella loro vita. E là, su quel pianerottolo, figuravano un crocchietto degno del vivace pennello del nostro Migliara. XII. ADDIO AL LAGO. O terra solitaria e ridente, che il lago da tutt'e due i lati viene ad abbracciare col suo limpido specchio, o paesello che siedi su la china del promontorio, incoronato d'alberi d'ombra perenne e rallegrato da un misto digradar di sparsi colori, il verde dell'erbe freschissime, il rosso e il gialliccio delle foglie che cominciano ad appassire, il cupo del pino, dell'elce, e dell'abete, e il roseo degli odorosi ciclamini che tutto l'anno rivestono la tua bella pendice, addio!.. Noi lasciamo le tue ore tranquille, l'innocente allegria de' tuoi passatempi, l'aria tua sincera e salubre, i lieti diporti su l'acque, i sentieri serpeggianti su per la montagna; noi abbandoniamo la casìpola che un'annosa vite ombreggia, la remota dàrsena con le sue barche pescherecce, la scoscesa costiera del lido, la chiesa antica e modesta, la cappelletta al crocicchio del bosco... Addio! Ma la memoria de' luoghi, che un tempo avemmo cari, dove passammo gli anni giovenili in libertà e in pace, questa memoria, che si nasconde nel cuore, ma non si cancella mai, verrà con noi, cara e segreta compagnia. E quando sorgeranno, nel mezzo della vita, i giorni delle lunghe prove e della tradita fatica, quando fra il rumore del mondo e l'angustia del futuro, volgeremo indietro uno sguardo al tempo che prometteva la felicità, allora ci sarà dolce il tornare, almeno col cuore, a riposarci in que' luoghi, dove la solitudine è piena de' nostri primi amori e di tante piccole storie da fanciulli; dove conosciamo ogni palmo di terra, ogni albero, ogni cespuglio; dove ne pare ancora dover esser meno amaro il ricordarsi del dolore sofferto. L'oscura sorte d'Angiola Maria sta per mutarsi: un giorno, una parola cambiano tante cose quaggiù; bastò un giorno per sedurre i pensieri della giovinetta con le lusinghe d'una vita più bella, d'una vita che fino a quel tempo era stata per lei un bel sogno fuggitivo, dal quale senza rammarico si risvegliava. La dimestichezza nata fra essa e le due damigelle compagne, il rivedersi tutt'i giorni, la concordia de' pensieri e de' cuori, la necessità di cercarsi, di volersi bene, quella fiducia della giovinezza sì schietta nell'anime buone, tutto si combinò per condurre Maria a lasciarsi vincere dalla preghiera d'Elisa e di Vittorina d'accompagnarle quell'inverno a Milano. Elleno speravano, in segreto, che poi l'avrebbero persuasa d'andar con loro in Inghilterra. Io avrei dovuto dirvi prima, che il vecchio lord, al cader dell'autunno, stanco della sua lunga solitudine, e ristorato alquanto nella salute, aveva, con gran rammarico delle due fanciulle e d'Arnoldo, risoluto di passar l'inverno nella città. Però, quando bisognò partire, Vittorina fu quella che trovò lo spediente d'acconciarla bene per tutti. Un bel dì, fece a suo padre molte carezze e una preghiera; e il lord, colto in buon'ora, acconsentì. Non occorre dirlo, la mamma Caterina non si fece neppur essa lungamente pregare, chè anzi non capiva in sè dal piacere, quando Elisa l'assicurava che si sarebbero tenuta la sua cara Maria, come una compagna, un'amica; che al primo giorno della primavera l'avrebbero a lei restituita, e tant'altre promesse. E poi, la buona vecchia voleva troppo bene alla sua figliuola; allorchè questa parlava, ella non sapeva trovar più ragione in contrario. — Oh l'amar molto è la gioja e il martirio delle povere madri! Il più serio fu, quando bisognò scriverne al vice-curato. Maria sapeva i pensieri, sapeva il cuore di suo fratello; e dubitava che quella partenza così nova, quel lasciar sola la madre per tutto l'inverno, a lui non dovesse parer bene. Tremava la povera fanciulla nello scrivere e suggellar quella lettera, tremava e non ne sapeva il perchè. Ma bisognava farlo; sua madre non aveva posta altra condizione, tranne questa, che vi fosse il consenso di don Carlo. Chi si pigliò la briga di portar la lettera al suo destino, fu lo stesso Arnoldo, per una buona ragione che coperse di due buone scuse, cioè di fare una visita all'amico, e di percorrere un'altra volta, innanzi abbandonarla, quella bella contrada. Prima che uscisse l'alba della vegnente mattina, una barca lo traghettò a ***, dov'erano i cavalli di suo padre. Qui giunto, condusse fuori uno svelto e brioso leardo; montò in sella, e seguitando i sentieri lungo la montagna, viaggiò tutta la giornata, per arrivare innanzi sera alla lontana parrocchia. Più d'una volta fallì il cammino, e gli fu forza tornar indietro, e rifare lunghi tratti della strada già corsa; onde sentiva dispetto dell'indugio, e compassione della sua povera cavalcatura. Già da parecchie ore il cavallo andava di buon portante o di galoppo su per quelle strade appena praticabili, e sbuffava dalle nari per la lunga fatica; la sua criniera ondeggiava sollevata dalla sottile brezzolina d'ottobre; le ferrate sue zampe percotevan con violento passo sui grossi ciottoli di que' sentieri franati: ma il giovin cavaliere non pareva mai stanco di tener piede in istaffa. Soltanto egli lasciava, a quando a quando, che il cavallo continuasse a passo la via, e intanto gli accarezzava il collo e la criniera. Al mezzo del cammino, scese di sella, e fermossi per breve tempo in un deserto casolare, il quale d'osteria non aveva altro che l'insegna; un tugurio, che la mala sorte aveva collocato in fondo di una solitaria valle. Condusse egli stesso il suo cavallo in un canto della corte, innanzi a una mangiatoia tarlata; poi entrò nella cucina, sedette, e senza parlare si refiziò con uno stantío resto di torta e con certo cacio di capra che gli fu messo innanzi, e che poi condì con un bicchiero di vino acido; e pure l'ostessa ne aspettò un pezzo il complimento. Era una giovine e tarchiata colligiana, la quale gli s'era piantata in faccia, con le pugna appuntate sul descaccio zoppo, quantunque fosse più usa a guardare, con due occhi grigi e furbi, il bel muso d'un contrabbandiere al lume della luna, che non la faccia dilicata e i capegli biondi d'un giovinotto inglese innamorato. Ripigliò il cammino, e lungo la strada, la sua fantasia, seguendo sempre gli stessi pensieri, vestiva d'una immagine sola la varia scena della natura ridente o selvaggia ch'egli attraversava; i gruppi d'alberi, i casali, i dirupi e le frane, il ruscello e il torrente, la piccola pianura e la greggia col mandriano, la siepaia e il cacciatore, il paesello e il cimitero, tutto pareva fuggirgli dinanzi, come s'egli fosse nel paese delle visioni. Sola una meditazione nutriva il suo cuore; nè quel pensiero era mai sì forte, come quando traeva fuori la lettera di Maria, e ne contemplava con segreta gioja le parole della soprascritta; la quale, del resto, era pur semplice, e non so che incanto avesse. A un'ora di notte, arrivò alla parrocchia, e scavalcò all'uscio d'una povera abitazione, che un pecoraio gl'insegnò esser quella del vicecurato. E lo trovò nella più interna delle due camere, ch'erano tutta la casa, lo trovò a vegliare in mezzo a' suoi volumi, qua e là sparsi, ammucchiati o aperti, al lume d'una piccola lucerna. Al vedere l'inaspettato visitatore, il prete s'alzò, e, fattosegli incontro, sorrise; poi, senza parlare, gli strinse con grand'amore la mano; ma il suo aspetto era pallido, malinconico il sorriso, lo stesso andare aveva qualche cosa di penoso e d'incerto. — Siate il benvenuto amico mio! Dunque non l'avete dimenticato il povero prete? Nella mia solitudine, la vostra venuta è una vera benedizione. Oh credetelo! il mio cuore n'è riconoscente. — Mio buon Carlo: tocca a me il domandarvi perdono, se questa è la prima volta che vengo a visitarvi; non ho tenuta la mia promessa, lo so; ma... mio padre... — Non dite di più: vi so troppo buon grado del piacere che adesso mi fate, e v'assicuro ch'io aveva un gran bisogno di vedere un volto amico. — Io vi trovo assai mutato da tre mesi, magro, sparuto: siete stato forse malato? — No! io sto bene: è l'animo mio ch'è malato. Ma di me non parliamo; voi... — I' ho una lettera da consegnarvi... una lettera di Maria, di vostra sorella. — Che? accadde mai qualche disgrazia a mia madre? — Oh! ella sta bene e vi saluta, la buona donna; ell'è così rubizza e così lieta! — Dio la benedica! Ma questa lettera di Maria... — Eccola! essa vi domanda che acconsentiate di lasciarla per qualche tempo con noi, che andiamo a passar l'inverno a Milano... Le mie sorelle ve ne pregano anch'esse! — Maria?.. disse il prete, maravigliando e cadendo d'improvviso in gravi pensieri. Indi aperse lentamente il foglio, lo lesse attento, e ripiegatolo lo intascò. Il giovine intanto lo riguardava, in atto di serio esitare. Indi a poco il prete gli domandò: — Quando contate di partire? — Domattina, forse. Perchè... non so se mio padre.... dubitando rispose Arnoldo. — Domattina dunque avrete la mia risposta per Maria. E detto ch'ebbe, mutò discorso, nè più parlò di sua madre, nè di sua sorella. Ma raccontò all'amico la vita che menava in quella valle; vita di sacrifizio e di coraggio, e che avrebbe presto distrutte le forze d'altri uomini di tempra più salda della sua. Quella remota parrocchia di poveri terrazzani, dispersa in abituri e capanne, senza ricolto e senza decime, metteva a dura e verace prova il ministero dell'uom del Signore, chiamandolo a tutte l'ore dov'era bisogno di consolazione e di costanza, e dove albergavano il pianto e la fame. Ma essendosi fatta l'ora tarda: — Pensiamo per voi, disse don Carlo. Voi siete stanco, rotto dal viaggio; qui nel paese, non v'è locanda di sorta, chè altri non vi capita se non qualche vagabondo, o al più due volte l'anno qualche viandante che abbia perduta la strada. Se v'accontentate, vi cederò il mio letto; già, lo sapete, siete sotto il tetto d'un povero romito... Ma, negando l'altro in ogni maniera: — Bene, soggiunse il prete, il mio Bernardo, è un buon cristiano di questi monti che m'ajuta e mi serve, vi preparerà alla meglio un lettuccio sul canapè ch'è nell'altra stanza. Scusatemi, amico! v'accorgerete stanotte di non essere nelle belle case, e ne' buoni letti della vostra Londra. Dunque, addio e buona notte! Arnoldo si coricò; ma alle stanche membra non concedevano riposo l'ardore e l'inquietudine della mente combattuta da cento pensieri più strani delle larve d'un cattivo sogno. Vegliava dunque, e dopo qualche tempo s'accorgeva che nella stanza vicina il prete era pur desto; perchè la lucerna mandava ancora, per alcune fessure dell'uscio, il sottile suo raggio. Dapprima non gli giungeva all'orecchio nè voce nè respiro; poi intese come il muover lento e grave d'un passo, che pareva misurar chetamente la stanza. Il giovine si trasse di novo sotto le coltri, e cercò dormire, ma invano... Origliava, non fiatava; passò un'ora, ne passò un'altra; e sempre sentiva il prete andare e venire su e giù lentamente per la camera. Tutto a un tratto lo riscosse uno strepito, come d'una seggiola che scricchioli sotto il peso di persona che sopra vi s'abbandoni; e in quella, gli parve d'udire un affannoso sospiro, e poi queste parole: — Mio Dio!.. dammi forza e costanza!... Allora, vinto da non so che terrore, egli stava per balzar dal letto, quando s'accorse che la lucerna era spenta, e che tutto era silenzio. Alla mattina, Arnoldo pensava di chiedere al prete, in nome dell'amicizia, la spiegazione di quel mistero, la causa della preoccupazione grave e dolorosa in cui l'aveva trovato. Pure, quando se lo vide venire incontro, con aspetto serio ma tranquillo, per fargli nuova scusa della sua meschina ospitalità, e s'accorse che gli tagliava a mezzo ogn'inchiesta la quale a lui riguardasse, allora pensò che quello doveva essere un segreto geloso e profondo, uno di que' segreti che si trema di confidare allo stesso cuor dell'amico; e tacque. Con un turbamento involontario Arnoldo ricevette la lettera che il vicecurato aveva scritta in risposta a quella di Maria. Quando, preso commiato e salito in sella, il giovine ripetè un sincero saluto, il prete gli s'avvicinò, e strettagli forte la destra, — Arnoldo, disse, voi siete un uomo onesto, e il cuor vostro è buono e generoso. Voi siete abbastanza felice, ma io non ho più nessuno quaggiù!.. Il futuro c'incalza e trascina, e Dio solamente lo conosce: se dunque a Lui piacesse che noi non avessimo a incontrarci più su la terra, e se mai l'avvenire vi menasse di nuovo in quest'Italia, non dimenticate mia madre e mia sorella! Confortale l'una, proteggete l'altra... Oh voi fortunato, se avrete questa consolazione di poter dire: C'è alcuno che mi ama e mi benedice! Addio! Arnoldo si sentì commosso fino alle lagrime; ma fattosi forza, — Addio, rispose, virtuoso amico! State di buon animo; io spero che ci rivedremo ben presto. Addio! E, dato di sprone al cavallo, s'allontanò. Due giorni appresso, la famiglia de' Leslie era partita dalla villa, e Maria aveva abbandonato la natale sua terra. La mano della fanciulla aveva tremato nell'aprir la lettera di suo fratello; erano poche linee che dicevano: — «Chi deve avere maggior pena che tu parta di qui, mia cara Maria, è la nostra buona mamma. S'ella dunque vuol fare questo sacrifizio, e tu segui allora la tua volontà. La famiglia, nel cui seno ti ritrovi, è un raro esempio di nobiltà vera e onesta. Ma non ti scordar mai, sorella, chi tu sia! Conserva il tuo cuore; pensa che un cuore come il tuo è una gemma, la quale, perduta una volta, non si ritrova mai più. Io spero per altro che la tua lontananza non sarà lunga: quando ritornerai, fa di trovare ancora nella tua povera casa, e sotto il cielo che il Signore t'ha dato, quegli stessi pensieri e quella stessa vita, che ora vi lasci. E se mai tu temi che non sia per essere così, oh! non abbandonare, te ne scongiuro, la tua povertà e il silenzio dell'oscurità in cui se' nata. Addio, mia sorella! Che il Signore t'accompagni! — Carlo.» Caterina pianse nel leggere questa lettera così semplice, ma non ebbe cuore di stornar la figliuola dalla proposta partenza. Maria mise insieme le sue poche robe; e la stessa mattina, nell'andar dall'una all'altra stanza della casa, le pareva che quell'abbandono le pesasse sul cuore, e quel breve viaggio le fosse imposto come una penitenza. La buona madre anch'essa, quando il momento fu venuto di staccarsi dalla sua Maria, sentì nel suo segreto un dispiacere, un pentimento quasi d'avere accondisceso all'impensata a quella partenza: e le vennero a mente le parole che ripeteva un tempo il suo pover'uomo, quando la signora contessa teneva con sè la fanciulletta: Verrà un giorno che ve ne pentirete, e non vi sarà più rimedio! — Ma non disse nulla, e cacciò via quel tristo pensiero. Nel tragittare il lago, per raggiungere le carrozze del lord, che stavano aspettando su l'opposta riva, Maria non potè nascondere l'angoscia che la stringeva, benchè non piangesse. Dilungandosi dalla sponda, guardava la madre sua e la vecchia Marta, che dalla soglia della casa le mandavano ancora baci d'amore; guardava la sua finestretta e la pergola del cortile. E certamente, se non era la presenza del vecchio signore, che quantunque buono e carezzevole con lei, pure la teneva nell'imbarazzo della suggezione, essa avrebbe lasciato libero sfogo alle sue lagrime. Elisa, guardandola con mestizia, le compativa; Vittorina l'abbracciava, ripetendole le più liete cose che siensi dette mai per consolare chi abbandona la prima volta i luoghi, a cui la vita serena di molt'anni donò tanta bellezza. Nel tempo di quel tragitto, un giovane barcaiuolo accompagnava il lento batter del remo nell'acqua con una semplice canzone del suo paese, su l'andar della seguente. IL COMMIATO. CANZONE DEL BARCAIUOLO. O Rita bella, mia Rita, addio! Ah! ti ricorda dell'amor mio. I' vo lontano dal suol natío, Lascio la barca che mi fu cuna; Solo, ramingo, pel mondo io vo. I' vo cercando la mia fortuna! Se il buon destino non è restio, Quando ritorno, ti sposerò. O Rita bella, mia Rita, addio! Ah! ti ricorda, cara, quand'io Sott'altro cielo, mesto, lontano, Penserò all'ora di questo dì; Che noi qui stretta ci siam la mano, Che un solo giuro due cori unío, E che il Signore quel giuro udì! Ah ti ricorda dell'amor mio! Là, presso l'erta di quel pendio, Cui lieta cinge la vigna in fiore, Vedi una casa, del monte al piè? Se fosse nostra!... Mi sta nel cuore Da tanto tempo questo desio! S'io vi potessi viver con te!.. O Rita bella, mia Rita, addio! Oh sta, mio core! già l'alba uscío. Partir bisogna, lasciar la valle, Se ricco un giorno mi vuoi sposar! D'un fardelletto carco le spalle, Povero e franco, men vo con Dio... Ma prima, o cara, ti vo' baciar! Ah ti ricorda dell'amor mio! O Rita bella, mia Rita, addio! Ah ti ricorda dell'amor mio! [Illustrazione: — Sia ringraziato il Signore, disse il mendicante dopochè si furono allontanati, che m'abbia mandato l'inspirazione di continuar la strada.... — Lib. II, pag. 281.] LIBRO SECONDO Non mi chiamate Noemi (cioè bella), ma chiamatemi Mara (cioè amara), perchè l'Onnipotente m'ha ricolmata di grandi amarezze. _Nel libro di Ruth._ I. ALTRO TEMPO, ALTRA VITA. Ecco Milano, la bella e ricca Milano! I larghi viali suburbani, che ornati d'una doppia fila d'alti platani, la circondano, come delle verdi ombre d'un giardino; i suoi lieti bastioni, le sue porte, che ora ti figurano la superba idea dell'arte romana studiata da' compassi dell'arte moderna, e ora ti presentano l'umile ingresso d'una borgata; i suoi corsi larghi, lisci ed asciutti, le sue variate vie fiancheggiate di modesti palazzi e di case belle e recenti dalla fronte allegra, dalle spesse e diritte finestre; tutto ti farebbe creder quasi d'essere in una città sorta ieri, se le belle cupole, e i campanili delle vecchie sue chiese, e quelle superbe colonne cadenti di San Lorenzo, unico avanzo della nostra grandezza a' migliori giorni di Roma, e più di tutto la mole sublime e gigantesca del Duomo con le cento sue guglie aeree, non sorgessero a ricordarti che i secoli passati hanno ancora le loro grandi vestigia, e signoreggiano, direi quasi, con l'armonia della loro maestà vetusta su d'un vasto anfiteatro di case, che la mediocrità costruì in compagnia del comodo, del risparmio e della convenienza. Ma non cercare gli avanzi delle nostre glorie municipali; son pochi e inutili per noi, e furono sepolti dai secoli, o dispersi dagli uomini. Non aprire i volumi della storia, che adesso non è il tempo; essa ha delle pagine scritte col sangue, pagine terribili che fanno fremere e lagrimare; e altre ne ha, ornate delle più belle glorie italiane, pagine sante, che sono l'entusiasmo e la speranza di chiunque si ricordi ancora di portare il nome de' suoi antichi. — Milano è la città del gran signore e dell'onesto privato, del mercatante e dell'ozioso, del filosofo e del povero galantuomo; è la città semplice e colta, generosa e ospitale, la patria della bella vita e del buon cuore. Tutto il mondo è paese, dice il proverbio; ma i proverbi, massime gli antichi, non han più ragione. Eppure colui che per la prima volta abbandona l'aria pura della campagna e la solitudine d'una terra ignota, non può trovar nella città quel soggiorno di delizie e di fortuna, che forse prima aveva sognato, nè quella pace oscura che nessuno al mondo invidia, tranne chi l'ha perduta. V' è una certa tristezza nella consueta tranquillità cittadina, una certa monotonia nella quotidiana vicenda delle sue costumanze, una noia negli spassi, un'inerzia nella vita, che talvolta ti par quasi di trovarti solo e abbandonato in mezzo alla frequenza della gente, e ti stanchi di vedere il malcontento in seno della ricchezza, e da una parte l'orgoglio, e il disprezzo dall'altra, e dappertutto l'abitudine e l'indifferenza per quanto ti s'agita o muta d'intorno. Al principio dell'inverno poi, quando il cielo non ha sole, e la terra non ha altro che nebbie e fumo, la è una scena a cui l'anima immalinconisce e si fa grave e noiosa. Le vie spesseggiano di popolo, ma son taciturne; è un andare e venire, un mischiarsi, un incontrarsi da ogni parte; ma ciascuno cammina per le faccende sue, o, se non ha faccende, s'accontenta di badare a quello che altri fa e dice. La scena poi è sempre la stessa: è il fanciullo che ora a ritroso, or saltelloni s'avvia alla scuola col fascetto de' libri sur una spalla, e il pigro servo o la fante brianzuola che gli tien dietro; è l'onesto impiegato che col suo lento passo usato s'incammina all'ufficio per la strada da vent'anni battuta, chiuso nel suo pastrano di panno turchino e col fido ombrello sotto l'ascella; il solito gruppo de' lettori d'affissi alle cantonate, il fattorino che torna zufolando alla bottega, la femminetta divota o la vecchia dama, seguita dal servitore in livrea e con l'astuccio degli occhiali e due grossi libri fra mano, le quali spesseggiando i passi se ne vanno alla messa della parrocchia; è l'ozioso che girando a zonzo arresta tutti gli amici e i conoscenti ne' quali s'imbatte, o dà gli occhi entro ogni bottega, o numera le finestre d'ogni nuova fabbrica; è il giovine signore, che dall'alto suo cocchio inglese balza su le soglie del palazzo di qualche eletta contessa, lasciando al valletto di dieci anni le briglie de' focosi puledri. Nondimeno nella città è un bel vivere per tutti. Ben so che spesso bisogna vedere e tacere, e mordersi la lingua o far orecchie di mercante; so che bisogna sorridere a tanti amici di cappello, accarezzare quelli che ti stanno di sopra, e quelli stessi che t'invidiano, e guardar confuso nella folla il traino cortigiano dell'ignoranza, e tremare talvolta perfino d'una segreta stretta di mano dell'uomo sincero; so che bisogna fremere e arrossire, se non per te, per altrui; e chinar la testa alle opinioni che, al pari di tanti piccoli tirannelli, si cozzano, e voglion regnare insieme... Ma finchè nella patria troverai un amico che ti dica una buona parola, finchè avrai nella tua casa alcuno che t'ami, alcuno da amare, oh! terrai sempre caro il nome della tua città, come quello di tua madre! La famiglia de' Leslie, venuta a Milano, aveva preso dimora in una bella e comoda casa, situata in una delle più popolose vie della città. La casa apparteneva a una vedova dama, la quale, alla morte del marito, s'era ritirato nel secondo piano, per nascondervi il suo lutto e i suoi quarant'anni, e per cedere a qualche ricco pigionale il quartiere del piano _nobile_, come qui si chiama. Le damigelle, non avendo altri pensieri che di gioia, s'addomesticarono in pochi dì con la vita cittadina e co' novi piaceri, e dimenticarono il lago e i suoi pacifici ozii. Ma così non era di Maria. Essa non aveva creduto da prima, che così presto si sarebbe trovata sola sola; e già s'accorgeva che le mancava qualche cosa, e non sapeva che pensare a sua madre, e pensare a suo fratello. Pure ne' primi giorni, la novità di tutto quello che la circondava, le cure divise con le compagne per mettere in ordine la nuova casa, e assettare ogni cosa nella piccola stanza che ciascuna d'esse aveva scelto per sè, fu una sollecitudine, un pensiero. Ma poi, quel trovarsi chiusa sempre tra le pareti d'una sala, quantunque tappezzata da lucenti arazzi e sfavillante d'oro e di cristalline lumiere, quel correre alle finestre, e non veder che tetti e case, a traverso l'aria greve e fosca, e cercare invano con l'occhio la linea serpeggiante delle montagne, e i noti paesetti su l'opposta riva, e l'incerta lontananza dell'acqua: tutto ciò la faceva ben sovente muta, incresciosa a sè stessa, e le aveva rapito quell'aria di freschezza e di sorriso, ond'era prima così bella e serena. Arnoldo e le sue sorelle impiegarono que' primi dì nel visitare a parte a parte le nostre chiese più antiche e famose, i pochi monumenti dell'arti, le molte fabbriche degne d'esser vedute. Il giovine era stato a Milano in altri tempi, e aveva conosciuta la città; egli si faceva dunque compagno delle fanciulle in quegli utili diporti della mattina, e dava loro la spiegazione di tutto, meglio che non l'avrebbe fatto un facondo cicerone di piazza. Ma elleno non potevano mai persuader Maria ad accompagnarle. Maria temeva di farsi vedere con esse in mezzo a tanta gente; e s'ella da prima non aveva pensato mai alla gran distanza che separava l'oscura fanciulla dalle nobili damigelle, quest'idea dolorosa cominciò allora a tormentarla con un assiduo rimprovero. Quand'era sola poi, rifletteva a quello strano mutamento della sua povera sorte, domandava a sè stessa perchè mai avesse acconsentito a seguire una famiglia che non era la sua, e come la si potesse abbandonar così, anima e cuore, a quella vita tutta nuova per lei, e a che fine la sarebbe venuta. Tutto le pareva un sogno; ma il turbamento che le s'era messo nel cuore, era vero. Allora sentiva il desiderio d'una consolazione lontana, ignota, che nessuna cosa al mondo le avrebbe potuto dare, nemmeno il ritorno alla sua casa, alle braccia di sua madre. Per la prima volta, ella pensava a sè stessa, a sè sola; all'avvenire, ai suoi timori, alle sue speranze. Oh! perchè tutte quelle angustie, perchè quelle inquietudini e quel rammarico si quietavano nel suo cuore, quando Elisa o Vittorina correva a scuoterla da' suoi mesti pensieri con l'ingenuo bacio d'una sorella, o quando sentiva soltanto pronunziar fra loro il nome d'Arnoldo, o sostava al suono della sua voce, a quello de' suoi passi? Lord Leslie intanto, giunto appena in città, ripigliò la sua vita altera e dispettosa, com'è costume de' vecchi, che senton oggi il tedio di quel che jeri bramarono. Lo strepito della città gli ricordava il tumulto della sua vita passata, i lunghi anni travagliati dalle cure della grandezza e dall'inimicizia della sorte. Egli dunque tornò a starsene chiuso e solitario, a non voler vedere anima viva; e alternava le lunghe ore della sua giornata fra il tè, le gazzette inglesi e la corrispondenza epistolare de' suoi agenti di Londra e de' gentiluomini della sua parte. Arnoldo amava passar la più gran parte del giorno in compagnia delle sorelle; chè la dimestichezza d'una vita modesta e uguale, le consuetudini quotidiane, quella sì cara onestà del costume di Maria, e quella sua semplice bellezza, tutto s'univa per fargli più prezioso un amor puro e segreto. Nè Elisa e Vittorina ne' loro cuori ingenui n'avevano ancora il più lontano sospetto; e lord Leslie stesso, anzi che a codesto affetto d'Arnoldo, avrebbe creduto alla prossima rovina della superba aristocrazia del suo paese. Era in quel torno capitato a Milano tra i molti inglesi che passar vi sogliono nell'inverno, un baronetto, antico amico de' Leslie, il quale trattenutosi pochi dì, venne a portar loro le fresche notizie della patria; e fu il solo che il lord acconsentisse di vedere. Era un uomo di mezz'età, con un falso e ricciutello toppè d'un biondo rossigno; volto di tinta accesa, ma sincero; cravatta e corpettino bianchi; abito di color verde inglese, soppannato di velluto, a larghe rivolte e larghi quarti; un occhialetto d'oro pendente al collo, e manichini increspati su' guanti gialli; insomma, lo scapolo elegante, il _dandy_ di quarant'anni. Costui sedeva, una sera, in mezzo al piccolo circolo delle due damigelle, d'Arnoldo e della nostra fanciulla. Fosse l'aria vivida d'Italia che l'animasse più del solito, fosse la leggiadria delle giovinette, fatto è che quella sera egli faceva le spese della conversazione; sfoggiava quegli scherzosi nonnulla, per cui nel bel mondo anche il dappoco diventa fior di senno; ciarlava, rideva per tutti, chè non pareva fosse nato al di là della Manica; e, com'era stato gran viaggiatore, ripezzava il suo parlare or della lingua nativa, or della nostra e or della francese. Ad Elisa, in men di mezz'ora, egli aveva già ricordato a una a una le amiche damigelle che l'aspettavano nella contea, e le s'era fatto vicino per bisbigliarle all'orecchio che un giovine poeta italiano errava sempre intorno al deserto castello de' Leslie; e poi aveva presa la piccioletta mano di Vittorina, e le aveva descritte a parte a parte le splendide feste, i passeggi, le danze, le corse de' cavalli, le compagne fatte spose. — Oh perchè non son giovine anch'io come voi! seguitava il brioso baronetto. Per voi è l'aurora, per me il mezzodì, per voi splende il sole della bella Italia, per me quello del nord; pure non sono malcontento di me stesso... I' ho fatto più lunghi viaggi, che non Colombo, Marco Polo, Vasco de Gama e il capitano Cook, tutt'insieme! Ho veduto il mondo; ma lo darei tutto, se fosse mio, per un anno solo de' vostri... L'amore è la più bella parola di tutte le lingue; domandatelo, miss Elisa, al vostro poeta, e voi, miss Vittorina, al vostro cuore!... — Voi siete molto gaio, sir Edwin, l'interruppe Arnoldo; e la vostra vita, se alcuno la scrivesse mai, dovrebb'essere un bel romanzo. — O amico mio, pensate! press'a poco come quello di Gil Blas de Santillana. Anch'io sono sempre stato di buon umore, _a jolly fellow_... E poi? non credete forse che la vita di qualunque uomo, fra i venti e i cinquant'anni almeno, sia un romanzo?... Quella d'una giovinetta poi, quella d'una bella donna!... _Oh delicious! delicious!_ — Aimè! disse ridendo Vittorina, io non ho tocca ancora l'età del romanzo. — Sì, sì! per un volto e per un cuore come il vostro, il romanzo comincia a quindici anni. Ma per me... la mia stella tramonta! ah! ah! l'ipoteca dell'età pesa anche su lo spirito! eh! eh! — Via, via, sir Edwin, soggiunse Elisa, consolatevi, chè lo spirito è un genio bizzarro che non ha paura del tempo!... Ma lasciam le follie; e voi continuate a darci le novelle de' nostri amici di Londra. Non ci avete ancora detto nulla d'Elena nostra cugina? l'avete veduta?... — Miss Davison? Essa è l'ultimo angelo _of our merry England_, che mi sorrise prima della mia partenza. Essa è sempre più bella, una maga, una divinità! I nostri _dandys_ le fanno corona sempre e da per tutto; è il sospiro di tutti, l'idolo che tutti adorano. Ma nessuno trionferà, perchè noi la serbiamo per l'amico nostro Arnoldo. Non va bene?... — V'assicuro, rispose Arnoldo, ch'io non fo di questi aurei sogni. Io vorrei piuttosto amare, che adorare... — Che c'è di novo? voi siete così mesto e circospetto, ch'io non vi riconosco più. Ma, a proposito, come riusciste a far pace con vostro padre, dopo quel terribile scacco?... A lui, non ebbi cuor di parlarne. Oh se sapeste! il nobile duca era uscito de' gangheri... le vostre superbe zie, la marchesa... la viscontessa, facevano _un commèrage_; tutta Londra lo seppe; se ne parlò a Bath, Brighton, Chelthenham... E quella povera miss? così giovine, così ricca e così bella? Ma essa si consolerà! ah! ah!.. Eppure, lasciate che io le dica, sir Arnoldo, ell'era fatta per voi!... Arnoldo non potè più sopportare l'insipido cicaleccio del baronetto; e poi, Maria era presente. Costui aveva toccato una corda, che in quel punto risvegliava un ricordo doloroso nel suo cuore; quindi troncò a mezzo il discorso, alzandosi bruscamente, e preso il cappello, uscì. Sir Edwin non s'avvide, o finse di non s'avvedere di quel mal garbo; si rivolse ancora alle fanciulle, e continuò le sue vôte facezie. Maria, nascosta quasi in un canto della sala, era stata silenziosa e indifferente per tutta la sera; se non che, alle ultime parole del baronetto, rivolse un momento gli occhi ad Arnoldo, e sentì ferirsi nel cuore, come d'una punta mortale. Alcuni giorni appresso, ell'era sola nella sua camera; le due damigelle, col padre e con Arnoldo, se n'erano ite a un ritrovo, in casa d'un gran personaggio. Mentre frugava nel suo armadietto, le era venuta sott'occhio l'ultima lettera del vicecurato, quella con cui le aveva concesso di partir di casa sua. Essa l'aprì, la meditò lungamente, china la fronte, e fissi gli occhi, che lasciavano cadere involontarie lagrime su le smorte sue guance: e quelle parole, che la prima volta l'avevano appena commossa, allora la fecero tremare. Alla fine, abbandonò la mano che teneva il foglio, e appoggiò l'altra dolorosamente sul cuore, come cercando di soffocarne il palpitar crescente. Allora proruppe in un pianger dirotto. Essa aveva letto nel proprio cuore. Ciò che fino a quel dì era stato un segreto, un mistero per lei, le apparve lucido e schietto al pensiero, divenne una certezza, una verità, che la riempì di confusione e quasi di spavento. — Oh Signore! ella diceva in mezzo alle lagrime, osando appena esprimere con un lamento l'angoscia del cuore. È possibile che sia così?... Ch'io mi lasci andare a pensar sempre a lui, anche senza volerlo, a lui, più che a mio fratello, più che a mia madre?... Oh! cosa son io a confronto di lui?... Povera mamma! perchè l'ho abbandonata?... Essa crede ancora ch'io sia innocente come un angelo, essa che mi diceva tante volte: Io t'ho messo il nome di Angiola, perchè tu sii sempre il mio angelo; te ne ricorda!... Ed egli?.. Oh se avesse a pensare ch'io sia venuta qui, qui in casa sua, con le sue sorelle, perchè gli voglia bene! Ah povero me! che abisso!... Come è avvenuta una cosa sì terribile?... Me l'aveva pur detto mio fratello, che in questa famiglia non credono come noi, e che per ciò appunto io dovessi esser tanto più buona e pia... E ora? sento che il cuore mi dice ch'io son rea!... No, no, non è possibile! È un sogno ch'io fo, è la mia fantasia ammalata; io tremo, e parmi quasi d'avere i brividi della febbre. E intanto ch'essa con voce fioca diceva queste parole, s'era abbandonata sur una seggiola, accanto del suo letto, e lasciava cader sul seno la testa. Ma pensava ancora. — Io fuggirò di qui, pensava; domani, subito, io dovrei lasciar questa casa! Ma come mai lo potrò fare?... Oh Signore! quest'è forse un castigo... Pure, che colpa è stata la mia per meritarlo? Ah toglietemi voi da questa angustia!... Io sono infelice sì! ma è poi vero, ch'io faccia tanto male ad amarlo? Perchè veniva egli così spesso, lassù, in casa nostra? perchè anche mio fratello l'amava? perchè mi parve così degno d'esser amato da tutti, così onesto e cortese?... Egli voleva tanto bene a mia madre! Il suo cuore è sì buono! E come si compiaceva di sedere all'ombra della vite, sui nostri scanni di paglia, di parlar con noi, di raccontarci tante cose! Ma io non gli ho detto mai nemmeno una parola, che potesse far credere a lui... No, no... Se io non ardisco nè anche guardarlo, quand'è presso di me! Oh se mai egli venisse ad averne il più piccolo sospetto, credo che ne morirei di vergogna!... Qui tornava a sollevarsi, e appoggiando il viso su le palme, e i gomiti alle ginocchia, gemeva in silenzio. I suoi bei capegli, nell'agitarsi ch'ella faceva sotto il peso di quel dolore, s'erano snodati, e le si spargevano giù sulle spalle e sul grembo, a somiglianza d'un nero velo. Ma poi continuava a martoriarsi ne' suoi terrori: — Gran Dio! cosa sarà di me?... Quand'anche io cercassi di tornare a casa mia, la mamma non vorrà più vedermi; e io pur sento che adesso non avrei coraggio d'andare a gettarmi nel suo seno. E le due damigelle, esse che m'han voluto un sì gran bene, che per tanto tempo mi tennero quasi come una sorella?... Ah no! Se io non le avessi conosciute, non sarei a quest'ora ridotta a piangere così!... Ed egli? E suo padre, quell'uomo così severo, che non dice mai una buona parola, nemmeno a' suoi figliuoli?... Io credo che se avesse a saperlo m'ucciderebbe forse con un solo di que' suoi sguardi!... Oh misera ch'io sono! io vedo che quest'amore sarà la mia morte!... Così ella, che fin allora aveva indirizzata tutta la sua mente a quella candida affezione e che altro più non sapeva desiderar nè cercare, adesso ne rifuggiva con terrore; e per la prima volta che s'accorgeva di amare, gustava tutto l'assenzio che si mesce all'amore. L'idea della sua pace perduta, il dubbio e la vergogna, la memoria de' suoi, il dolore della sua povera sorte, i pensieri di Dio e della sua fede innocente, e, insieme a questi affanni, anche la sola nascosta speranza che nutriva, di poter pure essere amata, tutto le pesava sul cuore già debole e stanco; e una folla di nuove e tremende immagini le accerchiava la mente smarrita. E già si sentiva venir meno a poco a poco; i suoi pensieri si mischiavano, si confondevano, più rapidi, agitati, cocenti; poi le pareva si facessero cupi, gravi, un peso insopportabile; ella perdette la conoscenza, e abbandonò la testa su gli scomposti cuscini del letto. La sua fronte appoggiavasi grave e lenta sopra il braccio manco; e la sua faccia appariva d'una bianchezza muta, al par delle lenzuola su cui riposava. Nella dolorosa inquietezza di quell'oppressura, la semplice e linda vesticciuola che le stringeva la persona, s'era slacciata allo sparato del collaretto; e sul candore del suo collo e d'una spalla seminuda spiccava la nera striscia d'un nastrino, dal quale pendeva una piccola crocetta d'argento, un dono fattole dalla sua nonna, fin da quando essa non aveva che sette anni. Arnoldo aveva abbandonata prima della mezzanotte la splendida festa; e per le vie mute, solitarie della città, ritornava a casa, in compagnia de' suoi pensieri torbidi e malcontenti. L'allegria del ballo, la pompa della bellezza, e lo sfoggio dell'onore e dei tesori più non potevano scuotere da quell'anima giovine e malata l'inerzia che la spossava, nè domarne la noia che innanzi tempo vi s'era messa, la noia, questa dura fatica d'una vita che non è feconda. Allorchè Arnoldo, rientrato in casa, passò lungo il corritoio, su cui s'apriva la camera di Maria, ne vide l'uscio socchiuso; il poco lume che n'usciva, era quel bagliore morente che tremola nell'ombra, come un augurio sinistro. Egli passò, ma il suono d'un gemito profondo, affannoso, lo fece sostare un istante, l'agghiacciò d'improvviso. Tese l'orecchio, stette ondeggiando fra due pensieri, un brivido ignoto gli sopraprese; poi aperse cautamente l'uscio, ed entrò nella cameretta. Maria posava come prima sulla seggiola, abbandonato il capo sul letto, e il viso coperto d'un pallore mortale; se non che aveva le braccia raccolte sul seno, e le mani congiunte insieme, in atto di preghiera. Arnoldo, appena si fece innanzi, sentì darsi una stretta al cuore, così lo sbigottì l'aspetto della fanciulla immota e giacente come persona morta. S'avvicinò tremando; ma il leggero sospirare a cui si schiudevano appena le labbra di Maria, l'assicurò ch'essa era immersa in languido sonno. Egli prese la lucerna, e velandone il raggio con una mano, sì che tutto il chiarore si raccolse sull'angelico viso della sopita, stette attento e senza moto a contemplarla lungamente. Arnoldo non aveva veduta mai creatura più bella. Una vampa improvvisa gli arse nell'intelletto, gli corse per le vene; un funesto riso gli stava su le labbra, e una luce fosca gli splendeva negli occhi; il suo cuore batteva violento... Ma non era un palpito di gioia, era un fremito d'ebbrezza. E in quell'istante, un pensiero d'inferno gli attraversò, come un fulmine, la mente. — No! no! egli disse: io credo che se osassi toccarle un dito, la maledizione del cielo cadrebbe sul mio capo! Ah! perchè mai è così grande la magia della bellezza nel dolore?... No, io non devo restar qui! O santa memoria di mia madre, aiutami!... Bisogna ch'io fugga!... ma come potrei io lasciarla così? Ella non riposa, ella soffre e addolora. O Maria, tu hai mutato il mio cuore, tu mi facesti credere alla virtù, risorgere nella speranza, amar la vita! Il mondo, gli amici si ridono di me... Che importa? Egli è perchè non hanno altre armi contro il cuore che l'ironia e il disprezzo! Ma tu, Maria, tu mi benedirai!... Ella mi ama, sì!... e forse avrebbe la forza di morire, prima di confessarlo una volta sola. Queste parole sommesse, agitate del giovine, e l'ardente suo sospiro risvegliarono d'improvviso la fanciulla. Ella aperse gli occhi, e vide Arnoldo; e vederlo, e dar un grido, e balzare in piedi precipitosa per fuggir della camera, fu tutt'una cosa. Ma il giovine le si pose dinanzi, la trattenne, e poi ritraendosi d'un passo, — Ah! restate, Maria, disse, restate e perdonatemi! Io passava di qui, intesi un lamento, entrai, pensando che aveste bisogno di soccorso. Io v'amo troppo, e non dovete aver timore di me! — Oh per amor del cielo, tacete! Io non so nulla, lasciatemi, lasciatemi partire!... — No, ascoltate, Maria!... Voi m'avete ridonata la vita, per voi ho ancora gustato giorni d'una felicità, ch'io credeva impossibile! Voi, senza saperlo, avete fatto puro il mio cuore: e io ritrovai tanti anni perduti!... — Oh dio! dio! lasciatemi andare!... non vedete quanto male mi fanno le vostre parole?... E la fanciulla s'inginocchiava innanzi a lui, giungendo le mani, supplichevole e affannata. — Maria! rispos'egli, chinandosi verso di lei, in atto di sollevarla; ascoltami, Maria, te ne scongiuro, o dimmi almeno che mi perdoni! — Oh! io non ho nulla con voi! Cosa m'avete fatto?... Io voglio ritornare al mio paese, io voglio mia madre! Ah! non l'avessi abbandonata, non sarei adesso una povera infelice! — Sì? dunque è vero, dunque è vero che m'ami?... Oh! io lo so, il tuo segreto è mio! Maria! Maria, amami! io non cerco che il tuo amore innocente!... Maria non fece motto, non rispose che con un gemito. S'alzò, fece alcuni passi, tentò ancora di fuggire; ma l'impeto di tanti e contrarii affetti, che tutti in una volta avevano oppresso il suo cuore, le tolse ogni lena: il piede non la sostenne più, e sarebbe caduta sul terreno, se non era Arnoldo a reggerla con le sue braccia. Egli la contemplò ancora; e il vedere ch'essa andava mancando e respirava a pena, lo riscosse, gli mise nell'anima ignoto terrore... Non sapeva che fare, e chiamò alcuno che venisse a soccorrere la svenuta. Ma nessuno comparve. Allora chinò il suo viso su quello della fanciulla, e le baciò la bocca, con un bacio timido, furtivo, quasi sperando di poter con esso richiamarla alla vita.... Ma il tocco di quelle labbra fredde e semiaperte gli destò in cuore il ribrezzo, lo sgomento di chi commette un delitto. Allora chiamò di nuovo; e, sendo accorsa una fantesca, confidò la fanciulla alle sue cure, e usci in silenzio. Dopo quel giorno, Maria fu sempre pallida e taciturna. Ella aveva perduto il suo sorriso e il suo bel colore, come l'ultima rosa dell'autunno. II. ORE DI TRISTEZZA. La fanciullesca amicizia ch'era nata tra le due figlie del signore inglese e Maria non doveva certamente durare più che un passatempo di campagna, un giovenile capriccio. Tra l'una e l'altre v'era troppa distanza, perchè potessero vivere insieme nella concordia de' pensieri e del costume, rallegrarsi delle stesse speranze, senza invidia nè gelosia, e vagheggiar lo stesso avvenire: la buona, la semplice amicizia ha bisogno di cuori che abbiano sempre la stessa fede, le stesse speranze, lo stesso amore. Era quello in vece un bel sogno, un sogno dorato ma passeggero. Un anno ancora, e forse le figliuole del lord, cercate da ricchi e illustri sposi, avrebbero dimenticata la loro amica, la compagna di pochi dì, alla quale non sarebbe rimasto altro che tornar più povera di prima, e infelice, dove prima non era, alla deserta casa del suo villaggio. Eppure Vittorina ed Elisa non pensavano che doveva esser così; perchè sentivano ancora come sia dolce l'amare con quell'incerto desiderio e quella serenità modesta, che sono il più bel dono della giovinezza, fino a tanto che il soffio gelido del mondo, e le piccole superbie della società non hanno appannato i sinceri affetti del cuore. E Maria anch'essa, la quale appena sapeva che cosa fosse la vita, s'abbandonava alla malía di quel sentimento che subito c'incatena, quando vediamo d'essere accarezzati, amati. Ma il soggiorno della città e le abitudini del mondo signorile dovevano presto rivelarle il vero, e farle sentire il molto amaro di che era mista la poca gioia gustata per breve stagione. Non andò gran tempo che gl'inviti a splendidi festini, a nobili brigate, e le visite fatte e ricevute, come impone la schizzinosa cerimonia, e i circoli dei forestieri, divezzarono lord Leslie dalla solitudine a cui pareva si fosse condannato. Le buone novelle politiche venute dallo straniero l'avevano riconciliato con le sue speranze d'una volta; egli frequentava le più illustri case, conduceva sempre con sè le figliuole, e voleva che Arnoldo le accompagnasse. Nel cuore dell'inverno, le armonie de' nostri teatri e l'allegria delle veglie e de' balli, chiamarono ad altri pensieri, ad altre premure le due giovinette; le quali prima avevano menata una vita troppo modesta e casalinga per non piacersi, come suole avvenire, di que' variati sollazzi che per loro avevano ancora la seducente lusinga della novità. Intanto Maria in tutto quel tempo, e furono due lunghi mesi, visse quasi sempre abbandonata e solitaria, in mezzo al tumulto della città, fra il continovo sentir ricordare le feste del dì passato e il vedere apparecchiarsi a' piaceri della domane, feste e piaceri che non erano per lei! E oh! quante volte allora desiderava di trovarsi a casa sua, al fianco di sua madre, accanto del suo arcolaio; e sentiva in sè stessa un accoramento di vedersi così negletta; e divorava in segreto le lagrime dell'amore e dell'abbandono. Quand'essa rimaneva in casa, in quelle lunghe sere invernali, che sembrano eterne a chi nella solitudine ha de' dolori a cui meditare; quando altro non le giungeva all'orecchio fuor di quel lontano mormorare, ch'è l'indizio della vita notturna d'una città, e pensava che nessuno poneva mente allo sfogo del suo dolore; allora, dopo d'aver tentato inutilmente d'occuparsi nell'una o nell'altra cosa, per disviar gli assidui pensieri che le stavano in cuore, rimembrava la pace che non avrebbe trovata mai più, e cercava di persuadersi della stoltezza di quell'amore che l'aveva fatta smarrire, e della vita inutile e desolata, che ormai le restava a compiere. Nelle prove del dolore quell'anima fiduciosa e pura aveva trovato la forza di conoscer la vita e la funesta sua realtà; perchè pare pur troppo, che la conquista d'una ferma ragione valga il prezzo dell'innocenza e del disinganno: così bisogna che l'albero perda i suoi fiori, perchè si fecondi il frutto. Maria, che non aveva veduto il mondo, che non aveva trovato sul suo cammino se non persone amiche e liete di poterla amare, Maria, in quell'ore di solitaria tristezza, era divenuta una creatura nova. Allora la vita, che un tempo si dipingeva dinanzi e lei così serena e bella, spogliavasi di tutta la sua magìa; anch'essa la timida fanciulla sentiva nel cuore una pena ignota, muta, indistinta, e poi la puntura segreta del primo rimorso; anch'essa aveva una parola, un'acerba parola per domandare al Signore con che ragione l'avesse resa infelice! E non le parevano più cosa impossibile la malizia degli uomini e la fortuna de' cattivi; per la prima volta, l'amaro sorriso dell'odio aveva sfiorato la sua bocca: ella pure sentiva d'avere una forza intima, potente, la forza di disprezzare chi le aveva fatto del male. In que' momenti angosciosi, si metteva a scrivere al fratello di ben lunghe lettere, nelle quali effondeva tutta l'amarezza del cuor suo e il compianto del suo misero destino. Ed eran fogli sparsi più di lagrime che di parole; era la pietosa confessione d'un'anima che non sa reggere al primo colpo del dolore. E poi lacerava, bruciava ciò che aveva scritto; si sforzava d'esser tranquilla, e, raccolti i pensieri, toglieva fuori, e ponevasi a leggere con voce commossa il suo libro delle preghiere. Così passavano per lei i giorni e le settimane di quel tristissimo inverno. Ella vide che sarebbe stato una follia il domandare alle amiche perchè non la conducessero con loro, dopo ch'ella stessa s'era tante volte mostrata ritrosa a accompagnarle; e le fanciulle non ebber più cuore di pregarnela, quando si furono accorte che il padre repugnava all'intima confidenza da loro messa in Maria. La giovinetta dunque soffocava il suo affanno; e tremando sempre che una parola, un gesto, un'occhiata potesse tradire quel segreto, il primo ch'ella avesse avuto mai, e che avrebbe voluto nascondere anche a sè medesima, cercava d'ingannar chiunque appena le volgesse uno sguardo; cercava di parer lieta, quando il suo cuore non era pieno che d'una sola malinconica idea. Egli era pur doloroso il veder sempre un mesto pallore sulla sua fronte, e un sorriso di gioia sulle sue labbra! Ma in quel tempo, il segreto turbamento d'altri e più gravi pensieri agitava la mente di Arnoldo. La quiete della meditazione, che fa nascere la necessità di conoscere e di sapere; la libertà dell'anima, che conduce allo studio di quanto v'ha di più riposto nella vita, e che in mezzo al tumulto degli uomini è così facilmente dimenticato e perduto; la volontà non più tentata dall'esterne apparenze e scevra d'ira o di timore: tutto ciò aveva fatto maturo l'intelletto del giovine a uno studio nuovo e più severo della vita. Troppo spesso la sana mente e la fredda ragione sono umiliate da una specie di vago abbattimento, da un amaro disgusto delle cose, perchè possano essere capaci di grandi e virtuose risoluzioni. La coscienza del dovere, senza l'alito segreto dell'affetto, non è virtù; perchè la virtù viva nel cuore, non basta la persuasione indotta dalia muta esperienza del fatto; è forza che al fatto si trovi una spiegazione, un principio sovrano: il misterioso legame dell'anima con la vita. Arnoldo aveva conosciuto nella nostra città uno di quegli uomini di semplici costumi e d'animo incorrotto, i quali in mezzo del mondo sieguono con passo sicuro una via negletta e taciturna, la via dell'onesta saggezza. Gli applausi e la gloria non sono per loro, anime grandi e oscure; ma sono per loro la tranquillità dell'uomo modesto e la forza del giusto; essi vengono sulla terra ignoti, dimenticati, e se ne vanno del pari; ma il frutto delle parole e dell'esempio loro sopravvive, e non può andar perduto. Quest'uomo del quale io non dirò il nome, perchè i buoni non cercano lode nè invidia nel mondo, paghi dell'amore dei pochi, nel piccolo cerchio di coloro che si ricordano del bene avuto; quest'uomo, con la dolcezza dei consigli e con la forza mite d'un senno angelico e consapevole del cuore umano, indirizzò e sostenne i pensieri di Arnoldo a quel fine a cui l'anima sua da tanto tempo anelava. Egli lo preparava a' gravi studi, lo nutriva di ferventi meditazioni e di calda volontà, accendeva il suo coraggio, rinfrancava la sua vigilanza, gli prometteva la vittoria dopo la battaglia, e dopo la fatica il sospirato riposo. Alle severe lezioni di lui Arnoldo consacrava allora la più gran parte del suo tempo; ond'avveniva ch'egli si rimanesse, talvolta anche per gli intieri giorni, lontano dalla sua casa e dall'amata giovinetta. E poi, quando ritornava, quasi sempre appariva mesto, chiuso nel suo pensiero; non parlava, e passava lunghe ore intento a nuove e severe letture, con l'animo combattuto da strane ed inquiete fantasie. Non di meno, con gran cautela, egli tenne sempre nascosta a tutti la ragione di quelle sue assenze quotidiane, di quell'assidua e muta preoccupazione. Maria soltanto se n'era accorta, ma taceva; e per il suo cuore era un tormento di più. Pure in mezzo a quest'ignota cura d'Arnoldo, vi era de' giorni ne' quali l'amore, che pareva quasi divenuto in lui una quieta abitudine, si faceva più forte del suo proposito, più grande della sua virtù. Allora egli s'abbandonava a' suoi sogni antichi, a quei fallaci disegni che fa sempre l'incauta giovinezza, persuasa che la scusa dell'amore renda tutto facile e giusto. Allora la leggiadra immagine di Maria non rallegrava più come prima tutti i suoi pensieri; il suo cuore era ardente, oppresso; egli la cercava sovente, e poi quando le era vicino sentiva conturbarsi; voleva parlarle, spiegarle l'amor suo, ma non sapeva con che parole. E se mai avveniva che i timidi occhi della fanciulla s'incontrassero per un momento ne' suoi, essa era colta da un terrore nascosto, non mai provato. Una mattina — era in febbraio — le due sorelle e Maria sedevano silenziose presso un tavolino di lavoro, non lungi dalla finestra, da cui penetrava una luce fosca, attraverso i cristalli che la gelata nebbia notturna aveva indorato dei più bizzarri rabeschi. Arnoldo, appoggiato alla spalla del camino, volgeva senza attenzione le pagine d'un volume che teneva fra le mani. Poco di poi, essendo venuta una mercantessa di mode, le due sorelle uscirono; e Arnoldo rimase solo con la fanciulla. Tacevano entrambi, e Maria non osava levare gli occhi dal lavoro, al quale pareva intenta. Arnoldo aveva posto giù il libro, e la rimirava, tutt'occupato nella sola idea dell'amore. Alla fine se le avvicinò, e con voce rapida e commossa, — Maria! le disse, è tanto tempo ch'io devo parlarvi, e voi... Maria taceva; ma il suo cuore era tremante, e batteva rapido e forte. — Maria, ascoltami, te ne scongiuro! — Pensi signore! io non posso, non devo... — No! Maria, bisogna che tu m'ascolti. Lo so, lo vedo, tu mi fuggi sempre, temi pur anche un mio sguardo, eviti di rispondermi una parola. Ma la tua timidezza, la tua angustia ti fanno più cara, più celeste al mio cuore!... Oh non mi respingere, Maria! Il mio amore ha bisogno del tuo! — Deh! non parli così! rispose la fanciulla. Io non ho nulla a questo mondo, e lei vorrà farmi più infelice di quel ch'io sono?... — Io non ho altra speranza che l'amor tuo! Dal primo giorno che ti vidi ti ho amata, e la tua felicità è l'unico mio voto... Oh se potessi spiegarti quanta dolcezza tu spargesti nella mia vita!... Ma no, io ti chiedo solo una parola!... Dimmi che mi ami, e io son pronto a far qualunque cosa per te! Mio padre potrà maledirmi, ma togliermi al tuo cuore giammai!... Noi fuggiremo di qui, andremo sotto un altro cielo bello e beato, come il cielo del tuo lago! E tua madre, la buona tua madre ci benedirà... Essa verrà e starà sempre con noi. Ah! dimmi una parola, e domani, quest'oggi ancora... — Ah no, no! per carità, non si prenda così amaro giuoco di me! Io non so che cosa lei voglia dire!... — O Maria, tu sei la creatura più santa ch'io trovai sulla terra! Perchè non vuoi credere al tuo cuore, perchè non a me stesso? Io non ho mentito mai! non temere... Tu non mi rispondi? non mi guardi nemmeno? Maria si coperse il viso con tutt'e due le mani. In quel momento rientrarono le due sorelle, tutte festevoli, recando ciascuna un bell'abito di velo trapunto; ch'era destinato per il ballo del domani. Entrambe corsero verso di Maria, e le mostrarono quei graziosi vestili: e mentr'ella li ammirava, nascondendo il suo turbamento sotto un menzognero sorriso, Arnoldo fissò sopra di lei uno sguardo ardente, uno sguardo che voleva dire tutta la sua speranza d'amore; e quando s'avvide che la fanciulla l'aveva compreso, s'allontanò. Quel giorno, Maria non fu più veduta, nè all'ora consueta del pranzo, nè a quella del tè. Ella s'era chiusa nella sua camera; e, dopo lunghi pensieri e lungo affannarsi, aveva scritto una lettera, come se in quel foglio fosse l'ultimo consiglio della sua pover'anima perduta; lo suggellò, e vi mise sopra il nome di suo fratello. Poi, di nascosto, sola e frettolosa, era uscita. Ella stessa, Maria, volle da nessuno veduta portar quella lettera, perchè temeva che qualunque altro, a cui l'affidasse, avrebbe indovinato ciò che v'era scritto dentro. Attraversò alla ventura due o tre vie, dubitando al volgere d'ogni contrada, e tutta paurosa, benchè fosse coperta nel suo velo e quasi nascosta in esso. Più d'una volta pensò d'arrestare qualche passeggiero, perchè le indicasse dov'era la posta delle lettere; ma sempre si pentiva e seguitava innanzi. Alla fine, avvenutasi in un vecchio, che aveva veduto levarsi il cappello nel passare sotto un'immagine della Madonna, gli s'accostò, e confusa gli fece la sua domanda; il galantuomo la guardò, fece un certo atto di maraviglia, poi sorrise e le insegnò la via. Ed ella vi corse quasi volando, e lasciata cadere la lettera nella cassetta della posta, tornò a casa, con più rapido passo e con l'anima più tremante di prima. III. UN COLLOQUIO. Passò quel giorno, e il dì appresso, e l'altro ancora. Maria non voleva abbandonare la sua solitaria cameretta; e una muta malinconia s'era messa nel suo cuore, in luogo dell'amore e del pianto. Le due sorelle la credevano ammalata. Vittorina la guardava mestamente, le diceva che non era più quella, nè sapeva che pensare; ma Elisa, più tenera e dotata di più squisito senso, non fu tardata sospettare la cagione di quel segreto tormento, quantunque non avesse l'animo di parlarne a Maria; la quale intanto languiva, e si teneva per sè tutto il suo dolore. In quelle due o tre notti, che sogni, che sogni terribili e confusi avevan turbato i pochi, interrotti riposi della povera innocente! Era stato il delirio, il primo spavento d'un'anima vergine e angosciosa. Sognava le cime delle sue montagne, i temporali del lago, il fulmine che incendiava la casa di sua madre; sognava d'essere trasportata attraverso a un turbine di polvere, in una carrozza trascinata da cavalli coperti di schiuma, e si vedeva seder vicino un giovine, vestito di nero, pallido e muto, che la guardava con occhi immoti, ardenti... Ella voleva dar un grido, ma la voce le moriva soffocata nel seno; sentiva un gran peso sul cuore, un fuoco in ogni vena, e il cocchio fuggiva, volava, senza calpestìo di cavalli, senza strepito di ruote, e per l'aria morta non si sentiva un soffio di vento; ai lati, di fronte passavano, sparivano come per magìa, selve, case, rupi, rovine; e quel giovine era sempre al suo fianco, immobile, e sorrideva con un sorriso che la faceva abbrividire... Voleva essa gettarsi dalla carrozza, ma l'impeto del balzo che arrischiava, non finiva mai, e le toglieva il respiro, ed era come un'agonia eterna. — Poi la scena mutavasi... Le pareva di trovarsi nella camera in cui era nata, nella camera del suo povero padre. Avvicinavasi allo scomposto letto, sul quale giaceva addormentata la madre sua; s'inginocchiava a lato del capezzale, pregando in silenzio, aspettando ch'ella si risvegliasse; poi sollevava la testa, tendeva l'orecchio, ma non udiva nè respiro nè anelito; quel sonno era dunque sì grave?... Levavasi allora, stringeva tra le sue mani la destra della dormente: quella destra era fredda fredda! Si chinava per baciar la fronte materna... Ahi! sua madre era morta! — Ma quell'affanno non bastava; altro era il luogo del sogno, altri i terrori. Era la chiesa del suo paesello, era il confessionale del vecchio paroco; ella si metteva in ginocchioni presso la piccola grata, tentava di parlare e non poteva... Alla fine, mormorò una parola sola, e la voce del confessore proferì sul suo capo la maledizione del Signore e la dannazione eterna... Gran Dio! era quella la voce del fratel suo! Allora la poveretta cadde all'indietro tramortita sul pavimento della chiesa.... E risvegliavasi coperta d'un freddo sudore, senza conoscenza del dove si trovasse, senza saper quasi di tornare alla vita; tremava di raccapriccio, sentiva uno spasimo, una contrattura in ogni fibra, le si oscuravano gli occhi, la sua mente si smarriva; e le pareva che il dolore e lo spavento fossero per finire con la sua vita. Poi ricadde assonnata, e nulla più seppe. Alla tarda mattina, nel ridestarsi, trovossi fra le braccia della buona Elisa. E l'Elisa solamente aveva qualche parola di conforto per la sua povera amica. Oh! come volontieri Maria avrebbe versato nel seno di lei il suo caro e penoso segreto. Ma troppo essa temeva che nessuno avrebbe voluto credere mai alla sua pura intenzione. Finalmente, passato il terrore di quella notte, e riavutasi un poco, lasciò il letto, dicendo di sentirsi bene, ma di non essere ancora in istato d'abbandonar la sua camera. Si mise a lavorare, ma quasi le sue dita non potevano adoperar l'ago, nè tenere le cesoìne, e la sua mano tremante cadeva spesso sul grembo. Traevasi lenta presso alla finestra, e stava talvolta per lunghe ore a guardare il cielo cenerognolo e i tetti coperti di neve delle case dirimpetto, e le persone che passavano per la strada e che apparivano al suo sguardo appannato come ombre indifferenti. Pure, dopo quella muta quiete, v'era dei momenti in cui l'anima sua s'apriva ancora alla gioia d'una candida speranza, ai pensieri del suo affetto virtuoso. Quand'essa tornava col cuore a' quei dì felici del passato autunno, ne' quali ancora non sapeva d'amare; quando dimenticava sè stessa, e l'assenza di _lui_ faceva per un istante più ardita la sua timida fiamma, allora il suo bel sorriso di prima rasserenava ancora il suo volto, e il sospiro d'una segreta dolcezza scopriva involontariamente la fiducia del suo povero cuore. Erano quattr'ore dopo mezzodì, quell'ora in cui la nostra città è così malinconica e tetra nell'inverno, dopo che un breve saluto del sole, apparso a consolar la fredda mattina, è già fuggito, e quando la nebbia bassa, densa, umidiccia nasconde tutto il nostro bel cielo lombardo. Erano dunque quattr'ore, allorchè una fanciulla ravvolta in una mantellina di seta oscura, e chiusa nel velo nero di che aveva coperto il suo cappellino modesto, attraversava il ponte, che dalla via dov'era la casa dei Leslie mette presso alla piccola chiesa di San ***. Ella entrava nella chiesa, dopo d'aver più d'una volta lasciato sfuggire indietro uno sguardo, quasi che temesse d'esser veduta o seguita. Chi in quel momento le fosse stato vicino, si sarebbe accorto che la giovinetta camminava incerta e paurosa, avrebbe dubitato ch'ella entrasse nel luogo santo, non già per deporre a' piedi del Signore una preghiera consueta, ma per cercare un ricovero, un luogo qualunque, dove le fosse concesso d'adagiarsi e riposare; perchè pareva veramente ch'ella a stento potesse reggersi su la persona. La chiesetta era vôta; solo una povera donnicciuola stava pregando ginocchione sui gradini della balaustrata dell'altare, e il susurrío delle sue orazioni interrompeva la solennità di quel sacro silenzio. Faceva già buio all'intorno; e la luce moribonda del giorno si spargeva appena nell'alto della nuda vôlta. Il vecchio sagrestano, uscito del piccolo coro, veniva a versar novo olio nelle lampane dell'altare; e poi, attraversata la chiesa, andava ad accendere un cero innanzi a un'immagine dell'Angelo custode, in una cappella a fianco dell'altare. Rientrato ch'egli fu nella sagrestia, s'intesero indi a poco alcuni rintocchi lenti, malinconici della campana. Era il primo segno della benedizione della sera. La giovinetta si collocava in un canto della chiesa, sur una panca ch'era presso la parete, e poco lungi dalla cappella dell'Angelo custode. Sedette in quell'angolo oscuro, dove le pareva di starsene all'ombra del Signore; e assorta in un sacro raccoglimento, tentò di superare il terrore segreto, che l'agitava. Perchè mai era venuta sola, a un'ora sì tarda, e che grazia voleva domandar al Signore?... Essa nol sapeva; cercava un momento di pace, aveva bisogno di respirare un'aria benedetta, di piangere, non veduta che da Colui, il quale può consolare tutte le afflizioni. Sollevò all'altare vicino gli occhi, che s'arrestarono su quel sacro quadro rischiarato da fioco lume; e vide la celeste figura dell'Angelo, che in quel momento la illuse proprio come fosse viva, poichè, rivolta la testa al cielo e alzata la destra, pareva in atto di ricordarle che soltanto lassù è il tesoro della misericordia e della pace d'ogni cuore. Allora ella fece per inginocchiarsi, ma il rumore d'alcuno ch'entrava in quel punto nella chiesa, la riscosse subitamente. Soprastette, e guardò da quella parte. Ah! il suo timore non era stato dunque vano! Essa riconobbe il giovine che poco prima l'aveva seguita per tutta la via... Egli era là, vicino a lei, e la chiamava sotto voce per nome. La fanciulla non rispose, nè si rivolse a lui; ma cadendo su le ginocchia e nascondendo il volto nelle mani tremanti, effuse l'anima sua nella più calda e pietosa preghiera che mai l'innocenza abbia innalzata al Signore. Era un voto timido, celestiale; era una parola profferita dal cuore, col più puro palpito dell'amore e della fede; una parola che il labbro non avrebbe potuto articolare. Essa dimandò al Signore che la salvasse da quella tentazione, che le concedesse di morir presto, anche lontana da tutto ciò che aveva di più caro al mondo, lontana da sua madre, piuttosto che abbandonarla alla passione di quel giovine, di cui, senz'esser rea, non poteva ascoltar le parole. Ma Arnoldo le s'era fatto più accosto, e con voce di sommessa preghiera, — O Maria, diceva, non aver nessuna tema, se ho voluto parlarti, se l'ho voluto qui, in questo luogo santo. Io rispetto il tuo cuore e la tua onestà; ma sappi che nessuno deve conoscere l'amore che ci unisce. E poi, egli è qui che ho pensato di confidarti un altro segreto, un segreto, il quale non può essere inteso che da te e da Dio.... Dio, spero, lo benedirà!... Maria tacque ancora. — Tu tremi, povera e buona fanciulla! continuava il giovine. Forse in questo momento l'anima tua mi respinge, e ha terrore delle mie parole; tu forse mi credi un uomo senza cuore, senza pietà. Ma rassicurati! Tu non sai, nè puoi immaginare quanto bene m'abbia fatto il conoscerti, l'esserti vicino, l'amarti... — Oh cosa dice mai? ardì rispondere allora con accento languido la giovinetta. Non profferisca queste parole! Noi siamo in faccia al Signore, in chiesa. Almeno, abbia compassione di me... Anche lei ha una religione, anche lei ha bisogno di Dio! — Ascoltami, Maria!... Io sto per metterti a parte d'un gran segreto; la tua anima pura sarà la prima che lo riceva, la sola che per ora possa saperlo. Verrà tempo, e forse non è lontano, che si farà noto a tutti questo mistero, la cui conoscenza adesso sarebbe forse causa della mia e della tua perdita. Maria non replicò, ma levando il capo rivolse al giovine un'occhiata, in cui appariva tutta l'angoscia del dubbio e del sospetto. — Io sono cattolico, o Maria, riprese Arnoldo con voce grave e commossa; la tua religione è la mia! Il mio cuore ha conosciuto errori antichi e fatali, e ormai io sento d'esser rinato a una nova vita. Dio che t'ha fatto bella come l'anima tua, Egli che ha voluto ch'io t'amassi, ebbe finalmente pietà delle lunghe battaglie sofferte dal mio cuore, delle inutili speranze dalle quali fui agitato per tanto tempo! Chi, se non Egli, mandò sul mio cammino, incontro a me, quell'anima forte e credente del fratel tuo? Chi, se non Egli stesso, da tanti anni mi tormenta con questa smania ch'io provo di riposare in una fede, in una verità, che non mi riuscì di trovar mai in nessuna cosa mortale?... Tu col candido affetto che m'inspirasti, hai cominciata l'opera pietosa della mia conversione; tuo fratello, in quel tempo d'una felice e tranquilla amicizia, la indirizzò; un altro giusto, un uomo oscuro e sapiente ch'io aveva conosciuto in questa stessa città, or son tre anni, e che adesso mi rivide, e m'accolse come un suo figlio perduto, ha persuaso il mio cuore, ha vinto e mutato del tutto la mia mente! Queste parole penetravano fino al fondo l'anima di Maria. Un turbamento sconosciuto, misterioso, la riscosse tutta; ella riguardò incerta il giovine con un'espressione impossibile a dirsi. Ed egli tacque, e prostratosi a canto di lei, stette per qualche tempo in una mesta meditazione. Poi si levò, e in atto più rispettoso e sicuro ripigliò: — Maria, ora tu lo vedi: non può essere che io t'abbandoni; ora sai quanto sia grande il bene che tu m'hai fatto, e conosci che il Signore non vorrà punirmi, se venni qui ad aprirti il mio cuore, se qui, innanzi a Lui, io voglio giurarti... — Ah no! non dica di più, la fanciulla l'interruppe, sostenuta da un'occulta forza della sua virtù. Io benedico il Signore, perchè ha esaudita la più ardente delle mie preghiere; ma altro io non posso fare che questo!... No, no! da qui innanzi, oh! non pensi più a me... Io sono abbastanza felice! — Di che parli tu mai? la tua virtù, la tua innocenza meritano ben altro premio e maggiore di quello ch'io ti posso dare. Ma tu forse dubiti ancora, tu pensi che io non ti dica la verità!... Oh credilo, Maria, io non potrei mentire con te! la sola cosa che m'affanni, è il dovere aspettar tanto ancora a far palese a tutti il mio cuore. Tu non conosci il mondo e le sue opinioni più dure d'ogni legge; e io non ne ho mai sentito il peso, come in questo momento. Bisogna ch'io taccia e nasconda a tutti, e più che ad ogni altro a mio padre, questo segreto che confidai a te sola. Qual ch'essa sia la mente d'un padre, dev'esser venerata, temuta. E io non avrei forza adesso per andare incontro a tutto il suo sdegno, e più che allo sdegno al suo dolore; ma presto verrà un momento più propizio per rivelargli l'animo mio... Tu vedesti, Maria, com'egli pensa e come vive; ma non sai che una risoluzione come la mia è per lui un delitto, una vergogna da non esser perdonata mai più ad un uomo; tu non sai ch'egli potrebbe fors'anche gettar sopra di me la sua maledizione! — Oh! che dura prova dunque le toccherà di sostenere! rispondeva la fanciulla con atto pietoso. Ma Dio le ha fatto conoscere la verità, ed egli le donerà anche la sua grazia. — Se tu lo preghi per me, o Maria, egli lo farà!... Ma intanto, ah! non costringere il tuo cuore a rifiutarmi! — No, no! sento ch'è impossibile! io devo abbandonarla, io devo tornare presso a mia madre. — Giammai, giammai!... Consolati, o Maria, e spera! In quel mezzo, entravano alcuni buoni fedeli. Arnoldo s'allontanò dalla fanciulla, e maravigliato quasi di quel severo senso di rispetto ch'essa, con le sue poche parole, aveva saputo destargli nel cuore, turbato e incerto uscì della chiesa. Maria restava tuttavia inginocchiata. S'udì il secondo, poi il terzo tocco della campana; e il sagrestano ricomparve, e accese le lampane e i ceri dell'altare. Il piccolo tempio a poco a poco s'affollò di modesta e buona gente, venuta dalle soffitte, dalle botteghe, dalle cure casalinghe, dal lavoro, a ringraziare il Signore; anime contente e semplici, a cui la fede non manca mai, perchè è necessaria alla loro vita, come la fatica delle braccia. Echeggiò la vôlta della chiesa delle sacre litanie, e il fumo dell'incenso avvolse con l'odorosa sua nube l'altare. Il popolo era d'ogni parte divotamente inginocchiato sul nudo terreno; la sua orazione fu breve e rozza, ma sincera; e il sacerdote la benedisse in nome del Signore. Tutti se n'andarono; la chiesa tornò vôta e oscura, e Maria era ancora prostrata nella sua umile e fervida preghiera. L'anima sua, nella pace di quelle sante pareti, aveva abbandonata la memoria de' giorni dolorosi ch'eran passati, e quella stessa timida e vereconda speranza che faceva l'unico suo bene su questa terra: domandò a Dio di viver pura e senza rimorso com'era stata fin allora, e nelle sue mani pose le propria vita e tutti gli affanni che a Lui fosse piaciuto di mandare sopra di essa. E poi fece le sue orazioni della sera, con quell'ardente affetto, con che le ripeteva nei primi anni della sua fanciullezza; e non dimenticò il nome della sua povera madre lontana, nè l'anima benedetta del padre suo. Una fiducia mesta, ma pur soave, e una consolazione che non era di questa terra, mitigarono, come benefica rugiada, il cordoglio di quella vita debole e combattuta, la sollevarono, e la fecero ritornare alla pace della sua virtù mansueta. Quando si rialzò, s'accorse che era sola nella chiesa; e in quella, il sagrestano le s'accostò per avvertirla che l'ora di chiudere la porta era venuta. — Allora uscì chetamente, ma appena trovossi in mezzo della via, in quell'ora insolita, e intese il noioso frastono ch'empie le strade al cominciar della notte, si smarrì tra l'ombre fitte che le pareva di vedere agitarsi, e tra lo smorto chiarore delle lanterne che tremolava in mezzo alla nebbia; sicchè quasi non sapeva a qual parte indirizzarsi. Per buona ventura la casa non era lontana, ed essa raddoppiò i suoi passi e il suo coraggio. Ma il giovine amante che poco lontano l'aspettava, appena la scorse uscire della chiesa, le si mise dietro a breve distanza, e la accompagnò fino alla sua dimora. E Maria non se n'avvide; chè ell'era tutta ricreata da' suoi nuovi e tranquilli pensieri, e nella sua gioia nascosta si confidava di poter essere ancora felice. IV. L'ONESTÀ DEL POVERO. Il cameriere di lord Leslie apriva con cauto riguardo l'uscio della sala, in cui al consueto se ne stava ritirato il suo signore, e facendo una gran riverenza, annunziava che un prete, il quale già s'era presentato un'altra volta in quella mattina e che dicevasi l'abate ****, aspettava l'onore di poter parlare a Milord. — A me? chi può esser costui? Io non ho mai conosciuto alcun prete italiano! rispose seccamente il vecchio signore, senza alzar gli occhi dalla tavola a cui sedeva, e su la quale erano spiegate e sparse molte lettere e carte. Il cameriere non ardì far nessuna osservazione. Ma Elisa, che per avventura era là seduta in compagnia di suo padre, alzando i suoi begli occhi verso di lui, — Oh noi lo conosciamo, padre mio, disse; è il fratello della nostra Maria! — A quest'ora non ricevo alcuno, lo sapete! soggiunse il lord, e ripigliò in mano il _Morning-Chronicle_. — Deh lasciate ch'egli venga! Forse vorrà parlarne di sua sorella; e, voi non lo sapete... essa, già qualche tempo, non ha più bene.... — E dunque venga. Era di fatto il fratello di Maria, il nostro vicecurato. Per la prima volta egli si trovava in faccia del padre dell'amico suo; e quell'aspetto immobile e superbo pareva l'impacciasse non poco. Il lord non gli disse di sedere; ed egli si faceva innanzi lento, tenendo in una mano il cappello, e tentando coll'altra i bottoni della sua lunga sopravveste di panno oscuro. Don Carlo, se già non ve l'ho detto, toccava al più a' trent'anni; pure sul suo volto, ch'era simpatico e sereno, leggevasi l'incerta espressione d'una grave benchè velata amarezza, la traccia profonda del travaglio dell'anima. Le anticipate cure della giovinezza combattuta, avevano lasciato su la sua schietta e bella fisonomia le prime rughe di quel dolore segreto, il quale non si parte dal cuore che con la vita. Gli occhi suoi eran vivaci e intenti; appariva in essi l'ardor del pensiero temperato dal costume della meditazione e del patimento; la fronte alta, e assai calva, il sorriso fuggevole e sparso anch'esso d'un'ombra di malinconia; contegnoso nell'andare, ma alquanto chino della persona. Era un uomo che aveva molto studiato e molto dubitato; pure nella lunga guerra che sostenne contro sè stesso, e contro la sua fede, tra il passato e l'avvenire, tra la disperazione degli uomini e la coscienza di Dio, la sua energia, la sua volontà del bene non s'eran logorate o scemate; ma bensì rivolte al santissimo scopo di far migliori i suoi fratelli, e di risparmiare a molti di loro quelle crudeli prove per le quali egli aveva dovuto passare, prima di riposarsi nella sicurezza della virtù, prima di viver nella fede. Il suo nome, ch'era degno di chiarezza e di gratitudine, giacerà oscuro, non sarà ricordato tra gli uomini; nessuno forse parlerà mai della semplice sublimità della sua mente, della carità del suo cuore, del poco che potè fare, e del molto che sofferse; ma chi lo conobbe e amò, non potrà rifiutare una lagrima alla sua memoria. Il vicecurato, facendo passare il suo cappello dall'una all'altra mano, non sapeva in qual modo chiamar sopra di sè l'attenzione del signore inglese, che non lo guardava, come s'egli non fosse là. Elisa, avvedutasi di quell'impaccio, ne fu tocca e volle parlare la prima. Ma il prete, che in quel momento di silenzio fu assediato da una folla di pensieri, e così fortemente conturbato che tutto s'accese d'un involontario rossore, fece un passo innanzi, fissò gli occhi sul vecchio, e disse con voce ferma e lenta: — Signore, io la prego, m'ascolti! Il lord, scosso alquanto dalla serietà di quell'accento, levò il capo, e guardò il prete, senza parlare. Ma intanto, ripiegato il giornale, lo depose, e fece un gesto, come per significare: Parlate, ma spicciatevi presto. — Signore, soggiunse allora il vicecurato, ciò che qui mi conduce, la è cosa per me di troppo alta importanza, perchè non m'arrischi a disturbarla un momento. Io sono una persona oscura, senza nome; ella, un signore illustre e potente. Ma, s'assicuri, io qui non venni a domandarle favori o protezioni, nè a inginocchiarmi dinanzi a lei, poichè a nessuno io son uso prostrarmi, fuorchè a Dio. Ella è uno di coloro che si chiamano grandi; e se questo nome vuol dire qualche cosa, ella deve aver caro l'onor suo, al par di quello dell'ultimo degli uomini. Dunque io mi presento a lei, a cercar giustizia per il nome mio ignoto, ma puro come il suo, per il nome mio calpestato nella virtù d'una infelice creatura, a me più cara dell'anima stessa... Ella m'intende, o signore.... — Io non intendo nulla, signor abate; e quello che so, gli è che non vi conosco, e che nessuno ha ardito mai parlarmi come voi adesso. — Perchè vuole avvilirmi così? Cred'ella che l'abito di che sono vestito, mi proibisca di parlarle com'io fo?... Ella non sa chi io sia? — Voi non siete certo nel vostro miglior senno, signor abate.... — Bene sta all'uomo ricco e potente di disprezzar colui che gli domanda la ragione del suo onore, schiacciarlo nel fango, ridere di lui come d'uno stolto!... O Signore, reggi il mio cuore, e dammi pazienza. — Ma io vi ripeto che non so quel che diciate, come forse nol sapete voi stesso. E buon per voi, che non mi trovaste in cattivo momento... Pure, io son giusto; e se avete qualcosa con persona che m'appartenga, se alcuno de' miei v'avesse offeso, che so io... dite, spiegatevi chiaro; ma sopra tutto pensate innanzi a chi parlate. Così rispondeva il lord con un'altera serietà; ma si sarebbe potuto indovinare, che le parole del prete e la persuasione ch'era in esse avevano suscitato nel cuore del vecchio un'ansietà inquieta, il sospetto di qualche cosa di grave. — Dunque, o signore, ripigliò il prete, con voce fatta più umile, ella vuole ch'io arrossisca dinanzi a lei, nel ripetere una storia che copre di disonore la mia sfortunata sorella?... Ebbene, milord, io dirò tutto. All'onestà d'un'oscura famiglia non rimaneva altra protezione, fuorchè l'infelice che adesso le parla. Una madre amata e una sorella innocente, eran tutto il suo bene.... Vi fu un uomo che, allettato dalla bellezza di questa innocente, pose gli occhi sopra di lei; e vederla, e concepire il più nero tradimento che sia, fu per esso tutt'una cosa. S'infinse amico del sincero fratello, violò la santità d'una povera famiglia, ingannò la madre semplice e buona, ingannò la credula fanciulla, la sedusse con la promessa di farla sua sposa, la persuase a fuggire... Signore, quest'uomo vile, è suo figlio!... Oh non creda alle mie parole! In questa lettera è la confessione della misera tradita. Fu mia colpa, lo vedo, d'essere stato così cieco; fu nostro il danno, e sarà nostra ed eterna la vergogna! La madre che ne morirà, la figlia avvilita per sempre... oh non importa! Ora, il rimpiangere quel ch'è stato è inutile... Ma, per il nome di Dio, la si ricordi che anche l'onore del povero è sacro!... — Avete finito? — Non ancora. Voglio dirle ch'io non cerco nulla da lei; perchè a chi tutto ha perduto in terra, nulla più resta a domandare agli uomini. E quella infelice non avrà più consolazione in questa vita, che la speranza del perdono nell'altra... Io non vedrò il figliuol vostro; ma non vi chiedo se non ch'egli sappia per vostra bocca, e a mio nome, che il suo è più che un delitto, è un'infamia!... e che il cielo un giorno ne terrà conto! — Orsù, le vostre parole mi stancano.... Nulla m'è noto di ciò che aveste l'ardimento di raccontare; e se avessi pensato mai, che quella giovine potesse levar gli occhi sul figliuol mio, l'avrei fatta, a quest'ora, cacciar di mia casa! — Gran Dio! risparmiatemi almeno l'insulto... È una menzogna, uno scherno atroce! So pur troppo che non si conta per nulla la vita d'una povera creatura; so che i gran signori, come ora voi, ridon di queste cose, le chiamano capricci, passatempi, se pur non dicono essere per noi un onore, che voi, nobili, discendiate così basso, a portar la vergogna dov'è la miseria!... Ma, per carità, se non potete rendermi giustizia, compatitemi almeno!... — Fate ciò che v'aggradisce: se pensate che sir Arnoldo abbia macchiato il vostro nome, parlatene con lui... Egli vi saprà rispondere, e vi metterà in pace... Io, per me, non ho altro a dirvi! — Ch'io parli con lui?... No mai, mai! Una volta avevo pur creduto all'onestà, alla grandezza del suo cuore; povero ingannato ch'io m'era! Non l'ho cercato, nol vedrò più. La mia coscienza e quest'abito stesso, non mi farebbero forse dimenticare ch'io son uomo! Ma... venni a voi, perchè siete padre e vecchio! pensavo che almeno una parola di giustizia, una lagrima di compassione, non me l'avreste negate. Voi pure mi schernite?... Ma no! non siete voi, è il Signore che volle umiliarmi. S'adempiano i suoi giudizi! — Adesso parlate come si deve! E mi dispiace di non potere far nulla per voi. Vorreste voi forse che comandassi a sir Arnoldo Leslie di sposar vostra sorella? Il rimedio sarebbe opportuno!... — Ve lo ripeto, o signore; io nulla domando da voi! E volesse egli anche togliermi la creatura che mio padre m'ha consegnata, vi dichiaro ch'io la vedrei più volentieri morire, che sposarsi a tal uomo.... — Oh! in ciò siam d'accordo; vorrei anch'io lo stesso. Una contadina, che raccolsi per compassione... Ma, in verità, più vi penso, e più credo che tutto questo sia un vostro sogno; gli è impossibile che sir Arnoldo... — Basta così: io son venuto per condur via da questa casa quella infelice, e nessuno me lo può vietare!... Il pane, ch'ella ha mangiato in casa vostra, lo piangerà per tutta la vita a lagrime cocenti; e così il cielo perdoni a voi la vostra durezza, come a lei la sua colpa! Di questo solamente vi prego, che vogliate dire al figliuol vostro, ch'egli ci ha rapito tutto, e ch'io gli ho perdonato! Sì, egli lo sappia, ma si guardi bene dal cercar me, dal cercare la sua vittima; essa è come morta per lui! Che se così non fosse, guai a lui e a me! Forse non sarei più quello che sono adesso, e il tradimento potrebbe fruttare la vendetta! Benchè lord Leslie avesse dato orecchio alle parole del prete con una fredd'alterigia e con l'ironia d'un esteriore disprezzo, pure il tremito involontario delle sue labbra, e l'attenzione delle pupille sotto le ciglia ristrette in torvo atto, dimostravano l'interno suo sdegno. Mentre il vicecurato parlava, anche la fronte del superbo Inglese si faceva scura; e chi avesse potuto legger nell'animo suo, avrebbe conosciuto che cento diversi e rapidi sospetti gli passavano innanzi, come nuvole sinistre. — È egli possibile, domandava a sè stesso, che mio figlio si sia perduto in un amore così indegno di lui? Eh via, sarà stato il solletico d'un momento, e forse egli stesso ne ride a quest'ora! Ma se veramente l'amasse, se avesse promesso di sposarla... Che importa? son promesse che legano come i giuramenti dell'ubbriaco! Pure, Arnoldo... non posso credere che Arnoldo... Egli, ch'era diventato circospetto e severo, egli che sapeva d'aver a fare con un fratello così sdegnoso e audace... È impossibile! O fu un giuoco da parte sua, o una strana seduzione della fanciulla. Ma in ogni modo, il miglior partito è ch'essa vada subito al suo malanno, e che noi torniamo in patria... Sì, sì, è tempo oramai. Il momento è buono, l'orizzonte politico si rischiara per noi, e l'era d'operare è venuta; bisogna che sir Arnoldo esca in iscena una volta... altro che perdersi dietro a sogni puerili! Eran questi press'a poco i pensieri che volgeva in mente il vecchio signore, all'udire i lamenti di don Cario. Ma intanto, qual era l'agitazione della compassionevole Elisa?... Essa voleva bene a Maria, e già da qualche tempo, turbata dal sospetto dell'amore d'Arnoldo, aveva veduto la fanciulla soffrire, senza poter confortarla! Sentì dunque stringersi il cuore, impallidì, quando intese le parole del prete, quando vide due lagrime agghiacciate su le ardenti sue guance, e pensò all'avvenire infelicissimo di Maria. Più d'una volta, essa volle gettarsi a' piedi del padre, pregarlo di non disprezzare con amare parole la sventura, di perdonare a un'ira giusta; ma un interno terrore la contenne suo malgrado, e rimase muta e sbigottita, testimonio innocente di quella scena. — Or via, riprese il lord, alzandosi; andate, andate, e conducete con voi la vostra sorella. Ch'io più non la vegga, e sopratutto che sir Arnoldo non ne sappia nulla! Voi diceste anche di troppo, mi pare, e la mia pazienza... — Non temete, o signore. Noi lasciamo questa casa senza maledirla; noi andiamo a nascondere nella solitudine la nostra disgrazia, a cercare alla misericordia di Colui che ha in mano il passato e l'avvenire il perdono del male che qui ci fu fatto! Così disse, e premendo la destra sul cuore, in cui il dolore e lo sdegno si facevano guerra ancora, levò al cielo, con sublime rassegnazione, gli occhi; poi li chinò di nuovo, li rivolse senza senso all'intorno, e si mosse per uscir della stanza. — Aspettate, se vi piace, soggiunse il lord richiamandolo. Ricevete questo leggiero compenso che vi offro, e scordatevi per sempre di noi! — E così dicendo, trasse fuori dalla cassetta della tavola una borsa, e gliela mise innanzi. Il vicecurato, alla vista di quell'oro, arse di rossore, poi divenne smorto e sentì scorrere tutto il sangue al cuore: — Ripigliate il vostro danaro! L'oro può pagare l'infamia, ma non comprare la dimenticanza di quel che è stato! Voi potete disonorarmi per sempre, ma farmi vile non mai! Che questa viltà ricada sul vostro capo, o piuttosto... che Dio abbia compassione di voi! Il prete era uscito, e lord Leslie l'accompagnava con un'occhiata indifferente, e con un sorriso sardonico: poi quando la porta fu richiusa tentennò il capo e susurrò: — Io non so come durassi a star cheto con quell'uomo ardito e superbo. E, tutto pensato, mi persuado sempre più che la cosa non sia così! Bisogna che mio figlio mi scopra... Si cerchi subito di lui. Intanto, sarà meglio partire prima che avvenga peggio... — Poi, rivolto a Elisa: — Lascio a te, figliuola mia, di disporre che tutto sia preparato per la nostra partenza fra pochi dì. Noi torneremo a Londra; è il tempo dell'elezioni, la stagione delle brighe, e gli è necessario ch'io non perda terreno. Dunque, hai inteso. Ma per ora non ne far parola con alcuno: voglio così. Intanto don Carlo, chiesto a un servo dove fosse la camera di Maria, entrava in quella. La fanciulla, al vederlo così d'improvviso, proruppe in un grido soffocato; era un grido di gioia vera, ma repressa da occulto terrore. E balzò per corrergli incontro, per gettarsi nelle sue braccia; ma egli si ritirò d'un passo, volse la testa, e stese risoluto la destra, quasi per respingerla dal suo seno. Allora l'infelice si ritrasse anch'ella, si lasciò cadere sopra una seggiola, e, nascondendosi il viso, singhiozzava affannosa. Il fratello la guardava e taceva. — Gran Dio! dunque è vero?... proruppe egli dopo un breve momento. E le s'avvicinò, le prese affettuosamente una mano, e fissando sovr'essa un compassionevole sguardo: — Maria! che avete mai fatto?... Noi siamo stati incauti, gli è vero, ma voi, voi siete perduta per sempre!... Abbandoniamo questa casa disgraziata; oh così non v'aveste mai posto il piede! Non piangete, è tardi, è inutile!... Venite, venite con me! Che vostra madre almeno non sappia mai quel che è succeduto, ch'ella possa almeno morire in pace!... Perchè tremate?... perchè mi guardate così?... — Oh come parlate, Carlo? Non sono io forse più vostra sorella? — Sì! voi lo siete ancora; se non fosse per questo, sarei venuto a cercarvi? rispondeva il prete con amarezza. Ah! perchè non vi siete ricordata di me, quand'era tempo ancora!... Io v'amo anche adesso, perchè siete infelice, e voi... Oh sì, piangete pure, e sperate che il Signore avrà misericordia di voi... — O mio Dio! rispose con voce debole la fanciulla. Io sono innocente, ve lo giuro, io sono innocente!... Ah, conducetemi, conducetemi da mia madre! — Sì?... tu lo dici?... Ah! ripetimi che sei ancora virtuosa e pura, lo ripeti, perchè io ho bisogno di crederlo!... Dimmi ch'è proprio vero!... — Sì, Carlo, io sono innocente, e ne chiamo in testimonio l'anima di nostro padre. — Dio! te ne ringrazio... E la sua fronte si serenò, e un lampo d'indicibile gioia gli balenò negli occhi. Allora egli la sollevò pietosamente, e con la destra abbracciandole la persona, spinto dal grande affetto, la baciò sulla fronte, e — Vieni, le disse con forza, finchè il cielo ti permette d'uscir di qui ancora onesta! Ritorniamo all'asilo della nostra montagna, alla nostra povera casa. Tua madre t'abbraccerà, oh con quanta contentezza! e tu potrai ritrovare presso di lei la tua consolazione, e non l'abbandonerai più. Vieni, o mia povera sorella! Tu non eri fatta per il rumore della città, per i vizi del bel mondo, per i piaceri d'un giorno di questi giovani eroi!... Non te ne rammaricare, ma benedici il tuo buon angelo, che a tempo ti salva!... Pochi dì ancora, e il tuo cuore sicuro e perdonato racquisterà le pace di prima; pochi dì ancora, e que' sogni che avevan turbata la tua vita e i tuoi verecondi pensieri, saranno svaniti. Non temer, no, di soffrire! Ma scaccia dal cuor tuo un amore, che t'avrebbe renduta per sempre infelice... Credilo a me! Il dolore nasce accanto al piacere, e dove adesso più si gode, è là che un'ora dopo si piangerà più forte... Oh! diamo con l'animo sereno un addio a questi luoghi d'amara ricordanza... alla miseria di queste gioie, alla voluttà di questi vili trionfi! un addio alle lucide pompe della città, a' suoi canti notturni, alle sue superbe case, alle sue povere officine, un addio a chi tripudia e s'inebbria, un addio e una lagrima a chi si martira e piange! Racconsolata da queste amorose parole, la giovinetta sollevò le pupille, e riguardò il fratello, con una viva confidenza espressa nel viso, con tenere parole di gratitudine, parole di soavità non terrena, ma celeste. — Oh verrò con te, gli rispose, verrò con te, o Carlo, che m'hai salvata! Oh quando ti scrissi quella lettera, fu un'inspirazione del cielo! O mio fratello, mio padre, guidami tu! Fa ch'io riveda presto nostra madre, ch'io possa posare la mia testa sul suo seno, e stare con lei sempre, sempre!... Così alternando le parole e le lagrime, Maria fece un involto del poco ch'era suo; e benchè le fosse amaro di partire, senza dar un ultimo saluto alle due buone giovinette, pure non fece motto, e seguitò i passi del fratello. Ma innanzi abbandonare quella stanza bella e modesta, dove essa aveva per la prima volta sognato la speranza e l'amore, non potè a meno di volgere ancora un mesto sguardo a quelle care pareti, a quegli arredi, a quei pochi libri che lasciava sopra la tavola... L'addio della fanciulla non fu che un profondo e doloroso sospiro; ma con esso, Maria accompagnava una muta preghiera dell'anima, una preghiera per l'uomo che le aveva per sempre rapito la pace. V. PARTENZA E MISTERO. Una settimana appresso, due grandi e pesanti carrozze da viaggio, che su gli sportelli portavano dipinto un ampio stemma, e ciascuna delle quali era tirata da quattro cavalli da posta, avevano attraversato la città ed erano uscite per la porta Vercellina. I postiglioni toccavan di sproni alla spacciata, facevano scoppiar le fruste, e davano fiato alle rauche cornette. Nell'interno della prima di quelle vetture sedevano un uomo vecchio e grave e un bel giovane; sul sedile di fronte stavano due gentili damigelle avvolte in mantelli eleganti e guerniti di pellicce. Nella seguente poi, che reggeva da tergo due larghi, neri bauli e parecchie grosse valigie, era sepolto in mezzo a un mucchio di fardelli il fedele cameriere del vecchio signore; due altri servitori stavano seduti a cassetta. Il padre e il figlio tacevano, assorti in profondi e contrarii pensieri; le due fanciulle malcontente d'abbandonare così presto il nostro bel cielo, alternavano fra loro poche e interrotte parole. Esse ricordavano la lieta vita passata, la voluttà dell'aria che si respira nel cerchio dell'Alpi, su le rive dei laghi; e a mano a mano lasciavansi dietro con rincrescimento le colte campagne che già cominciavano a sentire il primo tepore della bella stagione. Alle parole che facevano si frammischiava sovente il nome della loro povera e semplice amica, accompagnato da un pensiero doloroso. Ma pur quel nome non portava con sè nessuna amarezza; perchè Elisa non poteva persuadere a sè stessa che l'anima pura di Maria fosse colpevole, come aveva sospettato il padre suo; e Vittorina non sognava neppure che la causa di tutti que' guai fosse l'amore, ignara qual era ancora che per amore si pianga e si soffra, come aveva fatto la fanciulla. Ma ben altre erano le fantasie d'Arnoldo. Quel giorno che il vicecurato apparve d'improvviso per salvar la sorella e ricondurla con sè, volle il caso che Arnoldo rimanesse lontano; e, sul far della sera, quando tornò a casa, egli ignorava tuttavia ogni cosa. Vittorina fu la prima che gli corse incontro, e gli diede la trista novella. Com'egli fosse abbattuto dall'intendere che Maria era partita per sempre, e quanto patisse in quel momento solo il suo cuore lo seppe. S'era fatto pallido, cupo; l'ira, l'affanno, il sospetto erano entrati in un punto nell'anima sua; ma non si scoperse, non disse parola. In quella medesima sera, lord Leslie gli aveva fatto dire che sentiva desiderio di parlargli; ed egli non indugiò a presentarsi a suo padre. Il vecchio gli venne incontro di subito, lo prese per mano, e senza accennare alla più lontana idea di ciò ch'era stato, gli mise innanzi con parole amichevoli e gravi le nuove urgenti circostanze che lo consigliavano a ritornare alla patria, senza por tempo in mezzo; gli spiegò sott'occhio lettere d'uomini potenti, che gli avevano disegnato l'andar delle cose e la gravezza del momento; gli parlò poi del debito di non tradir l'avvenire, i proprii diritti, la parte alla quale s'era legato, della necessità infine di giovarsi di quella congiuntura, per non essere avvantaggiato da altri, e racquistare almeno ciò che prima aveva perduto. Arnoldo rimase confuso, annientato quasi dalle parole paterne. Il vecchio non imponeva, ma cercava consiglio, pregava; ond'egli che dapprima era stato pensoso, irresoluto, rompendo alla fine il silenzio, uscì a proporre al padre, che l'unico partito da seguitare era quello d'un sollecito ritorno in Inghilterra. L'accorto sguardo del lord aveva indovinata la via per arrivare al cuor generoso del figlio; la sua fina politica famigliare aveva trionfato. Il giovine però sentiva il peso di quel dovere penoso che su le prime aveva accettato con volontà sincera. Accondisceso ch'egli ebbe, il pensiero di perder Maria gli tornò in cuore, gli si fece insopportabile; voleva parlar di nuovo a suo padre, scoprirgli ogni cosa; ma poi riflettè, e conobbe che sarebbe stato lo stesso che perdere tutto. E intanto sorse a consolarlo una nuova speranza, che forse, cedendo da principio, gli sarebbe stato agevole poi, nel volgere di qualche tempo, di preparar l'animo paterno a non porre più altro contrasto alla sua volontà; e vinto così l'antico pregiudizio dell'orgoglio domestico, egli sarebbe stato padrone della sua mente e del suo cuore. Allora per non saper trovare altra uscita, abbracciò il più facile consiglio a cui, per la fiducia del meglio, assai di sovente si appigliano gli animi incerti e miti, quello di tacere e di aspettare. Ma pure egli era torbido e travagliato. Non poteva spiegare a sè stesso la causa di quell'improvviso fuggir della fanciulla, dopo tutto ciò ch'era stato; nè comprendere come il vicecurato fosse venuto e partito, senza cercare di lui, senza aspettare di vederlo. Ben gli nacque in mente l'idea, che Maria forse avesse confessato al fratello il segreto dell'amore che li univa; ma per ciò appunto si corrucciava di più, pensando al basso e falso concetto che l'amico doveva farsi di lui, non conoscendo ancora la purezza del suo proposito, il mutamento dell'anima sua. E desiderava di poter rivedere, innanzi partire, la giovinetta; e voleva parlarle almeno una volta, accertarla del suo ritorno dopo breve tempo, e ripeterle la già fatta promessa. Allora, dopo ch'ebbe inutilmente tentato più d'una via per trovar nella città chi gli desse qualche contezza del luogo in cui il vicecurato potesse aver formato dimora, dopo ch'ebbe risoluto di trasferirsi segretamente, prima al paesello del lago, poi all'alpestre villaggio di Valtellina; pentito dell'una e dell'altra cosa s'abbandonò all'inutile rammarico, all'inquietudine, a disegni cupi e sdegnosi. Pensò anche di palesare il suo stato a quel saggio uomo che aveva avuto tanto potere su la sua vita e ch'egli venerava come secondo padre, onde lo sovvenisse di consiglio; pure, quando fu sul punto di farlo, non ardì aprirgli l'animo, o temette forse il giudizio del semplice ma austero vecchio. Intanto il dì della partenza era venuto. Tutto quello ch'egli potè fare fu di scrivere una lunga lettera al vicecurato, nella quale n'acchiuse un'altra indirizzata a Maria; mandò queste lettere alla posta, e pregò il cielo che arrivassero al più presto al loro destino. Dov'era allora la nostra fanciulla? In certe povere stanzette, confinate nella soffitta deserta d'un antico palazzo, che appartenne un tempo alla famiglia del conte Francesco ****, viveva ancora la vedova del vecchio maggiordomo di quella casa. Dopo la morte degli ultimi padroni, il palazzo era stato venduto, spogliato delle sue tappezzerie di damasco e delle dorate suppellettili che l'adornavano da forse un secolo; e un negoziante, arricchito di fresco e non ancora ritirato dagli affari, l'aveva acquistato e fatto restaurar tutto alle fogge del gusto moderno, con le sue sete, co' lucidi arredi parigini, co' molli tappeti turchi. Quella vedova era una buona vecchietta, servizievole, cicalona, tutt'amore del prossimo e de' poverelli, lodatrice eterna de' tempi suoi e de' suoi ottimi padroni, e massimamente della defunta signora contessa; la quale non l'aveva dimenticata nel testamento, e le aveva lasciato una provisioncella, vita sua durante, un trenta soldi al giorno e l'abitazione: era tutto quel che la povera donna possedeva quaggiù. Pure essa viveva contenta, e col suo sordo sogghignare, diceva bene spesso: Chi molto abbraccia, nulla stringe; ma chi sa contentarsi del poco, campa un pezzo e col cuor largo. — Quel negoziante, al quale certi lontani parenti della contessa, che ne furon gli eredi, avevano venduto il palazzo, dovette accettare tra gli altri patti anche la noia di tenersi in casa la vecchia vedova. E questa poi fu sempre ostinata a non voler abbandonare quella dimora dov'era vissuta per trent'anni; di modo che il novo padrone mise giù il pensiero di farla sloggiare con le buone, come aveva stimato facile, nella fiducia che la vecchia sarebbe presto ita a cercar posto nell'altro mondo. A quest'antica conoscente, alla signora Giuditta, come in tutto il quartiere era chiamata, affidò dunque il vicecurato la sua afflitta sorella. Essa gli aveva tante volte portati su le sue braccia l'uno e l'altra in giorni più lieti, quand'erano ancora ragazzetti, che non se n'era dimenticata; ma non gli aveva veduti da tanto tempo, che quasi non lo credè vero, allorchè le si fecero conoscere. Pure li ricevette a braccia aperte, e dimandò loro del buon Andrea, della comare Caterina, del palazzo, di cent'altre cose e perfino del vecchio Azor; rammaricandosi di tutto quello che non era più, e benedicendo il cielo, che la sua vecchia amica si ricordasse ancora di lei. Nell'ignota dimora della vedova Giuditta, don Carlo dunque pensò di nascondere Maria alle ricerche e alla persecuzione di colui, ch'egli credeva essere stato il suo seduttore; giacchè intendeva di fermarsi ancora per qualche giorno a Milano, e di ricondurre poi egli stesso la fanciulla a sua madre. Maria, ne' primi dì, non sapeva accomodarsi a quella nova solitudine. Ignara di quel che fosse avvenuto, dopo che aveva abbandonato la casa de' Leslie, di quel che potesse fare Arnoldo per ritrovarla, e sedotta ancora da una lontana idea di rivederlo, di separarsi in pace da lui, idea che la sua virtù e l'affetto le richiamavan sempre, non come una colpa, ma come unica consolazione, ella passava le ore in una rassegnazione dolorosa. Non piangeva più, ma faceva ogni sforzo per ritornare più spesso che poteva alla memoria di sua madre; pure, qualche volta, in segreto, ripeteva ancora il nome di colui che per il primo le aveva promesso amore, e sentiva ch'essa non avrebbe più potuto amar nessuno, come aveva amato lui. Ella non usciva mai, e stava sempre in compagnia della vedova, la quale non sapeva immaginare perchè una creatura, giovine e bella come Maria, fosse così tacita e mesta. Intanto il fratel suo consumava que' pochi giorni nel visitar gli amici che gli restavano ancora, antichi suoi compagni di scuola, alcuni de' quali erano allora parochi nella città, e altri procacciavan di guadagnarsi, con la penna e con gli studi, una vita stentata ma libera e onesta. E nel rinnovarsi di quelle conoscenze, che avevano messa profonda radice ne' cuori, di quella corrispondenza di sentimenti e di simpatie, ch'è sì bella quando la sorgente ne sia virtuosa e schietta, e fedele la ricordanza, oh! come gli pareva di ringiovenire, di ritornare a quell'età d'affetto e di desiderio, in cui si crede che la buona volontà sia tutto, e nulla la difficoltà delle opinioni e del potere altrui; in cui è certa e giusta l'aspettativa, e santa l'energia della fede e del contraccambio!... Con quali sinceri trasporti gli amici si rividero, s'abbracciarono! Con qual fratellanza di gioia e di dolore rinnovellarono le memorie della giovinezza! Come lagrimarono gli amici che non erano più, ch'eran mancati nell'ora migliore! Come compiansero a quelli che avevano tradito le speranze di loro concetto, un bell'avvenire, la vita intera!... E le promesse di star sempre uniti col cuore, se con le persone non potevano, d'adempiere insieme all'eterno dovere di render migliori gli altri, di non cader mai d'animo, nè per la tirannia de' pregiudizii e del tempo, nè per la cieca guerra delle passioni, e di servir liberamente alla causa della verità, preparando d'accordo, per quanta forza e per quanto cuore era in essi, il bene e la giustizia per tutti; queste altissime promesse si ripeteron più d'una volta ne' loro ragionari dolci e solenni, e furono santificate da' voti e dalle preghiere di que' giusti e generosi che amavano e che soffrivano. Così alcuni di que' dì felici, che il buon prete non credeva di trovare più su la terra, e dietro a' quali l'anima sua aveva ben sovente sospirato nelle solitudini della campagna, in mezzo alla povertà e alla dura vita del contadino, o sotto gli umili archi della chiesa del suo villaggio, alcuni di que' dì felici sorgevano ancora per lui; e lo consolavano nel momento che, ferito nella più viva parte del cuore, s'era umiliato innanzi alla superbia degli uomini, all'ingiustizia delle cose. Ed egli se ne rallegrava con sè stesso, chè da tanto tempo aveva rinunciato all'allegrezza: nè alcun funesto presentimento venne a turbar la purità di quell'affetto antico e santo, e il felice presagio d'un'età migliore!... Ma troppo spesso le nostre più vive speranze son le più vane! Un giorno — non eran passate più di due settimane da che Maria stava in casa della vedova — le due donne avevano apprestato un desinare assai modesto, e aspettavano il vicecurato. È passato il mezzodì; passano una, due, tre ore, ed esse aspettano ancora, e il vicecurato non comparisce. Su le prime, non si dan pensiero di quel suo tardare, rassicurandosi nell'idea che forse qualche impreveduta circostanza ne lo trattenga. Ma poi all'abbassar del giorno, quando l'una e l'altra ebbero finito di ripetere le consuete scuse che si van cercando per ingannar l'angustia dell'aspettare invano, allora, con quel senso di tristezza che desta il veder farsi sera, crebbe il loro dubbio e l'inquietudine. E taciturne entrambe si pongono a sedere presso una delle finestre che dà sul cortile, s'interrogano a vicenda con gli occhi, e guardano ogni momento verso il cancello del palazzo, in attenzione curiosa d'ognuno ch'entri o passi. Da quella finestra vedevasi, per il vano del portone, lungo tratto della frequentata corsìa. Si fece notte, le campane delle chiese erano già silenziose per tutta la città, e le donne aspettavano ancora. In ogni passeggero che attraversasse quel breve spazio, pareva loro di riconoscere il prete; ma nessuno mai s'arrestava, nessuno svoltava in quella porta. Maria ben cercava di persuadersi che nulla ci fosse di più naturale di quell'assenza, ma invano; un interno timore la vinceva, l'anima sua andava immaginando qualcosa di funesto, un pericolo, un tradimento, una sciagura improvvisa; e già, come una spina, le stava fitta in cuore l'angustia, che il suo Carlo non avesse a ritornare mai più! La vedova, indispettita alla fine di quel lungo tedio, cominciò a sfogarsi, a brontolare fra sè e sè: — Vedete mo, che vezzo! Son già passate più di sei o sett'ore.... Ha ragione chi dice: aspettare e non venire, cosa da morire! Intanto voi siete ancora a digiuno, la mia tosa! Manco male, ch'io ho pensato meglio di voi... ma domani, il resto di quel pollo e di quella zuppa sarà roba da buttar via per la finestra... Che cosa crede d'esser poi quel vostro signor fratello? Non è all'osteria, e se qui c'è poco, c'è del cuore almeno! Ma, adesso che ci penso.... Scommetto che, senza dir nulla, avrà desinato altrove; e noi siamo state sì buone ad aspettarlo... Oh via, levatevi su, e peggio per lui! mangiate un po' anche voi, chè almanco non si consumi questa poca grazia di Dio.... — Ora non potrei, signora Giuditta, non potrei da vero... ho un gruppo qui, una cosa che m'opprime.... — Oibò, non mi fate smorfie! In questi dì, non avete mangiato mai, più che non mangi un piccione.... E poi, non dormite, avete una ciera che fa pietà.... Via! ecco quel che son divenute le nostre ragazze! vedete un po' quel che si guadagna a star nelle case de' grandi signori... La minestra di casa vostra vi fa schifo... Non dico così per voi, ma al giorno d'oggi, si vede, tutti vogliono stare in sul grande... Ebbene? sorridete un po'!... Che dirà vostra madre? Quella è una donna casalinga, sincera, alla mano... Che dirà, quando vi rivedrà con quel viso di panno lavato?... La fanciulla taceva, pensava che sua madre non le aveva mai detto parole così amare; e quell'inutile conforto le parve più duro di qualunque rampogna. Non era lontana la mezzanotte, quando s'intese un calpestio su per l'angusta scala che saliva a quelle stanze. Le strepito risvegliò l'attenzione della vedova, la quale, seduta accanto del focolare, recitava il rosario con accento basso e sonnacchioso, e fece palpitare il cuor della fanciulla, che s'era presso a lei raggruppata, trovando appena voce di rispondere all'avemarie. — Siete voi, Carlo? domandò essa, con una gioia sicura, levandosi subitamente; siete voi una volta?... Oh sia ringraziato il cielo! Nessuno rispose. Ma, poco stante, un bussare forte e strano all'uscio risonò nelle tre stanzette del povero quartiere. — Ohe! che rumore di casa del diavolo, signor abate? gridò stizzosa la vecchia. Bella musica dopo averci fatto aspettare tutto il dì e tutta la notte! Intanto Maria era corsa ad aprire. Si presentaron due sconosciuti, col cappello basso su gli occhi, abbottonati fin sotto al mento in un palandrano nero. La fanciulla diede un grido, e balzò indietro atterrita; la vecchia spalancò tanto d'occhi, e facendosi ritta ritta su la persona, appuntò le braccia su l'anche, in atto di stupore e di dispetto. Ma l'uno de' due sconosciuti, avanzatosi verso le donne, si pose l'indice della mano attraverso le labbra, e, — State zitte, disse loro, non v'inquietate, non gridate! Non veniamo per farvi nessun male, noi siamo impiegati, facciamo il nostro dovere; e non si cerca di voi. Ma, per amore, silenzio! — Eh! ch'io non so niente, e qui non c'è nessuno, cominciò a gridare la vecchia. E... e... — Silenzio, dico, adesso! ripetè colui; risponderete a quel che siamo per domandarvi. E voi, soggiunse voltandosi al compagno — una faccia lunga, scura e smorta, che gli stava sempre alle calcagna, come la sua ombra — ponetevi là, a quel tavolino, e scrivete! E l'altro fece, senza dir nulla. — Siete voi la vedova Giuditta ****? chiese allora l'uomo che parlava. — Sì, son io! rispos'ella; ma perchè voi... perchè lui... perchè io... — Voi, tacete! e la giovine qui presente è la nominata Angiola Maria ****? — Son io quella, rispose alla sua volta la fanciulla, ma con voce debole e tremante. — Bene! E si rivolse di nuovo alla vecchia: Abita in casa vostra il prete Carlo ****, fratello di questa giovine? — Sì, ma è solamente da pochi dì, ch'io stessa gli ho fatto il piacere di tenerlo qui, con sua sorella; e l'ho fatto perchè siam vecchi amici, e se a questo mondo non ci fosse un po' di carità... — Basta, tacete! Non ho domandato questo. — Ma se non posso tacere! Sono una donna onesta, nè voglio che nessuno... — Tacete! vi replico, e badate a me. Da quanto tempo quel prete abitava qui? — Fanno giusto quindici giorni ieri...... fu un venerdì! Quando si dice!... Ecco che cosa vuol dire un venerdì!... In verità santa, è una cosa da non credere... Una storia simile non m'è capitata mai! — Volete finirla con queste chiacchiere inutili? Ditemi piuttosto, dove tenete la roba del vostro ospite? La Giuditta, inasprita più che mai, non sapendo comprendere la ragione di quell'interrogatorio, rispose alzando le spalle, e con un gesto indicò l'altra camera; poi si mise a guardare or l'una or l'altra di quelle due faccie, per vedere se le riuscisse di poter raccapezzare qualche cosa di così fatto garbuglio. Ma l'uno senza complimenti, preso un lume ch'era sulla tavola, l'accese, e passò nella vicina stanza, come fosse in casa sua; e l'altro intanto continuava a scrivere col muso duro, con gli occhi inchiodati sul suo scartafaccio. Maria, tutta piena di spavento, non osava quasi respirare; essa aveva indovinato che il suo povero Carlo correva qualche gran pericolo, che coloro eran venuti per metter le mani sul fatto suo; e, resa ardita dal suo stesso terrore, si mosse per correr dietro a quell'uomo, e domandargli, per la pietà del cielo, che cosa fosse avvenuto del fratel suo. Ma colui, avendo trovato di là ciò che cercava, ricomparve su l'uscio, tenendo sotto il braccio un piccolo fascio di carte, e alcuni libri (erano le memorie, il breviario, il vecchio Dante e la Bibbia del buon prete). Pose il tutto su la tavola, rilegò con somma diligenza il fascio, e v'improntò, senz'altro dire, un gran suggello. Poi, volgendosi alla giovinetta, tolse fuori e le porse una lettera dicendo: — È di vostro fratello! Per quest'oggi la nostra incombenza è finita. Buona notte!... E fece un cenno al collega; il quale si levò, ripose via il grosso scartafaccio, e si chiuse di nuovo nel suo palandrano. E per dov'erano venuti, uscirono. La fanciulla allora s'abbandonò su la seggiola ch'era più vicina, tenendo stretto fra le mani il foglio fatale, che non aveva cuore d'aprire. Ma quando la vecchia, strabiliata ancora di quant'era succeduto, fece per toglierle quella carta, allora Maria la riguardò in volto, corrucciata insieme e pietosa, poi chinò gli occhi, e lesse, che quasi le mancava la voce: «Maria, mia cara sorella! «Colui che ti consegnerà questa lettera, ti dirà anche ciò che sia di me. Il cuore mi piange di dover lasciarti sola per qualche tempo; ma rassicurati, non sarà che per pochi dì, forse per poche ore! Pure, te ne prego, fa in modo che nostra madre venga anch'essa al più presto a Milano. Povera donna!... Ma in quanto a me, non le dir altro per carità, se non che sono ammalato, che spero e ho bisogno di rivederla. Il cielo benedica te e lei. Di' ancora alla buona signora Giuditta, che mi compatisca e mi perdoni. — Tu intanto prega il Signore per me, e fatti cuore; io non ho nulla di che rimproverarmi in faccia agli uomini. Mia amata, mia infelice sorella! ricordati sempre, che quanto succede quaggiù, è tutto per volontà di Dio!...» Misera giovinetta! — Che cuore fosse il suo allora, di quale spavento, di quali fantasmi fosse agitata e piena per essa la notte che seguì quel terribile giorno, nessuno il potrebbe immaginare, non che dirlo. Aimè! tutto l'affanno che può versarsi in cuore umano, era versato nel suo; e per maggior dolore, la sorgente di questa nuova sciagura era un mistero per lei! VI. IL FRATELLO E LA MADRE. La mattina del dì appresso, la signora Giuditta che aveva la mente intorbidata dalle conghietture più strane, e si sentiva morir della voglia di sfogarsi con qualcheduno, mise sossopra la casa e il vicinato, e raccontò a tutti il suo gran caso. A credere a lei, si trattava di cose straordinarie; e com'ella non ci poteva veder dentro chiaro, così s'era ficcato in capo di trovare il bandolo della matassa. Dunque, in manco d'un'ora, aveva narrato la strana avventura della notte alla portinaia della casa, alla moglie dello speziale dirimpetto, perfino alla fruttaiuola e alla lattivendola del contorno; ma nessuna di queste comari, com'è naturale, ne sapeva niente; e quando le avevano risposto con un:.. Oh!..» Bontà divina!... o che so altro, avevan finito. La signora Giuditta stava per tornarsene e casa, con la sua pettegola curiosità in corpo, quando la sorte la fece incontrare col signor Giosuè, uomo di un certo conto, e priore della dottrina cristiana nella parrocchia, il quale era tutto cosa sua. A costui dunque, come bene pensate, ella ricantò la sua storia, non gli facendo grazia del più piccolo particolare. Ed egli allora, ch'era un di coloro che sanno o credono di sapere tutto quello che succede e non succede, tirandola in disparte con un'aria cupa, — Cara signora Giuditta, le disse col sussiego di chi dà un gran parere, io so come va il mondo! Tutti i salmi finiscono in gloria, e una donna come voi... non so se mi spieghi... Basta, avete fatto male a impicciarvi con certa gente... — Ma lei ne sa dunque qualcosa? — E dàlle! volete voi venirle a contare a me? Sentite mo. Jeri mattina, giusto alle dieci ore, io mi trovava nella sagrestìa, intanto che quel prete stava dicendo messa. Veggo entrare due signori, che vengono dritto verso di me, mi pigliano in mezzo, così alla buona come fossero miei amici da vent'anni, e mi domandano il nome e cognome del prete... Io mo ne sono subito addato... — Sì! sì! ebbene? — Risposi loro con pulitezza; ed essi, senza cerimonie, si misero a sedere, uno da una parte, l'altro dall'altra, parlandosi fra loro con certe occhiate di traverso... finchè la messa finì. E pensare, che io quel momento fui tanto sciocco d'interrogarli che cosa volessero!... L'uno mi fissò gli occhi addosso e non rispose, l'altro brontolò fra' denti: La non è cosa che la riguardi; e mi voltò le spalle. — Son quelli, scommetterei che son quelli stessi: dica, dica su... — Insomma, finita che fu la messa, e tornato il prete nella sagrestia, quei due signori s'alzarono, gli andarono incontro in atto di rispetto, ed egli a loro... bisogna che si conoscessero! E l'un d'essi gli disse alcune poche parole, ch'io non intesi... Il prete allora impallidì, diventò bianco come il camice che aveva appena posto giù, poi rosso come bragia, guardò intorno, sospirò e disse chiaro: Sono pronto, vengo con loro!... Io restai di sasso e, non so perchè, sentivo le gambe barcollarmi sotto... Egli in vece, credereste? passandomi vicino mi rivolse uno sguardo tranquillo, e disse: Caro signor Giosuè, a rivederci! — Oh la cosa non è dunque tanto seria, com'io credeva!... — Non m'interrompete adesso! Una carrozza era fuori della chiesa ad aspettare. Nel porre il piede sul predellino, egli si fece il segno della croce, poi si mise dentro, e quei due dietro a lui. E io, alla lontana, così come n'andassi per i fatti miei, tenni dietro alla carrozza... Ma quando la vidi svoltar la cantonata, e compresi dove l'andava a riuscire... ho detto dentro di me: Tutti i salmi finiscono in gloria! Ci siamo, è fatta!... e presi un'altra strada. — Tutto va bene, ma fin qui non ci capisco ancora il perchè... — Il perchè? il perchè? ci son certi perchè al mondo, così serii, che non bisogna cercar di sapere, o quando mai per disgrazia si sanno, tacerli!... Con voi però, che siete donna prudente, posso dire una parola. Sappiate dunque che quel prete s'è trovato in un grosso guaio con un gran signore forestiero; che, pochi dì fa, dev'essere fra loro avvenuta una scena scandalosa, per causa d'una giovine, d'una fuga, d'un rapimento, d'un intrigo... cose, cose che mettono in compromesso la coscienza e qualche cosa di più. Dunque tutto è spiegato. E poi, quand'uno se la prende contro i pesci grossi, gli è raro che n'esca netto... So quel che dico, lo so di buon luogo, e l'affare è chiaro! Voi però non ve ne impacciate. E, per carità, abbiate giudizio con chi che sia!... Già ve l'ho pur detto, la prudenza non è stata messa per niente tra le virtù cardinali. — O signor Giosuè, si figuri! Solo mi dispiace per quella povera giovine... — Sopra tutto non state ad aprir bocca con lei! Non ci mancherebb'altro! — Bene, tacerò... le prometto che tacerò. — Si, sarà meglio, chè mi pento quasi di aver parlato io! Oh, signora Giuditta, a rivederci. — Un momento, dica... senta... Il priore della dottrina cristiana gli aveva voltato il tergo, e se n'era ito. La signora Giuditta, con la fantasia agitata, in un mar di pensieri, combattuta fra il desiderio di spiegarsi con Maria (la quale, secondo lei, era la colpa di tutto) e la promessa data di tacere, trovò appena la strada di casa sua. Quando entrò, la fanciulla le venne incontro interrogandola con gli occhi, se mai le recasse qualche buona novella; e in quel suo sguardo, in quella sembianza, leggevasi tutto l'affanno d'un'anima che non crede a una sventura e non ha la forza per sostenerla. La vedova, a cui pizzicava la voglia di parlare e di dire alla poveretta: Tutto è stato causa vostra anch'essa ne fu veramente tocca; e la compassione le suggerì qualche parola d'amicizia e di conforto. Al che la fanciulla rispose con lo stringere e baciare le mani di lei, in atto di viva gratitudine e di dolore, sforzandosi di parer tranquilla. Rilessero insieme la lettera del vicecurato; conghietturavano, dicevano dieci volte le stesse ragioni, ma non sapevano che ben fare. Alla fine fu stabilito fra di loro, che prima di scrivere alla mamma Caterina, come raccomandava la lettera, o d'andare a prenderla al paese, come voleva Maria, avrebbero aspettato fino al posdomani, affidate che potesse in quel mezzo ritornare don Carlo. Ma il posdomani passò, e non comparve persona, e non venne parola. Perduta quella poca speranza che per i cuori buoni ha sempre qualche sorriso, benchè mesto e solitario come un fil di luce, Maria cominciò a pentirsi di non esser subito partita a cercare sua madre; e, d'una in altra fantasia, andava creando le più funeste cose del mondo. E quantunque la vedova fosse stata prudente, forse per la prima volta in vita sua, e le avesse taciuto i sospetti di quella sparizione; pure, fra gli altri dolorosi pensieri, venne in mente a Maria anche questo che quant'era avvenuto poteva essere una vendetta dell'uomo potente con cui il fratel suo aveva ardito cozzare per salvarla. Ma tal pensiero era così grave e terribile, che al suo cuore mancava la forza di sopportarlo. Così abbandonavasi alle sue dolenti illusioni, alle sue inquiete paure. Intanto la vedova aveva trovato modo, per via d'un ex-procuratore del suo antico padrone, di far sapere ogni cosa alla mamma Caterina, affinchè, il più presto che poteva, affrettasse di trasferirsi a Milano: a dir quel ch'era, tutto il trambusto di que' giorni non le dava poco pensiero; nè si sarebbe accomodata, in caso di qualche cosa di grave, a tenersi in casa per un pezzo quella giovine, ch'era stata la pietra dello scandalo e che in fin dei conti non le apparteneva. Per consolare Maria, le annunziò dunque che fra due o tre giorni, alla più lunga, sarebbe venuta sua madre, ch'ella stessa s'era per ciò raccomandata a una persona di proposito, e che non occorreva la si pigliasse altro fastidio. Questa novella e l'idea di trovarsi presto nelle braccia della madre, rasserenarono per quel giorno l'anima e la fronte della giovinetta; e una consolazione le ne promise vicina un'altra, quella di poter finalmente rivedere anche il fratello. Passati tre giorni, un biroccio s'arrestava alla porta del palazzo. Era dessa, la comare Caterina, venuta a Milano in compagnia del signor Gaspero, quel vecchio possidente che abbiamo incontrato più d'una volta in questa storia semplice e nostrale. Costui aveva ricevuta una lettera del procuratore al quale la signora Giuditta s'era raccomandata: e, inteso di che si trattava, senz'indugio persuase alla Caterina quel piccolo viaggio, la condusse con sè a Como; e qui noleggiata una vettura, l'accompagnò egli stesso a Milano, dove per abitudine capitava sempre una volta all'anno. Maria era accorsa alla piccola finestra del cortile. Ella guardò, vide di lontano la madre che si congedava dal suo compagno di viaggio, ne intese la voce, e dimenticò tutto. Pochi momenti appresso, Caterina stringeva tra le braccia la sua povera figlia, e Maria nascondeva sul seno materno il viso, che solo per un istante si tinse ancora del suo vivo colore. Senza piangere, senza parlare, stettero così in quel dolce e prolungato abbracciamento; e pareva che la fanciulla non volesse distaccarsene più. — Maria, mia buona e cara figliuola, disse alla fine la madre. Oh! perchè m'hai tu abbandonata? questi sei mesi sono stati sei anni per me! Oh Madonna santa! come ti sei cambiata, povera tosa! Non ti riconosco più!... Ma com'è mai che ti trovo qui? Non sei più nella casa di quel signore inglese?... E voi, signora Giuditta, e mio figlio... è qui don Carlo? ma perchè non ho io saputo niente fin adesso?... M' hanno detto ch'era ammalato... io voglio vederlo! dov'è egli?... Ditelo dunque, non mi fate penare!... Queste molte inchieste, che alla misera suggeriva tutto in un punto il materno suo cuore, posero nell'impaccio la vedova; la quale s'era bene accorta che la vecchia comare era al buio di tutto. Maria non aveva coraggio di dire una parola; e guardava, guardava la madre, senza togliere mai gli occhi da quell'amato volto, in cui la solitudine ed il dolore avevano in poco tempo solcate più profonde le rughe dell'età. Ma, atteggiata com'ella era, in muta e affannosa contemplazione, la sua celeste figura suscitava nell'anima una pietà mista a terrore. Alla fine la Giuditta, fatta la faccia tosta e il cuor duro, pensò: Qui è meglio parlare; un momento o l'altro, bisogna pur ch'ella sappia tutto... — Cara la mia Caterina, prese dunque a dire, non vi crucciate così: fatevi un po' di coraggio! — Oh misericordia! che male c'è di nuovo?... — Già lo sapete, a questo mondo dei cattivi ce n'è anche troppi! E son sempre gli stracci che vanno all'aria, come dice il proverbio... E tocca spesso ai buoni a portare la pena dei tristi... — Oh santa pazienza! parlate, non mi tenete qui su le spine... — Eh! ognuno ha la sua croce, e c'è chi deve portarla anche per gli altri... E già si sa, bisogna star preparati sempre... — A che? ma dite su una volta! parla tu, Maria; chè in questo modo ben più mi spaventate e mi fate morire! Mio figlio sta forse male? forse... — No, no, egli sta bene, ma... — Signore, datemi cuore! ma che?... Per tutta risposta, Maria non fece che gettarsi un'altra volta nelle braccia di sua madre. E la vedova raccontò tutto quel che sapeva, tacendone però la cagione, per la pietà di Maria. La povera donna non volle credere a nulla; il colpo era troppo forte, e l'anima sua semplice e piena d'amore non lo sostenne. Ella non pensò nemmeno a chiedere il perchè di quella rovina; non poteva dubitare che il figlio non fosse innocente; il nome di suo figlio era sempre stato per lei come quello d'un santo. Stanca degli anni e sola, ella metteva in lui tutto il suo cuore, tutto il suo tenero orgoglio di madre: aveva speranza e vita nell'unico amato, il quale dopo la morte del suo pover'uomo, com'essa diceva, doveva essere il padre della sua Maria. La buona donna! Nella solitudine della sua dimora, un tempo rallegrata dalla presenza e dall'affetto de' suoi cari e poi rimasta vòta, deserta, come un sepolcro, ella si consolava e si pasceva dell'idea, che l'uno o l'altra avrebbero sortito una modesta e onorevole condizione su la terra, e che un giorno forse ne' suoi più tardi anni, l'avrebbero circondata di cure e d'amore, e a larga mano compensata de' sacrifizii fatti, e della vita tediosa che trascinava. Non si rammaricava mai che sola compagnia le restasse la vecchia Marta, perchè conosceva il cuore de' figli suoi, e le pareva quasi d'abitar con loro, di viver con loro, quantunque lontani; l'unico desiderio che nutrisse, era di poterli di tanto in tanto rivedere; e ogni dì si teneva certa di presto abbracciarli, in questa certezza essendo tutta la sua gioia. Seduta sovente, al tepido sole delle mattine d'inverno, sotto la nuda pergola della casa, con la sua conocchia fedele, la buona madre pensava alla povertà, alla pace, raccontava la storia d'altri anni, raccontava quella dell'avvenire; ed era felice quando parlava della sua bella Maria o del suo curato alla Maria che le sedeva rimpetto, pettinando la matassine del lino. E allora, senz'avvedersene, le due comari s'arrestavano dal lavoro; all'una spezzavasi il filo della conocchia o cadeva di mano il fuso; all'altra si perdeva il lino nelle punte del pettine. Ma entrambe, in que' momenti, sollevavano al cielo gli occhi e il cuore, con un pensiero più santo d'ogni preghiera, e del pari benedetto. Ma ora che diversi pensieri, che mutamento! La mamma Caterina, per tutto quel dì e per molti altri ancora, non volle ascoltare ragione, nè consolazione, nè speranza; non domandava che suo figlio, non voleva che vederlo. Ed essa pure, come prima aveva fatto Maria, si figurava alla mente angustie e spaventi, s'abbandonava ai più tristi presagi, non porgeva più orecchio a nulla, nemmeno al piangere della sua figliuola. Fu allora che l'amorosa fanciulla, la quale innanzi alla venuta della madre credeva di dover ben presto finire nell'affanno di que' giorni, si sentì maggiore di sè stessa. Una virtù, ignota a lei fino allora, la costanza nel soffrire raddoppiò il suo debole coraggio; ma la sua fermezza, la calma delle parole e degli atti avrebbero dimostrato ben più crudele il martirio dell'anima a chi avesse potuto vedere il suo segreto. Ella soffogava le lagrime; ed era ne' momenti del maggior dolore, che la sua voce si faceva più sicura e più affettuosa. E sorrideva; era un riso malinconico il suo, ma era un riso celeste. In que' giorni che sempre da uno stesso travaglio misurati fanno parer eterna la vita, così Maria con l'amor suo procacciava d'ingannare a sua madre le ore contate dall'afflizione; essa ragionava di tante cose passate, della loro casa, della vigna su la costa, della vecchia Marta, degli altri amici del paese. E ringraziava il cielo con tutta l'anima, quando vedeva che le sue parole avevano temperata per poco l'amarezza della sciagura presente. Ella nascose nel fondo del proprio cuore tutta la sua parte d'affanni; ella comprese e tolse sopra di sè quel dolore inesprimibile, che solamente pel cuor delle madri non è un mistero; quell'angoscia, la quale non trovava parole nè lagrime, perchè ha de' segreti che a umano orecchio non possono confidarsi e che il cuore altrui non ha mai conosciuto. Non v'è piaga quaggiù che il tempo non sani; l'abitudine stessa del soffrire può talvolta diventar quasi cara e necessaria; l'amore, l'ambizione, la vendetta, il rimorso, lascieranno pur una volta in pace l'anima di cui han fatto strazio; ma la ferita che porta il cuor d'una madre per amore de' figli suoi, non v'ha balsamo che la medichi, non felicità nè tempo che vi spargano sopra la mesta consolazione dell'obblio. Così, abbandonate e senza saper nulla mai di quel loro caro, Caterina e Maria trascinavano i dì, le settimane, in casa della vedova; la quale non aveva potuto far di meno di tenerle con sè per qualche tempo ancora, quand'esse, deliberate d'aspettare che fosse decisa la sorte del prete, ne la pregarono, a patto di pagarle trenta soldi al giorno, per le spese. Ciò veramente andava poco a' versi alla Giuditta, causa la paura di cert'altre visite della specie di quella prima che non aveva ancora dimenticata; ma poi, per amor di bene, non seppe dir di no. Una mattina, erano uscite di buon'ora le due donne per andare insieme a vendere a qualche mercante di mode un velo nero trapunto dalla Maria, in que' dì solitari e mesti: era dessa, che col lavoro delle sue mani sostentava anche la madre. Essendo a caso capitate presso la piccola chiesa di S.***, la Caterina, la quale non lasciava passar giorno che non andasse a pregare il Signore per il suo povero figliuolo e per sè stessa, si volse a quella parte e fece per entrar nella chiesa. Ma d'improvviso la fanciulla, tutta compresa dal terrore d'una funesta ricordanza, le si strinse al braccio, la trattenne, e con voce segreta e supplichevole: — Oh no! madre mia, non andiamo in questa chiesa; io non devo, non posso entrarvi più. — Perchè, Maria, perchè?... Che hai? tu tremi, diventi smorta! ti senti male? — No! madre mia, è un segreto.... un segreto che nessuno doveva conoscere! Ah se sapeste che in questa chiesa.... O mio Dio! toglietene per sempre dal mio cuore la memoria! — Maria! che mistero è questo? parla, dimmi... — Qui no, no, cara madre!... Torniamo a casa, ve ne prego, e vi dirò tutto. Oh povera me, oh povero mio fratello! E tornarono a casa. In quel giorno Maria non trovò parola che potesse spargere un po' di serenità su l'addolorata fronte di sua madre. Attendeva taciturna a' suoi lavori, s'appartava soletta a ricamare al telaio, per nascondere la viva angoscia che l'opprimeva; ma più d'una volta un leggero gemito, un volger degli occhi al cielo, un giunger le mani inquietamente, scoprivano il patimento del suo cuore. Invano la madre la stimolava a confidarle quel segreto. — Oggi non potrei, rispondeva; domani, mamma, domani saprai tutto! Oh dimmi prima che mi perdonerai! Pure, venuta la sera, quand'esse rimasero sole, in tempo che la vedova era discesa dalla portinaia della casa a pescar le novità, ch'erano poi sempre le solite, la fanciulla non potè resistere più alla materna preghiera; e con molte parole, spesso interrotte da lacrime e da scuse, raccontò l'amor suo, la promessa, il giuramento che quel giovine le aveva fatto, i dubbii, il timore che le avevano persuaso di ricorrere al fratello, e tutto ciò ch'era avvenuto di poi; e in fine non tacque nemmeno ch'ella si teneva certa di non essere stata tradita, e aveva la persuasione che la disgrazia del suo povero fratello non era avvenuta per causa sua. La buona Caterina amava tanto la figliuola che non ebbe pure il pensiero di farle il più piccolo rimprovero, perchè si fosse abbandonata ad un innocente sì, ma incauto affetto. In vece le compativa, e procurava ella stessa di consolar quella fede e quell'ingenua aspettativa, ch'erano la vita della sua Maria. Così la conoscenza di quel segreto, se non valse a scemare, parve almeno far più leggero, col disviarlo, il dolore delle due disgraziate: poichè sembra che un'arcana pietà del cielo nutra il conforto della fiducia nel momento più grave dell'affanno, e rivolga a consolazione d'un cuore travagliato quelle stesse memorie che a un cuore libero sarebbero di troppo molesto peso. E così forse il Signore le preparava a poco a poco a una più tremenda, inaspettata disavventura. In quella stessa sera, la madre e la figlia sentivano nell'anima una confidenza cara quasi al pari della certezza; e quantunque fosse riuscito vano il poco che avevano potuto tentare a fine di rivedere il loro Carlo, o di sapere almeno qualche cosa di quell'unica vita in cui s'eran raccolte tutte le loro speranze, tutti i loro timori, pure non avevan creduto mai come allora a un buon presentimento. Maria, seduta accanto del tavolino, stava leggendo una pagina d'un suo libricciolo alla madre e alla vedova amica; le quali, composte a religiosa attenzione, pendevano dalle labbra di lei; quel libro era l'ultimo ricordo donatole dal fratello, era l'aureo volumetto dell'Imitazione di Cristo. Essa leggeva, e l'incerto raggio del lume che le ardeva vicino, sembrava quasi circondare la sua candida fronte di quell'aureola, che si suol vedere dipinta intorno alla testa de' santi. «Non si turbi dunque il tuo cuore, e non abbia paura. «Abbi fede in me, e nella mia misericordia ti fida. «Quando tu pensi d'essermi più lontano, allora è spesse volte ch'io ti son più vicino. «Quando tu credi quasi perduta ogni cosa, allora le più volte tu hai in mano maggior materia di merito. «Non è tutto gittato, perchè alcuna cosa ti sia avvenuta sinistramente. «Non dêi tu giudicar delle cose secondo il presente tuo sentimento, nè per alcuna disavventura, onde che ella ti avvenga, scorarti tanto perdutamente, nè in modo riceverla, come se ogni speranza ti fosse tolta di dovertene rilevare mai più. «Non volerti credere derelitto del tutto, se per alcun tempo io ti mandi alcuna tribolazione, oppure io ti ritolga la bramata consolazione; essendo che per tal via si va al regno de' cieli.... «Quello che ti ho dato, il mi posso ritogliere, e rendertelo quando mi piaccia. «Quando alcuna cosa ti do, ella è mia: quando me la riprendo, non prendo del tuo; poichè mio è ogni bene e ogni dono perfetto. «Se io ti lascio venire gravezza alcuna o avversità, non isdegnartene, nè cader di animo; io posso rilevartene prestamente e cambiarti in gaudio ogni noia. «Ma non pertanto io son giusto, e da commendare altamente, quando io fo questo con te!...» La fanciulla leggeva queste schiette e sublimi parole con tanta verità e dolcezza, che parvero alle due donne un consiglio venuto dal cielo. — O mia madre! disse poi Maria, il libretto che vedete è un dono che m'ha fatto, gli è poco tempo, il nostro Carlo! E queste parole mi sembran le sue... Io mi ricordo ch'egli stesso me le fece leggere un giorno, quel primo giorno che venne lassù a visitarci, dopo la morte di nostro padre. E ogni volta ch'io ne rileggo solo una pagina, non so come, mi sento più forte, più in pace.... Oh! egli è buono, egli è un'anima santa, il nostro Carlo, e il Signore avrà pietà di lui e di noi! Caterina abbracciò sua figlia con gran tenerezza, e poi staccossi da lei, per andare a coricarsi. La fanciulla, rimasta sola, riaperse a caso il libro, e le cadde sott'occhio un foglietto scritto dalla mano di suo fratello, e forse dimenticato là entro: eran gli ultimi versi ch'egli aveva dettati. IL CALICE DEL DOLORE. O Signor, s'egli è decreto Che il tuo servo a te ritorni, Pria che pieni egli abbia i giorni, Io t'adoro umíle e lieto! Vegga alcun di me più degno Il meriggio del tuo regno. Sento anch'io, che s'avvicina La stagione a me suprema; Pure ondeggia, e spera, e trema L'alma schiava e pellegrina; Come indomito nemico, Sorge ancora il dubbio antico. Tu che il puoi, Tu la tempesta Della vita, o Dio, m'acqueta! Del tuo raggio almen fa lieta La brev'ora che mi resta. Quanto io piansi, e quanto amai, O mio Dio, Tu solo il sai! Nella polve a Te prostrato, Bevvi al calice del duolo: Ebbi un voto, un grido solo, Sotto il pondo del mio fato! Ma la voce dell'eletto I fratelli han maledetto. O mia patria antica e bella, O mio sole, io vi saluto! E tu, madre, e tu, sorella, Ond'è mai quel pianger muto? Ogni stilla è in ciel raccolta: Ah pregate! Iddio v'ascolta. Deh! se il figlio t'abbandona Tutta sola in questa terra, Al dolor della sua guerra, Pensa, o madre, e gli perdona! La sua vece è omai compiuta, L'ora santa è già venuta. Apri, o Dio, la ferrea stanza, Che non s'apre al mio lamento; Scendi a me nel gran momento, Mi rinnova la speranza; Su la bocca scolorita Posa l'ostia della vita! Prega allor, mia dolce suora, Fior che il cielo in terra mise, Che le nostre alme divise Ricongiunga l'ultim'ora! Prega, e riedi alla tua sfera; Patria questa a noi non era! La fanciulla lasciò cadere una calda lagrima su gli amati caratteri, i quali, mentre leggeva, le si offuscavano, le si confondevano sotto gli occhi... Ma il terrore ristagnò il pianto, un arcano terrore più grande d'ogni angoscia. Dio buono! quelle parole eran dolorose, come il lamento d'un uomo vicino a morire. Allora la poveretta perdè il cuore, e volle, ma non potè piangere. Batteva la mezzanotte. Que' rintocchi sordi, prolungati dell'ore le rispondevano fino all'anima, come il suono lento della campana dell'agonia. Era sola, in mezzo a una luce fioca, moribonda, a quella luce stanca, ondeggiante della candela vicina a spegnersi; i suoi pensieri erravano dietro le incerte larve della fantasia, si facevan tutti d'un fosco colore; una tema assidua, indefinita, uno stringimento al cuore, strano, non provato mai, eran più forti del suo coraggio. Ella fece pochi passi per accostarsi al suo letto, ch'era in un canto di quella camera; ma non n'ebbe la lena, e sedette di nuovo allo stesso luogo. Allentò su la tavola le braccia in croce l'uno sopra l'altro, e su vi lasciò cadere il capo oppresso e stanco. Allora fu la pietà del cielo che diffuse nelle gracili sue membra quel profondo sopore che somiglia al sonno, e che, se non conforta, interrompe almeno la fatica d'un gran dolore. E la misera ne aveva tanto bisogno! Il dì seguente, si mormorò da alcuni, e la terribile nuova giunse pure alle sventuratissime due donne, che in quella stessa notte, colto da sùbita e crudel malattia in poche ore, il povero don Carlo era morto. Fu un rumore sordo, occulto, ben presto soffocato e ben presto dimenticato. Ma passati due mesi, nessuno seppe, nessuno raccontò che la disgraziata sua madre finisse anch'essa di crepacuore e di miseria in un letto dell'ospedale. La morte d'una madre è cosa troppo santa e pietosa; a me mancan le parole per raccontarla, e la fanciulla anch'essa non confidò il segreto di questo suo dolore a nessuno.... Ella non aveva più nè fratello, nè madre. Povera Maria abbandonata! VII. IL PANE ALTRUI. Ditemi dove sia chi ricordi le gioie e i dolori del povero, chi ne racconti l'amore schietto e vero, come la sua povertà, la buon'amicizia, la generosità che ignora sè stessa; ditemi dove sia chi dipinga la sua virtù, più feconda di quella de' sapienti, la sua fede sincera, la sua speranza nell'altra vita? E chi volete che ripeta le rozze canzoni del povero, la sua spensierata ilarità, che numeri le sue dure giornate e i figli suoi, che rammenti il suo nome, di padre in figlio; se, quando battè stanco del cammino alla porta altrui, nessuno gli aperse, se nessuno sa che egli era vivo, e che poi è morto? Eppure le catapecchie aperte al sole e al vento sorgono accanto de' bei palazzi, e al piede delle ville superbe stanno i tugurii co' loro spenti focolari. Per le strade e pe' corsi, la carrozza del signore urta e sperde la folla; e vedi il funerale del povero andar rasente la muraglia della via, quasi messo in fuga, mentre la turba curiosa s'arresta a contemplare un cocchio vòto e due livree listate d'oro, alla porta d'un antico palazzo. Ma la provvidenza non dimentica i poveri che sopportano la fatica, che non chiedono altra consolazione, tranne quella di guadagnare il pane pe' loro figliuoli. Essa sola può rendere il bene fecondo per tutti, essa che dalla debolezza suscita, quando che sia, il coraggio e la forza, essa che fa nascere dalle lagrime la gioia, e apparecchia la pace a coloro che han sostenuto lunghe prove; quella gioia che si ravviva a ogni lieta benchè piccola vicenda, e quella pace che s'acquista quando il cuore senza viltà può benedire altrui. Il povero che divide col fratello più infelice di lui la mercede prima numerata con avara brama, si getta la notte sul suo stramazzo, forse più tranquillo e pago che non il milionario, quando si riposa in letto sprimacciato, su' gonfi guanciali, protetto dal baldacchino di velo frangiato, dopo avere aperta una scuola, o fondato un ospedale, dove gli par già di vedere, su la fronte della porta, scolpito in pietra il suo nome e i suoi titoli superbi, pagati coll'oro, o con la viltà. E poi nessuno v'è che poco o assai non viva per la domane. Se a ogni passo trovi chi bestemmia la povertà ne' giorni numerati sempre dagli stenti, i balzelli che non ristanno, il pane che rincara, trovi pure chi maledice alle noie della vita, al piacere marcito dall'abitudine, alla grandezza che fugge sempre, all'anima stessa che non si riposa mai. E lo scontento agita gli uni e gli altri: colui che vanta un gran nome e un gran censo, che ha sempre pranzi e ville, donne, cavalli e teatri, sen va felice d'essere invidiato; ma egli stesso ben sovente invidia la ruvida indifferenza, la credula mente, e la dura libertà del povero. Intanto gli anni passano per tutti, il sole nasce e tramonta su le prosperità e su le disavventure umane, la natura spoglia e riveste la sua bellezza; ma l'età perde i suoi fiori, e non si rinnova più! E l'uomo, quest'essere così fiacco insieme e forte, così timido e così audace, l'uomo non sente venir meno la vita, e cedere quasi sotto ai piedi la terra; non s'accorge che, a una a una, sfumano innanzi a lui le più gentili e care illusioni, che la sua memoria ha l'ale corte, che il suo cuore si va sempre più stancando di battere..... Oh quant'è più felice colui, il quale, nell'allegrezza e nel dolore, non sa che credere, sperare e amare! Sul cadere di una malinconica giornata di novembre — era appunto il dì de' morti — un'orfanella, in povero ma decente vestito bruno, e coperta d'un velo, se n'andava, assorta in profondi pensieri, verso il campo santo suburbano di Porta Tosa. Il sole non era tramontato ancora; ma si nascondeva innanzi tempo dietro una gran fascia cenerognola di nuvole; e pareva negare il mesto e poetico saluto dell'ultimo suo raggio a quella vasta e sacra campagna, tutta seminata di basse croci, e a quella gente buona e fedele, venuta a consacrare un'ora alla memoria e alla preghiera, nel soggiorno de' trapassati. L'orfanella entrava anch'essa nel campo santo, in mezzo a una processione di povere donne, delle quali parecchie venivano traendosi dietro due o tre figliuoletti, alcune si recavano un bambino su le braccia, altre camminavan sole e taciturne; e quale se ne andava pregando in compagnia, e quale piangeva, e quale si fermava in un compunto raccoglimento. Essa attraversava que' nudi sentieri; e lasciava dietro a sè alcuni buoni vecchi, che, tenendo il bastoncello in una mano e il rosario nell'altra, recitavano con mesta cantilena quelle orazioni che presto dovevano esser ripetute sul proprio loro capo. Vedeva, qua e là, al piede della bassa muraglia, all'angolo di qualche cippo, mendicanti accosciati sul terreno, appena coperti dagli ultimi cenci e portanti su le ginocchia le stampelle incrocicchiate, andar invocando lamentevolmente la pietà di chi era men povero di loro: vedeva più d'una madre infelice, circondata dalla miserabile corona di tre o quattro bambini, l'uno lattante, piangenti gli altri, sollevar la testa e con gli sguardi muti e l'estenuato aspetto raccomandarsi alla carità del passeggiero, nel nome di Quella che fu chiamata la Madre de' dolori; e da lontano e da presso, d'intorno a lei, in ogni canto, spargersi in pietosa ricerca, entro per quella folta selva delle croci, intere famiglie; e poi, a mano a mano, ciascuna di queste raccogliersi vicino a una croce nota, inginocchiarvisi all'intorno, rispondere insieme alla stessa preghiera; da un'altra parte, un vecchio già curvo insegnare al figlio adolescente, sul cui braccio s'appoggiava, dove riposasse suo padre e dove la madre sua; e qui, una donna starsene solitaria e muta presso una lapida recente; e là, al piede d'un'altra, due giovanette pari d'età e di sembianza, che sembravan gemelle, spargere pochi fiori e piangere senza ritegno. Maria, la nostra orfanella, s'aggirava anch'essa nel sacro terreno; ma non cercava una croce, perchè questo santo segno non era stato posto per distinguer dall'altre la fossa della povera sua madre. Pure, essa conosceva quella zolla, ignota a tutti, cara a lei sola; essa aveva veduto scavar quella terra, l'aveva visitata, quando nessuno era passato ancora a calpestarla; e di poi, quando un'erba verde e fresca la ricoperse, era tornata spesso a pregare colà; ell'amava quel breve palmo di terra, e amava le bianche pratelline che lo smaltavano. In quel dì solenne, Maria aveva speso i piccoli risparmi del suo guadagno per far celebrare una messa di suffragio per l'anima di sua madre; e poi era venuta a visitare un'altra volta quell'angolo santo, a ripetere una di quelle orazioni, delle quali non è parola che non salga nel cielo. Era là, in ginocchio, con la persona abbandonata mollemente e come stanca; e lasciando cadere sul grembo le mani intrecciate, rivolgeva al cielo la faccia, in quel soavissimo atto in che il Bartolini ha scolpito la sua divina statua della Fiducia in Dio. Affissandosi alla lontana dimora de' cieli, le pareva che l'anima di sua madre potesse di lassù vederla, e che ancora le benedicesse; e in fondo del suo cuore, mista alla dolcezza di quel sacro dovere, si risvegliava una segreta fidanza, una virtù tranquilla, che il Signore non l'avrebbe abbandonata mai. Il solo pensiero che in quell'ora dolorosa le fosse grave era quello di non sapere in qual altro canto di terra avessero portato a riposare per sempre lo sventurato suo fratello, di non potere almeno spargere qualche lagrima là, dove forse nessuno mai aveva detto un _requiem_. Così, benchè sola al mondo, la povera orfana ritrovava ancora la pace nel sentimento religioso dell'innocenza e nella memoria de' pochi che l'amarono! Così, il ricordarsi di quel primo affetto, che sull'alba della vita era stato per essa un amaro disinganno, non la turbava più; non era che un'idea di tranquilla rassegnazione, o un sospiro di timida speranza! Anche il pensiero, che spesso l'assaliva, d'esser predestinata a morir giovine, allora non aveva più spavento per lei; era anzi come la mesta aspettazione di chi non vede l'ora che sia adempita una promessa. Essa aveva già assaggiata l'amarezza d'altri contrasti e d'altre angustie, in quel breve tempo ch'era passato dopo la misera morte del fratello e della madre; e nessun legame più l'univa alla terra. Angiola Maria, dopo perduta la madre, restò per qualche settimana ancora nella casa della signora Giuditta la vedova del maggiordomo; e visse colà abbandonata, ma paga almeno di poter nascondere a tutti il travaglio del suo cuore. Ma quando, a poco a poco, il dolore si fece un po' quieto, e la mente tornò a' pensieri della vita e dell'avvenire, allora conobbe che anche troppo a lungo la vedova s'era pigliato carico di lei, e ch'ella, giovine e fresca com'era, doveva oramai cercare altrove di che vivere con la fatica delle sue mani. Sulle prime deliberava di tornarsene al paese, dove confidava di poter ancora compire onestamente i suoi pochi dì. Ma poi, non ebbe cuore di abbandonar così presto quel luogo dove suo fratello e sua madre eran morti, e dov'essa aveva amato e sofferto. Una mattina dunque, prese il buon punto che la sua vedova amica, la quale, come sapete, era una donna piena di buona volontà per il prossimo, doveva andarsene non so dove, per certa raccomandazione; e arrossendo con una vezzosa modestia: — Ho a pregarla anch'io di una cosa, signora Giuditta, ho a dirle.... — Cosa volete? dite pur su col cuore in mano, la mia figliuola!.... Così la vedova, dopo la morte di Caterina, era solita di nominar l'orfanella, come una pietà segreta le suggeriva. — Ecco qui, diceva Maria, lei ha fatto anche troppo per me; e io vedo in vece di non essere al mondo altro che un peso a quelli che m'han voluto bene... Ah sì, di quanto disturbo, di quant'angustia le siamo state causa noi, la mia povera mamma, e io massimamente! Oh così potessi almanco fare anch'io qualcosa per lei!... Ma pur troppo; non posso altro che tenermi nel cuore il bene ch'ella m'ha fatto, e pregare il Signore, che a lei ne renda altrettanto.... — Oh! non istate a dir così, poverina, chè avete sofferto anche troppo; e io non ho potuto far niente per voi.... — Lo può far adesso, signora Giuditta. Gli è un pezzo che ci penso, e capisco ch'è una vergogna... Buona come sono a guadagnarmi quel poco che mi può bastar a vivere, non devo star qui, come fin adesso, d'incomodo a lei e di bene a nessuno... È ben vero che fuori di lei non ho più chi pensi a me, non ho più a cui pensare: ma, tant'e tanto, ho risoluto d'allogarmi in qualche maniera, di mettermi a qualche servizio. Dica lei stessa, se non è vero che così fo bene?... — Sì, la mia figliuola! avete un cuore, che dirlo è poco; ma v'andate cruciando a torto, e dovete star con me. — No, no: è già troppo gran tempo, le ripeto; o non bisogna da vero che la vada così, perchè n'avrei sempre rimorso in cuore.... — Ma cosa pensate dunque di fare? — Le dirò: prima volevo quasi tornarmene al mio paese, chè là forse potrei ancora trovar qualcheduno che si ricordasse di me; ma poi, venuta al punto di dir addio per sempre a questo luogo, dove avrei dovuto lasciare tutto quanto io aveva di caro, non ebbi forza di farlo; chè quasi mi pareva di perdere per la seconda volta la madre mia. Oh la mi compatisca, signora Giuditta! chè, in verità, c'è de' momenti, ne' quali non so nemmen io perchè sia ancor qui! Ho pochi anni, è vero... ma, adesso, che ho a fare a questo mondo?... — Oh vi compatisco sì, ma certe cose non bisogna poi prenderle tanto sul serio, perchè staremmo freschi allora! Già lo so che avete la testina un po' guasta.... È stata una gran benedetta signora quella nostra padrona! e coll'avervi tenuto con sè ne' vostri primi anni e fatto imparar a leggere e scrivere troppo presto.... Vedete, certe idee che avete voi, io non le ho mai avute, nè anche in sogno. — Ma, lei è buona, e non m'abbandonerà così! Per carità dunque, lei che conosce tante brave persone, mi raccomandi a qualcheduna: chè mi trovino un posto qualunque, un luogo, un servizio, tanto che mi dia come poter campare questi dì che m'avanzano; io cerco poco, e purchè, come le ho detto, non abbia a darle più questa noia, io m'accontento. — Lo farò, Maria, se voi lo volete, lo farò: oh vivesse ancora la buon'anima di mio marito! quello era un uomo di proposito; ha servito sempre delle eccellenze..... ah! ma saran quasi vent'anni ch'è morto!... — O signora Giuditta! una buona parola soltanto, a qualche pia dama, a qualche signora.... può valer molto; e io la terrò come un nuovo benefizio. — Bene, sì! parlerò, vi prometto, lasciate pensare a me... Andrò questa mattina stessa dal signor canonico ****, ch'è un bravo, un sant'uomo, e che conosce tutti gli ottimi signori di Milano.... Ma, non credeste mai che non vi volessi più in casa mia!... — Oh perchè, dopo tutto il bene che m'ha fatto, mi vuol dare questa mortificazione? No, no! l'assicuro, signora Giuditta, quel che le ho detto è il più vivo desiderio che mi sta in cuore! — Dunque farò come volete, e quando prometto io... — E fattole una carezza, se n'andò. Benchè la Giuditta fosse una donnicciuola sincera, e avesse, per dir vero, fatto qualche bene alla nostra fanciulla e a sua madre, nella passata loro strettezza, pure non intendeva di prendersi sopra di sè il peso di quella giovine; la quale, secondo lei, aveva mani e braccia come tutte l'altre, e non era che un po' ammalata di testa. E poi, siccom'essa era sempre stata avvezza a quel monotono andare di vita, a quel piccolo inerte egoismo d'una vecchia governante pensionata, così quel gran guai ch'era sopravvenuto al povero vicecurato, le era parso un pensier del malanno, un garbuglio, un finimondo. Far del bene al prossimo, sì — pensava la Giuditta — quando per l'altrui bene non ci vada il nostro, la salvezza dell'anima, come andrebbe qui; perchè la cosa è seria e brusca.... E se la Caterina era una buona donna, e se la Maria è una tosa d'oro, c'è però di mezzo quella storia scura del prete, che non ho mai potuto capire, e di cui ho fatto bene a tacer sempre, come m'aveva saviamente consigliato il signor Giosuè. Ella dunque non lasciò fuggir l'occasione: la stessa mattina, appena la fanciulla le ebbe spiegato il suo cuore, trottò diritto alla casa del signor canonico; e, trovato il modo di parlargli, narrò la disgrazia dell'orfana, e lo scongiurò, con una litania di lamenti, che la pigliasse sotto la sua protezione. Egli le promise di far qualche cosa, e durò gran fatica a rinviarla, chè la non finiva più di piagnucolare. Passati alcuni dì, la vedova ritornava alla porta del canonico, il quale non era in casa; ma essa, con la pazienza di chi vuol ottenere a qual si sia costo, l'aspettò due lunghe ore. Alla fine il canonico comparve, e veduta che l'ebbe farsegli vicino e attaccarsegli alla zimarra, — Siete una benedetta donna, le disse, ve l'avevo pur detto d'aspettare che vi facessi avvertir io stesso! Ma via, poi che la vi preme tanto, dite a questa vostra giovine che la si presenti, domani, verso mezzodì, alla signora marchesa ****, alla quale ho già parlato di lei; vedrò d'esserci anch'io, e faremo di trovarle un destino. Domani.... a mezzodì.... avete inteso? — Oh quanta carità, signor canonico! Lei fa da vero un'opera santa! — E si chinò per baciargli la mano, ch'egli, per modestia, nascose nelle pieghe della zimarra. — Sì, sì: andate, la mia donna, e ringraziate Dio che ci sieno ancora al mondo persone caritatevoli. — E passò innanzi. Non è a dire quanto lieta tornasse a casa la vecchia Giuditta, con questa novella; lieta, perchè nel riuscirle di metter via, com'essa diceva, una giovine onesta, le era pur concesso alfine di racconciarsi nella sua pace casalinga, salvando l'opinione della pietà. Appena pose il piede sul suo limitare, non potè trattenersi dall'abbracciar la giovinetta, dicendole: Lo sapevo ben io, che quel brav'uomo del signor canonico non promette per niente! Non ve l'ho detto, ch'egli avrebbe subito trovato dove allogarvi?.... Ebbene, la cosa è fatta: domattina vi presenteremo alla marchesa ****, ch'è una gran signora, una dama che ce n'è poche come lei, una di quelle sul far della mia povera padrona, delle quali pur troppo s'è quasi perduta la stampa; mettetevi nelle sue mani, e al resto non pensate; è il caso vostro, e ne son contenta per voi!.... — O signora Giuditta, quanto le devo mai! Queste sue parole danno la vita, e io ne la ringrazierò e benedirò sempre. E Maria passò quella giornata nel rassettare il suo miglior vestito, apparecchiata da quel momento a mettersi per la via che la volontà del Signore le destinasse. Il giorno seguente, al primo tocco del mezzodì, le due donne si trovavano alla casa della marchesa, poichè la Giuditta s'era messo in capo di volere ella stessa presentarla a quella dama. Entrarono in uno di que' vecchi palazzi, che portano un nome storico, e de' quali pochi avanzano nella nostra città; uno di que' palazzi che, in mezzo alle nostre moderne case dalla fronte gretta e linda, dalle molte finestre e da' leggeri terrazzini, mostrano ancora la pesante e soda struttura d'un secolo e mezzo fa, il gran frontone della porta, i muri intonacati di sasso nericcio, i radi e ampii finestroni con le loro fosche invetriate e gli enormi davanzali: appunto come appare talvolta, in mezzo a gaia gioventù, uno di que' zazzeroni sessagenari che non si sono ancora emancipati dalla coda e dalla polvere di Cipri, nè dalle grosse fibbie d'argento alle scarpe, nè dai due tondi orologi di Bordier con le catenelle d'acciaio a pendaglio sotto la giubba larga e quadrata. Per uno scalone, che pareva il vestibolo d'una chiesa, salirono al quartier della dama. Un vecchio servitore, infagottato in una livrea orlata di passamano turchino, ricevette le due donne in una vasta anticamera; e le fece di là passare nell'attigua galleria lunga e buia, dove stettero ad aspettare il buon momento di presentarsi alla signora marchesa. E passata una mezz'ora, che a loro parve eterna, una gran scampanellata destò gli echi di tutti que' cameroni, e fece batter più forte il cuore delle due donne, avvertendole che il buon momento era venuto. Quello stesso vecchio servitore attraversò la galleria, borbottando fra le gengive, e scomparve dietro una porta rivestita di flanella verde; ma indi a poco tornò, e tenendo aperto l'usciale che metteva alle stanze interne, fece segno alla giovine che lo seguisse; e lasciò la vecchia, dispettosa di quel complimento, a contemplare a suo grado i seggioloni d'alta spalliera che fiancheggiavan le pareti, le facce torve e barbute di que' quadri neri e le soffitte di legno di noce a cassettoni dell'antica galleria. Benchè il passo della fanciulla fosse tremante, e più tremante il suo cuore, nell'attraversar le due sale che conducevano al gabinetto della sconosciuta dama, pure rassicuravasi pensando, che quella signora, s'era vero ciò che la vedova le aveva detto, doveva esser buona e pietosa; e rammentava la prima sua benefattrice, la contessa Anna; ma tanto aveva sofferto la poveretta, che non confidava più di trovar chi potesse amarla adesso, com'era amata allora. Quando il servitore ebbe aperto l'usciuolo del gabinetto, s'intese di là entro una voce: — Venite pure, quella giovine, venite; la signora marchesa ha la degnazione di ricevervi. Ella entrò, in atto rispettoso, fece alcuni passi, e modestamente sollevò gli occhi. La marchesa era seduta sur un canapè rivestito d'una copertura di seta gialla, scendente fino al suolo e foggiata a guisa di cortine; tutto il gabinetto e il rimanente della suppellettile era pure tappezzato d'una stoffa gialla, a grandi screzii e fiorami, riquadrata entro cornici sottili, dorate, adorne de' più bizzarri fregi, intagli e ghirigori, che avrebber fatto la maraviglia de' nostri moderni amatori dell'arredare antico. Parea e malinconica penetrava la luce per l'unica finestra del gabinetto, di sotto a' lembi semiaperti di due tende di damasco verde, rischiarando a pena un quadro sacro di fresca data, che pendeva su l'opposta parete, in una gran cornice nera a trafori; il ritratto d'una santa vergine e martire. La signora marchesa mostrava nell'aspetto la dignità d'un buon mezzo secolo compiuto; e benchè altri non fosse con lei che il signor canonico, suo direttore spirituale e amico di casa, pure la si teneva ritta e dura su la persona, con la faccia secca, grinzosa, e acuto il mento, e le braccia strette a' fianchi e distese sul grembo, come si disegnano le sfingi. Una cuffia bianca di ricchi merletti a cannoncini le s'impadiglionava su la testa e proteggeva due ciocche di capegli biondi artificiali; uno scialle nero le copriva le spalle magre e la persona; e i suoi piccoli piedi, che forse erano stati la disperazione de' ballerini dell'aristocratico _minuetto_, spuntavano appena dal lembo della sua sottana color di nocciuolo, per appoggiarsi sur uno sgabelletto di cannucce. Sul tavolino che le stava dinanzi, era un monticello di libri co' dossi e fogli dorati, volumi superbi al di fuori ma umili e pietosi al di dentro, un calamaio di cristallo co' becchi del pennaiuolo d'argento, posato su d'un fascio di lettere e carte, e un vassoio d'eguale fattura. Il canonico, che le sedeva a lato, finiva allora di succhiar la consueta cioccolata sul dipinto labbro della chicchera, e per una sua vecchia abitudine ne risciacquava il fondo coll'acqua cedrata: egli era in veste talare, secondo il suo costume per le visite della mattina; delle quali la prima era appunto per il buon cioccolate della marchesa. Due lunghe, uguali e scrutatrici occhiate, della marchesa, vo' dire, e del canonico, furono il primo interrogatorio che subì la fanciulla; e bastarono a rapire al suo cuore la poca fiducia con che veniva, e ad agghiacciarle su gli occhi una lagrima di gratitudine, che già v'era spuntata. Essa cercava invano sul volto bianco e arcigno della severa dama un ricordo della simpatia e del sorriso della buona e mite contessa, ch'era stata la sua seconda madre. Gli occhi piccoli e bigi della marchesa, e le sue labbra sottili senza colore, e compresse in uno stentato risetto, davano alla sua fisonomia un non so che di stranamente pietoso, un'apparenza di compassata bontà. E bisogna dire che l'esame di quelle occhiate non fosse molto propizio alla nostra Maria, se le prime parole che la dama le rivolse, furon queste: — M'avevano detto che una povera giovine cercava di raccomandarsi alla nostra compassione; ma siete voi? vestita così come venite, m'avete aria d'una damigella! — Signora marchesa, mi perdoni! Io porto ancora questo vestito nero, perchè ho perduto mia madre; nè mi pare ch'esso disdica alla mia umile condizione. — Però quel color nero fa spiccar la vostra fisonomia; siete un po' pallida, ma bellina. — Oh! mia signora, non mi mortifichi così! — Via, non arrossite!... Ma lasciamo andar questo per ora, e veniamo al sodo. Dunque, lei, signor canonico... E così dicendo volgevasi verso di lui con un chinar del capo — lei, m'assicura da vero.... Perchè, aggiunse fissando di nuovo gli occhi su la fanciulla lo dovete alla sua raccomandazione, se acconsento a far qualche cosa per voi.... — Oh signora marchesa!... la prego, la prego... disse in atto d'umiltà e di riverenza il canonico; già è la nostra parte, di noi altri preti, quella di procurar il bene de' poveri. E quando s'ha la fortuna d'aver a fare con dame illustri e pie, come lei, signora marchesa.... — Il male è, ripigliò questa, che pur troppo la nostra carità il più delle volte è sterile: è il grano che cade in terreno sassoso, come dice il Vangelo. Ma, parlando di questa giovine, spero che n'avremo bene.... Dunque voi vi chiamate?... — Angiola Maria ****. I miei parenti erano poveri, ma onesti.... e adesso sono morti.... — Sì, sì, la solita storia; tutte dicono così! ma prima, spiegatevi: v'adattereste a servire? — Ah! rispose Maria con un profondo sospiro; non mi rimane altro destino, bisogna ch'io sia pur rassegnata a questo. — Eh! mi pare che abbiate il vostro piccolo orgoglio anche voi.... — Bisogna compatirla, mormorò il signor canonico; era usa a star bene, e m'han detto che passò qualche tempo in una casa di signori inglesi.... — Ah sì?... domandò strabiliando la marchesa; veramente, questa è una circostanza che non mi piace niente affatto.... Ma chi vi mise in quella casa forestiera? — È stata una fortuna.... il caso.... io era la compagna delle damigelle di quel signore; stetti alcuni mesi con esse, dopo che io le ebbi conosciute sul lago; e fu il mio povero fratello.... — Vostro fratello? dunque voi avete un fratello? — Io l'ho avuto.... Anch'egli è morto, signora. E qui non potè stare di nascondere fra le mani il volto e le lagrime che quelle memorie le chiamavano su gli occhi. — E questo vostro fratello che cos'era? Così, con la freddezza di un giudice che processa, continuava la marchesa il suo interrogatorio. — Era vicecurato in un piccolo paese, a ***. — Come?... come?... interruppe allora il canonico; e battendo la tavola con una palmata, che fece sobbalzare a un punto il calamaio, il vassoio, la tazza e i libri: sarebb'esso mai questo vostro fratello, il prete Carlo ***? — Egli stesso! proferì con fioca voce la sbigottita giovinetta, e chinò subito sul seno la faccia, lasciando in quell'atto cadere il velo, che prima aveva sollevato. — Possibile?... oh vergogna!... scandalo!... orrore!... Signora marchesa, signora marchesa, non ne facciamo niente.... io ritiro la mia raccomandazione..... Non si può, la mia ragazza, non si può! So ben che ci canzonate! — Che cos'è mai? per amor del cielo! dica, signor canonico, si spieghi, ch'io mi sento già venir fredda!... E la marchesa, sbarrando con ispavento i suoi piccoli occhi, scuoteva la cuffia a gran rischio di scompigliare le bionde sue ciocche. Il canonico si levò in piedi, e delle braccia fatto arco su la tavola, si chinò all'orecchio della marchesa, sfiorando quasi con le labbra i merletti della preziosa cuffia; e le susurrò, in poche parole, non so che mistero. Ma quelle sue parole furono come un tocco di folgore. La marchesa balzò in piedi anch'essa, con una ciera sdegnosa e stralunata; lanciò alla povera tosa un'occhiata fulminea; ma poi, a poco a poco, si ricompose nella prima dignità, e mutato lo sguardo dell'ira in quello della gelida compassione: — Andate, povera giovine, le disse, andate! Io ne sono proprio accorata, ma non posso far niente per voi... la cosa è troppo seria. Voi forse non ne avete colpa, ma le leggi, il governo, la religione, e la quiete della mia coscienza voglion così; è impossibile, impossibile!.... Ciascuna di queste dure parole apriva nel cuore di Maria una nuova ferita. Una maledizione le era dunque caduta sul capo, una maledizione terribile, immeritata, che faceva altrui delitto la pietà verso l'infelice orfanella? Era dunque l'infamia che pesava sopra il nome del suo fratello, sopra quel nome innocente e caro? Essa tremava come se fosse veramente colpevole; la sua mente si smarriva, nè so qual forza la sostenesse in quella difficile prova. Ella s'avanzò con sommessione, com'era venuta, verso la sdegnata marchesa; e timida arrischiò un passo e tentò di baciar la mano di lei, per chiederle perdono d'averla sturbata. Ma la pia e superba dama ritirò la mano, e la congedò dicendo: — Mi rincresce, la mia ragazza, ma, per ora, non m'è concesso assolutamente di potervi far del bene. Chi sa che col tempo.... Piuttosto, cercate ricovero in qualche casa oscura, in uno stabilimento di carità, in un ritiro.... sarà meglio! E intanto tener lontano i pensieri mondani, avvezzarsi alla modestia, al raccoglimento.... e sopra tutto poi, alla rassegnazione. Quanto a me, vi prometto, che se m'avverrà, spenderò forse per voi qualche buona parola anch'io.... ma dipenderà dalla vostra buona condotta. E così detto, si volse al suo fedele consigliero, e si mise a parlargli in segreto e con gran calore. Maria trovò nella galleria la vecchia Giuditta; la quale, rassegnata ad aspettarla, erasi a tutto bell'agio accovacciata entro un gran seggiolone del seicento, sotto i piè d'uno degli antenati della marchesa; uno di que' cinquanta ritratti, con irti mustacchi, gorgiera spagnuola, cappa bruna e brache gonfie e listate. E, come vide Maria, le venne incontro con volto sereno, che voleva dire: E così? siete contenta? Ma la fanciulla, tutt'ancora confusa, le prese tremando la mano, e stringendosi a lei vicino: — Andiamo, le disse, andiamo via! Oh lei, signora Giuditta, è più buona di loro: lasciamo per carità questa casa, le dirò tutto poi. — E partirono. Fu dopo questo, e dopo un novello inutile tentativo appresso d'un'altra caritatevole signora, la quale trovò Maria d'età troppo fresca per poter far da cameriera a una sua figliuola che doveva andare a marito, fu allora che la povera giovine accettava di collocarsi, come ricamatrice, nella bottega d'una crestaia, una delle cento amicizie antiche della signora Giuditta. E si tenne abbastanza fortunata, chè almeno in quell'oscura vita nessuno le avrebbe rimproverato il suo dolore e la sua misera condizione; nessuno sarebbe venuto ancora a ripeterle all'orecchio una maledizione all'infelice fratel suo. Così aveva passato già sei mesi nella povertà e nel lavoro, paziente e tranquilla. Era come s'ella fosse morta per tutti; nessuno che domandasse il suo nome, nessuno che le dicesse una parola amorosa, o le avesse chiesto mai il perchè della sua tristezza. Anche la signora Giuditta, da prima così premurosa, così affannona, pareva averla dimenticata; poichè, appena le venne fatto d'appoggiare altrove la fanciulla, non si lasciò più vedere. Non già ch'ella fosse senza cuore, ma voleva respirare da quel gran trambusto avuto in poco tempo, chè non s'era figurato mai potesse succeder tanto al mondo a una donna. Maria però era venuta più d'una volta a visitarla, perchè essa non avrebbe potuto dimenticar mai il più piccolo bene a lei fatto; e poi, quella dimora era stato l'ultimo asilo della madre sua, innanzi che l'avessero portata via, all'ospedale; era là, che il suo Carlo l'aveva condotta in un giorno di fatale disinganno; era là, che essa l'aveva veduto l'ultima volta. L'onesta crestaia la teneva in casa sua, e le aveva destinata una cameretta buia, a mezzo la scala, che prima serviva all'uso di ripostiglio, e che rispondeva sur un cortiletto angusto e uggioso. In quel bugigattolo altro non c'era che un cassettone, un letto povero e basso, o piuttosto una grama materassa gettata su due panche nane, e un piccolo scanno nella stradetta fra il letto e la parete. Una luce morta, chiusa dal colore oscuro delle tettoie all'intorno, calando a traverso de' piccoli vetri verdognoli della finestra ferrata, dava a quell'umide pareti un aspetto più tristo ancora, e quasi di carcere. Eppure la buona orfanella, allorchè si trovava nel misero asilo, dove poteva pensare o piangere non veduta, credeva ancora d'esser libera; essa, che un tempo temeva di restarsene sola, allora cercava, amava il silenzio e l'ora solitaria. E quando, dopo l'assiduo lavoro della giornata, ritornava alla tarda sera nell'abbandonata cameretta; e quando in ginocchio a fianco del suo letto, chino il viso su le povere coltri, offeriva al Signore il giorno ch'era passato; il Signore allora spirava in quell'anima vergine l'alito della rassegnazione e della pace. E poi, ella coricavasi col cuor libero e con la mente serena, dormiva ancora i soavi sonni dell'infanzia. E l'angelo custode vegliava certamente nella sua nube sopra il capezzale dell'innocente. Così dunque Maria aveva passato sei mesi. E nel giorno de' morti era venuta su la fossa della madre, fra i poveri e i buoni, a portare anch'essa il tributo della sua orazione a quel Dio, che benedice al dolore prezioso de' piccoli, e rasciuga le loro lagrime. VIII. LE ALUNNE DELLA CRESTAIA. Se mai, al tramontar d'un bel giorno, quando, o miei giovani amici, andate a zonzo per le vie della città, lasciando vagar la fantasia dietro gli scherzosi buffi di fumo del vostro cigarro, vi siete fermati presso la porta invetriata della bottega d'una crestaia; se mai vi piacque d'andare sbirciando, con un'occhiata curiosa, la lieta scena che presentano le giovinette operaie in quel laboratorio della moda, io vo' scommettere che con un sorriso su le labbra e con un grillo nella mente avete detto: — Oh il bel cespuglio di rose che paiono aspettare chi primo le colga!... E poi forse, appoggiati alla spalla della muraglia, dietro il prisma di que' tersi cristalli, vi sarete fermati a rallegrarvi gli occhi nell'affaccendato crocchio delle belle fanciulle. — E via col fumo del cigarretto, i più matti pensieri vi avran fatto girare il capo, e sarete rimasti inchiodati là, senz'accorgervi forse neppure degli urtoni e degli sgambetti di qualche frettoloso passeggiero. Un banco lucido, incorniciato, attraversa per il lungo quell'elegante officina, coperto e ingombro tutto di scatolone aperte, di cartoni e di cassette; sopra le quali sfoggiano spiegate le più aeree stoffe, i più graziosi trapunti: i veli, i nastri, i mussolini, le sete danno al luogo un non so che di fantastico, di nebuloso, come si dipingerebbe il misterioso gabinetto d'una sultana delle Mille e una notti. Entro per le scansie, che nascondono tutto il giro della parete, vedi pendere in bell'ordine da lucidi piuoli le cuffie, le trine, i cappellini, le berrette, le gorgierine increspate, i cappucci, e l'altre cento maniere d'ornamenti che inventò l'arte capricciosa della donnesca civetteria. In mezzo a quell'onda trasparente di veli e di tessuti, spicca la sollecita figura della maestra crestaia, che mentre attende a foggiare il merletto d'una cuffia, o il bizzarro galano dell'ultimo cappello, leggiadra creazione delle sue cesoie, non perde però d'occhio l'inquieto gruppo delle giovani alunne; le quali, sedute in giro alla tavola de' lavori, sotto lo splendore d'una bella lampana di cristallo, si van raccontando una all'altra in segreto le lor piccole confidenze, i loro novi amoretti, e alternano intanto facili risa, motteggi e baie. Sono sei o sette fanciulle, vispe, sollazzevoli, accorte una più dell'altra, che tra l'agucchiare e il ricamare lasciano scappar certe loro rapide e loquaci occhiate verso l'entrata; e poi, sorridendo e guardandosi fra loro di nascosto, dan di gomito alla vicina, quando alcuna arrossendo d'improvviso abbassi il capo sul suo lavoro, sia che con la coda dell'occhio abbia veduto passar lungo la via il suo giovine innamorato, o sentito il picchiar del suo bastone su lo scalino della bottega, oppure distinto fra il continuo strepito del di fuori il noto zufolare della sua arietta. Una sola di quelle fanciulle se ne stava modesta e silenziosa, tutta intenta al collaretto già mezzo ricamato che teneva fra le dita; e mentre che le testoline irrequiete delle gaie compagne si volgevano di qua, di là a ogni momento, ne' più leggiadri e furbetti modi, quell'una s'inchinava in atto tranquillo e pensoso, quasi che fosse straniera al sommesso cicaleccio dell'altre, a quel sì frequente scoppiar di risa mal trattenute. Se non che gli occhi talvolta riposava, come incantati, sul suo gentil ricamo; e allora essa non cuciva più, e la mano che teneva l'ago, posava oziosa su le ginocchia. Bensì, di tanto in tanto, le compagne le dicevano qualche lieta parola, o le facevano qualche malignuzza domanda; ma essa non rispondeva che sollevando i suoi begli occhi, aprendo appena le labbra a un leggero sorriso. E certo le amiche non le avrebbero perdonato quella sua malinconica ritrosia; ma sapevan tutte, che alla poverina non restava più nè padre, nè madre; e che non aveva saputo ancora trovarsi un innamorato: per questo la compativano, e la chiamavano Maria la novizia. — Senti, Ghita! diceva alla sua vicina con segreto susurrio, la più tristarella di quel gruppo, una piccola brunetta, che aveva un par d'occhi di fuoco, e le guance paffutelle e colorite, come lo spicchio di una melagrana. Senti, ma non dirlo nemmeno all'aria, per carità! Gli è un pezzo che volevo parlarti di una cosa.... perchè, devi sapere che sono stufa di non aver nessuno che mi guardi a me! Tu, o Ghita, e Rosina, e Stella, avete pure il vostro amoroso; e me, non c'è anima che mi cerchi... La Ghita rideva a questa sincera confessione, e — Che vuoi che ti faccia io? rispondeva sotto voce anch'essa.... E l'altra: — St! st! chè la maestra guarda verso di noi, e ne fa gli occhiacci, che par quasi la ci voglia mangiare. Pure, di lì a poco, si chinò ancora all'orecchio della compagna, e ripigliò: — Dunque.... tu sei felice, Ghita! tu che la sera, appena fuori di qui, trovi l'Eugenio, lì su' due piedi, che t'aspetta; e subito gli dai di braccio, e ve n'andate in santa pace; ma io... — Tu sei ancora una ragazza, o Luisa, rispondeva l'amica; hai quindici anni appena, e non è più di tre mesi, che sei qui con noi. — Che importa mai? Se son giovine, tanto meglio! Credo poi di non esser così brutta che m'abbiano a metter in un canto come un cencio; e non sono poi nè smorta come la Maria, nè losca come quella superba di Carlotta.... — Abbi un po' di pazienza, che la capiterà presto anche per te la fortuna; se non è venuta, vuol dire che non è adesso la tua ora. — E io sento in vece che l'ora è questa... Ma ascolta una buona volta, qual sia il piacere che mi devi fare.... — Gran segreti fra la Luisa e la Ghita! disse allora, battendo sul tombolo la spoletta del suo ricamo, la Carlotta, che sedeva in faccia a loro. — Niente del tutto! E poi, che ne vuole saper lei, signora pretendente? rispose la prima, indispettita. — Oh! oh! come la ti fuma subito! Non si può dirti nulla! soggiunse Stella, la sua vicina. — Lasciatemi un po' stare, replicò Luisa più corrucciata ancora; e in quella piccola ira, alzava con sgarbo le sue tonde spallucce: le compagne la guardavano di sottecchi, e sogghignavan fra loro. — E voglio dire e fare quel che mi piace, riprese poi, cogliendo il buon punto, che la maestra dal suo banco stava mostrando ad una merciaia del vicinato non so che fazzoletti di mussolino. — E se voi altre non mi lascerete stare, ve ne dirò tante da farvi diventar rosse di vergogna, dalla prima all'ultima, da farvi scappare!... Tutte ridevano; Maria soltanto, con un'aria di dolce compassione, levò gli occhi sopra di Luisa; ma questa, ostinata nel suo capriccio, si trasse con la sua seggioletta più vicino alla fedel Ghita, e continuò: — Ascoltami tu, che sei buona; voglio proprio dirti tutto, a marcio dispetto di queste grazie sgarbate. Sappi dunque, che stamane ho veduto passare di qui, più di due o tre volte, il tuo Eugenio, in compagnia d'un altro; quest'altro io non lo conosco, ma mi ricordo d'averlo veduto, e dev'esser suo amico.... Bene, questo bel giovine, perchè è un bel giovine, sai?... mi pareva che mi guardasse me.... oh anzi, ne son certa! E se tu fossi capace stasera di domandargli, all'Eugenio, chi sia quel suo amico.... oh! ti vorrei far mille baci. Senti, mi dice il cuore, che quel giovine passa di qui proprio per me. Egli è di bella statura, ha una fisonomia così cara, ha certi baffetti biondi.... e poi, un bel fare.... Oh! gli è sicuro un signore, e io muoio di voglia di sapere se è per me.... se è lui.... Oh cara Ghita, lo farai a me questo piacere, di', lo farai?... — Sì, sì, ma se poi non fosse che un riscaldarti la testa!... — Oh Ghita! tu non gli hai dato mente, perchè guardi sempre il tuo Eugenio; ma io... Sai? gli è perchè mia nonna, non contenta di recitar tutto il dì la corona, che in fine non è lei che m'ha fatto, non ha voluto mai lasciarmi andar sola per le vie, e manda sempre ad accompagnarmi, innanzi e indietro, quello stupido del mio fratello minore, che fa il copista da un avvocato: se non fosse così, oh me la spasserei ben alle spalle di queste cattive, che adesso ridon di me! Quel bel giovine, che tu sai, m'avrebbe già parlato, e vorrei farne crepar molte dall'invidia... Oh sì! vedi, perchè non son degni di stargli a confronto nè il Colombo, quel malcreato che fa all'amore con la Carlotta, nè il signor Antonio che parla alla Rosalia, e che avrà i suoi buoni cinquant'anni... No, no, io nol vorrei cambiare il mio amoroso, nè col Pietro della Clarina, proprio degno di lei, un giovine di bottega; nè col contino pitocco di cui si vanta tanto la Stella, e nemmeno quasi col tuo Eugenio; sebbene, bisogna dirlo, Eugenio li valga tutti insieme. E io, credilo, io sarò sempre la tua vera amica.... — Senti, Luisa, rispondeva la Ghita a quell'inquieto cicaleccio: di malizie n'hai da vendere, ma tant'è, io ti voglio bene, perchè sei sincera; e gli domanderò.... — Sì, ma stasera, stasera. Lascia poi fare a me... Domani, quando mio fratello verrà a prendermi, gli dirò che voglio accompagnarti a casa: andremo insieme, e tu troverai l'Eugenio, e ci sarà anche l'altro... Oh che bene! che allegria! non posso star cheta, solo a pensarci. — E la tristarella rideva di cuore. Ma quel suo ridere risvegliò ancora il motteggiar delle compagne. — Oh! la è lunga stasera!... diceva una; e le altre: — Già, lei è sempre la disturbatrice! — Qualche gran mistero! — Oh lo sapremo anche noi! la Ghita ne lo dirà. — Sei pur buona tu, Ghita, a darle ascolto. — Che si faccia sposa la Luisa? oh, oh! — E chi volete che la tolga?... Ma queste amare baie ferivano il cuore della Luisa, che girò una lenta e torva occhiata su le compagne. E voleva rispondere, ribatter quelle parole nemiche con più acerbi rimbrotti; ma ella arrossiva, e le sue mani tremavano: allora lasciando cadere il collaretto increspato, a cui avrebbe dovuto lavorare, appoggiò stizzita la sua piccola testa su la tavola, e ruppe in un improvviso scoppio di pianto. Maria, che sola era stata sempre silenziosa, sentì pietà della Luisa; e quando questa, non trovando più armi contro la sorda guerra delle pazzerelle amiche, finì a rispondere col pianto, ella s'alzò, le si fece accosto, le strinse con affetto una mano; indi, rivolta alle compagne, — Via, disse, siate buone! non vedete che vi riuscì di farla piangere? sareste mo contente d'esser ne' suoi panni?... E poi, che v'ha fatto mai, poverina? Su dunque lasciatela in pace, e fate vedere che avete buon cuore. E tu, Luisa, non piangere! ti vogliamo bene tutte, vedi! la è stata una burla; non àbbilo per male, o pensa piuttosto che non c'è rosa senza spine, e che tu sei ancora felice di non aver altri guai! Oh tu non conosci che si ha a sopportare a questo mondo di ben più grandi travagli! Ma la buona intenzione di Maria, e le sue miti parole fecero peggio; perchè le fanciulle, dispettose del sentirsi ammonire da una che poco amavano — Oh vedi! bisbigliarono fra loro, vedi un po' questa che vuol far la dottoressa! — E perchè se n'impiccia ella adesso? — Eh la santarella! sentitela, che fa la dottrina cristiana.... — Taci, taci, Maria; si conta di belle cose anche di te, e non ci far parlare. Così la tempesta, che prima minacciava la Luisa, scoppiò in vece su la buona Maria; la quale mortificata essa pure, tornava mutola a sedere. Ed essendo in quel punto la crestaia scomparsa dietro l'uscio interno della bottega, per salir alle sue stanze di sopra, quelle mordaci cervelline non si tennero più, e si voltaron tutte contro di Maria. In quella, s'intese il battere delle otto. Allora fu un cinguettio, uno scoppiar di risa e di scherzi, un coro di vocine stridule e gaie, una furia di smettere i lavori alla rinfusa, di gettar su la tavola i guancialetti, le spole, le cuffie disfatte, i ricami su disegni incartocciati, le cesoie, i ditali. E ciascuna delle fanciulle correva a pigliare il suo cappellino di seta e lo scialle a scacchi o a quadretti, e tutte in una volta assediavano la povera Maria, che sola fra tutte era rimasta al lavoro. Pareva quel confuso cicalio che fanno le passerette d'una colombaia, sul vespro d'un bel dì d'estate. Diceva una: — Senti, Maria! tu, in fondo, non sei una cattiva pasta di ragazza, ma vuoi far la gatta morta, e non ti sta bene. E l'altra: — Non le guardate, ch'è marcia invidia che la fa parlare. E una terza: — No, no; scommetto che sa fare anche lei il fatto suo, e voi la chiamate la novizia! andate là, povere sciocche!... Chi diceva così era la Carlotta, la più sguaiatella e la più brutta, alla quale tutte si strinsero intorno, pressandola con cento interrogazioni. — Ah sì, dici? anche lei, con quella faccia compunta? Ma contane dunque qualcosetta, se ne sai! — Ah! ah! son proprio contenta! Non l'avrei mai creduto; e come?... e dove?... — Sì, dilla su, com'è stata? dunque l'ha avuto anche lei il suo bello, eh? altro che prediche, che amor del prossimo! — Ah! l'ha avuto anche lei l'amoroso? Egli l'avrà piantata, e per questo arrabbia che noi ce lo teniamo!... Oh conta, conta su! — Ma io non so altro... ma non posso dire... E poi io nol fo per vendetta, perchè io le voglio bene alla Maria... Così, ma inutilmente rispondeva la maligna Carlotta, mentre tutte le eran d'intorno, e chi per un braccio la pigliava, e chi le scuoteva un lembo dello scialle, e chi le tirava i nastri del cappellino: pareva quasi giocassero a gatta cieca. Maria rivolse alle compagne uno sguardo in cui appariva più la preghiera che il compatimento; ma quelle continuavano a ridere, a chiacchiere con gran bisbiglio; e non vi fu che la Luisa, la quale, forse per gratitudine, fattosele vicina, le disse all'orecchio: — Buona Maria, scusami se tutto è per cagion mia!... E le diede un bacio di cuore. Certamente, il giuoco avrebbe preso mala piega, se in quel punto non ricompariva la crestaia. La quale, veduta quella confusione, e intesa quella strana armonia di risa e di voci, si fermò nel bel mezzo della bottega, e girando un'occhiata lunga e severa sul crocchietto delle inquiete alunne, che alla sua presenza s'eran ricomposte in silenzio, umili, quatte e stupite, fece loro una solenne gridata, ch'egli era un pezzo che non toccavano la compagna; e con questa le congedò una dopo l'altra, che non vedevano l'ora d'andarsene. La piccola Luisa fu l'ultima, poi che dovette aspettar che venisse il caro suo fratello; e n'aveva tanto corruccio che dispettosa batteva i piedi. Ma appena lo vide metter il capo dentro la porta invetriata della bottega, strisciò una goffa riverenza alla maestra crestaia, e poi subito scappò via, come un uccello. Chi avesse avuto il capriccio di tener dietro a quelle farfalline, n'avrebbe veduta una, appena fuor dell'uscio, pigliarsi al braccio del bel giovinotto che stava ad aspettarla, avvolto, come il conte d'Almaviva, nel suo mantello; un'altra andar sola sola, rasente la muraglia, e via dilungarsi in mezzo della gente; un'altra poi, giunta a capo della via, arrestarsi, e guardar con ansietà di su, di giù, per ogni parte, in atto di chi cerca alcuno che non compaia; e questa stringersi presso la compagna, raccontare cammin facendo i suoi gelosi misteri d'amore; e quella dare una scrollatina di spalle e raddoppiare i passi, se avveniva che qualche mal capitato zerbino le augurasse la buona notte o le stendesse la mano indiscreta; in somma, una di quelle scene tra il chiaro e l'oscuro, così deliziose a' nostri giovani eroi che vanno in volta per la città, paladini notturni, in traccia d'amorose venture, come i bracchi dietro l'acceggia. In quella sera, quando si ritirò nella sua camera abbandonata, Maria benedisse il cielo di poter finalmente lasciar libero sfogo a' suoi sospiri. La sua mente era più che mai agitata da mille immagini dolorose; ma soprattutto l'angustiava un dubbio, un sospetto, un pensiero spaventoso, ch'ella non osava confessare al suo cuore. Si pose a sedere; meditava a sè stessa, alla sua vita, e le pupille le si gonfiavano di lagrime. La folle allegria delle compagne, i loro ghiribizzi, que' motti, que' consigli facili e maliziosi, non rispondevano al suo costume timido e dolce, alle sue dolenti ricordanze; ella si accuorava di dover tacere sempre, di vedersi negletta, perchè non aveva il cuore come l'altre; pativa di non esser amata, e pur pensava ch'essa non avrebbe potuto confidarsi a nessuno. Ma tutto questo era ancora nulla; il peso della sua vita essa l'aveva portato in silenzio e con rassegnazione fino a quel dì; e in quel dì appunto, un'improvvisa circostanza bastò a risvegliare nel suo cuore appena riposato un'antica e terribil guerra. — Quella stessa mattina, un giovane era passato più d'una volta dinanzi la bottega (se vi ricordate, i furbi occhietti della Luisa l'avevano ben notato), e Maria, nel gettare uno sguardo involontario su la via, lo vide anch'essa, lo conobbe... Era desso, era il suo Arnoldo! — Le parve ch'egli pure la conoscesse; le parve che gli occhi di lui si fossero scontrati ne' suoi... E poi non si ricordava più di nulla; essa non l'aveva più veduto. Fu un sogno, un'illusione?... No, no, l'anima sua era troppo in pace nel punto ch'egli passò, perchè quella vista fosse un inganno de' suoi pensieri. Già il rivederlo aveva rinnovato tutti i dolori della sua vita, e vinto il suo cuore; il rivederlo sola una volta bastava a rapirle di nuovo la calma e la forza in tutto quel tempo riavute, la memoria stessa di sua madre, e quella di tutto il pianger che aveva fatto... Ella ebbe ancora un momento, un solo momento di speranza e di gioia! — Ma come si trovava egli qui?... E perchè tornava, e che voleva da lei? Dunque non era tutto finito fra loro, non erano come morti l'uno per l'altro? Non era dessa la povera orfana, alla quale non restava più nulla in questa terra, più nulla fuorchè la virtù? Questo segreto patimento, che solo un'anima pura e addolorata può intendere, tolse a Maria il sonno di quella notte. Ma al mattino, quando appena per le fessure delle imposte il primo chiarore penetrò nella misera stanza, essa, lasciato il suo letto, fece una preghiera più fervida dell'usato; e quando si levò di terra, la sua deliberazione era già presa. Salì serena e composta, come soleva, alle camere della crestaia; e quando la seppe levata, bussò leggermente all'uscio di lei. La buona donna aveva preso ad amarla; cosicchè, sentita appena la sua voce, la fece venire a sè e le dimandò che volesse, dandole animo a parlare. La fanciulla rispose aver un segreto a scoprirle e una grazia a chiederle; si trattenne un pezzo con lei e le aperse tutto il suo cuore. Quella mattina, ella non discese nella bottega, e la sua seggiolina rimase vòta: le compagne n'ebbero gran maraviglia e bisbigliarono fra loro mille congetture di quest'improvvisa assenza: per tutto il dì non parlarono d'altro, nemmeno de' loro amorosi. Poi, la mattina appresso, la crestaia annunziava alle curiose alunne che Maria era partita di casa sua; ma per tentare che facesse or l'una or l'altra, affine di aver la chiave di quel segreto, non riuscirono a nulla; la brava donna mantenne a Maria il silenzio promesso. Alla fine, quando fu venuta la sera, le fanciulle, prima del rintocco delle sospirate ott'ore, svolazzarono fuor della bottega; e ciascuna ebbe a raccontare al suo fedele la storia della scena del dì passato e della compagna scomparsa. Noi lasceremo le altre, e terrem dietro con passo leggiero alla Ghita, la quale camminando stretta stretta al braccio del suo Eugenio, gli parlava con quell'ingenuo cicaleccio che nelle giovani crestaie ha pur il suo vezzo. Perchè, se nol pensaste, la Ghita era una buona ragazza, fresca come un botton di rosa, un po' capricciosetta ma savia; essa, quantunque alunna d'una crestaia, era graziosa e onesta; e le piaceva ch'Eugenio l'accompagnasse, perchè, poverina! aveva tanta paura di correr sola le vie; nè il suo innamorato poteva ancora vantarsi d'averle mai carpito un sol bacio. Egli poi, l'Eugenio, era un giovine come ce n'è tanti, allegro, buon tempone, ma di cuor mite e sincero; e benchè facesse all'amore per non saper fare di meglio, pur egli credeva ancora all'amore. Unico figlio d'un vecchio impiegato di scarse fortune, egli era scritturale in una buona casa di commercio. Una mattina, stando solo al terrazzino gli venne veduta, al terzo piano della casa dirimpetto, una giovine, la quale inaffiava due vasetti di fiori su la sua finestruola; stette a contemplarla lungamente, e gli parve bella: era Ghita. E poi, quando la fanciulla uscì, le si mise dietro, la seguitò come la sua ombra fedele, e così fece per un mese. Passato il quale, essa non ebbe cuore di far la ritrosa, chè se n'era accorta; un giorno, rispose al saluto del suo bel vicino, il giorno appresso gli concesse un'occhiata e un bel sorriso; poi venne una buona parola, e poi se n'andarono in compagnia; sicchè il povero giovine, a poco a poco, s'innamorò da vero della fedele sua dea del terzo piano. — Senti, mio caro! diceva in quella sera Ghita all'amico. L'altro dì, tu m'hai raccontata la storia d'un bel giovine forestiero, quello... del nome non mi ricordo più... quel bravo giovine con cui t'ho veduto passar più d'una volta. Tu m'hai pur detto ch'egli voleva sposar la mia compagna, la Maria, che gli piaceva tanto da un pezzo; ma che poi tutto era ito a monte, e non s'erano più veduti, e... — Sì, rispondeva il giovine, or bene? avresti forse detto alla tua compagna, che l'amico suo è qui e che a qualunque costo vuol parlar con essa? — No, no; t'avevo promesso di tacere, e ho taciuto.... benchè avessi una tentazione, a dirtela schietta, di mostrare che sapevo tutto anch'io, e di farla arrossire un po' quella Maria, ch'è un'acqua morta, e fa l'innocentina... — Via, che vuoi dirmi dunque, che mi fai gli occhietti? — Io voleva dirti che tu non mi vuoi bene, che sei un cattivo arnese, e non avresti cuor di fare come quel tuo bravo amico, che vuole un ben dell'anima alla Maria... — Di far che, maliziosa? — Di sposarmi, signorino! gli susurrò all'orecchio, con una graziosa moina. Tu non m'hai promesso ancora, ma lo farai, non è vero? quando sarai padrone del fatto tuo; perchè adesso sei un buon giovine, e null'altro, com'io una buona tosa... — Tu sei una matterella, e appena fuor del guscio, pensi già... — Oh se tu mettessi un po' di giudizio, mi sposeresti... — Non mi parlar di malinconie, o ch'io ti pianto qui su' due piedi. Dimmi piuttosto, che c'è di nuovo di Maria, perchè mi preme di sapere... — Oh vedi! una certa idea me l'aveva fatta già dimenticare. Maria dunque, Maria non c'è più! — Come non c'è più? dici da vero? — Se n'è andata, e non si sa come, nè dove... — È fuggita?... — Chi lo sa? Certo, la cosa non è chiara; ma io credo ch'essa non ne voglia saper altro di quel tuo amico; perchè io ci vedo, sai? Oh la è così; essa l'avrà riconosciuto, quando passava con te per la via; e per paura di far dire, e per non voler anche lei adattarsi come tutte l'altre, avrà pensato di schivar l'occasione e di fuggire... — È impossibile! e perchè dunque? e dove mai? — Io la conosco quella giovine; ha le idee storte, certe fantasie, ch'io non so propio quel che la si peschi. Figurati, non fa che pensare o piangere; se parla, se ride, è un miracolo... Io per me, la compatisco, poveretta! così giovine, e non aver più nessuno; ma, suo danno, se la è così semplice da scappar via quando c'è chi l'ama, la cerca... e di più la vuole sposare! Non è egli vero, ch'è peggio per lei? — Sì, sì! Ma intanto, come farò a dirlo a lui? Non so, da vero, come si possa esser matto, incocciato così per una come lei; e venir apposta d'Inghilterra e star un mese a cercarla... Io per me, a quest'ora l'avrei già mandata... dio sa dove! Ma essi, allo svoltar della via, si guardano indietro, camminano con passi così presti e spessi, e si parlan così davvicino, ch'è impossibile seguitarli ancora e rubar loro le parole... E poi, il più ladro mestiero della terra! Lasciamo dunque che la giovine coppia se ne vada in pace per la sua via. IX. SPERANZA E DUBBIO. Nel salotto d'un modesto albergo della città, un giovine passeggiava su e giù, coll'andar lento, interrotto di chi è preoccupato da profondi e importuni pensieri. Nel camino ardeva scintillando un fuoco vivo, un di que' cari fuochi così salutari che ti sciolgon le membra da' brividi de' primi freddi del dicembre; eppure, benchè un nebbione fitto fitto impregnasse l'aria e le vie de' suoi vapori, la finestra della stanza era aperta, spalancata; come si suol fare a' primi soli d'aprile. Il giovine teneva le braccia incrociate sul petto e gli occhi fissi all'angusto spazio di terreno che misurava co' passi; e in mezzo a' pensieri lasciavasi sfuggir di bocca ora un lamento, ora una parola di dispetto, secondo che lo vincesse impazienza o dolore. E poi, quasi per togliersi a quell'ostinato meditare, s'avvicinava alla finestra, e appoggiato alla soglia se ne stava a contemplare con occhio muto la gente, le strade, le case e il sole biancastro e senza raggi attraverso a quel velame di nebbia, che gli somigliava alla scena d'un sogno. — Eccomi solo! egli pensava: solo, abbandonato a ventitrè anni, tristo come un colpevole, inutile ad altrui, a me stesso!... Povera mia vita, povero mio cuore, che siete mai? È questa la felicità ch'io cercava, la verità, la pace di cui tanto aveva sete l'anima mia?... Benchè giovine, la vita mi costò a quest'ora troppo duro saggio; ma, a questo mondo, ciò che patisce il cuore soltanto, non si conta per nulla, l'ho perduto tutto, tutto; e non mi resta nemmeno il ricordarmi del passato senza sgomento e senza rimorso. È egli possibile che mio padre, il vecchio mio padre m'abbia maledetto?... Gran Dio! sostieni l'anima mia, dammi la virtù, di soffrire, o ch'io mi perdo!... — E gli uomini?... essi che non credono e non vivono che per il fatto, eterni schernitori d'ogni entusiasmo, d'ogni sacrifizio, d'ogni patimento dell'anima, mi volgon le spalle, mi tengono a vile, mi chiamano stolido, e fors'anche infame!... No, no! io fui, io sono più forte di voi tutti! Sia ciò che vuole, la voce della coscienza, la necessità dell'avvenire, l'infinito desiderio della verità gridan più alto di voi; e io vi disprezzo. Ho ben già fatto ancor più; a questa immensa speranza della verità ho sacrificato la canizie di mio padre, il pianto delle mie sorelle, il mio nome, la gloria e gli agi che il mondo m'aveva promesso, tutto, la religione stessa della mia famiglia!... Pure, per gli altri, io sono un uom fiacco, uno spirito vile, un imbecille. E qual è la mia colpa? Quella d'aver osato confessare apertamente, in faccia a tutti, di credere!... A che mi valse dunque la lotta lunga, penosa del dubbio? E se fu un martirio, perchè non ne ho io trionfato ancora?... Io sono cattolico! l'ho detto, e gli amici miei risero; ho creduto alla fede che m'insegnarono la semplice eloquenza d'un santo, l'amicizia d'un giusto, l'amore d'un angelo; ed essi risero!... Oh dolore, in cui v'ha di che maledir l'intelletto, e di sospirar di finire! — Io aveva tanto bisogno di riposo, eppur sento che il mio cuore sostiene ancora una fiera guerra. Se ritorno coll'anima su la vita passata, mi ricordo che a quindici anni io contava già amari giorni; che talvolta io mancava sotto il peso della noia, e tal altra la mia mente perdevasi nell'infinito. Ma almeno allora io poteva piangere... Oh perchè la povera mia madre mi fu tolta sì presto! Io avrei vissuto dell'amor suo, dell'amor suo, unica virtù di tutta la mia vita! Oh perchè mio padre fu sempre così avido di grandezze, e io così indifferente a ciò che chiamasi gloria e fortuna?... Se una passione cieca, violenta m'avesse trascinato, come tant'altri ch'io vidi e conobbi, sarei forse meno infelice che adesso non sono. Io non so qual condanna s'aggravi sul mio capo; ma so che ho sofferto, ho veduto piangere e soffrire quei pochi che mi amarono... No, no! gli è meglio ch'io discacci questi dolorosi pensieri... E tornava a passeggiare, e l'anima cupa gli si leggeva su la fronte sdegnosa; i suoi passi erano più concitati, e gli occhi torbidi e irrequieti, segno della tempesta che dentro sopportava. Alia fine rimase per qualche tempo immobile, come se i suoi pensieri tacessero; poi si gettò sopra una seggiola, abbandonò gravemente il capo fra le mani, appoggiandosi alla tavola ch'era presso il camino; e di nuovo s'immerse nelle più scure fantasie. — È impossibile! il mio cuore non ha più che un'illusione sola... Quell'oscura fanciulla, l'unica che, io abbia amato coll'anima mia, l'unica che non abbia ardito confidare il suo al mio affetto, e che pure mi ha amato, anch'essa m'abbandonò, non è più qui! Dunque non la vedrò più, io che sperava di trovar vicino a lei una pace che per breve tempo ho pur gustata, in que' pochi giorni fuggitivi, i soli giorni che con dolcezza io richiami!... — Buona e povera Maria! anche tu hai portato il peso del dolore, ma pure fosti meno sventurata di me. Non sono io sulla terra solo, al pari di te? ma tu vivi ancora la tua vita pura e tranquilla, non hai il cuore turbato dalle tempeste che agitano il mio; l'affanno t'ha oppressa, ma le tue lagrime sono silenziose e care, sono le lagrime della virtù e della rassegnazione: io in vece non posso piangere, e se piango, non son lagrime di conforto, ma di disperazione!... Oh le mie notti! le ore terribili della notte così gravi e mute, e piene di fantasmi! È allora che la mia mente va farneticando nelle tenebre, che l'anima mia si dibatte, come in un mare senza confini. Tenebre dappertutto, nel dì e nella notte, su la terra e nel cielo, tenebre il passato e l'avvenire, la vita e la morte!... O Signore! questa è la fede che tu m'hai data?... Eppure, io credeva!... e quando pregai d'essere ricevuto nel grembo della tua Chiesa, allora il cuor mio era sincero, era sicuro e forte. Deh! come in allora, ponmi al fianco, o Signore, alcuno che mi ami, e mi ricordi sempre che questa fede non è un sogno dell'anima, ma la vera, l'unica consolazione della vita! — Oh! che sarà mai intanto di Maria, di quell'innocente creatura, che per l'amor mio è fatta infelice? Io devo cercarla, ridonarle la pace che le ho tolta, e, quantunque io non possa più restituirle nè madre nè fratello, potrò almeno, se il cielo consente, e s'ella mi crede ancora, tenere il mio giuramento. E Dio che l'ha benedetta, benedirà me pure! Di lì a poco, alcuno bussò leggermente all'uscio della stanza. Era un giovine di bell'aspetto e di modi cortesi, un tale che noi conosciamo da poco in qua; era Eugenio, l'amico della graziosa alunna crestaia. Com'egli avesse fatto la conoscenza d'Arnoldo Leslie, perchè si fossero poi legati, io ve lo dirò adesso, se vi piace. Il giovine inglese era tornato in Italia due mesi prima, nell'ottobre; e, come ben lo pensate, col disegno di trovar Maria, la quale gli stava sempre nel cuore; era stato il primo amor suo, era il solo anello che ancora lo attaccasse alla vita. Attraversata Francia e Svizzera, poi venuto a Como, s'era fatto trasportare senza indugio al paesello di Maria. La prima gioia che gustasse, dopo tanto tempo, fu al salutare la bella riva e quella conosciuta e amata dimora; egli pensava di trovar colà, nella loro pace di prima, Maria e sua madre... Balzò dalla barca, cercò impaziente con gli occhi la casetta: le finestre eran tutte chiuse; solo vide semiaperta un'imposta della porticella di strada, e seduta a capo degli scalini la vecchia Marta. Essa non lo riconobbe; ma quando e' le disse il proprio nome, — Oh santissima Vergine! esclamò, cosa viene a far qui adesso lei? Non sa che non c'è più nessuno? Non sa che sono tutti morti?... cioè, la Caterina e don Carlo... e che di Maria non s'ebbe più nuova nè imbasciata, dopo la gran disgrazia... Arnoldo non chiese, non volle sapere di più. Ma il dì seguente, tornò muto e lento a quella casa deserta; rivide la Marta, domandò e conobbe la breve storia della sventurata famiglia, o almeno quel tanto che n'era noto alla vecchia; e pianse con lei. Di là poi, se n'era venuto a Milano. Presentatosi con note commendatizie a quella casa di commercio, nella quale Eugenio trascinava il suo meschino noviziato, egli s'avvenne in questo giovine, che gli sembrò dabbene e sincero; e com'ebbe più d'una volta occasione di trattar con lui, quando andava a riscuotere qualche somma di proprio credito (perchè, per buona o cattiva fortuna, a questo mondo non si vive soltanto d'amore e di fantasie); così, non di rado accadeva che se ne tornassero in compagnia, senza esser per questo i più grandi amici del mondo. Arnoldo, d'altro non sollecito che di saper la sorte di Maria, aveva inutilmente tentato ogni mezzo di trovarne traccia. Solitario per costume, e divenuto poi più diffidente, non volle aprire a nessuno l'animo suo; ma visse ritirato e malinconico nell'albergo poco noto, dove aveva preso stanza e dove altri non capitava che quel buon giovine dell'Eugenio; il quale talvolta, e quasi per forza, lo trascinava seco a diporto, per guarirlo dalla sua cupa tristezza, dicendogli che lo _spleen_ l'avrebbe presto fatto finir tisico. Per questo, Eugenio non conduceva l'amico nè lungo le monotone strade di circonvallazione, nè sotto i castani già brulli e nudi delle nostre solitarie mura, ma se lo traeva dietro per le corsìe più liete e frequenti di popolo; e tenendosi al braccio del compagno, sapeva, in quelle passeggiate, trovar fuori l'ora opportuna di venire verso la nota bottega, dove sedeva a ridere e a lavorare la sua Ghita; e questa ne lo ringraziava con una lunga occhiata, con un sorriso. Ma una volta fra l'altre, mentre al solito passavano appunto presso l'entrata della bottega, Arnoldo a caso rivolse gli occhi da quella parte, e vide, o gli parve vedere, la sua Maria che sedeva occupata al ricamo, vicina alla vetriera della porta... Si fermò, riguardolla ancora... era proprio dessa. Poco mancò che non gli sfuggisse un grido di gioia improvvisa. Ma la fanciulla non s'era distratta dal lavorio, non lo aveva riconosciuto. Egli allora, sforzandosi di parer indifferente, chiese all'amico se fosse stato mai in quella bottega; ed Eugenio, pensando che l'altro avesse indovinato il suo segreto, lo guardò sogghignando, e rispose che sì; poi, da buon figliuolo com'era, gli confidò il suo amoretto con la Ghita. Arnoldo l'aveva appena ascoltato; colmo l'animo del contento d'aver riveduta Maria, egli abbandonavasi alla soavità dell'antico affetto, alla voluttà della speranza adempita. Il suo volto s'era fatto sereno, il suo cuore leggiero e aperto; parlò e rise, sì ch'Eugenio ne strabiliò, pensò fosse effetto della sua medicina, di darsi un po' di bel tempone, e poco stette che non lo consigliasse allora, da bravo amico, a far come lui, e pigliarsi dett'e fatto una bell'amorosa, gaja, alla buona, che certamente gli avrebbe cacciato la mattana. Ma si pentì e restò intraddue; quando, prima che si lasciassero, Arnoldo gli strinse forte una mano, dicendogli seriamente: — Ho un servigio a chiedervi: venite domattina da me, ch'io devo confidare al vostro onore una cosa che mi preme. — Ben fortunato di potervi servire, gli aveva risposto Eugenio; di me potete viver sicuro, io vi stimo troppo, e... Ma non finì il complimento, e se n'andò pensando: Che vorrà mai quest'originale? O ch'egli è matto, o ch'io non ci vedo. La mattina vegnente, non mancò all'ora data; e Arnoldo, con gran mistero, gli scoperse la promessa che lo legava alla nostra fanciulla, per la quale soltanto era tornato in Italia; e soggiunse che, dopo molte vane ricerche, il caso gliela aveva fatta incontrare nella modesta bottega d'una mercantessa; in quella appunto, a cui eran passati vicino il dì innanzi in compagnia. Eugenio maravigliò e rise, chè gli pareva un sogno; ma l'altro prese sul serio la cosa, e fattogli giurare di non dir nulla, volle da lui la promessa di far di tutto, perch'egli potesse in qualche modo parlare alla giovine amata. Eugenio disse che non pensava l'affare molto scabroso; e prima di sera aveva già messo a parte del suo segreto l'amica, poichè non avrebbe potuto tenerlo intero per sè, a malgrado di tutte le promesse del mondo. Ma, saputo ch'egli ebbe dalla compagna che Maria era una giovine un po' diversa dall'altre, e che faceva la ritrosa e la santoccia, s'avvide non essere la cosa sì facile, e non seppe più dir nè fare. Fu il giorno appresso che la fanciulla disparve, come già sappiamo. Arnoldo ne disperò quasi, ma Eugenio era là per consolarlo e dargli buona speranza; rassicurava esser quello un ghiribizzo, una delle solite furberie delle fanciulle, le quali vogliono vedersi correr dietro il poveraccio che abbia la disgrazia d'innamorarsene. — Pure molti dì eran passati, senza che uno o l'altro avessero potuto ancora saper la verità. Ben aveva tentato più volte l'Eugenio di far parlare la crestaia, spacciando grandi promesse a nome dell'amico, ma non n'era venuto a capo: la buona donna fu muta, ostinata a custodire il segreto; benchè il giovine pensasse ch'egli era piuttosto per malizia che per virtù scrupolosa. Arnoldo, perduta la fiducia di ritrovarla, si rimise alla vita indifferente e monotona di prima, a quella vita tediosa che coll'inerzia del di fuori ricopre l'interno cruccio. Così era venuto il dicembre. — Eugenio! diceva adunque Arnoldo al suo nuovo amico, quella mattina in cui l'abbiamo trovato che passeggiava nella sala dell'albergo: Eugenio, sedete qui, accanto a me. Le prove d'amicizia che m'avete dato, il vostro onesto costume, la vostra premura, meritano ch'io metta in voi maggior confidenza. Voi mi conoscete appena, e poco sapendo di me forse mi giudicate male. Gli è giusto dunque ch'io vi spieghi il mistero che a voi ancora mi copre, gli è giusto che mi conosciate meglio: forse allora, se nel cuor vostro avete riso di me, mi compatirete! Il tono severo di quest'esordio scosse un poco Eugenio: e poi, i colloqui serii non erano il suo forte; nondimeno, fatta all'amico una solenne protesta d'osservanza, si pose a giocar distrattamente con le molle fra le ceneri del focolare. E l'altro prese a raccontargli la storia dell'amor suo, meglio che non abbiamo potuto far noi in queste pagine modeste; cosa ben naturale, era l'amante che parlava, e il suo cuore s'effondeva nelle parole, con una verità semplice, poetica. Ma Eugenio intanto pensava che l'amico suo era un bel pazzo, e ch'egli, se fosse stato ne' suoi panni, certo non avrebbe perduto il tempo in quelle malinconie, e a far all'amore alla romantica con una tapinella; mentre invece avrebbe potuto a suo capriccio fare il mestier del Michelaccio, quel beato mestiero che non s'insegna, e che tutti sanno e sapranno sempre. — Dopo quel tempo d'una felicità ch'io quasi non credeva possibile, così continuava Arnoldo il suo racconto; dopo quel tempo, vennero per me i giorni dell'amarezza e dello sconforto. Ma qui, bisogna che vi confidi un'altra cosa che ancora non sapete, il vero mio nome. Voi mi conoscete per Arnoldo Randale; questo non è il mio casato, ma quello della famiglia di mia madre; e per segrete ragioni io lo presi al mio ritorno in Italia. Mio padre è lord Guglielmo Leslie. L'amico Eugenio levò gli occhi con gran maraviglia a quella sonora parola di _lord_; e, poste giù le molle con che giocava, stette con più cheta attenzione ad ascoltarlo. — Mio padre, seguitava Arnoldo, è un uomo severo, superbo del suo nome e dell'antica sua nobiltà, quant'altri mai; i suoi principii sul fatto e su la condizione sociale son quelli d'un vero Inglese, onore, orgoglio e fermezza; il motto dell'arme gentilizia de' Leslie sembrava appunto dettato per lui: _Sempre salire!_... Ma, fin dagli anni infantili, il mio cuore s'apriva in vece all'incanto delle miti virtù di mia madre, dolcezza e compassione, amicizia e amore. Io sento di non esser nato per quelle che chiamansi le grandi virtù del nostro secolo, una politica che si veste del fastoso nome di filantropia, e una civiltà che pesa tutto su le bilance dell'industria. Passai i prim'anni dell'adolescenza nella casa d'uno zio di mia madre, venerabile vecchio, di cuor giovine e caldo, uom generoso, soccorrevole e costante; egli era irlandese e cattolico, e aveva perduto il figlio, la nuora e i nipoti, tranne uno solo che formava le delizie dell'abbandonata sua vecchiaia..... Questo giovine cugino fu il mio primo amico! Ah! pochi anni appresso, anch'egli era morto... — In quel tempo appunto, ripigliava il giovine dopo una pausa, nel nostro paese gli spiriti bollivano in quella famosa guerra d'opinioni e di parte, che tenne grandemente agitati tutti i giusti e i buoni, la controversia della emancipazione de' cattolici. Mio zio metteva in cima de' più cari suoi voti la sospirata legge, e ne procacciò il trionfo, per quanto potè e seppe. Parmi ancora vederlo scuotere la sua testa canuta, e volgere al cielo gli occhi accesi d'un insolito ardore di gioventù, dicendomi dover la giustizia trionfare una volta o l'altra anche su questa terra, e nessun sacrifizio esser poco, per guarire la patria d'una piaga che per tre secoli aveva fatto la vergogna della superba nostra civiltà!... Ma appena mio padre conobbe i nobili sforzi del suo parente e il mio entusiasmo a pro di questa causa generosa, mi rivolle presso di sè, caldo sostenitore, com'egli fu sempre, degli antichi rancori. E mi mandò a viaggiar sul continente, perchè la mia mente si spogliasse di queste fantasie, ch'egli chiamava la scorza del fanciullo, e imparasse a conoscer gli uomini e le cose. Ma era tardi. Io aveva già sposata la parte degli oppressi; io amava il culto solenne e maestoso della Chiesa a cui mi guidava fanciullo il mio vecchio zio, e dove univo le mie alle candide orazioni del mio povero cugino; l'arida e corrotta dottrina, e la troppo mutabil fede nel seno della quale io nacqui, non avevano parlato mai al mio cuore. — Nel mio viaggio attraversai, come un uomo nuovo, quest'Italia così degna d'amore e di venerazione; di città in città, vidi le sue basiliche, le sue cupole, le sue chiese, nelle quali mi pareva che l'arte veramente divina traducesse all'anima il mistero della suprema bellezza; vidi i capilavori di Michelangiolo, di Raffaele, di Tiziano, di Guido, di cent'altri; tutto mi rapì, mi commosse; e questo, il posso dire, fu il principio della mia conversione. Conobbi molti uomini d'alto ingegno, di semplice probità, uomini di fede e di sapienza; conversai con essi, ritrovai in loro le virtù, le parole dello zio Randale; e finalmente, venuto in questa stessa vostra città, Dio mi fece incontrare con quel saggio che doveva rinverginar la mia mente, vincere il dubbio del mio cuore, sollevare la mia speranza e la forza del mio intelletto a una lieta novella. Fin d'allora io voleva abbandonar l'eresìa; pure quell'uomo, ch'io venerava come il mio salvatore, aveva letto nel mio cuore, e veduto che la mia deliberazione era più d'entusiasmo che di convincimento; e non assentì. Ma, congedandomi con lagrime di consolazione, mi disse di lasciar fare al Signore, che avrebbe condotta a' fine l'opera sua. Intanto Eugenio, al quale il racconto riusciva nuovo e strano (egli che non aveva mai pensato sul serio a' paternostri e a' credo della sua nonna), diceva tra sè e sè che quel giovine aveva più del dottore che del lord, onde l'avrebbe indovinata meglio se fosse venuto al mondo a' bei tempi del bordone e delle cocolle: del resto, che le belle Madonne dipinte sui quadri l'avessero convertito, non lo capiva; chè per lui, tutte quelle belle sante color di rose e gigli, e quelle Maddalene penitenti che aveva veduto, gli avevan fatto frullare tutt'altri pensieri in capo. — Dopo qualche tempo, riprese Arnoldo, mio padre mi richiamò a casa; ma avend'io rifiutato un illustre matrimonio al quale egli stesso mi destinava, s'inasprì contro di me; mi respinse, e venne con le mie sorelle in Italia, ov'io lo seguitai poco di poi. Ma qui, l'amore di Maria e l'amicizia del fratel suo, come già v'ho narrato, mi ricondussero a' più santi pensieri, alla religione... Tornato in patria, volli alfine adempire il proposito fatto, e andai a visitare il mio buon zio, il quale più nulla aveva saputo della mia sorte; quell'uom venerando, giunto nell'ultima vecchiezza, era divenuto cieco. Lo trovai inchiodato dagli anni su d'una seggiola antica, ma con la mente lucida e col cuore tranquillo. Egli pianse di gioia al racconto delle arcane vie per le quali la provvidenza aveva condotto l'opera della mia salute; e levando in atto solenne la nuda sua testa, e con le mani tremanti cercando la mia, mi benedisse, ed esclamò che oramai moriva contento, perchè il Signore lasciava nella sua famiglia l'eredità della fede. Alcun tempo appresso, egli si fece trasportare, quantunque cieco, nella chiesa in cui io feci la pubblica abbiura dell'eresía!... La memoria di quel dì non uscirà mai dal mio cuore!... Ma da quel dì stesso, non rividi mio padre, e forse nol vedrò più. Nessuno, ben che il fatto della mia conversione menasse qualche rumore della città, nessuno ebbe l'animo di farne motto con lui; talchè seppi poi ch'egli ne aveva letto la notizia sui fogli pubblici... Mi fu riferito che nell'impeto del suo sdegno egli m'abbia maledetto... Oh Dio! No, no, io non lo crederò mai; e tu, o Signore, non consenti che un padre maledica al figliuol suo!... Il vero è ch'io fuggii, come un colpevole, abbandonai famiglia, amici e patria; non avrei potuto vivere come uno straniero vicino alla mia casa, a' miei; e mutai nome e cielo. Poi, qui speravo di trovar quel riposo che sempre fugge dinanzi a me, e qui mi chiamavano ancora una promessa, un amore... Ah! sì, che almeno io ritrovi quella virtuosa fanciulla! Essa non mi respingerà più; ora, io non sono il giovine ricco e potente, sono il figliuol diseredato, il povero esigliato che domanda conforto, che ha bisogno di trovar alcuno che l'ami ancora. — Ah! esclamò Eugenio, vi dico in coscienza che di certe cose io non ne so straccio! Ma se, per dio, non v'avessi intes'io a raccontare voi stesso la vostra storia, la crederei proprio, come se mi dicessero che il Gran Turco s'è fatto eremita. Un giovine come voi, un signore, un uomo d'ingegno, far questa fine... Scusate, sapete; ma, a me, questi miracoli non m'entrano in testa; sebbene, a dirvela com'è, tutto ciò m'abbia imbrogliato un po' le idee; m'avete tirato giù certe ragioni, certi scrupoli, a cui non ho mai pensato in vita mia. Arnoldo taceva, e teneva fissi sopra il compagno gli occhi con un'aria tra mesta e grave. — E vorrei veder adesso, soggiungeva Eugenio, che quella fortunata fanciulla volesse far la schizzinosa. È impossibile! e scommetto che il suo nascondersi è furberia bell'e buona per tirarvi meglio in trappola. — Non è vero! Voi non la conoscete, rispose sdegnoso Arnoldo. — Sarà, lo dite voi, sarà! Ma pur non vorrei che... E, con un tal maligno sorriso, Eugenio scoteva il capo. — Ah! voi ridete, voi ridete, come gli altri che mi tengono per uno stolto!... Ma voi non sapete quel che si passa qui dentro, quel che si può perdere e sperare! A queste parole dette con fuoco, l'altro tacque, si strinse nelle spalle, e conchiuse mentalmente: Non c'è da dire! bisogna persuadersi ch'egli pizzichi del matto. Ma poco di poi, quando Arnoldo gli confidò che al domani partiva per andare in cerca di Maria, al paesello del lago o nel dintorno, e conchiuse pregandolo in nome dell'amicizia di tentar tutto, durante la sua assenza, per averne egli pure contezza, Eugenio aveva promesso di far l'impossibile: e si lasciarono, buoni amici come prima. X. UN'ALTRA PROVA. Una casa di gretta apparenza, con le muraglie dipinte del colore del tempo e scalcinate, con un ballatoio alla lunga a ciascuno de' suoi due piani e un'ampia gronda tarlata che si versa all'infuori, come la tesa d'un cappellaccio su la fronte d'un pitocco, guarda su d'una rimota piazzetta, in una parte lontana della città, presso a uno de' nostri abbandonati _terraggi_. Da un fianco, il murello d'un'ortaglia che fa gomito nell'attiguo chiassuolo, dall'altro una casipola lunga, bassa, bucata d'usci e finestre come un crivello, angusto ricovero di povera gente; e vicino, una vecchia siepe su d'un ciglione di terra, che risponde a una strada fangosa, bistorta, orlata d'un fossato. V'ha ancora pochi angoli della nostra bella e ringiovenita Milano, i quali presentino un aspetto così malandato e tristo, da parer veramente la casa delle streghe; e chi si volesse pigliar lo spasso di cercare quel gruppo d'abituri ch'io descrivo, non aspetti al domani; perchè forse, dov'è la casa del signor Cipriano, troverà un bel palazzetto dalla fronte allegra e linda e dalle gelosie verdi, e in vece del rozzo casamento da vicini col marcio fossato al piede, si vedrà sorgere dirimpetto una fabbrica bianca, recente, di cinque piani, da far invidia a chiunque abbia due spanne di terra al sole. Il signor Cipriano era un antico fabbricatore di cioccolatte, il quale, avendo avanzate di buone migliaia di scudi, e non volendo morir sul mestiero, chiusa bottega, si ritirò a goder negli ultimi anni il frutto de' suoi sudori in santa libertà. Egli aveva dunque comperato quella casa a mezzo prezzo; ma poich'era assai taccagno e aveva spesa sempre la sua lira per venti soldi almeno, si ridusse a menar grama vita in quella topaia cadente, dove una volta aveva sognato di far il signorone. E parevagli di toccare il cielo col dito, allorchè sdraiato su d'una panchetta accanto al fuoco, col fido suo fiaschetto di vin d'Ossona al fianco, ruminava, tra l'una e l'altra mezzina, il conto degl'interessi de' suoi capitali, all'uno o al due per cento il mese. Quand'egli attraversava la piazzetta per entrar nella sua porta, andava tronfio, a lento passo, con le mani intrecciate sotto la schiena; e, levando il grosso ventre e il naso bernoccoluto, sbirciava su per le finestre e pe' terrazzini le più tonde e frescoccie comari del contorno: tutti lo conoscevano, e gli facevan di cappello, quasi al bassà del quartiere; perchè tutti supponevano che tenesse un bel morto sepolto in cantina. Dal primo all'ultimo de' sessant'anni, a cui toccava allora, egli era stato schivo sempre d'ogni molestia e d'ogni cura; e se non volle mai tor moglie, fu per non avere il pensiero de' figliuoli e l'impaccio della donna, ch'egli soleva chiamare la più spallata mercanzia del mondo. Ma, poco tempo prima, s'era condotte in casa la signora Barbara, sua sorella, vedova d'un fallito, e la Savina figlia di lei, che sole di tutti i parenti gli eran rimaste, e che s'accontentarono di governare la casa e pagar la pigione; perchè l'idea di fare un dì o l'altro una grossa eredità era l'áncora della loro speranza. In casa però, il signor Cipriano aveva sempre tenuta la mestola a suo modo; e ben se lo sapeva quello zotico baccellone di Michele, ch'era l'unico famiglio, quando il padrone, dotato d'una memoria spilorcia da far fremere, gli faceva dar conto ogni dì, della croce dell'ultimo quattrino. Nella casa di questo novello Arpagone noi troviamo adesso la nostra fanciulla, in qualità di cameriera della signora Barbara; la quale, incapricciata che la sua Savina diventasse una damigella e facesse un bel partito co' fiocchi, non voleva più vederla attendere alle meschine cure della famiglia. Maria vi stava già da un mese. Abbandonata ch'ebbe la bottega della crestaia, si gettò nelle braccia dell'unica conoscente che le restava, la signora Giuditta; e pianse, raccontando il pericolo che correva, e la scongiurò che le procacciasse un altro ricovero, una casa onesta, dove potesse viver più sicura, e nascosta a tutti. Appunto alcuni dì prima, la signora Barbara s'era raccomandata alla Giuditta (da un pezzo si conoscevano) chè facesse di trovarle una brava e savia giovine, la quale, contenta di poco, s'allogasse presso di lei. Dunque, la cosa fu ben presto combinata; e Maria, altro non sospirando che un'esistenza casalinga e solitaria, ringraziò il cielo che le avesse conceduto quel ricovero. Ell'era così docile e buona, che subito la signora Barbara prese a volerle bene; e il suo costume, le sue parole avevano un incanto così gentile e dolce, ch'essa pure la giovinetta Savina le pose molto amore, e volle subito che tra loro si dessero del tu. Maria le apparecchiava ogni mattina il più fresco e mondo vestito che pareva sempre del dì delle feste, un candido grembiule coll'orlo a traforo, e un bel collare a pieghette, e la cuffietta la più leggiadra, ch'era una grazia a vederla. E la madre si ringalluzziva tutta, nè capiva in sè della gioja, trovando sì bellina e compita d'ogni cosa la figliuola, che tutt'altra sembrava da quella di prima. Tutta la casa poi, in quel breve tempo, risentiva già della presenza d'una sollecita regolatrice, a cui il buon ordine e la mondezza sono necessità e abitudine; i vecchi mobili polverosi, muffati, del signor Cipriano, le tende delle finestre e le cortine de' letti luride e cadenti, avevan ripigliato un'aria di giovinezza e di pretensione. Fino quel semplice di Michele, il famiglio, voleva farsi in quattro per ripulire e rassettar le camere, il salotto e la cucina; e lavorava a tutta schiena a rigovernar le pentole, le casseruole, le stoviglie, obbediente come un cagnolino a tutto quel che Maria gli dicesse; perchè glielo diceva con un far così benevolo, ch'egli, usato a ricever buone lavate di capo dal padrone per cose da nulla, sarebbe per essa ito nel fuoco. L'avaro era il solo che più di frequente brontolasse di quelle novità; nè ci voleva meno di tutto l'accorgimento e di tutta la pazienza della sorella a persuaderlo che un uomo della sua qualità, con venti mila lire buone di rendita, doveva tenersi in credito, e aver una casa da cristiano; ma la ragione che lo faceva star più cheto, era che non gli toccasse di far vedere la luce a un soldo di più. Dopo che stava in quella casa, Maria non ne usciva mai, fuorchè la domenica di buon'ora, per andare alla messa nella chiesa più vicina. L'inverno si rabbruscava sempre più; il cielo era quasi sempre rannuvolato e piovoso, e le prime nevi avevan già messo nell'aria quella muta malinconia, che par s'acconci tanto bene a una vita rassegnata e oscura. Sbrigate le faccende di casa, tutta la gioia di Maria era di potersi ritirare nel silenzio della sua camera. Allora rialzata una cortina del balcone che metteva su la ringhiera, sedeva assidua al suo lavoro, là presso, sotto la poca luce; e le pianticelle d'un vaso di garofani, ch'essa teneva su d'un vicino armadietto, lasciavan talvolta cadere sul suo grembo alcune secche fogliette. Quel piccolo vaso, senza un fiore, quell'arida pianticella, quegli steli d'un pallido verde, ricadenti su l'orlo del vaso, bastavano a risvegliar nell'anima sua il dolore del tempo passato, il mesto desiderio d'un avvenire più felice. Si ricordava che nella casa di suo padre, sovra la soglia della sua finestra verso il lago, ella soleva una volta educare una famigliuola de' fiori che più amava; e via via, di pensiero in pensiero, il suo cuore la rapiva... Essa non era più là, era con sua madre e con la vecchia Marta, era con suo fratello... e con un altro! E dimenticava tutto, per ricordarsi solamente d'una appassionata canzoncina, che un giorno era tanto piaciuta all'amico suo: ROSA. Chi è che vien sì lenta e sospirosa? Povera Rosa! Rosa innamorata! Era un raggio del ciel la sua sembianza; Ora è senza color, senza parola: Prima al canto d'amor, prima alla danza, Ed ora agli occhi di ciascun s'invola; E se ne va piangente, e tutta sola Lungo la riva di fiori smaltata. Su la bell'alba move, in vesta bianca, E par l'ultima stella del mattino; Tacita riede, quando il giorno manca, E pare il primo raggio vespertino; All'alba e al vespro, sempre a quel cammino Sen viene la fanciulla sconsolata. Perchè si volge sempre al ciel lontano? Qui non è cosa più che la conforta! Madre infelice! E tu la cerchi invano; D'un angelo la vita in terra è corta! Madre, non hai più figlia!... Ell'è già morta, E già rivola a Dio l'alma beata. Chi a pianger vien sul sasso ov'ella posa? Povera Rosa! Rosa innamorata! Ma nella dolcezza del suo rapimento veniva a turbarla l'acuta voce della piccola Savina, la quale era inquieta, caparbia, un vero demonietto; e non la poteva star sola un'ora co' suoi pensieri di quindici anni, senz'annoiarsi. Allora essa correva dalla Maria, e saltellandole intorno, come un furetto, ora voleva che le acconciasse un riccio, ora che le stringesse la cintura, or una cosa, or un'altra. E poi, se le frullava il capriccio, Maria doveva porsi a giocar con lei; e pigliato un mazzo di carte, bisognava che la si facesse a indovinare, se la padroncina avrebbe avuto un amante, se giovine, ricco, bello e che so io. Maria paziente ne appagava i bizzarri ghiribizzi, le presagiva le più liete cose del mondo, tutto com'essa voleva; e la Savinetta allora le balzava al collo, le dava baci, le diceva ch'era tutta bella, e che appena divenuta una gran signora, essa l'avrebbe tenuta sempre con lei, e di più, che s'ella fosse stata un bel giovinotto co' baffi l'avrebbe sposata su' due piedi. Maria non si piaceva delle scioccherìe di quel farfarello; ma pur era bisogno che qualche volta mostrasse di sorridere, perchè non la facesse peggio. Così ella provava quanta pena costi a un animo debole e piagato la lotta dell'interno dolore con le amare inezie della vita. E non aver nessuno a cui svelare i segreti della sua pena, nessuno che le dicesse una parola, che le desse un consiglio; e in vece dover sempre parer lieta, e sorridere quando altrui piaceva, tutto ciò logorava il cuor suo; come un succo velenoso che fa morire lo stelo d'un fiore, quando appena il primo germoglio comincia ad aprirsi al sole. Pure, a poco a poco, l'aria dolce e l'ingenuità della fanciulla parevano aver fatto breccia perfino nello scabro cuore dell'avaro. Maria non se n'era accorta, ma il vecchio Arpagone non brontolava più come prima, non andava gironzando per la casa, le mani nelle tasche del giubbone, come soleva, e sguardando in cagnesco; fin al povero Michele non faceva più il viso arcigno, quando se lo faceva venir innanzi per saldare i conti, o comandar il desinare. Ond'era, che que' di casa e i vicini, i quali l'avevano sempre conosciuto per un sornione dannato, volevano sbattezzarsi per la maraviglia, non potendo capacitarsi di vedere il signor Cipriano rientrar in casa fuor dell'ore usate e con un'ariona allegra, della quale i suoi debitori del vicinato non avevan, da anni e anni, neppur sognato l'ombra. Ma il più strano fu, quando venuta la domenica, egli fu veduto attraversar la piazzetta, vestito d'un pastrano nuovo color marrone e con un cappello rimberciato, che pareva volesse sfidar l'aria; a mano a mano ch'egli passava, l'ortolana, la pizzicagnola, la tabaccaia e l'altre comari del quartiere gli tenevan dietro con gli occhi, e poi si guardavan tra loro stupite, come per dire: — O la è vicina la fine del mondo, o il signor Cipriano vuol morire. Nessuno l'avrebbe pensato, pure egli era vero, che da qualche tempo la graziosa figura di Maria trottava per il cervello del vecchio barbogio. Alla sera quand'egli seduto nel salotto, presso il camino, in cui ardevano due legni in croce, si traeva di tasca, e rileggeva la bisunta vacchetta del suo _dare_ e _avere_ (cosa ch'egli faceva tutti i santi giorni dell'anno, come un buon prete recita il suo breviario), gli occhi suoi piccoli e rossigni stoglievansi spesso dalle cifre arabiche ond'era tempestato quel libretto, per riposarsi sul leggiadro gruppo di Maria e della Savinetta che stavano poco lungi, accanto della tavola, l'una a cucire, l'altra a ridere ed a ciaramellare. Il dilicato aspetto di Maria, la sua testa vezzosa e coperta d'un bel pannolino bianco orlato d'azzurro che le si allacciava sotto al mento, i capegli scompartiti e lucidi, gli occhi grandi e modesti, quella faccia bella che cominciava a ripigliare il suo tenero incarnato, e quelle piccole e bianche mani inquiete sul lavoro, e lo schietto abbandono della snella persona, tutto aveva in lei una tale magia, che al signor Cipriano, a cui per le frequenti sorsate del suo pretto vin d'Ossona luceva un poco la vista e ballava la camera intorno, l'aerea figura della Maria era come l'apparizione d'un bellissimo sogno. Allora egli perdeva il filo de' suoi conti, il dare e l'avere gli andavano insieme sotto gli occhi, e scambiava numeri e parole; ogni zero gli pareva la bella testolina di Maria. Così in quelle sere, mentre il vôtar de' bicchieri gli scaldava le vene e i polsi, la presenza della vezzosa creatura gli metteva nella fantasia il grillo dei vent'anni; e dimenticava i suoi capegli grigi e il naso bitorzoluto e il suo piatto viso color di vinacce. E che non avrebb'egli dimenticato, se lasciò perfino passar due giorni interi, senz'esigere dal Michele il rendiconto dello scudo rimastogli nelle mani per far le spese? Allora, facendosi coraggio s'alzava, e, data una scosserella alle membra ingranchite, s'accostava pian piano, coll'andar del gatto, alla tavola dove sedevano le due giovinette, poco stante dalla signora Barbara. E appoggiati i gomiti alla spalliera della seggiola di Maria, contorceva il viso con una smorfia, che avrebbe dovuto essere un sorriso; e dondolando la testa or su l'una spalla, or su l'altra, domandava: — Che fate di bello. Maria? — Sto ricamando un fazzoletto da collo per la signora Savina. — Oh come sei brava! adoperi l'ago, ch'è una delizia vederti. — Come mi starà bene quel collare, non è egli vero, zio? Voglio metterlo il dì del Natale! diceva la Savinetta; e intanto, non potendo star cheta, andava tagliuzzando con le cesoine le frange del grosso tappeto che copriva la tavola. — Oh! ti starà bene anche di troppo, per quella maledetta smania di tua madre di spenderti intorno tutto il fatto tuo. — Lasciate pensare a chi tocca, voi! rispondeva la madre, chè non sapete mai cosa vi diciate. — Bene, bene, tal sia di voi! Ma tu, Maria, che sei così bellina, e sai far tante care cosette, perchè vai sempre con quel vestito povero, nè mai t'adorni di qualche ricamo delle tue belle manine?... E con quel suo strano vezzo dondolava sempre il capo, battendo con le dita il tamburo sull'appoggiatoio della scranna. — Oh! per me non ci penso neppure, io sono povera! rispondeva Maria con un sospiro, senza levar gli occhi dal trapunto. — Via, via, ripigliava il vecchio, non ti crucciare. Tu sei carina, buonina... e se non fosse... Oh sì, tu adesso sei della famiglia, e vorrei quasi... capisci? Io sono di cuor tenero, mi piace che tutti mi voglian bene... capisci? Però, non son ricco... è un babbuino chi lo crede; lo devo ben saper io, io che sono capo di casa: una famiglia costa gli occhi del capo, altro che baje!... Ma pure, vada!... per le feste del Natale, ti voglio regalare, sì regalare... uno scialle rosso, a fiori, magnifico, che ti ruberà gli occhi! E tu lo porterai per amor mio, non è vero? — Ah no! signore, non faccia niente, io ne la prego! lo interrompeva Maria, arrossendo tutta. — Tant'è! l'ho detto, e lo farò. E levandosi ritto, teneva fissi su lei gli occhi di bragia, la divorava con gli sguardi. — Ecco qui, voi! gli dava allora sulla voce la sorella. Che idee vi girano in capo? Non avete mai in vita vostra regalato alla mia Savina, ch'è pur l'unica vostra nipote, nemmen la capocchia d'uno spillo, e adesso vi salta il capriccio di donar uno scialle alla serva?... Cosa credete che costi? non ve la cavate con manco d'un paio di luigi! avete capito?... Eh andate a letto, chè la testa vi gira, e non mettete così sossopra le figliuole! Maria è una brava fanciulla, e fa bene a dir no. Pensateci bene... due luigi! voi che gridate tanto di me, che per una settimana tempestate, s'io spendo mezzo scudo!... Andate, andate in letto, ch'è l'ora. Per buona ventura quelle parole, due luigi! eran magiche sul vecchio spilorcio; il quale, pigliato un moccolo, obbediva, brontolando frasi scucite, e incamminavasi verso la sua camera, tentennando la grossa persona su le gambe mal ferme. Ma quand'era sull'uscio, rivolgevasi; e levando il lume alla dirittura de' suoi occhi lustri e accesi, salutava con la palma tesa la fanciulla, e lo diceva con una vocina stonata: — Buona notte, Marietta! buona notte, mia bella stella d'oro! ah! ah! eh! eh!... E, data una girivolta, imboccava nell'uscio e se n'andava. Fino a quel dì, sull'anima candida di Maria non era caduta pur l'ombra d'un pensiero di tema: ella viveva sicura, e senza alcun sospetto che il suo padrone tenesse gli occhi sopra di lei. Era innocente, nè il suo cuore poteva concepire quanto d'abbietto e d'infame vi fosse nelle semplici e rotte frasi che il vecchio le indirizzava in quella sera. Abbandonata nella disgrazia, benchè avesse patito molto, essa ignorava ancora che sciagure più atroci e prove più dolorose sovrastano alla povera innocenza; ignorava che l'uomo sembra quasi compiacersi di gettar la contaminazione dov'è la miseria, come se questa possa esser la scusa della colpa. Ma in quella sera, le si svegliò nell'anima un turbamento, un timor muto, del quale non sapeva spiegar la cagione. Quando si ritirò, sentiva un'inquietudine ne' pensieri, un raccapriccio in tutte le fibre, come il senso arcano d'una nuova sciagura; e ad ogni momento tremava di trovarsi tutta sola. Le risonavano ancora all'orecchio le parole che il vecchio le aveva dette, e ch'essa non intendeva; ancora le pareva di vedere il suo volto contraffatto dal ghignar di quella sua strana giovialità, i suoi guardi di fuoco, e gli atti schifi, e il maligno saluto. Quelle parole, quell'aspetto le somigliavano un terribile scherno, e le mettevano in cuore un gelo, un ribrezzo che non aveva provato mai. Volgeva intorno gli occhi sbigottiti, e il viso sparso di freddo sudore; trattenendo il respiro, tendeva l'orecchio al più leggero strepito che si movesse nell'altre stanze. E, nel terrore dell'abbandono, domandava al cielo la grazia d'essere liberata da quell'affanno, che le pareva effetto d'una visione spaventosa. A poco a poco tornata in pace, s'avvicinò al suo letto, e slacciando il fazzoletto che le copriva la testa, si sgruppò la bella treccia bruna, che le si diffuse tutta sulle spalle e sul seno... In quel momento, le percosse d'improvviso l'orecchio un quieto strisciar di pianelle, come il passo d'alcuno che s'accostasse al suo uscio. Sollevò al cielo il volto supplichevole; e poi, serrando le braccia strettamente al seno, si raccolse come in sè stessa, e stette senza movimento e quasi senza vita. Così una giovinetta indiana, la quale, fuggita dalla sferza del sole, riposavasi all'ombra del fedele sicomòro, si risveglia con subitano balzo da' suoi sogni dorati, e rimane muta, fredda, tremante, sotto la malía degli accesi occhi del serpente, che vede trascinarsi col lubrico ventre su per la zolla di muschio, ov'essa poco dianzi dormiva. Poi, quel cauto stropiccìo di passi le parve allontanarsi, e poco di poi cessar del tutto. Essa palpitava ancora, ma lo sgomento che l'aveva compresa divenne meno; diede un gran sospiro, e le si allargò il cuore. Pure, quando fece per ispogliarsi del suo modesto vestito, un segreto istinto di pudore, che le nacque nell'animo in quel momento come il gemito dell'innocenza, le persuase di coricarsi vestita com'era, senza quasi ch'ella osasse domandarne a sè medesima il perchè. Si gettò dunque sul letto, ma per tutta la lunga notte non potè chiuder gli occhi al sonno, nè trovar un istante di quiete. A ogni poco, il più lontano suono la riscoteva; e balzando a sedere su la coltre, ascoltava, tremava. E que' risalti e quelle paure erano per nulla: una volta era lo stillare d'alcuni ghiacciuoli che staccatisi dalla grondaia battevano su la balconata; poi, era un gatto che saltando dall'abbaìno attraversava su pel lungo ballatoio della casa; poi, qualche povero diavolo, un di coloro che non han luogo nè fuoco, il quale cacciato fuor della porta del vicino tavernaio, se n'andava in ronda gagnolando qualche rozza canzone, e faceva scricchiolare sotto i suoi passi la neve gelata, camminando a sghembo, come si dipinge la saetta. Oh come la fanciulla benedisse il ritorno della mattina! Ma gli ultimi giorni del dicembre, sotto l'umida coperta delle nebbie, nascono sì tardi su le tetre vie della città, e stillano i brividi della tristezza nel cuore. Nondimeno ella spalancò il balcone, e tutta consolata bevendo quell'aria cruda ma aperta, credette di tornare alla vita. Quando fu per uscire della sua camera, un dubbio inquieto le arrestava ancora il passo, perchè sopra ogni cosa temeva d'incontrarsi sola col vecchio padrone. In casa nessuno erasi levato, fuori di quel poveraccio del Michele: e Maria lo pregò con tal modo le desse una mano a rassettar le camere, che il buon uomo non sel fece dire due volte, e in manco di mezz'ora rimuginò e ripose tutte le masserizie, che si sarebbe potuto specchiarvisi. Poi, per tutto il dì, Maria non si tolse mai dal fianco della sua padrona, schivando sempre, con uno o con un altro pretesto, d'abbandonar la camera ove stava con essa e con la figliuola. Ma il signor Cipriano era uscito di buon'ora, nè tornò fino al desinare; durante il quale, rimase sopra pensiero, non disse mai parola, non guardò a nessuno, e tenne un broncio duro che gli s'acconciava a meraviglia. Maria non poteva crederlo, ma pur non desiderava di più: la sorella e la nipote di lui non ci vedevan dentro chiaro. Il dì dopo fu lo stesso, così che la fanciulla cominciò a rassicurarsi, a pensare che il suo timore fosse il giuoco d'un sogno cattivo; ella si persuase perfino, che il sospetto che l'aveva presa, fosse un reo pensiero dell'anima sua, una colpa di più... Povera innocente! Intanto il dì del Natale era passato, e nella casa del vecchio avaro tutto camminava col solito andare. La mattina breve, ma pur tediosa, era appena ingannata dalle poche faccende della famiglia, e da qualche rara visita d'una comare del vicinato o d'alcuna delle amiche della padrona. La sera poi, al consueto, le tre donne sedevano presso la tavola; e il signor Cipriano se ne stava nel salotto, rincantucciato al focolare, in compagnia del suo fiasco di vin vecchio, e studiava sul fido libricciolo degli interessi il conto della fin dell'anno, quel conto fatale ai poveri debitori; e al saldar di ciascheduna partita, vôtava d'un fiato il colmo bicchiero, e lanciava un'occhiata lunga e maligna alla giovinetta pensosa; una somma, un buon bicchiero, e un'occhiata di traverso, e via con questo giuoco. A mezza sera le donne si ritiravano, e il padrone rimaneva ancora per un buon pezzo a succiare del suo boccale; e allargando le gambe a cavalcioni del fuoco, rintascato il libro nero, lasciava le briglie a' suoi pensieri, si deliziava ne' più bei castelli in aria che abbian mai ballonzato nel cervello d'un vecchio. Una sera fra le altre — egli era solo, e bisogna che qualche strano ghiribizzo gli stuzzicasse la fantasia, perchè grattavasi le orecchie, e di tanto in tanto, sfregandosi le mani o facendosi scricchiolare le dita, borbottava strane e rotte parole, lasciava sfuggire certe mute risa, da disgradarne il don Bartolo della commedia; al quale somigliava, imbacuccato com'era in una grossa berretta di cotone e nell'emerita vestaccia da camera che aveva tutti i colori dell'iride. — Tant'è! bisogna venirne a capo, o non sono io!... È oramai tempo! non posso proprio star più nella pelle — così borbottava il maligno vecchiardo. — Ho un fuoco qui dentro che mi brucia!... Mi par quasi di non aver più testa, e tutto mi balla in giro. Ecco! di tante belle cose ch'io aveva pensate da dirle, non ne so più un'acca. E sì, che quando mi ci metto, so parlare in punta di forchetta!... Maledette le parole! Basta, sarà quel ch'ha da essere. Quando la vedo, mi sento rimescolar tutto... Ma ella? se bastasse il promettere, manco male, le prometterei Roma e Toma... E qui pensava. — A ogni buon conto, se la tristarella ha il cattivo uso di serrarsi in camera la notte, questa controchiave farà il fatto mio... Una volta ch'io ci sia, il resto vien di per sè. Vorrei vederla, che quel musetto avesse ad arricciare il naso alla vista di questo bel rotolo di ruspi nuovi!... E si toglieva di tasca un cartoccio, e lo contemplava con occhi di ramarro. — Veramente, penso che dodici son troppi, e mi piange il cuore... perchè, se la fosse come tant'altre con qualche cencio e un par d'orecchini... e saltar tant'alto!... Eh! una volta, che tempi! Gli è vero che allora io era più fresco, e che quell'altre non tenevano soltanto a' miei soldi... E si ringalluzziva, poi guardandosi nell'antico specchiaccio ch'era sopra il camino, scoteva il capo e rannuvolavasi in volto. — Ma questa piagnolona non so come pigliarla. Se non fosse che le voglio un bene matto!... Eh via! chè il mio grimaldello apre qualunque uscio... E riponeva il rotoletto. — E poi? vada _todos_! la sarà l'ultima questa, non ci casco più da vero, mi costa troppo caro: tant'e tanto, di questi dodici bei zecchinetti, mi ricatterò su quel piccolo prestito d'ieri... Ma basta, basta, non voglio arrischiar troppo, chè potrei far qualche marrone, e perder la testa. Dunque, zitto, zitto! Parmi che a quest'ora tutti debbano dormire... E levavasi, e camminando su le punte de' piedi andava a uno, poi all'altr'uscio della stanza, appostandosi alla toppa a origliare. — Oh non è niente!... mi pareva... è un'immaginazione! E poi, sono in casa mia e, alla peggio, tengo il coltello per il manico, io! Dirò che risvegliato dal rumore, m'è parso che alcuno entrasse in casa, che da buon padrone non voglio scandali, e... gliela farò pagar salata, la caccerò di casa mia... Ah! ah! sono un uomo io? Or che ci penso, potrei anche smagrire il rotolo, tirarne fuori uno o due di questi ruspi; un di più, un di manco, è lo stesso per lei; già non la starà a contarli. — E pigliato il piccolo cartoccio, ne traeva fuori uno zecchino, e se lo riponeva nel taschino del panciotto. Poi passeggiava per la stanza lentamente, con passi studiati, accorti, poi tornava a origliare. E solo, a ora a ora, susurrava: — Ah! mia speranzina, mio tesoro! che m'hai stregato, che m'hai rubato il cuore, che m'hai fatto diventar giovine di vent'anni!... E il vecchio rimbarbogito s'avviò verso l'uscio del salotto. Ma n'andava di male gambe, chè tra il molto vino bevuto e una cotal segreta paura, adombravasi, sostava a ogni passo, quasi che alcuno lo spiasse; e si guardava le calcagna, come il lupo che sente le peste del villano. Nel mentre che il reo babbaccio così andava mulinando l'infame suo tentativo, Michele, il dabben servitore, insospettito del perchè il padrone, a quell'ora così tarda, non si fosse coricato, si cacciava all'oscuro per il corridoio che conduceva alla camera di Maria; poi, cautamente avvicinatosi all'uscio ch'era chiuso, batteva un tocco leggero, dicendo sotto voce: — Maria, aprite, son io, sono Michele; aprite per carità! L'uscio s'aprì, e la fanciulla comparve ansiosa, atterrita, tenendo il lume in una mano, e con l'altra raccogliendosi sul seno il giubboncino, del quale già stava per dispogliarsi. — O Maria, disse Michele con accento rapido e sommesso; bo una cosa a dirvi, e in tutt'oggi non ho potuto mai trovar il momento... — Oh! che c'è mai? per amor del cielo, parlate! esclamò la giovine, divenuta pallida pallida per il terrore che si faceva più grande. — Egli è perchè siete così buona, e non mi dà l'animo di vedervi rovinata: ahi se potessi dir tutto quel che so... Ma no, vi basti, che non ci state bene voi, in questa casa; che il padrone v'ha messo gli occhi addosso; e voi non sapete che uomo sia, massime quando si lascia prender dal vino... Ah, per carità, pensateci e tremate! Non siete sicura, vi dico, e il Signore abbia compassione di voi... — O mio Dio, mio Dio! Che cosa ho a fare? — Fuggire, fuggir di qui, più presto ch'è possibile. Ah se sapeste, Maria, che lagrime ha fatto versare quell'uomo!... Se vi dicessi la storia d'un'altra poveretta... Domandate la vostra licenza, andate via, credete a me, che vi voglio bene, come se foste mia figliuola. Voi non potete dormir in pace nel vostro letto! Maria ascoltava, come istupidita, queste parole, e cogli occhi immobili, e con le labbra gelide e semiaperte, muta e senza senso guardava Michele, quasi aspettando da lui una parola, un pensiero. Poi, vinta dal dolore, rompendo a uno schianto — Oh! perchè mai, disse, non m'avete parlato prima? Ora, abbiate voi compassione di me, salvatemi voi, fate ch'io fugga subito di questa casa! — Oh è impossibile! Come volete ch'io faccia? è impossibile adesso! dove vorreste andare? Pensateci; e domani, o posdomani, qualche pretesto non vi mancherà. No, domani, no! Adesso, vi dico, adesso... io sono nelle vostre mani, salvatemi, salvatemi! E piena di raccapriccio e di spavento, guatava per il buio del corridore, come se già temesse l'avvicinarsi dell'odioso padrone. — Non sapete, ripigliava Michele, quel ch'arrischio solo per avervi avvisata? il mio pane per tutto il resto della vita; io sarei cacciato di qui: e dove trovare allora chi voglia di me, vecchio e gramo come sono?... — Anche voi m'abbandonate, buon Michele? E bene, Dio mi darà forza; e dovessi anche gettarmi giù dalla finestra, domani non sarò più in questa casa! — O mio Dio! Siete voi che parlate così, Maria? No, no, farò tutto, farò quel che volete. Sentite dunque... — Oh il cielo vi benedica! ma ch'io fugga sul momento... Domani, questa notte... qui io sarei già morta! — Sentite bene! raccogliete qualche cosa del vostro; poi, senza strepito, zitta e lenta, andate a basso, ch'io starò giù ad aspettarvi appiè della scala... Per una fortuna del cielo, ho qui una vecchia chiave dello sportello: vi metterò fuori e, se v'accontentate d'un povero cantuccio per questa notte, bussate a quella porticina qui poco lontano, la seconda voltato il canto: vi stanno una mia sorella e Brigida la mia figliuola; dite che vi mando io; v'apriranno, e sarete la ben venuta: domani poi, all'alba, verrò anch'io; e intanto il Signore v'inspirerà che cosa fare. — Ch'Egli vi dia del bene! Non sarà mai che il mio cuore dimentichi un benefizio sì grande!... E stringeva con affetto le mani dell'onesto famiglio; e su quelle cadeva una sua lagrima, una lagrima di riconoscenza. Questo colloquio agitato, sommesso, fu cosa d'un momento. Un momento dipoi, Michele era scomparso; e a tentone attraversando la stanza vicina e l'antisala, con gran cautela disserrò l'uscio che rispondeva sul pianerottolo della scala; lasciatolo socchiuso, discese, e si pose con animo inquieto ad aspettare, presso la porta di strada. Maria intanto, tutta ancora smarrita e tremante, era rientrata nella sua camera, e non potendo sopportar l'angoscia che le toglieva quasi il respiro, abbandonavasi per poco su d'una seggiola, sentendo bisogno più che mai di racquistare tutto il suo coraggio. Poi, riscossa da quel letargo, al destarsi di nuovo spavento, si racconciò in fretta nella sua semplice vesta, e già s'era mossa per uscire, quando le sovvenne di pigliar seco il rosario benedetto che la madre le aveva confidato al suo letto di morte. Tornò indietro, lo cercò fra le cose sue, che aveva lasciate; e trovatolo, con un santo pensiero infantile, e non sapendo quasi quel che si facesse, se lo pose al collo. In quella, apparve su l'entrata della camera la stupida, esosa figura del signor Cipriano. Egli aveva trovato schiuso l'uscio, e non volle di meglio; chè, vinto il primo passo, si teneva sicuro del fatto suo. S'avanzava pian piano, con un andar rotto, incerto; e sul volto acceso dal fuoco del vino, gli si leggeva il sinistro ghigno d'una compiacenza che aveva qualcosa di bestiale. Egli volle parlare, balbettò; ma, al primo vederlo, la fanciulla mise un disperato grido, un grido soffocato dal terrore, e corse a nascondersi nel più lontano angolo della stanza. Il vecchio continuava ad avvicinarsi tentennando, e sogghignava, e teneva sempre sovr'essa gli occhi intenti e bramosi. Quando fu vicino alla debole sbigottita creatura, la quale, rannicchiata sul pavimento, tentava di farsi scudo delle braccia tremanti, nè osava di respirare, come se un respiro solo avesse potuto perderla, il vile vecchio distese la destra per sollevarla dal terreno, e chinossi lentamente sopra di lei. Allora, inspirata dal suo verginale coraggio la giovinetta levò la testa, e con uno sguardo sublime, ardente di disprezzo e di vergogna, fissò gli occhi sicuri e innocenti su la delirante faccia del vecchio. Il quale, colto da involontaria tema, ristette scompigliato, e diede addietro due passi. Essa continuava a guardarlo, senza dire parola: quell'aspetto laido e ributtante, le suscitò nel cuore un fremito così doloroso che per salvarsi dall'orrore che l'agghiacciava, come se le fosse sorta dinanzi l'apparizione d'un demone, strinse con ambe le mani la sacra medaglietta del rosario che le pendeva sul seno, e la baciò. Quel bacio fu più che una preghiera, più che un voto. Il vecchiardo, il quale, non aspettando quella scena, temeva quasi di vedersi fuggir di mano la sua preda, fece i due passi che lo dividevano da lei, e chiamandola a nome e ringhiando, allungò di nuovo le braccia per afferrarla; ma la fanciulla con un rapido balzo distaccossi da lui, e fuggendo corse verso l'uscio. Allora il reo vecchio, fatto più audace dall'impensata resistenza, le attraversò la via, brancicando qua e là, e dando pugni all'aria per trattenerla nella sua fuga; e sentendo la poveretta con dolorose grida invocar misericordia e soccorso, egli ruppe in maledizioni, e inseguendola d'ogni parte, giunse ad afferrarla per le mani; ma a quell'impuro tocco, poco mancò che Maria non cadesse svenuta. Egli mischiava intanto preghiere e bestemmie con rauca voce, e ripeteva parole insensate, atroci; e serrando i denti per l'ira, e quasi schizzando fuoco dagli occhi grifagni, minacciava, minacciava d'ammazzarla se non tacesse. In quel momento terribile, la fanciulla, raccolta la poca lena che ancor le restava, e sostenuta nel cuore da una virtù sovrumana, fremendo d'orrore in ogni sua fibra, fece sembiante di cedere alla brutale forza che la strascinava... Poi, con una improvvisa stratta, si sciolse del feroce abbracciamento del vecchio, e sorta di lancio, con quell'impeto che lo spavento aveva fatto più grande, lo respinse, lontano, gridando: — Lasciatemi, infame! il Signore vi punisca!... lasciatemi! Il vecchio demente, mezzo ebbro e arrancato com'era, rinculò barcollando, vacillò, e cadde rovescioni sur una tavola; e traendo seco a ridosso la tavola, il lume e ogni altra cosa, stramazzò con gran tonfo sul terreno, nè potè più rialzarsi: ammaccato e malconcio, andava lamentandosi con un rantolo affogato, interrotto; finchè giacque immobile e riverso nel lurido sfinimento dell'ebbrezza. Maria era fuggita. XI. IL RITORNO. Era un giorno freddo e oscuro, nel cuor di gennaio. Stendevasi per tutto il cielo un immenso, uniforme padiglione di nuvole cenericcie e cupe, non interrotte da nessuno screzio di sereno, nè pure distinte dalla lieve striscia di quel chiarore pallido, che sembra almeno rammentare esservi ancora sotto al malinconico manto dell'inverno il nostro sole. L'atmosfera, che la notte innanzi s'era irrigidita per lo spirare d'un acuto, gelido rovaio, pareva più greve nella sua morta quiete, come allorchè promette vicina la neve. La strada era solitaria, le rive, le campagne si confondevano mute, nude, in tutta la squallidezza del l'inverno: le rotaie del cammino erano insudiciate d'un limaccio pesto, sdrucciolevole, e rotte a ogni tratto da fossatelli e da pozze. La natura intirizzita e moribonda, le piante aride e grame che lasciavano cadere qualche ramicello spezzato dal gelo, l'ultime foglie già morte; non un fiore, nè un fil d'erba che spuntasse di sotto la neve già vecchia e gelata, nè un passero che saltellasse fra i vizzi rami. In mezzo a quella scena, la quale t'avrebbe messo il freddo nell'ossa e nel cuore, erano solo indizio di vita i tocchi replicati e sordi del mezzodì, che venivano dal campanile d'un lontano paese. E la neve, già promessa dal rovaio della notte innanzi, cominciava a cadere fitta, quieta, a larghe falde; sì che ben presto tutta la campagna fu ricoperta d'una nuova veste biancastra, che lasciava appena indovinare giù per le avvallate costiere la pesta del cammino. Già da molte ore continuava a nevicare a gran fiocchi; eppure su quella strada deserta un povero cavalluccio, con la groppa coperta d'un ruvido coltrone addoppiato, andava trascinando a fatica una di quelle carrette a due ruote, con le spallette armate di quattro legni ad arco, e sopravi tesa una grossa tela di canapa, che formava il tetto dello strabalzante traino. Sul davanti, era seduto, con le gambe penzoloni all'infuori d'una delle stanghe, un buon villano, il padrone della carriuola: egli aveva una berretta rossa e nera, tirata su gli orecchi, cadente da una banda e suvvi un vecchio cappellaccio sfondato; e invece di mantello, anch'esso, come la sua bestia, portava su le spalle un grosso boldrone di lana. Di tanto in tanto dava un buono scrollo alle briglie di corda che teneva fra le mani, e col mozzicone della frusta punzecchiava le anche del paziente ronzino, o co' più strani versacci l'aizzava a un impossibile trotto; perchè la povera bestia, con le zampe ingranchite dal gelo, sprofondava fin sopra al garretto nella neve già alta, e a stento vi rompeva una callaia, inciampando sovente, e levando il muso, sbuffante come un Rabicano. — Uh! uh!... maledetta bestia! gridava il villano il quale, come gli eroi d'Omero, aveva costume di parlare col suo cavallo: uh! uh!.... e' pare che sia la prima volta che tu batti questa strada, e sì che, per dannata sorte, io potrei contarne gli alberi e i sassi... hop! hop! non c'è verso; è come se parlassi alla cavalla orba del mulino... Poveraccia! un po' di ragione l'hai anche tu; chè con una neve di questa fatta, non ci si può vedere più in là del naso... Ah! la è una vita ladra la vita della povera gente! Oh se almeno, arrivato che fossi a casa, mi aspettasse un po' di roba da cristiano sul tagliere, un bel fuoco allegro, e un buon letto!... Ma non c'è santi per noi!... La casa è aperta alla furia di questo tempo indemoniato, i miei due marmocchi a piangere sulla porta, e la mia donna a gridarmi dietro che non ho guadagnato una boccicata; e rotte le impannate delle finestre, e sul focolare morto una pentola screpolata!... E poi domani, andare in giù con quattro ceste d'erbaggi, e qualche fardello, se pur capita, e tornare in su il dì appresso con le ceste vôte, e le tasche magre... E poi da capo sempre la stessa vita, finchè sia venuta l'ora di tirar le calze... Oh! se qualche volta non si guardasse in su, di sopra ai tetti, sarebbe meglio vendere l'anima al diavolo che forse è più galantuomo di tante birbe di questo mondo!... Ah che giornata! che neve!... Eh! uh! trotta, che la mangiatoia t'aspetta con una buona bracciata di fieno; trotta, trotta, se non vuoi star digiuna come me, bestia dell'inferno! Così andava brontolando il villano; mentre spingeva gli sguardi di sotto all'ale del cappellaccio, per vedere attraverso la folta neve se spuntasse l'acuta cima del campanile del suo paese. In quel punto, un lungo sospiro, il gemer d'una voce soffocata, che uscivan del fondo della carretta, gli ruppero il filo dei pensieri; e allora rivolto indietro il capo si ricordò della giovine, alla quale partendo da Milano egli aveva avuta la carità di ceder quell'angolo; una poveretta che aveva incontrato, appena fuor delle porte della città, sola, tapina e malata. E per tutto il durar del viaggio, che certo avevano fatto un diecisette miglia, ell'era rimasta là, in quel fondo, come in un nascondiglio, accosciata, raccolta ne' suoi miseri panni, e coperta d'una vecchia mantellina nera, che nascondeva quasi del tutto il suo viso pallido e le sue bianche mani tremanti di freddo; nè lungo la via aveva detto mai una parola, ma era stata così cheta, che il buon cavallaro aveva già dimenticato la sua compagna di viaggio. Pure quel nuovo gemito aveva un non so che di doloroso, che ruppe il cuor del buon uomo; il quale si pose a contemplar la giovinetta con quella compassione rozza ma schietta, che sì forte sentono i cuori di coloro, i quali, senza saperlo, fan vita domestica con la sventura. E vide l'infelice, benchè si tenesse tutta chiusa nella sua mantellina, agitata da frequenti brividi, tremante per tutta la persona con le labbra livide e semiaperte, e il viso scolorito e rigato di lagrime. Ella piangeva, soffriva, eppure soffocava il suo dolore. — Ehi! cos'avete, quella giovine? vi vien male? dite su! mi fate una compassione... — No, rispose con una voce debolissima che appena giunse all'orecchio del cavallaro; no, ho dei travagli... — Eppure, voi dovete aver freddo, tremate come una foglia! Mi rincresce, sapete, che faccia un tempo così brusco, più per voi, che per la mia povera bestia e per me! Siete così bianca e sparuta, che non vorrei che questo vento gelato vi portasse via.... Maledetta neve! non n'è mai venuta tanta, come in quest'inverno; è proprio una Russia!... Ah! trotta, bestia poltrona!... Oh, guarda ch'io non ci aveva dato mente! prendete, la mia figliuola, prendete questo mio tabarro; è una grossa coperta di lana, ma tant'e tanto vi terrà un po' di caldo; e io, bestia! che non ci ho pensato prima!... — Oh! no, brav'uomo, rispondeva la giovinetta; io sto bene, e poi siam vicini al vostro paese: non è vero? — Eh! questa dannata strada non la finisce mai, come quella del paradiso; il campanile lungo, lungo del nostro Cantù è sempre là, nè mai ci s'arriva. Pigliate, via! pigliate la coperta; avreste ben potuto cercarmela voi, chè per me gli è tutt'uno, ci sono avvezzo a fare questa vita, e ho l'ossa dure... Mo, brava, siete buona, così! chiudetevi ben dentro che vi sentirete meglio, e tiratevi i piedi sotto... Oh! guardate, se una giornata come questa la doveva toccar proprio a noi, con questo vento che taglia la faccia, e questa neve che seguita allegramente. Brr! brr!... — Vi ringrazio della vostra carità, disse la fanciulla, che ravviluppatasi nel boldrone del villano sentiva di tornare in vita, ed era tocca nel profondo del cuore dalle parole del galantuomo. — Oh! riprese l'altro, fate conto davvero di tirar innanzi fino a Como, con questo tempaccio del diavolo? — Sì: prima che ci arriviamo, il tempo può calmarsi: e poi se mai si facesse più cattivo, mi fermerò lungo la strada in qualche cascina; ma bisogna ch'io arrivi a Como prima di notte. — Ma, perchè mai andate così sola? e come vi siete arrischiata?... — Non ve l'ho detto? vo a casa mia, dove non ho più nessuno: e se non foste stato voi sì buono, che mi prendeste su in vostra compagnia, io già aveva risoluto, mi sarei messa in istrada tant'e tanto. — Pover'anima, vi compatisco! perchè lo so anch'io che cos'è patire, e anch'io la mia parte di disgrazia l'ho avuta, vedete... Oh! gli è pur troppo vero che le disgrazie son come le ciliegie, lo sapete il proverbio... In pochi anni, me ne son capitate delle belle, che quasi non le potrei contare; e in verità santa, penso che a noi, povera gente, tocca proprio di vivere, se il vivere è portar fastidii... Con tutto questo, se sapeste, nella mia miseria c'è dei momenti che non invidio, di cuore, a tutti quei gran signoroni che ho conosciuti; perch'io, povero e ignorante tal qual mi vedete, so cos'è il mondo; e son certo che se avessi a metter su uno di que' loro vestiti foderati di seta e coi bottoni dorati, ci creperei dentro prima di sera... No, no! una minestra col lardo, un bicchier di vino, e un sonno duro tutte le notti — e viva i poveri diavoli! Vedete, sono già otto o dieci anni ch'io fo questa vita di trottare innanzi e indietro, due o tre volte la settimana, dal mio paese fino a Milano; e pure, ogni volta che lascio quel gran Milano là in fondo, e mi trovo all'aperto, io respiro largo, e mi sento battere il cuore più giusto... Ah! A queste sincere parole, che il cavallaro diceva per confortar la fanciulla, essa non potè rispondere che con un sospiro, in cui era l'amarezza di tante ricordanze! Poi tacquero entrambi, finchè il ronzino, il quale, a malgrado de' sodi colpi che il padrone gli menava sulle schiene, mogio e stracco, tirava di lungo per il disagiato cammino, li ebbe strascinati fino all'entrata di Cantù. Intanto il mal tempo cominciava a calmarsi, e la neve e il vento a poco a poco cessavano. A un crocicchio di strade, la carretta s'arrestò; e la giovine, per quanto il buon villano ne la pregasse, non consentì a nessun patto a fermarsi in casa sua, e discese. Per dir tutto, il cavallaro non si disperò per questo, che già in cuor suo pensava al rabbuffo che poi avrebbe tocco dalla sua donna. — Via, dunque, disse, se dovete veramente andar innanzi, non voglio tenervi. Di qui a Como, c'è una buona camminata, un'ora e mezzo grossa... e la strada, la sapete? — Oh sì! e poi, spero di trovare alcuno di qui, da far la via insieme. — Può darsi; la strada è battuta, ma con tutto questo, non vi fidate troppo. — E bene, sarà come Dio vuole! Egli, che m'ha aiutato sempre, non vorrà abbandonarmi adesso! E quanto a voi, io non potrò che ricordarmi sempre del servizio che mi avete fatto. — Eh! m'è costato poco, la mia figliuola; che quasi m'ero dimenticato che c'eravate voi nel fondo della mia carretta. Oh! promettetemi almanco, che se aveste a passar ancor di qui, se tornaste un'altra volta a Milano, farete capitale di me; al caso, cercate conto di Battista il cavallaro; e tutti v'insegneranno. — Ah no! colà io non ritornerò mai più; e così non vi fossi andata mai!... Addio dunque, buon Battista; ricordatevi qualche volta anche voi della povera orfanella. Il buon villano pareva commosso, e: — Che almeno io sappia il vostro nome, riprese, perchè voglio che stasera la mia piccola Tecla dica un'avemaria per voi... — Sì, la preghiera dell'innocenza mi farà del bene! ditele dunque che raccomandi la povera Angiola Maria. Al momento di congedarsi, la giovinetta s'avvicinò al cavallaro, e traendo dalla taschetta del grembiale una moneta d'argento, fece prova di mettergliela nelle mani; ma egli, levata la destra in atto di malcontento, si fe' brusco in viso, e con un salto fu di nuovo al suo posto su la carretta; menò una buona sferzata al suo ronzino, il quale, come sentisse l'odore della stalla vicina, tirò innanzi di galoppo: un momento appresso, l'uomo e la carretta erano scomparsi; e la fanciulla si trovò sola, in mezzo alla strada deserta e nevosa. Ma quella sicurezza ignara quasi del pericolo, quel semplice coraggio che la provvidenza ha messo nell'anime innocenti, in quel duro momento rinacque in essa. Ell'era sola, ma pensava che intanto sua madre in cielo pregava per lei; il cuor suo batteva tranquillo, nella fiducia che la risoluzione da lei presa le fosse stata inspirata di lassù; onde, senza nessun terrore, s'apparecchiava a incontrare la traversìa del cammino, il rigore della stagione e l'incertezza dell'avvenire. Solo un pensiero di malinconia le chiamò in quell'ora una lagrima sugli occhi; era un involontario ritorno dell'anima al passato, il ricordarsi con che diverso augurio, con che lusinghiere speranze essa aveva attraversato, poco più d'un anno prima, quelle stesse strade, que' luoghi stessi, che voti erano stati i suoi, che incantesimo pareva la sua vita. E adesso, in poco tempo, qual funesto mutamento, qual lezione dolorosa!... Non più speranza nè amore, non più madre nè fratello, nè altra consolazione o promessa; dietro a sè lasciava il disinganno dell'innocenza, e l'orrore della malizia degli uomini; e nell'avvenire, non aveva più nulla, nulla, se non la fede nel Signore; la fede, che serbava sempre per essa lo stesso sorriso, ed era come quell'angolo di cielo azzurro, che ha una stella di pace nel mezzo, quando la notte è buia e l'aria carica di nubi nere. Maria si mise per una viottola di traverso, che la guidò sul sagrato d'una antica chiesa, fuori dell'abitato, che quei del paese chiamano la Madonna de' miracoli. Per avventura la porta n'era aperta; ella entrò, e inginocchiata appiè dell'altare, innalzò a Dio dal fondo del cuore una preghiera pudica, ardente, segreta; una preghiera tutta d'amore, che nessuno le aveva insegnata, e ch'era così pura, così preziosa! La chiesa era vasta, deserta, oscura; un lumicino, sprizzando le ultime scintille, moriva a fianco dell'altare. In quella solitudine, in quel silenzio le risovvenne la sera, quando, sola del pari al cospetto di Dio e tutta tremante d'una gioia segreta, aveva ascoltate le calde parole del giovine straniero e ricevuta la promessa dell'amor suo. Allora compresa da religioso spavento, quasi che le pesasse su l'anima, grave come la memoria d'un delitto, quell'importuno pensiero, posò la fronte ardente sul freddo marmo della balaustra dell'altare e con ferma voce proferì queste parole: — O Signore, io aveva dimenticata la vita oscura e tranquilla, nella quale voi mi poneste; e la vostra mano s'è aggravata sopra di me. Io adoro il vostro giudizio; ma se il piangere che ho fatto, se le prove che voi mi mandaste, han potuto espiare in qualche modo la mia colpa, oh! salvatemi voi da questa memoria che mi perseguita, datemi il mio cuore di prima!... Io perdono a tutti quelli che m'hanno fatto soffrire, e voi perdonate a me! E perdonatemi ancora, se vi prego, o Signore, per _lui_! È soltanto perchè anche a lui apriate gli occhi della mente, onde vi conosca e v'adori nella grazia della fede. Io benedico il vostro santo nome; e voi guardate al breve cammino dell'orfanella su questa terra!... Fatta questa preghiera, si levò con una tacita divozione; e togliendosi dal collo il rosario di sua madre, che ancora teneva nascosto in seno da quella notte fatale in cui era fuggita dalla casa del suo esoso padrone, appese quel dono povero ma prezioso accanto dell'altare, come un'offerta della cosa più cara ch'ella s'avesse; l'appese fra i molti voti d'altre infelici e afflitte creature, ond'era coronata quella santa immagine della Madre di Dio. E così, compito ch'ella ebbe l'ultimo sacrifizio del suo amore sulla terra, uscì della chiesa con l'anima piena d'una contentezza soave, di pensieri intemerati e tutti nuovi; e il cuor suo si sentì riposato in quella certezza che consola i più lunghi travagli, nella certezza che dal Signore le era perdonata la sua colpa. Attraversato il borgo, allora taciturno e quasi deserto, si mise per la vecchia strada di Como, lungo quella bella costiera orlata dall'ultime cascine del paese; e con leggiero e spedito passo, benchè il terreno fosse molle e manchevole per la neve recente, camminava pronta e sicura; poichè, portando essa povere vesti e grossi zoccoli all'uso delle contadine, pensava che nessuno l'avrebbe osservata; e quasi le pareva fosse tornato quel tempo che, fanciulletta ancora, correva in libertà su per gli erti dossi della sua terra, a cercar pe' sentieruoli e sotto le più tarde nevi i cespi delle viole de' suoi monti. Ma l'aria che prima s'era mitigata, si fece a poco a poco più cruda e tagliente. La fanciulla rivolgeva attorno per la campagna gli occhi attoniti e stanchi; e quell'uguale, infinita veste biancastra, che tutto ricopriva il piano e l'altura, le metteva ancora nell'anima certa mestizia, mentre la gelida brezza le feriva il viso dilicato, e le correva con un brivido per le membra infievolite. Ella tentò allora di seguitar con più rapido passo la via, chè sperava il camminare potesse ridarle animo e calore di vita; ma, essendo rimasta digiuna per tutto quel giorno, sentiva già languir le poche sue forze, perchè non era più avvezza a quell'aspra vita. E ben presto il suo non fu più camminare, ma uno strascinarsi lentamente su per la salita, che comincia a due miglia circa dal paese a cui aveva dato le spalle; e i passi le mancavano, e più d'una volta fu costretta di fermarsi e appoggiarsi al tronco d'un albero, a un masso della riva, per non cadere oppressa e sfinita. E nessuno v'era che potesse intendere il suo gemito, quel gemito che il durare del patimento avrebbe strappato alle anime ben più forti che la sua non fosse; ella avrebbe potuto venir manco e finire colà, senza che nessuno il sapesse: per tutta la strada non aveva incontrato anima viva. Alla fine, di lontano, in mezzo alle nebbie che andavano sempre più raddensandosi, gli occhi abbagliati della fanciulla distinsero un mucchio di case, la piccola colonna di fumo nericcio, che fuggiva del comignolo d'un casolare poco discosto; poi le giunse all'orecchio l'abbaiare d'un cane; e le parve quasi il saluto d'un amico. Allora, ripigliato un po' di lena, strascinò a stento i passi fino alla casupola che prima aveva scorta; e giunta all'entrata d'una morta siepe di pruni, che faceva cinta alla piccola aia dinanzi alla casa, vide quel cane che malinconiosamente uggiolava. Pure al suo avvicinarsi, il buon animale levò il muso e si tacque, come se l'aspetto d'una creatura sofferente l'avesse raumiliato. Ristette un momento la fanciulla, in forse d'entrare o d'andarne altrove a cercar qualche ristoro; ma il cane allora attraversò la corte saltellando verso la casa, e a ogni poco guardando indietro quasi che volesse invitare un ospite aspettato; e giunto all'uscio d'una stanza a terreno, con lo spingere del muso ne aperse le imposte, e la fanciulla gli tenne dietro. Era la cucina umida, tetra del povero contadino: le pareti e le travi della soffitta nere di fumo e di fuliggine, una tavolaccia nel mezzo, dall'un canto una rastrelliera appiccata al muro, con sopravi in bell'ordine una mezza dozzina di tondi di peltro lucenti e poche mezzine di terra; gli altri canti della stanza tutti ingombri degli arnesi della campagna ammucchiati, disfatti e ancora polverosi, l'aratro, le marre, l'erpici, i coreggiati, le vanghe; in faccia poi l'ampio focolare, dove ardeva stridendo e sfavillando un bel fuoco di legne secche; e su la sporgente capanna del camino posavano il vecchio e lungo archibugio, per traverso su due grossi arpioni, il mortaio e la falce. Presso a quell'allegra fiamma, sedeva sur un rozzo ceppo un contadino attempato, ma vegeto e d'aspetto gioviale; e rimpetto a lui se ne stava, con la rocca assestata sotto l'ascella manca, la sua donna, la quale torcendo il fuso con preste dita filava alla distesa un grosso pennecchio di lino. Maria s'accostò con peritanza; ma il contadino con quella schiettezza bonaria e serena, ch'è proprio tutta lombarda, fece la più onesta accoglienza alla giovinetta pellegrina; la quale, vinta quella prima tema, arrischiò di domandare per carità qualche po' di ristoro. Quei contadini erano buona gente, marito e moglie, i quali menavano vita abbastanza contenta nella loro povertà; perchè il poco che avevano, era anche di soverchio per essi, dopo una recente disgrazia ond'erano stati colpiti, cioè quella d'aver veduto morir prima di loro l'unica figliuola avuta, una poverina di quindici anni. E appunto la memoria della perduta figliuola rinacque nello stesso momento in cuor dell'uno e dell'altra, appena Maria apparve loro innanzi. Il suo bianco volto, i suoi occhi grandi e intenti, il suo andare faticato, tutto fece quasi credere a quelle due buone creature che fosse l'anima della loro Margherita, la quale tornasse una volta a visitarle: era questa l'illusione d'un dolore ancor vivo; il ricordarsi ch'essa pure, la Margherita, soleva così in compagnia del vecchio cane tornarsene spesso dal vicino chioso, ov'era stata a far pascolare la sua fedele vaccherella. La ricoverarono dunque, come fosse stata veramente la loro figliuola, e la fecero sedere nel canto del focolare; poi, intanto che il bravo compare le poneva innanzi una scodella di latte fresco e un bel pezzo di pan raffermo, dicendo ch'era tutto quanto restava loro per quel dì, la sua donna traeva di dosso alla fanciulla l'umido saione che le copriva la testa e le spalle; e, accarezzandole i neri capegli, li rasciugava dalle gelate goccie di che erano stillanti ancora. Quella premura affettuosa e quelle carezze furono un balsamo per il cuor di Maria. Un'ora di poi, essa abbandonava la casupola ospitale, seguita dalla sincera compassione, dagli augurii di quelle due buone creature; e persuasa che il Signore, il quale l'aveva prima fatta incontrare coll'onesto cavallaro, e poi condotta alla casa del contadino dabbene, l'avrebbe accompagnata nel resto della via. E ben s'era anche il buon campagnuolo profferto di venirle dietro, per un tratto di cammino; ma essa, che già non sapeva come dimostrargli la sua riconoscenza, non volle a qualunque modo assentire, e si rimise sola per il suo sentiero. Pure, appena uscita, vide che il vecchio cane del casolare l'aveva preceduta; e giunta poi dove la strada faceva volta al basso, lo scorse ancora sopra un'altra ripa, ov'erasi fermato, e donde la seguì per gran tempo cogli occhi, finchè si fu dilungata. La via s'avvallava, facendosi di tratto in tratto più lubrica e difficile; e fuor dalle gole dell'alture vicine soffiava cruda e sottile la tramontana; eppure, alla fanciulla, quell'aria spirava benedetta e salutare; perchè veniva dalla sua terra natale, e pareva dirle che dietro alle folte nebbie di che essa vedevasi circondata, erano le creste delle sue montagne, e le care acque nelle quali specchiavasi il suo paesello. Al piede di quella scesa, attraversava un rustico ponte gittato a cavallo d'un torrente, che coll'onda grossa e limacciosa rodeva i margini della riva: un uomo era seduto a capo della sponda del ponte, sur un masso di tufo, che forse l'urto delle piene estive aveva rovesciato. Era un vecchio mendicante; portava la bisaccia vuota al collo e un giubbone di lana rattoppato, alla foggia dei montanari; e stringendo con le due mani un nodoso bastone, se lo teneva piantato, dinanzi e appoggiava al vertice di quello la testa contornata di radi e canuti capegli e d'una barba grigia e irta. La fanciulla s'arrestò in faccia del vecchio, e con un sentimento di celeste compassione tolse fuori una moneta d'argento, l'unica a lei rimasta e che appena sarebbe bastata a procacciarle qualche soccorso lungo la via; e la lasciò cadere nella palma callosa e tremante che in quel momento il povero le tese. Egli fissò gli occhi con meraviglia su la moneta, poi li levò con una espressione indicibile sul volto della fanciulla, confuso e in atto di dubbio e d'inchiesta. — Ditemi, buon vecchio, gli domandò allora Maria, è questa a mancina la buona strada per Como? — Sì, tenete per di là, dopo un duecento passi vi troverete sulla strada maestra, poco lontana della Camerlata... Ma dite, quella buona giovine, non avete voi paura d'andar così sola a quest'ora, in una stagione di questa fatta? — No! mi son messa alla volontà del cielo; e pregatelo anche voi per me... — Oh pensate! anzi, se non fossi vecchio e stracco come sono, vorrei farvi compagnia; sono incamminato anch'io verso Como; ma fiacco e malato qual mi vedete, e dopo aver fatte venti lunghe miglia sotto la neve, appena potrò prima di notte tirar innanzi fino a quella cascina ch'è laggiù. — Vi ringrazio della buona intenzione, ma io devo andare ancor molto lontano, e si fa tardi. Addio! Ripigliò il cammino, e ben tosto trovossi all'imboccar della strada maestra. A mano a mano ch'essa progrediva, il nebbione si levava più denso e cupo, stillando i suoi umidi e crassi vapori nell'aere gelato. Già non era più di due miglia lontano della città: e qualche viandante povero come essa, e alcune carrette e calessi tenevano quella via. Sicchè essa allora si sentiva a battere il cuore più sicuro di prima, quando camminava sola per la strada di traverso. Passò davanti al portone d'una vecchia taverna, che spiccava con le muraglie sgretolate e tutte nere di fumo sotto le tettoie biancastre per la neve caduta: il carro d'un mulattiere era sotto il portone, e dalle grate di legno delle finestre usciva a lampi il chiarore d'una gran fiamma rossiccia. S'udiva, ora distinto, ora confuso, uno strepito di molte voci, un alto e sonoro scrosciar di risa: la fanciulla tremava di freddo e continuava per la via, seguendo intanto con l'anima la storia de' suoi mesti pensieri. Non molto dipoi, il suo orecchio fu percosso da un rumor di ruote e di cavalli; e quel carro, che aveva veduto sotto la porta dell'osteria, le passò vicino: lo conducevano due giovani e robusti mulattieri; uno de' quali seduto di traverso su la schiena d'un vigoroso mulo, cantava a piena gola, sur una rauca e strana solfa; e l'altro camminava a fianco del carico, traendo spesse boccate di fumo da una corta pipa di gesso che teneva inchiodata in un angolo delle labbra, e facendo agli orecchi delle bestie chioccare a grandi scoppii la sua grossa scuriada. Quando i due ebbero adocchiato la fanciulla cominciarono un l'altro a parlarsi in un rozzo gergo, alternando fra loro certe risa sguaiate e certi atti misteriosi, che la giovinetta ne raccapriciò tutta, e più stretto si chiuse sul viso e sul seno il rozzo panno che la copriva, rallentando i passi per rimanere indietro. Ma un d'essi, mettendo fuori un aspro gorgheggio che somigliava all'urlo d'un mastino, attraversò d'un salto il fossatello che lo divideva dal sentiero dov'era Maria, e le si piantò dinanzi, ficcandole nella faccia gli occhi arditi e travolti. La fanciulla gelò, e arretrandosi con un involontario ribrezzo chinò la testa e si coperse il volto con le mani; l'altro allora, al quale era cosa nuova quella paurosa modestia, le si fece incontro più audace; e con un motto vergognoso, che ripetè con la buona intenzione di calmar gli scrupoli della giovinetta, le profferse di far la strada in compagnia. Ella non rispose; ma d'improvviso volgendo le spalle allo sfacciato, cercò di salvarsi dalle sue mani col fuggire: il terrore le dava l'ale, ma il giovane la seguiva, la incalzava; e l'altro mulattiero, veduta la scena, balzava dalla groppa della sua cavalcatura, e correva anch'esso in aiuto del compagno. Maria ansante, affannosa, fuggendo, guatava per ogni parte se alcuno giungesse, e nessuno si vedeva. Già i due le stavano sopra, e con avide braccia, come una colomba che due falchi si contendano, già l'abbrancavano; quand'ecco un uomo sbucar fuori da una viuzza della campagna: era il vecchio mendicante, che Maria aveva incontrato al ponticello del torrente. Costui la vide, corse, gettossi fra la fuggitiva e i due inseguenti; e strinse al suo seno la sbigottita fanciulla, con un braccio che l'ira fece ancor forte, nel tempo stesso che levò l'altro armato del nodoso bastone, minacciando di romper l'ossa al primo che si fosse avvicinato: tutto fu un istante. I due compagni, sorpresi dall'imbarazzo si guardarono in faccia un l'altro; ma il vecchio, con ferma voce, gridò: — Non fate un passo, o scellerati, e tornate per la vostra strada! Io non ho paura di voi; e voi accopperete me, vecchio come sono, prima di toccare a questa fanciulla la punta d'un dito! — Cos'ha mai questo demonio di vecchio? disse uno allora; e l'altro: — Malann'aggia il dannato che guasta il fatto nostro! E come c'entri tu, vecchia tramoggia dismessa? Vanne al diavolo che t'aspetta, o t'avrai a pentire!... E tutt'e due allora fecero per iscagliarsi sul mendicante, e strappargli di mano il bastone, ch'egli teneva ancora sollevato in atto di minaccia su le loro teste. La giovinetta aveva gettato le braccia al collo del suo difensore, e vi si teneva stretta, avvinghiata. — Lasciatela stare, per dio! il vecchio riprese con accento disperato, lasciatela stare: ella è mia figlia!... Queste parole fecero uno strano effetto sulle anime rozze ma schiette de' due garzonacci: e l'accorta menzogna, che la stretta del pericolo suggerì al pover'uomo, fu quella che salvò la fanciulla dallo scellerato insulto. — Ella è mia figlia! replicò l'animoso vecchio, e la sua nuda fronte si corrugava, ardevano gli occhi, e tutte le sue membra per lo sdegno tremavano. I due giovani si trassero indietro, colti da un cotale istinto di vergogna che non sapevano spiegare a sè stessi; e sui loro volti foschi e fortemente scolpiti lo svergognato ardimento aveva ceduto il luogo a un insolito senso di compassione, che li faceva stupidi e muti. Alla fine: — Andiamo, Anselmo! disse uno, questo non è pane per i nostri denti; e voi, galantuomo, perchè non l'avete detto alla prima, ch'ell'era vostra figlia?... Non avete a far con dei birboni; e vi sareste risparmiato a voi l'incomodo d'alzare il bastone, e a noi il rischio di rompervi le corna. Ciò detto voltaron le spalle; e, pigliatosi a braccio un l'altro, se n'andarono zufolando di concerto, per correr dietro a' loro muli che avevano perduto di vista. — Sia ringraziato il Signore! disse il mendicante, dopo che si furono allontanati, che m'abbia mandato l'inspirazione di continuar la strada: io son vecchio, gli è vero, ma mi ricordo d'altri anni e d'altri tempi... e, per dio! vi giuro, che a costo di questi quattro dì che mi restano di vita, quegl'infami non avrebbero ardito non solo di torcervi un capello, ma nemmeno di dirvi una parola di più... Or via! andiamo, io mi sento bene; la mia forza antica mi è tornata in corpo, e voglio venir con voi fino laggiù alla città. La fanciulla lo guardava con una soave tenerezza, dalla quale traspariva tutta la gratitudine d'un'anima pura, che non sa trovar parole per esprimere quello che prova. — Creatura del cielo! continuava il mendicante, voi avete stesa la mano al povero vecchio, voi avete spartito con lui forse l'ultimo vostro pane! Poco fa, quando là sul ponticello, vi siete fermata dinanzi a me e con atto di compassione m'avete guardato, io ho veduto spuntare una lagrima sugli occhi vostri; era tanto tempo che non incontravo una faccia pietosa!... Adesso, io sono infelice; ma anch'io sono stato un uomo e ho vissuto giorni ben diversi... oh! ma allora, in vece di questo giubbone, io portava la divisa gloriosa del soldato, io aveva veduto più di trenta battaglie, io odorava con gioia il fumo del cannone; e queste mani, che adesso vedete tremare, hanno piantato una delle bandiere di Napoleone, là sui tetti delle case di Smolensko, in mezzo ai ghiacci della Russia!... ma, ora tutto è finito da tanto tempo; e nessuno sa più nè manco ch'io mi sia... Voi sola m'avete consolato con un'occhiata d'amore; siate dunque benedetta! Maria s'era appoggiata al braccio del vecchio; e alternando parole di conforto al racconto delle loro vicende così diverse, ma dolorose del paro, continuarono a camminare in compagnia, fino a che giunsero presso alla città. Qui si fermarono e si separarono: Maria, con un senso di riverenza e d'affetto strinse la mano della sua guida, quella mano arsa e callosa che poco prima s'era levata in sua difesa, e a malincuore si congedò dal vecchio mendicante, che più non doveva rivedere. Battevano le quattr'ore di sera sulla torre d'una chiesa del sobborgo di Sant'Agostino, quando la giovinetta, sola un'altra volta e sostenuta dal suo cuore, l'unico fedele che rimanga agli infelici, prendeva la via della montagna, sperando pure di potere almeno arrivare presso al suo paese, prima che la notte fosse venuta. Pensava che le sarebbe stato impossibile il trovare in quell'ora una barca che ve la tragitasse, tanto più che non l'era nemmeno avanzato di che pagarne il nolo; e poi, il timore d'esser conosciuta, e la ripugnanza che sentiva a mettersi di nuovo in mezzo alla gente per le vie oscure ed anguste della città, le accrescevano la sicurezza di poter giungere egualmente da parte di terra al termine del suo viaggio: era quella la strada del suo terreno nativo, e l'aveva trascorsa più già d'una volta fin da fanciulla, in compagnia del padre suo. L'alpestre cammino era disagiato e rotto, ma i passi della fanciulla eran rapidi e sicuri; un segreto coraggio la sosteneva, dicendole che dopo un'ora di via ella sarebbe finalmente giunta al luogo della sua pace, a quel ricovero così sospirato e pianto, dove oramai aveva poste le sue poche speranze, tutta la sua vita. La poveretta si pasceva, camminando, di queste pure idee consolatrici: e mentre continuava la sua via su per la difficile erta, pareva che la ricordanza de' suoi mali recenti andasse dietro a lei fuggendo, svanendo a poco a poco, come l'angustia di un pericolo già passato. Domandava a sè medesima, se la vecchia Marta fosse ancor viva, se l'aspettasse ancora, se l'avrebbe stretta nelle sue braccia, se le avrebbe perdonato e tenuto luogo di madre. In mezzo a queste immagini, la cui amarezza era temperata dalla fiducia, Maria non s'accorgeva dell'asprezza della strada, e le sue gracili membra portavano con alacrità l'insolita fatica. Di poche e rade tracce umane eran tocche le nevi di quelle dirupate rive; il fianco della montagna, tagliato a mezzo della via che conduce da uno all'altro di que' sette miserabili e oscuri villaggi, i quali si chiamano con superbo nome le sette città di Blevio, presentava in tutta la sua nudità lo squallore dell'inverno, che aveva fatto quasi impraticabile i sentieri e le coste. Macigni rovinati di recente, e ricoperti tutti dallo stesso manto di neve; alberi conquassati dagli eterni rovai, e minaccianti di rovesciar su la strada, co' rami più annosi squarciati, che crepitavano al più leggiero soffiare del vento; e gore d'acqua putrida, ghiacciata, dov'era rotta o fessa la terra; e giù giù, per il dosso della montagna, boscaglie nude, stecchite e rigagnoli di nevi squagliate: vecchi torrenti che trascinavansi dietro ceppaie sbarbicate e lembi di terreno lacerati dall'impeto del gorgo, poi con fracasso si dividevano, si moltiplicavano saltando per le rapide balze e rovinando per entro le scoscenditure e le frane con uno scrosciare dirotto, il solo strepito che sturbasse la sepolta natura; e al basso, in fondo, spiccando col suo cupo colore, sotto il cielo torbido e bruno e sotto ai monti tutti bianchi, la verde e muta acqua del lago. Intanto era sopraggiunta la notte; e, dopo molti pericoli e molto terrore, Maria aveva attraversato l'ultimo di que' sette villaggi. Passando, non aveva veduto che il riflesso di qualche tardo lume, dietro il pertugio ingraticolato d'una casipola; non aveva incontrato che due o tre montanari, i quali, senza badare a lei, s'erano perduti per le tenebrose callaie del paese. Cominciava a spirar di nuovo la tramontana e a fioccar più larga e più folta la neve, sbattuta dal vento, che fischiava rompendosi contro ai dirupi e sollevava ne' suoi vortici quella già caduta. Più d'una volta la fanciulla, la quale infiacchita, affranta dal crudele viaggio, oramai reggevasi a stento, sentì mancarsi sotto i piedi il terreno, e alzò uno strido di spavento, uno strido che quella stessa orrida solitudine lasciava senza risposta; più d'una volta con disperato sforzo si mise a correre a tutta lena su la perigliosa via, a fianco de' precipizii, sul margine degli sdrucciolevoli massi, come per salvarsi dal turbine che pareva inseguirla; e poi affannosa, anelante e credendo veramente di morire, s'avvinghiava con le deboli braccia al tronco d'un albero, alle punte d'uno scoglio. E il vento quasi si facesse giuoco della misera creatura, come d'una gracile canna, or la incalzava e or la respingeva infuriando; nella foga del correre contro l'impeto dell'uragano, essa aveva perduto la mantellina che la copriva: e, a ogni buffa del vento, le sue trecce sciolte le sferzavano sul candido collo e sul viso livido e agghiacciato. Poi tornava a camminare, e sollevando di sopra il capo le mani strettamente intrecciate, sembrava tra l'orror dello spavento e il gemere della preghiera domandasse al cielo la morte come una grazia; stanca la vista le si appannava, le si confondevano nella mente gli stessi pensieri di terrore, e già più non sapeva dove ella fosse. Alla fine, il sentiero cominciava a calar al basso; e in mezzo al fosco della notte e allo smorto biancheggiar delle nevi, parve a Maria di vedere un filare d'alberi, un muro, una casa... A tentone seguitava la guida di quel muro, e trovavasi in faccia d'un cancello chiuso fra due cadenti pilastri. Appoggiò la fronte alle fredde aste del cancello... e riconobbe ch'era il campo santo del suo paese; e credè perfino discernere il mucchio di terra dov'era sepolto suo padre e la croce coperta di neve che lo proteggeva. Allora si mise devotamente inginocchioni su l'entrata del sacro terreno; e da quella scena di morte richiamata d'improvviso ai pensieri della vita, pregò, pregò a lungo... Ma il disagio patito, la dolorosa via, l'angoscia e il rimorso, tutto le piombò in quel punto su l'anima, la quale forse più non era attaccata che per un filo all'esistenza. Ella abbrividiva, si sentiva sfinire, ardeva, gelava nel momento stesso... Non ebbe più forza di tenersi al cancello che aveva abbracciato, e lasciandosi cader giù lentamente su l'agghiacciato terreno, giacque come morta. Un'ora di poi lo scalpitar d'un cavallo turbava il silenzio mortale di quella desolata riva. La notte era già alta, l'uragano cessato; e solo testimonio di vita era il fremito indistinto del lago, che si rompeva alla sponda col monotono spumeggiar del fiotto. Il giovin cavaliero, ravvolto nel suo corto mantello, pareva disprezzare tutto il rigore della stagione, e consolarsi quasi nel respirar l'aria asprissima della montagna. Egli aveva abbandonato le redini sul collo del suo cavallo, che con passo lento e stanco discendeva per la china. Allorchè giunse presso al campo santo, il suo sguardo cadde a caso sopra qualche cosa d'opaco che spiccava sul bianco terreno. Raccolte le briglie, volse il cavallo da quella banda, e curvandosi sulla sella vide al debole chiaror della neve onde appariva coperta ogni cosa all'intorno, una misera creatura la quale pareva svenuta o estinta; e pensò ch'era forse colà venuta dal paese a pregare per i suoi morti, e che la crudezza del freddo o l'imperversar dell'uragano l'avevano ridotta a quegli estremi. Il cuore gli tremava forte; fermò il cavallo, scese di sella; e poi chinatosi sul terreno presso quella salma assiderata, riconobbe ch'era una povera giovinetta; e sorreggendola sulle sue braccia la sollevò alquanto e la sostenne, inginocchiato com'era, sì che la testa grave e cadente dell'estinta si rovesciò su la sua spalla. Allora egli avvicinò il suo volto alla bocca della infelice, per conoscere se un alito leggero di vita scaldasse ancora le sue membra immobili, fissò gli occhi sovr'essa; ma al primo guardare, nulla vide, nulla distinse, quasi che l'anima sua non avesse più senso... Tornò a fissar quella fronte, que' labbri, que' cigli, ogni fattezza... e un brivido gli corse per tutte le vene, e si sentì passar attraverso al cuore come la fredda lama d'un pugnale... Arnoldo l'aveva riconosciuta. XII. SAGRIFICIO. Chi non vide la bottega del signor Samuele, il nostro speziale, in quella notte, non penserà forse ch'io possa, «Credendo e non credendo, dicer vero.» Fu un agitarsi, un andar e venire, una faccenda, un tramestío, che a memoria d'uomo non s'era mai veduto il simile in quelle quattro mura; i novellieri del paese n'ebbero a cianciar per lungo tempo, e a farne le più belle e strane conghietture del mondo. Nel mezzo della stanza, sopra il seggiolone ch'era là, solito trono d'ogni sera del signor curato, giaceva coricata e sostenuta da alcuni guanciali, la povera giovinetta, la quale non dava più nessun segno di vita. Erane il viso bianco e smunto, e solo al contorno degli occhi infossati e delle labbra sottili appariva dipinto d'un rossor livido, cupo e morente nel pallidissimo colore della fronte e delle gote; ma gli occhi eran chiusi, le braccia al lungo del fianco distese, irrigidite; e tutta la bella persona immota, raggruppata, per così dire, in sè medesima e co' ruvidi panni raccolti d'intorno, che s'informavano dalle dilicate membra, era stesa nella grave, abbandonata positura d'un cadavere. Presso a lei, curvo sopra uno de' bracciuoli della seggiola, stava il giovine inglese, muto e smorto esso pure, quasi come la svenuta; e le sue pupille senza moto non si staccavano mai dalla faccia di Maria; la quale posava con la testa arrovesciata all'indietro, come se l'anima di lei avesse già abbandonata quella sua verginale dimora. Nè altra cosa rivelava la vita in quella strana immobilità del giovine, fuorchè il leggero mover delle labbra, quasi che pronunziassero parole senza suono, e tremassero commosse dall'incerto e sublime sorriso che fu dato solamente al dolore, quando ancora non abbia perduta tutta la speranza. Con le faccie lunghe, curiose, guardandosi di sottecchi a ogni momento, uno in atto d'interrogare come la sarebbe ita, e l'altro di rispondere che non lo sapeva, se ne stavano il signor curato e il deputato politico, dietro il seggiolone, presso d'un tavolino; sul quale vedevasi lo scacchiere abbandonato, con le pedine sparsevi sopra: e da certe occhiate, che i due lasciavan cadere su quello a ora a ora, s'indovinava in essi il rammarico della partita intralasciata. In mezzo a loro allungava il collo, come il solitario cappone dalla stia, l'agente comunale, quotidiano testimonio e giudice delle sette disfide de' due campioni a dama. Colui che dall'altra parte gesticolava con gran foga nel parlar sottovoce al dottore, era quel vecchio galantuomo del signor Gaspero; egli, ragionando, spiegazzava la gazzetta che ancor teneva fra le mani, l'ultima capitata al paese in quel dì stesso. E qui, torna bene che conosciate la prudenza del curato; il quale, dopo il brusco esempio di quel disgraziato don Carlo, aveva smesso non poco del suo ardore politico; e, ceduto il diritto della lettura al signor Gaspero, si era rassegnato alla parte d'ascoltatore, accontentandosi durante la sessione parlamentaria in casa dello speziale, di scrollare il capo, fregarsi le mani, o d'andar traendo lunghi sospironi, o di sogghignar fra sè e sè; il qual diplomatico suo vezzo faceva allora il termometro infallibile della politica del paese. Intanto lo speziale e il dottore s'affaccendavano a gara intorno alla tramortita fanciulla, con una sollecitudine e un'umanità degne veramente del secol nostro; e mettevano alle prove la dottrina e l'arte per richiamarla alla vita, e per conoscere se mai un palpito ancora poteva essere suscitato in quel cuore che più non batteva. Lo speziale, rimboccato un lembo del suo grembiule di tela roana scura, e inforcato il naso con gli occhiali, davasi attorno con una premura, un affanno da non dire, e rimestava le cassette, gli armadii e le scansìe, le quali dalle spalancate vetriere presentavano la tremenda falange de' vasi e delle boccie di polveri e manteche, d'olii e di sali, di succhi e quintessenze, da disgradarne Avicenna e Hanhemann. Il dottore aveva già invano sperimentato di stropicciar le tempie, la fronte e i polsi della giovinetta con essenze spiritose, e metteva giù con dispetto le inutili ampolle; invano le aveva posto sopra il seno de' pannilini riscaldati, e di grosse coperte le aveva ravvolte le insensibili membra. Tutti volevano dir e fare; proponevano, discutevano, parlavano tutti in una volta; era un trambusto, un frastornío, che avrebbe potuto risvegliare i sette dormienti della leggenda. — E quella gran gara era l'effetto di due sole parole, pronunziate dal nostro giovine eroe allorchè, entrato nella bottega, con infinito stupore e maraviglia di tutti, recandosi su le braccia la svenuta fanciulla, depose sul seggiolone il caro suo peso, e disse: — Tutto quanto io posseggo a chi salva questa giovine! Ma poichè il mio racconto, con vostra buona pazienza, cammina a rilento, non v'incresca di volgere indietro un'altra occhiata. Era passato più d'un mese dal dì che Arnoldo abbandonava Milano, per venire in traccia della perduta Maria. Se vi ricorda, quando seppe ch'essa non era più nella bottega della crestaia, nè potè averne in altra maniera notizia alcuna, si mise in mente che la si fosse ricoverata al suo paese, presso alcun parente; e partì con questa certezza. Venuto fino a ****, prese a pigione una parte dell'antico palazzotto, ove suo padre aveva prima dimorato; ma quant'egli fece per trovar qualche traccia della giovine orfana, fu tutto vano. Queste ricerche replicate e sempre perdute gli facevano scorrere nell'affanno e nel dubbio i tristi giorni dell'inverno; e un mese così passò. C'erano pure alcuni dì, ne' quali sentiva ancora di vivere: eran quelli, in cui salito in sella d'un giovine cavallo, che da un pacifico Comasco aveva in quel torno comperato, s'arrischiava su per le rotte strade delle montagne, sfidando l'aspreggiare della stagione, e la traversìa de' venti. Quelle corse selvagge lungo i margini dell'acque e sopra i fianchi de' dirupi, gli ricordavano la sua patria, il suo cielo, le nebbie del mare, il castello del buon zio, la combattuta sua giovinezza; tutta la prima, la vera poesia dell'anima vergine e ardente. Poi succedevano de' giorni, ne' quali gli tornava incresciosa la vita, e gli pareva che al suo soffrire non restasse altro conforto che un novello soffrire. Allora se ne stava, le ore intere, appoggiato alla finestra della sua stanza, guardando il lago, e si sprofondava nella meditazione e nel passato: un volume, suo fedele amico, un bello Shakspeare, ch'era un ricordo del cugino Randale, del compagno de' suoi prim'anni, gli stava aperto dinanzi; e gli uomini disegnati da quel gran pittore dell'anima e della vita pigliavano agli occhi suoi figura e movimento. Vedeva sè stesso nello sfortunato Edgardo, il figliuolo di Glocester; piangeva al sublime delirio, alle cocenti lagrime di Lear, fremeva a' soliloquii di Macbeth, e pensava a suo padre; per lui, la tenera Cordelia, l'innamorata Desdémona, la dolente Caterina, eran sempre Maria. Altre volte, e il più sovente, camminava di buon mattino fino alla casetta d'Andrea, che la vecchia Marta abitava ancora, quanto solitaria e grama, lo pensate! E' vi restava per tutta la giornata, seduto in un canto del focolare, poco lontano dalla vecchierella; la quale non faceva che parlargli di _quella cara tosa_. Era la meschina dimora unico avanzo del bene della fanciulla; e senza il buon signor Gaspero, che aveva salvato per miracolo dagli artigli dell'esattore comunale la casa e la vigna, tutto sarebbe stato perduto. Egli poi lo fece perchè, a dirvela in confidenza, sentiva ancora il batticore per la giovinetta, che si ricordava d'aver le tante volte fatto ballonzare piccina su le sue ginocchia. Arnoldo dunque contemplava, con l'anima tremante e con lo sguardo fisso, atterrito, immobile, la faccia della fanciulla; e stava spiando, se in mezzo a' tormenti, con che il dottore e lo speziale straziavano quella bianca e dilicata creatura, il cuore e le labbra di lei si riaprissero al gemito dell'esistenza. Con ambe le mani e' le strinse la destra agghiacciata, e avvicinandola alle sue labbra, con quell'affetto che solo può essere consacrato dalla terribile idea della morte, v'impresse un lungo ardente bacio d'amore, delirando quasi che con quel bacio gli fosse dato restituirle la vita; come Romeo, quando venne alla tomba di Giulietta. La baciò di nuovo, la contemplò... soprastette... E poi, balzando d'improvviso, con un accento soffocato dall'impeto della gioja, proruppe: — Ella vive ancora!... Non era una vana illusione; quella fredda mano aveva risposto al premer delle sue con un bàttito leggero, fuggitivo. Era il tornar della vita; egli allora, tutto tremante di speranza e di terrore, le posò la destra sopra il seno, e quel leggier risalto si ripetè: era il cuore che ripigliava il suo palpitare. Nè molto andò ch'essa riaperse e lasciò errar debilmente all'intorno gli occhi estatici e muti; e fece come un grande sforzo per sollevare la testa; poi gli occhi si richiusero, e la testa ricadde. Arnoldo sentì di nuovo la crudele stretta dell'angoscia, e il suo volto si ricoperse di mortale pallidezza. Allora afferrò per un braccio lo scompigliato dottore che gli era vicino, e fortemente scuotendolo, — Mi rispondete voi della sua vita? domandava con alto spavento. Ed esso, sotto la tortura di quelle valide stratte, balbettava: — Rispondo, rispondo io... Non tema; mi lasci, mi lasci andare!... — Ma questo letargo mi spaventa! replicava il giovine, dando un altro e più fiero squasso al braccio del povero dottore. — Non tema, questi rispondeva, è un semplice sopore, è una cosa naturale... Io me l'aspettavo... bisogna che sia così! Ma lo speziale, veduta quella potente dimostrazione, rinunziava all'intrapresa cura, alla speranza del grosso regalo; e cautamente, come un buon capitano che prevede a tempo il pericolo, ritiravasi dietro la trincea del suo banco. Intanto bisognava pensare a collocar la malata in qualche altra parte, dove potesse riposare, meglio che non in quel duro seggiolone del curato; bisognava trovare una camera, un letto: lo speziale era nel cimento d'offrir il suo per quella notte, e Arnoldo già aveva risoluto di farla trasportar nella villa; quando il signor Gaspero venne fuori col miglior consiglio: e fu, che mandassero a chiamar la Marta, e portassero la fanciulla nella sua propria casa, che non era lontana; e così almeno la poveretta, al suo risvegliarsi, sarebbesi trovata sotto un tetto conosciuto, tra le braccia d'una persona amica. Mandarono dunque per la Marta; e come la buona donna si rimanesse consolata insieme e sbigottita, tra la contentezza di riveder la sua Maria, e il dolore di ritrovarla in quello stato, può credersi appena. Ma Arnoldo e il dottore pressavano, sicchè ben presto ebbero trasportata la giovinetta, tutta ravviluppata nelle coltri, a casa sua; dove giunti, la posero in quella camera, ch'essa un tempo occupava, nel suo letticciolo, ch'era ancor rifatto. Essa era tuttavia immersa in un sopore profondo. Arnoldo, che l'aveva sostenuta tra le sue braccia, con quella cura attenta e gelosa della quale solo l'amore è capace, si trattenne per lunga pezza appiè del letto; e, seduto sur uno sgabello, col capo chino su le ginocchia, s'abbandonò a lunghi e dolorosi pensieri. Poi, avendo il medico raccomandato gran silenzio e quiete, acconsentì a ritirarsi nel piccolo andito vicino, e si riposò sopra una seggiola, presso la porta socchiusa della cameretta: donde gli giungeva all'orecchio l'affannoso e grave respirar di Maria, la quale, riavuta alfine dal suo lungo svenimento, era caduta in un sonno profondo. Marta stette a vegghia tutta la notte presso il capezzale della fanciulla. La mattina seguente, sul primo albeggiare — erasi il cielo durante la notte sgomberato dalle nuvole, e risplendeva uno di que' dolci soli d'inverno, che consolano il cuore degli uomini e la malinconia della natura, uno di que' soli che, dopo l'imperversare del cattivo tempo, non sono radi in quel beato angolo della terra. — Maria si riscosse dal profondo suo sonno, e sollevandosi lentamente su la persona, alzò gli occhi, e vide il primo raggio di quel sole, smorto ma pur limpido, che penetrava per la finestra, e cadeva sopra il suo letto. Guardò trasognata all'intorno, e ravvisò la figura amorevole e serena della Marta; la quale, seduta da un canto, stava a mirarla tra confortata e pietosa, senza poter dire sola una parola. Riebbe allora la conoscenza, tornò a volger gli occhi per ogni parte, chè ancora non sapeva dove fosse. Era pur quella la sua cameretta, un tempo sì cara, il soggiorno d'un'età più felice; era il raggio del suo sole che la salutava, era quella la casa di suo padre e di sua madre. E già non si ricordava più d'aver pianto e patito... Ell'era ancora là, eran tornati i giorni della sua fanciullezza.... tutto era stato un sogno, un lungo e terribile sogno! Ma rivolse il capo dall'altro canto, e gli occhi suoi s'incontraron negli occhi d'un giovine di nobile aspetto, che, incrociate sul petto le braccia, la contemplava silenzioso, ma sorridente. Essa lo guardava, e coll'incertezza dello sguardo pareva domandar chi fosse quel giovine. Allora tutti i suoi pensieri si sollevarono nella mente, si confusero, le ripiombarono in un punto sul cuore; la speranza che tutto fosse stato un sogno era svanita... Distolse gli occhi da lui, gettò le braccia al collo di Marta, che s'era fatta a lei più vicina; e tutto nascondendo il viso in quell'amplesso si mise a piangere, come si piange quando con le lagrime a lungo represse si può sfogar un dolore raggruppato per tanto tempo nel cuore. — Oh! cosa le avete voi fatto, signor Arnoldo?.. domandò la Marta, posando in atto di compassione la destra sul capo chino della giovinetta. — Io l'ho amata!.. rispos'egli. In quel mezzo, il medico comparve su l'uscio della camera. Maria era ricaduta sui cuscini del letto, in un nuovo spossamento di tutte le forze. Il dottore le si avvicinò, studiò con attenzione il suo volto colorato allora d'un leggier vermiglio, e gli occhi incavati e morti; le toccò i polsi, che rispondevano con ardenti e ineguali bàttiti febbrili, e conobbe che il male era più serio che prima non pensava. Ma, benchè in cuore lo sentisse, pure tacque al giovin forestiero il suo fatale sospetto; e limitossi a ordinare alcune pozioni, e a prescriver novamente che lasciassero l'ammalata in un assoluto riposo, procurando di risparmiarle la più piccola sensazione di piacere e di dolore. E poi, si volse ad Arnoldo, e, fattosi un po' d'animo, gli comandò d'allontanarsi da quel luogo, se pur voleva che la vita dell'ammalata fosse salva. Arnoldo obbedì a malincuore, ma obbedì. Uscito in compagnia del dottore, quando furon nell'andito, si fermò, e lo prese per la destra, dicendo: — Giuratemi ch'ella vivrà! con un accento che fece tremare il pover'uomo; il quale lo guardò, e balbettando rispose: — Oh! oh! oh! tutto sta nelle mani di Colui ch'è lassù!... Chi amò veramente e pianse al terribile dubbio di dover perdere per sempre l'amor suo, immagini l'angoscia dell'innamorato giovine. Alla vita di quella creatura era allora attaccata la vita della sua fede, il coraggio dell'anima sua, tutta la sua speranza terrena. Fino a quel giorno, egli non aveva pensato mai esser così dura la solitudine a un'anima che ha bisogno d'amore e d'esempio; e quando ritrovò quell'angelo di pura bellezza, che nella sua mente egli aveva rivestito dei più ideali colori della virtù, confidò finalmente che il cielo si fosse riaperto per lui. Il solo pensiero di dover perderla ancora gli appariva tremendo, come l'anátema della disperazione; egli stesso non aveva creduto fino allora d'amarla tanto! Il dì seguente, il medico dovette pur troppo confermarsi nel concepito sospetto; gl'indizi d'una lenta febbre di consunzione si manifestarono nell'ammalata; la sua notte era stata senza sonno; al letargo del dì innanzi eran succeduti il turbamento, il delirio, l'obblio del passato e il vago presentimento d'un termine vicino; e a tutto ciò ben presto s'aggiunsero una tosserella aspra e muta, e un assiduo languore. L'infelice si lamentava spesso d'atroci punture al cuore, d'un sordo tintinnìo negli orecchi, d'improvvise fiamme che le ardevano il sangue, le oscuravano gli occhi e la mente; e allora, le coltri le pesavano sul seno, le erano insopportabili; e, con un fievole gemito, diceva di non poter respirar l'aria che la circondava. Poi succedeva un lunga spossatezza, e pareva che la sua vita andasse mancando, come un raggio che si dilegua; pareva che ogni ora dovesse esser l'ultima per lei. La buona Marta era sempre al fianco di quel letto; e la sorreggeva, e apprestava le medicine dal dottore ordinate: benchè essa nel suo cuore molto soffrisse, aveva forza di non piangere, e trovava sempre qualche pietosa parola per sostenerla. Ma quando l'ammalata era quieta, e ch'ella si sedeva sola a' piedi del letto, allora lasciava tacitamente scorrere le sue lagrime; e coll'anima sua semplice e fedele pregava, sempre in segreto, la Madonna. Talvolta, nel cuor della notte, Maria a un tratto balzava esagitata, in mezzo a que' sonni leggieri, se pur sonni potevano dirsi gli sfuggevoli riposi che il dolore, stanco quasi di tormentarla, le concedeva; ella balzava a seder sul letto, e cacciandosi indietro con le mani tremule e scarne i lunghi capegli, che umidi di febbrile madore le si stendevan sul viso, spingeva gli occhi attoniti fra l'ombre della camera, e poi levava la destra convulsa per additar quelle immagini sinistre che l'assediavano, o quelle persone amiche con le quali immaginavasi di parlare e di piangere. Allora i suoi pensieri vagavano nelle torbide memorie del passato; la sua innocenza, l'amor suo, i pericoli corsi, le sue disgrazie, e tutti quelli che l'avevano avuta cara, e quelli che le avevano fatto del male, tutto le si affacciava in un punto all'anima oppressa; e le sue interrotte parole erano piene di pietà e di dolore. La sola Marta era testimonio di que' solitari e compassionevoli lamenti. — Perchè mai mi lascian tutti così sola, sola, dopo ch'io fui sempre perseguitata?... Oh Dio! che ho fatto di male? O mia madre, io pensava sempre a voi, quand'ero lontana; ma questo povero cuore... questo cuore non era mio! Tengo qui dentro un segreto, che non devo scoprire a nessuno, neppure a lui, a lui che... ah il suo nome io non potrò dirlo mai!.. perdonatemi, o mia buona mamma! Dio m'ha castigato... perdonatemi voi!... S'egli mi parla di qui innanzi, tacerò, farò la sorda, fuggirò via... Aimè! dove sono?... Questa è la chiesa ov'egli m'aspetta, questo è l'altare — Ave, Maria, piena di grazia, il Signore è con te... — Forse non verrà! Ah no! eccolo, è lui!... Perdono, o Signore! io ascoltai la sua promessa, perdono! E ricadeva illanguidita e senza movimento, per sollevarsi ancora, dopo pochi momenti, rapita dall'impeto di nuove immagini: — Egli tornerà, il suo cuore è buono; le sue parole son vere, come la virtù; con quello sguardo, è impossibile non dir la verità!... Oh caro! io l'avrò convertito, egli crederà nella nostra santa fede, e verrà a pregar il Signore con me... Io sono pallida, lo so; ho patito tanto e sto ancora assai male... Guardatemi, ditemi: è egli possibile che non mi riconosca più, che più non sappia chi sono?... No, non è vero! esso era pur qui, io l'ho veduto; e m'ha ben ravvisata, e m'ha sorriso come una volta! S'io non fossi bella come prima, avrebb'egli sorriso?... E anch'essa la povera giovinetta, come se contemplasse un'ombra presente, sorrideva così da strappar le lagrime a chiunque l'avesse ascoltata in quell'ora. Dopo un altro istante di riposo, risorgeva ancora lentamente, giacchè invano la desolata Marta tentava con amorose e ripetute preghiere di far ch'ella si coricasse più tranquilla. E giungendo le mani, e scuotendo il capo, in atto di chi racconta lunghi travagli sostenuti, ripigliava: — Io non ho amato altri che te, e non te l'ho detto mai!... Ma per amor del cielo, non ne parlare con persona viva... Vedi! mia madre è morta, mio fratello, mio padre, tutti son morti!... Io sono sola a questo mondo... e tu! tu mi puoi dare il paradiso o l'inferno... Io vorrei esser tua; ma temo che lassù in cielo non sia scritto così! Vieni, vedi, questa è quella Madonna, a' piè della quale mi giurasti di volermi sempre bene... T'avvicina, pigliami per mano! Dio ne benedirà!... Ma, chi è mai quel prete? lo vedi tu? io lo riconosco... è lui, è mio fratello, è il tuo amico... Oh Dio! Dio eterno! fuggiamo, lasciami! Non vedi ch'egli leva la destra in atto terribile di minaccia? non senti ch'egli ne maledice tutt'e due?... Ma il cielo pietoso, dopo quelle notti d'angoscia, dopo quelle visioni di sgomento, le concedeva almeno lunghe ore d'una calma benefica e sollevatrice, interi giorni di pace e di rassegnazione; nel volger de' quali dolce le tornava lo sfogo del pianto, il conforto d'una calda preghiera, e soave perfino il ricordarsi del dolore sofferto, il pensare a quello che ancora le restava a soffrire. In quel tempo però ella poco parlava, e pareva quasi straniera a ogni affetto che la riavvicinasse a questa vita: l'avresti creduta una di quelle sante giovinette martiri della prima età cristiana, le quali, in mezzo a' tormenti, contemplavano estatiche una corona celestiale. Io non dirò tutto il patire di quella meschina, chè già questa semplice narrazione è troppo compassionevole e piena di pianto. La malattia della povera Maria fu lenta, sorda, penosa; più d'una volta essa toccò a quel tremendo punto, in cui la sola speranza che rimanga è un domani nel cielo; più d'una volta fece temere di vederla finire, dopo alcuno di quegli impeti di tosse convulsiva che di frequente l'assalivano. Eppure il dottore, sia che non fosse troppo sapiente, sia che vedesse più in là che non sembrava, ebbe segreta speranza di salvarla ancora; e nelle cure assidue che le prodigava, non tardò ad accorgersi che il male non aveva soggiogato del tutto quella debole complessione, e che anzi a poco a poco rimetteva della sua crudeltà; onde fu persuaso che se alla fanciulla non erano quaggiù promessi lunghi anni, le sarebbe stato conceduto almeno di vedere più d'una primavera, e forse di respirar novella vita nel balsamo dell'aria nativa. Egli non s'ingannò. Venne la primavera, e ben presto la gracile salute della nostra giovinetta cominciò e rifiorire. Il silenzio dell'anima e la pace della natura poterono più che gli sforzi dell'arte; ma per non far ingiustizia a quel dabbene del dottore, bisogna dire che la paziente attenzione e lo studio che pose a risparmiare alla sua ammalata ogni più leggiera commozione e più di tutto ogni memoria della sua vita passata, fanno fede ch'era miglior medico ch'egli medesimo non si credesse, un medico filosofo, voglio dire, come pretendono d'essere tutti i nostri medicuzzi d'ieri. Non permise ad Arnoldo di visitar Maria che una sola, o al più due volte la settimana; e sempre in compagnia di lui, per due eccellenti ragioni: una, perchè il mondo non dicesse, l'altra, perchè un solo colloquio che fosse finito con far piangere l'ammalata, avrebbe potuto rovinar il sistema della sua cura. Dunque, in tutto quel tempo, Arnoldo era stato quasi straniero per Maria; essa non osava domandare di lui, neppure alla Marta; ed egli, temendo sempre che il cielo non gli rapisse quel fiore sì adorato, si tenne in una mesta e contegnosa lontananza. La Marta poi, la quale dapprima, finchè durò il male di quella sua diletta, aveva saputo soffocar le lagrime, allora piangeva; ma piangeva di consolazione. Era un mattino, un bellissimo mattino, al principio d'aprile. Maria sedeva al raggio di quel puro sole, nel cortiletto che si specchiava al lago; sedeva tranquilla presso il muricciolo, sul quale erano ancora i suoi vasi di fiori, quantunque inferme e cadenti ne fossero le odorose pianticelle. Essa respirava l'aria imbalsamata dai profumi della mattina; e il suo viso alquanto pallido ancora, mostrava quel soave incanto di bellezza, che tocca assai di più, quando rivela il segreto d'un'anima che si ricorda de' suoi dolori. Un sorriso ineffabile, misto d'una dolcissima malinconia, errava sulle sue labbra ancora smunte; e la lieve tinta rosata onde le si coloravano le gote, faceva spiccare di più la muta candidezza del suo bel volto e del sottile suo collo. Arnoldo entrò nel quieto ricinto; nè Maria, assorta ne' suoi pensieri, s'avvide di lui. Egli le si avvicinò lentamente: la fanciulla alzò allora gli occhi, e la sua fronte si velò d'un vivo rossore, che subito sparve. Alla prima, Maria non trovò parola; poi balbettò come un saluto; e il giovine, fattosi a sederle d'accanto, si rimase lungo tempo a guardarla, incerto e pensieroso. Ed essa, inchinate le pupille a terra, taceva. — O Maria! diss'egli finalmente, io benedico quest'aria così serena e in pace, questa gioja di tutta la natura, questa divina bellezza della terra e del cielo che vi restituiscono la vita, che sembrano sorridervi per consolarvi di tutto quel ch'è passato!... Voi siete nata in un paese beato; questi monti e quest'acque sono la più bella contrada del mondo... Oh vi fossi nato anch'io, oh fossi anch'io italiano!... Ma voi lo sapete, o Maria, i' ho risoluto di non abbandonar più questi luoghi. Ora, son solo su la terra, e costretto a fuggire dalla casa de' miei padri, a portare un nome che non è mio! Una volta io era potente, adulato, cercato; ora mi respingono tutti. Ma voi non mi respingete, no; io non posso più che offrirvi un'umile sorte e l'esilio; ma voi siete buona, e manterrete la vostra promessa!... Ditelo, Maria, ditelo adesso ch'è tempo! Fra voi e me non c'è più distanza; e una vita modesta, ma beata con voi, è la sola felicità alla quale io voglia, alla quale mi sia concesso d'aspirare. — Lei è un buon signore, ha un cuor che d'uguali ce n'è pochi! Ma io cerco inutilmente esprimere quel che sento... Ah! se le mie parole hanno qualche valore agli occhi suoi, deh m'ascolti, signor Arnoldo!... E così Dio mi mandi forza di parlarle com'io devo, in questo momento che deciderà della mia vita! — Dite, Maria! Il farmi felice o infelice per sempre, sta in voi... a voi lascio la mia sorte! Ho saputo rispettar fin adesso ogni vostro desiderio, non v'ho mai ricordata una promessa... perchè il vostro dolore, le vostre disgrazie... — Per carità, signor Arnoldo, non parliam più di me. È di lei che mi preme, della sua felicità, del sacrifizio ch'ella vorrebbe fare. Oh! ritorni per un momento su la sua vita passata; pensi a lei stesso, come deve fare un uomo; e poi decida. — Come, o Maria, sarebbe possibile che ricusaste d'unire la vostra sorte alla mia? dopo tutto quel ch'è stato, dopo tanto amore?... Oh io vi amo ancora, o Maria, vi amo, come la prima volta che vi ho veduta, come quel giorno... — Non mi dica così, signor Arnoldo, io ne la prego col mio cuore, con le mie lagrime!... Se ha ancora della stima per me, parliamo come fossimo stranieri uno all'altro. Non è vero ch'ella non abbia più nessuno a cui pensare... Suo padre soffre certamente per la sua lontananza, e sospira di rivederla prima di morire, di lasciarle il suo nome e l'onor della famiglia... E le sue buone sorelle?... e il suo paese che lo chiama, che l'aspetta, che ha bisogno di lei?... queste cose, appena io capisco come sieno, ma pur sento che son vere. Non posso creder che suo padre l'abbia maledetto, non è vero che più nessuno si ricordi di lei! E se anche, al primo momento, lo sdegno l'avesse fatto ingiusto, si sarà pentito da poi; perchè padre e madre perdono tutto, piuttosto che i figliuoli... E se dapprima, per l'onore, ella ha creduto bene d'abbandonare chi lo disprezzava, adesso è il momento di far vedere a loro stessi, che la persuasione e non il capriccio l'hanno consigliata, e che ha ancora, lasci ch'io lo dica, lo stesso cuore e la stessa virtù! — Buon Dio! siete voi che mi parlate così? chi vi disse tutte queste cose? chi ve le inspira? Io, sì, lo sento il cruccio di star lontano da' miei... so che le mie buone sorelle piangono e m'aspettano. Ma, per me, il domandar perdono sarebbe un rinnegare la verità che ho abbracciata! Nè per questo i' ho fatto sacrifizio d'ogni cosa; l'ho fatto per ciò che tutti calpestano, la fede e la coscienza. O Maria, lo veggo! voi non mi amate più! — Ah! signor Arnoldo, non dica, non pensi così. Io era già morta, ella mi salvò! Oh questa riconoscenza ch'io sento, basterà oramai essa sola a riempiere tutta la mia vita!... — Voi parlate di riconoscenza, ed è amore ch'io vi domando. E che? s'io dovessi anche tornarvi, là nella mia patria, se l'onore mi vi chiamasse, non andrei io superbo di mostrar a tutti qual angelo io possegga? non benedirei sempre il cielo di poter mettervi a parte d'ogni contentezza della vita, di farvi grande, come siete degna d'essere, più d'ogni altra donna? — Il suo cuore è buono e generoso; ma io, quantunque nulla sappia in confronto di lei, pur sento che questa la è un'illusione. Nol so da vero, perchè mai abbia preso a voler bene a una poveretta come me; pure, so ch'io non lo meritava, e che non ero nata per questa fortuna. Oh! non la mi guardi così! se ascoltassi soltanto il mio cuore, una cosa sì amara io non potrei dirla... E poi, capisco pure ch'io le parlo troppo male; ma al momento in che siamo, bisogna dir tutto com'è. — Cielo! oltre al non amarmi più, potreste voi pensare, o Maria, che verrebbe tempo ch'io avessi a mancare alla mia fede, all'amore?... — No! vedo pur troppo che non so spiegarmi, o ch'ella non m'intende!... E questi suoi rimproveri mi fan piangere. Ma io non voglio dire di lei... Tutti l'hanno amato, e l'ameranno sempre: e come nol dovrebbero?... Nessuno ardirà disprezzar la fortunata che porterà il suo nome. Ma a questa donna felice, se mai fosse d'una condizione diversa dalla sua, una meschina come son io, non sarebbe rìserbata una continua rampogna, un tormento segreto, eterno?... Potrà mai credere a quegli onori che non sono per essa, e non arrossire di trovarsi con quelli che mentono con la bocca e disprezzano nel cuore, con quelli che tacciono per compassione?... Oh! gli occhi di chi ha molto sofferto leggono nell'interno di coloro da' quali non sono amati, abbastanza per poter piangere ancora. E poi, viene il tempo il più amaro. Quegli che prima era l'amico, il fratello, il padre suo, il suo tutto, non la guarda più come in quel giorno, in quel giorno felice che nasce una volta sola, e non torna più; non le chiede più di quelle parole, che un tempo facevano la sua gioia, il suo conforto. Egli è un uomo, un cittadino; ha la gloria che lo chiama, la vita che gli comanda, la società che l'accarezza, il mondo che lo guarda... Egli non è più solo, come in quel giorno così bello! — Maria, Maria, che dite voi mai? — Ah! lasci ch'io sfoghi tante cose che da sì gran tempo porto nel mio cuore! Quella poveretta che sente non essergli più necessaria, quella, che al pari d'un fiore per un giorno gli piacque, non è più la medesima... Ella tace sempre, ella piange spesso; ed egli volge indietro la testa, e cerca altri fiori più freschi, più belli, perchè l'uomo ha sempre bisogno della bellezza... Oh mio Dio! quest'angoscia basta sola a far morire di dolore la infelice! E il dubbio che l'accompagna sempre, e il timore di proferire una parola sola che a lui dispiaccia, e l'affanno segreto di sentirsi così piccola cosa a paragone di lui, e la stessa grandezza dell'amore che gli porta, di quell'amore ch'egli con un pensier solo può maledir per sempre... — Non più, Maria, non più!... Ecco, era una speranza del tutto vana la mia, e voi spezzate l'ultimo anello della mia vita... Tu, o Maria?... tu, la più bella e la più santa creatura del Signore, l'unica stella ch'io avessi ancora, tu puoi abbandonarmi? Abbandonarmi, quand'io, per amarti, ho dimenticato patria, parenti, nome, tutto?... Gran dio! dunque la virtù ch'io cercai sempre, altro non era che un delirio, la poesia de' vent'anni, l'incanto d'una primavera?... Bisogna che sia così. E adesso, che farò?... Tornerò nel mondo, mi getterò in questo vortice di cose, nell'ebbrezza della passione, nella vita del momento; sì, riderò delle lagrime che si piangono da per tutto, e di quelle che farò versare anch'io; e a coloro che mi rinfacceranno di non creder più a nulla, nemmeno alla virtù, dirò; Gli uomini m'han voluto così! peggio per loro. Maria raccapricciò a queste strane parole, chinò la testa e impallidì. Arnoldo la guardava quasi sdegnoso, e levandosi a un tratto, mosse per allontanarsi. — Oh si fermi, signor Arnoldo, proruppe allora la sbigottita fanciulla, e non mi lasci in questo modo!... Io le ho parlato come una povera giovine onesta; ho fatto il mio dovere. Ella non sa, non vede il mio dolore; ma io soffrirei ben più, se non avessi coraggio di parlarle col cuore in mano. La grandezza, la felicità che mi vuol dare, non son fatte per me: questi due anni della mia vita non saranno stati altro che un sogno, ma il più bello di tutt'i miei sogni!... Quando penso a queste quattro mura, dove son nata, dove per tanto tempo sono stata felice anch'io... quando penso a mio padre, a mia madre... Oh se vivessero ancora... non mi avrebbero certamente benedetta! — Se que' buoni vivessero ancora, vorrei metter la nostra sorte nelle loro mani. E anch'esso, vostro fratello... — Il mio povero Carlo!.. Ah se sapesse quello ch'egli pensava e diceva! Questa forza ch'io sento di parlarle come feci, me l'hanno data le sue parole, e la santa virtù che inspiravano... Io me lo ricordo, come se fosse adesso; egli, il mio buono e santo fratello, mi disse una volta... qui, qui appunto dove siamo noi: Abita sempre nel luogo in che il Signore ti collocò; Egli solo è Quello che non abbandona mai! Conserva il tuo cuore, e vivi povera e modesta come sei nata!... E, ripetendo questo ricordo, Maria singhiozzava. Il giovine era commosso e sorpreso da contrarii pensieri. — Ecco, ripigliò indi a poco Maria, che le ho aperto l'anima mia. Un'altra ragione poi... non ho nemmeno il cuore di dirla, ma pur è vera anch'essa... ed è questa, ch'io sento di potere durar poco: la è un'idea che ho avuto sempre... Ma, adesso, Dio mi darà la virtù di patire per questo poco tempo. — No, Maria, non lo dire; no, non è vero!... Vuoi tu vedermi disperato, vuoi tu ch'io maledica al mondo e a Dio?... A questa imprecazione la fanciulla non resse; il coraggio, che fin allora l'aveva fatta maggiore di sè stessa, era esausto: ella tornava una fragile, sofferente creatura com'era prima. Fece per parlare, e non potè; sentì sciogliersi le membra, vide appannarsi, confondersi le cose a lei d'intorno, e la sua voce non seppe formar che un debole sospiro. — O Maria! o mio angelo tutelare, diceva Arnoldo con supplichevole affetto, sostenendola: ascoltami, o Maria, non m'abbandonare, non morire!... Tu sei una santa, io ti venero come mia madre! Farò tutto quello che vuoi; parla... guardami! dimmi una parola sola... Non m'ami più? Ah! non importa... Io sarò infelice; ma tu ascoltami, non morire, oh non morire!... Ti son forse odioso? Ah no, no! dimmi che non è vero! E perdonami: io voleva un poco della tua felicità, un poco della pace del tuo cuore. Parla, o Maria! ma non mi togliere tutta la speranza. Vuoi tu ch'io parta, che corra a gettarmi a' piedi di mio padre?... Io me n'andrò, domani... oggi... subito! Ma tu vivi, aspettami, e lascia ch'io creda all'amor tuo. — Sì, sì, è ben meglio che parta, signor Arnoldo! disse Maria, alla quale le ardenti parole del giovine avevano restituito un po' di coraggio, quantunque misto a un segreto fremito di terrore; è ben meglio che parta! Io per me, spero che Dio m'aiuterà... Senta dunque: s'ella torna nella sua patria, io l'aspetterò per un anno... e poi... quando veramente fosse la volontà del cielo... — Questa condizione è dura, Maria; nè so come potrò obbedire... — Ah! è necessario ch'ella s'allontani per qualche tempo, che torni in pace col padre suo!... Consoli le sue sorelle; e mi nomini a loro; a quella buona Elisa, se la si ricorda ancora del mio nome. Io intanto penserò a lei, sempre a lei, signor Arnoldo, ch'è stato così buono per me! Io non aveva più nulla a questo mondo, nulla fuorchè la mia onestà; ella ha avuto compassione di me, e io la benedirò sempre, pregherò sempre per lei!... Arnoldo era commosso fino alle lagrime. Contemplava Maria con una muta tenerezza; e la piena degli affetti che agitavano il suo cuore, non poteva trovare un'uscita. Alla fine le si appressò umiliato, le prese una mano, se la recò alle labbra, la baciò, la bagnò del suo pianto, e: — Addio, le disse, Maria! Addio per un anno. — Addio! rispose con voce sicura la fanciulla; ma il suo cuore addolorato in quel momento tremò che non fosse _per sempre_. Il seguente mattino, Arnoldo abbandonava quelle rive, abbandonava l'Italia. Tornato alla villa, dopo il colloquio avuto con Maria, vi aveva trovato alcune lettere d'Inghilterra, e fra queste una d'Elisa sua sorella, la quale dipingendole il rovescio ch'erasi fatto nella salute del padre suo, il terrore e l'abbandono in che essa e Vittorina vivevano, lo scongiurava a non perder nemmeno un'ora, a ritornar subito, a ricordarsi del nome che portava, e del dovere di figlio e d'Inglese, che lo richiamavano in patria. Questa lettera finì di persuadere Arnoldo. Bisognava dunque partire, senza riveder Maria, tutto il comandava: e chi sa anche s'egli potrà ancora arrivar a tempo per ricevere la benedizione del padre suo? Egli dunque partì. Maria, che in tutta quella notte non aveva potuto chiuder occhio mai, s'era levata col sole, e se ne stava appoggiata al davanzale dell'aperta sua finestra, a contemplar di lontano la villa **** dov'egli abitava. I balconi del terrazzo erano spalancati; quella parte della casa aveva l'aspetto d'un luogo abbandonato di recente. Quel pianerottolo deserto, quell'alto terrazzo, quelle vôte finestre, le mettevano nell'anima un'involontaria tristezza. I suoi sguardi calarono lenti e distratti al lungo della riva... In quel momento, essa vide una barchetta staccarsi dal piccolo porto che si apriva al piede della villa. Un uomo, chiuso nel suo mantello, era in quella, barca, la quale ben presto pigliò il largo; il barcaiuolo faceva forza di remi contro il vento che increspava tutta la superficie del lago. Un grido doloroso, invano trattenuto, le scoppiò dal più profondo del cuore... Allora, come fosse stato scosso da quel grido, Arnoldo levò il capo, e di lontano la riconobbe. Si alzò, stese la mano verso di lei nell'atto d'un ultimo saluto; poi, quasi oppresso da una forza prepotente, s'abbandonò di nuovo su la prora della barca: la quale fuggendo via via si dilungò rapidamente, finchè non apparve più che come un punto nero nell'iride dell'acque che riflettevano il sole nascente. Ma quand'ebbe perduta di vista quella barchetta, la povera Maria sentì mancarsi il cuore: uno schianto improvviso la soffocò; e proruppe in lagrime d'amarissimo cordoglio, in quel piangere caldo e dirotto di chi non ha più speranza. Ella pensava che tutto era finito, che non l'avrebbe riveduto mai più. Angiola Maria visse ancora un anno, nella solitaria casetta, in compagnia della sua vecchia amica, ch'erale prodiga delle cure le più amorevoli, e si ricordava così spesso di _lui_. Aveva raccolte sei o sette povere fanciulline del contado, tutte da quattro a cinque anni, belle angiolette da' capegli d'oro e dai visetti color di rosa, tenere anime che l'amavan come una madre. E insegnava loro a leggere, a dire quelle prime orazioni del fanciullo, che sono il più soave profumo che si alzi ne' cieli; e si deliziava di vederle folleggiare, quelle piccine, per le aiuole del suo cortiletto; e tutte le metteva a parte di quel poco ben di Dio che a lei era avanzato. Così ell'era abbastanza felice, perchè persuasa e contenta d'aver compito il suo dovere. Innocente e sublime creatura! Essa aveva compito il suo sacrifizio. Al cominciare dell'altro inverno, que' fatali indizii d'una lenta consunzione, sopita per qualche tempo ma non vinta, tornarono a spiegarsi; e il dottore, il quale a quando a quando capitava a visitarla, si fu subito accorto della funesta verità. Pure Maria trascinò i suoi giorni per tutta l'invernata. A poco a poco, ella si consumava, finiva, senza temer di nulla, senza soffrire: Dio è sempre pietoso, e volle risparmiarle quegli ultimi patimenti. Le fanciullette sue amiche venivano ancora, quasi ogni dì, a tenerle compagnia; qualche volta, alcuna d'esse, la più grandicella, le domandava perchè mai la fosse così pallida e dimagrita, e nel domandare piangeva... Ma ell'era rassegnata; nè fu udita mai pronunziare un solo lamento; chè anzi, assorta talora in una dolce meditazione, le sue labbra s'aprivano a un tranquillo e celeste sorriso. Tornò la primavera, tornò il bel sole, tornarono i fiori; ma il cielo non fu più sereno, nè più ebbe l'aria balsamo per lei. Oramai, ella non sorgeva più dal suo letticciolo. Al principio dell'aprile, in quel dì stesso che, un anno prima, aveva veduto partir Arnoldo, ella restituiva l'anima pura al Creatore. E le fanciulle ch'essa aveva tanto accarezzato, e la Marta, alla quale lasciò la sua casetta, e quel buon galantuomo del signor Gaspero, che sempre le aveva voluto bene, furon coloro che l'accompagnarono l'ultima volta fin al luogo del suo riposo. Ella è sepolta presso a suo padre; e quelle due zolle sono protette da una croce sola. Alcune settimane dopo la morte di Maria, il signor Gaspero stava leggendo agli amici le novità della gazzetta: sedevano a circolo su l'entrata della bottega di Samuele; poichè al venir della state, l'aristocrazia del paese, come i capi delle tribù indiane, soleva tener consiglio a cielo sereno. Dunque, fra le altre novelle, sotto la data di Londra, egli lesse questa: «— Sir Arnoldo, figlio di lord Leslie, quello stesso, la cui conversione alla fede cattolica menò gran rumore l'anno passato nel bel mondo, fu eletto membro del parlamento pel borgo di ****. Pretendesi che l'onorevole baronetto debba menare in isposa una sua cugina, la bella e ricca erede di lord S..... miss Elena Davison.» Il buon vecchiotto continuò a leggere; nè a lui, nè al dottore (il quale però conservava ancora, come reliquie, certe tre quadruple di Spagna lasciategli in dono dal giovine inglese), nè al curato, nè allo speziale, cadde in pensiero che quell'onorevole baronetto fosse appunto il bel forestiero che avevano conosciuto. Non vi fu che il deputato politico, il signor Mauro, se pur ve ne ricordate, il quale susurrò a mezza voce: — Quel nome non m'è nuovo... Ma via, che importa a noi?... Bisogna dire per altro, che di Maria non si dimenticarono. Il signor Gaspero raccontò più d'una volta la storia della povera tosa; e n'era sempre commosso, e conchiudeva seriamente: — Il mondo è una scala, e ciascuno deve starsene al suo scalino. La provvidenza non ha creato per niente i signori e i poveri diavoli. Dunque rimani contento nella condizione in che la Provvidenza t'ha collocato, nè voler sollevarti da quella, per non perdere pace, libertà e salute... Ma, dopo un momento, scrollava il capo, e con un sogghigno di compiacenza soggiungeva: — Quest'è vero! Eppure io sono la prova del contrario. Se fossi sempre stato quel baggeo ch'io m'era da fanciullo, la mia fortuna a quest'ora sarebbe di menar la barca fino a Domaso e di pescar gli agoni laggiù sotto la riva; ma perchè, in que' bei tempi, non me ne stetti con le mani nel giubbone, da povero merciaiolo son diventato quel che sono, e ho veduto quel che so io; e almeno ho casa e tetto, e posso far e disfare anch'io la mia parte; nè mi manca nulla, fuorchè la consolazione d'un'anima bella, come fu Maria. Ma, un'altra come lei, non la troverò più, se campassi anche gli anni di Noè. IL MANOSCRITTO DEL VICECURATO I. L'OSPITE MONTANARO. Cadeva l'autunno del 184*. Sull'imbrunire d'una di quelle care e malinconiche giornate, in cui le memorie dell'amore e dell'amicizia risvegliano nell'anima il bisogno di pensare e di piangere, io andava lentamente camminando sull'alpestre via che conduce al solitario villaggio di ****. Già avevo dato le spalle all'umide inabitate reliquie del castello di Fuentes, e più non m'appariva nella lontananza neppur quell'ultima lucida zona dell'Adda, che sboccando fuor dell'Alpi di Valtellina s'allarga e s'impaluda là dove comincia ad aprirsi il lago di Como. Le montagne all'ingiro s'eran velate di quel cupo uniforme colore che spandono i poetici crepuscoli dell'autunno; e più non si distingueva nè un villaggio, nè una chiesa, nè un campanile: appena gli ultimi riflessi del sole già caduto tingevano tuttora d'un roseo a grado a grado fuggente l'altissima cresta del Legnone, che sola, fra tutti gli altri monti all'intorno, portava il suo candido cappuccio di neve. Io era solo, e non sapendo se, prima della notte fatta, mi fosse possibile giungere al villaggio il più vicino, cominciavo a trovar la via più lunga e meno romanzesca che non mi paresse da prima, più umida e più trista la sera. E dubitai d'aver fallito il cammino; sicchè io era già sul punto di voltar indietro i passi per tornarne al paese d'onde veniva. Ma a poco a poco una cotale magia che si diffonde dalla silenziosa maestà della natura, una specie di vaghezza dolorosa che ne fa parer bello lo stesso terrore, e in uno quella meraviglia che andiam sempre cercando nell'incertezza delle cose di quaggiù, mi diedero animo a continuar la via. Allora mi venne all'orecchio il rumore d'un passo lento e grave che moveva dietro al mio, e l'eco d'una monotona cantilena, della quale non poteva ancora distinguer le parole, ma che aveva non so che di patetico e misterioso a cui mal non rispondevano i miei pensieri e le confuse fantasie ond'era occupata in quel momento l'anima mia. Nelle grandi solitudini, fuor dello strepito degli uomini e della vita, dove la natura regna ancora nella primitiva e severa sua bellezza, una sola voce, un suono lontano, un sospiro del vento che ti rechino di nuovo i pensieri del mondo che avevi, senza saperlo, dimenticato del tutto, d'improvviso ti rapiscono a quella contemplazione dell'infinito, a quell'intima forza dell'anima che dianzi ti facevano maggiori di te stesso, e ti ripiombano nella realtà delle cose, direi quasi, nel terrore d'esser uomo e d'esser solo. Mi fermai in mezzo della via, e diedi attento l'orecchio al suono che andavasi man mano facendo più distinto e più vicino. Egli era forse (pensai) un alpigiano di quella valle, che tardivo al par di me, si trovava sulla medesima strada per tornarsene a casa, e ingannava il tempo e il cammino ricantando alcuna delle vecchie canzoni del suo paese. Così parevami dicesse press'a poco quella canzone: Vedi la striscia bianca Che pare un nugoletto? Il vecchio non si stanca: È il fumo del suo tetto. O mia foresta bruna, O cime del Legnon! Passò la terza luna Che da voi lunge io son. Ampia, serena e chiara, Qui l'aria il cor non serra: La povertà m'è cara Nella mia poca terra! La nebbia eterna stagna In seno alla città: Cercai la mia montagna; Sognai la libertà! Cantar qui m'è concesso De' miei figliuoli al canto: Gli antichi miei qui presso Dormon nel campo santo. Per me sei vasto e bello, Povero casolar! — Ritorna al paesello Il vecchio montanar. — Ecco, diceva io tra me, dove si va a nascondere la semplice poesia, amica del sole e del cielo sereno. Le rimembranze della passata età, e le schiette, calde fantasie di questi abitatori d'ignote capanne serbano ancora un'impronta di quella naturale dolcezza antica che noi perdemmo: sono incolte, ma pur belle le armonie che d'una in altra generazione consolano le loro veglie invernali, le tranquille domeniche e gli allegri giorni della vendemmia, quand'essi s'accolgono a crocchio sulla spianata al raggio del sole occidente! L'uomo della città ritrova la sua patria per tutto il mondo: non v'è più che il montanaro il quale ami la sua rupe e la casipola che sopra vi siede, e viva contento della sua povertà all'ombra del campanile che lo vide a nascere. In quella, sul sentiero che saliva con rapida svolta verso il colmo d'una piccola altura, vidi venirne verso di me un vecchio; il quale, sebben curve le spalle sotto il peso d'un fardello appiccato alla cima del suo bastone, moveva con passo così alacre e spedito che in un momento m'avrebbe oltrepassato, ov'io stesso non gli fossi ito a rincontro, domandandogli: — Brav'uomo, siete del paese? Egli fermossi: parve maravigliato di trovare uno straniero a sì tarda ora su quella via. E guardandomi prima un poco, con cert'aria diffidente, ch'era forse un resto della sperienza di fresco imparata nella città, mi rispose: — Sì, o signore, torno a casa mia. — Quant'è lontano di qui il vostro paese? e come si chiama? — Oh bello! si chiama ****; e in una buona mezz'ora al più, del mio passo, ci sarò arrivato. Il nome del villaggio non mi parve nuovo, ma non sapevo in quale angolo della memoria cercarlo. — Se non v'incresce, soggiunsi, verrò fino al paese con voi; chè in mezzo alla notte, e ignaro di questi monti e di queste valli, avrei tema di perdere il sentiero. — Come le piace, signore! Ma se mai credesse di trovare alloggio al paese, cangi pure la strada fin d'adesso; chè sulla costa della vallata, fra que' sassi del tempo del diluvio, non ci stanno che un cinquanta povere e disperse tettoje, aperte al sole e alla neve, come Dio vuole; e son case quelle ove non può dormire se non chi vi nacque. — Ci sarà almeno il curato; ed egli forse... — Eh! il curato? so bene che quando alcuno di lor signori capita nelle nostre parti, si fa servir da osteria la casa della parrocchia; ed è un onore che fanno... Il curato c'è sicuro, un bravo prete, non fo per dire; ha un cuor da padre, un cuore proprio da buon montanaro. E pure... — E pure che cosa, amico mio? — Ecco, vorrei dirle, non so se il signor curato vedrà tanto volentieri in casa sua la faccia d'un forastiero. Egli fa la vita del romito; quella poca terra e que' scarsi livelli che fanno tutta la prebenda, gli bastano appena per non morir di fame. Perchè, il paese è povero, caro signore; e anche noi vecchi, quasi ogni anno, dobbiamo andarne a cercare un po' di sorte alla Bassa, e dopo aver tagliati i boschi de' nostri monti, girare laggiù facendo il manovale, o qualch'altro duro mestiero. Ma intanto, con la grazia di Dio, la si campa da povera gente. — E voi credete dunque che il vostro signor curato avrebbe cuor di lasciarmi sulla via? Eh! per un uomo che insegna il vangelo sarebbe una bella carità! — Non è questo; ma gli è che pur troppo nella nostra povera terra, benchè rintanata fra l'Alpi, i forestieri han finora condotto la mala fortuna. E il paroco anche lui, vede, ha dovuto imparare a non creder troppo alla gente, dopo la disgrazia del nostro vicecurato... Oh! ma quello sì era un uomo! che cosa dico? era un santo, la nostra provvidenza. Bisognava vederla quella testa che pareva inspirata veramente dal Signore! Così giovane e così sapiente! E il suo cuore, chi nol conobbe, chi non l'ha benedetto?... Egli spartiva con noi il suo pane, egli andava a comprare del suo le medicine per i poveri malati, e veniva a consolarci nella disgrazia, o a piangere con noi: tutti, dal primo all'ultimo, vecchi, uomini e figliuoli, noi abbiam imparato a ripetere il suo nome con una benedizione.... Oh! chi l'avesse veduto com'io che andavo in casa sua tutt'i giorni per que' pochi servigi che gli occorrevano!... Bisognava poi sentirlo, come lo sentivano tutti quei della vallata, che venivano a frotte quand'egli predicava e parlava delle cose del Signore, che dovevasi proprio dire ch'era la verità santa. Anche il signor curato, quantunque vecchio e superior suo, lo stimava come un dottore, lasciava facesse tutto lui; e quell'uomo del Signore era veramente il nostro padre, il nostro fratello. Mentre il vecchio alpigiano così mi parlava, mi risovvenne il come non mi fossero ignoti quel paese e la sventura del vicecurato: la quale io aveva udito raccontare alcuni anni innanzi, e m'avea dato di potere scrivere nella pace della giovanile mia stanza un libro semplice ma vero; un libro che nel gran vortice della letteratura dovea sortire un destino ben più lieto di quanto (non per la consueta umiltà d'autore, ma per coscienza di sè) avesse sperato mai colui che lo scrisse. E mi cadde in mente che più d'uno trovò ravvolta di soverchio mistero la storia di quel prete, credendo così tutt'altro che vera una sciagura ch'io non aveva potuto raccontare in modo più chiaro. In quel momento, trovandomi a pochi passi dal villaggio, in cui visse per alcun tempo il buon prete del quale parlavami il montanaro, pur non sognando, per certo ch'io l'avessi mai conosciuto, pensai che il caso m'offeriva forse un'occasione di saper qualche cosa di più che da prima non avessi potuto raccapezzare di quella storia buja, o se non altro di visitare i luoghi, dove quell'anima eletta così piena dell'amore degli uomini e del desiderio del bene aveva lasciato la migliore eredità che di noi possa restar sulla terra, una memoria incontaminata e benedetta. E tutto in questo pensiero, ringraziai la fortuna che m'avea messo per quell'alpestre contrada e fatto compagno di via del buon vecchio. Il quale continuava con le schiette e vive sue parole a ragionarmi delle virtù umili e grandi del vicecurato, e ripeteva a ogni poco che il Signore l'aveva rivoluto troppo presto con lui. Il montanaro sapeva solo che negli ultimi dì del viver suo l'infelice prete aveva patite grandi e immeritate sciagure, sapeva ch'era morto lontano lontano di là, e che la sua famiglia era ita per il mondo alla misericordia di Dio. Io mi guardai bene dal rivelare all'onest'uomo il poco che m'era noto della tremenda verità; chè temevo quasi rapire all'anima sua semplice e buona quel culto segreto, quel religioso amore che serbava ad una vita caduta sì presto in man de' cattivi, e ch'era stata (per dir come il buon montanaro) la vita d'un martire. Io camminava a fianco del vecchio, senza dirgli più nulla, e lasciando che a sua possa egli interrompesse l'alto silenzio della notte, parlandomi della sua montagna e delle città vedute, del suo paese, del magro ricolto, del maggior figliuolo morto da pochi mesi, e dell'altro partito l'anno innanzi coscritto militare, che più non sperava rivedere, vicino com'era ad andarne a star co' suoi vecchi. — I miei pensieri ritornavano a quegli anni in cui avevo anch'io conosciuto e amato il misero vicecurato, e s'eran fatti così dolorosi ch'io sentiva a quando a quando alcuna lacrima cadermi dagli occhi. E pure, erami dolce in quell'ora il pensare alla mia patria!... Il montanaro, accorgendosi ch'io più non dava mente alle sue parole, guardava la luna che allora appunto si levava limpida e bella, come un diadema d'argento, dietro gli altissimi gioghi dell'alpe; e canterellava ancora a mezza voce: Cercai la mia montagna, Sognai la libertà! Dopo un'ora buona di cammino (poichè su per la via de' monti, quando vi dicono una piccola mezz'ora s'intende un'ora grossa al manco) cominciammo a trovar le prime case del villaggio. Non si vedeva più neppure un lumicino, ch'era già spento ogni focolare; nulla che rompesse l'alta quiete notturna, se non il lontano romoreggiar del vento fra le cime de' pini e degli annosi castagni; talchè mi pareva d'attraversare un di que' paesi adombrati, morti, che talora ne fuggono dinanzi agli occhi ne' sogni. L'alpigiano mi condusse lungo la costiera per certe viottole che facevano giravolta a ogni cinque passi; e calando sempre, si fermò alla fine dinanzi un casolare isolato, dicendomi: — Questa è casa mia. E battè forte all'uscio. — Nessuno m'aspetta per certo, ripigliò poi: la mia vecchia e l'Assunta, la figliuola del mio povero Pietro, mi credono ancora laggiù alla fiera di Delebio; e il Sandro, quell'altro disutile che m'ha lasciato, sarà ancora sull'alpe con le poche bestie, finchè vi abbia pur qualche spanna di terra erbosa; le altre due grame vacche, poveraccie! le vendei sulla fiera: chè aspettiamo una trista invernata; e non potendo far vivere le bestie, bisogna pensare a campar noi. Tornò a battere, e una voce rispose di dentro; poi s'udi uno strepitar di zoccoli accorrenti, e levarsi il travicello che sprangava l'uscio, e due donne in un gruppo comparir nel vano della porta: una d'esse teneva alzata dinanzi agli occhi una fumigante lampanetta che maggior lume non mandava d'una lucciola estiva. — Oh Madonna santissima! disse la vecchia, siete voi? — O caro il mio nonno! soggiunse la fanciulla che, vedendo uno straniero, ardiva appena far capolino dietro la spalla della vecchia. Che il Signore vi benedica! Ben lo diss'io che non poteva esser altri che voi. Entrammo nel casolare. Il messere col quale, camminando di conserva, io aveva fatto più ampia conoscenza, e in cui veramente io vedeva uno di que' patriarchi di montagna che più non si trovano se non là dove si respira l'aria libera e pura, mi fece sedere sotto la capanna del suo camino, dinanzi un'allegra vampa di rami secchi che le due donne ebbero presto accesa sul largo focolare. Poi mi profferse di spartir con lui quella poca di cena che trasse fuor della sua bisaccia, un resto di pollanca fredda, e un bel pane bianco, messi in serbo la mattina: però che l'ospite mio, come poi seppi, era un di quelli che nel paese poteva dire la loro ragione, e possedeva terra e bestie, essendo da vent'anni e più il primo deputato della comune. Piacquemi di trovare ancora fra queste buone creature un esempio dell'antica ospitalità a cui il mondo più non crede; e, rese grazie all'onesto vecchio della sua cordiale profferta, accettai di preferenza dalle mani della giovane montanina una colma scodella di fresco latte. L'Assunta era una fanciulla di sedici anni, una brunetta dalle pupille di foco e di forme spigliate e snelle: il breve guarnelletto turchino lasciava vedere un bel piede e una gamba fatta al tornio; il suo busto di lana rossa le serrava bene alla persona; e il bianco fazzoletto, che teneva aggruppato di sotto al mento, faceva spiccare di più i bruni contorni del suo viso e le due lunghe treccie di bei capegli neri che le scendevano sul seno. E pure non era bella l'Assunta; ma aveva nella sembianza quella dolcezza che annunzia la pace del cuore, e negli occhi vivaci quella gioia che accompagna i semplici pensieri: ma nel lindo suo vestire, nell'ingenua sua positura, seduta qual era sulla grossa radice d'un albero a canto del focolare e intenta all'avolo suo che andava narrando tutto quanto aveva detto e fatto da che s'era partito, l'Assunta mi parve in quel momento una poetica figura, e poco mancò che i miei pensieri pigliassero tutt'altro colore e che un diverso perchè mi facesse fermar dimora in quella lontana e povera vallata. A poco a poco, senza metter ombra alla sincerità del vecchio lo ricondussi sulla via di parlarmi del vicecurato; e gli dissi che, per me, ero contento di dormir quella notte, per qualche ora, in un angolo della sua cucina, facendomi letto d'un bel mucchio di secche foglie colà raccolte; io pensava che miglior giaciglio non avrei forse trovato a venti miglia all'ingiro, e che così solevano dormire al tempo antico paladini e trovatori. — Or fa sett'anni, mi narrava il messere, noi avevamo ancora il nostro vicecurato. Egli ne conosceva tutti dal primo all'ultimo, veniva a sedere presso i nostri fuochi, nelle nostre povere stalle; nè mai s'intese parlar meno di disgrazie nel paese che in quel tempo. Già vel dissi, egli era il braccio destro del signor curato, e ogni cosa egli facesse, era per lo meglio. Aveva un'anima santa, e quanti de' nostri può dirsi, tornassero a vita per quella speranza ch'egli solo sapeva dare, per quell'amore con che faceva carità a tutti di quel poco che possedeva. Egli ci diceva sempre: — Sono povero anch'io al par di voi altri, sapete! Ma il Maestro in nome del quale io vi parlo volle essere quaggiù l'ultimo degli uomini; ed io v'amo tutti come miei fratelli... La povertà è la terra di promissione. Queste poche parole, ricordate nell'umile dimora con un sacro rispetto dal montanaro, mi ridipingevano alla mente l'austera e pallida figura di quell'uomo che aveva sostenuto quaggiù, per quanto era in lui, il còmpito della verità e del sacrificio. Chiesi allora al buon vecchio perchè e come mai l'avessero perduto quel loro padre e amico: ed egli, dopo aver sospirato, guardommi con non so qual turbamento. Poi, con voce commossa continuò: — Un giorno, era nella state del 183*, una brutta giornata d'agosto, nella quale tre temporali maledetti si scatenarono un dopo l'altro su questa povera nostra valle, comparve qui nel paese un giovine straniero, perduto forse sulla via, come lei in questa notte. Con sè non portava nè bagaglio nè altra cosa; ma andava chiuso in un mantellaccio e teneva calcato fin sugli occhi un cappello acuto all'alpigiana. Al primo tetto che trovò, chiese alla Menica, la quale stava filando sul suo uscio, quale fosse la casa del vicecurato. La Menica a quella domanda, alla foga, all'agitazione dello straniero che guardavasi indietro ogni momento, capì bene che colui, quantunque vestisse il giubbone di lana e portasse le grosse scarpe del montanaro, era tutt'altro da quel che compariva. E com'io appunto di là passava, mi fe' un cenno del capo domandandomi se volessi accompagnar quell'uomo alla casa del vicecurato. Io, che fo sempre di cuore un servigio al prossimo, dissi al giovine che mi tenesse dietro, e m'incamminai lungo la ripa, fino alla chiesa: colui mi stava alle calcagna, fissandomi con cert'occhi che m'avrebbero fatto paura, se non mi fossi addatto che il falso montanaro pareva aver egli stesso una gran paura in corpo. Il signor vicecurato, quando fummo a due passi da casa sua, usciva appunto, con un libro sotto il braccio; come soleva sempre a quell'ora, quando andava solo a girar per la montagna. Il giovine gli corse innanzi, ed appena i loro occhi s'incontrarono, vidi don Carlo diventar tutto bianco nel viso, e levar la mano verso di lui, come per parlare e non poter dir parola; ma poi subito ricomporsi, pigliar per mano il forestiero, e rientrare con gran furia in casa. Ed io che, senza nulla comprendere, faceva per andargli dietro, udii serrarmi dinanzi quella porta che da tant'anni era sempre stata aperta a tutti. — E non si venne poi a sapere chi fosse lo straniero? domandai. — Quel giovine, poi che andò là entro non fu più veduto uscirne. Chi disse vi sia stato chiuso tutta la notte, chi tre giorni, e chi più d'una settimana: chi fosse, nessuno il seppe mai. Pietro il mio figliuolo, che allora era ancor qui con noi, mi raccontò d'averlo veduto passare il dì seguente, prima che l'alba uscisse, e andarne in compagnia del vicecurato per la selva de' pini, e arrampicarsi poi verso il Sasso Aguzzo; in somma chi ne disse una, chi un'altra; io per me non potrei giurar nulla. Quel che so pur troppo è che da quell'ora don Carlo non fu più lui; era sempre malinconico, non parlava quasi mai: ed io, che lo vedeva ogni mattino, lo trovai più d'una volta seduto al tavolo della sua stanza, con un gomito sur un vecchio librone e la testa appoggiata alla mano, intanto che scriveva e piangeva. Appena si fosse di me accorto, faceva il viso sereno e alzandosi mi pigliava per mano, e mi chiamava il suo buon Bernardo, il suo amico vero. Più d'una volta mi domandò s'io mi sarei sempre di lui ricordato, ove mai gli fosse toccato di lasciar la nostra valle in cui aveva passato quattr'anni di pace... Alcun tempo di poi, il vicecurato partì per il suo paese, ch'è sul lago di Como, e mi disse che n'andava a vedere per l'ultima volta il suo vecchio padre moribondo: stette lontano quasi tutta la state, poi tornò in mezzo di noi, salutato e venerato dall'amore di tutti; chè senza lui ne pareva d'esser come pecore senza pastore. Passò anche quell'inverno, venne la primavera; e il vicecurato, da un dì all'altro, senza che alcuno ne sapesse nulla, abbandonò di nuovo il paese, e andò, s'è vero quel che fu detto, laggiù fino a Milano. Quella mattina, egli stesso venne qui a salutarmi; il fuoco era acceso come adesso, ed egli sedette su quello scanno di paglia dove lei siede adesso, mi consegnò la chiave della sua casa, e mi disse addio. Dopo quel dì non ricomparve più ne' nostri monti. Così narrava l'alpigiano, e il suo racconto m'invogliò più che mai di penetrare il mistero che pareva circondar gli ultimi anni della vita del buon prete, quantunque un segreto presentimento mi dicesse che la causa della sua sciagura era stata troppo alta e tremenda, e che, per quanto avessi potuto raccorre della verità, non mi sarebbe fatto per certo di rivelar del tutto quel mistero all'anime compassionevoli di coloro che avevano già versata qualche lagrima sull'umile storia di Angiola Maria. Ma pure, confidando di trovare almeno qualche dimenticata reliquia delle memorie del vicecurato che mi facesse più sacro il nome suo e più nota la sua preziosa virtù, determinai di condurmi la vegnente mattina a visitare il signor curato per cercar la via d'alleggerirgli un poco la coscienza di que' vecchi segreti che certamente gli dovevano pesare. Il montanaro, vedendo ch'io me ne stava imperterito senza più dargli ascolto, credè mi tornasse indifferente il suo discorrere, o fossi colto dal sonno: m'offerse allora il suo letto, ch'era nella stanza superiore, ma ch'io non volli a ogni patto accettare; contento di poter dormire una notte sulle foglie secche, come una volta il romeo che tornava di Terra Santa. Dettogli che sprangasse di nuovo la porta e addormentasse il fuoco sotto le ceneri, diedi all'ospite mio la felice notte: e ravviluppato nel mio mantello mi gittai su quel silvestre letto de' nostri primi padri. La buona comare faceva l'alte maraviglie; la fanciulla guardavami di sottecchi, lasciando sfuggire un involontario riso, e l'una e l'altra s'avviarono sulla rozza scaletta che appoggiavasi alla parete opposta al camino; poi sul pianerottolo si fermarono un poco; e dall'alto guardando giù nel cantuccio dov'io stava mi salutarono un'altra volta e disparvero. Io dormii un sonno intero e tranquillo, come da lungo tempo non aveva dormito; ma sognai l'Alpi e il lago, e la povera casa del vicecurato e gli occhi limpidi e bruni dell'Assunta, la gaia figliuola del montanaro. Sorsi coll'alba e trovai già levati i miei buoni ospiti. La giovinetta, sulla breve spianata dietro la casuccia, stava mugnendo la sua piccola giovenca; e il vecchio messere era già pronto a servirmi di guida per la valle e sul monte; poichè la sera innanzi io diceva che volontieri avrei fatto un'escursione nel dintorno. Ma non appena seppe ch'io voleva prima di tutto far la conoscenza del signor curato, si esibì di condurmi a lui, contento, a dir poco, ch'io avessi preferito nella passata notte la sua umile dimora a quella del curato medesimo. Allora seguitai i suoi passi, facendo alle due donne promessa di ritornare. Il curato di **** aveva veduto passare la metà de' suoi settant'anni in quell'ignota parte di Valtellina: la sua era forse la più povera pieve della diocesi. Uomo semplice e dabbene, di timida e ombrosa natura, egli avea menato colà una vita così solitaria, così uguale che quasi la sua povertà gli era divenuta necessaria; e da nessuno al mondo invidiato, non portava invidia a nessuno. In tutto quel tempo, l'unico avvenimento che turbasse la lunga pace di lui, fu la vicenda di don Carlo, il suo vicecurato: quella storia, nella quale non seppe mai veder chiaro, era stata per lui come lo scoppio d'una bomba; e soleva dire ne' momenti di grande espansione di cuore: — Guai a questo mondo a chi non vuol tacere! io per me veggo che non potrò rifarmi più da questo tracollo! Quel buon uomo adunque rimase in sulle prime tra insospettito e impacciato dall'inattesa mia visita. Mi guardava di traverso con una cotal ciera scura in uno e piacente, e a ogni mia domanda rispondeva appena con qualche fugace monosillabo, quasi avesse temuto che gli rubassi i pensieri. Ebbi un bel dirgli il mio nome, il caso che m'avea fatto capitare in que' luoghi, e l'intenzion sincera d'andar cercando per quei contorni i pochi avanzi del tempo antico, da' quali potessi cavar qualche vecchia storia da fare un libro; egli lasciava morir sempre il discorso, e pareva tentasse ogni uscita per salvarsi dal pericolo della conversazione. Lasciai sfuggirmi di bocca il nome del suo antico vicecurato, e dissi che l'avevo un poco conosciuto; mi rispose con un gelido: _Ah sì?_... e per quella mattina non potei strappargli più sola una sillaba. Allora m'accommiatai da esso, ma non senza chiedergli licenza di tornare a presentargli il mio rispetto innanzi abbandonare il paese. E per tutto il dì n'andai vagando in compagnia del mio ospite su per le vicine montagne, al raggio d'un bel sole d'autunno, e ben lieto di vedere un lembo di quella terra che nel passato secolo era stata testimonio di lunghe e feroci guerre di parte, quando in essa soffiarono sì forte la libertà e la riforma. Ma la ritrosia del signor curato non mi tolse dall'intento mio: e quella sera medesima, io era amichevolmente seduto vicino a lui ad un piccolo desco, dinanzi ad un certo botticello di legno, colmo dell'ottimo vin di Sassella: un orciuolo d'antica foggia, col beccuccio sporgente che quegli alpigiani chiamano ancora _galéda_, come lo chiamavan press'a poco i Romani. Fosse virtù di qualche libagione del patrio suo vino, fosse il consiglio della fedele sua Brigida e del mio ospite montanaro, il vecchio paroco s'era ammansato, e potei a poco a poco entrargli in buona grazia. Tempestato dalle mie inchieste sulle cose antiche del paese, egli non trovando più il filo d'uscir del laberinto in che s'era messo, scappò a dire che se ci fosse stato ancora il suo _quondam_ vicecurato, il quale ne sapeva anche di troppo e aveva scritto un mucchio di scartafacci appunto sulle antichità ch'io cercava, m'avrebbe potuto dire di quegli antichi tempi di miseria tutto quanto io voleva e non voleva sapere. Allora il posi alla stretta; ed egli mi confessò che di fatto don Carlo gli avea lasciato una confusione di quadernacci e di fogli sparsi dove forse avrei potuto pescar notizie; ma che, non avendo egli mai avuto nè tempo nè voglia di leggere quella scrittura così fina e minuta, giacevano tutt'ora in un cassettone dimenticato del suo studio, se pure i topi avevano loro avuto misericordia. In quella, con generoso atto si tolse fuor dal taschino de' calzoni, la chiave dello studio e me la porse. Non mi parve pur vero d'aver sì presto guadagnata la vittoria; e colta la palla al balzo, come si dice, presi un lume e penetrai nello studio, del curato. Frugai arditamente nel barcollante cassettone, e trovai molte memorie di cose antiche, di che forse mi gioverò un'altra volta, se a me non verranno meno il tempo, l'amicizia del lettore e la sua pazienza. Fra quelle venni a capo di raccogliere le poche e scucite pagine del manoscritto del buon prete; e stimai di darlo fuori tal quale; perchè, leggendo que' caratteri e ripensando a quell'uomo del sagrificio, mi rasciugai qualche lagrima, e dissi nell'anima mia: — Tu solo il giudicasti, o Signore! ed i figliuoli degli uomini avranno speranza sotto il velame delle tue ale. II. IL MANOSCRITTO. 2 di settembre 18.. ........ Eccomi nella solitudine, in mezzo alle Alpi che sempre amai, che vidi fin dagli anni della fanciullezza circondar la più bella parte della mia patria, come d'una sublime corona[1]. Qui forse, nel silenzio del mondo, in faccia alla grande maestà della natura, avranno tregua i pensieri che in mezzo agli uomini mi tormentavano, e pace i dolori di che fu pasciuta la mia gioventù troppo inesperta del vero e troppo credula del bene. Il Signore che mi chiamò per questa via, mi dia lena di correrla alacremente e di toccarne la meta. Or mi conviene diventare un uomo nuovo, dispogliarmi degli affetti e de' voleri che fin qui mi trascinarono d'uno in altro peggior disinganno, sollevar gli occhi al cielo, a quell'unica patria de' buoni e de' giusti; al cielo verso il quale elevano le gigantesche loro cime questi monti, esultando quasi e narrando in armonia col firmamento le glorie dell'Eterno. Diedi un addio al mio vecchio padre, alla madre mia, all'innocente mia sorella. Che il Signore vi protegga sempre, o giuste o semplici creature! Là sulle rive del lago, io tornerò ben sovente fra voi co' miei pensieri, seguirò coll'anima e col desiderio i vostri passi; siederò invisibile con voi intorno all'umil focolare; e ricordandomi di quel tempo che più non può tornare per me, porrò giù il peso delle immeritate angosce e il cumulo delle recenti sciagure. Qui troverò, lo spero, creature schiette e buone come voi, o miei parenti! qui non ire, non invidie, non basse e perfide congiure di chi s'adombra d'ogni forte e generosa parola; qui non verrà a turbarmi il cuore la fastosa ignoranza o la melliflua impostura di coloro a cui s'inchina il mondo; qui umili doveri da compiere, oneste compiacenze, tranquille opere di virtù non conosciuta e perciò non calpestate; qui lagrime da rasciugare e cuori da tener vivi nella speranza; qui solitudine, silenzio e pace. 7 di settembre. I pochi, i quali han fatto di me quella vana e volgar conoscenza che suolsi troppo presto chiamar amicizia, mi credevano misantropo, o forse orgoglioso; molti mi davan taccia d'uomo irrequieto, bollente, pericoloso, mi chiamavano una testa falsa e matta; i più mi avevano un po' di compassione, trattandomi da sognatore, da utopista, da uomo nato fuor del tempo suo. Ed io che, dopo tanta guerra di dubbj e di terrori, non perdei quella calda volontà di bene, la quale fu l'alito primo della mia vita, io che potei credere e riposare nella verità promessa da Colui che da una croce annunziò a tutti gli uomini ch'eran fratelli, doveva io forse mettermi alla tremenda prova di disperare un'altra volta, di lottare ogni dì a faccia a faccia col disinganno, di rinunziare a quel solo amore che può vivere eterno, e senza del quale non è fede?... No! Sieno grazie alla Provvidenza che mi tolse di mezzo a coloro ch'io voleva poter amare come fratelli, e che invece mi attraversarono la via come nemici, e m'insidiarono come lupi bramosi. Ora io li abbandonai, forse per sempre; ma non pagai offesa con offesa, nè sola una stilla dell'odio loro è caduta nel mio cuore. Ben so che per guadagnarmi i loro preziosi favori, le bugiarde loro carezze bastavami soffocar nel mio petto le ardenti speranze, i forti augurii di virtù e di giustizia ch'io non temeva far manifesti a qualunque si fosse con la sincerità dell'uomo giovine e credente; che bastavami chinar la fronte a ogni loro detto, mentire a me stesso, rinnegar la voce dell'anima con un servile ossequio; e farmi stromento della loro potenza, o almeno tacere.... Ah no! no! mai! Codesta non fu, non sarà la parte mia sopra la terra; e il campo seminato dal male non può fruttar la verità. Abbandoniamo queste amare ricordanze. Vi fu un tempo, nel quale le poetiche immagini della prima età potevano consolarmi delle traversie sopravvenute. Allora io scriveva: — «Nacqui in riva del Lario: a me fu cuna Il battello sull'onde, ed infantile Trastullo il remo e la paterna rete; E fanciullo scherzai con la riflessa Imago del fanciul che si specchiava Prono nell'acque. — In quell'etade appresi D'ogni riva, d'ogni antro e d'ogni rupe I varii nomi, i tramandati casi; E men fe' dono la verace bocca D'antico pescator; perchè nell'ora Ch'egli gittava insidïando l'amo All'ondivago pesce, ad ascoltarlo Cheto io sedessi del battello in seno.» — O mio lago, o splendida gemma della Lombardia! tu fosti il mio primo amore. Oh! perchè non nacqui più povero ancora di quel ch'io sono! Se mio padre, anzichè essere l'agente di nobile e ricco signore, non avesse avuto al mondo che il suo navicello e la sua rete, forse io pure non sarei stato che un umil pescatore; e non uscito mai dalla cerchia de' miei monti, altro non avrei imparato ad amare che la pace e la tempesta del lago. — Le memorie del passato mi ripiombano sul cuore. Chi m'avrebbe detto, allorchè adolescente appena io contemplava rapito da una fiera gioja di libertà le procelle e i fulmini che scrosciavano sul mio Lario, oh! chi m'avrebbe detto che assai più tremende, dovevano essere le tempeste dell'anima mia! 1 d'ottobre. La pace ritorna. La vita stanca e travagliosa qui si rintegra, si rinnova nella calma di questi bei giorni dell'autunno; e il sole tranquillo che indora le spalle della montagna rimpetto alla mia finestra, sembra mandare il benefico riflesso della sua luce nell'anima mia. Da tanto tempo io non poteva godermi una contentezza così salutare, così vera. E se vuole il cielo che passino per me soltanto pochi mesi di raccoglimento e di pacifica meditazione, senza che si risvegli a conturbarmi lo sdegno d'una vita costretta a consumarsi nella lunga aspettativa de' giorni promessi da Colui che venne ad abitare fra gli uomini, e fu vera luce dell'universo; allora forse la modesta missione che a me fu posta mi parrà più bella e sacra, perchè dimenticata e disprezzata dal mondo; allora forse Dio mi perdonerà il passato, e terrà conto del mio sagrificio. Coloro in mezzo a' quali vedrò scorrere la breve mia vita terrena, mi amano e mi vengono intorno. con rispettosa attenzione; ma non sanno ch'io non potrò render loro per questo affetto altra cosa che poche parole a confortarli nelle sciagure. Ben vorrei, come ne sento gran bisogno nell'anima, aprir coll'eloquenza della semplice verità i loro intelletti, far ragionevole il loro ossequio alla fede, scendere nel fondo de' loro cuori, e suscitarvi quella scintilla che li renda migliori di quel ch'essi sono, di quel che furono i padri e gli avi loro. Eglino sono contenti del poco, è vero; ma intanto anneghittiscono nella povertà, disimparano ad amare coloro che soffrono, ad amare il ben comune, per quell'affetto più augusto, più fiacco, direi quasi per quell'egoismo che li fa attaccati alla loro famiglia, al campanile della parrocchia, alle povere glebe della loro vallata. Ma pure chi sa che, procacciando di migliorare, per quanto è da me, gli umili destini di codesti montanari, io non dovessi invece riuscire a farli men felici, o men rassegnati di quel che sono? — 2 d'ottobre. Oggi, con dolor profondo mi toccò d'esser testimonio d'una contesa fra due mandriani, che mi persuase quanto sia pur troppo insensata e forte fra gente d'uno stesso paese quella vecchia ruggine, quell'inimicizia che sembra aver posta radice eterna nel cuor degli uomini, e più che in ogni altra in questa nostra patria. Uno de' due mandriani è nativo di questa, l'altro di valle San Giacomo: son vicini, son fratelli, parlano lo stesso dialetto; eppure serbano tuttavia quel rancore che separò i loro padri, che accese tanto fuoco di guerra in queste pacifiche contrade, che fece sparger tanto sangue e pianger tante madri. Sedevano sulla medesima panca di legno fuor dell'osteria, e bevevano alla stessa mezzina. Una sola parola di dispetto, una pretesa di soperchieria per causa d'una capra comperata o venduta attizzò la discordia: maledissero i loro paesi; maledissero i parenti e lo stesso Dio che li vede. La collera li fe' ciechi l'un contro l'altro, e dalla bestemmia e dal vile insulto sarebbero venuti alle coltella, se il mio braccio, più forte della mia parola, non fosse giunto a tempo di domar la selvaggia loro natura. O mio Dio! È dunque vero? anche qui, anche ne' luoghi dove la vostra onnipotenza parla all'intelletto e al cuore con le meraviglie d'una natura vergine ed austera, la cattiveria e l'odio faranno germogliare la loro trista semenza? L'uomo, la vostra creatura grande e misera è lo stesso sempre e in ogni parte della terra? Dal tempo del primo fratricida il cuore umano non s'è dunque mutato?... Qual profondo mistero in ogni cosa! — E noi che siamo sì piccoli, noi che strisciamo per un giorno, come l'insetto, sulla faccia della terra, vorremo con audace intenzione sollevar la fronte insino a Voi, interrogarvi, e pretendere che il buono e il giusto trionfino a questo mondo?... O Signore, tenete la vostra mano sul nostro capo, e dissipate il fumo dell'orgoglio che n'accieca. Le generazioni vengono, passano e scompaiono per sempre dalla terra ove tennero dimora. Chi potrà dire di qui a mill'anni i popoli che saranno sepolti sotto a questa parte di mondo?. L'Alpi e l'acque e tutta la contrada che mi circonda non hanno forse mutato anch'essi e rimutato aspetto e natura? E noi andiamo fantasticando dietro all'ombra d'un nome, dietro al sogno d'una patria, e confidiamo sia adempiuta sulla terra che invecchia sempre quella promessa che, sola non può morire?... Quest'ampia regione di monti che fu agli antichissimi tempi la stanza d'un popolo solo, se pur non mentono la tradizione e la storia, vide ne' tempi a noi più vicini la lotta di due razze diverse e mortali nemiche fra loro. Il Valtellino abborre ancora il Grigione; nè vicinanza, nè signoria, nè forza di guerra o di pace poterono mai operare che codeste due genti ne facessero una sola. Per questo forse la scissura fatta dalla riforma luterana fu origine d'una delle più lunghe, sanguinose e feroci rivoluzioni che l'Europa abbia veduto mai. — Un dabben montanaro m'additava, non ha molto, sull'alta cupola della chiesa della Madonna a Tirano la bruna statua di san Michele, colla spada in pugno, e, — Vede lei, dicevami nell'atto di farsi il segno della Croce, vede, egli è quello là il Santo che tenne lontano da questo paese la peste de' luterani!... Io nulla risposi; ma andava pensando nell'anima mia alle molte e triste cagioni che hanno fatto d'ogni lembo di terra cotante patrie diverse. 27 d'ottobre. Io mi proposi d'adoperare il tempo che mi sopravanza, dopo compiuti gli obblighi sacri del ministero, nell'andar cercando di sito in sito fin dove mi sia concesso inoltrare nelle quotidiane e solitario mie peregrinazioni, le reliquie de' secoli passati, le tradizioni antichissime che son vive tuttora nelle povere capanne del mandriano e del carbonajo sugli altipiani e ne' diroccati casolari degli umili paeselli; nell'andar raccogliendo le semplici cantilene delle fanciulle montanine e le pie leggende delle vecchie filatrici; nel visitar gli avanzi rovinosi e pittoreschi di qualche feudale castello di cui più nessuno sappia il nome; e gli abbandonati cimiteri e le lapide votive; e più di tutto nello studiar quelle antiche patriarcali costumanze, che sono come il simbolo della giustizia nelle famiglie, la religion vera del passato. Dachè incominciai, senz'alcuna pretensione di sapienza antiquaria, queste utili e studiose ricerche, la mia vita ben più occupata e operosa che prima non fosse, assorta nel meditare e nello scrivere, invogliata dalle prime scoperte a novelli e più forti studii, si ricompone in quella temperanza equanime di volontà e di sentimento ch'è la miglior medicina delle avverse cose. Son quasi corsi due secoli dalle terribili guerre che per furor di politica ricoperta del manto della religione, disertarono queste contrade; e la memoria della rivolta qui sopravvive ancora; qui suona ancora sul labbro de' fieri Valtellini la bestemmia antica contro il luterano; qui l'odio rugginoso verso le tre Leghe Grigie, alimentato dalla contesa proprietà del territorio, non è spento del tutto: mentre nessuno più si ricorda della tirannide spagnuola che, sotto colore di protezione, soffiava alimento a' dissidj, e col pretesto della fede calpestata e della santa causa della religione rinfocava le moltitudini alla riscossa. E guai, allorchè un popolo si solleva in nome della fede de' padri suoi!... 15 di novembre. In questa solitudine, altro io non desidero che la fedele compagnia d'un amico che riceva nel suo cuore la pienezza del mio, che meco divida il segreto del dolore e della speranza, e mi riconforti e sostenga ov'io ricada, come pur troppo avvien qualche volta, negli antichi terrori, in quelle fatali malinconie che m'avvelenarono l'anima non ancor del tutto guarita. Ohimè! basta un giorno solo di dubbio e di fiacchezza, un'ora sola d'interiore viltà per ripiombarmi in un mar d'incertezze, per togliermi la pace appena ottenuta coll'assidua fatica dello spirito. Tornato a casa col cuor pieno di rancore e di pianto, trovai la Bibbia sul mio tavolo: a caso l'apersi e mi venne sott'occhio quel lamentoso e poetico salmo, con cui il profeta ne' giorni della persecuzione confidava l'anima sua al Signore: — «Io mi confido nel Signore. Perchè dite voi all'anima mia: Ti trafuga, come il passero al monte? Poichè gli empi, ecco, han teso l'arco; apprestarono le saette nella faretra, per saettarle contro a' retti di cuore in luogo scuro. Dopo che ruinarono ciò che voi avete fatto, e che mai poteva il giusto? Il Signore nel suo tempio Santo, il Signore ha la sua sede nel cielo. Gli occhi suoi veggono il povero; le sue palpebre interrogano i figliuoli degli uomini. Il Signore interroga il giusto e l'empio: colui che ama l'iniquità odia l'anima sua. Pioverà lacci sugli empi; fuoco e zolfo e procelloso turbine è porzione del loro calice. Perocchè il Signore è giusto, e amò la giustizia; e la faccia di lui riguarda all'equità.» — Che altro avrei potuto dire al Signore, fuorchè offerirgli dal profondo anche per me questa santa preghiera?... 21 di novembre. Ho riveduto il solo amico che mi rimase della mia giovinezza, l'uomo ch'io amo e onoro come padre e fratello, quell'amico a cui la sorte, o per dir più vero la provvidenza di Colui che scruta i cuori, parve volesse congiungere per sempre la mia vita con quella catena di gratitudine ch'è più forte della vita stessa. E l'averlo riveduto una volta dopo lunghi mesi, e per solo un giorno, mi fece sentir ben più doloroso e vivo quel bisogno di fratellanza e d'amore che fu il primo tormento dell'anima mia. Con lui, coll'uomo il più modesto, il più degno di fede ch'io m'abbia conosciuto, parlai di quel tempo che non tornerà più per noi; e sentii riaprirsi una dopo l'altra tutte le mie ferite. Ed ora ch'egli se n'è ito e ch'io mi trovo nel mio romitorio, solo ancora, al cospetto delle grandi e severe ombre de' tempi andati, sento in me medesimo vergogna e dolore d'aver rimpianto un'altra volta con l'amico le mie giovanili vicende; e mi pesa, direi quasi, d'essermi abbandonato così ad una soverchia ed intempestiva effusione del cuore. Ecco qual povera cosa siam noi! Io stimava d'aver domo e vinto per sempre il mio passato, mi credevo forte, impassibile, e tetragono, come dice il poeta, a' colpi della sciagura. E invece, poche parole di malinconici ricordi e poche lagrime versate in un momento d'abbandono e di fralezza, mi rapirono il frutto di tanto volere e di tanto sacrifizio. Che avrà detto, o pensato di me l'amico mio?... Egli, forse, mi trovò ben mutato da quel che fui; o forse più non mi stima che un cuor debole, inetto alle grandi prove dell'esistenza, un povero illuso, un fanciullo! Ma se all'opposto fosse tutto amor proprio, fosse superbia che m'accieca questa brama di comparire agli occhi dell'amico altro da quel che sono? Non fu egli che m'aperse il cuor suo e la sua casa, che mi prodigò tutto quanto la santa amicizia può dare, che mi restituì il coraggio di vivere, e mi strappò alle braccia di morte che mi voleva far suo?... Egli sedè le intere notti al mio capezzale, allorchè lottando col male e venuto quasi all'agonia io delirava e diceva parole di furore e di pianto alle mie fatali speranze, alla tradita mia giovinezza, alle mille ombre che dì e notte m'assediavano. Egli stesso con occhio sapiente studiava intanto il lampo del mio sguardo e il pallor del mio viso; con la mano pietosa premeva la mia, contava i bàttiti delle mie arterie e i pochi minuti di posa che la febbre e il dolore concedevano allo strazio de' nervi e allo spavento dell'anima. — Io era solo, povero, lontano da' miei, calpestato da' potenti, umiliato dagli amici, e languente in un letto non mio, sospiravo di finire una volta: ed egli fratello, amico, medico, benefattore, mi fece dono d'una vita perchè tornassi non indegnamente a respirar fra gli umani; egli rimise in pace l'animo mio, e mi rese quasi altero delle sofferte nemiche fortune. Su quel desco, ove con esempio raro di vera grandezza quell'uom saggio e buono aveva con me spartito il suo pane e profferta la metà della sua tazza, io scrissi le pagine consacrate alla gloria d'un Grande che non è più; e a quelle pagine io poneva in fronte il nome dell'amico venerato e caro. Nullo di più m'era concesso. Ma questo nome che i piccoli e i buoni conoscono, questo nome che l'orfanello e la povera femminella impararono da tanto tempo a benedire, era per me il solo degno d'unirsi a quello del sommo genio italiano, per il quale fu rinnovata l'arcana scienza della natura e il nome della mia patria non morrà mai[2]. Così, io non vendei la memoria intemerata della sapienza all'oscuro dovizioso o all'indegno possente; non infransi l'aureo simulacro della gloria, per fonderne la corona all'infamia: ma di quel nome altissimo io feci l'umile ghirlanda della gratitudine al beneficio. . . . . . . . Amico mio.[3] — M'è di grande consolazione il poter tornare a te in questi giorni d'amarezza e di prova, ne' quali anch'io, come Colui che portò tutti i nostri dolori, posso quasi dire: L'anima mia è trista fino alla morte!... Io vivea qui dimenticato, e non potei dimenticare. Le passioni degli uomini tornarono a visitarmi nella solitudine, ed io ascoltai quelle voci che altre volte avevano conturbata la mia giovinezza: ed un affetto ch'emunge le forze dello spirito e rimpicciolisce le idee dell'umanità e dell'infinito si risvegliò nel mio cuore, ove forse non ancora spento del tutto consumava non veduto le più pure sorgenti della vita, siccome fuoco che vive addormentato sotto la cenere. A tanto mio dolore s'aggiunse una piaga novella, il rimorso: poichè io sono ancora talvolta il trastullo d'una fuggitiva larva di bellezza; e mi trovo così debole e vile in faccia di me stesso che parmi nessun sagrificio esser poco, per ricompormi quest'avvenire ch'io voglio e non so disprezzare, che fugge sempre più da me lontano, e si porta con sè a brano a brano la mia vita. Tu sai la compassionevole vicenda che mi persuase di rinunziare alle facili glorie concesse dal mondo a chi appena sappia lusingar le inezie del suo tempo, e farsi campione del vizio imbellettato di virtù.. Io volli sposar la parte di coloro che patiscono; e nato povero e nudo, morrò povero e nudo. Perocchè non per nulla avrò detto addio alle splendide fantasie dell'arte, alle severe meditazioni della scienza, a' giorni tempestosi e ardenti della gioventù, alle grandi speranze dell'uom pellegrino in cerca della verità, a tutto quello che formò la poetica visione de' miei vent'anni.... Amore, amicizia, patria, sapienza, gloria, non bastano per legarmi a questa vita; più non sono per me altro che il primo batter d'ale che fa l'anima nostra verso l'infinito, il simbolo della virtù eterna, di quel bene che non alligna in terra, perchè la terra ritornerà nel suo nulla, e il bene è immortale. . . . . . . . Amico! — V'ha qualche ora nella quale credo che Dio non abbia accolto il suo servo: e parmi ch'egli maledica come opera di superbia, ovvero di disperazione questo sacro e terribil dovere ch'io m'assunsi (io così pieno ancora di ribelle volontà, di mortali odii, d'inutili speranze) d'annunziare agli uomini la sua verità, il giorno del suo regno. Allora lo spavento e l'angoscia incurvano la mia fronte; io vo' cercando i luoghi più solinghi e dirupati di quest'Alpi selvagge; io piango senza trovar sollievo dal piangere, e dico nel mio cuore: O Signore! come, potrò recar la tua pace agli uomini, io che non ebbi mai pace per me!... In tali giorni d'abbandono e di miseria morale, ben io tento di temperar l'interno patimento colle dolci distrazioni della lettura e dello studio, tornando ad evocar le belle imagini della poesia, le grandi ombre di coloro che parlano il vero e furono infelici, e infelici ben più ch'io non sia! Ma anche la poesia è morta nel mio cuore... . . . . . . . — Io aveva fermo nell'animo di non tornar mai più agli antichi prediletti studi della poesia; io voleva darmi tutto alle austere contemplazioni della sacra scienza, che sola ormai può consolarmi de' tanti disinganni provati, delle stolte speranze umane, delle menzognere imagini evocate dall'inquieta fantasia che vuol levarsi nella regione dell'impossibile... Eppure, in questi dì, tornai alla poesia, al culto di quell'arte che mi rende ancora così belli gli anni giovenili. Rovistando fra vecchie carte, rinvenni abbozzi di novelle poetiche, di poemetti, di canzoni, di tragedie; sorrisi di me stesso e de' sogni miei, rileggendo que' miseri brani. Mi sembravano come le macerie d'un edifizio caduto in rovina prima che di poche braccia sorgesse dal terreno. Mi provai a scrivere; ma sarà in vano. La letteratura del nostro tempo, se ne togli pochi i quali temono di mostrarsi fra gli altri per la coscienza di una virtù intemerata, ma pur tremante e sdegnosa, è fatta per tutt'altro che per educare il cuore ed innalzar la mente alla vera grandezza. È una letteratura smascolinata, come quell'arcigno del Baretti direbbe, una letteratura da canapè, buona tutt'al più per i gabinetti delle damine svenevoli e profumate. Nondimeno scrissi anch'io: ho gittato giù l'abbozzo di due tragedie. Nell'una il Buondelmonte, vorrei dipingere, a diversità degli altri che tentarono lo stesso tema, l'origine della fiorentina repubblica, e il fiero carattere del Mosca, «Che disse: Lasso! capo ha cosa fatta.» Nell'altra, il Procida, vorrei mostrare quanto possa amor di patria in lotta coll'amicizia e coll'amor paterno. Ma le mie forze non basteranno, lo temo, all'altezza del concetto. . . . . . . . Quando nè lo studio nè la contemplazione della natura valgono a tormi dal cuore il peso che vi sta sopra da lungo tempo, allora prendo la penna per scrivere a te, amico mio, a te che sai la storia della mia vita, e solo fra tutti puoi compatire al solitario prete, all'uomo il quale nulla più domanda su questa terra tranne di vivere nella memoria onesta de' pochi montanari che fanno la sua famiglia. Allorchè seppi rinunziare alle illusioni della mente superba d'aver vestita di novelle forme la vecchia filosofia del dubbio, quando parlai agli uomini di quella religione di fratellanza e d'amore che sola può apparecchiar l'avvenire, coloro che stavano in alto gittarono la vergogna e il disprezzo sopra di me. Avrebbero voluto che la mia fede si facesse serva delle imposture mondane e delle rugginose pretensioni della forza: io cercava d'abbracciare il povero e l'oppresso, che al par di me pativano e pregavano; ed essi mi rinfacciarono la ferrea legge del fatto, mi presentarono agli occhi de' miei fratelli come un sognatore irrequieto, come un uomo perduto dietro i delirii dell'umano pensiero, dietro le novità della filosofia e della religione. E i miei fratelli risero di me. Allora io non poteva più ritornar fanciullo e raccogliermi nell'innocenza della vita e della speranza; e sapendo già, per averne fatto duro saggio, quel che fosse il mondo, sentii tutta l'amarezza d'una vita inutile e tormentosa. Ma al tempo stesso una grande e nuova luce d'amore s'era fatta dentro di me, nel profondo: e in questa si rintegrò la mia fede a poco a poco; e, divenuta matura, la ragione unì i pochi e deboli suoi sforzi a quelli di tanti e tanti che combattono quaggiù per la causa dell'onestà e della giustizia. I miei mali cominciarono a parermi ben picciola cosa al paragone de' molti e grandissimi che aggravano l'umanità, e fui persuaso da quel momento che ognuno il quale cammini con semplicità per la via su cui la Provvidenza lo mise, nè mai rinneghi sè stesso, nè venga a patto con la propria coscienza, potrà dire un giorno: O Signore, anch'io feci la mia parte di bene, e vissi sempre nella fede, nella speranza, e nell'amore! — Perdonai da quel momento all'uomo che col suo tradimento m'aveva ferito nella più viva parte del cuore: mi gittai nelle tue braccia, t'apersi tutt'i miei segreti; e tu mi donasti il coraggio di vivere e d'operare. Gli uomini mi calunniavano ed io li amai; essi mi respinsero; e chinai la testa; poi venni a nascondere in questa povera valle il mio oscuro ma innocente apostolato. E oggi anch'io ripeto a te le dolorose parole che un moribondo amico mandava a me lontano: Fra me e te esiste un legame che la morte non rompe!.. . . . . . . . Mio buon padre. Nel mio romitaggio, sento il bisogno di tornare a voi, di venir col pensiero all'umile casa ove nacqui, a quel paradiso de' miei anni infantili che si specchia nell'acque purissime del lago. Io veggo, padre mio, il vostro incredulo sogghigno a queste poetiche ricordanze; ma se vi dirò che la nostra casetta, dove abita mia madre, dove, nascosta come la rosa silvestre, si fa bella e grande la buona Angioletta, è il più sacro, il più desiderato angolo della terra per me che pur vidi molto e molto conobbi, forse non sorriderete più così, e darete un pensiero anche voi, un pensiero di compassione alla tristezza che bene spesso viene a tenermi compagnia. Non è già ch'io mi lagni della mia condizione, e del trovarmi qui solo, in povera e lontana contrada, dopo che i primi augurii della vita m'avevano promesso ben diverso avvenire. Sulla via ch'io tentai d'aprirmi, ardente qual fui di volere e di fiducia, ma scarso pur troppo di virtù, non trovai altro che spine; e m'avvidi che nell'ampio teatro del mondo il poco ch'io poteva fare m'avrebbe alla fine guadagnato le ire e le maligne persecuzioni di chi s'adombra d'ogni franca e generosa parola, di chi suol chiamar delitto il coraggio d'alzar la testa contro le prepotenze umane e quelle della fortuna. Per questo, benedissi come venuta dal cielo l'inspirazione che mi condusse qui, fra i poveri e i semplici, qui dove soffrono e aspettano, come la più gran parte degli uomini, tante creature per le quali morì sulla croce Colui che aveva pur detto a tutti: _Io sono la via, la verità e la vita!_... Vi ricordate? la prima volta ch'io ho voluto parlar da un pulpito, con nuovo ardimento, di certe grandi verità delle quali non sarà mai strappata la radice della terra, delle mie parole si prevalse il fanatismo, le condannò il fariseo e ne fu scandolezzata la debole virtù. Così sempre avviene; ed io non voleva chiamar sulla casa di mio padre, sui vostri bianchi capegli il turbine che di subito sorse a minacciarmi; pensai a mia madre, a mia sorella, e obbediente a chi mi percoteva, rinunziai ad ogni gloria e mi tenni abbastanza felice di questa parte che Dio m'aveva ancora serbata. Qui i buoni alpigiani mi conoscono e mi riveriscono come padre, m'ascoltano e mi amano come fratello; qui m'è consolazione il pensiero di quel filosofo: _Se utile non è quel che facciamo, stolta è la gloria_. Ma non più di questo.... . . . . . . . Ringrazierete per me l'Angioletta di quella cassettina contenente poche cipolle de' panporcini de' nostri monti, ch'essa mi mandò per il Bernardo l'ultima volta che capitò al paese. Direte a lei e alla mamma che non si scordino di me nelle loro orazioni grate al Signore; io non n'ebbi mai tanto bisogno come in questo momento. Se mai tornasse a vedervi l'amico mio P*** e vi domandasse di me, ditegli che i poveri miei nervi risentono ancora a quando a quando le fiere commozioni patite, e che la mia testa qualche volta non è a segno del tutto; ch'egli stesso mi scriva se le lunghe peregrinazioni ch'io vo facendo ogni dì per questi monti, possano o no di soverchio abbattere le mie forze e fare in me effetto contrario a quello ch'io m'era promesso. Un'altra cosa vi commetto per la mia cara sorella. Ella sa dove stanno i pochi libri che innanzi partire lasciai, fra l'altre cose mie, in quella che fu la mia povera e beata cella. Nello scaffaletto a manca dello scrittoio, vicino alla finestra, troverà alcuni vecchi volumi giallognoli e mezzo rosi dal tarlo: sono i cari e preziosi amici della mia passata gioventù. Fra essi v'hanno due libri rilegati in carta pecora e intitolati l'uno: I soliloqii di sant'Agostino, e l'altro La Citta' di Dio. Nell'armadio situato nell'angolo dov'era il mio letto, ne troverà pure alcuni altri più vecchi ancora, fra cui un volume delle Opere di san Tommaso ed uno di quelle di Sant'Ambrogio; e un altro più piccolo, al quale manca il frontispizio; è il Trionfo della Croce di fra Girolamo Savonarola: quest'ultimo lo conoscerà dal mio nome scritto di mia mano sull'ultima pagina, sotto ad un braccio che tiene impugnata una spada e che vi disegnai quand'ero chierico ancora. Se l'Angiola riesce a raccozzare quel piccol mucchio di libri, ne' quali pongo tutta la mia speranza per quest'inverno, voi, mio buon padre, farete di trovar modo a spedirmeli al più presto nel modo che vi par meglio; io ne pagherò lo spendio all'uomo che me li porterà. . . . . . . . Mio padre. Vi raccomando quel che già vi scrissi nell'altra, di tener sempre presso di voi le lettere che per me venissero alla posta di Como, e di non darle in mano di nessuno, fuorchè del Bernardo che verrà a pigliarle alla fin del mese a mio nome. Se ve'n fosse alcuna pressante, questa potrete consegnarla all'amico mio P*** che sa il come mandarla a questo mio nido di montagna. Dite a mia madre, che al tornar della primavera ho speranza di venire a casa per qualche dì: che veggo il momento di sedermi ancora, come quand'ero fanciullo, vicino a lei sugli scalini della nostra porta: e che le farò raccontare un'altra volta la storia de' poveri morti di Torno. Oh! quante memorie leggiere, fuggitive, tessute, come tutte le cose della nostra vita, di piccole gioie e di grandi dolori, mi rifanno dinanzi al pensiero tutta l'età passata, e mi sforzano a piangere un'altra volta!... Perchè non sono io nato che per invocar la benedizione del Signore sopra coloro che denno trovare ogni lor bene nel patimento mitigato dalla speranza?... Io la sentiva nel mio cuore una fiamma più ardente, l'alito della fede, il coraggio di morire per i miei fratelli!.... 2 di maggio 18..[4] «Niuna cosa violenta può esser perpetua.» E fino a quando vedrò sulla terra il trionfo del male? O Signore, tu rovesci i potenti dal seggio, ed esalti gli umili; ma tu dicesti ancora: il regno mio non è di questo mondo. Noi dovremo dunque piegar sempre la fronte, come in atto di vile osservanza, in faccia alla malizia che si veste di pompose apparenze, che vince la semplice onestà colle sue compre lusinghe, o colla ipocrisìa, la peggior delle tirannidi?... Combattere la forza brutale che non concede alla stanca umanità di sollevare il capo da quella nebbia d'ignoranza in cui da secoli le misere generazioni son costrette a vivere, o piuttosto a morire; parlare in nome di Quegli che spirò sul Calvario annunziando agli uomini che son tutti fratelli, e figliuoli dello stesso Padre che ama e perdona, è una grande e dolorosa parte che a pochi fu dato di compire sulla terra! Il tempo, come spaventoso torrente, trascina via con sè gli uomini e le idee; pochi nomi benedetti, poche sante e divine parole rimangono appena a far testimonianza del passato, a fermar la promessa del futuro. Avventurato chi visse nell'aspettazione de' tempi migliori, procacciando intanto ed operando il bene, come se dovesse da un dì all'altro fruttare! Dio ha veduto il cuor suo, Dio raccolse le sue lagrime; e quando seduto in disparte, come Geremia, stette solitario e tacque, Dio gli perdonò il silenzio e la luce del cielo venne sopra di lui. Ed il suo cuore sollevò un'altra volta quel profetico lamento: — «La parte mia è il Signore; e per questo io l'aspetterò. Buono è il Signore all'anima che in lui pone speranza e lo cerca. Buona cosa è procacciar nel silenzio la salute del Signore. Buona cosa è all'uomo il portar il giogo nella sua giovinezza. Siederà solitario e tacerà; poichè Dio gl'impose il suo carico. Metterà la sua bocca nella polve, cercando se vi sia speranza. Porgerà la guancia a chi lo percuote, sarà pasciuto d'obbrobrio. Perocchè il Signore non lo respingerà da sè in sempiterno. E s'egli affligge, ha pur compassione, secondo la moltitudine delle sue misericordie.» 12 di maggio. Qual nuova e più grave sciagura sovrasta a me o ad alcuno de' miei cari. Io n'ho da parecchi dì il doloroso presentimento; poichè la pace gustata per alcun tempo, alle forti contemplazioni della scienza, infiammatrice dell'intelletto, alla soave poesia della natura è succeduta nell'animo mio l'amarezza delle cose, la codardia del dubbio, e quasi una paura di me stesso. Questo fu sempre per me il presagio di un tristo giorno della vita. I miei vecchi volumi non mi racconsolano più; non mi sembran più che vani, indicifrabili enigmi, i quali altra cosa non mi fanno certo, se non che quaggiù nulla è certo. Non posso scrivere, non posso nè manco pensare... 19 d'agosto. Io mi reputava sì forte, sì provato della vita, e padrone di me medesimo da sostener con fronte serena e animo tranquillo ogni e qualunque nuova e più dura sperienza; e dopo essermi seduto tante volte al capezzale della morte, dopo aver veduto spirar nel bacio di Dio tante infelici e candide creature, e aver accompagnato sulla tremenda soglia dell'eternità tanti uomini ciechi del bene, travagliati dal patimento, consunti dalla disperazione o dal rimorso, io credeva che più nulla d'umano potesse conturbare ancora i miei pensieri. — Deh! che cosa è mai l'uomo, se tu nol visiti colla tua forza, o Signore? Oggi, dopo molti anni, il caso o piuttosto il volere di Chi tutto dispone per il bene, ricondusse a me dinanzi quell'uomo che forse fu la prima cagione di tutte le mie disgrazie. Io gli avea dato nella generosa effusione del mio cuore giovine ancora il santo nome d'amico; ed egli lo ha rinnegato questo nome così bello! Egli mi rapì la prima, la più poetica lusinga della vita, l'amore; mi derise con una crudele indifferenza nelle innocenti mie illusioni; e a coloro che poco m'amavano, se pur non m'odiavano già per la naturale ed avventata libertà del pensiero, per quello ardimento che di rado è scompagnato da un cuore acceso del desiderio d'operar qualche cosa a pro d'altrui, egli pose in mano de' potenti il segreto che doveva partorirmi l'infamia, o farmi morire!... Ma, come Dio anche quaggiù non consente sempre la vittoria ai cattivi, io, povero, oscuro e calpestato verme, fui più forte di coloro che si levarono a stormo contro di me. Vinsi l'impostura e l'aperta menzogna: poi mi ritrassi a piangere il mio passato nel silenzio della casa del Signore, e perdonai. Perdonai, sperando che Dio a me pure perdonasse. Ed Egli m'avea dato codesta pace; e fatto puro il mio cuore del lievito dell'ira, parevami d'avere in me spogliato per sempre il vecchio Adamo. La mattina era bella. — Per sollevare i pensieri dal peso delle angosce che ne' passati dì m'avevano prostrato siffattamente, m'incamminavo verso il sentiero della selva, dalla parte ove sorgono tappezzate di lambrusca e di parietaria le rovine dell'antica torre lombarda: è là dov'io passo in faccia alle maestose, lontane ghiacciaie dell'Alpi e all'interminato azzurro del cielo le più solitarie e beate ore del viver mio. Appena fuor della porta, un uomo incappucciato in un gabbano da montanaro mi s'affaccia d'improvviso. Io lo guardai; teneva china a terra la fronte, voleva come parlare; e pareva tremasse. — Chi siete? domandai. — Uno che... vi conosce; rispose o piuttosto balbettò, senza levar gli occhi. Quella voce non mi parve al tutto ignota; ma lo strano vestire, la sua dubitazione, lo sgomento con che andava guardandosi intorno, turbarono un poco me pure; e persuaso ch'era ben'altro da quel che i suoi meschini panni mostrassero, me gli feci più accosto e di nuovo il richiesi: — Che volete da me? — Sono un povero fuggitivo; venni a chiedervi asilo. — Ma, signore! ripigliai: nè vi conosco, nè so... — Sì, mi conoscete; è in nome dell'amicizia ch'io vengo a voi. E dicendo così, tolse giù il vecchio cappellaccio che gli copriva mezzo il volto, e mi guardò con aria supplichevole e malcerta. Ancora nol ravvisai. — Per carità, m'aprite la porta di casa vostra! voi, ministro del Signore, abbiate compassione dell'uom fuggiasco, perseguitato... — E qui abbassò la voce, e facendo un passo verso di me, dopo che di nuovo si guardò dietro le spalle: Io sono Alberto ***: io fui vostro amico! Egli era colui che m'avea tradito. Quel che si passava a quel momento nel mio cuore, io non voglio nè potrei scriverlo. Egli dimorò sotto al mio tetto due dì e due notti, nè io gli domandai se fosse innocente, o perchè avesse scelto ricovero nella casa d'un uomo a cui egli avea fatto tanto male e che fors'anco avrebbe potuto restituirgli il suo tradimento. Ah no! mai, mai! Colui che uccide è più misero di chi rimane ucciso: egli mi credè generoso e incapace del delitto di che spensieratamente e per leggiera causa non dubitò farsi reo contro di me. Io non so le conseguenze, le quali per la mia pietà potrei incontrare; ma non le temo. Nè fu pietà la mia, fu giustizia. A lui diedi tutto quel poco danaro che avevo, pregai per esso il Signore, e in quel momento dimenticai tutto il passato. Egli era più che amico mio, era fratello; Dio solo, Dio che mi lesse nel fondo dell'anima, mi giudicherà! Quando volle partire, io gli aveva stesa la mano e lo contemplava fissamente senza far motto. Mi parve commosso, soggiogato dalla memoria di quel che fu tra me e lui: mi guardò egli pure, poi mi si gittò al collo, e pianse. 3 di maggio. ..... Nessuna novella del fuggitivo. Che il cielo l'accompagni! Il mio cuore s'è allargato nella pace di prima. Io sono rassegnato e tranquillo nella mia coscienza. Non so spiegarmi il come non ricevessi ancora riscontro alcuno da *** e da *** alle ultime mie lettere.... . . . . . . . «[5]Molti presuntuosi reputano impossibile tutto ciò che per loro o non si sa o non si fa; moltissimi considerano le grandi cose che non intendono o che non sono capaci di operare, come inutile fatica d'un esaltato fanatismo; e stanchi prima d'intraprendere, si addormono sui morbidi ma dannosi letti dell'ozio. Tanto è superbo l'amore di noi stessi per non confessare la propria ignoranza e la propria debolezza; tanto è artificioso per giustificarla; tanto è ingiusto per assolverla. Frattanto l'infingardaggine si scusa colla pretesa impossibilità alle grandi cose, per non confessare il timore dell'utile fatica; ed il vizio colla pretesa loro inutilità, per non denunciarsi da sè medesimo vile ed iniquo; l'infingardaggine ed il vizio diventano costume: e perchè ciò che non è il costume dei più, sia tristo, sia buono, si chiama fanatismo e pazzia, ogni bello e generoso ardire vien collocato indegnamente in quest'ultima classe.» ... «L'uomo contempla rappresentata ne' grandi genii, in una pompa la più solenne e nella sua più illustre magnificenza, la propria natura: una sublime compiacenza lo fa inorgoglire delle proprie forze; l'animo s'eleva ai più ardui concepimenti; il cuore s'infiamma ai più scabrosi sperimenti; nulla più si tollera di mediocre senza una nausea mortale ed un magnanimo disprezzo.» ... «Nella rivoluzione de' tempi occorrono età così sciagurate per corruttela di costume, e così impudenti per abitudine di vizio che portano in trionfo la colpa, infamemente la collocano sugli altari della virtù, e, per averle cangiato nome, reputano di purgarsi da sacrilega idolatria. Allora, gentilezza di modi le mollezze, gloria l'oro, modestia la viltà, prudenza il timore, umiltà la codardìa, obbedienza la venalità, senno il raggiro, economia l'usura, avvedutezza la frode, laude l'adulazione, belle arti la lussuria: in una parola, la colpa virtù. Tale è il rovescio miserando e scandaloso che si fa d'ogni buono in cattivo, quasi che per mutar di vocabolo mutino le cose: ma dando così chiaro a vedere che ogni uomo sente che non è stromento di scelleratezza, e che tale è necessità per esso la virtù che il delitto non abbraccia se non colorato dalle tinte di quella. Anche scellerato, ama d'ingannarsi che non è: epperò, perdendo la virtù ne conserva la divisa, onde molta è la ciurma degl'ipocriti: e così, se dappertutto ove sono uomini il delitto ha schiavi, in nessun luogo regna a fronte scoperta. Quindi accade che, se in così fatti tempi sorge un magnanimo amico della virtù e del vero, tutti se gli fanno intorno co' sassi; ed è ben conseguente, perocchè se giunga face là ove tutti han bisogno di tenebre per ascondere la colpa, tutti si sforzano di spegnerla subitamente. Delitto dell'amore di noi medesimi, che giustificando i propri errori è pur uopo che le virtù contrarie condanni per evitar contradizione: sicchè in cuore invidia l'altrui virtù, e col labbro la lacera e la condanna. Del resto, la verace virtù che passeggia nel mezzo alla finta, tacitamente denunzia la colpa nascosa sotto le sue larve, e coll'opera del paragone squarcia la veste dell'impostura la più veneranda e la più astuta. Allora si distingue la virtù dall'ipocrisia che fa studio d'imitarla, coll'eguale facilità che un re da scena da un re da trono, ed è per questo che in tale condizione di tempi la virtù e la sapienza sono guardate come due possenti nemiche; ed è per questo che solo compaiono attraverso lo squarciato manto d'un'illustre povertà; e che sempre le ritrovi fuggiasche sulle spinose vie della persecuzione, e spesso ancora fra le catene e dentro la carcere dell'omicida e del ladro.» ... «Le grandi speranze e i grandi sforzi sono de' generosi; le forti presunzioni e i deboli attentati de' superbi... Io tutto spero, tutto tento, nulla presumo!» ... «Se è vero che dal conoscere scende ogni volere e dal volere ogni operazione umana, con cui si satisfa all'inesorabile bisogno, si accontenta il desìo insaziabile e si verificano le indelebili speranze, e nella cui somma soltanto può essere riposta quella felicità ch'è data ai mortali; se è vero, io dico, tutto questo, debbe scusarsi la nostra curiosità che tutto ad un solo sguardo vorrebbe possedere lo scibile umano. Anzi questa curiosità io la reputo come il possente motivo onde la natura invita l'uomo a ricercarla nel sacrario della scienza: come col desio della felicità lo spinse alle perenni agitazioni delle sorti mortali. Quindi è che, una volta messa sulle vie delle indagini per un sì grande impulso, non già s'avanza gradatamente e con tarda saggezza, contenta ad un vero discreto; ma impaziente delle sagge dimore della riflessione, si avanza baldanzoso, prima fidata al solo probabile, poi al verosimile, ed in ultimo anche al falso in colore di vero; e così per volere acquistare la vetta per la più spedita via, corre la più lubrica; e correndo questa bene spesso ritombola al basso. A spogliar la cosa di veste metaforica, fatto è che quando cessa il vero ce lo fabbrichiamo coll'ipotesi del nostro cervello; e vien poi una demenza filosofica che delira argomenti in suo soccorso; i quali, accreditati dall'umano orgoglio e dall'umana ignoranza, gli ottengono la cittadinanza del vero; e così, come dicevano i Greci, si abbraccia la nube per la diva. — Non già ch'io abborra dall'uso giudizioso dell'ipotesi: so benissimo ch'essa sola batte alle porte della verità; anzi m'aggrada quella sua audacia con che la sollecita a parlare e le squarcia il velo più misterioso. Mi rammento di Newton che con essa s'innalzò in mezzo de' cieli e che da esso imparò come due mirabili forze equilibrino i firmamenti. Io abborro che lo stromento diventi la cosa, che la via si reputi a meta, e voglio che l'ipotesi non si usurpi nome di realtà, ma che con felice metamorfosi si cangi in essa. Ma pur troppo più persuadono i nomi che le cose: onde il fatto inesorabile bene spesso appalesa le gradite menzogne di noi stessi: _decipimur specie recti_.» .... «La feconda meditazione de' grandi, tacita e nascosa ne' suoi preziosi ritiri, non ha nemmeno l'applauso che il saltimbanco ottiene sul trivio; anzi spesso dal volgo le sue sapienti lentezze e le sue cautele da precipitato giudizio s'imputano a colpa e si accusano d'ozio e di pigrizia. Ma i grandi, sdegnosi di piatire con una plebe che ha bisogno d'assiduo cicaleccio per non morir d'inedia sulle vie e ne' fori, ne confondono le menzogne recando in pubblica luce il frutto delle loro nascoste fatiche.» ... «Le più sublimi speranze non bisogna misurar col solo calcolo del corto soffio dell'umana vita. Non bisogna solo calcolar quanto possa l'individuo; ma quanto può la specie, la cui vita è lunga come la sua perfettibilità. L'orgoglio umano è una menzogna quasi sempre nell'individuo; ma spesso nella specie è una verità; è uno sprone a quanto ella di fatto può. Questo esiste in ogni individuo; e ogni individuo, al divisamento, è pari al motivo; ma, all'opera, non potendo quanto la specie, ciò che non sa o non fa lo reputa per un cotale astuto giro dell'amor di sè stesso o inutile o impossibile. — Ma la specie all'opposto può di più che non sappia: ognuno porti quel masso che reggono le sue spalle, e l'edificio s'innalzerà verso il cielo saldo e sublime. Io l'ho detto: Umana perfezione? un sogno: Umana perfettibilità, una via di cui non conosco la meta, ma sulla quale io pure cammino. . . . . . . . . . . «La patria «Empie a mille la bocca, a dieci il petto» Eppure è il centro a cui dobbiamo tendere tutti del paro; e quando l'interesse privato non è congiunto al pubblico, e perde questa forza che tira al centro, la società si dissolve. La patria per tanto è un nome sì augusto, sì venerando, sì santo che al paragone di lui perdono i più bei nomi di ricchezza, di gloria, d'arti e di scienze. Se le scienze si opponessero a questo ch'è il primo de' doveri e delle glorie, le scienze sarebbero un delitto.» ... «Molti, non sapienti ma cerretani, han d'uopo d'ingannare, per non saper istruire; d'apparenza per esser poveri di realtà; però cangiano la cattedra nel banco del trivio; non parlano, ma tuonano; non usano moderato gesto, ma fendono l'aria con tutto il braccio; non dicono cose ma parole; non hanno espressione viva ed esatta del proprio pensiero, ma pomposi e vuoti fantasmi mendicati qua e là; e ravvolgono le loro sentenze nelle tenebre, perchè il lume disvela la loro miseria; si fanno difficili per non essere avvicinati; non si lasciano intendere per timore d'esser conosciuti; non hanno altro merito che quello di strisciarsi dietro una gran toga che copre la loro mendicità; stanno nel breve cerchio del loro zero, coll'importanza di chi siede in un gran regno, simili agli oracoli ch'erano oracoli appunto, perchè nelle tenebre nascondevano la menzogna. E con tal arte d'ipocrisia scientifica sanno ingannare il volgo degli studenti e nel frastuono dell'applauso di costoro nascondere il dispregio de' pochi.» ... «Il problema della vita non si risolve mai interamente che nell'estremo punto dell'esistenza mortale. Ho veduto molti filosofi studiare l'uomo in culla con ogni modo di accurata osservazione: per me credo che lo spettacolo dell'uomo che muore non sia meno importante per la storia del cuore umano, nè meno utile per l'umanità. È certo che la virtù e un premio immortale della virtù non appaiono mai tanto una necessità per l'uomo, quanto al momento ultimo della vita mortale. Questo è l'unico tesoro che non perda il suo aureo colore sulle sponde del letto dell'agonia e nelle stesse tenebre del sepolcro.» ... «Erano ben saggi quegli antichi Egizii che posero un tribunale il quale giudicasse la vita di coloro che morivano, e incidesse le giuste sue sentenze sulle pietre de' sepolcri e sull'arche degli estinti: si passi la corteccia della cosa, e ciò parrà verissimo per molti riguardi. Le parole esistenza e nulla rivelano l'_essere_ e il _non essere_: e l'uomo inevitabilmente tormentato dal desiderio e dalla speranza della felicità, non potendo trovarla che nel sentire, è pur forza che rifugga possentemente dal non sentire; in altro modo che conosca tutta l'opposizione che v'ha tra l'essere e il non essere, tra le parole esistenza e nulla. È per questo ch'egli, non volendo perdere in tutto questa vita mortale alla quale la natura lo congiunse con tanto amore, creò un commercio d'affetti, di misericordie e di soccorso tra il mondo vivo e il mondo estinto: sicchè egli s'illuda di non perdere del tutto dopo l'estremo sospiro quanto ne' travagliati anni della vita umana gli fu più caro, più desiato e più sperato. La natura medesima sembra lo consigli a consolarsi delle sorti mortali; mentre suscitando un fioretto sulla funebre zolla, par che voglia infiorare l'ultimo velo che copre l'uomo. — Il genio colossale degli Egizii fabbrica le piramidi; i Greci, primi amanti del bello, seminano fiori e versano unguenti intorno a' sepolcri; i popoli cacciatori e barbari seppelliscono coll'estinto i suoi dardi e il suo arco, e sospendono sulla fossa di lui i trofei della sua vittoria; e lo stesso sciagurato reo di sangue, spesso prima di salire il patibolo lascia scritto il proprio nome sulle luride pareti della sua prigione. Poichè la prospettiva della vita, tutto che bella e sparsa di fiori, è sempre chiusa da una sepoltura, a noi riesce cara la croce piantata sovr'essa, che conservi il nostro nome e c'impetri una preghiera. — La religione de' sepolcri educa i nostri cuori ai sentimenti i più sacri che formano, per così dire, gli amplessi con cui l'uomo s'unisce in società. La pietà, la misericordia, la gratitudine, l'amore sono provocati, nudriti e rinforzati dalla religione degli estinti. Colui che sente la possa e il fremito che inspira una negra croce, sulla quale leggiamo il bianco nome d'un nostro caro, è forse il barattiere o l'usuraio? — È vero: una vecchierella che al rintocco della campana da morto in sulla sera fa piegar le ginocchia alla figlia di sua figlia innanzi all'entrata d'un camposanto, le segna a dito le croci di quelli ch'essa non vide, le congiunge le tenere mani, e corregge le inesperte labbra che balbettano un'innocente preghiera... oh sì! forse è derisa dall'orgogliosa filosofia che insolente passeggia sulle teste dei popoli; ma essa forse con maggiore utilità fa sorgere in quel tenero cuore i sentimenti delle virtù le più veraci, le più sacre. — » . . . . . . . — «E un'invisibil Vergine del cielo[6] È per l'aura sospesa, e mi risponde Confortando ad amar quella bellezza Che traspar dal sereno eterno riso... Del ciel m'invoglia santamente; obblio Gli atroci disinganni, de' ribaldi L'ira operosa, ed il fatal periglio Di fidente innocenza. Ed ondeggiando Sopra gli abissi del commosso lago Entro un leve battèl, tranquillamente Con lei converso a lungo; e mi rivela Che la calma dolcissima, cui piove La queta notte in cor del mesto, è parte Di quella che nel ciel fra poco aspetto.» 7 d'aprile 18.. Eterno Iddio! abbi compassione della mia vita!... Ho ricevuto or ora una lettera di mia sorella. M'annunzia che il mio povero e vecchio padre sta molto male, e che desidera vedermi ancora una volta prima di morire. O Signore! dammi ch'io possa arrivare in tempo! dammi ch'io possa compiere anche questo penoso e santo dovere!.... . . . . . . . III. COMMIATO. Intanto ch'io scorreva cogli occhi e col cuore quel manoscritto, che a me fu caro ben più di quanto parrà agli altri che lo leggeranno, il dabben pievano s'era chetamente addormentato nel suo seggiolone a canto del camino, dopo aver veduto il fondo della sua antica e fedele _galéda_. Eran forse passate due lunghe ore, allorchè io rientrando nel salottino con que' pochi fogli che, per dir vero, senza soverchio scrupolo m'intascai, lo vidi risvegliarsi di botto e fissarmi in volto due occhiacci da spaurato; chè, non ricordandosi forse più del suo forastiero, Dio sa per chi m'avea scambiato in quel momento. Feci le viste di non accorgermi del terrore che senza volerlo gli avevo cacciato in corpo, nè di quell'impaccio con cui egli andavasi raccostando alla meglio lo sbottonato panciotto e la lunga sottana d'un equivoco negro colore, che nell'abbandono del suo sonnecchiar vespertino aveva in dietro arrovesciata, non senza mettere un poco in compromesso la sua gravità di prima. Lo ringraziai il meglio che seppi della bontà colla quale m'avea lasciato frugare nel suo studio, e poi, per un certo prurito della coscienza, trassi di tasca il rotolo delle carte di che m'era fatto padrone; e gli chiesi il permesso di portarle meco per alcuni dì, affine di trarne le note che m'occorrevano. Egli allora per dársi un cotale sussiego d'inquisitoria importanza pigliò lo scartafaccio, senza badare che lo pigliava alla rovescia; e dato che v'ebbe un'occhiata mel rendè soggiungendo: — So cos'è, so cos'è... Poh! lo tenete, lo tenete pur fin che vi grada, ch'io per me di coteste malinconie non ho mai voluto l'impaccio e tanto meno adesso. E così, a dirla fra noi due, non mi fossi tirato addosso per que' brutti anni il fastidio di colui che le ha scarabocchiate tutte quelle pagine; che non l'avrei pagata con perder l'appetito per più d'un mese. Basta! ebbi il mio santo anch'io, e per buona sorte la è passata la trista burrasca. Ma v'accerto che sebben quello fosse una cima d'uomo, come dicono, per me fu il primo e l'ultimo prete che mi tenni vicino. Mi riuscì di accomodarla con monsignore; e d'allora in poi, io solo, povero e vecchio qual mi vedete, ho tirata la barca della parrocchia, e spero continuare per un bel pezzo ancora!... Essendo fatta l'ora tarda, mi congedai dal pievano, pensando fra me di mandargli in segno d'animo grato per il donatomi manoscritto un bel Breviario nuovo che gli servisse in vece di quello tutto squadernato e bisunto ch'io aveva veduto sul suo tavolo. E così poi feci, appena giunto a Milano. Tornai alla casuccia del mio buon alpigiano. E con lui, il seguente mattino, volli visitare quella ch'era stata la dimora dell'infelice don Carlo. Erano poche camerette, anguste, nude, disabitate, cadenti: e come appartenevano alla prebenda, nessuno le aveva più occupate dal giorno che il vicecurato s'era di là partito per non tornarvi più. Mi si serrò d'angoscia il cuore, veggendo che servivano di ripostiglio alle vecchie e rotte suppellettili della chiesa, e che in fondo della stanza terrena eran riposti il cataletto de' poveri della parrocchia, alcuni rugginosi candelabri di ferro usati ne' funerali, due panche sgangherate, una barella; e nel canto, la zappa e la vanga del becchino. Nulla più v'era che serbasse ancora in quel cadente tugurio la più piccola traccia della memoria di un giusto. In sul meriggio, salutai la povera famiglia del Bernardo, quelle buone e sincere creature ch'io aveva già preso ad amare, e che nella fede de' loro cuori benedicevano tuttora al nome del vicecurato. Allorchè m'arrestai un poco sul breve altipiano donde si vedevano in gruppo le prime case di quell'ignota terricciuola, mi venne all'orecchio la limpida voce argentina della figlia del montanaro che cantava così: Io la vidi salire alla montagna Io la vidi seder presso al torrente. — O mia compagna, Che fai tu qui? Salutava cantando il sol cadente, Povera abbandonata alpigianella! — L'Ave Maria Sonar s'udì. Allora sollevò la faccia bella, Le parole dicea dal piagner rotte, — Ma la sua stella Non apparì. A mezzo del cammin giunse la notte, Un nugol nero circondò la luna. — L'antica Fata Dall'antro uscì. Accanto a lei passò la Maga bruna. Povera alpigianella abbandonata! — Sulla montagna Essa morì. — Chi sa, diss'io fra me, ch'egli stesso, il buon prete, non abbia insegnato a quella montanina codesti semplici versi modulati su qualche poetica tradizione dell'Alpi! E il mio pensiero, raffigurando la bella sembianza dell'Assunta, ricordò ancora la fine della povera Angiola Maria, alla quale parevami quasi compiangere quel malinconico canto. INDICE. A Corinna _Pag._ 3 Prologo » 7 LIBRO PRIMO. I. Una domenica » 11 II. Sul terrazzo » 21 III. A diporto sul lago » 31 Il ricordo, canzone » 35 Il desio, canzone » 36 IV. Nella casetta » 38 V. Una prima conoscenza » 50 VI. Dallo speziale » 58 VII. Scena di famiglia » 68 VIII. Amicizia » 76 La voce della fede, stanze » 83 IX. Amore » 88 X. Le tre fanciulle » 100 Un chiaror di luna, ballata » 104 XI. Sulla bass'ora » 110 XII. Addio al lago » 121 Il commiato, canzone » 129 LIBRO SECONDO. I. Altro tempo, altra vita » 133 II. Ore di tristezza » 147 III. Un colloquio » 155 IV. L'onestà del povero » 164 V. Partenza e mistero » 175 VI. Il fratello e la madre » 187 Il calice del dolore, versi » 199 VII. Il pane altrui » 201 VIII. Le alunne della crestaia » 219 IX. Speranza e dubbio » 232 X. Un'altra prova » 245 Rosa, ballata » 249 XI. Il ritorno » 265 XII. Sacrifizio » 287 IL MANOSCRITTO DEL VICECURATO. I. L'ospite montanaro » 313 Il ritorno, canzone » 315 II. Il manoscritto » 328 III. Il commiato » 359 L'alpigianella, ballata » 361 NOTE: [1] Sembra che queste prime pagine del manoscritto si riportino al tempo che il buon prete fu mandato viceparoco in quel povero e ignoto villaggio di montagna. [2] Pare che qui intendesse parlare d'Alessandro Volta, di cui forse avea scritto a quel tempo. [3] Qui il manoscritto presentava una lacuna, e pareva fosse stato per parecchi mesi interrotto. A quel tempo forse riportansi i pochi brani delle lettere che trovai fra que' fogli, scritte con mano quasi illeggibile, spiegazzate e lacere, sicchè vedevasi che prima di finirle il vicecurato s'era pentito e le aveva gittate a parte. [4] Forse il manoscritto fu ripigliato all'entrar della seguente primavera; se pur non erano mancati alcuni foglietti. [5] Queste note e questi pensieri trovai qua e là sparsi sopra alcuni brani di carta frapposti alle pagine del manoscritto: erano per avventura frammenti o postille di qualche libricciuolo messo in luce senza nome in altro tempo. Ne tenni conto, perchè parmi rivelino meglio ancora quali fossero la mente e il cuore del vicecurato. [6] Questi pochi versi trovai scritti sulla coperta d'una lettera d'altrui mano: era forse una lettera della sua povera e buona sorella. Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK ANGIOLA MARIA: STORIA DOMESTICA *** Updated editions will replace the previous one—the old editions will be renamed. Creating the works from print editions not protected by U.S. copyright law means that no one owns a United States copyright in these works, so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the United States without permission and without paying copyright royalties. Special rules, set forth in the General Terms of Use part of this license, apply to copying and distributing Project Gutenberg™ electronic works to protect the PROJECT GUTENBERG™ concept and trademark. 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START: FULL LICENSE THE FULL PROJECT GUTENBERG LICENSE PLEASE READ THIS BEFORE YOU DISTRIBUTE OR USE THIS WORK To protect the Project Gutenberg™ mission of promoting the free distribution of electronic works, by using or distributing this work (or any other work associated in any way with the phrase “Project Gutenberg”), you agree to comply with all the terms of the Full Project Gutenberg™ License available with this file or online at www.gutenberg.org/license. Section 1. General Terms of Use and Redistributing Project Gutenberg™ electronic works 1.A. By reading or using any part of this Project Gutenberg™ electronic work, you indicate that you have read, understand, agree to and accept all the terms of this license and intellectual property (trademark/copyright) agreement. If you do not agree to abide by all the terms of this agreement, you must cease using and return or destroy all copies of Project Gutenberg™ electronic works in your possession. 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It exists because of the efforts of hundreds of volunteers and donations from people in all walks of life. Volunteers and financial support to provide volunteers with the assistance they need are critical to reaching Project Gutenberg™’s goals and ensuring that the Project Gutenberg™ collection will remain freely available for generations to come. In 2001, the Project Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure and permanent future for Project Gutenberg™ and future generations. To learn more about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation and how your efforts and donations can help, see Sections 3 and 4 and the Foundation information page at www.gutenberg.org. Section 3. Information about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non-profit 501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal Revenue Service. The Foundation’s EIN or federal tax identification number is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by U.S. federal laws and your state’s laws. The Foundation’s business office is located at 809 North 1500 West, Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and up to date contact information can be found at the Foundation’s website and official page at www.gutenberg.org/contact Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation Project Gutenberg™ depends upon and cannot survive without widespread public support and donations to carry out its mission of increasing the number of public domain and licensed works that can be freely distributed in machine-readable form accessible by the widest array of equipment including outdated equipment. 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