The Project Gutenberg eBook of Nel mondo dei libri: bizzarrie

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Title: Nel mondo dei libri: bizzarrie

Author: Matteo Cuomo

Release date: January 9, 2021 [eBook #64240]

Language: Italian

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by The Internet Archive)

*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK NEL MONDO DEI LIBRI: BIZZARRIE ***

NEL MONDO DEI LIBRI


Matteo Cuomo

Nel mondo
dei libri

BIZZARRIE

MILANO
Dott. Riccardo Quintieri
Editore
Corso Vittorio Emanuele, 26


Proprietà Letteraria

Milano, TIPO-LITOGRAFIA RIPALTA — Via Pisacane, 36

— Ottobre 1912 —


a Guido Mazzoni
con animo devoto


Firenze, 8 ottobre 1911.

Chiarissimo Signore,

La ringrazio dell'onorevole offerta della dedica; ma quali titoli io abbia a questo onore Le confesso che non vedo. La simpatia, di cui Le son grato, gliela ricambio, letto il suo libro. Le sono intanto riconoscentissimo della offerta, da persona degna, e di cosa degna.

Il libro è pieno di buona cultura, e di osservazioni giuste, e di arguzie felici. Messomi a leggerlo nei capitoli da Lei indicatimi, ho proseguito oltre, e poi sono anche tornato a dietro, divertendomi da per tutto e sentendomi sospinto dalle riflessioni Sue a ripensare più e meglio su alcune quistioni.

Accetti i più vivi ringraziamenti e saluti dal

Dev.mo
Guido Mazzoni

Al Ch.mo Matteo Cuomo
EBOLI (Salerno)

[vii]

INDICE

Il primo saluto Pag. 1
I libri di viaggio 8
I libri che fanno dormire 17
I libri di donne 27
Gli umili e i superbi 45
Il vocabolario 53
I libri del popolo 86
I libri nuovi 98
Le antologie 109
L'ospedale 118
I libri fortunati 125
I libri che si consultano 155
I decaduti 161
I libri con ritratti 166
Bibliomani, biblioclasti, bibliofagi 181
I libri scolastici 196
La Bibbia 205
I libri allegri 210
I libri che si prestano 218
La Storia 227
I romanzi 244
[viii]
I Pedanti 273
I libri che non si leggono 277
Gli adulatori 305
I libri educativi 309
I microbi nei libri 320
I pessimisti 333
Il giornale 343
I libri venturi 373
L'ultimo saluto 386

[1]

Il primo saluto.

Lettore, noi non ci conosciamo e forse non ci conosceremo mai. Tanto meglio; ci stimeremo di più, visto e considerato che gli uomini quanto più si avvicinano, meno si sopportano.

Vedete: appunto perchè non vi conosco, io vi credo una persona colta e vi dico subito: questo libro che avete comprato... che? non l'avete comprato? Va bene. Io non voglio, nè debbo sapere come vi è venuto tra le mani, dicevo: questo libro parla dei libri. Ma non temete, niente critica, niente polemica, niente ricerche; impressioni, semplicemente impressioni.

Forse lo troverete un po' frivolo, un po' vuoto, pazienza; oggi che la maggior parte dei libri riempono i vuoti, ho piacere che il mio invece di riempirlo lo apra: anche i vuoti sono necessarî, almeno così la pensano molti... cassieri!

[2]

Ma di quali libri parlerò io?

Sentite: il De Maistre compose un Viaggio intorno alla mia camera, libro originalissimo, che voi certamente avete letto.

Io, al contrario, v'invito a fare una capatina nel regno dei libri. Entrate nella camera da studio e date uno sguardo ai vostri scaffali. Neppure questo? avete ragione, voi siete molto occupato. Ebbene, lo sguardo lo darò io; voi avrete semplicemente la bontà di seguirmi. Seguirmi, finchè vi piace. Del resto non è mica un obbligo per notaio: se il mio sguardo non si incontra col vostro, chiudete il libro e buona notte.

***

Chiamatemi fanatico, ma io voglio che i libri siano ben distribuiti, ordinati, classificati. Quella confusione, quel caos che si vede in certe librerie mi dice che quel letterato non ama i suoi libri.

No, io voglio che gli storici abbiano un posto distinto e separato dagli altri scrittori, io voglio che il Villani quistioni col Guicciardini, che il Botta stringa la mano al Balbo, che il Cantù discuta col Thiers e col Carlyle.

I filosofi debbono stare uniti. Non sarebbe una grande irriverenza mettere Platone a fianco ad un romanziere? Aristotele in compagnia di viaggiatori? No, tutti qui, i filosofi, in questo scaffale a destra. Isolateli: essi amano il raccoglimento [3] e la meditazione. Voi non ascoltate la loro voce, ma essi continuano nei secoli a discutere sull'origine e sul fine dell'uomo.

I poeti cantino insieme. Omero come nell'Olimpo dantesco, deve essere circondato dalla schiera gloriosa. Uniteli tutti, questi arcangeli, questi serafini, che toccano le note più soavi, che vi aprono un mondo di arcane bellezze. Sì, Omero, Dante, Shakespeare, Petrarca, Milton, Leopardi, Heine, metteteli al posto d'onore. In alto, in alto i poeti!

***

Ma la libreria è un piccolo mondo. Oltre le opere del genio, c'è tutta una moltitudine sterminata che si agita, che ride, che piange, che ciarla, che impreca, che sogghigna. Guardando quei libri con l'occhio scrutatore, vi vedete passare davanti, in una corsa vertiginosa, gl'ispirati, i prepotenti, i consolatori, i pessimisti, i decaduti, gli umili, i biricchini, i superbi, i pedanti, i burloni, i maligni, gli spensierati, i poliziotti, i misteriosi. Alcuni con una potenza diabolica tentano risvegliare in voi quegl'istinti che con tanti sforzi cercate reprimere e soggiogare; altri con soave linguaggio vi sollevano a più spirabil aere; altri infondono nel vostro animo un forte entusiasmo spingendovi a grandi cose, ma il riso beffardo di uno scettico, vi rende perplesso e dubbioso. Qui un filosofo delira e vi nega tutto, anche il [4] mondo corporeo, là un mistico vi accenna il cielo come ultima meta.

Quanti screanzati, quanti buontemponi, quanti pedagoghi! O vedi, vedi là, all'angolo, a destra si ride a crepapelle; qui, innanzi a voi, due rivoluzionarî vorrebbero scalzare dalle fondamenta l'ordine sociale. Spesso accanto all'opera di un valoroso maestro si nasconde un libriccino di poche pagine. Non lo toccate: sotto quella veste umile e dimessa c'è un nemico; quel libriccino a guisa dei velenosi animaletti che respiriamo senza accorgerci, può da sè solo corrompervi il cuore.

Eppure noi li amiamo, li amiamo tutti.

Il libro fa parte della nostra vita intima, è il cibo quotidiano del nostro intelletto. Angelo o demone, ligato a noi da un vincolo invisibile è sempre al nostro fianco, sempre pronto alle nostre chiamate. Trascuratelo per un mese, per due, gettatelo con disprezzo, abbandonatelo sopra una sedia, chiamatelo noioso e peggio, il giorno in cui avrete bisogno di lui, vi apre subito le braccia: non una parola di rimprovero. Tenero come una madre, pronto come un militare, umile come uno schiavo si mette subito a vostra disposizione.

Ogni libro ricorda un momento della nostra vita, ogni libro ha avuto il suo giorno di trionfo e di disprezzo.

Quante vittorie e sconfitte su noi stessi non dobbiamo a quei libri! Essi che vivono sempre [5] con noi sono i giudici più severi, i traditori più infami, gli amici più schietti.

Che, siete mesto? siete allegro? vi sentite stanco, sfiduciato? avete i nervi? una grande sventura vi ha colpiti? Per ogni stato di animo c'è un libro, una voce, che vi parla nel silenzio; una voce, che vi conforta senza ostentazione; che vi rimprovera senza avvilirvi; che vi ammaestra senza sussiego. E questa voce parla sempre, notte e giorno; non si ferma, non si stanca. Siete voi che vi fermate, siete voi che dite: basta; ma la voce ripiglia subito il suo corso, appena voi dite: avanti.

Vengono da ogni parte del mondo civile, ma nessuno è estraneo. Tolstoi non è russo. Cervantes non è spagnuolo. Whitman non è americano, tutti amici di casa, tutti compagni di studio e di lavoro.

La storia si ostina a dirci che il Goethe è morto, morto l'Hugo, morto l'Ibsen, morto il Carducci, morto il De Amicis, morto il Fogazzaro. Nossignore, qui non ci sono morti. Il Goethe viene con voi a passeggio sui monti, l'Hugo è il compagno nelle notti d'insonnia, il De Amicis è là, pronto a farvi passare il malumore, oh! con che dolcezza vi sorride il Fogazzaro!

***

Il santo vescovo d'Ippona, Agostino, diceva: timeo lectorem unius libri. Sì, bisogna temerlo, [6] ma temerlo davvero quest'uomo che studia un sol libro. Un sol libro! un solo compagno, un solo amico! Quest'uomo forse sarà dotto, ma di una dottrina arida, sterile, che gli rovina il cervello e non gli solleva lo spirito. No, noi vogliamo molti libri. Parlino tutti: la loro voce misteriosa ci è guida, sprono, conforto.

Spesso, quando siete solo nella stanza da studio, alzando gli occhi su quei libri, vi vedete dinanzi mille volti che vi guardano, ascoltate mille voci che gridano a coro: sono scrosci di riso satirico, accenti di dolore, bestemmie, parole di odio. C'è il ruggito del leone, il canto della capinera, il sibilo del serpente. E questi suoni armonizzandosi stranamente producono una musica che ha del grandioso e che i profani dell'arte non sentiranno mai.

E noi parleremo di questa musica, noi entreremo in quella sancta sanctorum della nostra vita spirituale. Qui, dove si passano le più belle ore del giorno e spesso della notte a ricreare e a martoriare il nostro cervello; qui, dove abbiamo combattute tante battaglie, calmate tante tempeste, carezzate tante illusioni; qui c'è tutta l'opera grandiosa del pensiero umano.

Che cosa sarebbe l'umanità senza questi libri? Per essi voi siete uomo, per essi conoscete il passato, vivete nel presente, interpetrate il futuro. I grandi scrittori sono i veri condottieri dei popoli: essi guidano l'umanità, suscitano tanti [7] avvenimenti, determinano tante diverse epoche.

Il germe di tutte le rivoluzioni, di tutte le riforme, di tutte le fasi del progresso e della civiltà è qui, sotto i vostri occhi.

Alessandro, Cesare, Napoleone non hanno lasciato che un nome; ma Omero, Dante, Shakespeare hanno lasciato l'anima loro e quest'anima è là, nella vostra libreria, quest'anima si chiama l'Iliade, la Divina Commedia, le Tragedie.

Entriamo dunque in questo piccolo mondo che tanta parte ci sottrae dalla nostra esistenza, entriamo in mezzo a questo popolo di pensatori, che venuti in casa nostra, fin dal primo giorno, da veri padroni, ci consigliano, ci sgridano, ci educano, ci rimproverano, ci deridono. Entriamo, ma senza pretenzione di volerla fare da critici o da moralisti.

Si è detto sempre che i libri sono i migliori amici. Ebbene, facciamo una visita a questi amici. Vi garentisco che passeremo un'ora in lieta compagnia.

[8]

I libri di viaggio.

Fate largo: passano i viaggiatori.

Voi raramente uscite dal vostro paese nativo, e se qualche volta ve ne allontanate vi sembra aver indugiato già troppo. La vita di città vi infastidisce. Quell'andare, venire, correre di qua e di là, mangiarsi un boccone in fretta e furia vi dà sui nervi.

È vero: di tanto in tanto come per rompere la monotonia si fa una scappatina in città. Col pretesto degli affari si passano una ventina di giorni a Napoli, a Roma, a Firenze, a Venezia. Ma che! pare che qualcuno vi spinga di dietro a ritornare subito. Il pensiero della famiglia, gli affari, gl'impegni, vi chiamano in paese: subito alla stazione. Il treno è pronto e si parte. Dopo un paio di giorni eccovi a casa. Ma che stanchezza! Bisogna stare una settimana per orientarsi! [9] Eppure si tratta di un viaggio di piacere. E se doveste intraprendere un viaggio lungo e disastroso? se doveste andarvene d'inverno nella Groenlandia o nelle isole dell'Oceania? Per l'amor di Dio! a solo pensarlo vengono i brividi del freddo e della... paura. Andar ramingo in mezzo alle nevi, passare notti intere sotto una capanna o a piè di un burrone, col pericolo di essere divorato dalle belve o massacrato dai barbari? Pazzia, pazzia!

Ma ognuno ha il suo bernoccolo, diceva il De Musset; ognuno è vittima di una febbre che lo spinge verso un ideale. A voi piace starvene rintanato nel vostro paese nativo, altri invece amano girare in lungo e in largo i luoghi più nascosti dell'Asia, i boschi più folti dell'Africa, le eterne ghiacciaie del polo. Per voi sarebbe la morte, per essi la vita.

E questi uomini di ferro, — che sotto gl'infocati raggi del sole africano, fra le nevi boreali, tra i deserti più sterminati camminano a piedi, sui muli, sui cammelli, sulle slitte; questi uomini, che vengono a tu per tu con i leoni, con le iene, con le tigri, con i leopardi; questi uomini che non dormono, non mangiano pur di arrampicarsi sulle cime di monti inaccessibili, — hanno scritto i loro libri: libri curiosi che vi dicono tante cose piacevoli, che vengono a parlarvi di tanti luoghi sconosciuti, di tanti costumi bizzarri.

Questi libri sono di ogni specie: piccoli, grandi, [10] vecchi, nuovi, illustrati. Li compraste a dispense quando eravate giovanotto, amante di avventure e racconti maravigliosi; li aveste per pochi soldi da qualche libraio ambulante; vi furono donati dal babbo nel giorno del vostro onomastico ed ora sono tutti qui in questo scaffale e rappresentano i libri più piacevoli e più simpatici!

Se siete un asceta, il Lamartine e la Serao vi conducono nel Paese di Gesù; se amate conoscere la vita intima dell'Oriente, così varia, così misteriosa, così strana per noi Europei, affidatevi al Tompson e al Thontze: essi vi accompagnano da buoni amici nella Cina, facendovi penetrare finanche nella reggia dell'Imperatore, inaccessibile ad ogni sguardo; se le recenti vittorie giapponesi hanno destato in voi grande simpatia per questo popolo giovane e valoroso, parlatene al De Riseis e questi vi farà conoscere la vita familiare, i costumi, la cultura dei piccoli figli del sole; se amate i fatti di sangue, racconti strani e raccapriccianti rivolgetevi al Salgari, al Maine Reyd.

Ma i libri di viaggio che avete sempre letto con entusiasmo, sono quelli di Giulio Verne, di questo gran mago, che resterà unico nella letteratura di tutto il mondo. Si scrivono e si scriveranno libri di viaggio, ma Verne sarà sempre Verne, sempre il papà di questo genere letterario, che diverte ed istruisce. Che ore deliziose trascorse a girare il mondo in ottanta giorni, a discendere [11] venti mila leghe sotto il mare, a gettarvi a capo fitto nel centro della terra! Verne era il gran tentatore. Si rubavano le ore allo studio, alla scuola per seguire il capitano Grand. Quanti rimproveri, quanti castighi! Spesso mentre il professore spiegava un teorema di geometria, voi di nascosto a fuggirvene con l'iperbolico proiettile nella luna.

E nelle sere d'inverno! Che voluttà a leggere a letto Le avventure del polo Nord! Neve, neve, orsi bianchi, balene, deserti sterminati di ghiaccio e voi ve ne stavate al caldo. Dopo un paio d'ore si smorzava il lume e giù con la testa sotto le coperte a sognare. Che sogni, che sogni! Quante volte non vi sembrò di trovarvi solo, inerte, in mezzo a una banda di selvaggi? Quante volte non sognaste (brutta tentazione!) di essere imperatore, di sedere in trono sopra una sedia d'avorio, venerato come un Dio? Quante volte non foste inseguito da orsi, da elefanti, da ippopotami e da tanti animali feroci?

***

Oggi non siete più un giovanotto, ma i libri di viaggio ancora vi dilettano. Talvolta nelle giornate uggiose d'inverno, in cui pel cattivo tempo vi tocca starvene rintanato in casa, ci sarebbe da dare l'anima al diavolo. I bimbi piangono, la vostra signora sgrida la domestica, il cagnolino [12] guaisce e voi, mandando un accidente a tutti, ve ne andate Con una principessa attraverso l'Africa!

E nelle convalescenze? Siete stato venti, trenta giorni a letto, sospeso tra il cielo e la terra, con una febbre gastrica, ostinata, ostinatissima a mandarvi all'altro mondo. Ma, grazie a Dio, a furia di dieta e di iniezioni, il pericolo è passato. Col buono e con la forza la febbre è andata via. Voi siete libero, ma non guarito. Comincia la noiosa ed eterna convalescenza. Siete debole e non avete neppure la forza di dare un passo. Piano con i cibi. Un po' di brodo, un po' di semolino e riposo, riposo assoluto. Guai ad uscir di casa! Una ricaduta sarebbe fatale.

Ma intanto come si fa ad ammazzare il tempo? come si fa a passare quei giorni lunghi, sterminati? Le visite degli amici? Disgraziatamente quando si è infermi si ricevono visite sempre dalle persone più noiose e antipatiche, le quali vogliono sapere tutte le fasi della vostra malattia; e voi spesso in una sola giornata dovete ripetere due, cinque, dieci volte la medesima canzone, secondo il numero degl'importuni.

E dunque? leggere il giornale? Ma il giornale si scorre in mezz'ora. Leggere un romanzo, un volume di poesie? Che amore e amore! Ne avete le tasche piene e poi, specie ne' giorni di convalescenza, si è proprio disposto a parlare di amore! Solo i libri di viaggio possono dilettarvi. Il medico [13] vi consiglia il riposo, e voi alla sua barba ve ne andate col Salgari Tra i pescatori di Balene o Nella città del re lebbroso. Un giorno a Londra col De Amicis, due in Egitto col Venosta, tre fra i ghiacci col Verne, cinque al Tibet coll'ardito Hedin; e correte per quelle coste sterili, per quelle foreste vergini, di giorno, di notte, al vento, alla pioggia... Avanti, avanti, oggi in Sicilia, domani in Siberia, domenica in Cina, dall'Imperatrice! I giorni passano, voi siete guarito e il medico vi concede finalmente di uscir di casa. Uscir di casa? Se siete stati sempre fuori! Ma prima di lasciare la stanza da studio, date uno sguardo a quei libri di viaggio, che sono ancora sulla sedia. Avete il dovere di ringraziarli per l'opera benefica e pietosa che vi hanno prestato, durante la vostra convalescenza.

Sentite un mio consiglio. Conservate con ogni cura questi libri; non li prestate, non li donate, anzi cercate di comprarne altri.

Che! vi siete dimenticati che un giorno sarete vecchi? Il tramonto è bello, poetico in natura, non nella vita.

La vecchiaia difficilmente si presenta sola. Se sarete condannati a starvene in casa con la gotta o altro ben di Dio, quei libri potranno rendervi meno doloroso il finale dell'opera!

Ma via, non facciamo da uccelli di cattivo augurio. Grazie a Dio, i capelli sono appena brizzolati: abbiamo a disposizione ancora un buon quarto [14] di secolo e in un quarto di secolo possono succedere tante cose. Chi sa, si potrebbe anche abolire la vecchiaia!

***

Ho detto che non amiamo i viaggi. Bugìa. Noi vorremmo correre sempre, girare il mondo punto per punto, vedere tutto, esaminare tutto.

Quando un amico vi dice: “Parto per New-York„, sentite un po' d'invidia per questo fortunato. Vorreste rispondere: “Aspetta, ti accompagno„. Ma intanto lui parte e voi restate. Pazienza, avete i libri di viaggi. Essi sono più divertenti del viaggio stesso. È il viaggio senza rischi, senza incomodi, senza malanni e quel ch'è più senza spese. Quando si esce di casa, bisogna stare sempre col portafogli in mano e andar seminando biglietti di banca. Qui invece basta una lira, una sola lira per girare col Fogg l'intero mondo. E poi, dopo aver consumato quattrini, tempo e salute, che vi resta del viaggio fatto? impressioni superficiali. Qui invece avete il viaggio commentato, spiegato. Tutto ciò che nella fretta vi sarebbe sfuggito, ve lo dice l'autore. Eh! non è mica necessario mettervi in balìa del mare per sapere che si fa in Cina, come vestono nell'Oceania, come pregano gl'Indiani. In questi trenta o quaranta volumi voi avete tutto il mondo con i suoi costumi bizzarri, ridicoli; con le sue leggi savie, sciocche, [15] brutali: con le sue religioni, con i suoi fanatismi, con i suoi capricci, con i suoi pregiudizi.

Che strana contraddizione! Voi non credete più ai maghi, alle fate, alle streghe, ma altri popoli vi credono; voi piangete quando la morte vi strappa una persona cara, altri popoli ridono: voi salutate cavandovi il cappello, altri salutano toccandosi il naso, facendo una strizzatina di denti; voi pagate il medico quando siete infermi, altri lo pagano quando stanno bene; a voi fanno ribrezzo i vermi, i ragni, altri li mangiano con gran voluttà. Sono tutti i popoli che vi passano dinanzi, dall'astuto Cinese al sanguinario Abissino; vi passano dinanzi come in una mostra di gala, e chi vi fa una smorfia, chi vi sorride, chi vi minaccia, chi vi insulta, chi piega i ginocchî, chi si nasconde, chi si avventa per divorarvi!

Questi libri vi convincono che sul nostro pianeta, su questa trottola capricciosa, che gira senza mai riposarsi, sono rappresentate tutte le epoche, dalla selvaggia età della pietra al fanatico medioevo. Ciò che per noi è passato, per altri popoli è presente. Oggi, alcune tribù dell'Australia bevono, come Alboino, nel cranio dei congiunti e sposano, come gli antichi patriarchi, dieci moglie. Da noi ferrovie, tramways elettrici, telegrafi; nel centro dell'Africa silenzio e tenebre. Tutto ignorano, tutto. Adorano il sole e la luna, si cibano di carne umana, vanno ignudi. Guidati o trascinati dall'istinto, sanno solo che debbono conservare la propria [16] esistenza. Ma sono uomini costoro? hanno la stessa natura nostra? Vorreste rispondere: no; ma la coscienza vi dice: sì. Qualunque sia il colore del volto, la forma del cranio o del vestito, l'uomo è uno. Furbo, vorace, fanatico, ignorante, selvaggio: è uomo. Sempre uguale e sempre diverso, ha un'anima miserabile o sublime, abbietta o nobile come la nostra.

Ma non sarà sempre così. Oggi interi popoli sono ignoranti, antropofagi, domani saranno civili. Il progresso si avanza, il progresso trionfa. Ma quel giorno, in cui in ogni angolo della terra vi saranno ferrovie, scuole, tribunali, teatri, tutto sarà uniforme e monotono. Londra, Pechino, Calcutta, Gerusalemme, Gibuti, Cristianìa, ecc. si rassomiglieranno come gocce d'acqua.

Nel duemila i libri di viaggio non saranno più interessanti!

[17]

I libri che fanno dormire.

Se soffrite un po' d'insonnia non correte subito dal medico. Questi incomincia a prescrivervi delle specialità che disgraziatamente potrebbero farvi dormire per sempre. Ricorrete piuttosto ai libri. Eh! ci sono dei libri così buoni da conciliarvi finanche il sonno. Prendete, ad esempio, uno di quei trenta volumi del Padre Bartoli e vedrete che sonnifero potente!

Il Marietti ebbe la felice idea di pubblicare tutto quel bagaglio come per dire: dormite. Il Giordani solennemente sentenzia che in quei volumi “c'è oro macinato e perle strutte„, ma credo che ci sia anche un po' di oppio. Quegli incisi, che si ficcano a frotta nel periodo, quei raffronti, quelle citazioni, quelle fila sterminate di nomi cinesi, arabi, quelle lunghe descrizioni stancano l'occhio; un dolce torpore vi assale; [18] voi chinate la testa, voi dormite saporitamente e il grosso volume vi resta aperto dinanzi.

La Manna dell'anima del P. Segneri faceva dormire il Pallavicino nel carcere e credo che faccia santamente dormire ogni buon cristiano.

Sentite un mio consiglio: chiudete in una gran cassa tutte le opere del Bartoli, del Cesari, del Bentivoglio, del Giambullari e compagni, e scrivete sopra a grossi caratteri: qui si dorme.

Questi libri, pieni di lambiccature retoriche, di antitesi, di metafore, di periodi contorti e arrotonditi, meritano il primo posto tra i sonniferi. Le notizie più curiose, i racconti più commoventi si scolorano sotto quelle parole di piombo, e voi ad ogni pagina pensate al D'Azeglio, il quale voleva che al Decalogo si aggiungesse, come undicesimo comandamento: non seccare.

Nè sono libriccini di poche pagine, ma grossi volumi di prosa fredda, compassata, vuota di ogni calore ed affetto. Qualche volta per necessità dovete leggerli; vi tocca tenerli in mano parecchi giorni per sgranarli alla meglio e quando siete all'ultima pagina, quando vedete la parola fine esclamate trionfante come Diogene: “Finalmente veggo terra!„

Ma spesso, malgrado tutta la buona volontà, non si arriva a veder terra. Dopo una decina di pagine la fronte si corruga, le labbra naturalmente eseguono quella brutta smorfia che precede la nausea: si sbadiglia, e gli occhi non funzionano [19] bene. Voi resistete ancora: ma è inutile. Gli occhi vi mettono davanti questo dilemma: o chiudi il libro o ci chiudiamo noi.

L'Imbriani, a proposito delle poesie dell'Aleardi, confessa: “Presi il libro, tagliai con la stecca i fogli dissi a me stesso, — coraggio, avanti, marche! — e lessi tutto, tutto„.

Voi alle volte fate lo stesso proponimento, ma che! dopo trenta, quaranta pagine, non si può andare nè avanti, nè indietro; vi piglia il sonno e buona notte!

***

Sono molti questi libri che fanno dormire? Molti? ci sarebbe da compilarne un catalogo sterminato. Ma sia per non perdere tempo, sia per non far dormire il lettore, li raggrupperemo in categorie.

Innanzi tutto mettiamo fuori concorso i libri degli autori viventi, non solo perchè il numero è purtroppo considerevole, ma anche per non venire a polemiche disgustose. Sono così attaccabriga i nostri letterati!

Prima categoria. Chi vuol dormire placidamente ricorra ai trecentisti e ai secentisti minori. Tutte quelle novelle, novellette, canzoni, canzonette, pastorali, madrigali vi fanno addormentare nel bacio degli angeli. C'è troppo zucchero in quei libri e il troppo zucchero stomaca e fa dormire.

[20]

Il Cavalca, il Passavanti si rinchiudono in argomenti religiosi e giù miracoli, leggende, visioni, parabole, ammaestramenti, precetti; voi sognate di stare in chiesa e di ascoltare una di quelle prediche, noiose e stucchevoli del vostro vecchio pievano, buon'anima.

I tre Guidi, il Gianni, il Guinicelli, Cino da Pistoia, parlano invece di amore, ma sembrano dei bambini che piagnucolano, dei malati che si lamentano. Non è un amore sentito; regolato da certe forme o da certi sentimenti di convenzione, si stempera in frasi comuni e sciupa venti versi per un'idea. In tutte queste poesie trovate lo stesso meccanismo, la stessa posa: trecce d'oro, guance di rose, denti di perle, occhi di sole. È una continua ninna nanna, patetica, melata. Le personificazioni, le allegorie, i bisticci, le rime — che si affollano in mezzo e in fine del verso — vi ballano davanti e voi dormite.

Seconda categoria. Chi vuol sognare cavalieri, dragoni, maghi, fate, castelli incantati, ricorra ai nostri poemi cavallereschi. Fortunatamente essi accennano a scomparire e nessun editore ha la pazza idea di far risorgere il Malmantile, l'Italia liberata, il Girone, l'Aquileia distrutta, l'Amadigi e tutte quelle centinaia di poemi che ammorbarono la nostra letteratura. Se togli i due Orlandi e il Morgante Maggiore, tutti gli altri, che vollero trattare con serietà della cavalleria, riescono [21] pesanti e artificiosi. Lasciateli dormire nella libreria; se li svegliate, faranno dormire voi.

Nessuno nega che il Trissino, il Lippi, il Tursini, il Tasso (padre) tengano un posticino discreto nella letteratura; anzi voi fate di cappello a questi signori; ma con i poemi, alla larga. Ne assaggiate un pezzetto nelle antologie, nei manuali di letteratura ed è già troppo. Leggerli da capo a piedi? Per l'amor di Dio, non lo consiglio neppure ai miei nemici! Quelle ottave sembrano mattonelle: la stessa struttura, la stessa posa, la stessa chiusa. Dopo un paio di canti vi sentite come una stanchezza negli occhi, la testa vi duole e se non smettete, c'è pericolo di un'emicrania.

Si potrebbe dire; come va? questi libri formavano il diletto dei nostri padri; si leggevano nelle accademie, nelle corti dei Mecenati, nelle veglie dei popolani e non c'era mai caso che il lettore o gli uditori si addormentassero. Verissimo. Ma non sapete? I nostri maggiori, beati loro, erano tutti Paladini di Francia a tempo perduto. Non andavano in guerra contro Turchi e Saraceni, non erravano per le foreste in cerca di Dulcinee, ma in casa e a comodo facevano un po' di cavalleria con questi poemi.

Oggi non è più il tempo di cicli e di cavalieri erranti. Erranti siamo un po' tutti, ma non in cerca di avventure, bensì di quattrini, che spesso, come a farlo apposta, si rendono irreperibili e ci fanno proprio quei brutti tiri che Angelica [22] faceva ai suoi spasimanti. Una bricciola di cavalleria è restata nel duello a uso e consumo di quei fanatici, i quali per far sapere al mondo che hanno ragione, finiscono spesso col ricevere una sciabolata sul volto e una manata di torto: il torto è sempre del vinto.

Ma volete sapere perchè i nostri riveriti padri non dormivano nel leggere quei poemi? Ve lo dico subito: non dormivano, perchè non avevano sonno. La sera andavano a letto per tempo, la mattina si levavano col sole, il dopo pranzo facevano il pisolino, che spesso diventava un pisolone. Data questa grande provvista, potevano sopportare qualsiasi lettura: il sonno non veniva. Noi no, noi si dorme poco. Il giorno e gran parte della notte si passa in moto. Di qua, di là, di sotto, di sopra: non c'è un momento di requie. Chi più e chi meno siamo tutti dei commessi viaggiatori. Che succede? Il sonno, vedendosi trascurato, come un impertinente creditore, sta sempre alla vedetta e quando trova l'occasione propizia si fa avanti.

Terza categoria. Ogni scrittore da Dante al Manzoni, ci ha lasciato qualche cosa per farci dormire.

Confessiamolo francamente: quante volte non ci siamo addormentati con il Convito di Dante, con il Mondo creato del Tasso, con l'America libera dell'Alfieri, con la Colonna infame del Manzoni, con le Tragedie del Foscolo, con le Cantiche del [23] Pellico, con i Panegirici del Giordani? E per citare un esempio più fresco il lavoro drammatico del D'Annunzio Più che l'amore non fa dormire? Il pubblico che va a teatro per divertirsi, lo fischia maledettamente. L'autore abituato ai trionfi, è andato in furia, ha detto corna del pubblico, ha scomunicato tutti, dichiarando modestamente che il suo dramma è un capolavoro. Ma che volete? Più che l'amore è noioso. Provatevi a leggere senza sbadigliare quel lungo dialogo fra Corrado Brando e il suo fedele Rendu; vi piglia il sonno ad ogni pagina.

Questi libri vi indispongono di più, perchè di buona o mala voglia bisogna leggerli, tanto richiede la vostra professione di letterato. Ogni cittadino che non ha la disgrazia di essere chiamato o creduto uomo di lettere, può leggere ciò che vuole, scegliere i libri che più gli aggradano, farsene il chilo con il poeta che più gli va a genio. E quando dopo cinque o sei pagine o anche prima si accorge che quel romanzo annoia, quel dramma è monotono, quella commedia è scipita, quei sonetti sono fiori appassiti, getta via il volume e buona notte. Se glie ne domandate, non fa misteri: confessa candidamente che quei libri lo seccano. Ma voi potreste dire in pubblico: Non leggo il Fuoco, perchè mi fa dormire. Zitto, quel romanzo è un capolavoro. È stato tradotto in tutte le lingue, è arrivato al cinquantesimo migliaio in Italia, al [24] ventesimo in Francia, al decimo in America ecc. Dunque silenzio e buon sonno.

E così senza volerlo siamo entrati in un altro campo... molto fiorito. Quanti libri degli scrittori moderni fanno dormire? Non parliamo dei tanti volumi di poesie barbare o paesane, dei tanti romanzi, delle tantissime novelle, che vengon su alla giornata; questi libri non fanno dormire, perchè non si leggono. Intendiamo parlare degli astri maggiori, di quelli che occupano i primi posti nel moderno sistema planetario della letteratura.

Ma chi ha il coraggio di dirlo? Quando un poeta, un romanziere è messo sugli altari è un santo; a lui incenso, a lui onore e gloria nel più alto dei cieli. Si vocifera, si dice a qualche amico che certe poesie del Pascoli fanno sognare, che in qualche libro del Fogazzaro c'è molto oppio, ma nessuno ardisce metterlo in piazza. Avreste il coraggio di dire ad alta voce che la Nave del D'Annunzio fa dormire? Fa dormire! Ma siete pazzo! Giornali ne leggete sì o no?

Eppure vi posso assicurare che la Nave fa dormire. Il pubblico è vero, non dormì, perchè fu stordito dalle grida dei Catacumeni e dei Nàumachi; non dormì, perchè assistette al varo e credè trovarsi a Castellammare di Stabia o a Spezia. Ma tutti quelli che applaudirono, che entusiasti chiamarono fuori l'autore, metteteli a tu per tu con il volume; fate che essi invece di essere [25] spettatori, siano lettori. Sentite a me, dormiranno alla grossa!

Alla fine dei conti anche il sonno è buono e dormire un'oretta con un libro in mano non è un gran danno. Vergogna? Ma che vergogna! se siete solo. Chi viene a casa vostra a spiarvi se dormite a letto o a tavolino? E poi, parliamoci chiaro, volete dormir voi! Quando vi siete assicurato che un libro contiene molto oppio, chiudetelo. Non dovete dar conto a nessuno. L'autore, anche vivente, non potrà offendersi, per la semplicissima ragione che è lontano.

***

Ma nelle conferenze? Già, il guaio è nelle conferenze. L'autore è presente, l'autore vi guarda. Voi avete la santa intenzione di comportarvi sempre da galantuomo, di non fare scortesie ad alcuno, ma come resistere a certe conferenze noiose, noiosissime che non dicono nulla di nuovo e di interessante, se pure non vi ripetono ciò che in una forma migliore avete letto in qualche libro? E fossero almeno brevi queste cicalate! Passa un quarto d'ora, due, tre, vorreste gridare — basta, basta, mi hai rotto... i timpani —; ma non si sta mica in teatro! Vi scuotete, tossite, adagiate sulla palma della mano uno sbadiglio, un altro, ma gli occhi non vogliono affatto saperne. Che martirio!

[26]

E dire che questo martirio è continuato. Non passa una settimana che un amico non v'inviti ad una conferenza. E sempre conferenze, conferenze! È una manìa. Noi ci lamentiamo che oggi si stampa molto, ma non abbiamo mai pensato quanto si parla. Non tutti sono disposti a comporre un libro: anche a scriverlo male occorre tempo. Poi vengono le spese di stampa. Non è così facile trovare oggi un editore che gli faccia da padre putativo: bisogna sborsare un mezzo migliaio di lire, col pericolo che il libro se ne resti eternamente nelle vetrine dei librai, per mancanza di lettori.

Ma la conferenza, che bellezza! Si scrive in due o tre giorni e non si spende un centesimo: la sala gratis, gli uditori gratis, gratis gli applausi. Si ha così la grande soddisfazione di far conoscere ad amici e a nemici che qualche cosa si sa, che non si è perfettamente digiuni di scienze e di lettere.

Ma è da gentiluomo invitare due, trecento poveri diavoli che hanno tante noie per la testa, inchiodarli per un paio di ore sopra una sedia e dir loro: Non vi movete, non fiatate? I poveretti ubbidiscono, ma spesso, non potendo far altro, dormono, salvo a svegliarsi ad opera finita, per applaudire e stringere la mano al bravo conferenziere!

Evviva la sincerità!

[27]

I libri di donne.

Di donne? Sì, di donne. O non vi siete ancora convinto che la donna fa davvero?

Date uno sguardo ai vostri scaffali. Vedete: tra i romanzieri trovate donne, tra i poeti donne, tra gli storici donne, tra i filosofi donne, tra gli scienziati donne. Insomma ce n'è una rappresentanza dovunque.

E poi qual maraviglia? scorrendo le nostre storie troviamo che la donna ha messo lo zampino in tutti i rami dello scibile e n'è uscita sempre con onore.

L'Agnesi a sedici anni parlava già molte lingue ed era dottissima nelle discipline filosofiche e matematiche; l'Ardighelli a quattordici anni teneva un forbito discorso sulla forza dell'elettricità; l'Amoretti, molto encomiata dal Parini, a quindici anni sosteneva per due giorni una lunga disputa [28] filosofica con un fanatico accademico e una brutta figura non la fece; la Cicci a dieci anni, quando voi sgranate a stento un libriccino di quarta elementare, sapeva a memoria la Divina Commedia! Orologi caricati! Si fa presto a dirlo. Il fatto si è che la donna sa fare qualche cosa.

Se avessi tempo vorrei scrivere un libro su queste donne, che si sono distinte nelle scienze e nelle lettere, che hanno dato il loro contributo, forse minimo, ma sempre efficace, finanche in quei tempi di schiavitù, in cui la donna, condannata a restarsene in casa, come umile ancella, dava occasione a far discutere se avesse perfino... un'anima.

Questo libro dovrebbe essere dettato senza quell'aria di superiorità che siamo soliti prendere noialtri uomini, quando parliamo delle donne; ma giacchè non posso scrivere il libro, non ho diritto di dare consigli a chi forse un giorno lo scriverà e a modo. Anzi metto da parte le donne scienziate. Non ho letto i loro libri, non li ho neppure visti. Dovrei ricorrere alle grandi biblioteche e starmene un paio di mesi a divorare diversi volumi, che, quantunque dettati da amabili signorine e da rispettabili dame, potrebbero farmi un gran male. Di scienze son quasi digiuno e credete che bastino due e quattro mesi per assaporarne un pochino? Ingoiando così alla diavola tutta quella roba, correrei il rischio di una indigestione a onore e gloria del sesso gentile. Dunque [29] lasciamo stare. Delle donne scienziate ne parlino con competenza gli scienziati. Ognuno faccia il suo mestiere. La coscienza mi va ripetendo di aver già detti molti spropositi in questo libro e non voglio di proposito aggiungerne altri. Solo Pilato poteva permettersi di dire quod scripsi scripsi. Noialtri dobbiamo pensarci bene; in caso contrario ci tocca rimangiare ciò che abbiamo scritto.

Dunque saluto rispettosamente queste donne scienziate, e parlo di quelle non meno rispettabili, che si dettero a coltivare le lettere.

La storia letteraria ci dà un elenco sterminato di poetesse, che in tutti i secoli hanno cantato più o meno melodiosamente. Sempre così! La scienza è la sancta sanctorum, dove pochi sono ammessi, è la ricca, ma severa matrona, che prima di concedere le sue grazie impone un lungo noviziato. Ma la letteratura — che democratica! — accoglie tutti. Potrebbe meritare, se non fosse profanazione, quella coppia di versi che Dante scriveva per la misericordia di Dio:

. . . . . ha sì gran braccia

Che prende ciò che si rivolve a lei.

Un povero diavolo, che vuol ottenere il nome di scienziato, deve logorarsi per una ventina d'anni nei gabinetti fisici, nei gabinetti di anatomia, negli orti botanici, negli osservatori meteorologici. Ma la letteratura, sia sempre benedetta, non impone [30] tutti questi sacrifici. Basta che sappiate leggere un po' da cristiani e mettere insieme un periodo che non zoppichi; avanti! la letteratura vi apre le braccia: potete scrivere, pubblicare sonetti e canzoni. Nessuno avrà che dirvi, nessuno potrà domandarvi “come sei entrato?„

Quindi non fa maraviglia se le scienziate sono poche e le... poetesse, una legione. Le donne più degli uomini sono nate col bernoccolo della cicala. O allora perchè la cicala è di genere femminile?

Ma lasciamo stare lo scherzo. Volevo dire che in ogni secolo ci sono state delle poetesse, le quali hanno meritato congratulazioni e applausi dai letterati del tempo. Per lo più le principesse, le baronesse, le dame di corte, le mogli e le figlie di artisti, passavano la vita in mezzo ai poeti. Ogni sera sentivano declamar poesie; senti oggi, senti domani, finivano coll'imparare il mestiere, e prima timidamente, poi con disinvoltura, dettavano poesiette, per lo più amorose, tanto per far sapere che un po' di gusto l'avevano anch'esse. E i signori poeti, un po' per cortesia cavalleresca, un po' per rispetto alle padroncine, un po'... voi m'intendete, si davano subito a battere le mani, a chiamarle Saffo novelle!

Ma oggi chi ricorda più quelle poetesse, encomiate dall'Ariosto, dal Tasso (padre e figlio), dal Bembo, dal Poliziano, dal Varchi, dal Caro, dal Firenzuola, dal Berni e compagni? Una certa [31] Giulia Rigolini ebbe vaghezza di comporre una dozzina di novelle sul metro del Decamerone, e i sopracciò della letteratura sentenziarono che tali composizioni insigni argumento, artificio mirabili, eventu vario, esitu inaspectato, stavano alla pari col modello, anzi erano un tantino clariores!

Tarquinia Molza, figlia del poeta Francesco, fu sollevata tanto in alto che forse perciò noi oggi non la vediamo più, neppure con forti telescopî. Venne chiamata la più dotta fra tutte le più illustri matrone che sono, che fûro e che saranno in avvenire. E questa corona di superlativi non le fu intrecciata da un poeta, il quale si lascia facilmente prendere la mano, ma da un filosofo, da Francesco Patrizi, che doveva essere poco tirato all'entusiasmo. Il Tasso fece di più, volle eternarla nei suoi dialoghi. Ma questa volta sia il filosofo, sia il poeta non riuscirono che ad imbalsamare un cadavere. La Molza è morta e seppellita.

***

Il Sonzogno ha raccolto in un modesto volume della Biblioteca Classica le poesie di Vittoria Colonna, di Gaspara Stampa e di Veronica Gambara, come per dire: “Solo queste tre donne meritano di essere chiamate poeti. Fino all'ottocento non c'è altro.„

Ha torto il Sonzogno? Non credo. Del resto [32] così la pensano tutti i compilatori di antologie. Aprite le nostre migliori antologie e non trovate che un paio di canzoni della Colonna, qualche sonetto della Stampa e una dozzina di strofe della Gambara. E delle altre poetesse? Silenzio.

Solo il Torraca nel suo Manuale di letteratura, fa un'eccezione per la Torelli e ne riporta un sonetto. Ma che volete! quel sonetto sembra bellissimo al Carducci e il Torraca per mostrarsi ossequente al dittatore ha dato uno strappo alla consuetudine.

Dunque se alcuno desidera conoscere come le nostre donne maneggiassero il verso nei tempi andati, deve ricorrere a quel volume del Sonzogno, che costa appena una lira. Una lira, venti soldi tutta la produzione poetica del sesso gentile!

Ci dispiace però che queste tre gentildonne sono presentate dallo Stecchetti con una prefazione critico-biografica. Che bel cavaliere! È vero che qui lo Stecchetti prende il vero nome di battesimo — Olindo Guerrini — e non ricorda affatto l'autore di Postuma. Corretto, correttissimo: non una parola equivoca, non una frase men che onesta. O credete che lo Stecchetti sia davvero uno screanzato! Io non credo niente, dico semplicemente: il Sonzogno avrebbe fatto meglio a dare un altro maggiordomo a quelle tre poetesse. Lo Stecchetti è indicato per una prefazione alle Novelle del Casti o alle Poesie del Marini, — si troverebbe [33] nel suo mondo. Per quelle distinte signore ci voleva o il Pascoli, o il Fogazzaro, o il Panzacchi!

Ma ritorniamo al nostro argomento. Queste tre poetesse — che si sono salvate dall'oblío, che hanno vinto il gran concorso bandito dal tempo — sono tre infelici amanti, e le loro poesie sono quasi sempre un pianto, un pianto monotono, reso più monotono dalle continue figure retoriche. Non manca il sentimento, specie nella Stampa, ma quel sentimento spesso si raffredda a traverso i contrasti, le metafore, le similitudini artificiosamente ricercate.

Vittoria Colonna erra di convento in convento, di ritiro in ritiro e non sa parlare d'altri che del povero marito morto; ne canta la bellezza, ne enumera i pregi, ne immortala le imprese. Che eroe, che eroe! Se fosse vissuto al tempo di Roma, Virgilio l'avrebbe preferito ad Enea!

Spesso ha momenti di vera disperazione:

. . . mi sforza la nemica sorte

Le tenebre cercar, fuggir la luce,

Odiar la vita e desiar la morte.

Poi ricorre alla religione, pensa ai dolori della Vergine, medita sulla caducità della vita umana: ma che! sul più bello, il pensiero dello sposo ritorna: siamo daccapo, l'elegia incomincia:

[34]

Or vedi come

m'ha cangiato il dolor fiero ed atroce,

Che a fatica la voce,

Può dar di sè la conoscenza vera.

La seconda, la Stampa, molto più infelice, va dietro al Conte Collatino, il quale, dopo averla amata, non vuol saperne più e si tedia di quei piagnistei. La innamorata fanciulla non sa rassegnarsi a questo abbandono e come per richiamarlo all'ovile gl'indirizza una sequela sterminata di sonetti, di canzoni, di capitoli. Lo bamboleggia, lo carezza, lo chiama con i nomi più dolci, lo paragona al cielo, al sole, al Parnaso. O il Conte! il Conte! io voglio seguirlo dovunque.

Ponmi ove il mare irato geme e frange,

... ove il sol più arde e più sfavilla;

Ponmi al Tanai gelato, al freddo Gange,

ove per l'aria empio velen scintilla:

io sono sempre lieta,

Purchè le fide sue due stelle vere

Non rivolgan da me la luce usata.

Difatti, finchè questo benedetto Conte (poeta anche lui!) le fa buon viso, la fanciulla è contenta più degli angeli che se ne stanno presso il trono di Dio.

Io non vi invidio punto, angeli santi,

Mentre ho davanti i lumi almi e sereni,

Di cui convien che sempre scriva e canti.

[35]

Ma quando il Conte l'abbandona, la poveretta è disperata: piange, piange da commuovere le pietre.

Piangerò, arderò, canterò sempre.

Finchè morte e fortuna il tempo stempre.

All'ingegno, occhi e cor, fuoco e pianto.

Fortunatamente la morte, più pietosa del Collatino, venne e la povera Stampa cessò di piangere e di cantare.

In ultimo si presenta la Gambara, la quale in mezzo alle noie del suo piccolo stato, spesso tocca la lira. È una donna di animo virile, che canta in una forma piuttosto classica, ispirandosi all'arte greca e latina, di cui è amantissima.

Appena le muore il consorte riveste di nero gli appartamenti, i cocchi, i cavalli e anche... la lira; ma non si avvilisce, non si dispera: chi si dispera, si danna e lei vuol andare invece in paradiso per rivedere lo sposo:

La tema di non andar ove il bel viso

risplende sopra ogni lucente stella,

mitigato ha il dolor

sperando in paradiso

l'alma veder oltre le belle bella.

Brava la Gambara che pensava all'eternità! Oggi è certamente felice, perchè ha ritrovato il consorte!

[36]

Ma abbiamo pianto abbastanza con queste tre gentildonne; è tempo di presentare i nostri ossequi ad altre poetesse, che non ebbero la disgrazia di restare vedove.

Ecco: in mezzo alle opere del Foscolo, del Giusti, trovo le poesie della Guacci. È un volume del 1847, resosi oramai raro, perchè i nostri editori non credono opportuno farne una ristampa; nè il Croce, che raccoglie, cura, commenta i lavori del De Sanctis, dell'Imbriani, dello Spaventa, ha finora pensato alla Guacci.

Eppure questa nobile e cara poetessa meriterebbe di entrare nella moderna letteratura. Mi sembra vederla, quando ancora giovinetta declamava le sue poesie alla presenza del Puoti, del Poerio, del Dabbono, del Leopardi e del Giusti.

Il suo genere preferito è la lirica, lirica forte che ricorda quella del Foscolo e del Prati. Il Settembrini, sempre un po' eccessivo nei suoi giudizî, presenta il volume della Guacci come “uno scrignetto di gioielli, diamanti di acqua purissima, di lavoro perfettissimo„. Questa volta il Settembrini merita venia: una fanciulla che canta con tanta grazia e leggiadrìa innamora.

Ma, checchè si dica, queste poesie hanno un valore indiscutibile. La Guacci non piagnucola per amore, non si rinchiude in argomenti sacri, per terminare il suo canto con un sospiro alla petrarchesca o con una giaculatoria: nessun frastuono, nessun rimbombo; la forma classica, [37] naturalmente castigata e densa di pensiero, rivela un animo virile, più di certi poeti moderni, che trattano la poesia come un gingillo.

Qui debbo fermarmi e prendere fiato.

Sono giunto a metà del cammino e quel che è peggio sto per entrare in un campo molto vasto. Mi tocca parlar delle letterate moderne. Dio mio, che esercito! Se fossi poeta ricorrerei alle Muse per essere illuminato e sorretto; ma non posso invocarle in un modesto lavoro di prosa. Le nove verginelle se ne stanno in Elicona a solo uso e consumo dei vati! Mi tocca dunque entrar solo nell'agone.

Innanzi tutto metto fuori le letterate straniere. Ognuno decanti le sue eroine. E poi come parlare della Sand, la quale cambiandosi il nome e vestendosi spesso da uomo, quasi rinnegò il proprio sesso? come parlare di Madama De Staël, di questa amazzone che scrisse di politica, di storia, di sociologia e che ebbe l'audacia di voler insegnare ai filosofi come va intesa la vita, ai re, come si governa?

Unica eccezione dovremmo farla per Carmen Sylva, che di tanto in tanto, fa sentire la sua voce melodiosa: ma le regine debbono essere giudicate dalle regine! Noi siamo monarchici e rispetto ne abbiamo per le signore coronate, specie quando sono colte, amabili, caritatevoli.

Sentite: se l'Alighieri, il Petrarca ecc. potessero ritornare in vita, resterebbero molto maravigliati nel vedere che le nostre donne somigliano [38] poco alle Beatrici e alle Laure. Oggi le donne scrivono romanzi, novelle, studî critici, storici; sono ascritte a circoli di cultura, dirigono riviste e periodici, danno brillanti conferenze, facendo restare con un palmo di naso noialtri uomini.

Un tempo una donna che si presentava in pubblico era accolta con una certa indulgenza; tutti la guardavano con benevole superiorità, come per dire: poverina, è una donna! Ma oggi, eh! oggi dinanzi a una donna colta siete voi che vi sentite piccino!

Un secolo fa la Guacci, timida, aveva quasi vergogna di far sapere che scriveva versi e solo per le continue insistenze di parenti e di amici dette alle stampe le liriche; Ada Negri invece, confinata a Motta Visconti ad insegnare l'abbecedario, sente una voce interna che le dice: Tu non devi consumare così la tua vita:

Vedi laggiù nel mondo

Quanta luce di sole e quante rose!

Senti pel ciel giocondo

I trilli delle allodole festose

Che sfolgorío di fedi e d'ideali

Quanto fremito d'ali!

No, non può restare in quel paesello, ella vuole la sua parte di sole e di gloria. E quanto la Bisi la presenta all'Italia, l'umile maestrina lascia i quaranta scolaretti stizzosi e poltroni e si consacra all'arte. Non si nasconde sotto un pseudonimo. [39] Nascondersi! e perchè? Mi chiamo Ada: sono una donna, come tua sorella, come la tua sposa. Che! non ho anch'io un cuore che palpita?

E non solo la Negri coltiva con successo le lettere.

Guardate: quello scaffale a destra è pieno di libri di donne.

Ecco le poesie della Fusinati e della Brunamonti, le due care poetesse che accordano in bell'armonia i santi affetti domestici col sacro amor di patria. Sono due mamme, due buone mamme; l'una un po' austera per la sua forma classica e, quasi direi, aristocratica; l'altra più dolce anche quando tocca la molla potente dell'amor di patria. Qui gli Amanti e l'albero della Cuccagna di Matilde Serao, di questa instancabile lavoratrice, vero ritratto della vita napoletana; là gli Innamorati della Contessa Lara. Povera Evelina! vittima delle proprie passioni, avventuriera per natura, trascorse una vita infelice. Leggete i suoi versi: sotto quell'ardore sensuale, sotto quella sete di voluttà peccaminosa si sente una voce di tristezza languida. È rimorso? è disgusto? Lasciamola in pace nella sua tomba insanguinata, ricordando per lei quella massima del Vangelo, tanto sublime e tanto modernamente giusta: molto le va perdonato, perchè molto ha amato.

Qui due nitidi volumi della Deledda. Come è simpatica questa giovane sarda! Le popolane della sua isola, ignoranti e superstiziose, gridano [40] allo scandalo, vedendo che una fanciulla si è data a scrivere libri. Ella intanto, rinchiusa nella sua romita Nuoro studia, studia indefessamente e senza essere ascritta ad alcuna conventicola letteraria, senza la comoda reclame di amici, arriva a farsi un buon nome nell'arte, rievocando con i suoi romanzi il passato glorioso della sua isola. Noi abbiamo sempre creduto che la Sardegna fosse un covo di briganti, una terra semi selvaggia. La Deledda ci dice: no, vi siete ingannati, i sardi non sono briganti, sono uomini forti, uomini di cuore.

Qui un numero della Moda del giorno fa pensare a Donna Paola, questa brillante e bizzarra scrittrice. Sentite: se il feminismo va avanti, nel 2000 le signore e le signorine saranno tutte sul tipo di lei. Poveri uomini! avrete che fare con delle donne spregiudicate e originalissime.

Curioso! tra le Tempeste della Negri e i Momenti lirici dalla cara e sventurata Aganoor, ecco le poesie erotiche e scarmigliate di Annie Vivanti, la quale con un forte spintone del Carducci fu messa in prima fila e brillò come un pianeta. Ma oggi che il dittatore è morto, la poverina si trova a disagio e ha pensato bene a ritirarsi e a non aprir più bocca: scrive romanzi, sì, ma non canta più.

Là, in fondo Le liriche di Luisa Anzoletti, di questa simpatica trentina, che educata allo studio profondo dei classici, riveste di eletta forma [41] le dolci aspirazioni del suo cuore. Cattolica per convinzione, canta la carità, l'amore per tutti, e dedica i suoi versi alle

genti meste

Che lagrimar non vidi indarno mai!

E la Baccini, la Bisi, la marchesa Colombi, la Vertua Gentile? Queste buone signore entrano nelle scuole primarie e con i loro libriccini dànno dei buoni consigli, dei sani ammaestramenti ai nostri bimbi. Sono le mamme di tutti, le quali pare che dicono come Cristo: lasciate che i fanciulli vengano a me!

E noi fidenti li mettiamo tra le vostre braccia i bimbi. Parlate loro di Dio e della patria, spargete i semi di quella sana morale, di cui la donna dovrebbe essere la banditrice e la gelosa custode!

Ma chi può parlare di tutte queste poetesse, romanzieri, educatrici? Voi ve le vedete davanti, come in una grande fotografia, con quel fascino, con quella dolcezza, con quella soavità che incanta e conquide.

Sono madri, sono spose, sono figliuole, che pur non tralasciando i sacri doveri domestici, coltivano l'arte con vero intelletto d'amore.

Oh! siate benedette! Voi affermate in modo solenne che la donna può, e deve sollevarsi dall'abbiezione, in cui il pregiudizio e l'ignoranza l'avevano trascinata.

[42]

***

Ma appena staccate l'occhio da questi libri vi assale un grande sconforto.

— Perchè — vi domandate — mentre nell'Italia settentrionale e centrale fioriscono tanti eletti ingegni, la maggior parte delle nostre donne meridionali sono ancora ignoranti e superstiziose? È inutile andare arzigogolando pretesti; la colpa è nostra che siamo ancora attaccati agli antichi sistemi educativi. Com'è mai possibile che la donna possa sollevarsi dall'abbiezione in cui si trova, se appena ha terminate le classi elementari, le dite imperiosamente: basta! — I giovani debbono ad ogni costo continuare gli studî ed anche se svogliati, poltroni, deficienti, frequentar licei ed università; alle fanciulle si dice invece: basta. Basta e perchè? perchè condannarle a consumare i migliori anni sui merletti, nelle trine, su tanti altri puerili ornamenti, i quali non fanno che svegliare quel basso sentimento di vanità, cui la donna, per un principio atavico, è naturalmente tirata?

Confessiamolo: i doni, i ricordi, che le nostre fanciulle ricevono dai genitori, dai parenti, dai fidanzati sono sempre oggetti di lusso — cappellini, guanti, sciarpe, ecc. — giammai un libro educativo, che parli al cuore, che arricchisca la mente di utili cognizioni.

[43]

Se vi permettete di dire a qualche padre. “Sa', la sua figliuola ha una bella disposizione allo studio; perchè non le fa frequentare il ginnasio?„ vi sentite rispondere: “Non ci mancherebbe altro!„

Qual maraviglia dunque se le nostre figliuole vengono su piene di pregiudizi e passano il loro tempo ad ornarsi, ad imbellettarsi, per apparire un po' più leggiadrette e vezzose? Inaridite le facoltà intellettive, non resta che darsi ai gingilli e alle moine. Così si presentano all'altare, così si preparano ad essere madri.

Quante signore conosco, signore rispettabili per censo e per nobiltà di natali, che leggiucchiano appena la cronaca del giornale e il libriccino della messa! Quando vi trovate in conversazione con queste poverette vi tocca discorrere di faccende domestiche, trattare argomenti frivoli; più in là non si può andare: quelle nobili matrone non avrebbero la forza di seguirvi.

Si dice in una forma più o meno enfatica che la donna deve essere la vestale domestica, destinata da Dio ad alimentare la fiamma dell'amore, della carità, del sacrificio; si dice che la donna ha il dominio intero della casa; si dicono tante cose sulla donna. Ma di grazia, che potrà mai compiere una vestale superstiziosa, una regina semi ignorante?

Oggi l'uomo sente il bisogno di trovare nella sua compagna non solo la buona massaia, la semplice [44] madre dei figli, la muta e involontaria ispiratrice, ma una creatura intelligente e colta, che lo consigli, lo sorregga nelle aspre lotte della vita moderna. Intanto si vede a fianco una donna piena di pregiudizii, che crede ancora alle fate, che non sa decidersi a viaggiare di venerdì, che chiama opera diabolica il cinematografo, che ignora in breve tutto quello che l'umano ingegno ha prodotto in questo secolo.

Non sono un femminista, nè credo vantaggioso per la società che la donna entri nella vita pubblica, sieda al banco del governo, si covra della toga del magistrato, declami dalla cattedra universitaria. Ciò che vorrebbero alcuni fanatici innovatori è un'utopia! La differenza fra l'uomo e la donna ci dev'essere. L'uomo assennato per logica, la donna per sentimento, l'uomo giudica per riflessione, la donna per istinto.

Ma rendete ragione quell'istinto, e la donna, pur restando donna, pur restando l'amabile e fedele compagna, non sarà più ciarliera, superstiziosa, ciecamente impulsiva. Istruitela, fatele comprendere che ha un'anima, che ha un'intelligenza e la donna, conoscendo così la propria dignità, potrà compiere intera quella santa missione cui la Provvidenza la destinava.

[45]

Gli umili e i superbi.

Un tempo i libri si pagavano un occhio.

Nel secolo XIII una Bibbia, ad esempio, costava la bella somma di 60 fiorini d'oro. Nel 1392 una baronessa di Germania dette alla propria figliuola per dote, e parve dote grandissima, pochi libri usati; un vescovo lasciò un breviario per comprare delle terre; il Poggio, con la vendita di un Tito Livio acquistò un villa; Luigi XI di Francia per leggere non so qual libro dovè dare in pegno tutte le sue argenterie; un certo Goffredo di Saint Leger nel 1332 confessa “avanti notaro aver venduto, ceduto, trasferito sotto ipoteca di tutti i singuli suoi beni e garenzia del corpo stesso al Signor Gerardo di Montagu lo Speculum Historiale.„ La moglie di un altro Goffredo, Conte di Augou — a quanto dicono gli annali Benedettini — comprò da un vescovo una raccolta di omelie, [46] pagando “ducento pecore, un moggio di frumento, uno di segale, uno di miglio e finalmente cento pelli di martora„. Pochi libri sacri e qualche classico greco e latino costarono al Cardinale Bessarione la bellezza di trentamila zecchini.

Nè ciò dovrà far maraviglia. Si scriveva sopra le foglie di palme o sulle fibre del papiro, e fortunato chi possedeva un libro.

E quando il papiro d'Egitto venne a mancare per la dominazione degli Arabi, si raschiavano le scritture per sovrapporvi delle altre e la Repubblica di Cicerone, il codice di Teodosio dovè cedere il posto a qualche antifonario o trattato di confessione.

I poveri letterati mancavano di libri. Bisognava ricorrere alla Corte o al Santo Padre, perchè solo re e papi si potevano permettere il lusso di una discreta biblioteca. E noi sappiamo di molti scrittori che non potendo possedere un esemplare dell'Iliade o dell'Odissea si accontentavano di un compendio, di un estratto, come se si trattasse di un'opera filosofica o scientifica.

Il Petrarca dovè copiarsi di sua mano le opere di Cicerone e si lamentava sempre dei copisti.

"Chi recherà — egli esclamava — efficace rimedio alla loro ignoranza e viltà? Non parlo dell'ortografia già da lungo tempo smarrita. Costoro confondendo insieme originali e copie, dopo aver promesso una, scrivono cosa affatto diversa, sicchè tu stesso più non riconosci quanto avevi dettato.

[47]

Se Cicerone, Livio, Plinio Secondo risuscitassero, credi tu che intenderebbero i propri libri? Non v'ha freno, nè legge alcuna per tali copisti, senza esami, senza prova alcuna prescelti: pari libertà non si dà per i fabbri, per gli agricoltori, per i tesserandoli, per gli altri artigiani.„

Questo lamento non era solo del Petrarca, ma di tutti gli studiosi. Quei benedetti amanuensi si servivano spesso di abbreviature, di ghirìgori, di tratti verticali più o meno inclinati da rendere la scrittura bizarra e indecifrabile. Un salterio latino, trovato a Stramburgo dal Tritennio, si credeva scritto in lingua armena. Alle volte nello stesso manoscritto si trovavano brani di opere disparate, parole sconnesse; “c'era sempre da dubitare — dice il Petrarca — se era opera di scrittore o di barbaro.„ Qualche buon copista o calligrafo non mancava. Il Petrarca negli Scrittori Parmensi parla di sedici calligrafi valenti; nella Storia di Parma ne ricorda altri otto. Sappiamo pure di un certo Jacopo Fiorentino, frate camaldolese, il quale, con una pazienza tutta monastica, copiava con caratteri nitidi opere latine e greche. Fu molto stimato in vita e in morte: basti dire che la sua mano destra fu conservata in un tabernacolo come una reliquia di santo. Ma fatta eccezione di questo Jacopo e di altri pochi, i copisti erano una ciurma di speculatori e d'ignoranti che guastavano o sconvolgevano ogni cosa con grave danno delle lettere.

[48]

Evviva Giovanni Guttemberg che dette il bando alle tavolette incerate, ai papiri, alle pergamene, ai palinsesti! La stampa, la stampa!

I sonnacchiosi copisti strillarono contro questo nuovo ritrovato e chiamarono la stampa col nome di magìa.

Sì, quale scoperta è stata più magica della stampa? Neppure il Guttemberg poteva mai immaginare che i suoi modesti caratteri mobili, perfezionati attraverso i secoli, avrebbero apportata così straordinaria innovazione nel campo del sapere. Oggi i libri non sono più il patrimonio di pochi privilegiati, nè c'è bisogno di zecchini per avere l'Iliade o l'Eneide. Con una lira avete fino a casa la vostra brava Divina Commedia; l'Iliade tradotta, annotata, commentata, preceduta da cenni biografici sull'autore, una lira; Le storie di Erodoto, una lira; le Tragedie di Sofocle o di Euripide una lira. Abbiamo biblioteche classiche, biblioteche romantiche, biblioteche amene, biblioteche scientifiche ad una lira al pezzo. Ed ogni pezzo è costituito da un volume più o meno tarchiato, ma sempre pregevole.

Fino a pochi anni fa quel capo ameno del Perino vi mandava per cinquanta centesimi i Promessi Sposi, le Poesie del Giusti o del Leopardi, la Gerusalemme Liberata o l'Orlando Furioso. È vero; i caratteri sono un po' minuti, di tanto in tanto sfugge qualche errore di stampa; ma paragonate [49] questi volumi con i manoscritti antichi e c'è da ringraziare la Provvidenza.

Con cinque soldi il Sonzogno vi offre un volume della Biblioteca universale antica e moderna, in cui trovate i migliori lavori letterarî, storici, scientifici, filosofici, politici di tutti i tempi e di tutti i paesi. Come sono preziosi questi volumetti che vi fanno gustare le più belle creazioni dell'arte! Non avete familiarità col greco? con cinque soldi potete leggere nella vostra bella lingua italiana le Odi di Anacreonte, le Rane di Aristofane, il Manuale di Epitteto, le Storie scelte di Erodoto, le Odi di Pindaro, i Detti memorabili di Socrate. Balbettate appena l'inglese? vi sa duro il tedesco? leggiucchiate lo spagnuolo? Questa benemerita biblioteca vi offre tradotti i più bei lavori del Cervantes, del Moro, del Calderon, del Goethe, dell'Heine, del Klopstock, dell'Ibsen, del Wal Wsitman: vi traduce finanche dal Cinese lo Scic-mai-ghan, e per cinque soldi vi dà un Dente di Budda.

Quel benemerito editore va ancora più in là: tre soldi una bella Vita di Dante o del Petrarca o del Manzoni; una piccola grammatica francese, o inglese, o spagnuola; una modesta antologia di prose italiane; brevi racconti morali, un manualetto dei sinonimi più comuni, un compendio di storia.

Evviva il progresso! evviva il buon mercato! Con un centinaio di lire potete acquistare un discreto [50] numero di libri, e metter su una piccola biblioteca a modo.

Romanzi però non ne comprate nè a una lira, nè a cinquanta centesimi. O non sapete che quest'anno un editore di Firenze, il Quattrini, ha avuto un'idea genialissima? Ha detto o pure ha pensato così: “Il romanzo non è un poema, una storia, un saggio critico o filosofico che va letto, riletto, studiato e postillato. Il romanzo si legge e basta. Dunque perchè dargli la forma di un libro e farlo pagare col pepe? Facciamolo comparire sotto gli abiti di un giornale.„ E il signor Quattrini pubblica ogni giovedì un giornale-romanzo, che costa tre miserabili soldi e che contiene un intero romanzo. E che romanzi! Il Padrone delle Ferriere, il Quo vadis?, l'Olmo e l'Edera, La signora dalle Camelie, La vita Militare, Un giorno a Madera, La torpediniera N. 39, Una sonata a Kreutzer.

Insomma per farla breve con sette lire, cinquantadue romanzi completi. E dategli un po' di tempo a questo Sig. Quattrini. Egli promette la serie B, per i romanzi di avventure, la serie C, per i poemi. Insomma fra dieci anni tutti i libri diventeranno giornali.

***

Ma anche oggi ci sono i libri superbi.

Gli scrittori moderni somigliano alle donne: [51] alzano un po' troppo la cresta, quando si vedono corteggiati.

La Divina Commedia, cinquanta centesimi; il Canzoniere, cinquanta centesimi; i Promessi Sposi, cinquanta centesimi; ma l'Idioma Gentile, quattro lire; Maternità, quattro lire; il Santo, quattro lire; la Cena delle Beffe, quattro lire; Leila, cinque; la Nave, sei; Fedra, sette.

E poi questi signori si lamentano che i loro libri non sono popolari. Che pretenzione! popolari a quattro lire? Con i tempi che corrono, pochi possono metter mano al borsellino e sacrificare quattro lire per un romanzo, per un dramma, per una dozzina di novelle o un centinaio di sonetti.

Lo so, altro è un libro che si ristampa, altro è un libro nuovo, ma da cinquanta centesimi a quattro lire ci corre.

Sentite a me: come si fa in teatro? C'è posto per tutti. Il principe, il conte, il barone, l'onorevole, l'alto magistrato si pavoneggia nel suo palco; l'agiato borghese si sprofonda nella poltrona; il povero operaio se ne sta là impalato sul loggione. Si tratta di maggiore o minore comodità, di sedere sul damasco o sulla nuda panca, ma la musica e il canto arriva all'orecchio di tutti con egual dolcezza.

Fate anche voi così. Di ogni opera due edizioni: una economica e un'altra di lusso. Date le illustrazioni, gli acquerelli, i tagli in oro, le legature rosee a chi le vuole; noi studiosi, noi [52] modesti insegnanti, vogliamo sapere semplicemente che cosa avete scritto.

Alcuni l'hanno capito. Lo Zanichelli, ad esempio, raduna tutte le opere poetiche del Carducci: le Odi barbare, le nuove Odi barbare, le Terze Odi barbare, le Rime nuove, Iuvenilia, Levia Gravia, Giambi, Epodi, Intermezzi ecc. e dice: Andiamo, tutta questa roba per dieci lire! E questa roba, com'è da immaginarsi, è andata a ruba.

Imitate lo Zanichelli; sarete più popolari e... farete quattrini!

[53]

Il vocabolario.

Prima che lo diciate voi, lo dico io: il De Amicis ha parlato del vocabolario e ne ha parlato da par suo. Questo simpatico scrittore somiglia un po' a Victor Hugo: vuol far amare tutto ciò che egli ama. Seguendo le orme del Manzoni, che ebbe la pazienza di “spogliare e rispogliare il vocabolario„, volle anche lui mettersi all'opera e leggerlo da capo a piedi.

“Che bellezza! Che incanto! Il vocabolario diletta più di un romanzo.„ E per due pagine il De Amicis tesse il panegirico di questo librone, che nessuno, a quanto mi sappia, aveva pensato di mettere sugli altari con tanto entusiasmo.

Però dopo averlo letto e postillato a dovere esclama: Italiani, noi siamo poveri di lingua, noi siamo anemici. Ognuno di noi non conosce che poche centinaia di parole e di modi, e stiracchiando, [54] ricorrendo a perifrasi, cerca di esprimere alla meglio ciò che vuole. Perchè questo sforzo? perchè questa miseria? La nostra lingua è ricca, straricca. Aprite il vocabolario. Voi, ad esempio, dite: — Ho mangiato qualche cosa prima del pranzo, ho preso un piccolo pasto dopo il pranzo, quel piatto era così squisito che n'ho mangiato un'altra porzione. — Che sciupìo di parole inutili, che noiosa ripetizione del verbo mangiare! Colpa vostra, signori miei. Se aveste un po' più di familiarità col vocabolario, direste semplicemente ho fatto uno spuntino o un ritocchino o un contentino.

E il De Amicis da bravo medico prescrive una cura ricostituente per questa anemìa. “Prendete il Fanfani, ultima edizione, mille e settecento pagine, otto volumi di sesto ordinario, di quattrocento pagine l'uno, cinquanta pagine al giorno. Un anno„.

Benissimo. Un anno di cura, un anno per imparare la lingua, un anno per scrivere davvero con arte!

Molti — piccoli e grandi — vollero far tesoro di quella ricetta e subito si misero all'opera. Ogni mattina, a stomaco vuoto, cinquanta pagine di vocabolario.

Ma che! chi dopo una settimana, chi dopo un mese, chi dopo due, tutti incominciarono a sentirsi male; quelle pillole erano indigeste: ognuno [55] interruppe la cura e non volle più sapere di vocabolario.

Era da immaginarsi. Con questi chiari di luna chi volete che consumi un anno sul vocabolario? Oh! il De Amicis non sa che nel nostro secolo c'è una fretta indiavolata in tutte le cose? Oggi i libri un po' voluminosi si presentano sotto forma di dizionarî o almeno offrono un indice alfabetico analitico, per comodità dei lettori, che non hanno tempo da perdere!

I nostri padri — beati loro! — si leggevano da capo a fondo un grosso volume e spesso ritornavano volentieri a leggerlo; ma oggi, oggi no: i libri che pesano più di duecento grammi ci danno noia e si lasciano dormire nello scaffale.

Proprio in questi giorni, scorrendo un catalogo di opere sacre, ho letto che un certo prof. Sestili ha pubblicato un Dizionario Tomistico ad uso degli studiosi di Teologia e Filosofia. Un tempo gli studiosi postillavano, commentavano la Somma dell'Aquinate, oggi si contentano di leggerla tagliuzzata in un dizionario. Che volete? quella Somma ai giorni nostri è diventata Soma e per conseguenza molto pesante.

Dunque, se i libri si riducono a vocabolarî, è mai possibile che un vocabolario possa diventare un libro e leggersi per disteso come una storia, o un trattato, o un romanzo, tenerlo sul tavolino da notte e portarlo, a fascicoli, nelle passeggiate in campagna? No.

[56]

Ma non credete che quel libro abbia perduto il suo dominio! Non volete seguire l'esempio del De Amicis? peggio per voi. Di buona o mala voglia, dovete ricorrere sempre a quel grosso libro. Disprezzatelo, guardatelo con occhio bieco, ma dovete convincervi una buona volta che il vocabolario è il solo, il vero libro indispensabile a tutti. Potete fare a meno della Divina Commedia e della Bibbia (e molti ne fanno a meno); del vocabolario, no.

Prima di tutto bisogna comprarlo. Avreste il coraggio di dire ad un amico “Mandami un po' il vocabolario Italiano?„ Vi sentireste rispondere: “Non hai il vocabolario? compralo.„

Nè basta comprarlo. La maggior parte dei libri si fanno rilegare per lusso: il vocabolario per necessità. Quel librone, a differenza di tutti gli altri, lavora, lavora molto: occorre quindi che sia rilegato in pelle e pelle fortissima. Di più, tutti i libri, piccoli e grandi, belli e brutti, utili e inutili, se ne stanno negli scaffali. Appena comprati, restano pochi giorni sul tavolino; alcuni si leggono, altri si sfogliano; ma tutti, letti o non letti, raggiungono la loro residenza stabile. Il vocabolario invece, dal primo giorno che è entrato in casa, se ne sta sempre sul tavolino. Accanto al calamaio, alla penna, alla cartella, il vocabolario. Spesso per i vostri studi avete bisogno di consultare molti libri; ne prendete uno, poi un altro. Dopo una settimana il tavolino n'è pieno: [57] quei libri si accavallano maledettamente. Che disordine! Che oppressione! Bisogna far piazza pulita, bisogna che ognuno ritorni al suo posto. Ma il vocabolario non si muove: il suo posto è là, sul banco del lavoro.

Sentite: se entrando in una stanza da studio, non trovate sul tavolo il vocabolario, dite subito: “Qui non si legge, nè si scrive„! Infatti è mai possibile leggere o scrivere, senza ricorrere a lui, consigliere, maestro, despota del nostro patrio linguaggio?

La legge ha il Codice, la Chiesa il Concilio di Trento, la lingua il vocabolario. Potete rasentare il codice, ignorare il Concilio di Trento, ma il vocabolario, no. Dal giorno che avete incominciato a scrivere due parole siete suo suddito.

Che dittatore, che autocrate! Non discute, decreta; non consiglia, comanda. Il giudice per formulare e rafforzare la sua sentenza richiama articoli e testi unici; il vocabolario non ha bisogno di altre autorità: è lui la Legge, lui la Cassazione, lui l'Alta Corte.

Come è modesto nella sua grandezza, come è superbo nella sua pedanteria! Sempre pronto alle vostre chiamate, sembra un servitore, ed è un padrone!

Non è botanico e vi parla di piante; non è medico e vi fa conoscere le malattie, cui andate soggetto; non è un Santo Padre e vi descrive il Paradiso. Entra nei postriboli e nelle [58] chiese, vi porta in mare e in cielo! Che verista! Ciò che voi non avete il coraggio di dire neppure con gli amici più intimi, egli lo dice, senza sottintesi, a tutti: lo dice ai vecchi, agli adulti, ai ragazzi, alle fanciulle. Non ha scrupoli, nè reticenze, non professa nessun sistema, non appartiene a nessuna scuola, non impone nessuna morale. Dite quello che volete; predicate in chiesa o nella camera del lavoro; calunniate o incensate; pregate o bestemmiate; educate o corrompete; incitate alla guerra o consigliate la pace: il vocabolario vi seconda sempre.

Cattolici, protestanti, ebrei, panteisti, razionalisti, modernisti, massoni, atei: aprite il vocabolario; per formulare a dovere il vostro credo, avete bisogno di lui!

Monarchici, repubblicani, socialisti, anarchici, terroristi, nichilisti, il vocabolario! Per predicare il vostro verbo, dovete ricorrere a lui.

Che gran complice! Eppure chi glie ne fa una colpa? chi lo chiama responsabile delle utopie, delle stranezze, dei paradossi, delle abberrazioni che si pensano e si scrivono?

Il vocabolario, pure essendo di tutti i colori, di tutte le tendenze, resta sempre il grande areligioso, apolitico, amorale. È l'unico libro, che mentre fornisce a tutti il materiale, può, in ogni quistione, in ogni polemica, esclamare come Pilato: — Io me ne lavo le mani! —

Questo furbo non fa che definirvi le parole, [59] registrarvi le frasi, i motti, i proverbi. Non tenta, non solletica, non seduce; siete libero di scegliere ciò che volete: ne ha per tutti i gusti.

Agli innamorati presta il dolciume, al pessimista le parole di colore nero, al rivoluzionario le mitraglie, all'asceta le vaghe aspirazioni, all'umorista le arguzie, al maligno i sarcasmi, all'invidioso gli scherni.

Dovete scrivere in prosa? Il vocabolario vi offre parole piane, facili, casalinghe. Amate scrivere in versi? Il vocabolario vi presta parole dolci, diafane, armoniose. Che? dovete preparare un discorso che faccia rumore? ricorrete a lui: ha un centinaio di parole rimbombanti che fanno al caso vostro.

Ah! se aveste la pazienza di cercare, frugare, rovistare quel librone, potreste esprimere una vostra idea in venti, trenta modi differenti e produrre venti, trenta effetti diversi.

***

Eppure questo libro che vi favorisce in tutto, che è sempre pronto a servirvi, non è amato, no; è sopportato, lo si considera come un grande importuno; che vuol ficcare il naso in tutte le cose.

Domandate ai vostri ragazzi che ne pensano del vocabolario. Dio mio, è il libro più antipatico! Almeno quegli elementi di storia hanno dei fatterelli piacevoli, il libro di lettura attira con [60] qualche raccontino; ma il vocabolario? pesa un mondo e annoia per dieci.

Ogni giorno bisogna portarlo a scuola, ogni giorno bisogna riscontrare, trascrivere e mandare a memoria dieci vocaboli. Il maestro spesso grida: — Come, roba con due b! perchè non l'hai trovato nel vocabolario? — E così i vostri poveri ragazzi, per non avere rimproveri a scuola e castighi a casa, ricorrono al vocabolario. È un libro che li perseguita sempre e da cui non possono liberarsi. Scrivono il componimento italiano? Dopo aver consumato due ore a mettere insieme dieci periodi, vocabolario per i benedetti errori di ortografia. Mandano a memoria una poesietta, un brano di prosa? vocabolario per assicurarsi del significato di tre o quattro parole.

Hanno torto i ragazzi a considerarlo come un libro noioso? Non credo.

Hanno torto invece gli scienziati, i quali vorrebbero fare a meno del vocabolario. Essi dicono: “Il vocabolario a noi? Ma non sapete che la scienza ha un linguaggio proprio, ha parole tecniche, che non sono italiane, nè francesi, nè tedesche, ma scien-ti-fi-che! La scienza è universale, e quindi è libera di servirsi dove vuole e come vuole!„

E così i medici, ricorrono direttamente al greco antico e, per intimorirci di più, battezzano le malattie con parole lunghe un metro; i naturalisti si servono del latino; gl'ingegneri rubano un po' da per tutto. E la lingua italiana? [61] Si lascia ai letterati di professione. Finchè si frequentano le scuole secondarie, si studia un po' di lingua; ma dopo il liceo, si manda a quel paese. Ognuno prende la sua strada. Chi entra nelle cliniche, chi si cristallizza coll'algebra e con la trigonometria, chi si dà anima e corpo all'elettricità, chi si rinchiude in un osservatorio per studiare, la luna, il sole, e le stelle fisse o erranti, chi si ostina e restarsene, giorno e notte, in un sotterraneo per darvi la lieta novella che all'ora B, al punto C, c'è stata una forte scossa di terremoto, e chi va ramingo per piani e per valli, in cerca di piante rare. E così ognuno vive nel suo mondo, ognuno legge i libri del proprio mestiere.

La letteratura? Che letteratura! Ricordano come un sogno di aver un tempo letto l'Iliade, il Furioso, i Promessi Sposi. Oggi hanno altro per il capo.

Eh! signori miei, fate male; potete dare il ben servito a tutti i libri, ma al vocabolario, no. Prima di essere medici, astronomi, naturalisti, ingegneri, siete italiani ed avete il sacrosanto dovere di parlare e scrivere in lingua italiana. E poi... non vi siete accorti che il vocabolario si vendica degli apostati? Voi consumate i migliori anni nello studio, vi affaticate, incanutite innanzi tempo, ma la scienza resta sempre il patrimonio di pochi. Perchè? Perchè i vostri libri sono scritti in una forma arida, stucchevole, saracinesca. Ricorrete al vocabolario, fatevi guidare da lui. La [62] scienza sarà popolare e un po' di popolarità l'avrete anche voi.

***

Faccio una proposta: presentatevi a un uomo di Governo, a un'Eccellenza, a una sotto-eccellenza e parlate di lingua! Sareste accolto con un sorriso canzonatorio! Questi signori del Ministero, che hanno in mano i destini della patria, non possono pensare alla lingua.

L'alta politica assorbe, l'alta politica è come l'amore: fa perdere tutti i sensi. Appena un giurista, uno scienziato, un cultore di lettere ha la fortuna o la disgrazia di afferrare un portafogli o mezzo portafogli, addio professione, addio studî! Non è più medico, avvocato o letterato, è un uomo politico.

Valga per tutti l'esempio dell'on. Sacchi. Chiamato per la prima volta da Sonnino a guardare i sigilli reali, corre a Torino, licenza clienti e scrivani e chiude bottega. Che avvocato e avvocato! Il ministro è ministro! Roma, la potente incantatrice, lo chiama a sè, e lo trasforma in un matematico; gli presenta dieci, dodici problemi — problema economico, problema finanziario, problema del mezzogiorno (siamo diventati un problema, noi del Sud!) e gli dice: “risolvi„.

Eppure questi uomini, che volontariamente, per la salute... della patria, si espongono alla terribile [63] prova, e diventano vittime del quarto potere, che li spia, li sorveglia, li censura; oltre a doversi parare i colpi mortali delle estreme destre e sinistre, — oggi veramente non più: gli estremi si son toccati e l'opposizione la fanno i liberali del centro —; oltre al pericolo di trovarsi domani dinanzi all'Alta Corte di giustizia per il redde rationem, questi uomini debbono pensare, — guardate un po'! — alla lingua e consultare il vocabolario. Specie il Ministro della Pubblica istruzione, questo Pontefice Massimo dei nostri studi, deve maneggiar bene il patrio linguaggio. Nè lo dico per celia: il ministro Baccelli si permetteva di dire in pubblica Camera, che il Bonghi guardava il letto. Subito l'Imbriani a rimbeccarlo: “Guarda il letto! Ma non sa il signor ministro della Pubblica Istruzione che guardare il letto è francesismo?„

Il Baccelli tacque: aveva torto.

Ricordate lo scandalo di quattro anni fa? Dalla Minerva vennero fuori certi temi d'italiano! I professori si guardarono in faccia e a bassa voce si andavano susurrando, non senza compiacimento: — hanno perduto la testa quei signori! — Ma il ministro non aveva perduto la testa, no; aveva solo dimenticato di consultare il vocabolario. E questa dimenticanza continua. Spesso dopo aver letto una circolare vi viene la tentazione di scrivervi sotto a grossi caratteri — vocabolario — e spedirla raccomandata “a Sua Eccellenza il Ministro della Pubblica Istruzione„.

[64]

Al ministro? Ma è lui che scrive le circolari? Quel poveretto non ha neppure il tempo di grattarsi il capo: firma, non scrive. Questa, però, non è una buona ragione: chi firma, ne assume la paternità. Anche la cambiale si firma, e noi, disgraziatamente, sappiamo a prova quali danni morali e finanziari può regalarci quel pezzetto di carta, a cui appiccichiamo la nostra riverita firma.

Il Ministro è occupatissimo. Ne convengo. Ma, Dio benedetto! invece di mandar fuori in un anno, centinaia e centinaia di circolari, di normali, di ministeriali, che lasciano il tempo che trovano, se pure non si contraddicono e non ingarbugliano di più la matassa, ne scriva una dozzina, una al mese, avrà così il tempo di studiarle meglio e di presentarle, con l'aiuto del vocabolario, in bella forma italiana.

***

Dunque vi siete convinti che il vocabolario è indispensabile a tutti! Chiamatelo pedante, importuno, seccatore, ma dovete tenerlo sempre sul tavolo, anzi... Qui mi fermo, voglio prima raccontare un aneddoto.

Siamo in un caffè. Un signore dall'aspetto aristocratico, sorseggiando una bella tazza di moka, dice al cameriere:

“Di grazia, potrebbe favorirmi una cartolina postale?„.

[65]

— Presto servito. —

In un attimo il cameriere ritorna con penna, calamaio e cartolina. Il signore lo ringrazia con un sorriso, dà l'ultimo sorso al moka, inforca gli occhiali e si mette a scrivere. Scrive, scrive; ad un tratto si ferma. Dà uno sguardo all'intorno, resta un po' sopra pensiero, carezza i suoi enormi scopettoni, riprende la penna, la immerge nel calamaio e resta così. Poi di botto, con la sinistra preme il campanello elettrico.

Si ripresenta il cameriere.

— Il signore desidera? —

“Scusi, sa', mi favorisca il vocabolario italiano.„

— Il vocabolario! non l'abbiamo il vocabolario! —

Tutti, a questo breve dialogo, se la ridono sotto i baffi; anzi due, imprudenti, ridono così forte che quel signore stizzito, esclama in tono minaccioso: “C'è poco da ridere! Sono un galantuomo e non ho detto mica una sciocchezza, io!„ Poi, getta pochi soldi sul tavolo, prende bastone e cappello, e via!

Appena si fu allontanato, cominciarono nel caffè i commenti. “Sarà un pedante! Sarà un maniaco! Che bel tipo da commedia!„. E qui a ridere, a celiare, a mettere in canzonella tutti i puristi passati, presenti e futuri.

È comodo tagliare i panni al prossimo, mentre si gusta un gelato o un bicchierino di Strega!

[66]

Ma ripensando a quel signore, veggo che alla fin fine non aveva torto, no.

Siamo ragionevoli! Noi italiani, più degli altri popoli, si ha sempre bisogno del vocabolario. Ogni regione del nostro bel regno possiede il suo dialetto, e nel dialetto parla, impreca, bestemmia, ride, piange, delira, sogna. Specie noi del mezzogiorno, siamo abituati fin da bambini a trattare col nostro dialetto, gaio, vispo, birichino, licenziosetto, che è un miscuglio bizzarro di latino, greco, spagnuolo, francese — sacra reliquia dei nostri antichi padroni. — In famiglia, tra gli amici, nelle conversazioni casalinghe, tutto è dialetto. La parola, come è naturale, non ci viene mai meno: sempre pronta, sempre propria. Le frasi, gl'idiotismi, i vezzi si succhiano col latte materno. Siamo degli artisti nel raccontare un aneddoto, nel ritrarre una scena, nel rimbeccare — botta e risposta — chi vorrebbe divertirsi a nostre spese.

Ma tutta questa geniale gaiezza si estingue, ogni qualvolta siamo costretti di ricorrere alla lingua italiana. Con le persone di riguardo, con le signorine bisogna parlare in lingua ufficiale.

Quale martirio! Si piglia la rincorsa, ma che è che non è, il carro stride: voi vi sentite inceppato, le labbra quasi non sanno pronunziare una parola. Si va avanti barcollando, ricorrendo agli insomma, ai perciò, ai naturalmente, passando dal lei al voi, aiutandovi col gesto, con gli occhi. Spesso per [67] pensare a uno strafalcione detto, vi ingarbugliate di più e ne dite altri. Spesso fate a meno di prendere parte alla discussione, il silenzio in quel caso è oro di ventiquattro carati; e se non è possibile tacere, rispondete a monosillabi, servendovi di un vezzoso e comodo: Sì, signora! No, no! Non ci mancherebbe altro! È verissimo!

E quando, come Dio vuole, la conversazione è finita sembra esservi liberato da un peso enorme. Vi resta però il rimorso, e tra voi e voi andate ricordando gli spropositi e i farfalloni pronunciati con tanta solennità. Che bella figura! e dire che libri ne avete letti, studi di lingua ne avete fatti!

Finchè si parla, passi pure: verba volant e volano pure le improprietà, i francesismi, le sgrammaticature, le lunghe perifrasi scialbe e inconcludenti, i periodi lasciati in asse. Del resto, mal comune è mezzo gaudio. Ognuno ha sull'anima di tali rimorsi e non potrebbe gettare la prima pietra!

Ma il guaio, il guaio serio è quando si scrive: le idee vi frullano nel cervello e fanno ressa per uscire: voi le ordinate, le accarezzate e giù in fretta a versarle sulla carta. La penna corre, vola! Che bei pensieri! Modestia a parte, voi siete uno scrittore coi fiocchi. Bravo, bravo! Domani starete sugli altari a fianco al D'Annunzio e al De Amicis.

Ma che! quella prosa che calda calda vi sembra [68] bellissima, dopo due ore ha perduto tutto il suo incanto. È accademica, slavata, piena di francesismi, di provincialismi, di contorsioni, di luoghi comuni. Voi non siete più contento dell'opera vostra. Quanti dubbi, quante incertezze! Questa parola è italiana? e quest'altra? Questa frase mi sembra di averla letta, dove? nell'epistolario del Giusti? No, nei Proverbi? Quali proverbi! nelle lettere! e qui a scartabellare, a ricercare, a perder la testa!

Noi siamo infelici nella lingua. Le cose più comuni non sappiamo esprimerle con garbo. Spesso per nascondere la nostra povertà, si ricorre ai punti sospensivi, alle interiezioni. Tutto questo perchè? perchè facciamo poco uso del vocabolario. Lo teniamo sul tavolo, sì, ma lo consultiamo di rado. Ecco l'errore. Noi dovremmo avere sempre fra le mani quel libro.

Signori proprietarî di hôtel, in ogni camera, oltre le sedie, la spazzola, il pettine, non dimenticate di mettere sul tavolo il vocabolario della lingua italiana; vocabolarî nei palchi dei teatri, vocabolarî nelle pullman dei treni diretti, vocabolarî negli uffici postali e telegrafici, vocabolarî nei caffè, nelle trattorie, nei tribunali, vocabolarî... debbo dirlo? nel Parlamento. Ogni deputato abbia il suo Petrocchi, legato in pelle e oro. Forse così, molti nostri Rappresentanti, prima di domandare la parola e metter fuori certi discorsi, che per maggiore disgrazia vengono stenografati e conservati [69] gelosamente negli Atti della Camera — ad perpetuam rei memoriam — avranno la comodità di consultare quel libro e parlare meno barbaramente. E i senatori? Lasciamo stare questi poveri vecchi. La vista è debole, le mani sono rattrappite e poi... parlano tanto poco! Ma i deputati, questi signori che sono pieni di vita, che rappresentano il popolo italiano, dovrebbero parlar bene e dare il buon esempio.

E voi, signor Ministro della Pubblica Istruzione, non alzate la voce a difesa del nostro “Idioma Gentile?„.

Eccellenza Credaro, invece di accarezzare gl'insegnanti primarii e secondarii, i quali, ringalluzziti come i ferrovieri, sono incontentabili e tirano sempre calci, pensate al vocabolario.

Oggi tutto è Stato. Chinino dello Stato, Ferrovie dello Stato. E la lingua non è dello Stato?

Sta bene combattere la malaria, che infesta le nostre campagne e miete migliaia di vittime; ottima idea disciplinare ferrovieri e treni diretti con un nuovo Ministero; ma la lingua? Avete mai pensato che noi italiani non sappiamo parlare? avete mai pensato che quando una povera recluta del Napoletano è spedita, a grande o a piccola velocità nel Veneto o nel Piemonte crede trovarsi nella California, perchè parla e nessuno l'intende, è interrogato e non sa rispondere?

Eccellenza, gl'Italiani sono stranieri tra loro per la lingua.

[70]

E che bisognerebbe fare? Abolire i dialetti? No; rendere popolare la lingua per mezzo del vocabolario. E poichè so che vostra Eccellenza,

in tutt'altre faccende affaccendata,

a questa roba è morta e sotterrata,

mi permetto abbozzarvi un progetto di legge, che dovreste avere la bontà di caldeggiare in seno al Consiglio dei Ministri e in seno alla Camera. I nostri cinquecento l'approveranno, non dubitate. Del resto si tratta appena di due o tre articoli e andrebbe sotto la categoria di leggina. Sentite.

Art. I. Dal 1 Gennaio 1912 tutti gl'impiegati civili e militari del Regno e della Colonia Eritrea avranno per proprio uso e consumo il vocabolario della lingua italiana.

Art. II. Sorgerà in Roma, sotto la dipendenza e vigilanza diretta del Ministero della Pubblica Istruzione, la Tipografia dello Stato per la esclusiva pubblicazione del vocabolario della lingua italiana.

Art. III. I Primi Presidenti e Procuratori Generali di Corte d'Appello, i Comandanti di Corpo d'Armata, i Prefetti, i Direttori Capi delle Poste e Telegrafi, gl'Intendenti di finanza faranno pervenire, per il tramite del proprio Ministero, non più tardi del 10 Novembre, l'elenco nominativo dei loro subalterni, affinchè ogni impiegato abbia [71] per il 31 Dicembre un esemplare del Regio Vocabolario.

Ecco tutto: appena tre articoli, ma siate sicuro che la lingua se ne avvantaggerà di molto. Dal Primo Presidente di Corte d'Appello all'ultimo usciere di Conciliazione; dal Generale di Corpo d'Armata alla più ingenua ordinanza del più ingenuo sottufficiale, tutti, tutti impareranno a maneggiare con più urbanità la propria lingua. Forse così i signori Prefetti, Sotto-prefetti, segretarii, sotto-segretarii daranno il bando a certe lettere stereotipate, che si tramandano di generazione in generazione e che sotto la forma burocratica, nascondono una lingua barbara.

Ma, Eccellenza, scusate: bisogna aggiungere un altro articolo al progetto di legge.

Art. IV. Ogni comune del Regno, in ragione dei suoi abitanti, riceverà gratis un numero di esemplari del Regio Vocabolario. I Consigli comunali avranno cura di distribuirli ai cittadini che ne fanno richiesta.

Sì, sì, seminate vocabolarî da per tutto, in cielo, in terra, in ogni luogo. Dopo un paio di anni in Italia si parlerà davvero la lingua italiana.

Signor Ministro, il giorno in cui lascerete la Minerva, potrete dire ad alta voce: Ho salvata la lingua!

Ma che, voi fate boccuccia! Non vi va, è vero? Ebbene, questo aureo e salutare progetto di legge lo farò proporre dal Deputato del mio collegio, [72] cui parlerò alla vigilia delle prossime elezioni generali. Son sicuro che mi dirà di sì, salvo a vedere se il furbo manterrà la parola. Sanno così bene promettere e non mantenere i nostri Onorevoli!

***

Tempi beati i nostri! Oggi con dieci, quindici lire avete fino in casa il vostro bravo vocabolario della lingua italiana. Non vi piace il Fanfani? comprate il Petrocchi. Non vi garba il Petrocchi? eccovi il Rigutini. Volete il nuovo vocabolario del Giorgini e del Di Broglio? Padronissimo.

Del resto tutti seguono lo stesso metodo. Dopo aver data la spiegazione di una parola, vi mettono sottocchio proverbi, motti, frasi, in cui sempre artisticamente è incastrato quel vocabolo.

Un esempio pratico. Che cosa significa mano? Mano — direte voi — significa la mano. È vero. E nient'altro, proprio nient'altro?

Aprite il Fanfani. Due pagine fitte, quattro colonne, per questa parola. Significato ufficiale: membro dell'uomo, attaccato al braccio e per cui mezzo fa tutte le sue operazioni. Significato speciale per i medici: tutto l'organo possessorio che suddividesi in omero, cubito e mano estrema; per i costruttori di corda: forca di ferro, con la quale si tiene il filo nella conca, quando si vuole incatramare.

[73]

Ma basta con i significati, diamo piuttosto uno sguardo alle frasi.

Noi tutto facciamo con la mano. Il Montaigne, non so se per il primo, ebbe la pazienza di notare tutto ciò che l'uomo fa con la mano.

“Con la mano — egli dice — si domanda, si supplica, si rifiuta, s'interroga, si dubita, si teme, si insegna, si comanda, si imita, si dà coraggio, si accusa, si condanna, si assolve, si disprezza, si sfida...„ e continua così per una pagina, conchiudendo trionfalmente “la mano gareggia con la lingua nelle molteplici sue variazioni„.

Sono celebri le sfide di Roscio e di Cicerone: il primo pretendeva di esprimere col gesto tutto ciò che con la lingua esprimeva l'eloquentissimo oratore.

Credo però che nessuno abbia mai pensato quante cose noi diciamo con la parola mano. Sentite. Due persone si aggruffano? Vengono alle mani. Tizio ruba? lavora di mano, giuoca di mano. Caio gode la simpatia di tutti? è tenuto in palma di mano. Chi ama l'ozio, sta con le mani alla cintola, con le mani in mano. Quel signore è spilorcio? ha una mano!; è prodigo? è largo di mano; è severo? che mano di ferro; è debole? si fa prendere la mano.

Un mal vivente, dopo averne fatto di cotte e di crudo cade in trappola? è la mano di Dio! In questo affare non c'entro, me ne lavo le mani. La cosa è così, ne sono certo, metterei la mano sul [74] fuoco. È colpa tua? morditi le mani. Invece di consumare venti parole per dire ad un amico o ad un seccatore, che siete dispostissimo a favorirlo, ma che non dipende solo da voi, bisogna parlarne anche a Tizio, vi sbrigate subito — lui con una mano ed io con due. Il do ut des dei latini, che sa molto d'egoismo, si raddolcisce col vezzoso una mano lava l'altra. Dammi una mano, aiutami. Hai le mani in pasta non si dice dei fornai, ma di molti uomini politici — voi m'intendete — che spandono grazie e favori. Aspettate l'occasione per rendere la pariglia a quel farabutto? se mi cade in mano! Il cavallo si sbizzarrisce? ha guadagnato la mano. Chi perdona, alza la mano, chi riesce in ogni cosa ha una mano benedetta„.

Ma mi accorgo di fare un lavoro inutile. Aprite il vocabolario; ne trovate a bizzeffe di queste frasi.

E quanto il vocabolario vi ha detto che una frase è italiana, servitevene a vostro bell'agio: mangiatene a colazione, a pranzo, a cena e andate a letto senza pensieri. Nessuno potrà attaccarvi sulla lingua.

Ma prima di addormentarvi, pensate un po' a quei poveri letterati antichi, che si trovarono in ben altre condizioni. Fino al cinquecento si scriveva senza vocabolario. Ognuno doveva accattar voci, frasi, regole sui classici canonizzati, formando così un zibaldone più o meno grosso per proprio uso e consumo. Si passavano anni e anni per un [75] estratto di parole sulla Divina Commedia, sul Canzoniere, sulle Vite dei Santi Padri; e di ogni parola bisognava esibire il certificato di nascita, “L'ha detto Dante? ma dove? in qual verso? L'ha usata il Boccaccio? Ma santo Iddio, il Boccaccio non è sempre imitabile.„

Di qui polemiche, discussioni eterne che spesso andavano a finire in contumelie ed insulti. I pedanti stizzosi, cocciuti si ostinavano a scrivere l'oro di lega del trecento e non volevano d'un palmo staccarsi dal toscano, servendosi di parole rancide, imbalsamate; altri, di maniche larghe, mettevano in campo l'uso e quindi la lingua parlata; altri infine pur non dando troppo peso a tali pettegolezzi, per non venire alle mani con i pedanti, piegavano la testa. Il Bembo, vedendo che questa benedetta lingua bisognava cercarla con la lanterna di Diogene, diceva all'Ariosto: “Senti a me, scrivi in latino: il tuo Orlando potrà impazzire come vuole e nessuno avrà che dirci„.

E perchè? perchè mancava il vocabolario. Veramente un certo Padre Ambrogio Calepino (da cui ne venne Calapino, vocabolario) volle tentare la prova e mise fuori un lessicon. Ma che dizionario! Basti dire che il buon monaco agostiniano ingarbugliò di più la matassa.

E così la povera lingua italiana, disprezzata, bollata col nome di volgare, serviva per i piccoli atti, per gli atti grandi c'era il latino.

Ma un giorno, cinque accademici degli Umidi: [76] Giambastista Dati, Anton Francesco Grazzini, Bernardo Canigiani, Bernardo Zanchini e Bastiano de' Rossi si distaccano dai compagni, si radunano in luogo ameno e alterando squisite cenette con spensierato cicalare, passano parecchie ore della sera.

Il Salviati, che più degli altri conosceva le misere condizioni della lingua, si mette in mezzo a questi cinque capi ameni e dice loro: “Perchè non compiliamo un vocabolario? Nella nostra lingua, insieme alla farina c'è molta crusca: dunque fondiamo l'Accademia della Crusca.„

Della crusca! Bisognava fondare l'Accademia della farina. Ma tant'è, vollero chiamarla della Crusca e vada per la Crusca. In quei tempi tutte le accademie, anche le più assennate, prendevano nomi bizzarri, per non dire ridicoli.

Anzi questi signori, continuando la celia, presero per stemma un frullone, lasciarono il nome di battesimo e si chiamarono l'Infarinato, l'Inferigno, il Rimenato, l'Insaccato. Solo il Grazzini restò col primitivo pseudonimo di Lasca, perchè la lasca è un pesce di fiume che va fritto con un po' di farina.

Questo comitato dei cinque il 1612 pubblicò il Vocabolario della Crusca. Finalmente! Ma che, credete che cessassero le polemiche? Non era mica il vangelo, la Crusca. Chi ne rise, chi l'accolse come un brutto scherzo, chi ne disse corna.

Aprì il fuoco il Beni con la viperina Anticrusca, [77] ma gli restituì capitali e interessi il Pescetti con la terribile risposta all'Anticrusca.

Curioso fra tutto il Gigli. Fa un estratto di voci occorrenti nelle opere di S. Caterina e le dona ai Cruscanti, affinchè arricchissero il vocabolario di un tanto tesoro. Gl'Infarinati però fecero gli schizzinosi. “Santa Caterina, ne facciamo di cappello; ma quelle voci, no!„

Apriti cielo! Il Gigli si piccò e mise fuori il Vocabolario Cateriniano, con cui menò colpi da orbo a destra e a sinistra, attirandosi l'odio dei grandi e dei piccoli.

Ma se volessimo andar ricordando tutte le dispute, non la finiremmo più. Basti dire che dal Tassoni al Monti e cognato, moltissimi assalirono la Crusca.

Eppure, malgrado tutte queste lotte, la Crusca è restata l'Arca Santa ed è arrivata a noi come il più grande documento storico della nostra lingua. Or combattuta, or difesa, or calunniata, or disprezzata, la Crusca è stata sempre il codice supremo, il fuoco sacro della nostra nazionalità. Ed oggi? Oggi l'accademia della Crusca, lavora indisturbata. Ogni anno una seduta plenaria. Il Segretario Capo, Guido Mazzoni, legge la sua relazione e dice all'Italia che si è giunto alla lettera N; cioè vorrebbe dirlo all'Italia, ma lo dice ai compilatori e ai pochi socii che si trovano in quell'occasione a Firenze.

Quest'anno s'è fatta un po' di festa: si è celebrato [78] il centenario del decreto di ricostituzione dato dal Bonaparte, il 19 Gennaio 1811. Tutte le autorità presenti. Mancava solo l'On. Luzzatti, allora Eccellenza, il quale si fece rappresentare dal ministro dell'Istruzione e da un telegramma classico.

Ferdinando Martini, socio corrispondente, fece il suo bravo discorso commemorativo.

Naturalmente vi furono applausi e strette di mano, e in ultimo ognuno se ne andò per i fatti suoi, un po' seccato, non del discorso, che fu bellissimo, ma della funzione. È tempo di pensare alla Crusca! Che Crusca e Crusca! Non ci mancherebbe altro. Noi vogliamo il fiore di prima qualità, anche a costo che questo fiore bianchissimo risulti da una miscela più o meno dannosa allo stomaco.

Fino a pochi anni fa avevamo la classe dei puristi, che si erano dati anima e corpo allo studio della lingua e alla compilazione di vocabolari. Ne vollero un po' troppo questi signori. E come sapete chi tira la spezza. Il soverchio rompe il coperchio e noi per conservare questo benedetto coverchio, abbiamo messo da parte ogni pedanteria. In Italia si parla e si scrive — e quanto! — ma non in lingua italiana. Le parole francesi e un tantino anche le inglesi abbondano nel nostro linguaggio. Appena esse arrivano da oltre Alpi si scrivono con riserva e in carattere diverso, come per far vedere a tutti [79] che è merce estera; ma a poco a poco diventano pan di casa e non ci si bada più.

Hôtel, per esempio, oramai è concittadino. I nostri padri dicevano albergo, noi Hôtel. Che volete! Hôtel è più aristocratico, più signorile. I borghesi, i modesti negozianti vanno all'albergo, ma i principi, i marchesi, i conti, i deputati, i pezzi grossi della magistratura, dell'esercito e anche del socialismo vanno all'Hôtel. Si predica l'uguaglianza, è vero; ma un riguardo bisogna sempre averlo per il sangue bleu e per i gallonati!

Una persona vi passa frettolosamente di fianco e non volendo o pur volendo — chi lo sa, sono tanti i gusti! — vi pesta un piede. Voi mandate un grido, aggrizzando il naso, lui con un sorrisetto vi dice pardon e via. E perchè pardon? perchè questa parola antipatica? Non basta il dolore al piede, bisogna sentirne un altro all'orecchio?

È vero che oggi siamo amici dei francesi, è vero che il nostro Re fu accolto a braccia aperte a Parigi, ma non è detto che agli amici bisogna conceder tutto. E l'esempio l'ha dato proprio Sua Maestà.

Il nostro Re, un paio di anni fa ordinò che il menu dei suoi pranzi ufficiali fosse redatto in lingua italiana. E n'era tempo: Perchè ricorrere al francese?

In quell'occasione il Giornale d'Italia fece un passo avanti e disse ai suoi lettori: “Perchè non [80] mandar via anche menu e sostituirlo con parola italiana?„

La proposta piacque e per dieci o dodici giorni non si parlò che di menu. Chi voleva sostituirlo con lista, chi con elenco, chi con nota, chi con minuta. Lo Stecchetti, sempre all'erta quando si tratta di pranzi, cene e altro ben di Dio, rispose: “Zitto! Lista è antipatico, perchè ricorda il conto da pagare: elenco è troppo solenne e cattedratico; minuta è d'italianità dubbia, specie in questo significato. O dunque come si fa? Come facevano i nostri antichi!„ E citando esempi di molti cuochi, conchiuse che “sul cartoncino si potrebbe scrivere: “Pranzo offerto da S. M. il Re d'Italia al corpo... diplomatico.„

Ma anche lo Stecchetti parlò al deserto. Menu può dire come Vittorio Emmanuele II: “Ci siamo e ci resteremo„. Non vedete come è dolce questa parola? Menu ci fa venire l'acquolina in bocca e ci prepara alla bella funzione. Chi volete stomacare con lista, elenco e nota?

E così allegramente, in nome del buon gusto, si dà il benvenuto alle parole straniere, e il ben servito alle paesane. E quel che è peggio, i nostri letterati maggiori, questi Santi Padri, che più degli altri dovrebbero essere gelosi custodi di un tanto tesoro, sono di maniche larghe, se pure non si arrogano il diritto di arricchire la lingua con parole di nuovo conio.

Il D'Annunzio, che dopo la morte del Carducci, [81] a dispetto del fratello Pascoli, dell'amico Graf e degli altri dignitari, si è solennemente dichiarato, come il leone della favola, re della poesia, del romanzo, del teatro; ha il vezzo di incastrare nei suoi lavori parole nuove. Potrei fare un menu, cioè un elenco, di queste parole, che egli ricava dal suo dialetto, dal latino e forse dall'arabo o dal fenicio. Ma è inutile: leggendo una sola pagina di una sua tragedia o di un suo romanzo ne avrete piene le tasche o meglio le orecchie, perchè le parole non hanno mai riempite le tasche, quantunque spesso le.. rompono.

Fra tante parole nuove, introdotte dal D'Annunzio ne scelgo una: sororale. Che significa? Ecco: abbiamo detto sempre fraterno per indicare tutto ciò che appartiene a fratello o a sorella. Ma ciò non garba al D'Annunzio. Egli dice: “Mettiamo le cose a posto. Oggi che la donna deve emanciparsi, bisogna che abbia un aggettivo proprio. Per il fratello, fraterno, per la sorella, sororale. È un vocabolo un po' ruvido, poco degno del sesso gentile? Eh, come v'ingannate! Assaporatelo bene, mettetelo in circolazione e vedrete come è dolce e armonioso„.

Potreste dire: Il Fanfani non la registra. Bella ragione. Chi è Fanfani? Fanfani comanda a casa sua, o meglio comandava, perchè è morto già da un trentennio. Ma ammesso pure che il Fanfani fosse vivo, potrebbe imporsi al D'Annunzio e compagni? Oggi libertà per tutti. Chi ha il coraggio [82] di alzar la voce a favore della lingua? Vocabolarî ce ne sono, ma che vocabolarî! Se togli il Petrocchi, che si ostina a voler purificare il patrio linguaggio, tutti gli altri letterati che potrebbero insegnarci un po' a parlare o si danno alla politica, come il Martini, o sonnecchiano, come il Morandi.

Oggi il vocabolario si è trasformato in una piccola enciclopedia: la lingua è in terza o in quarta linea.

Scorrete per un momento il nuovissimo Melzi, che corre per le mani di tutti e che ha invaso le nostre scuole: 1600 pagine — 4420 incisioni — 78 tavole di nomenclatura figurata — 40 carte geografiche — 1072 ritratti — 1005 figurine e tipi dei diversi paesi — 12 cromolitografie.

Questo signor Melzi, imitando l'esempio del Larousse, ha detto che il vocabolario va scritto per tutti; dovrà essere un succoso prontuario di storia, di geografia, di scienze naturali, d'igiene; già, anche l'igiene! La salute del prossimo innanzi tutto, e perciò l'umanitario autore mette una tavola a colori, fuori testo, indicando i funghi velenosi e i funghi mangiabili.

È sconfortante, non è vero? Si studia il francese, l'inglese, il tedesco; l'italiano no: si ha la pretensione di saperlo.

Meno male che fra un centinaio di anni e forse prima avremo la lingua universale.

Il Trombetti ci ha dimostrato che in principio [83] il linguaggio era uno; non fa dunque maraviglia se ritorni ad essere uno. L'umanità — è un fatto assodato — dopo essere andata avanti, avanti, avanti, deve tornare indietro, indietro, indietro. E poi della lingua universale se ne parla da un pezzo e siate sicuri che dopo la larghissima riforma elettorale, dopo l'ascensione dei socialisti al Potere, dopo aver aggiustata la faccenda con le donne, che ad ogni costo vogliono un posticino nei parlamenti nazionali, si penserà alla lingua.

E sì, una lingua per tutti.

Avete mai pensato in quante lingue i signori uomini e donne parlano, scrivono, imprecano, mentiscono? Abbiamo le lingue monosillabiche o a bocconi, indicatissime per chi soffre di cardiopalmo; le lingue agglutinanti, in cui radice e desinenza non si uniscono in matrimonio, ma restano eternamente fidanzati; le lingue inflessive, le quali imbrogliano talmente le radici, che per scovarle c'è da perdere il senno.

E poi ognuna di queste tre lingue si divide in famiglie. E che famiglie! Famiglie patriarcali.

Non sarebbe dunque una bella cosa, mandare a far benedire tutte queste lingue e scegliere tra esse la più facile per le nostre bisogna? Noi mangiamo, i Francesi mangiano, mangiano gl'Inglesi, mangiano gl'Indiani, mangiano i Cinesi, e perchè il pane, questo primo elemento, comune a tutti, deve essere chiamato con diversi nomi? Che anarchia! Che torre di Babele!

[84]

Signori miei, questo si chiama disordine, si chiama confusionismo. Io mi reco ad esempio in Austria e debbo restare lì muto come un pesce, esposto ai motteggi dei riveriti alleati, senza poterli ricambiare con egual cortesia.

Potreste dirmi: “Ma impara il tedesco!„

Sì, e doman l'altro che vado in Inghilterra, e nell'està che sarò in Russia, e l'anno venturo che farò una scappatina nel Giappone? Impara, impara. Ma non si vive mica cento anni. Per imparare tutte queste benedette lingue occorre del tempo e son sicuro che dopo averle imparate sarò vecchio e non potrò più fare un viaggio.

E poi si dice che noi, popoli civili, non siamo mai d'accordo. Ma santo Iddio, come possiamo intenderci con tante lingue? Ci dovranno essere sempre malintesi ed equivoci!

Ma io sono convinto, convintissimo che la faccenda sarà aggiustata. Quando il potere sarà in mano ai socialisti vedrete anche questo miracolo!

***

Ma fino a che non viene questo giorno, siamo attaccati alla nostra lingua, al dolce e caro idioma dei nostri padri. La lingua è il pensiero, la lingua è la libertà.

Chi disse l'Italia una espressione geografica non s'accorse che la nostra Patria, anche divisa [85] e dominata, è stata sempre una nazione, perchè ha conservato sempre il proprio linguaggio.

In tanti secoli di oppressione e di schiavitù gl'Italiani custodirono la lingua come una protesta della nazionalità che ad essi voleva strapparsi.

Due cose gl'Italiani non hanno mai perduto: l'onore e la lingua.

E perchè oggi che abbiamo una Patria libera e indipendente, perchè oggi che siamo uniti, si ha poca cura della lingua?

Conserviamo gelosamente questo sacro tesoro e i nostri figli imparino da noi il culto al patrio linguaggio!

[86]

I libri del popolo.

Anche il popolo ha i suoi libri.

Quel simpatico lustrascarpe che v'invita con tanto garbo a posare il piede sulla cassetta e vi copre d'inchini e di illustrissimo; quel burbero omone, che incontrate sempre alla ferrovia e che quasi a malincuore piglia i vostri bauli; quel vecchio pescivendolo dalla barba patriarcale, che vi dice a proposito o a sproposito: “compatitemi, sono un affabeta„; quell'arzillo portinaio che vi saluta con un sorriso e mormora maledettamente quando vi ritirate tardi e non mettete la mano in tasca; tutti questi signori hanno i loro libri, hanno una letteratura minuscola, umile, semplice, dimessa, che sfugge all'occhio della critica e della storia.

Noi, superbi della nostra scienza, orgogliosi della nostra cultura, spesso effimera e superficiale, [87] non conosciamo questa letteratura, che vive col popolo e che risponde alle sue ingenue e primitive aspirazioni.

Sono volumetti di poche pagine, che si vendono negli angoli delle strade remote, sui muricciuoli, sulle gradinate delle chiese, dei tribunali, alle porte dei teatri di terz'ordine.

Povere animucce! vanno in giro nascondendo la loro nudità. Si tramandano di generazione in generazione, senza nome di autore o di tipografo, senza indicazione di luogo e di tempo. Costano un soldo, mancano spesso di frontespizio e di indice, sono laceri, sono sciupati; ma il popolo li compra, perchè gli somigliano; li legge, perchè lo commuovono; li ama perchè sono scritti per lui, solo per lui.

Che cosa dicono questi libriccini? Ricordano vecchie tradizioni, raccontano avventure comiche o cavalleresche, narrano la vita di santi o di assassini famosi, di grandi capitani o di ladri.

Le scuole letterarie si succedono le une alle altre, nuove dottrine abbattono le antiche, i capolavori di ieri sono giudicati oggi sdolcinature, ma i libri del popolo, lontani dalla moda bizzarra e febbrile, che regola il nostro gusto artistico, sono sempre nuovi, sempre belli. Il popolo non discute, non analizza, non si lascia prendere dai momentanei successi o dalle ingrate cadute, è fedele ai suoi libriccini: non li abbandona, non li tradisce. Li legge con piacere, li rilegge, li manda [88] a memoria e li conserva gelosamente. Ciò che lo commoveva ieri lo commuove oggi, lo commuoverà domani.

L'età eroica è finita, Giove è caduto, l'Olimpo è chiuso, chiusi i cicli cavallereschi. Voi non credete più all'ippogrifo, ai castelli incantati, alle dame bianche; il popolo vi crede. Tutto ciò che riesce a commuoverlo, è bello, è vero!

Egli non appartiene a nessuna scuola: è classico e romantico; è poeta e storico; è antico e moderno; è cristiano e pagano; è tutto e niente: è popolo. Sempre vario e sempre uniforme come la natura, conosce una sola arte: il sentimento.

È un bambino il popolo: un bambino un po' capriccioso, un po' irruente, spesso brutale, ma sempre bambino. E questo eterno bambino compra quei volumetti come per comprarsi un soldo di svago. Vuol ridere, vuol punzecchiare, vuol fantasticare.

La sua tenerezza è per gli amanti infelici, per le donne tradite. La storia pietosa di Pia dei Tolomei, di Genoveffa lo commuove fino alle lacrime.

Grande entusiasmo per i rivoluzionari. Nel popolo c'è sempre l'odio contro le autorità costituite. Ieri gridava “abbasso i Borboni!„ oggi griderebbe “abbasso Savoia!„ Il Governo per lui è sempre un nemico che lo sfrutta con balzelli, che gli strappa i figliuoli a venti anni, che fa pagare un sigaro due soldi, e non vuole che porti [89] in tasca neppure un piccolo coltello per fettarsi il pane.

Per voi Musolino è un brigante, un pericoloso delinquente; per il popolo è un buon figliuolo, tradito dagli amici, angariato dai potenti e precipitato in una oscura prigione, perchè... perchè il povero ha sempre torto. Si dà alla macchia, è vero; ma come potrebbe diversamente far trionfare la giustizia e vendicarsi dei suoi nemici? La vendetta! Il popolo è cattolico apostolico romano, adora Dio, la Vergine e i Santi, digiuna e fa elemosina; ma il perdono alle offese, no, bisogna vendicarsi: per lui la vendetta è un dovere sacrosanto. Chi non si vendica, è vile, e il popolo non vuol essere vile.

***

Chi scrive quei libriccini? Non si sa. Nascono, quasi direi, da per sè: nascono come l'erba nei campi. Sono i trovatelli, sono i figli del popolo. L'autore, modesto, si nasconde: non ci tiene a far sapere il suo nome e cognome. Se il libriccino piace, se incontra la simpatia del pubblico, non è merito suo. Non ha neppure il coraggio di farsi chiamare poeta. Poeta? Confessa lui stesso che le sue rime sono rozze:

Tanto eseguì quel cavalier sublime

Or qui finisco le mie rozze rime.

[90]

Da quanto tempo esistono? Alcuni forse videro la luce ieri, altri sono antichi, molto antichi, — ricordano secoli —; ma tutti, vecchi e nuovi, vivono insieme, vanno insieme per il mondo, entrano insieme nei tuguri, nelle casupole di campagna, nelle bottegucce, e sono accolti sempre con piacere.

Quanti sono? Ne ho contati 1012, ma ve ne saranno altri. Questi libercoli sono come le stelle: non si possono mai enumerare tutti. E crescono sempre: un contadino vede in sogno la Madonna, una donna a Senerchia ammazza a colpi di scure il drudo di sua figlia, un cane salva la sua padroncina, i Portoghesi mandano a spasso il proprio re: ecco cinque libriccini per questi avvenimenti. Lasciate che termini il processo Cuocolo, avremo subito un altro libriccino per quella Venerabile Confraternita!

Il popolo dunque ha la sua ricca, ricchissima letteratura, che non conosce orizzonti, che non ha limiti: basta dire che incomincia con la Creazione dell'uomo e termina con il Giudizio universale.

Signori letterati, le vostre grandi librerie non fanno gola al popolo. Egli non ha nulla da invidiarvi. Voi avete l'Orlando Furioso, il Morgante Maggiore: il popolo tiene il Guerrin Meschino, i Reali di Francia, le Meravigliose Avventure del Valoroso Leonildo, gli Amori di Florindo e Chiarastella, la Storia di Chiarina e Tamante.

[91]

Voi leggete l'Iliade, l'Odissea, l'Eneide, il Paradiso Perduto, la Storia delle Crociate; il popolo senza conoscere Omero, senza ringraziare il Monti, il Pindemonte o il Caro, senza far di cappello al Milton o al Michand, possiede l'incendio di Troia, la Storia di una regina chiamata Elena, che fu rapita da un principe e che fece nascere una grande guerra, gli Amori di Enea e di Didone, gli Angeli superbi che diventarono demoni con le corna e furono precipitati nell'inferno, la Presa di Gerusalemme, ossia il Santo Sepolcro conquistato dai cristiani.

Voi conservate gelosamente le opere storiche, le biografie dei grandi uomini; il popolo conserva con egual cura la Vita e i Miracoli di S. Antonio, Giuditta l'ebrea, Sansone, Masaniello, Pietro Micca, Giuseppe Garibaldi, Giuseppe Mastrillo, Giuseppe Musolino.

Voi educate il vostro cuore all'osservanza del dovere con le opere istruttive dello Smiles, del Tommaseo, del Thouar, del Lessona, del Gotti, dell'Alfani; il popolo si lascia ammaestrare dal Buon figliuolo, dal Cattivo figliuolo, dall'Albero fruttifero, dal Contadino che si fa milionario, dal Principe che va chiedendo l'elemosina, dal Contrasto bellissimo tra un povero ed un ricco, che disputano chi di loro è più felice, dai Dotti e saggi consigli, lasciati in punto di morte dal vecchio Guidone, padre di famiglia.

Voi ridete col Goldoni, col Rabelais, col Molière, [92] col Cervantes; il popolo ride con i 166 difetti delle donne, con la Storia di Pulcinella, col Testamento di un avaro, che lasciò i suoi beni a sè stesso, col Vecchio che sposa dieci mogli.

Ma bisogna dirlo a suo onore, il popolo non ride mai a discapito del buon costume, non ha come noialtri un cavalier Marino, un abate Casti, un Aretino, un Batacchi. Il suo riso è saporoso, geniale, schietto, non equivoco. Nella sua natura un po' selvaggia, c'è molto pudore!

***

Ma tutti questi libercoli debbono essere scritti in poesia. Il popolo è per natura poeta e non sopporta la prosa. La prosa l'annoia, la prosa è pesante e fa dormire.

Vuole la poesia, vuole l'ottava. Financo i Comandamenti di Dio, i Sette peccati mortali, le Sventure dei cani debbono presentarsi sotto forma di poemetti. Spesso il verso zoppica, l'ottava non si regge, la rima non torna, la parola è incerta; ma che! il popolo non vuole arte, vuole sentimento. Per lui tutta l'arte poetica consiste nella rima. Dategli una rima che si sente ad orecchio, e basta. Il resto è lusso; e il popolo sa che il lusso non è per lui, ma per i signori.

Com'è nata questa letteratura così varia, così ciarliera, così allegra, così modestamente drammatica? Il popolo raccoglie le bricciole che cadono [93] dalla nostra mensa e ne forma la sua letteratura. Noi abbiamo tanti poemi, tanti romanzi, tante storie, tanti drammi, tante commedie, il popolo ci ruba gli episodi più belli e li chiude in questi libriccini. Trasforma, altera, taglia, accomoda, scomoda, restringe, e tutti i capolavori riduce ad usum delphini. Finanche della Divina Commedia egli vuole la sua porzione. Oh! vi credete che il Sacro Poema sia tutto per voi? I fabbriferrai del trecento lo leggevano intero, il nostro popolo non può leggerlo da capo a fondo, ma una fetta la vuole. A noi lascia i canti meno drammatici, i canti che fanno pensare, che hanno bisogno di commento, e si fa confezionare così alla buona la Francesca da Rimini, il Farinata degli Uberti, il Pier de le Vigne, il Conte Ugolino.

Tutto piglia a prestito da noi, tutto ci ruba, tutto manomette, tutto riduce a sua immagine e somiglianza, solo in una scienza è sovrano: nell'astrologia.

Voi, astronomi, consumate la vista e la vita a spiare sole, pianeti e stelle, a scovrire macchie e canali, a misurare distanze e orbite; ma sapete dire che cosa succederà domani, che succederà magari oggi?

No. Ignorantoni. Il popolo lo sa, il popolo ha il suo Barbanera.

È un libriccino di 64 pagine e costa due soldi. Carta ruvida, copertina color cenere, vignette preistoriche; [94] ma l'abito non fa monaco; quel libriccino predice il futuro in modo assoluto:

Gli astri, il sole ed ogni sfera

Or misura il Barbanera

Per poter altrui predire

Tutto quel che ha da venire.

E davvero predice tutto, settimana per settimana, o meglio quarto per quarto, giacchè tutte le cose di quaggiù dipendono dalla luna e sono per conseguenza... lunatiche.

Quest'anno, l'estate sarà.... calda, l'inverno.... freddo, i raccolti abbondanti, ma potrebbero essere anche scarsi, in primavera qualche nevicata, in autunno piogge. Attenti al 24 Gennaio:

... osserva ben che tempo fa,

Perchè così, più o men, l'anno sarà.

Ma Barbanera non si ferma ai fenomeni celesti, dà anche uno sguardo agli uomini e fissa i principali avvenimenti politici, scientifici, letterari e mondani.

A crederci quest'anno avremo, duelli, (prepàrati, On. Chiesa!) — diplomatici in imbarazzo, medici in faccende, studenti che si agitano, crisi bancaria, scontro ferroviario (uno?) — collisione di vapori in mare, (allude alle Convenzioni Marittime?) — una Potenza minaccia di ritirare il [95] suo rappresentante da una Corte d'Europa, violazione di un segreto di Stato, si teme l'invasione epidemica di una grave malattia, (il colera? E noi abbiamo l'esposizione! Ma che sapeva Barbanera? Colpa del Conte di S. Martino, che non gliel'ha comunicato a tempo!).

Ma insomma il 1911 sarà un anno di disgrazie? Nossignore. Avremo nuove scoperteun matrimonio principesco (ah! miss Elkins, la fretta ti ha rovinato!), buone vincite al lotto, cattura di un pericoloso malfattore, si scopre l'autore di un atroce delitto (e poi diciamo che la nostra Polizia dorme!), nuova opera in musica, applauditissima (assicurate Mascagni!), crisi mini... A proposito: i nostri giornali spiano gli uomini politici, assistono alle sedute del Parlamento, intervistano. Deputati e Senatori, eppure non sapevano che il Ministero Luzzatti-Sacchi sarebbe stato messo in sacco in modo curioso. Il Barbanera invece lo sapeva! 22 gennaio — crisi ministeriale in vista. Il 22 gennaio? ma il povero Luzzatti cadde il 18 Marzo. Sissignore, ma ricordatevi bene: l'agonia incominciò il 22 gennaio. E Barbanera sa pure un'altra cosa, sa che Giolitti cadrà il 29 Novembre. Ma lasciamo stare la politica. Oramai i ministri somigliano ai bimbi irrequieti: salgono e scendono, scendono e salgono, senza sapere che potrebbero rompersi la nuca del collo. Questo però non lo dice Barbanera, lo diciamo noi. Il buon astronomo invece, ci offre l'indicazione delle [96] fiere e dei mercati, l'elenco di tutte le vigilie comandate, una tavola di Saturno per il lotto, la gerarchia cattolica, la genealogia delle principali case regnanti (nel Portogallo governa ancora Manuel II!), le lunazioni ebraiche, una dozzina di aneddoti ecc. ecc.

Ecco perchè il popolo ama il suo Barbanera. Specie il nostro contadino n'è entusiasta. Due o tre giorni prima del Santo Natale, acquista un po' di grazia di Dio, ma il primo acquisto è Barbanera. Lo accoglie con un sorriso, come si accoglie un amico di vecchia data, lo mette in tasca e per un anno intero consulta questo vangelo. Prima d'intraprendere qualunque lavoro di campagna interroga il suo inseparabile lunario. Bisogna seminare? ma che ne dice Barbanera? Piantar patate, faggiuoli, cavoli? e che ne pensa Barbanera? Mietere? per l'amor di Dio, in questi giorni abbiamo piogge. Giove è in congiunzione con la luna.

E pare che quest'anno Giove voglia divertirsi un po' di più. Sempre piogge, piogge, piogge! Potrebbe finirla. È vecchio e fa il libertino!

***

Sfortunatamente questa letteratura minuscola, unico cibo intellettuale del popolo, accenna a scomparire. Il Barbanera è ancora vegeto e sano, anzi quest'anno è in rialzo, perchè nel passato [97] inverno si avverò, con una precisione maravigliosa, tutto ciò che aveva preannunziato; ma dolorosamente bisogna constatare che tutti questi libriccini, a poco, a poco son messi da parte. E sapete perchè? Alcuni in nome della civiltà, del progresso cercano mettere nelle mani del popolo altri libri che parlano di dritti manomessi, di emancipazione di proletariato ecc. E quei cari libriccini sono chiamati grotteschi, ridicoli, incompatibili con lo spirito moderno.

Ma il giorno in cui il popolo avrà perduta la sua letteratura e quel non so che di poetico primitivo, che è l'unico balsamo nella sua fatale infelicità, quel giorno, solleticato, ma non soddisfatto dalle massime utopistiche degl'innovatori, vedrà la vita come una maledizione!

Per carità, lasciate che il popolo sia popolo. Proteggetelo, emancipatelo, ma non lo snaturate, non gli strappate quei libriccini di poche pagine, che furono scritti per lui, che gli fanno dimenticare tanti dolori, che commovendolo, divertendolo, educandolo, lo conservano sempre fantastico, sempre pietoso, sempre bambino nei suoi sentimenti, nelle sue credenze!

[98]

I libri nuovi.

Quanti libri nuovi avete comprati quest'anno? Pochi? O pochi o molti, libri nuovi se ne comprano sempre.

Spesso si fa il proponimento di non comprare più un libro: sono già tanti! Ma bisognerebbe vivere in un deserto, non leggere alcuna rivista, alcun periodico, nemmeno il giornale, anzi il giornale politico più degli altri vi tenta: ogni giorno una rubrica, una specie di stato civile per i nuovi venuti. Senti oggi, senti domani: l'appetito si stuzzica.

Qualche cosa dunque si deve comprare, si sente il bisogno di sapere che cosa vogliono questi scrittori nostri.

E quando si ha nelle mani un libro nuovo, nuovo di zecca, si prova una certa voluttà. Si mira, si palpa, si apre. Bravo, bravo il D'Annunzio! [99] Dovrà essere bellissimo questo dramma. Vediamo un po' che vuole il Graf, che vuole la simpatica Negri, che vuole il Pascoli, che vuole il Marradi. È morto il Carducci, è morto il De Amicis, è morto il Barrili, è morto il Fogazzaro. Santo Iddio, che se ne vogliono andare tutti? Tutti? Eh! scrittori ce ne sono in Italia e scrivono, sa: sempre con la penna in mano. Ogni giorno un romanzo, un dramma, una qualche cosa.

Sì, venite, venite! Se i volumi che conserviamo negli scaffali ci parlano del passato, ci ricordano le lotte, le aspirazioni di altri tempi, voi cari, voi benedetti, ci parlate dell'oggi, ci dite che in Italia, nella patria Dante, l'arte non muore.

Ma quanto sono belli questi libri nuovi! Donde vengono? chi ha data loro tanta grazia e tanta leggiadria? Ah, è quel mago dell'Hoepli, quel furbo dello Zanichelli, quel tentatore del Voghera, quei burloni di Treves, che mandano questi gioielli così vezzosi per il mondo.

Ma diverranno vecchi e scompaginati? No, no. Li conserverete con cura, non vi farete mai uno sgorbio, una postilla, una piegatura, non li presterete mai ad alcuno: sono belli e debbono restare sempre belli!

Voi fantasticate e intanto quel furbo dello Zanichelli, quel mago dell'Hoepli, quel demonio del Sandron, par che se la ridono alle vostre spalle. Ridete, ridete, verrà il tempo della giustizia e allora faremo una rivoluzione contro di voi, vi [100] manderemo all'inferno tutti, nella nuova bolgia dei tentatori.

***

I libri sono come le donne: non debbono presentarsi discinti e negletti, hanno bisogno di un tantino di eleganza, di un tantino di lusso. Una Divina Commedia con una cartaccia ruvida e porosa, con caratteri grossolani non vi sembra più il Sacro Poema. Se invece la Divina Commedia la fate uscire dai tipi eleganti, fini, sopraffini dell'Hoepli, del Barbera, del Le Monnier, allora ci sembrerà un Vangelo.

La buon'anima di Dumas padre, in un suo romanzo diceva: “La donna bella adornata artisticamente è bellissima: la donna brutta, adornata artisticamente è bruttissima.„ Così è dei libri. Voi vedete un volume elegantissimo, con tagli in oro, con caratteri nitidi, con carta rosea; lo aprite, lo leggete: sono venti, trenta poesiole insipide e stomachevoli. Quell'eleganza, quel lusso lo rende più sciocco.

Ma quest'editore è pazzo? Eh! non è pazzo l'editore, è pazzo chi compra questa roba, è pazzo chi si ferma all'apparenza.

Attenti, attenti con i libri nuovi! Oggi c'è una smania morbosa di stampare.

Iddio conoscendo la nostra natura ciarliera ci dette una lingua, affinchè potessimo dalla mattina [101] alla sera annoiare parenti ed amici; ma no, si vuole annoiare anche i lontani ed ecco la stampa.

Nei secoli scorsi pochi avevano il coraggio di mettere fuori qualche cosetta. Stampare! faceva paura. Era un passo pericoloso. Si restava per un buon pezzo come Cesare dinanzi al Rubicone. Oggi non si conoscono più Rubiconi. Tutti sono letterati.

Ognuno scrive il suo romanzo, ognuno sente il bisogno di mandare per il mondo i suoi belati poetici, ognuno pubblica il suo lavoro critico. Tutto questo per essere chiamato autore, per far sapere che nel cervello si ha un granellino di sale.

Ma piano, piano! lasciateci prendere fiato: con questa gazzarra maledetta, non abbiamo nemmeno l'agio di scorrere i cataloghi.

Come cambia il mondo! Un tempo i manoscritti prima di essere pubblicati si lasciavano per lunghi anni nel tavolino, come per farli fermentare e dopo una lunga quarantena, venivano corretti, ricorretti e qualche volta bruciati. Il Bembo teneva quaranta grossi portafogli e faceva passare le sue composizioni dall'uno all'altro per meglio correggerle. Il Giusti nella sua autobiografia dice: “A correggere non mi basta mai il tempo: o è scrupolo o è coscienza, mi piace sempre rivedere, mutare.„ Il Tommaseo a proposito del lavoro di lima, esclamava: “L'arte dello scrivere è l'arte dei pentimenti.„ Il Manzoni,... del Manzoni non ne parliamo: [102] se ne stava anni e anni a tavolino a ripulire i suoi Promessi.

Oggi al contrario si scrive e si stampa sollecitamente, frettolosamente. Specie i giovani, che escono dalle nostre Università, forse per non aver la noia di ben digerire quel poco che hanno imparato, lo mettono subito fuori... con la stampa, come per disfarsene per sempre.

Ma invece di fermentare i manoscritti, fermentano i libri e quel che è peggio, alcuni restano sempre in fermentazione.

Ogni anno nel nostro bel regno si pubblicano dieci mila volumi, ma la maggior parte non veggono la vera luce.

Poveri esseri, creati senza necessità, condannati a restare per anni e anni nelle vetrine dei librai e a chiedere sommessamente, a chi passa, la carità di essere comprati! Poveri infelici, che, non trovando un compratore, si offrono in dono, in segno di omaggio, in segno di stima, come ricordo affettuoso, tanto per cambiar aria e domicilio!

Veramente alcuni autori, dopo un primo saggio, conoscendo forse di aver dato un passo falso, si fermano. Speravano di ottenere gloria e ricchezze, ma non avendo ottenuto nè l'una, nè le altre si ritirano, dicendo corna del pubblico ignorante. Altri invece non si arrendono mai: ogni anno metton fuori un volume; cercano la gloria ad ogni costo, vogliono per forza essere riconosciuti ufficialmente poeti o romanzieri. A furia di importune [103] e continue preghiere, dopo tante umiliazioni e dinieghi, supplicando, scongiurando, arrivano a carpire una parola di lode da qualche illustre letterato e così giungono ad ottenere un po' di nome. Essi ne gongolano, ne vanno superbi, senza accorgersi che sciupano danaro e tempo. Altri infine, poco fecondi, ma molto infatuati, amano ripubblicare sempre il medesimo lavoro in una seconda, in una terza, e in una quarta edizione.

Ma, signori miei, volete persuadervi che non tutti siamo nati poeti o romanzieri? Finitela una buona volta di far gemere i torchi e... il pubblico. La legge non vi punisce, ma voi siete rei di un gran delitto: voi date l'esistenza a questi poveri libri destinandoli a piangere il giorno della loro nascita.

Dite di aver nel cervello un granellino di sale. I nostri complimenti. Ma credete che basti quel granellino per condire un libro? Errore, errore. Quando manca quel bernoccolo, di cui parla il De Musset, o per dirla tra noi, quando manca il genio, lavoro sprecato.

“Certe teste — dice argutamente Aristide Gabelli — ribollite nello studio, somigliano alle uova: più bollono e più diventano dure.„

[104]

***

Curioso! Oggi avvertiamo una grande carestia di tempo. Il positivismo ce lo ruba. Da ogni parte si sente dire: — Mi manca il tempo! non ho tempo! — Pare che le giornate non siano più di ventiquattro ore. Subito giorno, subito notte.

Eppure moltissimi, invece di utilizzarlo questo po' di tempo, che quantunque galantuomo ci scappa di mano, lo consumano a scrivere libri inutili. Il tempo è oro e perchè mandarlo via come ferro vecchio? Se ve ne avanza, se non sapete che farne, se non avete bisogno di lavorare, perchè le vostre rendite tornano bene, passeggiate, viaggiate: se ne avvantaggerà l'organismo. Il moto è salutare.

Nossignore, debbono ammazzare il tempo a tavolino, senza accorgersi che ammazzano se stessi. La vita sedentaria ci predispone alla gotta, al diabete, e ad altro ben di Dio.

Ma fino a prova contraria non saprei gridare la croce addosso a questi poveretti: mi vado convincendo che essi sono affetti dal morbus letterarius, di cui parla Terenzio. Chi sa: forse è qualche microbo, che entra nel cervello e che li spinge a scribacchiare.

Bisognerebbe ricorrere all'opera di un sanitario e sottomettere quei malati ad una cura rigorosa. Peccato che i nostri chimici farmacisti non [105] abbiano pensato a preparare pillole per combattere questo nuovo morbo!

Ma lasciamo la celia. C'è poco da scherzare. Questa mania della stampa deve impressionarci davvero e sarebbe provvidenziale una legge che limitasse la stragrande produzione di opere inutili, o peggio. Ma zitto! Saremmo chiamati reazionarî. La stampa è libera. O perchè i nostri padri hanno combattuto, perchè, a costo del proprio sangue, scacciarono Borboni e Austriaci? Libertà su tutta la linea: libertà di parola, libertà di azione, libertà di stampare le proprie corbellerie! E poi che vi interessa se un Tizio vuol mettere fuori un romanzo, una raccolta di novelle o dieci odi davvero barbare? A voi quel romanzo sembra insipido, quelle novelle scialbe? tanto piacere! A lui piacciono e basta. Chi rimette le spese di stampa è liberissimo di preparare la carta al salumaio e al droghiere. Come potrebbe la legge intervenire? con qual diritto? Ogni cittadino che paga le sue tasse può stampare!

Intanto la marea cresce e forse un giorno saremo sopraffatti dall'enorme quantità di carta stampata.

Per mettere un po' di argine occorrerebbe un buon servizio di pulizia urbana rappresentato da una critica sana, scrupolosa e indipendente, la quale senza livore e senza debolezze illuminasse il pubblico. Solo così a certi Tizi passerebbe la velleità di essere chiamati autori.

[106]

Ma questo giorno è ancora lontano; oggi la critica è nelle mani del giornalismo che ne fa una fonte di guadagno.

Voi pubblicate un libro, un libro che vale poco o nulla? Se avete i mezzi di far parlare un po' la stampa, il colpo è fatto. Domani, giornali, giornaletti diranno che voi avete riempito un vuoto. Benedetti vuoti! La repubblica letteraria sembra un pozzo senza fondo. Ogni libro nuovo ne riempie uno; ma rifacendo i conti ne restano sempre altri da riempire.

Eppure i giornali hanno ragione: essi parlano di altri vuoti! Sentite: un libro che incontra il favore del pubblico, riempie due, o meglio tre vuoti: la tasca dell'autore, la tasca dell'editore, e un tantino anche quella del critico panegirista.

Ecco perchè oggi la letteratura è industrialismo. Si decanta un libro come si decanta una merce. E si cercano tutti i mezzi per infinocchiare il pubblico grosso.

Ho sott'occhio un numero del “Journal„ (17 Aprile 1907) in cui si legge: “Una signorina sui sedici anni è stata ieri vittima di un furto. Camminava per via della Pace leggendo un libro, allorchè un ladro le strappò di mano la borsetta: alcuni passanti che avevano osservato la scena, lo arrestarono e lo consegnarono alle guardie. Ma il più strano è che la signorina non s'era accorta di niente, assorta com'era nella lettura di un romanzo dal titolo Vertigineux [107] amour. Si tratta di un racconto così interessante e che incatena l'attenzione del lettore a tal segno che può benissimo rendere una persona insensibile a tutto ciò che le avvenga d'intorno.„

Ecco come si fa la reclame ai libri nuovi. Molti naturalmente comprarono quel romanzo e a conti fatti si accorsero che i derubati erano essi, non la signorina... immaginaria.

Il signor Hervier nella Nouvelle Revue tratta con molta genialità quest'argomento e ci dice che spesso si immaginano cose sbalorditorie per muovere la curiosità del pubblico “Un giorno — sono sue parole — dagli uffici di una Casa Editrice di Melbourne, la gente vede uscire una splendida donna, vestita in costume arabo, inseguita da un vecchio, pure vestito da arabo, con un pugnale in mano. La donna grida disperatamente invocando aiuto, il vecchio ruggisce parole di ira. La gente si ritrae spaventata: la donna cade, il vecchio le è sopra col pugnale. Qualche animo pietoso accorre in difesa della donna, la quale si alza e con un sorriso trae da una borsa manifestini che distribuisce al pubblico per far sapere che quello è un episodio di un nuovo romanzo di prossima pubblicazione!„

In Italia non si è arrivato tant'oltre. Noialtri siamo un po' più serî e meno audaci, ma il cattivo esempio ha le gambe come la bugia e temo che tra qualche lustro anche da noi la reclame [108] sarà la grande dea onnipotente, sovrana nel commercio, nelle lettere e nelle scienze.

E dunque? dunque bisogna stare con tanto d'occhio quando si compra un libro nuovo. Non ci facciamo adescare dai titoli, nè dai giudizi di certi critici, che molto condiscendenti mettono la loro firma ai panegirici, con la stessa disinvoltura, con cui i nostri Ministri sottoscrivono tutto ciò che vien loro presentato.

Attenti, attenti! La vita è troppo breve per poterla consumare nelle letture inutili e spesso dannose. Un libro nuovo, comprato alla cieca, porta via tempo e danaro, ed oggi sia l'uno che l'altro è prezioso!

[109]

Le antologie.

Mi sono fermato, ma non ho finito. Se mi permettete, io continuo a parlare dei libri nuovi e propriamente delle antologie.

Non sono del parere del Bonghi, il quale senza alcuna riserva sentenziava: “Se vuoi dimenticare quel po' che sai, leggi le antologie.„ Credo che l'illustre critico, storico, giornalista abbia parlato così in un momento di malumore.

No, un'antologia ben fatta, è, specialmente per i giovani, un mezzo potente di educazione e d'istruzione. E solo per i giovani? E per noi, per noi che ci vogliamo far credere persone colte? Un'antologia riempie davvero parecchi vuoti e ci dà una vernice di cultura letteraria. Difatti è possibile leggere tutti i nostri classici? No. Sono tanti ed hanno scritto tanto quei signori! Però in grazia ad una buona antologia possiamo gustarne [110] i migliori pezzetti. Ditemi la verità, non dovete essere grati alle antologie se avete saggiata qualche cosa del Malespini, di Fra Bartolomeo da S. Concordio, dei fratelli Villani e nipote, del Vasari, di Baldassarre Castiglione? Non dovete ringraziare i compilatori di antologie se conoscete un po' da vicino il Bembo, il Ruccellai, l'Alemanni e tutti quei poeti, poetucci e poetini che belavano a mo' di agnelli, capretti e caproni per le Corti d'Italia? Vi atteggiate a persona erudita, sapete che Michelangelo oltre ad essere quello che fu nella pittura e nella scultura, scrisse bei sonetti. Ma mettete la mano sulla coscienza: quei sonetti voi li leggeste la prima volta in un'antologia. Un'antologia vi ha offerto qualche episodio del Morgante Maggiore, dell'Orlando Innamorato, della Secchia rapita; un'antologia, le favolette del Pignotti, qualche pezzettino del Galateo, le più belle stanze del Poliziano. Insomma un buon terzo della vostra cultura letteraria la dovete alle antologie; giacchè la cultura è come la ricchezza: non si sa mai come s'acquista!

Ma non crediate che io voglia tessere il panegirico delle antologie, tutt'altro. Ho incominciato a scrivere questo capitolo con ben altro intendimento. Il Bonghi mi ha distratto, trascinandomi a dire, ciò che non avrei voluto. Dunque il capitolo incomincia adesso o per dirla in termini [111] notarili — l'antedictum non fa parte integrale del presente... atto —.

Voi non sapete quante antologie si sono pubblicate in Italia e non ve ne fo un torto. C'è tanto da pensare oggi! Io però che vado ammazzando la mia porzione di tempo col fare la statistica di tutto ciò che vien fuori alla giornata, posso assicurarvi che di antologie ne abbiamo parecchie centinaia.

È un campo aperto a tutti e tutti l'hanno più o meno sfruttato. Il primo, a quanto io ne sappia, fu il Leopardi, il quale ci lasciò due grossi volumi, accresciuti per giunta dal Fabbricatore e pubblicati dal Morano, con un caratterino minuto, che stanca terribilmente l'occhio.

I volumi furono ben accolti e per molti anni nessuno fiatò. Ma a poco a poco, prima a bassa voce, e poi in tono alto, si incominciò a dire che il Leopardi non aveva colto nel segno. Un bel lavoro il suo, un lavoro di polso, ma non alla portata di tutti. Diamine, neppure una nota, neppure una parola di commento! Quella Crestomazia può servire per i letterati, non per le scuole e molto meno per il pubblico. Bisogna battere un'altra strada. Il materiale classico vuol essere sfrondato, condito e reso più appetitoso con delle noticine. Così pensò il Fornaciari nel comporre i due Esempi di bello scrivere. Dico comporre, non compilare, perchè il suo fu un lavoro accurato e scrupoloso: ad ogni passo considerazioni, annotazioni [112] di lingua e di stile. Nel volume di prosa mille note, in quello di poesia millequattrocentotrentasei. Crepi l'avarizia! E poi “ho procurato — egli dice nella prefazione — che ciascuna prosetta possa stare da sè ed abbia il suo principio, il suo mezzo e il suo fine e non sia come un membro staccato da altri membri, ma come un piccolo corpo con tutte le sue parti belle e proporzionate.„ I due volumi ebbero fortuna: entrarono nelle scuole per dire a maestri e a scolari come bisogna studiare la lingua italiana e come estrarre il miele dai fiori.

Ma il Fornaciari è un po' troppo purista. Che severità, che intransigenza! E come sapete il rigore non piace. Specie in materia di lingua vorremmo essere liberi come gli uccelli. No, gli Esempî del Fornaciari dilettano poco. Il giovane studente si annoia con tante note e noticine, e manda a quel paese esempi e precetti. Un'antologia deve essere un'antologia, non una grammatica o un manuale di stilistica. Oh! credete davvero che i giovani imparano a scrivere con questi brani di autori famosi, lardellati da note e noticine? Per imparare a scrivere si è detto sempre che bisogna sentire, ma quando si leggono, si studiano, si mandano a memoria questi brani, nulla si sente, all'infuori di un forte dolore di testa.

Per fortuna questa verità incominciò a farsi strada, e a poco a poco vennero fuori altre antologie, [113] che davano quasi il benservito agli scrittori antichi. Poco Petrarca, poco Sacchetti e compagni, pochissimo Filicaia. Niente Iacopi e Iacoponi, niente Cavalcanti, niente Bembo. Fuori i tre Padri: Segneri, Cesari, Bartoli; fuori gli storici fiorentini col loro Segretario; fuori le nenie e le canzonette amorose del secolo d'oro e d'argento!

Il giovane vuol essere allettato, divertito da letture piacevoli, da pezzettini moderni. Occorre roba nuova, roba fresca, roba brillante.

E questa roba fresca o quasi fresca ce la dà il Marchesani, il Martini, il Pascoli; ce la danno le coppie: Carducci e Brilli, Mestica e Orlando, Fabbro e Marco. Alcuni, come il Morandi e il Martini, scrivono semplicemente Prose e Poesie Italiane, il Pascoli si diletta di titoli poetici: Fior da Fiore, Sul limitare; il Boni, come per stuzzicare l'appetito, ci dà La lingua viva; la ditta Nota e Fontana: Pagine gaie e pagine forti.

E questi signori si dividono nelle nostre scuole il servizio dell'italiano. Un anno tocca al Morandi, e Stefano Lapi per il 1.º Ottobre prepara una bellissima nuova edizione delle Prose e Poesie, arricchite da un appendice poetico. Nel nuovo anno scolastico il Morandi si ritira, si presenta il Pascoli e tutti i ginnasi del Regno sono pieni di Fior da Fiore. Fiori, fiori da per tutto! Ed è giusto: senza fiori non si possono avere frutti. Poi viene la volta del Martini, poi quella del Mestica e collega, poi [114] quella del Lipparini, poi... s'incomincia da capo. Ma c'è un accordo dunque tra loro? Chi lo sa? Bisognerebbe domandare a quei papaveri della Minerva!

Del resto, salvo piccoli inconvenienti, queste antologie meritano encomi: sono redatte da bravi professori, i quali sanno meglio degli altri dove mettere le mani. È regola generale: a chi sa dove mettere le mani bisogna battere le medesime!

Ci dispiace però che questo genere didattico è oggi sfruttato da una turba di novizi.

Un tempo tutti quelli che non potevano entrare nella repubblica letteraria con qualche lavoro originale, si aggrappavano a Dante, dichiarandosi solennemente commentatori del Sommo Poeta. Ricordate il Biagioli. Il poveretto, che non ne imbroccava una, si dette a Dante, e dopo molti anni di studio e di elucubrazioni si sgravò di un commento, famoso solo per le continue diatribe contro il gesuita Lombardi, un altro illuso, che tentò uscire dall'oscurità, facendosi un po' rischiarare dal Poeta.

Ma oggi Dante è lasciato in pace da questi letterati di bassa forza, sia perchè un commento, anche mediocre, costa lavoro, sia perchè il numero dei compratori sarebbe molto esiguo: ognuno di noi n'è provvisto a sazietà. Si danno quindi a pubblicare antologie. Basta afferrare dalle opere classiche i brani più notevoli, appiccicarvi delle [115] noticine, così dette storiche, filologiche o estetiche, e l'antologia è bella e fatta.

Credo che impieghi più tempo il vostro cuoco a prepararvi una fetta di genovese che questi signori a manipolarvi un'antologia. Non crediate che io esageri. Il materiale è sempre pronto. Prendete due o quattro novelle del Gozzi, una decina di lettere familiari del Giusti (non tralasciate quella al nipote Giovannino, nè quella del Settembrini alla moglie) idem del Leopardi, del Manzoni, del Foscolo; due capitoli delle Mie Prigioni, un brano dei Ricordi Autobiografici del Dupré e del D'Azeglio. Annaffiate tutta questa roba con qualche bozzetto del De Amicis, del Panzacchi, del D'Annunzio, del Capuana; seminate qua e là dei pensierini, dei precetti, delle massime, magari dei proverbi più fortunati; spargete di tanto in tanto una poesia del Giusti, del Monti, del Leopardi, del Carducci, senza dimenticare i Sepolcri, il Cinque Maggio, la Ginestra e Per una conchiglia fossile — componimenti che si trovano in tutte le antologie, perchè molto facili — e il vostro lavoro è bello e compilato.

Se volete (e come non volerlo!) che il vostro libro sia accolto favorevolmente nel Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione e sia adottato nelle Scuole Normali, Tecniche, Ginnasiali e Navali del Regno non tralasciate i principali fatti e figure del Risorgimento Italiano: un paio di pagine dell'Abba, del Guerzoni, del Bersezio, due o tre [116] lettere di Vittorio Emanuele, di Garibaldi, di Cavour, di Mazzini, qualche poesia patriottica del Berchet, del Carrer, del Mameli. Insomma bisogna aprire il fuoco con la battaglia di Maclodio e chiudere la festa con l'Inno di Garibaldi. Sì, sì, all'ultima pagina si schiudon le tombe! Se la vostra antologia fa addormentare i vivi, avrà il vanto di far risorgere i morti!

Tutto lo studio poi dovrà essere nella scelta del titolo. Occorre un bel titolo, un titolo sensazionale, un titolo che attiri. Oggi teniamo molto ai frontespizi delle persone e delle cose. Un bel titolo è come una gloriosa morte:

tutta la vita onora.

Dopo il titolo, la prefazione. Qui si parrà la tua nobilitade, qui bisogna far capire che di antologie ce ne sono, è vero, ma finora mancava un lavoro condotto con sani criteri; bisogna far capire che non siete stato spinto da sentimenti di vanagloria, ma dall'amore che portate ai giovani; e dopo un po' di sentimentalismo sulla gioventù italiana, da cui la Patria molto aspetta, conchiudere che siete grato a tutti quei professori che vorranno darvi consigli per una nuova edizione.

Dopo, portate tutta questa roba alla tipografia, raccomandatevi al vostro Deputato, affinchè a sua volta vi raccomandi al Consiglio Superiore, e la vostra antologia avrà fortuna!

[117]

E non vi fermate qui; v'è ancora da sfruttare. Dopo un paio di anni aggiungete qualche cosetta, mettete in coda un indice alfabetico, pochi cenni biografici e ripresentatela con la salutare bugia interamente rifatta.

Lettore, vi è saltato il grillo di prepararne una? Mettetevi all'opera, vi troverete bene per il nuovo anno scolastico!

[118]

L'ospedale.

Il pianterreno delle vostre librerie è l'ospizio di mendicità, la casa di salute, il ricovero per l'infanzia abbandonata, il ricettacolo di tutta la zavorra letteraria e scientifica.

Là gli storpi, gli sciancati, i colpiti alla testa, i moncherini, i ciarlatani, gli stupidi, i rompiscatole!

Sono libri vecchi, logori, scompaginati, senza principio e senza fine, che trovaste in casa e che non aveste il coraggio di buttare al fuoco; libri scolastici, che vi furono maestri nelle classi secondarie e che voi, fedele alla gratitudine umana, imbrattaste d'inchiostro, ornaste di sgorbi e di dipinti e in ultimo gettaste tra i ferri vecchi; conferenze, discorsi, che vi furono mandati in omaggio e che voi, per semplice cortesia, non rimandaste all'autore con sentite condoglianze; giornali politici [119] che si salvarono come per miracolo dagli artigli della vostra signora o dalle mani distruggitrici dei vostri bimbi; periodici letterari, cataloghi, annunzi bibliografici, numeri unici, giornaletti di provincia, che ricordano una nascita, una morte, un banchetto, una polemica, un'elezione politica o amministrativa, un... accidente qualsiasi.

Ma strano; voi aprite mille volte le librerie, cercate, rovistate, traslocate, ma non vi viene mai la voglia di mettere le mani su quel caos. Ci sarebbe da perdere la testa. Vedete: un avanzo di libro parla di guerre persiane e assire, un altro ricorda le regole del Portoreale, un terzo vi fa una mezza predica lunga e stucchevole sul Purgatorio, un quarto vi insegna che cosa sia il sillogismo e di quante parti consti; e in mezzo a questa roba mummificata, relazioni di banche, comparse di avvocati, contratti di locazione, valtzer per mandolino, lettere di famiglia!

Accanto ad una carta geografica trovate una pagina di giornale, che vi ricorda il matrimonio del Principe Umberto con Margherita di Savoia; qui, due sonetti per nozze, là, una dozzina di orazioni funebri, in cui chi piange davvero, è la povera grammatica. Libri di preghiera, fotografie sciupate, giornaletti umoristici, disegni rachitici, inviti per commemorazione, biglietti del sarto o del macellaio, cartoline illustrate e non illustrate. Che confusione, che torre di Babele!

E questo benedetto ospedale ingrossa a vista [120] d'occhio. Ogni giorno nuovi ospiti. Vi arrivano lavoretti critici, saggi di traduzione, poesiole anemiche, novellucce soporifere, commedie lacrimevoli. Dove mettere questa manna? Nel cestino? No. Il cestino accoglie le lettere, la reclame rompiscatole, la carta che sporcate voi! E poi vi farebbe l'animo di gettare nel cestino quel discorso del vostro Onorevole, quel programma amministrativo del vostro Sindaco, quella conferenza del medico di famiglia? Non leggete questa roba: sta bene, ma gettarla nel cestino, è troppo. Diavolo, si tratta di educazione! Il Decalogo ci dice che la roba altrui non si deve desiderare, ma quando questa roba ci viene offerta in segno di omaggio, con i migliori saluti o con altri intingoli cordiali, bisogna trattarla bene.

Dunque, se non volete essere chiamato selvaggio mettetela a pianterreno, imbalsamatela, eternatela. I vostri figliuoli, a cui certamente lascerete queste preziose reliquie, vedranno con i propri occhi che i nostri Deputati, i nostri Sindaci... ciarlano e in che modo!

***

Disgraziatamente in questo caos vanno a finire i libri che più lavorano. Voi, ad esempio, avete sempre sul tavolo i Promessi Sposi. L'avete letto una volta, dieci volte, trenta volte, l'avete studiato, commentato, analizzato, ma non sapete dargli [121] il benservito. Si sente il bisogno di gustare ogni mattina un pezzetto di quella prosa cristallina.

Ma il continuo uso consuma: quel libro si sciupa, si logora, si disfà. Un giorno va via la copertina, un altro giorno i quaderni non vogliono stare più insieme. “Debbo farlo rilegare!„ dite tra voi stesso e intanto si tira così. Ma un bel giorno, che è che non è, ne trovate sul tavolo una metà. E l'altra? Ne cercate nella camera da letto, sulle sedie, niente. Oh! dunque è scomparsa? Ne domandate ai figliuoli, alla domestica. Silenzio. Son tutti muti; tutti no, perchè la vostra signora, che ha gusto a darvi sempre torto, incomincia a dire che la colpa è vostra, che siete molto trascurato, che dovreste avere più cura dei libri, che... e continua la predica.

Voi intanto restate per un momento con quel coso in mano, poi l'adagiate nell'ospizio, con la speranza di ritrovare quanto prima l'altra metà. Ma dopo un paio di giorni ve ne siete già dimenticato e i Promessi Sposi se ne staranno in eterno nell'angolo remoto a piangere la loro disgrazia. E non sono soli: ivi un terzo del Paradiso perduto, ivi un po' d'Inferno commentato dal Biagioli, tre o quattro canti dell'Iliade, cinque quaderni dell'Ivanhoe, due libri dei Miserabili, dieci dispense di una Storia della rivoluzione italiana; un quarto di Asino del Guerrazzi, insomma tutti quei libri collocati a riposo, non per limite di età, ma per grave infortunio in servizio.

[122]

***

Vi arriva una conferenza della Serao, una commedia del Traversi o del Rovetta, una prolusione del D'Ancona, un'ode del Pascoli; in mezz'ora si leggono, e dopo che farne di questi opuscoletti, che contano appena dieci, quindici pagine? Sono belli, sono interessanti, ma non hanno dorso, non hanno reni! I volumi ben nutriti, trovano il loro posto, ma questi libriccini non sappiamo proprio dove collocarli. Sono farfallette variopinte che svolazzano: sul tavolo, sulle sedie, sul comodino, nelle tasche del paletot, nella valigia, ne trovate da per tutto. Spesso ne scegliete otto, dieci dello stesso formato, li unite come in un mazzetto, li fate rilegare col modesto titolo opuscoli o con l'altro tanto antipatico, ma molto in uso, di miscellanea.

È una fortuna però che tocca a pochi: la maggior parte di essi va a finire... all'ospedale. Colpa loro: si nascondono in un periodico letterario, entrano nella combriccola dei cataloghi, si seppelliscono vivi fra i giornali e naturalmente ne condividono la sorte. Chi volete che vada a scovarli?

***

Qualche volta, stando di malumore, aprite la libreria con l'animo deliberato di far piazza pulita. [123] A che tutta quella zavorra, tutto quel vecchiume! Ciò che merita di essere conservato, si conservi, ma il resto in cucina, dal salumaio o... altrove!

Con santa pazienza tirate quella roba e incominciate lo spoglio. Avanti, avanti. Tutti fuori. Giudizio universale! Da principio si va alla svelta, non si guarda in faccia a nessuno. Invano quelle sacre reliquie chiedono pietà e misericordia. Siete deciso. Al fuoco! Al fuoco!

Ma che! a poco a poco vi fate prendere la mano. Gli occhi si fissano su una bella incisione. Com'è naturale questa bimba, che scherza col micino! Bella, sì, bella. Sarebbe un peccato! Mettiamola da parte. Importante questo catalogo dell'Hoepli: è del 1909, è recente, conserviamolo. Perbacco! La lettera anonima del De Amicis! Ed io la credevo smarrita! Da parte. Una pastorale del Bonomelli! Il Bonomelli scrive bene! Da parte. Tre surice dint'a nu mastrillo. Ah! la ricordo questa farsa del Petito. Da parte. Teh! come è graziosa questa caricatura! Da parte. Questo giornaletto bisogna conservarlo: è la risposta che diedi a quello screanzato. Da parte. Un articolo di Domenico Oliva! Da parte. Un numero del Marzocco. Vediamo. Ah! sì, sì, c'è una poesia di Ada Negri. È inutile! Ada Negri è vera poetessa. Che versi! che armonia!

Le ore passano, voi vi divertite a leggere, a rievocare tanti ricordi del passato e quando il [124] vostro figliuolo vi dice dall'altra stanza: “Papà, a tavola!„ voi vi scuotete come da un sogno delizioso.

Dunque bisogna bruciare queste carte?

No, no, dopo pranzo le rimetterete al loro posto. Quell'ospedale ha il suo valore!

[125]

I libri fortunati.

Quanto fruttò all'Alighieri la Divina Commedia? Neppure il becco di un quattrino. Noi, tardi nepoti, l'abbiamo coverto di alloro da capo a piedi, gli abbiamo messo in testa una ricca corona di lauro, l'abbiamo solennemente dichiarato il papà della poesia, ma il Sommo Poeta se ne morì povero e in esilio.

E l'Ariosto che cosa ebbe per l'Orlando Furioso? Danaro, zero. Egli stesso se ne lamentava con le Muse:

Apollo, tua mercè, tua mercè, santo

Collegio delle Muse, io non possiedo

Tanto per voi ch'io possa farmi un manto.

E sapreste trovarmi un solo poeta che fosse divenuto ricco per i suoi libri?

[126]

Alcuni vivevano con qualche agiatezza, perchè erano sussidiati, perchè riscuotevano una pensione come vecchi impiegati in ritiro, ma nessuno potè mai esclamare: “I miei libri mi hanno fruttato duecento, mille, tre mila zecchini!„

Anche dopo il Settecento, in cui il libro incominciò a mettersi in commercio, i poveri poeti ricavavano ben poco. Il Parini, ad esempio, doveva ricorrere alla generosità di un canonico per non vedersi morir di fame la propria madre; il Foscolo se ne andava ramingo per la Svizzera, per l'Inghilterra; e se il Monti viveva da signore, quel danaro gli veniva direttamente dalla Real Zecca, per i servizî speciali, che rendeva alla Corona.

E in Francia? I letterati dovevano andare col cappello in mano dall'editore e a stento ottenevano poche centinaia di lire. Basta per tutti il caso di Bruyere. Un giorno il grande e geniale filosofo si presenta dall'editore Michalet e cavando di tasca il manoscritto dei Caratteri, gli dice:

“Vuol pubblicare questo mio lavoro?„

L'altro resta per un momento sopra pensiero, poi risponde:

— Sa', io non potrei offrirle che dugento lire. —

“Vada per duecento.„

Dopo cinque anni il Michalet guadagnava con i Caratteri trecento mila lire e il Bruyere, per vivere, doveva ricorrere alla munificenza del Principe di Condé!

[127]

Del resto fino a ieri si è detto che i letterati sono poveri, poveri in canna.

Una sera il Balzac, mentre si ritira a casa, proprio nel quartiere Marteuf, è aggredito da un ladro, il quale l'apostrofa col rituale dilemma: — o la borsa o la vita. —

Il Balzac scoppia in una sonora risata e stringendogli amichevolmente la mano, gli dice:

“La borsa? fratello mio, la borsa è vuota! Non sai che io sono un letterato?„

Il ladro sorride gli chiede venia e si allontana.

Eppure il Balzac mentiva. Al suo tempo i letterati di grido incominciavano a guadagnare qualche marengo. Lo Scott con i suoi romanzi arrivò a sei milioni e mezzo; il Dumas (padre) lasciò al figlio una rendita annua di lire 50 mila; il Sue, solo coll'Ebreo Errante, intascò molte migliaia di lire.

Ed oggi? Oggi un libro che incontra il favore del pubblico è una miniera inesauribile di gloria e di danaro. Un libro basta a farvi milionario e a sollevarvi nello stesso tempo tra gli alti papaveri della repubblica letteraria. E quando siete a quel posto, non ci sarà più bisogno di lavorare; potete passare la vita in divertimenti.

Quel libro, come un fertilissimo podere, ogni anno vi darà il suo invidiabile prodotto.

Questa fortuna però tocca a pochi.

Ogni giorno si pubblicano migliaia e migliaia [128] di libri, ma gli autori non diventano milionari. Tutt'altro: la maggior parte vi rimette le spese. E perchè? perchè questi libri non scuotono il pubblico, il quale per natura è sonnacchioso e indifferente. Bisogna svegliarlo, entusiasmarlo, elettrizzarlo, stordirlo!

È molto difficile, non è vero? ed ecco perchè in cento anni, appena cinque o sei libri si possono chiamare fortunati!

***

Faccio una domanda. Che sarebbe stato del Manzoni se non avesse scritto i Promessi Sposi?

“Il Manzoni!„ — esclamerà qualcuno — oh non sapete che il Manzoni è un colosso? che appartiene alla schiera dei sommi maestri?„

Siamo perfettamente d'accordo; ma guardando bene quel colosso non vi pare che sia formato tutto di Promessi Sposi? Le tragedie si leggono, perchè sono sorelle dei Promessi Sposi; la Morale Cattolica è generalmente ben vista, perchè appartiene alla medesima famiglia.

Siamo giusti; tutti gli onori che ebbe il Manzoni non furono dati esclusivamente all'autore dei Promessi Sposi? Perchè lo visitò lo Scott? perchè Vittorio Emanuele II, appena entrato in Milano, volle salutare il grande Lombardo?

C'è poco da discutere: il Manzoni è sugli altari per Renzo e Lucia!

[129]

Domandatene al Cantù, il quale lavorò fino a ottant'anni, scrisse un mondo di libri, ma non riuscì, malgrado la sua buona volontà, a mettere fuori un libro fortunato. Tentò la storia — che storia! — trentacinque grossi volumi, che pesano un quintale, tentò il romanzo, tentò la poesia, tentò la critica, tentò la letteratura popolare, fu impossibile; il libro fortunato non venne! E lui per consolarsi, dettò negli ultimi anni le Reminiscenze Manzoniane, come per dire: “Se non riuscì a me, riuscì al mio amico Sandro: è lo stesso!„

Ma lasciamo la celia! Il Cantù, nel citato libro, ci dice che gl'Inni Sacri, le Tragedie e tutto quel manipolo di componimenti poetici passavano quasi inosservati. Il Rovani ce lo spiattella con più franchezza: “Del Manzoni non si conoscevano che gl'Inni e le Tragedie, lette da pochi, disprezzate da molti.„

Ma dopo la pubblicazione dei Promessi Sposi, il Manzoni arrivò alle stelle.

Che successo! neppure i romanzi dello Scott e del Dumas ebbero tanta fortuna!

Sentite come scrive Giulia all'amico Fauriel:

“Debbo dirvi che abbiamo provato un gran piacere nel vedere il lieto successo del libro del babbo. In verità, superò non solo la nostra aspettativa, ma ogni speranza. È un vero furore; non si parla d'altro; nelle stesse anticamere i servitori si tassano per poterlo comprare. Il babbo è assediato [130] da visite e da lettere d'ogni specie e d'ogni maniera!„

Nessun libro in Italia aveva destato tanto entusiasmo. Le edizioni si seguivano le une alle altre, e la nostra penisola fu piena di Promessi Sposi. Caffè, circoli, teatri, strade, alberghi si intitolavano di quel nome. Il Granduca faceva dipingere le sale della sua villa con gli episodi del romanzo; nel carnevale del 1828 la quadriglia che destò maggiore entusiasmo a Milano fu quella di Don Rodrigo e dei Bravi; a Parigi si rappresentò in teatro con musica del maestro Caraffa.

Anche in poesia: Lorenzo Del Nobolo da Montevarchi ne ricava un poema di dodici canti, lo pubblica da Giardelli di Firenze il 1838 e lo dedica alla Granduchessa di Toscana.

I personaggi divennero popolarissimi. Ogni prete, un po' ignorantuccio e timido, veniva chiamato Don Abbondio; tutte le domestiche dei reverendi ebbero il nomignolo malizioso di Perpetua. Nelle conversazioni si sentiva spesso ripetere: “Mi sembri il conte Attilio! Vorreste imitare il padre di Fra Cristoforo? vedi quel Don Ferrante! Oh! che cera da Innominato!„

Si disse che il Manzoni ebbe quel trionfo per la benedetta quistione della lingua. Non credete a queste ciarle. I Promessi Sposi furono fortunati: ecco tutto.

[131]

***

Dopo la pubblicazione di questo romanzo il Manzoni si mise in posizione ausiliaria e di rado prese la penna in mano. Perchè affaticarsi? il colpo era fatto.

Incominciarono ad affaticarsi i poveri imitatori. Il Rosini, purista cattedratico, prende per sè il quadretto della Monaca di Monza e dice: “Questo ingrandimento artistico lo faccio io!„ Il Gualtieri acciuffa l'Innominato e gli grida: “Per te ci sono io, canaglia!„

Se ne venne poi la così detta scuola manzoniana. Il Grossi, il D'Azeglio, il Cantù, il Carcano scrissero il loro romanzo. Che volete! quel successo faceva gola e ognuno sperò di averne una fetta. La malattia è continuata per un pezzo, e pochi anni fa abbiamo avuto I figli di Renzo e di Lucia. Ma questi benedetti figli, com'è da immaginarsi, somigliano poco ai genitori. Segno di decadenza! — direbbero i moralisti; mancanza di arte! — diciamo noi.

Altri, vedendo che i poveri imitatori avevano fatto fiasco, si dettero a commentare il fortunato romanzo. Abbiamo centinaia di volumi sui Promessi Sposi! Commenti storici, commenti estetici, filologici, stilistici, ecc.

Il Morandi incomincia a muovere la quistione della lingua, risponde il D'Ovidio, replica il Morandi. [132] Il Boni, più pratico, pubblica una grammatica italiana con gli esempi ricavati dai Promessi Sposi e par che dica: “Se vuoi scrivere come il Manzoni, eccoti la guida!„ Allora il Morandi lascia il D'Ovidio, ricorre ad un Cappuccini e così a quattro mani preparano una nuova grammatica manzoniana fin nelle ossa.

Ma dunque tutto è Manzoni, Manzoni, Manzoni! Il pubblico cominciò a seccarsi e stava proprio sul punto di dire: “finitela una buona volta!„, quando il Venturi, un altro manzoniano puro sangue, prepara un nuovo libro. Ancora? Ma che cosa avrà da dire questo egregio professore? Il romanzo è stato commentato, analizzato da capo a piedi e anche di traverso. Dunque? Il Venturi prende diversi pezzetti del libro, li liga con sottilissimi fili di prosa sua e dice al pubblico: “Io vi presento il Fior dei Promessi Sposi.„ Il fiore? ma come si chiama questo fiore? È una rosa, un giglio, un giacinto, una viola?

Il Venturi non è botanico, vi ha dato un fiore e basta: fatelo voi esaminare! Del resto il libro piacque. Entrò nelle scuole e per molti e molti anni, maestri e scolari si deliziarono di quell'odore.

Eppure fra tanti signori che scrissero ad onore e gloria del fortunato romanzo, nessuno ebbe un'idea più geniale di un traduttore francese, il quale si permise di farne un'edizione espurgata ad uso della gioventù. Non ho potuto, malgrado [133] le mie continue ricerche, avere questo curioso estratto, ma a quanto mi si assicura non conta più di dugento pagine. E le altre dugento? via. Poveri Promessi Sposi, mutilati così barbaramente in nome del buon costume!

Ma non sa questo signore che Renzo e Lucia possono entrare anche nei monasteri? Il Manzoni, proprio alla vigilia di metterli al mondo, facendosi vincere dai suoi scrupoli religiosi, disse paternamente ai due protagonisti ufficiali: “Senza smorfie, sa'! I fidanzati in pubblico debbono essere serî. Certe paroline si dicono a quattr'occhi; mi raccomando a te, Renzo.„

E il povero Renzo, da buon figliuolo, qual'era, ubbidì. Neppure una espressione amorosa, neppure una stretta di mano alla sua bella!

Vi ricordate quando è costretto a lasciare le due donne e a prendere la via di Milano? “Rattenne a stento le lacrime e stringendo fortissimamente la mano ad Agnese, disse con voce soffocata: a rivederci, e partì.„

Qualche lettore malizioso potrebbe andar fantasticando su quel fortissimamente e su quell'a rivederci.

Ma, santo Iddio, anche Renzo è un giovanotto e pare che gli si possa almeno concedere il diritto di far capire ad Agnese, la quale lo capì benissimo, che quella stretta era per la figliuola. Imitassero Renzo i nostri giovani! Da che il mondo è mondo; sono tanto pochi i fidanzati che [134] ricorrono alla madre della sposa! In amore si ama il telegrafo senza fili e non piacciono gl'intermedî. Nè credo che quel traduttore nei suoi verdi anni abbia compiuto un eroismo maggiore.

E Lucia? Lucia più che una sposa potrebbe chiamarsi una monachella. Il Settembrini in pubblica scuola domandava ai suoi allievi: “Come sono gli occhi di Lucia? non si sa: ella li tiene quasi sempre chinati a terra per pudore!„

E Don Rodrigo, il Conte Attilio, l'Innominato, la Monaca di Monza? Saranno dei pessimi arnesi, ma sulla scena rispettano il pubblico, ubbidiscono al direttore d'orchestra.

Strano! Da noi molti critici si lamentarono che il Manzoni aveva quasi messo una museruola ai suoi attori principali; in Francia invece, nella beata repubblica, sempre realista più del re assente, ci fu chi lo accusò in nome della moralità! Lasciate stare, o fratelli d'oltre Alpi, gli autori italiani: divertitevi piuttosto a espurgare i vostri romanzieri! Avete la Senna; approfittatene per lavare i panni sporchi!

Noi intanto conchiudiamo. Quanti quattrini guadagnò il Manzoni con i Promessi Sposi? Eh! pochi, molto pochi. “Appena cinque mila lire„ dice Federico De Müller.

Dopo la prima edizione, il suo editore lo pregava di una ristampa, ma il Manzoni, vizio suo, non sapeva decidersi: voleva rifare, correggere, ripulire; intanto in Italia e all'estero si pubblicavano [135] edizioni su edizioni. In diciotto mesi, nove ristampe in Italia, sei in Francia, due in Germania, una in Inghilterra. Il Manzoni ebbe cinque mila lire, ma molti editori fecero fortuna!

E la manna continua. L'Hoepli, quantunque arrivato un po' tardi in mezzo a noi, ne sa qualche cosa. Sei o sette anni fa bandì un concorso: dieci mila lire a quel pittore che gli avesse favorito una trentina di tavole per illustrare il romanzo. Dieci mila lire? È troppo! Ma il signor Hoepli non canta la messa senza il morto.

Il furbo seminò per raccogliere, e il raccolto fu miracoloso.

Un altro giorno lo Sforza, erede universale di tutti i manoscritti manzoniani, gli disse: “Sai, ho trovato dei capitoli inediti sui Promessi?„

“Davvero?„

“Davvero!„

“Ebbene, non perdiamo tempo. Scrivi due parole di prefazione e mandami subito quelle sacre reliquie: ne farò un bel volume, anzi due!„

Bisogna dire la verità: anche i Brani Inediti dei Promessi Sposi sono alla terza ristampa!

***

Le Mie Prigioni! Ecco un altro libro fortunato.

Il Pellico nel 1830 se ne usciva dallo Spielberg, dov'era stato a scontare dieci anni di carcere duro. L'abate Giordano, a cui egli “raccontava [136] per minuto tutto quello che aveva sofferto, lo consigliò a scriverne la narrazione e a pubblicarla.„ Così nacquero le Mie Prigioni!

Il libro andò a ruba e divenne popolarissimo.

“Il buon successo — sono parole dello stesso autore — crebbe rapidamente nella Penisola. A Parigi il De Latour lo tradusse nella sua lingua, le edizioni e le traduzioni si moltiplicarono ben oltre il merito...„

Ma invece di andar numerando quante edizioni se ne fecero in Italia e fuori, vediamo piuttosto, perchè quel libro, così modesto, così piamente religioso, abbia avuto tanta fortuna.

In quel tempo non si parlava d'altro che di patria. Patria! patria! Era la parola d'ordine dei poeti, degli storici, dei filosofi. L'Italia doveva una buona volta essere libera.

Il Niccolini con le sue tragedie imprecava contro il tiranno, pigliando a prestito i fulmini di Giove; il Guerrazzi, con i suoi strani romanzi, tutt'altro che storici, ribatteva il chiodo, gridando come energumeno: “Se non liberiamo la Patria io divento pazzo!„

Il Pellico, al contrario, non si adira, non impreca contro gli oppressori, ma narra, senza apparato di forma, che cosa ha sofferto per la Patria. “Simile ad un amante maltrattato dalla sua bella e dignitosamente risoluto di tenerle il broncio, lascio la politica ov'ella sta e parlo d'altro.„ E parla delle sue infermità, dei maltrattamenti [137] subiti. Lo facevano morir di fame e una volta fu proprio sul punto di chiedere un po' di pane al giovane barbiere! Per portare gli occhiali c'era bisogno di un permesso speciale dell'Imperatore. Solo, segregato dai suoi compagni di sventura, vorrebbe almeno passare il suo tempo poetando, ma gli è negata perfino la carta, e il poveretto deve ricorrere “all'innocente artificio di levicare con un pezzo di vetro un rozzo tavolino e lì scrivere, con i polsi fasciati, affinchè le zanzare non entrassero nelle maniche.„ Dopo aver letto e riletto raschia “ogni cosa col vetro, per avere atta quella superficie a ricevere nuovi pensieri„. L'unico suo conforto è una lettera della famiglia, una parola della sua buona mamma. Ma che! “Quelle lettere passano per la trafila della Commissione e vengono rigorosamente mutilate con cassature di nerissimo inchiostro. Un giorno invece di cassare alcune frasi, tirarono l'orribile riga su tutta quanta la lettera, eccettuata la parola Carissimo Silvio e il saluto che era in fine: t'abbracciamo tutti di cuore. Proruppi in urla e maledissi non so chi.„

Ecco perchè quel libro commosse. Sembrò ad ognuno di essere stato nello Spielberg e di aver sofferto quelle pene, quegl'insulti, quelle sevizie. Nelle Mie Prigioni la figura del Pellico quasi dispare; no, non è il Pellico, sono tutti gl'Italiani che gemono nel terribile carcere, perchè amano la Patria e la libertà!

[138]

L'abate Giordani, da buon confessore, gli diceva: “Mostrate quanto il Deismo e la filosofia siano impotenti a fronte della Religione Cattolica. Molti giovani, letto il vostro libro, scuoteranno il giogo dell'incredulità.„ Ma le Mie Prigioni ci fanno pensare a un altro giogo: al giogo della schiavitù! Il Pellico, con la dolcezza, con la rassegnazione, fece fremere i nostri animi più del Niccolini, dei Guerrazzi e di tanti altri, che si servirono della penna come di una dinamite. Ben disse Cesare Balbo: “Questo libro è per l'Austria più che una battaglia perduta!„ Le madri che prepararono i figliuoli per le guerre della nostra Indipendenza avevano letto le Mie Prigioni, non la Battaglia di Benevento, o l'Arnaldo da Brescia!

Ricordo che anche noi fanciulli ci sentivamo ferir l'animo quando il professore ci leggeva in classe, l'arrivo allo Spielberg, il mutolino, la morte dell'Oroboni.

“Che cosa, signor maestro, aveva commesso il Pellico, per meritare questa pena?

— Eh! figliuoli miei, aveva amato la patria. —

“E perciò fu imprigionato?„

— Già, in quel tempo chi amava la patria era punito col carcere. —

“Da chi?„

— Dall'Austria. —

Ma lasciamo stare questi ricordi, lasciamo stare l'Austria. Adesso siamo amicissimi: il nostro Di [139] San Giuliano va e viene dall'Abbazia e fa la sua partita con il collega! Però, sia detto fra noi, se l'Imperatore d'Austria avesse potuto sospettare il brutto tiro del Pellico, non si sarebbe lasciato vincere dalle preghiere della sua augusta consorte! Le lacrime della contessa Gonfalonieri sarebbero state vane. Quell'Imperatore, buono alla scorza, che “non voleva vedere le faccie sparute dei prigionieri per non rattristarsi„, a firmare condanne capitali ci provava gusto e al Pellico gliel'avrebbe fatta a misura!

Il Pellico dunque deve alla contessa Gonfalonieri la vita e... la fama. Se oggi si trova a fianco del Foscolo, del Monti, del Giusti è per le Mie Prigioni. Togliete questo libro, che gli resta? Un bagaglio di tragedie, di cantiche, di poesiole, che si stampano per contorno alle Mie Prigioni, ma che nessuno legge. La Francesca da Rimini ebbe un po' di successo, poi andò a tener compagnia alle altre sorelle!

Il Pellico era convinto di ciò, e dopo la pubblicazione del libro fortunato voleva chiudere bottega. Ma eccoti di nuovo quel benedetto abate Giordano, che gli va ripetendo: “Dovreste giovarvi del favore che il pubblico vi dimostra per dargli un trattatello morale.„ Il Pellico ripulì i ferri del mestiere, si mise all'opera e ci regalò I doveri degli uomini. “Questo libro — sono sue parole — ebbe un successo simile alle Mie Prigioni.„

[140]

Simile! Ma lasciamo correre. Sono tenerezze paterne. Oh non sapete che i padri sono gli eterni panegeristi dei propri figli?

I doveri degli uomini ebbero un successo effimero e dopo cinque o sei anni nessuno ne parlò più.

A proposito, il Pellico ebbe imitatori?

No. Per scrivere qualche libriccino su quel metro occorreva la prova del fuoco: bisognava passare sei o sette anni in gabbia!

Il Settembrini dettò le Ricordanze, il Pallavicino le Memorie, ma non si può dire che abbiano avuto intenzione di imitare il Pellico. Ed oggi, nell'anno di grazia 1911, si potrebbe avere un libro sulla falsa riga delle Mie Prigioni?

Per l'amor di Dio, non lo dite neppure! Chi è quel disgraziato che vorrebbe far ritornare il tempo della tirannide per scrivere un libro fortunato?

***

Il Cuore del De Amicis è stato tradotto in lingua giapponese e pubblicato in due volumi su carta di seta e con copertina elegantissima. Curiose le illustrazioni! I piccoli protagonisti italiani sono trasformati in ragazzi giapponesi, con gli occhietti a mandorla e con il naso schiacciato.

Ecco che cosa succede ai libri fortunati! E il Cuore, bisogna dirlo, è un libro fortunatissimo.

[141]

Sei anni fa, essendo arrivato alla 300ª edizione, si celebrarono a Torino le Nozze di Oro con un banchetto cordiale. Si mangiò e si bevve alla salute, e anche a spese, dei trecento mila lettori. Immaginate che sentimentalismo! Cuore, Cuore, Cuore! I brindisi piovvero. I trentanove convitati: critici, musici, poeti, scultori, commediografi, divennero teneri come agnellini! L'ultimo fu il Giacosa, il quale vedendo che il termometro della cordialità segnava 39 all'ombra, se ne uscì con pochi versi alla Giusti, ringraziando il De Amicis di averlo invitato a quel banchetto

dei trecento mila cuori

Che il tuo cuor si soggiogò.

A festa finita, i commensali ebbero un opuscolo elegantissimo, contenente i fac-simili fotografici dei frontespizî delle 22 traduzioni di Cuore.

Che? c'è stato mai un libro che ha avuto questi trionfi?

Ma, siatene certi, questo libro fortunato non si accontenta delle nozze d'oro. Dopo un paio di lustri, verranno le nozze di brillanti, poi quelle di radium, e così di nozze in nozze se ne starà sempre nella luna di miele.

Dico sempre, perchè il Cuore appena diede il primo palpito, innamorò tutti.

I fratelli Treves (e allora erano davvero due!) non facevano a tempo a sfornare. Da ogni parte [142] d'Italia si chiedeva un Cuore; tanto che i signori Treves, fingendo di perdere la pazienza, alle continue richieste, rispondevano: “Ma, santo Iddio! non abbiamo mica cento braccia noi!„ Intanto l'entusiasmo cresceva, cresceva: ognuno ne decantava i pregi. Che libro! che tesoro! Come erano commoventi quei racconti mensili! e quelle letterine, e quei ricordi storici e quei bozzetti di scuola!

Il Mantegazza, senti oggi, senti domani, lasciò di manipolare fisiologie e scrisse Testa: il De Castro dettò Forza. Ma che! come a farlo apposta, il Cuore continuava la sua marcia trionfale e la povera Testa del Mantegazza se ne restava molto addietro, senza parlare della Forza che appena dava un passo!

Il De Amicis, quando vide che ai suoi cortesi concorrenti mancava la lena, se la rise sotto i baffi e, scuotendo la sua chioma, generosamente leonina, esclamò: “Amici, l'avete fatta tardi!„

***

E chi può parlare del trionfo che questo libro ebbe nelle scuole elementari del Regno?

I maestri ne erano innamorati cotti, ed avevano ragione. In quel tempo i poveri precettori erano trattati un po' male dal Governo, nè alcun Deputato aveva alzato la voce a prò di queste vittime, che lavorano molto e riscuotono poco. [143] Il De Amicis, non potendo dar quattrini, ne fa il panegirico, e ad ogni maestro mette in testa una corona di alloro. Non ne dimentica uno! Il nuovo maestro, il maestro di terza, la mia maestra di prima superiore, il maestro di mio fratello, la mia antica maestra, il maestro di mio padre, il maestro supplente, il maestro serale, il maestro ammalato, la maestra morta. Requie all'anima sua!

E sono tutti martiri, tutti eroi, tutti santi! Che angeli di bontà! Non fanno altro che baciare ed abbracciare i loro figliuoli adottivi; baci sulla fronte, baci sulle guance; baci, sempre baci!

Ma zitto! noi non possiamo discutere del merito di questo libro, che gode prerogative reali e che potrà essere giudicato solo da l'Alta Corte di Giustizia.

Abbiamo detto che il Manzoni dopo i Promessi Sposi, volle riposarsi, seguendo, da buon cattolico, l'esempio del Signore, che dopo i sei giorni della creazione, si compiacque dell'opera sua e si riposò. Il De Amicis la pensa diversamente. Il Cuore gli mette l'argento vivo addosso. Riposarsi, e perchè? Il pubblico m'applaude, mi chiama al palcoscenico ed io mi ritiro? Sarebbe una scortesia. E così per non essere chiamato scortese, continuò a mettere fuori: Fra scuola e casa, La maestrina degli operai, Ricordi d'infanzia, L'idioma gentile, ecc.

Cuore andava avanti e questi fratelli dietro. Per un riguardo personale al Cuore, i versi del [144] De Amicis furono chiamati poesie, e sempre per quel benedetto Cuore si fece buon viso al Romanzo di un maestro, ad una certa Carrozza per tutti, ecc.

Ecco che cosa significa dare alla luce un libro fortunato!

Veramente oggi il Cuore, dopo aver fatto soffrire di cardiopalmo un'intera generazione, ha rallentato un po' i suoi palpiti; ma resta sempre il libro prediletto per i ragazzi.

Spesso ritirandovi la sera a casa, trovate i vostri figliuoli, che pendono tutti dalle labbra del più grandicello, il quale legge commosso il Sangue Romagnolo o dagli Appennini alle Ande.

L'entusiasmo di una volta è cessato, ma fino a che avrete nel petto un cuore, ne avrete un altro nella libreria!

Veniamo adesso alla solita conclusione.

Quante migliaia di quattrini fruttò questo libro? Eh! Chi volete che ce lo dica? Sono furbi i fratelli Treves e fanno bene. In Italia non si può parlare troppo chiaro. L'agente delle Imposte colpisce subito a nome della legge. Però posso assicurare che Emilio Treves, parlando una sera della fortuna di questo libro, esclamò: “Se avessi altri dieci cuori!„

Che grande umanitario!

[145]

***

Siate sincero: forse nella vostra libreria manca la Divina Commedia o il Vocabolario della Lingua Italiana, ma non il Quo vadis, — un altro libro miracolo! —

Federico Verdinois traduce un romanzo dal Polacco col titolo il Quo vadis e lo pubblica a pezzetti sul “Corriere di Napoli„ di felice memoria.

Le puntate si seguono fra l'indifferenza generale. Chi volete che tenga dietro a tutti questi romanzi da appendice, così strani, così morbosamente fantastici e di minimo valore artistico!

Ricordo che spesso, prendendo il giornale e posando l'occhio su quel titolo così bisbetico, dicevo annoiato: “Ancora!„ Immaginavo un romanzo sulla falsa riga di Tito Veio o giù di lì.

Ma un bel giorno si incomincia a parlare con entusiasmo del Quo vadis. Che capolavoro!

L'entusiasmo cresce, diventa febbre, delirio.

A coro tutte le riviste, i periodici letterarî incominciano a cantarne mirabilia. Il romanzo cristiano è il Quo vadis — il Cristianesimo è il Quo vadis — la Lucia dei Promessi Sposi e la Licia del Quo vadis — l'elemento storico nel Quo vadis. I giornali politici mandano a far benedire ministri e deputati e dedicano un'intera pagina — sei massicce colonne — al Quo vadis. Reporters [146] corrono a scavezzacollo in Polonia, vanno a scovare il fortunato autore e vogliono sapere quando scrisse il Quo vadis, perchè lo scrisse, come lo scrisse, dove lo scrisse ecc. Intanto le edizioni arrivano all'ennesima potenza. Il Quo vadis illustrato, il Quo vadis con pianta topografica, il Quo vadis per la gioventù, per gli adulti, per i vecchi, e forse qualcuno pensò pure ai poveri infermi e ai moribondi!

Evviva, evviva il Quo vadis! Evviva Licia, Vinicio, Petronio! Evviva Ursus!

Tutti comprarono questo libro, tutti lo lessero, o almeno finsero di averlo letto. Magari bisognava mentire per non essere chiamato... chi sa che cosa!

Qui mi permetto di ricordare un aneddoto. Proprio in quei giorni di plenilunio mi trovavo a Napoli. Sapendo che di fresco si erano pubblicati gli Scritti inediti del Settembrini, mi recai da Detken et Rocholl per acquistare quel volume. Entro, e vedo una catasta di Quo vadis.

Un giovanotto mi fa un grazioso inchino e mi dice: “Tradotto dal Verdinois?„

— Che cosa? — gli domando maravigliato.

“Lei non vuole il Quo vadis?„

— No. —

“No, e allora..?„ e mi guarda di traverso come per dire: si vede che non hai gusto!

In verità questo complimento, quantunque non espresso, mi garba poco e perciò, botta e risposta, aggiungo subito:

[147]

— Il Quo vadis l'ho comprato due mesi fa a Roma —

Dissi una bugia, ma salvai... l'onore!

***

Qualche critico, non so se in buona o mala fede, volle dire che quel romanzo non era poi una gran cosa! Non l'avesse mai fatto: restò solo e fu chiamato maligno. Il pubblico aveva battuto le mani e il pubblico comanda in teatro e fuori.

Ma s'incominciò a dire: questo signor Sienkiewicz (che bel nome, sembra uno starnuto!) non ha scritto altri romanzi? Eh! il Sienkiewicz è un romanziere provetto e fecondo, ne ha pubblicato una ventina. Davvero? Davvero!

I nostri editori, vedendo che il pubblico è ben disposto, fanno subito tradurre quei romanzi, quelle novelle; e dopo un mese, in tutte le vetrine dei librai, si vedono già in bella veste i fratellini del Quo vadis; Per il pane, Seguiamolo, I Crociati, Col ferro e col fuoco. Il diluvio, La famiglia Polaniesoski, San Michele Volodioshe ecc.

I lettori non mancarono e un po' di popolarità l'ebbero questi emigrati!

Ma non basta. C'è ancora altro. Bisogna sapere che i signori editori, stando a contatto con i poeti, coi romanzieri, ecc., hanno imparato a giuocar d'astuzia, e pur di far quattrini, burlano il pubblico. Alcuni, vedendo che il Quo vadis [148] attirava come una calamita, lo fecero entrare, a proposito o a sproposito, nei titoli di molti romanzi, come ad esempio:

A. Dumas

Orgie e delitti di Nerone
romanzo che precede il Quo vadis

E. Bulwer

Gli ultimi giorni di Pompei
racconto della prima era cristiana
che fa seguito al Quo vadis.

E così col precede e col segue si cercava smaltire la merce, un po' fuori uso.

Molti gonzi abboccarono all'amo, comprarono questi volumi, lessero, lessero, credendo di trovare i nonni o i figli di Licio: alla fine si accorsero del tranello, ma troppo tardi!

Del resto una vera burla non vi fu. Anche le Orgie di Nerone e gli Ultimi giorni di Pompei meritano di essere letti! Oh, vi credete davvero che il Quo vadis sia un capolavoro! Oggi la festa in onore di questo santo polacco è finita. Il pubblico, avendo per un bel pezzo gridato a squarciagola: Evviva il Quo vadis! Evviva Sienkiewicz! ha chiuso bocca, come per cedere la parola alla critica. E la critica, dopo aver sviscerato quel libro, [149] dopo averlo sottomesso a minute analisi, ha sentenziato: “Il Quo vadis è un romanzo come tutti gli altri. Il suo straordinario successo non appartiene alla letteratura, ma ad uno stato morboso dello spirito contemporaneo.„ E questa volta la critica ha colto nel segno. Il secolo decimonono, nei suoi ultimi anni, sentiva quasi un disgusto dei suoi dubbi e delle sue negazioni. La letteratura e l'arte, invasa dalla scienza sperimentale e positiva, dava un tanfo di scetticismo anemico! Perfino il romanzo, nato per dilettare, si era coverto di uno strato scientifico, che, paralizzando l'azione drammatica, lo rendeva pesante e noioso. Ma a chi ricorrere? Zola, dittatore in Francia, dopo averci deliziato con la lunga serie dei Rongon Marquart, preparava I quattro Evangeli e agli evangeli bisogna credere! Il D'Annunzio teneva l'interim della presidenza in Italia e si ostinava a regalarci romanzi, privi di invenzione, ma carichi di suoni, di simboli, di paradossi. Sempre quelle situazioni raccapriccianti, sempre quelle analisi psicologiche!

Il pubblico non aveva il coraggio di ribellarsi, ma lasciava capire che di quella roba ne era stufo. Intanto i nostri romanzieri continuavano a fare il proprio comodo.

“O bella — avrà esclamato il d'Annunzio — dobbiamo stare a servizio dei lettori? Oggi il romanzo si deve scrivere così. Chi non è contento ricorra alle stravaganze fantastiche del Dumas o ai dolciumi dello Scott!„

[150]

Fu proprio allora che il Sig. Scienkiewicz dalla lontana Polonia disse al pubblico: “I tuoi romanzieri ti annoiano? Ebbene, io ho lavorato dieci anni per te. Leggi questo libro!„ e mise fuori il Quo vadis. Il pubblico lesse, si innamorò di Licia ed applaudì freneticamente.

Se questo libro fosse apparso venti anni prima avrebbe avuto il crucifige. Venti anni dopo ebbe l'hosanna!

Beato chi conosce l'ora sua!

***

Qui il capitolo sui libri fortunati si dovrebbe chiudere. Non ve ne sono altri che hanno meritato il primo premio del pubblico, da questo grande e bizzarro signorone, che sembra indifferente ad ogni produzione letteraria, ma che quando piglia a ben volere un libro, lo riveste di medaglie d'oro e ne arricchisce l'autore.

Però il pubblico, sia per giustizia, sia per... carità cristiana, concede spesso delle menzioni onorevoli. In quest'ultimo ventennio Guerra e Pace, ha avuto una menzione onorevole; Fatalità, menzione onorevole; Mio Figlio, menzione onorevole; Piccolo mondo antico, menzione onorevole; Il Santo, menzione onorevole. Veramente quest'ultimo fu proprio lì lì per meritare il primo premio. Da principio prese una bella corsa, ma un bel giorno si fermò, quantunque la Sacra Congregazione [151] dell'Indice, segnandolo col suo Bollo l'avesse reso più accetto ai nuovi ghibellini del pensiero.

Il D'Annunzio ne tiene un fascio, ma egli aspira alla medaglia d'oro. Un artista sommo, con quei cavalli di forza, non può accontentarsi di una semplice menzione onorevole, nè di medaglie di bronzo o di argento.

La Figlia di Jorio fu molto applaudita; andò in processione per tutti i teatri d'Italia, ma il pubblico non la credè degna del gran premio.

E la Nave, varata all'Argentina di Roma?

I giornali amici come per preparare l'ambiente, incominciano un mese prima a cantarne vita e miracoli, a far sapere che si compone di un prologo e di tre grandi quadri e, come per stuzzicare l'appetito, ne fanno assaggiare un pezzetto. Se volete gustarla tutta, aspettate la “primière.„

Ma che dramma! basta dire che è stato dedicato a Dio! C'è anche la musica, ma la musica deve stare al suo posto: è la parola del vate che deve primeggiare.

Viene il gran giorno. La Nave si vara... felicemente. Il pubblico, affascinato dal mirabile apparecchio scenico, stordito dalle marce trionfali, dai canti liturgici, da quegli urli incessanti, batte le mani. “Fuori l'autore! Vogliamo l'autoreeee!„ Il D'Annunzio, commosso, esce alla ribalta e mentre il pubblico continua ad osannarlo, dice a se stesso: “Finalmente hai meritato il primo [152] premio!„ E sempre più si culla in questa dolce illusione, quando il conte di S. Martino tutto frettoloso lo chiama. “Avanti, Gabriele; il Re ti aspetta nel suo palco!„

Dunque il decreto è già firmato!

Il D'Annunzio, sicuro, sicurissimo di aver scritto un libro fortunato, quella notte ebbe sogni d'oro.

Il pubblico invece appena uscito dal teatro si sentì un po' male. La Nave? ma che cosa è questa Nave? che cosa vogliono quelle diaconesse, quelle croci, quei cori di catacumeni e di Nàumachi, quelle orgie di eretici e di pagani, quei giudizi di Dio? Il varo è bellissimo, ma varare una nave, significa comporre una tragedia?

L'Argentina continua ogni sera a ripetere la solenne funzione; i critici amici, sapendo per esperienza che bisogna battere il ferro quando è caldo vanno dicendo che l'entusiasmo cresce sempre per questo capolavoro. A sentirli, il dramma sarà rappresentato in tutte le capitali, Parigi, Londra, Berlino, Pietroburgo, Costantinopoli, New York, aspettano la Totus Mundus!

Ma che! passati due mesi il termometro scende molto basso. La Nave, dopo un giro per i nostri porti, ritorna in cantiere, con una semplice menzione onorevole. Invano i fratelli Treves l'hanno istoriata come una galea, tipo greco. Pochi leggono quei versi, carichi di allitterazioni e di parole di conio raro.

Il D'Annunzio però, siate sicuro, non si arrende; [153] tenace, da abbruzzese vero, tenterà la prova con una nuova opera. La Nave non vi ha storditi? Ebbene, datemi un po' di tempo; fra un paio di anni, ed anche meno, vi presenterò una corazzata in tutta regola.

Ma sento dire che il D'Annunzio forse che si forse che no vuol lasciare il mare. Il mare è infido, il mare è traditore. Anche le corazzate di prima classe possono andar giù.

Lui si è rivolto ai santi. Che si sia rivolto ai santi, sta bene, anzi è un debito di gratitudine. Chi prende nome e cognome da un angelo, di tanto in tanto deve ricordarsi del Cielo. Ma San Sebastiano, proprio San Sebastiano, che fu ucciso a colpi di frecce! Attenti: Il pubblico è bizzarro, il pubblico è sanguinario: potrebbe ripetere lo scherzo a colpi di... fischi!

E poi il D'Annunzio non ha pensato che da un momento all'altro possono succedere tante cose? Forse un bel giorno, chi sa da quale parte del mondo ci verrà il primo libro fortunato del secolo XX.

Il D'Annunzio vorrebbe per sè quest'onore, ed è giusto; ma tutta la schiera immensa dei letterati francesi, tedeschi, inglesi, americani non hanno la stessa pretenzione? Lavorano in silenzio costoro, senza colpi di grancassa, senza rinchiudersi in una villa, senza spedire telegrammi a destra e a sinistra, quando terminano un romanzo o un dramma; ma la mira è quella.

E se questo libro ci venisse dal Giappone? [154] Il Giappone si trova nel periodo di gloria. Forse dopo i trionfi in guerra potrebbe averne qualcuno nelle lettere. Il pubblico è ben disposto! Ma non facciamo prognostici; venga pure dalla Groenlandia, sarà sempre ben accetto. Noi fin da questo momento mandiamo un saluto al fortunato autore. Autore? e se sarà una donna? Già, potrebbe essere anche una donna.

Ebbene, all'opera, o figlie di Eva. Fate che la storia possa dire:

“Il primo libro fortunato del secolo XX fu scritto da una donna!„

[155]

I libri che si consultano.

Le enciclopedie, i dizionarî storici, letterarî, scientifici se ne stanno a pian terreno nei loro solenni paludamenti, forse un po' corrucciati, perchè noi raramente vi diamo uno sguardo. Essi sono come i vecchi dottori di Salamanca, a cui si ricorre nelle grandi occasioni, per consiglio o per aiuto.

Si parla, ad esempio, di un autore ignoto, di un'opera sconosciuta, voi restate come Don Abbondio dinanzi a questo nuovo Carneade. Ma invece di scartabellare tanti libri, invece di perdere la testa a consultare storie letterarie o manuali scientifici, invece di ricorrere al professore B o al dottore C, aprite l'enciclopedia del Boccardo o del Larousse e sarete subito servito. Qui tutto è sminuzzato e reso facile, basta sapere le lettere dell'alfabeto per diventare un erudito d'occasione. [156] Letteratura, filosofia, musica, medicina, sociologia, astronomia, numismatica, scienze naturali, tutto, tutto è tagliuzzato a piccole fette!

Questi libri sono come quei pianini melodici: basta saper girare il manubrio per gustare un bel pezzo di musica.

Perciò Benedetto XIV, papa colto e faceto, soleva dire che queste enciclopedie ci avvezzano al dolce far niente; e quando il Ferraris gli presentò la sua Biblioteca Prompta, quel Pontefice sorridendo esclamò: “È un lavoro coi fiocchi, ma l'avete scritto per i poltroni!„

Il Ferraris, che neppure mancava di spirito, rispose: “Santità, l'ho scritto per i più!„

Non state a sentire nè a Sua Santità, nè a Sua Eccellenza. Hanno torto entrambi. Che poltroni e poltroni d'Egitto! Le enciclopedie sono necessarie come il pane. Anzi sarebbe provvidenziale se tutte le opere voluminose fossero presentate sotto forma di dizionarî.

Gli storici, ad esempio, specie quelli che la sanno un po' lunga, dovrebbero imitare il Cantù, il quale, accortosi che la sua Storia Universale difficilmente sarebbe stata letta da capo a piedi, nell'ultimo volume dice: “Ho messo un indice alfabetico per facilitare ai curiosi il modo di trovare un fatto o un giudizio.„ Ma questi curiosi siamo un po' tutti. Oggi, eccetto pochi, ma pochi davvero, che si gettano anima e corpo in una data materia ed hanno il coraggio di leggere, rileggere [157] le opere più voluminose, tutti gli altri non possono, nè debbono consumare il loro tempo con questi libroni. Ed è giusto. Leggere una storia di trenta, quaranta volumi! Dovreste lasciare tutti i vostri studii, seppellirvi in casa, correre dieci leghe all'ora per compiere la traversata in due o tre mesi. E dopo? dopo ne sapreste meno di prima. È come fare il viaggio del mondo in ottanta giorni: si vince la scommessa, ma di questa corsa vertiginosa, pazzesca non restano che poche impressioni e molta stanchezza.

Alcuni anni fa mi venne la smania di leggere la Storia Naturale del Buffon. La divorai in un mese. Ma lo credereste? Mi lasciò nella mente una confusione indiavolata! La notte sognavo serpi, cammelli, orsi, tigri: non un'idea chiara, non un'esatta cognizione scientifica, anzi avevo dimenticato financo gli elementi di zoologia, imparati al ginnasio! E perchè? Questi lavori colossali sono dei cibi indigesti che bisogna mettere nello stomaco senza avidità e fretta: a volerli ingoiare così alla diavola si corre il rischio di una indigestione.

Ecco perchè questi grossi volumi non si leggono.

Non si leggono, ma si comprano. Alcuni non hanno la Divina Commedia, non hanno i Promessi Sposi, non hanno le Poesie del Carducci, non hanno il Vocabolario della lingua italiana, neppure il Barbanera, neppure il Libro delle dodici trombe, ma la Patria, che costa la miseria di trecento lire, sì; ma [158] gli Usi e i costumi dei popoli che costano quasi il doppio, sì.

E questa debolezza l'abbiamo quasi tutti. Noi siamo restii ad acquistare libri utili, che costano poche lire e poi con la più grande disinvoltura compriamo tante opere che costano un occhio e che servono solo per ornamento.

Bisogna ringraziarne la Casa Vallardi che confeziona questi libri!

Il processo è semplicissimo.

Vuol trattare la vita civile, letteraria, scientifica dell'Italia? ne scrive a una decina di scienziati, divide loro la materia, e dopo cinque o sei mesi l'opera è compiuta.

Così nacque la Patria, la Storia della Letteratura Italiana, la Storia delle Grandi Scoperte, il Secolo XIX nella vita e nella cultura di tutti i popoli, ecc, ecc.

La sullodata Ditta vi attira con le rate mensili. Vi dà trenta grossi volumi tutti una volta e si contenta di due lire al mese. Diavolo! due lire non è una gran cosa. Ma poveri voi, se abboccate all'amo! Ogni primo del mese vi vedrete piovere in casa quei signori commessi. Come sono puntuali e furbi costoro! Sanno di riuscire importuni, ma fingono di non accorgersene; vi stringono la mano con ostentata effusione di animo, vi lasciano i nuovi fascicoli, ricevono le poche lirette e via. Ogni mese è questa canzone: complimenti, fascicoli, denari!

[159]

Ma dopo due o tre anni questi benedetti fascicoli ingombrano la sala: ne trovate sulle sedie, sulla credenza, sulla scrivania, sul divano, sulla poltrona: sono sparsi un po' dovunque.

Occorre un'altra spesa: bisogna rilegarli, vestirli da gran signori. Con santa pazienza li raccogliete, li mettete in ordine e li mandate alla legatoria. Un dopo pranzo, mentre ve ne fate i chilo leggiucchiando il giornale, siete scosso da un vocione: —

— È permesso?

“Avanti!„

La porta si apre. Entra il legatore, entra un tarchiato giovanotto, con una grande cassa sulle spalle.

— Riverisco, signore. Le riporto i libri. Ho fatto un lavoro a modo, sa': pelle e oro. Del resto l'opera lo meritava. Quelle tavole fuori testo... —

“Bravo, bravo!„

Lui però vi vuol far vedere con gli occhi che quell'oro è fino, che la pelle è lucidissima, che il taglio è accurato. Voi approvate, sorridete e vi congratulate del bel lavoro.

Ma strano, dopo che quel signore è andato via, vi assale una specie di rimorso. Perbacco! quest'opera vi costa quasi trecento franchi. E dire che quest'anno la vostra signora non è andata ai bagni, perchè le finanze...; e se lo sapesse? Ma oramai non c'è più rimedio, il delitto è consumato. [160] Voi tentennando la testa mettete questi libroni luccicanti di oro nello scaffale, esclamando con un sospiro: “Riposate in pace!„ e vorreste aggiungere, se non fosse irriverenza:

— Restate nella vigna a far da pali! —

[161]

I decaduti.

Fanno compassione, poveretti! Piegati, laceri, con carta ingiallita dal tempo, stanno là, in un angolo remoto, quasi nascondendosi allo sguardo. Non li avete comprati voi, sono libri di famiglia che ricordano altri tempi e altri gusti. Li avete trovati in casa e li conservate per rispetto ai vostri nonni.

Leggerli? È più il tempo di prendere in mano i romanzi di Madama Radcliffe, del Durange, del Visconte D'Arlincourt?

Eppure questi libri, che vi danno un senso d'ilarità, un giorno furono chiamati gl'immortali, gl'insuperabili. Cento critici a battere le mani, cento editori a seminarli per il mondo!

Nelle sere d'inverno il nonno leggeva ad alta voce Celestino ovvero gli Assassini di Ercolano. Un capitolo, un altro, un altro; si arrivava fino [162] alle undici, fino a mezzanotte e nessuno fiatava. Voi accovacciato sulle ginocchia materne stavate ad ascoltare a bocca aperta. Che paura, che brividi! Quegli sgherri vi stavano sempre davanti minacciosi, pronti a sgozzarvi!

Ed il Cimitero della Maddalena? Quante lagrime non fece versare alla vostra buona nonna? La poveretta ne era innamorata: lo sapeva quasi tutto a memoria ed ogni giorno ne raccontava una scena ai nipotini.

E non solo in casa vostra, ma in tutte le famiglie, c'era tale entusiasmo. Il Cimitero della Maddalena fu tradotto in tutte le lingue e in tre anni, solo a Londra, trenta edizioni.

Oggi, silenzio. Chi legge più il Solitario, il Rinnegato, il Melmod, l'uomo fatale, il Taddeo di Varsavia? Quale editore ha vaghezza di tentarne la ristampa? Ieri sugli altari, oggi nella polvere.

Ma non li disprezziamo: su quelle pagine, che a noi sembrano fredde, scipite, ha sospirato, ha pianto un intera generazione. Noi, ricchi di scienza e poveri di fede, abbiamo dato il bando a quella letteratura romantica, troppo ingenuamente sentimentale, che commoveva, senza corrompere, che faceva piangere, senza sconfortare.

Il gusto cambia, ma non sempre migliora!

***

Mentre questi poveretti, rassegnati alla propria [163] sorte, vi chiedono la carità di uno sguardo, si fanno avanti i superbi eroi del passato.

Ecco in grandi e ricche edizioni illustrate il Conte di Montecristo, i Tre Moschettieri, i Misteri di Parigi, l'Ebreo Errante.

Chi non ricorda l'entusiasmo che suscitarono in Europa questi romanzi strani, fantastici, pieni di avventure curiose? Venivano riprodotti sulle scene fino alla sazietà, e chi non sapeva leggere, o non poteva comprarli, andando con pochi soldi al teatro, ne sapeva quanto voi. I personaggi entravano financo nella moda e non mancarono i cappelli “alla Montecristo„, le salse “alla D'Artagnan„, i liquori “Anna d'Austria„.

Gli eroi di Omero e del Molière cedevano il posto ai Tre Moschettieri e al Padre Rodin.

Specie il Dumas, questo Alessandro Magno del romanzo cavalleresco, ammaliò tutta l'Europa. Si racconta che quando apparve per la prima volta il Conte di Montecristo su un giornale parigino, il popolo francese andò addirittura in delirio per la fantastica e viva creazione. La settima puntata terminava proprio con quelle parole. “Il mare è il cimitero del castello d'If.„

La sera in tutti i ritrovi non si parlava che di Dantes. Come si salverà? Alcuni la notte non potettero dormire, si spinsero fino alla redazione del giornale per leggere il seguito del romanzo; e la mattina la nuova puntata andò a ruba. Un arguto cronista di quel tempo nota, con una forte [164] dote di causticità: “Se in quel giorno il giornale non avesse pubblicato il seguito del romanzo, a Parigi ci sarebbe stata una rivoluzione!„

E il Guerrazzi? Arrivavano di nascosto i suoi romanzi rivoluzionari, ardenti di patriottismo, che sembravano scritti in un campo di battaglia, tra il fumo della polvere e il grido angoscioso dei vinti. Si parlava segretamente di queste torpedini, lanciate alla vigilia della rivoluzione. Non si mangiava, non si dormiva per divorare la Battaglia di Benevento, l'Assedio di Firenze!

Si parlava pure delle tragedie di un certo G. B. Niccolini: si vociferava che il Le Monnier, un editore toscano, per sfuggire la censura granducale, le aveva fatto stampare a Marsiglia, facendole entrare poi nella dogana di Firenze, dentro balle di zucchero. Che tragedia! Che versi fiammeggianti e incendiari! Specie l'Arnaldo da Brescia, una mina: avrebbe mandato per aria il Vaticano!

Ma oggi, rinnovati gusti, costumi, ideali, i libri dei Dumas, del Sue, del Guerrazzi, e di tanti altri non attirano più, nè si leggono con entusiasmo: essi ricordano un tempo lontano lontano, eppure non sono passati che cinquant'anni!

Altri libri invece che al loro apparire furono lapidati a sangue da una critica maligna e pettegola, o accolti fra la comune indifferenza, nulla perdettero del loro pregio, anzi con i secoli acquistarono nuova vitalità!

[165]

Vedete: il Shakespeare è più giovane del Sue; il Goethe più moderno del Dumas e del Montepin; Omero ci appartiene più del Guerrazzi! Chi disse che il Furioso fu scritto il 1516? Nossignore. Fu scritto ieri: Orlando è più giovane di D'Artagnan.

Nè vale il dire che il Shakespeare scrisse tragedie e Dumas romanzi. Il tempo, il gran giustiziere, non vuol sapere quale genere letterario voi trattate: romanzi, tragedie, poemi, il tempo premia l'arte e solo ai veri artisti apre le porte dell'immortalità.

In un anno l'Ebreo Errante ebbe cento edizioni e ridotto in dramma fu rappresentato in tutti i teatri grandi e piccoli. È vero, tale entusiasmo non destarono le tragedie del Shakespeare; in un anno non ebbero cento edizioni. Ma oggi, dopo quattro secoli, sapreste dirmi quante edizioni hanno avuto, quante ne avranno? L'Ebreo, dopo quell'effimero successo non errò più, nè fu più visto; ma Otello, Amleto, Giulietta e Romeo, vivono, vivranno più di noi, più dei nostri figliuoli!

Guai a chi segue la moda, a chi accontentandosi dell'applauso, trascura l'arte. La moda è capricciosa, bizzarra, traditrice. Oggi vi esalta, vi osanna; domani vi calpesta, come un cencio!

Scrittori moderni, attenti! Se i vostri libri non hanno quell'aroma, conservatore dei pensieri, di cui parla il Giordani, il tempo farà la sua giustizia!

[166]

I libri con ritratti.

Quest'onore dovrebbe essere riservato ai poeti, ai filosofi, agli storici di prima forza. Solo essi hanno il diritto di mettere innanzi ai loro libri il proprio ritratto, come per dire al lettore: “Io sono qui!„

Ma poichè ognuno si crede — modestamente — una gran cosa, ecco che molti libri portano il ritratto dell'autore.

E non parlo solo de' libri moderni. L'uomo è stato sempre uomo. Fin nelle antiche, antichissime edizioni di storia, di commedie, troviamo la riverita effigie dei Reali Istoriografi e Commediografi, con la enumerazione di tutti i titoli accademici. Però questi ritratti antichi sono bizzarri e spesso ridicoli. Che posa! che atteggiamenti! Sembrano malati che vanno all'ospedale; masnadieri dall'occhio truce, che nascondono, sotto il mantello, la carabina e il pugnale.

[167]

Alcuni, con i capelli irti, con un cipiglio sinistro e minacciante, vi fissano maledettamente gli occhi addosso e par che dicano: “Avrai da fare con me!„; altri, con lo sguardo languido, con il volto pallidissimo, con un gran fazzoletto al collo, chiedono pietà e misericordia altri, grossi, paffuti, rubicondi — come canonici, vecchio tipo — con i capelli inanellati, con ricco corsetto, con due orecchini luccicanti, se la ridono saporitamente, come per dire: “Lettore, senti a me: mangia e bevi, e brucia tutti i libri!„

In generale nei ritratti antichi c'è molta posa e poca espressione. È vero che la fotografia era ancora di là da venire; è vero che non tutti potevano, come Dante, trovare un Giotto; ma, farsi dipingere in quell'arnese, è troppo!

Almeno il Valletta, buon'anima, vedendo che la sua effigie, messa come sentinella davanti alla Iettatura, poteva scambiarsi per uno spettro, l'accompagnava con quattro versi, che starebbero bene a moltissimi frontespizî dell'uno e dell'altro sesso.

Non è Seneca svenato,

Non è Lazzaro risorto;

È Valletta in questo stato,

Mezzo vivo e mezzo morto.

Ma perchè farsi dipingere in una posa così strana e sgradevole? Se siete poeta, storico o filosofo insigne, sarete giudicati dalle opere e [168] non dall'atteggiamento sinistro, dai lunghi capelli, che vi scendono in due fila, fin su le spalle. I capelli furono necessarî solo a Sansone, e la storia non ci ha mai detto che il genio si misura dalla chioma.

Parrucca o non parrucca,

Chi nacque zucca, sarà sempre zucca!

Questa verità cominciò a farsi strada e gli scrittori divennero un po' più ragionevoli, quando posarono. Da banda le parrucche, gli orecchini, i fazzoletti banderuole! Lo sguardo più composto, i capelli più ordinati.

Anzi, alcuni poeti ebbero un'idea originale: vollero abbozzare la propria effigie in un sonetto. E che? Non si è sempre detto che il poeta dipinge e colorisce? Dunque se sa dipingere gli altri, non sa dipingere se stesso?

Il primo esempio lo dette l'Alfieri.

Capelli or radi in fronte e rossi pretti

Lunga statura e capo a terra prono.

Sottil persona in su due stinchi schietti

Bianca pelle, occhi azzurri, aspetto buono:

Giusto naso, bel labbro e denti eletti

Pallido in volto più che un re sul trono.

Seguirono il Foscolo e il Manzoni, e dopo.... la turba. Ma questi ritratti a penna si rassomigliano tutti: la stessa struttura, gli stessi profili. [169] Le due quartine se ne vanno per misurare la fronte, il naso, la bocca, il petto; per farvi sapere il colore dei capelli, degli occhi, del volto; per decantarvi la qualità extra dei denti, per misurarvi la statura. Le terzine vi informano delle doti morali. Sono tutti ricchi di virtù e di vizî i nostri poeti! Tutti sobrî, schietti, leali; irruenti, sì, ma non maligni: alteri, ma non superbi: or duri, or pieghevoli, or acerbi, or miti: ma il cuore! il cuore è buono, il cuore è generoso, il cuore è nobile! Più che un ritratto, è dunque la presentazione che il poeta fa di se stesso. Non dice che è bello, ma lo lascia supporre; non dice che è un genio, ma nell'ultimo verso qualche cosa l'accenna, così di sfuggita.

L'Alfieri domandava a sè stesso:

Uom, se' tu grande, o vil? Muori, e il saprai.

Com'era furbo! Egli lo sapeva prima di morire, anzi lo andava ripetendo a chi non voleva saperlo!

Il Foscolo, termina da pessimista:

Morte sol mi darà fama e riposo;

poi corregge:

E da morte aspettar fama e riposo

[170]

ritocca di nuovo:

Forse da morte avrò fama e riposo.

Moralità della favola: voleva la fama, e noi gliel'abbiamo data; speriamo che avesse avuto anche il riposo!

Ma dite la verità: dopo aver letto, riletto queste quartine e terzine, siete forse riuscito a vedervi davanti la figura del poeta? Eh! i ritratti si fanno col pennello. Ognuno al suo mestiere. Non tutti i poeti sono come Michelangelo e Salvator Rosa! Fortunatamente anche questo vezzo è passato di moda. Dopo il Manzoni, nessuno volle rinchiudersi in un sonetto.

Ed oggi i nostri scrittori si fanno dipingere così alla buona, senza sussiego magistrale, senza quell'atteggiamento, pietoso o sinistro.

Vedete: il De Amicis veste come voi, ha i baffi come voi e vi guarda con una grazia amabilissima. Sul volto del Fogazzaro voi leggete tutta la serenità dell'anima sua. Com'è simpatico il Panzacchi, il Graf, il D'Ancona, il D'Ovidio, il Martini! Qua la mano: voi siete amici di casa!

Ma attenti, attenti; non tutti sono disposti a stringervi la mano. Lo Zanichelli, innanzi alle Poesie del Carducci ha messo due ritratti del Poeta. Il Carducci a 30 anni, il Carducci a 70 anni. Il primo sembra un uomo mezzo rimbambito e pare che allora allora voglia domandarvi: “Che cosa è [171] successo?„; il secondo ha tutta l'aria di un domatore, il quale gridi alla belva-pubblico: “Silenzio, io sono il primo poeta!„

Il D'Annunzio invece col capo chino, con gli occhi da asceta, sembra che vada snocciolando Avemarie. Un suo ammiratore, Carlo Villani, dopo avergli cantato il Te Deum sulla Vita Italiana, gli diceva: “Tu sei grande, il tuo nome suona dall'uno all'altro mare, alza, alza la fronte!„ No; il D'Annunzio continua a tenere il capo a terra prono, forse... per far meglio osservare il suo cranio lucido, eburneo!

E il Rapisardi? Dio mio, ha un gusto matto a comparire come un masnadiere. Con quella cera sinistra, con quel cappello a cencio alle ventitrè, sembra un bandito siculo-calabrese. Gli manca solo lo schioppo per essere qualificato come uno zio paterno di Giuseppe Musolino. Eppure il Rapisardi — a quanto dicono i suoi scolari — è un agnello tutto cuore, tutto bontà!

Si hanno queste sorprese. Il Pascoli, ad esempio, è un poeta caro assai. Che versi! che dolcezza! Dovrà essere una figura serafica la sua, un tipo alla Bellini. Toh! un bel giorno vi cade sott'occhio il suo ritratto. Santo Iddio, com'è borghese! Il Pascoli ha tutta l'aria di un negoziante di coiame! Che peccato, scrive così bene!

[172]

***

Non tutti i libri portano il ritratto dell'autore.

Avete mai visto dinanzi all'Iliade o all'Odissea l'effigie di Omero? Omero? ma è veramente esistito Omero? Alcuni dicono sì, altri, no; infine di accordo — in sezioni riunite — gli storici hanno proclamato l'esistenza di Omero! Benissimo. Ma era un bell'uomo? Chi lo sa? Gli Zeusi e i Parrasii di quel tempo pensavano a dipingere grappoli d'uva per ingannare gli uccelli, senza ricordarsi che un poeta di quella forza meritava un ritratto a grandezza naturale.

Nel Museo di Napoli molti e molti anni fa — ero studente allora — mi fu mostrato un busto con un barbone patriarcale e con un paio di occhi grossi quanto due uova sode. Nessuna espressione, nessuna grazia nei lineamenti. “Ecco Omero!„ mi disse la guida. Omero! Avrei voluto rompere quel busto e gridare come un pazzo: “Questi non è Omero, poeta sovrano!„ Ma non feci nè l'uno, nè l'altro e mi ritirai a casa.

Lo credereste? quel busto mi si è talmente fitto nella memoria che appena apro l'Iliade me lo vedo davanti. Leggo il bellissimo episodio di Ettore e di Andromaca? Sul più bello, proprio quando l'Eroe Troiano, quasi presago della sua prossima fine, prende fra le braccia il caro pargoletto, mi veggo presentare quel coso! L'Iliade [173] è un capolavoro, ma, dico la verità, alle volte faccio a meno di rileggere qualche canto, per non vedermi quel brutto ceffo, che mi fa rabbia!

Ho voluto riportare quest'aneddoto, per dire con argomento di prova che spesso un ritratto, messo innanzi ad un libro, fa acquistare simpatia o antipatia, non solo per l'autore, ma anche per l'opera.

Quante volte, vedendo un ritratto che fa paura, non avete chiuso subito il libro esclamando: “Com'è brutto!„ Invece se alla prima pagina trovate la figura di un bell'uomo, voi dite subito: “Vediamo un po' che vuole costui!„

***

Certi editori meriterebbero tre anni di reclusione. Perchè? perchè guastano l'effigie dei nostri letterati. Una Casa Editrice di Milano intraprese, molti anni fa, la pubblicazione delle opere complete del Shakespeare, del Byron, del Monti, del Foscolo, del Manzoni, e credendo di far cosa grata, volle aggiungervi anche i ritratti. Poveri poeti, dipinti con cannello di bracia! Il Shakespeare sembra uno scimunito; il Manzoni è addirittura senza naso, mentre ne aveva abbastanza di naso — e naso fino! — lo Schiller più masnadiere dei suoi Tre Masnadieri; il Goethe un ubbriaco che va barcollando; il Pellico, un allampanato [174] con una coppia di occhiali sul naso così grossi, da non potersi sostenere, tanto che il poverino par che dica: “Mi cascano! mi cascano!„; il Metastasio è un bambolone degno di quel paese.

Ma, Dio benedetto, occhi ne avete? Sono ritratti questi o caricature? Un po' di rispetto ci vorrebbe!

E il bel vezzo continua. L'anno scorso nelle nostre scuole secondarie, fu adottata un'antologia italiana di A. Nota e P. Fontana, dal titolo Pagine gaie e Pagine forti. Non conosco questi due egregi professori e non so dirvi quindi chi sia più allegro e chi più robusto. Posso dirvi però che quest'antologia ha molti pregi. Prima di tutto, due prefazioni. La prefazione degli altri, — una selva di massime, di sentenze, di proverbi, di motti, in latino, in francese, in italiano — che si apre con Salomone e si chiude con Leonardo Bianchi, ex ministro della Pubblica Istruzione. La prefazione nostra, con cui i compilatori fanno sapere che in Italia mancava un libro gaio e forte, tanto necessario ai nostri giovani. “La maggior parte delle antologie — essi dicono — tutti ninnoli e fronzoli, immagini e forme, si aggirano tra ospedali, manicomî e galere. Il nostro libro invece tratta di cose gaie! Via, via il Gobbo di Peretola e tutti quei brani che parlano di ciechi, di zoppi, di storpi, di sordi!„ E per quattro pagine continua il panegirico di [175] questa nuova cura ricostituente, a base di pillole classiche.

Secondo pregio. “L'editore Sandron, per rendere più suggestiva l'opera nostra, ha voluto ornarla di una graziosissima galleria di ritratti.„ E in verità, ogni pezzetto di prosa o di poesia tiene a fianco l'effigie del suo padrone. Ma che ritratti! Il De Amicis sembra allora allora uscito dal bagno: batte i denti dal freddo e i capelli sono ancora inzuppati d'acqua; il Ferrigni (Yorik) aggrinza il naso, come se gli avessero cacciato sotto un barattolo di ammoniaca; il Poliziano, un vero buffo da teatro, con cappello a casseruola e con un naso lungo un metro; l'Alberti, una mummia; il Boccaccio, una monaca... di Monza; il Giusti tutto peli; il Tassoni un bravaccio. Il Guerrazzi soffre ai molari di destra, l'Albertazzi, il Berni, il Pindemonte, il Botta hanno bisogno di pillole Pink!

Ecco la geniale galleria, di cui bisogna essere grato all'editore Sandron. Solamente vorrei dire a questo signore: “È da gentiluomo deturpare così barbaramente tanti poveri cristiani?„

Potrebbe rispondere che duecento ritrattini a modo costano una bella somma. Siamo d'accordo; ma quando non è possibile una riproduzione discreta è meglio farne a meno. Di cose brutte ne abbiamo già tante!

[176]

***

I signori poeti, non contenti di scambiarsi contumelie e sonetti con una coda più o meno lunga e indecente, spesso appiccicavano dei versi sotto il ritratto del collega.

Il Foscolo, ad esempio, vedendo che il Monti gli aveva rotto l'uovo in mano con la traduzione dell'Iliade, arse di ira, non santa, e scrisse a pie' di un ritratto dell'avversario:

Questi è Vincenzo Monti cavaliero,

Gran traduttor dei traduttor d'Omero.

La stoccata era terribile, tanto più che fra i due non correva buon sangue; e il Monti rispose con quattro versi, meno famosi:

Questo è rosso di pel, Foscolo detto.

Sì falso, che falsò fino se stesso,

Quando in Ugo cangiò ser Nicoletto:

Guarda la borsa se ti viene appresso.

Qui c'è fiele, non arte.

Due secoli innanzi un'altra coppia, uno storico e un poeta, tutti e due arnesi da galera, si scambiarono lo stesso complimento, in una forma triviale e villana. Aprì il fuoco il Giovio. Scrisse sotto l'effigie dell'Aretino:

[177]

Questi è Pietro Aretin, poeta tosco:

Di tutti disse mal, fuorchè di Cristo,

Scusandosi col dir: “Non lo conosco.„

E l'Aretino, maestro nel genere, gli rispose subito per le rime:

È questi Giovio, storicone altissimo:

Di tutti disse mal, fuorchè dell'asino.

Scusandosi col dir che gli era prossimo.

Trenta anni fa il brutto giuoco fu lì lì per ripetersi tra il Carducci e il Rapisardi. Contumelie se ne dissero. La Curia di Bologna scomunicò il catanese: il cantor di Satana e il cantor di Lucifero si morsero come due mastini: e continuerebbero a mordersi, se il Carducci non se ne fosse andato al Limbo a godersi l'eternità con Omero, Orazio e Lucano! Oggi non c'è più da temere. I nostri poeti sono amici e si scambiano cortesie a non finire. Anzi il Pascoli e il D'Annunzio si chiamano fratelli. Non lo dico per celia: alla morte del Carducci, il Pascoli telegrafava al fratello Gabriele, e questi al fratello Giovanni.

Ma, Dio ne liberi! La prima lite micidiale avvenne proprio fra due fratelli. Il Pascoli sembra un agnellino, ma è sempre poeta. Ricordatevi che il Tassoni voleva aggiungere alla litania di tutti i Santi: ab ira poetae libera nos, Domine!

Ma non facciamo gli uccelli di mal'augurio! Il D'Annunzio e il Pascoli diranno ai posteri che la poesia affratella.

[178]

***

Nostro Signore Gesù Cristo, a quanto ci dice la tradizione e la lettera del proconsole Lentulo, era bello, molto bello. Il suo volto incantava, i suoi occhi avevano un fascino irresistibile. Che sguardo! che atteggiamento!

Ma si può dire lo stesso di certi suoi ministri?

È un fatto innegabile. I sacerdoti, senza pensare che in medio stat virtus, amano gli estremi: o magri allampanati, o pingui come botte. I monaci preferiscono la seconda forma, i preti la prima.

Ricordo di aver visto nella biblioteca del Seminario di Salerno un grosso volume, in foglio, pubblicato a Venezia nel 1823. A destra il titolo: Le victorie della Religione Cattolica, ossia i Trionfi dell'Apostolato, a sinistra il ritratto dell'autore. Dio mio, che ritratto! Scarno, stecchito, con gli occhi vitrei, con la bocca semi-aperta, con gli zigomi sporgenti pareva come se volesse dire: “Portatemi all'ospedale, io muoio!„ Mi venne da ridere e chiusi subito il libro. Ma guarda un po' che pretenzione! Voler parlare di victorie mentre non si ha neppure la forza di muovere un dito. Se mi fossi trovato a Venezia nel 1823 avrei detto a quel reverendo: “Padre, lasci stare i Trionfi. Scriva piuttosto, per lei e per tanti poveretti, che si trovano nelle medesime condizioni di salute, un buon apparecchio alla morte!„

[179]

Rovistando in una antica biblioteca di un convento, ebbi un'altra sorpresa. Proprio a fianco a La Carità Cristiana del Muratori, scorgo un bel volume, rilegato in rosso e con fregi in oro. La curiosità mi vince; l'apro e mi vedo davanti il ritratto di un monacone, con due gote rubiconde, che tirandosi fin su la gola, formavano una grossa pappagorgia. Non si vedeva che il volto, e la metà del petto; ma se dobbiamo seguire in tutto il sistema socratico — invisibile a visibili arguitur — immaginate che specie di ventre e compagni doveva averci sotto!

Di che cosa parlava questo beato, beatissimo figlio di S. Francesco?

Ecco il titolo del volume:

De jejunio quadragesimali
succincta explicatio
ad intelligentiam omnium fidelium
facili methodo
conscripta.

Sì, questo cuor contento, dal peso di un quintale e mezzo, ebbe il coraggio di parlare di digiuni e di astinenze!

Non so come l'Autorità Ecclesiastica, così rigida e severa nella revisione dei libri, abbia potuto permettere quel ritratto. No; quel ritratto doveva assolutamente essere messo all'Indice. Voler parlare di digiuno e presentarsi in quel [180] modo così provocante! Il lettore ha tutto il dritto di esclamare: “Questo padre Leonardo da Pericarpo predica bene e mangia meglio!„

Per la salute dunque delle anime e per la dignità della Chiesa è necessario che i censori diocesani e la Sacra Congregazione dell'Indice, diano da oggi in poi un'occhiata anche ai ritratti. Certi monaci non dovrebbero farsi dipingere in tutta la pienezza della loro grazia. Quella grazia è tutt'altro che edificante: dà il cattivo esempio!

Questa lezione però valga per tutti.

Oggi molti autori — piccoli e grandi — si fanno piantonare dinanzi all'uscio dei loro libri per attirare di più il lettore. Ma attenti! Prima di dare questo passo pensateci bene. Se avete un volto da buon cristiano, fatevi avanti: quel ritratto vi fa acquistare un po' di simpatia, specie nel campo femminile; se invece, per vostra disgrazia, appartenete alla famiglia dei due sullodati reverendi, per l'amor di Dio, non vi fate vincere dalla tentazione! Il lettore accoglierebbe con una sonora risata voi e... il vostro libro!

[181]

Bibliomani, biblioclasti, bibliofagi!

Brutti nomi, non è vero? Ma pazienza, oggi c'è il vezzo di ricorrere sempre alla lingua greca. Ci ricorrono i medici, quando dopo tante analisi arrivano — beati loro — a scoprire nuove malattie; ci ricorrono i chimici-farmacisti per dare un nome domenicale a quelle miscele solide o liquide, più o meno dannose alla salute pubblica; ci ricorrono gli ingegneri, ci ricorrono i matematici, i fisici; i letterati potrebbero restare indietro? Essi più degli altri debbono essere ossequenti all'Alma Grecia. E se questa povera madre è ridotta a chiedere protezione alle sue figliuole per non cadere nelle mani de' Turchi, le resta però il vanto di dare il nome di battesimo a tutte le cose nuove, o che si presentano come tali.

[182]

Strano! Proprio oggi che si vuol mettere fuori dalle nostre scuole il greco e tutto il bagaglio classico, noi siamo addirittura ingreciati.

Le parole francesi si usano, ma con una certa parsimonia; le inglesi, le tedesche, con una certa timidità; con le parole greche invece giubileo perpetuo. Tutti ne possono usare a sazietà. Per fino sulle porte de' negozî vengono incisi, a grandi caratteri, paroloni greci.

Un tempo, per dirne una, sul frontespizio di certe botteghe si leggeva: occhiali, canocchiali, binocoli; oggi, lenti periscopiche, isoperiscopiche, iptometri, optalmoscopii. E chi non ha avuto la disgrazia d'ingoiare a suo tempo la grammatica di Curtius, è costretto a leggere scandendo queste parole, senza capirne affatto il significato.

Noi non siamo pedanti; alle cose nuove un nome bisogna darlo, come diceva la buon'anima di Giovan Santi Saccenti:

Dobbiam forse aspettar che torni Dante

A insegnarci chiamar la cioccolata,

Il the, la paladina, il guardinfante?

Cosa che viene in uso alla giornata

Bisogna ben che un nome le si ponga,

Perchè si sappia come va chiamata;

ma ricorrere alla lingua greca per tutti i bisogni, grandi, piccoli e medî, non è una bella cosa.

“Non sarà una bella cosa — esclamano alcuni — però [183] c'è grande economia. La lingua greca è economica, non ciarliera come la nostra.„

È vero, ma l'uomo ha fatto mai economia di parole? Facciamo qualche volta economia di tempo, di danaro, di buone azioni; di parole, no. La cicala canta tre soli mesi, quando il caldo le va alla testa; noi cantiamo tredici mesi all'anno giorno e notte. E se il Signore non ci avesse donata una gola di prima qualità, a venti anni dovremmo esser tutti rauchi, tanto abuso si fa di questo povero organetto!

E poi, pensandoci bene, non credo che la lingua greca sia economica. Sentite: “l'aver paura di viaggiare sulle strade ferrate„ si dice siderodromofobia. Immaginate ora che un povero diavolo e per giunta un po' balbuziente — i balbuzienti, come a farlo apposta, si espongono di più a certi pericoli! — voglia dire appunto in linguaggio illustre che ha paura delle strade ferrate. Non vi garantisco se il poveretto, economicamente, possa mettere fuori in mezz'ora e sana e salva la simpatica parola siderodromofobo!

Ma vedi un po', parlando di strade ferrate sono uscito dalle rotaie. Chiedo venia e mi metto in moto. Del resto ognuno parli e scriva come vuole. Per parte mia se le parole greche vi urtano, vi autorizzo a cancellare quelle tre che ho scritto in testa al presente capitolo.

Io intanto entro in argomento.

Bibliomane è quel modesto idolatra di buona [184] fede che passa la vita a raccogliere libri, a far collezioni di opere rare, siano o no pregevoli.

Che brutta malattia è quella delle collezioni!

Chi raduna francobolli, chi medaglie, chi bastoni, chi bottiglie, chi pipe, chi sugheri. Si vedono uomini, divorati dai debiti, che pensano a comprare quadri antichi; pazzi, che consumano patrimoni vistosi, per possedere tabacchiere di re e papi; infelici, che non hanno un tozzo di pane e cercano autografi illustri e non illustri. Un tale — peccato che il Müller non ce ne dica nome e cognome — spese la bella somma di quattro mila lire per acquistare — indovinate un po' — una lettera del padre di Schiller. Che cosa importasse a quel signore un pezzo di carta, scarabocchiato dal padre oscuro di un uomo illustre, lo sa Iddio! A Parigi un altro signore comprava per 25 sterline un recipiente molto... intimo, di cui si era servito il Byron per parecchi anni, specie la notte!

Noi le chiamiamo manìe dello spirito umano, debolezze innocenti e puerili, ma sono invece delle vere passioni, che spesso apportano conseguenze deplorevoli e fatali.

Il Descuret parla di un ufficiale di marina a riposo che s'era dato a raccogliere fagioli. “Ha molte cassette piene di questi legumi; tali cassette son divise in spartimenti, suddivisi in una gran quantità di cellette. A destra fagioli rossi, a sinistra i bianchi, qua i grigi, là i misti, i variegati, i brizzolati; altrove i tondi, gli ovali, quei [185] fatti a losanga, i microscopici, finalmente i giganteschi. Venti volte al giorno costui, d'altronde istruito e di carattere serio, va ad aprire ciascuna cassetta, poi la richiude per aver il piacere di riaprirla. E così apri e chiudi, chiudi e apri, i suoi antichi travagli vanno in oblìo, tutti i suoi dispiaceri divengono un nulla, quando gode la felicità di contemplare i diletti fagioli.„ Beato lui, che si accontenta di fagioli!

Ma il poveretto ha un'altra debolezza: adora i bottoni militari. Che volete? quei gingilli gli ricordano forse gli anni del glorioso servizio. N'è pazzo e spende qualunque somma per arricchire la sua collezione. Una mattina, mentre se ne sta alla finestra, vede brillare qualche cosa sui calzoni di un uomo mal vestito. Corbezzoli! lui non s'inganna: è un bottone di uniforme, un bottone che manca alla sua ricca serie. Lesto lesto scende le scale e si precipita su quel disgraziato.

“A te, quanto t'ho a dare per questo bottone?„

— Ma, signore — esclama maravigliato l'altro — questo bottone? e perchè vuole questo bottone? Io non lo vendo.

“Come, non lo vendi! Tu lo devi vendere, tu lo venderai, io lo voglio, io ne ho bisogno; eccoti cinque franchi!„

“Che pazzìa è questa, signore! Io non lo vendo.„

“Eccotene dieci!„

[186]

— Ma si tenga il suo danaro, io non vo' vendere il mio bottone.

“Quindici!„

— Ma, signore....

“Ah! tu non vuoi fare a modo mio?„ e in un attimo rovescia a terra il malcapitato, gli strappa il bottone e via a gambe.

***

Ma la più estesa, la più seducente, la più rovinosa è la manìa dei libri. Il bibliomane non legge i suoi libri, non li sottopone ad alcun giudizio, li compra a balle, li accatasta nelle sue camere, ed è capace di dar fondo a tutti i suoi risparmi pur di aggiungere scaffali a scaffali.

La storia ci parla di un certo Andreoli De Orchis, che vendette tutti i suoi beni per comprare libri; ci parla di un certo Semphort, che divenne ladro e finì la vita in carcere per i benedetti libri.

Ma io credo che il vero tipo del bibliomane, puro sangue, sia il Boulard. In lui si riscontrano tutte le fasi di questa terribile malattia. Onesto e intelligente notaio, era stimato moltissimo a Parigi; ma appena potè cedere il posto al figliuolo maggiore, si dette forsennatamente a raccogliere libri.

“Una parte del giorno — scrive il Descuret — la passava presso i librai, un'altra parte presso [187] i venditori di libri usati. Compra oggi, compra domani, la sua casa era diventata una grande biblioteca. Libri da per tutto; pieni zeppi gli scaffali, piena la stanza da studio, accatastava libri financo nella camera da letto, e in ultimo pensò bene di congedare i pigionali del primo piano per convertire anche questo in una vasta biblioteca.„

La povera moglie con le preghiere, con il pianto lo supplica a non comprare più libri. Alla fine il Boulard si commuove e promette, sulla sua fede di antico notaio, di non comprare più un volume. Mantiene la parola, ma — incredibile! — dopo un mese, perde a poco a poco l'appetito e incomincia una febbre nervosa. Febbre, febbre, febbre, l'infelice non può lasciare più il letto. La sua signora e il medico per guarirlo ricorsero al seguente stratagemma.

Un rivenditore di libri usati rizza il suo banco dinanzi alla finestra del nostro bibliomane e ad un segno convenuto, si mette a gridare: “Buoni libri, buoni libri!„

— Che cos'è? — domanda il Boulard alla moglie.

“Nulla, mio caro; è un rivenditore che cerca esitare qualche libro vecchio.„

Il malato manda un profondo sospiro.

— Se potessi almeno andarli a vedere! — esclama dolorosamente. — L'aria aperta mi farebbe bene — e poi oggi non mi sento male. —

“Se vuoi vestirti, — aggiunge la moglie — ci proveremo a scendere.„

[188]

— E quei libri?...

“Vuoi comprarne? Beh! per oggi te lo permetto.„

Il malato si veste e scende con molta facilità le scale. Giunto dinanzi al banco del rivenditore, lascia il braccio della moglie e pien di gioia percorre rapidamente quei libri. Quali deve comprare? Nell'imbarazzo della scelta li compra tutti. Giulivo ritorna a casa; cessa la febbre come per incanto, e dopo pochi giorni è completamente guarito.

Ma la smania de' libri crebbe con l'età. A sessant'anni si vedeva ancora per le vie di Parigi, nelle fredde e uggiose mattine d'inverno, ravviluppato in un ampio pastrano turchino, con le grandi tasche di dietro piene di libri. E quando morì furono trovati in casa sessantamila volumi!

Non tutti i bibliomani però somigliano al signor Boulard. Almeno questi trattò molto bene i volumi raccolti. Ma altri hanno avuto delle smanie dannose: nientedimeno si è arrivato a guastare libri per far collezione di indici, di frontespizî, di illustrazioni, proprio come fanno i nostri bambini, che tagliuzzano i giornali illustrati!

Un tale Giovanni Ragod si dette a raccogliere frontespizî e ne compose una serie di cento volumi, che ora si conservano al British Museum. Cento volumi di frontespizî! E quante migliaia e migliaia di libri non furono rovinati da questo maniaco?

[189]

***

La storia, questo Regio Notaio, che registra come Atti di Ultima Volontà, tutte le stranezze degli uomini, ci fa sapere, così di sfuggita, che i poveri libri sono stati sempre vittime del nostro capriccio. Chi li raccoglie con gran cura, chi li stima ingombrante nullità, chi li tratta come ferri vecchi, chi li odia spietatamente.

Si dice e si dirà sempre che noi abbiamo le migliori opere classiche dell'antichità; ma ad esaminarle bene sono per lo più opere greche e latine. E gli altri popoli? I Caldei, i Siri, i Babilonesi, che erano molto innanzi nella civiltà, non ebbero poeti, storici, filosofi? Conoscevano a maraviglia l'arte dello scrivere e nulla scrissero, proprio nulla?

E poi, abbiamo davvero le migliori opere dei greci e dei latini?

Di Menandro, per dirne una, che cosa ci è pervenuto? La storia della letteratura greca ci dice che Menandro fu il papà della Commedia e che ne scrisse la miseria di 108. Ma dove sono? Noi non abbiamo che qualche brano di scena, qualche spunto di dialogo e quel bellissimo verso, logorato per il troppo uso

muor giovane colui che al cielo è caro.

Tutto il resto..... distrutto o smarrito.

[190]

Il Califfo Omar, quando seppe dall'astuto Amru che in Alessandria, caduta sotto la sua dominazione, vi era una ricca biblioteca, se ne uscì con un dilemma veramente degno di un pascià. “Se tutti quei libri — disse — sono conformi al libro di Dio diventano superflui, se contrarî non debbonsi tollerare.„ E così santamente, per dar piacere a Dio e al Profeta, ordinò che con quei libri si scaldassero i quattromila bagni della città.

Ecco perdute tante migliaia e migliaia di lavori preziosi!

Disgraziatamente l'esempio di Omar fu seguito dagli ebrei, dai cattolici, dai protestanti, e quel dilemma ricorda parecchi incendî. Domandatene al Cardinale Ximenes, che fece bruciare cinque mila volumi; domandatene agli Anabattisti, che dettero fuoco alla ricca biblioteca di Langiò; domandatene al Savonarola, il quale, convinto che solo dalla santa ignoranza procedeva il benessere sociale, faceva bruciare senza misericordia montagne di codici.

Più barbaro, ma più logico fu Nabonassar, fondatore del Secondo Impero Babilonese. Costui, non per capriccio — i re non hanno capricci! — ma per apparire innanzi ai posteri il primo re di Babilonia, bruciò tutti i libri dell'Impero, volendo così cancellare il più lontano ricordo della dinastia, da lui distrutta. Non vi riuscì; ma il poveretto mise tutto del suo. Per un mese intero, per [191] trenta giorni continui, ci fu fuoco nelle principali piazze.

E il mondo è sempre mondo! Ricordatevi di quel decreto, emanato da quei macellai della rivoluzione francese. “Bruciamo tutte le biblioteche di Francia! I libri teologici contengono fanatismi; quelli di storia, bugie; quelli di filosofia, stranezze; quelli di scienza...„ Quei signori non seppero dire che contiene la scienza, ma dissero che si dovevano bruciare anche i libri scientifici, perchè sono inutili.

Per fortuna il decreto non fu eseguito e in Francia restarono i fanatismi, i cavilli, le bugie e le stranezze.

E i monaci? Sono benemeriti della cultura nazionale, hanno conservato le migliori opere, sissignore; ma anch'essi ne sanno qualcosa.

Benvenuto da Imola ci fa sapere in quale stato miserando il Boccaccio abbia trovato la biblioteca di Montecassino. “Essendo il venerabile maestro mio — egli dice — andato nelle Puglie, si fermò al nobile monastero di Montecassino e avido di vedere la libreria, che aveva inteso di essere colà nobilissima, domandò ad un monaco graziosamente che gli dovesse di grazia aprire la biblioteca. Ma questi rispose bruscamente mostrandogli un'alta scala: salite, che è aperta. Lieto vi ascese e trovò il luogo di tanto tesoro senza porte nè chiave ed entrato vide l'erba nata per la finestra e libri e scaffali coperti di polvere alta.

[192]

Maravigliato cominciò ad aprire ora questo, ora quel libro e vi trovò molti e varî volumi d'antichi e rari, dei quali ad alcuni erano strappati dei quaderni, a altri recisi i margini delle carte e così in molte guise sformati. Compassionando che le fatiche e gli studî di tanti incliti ingegni fossero venuti in mano di gente ignorantissima, se ne partì con le lacrime agli occhi. E imbattutosi in un monaco del chiostro, gli domandò perchè sì preziosi libri fossero tanto indegnamente mutilati. Il quale rispose che alcuni monaci per guadagnare due o cinque soldi radevano un quaderno e ne facevano uffiziuoli da vendere ai bambini e con i ritagli dei margini formavano brevi per le donne. Or va — conchiude dolorosamente Benvenuto — va, uomo studioso, e rompiti il capo per far libri!„

Ma non solo i monaci di Montecassino la pensavano così: i colleghi di Saint Gall avevano per i libri lo stesso culto. Il Poggio, che andava arrampicandosi per i solai del convento, trovò una gran parte della Biblioteca in una cantina, in mezzo a ragnatele e a sudiciume. “Otto Orazioni di Cicerone, le Istituzioni di Quintiliano, tre Libri di Valerio Fiacco li rinvenni — dice il Poggio — in una specie di prigione, oscura e umida, ove non si sarebbe pur voluto gettare un condannato a morte.„

Ed anche oggi c'è il bel costume di imitare quei frati; imitarli fino a un certo punto, perchè [193] i moderni, più pratici, invece di mettere i libri a marcire accanto alle botti, li barattono con quattrini.

Vedete: muore un letterato, uno scienziato, un porporato? Gli eredi, dopo cinque o sei mesi, mandano via per poche migliaia di lire la biblioteca dell'illustre estinto. Peccato mortale vendere il vecchio pianoforte, anche se deve restare di passatempo ai topi; sacrilegio mettere al fuoco certi armadi-nonni, lasciati dai capostipiti; insomma tutto si conserva con più o meno cura e venerazione, solo i libri, via! Quei volumi che si trovano in buone condizioni vanno a cadere tra gli artigli dei librai; gli altri, più malconci, perchè più consultati dal povero estinto, restano per uso di famiglia, cioè per i piccoli bisogni di casa, in cucina o... altrove.

***

Ma i veri nemici dei libri, i nemici accaniti e brutali, che si possono a tutta ragione chiamare biblioclasti, sono stati quei Re, quegli Imperatori, quei Capi di Governo, che si dettero forsennatamente a perseguitare la stampa.

Questi Dittatori, questi Autocrati, questi voluti Onnipotenti, che si facevano chiamare sacri e inviolabili, che venivano pomposamente coronati in [194] un tempio, che avevano in mano la vita e la morte di milioni di sudditi, odiavano la stampa; e spesso per una parola, per una frase, distruggevano opere pregevolissime. I poveri scrittori erano tenuti d'occhio e spiati come miseri delinquenti. Guai a pubblicare un libro senza il R. Imprimatur, senza sottoporlo alla censura reale! Confisca di beni, esilio, ergastolo, rogo!

Il tiranno, circondato da ministri e da consiglieri, forte di cannoni e di sgherri, aveva paura del libro, che arrivava nella reggia come un terribile monito, come una sfida, come una minaccia, come la mano nera, apparsa a Baldassarre.

Egli perdonava al ladro e l'assassino per comprarsi l'affetto del popolo, per farsi chiamare clemente, pio, benigno, ma era inesorabile con chi avesse alzata la voce in nome della libertà.

Francesco I diceva: “Io voglio sudditi che sappiano ubbidire, non leggere.„ Ed è giusto. Il dispotismo ama l'ignoranza e vive di tenebre. Solo così una corona può coprire delitti.

Ma la storia ci dice che il loro desiderio fu vano. Le congiure si scovrono con l'astuzia e si sciolgono col patibolo; il popolo s'inganna con le feste e si rende docile con i cannoni, ma contro il libro, — contro quest'atomo, che sembra meno importante di un granellino di sabbia, meno pungente di una spilla, scritto da un uomo solo, spesso povero, sconosciuto, errante, — chi può opporsi? chi può lottare?

[195]

Quel libro è la coscienza. E la coscienza non si strappa come i beni di fortuna, non cede come la vita.

Perseguitate, esiliate lo scrittore; il libro resta. Iddio vuole che ogni tiranno abbia il suo giudice, ogni Cesare il suo Svetonio!

[196]

I libri scolastici.

Il giorno, in cui siete ritornato a casa con tanto di laurea in tasca e i vostri concittadini hanno incominciato a chiamarvi professore, avvocato, dottore, ingegnere, quei poveri libri scolastici di bassa forza sono stati gettati in un vecchio armadio.

I classici latini e greci, qualche grammatica, qualche storia letteraria o politica, che si trova ancora di sana costituzione, è ammessa agli onori degli scaffali, ma tutti gli altri giù nel cassettone. La stanza da studio dev'essere elegante, signorile. Non ci mancherebbe altro che mettere in mostra quei libri, mal ridotti, senza frontespizio e senza dorso!

Avete ragione. Voi, superbo della vostra scienza, orgoglioso di quella pergamena che vi dichiara in nome del Re qualche cosa, avete quasi vergogna [197] di far sapere che quei libriccini furono i mostri primi maestri.

Questa però si chiama ingratitudine! Venti anni fa eravate un ragazzo ignorante, credulone, e quei libri vi insegnarono i primi elementi di storia, di aritmetica, e seminarono nell'animo vostro i germi del buon costume e del retto vivere. La mamma spesso vi sgridava, il babbo vi picchiava, tutti, in casa e fuori casa, erano burberi e severi con voi, solo quei libri non alzavano mai la voce: sempre con amabilità, sempre con dolcezza a ripetervi che bisogna essere buoni, ubbidienti, caritatevoli.

Oggi che siete uomo, non li benignate neppure di uno sguardo. Ma disprezzateli, nascondeteli, essi continueranno sempre nella santa missione di modesti precettori. Con la medesima cura avvieranno i vostri figliuoli per il sentiero della sapienza e della virtù!

***

In verità si potrebbe scrivere un intero volume sui libri scolastici, cominciando da quei poveri sillabarî di pochi soldi, macchiati d'inchiostro, imbrattati di olio, che si portavano nel panierino della merenda, in compagnia delle ciliege e de' fichi secchi, e continuando con quei libri, dimenticati sopra un muro, nascosti tra le siepi, abbandonati sulla riva di un lago, lasciati a pie' [198] di un albero, quando invece di andare a scuola si prendeva il largo per la campagna.

A principio d'anno questi libri si compravano con gran piacere, si sfogliavano delicato delicato, per vederne le incisioni; e guai se la sorella ci avesse fatta una macchia d'inchiostro o una lieve piegatura: erano pianti eterni, litigi continui, scambio di invettive e di busse. Ma passati due mesi, addio libri! Non si conoscevano più. Il babbo, la mamma, il maestro, a turno vi rimproveravano, vi picchiavano, vi chiamavano sporcone, ma i libri erano già sdruciti, mancavano di parecchie pagine e a stento si poteva tirare avanti fino agli esami.

Di questi libri non resta che un ricordo vago. Dove sono? Ne conservate qualcuno? Dov'è il sillabario, il grande ed unico sillabario dalle lettere cubitali, dalle bizzarre e curiose vignette? Dov'è questo papà di tutti gli uomini di studio, questo primo pedagogo, modesto e paziente, che si lasciava sgorbiare e ridurre in cenci? Dove sono quelle letture graduate, quei raccontini, quelle poesiette, così liete d'invenzione, così fresche di lingua, così dense di concetti sani? Dove sono? I vostri figliuoli frequentano le classi elementari, ma non conoscono quei libri. Oggi, l'insistenza degli editori e la tolleranza delle autorità fanno entrare nelle scuole primarie certi libercoli, così scipiti, così pomposamente vuoti. Vogliono sembrare [199] succose enciclopediette, ma sono invece... molto povera cosa.

Se fossi un Credaro, farei ritornare nelle scuole i libri del Dazzi, del Thouar, della Baccini. Forse così i nostri ragazzi sarebbero meno immaturi, dopo l'esame di maturità!

***

Ma i libri scolastici, che in massima parte voi conservate, sono quelli delle classi secondarie. Dopo le scuole elementari, rattoppate in paese, quasi sempre da qualche prete, si andava in città per il ginnasio.

Il ginnasio! Questa parola aveva per voi del magico: si sentiva un gusto matto a far sapere ai parenti, agli amici, a tutto il mondo che voi incominciavate a far davvero.

E si scrivevano lettere di partecipazione a tutti. “Carissimo papà, stamane abbiamo avuto la prima lezione di latino„. “Carissimo zio, io studio sette ore al giorno„. “Carissimo cugino, carissimo„... Insomma a tutti si comunicava la grande nuova.

A Natale, a Pasqua, toh, una scappatina in paese e subito a farla da dottore con gli antichi compagni di scuola. Il latino! Eh, non si scherza con il latino! E in verità, col latino non si scherzava. Si era indulgenti con la lingua italiana, con la storia, con l'aritmetica, ma col latino, rigore immenso!

[200]

Quei buoni maestri, quasi tutti pedanti, ci imbottivano di Portoreale.

Il primo anno se ne andava con la rituale Selecta, poi se ne veniva Fedro e Cornelio: favola e storia, poesia e prosa; un giorno parlavano gli animali, un giorno gli uomini. Debbo dire la verità, trovavo più cortesi i primi. E fin d'allora mi convinsi che gli uomini sono intrattabili.

Ma ogni anno si cambiava padrone. Cornelio dava il posto a Cesare, Fedro ad Ovidio; infine se ne veniva Virgilio, Orazio e Livio.

Livio! Oggi è un amico, ma allora vi sembrava un tiranno. Quando dopo due ore di studio e di meditazione non sapevate come interpetrare un periodo della sua Storia Romana, vi veniva il giusto e santo desiderio di menargli dietro un accidente!

E Orazio? E Cicerone? Che il Signore li abbia in gloria! Certe sere galantuomini perfetti. Quella prosa, quei versi si snocciolavano sotto le dita; altre volte duri come macigni.

Il tiro birbone poi lo combinava Tacito. Si chiudeva a catenaccio e non c'erano Santi a sbottonarlo. Pensa, ripensa, riscontra nella grammatica, consulta il vocabolario; inutile, il senso logico non andava. Che rabbia! Avreste voluto piangere, fuggirvene, andar ramingo, fare il facchino, il lustrascarpe, pur di liberarvi da questo carnefice.

Nè parlo del greco. Nei primi mesi si provava un'avversione per questa benedetta lingua. La [201] sera, dopo aver ingoiato spiriti aspri e spiriti dolci, consonanti che spariscono con compenso o che vanno via senza avere un centesimo, vi domandavate: “Ma a che serve il greco? È necessario mandar giù tutta questa roba, per essere avvocato o medico?„ Intanto la grammatica di Curtius era sempre là sul tavolo a guardarvi bieco, e voi, pensando che l'ora dello studio passava, che il professore era severo, che il rettore la sapeva lunga con la bocca e con le mani, vi gettavate in quel mare di geroglifici, sicuro di perdere la vista e il senno!

***

Oggi questi classici vi sono cari. Apriteli, scorreteli: vi trovate pagine ancora piegate, segni di matita, impressioni fatte con le unghie. Vi sono cari, perchè ricordano i vostri studi, i vostri compagni, i vostri maestri.

I maestri! Ve li vedete tutti dinanzi, come in una grande fotografia, queste simpatiche figure di precettori, severi o indulgenti, burberi o cortesi.

Il professore d'italiano entrava in iscuola sempre frettoloso, come se fosse stato inseguito, e appena seduto, triii... una scampanellata, dicendo immancabilmente ogni mattina: “Andiamo, andiamo, oggi c'è molta roba!„ Il professore di latino, mezzo nevrastenico, si metteva a declamare due pagine dell'Arte Poetica, e poi, gettando il [202] libro sul tavolo, esclamava convulso: “Che bellezza! Che incanto!„ Il professore di fisica, selvaggio, picchiava senza misericordia per un nonnulla, e una mattina, parlando della bussola, la perdè talmente, che si mise a dare manrovesci alla cieca. Il professore di storia borbonico sfegatato, si sarebbe fatto ammazzare — diceva lui — per Ferdinando e Francesco II. Guai a chi proferiva in iscuola una mezza parola a favore di un certo Vittorio Emanuele II. “Uscite, uscite! voi siete un carbonaro!„

E i compagni? Chi può ricordare quella schiera interminabile di amici, che venivano da tanti paesi per formare una sola famiglia?

Ma tra questi giovani intelligenti, svogliati, buffoni, permalosi, attaccabrighe, sinceri, maligni, vi sono dei tipi che non si dimenticano: capi ameni che venivano a scuola senza aprire un libro, che facevano dei tiri birboni al maestro o al prefetto di disciplina con tale abilità da non avere mai un castigo.

Ma oggi dove sono questi vostri compagni? Vivono? Sono felici?

Qualche volta, trovandovi in città, mentre tutto frettoloso attraversate il Corso, vi sentite battere dolcemente sulla spalla. Teh! è un compagno di collegio. Dopo un oh! di maraviglia, dopo due baci sonori —, ecco un dialogo a fuoco di fila.

— Tu —

“Che baffi!„

[203]

— Che barba! —

“Già i capelli bianchi!„

— Sei ammogliato? —

“Sono nonno!„

— Bravo, sempre alla svelta tu! —

Tutto il giorno si passa insieme: insieme a pranzo, insieme a teatro. La notte non si dorme. Egli racconta, voi raccontate.

“Ti ricordi?„ — Ti ricordi? — Si passano a rassegna tutti gli anni di studio, tutte le scappate, tutte le scenette curiose.

Ma viene il momento che dovete separarvi.

“Scrivimi, sa', non fare il pigro!„ Una stretta di mano, due baci, un'altra stretta di mano e via.

Passa un mese, due; silenzio da ambo le parti. Voi vi dimenticate, lui si dimentica.

Ma ogni secondo giorno si hanno queste sorprese. In treno, mentre ve ne state tra sonno e veglia, turandovi le orecchie per non sentire uno sproloquio di un viaggiatore che vi siede a fianco, entra il controllore.

“Signori, biglietti.„

Un po' seccato, mettete fuori quel pezzettino di cartastraccia, bucato già tre volte.

Voi stendete la mano, il controllore stende la mano. Ma curioso! lui guarda voi, voi guardate lui.

“Toh! Sei tu?

— Sei tu! —

È un altro compagno di collegio.

Naturalmente strette di mano e baci.

[204]

Si siede al vostro fianco e alla presenza di tutti i viaggiatori incomincia a parlare del passato e anche del presente. Ne ha sofferto il poveretto! Morta la moglie, morto un figlio; l'anno scorso a Roma, mentre...

Ma il treno si ferma; lui si alza di botto: il dovere lo chiama. —

— Addio, addio! —

“A rivederci!„

— Addio. — E scende.

Dopo un minuto voi vi fate allo sportello, lo cercate con l'occhio: vorreste chiamarlo...

Vorreste chiamarli tutti, questi compagni di collegio, radunarli, stare insieme un giorno, due giorni, una settimana, vivere insieme, studiare insieme!

Studiare insieme! Ah! oggi siete solo, sempre solo! Vi tocca stare da mattina a sera nella stanza da studio, senza vedere un volto amico, senza sentire uno scricchiolar di sedia. È una solitudine che spaventa. Vi sembravano mille anni di uscire dal collegio, di essere uomo; oggi vorreste ritornare ragazzo. E perchè? Che cosa si diparte da voi?

Si è detto che il cuore non invecchia. Illusione! Ogni giorno che passa lascia una ruga sul volto e un rimpianto nel cuore!

[205]

La Bibbia.

Che cosa sono tutti i vostri libri dinanzi alla Bibbia, che contiene in sè tanta eloquenza, tante verità storiche, tante ricchezze poetiche, che giammai si potrebbero raccogliere dalle opere di tutti i tempi e di tutti i popoli?

La Bibbia è la voce dell'universo, che canta la grandezza e la maestà di Dio.

Nell'infanzia del mondo parlò a' sensi, nell'età di mezzo al cuore, oggi parla all'intelletto.

La Bibbia non è la storia di un popolo solo: è la storia dell'umanità, è la storia nostra, la storia de' nostri padri, de' nostri figliuoli, è la storia del cuore umano. Ognuno di noi trova in quel libro, il suo libro.

La Bibbia ha un non so che di sovrannaturale e di indeciso per tutti. Atteggiatevi a miscredente, predicate il libero pensiero, dichiaratevi [206] materialista ed ateo: appena aprite la Bibbia, non avrete la forza di impugnare o di contraddire.

Ora immaginoso, fantastico e conciso, ora leggiadro, flessuoso e abbondante, parla incessantemente in un linguaggio arcano.

È sempre mirabile, sia se si consideri dal lato artistico, scientifico, letterario, sia dal lato storico, astronomico, cosmologico.

Amate la poesia? Ezechiele vi rapisce con la sua straordinaria potenza; Davide tocca le corde flebili della sua arpa angelica; Geremia vi riempie l'anima di una sacra mestizia; Giobbe, il martire della sciagura, vi commuove con le malinconiche ed appassionate elegie.

Tipi da poema eroico Giosuè e Gedeone; tragico il racconto di Giuditta; romantico il libro di Ester e di Giuseppe. Che piccolo capolavoro la storia di Tobia e di Ruth! Che quadro il martirio de' Maccabei!

Nessun libro ha un canto nuziale, così gentile, come il Cantico de' Cantici, apoteosi purissima dell'amore. Mettendo da parte i profondi misteri che vi si adombrano, quel cantico è la poesia della vergine natura, che dispiega il suo sacro ammanto, tutto intessuto di fantastiche figure, coverte da arcano simbolismo, che non affatica lo spirito umano, ma che lo acquieta e lo soddisfa.

Peccato che pochi possono gustare questi sublimi saggi di poesia epica o lirica nella lingua [207] ebraica, la quale è la più ridondante di immagini e di tropi, la più florida di vitalità poetiche, per la singolare organizzazione de' suoi verbi, che hanno solamente due tempi indeterminati, quasi oscillanti tra il passato e l'avvenire! Spesso, nel breve giro di un versetto, una sola voce di verbo è l'eco che va morendo nella notte del passato, è il grido della speranza che guarda il futuro.

Amate la filosofia? Tutti i misteri dell'uomo e dell'universo che affaticano la mente umana, sono risoluti nella Bibbia. La Genesi risponde alla domanda che il filosofo fa invano a se stesso: donde vieni? Gli altri libri dell'antichità vi popolano la mente di Dei, di Semidei e di Eroi, qui invece trovate la grandezza della creazione, senza commenti, senza lusinghe: il vero, il grandioso si dimostra da sè.

Amate la storia? Ecco l'Esodo, il Levitico, i Paralipomeni, i Libri di Esdra. Volete conoscere la legislazione di quei primi popoli? Ecco il Deuteronomio, il Libro de' Giudici. Desiderate un saggio di sentenze morali, di ascetiche meditazioni, di santi precetti? Leggete l'Ecclesiaste, la Sapienza, i Proverbî.

E questo libro, questo gran libro, in cui troviamo tanti capolavori di arte, si completa con l'Evangelo, codice salutare e mirabile di rigenerazione e di civiltà.

E in fine ecco l'Apocalissi, poema grandioso, [208] che sotto le immagini di un cataclisma terribilmente sublime, adombra la profetica rivelazione di un nuovo mondo.

La storia ci dice che la Bibbia fu scritta da diversi autori, lontani di tempo e di luogo. È vero; ma ciò non fa che accrescere la sua grandezza. Furono diversi gli autori, ma in quel libro invano voi cercate due principî che si contradicano, due fatti che si smentiscano!

La Bibbia è la voce di Dio che parla notte e giorno, all'Oriente e all'Occidente, ai buoni e ai cattivi.

Ah! felice chi in questo libro sa scovrire grandi idee e vasti orizzonti: ne riporterà, come Mosè, due raggi di luce sulla fronte!

***

Ma perchè la Chiesa Cattolica, che è l'unica depositaria di sì gran tesoro, non cerca ogni mezzo come diffondere questo libro?

Un tempo tutti gli uomini entravano in chiesa e ascoltavano dalle labbra del sacerdote la parola divina; oggi che le masse, ingannate da maligni o fanatici innovatori, di rado entrano nel tempio e si danno a leggere libri, che rovinano l'anima e il corpo, — fate conoscere la Bibbia!

Oggi tutto congiura contro la Chiesa: storia, letteratura, filosofia. C'è la smania di voler distruggere questa grande Istituzione Divina. I [209] suoi nemici, per attirare il popolo, non ricorrono più alle opere dello Strauss o del Renan, ma scrivono dei volumetti di poche pagine e cercano così strappare ogni sentimento di fede dal cuore umano.

Ma voi avete la Bibbia! Ai trattatucci di falsa morale opponete i Proverbî, l'Ecclesiaste, l'Ecclesiastico, il Vangelo; ai libercoli di mondana filantropia, le lettere mirabili di Paolo, specie quella sulla carità, così eloquente, così dolce, così persuasiva; ai volumetti di poesia snervante ed erotica, il Libro di Giobbe, di Ezechiele, di Daniele, i Salmi; ai velenosi opuscoli materialisti, la Genesi, la Sapienza; ai loschi racconti, alle scipite novelle, la storia semplice e commovente di Giuseppe, di Giuditta, di Sansone, dei Fratelli Maccabei.

Seminate nelle famiglie questi preziosi volumetti, spargete dovunque questi semi fecondi.

La Bibbia, la Bibbia! Date a tutti la Bibbia! Oh! fate che il popolo s'innamori di questo libro, fate che in ogni casa ci sia questa voce che parla sempre per unire, mai per dividere, sempre per il perdono, mai per la vendetta, sempre per l'amore, mai per l'odio.

[210]

I libri allegri.

Qualche giorno si ha un gusto matto di ridere. Avete avuta una buona notizia? avete guadagnato un terno al lotto? Niente di tutto questo. Si è di buon umore: ecco tutto. E mentre la vostra signora con un certo compiacimento vi dice: “Sei in vena oggi!„ voi vorreste chiamare a raccolta cinque o sei amici, capi ameni, e darvi il bel tempo: un viaggetto, un pranzo, magari una colazione lì, sui monti, e, se occorre, una sbornia. Sì, una sbornia! Vadano al diavolo tutte le quistioni politiche, scientifiche o religiose, che ci fanno morire innanzi tempo con la nevrastenia, con la bile, con il mal di fegato! Pensiamo a passare allegramente la vita che ci è stata concessa, e che si riduce a ben poca cosa, se si toglie l'infanzia, il sonno e le infermità! Nell'infanzia cerchiamo i giocattoli e ci danno il pedagogo; nell'adolescenza vogliamo il [211] sollazzo e ci danno la disciplina civile e spesso militare; e quando finalmente siamo divenuti uomini, quando potremmo essere donni e padroni di noi stessi, ecco ansie, lotte, disinganni. Si va avanti così a spintoni, imprecando, calpestando i piedi al prossimo, il quale non manca di renderci la pariglia. Ma un bel giorno, o meglio un brutto giorno, viene un serra serra, un colpo apopletico, un attacco di nefrite, una polmonite acuta o galoppante ci dice che bisogna fare le valigie per l'altro mondo. Morire! Come, io morire! Così presto? No, non posso morire, ho tante cose da aggiustare. Ma è inutile. La morte non accoglie reclami. E mentre il notaio si prepara solennemente, in nome del Re, a ricevere l'Atto di Ultima Volontà e il medico di famiglia vi va bucherellando il corpo con iniezioni, il prete, senza tante cerimonie, vi susurra all'orecchio — proficiscere, anima cristiana. E come non morire con questi tre apostoli a fianco, che rappresentano la legge, la scienza e la religione?

E sapete perchè questi signori vi vogliono spedire a grande velocità?

Il notaio desidera quanto prima i suoi diritti curiali; il medico ha più piacere di essere pagato dagli eredi che da voi, il prete vi ha preparato dei funerali con i fiocchi. Dunque la miglior cosa è di chiudere gli occhi e contentar tutti questi signori.

Li aprite nell'altra vita, siamo d'accordo; ma [212] chi vi assicura che andando magari in Paradiso, potrete spesso unirvi in lieta compagnia e ridere un po' spensieratamente?

Forse il gran portiere Pietro, che la tradizione popolare ci presenta un po' permaloso e attaccabrighe, potrebbe dirci che in cielo non si ride. Ridere in cielo? Profanazione! Ridere alla presenza dei santi, che, fatte poche eccezioni, sono dei musoni? In cielo si prega, si adora, si gusta la musica, il canto, ma ridere, no.

Veramente il Segneri, che si vantava di conoscere un pochino le cose celesti, ci fa sapere che in Paradiso si mangia, si beve, si sollazza.

Ma ammesso pure che il Segneri dica il vero, ammesso pure che in Paradiso si rida, perchè non ridere anche in terra e prendersi così un anticipo di allegria?

Dicono i filosofi che il dolore purifica e solleva. Bugia. È il riso, il riso gaio, spensierato, che c'innalza cinque metri dal suolo. Erasmo ebbe salva la vita per uno scoppio di riso; il Tisson racconta che un malato, vedendo un suo compagno tinto di nero, rise così forte da guarirne; Paolo De Koch, ancora bambino, salvò sè e la madre col riso; il Mazzarino si liberò da una postema alla gola col riso.

È vero che Filossene e l'Aretino morirono per il riso, ma questi signori ne vollero un po' troppo; bisogna ridere, ma da galantuomini!

E dunque ridiamo. Il Giambullari, che, come [213] storico, doveva avere senno ed esperienza, definiva l'uomo un animale che ride; di modo che chi non ride, corre il rischio di essere chiamato semplice animale.

Entrando con tale disposizione d'animo nella stanza da studio, i poeti sentimentali, gli storici, i filosofi, i moralisti, i critici sono messi da parte e viene la volta dei libri allegri.

Fate largo al glorioso D. Chisciotte, che si avanza pomposamente, seguito dal buon Sancio Pancia; salutate Tartarin, che si decide a fare i bauli per l'Algeria; stringete la mano allo zio Tobia, che, incapace di ammazzare una mosca, vi parla sempre di assedî e di guerre; accompagnate Raineri a Parigi e Gulliver a Lilliput; congratulatevi col Guadagnoli pel suo naso-portento!

Qualche abate, come il Casti, qualche cavaliere, come il Marino vi susurrano dei versi... No, si deve ridere, ma non a discapito del buon costume. Un po' di solletico piace a tutti, qualche licenza... poetica si permette; ma scendere a sozze oscenità, è troppo!

E poi, c'è bisogno di abati e di cavalieri per ridere? La nostra letteratura è ricca, straricca di lavori gai. Vi piacciono le novelle? Il Boccaccio, il Firenzuola il Sacchetti, vi divertono un mondo. Chi cento, chi duecento, chi trecento, questi signori ne mettono a vostra disposizione un mezzo migliaio. Volete epigrammi? Ecco il Pananti. Il [214] poveretto per meglio servirvi è ricorso financo a ditte estere.

Volete commedie? Il Goldoni e il Giraud vi offrono tutto il loro repertorio artistico.

Da ogni parte dunque sbucano libri allegri. Frottole, arguzie, parodie, caricature, scherzi comici. Che risate grosse, patriarcali, scoppiettanti, maliziose, equivoche, birichine! Tassoni, Bracciolini e Pulci mettono in canzonella la cavalleria terrestre e celeste; Aristofane si burla di Socrate e della sua dialettica; Plauto motteggia i venerandi Quiriti; Molière carezza il suo Tartufo... Ma che! in un momento tutti ridono: ride Omero, ride Dante, ride Shakespeare, ride Milton, ride Manzoni, ride Carducci: ridono tutti!

Evviva l'allegria!

***

Oggi gli oratori sacri rispettano se stessi e il pubblico: sono serî, dignitosi; non una parola plebea, non un motto triviale. Sancta sancte tractantur. Ma un tempo i predicatori mutavano la chiesa in un teatro.

L'Alighieri n'era stomacato.

... si va con motti e con iscede

A predicare; e pur che ben si rida,

Gonfia il cappuccio e più non si richiede.

[215]

Se dunque volete santamente ridere e seguire il precetto del profeta servite Domino in laetitia, bisogna dare un'occhiata agli antichi libri di prediche. Sono un po' pesanti per le citazioni, per le filze sterminate di proverbi, per quei lunghi testi latini, ma li garantisco come rimedio miracoloso contro l'ipocondria.

Padre Emanuele Orchi da Como è uno specialista per le descrizioni e per le metafore. Non dimentica neppure gli artificiosi tiritiri degli uccelli, il soporoso sapore e il saporito sopore con cui mangiano i bachi da seta. Con tre pennellate maestre vi dipinge la Maddalena: sollevata di fronte, sfrontata di faccia, sfacciata di aspetto. Il peccatore è goffamente paragonato alla lavandaia. Contro il ricco fa un processo penale in tutta regola: lui il Presidente, lui il Pubblico Ministero, lui la Parte Civile.

Il Padre Caracciolo da Lecce, nel primo discorso del suo quaresimale, per inculcare ai fedeli il digiuno, grida: “Dicetemi, dicetemi un poco, signori, donde nascono tante e sì diverse infermità in gli corpi umani? gotte, doglie di fianchi, febbri, catarri, non da altro se non da troppo cibo. Tu hai pane, vino, carne, pesce e non ti basta, ma cerchi nei tuoi conviti vin bianco, vin nero, malvagia, vin di tiro, rosso, lesso, zeladia, fritto, frittelle, capperi, mandorle, fichi, uva passa. Confeziona ed empi questo tuo sacco di fecce. Empi, [216] gonfia, allarga la bottonatura e dopo el mangiare come un porco, va e bottati a dormire.

Ma le prediche che si potrebbero leggere in una brigata di buontemponi sono quelle di P. Gabriele da Barletta. Nel giorno di Pasqua egli vuol dimostrare perchè la Maddalena e non altri andò ad annunziare alla Vergine la risurrezione di Gesù.

“Non andò Adamo, egli dice — perchè piacendogli i fichi non si distraesse per la strada; non Abele, perchè incontrandosi con Caino sarebbe stato di nuovo ucciso; non il patriarca Noè, perchè un po' beone; non Isacco, perchè invitato a qualche minestra di lenticchie, avrebbe perduto tempo e primogenitura; non Giuseppe, perchè calunniato dalla moglie di Putifarre, sarebbe stato chiuso in carcere;„ e così continua con Mosè, con Davide, col buon ladrone, per conchiudere trionfalmente: “Solo la Maddalena poteva compiere questa missione!„

Ma il papà degli artisti è il vescovo Andrea. Un giorno sale sul pulpito e fa vedere un piccolo seme; poi tira fuori una grossissima rapa e grida: “Ecco quanto è mirabile la potenza di Dio! Da sì piccolo seme trae un sì gran frutto!„

Il buon vescovo volle scomodarsi a portare sul pergamo quella rapa: avrebbe potuto farne a meno. C'era la sua testa!

[217]

***

Sentite un mio consiglio. Non vi fate mai mancare i libri allegri.

Nelle uggiose giornate d'inverno, nelle lunghe convalescenze, nelle ore di noia, si ha bisogno di un libro, che ci metta un po' di buonumore nelle vene.

Siamo isterici nell'anima, noi moderni. Per natura o per abitudine, tiriamo alla malinconia, ostinandoci a vedere tutto buio, buio pesto. Ma il sole c'è, c'è la luna, ci sono le stelle!

Oggi tutti soffrono allo stomaco, tutti digeriscono male. E perchè? perchè si è ipocondrici.

Se fossi medico, prescriverei ai miei malati cinque o sei pagine del D. Chisciotte. Danno più globuli rossi quelle sei pagine che quaranta scatole di pillole Pink! Senza dire che quelle sei pagine costano molto, ma molto di meno!

[218]

I libri che si prestano.

Siete solito far rilegare in tela e pelle i grossi volumi di storia, di filosofia, di critica. Errore. Quei libroni non escono mai di casa. Fate rilegare invece i viaggi del De Amicis, i romanzi del Fogazzaro, del Tolstoi, del Barrili, del D'Annunzio; le novelle della Serao, del Verga; le poesie dell'Heine, del Leopardi, del Pascoli, della Negri; sono questi i libri, che vanno sempre in giro e che vi vengono sempre chiesti. Spesso non vi si dà nemmeno il tempo di poterli rileggere a tutta comodità. Le richieste degli amici piovono. Chi viene personalmente a casa, chi vi manda un bigliettino, chi vi abborda in mezzo alla strada: tutti vogliono leggere; e voi di buona o mala voglia dovete contentarli.

Convenite con me: è una cattiva, cattivissima usanza quella di prestare libri.

[219]

Niente si presta con tanta facilità, niente si chiede con maggiore disinvoltura.

E quel che è peggio non si sa mai in quali mani vadano a cadere i vostri libri. Voi li prestate all'amico tale, ma poichè ognuno ha la sua schiera più o meno numerosa di amici, questo signor tale si crede nel diritto di farli leggere ad un altro, e così di amico in amico, i vostri poveri libri sono eternamente in moto.

Dopo un paio di mesi, dopo un anno ritornano a domicilio, ma in quale stato miserando! Sono dei feriti che vengono dalla guerra: malconci, piegati, ripiegati, sdruciti. Ad uno manca la copertina, ad un altro il dorso, ad un terzo un intero quaderno. E bisogna star zitto. Se ve ne risentite, l'amico è lì pronto a dirvi che il libro è stato trattato con ogni riguardo. “È sdrucito? ma se era sdrucito!„ “È macchiato d'inchiostro? ma se era così!„

***

Quando vi viene restituito un libro, dategli sempre un'occhiata. Certi signori hanno il gusto di scrivere a margine le loro impressioni. È una critica spicciola, a monosillabi, spesso triviale, spesso arguta. Alcuni scrivono col lapis come per dire: se non vi piacciono queste osservazioncelle, cancellatele; altri non accettano revisione, vogliono eternarle con l'inchiostro!

[220]

Conservo i “Miserabili„ pieni di esclamazioni e di applausi. Ad ogni pagina: sublime! divino! insuperabile! impareggiabile! A fianco ad una poesia della Negri: Bravo la signorina! In un romanzo moderno, di cui taccio il nome dell'autore, trovo scritto di lungo e a grosso carattere questo bel complimento: Sei un porco! Nè credo che il poco cortese lettore abbia torto: certe espressioni somigliano davvero ad un grugnito!

A metà di “Biancospino„ del Barrili veggo un gran crocione in blu e sotto: Mi hai scocciato!

All'ultima pagina del “Conte di Montecristo„ Il finale non mi piace un fico secco! A piè di un capitolo di “Spagna„ proprio dove il De Amicis parla della Cattedrale: Non è vero, io ci sono stato tre mesi a Madrid! Ma che cosa non è vero? Non è vero che ci sia la Cattedrale!

Carina quella che leggo nella “Margherita Pusterla„. Tutti sanno che il Cantù alla porta del suo patetico romanzo incide questo breve dialogo:

“Lettore, hai mai spasimato?„

— No. —

“Questo libro non è per te.„

Tanto piacere! aggiunge un capo ameno.

Nè mancano i commentatori. “Niccolò dei Lapi„ è stracarico di note insulse e puerili. Firenze al tempo di Savonarola contava 30 mila anime. Massimo D'Azeglio era pittore e ministro di Vittorio Emanuele. I Palleschi e i Piagnoni erano due partiti politici, come oggi abbiamo i clericali [221] e i liberali. Il Guerrazzi ha scritto una bella vita di Francesco Ferruccio.

Altri, come se la lettura di un libro fosse un avvenimento di massima importanza, vogliono far sapere a cielo e terra il tempo che hanno impiegato a leggere un volume. All'ultima pagina delle tragedie del Shakespeare trovo scritto: Incominciato a leggere il 15 giugno, terminato il 21 settembre dello stesso anno. E si limitassero a queste due date! Nossignore. Uno si esprime così: Terminato oggi 25 marzo, festa dell'Annunziazione di Maria SS. Scommetto che questo complimento me l'abbia fatto un canonico, il quale aspiri alla nomina di Vescovo. Un secondo: Letto in una giornata d'inverno. Sarei tentato a scrivervi sotto: “Stupido, le Ricordanze del Settembrini non si divorano in un giorno!„ Un terzo sarà un astronomo, si esprime così: 2 gennaio — mezzanotte — fulmini — freddo da cane.

E che dire poi di quelle signore, che si divertono a scrivere a margine dei nostri libri note di famiglia, indirizzi di amiche, ecc.? L'“Abate„ dello Scott n'è zeppo. — Fazzoletti 5 — lenzuola 4 — asciugamani 5 — calzoni 2 — camicie 12 — Domani 26 luglio bisogna pagare il sarto — Per la gonna a Carmela metri 3 di stoffa — Elvira Taiani, Via Bezzecca 15, Roma — Dottor Ernesto Solmi, Via Firenze N. 19, 2º piano, per consulto L. 10.

E ci sono delle sorprese anche più sensazionali. Sentite. Presto i “Racconti„ del Panzacchi [222] ad un amico. Lo chiamo amico, perchè disgraziatamente si chiamano amici anche quelli che fanno dei brutti servizî. E questo signore me lo fece a modo o meglio me lo stava facendo, che io me ne accorsi a tempo e detti il “chi va là!„ Dunque dicevo, presto i “Racconti„ del Panzacchi. Dopo un paio di mesi non so come, nè perchè quel libro mi serve e glielo chiedo.

“Ve lo manderò oggi per mio figlio; ve lo manderò domani per la domestica„. Intanto passa oggi, passa domani; si arriva alla domenica, e il libro non viene. Un comune amico mi dice che i “Racconti„ del Panzacchi sono presso una signorina. Mando un biglietto alla signorina, e dopo mezz'ora ecco il libro, accompagnato da un altro biglietto. La signorina si dichiara fortunata potermi servire, ma mi prega di restituirglielo con una certa premura, perchè è un dono, e i doni sono molto cari. Un dono? dunque non è il libro mio questo? No, è il mio; sì, sì, è il mio! Apro e alla prima pagina trovo scritto: Alla signorina B. in segno di affettuoso ricordo l'amico (e qui nome e cognome di quel signore).

Santo Iddio! Del mio libro ne aveva fatto un dono! Che si voglia rubare... ma donarlo!...

Dopo un paio di giorni seppi da quel comune amico che il donatore stava disturbato con me. Io non mi dovevo permettere!.. O bella, e lui si doveva permettere?...

[223]

***

E ritornassero tutti, i vostri poveri libri!

Diciamolo a onore e gloria del genere umano: pochi sono gli onesti che restituiscono un libro. Il Descuret nella Medicina delle Passioni dice: “Non prestate mai un libro ad un bibliomane, è capace di ritenerselo!„

Come è ingenuo il signor Dottore! Questa malattia la tengono un po' tutti. I libri escono, ma spesso non ritornano. Voi vi dimenticate, l'amico si dimentica o finge di dimenticarsi e buona notte!

Viene però il giorno del redde rationem. Il giornale, ad esempio, vi dà una brutta nuova: è morto Vittoriano Sardou. È morto? come è morto? Che peccato! Sardou è un artista! E senza volerlo l'occhio corre allo scaffale: sentite il bisogno di rileggere ad alta voce una scena del Rabagas. Ma dov'è questo dramma? L'ho visto sempre qui, insieme coi lavori dell'Hugo. Fosse nella camera da letto? no; sul comodino? no; in mezzo a quei giornali? nemmeno. L'avessi prestato? Già, già, l'ho prestato, l'ho prestato: mi ricordo. Ma a chi?„

Qui vi smarrite e si smarrirebbe il più abile commissario di polizia. Come prenderne le tracce? Ne domandate agli amici, ne scrivete a qualche collega lontano, che spesso spesso ricorre a [224] voi per buoni libri; ma, com'è facile immaginare, chi fa il nescio, chi si disturba, chi cade dalle nuvole.

— Rabagas? tu sai che i drammi voglio sentirli a teatro!

— Ma se non l'ho letto!

— Io Rabagas!

— Fammi il piacere, ricordati a chi l'hai dato! —

— Ma sei pazzo? —

Eppure fra tutti questi signori che dicono no, c'è uno che dovrebbe dir sì, c'è uno che mentisce, c'è uno che in barba ad ogni regola di buona creanza si tiene il vostro libro.

Vi vengono dei sospetti, voi conoscete i polli, sapete più o meno chi sa giuocare di scherma. Vorreste entrare zitto zitto in casa sua, rovistare nella libreria, trovare la refurtiva e dirgli in faccia: “Sei un ladro!„ Ma chi vi dà questo diritto? Violare il domicilio! ci sono da sei mesi ad un anno di detenzione!...

Per due o tre giorni siete disturbato, disturbatissimo. Fate mille giuramenti. Non darò un libro neppure... Che mi tagliassero le mani!...

Giuramenti da donnicciuole. Dopo un paio di giorni l'ira passa e si ritorna da capo. Come si fa a negare un libro, come si fa a dire lì sul muso ad un amico: “Non posso servirti, perchè tu non lo restituisci più, perchè tu forse sei un ladro!„

E ladri di libri ve ne sono: ladri di cartella, [225] ladri che dovrebbero comparire dinanzi alle Assisi. Ne conosco alcuni che raccattando libri da Tizio e da Caio mettono su un po' di libreria. E che arte ad allontanare ogni traccia! Se il libro ha sulla copertina il vostro nome, strappano la copertina; se il libro è rilegato ed ha il vostro nome sul dorso, raschiano la pelle finchè il nome va via e il libro... resta nelle loro mani.

Il miglior modo sarebbe quello di non prestar libri a chicchessia. Ma è possibile? Sareste qualificato per orso e peggio! Negare un libro. Vergogna! I libri non si negano. Dunque? Bisogna ricorrere a pretesti, a sotterfugi, a bugie. Esempio. Viene un amico a casa vostra e dopo avervi coperto di complimenti, dopo essersi premurosamente informato della vostra salute vi chiede, con bel garbo, il “Piccolo mondo antico„.

Voi su due piedi, da bravo avvocato, rispondete con cortesia:

— Non te lo consiglio, non ne vale la pena, sai. È un libro che annoia. —

“Come! mi hanno detto... ho letto sul giornale che...„

— Senti a me: non credere ai giornali. Del resto se lo vuoi, padronissimo; ma son sicuro che te ne pentirai. È un libro poco interessante. —

Lui resta per un momento sopra pensiero e poi quasi rassegnandosi:

“Se me lo assicuri...„

[226]

— Ma ti pare! —

Nuove strette di mano, nuovi complimenti.

L'amico se ne va. E voi, dopo averlo accompagnato fino alla porta, ritornate indietro, esclamando con un sorriso a fior di labbra:

— Sicuro il Piccolo mondo antico è un capolavoro, ma non voglio farlo uscire di casa! —

Forse questa reclame dispiacerebbe al povero Fogazzaro. Ma che c'entra lui? Il padrone siete voi, avete voi sborsate le brave cinque lire!

[227]

La Storia.

Le Cronache dei Malaspina, dei fratelli Villani, i Compendî del Comba, del Ravasio del Ferrero, del Bertolini, ecc. — modesti e senza pretensione — stanno alla rinfusa tra romanzi e libri scolastici; ma gli storici di professione, gli alti dignitarî sono al posto d'onore. Per il grande formato, per i titoli in oro, impressi sul dorso, spiccano superbamente e pare che dicano: la storia è qui!

Ecco in prima fila i diciassette grossi volumi del Cantù. Molta roba, lo so; ma qui non è la semplice narrazione dei fatti, qui è la storia civile, religiosa, intellettuale, morale, economica di tutte le nazioni. In un volume, il racconto: in un altro, le religioni; in un terzo, la letteratura: in un quarto, schiarimenti e note; e così di seguito.

[228]

Il Cantù, da questo informe materiale, ha ricavato poi la Storia degl'Italiani, la Storia dei cento anni, la Storia della letteratura greca, latina, ecc. E se il Signore non l'avesse chiamato in residenza per la compilazione di una storia del Paradiso, chi sa quante altre ce ne avrebbe regalate!

Ecco gli Annali d'Italia, scritti alla buona, senza ostentazione o apparato di forma, dall'erudito e benemerito Muratori. A destra, la Storia del Guicciardini, orrido e vivo ritratto della bassa politica del Medio evo; qui, la Continuazione del Botta, eccellente descrittore di pesti, tremuoti, battaglie; là, la Storia d'Italia del Balbo, dettata in uno stile, quasi direi, geometrico, che non divaga nei particolari, ma che tira diritto alle inevitabili conclusioni; in fondo, i sette volumi del Giambullari, opera, che al Giordani sembrava “un amenissimo giardino per i fiori di lingua„, ma che a noi è arrivata come una foresta, piena di labirinti, di burroni e di nascondigli.

Quante storie, Dio mio! Chi la sa lunga e va da Adamo a Marconi, chi ha fretta e se la sbriga con cento pagine. Chi illustra un'epoca, chi lumeggia un secolo, chi rischiara o annebbia una dinastia. Insomma non vi è fatto, impresa, rivoluzione che non sia stata descritta, discussa commentata, sviscerata.

Gli storici antichi però mettiamoli da parte. Essi segnano gli avvenimenti quali appaiono attraverso [229] le gloriose tradizioni, e tutto lo studio è di ritrarre a smaglianti colori un assedio, una battaglia, una fuga. Che quadri bellissimi, che vive descrizioni! Ma è storia questa? No, sono dei poemi eroici in prosa. Ogni città, a somiglianza di Roma, è stata edificata da dei o da figli di dei; ogni impresa militare è circondata da un non so che di maraviglioso, che ricorda l'Iliade e l'Eneide.

I nostri padri bevvero grosso, ma noi moderni... Eh! oggi la storia va fatta a dovere. L'arte, sissignore; ma l'arte deve stare al suo posto. Via, via le fiabe, e i racconti maravigliosi! Noi vogliamo la verità vera, noi vogliamo il documento, l'analisi, l'autopsia!

***

Ma è sempre vero ciò che scrivono gli storici moderni? Signori, no.

Il Voltaire chiama gli storici: “bugiardi ufficiali„ e in parte ha ragione. Quasi tutti abusano del loro ufficio nobilissimo. Alcuni, trascinati dalle proprie convinzioni politiche o religiose, diventano partigiani; altri, vittime di un preconcetto, non negano alcun fatto, ma qui esagerano un particolare o lo sopprimono, là velano un delitto sotto un'arguzia, e tutto questo per coordinare gli eventi al loro supposto; altri infine, non per malignità, ma per la fretta o per la mancanza [230] di acume critico, sogliono giudicare il passato con criterî moderni e dànno in falsi apprezzamenti.

Di storici obbiettivi non ne abbiamo, non ne avremo mai. Ammesso pure che uno storico riesca a spogliarsi di ogni passione partigiana e prometta a se stesso di voler essere il sereno espositore dei fatti, l'eco genuina di tutti gli avvenimenti; — l'indirizzo dei suoi studî, la predominanza di questa o di quella idea basta a turbargli il giudizio. Guardate: fra tanti libri di storia ci sono forse due che la pensano allo stesso modo? Ognuno alza la voce, ognuno nega ciò che un altro afferma. “Il Papato ha rovinato l'Italia!„ dice il Macchiavelli. “Il Papato è stato sempre la nostra salvezza!„ grida il Cantù. Il Sarpi scrive la Storia del Concilio di Trento per dichiararlo un intrigo; il Pallavicino lo rimbecca con un'altra Storia del Concilio; il Courayer ne scrive una terza per rimbeccare l'uno e l'altro; in ultimo il Servita ne fa una quarta per rimbeccare il primo, il secondo e il terzo. Ma dunque si può sapere che cosa è questo benedetto Concilio?

Nè parlo del Medio evo. Povero Medio evo! È come un cadavere sotto i ferri anatomici. Ognuno vi trova la malattia che vuole: chi il fanatismo, chi la corruzione, chi l'ignoranza; e, a corona dell'opera, il Botta lo qualifica “età pazza, scarmigliata, da cronicacce di frati e di castellani ignoranti„.

[231]

Abbiamo detto che i letterati sono sempre in lotta fra loro. E che dovremmo dire degli storici? Immaginate per poco che tutti questi signori si trovassero per un giorno solo a congresso: altro che Parlamento Italiano!

Ma lasciamo che essi gridino a loro talento. Come dall'attrito vien fuori la luce, così da questi libri, che affermano, negano, difendono, alterano, mentiscono, falsificano, nasce la storia, la grande maestra della vita.

***

E parliamo della storia! Ultimi venuti nel mondo non potremmo vivere che del presente, ma la storia ci fa vivere del passato.

Sono tutte le epoche che s'intrecciano, si inanellano, si completano con i loro massacri di sangue! Essa raccoglie il grido della guerra e l'inno della pace, il sarcasmo del tiranno e il lamento della vittima.

Le più belle creazioni dell'arte si offuscano dinanzi a questo libro, in cui sono ritratti gli uomini che innalzarono o distrussero Stati e Monarchie, Regni ed Imperi, confini e frontiere.

La storia — questo monumento, più grandioso del S. Pietro di Roma, più antico delle Piramidi di Egitto — ci dice che l'umanità ha avuto i suoi eroi, i suoi martiri, i suoi carnefici, i suoi salvatori, i suoi angeli, i suoi dèmoni.

[232]

Essa è la voce di Dio, è il grande giudice degli uomini nel tempo. Molti seppero ingannare i loro contemporanei e procacciarsi con l'astuzia e con l'ipocrisia un applauso o un monumento; ma la storia li ha colpiti! Inesorabile nella sua giustizia, divide gli uomini in ischiere: i pazzi, capitanati da Caligola; i sanguinari, da Nerone; le vittime, da Belisario; gli avventurieri, da Pirro; gli eroi, da Leonida; i traditori, da Baglione; i dominatori, da Carlo V; i salvatori, da Pietro Micca; e al di sotto, tutta una immensa moltitudine di milioni e milioni di uomini, che sono come il fondamento del grande edificio sociale; di uomini, che vissero e morirono senza avere un nome una volontà, una coscienza propria. Questa moltitudine immensa è il popolo.

Il popolo! Chi può parlare di quest'Ercole incatenato, cieco come il Polifemo della favola, mite come l'agnello, sanguinario come la tigre; ora umile e sottomesso, ora superbo e ribelle? Oggi, timido, si lascia quasi calpestare; domani, insorge e non si arrende neppure dinanzi alla bocca di mille cannoni.

Il popolo! Guai a chi non ascolta per tempo i suoi lamenti! Quei lamenti potranno in un istante mutarsi in un ruggito feroce; ed allora egli non prega più: comanda. Di rado si sveglia questo leone dal suo letargo, ma quando si scuote e manda il primo ruggito, gli basta un'ora per allagare [233] di sangue una città, per abbattere corone e scettri, confini ed imperi.

Per convincersi della sua onnipotenza bisogna vederlo in azione, il popolo. Io ne ebbi un'idea il 17 ottobre 1888. Sulla grande piazza di S. Ferdinando, in Napoli, duecentomila cittadini acclamavano i Reali d'Italia e l'Imperatore di Germania. Vecchi, adulti, giovani, fanciulli, donne applaudivano freneticamente e sembrava che un fluido magnetico li agitasse tutti.

Quegli evviva, confondendosi nell'aria, mi arrivavano all'orecchio come un frastuono, come l'eco di mille voci lontane. Io non sentivo gli applausi, vedevo la potenza del popolo. Non so quali pensieri si agitassero nella mente di Umberto e di Guglielmo; ma credo che quella folla compatta, convulsa, li abbia un po' sconvolti; credo che i due Coronati, sotto quel sorriso compiacente e dignitoso, nascondessero un timore, quel timore che si prova dinanzi al leone, sia pure addomesticato.

Il re si crede forte nella sua reggia, ma quando si trova a tu per tu con il popolo, allora sente una voce segreta che gli dice: “Attenti! attenti! Questa folla sterminata è il popolo. A che varrebbero i tuoi soldati, i tuoi cannoni, le tue carceri se ti venisse meno il suo affetto?„

Felici i re che ascoltano questa voce e si ricordano che il popolo esiste!

[234]

***

La storia seduce.

Pigliando la rincorsa dall'età eroica, che vi alletta con i suoi dei, semidei, eroi, ciclopi; dando uno sguardo di ammirazione a Sparta e ad Atene, ci fermiamo a Roma, a Roma nostra, che incatena al suo cocchio trionfale intere regioni. Per noi Italiani, che orgogliosamente possiamo chiamarci figli dei Bruti, dei Fabrizi, dei Fabi, dei Cesari, la storia di Roma ha un incanto, un fascino immenso.

Ma Roma cade e gli Unni, i Vandali, i Goti, i Visigoti, gli Ostrogoti, i Longobardi si gettano come corvi famelici sopra di essa, e con la spada insanguinata segnano una nuova epoca: il Medio-evo, tempo di transazione, che non ha una vera storia, ma che prepara la storia; epoca enigmatica e oscura, che ricorda la biblica torre di Babele.

Infatti, quando si presenta innanzi a voi il grande ed infelice Colombo, vi sembra di essere usciti come da una bolgia infernale. Guardate indietro, e mille ombre vi inseguono: — è Alboino, che con la tazza ferale vi invita a bere del sangue; — è Teodora, Macrozia, Ermengarda, le turpissime donne di Roma, che con l'astuzia e la disonestà creano scandali e rovine; — è Barbarossa, che scende cinque volte a incendiare [235] città e villaggi; — sono insomma tanti spettri orribili, che escono dai loro sepolcri e si fanno innanzi minacciosi.

Al Medio Evo fanatico e sanguinario succede l'età moderna, in cui tutti i popoli, ripetendo il grido di Giulio II: “Fuori i barbari!„ cercano acquistare la propria indipendenza.

Questo periodo più vi appartiene e voi lo scorrete con ansia. Finalmente gl'Italiani si sono svegliati! Caduti con Roma, per tanti secoli fummo dominati, disprezzati, e la nostra Patria venne chiamata una espressione geografica. Ma il tempo della rivendicazione è venuto. Non è la Lega Lombarda, non sono i Vespri Siciliani, non è la rivolta di Masaniello, sono tutti gl'Italiani che si ribellano ai propri tiranni. Fuori, fuori! abbasso gli Austriaci! abbasso i Borboni! abbasso i Duchi, gli Arciduchi, i Vicerè, i Potestà! Vogliamo l'Italia una e indipendente!

Voi pieno d'entusiasmo accompagnate Cavour al congresso di Parigi, assistete ai segreti colloqui tra D'Azeglio e Vittorio Emanuele; e quando la guerra contro l'Austria incomincia, voi tremate: è quel sacro timore che si prova alla vigilia delle grandi imprese. Sorpassate le lunghe descrizioni, le biografie, i commenti e correte alle battaglie: a Montebello, a Palestro, a Varese, a Camerlata, a Melegnano, a S. Martino, a Calatafimi, a Milazzo, a Capua, a Gaeta. Da per tutto si combatte e si vince!

[236]

Gli Austriaci si ritirano, i Borboni fuggono, la Patria finalmente è nostra! E la storia contemporanea si chiude con il trionfo degl'Italiani.

All'ultima pagina vi destate come da un sogno incantevole; ma subito dopo vi assale una malinconia.

I nostri padri affrontarono l'esilio, il carcere, la morte e noi che cosa abbiamo fatto per rendere rispettata la nostra Patria, questa terra benedetta, ricca di tante bellezze di natura, sempre maestra nelle arti e nelle scienze?

***

La storia fa ribrezzo.

In essa vive un mostro che ora striscia come un rettile e riesce a nascondersi, ora si solleva gigante ed urla come un demone: la guerra!

Scorrete la storia; ad ogni passo una guerra. Leggi, proclami, guerre; invenzioni, scoperte, guerre; pace, trattati, guerre. Guerre sanguinose, che si trascinano per anni e anni, come una vendetta di Dio; guerre insulse, nate per capriccio o volute da un despota; guerre ridicole, che fanno vergogna a vinti e a vincitori; ma sempre guerre, guerre!

Ogni epoca si apre e si chiude con un massacro, ogni nuovo regime è preparato col sangue di migliaia di vittime. Sulla punta della spada e sulla bocca del cannone è il diritto.

Non parlate alle nazioni di giustizia. La guerra [237] è il grande, inappellabile Tribunale, che legalizza usurpazioni e violenze, che rende o strappa libertà ed onore.

Il sogghigno beffardo di Brenno ha echeggiato in tutti i secoli!

Intanto noi leggiamo la storia con la più grande indifferenza. Le guerre non ci fanno impressione, sembrano la cosa più naturale del mondo. Siamo abituati fin da ragazzi ad assistere in ispirito ai grandi macelli di carne umana. A che cosa si riducevano quei Compendî di storia, imparati nelle scuole primarie o secondarie? Se togli le leggende e qualche racconto un tantino educativo, tutto il resto: guerre. Bisognava sapere dove avvennero, quanti furono i combattenti, quanti i morti, quanti i feriti, quanti i prigionieri. Dàlli oggi, dàlli domani, si finiva col pigliarvi gusto. Alla battaglia di Canne settantamila morti, ventimila prigionieri. Bravo Annibale! In Gallia, Cesare lascia un milione di morti. Benissimo!

E Napoleone? Quest'uomo fatale, esercitava sul vostro animo un fascino irresistibile. Quando il professore di storia vi descriveva a vivi colori i grandi successi militari di Cherasco, di Lodi, di Rivoli, di Marengo, di Austerlitz, voi a battere le mani freneticamente. Napoleone è un genio!

Come siamo facili all'entusiasmo! Abbiamo innalzato monumenti ai grandi conquistatori e li salutiamo col nome di eroi! Eroi che grondano sangue, eroi che seminarono la morte e la distruzione, [238] eroi-carnefici, che non ebbero nemmeno il pregio di essere sinceri e di confessare come Attila: “Io sono il flagello di Dio!„

Quanti milioni e milioni di uomini non furono massacrati sui campi di battaglia?

Poveri illusi! Credevano di compiere un dovere verso la Patria, e il più delle volte non fecero che secondare le sfrenate passioni di pochi. La Patria, sempre la Patria si mette in ballo per attirare il popolo e trascinarlo al macello. “Ogni anno — esclama il De Musset — la Francia faceva regalo a Napoleone di trecento mila giovani: era l'imposta pagata a Cesare, era la scorta che gli bisognava per attraversare il mondo. Mai vi furono tante notti senza sonno, mai si vide sporgere dai bastioni delle città tanta moltitudine di madri desolate, mai vi fu tanto silenzio intorno a coloro, che parlavano di morte!„

Ma i libri storici che davvero fanno ribrezzo sono quei grossi volumi del Taine, del Michelet, del Blanc, del Thiers. Se siete di animo delicato, non aprite quei libri: ivi è descritta minutamente la più grande aberrazione umana: la Rivoluzione Francese. Raccogliete le malvagità di tutte le guerre, non avrete mai la Rivoluzione Francese, “in cui l'uomo — secondo il Taine — non è solo barbaro, come il Vandalo, crudele, come l'Unno, ma un animale sanguinario e lubrico„.

Dio mio! ad ogni passo una mannaia, in ogni casa un eccidio, in ogni tempio una profanazione. [239] E in mezzo alle strade, allagate di sangue, vi appaiono come nella penombra, gli spettri di Marat, di Danton, di Robespierre. Che infernale trinomio! Marat riarso da una sete insaziabile di sangue, con tutti i sintomi fisici di un mostro: Danton, maschera convulsa di mastino ruggente, capace di strapparvi il cuore con uno sguardo; Robespierre, grande macellaio di carne umana, che parla con la schiuma alla bocca, che digrigna i denti e getta fiele anche sui morti! Queste ombre vi atterriscono; un fremito convulso vi agita, i capelli si rizzano sulla fronte, e voi chiudete il libro, esclamando:

“Maledetta la guerra e le rivoluzioni!„

***

Ma è inutile maledire. La guerra ci sarà sempre. L'uomo, per un fatale destino, deve di tanto in tanto dar prova della sua malvagità.

Lo Zar, in un momento di santo zelo, ricordandosi di essere non solo Imperatore, ma padre e Pontefice Massimo di milioni di anime, ebbe la felice idea della pace universale. Si, si, la pace! Vogliamo la pace!

Tutti i Moneta di questo mondo misero fuori un sospiro di soddisfazione. Finalmente!

Ma vedete un po': proprio lo Zar, forse per aggiungere l'esempio al precetto, attaccò lite — e che lite! — col Giappone.

[240]

Egli voleva la pace, sissignore; ma voleva anche la Corea. Gli Occhietti a mandorla si opposero. “La Corea è nostra!„ Nicola montò in bestia. “Nani screanzati! Voglio darvi io una lezioncina!„

Disgraziatamente invece di darla la ricevè.

Ma siamo giusti: come abolire la guerra, come darle il ben servito e metterla bruscamente alla porta, se essa oggi impera sovrana in tutte le Nazioni?

I nostri Governi non si preoccupano che della guerra.

Siamo amanti della pace, vogliamo la pace, ma intanto abbiamo un Ministero della Guerra, non della pace; scuole di guerra, non di pace! I nostri R. Cantieri non lavorano che per la guerra. A Roma, vi sono in permanenza Commissioni e Sottocommissioni, che studiano notte e giorno, e, a basi di calcoli, di esperimenti, mutano, trasformano tutto il materiale da guerra. Ogni anno nuovi fucili, nuove cartucce, nuove uniformi, nuove tende, nuove corazze, nuovi tipi di navi e di sottomarini. Lo Stato Maggiore sta sempre con l'occhio alla penna. I piani di attacco, di invasione, di difesa sono completati, sissignore, ma non possono restare allo statu quo; occorrono continue modifiche. Debbono essere ritoccati, perfezionati, secondo le circostanze e le esigenze militari.

Il soldato dev'essere sempre pronto; ed ecco [241] le grandi manovre, che sono come i concerti di quella terribile musica.

E dovunque è così: tutti gli Stati sono all'erta per ben riceverla.

Si racconta: il feld-maresciallo von Moltke, Capo dello Stato Maggiore Tedesco, se la dormiva una notte saporitamente, quando venne destato di soprassalto dal suo Aiutante di campo, il quale gli annunziò che era stata dichiarata la guerra con la Francia. Von Moltke, senza punto scomporsi, disse: “Incartamento N. 5.„ Si voltò dall'altro lato e ricominciò a russare.

L'Aiutante aprì l'incartamento indicato e trovò tutto il piano di mobilitazione, con annessi ordini già firmati, da spedirsi ai comandanti di Corpi d'Armata. Non fece altro che aggiungervi la data e correre al vicino ufficio telegrafico. Dopo due ore tutti pronti per dar principio allo spettacolo!

Questo cinquant'anni fa. Oggi l'incartamento N. 5 non contiene solo il piano di mobilitazione, ma inchieste segrete, statistiche, carte geografiche, topografiche sulla Francia. E sapete perchè? Le Nazioni civili si spiano maledettamente. I nostri piani di guerra, segreti, segretissimi, custoditi da una dozzina di chiavi, si conoscono a Vienna, a Parigi, a Berlino, a Londra, a Pietroburgo; come dall'altra parte a Roma si conserva una copia in carta libera de' piani, sottopiani e terrapiani delle Nazioni amiche. Potreste dire: ma [242] sarebbe meglio che questi benedetti piani si preparassero in piazza, una volta che... Avete ragione, ma le spie? Dovrebbero morir di fame? No, in questo mondo tutti debbono vivere!

***

Però, bisogna confessarlo, noi moderni l'abbiamo molto perfezionata la guerra. I nostri padri, felini e ignoranti, si scannavano come cani. Armati fino ai denti, coverti di corazze e cimieri, si davano colpi da orbi. Vergogna! Un po' di umanità ci vuole anche quando si ammazza. Siamo uomini o belve noi?

Per fortuna un monaco inglese, nei suoi ozî beati, inventa la polvere. Bravo il figlio di S. Francesco! Invece di recitare l'Ufficio Divino o preparare liquori per i palati aristocratici, ci combina il bel servizio! Ma zitto, noi dobbiamo essergli grati. La polvere ha portato il progresso, la civiltà, l'umanità nella guerra. Via, via le daghe, i dardi, le baliste! Roba da selvaggi. Noi moderni abbiamo il cannone Krupp, che tira a 5000 metri e regala 35 colpi al minuto. Si muore, ma nessuno si macchia le mani di sangue.

Oggi la guerra è una scienza e tiene a sua disposizione fisica, chimica, elettrotecnica.

La polvere fa molto fumo? Male, malissimo; sul campo di battaglia ci vuole... arrosto; e perciò un italiano, pratico e umanitario, ha inventato la polvere senza fumo. Sta bene. Ma sapete: quello [243] scoppio del cannone dà sui nervi. Santo Iddio, dopo cinque minuti si è sordi! È un inferno, un inferno perfetto!

Avete ragione; ma si è provveduto anche a questo. Noi oggi abbiamo la polvere muta, che fa i fatti suoi senza la minima ciarla. Il cannone non brontola più, il fucile non cinguetta; l'uno e l'altro lavorano in silenzio. Il proiettile arriva, vi colpisce, voi ve ne andate all'altro mondo, senza sentire il minimo rumore. Calma perfetta. Si sentirebbero volare le mosche, se questi animalucci avessero la pazza curiosità di assistere a quei drammi!

A noi moderni spetta un altro vanto: oltre a rendere la guerra meno antipatica e più umana, le abbiamo dato un po' della nostra fretta.

I nostri padri perdevano molto tempo. I Romani, per citare i maestri dell'arte, consumarono 33 anni per vincere i Sanniti, 44 per domare i Cartaginesi. Un'eternità! La incominciavano i padri e la terminavano i figli! Noi invece ci sbrighiamo in pochi giorni.

Eh! ci vuol tanto poco a bombardare una città! Dieci bocche di cannone, a getto continuo, in mezz'ora vi distruggono New York!

E poi, lasciate che si perfezioni il dirigibile e l'areoplano: la guerra, anche più importante, sarà ridotta a pochi minuti. In un giorno solo: ultimatum, guerra, pace.

Altro che veni, vidi, vici di Cesare!

[244]

I romanzi.

Ne trovate da per tutto. Sul tavolo, sul comodino, sulle sedie, in mezzo ai giornali: in ogni angolo una rappresentanza. Ma il grosso dell'esercito è qui, in questo scaffale a sinistra. Grandi, piccoli, in edizioni di lusso, in edizioni economiche, rilegati in tela, in pelle, sciolti, sdruciti: sono due o trecento, tutti in fila come soldati.

Succede spesso. Quando non si ha voglia di leggere e la penna pesa un quintale, quasi senza volerlo, fermate l'occhio su questi libri e ne andate scorrendo i titoli. Curioso! Ora la fronte si corruga, ora si spiana; ora le labbra abbozzano un sorriso, ora vi assale un fremito; ora il naso si aggrinza, ora gli occhi scintillano. È naturale: sono le diverse impressioni che hanno lasciato in voi questi libri, impressioni che non si cancellano, impressioni che ricordano tutto un periodo di [245] vita gaia e spensierata. Qui sono romanzi, divorati in un giorno con la più grande voluttà; romanzi noiosi, dieci volte incominciati e dieci volte mandati a quel paese; romanzi lascivi, assaporati di nascosto come frutti proibiti; romanzi placidi, sereni come un tramonto d'autunno; romanzi burloni, che leggeste ridendo a crepapelle; romanzi tetri, che vi lasciavano un vuoto nell'anima; romanzi paurosi che vi facevano rizzare i capelli!

Oggi di tanti romanzi non vi resta che un ricordo vago. Di alcuni ricordate appena il protagonista, di altri una scena, di altri una descrizione: tutto il resto, silenzio. Vi date a frugare nella memoria, unite, coordinate, ma ad un punto non si può andare più avanti; si perde ogni traccia. Buio, buio pesto! È vero; ma guardando questi libri, sentite come una musica lontana, che dolcemente vi accarezza e vi culla. Vi arrivano suoni, armonie, grida laceranti; è come un'eco di baci, di sospiri, di gemiti, che s'inseguono, s'intrecciano, si urtano. La fantasia corre, corre... Voi vedete sfondi di foreste e di acque azzurre, poveri abituri e sale dorate, riflessi di nevi e di cieli rosei! Che odore di gelsomini e di aranceti! Che tanfo di sudiciume!

Ma in un momento, come al colpo di magica bacchetta, vi appaiono guerrieri, dame, assassini, padroni, servi... Voi fissate bene lo sguardo; li conoscete tutti. Ecco Valijean, ecco l'astuto Rodin, lo spavaldo D'Artagnan, il laido Francesco [246] Cenci, il patriarcale Niccolò dei Lapi, il buon Ivanhoe, il timido D. Abbondio. Gilliat lotta con la terribile piovra, Fleur de Marie cade nelle mani di quelle donnacce, papà Goriot agonizza, Cesare Borgia alza il pugnale, il Conte di Montecristo fissa Villefort, Emma, la Bovary, vi tenta, l'Innominato si dispera; e nel fondo di questo gran quadro si elevano, quasi simboli sovrumani, fanciulle infelici, strappate alla vita nel fiore degli anni.

O Lisa, Bice, Lucia, Clotilde, Giulia, Caterina, Esmeralda, Rebecca, Ginevra, Maria! I primi palpiti del nostro cuore, vergine e immacolato, furono per voi. Prima che una ragazza ci avesse ammaliati col suo sguardo, noi vi amammo, o fanciulle, o fiori delicati, che chinaste in su lo stelo nella primavera della vita!

Nel silenzio della nostra cameretta abbiamo pianto, vi abbiamo seguite nella dolorosa via crucis delle vostre sventure e, non potendovi salvare, abbiamo imprecato contro la malvagità degli uomini.

Ci dissero più tardi che voi non siete mai esistite. E perchè? non vivete in tante fanciulle che soffrono, in tante fanciulle che muoiono senza il sorriso dell'amore?

***

Oggi quei romanzi riposano.

Rileggerli? No. Rileggere un romanzo è come [247] sposare una vedova. Nuptia calefacta. Nessun entusiasmo. Bene o male, voi già conoscete per sommi capi la favola: vi è noto che farà Tizio, che farà Caio, chi ne uscirà bene, chi male, chi vi lascerà la pelle. Situazioni, caratteri, azioni, catastrofe: tutto vi è presente.

Gli idillî più dolci, le storie più raccapriccianti, le scene più commoventi vi lasciano freddi. Quella ragazza smania, si dispera? Pazienza; verranno le nozze. Quel giovanotto è accusato di alto tradimento, è condannato al carcere perpetuo? Un bel giorno sarà libero, milionario e si vendicherà dei suoi calunniatori.

Il romanzo non è uno spartito di musica; più si sente, più si gusta. No, l'illusione è per una volta sola. Il romanzo si legge, non si rilegge. E dolorosamente debbo aggiungere che bisogna leggerlo in gioventù. Solo i giovani possono delirare col Guerrazzi, sognare con lo Scott, fantasticare col Dumas.

E sapete perchè? Il giovane facilmente si commuove, e quando è commosso ingoia tutto, crede a tutto, approva tutto. Noi, invece, appena si prende in mano un romanzo, vogliamo far da critici. “Questa scena è inverosimile, questa situazione è impostata male, questo carattere è abbozzato. Che dialogo scialbo! Che descrizione noiosa!...„ E si va avanti facendone l'autopsia. Non si legge così il romanzo. Bisogna mettersi a sua completa disposizione, [248] dire semplicemente: “Parla, chè il tuo servo ti ascolta„. Noi no, vogliamo fermarci a mezzo, vogliamo controllare, discutere, analizzare, dettare leggi; e il romanzo si vendica: invece di dilettarci, ci annoia.

Lasciamo dunque ai giovani ciò che la natura e l'arte riservava per essi. A noi non resta che guardare in faccia il romanzo e domandargli: chi sei?

***

I retori non sono d'accordo nell'assegnare al romanzo un posto nella letteratura. A qual genere appartiene? Al didascalico? al poetico? al drammatico? allo storico? Quistioni oziose. Il romanzo non pretende di occupare alcun posto; viene fuori così, senza blasone, senza diplomi e commende. Conosce i suoi umili natali e non accampa diritti. Mettetelo in platea, mettetelo nel loggione: si accontenta.

Furbo! si accontenta, perchè conosce il fatto suo; non vuole occupare alcun posto, perchè con la sua finta modestia si è reso padrone del campo. Ascriverlo al genere poetico? ma se è storico; al genere storico? ma se è poetico. Insomma il romanzo sfugge ad ogni classifica: ha i bagliori della poesia sotto il modesto linguaggio della prosa; lumeggia un ambiente storico ed è fantastico, [249] vi dà una lezione di scienze naturali ed è drammatico.

Che gran ribelle! Non vuole limiti, non sopporta determinazioni, non conosce barriere. Tutto deve entrare nel suo dominio. Dove cessa la storia, egli incomincia; dove la poesia sdegna di entrare, egli si avanza. Nessuno può dirgli: — fin qui e basta. — Basta? Quanto ha la scienza con le sue scoperte, la filosofia con le sue investigazioni, la natura con i suoi incanti, il cuore dell'uomo con le sue passioni, la società con le sue ipocrisie, tutto gli appartiene, tutto descrive, analizza, scruta.

Ha la tavolozza del pittore e i ferri del chirurgo; lo slancio del vate e la pedanteria del critico; la baldanza del giovane e l'esperienza del vecchio.

Quando nacque il romanzo?

La storia letteraria non ne registra l'atto di nascita e scusa la sua ignoranza col dire che i natali sono oscuri, molto oscuri: il romanzo è un trovatello.

Calunnia! Il romanzo non è nato nel tempo, è nato con la natura, con l'uomo; è nato quando nacque l'amore, quando nacque la poesia.

Si potrebbe dire: gli antichi non lo conoscevano. È vero. Il romanzo non ha mai avuto una personalità propria: è stato sempre un modesto operaio nell'officina dell'arte, con l'incarico di spargere sentimento e fantasia sugli altri generi [250] letterari. Dove non troviamo il romanzo? Egli vivifica la mitologia, abbellisce la storia, aleggia nel poema, cinguetta nella canzone, informa la tragedia. Che cosa sono quelle leggende-misteri dei primi secoli dell'Êra Cristiana, quei racconti cavallereschi del Medio Evo, quelle patetiche istorie di amore, quelle grasse novelle in prosa e in versi?

È il romanzo che si lascia svisare dal misticismo, soffocare dalle favolose imprese eroicomiche, diluire in due o trecento strofe più o meno monotone o licenziosette. Non aveva la coscienza della sua nobiltà, del suo valore; gli mancava il coraggio di dire una buona volta: — Io posso vivere da me, posso dilettare, istruire, educare! —

Ma venuto il secolo XIX, secolo di rivendicazione sociale, il romanzo ottiene i suoi diritti. Ammesso ufficialmente nello Stato Civile dell'arte dallo Scott, preso a battesimo dal Manzoni, confirmato dal Balzac, incomincia a vivere di vita propria ed acquista una vitalità maravigliosa. Poeti, storici, uomini politici, eruditi, filosofi, critici non sanno resistere al suo fascino e diventano romanzieri.

Il romanzo impera, trionfa dovunque. Storico in Inghilterra, sociale in Francia, sentimentale in Germania, conserva l'impronta nazionale; ma, ispirato dagli stessi bisogni, governato dalle medesime leggi, è l'eco della nuova vita, della nuova civiltà.

È aristocratico, è democratico il romanzo? Nè l'uno nè l'altro. Disconosce questa divisione, dovuta [251] semplicemente alla vana superbia di pochi, alla tirannica ambizione di molti. Il romanzo è umano, vuole l'uomo. Venga dalla capanna o dalla reggia, si nasconda sotto le vesti di un galeotto o di un vescovo, il romanzo l'accoglie. I suoi protagonisti, tolti all'aratro, alla rete, alle officine hanno una finalità ed una missione, perchè la vita ha doveri sacri per tutti, nè fu data per sollazzo ad alcuni e per espiazione ad altri.

***

Quale benefica innovazione apporta il romanzo! L'arte è stata sempre aristocratica, ha illuminato sempre le grandi vette della scala sociale, trascurando due esseri: il popolo e la donna.

Potreste dire: la poesia non ha mai trascurato la donna. È vero, ma avrebbe fatto meglio a trascurarla.

Se la donna non ha coscienza di se stessa, se è vanitosa, leggiera, pettegola, colpa dei nostri poeti, che vollero vedere in lei non una compagna, ma una bambola, senza mente e senza cuore, una cosina dolce e delicata, un grazioso gingillo.

Si è detto sempre: la poesia ha spiritualizzato la donna. Non è vero; l'ha sacrificata, l'ha snaturata, l'ha resa inerte. Schiava della propria ignoranza, schiava dei suoi e degli altrui pregiudizi, la donna si sentì chiamare angelo, fu esaltata, ebbe ammiratori e cortigiani, ma non visse.

[252]

Noi ricordiamo Beatrice, Laura, Margherita, Elvira, Silvia e tante altre come grandi ispiratrici del genio, ma che cosa pensavano, che dicevano, che operavano, queste donne? Niente; si lasciavano amare, si lasciavano rinchiudere in una nicchia di oro.

Il romanzo riabilita la donna. Non più gemiti petrarcheschi, sospiri metastasiani, belati arcadici. Addio Eleonora, Andromaca, Didone, Angelica, Bradamante, Sofronia, Clorinda! Addio bellezze languide o tiranne! Il romanzo vi scaccia. Il romanzo affida alla donna lo scettro reale della famiglia, e le ricorda i grandi doveri e la grande responsabilità nella vita domestica e sociale. Il mondo non ha bisogno di mute ispiratrici, ma di operose educatrici!

Lo chiamano figlio dell'epopea, il romanzo. Forse è vero, ma il figlio non ricorda la madre. L'epopea, solenne, canta le battaglie di Achille, di Orlando, di Goffredo; il romanzo non ama gli elmi e le corazze, non si mette a servizio di una classe privilegiata, egli canta le lotte, i dolori le battaglie, le vittorie di tutta la società umana.

Col pretesto di una favola, di un idillio, di una novelletta, affronta i più gravi problemi sociali: è filosofo e scienziato, è statista e legislatore. Lo storico futuro, invece di seppellirsi nelle tetre mura di una biblioteca per decifrare manoscritti e lettere, dovrà leggere i romanzi dell'epoca nostra. Qui troverà i contrasti, gli urti [253] della vita moderna; a traverso queste pagine, frementi di vita, dense di concetti, calde di passione, egli sentirà l'eco di quell'anima collettiva, che crea i grandi avvenimenti politici e forma la storia.

Oggi non si scrivono trattati, non si discute nelle accademie, non si ciancia nei congressi, non si predica nelle piazze: si detta un romanzo. Per accusare o difendere, per protestare o secondare: il romanzo. Chi ha un principio da sostenere, un sistema da propugnare, ricorra a lui, al propagatore di tutte le verità, di tutti i paradossi, di tutte le utopie!

Sentite: se Dante fosse vissuto ai tempi nostri avrebbe scritto un romanzo, non un poema. Così la Divina Commedia non sarebbe il patrimonio di pochi studiosi, ma il libro di tutti!

Ed è giusto. Il romanzo è la lettura favorita di ogni classe sociale. Il letterato lo studia, lo scienziato l'esamina, il critico lo scompone, il pubblico lo legge, semplicemente lo legge, correndo con lo sprone ai fianchi per sapere “come andrà a finire„. La vita reale è monotona, molto monotona e il pubblico ricorre al romanzo per interrompere quella monotonia. Non chiede arte, caratteri, costumi; vuole qualche cosa che lo diverta, che lo commuova. La ragazza vuole un confidente, un compagno alle proprie fantasie; il giovine un consigliere nelle prime armi dello amore e della vita; l'uomo d'affari un narcotico; [254] l'uomo di mondo uno scandalo; l'operaio un conforto, talora un eccitamento, talora un'istruzione; l'ozioso un complice per ammazzare meglio il tempo; l'illuso l'incarnazione di sè stesso; il sentimentale, emozioni e sogni; l'asceta un lembo di cielo; l'anarchico una dinamite!

E il romanzo contenta tutti; angelo o demone, consola, seduce, inganna, istruisce, burla, ride, sogghigna.

Ecco perchè il romanzo domina, signoreggia e dispone dei pochi ozî della vita moderna. A chi ruba anni, a chi mesi, a chi giorni, a chi ore tutti pagano il loro tributo al novello Cesare.

Qualcuno per darsi l'aria di uomo serio dice: “Io non leggo romanzi„. Non gli credete; quel signore o mentisce o è un analfabeta.

Di grazia, che cosa si legge in villeggiatura? un romanzo; nelle notti d'insonnia? un romanzo; dopo un alterco con la vostra signora? un romanzo. Il romanzo entra nell'intimità della nostra vita familiare; è il compagno delle nostre piccole gioie, dei nostri piccoli dolori.

Ma il romanzo non è contento ed ha ragione. Dispone del nostro tempo, sissignore; ma di quale tempo? Di quello che si passa in casa. Difatti il romanzo si legge a tavolino, magari passeggiando per la stanza, magari sdraiato sull'erba o sulla poltrona, magari a letto, in attesa di Sua Eccellenza il Sonno, magari... voi m'intendete; ma in mezzo alla strada, in trattoria, in tram, è prudente [255] leggiucchiarne sia pure una pagina? Leggere un romanzo in un restaurant, dopo aver fatta una colezione di caldo o di freddo? Sarebbe una pazzia. Leggere un romanzo in un salone, mentre il barbiere prepara il ferro del supplizio? Fareste ridere.

Eppure quei minuti di ozio, di riposo, di aspettativa gli fanno gola; li vorrebbe per sè. Ma è impossibile. Impossibile? Sapete che fa quel furbo? Si presenta al giornale e gli chiede un posticino a piano terra. Vi si adatta come in una bara, fa il morto, ma ottiene l'intento. Egli può così rubarvi i pochi ritagli di tempo, può accompagnarvi dovunque: al teatro, al circolo, in ferrovia!

***

Ma strano. Il romanzo non gode le simpatie di tutti. Pochi l'onorano, molti lo respingono, moltissimi lo odiano a morte. Chi lo fugge, chi lo teme, chi lo guarda bieco, chi ne dice corna. Il romanzo! Dio mio, è l'istigatore di tutte le lordure, il responsabile di tutte le sconce e delittuose anormalità! Lui il galeotto, il tentatore, il seduttore, il mezzano, il manutengolo. Chi ha portato questa grande corruzione sociale? il romanzo; chi turba la pace delle famiglie? il romanzo. Novello Satana, parla all'orecchio dei figli di Eva in un linguaggio malignamente bello: li alletta, li seduce, li precipita nella colpa. La statistica [256] degli adulterî, delle fughe, dei ratti, dei divorzi, dei liberi amori, dei suicidî, dei delitti passionali è terrorizzante? Ringraziatene il romanzo. I nostri giovani sono fiacchi, svogliati, sensuali? Colpa del romanzo. Le nostre fanciulle sono nevrasteniche, spudorate, morbosamente sensibili? Il romanzo, il maledetto romanzo. È lui che distrae, che snerva, che stilla nella mente certe ideacce, che solletica certi istinti!

Di qui un odio spietato contro il povero romanzo. Gli oratori sacri arrotondano la voce e danno scomuniche a chi legge, a chi scrive, a chi stampa, a chi compra, a chi vende romanzi. I Procuratori Generali, non sanno inaugurare l'Anno Giuridico, senza scagliarsi contro il povero romanzo. I babbi e le mamme sono tutt'occhio per non far cadere nelle mani dei figliuoli questi libri, causa di tutti i mali.

Ricordo. Un direttore di una importante azienda di generi alimentari, nell'ammettere un operaio, gli rivolgeva una sola domanda: “Leggi romanzi?„ Se il mal capitato rispondeva no, era il benvenuto, se rispondeva si, fuori! Chi legge romanzi è traviato!

Ma si finisca una buona volta di condannarlo alla pena capitale. Ci sono romanzi cattivi; ma non ci sono novelle cattive, poemi cattivi, storie cattive? Quale delle forme letterarie ha potuto sempre tenersi immune da questa lebbra di cui accusiamo il romanzo?

[257]

Si dirà: nel romanzo questa lebbra è maggiore. D'accordo. Ma che colpa ha il romanzo se molti, che non sanno nè di arte nè di buon costume, per battere moneta, per acquistare un po' di popolarità, mettono fuori sudiciume?

Alzate la voce contro i romanzi cattivi, bruciateli, distruggeteli, ma non calunniate questo genere letterario, che ha tante benemerenze. Che? vi siete dimenticati che i “Promessi Sposi„ l'“Ivanhoe„, la “Capanna dello Zio Tom„ sono romanzi?

***

Ma bisogna confessarlo: certi romanzi sono dannosi davvero. Su questo gruppo a destra, per esempio, dovreste scrivere a grossi caratteri: veleno.

Sono romanzi così detti veristi che ci vengono per lo più dalla Francia e che purtroppo trovano imitatori fra noi.

Voi li avete comprati, li leggete, perchè la vostra professione di letterato vi obbliga a scorrere questi libri di moda, ma spesso, dopo una ventina di pagine, dovete interrompere la lettura. La mente è sconvolta: si respira luridume. Sentite quasi il bisogno di spalancare le finestre, di lavarvi le mani e di ripetere come il vecchio Re Lear: “Dammi, o speziale, un oncia di zibetto per purificare la mia immaginazione!„

[258]

Eppure questi libri, che senza pietà e senza veli, con un cinismo ributtante dipingono la parte più selvaggia dei nostri istinti, si trovano nelle mani di tutti. Sono questi i romanzi che oggi si leggono, che appassionano, che seducono: storie volgari, sanguinose, sudice, che dovrebbero far ribrezzo e nausea. Tutto è violento, tutto è anormale. Non trovate una donna onesta. Nevrasteniche, febbricitanti, queste eroine non vivono che di adulterî e di delitti.

Ma dunque la quiete domestica, le sante gioie della famiglia, le azioni nobili e generose sono utopie?

Il Darwin spesso la sera si faceva leggere dei romanzi dalla figliuola, ma ad ogni scena, un po' troppo tragica, esclamava: “Vorrei che una legge proibisse nei romanzi le soluzioni tragiche. Siamo così afflitti, assistiamo a tante sciagure! Almeno le vicende immaginarie dovrebbero consolarci e infonderci nuovo coraggio!„

Povero Darwin! che avrebbe egli detto di certi romanzi moderni? Oggi i libri dello Scott, del Grossi, del D'Azeglio non si leggono più: sono racconti troppo patetici, idillî troppo dolci! Lucia, Bice, Ginevra sono delle fanciulle poco interessanti, perchè hanno molto... pudore!

Il babbo faceva la voce grossa e vi guardava bieco, vedendo sul vostro tavolo da studio Nostra donna di Parigi o Beatrice Cenci, che, se abusano di situazioni mostruose, non tentano conciliare [259] una simpatica ammirazione per uomini carichi di scelleratezze. I nostri antichi maestri chiamavano pericolose Le ultime lettere di Iacopo Ortis, perchè rappresentano troppo al vivo la disperazione di un amore ostacolato e infelice; ma quelle lettere hanno pure dei nobili scatti di amor di patria.

Nel romanzo moderno invece tutto è amore, amore, amore! Ma un amore morboso, traviato, snaturato, che si alimenta di vizio e di sudiciume.

Il Manzoni soppresse nei suoi Promessi Sposi ogni scena d'amore, perchè secondo lui, “ve ne ha seicento volte più di quello che sia necessario alla nostra riverita specie„ e aggiungeva: “vi hanno altri sentimenti, dei quali il mondo ha bisogno e che uno scrittore secondo le sue forze può diffondere un po' più negli animi, come sarebbe la commiserazione, l'affetto al prossimo, la dolcezza, l'indulgenza, il sacrificio di se stesso„.

Il Manzoni aveva torto e pochi anni fa glielo disse pubblicamente un suo discepolo ammiratore, il Fogazzaro. Siamo d'accordo. Il Manzoni si fe' vincere dagli scrupoli religiosi e giunse agli estremi. L'amore è necessario nella vita e nell'arte; ma perchè ritrarlo nelle sue anormalità, nei suoi pervertimenti? Perchè parlare di certi luoghi, di certe donne, che la pubblica moralità confina negli angoli più remoti?

Non sono romanzi questi, ma rapporti che si scrivono da commissarî di polizia, tesi criminali, in [260] cui si studiano le coppie degenerate, composte di un individuo forte — l'incubo — e di un debole — il sùccubo — il quale, come un automa, è trascinato al vizio e al delitto.

Non si parla che di delinquenti. E tutto lo studio, tutto lo sforzo si mette nel dipingere a vivi colori, con richiami violenti, ciò che vi è di disordinato e di vizioso nella nostra natura.

Oggi tra i romanzieri c'è come una forsennata emulazione a chi osa scandali più procaci e inauditi, a chi narra fattacci più osceni, con una tale sozzura di linguaggio da farne arrossire un consesso di vetturini. Si aggirano tra sciocchi e mariuoli, tra perfidi e balordi, tra mezzani e cortigiani; non una persona di garbo o assennata: tutti pervertiti o maniaci!

“Se dovessi scrivere un romanzo — esclama sconfortato il Martini — mi sentirei imbrogliato. Dove, andrò a pescare tante turpi passioni, tanti istinti brutali, tanta sconcezza di parole? Come impasterò io tanto fango e tanto sangue?„

È arte questa? Non lo so, nè voglio saperlo. Dico solo: se v'è arte, è arte malsana. I moderni hanno voluto correggere l'antica formola manzoniana ed hanno detto che l'arte sdegna di servire a chicchessia: essa è sovrana assoluta. Sia pure, ma abbia la dignità di una sovrana, non discenda dal trono per rendersi complice e mezzana di turpitudini!

Malauguratamente vi è un contagio per lo spirito [261] come per il corpo. A furia di dire che la società è corrotta, ipocrita, siamo diventati un po' tutti pessimisti e miscredenti.

Oh! si alzi una voce in nome del buon costume. Noi vogliamo l'arte consolatrice, l'arte che ci rende buoni, l'arte che educa e nobilita, l'arte dei padri nostri!

L'Italia è il grande giardino dell'Europa, sia ancora il giardino dell'arte sana, ossigenata, vivificatrice. È bello il nostro cielo, è ridente la nostra primavera, sia bella e ridente l'arte nostra!

***

Lo dico con rincrescimento: il romanzo decade. Dopo un periodo glorioso di vittorie, pare che sia giunto anche per lui il fatale Waterloo.

Ogni anno se ne pubblicano migliaia e migliaia. Dalla Francia, dalla Germania, dall'Inghilterra, dalla Norvegia e sorella, dalle Americhe, ne arrivano a balle; le vetrine dei librai ne sono piene zeppe; giornali e riviste si affrettano a darne recensioni più o meno compiacenti, ma questi romanzi vivono poco, molto poco. Appaiono nel cielo letterario come luminose meteore, come stelle filanti, e poi addio per sempre. Sono fiorellini. Hanno una primavera più o meno ridente, ma segue sempre l'estate che li dissecca e l'inverno che li fa marcire.

E perchè? Prima di tutto, nella maggior parte [262] dei romanzi moderni manca l'arte. Ci sarà qualche pagina bellissima, qualche carattere ben delineato, qualche descrizione ben colorita, ma il resto è tesi. Il romanziere s'impressiona della tesi, considera il romanzo come un'arma e trascura l'arte. Che ci sia la tesi, ma che ci sia anche l'arte! Noi non domandiamo se chi scrive è un socialista, un liberale, un cattolico, un rivoluzionario; vogliamo che sia innanzi tutto un artista. Gli artisti sono pochi, i romanzieri molti: ecco perchè il romanzo decade. Colpa sua! Si è lasciato un po' vincere dal cuore, ha voluto far buon viso a tutti, accogliere tutti, e questi signori tutti gli preparano la tomba.

E i pochi artisti, quelli che dovrebbero sollevare il romanzo e infondergli una nuova vitalità, seguono la moda. Pagani adoratori della forma, non ricreano lo spirito, lo tormentano. Analisi, analisi, analisi, sempre analisi! Bandito il contenuto storico, il romanzo è diventato un documento, un freddo documento. C'è l'arte, ma quest'arte nulla dice al cuore, nulla all'intelligenza: è un'arte che non solleva, è un'arte che ci tira maledettamente alla terra. I personaggi di questi romanzi sono fuori della natura e fuori della storia; noi non li abbiamo mai visti, non li vedremo mai nella vita.

Il romanzo dunque se ne va; se ne va, perchè il positivismo lo scaccia, dopo averlo maturato; se ne va, perchè oggi prevale il pensiero [263] filosofico sul pensiero realistico, l'attitudine speculativa sull'inventiva; se ne va, perchè noi moderni non vogliamo più opere di immaginazione e di sentimenti. Il problema sociale, i nuovi portati della scienza ci hanno reso troppo seri e troppo pratici. Oggi è lotta su tutta la linea: lotta di idee, di principî, di sistemi, che paralizzano la vita artistica e letteraria.

Finanche il grosso pubblico, che ieri leggeva con tanta avidità romanzi, oggi non vuol perdere il suo tempo con effimere commozioni. Preoccupato per la ricerca di una più nobile e giusta forma di convivenza civile, lotta per i suoi ideali politici ed economici. Non vuole diletto, svago, ricreazione; vuole miglioramento.

Invano il romanzo lo tenta con le sue analisi psicologiche, con la tesi, con il documento; invano gli susurra all'orecchio: “Io sono con te, io propugno i tuoi interessi!„ Il pubblico vuol far da sè: ha la camera del lavoro e lo sciopero!

Potreste dirmi: “Ma che cosa legge questo pubblico nelle poche ore di riposo? che cosa legge il dopo pranzo, che cosa legge nelle lunghe ore d'inverno?„

Per i ritagli di tempo ha il giornale; il giornale che lo seconda, che lo difende, che lo informa minutamente di tutto ciò che succede intorno a lui. Il giornale è pratico; non fantastica, non sogna, non inventa, non si culla in vane [264] aspirazioni: è la sentinella che veglia, il giudice che condanna, l'avvocato che perora, il tribuno che fulmina, il poliziotto che spia.

Il pubblico non sa che farne di romanzi; vuol sapere invece che cosa ha combinato il nostro Governo con l'Argentina, che fa la Germania nel Marocco e l'Austria in Albania. E poi, la “S. Giorgio„ si salverà? A novembre avremo la riforma elettorale? In Inghilterra è terminato lo sciopero? I tranvieri hanno vinto a Napoli? Questo vuol sapere il pubblico.

Dunque il romanzo muore?

No. Consolatevi, o anime sitibonde di storie pietose e commoventi; il romanzo non muore. Dopo questo periodo angoscioso di ansia e di aspettative, verrà un'ora di pace e di riposo per tutti. Ed allora risorgerà il romanzo, il vero, il grande romanzo, che i nostri figliuoli metteranno a fianco all'Iliade, alla Divina Commedia, ai Promessi Sposi!

[265]

I Pedanti.

Con questi signori c'è poco da scherzare. Sono inesorabili e non la perdonano a nessuno.

Il Malherbe era agonizzante e sentendo pronunziare dalla domestica un solecismo, s'alzò furioso dal letto e la riprese acerbamente.

“Come mai — gli disse con dolcezza il confessore che lo assisteva — in un momento solenne come questo, avete cuore d'occuparvi di cose così frivole?„

— Ah! Padre, — rispose il Malherbe — io difenderò anche nel mondo di là la purezza della nostra lingua —

Ecco l'ufficio dei pedanti: difendere ad ogni costo la lingua. Non discutono, non vogliono affatto entrare nelle vostre quistioni storiche, letterarie e scientifiche. Siate cristiani o buddisti, atei o asceti, poeti o storici, romanzieri o filosofi; [266] essi vi fanno una sola domanda: “Come parli?„

Il pensiero lo lasciano a voi. La loro inchiesta minuta, scrupolosa, incessante è sulle parole, sui costrutti, sui reggimenti, sulle particelle.

E non ci sono difese che valgano. Tutti debbono parlar bene, tutti, anche gli animali. Sì, se sono animali domestici, se vivono in casa, a nostre spese, debbono rispettare la lingua. Non lo dico per celia. Mauro Ricci racconta un aneddoto curioso. Sentite.

Un pedante se ne sta alla finestra a godersi il fresco mattutino. Un suo galletto viene fuori con uno acuto chicchirichì. “Chicchirichì! — esclama lui, — vediamo un po'.„ Inforca gli occhiali ed apre il grande dizionario della Crusca. Chi, chi, chi... finalmente trova Chicchirichì — voce fatta per esprimere il canto prolungato del gallo.

Il nostro uomo non sta nei panni, corre alla finestra e grida: “Sì, sì, hai ragione! Bravo, bravo il mio galletto, ripeti il tuo chicchirichì!„

Ma proprio in quel momento una pettegola di gallina si mette a schiamazzare: coccodè, coccodè!Coccodè, no, non mi pare!„ Inforca di nuovo gli occhiali e ritorna alla Crusca-vangelo. Co, co, co..... Il suo volto si rannuvola, la mano gli trema. Che è successo? Questo benedetto coccodè non è registrato.

“Lo avevo detto io!„ e come un pazzo va alla finestra e grida: “Taci, taci, ignorantaccia!„

[267]

La gallina invece seguita a fare il suo comodo.

“Ah! sei dura? Adesso ti servo io!„ e a tutto fiato grida: “Teresa! Teresa!„

Corre spaventata la domestica.

— Padrone!

“Teresa, tira il collo a quella gallina.„

— La faremo a lesso?

“Nossignore, tirale il collo e gettala ai cani. Non ne mangio di quella roba, io.„

— Ma, signor padrone.....

“Meno ciarle, ai cani, ai cani!„

La domestica, forse abituata a simili stranezze, esce dalla stanza; ma il padrone la richiama.

“Teresa, stamattina doppia razione al gallo. Quel gallo merita tutti i riguardi.„

Fortunatamente di questi ultra-pedanti ne abbiamo avuti pochi; pochi sono arrivati a mandare alla forca una povera gallina e a nominare Commendatore un gallo, ma tutti sono inesorabili.

Il giudice spesso si commuove ed assolve, il critico, anche il più severo, alle volte si impietosisce ed ha una parola di semi-lode per un povero diavolo; il pedante, no, non transige. Ha giurato eterna fedeltà alla sua sposa: alla lingua. Egli non giudica, controlla; non esamina, verifica. Siete un bravo scrittore, i vostri libri vanno a ruba? Ma se disgraziatamente vi sfuggono due o tre francesismi, addio! Il pedante vi chiama barbaro e vi scomunica. E non c'è acqua lustrale che vi purifichi. Voi non siete degno di [268] essere chiamato scrittore, voi non avete studiato a dovere la lingua!

***

Ma è davvero curioso il pedante! Egli divide le parole in categorie: parole rozze e gentili, aspre e dolci, nobili e plebee, in uso, fuori uso, in disuso: tollerate, decadute, morte; e di ogni parola vi fa la storia, vi racconta le scappate, le avventure, i torti, i soprusi. Aggiungi poi le simpatie e antipatie. Questa parola è italiana italianissima ma è antipatica. “Non adoperate mai la parola truppa — sentenziava il Puoti — essa mi ricorda trippa!

Il Salvini ad un modesto letterato, che aveva sottoposto al giudizio di lui certe novelle, diceva: “Non c'è male, ma noto una scarsezza di si; spargetene a larga mano. Il si è un aroma„, e si lambiva il labbro superiore come se avesse gustato davvero una ciambella.

Il Napione non predicava che guerra ai francesismi; ed era divenuto così furibondo contro la nostra Consorella da preferire in Piacenza l'antico ponte di legno al bellissimo ponte di pietra, solo perchè quest'ultimo fu fatto costruire dal Bonaparte francese.

Paolo Brozzolo padovano traduce una, due, tre, undici volte Omero e in ultimo si scanna, perchè non è contento del suo lavoro!

[269]

Del Padre Cesari non ne parliamo. Il poveretto compone, traduce, insegna, discute, prega, sogna nella lingua del trecento. Con una pazienza da cappuccino raccoglie tutte le frasi, i proverbi, gl'idiotismi che si leggono nel Decamerone, nello Specchio della penitenza, nelle Vite dei Ss. Padri, nei Fioretti di s. Francesco e dice: “Se volete scrivere bene, ecco il materiale!„ Il poveretto non sa prendere la penna in mano, senza ricorrere al trecento: là le perle e l'oro di lega. Traduce le Lettere familiari di Cicerone e le imbelletta di frasi auree. Cicerone, ad esempio, scrive ad Attico che vorrebbe volentieri maritare la sua Tullia; e il Cesari spiega: “cavami, se nulla se ne può fare, questo cocomero di casa„. Traduce le Commedie di Terenzio e le lardella di motti triviali e plebei. L'autore latino scrive: “Dii deaeque perdant„; lui spiega: “Ti venga il cacasangue„; un personaggio in fine di vita esclama: “Pereo„, il nostro pedante gli fa dire “Puoi andar per il prete„. Prete! Quale prete? se al tempo di Terenzio non c'erano ancora preti! “Silenzio! — ci grida il Cesari — io muoio„ è un modo di dire molto comune, “puoi andare per il prete,„ è una bella frase.

Era un brav'uomo il Padre Cesari. Di animo mite non avrebbe dato fastidio all'aria, nè serbava rancori con quelli che lo deridevano. Soleva dire, come il Divino Maestro, perdonate loro, perchè non sanno quello che si fanno. Ma quando [270] si trattava di lingua, addio calma, addio pazienza: diveniva una belva ed era capace di gettare alle fiamme opere pregevolissime, in cui la forma non fosse stata secondo il suo gusto. Curioso nei precetti di retorica. Domandategli che cosa è l'eleganza. Vi risponde subito: “Per eleganza io intendo un'ispezialità, un certo spirito che ricevono le parole da certi congiungimenti, onde pigliano un certo lustro„. Vi siete persuasi? l'eleganza è composta di tre certi, che messi insieme producono.... l'incerto!

E il Puoti? La parola era per lui qualche cosa di luccicante come l'oro. Perdonava le sgrammaticature, gli errori di ortografia, ma era inesorabile con la lingua e con lo stile. La sua ricetta era questa: studiare gli scrittori del trecento, prima quelli di stile piano, poi quelli di stile forte, poi quelli di stile fiorito, in ultimo, come piatto dolce, Dante e Boccaccio.„ Il Marchese — dice il De Sanctis — faceva un minuto esame delle parole, parte benedicendo, parte scomunicando. Questa è parola poetica, questa è plebea, questa è volgare, questa è troppo usata. L'è un arcaismo! L'è un francesismo! Accompagnava queste sentenze con lazzi, esclamazioni e pugni sulla tavola. Spesso stava una mezz'ora ad acchiappare una parola o una frase che non voleva venire e tutti gli scolari a suggerirgli e lui a dar col pugno sulla tavola e a gridare: No!

Il povero Villari aveva scritto in un suo lavoro: [271] “alcuni studiano la teologia o la medicina o la giurisprudenza„; il Puoti corregge: “sono di quelli che studiano la divinità, di quelli che danno opere alle mediche scienze, molti alla ragione civile e ai canoni„.

Ma oggi chi studia più le Grazie del Cesari e l'Avviamento al ben comporre del Puoti? Ieri erano consultati come oracoli e condannavano spietatamente, oggi destano un senso d'ilarità.

Poveri pedanti! Credevano che la lingua italiana fosse una lingua morta e perciò vestiti di toga volevano conservarne il sepolcro.

Ma la nostra lingua è sempre giovane, come la natura, e sorride in una eterna primavera di amore e di gloria, mentre quei poveri pedanti stanno là, nella vostra libreria, come sovrani spotestati, cui non resti che una vecchia corona di bronzo e una spada arrugginita!

***

Ma non li mettiamo alla berlina.

Sono originali, è vero, sono curiosi, bizzarri; ma un po' di bene l'hanno fatto.

Noi italiani siamo stati molto disgraziati nella lingua. I Francesi, i Tedeschi, gli Spagnuoli — che oggi con tanto entusiasmo inneggiano alla nostra indipendenza! — tra gli altri servizî vennero pure ad imbastardirci la lingua. Ci toglievano la libertà, spogliavano i nostri musei, le nostre chiese, [272] ci gravavano di balzelli e in ricompensa ci regalavano... parole.

Da una parte i dialetti, da l'altra le invasioni: la nostra povera lingua divenne “un'insalata di molte erbe.„

Che Torre di Babele! E questa torre era così alta che si mise in campo una graziosa novella. Si disse: dovete sapere che Domineddio, quando vide che tutto il mondo si era popolato, prese con sè delle boccettine, in cui aveva racchiuso le semenze di tutte le lingue e le andò spargendo per le nazioni. Dove buttò semenza d'inglese, ivi si parlò inglese, dove spagnuolo, spagnuolo. Giunto in Italia, o che gli girasse il capo, o che gli tremassero le mani, o che volesse farci un brutto scherzo, il certo si è che gettò un poco di ciascuna semenza. Ecco perchè da noi si parla un po' francese, un po' tedesco, un po' spagnuolo. Che volete? Si tratta di semenze. Se piantate cavoli, non potranno venir su patate!

Ma pochi prestarono fede a questa fiaba. Che semenze e semenze! Noi abbiamo una lingua come tutti gli altri popoli. Vi siete dimenticati di Dante, dei Petrarca, del Boccaccio?

E vennero su leggi eccezionali. Rigore su tutta la linea. Si scomunicarono gli scrittori un po' di maniche larghe, si chiamarono barbari quelli che avevano dato ospitalità a qualche vocabolo estero. Batti oggi, batti domani: ecco l'idolatria, ecco i pedanti.

[273]

Naturalmente si passò da un estremo all'altro; e, come sapete, gli estremi sono sempre dannosi.

Questo rigore eccessivo, queste scomuniche purificarono la lingua, sì; ma la resero artificiosa e manierata. Il pedante, lasciandosi abbagliare da quel falso splendore che la parola ha in sè, dimenticò il pensiero.

Catone sentenzia: “Studia la materia, la parola viene da sè„. I pedanti invertirono i termini: “Studia la parola, la materia viene da sè.„

Spesso questa benedetta materia non veniva. Peggio per essa; se ne faceva a meno.

Ecco perchè da noi abbondarono le traduzioni. Quando non si sa pensare con la mente propria, si pensa con la mente degli altri, si traduce, si rivestono con abiti paesani i classici latini e greci. Virgilio, Ovidio, Orazio, Cicerone, Pindaro, Anacreonte, divennero fiorentini. Anche Tacito, il burbero e severo storico, dovè lasciare la toga romana e accettare dal Davanzati un abito alla moda. Il Davanzati non è un pedante professo, ma diviene tale per quella famosa scommessa. Si diceva e si dice tuttora che la lingua latina è concisa, l'italiana ciarliera. Il Davanzati ci vuol dar la prova del contrario. Si mette a tavolino e traduce Tacito con minor numero di parole.

Il Giordani n'è entusiasta e dice che la traduzione del Davanzati è “una miniera preziosa, copiosissima di lingua nobile„. Sia pure, ma è più Tacito? Neppure per ombra. E così potremmo [274] dire di molte traduzioni che si leggono, si studiano e di cui si fa il panegirico.

Altri invece non si limitarono a tradurre, vollero comporre.

Fino a pochi anni fa il Bartoli stava sugli altari ed anche oggi c'è in Italia chi sostiene che le opere di lui sono esempio di bello scrivere. Fatemi un favore: leggete una pagina dell'Asia. Che arteficio! Vuol sembrare semplice, ma è ampolloso. Ciò che in Boccaccio e negli altri trecentisti è arte, qui è maniera.

Il Bartoli scrive per far pompa di tutto quel bagaglio di belle frasi, pescate nei classici. Il suo scopo non è di “dare gloria a Dio e lustro alla Congregazione„, ma di far vedere come maneggia la lingua, come arrotondisce i periodi, come snocciola gl'idiotismi.

Il Giordani (sempre lui!) gli canta un solenne Te Deum; noi... un De profundis. “Il Bartoli — esclama — è singolare in questa grande arte di scrivere, non pur tra gl'italiani, ma in tutto il mondo, terribile, unico!„

Forse questo panegirico, in forma di epigrafe, fece gola al P. Bresciani, il quale volle ad ogni costo imitare l'illustre confratello. Se ne andò per molti anni in Toscana per una cura termo-linguistica, ingoiò frasi, frasi, frasi e quando si sentì ben nutrito, giù novelle, romanzi, viaggi. Il Giordani si scandalizzò. “Insolente! vuoi imitare il Bartoli? [275] Credi tu che somiglianza di berretto faccia somiglianza di cervello?„

Calma, calma, abate Giordani, entrambi hanno berretto ed entrambi... poco ingegno! L'ingegno non si misura dalle frasi, dalle descrizioni, ma dal pensiero. A tutti piace la lingua, a tutti piace la pulizia e l'eleganza di linguaggio; ma la troppa ricercatezza riduce l'arte dello scrivere a un giuoco di parole.

“Noi — dice il Guerrazzi — restiamo sempre in dubbio se la parola che si adopera sia o non sia di buona lega, e il pensiero aspetta fremendo che noi abbiamo esaminato prima se la veste, con la quale anela prorompere, sia veramente italiana. E intanto, mentre apparecchiamo la veste, il pensiero per eccellenza s'è dileguato e troppo spesso avviene di vestire cadaveri!„

Ma al pedante interessa poco che “il pensiero etereo per eccellenza„ si dilegui. Buon viaggio! Finchè la lingua è viva, pulita, elegante, non ci sono cadaveri!

Errore. Sono cadaveri! Tanto è vero che i libri del Bartoli, del Bresciani ecc. non si leggono: riposano e riposeranno per sempre!

***

Oggi ne abbiamo pedanti? No.

Fino a pochi anni fa avevamo i puristi; oggi anche i puristi sono andati via o non hanno il [276] coraggio di aprir bocca. La letteratura in genere e la linguistica in ispecie è in ribasso. Chi volete che studi la lingua? Bisogna pensare al suffragio universale, al feminismo e a tante altre cose belle e brutte. Che lingua d'Egitto! Ognuno parli e scriva come meglio gli aggrada. Francesismi! È più tempo di parlare di francesismi? Con i Francesi siamo fratelli germani, con i Tedeschi alleati, con gl'Inglesi, eh! con gl'Inglesi amicissimi! In somma noi siamo una sola famiglia e in famiglia tutto è comune, o meglio è comune... la lingua!

[277]

I libri che non si leggono.

Voi siete una persona colta, avete comprato molti, moltissimi libri e continuate a comprarne; ma ditemi la verità — così a quattr'occhi, veh! nessuno ci sente ed io vi prometto di mantenere il segreto — tutti quei libri li avete letti?

Fate un breve esame di coscienza e poi rispondete, o meglio non rispondete, perchè direste una bugia!

Noi vogliamo far entrare l'amor proprio in ogni cosa e spesso mentiamo per non compromettere la nostra dignità. Ma, a voler essere sinceri, non tutti i libri che si comprano, si leggono.

Dite un po': quei grossi volumi di storia li avete letti? e quei poemi cavallereschi? e quei poemi didascalici? e quella falange immensa di romanzi e di novelle?

Ma non ci perdiamo in ciarle. Sedetevi a tavolino [278] e fate una minuta e scrupolosa inchiesta su voi stesso, notando sopra un bel foglio di carta i libri che avete letti e quelli che avete solamente comprati, come utensili di lusso. Coraggio! siete solo. Incominciate da quei volumi di destra. Sono le Opere del Giambullari. Dunque segnate sulla carta:

Del Giambullari.... Che? del Giambullari non avete letto neppure una pagina? Ebbene, scrivete: Del Giambullari zero.

Del Thiers.... Che avete letto del Thiers? Un libro solo? Un libro solo. Del Guicciardini due capitoli, del Monti l'Aristodemo, del Pellico le Mie Prigioni e la Francesca da Rimini; metà dell'Odissea, tre o quattro poesie del Prati, due commedie del Molière; del Gioberti il Gesuita Moderno, di Tacito zero, del Petrarca una dozzina di sonetti, dell'Hugo I Miserabili e l'Uomo che ride. Mezz'Asino del Guerrazzi, tre elegie di Ovidio, due canti dell'Eneide...

Continuate, continuate e quando avete finito, tirate le somme.

Vergogna! Sette decimi dei vostri libri non sono stati letti, tre decimi sono ancora intonsi. Ma voi naturalmente non lo dite neppure agli amici più intimi e fate bene, o meglio fate come fanno gli altri. Noi tutti, proprio tutti, vogliamo comparire enciclopedici e far credere che ogni cosa passa sotto i nostri occhi. Tutte le debolezze, tutti i difetti, tutti i vizî si mettono alle volte in piazza, con più o meno ostentazione [279] o sincerità, ma la propria ignoranza, mai. Ognuno di noi vuol sembrare più di quello che è, e in fatto di studio vuol far credere che tutti i libri sono stati letti, studiati, commentati, discussi.

Alle volte — e quante volte — con una faccia tosta diciamo di aver letto quel tal libro, mentre non l'abbiamo mai visto. E di simili peccati ognuno ne ha sull'anima. Io, ad esempio, che mi do l'aria di uno studioso, non ho letto la Storia delle Crociate, la Messeide, le Confessioni e Battaglie, Malombra....

Peccati veniali! Lo so. Oh, che volete che metta in piazza i peccati mortali? Se sapeste, quanti vuoti!... Ma non ne arrossisco. Di fronte a certi peccatori sono un mezzo santo!

Sentite:un maestro elementare — non di quelli, vecchio tipo, che si trovano nelle scuole, perchè un giorno furono a fianco a Garibaldi e fecero, bene o male, un paio di campagne, ma un maestro, tipo moderno, che ha frequentato il corso normale, che ha nella sala da studio tanto di diploma con tanto di cornice indorata, — una sera, non so a che proposito, disse che l'Orlando Furioso è in terza rima. Veramente il poveretto disse: mi pare. Avrei voluto rispondergli: “A me pare un'altra cosa: pare che lei starebbe meglio in una bottega di calzolaio che nella scuola!„

Potreste dirmi: ma scusate, per essere un buon maestro non è necessario sapere se il Furioso sia in terza o in ottava!

[280]

È vero, ma è vero puranche che quel precettore ha studiato e studia con passione i classici nostri.

E di questi ce ne sono!... Quanti, che si atteggiano a letterati, a critici, non hanno letto neppure i quattro Poeti!

Ma basta, basta. Mi accorgo che faccio della maldicenza, e sta male: ce n'è già tanta nel mondo! Io voglio dire semplicemente che noi acquistiamo molti libri e poi non ci diamo la briga di leggerli. Sapete perchè? La maggior parte dei libri si comprano o per semplice curiosità, o per istintiva imitazione, o per errore ingenerato dal titolo, o per un momentaneo entusiasmo.

Un giorno, ad esempio, vi salta il grillo di vedere un po' da vicino la questione sociale. Tutti parlano e scrivono di questa benedetta quistione. Bisogna saggiarne un pochino, tanto per non fare la figura d'ignorante con gli amici, che spesso ne discutono calorosamente.

Comprate così una dozzina di libri più o meno grossi e incominciate a leggere. Ma che! dopo una settimana la smania passa: quei volumi vi annoiano. Sono così strane, utopistiche, cervellotiche quelle dottrine che voi mandate a quel paese tutte le democrazie di questo mondo.

Un altro giorno un amico vi parla delle tante e belle scoperte nel campo astronomico: monti e valli nella luna, canali in Marte, nuovi pianeti, nuovi satelliti. Sta a vedere che in cielo si prolifica come sulla terra!

[281]

Intanto voi siete preso all'amo e comprate subito due o tre trattati di astronomia. Era una vergogna! Ignorare tutto ciò che avviene nel cielo! non ricordarsi neppure la distanza che ci separa dal sole! E così, per mettervi in regola con la coscienza, incominciate a sfogliare questi volumi illustrati e con tavole a colori fuori testo. “Ah! ecco la cometa del 1885! Già, me la ricordo! Com'è curiosa la cometa del 1835! Questi sono i crateri lunari, queste le protuberanze. Bella la nebulosa di Orione! Chi è costui? Giovanni Schiaparelli. È Direttore dell'Osservatorio di Genova; no, di Brera, già di Brera. Che cannocchiale! Ah! questo è il cannocchiale gigante che si sta costruendo a Parigi. Niente di meno farà vedere la luna a un metro solo di distanza...!„

Ma dopo un paio di giorni anche il cielo vi annoia. È tempo di pensare alla luna? Disgraziatamente nella luna ci siamo un po' tutti. E così senza tante cerimonie mettete a dormire anche questi libri.

Viene in voga il Quo vadis. Che bel romanzo! che capolavoro! Quo vadis a destra, Quo vadis a sinistra: non si parla che di Quo vadis. E bisogna convenire, romanzi simili ne abbiamo pochi! Mentre dura quest'entusiasmo, i Fratelli Treves vengono a dirci che hanno pubblicato molti romanzi del Sienkiewicz. Ah, dunque il Sienkiewicz è un romanziere provetto? Già, ha scritto una dozzina di romanzi! Immagino che romanzi! La [282] tentazione è potente. Subito una cartolina vaglia ai signori Treves. I volumi arrivano. Voi vi chiudete nello studio dispostissimo a gustare queste ciambelle polacche. Ma, vedi un po': quanto più si va avanti nella lettura, più vi convincete che i fratelli non rassomigliano al fratello. Tentennando la testa, mettete questi libri nuovi nuovi nello scaffale. Venti lire buttate al vento!

Un altro giorno... ma basta; a dire in pubblico quanti libri avete comprati e quanti ne avete letti vi dareste la scure sui piedi: fareste sapere ad amici e a nemici che la tanto vantata cultura si riduce a zero. E poi, la vostra signora non vorrebbe sentir altro! “Come, comprare i libri e non leggerli!„ E qui una predica con i fiocchi sull'economia domestica per conchiudere che lei è economica e che voi gettate il danaro!

***

Molti libri, elogiati, premiati, messi sugli altari, dichiarati monumenti nazionali o universali, non si leggono.

La Bibbia! Giù il cappello, signori miei. Abbiate o no una fede, la Bibbia incute rispetto e riverenza. Tutti ne fanno il panegirico, tutti la chiamano il libro divino, il libro dei libri, il vero libro dell'umanità. Che miniera inesauribile di bellezze! Il Milton ne trasse il Paradiso Perduto, il Klopstock la Messeide, l'Alfieri il Saul, il Varano i [283] Canti, il Metastasio Abele e Giuditta, il Byron le Melodie, il Rossetti i Salmi e il Veggente: insomma tutti i poeti — primarî e secondarî — ne hanno modellato un quadretto.

D'accordo. Ma chi legge la Bibbia? Se ne pubblicano migliaia e migliaia ogni anno, in italiano, in latino, in greco, in ebraico; chi preferisce il commento del Martini o del Curci, chi, per atteggiarsi a libero pensatore, vuole le note di Lutero o del Diodati. La Bibbia è in tutte le librerie, ma per la maggior parte degli uomini è un mobile, un mobile di lusso: basta possederlo. Si compra, si fa rilegare in pelle e oro e si espone alla comune ammirazione, come un bel quadro antico.

La storia di Adamo, di Caino, di Noè, di Mosè, di Isacco, di Giuditta, di Sansone ecc., l'abbiamo appresa nelle prime classi elementari o ci fu raccontata dal nonno. Ma chi legge i Salmi di Davide, la Sapienza di Salomone, le Lezioni di Giobbe, il Vangelo di S. Giovanni? Se qualche cognizione abbiamo della Bibbia è sempre di seconda mano o per vie indirette: la fonte, la vera fonte è ignorata.

E sia detto fra noi, anche i preti l'ignorano. Essi nelle prediche, nelle conversazioni, ne citano versi e versicoli, ma credete che l'abbiano letto da capo a piedi? Ah! se la Chiesa non avesse imposto la recita quotidiana dell'Ufficio Divino, molti Reverendi non conoscerebbero neppure di nome Davide, Ezechiele e Geremia!

[284]

***

Non mi chiamate pessimista: io credo che si possa dire lo stesso della Divina Commedia.

Il Voltaire scriveva: “Dante entra nelle biblioteche, ma non è letto. Mi rubano sempre un tomo dell'Ariosto, non mi hanno mai rubato un Dante!„

Signori miei, non fate il muso duro. Questa volta il Voltaire ha ragione. Egli non dice che Dante è un poeta da strapazzo, dice solo che in Francia si compra e non si legge. E volete offendervi per questo? E che? forse in Italia non si fa lo stesso?

Noi italiani siamo idolatri del sommo Poeta. Dinanzi alla sua tomba a Ravenna arde notte e giorno una lampada, a cui Trieste nostra manda ampolla e olio.

Due anni fa, si pensò di mettere una targa pel Carducci proprio presso la tomba di Dante. Ci fu un po' di subuglio. Nossignore; il Carducci è un poeta emerito, ma non deve stare a fianco al nostro Vate! La targa si pose, perchè così volle il Consiglio Comunale di Ravenna, ma a parecchi sembrò una profanazione. Dante deve restar solo. Non è mica un pianeta che ha bisogno di satelliti!

Tre anni fa, Catullo Mendes, alla fine di un banchetto, si permise sentenziare che Dante era francese. Il telegrafo ci portò subito la sacrilega [285] asserzione. Dante francese! Chi l'ha detto? Chi è questo pazzo? Si parlava già di duelli, e se il Mendes avesse continuato a insolentire, cento nuovi Guglielmo Pepe erano pronti a sbudellarlo. Ladro screanzato! volerci rubare Dante! E non sa questo signor Catullo che l'Alighieri è per noi come la corona di bronzo di Napoleone? Iddio ce l'ha dato e guai a chi lo tocca!

Ma quanti degli italiani leggono la Divina Commedia?

Alcuni versi del Sacro Poema sono diventati proverbiali e si tramandano di generazione in generazione. Chi, incominciando un elogio funebre non esclama: farò come colui che piange e dice, mentre poi non sa fare nè l'uno, nè l'altro? Chi, trovandosi a corto di argomenti in suo favore, non bolla col nome di invidiosi i suoi avversarî, dichiarando chiusa la polemica col provvidenziale: non ti curar di lor, ma guarda e passa?

Insomma è sempre un verso di Dante, e nei casi solenni, una terzina, che chiude o apre il fuoco in tutte le discussioni scientifiche, politiche o religiose.

E nel campo letterario? Dio mio, i letterati ne abusano maledettamente! Per tutti i bisogni grandi e piccoli, Dante, sempre Dante! Non sanno muovere un passo, non sanno aprir bocca senza ricorrere al gran papà. E come certi oratori sacri, per mantenere in piedi una tesi cervellotica, cercano rafforzarla con qualche sentenza di S. Tommaso [286] o di S. Agostino, così molti conferenzieri ricorrono a Dante, al padrino universale, per essere protetti e difesi.

Eppure, mentre la Divina Commedia è così saccheggiata, è poco letta. Noi abbiamo Cattedre di Dante, Società della Dante Alighieri, ma se togli pochi, proprio pochi, veramente studiosi, che sono chiamati per celia Dantofili, gli altri se ne disinteressano completamente.

La grande sala del Collegio Romano è adibita per le conferenze dantesche, che si tengono per lo più durante la quaresima. E' un sacro ritiro. I tempi mutano; i nostri padri, compunti e contriti, se ne andavano in chiesa, nella quaresima, a sentire l'oratore sacro, il quale cominciava col pulvis es e finiva col resurrexit. Oggi no, si va al Collegio Romano, dove un professore vi legge, vi commenta, vi tagliuzza, vi sviscera un canto del Poema. Il pubblico sempre numeroso. Spesso interviene il Re, la Regina Madre e Figlia, i Ministri, i Presidenti dei due Rami, il Corpo Diplomatico; e quando il conferenziere ha finito, gli applausi arrivano alle stelle: Bene, bene! bravo, bravo! Il Re si congratula, le Regine si congratulano, si congratulano tutti.

Ma credete che fra tutto quel pubblico “colto„ vi siano dieci persone, che abbiano studiata la Divina Commedia?

Questo libro è per noi come l'Arca Santa per gli Ebrei: si adora, ma non si tocca. Si è avuto [287] nelle mani solo nelle classi liceali e, secondo la maggiore o minore pedanteria del professore di italiano, si sono perdute molte lezioni nel fare insulse indagini sul veltro, nello stabilire che cosa rappresenti Beatrice, quali diavolerie si nascondano sotto quel benedetto o maledetto pape Satan, pape Satan aleppe! Oggi si fa un parallelo con il Caronte di Virgilio, domani si mettono in bilancia i demoni di Milton. Infine si apre il libro del dare e dell'avere: qui imita Omero, qui Virgilio, là è stato saccheggiato dall'Ariosto e dal Tasso. Insomma un po' di autopsia, un po' di anatomia comparata e basta.

Conosco un professore, mente vuota addirittura, il quale pretendeva dagli alunni la pianta topografica di tutte le bolgie infernali, e l'anno scolastico passava in questi noiosi esercizi. Forse il disgraziato, temendo che l'inferno sarebbe stata la sua eterna dimora, ne voleva una guida per non smarrirsi!

I tre anni del liceo passano e si dà il benservito alla Divina Commedia, per entrare nella grande e vera commedia della R. Università.

Ma siamo giusti: se questo libro è poco letto, la colpa è dei commentatori e dei maestri. A furia di voler vedere in ogni verso un'allegoria, ci annebbiano talmente l'intelligenza che non sappiamo dove dar di capo. E fossero almeno d'accordo questi signori! No, lì per picca a contraddirsi.

[288]

Il proverbio dice: “Dove molti galli cantano, non fa mai giorno.„ È proprio il caso nostro. La Divina Commedia non appare così luminosa per i tanti galli e capponi che vi cantano intorno.

Si vocifera che a Ravenna debba, quanto prima, sorgere una grande Biblioteca Dantesca. Oltre le edizioni estere e nazionali, raccoglierà i commenti estetici, filosofici, filologici, storici, politici ecc., che saranno naturalmente migliaia e migliaia, giacchè tutti i critici hanno voluto dire la loro parola sulla Divina Commedia.

Ravenna dunque avrà una biblioteca monumentale. Benissimo. Idea degna del nostro secolo. Però vorrei che innanzi al maestoso edificio si scrivesse a grossi caratteri: — Dante e la Torre di Babele! —

***

Sentite sempre dire: “Che vuoi, segue il principio di Machiavelli! È della scuola di Machiavelli! È seguace di Machiavelli!„

Per la maggior parte degli Italiani, Machiavelli è un furbo matricolato, un cinico terribile, un ministro di tirannia, un uomo senza coscienza, senza morale, senza fede. E sapete perchè questo poveretto è così calunniato? Ve lo dico subito: non si legge.

Noi siamo soliti ripetere da pappagalli ciò che ci vien detto da altri. Machiavelli ha scritto: il fine [289] giustifica i mezzi, ciò che giova lice, ecc. Verissimo. Ma mettete queste massime in relazione col tempo in cui visse il Machiavelli, studiate quel periodo storico in cui Firenze si dibatteva tra il servilismo e l'abiezione, e poi ditemi se una voce, che richiami al rigido diritto, merita encomio o disprezzo.

Il Villari nel suo pregiato lavoro Machiavelli e il suo tempo conchiude trionfalmente: “Oggi che l'Italia ha incominciato a redimersi e si è costituita secondo la profezia di lui, è venuto il momento, in cui gli sarà resa giustizia.„ Ma quale giustizia? La calunniosa leggenda dura, perchè le opere del Segretario Fiorentino non si leggono, e molto meno si studiano.

Il Bonghi nelle sue lettere critiche grida: “Chi non legge il Machiavelli è un uomo mediocre e di animo piccino.„ È inutile! Il Principe e Compagni resteranno sempre negli scaffali con tutti gli onori civili e militari, ma senza essere mai consultati. Si leggiucchiano le poesie e le commedie, perchè un po' scollacciate, ma le opere storiche requiescant in pace! Solo quei signori della Minerva di tanto in tanto ne mandano un pezzetto ai candidati di licenza liceale, i quali, frettolosamente — appena in sei o sette ore — gli confezionano un abituccio alla latina, tutto toppe e topponi. E come a farlo apposta si scelgono pezzetti difficili ed aridi, forse per innamorare sempre di più i giovani.

La Minerva sa rendere simili servizî!

[290]

***

Specialmente noi meridionali parliamo sempre della Scienza Nuova di Giambattista Vico. Ne andiamo orgogliosi, come se questo libro fosse stato lasciato in eredità a noi, e solo a noi. In tutte le conversazioni, in tutte le dispute, in tutte le polemiche, il Vico vien tirato sempre in ballo.

Ma chi lo legge? Fino a pochi anni fa nessun editore credeva opportuno riprenderne la ristampa, e per averne un esemplare bisognava ricorrere ai venditori di libri usati o alle R. Biblioteche. Oggi, grazie a Benedetto Croce, ne abbiamo una bella edizione. Anzi il Croce, con lo zelo di un apostolo, va predicando che noi italiani abbiamo il sacrosanto dovere di leggere e studiare la Scienza Nuova. Ma come succede a tutti quelli che ricordano doveri, il Croce predica al deserto.

Anche il Michelet, a suo tempo, voleva che i Francesi studiassero quel libro, ma poi si convinse che pretendeva l'impossibile. “Giovan Battista Vico — egli disse — non può essere inteso dal secolo decimottavo, perchè parla al decimonono.„ Non l'avesse mai detto! Sapete che cosa è successo? Quelli del secolo decimonono dissero che il Vico parlava al ventesimo, noi del ventesimo diciamo che parla al ventunesimo, e siate sicuro che i nostri figliuoli diranno che parla al ventiduesimo. [291] Insomma quel libro parla sempre al secolo futuro, e intanto... non parla mai.

Ma volete sapere perchè la Scienza Nuova non si legge? Sentite: il Settembrini, che ne parla con la riverenza di un discepolo, servendosi, come al solito, di una similitudine, dice: “Il Vico è come una immensa statua colossale che riguardata da vicino ti pare mostruosa nelle sue membra quasi formata con la zappa, gli occhi cavati con la vanga, tutto scabrezza e rozzezza; ma a certa distanza la scabrezza sparisce, e vedi la figura proporzionata e maestosamente bella.„

Ecco la ragione, per cui non si legge il Vico: vogliamo guardarlo da lontano, per vederne meglio i pregi!

***

E il Darwin? È oramai mezzo secolo che si ciancia di Darvinismo. Questo sistema evoluzionista, che apre un abisso nel campo biologico, e per conseguenza inevitabile, anche morale, ha dato origine a una turba immensa di seguaci e di avversarî, turba di profani che non sono entrati mai nel santuario della scienza e che scorgono in Darwin o un simpatico libero pensatore o un terribile ateo.

Di Darwinismo si parla nei caffè, nei circoli, su pei giornali, e mentre sono pochi i veri cultori di scienze naturali, tutti vogliono esprimere la [292] loro opinione su tale argomento. Alcuni, per darsi la posa di uomini evoluti, sostengono quelle teorie con qualche debole argomento, letto in una rivista scientifica; altri, nemici di ogni nuovo portato della scienza, si fanno il segno della croce come se si parlasse del diavolo in persona.

Ma domandate a tutti questi fanatici ammiratori o avversarî se hanno letto una pagina sola dell'Origine della Specie.

Nemmeno per ombra!

Vorrei parlare di altri libri, ma veggo che questo linguaggio dà sui nervi a parecchi. Forse m'inganno, ma ho ragione di credere che molti libri importantissimi non si leggono e si ha poi la pretenzione di discuterne!

Per carità, si finisca una buona volta di fare i pappagalli! Quando non si è letta un'opera, o confessatelo sinceramente o acqua in bocca. Chi viene a domandarvi se avete studiato il Principe o L'Origine della Specie?

***

Fin qui le persone che si chiamano colte, che vengono dette a ragione, e spesso a torto, menti direttive. Che se parliamo poi del pubblico, del pubblico grosso, c'è da mettere le mani nei capelli.

Cinquant'anni fa, il Bonghi diceva che in Italia si legge poco, e ne dava la colpa alla lingua. Ma che lingua d'Egitto! Il pubblico si è dato [293] mai pensiero della lingua? Nei secoli scorsi teneva i suoi procuratori legali — i pedanti —, oggi se ne disinteressa addirittura: ognuno parli e scriva come vuole!

E allora perchè il pubblico non legge?

Ve lo dico subito: non legge, perchè non ne sente il bisogno. Dovrebbe leggere per distrarsi, per divertirsi, ma se si distrae e si diverte così bene con lo sport, con la bicicletta, con l'automobile, col grammofono; col cinematografo, con l'areoplano! E poi, se il pubblico non legge, è un po' corrucciato; ha ricevuto un torto dai nostri letterati e vuol vendicarsi. Fino a pochi anni fa divorava i romanzi francesi, e il Dumas, il Sue, l'Hugo, il Verne, ecc. erano popolarissimi tra noi. Solo i romanzi? E' naturale. Il pubblico grosso se legge, legge romanzi. Nei secoli passati, quando la vita era meno febbrile, il pubblico prendeva parte alla letteratura classica, leggiucchiava poemi, tragedie, storie, ma a poco a poco si allontanò da questa roba un po' pesante; e quando lo Scott in Inghilterra, il Dumas in Francia e il Manzoni in Italia presero a battesimo il romanzo, il pubblico dette il benservito alla letteratura classica e giurò eterna fedeltà al romanzo. Sempre e soli romanzi!

Ma un giorno si incominciò a dire: lasciate stare questi libri. Non vi accorgete che tutto è fantastico e strano? non vi accorgete che il romanziere vi burla e vi tratta da bimbi?

[294]

Il pubblico sempre credulo, sempre scolare, sempre amante di novità, mise da banda quei libri, che lo avevano divertito un mondo, ed aprì i romanzi moderni. Ma che! questi romanzi non lo dilettavano un fico. Poca invenzione, poca azione drammatica e molta analisi. Il pubblico restò male. E che specie di romanzi son questi? Noi vogliamo distrarci, vogliamo sognare e questi libri mettono in campo quistioni scientifiche, tesi psicologiche, antropologiche!

Che fare? Ricorrere di nuovo al Dumas e Ci? No. E dunque? dunque faremo a meno di leggere. C'è tanto da fare nella vita!

Ma non crediate che il pubblico davvero non legga; legge, sissignore, ma legge male.

So di un editore fiorentino, il quale mette in piazza migliaia e migliaia di libercoli, che vanno a ruba. Sono delle porcheriole non tanto per il soggetto, quanto per la forma. E quest'editore confessa, a onore e gloria di noi italiani, che a pubblicare buoni libri c'è da rimettere le spese, mentre con queste porcheriole si fanno quattrini. A Napoli parecchie Case Editrici non confezionano che questa roba; roba sudicia, roba da trivio, che fa vergogna alla natura umana. Sono libercoli dai titoli ambigui o spudorati, con fotografie sconce, che svegliano e solleticano i più bassi istinti.

Mi sono caduti sott'occhio parecchi volumetti [295] di una biblioteca così detta, scientifica. Che scienza! Si parla delle anormalità più nauseanti.

E come sono furbi questi editori! Per stuzzicare di più l'appetito, presentano i libercoli, chiusi come in una busta. Dicono che la legge vuole così. Bugia. Il nostro Codice sorvola su queste bazzecole. Si chiudono in busta per rendere la merce più appetitosa. Il frutto proibito attira: non per niente siamo figli di Adamo e di Eva!

A credervi, nessuno legge queste porcheriole, ognuno se ne mostra disgustato, ognuno aggrinza il naso e si atteggia a Catone, ma di grazia dove vanno a finire le tante edizioni, che si tirano così frettolosamente? Eh! questi libri si comprano, si leggono e si rileggono.

Ma c'è bisogno di tanti esempi per dimostrare che il pubblico nostro legge male? Ricordatevi di Quelle signore. Veramente un tal successo si deve un po' a quel buon Procuratore del Re, che volle sequestrare il libercolo e trascinare l'autore dinanzi al tribunale. Non l'avesse mai fatto! I giudici l'assolsero e il pubblico l'arricchì!

E quel che è peggio il signor Notari ha avuto degli imitatori. Molti, vedendo che quel genere era ricercato, ci regalarono subito: Le Figlie di quelle Signore, Quelle Signorine, Quelle ragazze, Quelle Matrone e simili dolciumi.

Qui mi verrebbe la tentazione di fare un po' il moralista, ma a che pro? Tempo perduto! Sua Eccellenza — di felice memoria — on. Luzzatti, [296] volle alzar la voce in nome della pubblica morale. Scrisse una bella lettera ai prefetti del Regno, e disse solennemente: “Io non voglio più vedere libri, libercoli e cartoline pornografiche!„ Il buon uomo per raggiungere più presto lo scopo promise premi e minacciò castighi, ma fece fiasco. E faranno fiasco tutti. Noi dobbiamo imparare a proprie spese e metteremo senno solo quando l'acqua ci sarà arrivata alla gola. Pazienza. Io intanto penso: il Notari ha comprato una bellissima villa e fa la vita da signore a spese di Quelle Signore; mentre parecchi letterati nostri, valenti, vivono... da poveri cristiani.

Bisogna dire che nel mondo v'è giustizia!

[297]

Gli adulatori.

Non ci avete mai pensato, ma la vostra libreria è piena zeppa di cortigiani.

Vedete un po': Stazio s'inchina dinanzi al trono del lurido Domiziano, Virgilio apre le porte dell'Eliso ad Augusto, l'Ariosto tira incenso al suo Cardinale, l'Achillini affastella sonetti per quel sozzo Luigi XIII ed arriva a dirgli goffamente

ai bronzi tuoi serve di palla il mondo,

il Metastasio piega le ginocchia dinanzi alla sua padrona, il Cesarotti e il Monti inneggiano al Bonaparte!

E li conservate voi questi libri? li leggete? li studiate?

L'arte! Ma che arte d'Egitto! Noi non vogliamo colori e immagini: ci basta la natura. Noi [298] abbiamo bisogno di chi sostenga e difenda la verità, di chi sappia educare il nostro carattere. Lo scrittore è un giudice ed ha il dovere di dire ai cattivi: “Io accuso, io protesto!„ Se si lascia intimorire o allettare è un colpevole; e un nuovo Nazzareno dovrebbe cacciare a colpi di fune questo profanatore dal tempio dell'arte!

Si sa, pochi hanno la forza di affrontare pericoli per la propria e l'altrui indipendenza, pochi hanno il coraggio di presentarsi, come Mosè, dinanzi agli eterni Faraoni e perorare la causa del popolo. L'eroismo non si può pretendere da tutti, ma nessuno deve essere vile: la viltà è abiezione. Se non sapete volare, camminate: strisciare è dei rettili, e ai rettili non è dato coltivare l'arte, la quale deve serbarsi immune dalla bassa adulazione.

Plinio, per liberarsi dai malvagi capricci di Nerone, trattava quistioni grammaticali. “Mi piace vivere — diceva — e voglio sfuggire il serpe.„ Il Machiavelli, dovendo scrivere per incarico dei Medici le Istorie di Firenze, diceva al Guicciardini: “Consiglierommi meco medesimo e mi ingegnerò a far sì che pur dicendo la verità a niente possa ella rincrescere„.

Filosseno, per aver dato il suo franco parere sopra alcune sciocche poesie del tiranno Dionisio, fu messo in carcere. Liberato poi per le preghiere degli amici, fu di nuovo chiamato da Dionisio a giudicare altri versi. Filosseno ascolta, e [299] mentre la ciurma degli adulatori applaude, egli senza pronunziar parola si avvia alla porta. Domandato dal tiranno dove andasse, “ritorno al carcere„ rispose.

Noi non sappiamo quali opere scrisse Filosseno, non sappiamo quale fu la sua vita, ma quest'atto nobilissimo lo solleva al di sopra di tanti poeti, che pur di avere titoli, decorazioni e ricchezze, vissero come schiavi. Gallonati, stipendiati, vendevano l'arte al miglior offerente.

Grandi artisti furono il Corneille e il Racine, ma quando noi li vediamo nella reggia di quel mostro imbellettato di Luigi XV, vorremmo gridare: “Vergogna! vergogna!„ Sono dolci i drammi del Metastasio, ma chi può perdonargli i salamelecchi a Teresa d'Austria? Ah! questo beato Metastasio è davvero il tipo dell'adulatore gaudente! Dal giorno in cui con gli Orti Esperidi dette il pomo di Paride all'Imperatrice Elisabetta comincia la sua vita di cortigiano. Vive 50 anni a Vienna, scrivendo drammi per nozze ed onomastici e non si ricorda mai di avere una patria. Per lui la patria è dove si sta bene, dove ci sono quattrini e belle donne. Carlo VI lo nomina barone dell'impero, Maria Teresa gli manda la decorazione di S. Stefano, ma lui come un vezzoso paggio gentilmente rifiuta. Non crediate che lo faccia per un sentimento di dignità: no, il latte e il miele gli è arrivato alla gola. “Non [300] mi affogate; — par che dica — lasciatemi vivere nella mia corte!„

E così vivevano un po' tutti i nostri letterati.

***

Ma noi siamo ingiusti! Prima di bollare col nome di adulatori quei poeti dovremmo ricordarci che nei secoli andati la carriera delle lettere non offriva vantaggi se non all'ombra di una corte.

Oggi la condizione del letterato è molto diversa. Bene o male c'è sempre da sbarcare il lunario. I romanzi si vendono, le novelle si vendono, i lavori critici, storici, si vendono. Insomma chi si dà alle lettere, ed ha davvero un po' d'ingegno, non muore di fame. In ultimo caso c'è l'insegnamento: una cattedra di liceo o di Università si afferra e lo stipendio viene da sè. Non vivono da signori i letterati, ma vivono!

Nel cinquecento, invece, o giù di lì, le cose andavano un po' male. La scuola non rendeva, pochi imparavano a leggere o a scrivere, e quei pochi la pretendevano gratis et amore; la luce non si paga o meglio non si pagava.

Vivere con le pubblicazioni? La stampa era ancora piccina e camminava con le grucce. E poi a chi vendere i libri? Il popolo non leggeva o leggeva senza spendere un soldo. Dunque? dunque i poveri letterati dovevano ricorrere ai [301] principi e recitare ad essi il pater noster col relativo dacci oggi il nostro pane quotidiano. Il principe era il mecenate, il protettore, che dispensava grazie e quattrini. E bisognava aiutarsi con la lode: con la lode toccare il cuore del magnanimo signore, con la lode ben disporlo ai futuri benefici. Non lo dico io, lo dice il Tasso (padre), il quale non fu, o meglio non voleva essere, un cortigiano, ma dinanzi al dilemma — o incensare o morir di fame — prese anche lui un turibolo ed esercitò... l'arte.

Di buona o di mala voglia, un padrone bisognava tenerlo. Cantare come la cicala? Nossignore. Viene l'inverno e bisogna fare i conti con la formica. I poeti, edotti da questa favola, entravano per tempo in Corte, a formare la grande famiglia artistica. Il Cardinale Ippolito aveva a suo servizio circa 300 letterati; e avendogli un giorno Clemente VII fatto osservare che erano troppi, lui rispose: “Non li tengo a Corte, perchè io abbia bisogno di loro, ma perchè essi l'hanno di me„. Sua Eminenza aveva ragione. Per lui era un lusso, per i poeti una necessità.

Ma quel lusso ai principi costava un occhio! I letterati in genere e i poeti in ispecie sono incontentabili! Amano la bella vita; vogliono mangiar bene, vestir bene, divertirsi meglio; e tutto a spese del padrone, tutto, anche gli abiti, anche le scarpe! Il Poliziano scriveva al Magnifico: “Gli stolti ridono dei cenci ond'ho [302] coperto il corpo e dei sandali bucati che ho in piedi. Mandatemi una delle vostre vesti migliori e un paio di scarpe.„ Il Guicciardini ha bisogno della dote per le sue figliuole e il Machiavelli lo consiglia a rivolgersi a Leone X, perchè “tutto consiste nel domandare audacemente e mostrare male contentezza non ottenendo„.

E guai se il principe faceva il sordo o si mostrava un po' spilorcio. Il Giovio aveva due penne: una di oro e un'altra di ferro e “ben sapete — egli diceva — che con questo santo privilegio ne ho vestiti alcuni di brutto cannevaccio!„ L'Aretino mal ricompensato rifiuta. “Vi rimando — scrive a Leone X — i dieci ducati pregandovi che vi degnate rendermi le lodi da me datevi. A quelli che vogliono la fama conviene essere larghi a senno.„

Così i Principi, i Cardinali, i Papi per non essere messi alla berlina sborsarono danaro, e i poeti alla vista dell'oro cambiavano metro.

L'Alemanni, cantando in lode di Carlo V, si sentì rimproverare da costui perchè in altro tempo ne aveva detto corna. “Maestà, — gli rispose con la più grande disinvoltura — l'ufficio della poesia è mentire.„

L'Alemanni si espresse male, egli voleva dire: Maestà, la poesia è una merce; si vende.

E si vendeva davvero. Andrea dell'Anguillara vendeva le sue ottave a mezzo scudo caduna. [303] Curioso davvero questo poeta! Prima d'incominciare la traduzione dell'Eneide, manda ai Principi d'Italia una specie di lettera circolare per far sapere che il suo Enea troverà nell'Eliso tutti i magnanimi, e nell'inferno gli spilorci, e conchiude: “Spero che non mi bisogni mandar Lei e gli altri tutti a casa del diavolo e che Enea non abbia troppo da fare nell'inferno a parlar con tante anime dannate, quante io sono per mandarvene, se non fanno il debito loro„.

***

Si potrebbe dire: ma dunque i nostri letterati vivevano bene! Accarezzati, acclamati, festeggiati passavano gli anni in continua agiatezza.

Eh! come inganna l'apparenza. Scorrete la vita di quei poveretti. Quante umiliazioni, quanti rimproveri, quanti disinganni! Bisognava stare sempre agli ordini, secondare il principe nei suoi pettegolezzi, seguirlo nelle insulse guerricciuole. Quei Mecenati oggi decretano pensioni e titoli, domani per un equivoco o capriccio vi mettono fuori; e il povero poeta doveva trovarsi un nuovo padrone e recitare un nuovo atto di fede. Chi dei poeti nostri visse felice o almeno tranquillo? L'Ariosto fa il governatore, il segretario, il messo d'ambasciata, il cavallaro, e un giorno, solo perchè [304] non vuole recarsi in Ungheria, gli è negata la pensione; il Tasso, invidiato, calunniato, burlato, vi perde la ragione e vien rinchiuso in un manicomio; il Guarini è cacciato dalla Corte dei Savoia; il Marino è messo in carcere; il Tassoni passa da una Corte all'altra e dolorosamente esclama: “I principi hanno le mani lunghe, ma non larghe„ e si fa dipingere con un fico in mano per indicare ciò che ha riportato dalle Corti.

Fortunatamente quei tempi passarono e la nostra letteratura a poco a poco ruppe le vergognose catene ed acquistò la propria indipendenza. Al principio dell'ottocento non si lasciò nè allettare, nè intimorire.

Peccato che mentre la coscienza italiana si formava per l'opera di tanti valorosi scrittori, il Monti volle restare all'ombra del manto imperiale. Il Parini si negava finanche di tessere il panegirico a Maria Teresa. “Io non trovo veruna idea soddisfacente su cui tessere l'elogio dell'Imperatrice. Ella non fu che generosa: donare l'altrui non è virtù„. Il Foscolo, pur di non inneggiare agli oppressori se ne andava ramingo, scriveva su riviste inglesi, trattando argomenti pedestri di critica e di storia letteraria. “Mi sono esposto — diceva alla sorella — colla vergogna sul viso e col cuore afflittissimo a dare lezione in pubblico non in università, che sarebbe un onore, bensì in una specie di teatro: [305] senza questo duro espediente non avrei di che vivere.„

Il Monti invece, che pure aveva gran cuore e forte ingegno, s'inchinava ora al Papa, ora a Napoleone, ora all'Austria. Realista con i re, imperiale con gl'imperatori, repubblicano con le repubbliche, fu il poeta dei vincitori.

I suoi contemporanei lo chiamano il Dante redivivo, ma la nuova Italia non l'ha riconosciuto come suo poeta nazionale!

***

E basta col passato.

Oggi nell'anno di grazia 1911 non abbiamo più adulatori. Gli scrittori moderni non hanno nulla da temere o da sperare dai Coronati.

È finito il tempo dei Dionisî. Se l'Imperatore di Germania, che si atteggia a letterato, scrivesse domani dei brutti versi, cento critici tedeschi gli direbbero in faccia che la poesia non è per lui.

Che mecenati e protettori! Oggi il Gran Mecenate è il pubblico. Allettate il pubblico, carezzatelo, seguitelo nei suoi gusti, solleticatelo nelle sue passioncelle, distraetelo, divertitelo, storditelo, egli saprà fare il suo dovere: vi darà quattrini ed onori.

Essere attaccati alla gonna di una regina ed esaltarne i begli occhi, le graziose manine, brrr! è una abiezione.

[306]

Dall'altra parte non crediate che i re abbiano vaghezza di tenere al loro servizio poeti, che cantino la ninna nanna in tutte le ore del giorno. Hanno da sentire altre ninna nanne, i poveretti! Neppure lo Zar, che si ostina a conservare una imbalsamata autocrazia e manda al fresco eremitaggio siberiano chi alza un po' la voce, vuole poeti imperiali. Ed ha ragione. In quella Corte non ci mancherebbero che una dozzina di poeti per accrescere la confusione ed il disordine.

Ma zitto, noi non dobbiamo mettere il naso nei fatti degli altri. Confusione e disordine ce n'è dovunque!

***

Mi frulla un'idea nel cervello e fa ressa per uscire. Ma esci alla malora e non rompermi più la testa!

Ecco: quanti poeti nostri non vorrebbero anche oggi far parte della Real Casa, e vivere all'ombra del Quirinale con un lauto assegno? Rende tanto poco la poesia! Certamente il D'Annunzio, il Pascoli, lo Stecchetti, il Baccelli rinunzierebbero a un tale ufficio: vivono bene a casa loro, ma tanti altri poeti, che si ostinano a cantare al deserto tutto il giorno e gran parte della notte, l'accetterebbero come una manna.

[307]

Che cosa canterebbero questi vati? Eh, c'è tanto da cantare!

Il Principino mette un dente? un sonetto; il Principino sa montare a cavallo? una canzone. La Regina cade e si fa male o meglio non si fa male al braccio? un inno di ringraziamento a Giove. La Regina Madre va ai monti? la Regina Figlia va al piano? le Reginette vanno in giardino? Per tutti gli atti reali, grandi e piccoli, una canzone, un sonetto, un madrigale, uno strambotto!

È una insinuazione la mia?

Vorrei che al nostro Re saltasse davvero il grillo di avere una coppia di poeti regi. Naturalmente bandirebbe un concorso. Quanti concorrerebbero? I nostri poeti oggi a tale domanda rispondono sdegnosi: “Nessuno!„ Non li credete: imitano la volpe. Se venisse quel giorno!...

Ma questo giorno non verrà. Il nostro Re è pratico, praticissimo, e se non dà il ben servito ai maggiordomi e compagnia, non dipende da lui: così vuole il cerimoniale. Dei poeti però è poco tenero. Vedete: ogni giorno nomina cavalieri e commendatori. Un decimo degli italiani hanno una croce. Un avvocato, un medico, un negoziante, che acquista, con l'arte o con l'astuzia, un po' di nome, o un numero discreto di biglietti di banca, toh! una croce o un cordone. Ai poeti? Un corno.

Eh! la poesia è finita. Se volete entrare nelle grazie dei potenti, mandate alla malora la poesia [308] e datevi... al giornalismo. Oggi i veri potenti non sono i re, i principi, i duchi, gli arciduchi, i marchesi, i baroni. I Governi costituzionali hanno gentilmente spotestati i re, mettendoli in seconda fila: in prima fila sono i ministri, i quali per restare sempre innanzi e non indietro, si afferrano alla stampa... amica.

Vangelo. Il ministro Giovanni Nicotera con la più grande disinvoltura diceva ad un amico: “Ogni Ministero ha bisogno di un milione all'anno per puntelli.„ Sua Eccellenza per puntelli intendeva la libera stampa.

Come cambia il mondo! Nei secoli scorsi quelli che avevano il mestolo in mano carezzavano e sussidiavano gli storici per essere tramandati ai posteri con un mezzo panegirico. Oggi non si pensa ai posteri. Che immortalità d'Egitto! Ciò che impressiona è il presente, non il futuro.

[309]

I libri educativi.

Noi consumiamo la maggior parte del nostro tempo a leggere libri inutili. Saranno libri belli o brutti, attraenti o noiosi, con arte o senz'arte, ma inutili alla vita.

Si legge un romanzo, un volume di poesie, un dramma; che scene, che descrizioni, che lingua forbita! La fantasia ne gongola, il cuore si dilata o si restringe. Benissimo. Ma quale vantaggio? Diletto dieci, profitto zero.

Diciamolo francamente. Di tanti libri che abbiamo letti, quale è valso a renderci migliori, a correggerci magari di un piccolo difetto?

Eravamo un po' superbi e siamo restati tali, eravamo indolenti e lo saremo fino alla consumazione dei secoli. E perchè? Dal libro vogliamo essere allettati, dilettati, carezzati, magari storditi, non educati. Cioè vorremmo essere educati, ma senza [310] sforzi, a nostra insaputa. Non si è detto sempre che leggere è mangiare? Mettete in bocca un bel pezzo di carne; masticatelo un pochino e inghiottitelo. Appena andato giù, deve lo stomaco utilizzarlo e renderlo chilo e sangue. È un processo che si svolge da sè, senza che voi ve ne curiate nè punto nè poco. Siamo d'accordo. Ma ogni libro è per la mente ciò che il pezzetto di carne è per lo stomaco? No. Allo stomaco diamo carne, alla mente intingoli, pasticci, dolciumi più o meno nocivi. Sono degl'intingoli che stuzzicano l'appetito, carezzano il nostro palato, soddisfano la nostra ghiottoneria, ma non dilettano lo stomaco.

Libri-carne, libri-pane ne leggiamo pochi, libri pasticci un mondo. Ma vale la pena di consumare tempo e danaro per un passeggiero diletto, per un'efimera commozione? Noi italiani, a preferenza degli altri popoli, amiamo assai gl'intingoli in letteratura. E perchè? Per seguire la moda, per far sapere a cielo e terra che a noi piace l'arte! E sempre questa benedetta arte! Ma possiamo vivere di sola arte noi? Eccetto pochi privilegiati che si allontanano, quasi direi, dal mondo reale e passano gli anni in continua contemplazione, tutti gli altri debbono vivere. E abbiamo mai pensato che cosa importa, specialmente oggi, vivere? Vita, motus: moto continuo, incessante, e in questo moto perpetuo, quante lotte, quante sorprese, quante cadute!

[311]

Convinciamoci: nè l'arte, nè la scienza potrà insegnarci a vivere. Abbiamo per tanto tempo studiato, investigato, scrutato, di tutto conosciamo la ragione intima; la natura in parte ha ceduto le armi, ma che? noi siamo scontenti, noi siamo sfiduciati. Sfiduciati del progresso? No, di noi stessi. Chiediamo alla vita più di quello che dovremmo. Nessuno si mette nei giusti limiti. Si vuol giungere in alto senza noviziato, senza sacrifici.

Di qui malumori, scoraggiamenti, disillusioni: di qui lotte sorde, disoneste!

Ecco la necessità di libri eminentemente educativi, di libri che ci facciano conoscere i nostri doveri, che ci dicano come la vita è nell'operosità!

Mettiamo da banda romanzi e poesie che ci fanno sognare: chi sogna dorme e chi dorme — voi lo sapete — non piglia pesci; mettiamo da banda tanti libri che ci commuovono, ma che non ci educano. Il cuore, il cuore, sempre il cuore! A furia d'intenerirlo, l'abbiamo tanto rammollito! Il cuore, ricordiamolo, è un organo che deve lavorare giorno e notte ed ha bisogno di forze vitali!

***

Di libri educativi ne abbiamo un mondo.

La pretenzione di educare l'hanno tutti gli scrittori. Eccetto pochi, i quali scrivono per scrivere, [312] senza curarsi di ciò che mettono fuori, tutti gli altri credono o fingono di credere che i loro libri siano educativi. Il poeta vuol educare col sentimento, il romanziere con la favola, lo storico col passato, il filosofo con l'avvenire.

Mettiamo da parte i poeti e i romanzieri. A tirar le somme, questi signori hanno fatto più male che bene alla povera umanità. Parliamo di quegli scrittori, che ex professo vollero trattare di educazione. Date una sguardo ai vostri scaffali: libri educativi non ne mancano, anzi occupano un posto importantissimo. Ma educano davvero?

Non vi disturbate, anche questa volta mi ostino a rispondere: no. Ho le mie buone ragioni. Ditemi: una raccolta di precetti, di ammaestramenti un elenco dettagliato dei nostri doveri si può chiamare libro educativo? A noi non piace la predica, non piace sentirci dire a bruciapelo: hoc faciendum, hoc fugiendum. Il moralista riesce sempre un po' antipatico. Catone, per aver voluto alzar troppo la voce, è restato nella storia come il tipo delle persone noiose. Lo ricordino i compilatori di libri educativi e si convincano che l'educazione vera, sana, feconda non si apprende con le formole come la matematica!

Si disse un gran bene della Morale Cattolica del Manzoni e dei Doveri degli uomini del Pellico. In Italia quei due libri, diversi per peso e misura, furono letti e riletti, ma non cavarono un ragno dal buco.

[313]

Solo il Tommaseo, vera stoffa di educatore, avrebbe potuto darci un bel libro, ma volle anche lui predicare e i suoi Pensieri sono un po' pesanti. Bellissimi gli argomenti, debole e scialbo lo svolgimento.

Il primo che fece vedere al mondo come va trattata questa materia fu lo Smiles, quando scrisse Chi si aiuta Dio l'aiuta. Il titolo dice tutto. Lo Smiles non è un letterato; raccoglie un certo numero di fatti, li racconta così alla buona, e ne trae insegnamento pratico per tutti. Non alza la voce, non ha la pretensione d'insegnare nulla; narra, semplicemente narra.

Eppure quel libro, scritto in una forma semplice e piana, ci fa pensare: ci dice che nel mondo c'è un posto onorevole per tutti, che ognuno ha il dovere di essere benemerito della società; ci dice che se la maggior parte degli uomini non giungono alla meta è perchè non sono perseveranti, non occupano bene il loro tempo, non conoscono se stessi.

I nostri educatori sono soliti darci come modelli di operosità e di perseveranza solo quegli uomini eminenti, che si distinsero nelle arti, nelle lettere, nelle scienze. Lo Smiles, no; trova esempi salutari in ogni classe sociale. Classe? Ma chi ha diviso gli uomini in classe? Chiunque tu sii: letterato, medico, statista, sacerdote, operaio, contadino, sei uomo: hai una mente, hai due braccia, devi compiere la tua missione.

[314]

Sei povero? Eh, la povertà non ti condanna all'impotenza. Avanti, da coraggioso! E qui innumerevoli esempî di Inglesi, di Francesi, di Italiani, che, poveri in canna, occuparono i primi posti nell'arte, nelle scienze, nella politica.

Vi avvilite dinanzi agli ostacoli? Fate male; Colombo, Alfieri, Newton, Beel, Gialdini, Gibbon e cento altri non si avvilirono e vinsero. Iddio non creò i dotti e gl'ignoranti, i ricchi e i poveri, gli onesti e i disonesti: creò Adamo, solo Adamo. L'ignoranza, la miseria, la disonestà la vogliamo noi, perchè siamo vili, perchè ci facciamo vincere dall'ozio e dalle avversità!

E lo Smiles tutto ciò non lo dice in forma di predica, come disgraziatamente faccio io, ma con esempi storici. Ognuno leggendo quelle pagine dovrà dire a sè stesso: “È vero!„ Molti lo dissero e si corressero. L'autore negli ultimi anni mostrava ai suoi amici intimi centinaia di lettere, pervenutegli da tutte le parti del mondo. Non erano lettere di complimento, non dicevano: “Il vostro libro è bellissimo, è un capolavoro„; no, dicevano semplicemente: “debbo al vostro libro la mia posizione sociale, debbo al vostro libro la mia onestà!„

Quando Cecil Rhodes inaugurò una biblioteca in una città dell'Africa meridionale, esclamò commosso: “Mi chiamano un creatore d'imperi. Non lo so, nè capisco bene che cosa si voglia dire. Ma un'altra cosa so e ne sono sicuro ed è che in [315] questo libro — e sollevò in alto il Self-help — abbiamo un creatore di uomini, un creatore di caratteri!„

Lord Cecil aveva ragione. Quel libro, tradotto in tutte le lingue del mondo civile, destò un grande entusiasmo.

Anche da noi fu letto ed encomiato, ma i frutti furono scarsi, perchè la maggior parte degli esempî, riportati dallo Smiles, sono inglesi. Per convincere e impressionare di più occorrono esempî paesani. Quest'idea viene al Barbera; ne parla al Lessona: questi si mette all'opera e dopo un paio di mesi ecco Volere e Potere. Il Lessona non è lo Smiles; il suo libro risente molto della fretta; manca quella minuta, scrupolosa osservazione, manca quel nesso logico tra un fatto e l'altro; ma nell'assieme è un bel libro, che ci onora presso le altre nazioni.

L'esempio del Lessona fu seguito da altri, e in pochi anni fiorì tutta una letteratura sanamente educativa.

Ma la moda, maledetta moda, ci ha reso anche questo brutto servizio. Leggiamo noi oggi volumi dello Smiles, del Lessona, dell'Alfani, del Gotti? No. Eppure sono questi i libri che dovremmo sempre avere sul tavolo da studio. Noi italiani siamo un po' anemici ed abbiamo bisogno di una buona cura ricostituente. Il nostro cielo, il nostro clima ci avvezzano al dolce far niente, all'ozio beato. Siamo di sangue caldo, noi; in un [316] momento vorremmo ingoiare il mondo, ma al primo ostacolo deponiamo le armi, imprecando contro la natura.

***

Quando si parla di educazione, il pensiero va subito ai giovani. Ed è giusto. Oramai noi ci troviamo a due terzi del cammino e da un momento all'altro potremmo avere l'ordine di fermarci. La nostra parabola è quasi descritta; i conti sono per chiudersi e chi ha dato ha dato. Se si potesse rifare la strada, vorremmo metterlo a dovere il signor io!.

Ma i giovani? Abbiamo mai seriamente pensato che mentre noi ci troviamo negli ultimi giorni del nostro autunno o addirittura nell'inverno, altri si trovano al principio della primavera? Abbiamo mai pensato che questi bimbi, rosei e paffutelli, che oggi ci scherzano d'intorno, domani saranno uomini?

Non voglio fare della rettorica io, nè del sentimentalismo. Dico semplicemente che i nostri figliuoli dovranno imparare come noi, a proprie spese, un po' di esperienza della vita, impararla molto tardi e a caro prezzo. E perchè? perchè noi pensiamo ad istruirli, non ad educarli. Appena un bimbo sa mantenersi in piedi e balbettare — mammà! papà! — subito a scuola. Lo vuole la legge, lo vogliamo noi. Dopo quattro anni il [317] bimbo è già maturo e bisogna che entri nel ginnasio. Noi da una parte, i maestri dall'altra, non si predica che istruzione.

È approvato agli esami di licenza. Benissimo. Avanti al liceo, avanti all'Università! Viene il gran giorno. Il vostro figliuolo è avvocato, è medico-chirurgo, è professore, è ingegnere. Ma che! quel povero giovane, imbottito di scienza, entra nella vita impreparato. Vi sa tradurre un pezzetto di Platone o di Omero, sa risolvere un'equazione di terzo o quarto grado, vi discute sui diversi strati della terra, ma non sa vivere. Colpa nostra che abbiamo pensato solo ad istruirlo. Esami! esami! esami! È questa la nostra unica preoccupazione. Il resto faccia da sè. Per le ragazze rigore immenso: non debbono uscir di casa, non debbono trattare certe amiche, non leggere certi libri; per i giovani libertà assoluta. Teatri, divertimenti, viaggi, tutto è lecito purchè si arrivi a carpire un titolo accademico! Domandate a vostro figlio se ha letto Chi si aiuta Dio l'aiuta, se ha mai visto i Pensieri del Gabelli. Neppure per ombra. Egli si delizia con i romanzi dello Zola, del D'Annunzio, ecc.

E così prepariamo una generazione di fiacchi, di illusi, di pessimisti.

A trenta anni i nostri giovani sono stanchi di vivere. Hanno ragione: chi ha detto loro che la vita è azione, la vita è lotta? Una ragazza li tradisce? stricnina; si falla ad un concorso? revolver. [318] La vita si butta via come un cencio. È storia quotidiana questa: ogni giorno una dozzina di giovani se ne vanno a l'altro mondo, o meglio al cimitero. Essi non credono alla vita futura. Diavolo, se non credono alla vita presente.

***

Molte sono le cause di una sì desolante epidemia, ma io credo che il colpo di grazia è dato dalla nostra letteratura.

In questi cinquant'anni di vita italiana che cosa ha fatto la letteratura in riguardo ai costumi?

I nostri scrittori, precedenti all'Indipendenza, non si preoccuparono che della patria. E sta bene. Bisogna essere liberi, mandar via lo straniero. Poeti, romanzieri, storici, filosofi, educatori, si consacrarono interamente alla patria.

Chi con audacia, chi con calma, chi con sottintesi, tutti si dettero a preparare il gran giorno. “Lasciatemi fare — diceva il Guerrazzi a chi lo rimproverava del troppo fiele messo nella Beatrice Cenci — quel fiele purifica!„ E noi lasciamo fare a lui e agli altri. Ma fatta la patria, mandato via lo straniero, restati noi donni e padroni del nostro, in virtù del grande istrumento, notaio Napoleone III, bisognava cambiar rotta. Lo disse il D'Azeglio: l'Italia è fatta, occorre far gl'Italiani.

[319]

Non è nostro compito giudicare l'opera degli scrittori viventi, ma, a parlar chiaro, questi signori hanno disfatto noi e si preparano a disfare i nostri figliuoli. E si va avanti così; nessuno protesta, nessuno dà l'allarme.

Se la mia voce non fosse così fioca direi agli scrittori italiani: “Per carità, lasciate il pessimismo, lasciate le analisi psichico-antropologiche, lasciate certi fattacci, certe situazioni raccapriccianti, dateci libri di sana educazione, libri che siano vero nutrimento per i nostri giovani, per questa nuova generazione, già così inferma e indolente!

[320]

I microbi nei libri.

Ma in quali libri?

Se si parla di quelle antiche, antichissime edizioni di storia e di filosofia, che mandano un tanfo di vecchiume, possiamo rispondere col Davanzati: sapevamcelo; ma no, la scienza moderna, rappresentata da arcigni professori tedeschi e francesi, ci viene a dire che i microbi pongono stanza anche nei libri nuovi.

Nè deve far maraviglia. Sono i libri nuovi che più si leggono, che passano per tante mani, che riposano sui tavoli di persone sane o malate; sui libri nuovi si respira, si starnuta, si tossisce, si sbadiglia!

Quindi, signor De Amicis, signor Fogazzaro, signor Pascoli, signor D'Annunzio, i vostri libri così eleganti, così leggiadri, non sono che un [321] veicolo d'infezione. Se abbiamo l'influenza, la bronchite, la polmonite, la pleurite, la tisi o altro ben di Dio, bisogna ringraziare voi altri. Col pretesto di arricchirci la mente, di sollevarci lo spirito, ci mandate all'altro mondo, in barba alla legge e alla civiltà!

Bel servizio! E dire che noi non ce n'eravamo accorti e che delle nostre continue infermità si dava la colpa all'aria, all'acqua, ecc.

Ma è vero ciò che asseriscono così dommaticamente i nostri medici? o i poveretti a furia d'indagare hanno perduto la testa?

Chi lo sa! Chi può entrare in una clinica, in un gabinetto di batteriologia e dire: “Lei, signor direttore, signor assistente, signor aiutante, si inganna a partito: la cosa va così e così!„.

Siamo dei profani noi, e bisogna tacere.

Ma io non so tacere; io voglio parlare, a costo di sentirmi dire davanti, di dietro e anche di traverso, che sono un ignorante. Ignorante e doppio: ma questa faccenda dei microbi non mi va!

Che smania si ha oggi di voler trovare microbi da per tutto: microbi nei libri, microbi nei fazzoletti, microbi sulle mani, sul volto, sulle labbra: microbi in cielo, in terra e in ogni luogo. Noi respiriamo microbi, mangiamo microbi, depositiamo microbi!

Io non ho la pretensione di negare ciò che la scienza afferma. Me ne guarderei bene. Dico semplicemente: questi benedetti microbi ci sono stati [322] sempre? Forse oggi che ci diamo a perseguitarli con tanta rabbia viviamo di più? No. E dunque? Sentite a me: lasciamoli in pace. I poveretti si sono resi invisibili per non essere disturbati. I nostri padri, che avevano ben altro per il capo, li lasciavano vivere e i microbi corrispondevano con egual cortesia. Noi, no; guerra ad oltranza, e forsennati ci siamo messi a gridare: cacciateli, cacciateli!

Non so chi sia stato il nuovo Pier l'Eremita, che abbia per il primo alzata la voce per bandire una crociata contro di essi. Ma piano con la guerra! Il recente conflitto Russo-giapponese, ci ammaestra che non sempre vince il più forte, specie quando il nemico si sa rendere invisibile. Mettiamoci piuttosto a loro discrezione. Infatti come lottare con i microbi? Dovremmo vivere soli, allontanarci dal consorzio umano, guardarci financo di stringere la mano ad un amico.

Stringere la mano? Per l'amor di Dio! Finora la stretta di mano era considerata come uno scambio di gentilezza, invece è uno scambio di microbi. Nella palma della mano — senza parlare di quelle un po' grassocce — se ne contano ben 89450. Quale esercito di piccoli assassini voi regalate agli amici e alle amiche!

“Volete stringere la mano? — dice il signor Congel — ebbene insaponatela per cinque minuti, servendovi di uno spazzolino; immergetela in una soluzione alcalina calda, sciacquatela con acqua [323] sterilizzata, lavatela di nuovo con alcool e con etere solforico, immergetela per una seconda volta in una soluzione di sublimato e poi stringete pure la mano.„

Se non volete credere al signor Congel, che è del resto un valente chimico-farmacista, si presenta il dottor inglese Leedham Green, il quale vi prescrive un più lungo e fastidioso lava lava a base di sublimato, di ioduro, di cianuro, di mercurio, ecc.

Ciò bisognerebbe raccomandarlo specialmente ai signori Deputati al Parlamento, quando in tempo di elezioni fanno il giro doloroso per il Collegio e debbono stringere la mano a tutti. Poveri Rappresentanti dei popoli civili! Spandono grazie e ricevono microbi!

Ma via! Ci lascino stringere la mano a nostro bell'agio. Del resto se i microbi dell'amico vengono sulla mia mano, credo che anche i miei abbiano piacere di passare su quella dell'amico. Si tratta infine di uno scambio, e quando non possiamo far altri doni scambiamoci microbi!

E che dire poi della condanna brutale data ai fazzoletti? La scienza — diciamo la scienza per non compromettere nessuno — ha scoverto che nei fazzoletti ci sono delle vere colonie di microbi. Quindi, senza tante cerimonie, bando ai fazzoletti di tela, di lino, di seta. “I fazzoletti — dice il dottor Iorisenne — debbono essere di carta e una volta usati non bisogna metterli in tasca, ma gettarli via.„

[324]

Addio, addio dunque, vaghi fazzoletti di battista, ornati di trine, ricamati agii angoli con i colori più leggiadri! Addio, veli diafani, candidi come le mani che vi donavano! La scienza vi scaccia, la scienza vi ha solennemente dichiarati covi di microbi!

Ma, mettendo da parte la retorica, domando umilmente io: un povero diavolo, che ha un po' di catarro, deve uscire di casa con le tasche piene di fazzoletti e andarli poi seminando per la strada? Sono di carta, sissignore; ma bisogna sempre aggiungere un'altra partita al bilancio, giacchè non si daranno mica gratis quei fogliettini.

E così quel benedetto naso diventerà un organo dispendioso e dopo la bocca è lui che ci tira alla miseria. Fortuna che di naso ne abbiamo uno solo. Se Domineddio avesse avuto vaghezza di situarci sotto gli occhi un paio di quegli arnesi, staremmo freschi! Ci vorrebbe in permanenza una dozzina di fazzoletti per quelle quattro fontane.

Vi siete accorto che oggi massima parte degli Americani, buona parte dei Francesi, o per dirla in breve, un quinto dell'aristocrazia mondiale va senza baffi?

Parlo degli uomini, non delle donne; qualcuna di esse ha i baffi e se li conserva: è un privilegio concesso a poche e i privilegi non si buttano via. Gli uomini invece se li fanno radere senza misericordia. Specie gli Americani hanno un gusto ad [325] apparire... cantori della Cappella Sistina. Così rasati, verniciati, sembrano dei plenilunî, dei grandi salsiccioni.

È moda? Niente affatto. È misura igienica. Il professore Dalgren ha scoverto che nei baffi si rannida un numero sterminato di batterî. E che batterî! I più pericolosi. Si tratta di commessi, rappresentanti le Case — Cancro & figli, Tubercolosi & C. — Ed è naturale. I baffi sono più esposti alla polvere, al contatto, e poi i microbi hanno voglia di fermarsi là. I baffi rappresentano una specie di villa, dove i furfantelli si godono il fresco e gustano tutto ciò che noi gettiamo in bocca. Quando si mangia o beve, qualche cosa resta sempre nei baffi, magari un po' di odore, e quell'odore basta. O credete che i microbi abbiano una fame da lupi come noialtri?

Io però credo un'altra cosa: credo che questi irrequieti dai baffi passassero ai capelli. No? vedrete! Un bel giorno la scienza ci farà radere anche i capelli, per farci apparire... più zucche di quel che siamo!

Se i microbi si limitassero a prendere domicilio sulle mani, sui peli della barba, sui fazzoletti, pazienza, ce la potremmo intendere; ma nossignore quei birichini come a farlo apposta, si vanno, a nascondere —, indovinate un po'! — sulle carte monetarie, e lì vivono, prolificano e trincano a nostro marcio dispetto.

Il prof. Morisson ci dice che i biglietti da cinque, [326] da dieci, da venticinque ecc. sono pieni zeppi di batterî. L'improvvisa apparizione del vaiuolo, del morbillo, della difterite è dovuta a quei bigliettini. Noi ci facciamo ammazzare per possederli, ed essi, ingrati, ammazzano noi!

Nel portafogli dunque abbiamo nemici, nemici terribili, che di nascosto minano la nostra salute.

Potreste dire: “Ma io sto attento, io non ricevo biglietti logori e sudici.„ Peggio! Il prof. Warron Ululditch, assistente al laboratorio di batteriologia e igiene dell'Università di Yale, ci assicura che un biglietto nuovo è infestato da numero maggiore di microbi. “Un biglietto sudicio — egli dice — ne conta 3800, l'altro 405000.„

Bisogna dirlo: i microbi pur avendo per la carta monetaria la stessa tenerezza che abbiamo noi, amano la pulizia.

Dunque? dunque il portafogli ogni mattina dovrebbe disinfettarsi come un qualsiasi...... recipiente. Ciò, ben inteso, va detto per i ricchi, per noi no. Il nostro portafogli è sempre vuoto e c'è poco da disinfettare. Bisognerebbe prima riempirlo: operazione difficilissima, che riesce solo a pochi!

Mi viene un'idea: vorrei recarmi a Roma, ove da due giorni furoreggia il Secondo Congresso Femminile Italiano e dire a quelle rispettabili dame e damine: “Signore colendissime, che pazzia è mai questa? Voi pensate alla politica e non sapete del brutto tiro che vi sta preparando [327] un americano, il dott. Malffots? Costui, dopo dieci anni di studio e di esperimenti, ha detto che l'amore è un morbo contagioso come il colera, ha scoverto anche la nuova virgola e sta preparando un siero anti-amoroso. E che sarà di voi, che sarà delle vostre figliuole? A che varrebbero congressi e ordini del giorno, se quel malaugurato dottore mettesse domani in vendita il siero anti-amoroso? Sentite un mio consiglio: chiudete il congresso e correte tutte in America. Cercate di questo maledetto dottore, gettatevi ai suoi piedi, pregatelo, supplicatelo, scongiuratelo. E se l'amico non si lascia nè intenerire, nè commuovere, ricorrete alla violenza. Mandate al diavolo lui e i ferri del mestiere.

Non so se in America ci sia la condanna condizionata, ma in ogni caso è meglio un annetto di carcere che l'eterna rovina di tutte le donne presenti e future!

Questo vorrei dire alle congressiste, ma le mie parole potrebbero essere accolte da una risata generale. Le donne sono sicure del fatto loro e non temono le americanate!

Ma io straripo. In questo capitolo dovevo parlare dei microbi nei libri e invece me ne sono andato oziando con le carte monetarie e con l'amore. Ho torto, e entro subito in argomento.

[328]

***

I nostri vecchi esculapî non sapevano che nei libri vi sono milioni e milioni di microbi. Bisogna compatirli. I poveretti non avevano microscopî; si accontentavano solo di buoni occhiali, quando la vista incominciava a venir meno, e così i signorini microbi facevano il loro proprio comodo. Con i medici moderni invece c'è poco da scherzare. Non contenti di esaminare, scrutare, tagliuzzare i visibili — che sfortunatamente siamo noi! — hanno preso di mira gl'invisibili ed hanno giurato di farli sloggiare da ogni parte. I poveri perseguitati si nascondono nei libri, si raggruppano fraternamente sulle parole scritte, fanno corona ad una bella incisione, ma la scienza implacabile li ha scoverti ed ha gettato l'allarme fra gli studiosi, gridando: “Sciocchi, i libri vi danno la morte!„

Ma vediamo un po' che cosa vorrebbe da noi questa scienza.

Il dottor Balville, francese, dice che il mezzo più pratico e più efficace per evitare l'infezione è... la distruzione. Quindi quando vi sorge il dubbio che un libro sia stato in casa di un ammalato, bruciatelo. Salus ante omnia. Potreste dire: ma io ho assoluto bisogno di quel libro, ma io non posso comprarne un altro esemplare! Mi dispiace, ma la scienza non vuol saper ragioni. Si [329] tratta della pelle. È meglio un asino vivo che un dottore morto. Dunque, non potendo addivenire un dottore, senza sottoporci alla morte immatura, contentiamoci di restare... quel che siamo.

Il Foucoult, meno brutale, ma più cinico, prescrive un bagno in un certo liquido da lui inventato (bel metodo questo per far la reclame ai propri prodotti!). In verità, dopo tal lavacro, i poveri libri e specie le legature in tela e in oro, vengono barbaramente deturpate. “È vero, — dice il sullodato professore — ma non c'è via d'uscita: o voi deturpate i libri o i libri deturpano voi!„.

Meno male che la via d'uscita la trova un tedesco, il dott. Volfagg. Egli dice: “La cosa è semplicissima. Il bagno deturpa il libro? Ebbene, nella fabbricazione della carta e nella composizione dell'inchiostro, mettiamo una buona dose di aldeide formica, di cloruro di calce, ecc. Il libro, così vaccinato, darà un odore di catrame, di acido fenico, ma non ci sarà più pericolo d'infezione, anzi il libro diventerà un antisettico. Ubi olim mors, ibi vita.„

Ma nè io, nè voi possiamo accettare questa via d'uscita. E chi leggerebbe più un libro? chi avrebbe la forza di sopportare quegli aromi? Specie certi libri!... Sono inodori e rivoltano lo stomaco, immaginate poi se si presentassero in compagnia del catrame!

Signor Volfagg, grazie del complimento, ma tenga per lei questa via d'uscita; noi non vogliamo [330] che la stanza da studio si trasformi in un gabinetto chimico-farmaceutico!

Molto più logico è il signor Sheugh, americano. Egli dice: “I miei colleghi s'ingannano a partito. Nè un bagno, nè prolungati soffumigi possono togliere questa infezione. Oh! non sapete che alcuni batterî resistono a tutti i bagni di questo mondo? Dunque? dunque bisogna prima esaminare la natura di essi e poi stabilire il da farsi„.

Insomma, secondo lui, ogni libro è un malato, ogni libro deve avere la sua brava visita medica e il suo rimedio speciale.

Poveri letterati! Non è solamente la vostra signora, che ad ogni piccola indisposizione vuole il medico; non bastano i benedetti figliuoli, che spesso spesso, e a turno, hanno la febbre, il morbillo, la bronchite; oggi ci sono i libri, e i libri pretendono il medico!

È inutile tentennare la testa. Se amate la vita, dovete compiere quest'altro sacrificio e seguire le seguenti norme. Quando comprate un libro nuovo di zecca, non vi lasciate allettare dalla sua freschezza e leggiadria; bisogna sapere se la Casa Editrice ha un personale che gode buona salute, se il libraio è di sana costituzione e non abbia qualche male contagioso. Se poi il libro non è nuovo e vi vien dato da un amico, o ritorna da un lungo pellegrinaggio, la faccenda è un po' seria. Prima di tutto bisogna informarsi chi ha letto il [331] libro, in casa di chi è stato, per quali mani è passato.

In pratica ogni libro dovrebbe avere l'elenco dei suoi lettori e il loro stato di salute. Per esempio, un amico vi dà a leggere un volume di novelle, un romanzo o che so io. Alla prima pagina dovrebbe avere questo specchietto:

4 Novembre ritirato direttamente dalla Casa Editrice.

Dal 7 al 25 Gennaio, letto dalla contessa C., convalescente d'influenza.

Dal 5 al 19 Marzo, in casa del signor B., probabilmente affetto di emottisi.

Dal 13 al 21 Maggio, letto dal teologo R., sofferente di nefrite e di indisposizione al fegato.

Voi, senza perdere tempo, portate il libro al medico di famiglia, il quale, dopo aver consultato questi appunti, vi darà la sua brava ricetta.

Vi sembra strano ciò che io dico, eppure con questa malnata microfobia si arriverà forse più oltre, escogitando mezzi più ridicoli. Forse i posteri, andando di questo passo, saranno più fanatici e pazzi di noi. Ma il giorno in cui il mondo metterà senno (e quando si dice il mondo s'intende gli uomini: il mondo ha avuto sempre senno!) avremo una brutta condanna. Noi oggi mostriamo di aver buona vista, ma poco buon senso; e se fosse [332] ancora in vita Salvator Rosa, ci avrebbe coniati due versi, un po' simili a quelli che scriveva per Michelangelo:

Michelangelo mio, nol dico a gioco:

Quello che hai fatto tu è un bel giudizio,

Ma di giudizio però ne hai poco!

Signori medici, lasciate stare i microbi; pensate che avete dei figli. Se essi arrivano a mettersi in testa che i libri fanno morire, abbiamo fatto la festa; e se oggi si studia poco, domani le scuole si dovranno chiudere!

Lasciateci dunque studiare. Chi è morto per i libri? È l'ozio che genera i microbi della morte. Allontaniamoci dai vizî e non avremo più microbi. Che se poi questi invisibili guastafeste hanno il mandato di molestarci sempre, si muoia, ma si muoia lavorando. Chi ha detto che noi viviamo per vivere e tutto bisogna tentare per prolungare la vita? Quando con l'ozio e con l'ignoranza abbiamo reso la vita inutile, per non dire un peso, a che vivere?

È meglio chiudere una buona volta gli occhi, che tenerli aperti e non vedere!

[333]

I pessimisti.

Non li chiamate così: chiamateli le vittime del dolore!

Un giorno essi amarono la vita, ma o traditi nell'amore o sconvolti dal dubbio o combattuti dall'avverso destino, si rinchiusero in sè stessi e quasi non vissero più: divennero misantropi, scettici, atei.

Poveri genî, che un momento di sconforto precipitò nella gelida apatia! Nessuno si accorse che i loro occhi erano languidi, che a traverso la livida fronte aveva sede un terribile mostro: la disperazione! Cantarono per calmare un po' la tempesta, che sconvolgeva il loro animo, per rievocare un passato di gloria; ma quel canto è lugubre: è una tomba che si schiude!

Spesso attratti dall'arte, vinti dalle bellezze della natura, hanno accenti di arcana melodia, [334] di incantevole dolcezza; ma dopo questa fugace serenità di spirito, la ferita del cuore si riapre, ritornano i fantasmi orrendi dello sconforto; ed ecco imprecazioni, bestemmie. Nessuna speranza, nessun entusiasmo!

Ma sotto quella apparente indifferenza, sotto quello scherno, c'è un cuore che ancora sente l'influsso vivificatore della vita. Da ogni pagina dei loro libri esce una voce straziante e supplichevole: “Pietoso lettore, guariscimi! Io sono infermo! Dammi la speranza, dammi la luce!„

L'Heine sul letto di dolore grida: “Fantastico, senza scopo è il mio canto, senza scopo, come la vita, come il creatore e la creazione!„ Il Leopardi vuol comporre l'arte di essere infelice, “quella di essere felice — esclama — è cosa rancida, insegnata da mille, conosciuta da tutti, praticata da pochissimi e da nessun con effetto!„

Ma la terribile bestemmia del primo, il freddo sarcasmo del secondo è il grido angoscioso di due anime che vorrebbero essere risanate. Guaritele! E la vita, il creatore, la creazione avranno uno scopo, e l'arte di essere felice non sarà più rancida!

***

Ma tutti i pessimisti sono davvero gli uomini, del dolore? No.

Taluni, come il Byron e il Rousseau, sono [335] per così dire, pessimisti di circostanza. Di natura irrequieti, turbolenti, impulsivi, si lasciano facilmente dominare dalle proprie passioni, e alla più piccola avversità, ecco a imprecare, a maledire.

Il Byron, ad esempio, oggi erra solitario come il suo Manfredi ed esclama: “Sono solo come il leone!„ domani lieto se ne sta a spandere grazie e complimenti nelle sale dei principi e dei conti. Oggi grida: “Tutti siamo infelici!„ anche Iddio!; domani è nelle braccia della contessa Guiccioli e canta l'amore.

Altri, come il Lamartine, mentiscono. Un arguto critico a tal proposito diceva: “Conviene procedere guardinghi, nè è prudente spargere lacrime su tutte le miserie e su tutti i dolori che siamo invitati a piangere. In più d'un caso si correrebbe il rischio di veder far capolino fra le quinte il sorriso canzonatorio del poeta stesso.„

Ed è così. Il Lamartine, questo spavaldo e fortunato poeta, proprio nei fugaci bagliori della sua gloria, acclamato da tutti, carezzato dalle donne, si atteggia a pessimista e viene a dirci che la vita è una valle di lacrime. Non gli credete! La vita potrà essere tale per gli altri, non per lui.

Il vero poeta del dolore, il vero pessimista per natura, non per circostanza, è il Leopardi. Convinto che la vita non gli avrebbe dato alcun conforto, rinunzia al mondo esterno e tormenta il proprio pensiero con una incessante e dolorosa meditazione. Isterico nell'anima, trova in altri il [336] suo male e assorge, con la potenza del suo genio, a cantare l'infelicità di tutti. “A che vale il progresso, la ricchezza, l'amore, il coraggio? Tutto inganna, tutto è fallace: l'unico bene dell'uomo è la morte!„ La sua lirica non è personale, come quella del Byron, dell'Heine, del De Musset, ma universale: chi soffre, trova nel Leopardi il suo poeta. Egli canta, non perchè spera di averne un sollievo, non perchè desidera far conoscere agli altri il suo stato di animo, ma perchè il destino, quasi per renderlo più infelice, l'ha voluto poeta. Il canto per lui è un bisogno.

Attratto dall'arte, tenta l'epica e la satira, ma non vi riesce: il suo pensiero dominante non gli permette di cantare imprese eroiche o di sorridere argutamente. La lirica, solo la lirica è per lui, una lirica concisa, frutto di quel continuo martirio che egli dà al suo pensiero. Gli altri poeti imprecano clamorosamente, gridano come energumeni, bestemmiano da forsennati, perchè il loro stato morboso è momentaneo; il Leopardi invece non si scompone; freddo, impassibile, pare che faccia l'autopsia al proprio cuore. Ciò che gli altri poeti esprimono in dieci versi, egli racchiude, come in una morsa di ferro, in due parole: ma quelle due parole sono pasticche di arsenico. Scioglietele nell'acqua: avrete cento litri di veleno potente.

Ecco perchè il Leopardi non potrà mai avere degli imitatori. Per bene imitarlo, occorrerebbe [337] non solo possedere il suo genio, ma trovarsi nelle sue terribili condizioni fisiche e morali.

***

Tolti questi pessimisti maggiori, che sono come i capiscuola di una sì funesta tendenza dello spirito umano, viene fuori tutta una turba di poeti, di terzo o di quarto ordine, di cui nella vostra libreria c'è larga rappresentanza. Di cento volumetti di poesie, novantanove veggono tutto di color nero e tengono appiccicati alla porta d'ingresso qualche motto desolante dello Shopenhauer, dell'Hartmann, del Puskin, del Guerrazzi, del Tolstoi.

Oggi il pessimismo è di moda. Un tempo i poeti minori erano considerati come buontemponi, che stemperavano i loro pensieri in versi, o per aggraziarsi i potenti o per allietare la conversazione di belle donne. Spesso l'amore li sconcertava un pochino; e i poveri poeti o uscivano in istranezze come Orlando o piagnucolavano a guisa di bimbi stizzosetti. Ma si guardavano bene a maledir la vita!

Si andò così fino alla coda del settecento, in cui, essendo stata proclamata l'uguaglianza universale, anche i poeti minori alzarono la cresta e, lasciando i gingilli di una volta, invece di trastullarsi con i madrigali, con le ballate, con le canzonette, con gli strambotti, vollero assorgere a nobili ideali. Il poeta — esclamarono — non è [338] un buontempone, ma un maestro, un apostolo, un profeta.

Disgraziatamente però la poesia è passata da un estremo all'altro. Le severe e paradossali investigazioni della filosofia tedesca, la miscredenza religiosa, i malumori e i desiderî non soddisfatti, che tengono sempre dietro alle rivoluzioni, hanno creato un perturbamento, nella società moderna.

Distrutta ogni idealità, n'è venuto fuori un pessimismo pratico che, bisogna confessarlo, è un portato della nostra civiltà e dei nostri studî. È vero: nell'arte e specie nella letteratura vi è sempre un'evoluzione di forma e di pensiero che corrisponde ai nuovi stati dello spirito umano. Oggi il concetto della vita è più grave, le induzioni più intime, le aspirazioni più alte e per conseguenza le disillusioni più dolorose. Possiamo dire col Lammenais: “Gli antichi guardavano ciò che guardiamo noi, ma non vedevano ciò che vediamo noi„. Essi non sentivano così forte la lotta fra l'ideale e il reale, fra i bisogni indefiniti dell'anima e le istintive compiacenze del corpo. L'uomo diventa sempre più adulto. Ogni secolo che passa imprime sulla fronte dell'umanità nuove aspirazioni. Ma perchè oggi l'arte è precipitata in un pessimismo sconfortante?

Signori miei, l'arte non è sincera. Quel pessimismo è falso, è retorico, non nasce da convinzione di animo: è un atteggiamento artistico e nulla più.

[339]

Vedete: i nostri poeti, i nostri romanzieri si godono la vita, ma appena si siedono a tavolino, appena prendono la penna in mano, ecco pensieri nebulosi, concezioni lugubri, situazioni raccapriccianti. È un pessimismo superficiale che si indossa come la veste da camera.

Ci dispiace che il Nordau, il quale ha voluto con tanta brutalità far conoscere le Menzogne Convenzionali della civiltà moderna si sia dimenticato di dire che anche questo ultra-pessimismo in letteratura è una menzogna. Il vero pessimista è un amante che odia, perchè si vede disprezzato; ma se domani è bene accolto, l'odio cessa e ritorna l'amore. Leggete le poesie dell'Heine e del Leopardi. Sotto quel sarcasmo vi è il dolore delle speranze infrante, vi è, quasi direi, la vendetta dell'entusiasmo deluso.

Ma il pessimismo dei nostri poeti è puro scherno, è pretta buffoneria: domani, se il gusto cambia, si adatteranno alle nuove tendenze.

Si è detto che la nostra poesia è ritornata al classicismo antico. Nella forma, non nel pensiero. Il classicismo greco e latino ci dava almeno il culto per la patria, l'amore al sacrifizio, l'esempio di virtù pubbliche. Oggi si ricorre al metro greco e latino, si scrivono odi saffiche, alcaiche ecc.; ma sotto quella veste pindarica, virgiliana, sbuca una lirica personale, la quale ci offre lo spettacolo di credenze distrutte, di anarchia intellettuale.

[340]

***

Disgraziatamente, o falso o vero, questo pessimismo apporta sempre i suoi funesti effetti. Ognuno di noi sente in sè l'influenza malefica di questi libri che tentano strappare tutte le speranze, tutte le dolci illusioni!

Quante volte, leggendo il Caino del Byron, la Metafisica dello Schopenhauer, la Filosofia dell'inconscio dell'Hartmann, il Ratcliff dell'Heine, gli Spettri dell'Ibsen non vi siete domandato: ma dunque la vita è un male! ma dunque davvero dobbiamo maledire il giorno della nostra nascita? Quelle frasi terribili vi scendono nell'anima come la lama fredda di un pugnale. A poco a poco vi assale un grande scoraggiamento. Addio speranze! addio entusiasmo! Tutto è lugubre, tutto è desolante; pare che da un momento all'altro debba sparire financo il sole. E voi vi fate alla finestra per respirare, per vedere la luce, per confortarvi con la visione della natura. Solo così il vostro cuore si calma e nell'animo ritorna la serenità e la pace. Ciò succede, perchè voi avete un'età e un po' di esperienza. Ma guai se questi libri cadono nelle mani de' giovani, i quali facilmente si lasciano impressionare! Attenti! attenti! Quando le prime lotte della vita ci appaiono terribili, appunto perchè il nostro carattere non si è ancora ritemprato, abbiamo bisogno di chi ci incoraggia, [341] di chi ci mostra una mèta da raggiungere, di chi ci dica che la vita sta nel dovere e che nell'adempimento del dovere troviamo il premio al nostro lavoro. Specie quei giovani che per natura tirano alla malinconia, dovrebbero star lontani da certi libri, che disseccano ogni germe d'idealità. Via, via il pessimismo che distrugge e non riedifica, che imperversa nell'animo, come una bufera devastatrice, che ci passa davanti come il cavallo di Attila!

Con questo però non si vuol dare l'ostracismo a tutti quei libri, in cui predomina la nota del dolore. E che? i nostri giovani debbono forse trastullarsi con le letture frivole, che se non fanno maledire la vita, la rappresenta come una combriccola di spensierati e di capi ameni? Debbono gingillarsi con la letteratura cavalleresca, che dilettando solo la fantasia, fa sognare castelli incantati e ippogrifi?

Oggi il problema della vita è grave: il dolore c'è, il dolore domina e signoreggia dovunque; e se i giovani non si abituano a guardare in fronte questo terribile Briareo, non avranno domani la forza di resistere ai suoi assalti. Cullateli nelle dolci illusioni, dite loro che la vita è cosparsa di fiori; e domani? I Lacedemoni facevano assistere i fanciulli alla guerra per far sì che un giorno non avessero a temere dinanzi al nemico.

Anche noi dobbiamo preparare i nostri figli [342] non alla guerra con i propri fratelli, ma a quella più terribile, che un giorno dovranno sostenere con se stessi.

Un poeta persiano del secolo X diceva:

— V'è dolor che dà fuoco senza fumo.

Questo dolore dobbiamo cercare nei libri, questo dolore che è solo fuoco, fuoco che vivifica, purifica, rinvigorisce!

Attenti: se dopo aver letto un libro, sentiamo un vuoto nell'animo, uno scoraggiamento, un'apatia, un disgusto della vita: quel libro ha molto... fumo, fumo che annebbia e annerisce; se invece ci sentiamo migliori, quel libro ha fuoco.... senza fumo!

[343]

Il giornale.

Sapete quanti giornali, giornaletti, riviste e periodici si pubblicano in Italia? No, non lo sapete; neppure io lo so. Ma tutti — io e voi — siamo convinti che di giornali, fra grandi e piccoli, se ne pubblicano una infinità.

Monarchici, repubblicani, radicali, socialisti, cattolici, liberi pensatori, anarchici: uomini dell'ordine e uomini del disordine hanno il loro giornale. Un tempo gli organi erano soltanto nelle chiese per accompagnare gli uffizî divini, oggi ogni partito politico ha il suo organo: il giornale. E che armonie! Che pezzi a quattro mani! È una lotta continua, incessante, frenetica di principî, di idee, di tendenze. Ognuno alza la voce, ognuno ha la pretensione di illuminare le menti, di risolvere i grandi problemi sociali.

[344]

Non li credete: la maggior parte di essi mirano alla soluzione di un sol problema: afferrare il potere. Lo diceva il Giusti:

Tutto si riduce a parer mio:

Levati tu chè mi vo' metter io.

Ma lasciamo la politica, tanto più che non tutti i giornali parlano di politica.

Oggi, ogni classe ha il suo giornale. Medici, avvocati, ingegneri, maestri secondarî e primarî, militari di alta, bassa e media forza, fotografi, commercianti, impiegati a milleduecento, macellai, barbieri, facchini, lustrini, spazzini hanno il loro giornaletto. Financo gli accattoni! Sì, gli accattoni. A Parigi si pubblica un giornaletto per questi signori. Costa un centesimo ed esce ogni settimana. Certamente non tocca quistioni politiche, scientifiche o letterarie, — gli accattoni hanno ben altro pel capo! — ma parla di feste, di fiere, di nozze, di funerali, dove quei poveretti possono lavorare di più. In quel giornalucolo si legge, ad esempio:

Domenica il barone Arsonille festeggia le sue nozze d'argento. La sera nella sua bellissima villa offre un pranzo a cinquecento poveri. Le iscrizioni vengono fatte dal portiere: Piazza della Maddalena, N. 36.

Sappiamo da buona fonte che martedì, 3 corrente, sarà a Parigi la Regina Madre d'Italia, Margherita [345] di Savoia. Possiamo assicurare i lettori che l'Angusta Signora è molto caritatevole. Trovarsi alle 5 detto giorno dinanzi all'Hôtel Anglais.

Ieri alle 4 p. m. è morta la baronessa Bérteux. Lascia trentamila lire ai poveri della città. Rivolgersi alla Prefettura, sezione III, non più tardi del 26 corrente.

La pensata, come vedete, è molto pratica. Temo però che andando di questo passo anche i ladri avranno il loro giornaletto. Eh! sì, dal momento che i ladri di professione ci sono e ci saranno, perchè non dovrebbero averlo? Ma io credo che i signori ladri possano risparmiarsi questa spesa. Il giornaletto degli accattoni può benissimo servire anche per essi. In tutte le feste c'è posto per gli accattoni e per i ladri, se pure alcuni privilegiati non facciano l'uno e l'altro, secondo il caso.

Ma lasciamo i ladri. Oramai l'estate si avvicina e bisogna parlare di bagni. Farete i bagni quest'anno? E' naturale! Dopo dieci mesi di lavoro indefesso si sente la necessità di tuffarsi per una ventina di volte nel mare.

Ma il bagno non è piacevole per tutti. Chi sa nuotare si diverte un mondo, ma per tanti poveretti, che non sanno muovere un piede, è un martirio!

Confinati nel loro camerino, con le braccia conserte, sembrano tante anime del Purgatorio. Che noia starsene una mezz'ora lì, come in una bolgia dantesca. Se si potesse leggere un giornale! [346] È impossibile: il giornale nell'acqua diventa pan cotto. Ma quali giornali? Oh! non sapete che nella stagione estiva, si pubblica, in Francia, un giornale per i bagnanti: Le Courrier du baigneur? Stampato su tela cerata impermeabile, con inchiostro speciale, resiste all'azione dell'acqua dolce o salata. Lo si spande come un qualsiasi tovagliuolo, e mentre il corpo si rinfresca, l'occhio scorre la cronaca del giorno.

A proposito di bagni, avete passato l'oceano, avete fatto un viaggetto fino in America? No? Sentite: chi ha quattrini e non fa una gita di piacere in America è uno sciocco. La traversata è bellissima. Che tramonti, che albe, che serate, che idillî! Ma c'è un inconveniente: per quindici o sedici giorni voi siete isolati dal mondo; manca il giornale. Cioè, dico meglio, mancava ieri, ma oggi, grazie al telegrafo senza fili, i principali piroscafi hanno il giornaletto quotidiano: Le Journal de l'Atlantique. Va in macchina all'una dopo mezzanotte e la mattina i signori passaggieri, pur trovandosi in mezzo all'oceano, sanno che cosa si combina nel vecchio e nel nuovo mondo.

***

Convenite con me: l'America s'impone, non per il danaro — il danaro in teoria è stato sempre considerato vil metallo — ma per civiltà, per umanità. Noi, ad esempio, trattiamo molto male [347] i detenuti. Appena un poveretto è stato giudicato dalle Assisi perde ogni cosa: finanche i baffi vanno via. Rinchiuso nella casa di pena diventa un numero: fa i tre voti solenni, da vero cappuccino, e ignora tutto ciò che succede nel mondo. In America, no: i detenuti sono trattati con più umanità. A New York si pubblica un giornale per i carcerati. Il titolo: The star of Hope, cioè la Stella della Speranza. E questo giornale si offre gratis a quei disgraziati. Opera umanitaria! Anche i detenuti hanno il dritto di sapere ciò che fanno e pensano gli uomini liberi. E forse quel giornale li conforta, li distrae e fa sembrare loro meno dura la vita del carcere. In Italia non si è pensato a questo. Vogliamo fare un bell'ordine del giorno e mandarlo al Ministro di Grazia e Giustizia?

Padronissimi, ma faremo fiasco: il nostro ordine del giorno andrebbe a dormire il sonno dei giusti in qualche archivio, dove dormono tanti ordini del giorno, o meglio della notte. Parlarne al nostro Deputato? Che faccia lui alla Camera un'interpellanza? Si nega? nossignore: i Deputati non si negano mai. Temo piuttosto che dopo aver promesso non mantenga: è loro abitudine.

Io però se fossi al Parlamento proporrei una forte tassa sui periodici letterarî. E sì, ci vorrebbe! In Italia se ne numerano più di trecento. È una vera mania. Si incontrano sei o sette disoccupati [348] e il periodico è fatto a propria immagine e somiglianza. I collaboratori non mancano. Eh! ci sono tante poesie, tanti bozzetti, tante novelle che marciscono nei tavolini e che aspettano appunto un periodico, come si aspetta il Messia.

Poveri noi, siamo ammorbati da riviste e giornaletti. Spesso, ritirandovi a casa, ne trovate uno, due, tre, quattro; se ne contano fino a dieci, che arrivano nello stesso giorno. Vi date uno sguardo; eccetto qualcuno di voce autorevole e redatto da competenti, tutti gli altri, roba da chiodi. Sono degl'importuni, che vi rubano tempo, denaro e buona digestione. Alcuni vi gettano o meglio vorrebbero gettarvi in un mare di polemiche, di quistioni insulse e pettegole; altri vi affliggono con una eterna geremiade sul regresso artistico. A sentirli, siamo addirittura degli ignoranti — la poesia è finita, il romanzo è agonizzante, il teatro è morto. Altri, gli sfruttatori, vengono col semplice scopo di carpirvi quelle quattro o cinque lire annue e non dicono nulla di nuovo, nulla di interessante: l'unico loro pensiero è di far sapere che “una gran parte degli abbonati non hanno ancora pagato alla nostra amministrazione„, e ve lo dicono in tutte le forme, ve lo condiscono in tutte le salse, ve lo ripetono in tutti i toni. Spesso cercano adescarvi con qualche premio. “Chi manda il suo abbonamento per il 31 corrente riceverà franco di porto un bellissimo libro.„ Se voi siete sordo vi fanno sapere che in [349] ultimo caso c'è il tribunale: la Cassazione di Roma ha deciso che “chi riceve per cinque o sei volte un periodico è considerato come abbonato ed è tenuto al pagamento„.

Che fare? la stampa dev'essere incoraggiata, e guai a chi si permette di dire una parola. Ognuno è libero di scrivere spropositi, tanto più che il Governo Italiano non ha pensato di prenderne la privativa, come del tabacco, mentre dovrebbe farlo, giacchè sia il tabacco, sia i periodici si riducono a fumo.

Ferdinando Martini ebbe il primo numero di una gazzetta, la quale si proponeva di pubblicare solo lavori di studenti, di qualunque classe. Come vedete: una vera pazzia! Il Martini, da buon padre, sul Fanfulla della Domenica, diceva a quei giovani: “Andate a scuola, e se vi avanza un po' di tempo, leggete le Ottave dell'Ariosto e le Odi di Orazio: godrete più voi a gustare quei versi che il pubblico a digerire la vostra prosa!„

Apriti cielo! Gli studenti si ribellarono, i padri di famiglia l'ebbero a male, e il povero Martini dovè convincersi che la verità è sempre dura e che in fatto di stampa bisogna dare il benvenuto a tutti i giornaletti, salvo a cantarne il miserere dopo pochi mesi, giacchè la maggior parte muoiono presto e di morte repentina: oggi pieni di vita, domani nella camera ardente.

Ma — parliamoci chiaro — com'è possibile fare buon viso a tutti? Il bilancio non lo permette. [350] E voi spesso, senza tanti complimenti, scrivete sulla fascetta: si respinge. Alcuni, a quest'atto che sembra scortese, ma che è salutare, mettono il broncio e non si fanno più vedere; altri invece fanno gl'indiani e continuano a venirvi fra i piedi.

Voi con una santa pazienza tornate a scrivere con carattere più grande: si respinge. Peggio! Dopo otto giorni vi arriva il periodico con una lettera del direttore. Voi non lo conoscete, ma dovrà essere un uomo di talento, questo direttore: scrive col voi. Un tempo questo lusso se lo permettevano solo Papi e Imperatori, oggi se lo permettono anche i direttori di giornali. “Abbiamo appreso — egli scrive — che V. S. Ill.ma ha respinto il nostro periodico. Le facciamo rispettosamente osservare che....„ e qui incomincia il panegirico. A credergli, quel giornaletto è stato lodato dal poeta B., dal critico C., gode la simpatia di molti professori, se ne tirano diecimila copie, nell'anno nuovo incomincerà a pubblicare lavori pregevoli del D'Ovidio, del D'Ancona, dello Zumbini ecc. ecc.

Vorreste rispondere: dunque non vi basta, Ill.mo Signor Direttore, annoiare ben diecimila poveretti? Ma poi vi convincete che gli abbonati sono tutt'altro che diecimila, che le poche lire di abbonamento vi si chiedono quasi per elemosina; e così lo lasciate stare in casa, salvo a pentirvene a fine d'anno, quando vi tocca sborsare quelle quattro o cinque lire.

[351]

***

Ma insieme a questi periodici spensierati, birichini, ladri, superbetti, arriva il giornale politico, il grande cicerone del giorno, il severo Catone dei tempi nostri, l'astuto poliziotto, che spia tutti i Governi, tutte le Nazioni, tutti gli uomini.

Lasciamo i giornaletti politici di provincia, che gridano l'osanna a chi li paga, che fomentano tante inimicizie private, che acutizzano le lotte de' partiti locali, che vivono di vita rachitica, limosinando per sottoscrizione. Parliamo del gran giornalone politico, che viene da lontano e che ci parla di tutto il mondo. È galantuomo e villano, è umile e superbo, è arcigno e gioviale, è dignitoso e pettegolo. Vede, scrive, commenta, accresce, altera, trasforma! Che burlone! che verista! che screanzato! che caro amico!

Il Verne faceva compiere al suo lord Fogg il giro del mondo in ottanta giorni, il giornale ve lo fa girare in pochi minuti: vi balza da un capo all'altro della terra, senza che voi ve ne accorgiate.

Ma strano! Nella sua corsa vertiginosa, nella sua fretta indiavolata accoglie tutti i lamenti. Vi hanno fatto un'ingiustizia? avete avuto un sopruso? non siete stato compreso nel quadro di avanzamento? la Minerva non vi paga? i vostri superiori sono indolenti? Ricorrete al giornale e [352] domani lo saprà tutto il mondo. Che! non avete il coraggio di dire in barba al vostro sindaco che egli non pensa alla pulizia urbana? Glielo dirà il giornale.

Per mezzo suo, potete far pervenire le vostre dimostranze a tutte le autorità civili, militari e religiose. Il giornale, questo padrino universale, questo grande patrocinatore di tutte le vittime, non conosce mezzi termini, nè ha riguardi per chicchessia. Voi, per essere ricevuto da un papavero, dovete fornirvi di due o tre biglietti di presentazioni, dar la mancia a cinque o sei bidelli, attendere un paio di ore nelle diverse anticamere, e spesso spesso, quando siete dinanzi alla porta del paradiso, vi sentite dire: “Sua Eccellenza è occupatissima, Sua Eccellenza riceve alle cinque, Sua Eccellenza deve partire. Sua Eccellenza è in colloquio colla Sotto Eccellenza.„

E voi, dopo aver seminato quattrini ed inchini, scendete le scale, benedicendo Carlo Alberto e Figli che ci dettero la salutare Costituzione, per mettere su certe Eccellenze!

Il giornale invece entra dovunque. Dinanzi a lui ogni porta si apre, ogni cortina si solleva. Il ministro fa colazione? è a letto? Lui entra, non per augurargli il buon appetito o la pronta guarigione, ma per dirgli in barba che il suo progetto sul monopolio delle assicurazioni ha scontentato tutti.

[353]

***

Se siete un semplice cittadino e badate ai fatti vostri, il giornale non vi molesta, ma se riuscite ad afferrare un portafogli o un mezzo portafogli, avete da fare con lui! Vi segue dovunque, vi consiglia, vi ammonisce, vi rimprovera, vi insegna come si parla, come si scrive e — se occorre — come si procede da galantuomo. Sempre vigile, esamina i vostri progetti, commenta i vostri discorsi, postilla le vostre circolari. Egli sa quante persone avete ricevuto oggi, quanti strappi avete dato alla legge, quante grazie o scomuniche avete sottoscritte. Insomma per lui non ci sono misteri, non ci sono discrezioni di sorta. Siete un uomo pubblico e dovete dar conto financo di uno starnuto, per non dir peggio!

Che? è ammalato un ministro? Tutti quei segreti che prima restavano tra il medico e la famiglia dell'infermo diventano di pubblica ragione. “Sua Eccellenza ha il diabete, ha la nefrite, la pleurite. Ieri ha rifiutato il latte. Stanotte ha dormito poco. Stamane alle 10 non ha riconosciuto il figliuolo. Alle 19 è entrato in agonia. Ore 21 — è morto. Requie all'anima sua! Requie? il giornale non gli dà requie. Mentre la famiglia piange, mentre gli amici si affrettano a mandare telegrammi e lettere di condoglianza, più o meno bugiardi, mentre il Consiglio dei ministri prepara i [354] solenni funerali a spese dello Stato, il giornale vi tesse la vita dell'estinto: dove fece i primi studî, dove si laureò in legge, — sono quasi tutti avvocati quei signori! — quante volte fu Deputato, quante volte mutò bandiera, quante volte fu Ministro, quanti errori commise; e qui aneddoti, giudizî, interviste. Neppure il testamento è rispettato. È un atto grande e bisogna che si metta in piazza. “L'estinto era ricchissimo — è naturale! — aveva forti possessioni in quel di Bergamo. Egli lascia l'usufrutto alla vedova; alla figliuola, contessa C., cinquanta mila lire; al figlio avv. cav. uff. N. il triplo; al nipote....„ Insomma il giornale ci fa sapere come la defunta Eccellenza ha distribuita quella manna di Stato!

***

Ricordatevi: tre anni fa fece capolino in Russia il colera, un altro bel galantuomo, fratello germano del tremuoto e della peste. Il giornale dette subito l'allarme. “Attenti! l'amico è comparso. Ieri a Pietroburgo 200 casi, 122 decessi. Oggi casi 210, decessi 130.„ I Presidenti dei Consigli ne scrivono ai prefetti. Nettezza, nettezza, botti di acido fenico per tutte le strade. Con queste misure igieniche il pericolo fu scongiurato. Benedetto Iddio. Ma chi operò questo miracolo? Il giornale! Lui ci mise in guardia.

Potreste dire l'anno scorso avemmo il colera [355] nelle Puglie, nella Sicilia, nel Napoletano. E che? il giornale forse non dette per tempo l'allarme? Se il Governo si svegliò, se un Sotto-ministro corse a Bari, e il Ministro-capo a Napoli, se i prefetti, i sindaci, i sanitarî si misero all'opera, se il nostro povero Mezzogiorno sfuggì ad una vera epidemia, bisogna essere grati al giornale, a questa voce misteriosa, che ricorda a ciascuno il proprio dovere, che protesta a nome di tutti, che scuote i sonnolenti, che bolla gl'inetti!

E quest'anno? Silenzio. Giolitti vuole che quest'anno non ci sia colera. C'è? Peggio per lui. Lo Stato non lo riconosce.

***

Chi pubblica il giornale? Gli uomini? No. Sembra che il giornale sia la voce misteriosa dell'universo; è la grande lettera che il mondo intero scrive nelle ore della notte.

Voi la mattina state all'ufficio, al tribunale, a scuola, il giornale arriva e impaziente vi aspetta. Ha tante cose da dire: vi deve parlare della riforma elettorale, del famoso monopolio, dell'inchiesta alla Minerva, delle tenerezze che ci usa l'alleata!

E con lui non si può stare mai di malumore. A guisa di un abile cuoco si presenta sempre con delle salse spiritose. Ecco uno scandalo alla corte di Berlino, due pagine delle Memorie di Luisa di [356] Sassonia, la sfilata delle matrone al processo di Viterbo. E poi, l'inevitabile conflitto tra socialisti e cattolici, la quotidiana catastrofe di un areoplano. Menelik che muore e non muore, il colera che c'è e non c'è, il monumento a Vittorio Emanuele che si inaugura e non si completa.

Insomma niente vi è ignoto. Dopo aver letto il giornale, chiudete gli occhi per dieci secondi e vi vedete dinanzi, come in una grande fotografia, tanti uomini, tanti avvenimenti lieti e dolorosi, tante stranezze che la società ha commesso ieri.

Curioso! Il giornale entra in casa e ne ha per tutti. A voi la politica, alla vostra signora la cronaca, a vostra figlia — debbo dirlo? — la corrispondenza privata o l'avventura romantica, alla domestica i numeri del lotto, alla nonna il diario sacro.

Che, non volete politica? siete un commerciante di cereali? Benissimo. Il giornale vi segna il prezzo del grano, dell'orzo, dei fagioli, dei ceci; e non v'inganna, come quei signori commessi, che giurano e spergiurano sulla menzogna e da cui avete un po' imparato il mestiere anche voi!

Povera donna, aspettate vostro figlio che ritorna dall'America? Ma con quale piroscafo? Con l'Urania? Ebbene, il giornale vi dice che l'Urania è partita il 10 da New York, il 15 è arrivata a Cadice, il 17 a Lione, il 19 sarà a Genova, il 21 a Napoli. Allegra, allegra, buona donna; il 31 vostro figlio sarà a casa e, spero, carico di quattrini.

[357]

Giocate alla borsa? Buona fortuna. Però leggete sempre il giornale. Il giornale vi dice dove la borsa sale, dove scende e dove resta sospesa.

Insomma il giornale è indispensabile a tutti. Voi potete far a meno del sigaro, del caffè, della colazione, del teatro, non del giornale. È lui il deus ex machina della vita moderna. Senza il giornale, voi siete un solitario, un ignorantone, non sapete neppure che cosa succede a dieci passi di distanza. Vergogna!

***

Si chiama giornale politico, ma non s'interessa soltanto della politica. Oh! credete davvero che gli uomini politici valgano gran cosa, e che il giornale sia addirittura a servizio di costoro? Che servizio d'Egitto! Ognuno può essere l'eroe del giornale. Fate qualche cosa di straordinario, di sbalorditivo in bene o in male, e il giornale vi apre le braccia.

Riuscite con astuzia a frodare dei milioni come madama Hubert? vincete il primo premio alla lotteria nazionale? vi elevate a 2000 metri con l'aeroplano senza rompervi o anche rompendovi la nuca del collo? scovrite o fingete di scovrire il polo Nord? il giornale vi mette in prima pagina. E non fa lo schizzinoso, nè si fa vincere dagli scrupoli. La prima pagina, i grossi caratteri sono per tutti quelli che stordiscono il pubblico. [358] Ladri o assassini, viaggiatori o scienziati, grandi furbi o grandi minchioni: tutti al posto di onore.

Che? siete protagonista di un dramma passionale? Bazzica! Domani tutti sapranno il vostro nome, cognome e paternità, tutti vedranno la vostra riverita effigie.

E il giornale non si contenta di lumeggiare, ricostruire, alterare il dramma, ma vuole l'antefactum, vuol sapere il vostro passato, i vostri parenti, la vostra posizione finanziaria e sociale, e fruga nelle corrispondenze, e interroga amici, nemici, domestici.

Guai a chi cade sotto i suoi artigli! Il giornale nella sua fretta è perito, giudice, spia, inquisitore. Voi siete libero di fare quello che volete; ma cauto, sa! Se domani il giornale ne ha un piccolo sentore, state fresco! Quello screanzato porta in processione i fatti vostri, che se sono straordinarî, andranno in prima pagina, con grossi caratteri cubitali; se comuni, in terza pagina, dove tutte le piccole notizie si ammassano senza pietà e senz'ordine, dove sono messi alla rinfusa tutti quelli che muoiono, che viaggiano, che impazziscono, che si divertono, che rubano, che si uccidono, senza destare molto interesse.

Il giornale dunque è come l'orologio, che vi segna ora per ora, minuto per minuto tutto ciò che gli uomini hanno fatto ieri; è come uno specchio, in cui per un momento appaiono le scene liete e dolorose di un giorno.

[359]

Ma quale contrasto bizzarro ne vien fuori!

Sono delle vedute cinematografiche che si succedono con una velocità vertiginosa e che non vi danno neppure il tempo di raccogliere le vostre impressioni: mentre vi affligete per un macabro delitto, un'avventura comica di due giovani sposi vi fa smascellare dalle risa; qui uno scontro ferroviario vi strazia l'animo, più sotto un pranzo coi fiocchi vi stuzzica l'appetito.

Nè mancano le scenette comiche. Il giornale vuole che il pubblico faccia buon sangue. Vedete: a Parigi un poliziotto ruba ed è incaricato di scovrire il ladro; a New York una signorina pretende dai fratelli Wright duecentoventicinque mila lire, perchè l'aeroplano di quei signori le ha rotto il naso; a Roma una donna di 112 anni mette per la seconda volta i denti.

E questi fatterelli, questi aneddoti non mancano mai. Ogni giorno c'è lo spunto di una commedia o di una farsa. Signor Antona Traversi, signor Butti, signor Testoni, signor Lopez, invece di stillarvi il cervello per mettere su certe tele, spesso inverosimili, leggete la cronaca del giornale.

E quel birbaccione, pur di far ridere il pubblico, ne combina delle belle. Inventa? no; altera? no. Fa dello spirito. Ne volete un esempio? Un bel giorno scrive a grossi caratteri: Un parto in Vaticano. Possibile? in Vaticano? Ma questa è calunnia, ma questa è irriverenza, ma questo è un insulto, ma il Governo Italiano dovrebbe intervenire... [360] Signori miei, non vi allarmate. Il giornale non calunnia: il parto c'è stato. Quella screanzata di leoparda, donata da Menelik a Pio X, ha messo fuori un leopardino!

Ma qualche giorno questa varietà manca. Il giornale è monotono, è pieno zeppo di disgrazie: tumulti a Palermo, due scontri ferroviarî in America, un disastro automobilistico in Germania, un naufragio nelle Antille, un uragano a Firenze, un incendio a Mosca, sciopero dei gassisti a Parigi e dei tramvieri a Roma, un palazzo che crolla a Napoli, crisi ministeriale in Austria, terremoto in Cina, peste in Egitto, colera in Albania, scoppio di una miniera nel Marocco, due cassieri di banco che fuggono, cento nichilisti russi condannati a morte, due processi di reati innominabili, sette necrologie, e per giunta la puntata del romanzo ha una scena di sangue. Su quel giornale potreste scrivere: Dies irae!

Un altro giorno festa su tutta la linea: corse a Bologna, gare a Parigi, pranzo di Corte a Berlino, un matrimonio reale, due battesimi mezzo reali, Esposizione a Venezia, approvazione del progetto di legge a favore del Mezzogiorno, una donna vince al lotto 200 mila lire, un'altra donna mette fuori — uno dopo l'altro — tre marmotti rosei e paffutelli. Vi viene la tentazione di gridare come un pazzo: evviva l'abbondanza! evviva l'allegria! evviva la pace!

Che cosa è la lettera? La lettera vi parla di [361] una persona sola e alle volte di una persona a voi indifferente o antipatica, che vi annoia con certe confidenze, con certi consigli; eppure dovete rispondere, dovete spendere i vostri bravi tre soldi e ringraziare l'amico che si è compiaciuto informarvi delle cose sue.

Invece qui sapete che cosa si fa in Italia, in Europa, in Africa, in Asia, in America, in Oceania, finanche nel pianeta Marte, e non dovete ringraziare nessuno: avete pagato!

***

Oggi c'è una gran fretta. Si vive poco, quindi il bisogno di semplificare tutto. Noi moderni siamo un po' ammalati, e due contrarie e strane malattie ci agitano: la febbre dell'interessante, la mancanza, quasi direi, di ogni meditazione. Tutte le nostre azioni risentono di questa doppia malattia morale; quindi una gran paura di perder tempo, un desiderio continuo di sbrigarci subito. Ditemi la verità: non vi sembra mille anni che terminiate di leggere questo libro? E perchè? Perchè si ha fretta. La prerogativa del nostro secolo è la fretta: tutto in fretta, tutto, anche... la morte! Prima le morti repentine erano rare, oggi all'ordine del giorno. Colpa nostra che le abbiamo dato il cattivo esempio! Solo i processi si tramandano alle calende greche. Ma sentite a me: è provvidenziale. Visto e considerato che oggi tutti quelli [362] che ammazzano vengono assoluti, un po' di carcere preventivo, un po' di quarantena non fa male. Se i processi si manipolassero in fretta, Cifariello, Medugno, Bisogni, Erricone e compagni, sarebbero restati in gabbia appena un paio di mesi. Troppo poco, non è vero?

Ma lasciamo stare i processi. È imminente la revisione del codice penale e non sappiamo che ci regalano quei signori della Commissione. Forse...; ma ritorniamo al nostro argomento. Volevo dire: noi abbiamo una fretta indiavolata in tutte le cose. E il giornale, che vive della nostra vita, ci ha pensato. Oggi c'è ancora la smania di leggere romanzi, ma il troppo leggere stanca. È passato quel tempo, in cui si restava dalla mattina alla sera a divorare il Conte di Montecristo o l'Ivanhoe. Il giornale l'ha capito ed ogni giorno, a pian terreno, vi mette una pagina di romanzo inedito, fresco fresco, or ora uscito dalla penna dell'autore. Ve ne dà un pezzetto e voi lo potete leggere in caffè, in treno, nelle anticamere, a letto o... altrove! Sono romanzi a sensazione; spesso presentati in una lingua saracinesca, ma che importa? A noi basta succhiarvi il néttare dell'interessante. Ed anche il giornale ci guadagna: con quella fetta di romanzo vi adesca, vi tien ligato.

Ma non tutti si accontentano del romanzo.

I mirabili portati della scienza, le molteplici quistioni sociali, il nuovo indirizzo letterario attira. [363] Ma è mai possibile ritornare agli studî? Sono tante le noie della vita, tanti gl'impegni professionali che non vi si dà neppure il tempo di grattarvi il capo. Spesso vi viene la tentazione di leggere qualche cosa. Tutti decantano le poesie dell'Aganoor. Vediamo un po' che vuole questa signora. E aprite il volume.

Ma che, dopo una decina di pagine, sentite bussare alla porta.

“È permesso?„

— Avanti. —

“Buon giorno, avvocato; sono venuto per la liquidazione di quelle spese di giudizio.„

“È permesso?„

— Avanti. —

“Signor dottore, per carità, venite, venite subito a casa, c'è mia moglie che non può partorire!„ Voi chiudete il libro e buona notte.

Intanto vorreste stare al corrente di tutto. È vergogna, sa! non poter aprire la bocca quando gli amici discutono con tanta sicumera.

Non vi avvilite. Il giornale vi viene in aiuto e per meglio servirvi si trasforma in una vera enciclopedia. Politica, letteratura, drammatica, filosofia, storia, archeologia, giurisprudenza, medicina, religione, finanze, agricoltura. Qui, una scena di una nuova commedia dell'Antona Traversi, che si rappresenta stasera al Costanzi, là, un pezzetto delle Memorie del Nigra, in cui si parla della fuga dell'imperatrice Eugenia; sopra, una lunga intervista [364] col Flammarion a proposito del radium; sotto, cinque sonetti del Trilussa.

C'è poi in permanenza la colonna dei Bollettini. Il Bollettino Meteorologico per dirvi che se da voi fa caldo, a Catania si brucia, a Milano si soffoca, a Parigi si bolle, a Cristiania si gela. Il Bollettino Finanziario per darvi la lieta notizia che mentre il vostro portafogli è vuoto, la Banca di Londra ha cinquecento milioni, quella di Roma trecento, quella di Genova duecento, quella di Napoli appena cento! Che miseria! sempre pezzenti noi del Sud! Il Bollettino Commerciale, il quale vi informa che in quest'ultima decade è disceso il prezzo del grano, dell'orzo, dei ceci, dei fagiuoli; solo le carote sono in rialzo; nè fa maraviglia: le carote van sempre in alto; appartengono alla famiglia delle zucche! Seguono i concorsi, le aste, i fallimenti, e in ultimo lo Stato Civile, cioè chi nasce, chi sposa, chi muore: le tre azioni inconscienti che commette l'uomo e la donna!

Insomma ogni giorno non manca l'articolo letterario, una primizia poetica, la recensione di un libro nuovo, una conversazione scientifica. E come se ciò non bastasse, un'intera colonna per riassumere gli articoli più importanti delle principali riviste del mondo.

Leggendo per un paio di anni questa quotidiana enciclopedia, senza toccare altri libri, avete già l'aria di uomo colto e in pubblico farete sempre [365] bella figura. La scienza spicciola, che si acquista senza studio e senza lavoro, è qui!

Oggi è inutile comprare libri, è inutile starsene a tavolino dieci ore al giorno per fare una provvista di scienza. Le provviste son sempre pericolose: aggravano il cervello e rovinano la salute. E poi, che bisogno c'è di provviste? Il giornale è lì pronto a servirvi. L'anno scorso, ad esempio, tutti si preparavano a ricevere la non gradita visita di una signora celeste, un po' capricciosa, e, diciamolo pure, un po' pettegola; non per niente la cometa è di genere femminile, mentre i pianeti e il sole, più serî, più ordinati, sono dell'altro genere, cioè del genere nostro!

Intanto, in quei giorni di trepidazione chi vi mise al corrente di ogni cosa? Lo so, voi siete una persona colta, avete fatto i vostri studî, ma vi ricordate più una parola di astronomia? No. Ebbene il giornale, senza darsi l'aria di un maestro, vi disse che cosa è la cometa, che cosa è la chioma, che cosa è la coda, di che si compone l'una e l'altra; quanto è lunga, quanto è larga, quanti chilometri percorre al secondo, quanto dista dal sole, quanto dista dalla terra; e qui fotografia, disegni, interviste con i migliori astronomi del mondo.

In tutti i circoli, in tutti i caffè non si parlava che della cometa. Se a quelle conversazioni avesse potuto assistere Galileo, avrebbe esclamato [366] pien di maraviglia: “Corbezzoli, gli italiani son tutti astronomi con i fiocchi!„

E durante il colera? Il giornale avrebbe dovuto semplicemente informarci dei casi e dei decessi quotidiani, magari alzare un po' la voce con il Governo e con le autorità, che nei momenti del pericolo dormono o fingono dormire, per risvegliarsi poi quando S. M. il Re spande Croci e Commende; ma il giornale fece molto di più: alzò cattedra d'igiene. Quali cibi bisogna mangiare, quali saggiare appena, quali evitare. Niente frutta, niente pesci! Attenti alle sbornie, alle indigestioni! Pulizia, pulizia interna ed esterna!

L'Ufficio Generale d'Igiene, vedendo che il colera si ostinava a voler passare anche la stagione autunnale fra noi, si decise finalmente a pubblicare dieci milioni di opuscoli. Li consegna al Ministero dell'Interno, il Ministero dell'Interno li manda ai Prefetti, i Prefetti ai Sottoprefetti, i Sottoprefetti ai Sindaci, i Sindaci ai brigadieri delle Guardie Municipali... Ditemi la verità, quando riceveste l'opuscolo? Non vi ricordate? Io lo ricordo e lo dico: ebbi l'opuscolo nel mese di dicembre, quando il colera ritornava in Siberia per le sante feste natalizie.

Per fortuna nè io, nè voi avevamo bisogno di questa elemosina che ci viene da Roma. Il giornale, vero e pronto ufficio d'igiene, ci aveva per tempo armati contro il comune nemico!

Ma per tutto questo materiale non bastano quattro [367] pagine; bisognerebbe racchiuderlo in un caratterino minuto, microscopico. No, il giornale non fa economia di carta, nè vuole che stentiate a leggere. Non bastano quattro pagine? sei; non bastano sei? otto. E tutta questa roba ben condita, per un soldo, per cinque soli centesimi!

Ecco perchè si dice che il giornale ha ucciso il libro. Ma non è vero. Il giornale non uccide: è il libro che si ritira, è il libro che ha riconosciuto il suo torto. E sapete qual'è questo torto?

Il libro si ostina a volerci far pensare; il pubblico, no, non vuole pensare più; il pubblico vuole fatti, non idee, vuole la cronaca: cronaca cittadina, parlamentare, giudiziaria, sportiva; vuol sapere che fanno i Deputati con quel maledetto monopolio, che dice Fabbroni, che combina la Germania nel Marocco, che preparano i nazionalisti nel Portogallo, chi ha vinto la tombola telegrafica!

***

Ma c'è altro. Quel giornalone con la sua carta ruvida, con i suoi caratteri nerissimi vi favorisce in tutto. Volete un bel villino, una casetta in campagna per la stagione estiva? Cercate qualche socio per la vostra ditta? Siete disoccupato? Vi manca la persona di servizio? Volete arricchire il vostro salotto di quadri antichi e pregevoli? [368] Volete tirare nella rete un minchione? Volete vendere il vostro vecchio pianoforte?

Il giornale vi offre la sua quarta pagina. Veramente oggi non dovremmo chiamarla quarta; dovremmo chiamarla quinta, sesta, ottava, nona, secondo il caso, ma tant'è, la si chiama quarta pagina. E questo buontempone tiene la sua quarta pagina per vostra comodità: è il mercato, la fiera, dove si compra e si vende. Stando comodamente a casa vostra, potete fornirvi del necessario e del superfluo.

Ma quante bugie! Sentite la voce del ciarlatano e dell'impostore, che cerca carpirvi qualche liretta. A credervi, ogni malattia ha il suo rimedio, certo, infallibile, miracoloso, premiato in mille Esposizioni, sempre con medaglie d'oro, encomiato da migliaia di medici, sempre celebri. Il vostro medico di famiglia vi ha detto che la tisi, il cancro, l'epilessia è inguaribile! Che stupido! Tutto si guarisce, tutto si perfeziona, tutto si corregge. Cucina per gli stomachi forti, cucina per gli stomachi deboli; pomate che vi abbelliscono al di fuori, acque che vi lavano al di dentro. Volete ingrassare? volete dimagrire? volete mandar via i peli superflui e alimentare quelli necessarî? Signorina, il vostro seno è piallato? Carezzatelo con questa polvere, vi gonfierà a vista d'occhio. Che? avete dietro una certa protuberanza? Non c'è bisogno di ricorrere alla sega di butirro, come il gobbo di Peretola. Eccovi [369] un unguento che farà sparire in men di due ore quel vulcano spento. I vostri capelli sono bianchi? diventeranno neri come... il carbone. Siete calvi? diventerete... un orso. Siete gottoso? ballerete come un indiano. Siete vecchio? avete una certa debolezza? Per mezzo di questi nuovi Mefistofele, diventerete giovane come Faust e forti come Ercole. Che? la vostra gallina non fa uova? Ecco una polvere miracolosa! Sette uova alla settimana, sì, sette, anche la domenica! La gallina non è tenuta alla legge sul riposo festivo, nè da parte di Domineddio, nè da parte di Giolitti.

O vedi, vedi! Un occhio vi fissa maledettamente per dirvi che non ci sono più miopi, presbiti e viste deboli; tre bocche spalancate vi presentano un esercito di denti bianchissimi e vi raccomandano l'Odol; due bimbi si deliziano con una grossa bottiglia di Emulsione Scott; un leone con gli occhiali porta scritto sulla coda: assaggiatelo! Migliore del cognac! Ma di grazia, che cosa dobbiamo assaggiare? Il leone? Chi lo sa. Bisognerebbe rivolgersi al signor Bisleri, il quale ha una tenerezza per le belve. Tutte le sue specialità sono custodite da leoni, da iene, da tigri, da serpenti!

Ma via, non perdiamo tempo. Vedete: con poche lire potete vestirvi da principe, comprare una grammatica inglese di nuovo metodo, che vi renderà professore dopo due mesi, aver franco di porto degli estratti celebri che vi daranno cento bottiglie de' più scelti liquori.

[370]

Gratis, gratis, gratis! Vogliono solo sapere il vostro nome, per mandarvi opuscoli, libri, abiti, orologi, ritratti, grammofoni.

E tutto questo vi si annunzia con il più grande apparato, con mille colpi di grancassa. Ognuno alza la voce, ognuno predica insuperabili le sue specialità. È curioso! in mezzo a questo frastuono di ciarlatani, di falsi filantropi, una nidiata di teneri amanti — che profanazione! — si scambiano baci e carezze; un attempato cerca una sposina per i suoi ultimi anni; un povero diavolo promette cento lire a chi gli restituisce il portafogli, smarrito o rubato ieri alla piazza C.; un fanatico collezionista chiede un francobollo di non so qual regno; un voluto professore è pronto a fare da ripetitore, da segretario, da cameriere, magari da guardaportone; tre o quattro tabaccai napoletani — sono tutti cabalisti quei signori! — con novanta miserabili centesimi vi mandano fin in casa una quaterna secca, che vi renderà grasso alla prossima estrazione.

Qualche volta tutto questo frastuono tace; la fiera è deserta; la quarta pagina è vuota. Vuota? no, vedete bene; in un angolo si legge: Per la tosse asinina le pillole Bertelli.

Questi grandi colpi di scena sono concessi al Tot, alle pillole Pink, all'Ischirogeno, all'Olio Sasso, alle Pastiglie Valda, all'Emulsione Scott, non perchè questi prodotti, iscritti nella Farmacopea Ufficiale del Regno, giudicati universalmente miracolosi, [371] siano trattati con più riguardi, ma perchè le rispettive ditte sborsano parecchie migliaia di lire. Il giornale non ha riguardo per chicchessia, nè può perdere il suo tempo ad esaminare la bontà della merce: accoglie tutti. Voi dovete saper scegliere e non farvi infinocchiare!

***

Eppure questo giornale, che vi favorisce in tutto non vive che un giorno! Oggi è desiderato, aspettato con ansia, letto con avidità, discusso calorosamente, domani è già in preda alla domestica o nelle mani dei ragazzi!

La sua presenza annoia: voi non volete cadaveri. Pochi sono quelli che lo conservano e ne fanno la collezione. Alcuni tagliano quella fetta di romanzo, componendo dei bizzarri libretti rettangolari, ma tutto il resto, così deturpato, via!

Coi giornali la vostra signora fa modelli di abiti, coi giornali i vostri bimbi combinano dei grossi berretti alla napoleone, coi giornali si rivestono libri nuovi, si fascia l'interno di vecchi armadi, si avvolgono balocchi e dolci.

Povero giornale, dopo un giorno di trionfo è già vecchio decrepito e comincia la sua Via crucis! Ridotto in piccoli pezzi va a finire in cucina, nella bottega del salumaio, in mezzo alla strada o in un altro luogo... voi m'intendete!

In Cina invece le cose vanno un po' meglio. [372] In ogni famiglia si conservano gelosamente questi fogli e due volte la settimana girano dei carretti per farne la raccolta. Trasportati a Man-War-Cher vengono bruciati in un apposito forno crematorio insieme a bastoni d'incenso. È una cerimonia religiosa addirittura: dinanzi al forno si rizza un altare, su cui una lampada brucia dell'olio santo. Le ceneri poi si chiudono in sacchetti e vengono gettate nel mare.

Voi invece, più moderni, distruggete senza tante cerimonie i giornali, che pure rappresentano la storia di un giorno.

Ma distruggete, distruggete, datelo nelle mani dei vostri bimbi: il giornale non muore! Domani ritornerà con altre notizie più belle, più fresche, più interessanti.

I vostri capelli diventeranno bianchi, i vostri bimbi saranno padri, ma quel giornale, quel gran Cicerone, quell'astuto poliziotto, quel gran furbo, quel caro amico vivrà sempre, sempre, fino a che gli uomini faranno parlare di sè!

[373]

I libri venturi.

Sono disgrazie che accadono a noialtri mortali. Francesco Giarelli, non prevedendo la sua prossima fine, sognava di trovarsi ancora sulla terra dopo il duemila.

“Le energie elettriche — egli dice — hanno conquistato la terra, il mare, l'atmosfera. Tutto è elettrico. Abbiamo l'aeroplano, l'aeronave, i quartieri aerei, gli alberghi e i giardini pensili, i teatri a domicilio, la lingua universale e cento altre cose belle.„

E i libri? Come si pubblicheranno i libri?

Il geniale storico dell'avvenire non ne parla. Si è forse dimenticato. Sta male. È una colpa grave dimenticare i ferri del mestiere. Un letterato che dimentica i libri somiglia al contadino che dimentica il suo arnese. Ma io credo che il Giarelli non si sia dimenticato. Forse avrà creduto che [374] nel duemila non ci saranno più libri. Oggi da tutti si vocifera: “Il libro decade, il libro decade!„ Il Giarelli avrà detto: “Se oggi decade, domani sarà morto.„ E si è ingannato. Le scienze biologiche ci hanno assicurato che nulla muore, proprio nulla. Ciò che esiste oggi 20 luglio 1911 dovrà necessariamente esistere fino al cataclisma generale; andrà soggetto a trasformazione, ad evoluzione, ma morire, no. La morte, è bene che lo sappiano tutti, non esiste. E volete che muoia il libro? Nossignore; il libro non muore: si trasforma.

Edison, questo titano dell'elettrotecnica, autore di oltre 600 invenzioni, pare che voglia cambiar rotta. Visto che non c'è più nulla da scovrire, si è dato alla profezia ed ha detto che avremo una grande rivoluzione nel campo dei libri. “Fuori la carta! La carta è tramite d'infezione. Sarà sostituita da foglietti di nichel, spessi un duemillesimo di millimetro. Un libro dallo spessore di due centimetri conterrà 40 mila pagine e costerà appena sei lire.„

Evviva il buon mercato! La Storia Universale del Cantù sarà racchiusa in un sol volume e costerà dalle tre alle quattro lire. La Divina Commedia, i Promessi Sposi, pochi centesimi! E non ci sarà bisogno di grossi scaffali. Una piccola libreria, alta due metri, potrà contenere migliaia di opere. E poi quei libri avranno sempre il loro valore intrinseco. Oggi i libri vecchi si vendono [375] a peso ai salumai, ma allora si venderanno allo Stato, che ne farà nichelini!

Edison però non ci dice quando verrà questo giorno. Un periodico americano invece ci fa sapere che fra non molto i libri si stamperanno con inchiostro fosforescente. Visto e considerato che la miseria cresce e che l'olio rincara, i nostri figli leggeranno all'oscuro.

Voi ridete? Eh! dovete ridere di compiacenza. Questa invenzione apporta immensi beneficî. Si è sempre detto che un buon libro illumina la mente e riscalda il cuore. Eh! domani ci illuminerà e ci riscalderà da capo a piedi. Non ci saranno più libri oscuri. Tutti risplenderanno di luce propria come il sole!

Sì, ma è troppo poco. Noi non viviamo di sola luce. Il Goethe sul punto di morte, proprio quando stava per prendere il gran volo, gridava: “Luce, luce!„ ma in vita sentì altri bisogni, ebbe altri desiderî.

Le invenzioni debbono essere pratiche, debbono rendere un vero servizio all'umanità.

Le scoverte platoniche, cioè quelle che restano nel puro campo scientifico, sono passate di moda. Noi oggi dalla scienza non vogliamo scienza, ma benessere materiale. Così la pensa un editore tedesco, il quale ci ha promesso che fra un paio d'anni metterà in vendita un giornale mangiabile. Invece della carta, egli userebbe una pasta nutritiva e gradevole che si presta assai all'impressione, [376] e l'inchiostro sarebbe surrogato da uno sciroppo deliziosamente profumato.

Questa volta c'è poco da ridere. L'editore tedesco merita baci. Il suo ritrovato giunge a tempo! Oggi, dopo aver letto il giornale, non sappiamo che farne e spesso ne facciamo un uso molto... umile, chiamandolo come padrino nelle faccenduole più... modeste; domani invece il giornale servirà per la colazione. Piegato in otto, in sedici, in trentadue, secondo la maggiore o minore larghezza della bocca — ci sono certe bocche! — andrà diritto diritto a rifocillare il ventricolo. E siate sicuro che tutti gli articoli — di fondo o di sfondo — saranno gustati dal pubblico. Un discorso del futuro Ministro di Agricoltura, Industria e Commercio, a proposito di un futuro monopolio di Stato, non soddisferà forse la Camera e il Paese, ma lo stomaco, sì.

Di questa provvidenziale scoperta si rallegreranno specialmente i poveri giornalisti. Se l'arte non rende, se la quarta o quinta o sesta o settima o ottava pagina frutta poco, se i Ministeri sopprimono i fondi segreti, pazienza! non per questo mancherà il pane quotidiano; e mentre Saturno, per capriccio egoistico, mangiava i proprî figliuoli, essi per necessità mangeranno i proprî giornali.

Il pane insomma è assicurato, e il pane, come sapete, risolve molti problemi, specialmente per i giornalisti, i quali, in massima parte, lavorano a stomaco vuoto. Sono pochi quelli che mangiano [377] bene e trincano meglio: forse il direttore, il redattore capo, l'amministratore capo, il critico d'arte, i collaboratori illustri; ma tutto il resto della famiglia langue. Quei poveri reporters, che vanno, vengono come cani da caccia, debbono spesso appoggiarsi al muro per non cadere sfiniti. Ma allegri, allegri, o martiri del quarto potere! Se il signore vi farà vivere un'altra ventina d'anni, il mondo cambierà anche per voi!

Ma l'editore tedesco non si ferma ai giornali ed ha ragione. Perchè fermarsi, quando si sa fare così bene? Le scoperte sono come le ciliege: una chiama l'altra. Egli dunque ha pensato anche ai libri.

E così, se la miccia piglia fuoco, i posteri avranno i libri mangiabili!

Non spalancate gli occhi! Oramai ci siamo e bisogna aspettarsi simili tiri. Il poeta ci avverte che sulla terra nihil novi e quindi nessuna cosa deve far maraviglia. Del resto, la fine del mondo non verrà così per capriccio, deve provocarsi con stranezze e stravaganze, e il sole allora si precipiterà nel vuoto, esclamando come il biblico Ercole: “Muoia Sansone con tutti i Filistei„, quando avrà perduto la pazienza e si sarà stancato di illuminare le nostre pazzie.

Ma lasciamo stare il sole! La scienza ha pensato anche a lui e ride di una possibile minaccia. “Se il sole venisse a mancare, — scrive un astronomo tedesco — noi potremmo vivere comodamente [378] nel centro della terra, sviluppando calorico, luce e vita con l'elettrico.„ Il sole dunque poteva fare il capriccioso e il dispotico due secoli fa, ma appena il benedetto ranocchio del Galvani ebbe quella piccola convulsione nevrastenica, i tempi mutarono anche per lui; e l'uomo moderno non solo non l'adora, come una divinità, ma arriva finanche a dirgli che a conti fatti non è poi tanto necessario. Se non gli dà il benservito, è per pura cortesia. Del resto, faccia il suo comodo, noi faremo il nostro, mangiando giornali e libri!

***

Ma non vi faccia gran maraviglia. I libri alle volte sono stati mangiati.

I Tartari, — ce lo dice il signor Augier de Gisten — quando avevano nelle mani qualche libro, lo mangiavano per acquistare la sapienza, prendendo troppo alla lettera quelle parole della Bibbia: “Figlio dell'uomo, mangia questo libro e va a parlare ai figliuoli di Israele. Aprii la bocca e mi fece mangiare il libro, che divenne dolce come il miele.„ Ma se ai Tartari riuscivano dolci come il miele, ad altri invece riuscirono amari ed indigesti.

La storia ci parla di tanti poveretti, che furono condannati a mangiare le proprie opere; e [379] molti letterati sanno di che sapore è il libro stampato.

Il Brunet riporta moltissimi esempî, ma basta per tutti il caso di Isacco Volmar. Costui dettò alcune satire contro il duca di Sassonia, Bernardo il Grande. Fatto poi prigioniero alla presa di Brissac, il duca lo chiama a sè, e, mostrandogli un esemplare di quelle satire, gli dice:

“Hai detto che sono molto pepate; ebbene, voglio che le mangi dinanzi a me, se ami la vita!„

E il povero Volmar dovè, per parecchie ore, masticare e inghiottire quel frutto del suo ingegno, che, quantunque ben pepato, non gli riuscì saporito, nè molto salutare.

Ma ai posteri invece riusciranno saporiti e salutari.

Immagino la cura degli editori per rendere più appetitosa la merce!

Oggi si pensa alla carta americana, all'inchiostro di Monaco, allora si penserà a condire i libri con buoni aromi.

Che bellezza! il Cuore del De Amicis alla vainiglia, l'Asino del Guerrazzi al limone, gli Uccelli del Michelet alla crema, i Miserabili all'anice, i Pezzenti alla cioccolata, ecc., ecc.!

“Ogni cosa nuova — dice il Pascal — porta con se inconvenienti e vantaggi.„ E nel caso nostro gl'inconvenienti ci sono. Prima di tutto per leggere un libro bisogna comprarlo: è inutile ricorrere agli amici. Chi volete che presti un [380] libro, quando leggere sarà sinonimo di mangiare?

E in casa? Tutti i libri debbono essere chiusi a doppio catenaccio. Guai a lasciare aperti gli scaffali! I vostri bimbi vi faranno il bel complimento, ed anche la domestica non avrà scrupolo di mangiarsi a poco a poco tutta la scienza del suo riverito padrone.

Immagino le scenette curiose che succederanno tra padre e figlio.

“Mario, hai mangiato il Diritto Romano?

— Nossignore, papà. —

“E la Procedura Civile? chi ha mangiato la Procedura Civile?„

Del resto non sarà un grave danno: i signori avvocati, anche senza Diritti e Procedure, sapranno andare avanti, infinocchiando clienti e giudici.

Un vero danno sarà per le biblioteche pubbliche.

Chi non ha spiccioli per far colezione si reca subito ad una R. Biblioteca, e col pretesto di studiare, consultare, riscontrare, mangia. Comprendo benissimo che i Governi, savî e previdenti, aggiungeranno nuovi articoli al Codice Penale; comprendo che nelle Biblioteche Nazionali, Provinciali e Comunali ci saranno in permanenza soldati e guardie di città con le baionette in punta, per tener d'occhio gli studiosi. Opera vana! Ci vuol tanto poco ad ingoiare una pagina di libro. Che cosa potrebbero fare quei soldati? [381] Ammazzare un povero diavolo perchè mangia? Starebbero freschi! Credete che nel duemila non ci siano socialisti? I partiti estremi farebbero cadere il Parlamento. Ammazzare chi mangia! Oh! dunque bisogna star digiuni? Reazionari! forcaiuoli! assassini!

Allegri dunque, signori studenti del duemila. La vita per voi costerà poco, giacchè al cibo dell'anima e del corpo provvederanno le R. Biblioteche.

Un vero guaio lo passeranno i poveri maestri elementari.

I nostri marmocchi, quando vanno a scuola, si riempiono le tasche di ciliege e di biscotti, e, mentre il maestro si sfiata per far capire il meridiano o la divisione a due cifre, essi si sgranano la merenduccia; ma domani si adatteranno con i libri.

“Signor maestro, Margiotta si mangia l'aritmetica!„

“Signor maestro, De Nicolais ha mangiato due pagine del mio libro di lettura!„

“Signor maestro! signor maestro!..„

Ed il povero pedagogo a gridare, a minacciare, a castigare, a persuadere con la voce e con gli scappellotti — secondo i regolamenti non si dovrebbero dare, ma si danno lo stesso! — che i libri si mangiano a fin d'anno, dopo gli esami.

Avviso alle future madri: sia abbondante la colazione ai vostri figliuoli. Se voi risparmiate il [382] pane e il companatico, i birichini ricorrono ai libri!

E basta con gl'inconvenienti. A parlarne troppo potremmo sembrare retrogradi. Oggi bisogna dare il benvenuto a tutte le cose nuove e battere le mani ad ogni scoperta: quindi parliamo dei vantaggi.

I vantaggi sono stragrandi. Sentite.

Tutta l'immensa pleiade di poeti, di romanzieri, di novellieri di bassa forza, che non incontrano fortuna e che, malgrado il lavorìo di spalle, non arrivano ad uscire dall'oscurità, potranno cessare i loro lamenti. Se il pubblico è ignorante (lo battezzano sempre così quei signori!) se le conventicole letterarie congiurano a danno di quei poveretti, il caso non è disperato: le spese di stampa non sono mai perdute. Quelle poesie, quei romanzi, quelle novelle, non comprese, resteranno per uso di famiglia, e i fanciulli a colazione, a pranzo e a cena faranno pasqua con i libri del genitore.

Ma ho detto uno sproposito. Nel duemila tutti i libri, tutti, saranno comprati e gustati. E perchè no? Quelli che non vogliono passare per il cervello si faranno passare per lo stomaco. Il benefico effetto si avrà sempre. Che? vi siete dimenticato dell'apologo di Menenio Agrippa? Lo stomaco è la grande Cassa di Depositi e Prestiti, è il quartiere generale, da cui muovono tutte le forze di terra e di mare. Affidate un libro a lui: [383] dopo quattro ore quel libro sarà sangue di prima qualità; e il buon sangue, voi lo sapete, dà buone idee.

Secondo vantaggio. Però questo secondo vantaggio sarà tutto a beneficio dei critici. Dovete sapere che in Italia la professione del critico, specie di quello un po' benevolo, è fastidiosa. Ogni giorno gli piovono addosso una cinquantina di libri nuovi o rimessi a nuovo. E il poveretto, per non essere chiamato scortese o peggio, deve leggere, magari scorrere a volo di uccello quelle primizie ed avere una parola di lode per tutti.

Domenico Oliva si lamentava con alcuni amici di questa pioggia quotidiana. “Ma mi vogliono soffogare? Debbo io dormire, debbo mangiare, debbo farmi una passeggiata, debbo attendere ai fatti miei? Un bel giorno dirò sul Giornale d'Italia che non leggo più libri!„

Signor Oliva, non lo faccia. Oggi è una noia, ma domani? Domani quella pioggia sarà una manna. Cinquanta libri al giorno sono cinquanta ciambelle per i suoi nipotini!

Terzo vantaggio. Le journal de la librerie ci fa sapere che ogni anno si pubblicano un miliardo e mezzo di volumi letterari; e se aggiungi le pubblicazioni scientifiche, le riviste, i giornali, si arriva all'infinito. Migliaia e migliaia di stabilimenti tipografici metton fuori, a getto continuo, libri, libri, libri!

Giustamente molti si sono preoccupati di questa [384] enorme quantità di carta stampata e temono ohe forse un giorno questa pletora di libri, di opuscoli, di fogli, inonderà la terra. L'immane produzione libraria ha colto alla sprovvista le nostre biblioteche. Esse sono piene, strapiene e non possono accogliere neppure un libriccino di poche pagine. Bisogna allargarle, aggiungere nuove sale; ma aggiungi e aggiungi il mondo diverrà tutto una grande biblioteca.

Fino a pochi anni fa, i libri vecchi o inutili si vendevano ai droghieri, ai salumai per carta da avvolgere, e con un soldo vi davano una bella salacca, chiusa in due sonetti del Poliziano o in mezza egloga di Virgilio; ma adesso che la scienza ha scoverto nei libri tutto un esercito di streptococchi, di stafilococchi, di bacilli di Kock e di Therth, bisogna guardarsene.

Dunque che fare di tanti libri? Ricorrete al mare? profanazione; appiccarvi il fuoco? sacrilegio.

Un lord inglese lasciò detto nel suo testamento che voleva essere cremato con i suoi libri. Bel metodo per alleggerire un po' il peso, e noi lo consigliamo a tutti quei signori che anelano alla postuma voluttà di abbrustolirsi, pregustando così un anticipo d'inferno. Ma anche alimentando i forni crematorî il problema non si risolve. I posteri però, lo risolveranno. Si pubblicano un miliardo e mezzo di volumi all'anno? E che? non ci sono altrettante bocche affamate?

[385]

Beati i nostri figliuoli che si troveranno a questi lauti banchetti intellettuali!

E poi vengono a dirci che il mondo invecchiando peggiora. Due bugie. Non invecchia, nè peggiora: diventa pratico!

[386]

L'ultimo saluto.

Mi dispiace, ma proprio in coda dovrò darvi una brutta nuova: un giorno io che scrivo, voi che leggete, moriremo.

Cosa ordinarissima, lo so; ma ordinaria per gli altri, non per me. Io sono abituato a veder morire; con la più grande disinvoltura accompagno amici e nemici al camposanto; ma mi sembra quasi impossibile che la morte debba colpire proprio me! Che muoiano gli altri, è naturale, che debba poi morire io!... Io? Io che sto così bene di salute, che mangio con appetito! Oggi parlo, penso, ragiono e sragiono, domani debbo chiudere gli occhi e lasciarmi aggiustare come una salacca in una cassa funebre più o meno dorata... No, non può essere!

Eppure è. La vita somiglia ad una cambiale. Alcuni, fortunati, l'hanno a lunga scadenza, altri [387] no. Io non ho potuto sapere a quale categoria appartenga, ma ammesso pure che mi trovi tra i fortunati, da qui a quarant'anni avrò fatto i miei bauli.

E quel che è peggio con la morte bisogna lasciare ogni cosa! Gli antichi mettevano in bocca al defunto un obolo. Caronte voleva essere pagato, e poi il danaro non è mai soverchio. I moderni, che non sono superstiziosi e se ne ridono del tartareo barcaiuolo, non mettono in bocca al defunto neppure un soldino. I marenghi restano in casa, e la famiglia, dopo pochi giorni di lutto stretto, li divide con lo Stato, il quale, con la leonina tassa di successione, si è solennemente dichiarato primo erede di tutti quelli che lasciano qualche cosetta mobile o immobile. Ciò non m'inpensierisce. Io nulla lascio, perchè nulla posseggo. Non ritorno nudo in seno alla madre comune per decenza e perchè un abituccio costa poco.

Anzi debbo dire la verità: la morte non mi fa paura per la semplicissima ragione che quando essa viene, io me ne vado. Mi fa invece paura la vecchiaia.

Noi tutti ci auguriamo di vivere cento anni e saremmo capaci di tentare ogni cosa pur di giungere a questa cifra tonda, senza sapere quanto è doloroso l'ultimo trentennio!

La vecchiaia, brr! I poeti l'hanno paragonata al tramonto, all'inverno: similitudini pietose! La vecchiaia non ha paragoni. Dopo i settanta non [388] si vive più: le gambe non vogliono saperne, lo stomaco chiude il suo gabinetto chimico, il tubo maestro è quasi sempre ingombrato, i polmoni sfiatano da ogni parte, insomma locomotiva e vetture non funzionano.

E si potesse almeno mangiare a proprio gusto! Niente maccheroni al sugo, niente fritture, niente aromi. Latte e brodo, brodo e latte: si ritorna bambini. Vi nuoce il caldo, vi nuoce il freddo, vi nuoce l'umido, vi nuoce il levante, vi nuoce il ponente: tutti i punti cardinali vi danno fastidio! Dei trecentosessantacinque giorni appena una ventina sono per voi, gli altri si passano inchiodati sulla fida poltrona o a letto. Il medico? È inutile chiamare il medico. Questo signore accoglie con un sorriso canzonatorio tutti i vostri malanni e mette sempre in campo l'età. Non potete dormire? è l'età; vi duole la testa? è l'età; sentite un ronzìo nell'orecchio e un peso nello stomaco? è l'età. A credergli, questa benedetta età ha messo l'anarchia in tutte le parti del corpo.

E in casa non siete più il Pontefice Massimo, lo Zar delle Russie, nè potete più dire: “Così voglio, così comando.„ Nessuno vuol sentirvi. Finanche la vostra signora, che si mantiene un po' meglio in sesto, vi sopporta a stento e spesso spesso esclama: “Come sei noioso! Faresti passare la pazienza anche a Giobbe!„

Per me, visto e considerato che la vecchiaia è un anticipo di Purgatorio, se grazie a Dio e al [389] medico di famiglia, metterò il piede nel settantesimo anno, ho stabilito di non dare noia a chicchessia. Convinto di non appartenere più nè alla milizia attiva, ne alla territoriale, starò al mio posto di semplice pensionato e, pur di non far perdere la pazienza agli altri, cercherò di essere io un vero Giobbe.

***

E intanto come passare quei giorni? I nipotini vi vogliono bene, ma si seccano di stare sempre col nonno; le nuore, i generi, la persona di servizio, il portinaio, tutti, tutti dicono che voi siete pesante. E dunque? Sentite: Cicerone, l'unico che ebbe la buona idea di consolare i vecchi con un bel libro, che si legge dai giovani, dice: “Non credere che la vecchiaia sia addirittura un supplizio. Se possiedi un orto e una biblioteca, nulla ti mancherà.„

L'orto? L'orto era possibile a quei tempi: oggi no. Specie in città il suolo costa, e invece di piantarvi aranci o fiori vi si edifica una palazzina.

Ma Cicerone, da uomo di mondo, aggiunge subito: “Del resto l'orto non è poi tanto necessario: basta la biblioteca„, e ricorda tanti vecchi, greci e romani, che trascorsero gli ultimi anni in mezzo ai libri e furono felici.

Facciamo tesoro di questo consiglio, e gli ultimi [390] anni passiamoli qui, nella stanza da studio. Quando tutti ci abbandonano, quando ci vediamo soli, in mezzo ad una generazione che non ci comprende, che non ci sopporta, chiudiamoci in questo sacro eremitaggio. Qui troveremo gli amici della nostra infanzia, i compagni dei nostri studî prediletti.

Venga, venga la vecchiaia, con i suoi acciacchi, con i suoi disinganni, con le sue ingratitudini, con i suoi rimpianti: finché avremo un libro, avremo un consolatore.

E venga anche la morte. Quando tutto ci dirà che bisogna partire, noi ci faremo condurre qui, in questa stanzetta di pochi metri, dove abbiamo trascorsa la maggior parte della nostra vita. E quando il nostro cuore darà l'ultimo palpito, quando la nostra intelligenza avrà l'ultimo bagliore di luce e ci sembrerà sentire tanti suoni impercettibili, tante voci misteriose allora, o cari libri, vi daremo l'ultimo saluto riverente ed affettuoso.

Forse non ci sarà possibile pronunziare la dolce parola di addio. Appena uno sguardo, appena un cenno della mano tremante; ma quello sguardo, quel cenno dirà che noi vi ringraziamo dell'opera benefica esercitata sul nostro spirito.

Noi moriremo, ma resteranno i nostri figliuoli, questi giovani baldi, pieni di fede e di entusiasmo. Accompagnateli per il sentiero dell'arte, e dite loro che “gli studî, fatti in silenzio, con la quieta [391] fatica di tutti i giorni, con la feconda pazienza di chi sa aspettare, con la serenità di chi vede in fine d'ogni intenzione la scienza e la verità, rafforzano, sollevano, migliorano l'ingegno e l'anima!„

Fine

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.

Copertina elaborata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.