The Project Gutenberg eBook of La civiltà del secolo del Rinascimento in Italia, Volume II

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Title: La civiltà del secolo del Rinascimento in Italia, Volume II

Author: Jacob Burckhardt

Translator: Diego Valbusa

Release date: January 3, 2021 [eBook #64206]

Language: Italian

Credits: Barbara Magni, Carlo Traverso and the Online Distributed Proofreading Team at https://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by The Internet Archive)

*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LA CIVILTÀ DEL SECOLO DEL RINASCIMENTO IN ITALIA, VOLUME II ***

LA CIVILTÀ DEL SECOLO DEL RINASCIMENTO IN ITALIA

VOLUME II.


LA CIVILTÀ
DEL SECOLO
DEL RINASCIMENTO
IN ITALIA

SAGGIO
DI
JACOPO BURCKHARDT

TRADOTTO SULLA SECONDA EDIZIONE TEDESCA
DAL PROFESSORE

D. VALBUSA
con aggiunte e correzioni inedite fornite dall'Autore

VOLUME II

IN FIRENZE
G. C. SANSONI, EDITORE
1876


In Firenze — Tip. e Lit. Carnesecchi, Piazza d'Arno.



INDICE


[5]

PARTE QUARTA SCOPERTA DEL MONDO ESTERIORE E DELL'UOMO

[7]

CAPITOLO I. Viaggi degli Italiani.

Colombo. — La Cosmografia nelle sue attinenze coi viaggi.

Vinti gl'innumerevoli ostacoli, che altrove arrestarono il progresso, raggiunto un alto grado di sviluppo individuale ed educati alla scuola dell'antichità, gli Italiani si volgono ora alla scoperta del mondo esteriore e si accingono a riprodurlo nella scienza e nell'arte. Ma, rispetto a quest'ultima, non è ufficio nostro il segnalarne ora i progressi, che più convenientemente dovrebbero riserbarsi ad una trattazione speciale.

Anche sui viaggi compiuti dagli Italiani in lontane regioni noi non possiamo permetterci qui che alcune considerazioni generali. Le Crociate aveano aperto agli Europei paesi da lungo tempo sconosciuti, e risvegliato dovunque l'istinto della vita errabonda ed avventuriera. Non è, nè sarà mai facile il dire quando questo istinto si sia collegato con lo spirito d'investigazione scientifica o si sia posto del tutto al servigio di quest'ultima; ma non v'ha dubbio che ciò accadde in Italia assai per tempo e in modo più largo e compiuto, che non in qualsiasi altro paese. Già anche alle Crociate gl'Italiani aveano [8] preso una parte molto diversa da quella degli altri popoli d'occidente, avendo essi flotte e interessi commerciali in oriente; e da tempo immemorabile il Mediterraneo aveva svolto negli abitatori delle sue rive tendenze affatto speciali, per cui avventurieri nel senso nordico gli Italiani non poterono, per la stessa loro indole, diventar mai. Ma quando si furono sufficientemente famigliarizzati con tutti i porti orientali del Mediterraneo, accadde invece che i più intraprendenti si sentissero portati ad abbracciare la vita nomade e vagabonda dei viaggiatori arabi, che vi s'incontravano dappertutto, avendo già dinanzi a sè gran parte della terra omai più o meno scoperta. Ovvero, come i Polo veneziani, trovaronsi involti nelle correnti del mondo mongolico e furono portati sempre più innanzi sino ai piedi del gran trono dei Tartari. Anche nel mare Atlantico noi troviamo assai per tempo singoli Italiani associati a questa o a quella scoperta; furono infatti i Genovesi, che ancora sin dal XIII secolo trovarono le Canarie,[1] e genovesi pur furono quelli, che nello stesso anno 1291, quando appunto andava perduta Tolemaide, ultimo avanzo dell'oriente cristiano, fecero il primo tentativo, che si conosca, di trovare una via marittima alle Indie orientali:[2] sotto questo riguardo adunque Colombo non fu il solo, ma il più grande in una schiera numerosa di Italiani, che navigarono in mari remoti al servizio delle [9] potenze occidentali. Ora, se vero scopritore non è già colui, che casualmente approda pel primo ad un paese, ma chi, dopo averlo cercato, lo trova, e se costui soltanto raccoglie la gloria di tutti gli sforzi de' suoi predecessori e acquista il diritto di portar pel primo la parola sugli altri, non v'ha dubbio che gl'Italiani, quando anche si volesse loro contrastar la priorità dell'arrivo in qualsiasi spiaggia, rimarranno pur sempre il popolo scopritore per eccellenza durante tutto il periodo ultimo del medio-evo.

Il corroborare questa asserzione con prove spetta alla storia speciale delle scoperte. Ma non per questo verrà mai meno l'ammirazione dovuta alla grandiosa figura del Genovese, che divinò, cercò e ritrovò un nuovo continente al di là dell'oceano, e che pel primo potè dire: il mondo è poco, la terra non è così grande, come si crede. Mentre la Spagna dava all'Italia un Alessandro VI, l'Italia dava alla Spagna un Colombo: poche settimane prima della morte di quel Papa (7 luglio 1503), questi scriveva dalla Giamaica quella splendida lettera agli ingrati re cattolici, che la posterità non potrà mai leggere senza un senso di profonda commozione. E in un codicillo, datato da Valladolid nel 4 maggio 1506, lascia egli «alla sua diletta patria, la repubblica di Genova», quel libro di preghiere, che gli fu regalato da papa Alessandro, e dal quale attinse «sommo conforto nel carcere, nelle lotte e in ogni specie di avversità». Si direbbe quasi che con ciò il grand'uomo avesse avuto in mira di diffondere un ultima aureola di perdono e di pace sull'abborrito nome dei Borgia.


La stessa legge di brevità che ci è imposta rispetto ai viaggi degli Italiani, ci si impone altresì, per l'indole [10] del nostro lavoro, rispetto allo sviluppo che ebbe presso di loro l'esposizione dei dati e delle dottrine geografiche, ossia riguardo alla parte, che essi presero al progressivo allargarsi della cosmografia. Ma anche un semplice confronto superficiale con quanto fecero gli altri popoli mostra negli Italiani una priorità e superiorità incontrastabili. Dove, fuori d'Italia, alla metà del secolo XV, avrebbesi potuto trovare in un uomo solo tante cognizioni geografiche, statistiche e storiche, quante si riscontrano in Enea Silvio? Dove una esposizione altrettanto larga e compiuta? E non solo nel suo principale lavoro cosmografico, ma anche nelle sue Lettere e nei Commentarli egli descrive con sempre uguale maestria paesi, città, costumi, industrie prodotti, condizioni politiche e costituzioni, quando può parlare di veduta propria o sulla fede di testimonianze viventi; mentre invece in ciò che ha attinto dai libri si nota generalmente una certa fiacchezza e quasi perplessità. Anche il breve schizzo,[3] che egli ci dà di una vallata del Tirolo, dove Federigo III gli conferì una prebenda, non lascia senza osservazione nessuno dei rapporti più disparati della vita e rivela nel suo autore un dono, ed un metodo d'indagine obbiettiva e comparativa, quale soltanto poteva avere un connazionale di Colombo, nutrito di buoni studi. Mille altri videro e seppero, almeno parzialmente, ciò che egli vide e seppe, ma senza risentire un prepotente impulso a darne un'immagine, e senza la coscienza che il mondo e il tempo la domandavano.

[11]

Del resto, anche nella, cosmografia sarà fatica perduta[4] il voler distinguere con precisione ciò che si deve riguardare come un portato degli studi dell'antichità da ciò, che è da ascrivere al genio speciale degli Italiani. Essi considerano e trattano le cose di questo mondo da un punto di vista obbiettivo prima ancora di conoscere esattamente gli antichi, perchè essi stessi sono tuttavia un popolo semi-antico e perchè le loro condizioni politiche ve li predispongono; ma non sarebbero così rapidamente giunti ad un tal grado di maturità, se gli antichi geografi non avessero già loro additato la via. Incalcolabile da ultimo è l'influenza, che esercitarono le cosmografie italiane già esistenti sullo spirito e sulle tendenze dei viaggiatori e degli scopritori. Anche il semplice dilettante di una scienza, quale, ad esempio, sarebbe Enea Silvio, se per un momento lo si volesse collocar tanto in basso, può benissimo circondarla di quel fascino prepotente, che per nuovi intraprenditori costituisce il nuovo terreno indispensabile di una opinione pubblica prevalente, di un preconcetto favorevole ad una impresa. Solo i veri scopritori in qualsiasi ramo dello scibile sanno valutare tutta l'importanza del servigio, che con ciò vien reso agli arditi loro concepimenti.

[13]

CAPITOLO II. Le scienze naturali in Italia.

Tendenze all'empirismo. — Dante e l'astronomia. — Ingerenza della Chiesa. Influenza dell'umanismo. — Botanica; i cultori del giardinaggio. — Zoologia: i serragli. — Il seguito di Ippolito de' Medici; gli schiavi.

Quanto al posto che spetta agli Italiani nel campo delle scienze naturali, noi non possiamo far altro che rinviare il lettore ai trattati speciali, fra i quali non ci è nota che l'opera evidentemente troppo superficiale e dogmatica del Libri.[5] La contesa sulla priorità di singole scoperte ci par tanto meno importante, in quanto siamo del parere, che in ogni tempo e in ogni popolo civile è possibile che sorga un uomo, il quale, fornito di una cultura assai limitata, per irresistibile impulso si getta in braccio all'empirismo e, per una felice disposizione naturale, fa progressi maravigliosi. Tali furono Gerberto di Reims e Ruggero Bacone; e se essi, per soprappiù, si appropriarono poi nella loro specialità tutto il sapere del loro tempo, ciò non fu che una conseguenza legittima dello scopo, che avevano in vista. Una volta squarciato [14] il velo dell'errore, tolto il fascino delle tradizioni, e dell'autorità delle scuole e superato quel religioso terrore che soleva ispirar la natura, i problemi abbondarono d'ogni parte ai loro occhi. Ma la cosa è molto diversa quando lo spirito d'osservazione e d'investigazione della natura è privilegio speciale di un popolo intero, e conseguentemente lo scopritore non è nè minacciato, nè condannato al silenzio, ma può anzi contare sul consenso e sul favore universale. E in tali condizioni pare essersi trovata appunto allora l'Italia.[6] Non senza orgoglio i naturalisti italiani additano le prove e gl'indizi, pei quali non si può dubitare dell'empirismo di Dante nello studio della natura.[7] Intorno a certe singole scoperte o priorità nella menzione di speciali fenomeni, che essi gli attribuiscono, noi non arrischieremo nessun giudizio; ma anche l'uomo il più profano dovrà restar sorpreso dinanzi alla grande potenza di osservazione, che traluce da tutte le sue immagini e similitudini. Più assai che in qualsiasi altro poeta moderno, esse appariscono in lui desunte dalla vita reale tanto della natura, che dell'uomo, ed egli se ne serve non già a semplice studio di ornamento, ma per porgere un'idea quanto più sia possibile adeguata di ciò che vuol dire. Nell'astronomia poi egli dà prove di cognizioni affatto speciali, quantunque non si debba disconoscere che molti di quei passi del suo gran poema che ora destano stupore, in allora fossero intesi universalmente. Dante infatti, senza [15] tener conto della sua erudizione, si fonda sopra un'astronomia popolare molto diffusa al suo tempo e che gli Italiani, popolo essenzialmente marittimo, avevano ereditato già degli antichi. La cognizione esatta del sorgere e del tramontare delle costellazioni non è oggidì più necessaria per l'uso introdotto degli orologi e dei calendari, e con essa andò perduto anche tutto quell'interesse, che il popolo era solito di prendere per tanti altri fatti astronomici. Presentemente abbondano i manuali e gli insegnamenti per guisa, che ogni fanciullo sa ciò che Dante non sapeva, che cioè la terra si gira intorno al sole; ma, fatta eccezione degli uomini della scienza, l'interesse pei grandiosi fenomeni celesti ha fatto luogo alla più completa indifferenza.

Ciò non ostante, neanche i delirj astrologici, nei quali deviò poscia l'astronomia, non provano nulla contro le tendenze empiriche degli Italiani d'allora; esse non furono che attraversate e vinte per un momento dalla smania ardentissima di conoscere l'avvenire. E anche di questi delirj avremo occasione di parlare, quando ci faremo a studiare il carattere morale e religioso della nazione.


Contro questa ed altre scienze erronee la Chiesa s'era mostrata quasi sempre assai tollerante, ed anche contro la schietta investigazione della natura essa non procedette mai con rigore, se non quando le accuse — vere o non vere — involgevano anche un sospetto di eresia e di negromanzia, che per vero ci andava molto dappresso. Ma la questione, che importerebbe risolvere, sarebbe propriamente di sapere sino a qual punto ed in quali casi gli Inquisitori domenicani, ed anche in parte i francescani, abbiano avuto in Italia la coscienza delle falsità [16] delle accuse che si portavano al loro tribunale, e tuttavia abbiano continuato a condannare, sia per connivenza verso i nemici degli accusati, sia per tacita avversione contro lo studio della natura in generale e più specialmente poi contro ogni esperimento scientifico. Quest'ultimo caso può essersi talvolta verificato, ma sarebbe pressochè impossibile l'addurne le prove. Ciò che può aver cagionato nel nord simili persecuzioni, l'opposizione ostinata del sistema ufficiale della scienza fisica accettato dagli scolastici contro i novatori, come tali, non potrebbe quasi affatto tenersi a calcolo rispetto all'Italia. Si sa che Pietro d'Abano (vissuto al principio del secolo XIV) non cadde vittima che dell'invidia collegiale di un altro medico, che lo accusò presso l'Inquisizione di eresia e di magia,[8] ed altrettanto si può supporre anche rispetto al suo contemporaneo padovano, Giovannino Sanguinacci, perchè, come medico, inclinava alle innovazioni; ma questi ne uscì con una semplice condanna di esiglio. Per ultimo non bisogna dimenticare, che in Italia i domenicani, come inquisitori, non ebbero mai tanta potenza, come nei paesi settentrionali; sì i tiranni, che le repubbliche più d'una volta nel secolo XIV diedero prove tali di disprezzo verso il clero in generale, che non la semplice investigazione della natura, ma molte altre cose ben più rilevanti andarono impunite. Ma quando, col secolo XV, l'antichità prevalse in tutti i rapporti della vita, la breccia aperta nel vecchio sistema s'allargò in favore d'ogni specie di indagine profana, con questo però che l'umanismo tirò a sè le migliori forze e nocque con ciò [17] allo studio empirico della natura.[9] In mezzo a ciò si risveglia pur sempre qua e là di nuovo l'Inquisizione e punisce o manda al rogo qualche medico, perchè bestemmiatore e negromante, nè, in tali casi, si può mai dire con certezza quale sia stato il vero e più riposto motivo della condanna. Ma, anche in onta a tutto questo, sul finire del secolo XV l'Italia con Paolo Toscanelli, Luca Paccioli e Leonardo da Vinci era senza paragone il primo paese d'Europa in fatto di matematiche e di scienze fisiche, e i più gran dotti del mondo moderno si riconoscevano suoi discepoli, non esclusi nemmeno il Regiomontano e il Copernico.


Un indizio importante dell'amore generalmente diffuso alle scienze naturali si ha anche nello zelo, con cui si cercò assai per tempo di mettere insieme delle collezioni per lo studio comparativo delle piante e degli animali. Innanzi tutto l'Italia è solita darsi il vanto di essere stata la prima a possedere orti botanici, sebbene parrebbe che in sulle prime essi non esistessero che con intenti di pratica utilità, e d'altronde sia anche discutibile il vanto di priorità, ch'essa si arroga. Senza paragone più importante invece è il fatto, che tanto i principi, quanto i ricchi privati, nel mettere insieme i loro giardini di piacere, si trovarono naturalmente condotti a far collezioni di piante quanto più si potesse nuove e di specie diverse. Così nel secolo XV il magnifico giardino [18] di villa Careggi dei Medici ci vien dipinto pressochè come un orto botanico,[10] ricco di innumerevoli specie di alberi e di piante. Ed altrettanto, al principio del secolo XVI, ci vien detto di una villa del cardinale Triulzio nella campagna romana,[11] non lungi da Tivoli, dove erano siepi di rose d'ogni specie, alberi d'ogni sorta, piante fruttifere di tutte le possibili varietà e un grande orto con venti specie di uve. Qui evidentemente si ha qualche cosa di più che un pajo di dozzine di piante medicinali universalmente conosciute, quali non mancano nei giardini di tutti i castelli e dei conventi degli altri paesi d'occidente: oltre ad una cultura assai progredita delle piante fruttifere pei vantaggi che se ne ritraggono, si vede un interesse speciale per le piante in sè medesime, per ciò che esse hanno in sè di notevole. La storia dell'arte c'insegna come solo più tardi questa passione delle collezioni fece luogo alle esigenze del gusto architettonico pittoresco.


Anche l'allevamento di animali rari e forestieri non si può immaginare scompagnato da uno spirito superiore d'osservazione. Il facile trasporto dai porti meridionali ed orientali del Mediterraneo e le condizioni favorevoli del clima italiano rendevano possibile l'acquisto delle maestose belve del sud e accettabili i doni, che di quando in quando ne facevano i Sultani.[12] L'animale preferito [19] tanto nelle repubbliche, che nei principati è di regola il leone, anche se non figuri nel loro stemma, come era appunto il caso di Firenze.[13] Le tane, dove si tenevano rinchiusi, erano o nei palazzi del governo o in prossimità di essi, come, ad esempio, in Perugia e in Firenze; quelli di Roma erano nei sotterranei del Campidoglio. Infatti questi animali si adoperavano talvolta per l'esecuzione delle sentenze capitali in affari politici,[14] e tenevano inoltre vivo nel popolo un certo rispettoso spavento. Di più, il loro contegno si aveva in conto di un misterioso pronostico: la loro fecondità si riguardava come un segno d'imminente prosperità generale, ed anche Giovanni Villani non crede di derogare alla propria dignità notando di avere assistito di persona al parto di [20] una leonessa.[15] I lioncelli usavasi di regalarli alle città e ai principi vicini, ed anche ai Condottieri, qual premio al valore.[16] I Fiorentini ebbero pure assai per tempo dei leopardi, pei quali tenevano ai loro stipendi un apposito domatore.[17] Borso da Ferrara faceva combattere i suoi leoni con tori, orsi e cinghiali.[18]

Sul finire del secolo XV poi trovansi, come oggetti di necessario lusso, in parecchie corti principesche dei veri serragli. «Alla magnificenza di un gran, signore, scrive Matarazzo, s'appartiene di possedere cavalli, cani, muli, sparvieri ed altri uccelli, come altresì buffoni, cantanti e bestie feroci».[19] Il serraglio di Napoli al tempo di Ferrante conteneva una giraffa ed uno zebro, doni del monarca di Bagdad, a quanto sembra.[20] Filippo Maria [21] Visconti possedeva non solo dei cavalli, che vennero pagati 500 e sin 1000 ducati d'oro ciascuno, e pregiatissimi cani inglesi, ma anche molti leopardi, fatti venire da diverse regioni d'oriente: il mantenimento de' suoi uccelli da caccia, che avea fatto raccogliere in tutto il settentrione, non gli costava meno di 3000 ducati d'oro ogni mese.[21] Emanuele il grande, re di Portogallo, sapeva bene qual prezioso regalo faceva a Leone X, quando gli mandò un elefante ed un rinoceronte.[22] E per tal modo si veniva ponendo le basi della scienza zoologica e della botanica.

Lo studio pratico della zoologia ebbe impulso poi dall'allevamento delle razze cavalline, delle quali quella mantovana di Francesco Gonzaga passava per la prima d'Europa.[23] L'uso di attribuire un pregio speciale a certe razze è certamente tanto antico, quanto l'arte del cavalcare, e la produzione artificiale di razze ibride deve essere stata comune specialmente sin dal tempo delle Crociate; ma, quanto all'Italia, la conquista dei premi nelle corse, che si davano in qualunque città di qualche importanza, era il movente più efficace per cercarvi la produzione dei cavalli pregiati sopratutto per somma celerità. E appunto nella razza mantovana crescevano [22] gl'infallibili corridori di questa specie, ma, oltre a ciò, anche i più nobili cavalli da battaglia, e in generale cavalli tali, che, fra tutti i doni fatti a gran signori, si avevano pei più degni di un principe. Il Gonzaga teneva nelle sue stalle stalloni e giumente di Spagna e d'Irlanda, nonchè d'Africa, di Tracia e di Cilicia, e, per avere quest'ultime, egli coltivava costantemente l'amicizia dei Gransultani. Tutte le varietà furono quivi tentate per produrre quanto più si potesse di eccellente e di perfetto.


Ma a questo tempo non mancò neanche quello che si direbbe un serraglio d'uomini: il celebre cardinale Ippolito de' Medici,[24] figlio bastardo di Giuliano duca di Nemours, manteneva nella strana sua corte una schiera di selvaggi, che parlavano più di venti lingue differenti ed erano ciascuno quanto di più perfetto poteva dare la razza, alla quale appartenevano. Qui infatti si vedevano incomparabili volteggiatori di puro sangue moresco tolti alle regioni settentrionali d'Africa, arcieri tartari, lottatori negri, palombari indiani e turchi, che tutti insieme, specialmente nelle cacce, formavano il seguito del cardinale. Quando egli fu rapito da una morte precoce (1535), questa turba svariata ne portò a spalle la salma da Itri a Roma, e al lutto generale della città per la perdita di un signore così liberale confuse le sue nenie funebri, espresse in tante lingue e accompagnate da animatissime gesticolazioni.[25]

[23]

Queste sparse notizie sulla parte che ebbero gl'Italiani nello studio delle scienze naturali e della varietà e ricchezza dei prodotti della natura in generale, non sono che cenni imperfettissimi del molto di più, che potrebbe dirsi in proposito. Nessuno, meglio dell'autore, sente la lacuna, ch'egli a questo riguardo è costretto di lasciare in questa parte del suo libro; ma egli non esita a confessare che di molte delle opere speciali, che potrebbero abbondantemente riempirla, non ha potuto vedere presso a poco che il titolo o il frontispizio.

[25]

CAPITOLO III. Scoperta del Bello nel paesaggio.

Il paesaggio nel medio-evo. — Il Petrarca e le ascensioni alpine. — Il Dittamondo di Fazio degli Uberti. — La scuola fiamminga. — Enea Silvio e le sue descrizioni.

Ma, oltre all'investigazione scientifica, eravi anche un'altra maniera di accostarsi alla natura, ed in un senso affatto particolare. Gli Italiani sono i primissimi fra i moderni, che intravidero e gustarono il lato estetico del paesaggio.[26]

Questa attitudine è sempre il risultato di un lungo e complicato svolgimento della cultura, e la sua origine è assai difficile da rintracciare, in quanto che un sentimento segreto di questa specie può esistere da lungo tempo, prima che si manifesti nella poesia e nella pittura e con ciò acquisti la coscienza di sè medesimo. Presso gli antichi, per esempio, l'arte e la poesia si restrinsero alla rappresentazione di tutto il ciclo della vita umana, prima di passare e descrivere quella della [26] natura, e quest'ultima rappresentazione rimase pur sempre dentro limiti molto ristretti, non ostante che, da Omero in poi, in un numero grandissimo di espressioni e di versi apparisca evidente l'impressione sempre più forte, che la natura veniva facendo sull'uomo. Più tardi le stirpe germaniche, che fondarono le loro signorie sulle rovine dell'Impero romano, portavano già con sè una naturale predisposizione a sentire altamente il lato spirituale della scena campestre, e quand'anche il Cristianesimo le abbia costrette per un certo tratto di tempo a non vedere nelle fonti e nei monti, nei laghi e nei boschi sino allora venerati che la presenza di spiriti falsi e bugiardi, non v'ha dubbio però che questo stadio di transizione fu presto assai da esse superato. Egli è un fatto che ancora nel colmo del medio-evo, intorno all'anno 1200, esiste nuovamente un sentimento schietto e profondo del mondo esteriore, che si manifesta chiaramente nei canti dei menestrelli delle diverse nazioni.[27] Da essi traspare un vero entusiasmo pei fenomeni più semplici, quali l'apparir della primavera e dei fiori, il rinverdire delle foreste e dei boschi. Ma sono scene senza sfondo, talmente che anche i loro personaggi, i crociati, che pur corsero tanta parte di mondo, in quei canti quasi non figurano più come tali. Anche la poesia epica, la quale, ad esempio ci descrive con tanta esattezza gli abbigliamenti e le armature dei guerrieri, non è che imperfettissima nella descrizione dei luoghi, e il grande Volframo di Eschenbach ci dà appena un'immagine sufficiente della scena, nella quale si movono i suoi personaggi. Da quei canti [27] infatti nessuno indovinerebbe, che questa nobiltà poetante d'ogni paese abitasse o avesse visitato e conoscesse perfettamente migliaja e migliaja di castelli situati nelle posizioni le più pittoresche. Anche nelle poesie degli scolari vaganti (v. pag. 235) manca il senso della prospettiva, il paesaggio propriamente detto, mentre invece le cose vicine sono talvolta dipinte con tal vivezza di colorito, che non se ne trova riscontro in nessun menestrello della Cavalleria. Infatti dove trovare una descrizione della foresta d'amore simile a questa, che noi crediamo di un poeta italiano del secolo XII?

Immortalis fieret

Ibi manens homo:

Arbor ibi quaelibet

Suo gaudet pomo:

Viae myrrha, cinnamo

Fragrant et amomo —

Conjectari poterat

Dominus ex domo[28] ecc.

Egli è evidente che per gli Italiani la natura è già da lungo tempo monda e purificata da ogni influsso di potenze soprannaturali. San Francesco d'Assisi nel suo Inno al sole loda il Signore non per altro, che per la creazione delle luci del cielo e dei quattro elementi.

Ma le prove più convincenti della profonda impressione esercitata dalla natura sull'animo dell'uomo cominciano con Dante. Egli ci ritrae al vivo in poche linee non solo il sorgere dell'aurora e il tremolar della marina sotto la brezza mattinale o la tempesta che fa tremar le selve ed i pastori, ma sale altresì sulle cime dei monti [28] coll'unico intento di goder grandiose prospettive[29], uno dei primi o il primo forse, dopo i poeti antichi, che abbia sentito la bellezza di tali spettacoli. Il Boccaccio lascia indovinare, più che non descriva egli stesso, quanta sia l'impressione che fanno su lui le scene della natura; tuttavia ne' suoi romanzi pastorali non si può disconoscere qualche tratto di squisito e delicato paesaggio, che, se non altro, avrà esistito nella sua fantasia.[30] Con coscienza poi ancor più compiuta il Petrarca, uno dei primi uomini perfettamente moderni, mostra l'importanza delle grandi scene della natura per un anima sensitiva. Quel lucidissimo spirito, che pel primo cercò in tutte le letterature le origini e i progressi del sentimento pittoresco della natura, e che ha dato egli stesso ne' suoi Tableaux de la nature i quadri descrittivi più perfetti che esistano, Alessandro Humboldt, non s'è mostrato del tutto giusto riguardo al Petrarca, ed è perciò che, anche dopo quanto egli ne scrisse, a noi pure rimane qualche cosa da aggiungere.

[29]

Il Petrarca non fu soltanto un valente geografo, — si vuole che a lui si debba la primissima carta d'Italia,[31] — e nemmeno ripetè semplicemente quanto avevano detto gli antichi,[32] ma il vero aspetto della natura trovò nel suo spirito un eco immediato. Il godimento degli spettacoli naturali gli vien gradito in qualsiasi mentale occupazione: associando l'una cosa coll'altra, s'intende assai facilmente quel desiderio di solitudine erudita, che lo incatena a Valchiusa ed altrove, e le sue fughe periodiche dal suo secolo e dal mondo.[33] Gli si farebbe un gran torto, se dalla sua ancor debole e scarsa potenza descrittiva della natura si volesse inferire in lui una certa mancanza di sentimento. La descrizione del maraviglioso golfo della Spezia e di Porto Venere, per esempio, ch'egli innesta sulla fine del sesto canto dell'«Africa», e che non fu mai fatta da nessuno nè degli antichi, nè dei moderni,[34] non è, a dir vero, niente più che una semplice enumerazione. Ma egli conosce omai la bellezza, che risulta dal contrasto dalle rupi, e sa in generale separare l'importanza pittoresca di un sito dalla sua utilità.[35] [30] In occasione della sua dimora nei boschi di Reggio, l'improvviso spettacolo di un grandioso paesaggio agisce talmente su lui, che egli continua una poesia da lunghissimo tempo interrotta.[36] Dove però il suo entusiasmo raggiunge il colmo, è nell'ascesa ch'egli fece al monte Ventoux, non lungi da Avignone.[37] Un vago desiderio di godere un ampio orizzonte s'esalta in lui sino al punto di una vera passione alla lettura accidentale di quel passo di Livio, dove è narrata l'ascensione al monte Emo di Filippo di Macedonia, l'eterno avversario di Roma. Egli pensa fra sè: come non sarà da scusare in un giovane di condizione privata ciò che non si biasima nemmeno in un vecchio re? Infatti il salire alle cime di un monte senza uno scopo prestabilito pareva stranezza inaudita a quanti lo circondavano, nè certo era il caso di pensare a trovar amici o conoscenti che lo accompagnassero. Il Petrarca non prese adunque con sè che il minor suo fratello e, dall'ultima stazione di riposo in avanti, due uomini del luogo in qualità di guide. Mentre con costoro avea cominciato già la salita, un vecchio pastore lo scongiurava di tornar sui suoi passi: aver egli pure, un cinquant'anni innanzi, fatto un simile tentativo, ma non averne riportato altro, fuor che le membra rotte e le vesti lacere; prima e dopo di allora nessuno essersi avventurato in tale impresa. Ma essi non si lasciano atterrire per questo, e tra indicibili stenti s'avanzano ognor più, sinchè si trovano colle nuvole sotto i piedi e hanno raggiunto la cima. Ora egli è vero [31] bensì che noi, giunti a questo punto, ci attendiamo indarno ad una descrizione della prospettiva che si apre loro dinanzi; ma ciò non accade già perchè il poeta sia rimasto freddo e insensibile a quella vista, bensì invece, perchè l'impressione fu troppo forte in lui. In quell'altezza solitaria gli passano dinanzi alla mente tutti i fantasmi e le follie della sua vita passata: egli si rammenta come per l'appunto dieci anni prima era partito ancor giovane da Bologna, e volge uno sguardo d'ansioso desiderio all'Italia; per ultimo apre un libriccino, che s'era preso a compagno di quel viaggio, le confessioni di S. Agostino, e l'occhio gli cade appunto casualmente su quel passo del capitolo decimo, dove è scritto: «e gli uomini se ne vanno attorno e ammirano l'altezza dei monti e l'ampiezza dei mari e il romorio dei torrenti e il corso dei pianeti, immemori, in mezzo a tutto questo, di sè medesimi». Suo fratello, al quale egli legge queste parole, non sa comprendere, perchè, dopo ciò, egli chiuda nuovamente il libro e se ne stia meditando in silenzio.


Pochi decenni più tardi, intorno all'anno 1360, Fazio degli Uberti nella sua cosmografia,[38] scritta in versi rimati (v. vol. I, pag. 240), descrive la vasta prospettiva che si gode dal monte Alvernia, con quella freddezza che è propria d'un geografo e di un antiquario, ma al tempo stesso con quella verità, che contraddinstingue il testimonio oculare. Egli deve però aver ascese cime ancora più elevate, perchè conosce fenomeni, che non si possono osservare se non a più di 10,000 piedi sopra il livello del mare, quali le vertigini, il rigonfiamento degli occhi e le palpitazioni del cuore, da cui lo [32] guarisce il suo mitico duce, Solino, con una spugna intrisa in una particolare essenza. Del resto, non v'ha dubbio che le ascensioni del Parnaso e dell'Olimpo, delle quali pure egli parla,[39] non sono che prette finzioni.


Col secolo XV poi tutto ad un tratto i grandi maestri della scuola fiamminga, Uberto e Giovanni van Eyk, strappano interamente alla natura il suo velo e ne rubano la vera immagine. Ma il loro paesaggio non si ferma lì, nè è soltanto una naturale conseguenza del loro sforzo di presentare in generale un riflesso della realtà; esso ha già un concetto poetico suo proprio, un'anima, benchè tuttavia in modo ancora convenzionale. L'influenza di questo paesaggio su tutta l'arte occidentale è innegabile, e non poterono quindi non risentirla anche gli artisti italiani. Ma, colti ed esercitati già da sè in questo genere, non la subirono che in parte, nè ciò bastò a distoglierli dalla via, che s'erano tracciata essi stessi.


Anche in questo riguardo, come nella cosmografia, la voce di Enea Silvio è una delle più autorevoli del tempo. Quand'anche non si volesse tenere alcun conto di lui come uomo, si sarebbe però sempre costretti a confessare che ben pochi son gli altri, nei quali l'immagine di quel tempo e della sua cultura spirituale si trovi così viva ed intera, e che assai pochi altresì s'accostarono, [33] al pari di lui, al tipo normale dell'uomo del Rinascimento. Del resto, lo diciamo incidentalmente, anche dal punto di vista morale non lo si giudicherà mai con piena giustizia sino a che si porranno a base del giudizio le lagnanze della Chiesa tedesca defraudata, colpa le di lui oscillazioni, del tanto invocato Concilio.[40]

Qui egli chiama a sè tutta la nostra attenzione per essere stato il primo non solamente a sentire la magnificenza del paesaggio italiano, ma anche a descriverla sin nelle più minute particolarità con vero entusiasmo (v. vol. I, pag. 244). Lo Stato della Chiesa e la Toscana meridionale (sua patria) sono i due paesi ch'egli conobbe in modo speciale, e, fatto Papa, usò sempre d'impiegare i suoi ozi nella migliore stagione dell'anno in escursioni campestri più o meno lunghe. Ora almeno la podagra, di cui era affetto da lunghissimo tempo, non gli era più un serio ostacolo a visitar monti e valli, dove si faceva trasportare in lettiga; e se con questi suoi gusti si paragonano quelli dei Papi che gli successero. Pio, entusiasta della natura e dell'antichità e appassionato pei modesti, ma eleganti edifizi, apparirà quasi un santo. Ed egli stesso nello splendido e vivace latino de' suoi Commentari ci ha lasciato la più veridica testimonianza di quanto in tali piaceri si sentisse felice.[41]

[34]

Il suo occhio appare variamente esercitato, quanto quello di qualsiasi uomo moderno. Egli si sente rapito in una specie di estasi dinanzi alla grandiosa magnificenza della scena, che si gode dal più alto dei monti Albani, il monte Cavo. Di là egli prospetta la spiaggia del territorio a lui soggetto da Terracina e dal monte Circello sino all'Argentaro, nonchè tutto l'ampio tratto di paese che contiene le rovine delle antichissime città, coi profili dei monti dell'Italia di mezzo, con le grandiose foreste tutto all'intorno verdeggianti nelle pianure e coi laghi delle montagne, che l'illusione fa credere vicini. Egli sente tutta la bellezza della posizione di Todi, che sta come in trono in mezzo a' suoi vigneti e boschetti di ulivi, con la prospettiva delle lontane foreste e della valle del Tevere, dove brulicano d'ogni parte i castelli e le piccole borgate poste lungo le sponde del fiume. Il delizioso paese vagamente ondulato intorno a Siena colle sue ville e i suoi chiostri sul vertice d'ogni collina è la sua patria, e ad esso quindi si volgono con predilezione speciale le sue descrizioni. Ma egli è felicissimo altresì nel rilevare le più minute particolarità pittoresche, come, per esempio, quando descrive quella lingua di terra, che si protende nel lago di Bolsena, e che è detta Capo di Monte: «gradinate di pietra, ombreggiate da vigneti, conducono giù dirittamente alla spiaggia, dove tra gli scogli verdeggiano perpetuamente le quercie, rallegrate del continuo dal canto dei tordi». Sulla via che costeggia tutto all'intorno il lago di Nemi, seduto all'ombra dei castagni e d'altri alberi fruttiferi, [35] egli sente che, se mai vi fu luogo atto ad ispirare un poeta, egli è certamente questo «segreto asilo di Diana». Spesse volte si sa aver egli tenuto il concistoro e fatta la segnatura o dato udienza agli ambasciatori sotto quegli antichi e giganteschi castagni o all'ombra di quegli ulivi, sedendo su un verde prato o presso il zampillo di qualche fontana. Alla vista di una gola montuosa, che si va restringendo e sulla quale arditamente si stende in arco un ponte, si risveglia immediatamente in lui il suo senso d'artista. Non v'è cosa, per quanto minuta, che non lo interessi vivamente colla perfezione e specialità caratteristica, che le è propria: i campi azzurri di lino mollemente ondeggianti, il giallo della ginestra che riveste le colline, e perfino i dumi selvaggi di qualsiasi specie, nonchè singole piante e sorgenti, che gli sembrano miracoli di natura.

Ma il colmo dell'ebbrezza lo aspetta sul Monte Amiata, dove salì nell'estate del 1462, quando la peste e un'afa infocata rendevano assolutamente inabitabile la pianura. A metà dell'altezza del monte, nell'antico convento longobardo di S. Salvatore, fermò egli colla Curia la sua residenza: di là, tra i boschi dei castagni sospesi sul dirupato pendio, si domina tutta la Toscana meridionale e si veggono in lontananza le torri di Siena. Egli non salì sino alle più alte cime del monte, ma vi salirono i suoi seguaci, ai quali si unì anche l'oratore veneziano, e lassù essi trovarono due enormi massi di pietra addossati l'un all'altro, che forse servirono di altare a qualche popolo primitivo, e credettero di scorgere in gran lontananza, oltre il mare, le due isole di Corsica e di Sardegna.[42] In quella deliziosa frescura, all'ombra delle [36] annose querce e de' castagni, sul verde smalto dell'erba, dove nessuno spino trafiggeva il piede e nessun insetto o serpente insidiava la vita, il Papa godette i suoi dì più felici: per la segnatura, che aveva luogo in giorni determinati, egli cercava sempre nuovi siti e nuove ombre,[43] novos in convallibus fontes et novas inveniens umbras, quae dubiam facerent electionem. — In tali circostanze gli accadde anche una volta di vedere la caccia che i cani diedero ad un cervo enorme, che fu visto fuggire sul monte difendendosi del suo meglio colle unghie e colle corna. Sulla sera il Papa soleva sedere nel piazzale del convento dal lato che prospetta la valle del Paglia, trattenendosi coi cardinali in piacevoli ragionamenti. I curiali, che si sbandavano qua e là per cacciare, riferivano che alle falde del monte il caldo era insopportabile, e che la campagna arsa e deserta rendeva immagine di un vero inferno, al cui paragone il monastero co' suoi freschi e verdi contorni poteva dirsi una dimora di paradiso.

In tutto questo c'è vero gusto moderno, non imitazione od influenza antica. E, ammesso anche che gli antichi abbiano anch'essi sentito a quel modo, certo è che le poche espressioni di qualche scrittore, che Pio può benissimo aver conosciuto, non furono, nè potevano esser quelle, che bastassero ad accendere in lui un sì vivo entusiasmo.[44]

Il secondo periodo di splendore, che sul finire del secolo XV e sul principiare del XVI ebbe la poesia italiana [37] accanto alla latina, che era pur sempre in fiore, ci somministra prove in gran numero della forte impressione prodotta sugli animi dalle scene naturali, e a convincersene basta dare un'occhiata ai lirici di quel tempo. Ma vere descrizioni di grandiosi prospetti campestri non s'incontrano quasi mai, appunto perchè e la lirica e l'epopea e la novella avevan ben altro a fare in quell'energica età. Il Bojardo e l'Ariosto tratteggiano i loro paesaggi con molta evidenza, ma quanto più brevemente possono, e senza tirarli, col mezzo di lontananze e di prospettive, a contribuire all'effetto,[45] che deve uscir tutto intero dai personaggi e dall'azione. Questo sentimento sempre crescente della natura trova un'espressione molto più spiccata nei tranquilli scrittori di dialoghi e di lettere.[46] Singolarmente ligio a questo riguardo si mostra il Bandello alle leggi del genere letterario, ch'egli stesso s'è imposto: nelle novelle non mai una parola più del necessario per designare i luoghi, dove si compiono gli avvenimenti;[47] nelle dediche invece, che precedono ciascuna novella, ampie e particolareggiate descrizioni dei [38] medesimi, come scena necessaria ad attuarvi i dialoghi e le conversazioni. Fra gli epistolografi ci duole di dover nominare l'Aretino,[48] come colui che forse fu il primo a descrivere minutamente qualche splendido effetto di luce e di ombre nelle ore del tramonto.

Ma anche presso i poeti s'incontra talvolta un singolare intreccio di vita sentimentale con graziose pitture di scene naturali, quasi altrettanti quadretti di genere. Tito Strozza descrive (intorno al 1480) in una elegia latina[49] la dimora della sua innamorata: una vecchia casetta, rivestita d'edera con alcuni affreschi sacri corrosi dal tempo, nascosta fra gli alberi: accanto ad essa una cappella assai malconcia dalla violenza delle piene del Po, che vi scorre in vicinanza: poco lungi di là la casa del cappellano, che coltiva i suoi sette magri jugeri di terreno con una coppia di buoi presi a prestito. Queste non sono certamente reminiscenze, nè imitazioni da veruno tra gli antichi poeti elegiaci romani, ma schietto sentimento moderno, al quale, sulla fine di questa parte del nostro lavoro, troveremo far degno riscontro una altrettanto semplice e schietta descrizione della vita campestre.

Ora si suol dire comunemente che anche i grandi maestri tedeschi dei primi anni del secolo XVI seppero talvolta rappresentare egregiamente tali scene naturali, come fece, per esempio, Alberto Durer nella celebre sua incisione del Figliuol prodigo. Ma altro è che un pittore, cresciuto in mezzo al realismo, aggiunga tali scene a' suoi quadri in via complementare e accessoria, ed altro che [39] un poeta, avvezzo di solito a spaziare nelle idealità o a vivere artificialmente nella mitologia, discenda nella realtà per un intimo impulso suo proprio e senta il bisogno di rappresentarla. Oltre a ciò la priorità di tempo, tanto in questa, come nella descrizione della vita campestre, sta tutto in favore dei poeti italiani.

[41]

CAPITOLO IV. Scoperte sull'uomo.

Espedienti psicologici; i temperamenti.

A queste vittorie riportate nel campo della natura la civiltà del Rinascimento aggiunge un servigio ancor più segnalato, la scoperta e la rappresentazione dell'uomo in tutto ciò, che ne costituisce l'intima essenza e le manifestazioni esteriori.[50]

Innanzi tutto quest'epoca promuove, come vedemmo, un forte e completo sviluppo dell'individualità; poi guida l'individuo al riconoscimento di questo stesso elemento sotto tutti gli aspetti e le forme possibili. Lo sviluppo della personalità è essenzialmente legato alla coscienza, che se ne ha in sè e negli altri. In mezzo ad ambedue questi grandi fatti abbiamo dovuto dar posto all'influenza esercitata dall'antica letteratura, appunto perchè il modo di riconoscere e di rappresentare l'individualità e di sceverarla da ciò che vi ha di comune in tutti gli uomini, riceve una determinazione o tinta speciale da questo elemento [42] intermedio. Ciò non toglie però che quella potenza di riconoscimento non sia un privilegio esclusivo dell'epoca e della nazione.

I fatti, ai quali ci riporteremo per fornirne le prove, saranno pochi. Se mai in altre parti di questo lavoro, qui principalmente noi ci accorgiamo di essere entrati nel pericoloso sentiero delle divinazioni, e sappiamo benissimo che non a tutti parrà sufficientemente provato quel tenue, ma pure evidente digradar di colori, che noi crediamo di scorgere nella storia della vita morale dei secoli XIV e XV. Questo lento e successivo apparire dello spirito di un popolo è tal fenomeno, che ad ogni osservatore può presentarsi sotto mille aspetti diversi. Al tempo spetta di vedere e di giudicare.

Fortunatamente questo riconoscimento dello spirito umano non cominciò dall'andare in traccia di una psicologia teoretica, — in tal caso avrebbe bastato quella di Aristotele, — ma dal prendere a punto di partenza l'osservazione dei fatti e la loro classificazione. L'indispensabile corredo delle teorie si limita omai alla dottrina dei quattro temperamenti in connessione col dogma allora universalmente ricevuto dell'influsso dei pianeti. Questi implacabili elementi si mantengono, da tempo immemorabile, come qualche cosa di inesplicabile nella mente dei singoli uomini, ma senza tuttavia che ne resti pregiudicato il grande progresso universale. Certamente parrà cosa strana il vederli tirati in campo in un'epoca, nella quale oggimai non soltanto l'osservazione paziente ed esatta, ma l'arte stessa e la poesia, portate all'ultima perfezione, furono in grado di rappresentar tutto l'uomo tanto nell'essenza profonda del suo organismo spirituale, quanto nelle sue più caratteristiche esterne accidentalità. E non sappiamo quasi trattenere il riso, quando, per [43] esempio, vediamo un osservatore, del resto assai perspicace, attribuire bensì a Clemente VII un temperamento melanconico, ma tuttavia sottoporre il proprio giudizio a quello dei medici, che danno invece al Papa un temperamento collerico-sanguigno.[51] E lo stesso ci accade quando leggiamo che a Gastone di Foix, al vincitore di Ravenna, di cui abbiamo il ritratto dipinto da Giorgione e la statua scolpita dal Bambaja, e che oltre a ciò ci vien descritto da tutti gli storici, si attribuisce un temperamento saturnio.[52] Non vi ha dubbio che chi usò tali espressioni, aveva in animo di designare con esse qualche cosa di preciso e di determinato; ma le categorie, alle quali si attenne per manifestare la propria opinione, sono pur sempre quelle già viete e bizzarre di un altro tempo.

[45]

CAPITOLO V. Rappresentazione dell'elemento spirituale nella poesia.

Valore intrinseco del verso sciolto — e del sonetto. — Dante e la sua «Vita nuova». — La Divina Commedia. — Il Petrarca pittore degli affetti e dei sentimenti. — Il Boccaccio e la Fiammetta. — Scarso sviluppo della tragedia. — La pompa della rappresentazione nociva al dramma. — Intermezzi e balli. — Commedia in genere e commedia dell'arte. — Epopea romantica. — Scoloriture necessarie nella pittura dei caratteri. — Il Pulci e il Bojardo. — Legge intima dei loro componimenti. — L'Ariosto e il suo stile. — Il Folengo e la parodia. — Il Tasso come antitesi.

Nel campo della libera rappresentazione dello spirito ci si fanno incontro per primi i grandi poeti del secolo XV.

Se da tutta la poesia cortigiana e cavalleresca dei due secoli precedenti noi ci facciamo a raccogliere le gemme le più preziose, avremo un complesso di splendide divinazioni e singole pitture d'affetti, che a prima vista potranno far parere assai disputabile il primato, cui aspirano gli Italiani. Anche non tenendo conto delle produzioni liriche propriamente dette, Goffredo di Strasburgo col suo poema «Tristano ed Isolda» ci offre il quadro di una passione, che ha dei tratti che non moriranno mai. Ma queste gemme nuotano in un mare di convenzionalità artificiali, e in sostanza sono ancor troppo [46] lontane dal dare una completa rappresentazione obbiettiva dell'uomo interiore e delle sue potenze morali.

Anche l'Italia ebbe nel secolo XIII una parte attiva nella poesia cortigiana e cavalleresca per mezzo de' suoi trovatori. Furono questi che crearono la canzone propriamente detta, la quale nelle loro mani procede artificiosa e stentata, al pari di qualsiasi canto dei menestrelli settentrionali, ed anche quanto alla sostanza tradisce il solito convenzionalismo di corte, qualunque sia la condizione sociale alla quale appartiene il poeta.

Ma già s'aprono due nuove vie, che accennano ad un avvenire proprio e speciale della poesia italiana, e che non si possono al tutto riguardare come prive di una certa importanza, specialmente se la questione sia soltanto di pura forma.

Dallo stesso Brunetto Latini (il maestro di Dante), che nelle canzoni rappresenta la solita maniera dei trovatori, derivano i primi versi sciolti che si conoscano,[53] e in questa apparente assenza di forme trovasi espressa d'un tratto una vera e reale passione. È una volontaria rinuncia ad ogni artificio esterno suggerita dalla speranza che tutta l'efficacia risulti dal concetto, come alcuni decennî più tardi accadde colla pittura a fresco e più tardi ancora colla pittura a tempra, dalle quali sono banditi i colori e l'effetto risulta soltanto dal movimento delle ombre. Per quel tempo, che nella poesia teneva pur tanto al convenzionale, questi versi di Brunetto segnano il primo passo verso un indirizzo del tutto nuovo.[54]

[47]

Ma accanto a ciò, anzi ancora nella prima metà del secolo XIII, una delle molte forme ritmiche rigorosamente ripartite in strofe, che l'occidente allora inventò, va diventando per l'Italia la forma normale prevalente: il sonetto. La collocazione delle rime ed anche il numero dei versi oscillano ancora per un centinaio d'anni,[55] sino a che il Petrarca li fissa in modo stabile e definitivo. Questa è la forma, nella quale da principio si fonde ogni elevato pensiero lirico e contemplativo e, più tardi, ogni concetto possibile, per guisa che i madrigali, le sestine e perfin le canzoni, accanto ad essa, non tengono più che un posto al tutto secondario. Molti italiani si sono in epoche posteriori lagnati, ora scherzando ed ora sul serio, di questo inevitabile modello, di questo letto di Procuste, che obbliga a torturare nelle morse de' suoi quattordici versi i pensieri e gli affetti. Ma non mancarono e non mancano tuttavia anche quelli, che amano invece questa forma e ne usano migliaia di volte, per depositarvi vuote reminiscenze e oziose tiritere senza serietà e senza senso. Questo spiega perchè abbondino tanto i futili e cattivi sonetti e vi sia tanta penuria di buoni.

Ciò non ostante, noi siamo del parere che il sonetto sia stato un grande beneficio ed una vera fortuna per la poesia italiana. La chiarezza e la bellezza della sua forma, la necessità di elevare il concetto nella sua seconda metà, più intimamente legata insieme, la facilità [48] stessa dell'apprenderlo a memoria, dovevano renderlo, e lo resero infatti, caro e pregiato anche ai grandi maestri. Nè certo essi lo avrebbero conservato ed usato in ogni secolo ed anche nel nostro, se avessero pensato diversamente. Chi oserà dire che ad essi mancasse la potenza di esprimersi altrettanto gagliardamente adottando un'altra forma qualunque? Ma appunto perchè essi del sonetto fecero una delle principali forme della lirica italiana, accadde che anche moltissimi altri, forniti di belle, se non somme, attitudini, e che in altri generi più distesi della lirica avrebbero fatto naufragio, impararono necessariamente un modo corretto e conciso di esprimere le loro idee. Il sonetto diventò un condensatore generale dei pensieri e degli affetti, quale non si ritrova nella poesia di verun altro popolo moderno.

Per tal modo ci si fa incontro ora il mondo sentimentale italiano in una moltitudine di immagini molto spiccate e concise e nella stessa loro brevità straordinariamente efficaci. Se anche altri popoli avessero posseduto una forma convenzionale di questa specie, forse noi sapremmo molte cose di più intorno alla loro vita intima; fors'anche avremmo in quadri nettamente delineati una serie di situazioni interne ed esterne e pitture vive e parlanti di passioni e di affetti, che indarno cerchiamo in una pretesa lirica dei secoli XIV e XV, che non ha quasi nulla da doversi riguardar come tale. Negli Italiani si nota un progresso incontestato ed evidente pressochè dalla nascita del sonetto in poi; infatti ancora nella seconda metà del secolo XIII i trovatori della transizione, come furono detti recentemente,[56] costituiscono il termine intermedio tra i trovatori propriamente detti [49] e i poeti che risentono l'influenza antica: il sentimento semplice e vigoroso, l'energica dipintura delle situazioni, la precisione della frase e la serrata brevità della chiusa nei loro sonetti e in altre composizioni fanno già presentire imminente l'apparizione di Dante. Alcuni sonetti ispirati dall'amore di parte tanto guelfi, che ghibellini, (1260-1270) respirano una passione, che si rassomiglia molto alla sua; altri ricordano quanto v'ha di più dolce nella sua lirica.


Come egli stesso teoricamente la pensasse intorno al sonetto, noi no 'l sappiamo, perchè le ultime parti del suo libro «Del volgare eloquio», nelle quali appunto voleva trattare delle ballate e dei sonetti, o non furono mai scritte o andarono perdute. Ma praticamente qual tesoro di pensieri e d'affetti non ha egli a piene mani versato e nel sonetto e nella canzone! E qual cornice non ha egli saputo lavorarvi all'intorno! La prosa della «Vita nuova», nella quale egli rende conto delle cause che occasionarono ciascuna delle sue poesie, non è meno maravigliosa dei versi stessi e forma con questi un tutto armonico, nel quale regna il sentimento il più delicato e profondo. Aperto e sincero, egli mette in piena evidenza tutte le gradazioni, per le quali il suo spirito passò successivamente dall'ebbrezza al dolore, e fonde poi il tutto con potente energia nella più severa forma dell'arte. Leggendo attentamente questi sonetti e queste canzoni e in mezzo ad esse quei maravigliosi frammenti del giornale della sua vita, si direbbe quasi che per tutto il medio-evo gli altri poeti abbiano fatto uno studio speciale di non interrogar sè medesimi ed egli solo, pel primo, abbia osato affrontare il testimonio della propria coscienza. Di strofe artefatte si ha copia grandissima [50] anche prima di lui; ma egli solo è il primo vero artista nel pieno senso della parola, perchè è il primo a fondere scientemente un grande concetto in una forma perfetta. Qui si ha veramente una lirica soggettiva improntata della più schietta verità e grandezza obbiettiva, e ciò con sì armonico accordo, che tutti i popoli e tutti i secoli ponno appropriarsi una tal maniera di sentire e di scrivere.[57] E se talvolta dal tema è condotto ad uscir fuori di sè medesimo, e non può manifestare la potenza del suo sentimento se non da un fatto estrinseco a lui, come nei grandiosi sonetti Tanto gentile ecc. e Vede perfettamente ecc., egli sente tosto il bisogno di giustificarsene.[58] In sostanza a questo genere appartiene anche il più bello di questi componimenti, il sonetto Deh peregrini che pensosi andate ecc.

Anche se non avesse scritto la Divina Commedia, basterebbe questa storia intima della sua vita giovanile per far di Dante l'ultimo uomo del medio-evo e il primo del tempo moderno. È la vita dello spirito, che tutto ad un tratto acquista la coscienza di sè medesimo e si manifesta quale si sente.

Dopo ciò sarebbe impresa disperata e soverchia il voler dire quante di simili manifestazioni s'incontrino nella Divina Commedia, e noi dovremmo seguire canto per canto l'intero poema, se volessimo metterne in evidenza i pregi in questo riguardo. Ma fortunatamente non siamo in questa necessità, dappoichè la Commedia già [51] da lungo tempo è divenuta il libro prediletto di tutti i popoli occidentali. Il suo organismo e il concetto fondamentale appartengono ancora al medio-evo e non si legano colle nostre idee se non per un nesso di continuità storica; ma il poema è essenzialmente la fonte primitiva d'ogni moderna poesia tanto per la sua ricchezza, come per l'alta sua potenza plastica nella rappresentazione dell'elemento spirituale in tutte le sue gradazioni e trasformazioni.[59]

Da questo tempo in avanti potrà benissimo accadere che questa poesia abbia i suoi momenti di oscillazione e accenni anche per qualche mezzo secolo ad un apparente regresso: — ciò non ostante però il suo principio vitale è salvo per sempre, e dovunque in Italia nei secoli XIV e XV e nei primi anni del XVI uno spirito veramente originale e profondo vi si accosta, egli rappresenta da sè solo una potenza di gran lunga superiore a quella di qualunque poeta non italiano, presupposta l'eguaglianza delle attitudini, che del resto non è così facile a stabilire.

Come nella storia italiana si vede ordinariamente la cultura (di cui la poesia è un elemento) precedere l'arte figurativa e contribuire essenzialmente a darle il primo impulso, così vediamo ora anche qui ripetersi il fatto identico. Ci volle più d'un secolo prima che il movimento intellettuale, la vita dell'anima trovasse nella pittura e nella scultura un'espressione, che in qualche modo fosse analoga a quella di Dante. Se ed in quanto ciò si verifichi [52] nella vita artistica degli altri popoli[60] e quale importanza possa avere in sè una tale questione, non è questo il luogo, in cui ciò debba discutersi. Ma il fatto ha un peso decisivo nella storia della cultura italiana.


Quale in questo riguardo sia il posto da assegnarsi al Petrarca, potranno dirlo da sè i lettori, trattandosi di un poeta tanto universalmente conosciuto. Ma non bisogna accostarsi a lui con gl'intendimenti di un giudice inquisitore e andar rintracciando minutamente le contraddizioni tra l'uomo e il poeta, e gli amori secondari oggimai comprovati ed altri suoi lati deboli, poichè in tal caso non si durerà gran fatica a trovar noiosa la lettura de' suoi sonetti, e si perderà di vista il poeta per la smania d'imparar a conoscere l'uomo, come suol dirsi, nella sua «totalità».[61] E questo pur troppo è quanto a suo riguardo è accaduto. Invece di ringraziare il cielo che non s'abbia bisogno di investigare come e attraverso quali lotte un poeta sia giunto a mettere in salvo la parte più preziosa della travagliata sua vita, da poche e sparse «reliquie» di questo genere s'è cercato di cucire insieme anche pel Petrarca una biografia, che potrebbe dirsi piuttosto un atto d'accusa. L'ombra sua però se ne consoli: se la stampa e i commenti degli epistolari degli uomini illustri continuano ancora per altri cinquant'anni, [53] come hanno cominciato in Germania ed in Inghilterra, il banco degli accusati, sul quale egli è stato posto a sedere, diverrà addirittura il seggio, su cui saranno chiamati l'un dopo l'altro a rispondere tutti gli uomini grandi.

Senza disconoscere il molto di artificiale e di ricercato, in cui il Petrarca imita sè stesso e continua a poetare alla sua maniera, noi ammiriamo in lui una copia straordinaria di concetti e di immagini, che s'aggirano tutte nel campo della spiritualità, descrizioni di momenti di ebbrezza o di abbandono, che debbono riguardarsi come al tutto propri di lui solo, perchè in nessuno prima di lui ci accade di incontrarli, e che costituiscono appunto il suo merito principale dinanzi alla sua nazione e al mondo intero. Non sempre l'espressione è ugualmente schietta; e non è raro il caso che alle più delicate idealità si frammischi qua e là qualche cosa che per noi ha dello strano, qualche allegoria che somiglia ad un giuoco di parole, qualche argomentazione che dà nel sofistico: ad ogni modo però la parte sana prevale di gran lunga su tutti questi difetti.


Anche il Boccaccio co' suoi sonetti così poco pregiati raggiunge talvolta una forza non comune di espressione nella pittura, che fa de' suoi sentimenti.[62] Il ritorno ad un luogo reso sacro da memorie amorose (son. 22), la melanconia primaverile (son. 33), la tristezza del poeta che si sente invecchiare (son. 65), sono argomenti da lui trattati con somma maestria. Oltre a ciò, nell'«Ameto» egli ha descritto la forza purificante e rigeneratrice di amore, come nessuno avrebbe creduto doversi aspettare [54] dall'autore del Decamerone.[63] E finalmente la sua «Fiammetta» è una grande e circostanziata analisi psicologica fatta con un profondo spirito di osservazione, quantunque non sempre condotta colla desiderata equabilità di stile e d'immagini ed evidentemente padroneggiata qua e là dalla smania di sfoggiare in frasi lussureggianti, nonchè pregiudicata anche dall'innesto, inopportuno affatto, di allusioni mitologiche e di citazioni erudite. Se non andiamo errati, la Fiammetta costituisce, sotto un certo aspetto, un riscontro alla «Vita nuova di Dante», o almeno ebbe l'impulso da questa.

Che gli antichi poeti, specialmente gli elegiaci e il libro quarto dell'Eneide, non sieno rimasti senza una grande influenza su questi e sugli Italiani venuti più tardi,[64] è cosa che già s'intende da sè; ma ciò non impedisce minimamente che la sorgente del sentimento sgorghi spontanea e potente dal loro intimo. Chi sotto questo aspetto li paragona coi loro contemporanei non italiani, troverà generalmente in essi la primissima e completa manifestazione dei sentimenti dell'Europa moderna. Infatti non si tratta tanto di sapere, se altri uomini eccellenti d'altre nazioni abbiano sentito con pari squisitezza e profondità, ma chi sia stato il primo a rivelare [55] colla parola una più ricca e profonda cognizione dei sentimenti interni.


Ma perchè gl'Italiani del Rinascimento non hanno fatto se non cose del tutto mediocri nel campo della tragedia? Niun genere infatti sarebbe stato più acconcio a dar risalto in mille guise diverse ai caratteri, ai pensieri ed alle passioni degli uomini nel loro nascere, crescere e svilupparsi. Perchè dunque, per dirla in altre parole, non ebbe anche l'Italia il suo Shakspeare? Nè formuliamo a caso in tal modo la domanda. Sta di fatto che con tutti i rimanenti teatri del nord gl'Italiani dei secoli XVI e XVII non ebbero nessun motivo di temere il confronto, e, quanto al teatro spagnuolo, se non poterono farvi concorrenza, ciò accadde e perchè il fanatismo religioso s'era spento in essi già da gran tempo, e perchè del punto astratto d'onore non si curavano che in apparenza, e perchè da ultimo erano troppo prudenti da un lato e troppo orgogliosi dall'altro per piegarsi a idolatrare e glorificare il principato, che per lo più era tirannico ed illegittimo presso di loro.[65] La questione si restringe adunque unicamente al confronto col teatro inglese, ed anche rispetto a questo soltanto pel breve periodo del suo massimo splendore.

Innanzi tutto sarebbe facile il rispondere che tutto il resto d'Europa non fu in grado di produrre che un solo Shakspeare, e che genii simili non sono in generale se non rari doni del cielo. Ma, oltre a ciò, si potrebbe anche soggiungere, che non è per nulla provato che anche il teatro italiano non fosse in sulla via di prendere uno [56] slancio potente, quando invece scoppiò la Contro-riforma e soffocò, d'accordo col dominio spagnuolo (diretto su Napoli e su Milano, e indiretto sul resto d'Italia), i più fecondi prodotti dell'ingegno italiano, o li lasciò miseramente isterilire. Si supponga, per esempio, anche solo per un momento, lo stesso Shakspeare sotto un vicerè spagnuolo o in vicinanza del Santo Uffizio a Roma, od anche nel suo stesso paese soltanto un pajo di decennj più tardi, all'epoca della Rivoluzione inglese, e ci si dica poscia in qual modo egli avrebbe potuto lasciar libero il volo al suo genio. Il dramma perfetto, tardo figlio di ogni cultura, ha bisogno, per svolgersi, di tempi e condizioni affatto speciali.

Del resto, giacchè l'occasione ci si offre, ci sia lecito di ricordar qui alcune circostanze, che parevano fatte appositamente per difficultare o ritardare in allora un più perfetto sviluppo del dramma in Italia, e che non cessarono se non quando era già troppo tardi per poter rivaleggiare colle altre nazioni.

Senza alcun dubbio la principale di queste circostanze fu il fatto, che l'attenzione degli spettatori fu ancora assai per tempo assorbita di preferenza dalla parte decorativa della rappresentazione, per opera specialmente dei Misteri e delle ceremonie religiose. In tutto l'Occidente le rappresentazioni della storia sacra e delle leggende sacre drammatizzate sono state la fonte diretta e il principio del dramma e del teatro; ma l'Italia, come sarà dimostrato altrove, aveva messo nei Misteri un tale sfoggio di pompa artistica decorativa, che necessariamente l'elemento drammatico doveva restarne in buona parte sopraffatto. Da tali innumerevoli e pompose rappresentazioni non si svolse neppure più tardi un genere poetico speciale, quali gli autos sagramentales di Calderon [57] e di altri poeti spagnuoli, e molto meno poi un vantaggio e un punto d'appoggio pel dramma profano.


Tuttavia quando quest'ultimo sorse e fiorì, prese subito parte, secondo le sue forze, alla magnificenza della decorazione, alla quale per l'appunto si era già troppo avvezzi sin dal tempo dei Misteri. Non senza stupore si legge quanto fosse ricca e svariata la decorazione della scena in Italia in un tempo, nel quale nei paesi settentrionali si andava contenti ad una semplice e grossolana indicazione dei luoghi. Ma anche questo forse non sarebbe bastato a far preponderar la bilancia, se la rappresentazione stessa, parte colla magnificenza dei costumi, parte e principalmente per mezzo di svariati Intermezzi, non avesse sviato l'attenzione dal contenuto poetico della composizione.

Che in molti luoghi, ma più specialmente poi a Roma e a Ferrara, si sieno rappresentate delle commedie di Plauto e di Terenzio, ed anche talora delle tragedie antiche (v. vol. I, pag. 320 e 342), ora in lingua latina ed ora in italiano; che le accademie sorte a quel tempo (v. ibid. pag. 375) si sieno fatte di tali rappresentazioni un'occupazione principalissima, e che i poeti del Rinascimento anche nei loro drammi si sieno dati, più di quanto conveniva, alla imitazione di quei modelli, fu certamente un fatto, quanto vero, altrettanto pregiudicievole al dramma italiano pei decennj, in cui ciò avvenne; ma tuttavia a queste circostanze non bisogna dare un'importanza maggiore di quella, che realmente hanno. Se non fosse sopraggiunta la Contro-riforma e con essa il dominio straniero, quello stesso svantaggio avrebbe potuto convertirsi perfino in un passo di più fatto sulla via della rigenerazione, e non sarebbe stato senza una [58] certa utilità. Già poco dopo il 1520 la vittoria della lingua volgare nella tragedia e nella commedia era stata omai, a gran dispetto degli umanisti, vinta definitivamente.[66] Da questo lato adunque niun ostacolo avrebbe impedito alla più colta nazione d'Europa di sollevare il dramma nel più alto senso della parola ad una spirituale rappresentazione della vita umana. Furono gli Inquisitori e gli Spagnuoli, che terrorizzarono gl'Italiani e che resero impossibile la riproduzione dei più veraci e sublimi contrasti, specialmente se allusivi alla vita dell'intera nazione. — Ma, accanto a ciò, noi dobbiamo prendere in più vicina considerazione anche gli allegri Intermezzi, come veramente nocivi allo sviluppo del dramma.

Allorchè furono festeggiate le nozze del principe Alfonso di Ferrara con Lucrezia Borgia, il duca Ercole mostrò in persona a' suoi illustri ospiti centodieci costumi, che doveano servire per la rappresentazione delle commedie di Plauto, affinchè ognuno vedesse, che nessuno di essi dovea servire due volte.[67] Ma che cosa era mai questo lusso di vestiti di seta e di cambellotto in paragone col corredo dei balli e delle pantomime, che si rappresentavano quali «Intermezzi» delle commedie plautine? Che Plauto, di fronte a questi, riuscisse nojoso ad una giovine principessa quale era Isabella Gonzaga, e che ognuno, durante il dramma, ardentemente li aspettasse, [59] non si durerà fatica a comprenderlo, quando si pensi alla varietà ed al lusso, con cui venivano rappresentati. Vi si vedevano lotte di antichi guerrieri romani, che a suon di musica imbrandivano e palleggiavano le loro armi secondo le più severe leggi dell'arte, danze di Mori portanti fiaccole accese, o di selvaggi che agitavano i cornucopia, dai quali usciva un'onda di fuoco, e ciò costituiva la parte ballabile di una pantomima, che rappresentava il salvamento di una fanciulla dalle fauci di un dragone. Poi venivano dei pazzi, che ballavano in veste da Pulcinella e si battevano l'un l'altro con vesciche di majale e simili. Alla corte di Ferrara non si dava mai una commedia senza il «suo» ballo (la moresca).[68] In qual modo sia stata quivi eseguita (nel 1491) la rappresentazione dell'«Anfitrione» di Plauto (in occasione del primo matrimonio di Alfonso con Anna Sforza), se cioè qual pantomima con musica od invece qual vero dramma, non si sa con certezza.[69] In ogni caso però è fuor di dubbio, che gli elementi estranei introdottivi superavano la composizione stessa: vi si vide infatti un ballo di giovinetti rivestiti d'edera e disposti in gruppi artificiali, che cantavano in coro, poi Apollo, che, toccando la lira col plettro, accompagnava una canzone in lode di casa d'Este, indi, quasi intermezzo nell'intermezzo, una scena o farsa campestre, dopo la quale tornava in campo la mitologia con Venere, Bacco e il loro seguito e con una pantomima rappresentante il giudizio di Paride [60] sull'Ida. Allora appena subentrava la seconda metà della commedia, nella quale erano frequenti le allusioni alla futura nascita di Ercole di casa d'Este. Quando questa stessa commedia fu per la prima volta rappresentata nel cortile del palazzo ducale (1487), continuava a splendere, durante la rappresentazione, «un paradiso con stelle ed altre ruote», vale a dire probabilmente una illuminazione con fuochi d'artificio, che senza dubbio avrà assorbito, a danno della commedia, l'attenzione del pubblico. È chiaro quindi da sè che assai meglio sarebbe stato se simili scene, innestate a forza nella composizione, fossero state rappresentate a parte, come forse usavano di fare altre corti. Delle sfarzose rappresentazioni promosse dal cardinale Pietro Riardo, dai Bentivogli di Bologna e da altri avremo occasione di discorrere, parlando delle feste in genere.

Questo lusso eccessivo nelle cose accessorie, venuto in uso universalmente, nocque in modo speciale allo sviluppo della tragedia originale italiana. «In passato, scriveva Francesco Sansovino[70] intorno all'anno 1570, si rappresentavano, oltre alle commedie, anche alcune tragedie di antichi e moderni autori con molta pompa. Attratti dalla fama degli apparati, gli spettatori vi affluivano da paesi vicini e lontani. Ma oggidì le feste che vengono allestite dai privati, hanno luogo appena fra quattro pareti, e da qualche tempo è invalso da sè l'uso, che la stagione del carnevale si passi in commedie ed altri allegri e preziosi passatempi». Ciò equivale al dire che la pompa ha aiutato ad uccidere la tragedia.

[61]

I primi saggi e tentativi di questi tragici moderni, tra i quali ebbe maggior celebrità il Trissino colla sua Sofonisba, (1515), appartengono alla storia della letteratura. Ed altrettanto può dirsi della commedia più colta, di quella imitata da Plauto e da Terenzio; nella quale lo stesso Ariosto non riuscì a far nulla di veramente singolare. Per contrario la commedia popolare in prosa, quale la trattarono il Machiavelli, il Bibiena e l'Aretino, avrebbe in realtà potuto avere un avvenire, se il suo stesso contenuto non l'avesse condannata sin dalle prime a perire. Infatti questo era il più delle volte o estremamente immorale o rivolto a mordere singole classi di persone, le quali dal 1540 in avanti non parevano più disposte a lasciarsi offendere così pubblicamente. Se la pittura dei caratteri nella Sofonisba era stata sopraffatta dalla pomposa declamazione, qui invece era trattata con soverchia franchezza al pari della di lei sorella germana, la caricatura. In ogni caso però queste commedie italiane, se non andiamo errati, furono le prime ad essere scritte in prosa e imitate completamente dal vero; per questo non devono essere dimenticate nella storia della letteratura europea.

L'uso di scrivere tragedie e commedie, una volta introdotto, continuò a mantenersi, e non mancarono anche più tardi numerose rappresentazioni di opere drammatiche antiche e moderne; ma esse non servirono omai ad altro fine, che a quello di spiegare nelle feste un lusso maggiore o minore, secondo i mezzi di chi le promoveva, e il genio della nazione se ne venne di mano in mano scostando, come da un genere troppo vero e volgare. Perciò, non appena vennero in voga le favole pastorali e le «opere» non si durò fatica ad abbandonare del tutto quei tentativi.

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Nazionale non fu e non rimase che una specie, la Commedia dell'Arte, che non si scriveva, ma s'improvvisava sopra una tessera che si teneva dinanzi. Essa non giovò gran fatto a rialzare la pittura dei caratteri, perchè aveva poche maschere e sempre fisse, delle quali tutti sapevano a memoria il carattere. Ma il genio della nazione inclinava talmente a questo genere, che anche in mezzo alla rappresentazione di commedie scritte gli attori si abbandonavano spesso ad una capricciosa improvvisazione,[71] in guisa che qua e la si venne introducendo un genere misto, una vera mostruosità. Di tal maniera parrebbero essere state le commedie rappresentate in Venezia dal Burchiello e poscia dalla compagnia di Armonio, Valerio Zuccato, Lodovico Dolce ed altri;[72] del Burchiello si sa già che, a caricare il lato comico della rappresentazione, mescolava nel dialetto veneziano vocaboli greci e slavi. Una perfetta commedia dell'arte, o poco meno, fu quella adottata in seguito da Angelo Beolco, detto il Ruzzante (1502-1542), le cui maschere stabili erano contadini padovani (Menato, Vezzo, Villora ed altri): egli soleva studiarne il dialetto, quando passava l'estate nella villa del suo mecenate Luigi Cornaro a Codevico.[73] A poco a poco poi prendono piede tutte le maschere locali, degli avanzi delle quali il popolo italiano si compiace ancora oggidì: Pantalone, il dottor Ballanzoni, Brighella, Pulcinella, Arlecchino e così via. Certamente per la massima [63] parte esse sono assai vecchie, anzi non è impossibile che talune derivino dalle maschere delle antiche farse romane, ma il secolo XVI fu il primo a riunirne parecchie in una sola rappresentazione. Attualmente ciò non accade più così di leggeri, ma ogni grande città ha conservato almeno le sue maschere locali: Napoli il suo Pulcinella, Firenze il suo Stenterello, Milano il suo celebre Meneghino.[74]

Misero compenso invero per una grande nazione, che forse prima d'altra avrebbe avuto le più splendide attitudini a riprodurre nel dramma i momenti più importanti della sua vita. Ma ciò doveva esserle impedito per secoli da potenze nemiche, del predominio delle quali ella non ebbe colpa che in parte. Tuttavia il talento drammatico degli Italiani, riconosciuto universalmente, non potè mai essere distrutto completamente, e colla musica, quando non potè con altro, l'Italia mantenne il suo primato sull'intiera Europa. Chi in questi trionfi musicali crede di trovare un compenso sufficiente pel dramma che le fu negato, può compiacersene a suo talento.


Ciò che non fu fatto dal dramma, poteva per avventura attendersi dall'epopea? — Per l'appunto il rimprovero maggiore, che si suol fare all'epopea romanzesca italiana, sta in questo, che l'invenzione e la pittura dei caratteri non sono in proporzione con gli altri suoi pregi.

Infatti molti altri pregi non le possono essere contestati, e fra gli altri quello che da tre secoli e mezzo [64] i poemi romanzeschi italiani continuano ad essere letti e ristampati, quando quasi tutta la poesia epica degli altri popoli non è divenuta oggimai che una semplice curiosità letteraria. Si dirà forse che ciò dipende esclusivamente dai lettori, i quali nelle regioni del mezzodì cercano e ammirano qualche cosa di diverso che non in quelle del settentrione? Ma in tal caso resterà sempre che i settentrionali debbano, almeno in parte, appropriarsi il modo di sentire degli Italiani per poter apprezzare il vero merito di queste poesie: e ciò è tanto vero, che in Germania vi sono uomini anche distintissimi, che confessano di non sapervisi al tutto acconciare. Non v'ha dubbio infatti che chi si facesse ad esaminare e giudicare il Pulci, il Bojardo, l'Ariosto e il Berni dal solo lato del nudo concetto, non giungerebbe ad intenderli mai perfettamente. Essi sono artisti di un genere affatto speciale, che scrissero e cantarono per un popolo eminentemente artistico.

I cicli leggendari del medio-evo erano sopravvissuti dopo il graduato e successivo spegnersi della poesia cavalleresca, parte sotto la forma di compilazioni e raccolte rimate, parte come romanzi profani. In Italia durante il secolo XIV s'era verificato l'ultimo di questi due fatti; ma le rimembranze risorte dell'antichità vi crebbero giganti d'accanto e gettarono nell'ombra tutte le creazioni fantastiche del medio-evo. Vero è che il Boccaccio nella sua «Amorosa Visione» nomina fra gli eroi da lui introdotti nel suo palazzo incantato anche un Tristano, un Arturo, un Galeotto ed altri, ma non lo fa che brevemente e quasi alla sfuggita, come se si vergognasse di ricordarli, e tutti gli scrittori posteriori di qualsiasi specie o non li nominano più, o solo per celia. Tuttavia il popolo ne conservò la memoria, e dalle sue mani essi passarono poscia di nuovo in quelle [65] dei poeti del secolo XV. Questi poterono ora concepire e trattare quella stessa materia da un punto di vista del tutto nuovo; ma essi fecero ancor di più: vi innestarono nuovi elementi, anzi rifecero pressochè tutto da capo a fondo. Non si poteva infatti più pretendere da essi, che trattassero una materia così invecchiata con quel timido riguardo che s'era avuto per essa in altri tempi. L'intera Europa moderna può ben invidiar loro la fortuna di aver saputo riaccendere nei loro connazionali l'antico entusiasmo per un mondo fantastico già quasi spento, ma essi non avrebbero dovuto essere che ipocriti, se vi si fossero accostati con quella venerazione, colla quale soglionsi riguardare le leggende mistiche.[75]


In luogo di ciò essi spaziano liberamente nel campo nuovamente aperto alla poesia dell'arte. Il loro scopo principale pare essere stato quello di ottenere il più bell'effetto possibile in ogni canto per mezzo della recitazione; e nel fatto è anche vero, che questi poemi guadagnano moltissimo, quando vengano recitati a frammenti e con una leggera tinta d'ironia comica nella voce e nel gesto. Una pittura più profonda e completa dei caratteri non avrebbe contribuito gran fatto ad aumentare quell'effetto; e se il lettore potrebbe per avventura desiderarla, l'ascoltatore non ci pensa nemmeno, perchè non ode sempre che un brano. Riguardo ai personaggi prescritti, l'animo del poeta si trova in una condizione, che potrebbe dirsi doppia: da un lato la sua cultura [66] umanistica protesta contro il carattere medievale dei medesimi, dall'altro però le loro lotte, quale riscontro ai tornei e all'arte della guerra allora in uso, richieggono una grande conoscenza della materia e un certo slancio poetico in chi scrive, ed una splendida attitudine in chi declama. Egli è appunto per la mancanza di tali qualità che il poema stesso del Pulci[76] non giunge ad essere una vera parodia della Cavalleria, benchè l'intonazione comica e franca de' suoi paladini ci tocchi assai spesso dappresso. Vero è che, accanto a ciò, egli pone un tipo ideale dello spirito battagliero nel bizzarro e pur buono Morgante, che sbaraglia interi eserciti con un battaglio di campana; anzi lo eleva qua e là notevolmente, contrapponendo ad esso l'assurdo, e pur notevolissimo, mostro Margutte. Ma il Pulci non dà nessuna importanza affatto speciale a questi due caratteri rozzamente e vigorosamente disegnati, e il suo racconto segue lo strano suo corso anche dopochè entrambi ne sono da lungo tempo scomparsi. Anche il Bojardo[77] conosce perfettamente i suoi personaggi e a suo talento li adopera sul serio e comicamente: anzi egli va ancora più innanzi e si prende giuoco perfin dei demonj, che talvolta deliberatamente condanna a sostener parti goffe e balorde. Ma il punto artistico, ch'egli tratta colla maggior serietà, al pari del Pulci, è pur sempre la descrizione vivacissima e, si direbbe quasi, tecnicamente fedele di tutti gli avvenimenti. — Il Pulci recitava il suo poema canto per canto, mano mano che li veniva componendo, dinanzi alla società che si raccoglieva intorno a Lorenzo il Magnifico, [67] ed altrettanto faceva il Bojardo nella corte di Ercole a Ferrara: egli è quindi assai facile l'immaginare a quali pregi quivi più si badasse, e quanto poca lode vi avrebbero raccolto i caratteri interi e compiuti. Naturalmente anche i poemi stessi nati in tal modo non costituiscono nessun tutto organico, e potrebbero senza inconvenienti essere del doppio più lunghi o più brevi che non sono: il loro organismo non è quello di un gran quadro storico, ma semplicemente di un fregio o di un magnifico festone, attorno al quale stanno disposte mille svariate figure. A quel modo che nelle figure e negli altri rilievi di un fregio non si domandano, e neanche sono permesse, forme individuali perfette, profonde prospettive e varietà di piani, altrettanto se ne fa senza in questi poemi.

La svariata ricchezza delle invenzioni, per mezzo delle quali specialmente il Bojardo ci prepara sempre nuove sorprese, si burla di tutte le nostre definizioni scolastiche sull'essenza della poesia epica sin qui accettate. Per quel tempo essa era la più piacevole diversione dagli studi archeologici, anzi l'unico espediente possibile per chi in generale agognava di arrivar ad una forma di poesia narrativa nuova ed originale. Imperocchè il dare una veste poetica alla storia dell'antichità non conduceva ad altro, fuorchè a quel fallace pensiero, sul quale si mise il Petrarca col suo poema «l'Africa» in esametri latini, e nel quale entrò pure un secolo e mezzo più tardi il Trissino con la sua «Italia liberata dai Goti» in versi sciolti, poema enorme, irreprensibile, se si vuole, quanto alla lingua ed alla versificazione, ma in cui non si saprebbe dire se sia più maltrattata la storia o la poesia, per l'unione forzata alla quale entrambe furono costrette. E dove mai non trascinò Dante stesso coloro che lo imitarono? [68] I «Trionfi» in forma di visione del Petrarca sono tutto quel di meglio che in questo genere potè ottenersi senza grave offesa al buon gusto; l'«Amorosa Visione» del Boccaccio, invece, non è altro che un'arida enumerazione di personaggi storici e favolosi disposti in tante allegoriche categorie. Altri incominciano, qualunque sia l'argomento che trattano, con una barocca imitazione del primo canto di Dante, e si provvedono anch'essi di un duce allegorico, che deve tenere il posto di Virgilio: l'Uberti pel suo poema geografico (il «Dittamondo») si trascelse Solino, Giovanni Santi pel suo panegirico a Federigo da Urbino volle avere a compagno Plutarco.[78] Ora da tutte queste false peregrinazioni distolse per l'appunto quell'epica poesia, che aveva a suoi rappresentanti il Pulci e il Bojardo. La curiosità e l'ammirazione con cui fu accolta, — e che forse, rispetto all'epica, non si rinnoverà più finchè duri il mondo, — mostrano splendidamente quanto essa rispondesse ad un bisogno del tempo. Sia che queste creazioni incarnino o non incarnino in sè il concetto ideale della vera poesia epica, quale nel nostro secolo s'è voluto stabilire, deducendolo da Omero e dai Nibelungi, certo è che esse rappresentano, in ogni caso, un'idealità esistente al loro tempo. Inoltre colle loro grandiose descrizioni di battaglie, che per noi sono la parte che più ci annoia, esse soddisfano, come s'è detto, ad una passione allor prevalente per la cosa in sè stessa, passione della quale difficilmente noi possiamo formarci una giusta idea,[79] nè più nè meno [69] come dell'alta stima, in cui allora era tenuta la schietta vivacità della descrizione o del racconto in generale.


Per la stessa ragione non si potrebbe usare un criterio più fallace, quanto se, per giudicare l'Ariosto, si andasse in cerca di caratteri nel suo «Furioso».[80] Certo che anche essi non mancano qua e colà ed anzi vengono trattati con molta cura, ma il poema non s'appoggia mai essenzialmente su essi, e se avessero un maggiore risalto, ci perderebbe, anzichè guadagnarvi. Ma una simile esigenza si collega con un desiderio assai più largo, al quale l'Ariosto non soddisfa nel senso del nostro tempo: da un poeta di tanta potenza e celebrità si avrebbe bramato in generale qualche cosa di più che le avventure di Orlando. Si avrebbe voluto ch'egli avesse rappresentato in un grande lavoro i più grandi conflitti del cuore umano, che avesse riprodotto le idee più sublimi del suo tempo su ogni cosa umana e divina, in una parola si avrebbe voluto da lui una di quelle grandi sintesi mondiali, che s'incontrano nella Divina Commedia e nel Fausto. Invece, egli procede al modo degli artisti d'allora e raggiunge l'immortalità astraendo dall'originalità nel senso moderno, lavorando ulteriormente sopra una tela di figure universalmente note e servendosi perfino degli elementi esistenti, quante volte gli tornano acconci. Qual grado di perfezione si possa raggiungere anche procedendo in tal guisa, non è cosa che possa tanto facilmente intendersi da gente sfornita del senso dell'arte, e molto meno lo intenderà chi in ogni altra cosa si troverà più istrutto e capace. L'ideale artistico dell'Ariosto è «l'avvenimento», fatto splendidamente rivivere e sparso equabilmente [70] per tutto il grande poema. Per riuscire in tale intento egli ha bisogno non solo di essere dispensato dal dare un'impronta più spiccata ai caratteri, ma anche dal mantenere un più stretto legame fra le leggende che narra. Bisogna che egli possa riannodare fila spezzate e dimenticate, a suo talento: le sue figure devono essere tali da poter con uguale facilità apparire e sparire, non perchè lo richiegga l'indole loro speciale, bensì perchè lo vuole il poema stesso. Ma anche in un modo di comporre tanto slegato e irrazionale in apparenza egli trova e sa riprodurre un tipo di bellezza perfetta. Egli non descrive per descrivere, ma dipinge le scene e i personaggi sino a quel punto, nel quale possano fondersi armonicamente col procedere degli avvenimenti; e meno ancora poi si perde in dialoghi e monologhi,[81] mantenendo invece sempre e costantemente il privilegio sovrano della vera epopea, quello di trasformar tutto in un passato vivo e reale. Il lato appassionato e sentimentale non emerge in lui mai dalle parole,[82] nemmeno nel celebre canto vigesimo terzo e nei seguenti, dove è descritta la pazzia di Orlando. Che gli episodi amorosi non abbiano mai in questa epopea un carattere lirico, è un merito di più del poeta, quantunque non sempre sieno irreprensibili dal lato morale. Ma, quasi a compenso di ciò, essi hanno talvolta in sè tanta verità e realtà, in onta anche a tutte le fantasticherie magiche e cavalleresche, che li circondano, che si crederebbe quasi scorgervi per entro casi ed avventure personali occorse al poeta stesso. [71] Conscio del proprio valore, egli ha poi innestate senza esitare nel poema molte allusioni relative al suo tempo e proclamatavi la gloria di casa d'Este col mezzo di evocazioni e di profezie. L'onda meravigliosa delle sue ottave porta con sè questo enorme ammasso di cose con moto sempre eguale e maestoso.


Con Teofilo Folengo o, come egli stesso si chiama, Limerno Pitocco la parodia della Cavalleria entra in possesso di quei diritti, ai quali da tanto tempo agognava,[83] ma al tempo stesso coll'elemento comico e il suo realismo mostrasi necessariamente il bisogno di dare un'impronta più spiccata ai caratteri. In mezzo alle baruffe e alle sassate dell'infima plebe di una piccola città delle Romagne (Sutri) cresce il piccolo Orlando, predestinato evidentemente a divenire un coraggioso eroe, nemico di ogni ipocrisia ed impostura, e alquanto millantatore. Il mondo fantastico convenzionale, quale s'era svolto dal Pulci in avanti e avea servito di cornice all'epopea, qui se ne va veramente in frantumi: l'origine e la personalità dei paladini vengono messe in aperta derisione, per esempio nel secondo canto, in occasione di un torneo d'asini, nel quale i cavalieri si fanno comparire nelle più goffe divise ed armature. Il poeta mostra talvolta una comica compassione per l'inesplicabile slealtà, che è tradizionale nella casa di Gano da Magonza, per la faticosa conquista della spada Durindana e simili, anzi la tradizione non gli serve in generale che come un campo opportuno per invenzioni ridicole, episodi, allusioni mordaci (talune assai belle, come quella sulla fine del capo [72] sesto), e oscenità. Accanto a tutto questo non manca qualche sarcasmo contro l'Ariosto, e sotto questo punto di vista fu una vera fortuna per l'Orlando Furioso, che l'Orlandino sia caduto assai presto nelle mani dell'Inquisizione e sia stato condannato ad una comandata dimenticanza per le eresie luterane che conteneva. La parodia, per esempio, è evidente quando (cap. VI, str. 28) la casa Gonzaga è fatta derivare dal paladino Guidone, dal momento che da Orlando doveano derivare i Colonnesi, da Rinaldo gli Orsini e da Ruggero — secondo l'Ariosto — gli Estensi. Può darsi che il mecenate stesso del poeta, Ferrante Gonzaga, non sia rimasto del tutto estraneo a questi attacchi contro la casa d'Este.


Per ultimo il fatto stesso che nella Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso la pittura dei caratteri è una delle particolarità meglio curate dal poeta, dimostra da sè quanto diverse fossero le idee che egli aveva intorno al poema epico, da quelle che prevalevano un mezzo secolo prima. Il suo maraviglioso poema è essenzialmente un monumento della Contro-riforma e del nuovo indirizzo, sul quale in questo frattempo era stata avviata la società.

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CAPITOLO VI. Le Biografie.

Progresso degli Italiani di fronte al medio-evo. — Biografi toscani. — Biografi d'altre regioni d'Italia. — L'autobiografia: Enea Silvio. — Benvenuto Cellini. — Girolamo Cardano. — Luigi Cornaro.

Ma anche fuori del campo della poesia gli Italiani hanno avuto, primi fra tutti gli Europei, una decisa propensione e attitudine a descrivere esattamente l'uomo storico ne' suoi tratti e nelle sue qualità intime ed esteriori.

Vero è che anche il medio-evo assai per tempo fece dei tentativi notevoli di questo genere, e la leggenda, come compito permanente della biografia, dovette, almeno fino ad un certo grado, tener viva la tendenza e l'attitudine alla pittura individuale. Negli annali dei conventi e dei capitoli delle cattedrali s'incontrano ritratti abbastanza vivi e spiccati di qualche gran dignitario ecclesiastico, come per esempio, di Meinwerk di Paderborn, di Gottardo di Hildesheim ecc., e di parecchi degl'imperatori tedeschi esistono descrizioni composte su modelli antichi, probabilmente di Svetonio, che hanno tratti pregevolissimi: anzi queste e somiglianti Vitae profane costituiscono a poco a poco uno stabile riscontro alle leggende [74] dei santi. Ma sarebbe un errore assai grossolano se si volessero contrapporre le biografie scritte da Eginardo o da Radevico[84] a quella che di S. Luigi ci dà il Joinville, e che sola, per vero, merita di essere contrassegnata come la prima pittura caratteristica di un uomo europeo alla moderna, completamente riuscita. Caratteri come quello di S. Luigi sono in generale assai rari, e a ciò s'aggiunge anche la non comune fortuna, che un narratore veramente schietto e sincero sa in tutti i singoli tratti e avvenimenti di quella vita far emergere in modo vivo e parlante le intenzioni che li guidarono. Da che povere fonti invece siamo costretti ad indovinare il carattere di Federico II o di Filippo il Bello! Molte altre narrazioni, che poi sino all'uscire del medioevo si dànno per biografie, non sono propriamente che storia contemporanea e senza importanza alcuna per la caratteristica individuale dei personaggi, di cui si scrive.

Ora negli Italiani questo studio dei tratti caratteristici degli uomini più importanti è una tendenza prevalente, e quest'è appunto ciò che li contraddistingue dagli altri popoli occidentali, nei quali nulla di simile si riscontra, o solo casualmente e in circostanze affatto straordinarie. Questo senso assai sviluppato per l'individualità non può averlo in generale se non chi esce da una razza, che ne sia naturalmente dotata e che abbia portato lo sviluppo dell'individuo all'ultima perfezione.

In stretta relazione colla passione universalmente prevalente per la gloria (v. vol. I, pag. 193 e segg.) sorge una scienza biografica compilatrice e comparata, che non [75] ha più bisogno di attenersi all'ordine dinastico o alla serie dei grandi dignitari ecclesiastici, come fanno Anastasio, Agnello e i loro successori od anche i biografi dei dogi di Venezia. Essa fa anche di più, e si prova a descriver l'uomo, ogni qualvolta egli ne appaia degno. Quali modelli per questo scopo, oltre Svetonio, servono anche Cornelio Nepote e Plutarco (viri illustres), là dove quest'ultimo era conosciuto: per le notizie di storia letteraria sembrano aver servito principalmente le biografie dei grammatici, retori e poeti, che si conoscono sotto il nome di Appendici allo Svetonio,[85] nonchè la vita di Virgilio del Donato, assai letta in allora.


In qual modo nel secolo XIV sieno sorte le collezioni biografiche e le vite di uomini e di donne celebri, fu già altrove indicato (v. vol. I, pag. 199 e segg.). Esse tutte, quando non parlano di contemporanei, seguono naturalmente le narrazioni precedenti; il primo importante lavoro non imitato in questo riguardo è la «Vita di Dante», scritta dal Boccaccio. Sebbene si risenta di una certa precipitazione e dia spesso nell'enfasi, essa ci porge tuttavia una viva idea di ciò che v'era di straordinario nella tempra dell'Alighieri. Poi, sulla fine del secolo XIV, seguono le «Vite di illustri fiorentini» di Filippo Villani. Vi figurano uomini d'ogni classe: poeti, giuristi, medici, filologi, artisti, uomini politici, guerrieri, taluni [76] di essi ancor vivi. Firenze in queste Vite è trattata come una famiglia di uomini d'ingegno, dove si notano particolarmente quei rampolli, nei quali lo spirito della casa si manifesta in modo più segnalato. La pittura dei caratteri è sempre breve, ma fatta con vero talento descrittivo e con una perfetta intelligenza di ciò che li contraddistingue, e abbraccia molto abilmente sotto un solo punto di vista le qualità interne ed esterne di ciascun individuo. D'allora in poi[86] i Toscani non hanno più cessato di considerare la pittura degli uomini come un affare di loro spettanza esclusiva, e ad essi dobbiamo le caratteristiche più importanti degli Italiani dei secoli XV e XVI in generale. Giovanni Cavalcanti (nelle appendici alla sua «Storia fiorentina» anteriormente all'anno 1450) raccoglie esempi di virtù civile e di abnegazione, di sapienza politica e di valor militare, desumendoli tutti dal popolo fiorentino. Papa Pio II ne' suoi «Commentari» dà pregevoli ritratti di illustri suoi contemporanei; anche recentemente è stato ristampato uno scritto suo giovanile,[87] che contiene, si può dire, i lavori preparatorii per quei ritratti, ma con carattere e colorito affatto originali. A Jacopo da Volterra andiam debitori di notizie molto piccanti su taluni uomini della Curia[88] del tempo posteriore a Pio. Di Vespasiano fiorentino s'è già parlato più volte, e nel complesso come fonte storica esso va collocato sempre fra i più importanti, che possediamo, [77] ma, quanto alla perizia nello scolpire i caratteri, non può certamente reggere al paragone con un Macchiavelli, un Niccolò Valori, un Guicciardini, un Varchi, un Francesco Vettori ed altri, dai quali la storiografia di tutta Europa ebbe forse, non meno che dagli antichi, norma e indirizzo. Non bisogna infatti dimenticare, che le opere di parecchi di questi scrittori, tradotte in latino, furono assai per tempo diffuse nelle provincie settentrionali. E sta altresì di fatto che senza Giorgio Vasari d'Arezzo e l'opera sua importantissima, noi mancheremmo forse ancora d'una storia dell'arte del settentrione e in generale dell'Europa moderna.


Fra i biografi dell'Italia superiore nel secolo XV il primo posto sembra doversi concedere a Bartolommeo Fazio, oriundo della Spezia (v. vol. I, pag. 203 nota). Il Platina, nativo del cremonese, nella sua «Vita di Paolo II» (v. ibid. pag. 304) rappresenta, più che altro, la caricatura della biografia. Ma una attenzione tutt'affatto speciale è dovuta a Piercandido Decembrio per la vita che ci ha lasciato dell'ultimo dei Visconti,[89] dove imita a larghi tratti Svetonio. Sismondi deplora che si sia impiegato tanto tempo e tanta fatica intorno a un tale soggetto; ma forse l'autore non avrebbe bastato ad un argomento di maggiore importanza, mentre è riescito perfettamente nel ritrarci con maravigliosa esattezza un carattere così doppio, come fu quello di Filippo Maria, e nel darci al tempo stesso un quadro delle circostanze, che prepararono accompagnarono e seguirono una tirannide [78] di un'indole tanto speciale. L'immagine del secolo XV sarebbe incompleta senza questa biografia unica nel suo genere, e così accentuata da non lasciare inavvertita ogni benchè minima particolarità. — Più tardi Milano ha nello storico Corio un pittore di caratteri degno di speciale menzione; e a questo tien dietro il comasco Paolo Giovio, cui procacciarono fama universale dapprima le estese sue biografie, poi i compendiosi suoi elogi, che divennero un modello pei biografi posteriori d'ogni paese. Sono frequentissimi i passi, nei quali si può accusare il Giovio di superficialità ed anche, se si vuole, (ma non però con ugual frequenza) di malafede, come è certo altresì, che in lui non bisogna cercare nessuno di quegli elevati intenti morali, di cui egli stesso si confessava sfornito. Ma, in onta a tutto questo, non può negarsi che lo spirito del secolo traspare da tutte le sue pagine, e il suo Leone X, il suo Alfonso, il suo Pompeo Colonna ci stanno dinanzi vivi e parlanti, quali egli ce li descrive, quand'anche non ci faccia penetrare nei misteri più reconditi del loro spirito.

Fra i napoletani va certamente innanzi a tutti, per quanto ci è dato di giudicare, Tristano Caracciolo, (v. vol. I, pag. 50), quantunque il suo scopo non sia propriamente quello di scrivere biografie. In modo abbastanza strano vedesi nei personaggi ch'egli ci mette dinanzi, intrecciarsi l'arbitrio umano e il destino, tanto che lo si potrebbe dire un tragico a sua insaputa. La vera tragedia, che allora non trovò sulla scena posto veruno, penetrò ardita nei palazzi o si mostrò sulle pubbliche vie e sulle piazze. — I «Detti e fatti di Alfonso il Magnanimo» di Antonio Panormita, scritti vivente il re, sono notevoli come una delle primissime congeneri raccolte di aneddoti, schizzi e sentenze.

[79]

Con molta lentezza soltanto il resto d'Europa seguì l'Italia nella pittura morale dei caratteri,[90] quantunque i grandi moti politici e religiosi avessero spezzato omai tanti vincoli e ridestato alla vita dello spirito tante migliaia d'uomini. Ma le migliori informazioni sui personaggi più importanti d'Europa in quel tempo ci son sempre date dagli Italiani, tanto letterati che diplomatici. Tutti sanno a questo riguardo qual grado di autorità e d'importanza è stato al tempo nostro, e con ragione, attribuito alle «Relazioni degli ambasciadori veneziani» dei secoli XVI e XVII.


Anche l'autobiografia prende presso gl'Italiani qua e là un'impronta affatto propria di profondità e d'ampiezza, e, accanto alla vita esteriore la più svariata, ci dipinge con molta verità la vita intima, mentre presso altre nazioni, compresa anche la tedesca del tempo della Riforma, si restringe alle sole vicende esterne più notevoli e lascia indovinare il carattere soltanto dal modo della narrazione. Si direbbe che la «Vita nuova» di Dante, con quella tinta di schietta ingenuità, che l'anima da capo a fondo, abbia additato alla nazione la via da tenere.

Il primo avviamento viene dalle «Memorie famigliari» molto in uso nei secoli XIV e XV, delle quali deve esistere un numero considerevole fra i manoscritti delle biblioteche fiorentine. Contengono biografie semplici e schiette, scritte ad esclusivo ammaestramento dei posteri, come ad esempio quella di Buonaccorso Pitti.

Nè una critica un po' più profonda di sè medesimo è da cercarsi nemmeno nei Commentari di Pio II: anzi, se si giudica dalle apparenze, ciò che qui si apprende [80] intorno a lui, come uomo, si restringe esclusivamente al modo, col quale egli ha saputo aprirsi la via a salire tanto alto. Tuttavia, approfondendo un po' meglio l'esame, si porterà anche un giudizio diverso su questo libro veramente notevole. Vi sono degli uomini portati naturalmente ad essere uno specchio vivo e fedele di quanto li circonda; da costoro si ha torto di esigere che ci narrino al tutto le loro opinioni, le loro lotte intime, o che ci presentino un quadro serio e profondo di tutte le circostanze della loro vita. Uno di questi è appunto Enea Silvio, che crebbe esclusivamente in mezzo agli affari, senza curarsi gran fatto delle contraddizioni morali, alle quali lo obbligò talvolta la sua carriera: da questo lato gli era una sufficiente garanzia, quante volte gli era necessaria, la costante ortodossia delle sue opinioni. Per tal modo, dopo aver preso parte a tutte le questioni morali che agitarono il suo secolo, e dopo averne suscitato più d'una egli stesso, conservò tuttavia ancor sulla fine di una vita cotanto tempestosa ed attiva tanto di vigor giovanile e di entusiasmo, da predicar la crociata contro i Turchi, e da morir di dolore quando la vide andar fallita.


Non al tutto dissimile, sotto questo punto di vista, è l'autobiografia di Benvenuto Cellini. Anch'essa non contiene alcuna di quelle osservazioni, che rivelano l'interno dell'anima, e tuttavia noi vi troviamo dipinto tutto l'uomo, in parte anche contro sua voglia, con tal verità e pienezza, che incanta e rapisce. È singolare infatti che Benvenuto, i cui maggiori lavori rimasero allo stato di semplici abbozzi e perirono, e che come artista non ci appare perfetto se non nella minuta decorazione, dovendosi nel resto (a giudicare dalle opere che di lui ci rimangono) [81] collocarlo al di sotto di tanti altri suoi contemporanei, che Benvenuto, diciamo, solo come uomo, abbia potuto esercitare, ed eserciti tuttavia un fascino così irresistibile sugli altri uomini. E non gli nuoce nemmeno che il lettore assai di frequente sia in grado di accorgersi, che egli ne' suoi racconti o non è veritiero affatto, o trascende in esagerazioni e millanterie; l'impressione che lascia una natura così energica e piena, prevale su tutto. E per convincersene basta il confronto con qualunque degli autobiografi del settentrione, nei quali, se anche qua e là si deve pur ammirare un indirizzo morale molto più elevato, si nota però una inferiorità incontrastabile nel modo dell'esposizione. Egli è un uomo che sa tutto, osa tutto e non piglia norma se non da sè stesso.[91]


Ma di un altro ancora noi dobbiamo qui far menzione, che non sempre sembra aver detto l'esatta verità: egli è Girolamo Cardano, milanese (nato nel 1500). Il suo libretto De propria vita[92] sopravviverà anche quando sarà ecclissata la fama, ch'egli giustamente ha levato di sè nelle scienze naturali e filosofiche, nè più, nè meno come la Vita di Benvenuto sopravvive alle sue opere, quantunque il valore dei due libri sia essenzialmente diverso. Cardano è un medico, che si tocca il polso [82] da sè medesimo e descrive tutta la sua personalità fisica, intellettuale e morale insieme alle circostanze, in mezzo alle quali s'è svolta, con tutta quella sincerità schietta e obbiettiva, che gli è possibile. Il modello che egli, per sua confessione, prende ad imitare, lo scritto di Marco Aurelio intorno a sè stesso, potè essere da lui superato, perchè egli non si trovò anticipatamente preoccupato da nessuna massima di virtù stoica. Egli non ha indulgenza alcuna nè per sè medesimo, nè per gli altri; tanto è vero che comincia la sua narrazione col dirci, che venne al mondo, perchè a sua madre non riuscì di disperdere il frutto del proprio seno. È un fatto degno d'essere notato che alle costellazioni, che presiedettero alla sua nascita, egli attribuisca soltanto le sue attitudini e facoltà intellettuali, non però le morali: tuttavia si ha da lui un'aperta confessione (cap. X), che la predizione fatta da un astrologo, che non sarebbe sopravissuto oltre il suo quarantesimo o, al più, oltre il quarantesimo quarto anno di vita, gli nocque moltissimo nella sua gioventù. Ma qui non è del nostro assunto di fare un compendio del suo libro, del resto universalmente conosciuto e facile a rinvenirsi in qualsiasi biblioteca. Bensì non vogliamo tralasciar di notare che chiunque prenderà a leggerlo, ne resterà talmente affascinato, che non lo lascierà se non quando sarà giunto all'ultima pagina. Il Cardano confessa di essere stato giocatore sleale, uomo vendicativo, ostinato nelle colpe e deliberatamente offensivo nei discorsi; ma lo confessa senza impudenza o ipocrita compunzione, anzi senza nemmen cercare di rendersi con ciò più interessante: si direbbe che, nell'esame di sè medesimo, egli non s'attiene ad altra norma, fuorchè a quello schietto e sincero amore della verità, da cui era guidato in tutte le sue ricerche scientifiche. [83] E parrà ancora più strano, che un uomo come lui, giunto a settantasei anni dopo una vita tempestosissima,[93] e con sì poca fede negli uomini, quale egli doveva avere, si dichiari tuttavia abbastanza felice, compiacendosi di un nipote che gli sopravviverà, dell'immenso sapere di cui si trova in possesso, della fama procacciatagli dalle sue opere, delle ricchezze, degli onori, delle potenti amicizie, che seppe acquistarsi, dei mille segreti affidatigli, e, ciò che è più singolare, della sua fede in Dio. In una aggiunta egli enumera i denti che gli rimangono, e ci fa sapere che sono quindici.

Ma quando il Cardano scriveva, avevano cominciato omai in Italia gl'Inquisitori e gli Spagnuoli a fare ogni sforzo, perchè uomini simili o non potessero sorgere più o in qualche modo perissero. E infatti corse del bel tempo da questa alla «Vita», che di sè medesimo scrisse l'Alfieri.


Frattanto sarebbe ingiusto il chiudere questa rassegna di autobiografie senza cedere la parola ad un uomo, quanto rispettabile, altrettanto felice. Egli è appunto il notissimo filosofo morale Luigi Cornaro, la cui abitazione in Padova, classica dal punto di vista architettonico, poteva dirsi un tempio di tutte le Muse. Nel suo celebre trattato Della vita sobria[94] egli descrive innanzi tutto la dieta rigorosa, mediante la quale potè, da infermiccio che era stato in gioventù, procurarsi una tarda e sana [84] vecchiaia, per modo che, quando si pose a scrivere, toccava già l'ottantesimo terzo anno di sua vita; poi si occupa di rispondere a coloro, i quali in generale dispregiano la vita umana oltre i sessantacinque anni, chiamandola una vita morta, e prova ad essi, che la sua è vita eminentemente viva e vitale. «Vengano, egli esclama, e veggano e si maraviglino del mio benessere, e come monto da me a cavallo senza vantaggio alcuno, e come ascendo non una scala sola, ma tutto un colle a piè gagliardamente: poi come io sono allegro, piacevole e contento, e libero dalle perturbazioni dell'animo e da ogni noioso pensiero. La gioia e la pace non si dipartono mai dal mio cuore.... Io mi ritrovo avere bene spesso comodità di ragionare con molti onorati gentiluomini, e grandi d'intelletto e di costumi e di lettere, ed eccellenti in alcuna altra virtù. E quando la loro conversazione manca, mi dò a leggere e a scrivere, cercando in questo e in ciascun altro modo, ch'io posso, giovare altrui, quanto le mie forze me lo concedono. E tutte queste cose io fo con mia grandissima comodità e alli lor tempi e nelle mie stanze, le quali sono veramente belle e nella più bella parte di questa dotta città di Padova, e di quelle che più non sono state fatte alla nostra etade, con una parte delle quali mi difendo dal gran caldo, con l'altra dal gran freddo, perchè io le ho fabbricate con ragione di architettura.... e provvedute di giardini con acque correnti, che loro corrono a canto. Io vo l'aprile e il maggio, e così il settembre l'ottobre, per alquanti giorni, a godere un mio colle, che è nel più bel sito di questi monti Euganei, e che ha fontane e giardini e sopratutto comoda e bella stanza, e quivi mi trovo ancora alcune fiate a qualche caccia conveniente alla mia etade, comoda e piacevole. Godo poi altrettanti [85] giorni la mia villa di piano,[95] che è piena di belle strade, le quali concorrono tutte in una bella piazza, in mezzo alla quale è la sua chiesa ornata assai secondo la condizione del luogo: un poderoso braccio del Brenta la divide in due parti, e dall'una e dall'altra vi è grande spazio di paese, tutto di campi fertili e ben coltivati, e ora (Dio grazia) molto ben abitato, mentre prima era paludoso e di mal aere e stanza piuttosto da bisce, che da uomini. Io ho levate le acque, e l'aere si fece buono e le genti vi vennero ad abitare, e le anime cominciarono a moltiplicare assai, e si ridusse il luogo alla perfezione che si vede oggidì, talchè io posso dire con verità, che ho dato in questo luogo a Dio altare e tempio e anime per adorarlo; cose tutte, che mi danno infinito piacere, sollazzo e contento, ognor che le ritorno a vedere e godere. A questi medesimi tempi vo ancora ogni anno a rivedere alcune di queste città circonvicine, e piglio piacere ragionando con li miei amici, che in esse si trovano, e, per loro mezzo, con gli altri che vi sono, uomini di bell'intelletto, architetti, pittori, scultori, musici e agricoltori.... Veggio le opere loro fatte per l'addietro, e sempre imparo cose, che mi è grato il saperle. Vedo i palazzi, i giardini, le anticaglie e con queste le piazze, le chiese, le fortezze. Ma sopra tutto godo nel viaggio, ove considero la bellezza dei siti e de' paesi, per li quali vo passando, altri in piano, altri in colle, vicini a fiumi e fontane, con molte belle abitazioni e giardini d'intorno. Nè questi miei sollazzi e piaceri mi son men dolci e cari, perchè io non veda ben lume e non oda ciò che mi vien detto facilmente, chè tutti i miei sensi (Dio grazia) son perfettissimi, e specialmente [86] il gusto; che più gusto ora quel semplice cibo, ch'io mangio ovunque io mi trovi, che non faceva già quelli tanto delicati al tempo della mia vita disordinata».

Quindi, dopo aver accennato ai lavori di prosciugamento delle paludi da lui promossi per la Repubblica, e a' suoi progetti messi innanzi ripetutamente pel mantenimento delle lagune, conclude: «Questi sono i veri e importanti miei sollazzi, queste sono le recreazioni e i diporti della mia vecchiezza, la quale, per Dio grazia, è sanata dalle perturbazioni dell'animo e dalle infermità del corpo, e non prova alcuno di quei contrari, i quali miseramente tormentano infiniti giovani e altrettanti languidi vecchi e del tutto impotenti. E se alle cose grandi e importanti è lecito comparar le minori, o per dir meglio, quelle che si sogliono riputare da scherzo, dirò anco tal essere il frutto di questa vita sobria in me, che in questa mia età di anni ottantatrè ho potuto comporre una piacevolissima commedia, tutta piena di onesti risi e piacevoli motti. La qual maniera di poema ordinariamente suol essere frutto e parto dell'età giovanile, siccome la tragedia suol essere effetto della vecchiezza. Ora se fu lodato quel buon vecchio, greco di nazione e poeta, per avere nell'età di settantatrè anni scritto una tragedia, perchè debbo essere tenuto io men fortunato e sano di lui, avendo in età d'anni dieci più di lui composto una commedia?... E perchè niuna consolazione manchi alla copia degli anni miei, veggo quasi una spezie d'immortalità nella successione de' miei posteri: poichè ritrovo poi, come ritorno a casa, non uno o due, ma undici miei nipoti, il maggiore dei quali è di diciotto anni, il minore di due, tutti figliuoli di un padre e d'una madre, tutti sanissimi, tutti bellissimi e, per quanto ora si può vedere, molto atti e dediti alle [87] lettere e ai buoni costumi; dei quali alcuno dei minori sempre godo, come un mio buffoncello; e veramente che i putti dell'età di tre anni infino a quella di cinque sono naturali buffoni: gli altri di maggiore età tengo ad un certo modo miei compagni, e perchè hanno dalla natura perfette voci, io godo ancora udendoli a cantare e sonare con diversi instrumenti; anzi io medesimo canto seco, perchè ho miglior voce e più chiara e più sonora ch'io avessi giammai.... Questi sono i sollazzi della mia etade; onde si vede, che la vita ch'io vivo, è vita viva e non morta.... nè in verità io cambierei la mia vita, nè la mia etade con alcun giovane di quelli, che vivendo seguono i loro appetiti».

Nella «Esortazione», che il Cornaro aggiunse assai più tardi, nel suo novantacinquesimo anno, egli si chiama fortunato, fra molte altre cose, anche perchè il suo «Trattato» fece molti proseliti. Egli morì a Padova nell'anno 1565, in età di oltre cento anni.

[89]

CAPITOLO VII. Caratteristica dei popoli e delle città.

Il Dittamondo di Fazio degli Uberti. — Descrizioni del secolo XVI.

Accanto alla caratteristica dei singoli individui noi vediamo svolgersi anche una certa attitudine a giudicare e descrivere intere popolazioni. Durante il medio-evo le città, le famiglie e i popoli di tutto l'Occidente s'erano reciprocamente assaliti con appellativi di scherno e di dileggio, nei quali per lo più c'era un fondo di vero più meno svisato. Ma da tempo antichissimo gli Italiani si segnalarono nel saper cogliere ed additare le differenze morali tra città e città e tra paese e paese; il loro patriottismo affatto locale, più vivo forse che quello di qualsiasi altro popolo nel medio-evo, creò assai per tempo in questo riguardo una letteratura speciale, e si alleò all'idea della gloria: sorse la topografia, quasi a far riscontro alla biografia (v. volume I, pag. 200). Ora, mentre ogni città alquanto considerevole prese a cantare le proprie glorie in prosa ed in versi,[96] [90] sorsero anche scrittori, i quali parte descrissero con tutta serietà, l'una dopo l'altra, tutte le più importanti città e popolazioni, parte le misero apertamente in derisione, ne parlarono in modo, che non si sa se vi prevalga l'ammirazione o lo scherno.

Dopo alcuni celebri passi della Divina Commedia, merita, su questo argomento, di essere consultato il «Dittamondo» di Fazio degli Uberti (intorno al 1360). Vero è però che in esso non vengono messe in rilievo se non talune specialità al tutto caratteristiche di questo e di quel paese: la festa delle cornacchie, che si celebra il dì di S. Apollinare in Ravenna, le fontane di Treviso, la grande cantina di Vicenza, le elevate gabelle di Mantova, il bosco di torri di Lucca; ma in mezzo a ciò si incontrano anche lodi esagerate e critiche mordaci: Arezzo figura già pel sofistico ingegno de' suoi cittadini, Genova per gli occhi e pei denti tinti in bruno (?) delle sue donne, Bologna per le sue dissipazioni e prodigalità, Bergamo pel suo dialetto grossolano e per l'ingegno de' suoi abitatori, e così via.[97] Nel secolo XV poi ognuno esalta la propria città anche a spese delle altre. Michele Savonarola, per esempio, non pone la sua Padova se non al di sotto di Venezia e di Roma, come più grandiose, e di Firenze, come più allegra;[98] nè fa mestieri di dire, che queste parzialità rendono un assai cattivo servigio alla cognizione vera ed effettiva dei luoghi. Sulla fine del secolo Gioviano Pontano, nel suo «Antonio» finge [91] un viaggio per l'Italia non con altro intendimento, che di fare qua e là maligne osservazioni. Ma col secolo XVI comincia una serie di vere e profonde caratteristiche, quali in allora non possedeva verun altro popolo.[99] Il Machiavelli descrive in alcune preziose relazioni i costumi e le condizioni politiche dei tedeschi e dei francesi in guisa tale, che anche un settentrionale, che conosca la propria storia, non potrà non essere grato al gran politico fiorentino per la luce, che vi portò colla profonda e chiara sua intuizione. In seguito i Fiorentini si trattengono assai volentieri (v. vol. I, pag. 101 e 110) a parlare di sè medesimi[100] e a specchiarsi con compiacenza nello splendore, invero grandissimo, delle loro glorie nel campo artistico e letterario; e forse si potrebbe scorgere il sommo della vanità in ciò stesso, che li vediamo attribuire il primato artistico della Toscana sul resto d'Italia non tanto ad una speciale disposizione naturale, quanto ad uno studio ostinato e costante, per essere eglino (gl'ingegni toscani) molto osservanti alle fatiche e agli studi di tutte le facoltà sopra qualsivoglia gente d'Italia.[101] Essi accettarono poi gli omaggi d'illustri italiani [92] d'altri paesi, come per esempio lo splendido Capitolo sedicesimo dell'Ariosto, nè più, nè meno che come un tributo, al quale sapevano di aver diritto.

Di una, a quanto sembra, importantissima fonte storica sulle differenze caratteristiche delle popolazioni d'Italia, non possiamo sgraziatamente citare che il nome.[102] Leandro Alberti[103] non è nella descrizione del genio delle singole città copioso, come si potrebbe attendersi. Un piccolo Commentario anonimo[104] contiene, fra molte sciocchezze, anche qualche cenno pregevole sulle condizioni infelici e scadute d'Italia intorno alla metà del secolo.[105]

Come poi questo studio comparativo delle diverse popolazioni possa avere esercitato sulle altre nazioni un'influenza, specialmente per mezzo degli umanisti italiani, non è del nostro assunto di dimostrarlo qui. Sta di fatto però, che anche in ciò, come nella cosmografia in genere, l'Italia tiene sempre il vanto della priorità.

[93]

CAPITOLO VIII. Descrizione dell'uomo esteriore.

La Bellezza negli scritti di Boccaccio. — L'ideale della Bellezza del Firenzuola. — Definizioni generali di quest'ultimo.

Ma le scoperte fatte intorno all'uomo non si arrestano alla descrizione del lato morale degli individui e dei popoli; anche l'uomo esteriore è oggetto d'osservazione in Italia, e in modo essenzialmente diverso, che non al nord.[106]

Della condizione in cui si trovarono i grandi medici di fronte ai progressi della fisiologia, noi non ci arroghiamo di parlare, e lo studio della figura umana sotto il punto di vista artistico è compito tutto affatto speciale della storia dell'arte. Ufficio nostro sarà adunque soltanto di mostrare come si sia venuto formando quello che suol dirsi l'occhio artistico, perchè fu per esso che [94] in Italia divenne possibile un giudizio obbiettivo, universalmente accettato, sulla bellezza e bruttezza corporale.

Per prima cosa, leggendo attentamente gli scrittori italiani d'allora, si resta stupiti della precisione e della verità, che si scorgono nella delineazione dei tratti esterni, nonchè della pienezza e perfezione di parecchie descrizioni personali in generale.[107] Ancora oggidì i romani in particolare vanno famosi per una attitudine speciale a fare in tre parole il ritratto dell'uomo, di cui discorrono. Questa prontezza nell'afferrare il lato caratteristico delle persone è una condizione essenziale per acquistare la conoscenza del bello e la capacità di descriverlo. Vero è che nei poeti la descrizione particolareggiata e minuta può essere un difetto, perchè un singolo tratto ispirato da una profonda passione può molte volte suscitare nel lettore un'immagine assai più viva ed efficace, che non facciano molte e spesso oziose parole. Dante non ha mai dato un'idea più splendida della sua Beatrice, quanto col descrivere soltanto il riflesso che parte dalla di lei persona e si spande su tutto ciò che la circonda. Ma qui non si tratta tanto della poesia, che, come tale, ha intenti e leggi speciali, quanto dell'attitudine in generale a ritrarre in parole le forme sì nei particolari, che nelle generalità.

In questo il Boccaccio è maestro, non tanto nel Decamerone, dove la novella vieta ogni lunga descrizione, quanto ne' suoi romanzi, dove egli può descrivere a tutto suo agio. Nell'«Ameto» egli ci dà il ritratto[108] di una bionda e di una bruna, presso a poco quali le avrebbe [95] dipinte un pittore cento anni più tardi, — tanto è vero che anche adesso la cultura precede l'arte di lungo tratto. — Nella bruna (o più probabilmente men bionda) appaiono già alcuni tratti, che potremmo dire classici: nelle parole la spaziosa testa e distesa si ha il presentimento di forme grandiose, che vanno al di là della semplice grazia e leggiadria; le sopracciglia non formano più, come nell'ideale dei Bizantini, due archi, ma una sola linea ondeggiante; il naso sembra ch'egli lo immagini pendente nell'aquilino;[109] anche il largo petto, le braccia di moderata lunghezza, la bella mano posata negligentemente sul manto porporino, tutti questi tratti insomma accennano evidentemente ad un sentimento della bellezza, che è quello dell'epoca che s'avvicina, e che, senza saperlo, tiene al tempo stesso assai di quello della classica antichità. In altre descrizioni il Boccaccio parla anche di una fronte piana (non rotondeggiante all'uso del medio-evo), d'un occhio serio, bruno, oblungo, di un collo rotondo, ma non curvato in arco, nonchè, con gusto molto moderno, di un «piccolo piede» e di due occhi «ladri nel loro movimento»[110] in una Ninfa dalle chiome d'ebano, e così via.


Se il secolo XV abbia lasciato testimonianze scritte sull'ideale della bellezza, quale esso la concepiva, noi non siamo in grado di dirlo; ma neanche le opere dei pittori e degli scultori non le renderebbero così del tutto inutili, come potrebbe parere a prima vista; chè anzi, di fronte al loro realismo, avrebbe potuto conservarsi [96] negli scrittori un tipo di bellezza affatto ideale ed astratta.[111] Ma nel secolo XVI emerge in modo speciale il Firenzuola col suo notevolissimo scritto «Della bellezza delle donne».[112] In esso bisogna innanzi tutto sceverare quello che egli ripete sulla fede degli scrittori antichi o sulla autorità degli artisti (per es. la determinazione delle proporzioni secondo la lunghezza del capo, alcune idee astratte e simili), dal molto di più che è frutto di osservazioni sue proprie, confermate con esempj di donne e fanciulle di Prato; e siccome la sua operetta ha la forma di un discorso, ch'egli tiene dinanzi alle donne di questa città, quindi dinanzi ai giudici più severi, non vi ha ragione di credere ch'egli non si sia tenuto scrupolosamente fedele alla verità. Il principio dal quale egli move, è quel medesimo, al quale già un tempo s'attennero Zeuzi e Luciano: la ricerca parziale di molte singole parti belle per costituire un tutto perfettamente bello. Egli definisce le diverse gradazioni dei colori, che possono essere nelle carni e nei capelli, e dà la preferenza al biondo, come il più bello,[113] intendendo però sotto questo nome un giallo delicato pendente nel bruno. Seguitando poscia, egli vuole che i capelli sieno crespi, copiosi [97] e lunghi, la fronte serena, alta la metà della sua larghezza, candida, cioè di una bianchezza rilucente, non morta e dilavata, le sopracciglia brune, sottili e morbide come seta, folte in sul mezzo e dolcemente digradanti verso il naso e gli orecchi, il bianco dell'occhio tendente leggermente all'azzurro, l'iride non assolutamente nera, quantunque tutti i poeti gridino ad una voce occhi neri, quale prerogativa di Venere, mentre invece è certo che l'azzurro celeste fu vanto delle stesse Dee, e che il bruno cupo è più cercato, «perchè crea una vista dolce, allegra, chiara e mansueta». L'occhio poi vuol essere grande e rilevato; le palpebre saranno bellissime, «se bianche e vergheggiate con certe venuzze vermigliate, che a fatica si veggano, i peli delle quali voglion essere raretti, non molto lunghi, nè troppo neri». Quella fossa che circonda l'occhio, non deve essere «nè troppo affonda, nè troppo larga, nè di color diverso dalle guance».[114] L'orecchio, di mediocre grandezza, saldo e bene [98] attaccato, ha da essere «più vivamente colorato nelle parti rilevate, che nelle piane e l'orlo trasparente e risplendente di rosso, come le granella delle melegrane». Delle tempie non c'è da dire se non che sien bianche e piane, nè troppo strette «che non paia ci serrino il cervello»;[115] nelle guance la bianchezza «dalle estremità, pura neve, deve andare, insieme col gonfiamento della carne, crescendo sempre in incarnato». Il naso, che determina essenzialmente il pregio del profilo, deve rialzarsi in principio, di poi, abbassandosi dolcemente, salire verso la fine, sicchè con ugual tratto sempre diminuisca; dove cessa la cartilagine, si rialzi un cotal poco, ma non così che diventi aquilino, «che in una donna comunemente non piace»: la parte inferiore abbia un colore «simile all'orecchio, ma forse anche meno acceso, purchè non sia bianco bianco, come se soffrisse di freddo, e la parete di mezzo sopra il labbro sia leggermente rossa». La bocca l'autore la desidera piuttosto piccola, ma nè appuntita, nè piatta, le labbra non troppo sottili, ma bellamente proporzionate tra loro: nell'aprirle [99] accidentalmente (vale a dire senza parlare e senza ridere) non si veggano mai più di sei denti superiori. Bellezze speciali sono una piccola fossetta nel labbro superiore, un bel rigonfiamento dell'inferiore, un vezzoso sorridere nell'angolo sinistro della bocca ecc. I denti non debbono essere nè troppo piccoli, nè disuguali, ma con bell'ordine separati e candidi come l'avorio: le gingive «paiano piuttosto orli di raso chermisino, che di velluto rosso». Sia il mento rotondo, «non già arricciato, nè aguzzo, e figuri colorito d'un color vermiglietto, un poco acceso nel suo rialto: suo vanto speciale è un poco di fossicella». Il collo ha da essere bianco e rotondo e piuttosto lungo che breve, la fontanella e il così detto pomo d'Adamo appena percettibili; la pelle «nell'abbassarsi vorrebbe far certe rughe circolari in forma di monili e nell'alzarsi vuol distendersi tutta». Le spalle le desidera larghe, ed anche quanto al petto egli ne riconosce nella sua latitudine il maggior pregio; ma, oltre a ciò, deve essere «sì carnoso, che sospetto d'osso non apparisca, e dolcemente rilevandosi dalle estreme parti, deve venir in modo crescendo, che l'occhio a fatica se ne accorga con un color candidissimo macchiato di rose». La gamba deve essere «lunga, scarsetta e schietta nelle parti inferiori, ma con gli stinchi non al tutto ignudi di carne ed oltre a ciò con polpe sode e bianche quanto la neve». Il piede lo vuole «piccolo, snello, ma non magro, e un po' rilevato nel salir del collo, bianco come lo alabastro». Anche le braccia hanno ad essere «bianche con un poco d'ombra d'incarnato sui luoghi più rilevati, carnose e muscolose, ma con una certa dolcezza, come quelle di Pallade, quando si mostrò al pastore sul monte Ida; in una parola, succose, fresche e sode». La mano finalmente si desidera bianca, massimamente [100] nella parte superiore, ma grande «e un po' pienotta, e morbida a toccare come fina seta, rosea nell'interno con linee chiare, rare, ben distinte, non intrigate, nè attraversate: quello scavo, che è tra l'indice e il pollice, sia bene assettato, senza crespe e di vivo colore»; le dita lunghe, schiette e assottigliantisi dolcemente verso la cima, ma sì poco che appena si veggia, con unghie «chiare, non lunghe, non tonde, nè in tutto quadre, nette e tagliate sopra la polpa del dito quanto la costola d'un picciol coltello».


Accanto a questa estetica speciale la generale non vi ha che una parte assai secondaria. Le ragioni più riposte e segrete, dietro le quali l'occhio giudica senza appello, sono un enigma anche pel Firenzuola, come egli apertamente confessa, e le sue definizioni di Leggiadria, Grazia, Vaghezza, Venustà, Aria, Maestà non sono in parte, come s'è detto, che deduzioni filologiche, in parte inutili sforzi per esprimere l'inesprimibile. Il sorriso egli lo definisce — probabilmente dietro qualche antico autore, e molto felicemente — uno splendore dell'anima.

Sull'uscire del medio-evo tutte le letterature possono vantare singoli tentativi fatti per fissar quasi dogmaticamente l'idea della Bellezza.[116] Ma ogni altra opera resta facilmente ecclissata da questa del Firenzuola. Il Brantome, posteriore di un secolo e più, non pare che un dilettante assai grossolano in suo confronto, appunto perchè guidato più dalla concupiscenza, che dal senso della Bellezza.

[101]

CAPITOLO IX. Descrizione della vita reale ordinaria.

Enea Silvio ed altri. — Convenzionalismo bucolico dal Petrarca in avanti. — Condizione effettiva dei contadini. — Schietta rappresentazione poetica della vita campestre. — Battista Mantovano, Lorenzo il Magnifico, il Pulci. — Angelo Poliziano. — L'umanità e l'idea dell'uomo in generale.

Alle scoperte che si fecero intorno all'uomo noi dobbiamo finalmente aggiungere anche l'interesse, che si prese alla descrizione della vita ordinaria quotidiana.

Nel medio-evo la vita d'ogni giorno non offerse argomento di poesia che alla satira ed alla farsa. Al tempo del Rinascimento in Italia si prende invece a studiarla e a descriverla per ciò che essa è in sè stessa, perchè è interessante da sè, perchè è una parte della vita umana in generale, nel vortice della quale gli Italiani si sentono come magicamente travolti. Invece della farsa volgare, che s'aggira per le case, sulle vie, nei villaggi per beffarsi indistintamente della piccola borghesia, dei contadini e del clero delle campagne, noi incontriamo qui nella letteratura i primordi di quei quadri di genere, che si fanno poi attendere per lungo tempo ancora nella pittura. Più tardi questi si congiungono spesso con quella farsa volgare e procedono uniti, ma non per questo sono [102] identici con essa, chè anzi differenze essenziali li distinguono pur sempre nettamente fra loro.

Quante cose umane non deve aver Dante attentamente osservato e sperimentato prima di poter descrivere in modo così profondamente vero il suo mondo spirituale![117] Le celebri similitudini desunte dall'operoso affaccendarsi nell'arsenale di Venezia, dall'appoggiarsi dei ciechi l'uno sull'altro alle porte delle chiese[118] e simili, non sono le sole prove che possono addursi in tale riguardo: l'arte stessa, colla quale egli esprime lo stato interno di un'anima nell'atteggiamento esteriore e nel gesto, dimostra un profondo e pertinace studio della vita.

I poeti che vengono dopo di lui, ben raramente lo agguagliano, e ai novellieri è vietato dalla stessa legge suprema del genere che trattano, di indugiarsi nelle particolarità (cfr. a pag. 38 e 94). Ad essi è permesso di esordire con grande larghezza e di essere prolissi, finchè vogliono, nel narrare, ma non mai di far quadri di genere puramente descrittivo. Questi non s'incontrano per la prima volta che presso gli uomini, che fecero rivivere l'antichità.

Il primo che anche in questo riguardo ci si fa innanzi è l'uomo, che avea una speciale attitudine a tutto: Enea Silvio. Egli descrive non soltanto la bellezza del paesaggio, non le cose più interessanti dal lato cosmografico ed archeologico (v. vol. I, pag. 244, vol. II, pag. 10 e 33), ma anche qualsiasi avvenimento ordinario e straordinario della vita.[119] Fra i moltissimi passi [103] delle sue Memorie, in cui si rappresentano scene naturali, alle quali in allora appena qualcuno avrebbe consacrato un lieve tratto di penna, non menzioneremo qui che la gara dei remiganti sul lago di Bolsena.[120] Ma impossibile sarebbe il dire con qualche sicurezza da quali antichi epistolografi o narratori gli sia venuto l'impulso a rivestire di sì splendidi colori le sue descrizioni; nè ciò deve sorprendere, essendo mille nel campo spirituale i punti di contatto tra l'Antichità e il Rinascimento, che non potranno mai essere chiaramente spiegati e resteranno avvolti in una misteriosa penombra.

Dopo ciò formano parte di questa serie quelle poesie descrittive latine, delle quali s'è già parlato altrove (v. vol. I, pag. 350): descrizione di cacce, di viaggi, di ceremonie e simili. E non manca anche qualche lavoro italiano di questa specie, come, per esempio, le descrizioni della celebre giostra medicea del Poliziano e di Luca Pulci. I poeti epici propriamente detti, Luigi Pulci, il Bojardo e l'Ariosto, sono spinti naturalmente dal loro soggetto a passar oltre e a toccar questi punti appena di volo, ma, anche in onta a ciò, non si può non ammirare la facile precisione, con cui dipingono la vita ordinaria, e se ne trae una prova di più della loro grande maestria in tutto. Franco Sacchetti si compiace una volta di ripetere i brevi discorsi di una brigata di belle donne,[121] che in un bosco furono sorprese dalla pioggia.

[104]

Altre descrizioni della vita reale ordinaria trovansi, più spesso che altrove, negli scrittori di cose guerresche e simili (cfr. vol. I, pag. 135). Ancora di un tempo anteriore ci rimane in una poesia molto circostanziata[122] un quadro fedele di una battaglia di mercenari del secolo XIV, dove son riferite particolarmente le acclamazioni, le grida e i comandi, che echeggiano durante la zuffa.

Ma la cosa più notevole in questo genere sono le schiette descrizioni della vita campagnuola, che si trovano specialmente in Lorenzo il Magnifico e nei poeti che lo circondano.


Dal Petrarca in avanti[123] ci fu una specie di bucolica falsa, convenzionale, un vero furore di scriver egloghe, ad imitazione di quelle di Virgilio, non importa se in versi latini od italiani. E come sue specie secondarie sorsero il romanzo pastorale del Boccaccio (v. vol. I, pag. 346) e tanti altri sino all'Arcadia del Sannazzaro, e più tardi la farsa pastorale alla maniera del Tasso e del Guarini, tutti lavori dettati in bellissima prosa o in versi perfetti, nei quali però la vita pastorale non figura che come un costume indossato per sola apparenza esterna, [105] esprimendosi sotto di esso sentimenti propri di un genere ben diverso di società.[124]

Ma, accanto a ciò, col finire del secolo XV, sorge nella poesia un modo affatto nuovo di dipingere la vita campestre: la descrizione schietta, naturale, l'antitesi insomma, il contrapposto della bucolica convenzionale di prima. Essa non fu possibile che in Italia, perchè qui soltanto l'abitatore delle campagne (tanto il colono che il proprietario) aveva dignità d'uomo e libertà personale e franchigie speciali, per quanto anche talvolta la sua sorte fosse piuttosto dura. La differenza tra la città e i villaggi è ben lontana dall'esservi così accentuata, come nel nord; anzi un gran numero di piccole città vi è esclusivamente abitato da contadini, che la sera, tornando alle loro case, possono mutar nome e chiamarsi cittadini al pari di tutti gli altri. I Maestri comacini fecero il giro di quasi tutta l'Italia; al fanciullo Giotto fu pure possibile di abbandonar le sue pecore e di essere aggregato in Firenze ad una corporazione; in generale l'affluenza degli uomini del contado alle città era continua, e certe popolazioni di montagna sembravano nate esclusivamente per questo.[125] Ora egli è bensì vero che la boria [106] e l'orgoglio cittadinesco sono un continuo stimolo ai poeti e ai novellieri perchè mettano in canzonatura il villano,[126] e che la commedia improvvisata (v. pag. 61 e segg.) si dà premura poi di fare il resto. Ma tuttavia dove trovare neanche un'ombra di quel crudele e beffardo odio di razza contro i vilains, di cui sono pieni gli aristocratici poeti provenzali e qua e colà anche i cronisti francesi? Egli è un fatto che negli scrittori italiani di qualsiasi specie[127] s'incontrano frequenti e spontanee testimonianze d'onore e di rispetto per una classe di persone, che rende alla società sì segnalati servigi e ha tanto diritto alla di lei gratitudine. Gioviano Pontano[128] narra con sensi di vera ammirazione alcuni tratti magnanimi dei selvaggi abruzzesi: nelle collezioni biografiche e nei novellieri non mancano mai eroine campestri,[129] che sacrificano la propria vita per difesa del proprio onore e pel bene della propria famiglia.[130]

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Con tali precedenti era ben naturale che in taluni sorgesse il desiderio di rivestir dei colori della poesia anche questo genere di vita. Fra costoro innanzi tutto nomineremo qui Battista Mantovano colle sue Egloghe, una volta assai lette ed anche oggidì degne di osservazione. Esse sono uno de' suoi primi lavori (probabilmente del 1480 o in quel torno), e vi si nota ancora una certa perplessità tra il realismo e il convenzionalismo della rappresentazione, ma in sostanza il primo prevale. Vi si sentono le idee di un buon curato di campagna, non senza qualche sfumatura qua e là di idee liberali. In qualità di monaco carmelitano, Battista deve aver bazzicato assai colle popolazioni del contado.


Ma con forza incomparabilmente maggiore ci trasporta Lorenzo il Magnifico in questo nuovo mondo e ci fa vivere veramente la vita del villaggio. La sua «Nencia da Barberino»,[131] può dirsi la nuova e schietta riproduzione delle canzoni popolari dei dintorni di Firenze, fuse insieme in un'onda maestosa di ottave. L'oggettivismo [108] del poeta è tale, che si resta in dubbio se si risenta simpatia o disprezzo pel garzone che parla (è il contadinello Vallera, che dichiara il suo amore alla Nencia). È evidente il contrasto deliberato colla bucolica convenzionale accompagnata dal solito Dio Pane e dalle solite Ninfe: Lorenzo si getta volontariamente nel nudo realismo della spregiata vita delle campagne, e, ciò non ostante, l'insieme lascia un'impressione veramente poetica.

Rivale della Nencia, per consenso di tutti, è la Beca da Dicomano di Luigi Pulci.[132] Ma essa difetta di una certa serietà obbiettiva, per essere stata cantata non tanto per forza di naturale impulso e allo scopo di rappresentare un lato della vita del popolo, quanto pel desiderio di ottenere l'applauso della più colta società fiorentina. Da ciò la maggiore e deliberata rozzezza del quadro e le frammistevi oscenità. Ciò non ostante, il carattere del contadino innamorato vi è con molta abilità sostenuto.


Terzo in questa società viene Angelo Poliziano col suo Rusticus in esametri latini.[133] Tenendosi lontano da ogni imitazione della Georgica di Virgilio, egli descrive specialmente l'anno campestre in Toscana, cominciando dall'autunno inoltrato, nel quale l'agricoltore sfodera un nuovo aratro e fa le seminagioni dell'inverno. Assai ricca e lussureggiante è la descrizione della campagna in primavera, ed anche nell'«estate» s'incontrano passi di un [109] gusto squisito; ma ciò che può riguardarsi come un vero gioiello della nuova poesia latina, è la festa della vendemmia in autunno. Anche in italiano il Poliziano ha cantato qualche cosa da cui emerge, che nel gruppo che stava attorno a Lorenzo, si poteva dare oggimai qualche quadro veritiero della vita agitata e operosa delle classi inferiori. La sua Zingaresca[134] è uno dei primi saggi della tendenza dei poeti moderni a trasportarsi nella vita e nei costumi di una classe d'uomini diversa da quella, a cui essi appartengono. Con un intento comico qualche cosa di simile era stato, per vero, tentato ancor prima,[135] e in Firenze i canti delle Mascherate ne offrivano sempre nuova occasione al tornare di ogni carnovale. Ma ciò che è nuovo, è il trasportarsi nel mondo dei sentimenti di un'altra classe, con che tanto questa canzone, quanto «la Nencia» tracciano nella storia della letteratura una nuova via, che merita attenta considerazione.

E qui pure in sul finire dobbiamo far notare di nuovo il fatto, che la cultura precede sempre lo sviluppo dell'arte. Non ci vollero infatti, dalla Nencia in poi, meno di ottant'anni prima che s'avessero i quadri di genere e i bozzetti campestri di Jacopo Bassano e della sua scuola.


Avremo occasione in seguito di mostrare come in Italia le differenze sociali fondate sulla diversità della nascita avessero omai perduto ogni valore. Ciò che vi contribuì grandemente fu senza dubbio il fatto, che qui, prima che altrove, s'era acquistata una conoscenza più [110] seria e più perfetta dell'uomo in particolare e dell'umanità in generale. Basterebbe questa sola conquista per imporci un obbligo di eterna riconoscenza verso gli uomini del Rinascimento. Un concetto logico e astratto dell'umanità s'era avuto da tempo antichissimo, ma il Rinascimento ce ne diede la realtà vera e obbiettiva.

I più nobili ed elevati sentimenti a questo riguardo trovansi espressi da Pico della Mirandola nel suo discorso sulla dignità dell'uomo,[136] che può dirsi uno dei lasciti più preziosi di quell'epoca tanto colta. Dio s'è riserbato di crear l'uomo dopo tutte le altre creature, affinchè questi potesse riconoscere le leggi dell'universo, sentirne la bellezza, ammirarne la magnificenza. Egli non lo vincolò a nessuna sede fissa, non gl'impose veruna attività determinata, nessuna necessità ineluttabile; lo dotò anzi di ogni facoltà necessaria a muoversi e a voler liberamente. «Io ti ho collocato in mezzo al mondo, disse il Creatore ad Adamo, affinchè tu tanto più facilmente ti guardi attorno e vegga tutto ciò ch'esso contiene. Io ti creai non celeste e non terrestre, non mortale, nè immortale soltanto, affinchè tu sia libero educatore e signore di te medesimo; tu puoi degenerare sino a divenir bruto, e rigenerarti sino a parer quasi un Dio. I bruti portano con sè dal grembo materno quanto ad essi fa d'uopo per conservarsi; gli spiriti superiori sono sin dal principio, o per lo meno subito dopo,[137] ciò che saranno eternamente. Tu solo hai uno sviluppo, che dipende dalla tua libera volontà, e porti in te i germi d'ogni specie di vita».

[111]

PARTE QUINTA LA VITA SOCIALE E LE FESTE

[113]

CAPITOLO I. Il pareggiamento delle classi.

Contrasto col medio-evo. — La convivenza nelle città. — Negazione teorica della nobiltà. — Contegno dell'aristocrazia secondo i paesi. — Sua posizione di fronte allo svolgersi progressivo della cultura. — Posteriori influenze spagnuole. — Le dignità cavalleresche dal medio-evo in avanti. — I tornei e le loro caricature. — La nobiltà come requisito indispensabile a' cortigiani.

Ogni epoca di civiltà, che rappresenti in sè qualche cosa di compiuto e perfetto, non si manifesta soltanto nella vita politica, religiosa, artistica e scientifica di un popolo, ma dà altresì un'impronta sua propria all'intera vita sociale. Ciò riscontrasi in modo caratteristico nel medio-evo, dove le rigide consuetudini delle corti e dell'aristocrazia sono presso a poco identiche dappertutto, e dove pure si ha un genere di borghesia affatto speciale.

Gli usi invalsi in Italia nel secolo del Rinascimento sono l'antitesi la più spiccata di tali consuetudini sotto tutti i punti di vista più essenziali. Questa antitesi comincia già alla base, che è affatto diversa, mentre nei circoli più elevati della vita sociale non esistono più distinzioni di casta, ma si ha invece una classe veramente colta nel senso moderno della parola, nella quale la gentilezza del sangue non ha valore se non in quanto le [114] ricchezze, che sogliono accompagnarla, assicurano gli ozi necessari alla propria educazione. Ciò però non deve intendersi in modo assoluto, mentre è pur sempre vero, che gli ordini sopravissuti al medio-evo cercano ora più, ora meno, di prevalere, non fosse altro, per la smania di conservarsi all'altezza, che l'aristocrazia mantiene nelle altre nazioni men progredite d'Europa. Mala tendenza generale dell'epoca è però sempre per la fusione delle classi nel senso moderno.


Ad ottenere un tale intento, di sommo rilievo deve essere stata la convivenza di nobili e borghesi nella stessa città, per lo meno sino dal secolo XII,[138] poichè per essa vennero accomunate le sorti di tutti e furono tronche le ali, ancora in sul nascere, all'insolente albagia dei signori feudali, che dall'alto delle loro rocche sognavano un mondo di schiavi. Oltre a ciò, la Chiesa in Italia non si indusse mai, come nei paesi settentrionali, a fissare appannaggi speciali pei figli cadetti dell'aristocrazia: infatti, se anche i vescovati, i canonicati e le abbazie vi furono spesso conferiti dietro i principii di un indegno favoritismo, questo però non si basava mai esclusivamente sul privilegio dell'origine, e se i vescovi di regola vi furono molto più numerosi, più poveri e privi affatto di quelle prerogative principesche, che avevano altrove, videro in compenso cresciuta la loro autorità morale dalla loro dimora nelle città dove avevano la sede, e dove, insieme coi loro capitoli, formavano un elemento speciale della popolazione più colta. Quando, dopo ciò, pullularono d'ogni parte i principi e le tirannidi, l'aristocrazia ebbe [115] in quasi tutte le città occasione e motivo d'isolarsi nella vita privata (v. vol. I, pag. 181), che, scevra di pericoli dal lato politico e confortata d'ogni comodità ed agiatezza materiale, non era in sostanza gran fatto diversa da quella di tanti altri ricchi abitatori delle città. E quando, da Dante in poi, la nuova poesia e la nuova letteratura divennero patrimonio di tutti,[139] e, più tardi ancora, prevalse una cultura tutta d'indole antica, e l'uomo, come tale, ebbe solo quel valore, che sapeva procacciarsi individualmente, e si videro nel fatto i Condottieri diventar principi e non badarsi più non solo alla dignità, ma nemmeno alla legittimità della nascita nell'eredità del potere (v. vol. I, p. 27-28), — allora si potè ben credere che una nuova êra di uguaglianza fosse spuntata, ed ogni idea di nobiltà scomparsa per sempre.


Dal punto di vista teorico, nel solo Aristotele, riferendosi all'antichità, si potevano già trovar gli argomenti per affermare e per negare la legittimità degli ordini aristocratici. Dante, per esempio, deriva ancora dall'unica definizione aristotelica, che «la nobiltà si basi sull'eccellenza e sulla ricchezza ereditaria», il suo principio, che «la nobiltà riposa sull'eccellenza propria o su quella degli antenati».[140] Ma altrove egli non si dà per soddisfatto di una tale definizione, e si rimprovera da sè stesso[141] di aver perfino in Paradiso, parlando col suo proavo Cacciaguida, alluso alla nobiltà della sua origine, [116] che è manto che tosto raccorcia, e al quale il tempo ogni dì recide un lembo, che giorno per giorno bisogna rimettere. E nel «Convito»[142] egli stacca del tutto dall'idea della nobiltà ogni condizione di nascita privilegiata, e ne fa una cosa sola con l'attitudine a qualsiasi eccellenza morale e intellettuale, accentuando in modo speciale il pregio di una elevata cultura, col fare la nobiltà sorella germana della filosofia.

Dopo ciò, quanto maggiore fu l'influenza che l'umanismo venne acquistando sulle opinioni degli Italiani, tanto più forte si venne in tutti radicando la persuasione, che l'origine non possa mai esser quella che decida del valore di un uomo. Nel secolo XV quest'era omai un principio universalmente accettato. Il Poggio nel suo dialogo «Della nobiltà»[143] si dichiara pienamente d'accordo co' suoi interlocutori — Niccolò Niccoli e Lorenzo de' Medici, fratello del vecchio Cosimo — non esservi oggimai altra nobiltà, fuorchè quella derivante dal merito personale. Con tratti finamente mordaci questo stesso scritto sparge un amaro dileggio su molte distinzioni e prerogative, che, secondo il comune pregiudizio, entrano a far parte della vita dei nobili. «Niuno (v'è detto) trovasi tanto lontano dalla vera nobiltà, quanto colui, i cui antenati esercitarono per lungo tratto di tempo il malandrinaggio. La passione per le cacce non sente meglio di nobiltà, di quello che i nidi della selvaggina, che s'insegue, si risentano di balsamo o d'altri soavi profumi. L'agricoltura, quale fu esercitata dagli antichi, sarebbe ben più nobile occupazione, che non quelle stolte scorrerie per boschi e per monti, che ci fanno più simili alle [117] belve, che a noi medesimi, e che tutt'al più potrebbero di quando in quando servirci di utile passatempo». E se ne adduce la prova mostrando il lato selvaggio e brutale della vita dei cavalieri inglesi e francesi nelle loro campagne o nei castelli e, peggio ancora, di quella della rapace cavalleria tedesca. Dopo ciò, il Medici prende a sostenere in certo modo le parti della nobiltà, ma non già — cosa abbastanza caratteristica — riferendosi ad un sentimento suggerito dalla natura, bensì richiamandosi all'autorità di Aristotele, che nel quinto libro della sua «Politica» riconosce e definisce la nobiltà come qualche cosa di veramente concreto e che si fonda sull'eccellenza del merito e sulla ricchezza ereditata. Ma il Niccoli soggiunge, che Aristotele, dando questa definizione, non esprime una persuasione sua propria, ma una opinione generalmente invalsa al suo tempo; e ciò è tanto vero, che nell'«Etica», dov'egli parla secondo il suo intimo convincimento, non vuol che sia nobile se non colui, che si sforza di conseguire il vero bene. Indarno il Medici gli oppone, che l'espressione greca per designare la nobiltà (Euganeia) suona appunto «nascita illustre»; il Niccoli trova che la voce latina nobilis, vale a dire notabile, è assai più giusta, perchè fa dipendere la nobiltà dalle sole azioni.[144] Dopo questi e simili ragionamenti l'autore ci dà una specie di prospetto delle condizioni di fatto, in cui si trovava al suo tempo la nobiltà nelle diverse regioni d'Italia. A Napoli essa è fiera e disdegna di occuparsi tanto dell'amministrazione de' suoi [118] averi, quanto della mercatura, che riguarda come ignominiosa: così, se ne sta inerte e rinchiusa ne' suoi palagi,[145] o va attorno oziosamente cavalcando per la città. Anche l'aristocrazia romana ha in dispregio il commercio, ma amministra almeno i suoi beni; anzi presso di essa l'attendere all'economia rurale è considerato come cosa onorevole e agevola di per sè l'accesso ai ranghi della nobiltà:[146] tutto sommato, «un'aristocrazia rispettabile, ma paesana». Anche in Lombardia i nobili vivono dei redditi dei possessi ereditati, e si differenziano dagli altri pel vanto dell'origine e per l'astensione da qualsiasi ordinaria occupazione.[147] In Venezia la nobiltà governa, ma al tempo stesso si consacra al commercio; ed ugualmente a Genova tutti indistintamente, nobili e non nobili, sono mercanti e navigatori, e non vi si ammettono altre differenze, fuorchè quelle che provengono dalla nascita: taluni però esercitano una specie di brigantaggio dall'alto dei loro castelli. In Firenze una parte dell'aristocrazia attende al traffico; un'altra (ma certo la men numerosa) si pavoneggia, boriosa dei propri titoli, per le vie della città o perde il suo tempo nelle cacce e in simili divertimenti.[148]

[119]

Ma ciò che ha un'importanza al tutto decisiva si è questo, che quasi in tutta Italia anche coloro che possono andar superbi della lor nascita, non hanno ambizioni da far valere di fronte alla cultura ed alla ricchezza, nè dai loro privilegi politici o di corte risentono alcun impulso a considerarsi come una classe superiore alle altre. Venezia sembra costituire a questo riguardo una eccezione, ma essa non è che apparente, perchè in sostanza la vita dei nobili non si differenzia quivi da quella della borghesia, e gode appena qualche privilegio di pura forma esteriore. Diversamente invece vanno le cose nel regno di Napoli, che per l'orgoglioso isolamento e la boriosa vanità della sua aristocrazia, più che per qualsiasi altro motivo, restò completamente escluso dal gran moto intellettuale e morale del Rinascimento. A dar quivi un potente rinforzo alle tradizioni lasciate dal medio-evo longobardo e normanno sopravviene, ancor prima della metà del secolo XV, la dominazione aragonese, e così vi si compie fino da quel momento ciò che nel resto d'Italia non si effettuò che cento anni più tardi, una vera trasformazione sociale, un disprezzo del lavoro e una smania di titoli, che costituiscono appunto il lato caratteristico della popolazione spagnuola. Le conseguenze di un tal fatto non tardano poi a manifestarsi perfino nelle più piccole città ancor prima del 1500, e basta per tutte citare ciò che ci vien detto intorno ad [120] una di esse, la piccola città della Cava. Essa era stata sempre proverbialmente ricca sino a che non diede ricovero che a muratori e a tessitori: «ora che, invece di strumenti da muratori e di telai, non vi si veggono che sproni, staffe e cinghie dorate, e tutti aspirano ad essere dottori, medici, notai, ufficiali e cavalieri, vi è subentrata la più desolante miseria».[149] In Firenze si constata un fatto identico per la prima volta sotto Cosimo primo granduca, e si ha a lui quest'obbligo che la gioventù fiorentina del suo tempo, spregiando il commercio e le industrie, non si preoccupa d'altro che di ottenere cavalierati nel suo nuovo ordine di s. Stefano.[150] È precisamente il rovescio di quanto vi era accaduto un secolo prima,[151] quando i padri, morendo, pregavano lo Stato a diseredare i loro figli, qualora non avessero esercitato una qualche utile professione (vedi vol. I, pag. 108).


Ma una smania speciale di distinzioni distrae spesso in modo molto ridicolo i Fiorentini dal culto dell'arte e della letteratura, nel quale non si ammettono differenze gerarchiche, ed è appunto la sete delle dignità cavalleresche divenuta stoltamente oggetto di moda proprio nel [121] tempo, in cui esse aveano perduto sin l'ombra del proprio valore.

«Non sono molti anni, scrive Franco Sacchetti[152] verso la fine del secolo XIV, che ognuno di noi ha veduta far cavalieri li meccanici, gli artieri, insino a' fornai; ancora più giù, gli scardassieri, gli usurai e rubaldi barattieri.... Come risiede bene che uno judice, per poter andare rettore, si faccia cavaliere? E non dico che la scienza non istea bene al cavaliere, ma scienza reale, senza guadagno.... Oh sventurati ordini della cavalleria, quanto siete andati al fondo! In quattro modi son fatti cavalieri.... e tutti sono obbligati, vivendo, a molte cose che sarebbe lungo a dirle, e fanno tutto il contrario. Voglio pure aver toccato queste parti, acciocchè i lettori di queste cose materiali comprendano, come la cavalleria è morta. E non si ved'elli, che pure ancora lo dirò, essere fatti cavalieri i morti? Che brutta, che fetida cavalleria è questa! Così si potrebbe fare cavaliere un uomo di legno o uno di marmo,... e, perchè no? anche un bue o altra bestia». — I fatti che il Sacchetti adduce a conferma di quanto scrive, sono invero parlanti abbastanza; una volta egli è messer Bernabò Visconti, che per derisione creò cavalieri due ubbriaconi, che bevettero a prova alla sua presenza; un'altra sono alcuni cavalieri tedeschi, dei quali sì si fa beffe a proposito degli ornamenti che portano sull'elmo e simili. Più tardi il Poggio mette in derisione i molti cavalieri del suo tempo senza cavallo e senza esercizio alcuno di guerra.[153] Chi voleva far pompa dei distintivi onorifici del [122] ceto, per esempio, uscire a cavallo portando bandiere ecc., si creava da sè in Firenze una posizione molto difficile, tanto di fronte al governo, quanto a' suoi numerosi motteggiatori.[154]

Riguardando la cosa un po' più dappresso, si scorge che queste tarde ambizioni cavalleresche, indipendenti affatto da qualsiasi nobiltà di sangue, senza dubbio erano in parte il frutto di una ridicola vanità smaniosa di titoli, ma al tempo stesso avevano altresì un'altra radice. I tornei erano ancora in uso, e chi volea prendervi parte, dovea, giusta le formalità prescritte, essere cavaliere. Ma il combattimento in campo chiuso e più particolarmente la corsa delle lance, strettamente regolata e talvolta assai pericolosa, erano un'occasione favorevole per far mostra di forza e di coraggio, e nessuno, qualunque fosse la sua origine, voleva certamente lasciarsela sfuggire in un'epoca, in cui tanto conto si teneva del valor personale.

Quindi è che non giovò a nulla, che ancora il Petrarca fin dal suo tempo si fosse espresso in termini di viva riprovazione contro i tornei, come contro una pericolosa stoltezza: egli non convertì nessuno col suo patetico grido: «in niun libro si legge che Scipione o Cesare siano stati abili giostratori!»[155] La cosa anzi in Firenze acquistò una grande popolarità; ogni borghese cominciò a riguardar la sua giostra — che senza dubbio non era più tanto pericolosa — come una specie di [123] onesto passatempo, e Franco Sacchetti[156] ci ha conservato il ritratto, estremamente comico, di uno di questi giostratori della domenica. Egli esce a cavallo sino a Peretola, dove si potea giostrare a prezzo mitissimo, sopra una rôzza presa a nolo da un tintore, alla quale alcuni burloni poscia appiccano un cardo sotto la coda: la bestia imbizzarrisce, prende il galoppo e porta a precipizio il cavaliere, armato di tutto punto, alla città. L'inevitabile scioglimento della novella è una violenta sgridata della moglie indispettita di simili scappate del marito.[157]

Per ultimo i Medici concepiscono una vera passione per la giostra, come se volessero mostrare per l'appunto, essi non nobili e privati, che la società di cui si circondano, non è in nulla inferiore ad una corte.[158] [124] Già ancor sotto Cosimo (1459), e poi sotto Piero il vecchio ebbero luogo in Firenze delle giostre celebratissime; Piero il giovane poi per tali esercizi trascurò perfino il governo, e non voleva essere dipinto se non rivestito della sua splendida armatura. Anche alla corte di Alessandro VI prevalse un entusiasmo simile; e quando il cardinale Ascanio Sforza chiese al principe turco Zizim (v. vol. I, pag. 149 e 158) come gli piacesse quello spettacolo, il barbaro rispose assai saggiamente, che simili combattimenti nella sua patria si facevano fare agli schiavi, perchè, in caso di disgrazia, non se ne risentiva alcun danno. — L'orientale qui, senza saperlo, si trovava d'accordo con gli antichi romani nel riprovare i costumi del medio-evo.

Del resto, anche non tenendo conto di queste circostanze, che pur non sono di lieve momento per spiegarsi l'ardore insistente con cui si cerca la dignità cavalleresca, noi troviamo omai a questo tempo qua e colà dei veri ordini di corte (per es. a Ferrara), i cui membri hanno di diritto il titolo di cavaliere.


Ma, per grandi che fossero le singole ambizioni e le vanità dei nobili e dei cavalieri, sta di fatto che la nobiltà italiana si collocò sempre nel bel mezzo della vita comune, e non mai alle estremità della medesima. [125] Noi la vediamo trattar colle altre classi costantemente sur un piede di perfetta uguaglianza, e l'ingegno e la cultura sono sempre i suoi naturali alleati. Certamente che in un cortigiano propriamente detto si esige un qualche grado di nobiltà,[159] ma questa esigenza è espressamente dichiarata figlia di un pregiudizio invalso nel pubblico (per l'oppenion universale), nè in ogni caso implica mai la supposizione, che anche un individuo non nobile non possa avere un merito intrinseco equivalente. E nemmeno rimane inteso con ciò che le persone non nobili debbano restar escluse da ogni contatto col principe: si vuole soltanto che all'uomo perfetto, al vero cortigiano, non manchi alcuna di quelle qualità, che costituiscono un ornamento della vita, e quindi neanche questa. Se poi in tutti i rapporti della vita gli vien fatto un obbligo speciale di mantenere un contegno riserbato e dignitoso, non è già perchè egli abbia un sangue più nobile nelle vene, ma perchè così vuole l'alta sua perfezione individuale. Trattasi di una distinzione moderna, il cui momento principale sta nella cultura e nella ricchezza; ma in quest'ultima solo in quanto renda possibile di consacrar la vita alla prima e di promuoverne in grande gli interessi e lo sviluppo.

[127]

CAPITOLO II. Raffinamento esteriore della vita.

Abbigliamenti e mode. — Articoli di toeletta delle donne. — Pulitezza esteriore. — Il galateo e la buona creanza. — Comodità ed eleganza.

Ora, quanto meno le differenze di nascita conferiscono un privilegio determinato, tanto maggiore ogni individuo, come tale, sente lo stimolo a mettere in evidenza i suoi pregi personali, e tanto più la vita sociale deve tendere per proprio impulso a restringersi in una cerchia speciale ed a nobilitarsi. Il sorgere dell'individualità e il raffinarsi della vita sociale diventano due fatti necessari, deliberatamente pensati e voluti.

Già l'apparenza esterna dell'uomo e le cose che lo circondano e gli ozj della vita quotidiana mostrano in Italia un'eleganza ed un raffinamento maggiore, che in qualsiasi altro paese. Delle abitazioni dei grandi spetta alla storia dell'arte il parlarne; qui soltanto dobbiamo notare, come esse superassero in comodità e nell'armonica disposizione delle parti i castelli e le corti o palazzi di città dei grandi del nord. Il vestire mutò per guisa, che egli è impossibile l'istituire un completo paragone colle mode degli altri paesi, molto più che, dal finire del secolo XV in poi, spesso si adottarono queste ultime. Ciò che i pittori italiani ci rappresentano come [128] costume di quel tempo, è in generale quanto di più bello e di più accomodato ci fosse allora in Europa, ma non si potrebbe dir con certezza, se quel modo di vestire prevalesse generalmente e se i pittori, ritraendolo, sieno stati sempre esatti. Quello però che è fuori di dubbio si è, che in nessun luogo si tenne del vestire quel conto, che si teneva in Italia. La nazione era alquanto vanitosa; ma, oltre a ciò, anche uomini molto gravi non esitavano a riconoscere in un vestito quanto più si potesse bello e ben fatto un ornamento non dispregevole aggiunto alla persona. In Firenze ci fu perfino un periodo di tempo, in cui il vestire era una cosa affatto individuale, ed ognuno aveva una moda sua propria (v. vol. I, pag. 179 nota); ed anche per buon tratto del secolo XVI questa usanza fu coraggiosamente mantenuta da uomini considerevolissimi,[160] mentre intanto la grande maggioranza si accontentava di variare più o meno la moda dominante, secondo il gusto particolare. Si potrebbe adunque riguardare come un sintomo di decadenza per l'Italia l'ammonizione che si legge in Giovanni della Casa,[161] di evitare le singolarità e di non dipartirsi dalla moda regnante. Il nostro tempo, che, almeno negli abbigliamenti degli uomini, rispetta come legge suprema l'uniformità, rinuncia con ciò ad una caratteristica più importante che non si creda. Ma ciò procura un grande risparmio di tempo, e questo, colle idee di operosa attività che si hanno oggidì, può benissimo riguardarsi come compenso tale da contrabbilanciare ogni altro svantaggio.

[129]

In Venezia e a Firenze[162] eranvi, all'epoca del Rinascimento, prescrizioni speciali, che regolavano il modo di vestire degli uomini e ponevano limiti determinati al lusso delle donne. Dove simili leggi non esistevano, per esempio a Napoli, i moralisti deplorano scomparsa ogni traccia di differenza tra la nobiltà e il ceto borghese.[163] Oltre a ciò essi biasimano il rapidissimo mutar delle mode e (se noi interpretiamo rettamente) la stolta venerazione per tutto ciò che veniva di Francia, mentre nel fatto molte delle sue mode non erano che le antiche d'Italia spacciate siccome nuove, perchè rientrate dopo aver fatto il giro del paese straniero. Ora, il determinare sino a qual punto questo frequente mutare delle forme del vestire e l'adozione delle mode francesi e spagnuole[164] abbiano contribuito a tener viva nella nazione la passione abituale del lusso esterno, non è cosa di cui dobbiamo occuparci qui; ma, anche senza di ciò, il fatto [130] merita d'esser notato come una prova di più del rapida sviluppo della vita italiana intorno al 1500.


Degna di speciale attenzione è la cura che pongono le donne, di modificare quanto più possono la loro apparenza esterna con tutti gli aiuti, che può offrire una ricca e minuziosa toeletta. In nessun paese d'Europa, dalla caduta dell'Impero romano in poi, non s'è cercato di dar tanto risalto al pregio della figura, al colore delle carni e alla ricchezza dei capelli, quanto allora in Italia.[165] Tutto tende ad uniformarsi ad un tipo convenzionale universalmente accettato, anche a costo di veder violate in modo strano, e talvolta goffo, le leggi naturali del bello. In questo riguardo noi prescinderemo del tutto dall'abbigliamento in genere, che nel secolo XIV fu estremamente svariato nei colori e carico negli ornamenti,[166] e più tardi ebbe una ricchezza un po' più elegante, e ci limiteremo alla toeletta nel senso più stretto.

Innanzi tutto noi troviamo che si portano, poi vengono proibite, poi tornano a portarsi false acconciature da testa, talune anche di seta bianca e gialla,[167] sino a [131] che giunge un qualche grande oratore sacro, che commove gli animi a penitenza, e allora sulla pubblica piazza s'innalza un gran rogo (talamo) sul quale, insieme a liuti, arnesi da giuoco, maschere, ricette magiche, canzonieri erotici ed altre inezie, vanno a finire anche queste false acconciature:[168] la fiamma purificatrice riduce tutte queste cose in un mucchio di cenere. Il colore ideale, che tanto nei propri, come nei capelli posticci si cercava di preferenza, era il biondo. E siccome si credeva che il raggio solare avesse in sè la virtù di far acquistare quel colore ai capelli,[169] furonvi delle dame, che ebbero il coraggio di stare giornate intere sotto la sferza del sole;[170] del resto, ciò non impediva che si usassero tinture speciali e manteche per accrescerne altresì il volume. A ciò poi bisogna aggiungere un arsenale di acque ritenute confacenti a conservar la bellezza, empiastri ed unguenti per ogni singola parte del viso, perfino per le palpebre e i denti, di cui il nostro tempo non ha nemmeno una idea. E non giovarono nè i sarcasmi dei poeti,[171] nè le [132] invettive dei predicatori, nè la paura stessa di guastarsi precocemente le carni a distogliere le donne da quegli usi e dal dare con ciò un falso colorito, e perfino una falsa forma al proprio viso. Non è impossibile che le frequenti e grandiose rappresentazioni dei Misteri, nei quali centinaia d'uomini apparivano dipinti e mascherati,[172] abbiano contribuito a trasformare quell'abuso in abitudine giornaliera; il fatto è che esso allora era universale, ed anche le fanciulle del contado facevano del loro meglio per uniformarvisi,[173] sin dove potevano. Si aveva un bel predicare, che simili artificii erano i contrassegni delle cortigiane; anche le più rispettabili matrone, che del resto in tutto il corso dell'anno non toccavano alcun empiastro, s'imbellettavano nei dì di festa, quando accadeva loro di dover mostrarsi in pubblico.[174] — Ma, sia che si riguardasse questo eccesso come un tratto di barbarie, di cui s'aveva un riscontro nell'uso di imbellettarsi dei selvaggi, sia che lo si ritenesse anche soltanto come uno sforzo di mantenere nei lineamenti e nel colorito il tipo normale della bellezza giovanile, come farebbe credere la somma accuratezza e la moltiplicità di questa toeletta, — certo è che agli uomini spiacque allora, come in ogni altro tempo, e ne sono prova i richiami [133] continui, che in questo riguardo furono fatti al bel sesso.

Anche l'uso dei profumi eccedette ogni misura e si estese perfino a tutte le cose, colle quali in qualsiasi modo si doveva venire a contatto. Nelle grandi festività, si solevano strofinare con unguenti fin le mule, sulle quali si dovea cavalcare;[175] Pietro Aretino ringrazia Cosimo I per un invio fattogli di scudi profumati.[176]


Ma gl'Italiani vivevano allora altresì nella persuasione di superare in pulitezza esteriore qualsiasi dei popoli settentrionali. Nè parrebbe neanche doversi dire, che questa loro opinione andasse troppo lungi dal vero, se si considera che la pulitezza è una qualità indispensabile al perfezionamento della personalità moderna, che certamente in Italia si svolse più presto e più completamente che altrove; inoltre molti indizi farebbero credere anche, che essi fossero una delle più ricche nazioni del mondo d'allora. Prove assolute tuttavia non sarà mai possibile addurne, e se da ultimo la questione si restringesse al determinare a chi propriamente spetti la priorità, nella redazione dei primi codici di pulitezza e creanza, la poesia cavalleresca del medio-evo potrebbe a buon diritto vantarsi di possedere il più vecchio. Ciò non ostante, di una cosa non può dubitarsi, ed è questa, che alcuni dei più illustri rappresentanti del Rinascimento portarono [134] la pulitezza della persona, specialmente ne' banchetti,[177] all'ultimo grado della perfezione, e che, per un antico pregiudizio, i tedeschi in Italia riguardavansi sempre come il tipo d'ogni sudiceria.[178] Il Giovio non esita ad attribuire molte abitudini poco pulite di Massimiliano Sforza all'educazione primitiva che questi aveva ricevuto in Germania,[179] e nota che gli Italiani n'erano veramente scandolezzati. In mezzo a ciò si ha tanto maggior ragione di sorprendersi che, per lo meno nel secolo XV, si lasciassero condurre le osterie e gli alberghi per lo più da tedeschi,[180] i quali praticarono questa industria principalmente in vista del gran numero di pellegrini, che affluivano a Roma. Ma le testimonianze che si hanno a questo riguardo potrebbero anche semplicemente riferirsi alle osterie e agli alberghi delle campagne, mentre si sa con certezza che nelle maggiori città le migliori locande erano tenute tutte da Italiani.[181] La mancanza poi di buoni alberghi nelle campagne potrebbe spiegarsi dal difetto di sicurezza in generale.

[135]

Della prima metà del secolo XVI ci rimane quel manuale della buona creanza, che Giovanni della Casa, nato fiorentino, ci lasciò sotto il titolo di «Galateo». In questo si prescrive non soltanto la pulitezza nel senso più schietto, ma s'inculca altresì l'abbandono di tutte quelle abitudini, che noi siamo soliti di chiamare «sconvenienti», con quello stesso tuono magistrale, con cui il moralista predica le più sublimi leggi morali. In altre letterature qualche cosa di simile non si insegna in via sistematica, ma piuttosto in modo indiretto, cioè colla descrizione di ciò che è sucido e ributtante.[182]

Ma il Galateo, oltre a ciò, è una bella e spiritosa guida per vivere con buona creanza e con fino e delicato sentire in generale. Ancora oggidì può esser letto con molto profitto da persone di ogni condizione, e la gentilezza della vecchia Europa difficilmente si scosterà mai dalle sue prescrizioni. In quanto il delicato sentire è cosa che viene dal cuore, può ben essere che, sin dai primordi di ogni cultura e presso tutti i popoli, sia stato innato in alcuni uomini ed acquisito per forza di volontà in altri; ma, come dovere sociale e come indizio di cultura e di buona educazione, i primi a conoscerlo senza alcun dubbio furono gl'Italiani. E l'Italia stessa da due secoli s'era già grandemente mutata. Adesso infatti si sente apertamente, che il tempo degli scherzi maligni tra conoscenti e vicini, delle burle e delle beffe (v. vol. I, pag. 209 e segg.) nella buona società è passato del tutto,[183] l'idea [136] nazionale prevale su quella delle cittadinanze locali e prepara lo svolgersi di sentimenti di delicatezza e cortesia universali. Ma della vita sociale nel senso più ristretto avremo occasione di discorrere più innanzi.


Tutta la vita esterna in generale avea raggiunto in Italia, nel secolo XV e nei primi anni del XVI, un tal grado di raffinamento e di perfezione, da non vedersi in nessun altro paese l'eguale. Una moltitudine di quelle cose grandi e piccole, che costituiscono nel loro insieme la moderna agiatezza ed eleganza, c'era già in Italia, e si potrebbe provarlo, quando altrove non se ne aveva ancora un'idea. Nelle vie ben selciate delle città italiane[184] l'uso delle carrozze era generale, mentre fuori d'Italia dovunque o s'andava ancora a piedi, o a cavallo, o si usava della carrozza per sola necessità, non per piacere. Letti molli ed elastici, preziosi tappeti e svariatissimi articoli di toeletta vengono menzionati di frequente dai novellieri.[185] La copia e la finezza delle biancherie sono spesso l'oggetto delle loro descrizioni. Essi ci parlano anche di cose, che si direbbero piuttosto appartenere al campo dell'arte, notando con ammirazione come essa da tutte parti nobiliti il lusso, adornando non solo il grandioso armadio, ma eziandio il leggero stipetto di preziosi e magnifici vasi, rivestendo le pareti di pomposi arazzi, arricchendo la mensa di confetture lavorate in mille guise, [137] e aggiungendo infine eleganza e buon gusto al rozzo lavoro del falegname. Tutto l'occidente si prova negli ultimi tempi del medio-evo, e secondo le sue forze glielo permettono, in simili tentativi, ma o non riesce che a dare inezie e freddure, o non sa svincolarsi dalle pastoie convenzionali della decorazione gotica, mentre l'arte italiana del Rinascimento si move liberamente in ogni senso, risponde degnamente alle più svariate esigenze e si crea una sfera d'attività senza confronto più vasta ed estesa. Da ciò la facile vittoria di queste forme decorative italiane d'ogni specie sopra le nordiche nel corso del secolo XVI, quantunque sia anche vero che essa è dovuta altresì a cause di molto maggiore e più generale importanza.

[139]

CAPITOLO III. La lingua come base del vivere sociale.

Formazione di una lingua ideale. — Diffusione sempre crescente della medesima. — I puristi più rigidi. — Meschinità dei loro trionfi. — La conversazione.

La società più elevata, che qui oggimai appare come un prodotto della riflessione, anzi come la più alta creazione della vita del popolo, presuppone, come condizione indispensabile, il linguaggio.

Nell'epoca più florida del medio-evo presso tutti i popoli occidentali l'aristocrazia aveva cercato di mantenere una lingua «cortigiana» tanto per la conversazione, che per la poesia. Ed allo stesso modo anche in Italia, i cui dialetti assai per tempo si differenziarono tanto fra loro, si ebbe sin dal secolo XIII una lingua così detta «curiale», che era comune alle corti e ai loro poeti. Ora il fatto più importante si è questo, che di una tal lingua si volle con ogni sforzo far la lingua di tutte le persone colte, la lingua scritta. Nell'introduzione alle «Cento novelle antiche», redatte ancor prima del 1300, un tale scopo è confessato apertamente. Anzi, per vero dire, qui la lingua è trattata espressamente come qualche cosa di completamente indipendente dalla [140] poesia: il meglio che in essa si possa ottenere, è l'espressione semplice, chiara, spiritualmente bella in brevi discorsi, sentenze e risposte. Questa espressione è a questo tempo in pregio non meno che lo fosse in altri tempi presso i greci e gli arabi: «quanti in una lunga vita non sono mai riusciti a mettere insieme una bella frase» (un bel parlare)!

Ma l'impresa diventava appunto tanto più difficile, quanto più vi si lavorava attorno da diverse parti. Dante ci porta addirittura nel bel mezzo di questa lotta: il suo libro «Del volgare eloquio»[186] ha un'importanza grandissima non solo per la questione in sè stessa, ma anche perchè è la prima opera ragionata sopra una lingua moderna in generale. L'esaminare lo sviluppo successivo delle sue idee e le conclusioni, alle quali egli giunge, sono cose che appartengono alla storia della filologia, nella quale quel libro occuperà sempre un posto rilevantissimo. Qui a noi basta di constatare tre fatti: che, cioè, ancor lungo tempo prima che si cominciasse a scriverla, la lingua deve essere stata una delle più importanti questioni della vita quotidiana; che tutti i dialetti erano stati studiati con partigiana predilezione o avversione; e che la nascita della lingua ideale comune non si avverò se non in mezzo a grandi lotte e contrasti.

Il meglio che poteva farsi, lo fece Dante col suo immortale Poema. Il dialetto toscano diventò la base essenziale della nuova lingua comune.[187] Se ciò a taluno paresse [141] eccessivo, valga a nostra giustificazione il fatto che questa, in una questione tanto dibattuta, è ad ogni modo l'opinione la più universalmente ricevuta.


Ora può benissimo darsi che, nel rispetto letterario e poetico, lo screzio insorto intorno a questa lingua, quello che suol dirsi il purismo, abbia altrettanto nociuto, quanto giovato; può darsi altresì che qualche scrittore, del resto dotato di grandi attitudini, sia stato con ciò defraudato di un pregio essenziale, la spontaneità della espressione; e può darsi per ultimo, che altri, padroneggiando in altissimo grado questa stessa lingua, si sieno cullati alla loro volta nell'onda maestosa e nell'armonia della medesima, trascurando per la forma il concetto; stando di fatto che anche una meschina melodia, uscita da un tale strumento, può risonare magicamente. Ad ogni modo e comunque sia, nell'uso sociale essa ebbe un'importanza grandissima, perchè contribuì a dare un andamento grave e dignitoso allo stile in generale, e perchè costrinse l'uomo colto a serbare, tanto nella vita ordinaria quanto nelle circostanze straordinarie, un contegno serio e una costante elevatezza di idee e di sentimenti. Che se anche talvolta, sotto questo abbigliamento classico, come un tempo sotto la veste del puro atticismo, ci accade d'incontrare basse scurrilità e velenosi sarcasmi, non è men [142] vero però, che, quasi a compenso, ogni idea più nobile ed elevata vi trova altresì una condegna espressione. La sua importanza poi emerge ancor più dal punto di vista nazionale, diventando essa come la patria ideale di tutti gli uomini colti dei diversi Stati, in cui così per tempo andò diviso il paese.[188] Di più, essa non è il patrimonio esclusivo di questa o di quella classe in particolare, ma tutti, anche l'uomo il più abbietto e il più povero, possono trovare il tempo ed i mezzi d'impadronirsene, purchè vogliano. Ancora oggidì (e forse ora più che mai) lo straniero resta sorpreso e maravigliato di udire sulla bocca del basso popolo e dei contadini un italiano puro e puramente pronunziato in provincie italiane, dove al tempo stesso regna un dialetto inintelligibile, e cerca indarno di trovare un riscontro ad un fatto simile presso le plebi di Francia e di Germania, dove invece anche gli uomini istrutti sacrificano pur tanto alla pronunzia locale. Vero è che in Italia il numero di coloro che sanno leggere è di gran lunga maggiore, che, a giudicare da tante altre circostanze, specialmente nell'ex-territorio pontificio, non si sarebbe tentati di credere; ma qual peso avrebbe questa circostanza senza quella generale e incontestata venerazione, che si ha per la pura lingua e la pronuncia, come per un tesoro altamente caro e pregiato? Tutte le regioni, l'una dopo l'altra, le hanno ufficialmente accettate, non escluse Venezia, Milano e Napoli, ancora al tempo in cui fioriva la letteratura, soggiogate in certo modo dallo splendore che da esse partiva. Ed anche il Piemonte, benchè soltanto nel nostro secolo, s'è di sua propria iniziativa italianizzato, accettando spontaneamente il più bel tesoro della nazione, la pura [143] lingua.[189] Alla letteratura dei dialetti furono, sin dal principio del secolo XVI, senza sforzo e deliberatamente abbandonati taluni argomenti, per lo più comici, ma talvolta anche serii,[190] prestandosi lo stile di essi a qualsiasi esigenza. Presso gli altri popoli una simile separazione, come frutto di una determinazione calcolata e riflessa, non ebbe luogo se non molto più tardi.


L'opinione delle persone colte sul valore della lingua, come elemento d'unione della società più elevata, trovasi chiaramente espressa nel «Cortigiano».[191] Fin d'allora, cioè fin dal principio del secolo XVI, eranvi taluni, che con ostinato fanatismo tenevano fermo a voler mantenute alcune espressioni invecchiate di Dante e degli altri toscani del suo tempo, non per altro, se non perchè erano antiche. Nella lingua parlata il Castiglione le proibisce assolutamente, e non le accetta nemmeno nella lingua scritta, perchè anche in questa egli non vede che una forma speciale del parlare. Coerentemente poi a questa premessa, egli stabilisce che il miglior modo di parlare sarà quello, che più d'ogni altro s'accosti [144] alla lingua convenientemente scritta. Donde emerge assai chiaro il concetto che tutti quelli, i quali hanno da dire qualche cosa di veramente importante, debbono essi stessi formarsi la propria lingua, e che questa è mobile e mutabile, appunto perchè è qualche cosa di vivo: potersi quindi usare liberamente le più belle espressioni, purchè il popolo le usi, togliendole anche da regioni non toscane, e accettando perfino le francesi e le spagnuole, quando l'uso le abbia consacrate per certe cose speciali:[192] sorgere così, coll'aiuto dell'ingegno e dello studio, una lingua, la quale non sarà invero l'antico toscano puro, ma l'italiano vero, ricco e pieno come un prezioso giardino, abbondante di fiori e di frutta. S'intende da sè che è dovere imprescindibile d'un cortigiano di esprimere sotto questa veste perfetta i suoi affetti e la sua poesia.


Ora, siccome la lingua era divenuta un patrimonio della società viva, così, in onta a tutti i loro sforzi, i puristi non riuscirono in sostanza ad aver vinta la causa. V'erano troppi e troppo valenti scrittori ed uomini di [145] società anche toscani, che o non si curavano o ridevano di quegli sforzi; e l'ultima di queste due eventualità si verificava ogni volta che dal di fuori veniva un dotto qualunque e pretendeva mostrare ad essi, ai toscani, che essi stessi erano «della loro lingua ignorantissimi».[193] Già l'esistenza di uno scrittore quale era il Machiavelli troncava d'un tratto tutte quelle questioni, in quanto egli avea dato ai profondi suoi concetti una veste limpida, schietta, naturale, adottando una lingua, che aveva tutti i pregi, fuorchè quello di imitare il puro Trecento. D'altro lato v'erano troppi lombardi, romani, napoletani ed altri, ai quali non poteva rincrescere, se nello scrivere e nel conversare non si esageravano troppo le pretese di un rigoroso purismo nell'espressione. Essi ripudiavano, è vero, le forme e i modi del loro dialetto, e il Bandello, per tutti, assai spesso (non sappiamo quanto sinceramente) ne fa ampia e chiara protesta: «io non ho stile, io non scrivo in volgar fiorentino, ma barbaramente; io non pretendo insegnar altrui, nè accrescere ornamento alla lingua volgare; io non sono che un lombardo e in Lombardia a' confini della Liguria nato» ecc.[194] Ma, di fronte al partito dei rigidi puristi, tutti cercavano nel fatto di sostenersi, e, rinunciando a bello studio a pretese maggiori, sforzavansi a tutto potere, e quasi a compenso, d'impadronirsi della lingua comune. Non a tutti infatti era dato di poter fare come [146] il Bembo, che, nato a Venezia, scrisse per tutta la sua vita il più puro toscano, (sempre però come lingua appresa e quasi straniera), o come il Sannazzaro, che presso a poco fece altrettanto, essendo napoletano. L'essenziale era questo che ognuno sia parlando, sia scrivendo, doveva trattar la lingua con somma cura. Posto ciò, si poteva benissimo lasciare ai puristi tutto il loro fanatismo, i loro congressi filologici[195] e simili: veramente dannosi essi non divennero che più tardi, quando il soffio dell'originalità era già fatto notevolmente più languido nella letteratura, e stava per soggiacere ad influenze affatto d'altra natura, ma ancor più perniciose. Da ultimo fu libero alla stessa Accademia della Crusca di trattar l'italiano come una lingua morta; ma i suoi sforzi furono talmente impotenti, che non riuscì nemmeno ad impedire che assumesse quell'indirizzo e quel colorito francese, che forma il carattere distintivo della letteratura del secolo XVIII (cfr. p. 144 nota).


Ora fu appunto questa lingua tanto pregiata, curata e portata omai al sommo della pieghevolezza e duttilità, che divenne nella conversazione lo strumento e la base di ogni sociale convivenza. Mentre nei paesi settentrionali i principi e i nobili passavano i loro ozi o chiusi nella solitudine dei loro castelli o in continui combattimenti, cacce, banchetti e ceremonie, e la borghesia era tutta dedita al giuoco e agli esercizii corporali o, se pur si voglia, s'esercitava a scrivere rozzi versi e celebrava [147] feste continue, in Italia, dove pure tali cose esistevano, erasi formato altresì un ambiente più elevato e sereno, dove uomini di qualsiasi condizione e nascita, purchè non privi di talento e di cultura, si raccoglievano in eleganti convegni a discorrere di cose serie e facete, alternando l'utile al dolce. Siccome in tali convegni o non si usava di far trattamenti, o questi si riducevano ad assai poca cosa,[196] non era difficile neanche il tenerne lontani gli uomini più materiali e gli scrocconi. Se ci è permesso di credere a quanto ne scrissero alcuni autori di dialoghi, anche i più elevati problemi della vita avrebbero formato l'oggetto d'importanti discussioni fra gli uomini più distinti: nè la manifestazione di sublimi pensieri vi sarebbe stata, come di regola presso i settentrionali, un privilegio puramente individuale, bensì comune a parecchi. Qui però noi ci restringeremo a toccare della vita sociale nel lato men serio ch'essa presenta, nelle riunioni, che non hanno altro scopo, che sè medesime.

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CAPITOLO IV. La forma più elevata della vita sociale.

Convenienze sociali e statuti. — I novellieri e il loro uditorio. — Le grandi dame e le loro sale. — La società fiorentina. — La società di Lorenzo descritta da lui medesimo.

Questa vita, almeno nei primi anni del secolo XVI, era assai saggiamente regolata e si basava sopra quelle convenienze tacite ed espresse, che sono domandate o dalle circostanze o dal decoro, ma che non hanno nulla che fare colla rigida etichetta. In certi circoli più compatti, dove le riunioni assumevano il carattere di stabili corporazioni, v'erano perfino degli statuti e delle formalità per l'accettazione, come, per esempio, in quelle allegre società di artisti fiorentini, alle quali il Vasari attribuisce il merito[197] di aver promosso la rappresentazione [150] delle più importanti commedie d'allora. Le società più leggere invece e che si mettevano insieme per circostanze affatto momentanee, accettavano volentieri le prescrizioni, che eventualmente venivano imposte dalla dama più ragguardevole. Tutti conoscono l'Introduzione del Decamerone del Boccaccio, e sono usi a considerare il regno di Pampinea su tutta quella società come nulla più che una piacevole finzione, e certamente essa è tale in questo caso speciale; ciò non ostante non è men vero, ch'essa si fonda sopra una consuetudine già accettata nella vita sociale. Il Firenzuola, che quasi due secoli dopo premette alle sue novelle un'introduzione simile, s'accosta senza dubbio ancor più alla realtà, quando in bocca alla regina della sua società pone un discorso sul modo di ripartire il tempo durante il soggiorno alla campagna, vale a dire, prima di tutto un'ora di speculazioni filosofiche andando a passeggiare sopra una collina, poi la mensa rallegrata dal suono del liuto e del canto,[198] indi la recita in qualche sito ombroso di qualche nuova canzone, il cui tema vien dato d'ordinario la sera precedente; più tardi una passeggiata ad una fonte, dove ognuno s'asside e narra una novella, e finalmente la cena e i piacevoli ragionamenti, «tali però, che alla onestà delle donne e alla gentilezza degli uomini non disconvengano». Il Bandello nelle introduzioni e nelle dediche di ciascuna delle sue novelle non riferisce, è vero, simili discorsi di circostanza, poichè le diverse società, dinanzi alle quali quelle novelle vengono narrate, esistono già come circoli omai formati, ma lascia in altro modo indovinare, quanto ricche, svariate e piacevoli [151] dovevano essere queste supposte riunioni sociali. Alcuni lettori penseranno, che in società capaci di udire racconti tanto immorali, come son quelli che si leggono, non ci fosse troppo nè da perdere, nè da guadagnare. Ma da un altro lato potrebbe anche dirsi, che ben solide dovevano essere le basi di società, che, ad onta di tali racconti, non uscivano dalle convenute formalità, non andavano a soqquadro, e potevano perfino occuparsi di serie discussioni sugli argomenti più gravi. Ciò vuol dire che il bisogno di una forma elevata di conversazione si faceva sentire più forte che mai e andava sopra ogni cosa. Per convincersene non occorre di prendere a norma la società un po' troppo idealizzata, che il Castiglione introduce a parlare sui più elevati sentimenti e scopi della vita alla corte di Guidobaldo da Urbino e Pietro Bembo nel castello di Asolo. La società del Bandello, invece, anche in onta a tutte le frivolezze alle quali si abbandona, può riguardarsi come il tipo più veritiero di quell'elegante decoro, di quella facile amabilità, di quella schietta franchezza, di quello spirito insomma e di quella cultura letteraria ed artistica, che formano i caratteri distintivi di tali circoli. Una prova assai concludente se ne ha specialmente in questo, che le dame, che ne formavano il centro, godevano l'universale estimazione, nè per tal fatto furono minimamente pregiudicate nella loro fama. Fra le protettrici del Bandello, per esempio, Isabella Gonzaga, nata Estense (v. vol. I, pag. 58), se ebbe una celebrità non scevra di macchie, non fu già pel proprio contegno, ma per quello delle scostumate damigelle che la circondavano:[199] Giulia Gonzaga Colonna, Ippolita Sforza maritata ad un Bentivoglio, Bianca Rangona, [152] Cecilia Gallerana, Camilla Scarampa, ed altre andarono del tutto immuni, qualunque del resto sia stato il loro contegno, da ogni accusa e censura. La più celebre donna d'Italia poi, Vittoria Colonna, godeva fama addirittura di santa. Ora, egli è indubitato che le particolarità che ci vengono date intorno al vivere sciolto, che si conduceva nelle città, nelle ville e nei bagni più celebrati, non sono di tal natura da farne emergere una superiorità assoluta della vita sociale d'Italia su quella del resto d'Europa. Ma si legga il Bandello,[200] e si vegga poscia se un genere simile di società sarebbe, ad esempio, stato possibile in Francia, prima che vi fosse stato trasportato d'Italia da lui e da tanti altri colti e civili al pari di lui? — Certamente che anche a quel tempo le più alte creazioni dell'ingegno umano non ebbero bisogno, per nascere, dell'aiuto o del favore di quelle riunioni, ma si avrebbe gran torto se le si riguardasse come di poco momento nella vita dell'arte e della poesia, non fosse per altro, almeno per questo, che aiutarono potentemente a creare in Italia ciò che allora non esisteva in verun altro paese, un vivo interessamento per tutto quanto si produceva nell'un campo e nell'altro, e un gusto squisito per rettamente giudicarne. Prescindendo poi anche da ciò, questo genere di società è già per sè stesso un necessario portato di quella particolare cultura e di quel modo di vivere, che allora era esclusivamente italiano, e che d'allora in poi divenne europeo.


In Firenze la vita di società è fortemente influenzata da parte della letteratura e della politica. Innanzi tutto [153] Lorenzo il Magnifico è tal uomo, che domina completamente quanti lo circondano, non tanto in virtù della sua posizione, quanto per le sue stesse qualità; sebbene egli, del resto, abbia lasciato sempre piena libertà d'azione anche a quelli, che più gli stavano dappresso.[201] Si vede, ad esempio, con quanto rispetto egli tratti il Poliziano, l'educatore de' suoi figli, e come i modi franchi ed aperti del letterato e del poeta a gran fatica si concilino in lui con quella riserbatezza, che gli è imposta necessariamente dal rango principesco, cui ormai è salita la sua casa, e dai riguardi che egli deve alle suscettibilità di sua moglie; ma dal canto suo, e quasi in ricambio, il Poliziano è l'espressione e quasi il simbolo vivente delle glorie dei Medici. Lorenzo poi si compiace, giusta l'uso della sua famiglia, di lasciare una traccia imperitura del gusto e della passione, che egli ha per tali convegni sociali. Nella sua splendida improvvisazione «La caccia col falcone» egli fa un ritratto comico de' suoi compagni, e nel «Simposio» lo scherzo va ancora più innanzi e tocca il burlesco, ma però sempre in modo, che vi si travede anche il lato serio della riunione.[202] E che [154] questa assumesse talvolta un tale carattere ce lo attestano con piena evidenza le sue corrispondenze, e le notizie rimasteci sulle frequenti sue dispute filosofiche ed erudite. Altri circoli posteriori di Firenze sono, in parte almeno, specie di clubs politici, che però hanno al tempo stesso un lato poetico e filosofico, come, per esempio, la così detta Accademia platonica, che dopo la morte di Lorenzo soleva raccogliersi negli orti de' Rucellai.[203]

Nelle corti principesche la vita sociale dipendeva naturalmente dalle tendenze personali del regnante. Di esse, per vero, al principiare del secolo XVI ce n'era oggimai poche, e queste poche erano anch'esse pressochè senza importanza. Roma faceva un'eccezione colla corte veramente unica di Leone X, dove si raccoglieva una società tanto speciale, quale non si vide ripetersi più in nessun epoca storica.

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CAPITOLO V. L'uomo perfetto di società.

Suoi amori. — Sue qualità esterne ed interne. — Gli esercizi corporali. — La musica. — Gl'istrumenti e i virtuosi. — Dilettanti in società.

Ed ora si vien formando per le corti, ma più ancora per sè medesimo, il Cortigiano, quale ci vien descritto dal Castiglione. Egli è propriamente l'uomo ideale, quale lo domanda la cultura di quel tempo, e la corte sembra più fatta per lui, che egli per la corte. Tutto ben ponderato, un tal uomo non potrebbe essere adoperato in nessuna corte, perchè egli stesso ha il talento e la apparenza di un vero principe, e perchè l'eccellenza sua, calma e dignitosa in ogni cosa, presuppone già in lui una assoluta indipendenza. Il movente principale d'ogni sua azione non è, benchè l'autore lo dissimuli, il servizio del principe, ma bensì il suo proprio perfezionamento. Un esempio spiegherà meglio la cosa: nella guerra il Cortigiano deve astenersi da tutte quelle imprese, anche utili e non scevre di sacrifici e pericoli, che non sieno grandiose e belle in sè medesime, perchè deve aver sempre fisso in mente che ciò che lo conduce alla guerra, non è il dovere in sè stesso, ma soltanto l'honore.[204] La [156] posizione morale di fronte al principe, quale è presentata nel quarto libro, è quella di un uomo libero e indipendente. La teoria degli amori del Cortigiano (nel terzo libro) contiene osservazioni psicologiche molto sottili, le quali però per la miglior parte si riferiscono a tutti gli uomini in generale, e la grande e quasi lirica glorificazione dell'amore ideale (sulla fine del quarto libro) non ha più nulla che fare coll'assunto speciale di tutta l'opera. Ma anche qui, come negli Asolani del Bembo, la straordinaria elevatezza della cultura si fa manifesta dal modo delicatissimo, con cui i sentimenti vengono analizzati. Bensì non si deve sempre prestar cieca fede a questi autori, nè creder tutto sulla loro parola; ma ciò non vuol dire che quei discorsi non sieno stati tenuti realmente nelle più elevate società, e più innanzi vedremo, che spesse volte queste convenzionali apparenze nascondevano lampi di vera passione.


Tra le qualità esteriori, quelle che innanzi tutto si esigono in grado perfetto in un Cortigiano, sono i così detti esercizi cavallereschi; ma, oltre a questi, richiedevansi anche parecchie altre cose, che veramente non avrebbero potuto pretendersi se non in corti colte, regolarmente organizzate e basate tutte sull'emulazione personale, quali in allora non esistevano se non in Italia: altre cose ancora si fondano evidentemente sopra un'idea puramente generale ed astratta della perfezione individuale. Il Cortigiano deve aver familiari tutti i giuochi ed esercizi più nobili, il salto, la corsa, il nuoto, la lotta: principalmente poi deve essere un abile danzatore e (come già s'intende da sè) un perfetto cavallerizzo. Oltre a ciò si esige da lui tal conoscenza di più lingue, o almeno almeno dell'italiano e del latino, che s'intenda [157] di amena letteratura e sappia dare un giudizio in fatto di belle arti; nella musica anzi vuolsi una certa abilità pratica, che però egli terrà segreta quanto più gli sarà possibile. Non si pretende tuttavia che queste qualità sieno in lui tutte in grado perfetto, eccezione fatta dell'esercizio delle armi; dal neutralizzarsi reciproco di tante doti risulta per l'appunto quel perfetto individuo, nel quale nessuna primeggia tanto spiccatamente da recar nocumento alle altre.


Egli è fuor d'ogni dubbio che nel secolo XVI gl'Italiani, sia come scrittori teorici, sia come maestri pratici, erano in grado d'insegnare a tutto l'occidente tanto in fatto di esercizi ginnastici d'ogni specie, quanto in fatto di convenienze sociali. Nel cavalcare, nel giostrare e nel danzare furono essi i primi a dar l'indirizzo con opere scritte, con disegni e figure, e con insegnamenti pratici; la ginnastica, come cosa a sè e separata dagli esercizi guerreschi e dai semplici giuochi, fu forse per la prima volta insegnata alla scuola di Vittorino da Feltre (v. vol. I, pag. 282) e rimase poi come parte integrante di ogni completa educazione.[205] L'importanza di un tal fatto [158] sta tutta in questo, che essa fu insegnata allora come una vera arte: quali esercizi fossero in uso, e se per avventura si conoscessero quelli che sono più frequenti oggidì, è impossibile il dirlo. Ma che, oltre la forza e la destrezza, mirassero anche ad ottenere la grazia, lo si può arguire non solo dall'indole della nazione già nota sotto tanti altri aspetti, ma anche da notizie positive che se ne hanno. Basta in proposito ricordare il grande Federigo da Urbino (v. vol. I, pag. 60), che assisteva in persona ai giuochi de' giovani a lui affidati.

I giuochi e le gare non presentavano in fondo nessuna sostanziale differenza da quelli che erano in uso presso gli altri popoli occidentali. Naturalmente nelle città marittime vi si aggiungevano le gare dei remiganti, e le regate veneziane erano assai per tempo famose.[206] Il giuoco classico d'Italia era, ed è, notoriamente il giuoco della palla, ed anche questo all'epoca del Rinascimento pare vi sia stato coltivato con molta maggior passione [159] e con più pompa, che in qualunque altro paese d'Europa. Non se ne hanno però positive testimonianze.


A questo punto non dobbiamo lasciare in dimenticanza la musica.[207] La composizione intorno al 1500 era ancora principalmente nelle mani della scuola olandese, che veniva molto ammirata pel complicato artificio e per la stranezza delle sue creazioni. Ma, accanto a questa, eravi pure una scuola italiana, che senza dubbio s'accostava assai di più al nostro gusto musicale d'oggidì. Un mezzo secolo più tardi sorse il Palestrina, le cui armonie esercitano un fascino prepotente anche sul mondo attuale: egli vien dato altresì come un gran novatore, [160] ma non ci è detto con sufficiente chiarezza, se a lui o ad altri si debba il passo decisivo, che ha fatto il linguaggio musicale del mondo moderno, per cui a noi profani è impossibile il farci un'idea esatta dello stato delle cose in questo riguardo. Lasciando adunque completamente da parte la storia della composizione musicale, cercheremo invece di dir qualche cosa sul posto, che si faceva alla musica nella vita sociale d'allora.

Innanzi tutto un fatto sommamente caratteristico pel Rinascimento e per l'Italia di quel tempo è il multiforme specializzarsi dell'orchestra, il cercar nuovi strumenti, vale a dire nuove combinazioni armoniche, e — in stretta colleganza con ciò — il formarsi di una classe speciale di cultori dell'arte per professione (virtuosi), che è come a dire, l'insinuarsi dell'elemento individuale in determinati rami della musica e in determinati strumenti.

Fra gli strumenti capaci di dare una completa armonia, l'organo ebbe assai per tempo una grande diffusione e un notevole perfezionamento, ma, accanto ad esso, si diffuse anche assai presto il corrispondente strumento a corde, il gravicembalo o clavicembalo, di cui si conservano ancora dei frammenti, che risalgono ai primi anni del secolo XIV, perchè ornati con figure dipinte da sommi maestri. Fra tutti gli altri poi il violino prese il primo posto e diede anche delle grandi celebrità. Presso Leone X, che già anche da cardinale aveva la casa piena di cantanti e di sonatori e che godeva fama egli stesso di grande conoscitore ed esecutore, divennero celebri Giovanni Maria e Jacopo Sansecondo: al primo Leone diè il titolo di conte e il possesso di una piccola città;[208] il [161] secondo credesi rappresentato nell'Apollo del Parnaso di Raffaello. Nel corso poi del secolo XVI sorsero delle celebrità in ogni ramo speciale, e Lomazzo (intorno al 1580) nomina a tre a tre prima i virtuosi di canto, poi quelli di ciascuna specie di strumenti, quali l'organo, il liuto, la lira, la viola da gamba, l'arpa, la cetra, i corni e le tibie, esprimendo il voto che i loro ritratti sieno dipinti sugli stessi strumenti.[209] Una così svariata attitudine a giudicare di tutti i generi fuori d'Italia a quel tempo non si sarebbe potuta neanche immaginare, sebbene quegli strumenti fossero già noti e diffusi dovunque.

Oltre a ciò, la ricchezza in fatto di strumenti emerge specialmente da questo, che s'è trovato prezzo dell'opera di farne, a titolo di curiosità, delle collezioni. In Venezia, dove la passione per la musica era grande,[210] ve n'erano parecchie; e quando per caso vi s'incontrava un certo numero di virtuosi, vi s'improvvisava all'istante un concerto. (In una di simili collezioni vedevansi anche parecchi strumenti costrutti su modelli o descrizioni antiche, ma non è detto se vi fosse chi sapesse suonarli e qual suono dessero). Non è neanche da dimenticare, che [162] taluni di questi strumenti presentavano esteriormente una certa eleganza, per cui, aggruppati insieme, armonizzavano assai leggiadramente fra loro. E appunto per questo accade d'incontrarli anche nelle collezioni d'altre rarità e cose d'arte.


Gli esecutori, oltre i virtuosi di professione, erano o singoli amatori od anche intere orchestre di dilettanti, organizzati a guisa di corporazioni o di «accademie».[211] Molti pittori, scultori ed architetti s'intendevano anche, e talvolta in sommo grado, di musica. — Alle persone appartenenti alle classi più elevate erano sconsigliati gli strumenti a fiato per gli stessi motivi,[212] pei quali una volta se n'erano astenuti Alcibiade e la stessa Pallade Atena. La società più ragguardevole amava il canto solo o con accompagnamento di violino; ma piaceva anche il quartetto a viole[213] e, per la ricchezza de' suoi mezzi, altresì il clavicembalo, non però il canto a più voci, «perchè assai meglio si ascolta, si ode e si giudica una voce sola». In altre parole, siccome il canto, in onta a qualsiasi convenzionale modestia (v. pag. 157), rimane pur sempre un mezzo opportuno per mettere in evidenza un uomo perfetto di società, così è meglio che ognuno [163] sia udito (e veduto) da solo. L'effetto che si suppone prodursi nelle leggiadre ascoltatrici, è sempre dei più vivi e soavi, e appunto per questo alle persone alquanto attempate si sconsiglia sì il canto che il suono, quand'anche posseggano ancora una certa valentia nell'una cosa e nell'altra. L'effetto deve risultare da una gradevole impressione prodotta al tempo stesso sull'udito e sulla vista. — Di un apprezzamento della composizione, come lavoro d'arte a sè, non è fatta parola. Per converso accade talvolta che il contenuto delle parole esprima qualche terribile situazione reale, qualche caso effettivamente occorso al cantore.[214]

Fuor d'ogni dubbio questo dilettantismo tanto delle classi medie, come delle più elevate, in Italia ebbe una diffusione maggiore, e al tempo stesso si tenne più strettamente ligio alle prescrizioni dell'arte, che non altrove. Dovunque si parla di riunioni sociali, non si tralascia mai di parlare altresì dei canti e dei suoni, che vi si udivano; centinaia di ritratti ci rappresentano o singolarmente a gruppi gli artisti, e perfino nei quadri di cui son decorate le chiese, i concerti degli angeli mostrano ad evidenza, quanto famigliari fossero ai pittori queste riunioni vere e reali dei cultori della musica. Un'altra prova della passione con cui si coltiva quest'arte, si ha nel fatto che a Padova, per esempio, un Antonio [164] Rota, suonatore di liuto, (morto nel 1549) divenne addirittura ricco solo col dare lezioni private e col pubblicare un «Avviamento» allo studio del liuto.[215]

In un tempo in cui l'Opera non aveva ancora cominciato ad assorbire tutto il genio musicale e quasi ad arrogarsene il monopolio esclusivo, questi sforzi possono segnalarsi come veramente maravigliosi, ed hanno diritto a tutta la nostra ammirazione. Ella è poi una questione affatto diversa quella di sapere quale interesse desterebbero in noi quelle armonie, se, per una strana ipotesi, ci fosse dato di udirle.

[165]

CAPITOLO VI. Condizione della donna.

Sua educazione pari a quella dell'uomo. — Carattere virile delle sue poesie. — Sviluppo completo della sua personalità. — La donna-uomo (virago). — La donna nella società. — Cultura delle cortigiane.

Finalmente, per bene intendere la vita sociale dei circoli più elevati dell'epoca del Rinascimento, è della massima importanza il sapere, che la donna in essi ebbe una posizione uguale in tutto a quella dell'uomo. Non bisogna a questo riguardo lasciarsi trarre in inganno dalle sofistiche e spesso anche maligne argomentazioni, colle quali taluni scrittori di dialoghi di quel tempo cercano di provare la pretesa inferiorità del bel sesso, e neanche da qualche satira del genere della terza dell'Ariosto,[216] nella quale la donna è rappresentata come un pericoloso fanciullo fatto già adulto, che l'uomo deve saper dirigere, sebbene tra lui ed essa esista un abisso. Quest'ultima ipotesi però presenta in un certo senso un lato vero: appunto perchè in Italia la donna, giunta al pieno sviluppo della sua individualità, era uguale in tutto all'uomo, non potè nel matrimonio effettuarsi quella completa identificazione [166] di pensieri e di sentimenti, che più tardi forma la fortunata caratteristica delle morigerate popolazioni del nord.

Dicemmo che l'educazione della donna nelle classi più elevate era essenzialmente uguale a quella dell'uomo. Egli è un fatto che gl'Italiani del Rinascimento non esitarono a far impartire ai loro figli d'ambo i sessi l'identica istruzione letteraria e perfin filologica (v. vol. I, pag. 291). Ma ciò era anche naturale: dal momento che questa cultura neo-antica si riguardava come l'ornamento più bello della vita, non v'era nessuna ragione perchè non dovessero fregiarsene anche le fanciulle. Vedemmo altrove qual grado di valentìa raggiunsero le figlie di alcune case principesche nel parlare e nello scrivere latino (v. vol. I, pag. 299 e 305). Altre dovevano almeno saperlo leggere e intendere, per poter nelle conversazioni tener dietro a ciò che ne costituiva la parte più essenziale, le discussioni erudite su varii punti dell'antichità. A ciò s'aggiunga la parte veramente attiva, che doveano prendere allo studio della poesia italiana, nella quale si voleva che anch'esse sapessero comporre sonetti e canzoni, e si provassero perfino nell'improvvisazione: e una prova se ne ha nel numero considerevole di donne, che in questo genere acquistarono una grande celebrità,[217] dopo l'esempio dato dalla veneziana Cassandra Fedele (della fine del secolo XV); taluna, come Vittoria Colonna, si rese addirittura immortale. — Ora, se v'è cosa che confermi al tutto la nostra superiore asserzione dell'indirizzo veramente virile dato anche agli studi delle donne, sono appunto queste poesie: infatti e sonetti e canzoni, [167] tanto di genere erotico, che religioso, hanno un'impronta tale di serietà e robustezza e si scostano siffattamente da quelle tinte indeterminate e da quei teneri slanci di entusiasmo, che caratterizzano d'ordinario la poesia femminile, che si sarebbe tentati di crederle composizioni d'uomini, se i nomi e notizie precise ed esatte non ci facessero certi del contrario.


Ma, insieme alla cultura, sviluppasi nelle donne delle classi più elevate anche tutta la loro individualità in modo pressochè uguale che negli uomini, mentre fuori d'Italia sino al tempo della Riforma nessuna donna in generale, e ben poche anche tra le principesse emergono personalmente. Eccezioni come Isabella di Baviera, Margherita d'Angiò, Isabella di Castiglia e simili, non appaiono sulla scena che in circostanze affatto eccezionali, e quasi loro malgrado. In Italia, ancora nel corso del secolo XV, le consorti dei regnanti e specialmente quelle dei Condottieri hanno quasi tutte una fisionomia loro propria e distinta, e partecipano non pure alla celebrità, ma anche alla gloria dei loro mariti (v. vol. I, pag. 179). A queste tien dietro a poco a poco una schiera di donne celebri di diversa specie (v. ibid. pag. 203), in talune delle quali, per vero, non saprebbesi riscontrare altra singolarità, fuorchè quella di possedere un bell'accordo di naturali attitudini, di bellezza, di cultura, di morigeratezza e di pietà religiosa.[218] Di una «emancipazione» [168] in senso affatto speciale non si parla nemmeno, perchè la cosa già s'intende da sè. La donna di condizione elevata deve, al pari dell'uomo, curare il proprio perfezionamento sotto ogni riguardo: quindi uguale il modo di pensare e di agire, uguali le tendenze e le aspirazioni. Da lei non si pretende una completa attività letteraria; tutt'al più, se sarà poetessa, le si domanderà qualcuna di quelle potenti armonie, che erompono dal profondo dell'anima, non però quelle rivelazioni intime, che si manifestano sotto la forma di ricordi giornalieri e romanzi. — Queste donne non pensavano punto al pubblico: bastava ad esse di tenere avvinti al loro carro gli uomini più considerevoli[219] e d'imbrigliarne i voleri.


Il vanto maggiore, e che più frequentemente si trova, ripetuto, per le grandi donne italiane di quel tempo, si è di avere mente ed animo veramente virili. Basta guardare al contegno energico e risoluto della maggior parte delle eroine del Bojardo e dell'Ariosto, per vedere come di questa energia e risolutezza si avesse omai un concetto proprio e determinato. Il titolo di «virago», che nel nostro secolo suonerebbe come un complimento assai equivoco, costituiva allora una vera lode. Esso fu portato con grande splendore da Caterina Sforza, moglie e poi vedova di Girolamo Riario, il cui possesso ereditario di Forlì ella difese strenuamente dapprima contro. [169] il partito dei di lui uccisori, poscia contro Cesare Borgia; infine soggiacque, ma procacciandosi l'ammirazione di tutti i suoi concittadini e l'appellativo di «prima donna d'Italia».[220] E una vena di somigliante eroismo riscontrasi altresì in altre donne del Rinascimento, ma ad esse mancarono le occasioni di mostrarsi eroine. Isabella Gonzaga (v. vol. I, p. 58) in modo speciale emerge per un carattere di questa tempra.


È chiaro da sè che donne simili potevano benissimo lasciar raccontare nei loro circoli novelle anche del colore di quelle del Bandello, senza che per questo la loro fama ne restasse pregiudicata. Il genio predominante di queste riunioni non è l'effeminatezza moderna, vale a dire quei riguardi delicati per certe supposizioni, per certe suscettibilità, per certi misteri, che sono indispensabili nel nostro tempo, ma la coscienza della propria forza, della propria bellezza e di condizioni sociali piene di pericoli e di minacce. Perciò, accanto al formalismo più compassato, scorgesi qualche cosa, che nel nostro secolo avrebbe l'aspetto di inverecondia,[221] mentre noi non siamo [170] più in grado di farci un'idea di ciò che contrabbilancia tutti questi svantaggi, la potente personalità delle donne dominanti allora in Italia.

C'è appena bisogno di dire che in nessun trattato e in nessun dialogo di quel tempo s'incontra un'espressione o una frase, che possa costituire una testimonianza decisiva in proposito, per quanto anche vi si discuta diffusamente sulla condizione e sulle attitudini delle donne, nonchè sull'amore in generale.

Ciò che, a quanto sembra, mancò del tutto a queste riunioni, furono le giovani fanciulle,[222] che oggidì ne formano invece il più bell'ornamento, ma che allora n'erano tenute severamente lontane, anche se non venivano allevate nel chiostro. Non si saprebbe dire tuttavia se la loro assenza fosse quella che favoriva la licenziosità della conversazione, o se questa fosse la causa di quella.


Anche la conversazione delle cortigiane assume talvolta un indirizzo notevolmente più elevato, come se si volessero rinnovare i rapporti che un tempo ebbero gli Ateniesi colle loro etere. La celebre cortigiana di Roma, Imperia, non era sprovveduta di spirito e di cultura, ed aveva appreso da un Domenico Campana a far versi, e s'intendeva anche di musica.[223] La bella Isabella de Luna, [171] d'origine spagnuola, aveva fama per lo meno di donna piacevole, e del resto era un misto bizzarro di bontà di cuore e di malignità procace e impudente.[224] A Milano il Bandello conobbe la maestosa Caterina di San Celso,[225] che suonava e cantava maravigliosamente e recitava anche versi. E così dicasi di tante altre. Da ciò si desume che le persone ragguardevoli e colte, che visitavano queste donne e si stringevano in amicizia per un tempo più o meno lungo con esse, le pretendevano talqualmente istrutte, e in generale colle più celebri usavano grandi riguardi; e se ne ha una prova nel fatto, che, anche dopo sciolto ogni rapporto colle medesime, si cercava tuttavia di conservarsi la loro stima,[226] perchè la passione precedente avea pur sempre lasciato di sè una traccia incancellabile. Tutto sommato però, del lato spirituale di questi rapporti non si tiene alcun conto nella società ufficiale, e i vestigi che ne rimasero nella poesia e nella letteratura, sono prevalentemente di genere scandaloso. Anzi si ha tutta la ragione di maravigliarsi che fra le 6800 persone di questa condizione, che nell'anno 1490 — prima quindi che si conoscesse quivi la sifilide — si contavano in Roma,[227] quasi nessuna sia emersa per superiorità di spirito e d'ingegno; quelle che già nominammo, appartengono all'epoca susseguente. Il modo di vivere e di sentire di queste donne, che, in mezzo [172] alla più sfrenata sete dei piaceri e dei turpi guadagni, sono capaci talvolta anche di forti passioni, e l'ipocrisia e la perversità veramente infernale di talune già invecchiate in quel lezzo, sono descritte al vivo, e meglio che da ogni altro, dal Giraldi nelle novelle, che formano l'Introduzione a' suoi «Hecatommithi». Pietro Aretino invece ne' suoi «Ragionamenti» descrive piuttosto la propria, che la depravazione di questa classe infelice di persone, quale era in realtà.

Le belle dei principi, come è già stato altrove accennato (v. vol. I, pag. 70), furono cantate dai poeti e riprodotte dagli artisti, e sono quindi note personalmente tanto ai contemporanei che ai posteri, mentre invece di una Alice Perries, di una Clara Dettin (la bella di Federico il vittorioso) non sono rimasti che i nomi, e di una Agnese Sorel una leggenda amorosa più finta, che vera. La cosa mutò per l'appunto sotto i re dell'epoca del Rinascimento, Francesco I ed Enrico II.

[173]

CAPITOLO VII. Il governo della famiglia.

Contrasto col medio-evo. — Agnolo Pandolfini. — Le ville e la vita campestre.

Dopo la vita sociale merita uno sguardo anche quella della famiglia nell'epoca del Rinascimento. Generalmente s'inclina a riguardar questa vita famigliare degl'Italiani d'allora come del tutto disordinata in forza della grande immoralità, che a quel tempo regnava. Noi avremo in seguito occasione di considerare questa questione sotto il punto di vista morale. Per ora ci basta di constatare, che l'infedeltà coniugale non esercitò quivi a gran pezza quelle perniciose influenze sulla famiglia, che si rilevarono nei paesi settentrionali; bene inteso, sino a che non sorpassò certi limiti.

Il governo famigliare del medio-evo era tutto modellato sugli usi prevalenti nel popolo, o, se si vuole, si basava unicamente sulla legge del naturale sviluppo delle nazioni e sull'influenza esercitata dal diverso modo di vivere secondo la propria classe e i propri mezzi. La Cavalleria nel tempo del suo splendore non si curò gran fatto del focolare domestico: lo spirito de' cavalieri fu d'errar per le corti in cerca d'avventure e di risse; il [174] loro omaggio costantemente fu per una donna, che non era la madre dei loro figli; nel castello le cose si lasciavano andare alla meglio. Il Rinascimento invece provossi a fondare la vita di famiglia come qualche cosa di regolarmente ordinato, come frutto di lunga e seria meditazione. Per riuscire a ciò tornò di grande aiuto un sistema di ben intesa economia (v. vol. I, pag. 108) ed un razionale assettamento della casa; ma la cosa principale fu pur sempre uno studio accurato e giudizioso di tutte le quistioni riguardanti la convivenza, l'educazione, l'organizzazione e il servizio della medesima.


Il più pregevole documento in questo riguardo è il dialogo sul Governo della famiglia di Agnolo Pandolfini.[228] È un padre che parla a' suoi figli già adulti e li inizia nella sua amministrazione. Vi si scorge per entro uno stato di famiglia assai largo ed agiato, che, condotto innanzi con parsimonia e con moderazione, promette prosperità e ben essere per molte generazioni. Un podere piuttosto considerevole provvede co' suoi prodotti ai bisogni della famiglia e costituisce la base fondamentale di tutto; accanto ad esso fiorisce un'industria qualunque, una tessitura, per esempio, di seta o di lana. L'abitazione e il vitto sono solidamente assicurati: tutto ciò che riguarda l'ordinamento e l'arredamento interno, deve esser fatto in grande e in modo durevole e senza risparmio; la vita quotidiana per converso vuol essere semplice, quanto è possibile. Ogni altra spesa, dai maggiori [175] pagamenti, nei quali è impegnato l'onore, sino ai più modesti assegni che si fanno ai figli più giovani pei loro piaceri, deve stare con ciò in una proporzione ragionevole, per modo che nè «passi più oltre che richiegga l'onestà, nè sia minore di quello che richiegga il bisogno». La cosa più importante però si è l'educazione, che il padrone di casa ha da procurare non solamente a' suoi figli, ma a tutta la sua famiglia. La prima educazione è dovuta alla moglie, perchè di timida e riservata fanciulla diventi una vera donna di casa, un'abile padrona capace di dirigere e sorvegliare tutti quelli, che stanno sotto la sua dipendenza: poi debbonsi educare i figli con occhio amorevole e circospetto, con esortazioni e persuasioni, piuttostochè con inutile severità, usando in generale «più l'autorità, che la violenza»;[229] finalmente, quanto ai servi e dipendenti, s'hanno a trattare in modo da farne altrettante persone veramente affezionate e fedeli.


Un altro tratto notevole, se non anche esclusivamente caratteristico di questo libro, si è l'entusiasmo con cui vi [176] si parla della vita campestre, donde se ne deduce che l'amore ad un tal genere di vita era passato omai nelle abitudini delle classi colte. Nei paesi settentrionali d'Europa a quel tempo le campagne erano abitate dai nobili rinchiusi nei loro castelli e dai più illustri fra gli ordini monastici, che avevano forti e ben munite abbazie ai piedi sulla cima di qualche monte: la borghesia, anche ricca, non usciva in veruna stagione dell'anno dalle mura delle città. In Italia, invece, la maggior sicurezza personale da un lato, l'amenità dei siti dall'altro sedussero assai per tempo i cittadini ad un soggiorno temporaneo più meno lungo nei dintorni di qualche città,[230] anche a rischio di qualche perdita in caso di guerra. Così sorsero le ville delle classi più agiate, prezioso ricordo degli antichi usi romani, quando la prosperità e la cultura progredite permisero di adottarli.

Il nostro autore trova nella sua villa ogni pace e felicità, e noi in questo riguardo non possiamo far di meglio, che rimandare il lettore a quanto egli stesso ne dice nel suo Trattato (pag. 88). Ma, oltre al piacere, s'ha anche un vantaggio economico quando il podere contenga ogni cosa necessaria alla famiglia, grano, vino, olio, strame e legne (pag. 84), e allora lo si paga volentieri anche di più, perchè non s'ha poi bisogno di comprar nulla sul pubblico mercato. Dei dintorni di Firenze assai notevole ci sembra la descrizione ch'egli ci dà con queste parole: «In quello di Firenze ne sono molti (siti) posti in aere cristallino, in paese lieto, bella [177] veduta, rare nebbie, non venti nocivi, buone acque, sane, pure, e buone tutte le cose, e molti casamenti, i quali sono come palagi di signori (e molti hanno forma di fortezze e di castella), edifici superbi e sontuosi». Egli intende quelle case di campagna, che nel loro genere potrebbero dirsi veri modelli, e che per la maggior parte nel 1529 furono, sebbene indarno, sacrificate dai fiorentini alla difesa della patria.

In queste ville, come in quelle lungo il Brenta, sui laghi di Lombardia, a Posilipo e a Vomero, la vita sociale assunse un carattere più libero e sciolto che non nelle sale dei grandi palagi di città. Le descrizioni degli inviti, delle cacce e di tanti altri passatempi di quella vita condotta quasi per intero all'aperto hanno ancor oggi qualche cosa di attraente negli scrittori, presso i quali s'incontrano. Ma quelle dimore campestri offersero altresì ozio e quiete a profondi pensatori, e in esse furono maturate talvolta le più nobili creazioni dell'ingegno umano.

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CAPITOLO VIII. Le Feste.

Loro forme rudimentali, il Mistero e la Processione. — Pregi delle feste italiane su quelle d'altri paesi. — L'allegoria nell'arte italiana. — Rappresentanti storici dell'universalità. — Le rappresentazioni dei Misteri. — Il Corpusdomini in Viterbo. — Rappresentazioni profane. — Pantomime e ricevimenti solenni di principi. — Processioni; trionfi spirituali. — Trionfi profani. — Corse navali. — Carnevale a Roma e a Firenze.

Non è semplice caso o capriccio, che ci consiglia di unire allo studio della vita sociale anche quello delle pompe festive e delle rappresentazioni. La magnificenza veramente artistica che l'Italia spiega[231] in queste ultime, non fu raggiunta che mediante quella stessa convivenza di tutte le classi, che costituisce anche la base fondamentale della società italiana. Nel nord dell'Europa i monasteri, le corti e le comunità cittadine avevano le loro feste e rappresentazioni speciali, come in Italia; ma colà ebbero differenze essenziali di forma e di sostanza, qui furono invece portate ad un alto grado di sviluppo da una cultura e da un'arte, che erano il patrimonio di [180] tutti. L'architettura decorativa, che venne in aiuto a queste feste, merita una pagina speciale nella storia dell'arte, quantunque essa ci apparisca ancora come una creazione puramente fantastica, che noi siamo costretti ad immaginare dalle descrizioni che ci son date. Qui noi ci occupiamo della festa come di un momento di entusiasmo, nel quale le idealità religiose, morali e poetiche assumono una forma visibile. Le feste italiane nella loro forma più elevata segnano un vero passaggio dalla vita reale a quella dell'arte.

Le due forme principali delle rappresentazioni festive sono, come in tutto l'occidente, il Mistero, vale a dire la storia sacra o la leggenda religiosa drammatizzate, e la Processione, vale a dire una marcia solenne per qualsiasi motivo pur religioso.

Ora in Italia le rappresentazioni dei Misteri erano nel complesso assai più splendide e numerose che altrove, e ad accrescerne il lustro largamente vi concorrevano le arti figurative e la poesia. Da esse poi si svolse più tardi non solo la farsa e tutto il dramma profano, ma anche la pantomima, che, accompagnata dal canto e dal ballo, cerca l'effetto nella bellezza e ricchezza dello spettacolo.

Dalla Processione poi ha origine nelle città italiane provvedute di strade ampie, piane e ben selciate,[232] il Trionfo, vale a dire la processione di persone vestite in costume a piedi o su carri, con carattere dapprima prevalentemente sacro, poscia a poco a poco sempre più profano. La processione del Corpusdomini e i carri del carnevale si toccano qui assai da vicino, quanto alla pompa della rappresentazione, ed in seguito vi si aggiungono [181] anche i solenni ricevimenti di principi, che fanno il loro solenne ingresso in qualche città. Vero è, che anche gli altri popoli pretendevano in simili occasioni uno sfoggio straordinario di lusso e di magnificenza, ma gl'Italiani soltanto sapevano portare in tali feste un certo gusto artistico, per modo che ne usciva un concetto armonico in tutte le sue parti.

Ciò che di tali feste oggidì sopravvive non può dirsi che un avanzo ben meschino e quasi un'ombra di esse. Le processioni sacre e i ricevimenti dei principi si spogliarono presso che affatto dell'elemento, che dava loro una certa impronta drammatica, l'abbigliamento in costume, perchè si temono le derisioni del pubblico e perchè le classi colte, che una volta vi prendevano una parte attiva, se ne tengono ora lontane, quale per un motivo, quale per l'altro. Anche le mascherate carnevalesche continuano sempre più a cadere in disuso. Quel poco che ancora rimane, per esempio i singoli travestimenti adottati nelle processioni di certe confraternite religiose, e perfino la pomposa festa di S. Rosalia a Palermo, è una prova manifesta e parlante, che tali usi, dinanzi alla progrediente civiltà, sono destinati irreparabilmente a cadere.

Le feste hanno l'epoca del loro decisivo trionfo sull'aprirsi dell'evo moderno, nel secolo XV,[233] se pure anche in ciò Firenze non ha prevenuto tutto il resto d'Italia. Quivi infatti è relativamente molto più antica la organizzazione [182] per quartieri in occasione di pubbliche rappresentazioni, la cui magnificenza presuppone un grande sfoggio di mezzi artistici. Di questo genere è la celebre rappresentazione dell'Inferno, fatta in parte sopra un palco e in parte su barche appostate nell'Arno, il primo giorno di maggio dell'anno 1304, quando sotto gli spettatori si ruppe il ponte alla Carraia.[234] Anche il fatto che più tardi i fiorentini vengono chiamati, in qualità di festaiuoli, ad organizzar feste in tutte il resto d'Italia,[235] prova chiaramente il grado di perfezione, cui essi aveano saputo portar le proprie.


Ora, se noi cerchiamo di mettere in rilievo i pregi più essenziali delle feste italiane di fronte a quelle degli altri paesi, ci si farà innanzi prima di tutto l'istinto naturale dell'individuo, giunto già ad un grado di completo sviluppo, a rappresentare l'individualità, vale a dire l'attitudine ad inventare una maschera e a sostenerla convenientemente. Pittori e scultori aiutarono poscia notevolmente a dar risalto alla decorazione dei luoghi non solo, ma altresì delle persone, suggerendo abbigliamenti, belletti (v. pag. 131 e segg.) ed altri ornamenti. In secondo luogo poi viene l'intelligibilità manifesta a chiunque dell'intreccio poetico. Nei Misteri essa era uguale in tutto l'occidente, perchè le narrazioni bibliche ed ascetiche erano già anticipatamente note a chicchessia; ma per tutte le altre rappresentazioni l'Italia aveva un deciso vantaggio sugli altri paesi. Per le parti recitative di singoli santi e d'altri personaggi profani essa possedeva [183] una lirica assai armoniosa, che strappava l'applauso di tutti indistintamente.[236] Inoltre la maggior parte degli spettatori (nelle città) aveva una certa famigliarità colle figure mitologiche e indovinava, assai più facilmente che altrove, i personaggi storici ed allegorici, perchè desunti da un ciclo di tradizioni universalmente conosciute.


Ma questo punto vuol essere meglio chiarito. Tutto il medio-evo era stato il tempo classico delle allegorie: la sua teologia e la sua filosofia trattavano le loro categorie come qualche cosa di reale e sussistente da sè,[237] per guisa che la poesia e l'arte aveano bisogno di un ben piccolo sforzo, per aggiungervi ciò che mancava ancora a costituirne la piena personalità. In ciò tutti i paesi d'occidente trovavansi presso a poco, in condizioni uguali: dal mondo ideale di ciascuno d'essi era assai facile derivare dei tipi e delle figure, con questo solo che l'apparenza esterna e gli attributi riuscivano di regola assai enigmatici e impopolari. Quest'ultimo caso è frequente anche in Italia, perfin nell'epoca del Rinascimento e dopo. A produrlo basta che un qualsiasi predicato della figura allegorica, cui si riferisce, venga rappresentato erroneamente sotto la forma di un attributo. Dante stesso non va esente da simili falsi traslati,[238] ed è noto [184] che in generale egli si compiace della oscurità delle sue allegorie.[239] Il Petrarca almeno cerca ne' suoi «Trionfi» di descrivere, per quanto pur brevemente, in modo chiaro e parlante le figure d'Amore, della Castità, della Morte, della Fama ecc. Ma molti altri invece vestono le loro allegorie con una farragine di attributi del tutto sbagliati. Nelle «Satire» del Vinciguerra,[240] per esempio, l'Invidia vien dipinta fornita di «ruvido e ferreo dente», la Voracità in atto di mordersi le labbra e con capelli irti e scomposti, ecc., probabilmente per mostrare (rispetto a quest'ultima) che essa è indifferente a qualunque cosa, che non abbia relazione col mangiare e col bere. Quanto a disagio dovesse trovarsi l'arte in tali equivoci, non fa d'uopo il dirlo. Essa, al pari della poesia, poteva stimarsi fortunata quando l'allegoria era suscettibile di essere espressa da qualche figura mitologica, vale a dire da qualche forma artistica, della quale stava mallevadrice l'antichità stessa, come, per esempio, quando invece della guerra si poteva rappresentare il dio Marte, o invece della caccia la dea Diana e così via.[241]

Ma, tanto nell'arte che nella poesia, v'erano anche [185] delle allegorie meglio riuscite, e rispetto alle figure relative, che s'incontrano nelle feste italiane, il pubblico era oltremodo esigente e voleva vederne il lato caratteristico riprodotto con fedeltà ed esattezza, appunto perchè per la sua cultura generale esso era perfettamente in grado di intenderlo. In altri paesi, e specialmente alla corte di Borgogna, si andava contenti di figure molto indeterminate, ed anche di semplici simboli, perchè quivi era pur sempre un privilegio speciale delle classi più elevate quello di essere, o almen di apparire, iniziate in tali cose. Nel celebre giuramento sul fagiano celebrato nel 1453[242] la bella cavalcatrice, che s'avanza come regina della festa, è l'unica allegoria che abbia qualche attrattiva: i colossali pasticci, per entro ai quali movevansi degli automati ed anche delle persone vive, o sono stranezze senza senso, o, se ne hanno uno, esso è grossolano e al tutto forzato. In una statua di donna ignuda sopra uno di essi, difesa da un leone vivo, doveva ravvisarsi [186] Costantinopoli col suo futuro liberatore, il duca di Borgogna. Il resto, ad eccezione di una pantomima (Giasone in Colchide), ha un significato troppo enigmatico, non significa nulla: lo stesso Olivier de la Marche, che ci descrive questa festa, vi prese parte in costume di donna, che doveva rappresentare la «Chiesa» seduta sopra una torre portata da un elefante guidato da un gigante, e recitò una lunga querimonia sulle vittorie degl'infedeli.[244]


Ma se anche le allegorie nelle poesie, nelle opere d'arte e nelle feste italiane sorpassano nel complesso e per gusto e per unità di concetto quelle d'altri paesi, non è tuttavia in questo, che propriamente consiste il loro lato saliente e caratteristico. Ciò che dà loro una superiorità incontrastata[245] è invece il fatto, che in Italia, oltre la personificazione di concetti generali ed astratti, si conoscevano anche, e in gran copia, dei rappresentanti storici di questi stessi concetti, e vi si era più abituati a veder ricordati in una poesia o rappresentati in un'opera d'arte un più gran numero di celebri personaggi. La Divina Commedia, i Trionfi del Petrarca, l'Amorosa Visione [187] del Boccaccio, e nel secolo successivo la diffusione sempre maggiore della cultura per mezzo dell'antichità risorta aveano reso famigliare alla nazione questo elemento storico. Ed ora queste stesse figure apparvero anche nelle pompe festive o completamente individualizzate in maschere determinate, o per lo meno riunite in gruppi, come seguito caratteristico di qualche figura allegorica principale. Così qui si venivano formando le norme della composizione in generale, quando le più splendide rappresentazioni dei paesi settentrionali bamboleggiavano ancora o in un simbolismo affatto inesplicabile o in giuochi puerili affatto privi di senso.


Cominciamo dalla specie forse più antica, i Misteri.[246] Nel complesso essi non diversificano da quelli del resto d'Europa. Anche qui sulle pubbliche piazze, nelle chiese, nei conventi sorgono grandi palchi, che nella parte superiore contengono un paradiso, che si può chiudere e aprire a volontà, e nell'inferiore, ma molto in basso, hanno talvolta un baratro, che rappresenta l'inferno, e fra l'uno e l'altro vedesi la scena propriamente detta, vale a dire, tutte le località terrene del dramma disposte le une accanto alle altre; e qui pure non di rado il dramma biblico o leggendario s'apre con un dialogo preliminare di apostoli, dottori, profeti, sibille e virtù e si chiude, secondo le circostanze, anche con un ballo. S'intende da sè che non mancano neanche gl'Intermezzi semi-comici [188] di personaggi secondari; ma questo elemento in Italia non spicca così apertamente, come nei paesi settentrionali.[247] Quanto ai voli artificiali su macchine apposite, spettacolo sempre gradito dovunque, parrebbe che in Italia sieno stati più frequenti che altrove, e i Fiorentini ancora nel secolo XIV si divertivano a farne le grasse risa, quando non riuscivano a dovere.[248] Poco dopo il Brunellesco inventò per le feste dell'Annunziata sulla piazza di S. Felice quell'ingegnosissimo apparato di una sfera celeste circondata da due schiere sospese d'angeli, dalla quale Gabriele si calava a volo in una macchina fatta a guisa di mandorla, ed anche il Cecca suggerì nuove idee e congegni meccanici per rendere sempre più splendide tali feste.[249] Le confraternite religiose o i singoli quartieri, che ne assumevano la direzione ed anche in parte l'esecuzione, non tralasciavano, almeno nelle grandi città, d'impiegarvi, secondo le loro forze, tutti i mezzi che l'arte sapea trovare. Altrettanto accadeva, quando, in occasione di grandi feste principesche, accanto al dramma profano od alla pantomima, si rappresentavano anche i Misteri. La corte di Pietro Riario (v. vol. I, pag. 145), quella di Ferrara ed altre non lasciavano certamente in tali circostanze nulla d'intentato, perchè la rappresentazione [189] seguisse col maggiore sfarzo e splendore.[250] Se si cerca di farsi presente il talento comico e i ricchi abbigliamenti degli attori, nonchè la scena abbellita dalle fantastiche decorazioni dello stile architettonico d'allora, da un grande sfoggio di ghirlande e di tappeti e da uno sfondo di magnifici edifizi su qualche grande piazza e di lucidi colonnati in qualche grande atrio o monastero, si potrà in qualche modo avere un'idea della grandiosità di tali spettacoli. Ma, come il dramma profano da tale apparato ricevette notevole nocumento, così anche il pieno sviluppo poetico del Mistero restò impedito da questo eccessivo prevalere della parte spettacolosa. Infatti nei testi che ci son conservati, si trova per lo più un intreccio drammatico assai meschino con appena qualche bel tratto lirico, ma non mai quel grandioso slancio simbolico, che contraddistingue gli autos sagramentales di Calderon.

Talvolta accade che, nelle città minori e con apparato senza paragone più povero, l'effetto di questi drammi spirituali è sull'animo degli uditori di gran lunga più vivo. Ciò si verificò, per esempio a Perugia, quando uno di quei grandi predicatori, dei quali avremo occasione di parlare più innanzi, Roberto da Lecce,[251] vi chiuse la serie delle sue prediche quaresimali durante la peste del 1448 con un gran Mistero della Passione, rappresentato [190] il venerdì santo. I personaggi che presero una parte attiva all'azione drammatica, son pochi, e ciò non ostante tutto il popolo piangeva dirottamente. Ma è pur anche un fatto che, per ottenere simili effetti, in tali occasioni si ricorreva anche a mezzi, che si risentivano spesso di un naturalismo un po' troppo crudo. Così talvolta l'attore, che doveva rappresentare il Cristo, doveva non solo apparir pieno di lividure, ma sudar sangue visibilmente e versarne dal costato.[252] Ciò richiama involontariamente alla memoria le famose pitture di Matteo da Siena, e i gruppi in argilla di Guido Mazzoni.

Le occasioni speciali per la rappresentazione di Misteri, prescindendo da certe grandi festività religiose, da sposalizi principeschi ecc. sono di diversa specie. Quando, per esempio, Bernardino da Siena fu dichiarato santo dal Papa (1450), vi fu una specie di drammatica rappresentazione della sua canonizzazione, probabilmente sulla piazza maggiore della sua città nativa,[253] dove si ebbe anche una specie di corte bandita per tutto il popolo. Altre volte accade che un dotto monaco festeggia la sua promozione a dottore di teologia, facendo rappresentare drammaticamente la vita del patrono della città.[254] Il re Carlo VIII era appena sceso in Italia, che la duchessa [191] vedova, Bianca di Savoia, lo accolse a Torino con una specie di pantomima semi-religiosa,[255] nella quale innanzi tutto una scena pastorale doveva rappresentare «la legge di natura», poi una schiera di patriarchi simboleggiava «la legge di grazia»; chiudevan poi lo spettacolo le leggende di «Lancillotto del Lago» e di «Atene» drammatizzate. E non appena egli giunse di là a Chieri, che lo si volle onorare anche quivi con una nuova pantomima, la quale rappresentava «una puerpera circondata da illustri visite».


Ma se v'era festa religiosa, che domandasse di essere celebrata colla massima pompa per consenso di tutti, era certamente quella del Corpusdomini, alla quale in Ispagna si consacrava perfino una specie particolare di poesia, gli autos sagramentales da noi già citati. Quanto all'Italia, ci resta una pomposa descrizione di questa festa, quale fu celebrata da Pio II nel 1462 in Viterbo.[256] In essa la processione, che moveva da una colossale e splendida tenda dinanzi alla chiesa di S. Francesco attraverso la strada maggiore sino alla piazza del duomo, era il meno: i cardinali e i più ricchi prelati s'erano assunti di decorare, ciascuno il meglio che poteva, un tratto di quella via, curando che non solo fosse coperta dal principio alla fine di tende e ornata di damaschi e ghirlande alle finestre ed alle muraglie,[257] ma innalzando [192] dappertutto palchi e tribune, nelle quali, durante la processione, rappresentavansi brevi scene storiche ed allegoriche. Dalla relazione non emerge con bastante chiarezza se il tutto venisse rappresentato da persone vive, o qualche cosa anche da automati preparati appositamente;[258] in ogni modo però la pompa fu grande. Vi si vedeva un Cristo soffrente in mezzo ad una schiera di angeli che cantavano; una cena eucaristica, nella quale figurava anche S. Tommaso d'Aquino; la lotta dell'arcangelo Michele coi demonj; fontane di solo vino ed orchestre d'angeli; un sepolcro di Cristo con tutta la scena della Resurrezione; e finalmente sulla piazza del duomo la tomba di Maria, che, dopo il servizio religioso e la benedizione, si apriva, e allora si vedeva la Madre di Dio salire cantando al Paradiso, dove Cristo la incoronava e la conduceva dinanzi al Padre eterno.

Nella serie di queste rappresentazioni fatte sulla pubblica via spicca in modo particolare, per la grandiosità della pompa e per l'oscurità dell'allegoria, quella fatta eseguire dal cardinale vice-cancelliere, Roderigo Borgia — il futuro Alessandro VI.[259] — Oltre a ciò essa ha anche un'altra prerogativa, l'accompagnamento dello sparo dei mortaletti,[260] che è una specialità tutta propria delle feste dei Borgia.

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Più brevemente sorvola Pio II sulla processione, che ebbe luogo a Roma lo stesso anno nell'occasione, che vi giunse dalla Grecia il cranio di S. Andrea. Anche in questa Roderigo Borgia si segnalò per la sua magnificenza, ma nel complesso la festa avea un carattere piuttosto profano, perchè, oltre la solita orchestra degli angeli, che non mancava mai, vi figuravano altre maschere, ed alcuni «uomini robusti», vale a dire degli Ercoli, che, a quanto pare, vi facevano ogni specie di esercizi ginnastici.


Le rappresentazioni esclusivamente o prevalentemente profane erano destinate in modo particolare a dare nelle maggiori corti principesche spettacoli grandiosi e di gusto perfetto, rappresentando qualche leggenda mitologica od allegorica, di facile e piana interpretazione. Vero è che l'elemento barocco non vi faceva difetto, anzi vi brillava in figure gigantesche d'animali, dalle quali uscivano all'improvviso gruppi interi di maschere,[261] in pasticci enormi, sebbene in proporzioni non così esagerate, come presso il duca di Borgogna (v. pag. 186), e simili; ma, ciò non ostante, l'insieme conservava pur sempre un certo gusto artistico e poetico. Della mescolanza del dramma colla pantomima, quale si usava alla corte di Ferrara, s'è già parlato altrove (v. pag. 50). Universalmente [194] note furon poscia le feste, che il cardinale Pietro Riario diede a Roma nel 1473, in occasione del passaggio di Leonora d'Aragona, che andava sposa al duca Ercole di Ferrara.[262] Quelli che qui si dicono drammi, sono ancora veri Misteri d'indole religiosa; le pantomime invece hanno un carattere al tutto mitologico: vi si videro infatti Perseo ed Andromeda, Orfeo seguito da molti animali, Cerere tirata dai dragoni, Bacco ed Arianna dalle pantere, e per ultimo l'educazione di Achille: succedeva quindi un balletto delle più celebri coppie amorose del tempo primitivo ed una schiera di ninfe, che venivano sorprese da un gruppo di rapaci Centauri, messi alla lor volta in fuga da Ercole. E per quanto paia per sè stessa un'inezia, pure è sempre caratteristico pel modo, con cui s'intendevano le forme a quel tempo, il fatto, che se in tutte le feste dovevano apparire figure vive in aspetto di statue collocate in nicchie o sopra colonne ed archi trionfali e che poi dovessero mostrarsi vive o cantando, o declamando, si aveva cura che si presentassero con colori ed abbigliamenti affatto naturali e verosimili, e solo in via d'eccezione nelle sale del cardinal Riario accadde, che figurasse in mezzo agli altri un fanciullo vivo, ma tutto dorato, che versava acqua da una fontana.[263]

Altre splendide pantomime di questo genere furono date a Bologna, in occasione delle nozze di Annibale [195] Bentivoglio con Lucrezia d'Este;[264] invece dell'orchestra vi si ebbero dei cori che cantavano, mentre la più bella delle ninfe seguaci di Diana correva a rifugiarsi sotto la protezione di Giunone pronuba, e Venere s'aggirava con un leone, vale a dire con un uomo cammuffato in tal guisa, in mezzo ad un ballo di selvaggi: la decorazione poi rappresentava una foresta vera e reale. A Venezia nel 1491 si festeggiò l'arrivo di alcune principesse estensi,[265] movendo ad incontrarle col Bucintoro, ed attivando gare di rematori e una splendida pantomima (Meleagro) nel cortile del palazzo ducale. A Milano Leonardo da Vinci[266] dirigeva le feste del duca ed anche quelle di altri grandi; una delle sue macchine, la quale poteva benissimo rivaleggiare con quella di Brunellesco (v. pag. 188), rappresentava in proporzioni colossali il sistema planetario in tutti i suoi movimenti; ogni volta che un pianeta si avvicinava alla sposa del giovane duca, Isabella, il dio che lo abitava, si sporgeva fuori dalla sua sfera[267] e cantava alcuni versi scritti dal poeta di corte Bellincioni (1489). In un'altra festa (1493) fu esposto, fra molte altre cose, il modello della statua equestre di Francesco Sforza sotto un arco trionfale sulla piazza del Castello. Oltre a ciò dal Vasari sappiamo, con che ingegnosi automati Leonardo aiutò più tardi a decorar l'accoglienza fatta in Milano ai re di Francia, come [196] signori del ducato. Ma anche nelle città minori si fecero talvolta dei tentativi degni d'essere menzionati. Allorquando il duca Borso (v. vol. I, pag. 66) venne nel 1453 a Reggio per ricevervi l'omaggio di quella città,[268] egli fu accolto alle porte con una grandiosa macchina, sulla quale appariva sospeso s. Prospero, il patrono della città, sotto un baldacchino sostenuto da angeli, e più in basso un disco girante con otto angeli che cantavano, due dei quali diedero al santo le chiavi della città e lo scettro, perchè presentasse l'una cosa e l'altra al duca. Poi s'avanzava una specie di carro tirato da cavalli nascosti, e portante un trono vuoto, dietro il quale stava una giustizia in piedi con un genio che la seguiva, agli angoli quattro vecchi legislatori circondati da sei angeli con bandiere, ad ambedue i lati cavalieri armati, ugualmente con bandiere. S'intende da sè, che il genio e la dea non lasciarono passare il duca senza rivolgerli la parola. Un secondo carro tirato, a quanto sembra, da un unicorno, portava una Carità con fiaccole accese; ma in mezzo a ciò non s'era voluto che mancasse il solito carro fatto a guisa di nave, spinto innanzi da uomini, che vi stavano dentro nascosti. Questo e le due allegorie precedevano il duca; giunti a s. Pietro, si fece una nuova fermata: un s. Pietro con due angeli stava sospeso in una glorietta rotonda sulla facciata, e di là spiccò un volo sino al duca, gli pose in capo una corona d'alloro e rivolò al suo posto.[269] Il clero poi dal canto suo ebbe cura di far rappresentare un'allegorìa d'indole affatto religiosa: su due alte colonne stavano l'Idolatria e la [197] Fede: dopo che quest'ultima, rappresentata da una bella fanciulla, ebbe fatto il suo saluto dalla sua colonna, l'altra si sfasciò e precipitò assieme al fantoccio che portava. Più innanzi s'incontrò un «Cesare» circondato da sette belle donne, nelle quali erano simboleggiate le sette virtù, che Borso doveva seguire. Da ultimo si giunse al duomo; ma dopo il servizio religioso Borso dovette nuovamente prender posto sopra un alto trono dorato, dove una parte delle maschere menzionate lo complimentò una seconda volta. Posero termine allo spettacolo tre angeli, che si calavano a volo da un edifizio vicino a porgere al duca, tra lieti canti, ramoscelli di ulivo, simbolo della pace.


Diamo ora uno sguardo a quelle feste, nelle quali la processione stessa costituisce da sè la cosa principale.

Egli è fuor d'ogni dubbio che sin dai più remoti tempi del medio-evo le processioni sacre offrirono motivo ed occasione all'adozione delle maschere, fossero poi o fanciulli travestiti da angeli e destinati a seguire pubblicamente il Sacramento e le reliquie dei santi, che si portavano attorno, o personaggi stessi della Passione, che procedevano processionalmente, per esempio, il Cristo colla croce, i crocifissori, i centurioni, le pie donne. Ma colle grandi feste della Chiesa si collega assai per tempo l'idea di una processione della città, che, giusta le ingenue usanze del medio-evo, accoglie in sè una moltitudine di elementi profani. Particolarmente caratteristico è il carro navale (carrus navalis), tolto a prestito dall'antico paganesimo,[270] che, come notammo nell'esempio [198] addotto, poteva introdursi in feste d'indole molto diversa, ma il cui nome servì principalmente a designare le feste «carnevalesche». Una tal nave poteva benissimo, perchè splendidamente arredata, piacere agli spettatori, senza che si ricordasse come che sia l'antico suo significato, e quando, per esempio. Isabella d'Inghilterra s'incontrò col di lei sposo l'imperatore Federico II in Colonia, mossero effettivamente ad incontrarla molti carri navali portanti degli ecclesiastici, che cantavano ed erano tirati da cavalli coperti.

Ma la processione religiosa poteva non solo venir decorata da aggiunte di qualsiasi specie, ma anche addirittura sostituita da un corteo di maschere spirituali. A ciò l'occasione può essere stata offerta da quei gruppi d'attori, che si recavano al luogo dove dovea rappresentarsi il Mistero, attraversando le vie principali di qualche città; ma pare anche che assai per tempo sia surta una specie di processioni spirituali indipendentemente affatto da ciò. Dante descrive il «trionfo» di Beatrice coi ventiquattro seniori della Bibbia,[271] i quattro mistici animali, le tre virtù teologali e le quattro cardinali, s. Luca, s. Paolo ed altri apostoli in guisa tale, che si è quasi costretti a presupporre già sin dal suo tempo l'esistenza effettiva di tali processioni. Questo si manifesta specialmente dal carro sul quale s'avanza Beatrice, e che nel bosco miracoloso della visione non sarebbe necessario, anzi vi sta in modo assai strano. O avrebbe [199] Dante per avventura riguardato il carro soltanto come simbolo essenziale del trionfo? E sarebbe stato, invece, il suo poema quello, che pel primo diede l'impulso a tali processioni, la cui forma fu tolta a prestito dai trionfi degli imperatori romani? Comunque sia, certo è in ogni caso che tanto la poesia, quanto la teologia si sono con una certa predilezione attenute a questo simbolo. Il Savonarola nel suo «Trionfo della croce»[272] rappresenta Cristo sopra un carro trionfale, e sopra di lui la sfera splendente della Trinità, alla sua sinistra la croce, alla destra i due Testamenti; al di sotto, ma a grande distanza, la Vergine Maria; dinanzi al carro i patriarchi, i profeti, gli apostoli e i predicatori; ad ambedue i lati i martiri e i dottori coi volumi aperti; dietro di esso tutto il popolo dei credenti, e ad una considerevole distanza una moltitudine innumerevole di nemici, imperatori, potenti, filosofi ed eretici vinti, coi loro idoli distrutti, coi loro libri arsi. (Una grandiosa composizione di Tiziano intagliata sul legno richiama sotto molti punti di vista questa descrizione). Delle tredici elegie di Sabellico alla Madre di Dio (v. vol. I, pag. 85 e segg.), la nona e la decima contengono un circostanziato trionfo della medesima, ricco di allegorie, ma principalmente interessante per quella impronta di realtà e verità, che, del resto, sogliono dare a tali scene anche le pitture del secolo XV.


Ma assai più frequenti di questi trionfi spirituali erano i profani, modellati tutti su quelli degli imperatori romani, quali si scorgevano negli antichi bassorilievi o si leggevano nelle descrizioni dei vecchi scrittori. [200] Il modo di studiare la storia degli Italiani d'allora, (col quale questo fatto sta in strettissima relazione), è stato già indicato altrove (v. vol. I, pag. 194 e 236).

Innanzi tutto qua e colà verificavansi effettivamente degli ingressi solenni di vittoriosi conquistatori, che si cercava di ravvicinare quanto più si poteva a questo tipo ideale, anche talvolta contro la volontà espressa dei conquistatori stessi. Francesco Sforza, nell'occasione del suo ingresso a Milano (1450), ebbe la forza di rifiutare il carro trionfale, che si teneva pronto, «dicendo tali cose essere superstizioni dei re».[273] Alfonso il Magnanimo, entrando nel 1443 solennemente a Napoli,[274] ricusò, se non il carro, almeno la corona d'alloro, che tutti sanno non aver disdegnato lo stesso Napoleone nella sua incoronazione a Nostra Donna di Parigi. In tutto il resto l'ingresso di Alfonso (che si effettuò attraverso una breccia aperta nelle mura, procedendo poi di là sino al duomo) fu uno strano miscuglio di elementi antichi allegorici ed anche essenzialmente grotteschi. Il carro, sul quale egli sedeva in trono e che veniva tirato da quattro cavalli bianchi, era assai alto, e tutto dorato: venti patrizi portavano il baldacchino di stoffa tessuta in oro, sotto il quale egli si avanzava. La parte del trionfo, che s'erano assunta i Fiorentini residenti a Napoli, consisteva innanzi tutto in un drappello di giovani ed eleganti cavalieri, che s'avanzavano armati di lance, sur un carro che portava la Fortuna, e in sette donne simboleggianti [201] sette virtù, tutte a cavallo. La Fortuna,[275] conformemente a quella inesorabile allegoria, alla quale si sottomisero talvolta a quel tempo anche gli artisti, non era coperta di capelli che nella parte anteriore del capo, e si mostrava in tutto calva nella parte posteriore, e il genio che si trovava in uno dei gradini inferiori del carro e che doveva appunto simboleggiare il facile trasformarsi e svanire della fortuna, teneva i piedi immersi (?) in un bacino d'acqua. Indi seguiva, equipaggiata sempre dagli stessi Fiorentini, una schiera di cavalieri nei costumi di diversi popoli, o vestiti da principi e grandi stranieri, e poi sur un carro assai alto, al sommo di una sfera mondiale mobile, un Giulio Cesare,[276] coronato d'alloro, che spiegava al re in versi italiani tutte le allegorie precedenti e quindi si rimetteva in fila con gli altri. Sessanta Fiorentini, vestiti tutti di porpora e di scarlatto, chiudevano questa mostra di ciò che sapeva fare Firenze, madre di tutte le feste. Ma subito dopo seguiva un drappello di Catalani a piedi dentro piccoli cavalli finti, che portavano legati alle loro persone, e che rappresentavano una finta battaglia con un gruppo di Turchi, quasi per mettere in derisione la serietà sentimentale dei Fiorentini. Chiudeva la marcia trionfale un'imponente torre, la cui porta veniva guardata [202] da un angelo con una spada in mano; in alto stavano ancora quattro Virtù, che cantavano, ciascuna da sola, le lodi del re.

Nell'ingresso di Luigi XII a Milano, che ebbe luogo nel 1507,[277] oltre l'inevitabile carro portante le Virtù, eravi anche un gruppo vivo rappresentante Giove, Marte ed una Italia circondata da una grande rete: poi seguiva un carro tutto pieno di trofei e così via.

Ma dove in realtà non v'erano trionfi da festeggiare, la poesia se ne indennizzò essa stessa e compensò anche largamente i principi. Il Petrarca e il Boccaccio avevano chiamato (v. pag. 184) i rappresentanti d'ogni specie di gloria a costituire il seguito di una figura allegorica: ora vengono evocate tutte le celebrità del tempo antico a formare il corteo dei principi. La poetessa Cleofe Gabrielli da Gubbio cantò in questo senso le lodi di Borso di Ferrara.[278] Essa gli diede a seguaci sette regine (le arti liberali), colle quali egli sale un carro, e poscia schiere intere d'eroi, i quali, per essere più facilmente riconosciuti, portano scritti i loro nomi sulla fronte; seguono quindi tutti i più celebri poeti, e gli dei seggono addirittura sul carro con lui. Intorno a questo tempo i trofei mitologici ed allegorici sui carri sono in generale frequentissimi, ed anche la più importante opera d'arte che ci sia stata conservata del tempo di Borso, il ciclo degli affreschi del palazzo di Schifanoja, ne offre un saggio in un fregio intero pieno di tali argomenti.[279] Raffaello, [203] quando ebbe a dipingere la camera della «Segnatura», trovava omai questo genere di decorazione corrotto e scaduto. Il modo con cui egli seppe rialzarlo e infondergli nuova vita, non è l'ultimo titolo di gloria fra i tanti, che rendono immortale il suo nome e lo consacrano all'ammirazione dei posteri.

I trionfi propriamente detti dei conquistatori non erano che eccezioni. Ma ogni processione festiva, sia che fosse fatta per celebrar qualche avvenimento o non avesse anche nessuno scopo determinato, assumeva più o meno il carattere, e quasi sempre anche il nome di trionfo. Fa maraviglia anzi che non siano state messe in questa categoria anche le pompe funebri.[280]

Innanzi tutto nel carnevale e in altre occasioni celebraronsi trionfi di antichi duci romani: tali furono in Firenze quello di Paolo Emilio (sotto Lorenzo il Magnifico) e quello di Camillo (per la visita di Leone X), diretti ambedue dal pittore Francesco Granacci.[281] In Roma la prima festa completa di questo genere fu il trionfo dopo la vittoria su Cleopatra, celebrato[282] sotto Paolo II, e nel quale, oltre a molte maschere facete e mitologiche [204] (le quali del resto non mancavano mai anche nei trionfi antichi), figuravano re incatenati, un senato vestito all'antica, edili, questori, pretori e simili, quattro carri in tutto di maschere che procedevano cantando, e senza dubbio anche carri portanti trofei. Altre processioni simboleggiavano più largamente l'antico dominio mondiale di Roma, e, di fronte al pericolo che realmente minacciava da parte dei Turchi, si ebbe il coraggio di rappresentare anche una cavalcata di Turchi prigionieri portati da cammelli. Più tardi, nel carnevale del 1500, Cesare Borgia, alludendo specialmente a sè stesso, volle che si celebrasse il trionfo di Giulio Cesare, con non meno di undici magnifici carri[283], certamente non senza grave scandalo dei pellegrini accorsi quivi d'ogni parte al Giubileo (vol. I, pag. 159). — Bellissimi e assai artisticamente intesi furono due trionfi di significato affatto generico rappresentati nel 1513 in Firenze da due società che gareggiavano tra loro, in occasione della elezione di Leone X;[284] l'uno raffigurava le tre età dell'uomo, l'altro le età del mondo personificate assai sensatamente in cinque quadri della storia di Roma e in due allegorie, che simboleggiavano l'epoca aurea di Saturno e il suo definitivo ritorno. La decorazione assai fantastica dei carri, quale non poteva mancare quando se ne occupavano gli stessi grandi artisti fiorentini, fece una tale impressione, che rimase vivo il desiderio di veder ripetuti periodicamente tali spettacoli. Sino a questo tempo le città soggette, nella ricorrenza annuale dell'omaggio, s'erano accontentate di presentare semplicemente i loro [205] doni simbolici (stoffe preziose e candele di cera); ora[285] la corporazione dei mercatanti fece costruire dieci carri (ai quali in seguito dovevano aggiungersene molti altri), non tanto per portare, quanto per simboleggiare i tributi, ed Andrea del Sarto, che ne decorò alcuni, diede certamente ad essi la forma più splendida, di cui erano suscettibili. Questi carri portanti i tributi e i trofei vedevansi omai in ogni occasione solenne, anche se non si aveva molto da spendere. I Sanesi festeggiarono nel 1477 l'alleanza tra Ferrante e Sisto IV, nella quale entravano anch'essi, tirando attorno per la città un carro, nel quale «un individuo vestito da dea della pace s'avanzava, sedendo sopra una corazza ed altre armi».[286]


Nelle feste veneziane, invece dei carri, furono maravigliosamente splendide e fantastiche le regate. Una corsa del Bucintoro, mandato fuori nel 1491 a ricevere le principesse di Ferrara (v. pag. 194), ci vien descritta come uno spettacolo degno di leggenda:[287] esso era preceduto da innumerevoli barche coperte di tappeti e ghirlande e piene di una gioventù sfarzosamente vestita in diversi costumi: sulle macchine sospese movevansi all'intorno dei genii simboleggianti i diversi attributi degli dei: più lungi e più in basso stavano altri personaggi aggruppati in forma di tritoni e di ninfe: dovunque canti, olezzi, e ondeggiar di bandiere tessute in oro. Dietro al Bucintoro s'accalcava tal folla di barche d'ogni genere, che per un miglio tutto all'intorno non si vedeva più [206] l'acqua. Tra le altre festività, oltre la pantomima già sopra nominata, degna di particolare menzione, per la novità, fu una regata di cinquanta robuste fanciulle. Nel secolo XIV[288] la nobiltà era divisa in corporazioni speciali per disporre le feste, il cui elemento principale consisteva sempre in qualche straordinaria macchina portata da una nave. Così, per esempio, nel 1541, in occasione di una festa dei «Sempiterni», movevasi pel Canal Grande un «Universo» rotondo, nella cui cavità aperta fu tenuto un grandioso ballo. Anche il carnevale qui era celebre per balli, mascherate e rappresentazioni d'ogni specie. Talvolta la piazza di S. Marco fu trovata abbastanza grande, per tenervi non solo de' tornei (v. pag. 123 e 158), ma anche dei trionfi, come s'usava in terraferma. In una festa celebrata per rallegrarsi di una pace conchiusa,[289] le pie confraternite (scuole) s'incaricarono ciascuna di decorare una parte della processione. In essa si vide, tra aurei candelabri con lumi accesi di cera rossa e fra innumerevoli schiere di cantori e di fanciulli alati, portanti auree coppe e cornucopie, un carro, sul quale stavano in trono Noè e Davidde; poi veniva Abigaille conducendo un cammello carico di tesori, ed un secondo carro tutto ripieno di simboli politici, tra cui l'Italia tra Venezia e la Liguria, e sur un gradino più elevato tre genii femminili portanti gli stemmi dei principi alleati. Fra molte altre cose seguiva una sfera mondiale con le costellazioni all'intorno, a quanto sembra. Su altri carri [207] procedevano da ultimo i principi stessi rappresentati al vero, insieme ai loro famigliari e agli stemmi, se è giusta l'interpretazione, che noi diamo alla leggenda che ne parla.


Il carnevale propriamente detto, prescindendo da queste grandi marce trionfali, non avea forse nel secolo XV in nessun luogo un aspetto tanto svariato, quanto a Roma.[290] Qui le corse erano di tutte le specie immaginabili: ve n'erano di cavalli, di bufali, di asini, e viceversa di vecchi, di giovani, di ebrei ecc. Paolo II dava banchetti al popolo intero dinanzi al palazzo di Venezia, dove abitava. Oltre a ciò i giuochi in piazza Navona, che forse non erano mai morti del tutto sino dalla più remota antichità, avevano un carattere splendidamente guerresco: essi consistevano in una finta battaglia di cavalieri e in una mostra della borghesia sotto le armi. Il tempo in cui era permesso di mascherarsi durava a lungo e talvolta abbracciava un periodo di parecchi mesi.[291] Sisto IV non si fe' scrupolo alcuno di passare nei punti più popolati della città, al Campofiore e presso ai Banchi, attraverso ad una folla di maschere, e soltanto non accettò la visita di un drappello di queste, che voleva essere ammesso nel Vaticano. Sotto Innocenzo VIII crebbe d'assai una usanza certo molto riprovevole, introdottasi [208] già fra i cardinali qualche tempo prima, di mandarsi cioè reciprocamente carri pieni di maschere in splendidi costumi, con buffoni e cantori, che dicevano versi scandalosi, ed erano accompagnati da cavalieri. — Oltre il carnevale, i Romani sembrano aver avuto in molto pregio anche le grandi processioni con fiaccole accese. Quando Pio II nel 1459 tornò dal congresso di Mantova,[292] il popolo improvvisò in suo onore una cavalcata di questo genere, che si moveva in giro splendidamente dinanzi al suo palazzo. Tuttavia Sisto IV non volle una volta accettare una simile dimostrazione notturna del popolo, che s'era proposto di venire con torcie accese e rami di ulivo[293] sotto le finestre del suo palazzo.

Ma il carnevale fiorentino superava il romano per una specie particolare di processioni, che ha lasciato una traccia anche nella letteratura.[294] Fra una folla di maschere a piedi e a cavallo avanzavasi un carro enorme di forme fantastiche, in cima al quale stavano una figura ed un gruppo allegorico con tutto il loro seguito, per esempio, la gelosia con quattro facce fornite d'occhiali in una sola testa, i quattro temperamenti (v. pag. 42) coi pianeti relativi, le tre Parche, la Prudenza in trono sopra la Speranza e la Paura, che giacciono legate a' suoi piedi, i quattro elementi, le età dell'uomo, i venti, le stagioni, e così via, nè vi mancava neanche il carro della [209] Morte colle bare, che poi s'aprivano. Altre volte era una splendida scena mitologica, come Bacco e Arianna, Paride ed Elena ecc. O finalmente un coro di persone costituenti una classe speciale, per esempio i mendicanti, i cacciatori e le ninfe, le anime dannate, che in vita furono donne spietate, gli eremiti, i vagabondi, gli astrologi, i diavoli, i venditori di merci particolari, ed una volta perfino il popolo, i quali tutti poi nel canto doveano reciprocamente accusarsi e vilipendersi a vicenda. I canti, che furono raccolti e conservati, davano la spiegazione della mascherata in versi ora appassionati, ora scherzevoli e spesso estremamente osceni. Anche a Lorenzo il Magnifico vengono attribuiti alcuni dei più immorali, probabilmente perchè il vero autore non osava manifestarsi. Ma, comunque sia, certamente suo era il bel canto, che accompagnava la scena di Bacco ed Arianna, il cui ritornello echeggia ancora sino a noi dal secolo XV, quasi come un doloroso presentimento del breve splendore, che doveva avere l'epoca del Rinascimento:

Quanto è bella giovinezza,

Che si fugge tuttavia!

Chi vuol esser lieto, sia:

Di doman non c'è certezza.

[211]

PARTE SESTA LA MORALE E LA RELIGIONE

[213]

CAPITOLO I. La Moralità.

Canoni critici. — Coscienza della demoralizzazione. — Sentimento moderno dell'onore. — Predominio della fantasia. — Tendenza al giuoco ed alla vendetta. — Offese alla fede coniugale. — Situazione morale della donna. — L'amore spiritualizzato. — Tendenza generale al delitto. — Il malandrinaggio. — L'assassinio pagato, gli avvelenamenti. — Malfattori in senso assoluto. — La moralità in rapporto con lo sviluppo della vita individuale.

Il rapporto dei singoli popoli con le idee più sublimi, Dio, la virtù e l'immortalità, può bensì fino ad un certo punto essere investigato, ma non sarà mai suscettibile di venir con rigoroso metodo comparativo rappresentato. In questo riguardo quanto più le testimonianze sembrano esplicite, tanto più cauti si deve andare nell'accettarle e più ancora nel generalizzarle.

Questo principio deve valere innanzi tutto per qualsiasi giudizio intorno alla moralità. Fra i diversi popoli potrannosi mostrare molti contrasti e gradazioni diverse; ma per tirar la somma assoluta delle loro colpe, l'intelletto umano non ha forze bastanti. Il distinguere nella vita di un popolo ciò che esso deve al suo carattere nazionale da ciò che è il prodotto della sua libera attività e della sua riflessione, rimarrà sempre un enigma anche per questo, che i difetti hanno un lato rovescio, [214] nel quale appajono invece qualità nazionali, anzi virtù. Lasciamo adunque che si sfoghino a lor talento quegli scrittori, che si dilettano d'infliggere alle nazioni censure generali e talvolta anche violente. I popoli occidentali potranno bensì maltrattarsi l'un l'altro, ma, per buona ventura, non mai giudicarsi a vicenda. Una grande nazione, che con la sua cultura, con le sue gesta e con le sue vicende è strettamente collegata colla vita di tutto il mondo moderno, non si preoccupa gran fatto nè di evitare accuse, nè di trovare difese, e continua la sua vita con o senza il beneplacito dei teorici.

Conformemente a ciò, quello che segue lungi dall'essere un giudizio, non è che una serie di osservazioni a guisa di postille, quali nacquero da sè da uno studio proseguito per molti anni sul Rinascimento italiano. Il loro valore intrinseco è poi tanto più limitato, in quanto per la maggior parte si riferiscono alla vita delle classi più elevate, rispetto alle quali noi abbiamo senza confronto, tanto nel bene che nel male, molto più ampie informazioni in Italia, che non in qualsiasi altro paese europeo. Siccome però, rispetto all'Italia, la lode ed il biasimo si fanno anche sentire più altamente che altrove, così neanche con ciò noi ci troviamo d'un passo più avanzati sulla via d'un generale apprezzamento della moralità.

Quale occhio può penetrare nelle profondità, dove si formano i caratteri e i destini dei popoli, — dove gli elementi innati e quelli acquisiti si fondono insieme e diventano una seconda, una terza natura, — dove anche le attitudini mentali, che a prima vista si crederebbero originarie, si svolgono soltanto in un'epoca relativamente tarda e sotto forme del tutto nuove? E, per dare un esempio, chi potrebbe dire se gl'Italiani vissuti prima del secolo XIII abbiano posseduto, o no, quella pienezza [215] di vita e di forza, quella attitudine a fondere plasticamente nella parola e nella forma, quasi scherzando, qualsiasi concetto, che loro furono proprie più tardi? — E se non sappiamo nemmeno questo, come possiamo noi giudicare quel complesso di rapporti infinitamente varii e delicati, per mezzo dei quali lo spirito e la moralità incessantemente si compenetrano ed identificano tra loro? Un tribunale pei singoli individui lo si ha, e la sua voce è quella della coscienza; ma chi oserà pronunciare sentenze generali sui popoli? Quello fra essi, che più sembra infermo, può essere invece il più prossimo alla guarigione, e un altro apparentemente sano può covare in sè un germe di morte certa e sicura, che però non si manifesterà se non nel dì del pericolo.


Al principio del secolo XVI, quando la cultura del Rinascimento era giunta alla sua maggior perfezione e al tempo stesso la rovina politica della nazione era divenuta omai irreparabile, non mancarono gravi pensatori, che vollero vedere un nesso tra quest'ultimo fatto e la grande immoralità, che allora regnava. Nè sono già quei queruli predicatori, che sogliono alzar la voce contro la depravazione dei costumi in ogni tempo e presso ogni popolo; ma è lo stesso Machiavelli, che in una delle più meditate fra le sue opere[295] apertamente il confessa: «pur troppo, noi Italiani siamo in modo particolare irreligiosi e corrotti». — Un altro forse avrebbe detto: noi siamo giunti ad un grado eccezionale di sviluppo individuale; coi pregiudizi di casta abbiamo spezzato anche i vincoli [216] d'una morale e d'una religione pregiudicate, e delle leggi esterne non ci curiamo, perchè i nostri tiranni sono illegittimi e i loro giudici e subalterni gente guasta e corrotta. — Machiavelli invece soggiunge: «perchè la Chiesa e i suoi ministri danno il pessimo di tutti gli esempi».

Dovremo noi alla nostra volta aggiungere ancora: «perchè l'antichità esercitò a questo riguardo una fatale e perniciosa influenza?» — Ma, in tal caso, la proposizione va accolta colle necessarie riserve. Infatti, se essa potrebbe aversi come vera rispetto agli umanisti (v. vol. I, pag. 365), tenuto conto della loro vita disordinata e sensuale, non potrebbe riguardarsi come tale rispetto agli altri, dei quali si direbbe tutt'al più aver essi, dopo che si famigliarizzarono coll'antichità, sostituito all'ideale della vita cristiana (la santità) il culto della grandezza storica (v. vol. I, pag. 203 nota). E da ciò accadde altresì, per un equivoco del resto assai naturale, che si ebbe una certa indulgenza anche pei difetti, appunto perchè, in onta ad essi, gli uomini grandi non cessarono di esser tali. Probabilmente la cosa avvenne senza che vi si ponesse mente, poichè se si volesse addurne in prova delle testimonianze, queste non si potrebbero trovare pur sempre che presso gli umanisti, come, ad esempio, presso Paolo Giovio, che scusa coll'esempio di Giulio Cesare lo spergiuro di Giangaleazzo Visconti, inquanto per esso fu resa possibile la fondazione di uno Stato.[296] Ma nei grandi storici e politici fiorentini simili citazioni servili non s'incontrano mai, perchè ciò che nei loro giudizi e nelle loro azioni ha colore di antichità, non è che una conseguenza dell'ordinamento [217] politico sotto il quale vivevano, e che naturalmente doveva creare in essi un modo di sentire e di pensare analogo a quello dell'antichità.

In onta a tutto questo però non si può disconoscere, che l'Italia intorno al principio del secolo XVI versasse in una grave crisi morale, dalla quale i migliori stessi disperavano quasi di trovare un'uscita.


Cominciamo dal far conoscere la forza morale, che più di tutto controoperava all'immoralità prevalente. Quegli uomini superiori credettero scorgerla sotto la forma del sentimento d'onore. Questo è quel misterioso complesso di coscienza e di egoismo, che rimane ancora all'uomo moderno, anche quando egli, con o senza sua colpa, ha perduto ogni altra cosa, fede, amore e speranza. Un tal sentimento si collega assai facilmente con molto egoismo e con grandi vizi, ed è suscettibile di infinite illusioni; ma può associarsi altresì con quanto di più nobile è rimasto in taluno, e poi divenir fonte di nuove forze e di nuova energia. In un senso molto più ampio, che non suol credersi comunemente, esso è divenuto pei moderni Europei, giunti già ad un grado assai notevole di sviluppo individuale, una norma costante delle loro azioni; ed anche molti fra coloro, che, oltre a ciò, serbano fede alla morale ed alla religione, quasi senza saperlo, in tutte le più importanti loro deliberazioni lo seguono.[297]

Non è del nostro assunto il mostrare come l'antichità avesse anch'essa una tal quale idea di questo sentimento, [218] e come poi il medio-evo ne abbia addirittura fatto un privilegio speciale di una classe determinata. E nemmeno è nostra intenzione di venire a questione con coloro, che riguardano la coscienza come l'unico movente essenziale delle azioni umane. Certo che nulla di meglio potrebbe desiderarsi, qualora ciò sempre accadesse; ma, poichè le migliori risoluzioni partono «da una coscienza più o meno intorbidata di egoismo», meglio è chiamar le cose col loro vero nome. Spesse volte riesce malagevole il distinguere negli Italiani del Rinascimento questo sentimento d'onore dalla sete assoluta di gloria, nella quale non di rado si fonde; ciò non toglie però che, quanto alla sostanza, sieno e rimangono due cose del tutto diverse.

Le testimonianze a questo riguardo abbondano piuttosto che non scarseggino. Ma basterà una per tutte, appunto perchè autorevolissima, e la desumeremo dagli aforismi del Guicciardini, per la prima volta non ha guari pubblicati.[298] «A chi stima l'onore assai, succede ogni cosa; perchè non cura fatiche, non pericoli, non danari. Io l'ho provato in me medesimo; però lo posso dire e scrivere; sono morte o vane le azioni degli uomini, che non hanno questo stimolo». È giusto però notare, che da altre notizie intorno alla vita dell'autore evidentemente apparisce, che qui egli parla del solo sentimento d'onore, e non anche di quello di gloria propriamente detto. E in modo ancora più esplicito su questo argomento si esprime il Rabelais, che noi, benchè spesso violento e sempre barocco, non possiamo tuttavia astenerci dal citare, appunto perchè in lui, meglio che in [219] qualunque altro, troviamo un concetto chiaro e spiccato di ciò che sarebbe il Rinascimento senza il prestigio della forma e della bellezza.[299] La sua descrizione di uno stato ideale nel chiostro dei Telemiti ha un'importanza affatto decisiva nella storia della civiltà, tanto che può dirsi che, senza questa potente fantasia, l'immagine del secolo XVI resterebbe pur sempre incompleta. Ecco ciò che, fra molte cose, egli scrive de' suoi cavalieri e delle sue dame dell'ordine del Libero Volere:[300]

«En leur reigle n'estoit que cette clause; Fay ce que vouldras. Parce que gens liberes, bien nayz,[301] bien instruictz, conversans en compaignies honnestes, ont par nature ung instinct et aguillon, qui tousjours les poulse à faictz vertueux, et retire du vice: lequel il nommoyent honneur».

È la stessa fede nella bontà dell'umana natura, che animava anche gli uomini della seconda metà del secolo XVIII, e che spianò la via alla Rivoluzione francese. Anche fra gl'Italiani ognuno si riporta individualmente [220] a questo suo nobile istinto, e per quanto anche — principalmente sotto l'impressione delle sventure nazionali — si voglia portare sull'intera nazione un giudizio non troppo favorevole, non si potrà però mai negar ad un tale sentimento la giustizia che esso si merita. Se lo sviluppo illimitato dell'individualità fu un fatto provvidenziale, superiore in tutto al volere dei singoli, non meno provvidenziale dovrà ritenersi anche la forza reagente, quale a questo tempo si manifesta in Italia. Quante volte e contro quali violenti attacchi dell'egoismo essa abbia trionfato, noi non sappiamo, nè sapremo giammai; ma, appunto perciò, il nostro giudizio non basta, nè basterà mai, a pronunciare in via assoluta sul valore morale della nazione.


La forza, contro la quale ebbe principalmente a lottare l'Italiano del Rinascimento per conservarsi morale, è la fantasia, che presta innanzi tutto alle sue virtù ed a' suoi vizi i suoi colori particolari, e sotto il cui dominio l'egoismo si manifesta in quanto ha di più spaventevole.

Per essa, ad esempio, egli diventa il primo ed il più destro giuocatore del tempo moderno, mentre gli fa balenare dinanzi agli occhi le immagini della futura ricchezza e dei futuri piaceri con tale vivacità, che egli, per giungervi, pone a repentaglio ogni cosa. Senza alcun dubbio i popoli maomettani gli sarebbero in ciò andati innanzi, se fin da principio il Corano non avesse stabilito il divieto del giuoco come la più necessaria salvaguardia della morale islamitica, e non avesse invece attirato la fantasia de' suoi seguaci alla ricerca dei tesori nascosti. In Italia il furore del giuoco divenne universale, minacciando sin d'allora assai di frequente l'esistenza [221] di singoli individui od anche d'intere famiglie. Firenze ha già sulla fine del secolo XIV il suo Casanova, un tal Buonaccorso Pitti, che, viaggiando continuamente in qualità di mercatante, di agente politico, di speculatore, di diplomatico e di giuocatore di professione, guadagnò e perdette enormi somme, e non trovava competitori che fra i principi, quali, ad esempio, i duchi di Brabante, di Baviera e di Savoia.[302] Anche quel gran, vaso della fortuna, che allora si chiamava la Curia romana, abituò i suoi membri ad un bisogno di sovreccitazione, che naturalmente si sfogava nel giuoco dei dadi negl'intervalli, che loro restavano tra un grande intrigo ed un altro. Franceschetto Cybo, per esempio, perdette in due volte giuocando col cardinale Raffaele Riario 14,000 ducati, e poi si lagnò al Papa, che il suo avversario lo avesse truffato.[303] In seguito l'Italia divenne notoriamente la patria del lotto.

Ella è pure la fantasia quella, che dà alla sete della vendetta il suo carattere particolare. Non è impossibile che in tutto l'occidente da tempo antichissimo il sentimento del proprio diritto sia stato uno ed identico, e che la sua violazione, ogni volta che rimase impunita, sia stata sentita allo stesso modo. Ma gli altri popoli, se anche non perdonano più facilmente, hanno però una maggior facilità a dimenticare, mentre la fantasia dell'Italiano tien viva la ricordanza dell'offesa con una tenacità spaventevole.[304] Il fatto poi che nella morale del [222] popolo la vendetta è riguardata come un dovere e spesso viene esercitata nel modo il più terribile, serve di stimolo e sprone a questa già universale tendenza. Governi e tribunali ne riconoscono l'esistenza e la legittimità, e non cercano che di frenarne i maggiori eccessi. Ma fra i contadini si rinnovano i banchetti di Tieste, e le stragi reciproche si fanno ogni dì più frequenti. Anche qui una testimonianza basterà per molte.[305]

Nel contado di Acquapendente tre pastorelli guardavano il gregge, ed uno di loro disse: facciamo la prova del come s'impiccano le persone. Detto, fatto. Uno montò sulle spalle dell'altro, e il terzo, annodata al primo la corda al collo, la legò poscia ad una quercia: in quella sopravvenne il lupo, e i due fuggirono, e il terzo rimase appeso. Più tardi, tornando, lo trovarono morto e lo seppellirono. La domenica venne il padre di quest'ultimo per recargli del pane, ed uno dei due gli confessò l'accaduto e gli mostrò la sepoltura. Il vecchio, montato in furore, lo trucidò con un coltello, lo fece a pezzi, ne estrasse il fegato e in una cena lo diè a mangiare al padre di lui; poi gli disse qual fegato avesse mangiato. Da quel momento cominciarono le stragi reciproche tra le due famiglie, e nel periodo di un mese trentasei persone furono uccise, senza distinzione alcuna di sesso o di età.

Ma queste vendette, ereditarie di generazione in generazione sin nei parenti collaterali e negli amici, non si limitarono soltanto alle classi inferiori; esse si estesero ben presto in larga misura anche alle sfere le più elevate. Le cronache e le novelle ne recano esempi frequentissimi, [223] e per lo più per offese recate al pudor femminile. Il terreno classico di tali fatti era in modo speciale la Romagna, dove la vendetta si confondeva con tutte le specie possibili di intrighi e parteggiamenti. I novellieri ci dipingono qua e colà con colori terribili lo stato di brutale ferocia, in cui erano cadute queste audaci e vigorose popolazioni. Tale, per esempio, è la storia di quell'illustre ravennate, che era giunto a prendere e a far rinchiudere in una torre i suoi nemici, e che, mentre avrebbe potuto farli abbruciar tutti, li pose in libertà, li abbracciò e convitò splendidamente, dietro di che, tramutatasi in questi la vergogna in furore, si diedero a congiurar contro di lui peggio di prima.[306] Non mancavano, è vero, pii e santi monaci, che predicavano la pace e la conciliazione; ma il meglio che essi ottennero, fu di arrestare talvolta l'effettuazione di qualche vendetta già preparata, non mai però d'impedire che se ne meditassero delle nuove. Nelle novelle non è raro il caso di veder anche questa momentanea influenza della religione, che suscita improvvisi slanci di generosità, ma che poi cede di nuovo ai vecchi rancori e ad una passione, che ha in sè qualche cosa di quasi fatale. Il Papa stesso non potè sempre dire di esservi riuscito, quando si propose di condurre ad effetto una qualche pacificazione. Papa Paolo II voleva che cessassero gli odii fra Antonio Caffarello e la casa Alberino, e perciò chiamò a sè il Caffarello stesso e Giovanni Alberino e comandò loro di baciarsi l'un l'altro alla sua presenza, intimando a ciascuno una multa di 2000 ducati, se avesse comecchessia offeso il suo avversario; e due giorni dopo Antonio fu pugnalato per mano di Giacomo Alberino, figlio di Giovanni, che da [224] lui era stato prima ferito, e papa Paolo ne risentì sdegno e fece confiscare i beni all'Alberino e abbatterne le case e bandire il padre ed il figlio da Roma.[307] I giuramenti e le ceremonie solenni, colle quali i riconciliati aveano cura di garantirsi ciascuno da una nuova sorpresa, sono talvolta spaventevoli: quando nella notte di s. Silvestro dell'anno 1492 nel duomo di Siena[308] i partiti dei «Nove» e dei «Popolari» dovettero a due a due darsi il bacio di pace, fu letto durante quell'atto un giuramento «così strano e terribile, che non s'è mai udito l'eguale»: ai violatori di esso s'imprecavano da Dio tutte le pene temporali ed eterne, e la maledizione nelle estreme agonie della morte. È evidente che simili fatti accennano piuttosto ad una condizione d'animo disperata da parte dei mediatori, anzichè ad una vera garanzia della pace, e che appunto le riconciliazioni le più sincere erano quelle, che meno delle altre avean d'uopo di tali giuramenti.

Ora il bisogno individuale della vendetta nell'uomo colto ed alto-locato, basandosi sull'esempio efficace di una analoga usanza popolare, si manifesta naturalmente sotto mille aspetti, e dalla pubblica opinione, che qui parla per bocca di novellieri, è senza riserva alcuna approvato.[309] Tutti convengono in questo, che rispetto a quelle ingiurie ed offese, per le quali la giustizia non procaccia veruna riparazione, e specialmente poi rispetto a quelle, per le quali non c'è, nè ci può essere il braccio vindice [225] di nessuna legge, ognuno può farsi ragione da sè. Bensì la vendetta deve compiersi con una certa destrezza e la soddisfazione risultare da un danno effettivo e da una umiliazione morale inflitta all'offensore, non riguardandosi un atto qualunque di brutale violenza come una vera e conveniente vendetta. Non il braccio soltanto, ma tutto l'uomo deve trionfare.

L'Italiano di questo tempo è capace di una profonda simulazione per raggiungere certi scopi determinati, ma non mai di un atto qualsiasi d'ipocrisia in questioni di principii nè dinanzi agli altri, nè dinanzi a sè stesso. Ecco perchè, con una ingenuità affatto caratteristica, si ammette questa specie di vendetta come un vero bisogno. Uomini del resto tutt'altro che esaltati la lodano quando, disgiunta dalla passione, e non avendo in mira che di approfittare dell'opportunità, si esercita soltanto «perchè gli altri imparino a non ti offendere».[310] Però tali casi sembrano assai rari in confronto di quelli, nei quali la passione cerca uno sfogo. È chiaro da sè che questo genere di vendetta si differenzia dalla vendetta di sangue propriamente detta: infatti, mentre quest'ultima si tiene ancora entro i limiti della rappresaglia o, se si vuole, del jus talionis, la prima necessariamente va molto più in là, non solamente esigendo una soddisfazione di stretto diritto, ma cercando anche di provocare l'ammirazione e, secondo le circostanze, di spargere perfino il ridicolo sull'offensore.

In ciò sta anche la ragione dell'indugio, talvolta lungo, che si frappone all'esecuzione. Per una «bella vendetta» si esige di regola un concorso di circostanze, che il tempo [226] soltanto può maturare. E questo appunto è il tema favorito di molte novelle.

Qual moralità ci potesse essere in azioni, nelle quali l'accusatore e il giudice sono una sola ed identica persona, non occorre di dirlo. Che se pur si volesse comecchessia giustificare questa passione ardente, che divorava gl'Italiani d'allora, ciò non potrebbe farsi se non col contrapporvi qualche corrispondente virtù nazionale, per esempio, la riconoscenza; dovendosi presumere, che quella stessa fantasia, che rinfresca e ingrandisce la memoria dei torti sofferti, sia anche in grado di tener viva la memoria del beneficio ricevuto.[311] Ma le prove di fatto a questo riguardo sono impossibili, sebbene non ne manchino indizi molto spiccati nel carattere attuale della nazione, quale, ad esempio, la grande riconoscenza con cui le classi inferiori accolgono ogni dimostrazione di benevolenza verso di loro, e la grata memoria che conservano le superiori di ogni cortesia ricevuta nei sociali convegni.

Ora questo rapporto della fantasia colle qualità morali degl'Italiani si riproduce continuamente. E se anche nei singoli casi, in cui l'uomo del nord segue piuttosto l'impulso suo naturale, l'Italiano invece sembra seguire unicamente la norma di un freddo calcolo, ciò non dipende da altro, fuorchè da un sentimento d'individualismo, che in quest'ultimo è infinitamente più sviluppato. Anche fuori d'Italia, dovunque un fatto identico si verifica, identici sono pure gli effetti: l'allontanarsi, per esempio, assai per tempo dalla propria casa e il sottrarsi [227] all'autorità paterna è una tendenza comune tanto alla gioventù italiana, quanto a quella dell'America settentrionale. Più tardi nelle indoli più generose a questa tendenza subentra uno slancio spontaneo di pietà figliale e di affetto reciproco.

In generale egli è difficilissimo il portar un giudizio esatto sulle qualità morali di una nazione, che non sia la propria. Queste qualità possono manifestarsi in un modo così singolare, che uno straniero sia assolutamente incapace di riconoscerle e di apprezzarle. Forse in questo riguardo tutte le nazioni occidentali d'Europa hanno, ciascuna, prerogative lor proprie e che non si riscontrano nelle altre.


Ma dove la fantasia esercita un fascino prepotente e quasi tirannico nelle cose della morale, egli è appunto nei rapporti illeciti de' due sessi, nell'amore considerato come passione sensuale. Che la prostituzione esistesse anche nel medio-evo prima della comparsa della sifilide, è cosa notissima, nè d'altronde potrebbe essere del nostro assunto l'addurne le prove. Ma nell'Italia del Rinascimento c'è questo di proprio, che il matrimonio e i suoi diritti, forse più che altrove, e in ogni caso più deliberatamente che altrove, vengono calpestati. Le fanciulle, specialmente quelle delle classi più elevate, guardate gelosamente, non figurano mai sulla scena: la passione dominante non è che per le donne coniugate.

Accanto ad un tal fatto più notevole parrà la circostanza che i matrimoni non scemassero punto e che la vita di famiglia non ne soffrisse veruno di que' danni, che in altri paesi in casi simili non avrebbero mancato di manifestarsi. Si voleva assolutamente vivere a proprio talento, ma non per questo rinunciare alla famiglia, anche [228] quando c'era qualche ragione di temere, che non fosse del tutto propria. E non si nota neanche verun sintomo di decadenza fisica o morale, come tale, — poichè di quell'apparente deterioramento morale, di cui si veggono le tracce verso la metà del secolo XVI, non è difficile trovare altre cause tutte d'indole politica, e religiosa, anche quando non si voglia concedere, che il Rinascimento avesse oggimai percorso l'intero stadio della sua vita ed esaurito tutte le fonti della propria attività. Gli Italiani continuarono, ad onta di tutti i loro disordini, ad appartenere alle popolazioni più sane di corpo e di mente di tutta Europa,[312] e notoriamente conservano anche oggidì questa loro prerogativa, dopochè hanno considerevolmente migliorato i loro costumi.

Ora, se noi ci facciamo a studiare più dappresso la morale dell'amore all'epoca del Rinascimento, non potremo a prima vista non restar profondamente colpiti dal notevole antagonismo, che si manifesta nelle testimonianze che ne parlano. I novellieri e i poeti comici ci lascierebbero credere, che l'amore non consistesse che nel piacere, e che ad ottenerlo tutti i mezzi, tragici o comici, fossero non solo leciti, ma anche tanto più degni d'ammirazione, quanto più audaci e arrischiati. Se invece si leggono i migliori lirici di quel tempo e gli scrittori di dialoghi, desta veramente maraviglia l'entusiasmo, la profondità e la purità, con cui intendono questa passione, anzi si può dire di trovarne in essi l'ultima e la più sublime espressione, quando li veggiamo riprodurre le idee [229] degli antichi di una originaria unità delle anime nell'Essere supremo e divino. E tanto l'un modo di vedere che l'altro sono a quel tempo veri e sentiti nello stesso individuo. Non è invero cosa lodevole, ma sta di fatto, che nell'uomo colto del tempo moderno non solo esistono contemporaneamente e tacitamente diversi gradi di sentimento, ma si manifestano anche apertamente e, secondo le circostanze, anche artisticamente. L'uomo moderno soltanto, al pari dell'antico, è anche in questo riguardo un microcosmo, ciò che non era nè poteva essere quello del medio-evo.

Innanzi tutto merita d'essere studiata la morale delle novelle. Nella maggior parte di esse le donne che vi figurano, sono coniugate; trattasi adunque di veri adulterii.


Qui acquista una grande importanza ciò che altrove (v. pag. 165 e segg.) s'è detto sulla posizione della donna, uguale in tutto a quella dell'uomo. La donna, più altamente educata e pienamente conscia della sua individualità, dispone di se con una padronanza affatto diversa che non al nord, e l'infedeltà non vi produce una perdita così completa della sua riputazione, qualora essa possa guarentirsi dalle conseguenze visibili della medesima. Il diritto del marito alla di lei fedeltà non ha quella solida base, che esso acquista nel nord mediante la poesia e la passione del periodo dell'innamoramento e degli sponsali; dopo una conoscenza affatto superficiale, la giovane sposa passa nel mondo dalla vigile custodia paterna o dal chiostro, e allora soltanto la sua individualità riceve uno sviluppo rapido e quasi inatteso. In conseguenza di ciò il diritto del marito è pur sempre un diritto condizionato, ed anche chi lo riguarda come un jus quaesitum, si riferisce più particolarmente alle modalità esterne [230] del contratto, anzichè ai sentimenti del cuore. Una donna giovane e bella, divenuta moglie di un vecchio, respinge, ad esempio, i doni e le ambasciate di un giovane amante col fermo proposito di conservare la sua honestà. Ma essa si compiace nondimeno dell'amore del giovane per le sue molte virtù, «conoscendo che può amare cortese donna virtuoso spirito, senza pregiudicio della sua honestà».[313] — Tuttavia, quanto non è breve la via da una tale distinzione ad una completa caduta!

Quest'ultima sembra giustificata, quando vi sia di mezzo l'infedeltà reciproca del marito. La donna, conscia della propria dignità, sente in quella offesa non solo un dolore, ma un insulto ed una umiliazione, e non volendo lasciarsi vincere in astuzia, medita di sangue freddo una vendetta. Dipende poi dalla sua discrezione, che la pena sia proporzionata alla colpa dell'offensore. La più grande offesa, per esempio, può talvolta appianare la via ad una pacifica convivenza per l'avvenire, quando rimanga completamente segreta. I novellieri, che ciò non ostante la vengano a risapere o che, secondo lo spirito del tempo, la inventano, non mancano di esprimere la loro piena ammirazione, ogni volta che la vendetta è veramente pari all'offesa, o, in altre parole, è pensata e condotta come una vera opera d'arte. S'intende da sè, che il marito non riconosce in sostanza mai un tale diritto di rappresaglia, e vi si rassegna soltanto, quando ragioni di paura o di prudenza glielo consigliano. Che se queste manchino affatto, ed egli per l'infedeltà della moglie si vegga esposto al pericolo di venir beffato dai terzi, la cosa muta aspetto all'istante e può anche divenir tragica, [231] non essendo raro il caso che all'adulterio tenga dietro l'assassinio o qualsiasi altra più atroce vendetta. In tali casi non è degno di poca considerazione il fatto che, oltre il marito, anche il fratello,[314] il padre della donna vi si credano autorizzati, anzi obbligati: ciò mostra che il movente principale non è già la gelosia, nè tampoco il sentimento morale che si trovi offeso, ma bensì il desiderio di far pagare ai terzi il fio dei loro scherni e motteggi. «Oggi, dice il Bandello,[315] si vede quella, per aver più largo campo a' suoi appetiti, avvelenare il marito, come se le fosse lecito, essendo vedova, far quanto le aggrada. Quell'altra, dubitando che il marito non discopra gli amori che ella fa, per via dell'amante lo fa ammazzare.... E quantunque i padri, i fratelli, i mariti molte di loro (per levarsi dagli occhi il manifesto vituperio, che rende loro la malvagia vita delle figliuole, sorelle e mogli) con veleno, con ferro e con altri mezzi facciano morire; non resta per questo, che molte di loro, sprezzata la vita e l'onore, non si lascino dagli sfrenati appetiti trasportare in qualche nuovo fallo». Un'altra volta, in tuono meno severo, esclama: «piacesse al cielo che non si sentisse ogn'ora: il tale ha morto la moglie, perchè dubitava che non gli fosse fedele; quell'altro ha soffocato la figliuola, perchè [232] di nascosto s'era maritata; e colui ha fatto uccidere la sorella, perchè non s'è maritata come egli avrebbe voluto. Questa è pur certamente una gran crudeltà, che noi vogliamo tuttociò che ci vien in animo, fare, e non vogliamo che le povere donne possano fare a lor voglia cosa che sia; e se fanno cosa alcuna, che a noi non piaccia, subito si viene ai lacci, al ferro e ai veleni.... Invero grave sciocchezza quella degli uomini mi pare, che vogliono, che l'onor loro e di tutta la casata consista nell'appetito di una donna!» Pur troppo talvolta si sapeva già in anticipazione l'esito di simili cose con tale sicurezza, che il novelliere poteva mettere una taglia sulla vita di un amante, minacciato ancora, mentre questi se ne andava attorno vivo. Il medico Antonio Bologna[316] s'era sposato segretamente colla duchessa vedova di Amalfi della casa d'Aragona: già i di lei fratelli l'aveano potuta, insieme ai figli, riavere in loro potere e l'avean fatta uccidere in un castello. Antonio, che non sapeva ancora quest'ultima circostanza, e che veniva lusingato con speranze di riaverla, trovavasi a Milano, dove era insidiato da prezzolati sicari, e una volta nella società di Ippolita Sforza cantò sul liuto la storia delle sue sventure. Un amico della detta casa, Delio, «narrò a Scipione Atellano tutta l'istoria, e aggiunse che voleva metterla in una delle sue novelle, sapendo di certo che il povero Bologna sarebbe ammazzato». Il modo con cui ciò accadde quasi sotto gli occhi di Delio e di Atellano, è narrato dal Bandello in una novella assai commovente (I, 26).

Ma in mezzo a tuttociò i novellieri mostrano qua e là di compiacersi in modo particolare di ogni tratto spiritoso, [233] astuto e comico, che accompagni l'adulterio, e assai volentieri si trattengono a narrar gli artificj, coi quali taluno è giunto a penetrar di soppiatto in qualche casa, i segnali simbolici e le ambasciate che si fanno gli amanti, le casse provvedute anticipatamente di guanciali e confetture per potervi celare il drudo e farlo trasportare altrove e così via. Il burlato marito vien dipinto, secondo le circostanze, o come un personaggio per sè stesso ridicolo o come un terribile vendicatore, nè c'è altra alternativa, sia che la donna figuri come malvagia e crudele o l'amante come vittima innocente. Ma i racconti di quest'ultima specie non sono vere novelle, bensì esempi terribili attinti alla vita reale.[317]

Quando la vita italiana nel corso del secolo XVI assunse un carattere al tutto spagnuolo, la gelosia estremamente violenta nei mezzi forse aumentò, ma non si deve confonderla colla rappresaglia già esistente anteriormente e fondata nello spirito stesso del Rinascimento italiano. Più tardi, diminuendo l'influsso della civiltà spagnuola, diminuirono anche quegli eccessivi furori sino a che sul finire del secolo XVII si giunse a tal punto di apatica indifferenza, che il Cicisbeo fu riguardato come un personaggio indispensabile in ogni famiglia, ed oltre a ciò si tollerarono uno od anche parecchi Patiti.

Or chi vorrà istituire un confronto fra tanta immoralità e ciò che avveniva negli altri paesi? Nel secolo XV, ad esempio, era il matrimonio in Francia forse più sacro che non Italia? I fabliaux e le farse permettono di dubitarne, e si è tentati di ritenere che l'immoralità non vi fosse meno frequente, ma che soltanto le conseguenze tragiche vi fossero meno rare, perchè l'individuo era [234] meno sviluppato ed aveva minori pretese che non in Italia. Piuttosto s'avrebbe qualche testimonianza alquanto più favorevole riguardo ai popoli germanici, nella maggiore libertà concessa nei rapporti sociali alle donne ed alle fanciulle, che fu causa di così grata sorpresa agli Italiani in Inghilterra e nei Paesi Bassi (v. pag. 170 nota). Tuttavia anche a ciò non si deve dare un peso eccessivo. Certamente l'infedeltà era molto frequente anche in Germania e condusse spesso anche quivi a deplorevoli eccessi. Basta osservare come i principi del nord, al menomo sospetto, si sbarazzavano a questo tempo delle loro mogli.


Ma nella cerchia delle cose illecite presso gl'Italiani d'allora non havvi soltanto l'amore sensuale, il grossolano appetito dell'uomo volgare, ma anche la passione degli spiriti più elevati e generosi; non solamente perchè in quella società mancavano affatto le fanciulle, ma anche perchè l'uomo, quanto più era perfetto, tanto maggiormente si sentiva attratto dalle qualità della donna, che nel matrimonio avea raggiunto il pieno sviluppo della propria personalità. Questi uomini sono appunto quelli, che hanno sollevato la poesia lirica alle sue più alte ispirazioni, e che tentarono anche nei trattati e nei dialoghi di dare un'immagine spirituale alla passione che li divorava, dipingendola come un amore divino troppo spesso franteso, e quindi calunniato, dai posteri, ma creduto e rispettato dai coetanei. Quand'essi si lagnano della crudeltà del dio alato, non intendono lagnarsi con ciò soltanto della durezza della loro bella o dell'eccessiva sua riservatezza, ma anche della illegittimità della loro passione. Essi cercano di sollevarsi al di sopra di questa sciagura spiritualizzando l'amore ed appoggiandosi alla [235] dottrina dell'amore platonico, ed ebbero in Pietro Bembo il loro più illustre rappresentante. Le sue opinioni in proposito ci son fatte manifeste da quanto egli stesso scrive nel terzo libro de' suoi «Asolani» e dallo splendido discorso, che gli è posto in bocca dal Castiglione sulla fine del quarto libro del «Cortigiano». Nè l'uno, nè l'altro di questi autori professò nella sua vita le massime di un rigido stoicismo, ma per quel tempo era pur sempre qualche cosa, se contemporaneamente si poteva essere celebre e buono, e all'uno e all'altro di questi due titoli hanno diritto entrambi. I contemporanei credettero alla verità dei loro sentimenti; qual diritto potremmo aver noi di metterli in dubbio? Chiunque si dia la pena di leggere nel Cortigiano l'intiero discorso citato, vedrà immediatamente come sarebbe impossibile darne un'idea per mezzo di un semplice compendio od estratto. In allora viveano alcune illustri donne in Italia, le quali dovettero la loro celebrità appunto a questo genere di amori; tali furono Giulia Gonzaga, Veronica da Correggio, e più particolarmente ancora Vittoria Colonna. Il paese e l'età in cui nacquero i dissoluti e i beffatori più famosi, rispettò quei sentimenti e quelle donne, che seppero ispirarli: che cosa si potrebbe dire di più in loro lode? O si dirà per avventura, che il movente principale di tutto ciò era la vanità, e che Vittoria si sentisse oltremodo lusingata dalle espressioni le più esagerate di un amore senza speranze? Ma, se anche la cosa qua e colà era, più che altro, una moda, non piccola lode per Vittoria sarà pur sempre che, uniformandovisi, sia ciò non ostante riuscita a lasciare di sè una traccia così profonda anche nella più tarda posterità. — Ci volle del bel tempo prima che negli altri paesi s'incontrassero personalità tanto spiccate.

[236]

La fantasia, che domina gl'Italiani più degli altri popoli, fu poi in generale la causa che ogni passione trascorse presso di loro agli eccessi più riprovevoli e, secondo le circostanze, ricorse anche al delitto per riuscire nei propri intenti. Havvi una violenza figlia della debolezza, che non sa padroneggiare sè stessa: qui invece trattasi di un abuso brutale della forza. Talvolta esso raggiunge proporzioni gigantesche, e il delitto allora prende una forma e quasi una personificazione sua propria e speciale.


I ritegni vengono meno ogni dì più. All'azione dello Stato, basato sull'illegittimità e surto dalla violenza, ognuno, anche l'infimo della plebe, si crede autorizzato di sottrarsi, e nessuno ha fede in generale nel diritto e nella giustizia. Ad ogni delitto, prima ancora che se ne conoscano le circostanze, le simpatie di tutti involontariamente si volgono al colpevole:[318] il supplizio virilmente sopportato eccita talmente l'ammirazione, che quelli che lo narrano, facilmente dimenticano di accennare la causa, per cui venne inflitto.[319] Se poi accade talvolta che al profondo disprezzo della giustizia e alle molte vendette commesse in privato s'aggiunga anche l'impunità, come per avventura in tempi di politici commovimenti, si crederebbe addirittura che lo Stato e la vita civile sieno sul [237] punto di sfasciarsi completamente. Tali momenti ebbe Napoli nel trapassare dalla signoria aragonese alla francese ed alla spagnuola, e tali li ebbe pure Milano nelle frequenti espulsioni degli Sforza e nei loro ritorni. Egli è in allora che vengono a galla quegli uomini, che nel loro segreto non hanno mai accettato nessun vincolo di leggi politiche e civili e che, giunta l'occasione, s'abbandonano brutalmente ai loro selvaggi istinti di rapina e di sangue. Vediamone un saggio desunto da una sfera d'azione delle più ristrette.

Allorquando lo Stato di Milano sin dal 1480 sofferse una grave scossa per le crisi interne scoppiate dopo la morte di Galeazzo Maria Sforza, nelle città di provincia venne tosto a mancare ogni sicurezza. Una ben dura prova ne fece Parma,[320] dove il governatore milanese, atterrito da minacce di morte, s'indusse a permettere che fossero tratti dal carcere alcuni facinorosi, e dove, dopo ciò, i furti, gl'incendii, gli assassinj commessi in pubblico divennero delitti quotidiani, mentre di notte circolavano per la città intere bande di malfattori armati e mascherati; — per non dire delle burle, delle satire e delle lettere minatorie, nonchè di un famoso sonetto diretto a spargere il ridicolo sull'autorità, che naturalmente se ne commosse più che d'ogni altra cosa. Il fatto poi che in molte chiese furono rubati i vasi sacri con entro le ostie consacrate, rivela un altro lato di quei misfatti, l'empietà. Ora egli è impossibile indovinare che cosa accadrebbe in qualunque paese del mondo anche oggidì, se per un momento restasse sospesa l'azione del potere civile e politico, e nel medesimo tempo la sua presenza [238] rendesse impossibile la formazione d'un governo provvisorio; ma ciò che allora in simili occasioni accadeva in Italia assume un carattere affatto particolare, per la parte notevole che vi avevano le vendette.

In generale l'impressione che si riceve dall'Italia del Rinascimento è questa, che anche in tempi ordinari, i grandi delitti vi furono più frequenti, che altrove. Vero è, che in ciò potrebbe esservi un errore prodotto dalla circostanza, che qui proporzionatamente noi conosciamo un numero di fatti speciali molto maggiore che in qualsiasi altro paese, e che la fantasia, esaltandosi nella contemplazione del delitto reale, facilmente trascorre a inventare anche ciò, che non è effettivamente accaduto. Può darsi quindi che la somma delle violenze commesse raggiunga una cifra uguale anche altrove. Infatti chi potrebbe dire se (per esempio) le condizioni, in cui si trovava intorno al 1500 la Germania, più ricca e potente, fossero, fra tanti vagabondi masnadieri e cavalieri di ventura, migliori, o se la vita e la sicurezza individuale vi fossero meglio guarentite e protette? Ma tutto ciò in ogni caso non distruggerebbe il fatto, che il delitto premeditato, pagato, eseguito di terza mano e divenuto una speculazione o un mestiere, in Italia avea guadagnato a quel tempo proporzioni larghissime e veramente spaventevoli.


Se innanzi tutto diamo uno sguardo al malandrinaggio, l'Italia forse non ce ne parrà, almeno nelle regioni più fortunate, quale, ad esempio, la Toscana, tanto infestata, quanto erano a quel tempo la maggior parte dei paesi del nord. Ma nessun paese estero offre tipi di masnadieri, che s'assomiglino a quelli che dà l'Italia. Dove trovare, per esempio, un uomo pari a quell'ecclesiastico [239] fatto selvaggio dalle passioni e a poco a poco divenuto capo di una schiera di banditi, di cui ci tengono parola le cronache ferraresi di questo tempo?[321] Il dì 12 agosto 1493, narrano esse, fu chiuso in una gabbia di ferro il prete don Nicolò de' Pelagati da Ficarolo. Egli avea celebrato la sua prima Messa due volte; ma la prima commise il giorno stesso un omicidio, da cui poscia Roma l'assolse: in seguito uccise quattro persone, e sposò due donne, che lo seguivano costantemente dovunque: ebbe parte a molte altre uccisioni, violò parecchie altre donne, togliendole a forza dalle loro case, esercitò la rapina come un mestiere e su larga scala, assassinò e s'aggirò pel ferrarese con una banda d'armati rivestiti d'uniforme lor propria, procacciandosi ricovero e nutrimento con lo sterminio e la prepotenza. Se, in aggiunta a tutto questo, s'immagina il resto che non è detto, si avrà un tal cumulo di delitti, che forse l'uguale non pesò mai sulla coscienza di verun uomo. Ma la poca sorveglianza in che erano tenuti da un lato e i molti privilegi di che erano favoriti dall'altro, furono causa che i malfattori abbondassero tra i chierici e i monaci, quand'anche di nessun altro ci vengano raccontate infamie simili a quelle del Pelagati. — Accadeva anche talvolta, e nemmen questa certamente era cosa onorevole pei conventi, che uomini di riputazione affatto perduta si rifugiassero sotto l'egida del cappuccio o della cocolla per sottrarsi alle giuste vendette del potere secolare, e il Masuccio ci parla appunto di uno di questi tali, ch'egli ebbe occasione di [240] conoscere in un convento di Napoli.[322] Anche di papa Giovanni XXII parrebbero esistere precedenti poco onorevoli, ma non si hanno sufficienti prove per affermarlo con sicurezza.[323]

Del resto l'epoca classica dei più famosi capi di bande armate d'assassini non comincia che nel secolo XVII, quando i partiti politici dei guelfi e dei ghibellini, degli spagnuoli e dei francesi avean cessato di agitare il paese: in allora il masnadiere si sostituì dovunque al parteggiatore politico.

In certe regioni d'Italia, dove la cultura non penetrò mai, gli abitanti del contado vivevano in istato di permanente barbarie e non risparmiavano nessun forastiero, che capitasse loro tra mano. Ciò accadde più particolarmente nelle parti più remote del regno di Napoli, dove la barbarie era di vecchia data e risaliva all'epoca dei grandi latifondi romani, e dove pare che in tutta buona fede si riguardassero come qualche cosa di identico l'uomo straniero e il nemico (hospes ed hostis). Queste genti erano tutt'altro che irreligiose: egli accadeva sovente che un pastore tutto contrito si presentasse al confessore per accusarsi che, durante l'epoca del digiuno quaresimale, facendo il cacio, un paio di gocce di latte gli erano spruzzate in bocca. Ma se anche in tali occasioni il confessore stesso, esperto dei costumi del paese, giungeva [241] a strappargli altresì la confessione, che spesso co' suoi compagni egli aveva aggredito ed ucciso dei viaggiatori, ciò, appunto perchè d'uso, non suscitava in lui verun rimorso di coscienza.[324] Sino a qual punto, in tempi di politici commovimenti, i contadini fossero capaci di spingere in altri paesi la ferocia, è stato già altrove accennato (v. pag. 107).

Un tratto caratteristico ancor peggiore dei costumi d'allora è la frequenza del delitto commesso di seconda mano, per mercede convenuta. In ciò, per consenso di tutti, Napoli andava innanzi a qualunque altra città d'Italia. «Qui non v'ha cosa che possa aversi a tanto buon mercato, quanto la vita di un uomo», scrive il Pontano.[325] Ma anche altri paesi hanno una ricchezza spaventevole in tal genere di misfatti: soltanto non è così facile il classificarli secondo i motivi che li provocarono, entrandovi promiscuamente l'odio di parte, l'inimicizia personale, la sete della vendetta e la paura. Torna invece a grande onore de' Fiorentini, il popolo allora più colto d'Italia, che presso di loro simili fatti fossero di gran lunga meno frequenti,[326] forse perchè pei giusti reclami [242] v'era ancora una autorità universalmente riconosciuta e rispettata, e perchè la maggior cultura suggeriva più sane idee sull'arbitrario ingerirsi dell'uomo nelle leggi supreme del fato. Infatti se v'era paese, dove più si calcolassero le sinistre conseguenze di una vendetta di sangue e dove si comprendesse come anche il delitto erroneamente detto utile non apporta mai veri e durevoli vantaggi, quest'era certamente Firenze. Dopo la caduta della libertà fiorentina l'omicidio, specialmente quello per mandato, sembra essersi rapidamente moltiplicato, ma il governo di Cosimo I non tardò molto ad acquistar forze tali, che la sua polizia bastò a porre un freno ad ogni disordine.[327]

Nel resto d'Italia i misfatti pagati furono in generale più o meno frequenti, secondo che si trovarono più o meno numerosi coloro che li compravano. Sarebbe un tentativo inutile il volerne dare un quadro statistico, ma la somma resta sempre considerevole, quand'anche si voglia ammettere che in tutti i casi di morte, che la voce pubblica proclamava come opera della violenza, una piccola parte soltanto sia da riguardar come tale. Il peggio si è che i principi e i governi erano i primi a dare il cattivo esempio, calcolando addirittura l'assassinio come uno dei mezzi più efficaci per salire in potenza e per mantenervisi. Per avere le prove non occorre pensare ad un Cesare Borgia: anche gli Sforza, gli Aragonesi, e più tardi gli stessi agenti di Carlo V si permettevano ogni genere di violenza, purchè paresse utile ai loro scopi.

La mente degli Italiani si venne a poco a poco abituando a tali fatti per guisa che, verificandosi la morte [243] di un potente, non la si credeva quasi mai naturale. Ma egli è certo però, che talvolta si è esagerato di molto rispetto all'efficacia di certi veleni. Anche ammettendo che la famosa polvere bianca dei Borgia (v. vol. I, pag. 157) fosse un veleno, di cui si poteva calcolare l'effetto dentro un determinato spazio di tempo, e che come tale possa riguardarsi altresì il venenum atterminatum, che si dice avere il principe di Salerno presentato al cardinale d'Aragona con queste parole: «in pochi giorni tu morrai, perchè sei figlio di Ferrante che ci voleva calpestar tutti»,[328] — non si potrebbe tuttavia aggiustar troppa fede a quanto vien riferito intorno ad una lettera avvelenata, che Caterina Riario avrebbe mandata al papa Alessandro VI,[329] e che l'avrebbe ucciso s'egli soltanto l'avesse aperta: e di questo stesso parere sembra essere stato Alfonso il Magnanimo, quando, avvertito dai medici di non leggere il Tito Livio mandatogli a regalare da Cosimo de' Medici, rispose loro: «finitela con questi discorsi insensati».[330] Altrettanto dicasi del veleno, col quale il segretario del Piccinino voleva solo leggermente ungere la sedia gestatoria del papa Pio II.[331] — Quanto in generale fosse esteso l'uso di veleni minerali o vegetali, non si potrebbe dire con qualche [244] apparenza di sicurezza: il liquido, col quale il pittore Rosso Fiorentino si tolse la vita (1541), era evidentemente un fortissimo acido,[332] che a niuno s'avrebbe potuto far trangugiare inavvertitamente. — Quanto all'uso delle armi, specialmente del pugnale, per qualche segreta vendetta, pur troppo l'occasione si presentava da sè frequentissima ai grandi di Milano, di Napoli e d'altri siti, poichè fra le schiere d'armati, di cui doveano circondarsi per loro propria difesa, la sete del sangue era alimentata dall'ozio stesso, cui erano condannati. Più di un assassinio non si sarebbe probabilmente commesso, se non si avesse saputo che, per effettuarlo, bastava un semplice cenno a questo od a quello dei propri satelliti.

Fra i mezzi segreti di nuocere, almeno coll'intenzione, eranvi anche le arti magiche,[333] benchè in modo [245] affatto secondario. Quando per avventura si fa menzione di maleficj, di malìe e simili, d'ordinario non si ha in vista che di accumulare sopra un individuo, già di per sè inviso e abborrito, tutte le colpe immaginabili. Alle corti di Francia e d'Inghilterra nei secoli XIV e XV il maleficio veramente funesto e mortale ha una parte molto maggiore, che non nelle classi più elevate d'Italia.


Finalmente ella è pure una specialità tutta propria di questo paese, dove l'individualità tocca ad un grado di sì completo sviluppo, la comparsa d'uomini, nei quali la scelleratezza è portata al colmo, e che commettono il delitto per il delitto, o come mezzo al conseguimento di scopi sì perversi, che escono tutt'affatto dalla norma consueta dei delitti umani.

A questa schiera d'uomini spaventevoli sembrano innanzi tutto appartenere alcuni Condottieri,[334] un Braccio da Montone, un Tiberio Brandolino, ed anche un Werner von Urslingen, che sulla sua corazza argentea portava il motto: «nemico di Dio, e d'ogni pietà e misericordia.» In generale questa classe di persone rappresenta nel complesso i primi malfattori, che non vogliono riconoscere il freno di qualsiasi legge. Ma si andrà un po' più a rilento nel giudicarli, quando si sappia che il massimo dei loro delitti — nell'opinione dei cronisti — sta nel [246] mantenersi ribelli alla scomunica papale, e che tutta la loro personalità appare in una luce tanto sinistra specialmente per questo fatto, sebbene però sia anche vero che in Braccio tali sentimenti anti-religiosi erano portati a tal punto di esagerazione, che, ad esempio, egli montava in furore all'udire i monaci cantare i salmi e li faceva precipitare dall'alto di una torre,[335] «mentre co' suoi soldati si mostrò sempre mite, quanto leale e prode capitano». Ma di regola ciò che spinse al delitto i Condottieri sembra essere stata l'avidità del guadagno, nè per altra parte mancò di contribuirvi la stessa loro posizione altamente immorale; ed anche gli atti di crudeltà, ai quali sembravano trascorrere per puro capriccio, non erano quasi mai senza uno scopo, fosse pure anche soltanto quello di incutere spavento nelle moltitudini. Le efferatezze degli Aragonesi, come già s'è veduto (v. vol. I, pag. 48, 49), ebbero il loro movente principale nella sete di vendetta e nella paura. Un furor sanguinario quasi senza scopo, una gioja infernale nel male si riscontrerà in Cesare Borgia, spagnuolo, le cui immanità superano di gran lunga gli scellerati intenti, ai quali le faceva servire (v. vol. I, pag. 152). Poscia una speciale compiacenza nel delitto scorgesi in Sigismondo Malatesta, tiranno di Rimini (v. vol. I, pag. 44 e 301), cui non la Curia romana soltanto,[336] ma il giudizio terribile della storia accusa di assassinj, di violenze, di adulterj, di spergiuri e di tradimenti, ripetuti anche più volte. Quanto al fatto più orribile, la tentata violazione del proprio figlio Roberto, che questi respinse colla spada sguainata alla [247] mano,[337] parrebbe essere stata non tanto l'effetto di una depravazione che vince ogni limite, quanto di una superstizione astrologica o magica. La stessa cosa s'è supposta per spiegare la violenza usata al vescovo di Fano da Pier Luigi Farnese di Parma, figlio di Paolo III.[338]


Ora se noi, dopo tutto questo, possiamo permetterci di raccogliere insieme i tratti principali del carattere degli Italiani d'allora, quale ci vien fatto conoscere da uno studio della vita delle classi più elevate, se ne potrebbero per avventura dedurre le conclusioni seguenti. Il vizio fondamentale di esso carattere fu la condizione stessa della sua grandezza; l'individualismo soverchiamente sviluppato. Questo si ribella dapprima tacitamente all'ordinamento politico sussistente, per lo più tirannico ed illegittimo, e quanto pensa e fa, gli viene, a ragione o a torto, ascritto a tradimento. Alla vista dell'egoismo che trionfa, esso comincia, nell'interesse proprio, la difesa del diritto, e colla vendetta che esercita, cade in braccio ai ciechi istinti, mentre crede di ristabilire la sua pace interna. L'amore va in traccia di un altra individualità ugualmente sviluppata, la donna altrui. Di fronte ad ogni obiettività, e ad ostacoli e leggi d'ogni maniera, esso ha il sentimento della propria autonomia ed opera conformemente ad esso in ogni singolo caso, secondo che nel suo interno riescono a conciliarsi il sentimento dell'onore e la cura del proprio interesse, un astuto calcolo e la passione, la generosità e il desiderio della vendetta.

[248]

Ma se l'egoismo, tanto nel senso più largo che nel più ristretto, è la radice e la fonte principale d'ogni scelleratezza, non v'ha dubbio che il popolo italiano, giunto allora a tal grado di sviluppo individuale, vi andò più dappresso che qualunque altro popolo.

Esso però non giunse a questo sviluppo per colpa sua, ma bensì per decreto della storia; nè ci arrivò solo, poichè, per mezzo della cultura italiana, ci arrivarono con lui tutti i popoli d'occidente, i quali da quel tempo in poi non vivono, nè si movono in verun altro ambiente. Questa tendenza, per sè stessa, non è nè bene, nè male, ma una necessità, che fe' nascere un'idea del bene e del male essenzialmente diversa da quella del medio-evo.

L'Italiano del Rinascimento dovette affrontare pel primo l'urto violento di quella nuova êra mondiale. Colle sue doti e le sue passioni, egli divenne il più notevole rappresentante di tutte le altezze e di tutti gli abissi del suo tempo. Vicino alla più profonda corruzione si svolse la più nobile armonia della personalità, ed un'arte gloriosa che esaltò la vita individuale ad un punto, cui non seppero o non vollero pervenire nè l'antichità, nè il medio-evo.

[249]

CAPITOLO II. La Religione nella vita quotidiana.

Difetto di una riforma. — Posizione degl'Italiani di fronte alla Chiesa. — Odio contro la gerarchia e le fraterìe. — I frati mendicanti. — L'Inquisizione domenicana. — Gli ordini religiosi superiori. — Abituale ingerenza della Chiesa e de' suoi riti. — Apostoli di penitenza. — Girolamo Savonarola. — L'elemento pagano nelle credenze popolari. — La fede nelle reliquie. — Il culto di Maria. — Oscillazioni nel culto. — Grandi epidemie religiose. — Loro ordinamento poliziesco in Ferrara.

In strettissima attinenza colla moralità di un popolo sta la questione della sua credenza religiosa, vale a dire della sua fede maggiore o minore in un governo provvidenziale del mondo, sia che questa fede lo riguardi come predestinato alla felicità o lo consideri come condannato al dolore e ad una imminente rovina.[339] Ora l'incredulità italiana di quel tempo è notissima, e chi ne cercasse le prove, potrebbe assai facilmente raccoglierne testimonianze a migliaia. Ma anche qui noi ci limiteremo a fare le debite distinzioni, astenendoci da qualsiasi giudizio assoluto e definitivo.

[250]

La credenza alla Divinità nei tempi precedenti aveva avuto la sua origine e il suo punto d'appoggio nel Cristianesimo e nel suo simbolo esterno, la Chiesa. Quando questa degenerò, l'umanità avrebbe dovuto distinguere e mantenere la sua religione ad ogni costo. Ma un tale postulato è più facile a presupporsi, che ad effettuarsi. Non ogni popolo è abbastanza calmo e flemmatico sino a tollerare una permanente contraddizione tra un principio e la sua personificazione esterna. Ed è per l'appunto la Chiesa che cade in questa contraddizione e che con ciò si tira addosso la più grande responsabilità, che sia mai stata nella storia. Infatti ella ha sostenuto con tutti i mezzi della violenza una dottrina corrotta e svisata a tutto vantaggio della sua onnipotenza, e, conscia della propria inviolabilità, si lasciò cadere in braccio alla più scandalosa demoralizzazione: indi, per mantenersi in tale sua condizione, ella ha menato colpi mortali contro lo spirito e la coscienza dei popoli, alienandosi così e spingendo ella stessa all'incredulità molti spiriti elevati, che nella loro coscienza non poterono più restarle fedeli.

Ora innanzi tutto sorge da sè la domanda: perchè dunque l'Italia tanto progredita nella cultura non reagì con maggior vigore contro gli abusi della gerarchia, perchè non effettuò essa una Riforma simile alla tedesca e prima di questa?

C'è una risposta, che a prima vista sembrerebbe dover appagare chiunque, vale a dire, che l'Italia non s'era proposta altro scopo, fuorchè di negare la gerarchia, mentre l'origine e la libertà assoluta della Riforma tedesca sono dovute alle dottrine positive della giustificazione per mezzo della fede e della inefficacia delle buone opere.

Egli è certo che queste dottrine non cominciarono a diffondersi dalla Germania in Italia se non assai tardi, [251] e quando già la potenza spagnuola vi si era talmente afforzata da potervi opprimere, parte immediatamente, parte mediante il Papato e i suoi strumenti, ogni cosa.[340] Ma già anche nei moti religiosi d'Italia dei tempi anteriori, dai Mistici del secolo XIII sino al Savonarola, eravi un grande elemento di vera fede, cui, per maturare, non mancarono che le occasioni, come più tardi mancarono alla setta degli Ugonotti, animata essa pure da sentimenti veramente cristiani. Avvenimenti colossali come la Riforma del secolo XVI escono in generale, per ciò che riguarda le singole particolarità e il loro modo di manifestarsi e di svolgersi, dalla cerchia di qualsiasi calcolo storico-filosofico, per quanto anche si possa con tutta evidenza mostrarne la necessità. I moti dello spirito, il loro balenare improvviso, il loro espandersi e l'intima loro essenza sono e rimangono ai nostri occhi un enigma, almeno in questo senso, che, delle forze che in essi agiscono, noi non conosciamo che questa, ma non mai tutte.

I sentimenti delle classi superiori e medie in Italia verso la Chiesa al tempo in cui il Rinascimento era al colmo del suo splendore, si manifestano in un misto di malcontento profondo e beffardo e di sommissione rassegnata alla gerarchia, in quanto essa s'intreccia alla vita esterna, nonchè in un certo sentimento di rispetto pei Sacramenti, per le ceremonie sacre e pei riti. A tutto [252] questo possiamo aggiungere, come specialità al tutto caratteristica dell'Italia, la grande influenza personale esercitata da alcuni sacri oratori.


Sull'avversione degl'Italiani per la gerarchia, quale si manifesta specialmente da Dante in poi nella letteratura e nella storia, esistono estesi lavori speciali. Della posizione del Papato di fronte all'opinione pubblica abbiam dovuto già dare qualche cenno altrove (v. vol. I, pagine 140 e 293), e chi volesse su ciò testimonianze autorevoli, potrà leggerle nei celebri passi relativi dei «Discorsi» del Machiavelli e nel Guicciardini (non mutilato). Fuori della cerchia della Curia romana, godono qualche rispetto in via morale[341] i migliori tra i vescovi e alcuni parrochi: per contrario i semplici cappellani, i canonici e i frati sono riguardati, quasi senza eccezione, come persone sospette, sulle quali s'accumulano spesso le più vituperose accuse, che prendono in fascio l'intero ceto al quale appartengono.

Fu già asserito da altri, che gli ordini religiosi furono condannati a portar essi soli la pena delle colpe di tutto il clero, perchè di essi soltanto si poteva beffarsi impunemente.[342] Ciò è erroneo sotto ogni punto di vista.

[253]

Essi figurano in modo più spiccato nelle novelle e nelle commedie appunto perchè ambedue queste specie letterarie domandano dei tipi fissi e ben conosciuti, nei quali riesca facile alla fantasia di compiere ciò che la novella o la commedia soltanto accennano. Del resto la novella non risparmia neanche il clero secolare.[343] Oltre a ciò, innumerevoli tratti in tutta la rimanente letteratura provano con quanta audacia si parlasse e scrivesse pubblicamente anche intorno al Papato e alla Curia romana, ciò che naturalmente non potrebbe attendersi in quei generi, che sono una libera creazione della fantasia. Per ultimo ai frati non mancarono in allora i mezzi di vendicarsi talvolta terribilmente.

Ma, comunque sia la cosa, questo in ogni caso è certo, che contro gli ordini religiosi l'avversione era grandissima, e che essi figuravano come una prova vivente del disprezzo in cui si tenevano la vita claustrale, la gerarchia ecclesiastica, il sistema delle credenze, la religione insomma, secondochè a torto o a ragione si venivano generalizzando più o meno i giudizi. In ciò si può ben ammettere che l'Italia avea conservato una assai chiara e precisa ricordanza dell'origine primitiva di ambedue i grandi ordini mendicanti, e che anche allora non aveva [254] dimenticato essere stati essi i primi rappresentanti della reazione,[344] che sorse contro quella che suol dirsi l'eresia del secolo XIII, vale a dire contro il primo vivace risveglio del moderno spirito italiano. E l'ufficio della polizia spirituale, che rimase affidato di preferenza all'ordine dei Domenicani, non ha certamente poco contribuito ad attirare su questi un sentimento di segreto odio e di disprezzo.


Quando si legge il Decamerone e le novelle di Franco Sacchetti, si crederebbe impossibile il portare più in là il sistema della maldicenza e della denigrazione a carico de' claustrali d'ambedue i sessi. Ma verso il tempo della Riforma questo linguaggio assume un'intonazione ancor più risentita. Lasciando anche stare l'Aretino, che ne' suoi «Ragionamenti» non tira in campo la vita claustrale se non come un pretesto, per dar libero sfogo alle sue tendenze volgari, noi citeremo per tutti un solo testimonio, il Masuccio Salernitano, colle prime dieci delle sue cinquanta novelle. Esse sono scritte da un uomo che è al colmo dell'indignazione, e, coll'intento di dar loro la maggior possibile pubblicità, son dedicate ai più illustri personaggi del tempo, perfino allo stesso re Ferrante e al principe Alfonso di Napoli. I racconti sono in parte già vecchi, e taluni si conoscono ancora sin dai tempi del Boccaccio; ma ve ne sono anche altri, che hanno l'impronta di una spaventevole attualità. Il pervertimento e il dissanguamento delle moltitudini, per mezzo di falsi miracoli e un genere di vita pieno di vizi e di scandali, riempiono d'orrore e di raccapriccio ogni lettore alquanto serio e sensato. Dei frati minori, che vanno attorno sotto [255] pretesto di elemosinare, vi è detto: «e vanno discorrendo i regni e li paesi con nuove maniere d'inganni, poltroneggiando, rubando, lussuriando, e quando ogni arte a loro vien meno, si fingono santi e mostrano fare miracoli, e chi va con tunicelle di san Vincenzo, e quali con l'ordine[345] di san Bernardino, e tali col capestro dell'asino del Capestrano». Altri si procacciano manutengoli, che fingendosi «quale attratto, quale cieco ed altri d'incurabili infermitati oppressi, toccando le fimbrie dei loro vestimenti, con la virtù delle reliquie, con alte voci confessar si sentono per lo toccare del santo predicatore essere liberati, e sopra ciò si grida: misericordia!, campane si suonano e lunghi processi e autentiche scritture si fanno». Egli accade che un frate, mentre predica, è audacemente accusato di menzogna da un altro, che sta giù in mezzo al popolo; ma tostamente questi diviene ossesso, e allora il predicatore lo fa condurre a sè e lo guarisce: il tutto pura commedia, dalla quale però il frate raccolse tanto danaro, che potè comperare da un cardinale un vescovato, che poi egli e il suo complice si godettero agiatamente durante il resto dei loro giorni. Masuccio non fa veruna speciale differenza tra francescani e domenicani, perchè gli uni stanno degnamente a paro degli altri. «E seducono gl'insensati secolari a pigliar le parzialità loro, talchè e per li seggi[346] e per le piazze ne questioneggiano pubblicamente, e qual franceschino e qual domenichino diviene!» Le monache son tutta cosa dei frati; e se taluna entra in qualche rapporto con laici, vien tosto imprigionata e perseguitata, mentre tutte le [256] altre contraggono nozze formali coi frati, nelle quali perfino si celebrano messe, si stabiliscono patti e si spreca lautamente in cibi e bevande. «Io medesimo, scrive l'autore, non una, ma più volte sono intervenuto e ho visto e toccato con mano. Tali monache poi o partoriscono di belli monachini... o d'infinite arti usano, per non far venire il parto a compimento... E se alcuno dirà questo esser bugia, miri tra le fetide cloache delle monache, e quivi vedrà di loro commessi omicidii testimonianza aperta, e vi troverà un cimiterio di tenerissime ossa della già fatta uccisione, non minore di quella, che per Erode in gl'innocenti ebrei fu operata». Tali e somiglianti fatti nasconde la vita claustrale. Ma i monaci si assolvono facilmente l'un l'altro nella confessione, e s'impongono la penitenza di un pater noster per cose, per le quali negherebbero affatto l'assoluzione ad un laico, anzi lo tratterebbero come uno scomunicato o un eretico. «Aprasi adunque la terra e insieme con li lor fautori, con la moltitudine di tanti poltroni vivi li trangiottisca!» In un altro luogo, giacchè la potenza dei frati essenzialmente si basa sulle paure dell'altro mondo, Masuccio esprime un desiderio assai strano: «non mi pare per loro degno ed eterno gastigamento che sia altro da dire, che se non che Iddio possa presto distruggere il Purgatorio, a tale che non potendo di elemosina vivere, andassero alla zappa, onde la maggior parte di loro hanno già contratta la origine».

Se sotto Ferrante si potevano scrivere tali cose e dedicare gli scritti a lui stesso, il fatto dipendeva in gran parte dallo sdegno che si era svegliato in lui per un falso miracolo, che si avea tentato di dargli a credere.[347] Per [257] mezzo di una tavola di bronzo portante un'iscrizione, sepolta dapprima nelle vicinanze di Taranto e poi dissotterrata, erasi fatto il tentativo di indurlo a forza ad una persecuzione contro gli ebrei, non dissimile da quella di Spagna; e quando egli intravide l'inganno, si era cercato di persistere in esso. Egli aveva anche fatto smascherare un falso digiunatore, come già prima di lui avea fatto anche suo padre Alfonso. La corte adunque non aveva almeno veruna complicità nella diffusione di quelle cieche superstizioni.[348]

Citammo un autore, che scrive con molta serietà, ma egli è ben lontano dall'essere il solo, che parli in tal modo. Invettive e dileggi contro i frati mendicanti s'incontrano in copia dovunque, e ne è piena tutta la letteratura.[349] Non è nemmeno permesso di dubitare, che il Rinascimento in breve si sarebbe sbarazzato definitivamente di tutti questi ordini, se la Riforma tedesca e la Contro-riforma non fossero sopravvenute. I loro predicatori popolari e i loro santi non si sarebbero neanche essi salvati. Non si sarebbe trattato in sostanza che d'intendersela a tempo opportuno con un Papa, che disprezzava già gli ordini mendicanti, quale era Leone X. Se lo spirito del tempo non li riguardava omai più che come ridicoli o come abbominevoli, anche per la Chiesa essi erano divenuti piuttosto un imbarazzo, che un aiuto. E chi sa quale sarebbe stata allora la sorte del Papato stesso, se la Riforma non lo avesse salvato.

[258]

Il potere arbitrario, che il padre Inquisitore di un convento di domenicani si permetteva di esercitare nelle città dove risiedeva, era bensì, sul finire del secolo XV, ancora abbastanza grande per dar molte noie e provocar molti sdegni nelle persone più colte; ma ad ogni modo non godeva più l'antico prestigio, nè incuteva più l'antico spavento.[350] Il punire anche i soli pensieri, come già in altri tempi (v. pag. 15 e segg.), non era omai più possibile, e il tenersi in guardia da dottrine erronee propriamente dette riusciva facile anche a chi del resto si permetteva di sparlare liberamente del clero, come tale. Se non v'era l'aiuto di un forte partito (come fu nel caso del Savonarola), era ben raro che, sulla fine del secolo XV e ne' primi anni del XVI, si passasse alle atrocità dei roghi. Nel più dei casi gl'Inquisitori si accontentavano, a quanto sembra, di una ritrattazione anche superficiale, ed altre volte dovevano rassegnarsi a vedersi rapire di mano il condannato, nel momento stesso in cui s'avviava al luogo del supplizio. A Bologna (1452) il prete Nicolò da Verona era stato già, come negromante, scongiuratore di demonii e sacrilego profanatore dei sacramenti, pubblicamente degradato sopra un palco di legno dinanzi alla chiesa di san Domenico, e doveva esser condotto al rogo sulla piazza maggiore, quando per via una schiera di armati lo liberò, e tuttociò accadeva per ordine del gioannita Achille Malvezzi, noto fautore degli eretici e audace violatore di monache. Il legato [259] (il cardinale Bessarione) non potè avere nelle sue mani che uno dei complici, e lo fe' impiccare; ma al Malvezzi non fu torto un capello.[351]


Degno di esser notato è il fatto che gli ordini più ragguardevoli, vale a dire i benedettini con tutte le loro affigliazioni, in onta alle loro grandi ricchezze e alla vita agiata che conducevano, non si avevano in tanta disistima, come gli ordini mendicanti: sopra dieci novelle, che parlano di claustrali, nove riguardano questi ultimi, ed una appena i primi. Può darsi che ad essi abbia giovato la maggiore antichità dell'origine; ma di maggior vantaggio certamente tornò loro la circostanza dell'essersi sempre mantenuti alieni da qualsiasi ingerenza poliziesca nella vita privata. Fra costoro non mancarono degli uomini pii, dotti e d'ingegno svegliato, ma nella gerarchia non erano nemmen essi migliori degli altri, se crediamo a quanto ne scrive perfino uno di loro, il Firenzuola.[352] «Questi paffuti monaci nelle loro larghe cocolle, senza andarsi consumando la vita a piedi scalzi e in zoccoli predicando qua e là con cinque paia di calzetti, in belle pantufole di cordovano si stanno a grattar la pancia entro alle belle celle fornite d'arcipresso. Ai quali, se è di mestiere alcuna volta uscire di casa, in su le mule quartate e in sui grassi ronzini si vanno molto agiatamente diportando. Nè si curano affaticar troppo la mente a studiar molti libri, acciocchè la scienza, [260] che da quelli apprendessero, non li facesse elevar in superbia come Lucifero e li cavasse della loro monastica semplicità».

Chiunque conosca la letteratura di quei tempi concederà che qui noi ci limitiamo a riferire soltanto ciò, che è indispensabile a dar le prove del nostro assunto.[353] Che poi, con tali opinioni sul clero e sui monaci, in moltissimi venisse fortemente scossa anche la fede a quanto v'ha di più sacro in generale, è cosa più che evidente per sè.

E che terribili giudizi non ci tocca di udire! Noi non ne addurremo, concludendo, che un solo, da poco stampato e ancora assai scarsamente conosciuto. Esso è del grande storico Guicciardini, stato già molti anni al servizio dei Papi medicei, il quale (1529) ne' suoi aforismi lasciò scritto:[354] «Io non so a chi dispiaccia più che a me la ambizione, la avarizia e la mollizie dei preti, sì perchè ognuno di questi vizii in sè è odioso, sì perchè ciascuno e tutti insieme si convengono poco a chi fa professione di vita dependente da Dio; e ancora perchè sono vizii sì contrarii, che non possono stare insieme se non in un subbietto molto strano. Nondimeno il grado che ho avuto con più Pontefici, m'ha necessitato a amare per il particolare mio la grandezza loro; e se non fussi questo rispetto, avrei amato Martino Lutero quanto me medesimo, non per liberarmi dalle leggi indotte dalla religione cristiana nel modo che è interpretata e intesa [261] communemente, ma per vedere ridurre questa caterva di scelerati a' termini debiti, cioè a restare o senza vizii o senza autorità».

Il medesimo Guicciardini ritiene anche,[355] che riguardo alle cose soprannaturali noi siamo compiutamente al buio, che i filosofi e i teologi su ciò non dissero che delle pazzie, e che i miracoli s'incontrano in tutte le religioni, ma non fanno prova per veruna in particolare, e si possono alla fine riguardare come fenomeni naturali ancora ignorati. La fede che trasporta i monti, e che in allora si manifestò così viva nei seguaci del Savonarola, egli la nota come un fatto singolarissimo, ma senza veruna acerba osservazione.


Di fronte a tali sentimenti il clero e il monacato aveano per sè questo vantaggio, che tutti erano abituati a vederli dovunque, e che la loro esistenza si toccava con tutti gli ordini della vita sociale. È il vantaggio che hanno sempre avuto nel mondo tutte le forti e vecchie istituzioni. Ognuno poteva contare un parente o nel paludamento sacerdotale o nella cocolla del monaco, e quindi avere una prospettiva di protezione e di futuro guadagno sul tesoro della Chiesa; e nel centro d'Italia c'era la Curia romana, che in un momento poteva far ricchi i suoi protetti. Tuttavia ciò non chiudeva la bocca, nè spuntava la penna a nessuno. I detrattori più maligni sono per lo più monaci essi stessi o prelati, che godono laute prebende: il Poggio, autore delle famose facetiae, era ecclesiastico; Francesco Berni godeva un canonicato; Teofilo Folengo[356] era monaco benedettino; Matteo Bandello, [262] che sparse tanto ridicolo sul suo stesso ordine, era domenicano e nipote di un generale. Scrivono essi per un sentimento di eccessiva sicurezza? o per bisogno di salvare sè stessi dal discredito, in cui era caduto tutto l'ordine? o per un pessimistico egoismo, che si compendia nel proverbio: «eppur si vive?» Nessuno saprebbe dirlo; ma forse c'entrava un po' di tutto questo. Quanto al Folengo, si sa che non fu senza una certa influenza su lui il nascente luteranismo.[357]

Il rispetto ai riti ed ai sacramenti, di cui s'è già parlato toccando del Papato (v. vol. I, pag. 141), è sempre una cosa sottintesa nella parte del popolo, che ancora credeva; ma non manca neanche in quelli, che si direbbero spregiudicati e libertini, nei quali esso si manifesta colla forza di una ricordanza giovanile e colla prepotenza di un antico simbolo, a cui ciascuno era abituato. Il vivo desiderio con cui al letto di morte s'invoca l'assoluzione sacerdotale, mostra un resto di paura delle pene infernali anche in un uomo qual fu quel Vitellozzo, di cui altrove abbiamo già fatto cenno (v. vol. I, l. c.). Un esempio più parlante di questo difficilmente si troverà. La dottrina inculcata dalla Chiesa del carattere indelebile del sacerdote, di fronte al quale era indifferente la sua persona, ebbe questo risultato, che si poteva nel fatto aborrire il prete e tuttavia desiderare i suoi conforti spirituali. Vero è però che vi furono anche dei peccatori ostinati, che non se ne curarono, e uno di questi, per esempio, fu quel Galeotto della Mirandola,[358] che [263] nel 1499 morì sotto il peso della scomunica, che portava già da sedici anni. Durante tutto questo tempo anche la città era stata sottoposta all'interdetto, per cui non vi si celebrava più la Messa, nè vi si permetteva veruna ecclesiastica sepoltura.


Finalmente fra tutte queste contraddizioni merita di esser notato il potere esercitato sul popolo da quei predicatori entusiastici, che di tratto in tratto l'esortavano a penitenza. Tutto il resto d'occidente si lasciava di quando in quando commovere dalle prediche di qualche santo monaco; ma che cosa era mai ciò in confronto delle commozioni periodiche delle città e delle campagne d'Italia? Oltre a ciò l'unico che, per esempio, durante il secolo XV produsse in Germania un simile entusiasmo,[359] era stato un abruzzese di nascita, vale a dire Giovanni Capistrano. Gli uomini che assumevano questa specie di apostolato, erano predominati nel nord da un certo misticismo speculativo: nel sud invece erano espansivi e pratici, e partecipavano all'alto rispetto, che la nazione aveva per la sua lingua e per l'arte oratoria. Il nord produce l'Imitazione di Cristo, che esercita una azione lenta e dapprima ristretta ai soli conventi; il sud dà uomini, che fanno sugli altri uomini un'impressione momentanea, ma gigantesca.

Quest'impressione si basa principalmente nel risveglio della voce della coscienza. Sono prediche morali, senza astrazioni, piene di pratiche applicazioni, aiutate da una vita di rigoroso ascetismo, cui la fantasia già esaltata [264] aggiunge da sè la potenza dei miracoli, anche contro il volere espresso del predicatore.[360] L'argomento principale non era tanto la minaccia della pena, quanto la maledizione, che perseguita continuamente il colpevole e che è inseparabile dalla colpa. L'offesa fatta a Cristo e ai santi ha le sue funeste conseguenze anche nella vita presente. In tal modo soltanto era possibile ricondurre alla concordia e alla penitenza uomini schiavi di selvagge passioni, avidi di vendette e di delitti, e questo era lo scopo principale di tali prediche.

Così predicavano nel secolo XV Bernardino da Siena, Alberto da Sarzana, Giovanni Capistrano, Jacopo della Marca, Roberto da Lecce (v. pag. 189) ed altri, e per ultimo anche Girolamo Savonarola. Contro niuna classe di persone s'avevano tante sinistre prevenzioni, quante contro i frati mendicanti: essi le vinsero. Gli orgogliosi umanisti criticavano e schernivano,[361] ma bastava che quelli alzassero la voce, e nessuno badava più ai loro dileggiatori. La cosa non era nuova, e un popolo propenso alla burla, come era il fiorentino, avea cominciato già sin dal secolo XIV a farne la caricatura,[362] ogni volta [265] che l'occasione si presentava; quando però comparve il Savonarola, seppe suscitare un tale entusiasmo, che ben presto tutta la cultura e l'arte furono sul punto di essere compiutamente divorate dalle fiamme, che egli accese. Nemmeno le più ributtanti imposture, colle quali alcuni frati ipocriti coll'ajuto dei loro affigliati cercavano di agire sull'animo dei loro uditori e di esaltarne la fantasia (v. pag. 255), non valsero a spegnere quel subitaneo entusiasmo. Si continuò a ridere delle prediche grossolane degli oratori volgari, che cercavano l'effetto nei miracoli immaginarj e nella esposizione di false reliquie,[363] ma al tempo stesso si ebbe la più alta venerazione pei veri e grandi apostoli della penitenza. Questi sono una specialità tutt'affatto italiana del secolo XV.

L'ordine — d'ordinario quello di San Francesco e precisamente dei così detti Osservanti — li manda qua e là, secondo ne vien fatta ricerca. Ciò si verifica principalmente quando insorgono gravi discordie pubbliche o private in qualche città, od anche quando la sicurezza e la moralità pubbliche vi si trovano seriamente compromesse. Ma se in tali missioni la fama di un predicatore si fa grande, tutte le città, anche senza un motivo particolare, lo vogliono: egli se ne va, dove i superiori lo mandano. Un ramo speciale di questa attività son le prediche fatte per preparare la crociata contro i Turchi;[364] ma noi non dobbiamo occuparci qui che di quelle, che hanno per iscopo d'inculcare la penitenza.

[266]

L'ordine delle prediche, quando lo si serbava metodicamente, sembra essere stato quello che tiene la Chiesa nell'enumerazione dei sette peccati capitali; ma se il momento è stringente, l'oratore entra direttamente nell'argomento principale. Egli comincia la sua predicazione probabilmente in qualcuna di quelle grandi chiese, che avevano gli ordini o nel duomo; in breve la piazza maggiore diventa troppo angusta per la moltitudine, che accorre da tutte parti, e l'andare e il venire si fa estremamente pericoloso per l'oratore stesso.[365] Ordinariamente la predica si chiude con una immensa processione, nella quale i primi magistrati della città, che lo prendono nel loro mezzo, a stento bastano a salvarlo dalla folla, che gli si accalca attorno per baciargli le mani e i piedi e per disputarsi un brano della sua tonaca.[366]

Le conseguenze più immediate, che ne sogliono emergere, dopochè s'è predicato contro l'usura, le compere anticipate e le mode scandalose, sono l'aprirsi delle carceri, dalle quali per vero non escono se non gli sventurati che furono imprigionati per debiti, e la distruzione per mezzo del fuoco di una quantità di oggetti di lusso od anche di semplice passatempo, come, per esempio, dadi, carte da giuoco, inezie d'ogni specie, maschere, strumenti e libri musicali, formole magiche,[367] finte acconciature [267] ecc. Tutto ciò veniva senz'altro elegantemente disposto sopra un palco detto talamo, con sopra una figura di diavolo, e poi vi si appiccava il fuoco (cfr. pag. 131).

Ora viene la volta anche dei peccatori più induriti; chi da lungo tempo si tenne lontano dai sacramenti, ora si confessa: i beni ingiustamente usurpati vengono restituiti; delle calunnie e delle maldicenze si fa onorevole ammenda. Oratori coraggiosi ed avveduti, quale un Bernardino da Siena,[368] s'addentrano assai destramente nella ordinaria vita quotidiana dei loro uditori e mettono al nudo le magagne dei loro usi e costumi. Pochi dei nostri moderni teologi si sentirebbero disposti a tenere una predica «sui contratti, le restituzioni, le rendite pubbliche (il monte) e la dotazione delle figlie», quale egli tenne una volta nel duomo di Firenze. I predicatori meno prudenti commettevano facilmente, in simili casi, l'errore di scagliarsi con tanta foga contro singole classi di persone e contro talune industrie e professioni, che gli uditori sovreccitati passavano immediatamente a vie di fatto contro i veri o pretesi colpevoli.[369] Anche una predica di Bernardino, che egli tenne a Roma nel 1424, ebbe, oltre alla distruzione di molti oggetti di lusso e strumenti di magia, una conseguenza ben più terribile, vale a dire l'uccisione per mezzo del rogo della [268] strega Finicella, «perchè, dice il cronista[370] con mezzi diabolici uccise molti fanciulli e ammaliò parecchie persone», e tutta Roma accorse a quello spettacolo.

Lo scopo principale della predica era però sempre quello di riconciliare lunghi rancori e d'ammansare il demone della vendetta. Questa pacificazione si compiva d'ordinario verso la fine del corso delle prediche, quando la corrente della contrizione generale a poco a poco aveva invaso la città intera, e quando da tutte parti non echeggiava che il grido: misericordia.[371] Allora si veniva alle solenni riconciliazioni, agli amplessi cordiali, anche se le stragi reciproche stavano tra le due parti contendenti. Per uno scopo sì santo si richiamavano in città anche i banditi. Sembra che tali «paci» fossero nel complesso osservate, anche quand'era passato il primo entusiasmo, e allora la memoria del santo oratore restava benedetta per molte generazioni. Ma ci furono anche delle crisi fiere e terribili, come quella delle famiglie Croce e della Valle in Roma (1482), nelle quali anche il grande Roberto da Lecce alzò indarno la voce.[372]

[269]

Poco prima della settimana santa egli avea predicato sulla piazza della Minerva ad una moltitudine innumerevole: ma la notte che precedette il giovedì santo, seguì una spaventevole carneficina dinanzi al palazzo della Valle in vicinanza del Ghetto: l'indomani papa Sisto ordinò che quel palazzo fosse atterrato, e poi assistette alle ceremonie consuete di quel giorno; il venerdì santo Roberto tornò a predicare tenendo nelle mani un crocifisso; ma tanto egli, quanto i suoi uditori non poterono far altro che piangere.

Spiriti violenti in lotta con sè medesimi abbracciarono spesso, sotto l'impressione di queste prediche, la risoluzione di entrare nel chiostro. Fra questi c'erano assassini e malfattori d'ogni specie, ma anche soldati privi d'ogni mezzo di sussistenza.[373] A tale risoluzione poi coopera anche l'ammirazione pel santo monaco, al quale, secondo le proprie forze, si cerca di avvicinarsi almeno nella condizione esterna della vita.

L'ultima predica non è che una benedizione generale, che si riassume nelle parole: La pace sia con voi! Grandi turbe accompagnano il predicatore nella vicina città e ascoltano quivi ancora una volta l'intero corso delle sue prediche.

Attesa l'immensa potenza, che questi santi uomini esercitavano, il clero e i governi non potevano desiderare che di farseli amici. Un mezzo di raggiungere tale intento era quello di far sì che soltanto i monaci[374] od [270] almeno gli ecclesiastici che avessero ricevuto gli ordini minori, potessero salire il pergamo, per modo che l'ordine o la relativa corporazione se ne rendessero in certo modo responsabili. Ma un limite preciso non poteva neanche qui stabilirsi, poichè la chiesa e quindi anche il pergamo usavansi per qualsiasi scopo di pubblicità, come, per esempio, per atti giudiziarii, pubblicazioni, lezioni ecc., e perchè anche nelle prediche propriamente dette talvolta lasciavasi la parola agli umanisti ed ai laici (v. vol. I, pag. 313 e segg.). Oltre a ciò eravi una classe ibrida di persone,[375] che non erano nè frati, nè preti, e tuttavia aveano rinunciato al mondo, vale a dire i «romiti», assai frequenti in Italia, i quali talvolta senza incarico di chicchessia facevano la loro comparsa ed infiammavano le popolazioni. Un caso di questo genere s'avverò a Milano dopo la seconda conquista [271] francese (1516), in un momento, non v'ha dubbio, di grandi sconvolgimenti pubblici: un romito toscano, forse del partito del Savonarola, occupò per parecchi mesi il pergamo del duomo, attaccò sul vivo la gerarchia, fece accendere un nuovo candelabro ed erigere un nuovo altare nella chiesa, operò miracoli, e non si ritirò se non dopo avere sostenuto fiere battaglie.[376] In quei decennj tanto solenni pei destini d'Italia, si risveglia dovunque lo spirito profetico, e non si limita mai, dove appare, ad una determinata classe di persone. Si sa, per esempio, che prima del sacco di Roma alcuni romiti s'erano mostrati qua e là in aria di veri profeti (v. vol. I, pag. 166). Quando fa loro difetto l'arte oratoria, essi mandano messi con simboli, come fece, ad esempio, quell'asceta dei dintorni di Siena, che nel 1429 mandò nell'angustiata città un «romituccio», vale a dire un suo discepolo, con una testa di morto sopra un bastone, alla quale stava appesa una scritta di sentenze minacciose desunte dalla Bibbia.[377]

Ma neanco i monaci non risparmiavano spesso i principi, le autorità, il clero e l'ordine stesso, al quale appartenevano. Vero è, che nei tempi posteriori non s'incontra più una predica tendente direttamente all'eccidio della tirannide, come fu quella[378] che nel secolo XIV tenne fra Jacopo Bussolaro a Pavia, ma s'incontrano invece rabbuffi arditi perfino contro il Papa nella sua propria cappella (v. vol. I, pag. 316) e ingenui consigli [272] politici a principi, che non credevano averne bisogno.[379] Sulla piazza del castello di Milano un predicatore cieco dell'Incoronata (quindi un agostiniano) osò nel 1494 indirizzare dal pergamo a Lodovico il Moro queste parole; «signore, non additare la via ai francesi, perchè avrai a pentirtene».[380] Ci furono dei monaci profeti, che, a quanto pare, non parlavano direttamente di politica, ma davano quadri così terribili dell'avvenire, che gli uditori ne perdevano il senno. Un'intera compagnia di costoro, dodici francescani conventuali, percorsero, subito dopo l'elezione di Leone X (1513), le diverse regioni d'Italia, che si erano dapprima ripartite fra loro. Quegli fra essi che predicò a Firenze,[381] fra Francesco da Montepulciano, suscitò uno spavento sempre crescente nel popolo intero, mentre le sue parole, certamente rinforzate piuttostochè mitigate, giungevano anche a coloro, che per la gran folla non potevano venirgli dappresso. Dopo una di quelle prediche egli morì improvvisamente «di mal di petto»: tutti accorsero a baciare i piedi al cadavere, per modo che si dovette portarlo segretamente a seppellire di notte. Ma lo spirito profetico, una volta surto, invase ora perfino le donne e i contadini, nè si potè più frenarlo se non a stento. «Per mettere in qualche modo di buon umore le moltitudini, Giuliano de' Medici (fratello di Leone) e Lorenzo prepararono pel giorno di S. Giovanni [273] nel 1514 quelle splendide feste, cacce, mascherate e tornei, cui accorsero da Roma, oltre ad alcuni grandi signori, anche sei cardinali, ma travestiti».


Ma il più grande apostolo e profeta di Firenze era già stato arso fin dal 1498: fra Girolamo Savonarola da Ferrara,[382] del quale qui ci accontenteremo di dar pochi cenni.

Il mezzo potente, col quale egli trasformò e signoreggiò Firenze (1494-1498), fu la sua parola, della quale le prediche rimasteci, scritte per lo più mentre egli le pronunciava, non ci danno evidentemente che un'idea molto imperfetta. Non già che i mezzi esteriori coi quali si presentava al pubblico, fossero gran fatto imponenti; chè anzi la voce, la pronuncia, l'espressione retorica e simili costituivano piuttosto il lato debole in lui, e chi desiderava un oratore valente nello stile e negli artifizi retorici, andava a udire il di lui rivale, frà Mariano da Ghinazzano; — ma nel discorso del Savonarola v'era quell'alta efficacia morale, che veramente non riapparve più sino a Lutero. Egli stesso la riguardava come una ispirazione superiore, e collocava quindi assai alto, ma senza immodestia, il ministero del predicatore, mettendo quest'ultimo, nella grande gerarchia degli spiriti, immediatamente dopo l'ultimo degli angeli.

Questa grande personalità, divenuta tutta zelo e fervore, compì inoltre un altro e maggiore miracolo, quello d'indurre i propri confratelli domenicani del convento [274] di S. Marco, e poi tutti quelli della Toscana, ad intraprendere una grande e spontanea riforma di lor medesimi. Chi sappia che cosa fossero allora i conventi e quanto difficile fosse il recare in atto anche il minimo cangiamento in essi, stupirà doppiamente di una simile rivoluzione. Una volta incominciata, quella riforma si venne sempre più consolidando pel fatto che l'ordine acquistava sempre nuovi proseliti in moltissimi che, approvandola, si rendevano addirittura domenicani. Molti figli di case assai ragguardevoli entravano come novizi in san Marco.

Ora, questa riforma dell'ordine secondo le esigenze di un determinato paese era il primo passo verso una chiesa nazionale, alla quale senza dubbio si avrebbe dovuto venire, se questo stato di cose avesse durato un po' più a lungo. Infatti il Savonarola voleva bensì una riforma di tutta la Chiesa, e a tal uopo mandò sul finire della sua missione energiche esortazioni ai grandi e ai potenti per la convocazione di un Concilio. Ma il suo ordine e il suo partito erano divenuti omai per la Toscana l'unico organo possibile del suo spirito, l'elemento indispensabile della sua vita, mentre i paesi vicini perduravano nell'antico sistema. Così a poco a poco, ma sempre progredendo, si venne formando per virtù di sacrificio e per forza di fantasia una idealità, che di Firenze voleva fare un regno di Dio sulla terra.

Le profezie, il cui parziale verificarsi aveva procacciato al Savonarola una riputazione di santo, costituiscono il punto, rispetto al quale la fantasia tanto vivace negli Italiani prevalse anche sugli animi più guardinghi e circospetti. In sulle prime i Minori Osservanti, pavoneggiandosi nella gloria che avea procacciato al loro ordine Bernardino da Siena, credettero di poter schiacciare colla [275] loro concorrenza il grande domenicano. Essi procurarono ad uno dei loro il pergamo del duomo, dove le querule profezie del Savonarola furono superate da altre ancora più esagerate, sino a che Pietro de' Medici, che allora era ancor padrone di Firenze, impose silenzio pel momento ad entrambi i rivali. Poco dopo, quando Carlo VIII venne in Italia e i Medici furono cacciati, come il Savonarola avea chiaramente predetto, si tornò a non credere che a lui.

Or qui bisogna confessare, che egli riguardo ai propri presentimenti e alle proprie visioni non procedeva con quella severa critica, che era solito usare di fronte a quelle degli altri. Nella orazione funebre per Pico della Mirandola noi lo troviamo troppo duro e rigido verso il morto amico. Perchè Pico, in onta ad una intima voce, che veniva dall'alto, ricusò di entrare nel suo ordine, il Savonarola stesso aveva invocato da Dio una tal quale punizione su lui, non però la sua morte: ora, con elemosine e con preghiere, s'era ottenuto almeno che l'anima sua fosse salva nel Purgatorio. Riguardo poi ad una consolante visione, che Pico aveva avuto sul letto di morte, e nella quale la Vergine gli era apparsa e gli avea promesso che non sarebbe morto, il Savonarola confessa di averla per lungo tempo ritenuta una mera illusione diabolica, ma essergli poi stato rivelato che la Vergine aveva inteso la morte dell'anima, cioè l'eterna dannazione. — Se tali cose e somiglianti hanno a considerarsi per quello che sono in fatto, cioè per sogni di una mente levata in soverchia prosunzione, bisogna ricordarsi altresì che questo grande spirito ne ha pagato negli ultimi suoi giorni la pena più amara, che mai si possa immaginare, quella di riconoscere egli stesso la vanità delle proprie visioni e profezie; ciò che tuttavia non gl'impedì di avviarsi [276] alla morte con animo calmo e devotamente rassegnato. I suoi partigiani peraltro tennero fermo alle sue dottrine e alle sue profezie ancora per tre decenni.

Alla riorganizzazione dello Stato egli non pose mano se non perchè altrimenti altri si sarebbe dannosamente impadronito della cosa pubblica. Ma sarebbe una vera ingiustizia se lo si volesse giudicare dalla sua costituzione semi-democratica dei primi mesi del 1495 (v. vol. I, p. 113, nota). Essa non è migliore, nè peggiore di tante altre costituzioni fiorentine.[383]

In sostanza, per tali cose egli era l'uomo il più disadatto, che si potesse immaginare. Il suo vero ideale era una teocrazia, nella quale tutto in devota umiltà si prostra dinanzi all'Invisibile e in cui previamente vengono eliminati tutti i conflitti delle passioni. Tutto il suo pensiero sta in quella iscrizione apposta al palazzo della Signoria, il cui concetto ancora sul finire dell'anno 1495 era il suo motto favorito,[384] e che nel 1527 da' suoi partigiani fu rinnovata: Jesus Christus rex populi fiorentini S. P. Q. decreto creatus. Colla vita terrena e colle cose di questo mondo egli non aveva maggiori rapporti di quelli che potesse avere un severo e rigido frate. La sua opinione costante infatti era che l'uomo non deve occuparsi d'altro, fuorchè di ciò che ha una immediata attinenza colla salute dell'anima.

[277]

In niuna cosa ciò appare tanto evidente, quanto nel suo modo di considerare l'antica letteratura. «L'unica cosa buona, dice egli, che Platone ed Aristotele hanno fatto, è quella di aver messo innanzi molte argomentazioni, che si possono utilmente adoperare anche contro gli eretici. Tuttavia essi ed altri filosofi sono condannati all'eterna dannazione. Una vecchierella in fatto di fede ne sa più di Platone. Per la fede sarebbe cosa ottima, che si annientassero molti libri, che del resto sembrano utili. Quando non c'erano ancora tanti libri, nè tante ragioni naturali e disputazioni, la fede cresceva più rapidamente di quello che non sia cresciuta dappoi». La lettura dei classici nelle scuole egli la vuol limitata ad Omero, Virgilio e Cicerone; il resto si completi con gli scritti di Girolamo e di Agostino, e per converso si bandiscano non solo Catullo ed Ovidio, ma anche Tibullo e Terenzio. Qui in sostanza non appare che un sentimento di paura di veder guasta la moralità; ma in uno scritto a parte egli ammette addirittura il danno, che deriva dalla scienza in generale. Le scienze, egli dice, non dovrebbero propriamente essere studiate che da pochi, affinchè non perisca il patrimonio delle cognizioni umane, ma più specialmente perchè si abbiano sempre degli atleti pronti a combattere i sofismi dell'eresia: tutti gli altri non dovrebbero conoscere che la grammatica, la sana morale e la religione (sacrae literae). Così naturalmente tutta la cultura ricadrebbe in mano ai monaci, e siccome al tempo stesso «i più dotti e i più santi» dovrebbero reggere gli Stati, così anche questi reggitori sarebbero nuovamente dei monaci. Non è prezzo dell'opera nemmeno di domandare, se l'autore abbia inteso sul serio di venire a quest'ultima conclusione.

Più puerilmente di così non si può ragionare. La [278] semplice considerazione che l'antichità recentemente scoperta e la gigantesca espansione che acquistarono allora le scienze, potevano, secondo le circostanze, divenire una splendida conferma della Religione, sono due circostanze che non cadono nemmeno nella mente di quel grand'uomo. Egli vorrebbe proibire tutto ciò, che in qualsiasi altro modo non può essere eliminato. In generale egli era tutt'altro che un liberale; contro gli astrologi, per esempio, egli tien sempre pronto quel rogo, sul quale poi egli stesso morì.[385]

Quanta potenza di volontà deve essere stata in quell'anima racchiusa in una mente così ristretta! Qual fiamma di entusiasmo non deve aver divampato in lui per dargli la forza di trascinare i Fiorentini a ripudiar quella cultura e civiltà, di cui erano stati così vivamente innamorati!

Una prova manifesta e parlante se ne ha nella enorme quantità d'oggetti d'arte e di lusso, che furono spontaneamente sacrificati sui suoi famosi roghi, di fronte ai quali si direbbero un nulla tutti i talami di san Bernardino da Siena e d'altri.

Egli è vero però che il procedere del frate in tali circostanze fu molte volte tirannico e poliziesco. In generale gli arbitrii, ai quali egli trascorse contro la libertà individuale tanto pregiata in Italia, non sono lievi, mentre si sa che, ad esempio, favoriva ed esigeva lo spionaggio dei servi contro i loro padroni, per poter più facilmente recare ad effetto la sua progettata riforma dei costumi in Firenze. Era un tentativo assai somigliante a quello, che fece più tardi a Ginevra Calvino: questi [279] colla sua ferrea volontà e perdurando lo stato d'assedio al di fuori della città, riuscì ad effettuarlo, ma non senza ostacoli e contraddizioni d'ogni sorta: il Savonarola invece fallì, e con ciò non fece che esasperare ancor più i suoi avversarii. Tra le misure prese dispiacque in modo particolare quella, per la quale un drappello di fanciulli, messi insieme dal Savonarola, penetrava a forza nelle case per farvi incetta di oggetti destinati al rogo: qua e colà essi vennero respinti con minacce e percosse, e allora, per pur sostenere la finzione di un proselitismo sempre crescente nella borghesia, furono deputati degli adulti ad accompagnare i fanciulli in qualità di loro protettori.

Per tal maniera nell'ultimo giorno di carnevale dell'anno 1497 e del seguente poterono aver luogo due grandi bruciamenti sulla piazza della Signoria. In mezzo ad essa sorgeva una grande piramide a gradinate simile ai roghi, sui quali solevano essere arsi i cadaveri degli imperatori romani. Al basso in prossimità della base vedevansi maschere, barbe e vestiti aggruppati insieme: più in su figuravano libri di autori latini ed italiani, fra gli altri il Morgante del Pulci, il Decamerone del Boccaccio e il Canzoniere del Petrarca, e in parte anche preziose pergamene e manoscritti miniati; sopra questi vedevansi ornamenti muliebri e articoli di toeletta, profumerie, specchi, veli, acconciature, e più in alto ancora liuti, arpe, scacchieri, e carte da giuoco: finalmente i due gradini superiori non contenevano che soli ritratti, specialmente di donne celebri per bellezza, appartenenti in parte alla classica antichità, come per esempio, Lucrezia, Cleopatra e Faustina, in parte all'epoca contemporanea, come la bella Bencina, la Lena Martella e le celebri Bina e Maria de' Lenzi. La prima volta un mercante [280] veneziano quivi presente offerse alla Signoria 20,000 fiorini d'oro per tutti gli oggetti accumulati sulla piramide, e n'ebbe in risposta, che si farebbe fare anche il suo ritratto, per metterlo ad ardere insieme con gli altri. Al primo appiccare del fuoco la Signoria assistette, affacciandosi alla loggia, e l'aria echeggiò di canti e del suono delle trombe e delle campane. Poi la moltitudine venne in massa sul piazzale di S. Marco, dove si ballò una danza concentrica: nella prima fila stavano i frati del convento, che si alternavano con fanciulli vestiti da angeli; nella seconda giovani ecclesiastici e laici; nella terza vecchi, cittadini e sacerdoti, questi ultimi incoronati di frondi d'ulivo.

Ma nè queste scene, nè le derisioni degli avversarii, alle quali per vero non mancavano nè le occasioni, nè in quelli il talento necessario, non bastarono più tardi a screditare la memoria del Savonarola. Quanto più dolorosamente si svolsero i destini d'Italia, tanto più gloriosa apparve ai posteri la figura del grand'uomo e profeta. Vero è che non tutte le sue profezie s'avverarono esattamente nelle particolarità da lui indicate; ma le grandi sventure generali, ch'egli aveva annunciato, pur troppo ebbero un adempimento anche troppo terribile.

Tuttavia bisogna pur riconoscere, che nè gli sforzi de' suoi predecessori, nè quelli che fece egli medesimo per rivendicare al monacato l'ufficio salutare della predicazione,[386] non valsero a salvare quest'ultimo dall'universale disprezzo, in cui, come istituzione, era caduto. La cosa era omai evidente: in Italia non era più possibile [281] verun'altra specie di entusiasmo, fuorchè quella, che sapeva destare qualche grande e straordinaria individualità.


Ora, se si dovesse, prescindendo dal clero e dagli ordini religiosi, constatare con precisione in quali condizioni si trovasse l'antica fede presso tutte le altre classi sociali, esse ci apparirebbero assai differenti, secondochè si considerano in una luce diversa e sotto un determinato punto di vista. Della necessità assoluta dei sacramenti e dei riti ecclesiastici abbiam già parlato altrove (v. vol. I, pag. 141, vol. II, pag. 262); diamo ora uno sguardo alla fede ed al culto, quali apparivano nella vita ordinaria quotidiana, dove sono di sommo rilievo le abitudini del popolo e il rispetto per esse delle classi più elevate.

Tutte le pratiche di penitenza necessarie all'acquisto della celestiale beatitudine riscontransi nelle classi inferiori tanto delle città, quanto delle campagne in ugual misura e coi medesimi pregiudizi, che nei paesi settentrionali, ed anche le persone colte se ne mostrano qua e colà fino ad un certo punto persuase. Quei lati del cattolicismo popolare, che hanno la loro origine nelle antiche gentilesche invocazioni e nelle rituali donazioni ed espiazioni per propiziarsi la Divinità, appaiono saldamente radicati nella coscienza di tutti. L'egloga ottava di Battista Mantovano citata già in altra occasione,[387] contiene, fra le altre cose, la preghiera di un contadino alla Vergine, dove essa è invocata come patrona speciale dei singoli interessi della vita rurale. E quali concetti non si formava il popolo della virtù miracolosa di certe determinate Madonne! Quale idea doveva mai averne quella [282] donna fiorentina,[388] che fece appendere ex voto una piccola botte di cera all'altare dell'Annunziata, perchè il di lei amante, un frate, a poco a poco le era venuto bevendo un botticello di vino, senza che il marito, tornando da una lunga assenza, se ne accorgesse! Per tal maniera esisteva anche allora, nè più, nè meno che ora, un patronato speciale di singoli santi per singole classi. Più volte si è tentato di richiamare un certo numero di usanze rituali della Chiesa cattolica alle antiche ceremonie pagane, colle quali hanno stretta attinenza, ed è universalmente ammesso, oltre a ciò, che non poche consuetudini locali e popolari, che si vennero innestando nelle feste ecclesiastiche, non sono che involontarie reminiscenze dei diversi riti pagani esistenti anticamente qua e colà in Europa. In Italia poi queste reminiscenze sono manifeste in modo speciale tra le popolazioni del contado, dove, per esempio, prevale ancora l'uso di preparar cibi pei morti, quattro giorni prima della festa della cattedra di S. Pietro, vale a dire nel giorno preciso (18 febbraio) delle antiche feste feralie,[389] e dove può affermarsi [283] essere allora state in uso tante altre antiche usanze, che solo assai più tardi furono sradicate del tutto. Forse non sarebbe del tutto irragionevole il dire, che le più solide credenze religiose del popolo in Italia erano appunto quelle, che ripetevano la loro origine dagli usi pagani.

Ora non sarebbe sino ad un certo punto troppo difficile il dimostrare quanto una tale specie di fede predominasse anche nelle classi più elevate. Essa, come s'è dimostrato toccando dei rapporti col clero, aveva in suo favore la forza delle abitudini e delle prime impressioni; e a farla trionfare contribuì non poco anche l'amore che s'aveva alle pompe festive della Chiesa, nonchè qua e là taluna di quelle grandi epidemie religiose, alle quali anche i beffardi e gli scettici furono impotenti a resistere.


Ma in queste questioni ella è pur sempre cosa pericolosa il voler tirare con troppa fretta delle conclusioni assolute. Si dovrebbe credere, per esempio, che il contegno degli uomini colti verso le reliquie dei santi dovesse offrire una chiave, che ci aprisse almeno alcuni lati particolari della loro coscienza religiosa. E nel fatto certe differenze di gradazione non sono impossibili a dimostrare, non però così chiaramente, come sarebbe desiderabile. Il governo di Venezia, innanzi tutto, sembra aver nel secolo XV pienamente partecipato a quella devozione per gli avanzi di corpi santi, che allora regnava in tutto l'occidente (v. vol. I, pag. 99). Anche taluni stranieri, che allora vivevano a Venezia, non mancarono di uniformarsi a quel pregiudizio.[390] Non diversamente [284] sembrano essere andate le cose nella dotta Padova, se noi vogliamo stare alle testimonianze del suo topografo Michele Savonarola (v. vol. I, pag. 201). Con un sentimento di orgoglio, al quale si frammischia altresì un sacro terrore. Michele ci narra come, al ricorrere di grandi pericoli notturni, si udissero per tutta la città i santi sospirare, e come in tali occasioni al cadavere di una santa monaca di santa Chiara crescessero, continuamente rinnovandosi, le unghie e i capelli, come essa altre volte, incombendo gravi sventure, facesse romori, sollevasse le braccia e simili.[391] Descrivendo la cappella di sant'Antonio nella sua basilica, l'autore esce in esclamazioni tronche e fantastiche. — A Milano non era minore il fanatismo del popolo minuto per le reliquie, e quando una volta (1517) i monaci di san Simpliciano, ricostruendo l'altar maggiore, scopersero sei corpi di santi e sopravvennero turbini e pioggie nel paese, tutti attribuirono la causa di tali disastri a quel sacrilegio,[392] e non mancarono di battere per bene sulla pubblica via quei monaci, dovunque li incontravano. — Ma in altri paesi d'Italia la fede non è così viva, e a Roma stessa, in prossimità dei Papi, si osano sollevare dei dubbi, senza però trarne veruna conclusione definitiva. È noto universalmente con quanta solennità Pio II abbia accolto in Roma il cranio dell'apostolo Andrea miracolosamente fuggito dalla Grecia a santa Maura, e come [285] l'abbia fatto deporre con gran pompa in san Pietro (1462); ma dalla sua stessa Relazione emerge non essersi egli indotto a tutto ciò se non per una specie di pudore, quando vide che tanti principi si disputavano quella reliquia. Allora soltanto gli sarebbe caduto in pensiero di convertir Roma in un asilo universale delle reliquie dei Santi cacciati dalle loro Chiese.[393] Sotto Sisto IV la popolazione della città era infervorata in tali cose più del Papa stesso, per modo che la magistratura si lagnò amaramente (1483), quando Sisto mandò al moribondo Luigi XI alcune delle reliquie custodite in san Giovanni Laterano.[394] — A Bologna si alzò a questo tempo una voce ardita domandando che si vendesse al re di Spagna il cranio di san Domenico, e del prezzo che se ne sarebbe ricavato, si facesse qualche opera di pubblica utilità.[395] — Ma quelli che mostrano minor fede di tutti nelle reliquie, sono i Fiorentini. Basti il dire, che tra la decisione presa di onorare il santo loro concittadino Zanobi con un nuovo sarcofago e l'incarico dell'esecuzione datone al Ghiberti corsero non meno di diciannove anni (1409-1428), ed anche allora la cosa non seguì che per un mero accidente, vale a dire, perchè l'artista avea già compiuto in piccolo un lavoro assai somigliante.[396] Forse erano stanchi [286] di reliquie, dopochè erano stati ingannati da una astuta abbadessa napoletana (1352), che avea loro venduto, imitato in legno e gesso, un falso braccio della patrona del duomo, santa Reparata.[397] Ma forse anche il senso estetico, di cui questo popolo andava sopra gli altri fornito, lo distolse prima d'ogni altro dal culto di cadaveri fatti a pezzi e di vestimenti ed utensili già polverizzati; l'amore della gloria, intesa nel senso moderno, gli rendeva più desiderabile il possesso delle spoglie mortali di un Dante o di un Petrarca, che non di quelle dei dodici Apostoli uniti insieme. Per ultimo può anche darsi che in tutta Italia, prescindendo da Venezia e da Roma, l'ultima delle quali specialmente avea qualche cosa di eccezionale, il culto delle reliquie fosse già da gran tempo scemato, più che in qualunque altro paese d'Europa, dinanzi a quello della Vergine,[398] e in tal caso si avrebbe una prova di più, benchè indiretta, della priorità di questo popolo nel culto della forma estetica.[399]

[287]

Si domanderà se nel nord, dove le più gigantesche cattedrali sono quasi tutte dedicate a Nostra Donna, e dove una intera letteratura poetica latina ed indigena era volta a glorificare la Madre di Dio, fosse appena possibile una maggiore venerazione per essa? Ma, di fronte a un tal culto, in Italia si moltiplicano all'infinito le Madonne miracolose, che esercitano un intervento continuo e diretto nella vita quotidiana. Ogni città alquanto considerevole ne possiede parecchie, a cominciare da quelle «dipinte da san Luca», e quindi antichissime o almeno avute per tali, sino ai lavori dei contemporanei, taluni dei quali ebbero talvolta vita abbastanza lunga da veder le loro pitture operare miracoli. Il lavoro artistico non è qui così insignificante, come la pensa Battista Mantovano;[400] secondo le circostanze esso acquista improvvisamente una prepotente virtù magica. Il bisogno di miracoli, che prova il popolo, e specialmente le donne, [288] sembra essere stato con ciò appagato, e appunto per ciò le reliquie furono pressochè messe del tutto in disparte. Sino a qual punto poi lo scherno dei novellieri contro le false reliquie abbia nociuto anche alle vere,[401] noi non siamo in grado di dirlo.

L'attitudine delle persone colte rispetto al culto di Maria si manifesta un po' più chiaramente, che non riguardo al culto delle reliquie. Innanzi tutto potrà sorprendere, che nella letteratura Dante col suo «Paradiso»[402] sia rimasto l'ultimo vero poeta di Maria presso gl'Italiani, mentre nel popolo le canzoni alla Vergine continuano a pullular sempre nuove sino al giorno d'oggi. Forse si vorranno mettere innanzi il Sannazzaro, il Sabellico,[403] ed altri poeti latini; ma il loro scopo evidentemente letterario toglie alla citazione, se non tutta, una gran parte almeno della sua efficacia. Quanto poi alle poesie italiane del secolo XV e dei primi anni del XVI, nelle quali si manifesta direttamente un sentimento religioso, sono tali, che per la maggior parte potrebbero anche essere scritte da protestanti, come, per esempio, gli inni di questo genere di Lorenzo de' Medici, i sonetti di Vittoria Colonna, di Michelangelo, di Gaspara Stampa e d'altri. Prescindendo dall'espressione lirica del teismo, [289] vi parla per lo più il sentimento della corruzione del genere umano, la coscienza della Redenzione colla morte di Cristo, l'aspirazione ad un mondo superiore, dove l'intercessione della Madre di Dio non è menzionata se non in via eccezionale.[404] È lo stesso fenomeno, che si ripete nella letteratura classica dei Francesi del tempo di Luigi XIV. Chi ricondusse nella poesia italiana il culto di Maria fu la Contro-riforma; ma è anche vero che nel frattempo l'arte figurativa avea raggiunto il colmo della sua potenza per la glorificazione della Vergine. — Il culto dei Santi per ultimo presso le persone colte assunse non di rado un colorito essenzialmente pagano (v. vol. I, pag. 77 e segg. e 355).


Ora, noi potremmo esaminare alla stessa maniera diversi altri lati del cattolicismo italiano d'allora e mettere in evidenza fino ad un certo punto il rapporto presumibile, in cui si trovavano le classi colte con la fede del popolo, senza tuttavia giungere a verun risultato definitivo in questo riguardo. I contrasti sono tali, che difficilmente se ne riscontreranno di somiglianti. Mentre infatti si continua a costruir chiese e a corredarle di magnifiche opere, si odono amari lamenti, sin dai primi anni del secolo XVI, sull'abbandono in cui è caduto il culto e sulla noncuranza in cui sono tenute le chiese stesse: Templa ruunt, passim sordent altaria, cultus Paulatim divinus abit![405] È noto come Lutero rimanesse scandolezzato a Roma del contegno tutt'altro che devoto dei preti [290] nel celebrare la Messa. Ma, accanto a ciò, le festività ecclesiastiche facevansi con tal pompa e con tal gusto, che nei paesi settentrionali non se ne aveva nemmeno un'idea. Converrà ammettere adunque che il popolo italiano, provveduto di una straordinaria forza di fantasia, volentieri trascurasse ciò che era pura consuetudine giornaliera, per lasciarsi trasportare affatto da tutto ciò, che avesse comecchessia un carattere di straordinarietà.

Da questa sovrabbondanza di fantasia si spiegano anche quelle grandi correnti di entusiasmo religioso, che si potrebbero dire epidemiche, e delle quali dobbiamo qui dare un cenno. Esse non sono altrimenti l'effetto di qualche straordinaria predicazione, ma si manifestano invece in occasioni di grandi calamità sopravvenute o imminenti.


Nel medio-evo l'Europa era visitata di tempo in tempo da un turbine di questa specie, e la conseguenza ordinaria era questa, che le moltitudini, per scongiurarlo, si gettavano entusiasticamente in qualche grande impresa o peregrinazione, quali furono, ad esempio, le Crociate e le compagnie dei Flagellanti. L'Italia ebbe la sua parte e nell'una cosa e nell'altra; le prime schiere veramente numerose di Flagellanti sono quelle, che sorsero quivi subito dopo la caduta di Ezzelino e della sua casa, e precisamente nel territorio di quella stessa Perugia,[406] che [291] noi più tardi abbiamo riconosciuto come il teatro principale delle più famose predicazioni (v. pag. 268 nota). Poi vennero i Flagellanti del 1310 e del 1334,[407] e da ultimo il grande pellegrinaggio, ma senza flagellazione, di cui parla il Corio all'anno 1339.[408] Non è impresumibile che i Giubilei in origine sieno stati, almeno in parte, istituiti per regolare possibilmente e rendere innocui questi grandi moti incomposti delle moltitudini esaltate dal fanatismo religioso; anche i grandi santuarii d'Italia, frattanto divenuti famosi, come, per esempio, quello di Loreto, attrassero a sè una parte di quell'entusiasmo.[409]

Ma in momenti terribili si ridesta qua e colà anche in tempi molto posteriori l'ardore delle penitenze medievali, e il popolo spaventato, specialmente quando qualche prodigio aggrava ancor più la situazione, vuol propiziarsi il cielo con flagellazioni e con pianti e preghiere. Così accadde a Bologna[410] in occasione della pestilenza del 1457; così a Siena[411] nei tumulti interni che l'agitarono nel 1496, per non citare, tra mille, che due soli fatti. Ma veramente commovente è ciò che accadde a Milano [292] nel 1529, quando la guerra, la fame e la peste, insieme alle estorsioni spagnuole, avean ridotto il paese all'ultima disperazione.[412] Per caso fu uno spagnuolo, fra Tommaso Nieto, quegli che questa volta predicò: nelle processioni a piedi scalzi, ch'egli ordinò, vecchi e giovani confusamente seguivano il Sacramento, ch'egli fece portare in una nuova guisa, cioè assicurando l'ostensorio sopra una bara carica di ornamenti e appoggiata alle spalle di quattro sacerdoti in bianco paludamento, — ad imitazione dell'Arca dell'Alleanza,[413] quando una volta fu portata dal popolo d'Israele intorno alle mura di Gerico. Così il travagliato popolo di Milano ricordava all'antico suo Dio il vecchio patto fatto con gli uomini, e quando la processione rientrò nel duomo e pareva che il gigantesco edifizio dovesse crollare fra le grida assordanti che imploravano misericordia, si sarebbe quasi stati tentati di credere, che il cielo dovesse sconvolgere le leggi della natura e della storia con qualche grande e salutare miracolo.


Ma in Italia v'era un governo, che in simili casi afferrava sempre le redini di quei moti e dava loro un ordinamento regolare: quello del duca Ercole I di Ferrara.[414] Allorquando il Savonarola era potente in Firenze [293] e l'entusiasmo per le profezie e gli atti di penitenza cominciò ad estendersi anche oltre l'Appennino, in Ferrara sorse l'idea di promuovere un gran digiuno volontario generale (al principio dell'anno 1496): un lazzarista annunciò dal pergamo imminente una spaventevole guerra ed una carestia; chi digiunava avrebbe potuto sfuggire a quei flagelli: ciò aver rivelato la Vergine a due coniugi suoi devoti. Dietro di che anche la corte non potè sottrarsi all'adempimento di quella pratica, ma allora essa volle almeno averne la direzione. Il 3 aprile (giorno di Pasqua) apparve un editto concernente i costumi e le devozioni, dove si qualificavano come delitti la bestemmia, i giuochi proibiti, la sodomia, il concubinato, il ricetto accordato alle meretrici e ai lor manutengoli, i traffichi in giorni festivi, e così via: e al tempo stesso s'ingiungeva agli Ebrei ed ai Mori, molti dei quali s'erano quivi rifugiati dalla Spagna, di rimettersi sul petto il loro O giallo. I contravventori erano minacciati non solo delle pene inflitte dalle leggi anteriori, «ma anche d'altre e maggiori, che al duca piacesse di stabilire». Dopo ciò il duca insieme a tutta la corte si recò per parecchi giorni alla predica; il 10 aprile furono obbligati ad intervenirvi perfino tutti gli Ebrei di Ferrara. Ma il 3 maggio il direttore della polizia — il già menzionato Gregorio Zampante (v. vol. 1, pag. 67) — pubblicò un manifesto, nel quale era detto che chiunque avesse dato danaro ai sergenti del tribunale per non essere denunziato come bestemmiatore, si annunciasse per riaverlo, insieme ad un ulteriore indennizzo: infatti quegli uomini vituperati avevano estorto da persone innocenti due e fin tre ducati ciascuno, sotto la minaccia di accusarle, e s'erano poi tra loro traditi, per cui finirono coll'andare in carcere invece essi stessi. Ma siccome s'era pagato [294] appunto per non aver che fare con lo Zampante, è verosimile che nessuno si sia presentato dopo il suo manifesto. — Nell'anno 1500, dopo la caduta di Lodovico il Moro, quando quelle stesse velleità religiose risorsero, Ercole ordinò di proprio impulso[415] alcune nuove processioni, nelle quali non doveano mancare neanche i fanciulli bianco-vestiti colla bandiera di Gesù, ed egli stesso v'intervenne a cavallo, perchè a gran fatica reggevasi sulle gambe. Poi seguì un editto affatto simile a quello del 1496. Le numerose costruzioni di chiese e di conventi di questi duchi son conosciute; ma Ercole fece venire a Ferrara perfino una santa vivente, suor Colomba,[416] poco prima che seguissero le nozze di suo figlio Alfonso con Lucrezia Borgia (1502). Un corriere di gabinetto[417] andò a prendere la santa a Viterbo con quindici altre monache, e il duca in persona al loro arrivo le condusse in un convento appositamente apparecchiato. Lo si calunnierebbe, ammettendo che egli in tutti questi passi fosse guidato da un intendimento essenzialmente politico? Al concetto che s'eran formato gli Estensi dell'arte di regnare, quale altrove è stato indicato (v. vol. I, pag. 61 e segg.), non contrastava punto, anzi si associava assai logicamente l'idea di valersi a proprio vantaggio anche dell'elemento religioso.

[295]

CAPITOLO III. La Religione e lo spirito del Rinascimento.

Soggettivismo necessario. — Tendenze mondane. — Tolleranza verso l'islamismo. — Legittime aspirazioni di tutte le religioni. — Influenza dell'antichità. — Pretesi epicurei. — Dottrina del libero arbitrio. — Umanisti devoti. — Indirizzo mediano degli umanisti in generale. — Primordii della critica religiosa. — Fatalismo degli umanisti. — Riti esterni pagani.

Ma per giungere a conclusioni definitive sulla religiosità degli uomini del Rinascimento dobbiamo prendere un'altra via. Dal loro modo di vivere in generale deve risultare la vera loro posizione tanto di fronte alla religione del paese, quanto di fronte al concetto allora prevalente della Divinità.

Questi uomini al tutto moderni, questi rappresentanti della cultura italiana d'allora, sono nati religiosi non meno degli altri popoli d'occidente; ma l'indomito loro individualismo li rende nella religione, come in tante altre cose, soggettivi, come la grande attrattiva che esercita su essi la scoperta del mondo esteriore e del mondo morale, li rende a preferenza mondani. Nel resto d'Europa invece la religione rimane ancora a lungo un dato obbiettivo, e nella vita l'egoismo e la sensualità si alternano immediatamente colla devozione e la penitenza: quest'ultima però non soffre ancora veruna concorrenza [296] spirituale, come in Italia, o almeno, se c'è, è infinitamente minore.

Inoltre da tempo remotissimo il frequente e immediato contatto coi Bizantini e coi Musulmani avea tenuto viva un'abituale tolleranza o indifferenza religiosa, dinanzi alla quale l'idea etnografica di una Cristianità occidentale privilegiata perdeva ogni efficacia. E quando l'antichità classica, co' suoi eroi e le sue istituzioni, divenne l'ideale della vita umana, la speculazione conforme allo spirito degli antichi e lo scetticismo dominarono spesso per intero la mente degli Italiani.

Di più: siccome gl'Italiani furono i primi tra i moderni Europei a speculare arditamente intorno alla libertà e alla necessità, e ciò accadde fra circostanze politiche illegali e violente, che troppo spesso somigliavano a una splendida e durevole vittoria del male contro il principio del bene, così la loro fede in Dio vacillò, e un tal quale fatalismo cominciò ad insinuarsi nel loro cuore e a regolare il loro giudizio. Quando poi la fede soffriva una scossa in una di quelle anime appassionate, che non possono vivere nel dubbio e nell'incertezza, allora si cercò un compenso nelle superstizioni ereditate dagli antichi e dal medio-evo, quali erano, per esempio, l'astrologìa e la magìa.

Ma finalmente questi atleti del pensiero, questi rappresentanti del Rinascimento mostrano sotto il punto di vista religioso una qualità, che è frequente nelle nature giovanili, distinguono cioè con grande sagacia il bene dal male, ma non intendono che cosa sia il peccato: ogni turbamento dell'armonia interna sperano di poterlo ricomporre colle forze loro, e appunto per questo non conoscono verun rimorso; e conseguentemente si fa meno sensibile in essi il bisogno di una Redenzione, mentre [297] al tempo stesso, dinanzi alle mire ambiziose e allo sforzo mentale del momento, svanisce completamente il pensiero di un mondo avvenire, ovvero assume una forma poetica, anzichè dogmatica.

Se noi facciamo presenti alla nostra mente tutte queste cose, suggerite e in gran parte anche confuse dalla fantasia, che prevale su tutto, avremo un'immagine dello spirito di quel tempo, che almeno s'accosterà alla verità assai più, che quelle vaghe querimonie, che sogliono udirsi sull'indirizzo pagano del tempo moderno. E spingendo poi l'osservazione più addentro, arriveremo anche a persuaderci, che sotto il velo, che copre un tale stato di cose, rimane ancor vivo un forte istinto di schietta e pura religiosità.

Un più ampio sviluppo del sin qui detto deve necessariamente limitarsi alle prove di fatto le più necessarie.

Che la religione in generale fosse divenuta nuovamente piuttosto un affare individuale e dipendente dalla maniera d'intenderla di ciascuno, era cosa inevitabile di fronte alle dottrine della Chiesa degenerate e tirannicamente mantenute, ed era al tempo stesso una prova, che lo spirito europeo non era ancora spento del tutto. Egli è vero però, che ciò si manifesta in modi molto diversi: perchè, mentre in Germania le nuove sêtte mistiche ed ascetiche crearono una nuova disciplina più adatta al sentire moderno, in Italia invece ognuno andò per la sua via, senza curarsi delle credenze e delle opinioni degli altri, e in tal guisa, gettati nel mare della vita, molti si perdettero nell'indifferenza religiosa, che più cresceva col crescere della cognizione degli uomini e delle cose. Tanto più adunque sono da ammirare coloro, che arrivarono a formarsi una religione da sè, e vi si attennero stabilmente. Poichè non fu loro colpa se [298] non poterono più restar fedeli all'antica Chiesa, quale essa era e quale s'imponeva a' suoi seguaci, e da un altro lato sarebbe stato un pretendere troppo da singoli individui, che si sobbarcassero all'ingente lavoro spirituale, che fu il compito dei Riformatori tedeschi. A che cosa generalmente mirasse questa religione individuale delle persone più colte cercheremo di dimostrarlo nella conclusione del nostro lavoro.


Lo spirito mondano, per mezzo del quale il Rinascimento sembra trovarsi in aperto contrasto col medioevo, ha origine innanzi tutto dall'enorme sovrabbondare delle nuove opinioni e dei nuovi concetti, che si vennero formando intorno alla natura ed all'umanità. Considerato in sè stesso, esso non è più ostile alla religione di quello che siano i così detti interessi della civiltà, che ora ne tengono il posto, salvo che tali interessi, quali da noi sono intesi, non ci dànno che una pallida immagine dell'universale entusiasmo, che le molte e grandiose novità d'allora destarono in tutti gli ordini della vita sociale. Per tal maniera quel nuovo indirizzo era serio e, oltre a ciò, nobilitato dalla poesia e dall'arte. Ella è una sublime necessità dello spirito moderno, alla quale esso non può più sottrarsi, quella di sentirsi attratto irresistibilmente allo studio degli uomini e delle cose e di credere che appunto in questo consista la sua missione.[418] In quanto tempo e per quali vie questo studio sarà per ricondurlo a Dio, e in qual maniera esso giungerà a mettersi in armonia con gli altri sentimenti religiosi di ogni individuo, sono questioni, alle quali non [299] si può rispondere col semplice aiuto del nudo ragionamento. Il medio-evo, che nel complesso s'era tenuto lontano dall'empirismo e dal libero esame, non può in questo grande problema portare veruna luce, che ci appiani la via al suo scioglimento.


Con lo studio dell'uomo e con molte altre cose ancora si collegò poscia la tolleranza e l'indifferenza di fronte all'Islamismo. Che gl'Italiani sin dai tempi delle Crociate conoscessero ed ammirassero l'eminente grado di cultura, cui erano giunti, specialmente prima dell'invasione mongolica, i popoli islamitici, è cosa posta ormai fuor d'ogni dubbio; più tardi vi si aggiunsero altre circostanze importanti, quali il modo di governare mezzo maomettano dei loro principi, la tacita avversione, anzi il disprezzo verso la Chiesa già corrotta e degenerata, la frequenza e l'attività sempre maggiori dei viaggi e dei commerci nei porti orientali e meridionali del Mediterraneo.[419] Ancora nel secolo XIII non sarebbe difficile a dimostrare come gli Italiani accettassero di buon grado certe idee maomettane di generosità e di dignitosa alterezza, che d'ordinario si presupponevano nella persona di qualche sultano. In genere s'intendono sempre i sultani ejubidici Mammelucchi d'Egitto, e, se si cita un nome, egli è di solito quello di Saladino.[420] Perfino i Turchi Osmani, di cui veramente non s'ignoravano le tendenze brutali e rapaci, non ispirano agl'Italiani, come è stato dimostrato altrove (v. vol. I, pag. 126 e segg), se [300] non un mezzo spavento, e intere popolazioni si vanno abituando all'idea di un possibile accordo con essi.

La più vera e caratteristica espressione di questa indifferenza è la famosa storia dei tre anelli, che, fra molte altre, Lessing pose in bocca al suo Natan, dopochè già molti secoli prima un po' timidamente era stata narrata nelle «Cento novelle antiche» (nov. 72 e 73), e un po' più liberamente poi dal Boccaccio.[421] In quale angolo del Mediterraneo ed in qual lingua sia stata per la prima volta esposta, nessuno sarà mai in grado di dirlo; probabilmente però nelle sue origini essa era molto più esplicita, che non nelle due versioni italiane. La segreta riserva, che vi sta in fondo, vale a dire il deismo, apparirà più innanzi nel suo più ampio significato. La stessa idea, ma sotto forma più grossolana e sforzata, appare nel noto libello sui «Tre che ingannarono il mondo», vale a dire Mosè, Cristo e Maometto. Ma se l'imperatore Federico II, che se ne vuole autore, avesse avuto realmente simili idee, presumibilmente le avrebbe anche espresse in modo men grossolano. Del resto, esse s'incontrano frequentemente anche nell'Islamismo d'allora.


Un modo di pensare assai somigliante s'incontra poi, all'epoca più splendida del Rinascimento, verso la fine del secolo XV, nel «Morgante maggiore» di Luigi Pulci. Il mondo fantastico nel quale si movono i suoi personaggi, si divide, come in tutte le epoche romanzesche, in due campi, il cristiano ed il maomettano. Ora, conforme alle idee del medio-evo, la vittoria e la riconciliazione [301] tra i combattenti era di preferenza seguita dal battesimo della parte maomettana soccombente, e gl'improvvisatori, che avean trattato lo stesso argomento prima del Pulci, devono aver insistito di frequente su questo punto. Il vero ufficio del Pulci è quello di parodiare i suoi predecessori, specialmente i peggiori fra loro, e questo accade già colle invocazioni di Dio, di Cristo, e della Vergine, con cui comincia ciascuno de' suoi canti. Ma ancor più espressamente poi egli fa la caricatura delle loro conversioni e dei loro battesimi, presentandoli al lettore e all'uditore sotto forme così assurde, che l'ironia salta agli occhi di tutti. Nè egli s'accontenta di ciò, anzi va tant'oltre da confessare la propria fede nella bontà relativa di tutte le religioni,[422] confessione, alla quale, in onta a tutte le sue proteste di ortodossia,[423] sta in fondo una tendenza essenzialmente deistica. Oltre a ciò, egli fa ancora un altro gran passo al di là del medio-evo in un'altra direzione. Le alternative dei secoli precedenti avean detto: credenti ortodossi o eretici, o cristiani o pagani e maomettani: ora il Pulci ci ritrae la figura del gigante Margutte,[424] il quale di fronte a tutte e a ciascuna religione lietamente si professa seguace di un sensuale egoismo e di tutti i vizi, non riservando che un punto solo: di non tradir mai chicchessia. Forse il poeta nel ritrarre questo tipo di furfante, che pure ha una onestà sua propria, ebbe in mira un concetto elevato, quello di condurlo sulla via del bene per mezzo di Morgante; ma la figura gli si guastò assai presto fra le mani, e noi vediamo che [302] ancora nel canto seguente egli gli fa fare una comica fine.[425] Margutte è stato da alcuni tirato in campo come una prova della frivolezza del Pulci; ma necessariamente esso è una parte integrante del mondo poetico del secolo XV. Questo doveva pure esprimere in qualche modo e con una certa grottesca grandezza il selvaggio egoismo divenuto indifferente affatto al dogmatismo che allora regnava, quell'egoismo, al quale non è rimasto che un resto di sentimento d'onore. Anche in altri poemi ai giganti, ai demonii, ai pagani ed ai maomettani pongonsi in bocca idee e sentimenti, che nessun cavaliere cristiano oserebbe manifestare.


In modo affatto diverso influì alla sua volta anche l'antichità, e propriamente non già per mezzo della sua religione, perchè questa ormai era anche troppo omogenea al cattolicismo d'allora, ma per mezzo della sua filosofia. La letteratura antica, che allora si venerava come qualche cosa di veramente perfetto, era tutta piena delle vittorie della filosofia sulla cieca fede nelle tradizioni religiose: un numero rilevante di sistemi e frammenti di sistemi presentaronsi alla mente degli Italiani, non più come semplici novità od eresie, ma quasi come dogmi, che ora si tentò non tanto di distinguere, quanto di conciliare fra loro. Pressochè in tutte queste diverse opinioni e in questi filosofemi c'era una specie di fede nella Divinità; ma nel loro complesso essi formavano [303] tuttavia un contrasto assai vivo colla teoria cristiana della divina Provvidenza regolatrice del mondo. Allora sorse una questione veramente essenziale, nella soluzione della quale s'era affaticata senza soddisfacente risultato la teologia del medio-evo, e che ora appunto pretendeva una risposta dalla sapienza degli antichi: in quali rapporti, cioè, stieno fra loro la Provvidenza, il libero arbitrio dell'uomo e la necessità delle cose. Se noi volessimo anche superficialmente tener dietro alla storia di questa questione dal secolo XIV in avanti, saremmo condotti a scrivere un libro apposito. Qui bastino all'uopo pochi fuggevoli cenni.


Se si consulta Dante e i suoi contemporanei, l'antica filosofia in sulle prime avrebbe inclinato appunto verso quel lato della vita italiana, che formava il più aperto contrasto col Cristianesimo, vale a dire, verso l'epicureismo. A quel tempo non si possedevano più gli scritti di Epicuro, ed anche quelli fra gli antichi che parlavano delle sue dottrine, ne parlavano da un punto di vista troppo esclusivo e ristretto; ciò non ostante però bastava quella forma dell'epicureismo, che si poteva studiare in Lucrezio e più particolarmente poi in Cicerone, per accorgersi tosto di essere in un mondo del tutto privo di divinità. Quanto letteralmente sia stata intesa la sua dottrina, non potrebbe dirsi, come niuno potrà mai dire, se per avventura il nome dell'enigmatico savio della Grecia non sia divenuto una comoda parola d'ordine per le moltitudini: e probabilmente l'Inquisizione domenicana si è servita di questo appellativo per designar anche tutti coloro, sui quali in verun altro modo non poteva stendere la sua mano. Tali erano quei beffardi dispregiatori e detrattori della Chiesa, che apparvero assai per [304] tempo e che difficilmente avrebbero potuto punirsi per dottrine eretiche determinate: ma, per tirar loro addosso quell'accusa, bastava la vita spensierata ed allegra, che conducevano. In questo senso convenzionale infatti anche Giovanni Villani usa evidentemente questa parola,[426] quando nei due incendj fiorentini del 1115 e del 1117 non vede che una punizione divina per le eresie di molte sêtte e «intra l'altre della setta degli Epicurei, per vizio di lussuria e di gola». Di Manfredi egli dice; «tutta sua vita fu epicuria, non curando quasi Iddio, ne' Santi, se non a diletto del corpo».

Più apertamente ancora si esprime Dante nel nono e decimo canto dell'Inferno. Lo spaventevole campo seminato di tombe roventi coi coperchi sospesi, dalle quali uscivano voci di profondo dolore, albergava le due grandi categorie di coloro, che o furono vinti dalle armi della Chiesa nel secolo XIII, o ne furono espulsi. Gli uni erano eresiarchi, e facevano guerra alla Chiesa con determinate dottrine, che cercarono di diffondere: gli altri epicurei, e la colpa loro consisteva nell'avere opinato che l'anima muoja col corpo.[427] Ma la Chiesa sapeva bene che questa opinione, qualora avesse preso piede, avrebbe nociuto alla di lei potenza assai più che tutte le dottrine de' Manichei e de' Paterini, perchè toglieva ogni efficacia a quanto essa dichiara sul destino dei singoli individui [305] dopo la loro morte. Naturalmente non era da aspettarsi che ella confessasse di aver essa stessa, coi mezzi di cui si servì nelle sue lotte, spinto appunto i migliori alla disperazione ed all'incredulità.

L'avversione di Dante per Epicuro e per ciò ch'egli riguardava come la sua dottrina, era certamente sincera; il poeta del mondo soprannaturale doveva necessariamente odiare chi negava l'immortalità; ed un mondo nè creato, nè guidato da Dio, e la sensualità posta a scopo supremo della vita, erano due concetti troppo lontani dal suo modo abituale di sentire e di pensare. Tuttavia, se si spinge più addentro l'osservazione, si vedrà che certi filosofemi degli antichi non mancarono di produrre anche su lui una certa impressione, la quale non si troverebbe in troppo buon accordo colla dottrina biblica della Provvidenza regolatrice del mondo. Ma non potrebbe darsi per avventura che fosse stata o speculazione sua speciale, od influenza delle opinioni allora prevalenti o paura altresì della violenza, che allora regnava universalmente, quella che lo indusse a rinunciare ad una Provvidenza regolatrice delle cose singole?[428] Dio infatti, secondo lui, abbandona il governo del mondo ad un essere immaginario, la fortuna, la quale non si cura d'altro, che di mutare e rimutare continuamente le cose della terra, e in una indifferente beatitudine non ode il grido di dolore, che a lei solleva l'umanità. In onta a tutto questo però egli mantiene inesorabilmente la dottrina della responsabilità morale dell'uomo: egli crede al libero arbitrio.


La credenza popolare nel libero arbitrio domina in occidente da tempo antichissimo, come è vero altresì [306] che in tutti i tempi ognuno è stato tenuto responsabile del fatto proprio, come cosa che implicitamente si è sempre intesa da sè. Ma assai diversamente accadde rispetto alla dottrina filosofica e religiosa, che si trovava nella necessità di mettere d'accordo fra loro la natura dell'umano volere e le grandi leggi della natura. Qui si ha un più ed un meno, secondo i quali in generale si regola l'apprezzamento della moralità. Dante non è affatto indipendente dai delirj astrologici, che rischiaravano di falsa luce l'orizzonte del suo tempo, ma egli si solleva con tutte le sue forze verso una elevata contemplazione dell'essere umano. «Le costellazioni, fa egli dire al suo Marco Lombardo,[429] danno bensì i primi impulsi al vostro operare, ma Lume v'è dato a bene ed a malizia, E libero voler, che se fatica Nelle prime battaglie col ciel dura. Poi vince tutto, se ben si notrica».

Altri eran liberi di cercare la necessità, che si contrappone alla libertà, in qualche altra potenza, fuorchè nelle stelle; — ma in ogni caso la quistione era posta, e non poteva più essere dissimulata. Se essa poi fosse quistione sollevata dalle scuole o addirittura da singoli pensatori isolati, non spetta a noi il deciderlo qui e bisogna interrogarne la storia della filosofia. Siccome però essa si manifestò nella coscienza di un numero sempre più esteso d'individui, così è giusto che noi ce ne occupiamo ancora per pochi istanti.

Il secolo XIV si lasciò commovere in modo speciale dagli scritti filosofici di Cicerone, il quale, come è noto, passava per eccletico, ma sostanzialmente influì come [307] scettico, perchè si accontentò sempre di riferire le teorie di diverse scuole, senza aggiungervi mai nessun corollario soddisfacente. In seconda linea vengono Seneca e i pochi scritti di Aristotile, che erano stati tradotti in latino. Ad ogni modo anche questi studi non furono senza un frutto, e questo fu appunto la capacità di riflettere sui più importanti problemi, almeno al di fuori della dottrina della Chiesa, se non in contraddizione con essa.


Col secolo XV crebbe, come vedemmo, il possesso e la diffusione degli scritti dell'antichità in modo affatto straordinario, e finalmente vennero nelle mani del pubblico tutti i filosofi greci ancora esistenti almeno nelle traduzioni latine. Ora, prima d'ogni altra cosa, merita di esser notato, che per l'appunto alcuni de' fautori principali di questa letteratura si professano strettamente religiosi, anzi perfin proclivi all'ascetismo (cfr. vol. I, pag. 365). Di frà Ambrogio Camaldolese non è il caso di parlare, perchè egli si restrinse unicamente alla traduzione dei Padri della Chiesa, e solo con grande ripugnanza, sulle istanze di Cosimo il vecchio, s'indusse a voltare in latino Diogene Laerzio. Ma i suoi contemporanei Nicolò Niccoli, Giannozzo Manetti, Donato Acciajuoli, papa Nicolò V congiungono una profonda cognizione della Bibbia ed una sincera pietà con una cultura umanistica universale.[430] Anche in Vittorino da Feltre riscontrammo già (v. vol. I, pag. 282) un indirizzo ben poco diverso. Quel medesimo Maffeo Vegio, che cantò il tredicesimo canto dell'Eneide, aveva per sant'Agostino e per sua madre Monica un entusiasmo, che riescirebbe [308] inesplicabile senza ammettere in lui un sentimento di profonda pietà. Frutto e conseguenza di tali tendenze fu poscia, che l'Accademia platonica di Firenze si propose formalmente di compenetrare lo spirito dell'antichità col Cristianesimo: singolarità affatto caratteristica in mezzo al prevalere universale delle idee umanistiche.


Queste nella sostanza erano per l'appunto profane, e acquistarono ogni dì più un tale carattere coll'allargarsi degli studi nel secolo XV. Gli umanisti, che abbiamo già imparato a conoscere agli avamposti dell'individualismo già uscito d'ogni tutela, in tutte le loro azioni di regola si mostrano tali, che perfino la loro religiosità, di cui pur talvolta essi menano vanto, può parer tale da non doverne tenere alcun conto. Essi vennero in voce di atei, mentre in sostanza non erano che indifferenti o tutt'al più tenevano un linguaggio assai franco contro la Chiesa; infatti, un ateismo di professione o comecchessia dedotto speculativamente nessuno lo mostrò mai,[431] nè poteva mostrarlo. Se pure ebbero a base un principio direttivo, questo sarà stato piuttosto una specie di superficiale razionalismo, un fugace riflesso delle molte e contradittorie idee degli antichi, tra i quali passarono la loro vita, nonchè del profondo discredito in cui era caduta la Chiesa colle sue dottrine. Di quest'ultima specie era sicuramente quel ragionamento, che condusse Galeotto Marzio sino ai gradini del rogo,[432] e che l'avrebbe condotto anche sul rogo stesso, se l'antico suo discepolo Sisto IV non fosse accorso a strapparlo dalle mani dell'Inquisizione. [309] Infatti Galeotto avea sostenuto, che chi si conduce onestamente e vive secondo la legge naturale insita in ciascun di noi, sarà salvo, qualunque sia la schiatta o la religione a cui appartenga.

Consideriamo, in via di esempio, il contegno religioso di uno dei minori di questa grande schiera, di Codro Urceo,[433] che fu dapprima maestro privato dell'ultimo degli Ordelaffi, principi di Forlì, e poscia per lunghi anni professore pubblico a Bologna. Riguardo alla gerarchia ed al monacato egli abbonda oltre misura delle accuse obbligate allora in uso: il suo linguaggio è estremamente mordace in generale, e per di più egli si permette di frammischiare la propria persona in tutte le cronache e i pettegolezzi cittadini, che narra. E tuttavia egli parla anche in modo edificante dell'Uomo-Dio e sa all'uopo raccomandarsi per lettera alle orazioni di un pio ecclesiastico. Una volta, dopo avere enumerate tutte le follìe della religione pagana, continua bizzarramente così: «anche i nostri teologi s'accapigliano fra di loro in questioni de lana caprina, quali l'immacolata Concezione, l'Anticristo, i Sacramenti, la predestinazione ed altre cose, che sarebbe meglio lasciare in disparte, anzichè propalarle pubblicamente». Un'altra volta prese il fuoco alla sua stanza e con essa ad alcuni suoi manoscritti già finiti, mentre egli era assente: quando ne fu informato, per via, montò in tanto furore, che, fermatosi dinanzi ad una immagine della Vergine, uscì in queste parole: «Odi ciò ch'io ti dico: io non sono demente, io parlo di tutto senno! Se nell'ora della mia morte io dovessi mai invocare il tuo ajuto, non importa che tu ascolti [310] la mia preghiera e m'accolga fra' tuoi, perchè io voglio restarmene col demonio per tutta l'eternità!» Ma, tornato in sè, egli tuttavia stimò prudente, dopo una simile escandescenza, di tenersi appiattato per ben sei mesi presso un taglialegne. In mezzo a tutto questo egli era talmente superstizioso, che si trovava sempre in angustie per qualche augurio o per qualche prodigio; soltanto per l'immortalità non gli avanzava più alcuna fede. Interrogato da' suoi discepoli su questo punto, egli soleva rispondere, che nessuno sa che cosa accada dell'uomo, della sua anima ovvero del suo spirito dopo la morte, e che tutti i ragionamenti sul mondo avvenire non sono che spauracchi per le femminette. Ma quando fu in punto di morte egli raccomandò nel suo testamento l'anima sua ovvero il suo spirito[434] a Dio onnipotente, ammonì i discepoli, che gli piangevano intorno, a temer Dio e principalmente a credere all'immortalità e ad una giustizia retributiva dopo la morte, e ricevette i sacramenti con grande compunzione. — Non si ha alcuna garanzia, che uomini della stessa tempra senza paragone più celebri, anche manifestando opinioni in sè stesse ancor più ardite, sieno poi stati nella loro vita gran fatto più coerenti. È probabile che la maggior parte internamente abbiano oscillato tra l'incredulità e qualche avanzo di cattolicismo succhiato coll'educazione, ed esteriormente si siano serbati ligi alla Chiesa per mera prudenza.


Siccome poi il loro razionalismo aveva una stretta attinenza coi primordj della critica storica, così era naturale [311] che qua e là sorgesse anche qualche timida indagine sulla credibilità del racconto biblico. Si suol ripetere tradizionalmente una sentenza di Pio II, che sarebbe stata pronunciata quasi coll'intenzione di prevenire le accuse:[435] «Quand'anche il cristianesimo non fosse confermato da miracoli, dovrebbe tuttavia accettarsi almeno per la sua moralità». Sulle tradizioni leggendarie, in quanto esse contenevano arbitrarie versioni dei miracoli biblici, molti si permettevano senz'altro di alzare le risa,[436] e ciò naturalmente esercitava alla sua volta un terribile contraccolpo. Trattandosi di eretici che inclinavano alle idee ebraiche, per prima cosa naturalmente negavano la divinità di Cristo, e questo per avventura fu il caso di Giorgio da Novara, che intorno al 1500 fu arso in Bologna.[437] Ma nella stessa Bologna intorno a questo tempo (1497) l'Inquisitore domenicano dovette lasciar fuggire, accontentandosi di una semplice dichiarazione di pentimento,[438] il medico Gabriele da Salò, che godeva la protezione dell'intera cittadinanza, quantunque avesse osato difendere una serie di proposizioni eretiche, come per esempio, che Cristo non fu mai Dio, ma [312] figlio di Giuseppe e di Maria, nato da generazione naturale, che colla sua astuzia seppe trarre in inganno il mondo; che può benissimo aver subito la crocifissione, ma per delitti commessi; che la sua religione non tarderebbe a cadere; che nell'ostia consacrata era follìa il credere vi fosse il suo vero corpo, e finalmente che egli non operò i suoi miracoli per virtù divina, ma per l'influsso dei corpi celesti, e simili. Quest'ultima proposizione merita in modo speciale di esser notata: la fede è perita, ma si fa una riserva in favore della magìa.[439]


Riguardo al governo del mondo, gli umanisti non si sollevano in generale al di là di una fredda e rassegnata contemplazione di ciò che accade sotto l'impero della violenza e del disordine, che prevalgono dovunque. Da questo modo di sentire emersero i molti libri sul «Fato», qualunque altro fosse il nome, con cui chiamavano la necessità suprema delle cose. Essi per lo più non fanno che constatare il girarsi della ruota della fortuna e l'instabilità delle cose terrene, specialmente delle politiche: la Provvidenza vi è menzionata evidentemente soltanto, perchè si ha vergogna ancora di pronunciarsi pel nudo fatalismo o di rinunciare ad ogni distinzione di causa e di effetti, od anche di non far altro che sollevare vane querele. Non senza un certo spirito Gioviano Pontano costruisce la storia naturale di quell'ente immaginario, che si chiama la Fortuna, desumendola da un gran numero di esperienze, che ebbe occasione di fare egli stesso.[440] [313] Più facetamente ancora, sotto forma di una visione avuta in sogno, Enea Silvio tratta lo stesso argomento.[441] Invece il Poggio, in un scritto senile,[442] si sforza di mostrare il mondo come una valle di miserie e di classificare la felicità dei singoli ordini sociali quanto più bassamente è possibile. Questa intenzione in sostanza rimane anche in seguito la prevalente: di moltissimi personaggi illustri si cercano le vicende fortunate e le sfortunate, e nel tirar della somma, queste generalmente prevalgono sopra quelle. Con linguaggio veramente dignitoso e quasi elegiaco Tristano Caracciolo[443] ci dipinge il destino d'Italia e degli Italiani, quale si poteva abbracciar d'uno sguardo intorno al 1510. Applicando poi ai singoli umanisti questo sentimento generale allor prevalente, Pierio Valeriano scrisse non molto dopo il suo celebre libro (v. vol. I, pag. 370). In questo riguardo qualche tema si presentava talvolta rivestito di attrattive affatto speciali, come, per esempio, la vita di Leone X. Ciò che di essa può dirsi dal punto di vista politico, l'ha detto Francesco Vettori in alcuni tratti veramente magistrali della sua storia: il lato epicuraico della stessa ce lo dànno Paolo Giovio e l'ignoto suo biografo:[444] i punti più oscuri e lo svolgersi successivo del suo destino appariscono con inesorabile fedeltà nel citato Pierio.

Di fronte a tutto ciò desta quasi ribrezzo quando si vede qua e là qualche latina iscrizione tessere pubblicamente [314] le lodi della Fortuna. Così — pochi anni appena prima della sua cacciata — Giovanni Bentivoglio, signore di Bologna, osò far incidere sulla torre recentemente costruita presso il suo palazzo, che il suo merito e la sua fortuna gli avevano procacciato in abbondanza tutti i beni immaginabili.[445] Gli antichi, parlando a questo modo, non dissimulavano almeno un certo timore dell'invidia vendicatrice degl'Immortali. In Italia i primi a menar vanto pubblicamente della loro fortuna furono probabilmente i Condottieri (v. vol. I, pag. 28 e segg.).

Del resto la maggior influenza della risorta Antichità sulla religione non proveniva da un sistema filosofico qualunque o da una dottrina od opinione qualsiasi degli antichi, ma da una tendenza generale allora prevalente. Si preferivano gli uomini ed in parte anche le istituzioni antiche a quelle del medio-evo, si cercava di imitar gli uni e le altre in tutti i modi, e, preoccupandosi unicamente di questo, non si badava gran fatto alle differenze di religione. L'ammirazione per la grandezza storica assorbiva ogni cosa (cfr. vol. I, pag. 201 nota, vol. II, pag. 216).


Quanto ai filologi, vi si aggiungeva inoltre qualche pazzìa speciale, per la quale attiravano sopra di sè gli [315] occhi di tutti. Quanta ragione avesse Paolo II di lamentarsi delle tendenze pagane de' suoi Abbreviatori e dei curiali in generale, non può esser messo del tutto in chiaro, in quanto che il suo principal biografo, che fu anche la sua vittima principale, il Platina, (v. vol. I, pag. 304, vol. II, pag. 77) per rifarsi delle persecuzioni sofferte, ce lo dipinge come estremamente facile all'ira ed alla vendetta, e ce ne dà in generale un ritratto, che pende piuttosto nel ridicolo. L'accusa di paganesimo, d'incredulità, di materialismo ecc.[446] fu sollevata contro i detenuti soltanto dopochè il processo per alto tradimento non avea dato verun risultato: inoltre, se siamo bene informati, Paolo non era l'uomo che fosse in grado di dare un giudizio nel campo scientifico, e si sa che, privo di cultura egli stesso, raccomandava ai romani di non portare l'istruzione dei loro figli al di là del leggere e dello scrivere. È la stessa povertà di vedute, da cui non andò esente neanche il Savonarola (v. pag. 277), con questo però che a papa Paolo si avrebbe potuto rispondere, che egli solo e quelli che la pensavano come lui aveano la colpa principale, se la cultura rendeva gli animi avversi alla religione. Del resto non v'ha alcun dubbio che egli fosse seriamente preoccupato delle tendenze pagane, che si vedeva pullulare d'intorno. Ma quali cose non si saranno permesse gli umanisti alla corte di un empio, qual'era Sigismondo Malatesta (v. pag. 302, nota)? Infatti l'unica loro preoccupazione era diretta a sapere fino a qual punto sarebbe loro stato concesso di spingersi per parte di quelli, cui volevan piacere. Nelle loro mani il Cristianesimo non è quasi più riconoscibile, tanta è l'impronta pagana, che [316] essi v'imprimono (v. vol. I, pag. 348 e 355). Ma nessuno in questo riguardo andò più innanzi di Gioviano Pontano: presso di lui un santo non solo si chiama divus, ma deus: gli angeli per lui sono addirittura identici coi genii dell'antichità,[447] e le sue idee sull'immortalità richiamano l'Eliso e il regno delle ombre. Del resto anche altri non mancano di trascendere a veri eccessi. Allorchè nel 1526 Siena[448] fu assalita dal partito che era stato espulso, il buon canonico Tizio (ce lo narra egli stesso) s'alzò il 22 luglio dal letto avendo in mente un passo del terzo libro di Macrobio,[449] celebrò la sua messa, e recitò poscia la formola rituale usata da quell'autore contro i nemici, salvo che invece di dire Tellus mater, teque Jupiter obtestor, mutò e disse: Tellus teque Christe Deus obstetor. Egli ripetè due giorni quella preghiera, e nel terzo i nemici se ne andarono. Da un lato tali cose si crederebbero puri esercizi di stile o sacrificii fatti alla moda del tempo, ma dall'altro hanno l'aspetto di vere apostasìe religiose.

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CAPITOLO IV. Innesto di antica e moderna superstizione.

L'astrologia. — Sua diffusione ed influenza. — Suoi avversari in Italia. — Confutazione di Pico e suoi effetti. — Superstizioni diverse. — Superstizione degli umanisti. Spettri di persone morte. — Credenza nei demoni. — La strega italiana. — Il paese classico delle streghe presso Norcia. — Fusione e rapporti colla stregonerìa del nord. — Malìe delle meretrici. — L'incantatore e lo scongiuratore. — I demonii sulla via di Roma. — Singole specie di malìe: i telesmi. — Magìa del getto dei fondamenti. — Il negromante presso i poeti. — Storiella magica di Benvenuto Cellini. — La magìa in decrescenza. — Specie affini della stessa; l'alchimia.

Ma l'Antichità esercitò anche un altro impulso essenzialmente pernicioso e precisamente di indole dogmatica: essa comunicò al Rinascimento le proprie superstizioni. Qualcuna di esse si era già mantenuta viva attraverso tutto il medio-evo; e così tanto più facilmente ora risorsero tutte. S'intende da sè che in ciò ebbe una parte grandissima la fantasia. Essa sola poteva imporre silenzio allo spirito essenzialmente investigatore degli Italiani.

La fede nella divina Provvidenza era, come s'è detto, negli uni notevolmente scossa per il cumulo di mali e di violenze, che si vedevano; gli altri, come ad esempio Dante, abbandonavano la vita terrena in balìa al caso e a' suoi capricci, e se, in onta a ciò, mantennero viva in sè stessi la fiaccola della fede, ciò non proveniva se [318] non dalla profonda persuasione, che era in loro, di una superiore destinazione dell'uomo in un mondo avvenire. Ma non appena cominciò a vacillare anche questa persuasione, il fatalismo guadagnò il sopravvento — o, viceversa, dove prevalse il fatalismo, mancò la fede nell'immortalità.

Nella lacuna per tal modo aperta entrò innanzi tutto la scienza astrologica degli antichi, e più tardi anche quella degli Arabi. Da ogni singola posizione dei pianeti fra loro e in relazione ai segni del zodiaco essa indovinava gli eventi futuri e intere vite d'uomini, e per tal modo influiva sulle più importanti deliberazioni. In molti casi il modo di agire, al quale taluno si lasciava indurre pel creduto influsso delle stelle, può non essere stato più immorale di quanto sarebbe stato se di tale influsso non si fosse tenuto conto veruno; ma assai di frequente le decisioni sembrano essere state prese a tutto pregiudizio della coscienza e dell'onore. Egli è sempre sommamente istruttivo il vedere, come nessun lume e nessuna cultura sieno stati in grado di vincere questo delirio, perchè esso aveva la sua radice nella fantasia estremamente facile a impressionarsi, e nel vivo desiderio di conoscere e di determinare anticipatamente il futuro, e perchè l'Antichità vi aggiungeva il suggello della sua autorità.

Col secolo XIII l'astrologia acquistò improvvisamente una notevole prevalenza nella vita degli Italiani. Federico II conduce sempre con sè il suo astrologo Teodoro, ed Ezzelino da Romano[450] addirittura un'intera corte, [319] e assai lautamente stipendiata, di tali uomini, tra i quali il celebre Guido Bonatto e il saraceno Paolo di Bagdad (dalla lunga barba). Essi erano obbligati di prestabilire il giorno e l'ora di qualsiasi impresa importante, e le enormi carneficine, di cui egli si aggravò la coscienza, in non piccola parte possono benissimo non essere state, che non semplice conseguenza delle loro profezie. D'allora in poi nessuno si perita più di far interrogare le stelle; non solo i principi, ma anche i governi repubblicani[451] mantengono regolarmente degli astrologi, e nelle Università[452] dal XIV sino al XVI secolo vengono nominati appositi professori di questa pretesa scienza, accanto agli astronomi veri. La maggior parte dei Papi consentono che sieno consultati i pianeti,[453] e se Pio II forma tra essi una onorevole eccezione,[454] non curando neanche l'interpretazione dei sogni, dei prodigi e degl'incantesimi, Leone X invece sembra essersi gloriato che sotto il suo pontificato l'astrologia fiorisse,[455] e Paolo III non tenne [320] mai nessun concistoro[456] senza che gli astrologi non gliene avessero indicato il momento.

Ora, quanto agli spiriti più illuminati, si può benissimo supporre che essi, oltre un certo limite, non si lasciassero nelle loro azioni determinare dai pianeti, e che vi fosse realmente un punto, al di là del quale la religione e la coscienza non permettevano di andare. Ma nel fatto uomini valenti e pii non solo parteciparono a questi delirii, ma se ne fecero perfino sostenitori e rappresentanti. Uno di questi fu maestro Pagolo da Firenze,[457] nel quale si vede presso a poco la stessa tendenza a moralizzare l'astrologia, che negli ultimi tempi di Roma si scorge in Firmico Materno.[458] La sua vita era quella di un santo anacoreta: non si cibava che assai scarsamente, disprezzava ogni bene mondano e non cercava d'arricchirsi d'altro, fuorchè di libri: dotto medico, egli limitava l'esercizio pratico della sua arte ai bisogni di alcuni amici, ponendo loro per condizione che prima si confessassero. Le persone colle quali trattava, erano quel ristretto, ma celebre circolo, che si raccoglieva nel convento degli Angeli intorno a frà Ambrogio Camaldolese (v. pag. 307), e Cosimo il vecchio, specialmente ne' suoi ultimi anni; imperocchè anche Cosimo faceva gran conto della scienza astrologica e se ne serviva, benchè soltanto per oggetti speciali e probabilmente d'ordine secondario. Del resto, Pagolo non dava responsi astrologici se non [321] agli amici più intimi. — Ma, anche senza una tale rigidezza di costumi, l'astrologo poteva essere un uomo stimato e intervenire dovunque, e in Italia se ne aveva un numero senza paragone maggiore, che in qualunque altro paese d'Europa, dove non s'incontrano che nelle corti più ragguardevoli, e anche quivi a tempi determinati. Per contrario, chiunque anche tra i privati avesse una casa talqualmente considerevole in Italia non tralasciava, specialmente quando l'uso divenne generale, di avere anche il suo astrologo, il quale per altro era anche non di rado retribuito assai scarsamente.[459] Oltre a ciò, avendo questa scienza acquistato una grande diffusione ancor prima dell'invenzione della stampa, erano sorti in gran numero i dilettanti, che s'attennero quanto più facilmente potevano ai maestri di essa. La specie detestata degli astrologi era quella soltanto, che non prendeva in aiuto le stelle se non per congiungervi le arti della magìa, e che cercava di coprir queste all'ombra di quella scienza.


Ma anche senza questa deplorevole aggiunta l'astrologia è pur sempre un malaugurato elemento della vita italiana d'allora. Qual dolorosa impressione non fanno quegli uomini superiori, ricchi di tanta cultura e così tenaci nelle loro idee, quando la cieca smania di conoscere e di scongiurar l'avvenire obbliga la loro potente volontà individuale ad abdicare a se stessa! Vero è che talvolta, se le stelle presagiscono qualche cosa di veramente sinistro, essi sorgono risolutamente, agiscono indipendentemente [322] da tali presagi e si consolano col motto: Vir sapiens dominabitur astris;[460] — ma tosto dopo noi li vediam ricadere nell'antico delirio.

Innanzi tutto si fa l'oroscopo di tutti i figli d'illustri famiglie, e dietro ciò si trascina mezza la vita, aspettando inutilmente avvenimenti, che non si verificano.[461] Poi vengono interrogati gli astri per ogni importante deliberazione dei potenti, specialmente per l'ora di cominciarla. I viaggi dei principi, i ricevimenti degli ambasciatori stranieri,[462] il getto delle fondamenta di qualche grande edificio si fanno dipendere da tali pronostici. Un esempio assai parlante se ne ha nella vita del già citato Guido Bonatto, il quale e per la sua grande attività e per una grande opera scritta su questo argomento[463] può [323] dirsi il restauratore dell'astrologia del secolo XIII. Per porre un termine al parteggiare de' Guelfi e de' Ghibellini in Forlì egli persuase gli abitanti a ricostruire a nuovo le mura della città e a cominciare solennemente quel lavoro sotto una certa costellazione, che egli indicò, assicurando, che se alcuni rappresentanti di entrambi i partiti gettassero contemporaneamente una pietra nelle fondamenta, non vi sarebbe stata per tutta l'eternità più discordia alcuna a Forlì. Furono scelti un guelfo ed un ghibellino: giunse il solenne momento, ambedue tenevano la loro pietra in mano, i lavoratori stavano in attesa con gli strumenti alla mano, e Bonatto diede il segnale. — Il ghibellino fu pronto a gettare la sua pietra; ma il guelfo indugiò, e da ultimo si rifiutò affatto, perchè il Bonatto stesso passava per ghibellino e poteva sottintendere qualche cosa di misteriosamente nocivo ai guelfi. Allora l'astrologo gli fu sopra con queste parole: «Dio sperda te e il tuo partito e la vostra diffidente malignità! questo segnale non riapparirà più per lo spazio di cinquecento anni sopra la nostra città!» Infatti Dio disperse più tardi i guelfi di Forlì, ma ora (scrive il cronista intorno all'anno 1480) guelfi e ghibellini sono affatto riconciliati fra loro, e non si ode più neanche il nome dei due partiti.[464]

Ciò che più d'ogni altra cosa si fa dipendere dalle stelle, sono le risoluzioni relative alla guerra. Lo stesso [324] Bonatto procurò al celebre capo dei ghibellini Guido da Montefeltro un gran numero di vittorie, indicandogli la vera ora segnata dalle stelle per uscire in campo: quando il Montefeltro non lo ebbe più presso di sè,[465] gli mancò affatto il coraggio di sostenersi ulteriormente nella sua tirannide e si rinchiuse in un convento di Minori Osservanti, dove sopravisse ancora lunghi anni. I Fiorentini nella guerra pisana del 1362 si fecero precisare dal loro astrologo l'ora della partenza per la spedizione;[466] e furono quasi in ritardo, perchè improvvisamente venne l'ordine di tenere una via diversa dalla solita, nell'attraversar la città. Le altre volte infatti erano sempre usciti per la via di Borgo S. Apostolo ed aveano avuto sempre un esito sfavorevole: evidentemente a questa via, quando si dovea marciar contro Pisa, si connetteva un sinistro augurio, e appunto per ciò le truppe furono ora condotte fuori per Porta Rossa; ma perchè quivi le tende distese al sole non erano state tolte, si dovette (e fu un nuovo sinistro augurio) portar le bandiere abbassate. In generale l'astrologia era inseparabile dall'arte della guerra pel fatto che tutti i Condottieri vi credevano. Jacopo Caldora, colpito da grave infermità, [325] era tranquillo, perchè sapeva che sarebbe morto in campo, come in fatto gli accadde.[467] Bartolommeo Alviano era persuaso che le sue ferite alla testa gli fossero toccate, al par che il suo comando, per volere delle stelle:[468] Nicolò Orsini-Pitigliano per la conclusione del suo contratto con Venezia (1495) si fa indicare dal fisico ed astrologo Alessandro Benedetto[469] il momento astronomico favorevole. Allorchè i fiorentini nel primo di giugno del 1498 investirono solennemente della sua dignità il nuovo lor Condottiero Paolo Vitelli, lo scettro del comando, che gli fu presentato, era fornito di una copia della costellazioni e precisamente per desiderio del Vitelli stesso.[470]

Talvolta non è ben certo, se in circostanze politiche di gran rilievo sieno stati previamente consultati i pianeti, o se gli astrologi per sola curiosità a cose compiute abbiano calcolato la costellazione, che dovrebbe aver signoreggiato in quel dato momento. Allorchè Gian Galeazzo Visconti (v. vol. I, p. 18) con un tratto veramente astuto giunse a far prigioniero suo zio Bernabò e tutta la sua famiglia (1385), Giove, Saturno e Marte stavano nella costellazione dei Gemelli, dice un contemporaneo,[471] ma non si saprebbe dire se ciò abbia contribuito [326] a fargli prendere quella risoluzione. Non di rado è probabile che un certo senso politico, più che l'andamento dei pianeti, abbia guidato l'astrologo nelle sue predizioni.[472]

Se l'Europa per tutta la seconda metà del medio-evo s'era lasciata terrorizzare dalle predizioni astrologiche, che da Parigi e da Toledo annunciavano pestilenze, guerre, tremuoti, inondazioni ecc., anche l'Italia in questo riguardo non si rimase in addietro degli altri paesi. Allo sventurato anno 1494, che aperse per sempre la Penisola alle invasioni straniere, precorsero innegabilmente delle predizioni assai tristi,[473] ma bisognerebbe sapere se tali predizioni non si tenessero già pronte per ogni anno qualunque.

Senonchè il sistema si estese nella sua piena, antica coerenza anche in regioni, dove meno si sarebbe creduto di dover poi incontrarlo. Se poi tutta la vita esterna ed interna dell'individuo è misteriosamente legata al fatto della sua nascita, anche la vita dei popoli e delle religioni si lega similmente colle loro primitive origini, e siccome le costellazioni di questi grandi fatti sociali sono variabili, variabili sono pure questi fatti in sè stessi. L'idea che ogni religione abbia il suo giorno di prevalenza [327] sulle altre nel mondo s'insinua per questa via astrologica anche nella vita e nella civiltà degli Italiani. La congiunzione di Giove con Saturno, fu scritto,[474] produsse la religione ebraica, quella con Marte la caldaica, quella col Sole l'egiziana, quella con Venere la maomettana, quella con Mercurio la cristiana, e quella con la Luna produrrà quando che sia la religione dell'Anticristo. In modo affatto sacrilego Cecco d'Ascoli aveva già calcolato la nascita di Cristo e dedottane la sua crocifissione, e questa profanazione lo condusse nel 1327 al rogo in Firenze.[475] Dottrine simili finivano col portare nelle ultime loro conseguenze un'incertezza assoluta nel campo del soprannaturale.


Ma appunto per ciò in tanto maggior pregio è da tenersi la lotta, che il lucido spirito degli Italiani sostenne contro tutto questo tessuto di sogni e di delirii. Accanto alle grandi monumentali illustrazioni dell'astrologia, quali sono gli affreschi del salone di Padova[476] e quelli della residenza d'estate (Schifanoja) di Borso da Ferrara, accanto alle lodi impudenti, che si permette perfino Beroaldo [328] il vecchio,[477] suona tanto più viva e solenne la protesta di quelli, che non si lasciarono traviare da simili follie. Anche in questo riguardo l'Antichità aveva in certo modo additato la via, ma quei saggi non parlano per imitare gli antichi, bensì per quel sano criterio naturale che era in essi e per le lezioni, che aveano raccolte dall'esperienza. Il Petrarca, che conobbe a fondo gli astrologi per contatti personali avuti con essi, non ha per loro che parole di derisione e di scherno,[478] dalle quali apertamente traluce quanto menzognero e fallace sia il loro sistema. Anche la novella sin dalla sua nascita, cioè sin dalle «Cento novelle antiche», è quasi sempre ostile agli astrologi.[479] I cronisti fiorentini poi levano energiche voci di protesta, quando sono costretti a menzionare quel delirio, perchè s'innesta nelle tradizioni patrie. Giovanni Villani ripetè più d'una volta:[480] «nessuna costellazione può sottoporre alla necessità il libero volere dell'uomo, nè il consiglio di Dio»; Matteo Villani biasima l'astrologia come un vizio, che i Fiorentini avrebbero ereditato dai loro antenati gentili, i Romani. Ma la questione non s'arrestò nel solo campo letterario, e divenne una vera questione sociale pei partiti, che a questo riguardo si formarono. Nella terribile inondazione dell'anno 1333, [329] e di nuovo in quella del 1345, sorsero dispute accanitissime tra gli astrologi e i teologi intorno all'influsso delle stelle, e al volere di Dio, e alla sua giustizia retributiva.[481] Queste lotte non cessarono poi più del tutto per l'intero periodo del Rinascimento,[482] e si può crederle sincere, perchè presso i potenti sarebbe stato più facile e più utile il difendere, che non il combattere l'astrologia.


Fra i più illustri platonici che circondavano Lorenzo il Magnifico, regnava su questo punto un vero dissidio. Marsilio Ficino difendeva l'astrologia e fece l'oroscopo dei figli della casa regnante, e si vuole che a Giovanni (che fu poi papa Leone X) abbia presagito sin dalla nascita il Pontificato.[483] Per converso Pico della Mirandola scrisse la sua famosa confutazione, che fa veramente epoca nella storia dell'astrologia.[484] Nella fede che si presta all'influsso dei pianeti egli trova la radice di ogni empietà ed immoralità; se l'astrologo vuol credere a qualche cosa, dovrebbe piuttosto adorare i pianeti come divinità, dal momento che da essi fa derivare ogni felicità od infelicità; anche tutte le altre superstizioni troverebbero nell'astrologia una legittima espressione, mentre la geomanzia, la chiromanzia ed ogni altra specie [330] d'incantesimi si rivolgono innanzi tutto ad essa per la designazione del momento fatale. Riguardo alla moralità egli dice: un maggiore incoraggiamento non può darsi al male, quanto col farne autore il cielo stesso, e in tal caso svanirà necessariamente ogni fede nell'eterna beatitudine o dannazione. Pico s'è dato perfin la pena di riveder le bucce agli astrologi in via empirica, e delle loro profezie climatologiche, su trenta giorni, egli ne trovò false più di venti. Ma la cosa più importante è questa, che egli (nel quarto libro) mise innanzi una teoria cristiana positiva sulla Provvidenza reggitrice del mondo e sul libero arbitrio, che su tutti gli uomini colti della nazione sembra aver fatto una maggiore impressione, che non tutte le prediche degli oratori popolari, alle quali questa classe di persone restava oggimai indifferente.

Innanzi tutto egli sconsiglia gli astrologi dalla pubblicazione delle loro dottrine,[485] e nel fatto coloro che sino a quel momento le aveano fatte stampare, ne restarono più meno svergognati. Gioviano Pontano, per esempio, aveva accettato nel suo libro «Del Fato» (v. pag. 312) tutta questa scienza erronea, e l'aveva poi esposta sistematicamente in una sua grande opera,[486] alla maniera di Firmico; ora nel suo dialogo «Egidio» non rinnega del tutto l'astrologia, ma gli astrologi, esalta il libero arbitrio e limita l'influsso dei pianeti alle cose corporali. Così la cosa continuò ad aver vigore praticamente, ma senza padroneggiar, come prima, tutti i rapporti della [331] vita. La pittura, che nel secolo XV aveva illustrato con tutte le sue forze quel delirio, esprime ora un modo di pensare affatto diverso: Raffaello nella cupola della cappella Chigi[487] rappresenta tutto all'intorno le divinità dei pianeti e il cielo stellato, ma sotto la sorveglianza e la guida di splendide figure d'angeli e obbedienti al cenno dell'eterno Padre, che siede in alto. Anche gli spagnuoli, allor dominanti in Italia, non vollero mai sentir parlare dell'astrologia, e chiunque voleva mettersi in grazia dei loro generali non aveva a far altro che dichiararsi nemico aperto di questa scienza, ch'essi riguardavano come mezzo eretica, perchè in buona parte maomettana.[488] Ciò non ostante ancora nel 1529 il Guicciardini scrive: «quanto sono più felici gli astrologi che gli altri uomini! Quelli, dicendo tra cento bugie una verità, acquistano fede in modo che è creduto loro il falso: questi, dicendo tra molte verità una bugia, la perdono in modo che non è più creduto loro il vero».[489] E nemmeno è da credere che il disprezzo per l'astrologia conducesse necessariamente a credere nella Provvidenza, poichè molte volte accadde che i più s'accontentarono di adagiarsi in un vago ed indeterminato fatalismo.

L'Italia in questo, come in altri riguardi, non ha potuto usufruttare completamente l'impulso venutole dalla cultura del Rinascimento, perchè vi ostarono le conquiste [332] straniere e la Contro-riforma. Senza di ciò essa avrebbe probabilmente rinunciato da sè a quelle pazze fantasie. Ora chi pensa che l'invasione e la reazione cattolica sieno state una necessità, di cui la colpa si deve unicamente apporre al popolo italiano, troverà anche giusta la pena dei danni intellettuali che ne derivarono. Peccato, che con ciò anche l'Europa intera abbia fatto una perdita immensa!


Di gran lunga più innocua che l'astrologia appare la fede nei pronostici. Tutto il medio-evo ne aveva ereditato un grande corredo dalle diverse antichità gentilesche, nè certamente l'Italia sarà rimasta neanche in ciò al di sotto delle altre nazioni. Ma ciò che dà qui alla cosa un colorito speciale è l'aiuto, che l'umanismo porge a questo delirio popolare: esso viene in soccorso ad una specie di paganesimo ereditario con un paganesimo d'indole letteraria.

Notoriamente le superstizioni popolari degli Italiani si riferiscono a presentimenti e conseguenze che si traggono dai pronostici,[490] e vi si aggiunge anche un po' di magìa, per lo più innocua. Quelli che innanzi tutti ce le fanno conoscere sono appunto taluni dotti umanisti, che le vengono enumerando per metterle in derisione. Quello stesso Gioviano Pontano, che scrisse quella grande opera astrologica, di cui già s'è parlato (v. pag. 330), nel suo «Caronte» nomina con senso di compassione tutti i pregiudizi, di cui son vittime i Napoletani: lo sgomento delle donne, se un pollo od un'oca soffrono di pipita; la profonda angustia di que' signori, se un falcone [333] cacciatore tarda a tornare o se un cavallo si torce un piede; il motto magico dei contadini pugliesi, che essi pronunciano nella notte di tre sabbati consecutivi, quando cani rabbiosi mettono a pericolo il paese, e così via. In generale gli animali avevano il privilegio dei pronostici, come nell'antichità, e in modo particolare i leoni, i leopardi e simil fiere, che si mantenevano a spese pubbliche (v. pag. 19 e segg.), col loro contegno davano tanto più da pensare al popolo, in quanto involontariamente si era abituati a vedere in essi il simbolo dello Stato. Quando, durante l'assedio del 1529, un'aquila ferita volò dentro Firenze, la Signoria diede a colui che gliela portò un premio di quattro ducati, perchè era un favorevole augurio.[491] V'erano inoltre luoghi e tempi determinati per determinate ceremonie di buono o cattivo augurio od anche soltanto per prendere una decisione qualunque. I fiorentini credevano, testimonio il Varchi, che il sabbato fosse il loro giorno augurale, nel quale solevano compiersi tutti gli avvenimenti più importanti, favorevoli o sfavorevoli. Della loro superstiziosa ripugnanza di andare al campo passando per una strada determinata s'è già parlato (v. pag. 324). Presso i Perugini invece una delle loro porte, la così detta Porta Eburnea, avevasi in conto di fausta e propizia, tanto che i Baglioni in ogni spedizione facevano uscire le truppe per quella.[492] Aggiungansi le meteore e i segni celesti, che ora riguadagnarono il posto che aveano avuto per tutto il medio-evo, per cui [334] da strani agglomeramenti di nubi la fantasia non tardò anche ora a creare eserciti di combattenti e credette di sentirne il fragore nell'aria.[493] E finalmente la superstizione divenne ancor più funesta quando ripeteva la sua origine da cose sacre, come quando, ad esempio, certe immagini della Vergine movevano gli occhi[494] o piangevano, o allorchè certe pubbliche calamità susseguivano immediatamente a qualche vero o preteso delitto, di cui il popolo domandava ad alta voce l'espiazione (v. pag. 284). Allorchè Piacenza nel 1478 ebbe a soffrire di piogge violente e continue, fu detto che queste non avrebbero cessato sino a che il corpo di un usuraio, che da poco era stato seppellito in san Francesco, non fosse stato di là trasportato a giacere in luogo non consacrato. E siccome il vescovo ricusava di lasciar disseppellire il cadavere, la gioventù popolana andò a prenderlo di viva forza, lo fece a brani per le vie in mezzo ad un tumulto che destava abbominio e ribrezzo, e lo gettò da ultimo nelle acque del Po.[495] Nè tali pregiudizi furono sempre un privilegio esclusivo del popolo, che noi vediamo parteciparne perfino un Angelo Poliziano, quando viene a parlare di Jacopo de' Pazzi, uno dei principali promotori della congiura denominata dal nome della sua famiglia, [335] ordita a Firenze nello stesso anno 1478. Egli ci narra che quando costui si trovò avvinto dal capestro, con orribili imprecazioni consegnò l'anima propria a Satana. Ora anche quivi sopravvenne una pioggia tale, che il reddito dei grani minacciava di andar perduto, ed anche quivi una turba di popolo (per lo più del contado) disseppellì il cadavere dalla chiesa, e tosto scomparvero le nubi e tornò a splendere il sole: «tanto fu favorevole la fortuna all'opinione popolare» aggiunge il grande filologo.[496] Subito dopo il cadavere fu seppellito in terra non consacrata, ma il giorno susseguente fu tratto anche di là e, dopo un'orribile scorribanda per la città, fu gettato nell'Arno.


Questi e somiglianti tratti sono essenzialmente popolari e potrebbero essere avvenuti nel secolo X, ugualmente che nel XVI. Ma qui pure si scorge l'influenza della classica antichità. Degli umanisti si sa in modo certo ed esplicito, che essi credevano ai prodigii ed agli augurii, e ne recammo già qualche esempio (v. pag. 320). Ma se occorresse altra prova, basta il Poggio solo ad offrircela. Quel medesimo pensatore radicale, che nega ogni titolo di nobiltà e le disuguaglianze sociali (v. pag. 116), non solamente crede a tutte le apparizioni di spiriti e di demonii, che ebbero tanta voga nel medio-evo (fol. 167, 179), ma anche a tutti i prodigii d'indole antica, come, per esempio, a quelli, che furono annunciati in occasione dell'ultima visita di Eugenio IV a Firenze.[497] «Allora si [336] videro nelle vicinanze di Como in sulla sera quattromila cani, che presero la via della Germania; a questi seguì una schiera di buoi, poi un esercito di armati a piedi e a cavallo, parte senza testa, e parte con teste appena visibili, e finalmente un gigante a cavallo, al quale seguiva un'altra truppa di buoi». Il Poggio crede anche ad una battaglia di piche e di mulacchie (fol. 180). Anzi, forse senza accorgersene, egli racconta un fatto che si direbbe tolto di pianta dall'antica mitologia. Sulle coste della Dalmazia apparve un tritone fornito di barba e di piccole corna, qual vero satiro marino, terminando colle parti inferiori nel corpo di un pesce ricoperto di squamme; esso rapiva in sulla spiaggia donne e fanciulli, sino a che cinque ardite lavandaie con pietre e verghe lo uccisero.[498] Un modello in legno di quel mostro, che si fa vedere a Ferrara, basta per rendere credibile al Poggio tutta la leggenda. Bensì non s'aveano più gli oracoli e non si potevano più interrogare gli Dei, ma in compenso tornò di moda il consultare Virgilio e l'interpretarne i passi augurali, che s'incontravano nelle sue opere (sortes virgilianae).[499] Oltre a ciò la credenza nei demonii, propria di tempi molto remoti, non rimase certamente senza un influsso su quella del Rinascimento. Gli scritti di Jamblico e di Abammone intorno ai misteri degli Egiziani, che potevano servire a quest'uopo, furono stampati già sin dal finire del secolo XV in una traduzione latina. [337] Perfino l'Accademia platonica di Firenze non andò del tutto esente da un delirio simile e in generale da tutti i sogni neoplatonici del basso tempo romano. Ora egli è appunto di questa fede nei demonii, e della magìa che strettamente vi si connette, che qui dobbiamo dire una parola.


La credenza popolare in quello che si chiama il mondo degli spiriti,[500] in Italia è presso a poco la stessa, che negli altri paesi d'Europa. Innanzi tutto anche qui ci sono fantasmi, vale a dire apparizioni di morti, e se il modo di considerarle si discosta talqualmente da quello dei paesi settentrionali, ciò non si riduce in sostanza ad altro, fuorchè a questo che in Italia i fantasmi si chiamano coll'antica denominazione di ombre. Anche oggidì, se qualcuna di queste ombre si mostra, si fa celebrare un paio di Messe pel suo riposo. Che le anime dei reprobi appariscano sotto forma spaventevole, è cosa che s'intende da sè, ma quest'idea si associa ordinariamente ad un'altra, che i fantasmi dei morti in generale sono sempre maligni. «Molte fiate i morti guastano le creature» dice un cappellano presso il Bandello.[501] Probabilmente egli separa nel suo pensiero l'ombra dall'anima, perchè questa espia le sue colpe nel Purgatorio, e, se appare, d'ordinario non fa che supplicare e lamentarsi. Altre [338] volte ciò che appare, non è tanto l'ombra di un uomo particolare, quanto un simbolo personificato di un avvenimento, di uno stato di cose già passato. Così i vicini spiegano l'apparizione del demonio nel vecchio palazzo visconteo presso S. Giovanni in Conca a Milano: infatti quivi una volta Bernabò Visconti avea fatto torturare e strozzare innumerevoli vittime della sua tirannide, e non era quindi meraviglia, se qualcosa vi si mostrava.[502] Ad un amministratore infedele della Casa dei poveri in Perugia una sera, mentre egli stava enumerando del danaro, apparve una turba di morti con fiaccole nelle mani e danzò la ridda intorno a lui; ma una figura più grande delle altre parlò in tuono minaccioso per essi; era S. Alò, protettore delle case di Ricovero.[503] — Queste visioni erano così universalmente ammesse, che anche i poeti potevano trovarvi un tema ordinario alle loro poesie. Il Castiglione, per esempio, assai bellamente fa apparire sotto le mura dell'assediata Mirandola l'ombra dell'ucciso Lodovico Pico.[504] Del resto è un fatto che la poesia preferisce tali allusioni precisamente allorquando il poeta, ripudiando il comune pregiudizio, crede meno di ogni altro alla verità di quanto viene narrando.


In seguito l'Italia fu piena delle credenze popolari intorno ai demonii, quali regnavano presso tutti i popoli [339] nel medio-evo. Si aveva la piena persuasione che Dio permetta talvolta agli spiriti maligni di qualsiasi specie una perniciosa influenza su alcune parti del mondo e della vita umana; soltanto si concedeva che l'uomo, al quale i demonii s'accostavano per tentarlo, era sempre libero di far uso della sua volontà per resistervi. In Italia specialmente il lato diabolico degli avvenimenti naturali assume nella bocca del popolo assai facilmente una certa grandezza poetica. La notte della grande inondazione della valle dell'Arno nell'anno 1333 uno dei santi eremiti dei dintorni di Vallombrosa udì dalla sua cella un tumulto infernale, si fece il segno della croce, s'affacciò alla porta e scorse neri e spaventosi cavalieri passare a cavallo armati di tutto punto. Dietro un suo scongiuro uno di essi si fermò e gli disse: «andiamo ad affogare la città di Firenze per le sue colpe, se Dio lo permette».[505] E con questa si può paragonare la quasi contemporanea apparizione, che si pretende accaduta a Venezia (1340), dalla quale poi un qualche grande maestro della scuola veneziana, probabilmente Giorgione, cavò un quadro maraviglioso, vale a dire, quella galera piena di demonii, che colla velocità di un uccello correva sulla tempestosa laguna per devastare la peccatrice città, sino a che i tre Santi, che non conosciuti erano saliti sulla barca di un povero pescatore, col loro scongiuro precipitarono i demonii e la loro nave negli abissi del mare.

Ora a questo credenze s'associa l'errore, che l'uomo, mediante lo scongiuro, possa avvicinarsi ai demonii ed usare del loro aiuto pe' suoi scopi mondani d'interesse, d'ambizione e di sensualità. In questo riguardo furono [340] forse più gli accusati, che i veri rei; e precisamente quando si cominciarono ad ardere i pretesi maghi e le streghe, gli scongiuri o gl'incantesimi si fecero più frequenti. Dal fumo dei roghi, sui quali furono sacrificati quegli uomini sospetti, salì per la prima volta un vapore inebbriante, che animò un numero maggiore di uomini perduti ad abbracciar la magìa. Ad essi si unirono poi audaci impostori.


La forma popolare e primitiva, sotto la quale questi pregiudizi si mantennero forse senza interruzione sino dal tempo dei Romani, sono le malìe della strega.[506] Questa può protestarsi pressochè come completamente innocente sino a che si restringe alla sola divinazione,[507] ma il passaggio dal semplice pronostico alla cooperazione attiva per l'esecuzione di un fatto spesso può essere impercettibile, e tuttavia esercitare un'influenza decisiva sull'azione stessa. Trattandosi d'incantesimi attivi, alla strega vuolsi principalmente attribuire l'eccitamento all'amore o all'odio tra uomo e donna, o qualche maleficio tendente a nuocere e danneggiare, specialmente a far morire di consunzione teneri fanciulli, sebbene talvolta la causa di ciò apparisca più evidente nell'abbandono e nella stolta incuria dei loro parenti. Ma, anche prescindendo da ciò, come decidere quanto, dei danni recati dalla [341] strega, sia da attribuire alle sue ceremonie, alle sue formole magiche e incomprensibili, ed anche alla volontaria invocazione del demonio, e quanto invece ai medicamenti ed ai veleni, che per avventura essa può aver somministrato con piena coscienza del loro effetto?

Come poi in modo molto più innocente anche alcuni frati mendicanti pretendessero di rivaleggiare con essa o di farle concorrenza, lo apprendiamo, in via di esempio, dalla strega di Gaeta, di cui ci parla il Pontano in uno de' suoi dialoghi.[508] Il suo Suppazio, viaggiando, arriva alla di lei abitazione appunto nel momento in cui ella dà udienza ad una giovane e ad una fantesca, che vennero con una gallina nera, con nove uova deposte in venerdì, con un'anitra e con filo bianco, attesochè è il terzo giorno dopo la luna nuova: pel momento esse vengono rimandate e invitate a tornare per l'ora del crepuscolo. Probabilmente non trattasi che di un pronostico: la padrona della fantesca è stata ingravidata da un frate; alla fanciulla l'amante s'è reso infedele e s'è chiuso in un convento. La strega si lagna: «dopo la morte di mio marito, io vivo di questi affari, e potrei star meglio, perchè le nostre donne di Gaeta sono molto credule; ma i frati mi rubano il mestiere, spiegando sogni, vendendo per danaro la protezione dei Santi, promettendo un marito alle fanciulle, un figlio maschio alle donne incinte, un figlio qualunque alle sterili, oltre che di notte, quando i mariti escono per la pesca, le visitano di soppiatto, dopo aver preso gli opportuni concerti nella chiesa». Suppazio l'avverte di non tirarsi addosso le ire del convento con simili discorsi, ma essa non ha paura di nulla, perchè il guardiano è un'antica sua pratica.

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Ma il delirio cresce, e dà origine ad una specie ancor peggiore di streghe: quelle che con malefici tolgono agli uomini la salute e la vita. In questi casi, quando una maligna occhiata non basta, si ricorre innanzi tutto all'aiuto di spiriti superiori. La loro punizione, come vedemmo già parlando della Finicella (v. pag. 268), è il rogo; e tuttavia il fanatismo inclina ancora a qualche accordo: nello Statuto di Perugia infatti troviamo che, pagando quattrocento lire, possono riscattarsi.[509] Ciò vuol dire che in allora la cosa non si trattava ancora con quella logica inesorabile, che si adottò più tardi. Nel territorio della Chiesa, in un'altura dell'Appennino e precisamente nella patria di san Benedetto, a Norcia, pare che esistesse il centro di ogni stregoneria ed incantesimo. La cosa era universalmente nota. Quegli che ce ne dà contezza è Enea Silvio, in una sua lettera giovanile.[510] Egli scrive a suo fratello: «il latore di questa lettera è venuto da me per chiedermi se io conoscessi un Monte Venere in Italia, dove pretendesi che s'insegnino le arti magiche, delle quali è curiosissimo il suo padrone, un grande astronomo sassone.[511] Io risposi, che conosceva un Porto Venere non lungi da Carrara, sulla costa dirupata della Liguria, dove passai tre notti nel mio viaggio a Basilea: trovai altresì, che in Sicilia esiste un monte consacrato a Venere, l'Erico, ma non so che quivi s'insegni [343] magìa. Tuttavia nel dialogo mi risovvenne, che nell'antico ducato (Spoleto), non lungi dalla città di Norcia, v'è un sito, dove sotto una scoscesa rupe trovasi una caverna, nella quale scorre dell'acqua. Quivi, come ben ricordo di aver udito, havvi un convegno di streghe (striges), di demonii e di ombre notturne, e chi ne ha il coraggio, può vedervi gli spiriti (spiritus), e parlar con loro e apprendere le arti magiche.[512] Ma io non l'ho veduto, nè mi sono interessato di vederlo, perchè ciò che non può apprendersi se non per via di peccato, meglio è non apprenderlo». Ciò non ostante, egli nomina la persona che lo informò e richiede suo fratello, che voglia condurre il latore della lettera da quella, se è ancora in vita. Come si vede, Enea per compiacere quell'illustre personaggio va tanto innanzi da compromettersi quasi egli stesso, eppure personalmente niuno era più lontano di lui da ogni credenza superstiziosa (v. pag. 285 e 319), e in questo riguardo ha sostenuto delle prove, che anche oggidì non tutte le persone colte sarebbero in grado di sostenere. Quand'egli, al tempo del Concilio di Basilea, giunse a Milano ammalato di febbre da ben settantacinque giorni, non fu possibile indurlo ad accettare consulti medici fatti col mezzo della magìa, quantunque gli sia stato condotto al letto un uomo, che poco prima si pretendeva avesse curato e guarito in modo maraviglioso dalla febbre ben duemila soldati nel campo del Piccinino. Egli invece ancor sofferente intraprese il disastroso [344] viaggio delle montagne per recarsi alla sua destinazione, e guarì cavalcando.[513]

Oltre a ciò, noi apprendiamo qualche cosa dei dintorni di Norcia anche dal negromante, che cercò di aver nelle sue mani il grande artista Benvenuto Cellini. Trattavasi di far la consacrazione di un nuovo libro magico,[514] e il luogo più opportuno erano appunto quelle montagne. Bensì il maestro dell'incantesimo ne consacrò un altro nelle vicinanze dell'abbazia di Farfa, ma incontrò delle difficoltà, che non si sarebbero incontrate a Norcia; oltre a ciò, i contadini di Norcia erano gente sicura, avevano una certa pratica di tali cose, e, in caso di bisogno, potevano prestare un valido aiuto. Ma l'escursione non ebbe luogo; diversamente Benvenuto con molta probabilità avrebbe imparato a conoscere anche i manutengoli dell'impostore. In allora quella regione era affatto proverbiale. L'Aretino in qualche punto delle sue opere parla di una fonte ammaliata, dove abitavano la sorella della sibilla di Norcia e la zia della fata Morgana. E intorno al medesimo tempo il Trissino ebbe il coraggio di celebrare nel suo lungo poema[515] quelle località con tutta la pompa della poesia e dell'allegoria, come la sede delle vere profezie.

In seguito tutti sanno che, dopo la celebre Bolla di Innocenzo VIII (1482), le persecuzioni piovvero sulle [345] streghe in modo veramente spaventevole.[516] Siccome poi i principali strumenti di quelle persecuzioni furono i domenicani tedeschi, così bisogna concludere che la Germania si risentisse più particolarmente di quella piaga, e in Italia quei paesi che erano più prossimi alla Germania. Infatti anche le ordinanze e le Bolle dei Papi si riferiscono in modo speciale alla Lombardia e più particolarmente alle diocesi di Brescia, di Bergamo e di Cremona.[517] Inoltre dal celebre Manuale di Sprenger, il Malleus Maleficarum, si apprende che a Como, ancor nel primo anno dopo la pubblicazione della Bolla, furono arse non meno di quarant'una streghe, e si sa altresì che numerosi drappelli di donne italiane si rifugiarono nel territorio dell'arciduca Sigismondo, dove credevano di trovar sicurezza. Per ultimo noi veggiamo la stregoneria stabilirsi in modo invincibile in alcune sventurate valli delle Alpi, segnatamente nella valle Camonica,[518] dove le popolazioni parvero avervi una predisposizione affatto particolare. Queste stregonerie d'origine essenzialmente [346] tedesca costituiscono quelle diverse varietà, alle quali corre il pensiero nel leggere storie e novelle accadute in Milano, in Bologna ed altrove.[519] Se in Italia non ebbero una maggior diffusione, ciò dipendette forse dal fatto che qui si aveva già una stregoneria propria, che si basava essenzialmente sopra elementi al tutto diversi. La strega italiana esercita un vero mestiere ed ha bisogno di danaro, e sopra tutto di avvedutezza e buona memoria. Dei sogni isterici delle streghe del nord, di viaggi aerei, di incubi e succubi qui non si parla nemmeno: il compito della strega è quello di procurare altrui qualche piacere. Se anche di lei si suppone che possa assumere diverse forme e trasportarsi a volo da luogo a luogo, essa non vieta che lo si creda, in quanto anche ciò contribuisce a darle un credito sempre maggiore; ma la cosa le può tornare estremamente pericolosa, se il sentimento prevalente che ispira, è la paura, se la si suppone maligna e vendicativa e se le si attribuiscono specialmente de' maleficii a danno di fanciulli, di bestiami e di raccolti campestri. In tal caso gl'Inquisitori e le autorità possono guadagnarsi una grande popolarità, condannandola al rogo.


Ma il campo di gran lunga più importante per la strega sono e rimangono gl'intrighi amorosi, sotto il qual [347] nome si comprende l'eccitamento all'amore ed all'odio, l'ordire inganni per ispirito di vendetta, il disperdere il frutto di un colpevole amore, e secondo le circostanze il premeditare anche la morte di chi tradisce la fede data con arti magiche o con bevande avvelenate.[520] Siccome in tali donne non si aveva che una fiducia assai condizionata, così cominciarono a pullulare i dilettanti, che, avendo appreso da esse ora un segreto, ora l'altro, esercitavano poi l'arte per conto proprio. Le meretrici romane, per esempio, cercavano di aiutare il prestigio della propria persona anche con apposite malìe, alla maniera della Canidia di Orazio. L'Aretino non solo ne sa qualche cosa,[521] ma è anche in grado di darne piena contezza. Egli enumera tutti gli spaventosi attrezzi, che si trovano raccolti nei loro armadii: capelli, cranii, costole, denti, occhi di persone morte, pelli d'uomini, umbilichi di piccoli fanciulli, suole da scarpe e vestimenti rapiti a cadaveri; nè contente di ciò, vanno esse stesse a disseppellire nei cimiteri le carni imputridite, e le danno mascheratamente a mangiare ai loro galanti, oltre ad altre nefandità impossibili a riferire. Di più, fanno bollire alla rinfusa nell'olio rubato alle lampade delle chiese capelli, spilli, frammenti d'unghie del loro amante. Dei loro scongiuri il più innocente è quello, con cui formano un cuore di cenere calda, e vi pungono dentro cantando:

«Prima che'l fuoco spenghi,

«Fa ch'a mia porta venghi:

[348]

«Tal ti punga il mio amore,

«Quale io fo questo cuore».

Del resto usano anche formole magiche allo splendor della luna, segni misteriosi sul terreno, figure in cera od in bronzo, che senza dubbio rappresentano l'amante, e di cui si servono secondo le circostanze.

Ma a tali cose si era talmente avvezzi, che una donna, la quale senza bellezza e gioventù esercitasse tuttavia un certo fascino sugli uomini, cadeva senz'altro in sospetto di stregoneria. La madre del Sanga,[522] segretario di Clemente VII, avvelenò la di lui amante, che era una di queste; ma sfortunatamente perì anche il figlio e con lui un'intera società d'amici, che mangiarono un'insalata avvelenata.


Ora si fa innanzi, non come aiutatore, ma come rivale della strega, il mago od incantatore, ancor più esperto di tutte le arti le più pericolose. Talvolta egli è altrettanto, od anche più astrologo, che mago: più spesso però sembra essersi egli spacciato per astrologo per non essere perseguitato come mago, molto più che quest'ultimo non poteva prescindere da un po' di astrologia, per conoscere le ore favorevoli e indicarle (v. pag. 321 e 328). Ma siccome molti spiriti sono buoni od indifferenti,[523] così anche il loro scongiuratore può godere di una abbastanza buona reputazione, e Sisto IV nel 1474 dovette con un Breve apposito[524] chiamare al dovere alcuni Carmelitani bolognesi, che dal pulpito predicavano non esservi alcuna [349] colpa nell'interrogare i demonii sulle cose future. La cosa in sè non sembrava niente affatto impossibile a molti; una prova indiretta se ne ha in questo, che anche le persone le più timorate dal canto loro credevano a visioni di buoni spiriti, ch'esse stesse avevano ardentemente invocato. Il Savonarola è pieno di queste ubbie; i platonici fiorentini parlano di una mistica unione con Dio e Marcello Palingenio (v. vol. I, pag. 354 e segg.) lascia apertamente intendere, ch'egli ha che fare con degli spiriti dell'altro mondo.[525] Egli è anche persuaso dell'esistenza di un'intera gerarchia di maligni spiriti, che, dimorando negli spazi aerei tra la terra e la luna, insidiano alla vita dell'uomo e tentano sconvolgere le leggi della natura,[526] anzi egli dice di conoscerne taluni personalmente. Ora, siccome lo scopo del nostro libro non ci permette una esposizione diffusa e sistematica delle opinioni, che allora prevalevano intorno a queste credenze spiritistiche, così ci accontenteremo qui di riferire un sunto della relazione del Palingenio, a guisa di saggio od esempio.[527]


Egli s'è fatto istruire da un pio anacoreta del monte Soratte, a s. Silvestro, sulla nullità delle cose terrene e sul niun valore della vita dell'uomo, e poi sul far della notte s'è messo in via alla volta di Roma. Allora, splendendo la luna, egli s'abbatte in tre viandanti, che s'associano a lui, ed uno di questi, chiamandolo a nome, gli chiede da quale parte egli venga. Palingenio risponde: dal santo anacoreta del monte. «O stolto, rispose l'altro, [350] credi tu che sulla terra vi sia qualcuno veramente saggio? La saggezza non è che privilegio degli esseri superiori (Divi), e del numero di questi siamo noi tre, quantunque rivestiti di forme umane: io mi chiamo Saracil e costoro Satiele e Jana: il nostro regno è precisamente in prossimità della luna, dove in generale dimora la grande schiera degli esseri intermediarii, che dominano sulla terra e sul mare». Palingenio domanda, non senza interno spavento, che cosa vanno a fare a Roma? E n'ha in risposta: «uno dei nostri compagni, Ammone, è trattenuto per forza d'incanto prigione di un giovane di Narni, del seguito del cardinale Orsini: ed anche in ciò voi, uomini, dovreste vedere una prova implicita della vostra immortalità, potendo avere tanta autorità sopra di noi: io stesso una volta, chiuso in un'ampolla, ho dovuto servire un tedesco, sino a che un monacello barbuto mi liberò. Ora noi vogliamo tentare di rendere in Roma un simile servigio al nostro compagno, e con questa occasione cercheremo di condurre con noi questa notte all'Orco un paio di ragguardevoli personaggi». A queste parole del demonio si leva un venticello, e Satiele dice: «udite, il nostro Remisses vien già da Roma; questo venticello lo annunzia». Infatti tosto dopo appare un quarto, che essi lietamente salutano, e lo interrogano sulle cose di Roma. Le sue risposte contengono una severa condanna contro il Papato: Clemente VII s'è nuovamente collegato con gli spagnuoli e spera di sradicare la dottrina di Lutero non più con buone ragioni, ma colle armi di Spagna: guadagno netto pei demonii, che nella grande carneficina che ne seguirà, condurranno all'inferno una turba d'anime innumerevole. Dopo tali discorsi, nei quali Roma vien dipinta come pienamente caduta in potere dello spirito maligno, per causa della sua immoralità, i [351] demonii spariscono e lasciano solo il poeta a proseguir la sua via.[528]

Chi voglia formarsi un'idea della diffusione che presero questi rapporti coi demonii, che in allora potevansi ancora pubblicamente confessare, ad onta del Malleus Maleficarum ecc., non ha che a consultare il libro, del resto assai letto, «Della occulta filosofia» di Agrippa di Nettesheim. Bensì egli sembra originariamente averlo scritto prima di recarsi in Italia,[529] ma nella dedicatoria al Tritemio egli nomina, fra molte altre, anche delle importanti fonti italiane, sebbene soltanto per guastarle insieme con quelle. Trattandosi di uomini di genere tanto ambiguo, quale era Agrippa, e di furfanti e pazzi, quali possono dirsi gli altri per la maggior parte, non ci può interessare gran fatto neanche il sistema, sotto il quale essi si mascherano con una farraggine di formole, suffumigi, unguenti, pentacoli, ossa di morti e simili.[530] Ma in primo luogo questo sistema è ricchissimo di citazioni delle superstizioni antiche; poi l'influenza ch'esso esercita [352] nella vita degli Italiani e nelle loro passioni, è talvolta grandissima e caratteristica. A prima vista si direbbe che soltanto i più corrotti fra i grandi debbono esservisi accostati, ma le passioni sfrenate conducono a consultar gli stregoni anche uomini di gran conto e di mente svegliatissima in qualsiasi condizione, e la persuasione, che nell'incantesimo ci sia un fondo di vero, toglie anche a quelli che se ne tengono lontani, un po' di quella fede che hanno in una Provvidenza suprema dispensatrice delle cose umane. Con un po' di danno e un po' di pericolo pareva che si potessero saltare a piè pari impunemente tutti gli ostacoli posti dal senso comune e dalla morale e trascurare tutte le gradazioni intermedie, che si frappongono tra l'uomo e i suoi scopi leciti o illeciti.


Consideriamo innanzi tutto un tratto di magìa un po' vecchio e già sul punto di sparire affatto. Dalle tenebre più fitte del medio-evo, anzi dall'Antichità stessa qualche città italiana conservò una ricordanza, che i suoi destini fossero inseparabili da quelli di certi edifici, di certe statue e simili. Gli antichi una volta avean parlato di sacerdoti addetti ai riti inaugurali, detti telesti, il cui ufficio sarebbe stato quello di assistere alla solenne fondazione di alcune città, garantendone la futura prosperità con appositi monumenti, ed anche col seppellire nelle fondamenta, ma in via segreta e misteriosa, oggetti determinati (telesmata). Se qualche cosa ancora sopravviveva per tradizione orale e popolare del tempo romano, erano appunto ricordi di questo genere: salvo che l'augure antico naturalmente nel corso dei secoli fu tramutato in un mago, perchè non si comprendeva più il lato religioso dell'opera sua, quale era nell'antichità. In alcuni [353] prodigi attribuiti in Napoli a Virgilio[531] sopravvive evidentemente la ricordanza antichissima di un teleste, il cui nome coll'andare del tempo fu sostituito da quello del sommo poeta. Altrettanto dicasi della ceremonia, colla quale si rinchiudeva una misteriosa immagine della città in una botte; o di quell'altra, per cui Virgilio passa pel fondatore delle mura di Napoli. La fantasia popolare esagerò, amplificandole, quelle tradizioni, sino a che Virgilio divenne anche l'autore principale del cavallo di bronzo, delle teste che sono sopra la porta Nolana, delle mosche pure di bronzo che figurano su qualche altra porta, della grotta di Posilipo e così via; — cose tutte, che fissano magicamente le sorti particolari di alcuni luoghi di Napoli, mentre quei due tratti primi sembrano stabilirne il destino in generale. Anche la Roma medievale aveva confuse ricordanze di questo genere. In sant'Ambrogio a Milano trovavasi un antico Ercole in marmo; si disse, che sino a che esso fosse rimasto al suo posto, avrebbe sussistito l'Impero, probabilmente quello di Germania, usando gl'Imperatori tedeschi di coronarsi in quella chiesa.[532] I Fiorentini erano persuasi[533] che il loro tempio di Marte (più tardi trasformato in Battistero) avrebbe perdurato sino alla consumazione dei secoli, conformemente [354] a quanto segnava la costellazione, sotto la quale fu costruito al tempo di Augusto: è vero che essi tolsero di là la statua equestre di Marte in marmo, quando si fecero cristiani; ma, siccome la distruzione di essa avrebbe apportato grandi sventure alla città, — e ciò pure per l'influsso di una costellazione, — così la si collocò sopra una torre lungo l'Arno. Allorquando Totila distrusse Firenze, l'immagine cadde nell'acqua e non fu ripescata se non quando Carlomagno riedificò di nuovo la città: allora fu collocata sopra un piedistallo all'ingresso del Ponte Vecchio, — e quivi precisamente nel 1214 il Buondelmonte fu ucciso, e per tal guisa il risvegliarsi della gran lotta tra Guelfi e Ghibellini è un fatto, che si lega intimamente a quell'idolo tanto temuto. Nell'inondazione del 1333 però esso scompare per sempre.[534]

Ma lo stesso telesma s'incontra anche altrove. Guido Bonatto, già menzionato, nel gettar le fondamenta delle mura di Forlì non si accontentò di esigere quella scena simbolica della concordia de' Guelfi e dei Ghibellini, di cui parlammo (v. pag. 323); ma, per mezzo di una statua equestre di bronzo o di marmo, che egli con espedienti astrologici o magici giunse a procacciarsi e vi seppellì,[535] credette anche di aver guarentito quella città da ogni [355] distruzione, anzi da ogni sorpresa o saccheggio per l'avvenire. Allorquando il cardinale Albornoz (v. vol. I, pag. 140), circa sei decennii più tardi, ebbe in suo potere la Romagna, scavando accidentalmente, fu trovata e mostrata quella statua, probabilmente per ordine del cardinale stesso, affinchè il popolo comprendesse, con quali mezzi il crudele Montefeltro s'era sostenuto contro la Chiesa. Ma di nuovo un secolo più tardi (1410), quando una sorpresa ostile fallì contro la città, si tornò a parlare dell'influenza miracolosa di quel telesma, che forse era stato salvato e nuovamente sepolto. Ma questa deve essere stata l'ultima volta che se ne parlò: poichè ancor nel secolo susseguente la città effettivamente fu presa. — Nelle fondazioni degli edifici prevale ancora per tutto il secolo XV un pregiudizio astrologico (v. pag. 322), ma si hanno anche indizi evidenti di sortilegi magici. Si sa infatti che lo stesso papa Paolo II fece seppellire una enorme quantità di medaglie d'oro e d'argento nei fondamenti degli edifici, ch'egli eresse,[536] e il Platina non è malcontento di poter riconoscere in ciò un omaggio fatto ai riti pagani. Ma certamente nè Paolo, nè il suo biografo non avevano una piena coscienza del significato religioso, che nel medio-evo s'attribuiva a tali consacrazioni.[537]

Ciò non ostante questa magia ufficiale, che non era per lo più che una tradizione popolare, non agguagliò di gran lunga l'importanza, che ebbe la magia segreta usata per iscopi puramente privati e personali.

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Qual parte essa avesse nella vita ordinaria appare in modo speciale da una commedia dell'Ariosto intitolata «il Negromante».[538] Il suo eroe è uno dei molti ebrei espulsi dalla Spagna, quantunque egli si spacci per greco, per egiziano, per africano, e cangi continuamente maschera e nome. Egli ha bensì il potere di far abbuiare co' suoi scongiuri il giorno e di rischiarare la notte, di far muovere la terra, di rendersi invisibile, di tramutar gli uomini in animali e così via, ma queste millanterie non sono che una mostra esteriore: il suo vero scopo è di vivere a spese dei mariti gelosi e delle mogli infedeli, e le tracce che in queste pratiche egli lascia dopo di sè, somigliano alla bava di una lumaca e spesso anche al guasto, che lascia dopo di sè la procella. Per giungere a' suoi intenti egli porta le cose ad un punto, che si crede che il canestro, dove sta nascosto un amante, sia pieno di spiriti, o ch'egli possa far parlare un cadavere e simili. In mezzo a ciò egli è almeno un buon sintomo che poeti e novellieri possano versare su tali uomini a piene mani il ridicolo, essendo certi di trovar assenso ed approvazione da parte di tutti. Il Bandello non solo dipinge le arti magiche di un frate lombardo come vere ribalderie, meschine nell'invenzione e spaventevoli talvolta nelle loro conseguenze,[539] ma mostra altresì, non senza un senso di indignazione, tutti i danni e le sciagure, cui si espongono coloro che vi prestano fede.[540] [357] «Taluno con la clavicola di Salomone e con mille altri libri d'incantagioni spera ritrovare gli occulti tesori nel seno della terra, indurre la sua donna al suo volere, saper i segreti dei principi, andar da Milano a Roma in un atomo e far molti altri effetti mirabili. E quanto più l'incantatore si trova ingannato, più nel fare incantagioni persevera... Sovvengavi, signor Carlo, del tempo che quel nostro amico, per ottenere la sua innamorata, che mai non ottenne, fece della sua camera un cimitero, avendovi più teste ed ossa di morti, che non è a Parigi agli Innocenti». Gl'incanti si compiono talvolta con mezzi abbominevoli, per esempio, col cavare tre denti ad un cadavere, con lo strappargli un'unghia ecc., e se finalmente lo scongiuro riesce, gl'infelici, che lo fanno, ne restan vittime e muoiono talvolta di spavento.


Benvenuto Cellini non morì assistendo al noto grande scongiuro magico, che ebbe luogo (1532) a Roma nel Colosseo,[541] quantunque egli e i suoi compagni ne sieno usciti colmi di spavento: il prete siciliano, che probabilmente vedeva in lui un utile ausiliario per l'avvenire, lo lodò anzi del coraggio mostrato, dicendogli di non aver mai trovato un uomo d'animo così forte. Sull'avvenimento in sè stesso ogni lettore può formarsi quel concetto che crede; e forse più di tutto agirono i vapori narcotici che esalavano d'ogni parte e la fantasia già anticipatamente predisposta alle cose le più terribili, per cui anche il fattorino che Benvenuto condusse con sè, come il più giovine e il più impressionabile, vide o credette vedere più di tutti. Ma che principalmente si avesse in mira di guadagnar Benvenuto, si può facilmente presumerlo, [358] in quanto che, diversamente, per un'impresa così pericolosa non ci sarebbe stato altro scopo, fuorchè la semplice curiosità. Infatti della bella Angelica Benvenuto non si ricorda se non quando è invitato dal negromante a chiedere agli spiriti qualche cosa, e questi medesimo gli dice poi espressamente, che gli intrighi amorosi sono vane pazzie in paragone del vantaggio, che può ritrarsi dal ritrovamento di qualche tesoro. Per ultimo non è da dimenticare, che anche la vanità poteva trovarsi lusingata, qualora si avesse potuto dire: i demoni mi hanno tenuto parola, ed Angelica fu in mio potere precisamente al tempo, in cui mi era stata promessa (cap. 68). Ma quand'anche Benvenuto si fosse a poco a poco indotto ad innestar qualche menzogna in tutto questo racconto, esso avrebbe però sempre un valore incontestabile, come saggio delle opinioni in questo riguardo allora prevalenti.

Del resto gli artisti italiani, anche «i più strani, capricciosi e bizzarri», non si occupano gran fatto di cose magiche; bensì uno di essi, in occasione di studi anatomici, si fece un giubboncello della pelle di un cadavere, ma dietro le ammonizioni di un frate, a cui confessò la cosa, la depose nuovamente in una tomba.[542] Non è improbabile, che appunto lo studio frequente dei cadaveri abbia contribuito a scemare sempre più la fede nella virtù magica di alcune parti dei medesimi, mentre al tempo stesso l'assidua contemplazione e riproduzione delle forme mostrava all'artista la possibilità di una potenza magica d'altro genere.

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In generale la magia appare al principio del secolo XIV, in onta agli esempi addotti, in notevole diminuzione, e ciò vuol dire in un tempo, in cui fuori d'Italia toccava il colmo delle sue fortune, per modo che i viaggi dei maghi ed astrologi italiani nel nord sembrano cominciare soltanto, quando già in patria non trovavano più chi prestasse fede alle loro arti. Era il secolo XIV che trovava necessaria la sorveglianza del lago che è sul monte di Pilato presso Scariotto per impedire ai negromanti la consacrazione dei loro libri.[543] Nel secolo XV poi accaddero altri fatti, come per esempio, l'offerta di provocare forti acquazzoni, per mettere in fuga un esercito di assedianti; ma anche allora il comandante della città assediata — Niccolò Vitelli in Città di Castello — ebbe il buon senso di cacciare da sè gli autori della pioggia, come empi impostori.[544] Nel secolo XVI tali fatti sotto forma ufficiale non s'incontrano più, quand'anche nella [360] vita privata si ricorra ancora in più guise alle imposture degli scongiuratori. Ora egli è per l'appunto questo il tempo, in cui la Germania ha il massimo de' suoi negromanti, il dottore Giovanni Faust, mentre il maggiore degli Italiani, Guido Bonatto, appartiene al secolo XIII.

Tuttavia anche qui bisogna soggiungere che lo scemare della fede negli scongiuri non si mutò necessariamente tutto ad un tratto nella credenza contraria in una Provvidenza ordinatrice e regolatrice delle cose umane; che anzi in alcuni non lasciò che un cieco fatalismo, nè più nè meno come avea fatto l'astrologia, quando scomparve.


Ma qui lasciamo completamente da parte la piromanzia e la chiromanzia[545] e simili specie secondarie di magìa, le quali non acquistarono un po' di voga se non quando scaddero la magìa propriamente detta e l'astrologia, e non crediamo nemmeno di occuparci della fisiognomia, che allora cominciava bensì a sorgere, ma priva affatto di quell'interesse, che il solo nome farebbe supporre. Infatti essa non appare già come strettamente affine all'arte figurativa ed alla psicologia pratica, ma più particolarmente come una specie nuova di sogno fatalistico, come una rivale dichiarata dell'astrologia, quale sembra essere stata presso gli Arabi. Bartolommeo Cocle, per esempio, autore di un Manuale fisiognomico, e che si pavoneggiava del pomposo titolo di metaposcopo,[546] la cui scienza però, giusta l'espressione del Giovio, rassomigliava [361] piuttosto ad una delle maggiori arti liberali, non s'accontentava di spacciare le sue profezie per i pusillanimi, che giornalmente accorrevano a consultarlo, ma scrisse anche addirittura un «Prospetto delle persone, alle quali erano imminenti diversi gravissimi pericoli». Il Giovio, quantunque invecchiato nell'incredulità romana — in hac luce romana! —, confessa che le profezie contenute in quel Prospetto non fecero che verificarsi anche troppo esattamente.[547] Sta però di fatto altresì, che in tali occasioni quelli che erano colpiti da queste od altre simili profezie, si vendicavano terribilmente dei profeti: Giovanni Bentivoglio fece per ben cinque volte sfracellare alla parete Luca Gaurico appeso ad una fune, che era attaccata ad un'alta scala a chiocciola, perchè gli aveva predetto la perdita della signoria:[548] Ermete Bentivoglio fece inseguire il Cocle da un assassino, perchè l'infelice metaposcopo gli aveva, benchè a malincuore, profetizzato che sarebbe morto fuggiasco in una battaglia. L'assassino schernì, a quanto sembra, il morente, ripetendogli che anche a lui aveva predetto, che avrebbe vituperosamente commesso un assassinio! — Una fine ugualmente infelice ebbe il nuovo fondatore della chiromanzia, Antioco Tiberto da Cesena,[549] per volere di Pandolfo Malatesta da Rimini, al quale aveva presagito la cosa più dolorosa che possa toccare ad un tiranno, la morte nell'esiglio e nell'estrema miseria. Tiberto [362] era un uomo di grande ingegno, che notoriamente dava i suoi responsi, non tanto servendosi della chiromanzia, quanto della profonda conoscenza che aveva del cuore umano: per le sue molte cognizioni egli era rispettato perfin da quei dotti, che non tenevano nessun conto delle sue divinazioni.[550]

L'alchimia finalmente, che nell'antichità non viene nominata se non assai tardi, cioè sotto Diocleziano, non ha nell'epoca più splendida del Rinascimento che un'importanza affatto secondaria.[551] Anche di questa malattia l'Italia era stata tocca molto tempo prima, nel secolo XIV, quando il Petrarca, nella sua polemica contro essa, confessava che il far bollire l'oro era un uso diventato universale.[552] Ma da quel tempo in poi s'era fatta sempre più rara in Italia quella specie particolare di fede, di entusiasmo e di isolamento, che si richiede per l'esercizio dell'alchimia, mentre i seguaci di essa, italiani e forestieri, cominciarono nel nord ad usufruttuare in larga misura la credulità dei grandi signori.[553] Sotto Leone X i pochi fra gl'italiani che ancora attendevano a questo studio,[554] passavano per uomini strani ed eccentrici (ingenia curiosa), ed Aurelio Augurelli, che dedicò a quel [363] Papa dissipatore un poemetto sul modo di far l'oro, vuolsi n'abbia avuto in ricompensa una magnifica borsa, ma vuota. Il mistico fanatismo, che in seguito condusse gli alchimisti a cercare, oltre l'oro, anche la famosa pietra filosofale, nella quale doveva trovarsi ogni fortuna, non è che un tardo germoglio settentrionale, spuntato dalle teorie di Paracelso e di altri.

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CAPITOLO V. Crollo della fede in generale.

La confessione del Boscoli. — Confusione religiosa e scetticismo generale. — Contesa sull'immortalità. — Il cielo dei pagani. — Il mondo avvenire di Omero. — Abbandono delle dottrine del Cristianesimo. — Il deismo italiano.

In istretta relazione con queste superstizioni e in generale colle massime dell'antichità allora universalmente adottate era la fede nell'immortalità dell'anima. Ma questa questione, presa nel suo complesso, ha anche attinenze più larghe e profonde con lo sviluppo dello spirito moderno in generale.

Una delle fonti principali d'ogni dubbio nell'immortalità era il desiderio di non dover essere obbligati in nulla ad una Chiesa universalmente abborrita, come era allora la romana. Vedemmo già come essa chiamasse col nome di epicurei coloro che la pensavano a questo modo (v. pag. 303 e segg:). Può ben essere accaduto che taluno nel momento supremo della morte cercasse il conforto de' Sacramenti; ma questo era nulla in paragone dei moltissimi, che per tutta la loro vita, e specialmente poi negli anni della loro maggiore attività, non si curarono affatto di seguire qualsiasi principio religioso. Che da questa indifferenza poi parecchi fossero condotti [366] ad una compiuta incredulità è cosa, che, oltre all'essere evidente da sè, viene storicamente testificata d'ogni parte. Sono coloro dei quali l'Ariosto scriveva: non credono a nulla al di sopra del tetto della loro casa.[555] In Italia, e più specialmente a Firenze, si poteva senza pericolo alcuno vivere in una palese incredulità, purchè non si provocasse con offese dirette la collera della Chiesa. Infatti era di uso, che il confessore chiamato ad assistere un delinquente, che dovesse subire l'estremo supplizio, prima d'ogni altra cosa lo interrogasse se credeva: «essendo corsa una falsa voce, ch'egli non avesse fede alcuna».[556]


Il povero peccatore, al quale qui si allude, quel Pierpaolo Boscoli, di cui già facemmo menzione (v. vol. I, pag. 79), e che nel 1513 ebbe parte in una cospirazione contro la famiglia dei Medici appena ristabilita, è divenuto in questa occasione l'espressione la più perfetta della confusione, che allora regnava nelle idee religiose. Devoto per tradizioni famigliari al partito del Savonarola, egli aveva poi concepito un certo entusiasmo per la libertà intesa al modo antico e per altre idee del vecchio paganesimo; ma, mentre egli langue nel carcere, i mistici partigiani del frate s'interessano nuovamente per lui e cercano ogni mezzo perchè egli muoia cristianamente e salvi l'anima sua. Il pio testimonio e narratore [367] del fatto è uno della famiglia artistica dei Della Robbia, il dotto filologo Luca. «Ohimè, sospira il Boscoli, aiutatemi a dimenticar Bruto, perchè io possa morire da buon cristiano!» — E Luca gli risponde: «purchè voi vogliate, ciò non vi riescirà malagevole; voi sapete già che le imprese degli antichi romani non ci furono tramandate nella loro schietta genuinità, ma con arte accresciute». Allora quegli fa violenza a sè stesso per credere, e si rimprovera che la sua fede non sia spontanea. Se soltanto gli fosse concesso ancora di passare un mese in compagnia di buoni monaci, egli sarebbe certo di riformare il cuore e la mente a pensieri e sentimenti cristiani! — Da ciò che segue emerge poi con tutta evidenza, che questi seguaci del Savonarola conoscevano assai poco la Bibbia: il Boscoli non conosce altre preghiere che il Pater e l'Ave, e supplica istantemente Luca a voler dire agli amici, che studino la Sacra Scrittura, perchè nell'ora suprema non si trova se non ciò che s'è appreso durante la vita. Dopo ciò, Luca gli legge e gli spiega la Passione secondo il Vangelo di S. Giovanni: in modo veramente strano quell'infelice vede chiara la divinità di Cristo, mentre invece non sa capacitarsi della sua umanità: e se ne cruccia, e vorrebbe poter vedere anche quest'ultima con tale evidenza, «come se Cristo gli venisse incontro uscendo da un bosco»: allora l'amico lo esorta all'umiltà e lo avverte che i dubbi non sono che ispirazioni perverse dello spirito maligno. — Più tardi egli si risovviene di un suo voto giovanile non mai compiuto, di andare in pellegrinaggio alla Madonna dell'Impruneta, e Luca gli promette di compierlo in sua vece. Frattanto giunge il confessore, un frate del convento del Savonarola, come egli l'aveva chiesto, e gli dà innanzi tutto quegli schiarimenti, che altrove [368] abbiamo accennato, intorno all'opinione di s. Tommaso d'Aquino sul tirannicidio, eccitandolo poscia a sostenere la morte con animo forte. Il Boscoli risponde: «padre, non perdete su questo punto il vostro tempo; a ciò mi bastano già i filosofi: aiutatemi a subire la morte per amore di Cristo». Le cose ulteriori, la comunione, il commiato e l'esecuzione, ci vengono narrate in modo assai commovente; più particolarmente però merita d'esser notato un tratto al tutto caratteristico, ed è che, mentre il Boscoli poneva la testa sul ceppo, pregò il carnefice a sospendere il colpo ancora un momento, «perchè egli, sin da quando ebbe l'annunzio della propria condanna, avea fatto ogni sforzo per unirsi con Dio, ma sempre indarno, ed ora voleva fare uno sforzo supremo per abbandonarsi del tutto nelle sue mani». Evidentemente egli ripeteva un'idea del Savonarola, che, intesa soltanto per metà, lo teneva inquieto ancora in quell'estremo momento.


Se noi possedessimo parecchie altre confessioni di questo genere, avremmo un'immagine ben più completa della vita morale di quel tempo, di quello che non ci sia dato di raccoglierla da tanti trattati e da tante poesie. Noi vedremmo anche meglio quanto forte fosse l'innato istinto religioso, e quanto subbiettivi e vacillanti i rapporti d'ogni individuo colle verità religiose, e finalmente quali potenti nemici osteggiassero queste ultime. Che uomini cresciuti con tali sentimenti non fossero quelli che si domandavano per fondare una nuova Chiesa, è cosa per sè evidentissima; ma la storia del pensiero degli occidentali sarebbe pur sempre incompiuta, se non si tenesse conto di quest'epoca di sommo fermento fra gli Italiani, che non s'incontra presso le altre [369] nazioni, perchè queste non vi presero alcuna parte. Ma torniamo alla questione dell'immortalità.

Se l'incredulità a questo riguardo fece così rapide ed estese conquiste nella classe degli uomini più colti, ciò dipendette essenzialmente dalla circostanza che il compito affatto terreno di scoprire e riprodurre il mondo mediante la parola e le immagini assorbì in alto grado tutte le forze mentali e morali degli Italiani. L'esser mondano all'uomo del Rinascimento fu una necessità (v. pag. 298). Ma da ciò derivò anche che l'arte e la indagine scientifica apersero universalmente la via ad uno scetticismo, che, se non appare evidentissimo nella letteratura e se non s'accinse alla critica della storia biblica (v. pag. 311) in modo degno del tempo, tuttavia non può dirsi che non abbia esistito. Esso passò piuttosto inosservato in quel gran bisogno di dare a tutto forma e colore, che è lo stimolo positivo dell'arte; senza contare gl'impedimenti creati dal potere dispotico usurpato dalla Chiesa, che si sarebbe dichiarata mortale nemica di chiunque avesse osato sciogliere la questione teoricamente. Questo spirito di dubbio nondimeno doveva volgersi inevitabilmente al problema dello stato dell'anima umana dopo la morte per motivi già per sè troppo evidenti, perchè abbiano bisogno di essere additati.


Ed ora sopravvenne l'Antichità ed influì su tutta questa questione in doppio modo. In primo luogo si cercò appropriarsi la psicologia degli antichi e si torturò minuziosamente Aristotele per averne una risposta definitiva. In uno dei dialoghi imitati da Luciano a quel tempo[557] Caronte racconta a Mercurio, come egli abbia interpellato [370] Aristotele stesso, mentre lo tragittava sulla sua barca, intorno a ciò che egli pensasse intorno all'immortalità: il cauto filosofo, quantunque corporalmente fosse morto e tuttavia vivesse spiritualmente, non avea nemmeno allora voluto compromettersi con una chiara e netta risposta: come adunque, dopo tanti secoli, potevano gl'interpreti essere più fortunati di lui? — Ma appunto perciò si questionava con maggiore accanimento sulle opinioni emesse da lui e da altri antichi sulla vera natura dell'anima, sulla sua origine, sulla sua preesistenza, sulla sua unità in tutti gli uomini, e sulla sua assoluta eternità, anzi anche intorno alle diverse sue trasmigrazioni, e tali questioni furono portate perfin sul pergamo.[558] La disputa assunse ancora nel secolo XV proporzioni assai larghe e s'accalorava ogni dì più: gli uni dimostravano che Aristotele senz'altro dà l'anima come immortale;[559] altri deploravano la durezza di cuore degli uomini, che vorrebbero vedersi l'anima seder dinanzi sopra una sedia, per credere alla di lei esistenza:[560] Filelfo nella sua orazione funebre per Francesco Sforza adduce una serie di sentenze diverse di filosofi antichi ed anche d'Arabi a sostegno dell'immortalità, e chiude questa miscela di testimonianze, che nella stampa occupano due pagine e mezza molto compatte in folio,[561] con due righe: «oltre a ciò abbiamo il Testamento vecchio ed il nuovo, che tengono il luogo di qualsiasi certezza ed autorità». In mezzo a ciò sopravvennero i Platonici [371] colla dottrina dell'anima di Platone, e taluni anche, come per esempio il Pico, con notevoli aggiunte desunte dalle dottrine del Cristianesimo. Ma gli avversari riempivano il mondo erudito delle loro opinioni. Al principio del secolo XVI lo scandalo, che ne risentì la Chiesa, era talmente grande, che Leone X nel Concilio Lateranense (1513) dovette pubblicare una costituzione[562] a difesa della immortalità e individualità dell'anima, quest'ultima contro coloro che insegnavano non esser l'anima in tutti gli uomini che una sola. Pochi anni dopo però apparve il libro del Pomponazzo, dove si mostra l'impossibilità di una prova filosofica dell'immortalità, ed allora la lotta si svolse in confutazioni ed apologie, e non tacque se non di fronte alla reazione cattolica. La preesistenza dell'anima in Dio, più o meno conforme alle dottrine ontologiche di Platone, rimase a lungo come un'idea assai diffusa e tornò comoda specialmente ai poeti.[563] Evidentemente non si pensò più da vicino, quali conseguenze vi andassero connesse intorno al modo di esistere dopo la morte.


Il secondo influsso dell'Antichità venne principalmente da quel notevole frammento del libro sesto della Repubblica di Cicerone, che è noto sotto il nome di «Sogno di Scipione». Senza il commento di Macrobio probabilmente anch'esso sarebbe andato perduto, come tutta la seconda metà di quest'opera; ma allora era assai diffuso [372] in innumerevoli manoscritti[564] e, quando nacque l'arte tipografica, in moltissime ristampe, e fu in più guise commentato. È la designazione della vita gloriosa, che aspetta i grandi uomini dopo la morte nel concento delle sfere celesti. Questo cielo del mondo pagano, pel quale a poco a poco trovaronsi anche altre testimonianze antiche, si venne mano mano sostituendo al cielo promesso ai cristiani in quella stessa misura, nella quale l'ideale della grandezza storica e della fama gettò nell'ombra le idealità della vita cristiana, e, ciò non ostante, il sentimento non ne restava tanto offeso, come colla dottrina della morte definitiva di tutto l'uomo. Ancora il Petrarca cominciò a fondare le sue speranze principalmente su questo Sogno di Scipione, su altre espressioni che si riscontrano in Cicerone e sul Fedone di Platone, senza nemmeno menzionare la Bibbia.[565] «Perchè, esclama egli in qualche parte de' suoi scritti, non dovrei io come cattolico partecipare ad una speranza, che trovo accettabile presso i pagani?». Un po' più tardi Coluccio Salutati scrisse le sue «Fatiche d'Ercole» (che sussistono ancora manoscritte), dove nella conclusione si prova, che agli uomini attivi e operosi, che sulla terra sostennero lotte straordinarie, di diritto appartiene un seggio sopra le stelle.[566] E se anche Dante confinò rigorosamente i grandi del paganesimo (ai quali certamente egli accordava il Paradiso) nel Limbo, ch'egli pone al limitare [373] dell'Inferno,[567] ora invece la poesia si mostrò più corriva e diffuse idee molto più larghe intorno al mondo avvenire. Cosimo il Vecchio, giusta una poesia di Bernardo Pulci scritta in occasione della sua morte, era stato accolto in cielo da Cicerone, che al pari di lui fu detto «padre della patria», dai Fabj, da Curio, da Fabrizio e da molti altri, coi quali sarà un nuovo ornamento di quel coro, nel quale non cantano che le anime scevre d'ogni colpa e d'ogni rimprovero.[568]


Ma negli antichi autori c'era anche un altro concetto, e d'assai meno lusinghiero, del mondo futuro, vale a dire il regno delle ombre di Omero e di quei poeti, che non avevano saputo ancora dar forma umana a quel modo di esistere. Anche questo concetto impressionò l'animo di taluni. Gioviano Pontano in qualche punto delle sue opere pone in bocca al Sannazzaro il racconto di una visione[569] avuta di buon mattino nel sonno. In essa gli appare un amico morto, Ferrando Gennaro, col quale egli altre volte s'era intrattenuto sull'immortalità dell'anima: egli lo interroga, se sia vera l'eternità e l'atrocità delle pene infernali? L'ombra, dopo qualche istante di silenzio, risponde al tutto nel senso della risposta di Achille ad Odisseo: «di questo ti faccio certo, che noi usciti dalla vita corporale portiamo il più grande desiderio di ritornare in essa». Poi saluta e scompare.

[374]

Non si può assolutamente disconoscere che simili idee implicavano affatto la distruzione dei dogmi fondamentali del Cristianesimo. I concetti della prima caduta dell'uomo e della Redenzione devono essere scomparsi quasi del tutto. Nè bisogna lasciarsi illudere dall'effetto prodotto dai giubilei e dalle penitenze pubbliche, di cui s'è parlato altrove (v. pag. 264 e seg. e 290 e seg.); poichè, ammesso anche che v'abbiano partecipato, al pari di tutti gli altri, altresì gli uomini individualmente più colti ed istrutti, tale partecipazione non era tanto l'effetto di un vivo sentimento religioso, quanto è assai più un bisogno di cercar forti commozioni, una sensazione violenta degli spiriti dinanzi a qualche grande calamità, un grido di disperazione lanciato verso il cielo, perchè mandasse un aiuto straordinario. Il risvegliarsi della coscienza non portava di necessità il sentimento della corruzione umana e del bisogno di una Redenzione, anzi anche una grande penitenza esteriore non implicava per sè un pentimento assoluto in senso cristiano. Se taluni, dotati di una energia straordinaria, ci narrano che il loro principio era quello di non voler pentirsi giammai di nulla,[570] può ben essere che ciò si riferisca innanzi tutto a cose per sè stesse indifferenti, a viste o ad errori commessi nel campo della vita pratica, ma il passaggio da questo al campo morale è facilissimo, quando la sorgente di quel principio è universale e risiede nel sentimento individuale della propria forza. Il Cristianesimo passivo e contemplativo, colle sue speranze in una vita migliore al di là della tomba, non aveva più alcun predominio [375] su questi uomini. Il Machiavelli lancia espressamente l'ultima parola su esso, affermandolo dannoso allo Stato e inutile alla difesa delle sue libertà.[571]


Ora qual forma doveva dunque assumere negli uomini più serii il sentimento religioso, che, in onta a tutto questo, ancora esisteva? Il Teismo o Deismo, comunque lo si voglia chiamare. Quest'ultimo nome parrebbe convenir meglio a quel modo di pensare, che ha già abbandonato ogni credenza cristiana, senza cercare o trovare un ulteriore compenso per soddisfare ai bisogni del sentimento. Il Teismo invece si riconosce in una più elevata e positiva devozione verso l'Ente divino, che il medio-evo non aveva mai conosciuto. Una tale devozione non esclude per nulla il Cristianesimo, e può benissimo in ogni tempo conciliarsi colle sue dottrine sul peccato, sulla redenzione e sull'immortalità, ma può anche sussistere senza di esse.

Talvolta essa si manifesta con una ingenuità quasi infantile, anzi con un colorito mezzo pagano: in Dio essa vede l'Essere onnipotente, che è meta e compimento di tutti i desideri. Agnolo Pandolfini racconta,[572] come, dopo le sue nozze, egli si sia ritirato colla propria consorte dinanzi all'altare domestico, dove era l'immagine di Nostra Donna, orando non solo a lei, ma anche a Dio Padre, perchè fosse loro concesso un giusto uso dei beni di fortuna, una lunga convivenza in pace e in concordia, e molti discendenti maschi: «per me chiesi ricchezza, amicizie ed onori, per lei integrità e onestà e che fosse buona massaia». Se poi accade, che la preghiera abbia nella [376] espressione un forte colorito d'antichità, si ha talvolta molta difficoltà a sceverare in essa lo stile, che è pagano, dal senso, che è pure sempre quello di un Teismo cristiano.[573]

Questo sentimento si manifesta qua e là con molta verità nella sventura. Degli ultimi anni del Firenzuola, che giacque lungamente ammalato di febbre, ci restano alcune preghiere a Dio, nelle quali egli incidentalmente accentua le sue credenze cristiane, e tuttavia ci appare imbevuto di sentimenti teistici i più pronunciati.[574] Egli non considera punto i suoi dolori come una conseguenza delle sue colpe o come una prova e preparazione alla vita avvenire; è un affare immediato tra lui e Dio solo, che fra l'uomo e la disperazione ha posto il potente amor della vita. «Io impreco, esclama egli, ma contro alla natura soltanto; imperocchè la tua grandezza mi vieta di nominarti.... dammi la morte, o Signore, io te ne supplico, dammi tosto la morte!»

Vero è che una prova evidente di un Teismo manifesto e sentito si cercherebbe indarno in questa e in simili [377] espressioni; quelli che le emisero, credevano ancora in parte di essere cristiani e rispettavano, oltre a ciò, per motivi diversi la dottrina emanata dalla Chiesa. Ma al tempo della Riforma, quando il pensiero fu costretto a manifestarsi in tutta la sua pienezza, questo modo di pensare acquistò una coscienza esplicita; un buon numero di protestanti italiani si dichiararono Anti-trinitarj, e i Sociniani fuggiaschi in lontane regioni fecero perfino il notevole tentativo di costituire una Chiesa in questo senso. In ogni modo dal fin qui detto apparirà per lo meno evidentemente, che, oltre ai razionalisti della scuola umanistica, anche altri spiriti seguivano arditamente questa corrente.

Un centro di Teismo pronunciatissimo fu l'Accademia Platonica di Firenze, e in essa nessuno lo professò così apertamente come Lorenzo il Magnifico. Le opere dottrinali e perfino le lettere famigliari di quel circolo di dotti non ci danno che la metà dei loro sentimenti e del loro pensiero. Egli è vero che Lorenzo dalla sua gioventù sino alla fine della sua vita si dichiarò in fatto di credenze cristiano,[575] e che Pico fu anzi ligio alle idee del Savonarola e piegò a sentimenti di un ascetismo claustrale.[576] Ma negli inni di Lorenzo,[577] che siamo tentati [378] di designare come il maggior prodotto dello spirito di quella scuola, parla aperto il Teismo, e precisamente nel senso, che riguarda il mondo come un gran Cosmo fisico e morale. Mentre gli uomini del medio-evo considerano questo stesso mondo soltanto come una valle di lagrime, che il Papa e l'Imperatore debbono guidare sino alla venuta dell'Anticristo, mentre i fatalisti del Rinascimento oscillano perplessi tra momenti di violenta energia e di cupa rassegnazione o di delirj superstiziosi, qui un'eletta schiera di spiriti superiori[578] coltiva l'idea, che il mondo visibile sia stato creato da Dio per solo amore, e che esso sia una riproduzione del tipo esistente in lui, e ch'egli ne sia pur sempre l'eterno motore e conservatore. L'uomo, riconoscendo Iddio, può attirarlo nella sua cerchia ristretta, ma amandolo può anche abbracciar l'infinito, e questa è la beatitudine, di cui è lecito goder sulla terra.

Qui gli ultimi accenti del misticismo del medio-evo si fondono colle dottrine platoniche e con idee e sentimenti al tutto moderni. Così si veniva maturando il miglior frutto di quella cognizione del mondo esteriore e dell'uomo, che basta da sola a collocare il Rinascimento italiano alla testa di tutta la civiltà moderna.

FINE DEL VOLUME SECONDO ED ULTIMO.

[379]

INDICE E SOMMARIO DELLE MATERIE CONTENUTE NEL VOLUME SECONDO ED ULTIMO

PARTE QUARTA.
Scoperta del mondo esteriore e dell'uomo.
 
I. Viaggi degli Italiani.
Colombo. — La Cosmografia nelle sue attinenze coi viaggi
Pag. 7
II. Le scienze naturali in Italia.
Tendenze all'empirismo. — Dante e l'astronomia. — Ingerenza della Chiesa. — Influenza dell'umanismo. — Botanica; i cultori del giardinaggio. — Zoologia; i Serragli. — Il seguito di Ippolito de' Medici; gli schiavi
13
III. Scoperta del Bello nel paesaggio.
Il paesaggio nel medio-evo. — Il Petrarca e le ascensioni alpine. — Il Dittamondo di Fazio degli Uberti. — La scuola fiamminga. — Enea Silvio e le sue descrizioni
25
IV. Scoperte sull'uomo.
Espedienti psicologici; i temperamenti
41
V. Rappresentazione dell'elemento spirituale nella poesia.
Valore intrinseco del verso sciolto, e del sonetto. — Dante e la sua «Vita nuova. — La Divina Commedia. — Il Petrarca pittore degli affetti e dei sentimenti. — Il Boccaccio e la Fiammetta. — Scarso sviluppo della tragedia. — La pompa della rappresentazione nociva al dramma. — Intermezzi e balli. — Commedia in genere e commedia dell'arte. — Epopea romantica. — Scoloriture necessarie nella pittura dei caratteri. — Il Pulci e il Bojardo. — Legge intima dei loro componimenti. — L'Ariosto e il suo stile. — Il Folengo e la parodia. — Il Tasso come antitesi
45
[380]
VI. Le Biografie.
Progresso degli Italiani di fronte al medio-evo. — Biografi toscani. — Biografi d'altre regioni d'Italia. — L'autobiografia: Enea Silvio. — Benvenuto Cellini. — Girolamo Cardano. — Luigi Cornaro
73
VII. Caratteristica dei popoli e delle città.
Il Dittamondo di Fazio degli Uberti. — Descrizioni del secolo XVI
89
VIII. Descrizione dell'uomo esteriore.
La Bellezza negli scritti di Boccaccio. — L'ideale della Bellezza del Firenzuola. — Definizioni generali di quest'ultimo
93
IX. Descrizione della vita reale ordinaria.
Enea Silvio ed altri. — Convenzionalismo bucolico dal Petrarca in avanti. — Condizione effettiva dei contadini. — Schietta rappresentazione poetica della vita campestre. — Battista Mantovano, Lorenzo il Magnifico, il Pulci. — Angelo Poliziano. — L'umanità e l'idea dell'uomo in generale
101
 
PARTE QUINTA.
La vita sociale e le feste.
 
I. Contrasto col medio-evo. — La convivenza nelle città. — Negazione teorica della nobiltà. — Contegno dell'aristocrazia secondo i paesi. — Sua posizione di fronte allo svolgersi progressivo della cultura. — Posteriori influenze spagnuole. — Le dignità cavalleresche dal medio-evo in avanti. — I tornei e le loro caricature. — La nobiltà come requisito indispensabile a' cortigiani 113
II. Raffinamento esteriore della vita.
Abbigliamenti e mode. — Articoli di toeletta delle donne. — Pulitezza esteriore. — Il galateo e la buona creanza. — Comodità ed eleganza
127
III. La lingua come base del vivere sociale.
Formazione di una lingua ideale. — Diffusione sempre crescente della medesima. — I puristi più rigidi. — Meschinità dei loro trionfi. — La conversazione
139
IV. La forma più elevata della vita sociale.
Convenienze sociali e statuti. — I novellieri e il loro uditorio. — Le grandi dame e le loro sale. — La società fiorentina. — La società di Lorenzo descritta da lui medesimo
149
[381]
V. L'uomo perfetto di società.
Suoi amori. — Sue qualità esterne ed interne. — Gli esercizi corporali. — La musica. — Gl'istrumenti e i virtuosi. — Dilettanti in società
155
VI. Condizione della donna.
Sua educazione pari a quella dell'uomo. — Carattere virile delle sue poesie. — Sviluppo completo della sua personalità. — La donna-uomo (virago). — La donna nella società. — Cultura delle cortigiane
163
VII. Il governo della famiglia.
Contrasto col medio-evo. — Agnolo Pandolfini. — Le ville e la vita campestre
173
VIII. Le Feste.
Loro forme rudimentali, il Mistero e la Processione. — Pregi delle feste italiane su quelle d'altri paesi. — L'allegoria nell'arte italiana. — Rappresentanti storici dell'universalità. — Le rappresentazioni dei Misteri. — Il Corpusdomini in Viterbo. — Rappresentazioni profane. — Pantomime e ricevimenti solenni di principi. — Processioni; trionfi spirituali. — Trionfi profani. — Corse navali. — Carnevale a Roma e a Firenze
179
 
PARTE SESTA.
La Morale e la Religione.
 
I. La Moralità.
Canoni critici. — Coscienza della demoralizzazione. — Sentimento moderno dell'onore. — Predominio della fantasia. — Tendenza al giuoco ed alla vendetta. — Offese alla fede coniugale. — Situazione morale della donna. — L'amore spiritualizzato. — Tendenza generale al delitto. — Il malandrinaggio. — L'assassinio pagato, gli avvelenamenti. — Malfattori in senso assoluto. — La moralità in rapporto con lo sviluppo della vita individuale
213
II. La Religione nella vita quotidiana.
Difetto di una riforma. — Posizione degl'Italiani di fronte alla Chiesa. — Odio contro la gerarchia e le fraterie. — I frati mendicanti. — L'Inquisizione domenicana. — Gli ordini religiosi superiori. — Abituale ingerenza della Chiesa e de' suoi riti. — Apostoli di penitenza. — Girolamo Savonarola. — L'elemento pagano nelle credenze popolari. — La fede nelle reliquie. — Il culto di Maria. — Oscillazioni nel culto. — Grandi epidemie religiose. — Loro ordinamento poliziesco in Ferrara
249
[382]
III. La Religione e lo spirito del Rinascimento.
Soggettivismo necessario. — Tendenze mondane. — Tolleranza verso l'islamismo. — Legittime aspirazioni di tutte le religioni. — Influenza dell'antichità. — Pretesi epicurei. — Dottrina del libero arbitrio. — Umanisti devoti. — Indirizzo mediano degli umanisti in generale. — Primordii della critica religiosa. — Fatalismo degli umanisti. — Riti esterni pagani
295
IV. Innesto di antica e moderna superstizione.
L'astrologia. — Sua diffusione ed influenza. — Suoi avversari in Italia. — Confutazione di Pico e suoi effetti. — Superstizioni diverse. — Superstizione degli umanisti. Spettri di persone morte. — Credenza nei demoni. — La strega italiana. — Il paese classico delle streghe presso Norcia. — Fusione e rapporti colla stregoneria del nord. — Malìe delle meretrici. — L'incantatore e lo scongiuratore. — I demonii sulla via di Roma. — Singole specie di malìe: i telesmi. — Magia del getto dei fondamenti. — Il negromante presso i poeti. — Storiella magica di Benvenuto Cellini. — La magìa in decrescenza. — Specie affini della stessa; l'alchimia
317
V. Crollo della fede in generale.
La confessione del Boscoli. — Confusione religiosa e scetticismo generale. — Contesa sull'immortalità. — Il cielo dei pagani. — Il mondo avvenire di Omero. — Abbandono delle dottrine del Cristianesimo. — Il deismo italiano
365

NOTE:

1.  Luigi Bossi, Vita di Cristoforo Colombo, dove si ha anche un prospetto degli anteriori viaggi e delle scoperte degli Italiani, a pag. 91 e segg.

2.  Intorno a ciò veggasi un lavoro speciale di Pertz. Un cenno, invero troppo scarso, ne dà Enea Silvio nell'Europae status sub Federico III imper. cap. 44. (Fra altri v. Frehers, Scriptor, ed. del 1624, vol. II, p. 87).

3.  Pii II comment. L. I, p. 14. — Una prova evidente ch'egli non fu sempre esatto nelle sue osservazioni e che talvolta aggiunge o toglie a capriccio, la si ha per es. nella descrizione di Basilea. Ciò peraltro non scema il merito de' suoi lavori presi nel loro insieme.

4.  Nel secolo XVI l'Italia continuò a riguardarsi per lungo tempo ancora come il centro privilegiato degli studi cosmografici, quando omai gli scopritori appartenevano quasi tutti ai paesi posti sulle rive dell'Atlantico. La geografia locale conta verso la metà del secolo un'opera assai notevole nella Descrizione di tutta Italia di Leandro Alberti.

5.  Libri, Histoire des sciences mathématiques en Italie, IV vols. Paris, 1838.

6.  Per giungere qui ad un giudizio veramente concludente, bisognerebbe constatare la sempre maggiore attività manifestatasi nel raccogliere osservazioni, indipendentemente dai progressi delle scienze matematiche, ma ciò eccede i limiti del nostro assunto.

7.  Libri, op. cit. II, p. 174 e segg.

8.  Scardeonius, De urb. Patav. antiquit. nel Grevio, Thesaur. ant. italic. t. VI, pars III.

9.  Veggansi i lamenti esagerati del Libri, op. cit. II, p. 258 e segg. Per quanto sia da deplorare, che un popolo dotato di tante attitudini non abbia consacrato una maggior parte delle sue forze alle scienze naturali, crediamo tuttavia ch'esso abbia avuto scopi ancor più elevati, che in parte anche raggiunse.

10.  Alexandri Braccii descriptio horti Laurentii Med., ristampata anche come Appendice N. 58 alla vita di Lorenzo di Roscoe. Anche nelle appendici al Laurentius di Fabroni.

11.  Mondanarii villa, ristampato nei Poemata aliquot insignia illustr. poetar. recent.

12.  Sul giardino zoologico di Palermo sotto Enrico VI, v. Otto de S. Blasio ad a 1194. — Quello di Enrico I d'Inghilterra nel parco di Woodstock (Guil. Malmesbur, p. 638) conteneva leoni, leopardi, cammelli ed un porcospino, tutti doni di principi stranieri.

13.  Come tale qui, dipinto o scolpito in pietra, è detto marzocco. — In Pisa tenevansi delle aquile: cfr. gli interpreti di Dante, Inferno XXXIII, 22.

14.  V. l'estratto di Aegid. Viterb. presso Papencordt, Storia della città di Roma nel medio-evo, p. 367, not., dove si cita un fatto del 1328. — Le lotte delle bestie feroci fra loro e coi cani servivano di spettacolo al popolo nelle grandi occasioni. Nel ricevimento fatto nel 1459 in Firenze a Pio II e a Galeazzo Maria Sforza si riunirono insieme in uno steccato chiuso sulla piazza della Signoria tori, cavalli, cinghiali, cani, leoni e una giraffa, ma i leoni si accovacciarono e non vollero attaccare altre bestie. Cfr. Ricordi di Firenze, Rer. ital. scriptor. ex florent. codd. t. II, col. 741. Diversamente da questi nella Vita Pii II, Murat. III, II, col. 976. Una seconda giraffa fu regalata a Lorenzo il Magnifico da Kaytbey, Sultano de' Mammelucchi. Cfr. Paul. Jov. Vita Leonis X, L. I. Del resto del serraglio di Lorenzo era celebre specialmente un magnifico leone, la cui uccisione per opera d'altri leoni fu riguardata come un presagio della morte di Lorenzo.

15.  Giov. Villani X, 185, XI, 66. Matteo Villani III, 90, V. 68. — Quando i leoni s'azzuffavano tra loro o si uccidevano, lo si aveva come un cattivo augurio. Cfr. Varchi, Stor. fiorent III, p. 143.

16.  Cron. di Perugia, Arch. stor. XVI, II, p. 77. All'anno 1497. — Ai Perugini fuggì una volta una coppia di leoni. Ibid. XVI, I, p. 382, all'anno 1434.

17.  Gay, Carteggio, I, p. 422, all'anno 1291. — I Visconti adoperavano perfino dei leopardi ammaestrati, come belve da caccia, specialmente contro le lepri, che si facevano scovare dai cani. Cfr. Kobell, Wildanger, p. 247, dove si citano altri esempi posteriori di caccie con leopardi.

18.  Strozii poetae, p. 146. Cfr. p. 188, e sul parco della selvaggina pag. 193.

19.  Cron di Perugia, l. c. XVI, II, p. 199. — Qualche cosa di simile si ha nel Petrarca, De remed. utriusque fortunae, I, 61, ma ancor meno accentuatamente.

20.  Jovian. Pontanus De magnificentia. — Nel giardino zoologico del cardinale d'Aquileja ad Albano nel 1463 trovavansi, oltre a dei pavoni e dei polli d'India, anche delle capre di Siria dalle lunghe orecchie: Pii II Comment. XI, p. 562 e segg.

21.  Decembrio, ap. Muratori XX, col. 1012.

22.  Maggiori particolari in Paul. Jov. Elogia, parlando di Tristano d'Acuna. Sui porco-spini e gli struzzi del palazzo Strozzi a Firenze, veggasi Rabelais, Pantagruel, IV, chap. 11. — Lorenzo il Magnifico ricevette dall'Egitto per mezzo d'alcuni mercanti una giraffa; Baluz. Miscell. IV, 516.

23.  Ibid. parlando di Francesco Gonzaga. — Sul lusso dei milanesi nelle razze cavalline v. Bandello parte II, Nov. 3 e 8. — Anche nelle poesie epiche taluno degli eroi fa sfoggio di cognizioni tecniche. Cfr. Pulci, il Morgante, c. XV, str. 105 e segg.

24.  Paul. Jov. Elogia, parlando di Ippolito de' Medici.

25.  Non sarà fuor di posto il dar qui occasionalmente qualche notizia sulla schiavitù in Italia al tempo del Rinascimento. Un cenno principale, benchè brevissimo, si ha in Jovian. Pontan. De obedientia, L. III: nell'alta Italia non v'erano schiavi: nelle altre parti si comperavano dall'Impero turco bulgari, circassi ed anche cristiani, e si facevano servire sino a che avessero scontato il prezzo del loro riscatto. Invece i negri continuavano a rimanere schiavi, ma non era permesso, almeno nel regno di Napoli, di mutilarli. — Moro designa tutti gli uomini di color bruno: il negro dicesi Moro nero. — Fabroni Cosmos adnot. 110: atto di vendita di una schiava circassa (1427); adnot. 141: prospetto delle schiave di Cosimo. — Nantiporto, presso Muratori III, II, col. 1106: Innocenzo VIII riceve cento Mori in dono da Ferdinando il Cattolico e li regala a cardinali ed altri signori (1488). — Masuccio, Novelle, 14: trafficabilità degli schiavi; — 24 e 25: schiavi negri, che al tempo stesso lavorano come facchini (a vantaggio dei loro padroni?); — 48: alcuni Catalani fanno prigioni alcuni Mori di Tunisi e li vendono a Pisa. — Gay, Carteggio, I, 360; manomissione e dotazione di uno schiavo negro in un testamento fiorentino (1490). — Paul. Jov. Elogia, sub Franc. Sfortia. — Porzio Congiura, III, 194. — e Comines, Charles VIII, chap. 17: negri destinati a far da carnefici e carcerieri della casa d'Aragona in Napoli. — Paul. Jov. Elogia, sub Galeatio: un negro, quale compagno dei principi nelle uscite. — Aeneae Sylvii opera, pag. 456: uno schiavo negro come virtuoso di musica. — Paul. Jov. De piscibus, cap. 3: un negro (libero?) come maestro di nuoto e palombaro in Genova. — Alex. Benedictus, de Charolo VIII, presso Eccard, scriptor II, col. 1608: un negro (Aethiops), quale ufficiale superiore in Venezia, dietro di che anche Otello può immaginarsi come negro. — Bandello, parte III, Nov. 21: se uno schiavo merita punizione, i genovesi lo condannano alle Baleari, e precisamente ad Jviza a trasportarvi il sale.

26.  Egli è appena necessario riportarsi alla celebre pittura, che di questo argomento si trova nel secondo volume del Cosmos di Humboldt.

27.  A questo argomento si riferiscono le osservazioni di Guglielmo Grimm riportate da Humboldt, l. c.

28.  Carmina Burana, p. 162, de Phillide et Flora, str. 66.

29.  Difficilmente s'indovinerebbe che cosa altrimenti fosse andato a fare sulla vetta del monte Bismantova nella provincia di Reggio. Purgat. IV, 26. Anche la precisione, colla quale egli cerca di mettere in evidenza tutte le parti del suo mondo sopranaturale, mostra in lui un profondo sentimento del bello, che risulta dalla natura e dalle forme. — Che poi sulla cima dei monti si sognasse la esistenza di tesori nascosti e al tempo stesso vi sì guardasse con una specie di superstizioso terrore, si rileva apertamente dal Chron. Novaliciense, II, 5 presso Pertz, Script. VII e Monum. hist. patriae, Script. III.

30.  Oltre alla descrizione di Baja nella Fiammetta, della selva nell'Ameto ecc., vi è un passo nella Genealogia Deor. XIV, II, molto importante, dove egli enumera una quantità di oggetti campestri, alberi, prati, ruscelli, greggi, capanne ecc. e aggiunge che queste cose animum mulcent, e che il loro effetto è quello di mentem in se colligere.

31.  Libri, Histoire des sciences mathémat. II, p. 249.

32.  Quantunque volentieri vi si riporti; per es. de vita solitaria, specialmente a pag. 241, dove cita la descrizione di un pergolato dalle opere di S. Agostino.

33.  Epist. famil. VII, p. 675. Interea utinam scire posses, quanta cum voluptate solivagus ac liber, inter montes et nemora, inter fontes et flumina, inter libros et maximorum hominum ingenia respiro, quamque me in ea, quae antea sunt, cum Apostolo extendens, et praeterita oblivisci nitor et praesentia non videre. Cfr. VI, 3, p. 605.

34.  Jacuit sine carmine sacro. — Cfr. Itinerarium syriacum, p. 558.

35.  Egli distingue nell'Itinerar. syr., p. 557 nella Riviera di Levante colles asperitate gratissima et mira fertilitate conspicuos. Sulla spiaggia di Gaeta cfr. De remediis utriusque fortunae, I, 54.

36.  De orig. et vita, p. 3: subito loci specie percussus.

37.  Epist. famil. IV, 1, p. 624.

38.  Il Dittamondo, III, cap. 9.

39.  Dittamondo, III, cap. 21, IV, cap. 4. — Papencordt, Storia della città di Roma ecc. p. 416, dice che l'imperatore Carlo IV aveva un gusto squisito pel paesaggio, e cita un passo di Pelzel (Carlo IV) a pag. 456. (Le altre due citazioni da lui riportate non dicono questo). Può darsi che una qualche velleità artistica sia venuta all'Imperatore dai rapporti ch'egli ebbe con gli umanisti.

40.  Bisognerebbe anche udire il Platina, Vitae Pontiff. p. 310: Homo fuit (Pio II) verus, integer, apertus; nil habuit ficti, nil simulati, nemico d'ogni ipocrisia e superstizione, coraggioso, coerente.

41.  I passi più importanti sono i seguenti: Pii II P. M. Commentarii, L. IV, p. 183: la primavera in patria. L. V, p. 251: il soggiorno d'estate a Tivoli. L. VI, 307: il banchetto alla fonte di Vicovaro. L. VIII, 378: i dintorni di Viterbo, p. 387: il convento di S. Martino, p. 338: il lago di Bolsena. L. IX, p. 396: la splendida descrizione di Monte Amiata. L. X, p. 483: la posizione di Monte Oliveto, p. 497: la prospettiva di Todi. L. XI, p. 554: Ostia e Porto, p. 572: descrizione dei monti Albani. L. XII, p. 609: Frascati e Grottaferrata.

42.  Così certamente deve leggersi invece che: di Sicilia.

43.  Egli stesso, alludendo al suo nome, si chiama: sylvarum amator et varia videndi cupidius.

44.  Sulla passione di Leon Battista Alberti per le scene campestri cfr. vol. I, pag. 190 e segg.

45.  La creazione più completa dell'Ariosto in questo riguardo, il suo sesto canto, non si compone che di pitture perfette, ma senza sfondo.

46.  Agnolo Pandolfini (Trattato del governo della famiglia, p. 90) contemporaneo di Enea, si compiace dei giocondi spettacoli, che offre la campagna «ragguardando que' colletti fronzuti, que' piani vezzosi, quelle fonti e quei rivi, che saltellando si nascondono fra le chiome dell'erbe»; ma forse sotto questo nome si cela il grande Alberti, il quale, come s'è detto, sentiva anche sotto altri punti di vista la bellezza del paesaggio.

47.  Quanto alla decorazione architettonica, egli ha un altro intento, quello di descrivere un lusso determinato e speciale, e in ciò la decorazione moderna potrebbe trovar qualche cosa da imparare anche oggidì.

48.  Lettere pittoriche, III, 36. A Tiziano, del maggio 1544.

49.  Strozii poetae Erotica, L. VI, p,.182 e segg.

50.  Questa felice espressione è tolta dal VII volume dell'Histoire de France di Michelet (Introd.).

51.  Tommaso Gar, Relaz. della corte di Roma I, p. 278, 279: nella Relazione di Soriano dell'anno 1533.

52.  Prato, Arch. Stor. III, p. 295 e segg. — Secondo il senso equivale ad «infelice» o «che porta infelicità». — Sull'influsso dei pianeti sui caratteri umani in generale veggasi Cornelio Agrippa, De occulta philosophia, c. 52.

53.  Riportati dal Trucchi, Poesie italiane inedite, I, p. 165 e segg.

54.  Questi versi sciolti acquistarono poscia, come ognun sa, la prevalenza nel dramma. Trissino nella dedicatoria della sua Sofonisba a Leone X esprime la speranza che il Papa riconoscerà questo modo di verseggiare per quello che esso è veramente, cioè il migliore, il più nobile ed il meno facile di tutti. Roscoe, Leone X, VIII, 174.

55.  Cfr., per esempio, le forme veramente singolari adottate da Dante nella Vita nuova, p. 10 e 12.

56.  Trucchi, l. c. I, p. 181 e segg.

57.  Sono queste le canzoni e i sonetti, che ogni fabbro e ogni asinaio cantava e svisava con molto cruccio di Dante: (cfr. Franco Sacchetti, Nov. 144, 115) tanto è vero, che questa poesia passa assai presto nella bocca del popolo.

58.  Vita nuova, p. 52.

59.  Per la psicologia teorica di Dante uno dei passi più importanti si ha nel Purgat. c. IV in sul principio. Veggansi, oltre a ciò, i punti che vi si riferiscono nel Convito.

60.  I ritratti della scuola di van Eyk proverebbero il contrario pei paesi del nord. Essi rimarranno per lungo tempo ancora superiori a qualunque descrizione fatta col mezzo della parola.

61.  Peccato soltanto, che le sue lettere contengano sì pochi aneddoti relativi alla vita spensierata che allora si conduceva in Avignone, e che le corrispondenze dei suoi numerosi conoscenti e degli amici di questi ultimi o sieno andate perdute, o non abbiano esistito giammai!

62.  Ristampati nel volume XVI delle sue Opere volgari.

63.  Nel canto del pastore Teogape, dopo la festa di Venere, Parnaso teatrale, Lipsia 1829, p. VIII.

64.  Il celebre Leonardo Aretino, quale capo dell'umanismo al principio del secolo XV, pensa bensì che gli antichi Greci di umanità e di gentilezza di cuore abbino avanzato di gran lunga i nostri italiani; ma egli dice questo al principio di una novella, che contiene una storia sentimentale dell'infermo principe Antioco e della di lui matrigna Stratonica, vale a dire un documento in sè molto ambiguo e per di più di origine mezzo asiatica. (Ristampata anche come Appendice alle Cento novelle antiche).

65.  Ciò non impediva peraltro ai drammatici d'occasione di adulare abbastanza alle singole corti ed ai principi.

66.  Paul. Jovius, Dialog. de viris lit. illustr., presso Tiraboschi VII, IV. Lib. Greg. Gyraldus, De poetis nostri temporis.

67.  Isabella Gonzaga a suo marito, 3 febbraio 1502, Arch. Stor. Append. II, p. 306 e segg. — Nei Misteri francesi gli attori si presentavano dapprima tutti in processione al pubblico, e ciò dicevasi la montre.

68.  Diario ferrarese, presso Murat. XXIV, col. 404. Altri passi su quel teatro veggansi alle col. 278, 279, 282-285, 361, 380, 381, 393, 397.

69.  Strozii poetae, pag. 232; nel libro IV degli Aeolosticha, di Tito Strozza.

70.  Francesco Sansovino: Venezia, fol. 169. Invece di parenti ci pare dover leggere pareti. Del resto anche così il concetto non riesce troppo chiaro.

71.  Quest'è appunto ciò, cui allude il Sansovino (Venezia, f. 168), quando si lamenta che i recitanti guastano le commedie con invenzioni o personaggi troppo ridicoli.

72.  Sansovino, l. c.

73.  Scardeonius, De urb. Patav. antiq. presso Grevio Thes. VI, III, col. 288 e segg. Un passo importante anche per la letteratura dei dialetti in generale.

74.  Che quest'ultimo almeno esista già ancora sino dal secolo XV si può dedurlo dal Diario ferrarese, che confonde i Menecmi di Plauto rappresentati in Ferrara nel 1501 col Menechino in discorso. V. Murat. XXIV, col. 393.

75.  Il Pulci nel suo capriccio finge per la sua storia del gigante Margutte una solenne antichissima tradizione (Morgante, c. XXIX, stor. 153 e segg.) — Ancor più strana è l'Introduzione critica di Limerno Pitocco (Orlandino, I, str. 12-22).

76.  Il Morgante fu stampato la prima volta prima del 1488. Sui tornei v. più avanti.

77.  L'Orlando innamorato fu stampato la prima volta nel 1496.

78.  Vasari, VIII, 71, nel Commentario alla Vita di Raffaello.

79.  Quante cose di questo genere il gusto moderno non rigetterebbe perfino in Italia? Ma non per questo ciò che ci stanca deve riguardarsi come apocrifo e di posteriore sovrapposizione.

80.  La prima edizione è dell'anno 1516.

81.  I discorsi inseriti sono alla loro volta anch'essi nuove narrazioni.

82.  Ciò che accade invece nel Pulci. Morgante, canto XIX, Str. 10 e segg.

83.  Il suo Orlandino fu pubblicato la prima volta nel 1526. — Cfr. vol. I, p. 216.

84.  Radevicus, De gestis Friderici imp., specialmente nel II, 76. — L'eccellente Vita Heinrici IV è assai povera di dati personali, e altrettanto la Vita Chuonradi imp. di Vippone.

85.  Se assai presto si sia imitato anche Filostrato, non saprei dire. — In ogni modo Svetonio era stato senza alcun dubbio un modello, che si cercò d'imitare anche in tempi anteriori: oltre la vita di Carlomagno scritta da Eginardo, se ne trovano esempi del secolo XII in Guilielm. Malmesbur. colle sue descrizioni di Guglielmo il Conquistatore (p. 446, 55 e segg. 452 e segg.), di Guglielmo II (p. 494, 504) e di Enrico I (p. 640).

86.  Qui dobbiamo nuovamente rinviare alla biografia di L. B. Alberti, di cui s'è dato un estratto (v. vol. I, pag. 188 e segg.), nonchè alle molte biografie fiorentine nel Muratori, nell'Arch. Storico ed altrove.

87.  De viris illustribus, negli Scritti della Società letteraria di Stuttgard.

88.  Il suo Diarum presso Murat. XXIII.

89.  Petri Candidi Decembrii Vita Philippi Mariae Vicecomitis, presso Muratori XX. Cfr. vol. I, pag. 51.

90.  Intorno al Comines veggasi vol. I, pag. 131 nota.

91.  Fra le autobiografie dei settentrionali si potrà forse di preferenza istituire un confronto con quella (veramente d'assai posteriore) di Agrippa d'Aubigné, qualora si tratti di una pittura viva e parlante dell'individualità.

92.  Scritto in età avanzata, intorno all'anno 1576. — Su Cardano, quale investigatore e scopritore, cfr. Libri, Hist. des sciences mathémat. III, p. 167 e segg.

93.  Per esempio la condanna al patibolo del di lui figlio maggiore, che aveva avvelenato la propria moglie adultera. Cap. 27, 50.

94.  Discorsi della vita sobria contenenti il Trattato propriamente detto, un Compendio, una Esortazione ed una Lettera a Daniele Barbaro. — Più volte stampati.

95.  Sarebbe questa la villa di Codevico menzionata a pag. 62?

96.  Ciò s'avverò in parte assai per tempo, nelle città lombarde ancora nei secolo XII. Cfr. Landulfus senior, Ricobaldus e (presso Murat. X) il notevole Anonimo, De laudibus Papiae del sec. XIV. — Poi il Liber de situ urbis Mediol., presso Murat. I, 6.

97.  Intorno a Parigi, che per gl'Italiani del medio-evo avea maggiore importanza che qualche secolo più tardi, vegg. il Dittamondo, IV, cap. 18.

98.  Savonarola, presso Murat. XXIV, col. 1186. — Intorno a Venezia, vedi vol. I, pag. 84 e segg.

99.  Il carattere dei Bergamaschi instancabilmente attivi e pieni di sospetti e di curiosità è assai graziosamente descritto nel Bandello, Parte I, Nov. 34.

100.  Così il Varchi nel IX libro delle Storie fiorentine (vol. III, p. 56 e segg.).

101.  Vasari XII, p. 158, Vita di Michelangelo, sul principio. Altre volte si ringrazia apertamente madre natura, come per es. nel sonetto di Alfonso de' Pazzi al non toscano Annibal Caro (presso Trucchi, I, c. III, p. 187):

Misero il Varchi e più infelici noi,

Se a vostre virtudi accidentali

Aggiunto fosse 'l natural, ch'è in noi!

102.  Landi, Quaestiones Forcianae, Neapoli 1536, cit. da Ranke, Storia dei Papi, I, p. 385.

103.  Descrizione di tutta l'Italia.

104.  Commentario delle più notabili et mostruose cose d'Italia ecc. Venezia, 1569. (Scritto probabilmente prima del 1547).

105.  Più tardi s'incontrano frequenti enumerazioni di città in forma scherzevole, per es. nella Macaroneide, Phantas. II. — Per la Francia poi è Rabelais, che conobbe la Macaroneide, la grande fonte di tutti gli scherzi, di tutte le allusioni e di tutte le malizie locali e provinciali.

106.  Vero è però che anche talune letterature già sulla via dello scadimento si occupano assai volentieri di descrizioni esatte e minute. Cfr. per es. presso Sidonio Apollinare la descrizione di un re dei Visigoti (Epist. I, 2), quella di un nemico personale (Epist. III, 13), ovvero nelle altre sue poesie i tipi delle singole popolazioni germaniche.

107.  Intorno a Filippo Villani cfr. sopra a pag. 75.

108.  Parnaso teatrale, Lipsia 1829. Introd. p. VII.

109.  La lezione qui evidentemente è guasta.

110.  Tutto lo scritto è ricco di simili descrizioni.

111.  Il bellissimo canzoniere di Giusto de' Conti «La bella mano» non dice di questa celebre mano della sua innamorata nemmeno tanto, quanto racconta il Boccaccio in dieci passi dell'Ameto delle mani delle sue ninfe.

112.  Della Bellezza delle donne, nel primo volume delle Opere del Firenzuola, Milano 1802. — Della bellezza del corpo come indizio della bellezza dello spirito, veggasi ciò che egli dice nel vol. II p. 48-52 nei Ragionamenti, che precedono le sue Novelle. — Fra i molti che sostengono simili idee, al modo degli antichi, nomineremo soltanto il Castiglione, Cortegiano, L. IV, fol. 176.

113.  E questa era l'opinione universale, e non dei soli pittori in grazia del colorito.

114.  In questa occasione ci sia permesso di dir qualche parola sugli occhi di Lucrezia Borgia dietro l'autorità di alcuni distici di Ercole Strozza, poeta della corte ferrarese (Strozii poetae, p. 85, 86). La potenza del di lei sguardo viene descritta in un modo, che non si spiega se non ricorrendo all'entusiasmo artistico di quel tempo, ma che non sarebbe permesso ora. Esso ora infiamma, ora agghiaccia fino a petrificare. Chi guarda a lungo il sole, resta accecato: chi s'affisava nella Medusa restava di pietra; ma chi guarda il viso di Lucrezia

Fit primo intuitu caecus et inde lapis.

Anzi un Cupido marmoreo, che dorme nelle sue sale, fu appunto marmorizzato dal di lei sguardo:

Lumine Borgiados saxificatus Amor.

Resta libero ai dotti di questionare se questo Cupido fosse quello che si pretende di Prassitele o l'altro, opera di Michelangelo, perchè essa li possedeva entrambi.

Eppure lo stesso sguardo ad un altro poeta, Marcello Filosseno, non parve invece che mansueto e altero! (Roscoe, Leone X, ed. Bossi, VII. p. 306).

I paragoni con figure ideali antiche sono altresì frequenti a quel tempo (v. vol. I, pag. 53 e 313). Di un fanciullo decenne è detto nell'«Orlandino» (II. str. 47), che ha una testa all'antica (ed ha capo romano).

115.  Prendendo occasione del fatto che l'aspetto delle tempie può restare modificato dalla disposizione dei capelli, il Firenzuola si permette una comica sfuriata contro l'uso d'intrecciar troppi fiori nelle chiome, che dànno al viso l'apparenza di un vaso di gherofani o di presa o anche di un quarto di capretto nello schidione. In generale la caricatura gli fa buon giuoco ed egli sa usarla con garbo e finezza.

116.  L'ideale della Bellezza dei Menestrelli veggasi in Falke — Die deutsche Trachten und Modenwelt — I, p. 85 e segg.

117.  Sul suo retto senso del bello, che risulta dalle scene naturali, veggasi a pag. 28, nota.

118.  Inferno, XXI, 7. Purgat. XIII, 61.

119.  Non bisogna credere troppo in sul serio al Platina (Vitae Pontiff. p. 310), quando ci narra che egli tenesse nella sua corte un certo Greco, fiorentino, quasi in qualità di buffone: hominem certe cujusvis mores, naturam, linguam cum maximo omnium qui audiebant risu facile exprimentem.

120.  Pii II, Comment. VIII, p. 391.

121.  Questa così detta Caccia è ristampata nel Commentario all'Egloga del Castiglione.

122.  V. il Sirventese di Giannozzo da Firenze presso Trucchi, Poesie ital. inedite, II, p. 99. Le parole sono in parte affatto inintelligibili, vale a dire o realmente tolte dalle lingue dei soldati stranieri, o imitate assai destramente. — Anche la descrizione di Firenze durante la peste del 1527 del Machiavelli entra in qualche modo in quest'ordine di scritti, non essendo che una serie di singoli quadri di una evidenza parlante, relativi ad una condizione di cose veramente spaventevole.

123.  Se si crede al Boccaccio (Vita di Dante, p. 77), Dante avrebbe scritto due egloghe, probabilmente in latino.

124.  Il Boccaccio nel suo «Ameto» ci dà una specie di «Decamerone» miticamente travestito, e in modo comico dimentica talvolta questo travestimento. Una delle sue ninfe è ortodossa cattolica e fa d'occhietto in Roma ai prelati; un'altra prende marito. Nel «Ninfale fiesolano» la ninfa Mensola, già incinta, si consulta «con una vecchia e saggia ninfa» e simili.

125.  Nullum est hominum genus aptius urbi, dice Battista Mantovano (Ecl. VIII) degli abitatori di Monte Baldo e di Val Sassina, atti a qualunque mestiere. Come è noto, alcune popolazioni di campagna hanno ancora oggidì un privilegio speciale per certi lavori nelle grandi città.

126.  Uno dei passi più notevoli si ha per avventura nell'Orlandino, cap. V, Str. 54-58.

127.  Nella Lombardia i nobili non si vergognavano nel secolo XVI di ballare, saltare e gareggiare nella corsa coi contadini, (v. Il Cortigiano, L. 2, fol. 54). — Un proprietario, che si consola dell'avidità e falsità dei suoi contadini, perchè così s'impara a meglio sopportare praticando coi contadini, veggasi in Pandolfini, Del governo della famiglia, p. 86.

128.  Jov. Pontanus, De fortitudine, L. II.

129.  La celebre contadina della Valtellina, Bona Lombarda, divenuta poi moglie del condottiero Pietro Brunoro, ci vien fatta conoscere da Jacopo Bergomense e da Porcellio, presso Murat. XXV, col. 43. — Cfr. vol. I, pag. 203 nota.

130.  Sulle condizioni dei contadini d'allora in generale e su quelle speciali in taluni paesi noi non siamo in grado di dar qui notizie più particolareggiate. In quali rapporti stesse allora la proprietà libera con quella data ad affittanza, quali imposte gravassero su entrambe e con quale rapporto verso le attuali, sono questioni, la cui soluzione non potrà trovarsi che in opere speciali, che a noi non fu dato di consultare. In tempi burrascosi i contadini talvolta inferociscono in modo spaventoso (Arch. Stor. XVI, I, p. 451 e segg.). — Corio, fol. 259. — Annales foroliv. presso Murat. XXII, col. 227; ma in nessun luogo si viene ad una grande e generale guerra dei contadini. Di qualche importanza e non priva d'interesse è l'insurrezione del contado di Piacenza del 1462. Cfr. Corio, fol. 409. — Annales Placent. presso Murat. XX, col. 907. — Sismondi X, 138.

131.  Poesie di Lorenzo il Magnifico, I, p. 27 e segg. — Le poesie molto importanti dell'epoca del Menestrello tedesco, che porta il nome di Neithard von Reuenthal, non rappresentano la vita contadinesca se non in quanto il cavaliere per suo passatempo ha la degnazione di prendervi parte.

132.  Ibid. II, p. 149.

133.  Fra altre collezioni, anche nelle Deliciae poetar. ital. e nelle opere del Poliziano. — I poemi didascalici di Rucellai ed Alamanni, che sembrano contenere qualche cosa di simile, non furono da me consultati.

134.  Poesie di Lorenzo il Magnifico, II, p. 75.

135.  Tali sono le imitazioni o contraffazioni di diversi dialetti, alle quali devono naturalmente essersi accompagnate anche quelle dei costumi locali. Cfr. vol. I, pag. 213.

136.  Joh. Pici Oratio de hominis dignitate, nelle sue opere ed anche in edizioni separate.

137.  Allude alla caduta di Lucifero e degli altri angeli ribelli.

138.  Presso la nobiltà piemontese l'abitare nei castelli delle campagne pareva una singolare eccezione. Bandello, Parte II, Nov. 12.

139.  Ciò molto tempo prima dell'invenzione della stampa. Una moltitudine di manoscritti, e dei migliori, erano di amanuensi fiorentini. Senza il bruciamento delle vanità promosso dal Savonarola, ne avremmo molti di più ancora oggidì. Cfr. p. 268.

140.  Dante, De Monarchia, L. II, c. 3.

141.  Paradiso, XVI, in principio.

142.  Convito; quasi l'intero Trattato, IV, e parecchi altri luoghi.

143.  Poggii Opera, Dial. De nobilitate.

144.  Lo stesso disprezzo della nobiltà del sangue s'incontra poscia assai di frequente negli umanisti. Cfr. i passi più risentiti in Aen. Sylv. Opera, p. 84 (Hist. Bohem. c. 2), e 640 (Storia di Lucrezia e di Eurialo).

145.  Principalmente nella capitale. Cfr. Bandello, Parte II, Nov. 7. Jov. Pontan. Antonius (dove lo scadimento morale dell'aristocrazia si fa cominciare dalla venuta degli Aragonesi).

146.  In Italia almeno era cosa universalmente ammessa, che chi aveva considerevoli rendite fondiarie, non si trovava per nulla al di sotto dell'aristocrazia.

147.  Per formarsi una giusta idea di ciò che era la nobiltà nell'Alta Italia, riesce utilissimo il Bandello colle sue frequenti polemiche contro i matrimoni male assortiti. Parte I, Nov. 4, 26. Parte III, 60, IV, 8. — Un nobile milanese che esercita la mercatura, è una eccezione. Parte III, Nov. 37. — Come i nobili lombardi prendessero parte ai giuochi dei contadini v. sopra pag. 106, nota.

148.  Il giudizio severo di Machiavelli, Discorsi, I, 55, si riferisce soltanto all'aristocrazia ancora provveduta di feudi, assolutamente oziosa e politicamente nociva. — Agrippa di Nettesheim, il quale va debitore delle sue più notevoli idee al lungo soggiorno che fece in Italia, ha pure un capitolo sopra la nobiltà e il principato (De incertitudine et vanitate scientiarum, cap. 80), che per sarcastica amarezza supera tutte le invettive scritte da altri, e che certamente non è se non un riflesso del fiero antagonismo, che allora regnava nelle diverse classi sociali fuori d'Italia.

149.  Masuccio, Nov. 19.

150.  Iacopo Pitti a Cosimo I, Arch. Stor. IV, II, p. 99. — Anche nell'Italia superiore accadde qualche cosa di simile sotto la dominazione spagnuola. Il Bandello (Parte II, Nov. 40) appartiene appunto a questo tempo.

151.  Se Vespasiano fiorentino nel secolo XV si esprime in questo senso, (cfr. 518, 632) che i ricchi non dovrebbero cercar d'aumentare il patrimonio ereditato, ma spendere annualmente tutte le loro rendite, ciò non può, in bocca d'un fiorentino, intendersi se non rispetto ai grandi possessori fondiarj.

152.  Sacchetti, Nov. 153. Cfr. Nov. 82 e 150.

153.  Poggius, De nobilitate, fol. 27.

154.  Vasari III, 49 e not. Vita di Dello.

155.  Petrarca, Epist senil. XI, 13, p. 889. Un'altro passo nelle Epist. famil. dipinge il raccapriccio da lui provato quando a Napoli in un torneo vide cadere un cavaliere.

156.  Nov. 64. — Perciò anche nell'Orlandino (II, str. 7), parlando di un torneo sotto Carlomagno, è detto espressamente: «qui non combattevano nè cuochi, nè guatteri, ma re, duchi e marchesi».

157.  Questa rimane sempre una delle più antiche parodie delle giostre. Ci vollero poi altri sessant'anni prima che Iacopo Coeur, il borghese ministro di finanza di Carlo VII, facesse bandire un torneo di asini nel cortile del suo palazzo di Bourges (intorno al 1450). La parodia più splendida a questo riguardo, il canto secondo dell'Orlandino testè citato, non fu pubblicata per la prima volta che nell'anno 1526.

158.  Cfr. le già nominate poesie del Poliziano e di Luca Pulci. Inoltre Paul. Jov. Vita Leonis X. L. I. — Machiavelli, Stor. fiorent. L. VIII. — Paul. Jov. Elogia, parlando di Pietro de' Medici e di Francesco Borbone. — Vasari IX. 219. Vita di Granacci. — Nel Morgante del Pulci, che fu scritto sotto gli occhi di Lorenzo, i cavalieri sono piuttosto comici nei loro discorsi e nelle loro gesta, ma però sempre ligi al codice cavalleresco. Anche il Bojardo scrive per quelli che s'intendono di giostre e dell'arte del guerreggiare. Cfr. pag. 65. — Le giostre in Ferrara nel 1464, menzionate nel Diario ferrar. presso Muratori XXIV, col. 208. — in Venezia, v. Sansovino, Venezia, fol. 153 e segg. — in Bologna nel 1470 e seguenti, v. Bursellis, Annal. Bonon. Muratori XXIII, col. 898, 903, 906, 908, 909, dove è da notare una bizzarra mescolanza di sentimentalismo a proposito della rappresentazione, che vi si faceva dei trionfi romani. — Federigo da Urbino (v. vol. I, pag. 59) in un torneo perdette l'occhio destro ab ictu lanceae. — Sui tornei d'allora nei paesi settentrionali veggasi per tutti: Olivier de la Marche, Mémoir. passim, ma specialmente i capit. 8, 9, 14, 16, 18, 19, 21 ecc.

159.  Bald. Castiglione, Il Cortigiano, L. I, fol. 18.

160.  Paul. Jov. Elogia, sub. tit. Petrus Gravina, Alex. Achillinus, Balth. Castellio ecc.

161.  Casa, Il Galateo, p. 78.

162.  Intorno a ciò veggansi i libri sulle fogge del vestire veneziano, e Sansovino: Venezia, fol. 150 e segg. L'abbigliamento della fidanzata negli sponsali — bianco coi capelli ondeggianti sulle spalle — è quello della Flora del Tiziano.

163.  Jov. Pontan. De principe: utinam autem non eo impudentiae perventum esset, ut inter mercatorem et patricium nullum sit in vestitu ceteroque ornatu discrimen. Sed haec tanta licentia reprehendi potest, coherceri non potest, quamquam mutari vestes sic quotidie videamus, ut quas quarto ante mense in deliciis habebamus, nunc repudiemus et tanquam veteramenta abiiciamus. Quodque tolerari vix potest, nullum fere vestimenti genus probatur, quod e Galliis non fuerit adductum, in quibus laevia pleraque in pretio sunt, tametsi nostri persaepe homines modum illis et quasi formulam quandam praescribant.

164.  Su ciò veggasi per esempio, il Diario ferrarese presso Muratori, XXIV, col. 297, 320, 376, 399; in quest'ultima è menzionata anche la moda tedesca.

165.  Si cfr. con ciò i passi relativi in Falke: Die deutsche Trachten, und Modenwelt.

166.  Intorno alle donne fiorentine veggansi i passi principali in Giov. Villani X, 10 e 152; Matteo Villani I, 4. Nel grande editto sulle mode dell'anno 1330 vengono, tra molte altre cose, permesse soltanto le figure stampate sugli abbigliamenti femminili, e per converso sono vietate quelle semplicemente dipinte. Non sarebbe questa per avventura una allusione alla stampa mediante un modello?

167.  Quelle che si componevano di capelli veri, dicevansi capelli morti. — In Anshelm. Cronaca di Berna, IV, p. 30 (1508) è fatta menzione di falsi denti d'avorio, che un prelato italiano usava, ma solo per rendere più chiara la sua pronuncia.

168.  Infessura, presso Eccard, Scriptt. II, col. 1874. — Allegretto, presso Murat. XXIII, col. 823. — Poi gli autori che parlano di Savonarola, (v. più innanzi.)

169.  Sansovino, Venezia, fol. 152: capelli biondissimi per forza di sole. Cfr. sopra, pag. 96.

170.  Come anche accadde in Germania. — Poesie satiriche, pagina 119: nella satira di Bernardo Giambullari per prender moglie si ha un'idea di tutta la chimica della toeletta, che evidentemente s'appoggia ancora in gran parte sulla superstizione e sulla magia.

171.  I quali anche s'adoperavano a mettere in evidenza il lato schifoso, pericoloso e ridicolo di queste unzioni. Cfr. Ariosto, Satira III, V. 202 e segg. — Aretino, Il Marescalco, atto II, scena 5, e in molti passi dei Ragionamenti. Poi Giambullari, l. c. — Phil. Beroald. sen. Carmina.

172.  Cennino Cennini nel suo Trattato della pittura, cap. 161, dà una ricetta degli unguenti usati per dipingersi il viso, evidentemente pei Misteri e le Mascherate, poichè nel capo susseguente egli riprende seriamente l'uso d'imbellettarsi e di usare acque odorose in generale.

173.  Cfr. la Nencia da Barberino, str. 20 e 40. L'innamorato le promette belletto e biacca, che egli le porterà in un bossolo dalla città. Cfr. sopra pag. 107.

174.  Agnolo Pandolfini, Trattato del governo della famiglia, p. 118.

175.  Tristan. Caracciolo, presso Murat. XXII, col. 87. — Bandello, Parte II, Nov. 47.

176.  Capitolo I a Cosimo: quei cento scudi nuovi e profumati, che l'altro dì mi mandaste a donare. Alcuni oggetti che datano da quel tempo, serbano ancora qualche traccia di odore.

177.  Vespasiano fiorent. p. 458 nella Vita di Donato Acciajuoli, e p. 625 nella Vita del Niccoli.

178.  Giraldi, Hecatommithi, Introduz., Nov. 6.

179.  Paul. Jov. Elogia.

180.  Aen. Sylvius (Vitae Paparum, presso Murat. III, II, col. 880); egli dice parlando di Baccano: pauca sunt mapalia, eaque hospitia faciunt Theutonici; hoc hominum genus totam fere Italiam hospitalem facit; ubi non repereris hos, neque diversorium quaeras.

181.  Franco Sacchetti, Nov. 21. — Padova intorno al 1450 vantava un grandioso albergo all'insegna del Bue, che aveva stalle per 200 cavalli. Michele Savonarola, presso Murat. XXIV, col. 1175. — Firenze aveva, fuori di porta S. Gallo, una delle più belle osterie che si conoscessero, ma serviva soltanto di luogo di convegno, a quanto sembra, per chi vi andava a diporto dalla città. Varchi, Stor. fiorent. III, p. 86.

182.  Veggasi ad es. i passi relativi nella Nave della follia di Sebastiano Brant, nei Colloqui di Erasmo, nel poema latino Grobianus ecc. — Fra gli scrittori antichi cfr. Teofrasto, I Caratteri.

183.  Che la burla si fosse fatta più moderata può vedersi da molti esempi addotti nel Cortigiano, L. II, fol. 96. Tuttavia in Firenze essa si mantenne quanto più potè. Ne sono una prova le novelle del Lasca.

184.  Per Milano è importantissimo un passo del Bandello. Parte I, Nov. 9. C'erano più di 60 carrozze tirate a quattro cavalli, e innumerevoli a due, in parte riccamente dorate e intagliate, con damaschi di seta. Cfr. ivi Nov. 4. — Ariosto, Sat. III, v. 127.

185.  Bandello, Parte I, Nov. 3, III, 42, IV, 25.

186.  De vulgari eloquio, ed. Corbinelli, Parisiis 1577, scritto, secondo il Boccaccio (Vita di Dante, p. 77), poco prima della sua morte. — Sul rapido mutarsi della lingua mentre era ancor vivo egli si esprime nel principio del «Convito».

187.  Il prevalere successivo della medesima nella letteratura e nella vita pratica potrebbe da qualsiasi conoscitore indigeno rappresentarsi facilmente per mezzo di alcune tabelle comparative. In esse bisognerebbe far rilevare quanto a lungo nei secoli XIV e XV si sieno, o del tutto od in parte, mantenuti i singoli dialetti nelle corrispondenze giornaliere, negli atti governativi, nei protocolli giudiziarii, e finalmente nelle cronache e nelle altre produzioni letterarie. E bisognerebbe tener conto altresì del perdurare dei dialetti italiani accanto ad un latino sempre meno puro, che poi servì come lingua ufficiale.

188.  Così la pensa anche Dante: De vulgari eloquio, I, c. 17, 18.

189.  Anche molto tempo prima si scriveva e si leggeva il toscano in Piemonte, ma per l'appunto si scriveva e si leggeva assai poco.

190.  Nella vita quotidiana si sapeva benissimo per quali cose potesse adoperarsi il dialetto, e per quali no. Gioviano Pontano si permette di ammonire espressamente il principe ereditario di Napoli a non farne uso (Jov. Pont. De principe). Come è noto, gli ultimi Borboni non erano molto scrupolosi in questo riguardo. — Un cardinale milanese messo in derisione, perchè a Roma voleva usare il proprio dialetto, veggasi nel Bandello, Parte II, Nov. 31.

191.  Bald. Castiglione, Il Cortigiano, L. I, f. 27 e segg. — Benchè abbia la forma di un dialogo, l'opinione dell'autore emerge chiarissima in mille punti.

192.  Sol che in questo riguardo non si vada troppo oltre. I satirici vi frammischiano elementi spagnuoli e il Folengo (sotto il pseudonimo di Limerno Pitocco, nell'«Orlandino») anche voci francesi, ma solo per celia. Nelle Commedie uno spagnuolo parla un gergo ridicolo misto di spagnuolo e di italiano. È abbastanza singolare che una via di Milano, che al tempo della venuta dei francesi (1500-1512, 1515-1522) si chiamò Rue belle, ancor oggidì si chiami Rugabella. Della lunga dominazione spagnuola non è rimasta quasi traccia veruna nella lingua, e negli edifizi e nelle vie tutt'al più qua e là il nome di qualche vicerè. Fu nel secolo XVIII che colle idee francesi diluviarono in Italia anche le voci e i modi di quella lingua; i puristi del nostro secolo fecero e fanno ogni sforzo per bandirli del tutto.

193.  Firenzuola, Opere, I nella prefazione al Discorso sulla Bellezza delle donne, e II nei Ragionamenti, che precedono le Novelle.

194.  Bandello, Parte I, Proemio e Nov. 1 e 2. — Un altro lombardo, il già nominato Teofilo Folengo, nel suo «Orlandino» scioglie la questione col farvi sopra le più grosse risate del mondo.

195.  Uno di questi ebbe luogo, a quanto sembra, in Bologna sul finire del 1531 sotto la presidenza del Bembo. Veggasi la lettera di Claudio Tolomei, presso il Firenzuola, Opere, vol. II, nelle Appendici.

196.  Luigi Cornaro si lamenta verso il 1550 (al principio del suo Trattato della vita sobria) che da non lungo tempo prevalgano in Italia le ceremonie (spagnuole) e i complimenti, il luteranismo e la crapula. (Al tempo stesso scomparvero la temperanza e la lieta società). Cfr. pag. 114.

197.  Vasari XII, p. 9 e 11, Vita del Rustici. — Ed anche la maledica genia degli artisti affamati, XI, 216 e segg. Vita di Aristotile. — I capitoli del Machiavelli per una società di buontemponi (nelle opere minori, p. 407) sono una comica caricatura degli statuti delle società in generale, nello stile alquanto libero degli uomini di mondo. — Incomparabilmente bella è e rimarrà sempre la nota descrizione di quel convegno notturno d'artisti in Roma, di cui parla Benvenuto Cellini, I, cap. 30.

198.  La mensa doveva tenersi presso a poco tra le dieci e le undici del mattino. Cfr. Bandello, Parte II, Nov. 10.

199.  Prato, Arch. stor., III, p. 309.

200.  I passi più importanti: Parte I, Nov. 1, 3, 21, 30, 44, II, 10, 34, 55, III, 17, ecc.

201.  Cfr. Lorenzo il Magnifico de' Medici, Poesie, I, 204 (Il Simposio), 291 (la Caccia col falcone). — Roscoe, Vita di Lorenzo, III, p. 140, e appendici 17 sino a 21.

202.  Il titolo Simposio, è inesatto: dovrebbe dirsi: il Ritorno dalla Vendemmia. Lorenzo dipinge in modo piacevolissimo, facendo una parodia dell'Inferno di Dante, come egli abbia incontrato per lo più in Via Faenza, l'un dopo l'altro, tutti i suoi buoni amici più o meno spolverizzati, perchè reduci dalla campagna. Uno dei più comici e belli è il Capitolo ottavo, dove dipinge il piovano Arlotto, il quale esce in cerca della sete che ha perduto, ed a questo scopo porta con sè carne secca, una aringa, una ghiera di cacio, un salsicciotto, quattro sardelle, e tutte si cocevan nel sudore.

203.  Intorno a Cosimo Rucellai, come centro di questo circolo sul principio del secolo XVI, veggasi Machiavelli, Arte della guerra, L. I.

204.  Il Cortigiano, L. II, fol. 53. — Cfr. sopra pag. 125 e 143.

205.  Celio Calcagnini (Opera, p. 514) descrive l'educazione di un giovane italiano di condizione elevata intorno al 1500 (nell'orazion funebre di Antonio Costabili) nel modo seguente: dapprima artes liberales et ingenuae disciplina; tum adolescentia in iis exercitationibus acta, quae ad rem militarem corpus animumque praemuniunt. Nunc gymnastae operam dare, luctari, excurrere, natare, equitare, venari, aucupari, ad palum et apud lanistam ictus inferre aut declinare, caesim punctimve hostem ferire, hastam vibrare, sub armis hyemem juxta et aestatem traducere, lanceis occursare, veri ac communis Martis simulacra imitari. — Il Cardano (De propria vita, c. 7) fra i suoi esercizi ginnastici nomina anche il saltare sopra un cavallo di legno. — Cfr. il Gargantua, I, 23, 24: dell'educazione in generale, e 35: delle arti dei ginnasti.

206.  Sansovino, Venezia, fol. 172 e segg. Esse debbono essere nate in occasione delle gite che si facevano al Lido, dove si soleva esercitarsi al tiro della balestra: la grande regata generale del dì di S. Paolo era ufficiale sino dal 1315. — Prima si cavalcava anche molto a Venezia, quando le strade non erano ancora selciate in pietra, nè costrutti in marmo con archi molto alti i ponti di legno ancora piani. Il Petrarca fin dal suo tempo (Epist. seniles, IV, 2, p. 783) descrive un magnifico torneo di cavalieri sulla piazza di S. Marco, e del doge Steno si sa che intorno al 1400 aveva una scuderia non meno splendida di quella di qualsiasi principe d'Italia. Ma il cavalcare nelle vicinanze di quella piazza era di regola proibito sino dal 1291. — Più tardi naturalmente i veneziani passarono per meschini cavalcatori. Cfr. Ariosto, Sat. V, v. 208.

207.  Sulle cognizioni musicali di Dante e sulle melodie che accompagnarono alcune poesie del Petrarca e del Boccaccio, veggasi il Trucchi, Poesie ital. ined. II, p. 139. — Sui teorici del secolo XIV V. Filippo Villani, Vite, p. 46, e Scardeonio, De urb. Patav. antiq. presso Grevio, Thesaur. VI, III, col. 297. — Sulla musica alla corte di Federigo da Urbino ha molti particolari Vespasiano fiorent. pag. 122. — Sulla cappella dei fanciulli di Ercole I, veggasi il Diario ferrarese, presso Murat. XXIV, col. 358. — Fuori d'Italia alle persone di rango elevato non era lecito d'occuparsi personalmente di musica; alla corte fiamminga del giovane Carlo V s'ebbe una volta una questione assai grave su questo argomento: cfr. Hubert. Leod. De vita Frid. II, Palat. L. III. — Enrico VIII d'Inghilterra costituisce una singolare eccezione in proposito.

Un passo importante ed esteso intorno alla musica trovasi dove meno lo si cercherebbe, nella Macaroneide, Phantas XX. È la descrizione comica di un quartetto a voci, dalla quale appare che si cantavano anche canzoni francesi e spagnuole, che la musica aveva omai i suoi avversari (intorno al 1520) e che la cappella di Leone X e il compositore Josquin des Près (di cui si nominano le opere principali) erano l'oggetto del maggiore entusiasmo. Lo stesso autore (Folengo) mostra per la musica un fanatismo affatto moderno anche nel suo Orlandino (pubblicato sotto il nome di Limerno Pitocco), III, 23 e segg.

208.  Leonis vita anonyma, presso Roscoe, ed. Bossi, XII, p. 171. Non sarebbe questi per avventura il violinista della galleria Sciarra? Un Giovanni Maria da Corneto è lodato nell'Orlandino (p. 160, 326), III, 27.

209.  Lomazzo, Trattato dell'arte della pittura, ecc. p. 347. — Parlando della lira, si nomina Leonardo da Vinci, ed anche Alfonso di Ferrara (il duca?). L'autore mette insieme in generale le celebrità del secolo: c'entrano anche molti ebrei. — La maggior enumerazione di celebri artisti del secolo XVI, divisi in prima e seconda generazione, trovasi in Rabelais «Nuovo prologo» al IV libro. — Un virtuoso, il cieco Francesco da Firenze (morto nel 1390), fu già ancor molto prima incoronato con corona d'alloro dal re di Cipro in Venezia.

210.  Sansovino, Venezia, fol. 138. Naturalmente gli stessi amatori raccoglievano anche libri musicali.

211.  L'Accademia de' filarmonici di Verona è ricordata dal Vasari (XI, 133) nella Vita di Sanmicheli. — Intorno a Lorenzo il Magnifico già sin dal 1480 s'era raccolta una scuola d'armonia di 15 membri, fra i quali il celebre organista Squarcialupi. Cfr. Delécluze, Florence et ses vicissitudes, vol. II, p. 256. Sembra che Leone X abbia ereditato da suo padre Lorenzo la passione per la musica. Ugual passione aveva anche Pietro primogenito.

212.  Il Cortigiano, fol. 56. Cfr. fol. 41.

213.  Quattro viole da arco, senza dubbio un concerto assai difficile e raro per dilettanti fuori d'Italia.

214.  Bandello, Parte I, nov. 26, dove parla del canto di Antonio Bologna in casa di Ippolito Bentivoglio. Cfr. III, 26. Nel nostro tempo di svenevolezze sentimentali ciò si direbbe una profanazione dei sentimenti più sacri. — (Cfr. l'ultimo canto di Britannico, Tacit. Annal. XIII, 15). La recitazione accompagnata dal liuto o dalla viola non può ben distinguersi, nelle relazioni che se ne hanno, del canto propriamente detto.

215.  Scardeonius, l. c.

216.  Dedicata ad Annibale Maleguccio, altre volte indicata anche come la quinta o la sesta.

217.  Per contrario rarissime son le donne, che si dedichino allo studio delle arti figurative.

218.  Quest'è il senso, per es., in cui deve intendersi la biografia di Alessandra de' Bardi di Vespasiano fiorentino (Mai, Spicileg. rom. XI, p. 593 e segg.). L'autore, sia detto per incidenza, è un grande laudator temporis acti, e non deve dimenticarsi, che quasi cento anni prima di quello che egli chiama il buon tempo antico, il Boccaccio aveva scritto il Decamerone.

219.  Ant. Galateo, Epist. 3, alla giovane Bona Sforza, andata poi moglie a Sigismondo di Polonia: Incipe aliquid de viro sapere, quoniam ad imperandum viris nata es... Ita fac ut sapientibus viris placeas, ut te prudentes et graves viri admirentur et vulgi et muliercularum studia et judicia despicias ecc. — Un'altra lettera assai notevole veggasi nel Mai, Spicileg. rom. VIII, p. 532.

220.  Così è detta nel Chron. venetum presso Murat. XXIV, col. 127 e segg. Cfr. Infessura presso Eccard, Scriptt. II, col. 1981, e Arch. Stor. Append. II, p. 250.

221.  E talvolta è anche tale. — Come a tali racconti le donne abbiano a contenersi, è detto nel Cortigiano L. III, fol. 107. Ma che lo sapessero già quelle che erano presenti a' suoi dialoghi, dovrebbe inferirsi da un passo assai libero del L. II, fol. 190. — Ciò che si dice della donna di palazzo, che fa appunto riscontro al Cortigiano, non ha importanza decisiva, perchè essa serve la principessa in senso molto più stretto, che non faccia il cortigiano col principe. — Nel Bandello, I, Nov. 44, Bianca d'Este narra la terribile storia amorosa del proprio avolo Nicolò da Ferrara e di Parisina.

222.  Quanto gl'Italiani già esperti in molti viaggi sapessero apprezzare la libertà di conversazione loro accordata con alcune fanciulle in Inghilterra e nei Paesi Bassi, lo mostra il Bandello, II, Nov. 42, e IV, Nov. 27.

223.  Paul Jov. De rom. piscibus, cap. 5. — Bandello, Parte III, Nov. 42. — L'Aretino, nel Ragionamento del Zoppino, p. 327, dice di una cortigiana: «ella sa a memoria tutto il Petrarca e il Boccaccio, e innumerevoli bei versi latini di Virgilio, Orazio ed Ovidio e di mille altri autori».

224.  Bandello, II, 51, IV, 16.

225.  Bandello, IV, 8.

226.  Un esempio molto caratteristico di ciò si ha nel Giraldi, Hecatommithi, VI, Nov. 7.

227.  Infessura, presso Eccard, Scriptores, II, col. 1977. Nel calcolo non entrano che le donne pubbliche, non le concubine. Del resto il numero, in proporzione della presunta popolazione di Roma, è enormemente alto, e forse c'è errore di scrittura.

228.  Trattato del governo della famiglia. Cfr. vol. I, pag. 182 e 190 nota. Il Pandolfini morì nel 1446, e Leon Battista Alberti, al quale pure fu attribuita la stessa opera, nel 1472. Cfr. anche il vol. II, p. 37.

229.  Una storia della bastonatura, trattata seriamente e da un punto di vista psicologico, tanto presso i popoli d'origine germanica, che presso quelli di origine latina, contrabbilancerebbe per lo meno l'importanza di un paio di volumi di dispacci e di negoziazioni. Quando e per quali influenze passò la bastonatura fra gli usi quotidiani della famiglia tedesca? Certamente assai tempo dopo che Walther cantasse: nessuno può rafforzare la disciplina del fanciullo colle verghe (Nieman kan mit gerten kindes zuht beherten.)

In Italia almeno le battiture cessano assai presto: un fanciullo di sette anni non è più battuto. Il piccolo Orlando (Orlandino, cap. VII, Str. 42) stabilisce questo principio;

Sol gli asini si ponno bastonare,

Se una tal bestia fussi, patirei.

230.  Giov. Villani, XI, 93: autorità principale sull'uso di edificar ville intorno a Firenze prima della metà del secolo XIV. Le loro case di campagna erano più belle che quelle di città, e nel costruirle rivaleggiavano tra loro, onde erano tenuti matti.

231.  Veggasi a pag. 56, dove questo splendore delle feste fu additato come uno degli impedimenti al completo sviluppo del dramma.

232.  Ciò in paragone colle città del nord d'Europa.

233.  Le feste fatte in occasione dell'esaltazione del Visconti a duca di Milano, 1395 (Corio, fol. 274), in onta a tutta la loro pompa, hanno ancora un carattere medievale, e vi manca l'elemento drammatico. Cfr. anche la meschinità delle processioni in Pavia durante il secolo XIV. (Anonymus, De laudibus Papiae, presso Murat. XI, col. 34 e segg.).

234.  Giov. Villani, VIII, 70.

235.  Cfr. per es. l'Infessura (Eccard, Scriptt. II, col. 1896). — Corio, fol. 417, 421.

236.  Il dialogo nei Misteri per lo più è in ottave, il monologo in terzine.

237.  Nè si ha bisogno per questo di pensare al Realismo degli Scolastici. — Ancora intorno al 979 il vescovo Wiboldo di Cambray prescriveva a' suoi chierici, invece del giuoco de' dadi, una specie di tarocco spirituale, con non meno di 56 nomi di virtù rappresentate da altrettante combinazioni delle carte. Cfr. Gesta Episcopor. Cameracens. Pertz, Scriptor, VII, p. 433.

238.  Tali sono quelli, coi quali egli crea delle figure sopra delle metafore, qual'è, per esempio, il gradino medio fesso per metà alla porta del Purgatorio, che deve significare la contrizione del cuore (Purgat. IX, 97), mentre per vero ogni pietra, quando ha fenditure, non può più servir di gradino, ovvero anche l'altro passo (Purgat. XVIII, 94), nel quale condanna i tepidi della vita presente a scontare la loro colpa nell'altra col correre continuo, mentre in correre potrebbe anche essere indizio di fuga ecc.

239.  Inferno, IX, 61. Purgat. VIII, 19.

240.  Poesie satiriche, ed. Milan. p. 70 e segg. — Della fine del secolo XV.

241.  Quest'ultima allegoria trovasi, per esempio, nella Venatio del card. Adriano da Corneto. In essa Ascanio Sforza nei piaceri della caccia deve trovare un conforto contro il dolore della rovina della sua casa. Cfr. vol. I, pag. 350.

242.  Propriamente nel 1454. Cfr. Olivier de la Marche, Mémoires, chap. 49.[243]

243.  Il giuramento sul fagiano fu prestato nel celebre banchetto, che Filippo di Borgogna diede nel 1454 allo scopo di promovere una crociata contro i Turchi, che l'anno innanzi aveano preso Costantinopoli. In quel banchetto il duca aveva spiegato un lusso ed una magnificenza affatto fuori dell'ordinario. L'abbigliamento nel quale egli comparve, fu stimato da solo un milione di talleri. Tutto il resto era in proporzione; per cui non a torto fu detto che quella festa abbia costato una somma superiore all'intera rendita annua del re di Francia. Sulla fine del banchetto fu recato un fagiano adorno di una collana riccamente tempestata di pietre preziose, sul quale ciascuno dei convitati giurò in nome di Dio, della Vergine e del fagiano di voler combattere gl'infedeli; giuramento che, s'intende da sè, ognuno dimenticò, non appena terminata la festa. — Per più minuti ragguagli veggasi Weiss, Gesch. der Tracht und des Geräthes vom 14 bis zum 16 Jahrhundert, I, Abthl, pag. 103, 104. Nota del Traduttore.

244.  Per altre feste francesi veggasi, per es. Juvénal des Ursins ad a. 1389 (ingresso della regina Isabella). — Jean de Troyes, ad a. 1461 (ingresso di Luigi XI). Anche qui non mancano i macchinismi sospesi, le statue vive e simili, ma tutto è confuso, slegato e le allegorie per lo più sono indicifrabili. — Molto svariate e pompose furono le feste durate parecchi giorni a Lisbona nel 1452 in occasione della partenza dell'infanta Eleonora, che andava sposa all'imperatore Federico III. Ved. Freher-Struve, Rer. german. script. II, fol. 51, la Relazione di Nic. Lauckmann.

245.  Vantaggio tutto proprio dei grandi poeti ed artisti, che seppero trarne partito.

246.  Cfr. Bart. Gamba, Notizie intorno alle opere di Feo Belcari, Milano, 1808, e specialmente l'introduzione dello scritto: Le rappresentazioni di Feo Belcari ed altre di lui poesie, Firenze, 1833. — Come riscontro, l'introduzione del bibliofilo Jacob alla sua edizione di Pathelin.

247.  Effettivamente un Mistero sull'uccisione di tutti i fanciulli di Betlemme, rappresentato in una chiesa di Siena, si chiudeva con una scena, nella quale le infelici madri dovevano afferrarsi vicendevolmente pei capelli. Della Valle, Lettere sanesi, III, p. 53. — Uno degli scopi principali del già citato Feo Belcari (morto nel 1484) era appunto di purgare i Misteri da simili mostruosità.

248.  Franco Sacchetti, Nov. 82.

249.  Vasari, III, 232 e segg. Vita di Brunellesco, V, 36 e segg. Vita del Cecca. Cfr. V, 52, Vita di don Bartolommeo.

250.  Arch. Stor. Append. II, p. 310. Il Mistero dell'Annunziazione di Maria, rappresentato in Ferrara nelle nozze di Alfonso, aveva macchinismi aerei e fuochi d'artifizio. Sulla rappresentazione della Susanna, del S. Giovanni Battista e di una leggenda sacra presso il card. Riario, veggasi il Corio, fol. 417. Sul Mistero di Costantino il grande, rappresentato nel palazzo papale nel carnevale del 1484, v. Jac. Volaterran. presso Murat. XXIII, col. 194.

251.  Graziani, Cronaca di Perugia, Arch. Stor. XVI, I, p. 598. Nella crocifissione si sostituiva una figura che si teneva pronta.

252.  Per quest'ultima circostanza veggasi Pii II Comment. L. VII, p. 383, 386. Anche la poesia del secolo XV assume talvolta un carattere di uguale rozzezza. Una canzone di Andrea da Basso descrive con ributtante esattezza le particolarità della putrefazione del cadavere di una sua innamorata troppo disdegnosa con lui. Ma anche in un dramma rappresentato nel secolo XII in un chiostro si vedeva sulla scena come il re Erode venisse divorato dai vermi. Carmina Burana, p. 80 e segg.

253.  Allegretto, Diarii sanesi, presso Murat. XXIII, col. 767.

254.  Matarazzo, Arch. Stor. XVI, II, p. 36.

255.  Estratti dal Vergier d'honneur, presso Roscoe, Leone X, ed. Bossi, I, p. 220 e III, p. 263.

256.  Pii II Comment. L. VIII, p. 382 e segg. — Una simile festa pomposa del Corpusdomini è menzionata dal Bursellis, Annal. Bonon. presso Murat. XXII, col. 911, all'anno 1492.

257.  In simili occasioni i poeti cantavano: nulla di muro si potea vedere.

258.  Le stesso vale di parecchie descrizioni simili.

259.  Cinque re con seguito d'uomini armati, un uomo selvaggio che lottava con un leone (domato?); quest'ultimo spettacolo forse per alludere al nome del papa, Silvio.

260.  Esempi sotto Sisto IV. Jac. Volaterran. presso Murat. XXIII, col. 134, 139. Anche all'avvenimento di Alessandro VI si fecero grandi spari. — I fuochi d'artificio, bella invenzione italiana, appartengono, insieme alla decorazione festiva, piuttosto alla storia dell'arte. — E vi appartiene pure la splendida illuminazione (v. pag. 60), che si loda in certe feste, nonchè i grandi apparecchi da tavola e i trofei di caccia.

261.  A Siena in un ricevimento principesco (1405) da una lupa d'oro usciva un intero corpo di ballo di dodici persone; v. Allegretto, presso Murat. XXIII, col. 772. — Cfr. inoltre col. 772 il ricevimento di Pio II nel 1459.

262.  Corio, fol. 417 e segg. — Infessura, presso Eccard, Scriptt. II, col. 1896. — Strozii poetae, p. 193 negli Eolostica, v. v. I, pag. 63 e 69.

263.  Vasari XI, p. 37. Vita di Puntormo; egli narra che un simile fanciullo in una festa fiorentina del 1513 morì in conseguenza dello sforzo fatto o dell'indoramento. — Il poveretto avea dovuto rappresentare «l'età dell'oro».

264.  Phil. Beroaldi Orationes: nuptiae Bentivoleae.

265.  M. Ant. Sabellici Epist. L. III, fol. 17.

266.  Amoretti, Memorie ecc. su Leonardo da Vinci, p. 38 e segg.

267.  Come l'astrologia in questo secolo si cacciasse fin nelle feste, lo mostrano anche le comparse (non esattamente descritte) di pianeti nell'occasione dei ricevimenti di alcune spose di principi in Ferrara. Diario ferrarese, presso Murat. XXIV, col. 248, ad. a. 1491. Ugualmente a Mantova. Arch. Stor. Append. II, p. 233.

268.  Annal. estens. presso Murat. XX, col. 468 e segg. — La descrizione è oscura, e per di più stampata sopra una copia scorretta.

269.  Le funi di questo meccanismo erano coperte da ghirlande.

270.  Propriamente la nave d'Iside, che viene messa nell'acqua il 5 marzo, come simbolo della navigazione nuovamente aperta. — Qualche cosa di analogo nel culto tedesco veggasi in Giacomo Grimm, Deutsche Mythologie.

271.  Purgatorio, XXIX, 43 sino alla fine, e XXX sul principio. — Il carro occupa 115 versi, ed è più splendido di quello trionfale di Scipione, d'Augusto, anzi anche più di quello del sole.

272.  Ranke, Geschichte der roman. und german. Völker, p. 119.

273.  Corio, fol. 401. — Cfr. Cagnola, Arch. Stor. III, pag. 119.

274.  V. vol. I, pag. 292. Cfr. ibid., pag. 16 nota. Triumphus Alphons, come appendice ai Dicta et facta del Panormita. — Un certo timore di un eccessivo lusso trionfale scorgesi nei valorosi Comneni. Cfr. Cinnamus, I, 5, VI, 1.

275.  È una delle ingenuità dell'epoca del Rinascimento di aver assegnato un tal posto alla Fortuna. Nell'ingresso di Massimiliano Sforza in Milano (1512) essa stava, come figura principale, in cima ad un arco trionfale sopra la Fama, la Speranza, l'Audacia, e la Penitenza, tutte rappresentate da persone vive. Cfr. Prato, Arch. Stor. III, p. 305.

276.  L'ingresso di Borso d'Este in Reggio, già menzionato (pagina 196), mostra quale impressione avesse fatto in tutta Italia quello di Alfonso a Napoli.

277.  Prato, Arch. Stor. III, p. 260.

278.  I suoi tre capitoli in terzine, v. Anecd. litt. IV, p. 561 e segg.

279.  Anche nelle mense non è raro il caso di vedervi dei gruppi di figure rappresentanti tali soggetti, certo come ricordi di mascherate eseguite. I grandi si abituarono assai presto alla pompa degli equipaggi in ogni occasione solenne. Annibale Bentivoglio, primogenito del signore di Bologna, ritorna dai soliti esercizi dell'armi al suo palazzo tutto armato cum triumpho more romano. Bursellis, l. c. col. 909, ad a. 1490.

280.  Nei solenni funerali di Malatesta Baglioni, avvelenato a Perugia nel 1437 (Graziani, Arch. Stor. XVI, 1, p. 413), si ricordano quasi le pompe funerarie dell'antica Etruria. Tuttavia i cavalieri vestiti a lutto e molti altri usi appartengono alla nobiltà d'occidente. Si veggano, ad esempio, le esequie di Bertrando Duguesclin presso Juvénal des Ursins ad a. 1389. — Cfr. anche Graziani l. c. p. 360.

281.  Vasari, IX, p. 218, Vita di Granacci.

282.  Mich. Gannesius, Vita Pauli II presso Murat. III, II, col. 118 e segg.

283.  Tommasi, Vita di Cesare Borgia, p. 251.

284.  Vasari, 34 e segg. Vita di Puntormo, testimonianza importantissima nel suo genere.

285.  Vasari, VIII, p. 264, Vita di Andrea del Sarto.

286.  Allegretto, presso Murat. XXIII, col. 783. L'essersi spezzata una ruota s'ebbe per sinistro augurio.

287.  M. Anton. Sabellici Epist. L. III, fol. 47.

288.  Sansovino, Venezia, fol. 151 e segg. — Le compagnie si chiamano dei Pavoni, degli Accesi, degli Eterni, dei Reali, dei Sempiterni; sono i medesimi nomi che poi furono dati alle Accademie.

289.  Probabilmente nel 1495. Cfr. M. Anton. Sabellici Epist. L. V, foli 28.

290.  Infessura, presso Eccard, Scriptt. II, col. 1893, 2000. — Mich. Cannesius, Vita Pauli II, presso Murat. III, II, col. 1012. — Platina, Vitae Pontiff., p. 418. — Jacob. Volaterranus presso Murat. XXIII, col. 163, 194. — Paul. Jov. Elogia, sub Juliano Caesarino. — Altrove eranvi corse di donne. Diario ferrarese, presso Murat. XXIV, col. 384.

291.  Sotto Alessandro VI una volta dall'ottobre sino alla quaresima. Cfr. Tommasi, l. c. p. 322.

292.  Pii II Dommene. L. IV, p. 211.

293.  Nantiporto, presso Murat. III, II, col. 1080. Volevano ringraziarlo d'aver concluso una pace, ma trovarono chiuse le porte del palazzo e poste le truppe a tutti gli accessi.

294.  Tutti i trionfi, carri, mascherate o canti carnascialeschi, Cosmopoli 1870. — Macchiavelli, Opere minori, p. 505. — Vasari VII, p. 115, Vita di Piero di Cosimo, al quale ultimo s'attribuisce una parte principale nella formazione di queste feste.

295.  Discorsi, L. I, e. 12. Anche nel c. 55 è detto l'Italia essere più corrotta di qualunque altro paese, e seguirla poi più dappresso la Francia e la Spagna.

296.  Paul Jov., Viri illustres: Joh. Gal. Vicecomes.

297.  Sul conto, in cui è tenuto il sentimento d'onore nel mondo attuale cfr. le osservazioni profonde di Prévost-Paradol, la France nouvelle L. III, chap. 2, (scritte nel 1868).

298.  Franc. Guicciardini, Ricordi politici e civili, N. 118. (Opere inedite, vol. I).

299.  Il suo più immediato riscontro è Merlin Coccai (Teofilo Folengo), la cui Macaroneide, (v. vol. I, pag. 216 e 362), Rabelais certamente conobbe e cita anche frequentemente (Pantagruele, L. II, ch. 1 e 7, sulla fine). Si può anzi ritenere che l'impulso a scrivere il Gargantua e il Pantagruele sia venuto all'autore dalla lettura di quel poema.

300.  Gargantua, L. I, chap. 57.

301.  Vale a dire bennato nel senso il più elevato, perocchè Rabelais, figlio dell'oste di Chinon, non ha qui alcun motivo di accordare alla nobiltà, come tale, verun privilegio. — La predica del Vangelo, della quale parla l'iscrizione, che sta all'ingresso dell'edifizio, non si concilierebbe troppo con tutto il resto della vita dei Telemiti: essa è inoltre piuttosto d'indole negativa, in quanto accenna ad una certa resistenza agli ordini della Curia romana.

302.  Vedi il suo Diario (in estratto) presso Delécluze, Florence et ces vicissitudes, vol. 2. — Cfr. sopra, pag. 79.

303.  Infessura, ap. Eccard, Scriptt. II, col. 1992. — Cfr. vol. I, pag. 147 e segg.

304.  Questo concetto dello spiritoso Stendhal (La Chartreuse de Parme, ed. Delahays, pag. 355) mi sembra basarsi sopra una profonda osservazione psicologica.

305.  Graziani, Cronaca di Perugia, all'anno 1337 (Arch. Storico XVI, I, p. 415).

306.  Giraldi, Hecatommithi, I, Nov. 7.

307.  Infessura presso Eccard, Scriptt. II, col. 1892, ad ann. 1464.

308.  Allegretto, Diari sanesi, presso Murat. XXIII, col. 837.

309.  Coloro, che lasciano a Dio la cura della vendetta, vengono, oltre che da altri, messi in ridicolo dal Pulci, Morgante, canto XXI, str. 83, pag. 104 e segg.

310.  Guicciardini, Ricordi, l. c. N. 74.

311.  Così il Cardano (De propria vita, cap. 13) si dipinge come estremamente vendicativo, ma anche come verax, memor beneficiorum, amans justitiae.

312.  È vero che al tempo della dominazione spagnuola è notevole una forte diminuzione della popolazione. Ma se fosse stata conseguenza della demoralizzazione, avrebbe dovuto manifestarsi molto tempo prima.

313.  Giraldi, Hecatommithi, III, Nov. 2. In modo assai somigliante il Cortigiano, L. IV, fol. 180.

314.  Un esempio di vendetta veramente crudele di un fratello, accaduto in Perugia nell'anno 1455, trovasi nella cronaca del Graziani (Arch. Stor. XVI, p. 629). Il fratello costringe l'amante a cavar gli occhi alla sorella e poi lo caccia a furia di battiture. Ma la famiglia era un ramo degli Oddi e l'amatore un semplice funajuolo.

315.  Bandello, Parte I, Nov. 9 e 26. — Accade anche talvolta che il confessore della moglie si lascia corrompere dal marito e rivela l'adulterio.

316.  Veggasi sopra a pag. 163 e nella nota.

317.  Un esempio può vedersi nel Bandello, Parte I, Nov. 4.

318.  Piaccia al Signore Iddio che non si ritrovi, dicono presso il Giraldi (III, Nov. 10) le donne quando vien loro narrato, che il fatto potrebbe costar la testa all'assassino.

319.  Ciò accade, per esempio, a Gioviano Pontano (De fortitudine, L. II); i suoi coraggiosi Ascolani, che perfino la notte che precede il loro supplizio danzano e cantano, la madre abbruzzese, che cerca di tener allegro il figlio mentre s'avvia al patibolo, e simili, appartengono probabilmente alla classe dei masnadieri, ma egli dimentica affatto di dircelo.

320.  Diarum parmense, presso Murat. XXII, col. 330 sino a 349 passim.

321.  Diario ferrarese, presso Murat. XXIV, col. 312. Ciò fa risovvenire la banda armata di quel prete, che pochi anni prima del 1837 infestava le provincie occidentali di Lombardia.

322.  Masuccio, Nov. 39. S'intende da se che l'uomo in discorso è fortunatissimo anche nel campo d'amore.

323.  Se egli nella sua gioventù esercitò la pirateria durante la guerra delle due case d'Angiò per la conquista di Napoli, può averlo fatto in qualità di parteggiatore politico, ne ciò, secondo le idee d'allora, portava con sè veruna infamia. L'arcivescovo di Genova, Paolo Fregoso, fu alternativamente anche doge e corsaro e per di più in ultimo cardinale. Cfr. vol. I, pag. 118, nota.

324.  Poggio, Facetiae, fol. 464. Chi conosce la Napoli odierna, ha forse udito narrare qualche fatto simile, ma in un altro genere di persone.

325.  Jovian. Pontani Antonius: nec est quod Neapoli quam hominis vita minoris vendatur. Vero è che egli crede che sotto gli Angiò le cose non fossero giunte a tal punto: sicam ab iis (gli Aragonesi) accepimus. Le condizioni del paese intorno al 1534 ci son descritte da B. Cellini I, 70.

326.  Una prova esatta non potrà su ciò mai darsi, ma certo le menzioni degli assassinii vi son meno frequenti, e la fantasia degli scrittori fiorentini del buon tempo non rivela sospetti di questo genere.

327.  Intorno a questa polizia veggasi la Relazione del Fedeli, presso Albêri, Relaz. Scr. II, vol. I, p. 353 e segg.

328.  Infessura, presso Eccard, Scriptor, II, col. 1956.

329.  Chron venetum, presso Murat. XXIV, col. 131. — Nel settentrione si avevano le idee le più strane sull'abilità degli Italiani nell'arte dell'avvelenare: veggasi presso Juvénal des Ursins, ad ann. 1382 (ed. Buchon, p. 336) ciò che si diceva della lancetta dell'avvelenatore, che Carlo di Durazzo prese al suo servizio: chi fissava in essa attentamente lo sguardo, doveva senz'altro morire.

330.  Petr. Crinitus, De honesta disciplina, L. XVIII, cap. 9.

331.  Pii II Comment. L. XI, p. 562 — Joh. Ant. Campanus: Vita Pii II, presso Murat. III, II, col. 988.

332.  Vasari IX, 82. Vita di Rosso. — Se nei matrimoni male assortiti abbiano prevalso dei veri avvelenamenti o piuttosto la sola paura, non può decidersi. Cfr. Bandello, II, Nov. 5 e 54; e più gravemente ancora II, Nov. 40. Nella stessa città di Lombardia, che non viene più precisamente indicata, vivono due avvelenatori, un marito, che vuol persuadersi della sincerità della disperazione di sua moglie, e la costringe a bere un liquido che si dava per avvelenato, ma che non era se non acqua tinta; e dietro a ciò segue la loro riconciliazione. — Nella sola famiglia del Cardano erano accaduti quattro avvelenamenti. De vita propria, cap. 30, 50. — Perfino in un banchetto dato in occasione dell'incoronazione del Papa ognuno dei cardinali condusse con sè il suo coppiere e si portò il proprio vino «probabilmente perchè si sapeva per esperienza, che altrimenti si correva pericolo di essere avvelenati nelle bevande». E questa usanza in Roma era generale e si tollerava sine injuria invitantis! Blas Ortiz Itinerar. Hadriani VI, ap Baluz. Miscell. ed. Mansi, I, 480.

333.  Intorno ad alcuni maleficj contro Leonello da Ferrara veggasi il Diario ferrarese, presso Murat. XXIV, col 194, ad ann. 1445. Mentre all'autore di essi, certo Renato, che del resto era di fama assai pregiudicata, si leggeva la sentenza sulla piazza, si sollevò un gran romore nell'aria ed un tremuoto, per guisa che ognuno fuggì o cadde a terra. — Di ciò che Guicciardini (L. I) racconta dei maleficj di Lodovico il Moro contro suo nipote Giangaleazzo, meglio è tacere.

334.  Si potrebbe innanzi tutto nominare Ezzelino da Romano, se egli non fosse notoriamente vissuto sotto l'influenza di scopi ambiziosi e di una continua superstizione astrologica.

335.  Giornali napoletani, presso Murat. XXI, col. 1092, ad ann. 1425.

336.  Pii II Comment. L. VII, p. 338.

337.  Jov. Pontan. De immanitate, dove si dice che Sigismondo abbia reso gravida anche la propria figlia e simili.

338.  Varchi, Storia fiorent. sulla fine. (Se l'opera è stampata senza mutilazioni, come, per es., nella edizione milanese).

339.  Su di che naturalmente variano le opinioni secondo i luoghi e le persone. Il Rinascimento ebbe delle città e delle epoche, nelle quali prevalse una decisa tendenza a godere la vita. Le cupe malinconie degli uomini serii non cominciano in generale a manifestarsi che sotto la dominazione straniera del secolo XVI.

340.  Ciò che noi chiamiamo lo spirito della Contro-riforma, erasi già sviluppato in Ispagna buon tratto di tempo prima della Riforma, e precisamente per mezzo di una scrupolosa sorveglianza e di una parziale riorganizzazione di ogni ordinamento ecclesiastico sotto Ferdinando ed Isabella. La fonte principale su questo argomento, è il Gomez, Vita del card. Ximenes, presso Rob. Velus, Rer. hispan. scriptores.

341.  Si noti, che i novellieri ed altri dileggiatori non parlano quasi mai di nessun vescovo, mentre per verità avrebbero facilmente potuto trovar motivo di farlo, fosse pure mutando i nomi. Ciò accade in via eccezionale, nel Bandello, II, Nov. 45; ma altrove (II, 40) egli menziona anche un vescovo virtuoso. Gioviano Pontano nel «Caronte» fa apparire l'ombra di un vescovo molto pingue «a passo d'anitra». Di quanto poca levatura fossero i vescovi italiani d'allora in generale vegg. in P. Giovio, p. 387.

342.  Foscolo, Discorso sul testo del Decamerone: Ma de' preti in dignità niuno poteva far motto senza pericolo; onde ogni frate fu l'irco delle iniquità d'Israele ecc.

343.  Il Bandello prelude, per esempio, alla Nov. 1 della Parte II, col dire che il vizio dell'avarizia non disdice tanto a chicchessia, quanto ai preti, che non hanno nessuna famiglia cui debbano provvedere ecc., e con questo ragionamento viene poi a giustificare una iniqua aggressione fatta ad un parroco di campagna da un giovane signore assistito da due soldati o banditi, che, per punirlo della sua avarizia, approfittano della sua impotenza cagionata dalla podagra e lo derubano di un montone che possedeva. Basta una sola storia di questo genere a mostrare, meglio che molte dissertazioni, in qual corrente di idee allora si vivesse e si agisse.

344.  Giov. Villani, III, 29, lo dice assai chiaramente un secolo dopo.

345.  Probabilmente s'intende la sua tavoletta col motto I H S.

346.  Seggi erano le classi, nelle quali era ripartita la nobiltà napoletana. — La rivalità dei due ordini è sovente messa in ridicolo, dal Bandello, per es. III, Nov. 14.

347.  Per ciò che segue cfr. Jov. Pontan. De Sermone, L. II, e il Bandello, Parte I, Nov. 32.

348.  Perciò quest'intrighi poterono anche in prossimità di essa essere apertamente denunciati. Cfr. anche Jov. Pontan. Antonius e Charon.

349.  In via di esempio, l'ottavo canto della Macaroneide.

350.  La storia leggesi nel Vasari, V. p. 120, Vita di Sandro Botticelli, e mostra, che talvolta si scherzava anche coll'Inquisizione. Del resto il Vicario quivi menzionato può ben essere stato quello dell'Arcivescovo, anzichè quello dell'Inquisitore domenicano.

351.  Bursellis, Ann. Bonon. ap. Murat. XXIII, col. 886, cfr. 896.

352.  V. pag. 96 e segg. Egli era abate dei Vallombrosani. Il passo è tolto dal vol. II, p. 209, Nov. X. Una piccante descrizione della vita agiata dei Certosini veggasi nel Commentario d'Italia, fol. 32 e segg., citato già a pag. 92.

353.  Pio II per principio avrebbe voluto l'abolizione del celibato ecclesiastico: Sacertibus magna ratione sublatas nuptias majori restituendas videri, era una delle sue sentenze favorite. Platina, Vitae Pontiff. p. 311.

354.  Ricordi, N. 28. delle Opere inedite, vol. I.

355.  Ricordi, N. 1, 123, 125.

356.  Per vero molto incostante.

357.  Cfr. il suo Orlandino cantato sotto il nome di Limerno Pitocco, cap. XI, str. 40 e segg. cap. VII, str. 57, cap. VIII, str. 3 e segg. specialmente la 57.

358.  Diario ferrarese, presso Murat. XXIV col. 362.

359.  Egli aveva con sè un interprete tedesco ed uno slavo. Anche san Bernardo dovette una volta, predicando nei paesi renani, ricorrere ad un tale spediente.

360.  Il Capistrano, per esempio, si accontentava di fare il segno della croce su migliaja d'infermi, che gli erano condotti e di benedirli in nome della santa Trinità e di san Bernardino suo maestro, dietro di che qua e là accadeva realmente qualche guarigione, come in simili casi suole accadere. La cronaca di Brescia accenna al fatto con queste parole: egli fece di bei miracoli, ma nel narrarli si andava oltre il vero.

361.  Per esempio il Poggio, De avaritia, nelle Opere, fol. 2. Egli trova l'opera dei predicatori facile, perchè in ogni città ripetevano le stesse cose e congedavano il popolo, lasciandolo più sciocco di quando era venuto.

362.  Franco Sacchetti, Nov. 73: predicatori che non riescono nel loro intento, sono un tema frequente in tutti i novellieri.

363.  Cfr. la nota farsa del Decamerone. VI, Nov. 10.

364.  Con che la cosa acquistò un colore affatto speciale. Cfr. Malipiero, Ann. venet. Arch. Stor. VII, I, p. 18. — Chron. venet. presso Murat. XXIV, col. 114. — Storia bresciana, presso Murat. XXI, col. 898.

365.  Storia bresciana, presso Murat. XXI col. 865.

366.  Allegretto, Diari sanesi, presso Murat. XXIII, col. 819.

367.  Infessura, presso Eccard, (Scriptor. II, col. 1874). Egli dice: canti, brevi, sorti. I primi possono essere stati libri di canzoni, quali furono arsi anche sotto il Savonarola. Ma il Graziani (Cron. di Perugia, Arch. Stor. XVI, I, p, 314) in simile occasione dice: brieve incante, che senza dubbio deve leggersi brevi e incanti, e una simile emendazione è forse da accettarsi anche nell'Infessura, le cui sorti accennano anche senza ciò a qualche cosa di superstizioso, forse al giuoco profetico delle carte. — Dopo l'introduzione della stampa si raccolsero anche, per esempio, tutti gli esemplari di Marziale per abbruciarli. Bandello, III, Nov. 10.

368.  V. la sua notevole biografia in Vespasiano fiorent. p. 244 e segg. — e quella di Enea Silvio, De viris illustr. p. 24.

369.  Allegretto, l. c. col. 823: un predicatore eccita il popolo contro i giudici (se invece non si deve leggere giudei), su di che essi ben presto sarebbero stati arsi nelle loro case.

370.  Infessura, l. c. Sul giorno della morte della strega sembra esservi un errore di scrittura. — Come lo stesso Santo abbia fatto distruggere un famoso boschetto presso Arezzo, ce lo narra il Vasari, III, 148, Vita di Parri Spinelli: spesse volte lo zelo sembra essersi arrestato alla distruzione di certe località, simboli e strumenti.

371.  Pareva che l'aria si fendesse, è detto in qualche punto.

372.  Jac. Volaterran. presso Murat. XXIII, col. 167. Non è detto espressamente, ch'egli si sia occupato di questa disputa, ma non si può nemmen dubitarne. — Anche Jacopo della Marca una volta, dopo uno strepitoso successo, aveva appena lasciato Perugia (1445), che scoppiò una terribile vendetta nella famiglia Ranieri. Cfr. il Graziani, l. c. pag. 565 e segg. — In quest'occasione giova notare che quella città fu forse più di qualunque altra visitata da tali predicatori: cfr. pag. 597, 626, 631, 637, 647.

373.  Il Capistrano, dopo una predica, vestì cinquanta soldati. Stor. bresciana, l. c. — Graziani, l. c. p. 565 e segg. — Enea Silvio (De viris illustr. p. 25) una volta nella sua gioventù fu sul punto, dopo una predica di San Bernardino, di entrare nel suo ordine.

374.  Che ci sieno stati degli attriti fra i celebri predicatori dei Minori Osservanti e gl'invidiosi Domenicani, lo mostra la contesa intorno al sangue di Cristo colato dalla croce a inzuppare il terreno (1463). Intorno a fra Jacopo della Marca, che non volle a niun patto sottomettersi all'Inquisitore domenicano, Pio II si esprime nell'estesa sua Relazione, (Comment. L. XI p. 511) con una ironia molto fina: Pauperiem pati et famen et sitim et corporis cruciatum et mortem pro Christi nomine nonnulli possunt: jacturam nominis vel minimam ferre recusant, tamquam sua propria deficiente fama Dei quoque gloria pereat.

375.  La loro fama oscillava allora fra due estremi. Bisogna distinguerli dai monaci Eremitani. — In generale i limiti a questo riguardo non erano netti e precisi. Gli Spoletini, che andavano attorno come taumaturghi, si richiamavano sempre a sant'Antonio, od anche, per causa dei serpenti che maneggiavano, a san Paolo apostolo. Essi fin dal secolo XIII posero a contribuzione il contado con una specie di magia spirituale, e i loro ronzini erano ammaestrati ad inginocchiarsi, quando si nominava sant'Antonio. Essi simulavano di fare la questua per gli ospitali. Masuccio, Nov. 18, Bandello, III, Nov. 17. Il Firenzuola nel suo Asino d'oro dà loro le parti dei sacerdoti questuanti di Apulejo.

376.  Prato, Arch. Stor. III, p. 357. Burigozzo, ibid. p. 431.

377.  Allegretto, presso Murat. XXIII, col. 855 e segg.

378.  Matteo Villani, VIII, I, e segg. Egli predicò dapprima contro la tirannide in generale, poi, quando la casa regnante dei Beccaria aveva voluto farlo uccidere, indusse con una predica a mutar la costituzione e le autorità, e costrinse i Beccaria a fuggire (1357).

379.  Talvolta anche le case regnanti in tempi difficili chiesero dei monaci, per eccitare il popolo alla fedeltà. Qualche cosa di simile a Ferrara veggasi in Sanudo (Murat. XXII, col. 1218).

380.  Prato, Arch. Stor. III, p. 251. Di fanatici predicatori surti poi con tendenza anti-francesi, è fatta menzione dopo la cacciata dei francesi, dal Burigozzo, ibid. p. 443, 449, 485, ad ann. 1523, 1526, 1529.

381.  Jac. Pitti, Storia fiorent. L. II, p. 112.

382.  Perrens: Jèrôme Savonarole, 2 vol., tra le molte opere speciali di data un po' vecchia forse il meglio ordinato e il più moderato. — Più tardi P. Villari, La storia di Girol. Savonarola, (2 vol. in 8.º Firenze, Le Monnier).

383.  Il Savonarola sarebbe forse stato l'unico, che avesse potuto restituire alle città soggette la libertà e tuttavia mantenere comecchessia l'unità dello Stato toscano. Ma egli non sembra avervi mai pensato, e, quanto a Pisa, egli la odiava al pari di qualunque dei fiorentini.

384.  Riscontro assai notevole coi Sanesi, i quali nel 1483 aveano donato la loro città lacerata dai partiti sotto forma solenne alla Madonna. V. Allegretto, presso Murat. XXIII, col. 815.

385.  Degli impii astrologi egli dice: non è da disputar (con loro) altrimenti che col fuoco.

386.  V. il passo relativo nella Predica XIV sopra Ezechiello, presso Perrens, l. c. vol. I, pag. 30, nota.

387.  Col titolo: De rusticorum religione.

388.  Franco Sacchetti, Nov. 109, dove sono altri aneddoti di simil genere.

389.  Bapt. Mantuan. De sacris diebus, L. II, esclama:

Ista superstitio, ducens a Manibus ortum

Tartareis, sancta de religione facessat

Christigenum! vivis epulas date, sacra sepultis.

Un secolo prima, quando l'esercito di Giovanni XXII entrò nella Marca contro i Ghibellini, si giustificò l'invasione con una accusa esplicita di eresia ed idolatria; tuttavia anche Recanati, che si arrese spontaneamente, non isfuggì all'incendio, «perchè quivi erano stati adorati alcuni idoli». Giov. Villani, IX. 139, 141. — Sotto Pio II si parla di un ostinato adoratore del sole, urbinate di nascita. Aen. Sylv. Opera:, p. 289. Histor. rer. ubique gestar. c. 12. — Il fatto più singolare accadde nel Foro romano sotto Leone X: per causa di una pestilenza fu sacrificato con solenni riti pagani un toro. Paul. Jov. Histor. XXI, 8.

390.  Così il Sabellico, De situ venetae urbis. Bensì egli ricorda i nomi dei santi al modo dei filologi e senza preporvi l'appellativo di sanctus o divus, ma adduce una quantità di reliquie con un certo senso di tenerezza, e in parecchi luoghi si vanta di averle baciate.

391.  De laudibus Patavii, presso Murat. XXIV, col. 1149-1151.

392.  Prato, Arch. Stor. III, p. 408. — Egli non appartiene alla schiera degli increduli, ma protesta apertamente contro coloro, che vogliono trovare un nesso tra questi due fatti.

393.  Pii II Comment. L. VIII, p. 352, e segg. Verebatur Pontifex, ne in honore tanti Apostoli diminute agere videretur etc.

394.  Jacob. Volaterran. presso Murat. XXIII, col. 187, Luigi ebbe un bel prostrarsi dinanzi alle reliquie; ciò non lo salvò dalla morte. — Le catacombe allora erano affatto dimenticate, tuttavia anche il Savonarola l. c. col. 1150 dice di Roma: velut ager Aceldama Sanctorum habita est.

395.  Bursellis, Annal. Bonon. presso Murat. XXIII, col. 905. Fu uno dei sedici patrizi, Bart. della Volta, morto nel 1485.

396.  Vasari, III, e segg. c. N. Vita di Ghiberti.

397.  Matteo Villani, III, 15 e 16.

398.  Si dovrebbe, oltre a ciò, distinguere tra il culto, fiorente in Italia, di corpi di Santi degli ultimi secoli ancora storicamente conosciuti e la tendenza prevalente invece nei paesi nordici a razzolare frammenti di corpi e di vestimenti ecc. dei più rimoti tempi del Cristianesimo. Importantissima, specialmente pei pellegrini, era sotto quest'ultimo punto di vista la grande raccolta delle reliquie lateranensi. Ma sopra i sarcofaghi di san Domenico e di sant'Antonio da Padova e sopra la tomba misteriosa di san Francesco splende, oltre la santità, anche un raggio di celebrità storica. V. vol. I, pag. 198.

399.  Non sarebbe senza interesse il notare esattamente, quanto nelle decisioni religiose dei Papi e dei teologi di quel tempo fosse l'effetto di un sentimento parziale di nazionalità italiana. Di questa specie è forse lo zelo mostrato da Sisto IV pel dogma dell'Immacolata Concezione (Extravag. Comment L. III, tit. XII). Per contrario può notarsi un'influenza nordica nel culto sempre crescente di san Giuseppe e dei genitori di Maria: esso era già popolare nella Francia settentrionale sin dai primi anni del secolo XV e vi fu ufficialmente permesso nel 1414 da un legato di Giovanni XXIII (Baluz. Miscell. III). Soltanto un buon mezzo secolo più tardi Sisto IV fondò per tutta la Chiesa la festa della Presentazione di Maria al Tempio, e quelle di sant'Anna e di san Giuseppe (Trithem. Ann. Hirsaug. II, 518).

400.  Questa notevole espressione, nel lavoro de' suoi ultimi anni, De sacris diebus, L. I, si riferisce veramente tanto all'arte sacra, che alla profana. Agli ebrei, egli dice, a ragione fu interdetta ogni rappresentazione figurativa, perchè altrimenti sarebbero ricaduti nell'idolatria, che regnava tutto all'intorno:

Nunc autem, postquam penitus natura Satanum

Cognita, et antiqua sine majestate relicta est,

Nulla ferunt nobis statuae discrimina, nullos

Fert pictura dolos; jam sunt innoxia signa;

Sunt modo virtutum testes monimentaque laudum

Marmora, et aeternae decora immortalia famae....

401.  Così Battista Mantovano si lagna di certi nebulones (De sacr. dieb. L. V), che non volevano credere all'autenticità del preziosissimo Sangue di Mantova. Anche quella critica, che oramai disputava sulla donazione di Costantino, non poteva certamente essere favorevole al culto delle reliquie, benchè non ne parlasse.

402.  Specialmente nel canto XXIII, 1, la celebre preghiera di S. Bernardo: Vergine Madre, figlia del tuo figlio ecc.

403.  Fors'anche Pio II, colla sua Elegia alla Vergine (nelle Opere, p. 964), e che sin dalla sua gioventù si credeva sotto la protezione speciale di Maria. Jac. Card. Papiens. De morte Pii, p. 656.

404.  Importantissimi in questo riguardo sono i pochi e freddi sonetti di Vittoria alla Vergine (N. 85 e segg.).

405.  Bapt. Mantuan. De sacris diebus, L. V, e specialmente il discorso di Pico, che era destinato a recitarsi nel Concilio lateranense, presso Roscoe, Leone X, ed. Bossi, vol. VIII, p. 115.

406.  Monachi Paduani chron. L. III, sul principio. Di questa pubblica penitenza vi si dice: invasit primitus Perusinos, Romanos postmodum, deinde fere Italiae populos universos. — Per converso Gugl. Ventura (De gestis Astensium, col. 701) chiama la processione dei Flagellanti admirabilis Lombardorum commotio, aggiungendo che alcuni eremiti aveano lasciato le loro solitudini per venire nelle città ed eccitarle a penitenza.

407.  Giov. Villani, VIII, 122, XI, 23.

408.  Corio, fol. 21. Sismondi VII, 398 e segg.

409.  Peregrinazioni a luoghi più lontani sono assai rare. Quelle dei principi di casa d'Este a Gerusalemme, a S. Jacopo di Galizia e a Vienna sono annoverate nel Diario ferrarese, presso Muratori XXIV, col. 182, 197, 190, 279. Quelle di Rinaldo Albizzi in Terrasanta presso Machiavelli, Stor. fiorent. L. V. Anche qui talvolta il movente è la sete di acquistar fama e gloria: di Leonardo Frescobaldi, e di un suo compagno, che intorno al 1400 volevano peregrinare in Terrasanta, il cronista Giovanni Cavalcanti (II, p. 478) dice: stimarono di eternarsi nella mente degli uomini futuri.

410.  Bursellis, Annal. Bonon. presso Murat. XXIII, col. 800.

411.  Allegretto, presso Murat. XXIII, col. 855 e segg.

412.  Burigozzo, Arch. Stor. III, p. 486. — Per la miseria della Lombardia in quel tempo la fonte più autorevole è Galeazzo Capella (De rebus nuper in Italia gestis); nel complesso Milano non sofferse meno di quello che abbia sofferto Roma nel famoso Sacco.

413.  La si chiamava anche l'arca del testimonio, e si era persuasi che la cosa era disposta con gran misterio.

414.  Diario ferrarese, presso Murat. XXIV, col. 317, 322, 323, 326, 386, 401.

415.  Per buono rispetto a lui noto e perchè sempre è buono a star bene con Iddio, dice l'annalista.

416.  Probabilmente quella nominata nel vol. I a pag. 39, parlando di Perugia.

417.  Il cronista lo dice un Messo dei Cancellieri del Duca. Ma evidentemente la cosa deve essere partita dalla corte e non dai preposti di qualsiasi ordine o da una autorità ecclesiastica qualunque.

418.  Cfr. la citazione del discorso di Pico «Sulla dignità dell'uomo» pag. 110.

419.  Prescindendo dal fatto, che talvolta presso gli stessi Arabi si poteva incontrare una uguale tolleranza o indifferenza.

420.  Così presso il Boccaccio. — Sultani senza nome presso Masuccio, Nov. 46, 48, 49.

421.  Decamerone, I, Nov. 3. Egli pel primo nomina anche la religione cristiana, mentre nelle «Cento novelle» incontrasi una lacuna.

422.  In bocca però del demonio Astarotte, Canto XXV, str. 231 e segg. Cfr. str. 141 e segg.

423.  Canto XXVIII, str. 38 e segg.

424.  Canto XVIII, str. 112, sino alla fine.

425.  Il Pulci riprende un tema analogo, benchè solo di passaggio, nella figura del principe Chiaristante, Canto XXI, str. 101 e segg. 121 e segg. 145 e segg. 163 e segg., che non crede in nulla e accetta per sè e per sua moglie onori divini. Si sarebbe quasi tentati di pensare a Sigismondo Malatesta (v. vol. I, pag. 44 e 301, vol. II, pag. 246).

426.  Giov. Villani, III, 29, VI, 46. Il nome appare assai per tempo anche nel nord; ancora prima del 1150, in occasione di una storia spaventevole (di due ecclesiastici di Nantes) accaduta circa 90 anni prima, si ha la definizione di Gugl. Malmesbur. L. III, § 237 (ed. Londin. 1840, 405): Epicureorum, qui opinantur animam corpore solutam in aerem evanescere, in auras affluere.

427.  Si confrontino le prove universalmente conosciute nel terzo libro di Lucrezio.

428.  Inferno, VII, 67-96.

429.  Purgatorio, XVI, 73. Si confronti la teoria dell'influsso dei pianeti nel «Convito». — Anche il demonio Astarotte del Pulci (XXV, 156) confessa la libertà dell'uomo e la giustizia divina.

430.  Vespasiano fiorent. p. 26, 320, 435, 626, 651. Murat. XX, col. 532.

431.  Intorno al Pomponazzo veggansi le opere speciali, e fra le altre quella di Ritter, Stor. della filosofia, vol. IX.

432.  Paul. Jovii Elogia liter.

433.  Codri Urcei opera, colla sua Vita di Bartol. Bianchini, poi le sue Lezioni filologiche, p. 65, 151, 278, ecc.

434.  Animum meum seu animam, differenza, colla quale allora la filologia si compiaceva di mettere in qualche imbarazzo la teologia.

435.  Platina, Vitae Pontiff. p. 311, christianam fidem, si miraculis non esset approbata, honestate sua recipi debuisse.

436.  Specialmente quando i monaci dal pergamo ne inventavano sempre di nuove. Del resto anche quelle da lungo accettate non andavano esenti da osservazioni. Il Firenzuola (Opere, vol. II, p. 208, Nov. 10) si fa beffe dei francescani di Novara, che con danaro maliziosamente estorto vogliono costruire una cappella nella loro chiesa, dove fosse dipinta quella bella storia, quando san Francesco predicava agli uccelli nel deserto, e quando ei fece la santa zuppa, e che l'agnolo Gabriello gli portò i zoccoli.

437.  Qualche cosa su lui si ha in Bapt. Mantuan. De patientia, L. III c. 13.

438.  Bursellis, Annal. Bonon, presso Murat. XXIII, col. 915.

439.  Quant'oltre andassero talvolta i discorsi maligni, fu mostrato con esempi, che parlano da sè, da Gieseler, Storia della Chiesa, II, IV, c. 154, nota.

440.  Jov. Pontan. De fortuna. La sua specie di Teodicea, II, p. 286.

441.  Aen. Sylvii, Opera, p. 611.

442.  Poggius, De miseriis humanae conditionis.

443.  Caracciolo, De varietate fortunae, presso Murat. XXII, uno degli scrittori più notevoli di quel tempo, che del resto non ne è scarso. Cfr. a pag. 78. — La Fortuna nelle processioni festive v. pag. 201 e nota.

444.  Leonis, Vita anonyma, presso Roscoe, ed. Bossi, XII, p. 153.

445.  Bursellis, Ann. Bonon. presso Murat. XXIII, col. 909: monimentum hoc conditum a Johanne Bentivolo secundo Patriae rectore, cui virtus et fortuna cuncta quae optari possunt, affatim praestiterunt. Del resto non è ben chiaro, se questa iscrizione sia stata posta esteriormente e in modo da essere visibile a tutti, o, come quella riportata poco prima, incisa e nascosta in uno dei fondamenti. In quest'ultimo caso ci sarebbe sotto un'altra idea: la fortuna, per mezzo di quella iscrizione segreta, nota forse soltanto al cronista, doveva andar congiunta a quell'edifizio per virtù di magìa.

446.  Quod ninium gentilitatis amatores essemus.

447.  Mentre tuttavia l'arte figurativa distingueva almeno tra gli angeli e i putti, e negli argomenti serii si serviva anche di mezzi più serii. — Annal. Estens. presso Murat. XX, col. 468; dove l'amorino o il putto ingenuamente è detto: instar Cupidinis angelus.

448.  Della Valle, Lettere sanesi. III, 18.

449.  Macrob. Saturn. III, 9. Senza dubbio egli fece anche i gesti quivi ritualmente prescritti.

450.  Monachus Paduanus, L. II, ap. Urstisius, Scriptores, I, p. 598, 599, 602, 607. — Anche l'ultimo dei Visconti (v. vol. I, pag. 51) aveva un gran numero di astrologi presso di sè. Cfr. il Decembrio, presso Murat. XX, col. 1017.

451.  Per esempio, Firenze, dove fu per qualche tempo il già citato Bonatto. Cfr. anche Matteo Villani, XI, 3, dove evidentemente si allude ad un astrologo della città.

452.  Libri, Hist. des scienc. mathémat. II, 52, 193. In Bologna pare che questa cattedra figuri già sin dal 1125. — Cfr. il prospetto dei professori di Pavia nel Corio, fol. 290. — Una simile cattedra nella Sapienza romana sotto Leone X è nominata da Roscoe, Leone X. ed. Bossi, V, pag. 283.

453.  Ancora intorno al 1260 papa Alessandro IV obbliga un cardinale e modesto astrologo, il Bianco, a far predizioni politiche. Giov. Villani, VI, 81.

454.  De dictis etc. Alphonsi. Opera, p. 493. Egli trovava che era pulchrius, quam utile. Platina Vitae Pontiff. p. 310. — Per Sisto IV cfr. Jac. Volaterran. presso Murat. XXIII, col. 173, 186.

455.  Piero Valeriano, De infelic. literat., parlando di Francesco Priuli, che scrisse sull'oroscopo di Leone X, e in tale occasione pubblicò molti segreti del Papa.

456.  Ranke, R. Päpste, I, p. 247.

457.  Vespasiano fiorent. p. 660, cfr. 341. — Ibid. p. 121 vien menzionato un altro Pagolo, quale matematico di corte ed astrologo di Federigo di Montefeltro, e, per una singolarità assai speciale, lo si dice tedesco di nazione.

458.  Firmicus Maternus, Matheseos Libri VIII, sulla fine del libro secondo.

459.  Presso il Bandello, III, Nov. 60 l'astrologo dì Alessandro Bentivoglio dichiara a Milano dinanzi ad una intera società la propria miseria.

460.  Un simile accesso di risolutezza lo ebbe Lodovico il Moro, quando fece fare la croce con quella iscrizione, che trovasi ora nella cattedrale di Coira. Anche Sisto IV disse una volta, che voleva provare, se la predizione era vera.

461.  Il padre di Piero Capponi, egli stesso astrologo, applicò il figlio al commercio, perchè non gli toccasse quella pericolosa ferita al capo, che gli era minacciata. Vita di P. Capponi, Arch. Stor. IV, II, 15. L'esempio tratto dalla vita del Cardano veggasi a pag. 82. — Il medico ed astrologo Pierleoni da Spoleto credeva di dover quandochessia annegarsi, quindi fuggiva l'acqua e ricusò splendidi posti in Padova ed in Venezia. Paul. Jov. Elogia literat.

462.  Esempi tratti dalla vita di Lodovico il Moro da vedersi in Senarega, presso Murat. XXIV, col. 518, 524 e in Benedetto, presso Eccard, II, col. 1623. E tuttavia suo padre, il grande Francesco Sforza, avea disprezzato gli astrologi, e il suo avolo Giacomo per lo meno non s'era uniformato alle loro ammonizioni. Corio, fol. 221, 413.

463.  Quest'opera è stata spesso stampata, ma io non ho mai potuto vederla. — Ciò che qui si riporta è desunto dagli Annal. Foroliv. presso Murat. XXII, col. 233 e segg. — Leon Battista Alberti cerca di spiritualizzare la ceremonia del getto dei fondamenti. Opere volgari, Tom. IV, p. 314, ovvero De re aedificat. L. I.

464.  Negli oroscopi della seconda fondazione di Firenze (Giov. Villani, III, 1) sotto Carlo Magno e della prima di Venezia (vedi vol. I, p. 85) si cela forse un'antica rimembranza accanto alla poesia del più tardo medio-evo.

465.  Annal. Foroliv. l. c. — Filippo Villani, Vite. — Machiavelli, Storie fiorent. L. I. — Quando s'avvicinavano le costellazioni che promettevano la vittoria, Bonatto saliva coll'astrolabio e il libro sulla torre di san Mercuriale in piazza e, giunto il momento, faceva suonare la campana maggiore per la partenza. Però si conviene che egli talvolta s'ingannò grandemente, e fra le altre non previde la sorte del Montefeltro e la sua propria. Egli fu ucciso dai malandrini non lungi da Cesena, quando, reduce da Parigi e dalle università italiane, dove aveva insegnato, tornava a Forlì.

466.  Matteo Villani, XI, 3.

467.  Jov. Pontan. De fortitudine, L. I. — I primi Sforza come onorevoli eccezioni, v. pag. 322, nota.

468.  Paul. Jov. Elogia, sub. v. Livianus.

469.  Che narra la cosa egli stesso. Benedictus, presso Eccard, II, col. 1617.

470.  Così sembra doversi intendere la testimonianza di Jacopo Nardi, Vita di Ant. Giacomini, p. 65. — Ciò si incontra non di rado anche in vestiti ed utensili. Nel palazzo di Lucrezia Borgia in Ferrara la mula della duchessa d'Urbino portava una gualdrappa di velluto nero con segni astrologici ricamati in oro. Arch. Stor. Append. II, p. 305.

471.  Azario, presso il Corio, fol. 258.

472.  Qualche cosa di simile si potrebbe supporre perfino di un astrologo turco, il quale dopo la battaglia di Nicopoli consigliò al sultano Bajazet I di concedere il riscatto di Giovanni di Borgogna, «per causa del quale sarebbe stato versato ancora molto sangue cristiano». Non era gran fatto arduo il prevedere l'ulteriore andamento della guerra civile francese. Magn. chron. belgicum, p. 358. Juvénal des Ursins ad a. 1396.

473.  Benedictus, presso Eccard, II, col. 1579. Fra le altre cose, nel 1493 del re Ferrante dicevasi, che egli perderebbe il suo regno sine cruore, sed sola fama, come nel fatto accadde.

474.  Bapt. Mantuan. De patientia, L. III, cap. 12.

475.  Giov. Villani, X, 39, 46. Vi contribuirono anche altre cause, e fra queste l'invidia dei colleghi. — Anche Bonatto aveva insegnato qualche cosa di simile, rappresentando, ad esempio, i miracoli dell'amor divino in S. Francesco come effetti prodotti dall'influsso del pianeta Marte. Cfr. Joh. Picus, Advers. astrol. II, 5.

476.  Sono quelli dipinti dal Miretto al principio del secolo XV; secondo lo Scardeonio essi erano destinati ad indicandum nascentium naturas per gradus et numeros, principio più popolare di quello che noi oggi immaginiamo. Era un'astrologia à la portée de tout le monde.

477.  Dell'Astrologia egli scrive (Orationes, fol. 35, in nuptias): haec efficit ut homines parum a Diis distare videantur. — Un altro entusiasta del medesimo tempo è Joh. Garzeonius, De dignitate urbis Bononiae, (Murat. XXI, col. 1163).

478.  Petrarca, Epp. seniles. III, I, (p. 765), e in altri luoghi citati. La lettera cui si allude, è diretta al Boccaccio, che sembra aver pensato ugualmente.

479.  Franco Sacchetti nella Novella 151 mette in ridicolo le loro dottrine.

480.  Giov. Villani, III, I, X, 39.

481.  Giov. Villani, XI, 2, XII, 4.

482.  Anche l'autore degli Annales Placentini, (Murat. XX, col. 931), quell'Alberto da Ripalta menzionato a pag. 320 del voi. I, si associa a questa polemica. Ma il passo è notevole sotto un altro punto di vista, cioè perchè contiene le opinioni di quel tempo sulle nove comete allor conosciute e chiamate ciascuna con un nome. — Cfr. Giov. Villani, XI, 67.

483.  Paul. Jov. Vita Leonis X, L. III, dove anche in Leone stesso è visibile una credenza almeno nei pronostici.

484.  Jo. Pici Mirand. Adversus astrologos Libri XII.

485.  Secondo Paul. Jov. Elogia literat. sub tit. Jo. Picus, il suo effetto sarebbe stato ut subtilium disciplinarum professores a scribendo deterruisse videatur.

486.  De rebus coelestibus.

487.  In S. Maria del Popolo a Roma. — Gli angeli ricordano la teoria di Dante nel principio del «Convito».

488.  Questo è veramente il caso di Antonio Galateo, che in una lettera a Ferdinando il Cattolico (Mai, Spicil. roman. vol. VIII, p. 226, dell'anno 1510) rinnega apertamente l'astrologia, e in un'altra al Conte di Potenza (ibid. p. 539) dallo studio dei pianeti conclude, che i Turchi attaccherebbero nuovamente Rodi.

489.  Ricordi, l. c. N. 57.

490.  Un numero sterminato di simili superstizioni ascrive il Decembrio all'ultimo dei Visconti (Murat. XX, col. 1016 e segg.).

491.  Varchi, Storie fiorent. L. IV (p. 174). I presentimenti e le profezie ebbero allora la stessa importanza a Firenze, come una volta in Gerusalemme assediata. Cfr. ibid, III, 143, 195, IV, 43, 177.

492.  Matarazzo, Arch. Stor. XVI, II, p. 208.

493.  Prato, Arch. Stor. III. p. 324, all'anno 1514.

494.  Come fece la Madonna dell'Arbore nel duomo di Milano l'anno 1515; cfr. Prato, l. c. p. 327. Il medesimo cronista racconta che nello scavare le fondamenta per costruir la cappella dei Trivulzi (in S. Nazaro) si trovò un dragone della grandezza di un cavallo; si portò la testa nel palazzo dei Triulzi e si gettò via il resto.

495.  Et fuit mirabile quod illico pluvia cessavit. Diarum Parmense presso Murat. XXII, col. 280. Quest'autore partecipa di quell'odio concentrato contro gli usurai, di cui è pieno il popolo. Cfr. col. 371.

496.  Conjurationis Pactianae Commentarius, nelle Appendici al Roscoe, Vita di Lorenzo. — Del resto il Poliziano era almeno avverso all'astrologia.

497.  Poggii facetiae, fol. 174. — Aen. Sylvius: De Europa, c. 53, 54 (Opera, p. 451, 455): egli racconta almeno prodigi veramente accaduti, per esempio, combattimenti di animali, apparizione di nuvole ecc. e li dà realmente come singolarità, quand'anche faccia menzione delle sorti che vi vanno connesse.

498.  Poggii facetiae, fol. 160; cfr. Pausaniae, IX, 20.

499.  Varchi, III, p. 195. Due persone sospette si risolvono di fuggir dallo Stato, perchè consultarono Virgilio (Aen. III, vs. 44). — Cfr. Rabelais, Pantagruel, III, 10.

500.  Certe fantasie di dotti, come, per esempio lo splendor o lo spiritus di Cardano e il daemon familiaris di suo padre, noi le lasciamo in disparte. Cfr. Cardanus, De propria vita, cap. 4, 38, 47. Egli stesso era contrario alla magia, cap. 29. Prodigi e spettri che egli vide, cap. 37, 41. — Quant'oltre andasse la paura degli spettri nell'ultimo dei Visconti, veggasi nel Decembrio presso il Murat. XX, col. 1016.

501.  Parte II, Nov. I.

502.  Bandello, III, Nov. 20. Veramente non era che un amante, il quale voleva spaventare il marito della sua bella e distorlo dall'abitare un palazzo. Egli e i suoi si travestirono da demonii; e fu fatto perfino venire da altro paese un tale, che era capace di contraffare la voce e il grido di tutti gli animali.

503.  Graziani, Arch. Stor. XVI, I, p. 640. ad a. 1467. L'amministratore morì di spavento.

504.  Balth. Castilionii Prosopopeja Lud. Pici.

505.  Gio. Villani, XI, 2. Egli intese la cosa dall'abate de' Vallombrosani, al quale l'aveva narrata l'eremita stesso.

506.  Di ciò che le maliarde potessero nell'antico tempo romano, non rimangono che scarsissimi cenni. Della trasformazione di un uomo in un asino nel secolo XI sotto Leone IX veggasi in Malmesbur, II, § 171 (vol. I, p. 282).

507.  Questo potrebbe essere stato il caso della singolare ossessa, che intorno al 1513 fu consultata a Ferrara ed altrove da alcuni grandi di Lombardia per udirne le profezie; essa si chiamava Rodogina. I particolari in Rabelais Pantagruele, IV, 58.

508.  Jov. Pontan. Antonius.

509.  Graziani, Arch. Stor. XVI, I, p. 565, ad a. 1445, parlando di una strega di Nocera, che offerse soltanto la metà e fu arsa. La legge colpisce quelle che facciono le fature ovvero venefitie ovvero encantatione d'immundi spiriti a nuocere.

510.  Lib. I, op. 46, Opera, p. 531 e segg. Invece di umbra a pag. 532 deve leggersi Umbria, e invece di lacum leggasi locum.

511.  Più tardi lo dice Medicus ducis Saxoniae, homo tum dives, tum potens.

512.  Una specie di baratro infernale si conosceva nel secolo XVI non lungi da Ansedonia in Toscana. Era una caverna, dove nell'arena scorgevansi tracce d'animali e d'uomini, che, anche cancellate, tornavano a riapparire il giorno seguente. Uberti, il Dittamondo, L. III, cap. 9.

513.  Pii II Comment. L. I, p. 10.

514.  Benv. Cellini, L. I, cap. 65.

515.  L'Italia liberata dai Goti, Canto XXIV. Si può chiedere, se il Trissino stesso creda alla possibilità delle sue descrizioni ovvero se si tratti soltanto di un elemento di poesia romanzesca. Il medesimo dubbio è permesso di fronte al suo probabile modello, Lucano (Canto VI), dove la maga tessala scongiura un morto per compiacere a Sesto Pompeo.

516.  Septimo Decretal. Lib. V, tit. XII. Essa comincia: Summis desiderantibus affectibus, ecc. Incidentalmente io mi credo permesso di osservare, che qui, studiando più a fondo l'argomento, scompare affatto ogni idea di uno stato di cose originariamente obbiettivo, di un avanzo di credenze pagane, e così via. Chi vuol persuadersi, come la fantasia dei monaci mendicanti sia l'unica sorgente di tutti questi delirii, tenga dietro, nelle Memorie di Jacopo du Clerc, al così detto processo contro i Valdesi tenuto in Arras nell'anno 1459. Soltanto dopo uno studio secolare di essi anche la fantasia popolare si persuase delle arti, colle quali in simili cose si era usati di procedere e che in allora nuovamente si riprodussero.

517.  Di Alessandro VI, di Leon V, di Adriano VI, l. c.

518.  Proverbialmente nominata come il paese delle streghe: per esempio, nell'Orlandino, cap. I, str. 12.

519.  Per esempio il Bandello, III, Nov. 29, 52. Prato, Arch. Stor. III, p. 408. — Bursellis, Annal. Bonon. ap. Murat. XXIII, col. 897, parla già ancora all'anno 1468 della condanna di un priore dell'ordine dei Serviti, che teneva un vero bordello di spiriti: cives Bononienses cum Daemonibus coire faciebat in specie puellarum. Egli faceva dei veri sacrifici ai demonii. — Un riscontro a ciò in Procop. Histor. arcana, c. 12, dove un lupanare vero è frequentato da un demonio, che getta gli altri frequentatori sulla pubblica via.

520.  Sugli schifosi ingredienti di cui si compone la cucina delle streghe, veggasi la Macaroneide, Phaut. XVI, XXI, dove si espongono distesamente tutte le loro ribalderie.

521.  Nel Ragionamento del Zoppino. Egli crede che le cortigiane apprendessero le loro arti da certe femmine ebree, che possedevano certe malìe.

522.  Varchi, Stor. fiorent. II, p. 152.

523.  Questa riserva fu poscia espressamente accentuata. Corn. Agrippa, De occulta philosophia, cap. 39.

524.  Septimo Decretal. l. c.

525.  Zodiacus, Vitae, XII. 363, 529. Cfr. X, 393 o segg.

526.  Ibid. IX, 201 e segg.

527.  Ibid. X, 770 e segg.

528.  Il tipo mitico degli stregoni nei poeti di allora è, come tutti sanno, Malagigi. Dipingendo questa figura il Pulci si esprime anche teoricamente sui limiti della potenza dei demonii e degli scongiuri (Morgante. Canto XVIV, str. 106 e segg.). Peccato che non si possa sapere quanto sul serio egli prendesse la cosa. (Cfr. Canto XXI).

529.  Polidoro Virgilio era bensì italiano di nascita, ma la sua opera De prodigiis non fa che constatare sostanzialmente le superstizioni d'Inghilterra, dov'egli passò la sua vita. Parlando però della prescienza dei demonii, egli fa una singolare applicazione delle sue teorie al Sacco di Roma del 1527.

530.  Tuttavia l'assassinio per lo meno è ben di rado lo scopo e forse mai il mezzo. Un dissoluto, quale era Gilles de Retz (intorno al 1440), il quale sacrificò ai demonii più di cento fanciulli, non trova in Italia neanche un lontano riscontro.

531.  Cfr. l'importante scritto di Roth Virgilio Mago nella «Germania» di Pfeiffer, IV. — Il sorgere di Virgilio nel posto dell'antico teleste può probabilmente spiegarsi dai frequenti pellegrinaggi alla sua tomba, che ancora al tempo imperiale devono aver colpito la fantasia popolare. — Sul telesma di Parigi, v. Gregorio Turon. VIII, 33.

532.  Uberti, Dittamondo, L. III, c. 14.

533.  Ciò che segue veggasi in Giovanni Villani, I, 42, 60, II, 1, III, 1, V, 38, XI, 1. Egli stesso non crede a simili empietà. — Cfr. Dante, Inferno, XIII, 146.

534.  Giusta un frammento riportato dal Baluz. Miscell. IX, 119, una volta nei tempi antichi gli abitanti di Perugia ebbero guerra con quelli di Ravenna, et militem marmoreum, qui juxta Ravennam se continue volvebat ad solem, usurpaverunt et ad eorum civitatem virtuosissime transtulerunt. Probabilmente una figura simbolica anche questa del destino.

535.  La credenza locale su questo fatto riscontrasi registrata negli Annal. foroliv. presso Murat. XXII, col. 207, 288; e con molte amplificazioni la cosa stessa è narrata da Filippo Villani, Vite, p. 43.

536.  Platina, Vitae Pontiff, p. 320: veteres potius hac in re quam Petrum, Anacletum et Linum imitatus.

537.  E che si sente, per esempio nel Suggero De consecratione ecclesiae (Duchesne, Scriptores, IV, p. 355) e nel Chron. Petershusanum, I, 13 e 16.

538.  Cfr. anche la Calandra del Bibbiena.

539.  Bandello, III, Nov. 52.

540.  Ibid. III, Nov. 29. Il negromante si fa promettere con solenni giuramenti il segreto, in questo caso con promessa giurata sull'altare di S. Petronio in Bologna, quando la chiesa era al tutto deserta. — Una buona raccolta di scongiuri magici trovasi nella Macaroneide, Phantas. XVIII.

541.  Benv. Cellini, I. c. 64.

542.  Vasari, III, 143, Vita di Andrea da Fiesole. Era Silvio Cosini, il quale del resto «era persona, che prestava fede agli incanti e simili sciocchezze».

543.  Uberti, il Dittamondo, III, cap. I. Egli visita anche nella Marca d'Ancona Scariotto, pretesa patria di Giuda e soggiunge: «A questo punto io non posso neanche pretermettere il Monte di Pilato, col suo lago, dove per tutta l'estate si tiene una guardia continua e regolare; perocchè chi s'intende di magia, sale colassù con misterioso volo per consacrarvi il suo libro, dietro di che si alza un gran turbine, come dicono le genti del luogo». Il consacrare i libri è, come notammo a pag. 344, una ceremonia speciale diversa affatto dallo scongiuro propriamente detto. — Nel secolo XIV l'ascendere al Monte di Pilato (Pilatusberg) presso Lucerna era cosa proibita «sotto pena della vita e della confiscazione dei beni», come ce ne assicura il lucernese Diebold Schilling (pag. 67). Si credeva che nel lago, che è sul dosso del monte, vi fosse uno spettro, che doveva essere «lo spirito di Pilato». Quando lassù giungeva qualcuno e gettava qualche cosa nel lago, immediatamente sollevavansi turbini spaventosi.

544.  De obsidione Tiphernatium 1474. (Rerum Italic. scriptores ex florent. codicibus, Tom. II).

545.  Di questa specie particolare di superstizione molto diffusa (intorno al 1520) fra i soldati si ride Limerno Pitocco nell'Orlandino, cap. V, str. 60.

546.  Paul. Jov. Elegia liter. sub voce Cocles.

547.  In Giovio qui parla in modo speciale l'arguto pittore di ritratti.

548.  E precisamente consultando le stelle, perchè Gaurico non conosceva la fisiognomia; ma pel suo proprio destino egli era rinviato alla profezia di Cocle, perchè suo padre aveva trascurato di registrare il suo oroscopo.

549.  Paul. Jov. l. c. sub voce Tibertus.

550.  Le notizie più necessarie intorno a queste specie accessorie della magia possono vedersi in Corn. Agrippa, De occulta philosophia, cap. 57, 52.

551.  Libri, Hist. des sciences mathémat. II, p. 122.

552.  Novi nihil narro, mos est publicus (Remed. utriusque fortunae, pag. 93); una delle parti di questo libro scritte con più vivacità e ab irato.

553.  Il passo principale presso Trithem. Annal. Hirsaug. II, pag. 286 e seg.

554.  Neque enim desunt, dice Paul. Jov. Elogia liter. sub voce Pompon. Gauricus. Cfr. ibid. sub voce Aurel. Augurellus. — Macaroneide, Chant. XII.

555.  Ariosto, Sonetto 34.... non creder sopra il tetto. Il poeta riferisce ciò con fina malizia ad un magistrato, che in una questione di dare ed avere aveva deciso a danno di lui.

556.  Narrazione del caso del Boscoli, Arch. Stor. I, p. 273 e segg. — L'espressione solita era: non aver fede. Cfr. il Vasari, VII, p. 122, Vita di Piero di Cosimo.

557.  Jov. Pontan. Charon.

558.  Faustini Terdocei Triumphus Stultitiae, L. II.

559.  Così il Borbone Morosino intorno al 1460, cfr. Sansovino, Venezia, L. XIII, p. 243.

560.  Vespas. Fiorentino, pag. 260.

561.  Orationes Philelphi, fol. 8.

562.  Septimo Decretal. L. V, tit. III, cap. 8.

563.  Ariosto, Orl. furioso, canto VII, str. 61. — Messa in ridicolo: Orlandino, cap. IV, str. 67, 68. (Cfr. pag. 71). — Cariteo, membro dell'accademia napoletana del Pontano, si vale della preesistenza delle anime per glorificare la missione della casa d'Aragona. Roscoe. Leone X, ed. Bossi, II, p. 288.

564.  Orelli, ad Cicer. de Republ. L. VI. — Cfr. anche Lucan. Pharsal, IX, sul principio.

565.  Petrarca, Epp. famil. IV, 3 (p. 629), IV, 6 (p. 632).

566.  Fil. Villani, Vite, p. 15. Questo notevole passo, dove le opere meritorie sono retribuite in senso pagano, suona così: che agli uomini fortissimi, poichè hanno vinto le mostruose fatiche della terra, debitamente sieno date le stelle.

567.  Inferno. IV, 24 e segg. — Cfr. Purgatorio, VII, 28, XXII, 109.

568.  Questo cielo pagano trovasi espressamente anche nell'epitaffio dello scultore Nicolò dell'Arca:

Nunc te Praxiteles, Phidias, Polictetus adorant

Miranturque tuàs, o Nicolae, manus.

(Presso il Bursellis. Annal. Bonon. Murat. XXII, col. 912).

569.  Nel suo Actius, scritto più tardi.

570.  Cardanus, De propria vita, cap. 13; non poenitere ullius rei quam voluntarie effecerim, etiam quae male cessisset: senza di ciò io sarei stato l'uomo più infelice del mondo.

571.  Discorsi, L. II, cap. 2.

572.  Del governo della famiglia, p. 114.

573.  Come saggio, ecco la breve Ode di M. Antonio Flaminio, che fa parte de' suoi Coryciana (v. vol. I, pag. 360, nota):

«Dii. quibus tam Coryciùs venusta

Signa, tam dives posuit sacellum,

Ulla si vestros animos piorum

Gratia tangit,

Vos jocos risusque senis faceti

Sospites servate diu; senectam

Vos date et semper viridem et Falerno

Usque madentem.

At simul longo satiatus aevo

Liquerit terras, dapibus Deorum

Laetus intersit, potiore mutans

Nectare Bachum».

574.  Firenzuola. Opere, vol. IV, p. 147 e segg.

575.  Nic. Valori; Vita di Lorenzo, passim. — La bella istruzione a suo figlio, il cardinale Giovanni, presso Fabroni, Laurent. Adnot. 178 e nelle Appendici di Roscoe, Vita di Lorenzo.

576.  Joh. Pici Vita, auct. Joh. Franc. Pico. — La sua Deprecatio ad Deum, nella Deliciae poetar. italor.

577.  Sono i canti intitolati: l'Orazione (Magno Dio, per la cui costante legge ecc. presso Roscoe, Leone X, ed. Bossi, VIII, p. 120), l'Inno (Oda il sacro inno tutta la natura ecc. presso Fabroni, Laurent. Adnot. 9). L'Altercazione (Poesie di Lorenzo il Magnifico, I, p. 265); nell'ultima Raccolta sono stampate anche le altre poesie qui nominate.

578.  Se si potesse credere che il Pulci in qualsiasi punto del suo Morgante tratti sul serio le cose religiose, ciò dovrebbe valere specialmente rispetto al canto XVI, str. 6: il discorso in senso deistico della bella Antea, che è pagana, è forse l'espressione la più spiccata del modo di pensare, che prevaleva fra gli amici di Lorenzo: i discorsi poi del demonio Astarotte altrove citati (v. pag. 301 e 306 nota) ne formano come il complemento.

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.

Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.