The Project Gutenberg eBook of Ritratti letterari

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Title: Ritratti letterari

Author: Edmondo De Amicis

Release date: August 6, 2019 [eBook #60069]

Language: Italian

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RITRATTI LETTERARI.


EDMONDO DE AMICIS

Ritratti Letterari

Seconda edizione.

MILANO
FRATELLI TREVES, EDITORI
1881.


Tip. Treves.

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INDICE


[1]

ALFONSO DAUDET

Il Daudet è lo scrittore francese più popolare in Italia dopo lo Zola. Molti, anzi, li mettono alla pari, e le nature miti antepongono all'autore dell'Assommoir l'autore del Nabab, naturalista meno spietato. La differenza che passa fra loro è più nell'indole che nell'arte. Nell'arte impiegano tutti e due quella stessa «formola scientifica» che va predicando lo Zola; procedono quasi egualmente nell'analisi degli avvenimenti e dei personaggi; tengono lo stesso andamento, e quasi la stessa maniera di ripartizione nella descrizione, che è grandissima parte, e si potrebbe [2] dire il fondo, dei romanzi di tutti e due; ed hanno somigliantissima la condotta del dialogo, benchè in quello del Daudet ci sia di più «l'accento e il gusto» della commedia. Alle volte, anzi, leggendo il Daudet, si ha per parecchie pagine un'illusione: si scorda lui e par di leggere l'altro, tanto il colore delle immagini, l'efficacia dei particolari più minuti, e il giro dei periodi, monchi dei verbi, e ingegnosamente cadenzati, son simili a quelli dello Zola. Ma in capo a poche pagine, vien fuori una pennellata, una nota musicale, un sorriso, che fa dire: no, è il Daudet. Lo stile dello Zola, come dice egli stesso, è più geometrico; quello del Daudet più snello e più di vena, ed anche più impennacchiato, che è pure il difetto che lo Zola trova nel proprio. Ci sono pagine del Nabab e dei Rois en exil che danno l'immagine di mazzi di fiori, o di fasci di zampilli percossi dal sole, o di quelle stoffe orientali rabescate d'oro così fittamente, che quasi non vi appare più il colore del tessuto; grandi periodi ondulati e sonori, [3] qualche volta precipitosi, che travolgono il lettore, e sembrano sgorgati dalla bocca d'un oratore nel momento più ardente dell'improvvisazione; quantunque il Daudet non fatichi e non si tormenti meno dello Zola per dar forma al proprio pensiero. La descrizione dello Zola va più addentro alle cose; quella del Daudet è più vivace e meno diffusa, e senza dubbio meno grave al comune dei lettori. Lo Zola si compiace di provocare e di ferire in chi legge quella delicatezza di senso che a lui sembra prodotta da un concetto della convenienza artistica, falso e dannoso all'arte; il Daudet è meno brutale, usa dei riguardi, non credo per proposito, ma per effetto della natura propria ripugnante dagli eccessi. A ciò forse allude lo Zola quando dice, non senza malizia, a mio credere, che il Daudet ha più di lui quello che ci vuole per piacere alla maggioranza dei lettori. Lo Zola è più padrone di sè; il Daudet, di natura più meridionale, riesce meno a domarsi; fa capolino dietro ai suoi personaggi, [4] interviene a giudicare, si lascia sfuggire delle approvazioni gioiose e degli sfoghi d'indignazione; non è sempre così impassibile e velato come quell'altro. In questo si ammira di più lo sforzo d'una mente poderosa e paziente; nel Daudet la spontaneità d'una natura ricca e geniale. Il Daudet è più amabile, lo Zola più potente; e lo prova il fatto che quello ritrae in qualche cosa da questo, e in specie negli ultimi lavori, ne porta qua e là, benchè vaga, l'impronta; mentre lo Zola, se pensa spesso, scrivendo, al suo rivale (com'io credo), non ne dà segno. Il naturalismo del Daudet è meno nero di quello dello Zola, perchè ha il colore della natura simpatica dell'artista: perciò il Daudet è più caro agli ottimisti e ai benevoli. Per quanto siano corrotti e scellerati la maggior parte dei personaggi, e tristi gli avvenimenti, pure il sentimento generale e durevole che ci lasciano i suoi romanzi, non è mai proprio sconsolante: a traverso al loro ordito di color fosco, si vede sempre un po' di barlume d'azzurro. È perchè nei romanzi [5] del Daudet tengono una più grande parte quei «personaggi simpatici» che lo Zola appunto rimprovera agli autori drammatici, e che rimprovererebbe al Daudet medesimo, se la sua condizione di romanziere rivale, e perciò sospetto di gelosia, non gl'imponesse dei riguardi; è perchè il Daudet fa nei suoi romanzi una contrapposizione di buoni e di cattivi genii più soddisfacente, e per le proporzioni e per la forza, all'istinto generoso che ci porta a credere al bene; perchè, infine, egli fa un più largo campo, nei suoi libri, a quanto c'è di buono e di nobile nell'anima umana. Il Daudet vede il mondo meno scuro; dev'essere stato più felice che lo Zola nella sua vita, o avere una di quelle nature, sulle quali il dolore ha meno presa. Non vela il male; ma un poco, sia pure leggerissimamente, abbellisce il bene. È più affettuoso dello Zola: ha novelle e commedie riboccanti di affetto tenerissimo da un capo all'altro; e credo appunto che sia l'esempio potente dello Zola quello che gli fece mettere un [6] po' più di nero sul roseo nei suoi ultimi scritti. Ed ha anche un'arte, se si può dire, più giovanile che lo Zola: gioca più di sorpresa, è più teatrale, più capriccioso nel rompere e nel riannodare le fila del romanzo, procede più a sbalzi, si abbandona più liberamente ai grilli della fantasia, e volteggia, e canta, e celia anche più sovente, e di miglior umore che lo Zola; fino a convertire, come fa qualche volta, i ritratti e le scene comiche in caricature. Lo Zola ha più di lui un qualche cosa di grave, di largamente basato e di macchinoso, che è nel Balzac. Bacone, applicando la sua sentenza sulle differenze dei libri, direbbe che i romanzi dello Zola si masticano e quelli del Daudet si inghiottiscono. Lo Zola è un formidabile artista, senza dubbio; ma bisogna riconoscere che ha un meraviglioso tocco di pennello anche questo fiammeggiante provenzale del Daudet. Lo Zola ha sviscerato più profondamente la natura e i costumi del popolo. Ma quel turbinìo vertiginoso e sonoro della vita elegante di Parigi, quella [7] corsa sfrenata di donnette, di giovani scapigliati, di vecchi libertini, di scrocconi, di principi banditi e di ciarlatani, dall'alcova alla cena, al teatro, all'ippodromo, alla borsa, alla rovina, tra le bricconate e le buffonate e il lusso impudente e la stupida spensieratezza e le baraonde matte, nessuno l'ha descritto con un linguaggio più rapido, più variopinto, più trillante, più indiavolato, più proprio alla terribile leggerezza dell'argomento, che il Daudet. Egli non saprebbe forse descrivere il train train della vita di tutti i giorni con la potenza dello Zola, che è più rigorosamente metodico, e sente più fortemente il particolare minuto; ma per contro ha certe cose sue proprie, in cui è maestro: narrazioni rapide d'avvenimenti drammatici, che schizzano fuoco, descrizioni abbarbaglianti e tumultuose, e scene comiche che strappano le risa dalle viscere, e certi abbandoni e divagamenti poetici che paion sogni, d'una grazia e d'un sentimento che innamora. E che belle opposizioni di caratteri iniqui, onesti, bizzarri e [8] ameni; che stupenda screziatura di tinte fosche e di tinte rosate e di scintillamenti argentini nei suoi romanzi! Non si scordano più il Duca di Mora e Nabab, Séphora la bottegaia e Federica la regina, quel fanatico e generoso legittimista del Maubert e quell'abbominevole fantoccio di Cristiano II, e Sidonia, la perla falsa, e Clara, la perla vera, e l'illustre signor Dolabelle, tipo dei commedianti spiantati e presuntuosi, e Tom Lévis, tipo dei ruffiani principeschi, e quel nobilissimo e strano carattere dell'abate Germane, e quella povera e adorabile madre di Jansoulet. Certo il Daudet è un verista; ma quanti sdruci non fa nella teoria dello Zola! Anche lui, come dice il Goncourt, sente spesso il bisogno di sfuggire al reale, o piuttosto vi sfugge senz'avvedersene, forzato dalla sua natura poetica e affettuosa, e fa delle culbutes dans le bleu, e che culbutes! Fa quell'angelo purissimo di Désirèe, che sembra sbocciata dalla fantasia del Lamartine, e la famiglia di Joyeuse, che par tagliata netta da un [9] romanzo di Carlo Dickens, e la virtù tutta di un pezzo della regina d'Illiria, e il fratello Jacques, d'una bontà più che umana; creature che non possono quasi comprendersi nemmeno in quella realtà poetica fino alla quale spinge le sue concessioni lo Zola. Ma che importa? Quel che ci perde in rigore il verismo, lo guadagna lui in simpatia. In tutti i suoi romanzi, ed anche nei più brevi suoi racconti, si sente ad ogni pagina il profumo d'un'anima nobile e gentile, che serba la sua bella serenità anche nella pittura dei più orrendi vizi, che sente la bellezza fin nelle più intime fibre, che vibra potentemente per ogni idea grande e per ogni grande affetto; aperta e limpida, piena di pietà per tutti i dolori, dominata da un sentimento netto e profondo del bene e del male, dotata d'un senso comico originale e simpatico che non si esprime nella risata plebea, ma in un sorriso fine e grazioso, e canzona amabilmente, senza schernire, in modo che ogni anima più delicata può sempre farvi eco, sicuro che non riderà mai [10] di nulla di triste e di rispettabile. E il Daudet è giovane; forse salirà ancora per molti anni. C'è un pericolo non di meno: che per mantenersi il favore grande che s'è acquistato, egli sforzi il suo ingegno e lo pieghi alla curiosità e al gusto falso del pubblico, sia proseguendo la serie dei così detti romanzi â allusions, come i suoi ultimi due, che è la via più sicura per riuscire a grandi successi librarii a scapito dell'arte; sia spingendo anche più oltre quell'efflorescenza già soverchia di stile, che si nota principalmente nei Rois en exil, e che i critici di gusto lamentano, ricordando la bella semplicità efficace dei suoi scritti anteriori. È da sperarsi che sì arresti su questa china. Frattanto egli appartiene a quella famiglia di scrittori, a cui è difficile assegnare un grado nella gerarchia degli ingegni, perchè la simpatia che ispirano confonde gli argomenti del giudizio letterario. Ci sono ingegni grandi che preferiamo ai grandissimi, come edifizi gentili a enormi palazzi di granito. Perchè voler mettere ad ogni costo, anche su di loro, il [11] numero d'ordine? Il meglio è lasciarli in disparte, dove si trovano; e questa necessità in cui ci mettono di ammirarli in una specie di solitudine, è forse il loro più bel titolo di gloria. Il Daudet è uno scrittore nato, di quelli, come dice il Foscolo, che hanno l'arte nei muscoli e nel midollo delle ossa, e la cui potenza risiede in qualche cosa di intimo che sfugge all'analisi. Fare i pedanti sull'arte sua, ripugnerebbe, come il criticare la forma di un fiore o le sfumature d'un'aurora. E in questa manìa universale di «uccider l'arte per vedere com'è fatta» è grato l'incontrare uno scrittore come il Daudet, che abbarbaglia e trascina, e fa piangere e ridere, e ci si pianta nel cuore, senza lasciarci tempo e modo di tormentar lui e noi coi ferri della critica, che tagliano anche dal manico. Noi pigliamo il Daudet com'è, con le sue deficienze e coi suoi difetti, ad occhi chiusi, facendogli festa amorosamente, come a un fratello glorioso. Un critico francese disse tempo fa che bisogna contentarsi del Daudet perchè non abbiamo dei genii. — E [12] noi ce ne contentiamo — infinitamente.

***

Il Daudet, come la più parte degli scrittori celebri di Parigi, vive molto a sè: non va tra la gente che per studiare, perchè è uno di quegli artisti che si reggono più sopra l'osservazione che sopra l'immaginazione; ed è difficile arrivare a lui, non perchè faccia l'inaccessibile, ma perchè tra il teatro e il Moniteur e i romanzi e gli amici e le mosche, ha quasi sempre la giornata presa. È come pigliare un biglietto per il Nouvel-Opéra, nelle grandi occasioni: bisogna pensarci una settimana prima. Sta al quarto piano, malgrado le ottanta edizioni del Nabab, in un quartierino che guarda sui giardini del Lussemburgo, famosi per [13] convegni d'amanti; piccolo, ma pieno di luce e allegro, un vero nido di rondini, da cui si sentono appena i rumori della strada, che son rari. Non si può immaginare una casa di scrittore che corrisponda meglio alla natura dell'ingegno e dell'animo, ed anche alla persona del padrone. C'è tutta la varietà e la grazia d'ornamenti e di colori del suo stile, e la morbidezza della sua indole. Son due stanzine raccolte, quelle che io vidi, piene di fiori, di piccoli bronzi, d'oggettini giapponesi e d'acquerelli, che sul primo momento confondon la vista, come certe sue pagine fosforescenti: i divani e i seggioloni coperti di antiche stoffe a ricami argentati, i libri luccicanti di dorature: tutto nitido, piccolo e grazioso. L'amico che m'accompagnava mi disse nell'orecchio, accennando intorno: — Ci si vede la mano della donna. — E infatti non solamente l'aspetto della casa, ma qualcosa d'indefinibile che è nella persona e nei modi del Daudet fa indovinare la donna non solo, ma l'amore. Sono gradevolissimi quei [14] pochi momenti che si passano nella casa d'uno scrittore ammirato e simpatico, aspettando la sua apparizione. Ogni più piccolo oggetto par che contenga la rivelazione d'un segreto del suo ingegno e del suo cuore, e si vorrebbe scoprire un legame tra il capriccio che gli fece scegliere i ninnoli del salotto e il gusto che lo guida nella scelta dell'immagine e della frase potente. Si vorrebbe frugare per tutto e fiutare ogni cosa. Il visitatore piglia l'aspetto d'un ladro domestico che cerchi intorno su che cosa ha da fare il suo colpo. Mentre appunto stavo facendo il ladro, si sentì nell'altra stanza una voce sonora e dolce, si spalancò una porta con impeto, e comparve Alfonso Daudet.

[15]

***

Non credo che la più appassionata delle lettrici del Nabab si sia mai rappresentata, pensando al Daudet, una figura più bella e più simpatica della sua figura reale. Di statura media, di proporzioni giuste, sottile per i suoi trentott'anni, ha una testa che potrebbe servire di modello per un Cristo a un pittore idealista: una grande capigliatura nera ondulata che gli fa ombra alla fronte; gli occhi neri, d'una lucentezza e d'una fissità strana, che guardano con una espressione dolcissima; il viso, perfettamente ovale, d'un color bruno pallido; la bocca piccola e benevola, la barba alla nazarena, e un naso aquilino della più bella arcatura che possa immaginare un pittore. Non [16] posso assicurare che sia il più bel naso della Francia, come m'ha detto uno dei suoi ammiratori entusiastici; ma veramente, non mi ricordo d'aver mai visto un profilo di volto più puro e più nobile di quello del Daudet. Ha delle mani di donna, un sorriso giovanile che gli rischiara tutto il viso, e una voce armoniosa, pastosa, agile, abbellita da un tremito leggerissimo, che par che venga dal profondo del cuore, e dà un'efficacia indicibile alle sue parole, quando egli s'esalta nell'espressione d'un bel sentimento. Oltre a questo, un modo di muoversi e di discorrere, pieno di vivacità e di naturalezza, da buon giovanotto; un fare da pittore allegro e cordiale, sorpreso in giacchetta in mezzo al disordine dello studio; e una certa trascuratezza artistica nel suo vestimento nero, che s'addice benissimo alla graziosa mobilità della sua figura signorile. A chi non la conoscesse, parrebbe piuttosto un italiano o un castigliano, che un francese. La sua stessa pronunzia non è così serrata e arrotata come quella dei parigini, [17] quantunque tradisca appena il provenzale; e la sua voce ha un metallo particolare, un colore musicale, come dicono là, rarissimo a trovarsi a Parigi. Ora chi ha davanti agli occhi la figura nobilissima del Daudet, immagini la strana impressione che mi fece, appena fummo seduti intorno al caminetto del suo studio, vedergli tirar fuori dal taschino della sottoveste e mettersi in bocca, con un atto voluttuoso di vecchio fumatore, una miserabile pipetta di terra, uno scandaloso brûle-gueule da muratore, lungo un dito; e dar segno di viva soddisfazione quando gli si disse che era admirablement culottée.

Era una pipa che gli aveva lasciata per memoria il povero Flaubert, gran fumatore, il quale si faceva fare delle pipe apposta a Rouen. Il Daudet (me ne dispiace) fuma come un ottomano, e quello che è peggio, è profondamente persuaso che il fumare non gli faccia danno; dice anzi che più fuma e più lavora, tanto che la sera misura il lavoro fatto dalla diminuzione del tabacco nella scatola. [18] Secondo lui, ci sono dei temperamenti sui quali il tabacco è affatto innocuo. I suoi confratelli credono il contrario: Vittor Hugo, il Dumas, lo Zola non fumano; l'Augier ha smesso dopo un avvertimento terribile; il Girardin, anni sono, bandì la guerra al tabacco, come Urbano VIII; e credono i più che derivasse dall'abuso della pipa la penosa lentezza con cui lavorava il Flaubert negli ultimi anni.

Il Daudet, però, è grande lavoratore, a dispetto della nicotina. Parlò a lungo della sua maniera di lavorare. Raccontò come fece a scrivere il Nabab. Pazzie! Otto mesi di lavoro furioso, diciotto ore al giorno a tavolino, tolti pochi minuti per mangiare; intere settimane senza metter piede fuor dell'uscio; una sola enorme fiatata dalla prima all'ultima pagina. Capiva bene che ci si finiva; ma non era più padrone di sè; il diavolo lo portava via; avrebbe tirato avanti egualmente, anche con la certezza di rimetterci la vita. Fu come un sogno febbrile di otto mesi. Nelle poche ore di [19] sonno, sentiva urlare nella stanza i suoi personaggi, e un rumore continuo e precipitoso, come se gli sfogliassero furiosamente negli orecchi un vocabolario colossale, con le pagine di metallo. Alle quattro della mattina balzava in piedi come spinto su da una molla, balbettando delle frasi sconnesse del suo romanzo, come un delirante. La stanza era già ordinata fin dalla sera, e i panni preparati in modo da potersi vestire in un attimo, e saltar quasi dal letto al tavolino, senza passare per tutti quei petits détails de toilette, che sono un tormento per chi ha nel capo la furia d'un'idea, e danno tempo alla pigrizia di pigliar signorìa sulla volontà. La mattina però aveva la mente velata, non faceva che un lavoro d'ordine: copiare, correggere, preparare. Il grande lavoro veniva dopo, e la vera ispirazione, le pagine facili e ardenti, le ondate luminose della fantasia, la sera, verso le nove, dopo il desinare; e così andava innanzi per buona parte della notte. Ma non distingueva più il dì dalla notte; a un tratto si accorgeva [20] di lavorare da molte ore al lume della candela; improvvisamente, dopo molte ore di assorbimento, yedeva il sole. E così di settimana in settimana, e di mese in mese; dopo giornate intere di tortura, venivan giornate piene di gioie e di trionfi, e poi daccapo umiliazioni e rabbie mortali, e poi nuovi impeti felici d'ispirazioni e di lavoro. E quando scrisse la parola fine rimase sbalordito e quasi spaventato dello sforzo insensato che aveva fatto. E come ne pagò il fio, in seguito! Immediatamente, per rifarsi, si mise a tirar di scherma in casa sua, dalla mattina alla sera, per ore e ore filate, come un matto, fino a cader senza fiato sul pavimento. Ma era tardi; aveva esaurite le forze. — Non di meno — disse — avevo i Rois en exil nella testa; n'ero appassionato; mi rimisi a scrivere. Ah le terribili giornate! Ardevo d'impazienza e d'entusiasmo, e il corpo si rifiutava al lavoro. La mia povera testa cadeva, gli occhi si chiudevano, mi addormentavo sui fogli, mi svegliavo smemorato e spaventato, non raccapezzando [21] dove fossi e quanto avessi dormito; non reggevo più alla menoma fatica; e il mio nuovo romanzo, come sempre accade dell'ultimo, mi pareva così bello! L'idea di non poterlo finire mi uccideva; mi ci rimettevo con sforzi disperati.... inutilmente, e piangevo di dolore e di rabbia! — Poi venne l'inazione forzata, vennero le lunghe ore d'immobilità assoluta e di silenzio; ore desolate e interminabili, in cui il suo bel mondo di fantasmi gli appariva di lontano, come la visione di un paradiso perduto, e la sua cara vita d'artista gli pareva finita per sempre. — «Una notte finalmente....»

Qui si voltò con molta grazia, e disse vivamente, con la sua voce piena di dolcezza: — «Vous me pardonnerez, monsieur. Ce sont des détails de notre métier, n'est-ce pas? Fra noi altri non sono cose indifferenti.»

Una notte, all'improvviso, si sentì soffocare, credette di morire, chiamò sua moglie, fece appena in tempo a dirle: — Finis mon bouquin! [22] (finisci il mio libro), ed ebbe uno spaventevole sbocco di sangue, che lo lasciò come morto.

Poi, lentamente, si ripigliò: ma ora sta in riguardo, e non lavora più così furiosamente come nel primo caldo della gioventù.

Finis mon bouquin! — Che c'è di più commovente di questo artista che sul punto di morire, pensa più al suo bel sogno di poeta, che alla propria vita, e dice a sua moglie: — finiscilo tu? — Ma femme — soggiunse poi — connaît l'art autant que moi; avrebbe finito il mio bouquin benissimo; non avrei potuto affidarlo meglio che alle sue mani. — La signora Daudet, infatti, è scrittrice arguta e finissima, e si dice che abbia molta parte nei lavori di suo marito. Si asserisce persino che il manoscritto d'uno dei più applauditi romanzi di Alfonso portasse la firma del marito e della moglie, e che sia stata lei quella che voltò il Daudet alla sua seconda maniera, che lo spinse, cioè, verso il naturalismo dei Goncourt, ingentilito. Tutta la famiglia Daudet è di [23] sangue artistico. Il fratello è romanziere, e il cognato, che fa il giornalista, imita mirabilmente, si dice, lo stile dell'autore di Fromont jeune et Risler aîné.

Venne poi a parlare del teatro, e delle noie che gli danno le prove d'una commedia ricavata dal suo romanzo Jack; e si capì da quel che disse che è di natura dolce, sì, ma vigorosa e imperiosa quando si tratta di far prevalere le sue intenzioni d'artista ai capricci degli attori cocciuti. Dal suo Jack, poi, fece cadere il discorso sull'Arlésienne, un grazioso idillio drammatico che fu rappresentato al Vaudeville, anni sono, con poca fortuna. E qui mostrò adorabilmente la sua bella natura calda e appassionata d'artista. Egli ci tiene a quella disgraziata Arlésienne. Il dramma avrà dei difetti, ma il pubblico ha avuto dei torti. La sua prima sfortuna è stata quella di presentare quell'idillio al pubblico del Vaudeville. Il teatro era pieno delle cocottes e dei viveurs, che, appunto all'ora della rappresentazione, escono dai caffè e [24] dalle trattorie vicine, coi fumi del vino alla testa, eccitati dai discorsi che tutti immaginano, in una disposizione di animo e di corpo, quale si può pensare, per comprendere la poesia d'un amore nobile e profondo, che finisce nella morte. Risero. Risero specialmente dell'episodio di Balthazar e di madame Nigaud. — È una cosa semplicissima — disse Daudet, e lo raccontò con quella sua voce profonda e tremola, in un modo da cavar le lacrime. È un contadino di vent'anni, Balthazar, buono, di animo onesto e nobile, che s'innamora della sua padrona, e l'ama segretamente e umilmente, tremando che il suo segreto sia scoperto; sottomesso e devoto come uno schiavo, risoluto a morire d'angoscia piuttosto che mancare al suo dovere. E non dice una parola, e neppur la signora a lui, benchè gli legga nell'anima. Solamente, qualche volta, quando egli è solo nei campi, essa gli va a sedere vicino, e lo guarda. Un giorno, bruscamente, gli va incontro e gli dice: — Balthazar, t'amo; vattene! — E lui se [25] ne va. Se ne va lontano, con altri padroni; gli anni passano, non rivede più madame Nigaud, invecchia col suo amore sepolto nel più profondo dell'anima, sempre buono, e un po' triste; ma confortato dalla coscienza d'aver fatto il proprio dovere. Ebbene, dopo cinquant'anni, la signora Nigaud capita dalle sue parti, e si incontrano faccia a faccia, in presenza di molta gente. Rimangono senza parola.... e poi si parlano. — Ne abbiamo avuto del coraggio, non è vero? — si dicono. — Ma Dio non ha voluto che morissimo senza esserci riveduti. Egli ci doveva ben questo per ricompensarci del nostro sacrificio. — Quante volte — dice il vecchio colla voce tremante, sorridendo — io vedevo dai campi il fumo della vostra casa, e mi pareva che mi dicesse: — Vieni, Balthazar, la signora è qui! — Ed io — risponde lei — quando sentivo abbaiare i tuoi cani e ti vedevo di lontano con la tua lunga cappa, ora te lo posso dire, facevo uno sforzo, sai, per non correrti incontro! Ma il nostro dolore è finito [26] ora, non è vero? e possiamo guardarci in viso senza arrossire. Ebbene, Balthazar.... non avresti vergogna di abbracciarmi adesso, vecchia e disfatta dagli anni come sono? No? Qua dunque, stringimi una volta sul tuo cuore, mio povero vecchio, mio bravo e buon Balthazar! Sono cinquant'anni ch'io te lo devo, questo bacio d'amica! — E si gettano singhiozzando l'uno nelle braccia dell'altro. — E quei signori risero — soggiunse il Daudet, tutto vermiglio d'indignazione, — risero sguaiatamente, oltraggiosamente, indecentemente! E il Figaro mi canzonò per venti giorni di seguito, secondo che mi aveva promesso il Villemessant, che tenne scrupolosamente la sua parola. Ma come non hanno capito, in nome di Dio, che quello era vero e sacrosanto e preso dentro alle viscere umane! Ah! io mi sento altiero, vedete, di quelle risate!

Tutt'a un tratto si mise a ridere anche lui del miglior cuore del mondo, e prese a parlare degli incidenti comici di quella serata. — Erano in vena [27] di ridere, che cosa volete? Un personaggio, facendo una descrizione della campagna, diceva che si sentiva il canto degli ortolani. Fu uno scoppio di risa omeriche. Il canto degli ortolani! L'ortolano, per i parigini, è una ghiottoneria squisita, un piatto, non un uccello. Una platea non può ammettere in nessuna maniera che ci siano degli ortolani vivi e pennuti, che volano e che cantano; non riconosce che degli ortolani in casseruola, con una fetta di lardo sulla schiena. Andatele a parlare del canto degli ortolani! Voi conoscete il canto degli ortolani, non è vero? — E qui, infervorandosi nel suo discorso, da vero artista, per provare che quei disgraziati uccelli cantano anch'essi, prima d'essere serviti coi tartufi, si mise a imitare il loro trillo, come un ragazzo, e a spiegarci che cantano in certe condizioni di tempo e a certe ore; come in altr'ore, nel Bosco di Boulogne, si sente da tutte le parti la nota monotona del cuculo, e imitò la voce del cuculo; il quale gli ricordò altri uccelli, di cui rifece il verso, ridendo [28] sonoramente, già le mille miglia lontano dall'Arlésienne e dal Vaudeville, tutto brillante nel viso, rapito nei ricordi delle sue passeggiate primaverili e delle sue corse di giovanetto a traverso alle campagne della Provenza; e parlando così rapido e caldo, si gettava di tratto in tratto in ginocchio davanti al caminetto, con la sveltezza d'un giovane di vent'anni, per accendere la pipetta del Flaubert, e ricacciava indietro con una scossa del capo la grande capigliatura nera che gli cascava sulle guancie rosate: disinvolto, allegro, impetuoso, amabile da farsi baciare.

Poi si fece serio improvvisamente e disse: — Risero dell'Arlésienne e applaudirono Fromont jeune.... Tal sia di loro. — E scrollò le spalle.

— Ma non potete immaginare — ripigliò subito dopo — che cos'è una prima rappresentazione per me! Non lo nascondo, miei buoni amici, non so far l'uomo forte; mi sento da meno d'un fanciullo. Già da più giorni prima mi trema l'anima. In quei momenti, poi, è uno sconvolgimento [29] di tutto il mio essere, da averne terrore. Ogni volta dico a me stesso: — Questa sarà l'ultima! — E poi ci ricasco. Ma le più violente emozioni del lavoro notturno, dopo mesi di eccitamento e di diavolo in corpo, quando si caccian fuori ad un tempo parole, grida, gemiti e lacrime, e par che il cranio scoppi e le ondate del sangue rompano le vene, non son nulla in confronto dell'inferno che mi rugge nell'anima quando sento nella fronte il soffio maledetto d'una platea.

Poco dopo venne a parlare del nuovo romanzo che ha sul telaio, e diede la via a un vero torrente d'eloquenza comica e pittoresca, a una di quelle splendide sfuriate da parlatore magistrale e da grande artista, che rimangono impresse quanto le più belle pagine dei più bei libri. Venne a parlare del romanzo a proposito dell'attore La Fontaine dell'Odéon, che deve recitare nel suo Jack, e ch'è un meridionale espansivo, tutto fuoco e fiamme, esuberante di vita a segno, [30] che non riesce a far bene se non le parti contrarie affatto alla sua natura, nelle quali è costretto a frenarsi. Il nuovo romanzo, che si potrebbe intitolare l'Imagination, riguarda appunto i meridionali, les gens du midi, quella gente immaginosa, focosa, tempestosa, tutta a scatti e a folate, temeraria e invadente, che va dalla provincia a Parigi, e conquista la grande città con la sua audacia, con le sue passioni, con la sua eloquenza, con la varietà e la vivacità infaticabile e simpatica delle sue attitudini. Il tipo di costoro è un avvocato, uno di quegli uomini che non son nulla a sangue freddo, ma che possono tutto quando s'accendono, e che non pensano se non quando parlano; specie di cantanti della vita pubblica, che fanno fortuna con la voce e con la passione. Costui, sconosciuto affatto, deve far la sua prima difesa alla Corte d'assise, in una causa che disprezza. Ci va di malavoglia, dà un'occhiata sbadata alle carte, e comincia a parlare svogliatamente. A poco a poco, però, il suono della propria voce lo eccita, [31] la sua natura meridionale si sveglia, mille cognizioni e mille idee nascoste gli vengon su a ondate come per incanto, le sue facoltà intellettuali ingigantiscono rapidissimamente, s'entusiasma di sè, si commuove, i suoi occhi si inumidiscono, la sua voce s'innalza in grida e in accenti irresistibili, la sua eloquenza sfolgora e soggioga l'uditorio, ed egli termina tra un uragano d'applausi, ed esce stupefatto, sbalordito di sè medesimo, in mezzo a una folla entusiasmata che lo acclama e lo eleva al cielo, promosso grand'uomo, in tre ore. Così egli comincia la sua carriera. Intorno a costui s'aggruppano altri personaggi dello stesso paese e della stessa tempra. Ognuno può immaginare dentro a che aria ardente ed elettrica il romanzo si debba svolgere, che diavolerie d'avventure ci si debba trovare, che ira di Dio di passioni, che tempeste di dialoghi, che lava infocata di lingua.

Condotto a parlare della natura meridionale, eccitato come uno dei suoi personaggi, il Daudet [32] ci fece passare dinanzi una lanterna magica di originali amenissimi: gente che vive in uno stato di congestione cerebrale perpetua, briachi senza bere, a cui si vedono salire al viso, di tratto in tratto, onde di sangue infiammato, che gl'imporporano fino alla radice dei capelli; — che parlano da soli per la strada, a gesti concitati, cogli occhi fissi dinanzi a sè, vedendo passare realmente, come cose salde, gli spettri della propria fantasia; — gente per cui ogni pensiero si fa immagine viva, e ogni immagine ne suscita cento, e ogni più piccolo accidente diventa dramma; — fuochi d'artifizio che bruciano per tutta la vita; mutabili come «quadri dissolventi;» che nello spazio di cinque minuti singhiozzano parlando della madre malata, scroccano cinque lire a un amico, criticano furiosamente l'ultima commedia dell'Odèon, danno in una gran risata per una barzelletta, e balzano in piedi cogli occhi sanguigni e col collo gonfio, tendendo il pugno in atto d'imprecazione contro i nemici della repubblica: — un misto stranissimo di natura [33] femminea e di virilità selvaggia, di spontaneità impetuosa e d'arte sopraffina, matti e furbacchioni ad un tempo, pieni di sentimenti generosi e di superstizioni da femminette, terribili negli amori e negli odii, spensierati e ostinati, piagnoloni e burloni e sballoni, commedianti eterni, creature proteiformi e indecifrabili, adorabili e odiosi secondo il colore del tempo. Quanti ne fece passare, e con che maestria, dal letterato bohémien che parla per cinque ore di seguito, con un affetto sviscerato, della famiglia lontana a cui non ha mai dato che dei crepacuori, e s'esalta a poco a poco fino al punto, che i suoi amici, temendo un colpo d'apoplessia, gli schiacciano improvvisamente sulla nuca un'enorme spugna piena d'acqua, che egli riceve ringraziando con voce di moribondo; fino al basso sfiatato, il quale, all'annunzio della morte di un amico, grida con sincero dolore: — Mort! —; ma sorpreso dalla voce piena e inaspettatamente sonora che gli è uscita dal petto, scorda l'amico, ripete la nota, cangia di tuono, prova una fioritura, [34] e si frega le mani, esclamando gioiosamente: — Ça y est! — Poi rifece mirabilmente il dialogo di due di costoro; i quali incontrandosi per la prima volta, si fanno a vicenda le più sviscerate proteste d'amicizia, e le più calorose profferte di servigi, con le lagrime agli occhi, ciascuno dei due non credendo una maledetta alle parole dell'altro; e si lasciano dicendo l'un dell'altro: — È un briccone ipocrita; — il che non toglie affatto che, incontrandosi daccapo cinque minuti dopo, gettino un grido di gioia e si corrano incontro con le braccia aperte, ringraziando il cielo della buona ventura; e tutto ciò sinceramente, col viso raggiante e con la voce commossa davvero. Ma bisognava vedere come imitava le voci, i gesti, gli sguardi, i fremiti delle labbra mobilissime e delle narici dilatate, e il roteamento degli occhi bovini, piegando a tutti i tuoni la sua voce morbidissima di tenore. Si sarebbe inteso con un grande piacere anche non comprendendo il senso delle sue parole, tanto la sua voce accarezza [35] l'orecchio, come un canto, e il suo gesto spiega il pensiero. Come si vedeva l'artista! Mentre parlava, faceva continuamente con la mano destra l'atto di dare un colpo di cesello, o un tratto di matita, o di premere col pollice il colore sulla tela; e quando in quella foga ardente era costretto a soffermarsi un mezzo secondo per cercare la parola propria, s'impazientava e fremeva che pareva sotto i ferri d'un chirurgo. Allo studio della natura meridionale fu certamente aiutato dalla natura propria; ma meraviglioso nondimeno il tesoro di osservazioni che ha raccolto prima di mettersi a scrivere il suo romanzo. — Hanno un modo di vedere il mondo, e di starci, tutto loro proprio, — disse concludendo: — ma ci sono grandi differenze tra loro. Ci sono i meridionali della parte di Spagna e quelli della parte d'Italia. Questi hanno la stessa potenza d'immaginazione, la stessa effervescenza e le stesse attitudini di quegli altri; ma con più fondo latino. Sanno meglio dominarsi. Hanno il savoir faire italiano. C'è [36] più combinazione nella loro natura. Messi alle prese coi loro fratelli dell'altra parte, gl'insaccano. Leone Gambetta è un di loro. — E anche Alfonso Daudet. Egli stesso lo disse colla sua grazia arguta, riferendo la risposta data da lui a un direttore di teatro, Avignonese, il quale voleva dargli ad intendere non so che cosa. — Caro mio, è inutile che vi sgoliate. Io son dei vostri. Nous sommes compliqués, vous savez. Ci comprendiamo benissimo. Mettiamo le carte in tavola senz'altro. — Egli trova molta analogia tra i meridionali di Francia e i normanni. I normanni sono i meridionali del nord: vedono tutto grosso. — Guardate il Flaubert — disse — il Vacquerie, il D'Aurevilly, — e ne citò venti, dando a ogni nome una pennellata da ritrattista. Io lo guardavo attentamente mentre parlava, e mi faceva meraviglia e paura il vederlo già così nervoso e vibrante alle dieci della mattina, prima ancora d'aver ricevuto la scossa del lavoro artistico; e più mi meravigliavo pensando che non era certo la presenza d'un suo amico intimo [37] e del primo straniero capitato, che lo metteva così in ribollimento; che quello doveva essere il suo stato abituale, il suo modo di vivere, sempre concitato, febbrile, tormentato dal suo pensiero e dal suo sentimento, con le mani irrequiete e la voce commossa. — Che sarà quando lavora — pensavo — o quando parla davanti a venti persone, in quei giorni in cui cinquantamila esemplari d'un suo romanzo spiccano il volo per le quattro plaghe dei venti?

Nominato il Flaubert, mutò viso, e parlò dei suoi funerali a Rouen, dov'era stato pochi giorni prima, con accento affettuoso e triste, come d'un figliuolo; e guardava fisso la pipetta, come se serbasse in sè qualche cosa di vivo del suo grande e buon amico. All'improvviso, si rasserenò e saltò addosso con tutte le armi del suo arsenale satirico, a un disgraziato scrittore francese, che aveva incontrato ai funerali: un vecchio poeta bizzarro, non meno famoso per il suo ingegno che per i suoi vestimenti teatrali, ornati di nastri e di trine; settuagenario [38] di ferro, gran mangiatore, gran bevitore, gran buon diavolo e grande poseur, che ingigantisce tutto, e parla con una specie di solennità imperatoria d'ogni più piccola cosa; e lo tratteggiò, lo colorì, lo sballottò per mezz'ora fra le sue piccole dita affusolate di romanziere parigino, rifacendo la sua voce stentorea e la sua mimica grandiosa, in una maniera da mandarsi male dal ridere. I frizzi, i paragoni comici, le osservazioni argute e inattese gli venivan via l'una sull'altra, affollate e annodate, che non c'era tempo di goderle tutte: pareva di sentir parlare a una voce cinque parigini dei più lepidi e dei più facondi. E raccontando certe avventure del suo personaggio, col quale è legato, lasciava indovinare a traverso alla vita del collega qualche tratto della vita propria, della sua bella vita varia e agitata di scrittore parigino: le cene tumultuose con gli amici celebri; il festino interrotto alle tre della mattina per andar a correggere le stampe al giornale; le lunghe dispute letterarie cento volte interrotte e riattaccate, a notte [39] tarda, per le vie solitarie di Parigi; le grandi espansioni allegre dopo i grandi lavori gloriosi; qualche leggiero abuso di Champagne, una volta tanto, per concedere qualche cosa alla mattìa giovanile, non ancor tutta domata dalle fatiche austere dell'arte; e le baldorie improvvisate in casa del De Nittis, dove qualche volta l'autore del Nabab, a cavallo al pittore napoletano, con una stecca da bigliardo in resta, ha fatto il picador andaluso, tra gli applausi degli amici e le risa delle signore, in mezzo al disordine sfarzoso dello studio, pieno di capolavori in gestazione.

Udendo parlare della diffusione dei suoi romanzi in Italia, domandò vivamente: — Davvero? — e mostrò quasi d'esserne meravigliato.

Legge l'italiano, ma non lo parla. Quel poco che sa della nostra lingua lo imparò abitando per qualche tempo con certi italiani, nessuno immaginerebbe mai dove.... dentro a un faro. Non disse di più: mi immagino che sia stato un capriccio alla Byron. Ma già tutta la sua prima gioventù, da [40] quanto ne accennò vagamente, dev'essere stata delle più avventurose. Una parte ne raccontò nella sua Histoire d'un enfant, in quella carissima autobiografia, che par scritta dall'autore del Copperfield, con più sveltezza, e con non minore sentimento. È nato anche lui, come il suo petit chose, in una di quelle città della Linguadoca «nelle quali, come in tutte le città del mezzogiorno, si trova molto sole, un gran polverìo, un convento di Carmelitane e qualche monumento romano.» Figliuolo d'un povero negoziante, rimase giovanissimo sul lastrico. Ancora adolescente, entrò istitutore in un piccolo collegio per guadagnare da vivere, e andò a cercar fortuna a Parigi, dove per un pezzo stentò il pane, e forse patì la fame, facendo i primi versi al freddo, e passando per la trafila dei primi amori. Quell'angelo di fratello, che fa da madre a petit chose, dev'essere uno dei suoi fratelli, perchè quei personaggi lì non s'inventano, o non si rendono, se son di fantasia, con quella freschezza incantevole di colori, anche avendo l'ingegno di due Daudet. [41] Ma poi si riconosce a ogni passo, nel protagonista di quella storia gentile, la bella natura di artista e di buon figliuolo del futuro autore dei Contes du lundi; e non solo la sua natura, ma la sua persona. Già adulto, pareva ancora un ragazzo, tanto le sue forme erano delicate e quasi femminee. Era il ritratto di sua madre. La sua testa «piena di carattere,» come gli diceva Irma Borel la avventuriera, poteva servir di modello per un bel pifferaro italiano o un grazioso algerino mercante di violette. Irma se lo porta via e la signorina Pierrotte se ne incapriccia appena lo vede; e il suo buon fratello Giacomo, geloso della signorina, glielo dice qualche volta con tristezza: — Ah! tu sei fortunato. A tutti piaci, tutti ti vogliono bene: è ben naturale che finisca con amarti anche lei! — Povero petit chose, povero Daudet di diciassette anni, costretto a fare i conti centesimo per centesimo; a campar degli avanzi della tavola d'un marchese, che gli porta di soppiatto suo fratello; a strapparsi il pane dalla bocca per comprarsi la [42] candela da poter lavorare la notte! Poveri romanzieri, fanciulli di genio, che ci rallegrano e ci consolano, che ci strappano dal cuore le buone lacrime e il riso salutare, che entrano nella nostra vita e ci fanno vivere con loro, e diventano nostri amici e nostri fratelli, — poveri romanzieri celebrati e festeggiati, — che lacrime di sangue hanno pianto prima che il loro nome arrivasse sino a noi, quanto pan duro hanno ingoiato prima di cenare dal Brébant, e quante soffitte hanno riempite delle loro angoscie prima di possedere quei tappeti, su cui noi passiamo adesso in punta di piedi, rispettosamente, venuti di duecento miglia lontano, per vederli nel viso!

Mentre continuava a discorrere riaccendendo di tanto in tanto quella benedetta pipuccola, che mi rubò almeno mille parole, altre persone venivano annunziate, fra le quali pensai che ci fosse qualche seccatore, vedendo passare sulla sua fronte, all'annunzio dei nomi, una leggiera comicissima espressione di terrore. Ma riceveva tutti con la [43] stessa bonarietà franca e festosa, riempiendo la stanza del suo bel riso fresco di studente. E si vedeva che anche i suoi amici intimi lo stavano a sentire con grande piacere. Era in vena. — Non si direbbe che parla — mi disse uno — ma che suona. Questo mi ricordò un appunto che gli fanno certi critici: dicono che il suo stile è lo stile di uno che recita. Ma l'occhio dell'osservatore più acuto e più malevolo non scoprirebbe nel suo parlare e nei suoi atteggiamenti nè un accento nè l'ombra d'un gesto che potesse dar sospetto d'artifizio. Era bello a vedere, sopra tutto, nei passaggi improvvisi da un discorso faceto a uno grave. Quando la sua ilarità sonora era attraversata da un pensiero sull'arte o da un ricordo triste, pareva che con lo stesso atto nervoso della mano cacciasse indietro i capelli e cancellasse il sorriso dalla fronte; e allora appariva aperto, immobile e puro il suo volto pallido di Nazareno, così pieno di pensiero, che faceva cessar subito il riso intorno a [44] sè, e s'indovinavano le sue parole prima di sentir la sua voce.

Così fece quando qualcuno dei presenti nominò Giacomo Leopardi, ch'egli aveva letto per la prima volta in quei giorni. I francesi che intendono un po' d'italiano, leggendo il Leopardi, trovano quasi sempre un intoppo alle prime pagine, e non vanno più oltre, spaventati dalle difficoltà che presentano le allusioni mitologiche e la forma un po' tormentata e velata di certe canzoni. Rimangono quindi con l'immagine dimezzata d'un Leopardi politico, erudito ed astruso, ignorando affatto il poeta appassionato e limpido delle liriche seguenti, che è il vero e grande Leopardi. Il Daudet andò fino in fondo, e mi fece piacere e meraviglia il sentire come l'ha capito profondamente, anche a traverso alla traduzione. Ma è ridicolo il dir meraviglia, poichè dovrebbe meravigliare il contrario, in un artista come il Daudet. Uno dei suoi amici non aveva del Leopardi un concetto giusto. Egli lo definì da par suo. — No, sapete — disse; — sbaglia, a parer [45] mio, chi rimpiccolisce la sua poesia attribuendola a «mal di stomaco.» Non è dispetto contro la natura, il suo; è una malinconia grande e profonda, una disperazione ragionata e tranquilla, che non deriva dal cuore malato, ma dallo spirito persuaso. Guardate come è alta e serena l'immagine della morte come egli la presenta! E come l'animo suo rimane gentile malgrado la disperazione! È un disperato che dice le più amare verità sulla vita e sulla natura; ma che è innamorato di tutto quello che è nobile e bello; uno spirito sovranamente generoso e benevolo, compreso d'una pietà immensa per i suoi simili; il quale, data la sua filosofia dolorosa, che crede meno funesta dell'errore, vuol consolare, non desolare il genere umano. Che peccato non poter gustare la sua forma, perchè chi sentiva e pensava in quella maniera, deve aver dato alla sua poesia un corpo degno dell'anima.

Da ultimo, accompagnandoci all'uscio, e soffermandosi accanto a ogni mobile per prolungare la conversazione, venne a parlare di quella gran passione [46] d'ogni artista parigino, imprigionato nella città enorme, che lo condanna ai lavori forzati, di scappare un bel giorno come un uccello, e di volare a traverso al mondo, senza scopo e senza pensieri, libero come l'aria, a far buon sangue e a raccogliere vigore per tornare più poderoso alla gran battaglia di Parigi. Il suo primo volo sarebbe al di qua delle Alpi. — L'Italia è il nostro sogno — disse: — quando abbiamo la testa e il cuore affaticati, la nostra fantasia scappa laggiù, nel vostro azzurro e nel vostro verde. — Egli l'ha presa per tempo la passione dei viaggi. Lo raccontò ne' suoi Contes du lundi. Passò la sua infanzia in una città attraversata da un fiume, pieno di battelli e di traffico, sul quale aveva il suo piccolo scalo anche il père Cornet, che dava a nolo delle barche. Ah! quel père Cornet! È stato il satana della sua infanzia, la sua passione dolorosa, e il suo rimorso. Svignava di casa, bucava la scuola, vendeva i libri, per noleggiare una barca e scappare di città a colpi di remo. Non se ne può ricordare [47] senza emozione di quelle deliziose fughe sul fiume, in mezzo al grande via vai delle zattere, del legname galleggiante, dei piccoli bastimenti a vapore, e dei barconi carichi di mele, che gli arrivavano addosso improvvisamente, e da cui una voce arrantolata gli gridava: — Fatti in là, moscherino! — Tutto questo gli dava l'illusione d'un grande viaggio, della grande vita di bordo, e tutto acceso e sudante, col cappello indietro, e i piedi sui quaderni di scuola, remando furiosamente con le sue piccole braccia di dodici anni, usciva di città, sotto il sole cocente, in mezzo al barbaglio argentino delle acque, e andava a riposare contro la sponda, in mezzo ai giunchi sonori, sull'acqua stelleggiata di fiori gialli, sfinito dalla fatica; e cogli occhi fissi alle isole verdi che apparivano all'orizzonte, fantasticava dei viaggi sterminati, dondolandosi coll'aria d'un vecchio lupo di mare, e facendo sangue dal naso. — Ma viaggerò un giorno — disse — e mi pare che ne ritornerò ringiovanito. — E il suo amico avendogli domandato [48] se avrebbe raccontato i suoi viaggi come Téophile Gautier, parlò del Gautier. — Egli viene via via perdendo nel nostro concetto — disse — il nostro buon Gautier. È un gran pittore, un tecnico ammirabile, senza dubbio; ma null'altro. Ha dipinto mirabilmente la Russia, chi lo può negare? Ma non ha sentito la poesia profonda delle grandi pianure bianche, la tristezza dolce della canzone russa, e l'intimità calda delle case coperte di neve, che si specchiano nei ghiacci del Volga. Si direbbe che per lui l'anima umana non esiste. Non aveva che occhi. Che peccato! — Ma la gravità di queste sue censure era temperata da una certa dolcezza rispettosa della voce, e da una espressione così sincera di rammarico, che non parevan quasi più censure. Era una critica come quelle ch'egli fa nel Journal officiel, in cui non c'è giudizio, per quanto severo, che non abbia colore di gentilezza.

Finalmente, si dovette lasciarlo, e il suo «addio» fu gentile come il suo benvenuto. Gli diedi una stretta di mano. Maledette convenienze! Gli [49] avrei dato volentieri due baci da amico, dicendogli: questo è per Daudet e questo è per petit chose! Ma mi mancò la disinvoltura, e me ne uscii col mio abbraccio rientrato, tendendo ancora l'orecchio, per un buon tratto di scala, alla sua voce simpatica, che dominava il cicalìo degli amici.

***

Tale è Alfonso Daudet, nato povero, pervenuto alla fortuna e alla celebrità a traverso a una gioventù ardimentosa e infaticabile, giovine ancora, artista nell'anima, virile al lavoro, delicato di modi come una donna, sereno come tutti i caratteri benevoli, con una piccola vena di tristezza come tutti i grandi amanti dell'arte; stimato e benvoluto da tutti, amabile nei suoi libri e più amabile nel suo salotto, semplice, affettuoso e indulgente; la cui vita e la parola e l'aspetto ispirano la bontà e confortano al lavoro e alle nobili ambizioni. Non ci rimane ad augurargli che una cosa sola: la salute, ossia la moderazione nell'esercizio dell'arte gloriosa per cui è nato. Si sforzi di preservarla per sè e [50] per la Francia, e per noi, e per tutti. Non abbia mai più da chiamare la sua buona amica per dirle: Finis mon bouquin. Li finisca tutti lui, e ne finisca molti, e possa cominciarne ancora una nuova serie quando la sua bella chioma scapigliata di vecchio lottatore gli farà una corona d'argento intorno alla corona d'alloro.

[53]

EMILIO ZOLA POLEMISTA.

Son ritornato con piacere in quella bella stanza al terzo piano, in via di Boulogne, tutta ordinata e nitida, nella quale il principe dei veristi lavora da anni alla gran tela dei Rougon-Macquart, e prepara prede da sbranare alle platee furibonde, e bandisce il verbo del naturalismo, stroncando avversarii, incoraggiando discepoli, ribattendo censure; oggi alle prese con Victor Hugo, domani col Gambetta, ora con la repubblica, ora con l'Accademia, ora col romanticismo, ora con la religione; assalito da cento parti, pronto su cento breccie, in un atteggiamento minaccioso di avanguardia [54] del ventesimo secolo, di giorno in giorno più testardo, più sdegnoso e più intrepido. Guardando quella stanza così raccolta e quieta, prima che egli entrasse, pensavo alle tempeste che si erano scatenate da quel silenzio per il mondo dell'arte, e al gridìo enorme che avrebbe fatto tremare quelle pareti se fossero risonate là per un momento le voci di tutti coloro che disputano dell'autore dell'Assommoir, nel solo giro d'un'ora, da Cadice a Pietroburgo, per levarlo alle stelle o per trascinarlo nella polvere. E considerando quanto egli aveva pensato e scritto e lottato, in soli tre anni, dall'ultima volta che l'avevo visto, seduto a quello stesso tavolino su cui appoggiavo le mani, mi sentivo preso da un sentimento d'ammirazione. Sono ammirabili, infatti, comunque si giudichi l'ingegno e l'animo loro, e degni di profondo rispetto, questi grandi lavoratori, che sacrificano all'arte la pace, la salute, i piaceri della gioventù, e tutte le intense e varie facoltà di godere la vita, di cui è dotata la loro natura potente; e l'avvicinarli, [55] il parlar con loro dà sempre una scossa salutare al sangue, e fortifica l'anima e i nervi. E bisogna convenire che ha lavorato e che lavora questo terribile Zola! E più si ammira quando si considera la natura del lavoro suo; in cui non appare solamente la forza, ma lo sforzo, e quasi un'ostinazione superba della volontà; lavoro minuto e difficile di analisi e di descrizione, di stile e di lingua, necessariamente preceduto da una lunga serie d'osservazioni e d'indagini pazienti sul Vero. D'onde piglia l'impulso a un'operosità così costante e così faticosa? Egli è una strana natura, veramente. Pare che sia divorato dall'ambizione della gloria, e pare nello stesso tempo che non senta e non goda quella che s'è acquistata. Vive da sè, nella sua casa silenziosa, appartato dal mondo, come un vero certosino dell'arte, in mezzo alla grande Parigi che parla di lui come d'un personaggio lontano e quasi fantastico; e non interrompe il suo lavoro solitario di artista che per assalire o per difendersi fieramente, come un uomo [56] disconosciuto e scontento, senza profferir mai una frase o una parola che riveli un sentimento lieto della fama a cui è salito, e della fortuna che lo accompagna. Dalla povertà, da una vita d'umiliazioni e di lotte disperate, è giunto alla gloria e ad una agiatezza splendida; ma non si è mutato d'animo, non s'è riconciliato col mondo, e par che abbia la società umana in gran dispitto, come Farinata l'inferno. Senza dubbio, egli deve aver molto sofferto. Lo disse, non è gran tempo, a un amico, il quale gli rimprovera la violenza delle sue critiche: — Ah! voi non sapete quello che m'hanno fatto soffrire! — E forse egli è ancora realmente in credito col mondo. Di qui la sua mancanza d'espansività affettuosa, e non so che di cupo e di diffidente ch'è in lui. Gentile coi visitatori, sembra però che il suo sguardo indagatore scopra sempre nell'animo di chi lo loda qualche piccola ipocrisia e qualche piccola perfidia; e che di momento in momento debba alzarsi in piedi e dire agli ammiratori che gli fanno corona: [57] — Finiamo la commedia: siete una fitta d'impostori che, uscendo di qui, lacererete il mio nome. — Ed è raro che la lode si rifletta sul suo viso in un'espressione di compiacenza. Nei suoi scritti può trasparir l'orgoglio; ma non traspare punto la vanità dalla sua persona. E tale è nella vita. Austero, sobrio, alieno dai piaceri materiali e frivoli, — senza figli, — vive con sua moglie, come dice egli stesso, en bon camarade, e non ha l'animo occupato da alcuna grande passione, eccetto quella dell'arte, che è sostenuta e vivificata in lui da un immenso amore, o piuttosto da un irresistibile bisogno del lavoro. Questo gli è nello stesso tempo fatica, riposo, compenso, conforto; a questo dice di dovere, più che all'ingegno, tutto quel che ha ottenuto; e ne è altero. Lui fortunato, così potente verista nell'arte, e così forte idealista nella vita.

[58]

***

Nella sua stanza, in questi ultimi tre anni, si sono moltiplicati i quadri e i ninnoli costosi, come le edizioni dei suoi romanzi. Tre anni sono, infatti, egli era agiato, ed oggi è ricco. È uno degli scrittori francesi che fecero fortuna più rapidamente, dopo averla per più lungo tempo aspettata. La pioggia d'oro cominciò coll'Assommoir, il quale solo, tra romanzo e dramma, gli fruttò un capitale, oltre all'impulso enorme che diede allo spaccio di tutti gli altri suoi libri; ed ora i dilettanti di finanza letteraria fanno il conto che egli cammini a grandi passi verso il milionetto, non ostante che si sia soffermato per farsi fabbricare una bella casa a Médan, dove passa quasi tutto l'anno. Dice [59] egli stesso che non ha più bisogno di lavorare per il denaro, e se ne vanta francamente. Il denaro è l'indipendenza e la dignità degli scrittori; i quali, quando o non potevano o sdegnavano di trarre la vita dalle fatiche del proprio ingegno, erano lacchè di principi, cacciatori spudorati di pensioni, e affamati leccazampe di tutti i ciuchi blasonati e danarosi. Sprezza il denaro, egli dice, solamente il catonismo ipocrita degl'impotenti. E certo il desiderio ardente della ricchezza è in Francia (dove la ricchezza può conseguirsi) un potentissimo sprone all'operosità degli artisti. La possibilità e la speranza di arricchire in pochi anni, e di trovarsi poi in grado di lavorare a bell'agio e meglio intorno a soggetti più liberamente scelti e più profondamente meditati, accendono negli scrittori quella stessa febbre di lavoro e d'ardimento che centuplica le forze della gente d'affari in tutti i paesi; ed è fuor di dubbio che noi dobbiamo a quella febbre un grande numero d'opere bellissime, e non pochi capolavori, che la sola [60] forza della ispirazione artistica, non sostenuta da una attività disperata, non sarebbe bastata a produrre. La ricchezza è la grande allettatrice di quasi tutti gli scrittori francesi. Giovani, lavorano per giungere all'agiatezza e all'indipendenza; quando hanno ottenuto l'una e l'altra, persistono a lavorar ardentemente, sia perchè ne hanno contratto l'abitudine irresistibile, sia perchè, crescendo in loro, con gli anni, l'amore degli agi e la sollecitudine del decoro signorile, sentono il bisogno d'arrotondare le rendite. Ed è ancora da aggiungersi a queste ragioni d'operosità, se non una singolare attitudine dei francesi al lavoro, il continuo e vario stimolo che deve dar loro la vita calda e ricca e diversa d'una enorme città intellettuale; e il fatto incontrastabile che una città siffatta, non ostante le sue esigenze e le sue tentazioni, è per la sua stessa grandezza più favorevole d'una città piccola al lavoro continuo e raccolto, per la ragione medesima che è più facile rimaner padroni dei propri pensieri in mezzo a [61] una grande folla che in un cerchio di quindici conoscenti. Là non esiste, fra colleghi letterarii, la flânerie occasionata dagl'incontri fortuiti, che piglia tanta parte del nostro tempo anche nelle città più grandi; gli amici, per incontrarsi, si devono cercare per la posta; in ogni convegno è prefissata l'ora della separazione; la molteplicità delle faccende costringe alla pedanteria nell'orario; la furia della vita non lascia tempo alla rêverie che sfibra l'animo, come dice il Goethe, e fiacca le forze dell'intelligenza; gli inevitabili doveri sociali a cui si deve sacrificare una parte della sera, obbligano al lavoro mattutino, più fresco e più salutare del notturno; i visitatori importuni sono respinti senza riguardi; e tutto va di carriera, e ognuno difende accanitamente il suo tempo e la sua libertà di lavoro. E uno di quelli che la difendono più accanitamente è lo Zola. Il quale vive solitario anche per questa ragione: che avendo combattuto acerbamente molte opinioni stabilite, e ferito amor proprii, e sollevato ire ed inimicizie, [62] si troverebbe costretto, frequentando la società letteraria, a una lotta continua; e mancante com'è del vero e proprio «spirito parigino» che è un'arma terribile nelle dispute dei salotti e dei circoli, egli sente che non ce la potrebbe in nessun modo con le lingue indiavolate, coi fulminei motteggiatori, che gli cascherebbero addosso da ogni parte. Per ciò se ne sta rinchiuso nella sua officina, spendendo in lavoro tutta la vitalità che risparmia in battaglie di conversazione, le quali darebbero troppo facile vittoria ai suoi nemici. Victor Hugo, che malgrado la sua corte, vive in una specie di solitudine intellettuale, fuori della letteratura vivente, è il leone; Emilio Zola è l'orso. E vivono l'uno e l'altro in regioni non meno lontane e diverse fra loro che quelle abitate dalle due fiere formidabili che simboleggiano.

[63]

***

Mentre stavo in questi pensieri, egli comparve, pallido e coi capelli irti, vestito di un farsettone di maglia scura, stretto alla vita, senza cravatta, con le scarpe di panno nero; uno strano vestimento, tra di lottatore e d'operaio. Mi fece un'impressione inaspettata, diversa dalla prima volta. Mi parve assai più piccolo di statura e più esile. Ha messo un po' di ventre; ma è notevolmente dimagrato nel viso. Era smorto e aveva l'aria triste. E forse a cagione della tristezza la sua accoglienza fu più affettuosa di quello che si soglia aspettare da lui. Sedette accanto al suo tavolo da lavoro, coperto di giornali e di lettere non ancora aperte, e alle solite domande sulla salute, rispose, [64] con un accento non meno triste del suo aspetto, che non stava bene.

Poi soggiunse:

— Voi sapete che ho avuto la disgrazia di perdere mia madre.

E gli si empirono gli occhi di lacrime. Dopo qualche momento di silenzio, ricordò la morte del Flaubert, la quale pure era stata un gran dolore per lui. Il Flaubert era suo maestro e suo amico. Egli l'aveva conosciuto e amato fin dai principii della sua carriera. La perdita dei genitori letterarii è particolarmente triste per gli scrittori che s'avanzano per una via ardita, piena di pericoli: il soldato sente più dolorosamente la morte del suo capo, quando combatte all'avanguardia.

— Questo è stato un duro anno per me — disse sospirando —; un anno nero veramente, che mi peserà sul capo per un pezzo.

E riparlò del suo antico proposito di fare un viaggio in Italia, anzi di venirsi a stabilire per qualche tempo fra noi, in una città del mezzogiorno. [65] Da molto tempo si sente stanco e ha gran bisogno di riposo. Vorrebbe venire in Italia, senza che lo sapesse nessuno, fuorchè un piccolo numero di amici, per poter vivere raccolto e quieto nel suo cantuccio; non perchè sia selvaggio, e non ami la gente che va a lui, mossa da un sentimento di simpatia; ma perchè non sa jouer le prince, e davanti a tre persone con cui non abbia dimestichezza, perde la sua libertà di spirito. Ma per quanto dica, son persuaso che il suo viaggio in Italia non sarà mai altro che un proponimento. E d'altra parte, quanto s'inganna se crede di venir qui a vivere in pace! Il giorno dopo l'arrivo avrebbe un assembramento di veristi davanti all'albergo, e sarebbe costretto a esporre la teoria del naturalismo dalla finestra.

— Ho bisogno di riposo.... — ripetè con tristezza —; non posso più lavorare come una volta.

— Eppure, — gli osservai, — oltre a tutto il resto, riempite ogni settimana quattro colonne [66] del Figaro. Noi siamo meravigliati della vostra operosità.

— No, no, — rispose, scrollando il capo, — credetelo a me, non lavoro più come una volta; non sono più quello di prima. Non ho ancora potuto rimettermi al mio romanzo. Per scrivere, vedete, bisogna aver dello spazio e dell'aria davanti a sè, bisogna credere alla vita.

Mi fecero tristezza queste parole, tanto più perchè non erano smentite dal suo aspetto.

Credette per qualche tempo d'aver una malattia di cuore; i medici lo disingannarono; ma nondimeno egli sente sempre in sè qualcosa di sordo e d'inquietante, che gl'impedisce il lavoro, e lo volge alle previsioni nere. Ora avrebbe un disegno. Continuare a scrivere per il Figaro finchè ce l'obbliga l'impegno assunto; poi uscire dal giornalismo, sdarsi interamente, e per sempre dalla polemica, e consacrare tutto il suo tempo e tutte le sue forze ai romanzi, curando insieme la raccolta e la pubblicazione dei suoi scritti sparsi; i [67] quali tra novelle, ritratti e critica, formerebbero otto volumi, e ne uscirebbe uno ogni tre mesi. Terminata la storia dei Rougon-Macquart, alla quale mancano ancora undici romanzi, farebbe un'edizione definitiva di tutti e venti i volumi, collegandoli meglio fra loro (pensiero che deve essergli venuto in seguito a uno studio arguto e diligentissimo fatto da uno scrittore francese sulle contraddizioni cronologiche e sociali della sua storia); e poi si darebbe tutto al teatro, che è sempre il suo pensiero dominante. Riguardo al primo romanzo che pubblicherà ora, egli è ancora incerto fra tre idee. Dapprima voleva scrivere Un peintre à Paris; romanzo che abbraccierebbe la vita artistica e la vita letteraria, raccontando le lotte e le avventure di un giovane di genio, o di parecchi, venuti dalla provincia a Parigi a cercar la gloria e la fortuna; ma poichè per trattar questo argomento, dovrebbe fare un viaggio in Provenza, terra natale dei suoi personaggi, a raccogliere notizie e ispirazioni, intende di lasciarlo da parte [68] per ora. Vorrebbe scrivere un romanzo del genere della Page d'amour, ma in un altro campo sociale, di cui il soggetto sarebbe il dolore, la bontà, la forza e il coraggio nella sventura, e gli affetti gentili e profondi; — ma teme che un lavoro di questa natura, nello stato di animo in cui si trova al presente, rimescolerebbe troppo dolorosamente il suo cuore. Propende quindi per un terzo romanzo, del quale m'aveva già parlato tre anni or sono, che avrebbe per campo «i grandi magazzini» di Parigi, come il Louvre e il Bon Marché; e per argomento la lotta del grande commercio col piccolo, dei milioni coi cento mila franchi. Questo farà più probabilmente; e perciò comincierà tra poco le sue visite e i suoi studi minuti di romanziere esperimentale; passerà delle ore e delle ore in mezzo al via vai e al rimescolìo rumoroso dei «magazzini» enormi, a raccoglier colori per le descrizioni e motti per i dialoghi, e a cercar tipi e avventure locali, interrogando commessi e ragionieri, con la sua amorosa [69] pazienza di musaicista, come fece nei mercati e nelle botteghe dei salumai per scrivere il Ventre di Parigi, e nei lavatoi e all'ospedale per far l'Assommoir. Ma subito non ci si può mettere: non riuscirebbe a far nulla.

Gli domandai se gli seguiva spesso, anche nel suo stato abituale, di non poter far nulla.

— Ah che tasto toccate! — rispose. — Ci son dei giorni in cui mi pare d'essere finito, non per quel giorno, ma per sempre; giorni in cui son come morto. Mi metto al tavolino la mattina per tempo, senz'aver coscienza del mio stato, e al momento di ripigliare il filo del romanzo, mi sento nella testa un vuoto e un silenzio da far paura. Personaggi, luoghi, scene, avvenimenti, tutto s'è come agghiacciato dentro a una nebbia oscura, in cui mi sembra che non riescirò mai più a far penetrare un raggio di sole. E allora resto qui delle ore, colla testa sopra una mano e gli occhi fissi alla finestra come uno smemorato. E poi.... mi pigliano degli [70] scoraggiamenti terribili anche riguardo all'arte mia.

— Come! — gli dissi, — voi, che percorrete una via così nettamente e profondamente tracciata, che lavorate con un metodo così rigoroso, e di cui parete tanto sicuro, andate soggetto voi pure allo scoraggiamento e al dubbio della vostra arte?

— Se ci vado soggetto! — rispose. — Ma chi non ci va soggetto? Ci sono due soli artisti in questo secolo, un pittore e un poeta, i quali non hanno mai sospettato una volta, neppure alla lontana, il primo di poter sbagliare una pennellata, l'altro di poter scrivere un cattivo verso; e sono il Coubert e Victor Hugo. Io trovo orribile oggi quello che ho fatto ieri — infallibilmente. Se voglio tirar innanzi a lavorare di buon animo e con qualche illusione di far bene, bisogna che non mi volti mai indietro. Per questo, terminato un libro, non me ne occupo più; e non solo sfuggo l'occasione di parlarne, ma faccio uno sforzo continuo per dimenticarlo. Guardate: io [71] non rileggo mai, assolutamente mai, una pagina dei miei libri, se non son costretto a leggerla, come m'accade qualche volta, per scansare una ripetizione in quello che sto scrivendo. Ebbene, quando rileggo qualche cosa, faccio compassione a me stesso, ma una compassione, vedete, da levarmi il pianto dal cuore.

— Ma per che cosa?

— Ma per il pensiero, per la condotta, per lo stile, per la lingua, per tutto. Credete voi che se non vivessi in questo dubbio continuo di me stesso, se non mi tormentassi l'anima come faccio, avrei il colore che ho, e mi troverei nello stato di salute in cui mi trovo? Guardate le mie mani. Pare che io abbia il delirium tremens. E non bevo che acqua!

E dopo un po' soggiunse:

— M'ammazzo a lavorare, e non riesco a far quello che voglio; sono un uomo malcontento, ecco tutto.

Il suo tormento principale è lo stile e la lingua, [72] com'era negli ultimi anni per il Flaubert, che urlava sopra una frase ribelle. — Noi — egli dice — siamo scrittori troppo nervosi. Il nostro stile è uno stile di spolvero, tutto bellezze grosse e patenti, frasi fatte e cadenze obbligate. A furia di voler cesellare, brunire, ricamare e dipingere, e pretender dalle parole l'odore delle cose, e ingegnarci di rendere tutti i suoni, ci siamo formati un linguaggio convenzionale, un gergo letterario nostro proprio, tutto stelleggiato e ingioiellato d'immagini, tutto tremolante di pennacchietti e di frangie, che non potrà piacere a lungo perchè non è la bellezza, ma la moda, non è la forza, ma lo sforzo; che anzi invecchierà immancabilmente, e riuscirà intollerabile alle generazioni future. Invece di parlare, insomma, trilliamo e facciamo delle fioriture. Invece di descrivere le cose, come diceva il Goethe, vogliamo troppo descrivere i loro effetti; e siamo arrivati in quest'arte a un grado di raffinamento puerile, assolutamente. Non è più l'arte, sono i ghiottumi, i tornagusti [73] dell'arte. Siamo in piena decadenza di stile, ecco la cosa. — Ora lo Zola, dallo stesso principio che lo spinse a semplificare il romanzo, e a renderlo quanto più è possibile conforme alla semplicità del vero, e quasi all'andamento ordinario della vita, è condotto logicamente a fare il medesimo sopra lo stile; cioè a ridurre la forma alla sua semplicità massima, ritornando alla lingua secca, come egli dice, alla frase netta, allo stile logico, parco d'epiteti, sfrascato, che sia panno e non trina, e vesta strettamente il pensiero, senza pieghette e senza svolazzi: uno stile di cui tutto il valore consista nella evidenza, ottenuta con una parsimonia e una proprietà rigorosa della parola. Sogna, insomma, una prosa, come l'aveva in capo il Leopardi, e come la definì, senza averla mai scritta, il Giordani; vorrebbe, cioè «scrivere in modo che l'arte non si mostri, preoccupato dal solo scopo che le cose dette appariscano chiarissime e credibili, e che il pensiero passi per mezzo della parola con quella facile prestezza e limpidezza [74] che dai limpidi cristalli ci pervengono all'occhio le specie degli oggetti posti al di là; non frapporsi mai, neppure passando, fra il lettore e l'argomento; risalire, in una parola, alla nudità tersa degli scrittori del gran secolo, serbando inalterato il sentimento ed il pensiero nuovo». In questa direzione egli vorrebbe aprire una nuova via. È una grande ambizione. E non si può negare certamente ch'egli abbia un concetto netto di quello che vuole. La giovinezza sempre fresca dello stile del Voltaire, e la solidità e la nitidezza marmorea di quello del Pascal, lo innamorano; e se bastasse, per dar corpo al suo ideale di forma, la potenza tecnica di scrittore, non c'è dubbio che ci riuscirebbe senza grande fatica. Ma la difficoltà massima sta in ciò: che questo rinnovamento dello stile ch'egli ha nel capo, richiederebbe inesorabilmente un accrescimento enorme nella ricchezza e nella intensità del pensiero. Perchè qual è lo scrittore di romanzi che potrebbe resistere a un tale denudamento? A che cosa si ridurrebbe un [75] romanzo del tempo che corre, spogliato di tutto ciò che egli chiama pompons e falbalas della forma? E specialmente il romanzo dello Zola così profusamente descrittivo, e affollato d'immagini? Per rimaner saldo e palpabile, dovrebbe avere doppia ossatura e doppia carne. Può scrivere con quella meravigliosa austerità di stile il Pascal, che condensa in un periodo una lunga e profonda meditazione; ma come può farlo uno scrittore, di cui la facoltà principale è appunto quella di saper presentare con una evidenza straordinaria ogni più sfuggevole aspetto di ogni più piccola cosa? E quale scrittore avrà il coraggio di affrontare il gusto dominante con una maniera di stile, di cui la perfezione faticosissima rimarrebbe indubitatamente incompresa, o parrebbe freddezza, sbiaditura, miseria? Questo è il grande struggicuore dello Zola, e gli durerà, credo, per tutta la vita. Egli dice che non riesce a liberarsi dal suo vecchio stile e a impadronirsi del nuovo, perchè ha troppo fitto nell'ossa, come tutta la sua generazione, il veleno [76] del romanticismo. Da giovane, dice, mi sono addossato anch'io il carico del frasario romantico, e cogli anni mi s'è mutato in gobba. Ma nell'intimo della sua coscienza, egli sente certamente che non è questa la ragione che gl'impedisce di porre in atto la sua idea: sente che gli manca anzitutto la fede nelle proprie forze; o piuttosto sente che non potrebbe riuscire se non a una condizione a cui non vorrà piegarsi mai certamente: di fare un romanzo solo coi materiali che gli bastano ora per due, e di lavorarci attorno tre anni invece di otto mesi, e di rinunziare alla soddisfazione dei grandi successi immediati.

Per liberarsi da questa sua spina dello stile, tornò a parlare dell'Italia. L'Italia e la Russia sono i due paesi che gli dimostrano maggior simpatia; ed egli vi si rifugia col pensiero ogni volta che si sente stanco della guerra che gli si fa in patria. Ecco una cosa che i nemici arrabbiati dello Zola non possono masticare. — Che cos'è questa toquade — ci domandano — che vi prese per lo [77] Zola, voialtri italiani? S'ha da vedere anche i vostri Ministri dell'istruzione pubblica menare il turibolo davanti all'autore di Nana! — Alludono alla lettera del De Sanctis, che fece un po' di scandalo. Certo che è un caso letterario notevole la grandissima diffusione dei romanzi dello Zola in Italia, dove una sola delle due traduzioni dell'Assommoir ebbe più spaccio di qualunque libro italiano più popolare; dove tutti i suoi romanzi sono tradotti e, quel ch'è più raro, tradotti tutti accuratamente, e parecchi benissimo; dove si può dire, anzi, che si deve allo Zola il fatto nuovissimo d'una vera gara letteraria di traduttori colti e coscienziosi, alla quale il pubblico tenne dietro curiosamente. Si direbbe che c'entra po' in questa grande simpatia l'origine italiana dello scrittore e il carattere particolare del suo ingegno, per quello che ha di discordante e quasi di opposto allo spirito generale degli scrittori parigini. È incredibile la quantità di giornali che egli riceve dal nostro paese, fin dalle più lontane provincie meridionali; [78] fra cui dei giornaletti sconosciuti, dei quali mi fece molta meraviglia udirgli ripetere i titoli, con uno sforzo visibilissimo delle labbra. — Je tâche d'être poli avec tout le monde, disse; ossia di rispondere a tutti. Se non ci riesce, non è per difetto di buon volere. Riceve tanti giornali che, a furia di provarsi a leggere, è arrivato ormai a capire alla meglio l'Italiano, e intende di continuar l'esercizio. E infatti dev'esser gradevole e facile imparare una lingua studiandola nelle proprie lodi, in modo da godere in ogni difficoltà risolta una doppia soddisfazione. Ma non lesse soltanto gli scritti che lo riguardavano; quindi gli rimase nel capo un guazzabuglio di nomi di romanzieri, di poeti e di giornalisti, dei quali volle saper qualche cosa singolarmente; e stette a sentir le informazioni con una certa curiosità, mista di stupore, come si starebbe a sentire chi ci mettesse al corrente della letteratura patagona. — Et notre brave Cameroni? — domandò; — quello è davvero una fontana a getto continuo! — Si mostrò [79] molto soddisfatto delle due traduzioni dell'Assommoir. Credeva però che quella del Petrocchi fosse in patois, e si rallegrò di sentire che non è più in dialetto quella traduzione di quello che lo sia l'Assommoir originale, poichè i modi e i vocaboli fiorentini che vi sono sparsi, non le tolgono di essere tutta intelligibile da un capo all'altro d'Italia. Disse poi d'aver ricevuto una lettera di Cesare Cantù; e questo non me l'aspettavo. Gli scrisse per domandargli informazioni intorno a suo padre, che egli credeva essere uno Zola che prese parte nelle cospirazioni carbonaresche del 21. Sorrise per la prima volta quando gli dissi: — Vedete; voi non potreste immaginare lo strano effetto che farebbero in Italia questi due nomi accoppiati: Cesare Cantù e Emilio Zola — collaboratori, per esempio, in un romanzo intitolato Satin. — Non aveva però cognizione della fama vastissima dello storico lombardo, e diede segno di gradire singolarmente la lettera, quando seppe bene da chi veniva. Poi domandò bruscamente:

[80]

— Perchè non fate un romanzo?

Guardai il pendolo per non abusare del suo tempo; ma era presto: potevo rimanere.

— È una vergogna per noi — riprese lo Zola — non studiare la lingua e la letteratura italiana, perchè ne potremmo ricavare un vantaggio grande, oltre che pel rimanente, per lo stile, ed anche per la lingua nostra. I nostri grandi scrittori del buon secolo, e molti del secolo scorso, la studiavano. Non ci sarà mai critica larga e feconda in Francia fin che non ci dedicheremo coscienziosamente allo studio delle letterature straniere. La nostra critica teatrale, per esempio, è quella che pecca di più da questo lato. Non si parla che del teatro francese, si vede ogni cosa da una parte sola. Quando i nostri critici dicono: il teatro, intendono il nostro. Si dovrebbero intender tutti. Pare che per loro non esista un teatro tedesco, un teatro inglese, un teatro italiano, un teatro spagnuolo. Merci. E che teatri sono! Così nel resto. È inutile. Bisogna rompere il tetto e spalancare porte e [81] finestre, e far entrare dell'aria. Se avessi tempo, vedete, vorrei fondare un giornale, il quale non desse che una piccolissima parte alla politica, che è la nostra peste, e non avesse altro ufficio che di seguire passo a passo, fedelissimamente, il movimento letterario degli altri paesi, rendendo conto d'ogni pubblicazione che si facesse a Madrid come a Pietroburgo, a Roma come a Stoccolma, con una critica largamente espositiva e imparziale, ma piuttosto benevola che severa, chiunque fosse l'autore e qualunque la scuola; in modo da far penetrare in Francia il maggior numero possibile di scrittori stranieri. Questo ci vorrebbe per noi. Ma come potrei farlo? Basta un giornale ad assorbir la vita d'un uomo.

Nondimeno, secondo lui, s'è già fatto un gran passo in Francia, dal 70 in poi, nello studio delle letterature straniere. Oltre che si traduce un assai maggior numero di libri che per il passato, e che non par più una cosa dell'altro mondo, come una volta pareva, che un giornale francese s'occupi [82] d'uno scrittore straniero, se anche non è famoso nel mondo; è fuor di dubbio che molti libri inglesi, italiani e tedeschi sono letti in Francia, ora, nel testo originale. Ed è cresciuta mirabilmente anche la vendita dei libri francesi. Lo Zola, così a un di grosso, crede che sia triplicata. Dodici edizioni d'un libro, che erano già un gran che, non sono più oggigiorno che un mediocre successo librario. E i poeti, in ispecie, hanno torto di lagnarsi. D'un volume di versi, in qualsiasi condizione pubblicato, si esitano immancabilmente mille esemplari. E si è migliorata pure la condizione degli scrittori rispetto agli editori: c'è più buona fede e più fiducia reciproca. Non è gran tempo che essi si trattavano a vicenda, e con molto chiasso, di scrocconi e di ladri.

Improvvisamente mi fece una grande sorpresa.

— Sapete — disse — ho letto i Promessi Sposi.

Avvicinai la seggiola.

Mi parve che titubasse un poco a esprimere la [83] sua opinione, sia perchè non l'avesse netta, sia perchè, sospettando la mia, cercasse i termini per urtarla il più leggermente che poteva.

— Prima di tutto — disse — debbo confessare che ho letto la traduzione francese, e che ho poca fede nelle traduzioni. Credo che la migliore sciupi gran parte, e forse la più viva parte di qualunque lavoro, e specialmente di un lavoro originale. Perciò i Promessi Sposi non mi fecero l'impressione che m'aspettavo. Che so io? Il romanzo, nel suo complesso, mi parve troppo fedelmente lucidato dai romanzi di Walter Scott. Non mi son fatto un concetto preciso del suo valore. Certo però che ci sono delle parti, e molte, che serbano anche nella traduzione una bellezza e una potenza meravigliosa; squarci d'un realismo magistrale, nei quali si rivelano insieme la forza d'un grande pittore e quella d'un pensatore vasto e profondo: la storia della peste specialmente, che avrebbe innamorato il Flaubert, col quale il Manzoni ha molti punti di somiglianza....

[84]

Quello che lo colpì più d'ogni cosa, insomma, fu la descrizione, e di tutte le descrizioni, quella che gli rimase impressa più profondamente, tanto che ne ricorda tutti i particolari, è la scena che si presenta improvvisamente allo sguardo di Renzo, quando s'affaccia alla porta del lazzaretto, dopo la sua lunga e avventurosa pellegrinazione a traverso a Milano. Quelle compagnie di malati che entrano, quegli appestati accovacciati pei fossi, quelle faccie stupidite, quei visi sghignazzanti, quei pazzi che raccontano le loro immaginazioni ai moribondi, quel cantare alto e continuo di gente già trasfigurata dal morbo, quel brulichìo immenso e miserabile, e particolarmente quel cavallaccio sfrenato, che fende la folla in mezzo all'urlìo dei monatti, montato da un frenetico che gli tempesta il collo di pugni, e dispare in un nuvolo di polvere, sono un quadro, egli dice, che gli rimarrà davanti agli occhi per tutta la vita. Non disse altro, e non me ne stupii. Per quanto ingegno e accorgimento critico egli abbia, è impossibile che, [85] per ora, gusti e giudichi rettamente un'opera pensata, sentita e condotta così diversamente dalle sue. Egli è ancora troppo caldo dell'ispirazione propria, troppo eccitato dalla battaglia, troppo immerso con tutte le facoltà nei suoi studi altrettanto profondi che rigorosamente circoscritti, e troppo vivente, non dico nella letteratura del suo tempo, ma in quella della sua giornata. Lo Zola rileggerà i Promessi Sposi in pace, fuori del campo di battaglia, come il Voltaire rilesse l'Ariosto, e cangierà di parere, come il Voltaire. Gli mancavano d'altra parte, per ora, gli elementi necessarii ad un critico per poter giudicare del valore intrinseco d'una grande opera letteraria. Rimase stupito udendo che i Promessi Sposi furono scritti nel primo quarto del secolo, e che il Manzoni, pure seguendo l'esempio del Walter Scott nel suo romanzo, fu nella letteratura italiana un novatore, il quale, ai suoi tempi, fece «parte da sè stesso»; un miscredente delle scuole, come lo definì il genero apologista, un Volteriano dell'arte, un loico [86] del buon senso; iniziatore d'una riforma letteraria che bandì l'estrinseco, il convenzionale, il falso nel pensiero, nel sentimento, nello stile, nella lingua; e che la sua apparizione nella letteratura italiana, sollevò ben altre tempeste e diede l'impulso a un ben più largo e nuovo movimento d'idee che non abbia fatto lui, per ora, nella letteratura francese. Finì col dire che l'avrebbe riletto in italiano, e mostrò curiosità di conoscere le tragedie, per aver inteso qualcosa di quella maniera libera e tranquilla di condurre l'azione e di sceneggiare, che si deve accordare mirabilmente con le sue idee.

Di qui ricascò a parlare della sua stanchezza intellettuale, che lo rattristava:

— Ma chi mai — gli dissi — leggendo i vostri articoli, sospetterebbe che siete stanco?

— Capisco: non ve n'accorgete; ma è perchè ci metto uno sforzo doppio che per il passato, appunto per nascondere la stanchezza.

— E poi — disse dopo qualche momento di riflessione, — sono stanco sopratutto della polemica, [87] che mi attira tanti odî. È un'impresa che schiaccia le mie forze, e schiaccerebbe le forze di chi che sia, quella di fare nello stesso tempo il novatore e il demolitore. Io mi trovo in una condizione disgraziata. Vedete Victor Hugo. Certo, nel suo grande cammino trionfale egli è stato spinto innanzi dalla forza immensa delle simpatie e degli entusiasmi della nazione; ma aveva il vantaggio di non esser costretto a combattere a corpo a corpo. Una legione di devoti e di fanatici gli andava innanzi sgombrando la strada a colpi di spada e d'accetta, e gli faceva largo intorno, gli lasciava un grande spazio d'aria libera, nel quale egli procedeva serenamente, tutto assorto nella propria ispirazione. Io, invece, debbo far tutto, ossia fare e disfare. Ed è quello che non vogliono perdonarmi. — Badate a scrivere dei romanzi — mi dicono; — lavorate sul vostro, e lasciate in pace gli altri sul proprio: create senza distruggere. — E perchè ciò, dal momento che essi tirano a distruggermi, e non creano? Perchè non credono ch'io sia in [88] buona fede; perchè credono ch'io critichi, non per convinzione, ma per passione; non per abbattere delle scuole che credo false e dannose al progresso dell'arte e del pensiero, ma per sbarazzarmi di rivali che credo incomodi. Credono che io odii delle persone, mentre non combatto che dei principii. Vogliono ad ogni costo che sia egoismo di bottegaio quello che è coscienza d'artista. Questo è quello che mi affligge. Che cosa ne pensate?

Credetti di dovergli dire quello che sinceramente credevo, cioè che fuori di Parigi, fra noi, per esempio, si faceva generalmente un giudizio assai diverso della sua critica. — Troviamo nei vostri articoli della violenza, ma non dell'odio. Se ci fosse odio, ci sarebbe del veleno, e questo non l'avete. Ci paiono critiche di testa, vi direbbe un maestro di canto, e non critiche di petto; colpi di mazza, non colpi di stile; che è molto diverso. E chi volete che creda che coi successi enormi che ottenete, possiate attaccare per gelosia letteraria, fra gli altri, degli avversari mille miglia lontani dal [89] vostro campo, e quasi sconosciuti fra noi? Del resto, voi potete sempre rispondere che non avete ancora detto contro gli altri la metà di quello che si disse contro di voi.

— Ah! — esclamò — di quello che si disse contro di me non ne potete avere un'idea, voi che vivete lontano da Parigi. Io mi diedi a scrivere sul Figaro per non troncare tutt'a un tratto la mia «campagna critica» dopo la rottura col Voltaire; chè m'avrebbero creduto smarrito d'animo e ridotto all'impotenza. Ma sapete perchè ho scelto il Figaro? Il Figaro, prima di tutto, contro cui si fa tanto gridare, non è mica peggio degli altri giornali, sotto nessun aspetto. La sua disgrazia è che tutti i torti della stampa che ha dei torti, si fanno ricadere sulla sua testa; lui è lo scandalo, lui è il morbo della nazione, lui raccoglie in sè tutti i vizi, tutte le magagne, tutte le brutture del giornalismo francese. È destinato che sia il capro emissario, e s'intende che se non ci fosse il Figaro, non ci sarebbe che una stampa [90] purissima e santissima: sta bene. Ma questo non monta. Sono collaboratore del Figaro, ma non l'ho sposato. Io non so quello che ci scrivano; so che ci scrivo quello che voglio. Ho scelto il Figaro per questa ragione: che essendo un giornale diffusissimo per tutta la Francia e fra ogni ceto di gente, volevo cercare, scrivendoci, se ci fosse modo di distruggere quella specie di leggenda odiosa e ridicola che s'è formata sulla mia povera persona. Una vera leggenda, vi dico. Quelli che l'hanno creata e divulgata, i critici e giornalisti, non ci credevano: s'intende benissimo: sono maligni, ma non imbecilli. Il grande pubblico, però, l'ha bevuta. Per questo grande pubblico io sono un uomo senza coscienza, senza legge, senza pudore, senza affetti; uno speculatore d'immoralità, un sacco di vizi, un bevitore di sangue, un'anima perduta. Credono che io sguazzi veramente in tutte le sozzure, come qualche personaggio dei miei romanzi, e non solamente nelle sozzure morali. Un égoutier, infine. Un uomo da velarsi gli [91] occhi e da turarsi il naso, passandogli accanto. Ebbene, io dissi tra me: je suis un brave homme, après tout (non c'è vanità a dichiararlo, non è vero?); mi sento un cervello sano nel capo e un cuore onesto nel petto; vediamo se, scrivendo in un giornale che va per le mani di tutti, provandomi a dirvi le mie ragioni con la maggior pacatezza possibile, e a esprimervi i miei sentimenti con la mia abituale sincerità, mi riesce di raddrizzare l'opinione storta della gente. Prima ancora ch'io scrivessi, al semplice annunzio della mia collaborazione, i buoni borghesi, gli onesti abbonati rimasero atterriti. Ma come! Lo Zola scrive nel Figaro? Saremo costretti ad asciugarci la prosa di questo matto pervertito e scandaloso, e a nascondere il giornale alle nostre famiglie? Credevano in buona fede che ad ogni periodo io buttassi fuori un'oscenità stomachevole o sputassi sopra un sentimento gentile o lacerassi un nome onorato. Ora io so che molti hanno espresso una grande meraviglia dopo letti i primi articoli. In [92] fin dei conti, hanno detto, tutto ben considerato, è un uomo — presso a poco — come gli altri. Avrà torto, ma ragiona; ragionerà male, ma par persuaso di quello che dice. Porcherie non ne scrive; critica, ma non insulta; è un capo originale, ma non è un pazzo da catena. Non è lo Zola che ci avevano dato ad intendere. — Ora questo è già qualche cosa, ma è poco più di nulla. Per uno che si ricrede, cento altri del pecorame immenso continuano a credere. Voi non potete immaginare quanto sia difficile in Francia lo sradicare un pregiudizio. Una leggenda calunniosa s'è formata sopra di me: ebbene, ho quarant'anni, posso viverne ancora altri venti, ma son sicuro di non vederne la fine, di quella leggenda. E questo m'addolora.

E disse le ultime parole con un accento di vero rammarico.

— Pensate però — gli osservai — che la leggenda non è uscita di Francia, e che noi, lontani, vi giudichiamo diversamente. I lettori sensati, che [93] conoscono tutte le vostre opere, e che tengono dietro a tutte le manifestazioni dei vostri principii artistici, spassionatamente, e senza cocciutaggini scolastiche, sono persuasi che quello che si può trovare d'eccessivo, sotto certi aspetti, in alcuni dei vostri romanzi, è conseguenza logica del concetto fondamentale che avete dell'arte, non predilezione per il brutto, per il tristo e per l'orrido, che derivi da animo malvagio. Certo, l'arte ottimista che sceglie ad un fine consolante i caratteri e gli avvenimenti, e si sforza di alleggerire ai lettori tutte le impressioni ingrate, e di girare intorno, senza attrito, a tutte le opinioni che hanno una radice nell'animo, cattiva facilmente la simpatia agli scrittori. Ma sotto la vostra arte di ferro, noi ammiriamo e amiamo la schiettezza, il coraggio, la devozione ardente e indomabile ad un'idea, che non è possibile che in un'anima nobile. Gli arrabbiati che leggono i vostri romanzi con un occhio solo, non vedono che Lantier, e Bijard, e Pierre Rougon, e Renée; noi li leggiamo [94] con due, e vediamo Miette e Goujet e Lalie ed Hélène e la piccola Jeanne. Ed è l'intensità, non la molteplicità e la diffusione delle manifestazioni del cuore, quella da cui giudichiamo l'intima natura dell'artista. Per me, vedete, Hélène, che dopo aver visto morir la sua creatura senza poter piangere, e quasi chiusa nel suo dolore, getta un urlo improvviso vedendo ai piedi del letto le scarpettine che la povera bimba non si metterà mai più; e il singhiozzo disperato che lacera il petto di Goujet mentre Gervasa, incanutita e convulsa, si sfama sotto i suoi occhi, dovrebbero bastare a giudicar l'uomo quanto un poema d'affetto. E molti la pensano a modo mio.

— Eppure — osservò sorridendo leggermente — dicono che contamino tutto.

— Lo dissero anche del Flaubert. Dopo che aveva lavorato per cinque anni a un romanzo, un critico scrisse che s'era ravvoltolato in una fogna e che l'aveva sporcata.

[95]

— E che cosa si dice, in Italia, quando si legge una di codeste critiche?

— Non so.... credo che si continui a leggere il Flaubert.

— Io credo però che sarà utile, a proposito di critiche, un libro d'un nuovo genere, che sto preparando da un pezzo. Man mano che mi cadevano sotto gli occhi, sono andato raccogliendo e ordinando le più grossolane insolenze, i più spropositati vituperii che vennero vomitati contro di me. V'accerto che a leggerli tutti di seguito, come una lunghissima lirica furibonda, fanno un singolare effetto. Li pubblicherò in un volume, con una grande prefazione sulla critica, e intitolerò il volume: Leurs injures. Sarà la mia apologia.

Questo è il suo chiodo fisso; per quanto faccia, bisogna sempre che torni a batterci su. Il suo grande tormento è d'essere male giudicato come uomo. E questo tormento, possono averlo celato, ma lo provarono certamente tutti gli artisti, anche i più incuranti e sdegnosi del mondo, e i più [96] gloriosi, quando il loro carattere morale fu denigrato. Poichè si può ben amare disperatamente la gloria, ma non si può averne un godimento pieno e sereno, se non si sente che insieme all'artista è stimato l'uomo, suo padre e suo giudice, e depositario del suo onore. Prima si ambisce la gloria pur che sia; poi quella tal gloria — senza ombra e senza turbamenti; — ossia la stima e l'affetto, che sono il calore della sua luce. Il che i nemici cercan di togliere, quando non riescono a toglier altro, poichè è una grande consolazione dell'amor proprio, dovendo dire che un tale è un grande artista, poter soggiungere subito dopo che è un birbante.

— Mah! — esclamò poi lo Zola — quando lavoro dimentico tutto.

— Dateci presto il nuovo romanzo — dissi.

— Mi ci potrei mettere subito — rispose — se ci fossi già preparato. Ma ho bisogno di viver prima lungo tempo coi miei personaggi, e siccome questo non è un lavoro da tavolino, che [97] m'obblighi a star lì cogli occhi sulla carta, così basta anche una leggera preoccupazione dell'animo a distrarmene. Ho bisogno di pigliare i miei personaggi ad uno ad uno, e poi a due a due, e così avanti, e di farmeli andare e venire per la testa, di notte, passeggiando, desinando, ora strappando una parola a uno, ora cogliendo a volo un gesto d'un altro, ora scoprendo il secreto di un terzo; e di abituarmi a viver con loro fino al punto di voltarmi in tronco, quando mi sento un fruscìo alle spalle, quasi con la sicurezza di sorprenderne qualcuno in carne ed ossa. Fin che non sono arrivato a questo grado d'illusione, non posso far nulla. Quando poi i personaggi son diventati così vivi e parlanti, e quasi gente di casa mia, il lavoro non m'affatica più; mi metto al romanzo, e lascio che facciano loro, che pensin loro a combinarsi e a trattare insieme le proprie faccende; io cerco d'entrarci il meno possibile, e di restringermi a redigere i verbali. Alle volte mi par d'essere estraneo affatto al mio romanzo. Casi, scene, [98] dialoghi si succedono da sè, e non ho che a mutar qualche parola nel testo che mi si svolge sotto gli occhi. Non è che la descrizione che mi costa sforzo. Ma scrivendo, vedo i luoghi così distintamente, sento i rumori, gli odori, i contatti in una maniera così viva, che anche qui non ho quasi da cercar altro che l'espressione. Rimango tutto stupito, alzando gli occhi, di ritrovarmi nella mia stanza, solo, in una gran quiete, e cerco per dove sono fuggiti i fantasmi che mi stavano affollati intorno un momento prima.

Con tutto ciò m'è parso di indovinare, da qualche sua parola qua e là, che la difficoltà che egli trova a rimettersi ai suoi romanzi, non deriva soltanto dal suo stato presente di salute e d'animo, ma da un sentimento, più forte che non l'abbia mai provato, d'incertezza artistica. Egli conosce il mondo letterario e sè stesso: sa di essere arrivato al punto forse culminante della sua ascensione d'artista, e che di lì non potrà più salire se non facendo un poderosissimo sforzo: o un [99] passo in una via nuova, o un perfezionamento grande sulla via battuta. Perchè è vero quello che disse il Dumas figlio, che il pubblico vuol essere continuamente sorpreso, abbagliato, sbalordito, violato. Ora, dopo l'Assommoir, lo Zola è andato più in là, ma non più in su. I critici assennati non solo non mettono la Page d'amour accanto all'Assommoir, ma la considerano al di sotto della Fortune des Rougon e della Conquête de Plassans. Nana fu un successo più librario che letterario. Si capisce d'altra parte che, per quanto sia grande la sua potenza di scrittore, il genere suo, tutto analitico e descrittivo, è quello in cui l'originalità perde in più breve tempo la freschezza, abituandosi facilmente il pubblico ai procedimenti metodici, di cui può indovinare gli artifizi prima di subirne gli effetti. Al che l'aiutano anche gli imitatori; gl'inetti scoprendo meglio la meccanica, i valenti mostrando che non è difficile impadronirsene. E lo Zola ha ormai un drappello di imitatori che non gli stanno indietro che d'un passo. Perciò io [100] credo che stenti a ricominciare i romanzi, non tanto perchè è stanco, quanto perchè cerca. Mettendosi a scrivere, gli si presentano in folla tutte le forme e le industrie già usate, ed egli vuol liberarsene. Non gli basta più cambiar soggetto, vorrebbe cambiar maniera. Ed anche dall'idea di scrivere un romanzo sulla bontà e sul dolore, per fare un salto da Nana, come scrisse la Page d'amour per fare un contrapposto all'Assommoir, traspare già il bisogno che egli sente di rinnovellarsi come traspare, più che da tutto, dal suo proposito di dedicarsi intieramente al teatro.

Parlò da ultimo a proposito di teatro, del dramma ricavato da Nana, che deve rappresentarsi tra poco. Dell'Assommoir non fu contento: fu un eccellente affare finanziario, una magra soddisfazione artistica: non era più il suo Assommoir. È più soddisfatto del dramma ricavato dall'ultimo romanzo. Si è dovuto transigere colle esigenze della scena, si sottintende. Il carattere della protagonista è stato un po' attenuato, e il linguaggio [101] passato allo staccio. Ma, nell'insieme, il dramma è più fedele al romanzo, ossia più naturalistico. C'è più distinzione e più discrezione. Ma per questo appunto dubita della riuscita.

Infine tornò ancora una volta al suo ideale: terminare i romanzi, non impicciarsi più di polemica, lavorare riposatamente per il teatro nella sua casa tranquilla di Médan, non vedendo che pochi amici.... Ma per far questo — soggiunse rattristandosi — bisogna sentirsi sani e giovani, e sopratutto non aver dolori. L'arte non basta a consolare dei grandi dolori.

Pensava a sua madre.

Allora, per distoglierlo da quel pensiero, pensai di saldare un conto che avevo con lui da due anni. — Prima di lasciarvi — gli dissi — debbo giustificarmi d'un grosso errore che ho commesso a vostro riguardo. Ho letto in un libro francese, che parlando d'un articoletto ch'io scrissi sopra di voi nel 1878, diceste: — Ma dove diamine è andato a pescare il De Amicis ch'io avessi due [102] bambini? — Avete tutte le ragioni del mondo di lamentarvi, tanto più che non solo dissi che avevate due bambini, ma aggiunsi che li avevo sentiti gridare. Se voi mi credete un idealista, dovete aver pensato che è spingere un po' troppo in là l'idealismo, quella di regalare dei bimbi — per abbellire il quadro — a chi non solamente non ne ha, ma non ne desidera. L'errore deriva da ciò, che un vostro amico mi disse che li avevate, e che io non avevo una ragione al mondo di non crederci. Quanto all'averli sentiti gridare, mi concederete che è un'immaginazione scusabile, perchè o non si hanno, ed è affar finito, o si hanno, e allora gridano. Ma vedete se son castigato della mia credulità. Sono stato a vedere il Daudet, e ne scriverò qualche cosa. So di sicurissimo che ha due bambine, ne ho visti i ritratti; potete pensare se mi farebbero comodo per il mio quadretto. Ebbene, sono costretto a non nominarle neppure, perchè nessuno mi crederebbe più. Vi prego di considerarvi soddisfatto

[103]

Si dichiarò soddisfatto, ridendo; ma subito il suo viso si tornò a velare.

E salutandomi sull'uscio, mi disse con un accento affettuoso, stringendomi la mano:

Vous ne me croyez pas un bandit, n'est-ce pas?

— Ah! non mi conviene — risposi — vivo troppo in vostra compagnia.

E benchè avessi chiuso la conversazione con uno scherzo, me ne andai dolente, proprio, di non aver più trovato lo Zola giovane e contento dell'altra volta.

[104]

***

Ecco i grandi artisti. Mentre noi gl'invidiamo di lontano, pensando che sono famosi, potenti, ricchi, e che debbono essere felici, o almeno tutti frementi e splendidi del trionfo, essi son là soli in mezzo ai loro libri, afflitti da dolori che ignoriamo, tormentati da mille dubbi, sfiduciati di sè, incerti dell'avvenire, e rosi nel cuore dalla passione dell'arte propria. Quella coscienza del proprio valore e della propria fama, che noi crediamo una sorgente continua di contentezza, essendo diventata in loro un sentimento abituale, ha reso insensibile il loro amor proprio a tutte le soddisfazioni ordinarie; per il che non hanno che assai di rado delle gioie vive, le quali pure svaniscono [105] di più in più rapidamente. Il sentimento profondo che hanno della vita, per cui l'amano più intensamente, rende a loro più dolorosa la coscienza della precarietà propria, e di tutto; e la paura dell'obblio, che è il loro affanno perpetuo. L'idea della loro fama, del loro nome pronunciato da tutte le bocche, del diritto dato alla moltitudine immensa di giudicarli e di notomizzare brutalmente l'anima loro, li sgomenta qualche volta, come gente condannata a una berlina senza termine. Se vanno tra la gente, sono urtati in mille modi dall'invidia e dall'ignoranza; se vivono da sè, sono sopraffatti e soffocati dalla propria immaginazione. Continuamente combattuti tra gli interessi della vita e la coscienza artistica, tra il bisogno e il furore di imparare, e la necessità e la passione di produrre, tra l'intelligenza che progredisce, mettendo sempre più alta la meta dell'arte, e le forze artistiche che si logorano, scemando la speranza di raggiungere quella meta; circondati d'amici continuamente pericolanti [106] sopra l'altalena della gelosia; minacciati nella salute dall'abuso del lavoro in cui non riescono a moderarsi; dotati d'una malaugurata facoltà di sviscerare sè stessi, che inacerbisce il sentimento di tutti i dolori; condannati, in fine, al primo segno che diano di stanchezza e di decadimento, a sentire da ogni parte la risata trionfale degli emuli, ed il grido insolente delle legioni giovanili che si avanzano.... Poveri grandi artisti! Ha detto bene Alessandro Dumas: Dante dimenticò di mettere questo supplizio in fondo alle bolgie dell'inferno.

[109]

EMILIO AUGIER
E ALESSANDRO DUMAS

Un mio amico di Galata mi raccontò, anni sono, il seguente aneddoto.

— Mi trovavo sopra un piroscafo del Lloyd austriaco, in viaggio da Varna a Costantinopoli, in mezzo a una folla di gente che non conoscevo; e m'annoiavo mortalmente; quando, per fortuna, m'occorse di scambiare qualche parola e poi di attaccare conversazione con un viaggiatore francese, che da più d'un'ora stava immobile accanto a me, cogli occhi fissi sui mare. Discorremmo per [110] un pezzo. Non spendeva molte parole, ma parlava bene, in un certo modo stringato e asciutto, e diceva sempre qualche cosa di singolare, che mi costringeva a guardarlo. Andava per la prima volta a Costantinopoli. Mi rivolse delle domande sull'Oriente, molte delle quali mi misero in imbarazzo, e sopra ogni mia risposta faceva un'osservazione, la quale spiegava più chiaramente quello ch'io avevo voluto dire, in modo che, a un certo punto, m'accorsi con grande vergogna che parlavo male. A notte inoltrata lo lasciai per andar a dormire, e per molto tempo non mi potei levar dalla testa la sua figura e i suoi discorsi. Non avrei saputo dire se mi fosse simpatico o no. Mi dava da pensare, desideravo di vederlo per conoscerlo meglio. La mattina dopo, all'alba, si stava per entrare nel Bosforo. Salii sul ponte, ricominciammo a discorrere. La sua conversazione era argutissima e piena di pensieri; ma che so io? Ci sentivo qualche cosa come di secco e di freddo, che mi teneva in là, nel tempo stesso [111] che m'attirava e mi metteva in grande curiosità di sapere chi fosse. S'entrò nel Bosforo, che egli non aveva mai visto. Con mio grande stupore, non diede alcun segno di meraviglia. Stava ritto, impalato contro il parapetto, immobile come una statua, come se avesse visti quei luoghi cento volte. — Che razza d'uomo è costui? — pensavo. Una sola volta, vedendo una moschea bianca sulla riva asiatica, si scosse ed esclamò: Oh quelle jolie bonbonnière! Poi tornò a chiudersi in sè. Passò Buyukdéré, passò Therapia, passò Isthènia, passò Kandilli, e non diede segno di vita. S'arrivò finalmente a Costantinopoli, e continuò a guardare e a tacere. Il bastimento, dopo una breve fermata a Costantinopoli, doveva proseguire per l'Egitto. Il mio incognito andava a veder l'inaugurazione del canale di Suez; io dovevo scendere a Galata. Prima di scendere, gli porsi il mio biglietto di visita; egli mi diede il suo: guardai, c'era scritto: Alexandre Dumas fils. Come si può pensare, feci un atto di meraviglia e di piacere. [112] Egli rimase impassibile. — Au bonheur de vous revoir — mi disse. E mentre io me n'andavo voltandomi indietro per vederlo ancora, egli guardava da un'altra parte col cannocchiale. —

Ho riferito quest'aneddoto perchè l'impressione ricevuta dal mio amico è quella che le opere del Dumas lasciano nella maggior parte dei lettori italiani.

La crudezza con cui esprime certe verità che ci feriscono nel nostro sentimento d'orgoglio umano, la brutalità di chirurgo impassibile con cui mette le mani nelle piaghe che altri suole trattare con pietà delicata, la perspicacia diabolica con cui indovina i segreti più intimi di certe nature mostruosamente inique e corrotte, e quasi la compiacenza feroce con cui li rende; e più di tutto certi tratti indefinibili, che sono nei libri quello che i lampi dell'occhio e i guizzi delle labbra sono nei visi, ci fanno immaginare un uomo rigido e superbo, poco benevolo per i suoi simili, facile alla passione, ma chiuso alla tenerezza, e [113] scettico in fondo; la cui presenza debba agghiacciare la parola in bocca all'ammiratore che gli va incontro con espansione. Anche nei tratti delle sue opere, che ci sembrano riboccanti d'affetto, e che ci commuovono, noi troviamo sempre, esaminandoli, piuttosto l'arte profonda d'un'intelligenza che, indovinando tutte le cause, riesce a ottenere tutti gli effetti, che non il disordine affannoso ed ingenuo che viene dal cuore; e ci piglia il sospetto che egli abbia studiato, come il Goëthe, delle lettere affettuose di sconosciuti, per impararvi il linguaggio dei sentimenti che non provava. Negli stessi suoi scritti d'argomento sociale, diretti a uno scopo generoso e benefico, riconosciamo che v'è largamente tutto ciò che può giovare alla persuasione: chiarezza limpidissima, argomentazione serrata, arte mirabile di presentare le contraddizioni e di valersene, ed eloquenza splendida nell'esporre lo stato delle cose a cui cerca rimedio; ma non quel soffio irresistibile che prorompe dalla pietà ardente e profonda [114] dei dolori e delle ingiustizie, e che vince il cuore prima che la ragione sia vinta. Vi sentiamo fremere più potentemente l'amore artistico della propria idea, che l'amore umano degli oppressi. E quell'apostolato di moralità, di virtù, di dovere, che informa specialmente le sue ultime opere, ci ha piuttosto l'apparenza d'un grande ed onorevole proposito dell'ingegno che intuisce il bene, e se ne fa strumento all'arte; che non la passione intima e schietta d'un'anima che lo ami irresistibilmente. La soddisfazione che ci lasciano nell'animo le opere sue più evidentemente dirette ad un fine a cui anche il nostro cuore e la nostra coscienza consentono, non è mai nè piena ne tranquilla; sempre usciamo dal teatro o chiudiamo il libro con qualche ferita segreta nell'animo; e la nostra immaginazione non ci rappresenta mai, neanche a traverso alle più dolci emozioni provate, un Alessandro Dumas altrettanto amabile che ammirabile.

[115]

***

Eppure il concetto che ne hanno i suoi amici intimi è assai diverso da quello della più parte de' suoi ammiratori lontani. È un un bon garçon, dicono, senza restrizioni; migliore di suo padre, che nondimeno parve più amabile e fu più amato. Conviene anche dire che è tutt'altro Dumas da quello che fu in giovinezza. Era dissipato, ed ora si vanta d'essere un capo di famiglia esemplare. Della sua vita passata dice egli stesso che non conserva più che i ricordi; e si assicura che fra questi ricordi ce ne sono dei bellissimi, e di molti paesi, e invidiati, e famosi. Ha un sentimento altero di sè; ma non costantemente: solo in certi giorni della settimana, e quando lo stuzzicano. [116] È servizievole con gli amici, dei quali s'asciuga drammi e commedie e romanzi, senza fiatare, ragionando anzi i suoi giudizi in letterine mirabili di stringatezza e di sincerità fraterna, con le quali rivela agli autori i difetti intimi delle opere e le deficienze inconscienti degli ingegni in un modo maestrevolmente scoraggiante. Non pecca d'avarizia, come molti credono, e come forse credeva suo padre quando essendogli stato detto che il figlio scriveva Le père prodigue, soggiunse: — et le fils avare. Non è milionario per gli altri, come disse del padre suo egli medesimo, ma è caritatevole, e soccorre in particolar modo i letterati e gli artisti poveri, ricordandosi d'aver vissuto i suoi primi anni in quella Bohême, che ora brulica a cento gran cubiti sotto i suoi piedi; sebbene non sia facile ingannarlo col pretesto della beneficenza. L'accusarono d'ingratitudine verso suo padre, per qualche parola che gli sfuggì sulla trascuranza in cui fu lasciata la sua prima educazione; ma è un'accusa ingiusta. Egli dichiarò sempre che non [117] s'è sentito qualcosa se non quando s'è paragonato fuori di casa sua. L'apologia che fece del padre nella prefazione al Fils naturel, dove respinge sdegnosamente la lode di coloro che lo mettono al di sopra dell'autore d'Antony, è una delle poche cose in cui si senta veramente palpitare il suo cuore. Egli parla di suo padre ad ogni proposito. Tutti gli aneddoti che possono riuscire ad onore del suo cuore, della sua vita e del suo genio, li ha continuamente sulle labbra, e li abbellisce sovente, e si dice anche che ne inventi. Si sa invece che suo padre era leggermente geloso di questa gloria che gli cresceva in casa, dovuta a facoltà tanto diverse dalle sue. La sera della rappresentazione di Madame Aubray, a un suo amico che gli lodava calorosamente il dramma del figliuolo, rispose di malumore: Sì, bene, c'è dell'osservazione; mais comme théâtre, enfin, qu'est-ce qu'il y a? — Lo difendeva con affetto quando altri gli dava addosso; e quando lo lodavan troppo, s'impazientava. Chi ha conosciuto l'uno e l'altro, [118] pure riconoscendo la generosità splendida del padre, e l'immensa simpatia che ispirava, gli antepone come carattere saldo, come cuore sicuro alla prova, come coscienza, infine, il figliuolo. I suoi antichi compagni di collegio, migliori giudici dei nuovi amici, sono concordi in questo giudizio. Il convittore Dumas, quindicenne, aveva uno sconfinato entusiasmo per il papá. Non ammirava altri e non parlava d'altro. Grazie a lui, tutto il collegio conosceva un mese prima dell'Europa l'intreccio dei drammi e dei romanzi del grand'Alessandro, e ne leggeva dei brani manoscritti sui banchi della scuola, dietro ai vocabolarii. Un giorno che per la partenza improvvisa del Dumas padre dalla Francia, si credette che fosse stato bandito da Luigi Filippo, il figliuolo ne fu desolato; e i colleghi, per consolarlo, rappresentarono nel cortile un dramma improvvisato, nel quale il re dei romanzieri era coronato di gloria, e il re dei borghesi faceva una pessima figura. Ho visto delle lettere scritte in quel tempo [119] dal piccolo Dumas ai suoi compagni, piene di fantocci, di capricci calligrafici e di buffonate; ma cordialmente espansive, e piene d'un sentimento d'amicizia rarissimo nell'adolescenza. Lo strano è che il Dumas, nel collegio, non diede segno nè d'amore allo studio, nè d'ambizione, nè d'ingegno più che ordinario, nemmeno in letteratura. Non solo non era fra i primi, ma neanche fra i secondi. Se aveva un'ambizione, benchè non studiasse, era di diventare un giorno un erudito, e anche più che un erudito, un bibliotecario. Come scrittore si considerava naturalmente assorbito e annientato da suo padre. Viveva in lui e di lui, gli bastava la gloria paterna, gli pareva che ne sarebbe vissuto lietamente e tranquillamente per sempre. E i suoi grandi trionfi erano quando suo padre veniva a visitarlo al collegio, e professori, scolari, assistenti, inservienti, tutti saltavano su, come scossi da una scintilla elettrica, per vedere un momento dalle finestre e dagli spiragli degli usci quel mago, quel colosso, quel [120] glorioso testone scarmigliato, che empiva il mondo della sua fantasia.

***

Ora l'antico aspirante bibliotecario è uno degli scrittori francesi più divulgati nel mondo, ed anche uno di quelli di cui Parigi s'occupa più curiosamente, e per la singolarità del suo carattere, e perchè attira l'attenzione pubblica come autore drammatico, come polemista nelle più ardenti quistioni sociali, come amatore dispendioso delle belle arti e come gentiluomo ospitale. Quanto alla sua fortuna, basta dire che in non più di sette anni, ossia dopo il Monsieur Alphonse, che pure è già una commedia della decadenza, il solo teatro gli fruttò poco meno d'un milione, di cui deve la quinta parte all'Étrangère, che non ebbe un grande successo, e alla ripresa del Demi-monde. [121] Oltrechè ha un diritto raguardevole sui cento mila esemplari delle opere di suo padre che si stampano ancora annualmente in Francia per ispanderle a traverso a tutti i continenti. Con tutto ciò non vive sfarzosamente: non ha le manie principesche di suo padre. Sta nell'Avenue de Villiers, dove stanno pure il Meissonier, il Gounod e Sara Bernhardt, in una casa propria, graziosa, ma non splendida, fiancheggiata da un giardino semplicissimo, senz'aiuole e senza sentieri, disposto così perchè la sua Jeannine vi possa scorazzare liberamente; in fondo al quale c'è una casa campagnuola d'Alsazia, ch'egli comprò bell'e fatta all'Esposizione del 1878, per mettervi i quadri che non entravano più nelle sue sale. Nella sua casa non c'è di grandioso che lo spazio. Anch'egli sente quel bisogno d'aria viva, di larga respirazione, di libertà di mosse e di passi, per cui suo padre stava in maniche di camicia dalla mattina alla sera, e riceveva le visite in una toilette da fornaio. Non tiene carrozza: la stessa signora [122] Dumas, quando deve uscire, fa venire modestamente alla porta un umile fiacre inzaccherato, che farebbe fremere l'ombra di suo suocero. La villetta dove vanno a passar l'estate non è più magnifica della casa in città. L'unica ricchezza della casa sono le opere d'arte. Contro alle pareti s'innalzano statue e bassorilievi di grandezza naturale; busti di marmo e bronzi ad ogni angolo; e quadri innumerevoli, fitti, che si toccano dai pavimenti alle vôlte, nelle sale di ricevimento, nelle stanze da letto, nelle stanze d'entrata, sui pianerottoli, per le scale, ammonticchiati sui tavoli, ritti sui cassettoni e sui caminetti, appoggiati alle spalliere delle seggiole, fin nei cantucci più oscuri dove bisogna guardarli col lume, fin sui battenti delle porte: quadri di tutte le grandezze e di tutti i generi, di pittori famosi e di genii divinati da lui, paesaggi, madonne, belle donne nude — belles bêtes, com'egli le chiama, — e paesaggi misteriosi che predilige, e scenette arrischiate che tiene al buio, e caricature d'ogni specie; fra cui [123] brillano qua e là gli acquerelli che regala il Meissonier alle sue figliuole per il giorno onomastico, e i cavallini e le porte orientali del Pasini: tanti quadri per un milionetto e mezzo, a quel che si dice. E più bella di tutte è la sua stanza di studio, dove si fanno riscontro il famoso ritratto di lui, fatto dal Meissonier, e un busto in marmo di sua moglie, bellissimo, in mezzo a una corona di grandi tele; — una vasta stanza a terreno, che dà sul giardino, piena di luce, con un enorme tavolo verde nel mezzo, sparso di penne d'oca spuntate e smozzicate coi denti nella furia del lavoro. Tutta la casa nel suo ricco disordine artistico, nello stesso tempo semplice e pomposo, ha non so che aspetto di grandezza, che ispira rispetto; e v'aggiungono molto le immagini e i ricordi del padre colossale, che vi sono profusi. Sopra un tavolino della sala di studio c'è una collezione di mani di donne, di bronzo e di terra; mani piccolissime e delicatissime di patrizie oziose, mani robuste d'artiste, mani pienotte di [124] belle mondane che debbono aver trattato l'ago prima di portare gli anelli ingemmati; mani che, in altri tempi, han forse palleggiato il cuore di chi le fece modellare; e in mezzo a tutte queste manine, spicca, o piuttosto regna, come la destra d'un sultano, la mano del Dumas padre, quella bella e strana mano, dalle dita delicatissime, che rappresentano, secondo la fisiologia del figliuolo, la finezza delle sensazioni artistiche, e dalla palma larga ed atletica, che esprime la potenza dell'esecuzione. Oltre alla mano, ci sono qua e là delle immagini di quel largo viso di papà possente e sereno; vecchi libri suoi; manoscritti a caratteri di scatola, e la collezione enorme dei suoi volumi legati e dorati, che fanno scintillare della sua gloria un'intera parete. E uscendo dalla sala di studio, si trova in faccia alla porta, in un corridoio semiscuro, sopra un alto piedestallo, un busto enorme del gran romanziere, di marmo bianco come la neve, d'una rassomiglianza da sbalordire, con un sorriso parlante sulle labbra e negli occhi; — il [125] quale, rischiarato com'è da una parte sola, da un raggio che vien dall'alto, — ha una tale apparenza di vita, a vederlo così all'improvviso, che fa l'effetto dell'apparizione d'un fantasma, o piuttosto del padre Dumas in carne ed ossa, risorto allora allora per ricominciare il suo lavoro titanico interrotto da uno sbaglio della morte.

***

Qui il Dumas figlio passa le sue mattinate di lavoratore. Prima di giorno è su, d'inverno come d'estate; le lettere che ricevono i suoi amici nella giornata son tutte state scritte al lume della candela, mentre essi dormivano. Lavora di nervo fino a mezzogiorno, e a mezzogiorno la sua giornata di scrittore è finita. Passa il dopo desinare a cavallo nel Bosco di Boulogne, o negli studi dei pittori, [126] e una volta la settimana ha in casa a pranzo una brigata d'amici, la più parte scrittori ed artisti, a cui profonde fra la minestra e le frutta un tesoro di frizzi, d'aneddoti, di epigrammi politici, di giudizi letterari nuovi ed arguti, che girano poi di bocca in bocca, e si spargono pei giornali e pel mondo. In casa sua è uno scampanellìo senza fine: il servitore che porta le imbasciate potrebbe essere sostituito da un automa a movimento perpetuo. Il direttore di teatro s'abbatte sull'uscio nel bohémien senza camicia, il commediografo principiante nello straniero curioso, il giornalista nel pittore, il tipografo nell'attore drammatico spigionato. Ed è poca cosa l'affluenza delle persone in confronto a quella delle lettere, una gran parte delle quali sono dirette a lui come patrocinatore del divorzio, e grande avvocato di tutte le quistioni che si riferiscono alla famiglia, alla donna, all'amore: lettere di malmaritate di tutti i paesi che gli domandano consigli per la separazione; di mogli pericolanti che invocano il soccorso d'un [127] avvertimento paterno; di ragazze di collegio che chiedono suggerimenti intorno alla scelta del marito; di figliuoli illegittimi che gli raccontano la loro storia; di teste matte d'ogni tinta che gli propongono i più strampalati problemi sociali e psicologici; ed egli risponde qualche volta, quando la lettera lo fa pensare, e la risposta è difficile; e altre volte s'impazienta, e butta ogni cosa nel cestino. Così passa la sua vita tra il lavoro, gli amici e l'immenso pubblico sconosciuto, sotto una pioggia di biglietti di visita e di biglietti di banca, incensato, invidiato, seccato, portando con eguale vigore i suoi cinquantasei anni e l'eredità enorme del nome paterno, in mezzo alla grande città che lo ammira e lo maligna e gli chiede pascolo continuamente alla sua curiosità febbrile di regina annoiata.

[128]

***

La figura del Dumas figlio è una delle più strane e delle più degne di studio che possa desiderare un ritrattista letterario. A primo aspetto, è il Dumas dei ritratti fotografici, che tutti conoscono: molto alto di statura, membruto, ma non grasso, benchè abbia un po' di ventre; anzi di forme piuttosto asciutte e svelte, messe in evidenza da un portamento diritto di soldato; una grossa testa, calva sul davanti, con una corona folta di capelli grigi e crespi, che gli stan tutti tesi all'indietro, come se fossero spinti dal vento; i lineamenti del viso bruno terreo, regolari, ma arditi, e l'occhio grande, chiaro e freddo, di cui lo sguardo fa l'effetto dell'interrogazione d'un giudice mal prevenuto. Di viso somiglia un po' al [129] padre, fuorchè nell'espressione degli occhi, che è meno benigna, per non dir punto, e nel contorno, che è più oblungo. Veste trascuratamente, come l'autore del Montecristo. — Questo è il Dumas del primo aspetto. — Cambia affatto quando apre la bocca; il suo primo sorriso produce una vera meraviglia. — Perdio — esclamai dentro di me — è un negro! — Tutta la parte inferiore del viso, la sporgenza delle labbra, i denti, il mento, sono assolutamente d'un negro: s'indovinerebbe alla prima, non sapendolo, che c'è entrato del sangue nero nella sua famiglia. E non solo nella parte inferiore del viso; c'è qualcosa nella forma allungata del busto e nella struttura delle gambe, e più di tutto negli atteggiamenti, nel modo di distendersi e di contrarsi, e in una certa snodatura strana di tutta la sua persona, che ricorda in un modo singolarissimo i movimenti e le positure feline della razza nera. Mi richiamò alla memoria un ufficiale mulatto degli spahis, che avevo visto all'Esposizione, disteso [130] sopra una panca d'una trattoria. Anche la sua voce ha non so che di inaspettato, d'esotico, che stupisce alle prime parole, come una voce alterata di proposito. Tutta la sua persona, fuor che i piedi piccolissimi, ha qualcosa di rude e di austero, come d'un uomo altrettanto esercitato agli strapazzi del corpo che alle fatiche della mente. L'ingegno è tutto nella fronte ampia e curva, e in quel grande e terribile occhio bigio, che con uno sguardo par che abbia bell'e scrutato, pesato e giudicato il vostro cervello e il vostro cuore, e, quel che è peggio, senza lasciar indovinare la sentenza. E più strano dello sguardo è il riso, o piuttosto la risata. M'avevano detto giustamente che ha conservato il suo riso di monello di quindici anni, se non proprio nell'espressione della fisionomia, almeno nell'atto. Improvvisamente da una gravità accigliata e imperiosa prorompe in uno scoppio di risa, come se avesse inteso la più spropositata sciocchezza, e ridendo, scrolla le spalle, incurva la schiena e si tura la bocca con [131] la mano, come fanno i ragazzi per non farsi scorgere dal maestro: poi si ricompone tutt'a un tratto, come uno scolaro colto in flagranti. E ha dei gesti risoluti e taglienti, come se segnasse la cadenza di certe parlate fulminanti delle scene capitali dei suoi drammi; e tronca bruscamente la gesticolazione per sprofondare le mani nelle tasche, come per dispetto d'essersene troppo servito. È una strana persona, in somma, un misto bizzarro d'artista e di colonnello di cavalleria, di avvocato fiscale e di gentiluomo sans façons, di giovinetto e di vecchio, di parigino e d'africano, che quando s'è visto non desta meno curiosità di quella che s'aveva prima di vederlo, e lascia molto incerti sul sentimento che ispira.

[132]

***

E la sua maniera di conversare? È difficile ritrarla. Bisogna immaginare una mente aperta da mille parti, che coglie a volo ogni idea propria o d'altri, con una sollecitudine febbrile, per farne nascere una discussione, o almeno un contrasto momentaneo, se altro non è possibile, di sentimenti e d'opinioni; che sopra ogni più sfuggevole argomento vuol formulare un giudizio che colpisca l'immaginazione e si fissi nella memoria; che ad ogni sentimento che altri esprima passando, s'arresta per frugarvi dentro, e non è soddisfatto fin che non l'ha rovesciato; che nota tutto, s'interessa a tutto, e volta e rivolta in mille modi tutte le idee, con una specie di curiosità inquieta, come se sospettasse in ciascuna un tesoro [133] nascosto d'altre idee, che gli si volessero sottrarre; che a proposito d'ogni soggetto, ha pronto un aneddoto nuovo e concettoso, pescato in un pelago immenso di ricordi di gente e di casi infinitamente diversi; che passa da una ad un'altra quistione toccandone rapidissimamente altre dieci, come fa il suonatore sui tasti del pianoforte, e dice su ciascuna una parola che fa venir sulle labbra mille interrogazioni impazienti; che dall'esposizione, per esempio, d'un suo possibile romanzo su Gesù Cristo, intercalata d'interminabili citazioni d'evangeli, d'epistole apostoliche, della bibbia, dei santi padri e dei libri sacri indiani, salta a ragionare dell'Alsazia e della Lorena, per schizzare a tratti da maestro una bizzarra caricatura del principe di Bismarck; il quale lo conduce a fare un pronostico fantastico sull'avvenire del popolo ebreo, dopo aver strozzato in cinque periodi la storia delle sue vicende politiche; da cui scende a trinciare alla svelta una quistione di frenologia; e poi a crivellare d'epigrammi la lettera [134] del Rochefort, pennelleggiando di passata Leone Gambetta; il quale gli rammenta l'Accademia, che gli dà il destro di definire con poche parole colorite e profonde il magistero dello stile del Rénan; al che fa seguire una comparazione minuta e tecnica fra la pittura del Meissonier e quella del Dupré, per trascorrere poi ad una discussione filologica, e ricascar daccapo nella politica. E tutto questo nel giro d'un ora, detto a frasi nette e risolute, a proposizioni scintillanti, che par che gli scattino dalla bocca, serrate l'una all'altra come anelli d'acciaio, interrotte soltanto di tratto in tratto da uno di quei cachinni strani, che muoiono all'improvviso, come recisi d'un colpo, e accompagnate da un continuo e furioso sfruconare di molle nel caminetto, che solleva un nuvolo di cenere e di scintille ad ogni sentenza. Ma come si rivela l'ingegno irresistibilmente drammatico in ogni suo ragionamento! Mentre esponeva il concetto del suo romanzo su Gesù Cristo, per cui doveva citare personaggi e avvenimenti e giudizi, [135] tutto si faceva dialogo e dramma nel suo discorso; d'ogni cosa parlava come se l'avesse vista e sentita; e ragionava delle persone con un tono di famigliarità curiosissimo come se fosse vissuto tra loro, e avesse egli primo e solo scoperto in tutti chi sa che segreti; e faceva, a sostegno delle sue opinioni, delle osservazioni psicologiche sottili e maliziose sopra ciascun carattere, toccandosi un occhio col dito, con l'aria di dire: — Ho indovinato tutto. — Si capiva che quegli avvenimenti l'attraevano più come un grande dramma che come una grande quistione. In fondo la sua idea è quella dello Strauss, benchè basata sopra argomenti ch'egli crede suoi propri; e ciò vuol dire che è già molto lontano dalla professione di fede che fece nell'Homme femme, e che ogni influsso del suo amico Dupanloup è svanito nell'anima sua. La qual cosa non deve stupire, perchè la sua mente s'avanza, retrocede, serpeggia, è sempre in movimento, come il suo corpo, e muta di continuo come il suo viso. Dice egli [136] medesimo che ha bisogno di questo lavorìo incessante del cervello perchè l'inerzia intellettuale lo gitta immediatamente nella tristezza. Quando rimane per qualche tempo in silenzio, gli si vede in viso che rumina dentro al suo pensiero, che cerca qualche cosa da sviscerare e da discutere, e che s'impazienta se non lo trova. Cento espressioni diverse gli passano sulla fronte e negli occhi anche durante una breve conversazione: prima è sereno, poi triste, poi sereno daccapo, poi stizzito, poi pensieroso e inquieto: somiglia al cielo d'Olanda in un giorno d'autunno. Quand'è allegro, gli si vede come un fondo di tristezza a traverso all'allegria; e non è mai tanto triste, da non lasciar capire che la sua tristezza durerà poco. Per ciò si prova qualche incertezza stando con lui; non si sa bene con quale s'abbia a che fare veramente, dei molti Dumas che si manifestano a volta a volta sulla sua faccia, e spariscono. Non dura cinque minuti in stato di riposo: incrocia le braccia sul petto, le scioglie per passarsi una [137] mano sulla fronte, incrocicchia le dita sul cocuzzolo, si tormenta i pollici colle unghie e coi denti, s'abbraccia ora un ginocchio ora l'altro, e si distende e s'incartoccia, rivoltandosi continuamente a destra e a sinistra, che par perseguitato da uno sciame di vespe invisibili. Ogni pensiero che gli spunta nel capo gli dà un riscossone, come una scintilla elettrica, che lo costringe a cambiare atteggiamento. Sembra che l'epigramma mordente, la sentenza arrischiata, il paradosso, la frase brutale con cui mette a nudo il basso interesse che cova sotto il sentimento gentile, rispondano a un suo bisogno fisico più che non siano un'espressione schietta del pensiero e dell'animo suo; e che il parlare in quella forma sia per lui un modo voluto di sfogare non so che irritazione sorda del sangue, che non è sua natura, ma sua malattia, e ch'egli sfogherebbe meglio, se potesse, sbriciolando tutto quello che gli viene alle mani.

Si quetò un poco facendo vedere la sua pinacoteca. Ritto davanti ai suoi paesaggi preferiti, col [138] gomito destro nella mano sinistra, e l'altra mano sul mento, dicendo le immaginazioni che gli destavano in capo certi orizzonti oscuri di campagne solitarie, flagellate dal vento, pareva un altro Dumas: il suo viso si rasserenava, la sua voce si raddolciva, e le parole, invece di scattare, colavano. Si raddolcì specialmente, e mutò quasi aspetto, tratteggiando il carattere nobile e modesto d'un pittore suo amico, grande d'ingegno, ingenuo di modi, semplice come un fanciullo, pieno di cuore e d'entusiasmo, e pure timido, inconsciente del suo valore, facile all'ammirazione di tutto e di tutti, e buono e dolce come un santo in ogni atto e in ogni parola: non si può dire la delicatezza delle espressioni, il buon sorriso di fratello con cui il Dumas ne ritrasse l'indole e ne raccontò la vita. Sempre discorrendo, girò di sala in sala, salì e discese per scale a chiocciola coperte di tappeti, staccò quadri, smosse dei mobili per far vedere le tele mal collocate, camminando sempre a passi rapidi, curvandosi e rialzandosi [139] con la snellezza vigorosa d'un ginastico, e dicendo dinanzi ad ogni quadro una parola vibrata e pittoresca, che lo definiva e lo giudicava. E intanto io dicevo all'orecchio dell'amico che m'accompagnava: — Mi pare d'aver visto dieci Dumas —, ed egli mi rispondeva: — ne vedreste trenta, se restaste con lui tutta la giornata. — E poi si ridiscese in mezzo ai libri, dov'egli ripigliò la sua conversazione saltellante dall'arte alla politica, alla religione, alla storia, ragionando a botte da maestro di scherma e stropicciandosi le mani e la testa con la solita febbre; finchè improvvisamente apparve l'undecimo Dumas, che fu il più geniale e il più artistico di tutti.

Il discorso cadde sulla sua Jeannine, l'unica figliuola che gli rimanga in casa, essendosi maritata poco tempo fa la maggiore, che si chiama Colette. La signorina Jeannine ha tredici anni, ed è cresciuta, in un anno, di sedici centimetri. Fu amabile veramente il Dumas quando si mise a [140] descrivere, com'egli sa descrivere, quella cara grandigliona d'una bambina, venuta su all'improvviso, e rimasta sottile sottile, che spenzolava da ogni parte, nei primi mesi della crescenza, come un fiore dondolato dal vento, sempre con quel bocciuoio di testina bionda ripiegato sopra una spalla, a cagione della tenuità dello stelo, tanto che suo padre doveva rialzarla ogni momento, come un giardiniere amoroso, e rimetterla ritta contro lo spalliera della seggiola, con una carezza sotto il mento. Poi cominciò a raccontare tutti i suoi miracoli di precocità intellettuale, le sue uscite comiche, le sue ragioni di donnina, e certi suoi impeti d'eloquenza fanciullesca contro la tristizia del mondo, con una grazia così affettuosa d'accenti e di gesti, da parer strano che fosse lui proprio quello spietato anatomista dell'anima umana, che immaginò la perfidia della Femme de Claude e l'anima fracida del duca di Septmont. Tutto ad un tratto cessò di parlare, e gli brillò sul viso il più dolce dei suoi sorrisi africani. Mi voltai e [141] vidi la deina della casa, tutta vestita di rosso vivo, alta alta e leggera da smoverla con un soffio, con un visetto di bambola grazioso e ridente, con certi attini di capo da rondinella, e una voce che pareva il mormorio d'un filo d'acqua: un abbozzino di damigella, insomma, ancora tutta odorosa d'infanzia, lunga ed esile come un'ode in versi quinarii. Ma suo padre la presentò come un poema. Ed è infatti il suo amore e la sua alterezza. Essa gli riempie la casa dello svolazzo vermiglio della sua vestina e del suo sfringuellìo di scolaretta, e tempera così l'irrequietezza tormentosa del suo spirito, troppo lucido contemplatore delle verità tristi della vita. Forse noi dobbiamo a lei, o le dovremo, qualche bella scena di commedia e qualche bella pagina di romanzo, che sarà scritta su quel gran tavolo verde, all'eco della sua voce. E se ciò non fosse, le dovremmo almeno questo piacere: di poter mettere una sfumatura color di rosa sopra il ritratto di suo padre.

[142]

***

Ad Alessandro Dumas figlio fa un contrasto singolarissimo Emilio Augier. Questi è tutto francese, anzi genuinamente parigino, anche d'aspetto. È alto egli pure, benchè un po' meno del Dumas; ha una corporatura possente ed elegante di gentiluomo vissuto fra le armi, e una testa all'Enrico IV; è bello, gaio, buono, sempre d'un umore, e porta la sua celebrità non come un manto, ma come un fiore all'occhiello. Ora non è più l'Augier d'una volta; non perchè sia molto invecchiato, ma perchè s'è quetato. Chi lo conobbe nel suo buon tempo, quando aveva una bella capigliatura nera e inanellata, e le guancie rosee, dice ch'era un uomo veramente seducente; d'un [143] umore non solo allegro, ma gioioso; una natura felice e straripante, piena di quella bella baldanza giovanile, che, invece di offendere, affascina, perchè non nasce da orgoglio, ma da esuberanza di vita e di contentezza. Era il Francesco primo della letteratura, dicono; un'anima ardita, brillante e amorosa; un misto mirabile, come fu detto delle sue commedie, d'esprit et d'âme, d'émotion et de gaîté; amato dagli amici, adorato dalle donne, prediletto dai grandi, cercato e festeggiato da tutti e da per tutto; che portava, dovunque apparisse, un soffio ardente di gioventù e di piacere, e passava la vita in mezzo agli applausi, alle risa, ai baci, agli onori, alle invidie, tutto superando e dominando con la sua gagliarda natura di colosso benigno, alto tanto da poter camminare a traverso a tutti i piaceri e a tutte le miserie del mondo, tenendo sempre la fronte nell'arte.

A un certo punto scomparve dalla festa, e diventò il più raccolto e il più casalingo dei poeti drammatici. Quello che si vede ora è un secondo [144] Augier, a traverso al quale traspare ancora il primo, ma vagamente, come certe scene luminose di teatro dietro a quei teloni sottili che scendono improvvisamente sul palcoscenico, trasportando gli spettatori dal tumulto d'un ballo nel silenzio d'una casa privata. A vederlo ora nel suo bel salotto di via di Clichy, affondato in una grande poltrona, vestito alla diavola, con la sua gran testa calva, rosso nel viso, grasso, con gli occhi un po' rimpiccioliti, e pieni di dolce quiete, con quel sorriso benevolmente canzonatorio, con quei gesti larghi e riposati, ha l'aria d'un buon borghese opulento, d'un buon padre di famiglia che abbia dato un collocamento onesto a tutti i figliuoli, e non faccia più altra parte al mondo che quella di spettatore soddisfatto. Ma s'indovina ancora della forza sotto a quella quietudine di giubilato, e si capisce alla prima che non è la giubilazione d'un segretario invecchiato tra i protocolli, ma il riposo d'un generale d'armata, un po' strapazzato dalle campagne, ma pronto a rimontare [145] a cavallo, se la necessità si presenta o il capriccio lo piglia.

Eppure, nonostante la sua bella testa, c'è non so che nel suo aspetto che non corrisponde intieramente all'immagine che ci formiamo dell'Augier. È lui; ma non tutto. Non si direbbe, vedendolo, che sono opera sua i grandi colpi di scena di Diane, gli slanci terribili di passione di Paul Forestier, la disperazione straziante del Pommeau nelle Lionnes pauvres, e quelle anime dannate del D'Estrigaud e d'Olympe, e tutte quelle scene potenti che mettono i brividi nelle ossa, e nello stesso tempo suscitano e comprimono un'onda di pianto ardente nel cuore. Pare che debba averle scritte un altro Augier, nascosto in lui, che salti su e si manifesti solamente nelle grandi occasioni. Quello che si capisce subito dal suo viso è il signor Poirier, il signor Maréchal, il signor Fourchambault, il signor Adolfo di Beaubourg, il marito di Gabriella, il fratello dell'Avventuriera; sono i suoi padri di famiglia, [146] buoni e galantuomini in fondo, benchè con qualche baco nella coscienza, i suoi giovanotti cavallereschi che vogliono arruolarsi negli zuavi quando scuoprono una macchia nella famiglia, le sue ragazze ricche che cercano l'amore d'un povero, i Piladi affettuosi e devoti dei suoi Oresti imprudenti; ed anche la cura amorosa e paziente con cui ha cesellato i suoi dialoghi, così squisitamente arguti e prettamente francesi, — i suoi bei distici limpidi e facili, — quella schietta vena di poesia che si fa sentire senza farsi vedere, — il buon senso, insomma, il buon gusto e i buoni versi, come gli dissero all'Accademia, — e quell'aura di onestà, di bontà e di gentilezza che spira da un capo all'altro delle sue commedie, siano gaie o tristi o terribili, e che conforta il cuore, come l'eco d'una musica sommessa che ci giunga all'orecchio insieme alle parole dei personaggi.

Quella bella e quasi famigliare spontaneità che è nella sua poesia, è pure nella sua indole e nei suoi modi. Non si può immaginare una garbatezza [147] più amichevole della sua nel ricevere gli sconosciuti. Verrebbe tanto naturale, dopo essere stati un quarto d'ora con lui per la prima volta, di dire al primo incontrato: — Sono stato dall'amico Augier. — L'alterezza non sarebbe in lui che un giusto sentimento di sè; ma per trovargliela, come dicono i suoi amici intimi, bisogna andargliela a cercar coll'uncino proprio in fondo all'anima, sotto a un tesoro di bonarietà e d'indulgenza. Mai al mondo si penserebbe, a sentirlo discorrere così pacatamente, come un buon massaio, di mille bazzecole di casa, voltandosi ogni momento a domandare il parere alla sua signora, bella ancora d'una certa bellezza amorevole e placida, benchè poco meno attempata di lui, che quell'onesto e assennato capo di casa, porta intorno alla testa la gloria più difficile, più invidiata, più smaniosamente e tormentosamente cercata nel campo immenso dell'arte. Egli ama la quiete del suo guscio, i suoi buoni comodi, e come disse nelle sue belle poesie Les pariétaires:

[148]

Un foyer où pétille un fagot de genêts,

De la bière, une pipe, et, dessus toute chose,

Des compagnons qu'on aime, avec lesquels on cause

Bien avant dans la nuit, le pied sur les chenets;

e le cenette senza chiasso, la musica del Rossini, i paesaggi del Vatteau, e i buoni incassi dopo i buoni successi, e la gloria, senza dubbio, ma un po' da lontano, senza sentirne i fumi e i clamori. Le commedie che fece con la collaborazione di qualche amico, le immaginò e le discusse quasi sempre accanto al fuoco, coi piedi sugli alari, contento di veder biancheggiare a traverso ai vetri il tetto della casa vicina, carico di neve. La sera, mentre i teatri di Parigi, di Vienna, di Roma, di Londra, di Madrid, risuonano tutti ad un tempo, come accade non di rado, degli applausi provocati dalle sue creazioni, egli è là nel suo cantuccio, insaccato in un giacchettone da padre nobile, che gioca beatamente alle carte con madama Emilio Augier, appassionandosi nei momenti [149] critici, come se giocasse un atto di commedia per partita, secondo l'uso di Ulisse Barbieri. E tutti i suoi gusti sono semplici ad un modo. Fino a due anni fa ebbe la passione delle pipe, e ne possedeva una grande collezione, che andava annerendo amorosamente, tutte ad un tempo, mediante una ripartizione sapientemente regolata dalle sue cure.

Ma benchè paia così tutto di casa, e quasi incurante della sua gloria, sente però gentilissimamente le testimonianze d'ammirazione delle persone più umili, e preferisce appunto quelle soddisfazioni d'amor proprio, alle quali pare che dovrebb'essere più indifferente. Lo rallegra per tutta una serata una bambina di dieci anni che gli dice ingennamente: — Sapete, père Augier, mi piace molto Maître Guérin; — e lo sguardo curioso e affettuoso dello straniero che lo vede per la prima volta gli fa splendere negli occhi una bontà e una contentezza d'artista di vent'anni, accarezzato dalla prima lode. Bisogna vedere con [150] che compiacenza, come se fosse una cosa straordinaria per lui, mostra l'album di fotografie dei Fourchambault, che gli mandò il Pietriboni, e che egli tiene sul tavolino del salotto. — Questi sono capocomici gentili — dice; — in Francia, invece, mi fanno fischiare,... come a Lione. — Ma i fischi di Lione non devono aver turbato menomamente i suoi placidissimi sonni. Egli ha l'aria d'un uomo che non abbia mai sentito certi dispiaceri per una specie di pigrizia del cuore che non voglia scomodarsi nè per le gioie nè per le noie. Una voluttuosa pigrizia è il fondo della sua natura. È strano a dirsi, mentre son là otto volumi di commedie, in ciascuno dei quali son condensati otto romanzi, e che portano tutti l'impronta d'un lavoro accuratissimo d'intreccio e di stile. Eppure è così: non è un lavoratore di istinto. Ogni sua produzione teatrale è stata un gigantesco sforzo della sua volontà contro la sua natura, tanto che anche nel tempo della sua maggiore operosità intellettuale, dovette sempre, per riuscire a fare una [151] commedia, cogliere a volo il momento più favorevole, afferrarvisi con tutte le forze, tremando che gli sfuggisse, e da quel momento lavorare con l'arco dell'osso fino alla fine, senza arrestarsi mai, per mesi e per mesi, di notte e di giorno, mangiando a scappa e fuggi, non vedendo nessuno e non udendo parlar d'altro, come un recluso o un maniaco; poichè sapeva certissimamente che la violenza che avrebbe dovuto fare a sè stesso per rimettersi al lavoro dopo una sola giornata di sosta, sarebbe stata superiore alle sue forze. — Per poter fare una commedia — dice — ho sempre dovuto seppellirmici dentro. — Si stancava; ma quand'era stanco, l'eccitavano il tabacco e la musica. Disteso sopra un canapè, con la testa appoggiata sulla spalliera, e lo sguardo vagabondo dietro ai nuvoli del fumo, mentre le sue sorelle, nella stanza accanto, suonavano sul pianoforte la sua musica prediletta, in uno stato così di mezza ebbrezza e di abbandono, egli fantasticava le più belle scene del Figlio di Giboyer e della Pierre de [152] touche, e quando sentiva l'idea matura, saltava a tavolino e ci rimaneva delle mezze giornate senza alzare la testa. Quando poi aveva terminato, si abbandonava per parecchi mesi a un ozio beato, non turbato neppure dalla lettura della gazzetta, al piacere delle passeggiate senza scopo e delle chiacchierate capricciose e interminabili con gli amici intimi, e cercava continuamente d'illudersi che quel paradiso dovesse durare per sempre; e lo atterriva l'idea di dover presto o tardi ritornare alla catena dell'arte. Senonchè questa maniera di lavorare gli fece danno, specialmente agli occhi, tanto che ora non può più lavorare che la mattina di levata e per non più di due ore. — Nondimeno — egli dice, — provate a lavorare anche due sole ore, ma di seguito, e ogni giorno impreteribilmente; rimarrete meravigliati di quanto avrete fatto in capo a un mese. Una gran parte di lavoro, in quelle grandi sfuriate, va perduta; mentre quel che si fa in due ore, a mente fresca, è tutto lavoro che rimane. — Ma anche nei tempi andati, durante [153] quelle lunghe fatiche non interrotte, egli ebbe sempre un modo quieto e per così dir composto di lavorare. Ha fatto violenza ai suoi nervi piuttosto che al suo ingegno. Ne forçons pas notre talent, è la massima a cui s'è sempre attenuto. Mettendosi a scrivere una commedia non s'è mai proposto di far meglio che pel passato, ad ogni costo, come molti si propongono; ma semplicemente di far bene, senza stimolarsi coi confronti, che turbano sovente e fuorviano. Non volle mai pigliare il suo soggetto con un assalto furioso; ma così, a poco a poco: tender prima l'orecchio ai suoni sparsi ed incerti dell'ispirazione, che sono come un preludio lontano dell'opera; girare lentamente intorno alla idea ancora confusa, per scoprirne l'una dopo l'altra tutte le faccie; tentare e ritentare le difficoltà, senza impazientarsi degli esperimenti inutili; sforzarsi di mantenere la mente serena, per quanto è possibile, anche quando l'animo è agitato; e non arrischiarsi mai in una parte vitale e pericolosa del lavoro prima d'aver preparato [154] coscienziosamente tutti i mezzi necessarii a riuscirvi. — La contemplazione tranquilla del proprio argomento, come diceva il Manzoni. — Così non ha mai molto corretto perchè prima di scrivere ha sempre molto voltato e rivoltato nella mente l'idea, la frase e la parola.

Ma nel corso del lavoro, lo confessa, il suo più potente stimolo è sempre stato l'idea dell'infinita consolazione che avrebbe provato terminando. E scherza sovente su questa sua pigrizia, molto lepidamente. Passò cinquant'anni della sua vita, per esempio, senza aver visto un'aurora. Un giorno finalmente disse a sè stesso: — In questo stato non si può durare. Invecchio. Andarmene senza aver visto uno spettacolo di cui si raccontano tante meraviglie, sarebbe un obbrobrio. Bisogna vedere una aurora. — E si mise a fare delle démarches per procurarsi questa consolazione. Ma fu sempre disgraziato. Salì due volte sul Monte Righi, e ci trovò due volte una nebbia che s'affettava; si levò presto in campagna e fu [155] ricacciato in casa dalla pioggia; fece la sentinella molte volte, come guardia nazionale, nel Bosco di Boulogne, durante l'assedio, nelle prime ore della giornata, e gli toccò sempre un cielo da venerdì santo. Cominciava a disperare della riuscita, e n'era addolorato e avvilito. Finalmente, poche settimane fa, viaggiando per strada ferrata, vide per la prima volta un'aurora. — C'etait joli, en effet; — ma può dire d'essersela guadagnata. Ne fa anche un po' di caricatura di questa pigrizia, qualche volta. Ho riso di cuore dello sguardo compassionevole che diede a un amico, il quale esclamava entusiasticamente: — Ah il lavoro è la gioia, è la vita! —, e dell'accento comico con cui gli domandò: — Ma... lo dite sul serio? — Certo, la tendenza ai dolci ozii che aveva da giovane, gli s'è accresciuta con gli anni. C'è anzi chi crede che non abbia più scritto commedie in versi da un tempo a questa parte, non per altro che per scansare la fatica, come dice Dante, di dir le cose per rima: non fece in versi che il Paul Forestier, [156] per velare di poesia l'audacia della gran scena del terzo atto fra Lea e il suo amante. Dopo aver scritto in versi nove splendide commedie, alle quali deve principalmente la sua gloria letteraria, crede ora che sia meglio scrivere in prosa. A un amico che gli annunziava di voler scrivere una commedia in versi: — no, no — disse, con un'espressione di noia, come se avesse dovuto cercargli le rime lui stesso; — fatela in prosa: on est bien plus libre, allez. — Ma qualunque sia la ragione di questo suo mutamento di gusto, è fuor di dubbio che egli si sente stanco, se non invecchiato di ingegno, e che non è più l'ispirazione impetuosa d'altri tempi, e come un bisogno della mente e del cuore, la forza che lo spinge a creare. Da parecchi anni, ad ogni commedia che fa, dice che sarà l'ultima; e si mise a scrivere i Fourchambault appunto dopo una di queste solenni dichiarazioni. — Come mai? — gli domandò un amico cogliendolo sul fatto, con l'abbozzo delle prime scene fra mano; vuol dire dunque che si [157] ricomincia? — Eh santo Iddio — rispose — che cosa volete? Le spese crescono continuamente.

Ma delle sue ragioni intime d'artista è difficile che parli anche con gli amici più stretti, non per disdegno, ma perchè gli ripugna naturalmente discorrere di sè e delle cose sue come d'affari di Stato. E questa ripugnanza «a servire in tavola l'anima propria,» come diceva il Balzac, si riconosce nelle sue liriche, nelle quali è rarissimo trovare un verso che getti un po' di luce sopra la sua indole e sopra la sua vita, se non sono i versi d'amore che pure non hanno nulla di profondamente individuale; e si riconosce anche in ciò, che di tutti gli autori drammatici francesi, è quello che scrisse meno prefazioni, e che, per quanto l'abbian tormentato gli editori del suo teatro completo, non son riusciti a strappargli un cencio di prosa da attaccare al primo volume. Lo stesso è per gli autografi e per le biografie. A un direttore di giornale che gli chiedeva un autografo per la sua gazzetta illustrata, [158] scrisse: — Non sto bene, vi stringo la mano; — e a un tale che gli domandò notizie per scrivere la sua biografia, rispose: — Son nato nel tal luogo. Ho tanti anni. Non mi è accaduto nulla di straordinario. — Nemmeno i suoi più famigliari son mai riusciti a cavarsi la curiosità di sapere quale sia la commedia per la quale egli sente più tenerezza di padre; benchè abbian ragione di supporre che sia l'Aventurière, la prima commedia in cui rivelò ingegno maturo e sicurezza di sè; commedia tutta sua, brillante di vita da un capo all'altro, e vestita di poesia freschissima; la quale, se non ebbe alla prima un successo eguale alla Cigüe, perchè rappresentata pochi giorni dopo gli avvenimenti di febbraio del 1848, fu però quella che portò il suo nome più alto e gli aprì le porte dell'Istituto. Egli non parla nemmeno di letteratura in generale, se non ci è forzato; e i suoi amici affermano che uno che non lo conoscesse potrebbe fare un viaggio di tre giorni con lui, senza sentire dalla sua bocca [159] una sola parola che desse un sospetto lontano dell'esser suo. Se lo tirano per i capelli a discorrere d'arte, lo fa in un modo tutto suo, con un certo linguaggio pratico, da strapazzo, come un operaio che ragioni del suo mestiere. Non recita il sermoncino preparato, come faceva Gustavo Flaubert, se ne può essere sicuri, e non la piglia tanto dall'alto per dimostrare a un contradditore che il teatro risponde a un istinto dell'uomo: — Oh buon Dio! Guardate i bambini di due anni, che non sanno ancora parlare, e fanno già la commedia con due pezzi di legno. — E poi cambia discorso.

Non è più il parlatore abbondante e caloroso d'una volta: non fa per lo più che ascoltare, e quando ha da dir qualche cosa, se può cavarsela con una mezza parola o con un gesto espressivo, ne par contentissimo. Solo di quando in quando, una o due volte per sera, si anima a poco a poco, svolgendo un aneddoto, e allora spiega un vivacissimo senso comico, molieriano, largo e di buona [160] vena, sostenuto da un buon riso di petto, grasso, che dà gusto a sentirlo, e da una bella voce rotonda di basso baritonale, che empie la sala; e nel calore del discorso, gesticolando come un attore eccitato, alza la sua nobile e poderosa figura di artista, in maniera che par di veder risorgere l'Augier antico, quando declamò quella appassionata apologia del Lamartine all'Accademia. Poi torna a inchiodarsi sulla sua poltrona e a chiudersi nel suo silenzio; e a vederlo così muto, quando passa la sua mano signorile sulla testa calva, cogli occhi fissi alla volta e vagamente sorridenti, si indovina che gli attraversano la mente le platee tumultuose delle prime rappresentazioni, e i banchetti trionfali, e i superbi amori, e tutte le avventure inebbrianti della sua giovinezza di principe.

Anche nel poco che dice, però, con quell'apparenza di trascuratezza, come se il parlare lo faticasse, c'è il pregio che si trova nei dialoghi delle sue commedie: ogni parola ha un valore, [161] ogni menoma cosa è espressa in una forma stretta ed arguta, che rivela l'abitudine di sfrondare il discorso per far più rapida l'azione. Era un divertimento, per esempio, sentire con che brevità e con che efficacia di termini descriveva ad uno ad uno, comicissimamente, gli attori che debbono rappresentare tra poco il suo Mariage d'Olympe al Ginnasio; tra i quali la prima attrice, une drôle de petite tête mauvaise, abbozzata apposta per fare quel serpente di contessa di Puygiron, che avvelena l'aria dove passa; poichè per lui l'attore dev'essere anzi tutto il personaggio fisico che ha da rappresentare, e l'enveloppe physique equivale alla metà dell'ingegno. Ed ha un bell'essere mite e benevolo: si capisce nondimeno che, in altri tempi, doveva essere il malcapitato quello ch'egli pigliava a sforacchiare con la punta dell'epigramma. Sempre lascia trasparire qualche baleno del potente spirito satirico che gli ispirò La langue, quella sfilata di consigli mordacissimi a un avvocato, al quale promette la Francia purchè riesca a parlare [162] quattr'ore di seguito senza sputare. Ma è rarissimo che se ne valga, anche con parsimonia. Non dice male di nessuno, ed è facilissimo alla lode. Gl'intesi fare un caloroso elogio, coll'accento d'una irresistibile sincerità, dell'ingegno del Sardou, e non gli udii esprimere un giudizio crudamente sfavorevole nemmeno sopra i più inetti raffazzonatori di situazioni rubate. Si dice che altre volte tartassasse un po' Victor Hugo, per le sue spacconate rettoriche (e non è cosa da stupire in uno scrittore, com'è lui, di gusto finissimo e di logica rigorosa); ma ciò non gl'impedì di dedicare all'autore delle Orientali una graziosissima poesia, nella quale parlando delle relazioni del poeta con la musa, dice fra le altre cose, qu'il lui fait un enfant chaque fois (diciamo così) qu'il l'embrasse; poesia rimasta inedita, si capisce, a cagione di quell'abbraccio. Il solo con cui stia un poco punta a punta è Alessandro Dumas, l'unico rivale della sua misura; ma lo punzecchia con una certa benevolenza paterna, che dà appunto un sapore lepidissimo ai [163] suoi scherzi; i quali girano d'amico in amico fin che arrivano su quel certo tappeto verde sparso di penne d'oca, da cui ritornano al mittente, per la medesima via, rovesciati con quel garbo che si può capire. In fondo, l'uno tratta l'altro con gentile compatimento, come un bon enfant, un giovane d'ingegno, che promette, e che farà qualche cosa, purchè ci si metta di proposito. Forse il Dumas ride un po' delle «prudenze» dell'Augier, e l'Augier delle «pazzie» del Dumas; ecco tutto. Il grande pubblico però ha maggior simpatia per l'Augier, che non lo piglia mai di punta, e non gli mostra le corna dell'orgoglio, ed ha fama universale di bontà e di placidezza; e il Dumas lo esperimentò varie volte: alla prima rappresentazione dei Fourchambault, per esempio, a cui assisteva in sedia chiusa, in mezzo a molta gente che applaudiva per fargli dispetto; tanto che egli perdette la pazienza e disse forte al direttore Perrin che passava: Eh, monsieur Perrin! Quel beau succès nous faisons à monsieur Augier, n'est-ce pas? — E poi uscendo: — decisamente [164] l'arte è più facile per tutti che per me. — Ma non c'è vero rancore tra loro, nè ci può essere a quell'altezza che hanno raggiunto tutti e due sopra la montagna smisurata dell'arte.

Nè giova far dei confronti. Una sola cosa si può dire senza esitazione, ed è che l'Augier è più puramente e più spontaneamente poeta drammatico. È nato per il teatro, non visse che per il teatro: avrebbe forse, se non scritto, immaginato delle commedie, se fosse nato in un duar della Barberia o in un villaggio dell'estrema Siberia. Tutte le forze dell'ingegno e dell'animo lo spingevano alla poesia drammatica, e vi sarebbe riuscito illustre, anche impiegandovi una minor forza di volontà di quella che v'ha impiegata. Non ha una grande cultura: studiò poco; ma benissimo. I suoi studi circoscritti li fece con passione e con discernimento squisito, in una sola direzione, con un proposito unico, rifuggendo da quella immensa varietà di letture precipitate, che opprime la mente senza lasciarvi un'impronta; lasciando in disparte [165] tutto ciò che era certo di non riuscire ad appropriarsi in maniera da farsene sangue. Tre cose gli occorrevano sopra tutte: vivere, e ha vissuto intensamente in tutte le classi sociali; conoscere il teatro moderno, e se l'è inviscerato; possedere il magistero della lingua letteraria e maneggiare insuperabilmente la lingua familiare; e non c'è da dire se c'è riuscito. Oltre a questi limiti ha fatto poca strada. Non credo che conosca altro che per nebbia le letterature classiche, nonostante le sue traduzioni d'Orazio e le sue imitazioni d'Alceo; e aveva forse ragione quel critico svizzero che per difendere l'Augier dall'accusa di aver copiato Plauto, disse ch'era impossibile che l'avesse letto. Così, fuor della letteratura, diversamente da molti altri, non si curò affatto di raccoglier scienza da portare sul capo come i pennacchi dei cavalli di parata; ha avuto sempre un sovrano disprezzo della dottrina di seconda mano, e non s'è mai lasciato tentare a introdurre nelle sue commedie uno di quei personaggi muffosi [166] e pieni di pretensione, i quali sono incaricati di far capire al pubblico che l'autore ha finto degli studi serii. Tutto quello che ha messo sulle scene è intimamente suo, sinceramente acquistato e profondamente posseduto. Egli non è null'altro che un grande autore drammatico, e tale diventò informandosi principalmente alla bella sentenza che si trova nella sua poesia al Ponsard: — l'immortalità si guadagna meditando sulla bellezza. — Non s'occupò mai d'altra cosa. È uno dei pochissimi francesi, per esempio, — lo dice egli stesso, — che non amò mai la politica; scienza che è tentato di mettere nel primo ordine delle scienze inesatte, tra l'alchimia e l'astrologia giudiziaria, tante volte gli avvenimenti hanno sbugiardato i suoi calcoli più speciosi e i suoi principii più opposti. Una volta se n'occupò non di meno; ma per i suoi fini di autor drammatico. Ha messo un giorno il piede sulla soglia della vita pubblica per studiare il meccanismo e l'ufficio delle istituzioni dello Stato, [167] come un pittore frequenta la clinica per imparare l'anatomia; e gliene rimase un gusto vivo per la medicina sociale, ma senza fargli spinger lo studio più in là che non fosse necessario per la sua arte. Eppure il suo ingegno è così fermo, così equilibrato nelle sue facoltà diverse, così largamente fondato sul buon senso, — su quel buon senso degli uomini di genio, come diceva il Lamennais, che non si deve confondere con quello dei portinai, — che in qualunque disciplina si fosse esercitato, vi avrebbe fatto buona prova. E ne fa testimonianza l'unico suo scritto politico, quel breve studio sulla questione elettorale che pubblicò nel 1864, per proporre il suffragio misto; poche pagine, nelle quali, qualunque sia il valore della sua idea, c'è una cognizione così netta di tutti gli elementi e di tutti gli aspetti della quistione, un ragionamento così fortemente tessuto, e un'esclusione così sapiente d'ogni anche minima intromissione delle sue facoltà artistiche —, intromissione che cresce allettamento, ma toglie efficacia [168] morale agli scritti sociali del Dumas, — da far credere l'autore, a chi non lo conoscesse, un uomo tutto politica e amministrazione, che non abbia fatto un verso in vita sua.

E questo alto buon senso, quest'armonia mirabile dell'immaginazione e del raziocinio, del sentimento poetico e dell'esperienza della vita, che si rivela nelle sue opere letterarie, si rivela in tutti i suoi atti e in tutti i suoi discorsi. Nulla egli perde a conoscerlo in casa dopo averlo applaudito al teatro. Lo si trova sensato e poetico, forte e affettuoso, profondo e semplice in ogni cosa. Non ha figli; ma una corona di nipoti, che lo amano e lo accarezzano come un padre e lo trattano con un misto di famigliarità, di riverenza, di gaiezza e di terrore artistico, carissimo a vedersi. Ha una villa a Croissy, vicino Chatou, in un luogo dove fece lui fabbricar la prima casa e piantare i primi alberi; in grazia di che fu dato il suo nome ad una strada; e dire Emilio Augier fra la gente di quel paese, è come dire padre [169] della patria e imperatore del teatro. Vicino alla sua ci sono le ville delle sue sorelle. Quando ha una commedia da scrivere, o una scena da rivedere per una ripresa, scappa da Parigi col suo scartafaccio, e va a rifugiarsi nella sua palazzina tranquilla, che si specchia nella Senna, in faccia a un antico castello della Dubarry. Di là, tra un atto e l'altro, fa una corsa in casa dei nipoti, i quali festeggiano dal terrazzo ogni sua apparizione, come una nidiata d'ammiratori plaudenti dal palchetto d'un teatro. In questa nidiata ci sono due signorine di sedici anni, Paolo Déroulède, autore dei famosi Chants du soldats, un capitano d'artiglieria decorato della medaglia al valore, e un giovane Guiard, che sarà forse una gloria del teatro francese: un gruppo di belle persone, di belle anime e di begl'ingegni. L'Augier, si capisce, ha una grande simpatia per il suo Paul, saltato su tutt'a un tratto con cinquanta edizioni di un volumetto di liriche. Il giorno che uscirono i suoi Chants du soldat gli disse: — Bravo Paolo! Ora hai finito d'essere [170] mio nipote. — Ma tanto, un po' per affetto e un po' per essere più sicuro del fatto suo, un'occhiatina ai manoscritti di lui, prima della pubblicazione, ce la vorrebbe dare. — Ma com'è possibile? — dice il nipote. — Supponete che egli mi dica: cambia, e ch'io non ne sia persuaso, come si fa a dirgli di no, a uno zio che si chiama Emilio a Croissy, sta bene; ma che si chiama Augier a Parigi? E non si può immaginare la festività cordiale e brillante di quei desinari di famiglia nella sala a terreno della villa Déroulède, quando in mezzo a quella bella corona di teste giovanili, troneggia l'oncle — quell'oncle —, specialmente negli anniversarii dei suoi grandi trionfi drammatici, che i nipoti festeggiano con commediole di occasione scritte dal poeta della Moabite. Per tutta la serata è un alternarsi vivacissimo di frizzi, di aneddoti ameni e di discussioni utili e belle, in cui ai ricordi gloriosi dello zio si mescolano le speranze gloriose dei nipoti; e pare che col suono delle voci allegre e dei bicchieri, [171] si confonda un'eco degli applausi delle platee lontane, e che fra commensale e commensale sporgano il viso i fantasmi di Giboyer, di Guérin, di Fabrice, di Gabrielle, di Philiberte, di Poirier; e che dietro ai vetri della finestra debba comparire da un momento all'altro la larga faccia sorridente e benevola del padre Molière. Amabile e ammirabile famiglia davvero, la quale vi fa benedire mille volte quelle poche pagine bagnate di sudore e di pianto, che vi fruttarono la gioia d'esservi ricevuti come un amico.

[175]

L'ATTORE COQUELIN

Costanzo Coquelin, primo artista drammatico della Francia, è figliuolo d'un panattiere. Nacque nel 1841 a Boulogne-sur-mer, e durante tutta la sua adolescenza impastò e infornò con suo padre, il quale contava di lasciarlo erede della bottega, ch'era bene avviata. Ma i panattieri propongono e la natura dispone. Il piccolo fornaio non aveva ancora dieci anni che pigliava già degli atteggiamenti drammatici dentro ai nuvoli di farina, e declamava dei versi galoppando per le strade di Boulogne, col paniere del pan fresco sopra le spalle. Un bel giorno si piantò davanti a suo padre [176] e gli disse a faccia franca: — Papà, io voglio fare l'artista drammatico. — Il papà alzò la faccia infarinata dalla madia, lo guardò fisso e rispose placidissimamente: — Figliuol mio, io credo che ti giri. — Il figliuolo insistè; il padre, buon diavolo, finì con l'arrendersi, e Costanzo lasciò il forno per la scuola. Terminate le scuole andò a Parigi, si presentò al Conservatorio, vi fu ammesso, studiò nella classe del Régnier, si fece onore, e dopo un anno entrò nella compagnia gloriosa della Comédie française, dove recitò per la prima volta il 7 dicembre del 1860, a diciannove anni, facendo la parte di Gros Renè nel Dépit amoureux, dopo la quale si provò in quella di Petit-Jean nei Plaideurs del Racine. Da principio passò quasi inosservato: la stampa non fece che annunziare il suo nome; egli non pareva destinato ad altro che a far le parti di comodino, quando qualche attore mancasse. Non si negava che avesse ingegno e attitudine all'arte; ma si credeva che non n'avesse abbastanza per uscire dalla mediocrità rispettata [177] degli artisti di second'ordine. Questo però non era il suo parere. Continuò a studiare con amore e con ostinazione, divorato dall'ambizione della gloria; fece un personaggio originale, di suo capo, di monsieur Loyal del Tartufe; interpretò in un modo inaspettato e ingegnoso il carattere d'Anselmo nella commedia La pluie et le beau temps di Léon Gozlan; e a poco a poco si attirò la simpatia e l'ammirazione del pubblico. Ma per la critica era sempre un esordiente, e gli stessi suoi ammiratori non lo mettevano ancora tra gli artisti della prima schiera. Finalmente, nel 1862, non avendo ancora ventitrè anni, la sera del 15 giugno spiccò il gran salto nel Mariage de Figaro del Beaumarchais, facendo la parte di Figaro, che era già stata fatta dal Got. Questa parte così complessa e così difficile, che richiede «il sangue freddo d'un diplomatico, lo spirito d'un demonio e l'elasticità d'un clown» egli la fece, scostandosi dalle tradizioni, con un tale impeto d'ispirazione e di forza, che il pubblico ne rimase [178] sbalordito, e la critica lo proclamò unanimemente uno dei più grandi attori della Francia. In mezzo alle altissime lodi, però, non gli furono risparmiate le censure: egli non padroneggiava ancora abbastanza la foga della sua giovinezza, recitava qualche volta con un éclat tapageur di cattivo gusto, si dava troppo tutto intero ad ogni occasione, non curava le sfumature, non fondeva a sufficienza i vari elementi della parte sua, si fidava troppo ciecamente alla potenza, e sovente al capriccio della propria ispirazione. Ma il Coquelin si corresse presto di questi difetti, e d'allora in poi la sua carriera drammatica non fu più che una successione di vittorie clamorose. Fece nel 1863 la parte di Figaro nel Barbiere di Siviglia vi riportò un grande trionfo, benchè qualcuno lo accusasse d'aver fatto il Figaro di Rossini invece di quello del Beaumarchais: fu il più giovane, si disse, il più fresco, il più scintillante Figaro che si fosse mai visto sulle scene francesi. Poi si rivelò grande artista di sentimento nel Gringoire [179] di Teodoro di Banville, in cui espresse la desolazione, la disperazione, il terrore della morte, tutte le tempeste dell'anima d'un uomo rigettato dalia scala del patibolo nell'ebbrezza della vita, con una potenza di passione, che fece fremere e piangere tutta Parigi. In seguito rese magistralmente la natura stravagante e fantastica del principe di Mantova nel Fantasio del Musset; ebbe un grande successo nell'Annibal dell'Aventurière; si fece applaudire per cento e sessant'otto sere nella parte di marito di Gabrielle; assicurò il trionfo del Paul Forestier, in cui rappresentava il signor di Beaubourg, facendo con una finezza e una leggerezza profondamente meditata, il racconto pericoloso dell'avventura con Lea, da cui dipendevano le sorti della commedia; salì ancora più alto che nel Gringoire nella parte potente e commovente di Marcel nella commedia Les ouvriers di Eugenio Manuel; e finalmente fu inarrivabile interprete del Molière: Pierrot nel Don Juan, Mascarille nell'Étourdi e nelle Précieuses ridicules, [180] Scapin nelle Fourberies, ballerino e cacciatore nei Fâcheux; studiando e progredendo di continuo, meravigliando il pubblico ogni anno con una trasformazione inaspettata e ogni sera con una nuova idea, — sempre appassionato dell'arte sua, come un giovane di vent'anni, — e fresco d'ispirazione, di coraggio e di buon umore come quand'uscì dal Conservatorio. Fin dal 1863 è Sociétaire del teatro francese, che significa artista «gran signore». Qualche anno guadagna intorno a centomila lire. Ed è, oltre che ammirato, prediletto dal pubblico con vivissima simpatia, e festeggiato, dovunque si presenti, come un amico di tutti. Non c'è da dire se suo padre ne sia altero e felice. Eppure s'assicura che di tanto in tanto egli dice ancora agli amici: — Cependant.... il allait très-bien aussi comme boulanger. — Cocciutaggini di fornaio.

[181]

***

Mi ricorderò sempre della pessima impressione che mi fece, a primo aspetto, la prima volta che lo intesi recitare nella commedia Les Fourchambault, in cui faceva la parte di Leopoldo. Quando comparve in scena, nel primo atto, e mi dissero: — Quello è il celebre Coquelin; — a veder quell'uomo tagliato alla carlona, piccolo, col naso voltato su, con le gambe arcate, con quel sorriso di scorbellato sulla faccia, provai un grande disinganno, e mi parve che non l'avrei mai potuto pigliare sul serio. Non sapevo darmi pace che con quel frontispizio così mal riuscito, dovesse far l'amoroso nel primo atto, e il figliuolo offeso e terribile nel terzo atto di quella bella commedia. Con tutto ciò mi colpì subito la sua maniera di stare in scena, anche in mezzo alle signorine Reichemberg [182] e Croizette, che ci stavano mirabilmente: certi suoi serpeggiamenti, certe passeggiatine oblique per il palco scenico, a passo strascicato, e un modo di andare qua e là, col viso in aria e con le mani in tasca, così vero, così di casa, così perfettamente imitato da quel ciondolìo senza direzione che facciamo nella sala da pranzo, in famiglia, voltandoci ad ogni voltata del pensiero e della conversazione, come banderuole girate dal vento; che un ragazzo l'avrebbe osservato e ammirato. Poi notai un altro pregio suo: ogni volta che aveva da dire qualcosa, l'espressione del suo viso preannunziava in maniera il senso delle sue parole, che pareva che le cercasse, che parlasse di suo capo, non che recitasse delle frasi imparate a memoria: gli si vedeva proprio sulla fronte il lavorìo della mente, che si fa discorrendo, quel po' di sforzo che costa a tutti l'espressione del proprio pensiero. E questo dava un colore di verità singolarissimo al suo discorso. E come rendeva bene nell'aria del viso, nell'intonazione della [183] voce e persino nell'andatura, quello stato d'animo particolare del giovanotto ozioso, in quell'età in cui comincia a sentirsi allo stretto fra le pareti domestiche, e vorrebbe sbizzarrirsi fuori, ma i legami della famiglia lo trattengono ancora, così che si dondola tutto il giorno per la casa e ingombra le stanze della sua scioperatezza, pieno di appetiti virili e di capricci da scolaro, brontolone e burlone ad un tempo, sbadigliando l'anima ogni quarto d'ora! A poco a poco quella naturalezza assoluta mi soggiogò; e mi trovai anch'io in quella corrente di simpatia che avevo notato fin da principio fra lui e gli spettatori, i quali seguivano attentamente ogni suo passo, mostravano di apprezzare ogni suo gesto, e ridevano qualche volta d'un movimento appena percettibile del suo viso. Non di meno mi pareva ancora che con quella effigie lì egli non avrebbe mai potuto altro che farmi ridere. Venne il terzo atto, sul principio del quale il Coquelin è ancora il giovane ameno e leggero delle prime scene. Mi meravigliò, [184] nonostante, il modo con cui fece al Bernard il racconto delle sue avventure della sera innanzi, e del duello della mattina; durante il quale racconto si rifece indietro due o tre volte, per dir qualche cosa che aveva dimenticato, con una speditezza, con una naturalezza così viva e così spigliatamente spontanea, che la platea proruppe in applausi, e l'applauso fu seguito da un mormorìo generale di ammirazione. Di li a poco — tutti conoscono la commedia — i ferri si cominciano a scaldare, e di parola in parola il Bernard giunge a far quell'allusione al padre Fourchambault, che colpisce il figlio in mezzo al cuore. Allora si rivelò improvvisamente un altro Coquelin. Fu una vera trasfigurazione. Parve che gli cadesse una maschera dalla fronte, — il suo viso impallidì e si stravolse, — la voce cambiò suono, e il gesto scattò colla forza d'una molla d'acciaio. Tutti hanno presente la scena in cui Leopoldo Fourchambault alza la mano per schiaffeggiare il Bernard, il quale lo trattiene, gli rivela che è figlio [185] dello stesso padre e che salvò la sua famiglia dal disonore, e poi gli domanda: — Che cosa dici adesso? — Ebbene, il Coquelin gridò quella sublime risposta: — Io dico che tu sei il più nobile degli uomini! Io dico che tua madre è la più santa delle donne! Io dico che sono altero d'esser tuo fratello e di gettarmi sul tuo cuore! — gridò queste parole con una voce così potente, con un accento così gioioso e doloroso ad un tempo, e straziante a forza d'affetto; con un tremito nella gola e uno spasimo nel viso che rivelava così irresistibilmente il pentimento profondo, la tenerezza immensa, il bisogno di chieder perdono, la gioia divina del chiederlo, un misto d'umiltà e di forza selvaggia del cuore, altero del suo slancio generoso e della santa giustizia che rendeva; che, più ancor che commosso dalla scena, in mezzo a quella gran folla del Teatro francese, che si sollevò tutta come un'onda del mare, io rimasi trasognato della metamorfosi dell'attore. E sconfessai immediatamente e per sempre [186] il mio primo giudizio. Poi il Coquelin rientrò nella sua parte quieta di buon giovanotto, e all'ultima scena della commedia fece ancora più profonda l'incancellabile impressione che mi aveva lasciata, con uno di quei tratti da maestro, insignificanti in apparenza, che ai molti sfuggono, ma che ai pochi bastano per riconoscere il grande artista, come il leone dall'unghia. E fu quando sua sorella, ingenua, la quale sperava che l'istitutrice sposasse il fratello Leopoldo, sente invece che sposa il Bernard, e dice alla fidanzata: — Io avrei desiderato piuttosto che tu diventassi mia cognata.... — non sapendo che il Bernard è suo fratello pure, e che perciò la parentela esiste egualmente. Ebbene, il Coquelin, udendo quella frase, fa tra sè quell'osservazione maliziosa: — Il n'y a peut-être pas grand'chose de changé — con una finezza così arguta, con un sorriso così lepido in un angolo delle labbra, a mezza voce, guardandosi la punta d'un piede e lasciandosi come scappare le parole per distrazione, [187] in mezzo alle voci allegre degli altri personaggi, che gli si farebbero ripetere cento volte, tanto è l'accorgimento e lo spirito d'osservazione e il senso comico squisito che rivelano. E rimangono stampate nella mente, con quel sorriso e con quell'accento, e si prova sempre un piacere vivo a ricordarle e a ripetersele, come un verso magistrale d'un poeta di genio. Questa fu la prima impressione che mi lasciò il Coquelin, o meglio, che mi lasciarono i due Coquelin, l'uno amenissimo e l'altro appassionato e tremendo. E conviene osservare che egli non può patire la parte di Leopoldo Fourchambault perchè, dice, non gli conviene sotto nessun aspetto, e la fa per forza, e da cane. Nientemeno.

[188]

***

Poi lo intesi in altre commedie, e in tutte mi parve un grande artista. Ha arditezza e misura, naturalezza e dignità, costantemente. Qualunque personaggio rappresenti, dà a vedere d'averlo studiato, non solo nelle manifestazioni verosimili della sua natura, ma nel più intimo meccanismo dell'animo, alla sorgente stessa dei suoi sentimenti più segreti; e conserva il colore di ciascun carattere anche nelle tempeste più violente della passione. Dopo le sue prime parole non si vede più il viso del Coquelin; ma quello del personaggio. «Il di dentro domina il di fuori» come si diceva del famoso Lekain. Ha una maniera di comporre il viso che corregge tutti i difetti dei suoi lineamenti; una contrazione potente, che fa pensare a quella di Gwynplain e alla camera dei [189] lordi, ma che non tradisce lo sforzo. Tutto questo, però, non basterebbe a fare di lui un grande artista, s'egli non avesse la primissima delle facoltà drammatiche, che è di sentire profondamente e vivacissimamente. La sua potenza è nelle vibrazioni dell'anima, nella freschezza e nel vigore del sentimento. Quando esprime il dolore, ha veramente delle lacrime nella voce, e degli accenti profondi d'angoscia, che par che sanguini dentro; e negl'impeti d'ira o di rabbia, quando discende il palco scenico, guardando davanti a sè con quell'occhio grigio, dilatato e smarrito come un occhio di fiera, e tutte le membra tese e convulse, pare che gli si debba spezzare una vena nel petto. Per me, lo trovo anche più potente nell'ira che nell'affetto. In quelle provocazioni fra gentiluomini, così frequenti nelle commedie francesi, a cui segue per lo più un duello mortale, egli ha un modo suo proprio così secco e tagliente, che fa d'ogni parola una scudisciata traverso la faccia, e non so che di gelido e di feroce nell'aspetto [190] e nelle mosse, che mette un brivido nelle vene, e fa presentire la morte. E ha degli slanci d'entusiasmo ardente, frenati con un'arte profonda, che ne duplica l'efficacia, e delle espansioni impetuose di gaiezza, che fanno l'effetto d'un'ondata d'aria primaverile in quel gran teatro affollato e caldo, che pende dalle sue labbra. Convien dire pure che ha una voce ammirabile, che si presta alle più audaci inflessioni, nettissima nelle voci basse e sonora nelle medie, senz'essere di quelle voci troppo ricche, che annegano, come si dice in francese, la parola nel suono, e le consonanti nelle vocali; una voce che s'alza qualche volta, senz'assottigliarsi e senza sforzarsi, fino alle note più acute, e si espande e risuona, agile e mordente, in tutti gli angoli della sala, e fin nei corridoi e nei vestiboli, come uno squillo di tromba. Ha tutti i doni della natura, insomma, fuorchè la bellezza. Ma quando lo s'è sentito recitare, pare che la sua imperfezione fisica sia una condizione necessaria, un elemento quasi della sua [191] potenza particolare d'artista, e che acquisterebbe qualcosa, ma perderebbe molto di più, se diventasse bello ad un tratto come il Bocage o come il Salvini.

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Ed è anche più brutto, o, per meglio dire, strano d'aspetto, di quel che pare dal palco scenico. Il primo sentimento che si prova, vedendolo in casa per la prima volta, alla luce del sole, è un'ammirazione più grande per la potenza del suo ingegno e della sua natura drammatica, che riuscirono a trionfare, malgrado l'irregolarità quasi grottesca della sua persona. La sua faccia è una vera maschera d'istrione antico: un faccione largo e grasso, d'una carnagione giallognola da mercante olandese, in cui brillano due occhietti bigi di faina, un po' maligni, sopra un grosso naso [192] che guarda in su con una petulanza senza esempio, in modo che le nari si presentano come le aperture di due canne d'un fucile da caccia; una gran bocca, con le labbra grossissime, tagliate in forma di trapezio, che par che succhino continuamente un enorme bocchino di pipa turca; un mento lungo e sporgente, e due mascelle leonine, che si dilatano, quando parla, con un movimento inquietante. Mettete questa faccia di mascherone di fontana, tutta sbarbata, con una papalina nera sul cocuzzolo, sopra un corpo bassetto e tarchiato, vestito d'un farsetto nero stretto alla vita, coi calzoni neri e con le pantofole nere, e immaginate il misto bizzarro che ne deve riuscire, di curato di campagna in négligé, di cuoco in lutto, di forzaiuolo e di Stenterello. Si rimane sbalorditi a pensare che quell'omiciattolo ci ha fatto piangere, fremere e tremare, e s'è presi dalla tentazione di dirgli che non è quella la maniera di corbellare il mondo. Ma è un di quei brutti che seducono, forse perchè la loro bruttezza, come [193] suol dirsi, non è che una bellezza sbagliata: come accade di certe metaforaccie di pessimo gusto, sotto cui appare il barlume d'una grand'idea. Questo è vero specialmente quando ride: non si può immaginare un riso più vivo, più comico, più attaccaticcio del suo; — e non è la risata dell'allegria — ma una specie di riso filosofico e profondo, che nasce da un sentimento particolare della vita, e che fa pullulare mille idee lepide nella mente, e indovinare mille scherzi che non dice, e pensare confusamente a mille cose e persone amene, che abbiamo conosciute in altri tempi; un riso che rallegra dentro, e che mette voglia di darsi una fregatina di mani, o di allungargli une tape sulla pancia. Tutta la faccia gli ride, fino alle orecchie; la bocca gli s'arrotonda in un modo curiosissimo, che fa saltare il capriccio di ficcarvi un dito dentro, come dice lo Zola del Boche, pour voir; e la punta del naso gli fa un piccolo movimento accelerato, come la punta d'un dito che gratti qualche cosa di sotto in su, d'un effetto [194] comicissimo; mentre gli scintilla negli occhi un'astuzia di demonio. I critici cortesi dicono che ha une physionomie comique parfaite, une face largement comique, comiquement spirituelle, e altre cose simili; ed è vero; ma non è tutto. È una figura talmente originale ed esilarante, a vederlo da vicino, che per molto tempo si rimane tutt'intenti a guardarlo, e non si bada alle sue parole. Ed egli non s'illude sopra sè stesso; parla anzi sovente della propria persona, celiando, come se canzonasse un altro, e non vuol sentir parlare delle parti che richiedono bellezza d'aspetto. Per questa ragione rifiutò, non è molto, di far la parte di Pigmalione nella Galatea della signora Adam. — Come volete — le disse — che io ardisca presentarmi al pubblico in nome di Pigmalione, che dev'essere un bell'uomo? Voyons donc, madame: est-ce que j'ai le nez grec, moi? — Il naso, infatti, è stato l'ostacolo più difficile da superare, nella sua carriera drammatica. Quando qualche parte non gli riesce, ha sempre la sua [195] giustificazione pronta: — è il naso. — Ma anche in casa sua, dopo un quarto d'ora che gli si parla, segue come al teatro: si vede un altro Coquelin; tanto la sua conversazione è arguta e attraente, rimanendo sempre naturalissima, come la sua maniera di recitare. È divertentissimo vederlo lassù nella sua piccola stanza di studio, triangolare, che sembra un camerino di teatro — al quarto piano — tutta piena di libri, fra cui brillano in prima fila i poeti drammatici e lirici di tutti i paesi; e cogliere a volo nelle sue parole e nelle sue mosse gli accenti e i gesti di Mascarille, di Gringoire, di Figaro e del piccolo gobbo del Luthier de Crémone, che fecero risuonare d'applausi il tempio del Corneille e del Molière. Il Molière, appunto, di cui ha tutto il teatro nel capo, è uno dei suoi argomenti preferiti; e riparla spesso delle conferenze pubbliche che tenne poco tempo fa; colle quali si propose di dimostrare che l'Alceste del Misantropo non è come quasi tutti i critici e quasi tutti gli attori l'interpretano, un personaggio cupo e [196] profondo, una specie d'Amleto francese, da rendersi con un colore di stranezza fantastica; ma un personaggio apertamente comico, come gli altri del Molière, e designato come tale dal poeta medesimo in una maniera che non può lasciar dubbio. Egli svolse il suo concetto senza pompa di dottrina, con molto buon senso, con grande chiarezza, per mezzo di confronti e di citazioni bene ordinate e lucidamente commentate; ma lasciò letterati e commedianti nel loro parere contrario. Si lamentò in particolar modo dei letterati, così tra il serio e il faceto, facendo tremolare la punta del naso. — Avete torto, mi dicono insomma, perchè siete un commediante. C'est ça qui m'embête. Mi dicano che ho torto perchè sono un grullo, francamente, e mi ci rassegno più volentieri. Gli è appunto perchè sono un commediante che voglio dir la mia ragione. Mi pare che serva a qualche cosa, per giudicare un personaggio di una commedia, essere abituato da venti anni a mettersi nella pelle degli altri, e a cercare [197] la ragione intima d'ogni loro atto e d'ogni loro parola. Se questi speculatori letterari del teatro non fossero un po' trattenuti dal senso pratico di chi ha da incarnare i personaggi che essi scrutano e sviscerano continuamente, finirebbero, a furia di fare, con trasformarli in creature dell'altro mondo, che nessuno potrebbe più riprodurre sulla scena. — E non si fermerebbe più, quando ha preso a discorrere del Molière, se non esistesse un altro personaggio, per il quale nutre altrettanto entusiasmo: il Gambetta, in grazia di cui egli s'appassiona anche un poco alla politica, e si tira addosso le canzonature del Figaro. Il Gambetta è suo amico intimo, desina con lui tutte le domeniche, e lo conduce a far delle lunghe passeggiate solitarie, durante le quali, chi lo sa? forse si fa dar delle lezioni di recitazione, o si insegnano a vicenda ad aprire e a scrutare gli animi umani, l'uno per giovarsene sul teatro, l'altro nella politica; poichè, in diverso campo, essi sono i due più grandi attori della Francia: il Gambetta [198] più potente, ma il Coquelin assai più sicuro di non essere fischiato. Egli parlò del suo illustre amico con calda ammirazione, senza licenze familiari, ripetendo dei brani del suo ultimo discorso, e esclamando di tratto in tratto: — Sentite la bellezza di questa frase; sentite la giustezza di questo pensiero; — come avrebbe fatto per una parlata del Racine. E a proposito del Gambetta, lesse una lunga colonna del Voltaire, in risposta all'Intransigeant, con una rapidità prodigiosa, e con una nettezza di pronuncia ancor più ammirabile, facendo vibrare certe parole, e schizzar fuori certe frasi, con cambiamenti improvvisi d'intonazione, e ammicchi d'un occhio, e guizzi comicissimi delle labbra, in una maniera da far proprio rimpiangere di non potergli dare il posto di lettore, in casa propria, con centomila lire all'anno; che per un letterato sarebbero impiegate al cinquanta per cento. Ed è pure notevolissimo il suo linguaggio, scolpito e colorito, con certe screziature di lingua popolare, ricco d'una quantità di termini insoliti [199] e di modi del gergo teatrale, svariatissimo come è in tutte le persone dotate di un forte senso comico, che hanno bisogno di raccontare, di descrivere e d'imitare. L'impressione che egli lascia, in conclusione, è d'un uomo di buona indole e di buon cuore, come io credo che siano necessariamente tutti gli artisti drammatici atti a interpretare con eguale maestria i caratteri buoni e malvagi; perchè, per riuscire grandi negli uni e negli altri, bisogna che nella loro natura predomini il buono, senza del quale possono abbagliare con l'ingegno, ma non soggiogare con la simpatia. Il Coquelin, però, ha l'aria d'un uomo buono; non d'un bonaccione. Sotto la sua bonarietà canzonatoria s'indovina un animo risoluto e vigoroso, col quale non dev'essere molto comodo l'aver che fare i giorni che ha la luna rovescia; e specialmente quando salta su a inveire contro i capricci prepotenti di certi autori drammatici, piglia una certa guardatura bieca e fa stridere la voce in un certo modo, che non par strano affatto, in quel momento, [200] che abbia saputo incarnare meravigliosamente l'anima dannata del duca di Septmonts.

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La parte di duca di Septmonts nell'Ètrangère del Dumas, credono tutti, — e anche lui — che sia ciò che egli fece — per dirla con le sue parole — de plus fin et de plus incisif, nel teatro moderno, dal primo giorno che recitò fino al giorno che corre. Per comprendere le difficoltà con cui ha dovuto combattere, basta rappresentarsi la sua figura «largamente comica» e ricordare che il duca di Septmonts è la quintessenza di un gentiluomo del gran mondo — spregievole e odioso quanto si vuole — ma tanto più dignitoso e corretto di fuori quanto è più fradicio dentro. Per alto che fosse il concetto che s'aveva della pieghevolezza d'ingegno del Coquelin, si temeva che [201] in quella parte cadesse. Bastò invece la sua apparizione sul palco scenico a provocare uno scoppio d'applausi e un'esclamazione universale di meraviglia. Costanzo Coquelin, l'incomparabile Figaro, l'insuperabile gobbetto del Luthier de Crémone, pareva il primo gentiluomo della cristianità. Pallido, della pallidezza malaticcia d'un nobile sciupato dagli stravizi, biondo, un po' calvo, con due folti baffi impertinentemente arricciati, con una lente all'occhio, vestito con rigorosa eleganza, disinvolto e duro ad un tempo, e superbamente signorile in tutti i suoi movimenti, anche nel più forte della passione, egli era l'ideale vivente dell'autore della commedia. E ad ogni nuova scena si rivelò con maggior efficacia. Dalla sua aria tediata, dal suo modo di parlare strascicato, come se ogni parola fosse un atto di degnazione, dalla sua fredda cortesia, dal suo sguardo ironico e sorridente, da tutti i suoi gesti e da tutti i suoi accenti artificiosamente trascurati, traspariva l'insolenza sfrontata d'un aristocratico cresciuto all'orgoglio [202] e al disprezzo, il cinismo d'un viveur intristito nel vizio, capace di tutte le bassezze, l'audacia meditata e malvagia dello spadaccino sicuro d'uccidere, — la sua educazione, il suo passato, tutto quello che sarebbe stato capace di fare, e mille cose che pensava, e che non diceva; ma che facevano pensare. Egli corresse anzi leggermente, con molta arte, il carattere immaginato dal Dumas, che poteva riuscir troppo ributtante; e lo corresse — come prescriveva il celebre attore tedesco, l'Iffland, — facendo il difensore ufficioso del personaggio che rappresentava: lasciando cioè indovinare in che maniera fosse diventato quello che era, per quale via, non per colpa tutta sua, si fosse così depravato, — guasto prima da un'educazione falsa e poi dall'esempio della società incancrenita in cui era vissuto, — e in tal modo, senza riuscire simpatico, si mantenne dentro a quei limiti dell'odioso, oltre ai quali un personaggio teatrale non è più tollerabile e nuoce agli intendimenti del poeta. Ma fu terribile. Nella scena [203] del quart'atto, per esempio, quando vuole umiliare il signor Gérard, ricordandogli che sua madre era stata governante della duchessa, trovò l'accento d'un sarcasmo così sanguinoso e stillò le parole insolenti nell'animo del povero giovane, come goccie di piombo fuso, con una lentezza così spietata, che tutti gli spettatori se le sentirono penetrare nel cuore ad una ad una, e fremettero per quello a cui eran dirette. E fece rabbrividire l'impassibilità marmorea con la quale ricevette in viso quella tremenda invettiva della duchessa, di cui ogni parola è uno schiaffo, fino a quel fulmineo: — Misèrable! — che finalmente gli solleva il sangue; e la rabbia pazza e feroce con cui le si slancia addosso all'ultime parole, e lo sforzo improvviso con cui si frena. Mai era stata rappresentata la superbia, l'insolenza e la rabbia, con più satanica potenza, sulle scene della Commedia francese. Il suo successo fu enorme. Egli empì il dramma della sua persona, e vi spiegò tanta forza, che se gli altri [204] atleti fossero caduti, sarebbe bastato per tutti egli solo.

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Ma per quanto si dica, egli non è mai tanto potente come quando nuota nella comicità larga del Molière, fra le grosse celie e le grosse risa, vestito dei panni di Scapin e di Mascarille. Quella comicità dal naso corto e dalle grosse labbra, come disse Alfonso Daudet, par fatta per la sua faccia, per la sua voce e per la sua indole. Lì sfolgora ed impera davvero, e fa tremare le vôlte del teatro. Nessun Mascarille, nelle Précieuses ridicules, ha mai detto con più petulante disinvoltura le sue spropositate goffaggini; nessuno ha mai mostrato sul palco scenico una più maledetta grinta, una più impertinente sfacciataggine di lacchè astuto e ridacchione, docile ai pugni e alle legnate, e pronto [205] a tutte le pagliacciate e a tutte le bricconerie. Nessuno Scapin è stato mai più magistralmente bugiardo, ipocrita, truffatore e buffone. Il Coquelin domina la scena, in queste farse epiche, coll'imperturbabilità sovrana che dà la coscienza del genio. Ha una mobilità di fisonomia, un'elasticità di voce, una pieghevolezza di membra, una sicurezza, un'audacia che nessuna parola può rendere. Nelle Précieuses ridicules suscita una tempesta di risate con ogni parola, quando contraffà il gentiluomo letterato e lezioso, e declama quella stramberia di madrigale che finisce col grido: Al ladro! — Nelle Fourberies de Scapin snocciola quelle lunghe parlate per indurre Argante a sborsare i seicento scudi, con una rapidità d'un effetto comico meraviglioso. Non son più periodi; sono eruzioni, cascate precipitose di parole, che schizzano e tintinnano come sacchi di monete rovesciati, fra le esclamazioni di stupore della platea. Nei Fâcheux, facendo la parte del cacciatore appassionato, dice quei cento e quattro versi filati della descrizione [206] della caccia, d'un fiato solo, come se li improvvisasse, con una tale potenza imitativa della voce e del gesto, che per un quarto d'ora par di veder fuggire i cervi per la foresta, e il teatro risuona dello scalpitìo dei cavalli, del latrato dei cani, dello squillo dei corni, delle grida dei cacciatori, come se vi agisse un'intera Compagnia equestre. Ed è infaticabile. Dopo aver fatto Mascarille nell'Etourdi, che è una delle parti più lunghe e più difficili del vecchio repertorio drammatico, è fresco e disposto come prima di cominciare. Ed è superfluo far notare la difficoltà grandissima che presentano queste parti comiche del Molière, in cui se l'attore non è tanto forte da tener continuamente viva l'ilarità e l'ammirazione, subito risalta la trivialità, l'esagerazione, il grottesco del personaggio e della scena, e non basta la riverenza che ispira il grande poeta a trattener il pubblico dal dar segno di noia o d'impazienza: il che suole accadere nei teatri di provincia, dove le commedie del Molière sono quasi [207] irrappresentabili. Ma il Coquelin par nato fatto per interpretare il Molière; e piuttosto che un Sociétaire della commedia francese, si direbbe che è un attore superstite della famosa troupe de Monsieur, ancor tutto fresco, dopo due secoli, delle lezioni del suo capo-comico immortale. E in questo gli giova immensamente la faccia. È impossibile resistere alla forza comica dello sguardo, del riso e della smorfia di questo grandioso farceur; bisogna ridere con lui, in qualunque stato d'animo ci si trovi; e si ride di quel riso a singhiozzi, convulsivo e clamoroso, che ci riprende ancora dopo il teatro, e ci accompagna a casa, e ci torna ad assalire la mattina dopo, e ci rimane come un grato ricordo per sempre.

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Certamente, egli deve la sua gloria artistica più ai doni della natura che allo studio. Histrio nascitur. Ed anco non ammettendo questa verità, bisognerebbe fare un'eccezione per coloro che sono grandi attori a ventitrè anni. Nondimeno egli studiò e faticò moltissimo. Non s'è fatto una voce, come si dice del celebre attore Duprez; ma lavorò la sua infaticabilmente, con esercitazioni assidue e metodiche; e non son molti anni, infatti, ch'egli ha quell'elasticità mirabile degli organi vocali, che si presta così docilmente alla varietà e alla mobilità prodigiosa delle sue sensazioni. Così la sua pronunzia nitidissima, che fa d'ogni sillaba una nota cristallina, è principalmente frutto d'un fortemente volli, come il vigore del verso alfieriano. [209] È una cosa che accende nel sangue la passione dello studio, il sentirgli dire, per esempio, con che amore e con che cura si è rimesso a studiare la sua parte d'Annibal, dopo che l'Augier rimpastò l'Avventuriera; come l'ha scomposta e ricomposta daccapo, periodo per periodo e frase per frase; come ha rivoltato per tutti i versi ogni parola per trovarle il suo accento vero e proprio; come ha ragionato tra sè ogni sorriso e ogni gesto. Così pure l'udirgli esporre le riflessioni minute e ingegnose che fece sulla parte di Figaro nel Barbiere di Siviglia, per cogliere le differenze che dovevano passare fra questo — giovane e spensierato, — e il Figaro del Mariage, — più avanzato negli anni, più esperto della vita e cangiato anche per effetto della sua nuova condizione; — differenze che seppe rendere stupendamente sul palcoscenico, fin nelle più leggiere sfumature; e le conferenze d'ore e d'ore avute con gli autori, col manoscritto alla mano, coperto di richiami e di postille, per trovare insieme il colore particolare da darsi a [210] una scena, o l'intonazione giusta d'un monologo; e le discussioni interminabili avute coll'Augier o col Dumas per sostenere il suo modo d'interpretazione, e salvar la vita al personaggio concepito da lui, e amato come una creatura fatta con le sue carni e col suo sangue. Di tutti i personaggi che deve rappresentare, e della società e del tempo in cui vissero, cerca con una pazienza e con una curiosità d'archeologo le più minute notizie, nei libri e nelle conversazioni; e nota tutto e rimesta ogni cosa per mesi e mesi, ragionando di ogni minimo particolare lungamente, con una diligenza che tocca la pedanteria. E si prepara con maggior studio e maggiore pacatezza in quelle scene appunto, in cui dovrà allentar di più la briglia al suo istinto, perchè vuol essere audace sul sicuro; al qual fine raccoglie osservazioni e consigli da ogni parte, come uno scrittore naturalista, e ricorre le critiche che gli son state fatte negli anni addietro; ma per quanto faccia, non si presenta mai al pubblico con la coscienza soddisfatta, [211] e ricomincia a martellare sulla sua parte anche dopo la più splendida riuscita.

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A questo lavoro indefesso egli deve la sua continua ascensione nell'arte, in cui non ha più che un rivale, — il Got, — che ha vent'anni più di lui, ed era già attore provetto quando il Coquelin entrò nel «Teatro francese»; quel celebre Got, che creò il Giboyer, come si dice nel linguaggio teatrale, nelle due commedie Les effrontés e Le fils de Giboyer; che fece un tipo indimenticabile dell'abate nell'Il ne faut jurer de rien di Alfredo Musset; che interpreta insuperabilmente Maître Guérin, Monsieur Poirier e il Duca Job di Léon Laya: il primo attore, forse, che portò nella Comédie française un sentimento potente della realtà, e che, pure possedendo profondamente la tradizione dell'arte, [212] pigliò tutti i suoi modelli nella natura viva. Anch'egli è ugualmente forte nel drammatico e nel comico: Bernard nei Fourchambault, strappa i singhiozzi; Matamore nell'Illusion comique, fa schiantar dalle risa; e chi l'ha visto Rabbino alsaziano nell'Ami Fritz, che fu uno dei suoi più grandi trionfi, non lo riconosce più nei panni di Sganarelle o del Souffleur dei Plaideurs di Racine, in cui è insuperabile. Osservatore finissimo, vero fin nelle più piccole minuzie, abilissimo alle trasformazioni del viso, capace di recitare per quattro atti interi, come nel Gendre de monsieur Poirier, con un occhio socchiuso e la bocca torta, senza scomporsi un momento; fornito d'un gusto letterario squisito, e di buoni studi, e altieramente appassionato dell'arte sua, egli tenne per lungo tempo il primato nel «Teatro francese», ed è indubitabile che giovò moltissimo al Coquelin, non foss'altro che col proprio esempio. Ma questi — lasciando da parte altre qualità intimamente individuali, che non permettono confronti — è superiore a lui [213] nella versatilità dell'ingegno e nella mutabilità dell'aspetto. Il Got è vario; il Coquelin è un Proteo. Il Got, per esempio, ha non so che di proprio e d'immutabile nell'intonazione e nel gesto, un certo fare bourru, imitant la franchise, come dicono i francesi, e un tic particolare del capo e delle spalle, simile all'atto di chi dica: — Non me ne importa il gran nulla, — un po' volgare, — che lo rende inabile a tutte le parti in cui si richiede eleganza e dignità signorile di maniere. Oltre di che è restìo a liberarsi dai modi e dagli accenti d'una parte in cui sia riuscito maestrevolmente; così che per molto tempo, dopo una creazione grande e fortunata, porta in altri drammi l'impronta del personaggio prediletto, come gli accadde, tra l'altre volte, dopo il suo successo nel Giboyer. Il che non segue al Coquelin, di cui l'ingegno sembra cambiar natura ogni volta che cambia parte; che scende fino alla farsa plebea e sale fino alla più alta poesia; pagliaccio, gentiluomo, villano, brillante, tiranno, — eroe della rivoluzione, [214] tragico, nel Jean Dacier, — piccolo collegiale vizioso e impostore nel Lion et Renard, — sempre originale, rifatto da capo a piedi, e liberissimo da ogni legame di reminiscenza; a segno che se gli saltasse il ticchio domani di fare il Romeo — con quella faccia — nella tragedia dello Shakspeare, c'è da giurare che ci riuscirebbe, come disse un critico tedesco; e che il pubblico, ascoltandolo, direbbe che a Giulietta poteva toccare un amante più bello, ma non uno più interessante e più appassionato. Nondimeno sono molti ancora quelli che gli preferiscono il Got, come più profondo e più grave; e c'è fra loro una gelosia coperta, ma viva, che scoppia ogni volta che cade su una medesima parte la preferenza di tutti e due: come segue ora per il dramma Le Roi s'amuse, in cui l'uno e l'altro vorrebbe fare il Triboulet; e questo tira tira è cagione che il dramma non si rappresenti; non essendo parsa accettabile a nessun dei due la proposta di Victor Hugo, che facessero il Triboulet una volta per uno, a [215] sere alternate: proposta d'accorto finanziere, non d'uomo esperto del cuore umano.

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Il Coquelin ha ancora un merito tutto proprio, che è d'essere un grande declamatore di poesie liriche. Anzi tutto è maestro senza eguali nel dire i versi, che è quasi un'arte nell'arte, in cui non gli si avvicinano che il Got e Sara Bernhardt. È uno dei rarissimi attori che sian riusciti a liberarsi, fino a un certo punto, da quell'accento convenuto, da quel colorito generale che è quasi obbligatorio nella dizione degli alessandrini francesi, e che anche nell'espansioni più appassionate dell'animo tutti badano a conservare, come se fosse una necessità fondamentale dell'arte. Il Coquelin si liberò da questa psalmodia, da questa specie di musica sacra, come la definì la signora Stael, che si [216] trasmette di generazione in generazione a somiglianza d'un vizio ereditario; e prese una via di mezzo tra coloro che cantano il verso, avvolgendo tutto in una sorta di melopea sonnolenta, che arrotonda tutte le linee e cancella tutti i contorni, e coloro che, sotto il pretesto della imitazione del vero, non badano nè a ritmo, nè a rima, nè a prosodia, e sacrificano interamente l'elemento poetico all'elemento drammatico. Egli ha saputo cogliere una certa armonia intermedia tra la parola e la musica, che nello stesso tempo accarezza l'orecchio e rende l'intonazione del discorso. E fa valere mirabilmente la bellezza della forma. Senza rivelar troppo l'artifizio, fa sentire tutte le variazioni del movimento ritmico, le ondulazioni della frase, le rime, le cesure, le attaccature dei periodi; rompe la monotonia degli alessandrini con una quantità di chiaroscuri delicatissimi; virgola e punteggia con una grande efficacia, e, grazie particolarmente alla sua maniera ferma e nitida di articolare le consonanti, ha una chiarezza di dizione — qualità indispensabile [217] per i versi — che nessun attore ha mai superata. Oltrechè non è solamente interprete, ma critico e correttor vero del poeta. Nessuno meglio di lui sa afferrare, in una poesia, il filo del concetto principale, e attenercisi, malgrado le più viziose digressioni, e fare in modo che non se ne scosti menomamente l'attenzione degli uditori. È maestro nell'arte di velare i difetti della forma, di scivolare sulle lungaggini, di gettar ombra sulle parti deboli per raccoglier luce sulle forti, di far sfolgorare il verso capitale, e di scoprire e mettere in rilievo pensieri affogati dalle immagini, e sensi riposti, e finezze, e contrasti, che il poeta stesso non ha avvertiti. Ed esercita quest'arte nei salotti — dov'è invitato e pagato — il che è molto diverso, ed anche assai più difficile che esercitarla nel teatro; tanto che molti attori applauditissimi sul palco scenico, perdono ogni efficacia declamando versi in un cerchio ristretto d'uditori. Il Coquelin, invece, conosce ed osserva rigorosamente tutte le leggi delicate e difficili che [218] impone la vicinanza dell'uditorio, col quale, anzi, qualche volta l'artista si trova confuso: smorza gli effetti, ristringe il gesto, attenua l'espressione del volto, modula in un modo particolare la voce, e dissimula accortissimamente l'attore drammatico sotto l'uomo di società. Perciò ottiene dei successi privati non meno splendidi dei successi teatrali, e rende, in questo campo, dei veri servigi alle lettere. È lui che ha diffuso, in questi ultimi anni, il gusto dei versi nella società elegante, che non badava prima che alla musica, e parecchi dei più illustri tra i giovani poeti della Francia debbono a lui il principio della propria fama. Egli recitò per il primo le poesie di Alfonso Daudet, che è suo amico intimo, di Paolo Déroulede, per il quale professa una viva ammirazione, di Jacques Normand, del Coppée, del Manuel, del Guiard. E non si può dire con che passione egli cerca queste poesie, con che piacere se le fa leggere in casa, per le strade, in carrozza, nei camerini del Brébant; come scatta ad ogni verso potente; come, [219] senz'accorgersene, udendo leggere, prepara il gesto e l'atteggiamento del viso con cui dirà quella data strofa; con che impazienza, all'ultimo verso, strappa il manoscritto di mano al poeta, e con che bella e simpatica sicurezza di grande artista gli dice sorridendo: — Lasciate fare a me, che vi servirò da onest'uomo.

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Ma non è compiuto il ritratto del Coquelin se non gli si fa accanto uno schizzo di suo fratello, che è come una sua appendice; attore anche lui del Teatro francese, chiamato Coquelin cadet, per distinguerlo da Costanzo. Il Coquelin cadet crebbe al calore del forno paterno accanto al fratello maggiore, e portò con lui il pane fresco ai buoni borghesi di Boulogne-sur-mer, con la faccia bianca di farina e le mani imbrattate di pasta. Quando [220] il fratello maggiore dava i primi segni della sua vocazione drammatica, lui ancora bambino s'ingegnava già d'imitarlo, gesticolando e balbettando dei versi; e quando più tardi il fratello gli confidò i suoi disegni ambiziosi, anch'egli cominciò a riscalducciarsi la testa e a vagheggiare il teatro. Partì il fratello, passò qualche anno: Coquelin cadet pensò di manifestare le sue intenzioni al padre; ma non osava, perchè suo padre contava fermamente su di lui per tramandare ai posteri il suo forno. Nondimeno un giorno si fece coraggio e tirò la schioppettata. Si ripetè la medesima scena che era seguita col primogenito; ma questa volta con un po' di scandalo. Il buon fornaio, udendo per la seconda volta quelle fatali parole: — Voglio fare l'artista drammatico, — alzò la testa dalla madia, e guardò il figliuolo con due occhi grandi come due scudi. — Ma dunque — disse, incrociando le braccia — è proprio destino che io non ne debba salvare neppur uno dei miei figliuoli! C'est comme une peste qu'ils ont tous. Je [221] ne comprends pas. Où ont-il donc attrapé ça, mon Dieu! — Ma dopo un po' di contrasto, si rassegnò, e lasciò partire il ragazzo per Parigi, dove fu ricevuto al Conservatorio, poco dopo arrivato. Aveva ingegno e attitudine grande all'arte; ma non l'esuberanza di vita, e le facoltà poderose e splendide del fratello. Perciò il suo noviziato fu più duro e più lungo. Ma riuscì; riportò anzi il primo premio del Conservatorio nel 1867, e si presentò per la prima volta sulle scene della Comédie française, facendo il Petit-Jean nei Plaideurs, il 10 giugno 1869, otto anni dopo che aveva esordito suo fratello, il quale, con pensiero affettuoso, volle recitare accanto a lui quella stessa sera, nella medesima commedia, nella parte dell'Intimé. Coquelin II piacque. D'aspetto, somiglia molto al fratello; ed è forse anche più comico, benchè abbia i lineamenti meno risentiti: gli basta entrar in scena per far ridere. Ma l'indole drammatica è diversa: egli ha piuttosto la comicità inglese, — umoristica — un po' fredda, che si fa [222] capire più che non si faccia valere; ed è attor fino e originale; e quel ch'è più curioso, lontanissimo da ogni idea d'imitazione di suo fratello; del che diede una bella prova fin da principio nella commedia Le mari qui pleure di Jules Prével, in cui fece la parte dell'avvocato Laroche, già sostenuta mirabilmente dal primo Coquelin, in una maniera diversa affatto, e non meno ingegnosa nè meno applaudita. Il fratello maggiore, ciò nondimeno, sta tanto al di sopra dell'altro, da non potersi nemmeno istituire un paragone fra loro; per il che questa bella fraternità non è macchiata di gelosia. L'aîné ama il cadet più che da fratello, da padre; e quando nella stanza di studio passa la mano sotto il mento d'un suo bustino in bronzo, dicendo scherzosamente: voilà mon petit frère, — gli si sente nella voce un grande affetto, e gli si leggono negli occhi mille cari ricordi — di quando trottavano insieme per le strade con le focaccie calde nel paniere, e riportavano il gruzzolo dei soldi al buon babbo, curvo sulla [223] madia, tanto lontano dal pensare che un giorno i suoi due piccini avrebbero fatto rimbombare d'applausi il primo teatro del mondo, e che il suo povero forno sarebbe diventato famoso.

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Ora il Coquelin è nel pieno vigore della sua virilità artistica e forse nel periodo più felice della sua carriera. Figliuol di grazie del «Teatro francese,» amico intimo di potenti, accarezzato dai poeti, ricercato di consigli e d'aiuti da tutti i giovani commediografi, glorificato come artista, riverito come mecenate letterario, e carico di quattrini, non ha più nulla da desiderare, fuorchè delle belle commedie. Ma non pensa a sè solamente. Sollecitato da mille parti per recite di beneficenza, egli s'arrende a tutte le preghiere, abusando anche delle proprie forze, e fa del bene a moltissimi; tanto che [224] ha un salotto pieno di medaglie e di ricordi preziosi che gli offersero, e gli offrono di continuo, in segno di gratitudine, Società operaie e Istituti e Comitati di soccorso d'ogni natura. È pure dilettante di belle arti, ed ha un piccolo museo di quadri del Meissonier, del Bonnat, del Fortuny, del Détaille, — in parecchi dei quali è ritratto lui, nelle spoglie di Mascarille e di Cesare di Bazan, con quel riso indefinibile e irresistibile, a cui deve una gran parte della sua potenza d'artista. Della quale potenza uno potrebbe farsi benissimo un'idea, senza essere mai stato al teatro, solo trattenendosi un'ora ogni mattina nella sua anticamera; dove si trovano sovente insieme il commediante famelico che viene a implorare un sussidio che non gli è mai rifiutato, la signorina americana che vuol pigliar lezioni di dizione francese, l'impiegato che desidera una croce, l'ufficiale che ha bisogno d'un traslocamento, e qualche volta persin dei prefetti, dei magistrati e dei vescovi, che non isdegnano di raccomandarsi [225] a Sganarello per ottenere un piccolo favore dal Governo. Ed egli riceve tutti con quel gran naso voltato in su, pieno di bonarietà e di buon umore, ruminando dei versi del Molière durante i discorsi lunghi, e rimanda tutti, se non soddisfatti nei loro desideri, contenti almeno di aver visto una volta da vicino quella maschera formidabile, che da venti anni fa rider del suo riso e pianger delle sue lacrime Parigi.

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Così fatto, o presso a poco, è il celebre Coquelin, il quale (per terminare con una buona notizia) sta pensando a raccogliere una Compagnia d'artisti valenti per fare un giro in Italia, e dare una serie di rappresentazioni in tutte le città principali.

[229]

PAOLO DÉROULÈDE E LA POESIA PATRIOTTICA.

Riparliamo un po', qualche volta, della nostra vecchia poesia patriottica. Quando lavoriamo nelle nostre stanze di studio, in mezzo a giornali e a lettere d'amici di tutte le parti d'Italia, e a libri che racchiudono tutti gli sforzi e tutte le audacie del pensiero umano; ed esprimendo liberamente il nostro pensiero, che circolerà liberamente da un capo all'altro del paese, godiamo, anche non pensandoci, di respirare l'aria della nostra libertà, e di sentirci dentro il soffio d'una patria grande e potente; noi dovremmo di tratto in tratto rivolgere uno sguardo a cinque o sei volumetti, [230] quasi dimenticati in un angolo della nostra biblioteca, sui quali sono scritti i nomi del Berchet, del Rossetti, del Mameli, del Poerio, del Mercantini; e ricordarci che se l'entusiasmo non può essere più vivo per essi, deve durare almeno la gratitudine. La critica ha sviscerato quei versi con la sua mano gelata e spietata; onde nuove di poesia vi son passate su, e ne hanno sbiaditi i colori; sono invecchiati i metri e le immagini; e non ci paiono più che scintille quelle che erano lingue bianche di fuoco; ma che importa? Quando rileggiamo quelle poesie nel cuore della notte, nel silenzio della nostra stanza, qualche volta saltiamo ancora in piedi, con una fiamma sulla fronte e un singhiozzo nel cuore. Quanti grandi e cari ricordi non ci risvegliano! Quelle vecchie strofe impetuose e sonore, dei giovinetti le hanno pronunciate sui campi di battaglia, per incoraggiarsi a morire; dei feriti le hanno smozzicate fra i denti, mentre i ferri del chirurgo cercavano nelle loro carni palpitanti le schegge della [231] mitraglia tedesca; dei moribondi le hanno balbettate nel delirio dell'agonia; le hanno ripetute mille volte, nell'oscurità delle secrete, i prigionieri di Mantova, dei Piombi e di Castel dell'Ovo; le hanno cantate gli esuli nella miseria; le hanno mormorate i martiri ai piedi dei patiboli; migliaia d'italiani intrepidi le hanno divulgate per tutte le provincie, a rischio della libertà e della vita; migliaia di donne le hanno trascritte in segreto, di notte, col cuore tremante, mentre suonava nella strada il passo del poliziotto straniero; un'intera generazione le ha coperte di baci e bagnate di lacrime e tinte di sangue, quelle vecchie strofe benedette, piene di sdegni, di minaccie e di consolazioni sublimi. Ed anche noi, fanciulli nel quarant'otto, giunti appena in tempo ad assistere al trionfo della nostra rivoluzione, quando quelle poesie sonavano già liberamente per quasi tutta l'Italia, quanto le abbiamo sentite ed amate! Bambini, le abbiamo udite recitare da nostro padre, con gli occhi pieni di pianto; e non le capivamo [232] ancora, che già ci rimescolavano il sangue. Più tardi, le abbiamo divorate sui banchi della scuola, tra la grammatica latina e la grammatica greca, mordendoci le mani dalla rabbia d'amor di patria che ci mettevano nel cuore. Poi le abbiamo declamate per le vie delle nostre città, e dalle finestre delle nostre case, nelle belle notti stellate, trasportandoci col pensiero negli accampamenti dei nostri fratelli, che combattevano nelle pianure di Lombardia o sui monti di Sicilia, addolorati e umiliati di non esser con loro, costretti ad arrestarci ad ogni strofa perchè l'emozione ci strozzava la voce e ci faceva tremare le labbra. Come ci sarebbe parso insensato e miserabile allora chi fosse venuto a farci il pedante sulla forma di quella poesia che ci usciva in grida e in ruggiti dal più profondo dell'anima! Che importava a noi che il Berchet avesse delle frasi barbare e dei versi duri, che la strofa del Rossetti fosse troppo ricca di suoni, che il Mameli fosse ineguale, che il Mercantini fosse negletto, e che [233] il 21 marzo di Alessandro Manzoni rigurgitasse di similitudini? Ognuno di quei versi era un grido uscito dalle viscere della patria; in ogni strofa si sentiva l'eco lontana d'una battaglia; era una poesia sacra, che sollevava il nostro pensiero e il nostro cuore al di sopra di tutte le volgarità della vita; che ci rendeva più affettuosi con la famiglia, più buoni con gli amici, più arditi nei pericoli, più forti contro i nostri piccoli dolori; che entrava persino nei nostri amori d'adolescenti, e vibrava nelle nostre prime parole amorose, e mescolava delle lagrime nobili e virili ai nostri primi baci. Chi non ha adorato il Berchet, per esempio, e baciato cento volte il Romito del Cenisio, e desiderato di vedere una volta il poeta per curvare dinanzi a lui la sua fronte ardente di giovanetto, come dinanzi all'immagine viva della patria armata e insanguinata? Chi di noi, a quindici anni, non s'è sentito uomo, poeta, soldato, capace d'ogni grande sacrifizio e d'ogni ardimento più generoso, leggendo O morte o libertà e la Spigolatrice [234] di Sapri? Quei versi hanno avuto una parte così larga e profonda nella nostra educazione di uomini e di cittadini, che ci pare quasi che saremmo altri da quelli che siamo, se non li avessimo conosciuti; essi si sono confusi nella nostra coscienza con le esortazioni vigorose di nostro padre, coi consigli magnanimi di nostra madre, con tutti gli esempi di virtù e di grandezza che abbiamo ricevuti nella vita; e sono diventati una forza intima della nostra natura. E li dimentichiamo sovente, e per lungo tempo, perchè siamo ancora nell'età in cui le speranze tengono maggior luogo che le memorie, e l'amore del presente soffoca il rimpianto del passato. Ma, avanzando negli anni, quando comincieremo a volgerci indietro, e ad evocare la nostra giovinezza per consolarci della virilità moribonda, allora, nel segreto del nostro cuore, pagheremo intero il nostro debito di gratitudine ai vecchi poeti della patria; tutte quelle poesie gloriose ed amate ci baleneranno alla mente, di lontano, nella nebbia [235] rosea della nostra adolescenza, come una legione di guerrieri scintillanti di ferro; e le ripeteremo ai nostri figliuoli con lo stesso tremito nella voce con cui le hanno dette a noi i nostri padri; e i nostri figliuoli le sentiranno, speriamolo, con lo stesso cuore con cui noi le abbiamo sentite.

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Questi sentimenti deve ravvivare in sè chiunque voglia giudicare rettamente un poeta nazionale straniero, sia il Riga o il Quintana o il Körner o il Déroulède. Ma è quasi inutile avvertirlo. Non c'è uomo che ami la propria patria, il quale leggendo la poesia patriottica, fortemente sentita, d'un poeta straniero, qualunque sia il suo paese e quali che siano i sentimenti che questo paese gl'ispira, non si compenetri a poco a poco, involontariamente, della passione del poeta, e non [236] comprenda quindi e non giustifichi nella sua coscienza tutti quei sentimenti e quei giudizi che ad un lettore freddo possono parere ingiusti, superbi, temerari, e qualche volta anche puerili. Chi non sente nel cuore la poesia patriottica di un popolo straniero, non ha sentito neppure la propria. A costoro è inutile rivolgersi. Perciò noi presentiamo il Déroulède e le sue poesie soltanto a quegli italiani che, amando ardentemente la loro patria, sentono rispetto e simpatia per tutti gli stranieri che amano ardentemente la propria, e capiscono che ognuno ha diritto d'essere altero e violento — ed anche ingiusto — quando difende sua madre. Per costoro è anche superfluo combattere il pregiudizio volgare, secondo il quale la poesia patriottica, perchè tende a muovere dei sentimenti che vibrano in tutti potentemente, o a cui tutti hanno l'animo predisposto, è meno difficile d'ogni altro genere di poesia, e non può dare la misura giusta dell'ingegno di un poeta. Il critico sensato sa misurare l'ingegno del poeta a [237] traverso a tutti i sacrifizi ch'egli ha dovuto fare della devozione estetica, come la chiamava il Berchet, alla devozione civile; indovina il pensiero nel grido; completa da sè la poesia troncata da un colpo di spada; e crede che, appunto quando una nazione è eccitata dall'amor di patria, ed empie il mondo dei suoi clamori, occorra una voce straordinariamente poderosa per far volgere il capo alle moltitudini, un canto singolarmente ispirato per sollevare al di sopra della propria passione dei milioni d'uomini, di cui ciascuno è un poeta. La qual cosa è provata anche da ciò, che non sono più numerosi i poeti patriottici potenti e durevoli, presso qualunque nazione, di quello che siano i poeti eccellenti negli altri campi della poesia. Certo l'amor di patria è un affetto comune; ma è di questo affetto ciò che un grande poeta disse dell'amore: che tutti credono d'averlo provato o di essere atti a provarlo nel massimo grado; mentre le differenze nella facoltà di amare sono tante e tanto grandi fra gli uomini quanto quelle [238] che passano tra loro nell'ordine dell'intelligenza. Non basta infatti unire all'ingegno l'amor di patria, per riuscire poeta patriottico: bisogna sentir questo amore così intensamente, da poterne profondere intorno a sè dei torrenti, e aggiungerne a tutti coloro che credono di non poterne più ricevere, obbligandoli ad accettare il poeta come interprete della loro passione, e a riconoscere in lui un'anima più ardente e più forte e più alta dell'anima loro. Migliaia di poesie patriottiche, nei tempi di ribollimento nazionale, sorgono, si diffondono e scompaiono: non restano che quelle dei poeti ch'ebbero anima e cuore di grandi cittadini, e tempra di soldati, e nerbo d'atleti; i quali o fecero o avrebbero fatto quel che incitavano a fare, e o suggellarono i loro canti col sangue, o li prepararono nell'avversità che fortificò ed innalzò il loro cuore. Il Berchet scrisse i suoi canti sospirando la patria da cui era proscritto; il Rossetti pagò le trenta strofe del suo inno alla Libertà con trent'anni d'esilio; il Mameli [239] e il Körner morirono sul campo di battaglia; Riga sul patibolo. Perciò noi nutriamo per i grandi poeti patriottici un sentimento particolare di riverenza, e consideriamo come uomini intrepidi, che abbiano non meno operato che scritto, anche quelli tra loro che non uscirono dal campo dell'arte; e ce li rappresentiamo nella storia della letteratura, raggruppati in disparte, con una cicatrice sulla fronte e una bandiera nel pugno.

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Che posto occupi tra questi poeti Paolo Déroulède, che tocca ora appena i trentaquattro anni, non si potrebbe dir meglio che con le parole di un critico arguto e dotto, ungherese di nascita, ma tedesco di studi e di simpatie, che ne ragiona di passata in un suo notissimo libro, assai malevolo [240] per la Francia; il che toglie ogni sospetto ch'egli possa peccare di parzialità per il poeta francese — a lui sconosciuto. Il Déroulède, egli dice fra l'altre cose, è uno di quei poeti che non possono nascere che in una nazione vinta. Quasi ogni nazione ebbe nella sua storia un'epoca, in cui un solo pensiero la possedette: il pensiero della lotta e della vendetta. Allora i bimbi si baloccano con le sciabole e coi fucili, i ragazzi fanno ai soldati, i giovani si rallegrano d'aver una vita da spendere per la patria, gli uomini si preparano ai grandi sacrifizi, e i vecchi si dolgono di non essere più atti alle armi. In tali epoche l'egoismo sparisce e vengono alla luce nobilissimi esempi di virtù cittadine. Ogni uomo sente che tutto il suo sangue dev'essere consacrato alla gran lotta e ogni donna riconosce che il primo dei suoi doveri è quello d'accendere il coraggio degli uomini. In questa condizione si trovarono la Spagna nel 1812, la Polonia nel 1830, l'Italia fino al 1866; questo pensiero ha suscitato la potente [241] Germania del 1814; questo pensiero ha fatto sorgere quella scuola di poeti, fra cui i più insigni sono il Rückert, l'Arndt, il Körner, lo Schenckendorf, l'Eichendorff. Non si può dire assolutamente che la nazione francese si trovasse, dopo il 1870, in simili disposizioni; ma Paolo Déroulède è senza dubbio un poeta di quella levatura. Le sue poesie sono le prime di questo genere in Francia. Canzoni bellicose la «grande nazione» ne ha abbastanza, cominciando da quelle del Boileau, che pareva dimenassero la coda davanti al ridicolo Roi Soleil, e venendo fino a quelle, che trovarono in Napoleone primo un più degno oggetto dei loro entusiasmi; nè mancano pure nella letteratura francese poesie che eccitino all'odio e al disprezzo delle nazioni vicine; e forse in questo genere spetta la palma al famoso nous l'avons eu votre Rhin allemand. Ma poesie piene di profondo dolore per le sventure sofferte, di esortazione virile al raccoglimento, al lavoro e alla preparazione, per il gran giorno della resa dei conti; di sentimento [242] del dovere, di spirito di sacrificio, di ferma risoluzione nel proposito di ritemprarsi l'animo e le membra per ritentare una prova suprema, tali poesie son nuove nella letteratura francese. La sola Marsigliese del Rouget de l'Isle s'avvicina a questo genere e sorse del pari in un tempo di sventura nazionale profondamente sentita; ma Paolo Déroulède, il soldato del 1870, è poeta ben più grande del luogotenente d'artiglieria del 1791; poichè nella Marsigliese predominano ancora la declamazione, la millanteria e il reboante, mentre i Chants du soldat, semplici e profondi, esprimono il sentimento, la modestia e la dignità virile. Così dice uno scrittore che bistratta la Francia per cinquecento pagine, negando ai francesi persino lo «spirito» che anche i nemici più accaniti son disposti a riconoscere in loro — indulgentemente.

[243]

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Prima d'esaminare la poesia del Déroulède, convien vedere come sia nata; ossia conoscere la parte che prese il poeta nella guerra del 1870: parte piena d'avventure così singolari, che meriterebbero d'essere raccontate se anche si riferissero a un soldato sconosciuto, invece che a uno dei più simpatici tra i giovani poeti della Francia.

Prima del 1870, il Déroulède era studente di legge, e studiava poco: il mal dei versi lo cominciava a tormentare. Una delle sue prime poesie fu una risposta vivace allo zio Emilio Augier, il quale aveva detto in famiglia: — Vedete Paolo! Egli non fa nulla sotto il pretesto che un giorno farà il poeta. — Per l'appunto — rispondeva il Déroulède in alessandrini; — per fare il poeta un giorno ho bisogno di vivere adesso. Non è [244] ancora il tempo di giudicarmi. Lasciate maturare la messe; — piccolo sfogo d'alterezza giovanile che egli si guarderebbe bene dal fare ora che la messe è matura. Nel 1869 scrisse un dramma in un atto, che passò inosservato, ed empì qualche quaderno di poesie; ma non fece nulla di notevole. Cercava ancora se stesso, come suol dirsi; ma si cercava con una tale impazienza, che non si trovava. Era un giovanotto di alta statura, secco, svelto, irrequieto, che sentiva intensamente la vita; pieno di grandi speranze confuse, che gli mettevano il sangue in ribollimento, e lo tenevano come in uno stato d'ebbrezza continua; una di quelle nature esuberanti d'artista, a cui la vita del pensiero non basta; che han bisogno di sfogare nell'azione l'eccesso delle loro forze giovanili, prima d'entrare nell'arte. Agiato com'era di fortuna, egli avrebbe forse corso la cavallina, come molti altri giovani, per parecchi anni, se gli fosse mancata l'occasione di agire; ma l'occasione venne, e non poteva essere nè più grande nè più terribile. [245] Scoppiata appena la guerra, piantò codici e versi, ed entrò nel Corpo delle guardie mobili di Belleville, in cui fu nominato ufficiale. Le sue speranze, però, furono deluse. I tedeschi s'avanzavano in Francia, le battaglie succedevano alle battaglie, e le guardie mobili non si movevano. Ed egli voleva battersi. Perciò rinunziò al grado, s'arrolò negli zuavi, fu destinato al 3º reggimento che faceva parte del Corpo d'esercito del maresciallo Mac-Mahon, lo raggiunse sollecitamente, e fu ancora in tempo a pigliar parte, come semplice soldato, nei due combattimenti di Mouzon e di Bazeille, da cui uscì sano e salvo, col buco d'una palla nei calzoni. Intanto un suo fratello minore, Andrea, di diciassett'anni, che studiava a Parigi, — giovanetto d'indole dolce e d'aspetto gentile, ma tutto ardente d'amor di patria, — si decideva a seguire l'esempio di lui. Si presentava un giorno a sua madre e le diceva di volersi arrolare negli zuavi per andarsi a battere col fratello. Per quanto fosse forte e coraggiosa, sua [246] madre cercò sulle prime di dissuaderlo: era troppo ragazzo, non era abbastanza robusto da reggere alle fatiche, la famiglia aveva già dato un soldato alla Francia. Ma egli insistè, e la madre si arrese; e siccome non c'erano più vestimenta da zuavo nei magazzini militari di Parigi, lo accompagnò lei stessa al gran mercato del Temple, dove, a furia di cercare, raccattando qui una papalina, là una ghetta, fra tutti e due misero insieme il così detto «equipaggiamento», e il giovane potè partire vestito ed armato.

Sua madre l'accompagnò fino al campo.

Qui attinse l'ispirazione Paolo Déroulède per quella mirabile poesia intitolata Le Turco, che comincia con le strofe seguenti:

C'était un enfant, dix-sept ans à peine,

De beaux cheveux blonds et de grands yeux bleus.

De joie et d'amour sa vie était pleine,

Il ne connaissait le mal ni la haine;

Bien aimé de tous, et partout heureux.

C'était un enfant, dix-sept ans à peine,

De beaux cheveux blonds et de grands yeux bleus.

[247]

Et l'enfant avait embrassé sa mère.

Et la mère avait béni son enfant.

L'écolier quittait les héros d'Homère;

Car on connaissait la défaite amère,

Et que l'ennemi marchait triomphant.

Et l'enfant avait embrassé sa mère,

Et la mère avait béni son enfant.

Elle prit au front son voile de veuve,

Et l'accompagna jusqu'au régiment.

L'enfant rayonnait sous sa veste neuve;

L'instant de l'adieu fut l'instant d'épreuve:

«Courage, mon fils! — Courage, maman!»

Elle prit au front son voile de veuve.

Et l'accompagna jusqu'au régiment.

Mais lorsque l'armée eut gravi la pente:

«Mon Dieu! disait-elle, ils m'ont pris mon cœur,

«Tant qu'il est parti, mon âme est absente.»

Et l'enfant pensait: «Ma mère est vaillante,

«Et je suis son fils, et je n'ai pas peur.»

Mais lorsque l'armée eut gravi la pente:

«Mon Dieu! disait-elle, ils m'ont pris mon cœur.»

Il viaggio fu pieno di peripezie. La signora Déroulède, già malata, col cuore oppresso, simulando una forza d'animo che le mancava, si recò [248] da Parigi a Reims per strada ferrata, col suo zuavo di diciassette anni. A Reims, saputo che l'esercito del Mac-Mahon era in ritirata verso Sédan, si mise in una carrozzella col figliuolo, e si diresse verso Sédan. Si può immaginare lo stato di quella povera donna, durante quel viaggio lungo e difficile, per strade ingombre di salmerie disordinate e di carri carichi di feriti, tra reggimenti decimati e spossati, in mezzo alla tristezza lugubre d'un esercito sconfitto, che andava incontro a nuove battaglie col presentimento di nuove sventure. A ogni passo, madre e figliuolo domandavano del 3º reggimento zuavi: nessuno sapeva dove fosse. Una volta si trovarono in una grande solitudine, dinnanzi a tre strade, senza indicazione di sorta: la madre, fortunatamente, obbedendo ad una ispirazione del cuore, disse: — Paolo passò di qui; — si misero per quella strada, ed era la giusta. Dopo un altro lungo tratto, si ritrovarono in mezzo ai cariaggi, ai soldati, al disordine: era una divisione del Mac-Mahon; raggiunsero un [249] reggimento di zuavi: era il terzo. Scesero di carrozza, e dopo molto cercare trovarono il povero poeta, seduto sull'orlo di un fosso, che mangiava nella gamella, in mezzo a un crocchio di camerati africani, tra due fasci d'armi. Inteso il proprio nome, saltò su, e si trovò davanti sua madre e suo fratello, di cui non aveva più avuto notizia dal giorno della partenza. Si ritirarono tutti e tre in una piccola osteria di campagna, accanto alla strada; là la signora Déroulède volle che i suoi figliuoli, l'uno stanco dalle marcie, l'altro dalle emozioni, si riposassero; e tutti e due le si addormentarono con la testa sulle ginocchia, come due ragazzi. Allora la madre potè piangere, guardata con rispetto pietoso dagli zuavi, che s'affacciavano alla finestra e allo spiraglio dell'uscio; e, piangendo, prepararsi alla separazione. Il terribile momento non si fece aspettare. Squillarono le trombe, i figliuoli si svegliarono; bisognava dirsi addio; la madre si sentiva schiantare il seno dai singhiozzi; ma fece uno sforzo sovrumano, e non versò che lacrime [250] mute. I saluti furono brevi: — Courage, mon fils!Courage, maman! — come nella poesia. E si separarono. Il reggimento seguitò la sua strada verso Sédan, e la signora Déroulède riprese la via di Reims. Prima di arrivare a Reims, le seguì ancora un caso doloroso. Arrestata da una avanguardia francese, interrogata da un ufficiale, disse il suo nome, e raccontò che era stata ad accompagnare un figliuolo al reggimento, dove già n'aveva un altro. La cosa parve inverosimile: la presero per una spia! Riuscì fortunatamente a liberarsi, e sfinita dalle fatiche, con quell'ultimo colpo di stile nel cuore, arrivò a sera inoltrata a Reims, dove fece appena in tempo a pigliare il treno di Parigi, che era l'ultimo della giornata, e fu l'ultimo per tutta la durata della guerra, poichè la mattina seguente le avanguardie prussiane avevano già tagliata la via della capitale.

I due fratelli furono messi nella medesima compagnia: in pochi giorni tutto il reggimento li conobbe. In una relazione del colonnello è fatto [251] cenno di loro: — Questo bell'esempio di patriottismo dato dalla famiglia Déroulède fu un grande incoraggiamento per i resti del 3.º reggimento zuavi. I due giovani volontari s'attirarono in breve tempo, con la loro abnegazione e il loro valore, l'ammirazione dei vecchi soldati. — Tutt'e due si trovarono alla battaglia di Sédan, pochi giorni dopo l'arrivo d'Andrea. È noto che il 3.º reggimento zuavi fu il solo che riuscì a rompere il cerchio de' Tedeschi in quella giornata, e che dal campo di battaglia si ridusse a Parigi, dove l'assemblea lo dichiarò benemerito della patria. Ma i fratelli Déroulède non poterono salvarsi coi loro compagni. Mentre combattevano in un bosco, a pochi passi di distanza l'uno dall'altro, Andrea si voltò improvvisamente verso il fratello, col viso bianco, e gli disse: — M'hanno fatto male! — e detto appena questo, stramazzò gettando sangue per la bocca. Aveva una palla nel ventre. Paolo accorse, lo prese in braccio, e camminando verso i Tedeschi, lo portò dietro a un [252] piccolo rialto del terreno, dove, deponendolo sull'erba, incespicò e cadde in un fosso; il che vedendo di lontano gli altri soldati, che continuavano ad avanzarsi, credettero che anche lui fosse stato ferito mortalmente. Paolo si rialzò, tagliò una croce rossa nei suoi calzoni di zuavo, l'attaccò sul suo turbante bianco spiegato, e legato questo cencio di bandiera d'ambulanza sulla punta del fucile confitto in terra, pensò a salvare il ferito. C'erano là vicino dei cannoni francesi abbandonati, coi loro cavalli. Paolo tentò di trasportare il ferito sopra un cassone, e di fuggire con le artigliere. Ma mentre lo adagiava, gli sgorgò dalla bocca un'ondata di sangue nero; pareva che morisse; lo ripose in terra; si mise a succhiargli la ferita perchè il sangue non lo soffocasse, lo lavò, gli strinse una fascia intorno ai fianchi;... ma sperava poco di salvarlo. Intanto la battaglia continuava da ogni parte, lontano, confusamente: egli non ne racapezzava nulla. Il terreno intorno era sparso di morti, nessun vivente appariva nè francese [253] nè tedesco. Il primo che passò, dopo un'ora, fu un soldato sassone, che balbettava il francese. S'avvicinò al Déroulède e lo interrogò. Inteso che il ferito era suo fratello, s'impietosì. — Anch'io — disse — ho un fratello nell'esercito. Ah c'est malheureux, c'est malheureux! — E poi soggiunse: — datemi un po' di pan bianco, zuavo; ve lo domando, non come nemico, ma come camerata. — E avuto, il pan bianco, se ne andò, salutando affettuosamente. Il povero Déroulède dovette stare là quattr'ore col fratello moribondo fra le braccia, vedendo di lontano delle figure sinistre di spogliatori di morti vagare per il campo e contaminare con le mani ladre i cadaveri. E cominciava già a disperare. Finalmente passò di galoppo un drappello di dragoni azzurri; vista la bandiera, s'arrestarono; mandarono per un medico; venne poco dopo; — era un medico sassone; — fece trasportare il ferito in un grande opificio, vicino a Sédan; lo adagiò sopra un letto, in una stanza del padrone, ch'era assente, e tentò l'estrazione [254] della palla. Mentre egli operava, una banda tedesca suonava la marcia del Lohengrin nel cortile, e una frotta di soldati prussiani aspettava sulla porta che l'operazione fosse terminata, per entrare nella stanza a vedere un grande ritratto di Federico il grande — di cui s'era sparsa la notizia — appeso proprio sopra il letto in cui era disteso il ferito. Cose che, in un romanzo, parrebbero troppo ingegnosamente combinate. L'operazione, mercè un taglio profondissimo, riuscì. Paolo offrì al medico tedesco il suo orologio. — No, — quegli rispose — sarebbe un pagamento. — Allora accettate il mio pugnale — disse il giovane. Il medico accettò. Tutti e due erano commossi. Il ragazzo era sfinito; ma salvo.

Della capitolazione dell'esercito e dell'Imperatore non sapevano ancor nulla; nemmeno della vittoria dei Tedeschi. Il ferito fu dato alle ambulanze francesi, perchè lo trasportassero nel Belgio: Paolo sperava di poterlo accompagnare, perchè era ancora aggravato; ma fu preso prigioniero, [255] e diviso a forza dal fratello. Fortunatamente, mentre lo conducevano via, un ufficiale prussiano, vedendolo passare così desolato, con la faccia nelle mani, fermò il drappello, e domandò spiegazioni. Intesa la cosa, fu preso da compassione. — Che diavolo! — disse — è una crudeltà separare così due fratelli! — E andò egli stesso a domandare al comandante tedesco di Sédan che il Déroulède potesse accompagnare il ferito nel Belgio. L'ottenne; il Déroulède andò a Bruxelles col fratello. Qui solamente ebbe notizia della catastrofe di Sédan. Andrea fu ricevuto in una casa d'amici; Paolo poteva andarsene. Le autorità belghe gli offrirono la libertà, purchè desse la sua parola di non battersi più contro i Tedeschi; altrimenti, dovevano mandarlo prigioniero in Germania. Egli preferì la prigionia, con la speranza della fuga. Fu quindi mandato per strada ferrata a Berlino, e da Berlino condotto a Breslau, nella Slesia.

Mentre questo accadeva, la sua famiglia stava [256] a Parigi, al buio di tutto, nella trepidazione che si può pensate. Arriva finalmente il 3.º reggimento zuavi. Padre e madre gettarono un grido di gioia, corsero dal colonnello, domandarono dei figliuoli.... Non c'erano. Erano stati visti cadere l'un sull'altro in un fosso, alla battaglia di Sédan; il che voleva dire ch'erano morti. La povera madre rimase fulminata. Portata a casa, le prese un accesso di paralisi da cui non si rimise più; chè anzi s'andò sempre aggravando; e per otto giorni stette tra la morte e la vita, con l'immagine di quei due cadaveri davanti agli occhi, istupidita dal dolore. Per fortuna, prima di passare la frontiera belga, il Déroulède aveva sparso fra contadini e soldati, e buttato a tutte le poste; un gran numero di buste dirette a sua madre, con tre parole dentro, e la firma sua e del fratello. Una di queste buste, dopo otto giorni, arrivò; la signora Déroulède l'aperse con le mani tremanti, animata da un barlume di speranza: c'era scritto — Nous sommes vivants. — Credette d'impazzire...; ma [257] questa gioia immensa non valse a rimetterla dal colpo tremendo che aveva ricevuto. E continuò a vivere miseramente, torturata dalla paralisi che cresceva, e da un'insonnia angosciosa, che avrebbe spezzato i nervi d'un uomo; ma piena di coraggio e, se non rassegnata, preparata ad ogni cosa.

Intanto Paolo Déroulède era prigioniero a Breslau. Qui gli seguì una piccola avventura comica. I prigionieri andavano liberi per la città; ma egli non godette di questa libertà per un pezzo. Il generale tedesco che comandava la fortezza, vecchio soldato burbero, leggeva tutte le lettere prima di spedirle. Era stato qualche tempo a Parigi, conosceva la lingua francese, non si lasciava scappare una parola che potesse urtare un tedesco. Letta la prima lettera del Déroulède, ch'era un po' troppo liberamente patriottica, pensò di dargli un avvertimento. — O la finite — gli disse — o vi caccio in fortezza. — Il Déroulède non la finì. In una seconda lettera diceva fra le altre [258] cose: — ce troupeau de Prussiens. Il generale lo mandò a chiamare e gli disse: — Questa lettera non partirà. Noi siamo une troupe e non un troupeau. — Avete ragione, rispose il prigioniero; — je vois avec plaisir que vous connaissez le français dans toutes ses nuances. — Ah sì? — ribattè il generale; — ebbene, andate in fortezza a studiare le nuances del tedesco. — E lo fece chiudere in fortezza. Dopo qualche giorno uscì, e ricominciò a scrivere; ma nascondendo il suo pensiero sotto una quantità di motti a doppio senso, di bisticci parigini, incomprensibili a un tedesco. Il generale lo rimandò a chiamare, e volle che gli spiegasse il significato nascosto d'ogni frase. — Ma, signor generale, — rispose il Déroulède; — io sono prigioniero; ma non sono obbligato a perfezionarvi nello studio della letteratura francese. — Ed io — replicò il generale, — non sono neppure obbligato a lasciarvi passeggiare liberamente per le strade di Breslau. Andate in fortezza. — E questa volta non si parlò più d'uscire. [259] Ma il prigioniero provvide da sè ai casi suoi. La figliuola del carceriere, che non vedeva di mal occhio quel gran diavolo di zuavo, dal viso di poeta e dai modi di gentiluomo, faceva conversazione con lui per il buco della serratura. Lo zuavo, che aveva in capo il suo disegno di fuga, pensò di valersi della ragazza. A poco a poco, facendosi tradurre in tedesco oggi una parola, domani una frase, senza lasciar trasparire il senso del discorso, riuscì a mettere insieme e a pronunziare correttamente una parlatina in tedesco, che diceva presso a poco: — Sono un ebreo polacco, nato in America, zoppo dalla nascita. Gli ultimi avvenimenti m'hanno chiamato in Germania per far riconoscere la mia inabilità al servizio militare. Torno a Torino dove faccio il professore di lingua francese. — Quando si sentì abbastanza forte su questa sfilata di fandonie, si mise d'accordo con un ufficiale francese delle guardie mobili, anch'egli prigioniero, ma sciolto, a Breslau; costui insaccò un gran pastrano turchino [260] da ebreo polacco, si mise un berrettone d'astrakan, e gli occhiali verdi; si fece dare un permesso per visitare il carcerato; entrò nella fortezza zoppicando — diede i suoi panni al Déroulède; — il Déroulède, zoppicando, uscì dalla cella, passò tranquillamente sotto il naso delle sentinelle, andò alla prima stazione della strada ferrata di Boemia, e saltò sano e salvo sul treno liberatore. Ma c'era ancora un pericolo al passaggio della frontiera austriaca. Discese perciò alla penultima stazione e prese a traverso ai campi per passar la frontiera a piedi. Era notte, nevicava fitto, faceva un freddo da cani. Dopo molto andare, non raccapezzò più dove fosse: passò accanto a un villaggio, offrì del danaro a un contadino perchè l'accompagnasse. Costui accettò; ma era un furfante. Giunto a poca distanza dal confine, vicino a un corpo di guardia prussiano, si fermò e disse al Déroulède: — O mi date il doppio, o vi denuncio alla sentinella. — Il Déroulède, vistosi perduto, gli mise un coltello alla [261] gola, e gli gridò: — O tiri diritto, o t'ammazzo. L'uomo si persuase, lo guidò di là dal confine, e lo accompagnò fino alla prima stazione austriaca. Un treno stava per partire, il Déroulède ci saltò su, e fuggì verso Vienna. Aveva voluto tentar la fuga da Breslau il 29 settembre, anniversario di sua madre, e la fortuna l'aveva aiutato.

Con la fuga di Germania entrò in un'altra serie d'avventure. Attraversò Vienna di notte, prese un biglietto per Milano, e ripartì. Ma per pagare il biglietto dovette spendere gli ultimi resti del suo peculio. Da Vienna a Milano non mangiò che un enorme pane che aveva comprato a Baden, stando rincantucciato in fondo al vagone, quieto quieto, senza attaccar discorso con nessuno, per non tradire il segreto della sua mascherata. Arrivato a Milano, fin dove lo conduceva il biglietto, si trovò nella stazione solo, morto di fame, senza un soldo, senza sapere dove batter del capo. Che cosa fare? Si rivolse a un impiegato, gli espose il caso suo, gli domandò se avrebbe avuto tempo, [262] prima di partire per la Francia, di fare una corsa fino al Consolato di Francia, per domandar dei denari. L'impiegato gli disse che no. — Ma non occorre — soggiunse; — sono stato soldato anch'io, mi so mettere nei vostri panni: provvedo io al vostro viaggio. — E gli diede il biglietto per la Francia. Il Déroulède ebbe appena il tempo di ringraziare il bravo impiegato, ripartì, e il giorno dopo si trovò a Lanslebourg, in compagnia d'altri francesi, scappati pure di Germania, tornati in patria per la stessa strada, travestiti anch'essi bizzarramente, e scannati e affamati come lui. Un caffettiere misericordioso li sfamò gratis. Il Déroulède ripartì per Lione, e da Lione andò a Tours. Appena arrivato a Tours, corse al ministero della guerra per riprender servizio. Mentre aspettava nei corridoi, passò il Gambetta, il quale lo conosceva fin da giovanetto. Questi rimase meravigliato riconoscendo il giovane poeta sotto quello strano travestimento. — Che cosa venite a far qui? — gli domandò, dopo aver inteso la [263] sua storia. — A offrire un'altra volta la pelle, — rispose il Déroulède; — se mi date un incarico per Parigi, dove è il mio reggimento e mia madre, piglio l'impegno d'entrarvi. — Il Gambetta non volle dargli incarichi: era scampato una volta, non doveva mettersi al rischio di farsi ripigliare. — Se volete battervi — gli disse — battetevi sulla Loira; ci sarà abbastanza da fare; io vi nomino capitano. — Il Déroulède non volle accettare che il grado di sottotenente, che aveva già nelle guardie mobili, e siccome voleva battersi davvero, domandò d'entrare nei tiragliatori algerini, — che si battevano a modo suo. Il Gambetta accondiscese, e gli domandò se voleva che facesse pervenire sue notizie a sua madre. Il Déroulède lo pregò di non farlo. — Se mi crede sempre prigioniero, pensava, vive in pace; se sa che sono scappato, capisce che son tornato alla guerra, e ricomincia a vivere in pena. — Buona fortuna, signor tenente! disse il dittatore accommiatandolo. — Ah! la mia fortuna importa poco [264] — rispose il giovane: — è la vostra che ci preme! — E partì subito per Neung. Trovò i suoi tiragliatori algerini al bivacco; assunse il comando della sua squadra, vestito ancora di quella vecchia palandrana d'ebreo polacco, sulla quale, strada facendo, aveva fatto cucire un par di galloni; e prese parte a tutti i combattimenti della retroguardia del generale Chanzy, fino al 1.º gennaio; giorno in cui tutto il 15.º Corpo partì per Dijon, per formare il nuovo esercito del generale Bourbaki.

Qui cominciò il periodo più avventuroso della sua vita di soldato; periodo di cui si potrebbe rintracciare la storia nel suo taccuino lacero e spiegazzato, pieno di schizzi topografici, di nomi di soldati arabi, di brani di relazioni, di appunti sul modo di far la zuppa di cipolle, e d'elenchi di feriti e di morti. In questo periodo pure gli balenarono le prime idee e gli vennero fatti i primi versi di quei famosi Chants du soldat, che pochi anni dopo tutto l'esercito seppe a memoria. [265] A Mirbeau fu ospitato da una povera vecchia, che gli ispirò Le bon gîte, una delle sue più affettuose e più belle poesie. In un altro luogo, durante il bivacco, di notte, pensando a sua madre e a suo fratello, e al giorno che lo avevano raggiunto al reggimento, prima della battaglia di Sédan, scrisse le prime strofe del Petit turco, e notò nel taccuino: Le petit turco à faire. A Rocourt — in una ritirata — una ragazza, che l'aveva baciato prima del combattimento, gli diede un pugno per rifarsi del suo bacio sciupato; e quel pugno, convertito da lui in un morso, diventò celebre nella poesia La belle fille. A Gray ebbe da un'altra ragazza una coccarda di tre colori, alla quale consacrò quei dieci gioielli di strofette che molti considerano come il più grazioso dei suoi canti. In quest'ultimo periodo della guerra conobbe pure quel famoso sergente Hof, che uccise ventisei nemici in ventisei ricognizioni, e che gl'ispirò la poesia intitolata Le sergent, resa poi popolare a Parigi dall'attore Coquelin. E tra una poesia e l'altra prese [266] parte a un gran numero di combattimenti, con la sua squadra di tiragliatori, fra cui c'eran degli arabi e dei negri che lo adoravano e gli eran ardentemente devoti, tanto da portare delle assi sulle spalle per lunghissime marcie per fargli un letto alla tappa; non soldati, ma fratelli e figliuoli suoi, coi quali egli divise il suo pane, e digiunò, e dormì sul ghiaccio, e accese i fuochi del bivacco in quelle terribili notti di gennaio. Con questi soldati si trovò al combattimento di Montbéliard, ch'egli cominciò assalendo e occupando una barricata, e perdendo trenta dei suoi tra morti e feriti, sopra cinquanta a cui comandava: combattimento in cui guadagnò la croce della Legion d'onore. Ma da quel giorno non ci son più appunti sul taccuino: il freddo faceva cader la matita dalle mani assiderate e sanguinanti. Poi vennero i disastri, le nevicate interminabili, le lunghe marcie di notte, i bivacchi che lasciavano il terreno coperto di morti gelati, la perdita di tutte le speranze, lo scompiglio miserando dell'esercito [267] diradato, avvilito, affamato, scalzo, — ridotto a un esercito di spettri —, incalzato spietatamente, con la morte in faccia, alle spalle, sotto i proprii passi e nel proprio cuore. Molte volte il povero Déroulède, mal riparato dal suo vestito di polacco, bucato dalle palle, si lasciò cader nella neve, al termine d'una marcia mortale, e ravvolgendosi nella sua coperta di guardia mobile, nella quale aveva già ravvolto il fratello moribondo a Sédan, s'addormentò con la certezza di non più risvegliarsi. Ma la sua forza d'animo, più che la sua forza fisica, e le cure dei soldati lo tennero in vita fino all'ultimo, — fino al giorno in cui l'esercito del Bourbaki — ultima speranza della Francia — si rifugiò in Isvizzera, fulminato dai cannoni del Manteuffel. Quello fu il momento più desolante della campagna per Paolo Déroulède. Immobile sopra un rialto di terreno vicino al confine, in mezzo ai resti della sua squadra, egli voleva rimanere in Francia a ogni costo, e non si decise ad accompagnare i suoi tiragliatori nella Svizzera [268] che per le esortazioni del suo maggiore, e col patto che questi sarebbe fuggito con lui per andar a cercar la guerra in qualche altro angolo della Francia, appena i loro soldati fossero stati al sicuro.

Fuggirono infatti il Déroulède e il suo maggiore, seguiti da un matto originale di zuavo negro, di nome Mohamed-uld-Mohamed, che si faceva passare per dentista americano, e scendendo lungo la frontiera, arrivarono fino a Tolosa; di dove il Déroulède, solo, corse a Bordeaux, sede del Governo, per offrire la sua vita una terza volta. A Bordeaux sente che è stato stipulato un armistizio, e che un treno carico di bestiami deve partire per Parigi. Butta via il pastrano da ebreo polacco, si traveste da bovaro bordelese, salta sul treno, arriva a Parigi, corre a casa, si getta nelle braccia di suo padre. — Zitto, Paolo, per amor del cielo — gli dice il padre; — abbi pietà della mamma. — Bisognava prepararla a quel colpo. Combinano insieme un lungo giro di discorso per annunziarle [269] la cosa a poco a poco; il padre va su, perde la testa, e dice senza preamboli: — Paolo è arrivato. — Il grido dell'amore e della gioia materna echeggiò in quella casa, solitaria e triste da tanto tempo. Povero Paolo! Egli trovò sua madre molto mutata: aveva i capelli bianchi, le mani tremole, gli occhi infossati, la voce fioca. Ma dentro all'anima era sempre la madre di prima, sorridente nel dolore, non curante di sè, e piena di risoluzione e di forza. Qui il Déroulède seppe che suo fratello, appena guarito dalla sua ferita, era stato mandato da Bruxelles a Ostenda, e di là a Londra, e da Londra a Bordeaux, donde l'avevano inviato in Algeria a vestirsi e ad armarsi al deposito degli zuavi, per ritornar poi alla guerra. Allora lasciò la famiglia e tornò subito a Bordeaux a domandare al Ministero se avrebbe avuto tempo di fare una corsa in Algeria per riprendere suo fratello, prima che scoppiasse la guerra civile: poichè, essendo stato per qualche tempo tra le guardie mobili di Belleville, e avendo visto che umori ribollivano in [270] quella gente, aveva portato nell'animo, per tutta la durata della guerra, la ferma persuasione che qualcosa di terribile sarebbe seguito, se la Germania riusciva vittoriosa. Gli dissero che aveva tempo: andò in Algeria, tornò con suo fratello in Francia, e andarono subito tutti e due a Versailles, dove l'uno entrò in un reggimento di zuavi, l'altro in un reggimento di cacciatori. E così questo demonio di poeta cominciò la sua terza campagna.

La guerra civile era scoppiata. Per il Déroulède, patriotta e repubblicano d'animo generoso, era un dolore aver da combattere contro concittadini. Ma la sua coscienza di francese glie lo imponeva inesorabilmente. — Qualunque francese, — egli pensava, — senta nel cuore la dignità e l'onore della Francia, deve tutto sacrificare per impedire questa vergogna suprema, che la rivolta sia schiacciata dagli stranieri. — Suo fratello, appena riprese le armi, fu costretto a ritirarsi perchè gli si riaperse la ferita. Lui, nominato sottotenente nei cacciatori a piedi, raggiunse immediatamente il 30.º battaglione, [271] ch'era a Neuilly, fra le truppe che combattevano intorno alla porta Maillot. Il principio fu terribile per l'ufficiale, come fu terribile la fine per il cittadino. La disciplina era allentata fra i soldati; molti non volevano battersi; tutti erano stanchi e sfiduciati; i comunardi, dalle case vicine, gl'incitavano alla rivolta con promesse tentatrici o con grida di scherno; non ancora inaspriti dall'ostinazione feroce della resistenza, avevano ripugnanza per una lotta in cui il sentimento del dovere non era infiammato dalla speranza della gloria. Bisognava ragionarli, spingerli al combattimento ad uno ad uno, minacciarli qualche volta, e rischiare, minacciandoli, qualche cosa di peggio che di non essere obbediti. Ma il Déroulède si affezionò a poco a poco i cacciatori come si era affezionati gli algerini, e li condusse a combattere, non inferocendoli ma persuadendoli, e dando per il primo l'esempio della pazienza, della fermezza e dell'audacia. Coi suoi cacciatori combattè davanti alla porta Maillot, entrò dei primi in Parigi, si [272] trovò nella mischia delle strade, e assistette all'orrenda tragedia degli ultimi giorni della Comune. Qui, per testimonianza di tutti, spiegò una generosità eguale al valore. — Son venuto per domare la rivolta, pensava, e non per uccidere dei Francesi, — e perciò salvò la vita a quanti potè, protesse i feriti, difese i prigionieri, restituì alla famiglia dei disgraziati che erano creduti spacciati; tanto che delle donne del popolo gli gridavano: — È dei nostri! — al che egli rispondeva: — No, sono francese. — Si racconta questo perfino: che mentre stava mangiando in un'osteria, tra una barricata ed un'altra, un comunardo, sdegnoso, disse in modo da farsi sentire: — Ça nous tue et ça mange. — Ed egli rispose: — Uccidere è una dolorosa necessità, di cui non ho colpa; mangiare è un bisogno che vuol essere compatito. Mangiate con me, se credete di averne il diritto. — Non accetto il vostro pane — quegli rispose. — Allora accettate due lire, e mangiate per conto vostro. — Non accetto le vostre due lire. — Ho capito [273] — rispose il Déroulède tranquillamente —; preferite di prendermele. Ebbene, siete libero, andate alla barricata più vicina, faremo alle fucilate, voi attaccherete le mie due lire e io cercherò di difenderle. — Il comunardo rispose: — Ci vado — e il Déroulède lo lasciò andare. Per tutta la durata di quella lotta feroce, egli non si bagnò le mani d'altro sangue che del proprio, e fu l'ultimo giorno. La resistenza era agli estremi; poche barricate resistevano ancora, ma furiosamente. Il generale Dumont lo mandò, con una squadra di cacciatori, a pigliare dei cavalli a Belleville. Passando di corsa per un crocicchio, vide in una strada un ufficiale della legione straniera, che faceva alle fucilate, col suo plotone, contro una barricata difesa da tre cannoni, e sormontata dalla bandiera rossa. Vedendo quello spreco inutile di polvere, si fermò, e disse all'ufficiale: — È tempo perso: bisogna pigliar la barricata alla baionetta. — Fatelo — rispose l'ufficiale. — Lo faccio — rispose il Déroulède, e gettato un grido ai suoi soldati, si slanciò all'assalto. [274] I comunardi li lasciarono avvicinare e fecero una scarica all'ultimo momento; il Déroulède, ritto sulla barricata, ricevette a bruciapelo una palla nel gomito, che gli spezzò l'osso, gli staccò l'avambraccio, e gli diede una contrazione orrenda alla mano. Ma la barricata fu presa, e il Déroulède, sostenendo colla mano destra il braccio stritolato, continuò ad avanzarsi, fin che, spossato dalla perdita del sangue, cadde fra le braccia dei suoi soldati. Così finirono per lui le avventure della guerra. Fasciato alla meglio, fu portato a casa, dove rimase tre mesi a letto, col braccio sospeso, curato da sua madre. E in questi tre mesi fece il primo volume dei Chants du soldat, che venne pubblicato verso la fine del 1871.

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In che modo un artista potente sia passato dall'oscurità alla fama, è sempre curioso a sapersi. Quei primi versi il Déroulède li aveva fatti proprio per sfogo dell'animo, agitato da mille ricordi in quella lunga immobilità della convalescenza, durante la quale la mente dell'infermo suole tanto più lavorare quanto sono più inerti le membra; ed era molto lontano dal prevedere, ed anche dallo sperare il successo che ottenne. Tanto è giusta la sentenza dello Schiller: che il vero ingegno è inconscio di sè nelle sue prime manifestazioni, perchè non trova nulla di straordinario — ed è naturale — in ciò che è sempre stato suo, e costituisce, per così dire, la sua intima natura. Nondimeno l'artista era già maturo nel Déroulède. Benchè giovane, infatti, ed esuberante [276] d'ispirazione, capì che non conveniva fare un gros volume de patriotisme, e non pubblicò che una parte delle sue poesie, scelte fra le più brevi e le più spontanee. Un giorno portò il suo scartafaccio all'editore Lévy. Le poesie patriottiche pullulavano da tutte le parti: l'editore ricevette lo scartafaccio con diffidenza, e pregò il poeta di ritornare dopo alcuni giorni. Il poeta ritornò. — Ho letto le vostre poesie — gli disse il Lévy. — Non c'è male. Ma non c'è versi d'amore, non c'è canzonette allegre di bivacco, che sono il genere che piace. Ho paura che il vostro volumetto, scusatemi, annoi un poco. È troppo triste. — Che cosa volete? — gli rispose il Déroulède — ero triste. — Non potreste aggiungervi qualchecosa qua e là — gli domandò l'editore — per renderlo un po' più ameno? — Il Déroulède rispose che non poteva. — Ebbene.... — concluse il Lévy, — quando è così, bisogna che abbiate la bontà di pagare le spese di stampa. — Così fu convenuto. E poco tempo dopo uscì il volume, non preceduto [277] da réclame di sorta, quieto quieto come un povero libro rassegnato a tarlare nelle vetrine. In capo a un mese il Déroulède ripassò dall'editore a chieder notizie: lo trovò tutto sorridente. — Mais ça va, mais ça va, — gli disse, guardandolo curiosamente. In poche settimane si spacciarono dieci edizioni: il volume si divulgò da Parigi nelle provincie, si diffuse fra il popolo e fra i letterati, si sparse nell'esercito, entrò nelle scuole e nelle famiglie, diventò popolare prima che la critica l'avesse preso ad esame. Fra le altre mille poesie patriottiche e guerriere, quelle del Déroulède producevano un'impressione nuova: erano giovanili e gravi ad un tempo, fiere ed affettuose, eccitavano e consolavano, ed educavano; sotto l'amor di patria, vi si sentiva il coraggio; non v'era soltanto l'ardore del cittadino che predica il dovere, ma anche la coscienza del soldato che l'ha compiuto, e che ha acquistato a caro prezzo il diritto di alzar la voce; era una poesia forte e sincera, stata più pensata che scritta, più vissuta che [278] pensata; tutta calda, e piena d'odor di sangue e di polvere, e sonante di ferro, senza gale letterarie, non vestita d'altro che della divisa semplice e succinta sotto a cui aveva palpitato il cuore del poeta, quando glie n'eran balenate le prime idee negli accampamenti. Allora si cominciò a domandare, a cercare chi fosse questo Déroulède, e ben presto le sue avventure di soldato diventarono popolari come le sue poesie, non solo, ma furono ingrandite, come accade sempre, e abbellite di una certa luce vaga di leggenda, che rese più simpatico e fece parer più alto il poeta; e formò un'aureola — ben meritata davvero — sul capo di sua madre.

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Tutti e due i fratelli, dopo la guerra, entrarono nell'esercito, poichè, come diceva il maggiore, la carriera militare era quella in cui un giovane, dopo una grande guerra perduta, poteva rendere più utili servizi al suo paese. Paolo Déroulède fu promosso luogotenente nei cacciatori a piedi, e appena entrato nel battaglione, nonostante il suo splendido successo di poeta, si consacrò tutto ai suoi doveri militari. — Non si può avere il cuore a due cose ad un tempo — disse tra sè; — ho da fare il soldato, devo bandir la poesia. — E la bandì in fatti. Si mise agli studi militari, fece dei corsi scientifici ai sotto uffiziali e ai soldati, tenne delle conferenze, si seppellì fra i regolamenti e i trattati di tattica; e in caserma, e in piazza d'armi, e alle grandi manovre, fu un uffiziale [280] non solo coscienzioso, ma pedante, come uno di quei vecchi troupiers, per cui l'esercito è il mondo. Ma per quanto facesse, la poesia gli tempestava sempre nel cuore; tutte le volte che alla mensa degli ufficiali il discorso cadeva sulla letteratura, un'onda di sangue gli montava al viso, ed era costretto a pregare i colleghi di parlar d'altro, e di lasciarlo in pace; chè se no sarebbe schiattato. E strozzando così la musa col cinturino, servì fino al 1875. In quell'anno, facendo una corsa a cavallo, cadde di sella e si slogò un piede: a questa slogatura dobbiamo il secondo volume dei Chants du soldat. Durante la cura, che fu lunga, potendo occuparsi senza rimorso d'altra cosa che di studi militari, scrisse quattordici nuove poesie, mentre da tutte le parti della Francia, essendosi sparsa la notizia della sua piccola disgrazia, piovevano sul suo letto d'invalido biglietti di visita e condoglianze e buoni augurii. Guarì; ma non così bene da poter ripigliare il servizio, tanto più che la ferita toccata a Belleville gli si faceva [281] risentire ad ogni passaggio di nuvola; e perciò si fece trasferire dall'esercito attivo nella riserva, e tornò a casa sua — ad aspettare il gran giorno. Il secondo volume dei versi ebbe la stessa fortuna del primo; e intanto le edizioni del primo salivano alla sessantina. I Chants du soldats erano diventati il vade mecum d'ogni soldato patriotta; s'imparavano a mente nei collegi, si declamavano nei teatri, si recitavano nei salotti, si ripetevano per le strade: Paolo Déroulède, come disse uno scrittore tedesco, «era divenuto il poeta patentato delle aspirazioni nazionali.» E quando, nel 1877, fu rappresentato all'Odéon un suo dramma in versi intitolato l'Hetman, nel quale, sotto un episodio della storia della Polonia, erano espressi i sentimenti, i propositi e le speranze della Francia, questa rappresentazione — a cui la povera madre del poeta si fece trasportare in lettiga — servì di pretesto a una grande dimostrazione patriottica. Il poeta era celebre ed amato: si colse quell'occasione per tributargli gli onori del trionfo. [282] Accorsero al teatro rappresentanti di tutte le classi, i principi delle arti e delle lettere, i duchi d'Aumale e di Nemours, tutti i generali di Parigi, una legione d'ufficiali di tutte le armi, e una folla enorme; e sebbene il dramma fosse molto al di sotto della lirica, ottenne un successo trionfale. Intanto, anche le sue liriche erano passate sotto i denti della critica; ma per quanto il letterato sia stato discusso, combattuto ed anche straziato, il poeta rimase all'altezza a cui l'aveva sollevato di sbalzo il primo e spontaneo sentimento d'affetto e di gratitudine della nazione. Ora non v'è un cittadino francese che non conosca qualche verso del Déroulède, e che non l'ami come poeta e non lo ammiri come soldato. Quando Victor Hugo lo vide per la prima volta, gli disse: — Il vostro nome ha preceduto in casa mia la vostra persona, e bisogna che abbia fatto del rumore per venir fine a me, perchè oramai non sono più di questo mondo. — E mentre in Francia si leggono per tutto le sue poesie, i vecchi soldati [283] d'Africa, nelle loro caserme d'Algeri, disegnano col carbone sui muri delle camerate il suo profilo caratteristico, con un gran naso aquilino, e dicono ai visitatori: Celui-ci est monsieur Déroulède, le grand parisien, lieutenant des zouaves et avocat, un bon enfant...; mais un rude soldat tout de même.

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Ora vediamo la sua poesia.

Sono trentacinque canti, d'argomento e di metro diverso, che formano tra tutti lo scheletro di un piccolo poema, che potrebbe essere intitolato; La Francia vinta, nel quale s'alternano la narrativa e la lirica, l'ode e la canzonetta, il dialogo e la descrizione, e tutte le ire e tutte le angoscie che possono passare nell'anima d'un cittadino e d'un soldato durante una grande guerra sfortunata, che comincia con l'invasione e termina con la conquista. [284] Finito di leggere, par di vedere un vasto quadro circolare, come un panorama, nel quale, sotto un cielo sinistro, per una sterminata campagna bianca, corrono torrenti neri di soldati, mischie orrende infuriano nelle gole dei monti, ardono villaggi, si sbandano divisioni, fuggono treni d'artiglierie, serpeggiano fiumi di sangue, e sul davanti s'alzano visi trasfigurati di moribondi, con gli occhi rivolti al cielo, che benedicono la patria per cui danno la vita. L'impressione che fa questa poesia sopra di noi italiani, in questo tempo in cui l'amor di patria è, per così dir, tranquillo e quasi nascosto nel nostro cuore, sia perchè son già lontani i ricordi dei grandi avvenimenti nazionali, sia perchè nessun'idea di un pericolo vicino ci scuote, somiglia a quella che farebbe su di un uomo maturo, tutto immerso nel lavoro e negli affetti sereni della famiglia, l'eco d'una musica lontana, che gli rammentasse qualche violenta e disperata passione dei suoi anni giovanili. Via via che procediamo nella lettura, riconosciamo quelle tristezze, [285] quei dolori, quelle indignazioni; esse passarono altre volte per il nostro cuore; le abbiamo espresse con quelle parole, le abbiamo sfogate con quelle grida; e con le medesime ragioni abbiamo cercato di confortare il nostro orgoglio nazionale lacerato. Mutata la lingua, cangiati i Prussiani in Austriaci, quella potrebbe parere poesia scritta dopo Novara o dopo Custoza da un focoso luogotenente dei bersaglieri.

Uno dei sentimenti che il poeta espresse più potentemente è la tristezza lugubre che pesò sull'esercito e sul paese dopo i primi rovesci, e l'umiliazione che divorò l'anima del soldato. Ci ha dei quadretti grigi, con la pioggia all'orizzonte, e un reggimento che passa in disordine, così pieni di malinconia, di stanchezza, di ricordi dolorosi, di presentimenti funesti, che stringono il cuore. Per le vie dei villaggi, in mezzo a una folla immobile e fredda, sfilano in silenzio le compagnie e i battaglioni, dopo molti giorni di combattimenti disastrosi: i soldati col cheppì sugli occhi e il bavero [286] del cappotto rialzato, gli ufficiali col capo basso, i tamburi muti, le bandiere lacere, tutti i visi pallidi e pesti; e si sente lontano il rombo del cannone tedesco. E il borghese spietato e insolente nella sua vigliaccheria d'egoista, dice a mezza voce: — Hanno avuto paura. — Par di sentirseli passare nel cuore, come lame di pugnale, gli sguardi gelidi di quella gente che non ama la patria, ma la vittoria, e che perduta la speranza, nega la compassione. E s'indovinano le lacrime di rabbia che deve aver versato il poeta. Ma non una di queste lacrime è caduta nei suoi versi: il suo amor di patria è più forte del suo orgoglio di soldato: egli respinge con parole tristi l'accusa di viltà, e perdona. Solamente un sorriso amaro gli sfiora le labbra, quando una signora, che guarda dalle finestre della sua villa il fuoco d'un bivacco notturno, e sfoga in parole entusiastiche la sua ammirazione per i turcos, cangia tuono ad un tratto e li chiama ladri e banditi, accorgendosi che bruciano la legna dei suoi boschi. Son pochi cenni qua e là, ma il [287] contrasto occulto di sentimenti che nasce in ogni guerra sfortunata tra chi dà la vita e chi dà il danaro; tra chi mette al disopra d'ogni cosa l'onore e chi antepone a tutto la pace; tra la parte che forma i nervi e quella che forma il grasso flaccido e pigro d'una nazione, è reso magistralmente, con una mestizia grave, cento volte più efficace dello scherno, e più nobile dell'ira.

Ciò non ostante, i più belli dei Chants du soldat son forse certi poemetti di poche strofe, in cui son narrati degli atti eroici, veri quadretti del Détaille e del Neuville, che infiammano il sangue come l'urrà d'un reggimento. In una di queste, una compagnia di cacciatori, che corre all'assalto, sprofonda, a traverso al ghiaccio spezzato, in un fiume, mentre i tedeschi, schierati sulla sponda opposta, coi fucili spianati, intiman la resa. I cacciatori rifiutano, vogliono morire. Ma il capitano ordina d'arrendersi. — Arrendetevi, ragazzi — grida; — non voglio che moriate così; a che serve? Abbassate le armi, non c'è altro da fare. — I cacciatori [288] obbediscono e salgono sulla riva: il capitano riman nel fiume. — Salite, capitano! — gli gridano, tendendogli la corda. — No — quegli risponde —; ho salvato i miei soldati, non me; — e facendo un'atto d'addio, sparisce nell'acqua. In un'altra poesia è un ufficiale ferito al cuore che pianta la sciabola in terra e grida: — Qui voglio essere sotterrato! Onta a chi lascierà il mio corpo al nemico! — e con questo grido ricaccia avanti i suoi soldati, che cominciavano a piegare. In altre è una difesa disperata d'un villaggio, comandata da un prete, che si fa uccidere co' suoi contadini; un trombettiere colpito da una palla, che spira suonando l'ultimo squillo dell'assalto con le labbra stillanti di sangue; uno stormo di zuavi che assale e conquista una batteria coprendo il terreno di cadaveri. Nulla di straordinario nei soggetti; ma l'effetto della poesia è straordinario. Non c'è quasi pittura, si può dire; e si vedono i luoghi, il tempo, il color dell'aria, come in una lunga descrizione, tanto son scelti e resi efficacemente i «particolari [289] tipici,» che fanno indovinare gli altri mille. Non c'è una sola delle frasi convenzionali della solita poesia guerresca, più letteraria che marziale, che gonfia la battaglia per farla terribile. Qui tutto è stato preso dal soldato nella esperienza tremenda del vero; si sente «cantar la polvere»; si sente lo schianto dei rami spezzati dalle palle; si sente gridare, nella notte, da una parte Pour la France! e dall'altra, più lontano, König und Vaterland! nelle tenebre squarciate dai lampi delle fucilate, come se si assistesse al combattimento; e finito di leggere, si rimane come ravvolti in un nuvolo di fumo, coll'orecchio pieno di grida, e l'anima sconvolta dal passaggio della morte.

A queste poesie, in cui non freme che il soldato, succedono altre, in cui parla il figliuolo, l'amico, il fratello, l'amante — affettuosissime, ma di quell'affetto che si dà soltanto nelle anime virili, che è come la grazia della forza, e che soggioga, perchè si sente che viene dalla grandezza, non dalla raffinatezza del cuore. È bello, dopo aver visto un [290] Déroulède a cui si metterebbe una medaglia sul petto, vederne sorgere un altro, a cui si stamperebbe un bacio sul viso. C'è la poesia intitolata: Le bon gîte, di trentadue versi, che non si può legger senza lacrime. Ricorda uno dei più belli episodi del Coscritto del 1813, di Erckmann-Chatrian. Un soldato è ospitato una sera in casa d'una povera vecchia. La vecchia mette tutta la sua legna sul fuoco, ed egli, intenerito, le dice: — Basta, risparmia la tua legna, buona vecchia: io non ho più freddo. — La vecchia apparecchia la tavola con quanto ha di meglio, ed egli le dice: — Non occorre; ho mangiato alla tappa; non ho più fame. — La vecchia gli prepara il letto con le sue lenzuola, e vuol dormire sopra una seggiola, ed egli le dice: — No, buona vecchia, non voglio; dormi tu nel letto; io dormirò sopra la paglia. — E la mattina, partendo, s'accorge che il suo zaino è molto più pesante che la sera innanzi. — Ma perchè tutto questo? — le domanda; — è troppo, buona donna; perchè tutto questo? — Ed essa risponde, [291] sorridendo a traverso alle lagrime: — J'ai mon gars soldat comme toi. — Ma non si può esprimere la semplicità profonda e gentile di quelle quattro strofette e di quei quattro ritornelli, in cui si sente il crepitìo del fuoco e l'odore della tovaglia di bucato e la voce dolce e tremola di quella povera madre, che serve e accarezza in quel soldato sconosciuto il fantasma adorato del figliuolo lontano. In un'altra poesia è un vecchio soldato arabo che raccoglie sulle sue ginocchia un giovane volontario moribondo, il quale, mentre il suo reggimento è macellato, domanda: — Li abbiamo vinti, questa volta, non è vero? — e il vecchio arabo, per non togliere alla sua agonia quel conforto, gli risponde di sì, e continua a dire tristamente, dopo che il ragazzo è già spirato: — Sì, ragazzo mio, li abbiamo vinti. — Un'altra poesia è un inno di riconoscenza al Belgio ospitale, dove le anime sono così serene e gli occhi così dolci, che tutti i dolori e tutti gli odi vi s'assopiscono; un'altra è un ringraziamento al medico che lo cura, al quale dice [292] che è più profonda l'amicizia nel suo cuore che la ferita nelle sue carni; un'altra, la Cocarde, forse la più gentile delle sue poesie gentili, è un ricordo amoroso che manda la fragranza d'un fiore. — Arrivammo al villaggio — dice — dopo tre giorni di marcia, spossati, morti di freddo, avviliti dal presentimento d'un'accoglienza scortese. E cercammo dell'albergo. Ma una ragazza, di sull'uscio di casa sua, ci gridò: — Ah francesi di poca fede! Questo è un giorno di festa per noi. Non siete in Francia? Non siete in casa vostra? Entrate. Noi v'aspettavamo. Avete fatto male a dubitar di noi. — E dicendo questo sorrideva; eppure mi vengon le lacrime agli occhi quando ci penso! E quanto sovente ci penso e come la rivedo! Era accanto a sua madre e aveva una coccarda di tre colori nei capelli. Tutt'a un tratto, pregata da noi, si mise a cantare i nostri canti di guerra. Era la Gloria irata che ci rampognava con la sua voce. Oh la buona e bella francese! Che grande cuore e che begli occhi! Ora voi mi domanderete se la presi io stesso [293] da' suoi capelli questa bella coccarda che porto da tanto tempo sul cuore, annerita dalla polvere e macchiata dal mio sangue. Ah no, non l'avrei mai osato. Tutto pensieroso, parlando a stento, io guardavo quella fronte di bimba, quell'aria di regina, quei tre colori in quei capelli neri, e dicevo tra me con tristezza: — Tutto questo riman qui.... ed io me ne vado! — Squilla la tromba: addio coccarda! addio canzoni! E nondimeno le dissi: — Ah! s'io l'avessi quel bel nastro! — e mi soffermai sull'uscio, tutto tremante. Ed essa allora semplicemente: — Prendete — rispose, — e Dio vi guardi! — Nient'altro che questo, dieci strofette di sei versi; ma in cui si sentono mille cose nobili e belle che non vi son dette, come nel tremito profondo d'una voce cara; una poesia ingenua e fresca che vi va all'anima, come un soffio d'aria profumata che vi porti di lontano le note amorose d'un violoncello.

Poi vengono altre poesie, che si potrebbero chiamare poesie d'assalto, come quella del Berchet [294] per le rivoluzioni di Modena e di Bologna; una tra le quali, intitolata: En avant, non cede in nulla, anche a giudizio di qualche tedesco, al famoso inno: Ho la spada alla mia sinistra, del Körner. Qui il metro s'accorcia, la strofa si serra, il ritornello grida, i versi risonano come spade urtate o echeggiano come squilli di fanfare, pieni d'ira selvaggia e di sprezzo della morte; e tutta la poesia imita la pesta precipitosa d'uno squadrone che rovini a briglia sciolta sopra un quadrato. Genere di poesia difficilissimo, che si riduce ad una serie d'esclamazioni ampollose e chiassose, senza forza, simili alle imprecazioni d'un briaco asmatico, se ogni strofetta non è proprio un grido feroce, che si senta uscito dalle viscere di un soldato che guardò in faccia la morte. E l'efficacia di queste, come di altre poesie del Déroulède, risiede tutta, a mio credere, nella profondità e nella sincerità d'un sentimento particolare, che si potrebbe chiamare appunto il sentimento della morte. I poeti guerrieri di tavolino [295] hanno della morte in battaglia una specie di sentimento artistico, per cui la circondano di un terrore teatrale, o la trattano con una familiarità affettata da eroi spacconi, per i quali sia una celia il morire; e lascian capire che si servono della sua immagine per ottenere certi effetti; per il che non ci fanno mai nè veramente paura, nè veramente coraggio. La morte del Déroulède, invece, è una morte veduta, affrontata, pensata, qualcosa di solenne e di muto, che passa in fondo alle poesie, lentamente, e mette un tremito di riverenza nel cuore. Con quali parole egli esprima questo sentimento non si può dire: son cose che sfuggono nell'analisi, che si sentono tra verso e verso, per tutta la poesia e in nessuna strofa, in certi silenzii piuttosto che in certe frasi, come s'indovina la forza d'animo d'un uomo da una espressione sfuggevole dello sguardo. E son poesie che non fanno parer punto facile il coraggio, come le rodomantate patriottiche dei poeti da poltrona; ma che lo ispirano rappresentandolo [296] grande e tremendo, e suscitando nel cuore le forze da cui nasce e su cui si regge. Si potranno criticare come opere d'arte; ma bisogna dire, leggendole, quello che un poeta francese disse dell'Hetman, dello stesso Déroulède: — Non mi piace; ma vi traluce sotto l'anima d'un eroe, più bella e più potente che la sua poesia.

In altre poesie c'è qualche nota comica, qualche lampo d'ilarità che attraversa la tristezza o il terrore. È comico, per esempio (e come vero!), benchè in fondo commova, quel buon coscritto ignorante, che non capisce nulla nè di patria, nè di guerra, e che lamentandosi col suo capitano d'esser stato chiamato alle armi, dopo avergli detto: — moi je suis vigneron chez nous, chiamando sè stesso le pauvre fils de ma mère, gli domanda ingenuamente:

Mais ne peut-on livrer bataille

Sans que nous allions aux combats?

N'avez-vous pas d'autres soldats?

Ma vigne a besoin qu'on la taille.

[297]

Mon père se fait vieux là bas.

Ah! pourquoi diable ai-je la taille?

Ne saurait-on livrer bataille

Sans que nous allions aux combats?

Ed è amenissimo quel vecchio sergente (Le sergent), analfabeta ed eroe, che si giustifica di non aver imparato a leggere,

(L'imprimerie et lui ne se fréquentaient point)

dicendo che la lettura è buona per quei cervelli vuoti, i quali, non avendo nulla in sè,

Puisent là de l'esprit comm'on tire de l'eau,

mentre per gli uomini d'ingegno vero la testa è il migliore dei libri; e che al coscritto, il quale trincando, esclama: — Pour la France et pour vous! — risponde superbamente: — Ça ne fait qu'un. — E più lepido di tutti quel gran marsigliese, tipo degli spacconi vigliacchi, svelto come un cervo e [298] forte come un toro, il quale, mentre gli altri si battono, per fare qualche cosa anche lui per la patria, studia i vari sistemi di fucile. — Che cosa importa — dice — un soldato di più o di meno nell'esercito immenso? La guerra è un duello, in tutti i duelli ci vogliono dei testimoni, ebbene

Nous serons témoins des français de France.

Ma poi, caspita, quando vede che gli eserciti francesi, les gens du nord, par che si facciano battere a bella posta, perde la flemma. — Non rimane proprio più che la Provenza! — esclama. Vengano dunque. Andar noi, non si deve. La Francia sarà ancora troppo felice di trovarci qui nei momenti supremi. Mostriamoci da lontano, come la Speranza,

Et pour rester forts, gardons nous vivants.

E un giorno che gli fan la celia d'annunziare [299] l'apparizione d'una corazzata tedesca nelle acque di Marsiglia,

Le pauvre garçon est pris d'un transport:

De blanc qu'il était, il en devient rouge,

De rouge violet, et de violet.... mort.

Ma la sua idea dominante è l'idea della rivincita: è come il rimbombo continuo d'un cannone lontano, che si sente in mezzo a tutti gli squilli di tromba delle sue poesie. — La rivincita, dice, è la legge dei vinti. È inevitabile. O Francia o Prussia. Il giorno sarà forse lento a giungere; ma giungerà. L'odio è nato, nascerà la forza. Toccherà al falciatore a vedere quando la messe sarà matura. — Dice alla Francia: mille voci ti eccitano, ti consigliano, ti rimproverano. Tu ascoltane una sola perchè hai un solo dovere. — Ma — come dice lo stesso critico, punto favorevole alla Francia, che s'è rammentato da principio, — quest'aspirazione alla rivincita è nel Déroulède un [300] sentimento così virile, meditato e profondo, che non può essere che ammirato, anche da un nemico. Egli non considera la rivincita come un gioco e la strada di Berlino come una passeggiata; ma dice a sè ed ai suoi concittadini che sarà una lotta nella quale una delle due nazioni dovrà forse lasciare la vita, senz'altro conforto che di venderla il più caro possibile. — Perciò, a questo suo proposito va sempre unito il sentimento della necessità di apparecchi immensi e di sacrifizi sovrumani. — Il nostro errore è stato pazzo, dice; che il nostro dolore sia sensato. Ritempriamo la nostra fierezza nei nostri rimorsi. Soyons les artisans virils des fortes tâches. Rinnovelliamo i nostri cuori, non solamente le nostre armi. Prevediamo delle battaglie, senza sognare delle conquiste. Non parliamo dell'avvenire che vendica prima che sia cominciato l'avvenire che ripara. A chi dice: — Sii pronto! — l'altro risponda: — Sii giusto. Siamo tranquilli nei nostri sforzi. — E adombra lo stato e i doveri della Francia in una [301] bella e larga poesia di soggetto biblico, in cui gli Ebrei, caduti sotto il giogo del re di Mesopotamia, mandano dei messaggieri ad Ataniele, nascosto nei burroni d'una foresta, perchè li guidi alla guerra liberatrice; e Ataniele li respinge più volte per il corso di varii anni, perchè non crede ancora il popolo preparato a sacrifizi supremi; e non impugna la spada e non grida: — Siete pronti! — se non quando riconosce che sono anime nuove in corpi ringagliarditi, purgati d'ogni orgoglio stolto, pentiti delle colpe antiche, armati i cuori come le braccia, e preparati alla morte. Questa ardente aspirazione fa sgorgare dal cuore del poeta versi pieni di forza e d'ardimento. — Io aspetto, egli dice; io custodisco nella mia anima francese la mia fede di cittadino e i miei odii di soldato, per il giorno fatale. La mia giovinezza è stata colpita da un dolore che nulla può mitigare. Ma non è il mio dolore che bestemmia, non è neanche il soldato che sogni la gloria. La rivincita è il voto della mia vita e la mia suprema [302] speranza. Io debbo morire sul campo di battaglia ed essere sepolto in terra nemica. — E sempre questa idea si ripresenta, implacabile, e lampeggia da ogni parte, spandendo su tutta la sua poesia un riflesso color di sangue, che fa pensare con un senso di sgomento alla immensità degli eccidii futuri.

Un altro pregio grande di questi canti, che non si trova in nessun'altra raccolta di poesie patriottiche francesi di questi ultimi tempi, è la coraggiosa e qualche volta sdegnosa franchezza con cui il poeta dice ai suoi concittadini delle verità spiacevoli ad intendersi. La gelosia artistica fa dire anche a qualche francese che la poesia del Déroulède deve in gran parte la sua fortuna alle carezze ch'egli prodiga all'orgoglio nazionale. Se ciò fosse vero, avrebbero dovuto ottenere una fortuna molto maggiore le poesie di cento altri. Ma è falsissimo. Senza dubbio egli si sforza in mille modi di tener viva la fede del suo popolo nelle proprie forze. Froeschviller, dice, è l'assalto d'uno contro [303] quattro; Gravelotte e Borny non furono sconfitte; a Champigny, i vivi vendicarono i morti; le glorie come quella di Strasburgo sfuggono ai conquistatori; Parigi cadde superbamente. A quale patriotta si potrebbe negare il diritto di affermare il valore della sua gente? Ma per contro io non so quale altro giovane poeta francese abbia osato lanciare al proprio paese delle parole più terribili. Noi disimpariamo la guerra, dice in una delle sue migliori poesie; — ci sono stati degli eroi; ma un gruppo d'eroi non rifà la razza: è un povero popolo quello in cui i valorosi si contano. E in un altro luogo: — Son tristi tempi quelli in cui la paura medesima, coprendo di grandi parole il basso istinto che la muove, non ha più rossore sulla fronte. E altrove: — Ma come mai siamo decaduti? Scorre ben sempre lo stesso sangue nelle nostre vene; l'aria che noi respiriamo attraversa pur sempre i nostri boschi; le viti dei nostri colli e le messi dei nostri piani sono ben maturate dal sole antico; questo paese così ridente, fertile e [304] vario, atto a tutti i prodotti, aperto a tutte le idee, questo sole possente, quest'acque vive, questo cielo mobile, tutto questo è la Francia! Dove son dunque i francesi? — E non tralascia di flagellare la mania dei suoi concittadini, di gridare al tradimento per scusare le conseguenze di tutte le debolezze e di tutti gli errori. — È così che si perde — dice, descrivendo un corpo di francesi accampati, che non sapevano e non cercavano di sapere dove fosse il nemico; — è così che si perde, per un'orgogliosa leggerezza, il valore d'un paese; è così che la colpa risale implacabilmente dai soldati mal guidati ai capi peggio obbediti; è così che dei pazzi gridano che Dio è ingiusto e che la Francia è stata tradita! — Ed anco quando cerca di scusar la sconfitta, non lo fa coi cavilli irritanti d'un patriotta vanaglorioso e cocciuto; ma nobilmente, con parole dignitose e tristi, che se non inducono la persuasione, ispirano il rispetto, perchè non vengon da orgoglio di soldato, ma da pietà e da affetto di figlio.

[305]

E l'affetto di figlio è quello che gl'ispirò i più dolci e insieme i più vigorosi di tutti i suoi versi. Egli non ha parlato di sua madre che nei Nuovi canti; ha aspettato che il suo successo di poeta glie ne desse il diritto, e che la simpatia e la riverenza con cui si pronunciava dal pubblico il nome di lei, gli desse animo a rivolgerle i suoi versi pubblicamente e a gettare quel nome ai propri soldati. Nulla è più naturale in un'anima eletta che il confondere l'affetto di famiglia con l'amor della patria, e il far che l'uno s'illumini e si nobiliti dell'altro. Ma non so qual altro poeta, confondendo quei due sentimenti, abbia congiunto tanta tenerezza con tanta forza, e n'abbia tratto ispirazioni così gagliarde e così gentili ad un tempo. — Si afferma che i tuoi figli hanno compiuto il loro dovere, — dice a sua madre; — ma il dovere che essi hanno compiuto è opera tua; l'onore è dovuto a te. Essi non son partiti per le battaglie furtivamente, come altri fecero, senza l'abbraccio materno, che li avrebbe trattenuti; [306] essi non te l'hanno rubato il sangue delle tue viscere. Sei tu che hai detto loro: — Partite, figliuoli. I soldati della Francia son vinti. Il mio cuore non v'avrebbe concessi alla patria per la conquista; ma ora non è più la conquista, è la difesa. La patria è invasa; io vi do alla patria; partite. Ah perchè non hanno fatto così tutte le madri! Non credano, quelle che dissero ai loro figliuoli: — Non andate a combattere, — che la loro debolezza sia stata pagata in amore. Esse non versarono le lacrime della partenza; ma non conobbero le lacrime del ritorno. E non dicano che tu ci hai dati alla patria perchè ci potevi dare senza dolore, e che sei stata patriotta senz'essere martire. No, non ardiscano dirlo! Io l'ho vista l'angoscia immensa sotto il tuo violento coraggio. I tuoi figliuoli, partendo, ti han portata via l'anima, e tu hai sanguinato delle loro ferite; ed eccoti malata, invecchiata innanzi tempo, paralitica, che non hai più di vivo altro che l'anima nel tuo povero corpo sfinito! E lo presentivi pure [307] quando infondesti nel nostro cuore la forza del tuo; ma come lo presentisti senza paura, ora lo sopporti senza lamento; ed è perciò che tuo figlio può parlare di te con alterezza. — O madri, — dice in un'altra poesia — se i vostri figliuoli crescono senza diventar uomini, o diventan uomini d'istinto pratico, avari del proprio sangue; se nel giorno della prova, la loro carne spaventata ha orrore del pericolo; se quando l'onore li chiama, essi non si trovan là, soldati, ritti in faccia al dovere e in faccia alla morte, — madri, la vostra tenerezza ha deformato quelle anime; — se essi non sanno morire, voi non sapeste creare.

Questa è la poesia del Déroulède. Vi si aggiunga il pregio d'una spontaneità e d'una chiarezza mirabile; una grande abbondanza (non dico ricchezza nel significato francese) di rime; un uso abilissimo del ritornello per ottenere effetti tristi e affettuosi; un misto di linguaggio popolano e soldatesco, adoperato opportunamente, che dà ai dialoghi e ai racconti un colore di verità grandissimo; [308] e qua e là dei versi potenti che saltan su ad un tratto, come lame compresse che si raddrizzino, e gettano scintille su tutta la strofa. Il letterato non vi si mostra se non quanto è strettamente necessario per dare dignità ed efficacia alla parola del soldato. Non vi son forse dieci similitudini in tutti e trentaquattro i canti; non una gambata rettorica; non una strofa in cui l'artista imbizzarrito levi la mano all'uomo sensato; non un verso che porti il fiore all'occhiello; rarissimamente uno dei così detti versi di maniera che il poeta compone senza sentirli; specie di note di testa, a cui si ricorre quando manca il fiato. La veste, o piuttosto la pelle della sua poesia, è tutta tesa e liscia sulla carne salda e colorata dal sangue giovanile che vi circola sotto. Se v'è un difetto che si ripeta in modo da attirare l'attenzione, è una tendenza a una certa simmetria d'immagini, di frasi e di suoni, a una certa regolarità di contrapposti nell'esplicazione del pensiero, che se giova qualche volta alla chiarezza, [309] qualche altra volta scema l'efficacia facendo sospettare l'artificio; tendenza che si manifesta anche di più nella Moabite, in cui alla contrapposizione delle parole comincia a sostituirsi quella dei concetti, e quindi a pullulare l'antitesi. Ma nei canti è un difetto che riesce più sovente a vantaggio che a danno, poichè dà alla poesia un certo andamento rapido e regolare ad un tempo, e come bruscamente cadenzato da un tamburo che suoni la carica, imponendo una frase per passo. Le strofe passano snelle e risolute, spoglie d'ornamenti, come plotoni di soldati in assetto di combattimento, e fanno fuoco e spariscono, incalzate dalle sopravvenienti, senza che vi si noti mai un'incertezza o un principio di disordine. Ma tutto ciò non riguarda che l'esteriorità della forma. Riguardo al valore, se così può dirsi, specifico del verso, alla virtù intima della frase e dello stile poetico, non oso metter parola, e mi son persuaso che è difficilissimo ad un italiano, per quanto conosca la lingua francese, di giudicare rettamente [310] in questa materia. Esponendo a francesi colti il nostro schietto parere sul verso di certi loro poeti, noi andiamo incontro a contraddizioni così imprevedute, che tutti i criterii del nostro giudizio ne rimangono scompigliati. Bisognerebbe conoscere profondamente, e non solo per teoria, ma per pratica, tutte le condizioni severe di cesura, di emisticchio, di iato, di elisione, di accavalcatura, a cui va soggetto il sistema sillabico della loro poesia. Per i verseggiatori dotti, che hanno fatto della versificazione una specie di scienza di contrappunto, per quelli che il Gautier chiamava milionari della rima e gioiellieri della poesia, che cercano mille effetti delicati e difficili nelle ondulazioni della frase, nelle trasposizioni delle parole, nella varietà dei suoni, in una specie di ritmo intimo, che tocca le fibre più segrete a chi ne conosce il magistero, e sfugge ai profani; per costoro i versi del Déroulède sono versi incolti, il suo stile è cascante, la sua forma sovente volgare, e qualche volta barbara affatto. Appena qualche [311] strofa qua e là merita la considerazione d'un sapiente artefice di versi. Che cosa rispondere a queste censure, che si potrebbero ripetere quasi egualmente sulle poesie del Berchet? Saranno giuste; ma è lecito accoglierle con qualche diffidenza, pensando che in tutti i paesi i letterati sono stati sempre particolarmente severi con quelli dei loro confratelli che arrivarono alla fama per una scorciatoia. Una gran parte del successo ottenuto, dicono molti, il Déroulède lo deve all'elevatezza dei suoi sentimenti patriottici, alle sue avventure, al suo carattere, più che al merito intrinseco della sua poesia. A me pare che questa distinzione non sia ragionevole. Ciò che forma un poeta è la congiunzione di parecchie facoltà e doti diverse della mente e dell'animo, alcune ricevute dalla natura, altre dall'educazione: l'ingegno, la coltura, il cuore, il carattere, l'esperienza, la vita; tutto ciò fuso e confuso. Come si può distinguere questi elementi, e separare l'artista dall'uomo, per assegnare a ciascuno la sua [312] parte misurata di merito? Un illustre poeta francese diceva un giorno: certe grandi idee vengono dal carattere. Ma chi potrà riconoscere le idee che vengono dal carattere tra quelle che vengono dall'ingegno? Quando abbia ben sentito distinguere, il lettore, leggendo ed ammirando, tornerà a confondere. Noi non sappiamo se sia trasandata o rozza la forma della poesia del Déroulède: sappiamo che è una poesia nobile, generosa, maschia, feconda, che mette delle lacrime negli occhi e delle fiamme nel cuore. Migliaia di poesie di suoi concittadini, magistralmente ricamate, e piene di perle e di gingilli d'oro, passeranno; i suoi canti semplici e schietti, concepiti in faccia alla morte e scritti colla punta della spada, resteranno; e mentre la critica baderà a notarne i versi scadenti e le frasi neglette, essi continueranno a ritemprare dei caratteri, a formar dei cittadini, a preparare dei valorosi; e la gloria del poeta crescerà con la forza della patria.

[313]

***

Ora il Déroulède si è dato al teatro e ha rivelato una singolare potenza drammatica nell'ultimo atto della Moabite. Ma per me il suo teatro è ancora tanto al di sotto della sua poesia lirica, che mi par che si debbano aspettare da lui altri lavori per giudicarlo. Forse egli non ci ha ancor dato la misura intera delle sue forze nemmeno nella lirica, e perchè il poeta possa sollevarsi ancora, può darsi che l'uomo abbia bisogno di ripassare per la prova dell'azione. O fors'anche, come molti altri, egli è nato per dare una sola manifestazione originale e potente del suo ingegno, e l'ha già data. Auguriamogli che questo non sia, e teniamo il giudizio sospeso.

[314]

***

V'è però un giudizio che non occorre di sospendere, ed è quello che si riferisce a lui, non poeta, ma uomo. M'immagino che chi ha letto i suoi versi desideri di conoscerlo da vicino. Ma qui comincia l'imbarazzo del ritrattista. A ciascuno di noi è seguito, almeno una volta nella vita, di trovare una persona, di cui le prime parole furono come la rivelazione d'una amicizia d'infanzia o d'una parentela sconosciuta; una persona, alla quale, dopo il primo scambio d'idee e di sentimenti, anche da lontano, ci siamo sentiti avviticchiati come da una simpatia del sangue, tanto che vedendola per la prima volta c'è parso di rivederla e ci siamo meravigliati, nel riandare il nostro passato, di non trovare la immagine sua tra i nostri ricordi più intimi e più lontani. Ebbene, [315] se c'è stato chiesto una volta un giudizio su questa persona, abbiamo titubato a darlo, per timore che la nostra amicizia facesse nascere un sentimento di diffidenza. Ma abbiamo avuto torto. Sfoghiamo tutti continuamente tanti rancori e tanta malevolenza, che una sola cosa ci può far perdonare: l'abbandonarsi qualche volta, senza meschini ritegni, all'espansione dei sentimenti benevoli. E chi potrebbe non abbandonarvisi, parlando del Déroulède, dopo averlo conosciuto? Io lo vedo ancora il bravo e simpatico poeta scendere di carrozza, in una via solitaria di Parigi, e guardata l'insegna d'un albergo, cercare intorno l'amico sconosciuto, il quale lo stava spiando un po' di lontano, per vederlo bene prima d'andargli incontro. Dall'atto con cui chiuse lo sportello della carrozza, riconobbi il braccio che gli era stato spezzato sulla barricata di Belleville, e subito dopo riconobbi il cuore dell'autore del Bon gîte e del Petit turco nel suo abbraccio espansivo ed allegro di soldato e nella sua calda parola [316] d'artista. Era bene quella figura che m'ero immaginata molte volte, socchiudendo i Chants du soldat, e dicendo tra me: — Eppure un giorno t'andrò a scovare, dovunque tu sia, mio caro tenente dei cacciatori, quand'anche l'aggio dell'oro salisse al venti per cento. — Alto come un granatiere della vecchia guardia, asciutto e flessibile come una verga d'acciaio, biondo come un inglese, — il profilo ardito, gli occhi azzurri e pieni di dolcezza, e la bocca risoluta, — vestito con una certa eleganza severa, così, tra soldatesca ed artistica, era proprio lui, il grand avocat et rude soldat, che disegnano sui muri delle caserme i tiragliatori algerini; — signorile d'aspetto, ma con le carni un po' arrozzite dai venti delle aperte campagne, e con la fronte attraversata da una ruga diritta, che è come l'impronta nera delle sventure della patria. Aggiungete, per compiere il ritratto, una voce vibrata e metallica di soldato esercitato al comando, e la più stretta, la più arrabbiata pronuncia parigina che si sia mai sentita sonare dalla [317] chiesa della Maddalena alla piazza della Bastiglia. E che bon enfant, che ammirabile originale nel significato nobile della parola! Parla, con una rapidità che si stenta a capirlo, tre ore di fila, senza che mai il suo discorso si stemperi in chiacchiera; gaio, vivo, fresco, al levarsi da letto come al levarsi da tavola, sempre ad un modo. Racconta le sue avventure più terribili di soldato come racconterebbe delle scappatelle di collegio, con una semplicità amabilissima, colorendo le scene più orrende della guerra d'una certa pietà affettuosa e virile che non si trova se non nelle anime che uniscono all'intrepidità la dolcezza, e in cui il coraggio non nasce da un disprezzo scettico della vita, ma da un sentimento profondo del dovere e da una passione ardente per una grande idea. Da ogni sua parola traspira la bontà e la gentilezza dell'animo. Non gli passa un'ombra sul viso che tradisca un pensiero ch'egli non voglia esprimere, o uno di quei leggerissimi turbamenti dell'animo di cui non si osa dire la cagione. Il suo [318] viso è sempre aperto e trasparente, in modo che gli si legge fin nel più profondo dell'anima. Mai che gli sfugga dalla bocca una parola amara contro a chi che sia o a qualsiasi proposito. Parlando, ha tutti quei gesti simpatici delle persone affettuose ed espansive, e cercano la spalla e il braccio di coloro a cui parlano, ed è carezzevole e festoso come un ragazzo. Gli si può ripetere qualunque più acerba critica dei suoi lavori letterarii, letta od intesa, che il suo viso rimane sereno e ridente come all'udire una lode, tanto è poca cosa in lui l'orgoglio artistico in confronto al sentimento del patriotta. E a sentirlo parlare così precipitosamente, mutando discorso a ogni tratto, si sospetta sulle prime un po' di leggerezza. Ma non si tarda a scoprire un'armonia inalterabile fra tutti i suoi sentimenti e tutte le sue idee, e un fondamento morale solidissimo sotto gli uni e le altre. Per quanto cangi discorso, tutti i suoi discorsi finiscono col ricadere sopra un argomento unico: la sua patria. Egli s'è risolutamente [319] tracciata la via. S'è proposto di consacrare tutte le sue forze al risorgimento del suo paese; non scriverà mai una parola che non sia diretta a quello scopo; drammi, lirica, novelle, polemica, ogni cosa sarà ispirata a quell'idea. Concetti di commedie satiriche gli passano per la mente, e strofe di poesie amorose, e capricci poetici d'ogni natura; egli mette tutto da un lato. Vuole che la sua arte, il suo nome, per quello che valgono, significhino una cosa sola: non facciano che l'ufficio d'una spada e d'una tromba di guerra. Capisce che dovrà sacrificare a questo proponimento molte soddisfazioni d'artista; ma non gliene importa. Per la stessa ragione tiene il suo cuore libero da ogni affetto, fuorchè da quello della sua famiglia, e sottopone tutti i suoi disegni per l'avvenire a una condizione che gli è sempre presente allo spirito: — Se non sarò ucciso. — E ha inflitti nell'aspetto e nei modi qualcosa di singolare, come l'espressione di una leggerezza fisica e morale, simile a quella del [320] viaggiatore che passeggia nelle sale della stazione, dopo aver preso il suo biglietto e spedito i suoi bagagli, sciolto da ogni impiccio, libero da ogni pensiero, preparato a partire al primo momento. Anche quando parla più caldamente dell'arte, della gloria, della famiglia, si capisce che in nessuna di quelle cose ha fondato la sua esistenza, che a nessuna soddisfazione, o speranza di soddisfazione, si lascia andar tutto intero con quell'abbandono cieco delle nature artistiche, nate a godere, che adorano la vita. Eppure in fondo a questo appassionato amor di patria, non ha ombra di chauvinisme. L'odio di cui parla nei suoi canti è un odio di soldato, non d'uomo; la sua avversione per la Prussia non è che un amore rovesciato; le nature come la sua non possono odiare. — Io non odio la Prussia — dice; — amo la Francia. Venero un sincero e ardito patriotta prussiano. Ciascuno deve amare la sua patria. — E così riguardo alle recriminazioni di certi francesi contro l'Italia, ha una sola cosa a [321] dire: — Voi italiani dovevate essere prima di tutto italiani. — Non c'è caso di coglierlo in contraddizione sopra nessun argomento. In arte, in politica, in morale, tutte le sue idee sono concatenate, e tutte ugualmente nette nella sua mente e radicate nella sua coscienza. E di tutto s'è occupato con amore. Bisogna sentire gli studi psicologici che ha fatto sui soldati, i mille ragionamenti che ha messo insieme, le mille industrie ingegnose che ha trovate per metter coraggio ai pusillanimi, per ridurre i ribelli, per far entrare l'idea della patria e del dovere nella testa agl'ignoranti; i piccoli stratagemmi di guerra, da comandante di plotone, che ha escogitati; il lavorìo di cervello che ha fatto per inventare dei piccoli rimedi e dei piccoli comodi per i malati e per i feriti; le storie meravigliose che ha immaginate per rallegrare la fantasia e sostener l'animo dei suoi soldati africani in mezzo alla tristezza dei bivacchi invernali: tanta roba da farne una piccola biblioteca istruttiva ed educativa per un esercito. [322] Così nelle discussioni letterarie, aiutato da una memoria felicissima, ammonta citazioni, osservazioni e confronti con una abbondanza e una furia da sbalordire, esponendo opinioni discutibili, senza dubbio, ma tutte sue, e coscienziosamente meditate, benchè paia che gli sboccino sul momento; e sostenute, se occorre, con una così impetuosa facondia che si rimane prima sopraffatti che persuasi, e ammirando quella sua bella vivacità giovanile, si dimentica che s'ha un'idea contraria da difendere. Ma non è mai tutto letterato, come non è mai tutto soldato: lo spirito lo tien lontano dalla pedanteria, come la gentilezza del cuore e l'educazione squisita dalla petulanza soldatesca. Gentiluomo e buon ragazzo, franchissimo nel dir quel che pensa senza ferir l'amor proprio di nessuno, arrendevole senza affettazione di cortesia, confidente ed affabile con tutti, quando entra lui in un salotto o in un crocchio, par che ci entri una fiatata d'aria viva, che porti il mormorio allegro d'un reggimento accampato. Quella sua [323] parola ardente e colta, quell'entusiasmo di poeta e di zuavo, quell'allegrezza giovanile, quell'aspetto di bontà e di forza, attirano le simpatie di tutti, e disarmano le più accanite gelosie letterarie. A stargli insieme, a sentirlo parlare, ci si sente presi da un grande ardore di lavorare, di muoversi, di fare, andando diritto dinanzi a sè nella vita, come lui, cogli occhi fissi a una meta, senza soffermarsi, senza voltarsi mai nè a sinistra nè a destra, non lasciando un'ora di riposo nè allo spirito nè al corpo, non abbandonando mai l'anima nè a uno scoraggiamento nè a un dubbio. Così egli vive, parte nello studio, parte nella società, passando dalla sua villa solitaria nel salotto affollato della signora Adam, dalla Comédie Française alla caserma de' suoi antichi compagni d'armi, dalla biblioteca al banchetto d'artisti, recitando versi per tutto, provocando e accettando discussioni a qualunque proposito, abbozzando poesie a tavola, fantasticando scene di commedie sulla strada ferrata, studiando l'italiano in carrozza nei giornali comprati sui boulevards, [324] mandando innanzi insieme tre grandi lavori drammatici, leggendo tutto il leggibile, andando da per tutto dove c'è una idea da attingere o una bella emozione da provare. E quando lo si è accompagnato per tutta intera una di queste giornate, e avendolo udito parlare per dieci ore, non gli si è mai sentito dire una parola malevola, nè profferire un giudizio avventato; ma lo si è trovato sempre logico e amorevole, — pronto a sentire le tristezze e le allegrezze di tutti — fermo nei suoi principii come una colonna sul suo piedestallo, vivo che par che abbia un diavolo per capello, e buono fin nel midollo delle ossa, — non si può a meno di ammirarlo e d'amarlo. Egli dà l'idea d'un francese d'un tempo avvenire, — che abbia serbato tutte le buone qualità e perduto tutti i difetti del suo popolo. È impossibile ad un italiano trovare un altro figliuolo della Francia che gli faccia sentire più fortemente di lui la fraternità di sangue che lega le due nazioni «così ben fatte per intendersi» come [325] disse Garibaldi, e «per amarsi» come disse il Manzoni.

Notevoli in special modo sono le sue idee in fatto di poesia. I suoi due poeti preferiti sono il Corneille e il Musset: chi ha letto le sue poesie se ne rende ragione alla prima: il Corneille, perchè è il poeta dell'idea del dovere e dell'onore, dell'eroismo e della gloria, un educatore di caratteri — «il padre del grande coraggio», — il gran soldato dell'arte, nella cui voce si sente lo strepito d'armi d'un esercito e come il soffio stesso dell'immenso petto della patria; il Musset per la vena ricca e fluida dell'ispirazione, per la negligenza piena di grazia, per la poesia facile e chiara che gli zampilla dall'anima come un'acqua argentina da una roccia. Non si può dire però ch'egli abbia imitato chi che sia. Nell'arte, come dice egli medesimo in uno dei suoi drammi, on n'y devient quelqu'un qu'en imitant personne. Il suo studio primo e costante è stato d'esser semplice e chiaro. Perciò s'è proposto di bandire dalla [326] poesia, quanto gli fu possibile, il linguaggio poetico convenzionale. Per me, egli dice, la poesia dovrebb'essere eletta prosa misurata e rimata. Bisogna intendersi, certamente. Tutto si può dire poeticamente senza adoperare una frase che non sia propria del dignitoso e corretto linguaggio parlato. Tutto ciò che si scosta da questo linguaggio, in poesia, può essere bellezza, ricchezza, eleganza, splendore; ma nuoce all'efficacia immediata del sentimento o del pensiero che esprime. Si cerchino pure nei più grandi poeti le strofe più splendide e i versi più potenti: si troverà sempre che sono i più semplici; non solo, ma quelli in cui una idea luminosa o un sentimento sublime sono espressi con le parole più usuali, con la frase che tutti avrebbero adoperato spontaneamente per esprimere quel sentimento o quel pensiero, se l'avessero avuto. La così detta frase poetica non ha che un valore di convenzione, un valore puramente letterario; quindi non il massimo dei valori: la sua potenza non è intima e assoluta, [327] quindi non va dritta all'anima umana; non ci vanno che le espressioni che ne conoscon la via, che son la veste spontanea e necessaria del pensiero nella vita reale, e che — lo vediamo bene — bastano a tutti ed a tutto, e agiscono egualmente su tutti. La poesia — che è una lingua che il mondo intende e che nessuno parla — dovrebbe essere sottoposta, dentro al ritmo, a tutte le condizioni di spontaneità e di logica a cui va soggetto il linguaggio comune; essere tale da far parere, ascoltando il poeta, che quello sia il suo modo naturale di parlare, irresistibile, senza bisogno di sforzo nè d'artifizio. E l'unire così una semplicità nuda ad una spontaneità massima e a una eleganza che consista nel contorno e non nell'ornamento, è ben altrimenti difficile, richiede uno studio assai più rigoroso e un gusto assai più delicato, di quello che occorra per servirsi accortamente d'una immensa collezione di frasi e di modi coniati e faccettati espressamente per essere incastrati nei versi. — Tutto ciò è indiscutibilmente [328] vero riguardo alla poesia popolare, che è quella del Déroulède. Per questo egli dice che studia la lingua della poesia nei grandi prosatori francesi; e impara a far dei versi dal Pascal e dal Bossuet. E cerca costantemente di dare alle sue poesie una forma che le renda facili ad esser ritenute: vuole che ogni pensiero e ogni sentimento sia chiuso in un verso o al più in un distico, in modo da stamparsi nella mente alla prima lettura, e poter esser citato di passata, e diventare, come diceva il Rossetti, ripetuta sentenza; che ciascuna strofa formi un periodo e corrisponda un verso ad ogni proposizione; che tutte le rime si sentano nettamente, e segnino quasi l'accento del pensiero; che tutta la poesia suoni e splenda e sia limpida da un capo all'altro, come una lastra di cristallo. Cerca quello che raccomandava il Voltaire: — Voyez avec quelle simplicité notre Racine s'exprime toujours. Chacun croit, en le lisant, qu' il dirait en prose tout ce que Racine a dit en vers: croyez que tout ce qui ne [329] sera pas aussi clair et aussi simple, ne vaudra rien du tout.

In politica le sue idee sono egualmente nette. È repubblicano, e non ha fede che nella repubblica; ed ha per il popolo quella simpatia affettuosa che nutrono tutte le anime nobili per chi soffre e lavora. Ma non si lascia dominare dal sentimento poetico nei suoi giudizi intorno all'avvenire della società umana. In questo va d'accordo con lo Zola, che se la piglia coi poeti dell'humanitairerie, i quali sognano un avvenire impossibile di prosperità e di pace universale, e credendo di far del bene col mostrare di crederci, non fanno che sciupare le proprie forze per mantenere un'illusione funesta. Io capisco, dice, che predichino contro la guerra coloro che non hanno terre conquistate nè concittadini rubati con la forza, da liberare e da riconquistare con quella medesima forza: le anime generose e dolci hanno sempre sognato un avvenire senza eserciti e senza battaglie. Ma è anche tanto più facile [330] il ritrovare e il ravvivare nell'uomo il sentimento dell'orrore del pericolo, che suscitare o conservare in lui il sentimento del coraggio! Un grande merito della civiltà moderna è d'aver creato degli eserciti nazionali, in cui senza paga, senza bottino, senza speranze, senza interessi positivi di nessuna sorta, migliaia e migliaia di contadini vanno docilmente a farsi uccidere per il loro paese. Anche a me, alla vista di un campo di battaglia, si inumidiscono gli occhi di lacrime; ma son più lacrime di ammirazione che di pietà. Non c'è cosa più nobile del sacrificio, e il sacrificio della vita essendo il più grave a compiersi, mi par che non ci sia nulla al mondo di più ammirabile che questo grande consenso popolare che fa pagar senza rivolta l'imposta del sangue a tutta una nazione, della quale una metà appena sa che cosa sia la patria, e nove decimi non sanno che cosa sia la gloria, e non l'avranno mai. Certo gli umanitari non predicano nè la fiacchezza nè la viltà; quello che essi vogliono non è che si faccia male la guerra; ma che [331] non si faccia più; e a questo voto direi volontieri: così sia. Ma così non sarà mai disgraziatamente.... o fortunatamente forse. Perchè il giorno in cui l'Europa, incivilita come gli umanitari la sognano, avesse perduto quel resto di barbarie che si chiama il coraggio militare, dei veri barbari verrebbero da altri continenti a dimostrarle che è stata imprudente. Ciò che forma ancora la vitalità della nostra vecchia Europa, è che noi sappiamo ancora farci uccidere. Il giorno in cui non vorremmo più che vivere e viver bene: finis nostrum! — Son le opinioni del maresciallo Molke: le riferisco e non le discuto. Ma sono opinioni che non tolgono a chi le professa d'essere umanitario quanto gli umanitari più pacifici, poichè la differenza che passa tra gli uni e gli altri non è, in fondo, differenza di affetti e di desiderii, ma differenza di speranze; e forse non c'è neppur questa: c'è forse in tutti una stessa dolorosa certezza, che gli uni, più forti confessano arditamente, e di cui gli altri, più miti di natura, han bisogno di consolarsi con la [332] fantasia: quistione di veristi e d'idealisti, come nell'arte.

Quanto alla religione, egli ha fatto una dichiarazione esplicita nella prefazione della Moabite: — Sono repubblicano e religioso. — Ma come religioso? E una di quelle domande, si capisce, che non son lecite se non ad un'antica amicizia. Un altro critico del Déroulède cercò di ricavare la definizione del suo sentimento religioso dai suoi versi. Ma il sentimento religioso del poeta non è sempre quello dell'uomo. Nel poeta, eccitato dalla passione, una tendenza del cuore si cangia facilmente in un'affermazione del pensiero: la fede che è nei suoi versi non è sempre tutta nella sua coscienza. Io non so se quella del Déroulède sia fede vera, o quello stato della coscienza comune al maggior numero, nei quale tien luogo della fede una speranza grande e confusa, in cui il pensiero si riposa vagamente; una speranza, intorno alla quale ci s'affollano continuamente mille argomenti favorevoli e contrarii, tra cui, dopo una discussione rapidissima, diamo quasi [333] sempre la preferenza ai favorevoli; speranza che i più piccoli avvenimenti della vita ravvivano e illanguidiscono con una vicenda incessante, e ch'è tenuta viva in special modo dal bisogno che sentiamo tutti di aprire un avvenire infinito, nel nostro pensiero, agli affetti di cui viviamo. Il certo è che nella sua idea della morte c'è qualche cosa d'azzurro e di bianco che rischiara e conforta l'animo. I suoi soldati muoiono «con l'amore nell'anima e col cielo negli occhi.» In tutti i suoi pensieri, in tutte le sue immagini, così nella poesia che nel discorso, c'è come una tendenza ascensionale verso un più spirabil aere, che solleva il cuore e la mente. Si può dissentire da lui su tutto e per tutto, ma, lasciandolo, s'è contenti di aver discusso con lui; ci si sente come una chiarezza intima, che dispone alla bontà e alla gentilezza; e ci pare che si sia allargata la strada per cui camminiamo, e allontanato l'orizzonte che ci si stende dintorno.

Caro e nobile giovane! Mi par sempre di vederlo [334] venir su per la strada della sua villa di Croissy, lungo la Senna, stretto nel suo lungo soprabito soldatesco, e preceduto da due enormi cani levrieri; e di sentirgli fare i suoi esercizi di lingua italiana pronunziando costantemente santò invece di cento, senza il più lontano sospetto di non pronunziar bene. Nel suo piccolo studio, in mezzo a un'elegante collezione di libri, si ritrovano tutti i suoi ricordi più preziosi; i fiori mandati a sua madre dai campi di battaglia, la palla estratta dal petto di suo fratello, i pezzi d'osso caduti dal suo braccio, gli occhiali verdi d'ebreo polacco che servirono a coprire lo scintillamento pericoloso dei suoi occhi di zuavo, nella fuga dalla Germania. Un particolare curioso: il suo avo materno e il suo avo paterno, di cui conserva delle memorie in un quadretto, si trovarono insieme, volontari tutti e due, alla battaglia di Valmy. Il suo studio di poeta è tutto pieno dei suoi ricordi militari; si mette la mano tra i volumi del Corneille, e si trova un trattato di tattica; [335] si sfogliano i suoi scartafacci pieni d'appunti sulla Bibbia, e si scopre la fotografia d'un turcò; si scompongono le sue prove di stampa, e salta fuori una pipetta da soldato. Il luogo è bello e raccolto: dalla finestra si scoprono i tetti di Bougival, dove seguì un combattimento accanito durante l'assedio, e si vedono scivolare i barconi e i vaporini sulla Senna, che in quel punto è silenziosa e verde che par il lago d'un giardino. In quella piccola stanza egli passa la maggior parte del suo tempo, e accanto a sua madre, che sta tutto il giorno in una sala a terreno, distesa sopra un letticciuolo, e rivolta verso la porta da cui si vede il fiume. Non si trovan parole abbastanza pietose e riverenti per esprimere il senso che si prova vedendo per la prima volta quella santa donna, immobile come una statua, e tormentata da continui dolori, ma ancor piena di coraggio, e sempre sorridente coi suoi grandi occhi neri e dolci, in cui pare che si sia rifugiata tutta la sua bell'anima di madre e di martire. [336] Vengono sulle labbra certi versi inediti del suo figliuolo:

Bonjour, maman! O nom sacré!

Premier mot des premiers langages

Qu'à travers le monde et les âges

Le genre humain ait proféré!

Mère est un beau nom, un nom grave;

Mais dans son élan sans entrave

L'autre en dit tant, si simplement:

Bonjour, maman!

Quel che la tiene in vita è il vedere i suoi figliuoli giovani, pieni di speranze, e amati da tutti, che le stanno intorno e le parlano con una venerazione religiosa. Coi suoi grandi occhi amorosi e sorridenti essa segue ogni loro movimento, dice tutto quello che la sua bocca non può dire, consiglia, incoraggia, rasserena: riempie l'anima loro col proprio sguardo. Quanti ricordi si vedono passare in quelle pupille! Tutta la storia dei suoi figli vi si manifesta a lacrime e a lampi [337] dalla rappresentazione di Juan Strenner alla ferita di Sédan, da Breslau ad Algeri, da Algeri alla barricata di Belleville; e tra le varie espressioni di pietà e di tristezza, v'appare sempre un'alterezza serena, che le viene dalla coscienza d'aver dato alla patria tutto quel che poteva, d'aver adempiuto nobilmente tutti i suoi doveri di madre e di cittadina, e d'essere venerabile e sacra. Nei giorni ch'ero là, arrivò da un lungo viaggio in Oriente il suo figliuolo Andrea, capitano d'artiglieria. Li ho veduti più volte tutti e due inginocchiati accanto al letto, con la bocca inchiodata sulle mani tremanti della loro madre; — lo zio Augier, appoggiato alla spalliera del letto, li guardava, muto e commosso; — e una sua sorella suonava il pianoforte per distrarre l'inferma. C'eran tutte le più belle e le più grandi cose umane in quel quadro: l'amor di patria, l'amor materno, l'eroismo, la sventura, la poesia, la gloria; — e tutto pareva anche più bello e più grande, perchè era rischiarato da una speranza [338] immortale. Amabile e gloriosa casa! Non vi si può entrare senza inchinarsi, non si può lasciare senza piangere, non si può ricordare senza benedirla.

FINE.

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INDICE

Alfonso Daudet Pag. 1
Emilio Zola polemista 51
Emilio Augier e Alessandro Dumas 107
L'attore Coquelin 173
Paolo Déroulède 227

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Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.

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