The Project Gutenberg eBook of Tre racconti: Il cane del cieco - Un genio sconosciuto - Galatea This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook. Title: Tre racconti: Il cane del cieco - Un genio sconosciuto - Galatea Author: Vittorio Bersezio Release date: August 10, 2015 [eBook #49670] Language: Italian Credits: Produced by Carlo Traverso, Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by The Internet Archive) *** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK TRE RACCONTI: IL CANE DEL CIECO - UN GENIO SCONOSCIUTO - GALATEA *** Produced by Carlo Traverso, Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by The Internet Archive) TRE RACCONTI DI VITTORIO BERSEZIO. IL CANE DEL CIECO. UN GENIO SCONOSCIUTO. — GALATEA. FIRENZE, G. BARBÈRA, EDITORE. 1876. Proprietà letteraria. AL LETTORE. — Che cosa avete voluto provare? — Mi piacerebbe rispondervi citando i notissimi versi di Dante: «Io mi son un che quando amore spira, noto ec.» Ma siccome di questa citazione si è già troppo abusato, la lascio stare. Voglio dire che dapprima nasce in me un sentimento vago e ancora incerto, che poi esso viene pigliando un po' più di precisione e mi commuove colla potenza d'un affetto; che acquista via via più forza, sale al cervello e vi prende essere definito e si afferma in un'idea; allora accorrono intorno a questa molte immagini di cose, di luoghi, di persone, un po' di luce e molte penombre, qualche uggiosa nebbia più fitta, che minaccia riavvolger tutto e ricacciare ogni cosa nel caos, o per meglio dire nel nulla. Così man mano la fantasia viene preparando scena ed attori d'un dramma ideale che si forma e si rappresenta nella mente; lo spirito vede quei fantasmi e vive, pensa, sente, agisce con essi più di quello che li faccia agire; la ragione tenta una critica della esistenza e dei fatti loro per ridurre a una verità più reale complesso e particolari; e la penna da ultimo si prova a tradurre in parole di scritto quelle vagheggiate creazioni, le quali, ahimè pur troppo, nei freddi periodi della mia prosa riescono tanto lontane dalla splendidezza del sogno in cui mi apparvero. — Capisco; va benissimo: ma codeste creazioni debbono pur voler dire qualche cosa. — L'uomo, per quanto faccia, cerchi e s'ingegni, avrà sempre per suo studio più interessante, più vasto, più utile e di maggior dovere lo studio di sè medesimo. Il suo corpo e il suo spirito, i suoi sensi e la sua anima, le sue passioni e il suo pensiero, sembrano un campo ristretto, e sono un àmbito immenso che tocca quasi all'infinito. Il romanziere che mette l'uomo in una condizione speciale di cose, d'affetti, di vicende, d'impressioni e d'interessi, poi colla scorta dell'osservazione sul vero, forse anco su sè stesso, ne esprime pensieri, voglie, tentazioni ed atti, scrive di psicologia senza termini pseudo-greci e senza formole astruse; e beato e benedetto lui se riesce a far amare una virtù, a far ammirare un sacrificio, a far rispettato un dovere della vita, senza seccare il prossimo! — È dunque codesto che avete voluto ottenere? — Questi _Racconti_ furono scritti in varie epoche, ma però l'inspirazione, come quella di quasi tutti i miei poveri lavori, mi pare la medesima. Io non farò come quel pittore che sotto al suo dipinto scrisse coscienziosamente: «Questo è san Rocco e questo è il cane;» ancorchè voi siate per dirmi che l'opera mia abbisogna di tale ingenuità di dichiarazione. Se il pensiero che ho creduto metterci è abbastanza bene espresso da comparire, se è tale che meriti d'esser notato, spetterà al lettore lo scorgerlo e lo sceverarlo; se non ha tanto pregio da ciò, non servirà a nulla ogni mia chiacchierata in proposito. — In conclusione, voi non volete dirmi che cosa avete voluto provare. — Non ho voluto provare nulla, nulla, nulla. Tentai dilettar alcun poco i lettori; se non ho ottenuto che di seccarli, prego da loro un generoso compatimento, e si persuadano che neanch'io, «non l'ho fatto apposta;» se poi in alcun grado sono riuscito nel mio intento, domando loro per compenso che mi vogliano un po' di bene. IL CANE DEL CIECO RACCONTO. I. Era un brutto cane davvero; d'una razza così mista che i più abili genealogisti ci avrebbero perduta la bussola a volerne rintracciare l'origine in mezzo alla licenza disordinata degl'incrociamenti. Troppo basso delle gambe anteriori, troppo alto di quelle posteriori, con un naso appuntato, su cui pochi peli irti, con un pelame sempre sporco, scarno da far compassione, e un ugiolare così fastidioso che metteva ribrezzo e paura. Ma nella parte superiore di quel muso inqualificabile, sotto due ciuffi di peli di colore indefinibile, la povera bestia aveva due occhi, che, quando fissavano i vostri, vi facevano stranamente pensare. Avevano, quegli occhi straordinari, un'espressione d'intelligenza, di mestizia, di rassegnazione: vi parevano rivelare — sissignori, anche in un povero e brutto cane, — una vita tutta di dolori. Non so se abbiate osservato mai che gli occhi di questo animale, adoratore dell'uomo, ridono talvolta, mentre la coda si dimena festosamente. Ebbene, gli occhi di questo disgraziato di cui vi parlo, non ridevano mai, come non si dimenava mai con allegro moto quel mozzicone corroso che gli faceva da coda. Atanasio, il cieco pezzente che era suo padrone, sedeva spesso sullo scalino della porticina della chiesa, di fianco, dalla parte in cui nel pomeriggio c'era l'ombra, in faccia ai due olmi vecchi che, susurrando colle loro frondi sopra la fontana che sta loro in mezzo, accompagnano pianamente il susurrio dello zampillo. Colà, deposto al suo lato il lungo bastone con cui picchiava per terra, camminando, egli poneva i gomiti che uscivan fuori dalle maniche sbranate, sugli stracci che facevano da pantaloni alle ginocchia, stringeva in mezzo a due manaccie grosse, ossee, ruvide, nere, villose, una barbaccia mezzo bianca, disordinata, irta, ed appuntato il suo naso lungo e acuto, fissava innanzi a sè in grave attenzione lo sguardo di due occhi dalle pupille bianche che non vedevano e che facevano pena a vederli. Azor — il cieco chiamava quel mostricino a quattro gambe con questo classico nome canino — Azor si sedeva gravemente su quel mozzicone di coda, e tenendo serrata fra i denti serio serio una ciotola logora di legno, guardava del pari. Fra il padrone ed il cane anche un osservatore superficiale poteva accorgersi d'una bizzarra rassomiglianza. Avreste detto che il modo con cui si atteggiava il cane imitava quello dell'uomo; e che il naso di quest'ultimo s'appuntava in là per far la copia al muso del cane. Stavano così delle lunghe, lunghe ore, aspettando che in quella ciotola venisse a cadere un soldo; avvenimento che capitava di rado. Qualche volta parlavano insieme: dico parlavano, perchè l'uomo faceva al cane una filza di discorsi, ricchi di molta filosofia pratica, e la bestia rispondeva con dei suoni sommessi, fra quelle sue mascelle scarne, che parevano grugniti. Una volta al giorno, il cieco scioglieva il nodo che attaccava al collare del cane la cordicella che, per l'altro capo, egli teneva sempre in mano, e diceva col tono di chi fa una generosa larghezza ad un subordinato: — Orsù, vanne Azor, sei in libertà: ma bada veh! non più d'una mezz'ora! — Il cane cominciava per baciare la mano del padrone, affine di ringraziarlo, poi si stirava ben bene, allargava le mascelle in una coppia di sbadigli che avevano il suono di gemiti, si dava due altre scosse che gli facevano ballare sulle ossa la pelle vuota di muscoli, guardava di qua e di là con aria peritosa e timida, pareva stentare a decidersi, e finalmente s'avviava lento da una parte, rasentando il muro, la testa bassa, le orecchie pendenti, mogio mogio, come se tornasse dall'aver preso una bastonatura. Gli è che in quel momento appunto la povera bestia andava incontro a sicuri pericoli, che lo aspettavano per opera di implacabili e instancabili suoi persecutori. Erano i bambini del villaggio. Se l'uomo sia dalla natura fatto di fondo buono o cattivo, è un pezzo che si disputa, e si disputerà ancora chi sa per quanto tempo. Il fatto è che i bambini, queste piccole perfezioni dell'egoismo, che non vedono al mondo cosa più valevole della propria personcina e dei propri capricci, hanno istinti ed abitudini sì crudeli da far molte volte arricciare il naso ai sostenitori della bontà fondamentale della nostra razza. Il povero Azor non aveva mai fatto nulla di male a quella schiera di sbarazzini sbracati ed anco scamiciati, che brulicava nei rigagnoli fangosi delle strade di quel villaggio. Era brutto, sporco, sfiancato, povero di peli e ricco di fame: ma con tutto ciò qual diritto ledeva egli d'altrui? Era codesta una ragione sufficiente per farlo bersaglio di tutte le malignità, di tutte le crudeli voglie di quella marmaglia scapestrata? Il vero è che appena lo vedevano comparire solo, quando era in funzione di guida del povero cieco, camminandogli con passo grave dinanzi, non osavano molestarlo: si avventuravano soltanto a fargli da lontano atti oltraggiosi di disprezzo a cui egli non accordava che la più filosofica noncuranza: una volta alcuno più temerario aveva osato tirargli un torsolo di cavolo, ma il cieco s'era volto da quella parte con isguardi così terribili delle sue pupille scolorate, aveva gridato con voce così forte come nessuno non gli aveva mai sentita, delle parolaccie così profane, aveva battuto per terra così furiosamente il suo lungo bastone, che la turba dei monelli era scappata impaurita, come uno stuolo di passeri che beccano il grano nel campo scappa all'arrivo dell'agricoltore: — quando adunque lo vedevano comparir solo, il povero Azor, ecco subito tutti i furfantelli sbucare dai cortili, dagli anditi, dalle siepi degli orti, e giù contro quel meschinello di cane, grida e urli, e trargli fango e terriccio e cocci e sassi, per vederlo correre disperato con quella pelle rugosa collata sulle costole. Azor avrebbe volentieri risparmiato a sè il dolore degl'improperii e delle percosse, ai ragazzi il piacere di far opera prepotente e tirannica. Ma quello era l'unico mezzo ch'egli avesse per provvedere a sè stesso; gli era allora che l'affamato negli immondezzai delle strade andava in busca dei suoi pasti, che se fossero luculliani lascio pensare a voi. Prima ancora che il tempo della licenza fosse trascorso, Azor tornava a consegnarsi al padrone, annunziando la sua presenza collo sfregarsegli contro le gambe: il cieco gli passava una mano sul capo, gli riattaccava la cordicella, gli rimetteva in bocca la ciotola di legno, e riprendevano tutt'e due nella loro ordinaria postura a meditare. Giunta la sera, Atanasio drizzava la sua lunga persona: — era alto come un antico tamburo maggiore di reggimento, aveva spalle quadre da facchino di porto di mare, ma pure andava un po' curvo della persona e teneva sempre il capo chinato sul petto: — impugnava colla sua destra nodosa il bastone nodoso del pari; teneva colla sinistra la cordicella del cane, e picchiando per terra colla ghiera di ferro in cui terminava il bastone, s'avviava preceduto da Azor di due passi... Dove? Non lo sapeva neppur egli: sotto il capannuccio d'un pagliaio in qualche fattoria, sullo strame di qualche stalla, sotto il portone di qualche casa fuor di mano, al semplice riparo delle frondi d'un albero ne' giorni sereni della bella stagione. Chi era quell'uomo? Nessuno lo sapeva. Egli e il suo cane avevano un passato affatto sconosciuto al villaggio. Erano capitati colà da quattro o cinque anni, e ci avevano preso quel modo di vivere che ho detto, senza variazioni, con tanta uniformità, che gli abitanti ci si erano presto abituati e pareva loro chi sa da quanto tempo che li avessero nella loro terra. Da principio c'era stata pure una viva curiosità di saperne qualche cosa. Avevano appreso che l'uomo si chiamava Atanasio e il cane Azor. Dalle carte che il primo di questi due aveva in perfetta regola, le autorità municipali e il brigadiere dei Reali Carabinieri avevano imparato che egli era un antico operaio fonditore di metalli, nativo di un paese lontano lontano, che aveva perduta la vista in un terribile incendio avvenuto nella grande officina, che in sì funesta occasione egli aveva dimostrato un eroico valore, salvando dal fuoco delle vittime, e che da allora in poi erano passati dieci anni. Quel mendico, ora che lo presento ai lettori, non aveva più di nove lustri: ma a vederlo glie ne avreste dati più di dodici. Incapace d'ogni lavoro, s'era dato alla mendicità, fuggendo con sacro orrore dai ricoveri e dalle case di pia ospitalità, come dalle bòtte fuggiva il povero Azor. Di questo, poi, non si aveva il menomo documento che ne dicesse le condizioni civili, economiche, morali ed il passato. Il Sindaco era stato in forse per un po' di tempo, s'egli, da provvido e zelante amministratore, non dovesse, facendo uso della sua autorità, espellere dal suo Comune quel pezzente, a tiro sempre della legge di pubblica sicurezza, privo affatto di mezzi di sussistenza, e darlo in nota al Sotto-Prefetto, perchè lo denunziasse al Prefetto, il quale lo facesse _tradurre_, (stile burocratico), alla provincia, di cui era nativo. Ma quella provincia era tanto lontana! Ma quel pover uomo manifestava per ogni luogo rinchiuso tanta ripugnanza da preferire la morte. Ma in quel Comune non c'eran punti mendicanti, e uno per eccezione, non avrebbe fatto nè disdoro nè danno. Ma gli abitanti si erano contentati della presenza di quel gran cieco, e avevano preso l'abitudine di dargli pochi soldi e qualche scodella di minestra. Ma il cane era divenuto un sollazzo pei bambini dei suoi amministrati. Ma sotto la giubba, su cui cingeva solennemente la sua fascia sindacale, quel brav'uomo di capo del Comune aveva tanto di buon cuore. Tutti questi _ma_ fecero che il cieco fu lasciato stare in santa pace. La curiosità aveva per un poco aspettato il misterioso mendicante al varco d'una ubbriacatura. Pareva impossibile, chi lo vedesse, che quell'omaccione non fosse un dilettante d'osteria e un intelligente, ghiotto consumatore di alcoolici; eppure quell'impossibile era la realtà. Atanasio non metteva mai piede nè da compar l'oste ne dall'amico zozzaio, e pareva anzi fuggire con vera ripulsione di dove sentisse odore di liquori. Quando gli si faceva invito a bere un bicchierino d'acquavite o di un mezzo litro di vino, egli batteva più forte per terra la ghiera di ferro del suo lungo bastone, allargava ancora di più il compasso delle sue gambaccie, sollecitava colla voce collerica Azor, e s'allontanava di fretta. Visto codesto, la curiosità rinunciò scoraggiata ad ogni ulteriore tentativo; d'altronde la storia di simil pezzente non pareva dover essere di tal natura da ispirare sforzi straordinari per apprenderla. Si rassegnarono tutti a non saper altrimenti chi fosse quel povero cieco, cui tutti conoscevano e trattavano famigliarmente. Chi avrebbe potuto narrarne tutta o quasi tutta la storia, era Azor: ma egli, da bravo cane fedele, taceva incorruttibilmente; e imparino da tali confidenti quelli che hanno segreti da custodire. Eppure quella storia, benchè d'un semplice operaio, era interessantissima; ed io, che l'ho risaputa dal parroco, al quale il cieco finì per confidarla morendo, ve la voglio raccontare brevemente e semplicemente. II. Era una bella fonderia quella del signor Frangia. Un vasto fabbricato, ampie officine, immensi laboratorii, forni e macchine con tutta la perfezione delle invenzioni e dei progressi moderni. Vi erano occupati un centinaio e più di operai; tutto in essa camminava ordinato e regolato come le varie ruote di un orologio che vada bene, e ciò grazie all'attività, all'intelligenza, al coraggioso, instancabile zelo del primo figliuolo del proprietario, il signor Pietro. Questi, allora, contava circa trent'anni; era bello d'aspetto, franco e cordiale di maniere, abile a comandare e capace d'ubbidire, sollecito nelle risoluzioni come nelle parole, negli atti come nel pensiero. Aveva studiato un po' di tutto — quello almeno che è necessario a una persona colta, — anche di letteratura, molto di economia politica e delle ragioni commerciali e industriali. Sapeva di molte cose, e intorno alla sua professione tutto quello che poteva sapersi, e aveva il merito di non farne pompa, giovandosene soltanto a dar prova ne' suoi negozi di un'abilità inarrivabile. Comandava senza ruvidezza, senza superbia e senza debolezza; gli operai lo ubbidivano, ammirandolo anche senza volerlo. Avevano verso di lui una rispettosa famigliarità, come si ha con chi è della nostra sorta, ma è il primo di tutti. Niuna meraviglia perciò che il vecchio padre, ormai stanco dal lavoro e in bisogno di riposo, lasciasse a lui tutto il peso della direzione e dell'amministrazione, e che sotto la sua mano intelligente gli affari prosperassero come non si poteva desiderare di meglio. Il signor Pietro pareva ed era in realtà il più felice uomo della terra; uno di quelli a cui tutto riesce ciò che intraprendono; nè alcun segno intorno gli appariva che uomo vi fosse il quale, quella sua tanta ventura e i beni d'ogni fatta ond'era favorito, gli venisse invidiando. Eppure l'invidioso c'era, un invidioso che si nascondeva con molta circospezione, che avrebbe voluto nascondersi persino a sè medesimo, ma che era tanto più accanito; così che oramai la sua invidia era arrivata sino ai limiti dell'odio. E questo tale era l'operaio, in cui appunto il signor Pietro aveva maggior fiducia, che sembrava, e avrebbe dovuto essere maggiormente affezionato a lui e alla famiglia tutta dei Frangia, perchè aveva verso di questa e verso di Pietro innegabili segni di riconoscenza. Si chiamava Atanasio. Degli operai era il più abile, il più forte, il più coraggioso, il più diligente. Quando aveva da allontanarsi, Pietro confidava in lui perchè tenesse le sue veci; e la sua fiducia in nulla, mai non era delusa. La famiglia Frangia lo considerava poco meno che per uno di suo sangue. Ma egli aveva un carattere violento, passioni accese, e s'era impinzata la testa di perniciose letture in quei certi libri che, trattando della questione sociale, lusingano maladettamente le men nobili tendenze dei poveri con sofismi che la pretendono a pronunziati scientifici. Era figliuolo d'un antico operaio di quella medesima officina. Suo padre, quand'Atanasio era ancora nel seno materno, morì vittima d'un accidente. Una forma col metallo in fusione era scoppiata, e il poveretto ne aveva avuto orribil morte. Il padre di Pietro, impietosito al triste caso e alla condizione della povera vedova in procinto di diventar madre, prese quest'ultima in casa sua e le promise non l'avrebbe abbandonata mai più, avrebbe provvisto alla sorte del nascituro, qualunque si fosse, maschio o femmina. Aveva voluto il caso che in quel giorno medesimo nascesse al principale appunto un bambino, che fu quel Pietro di cui si è detto. Sei mesi dopo la nascita del figliuolo del principale e la morte di suo padre, venne al mondo il figliuolo dell'operaio. La sua cattiva stella non aveva ancora tutto esercitato il suo maligno influsso; chè la infelice madre, dopo aver tanto sofferto, essendogli morta essa pure, sopra parto, egli in fasce rimase orfano, solo al mondo e privo d'ogni sostegno, se non fosse stata la protezione del signor Frangia. Questi non venne meno alle sue promesse, e il bambino dell'operaio fu allevato in casa del principale insieme col figliuolo di quest'ultimo. Atanasio ebbe ancor egli precoce intelligenza e tale da non istare al disotto del suo compagno: e' si avvezzò dapprima a trattare con Pietro come un suo pari, e allora, benchè più giovane di sei mesi, aveva egli una supremazia per forza, per destrezza, per ardimento; ma ben tosto venne ad accorgersi che fra sè e l'altro ragazzo, intorno a loro, tutto stabiliva una gran differenza. Più assai de' padroni, erano i servi a fargliene sentire siffatta diversità. Pietro era figliuolo d'un ricco, egli era un miserabile. Quell'altro possedeva capitali e terre, egli non aveva nulla; ogni vantaggio al compagno veniva accordato come per un suo diritto, a lui per favore, o, per dire la fatale, amara parola, per carità! Atanasio affaticò la sua penetrazione infantile per rendersi conto di ciò. La mente ancora debole dell'orfano, fino da que' primi anni, andò ad urtarsi contro quel tremendo problema sociale che da secoli travaglia l'umanità e forse non cesserà di travagliarla fino alla fine dei tempi. Il suo egoismo lo formolava in quel pungente quesito, che è l'ultimo motto d'ogni sommossa di plebe: «Perchè a lui tutto e a me nulla?» Non ci trovava risposta; ricorreva al comodo scioglimento di proclamarla un'ingiustizia, che un giorno o l'altro doveva pur ripararsi: e così fin dagli anni più teneri, non osando manifestar nulla di questi suoi sentimenti, masticando amaramente impossibili e colpevoli aspirazioni e desiderii di cui poi si vergognava, venne accumulando in fondo al cuore una provvista d'invidia inesprimibile. E intorno a lui tutto gli diceva in pari tempo che il suo segreto sentimento aveva torto ed era una colpa. Non v'era caso, persona o cosa che non gli parlasse della sua fortuna d'essere così trattato da quei ricchi ch'egli invidiava, della riconoscenza ch'egli doveva avere per essi; e ad ogni anno che passava, la sua anima sempre più s'inaspriva e quella riconoscenza sempre più gli veniva di peso. Pietro frattanto imparò tante cose. Era egli lieto e superbo del suo sapere; la sua intelligenza, rafforzata dallo studio, aveva preso uno slancio inaspettato. Atanasio, che, come di forze fisiche, così d'intelletto era sembrato dapprima ed erasi creduto egli stesso andare innanzi al suo compagno, ora si trovava da questo avanzato e dimolto. Il figliuolo dell'operaio, naturalmente, era stato messo alle officine; gli avevano fatto imparare a leggere, scrivere, far di conti e la sua arte: e si credeva da tutti che ce n'era abbastanza per lui. Ma egli, sempre in conseguenza di quel medesimo sentimento, si diceva che quella era un'ingiustizia, che anch'egli doveva aver diritto al sapere, e si domandava perchè avesse ad esserne privo. Con tutto ciò, — misteri del cuore umano! — Atanasio, da giovane, amava in realtà i suoi benefattori e Pietro eziandio che era stato compagno della sua infanzia. Da parte di Pietro, quella franca e domestica benevolenza ch'egli aveva con tutti e che lo faceva a tutti così piacevole, verso di Atanasio era poco meno che una fraterna affezione. Inoltre, tanto Pietro, quanto i genitori di lui cansavano accuratamente ogni parola, ogni menomo cenno che potesse adombrare, non dico un rinfacciamento, ma un ricordo dei beneficii usati verso l'orfanello; e questi era poco capace d'apprezzare codesta delicatezza, e, facendo astrazione dalle persone dei suoi principali, era alla condizione delle cose, alla fatale necessità, all'organismo sociale, era al sistema, come s'usa dire, che volgeva tutte le sue maledizioni, tutto l'odio della sua anima sdegnosa. Lesse con avidità accanita le declamazioni demagogiche di socialisti e comunisti; lesse in segreto, nascondendosi come d'una colpa, con tutto il trasporto che si prova per le cose proibite, e non osò mai con nessuno manifestare pur di sfuggita le sue opinioni, perchè sentiva — e tutti glie lo avrebbero rinfacciato — che predicare il comunismo, la rivoluzione contro i ricchi, l'annientamento del capitale, egli che tutto doveva ai suoi principali, sarebbe stata una ingratitudine; ed egli sentiva pure la gran vergogna di parere macchiato di sì brutta colpa. Venne però un momento, in cui l'iniqua passione fu presso ad esser superata nell'anima d'Atanasio. E fu allora quando entrò in essa la più mite e generosa passione che possa muovere anima d'uomo: un vero amore. III. La fonderia era posta alla falda d'un bel colle boscoso; a mezzo la costa, in uno slargo che parevano fare appositamente i castagni per lasciarle un po' di luogo, brillava al sole una casetta tutta bianca. Aveva stanza colà un'altra beneficenza del signor Frangia. Taddeo, vecchio militare, si era ritirato dall'esercito dopo la guerra del 1848-49, azzoppito, incapace di lavorare, con moglie ed una figliuola, e per unica ricchezza trecento lire di pensione all'anno. La moglie era buona a poco, la figliuola era ancora piccina, e meno d'una lira al giorno per vivere in tre, anche in un paesello, c'era da mangiare di magro e vestire di stracci. Il padre di Pietro nominò Taddeo guardiano dei vasti boschi che possedeva su quella montagna, gli diede ad abitare quella casetta bianca, gli regalò un bravo schioppo a due canne, i mobili più indispensabili, il diritto di tirare a qualunque selvaggina trovasse, e quaranta lire al mese. A Taddeo parve toccare il cielo col dito; si stabilì in quel luogo ridente, si diede a percorrere, zoppicando tranquillamente a suo modo, con lo schioppo a tracolla e un bastone in mano per appoggiarvisi, le proprietà del padrone, e si chiamò il signor Guardaboschi. Fece scappare, ingrossando la voce, qualche ladroncello che tagliava rami degli alberi; fingeva di non vedere quando s'incontrava con povere vecchierelle che venivan raccogliendo legna; uccise qualche tordo e qualche lepre, e disse a tutti, che lo volessero o non lo volessero sentire, ch'egli si trovava nel paradiso terrestre senza serpente. Nè si fermarono a ciò le larghezze del ricco industriale. La figliuola di Taddeo veniva su carina come un amore e belloccia come un fiore di campo; aveva tanta grazietta, tanto brio, tanta ingenua petulanza di modi che vederla, sentirla a chiaccherare e non restarne incantati era cosa difficile. Il signor Frangia, passando un giorno di là per caso, fu accolto, figuratevi con che dimostrazioni di festa, dalla piccola famiglia beata di quell'asilo e della vita tranquilla che vi conducevano. Il padre di Pietro, commosso, ammirò la pulizia che faceva come dire splendenti tutte le masserizie, l'ordine che rallegrava l'occhio del riguardante, la pace che là si vedeva regnar da per tutto continua ed inviolata: ma sopra ogni cosa ammirò i grandi occhi intelligenti, la faccia birichina, la grazia innata, lo schietto parlare e le argute risposte della Lucietta, che allora poteva avere dieci anni. “Che cosa le insegnate a questa bambina?” domandò egli tenendole fra due dita le guance. “Che la vuole che le insegnamo, povera gente ed ignorante come siam noi?” rispose la madre. “Appena se so farle apprendere un po' di maglia e di cucito...” “La mandiamo a scuola al villaggio;” saltò su il padre; “e vi ha già imparato un tantino a leggere, scrivere, e far di conti...” “Un tantino!” interruppe la fanciulla quasi offesa e con quella sua cara petulanza. “E' mi sembra che, tutto questo, lo so già fare per benino davvero... Oh giusto! la veda un po' lei e giudichi.” E lesta, con quelle mosse d'augelletto, che erano in lei così graziose, Lucietta corse a prendere i suoi scartafacci, li venne a squadernare sulle ginocchia del signor Frangia, poi lesse spedita in un libro, poi si mise a recitare colla sua vocina quattro o cinque poesiette che aveva già mandate a memoria, poi a dire tutta d'un fiato la tavola pitagorica. Il padre di Pietro l'abbracciò con entusiasmo e partissi incantato. Sua moglie, a cui egli contò tutti i miracoli di quella bambina, la volle vedere, e ne venne via più rapita ancora del marito. Conchiusero ambedue d'accordo, che era un peccato lasciare tante buone qualità e meravigliose disposizioni perdersi inutili ed imbozzacchire in mezzo a quei boschi. In breve, decisero che la Lucietta sarebbe andata dalla Maestra direttrice della scuola di quel paese, ed in lezioni particolari vi avrebbe appreso tutto quel più che le si sarebbe potuto insegnare. Lucietta venne; la maestra sapeva poco, ma la ragazza capiva molto e indovinava assai più. Ebbe alcuni buoni libri per le mani; e passando molto del suo tempo in casa la madre di Pietro, v'imparò assai più che ne' libri, quanto a maniere e ad educazione del cuore e del carattere. L'opera benefica dei signori Frangia fu coronata di splendido successo, perchè la Lucietta diventò la più cara, bene educata, amabile fanciulla che si potesse vedere. Atanasio da un pezzetto la vedeva e l'ammirava. Pietro, in quel tempo era in città a compiere gli studii. Atanasio, quando traverso le grandi invetrate delle officine scorgeva passare sollecita la giovinetta (e per un caso straordinario la scorgeva sempre) ed entrare nella casa dei principali, aveva sempre di lì a poco una qualche ragione per cercare del signor Frangia, e andava a cercarlo così bene che capitava sempre, sia nella casa, sia nel giardino, dov'erano la moglie del padrone e la Lucietta. Colà, prima ch'egli avesse domandato e la signora risposto, passavano sempre alcuni minuti; e il giovane sapeva trovare appigli tali di discorsi che faceva durare altri pochi minuti di più il colloquio, e nasceva occasione alla Lucietta, allegra e scherzosa per natura, di barzellettare e di ridere, ed egli, il giovane operaio, rientrava all'officina col cuor contento, colla mente serena e coll'umore più ilare del mondo. Non andò guari che l'operaio trovò modo di fare stretta relazione con papà Taddeo, che qualche volta scendeva all'osteria del villaggio a riconfortarsi lo stomaco mercè un mezzo litro di quel migliore. Un litro pagato a tempo ne fomenta dimolte di codeste amicizie cercate con premeditazione da una delle parti. Atanasio forte, robusto, audace, con un fare tra franco e riservato, piacque assai al vecchio militare. L'operaio beveva bene e lo faceva ber bene; si lasciava da Taddeo raccontare, anzi ce lo incitava, tutti gli aneddoti della sua campagna e della sua vita da cacciatore; non andò guari che il padre di Lucietta proclamò Atanasio il più piacevole compagno che si potesse trovare. Atanasio allora impiegò tutto il suo talento diplomatico a riuscire in un intento che gli stava a cuore quant'altro mai: quello di farsi invitare dal veterano ad andarlo a vedere lassù. E il furbo ci riuscì. Cominciò per andarvi raramente; seppe piacere alla madre di Lucietta, come aveva piaciuto al padre. La fanciulla stessa mostrò vederlo di buona voglia; e non andò gran tempo che quasi tutti i giorni Atanasio capitava alla casetta e vi era accolto con un amichevole sorriso e con cordiali strette di mano da tutti. A quel felice momento in cui poteva correre lassù, alle belle, ma troppo rapide ore ch'egli ci passava, Atanasio pensava tutto il giorno; lavorava con più ardore ed alacrità, quasi volesse col suo zelo guadagnarsi il premio di quella gioia, quasi, affrettandosi nel suo còmpito, affrettasse pure il passare del tempo. Certe volte in mezzo al più vivo del lavoro, sentiva ad un tratto venirgli su, come dal cuore al cervello, una subita ilarità, e si metteva a ridere d'un nonnulla, e intonava allegramente colla sua voce robusta, una gaia canzone. I suoi compagni, avvezzi a vederlo per l'innanzi sempre taciturno e imbroncito, lo guardavano meravigliati; alcuni gli chiedevano il perchè di quel buon umore inaspettato di cui non sapevan trovare ragione; egli rideva più forte, crollava le spalle e tirava via a lavorare con più ardore. Gli era che, a quei momenti, egli, tutto annerito dal fumo, dalla polvere, dal fuoco, vedeva comparirsi, in mezzo alle fiamme accecanti del metallo incandescente, le vaghe forme gentili d'una giovinetta tutta sorrisi, e sognava mille immagini beate di un desiato avvenire. Appena finita la giornata, correva a nettarsi per bene, cambiarsi la biancheria, mettersi la tunica pulita; e poi s'affrettava col suo passo lungo e svelto su per la cima del colle. Non aveva tanta pazienza da prendere la strada comune che girava e rigirava per la costa, ma tirava via dritto, traverso i boschi, in linea retta, senza seguir sentiero tracciato, arrampicandosi da albero ad albero, e sbucava fuori sulla piccola aia innanzi alla casetta. Vi arrivava sorridente: lo accoglievano sorridenti; perfino la cagnetta di Taddeo — una brutta bestiola, che il Guardaboschi in una delle sue innocenti escursioni aveva raccattata su per la strada mezzo moribonda di fame; — perfino lei gli faceva festa. Atanasio aiutava la vecchia alle faccenduole di casa, spaccava le legna per accendere il focherello della cena, strappava dalle mani di Lucietta il secchiolino per attingere acqua e correva a riempirlo alla fontana, diceva scherzando al veterano Taddeo: “Oh che non volete credere che io, quantunque non sia stato a mangiare il pan di munizione, son capace di ripulirvi quello schioppo intorno a cui sudate lavorando per renderne le canne così lucenti che il più schizzinoso caporal di settimana non vi avrebbe a ridire? Il ferro ed io ci conosciamo, e state a vedere...” E anche dalle mani del vecchio strappava lo schioppo e gli stracci ingrassati e la spazzoletta e il piattellino dell'olio, e si metteva a far egli il lavoro del Guardaboschi, tanto bene e sollecito che questi lo guardava ammirato, e sclamava ridendo che sembrava non avesse mai fatto altro. Era insomma diventato così di casa, che un congiunto non avrebbe potuto di più; e nella famigliuola non solo s'era usi ad aspettarlo e riceverlo con gioia, ma ad ogni lavoretto un po' faticoso che avvenisse di dover fare, si soleva dire gli uni agli altri: — Eh! lascia stare; ci verrà stasera Atanasio e farà lui. — IV. Quelli furono i migliori tempi della vita dell'operaio. Sotto l'influsso del suo tanto nobile e purissimo amore, egli sentiva a poco a poco svanire, proprio come la nebbia al sole, i suoi invidiosi pensieri, il suo maligno talento, la sua rabbia di proletario. Non gli pareva più d'essere condannato ad invidiar tutto agli altri; non trovava più che questo mondaccio fosse così male ordinato che impossibile lo starci un po' bene a chi non possedesse ricchezze: la sera, quando seduto sull'aia, alla porta della bianca casetta, vedeva la bella fanciulla correr di qua e di là, immaginava una vita bellissima, che gli sembrava proprio a gittata di mano, insieme con una compagna e con dei figliuoli; capiva allora il diritto di proprietà e la famiglia; sognava economie e risparmi, e si riconciliava mentalmente col capitale. Aveva disertato l'osteria, metteva più attenzione alle cose sue, al suo vestiario, ai suoi diportamenti, al suo parlare: era più umano e servizievole, più allegro e garbato con tutti: poteva proprio dirsi un altr'uomo. A Lucietta, nè ai genitori di lei, non aveva ancora parlato nemmeno alla lontana de' suoi disegni. L'eloquenza non era il suo forte, e nell'audacia della parola ei ci valeva poco. Ma pure non dubitava punto che la cosa avrebbe da riuscire a seconda de' suoi desiderii. Aveva tanta coscienza di quel ch'egli valeva, da credersi non indegno di Lucietta; le condizioni sociali ed economiche dall'una parte e dall'altra si pareggiavano; capiva d'essere ben visto, anzi aggraditissimo al padre e alla madre di lei; non vedeva intorno alla ragazza pur l'ombra d'un rivale; poteva senza soverchia illusione scambiare per indizio di più tenero affetto la cordialità dell'accoglimento e il sorriso di fraterna amicizia che aveva per lui la Lucietta. Quindi, tutto ben considerato, aveva risoluto che alla prima buona occasione che gli si presentasse, avrebbe, come si dice, saltato il fosso e parlato chiaro. Ma questa benedetta occasione tardava a venire, od almeno pareva sempre a lui che non fosse abbastanza buona; e frattanto chi venne fu Pietro, il quale, finiti i suoi studi alla città, se ne tornò alla casa paterna a prendere la direzione delle officine. Atanasio a questo ritorno provò strane e contradittorie sensazioni. L'assenza gli aveva pure fatto conoscere, che in realtà egli lo amava qual suo compagno d'infanzia, il quale era pur sempre stato così buono ed amichevole per lui; e sapendo ch'egli ritornava, il giovane operaio, fatto dalla sua passione più inchinevole alla tenerezza, ebbe un vero rallegramento. Ma quando il giovane principale fu giunto, più bello di quel che fosse quando era partito, avendo preso dal soggiorno della città non so qual grazia nel portamento, vestito con eleganza di gusto, fornito insomma di tutti quei vantaggi che danno la ricchezza e il praticare colla società eletta, una specie di presentimento assalse Atanasio, che quella venuta e quel giovane così caro e leggiadro gli sarebbero fatali. Primo danno che glie ne toccò fu intanto che dovette rinunciare a vedere così di frequente e per sì lunghe ore la Lucietta. Il signor Pietro era venuto con una quantità di ordinazioni di lavoro e di grandiosi progetti da dare nuovo slancio all'industria. Agli operai fu aumentato il salario, ma fu diminuito il tempo libero: l'ebbe diminuito più di tutti Atanasio, al quale Pietro fece il meritato onore di nominarlo capo d'officina. Parecchi giorni passarono per ciò, senza che l'operaio potesse correre alla bianca casetta: di che il suo umore tornò a intristirsi non poco; finalmente, quando a forza di industriarsi, potè strappare alle ore di lavoro e dei suoi pasti un briciolo di tempo per correre lassù, erano sì brevi momenti quelli, che pel gran desiderio da lui provato erano come un sorso d'acqua a chi muore di sete. La Lucietta veniva essa ancora in casa dei padroni, e con che frequenza? Atanasio non lo sapeva e gli premeva di saperlo, e moverne domanda se ne vergognava. Già di spiare le venute della fanciulla non era più il caso, e meno ancora quello di correre in traccia di lei col pretesto di cercar del principale. Il padre di Pietro aveva smesso del tutto ogni ingerenza nell'opificio; la direzione l'aveva il figliuolo, il quale era sempre lì e non s'allontanava d'un passo e non permetteva che nessuno s'indugiasse pure un momento nel suo ufficio, e quanto era buono e generoso verso gli zelanti operai, altrettanto era severo e implacabile verso i negligenti. Atanasio s'arrabbiava maledettamente. Fu peggio quando, in quelle corte scappate che poteva fare ad intervalli alla casa di Taddeo, gli parve accorgersi che Lucietta erasi d'assai mutata nel suo contegno. La non rideva quasi più; il giovane non sentiva più, arrivando, di mezzo agli alberi del bosco, l'allegra di lei canzone che gli annunciava la vicinanza della casa; parlava poco, ascoltava distratta, dava ad Atanasio la mano più freddamente di prima, trovava frequenti pretesti per ritirarsi nella sua cameretta e non lasciarsi veder più. “Voi non istate bene?” le chiese un giorno l'operaio. “Benissimo,” rispose ella: “perchè mi fate questa domanda?” Atanasio le disse del cambiamento che aveva notato in lei: Lucietta arrossì fino sulla fronte, non rispose parola e s'allontanò. Il nostro operaio ci pensò ben bene un giorno e una notte, e ancora un altro giorno; e la sera dipoi, in cui s'era procacciata un'ora di libertà, s'avviò verso la dimora di Taddeo con una gran risoluzione. Però non prese la scorciatoja, non allungò il passo delle sue lunghe gambe, e, quantunque fosse già tardi, andò su lentamente per la stradicciuola comune, fermandosi tratto tratto a meditare. Egli s'era deciso a svelar finalmente il suo segreto e chiedere Lucietta in isposa. Per quanto adagio camminasse, e' ci arrivò pure a quella benedetta casina bianca. Vi regnava un silenzio che gli parve di malaugurio; nessuno era di fuori, la porta socchiusa; una riga di luce rossigna, che filtrava dall'uscio in sull'aia già quasi ottenebrata dalla sera, indicava che nella stanza terrena eravi il fuoco od un lume acceso. Atanasio si accostò piano col cuore che gli palpitava, e per la fessura guardò dentro. Taddeo, seduto sopra il suo vecchio seggiolone di cuoio a bracciuoli, sonnecchiava innanzi al fuoco; sua moglie, accoccolata presso al camino, guardava per entro ad una pentola; Lucietta non c'era. Fra le gambe del Guardaboschi dormiva accovacciata la cagnetta di razza inqualificabile. Atanasio quasi rallegrossi di non vedere colà in quel momento la ragazza; avrebbe osato parlare più franco, non essendoci lei presente. Sospinse pian piano l'uscio ed entrò. La cagna fu sola ad accorgersi della venuta di qualcheduno; la si drizzò a sedere puntando le piote anteriori per terra, e cominciò ad abbaiare; ma visto subito che egli era l'amico di casa, si levò di tratto e gli mosse incontro scodinzolando. Taddeo si svegliò, la moglie si riscosse dalla sua contemplazione della pentola e si volse verso il nuovo venuto. “Ah, siete voi Atanasio?” diss'ella. “Da bravo! venite, sedete qui; mangiate un boccon di cena con noi.” V. Atanasio s'inoltrò, sedette, ringraziò, e si pose a tormentare la cocca della sua tunica, come se da essa volesse far venir fuori le parole del discorso. “Bel tempo d'autunno!” disse Taddeo. “Bel tempo!” rispose Atanasio, guardando il fuoco. “Fatto apposta per andare a caccia.” “Già!” “Guardate: se ci aveste un giorno di libero, che poteste venir meco di buon mattino con un bravo schioppo, sì che vi menerei io in certi luoghi dove i tordi vi parrebbe che fioccassero.” Atanasio mandò un sospiro. “Ma io non ho di giorni liberi.” Guardò intorno, come se cercasse di qualche cosa. “E.... e la vostra Lucietta?” finì per dire. Fu la madre di lei che rispose: “È giù al villaggio, in casa dei padroni.” Il giovane fece un sobbalzo sulla seggiola di legno su cui era seduto. “Dei padroni?” ripetè, come se dubitasse di non aver capito bene. “Sì, dei signori Frangia.... Sono tanto buoni! La signora vuole alla mia figliuola un bene da non si dire, e la desidera frequentemente con sè.” “Ma gli è già tardi,” interruppe Atanasio cui l'appresa notizia stese un velo di tristezza sul volto; “e come farà a venirsene su la Lucietta?” “Per questa sera la non ci vien mica.” “No?” “È già da due giorni colà, e vi rimane ancora una settimana. La Signora ha insistito tanto, che abbiamo dovuto acconsentire a lasciargliela per un po' di tempo.” Atanasio sorse in piedi tutto turbato; voleva sgridare, rampognare, ma ebbe ancora tanto buon senso e tanta padronanza di sè da tacere. Con che diritto poteva egli far rimproveri ed anche semplici osservazioni? Che cosa era egli per quella gente, per quella ragazza? I Frangia erano i protettori di quella famiglia; v'era forse alcun male che la Signora tenesse presso di sè la giovane che aveva fatto educare, a' cui bisogni, in varia forma era venuta sovvenendo? L'operaio non disse adunque nulla; ma sentì la sua anima diventar buia come una notte senza stelle, e a un tratto gli andarono via il coraggio e la voglia di fare la sua dichiarazione. Trovò un pretesto per rifiutare la cena, e partissene subito, e ridiscese il poggio coll'inferno nel cuore. Si era fatto notte interamente. Di gran nuvoloni s'aggiravano in cielo, e fra loro splendeva con un limpido chiarore la luna quasi piena, nascosta di quando in quando da qualcuno di essi che le passava dinanzi. Atanasio camminava senza saper ben preciso in qual direzione; ma le gambe lo portarono alla fonderia, e precisamente da quella parte dove era la casa dei proprietari. Era una casa non molto alta, ma piuttosto vasta, che formava tre lati d'un quadrilatero, spingendone due verso le officine che stavano in fondo al cortile, le quali, dopo un intervallo di una ventina di metri, chiudevano il quadrato, allungandosi però dall'una e dall'altra parte in una linea più estesa. Dinanzi alla facciata della casa, che guardava sopra la strada, si stendeva una terrazza, lunga poco meno della facciata medesima, alta un metro dal suolo, sulla quale dal salotto e dalle altre stanze del pian terreno davano adito delle alte porte-finestre. Atanasio venne da quella parte, passò lentamente innanzi a quella facciata, con lo sguardo fisso nel chiarore che usciva da que' cristalli. La luna in quel momento batteva di pieno sul terrazzo; l'operaio ci vide l'ombra d'un uomo che andava e veniva; poi quell'uomo si fermò, si appoggiò coi gomiti alla ringhiera e la luna ne illuminò completamente la faccia ch'ei volse in su: era Pietro Frangia che fumava un sigaro a quella brezza notturna. Atanasio si voltò per allontanarsi, ma il suo principale l'aveva visto. “Olà! Ehi!... se non m'inganno, tu se' Atanasio:” gli gridò. “Alto, Atanasio!” Questi, benchè a malincuore, dovette fermarsi. “Buona sera, sor Pietro, sono appunto io.” “Vieni qua. Dove vai girando? Le serate incominciano ad esser freddine.” “Non mi pare:” rispose Atanasio, che in verità non sapeva bene che si dicesse, tutto preso da un nuovo e molesto impaccio in presenza al suo giovane padrone. “A me piace il fresco.... Ho il sangue acceso addosso.” “Eh! lo capisco. Il fuoco della fucina!... Ma io pure ho una smania questa sera.... To'! mi arrivi proprio a tempo. Ho bisogno di prender aria e di far moto; e ho bisogno d'un confidente. Tu mi accompagnerai a passeggiare; e qual confidente migliore posso io avere di te, che mi sei come fratello?” Atanasio sentì che avrebbe pur dovuto rispondere qualche parola, ma non seppe cosa dire; e pensava frattanto: — Confidente!... che confidenze vuol egli farmi? — Pietro in un attimo scese dal terrazzo e fu al fianco dell'operaio: ne prese il braccio con amorevole domestichezza e lo fece avviare di buon passo giù della strada. Camminarono un bel tratto senza parlare. Atanasio non si avventurava ad interrogare; Pietro pareva provasse alcune difficoltà non leggiere a cominciare il discorso. Fumava rapidamente, guardava intorno, sospirava forte; finalmente ruppe il silenzio dicendo con un risolino forzato: “È strana! sai tu che in questo momento io ho addosso un'ansietà che mi dà un'agitazione delle maggiori ch'io abbia provato mai? Questo non l'avrei creduto.” “Che cos'è?” domandò Atanasio, tanto per dir qualche cosa. “Le capita forse alcuna contrarietà?” “No, contrarietà.... quello che provo io, vuoi che te lo dica?... è timore.” “Timore!... di che?” “Gli è che adesso adesso si sta decidendo la sorte della mia vita e dipende da una parola la mia felicità.” Atanasio si fermò su due piedi, stranamente turbato a un tratto. “Oh come mai?” dimandò egli. “Eccoti le confidenze.... sarai il solo che le abbia ricevute, fuori de' miei genitori. Amo Lucietta, e l'amo tanto che nol posso dire.” Per fortuna le nubi in quel punto avevano coperto la luna e l'oscurità era sì fitta da non potersi vedere il pallore e la contrazione dei muscoli che vennero a sconvolgere la faccia dell'operaio. Pietro, chiacchierone come tutti gl'innamorati, sentì il bisogno di raccontare più particolareggiate le semplici vicende dell'amor suo. “Quando sono partito di qua, Lucietta era già una cara fanciulla che prometteva diventare un tesoretto bello e buono; ma ora che l'ho rivista al mio ritorno, ora sì che la mi parve aver superate tutte le sue promesse! E nota che io ne aveva pure la grande aspettazione: mia madre mi scriveva sempre tanti prodigi di lei!... Ebbene, la trovai superiore a tutti gli elogi.... Che ti vo dicendo di più? Mi accorsi in breve che n'ero pazzamente innamorato. Ah! non esitai un momentino. Mi stimerai abbastanza, spero, da non supporre nemmeno che mi sia venuto un cattivo pensiero a tal riguardo. È una povera giovane che non ha nulla; e tanto essa quanto la sua famiglia devono dimolto a noi.... ragione di più per averne ogni rispetto. Parlai a mio padre e a mia madre che mi amano tanto da consentire a tutto quello che può farmi felice. Essa non è mia pari per condizione nè per fortuna; ma che importa? Fu allevata a meraviglia, ha talenti come poche ne hanno, è virtuosissima; tutto la fa degna del nostro grado. Della sua povertà non abbiamo da averne pensiero; non siamo noi ricchi abbastanza? Mia madre accettò il carico di scrutare il cuore della giovane questa sera medesima, e in questo stesso momento. — Va' via, — mi disse, — e lasciami sola con lei una mezz'ora: al tuo ritorno l'avrò confessata, e saprò dirti il tuo destino. — Uscii sul terrazzo, agitato come Dio tel dica. Mi è sembrata una buona fortuna vedere a passar te, così buono mio amico. Per occupare questa benedetta mezz'ora, avevo bisogno di camminare, di sfogarmi con qualcheduno.... E niuno meglio di te poteva convenire al mio caso.” Atanasio camminava a capo chino senza far parola, senza batter palpebra, quasi avreste detto senza tirare il fiato. Stringeva così forte le mani serrate a pugno, che le unghie delle dita gli entravano nelle carni della palma; teneva i denti stretti che più non potrebbe una morsa di ferro. Quando aveva udito Pietro parlare di benefizi fatti dalla sua famiglia a quella di Lucietta, e poi della disparità di condizioni fra lui e la ragazza, e dei meriti di costei che la facevano degna di venire innalzata fino a lui, un amarissimo sogghigno si era disegnato sulle sue labbra contratte e un'onda di collera eragli salita al cervello. Tutti i suoi pregiudizi contro la ricchezza, tutte le sue antipatie contro i ricchi, tutto il suo odio contro la società e le sue smanie furibonde di ribellione gli erano tornati, e più intensi e più vivaci a un tratto. Colui ricco, colui superiore, colui tutti i vantaggi; ed egli?... Si riscosse e volse al figlio del suo principale un'occhiata bieca, in cui traboccava l'idea orribile della violenza: ma Pietro, assorto tutto nella propria emozione, non vide per fortuna quello sguardo, come non avvertiva il cupo silenzio dell'operaio. Il giovane ricco si fermò di colpo. “Ma oramai il tempo dettomi da mia madre dev'essere trascorso.... o non ci mancheranno che pochi minuti..... Torniamo indietro.... io sto come sulle braci.... ho bisogno, non fosse altro, di vedere la casa dove Lucietta sta per pronunziare, dove forse avrà già pronunziata la mia sentenza. Solamente vedendo a traverso i vetri la luce del salotto dove stanno a discorrere, mi pare che sarò più tranquillo.” E voltò indietro, rifacendo i passi verso la casa. Atanasio si diede ad accarezzare la follia di una speranza. Se Lucietta non lo amasse, quel giovane, benchè ricco? aveva tanto buon senso quella ragazza! doveva preferire uno sposo della sua condizione: doveva capire che nessuno l'avrebbe amata mai quanto un bravo operaio.... come lui Atanasio per esempio. Mercè uno sforzo, l'infelice riuscì a disserrare i denti. “Ella non ha mai parlato a.... alla giovane?” domandò con voce soffocata. “Non l'ha mai interrogata?” “No.... me ne feci uno scrupolo.... ad una giovinetta che veniva come ospite e protetta in casa di mia madre!... E nella sua ingenua allegria essa ha una semplice dignità che m'impone.” Erano giunti nuovamente innanzi alla casa. La luna, liberata dal velo delle nubi, tornava a splendere brillante. Pietro trasse l'oriuolo e guardò l'ora. “Eh! la mezz'ora è passata oramai.... non mancano che tre minuti.... tre minuti più o meno, non monta.... non sarà in questi tre ultimi minuti che si sarà aspettato a parlare dell'argomento.... io non ci posso più reggere.... vado.” Atanasio lo arrestò bruscamente per un braccio. Pietro gli si volse stupito. “Che cosa?” “Un piacere:” disse l'operaio con voce tremante. “Mi faccia sapere.... subito la risposta di lei.... della giovane.... La prego!... una sola parola.” “Oh come?” domandò il principale vieppiù stupito. “Oh che tanto ti preme?” “Sì.... mi preme sapere se Ella sarà felice;” rispose Atanasio con voce roca. Pietro credette in questa spiegazione; strinse con forza la mano all'operaio dicendogli: “Grazie mio buon amico. L'ho sempre saputo che tu mi vuoi bene. Or via aspetta qui un momento e ti comunicherò l'esito....” Una delle porte-finestre s'aprì, e una donna inoltrata in età si avanzò sul terrazzo. “Sei tu Pietro?” diss'ella venendo fino alla ringhiera. “Mamma! mamma!” esclamò il giovine palpitante. “Vieni! presto!” disse la donna e rientrò sollecita in casa. Pietro si slanciò di corsa verso l'entrata. Atanasio rimase immobile, piantato innanzi al terrazzo. Non era una sufficientemente chiara risposta il fatto d'esser venuta la madre medesima a sollecitare il ritorno del figliuolo? Avrebbe ella fatto così se le parole di Lucietta non fossero state secondo il desiderio di Pietro? Eppure, vedete quanto è tenace la illusione nel cuore umano! il povero operaio rimaneva ancora colà, attaccato a un lieve filo di speranza. Pietro non obliò Atanasio e la promessa che gli aveva fatto. Dopo un poco uscì sul terrazzo e le sue sembianze, illuminate dalla luna in quel momento limpidissima, apparvero all'operaio così piene di gioia che niuna parola più occorreva ad annunziare la ventura del giovane. “Atanasio,” gridò Pietro con voce commossa e sonora: “Sono felice.... va', e che ciò possa farti passare una buona notte anche a te!” VI. Una buona notte! Quale scherno! La luna erasi nascosta di nuovo, e pareva definitivamente. In quella lotta fra la luce e le tenebre, queste sembravano aver vinto, e regnava sulla natura una fitta oscurità. Ma più oscuro ancora era l'animo d'Atanasio. Quali orrende idee gli passassero per la mente, quali spasimi gli torturassero il cuore, fu sempre un segreto fra lui e il Cielo. Non rientrò nella sua povera abitazione che il mattino: ma a chi lo vide, egli ebbe a parere invecchiato di anni. Da quel giorno egli non fu più visto a ridere e nemmeno a sorridere. Tornò a frequentare l'osteria, ed anzi più assai di prima; il suo umore ridivenne peggiore che non fosse stato mai, rabbioso, maligno, scontroso, insofferente. Sfuggiva tutti: più di tutti gli altri Taddeo, Lucietta, e Pietro medesimo, quando le faccende dell'opificio non l'obbligassero a trovarsi con lui. Costoro, nel colmo della loro gioia, non s'accorsero pure menomamente della nuova selvatichezza d'Atanasio. Nella fonderia, tra gli operai, nel villaggio e nelle vicinanze fra tutti gli abitanti non v'era più altro discorso che quello del prossimo matrimonio del giovane e ricco padrone delle officine colla povera figliuola del veterano. Tutti lodavano a cielo la generosità del giovane; le ragazze invidiavano un po' indispettite la fortuna della fanciulla. Quando udiva che s'incominciava a parlar di ciò, Atanasio tirava via senza dir nulla. Fu visto, il disgraziato, parecchie volte ubbriaco fradicio — la qual cosa prima non gli capitava mai — correre per la campagna gridando parole incomposte, urlando vaghe minaccie, per cadere poi come morto in un fosso. Aveva bandito da sè ogni nettezza, viveva disordinatamente come il più vizioso degli operai: ogni giorno più sembrava imbestialirsi. Pietro, nell'eccesso della sua gioia, aveva ben altro a cui pensare, che i diportamenti del suo compagno d'infanzia; ma pure non potè a meno di accorgersi di tanta mutazione, e un giorno, avutolo a sè, glie ne fece amorevoli rimproveri; gli ricordò la sua buona condotta d'un tempo, gli rammentò come coll'economia, colla sobrietà, potesse procurarsi un migliore avvenire. “Che la vuole?” rispose l'operaio con voce rauca, a testa bassa, senza guardare in faccia il suo principale. “La vita è una cosa tanto breve, e tanto da nulla; io sono così solo e così senza conforti di sorta! La parsimonia, la temperanza, l'economia, la virtù a che cosa mi meneranno? Io non sono fatto per essere stipite d'una famiglia.... sono solo, vivrò sempre solo, creperò solo....” “E perchè?” interruppe il sor Pietro con qualche vivacità. “Un onest'uomo ha il dovere, e ci trova la sua felicità, di mettere al mondo dei figliuoli che saranno galantuomini come lui.” “E se invece diventassero birbanti?... Lo so io stesso per sicuro d'essere un onest'uomo?” “Atanasio!” “Eh! mi scusi.... Ciascuno ha le sue idee.... Finchè non faccio male a nessuno mi lasci divertire a mio modo, finchè la duri.” E s'allontanò senza più voler ascoltare parola. Era stato quindici giorni senza metter piede alla casetta bianca. La vigilia proprio delle nozze si decise a recarvisi. Taddeo gli fece gentilmente rampogna della sua mancanza; Lucietta, fatta più bella che mai dalla sua felicità, gli venne incontro salutandolo colla medesima cordialità di prima. “Caro Atanasio,” gli disse, “finalmente eccovi qui di nuovo. Non vi si vede più! E sì che avevo bisogno di dirvi tante cose, di ringraziarvi....” “Ringraziarmi!” interruppe Atanasio stupito e corrugando le sopracciglia. “Sicuro!... Io so quanto siete buono, quanto amate il mio Pietro, di che modo avete preso parte alla nostra felicità.” Atanasio arrossì fino sulla fronte; egli che, se fosse stato in poter suo, avrebbe fatto spalancare la terra sotto la casa dei Frangia perchè ve li inghiottisse tutti. Lucietta continuava lietamente: “Oh! Pietro mi ha detto tutto.... Ma egli eziandio vi ama dimolto, e non so che cosa non farebbe per procurarvi del bene.” “Oh sì,” mormorò l'operaio coi denti stretti. “Lo so!... Me ne ha già fatto tanto!... Me ne fa tanto sempre del bene!” Nè Lucietta nè altri avvertirono la feroce ironia che si nascondeva sotto quelle parole. “Ed ora,” riprese la fanciulla sorridendo e come per cambiar discorso, “voi siete giunto proprio a tempo, perchè ho da domandarvi un piacere.” “Che cosa?” disse freddamente Atanasio. “La nostra cagnetta partorì tre bestioline: due sono morte e l'ultima che ancor rimane, mio padre la vuol sacrificare anch'essa.” “Uh!” saltò su il vecchio soldato. “Tre brutti mostri da fare schifo.... Lei è già brutta da non potersi dir quanto, ma quei suoi piccini riuscirono d'una bruttezza che eccede ogni limite di discrezione. E Lucietta s'è cacciata in capo di conservare sì bella razza? Due per fortuna sono già iti, e il terzo sto per iscaraventarlo giù del burrone.” “No, no, babbo, non farete ciò:” disse la figliuola con graziosa bizza capricciosetta. “E' son nati quel giorno appunto che tornai qui felice di tanto: vo' che quest'ultimo sopravissuto sia salvo; ed è a voi Atanasio che lo raccomando.” “A me?” La cagna, come se avesse capito che si parlava del suo neonato, e giudicato che questo era appunto il momento opportuno di mostrarsi, saltò fuori, accompagnata dal suo piccino veramente orribile. “Eccola qui,” esclamò Lucietta; “ed ecco Azor. Gli ho posto nome Azor, a questo piccino, e mi farete piacere a conservarglielo.” “Volete che lo prenda io?” domandò Atanasio di mala voglia. “Non è vero che me lo farete questo piacere? ve lo terrete per mia memoria.... Ecco.” Il giovane sorrise amaramente. La cagna che eragli venuta fra le gambe lo salutava con amorevole agitar di coda, lo guardava con occhio che pareva supplichevole, ed avreste detto che gli si raccomandava anch'essa. L'operaio si curvò a terra e prese fra le mani il cagnolino. “Per vostra memoria, Lucietta:” ripetè esaminandolo e con un accento fra di mestizia e d'ira repressa. Taddeo si cacciò a ridere di buon cuore. “Bella memoria! Non è vero che è una perfezione di bruttezza?” La cagna si fregava contro le gambe di Atanasio, e il cagnolino, ch'egli teneva fra le braccia, gli leccava le mani. “Ebbene sia,” egli disse: “io lo alleverò! Sarà la mia compagnia.... — Mia unica compagnia! — soggiunse fra sè con amarezza. Si portò via il canino. L'uomo ha tanto bisogno di mettere affezione in altrui, che Atanasio il quale, per le sue tristi condizioni, non poteva oramai amare nessun essere umano, prese a voler bene a quel mostricciuolo di cagnolino. E' non si sentiva più così solo sulla terra: aveva una occupazione diversa da quella del suo mestiere, e se ne compiaceva; era uno spasso, una diversione da' suoi usati pensieri che gli faceva del bene; se lo portava seco, quell'animale, perfino alla fonderia; usciva di molte volte, solamente per farlo passeggiare; lo accarezzava, quando nessuno lo poteva vedere, come altri fa d'un bambino. — Ecco la mia sola famiglia, — dicevasi con pungente amarezza: — ecco il mio solo amore, ecco tutto il mondo per me.... un cane! — In Azor la bruttezza, che invece di scemare veniva aumentando ogni giorno, era compensata da molta intelligenza e superiore ancora l'affettuosità. Pose al suo padrone un amore che nulla più; e come s'ei ricordasse la protezione datagli da Lucietta, dopo Atanasio era colei che prediligeva, e ogni qual volta la vedesse, le andava incontro a farle un'infinità di feste. Pietro e Lucietta, frattanto, vivevano felici. Si amavano proprio sul sodo, non solamente per trasporto giovanile, ed erano affatto degni l'uno dell'altra a vicenda. Atanasio li fuggiva con cura. Un anno dopo il cielo mandava alla giovane coppia un bel bambino. Tutte le felicità! L'operaio era diventato sempre più misantropo; fuori dell'officina, non lo si vedeva più in nessun luogo mai, fuor che all'osteria: colà beveva da solo, non permetteva che nessuno sedesse alla sua tavola, respingeva bruscamente ogni tentativo di accostarlo, e quando cominciava a sentirsi ubbriaco, balbettava parole inintelligibili e partiva barcollando, accompagnato dal suo indivisibile cane, per andarsi a nascondere, non si sapeva dove. Un giorno, Lucietta e Pietro, ai quali molto rincresceva il degradamento di questo valente giovane, ebbero la infelice ispirazione di volerlo ritornare quel di prima. Cercavano di lui, lo chiamavano sovente in casa loro; e Lucietta principalmente, colta ogni occasione per averlo a sè da sola, si pose a trattarlo con assai amorevolezza, nell'intento di fargli scorgere il torto della sua vita presente e destargli la voglia di ammendarsi. Atanasio da prima si schivò, parve anzi fuggire con più cura tutti, e la moglie specialmente del suo giovane principale; poi si lasciò cogliere alla dolcezza di quei momenti in cui si trovava solo con lei e n'era trattato con tanta amorevolezza; finì per accarezzare le più pazze illusioni, che sapeva essere illusioni, ma nelle quali cercava e trovava una morbosa soddisfazione. Pareva rinata fra Lucietta e lui la famigliarità d'un tempo, quando Atanasio, lassù alla bianca casetta, andava ad attinger acqua per lei, col secchiello ch'ella faceva le mostre di contrastargli. Le rimostranze e i consigli di Lucietta parevano aver ottenuto un felice successo. Atanasio tornava ad essere più pulito, meno misantropo, non allegro, ma meno scontroso, non mite, ma meno permaloso ed irascibile: lavorava con più ardore ancora, teneva condotta più regolata. Solamente, il vizio onde non si era guarito era quello del bere. Però se ne nascondeva accuratamente. Non si frammischiava più alla frotta dei beoni; penetrava di soppiatto nell'osteria a notte inoltrata, quando ogni altro n'era già partito, si faceva recare in una stanza un numero di bottiglie, e là, rinserratosi col suo Azor, beveva, beveva, finchè ne smarriva completamente la ragione; allora parlava, e diceva a sè stesso, al cane, alle pareti, alle bottiglie, le mille cose, che non avevano senso, che parevano il delirio d'un pazzo, cose tali che se egli avesse mai sospettato che un altr'uomo le avesse udite, lo avrebbe strozzato colle sue mani. Al mattino si riscuoteva dal pesante letargo, in cui aveva finito per cadere; si versava in capo tutta una brocca d'acqua gelata, pagava l'oste e correva all'officina dove lavorava più indefesso che mai. Ci volevano i muscoli di ferro e i nervi d'acciaio che gli aveva dato madre natura per resistere ad una tal vita. E ad Azor Atanasio voleva sempre più bene. Spesse volte quando era solo nella sua camera, lungi da ogni occhio ed orecchio umano, egli se lo prendeva fra le braccia, quel brutto aborto di cagnuolo, e lo stringeva, e lo accarezzava, e lo baciava!... dicendogli coll'accento, con cui altri parlerebbe ad un amante: — Caro il mio Azor, voglimi bene almeno tu. Io, a te, ti voglio tanto bene!... È _lei_ che ti ha dato a me; e _lei_.... sappilo, ricordatene, ma non dirlo a nessuno veh!... _lei_, io l'amo sempre, e sempre più.... e furiosamente! — VII. Gli affari della fonderia, intanto, sotto l'abile direzione del signor Pietro, prosperavano sempre meglio. Il giovane principale, che tutto curava, tutto voleva vedere egli stesso, a tutto sopraintendeva e provvedeva, era perciò obbligato a fare frequenti gite lungi del villaggio, per acquisto di carbon fossile, di minerali, di macchine, per trattare a viva voce di ordinazioni, per intraprendere forniture ed appalti: e queste assenze, più o meno lunghe, dimolto rincrescevano e recavano malinconia a Lucietta la quale il suo sposo amava sempre più, come, in realtà, il bravo Pietro meritava che fosse. Nei tristi giorni della lontananza del marito, la giovane soleva cercare conforto nelle occupazioni della maternità, intorno a quel gioiello di bimbo, ch'ella amava con vero trasporto, e nella compagnia d'Atanasio, il quale, come compagno d'infanzia di Pietro, le pareva ricordarle più efficacemente il caro lontano. E questi stesso, prima di partire, soleva dire sorridendo ad Atanasio: — Ti raccomando mia moglie veh! Falle buona compagnia. — L'operaio obbediva zelantemente; in quei giorni tutte le ore che aveva libere, le passava con Lucietta: e sapeva così bene condurre il discorso, che parlavano il più spesso dei tempi passati, prima del matrimonio di lei, delle ore che trascorrevano così leste e così liete nelle belle sere estive sull'aia della casetta di papà Taddeo; e Lucietta, che vedeva il volto sempre cupo ed arcigno dell'operaio rasserenarsi, e capiva quanto bene gli facessero siffatte chiacchierate, gentilmente e con amorevole bontà vi si prestava. La infelice non sapeva, colla sua generosa e caritatevole debolezza, quale ardore ponesse nel sangue di quell'uomo, quali folli idee nella mente, quali audaci e impossibili sogni nella fantasia! Quando Pietro ritornava, Atanasio allontanavasi di nuovo, si rifaceva più solitario e più taciturno; ma fra sè e sè continuava a pensare agli avuti colloqui, interpretava a suo modo, o per dir meglio a gusto della sua passione, parole ed atti di Lucietta, si guastava lo spirito e la ragione col martellare continuo d'un'idea fissa. La sua diventava così, per davvero, un'infermità del cervello, una monomania. Allora appunto, quando era al suo apogeo questa morale esaltazione del disgraziato, Pietro ebbe a partirsi di là per quattro o cinque giorni, affine di procacciarsi certo nuovo combustibile di cui voleva fare esperimento in una nuova maniera di forni. Ferveva più che mai il lavoro; per la fine della settimana dovevasi dare compìta una certa fusione importantissima e di grandi proporzioni, per cui da tanto tempo s'era in moto ad aggiustare le forme, preparare il materiale, acconciare gli alti forni. Prima di partire, il principale ebbe a sè Atanasio, e gli disse: “Mi tocca abbandonare la fonderia proprio in un momento de' più importanti e in cui si richiederebbe imperiosamente la mia presenza; ma urge pure all'estremo andare per quel tal affare nel quale non posso farmi sostituire da nessuno. Invece qui alla fonderia lascio te, che sai, e sei capace, e di cui mi fido interamente; adunque su te, mio caro Atanasio, tutto il carico fino a sabato. Io arriverò immancabilmente venerdì sera; voglio trovar tutto pronto, perchè sabato mattina di buon'ora si possa cominciare il gitto; bada bene di preparare ogni cosa, e non voglio sentir poi pretesti nè scuse. Hai capito?” “Sì signore.” “Dunque ci conto sopra. Ricordati bene! A venerdì sera.” Il signor Frangia partì. Atanasio non ebbe in realtà altro pensiero fuori questo: — Lucietta è sola! — La giovane donna, per maggior fatalità, mai non era stata così benigna ed amorevole all'operaio, nel quale non vedeva che il compagno d'infanzia, l'amico devoto, la persona di maggior fiducia di suo marito. L'esaltazione di Atanasio era al colmo. Pensava rapire Lucietta e fuggire; gettarsele ai piedi, confessare il suo amore, domandarle il contraccambio e poi uccidersi; passare un giorno, un'ora di felicità con lei, e poi morire tutti e due. Contava i giorni. Ancora settant'ore, e poi il marito sarebbe ritornato; — e quella volta, prima che egli venisse, doveva compiersi qualche gran fatto; — lo aveva giurato a sè stesso, se lo veniva ripetendo le mille volte lungo la giornata; si diceva per incitarsi, per irritarsi vieppiù, che egli sarebbe stato un vile se al ritorno di Pietro le cose fossero rimaste come prima, ed egli avesse continuato a sopportare in silenzio lo spasimo della sua passione. E mentre siffatta battaglia gli ruggiva nell'animo, egli rimaneva calmo, taciturno, e freddamente tutto disponeva come se fosse il più tranquillo uomo del mondo, perchè puntualmente fossero obbediti gli ordini del principale. Non c'erano più che due giorni all'arrivo di quest'ultimo. — Domani, — disse a sè stesso Atanasio, la sera, partendosi da Lucietta e corrispondendo con uno strano sguardo al gentile saluto ch'ella gli fece, mentre la si ritirava nelle sue stanze col suo bambinello in braccio: — domani tutto sarà finito. — Girò per la campagna fino ad ora tarda con Azor dietro. Dopo mezzanotte arrivò all'osteria e si diede a picchiare furiosamente. Apertogli, entrò con passo concitato e comandò, secondo il solito, gli si recasse nell'usata stanzetta una mezza dozzina di bottiglie, tabacco, lume, e lo si lasciasse solo. Si chiuse dentro egli col suo cane. Nella sua testa, quella notte dovette avvenire una tempesta più terribile di quella che ci racconta Vittor Hugo aver tormentato il cervello di Jean Valjean nel più bello dei capitoli dei _Miserabili_. Al mattino uscì come le altre volte, ma si portò seco una bottiglia intiera di _cognac_. Lavorò tutto il giorno, come se nulla fosse; Pietro doveva arrivare alla sera ed avrebbe trovato tutto disposto secondo i suoi ordini. Il metallo era in fusione nei forni e cominciava a gittar zampilli di fuoco da qualche commessura, come se impaziente di prorompere e precipitarsi nelle bocche appostate entro le escavazioni inferiori. Un calore d'inferno emanava da quel focolare incandescente, in cui il ferro era liquido come l'acqua. Atanasio esaminò tutto per bene, diede le ultime disposizioni; poi, venuto il momento di cessare i lavori, dato un fischio ad Azor che si teneva prudentemente lontano da quell'inferno, si diresse a passi lenti verso casa sua. Erano le sei; il treno di ferrovia per cui doveva giungere il padrone non arrivava che alle dieci, tutti gli operai erano chiamati per quell'ora, affine di riceverne gli ordini. Atanasio aveva quattro ore innanzi a sè. Si recò a casa sua, e si vestì cogli abiti da festa. Canterellava fra sè co' denti stretti; ma doveva avere sulle sembianze la traccia dell'interno turbamento, perchè Azor sedutosi in un angolo della stanza lo guardava fiso in modo inquieto, con que' suoi occhi pieni d'intelligenza seguitandolo in ogni movimento. Tratto tratto Atanasio si fermava, pensava, rifletteva come uomo che fa per ricordarsi qualche cosa, e poi, dato di piglio alla bottiglia del _cognac_ ne tracannava giù due o tre sorsi abbondanti. Quando fu vestito come gli pareva meglio, diede un'ultima sorsata e maggiore delle altre al liquore, si mise la bottiglia in tasca e fece per uscire. Azor, solito ad accompagnarlo sempre, si alzò sollecito e corse alla porta per seguirlo. — No, carino! — gli gridò l'operaio con istrano accento: — quest'oggi non si può: devi rimanere. — Il cane non volle subito tirarsi indietro: il padrone impaziente gli diede un calcio che lo mandò a guaire sotto il letto; Atanasio era già fuor dell'uscio, quando si pentì del suo brutto tiro e tornò indietro. — Azor! — chiamò con voce amorevole; e il cane venne strascinandosi colla pancia a terra, tutto umile, al suo cenno. Atanasio lo prese fra le braccia e lo baciò. — Chi sa se ti rivedrò ancora! — disse. — Sta' costì mio buon Azor, e Dio te la mandi buona. — Lo pose sul letto e poi uscì correndo. Trovò Lucietta, a cui disse voler parlare da solo a solo: aveva gli occhi stralunati, le mani e le labbra che tremavano; si vedeva chiaramente che l'infelice era fuori di sè. “O mio Dio! che cosa è avvenuto!” domandò ansiosamente la moglie di Pietro, spaventata a quella vista. “Qualche grande disgrazia?” Atanasio, come aveva sognato tante volte di fare, le si buttò in ginocchio ai piedi. Che cosa disse, non seppe mai egli stesso. Parlò come in delirio; e Lucietta, credutolo proprio assalito dalla follia, ebbe paura. Aveva essa fra le braccia il suo piccino e lo strinse al seno più forte e fece per fuggire. Il dissennato le impedì il passo. “No, no,” esclamò egli, “ora il dado è tratto. Voi non mi potete lasciar più che dandomi la vita o la morte.... Voglio che sia così.... O mia, o di nessuno mai più!” “Guardate quello che fate!” disse Lucietta. “Calmatevi; pensate al vostro amico, al vostro benefattore, a Pietro...” “Ah! non parlatemi di lui:” esclamò Atanasio digrignando i denti. In quella s'udì una voce chiamare dal cortile con allegra premura: “Lucietta! Lucietta!” Era Pietro, il quale, impaziente di rivedere la sua famiglia, arrivava col treno di due ore prima, per fare una sorpresa a sua moglie. Atanasio si gettò indietro quasi spaventato; quell'omaccione forte e robusto come un Sansone, si pose a tremare come un fanciullo. Che cosa avrebb'egli detto a Pietro? che cosa fatto ora in presenza di lui? Pensò un momento scannare Lucietta, poi gettarsi sul marito che accorreva, e sul cadavere di lui uccidere sè stesso. Ebbe paura egli medesimo de' feroci impulsi della sua anima. Corse alla finestra e la spalancò, non si era che al piano terreno e all'altezza del terrazzo; si slanciò nella strada e corse via, per l'oscurità della notte già piena, come un forsennato. Che cosa gli restava da fare? Agitò seco stesso la questione lungo tempo, senza decidersi a nulla. Quando suonarono le dieci, egli, come tratto da una forza fatale, si trovò al suo posto nella fonderia a capo degli altri operai. — Lucietta gli avrà detto tutto, — pensava: — fra Pietro e me che cosa sta per succedere? — VIII. Il principale era stanco del viaggio, preoccupato dal pensiero dell'esito della grossa, importantissima fondita che stava per essere gittata; oltre ciò, venuto colla speranza di vedere la moglie felicemente sorpresa e tutta lieta del suo anticipato arrivo, la trovò invece turbata di sì strana maniera, senza ch'ella ne volesse dire la cagione, che al suo primitivo buon umore era successa una stizza latente, la quale non cercava se non un'occasione per venir fuori e sfogarsi. Fu aspro con tutti, trovò che il combustibile non era stato abbastanza sollecitamente scaricato e riposto, gli parve che il fuoco nelle fornaci languisse; ebbe un rimprovero per ognuno, e, più che cogli altri, fu acerbo e severo con Atanasio. — Sa tutto! — diceva fra sè quest'ultimo. — Or ora scoppierà la bomba: — ed accarezzava nella tasca il manico d'un coltello. — Meglio! Sono stanco di soffrire. La finirà una volta per tutte. Pietro alzò la voce con accento imperioso. “Avete udito tutti?” Disse dopo di avere ricapitolato le sue istruzioni. “Domani alle sei al posto.... e guai chi manca!” A quell'ora si sarebbero aperti i forni. “A vegliare stanotte,” soggiunse, “rimarranno....” parve esitare un momento, e poi terminò la frase: “Atanasio e Girolamo.” Erano il primo e l'ultimo degli operai. Atanasio saltò fuori dalle file. “Non ha nulla da dirmi signor Pietro?” gridò egli con voce alta e sonora. C'era tanta sfida nell'accento di quelle parole che Pietro si volse con aria di profondo risentimento. “Vi parlerò domattina:” rispose asciutto ed imperioso. “Ora fate quello che vi dico.” Se n'andò il principale, partirono gli operai, rimasero soli nelle officine Atanasio e quell'altro che doveva essergli compagno. Il primo di questi due scoppiò in una risata, proprio da pazzo. — Ah, ah il vile! — esclamò, parlando a sè stesso. — Vuole prorogare fino a domani la tragedia.... Vuole avere ancora questa notte per sè..... Questa notte?... Giuro al cielo e all'inferno!... — I forni incandescenti mandavano un calore veramente infernale, e quell'altro, facendolo notare ad Atanasio, propose di allontanarsi un poco. “Eh via! tu senti caldo!” rispose il forsennato. “Minchione! to'! bevi: questo ti rinfrescherà.” E porse al compagno la bottiglia del _cognac_, che l'altro non si fece pregare di molto per mettere alla bocca. “Bisogna anzi aggiungere ancora del carbone:” gridava Antonio. “Animo! Mano alla pala, e giù combustibile.” E congiungendo l'atto alle parole, cacciò a palate monti di carbone sul fuoco. Due ore dopo batteva la mezzanotte al campanile del villaggio: tutto era silenzio come in un cimitero, non si udiva che il crepitare del fuoco e il ribollire del metallo in fusione. Girolamo, finita la bottiglia del _cognac_, si era addormentato in un cantuccio sopra uno stramazzo. Atanasio, accoccolato in faccia allo spiraglio ardente della fornace, le mani sulle ginocchia e la faccia nelle mani, pensava. — Aspettare fino a domattina!... Perchè?... E poi che avverrà egli?... Mi scaccerà.... Forse mi vorrà umiliare in presenza di tutti.... Oh no per Dio!... Non lo vo' tollerare.... È meglio finirla... Finirla subito, e tutti! Sì, tutti! Lasciarli dietro di me a godersi il loro amore? No: per la maledizione di Dio!... Un poco d'acqua in quel metallo in fusione, e si salta tutti in aria, la fonderia, la casa, tutti!... Oh sì, che bello spettacolo! — Rise e si alzò con impeto, per mettere in esecuzione quell'orribile progetto. Ma nel migliore ebbe paura. Aveva già in mano una secchia per gettarla e si trattenne. Come se avesse avuto sentore del pericolo, Girolamo in quella si svegliò. “Che fai tu costì?” gli disse. “Nulla,” rispose Atanasio: “Ho una sete che mi strugge le fauci, e pensavo di andare per un po' d'acqua fresca.... Appunto, fammi il piacere, vacci tu.” Girolamo si scosse come un can bagnato, prese la secchia ed uscì. Atanasio, senza aver bene coscienza di sè stesso, saltò contro uno de' forni, il più grande, e con una gran mazza di ferro percosse nell'usciolo che ne otturava l'uscita. Un zampillo di fuoco sprizzò fuori lanciando scintille da tutte le parti. L'operaio ebbe appena il tempo di gettarsi in là, le bocche delle forme non erano ancora aperte e il rivolo di fuoco, come la lava d'un vulcano, precipitava rapido e stendevasi al suolo empiendo tutto di fumo, crepitando, fremendo, rombando. Atanasio spaventato volle gettarsi a tentar di tappare di nuovo quella uscita. Era impresa oramai sovrumana, impossibile: il fiotto impetuoso del liquido incandescente s'era aperto un largo passaggio e non era più un zampillo, ma un vero fiume ribollente, impetuoso, che si riversava per terra. Atanasio, assalito da alto terrore, gettò un grido spaventoso d'allarme e fuggì smarrito. Incontrò sulla soglia Girolamo che veniva correndo, spaventato ancor egli da quel grido, che aveva udito risuonare per la notte. “Che cos'è?” “Scappa, scappa.... Il metallo ha rotto la fornace e si riversa tutto....” Le imposte delle porte e delle finestre della fonderia, i correnti e i travi del tetto, tutto ciò che si aveva di legno là dentro, le pareti stesse divampavano, fiammavano, e il tremendo fiotto di fuoco già si precipitava di fuori nel cortile. Delle due ale del fabbricato, quella a sinistra conteneva i magazzini del combustibile, e lì presso subito, immediatamente confinante il quartiere abitato da Pietro, da sua moglie, dal bambino. La bollente lava di metallo fuso, come se fosse guidata dall'odio di chi le aveva dato l'aíre, si diresse a volute sempre più crescenti verso quella parte. Girolamo si cacciò a fuggire, urlando come un dannato; Atanasio corse qual dovette correre Caino, dopo il primo assassinio commesso nel mondo. Si fermò dopo dieci minuti sopra un'altura. Quale orrendo spettacolo! La fonderia era tutta una fiamma, il magazzino di combustibili ardeva come un mucchio di fascine, le fiamme lambivano colla loro lingua di fuoco la casa dove abitavano i Frangia, e del quartiere dove stavano Pietro, Lucietta e il bambino, già ardevano le persiane e i telai delle invetriate. In mezzo a tutto quel chiarore, si vedevano come macchie scure correre affaccendati alcuni uomini; dal villaggio venivano pur correndo gli abitanti, svegliati dalle grida di Girolamo prima, degli altri operai poscia, e affrettati per ultimo dai rintocchi della campana suonata a martello; fino al luogo dove s'era fermato Atanasio, si udiva arrivare un rumore confuso che era il suono assembrato di grida, di esclamazioni, di preghiere, di bestemmie, di pianti di tanti uomini e di tante donne disperati, spaventati. Atanasio stette un mezzo minuto a contemplare quello spettacolo, i denti stretti, le braccia serrate al petto, un mezzo minuto che gli parve un'ora; parevagli sentir nel volto il calore di quelle fiamme a cuocergli le carni. A un tratto sentì un fruscio fra le piante, e un essere animato giunse correndo presso di lui e gli saltò alle gambe guaendo, mugolando, vociando in ogni suo modo. Era Azor fuggito di casa, chi sa come, cui l'istinto aveva condotto sin là tra le gambe del suo padrone. Questi si chinò verso la povera bestia ad accarezzarla. Il cane lo addentava pei panni e pareva volerlo tirare. — Dove mi vuoi tu condurre? — diceva lo sciagurato, resistendo. — Laggiù? là in quell'inferno? Che cosa vuoi ch'io vada a fare?... Là si compie ora la mia vendetta.... All'uno tutto, e all'altro nulla! Ricchezze, agi, gioie, famiglia, e l'amore di lei! Tutto per lui!... Ed io niente!... D'ora in poi non avrà più nulla neanch'egli, nè sostanze, nè moglie, nè bambino.... — L'idea del bambino lo scosse. — Ah! quell'innocente!... E lei!.... lei!... Morire così crudelmente!... — Azor, come se vedesse che la pietà stava per entrare nell'animo del padrone, raddoppiava il suo mugolìo. — E lei che ti ha dato a me.... La vuoi salva?... Hai più cuore di questo miserabile. — Prese la corsa verso l'incendio, e il cane dietro di galoppo. Quando giunse, il fuoco già consumava il tetto dell'ala abitata da Lucietta; dalla finestra proprio della stanza di lei cominciavano ad uscir fumo e faville. Atanasio vide la donna con in braccio il suo bambino, che urlava con voce da straziare l'animo di qualunque. Pietro, svegliato in sussulto alle grida di Girolamo, non aveva avuto tempo che di dire alla moglie: — Salvati col bambino, — ed era corso dove allora più premeva il pericolo. La donna, resa incapace di muoversi dallo spavento, si era lasciata sopraggiungere dall'incendio. Un uomo accorreva con una lunga scala: dietro di lui, ansante, Pietro che in mezzo all'infernale tumulto, aveva pure udito il grido della madre di suo figlio. La scala fu appoggiata al muro; in quella un vortice di fiamme avvolse la misera donna col bambino alla finestra. S'udirono come un grido d'agonia suprema le parole: — Mio figlio! — e la madre e il piccino sparirono come inabissati. Pietro, forsennato, fece per islanciarsi sulla scala: una mano di ferro lo fermò. — Indietro! — gli gridò una voce che egli non riconobbe. — Tocca a me. — E Atanasio, lesto come uno scoiattolo, si arrampicò su pei piuoli, e in un attimo fu alla finestra e si precipitò dentro. Azor, postato innanzi a quella finestra, accompagnava il suo padrone cogli abbaiamenti, come se lo volesse incoraggiare. Atanasio, avvolto nel fumo che turbinava, non vide nulla, ma inciampò in un corpo disteso per terra; si chinò, sentì che la era una donna, l'afferrò e stringendola fra le braccia, scavallò di nuovo il parapetto e incominciò a discendere con essa. Lucietta era caduta in uno svenimento cagionatole dal terrore, ma le fiamme non l'avevano ancora toccata. Però l'incendio pareva che non volesse lasciarsi rapire la sua preda. Atanasio, con precauzione, cercava col piede il piuolo su cui posare, quando un'ondata di fuoco si scatenò addosso a lui, lo avviluppò, ne pose in fiamme la capigliatura e lo svolazzo della tunica sulla schiena. Egli col suo fardello fra le braccia vacillò: un alto grido d'orrore eruppe dai petti di tutti gli astanti, che tremavano e palpitavano. Pure il robusto uomo non fu vinto, con una mano aveva già afferrato il capo della scala, vi si mantenne e fra mezzo alle fiamme continuò a scendere. Giunse in terra; tutti gli furono attorno ed aiutarlo, a sorreggerlo che barcollava come ebbro. Pietro gli tolse dalle braccia Lucietta sempre svenuta. Ma subito un'idea orribile gli venne. — E mio figlio?! — La madre, a queste parole del marito, gridate con accento di disperazione, risensò. — Mio figlio! mio figlio! — ripetè. — Oh! salvatemelo, per amor di Dio! — La infelice, nello svenire, l'aveva lasciato cadere.... Vide in quella Atanasio che si premeva la fronte e le occhiaie dove sentiva un orribile dolore. “Voi, voi qui, Atanasio!” disse, puntando il dito contro di lui. “Voi dovete salvarlo.” Atanasio fremette a quell'accento, a quelle parole; tese le braccia innanzi a sè, brancolando come per cercar la scala, volle camminare ed inciampò; mandò un urlo da bestia selvaggia. “Sono cieco!” gridò stramazzando al suolo come corpo morto. Fu portato all'ospedale, insieme coi parecchi feriti di quel disastroso incendio. Le gravi scottature che aveva riportato posero in pericolo la sua vita, ma pur guarì tuttavia; i suoi occhi però furono irremissibilmente perduti. Durante la lunga malattia, egli non chiese mai novella nè di Lucietta, nè di Pietro, nè della fonderia. Guarito, seppe che questa e la casa erano rimaste un cumulo di rovine; che Pietro, per cercare di alleviare il dolore della moglie che aveva minacciato divenirne pazza, l'aveva condotta a fare un lungo viaggio lontano, lontano; che prima di partire il padrone aveva lasciata una buona somma per lui. Atanasio volle che questa somma fosse data ai poveri del villaggio; e senza un soldo, uscito dallo spedale, prese la prima strada che gli si parò dinanzi, per andare tanto lontano, che di lui in quel paese non si sapesse mai più novella. Fatto poco cammino, udì un guaiolare festoso e le piote d'un cane si appoggiarono alle sue coscie: era Azor. Come aveva egli vissuto sino allora? chi può saperlo? — Sei qui tu? — esclamò Atanasio commosso. — Il solo amico, il solo bene che mi resti.... Vuoi seguirmi nell'esilio? Vuoi essere la guida del povero cieco?... Vieni. — Come capitasse nel villaggio in cui l'ho conosciuto, questo sciagurato non sapeva dire. Quando il cieco morì, fu sotterrato in un cantuccio del cimitero, senza una croce, senza un segno qualunque di memoria dei sopravvivi, ma il domani Azor vecchissimo, fu trovato morto sulle zolle smosse, sotto cui avevano riposto la salma del suo padrone. UN GENIO SCONOSCIUTO RACCONTO. I. Era un genio davvero. Dio glie ne aveva data la scintilla immortale. Egli la volle nascondere, e fece che traversasse ignorata la vita terrena. Non vi dirò il luogo in cui il mio eroe, circondato d'oscurità, mise per anni ed anni tutto il suo impegno a tener segregata dal mondo la luce della sua intelligenza. Gli ho promesso di tacerlo, e coll'ultima stretta di mano che abbiamo scambiata, ho dato ragione alla sua misantropica e valorosa rinuncia. Il suo nome, ch'egli decretò e volle seppellito nel più profondo oblìo, non comparirà su queste carte. A me stesso egli lo tacque, e se anche ho potuto indovinarlo, non contristerò, svelandolo, la memoria di quell'anima infelice. In uno degli ultimi nostri colloqui, egli mi diceva, con un cotal suo sorriso, tra bonario ed amaro, che gli era abituale: — Se invece di questo cimitero di campagna, in cui un'erba pietosa e non curante agguaglia tutte le fosse e circonda tutte le croci, il mio cadavere avesse da essere seppellito in un camposanto cittadino, dove si fa pompa di lapidi e di iscrizioni, vorrei che sulla mia tomba modesta si scrivesse superbamente: «QUI GIACE UN ANONIMO.» — Codesto suo detto, fate conto che sia l'epigrafe della mia narrazione. II. Dunque gli è in un villaggio, — in una remota regione — che l'ho incontrato. Un mio nobile amico ha colà una gran tenuta intorno ad un'antica e vasta casona, che in paese chiamasi _il castello_, dove si conservano da tempi lontani, tradizioni rispettatissime d'una gentilezza ospitale senza eccezione. Il paese è vicino alle montagne; un contrafforte delle Alpi allunga nella pianura le sue radici, a variare di collinette e di valloncini l'amenità dell'imboschito terreno; intorno all'antico palazzo si stende un giardino abbastanza vasto per potersi insuperbire del titolo di parco. Una vegetazione ricca, fresca e feconda veste le chine dei colli con albereti leggiadri alla vista, e porge, anche contro l'insolente saettare del sole di mezzogiorno, gradevoli ripari d'ombra, rallegrati dal venticello della montagna. Al piede di quella collina, su cui il castello innalza le sue muraglie annerite, il villaggio — povero assembramento di casipole, che somigliano a capanne — si sdraia, direi quasi timidamente, e par che cerchi nascondere i suoi tetti, la maggior parte di paglia, alcuni di lastre di pietra, sotto le fronzute chiome di castagni e di noci, che crescono e s'innalzano a mirabili proporzioni da ogni orto, da ogni praticello. È un cantuccio riposto, dove non penetrano le passioni e le gare degli uomini raccolti nelle agglomerazioni cittadine e spronati al male dall'interesse. Là non c'è strada di passaggio, non c'è commercio, non c'è industria, non ci sono caffè, non ci sono giornali. Un ramo assecchito di quercia indica una misera osteriuccia, composta di una sola stanzona a piano terreno, la quale vede la sua lunga tavola zoppa e le sue panche disoccupate tutta la settimana, per aspettare qualche avventore le domeniche. Quando tutto sossopra è il mondo, appena se colà ne arriva debolmente un'eco incerta e paurosa. In mezzo a questo sfoggio di vegetazione, spicca ancora per più fronzuta ricchezza il bosco del parco, in cui, sul culmine della collina, si drizza al cielo una fila di pini giganteschi, che hanno dovuto vedere molte generazioni d'uomini nascere e morire, e che coprono il terreno d'una oscura ombra solenne. Il nobile padrone del castello verso gli abitanti del villaggio è cortese, generoso, caritatevole. Li ama e n'è riamato pei beneficii ricevuti, per la speranza di nuovi ch'egli è sempre pronto a rendere, per una specie d'orgoglio che sì distinta persona appartenga al paese e vi dimori la maggior parte dell'anno. I cancelli del parco sono sempre aperti e dì e notte, tanto che, irrugginiti nei cardini, male si acconcerebbero oramai ad essere chiusi. I paesani vanno e vengono, con una libertà che non esclude il rispetto al padrone: e quando questi passeggia, ne trova sempre alcuni giù pei suoi viali, e ne viene salutato con ossequiosa famigliarità, a cui egli risponde lietamente accennando col capo e chiamando ciascuno col suo nome o nomignolo. Sotto le ombre di quell'antichissimo parco si dànno appuntamento giovani coppie innamorate, per discorrere del loro futuro matrimonio; colà accorrono vecchierelle e ragazzi a raccogliere i rami secchi, con un fastello dei quali scendono al loro tugurio a cuocere la cena della famiglia. Alcune volte qualche tristarello sbaglia, e invece della legna secca ci viene tagliando bellamente dei rami in piena vitalità e arboscelli di buona cresciuta, il che, quando gli accade di accorgersene, sdegna non poco il proprietario. — Ci porrò rimedio: — dic'egli allora in tono risoluto. — Il primo che io colga in sull'atto!... — Ma il suo _quos ego_ innocente non ha ancora recato il menomo male a nessuno. III. Tutti i giorni, nel gran viale dei pini veniva a passeggiare, verso le cinque del pomeriggio, un omiciattolo vestito di scuro, accompagnato da un cane brutto e vecchio, di quelli che da noi si chiamano _volpini_. L'uomo faceva due o tre giri, tutt'al più, per quel viale, le mani dietro le reni, la persona curva, la testa bassa e l'occhio fisso continuamente sul cagnuolo, che correva un poco e tratto tratto veniva, la lingua penzoloni, a fregarsi alle gambe del padrone. Quell'omaccino soleva parlare al suo cane, come avrebbe parlato ad un suo simile. Quando il mio nobile ospite ed amico mi additò per la prima volta quest'originale, egli stava seduto per terra, e il cane, sdraiatoglisi accanto, teneva il muso sulle coscie di lui. “Buona sera, Ambrogio:” gli disse il castellano. “Come va?” L'uomo si levò il cappello con tutto il rispetto, ma non mosse la persona, per non disturbare il cane nel suo riposo. “Grazie, signore, non va male.... _Pomino_ ha corso più del solito, è qui stanco che non ne può più.” Di primo colpo la figura di quell'uomo aveva attirato la mia attenzione. Era egli di una bruttezza fenomenale; però non aveva nulla di ributtante. Sopra un corpo debole, esile, quasi direi rimpiccinito, si reggeva, come a stento, una testa grossa a capelli arruffati, in cui la parte superiore, e massime la fronte notevole per forti protuberanze, aveva un eccessivo sviluppo. Il volto era scarno e le guancie incavate, larga la bocca e pallide le labbra; giù in fondo alle occhiaie tralucevano occhi di color chiaro fra il grigio e il cilestre, i quali sembravano amassero nascondere la loro lucentezza sotto foltissime sopracciglia che scendevano dall'arco dell'occhiaia e dietro lunghi cigli che ne ornavano le palpebre. La carnagione aveva di color terreo; lasciava crescere a capriccio una barba rada, di colore sbiadito, oramai più che a mezzo incanutita; sulle sue labbra errava abitualmente un sorriso tra mite ed ironico, che alle volte si sarebbe potuto dir scemo, alle volte amarissimo. Nel parlare, negli atti, nel sogguardare aveva alcun che di svagato, di distratto, di noncurante, come se altrove, sempre, fosse il suo pensiero. Vestiva alla peggio panni di colore scuro, logori, che gli si serravano spiegazzati intorno alle gracili e macilenti membra. Mentre gli stemmo innanzi, egli fissò un istante gli occhi in volto al mio ospite e poi li chinò tosto sopra il suo diletto cane. A me non fece la benchè minima attenzione. “Ambrogio,” disse il padrone del castello, “voi m'avete del tutto dimenticato. E perchè non venite più a vedermi? Una bottiglia di quel vino che vi piace è sempre lì ad aspettarvi.” Quell'uomo fece il suo sorriso da scemo. “Grazie,” rispose, “grazie tante!” E si pose ad accarezzare il cane colla destra. “Ricordatevene,” soggiunse il proprietario, “e a rivederci.” “A rivederci:“ ripetè come un'eco l'omiciattolo, mentre il mio amico mi dava la spinta per avviarci ambedue. “Chi è quell'originale?” domandai appena fummo un po' lontani. “È il maestro di scuola del villaggio:” mi rispose. “Un essere misterioso, la cui vita è forse un romanzo.” “Oh! oh! un romanzo!” esclamai: “_rara avis_, di cui andiamo a caccia noi scribacchiatori, senza poterla trovare il più spesso.... E voi, naturalmente, lo sapete codesto suo romanzo?” “Poco.... Ne so forse l'epilogo, che venne a concludersi qui. Costui è il solo forestiero, a memoria d'uomo, che sia venuto a stabilirsi in questo remoto paesello, e il solo degli abitanti de' cui fatti non si sappia nulla. La sua esistenza, dacchè vive con noi, non ha vicende; e il suo passato prima che qui venisse è un mistero, intorno a che non ha mai voluto dare la menoma spiegazione e su cui non ama che lo s'interroghi. “È molto tempo ch'egli è qui?” “Ormai trent'anni. Me ne ricordo come se fosse ieri quando è arrivato. Ero giovanissimo e viveva il mio buon padre, allora....” Stette alquanto sopra sè, e poi soggiunse: “Oh sentite; io racconterò tutto quello che ne so; voi aggiungendovi le frangie, come siete soliti di fare voi altri romanzieri, e inventando quanto basti per riempire le lacune, potrete forse fare di costui il protagonista d'un racconto.” “Da bravo, narratemi quel che sapete.” E il mio amico così cominciò a favellare. IV. «Era d'autunno già innoltrato. Le castagne raccolte; le foglie quasi tutte in terra, e le poche rimaste affatto ingiallite. Io, a quel tempo non avevo ancora venti anni, e già m'ero fatto un intrepido cacciatore e un camminatore instancabile. »Un giorno, che, come spesso mi accadeva, m'ero trattenuto su per la montagna in traccia di non so più qual selvaggina, lontano da casa mi sorprese una di quelle pioggie autunnali quiete e finissime che in poco tempo infradiciano un pover'uomo sino alle ossa, e che, una volta incominciate, non smettono più per dei giorni. Non c'era riparo da cercare là dove mi trovavo, e poi prima di notte conveniva bene essere a casa, e potevo star certo che prima d'allora non avrebbe spiovuto. Dunque non c'era altro che pigliare allegramente il mio partito e trottare di buon passo. Voltai lo schioppo all'ingiù, e animato colla voce il cane, m'avviai di corsa, per una scorciatoia, giù della scesa. »In sul culmine precisamente di quell'altura là dove passa un sentiero poco praticato, incontrai un uomo, che, riparandosi dalla pioggia sotto i rami ormai sfrondati d'un castagno, appoggiatosi al tronco, stava mirando nella sottoposta pianura. »Era codesto Ambrogio, che sino allora niuno aveva visto mai nel paese nè in questi dintorni. Io non so qual'età egli abbia al presente, e non avrei saputo nemmeno allora quale attribuirgliene. Poco su poco giù, era tale quale l'avete visto adesso, se non che, invece di avere i capelli, lunghi, arruffati, come li ha ora, li aveva rasi, e non lasciava crescer barba. Vestiva di scuro, precisamente come ora, e quasi quasi direi che codesti che porta sono ancora i panni che aveva in dosso a quel tempo. Aveva un piccolo fardelletto sotto il braccio e un bastone in mano. »La singolarità di costui che alla pioggia battente e mentre la notte veniva se ne stava tranquillo a contemplare un paese a cui egli era sicuramente estraneo, lontano ancora da ogni abitazione, mi fece rallentare il passo per osservarlo. Egli era così preso nella sua contemplazione e ne' suoi pensieri, che non badò punto a me. La scena ch'egli mirava, a me non pareva degna di tanta attenzione. La pianura era invasa presso che tutta dalla nebbia, la quale si avanzava come strisciando verso la montagna, mentre sulla sommità di questa discendevano dal cielo scure, unite, pregne di pioggia le nubi: parevano due eserciti che si movessero incontro per venire a battaglia; e in mezzo a loro non rimaneva sgombra che una lista di terreno, in cui, addossate al colle, biancheggiavano le casupole del villaggio. »Io non gli avrei badato dell'altro, chè la pioggia crescente mi consigliava a non indugiarmi, e nell'aspetto di quell'uomo mi pareva di scorgere qualche cosa di strano, che, se non era di birbo, era di matto; ma il mio cane corse verso di lui, e gli si piantò dinanzi abbaiando. Egli si riscosse, volse uno sguardo, che mi parve tranquillo e mesto, verso la bestia, e abbassò una mano alla sua coscia, a fare un atto di richiamo. Il mio _Fox_ fu tosto rappaciato; scodinzolando gli si accostò tutto festevole, e alla prima carezza che lo sconosciuto gli fece passandogli una mano sulla testa, alzò le zampe anteriori al petto di lui, quasi a dargliene un abbraccio di amicizia. »Io che all'istinto dei cani credo più che alla ragione degli uomini, mi dissi subito che quello non doveva essere un birbante. »Abbasso _Fox_: qui _Fox!_ gridai. »Il cane m'obbedì, e il forestiero si volse verso di me.» “Oh non tema!” mi disse con voce rauca e melanconica, che mi fece una strana impressione. “Colle bestie, e specialmente coi cani, io sono nelle più amichevoli relazioni; non ho mai fatto male a nessuno di loro, e nessuno di loro — no nessuno! — non ha mai fatto male a me.” «E accompagnò queste parole con un sorriso di tanta amarezza, che gli accrebbe nel volto l'aspetto di alienazione che gli avevo già notata. Parlava italiano, ma con un accento di altre provincie che non sono le nostre subalpine.» “Questa buona bestia è sua?” riprese poscia, schivando col suo il mio sguardo, come se temesse di mirarmi in faccia. “Sì:” gli risposi. “Il proverbio dice che il cane è l'amico dell'uomo. Creda al proverbio. È il solo amico.” “Siete un misantropo?” Io gli domandai stupito del modo con cui mi parlava. «Mi rispose, di nuovo con quello stranissimo sogghigno: “Sono un _cinofilo_....[1] Ma mi permetta una domanda.” [1] Amatore de' cani. “Dite pure.” “Ella è pratico di questo paese?” “Ci sono nato, e la maggior parte della mia vita la ho passata qui.” “Che villaggio è quello laggiù?” »Gli dissi il nome del paesello. Egli lo ripetè due o tre volte, poi soggiunse come parlando a sè stesso: — Un nome ignoto affatto; ignorato da tutti i Dizionari geografici.... Chi sa mai, fuori di qui, che questo villaggio esista?.... — »Si rivolse di nuovo a me: “Quanti abitanti ha?” “Ottocento.” “Saranno poveri?” “Si aiutano gli uni gli altri come fratelli.” “Possibile? Lei mi stupisce. Voglio vederlo. Potrò trovarvi albergo? pagando s'intende:” soggiunse affrettatamente con una certa permalosità. “C'è un'osteria:” risposi: “e vi troverete certo un letto, non da sibarita, ma pulito, e un boccon di cena non luculliana, ma ammannita di buon cuore.” “Sono avvezzo a dormire sulla dura terra, e poco basta a sfamarmi.... Che strada ho da prendere per giungere più presto al villaggio?” »Glie l'additai; e salutatolo, impaziente di fuggire dalla pioggia che cadeva sempre più fitta, ripresi la mia corsa giù per la scorciatoia. Ma dopo pochi passi m'accorsi che il cane non m'aveva seguitato: fischiai, e _Fox_ venne sino ad un ciglio della costa da cui poteva vedermi, abbaiò vivamente, e tornò indietro verso lo sconosciuto. »Ciò mi fece arrossire di me medesimo. Pensai subito che cosa avrebbe detto mio padre, quando avesse saputo che, imbattutomi in un povero forestiero, senza asilo e alla pioggia, non gli avessi offerta l'ospitalità; e senza metter più tempo in mezzo, rifeci correndo il cammino, e tornai a quell'uomo. »Lo ritrovai in quel medesimo luogo, e nel medesimo atteggiamento; se non che parlava amichevolmente al mio cane, che gli stava seduto dinanzi guardandolo fiso. Arrivando, udii le seguenti parole: — Va' col tuo padrone, buona e brava bestia. Tu non sei mio. E nemmeno l'affetto d'un cane non bisogna rubare altrui.... No, non bisogna! — “Sentite, buon uomo, ho pensato che all'osteriuccia del nostro villaggio stareste davvero troppo male.” “Le ho detto che non m'importa:” rispose egli con una certa qual fierezza. “E chi sa se avranno pure un letto libero?” “Dormirò benissimo sulla paglia.” “È ancor lontano il villaggio e con quest'acqua che viene ci arriverete tutto ammollato. Ho un ricovero più vicino da offrirvi.” »Mi scoccò un'occhiata con un misto di sospetto, d'incredulità e di meraviglia.» “Dove?” domandò. “Là.” E gli additai il castello. “È la casa di mio padre.” “Grazie!” disse egli irrisoluto. “Su via:” io insistetti: “non istiamo più qui a infradiciarci. Mio padre vi accoglierà con piacere.” “Ebbene sia:” diss'egli dopo un altro po' d'esitazione; ma quando fummo avviati, a un tratto tornò a fermarsi, come per un dubbio sopravvenutogli. “Suo padre,” mi chiese, “vive tutto l'anno in questa terra?” “Quasi. Non è che l'inverno che abitiamo in città.” “Quale?” “Torino.” »Mandò un lieve sospiro, il volto parve rasserenarglisi, e con accento più risoluto disse: “Andiamo.” «Non ho bisogno di dirvi come mio padre gli accordasse quella benevola ospitalità che egli stimava un assoluto dovere del suo grado, della sua fortuna, del suo nome. Lo sconosciuto disse chiamarsi Ambrogio Larva: non parlò quasi mai, e costrettovi soltanto, appena se gustò cibo, e di buon'ora si ritirò nella camera assegnatagli.» V. «Il domani, fosse la pioggia presa il giorno innanzi, fossero i disagi già prima sofferti, poichè pareva che col suo fardelletto sotto il braccio egli fosse venuto viaggiando per la catena delle montagne da molto lontano e già da parecchi giorni; il domani quel pover'uomo fu assalito da una fortissima febbre, che in pochi giorni lo menò presso alla tomba, e poi, superata per miracolo, lo tenne a letto più d'un mese. »Se il buon padre mio lo facesse curare con ogni carità, non è da dirsi. Quando l'infermo fu tornato in sè, dopo un penoso delirio di più giorni, ed ebbe compreso dove si trovava, e come vi fosse trattato, mostrò, non con parole, che queste aveva sempre rade e poche, ma negli atti, negli sguardi, nell'espressione della fisonomia, una riconoscenza tanto più profonda, quanto meno espansiva. »Però, durante il delirio del pover'uomo era avvenuto cosa che assai aveva scemato quell'interesse che dapprima tutti avevano sentito per lui; e se non si era venuti meno a nessuna delle cure ond'egli abbisognava (chè mio padre, codesto non avrebbe tollerato a niun modo) non era tuttavia, se non vincendo un sentimento, il quale pareva quasi ripulsione, che i nostri servi continuavano a stargli attorno e a vegliare su di lui. »La ragione era che, durante i vaneggiamenti suoi, aveva pronunziato certe parole che erano tali da indurre gravissimi sospetti sul conto suo. Egli affannosamente, con rotti accenti (e mio padre lo aveva udito, ed io stesso una volta) parlava di sangue, di odii, di morte. Pareva che un tremendo rimorso ne agitasse la coscienza, conseguenze d'un gran delitto commesso. Vedeva dei fantasmi sanguinosi; ora pregava pace, perdono ed oblio; ora imprecava furibondo. Due nomi, uno di donna e uno d'uomo, gli venivano frequenti alle labbra, e cenni alle sue vicende passate, ma così in confuso che impossibile trarne un costrutto qualunque o comprenderne cosa alcuna. Solamente appariva che molti e dolorosissimi tormenti e sciagure aveva egli sostenuto, che una crisi gravissima era venuta a mettere il colmo alle sue cattive avventure e ch'egli erasi partito dal suo paese e dai suoi per cercare in remote contrade una esistenza novella; per fuggire dalla giustizia umana, dicevano i nostri servi. »Eppure, non ostante tutto ciò, la figura originale di costui non dispiaceva e non ispirava diffidenza a mio padre. Questi aveva risoluto d'interrogarlo un po' più particolarmente sull'esser suo; ma ogni volta che a ciò s'accingesse, scorgendo la dolorosa ripugnanza d'Ambrogio a parlare del suo passato, se ne rimaneva come timoroso di fargli troppo male colla sua curiosità. »Un giorno finalmente che quasi era guarito del tutto, Ambrogio medesimo si aprì, più che non avesse fatto mai, con mio padre, nel quale mostrava aver posto molto rispetto e affezione pari alla stima. Io mi trovava appunto presente e udii le sue parole: disse che per la terra in cui era nato — una terra d'Italia lontana da questa, ma non disse quale, — per il mondo in cui era vissuto, egli era e doveva e voleva esser morto affatto; che non avendo più famiglia, non più affetti, stanco e disgustato della vita che traeva, erasi partito solo, di nascosto, sicuro di non lasciare dietro a sè chi lo rimpiangesse, non sentendo pure un rincrescimento per quanto abbandonava, risoluto ad andare tanto lontano che nulla della precedente esistenza mai più gliene venisse all'orecchio nè sotto gli occhi; voleva recarsi in qualche solitudine, dove la semplicità dei costumi, la povertà degli abitatori, la lontananza da ogni centro popoloso non gli presentassero mai e non valessero a ricordargli nulla, nulla di quella uggiosa vita cittadinesca che gli era venuta in odio insuperabile; che questo paese gli pareva proprio a tal uopo: che aveva seco qualche po' di denaro e con esso avrebbe volentieri comprato un'umile casettina e un piccol orto per viverci quieto quegli anni che gli avrebbe ancora imposti la Provvidenza; e che per non essere affatto inutile sulla terra ed al paese che l'avrebbe ospitato, si sarebbe messo a fare il maestro ai bambini, gratuitamente per i poveri, essendo che, nella sua ignoranza, tanto e tanto ad insegnare a leggere e scrivere e un po' d'abbaco, ei si sentiva capace. »Mio padre stette un poco prima di rispondere, come se riflettesse ponderatamente su ciò che aveva da fare; poi disse con gravità e con quella bonaria schiettezza che gli era abituale: “Sentite, signor Larva. Io adesso sono obbligato a rispondervi, non come il vostro ospite, ma come il sindaco di questo villaggio. Capirete che in questa qualità m'incombe una certa responsabilità. Il padrone di casa può accogliere con piacere anche uno sconosciuto, la cui figura gli vada a genio; il sindaco non può affidargli a occhi chiusi la educazione dei bambini, che è cosa delicatissima.” «Ambrogio arrossì sino alle orecchie.» “Non mi crede ella un onest'uomo?” domandò fieramente. “Non basta che io vi creda tale, bisogna che ne abbia le prove.” «Ambrogio represse un vivace movimento, e impallidito di nuovo, curvò il capo e si tacque per un poco.» “Ho capito:” diss'egli poi amaramente. “Qui si sospetta di me. Me n'ero accorto, ma speravo che non ella.... Partirò.” “Un momento,” soggiunse mio padre: “Qui abbiamo pure il gran bisogno d'un maestro. Non si è mai potuto ottenere che quassù venisse ad aprire una scuola qualcheduno che ne fosse da tanto. Non ci abbiamo che un pretucolo, il quale insegna a mala pena a distinguere le lettere dell'alfabeto, violenta l'ortografia ed assassina la grammatica. La venuta di chi facesse meglio sarebbe una vera fortuna pel paese. Che diamine, sor Ambrogio. Avete voi tanta ripugnanza a farci conoscere il vostro passato?” “Sì l'ho:” rispose risoluto Ambrogio. “L'ho voluto sotterrare in una fossa questo passato e l'ho coperto con una lapide. Non voglio scoperchiare il sepolcro e tirarlo fuori per contentare la curiosità sospettosa d'un intiero villaggio.” “Un villaggio di ottocento anime, perduto fra le montagne, o poco meno!” esclamò mio padre sorridendo. “Del resto,” soggiunse, “quando siavi un segreto nella vostra esistenza che vogliate custodire, non avrete a rivelarlo a questo poco di pubblico. Dove io affermi che voi siete degno d'istruire i ragazzi di questa brava e onesta gente, tutti mi crederanno.... E voi non avrete bastevole fiducia nella mia discrezione per dirmi — a me solo — chi e che cosa siete?” «Ambrogio esitò un momento; poi levò gli occhi, e li fissò per un istante in volto a mio padre, come non aveva fatto prima. Parve soddisfatto di quell'esame.» “Le dirò tutto:” disse bruscamente a un tratto. “Venite meco:” riprese mio padre, aprendo l'uscio del suo scrittoio e facendogli cenno vi entrasse. «Rimasero colà dentro più d'un'ora. Quando ne uscirono, Ambrogio era più pallido che mai, e mio padre era evidentemente commosso. Notai, non senza stupore, che mio padre nel trattare il forestiero, aveva una deferenza assai maggiore di prima. »La raccomandazione del sindaco bastò a farlo benvolere e stimare da tutti. Trovatasi una di queste catapecchie, che servono da case, con un orticello, per poco prezzo, ch'egli pagò subito, il buon Ambrogio divise il suo tempo fra la coltura degli erbaggi e delle frutta che gli dànno il suo sostentamento, e la scuola in cui accorrono tutti i bambini del villaggio e dei casolari qui intorno, ammaestrati da lui con pazienza e cura infinite non solo nel leggere e scrivere e negli elementi dell'aritmetica, ma nella morale altresì, giovandosi di apologhi e novelle ed amichevoli conversari alla socratica, in cui, senza che altri quasi lo avverta, le buone massime s'instillano in quelle anime tenerelle, e fanno sì che il maestro sia amato e obbedito anche meglio dalla scolaresca. »Egli non accetta denaro da nessuno; ma i più facoltosi fra i genitori lo vengono regalando di legna da ardere all'inverno, di qualche mezzo sacco di grano alla raccolta, di pane bello e fresco, quando lo fanno cuocere, di qualche pollo talvolta, e anche di qualche pezzo di maiale, quando lo macellano all'autunno, le quali cose lo aiutano a campare. Dai poveri egli non vuole assolutamente nulla, e se mai gli viene offerto alcun che, rifiuta con isdegno, quasi gli fosse fatta con ciò una grave offesa. »Quale io lo conobbi i primi giorni, tale egli continuò sempre ad essere: buono, taciturno, onesto, amante della solitudine. Quasi sempre svagato colla mente, talvolta pare lo assalgano delle allucinazioni e che il senno gli scappi; talvolta lo direste poco meno che imbecillito; ma non gli avvenne di recare a nessuno mai, nè con fatti nè con parole, non che il menomo dispiacere, ma neppure il menomo disturbo. I villani, per le sue assenze di mente, cominciarono dal burlarlo, poi lo compatirono; ora quasi lo riveriscono e lo venerano, credendolo meglio visitato dal Signore. »Egli è benevolo con tutti; ma d'amore e di espansione di cuore pare che non ne abbia, fuorchè con quel suo brutto cane che gli avete visto. E sì che in mio padre, il quale, da quel segreto colloquio in poi mostrò sempre per lui una certa maggiore osservanza; in mio padre, dico, Ambrogio finì per porre davvero un profondo affetto. »Un giorno mio padre gli domandò: “Ambrogio, ora siete voi contento della vostra vita?” »Ed egli rispose con espressione di viva sensibilità: “Sì. Non cercavo che oblío; ho trovato carità. Fuggivo gli uomini per non odiarli, ne ho trovati qui degni d'amore.” »E, come se avesse detto di troppo, allora se ne partì ratto, senza voler udire nè aggiungere altro. »Quando mi avvenne la disgrazia di perdere il buon padre mio, fu l'unica volta ch'io l'abbia veduto a piangere. Durante la malattia di lui, Ambrogio era stato quasi sempre con noi al castello, non cercando nemmeno di aiutarci nelle cure che si prestavano all'infermo, buono a nulla e smemorato qual egli è, ma come se qui trattenuto da un invisibile vincolo che non lo lasciasse allontanarsi. Agli ultimi momenti, che il mio povero padre volle vedere tutti i servi e i gastaldi insieme alle loro famiglie, entrò ancor egli alla coda di tutti, nella stanza del moribondo, e s'inginocchiò quasi peritoso in un angolo a pregare. »Allorchè quell'immensa sventura fu compiuta e l'eccesso del dolore pareva volermi tôrre di senno, io me lo vidi improvvisamente al fianco, bagnato il volto di lagrime egli pure, trasfigurato, così che mi parve, anche in quella dolorosa confusione di mente in cui ero, un'altra e più nobile persona. E mi disse parole gravi di simpatico dolore e di affettuosa consolazione che più non ricordo, che in quel fatalissimo momento non poterono restarmi impresse, ma che pure mi colpirono, come altissime e degne della più bell'anima e della più nobile intelligenza. Poi si partì e stette parecchi giorni senza venirmi a vedere. »Ricordo che la prima volta ch'io lo rividi, il suo aspetto, che mi parve ancora più di scemo che per l'innanzi, mi sorprese come una stranezza inaspettata e mi riuscì quasi una delusione; imperocchè mi aspettassi di ritrovare in lui quella più elevata persona che mi era apparsa, o ch'io aveva sognata nel colmo del mio dolore. »Continuò egli in seguito a capitare di quando in quando al castello, sempre uguale, umile, silenzioso, melanconico. Mai non lo vidi a ridere, sì a sogghignare di spesso. Ogni qual volta io volli toccargli di quella sera in cui lo incontrai sulla collina, egli mi rispose sempre invariabilmente: — Ah sì! come pioveva quella sera — e poi se ne partì tosto; per cui io non glie ne parlo più. »In complesso egli è un buon diavolo, che forse non ha l'integrità delle sue facoltà mentali, che dovette soffrire molte disgrazie a cui la sua debole ragione non valse a resistere. Di certo nella sua vita vi ha un mistero, ma non ostante le parole del suo delirio, non deve esservi una vergogna nè una colpa da non perdonarsi; perchè mio padre, dopo ascoltatolo, trattò con lui con più riguardi di prima, e ogni volta che lo vedesse, fu sempre il primo a porgergli la mano.» VI. Un giorno, era qualche tempo trascorso dacchè il mio ospite mi aveva narrato quanto venni addietro esponendo, si festeggiavano al castello le nozze d'una giovane coppia del villaggio. Era un'usanza, a cui il castellano mai non derogava, di invitare in tali occasioni tutti gli abitanti del paesello ad onesta baldoria. Il menestrello del villaggio, un vecchietto dal mento aguzzo e dalla faccia tutta rughe, coll'aria tra di nesci e di malizioso, raschiando maladettamente il suo violino scordato, faceva saltare ai suoi giovani compaesani le più animate monferrine del mondo sulla finissima rena dello spianato. Circolavano in discreta abbondanza buone bottiglie di vin vecchio, e il padrone del castello compiacevasi di quella ingenua allegria. Sul più bello, ecco per caso straordinario comparire maestro Ambrogio, colla sua andatura incerta e oscillante, col suo aspetto mezzo sonnacchioso, e non fa pur mestieri il dirlo, col suo cane dietro i talloni. Un allegro clamore si alzò da tutta la comitiva a salutarne la venuta. — Oh! il maestro! Avanti, avanti. Ben venuto il sor maestro! Viva il maestro! — L'anfitrione della festa si associò ancor egli, e con espansione, al cordiale ed allegro accoglimento. “Buon giorno, Ambrogio:” diss'egli. “Venite qui accosto a me ed assaggiate un po' questo vino dei miei greppi, so che non lo disdegnate, e me ne direte le novelle.” Ambrogio stirò le sue pallide labbra in un certo modo che doveva raffigurare un sorriso, ma che altri avrebbe detto una smorfia e, lasciandosi prendere e stringere la mano ora da questo ora da quello di uomini e donne che gli si facevano intorno al suo passaggio, venne appressandosi al castellano e a me, che stavamo vicino all'acre archetto di compar Fosco il suonatore, il quale archetto cacciava pure tanta forza nelle gambe di quei bravi giovinotti. Il maestro era in un momento di straordinario, nè mai visto buon umore, perchè non ismise quel suo cotal ghigno, ed agguantò con avidità la bottiglia che gli tendeva il compare Fosco, già un po' cotto per le libazioni fatte. “Orsù, maestro del mio cuore, abbocca questa bottiglia, che Dio ti mandi ogni bene! e bando a ogni filosofia!” Convien sapere che il bravo menestrello alla seconda bottiglia che avesse bevuto, dava del voi a tutti, alla terza del tu addirittura; il termine _filosofia_ poi, per lui era sinonimo di malinconia, ipocondria, stoltezza. Ambrogio, dopo aver bevuto, fece chioccar la lingua contro il palato come usa un vero conoscitore di meriti enologici. “Buono!” diss'egli: “buonissimo! Questo è la gioia terrena liquefatta e tenuta in serbo; non è vero, compare Fosco?” “L'allegria!” esclamò questi tutto animato: “l'allegria per cento mila violini!... Vedi, sor maestro dell'anima mia; io non istimo altro nella vita. Tutto il resto, peuh! non vale un cece. Viva l'allegria e sprofondi all'inferno la camusa, o ch'io sono un asino come il bricco del mugnaio.” E battendo col dorso dell'archetto sulla cassa del violino, per richiamare a sè l'attenzione dell'adunanza, soggiungeva gridando, come a sordi: “Su, da bravi giovinotti, vogliamo fare due altre capriole?... Eccovi una monferrina da far danzare i morti.... ma che morti?... da far danzare anche gli scudi in tasca d'un avaro.” E posto il suo perfido strumento alla spalla, appoggiatovi su il mento aguzzo, colla compiacenza che poteva avere Paganini nell'accingersi a suonare, egli diede giù una solenne raschiata che produsse un suono, al cui paragone è una dolcezza la più aspra sorba che vi alleghi i denti e allappi la bocca. Ambrogio tornò a bere e due e tre volte, finchè la bottiglia pòrtagli da Fosco gli rimase vuota fra le mani. Allora e' si accoccolò per terra vicino allo scellerato scorticatore delle nostre orecchie, e appoggiati i gomiti alle ginocchia, le guancie ai pugni richiusi, il cane sdraiato fra le gambe, stette ad ascoltare quella diabolica armonia, mentre i villani gli saltavano dinanzi con gran confusione, coi più strani gesti e contorsioni del mondo, da parere tanti morsicati dalla tarantola. Io guardava attentamente il maestro di scuola, attirato da una viva curiosità; che mi aveva destata sul suo conto la narrazione del mio ospite. Già fin dalla prima volta ch'io l'aveva visto, egli mi era sembrato una figura originale; ora, forse per effetto di quello che avevo udito di lui, mi pareva di scorgere in esso qualche cosa di speciale e distinto che lo sceverasse dalla comune, credevo travedere in quel complesso di tratti, di maniere, di forme, alcun che di sopra, o almeno all'infuori del volgare. Quel certo stiramento di labbra, che in lui teneva luogo di sorriso, non era cessato, e pareva anzi fattosi immobile sul suo volto; ma gli occhi suoi, ordinariamente atoni e smorti, brillavano; di quando in quando, toglieva una delle sue mani da far sostegno al volto, allungava il braccio verso una delle bottiglie che facevano siepe intorno al compare Fosco, e ci dava una tracannata, e ad ogni volta, mentre il corpo conservava la massima immobilità, i suoi occhi brillavano sempre più. Tra una monferrina e l'altra, Fosco serrava in mezzo alle gambe il suo violino, metteva per traverso sulle ginocchia l'archetto, e riceveva dalle mani del maestro la bottiglia, per darle ancor esso un saluto a modo suo. I due uomini allora si guardavano entro gli occhi; Fosco rideva con un riso secco, Ambrogio ghignava silenziosamente. Era un curioso spettacolo l'osservarli. Probabilmente così diversi d'animo, d'intelligenza e di sapere, quei due esseri si trovavano in quel momento assembrati, fatti uguali, accomunati dalla bassa soddisfazione d'un piacere materialissimo. Ad un punto vidi Ambrogio muover dondolando la persona, come fa l'orso in gabbia, ed accompagnare coll'accennar del capo l'orribile suono di quel disarmonico pezzo di legno battezzato per violino. Nello stesso tempo, e' si mise a parlare con una certa vivacità. Me gli accostai di più per udire le sue parole. “Su, su:” diceva egli: “animo, via, lesto, forte, coraggio, suona, suona, suona compare Fosco; dágli dentro, più vivo, più ratto, più concitato; fálli saltare, fálli girandolare, fálli sbalordire.... È una pazzia, dirai; ebbene sì, è una pazzia; e con ciò?.... Non sai che gli è nella pazzia che l'uomo ha riposo dalla sventura? Non sai che ogni illusione è pazzia, e che il solo bene sulla terra è l'illusione?.... Su, su, svelto quell'archetto! Esso languisce per Dio! La è tutta brava gente codesta, e il vino è eccellente. Fàtti onore compare Fosco! Tu sei l'Orfeo di questo villaggio. Sai bene: Orfeo faceva ballare il trescone anche ai sassi.” Il suonatore rideva con quel riso secco a suo modo; e, come spronato da quei detti, affrettava il moto dell'archetto, e agitava il capo, e batteva la misura col piede, e accumulava colla più audace disarmonia le note più francamente stonate. “Eh eh eh!” rispondeva egli frattanto. “Sei del mio parere tu, sor maestro. L'allegria!.... Nulla vai meglio. Non esco di lì, io!.... Le patate sono buone, le castagne anche migliori, una brava presa di tabacco ha il suo merito, un pezzetto di tabacco in corda da masticare lo stimo di molto, ma un centellino d'allegria val cento mila volte più d'ogni altra cosa. E dove la si trova sicuramente questa benedetta allegria?.... E zin zin e zin zin, in un fiasco di vin vecchio.” E Ambrogio ripigliava: “Ti dico che sei Orfeo! Vedi come quella gente si dimena, salta e ammattisce. Essa gode! Sono i crini del tuo archetto che compiono tal miracolo. Vero miracolo! Dare un'ora di gioia ad uomo che vive. Se qui venisse Satana con una corona reale in pugno e l'offrisse a cotestoro in cambio del loro tripudio innocente, sarebbe stolto, tre volte stolto chi rinunziasse ad un momento di questo piacere per tutta la vita del re più potente che stringa scettro nel mondo.... E spero che di tanto imbecilli non ce ne sarebbe nessuno fra questi dabbene.” Il Menestrello ammiccava come se capisse, col solito riso, e suonando più arrabbiatamente che mai, ribatteva a sua vòlta. “Eh eh eh! Non gli è tutto qui; stasera avremo una cena. Un mezzo agnello arrostito. Il padre dello sposo è uomo che fa le cose ammodo.” “Invidio la potenza del tuo violino! Quale altissimo ingegno di poeta mai valse a procacciare ai suoi simili un godimento simile a quello che fai provare colle tue quattro note false? Forse il solo Omero alla società greca ancora fanciulla.” “Sta' attento! sta' attento!.... Ecco un'altra monferrina ancora più bella. Su, giovanotti, da bravi, alla riscossa!.... Hop! hop!” “Come paragonare al tuo potere l'azione del povero autore che si stilla il cervello per anni, affine di presentare una sua creazione ad una frotta di concittadini che si raccoglie in teatro a fischiarla? Come a quella dello scrittore d'un libro, su cui sbadiglia qualche dozzina di lettori e di cui malignamente fa strazio qualche insolenza ignorante di critico argutissimo?” Udendo ciò sospettai in maestro Ambrogio un letterato infelice, amareggiato dal ricordo d'una strepitosamente vergognosa caduta; e mi feci innanzi verso di lui con maggiore interesse. Egli mi vide e s'interruppe. I suoi occhi si fissarono su di me con una curiosità quasi pari a quella che io manifestava a riguardo di lui. Stette un mezzo minuto a contemplarmi; poi, come spinto da una subita risoluzione, si alzò in fretta e mi si accostò vivamente. “È vero,” mi domandò egli con istrana animazione d'accento, “è vero quello che ho udito di voi? Siete uno scrittore ed accostate la mano a quella terribile macchina infernale che è la stampa.” “È una macchina infernale oramai innocente:” risposi. “L'incuria della gente e la coscienza di chi l'adopra l'hanno ridotta senza pericolo... Fatte le debite eccezioni.” Ambrogio fece quel suo ghigno strano, poi divenne serio, e mettendomi una mano sulla spalla con una certa famigliarità da superiore mi smaltì, tutta d'un fiato la seguente tirata. VII. «La coscienza di chi scrive? Ecco! Ci credete voi?.... Oh certo siete costretto a rispondere di sì dal fatto che voi pure v'imbrattate le dita d'inchiostro, stringendo una penna. Si comincia per volerne avere, si è forse tanto felici da averne; ma poi?.... L'uso e l'abuso della parola a che non vi menano? Come discerneremmo noi il vero dal falso in quella confusione di cose, d'uomini e di idee che si chiama vita sociale, mentre ci scompiglia e testa e cuore il nostro privato interesse? Quello che avete sognato fosse un apostolato, vi si fa un mestiere. Vi siete proposto di guidar voi la penna, e siete voi trascinato dalla penna, che ha da darvi da mangiare e da soddisfarvi la vanità. »La penna! Come, non vi spaventa il maneggiare questo ridicolo e tremendo scettro del pensiero? Non pensate mai quanto germe di male può gocciolarvi giù con una stilla d'inchiostro e seminarsi in un'anima umana, mercè un'idea, una mezza idea, una sembianza d'idea? Anche la più innocente può, in date occasioni, essere la più malvagia. Una favilla che sta per ispegnersi, vi pare la cosa più impotente. Lasciatela cascare sopra un barile di polvere, e la casa intera ne va in aria. Più innocente ancora è un granellino di nero di platino; introducetelo in un miscuglio d'ossigeno e d'idrogeno, e ne accadrà uno scoppio. »La misteriosa anima umana è tale che può dalle passioni e dal dolore essere preparata in modo che una vostra idea, che? una semplice parola faccia l'uffizio di scintilla sulle polveri da mina, di nero di platino sul miscuglio dei due gaz. E non vi arrestate intimorito innanzi a questo pensiero?... O potete star tranquillo, perchè non avete idee? Ve ne hanno pur troppo di coloro che scrivono senz'aver nulla da dire! Ma voi allora sciupate il vostro tempo, e rubate quello degl'infelici che vi leggono.... Ah! l'incuria della gente: l'avete detto.... Ma non vi fu crudeltà di re tiranno o di frate inquisitore, neppure la truce fantasia del cantore dell'inferno, che abbia saputo immaginare ed applicare un supplizio simile. Come? Voi vi torturate il cervello, vi opprimete l'anima, vi consumate in veglie febbrili la vita, ogni giorno, ogni ora, per una produzione che dovete trarre dal vostro interno, che è il sangue del vostro cuore, e nessuno vi bada, e la vostra voce muore come quella d'un sotterrato vivo in caverna che non ha pure un'eco!.... Chi vi ha condannato a questa vergognosa tortura d'impotenza?.... Mi risponderete forse che vi spinge un interno stimolo, che è il cenno del proprio destino. Non pascetevi di fole. Ma non credete voi dunque nel libero arbitrio dell'uomo? Non vi sentite padrone almeno di non essere ridicolo nello stesso tempo che infelice?» Si era molto riscaldato nel dire: era diventato tutto rosso in faccia, gesticolava vivamente e gli occhi gli brillavano in mirabil guisa. Si vedeva che l'eccitazione datagli dal bere l'aveva fatto uscire per quel momento dalla passività in cui manteneva chiusi abitualmente la sua anima, il suo pensiero e forse le memorie del suo passato. Mentr'egli parlava con un impeto che mal si potrebbe esprimere, compare Fosco sembrava aver cresciuto ancor egli di foga nell'acre suono del suo violino, e quella musica scordata e quasi direi rabbiosa, a cui si frammischiavano, all'uso montanino, grida selvaggie dai robusti petti dei danzatori, faceva un accompagnamento strano alle concitate parole di mastro Ambrogio. Quando questi si fu interrotto un momento, io gli dissi: “Le vostre parole vorrebbero una lunga risposta, e se ne ecciterebbe forse una discussione non breve, che non è qui luogo di fare; ma, se non vi disgrada, e a me piacerà molto, la faremo un altro momento.” La sua animazione cessò a un tratto; si ritrasse vivamente indietro, come spaventato, tendendo le mani innanzi, quasi volesse rigettarmi da sè, e proruppe con accento di vera paura: “No, no, nessuna discussione, nessuna parola più su questo argomento, nemmeno una!.... Vi prego! Non pensate più a ciò che vi ho detto.... Non so più io stesso che cosa sia.... non lo sapevo dicendolo.... L'avrete udito che talvolta la mia ragione vagella. Questa fu una delle volte.... Addio addio.... Lasciatemi stare; non venitemi a tormentare dell'altro.” E s'allontanò da me e dal castello, tentennando nel camminare, forse per l'emozione che mi era parsa veramente profonda in lui, forse per il vino bevuto che era stato molto davvero. VIII. Per più giorni mi fu impossibile di vedere il maestro. Mi persuasi ch'egli mi sfuggiva appositamente e con molta cura, pentito di essersi abbandonato meco a quel momentaneo sfogo di pensieri che dovevano da lungo tempo e frequentemente aggirarsi per la sua testa. Il mio ospite cominciava ad essere inquieto; e buono com'era, proponevasi di andare egli stesso a cercarne novelle, quando un giorno — si era alla fine del pranzo, che colà, secondo l'antica usanza piemontese, si fa a mezzo della giornata, — vennero ad annunziargli che il maestro era da basso, chiedendo di parlargli. “Fatelo salir su:” disse il padrone. E il servo rispose: Ambrogio non volere nemmeno entrare sotto l'atrio, ma pregare colle lagrime agli occhi il castellano perchè volesse scendere ad ascoltarlo da solo, chè a lui, solamente a lui, desiderava, e tosto, parlare. Il mio amico s'accostò alla finestra che guardava sulla spianata del giardino, e io gli tenni dietro. Vedemmo il maestro che, agitato, passeggiava su e giù col suo passo incerto, più barcollante del solito e la sua testa arruffata dondolante sull'esile corpo. Aveva tale un aspetto di desolazione che il proprietario del castello se ne commosse. — Gli è avvenuta di sicuro una qualche disgrazia: — esclamò egli. — Chi sa che diavolo sia! — E levatosi dalla finestra, si affrettò a scendere ed a raggiungere Ambrogio. Io rimasi colà, appoggiato al davanzale, a guardarli. Non udivo pur una delle loro parole, ma ne vedevo tutti i gesti e l'espressione del viso. Appena Ambrogio vide comparire il castellano sugli scalini dell'ingresso, gli mosse vivamente incontro, tendendo verso di lui le mani, come si fa ad uno che giunga in punto a salvarvi, e mandando un'esclamazione che era una preghiera essa sola. Poi subito avviò il suo discorso con una vivacità, con un calore, con una abbondanza di parole tali che dinotavano la massima concitazione. E si levava il cappellaccio, e scuoteva la sua ispida ed arruffata capigliatura grigiastra, e si percoteva la vasta fronte, bernoccoluta, e stringeva le mani con indicibile atto di supplicazione fervorosa. In una mossa, con cui, vólto il viso all'insù come in una più viva deprecazione, mi lasciò scorgere i lineamenti tutti turbati della faccia, potei vedere che grosse lagrime gli rigavano le guancie più terree del solito. — Pover'uomo! — dissi tra me, commosso alla vista di quel dolore. — Qual mai disgrazia può averlo colpito? — Il padrone del castello vedevo che con atti e parole faceva a calmarlo, e sembrava profferirsi in suo soccorso. Ad un punto, quando il maestro ebbe detto ciò per cui era venuto a supplicare, il mio amico levò le braccia, e annuì colla testa in un certo modo che pareva significare: — Ecchè? Gli è codesto soltanto che chiedete? Ma sì, ve lo accordo; è cosa fatta. — Ambrogio, in un impeto di riconoscenza, prese a un tratto ambedue le mani del mio ospite, e curvatosi innanzi a lui, gliele baciò. Il castellano le ritrasse vivamente: il maestro parve di subito vergognarsi dell'atto troppo servile, dirizzò la persona, e sollevò la testa con piglio pieno di nuova fierezza; ma fu un lampo; e tornato nella sua abituale umiltà, si partì con passo affrettato. Il mio amico risalì a raggiungermi nella stanza dove lo stavo aspettando; aveva un sorriso sulle labbra e lagrime agli occhi. “Che benedett'uomo!” esclamò. “Gli è matto per davvero, e colle sue stramberie non ha commosso anche me? Non indovinereste mai più che cosa è venuto a dimandarmi con tanta disperazione!....” “Che cosa?” “Gli è morto stanotte il suo cane.” “Ah, povero diavolo! Comprendo il suo dolore.” “E' vuol dargli una sepoltura che crede possa essergli gradita, e che sia salva sempre mai da ogni profanazione. Dice che il luogo in cui il suo perduto compagno si compiaceva di più, era il mio viale de' pini...” “E vuole seppellirlo colà?” “Precisamente. È venuto a dimandarmene licenza come d'un gran favore. Dice che verrà egli medesimo stanotte; e vuole ad ogni modo esserci solo.” Difatti, la sera, verso le undici, dalle finestre del castello vedemmo un lumicino brillare nel più folto dei pini, durante un'ora e forse più. Il domani in quel luogo fu trovato sopra la terra smossa un grosso sasso che prima stava ad una certa distanza di là, e pareva impossibile che il povero maestro avesse avuto forza pur di smuovere. Capimmo che la salma di Pomino era posta a consumarsi «Sotto la guardia della grave _pietra_.» Passarono molti giorni senza vedere altrimenti il maestro. IX. Un mattino, svegliatomi prestissimo, vidi innanzi alla mia finestra, di cui avevo lasciate aperte le persiane, il cielo di sopra la montagna rischiararsi così lieto della prima luce dell'alba, che coraggiosamente determinai bearmi del meraviglioso spettacolo dell'aurora. Uscii piano piano nel giardino, e pel viale dei pini m'avviai verso un'eminenza di terreno da cui avrei potuto mirar meglio la stupenda scena. A un tratto udii una voce lamentosa, or bassa, or alta, impressa sempre di molto affetto, che pareva declamasse dei versi. Stupito, ammorzai il suono dei passi, e venni pian piano avanzando verso quella voce, con molta cautela. Inoltratomi un poco più, vidi in quella penombra crepuscolare gli abiti scuri di maestro Ambrogio, il quale, accoccolato, meglio che seduto, sulla gran pietra che copriva la fossa del suo cane, con una voce armoniosa e con un accento espressivo, come io non gli aveva udito mai, lasciava sgorgare dalle labbra un'onda di vera, soave, purissima poesia. Attonito, e insieme commosso, mi accostai, e riparatomi dietro il tronco d'uno di quei grossi pini, stetti ad ascoltare. Ambrogio teneva i gomiti sulle ginocchia, stringendosi colle mani la fronte; aveva ai piedi il suo cappellaccio, e le chiome gli si sollevavano sulla testa agitate dal vento mattutino. Se io avessi potuto tenere a mente e qui riscrivere i versi che impetuosi uscivano in quel momento dalle labbra di quell'umile maestrucolo elementare di un povero e rimoto paesello montanino, io darei alla letteratura moderna uno squarcio di poesia sublime, come se ne ha troppo poca al tempo che corre. Egli parlava d'amore: — di quell'amore che è il _fiat_ divino della creazione, che è la legge intima e suprema di tutto l'universo, che è l'idea manifestata colla parola della vita, che è la finalità della sussistenza e dell'intelligibilità; — di quell'amore che è nel mondo morale quell'ultimo supremo fluido, se pur così può nominarsi, al quale corrisponde nel mondo fisico l'etere, la essenza prima, non ancora accertata, ma indovinata e presentita dalla scienza moderna, nella quale tutte hanno origine le forze della natura; — quell'amore che quindi, sostanza universale, tutto invade e pervade, e si manifesta in tutti i rapporti degli esseri, dai purissimi spirituali ai composti corporei, ad ogni menoma animazione della materia, legge chimica, per così dire, delle affinità intellettive insieme e sensitive nell'universo vivente. I due cardini del mondo della vita essere il pensiero e l'amore. Perfette le creature celesti, dove purissimi, non offuscati dalla materia, e questo e quello; perfettibile l'uomo, in cui limitati e l'uno e l'altro dagl'istinti materiali, offuscatori sì d'ambedue, ma domabili pure e riducibili; passeggiere ed effimere animazioni di materia, affatto mortali gli esseri al di sotto dell'uomo, in cui un accenno soltanto di pensieri e d'amore. E qui, volgendo con brusca transizione il discorso alla memoria di quel bruto sulla cui fossa egli sedeva, lo apostrofava con voce di pianto. Quel diseredato composto di materia organizzata lo aveva pure amato, lui creatura intelligente, più che non avessero fatto gli uomini suoi pari. Non alla regola dell'utile, non alla vanità delle apparenze aveva esso misurato il suo affetto. Altrove il povero cane avrebbe potuto trovare quando che si fosse pane più bianco e più ricco albergo e temperie più mite, da non comprarsi con altro che coll'ingratitudine d'abbandonarlo. Qual uomo se ne sarebbe rimasto? Lui povero, solo, debole, brutto, quella bestiola lo aveva nondimeno fortemente amato, e senza tregua e senza condizioni. Perchè aveva da essere distrutto affatto quell'essere amoroso, così da non esistere più mai nella sua discioltasi individualità? Perchè a tanto affetto aveva da mancare corrispondenza di pensiero, il quale è l'elemento necessario a costituire l'immortalità di un'anima? Oh! se avesse egli, il poeta, se avesse potuto instillargli una parte di quel suo pensiero che alcune volte sentiva soverchio in sè confondergli il cervello e urtarglisi dolorosamente nelle pareti troppo ristrette del cranio! Quante fiate non aveva egli vaneggiando sognato, — come l'_homunculus_, cui Goethe fa creare da Wagner nelle storte di Fausto, — di crear esso, con un miracolo di scienza e di fede, uno spirito immortale collo spiro di vita che animava quella materia foggiata a bruto! Non avrebbe esso avuto dell'uomo che le facoltà amative e intellettive; non gli orgogli, non le perfidie, non le deficienze, che, dipendenti da quella forma, ond'egli si assuperbisce cotanto da dirla simile a quella di Dio, torcono al male i più belli suoi pregi. L'uomo disconosce ed infrange la legge d'amore. Dal peccato fu l'umanità col divino sacrificio redenta; ma l'individuo conviene sè stesso redima, e nol fa; e il soffio di Satana, traversando gli errori sociali e le seduzioni d'un falso interesse, ne corrompe l'anima tuttavia. Non si sa amare in terra dai più, come non si sa pensare; i meschini sono derelitti, del pari che è rigettata la verità. Ma non sempre durerà sulla terra questa ribellione dell'uomo al suo destino; e il poeta, con islancio veramente profetico, sorvolava sulle età che sono, per vagheggiare nell'avvenire la società progredita, migliorata, quando tutti i rapporti umani saranno regolati dalla sola legge dell'amore, e del paradiso terrestre, che allora si sarebbe veramente dischiuso alla nostra schiatta, faceva con sì vivaci e splendidi colori una dipintura sublime, che nulla io conosco da metterle a paragone nelle opere dei gloriosi poeti dell'umanità; e terminava con un inno di gioia e dirò di trionfo, il quale ben pareva quello che ai nuovi tempi avrebbe dovuto innalzare l'umana famiglia per salutare l'adempimento della sua ventura. In sull'ultimo egli s'era rizzato in piedi e, levata superbamente la testa, aveva abbandonate del tutto al vento le sue chiome arruffate. Esse gli facevano come un'aureola intorno alla vasta fronte, e il sole, che mandava allora i suoi primi raggi, le indorava con tinte di fuoco. La persona di lui, mi appariva in quell'istante più alta e più nobile di forme e d'atteggio. Splendevano d'una luce straordinaria le sue pupille alzate al cielo; splendeva, come per propri raggi che ne emanassero, la fronte solcata dallo stampo del pensiero, tocca dal segno potente del genio. Infuocate gli erano le guancie, infuocate le labbra tremanti. Vibrava con un'armonia ineffabile e nuova la voce del Vate, disposandosi alle mille voci, ai mille sussurri, ai canti degli augelli, al fruscío delle frondi, al ronzío degl'insetti, con cui a quel momento la terra salutava l'apparire del sole sull'orizzonte. Avreste detto che i potenti versi del poeta assembravano in una, e traducevano in parola umana quel cantico eterno e meraviglioso e nuovo sempre, che con tutte le voci della natura innalza ogni mattina la terra alla gloria del Creatore. X. Vi confesso che obliai a quel punto dove mi fossi e innanzi a chi, in un trasporto tale di fantasia che raramente ebbi a provare l'uguale. Vi sarà avvenuto parecchie volte che un pezzo efficacissimo di musica ispirata vi ecciti la mente con sì gradevole emozione che pare una strana e direi quasi spirituale ebbrezza vi assalga a dischiudervi innanzi all'intelletto un mondo sterminato e confuso di pensieri vaghi, indefiniti, ma sublimi; e vi sembra che questi pensieri vi sieno ispirati da una sfera superiore, sieno vostri e pure più alti di voi, e vi sentite innalzarsi l'anima e nello stesso tempo crucciarsi nel sentimento della sua impotenza, e vi affannate per afferrare e ridur concreta una di quelle tante idee che vi barbagliano nella mente, e vi indispettite di non lo potere, e un certo brivido vi corre per le vene, e sentite il bisogno e la capacità temporanea in voi di nobili gesta, e avete lo spirito scosso dalla mano potente dell'entusiasmo. Ebbene, io mi trovava in tale stato a quel punto. Mi precipitai verso quell'uomo e, prendendogli ambe le mani, esclamai: “Chi siete voi?.... Ma chi siete voi, cui Dio concesse la fortuna di tal forma per tanta possa di pensiero?” L'esaltazione in lui era troppa per cedere di subito. Al mio repentino apparirgli, non parve nè anco essere stupito. Mi guardò con dignitosa fierezza, agitò la testa, e facendo balenare nello sguardo una fiamma cui niuna parola varrebbe ad esprimere, proruppe: “Chi sono? Chi sono?... Sono un uomo che ha molto sofferto, un uomo che non ha nemmeno più un nome, che si è seppellito vivo nell'ombra della morte, più coraggioso di Carlo V, il quale rinunziò alla corona dopo averla portata tanti anni!.... E anche a me Dio aveva data una corona! La più splendida delle corone!, ingemmata di stelle e lucente di que' raggi che circondano il suo trono. La corona del poeta! E me la vidi brillare dinnanzi, sì vicino da poterla afferrare; e sentii degna la mia fronte di cingerla e potente il mio petto da meritarmela. Oh come palpitai per essa ne' miei giovani anni! Oh come la portai nobilmente ne' miei sogni, e sentii nelle mie travagliose veglie notturne ardermi essa divinamente le tempie, e sollevarmi il capo oltre la nebbia dell'atmosfera terrestre, e lanciarmi la mente sulle ali dell'idea nei sogni dell'infinito!...” “Ma fra quella corona e me, vidi levarsi, ipocrita, maligna, beffarda la malvagità umana, e indietreggiai, come chi sul suo cammino scorga drizzarsi fischiante, sanguinolenta, la testa dell'idra.... Oh! non crediate ch'io non abbia lottato. Ebbi coraggio, ebbi sofferenza, ebbi nobili indignazioni, ebbi timide transazioni pur anco.... Un giorno scoprii che l'odio generava l'odio, che l'invidia seminava intorno i denti del mostro di Cadmo e da ogni nemico vinto faceva sorgere legioni e legioni di calunniatori e di rabbiosi latranti. Indolorito, ammaccato, trafitto, disperato fuggii.” Un po' di calma entrava in lui; sciolse dalle mie le sue mani, e se le passò lentamente sulla fronte e sulla faccia; poi appoggiandole sulle mie spalle, e tenendomi innanzi a sè, in modo che la sua persona pareva cresciuta e sopravanzarmi, e fissando entro i miei occhi il suo sguardo lucente ancora di febbre, soggiunse: “Voi avete sorpreso il segreto della mia vita: quel segreto che da tanti anni rinserro con sì gran cura nella mia solitudine e nel mio nulla. Di belle fiate il dèmone mi assale e mi scuote e mi tormenta! Io lotto.... e l'ho vinto sempre. Voi avete assistito ad una di queste tremende battaglie che mi logorano la vita. Dimenticatelo.... Dimenticatemi!.... in nome dell'anima vostra, delle vostre speranze, in nome di Dio!” Io volli parlare: egli non me ne lasciò il tempo: “Non mi dite nulla, non mi dite nulla, ve ne scongiuro.” Si lasciò ricadere sopra il sasso, e stette un poco con le braccia sulle ginocchia e la testa reclinatavi su, tutto raccolto e in ogni suo membro tremante. Poi tornò a sollevare il capo, si ravviò macchinalmente le chiome che gli scendevano sulla fronte, prese il cappello che era in terra, e se lo mise in capo; quindi girò verso me i suoi occhi, ora affatto spenti. Aveva nuovamente l'aspetto smemorato e mezzo scemo che gli era solito; il suo volto era pallido e le labbra scolorate più di prima. “Ella,” riprese a dire colla voce cavernosa e fioca che gli conoscevo abituale, “ella ha udito i vaneggiamenti d'un povero pazzo. Spero che vorrà tacerli a tutti.... Oh per pietà non dica nulla!...” “Tacerò;” risposi: “ma bisogna ch'io le parli....” S'alzò di scatto, e agitando le mani verso di me balbettò con accento d'uomo stanco e sfinito: “Non adesso, non adesso per carità!” E senza lasciarmi aggiungere una parola, si allontanò a gran passi; ma quando fu alquanto discosto si fermò e volgendomisi anche una volta colle mani giunte: “Silenzio!” disse: “mi raccomando.” Poi continuò con passo barcollante la sua strada. Per due giorni mi fu impossibile rivederlo: al terzo dì, Ambrogio venne al castello tale e quale com'era sempre; approfittando d'un momento, in cui nessuno poteva udirci, sollecito mi disse: “Ella vuole parlarmi, ed ancor io voglio parlare a lei. Domani mattina venga a casa mia.” Aspettai con ansiosa sollecitudine il mattino seguente; e, levato appena il sole, scesi a gran passi la collina verso il villaggio. Ambrogio era sulla soglia della sua casa. Mi salutò con una certa solennità e mi fece entrare nella sua povera abitazione. XI. Fui introdotto in una stanza a pian terreno, spoglia, con poca luce e affumicata; essa al maestro serviva insieme di cucina, di tinello e di camera da dormire. Una scala, a mano destra di chi entrasse, menava ad una stanza superiore, della quale Ambrogio aveva fatto la scuola e lo studio, essendo più chiara, più arieggiata e più salubre. Quando fummo tutti e due in quest'ultima stanza, il maestro sedette e mi fece segno sedessi; poi cominciò a parlare con voce debole ed esitante, tenendo timidamente lo sguardo fisso a terra, come uomo che non osa levarlo in faccia al suo interlocutore. “Non mi lasciai vedere in questi ultimi giorni, perchè avevo mestieri di prepararmi al colloquio che avrebbe avuto luogo fra noi; avevo bisogno di sapere che uomo fosse quello che sventuratamente aveva sorpreso il mio segreto.” Io feci un movimento di sorpresa; egli continuò senza scomporsi: “Appresi che Ella, forestiero a questa terra, l'avrebbe presto lasciata; e già sapevo come fosse pure uno di coloro che si lasciano consumare le carni dalla veste di Nesso dello scrittore. Ciò riuscì a tranquillarmi un poco; tal sorta di uomini sono tutti corteggiatori ardenti d'una divinità implacabile e crudele, ch'essi chiamano la fama, e che dispensa il più spesso a capriccio i suoi favori; e, di solito, l'invida gelosia che nutrono gli uni degli altri, li fa lieti quando uno, che potrebbe pur conquistare le fuggevoli buone grazie della contesa deità adorata, si ritrae in disparte, e volonterosi molto lo lasciano nelle tenebre in cui si racchiude.” Volli protestare che, nella mia nullità, non avevo il torto di appartenere a quella schiatta di maligni. Ambrogio non mi lasciò dire. “Hannovi delle eccezioni,” continuò egli, “e tanto meglio s'Ella è una di esse. Imperocchè costoro possedono sicuramente un animo onesto, il quale, avendo certo dovuto soffrire più o meno delle perfidie e delle sciagure che a tutti si avventano su quel cammino, sono disposti ad apprezzare e rispettare la risoluzione di tale, che, o per debolezza, od anzi per maggior forza, rinuncia alla lotta, e vuol morire ignorato....” “Ignorato?” io proruppi. “E lo potete voi? E ne avete voi il diritto?... Ho scoperto in voi un talento di prim'ordine, e vengo a dimandarvi perchè lasciate infruttuoso il capitale che Dio vi ha dato, perchè private il vostro paese, il mondo d'una ricchezza intellettuale che a voi fu concessa in uso, ma i cui portati devono essere il bene di tutti?...” Ambrogio sollevò con moto quasi impetuoso la testa, e m'interruppe con più violenza che non mi sarei aspettato: “Perchè? Perchè ciascuno ha pur diritto a procurarsi la sua pace, la sua conservazione, la salute dell'anima sua. Come! Mi sono tratto fuori dall'inferno, e voi vorreste mi vi ripiombassi? E non sapete che l'inferno di questa vita mi farebbe dannare all'inferno dell'eternità quest'anima troppo sensitiva ed impressionabile? Non sapete che, circondato dal male, ferito, tormentato dal male, io gli ho già teso una volta le braccia, e glie le tenderei ancora; che io gli ho detto e gli direi ancora: dammi tu le armi per combattere i miei nemici, e render loro dolore per dolore, dammi tu l'orribile diletto della vendetta?... Fui sull'orlo dell'abisso, sapete, un piede già per quel declivio tremendo, alla vigilia d'esser perduto per sempre... Nulla, nulla mai potrà richiamarmi su quel lubrico, periglioso cammino. Ah! inorridite!... Sulle mie mani c'è sangue, cui non hanno cancellato tuttavia tante mie lagrime.” Feci un moto, ch'egli interpretò certo per manifestazione d'orrore che io provassi. “Ah! non allontanatevi da me:” soggiunse ratto e con forza. “Sono un omicida, ma non sono un assassino. La sventura ebbe parte al mio delitto, non la mia volontà... Non condannatemi, compatitemi. Io era nato per amare ed essere amato!” Volli parlare, ma egli mi fe' cenno tacessi, e dopo un istante riprese con più calma: “Il mio paese, il mondo, l'umanità! Che cosa possono pretendere da me? Che io non passi inutile affatto in questa vita terrena. Ebbene, io tolgo loro un vano sognatore, un infruttuoso fabbricatore di versi, per dare ad una povera popolazione un maestro che non senza effetti s'industria ad allevare generazioni migliori, redente dai pregiudizi e dalla miseria dell'ignoranza. Spogliatevi delle vostre preoccupazioni cittadine e letterarie, dei vostri pregiudizi di scuola e di salotto, dei vostri leggieri e puerili apprezzamenti da caffè e da appendice di giornale; esaminate con fredda attenzione la cosa, e conchiuderete, credetemi, essere più vantaggiosa mille volte l'opera del più umile fra i maestri di villaggio che quella del più glorioso dei poeti.” “Voi avete gran parte di ragione, ma la guastate esagerando. Volete disconoscere il buon effetto che producono sull'animo umano, nobilitandolo, i capolavori dei genii? Quanti furono spinti a sublimi aspirazioni, concepirono sublimi pensieri, si sforzarono ad esser grandi, ed ottennero almeno di essere più nobili di mente e di cuore alla lettura delle grandi opere dei grandi poeti? Il cómpito del maestro è certo eccellentissimo nella sua tranquilla umiltà, ma ciò non toglie che l'opera dei genii, nella dolorosa e, come dite voi, pericolosa sua gloria, non sia pure ottima a sua vólta. Ora l'intelligenza dell'umanità, l'intelligenza d'una nazione deve avere ed ha per l'una e per l'altra di codeste opere stromenti diversi, specialmente adattati; ed è un invertire le parti e fallire al dovere, chi destinato per una si dà invece all'altra. Voi che siete nato poeta, lasciate a più umili intelletti l'utilissimo ma meno elevato ufficio del maestro di bimbi; voi che lo potete, date alla vostra patria il canto dei forti onde abbisogna: siate il _poeta civile_ dell'Italia moderna.” Egli si alzò e passeggiò alquanto su e giù per la stanza, le braccia incrociate al petto, il capo chino. Osservai come il suo passo, abitualmente incerto e barcollante, fosse allora fermo e sicuro. Dopo un istante, mi si piantò dinnanzi, e guardandomi con un certo piglio d'autorità e d'orgoglio, press'a poco come mi aveva guardato quel mattino sotto il viale dei pini, mi rispose: “Essere il poeta civile dell'Italia moderna? Ma che? Pare a voi che basti il volerlo, anche chi abbia ingegno da tanto? Credete voi che il poeta tragga solamente da sè medesimo, dalla sua anima soltanto, la sostanza de' suoi versi? Egli la attinge dall'atmosfera che lo circonda; egli, fuoco che accentra e riproduce i sensi e le voglie della società in mezzo a cui vive. È questa la sua prima condizione di vita, come poeta. Quando alcuno avesse l'impossibile valore di stare e di fare contro alla corrente comune, perirebbe negletto e quindi più inutile ancora. Esaminate qual sia — nelle sue credenze, nei suoi intendimenti, nei suoi fatti — l'epoca nostra, e dite se può il poeta stillare da tali elementi il poema della virtù, della verità e della fede. Byron e Leopardi sono i due veri poeti del nostro secolo — forse i soli! — e hanno cantato lo scetticismo. Le deficienze, gli errori, i decadimenti dei nostri contemporanei, credete voi sieno tutta colpa di loro rea volontà? È per la maggior parte colpa delle circostanze, dell'ambiente in cui si vive.” “Conviene adunque rimediarvi” interruppi, “conviene che a ciò si rivolga l'opera...” Ed egli vivamente: “Dei maestri, che educhino le generazioni che sorgono.” Accennai parlare, ma non mi diede tempo. “Sentite! Sono ormai tant'anni che io ho presa questa risoluzione, e non me ne pento. Potete pensare se tutti gli argomenti che avreste da dirmi non sono passati e ripassati per la mia mente, e se valgano ancora ad ottenere alcun effetto in me. La nostra discussione quindi si converte in una semplice conversazione accademica.” S'interruppe un istante a prestare orecchio ad un gaio vociare che s'udiva fuori nella strada, avvicinantesi man mano: erano armoniche vocine di bambini chiassosi e ridenti che s'accostavano a quella vólta. La terrea faccia del maestro si illuminò d'una gioia quasi paterna. “Silenzio!” diss'egli con forza. “Ecco i miei scolari, i miei gioielli, come a Cornelia romana i suoi figliuoli... Ecco la mia poesia, ecco la mia gloria.” Pareva ringiovanito. S'affrettò a scendere e ad aprire la porta: una frotta frugola e clamorosa, da paragonarsi ad uno stormo di passerini pigolanti, si precipitò nella stanza intorno a lui, a serrarlo in mezzo con mille gridolini di affettuoso salutare. Ambrogio chinò la sua testaccia grigia ed arruffata all'altezza di quelle testoline bionde, e lietamente commosso li abbracciò tutti uno ad uno. Poi si volse a me con due lagrimette tremolanti entro gli occhi. “Ora,” disse, “io mi sento dappiù che molti nel mondo.” Io mi accomiatai. “A rivederci:” gli dissi. “Sento il bisogno di discorrere dell'altro con voi.” Egli crollò il capo senza rispondermi. “Entriamo a scuola, figliuoli miei” disse ai bambini; — e mentre io usciva, egli montava la scala, circondato da' suoi piccoli amici. XII. Dopo quel giorno fui più volte a visitarlo, ed egli a poco a poco si dimesticò con me in guisa che mi parve non vedesse mal volentieri la mia frequenza. Conobbi in breve che, dotto principalmente nella storia e nella filosofia, maestro Ambrogio non era ignaro affatto di nessuna delle parti dell'umano sapere, essendo egli uno di quegli spiriti complessivi e vasti che tutto possono abbracciare. Credo che io venissi appunto acquistando gradatamente la sua fiducia, perchè non mi dimostravo per nulla curioso dei fatti suoi, e non gli avevo mosso ancora mai un'interrogazione sul suo passato. Non già che non mi stuzzicasse il desiderio di sapere alcuna cosa in proposito; ma pensavo che una sconsiderata richiesta su tale argomento l'avrebbe di subito impermalito e posto in sospetto, con rischio di farmi perdere a un tratto tutto il guadagno che ero venuto facendo nel suo animo. Un giorno che io non aveva più che poco tempo da rimanere in quel paese, e ch'egli mi parve più espansivo del solito, pensai inopinatamente di assalirlo con queste parole: “Presto parto, Ambrogio, per non tornar forse mai più in questo villaggio.” Egli non mi lasciò continuare. “Ho pensato a codesto, e parecchie volte,” disse, “più che non avrei voluto. E talora.... vi parlo schietto.... mi parve il mio meglio; mi dicevo anzi che sarebbe stato più a mio vantaggio, o non foste venuto mai, o non vi avessi conosciuto; talora invece me ne sono sentito a trafiggere come dalla puntura di un dolore. A buono o a mal mio grado, voi avete pure nuovamente collegata la mia anima, ormai disavvezza, ad un mondo d'idee e di fatti che alla fin fine ho amato cotanto, e, partendo voi, quest'ultimo anello si rompe, per lasciarmi, proprio del tutto, senza più rimedio, ripiombare in quella solitudine desolata che ho pur voluto, che voglio sempre, che deve essere la mia sorte, ma contro cui, alle volte, si ribella l'anima mia. Mi sono proposto il quesito: se avrei dovuto scrivervi....” “E l'avrete sciolto affermativamente, io spero. Scriviamoci, ve ne prego.... per util mio. Nei vostri colloqui io sento aver molto appreso e molto da apprendere. Da un carteggio, voi avrete per mio mezzo continuata alcuna attinenza con quel mondo esteriore a cui rinunciaste, e che pure vi è necessità di seguitare nel suo svolgimento civile e morale; e nell'espansione del vostro cuore in un cuore che vi giuro profondamente devoto ed amico, oltre che un sollievo, otterrete il giovamento di me, a cui le vostre parole saranno ammaestramento e guida e conforto.” Ambrogio scosse il capo. “No, no,” disse. “Partito di qui, voi mi oblierete, io vi devo obliare. Ve l'ho già ripetuto più volte: io al mondo sono morto.... In un paese colaggiù, della mia regione nativa, giace un corpo entro una fossa del cimitero, e sopravi un'umile pietra con inciso il mio nome, il nome che portai fra i viventi. Io sono uno spettro, a cui non è concesso rientrar nella vita.... e che non lo vuole. Nella vostra esistenza — poichè il caso, non la nostra volontà, ha fatto che io una qualche orma v'imprimessi — debbo passare non altrimenti che come un'ombra fugace. Sarò la memoria d'un estinto. Ora gli estinti non tornano, come il passato non si muta, come il destino non si rinnovella.... e se tornassero, quei poveri estinti, sarebbero i mal capitati.... Lasciatemi nella mia ombra di morte.” Io volli ribattere; ma egli non mi ascoltava, assorto, come gli avveniva di frequente, nelle sue meditazioni. A un tratto si alzò, e passeggiando con agitazione per la stanza, così prese a dire: “Credetemi, credetemi... Che la felicità sulla terra è un motto vano, l'hanno detto centinaia di Filosofi.... e hanno avuto torto. La felicità per l'uomo è la pace dell'anima, la quiete dello spirito, la tranquillità della coscienza e della vita. E tutto questo non lo trova se non chi vive ignorato. Il detto del Vangelo va umanamente corretto in questa guisa: «Beati i poveri di spirito, perchè essi vivono ignorati!» Descartes lo disse prima di me. Essere oscuri, non contare per nulla nel mondo, e saperlo, e contentarsene, e fare modestamente un po' di bene intorno a sè, fuori d'ogni preoccupazione di lode e d'applauso, ecco la vera virtù, ecco la sola possibile felicità dei mortali.... Ed è quello che ho trovato qui, in quest'angolo rimoto del mondo, e che non voglio perder più.... No, no, no, in fè di Dio!” Si piantò dritto innanzi a me, e ponendomi sopra una spalla la sua destra, riprese con accento tra di melanconia, tra d'ironica beffa: “Sapete voi che cosa sono gli applausi del mondo? Vi hanno essi allappato la bocca col loro acre sapore gli encomii volgari della gente? Vi ha fatto girare la testa quel «fiato di vento che or vien quinci ed or vien quindi» e che è il mondano rumore? Vi è salita al cervello l'orgogliosa ebbrezza d'una rinomanza che fa ripetere ai polluti echi della pubblicità il vostro nome?.... Io, io l'ho provata la miseria di quell'acuto diletto; e sciolto, qual ora mi sono, da ogni laccio di vanagloria, posso pur dire che mi sono arrampicato sino sul piedistallo della celebrità, e, come nell'anima gli spasimi dei grandi, come nella mente le torture del genio, ebbi nella vita le immani superbie dei veri trionfi.” Si cacciò nelle arruffate chiome ambe le mani e se ne serrò la testa con moto quasi convulso. “E il mondo mi conosceva egli? M'apprezzava egli a dovere?.... No, lasciate ch'io lo dica. Nella corona di spine che impose alla mia fronte, era troppo poca la sacra fronda d'alloro... Il mondo!... Perchè vi affannate a meditare, lottare nella battaglia de' pensieri, travagliarsi a scrivere per esso? Malaccorto! Non lo sapete? Su cento lettori, novanta sono mediocrità e peggio, svogliati, inintelligenti e superbi che non vi capiscono e v'insultano nei loro giudizi, non meno colle loro lodi che colle loro censure: sui dieci che rimangono, nove sono invidiosi, i quali, quanto maggiore il vostro merito, tanto più vi odiano: uno forse, — uno solo! — per gran ventura, vi comprenderà, forse, e porrà in voi stima ed affetto.... Uno!.... felice ancora chi lo trovi!” Fece una pausa, e tornò a passeggiare per la stanza. Io sentiva che il suo cuore era presso a traboccare in confidenze, mi guardai bene dal dir parola, per timore che una voce imprudente potesse richiamarlo al suo solito scetticismo diffidente. Si fermò di nuovo innanzi a me e mi disse commosso e quasi stentatamente: “E io, quest'uno, non l'ho trovato.... non l'ho trovato mai! Nessuno mi amò.... Da ultimo, quando fattomi umile ed oscuro, si ebbe compassione del povero maniaco; il poeta fu spregiato o temuto, odiato quasi sempre. Io non sono di quest'epoca. Appartengo o ad un passato che non so nemmanco quale, o ad un avvenire che per ora non accenna neppure di effettuarsi. Ho amato la verità, e gli uomini mi disamarono.... Voi, voi medesimo avete alcuna curiosità per l'incognita che io rappresento e che vorreste spiegare; ma alcuna affezione l'avete voi per me?” Vedendo che mi accingevo a rispondere, s'affrettò ad impedirmelo bruscamente. “Oh non parlate!.... Crederei io alle vostre parole?.... E non vorrei che mentiste!.... E se mai aveste il coraggio di gettarmi in faccia una verità dolorosa, ne soffrirei tuttavia, tanto ancora in me rimane del vecchio uomo!... E poi, me... veramente me, qual fui.... conoscete voi bene?” Mi prese una mano; le sue erano fredde come ghiaccio. “Le anime nostre simpatizzarono: la vostra intelligenza comprese la mia. Lasciatemi questa illusione. Avete scorta la superiorità della mia mente e non ve ne adontaste meco, nè mi metteste odio: per ciò.... Vi stimo.... Oltre questo basso mondo, ci troveremo un dì, — ho questa credenza — là dove brillano di tutta la loro luce, puri d'ogni opaca volgarità, gli spiriti nostri. Vedrete allora che non avete avuto torto. Vedrete come all'interiore abbia infelicemente corrisposto il mio fisico inviluppo. Non vi pentirete d'avermi creduto da più.” Si pose sulla fronte la mia mano che teneva ancora fra le sue. Quella fronte ardeva, come se travagliata dalla febbre. “Qui dentro si è combattuta a lungo e si combatte ancora talvolta una tremenda battaglia: quella cui legò Adamo all'umanità; quando al dilemma postogli dal Creatore, rispose: ch'io pur muoia, ma ch'io pensi! la battaglia dell'intelligenza finita coll'infinito; una battaglia che non si vince mai!.... “Credete voi che un uomo possa, o sull'ali dell'ispirazione, o cogli sforzi faticosi della scienza, elevarsi tanto alto da abbracciare tutto il corso dell'umanità e farne risaltare il perchè della esistenza, quel perchè ond'è costituita la finalità dei nostri destini? “Qui è tutto il segreto della creazione; questi sono i misteri eleusini, a cui forse è iniziazione la morte.... Io mi ruppi la mente contro quelle tremende porte di ferro.... Che cosa parlano questi immensi geroglifici scritti a sistemi di pianeti nell'infinito spazio? Che cosa sussurra questo vermiciattolo che pensa, un puntino nel gran volume, quest'atomo che è l'uomo? Tutto si viene ad infrangere innanzi alle tenebre di questo perchè.... E senza un sentore almeno di esso, credete voi possa esistere teologia, filosofia, scienza, poesia umana? Bene avvisati quelli che inventarono la rivelazione, e felici coloro che vi poterono credere! Senza questo punto d'appoggio, tutto oscilla nel vago e si perde nel nulla.” S'interruppe ad un tratto, lasciò andare la mia mano, e le braccia gli caddero lungo la persona; la faccia gli si fece pallida, pallida. “Ah! io vaneggio:” esclamò. “Voi mi direte pazzo.... e forse lo sono!.... Ma gli è che la parola è pure un'inetta traduzione del pensiero.... Compatitemi!” XIII. Pensai di agevolare colle mie parole quell'effusione che mi pareva prossima a prorompere dalle labbra di lui: “Nessuno vi amò, voi dite; ma questa ventura non si ottiene che ad un prezzo: quello di amare a nostra vòlta; e voi, avete voi amato, realmente amato qualcheduno nel mondo?” “Se ho amato!” esclamò con impeto, “Dio buono! Era tutto amore la mia intelligenza; su tutto il creato si versava potente, desioso di sacrificarsi, il mio affetto. Cominciò la mia famiglia medesima a respingermi. Mia madre, — mia madre stessa, capite? — si vergognò d'avere a figliuolo un mostro qual ero io!...” Feci un atto di stupore, quasi d'incredulità. “Ah! ciò non vi par possibile. È una disgrazia sì grande che pare Dio non la dovrebbe mandare a nessuno, che raramente o non mai si vede intravvenire pure fra le tante tristizie del mondo, avere una madre e non conoscerne i baci e le carezze!.... Ebbene, tale sventura toccò a me.... Mia madre mi disamò per riportare tutto il suo affetto sui miei fratelli; e quando la morte glie li tolse, tutti! per lasciarle soltanto il negletto, quasi rendendo in colpa me della crudeltà della sorte, il suo disamore divenne odio.... “Finchè erano vissuti, i miei fratelli mi avevano disprezzato e maltrattato. Mi disprezzarono e maltrattarono i compagni nel collegio, dove mia madre mi aveva relegato lontano dalla casa paterna per non aver turbati i suoi occhi dalla mia presenza. Fui fatto lo zimbello di tutti, e siccome ero il più debole, tutti ne abusarono per amareggiarmi con ogni sorta di oltraggi. Chi può dire quanto dolore s'ammassi di questa guisa nel cuore d'una creatura che sente! Ah! se io non divenni un tristo, convien pur dire che ero stato creato buonissimo. Io piansi meco stesso da solo, e perdonai sempre. Finalmente un giorno trovai fra quelle persecuzioni un difensore e me ne feci un amico.... Gran Dio! lo feci padrone dell'anima mia, il mio esemplare, il mio idolo!.. Quanto io lo abbia amato nessuno lo seppe, nè anch'egli..... Eppure io stesso doveva.... io stesso!....” Si coprì colle mani la faccia e stette lì muto alcuni minuti, ma singhiozzava penosamente. Poscia si lasciò cadere abbandonatamente sur una seggiola a me dappresso, e, mostrandomi il volto sconvolto da una profonda e viva angoscia, riprese con voce debole e sommessa: “Egli era bello, robusto, ardito ad ogni esercizio di corpo, ad ogni audacia atto e valente. Pietà lo prese di questo scimmiotto che era la vittima di tutti. Sotto la protezione della sua forza io conobbi un po' di pace. Lo ricompensavo, facendo tutti i suoi compiti ed amandolo come si amerebbe l'incarnazione del buono e del bello sulla terra. Ero suo schiavo. M'avesse detto: «gettati da questa finestra,» vi giuro che l'avrei fatto. “Fuor del collegio i medesimi scherni e le medesime vergogne, meglio coperte dalla vernice della cortesia ma non meno maligne e spietate; e da queste non poteva più, come prima, difendermi quel tale che io amava sempre con tutta la potenza dell'anima mia.... Non poteva, e più ancora non voleva più.... Esso non mi aveva amato mai: era stata una sprezzante compassione la sua. Quando nella debole creatura, ch'egli aveva difeso, avvertì un'intelligenza superiore alla sua, mi odiò. “Col giungere dell'adolescenza anche in me erano nate nuove e indefinite aspirazioni: quelle tormentose e gradite aspirazioni che inconsciamente spingono l'anima verso l'ideale e sollecitano e addestrano alla grandezza l'ingegno predestinato. Ero stupito e confuso di me medesimo, non mi riconoscevo più. Stimatomi io stesso fino allora l'ultima fra le creature viventi, mi sentivo delle vampe superbissime d'una eccelsa ambizione. Me ne vergognavo, nascondevo accuratamente nel mio timido silenzio tali accessi di pazzia; avrei voluto dissimularli anche a me stesso. Ma nei miei sogni pertinacemente tormentosi, mi appariva la felicità seducente del sorriso, non solo della bellezza, ma della gloria. Un giorno scoppiò in me l'ispirazione come un fulmine; quasi per un lampo, mi vidi a un tratto illuminato l'esser mio e il mio destino, e scoperto il segreto delle mie angosce mentali. Ero poeta! “Poeta! Re della terra, re del pensiero! Favorito da Dio d'una favilla uguale alla sua luce divina; sentendo nel proprio essere più vasta l'orma del suo spirito creatore; capace di padroneggiare il mondo dell'ideale, di apprendere il sovraintelligibile, di accostarsi al miracolo della creazione! Essere infimo, debole, il più dispregiato degli uomini e conoscersi degno della più splendida corona! Comprendete voi quali intime esaltazioni e quali segreti affanni, quali inquiete lusinghe e quali terribili accasciamenti mi si avvicendassero e turbassero l'anima nella mia oscura giovinezza?... “Oh i miei primi versi!... Erano l'esplosione d'un delirio d'amore, erano il poema della gioia amorosa della vita, erano il misterioso canto della natura tradotto in armonia di parole, in palpiti di cuore umano. Che cosa non avrei dato per potere ad un tratto farli suonare potenti all'orecchio del mondo, e comparire innanzi ai miei concittadini cinto di quella splendida luce di poesia che mi sentivo nell'intelletto e nel cuore? Eppure avevo vergogna di me e dell'opera mia; e la nascondevo agli sguardi di tutti colla cura con cui si nascondono le traccie d'un delitto. Se il mondo avesse mai risposto colla beffa a quel vero sangue mio sgorgatomi dall'anima? Guai! Li amavo tanto quei poveri versi!... “Amavo!... Oh non amavo soltanto lo sfogo del mio cuore, non amavo soltanto l'amico mio... Amavo una fanciulla fieramente leggiadra come un superbo fiore di stufa signorile. Aveva ella tutto in suo favore: potenza conquistatrice di bellezza, nobiltà di natali, ricchezza di fortune, felicità d'ingegno. Era una seduzione il vederla, una malìa, un incanto, un'ebbrezza l'avvicinarla, l'udirla, il riceverne la fiamma dello sguardo. E l'amavo... io povero, io meschino, io di sì brutte forme! “Era per lei che godevo d'esser poeta; era innanzi a lei che volevo presentarmi cinto dei raggi della gloria; era ai suoi piedi che ambivo deporre la mia corona d'alloro non ancor conquistata. “Avevo letto di quella tale principessa che baciò sulla bocca il gobbo poeta addormentato, per le dolci cose che uscivano da quelle labbra; sognavo che di me pure la sublime armonia del canto facesse obliare la meschinità della persona. “Così non poteva durare. Deliberai aprire il mio animo a quell'unico amico che avessi. “Alfredo mi sfuggiva, pareva quasi vergognarsi di me; sempre più avvenente, audace, temuto da ogni competitore pel valor suo, desiderato in tutti i salotti per la sua piacevolezza, primo in tutto ciò che imprendesse e in ogni dove comparisse, cavalcatore esperto come nessun altro meglio; Alfredo godeva nel mondo i più invidiabili successi. “Suonava con arte e sentimento, componeva romanze, ballabili e melodie che le signore eseguivano con diletto nelle serate invernali; scriveva gaie leggerezze su pei giornali e molli versettini negli _Album_ delle dame, che gli valevano una certa gloriola di letterato e il titolo d'_uomo di spirito_, cui egli si confermava mercè una cara franchezza e subitaneità di motti e di rimbeccate. Era uno di quegli ingegni che riescono in ogni cosa a cui s'accingano, ma ai quali la deplorabile facilità impedisce di nulla mai approfondire. “Io gli svelai in una i miei due eccelsi amori: quello alla Musa e quello alla mia donna. Gli dissi vivere oramai per quelli soltanto; esser quelli la mia ultima ragione, la luce che m'illuminava il pensiero, lo scopo di tutto. “Sorrise, scherzò dapprima, di poi il mio ardore parve colpirlo, il mio entusiasmo apprendersi anche a lui; tacque per un poco, divenne serio, anche i suoi occhi lampeggiarono; sollevò la fronte e la scosse superbo come per dire: «ancor io, e forse più, sono degno di tanto.» Mi recitò, declamando alcune delle sue ballate; trovò freddi gli elogi ch'io glie ne faceva. Tentò cambiar discorso; pareva inquieto e malvoglioso; ad un tratto chiese di poter leggere i miei versi: tremando glie li affidai, e se ne partì con essi. “Stette più giorni senza farsi vedere. Avrei voluto andare in casa di lui, e non osavo. Venne finalmente una sera da me. Dalla finestra, che guardava verso l'occaso, appariva in fondo all'orizzonte una striscia di nubi color sangue, stesa là dove il sole era da poco tramontato. La luce crepuscolare da quelle nubi diffusa illuminava soltanto con tinta giallastra la mia cameretta e la fronte di noi due che ci eravamo appressati alla finestra. All'entrare d'Alfredo io aveva impallidito come uomo che aspetta la sentenza del suo avvenire; e il cuore mi palpitava forte forte nel petto. Ci tenevamo stretti per le mani; le mie ardevano, le sue erano fredde come ghiaccio. Anch'egli mi parve un po' commosso; esitava a parlare, di certo era alquanto turbato.” XIV. “Parlò poscia, ma non colla solita sua scioltezza. Aveva letto i miei componimenti, ed aveva visto l'oggetto dell'amor mio. Di questo discorse con entusiasmo; la giudicava la più bella figura di donna, le cui sembianze rivelassero una natura eletta; abilmente, in mezzo a un diluvio di parole, mi fece comprendere essere una follia in me l'amarla, un'imperdonabile follia poi se con qualche speranza. Compresi come, secondo lui, io fossi condannato all'infelicità, e sarei stato ingiusto a pur lamentarmi del mio destino. “Sentivo una gravezza, come cappa di piombo, scendermi e pesarmi sull'anima. Imbiancavo a volta a volta ed arrossivo nel viso; mi veniva difficile il respiro. “Finalmente entrò a discorrere de' miei versi. — «Me ne rallegro teco. Non c'è male. Alcune stranezze di un gusto non perfetto; ma con qualche ritocco qua e là, con qualche correzione, cambiando qualche verso, davvero che mi pare si possano ridurre una cosa più che mediocre.» “Io aveva chinato il capo e tacevo. — «Anzi ho pensato ad una cosa:» soggiunse. «Mio caro, le nostre produzioni letterarie, per giudicarle a dovere noi stessi, bisogna vederle stampate. La stampa è come alle sceniche composizioni la luce della ribalta; se tu acconsenti, voglio fare stampare i tuoi scritti.» “Tacevo sempre. “Alfredo riprese a dire, che aveva giusto sotto i torchi un volume di sue poesie, che avrebbe a quelle aggiunte le mie, e così introdottele nel mondo letterario sotto il patrocinio del suo nome, già conosciuto e circondato di qualche riguardo. “Tacevo, ma la mia mente lavorava in modo febbrile. I miei versi, stampati in nitide pagine, con nuova ed efficace leggiadria, mi turbinavano innanzi, atteggiandosi, per così dire, a mirabili forme, esplicando una segreta armonia di dolcissimi suoni. “Li vedevo apparire come luminosi agli occhi della gente, li udivo cantare nell'orecchio ammirato degli uomini, sentivo ripetuto dagli echi della terra con plauso, il mio povero nome. “Alfredo aveva voluto persuadermi della mia indegnità per la donna che amavo. Una mai provata superbia gonfiava invece l'anima mia. Oh no, non ero indegno di lei. Il genio che mi possedeva, era capace d'innalzare il mio essere sino all'altezza di quell'angelo umanato. Le mie opere l'avrebbero dimostrato; lo dimostreranno in fè di Dio, giuravo in segreto a me stesso. “L'amico mi chiese, non senza qualche inquietudine, se acconsentivo alla sua proposta. — «Sì,» risposi debolmente con una simulata indifferenza, abbandonando nelle sue la mia mano diventata fredda ed inerte. “Ma dentro me quale tumulto! “Le mie prime poesie si stamparono poco dopo nel volume pubblicato da Alfredo, e comparvero sotto il suo nome; erano pubblicate quali io glie le aveva date, senza la correzione d'una virgola. Provai nel vederle un misto di sentimenti contrari, indicibili. Mi parvero sublimi, mi parvero ridicole; ne sentii ora orgoglio, ora vergogna; provai una rabbia dolorosa nel vederle andare sotto nome d'un altro, una specie d'acuta gelosia, e poi dissi a me stesso che così era anche meglio: ritirato nella mia cameretta, pensai con satanica superbia che la mia opera aveva gran pregio, ma che io era capace tuttavia d'assai più. “Alfredo ebbe da quella pubblicazione molta rinomanza. Gli si disse che aveva trovate vie nuove, che aveva rivelato un nuovo lato del suo genio, manifestata una nuova potenza della sua poesia. Mi venne intorno più amorevole che mai. Io non metteva insieme due parole, senza tosto comunicarle a lui. Talvolta mi suggeriva alcune idee, mi abbozzava qualche argomento; poi ammorzava alcun colore troppo acceso, temperava taluna immagine troppo ardita della mia poesia; e quando poi le composizioni erano al termine, le chiamava con tutta franchezza, fra noi due, nostre, in pubblico sue, senza uno scrupolo. “Mi adattavo a codesto suo modo ma, come potete pensare, non soddisfatto. “Un giorno, finalmente, la mia tolleranza mi parve una debolezza e una viltà; il procedere d'Alfredo una pirateria a mio danno. “Non vi ho ancor detto come praticassi nella casa della fanciulla amata. Il padre di lei, pietoso alla mia povertà, avevami dato un umile ufficio nella ragioneria dei suoi grandi capitali e delle sue vaste tenute; ero poco più d'un servo in quello sfarzoso palazzo, ma vi ero accolto con una specie di domestica fiducia. “Un giorno, entrando nel salotto, trovai Albina intentissima alla lettura con una profonda emozione da questa prodottale, le guancie affocate, gli occhi per lagrime lucenti, il seno agitato. Dio del cielo! Ella stava leggendo i miei versi. “Albina fuggì, come per nascondermi la sua emozione. Io rimasi là, piantato, invaso il cuore da un'improvvisa, ineffabile dolcezza. I miei versi avevano parlato all'anima di lei! “Ma ad un tratto una terribile idea mi ferì come la punta di uno stile, il cervello e il cuore. I miei versi, per lei come per tutti al mondo, non erano miei; ad altri ella attribuiva que' sentimenti, que' pensieri, quella passione; ad altri ella attribuiva il merito di quel suo commuoversi e del suo palpitare. E s'io le avessi detto ch'era mia quell'ispirazione, mi avrebbe ella creduto? “Una specie di furore subitamente m'invase. Volli che Alfredo mi restituisse la rinomanza che a me aveva derubato; mi restituisse soprattutto la simpatica commozione e forse l'ammirazione d'Albina. Sentii a quel momento il primo impulso di odio che avessi ancora provato mai, io che il mondo e la sorte avevano sì crudelmente bistrattato sempre; e quest'odio lo sentivo per colui che primo aveva mostrato aver di me alcun pietoso riguardo! “Corsi da Alfredo, e tutto ancor concitato lo minacciai di svelare il segreto della paternità dei suoi libri. Egli si fece bianco in volto, e i suoi sguardi dapprima lampeggiarono di sdegno e di minaccia; poi tosto si raumiliò, come non avevo mai visto alcuno umiliarsi, come non lo credevo capace di fare, egli, con la sua fierezza. “Mi disse che avrei distrutto ogni sua felicità, che avrei cagionata la sua morte, perchè di certo egli si sarebbe ucciso a tanta vergogna; mi pregò colle lagrime agli occhi: giurò che, io tacendo, avrebbe egli fatto per me qualunque cosa che gli avessi chiesto, datomi anche la vita. “Quell'affetto, che da tanto tempo avevo in lui, risorse tutto in un attimo e maggiore di prima. Mi gettai nelle sue braccia, piangendo ancor io. — «Amami soltanto, Alfredo,» gli dissi: «e di tutto mi avrai compensato.» “Giurai di tacere per sempre.” XV. “Era mio proposito accingermi con nuova lena al lavoro, e riguadagnare in breve il tempo per la mia fama perduto: ma luttuosi avvenimenti me ne impedirono. “Il padre d'Albina ebbe subiti e irreparabili rovesci di fortuna. Come sempre accade nel mondo, tutti coloro che a lui avventurato erano amici compiacenti e cortigiani, lo abbandonarono. Io gli venni innanzi umilmente, quasi tremando, e dissi: — «Sono povero, e buono a poco o nulla; ma tutto quello che ho e quello che valgo, pongo in poter vostro. Disponete di me.» “Quell'uomo, superbissimo fino allora dei suoi natali e delle sue ricchezze, che altro non aveva avuto mai per me che una compassione altezzosa, parve stupito ed ammirato del mio tratto. Aveva coraggio e volontà tenace; era di quelli che, prima di abbandonarsi in balía della corrente che li travolge, s'attaccano a qualunque ramo, per debole ch'esso sia, fosse pur anche spinoso da insanguinarvisi le mani. Accettò la mia offerta, le pochissime mie sostanze sparvero in un attimo in quel baratro che la sventura aveva scavato sotto i piedi a quella famiglia; e lavoravo tutte le ore del giorno per essa! Il padrone, diventato burbero, atrabiliare, mi comandava in modo aspro come si fa ad un servitore negligente; Albina mi ringraziò una volta con sublime semplicità, stringendomi la mano, gli occhi gonfi di lagrime. Che avrei io potuto desiderare di più? “Bene o male, di questa guisa ero diventato quasi uno della famiglia e n'andavo superbo. Vedevo Albina tutti i giorni, stavo delle ore a guardarla, pallida e severa nella sua mestizia; m'inebbriavo spesso della ineffabile gioia d'udire la sua voce. N'ero quasi felice. _Dear_, il cagnolino di lei, mi faceva le feste più amorevoli del mondo. “Ma il padre d'Albina non potè vincere in niun modo la troppo avversa fortuna. A un punto, perduta ogni speranza, egli perdette ogni coraggio, ogni forza di spirito e di corpo. Morì di lì a quattro mesi. Io mi diedi tutto e sempre più all'arido lavoro degli affari, per sopperire ai bisogni di quella disgraziata famiglia. “Addio poesia, addio lettere, addio arte, addio sogni di gloria! M'imbestialivo nelle cifre da mane a sera, nè mi lamentavo, nè desideravo di meglio. Albina era tanto bella, anche nel suo dolore!... “Passò circa un anno. L'amavo sempre più. Ad un punto m'accorsi che un cambiamento non lieve erasi fatto in Albina. Le guancie eranle divenute più rosee, più brillanti ed espressivi gli occhi, più dal sorriso animate le labbra. Una certa misteriosa fiamma appariva di quando in quando sul suo volto; aveva subite contrarietà e improvvise tristezze avvicendate a giocondità, di cui non sapevo rendermi ragione. Pareva avere alcuna cosa da dissimulare. Si piaceva molto a restar sola; sovente la coglievo immersa in profondi pensieri; molte volte era d'un'amabilità maggiore ancora del solito. Attribuivo codesta mutabilità allo svolgersi della sua fiorente giovinezza soltanto. “Ma l'amor mio oramai era tale, che non potevo più rimaner in silenzio. Il mio cervello era in un esaltamento che non lasciava più luogo alla ragione. Un giorno ella fu meco più amorevole dell'usato; il sangue mi s'infiammò nelle vene mandandomi vampe di calore alla testa. Pareva ella volesse aprirmi il cuor suo, e la piena del mio traboccava verso di lei. Incoraggiato da' suoi modi, dalle sue parole, mi rivelai.... “Me disgraziato! Come potei avere tanto temerario ardimento? “Ella impallidì; si trasse vivamente in là, mutò subito maniere ed aspetto; si premè con una mano il cuore, e quando io a quella vista mi tacqui sovraccolto da un tremito improvviso, ella gettò un grido e fuggì. “La mia sentenza era pronunciata. Caddi in ginocchio in quel punto dove ella era poc'anzi, e sentii il cuore rompermisi dall'affanno. Avevo di me stesso vergogna. Poter credere di essere amato! Io? Oh ella doveva ridere di me. Non avevo ottenuto che di sciogliere quel poco legame che mi avvinceva a lei, e che era pure il mio solo bene. Come avrei potuto ancora venirle per casa? come rivederla? “Quello non era ancora il maggior dolore che mi dovesse toccare; ed era già sì grande! Ricevei quel medesimo giorno una lettera d'Albina.” XVI. “In quella lettera ella mi narrava come, fin da quando era ancor giovinetta, avesse dato il suo cuore ad un uomo; i dolori e le sventure sopravvenute non avere quell'affetto cancellato, e ora che l'occasione era nata in cui aveva potuto con quell'uomo accontarsi, tratti da scambievole amore, essersi giurata eterna fede. Volessi compatirla; seguitassi ad amarla come fratello: non le amareggiassi la felicità del suo corrisposto affetto col pensiero ch'io soffriva per lei.... “Ah! dovevo rinserrare nel cuore la cruda angoscia e comparirle dinanzi sorridente, lieto testimonio della felicità d'un altro! “Non vi dirò che rodimento fosse il mio. Immaginatevi quanti più acuti tormenti possa cuore umano provare in uno spasimo uguale a quello dell'agonia! “I miei primi propositi furono propositi di sangue. Nella mia mite natura l'angoscia trovò pur tanta ferocia da farmi provare una voluttà nel pensiero d'uccidere quell'uomo che possedeva un tanto bene a me negato, d'uccidere anche lei!.... “Ma questo violento parosismo di furore in me non poteva durare. M'accasciai sotto la sciagura che mi percuoteva, piansi disperatamente; e quando ebbi tutte versate le mie lagrime, mi levai con animo risoluto e corsi da Albina. La volevo ad ogni costo felice, lei; a costo anche d'ogni mio bene. “Avete avuto torto, le dissi, a non confidarmi tutto. Ora trattatemi davvero da fratello, e io benedirò alla vostra felicità. “Udite quel che Albina mi rispondesse. — «Sono due anni, mi veniva alle mani un libro di poesia; appena letti pochi versi, la mia attenzione fu tutta raccolta in quella lettura. Quei versi parlavano all'anima mia un nuovo linguaggio che tutta la padroneggiava. Erano l'espressione del più nobil cuore e del più nobile ingegno: erano la voce del più sublime affetto. Lessi avidamente, commossa, palpitante. Mi ricordo che voi entraste in quel punto; ed io confusa, turbata, vergognosa, indispettita d'essere colta in quell'emozione, fuggii.» “Io gettai un grido a quelle parole, e la guardai con occhio smarrito; ella continuò: — «L'autore di quelle sì leggiadre poetiche creazioni mi apparve l'uomo più degno d'amore che fosse al mondo; l'amai sino da quell'istante. Quando l'ebbi veduto di poi, Alfredo m'apparve superiore ancora a quell'immagine che io m'era di lui formata.» “Pensate qual io rimanessi! Alfredo adunque, non solo la fama mi aveva derubata, ma l'amore di lei! Obliai in quel momento che io aveva giurato di tacer sempre, obliai tutto: mi gettai ai suoi piedi, proruppi coll'impeto d'un pazzo: — Ma quei versi erano miei; ma era mia quell'anima che parlava alla tua, mio quel genio che ammirasti, mio l'amore che hai sentito fremere in quell'armonia di parole.... — “Ella dapprima non comprese; mi credè assalito da un accesso di dolore che mi levasse di senno: si curvò pietosamente su di me, volle farmi alzare, mi sussurrò qualche benigna parola; ma giurando, ripetendo, insistendo io, alfine comprese quel che volevo significare; allora non parlò più, si allontanò e mi saettò uno sguardo di indicibile disprezzo. — «Sciagurato! diss'ella con accento non dissimile da quello sguardo: la vostra è peggio che imprudenza, è un'infamia.» “E mi lasciò, allontanandosi con passo affrettato. “Oh essere fulminato dal disprezzo della donna che si ama, senza meritarlo! I feroci impulsi mi si ridestarono nell'anima. Forsennato, corsi da Alfredo, lo minacciai, lo supplicai, levai la mano armata su di lui; egli, robusto, disarmò il mio debole pugno e mi atterrò con dispettoso disdegno.... Che più? fui vinto in tutto. Fui proclamato un tristo, un calunniatore, scacciato dalla casa di lei, bandito dagli amici di lui, creduto da tutti un pazzo, un cattivo uomo.” XVII. “Fui ammalato gravemente, e quasi due mesi gemetti in un ospedale; uscito di là, m'aspettava la miseria. Quante giornate senza pane! quante notti senza sonno, e nessuna speranza di gioia mai per tutta la vita! “Mi rimisi al lavoro. Ottenni alcuni trionfi, e questi mi procurarono nuovi nemici: una polemica rabbiosa e crudele che mi era stuzzicata contro da Alfredo, mi perseguitò senza tregua; intristito, risposi offesa ad offesa, invettiva ad invettiva, oltraggio ad oltraggio. “Erano trascorsi due anni: Albina, io non l'aveva più vista mai; l'avevo sfuggita con cura; nulla temevo di più che trovarmi a fronte di lei. “Un giorno passeggiavo solitario, come sempre, in un viale fuor di città, a quell'ora deserto. Avevo il capo chino, e, ingolfato nei miei pensieri, non vedevo nulla di quanto mi circondasse, quasi non sapevo più nemmeno dov'io mi fossi. “A un tratto ecco gettarmisi tra le gambe, festosamente abbaiando, un cagnolino. Sussultai; era _Dear_, il canino d'Albina. Oh come mi sentii battere il cuore! Come mi parve d'amarla quella povera bestiolina che avevo affatto dimenticata! Essa però non avevami dimenticato, no; mi aveva tosto riconosciuto, e mi salutava con affetto, e mi faceva più vive che mai le sue solite dimostrazioni di gioia e di benevolenza. Mi curvai verso il cagnolino per rispondere alle sue carezze; volevo prenderlo tra le braccia e baciarlo. “Ma ad un tratto un pensiero mi agghiacciò il sangue nelle vene. Con chi era essa, quella bestiuola? Alzai gli occhi; mi vidi innanzi Albina, che s'accostava a richiamare il suo cane, e guardare chi fosse quell'uomo a cui _Dear_ faceva tante feste. Avrei voluto che in quel momento la terra mi si aprisse sotto i piedi. Ah! in qual modo mi guardò Albina! Lo sguardo di sdegno con cui m'aveva saettato, quando avevo voluto svelarle che i versi d'Alfredo erano miei; quello sguardo era mite e benevolo in paragone.... Dio la perdoni! Ella con quel suo sguardo uccise l'anima mia. C'era tanto disprezzo, tanto odio, tanto orrore, che io allibii. Non una parola, non una voce nè l'uno nè l'altra. Ella volse disdegnosamente altrove il passo, chiamando con voce secca ed imperiosa il suo cane. Io lasciai cadermi abbandonate le braccia lungo la persona in uno stato di prostrazione dolorosa. “_Dear_, tutto stupito del nostro contegno, stette in mezzo a guardarci. Ella tornò a chiamarlo imperiosamente. “L'intelligente bestiola corse a lei, le salterellò intorno un poco; poi tornò verso di me, e ripetè le sue festose dimostrazioni. Egli solo s'era conservato per me quel di prima; egli solo non aveva cambiato in odio ed in disprezzo quel poco affetto che m'aveva donato. “Lo accarezzai, lo presi in braccio, lo baciai, e rimettendolo in terra, perchè potesse raggiungere la sua padrona che si allontanava con passo sollecito, gli dissi: — Va', e possa tu almanco non obliarmi, se d'ogni altro che amai, devo pregare, come una fortuna, l'oblio. — XVIII. “Non c'era più alcun ritegno fra noi: Alfredo ed io ci trovavamo a fronte come nemici mortali, e il mondo crudele, aizzandoci alla lotta, godeva nel vederci scambiare dolorosi colpi al nostro cuore. “Una mia nuova pubblicazione diede pretesto a un mordacissimo articolo di critica, in cui le ingiurie e le accuse, con accorte insinuazioni, erano lanciate a piene mani su di me; sotto a quello scritto c'era il nome d'Alfredo. Se ne fece un gran chiasso in tutta la città; tutti s'aspettavano ch'io avrei provocato a duello il mio offensore: nol feci. — «È un vile:» si disse di me in tutti i salotti, in cui fioriva prospera e petulante la mormorazione. “Tutte le simpatie erano pel mio avversario, e diventarono ancora maggiori. — «Da bravo!» gli si diceva da ogni parte; «quello è un rettile che non sa mordere che colla penna. Bisogna schiacciarlo, e nessuno meglio di voi lo può fare.» “Io pur sempre condannai il duello che stimo un'assurdità o ridicola o assassina. L'esistenza d'un uomo mi è sempre parsa cosa troppo importante per avventurarla in una vendetta dell'oltraggio, nella quale la sorte il più spesso, od una scellerata perizia d'uccidere, dànno torto alla ragione e ragione al torto. “Mi tacqui. Una seconda diatriba più niquitosa, più audace, più calunniosa della prima, col nome d'Alfredo ancor essa, venne a far ridere tutta la città alle mie spalle. “Uguale alla perfidia si disse in me la codardia. Una rabbia irrefrenabile allora mi prese. Intinsi la penna nel fiele, nel veleno, e risposi con la più fiera invettiva, senza misura, senza riguardi, tutto rivelando di quanto era avvenuto fra Alfredo e me. “Fu uno scandalo inaudito. Il mondo mi disse un calunniatore, e Alfredo mi mandò a sfidare. “Volevo rifiutare il combattimento. Mi si fece comprendere che, dopo un fatto simile, sarei senza redenzione perduto nel concetto universale. Ebbi paura dell'ignominia; accettai. “Non avevo mai preso in mano un'arma. Non m'ero mai esposto, nè la sorte mai mi aveva ancora messo innanzi ad un pericolo di vita. Se avessi coraggio o no, non sapevo io stesso. Ero solo al mondo, non rallegrato pur da un affetto; e la mia morte non avrebbe costato a nessuno un dolore, a nessuno pure una lagrima. In certi momenti di quelle ore fatali che precedettero lo scontro, quel mio triste stato mi dava una disperazione che mi avrebbe lanciato con ardore verso la tomba, come verso il riposo. — Che fo io sulla terra? — mi dicevo. — Gli uomini valgono tutti meno di me: lo sento e lo so, e tutti mi stimano da meno di loro; e la vita non ha per me attrattive di sorta. Non v'è da rimpiangere nè questa nè quelli. Moriamo; e si mostri almeno a questa nemica e codarda razza che mi spregia, come sia facile il coraggio del morire cui essa esalta cotanto, perchè così raro nell'egoismo vigliacco che la domina.... E forse innanzi alla mia tomba precoce, ammutirà il livore. — “In altri momenti, invece, un grande abbattimento mi occupava, che poteva dirsi paura. La mia giovinezza dimandava di vivere. Perchè sacrificarmi ai pregiudizi di quel mondo crudele che mi aveva respinto da sè, che non aveva avuto che spine da darmi? La vita era l'unico bene ch'io m'avessi, e glie l'avrei offerta in olocausto? Avevo l'avvenire per me; avevo quell'ingegno che sentivo superiore; ed avrei tutto gettato in omaggio alle assurde opinioni d'una società, alla quale ricambiavo in doppia misura quel disprezzo ch'essa aveva per me? Di corpo ero più debole che tutti gli avversari miei, forse anche d'animo; ma di mente? Egli era in questo campo intellettuale che io aveva da lottare, e non nella stupida e brutale prova dell'armi. “Per miei padrini avevo scelto due giovinotti che in tali faccende erano peritissimi. Non avevo amici, e costoro accettarono l'incarico, solamente perchè fra certa gente è usanza che simile uffizio non si rifiuti mai. “Era di tarda sera, ed io stava nella mia stanzuccia solo, sprofondato in quei cotali pensamenti ed affanni, quando essi vennero a dirmi il risultamento della conferenza coi padrini dell'avversario e le determinazioni prese d'accordo. “Erano le seguenti: ci saremmo battuti alla pistola; la distanza sarebbe stata di trenta passi, libero a ciascuno dei combattenti d'avanzarsi di dieci; si avrebbero due pistole ciascuno; ad un segno fatto potevamo camminare l'uno verso l'altro e sparare quando ci talentasse; fatti i quattro colpi senza che sangue fosse versato, potevasi ricominciare da capo. Le condizioni erano gravi, come gravi erano state le scambiateci offese. Alfredo le aveva volute tali; ed io dissi con sicuro sembiante che le mi piacevano. — «Le conseguenze di questo scontro» dissemi poi uno dei padrini, «possono essere serissime. Ci ha ella pensato, ed ha provvisto alle cose sue?» — «Io non ho nulla a cui provvedere,» risposi. «Sono solo sulla terra, e non lascio persona che mi pianga,» “Venne a serrarmi la gola un singhiozzo che ebbi molta pena a soffocare. — «Questo duello ha destato molto l'attenzione di tutta la cittadinanza,» riprese quel medesimo dei miei secondi: «e non potrà a meno di eccitare i provvedimenti della giustizia. Quando ci fosse morte d'uomo, sarebbe meglio al vincitore il fuggire. Si è Ella preparato a codesto?» “Io vi parlo schietto, come parlerei a Dio il dì del giudizio universale. Non ho più rispetti umani, non ho più vanità personali, non ho più interesse nè desiderio d'infingermi. “A quel cenno che uno dei due molto facilmente sarebbe rimasto sul campo, mi sentii raccapricciare. Volli fare un sorriso d'indifferenza o di rassegnazione, e sono certo che non riuscii che ad una smorfia affettata. — «Non penso» diss'io «che a me toccherà lasciar il paese per questa cagione. Se uno dei due avrà da tornar cadavere, ho il presentimento che quello non sarà il mio avversario.» — «L'esito di questa sorta di cose è sempre nelle mani del caso:» disse quell'altro: «e forse non avevano affatto torto gli antichi che chiamavano il duello giudizio di Dio!.... Non le nascondo che Alfredo è buon tiratore; ma quante volte si è visto in simili scontri avere il di sopra i più inesperti! Non bisogna andare sul terreno colla paura; questo è il più essenziale. Stia dunque di buon animo, e ci aspetti qui domattina, che all'ora convenuta verremo a prenderla.» “Quindi s'avviarono. Io li accompagnai sino al pianerottolo, a rischiarare loro il cammino. La fiamma della mia lucernetta oscillava troppo più che non avrei voluto. Quando furono giunti alla scala, tesi loro la mano, augurando la buona notte. Quegli che aveva parlato, e che pareva aver posto maggiore interesse nella faccenda, sentì tremar nella sua la mia destra; tornò indietro alcuni passi, e stringendomi forte la mano che non aveva abbandonata e parlandomi sommesso, mi disse: — «Coraggio! che diamine!.... Un uomo come lei, ha da mancare di risoluzione?» “Fu punto in me l'amor proprio, e riagì subitamente: — «No;» risposi con ferma la voce e l'aspetto: «non dubiti. Avrò coraggio; ne ho.» “Ma quella fu davvero una tristissima notte. Mi parve lunga e breve; l'avrei voluta eterna, e sollecitavo con impazienza le ore.... All'alba sentii finalmente giungere e fermarsi in istrada la carrozza con cui i miei padrini venivano a prendermi. Mi guardai allo specchio. Ero pallido molto, cogli occhi infossati e le occhiaie livide; mi percossi dispettosamente le guancie, e precipitoso scesi le scale. — «Ha ella dormito?» mi chiese quello dei due che mi aveva incoraggiato la sera innanzi. “La vanità mi diede l'audacia di mentire. — «Sì;» risposi: «parecchie ore.» — Non so s'egli mi credesse, ma lo finse. — «Meglio:» esclamò, facendomi salire nella carrozza. “Questa partì di buon trotto e presto fummo fuori della città. Cammin facendo i padrini venivano dandomi consigli e istruzioni sul come dovevo contenermi; annuivo alle loro parole, ma non potevo ben comprendere quel che dicevano: la testa mi suonava così che parevami udir continuo un rumor cupo di voci lontane: non avevo del tutto la coscienza di me medesimo e de' fatti miei; mi pareva che quello fosse un sogno, che si trattasse di un altro, che io mi trovassi lì soltanto per assistere spettatore indifferente ad una tragedia che non mi riguardasse. Poi a un tratto saltava fuori, in mezzo alla confusione della mia mente, questa tremenda interrogazione: — Fra un'ora sarò io vivo?” XIX. “Giungemmo finalmente al luogo del convegno. Il mio avversario e i suoi secondi già erano ad aspettarmi. Ci salutammo gravemente, e mentre i padrini si accostavano a parlar tra loro, noi duellanti stemmo soli in disparte, lontani l'uno dall'altro, guardandoci così alla sfuggita. “Alfredo era un po' più pallido del solito nel volto; ma il suo contegno aveva tanta fierezza, tanta disdegnosa indifferenza, che me ne sentii umiliato, e feci ogni sforzo per imitarlo. Egli fumava tranquillamente il suo sigaro, e mirava con lieto sguardo la bellezza della mattinata splendida per un magnifico levar di sole. Eravamo nei più bei giorni della state, e la natura non era mai sembrata tanto maravigliosa ai miei occhi. Fra le frondi indorate dal sole cantavano allegramente gli augelletti. Tutto era vita, tutto era giovinezza intorno a noi. “Il mio avversario era più bello, più fiero e superbo che non l'avessi visto mai. Coll'eleganza e coll'avvenenza sembrava dominare tutti noi, e me specialmente suo nemico, cui la sorte aveva voluto dare tanta meschinità di corpo e di apparenze. Se un estraneo, senza nulla sapere delle cagioni della nostra contesa, fosse capitato lì in quel punto, io non dubito avrebbe detto, solamente esaminando i combattenti, che Alfredo sarebbe stato il vincitore e che dalla parte di lui era la ragione. “I padrini ci appostarono alla distanza determinata, ci diedero le pistole, e poichè si furono ritirati a destra e a sinistra, a convenevole lontananza, uno di essi si levò il cappello e facendo un atto solenne di saluto, pronunziò a voce chiara e vibrante: — «Avanti signori!» “Guardai Alfredo. Tutto vestito di scuro, la sua leggiadra testa spiccava maggiormente pel pallore che gli copriva le guancie. Il veder codesta pallidezza, un certo tremito che mi parve scorgere nella sua mano e una velatura che gli appannava il brillar degli sguardi, non so perchè, diedero a me sicurezza e sangue freddo. Poi sentivo sulla mia persona lo sguardo di altre quattro persone, che rappresentavano tutta la città, tutto il mondo per me. “S'io ho da cadere, pensai, almeno ch'io cada senza che alcuno abbia diritto di accusare la mia memoria del torto che la società maggiormente disprezza, e non perdona mai: la paura. “Ma vedete stranezza! Nel guardare Alfredo, io dimenticava il presente, per non ricordarmi che del passato; vedevo il collegio, i primi anni della giovinezza; e sentivo un tumulto di affetti invadermi l'animo e una subita tenerezza commovermi al punto che di subito pensai gettare le pistole e correre a braccia aperte verso di lui, esclamando: — «Tu sei il mio diletto, tu sei il mio fratello. È egli possibile che io attenti alla tua vita?» “Il veder me parve eccitare invece ben altri sentimenti ad Alfredo; poichè i suoi occhi fissandosi ne' miei, perdettero quella nebbia che li offuscava e brillarono d'una luce piena d'odio mortale. “Il mio avversario si avanzò vivamente tre quattro passi, tenendo tesa una pistola colla mira a me rivolta, poi si fermò. Io non mi mossi; ed avevo le braccia abbandonate lungo la persona, stando là come smemorato, incerto ancora di quello che avessi da fare. Alfredo parve esitare un istante: non furono che pochi secondi, ma a me parvero un tempo smisurato. “Mi ucciderà! pensavo. A momenti sarà finita per me.... finita per sempre!.... Morto? Morto io? Dio, Dio, puoi tu permetterlo?.... Ah! la morte è tremenda!.... Ciascuno ha pur diritto alla vita.... Io l'ho bene, come qualunque altro, questo sacrosanto diritto.... Dio, Dio, mi ti raccomando! “Tutto questo, ratto, simultaneo, vertiginoso; mi passò perfino pel capo l'idea di scappare; ma sentii nello stesso tempo che non l'avrei nemmeno potuto. “A un tratto un guizzo di fuoco scattò da quell'arma che si circondò di fumo; rimbombò un colpo, e io sentii presso l'orecchio sinistro il fischio della palla. Diedi una scossa, il sangue mi fece un tuffo e parve di botto precipitarmisi tutto al cuore, poscia risalire tumultuosamente al cervello: ma, nel montarvici, conduceva seco tal ira, molto presso a cambiarsi in furore. “I padrini si mossero come per avvicinarmisi; feci loro segno ristessero. “Alfredo gettò via la pistola vuota e ratto scambiò dalla mano sinistra alla destra quella che aveva ancor carica. Ero stranamente calmo a quel punto; ma ogni sentimento benevolo era svanito dal mio cuore. Cominciavo a sentire alcuna cosa che rassomigliava all'attrattiva della lotta. Alzai la destra armata, come per toglier la mira; il mio avversario si volse subitamente di fianco; ma, cambiando pensiero, lasciai ricadere il braccio. Allora Alfredo prese ad avanzarsi di nuovo verso di me; ma questa volta cauto e lento, non presentandomi mai che la minor possibile superficie del suo profilo, la pistola tesa innanzi a sè, mirandomi più basso a mezzo il petto. “Una strana irritazione s'impadroniva di me nel vedere codesta prolungata minaccia. Fui per gridare facesse presto; pensai sparargli contro a un tratto le mie due pistole, come si farebbe ad una fiera che camminasse verso di noi; fui per lanciarmigli addosso a strappargli quell'arma. Perchè non facessi nulla di tutto ciò non saprei dirvene la ragione; certo non fu il ragionamento che me ne trattenne; ma mentre la mente in quell'istante mi si travagliava in un'attività febbrile, il corpo era in preda ad un'atonia generale che lo rendeva incapace d'ogni movimento. “Quando ebbe percorso tutto il tratto concessogli, Alfredo si fermò e fece fuoco la seconda volta. La palla mi sfiorò il braccio sinistro, lacerandomi l'abito e cagionandomi una contusione, che in quel momento non avvertii neppure. “Ero salvo! Una specie di gioia feroce si sollevò nell'animo mio, e nello stesso tempo una rabbia più feroce ancora contro colui che mi stava a fronte. Dell'antico Alfredo, dell'amico, del compagno, non vidi più nulla; non vidi più innanzi a me che l'uomo il quale mi aveva rapito la fama, che mi aveva rapito la donna che amavo, che mi aveva coperto di contumelie, che aveva tentato adesso adesso alla mia vita, che mi aveva fatto passare quei crudi eterni momenti d'angoscia; non vidi più in lui che un nemico odiatissimo.” XX. “Alfredo all'infelice esito de' suoi colpi, fece un gesto di dispetto, gettò via rabbiosamente la seconda pistola e si volse a guardare qua e là con irrequietezza, quasi spaventato, come per chiedere che cosa gli rimanesse da fare, per cercare qual via gli si aprisse di scampo. Fu un baleno. Presto si ricompose, e serrando al petto le braccia, levò superbamente la fronte verso di me, in atto di fiera aspettazione e di sfida. “Io camminai risolutamente verso di lui tutto quel tratto che potevo percorrere, e quando mi trovai alla distanza di soli dieci passi dalla sua faccia pallida ma sicura, alzai tutte e due le mani e puntando le pistole nella direzione del mio avversario, senza mirare altrimenti, le sparai ambedue d'un colpo. “Udii un gran grido; e dietro la nube del fumo prodotto dalla esplosione delle mie armi, vidi barcollare e precipitare a terra Alfredo. “I testimoni si slanciarono verso di lui. Io lasciai cadere di mano le pistole, e mi spinsi innanzi stimolato da un'avida, feroce curiosità; ma ben tosto, alla vista della fronte insanguinata d'Alfredo, mi ritrassi inorridito. “Dietro me, come in risposta a quello del trafitto, suonò un grido acutissimo, dolorosissimo. Mi volsi. Una donna scarmigliata accorreva disperatamente. “Era Albina! “Il nostro duello aveva destato cotanto l'attenzione della città tutta, che era stato impossibile l'impedire non ne venisse voce all'orecchio di lei. Informatasene qua e colà coll'ansia maggiore, turbato forse il cuore da funesti presentimenti, l'infelice donna era riuscita a sapere dai servi il luogo e l'ora dello scontro, e, spinta dal suo fatale destino, arrivava sul terreno, giusto al momento in cui il suo diletto cadeva al suolo, cadavere. “Sì, cadavere! Alfredo era morto, e per mia mano! Questa orrenda verità non tardò ad apparirmi in tutta la sua crudezza, e distrusse tosto quell'esaltazione di sdegno e d'odio che mi aveva fatto, un momento prima, volontario assassino. “Sentii le roventi unghie del rimorso lacerarmi il cuore; ebbi orrore di me, e mi parve la natura medesima inorridisse al mio cospetto; credei udirmi suonare all'orecchio, tremenda, la maledizione lanciata su Caino. Rimasi stupidito, guardando quel cadavere sanguinoso sull'erba, senza rendermi ben conto della realtà, come se tormentato dall'incubo d'un sogno penoso, supplicando mentalmente da Dio la grazia impossibile che non fosse vero quello che era avvenuto, prendendo a sperare con dissennata lusinga che tutto quanto s'agitava sotto ai miei occhi non fosse che una illusione da dileguarsi ad un punto. “L'angoscia disperata d'Albina, che si abbandonava con tanto spasimo sul corpo dell'uomo da lei supremamente amato, invocando essa stessa la morte, accresceva in me il pentimento e la coscienza dell'orribile delitto. Apparivo un mostro a me stesso; e mi dicevo accusatore e condannatore più severo e inesorabile d'ogni umano tribunale, che avevo ad una stolta vanità della mia persona sacrificato la preziosa vita d'un uomo, a cui avevo pure giurato riconoscenza ed affetto eterno. “Ah! pregate Iddio che tenga da voi lontana la sventura e la colpa di macchiarvi le mani nel sangue d'uno dei vostri simili. Shakespeare, per bocca di Macbeth, dice che l'uccisore d'un uomo uccide il proprio sonno; e ciò è tremendamente vero. Egli uccide insieme la propria quiete, la propria anima, se non ha cuore di scellerato; sia pure attenuato dalle circostanze il suo delitto, avesse pure dal suo lato la giustizia della causa, lo spettro sanguinolento della vittima, qual'ei la vide raccapricciando nelle ultime convulsioni dell'agonia, gli apparirà inesorato nelle sue notti maledette. “Mentre nel mio interno mi assalivano così subite e potenti le torture del rimorso, di fuori ero sì impietrito che apparivo insensibile. Ai testimoni di quella orribile scena sembrai peggio che crudele. “Albina levò un istante gli occhi, e, traverso al velo delle cocenti lagrime che le ardevano le pupille, mi vide.... Il suo movimento di ripulsione e d'orrore fu tale che io mi sentii vacillare. Meno grave, meno dolorosa mi sarebbe stata la più iniqua maledizione lanciatami dalle sue labbra, anzichè la muta ferocia dello sguardo onde mi saettò. “I miei padrini si posero fra lei e me; e il principale dei due, pigliandomi per un braccio, mi disse severamente: — «Qui non c'è più nulla da fare per noi. Allontaniamoci.» “Mi lasciai condur via senza dir parola. Allontanato appena di pochi passi, mi rivolsi a dare un'ultima occhiata a quello spettacolo tremendo. I padrini d'Alfredo avevano abbandonato il morto, per soccorrere Albina, cui l'eccesso del dolore aveva tratta fuor di sè. — «Ella parta:» mi dissero i miei secondi: «noi gli è meglio che andiamo ad aiutare quelli là nei pietosi uffizi che rimangono a compiersi.» “Tornarono indietro. Io mi allontanai solo, a capo chino, la desolazione nell'animo, inorridito di me stesso, increscioso della vita, desiderando di poter cambiare la mia con la sorte del mio avversario, essere io il cadavere, su cui piangesse tali lacrime una donna amorosa, e si volgesse il comune compianto.” XXI. “Non rientrai in città. Presi la prima strada che mi si parò davanti, e mossi per quella a passo or lento, or concitato, inconscio di me medesimo, incerto dove io fossi, non sapendo neppure di vivere. “Mille pensieri si agitavano confusamente nella mia testa, e fra tutti uno solo, chiaro, spiccato, parea incidermi nel cervello in lettere di fuoco la parola: ASSASSINO! “L'anima, del resto, era come intorpidita e le impressioni ne risultavano vaghe ed incerte, da paragonarsi ad un rumore lontano, cui ode, ma non distingue bene l'orecchio. Però, di quando in quando, il dolore ed il rimorso mi davano una nuova stretta, viva e ogni volta sempre maggiore. “Andavo, andavo, senza direzione, voglioso di solitudine, bisognoso di moto, null'altro cercando che di fuggire l'aspetto dell'uomo. Parevami che stancando il corpo, avrei domato altresì quel turbamento dell'anima, ognor più fiero. “Talvolta mi provavo ad affrontare audacemente il mio soffrire. “Ebbene, sì, mi dicevo, ho ucciso un uomo: ma egli aveva ben voluto uccider me! Tra lui e me non c'era altra via: o morir lui, o morir io. Nel caso mio chi non avrebbe agito come me? “Ma non tardava la coscienza a ribellarsi a questi sofismi. Mi si drizzava dinanzi l'immagine sanguinosa d'Alfredo, ed allora tutta la mia audacia svaniva; udivo risuonarmi nell'anima le grida tremende di lui che moriva, d'Albina che lo vedeva cadere, e un'intima voce mi diceva disperatamente nell'anima: — «Meglio tu fossi morto!» “Esser morto! A un tratto quest'idea s'impadronì di me, e mi pòrse alcuna sembianza di calma, e mi fece l'effetto, come in ciel nuvoloso uno di quelli squarci per cui si scorge l'azzurro, come un cenno della sorte che mi mostrasse, in una regione al di là della tempestosa in cui mi agitavo, un riparo e un riposo. “Morto, non sarei stato odiato più, non mi avrebbe più perseguitato la rabbia degli uomini, mi avrebbe obliato il mondo, _forse_ non sarei più tormentato da questi spasimi, dall'incertezza dell'avvenire, dal tumultuare delle passioni, dalla febbre fallace delle speranze, dalla crudeltà dei disinganni. “Caddi a terra in ginocchio, e levando le mani e lo sguardo al cielo, con tutto il trasporto di quella fede che avevo avuta nella mia infanzia, supplicai da Dio, proprio con tutta l'anima, che lì, subito, mi facesse morire. “Ahimè! La era una viltà anche quella. Era la paura di affrontare gli odii e le condanne del mondo; era la paura di vivere in compagnia del mio rimorso. “Quando tornai a casa, era notte scura. Trovai che m'attendeva uno de' miei secondi, quello che s'era più interessato per me. Mi venne incontro sollecito, e mi disse vivamente: — «Ho da parlarle. Entriamo presto in casa.» “Il duello aveva levato assai rumore in città. Una viva irritazione si era desta contro di me. Mi accusavano di poca delicatezza e di troppa ferocia. I fogli della giornata imprecavano al mio nome. La giustizia non avrebbe mancato di procedere; l'autorità di polizia era forse per prendere a mio danno uno di quei provvedimenti arbitrarii che l'assolutismo consentiva allora al governo del mio paese. “L'idea del carcere mi spaventò. — «Che mi resta da fare?» domandai con affanno. — «Fuggire, e tosto:» rispose il padrino. “Era un lasciar quella vita, venutami oramai insoffribile, era romperla col mio passato, e ricominciare in altre condizioni un'esistenza novella. Quest'idea mi arrise. — «Sì, fuggirò;» esclamai. — «Subito:» insistè il mio interlocutore: «altrimenti non sarà più tempo.» “Una vera smania allora m'assalse d'esser fuori da quelle mura. Feci un fardelletto di alcune poche mie robe; presi il denaro che avevo, e mi allontanai di buon passo da quella casa, poi dalla città. “Il giovane che era venuto ad avvertirmi, volle accompagnarmi un tratto di strada. “M'avviai verso le montagne che s'innalzano non molto lontano dalla mia città natale. Credevo esser colà più sicuro, e non desideravo d'incontrare figura d'uomo nel mio cammino. “Alla distanza di circa due chilometri, il pietoso giovane tolse commiato. Mi chiese dove avevo intenzione di recarmi, ed io gli risposi non saperlo; ad ogni modo gli promisi glie l'avrei scritto, e lo ringraziai molto. “Quando dopo l'ultima stretta di mano, quel mio concittadino si dipartì da me, io lo seguii collo sguardo per un po' di tempo; e vistolo sparire fra gli alberi sentii in me stesso che ogni vincolo era rotto fra me e quella gente e quel mondo.” XXII. “Era una stupenda notte, e il più bel chiaro di luna che si possa veder mai. Mi mossi con passo quasi di corsa su per la salita alla montagna. La natura era piena di misteriosi sussurri; mille insetti mandavano lievi suoni indefinibili; stormivano le foglie al venticello notturno, bisbigliavano con più alto rumore i ruscelli, cantava mestamente amoroso l'usignuolo, e su tutto ciò regnava una calma, una pace che avreste detto un silenzio. La quiete esteriore influiva sul tumulto della mia mente, e lo veniva temperando. Quel desiderio di tranquillità ignorata cresceva, cresceva in me al contatto di sì profondo riposo della natura. “Giunto, dopo parecchie ore di cammino, sopra un culmine, sostai e mi volsi a guardare indietro. Nella pianura appariva la città, splendente da lontano co' suoi mille lampioni, come una massa rossigna di fuoco in mezzo alla campagna, mitemente circonfusa dell'azzurrigno chiaror della luna. “Là erano l'agitazione e i tormenti dell'umanità; nella vasta solitudine dove mi trovavo, la solennità dell'infinito, la sublimità della natura, più immediata l'opera di Dio, l'oblio e la pace. Mi pareva d'essermi accostato al seno della gran madre creatrice, e di ricevere da questa nuova lena e conforto. “Se io volessi dirvi tutti i pensieri che allora attraversarono la mia mente, troppo lungo sarebbe, e non lo potrei nemmanco, tanti furono e sì varii, come quelli che abbracciarono tutto il mio passato e l'avvenire, e tutte le più ardue questioni della vita e del destino dell'uomo, e tutto il creato. “Ero affaticato, debole, sfinito. La notte tepidamente serena m'invitava al riposo. Mi adagiai al riparo di alcuni alberi, la fronte volta allo scintillare delle tremolanti stelle, che pareva mi piovessero una calma soave entro le vene, e un benessere non isperato mi corse tutte le membra. Passando ancora di fantasia in fantasia, poco a poco mi addormentai. “Mi svegliò il primo raggio del sole che spuntava all'orizzonte. Lo spettacolo dell'aurora mi parve quel dì più sublime di quanto avessi giudicato mai. Già io sentivo di essere un altr'uomo. M'inginocchiai in faccia a quel sole che sorgeva nella sua imponenza a manifestare la grandezza del Creatore, ed adorai. — «Deh!» pregai dall'intimo dell'anima, «Ch'io viva oscurissimo ed obliato, ma buono, ma virtuoso, ma non in balía del male.» “Non chiesi più la morte: domandai la virtù e la pace. Ero guarito. “Sorsi con una nuova risoluzione, con nuovo coraggio ed una nuova speranza; e ripresi il cammino. Avevo deciso spogliarmi del mio nome, delle mie ambizioni, d'ogni folle anelare alla gloria. Rifiutai in quel momento, e per sempre, il serto del poeta. “Trovai da rifocillarmi nel tugurio di alcuni contadini e da provvedermi il nutrimento per tutta la giornata; e senza sapere dove avrei diretto i miei passi, dove avrei preso stanza dipoi, continuai a salire pei più scoscesi dirupi. “Avevo camminato forse un'ora, senza mai incontrare traccia d'uomo, quando udii innanzi a me, poco lontano, suonare ed echeggiare per le valli un'esplosione come d'arma da fuoco. Ristetti atterrito, e il mio primo pensiero fu di fuggire; ma mi rattenni. Pensai che alcuna funesta avventura poteva aver avuto luogo e una qualche vittima abbisognava forse di soccorso. Mi affrettai verso quella parte. “Un cento passi più innanzi, dove la costa della montagna, incurvandosi, formava una specie di anfiteatro, che pareva fatto apposta per guardare la magnifica vista della sottostante pianura, in un verde praticello smaltato di fiori, giaceva bocconi un uomo, stringendo due pistole tuttavia fumanti. “Era quello uno dei luoghi più ameni ch'io avessi veduto mai. Le coste della valletta tutte coperte di faggi: più in alto sulle cime, dritti come granatieri schierati a battaglia, i severi cipressi; purissimo il cielo; il sole, che investiva co' suoi raggi gli albereti della convalle, vi spargeva le tinte più ricche e più piacevoli all'occhio del riguardante. Pareva una decorazione preparata per un idillio, per una scena d'amore, non per una luttuosa tragedia. “Mi accostai al giacente. Egli s'era sparate le armi in viso, e vidi che orrendamente n'era rimasto malconcio, da non potersene più riconoscere i tratti. Tepido ancora era il suo corpo; ma da questo l'anima partitasi per sempre. “Ristetti a pensare come dovessi regolarmi. Presso di sè il morto aveva il suo cappello, e dentro questo vidi una carta ripiegata e sopravi, a tener fermo cappello e carta, un sasso. Esitato appena un pochino, presi quella carta e la spiegai: erano poche parole, scritte in inglese, e le lessi con avida curiosità. “Dicevasi in sostanza, chi s'imbattesse mai in quel cadavere, non credesse a un assassinio, sibbene a un suicidio, com'era difatti. Stanco della vita e odiatore degli uomini, straniero a quelle contrade, voleva l'infelice morire senza essere conosciuto, senza ipocriti compianti; non dire perciò il suo nome; non si cercasse neppure dei fatti suoi, che egli se ne veniva da lontano, e aveva voluto che nessuna traccia rimanesse di lui. “Io sedetti vicino a quel cadavere; lessi e rilessi più volte quello scritto e meditai a lungo. “Ancor io detestavo la vita; anch'io avevo sentito l'animo invaso dall'odio per gli uomini, e avevo pensato di cercar rifugio tra le braccia della morte. Ma, per fortuna, il Signore non mi aveva abbandonato, e nel colmo della disperazione mi aveva pure concesso la grazia d'un benigno pensiero che mi aveva richiamato alla ragione ed alla conoscenza dei doveri dell'uomo sulla terra.... “A un tratto un'idea bizzarra, ma potente, mi nacque e s'impadronì di tutta la mia volontà. “Io voleva finirla una volta per sempre con quella vita di vanità, di odii e di colpe; volevo morire a quel mondo futile e corrotto, ipocrita e scettico, stolido e prepotente, al quale dovevo ogni mio danno e il decadimento dell'anima mia. Se, a romperla definitivamente, fra esso e me avessi gettato in mezzo quel cadavere? Se a quello sconosciuto che voleva rimanere affatto ignorato, avessi dato il mio nome? Se tutto il mio passato facessi davvero seppellire nella fossa, colla salma di quell'infelice? “Le fattezze del volto, guaste dall'esplosione, la statura presso a poco uguale, permettevano lo scambio. Strappai un foglio dal mio taccuino e vi scrissi su un ultimo addio alla vita, perdonando a tutti quelli che mi avevano fatto del male, chiedendo perdono a tutti cui avessi offeso. Sottoscrissi col mio nome, posai il foglio nel cappello del morto, e vi posi la pietra sopra. Il suicida non aveva in tasca nè carte, nè altro: vi misi alcuni oggetti di mia spettanza e qualche lettera a me diretta. Poscia inginocchiatomi, pregai con fervore per quel morto e per me. Dopo ciò ritornai alla casa dei contadini, dove m'ero rifocillato poco prima. “Dissi loro del morto da me trovato; essi subito accorsero là; ne fu avvertita la giustizia, si fecero le pratiche che sogliono farsi in casi simili, e fu posto in sodo che io mi era suicidato. “Ebbi la debolezza di voler vedere che cosa dicessero i giornali della mia morte. “Cessarono le contumelie, ma non cessò l'indifferenza ostile: siccome da morti non si dà più ombra, qualcuno infiorò di qualche elogio un cenno alla mia memoria. Fui sotterrato nel cimitero del villaggio più vicino, e sulla fossa una semplice pietra con il mio nome su scolpito. “Volli vedere la mia tomba. Il cimitero è isolato, solitario, pieno d'ombre e di melanconia. Le erbe altissime sussurrano stranamente sotto al vento che le agita. Croci di legno sorgono qua e là, quasi tutte corrose dal tempo; come la memoria dei morti che ci dormono sotto. E ci si deve riposare in pace! “Due settimane dopo non si parlava più di me; a quest'ora non c'è più anima al mondo che si rammenti ch'io abbia esistito; io che, nelle pazze fantasticaggini della gioventù, ho sognato la gloria! “Per istrade fuori mano, senz'altra mèta certa che quella di allontanarmi dal mio paese, venni girando qua e colà, finchè giunto a questo rimoto villaggio, tanto mi piacquero la natura, il cielo e la quiete di esso che determinai fissarvi la mia dimora. “E da quasi trent'anni ci vivo, non dirò felice, ma senza più rimorsi, senza odii e senza far male: non affrettando certo, ma non desiderando neppure d'allontanare quel giorno supremo in cui, libera da questo disgraziato involucro, l'anima mia voli nelle braccia misericordiose dell'Eterno Amore.” Qui, maestro Ambrogio si tacque; e stemmo ambedue silenziosi rivolgendo in mente mille pensieri che il suo racconto aveva eccitato in me e ridestato in lui. Dopo un istante, fu egli a riprendere: “Ora non cercate più altro da me. L'ultimo velo di mistero che copre l'esser mio, mi è più sacro dell'onore, mi è più caro della vita. Non tentate levarlo. Andate e obliatemi. Soltanto possiate far vostro pro dell'insegnamento che contiene questa dolorosa storia delle mie vicende! “Non è nel vano rumore del mondo che consistono le degne soddisfazioni dell'animo; non è sulla scena abbarbagliante dell'ambizione che l'uomo divenga felice e si faccia migliore. La rinomanza non è che misera vanità; il mondo inaridisce il cuore, intristisce l'anima, e fa prosperare in essa quell'iniqua pianta parassita dello spirito dell'uomo, la quale soffoca ogni buono istinto, e che si chiama egoismo. “Io sono vecchio, sono sfinito, e mi sento con soddisfazione non lieve presso al termine d'ogni male. La verità l'ho amata sempre, e non è ora che vorrei farle il menomo oltraggio. Ebbene, vi giuro che più mi venni inoltrando negli anni, e più fui lieto del partito preso. Non dico che molte volte l'ingegno in me non si ribellasse, e non volesse dipingermi la mia come una viltà, come un mancamento al proprio dovere. Ve lo dissi già che sostenni lotte tremende, che soffrii, ma che vinsi. Se sapeste quanti, e forse splendidi, furono i frutti di certe angosciosissime veglie! Ebbi il coraggio di distrugger tutto. Nell'esercizio della virtù sconosciuta, nascosta, s'affina l'anima umana. Alla soglia dell'eternità sarà più bella e gradita, non quell'anima che sarà stata più gloriosa innanzi agli uomini, ma quella che sarà stata più benemerita innanzi a Dio.” Fece una pausa; poscia con voce più fioca e più sorda di quel che gli fosse abituale, porgendomi la mano, soggiunse mestamente: “Addio! Voi partirete fra pochi giorni; non è vero? È meglio che non ci rivediamo più; che questo sia fra noi l'ultimo saluto. Io vi ho detto tutto quello che avevo da dirvi. Conservatemi il segreto. Voglio morire nelle ombre che mi avvolgono..... Ma quando udrete.... e sarà presto, io spero.... che avrò abbandonata questa terra, se lo credete opportuno e giovevole, raccontate pure altrui ciò che sapete de' casi miei.” XXIII. Due giorni dopo io partiva da quel paese, e con mastro Ambrogio non ci vedemmo più: per due anni non ne ebbi altra novella. L'altro dì il mio nobile amico dovette venire a Torino per qualche sua faccenda, e fu a salutarmi. “Mi fermo qui pochi giorni soltanto” mi disse “poi torno di gran carriera alla mia montagna. Volete voi venire con me?” “Ah! se lo potessi!” esclamai con un sospiro. “Ma noi siamo qui condannati al lavoro di Sisifo.... Intanto datemi notizie di mastro Ambrogio.” Il volto del mio amico si fece mestamente grave. “Quel povero Ambrogio!” disse. “Non c'è più. L'hanno sotterrato l'altra mattina.” Mi feci raccontare i particolari della sua morte. Non era stato malato che pochi dì. Conosciuta tosto la gravità del suo male, egli aveva mandato pel sacerdote, ed aveva edificato tutto il villaggio colla santità della sua morte, come aveva fatto colla purità ed onestà della sua vita. Sulla sua fossa hanno piantato una croce di legno, e gli scolari vanno a spargervi fiori. Così fu il suo desiderio compito. È morto sconosciuto, tranquillo, amando e sperando. L'erba d'un cimitero di campagna ne coprirà le ossa ignorate; ma io, che non l'oblierò mai, ho pensato valermi del suo permesso, e schizzarne in questi fogli la misteriosa figura. GALATEA RACCONTO. I. Era il crepuscolo vespertino d'una triste giornata di tardo autunno. Grossi nuvoloni occupavano tutte le creste della catena alpina; al momento che il sole si tuffava dietro di questa, il denso velo delle nubi erasi squarciato alquanto al lembo dell'orizzonte, e n'era balzato fuori uno sprazzo di luce color rosso di fuoco, che dileguandosi ben tosto, aveva lasciato luogo ad una tinta plumbea grigiastra, che rattristava con freddi riflessi il paese e la sera. Le foglie ingiallite si spiccavano dai castagni, e venivano giù adagino adagino, quasi baloccandosi per l'aria. Di quando in quando un buffo di vento sollevava i piccoli mucchi delle frondi cadute ed ammassate qua e là dal caso o dal lavoro dell'uomo, e avvolgendo le foglie in un turbinío, le cacciava innanzi a sè, come una nube, per lasciarle ricadere lungo la strada in una striscia che ne segnava il cammino, finchè non erano più che due o tre a rincorrersi pazzamente come ragazzi ruzzanti. I vaccari tornavano dalla pastura, la faccia e le mani arrossate dalla brezza freddiccia, e si spingevano innanzi le pigre bestie muggenti, accompagnando colle battiture e colle voci d'ammonizione e minaccia alla loro cornuta schiera, una canzone a cadenze monotone e strascicate, nella mestizia del tono in minore. Dai fumaiuoli delle modeste abitazioni del villaggio, a rivelare che le buone massaie preparavan la cena, usciva il grigio fumo che disegnava capricciosamente i suoi ghirigori, sul fondo più oscuro dell'atmosfera. Al di sopra e in mezzo di questa uniformemente bassa ed umile popolazione di casuccie, coperte la maggior parte di paglia, il campanile della parrocchia sollevava il suo capo, sormontato da una gran croce di ferro e coronato di tegole verniciate a brillanti colori. Il qual campanile, in quest'ora appunto, mandava le più gravi e solenni note della sua maggior campana, per invito alla preghiera, in suffragio d'un'anima, volata nel mondo degli spiriti. All'udire quei rintocchi lenti e pieni di tanta mestizia, uscivano di casa le madri di famiglia e le ragazze, accomodandosi in fretta sul capo il fazzoletto stampato a colori; e, appoggiandosi sul bastone, gli uomini ai quali la tarda età toglieva d'andare a quel lavoro quotidiano ne' campi, da cui ora stavano per tornare i loro figliuoli e nipoti. Le comari del villaggio, incontrandosi, si scambiavano intanto delle parole come queste: “Suona per la sepoltura della povera Marta.” “Poveretta! Dio l'abbia in gloria! Andiamo a dire un _De Profundis_ per quell'anima; benchè la ne abbia meno di bisogno che qualunque altra; chè se ci fu mai cristiana che morisse nella grazia del Signore, la Marta è stata quella di certo.” “Sicuro! E se non va quella lì in paradiso, dritto dritto, non ci va più nessuno.” “E per lei, davvero che la morte si può dire una grazia! Ha finito di tribolare.” “Oh sì! che ha tribolato, e di molto!” “Una grazia la morte! che cosa dite? Se la povera donna fosse stata sola al mondo, avreste ragione. Ma pensate un poco a quella poveretta di Maria che lascia dietro di sè!” “Ah! gli è pur vero. Per codesta creatura così giovane e inesperta, la è proprio una gran disgrazia.” “Ed oltre a esser giovane, quasi ancora una bambina, è tanto semplice, così innocente!....” “E vi so dir io che la Marta si affliggeva di molto al pensiero di lasciarla; e pregò di belle volte il Signore che le raddoppiasse anche il male che soffriva, purchè le volesse prolungare di tanto la vita da poter vedere provveduta quella poveretta, che è come un'agnellina senza forza e senza malizia in mezzo alle tristizie del mondo.” “Come sopporta ella questo colpo la Maria?” “Che v'ho da dire? La pare smemorata. Sapete com'è quella semplicetta, che non si sa mai se capisca o non capisca. Per me, io credo che non sappia nemmeno che la sua nonna è morta, nè che cosa voglia significare la parola morire.” Intanto uomini e donne erano giunti ad una delle più umili capanne, posta ad un de' capi della strada che attraversava quel povero villaggio montanino. Era piccola, angusta, d'un solo piano, e poteva dirsi davvero che la miseria ci stava di casa. La frotta delle persone accorse colà vi susurrava a bassa voce, con un quasi timoroso riguardo; ed era il profondo rispetto che ad ogni animo onesto impone la sciagura. Nel già scuro ambiente di quella stanzaccia terrena che formava la parte principale dell'abitazione, ardevano fiocamente alcuni lumi accesi; su due sgabelli di rozzo legno stava posata una bara, e sopra, gettatovi, un logoro tappeto nero. In quella umile dimora era piombata, il giorno prima, la morte. Ad un punto un vecchio dai canuti capelli, in abiti sacerdotali, il parroco del villaggio, fece un cenno, e la mesta comitiva s'avviò. Precedeva il sagrestano portando la croce, poi la confraternita a cui apparteneva la defunta, una trentina di donne tutte incappate, quindi il parroco in mezzo a due preti, e dietro la cassa della morta, portata a spalle dal becchino e dal suo aiuto. Il funebre corteggio era chiuso dalla massa incomposta e confusa delle donne e dei vecchi, e in essa non vedevi persona che non avesse le lagrime agli occhi e la preghiera sulle labbra. Ma, subito dopo la bara, prima d'ogni altro, veniva la povera Maria. Era una fanciulla di quattordici anni, troppo grande per la sua età, magra, sfiancata, di volto scarno, di larghe occhiaie, in fondo a cui brillavano d'un fuoco selvaggio certe pupille d'indescrivibil colore; la pelle aveva abbronzata, i folti capelli arruffati sul capo come i serpenti del Gorgone; vestita a casaccio d'una vestucciaccia che non era fatta per dar grazia alle sue membra lunghe, ossee, dinoccolate. Come aveva detto la donna che abbiamo udito discorrere poc'anzi, non si poteva discerner bene se questa ragazza capisse o no. Da quei suoi grandi occhioni, ora sereni come l'azzurro del cielo, ora scuri come il mare in tempesta, ora privi di luce come la pupilla d'un cadavere, ora scintillanti di riflessi dorati che parevan raggi di sole, l'intelligenza non appariva che a lampi; la fronte era bensì giustamente sviluppata, modellata a perfezione e adorna della maggiore nobiltà di linee; ma il silenzio ostinato, in cui la giovanetta si rinchiudeva, i pochi segni di sensibilità e le poche manifestazioni di pensiero che in lei si scorgevano, erano cagione che la gente la credesse poco meno che scema, e la facevano vivere mezzo segregata dalla vita ordinaria e dal consorzio del mondo. Non v'era che la nonna, la quale, o s'illudesse per soverchio amore, o fosse più penetrativa degli altri, credeva avere scôrto dietro quel riparo di ghiaccio un'anima affettuosa, notato sotto quella distrazione di spirito un'intelligenza. “La mia innocente,” soleva ella dire, “val meglio di molti e molti, che la compatiscono come una scema.” Quando la buona vecchia Marta era caduta malata di quella infermità, che, tenutala un anno a patire nel letto, l'aveva ora tratta al sepolcro, Maria, la quale soleva andare al pascolo sulla montagna e vagolare tutto il giorno per i dirupi come una selvaggia, a raccoglier fiori, di cui tornava la sera tutta adorna il capo e il seno; Maria s'era seduta sullo sgabello a piè del letto della povera nonna, e non vi era più stato verso di farnela muovere. Ella stava là, coi gomiti delle sue lunghe braccia appoggiati alle ginocchia, la faccia sorretta dalle mani, e gli occhi larghi, fissi di continuo sulla inferma. Parlava poco o punto, stava immobile, lasciava servir la nonna dalle comari, cui la carità mandava in soccorso dell'ammalata, e non era che raramente, quando la si trovava proprio sola colla Marta, che si chinava sul letto di lei e le dava caldi baci, in cui palpitavano, per così dire, la tenerezza e l'affetto. Un anno intero di codesta vita aveva nociuto di molto alla salute della giovinetta. La era cresciuta anche troppo, ma diventata sempre più sottile e macilenta; le sue guancie avevan preso un color terreo, e negli occhi non apparivan più che rarissimi gli sprazzi di luce. La vecchia nonna, prima di morire, aveva parlato lungamente al vecchio parroco della meschinella e dell'avvenire che l'aspettava, e pregato costui di scrivere a certi congiunti che unicamente le rimanevano, lontani di parentela e di dimora, coi quali la moribonda, da tempo remoto assai, non aveva mai più avuta alcuna attinenza. Nell'ultimo istante, proprio nell'atto di spirar l'anima, con un ultimo sguardo, Marta aveva ancora una volta raccomandata l'orfanella al buon sacerdote, che su lei pronunziava la preghiera dell'agonia, e alla miserella che rimaneva sola nel mondo si era rivolto l'estremo segno d'intelligenza e d'affetto della morente. Quanto a lei, — a Maria, — pareva che il suo spirito fosse ben lontano da quella scena di morte, da quel luogo, da quel doloroso momento. Immobile al suo solito posto, ella continuò a rimirare la morta, come aveva sino allora rimirata l'inferma; e per quanto le si dicesse o facesse, nessuno era riuscito a levarla di là. Con apparente indifferenza guardò tutti i preparativi che vennero fatti per portare all'ultima dimora il corpo di quell'unico essere che l'avesse amata; e solamente di quando in quando una contrazione nervosa veniva a sconvolgere i lineamenti dell'infelice, senza che pure una lagrima spuntasse su quegli occhi asciutti e riarsi. Quando vide la nonna messa entro la bara e udì battere i chiodi del coperchio sopra di lei, Maria s'alzò tremante, e la contrazione della sua faccia fu orribile, accompagnata da un grido di spasimo; ma non altro; ricadde accasciata, muta, impassibile, e parve non sentire più nulla. Ora, essa veniva dietro la bara a passo lento, dritta la persona, l'occhio fisso su quel drappo nero che la precedeva, come se potesse vedervi di sotto il viso della morta; e di tutto quanto avveniva intorno a sè pareva affatto ignara. Si giunse al cimitero. La fossa, già scavata, era là, pronta ad ingoiare quegli ultimi resti. Maria venne fino all'orlo di quella buca, vi si chinò sopra, come desiosa di vedere che cosa vi fosse nello scuro fondo di essa. La cassa vi fu pianamente calata, e intanto si mormoravano intorno le estreme preghiere. Tutti piangevano; ma la fanciulla era immota, tranquilla e come insensibile. Però quando si gettò nella fossa la prima palata di terra, e questa si udì risuonare cupamente sul coperchio della cassa, Maria mandò ancora quel grido di spasimo, e si slanciò innanzi colle braccia protese, come se volesse precipitarsi in quella tremenda apertura, ed abbracciarsi alla morta, e farsi seppellire con essa. Le donne le furono attorno a trattenerla. Sentendosi afferrare, ella si fermò, guardò attonita chi l'aveva trattenuta, e calmatasi di subito, si liberò dalla stretta di quelle pietose; poi, incrociate le braccia al seno, stette senza pur far parola. Tutto era finito, ed ella stava ancora là in quel medesimo atteggiamento. Le donne incominciarono con dolci parole a dirle di venir via, pietosamente confortandola: Maria non le guardava neppure. Una fra le altre, più insistente, non ottenne di meglio che uno sguardo senza espressione ed uno scrollar di testa; allora la donna, con tutta amorevolezza, aveva preso pel braccio la giovanetta e voluto trascinarla con sè; ma ella se n'era disciolta con sì impetuosa mossa, e con tanto sdegno le aveva detto «lasciatemi!» che la donna erasi allontanata quasi impaurita. Il parroco che aveva accompagnato sino colà il cadavere della povera morta, fece segno lasciassero stare quell'afflitta, che egli stesso sarebbesi preso cura di lei. Le donne partirono. Maria, quando le ebbe vedute tutte allontanarsi, e si credette sola, si buttò con impeto quasi disperato in ginocchio, e chinandosi a toccare col capo, a baciar colle labbra gementi quella terra frescamente smossa, sotto cui giaceva la nonna, ruppe in dolorosissimi singhiozzi, che le facevano tremare tutta la persona, e pareva dovessero farle scoppiare il cuore. La luce del giorno era quasi del tutto sparita, e come in mezzo ad una nebbia grigiastra, in quella tenebra invadente pigliavano fantastiche forme a contorni indecisi i cipressi, le croci penzolanti, i modesti tumuli di quel campo sacro alla morte. Il parroco, che s'era ritirato un poco, lasciò prorompere quel primo sfogo di dolore, sino allora contenuto, della giovinetta; e poscia, venutole presso, pose dolcemente una mano sulla spalla di lei, che tutta si riscosse. “Chi è?” domandò Maria, voltandosi con atto vivissimo; e poichè si trovò dinanzi quel buon vecchio prete, al quale aveva sempre visto la nonna parlare con tanta riverenza, chiese rispettosamente: “Che cosa vuole, sor Prevosto?” “Vieni:” disse il parroco, facendole cenno di alzarsi. Ella obbedì docilmente, ma domandò: “Dove?” “A casa.” Maria scosse mestamente la testa. “Non ho più casa,” disse con una semplicità e un'indifferenza che commovevano più che le smanie della disperazione. “La mia casa è dove sta la nonna; la nonna è qui, mi lasci stare con lei.” “Ti ricordi come ti dicesse la nonna che a me bisognava obbedire?” “Sì, che me ne ricordo.” “Dunque da' retta: io ti dico di venir meco. E se non ti piace star sola in casa, ti lascierò stanotte la Margherita a farti compagnia.” “Oh no, no!” interruppe la fanciulla. Poi, sorreggendosi colla mano il mento, guardò fiso nuovamente la tomba in atto di meditazione. “Dicono che i morti tornano.... Mi pare che debba esser vero.... Io lo credo.... Che direbbe la nonna se vedesse un'altra nella sua casa?... Non ho punto paura, io, a star sola.” “Sia, come vuoi; ma intanto vieni. Tu vedi che la notte è già scura, e la brezza si fa troppo più fredda che a te non convenga con quei poveri pannucci che hai addosso.” Maria infatti diede in uno scossone di brivido. “Sì, l'aria è fredda,” diss'ella. “E la povera nonna, non avrà ella freddo qui?” “Ella non ha più nessun bisogno nè malore; ella ora è un angiolo di Dio, che prega per te. Vieni!” La prese amorevolmente pel braccio e la trasse con sè. Ella cedette e seguì la sua guida, ma il capo e gli occhi erano volti verso quel mucchio di terra che segnava la fossa recente. Uscirono così dal cimitero. In quel punto un ragazzetto arrivava correndo. “Sor Prevosto,” gridò egli: “è arrivata or ora una carrozza, e dentrovi una signora mezzo ammalata, e un signore coi baffetti neri, che sono andati all'osteria del _Gallo rosso_, e hanno cercato di Marta che è morta, e di Maria, e anco di lei, sor Prevosto: e quando hanno udito quel che era e quel che non era, volevano venir qui senz'altro; ma poi la signora non se ne sentì; e quel dai baffetti volle che la si mettesse a letto, ed a me che ero per colà mi diede otto soldi, perchè le venissi a dire, a lei sor Prevosto, che sono giunti coloro a cui ella ha scritto; ed io son corso....” “Va bene,” disse il parroco; poi vóltosi a Maria: “Sono i tuoi parenti, a cui la nonna mi aveva detto di apprendere la disgrazia che ti ha colto; è la tua nuova famiglia che t'aspetta.” E le fece affrettare il passo verso l'osteria del villaggio. II. Mentre infatti il modesto corteo accompagnava all'ultima dimora il cadavere della vecchia Marta, una carrozza da viaggio, lentamente tirata da due cavallacci da nolo, s'arrampicava su per la lunga salita che conduce all'entrata del paesello, al quale, di quel tempo, ancora non aveva fatto capo (nè la cosa è diversa oggidì) alcun tronco di strada ferrata. In quella carrozza stavano due persone: una donna e un uomo. Questi era nel pieno fiorire d'una giovinezza di cinque lustri; la donna mostrava di essere dai quaranta ai cinquant'anni. Avevano tale rassomiglianza nei tratti del viso e più nel carattere della fisonomia, nell'espressione della figura e dello sguardo, nella voce e nelle mosse, che chiunque non li avesse pur conosciuti mai, al primo vederli, dicevali madre e figliuolo. Nella donna l'età inoltrata e una pallidezza morbosa delle sembianze, la quale rivelava in lei una malattia guarita da poco e una salute ordinariamente cagionevole, non avevano distrutto tuttavia la traccia d'una beltà, che doveva essere stata in giovinezza fra le prime e più seducenti. Le chiome abbondevolissime e d'un nero corvino, in mezzo al quale spiccavano come fili d'argento i primi capelli canuti che correvano in quella massa ondulata di seta, le si spartivano graziosamente sopra una fronte della forma più pura, cui le rughe appena cominciavano a segnare di leggerissime linee. Dello stesso bruno gli occhi, dolcissimi e mitissimi nel guardare, pieni di quella luce di benevolenza che basta a renderci simpatica una persona; e a tale sguardo corrispondeva il sorriso tutto bontà e amorevolezza, ilare, se così può dirsi, anche nella mestizia, pacato e sereno. Dal soave luccicare degli occhi, e dal piegar delle labbra, si vedeva che quella persona aveva molto sofferto nella vita e tutto con rassegnazione e con coraggio sopportato. Ed invero ella aveva molto sofferto! Anna, tal era il suo nome, nacque in quel villaggio, a cui s'avvicina a così lento passo la carrozza che la porta; ed era nipote da parte di padre della povera estinta. La madre di Anna non era affatto una contadina; ma, figliuola del maestro del villaggio, uomo d'ingegno e di cuore, aveva ricevuto dal padre un'educazione intellettuale forse superiore al suo stato. Con sua figlia il povero maestro compiacevasi di vivere ancora di quando in quando nel mondo del pensiero, e tornava a gustare le gioie dell'intelletto, a provare le emozioni che sono destate dalle bellezze della poesia e dell'arte. Questo tesoro d'educazione, la figliuola del maestro ebbe per sua principal cura trasmetterlo a sua vòlta alla ragazza nata da lei, quando fu tanto felice da averne una; di che avvenne che Anna, crescendo, bellissima e d'animo squisito, acquistasse eziandio tali qualità di spirito che nessuno avrebbe creduto mai più trovare nella povera figliuola d'un rozzo flebotomo (che questo era il mestiere del padre) in uno dei più alpestri e rimoti villaggi. Nè il padre in vero ci aveva merito o colpa, che vogliate chiamarla, poichè, facendola un po' da chirurgo, un po' da medico, un po' anche da veterinario, era tutto il giorno in giro per la campagna, tutte le sere all'osteria, e lasciava che le faccende di casa fossero regolate affatto come piacesse alla moglie, di cui riconosceva, ancorchè non lo confessasse, tutta la superiorità. Ma per la povera Anna doveva ben presto cominciare una serie di gravi sventure. E la prima e delle maggiori fu ch'ella appena in sui quindici anni perdette la madre: proprio quando la sua gioventù, più vivace ed irrequieta che in altre, per lo sviluppo precoce dell'intelligenza avea bisogno maggiore del senno e dell'amorevole autorità materna. Poco tempo dopo un pittore capitava per caso in quel villaggio, e allettato dalla stupenda bellezza di quei siti alpestri, stabiliva farvi dimora per alquanti mesi. Ma poichè ebbe veduto quell'occhio di sole, come si suol dire, che era l'Anna, gli parve che non si sarebbe più mosso di lì per tutto l'oro del mondo, e che dove lucevano quei neri diamanti di occhi, lì avesse a dirsi senz'altro che stava di casa la felicità. Forse da principio non fu che un leggiero invaghimento, un capriccio di giovane e d'artista, del quale credette egli medesimo facil cosa il liberarsi, come credeva pur facile la vittoria sul cuore inesperto e probabilmente fragile d'una contadinella. Cercò di avvicinare la bella Annina, con ogni accorgimento d'amante la perseguitò, fece nascere sempre più frequenti le occasioni di vederla, di parlarle, e riuscì così bene, che, conosciuti tutti i pregi e le virtù che adornavano quell'anima e quell'intelligenza, la sua meraviglia fu grande, e il capriccio divenne vero amore e prontamente grandissimo. Era egli un bel giovane, parlava bene, e possedeva il merito che in questa fatta di casi è il maggiore: amava ardentemente e davvero; s'intende che la fanciulla non potè fare a meno di corrispondergli. Ma l'onestà si frapponeva a quei due ardori, e seppe imporre un freno insuperabile all'audacia dell'uno e rassicurare completamente la timidezza dell'altra. Eppure nessun impaccio vi era ai loro colloqui, perchè il padre di lei, per ragione del suo mestiere, era tutto il dì fuori di casa. Ma se il bravo sor flebotomo non s'era ancora accorto di nulla, ben se n'erano accorte le comari del villaggio, e ognuno capisce come quelle buone femmine non potessero tralasciare una sì bella occasione di far commenti e di mormorare. Aggiungete che in quei remoti villaggi, dove le comunicazioni sono poche e rade, dove la vita è patriarcale e la popolazione forma quasi una sola famiglia, ognuno che non sia del paese è un forestiero, vale a dire poco meno che un nemico da tenersi lontano, da guardarsi con sospetto, e da detestarsi a chius'occhi. Un artista poi! Non capivano punto che cosa fosse in realtà; ma nella loro testaccia quadra i vecchi, soliti a radunarsi sotto i rami del grand'olmo in piazza, se ne facevano un superstizioso concetto come d'un gettatore di malìe o press'a poco, e quando lo vedevano colla sua cartella sotto il braccio, col suo cavalletto portatile andar girando per la campagna e sedersi qua e colà a tracciar giù linee e metter colori, poco mancava facessero il segno della croce, e crollavano dubbiosamente la testa: i ragazzacci, da parte loro, in quelle tremende occasioni, avevano già protestato più d'una volta con qualche sassatella. Di più i giovani del paese, accortisi che il forestiero amava la bella Anna, della quale erano tutti più meno accesi, e che a codesto amore la bella del villaggio non era punto avversa, pensate se diventarono gelosi della zazzera, dei baffi e del pizzo alla medio-evo e della casacca di velluto nero del pittore! A loro vòlta tutte le ragazze, a cui Anna, senza volerlo, rubava tutti i dami, non aspettavano di meglio che un'ombra di pretesto per addentare la buona riputazione di lei. E quindi, in conseguenza di tutto ciò, la storia degli abboccamenti del pittore colla figliuola del flebotomo, ampliata, interpretata malignamente, correva per le bocche di tutti. Dei parenti della fanciulla, fu la prima a commuoversi la zia Marta, la quale, in fatto di costumi, era così esigente in altrui, come inappuntabile essa medesima, e si credette in debito di provvedere e riparare a siffatto scandalo. E la buona donna aveva ragione; ma in ciò ebbe torto, che, invece di parlare alla ragazza ed appurar ben bene come stessero le cose, tentando d'indurla coi consigli a più prudenti propositi, andò direttamente dal fratello, perchè colla sua autorità paterna facesse cessare senza indugio la tresca. Per mala ventura, nel momento in cui la sorella venne a raccontargli la cosa, il padre di Anna, che era devotissimo seguace di Bacco, si trovava precisamente più che a mezzo ubriaco. Impetuoso com'egli era inoltre di carattere, ed assolutissimo nei suoi voleri, chiamò a sè la figliuola e con modi e con parole tutt'altro che da ispirar fiducia e destar tenerezza, l'interrogò sulla verità di quello che gli era stato riferito. Anna, troppo franca per negare, confessò schiettamente l'amor suo; e il padre, salito in una maledetta collera, minacciatala e peggio, giurò che non avrebbe mai concessa la sua figliuola ad uno che non sapeva chi fosse, e sentenziò irrimediabilmente che i due giovani non si avrebbero a vedere mai più. È cosa conosciuta da tutti come l'amore contrastato si accende vieppiù, così da predominare ogni volere ed ogni riguardo negli amanti. La ragazza pregò, pianse, languì; il giovane affrontò la collera del padre di lei, supplicò, umiliossi, tutto fu inutile; e allora vedendo senza speranze il caso loro, con quell'esaltamento che dà alla gioventù la passione, i due innamorati si appigliarono ad una risoluzione da disperati com'erano, e fuggirono insieme. In quel pacifico villaggio fu uno scandalo inaudito: il padre di Anna montò su tutte le furie e fece giuramento che non avrebbe mai perdonato la colpevole, ingrata figliuola; Marta, alla quale un eccesso simile pareva una cosa impossibile, vide già la nipote perduta per l'eternità nelle fiamme dell'inferno. I giovani si sposarono, e siccome erano buoni tutti e due e si amavano davvero, furono una eccezione alla regola generale che converte questi maritaggi d'amore in una infelicità piena di rimpianti e di rimorsi. Ma, per quanto facessero, il padre morì senza voler perdonare e rivedere l'Anna; nessuno de' congiunti s'era intromesso a favore della fuggita figliuola, e questa dimenticò per la nuova dimora e pei nuovi affetti il paese natio e la gente del suo sangue. E di questa, parecchi anni dopo, non rimaneva che Marta, vedova, e con una bambina nata da un'unica sua figliuola morta soprapparto. Le condizioni di Marta erano tutt'altro che prospere. Il marito non le aveva lasciato niente: il genero, il padre della nipotina, era stato uno scaldapanche d'osteria; non aveva essa altro mezzo di sostentamento che il suo lavoro, e pensate voi che gran guadagni possa fare il lavoro di una donna ormai vecchia. Fu peggio ancora quando la salute, che veniva indebolendosi da assai tempo, l'abbandonò del tutto; e la povera Marta dovette mettersi a letto, col convincimento che, trascinando per più o men tempo una vita stentata e di tormenti, per lei la era finita. Allora, pensando all'avvenire di Maria, la sua nipotina, la quale, morta lei, sarebbe rimasta sola nel mondo, bene aveva avvisato di ricorrere alla figliuola di suo fratello, di cui non aveva ricevuto più novella, ma supponeva buone e prospere le fortune; però un delicato scrupolo ne l'aveva sempre trattenuta. In gran parte era essa la Marta, che aveva conferito ad accrescere l'avversione del padre di Anna per l'unione di costei col pittore; dei dispiaceri e dei danni che la figliuola di suo fratello da ciò aveva sofferti, in qualche modo ella poteva pure accagionarne la zia; e che avrebbe detto l'Anna, che pensato, se ora, trovandosi nel bisogno, dopo non essersi fatta viva per tanto tempo, la zia ricorresse a lei supplicando? Non avrebbe forse risposto: «Voi non avete avuta compassione per me, ed io non ne voglio avere per voi; voi non vi siete mai più interessata dei fatti miei, ed io non voglio darmi pur un pensiero dei vostri!» Esitò a lungo; ma quando sentì proprio che la morte s'avvicinava, il bisogno di Maria vinse ogni altra considerazione, e pregò il parroco di scrivere a quell'unica parente che le rimaneva. Ma la nonna di Maria aveva gran torto di dubitare del cuore di Anna. Questa aveva infinitamente sofferto del negato perdono paterno; e chiunque della famiglia le aprisse le braccia, essa era disposta a gettarvisi colla gratitudine di chi ne riceve la più generosa delle grazie; la sola idea poi di poter essere utile in alcun modo a qualcuno di suo sangue le sarebbe stata una gioia. Lei, poveretta, le disgrazie non l'avevano risparmiata. Suo marito, cui essa amava e che l'amava cotanto, giovane ancora, dopo non molti anni di matrimonio, erale morto, lasciandola con mediocri fortune e con un bambino in tenerissima età. Qual immenso dolore sia nella vita la perdita di quell'essere che si ama supremamente, unicamente, ben lo sa chi ebbe la grande sciagura di provarlo. Tutti i suoi affetti, tutta la sua ragion di vivere, tutto il mondo, Anna aveva fino allora raccolto nell'uomo dell'amor suo. Mancatole costui, credette tutto finito per sè, le parve impossibile il vivere, a tutta prima desiderò di morire. Ma era madre! Poteva ella abbandonare quel misero orfanello? Nel suo figliuolo, nel suo Guido, concentrò tutti gli affetti suoi, tutta la sua potenza d'amore, ogni interesse, ogni sentimento. E chi non sa come ami una madre? Per suo figlio ebbe la forza di tutto sopportare, ebbe il coraggio così della rassegnazione, come dell'opera. Poche erano le fortune che l'artista lasciava; Anna sostenne ogni privazione; lavorò indefessa per poter allevare ed educare il figliuolo, ornargli la mente ed il cuore, farlo degno di suo padre. Dalla famiglia del marito Anna non aveva ricevuto che disprezzi, per quello stupido orgoglio de' borghesi, il quale vedeva offesa la dignità del lignaggio dal matrimonio di un loro congiunto con una contadina; finchè lo sposo era vissuto, Anna a codeste punture non aveva nemmeno badato; lui morto, quando la infelice vedova, per cagion di suo figlio, dovette necessariamente umiliarsi, invece che aiuti, non n'ebbe che disdegni e contrasti. La misera madre si ristrinse in sè stessa; si disse che da sola avrebbe bastato al nobile ufficio di allevare il figliuolo e di farne un uomo, e Dio la compensò di tanto, che il suo Guido riuscì il più virtuoso, bello ed educato giovane e il più amoroso e riconoscente de' figli. Quando la lettera del parroco giunse ad Anna, questa trovavasi per disavventura inferma ancor essa: perchè la sua salute, fatta cagionevolissima per gli affanni sofferti, era assalita da frequenti malattie. Avrebbe ella voluto che Guido partisse tosto pel villaggio; ma il figliuolo non aveva acconsentito a niun patto di abbandonare la madre inferma, da lui tenerissimamente amata. Si attese adunque che la convalescenza fosse progredita così da permettere ad Anna il viaggio non breve; e la madre di Guido, appena si sentì bastevoli forze, non volle più saperne d'indugi, e partì sperando giungere ancora in tempo di vedere un'ultima volta la sorella di suo padre e di ricevere da lei quella benedizione e quel perdono che dal padre non aveva potuto; parendole che, per essa, anche il genitore dalla tomba l'avrebbe perdonata e ribenedetta. Ed ecco come avvenisse che la carrozza da viaggio incominciava appunto a salire la cresta della collina su cui si trovava il paesello, quando la campana della parrocchia mandava alle aure della sera i tristi rintocchi che annunciavano la sepoltura della vecchia Marta. III. Madre e figlio si rassomigliavano, non solo di aspetto ma di anima; se non che alla grazia ed avvenenza materna, Guido aveva aggiunto l'energia, la forza e il prepotente amore dell'arte cui aveva ereditati da suo padre. Il giovane volle essere artista, nè la madre glielo contrastò, quantunque l'utile consigliasse la scelta d'un lavoro men gradito ma più proficuo. Mercè la virtù del risparmio, seppe ella bastare a tutto con quei pochi redditi che loro rimanevano. Guido fu scultore, studiò, lavorò, e animato da uno zelo impareggiabile, afforzato da una volontà potente e dominatrice, favorito dalle migliori disposizioni dell'ingegno, in breve, per l'eccellenza delle sue opere, mandò intorno il suo nome con una certa fama, e giunse eziandio ad ottenere dal suo scalpello compenso di non ispregevoli guadagni. Nell'accostarsi al suo villaggio, che da tanto tempo non aveva più visto, nel ritrovare man mano a uno a uno que' luoghi, i quali tutti avevano per lei una memoria della sua adolescenza o dell'infanzia, Anna erasi venuta rianimando, e una viva commozione le faceva brillare gli occhi e le arrossava d'alquanto le guancie abitualmente pallide, rendendole così un aspetto quasi giovanile. Ella veniva raccontando al figliuolo, che la guardava con tenerezza, tutte quelle innocenti memorie, e si commoveva narrandogli le più indifferenti storielle fatte preziose dal prestigio dell'età trascorsa. A un punto le lagrime, che più volte già le erano venute in pelle in pelle, sgorgarono abbondanti da' suoi occhi, e abbandonandosi della persona sopra i cuscini, ella si coprì colle mani la faccia. “Madre!” esclamò Guido con caloroso affetto, prendendole tutt'e due le mani, staccandogliele dalla faccia e ritenendole fra le sue con dolce pressione, mentre i suoi occhi s'affissavano con immensa tenerezza in quelli di lei: “Madre, a che pensi?” “Penso a mio padre;” rispose ella, sforzandosi a dominare la sua emozione, “penso ch'egli non è più nel salotto a terreno della nostra casa dove soleva stare nell'ora di riposo della giornata; penso che non può venire sulla soglia a ricevermi col perdono sulle labbra.... e fosse pur anche collo sdegno e col rimprovero!... Penso che quel buon vecchio non l'ho visto più, e che è morto corrucciato con me....” Guido la interruppe con vivacità. “Non parlare così, non dire di queste cose, non pensarle, madre mia. Se tu hai commesso qualche fallo verso tuo padre, non fosti tu esemplare fra le ottime mogli, e la più tenera, la più santa delle madri? E lo sai bene che questa è principalmente la missione della donna! Tuo padre in vita, offuscata la mente dalla passione, ha forse disconosciuto e te e il vero dover suo, ma nel mondo di là, dove meglio splende allo spirito nostro la luce del vero, egli ti ha perdonato e benedetta, di certo, come sempre ti benedisse il compagno della tua vita, come ti benedico io, tuo figlio.” Anna, attraverso le lagrime, rispose con un sorriso; e Guido, per isviarne dai tristi pensieri la mente, dopo breve pausa, soggiunse esclamando con ammirazione, come sorpreso d'un tratto alla veduta che aveva dinanzi: “Oh vedi, come man mano che ascendiamo sulla collina, la pianura si amplia e si stende, e si rivela ai nostri sguardi! E che variazione di linee e di terreno! Che ricchezza di tinte e quanta leggiadria di disegno! Quanta grazia e quanta imponenza insieme in tutto il complesso! Come mi piacerebbe vedere questo paese illuminato dalla luce d'uno splendido sole, invece che da quella grigiastra del nuvoloso crepuscolo! È un bel paese il tuo, mamma, che, al vederlo, non so perchè, mi fa battere il cuore, come se in esso ci avessi anch'io e memorie e legame d'affetti.... Certo perchè esso è tuo; perchè qui mio padre ti ha vista ed amata; perchè alcuna cosa di quest'aura, di questo cielo, di questa terra è rimasta nella tanta bontà dell'anima tua, e un briciolo dell'amore a questi luoghi, quell'amore che ogni gentile ha pur sempre per il cantuccio del mondo dov'è nato, tu me l'hai trasmesso col sangue. Sì, davvero; sento come se io pure avessi avuto la vita in questo remoto e stupendo seno delle Alpi. E vorrei pure che così fosse. In una popolosa città, fra il tumulto e il viavai della gente, in mezzo ad oggetti che mutano sempre con vertiginosa instabilità, le prime memorie o non si possono imprimere profonde o presto si scancellano. Tante vicende, tanti guai, tanta folla ci passano e ripassano dinanzi! Qui invece!.... Qui ogni albero mi pare debba avere una parola da ridire al passaggio del montanino che torna dopo lunga assenza al suo paese; ogni uscio di casa una confidenza da richiamare, ogni cantonata, ogni volto d'abitante, ogni sasso un ricordo da evocare.” “Sì, sì, è vero!” esclamava la madre. “E ti giuro” continuava Guido “che questo paese non mi è nuovo, benchè io non ci sia stato mai. Io l'ho vista di belle volte nelle mie fantasticaggini questa tranquilla vallata; io l'ho sognata le mille fiate questa solitudine, rallegrata dai più sacri amori della terra: la madre, la compagna della nostra vita e i figli. Gli è in un paese come questo che io credo la migliore delle sorti quella di finire i nostri giorni.” Ciò che diceva il figliuolo era il pensiero appunto della madre; pure essa crollò il capo e il suo sorriso si fece più mesto. “Che parli tu di finire,” disse, “tu che li hai appena incominciati i tuoi giorni? Certo a me tornerebbe come una ventura il ridurmi qui dove nacqui, e qui estinguermi dove tutti morirono i miei; e forse meno tormentati dai mali sarebbero qui, nelle mie aure native, gli anni che mi rimangono.” “E si faccia:” proruppe Guido. “Tu sai, madre, che io non ho altro desiderio che il tuo. Veniamo pure a vivere nel tuo villaggio, e s'io ti vedrò lieta, sarò il più lieto uomo del mondo.” “No, no;” esclamò Anna con risoluta fermezza d'accento. “A te ben d'altro è mestieri per l'arte tua; e la tua giovinezza non deve segregarsi dal mondo e togliersi a quel moto per cui è fatto, a quel destino che le è assegnato. Sarebbe un soverchio e ingiusto sacrifizio che io t'imporrei, e di cui a me chiederebbe severo conto tuo padre, il quale può rivivere nella tua futura gloria d'artista.” Guido chinò il capo e si tacque. La salita intanto si faceva sempre più ripida, e i cavalli trascinavano a stento la carrozzona, eccitati dalla voce grossa e dalle frustate sonore del vetturino, sceso di cassetta. Il giovane aprì lo sportello, e saltò giù ancor egli sulla strada, dicendo a sua madre: “Farò a piedi questo tratto di via; ho giusto bisogno di sgranchirmi un poco le gambe.” Anna tirò giù il cristallo, per veder meglio la campagna. “Bada che avrai freddo,” le disse Guido: “l'aria è frizzante.” “Lascia, lascia:” rispose la donna con voce animata: “sto tanto bene; e quest'aria, anzi, mi sarà giovevole.... Vedi se non ti sembro già tutt'un'altra!” Ed era vero che gli occhi le brillavano maggiormente, e un caro rossore era venuto a colorirle leggermente le guancie. Il figliuolo venne ad avvolgerle bene intorno alla persona lo scialle e la coperta, e poi si pose a camminare accanto alla carrozza, tenendo una mano sull'apertura dello sportello. Dopo un poco, una viuzza serpeggiante sul fianco della collina gli apparve da quella parte appunto della strada dov'egli si trovava. Il sentieruolo s'avvolgeva graziosamente traverso una china erbosa tutta smaltata di fiori azzurrognoli, che i botanici battezzarono col nome di colchici autunnali, e i nostri montanari con poetico vocabolo, come annunziatori dei primi freddi, chiamano _freddolini_; e poi si perdeva in un castagneto. Il giovane l'additò a sua madre. “Quel sentiero conduce al villaggio per più breve e più ripido tragitto:” disse Anna. “Mentre la via carrozzabile gira intorno al colle, quella stradicciuola lo traversa dritto al culmine. Quando si è giunti alla cima della collina, vi si gode una veduta di paese che poche o nessuna se ne ha di più belle al mondo.” “Allora, se tu non hai bisogno di me,” disse Guido, “io piglio questa viuzza, e ti aspetto poi all'entrar del paese.” “Fa' pure. Giunto in alto del colle, ti vedrai il villaggio a' piedi.” Guido fece un cenno di saluto col capo a sua madre, che gli rispose con un sorriso, e si slanciò con passo affrettato su pel sentiero, traverso la falda erbosa della collina. In poco di tempo fu, oltre il bosco dei castagni, al culmine. Come gli aveva detto la madre, vide colà aprirsi tutt'intorno una di quelle magnifiche prospettive che non si possono trovare fuorchè nelle regioni montanine. Un'infinità di valli e vallette, le une imboccando nelle altre, tutte irrigate da qualche torrentello spumeggiante, tutte vestite nel declivio da boschi e da vigne, e coperte al fondo da prati e campicelli, tutte chiazzate dal bianco di abitazioni sparse qua e là, di paeselli aggruppati più su, più giù, sulle rive dei corsi d'acqua, nelle più pittoresche giaciture. Le ombre della sera che s'avanzavano rapide, e parevano dal fondo delle valli salire su per i fianchi della montagna, la quale si ergeva al di là di questa catena bene intrecciata di colli, davano a que' luoghi l'apparenza d'un'ampiezza maggiore, e come una sublimità melanconica e grave. Il paesello di sua madre rimaneva giusto ai piedi del giovane artista. Coll'acuto sguardo, non ostante quelle prime tenebre, egli arrivava a discernere casa per casa, e vedervi nei cortili in cui entravano i contadini a riporre i loro stromenti di lavoro, e per le finestre accesi i fuochi per cuocere la parca cena. Guido, ansante per la ripida salita, si appoggiò al tronco d'un grosso castagno che là sorgeva, e stette a contemplare. Gli giunse allora all'orecchie il suono da morto della campana, il quale, impedito dalla costa del colle, non aveva potuto prima giungere sino a lui. Guardò fisso laggiù, e vide un ammasso di persone con ceri accesi avviarsi dalla piazza della parrocchia verso un'estremità del villaggio. Indovinò il vero e assai gli dolse, pensando al nuovo dolore che ne avrebbe sua madre. Poi pensò a quella creatura, che probabilmente era portata a seppellire in tal momento la quale per sangue a lui, Guido, era congiunta, che pure, egli non aveva vista mai, e non aveva quindi amata e alla quale se volgeva un compianto, pure non aveva lagrime da tributare.... Ma tosto si presentò quindi alla sua mente il pensiero di quella ragazza che unica era rimasta intorno alla povera vecchia, e che con la nonna perdeva tutto nel mondo. L'idea della giovinetta abbandonata lo intenerì. «Poverina! — pensava; — ella sì che piangerà, che si dispererà nel massimo dei cordogli su codesta tomba che le rapisce ogni cosa ed ogni affetto!» E nella sua fantasia d'artista. Guido travide un'ideale di fanciulla colla ingenua grazia della prima giovinezza, atteggiata alla mossa più commovente del dolore, in quella naturale eleganza che seppe dare alle sue opere perfette, la sublimità dell'arte greca. Allora un impeto d'entusiasmo caritatevole gl'invase il nobile animo. A sua madre ed a lui, anzi più a lui, perchè sua madre infermiccia aveva bisogno ella medesima di riguardi e di soccorsi; a lui si apparteneva di recar sollievo a sì aspra ferita del dolore che tormentava quell'anima sì nuova ancora alla vita; a lui di creare intorno alla misera derelitta un'atmosfera d'affetto, la quale di certo non poteva tener luogo di ciò ch'ella aveva perduto, ma che ne temperasse tuttavia l'angoscia; a lui il difficile ma sublime cómpito di medicare e risanare un cuore così crudelmente trafitto. Con questo accesso di zelo, scese precipitosamente la collina, e raggiunse all'entrata del villaggio la carrozza di sua madre. “Che hai?” gli domandò la madre, che vide negli occhi di lui una luce più viva. “Penso a Maria:” disse Guido con nuova espressione. “Povera orfana!” “Orfana!” ripetè Anna con voce che suonò come un singhiozzo. “La povera zia, adunque?...” Si perdevano nell'aere vespertino gli ultimi rintocchi della campana. Anna si abbandonò nel fondo della carrozza, e si coprì il viso col fazzoletto. La casa che era stata del padre di Anna, era venuta in mano di estranei; non avevano l'Anna e suo figlio dimora alcuna in quel paese, che fosse pronta ad accoglierli. Guido, salendo nel legno presso la madre, ordinò al vetturino di condurli alla miglior locanda. Colà il figliuolo volle che Anna si mettesse a letto, e capitatogli un monello, lo aveva mandato, come abbiamo visto, ad avvisare il parroco del loro arrivo. Mezz'ora dopo, la voce del vecchio sacerdote diceva all'uscio della stanza in cui erano Anna coricata e Guido a tenerle compagnia: “Si può?” “Avanti, avanti!” rispondeva sollecito il giovane, e si alzava con premura a muovere incontro alle due persone che entravano. IV. Il parroco entrò primo, e dietro lui, tirata per mano, Maria, la quale camminava con evidente ritrosia, gettando tutt'intorno sguardi quasi atterriti coi suoi grandi occhioni selvaggi. Dopo aver chinato la sua bianca testa in un saluto a Guido e alla donna, che s'era levata con vivace mossa a sedere sul letto, il Prevosto disse: “Riverisco, signor mio; signora, le son servo.” “Oh sor Prevosto! La non mi riconosce più?” esclamò Anna, i cui occhi andavano cercando con desiosa curiosità la fisonomia della giovinetta, la quale, visto gente, aveva chinato il viso più che mai e lo teneva basso con molta vergogna. “Sì, sì, certo che la riconosco;” disse il vecchio curato con ilare bonarietà nell'aspetto e nella voce; e tornando alla sua radicata abitudine di dar del voi a tutti i suoi parrocchiani: “che? non siete mutata di molto voi, e se non foste un po' smagrita e pallidina, direi che siete ancora l'Anna d'una volta.... Ma intanto eccoci qui: vi ho condotta la povera Maria.” La madre di Guido tese le braccia alla giovinetta. “Maria!” diss'ella con molto affetto: “vieni, vieni qui ch'io t'abbracci.” Ma la fanciulla invece d'abbandonarsi sul seno di colei che pur ve l'invitava con sì dolce suono di voce, con sì amorevole espressione, si trasse indietro e si nascose dietro il buon prete; e siccome questi aveva lasciato andare la mano per cui la teneva introducendola, ella si attaccò ad una falda del lungo di lui soprabito. “Su via, animo che cosa fai?” — badava a dire il curato: “va' innanzi, Maria, che queste le sono sciocchezze; qui vedi i tuoi parenti, gente che ti vuol bene, e in quella buona signora troverai una madre.” “Sì, sì, davvero; farò di tutto per esserti come una madre;” diceva col medesimo affetto Anna, tendendo sempre alla fanciulla le braccia amorosamente. Ma era come dire al muro. Allora il parroco, tanto per iscusarla, mentre di soppiatto colla destra tentava di tirare innanzi la ragazza e spingerla verso il letto, disse: “Vedete, la è un tantino selvaticuccia.... sì, anche un po' troppo, se volete.... Ma che s'ha da fare? È vissuta fin'ora in compagnia delle sue capre sulla montagna e nella casa della sua nonna, e non con altri.... E poi la è così novellina e sempliciotta, come un agnello appena nato, ve lo assicuro io; è una di quelle creature del buon Dio, che hanno la fortuna dell'innocenza.” Per Guido, che colla sua artistica immaginazione di quella giovinetta s'era formato un tipo, fu quella una disillusione completa. I raggi delle candele che illuminavano d'una luce rossiccia la stanza, cadendo di sbieco sul corpo magro e disadatto della giovinetta, ne facevano risaltare più sfavorevolmente che mai i contorni angolari; la testa grossa, con una massa enorme di capelli in disordine, pareva una matassa arruffata senza forma e senza figura; le membra gracili e tirate avevano un'infelice durezza di linee; la gonnellucciaccia che le pendeva dai fianchi malamente sfilacciata, a brandelli, era fatta apposta per accrescere l'aspetto disavvenente della sua persona. L'avreste detta una selvaggia di quelle tribù a cui non sono concesse le soavi grazie che fan leggiadro il sesso femmineo della razza indo-europea. “Vieni,” ripeteva ancora la madre di Guido, “siamo tuoi congiunti, noi; io sono tua cugina, e questi, che è mio figlio, è tuo cugino ancor egli.” “Sì,” disse il giovane avvicinandosi alla ragazza e tentando di pigliarle una mano: “siamo cugini.” Ma ella ritrasse vivamente la destra che Guido cercava, e si tirò in là. “La è semplice, la è semplice;” tornò a ripetere il parroco, dondolando la testa, “bisognerà aver pazienza; ma è buona come il pane e ubbidiente a dovere. La nonna ne faceva ogni sua volontà.” Poi volgendosi a Maria: “Questi signori ti vogliono bene, sai, e tu hai da voler bene a loro. Sono venuti qui apposta per te, ed è la nonna che loro ti affida e che per mezzo mio ti comanda di amarli.” La fanciulla nè si scosse nè parlò. “Maria,” riprese a dire Anna con affettuoso calore, “noi ti amiamo davvero come t'amava la povera Marta.... Ah! perchè non è ella più qui a conoscer quale affetto io avessi tuttavia per lei! Ah! perchè non l'ho potuta almeno abbracciare anche una volta!...” E sopraffatta dall'emozione ruppe in pianto. Guido le si fece dappresso sollecito, ammonendola amorevolmente. “Via, non far così, mamma.... Lo sai che ti fa male.... Un po' di coraggio, te ne prego.... anche per questa poveretta che certo non ha mestieri la si stimoli al pianto.” Volse gli occhi verso la fanciulla, e il contegno come la faccia di costei parevano voler dare la più ampia smentita alle ultime di lui parole. Essa, all'udir piangere, come tirata dalla curiosità, s'era fatta un poco innanzi, sporgendo il collo, aveva levato alquanto la testa e diretto lo sguardo sul volto della donna giacente; ma tale sguardo era senza espressione, pari a quello delle pupille di vetro in una statua di cera; e Guido che lo incontrò, ebbe la mente attraversata da un subito sospetto. “Ma questa ragazza è scema:” pensò. Maria, accortasi d'essere osservata dal giovane, chinò ratto gli occhi e si trasse nuovamente indietro, facendosi riparo delle spalle del parroco. “Mia buona signora,” disse questi, commosso più che non volesse lasciare scorgerlo: “le lagrime non giovano a nulla, ed è dovere d'ogni cristiano rassegnarsi alla volontà del Signore. Marta visse una vita lunga e da virtuosa donna qual'era; ha fornito molto bene la sua carriera mortale, e ora riceve il compenso de' suoi meriti. Per tutto quanto le poteva ancora importare sulla terra, che è questa poveretta, aveva posto ogni speranza in voi, Anna; e il miglior modo di mostrare a quell'anima il vostro affetto e il vostro rimpianto è di soddisfare i suoi desideri.” “E lo farò nel miglior modo che potrò,” disse la donna vivamente; “e d'ora innanzi Maria la considero come figliuola.” Il parroco tolse commiato. Quando lo vide avviarsi, la ragazza si mosse ella pure per seguirlo e tornò ad afferrargli la falda del soprabito, come per farsi condur seco. “No,” disse il sacerdote, “tu devi rimanere colla tua nuova famiglia.” Maria supplicò mutamente con uno sguardo. “È la volontà della nonna:” soggiunse il parroco. Allora la giovinetta lasciò andare il lembo del vestito che aveva afferrato, e chinò tanto il capo da non potersi più scorgere della faccia che l'alto della fronte. Fu messa per quella notte in uno stanzino attiguo alla camera dov'era la madre di Guido; e questa udì la fanciulla smaniare e sospirare tutta la notte, e la mattina, appena l'alba, aprir la finestra ed esporsi alla brezza, come farebbe chi avesse la testa riarsa da febbrile calore. “La non è dunque insensibile come pare:” disse Anna a suo figlio, narrandogli ciò: “ma è soltanto timida e selvatichetta.” La disillusione provata da Guido per le sembianze della giovinetta avevano un poco ammorzato in lui lo zelo primitivo, ma non estintolo affatto. “È un'anima da dirozzare:” s'era egli detto. “Mia madre le educherà il cuore, ed io l'intelligenza. Sarà una grande soddisfazione e un prezioso compenso per noi il vedere sorgere da quell'animata macchina di carne la creatura intelligente ed affettiva della donna; una soddisfazione uguale a quella che provo, quando dal masso della creta veggo nascere sotto la mano la statua bella e vera. Tanto meglio che quest'infelice non abbia il fragile dono della bellezza! Il nostro interesse per lei mi pare ne sia più santo, e forse tale sventura sarà compensata in lei da interiori e più preziose virtù che si svolgeranno.” Furono fatti vestire a Maria altri panni alla foggia cittadinesca, e quando la poveretta comparve in una veste lunga, che le si adattava al corpo magro e stecchito come ad un bastoncino la fodera d'un ombrello, la era così impacciata e goffamente ridicola che Guido non potè a meno di rompere in una risata. La giovanetta lo guardò fisso un pochino con quel suo sguardo senza luce, poi guardò sè stessa nel suo nuovo acconciamento; e, come vergognosa de' fatti suoi, fuggì via a nascondersi. Era intenzione di Anna e di suo figlio di non fermarsi al villaggio più d'otto giorni; ma l'aria nativa, benchè la stagione fosse poco propizia, giovava pur tanto alla salute della madre, e la bellezza del paese esercitava su Guido quel medesimo fàscino che già aveva esercitato sul padre di lui, quando primamente era capitato in quei luoghi, così che decisero dimorarvi un mesetto. Si allogarono nella casetta antica della famiglia che presero per quel tempo in affitto, quella casa dove erano trascorse l'infanzia e la prima giovinezza di Anna; e Maria vi ebbe una camera dove furono raccolti tutti gli oggetti che le aveva lasciati la nonna e che le dovevano esser cari. Colla sua nuova famiglia, la giovinetta, poco più, poco meno, era sempre quella che il primo giorno. Stava sola quanto più poteva, fuggendo tanto l'Anna quanto il giovane; innanzi a loro di rado alzava gli occhi a guardarli: si teneva impalata e immobile, come se non osasse pure trarre il fiato: non rispondeva che a monosillabi: e nè l'uno nè l'altro avevano potuto vederla piangere o sorridere o dare un segno qualunque di sentimento. Un giorno che il tempo era più freddiccio, Anna ritiratasi nel pian terreno e sedutasi sulla vecchia poltrona di suo padre presso al fuoco, s'era abbandonata a ricercare colla mente tutte le memorie del passato, e per farsi meglio sfilare innanzi alla fantasia l'immagine delle cose trascorse, aveva chiuso gli occhi e pareva dormisse. Maria entrò col suo passo felino che non si faceva sentire, e s'accostò pian piano. La salute, che tornava ogni dì meglio alla madre di Guido, le dava una leggiera tinta d'incarnato alle guancie, l'interna emozione di quel momento si rifletteva sulla fisonomia di lei in sì gentile maniera, che uno splendore di giovinezza animava la beltà di quei tratti da disgradarne qualunque più leggiadra nel fiore de' suoi anni, se non fossero stati que' fili bianchi ne' capelli e quelle finissime rughe ai lati della fronte. Maria stette un poco a contemplarla; poi s'accosciò pianamente ai piedi di lei, appoggiò un gomito alle ginocchia e il mento sulla palma della mano, e si diede a fissar l'Anna, come se non l'avesse vista mai e volesse imprimersene i tratti nella memoria. La madre di Guido udì un respiro più forte che pareva un sospiro, e aprì gli occhi, vide Maria in quella positura che la mirava. Acconciatasi senza soggezione in una mossa naturale, la giovinetta aveva una certa grazia quale Anna non le aveva vista mai, e in quel punto nello sguardo dell'orfana a lei rivolto, credette scorgere una intelligenza, una tenerezza che le si mostravano per la prima volta. Ma appena Maria ebbe veduto aperti gli occhi di Anna, sorse di scatto, e tornando tosto in tutta la disavvenenza dei suoi movimenti, fece atto di partirsene rossa in viso, come chi vien colto a far cosa che non dovrebbe. Anna fu tosto a trattenerla, pigliandole una mano. “Perchè fuggi? Ti fo io paura?” Maria, al solito, non rispose. “Non mi vuoi dunque bene niente niente? A me che te ne voglio tanto?... Non me ne vuoi?... Rispondi.” “Non so:” disse con voce stentata la ragazza guardando da un'altra parte. La madre di Guido la tirò a sè con affetto, e la baciò in fronte; Maria si era lasciata chinare verso la donna, nè riluttante, nè consenziente, e riceveva i baci con una specie di rassegnazione passiva. “Dimmi se non sei contenta di noi; dimmi se hai qualcosa di cui dolerti, se desideri alcunchè. Io voglio che tu sii lieta e contenta. Ma perchè taci sempre e non rispondi mai alle mie dimostrazioni d'affetto? Tu non mi hai ancora restituito pure un bacio.” La giovinetta si divincolò, e non con garbo, dalle braccia di Anna e disse con un accento di espressione indefinibile, che non poteva dirsi se fosse ammirazione, invidia, o ritrosia, o scioccaggine: “Siete troppo bella, voi!” Maria aveva creduto di dover tornare a tutte le abitudini che aveva prima della malattia della nonna; e il suo primo pensiero era stato quello di andare di nuovo sulla montagna, colle capre alla pastura. Guido aveva messo in pratica tutta la sua abilità persuasiva per farle capire che quel genere di vita era affatto finito per lei e che ne incominciava un altro tutto diverso. La selvaggia fanciulla, sempre taciturna a suo modo, vi si acconciò colla buona voglia di chi fa un sacrifizio che gli sia imposto. Il giovane artista avvisò che non c'era tempo da perdere per cominciare l'istruzione fin'allora troppo trascurata di questa fanciulla che omai toccava l'adolescenza; e vi si applicò senza ritardo con tutto l'animo, chiamando in soccorso del suo buon zelo tutta la pazienza di cui poteva disporre. Ma per quanto fosse in lui quest'ultima, la mala voglia e la cocciutaggine della ragazza erano ben maggiori. Ella non si ribellava mai, ma si accostava allo studio come una vittima rassegnata al supplizio; si rinserrava in un silenzio timoroso e selvaggio, e a qualunque cosa le dicesse il giovane maestro, non dava risposta, ma lo guardava collo sguardo attonito dei suoi occhi larghi, che diceva chiaro ella non capir nulla. Guido provò di tutto per ismuoverla da quella passività inintelligente: rimostranze ed amorevolezze, incoraggiamenti e rampogne, anche preghiere, e, non potendone più, la collera. Tutto si spuntava contro il mutismo caparbio della giovinetta. “Non è una creatura umana quella lì:” esclamava Guido allo stremo affatto di pazienza: “è un macigno. Affè che i marmi delle mie statue hanno più sentimento e più intelligenza!” Trascorso il mese, si dispose tutto per tornare in città. Maria sapeva che stava per abbandonare quel paesello che doveva pur essere l'unico amor suo; ma non fu mai che in presenza d'Anna o di suo figlio manifestasse uno sfogo di dolore o solo un rimpianto. Rinchiusa invariabilmente nella sua atonia, guardava tutti i preparativi che si venivan facendo con quella sua aria balorda, di cui Guido aveva finito per indispettirsi maledettamente, e la si faceva più taciturna che mai. La vigilia della partenza, verso l'imbrunire, Maria sparì di casa: e Anna inquieta, dopo due ore ch'ella mancava, mandò Guido e pregò i vicini andassero a cercarla di qua e di là. Dopo aver girato assai tempo, la trovarono finalmente a notte chiusa, che se ne usciva tutta tranquilla dal cimitero, colle traccie nei panni, alle ginocchia, sulle mani di chi si è prosteso sulla terra e vi è rimasto a lungo. “Che cosa hai tu fatto?” le chiesero solleciti. “Sono andata a dare un bacio alla nonna:” rispose ella con quella sua aria di astrazione stordita. Nè Anna, nè pur Guido medesimo, meno tollerante, ebbero coraggio di farle una rampogna. Alla partenza, quando le toccò salire in carrozza, Maria ebbe il viso sconvolto da una di quelle contrazioni che rivelarono il suo dolore alla morte della nonna; seduta a lato di Anna, la si tenne sempre col capo sporgente in fuori a guardare il paese, le colline, la montagna, i campi; e quando per la lontananza le si confusero alla vista tutti questi oggetti, allora si ritrasse vivamente, si accasciò, per così dire, nel fondo della carrozza, e mandò quella specie di grido soffocato o di gemito inarticolato che pareva essere in lei l'espressione suprema del sentimento. E fu tutto. V. All'inverno, in città, le relazioni fra Guido e Maria, invece di farsi più intime, erano venute diminuendo di famigliarità, come anche di amorevolezza. A breve andare era sfumato affatto lo zelo di Guido per istruire la cuginetta, e perchè egli era stanco della durezza d'intendimento della ragazza, e perchè ritornato alle sue occupazioni artistiche e agli spassi della vita cittadinesca. Con Maria e' non si trovava più che all'ora del desinare, dove ella non parlava mai, fuori che quelle poche e volgari parole che erano necessarie: e quando Guido recavasi a stare un poco in compagnia della madre, per uno di quei confidenziali, amorevolissimi colloqui, a cui erano avvezzi, e in cui si trovavano tanto bene ambedue, la giovanetta, la quale di solito non si staccava mai dall'Anna, sentendosi d'impaccio in tali momenti e messa in gran suggezione dalla presenza del cugino, era lesta a rizzarsi, pigliare il lavoro e ritirarsi nella sua camera. Colla buona, dolce ed amorevole creatura, che era la madre di Guido, Maria, a poco a poco era pur venuta, per così dire, addomesticandosi; e se non con molte e aperte parole mai (chè la sua natura era e pareva farsi ogni giorno più taciturna), cogli atti e coll'aspetto veniva mostrandosi e riconoscente e benevola. Sempre strana del resto, la vista della gente pareva farle paura: fuori che dell'Anna, incurante d'ogni altro: salvo quelle cose che giovassero alla cugina, tutto il resto ella faceva con isbadataggine e coll'apatia, si sarebbe detto, d'un essere poco intelligente e meno sensibile. Di frequente la giovanetta ricadeva in una specie d'astrazione, rimanendo immobile, muta, collo sguardo fisso e senza luce, colla mossa e coll'aspetto d'una statua di cera. A che pensava ella in quei momenti? Forse non lo sapeva neppur essa e, di certo, a nessuno era disposta a dirlo. In breve tempo Anna aveva sentito la compagnia della povera orfana farlesi gradita ogni giorno più, infine quasi necessaria. Invero, senza che paresse, non c'era cosa di cui la madre di Guido avesse desiderio o bisogno, che la taciturna Maria, chetamente, con certe sue mosse destre nella loro grossolanità non fosse lì tosto a procurargliela o farla. Se Anna volgeva lo sguardo alla fanciulla non era mai che questa le mostrasse, come si suol dire, il bianco degli occhi; ma se ella era assorta in qualche pensiero, od occupata in alcun modo da non badar più alla compagna, allora Maria alzava adagio adagio i suoi grandi occhioni sulle belle fattezze della cugina, e stava lì con ammirazione, con affetto, a contemplarla tutto quel tempo che a lei non si faceva attenzione; ma appena la madre di Guido accennava accorgersi di essere così guardata, la giovinetta s'affrettava a chinar il capo sul suo lavoro, e non ne staccava più gli occhi. Così, man mano erasi venuta avviando ed accrescendo una confidenza affatto intima fra la donna e la ragazza, tale però che, non uscendo mai quest'ultima dalla sua taciturnità, era la madre di Guido che trovava in quella domestichezza lo sfogo dei più minuti e delicati fra gl'interni affetti. E questi affetti quale scopo, quale argomento avevano che non fosse Guido? Parlava adunque di lui quasi sempre l'amorosa madre; poi veniva narrando a Maria del suo passato e la mesta storia de' suoi amori tornava sovente del paro sulle labbra della virtuosa donna, che tutta viveva e nelle memorie del tempo trascorso, e nell'amore grandissimo all'unico suo figliuolo. Questi aveva visto con piacere come la compagnia dell'orfana tornasse di sollievo alla madre; e poichè ora una persona affettuosa e sommessa era lì continuamente, in assenza di lui, a indagare, indovinare e adempiere ogni desiderio e ogni bisogno di sua madre, Guido, forse senza pur volerlo, s'era lasciato prendere maggiormente dagli svaghi della vita mondana e dalle abitudini meno casalinghe della spensierata allegria d'artista. Tutte quasi le ore delle sue giornate egli passava nello studio, visitato spesso da amici e da compagni, e la sera qua e colà nei convegni, ai teatri, alle feste. Di Maria, Guido si dava poco pensiero; aveva rinunziato affatto alla parte di maestro della giovinetta, nè si curava di domandare se e come questa profittasse degli ammaestramenti della buona Anna e degl'insegnanti che si erano chiamati per lei. Trascorsi così l'inverno e la primavera, sopraggiunse l'estate. La salute di Anna veniva raffermandosi assai bene; non così quella della povera Maria. Fosse il nuovo genere di vita fatta sedentaria in città, da libera e vagabonda in campagna ch'ella era prima; fosse l'effetto di quanto la poverina aveva sofferto di stenti e di privazioni durante l'anno di malattia della nonna; fosse soltanto la crisi dell'adolescenza, il vero è che di giorno in giorno la giovinetta dimagrava e impallidiva, le si affondavano le occhiaie, la fronte e le guancie le si colorivano di tinte livide, smorta le si faceva sempre più la luce degli occhi, il petto le veniva affannato da certi soffocamenti per cui le era quasi tolto il respiro, e i polmoni aveva scossi da una tosse irritata e profonda. Anna più volte aveva con premura interrogata la ragazza e pregatala dicesse se e che male si sentisse; ma ad ogni volta Maria, assalita da una fiamma di rossore fino sulla fronte, a cui tosto succedeva un pallore di morte, aveva risposto ratto non aver male di sorta, e s'era allontanata; fino a tanto che aumentando sempre cosiffatti sintomi, la madre di Guido, che n'era inquieta dimolto, aveva mandato pel medico di casa e senza dir nulla alla giovinetta, avevala fatta trovare un bel dì faccia a faccia col dottore preavvisato di tutto. Esaminandola attentamente, il medico fece con amorevolezza alla giovinetta le volute interrogazioni, a cui ella rispose, come soleva colla cugina, mal vogliosa e passando dal rossore alla pallidezza: e sarebbe scappata via, se il dottore non l'avesse trattenuta per una delle mani lunghe, magre, umidiccie d'un freddo sudore. Appena il medico ebbe lasciata andare quella mano, Maria guizzò verso l'uscio per fuggire. “Senti Maria:” disse il medico. La ragazza si fermò di mala voglia. “Vieni qui.” Ed ella si accostò a rilento. “Dimmi un poco:” riprese il dottore, fissandola bene in volto: “Andresti volentieri a fare un giro al tuo paese?” Maria diede una scossa, come colpita da una botta in mezzo al petto; tremò da capo a piedi; una più vivace vampa di rossore le salì alla faccia, e gli occhi le si imbambolarono, mandò fuori quella sua voce confusa che pareva un grido soffocato, che pareva un gemito, indizio in lei della massima emozione, poi, senza dir pure una parola, fuggì ratta come il baleno. Il medico si volse ad Anna, e così le disse: “Sa che cosa? È la donna che stenta a sbocciare dall'inviluppo di bambina; la qual crisi viene ancora complicata da quel misterioso male, per cui le spezierie non hanno farmaci, e che si chiama nostalgia. Se questa ragazza vivesse per due o tre mesi nel suo villaggio, attingerebbe nell'aere natio tanta forza da vincere ben tosto la lotta ed entrare in una fiorente gioventù. La è una strana creatura costei, fisiologicamente parlando, e fors'anche psicologicamente, la quale nella sua passività probabilmente contiene qualche cosa di più originale e di superiore alla comune. Ma codesta personalità, o impedita da qualche condizione vuoi morbosa, vuoi d'abitudini, o tarda per natura e per ragione stessa della sua indole, stenta a svilupparsi, tanto fisicamente quanto moralmente e intellettualmente eziandio, e sta assopita, costretta, per così dire, nel suo germe, finchè una benigna concorrenza di casi favorevoli non venga a destarla e promuoverla. Se io fossi in lei, signora Anna, la vorrei condurre per un po' di tempo al suo paese.” Anna ripetè appuntino ogni cosa al figliuolo. “Come s'ha da fare?” disse Guido. “A chi affidarla colà? E come separartene, mamma, ora che le hai posto tanta affezione?” Fu colto in questo mentre da una subita idea. “Ma forse tu stessa ci anderesti con piacere al tuo paese per un po' di tempo. E codesto gioverebbe eziandio alla tua salute. L'anno scorso ti fece tanto di buon sangue quella poca dimora colassù! Lascia che io provveda all'uopo, mamma, ti prego.” Pochi giorni dopo, Guido entrava improvviso nella stanza dove erano ai loro lavori domestici Anna e Maria. “Domani,” diss'egli con allegra vivacità e senza preamboli “domani partiamo per ***. Ho preso a pigione la casa, rifornitala di quanto occorre, e tutto è pronto per ricevervi. Potrete passarvi colà, alla freschezza di quell'aria, tutta la state.” “Davvero!” esclamò con gioia la madre, battendo le mani in atto quasi infantile: “Oh bravo! Oh che tu sia benedetto!” Poi tosto la sua contentezza fu temperata da una paura. “E tu, Guido,” richiese ella dubbiosamente: “ci verrai tu pure?” “Verrò ad accompagnarvi,” rispose il giovane, “ed a vedervi tutte le settimane una volta, o poco meno. Quanto allo starci anch'io di piè fermo, sai, mamma, che non si può. Ho da finire quel gran lavoro, nè posso assolutamente smetterlo o interromperlo.” Maria, a quell'inaspettato annunzio, era rimasta là immobile, come sovraccolta dal massimo stupore, la mano levata sul suo lavoro, la bocca aperta, senza parola, quasi senza fiato. “Hai udito, Maria?” le disse la madre di Guido. “Si va di nuovo al villaggio.” La ragazza, cogli occhi sbarrati, guardava attonita, ora Anna, ora il giovane, come se non capisse punto. Anna si chinò verso di lei, la prese per una mano e la trasse a sè, ripetendole soavemente: “Si torna al nostro caro paesetto, hai capito?” Maria si abbandonò a quell'attrazione, e forse per la prima volta cadde sul seno della cugina, mandando un gran sospiro e lasciando cascar di mano l'ago, la tela e l'anello da cucire. “Ne sei contenta?” domandò Anna abbracciandola. E la povera fanciulla rispose due o tre _sì_ a bassa voce; poi nascondendo il volto nel seno della donna, ruppe in singhiozzi che certo non erano espressione di dolore. VI. Guido, da principio, fu fedele alla data promessa: ogni settimana faceva una corsa a quel villaggio e vi rimaneva un giorno con sua madre; poi rassicurato compiutamente sulla salute di lei, la quale erasi del tutto ristabilita, cominciò a diradare i suoi viaggi, cui la lontananza rendevagli troppo disagiati e troppo pregiudicevoli alle sue artistiche occupazioni. Tanto più che svanendo i suoi timori intorno alla madre, il suo amore per l'arte aveva presa nuova e maggiore esaltazione e potenza. La madre se ne accorse e avutolo a sè, gli strappò la rivelazione ch'egli non sarebbe stato felice finchè non avesse potuto ammirare i capolavori artistici di Firenze e di Roma, e immergersi tutto, per così dire, in quell'ambiente di bellezza e di gusto che li circonda, nelle due gloriose metropoli dell'arte italiana. Non c'è amore meno egoista di quello materno; e Anna volle che suo figlio partisse. Si stabilì che Anna e Maria sarebbero rimaste al villaggio, e Guido sarebbesi recato, per dimorarvi alcuni anni, a Firenze ed a Roma; e così fu fatto. Il giovane scultore, rapito dalle bellezze artistiche di quelle ammirabili città, allettato dai suoi successi, da qualche avventura amorosa, dalle vicende d'una vita libera e piena di sollazzi insieme e d'emozioni, stette fuori assai più tempo di quanto avesse voluto dapprima, e sei anni passarono prima che tornasse a rivedere il suo Piemonte e riabbracciare la madre sua. A Maria, Guido aveva rivolto così poco il pensiero, che quasi può dirsi niente affatto. Sua madre però glie ne aveva scritto di quando in quando, e sempre le più belle e lusinghiere cose: che nel mentre la veniva rimettendosi in salute e vantaggiando di fisico, progrediva pure di cuore e d'intelletto; che essa, Anna, applicatasi ad insegnare a quella poveretta tutto quanto era in suo potere e sapere, cominciava a ricever lusinghiero compenso della sua pazienza e de' suoi sforzi; che quell'astrattaggine e quasi assenza temporanea d'intelletto, di cui Guido l'aveva vista afflitta, diminuiva sensibilmente, lasciando luogo soltanto a una freddezza e ad un riserbo che ora parevano orgoglio, ora indifferenza; ma che questa stranezza di modi proveniva nella fanciulla dall'indole speciale del carattere, non già da mancanza di cuore, perchè verso di lei Anna, la beneficata, tuttochè non uscendo da quel suo riserbato contegno, sapeva pur dimostrare un vero affetto e una vera gratitudine, e non ometteva cura e riguardo che si potessero immaginare. Quest'ultima cosa era quella che interessava solamente a Guido di sapere; e quando la madre gli scriveva a tal proposito i più caldi elogi di Maria, egli ricordavasi di mettere nella risposta un motto amichevole di saluto per la cuginetta. Quando Guido annunziò il suo ritorno, le due donne vennero a Torino ad aspettare l'arrivo del reduce. La buona Anna nel riabbracciare dopo tanto tempo suo figlio provò la maggiore dolcezza che sentir possa cuore amoroso di madre. Guido non era più un giovanetto. I sei anni trascorsi e gli studi e le lotte della vita ne avevano fatto un uomo. Aveva trentun anno, la fronte un po' più ampia pel cader de' capelli, e nelle nerissime chiome già alcun filo d'argento. Ma il suo sguardo aveva lo stesso fuoco e la stessa animazione di prima; e la sua bellezza, fatta più virile, lo rendeva ancora meglio osservabile a chi ne mirasse la nobile ed espressiva fisonomia. Poichè furono iterati parecchie volte gli appassionati abbracciamenti colla madre, e dato un primo sfogo a quell'ardore affettuoso di domande reciproche, Guido si guardò intorno, si meravigliò di non vedere presso sua madre la cugina Maria e ne domandò novelle. “Non siamo giunte dal villaggio che ieri,” Anna rispose. “C'è tutto da mettere in ordine nella casa; e Maria, che s'è fatta la miglior massaia del mondo, è tutta occupata in queste faccende.” “Bene bene,” rispose Guido. “E pare che i suoi uffizi da massaia le stieno più a cuore che il veder me, tanto poca premura ci mette a venir a salutarmi. Andrò io a cercare di lei.” “Eccola qui,” disse la madre, mentre l'uscio si apriva pian piano, e una forma di donna che pareva sorvolare sul pavimento, non camminare, sì leggiera e graziosa aveva l'andatura, s'avanzava tranquillamente verso Guido. Questi mandò un'esclamazione di meraviglia. “Che?” esclamò egli. “Sarebbe questa la Maria?” “Essa stessa:” rispose la madre sorridendo lietamente. Guido fece ratto due passi verso la fanciulla che lo guardava calma, senza pure un'ombra di emozione, e ripetè la sua esclamazione ammirativa. Aveva dinanzi un tipo perfetto di bellezza, una meraviglia di figura di donna. VII. Il medico aveva avuto ragione, e il tornare all'aria nativa e, se non a tutte, a una gran parte delle prime abitudini della sua vita, aveva giovato assai alla salute di Maria e allo sviluppo della sua giovinezza. Quelle forme angolose e rigide s'erano venute a poco a poco rimpinguando e ingentilendo; le ricche e splendide chiome d'oro con più attenzione e con più intelligenza raccolte e curate, facevano una smagliante corona alla fronte di lei purissimamente modellata, piana, candida, veramente virginea; col formarsi della persona avevano cominciato a perdere la loro disavvenenza, poi avevano preso una certa acconcezza, da ultimo una grazia squisita le mosse, gli atti della fanciulla oramai giovine donna; dall'informe e rozza crisalide era venuta sprigionandosi e ora svolazzava trionfalmente la brillante farfalla dall'ali d'oro. Al mutamento fisico tenne dietro altresì un mutamento morale. Studiò con attenzione e imparò; cessò dalla selvaggia soggezione e quasi diffidenza che aveva di tutto e di tutti. Fu detto come Anna, da sua madre, figlia d'un maestro di scuola, avesse ricevuta una istruzione più ricca e compiuta di quel che si sarebbe pensato potesse avere una povera ragazza d'un piccolo villaggio. Ora tutto il suo sapere fu per lei dolce e generoso soddisfacimento comunicare a quell'anima novellina; e fu un orgoglio il vedere come là dove avevano fallito e i maestri chiamati all'uopo e suo figlio medesimo, ella ci riuscisse colla sua amorevolezza e colla sua pazienza. Ciò accrebbe di vantaggio nella affettuosa madre di Guido quell'amore per Maria, cui già le avevano ispirato e le misere condizioni di questa e le prove tacite, modeste, ma non meno reali nella fanciulla, della sua gratitudine. Tale affetto prese alcun che di materno; se non la vita del corpo, era essa, Anna, che dava e schiudeva a quella creatura la vita dello spirito. Ci si adoperò, la brava donna, con quel calore di tenerezza, che ognuno mette per sempre nelle cose sue. A poco a poco la condotta delle faccende domestiche era passata intieramente nelle mani di Maria; Anna non aveva più da prendersi briga di sorta, ma da desiderare soltanto; tutto sollecitamente era fatto dalla fanciulla, e con una tranquilla facilità e con un'opportunità che non lasciavano scorgere l'opera e solo facevano apparire gli effetti. La giovane aveva preso assai gusto alla lettura; e molte ore del giorno soleva passarle leggendo. Anna aveva fatto trasportare al villaggio tutti i libri di Guido: storia, viaggi, poesia, romanzi, critica; e Maria, un dopo l'altro, lesse tutti quei volumi, e poi rilesse da capo. Che impressioni venissero in lei facendo tali letture nessuno potè saperlo, perchè ella non ne parlava mai, e per leggere si ritirava sempre nella solitudine della sua stanza, come vergognosa di lasciarsi vedere in tali momenti. Maria con tutto questo era sempre taciturna come prima. Parlava non più del necessario, senza calore, senza commovimento mai, senza effusione: la collera, il trasporto dell'allegria e l'abbandono delle confidenze erano estranei a lei come il pianto e il riso. La viveva così, chiusa in una superba indifferenza onde appariva diversa, e quasi direi, superiore alla comune dell'umanità. Quel suo contegno non più impacciato, ma serio e riflessivo, riusciva ben tosto ad imporne a chiunque l'accostasse; e siccome quando diceva il suo parere parlava sempre assennatamente, aveva acquistata su coloro che l'attorniavano un'autorità tacitamente riconosciuta, per cui, quando Maria aveva detto una cosa questa era risoluta. Era dunque una persona affatto diversa da quella che Guido aveva lasciata partendo, la Maria che ora gli stava dinanzi e gli aveva fatto mandare esclamazioni di meraviglia. “Maria! Maria!” ripetè lo scultore mirandola quasi estatico. “Sei tu? oh chi t'avrebbe riconosciuta?” La fanciulla ebbe un lieve sorriso che le sfiorò le labbra, fissò i suoi occhi freddamente limpidi in volto al cugino, e con una voce armoniosa, ma non commossa dal menomo tremito d'affetto, nuova ancor essa per Guido, rispose placidamente: “Sì, son io. Mi sono mutata dimolto eh?... Te pure, Guido, hanno cambiato alquanto gli anni.” Guido pensò tosto alle poche rughe della sua fronte, ai pochi suoi capelli canuti, e senza capirne bene il perchè, arrossì e sentì entrargli nell'animo un sentimento di scontentezza. Primo di lui proposito, nel movere incontro alla cugina, era stato quello di abbracciarla come una sorella; ma la vista di quella bellezza, subito lo aveva sbalordito, poi la fredda gravità di quell'accoglimento lo aveva sconcertato. Il sorriso indifferente di Maria, le poche di lei parole erano state per Guido come acqua fredda gettatagli in volto: invece di abbracciarla, egli le tese una mano. Maria pose in quella di lui la sua destra, una mano piccola, esile, lunghetta, morbida e cedevole alla pressione, ma fredda come lo sguardo, indifferente come l'accento; e senza rispondere alla stretta, ne la tolse poi tosto. “Ogni cosa è preparata nella tua stanza:” disse ella, “e tu hai certo bisogno di andarti a riposare.” La sera, prima di addormentarsi, Guido ebbe con insistenza innanzi a sè, nella sua fantasia d'artista, l'immagine della cugina. «Che bella figura! Che strano tipo e stupendo! Chi si sarebbe sognato mai che da quel mostricciuolo saltasse fuori una tale perfezione di forme? La è una figura che ogni artista sarebbe ben lieto di riprodurre. Servirebbe a meraviglia per una testa di Venere la sua.... no, meglio di Giunone.» Addormentatosi, dopo non breve dar di volta qua e là, sognò di trovarsi in un ampio e grandioso studio, attorniato dai migliori capolavori dell'arte greca e italiana; e là in mezzo nell'ardore d'una ispirazione feconda, quale non aveva avuta mai, senza punto aver modellato la creta, far egli di botto risaltare a colpi di scarpello da un gran masso di marmo una statua d'insuperabile bellezza: e tale statua, che sotto i colpi della sua mano febbrilmente concitata, pigliava forma e mossa ed espressione, aveva i lineamenti, il portamento e il contegno di Maria. Il giorno dopo si agitò fra madre e figlio una grande quistione: dove stabilire la comune dimora? Alla città o al villaggio? Guido in quel momento bramava andare al paesello; diceva quel soggiorno essere più giovevole alla madre; egli stesso aver bisogno di riposo e di quiete. “Vivremo colà alcun tempo, solo da noi e per noi!” esclamava con calore. La madre, al contrario, sosteneva che Guido colà presto si sarebbe annoiato, che avrebbe negletto l'arte sua; e ciò non doveva fare a nessun costo; affermava che a lei la più giovevol cosa di questo mondo era star presso suo figlio in qualunque luogo poi si fosse; che quindi Guido aveva da ripigliare senz'altro quella sua vita cittadinesca cui erasi assuefatto prima di partire. Anna fece appello al giudizio di Maria, la quale, seduta al suo lavoro presso la finestra, non aveva pronunziato ancora una parola e non mostrava aver prestato la menoma attenzione al discorso. Maria sollevò lentamente la testa, e guardando il cugino con quella medesima espressione con cui guardava il panno che stava cucendo, disse coll'accento d'un umile personaggio che proclama, per mandato d'un'autorità superiore, una sentenza inappellabile: “Tu, Guido, ti devi a tua madre, è vero; ma all'arte tua eziandio. Al villaggio quest'ultima sarebbe da te abbandonata; ed a tua madre, l'hai sentito, basta per esser lieta, il viver teco.” Anna si volse in aria di trionfo a suo figlio. “Vedi che avevo ragione!” Guido lanciò uno sguardo di fuoco sulla cugina, la quale, senza scomporsi altrimenti, richinava la testa sul suo lavoro con una graziosa curva di collo; e non ribattè parola. Maria aveva parlato; la lite era finita. Si rimase a Torino. VIII. Guido abbandonava spesso il suo studio pel salotto in cui era solita lavorare Maria. Una irrequietezza, qual forse egli non aveva provato mai, lo travagliava di continuo; intorno al suo lavoro non aveva pazienza di reggere lungo tempo; in mezzo a tutti i suoi concepimenti artistici venivagli sempre un pensiero estraneo che lo sviava; parecchie volte ei si trovava innanzi al masso di creta cui s'era messo per plasmare, immobile, le braccia penzoloni, la fantasia lontana lontana dal suo lavoro. Allora, indispettito gettava gli attrezzi e la blusa, ed usciva, come se all'aria libera avesse da riacquistar tosto l'idea e la volontà che gli erano fuggite. Non v'era più donna che trovasse convenirgli per modello; in tutte scopriva mille difetti: non la grazia, non la purezza delle linee, non l'espressione ch'egli andava vagheggiando; e si raccomandava agli artisti suoi compagni perchè gli procurassero quanto conoscevan di meglio. «Voglio fare una grande statua, un'opera da metterci l'amor mio, la mia gloria;» diceva egli. «Sarà una Venere, sarà un'Ebe, sarà una Psiche.... fors'anco una Madonna? Non so. Ma ne ho in capo delle forme vaghe d'un'armoniosa bellezza, cui vorrei poter far concrete coll'aiuto d'una realtà che s'accostasse un poco al tipo ch'io vagheggio; e la sciupata beltà di queste vostre _modelle_, qualunque m'avvenga d'incontrare, sta al mio sogno come la volgarità d'un becero alla sublimità d'un poeta.» Un giorno ch'egli ripeteva cotali sue parole, un allegro scapato de' suoi compagni rispose ridendo: “Se vuoi una figura veramente superiore in leggiadria, qualche cosa d'angelico congiunto a tutto ciò che ha di bello la carne.... e la ne ha, cospetto se ne ha di bello questa povera carne così maltrattata dagli ascetici!... Se vuoi una simile meraviglia, te la posso additar io.” “Sì?” interrogò Guido con avida curiosità. “Sicuro. E ce l'hai proprio, come si suol dire a gittata di mano.” La fronte di Guido si corrugò. “Chi?” interrogò egli con voce punto punto di scherzo. “Piglia tua cugina.” A Guido il sangue diede un rimescolo; sentì le sue guancie impallidire, poi accendersi; un subito impeto lo assalse d'inveire contro chi aveva così parlato, e se ne ritenne a stento. “Taci;” gli disse con fiero cipiglio: “questi non sono scherzi, ma sciocchezze.” Per nascondere la sua emozione, si alzò e si diede a girare per lo studio, toccando questo e quell'oggetto senza ragione, e in fatti non sapendo quel che si facesse. Ma il peggio fu che quelle parole del buontempone fecero sorgere fra tutti i presenti un vero concerto di lodi e d'ammirazione alla ragazza. Guido stava come sui carboni ardenti, e si faceva forza per trattenersi dall'insultare quegli encomiatori di sua cugina, che pur si tenevano nei più stretti limiti delle convenienze. Gli pareva quella poco meno che una profanazione. Si svestì della veste da lavoro con moto che pareva di rabbia, e infilando affrettatamente il soprabito, e piantandosi in testa il cappello: “Usciamo,” gridò; “ho da uscire io.... ho bisogno di respirare aria libera.” La verità era che il pensiero di pigliare Maria a modello della sua statua gli andava spesso per la mente, e senza spiegarsene bene il motivo, ne sentiva vergogna, e non osava confessarlo neppure a sè stesso. Soventi volte gli avveniva che, solo, nel suo studio, ripensando a quei lineamenti che aveva impressi nel cuore e nel cervello, gli sembrasse di non ricordarsene più esattamente, di non aver presente più qualche minuta particolarità di quella fisonomia, precisamente come accade a chi guardi troppo fisso e troppo lungamente un oggetto, che la vista gli si confonde, e l'oggetto medesimo pare abbuiarglisi, e perdere la precisione delle forme. «Quando abbassa lentamente quelle sue lunghe ciglia di seta dorata, la sua fisonomia piglia un _fare_ raffaellesco che non ho mai potuto compiutamente afferrare; quando atteggia le labbra al suo superbo sorriso, gli è più qua e più là che s'incava nelle sue guancie quella cara pozzettina tutta grazia e avvenenza!» Così dicevasi egli, e correva presso di lei a rivederla, col desio di chi da lunghi giorni non ha più visto cosa che gli è carissima. E ad ogni volta parevagli che una nuova bellezza gli si manifestasse. «Eppure,» pensava altresì Guido tal fiata nella sua solitudine, «eppure manca qualche cosa in quella perfezione! Vi è ancora un grado superiore di bellezza a cui la potrebbe giungere. Che cos'è? Non so bene; ma direi che una lieve nebbia avvolga e veli tanto splendore, rimossa la quale, più viva e più eletta ne sarebbe la luce.» Una volta che pensava appunto a codesto, mirando il fino e purissimo profilo di Maria, questa alzò il capo con quella sua solita mossa lenta e tranquilla, e volse verso Guido lo sguardo più freddo e più indifferente del solito. «Ah! quello sguardo non ha vita, non è l'espressione d'un'anima,» disse il giovane fra sè. «È lo sguardo d'un automa, non rivela nè l'intelletto nè il cuore.... Ecco ciò che le manca. La scintilla del pensiero e dell'affetto. Oh! se un Prometeo venisse e infondesse in quelle belle membra il fuoco celeste!... Come? Possibile! Quella non sarebbe che una meraviglia di forma, e in essa non si conterrebbe il _quid divinum_, l'essenza superiore, la bellezza ideale cui adombra la corporea?... No, no: la sacra favilla è nascosta, ma vi è di sicuro. Felice chi la susciterà! E allora anche l'avvenenza delle forme ne sarà avvantaggiata e compiuta. Ah! se io....» E non osò nemmeno formolare il pensiero che seguiva. C'era poi delle volte che, mirando quell'inalterabile serenità dello sguardo di lei, Guido ne provava quasi dispetto. Avrebbe voluto far qualche cosa da scuoterla in un modo o in un altro, fosse pur anche eccitandone lo sdegno; ma per quanto tentasse questo mezzo e quello, la placidità contegnosa della ragazza non si alterava pur mai. Un dì Guido era venuto a sedersi, come soleva spesso, vicino alla fanciulla che lavorava al suo solito posto; la madre dello scultore non era molto lontana, Anna e il figliuolo parlavano interrottamente; la giovane, come l'usato, se non la s'interrogava, taceva. Guido ammirava, come se non le avesse viste mai, le sempre più belle fattezze di Maria; e in quel momento, fosse la sua intima emozione che lo illudesse, fosse la realtà, credeva di scorgere nel volto di lei una traccia, non dirò di tenerezza, ma di sentimento. Anzi, ad un punto ch'essa levò il viso, per guardare traverso i vetri della finestra (che erano chiusi) o il cielo, o la casa dirimpetto, o due rondini volanti, o forse nulla di preciso, parve a Guido che un lampo di pietoso e di benigno affetto passasse sui lineamenti di lei. Egli si sentì inondare il cuore da una nuova commozione, come se gli fosse apparsa a sorridergli allora lusinghevolmente la Dea della speranza. Poco di poi Maria lasciò cadere le sue forbicine; e l'artista lesto a chinarsi per raccoglierle. La ragazza si curvò anch'essa, e abbassò la sua bianca mano a prenderle. I due giovani, chini ambedue, si toccarono leggermente; e Guido con un lieve fremito dolcissimo nelle fibre, sentì sulla guancia, sulla fronte, sul collo scorrere soave una ciocca dei capelli di Maria. Fu per lui un istante di delizia ineffabile: il cuore gli batteva ratto ratto e forte forte, sì che gli pareva doversi rompere, dandogliene un tormento insieme e una gioia da non potersi esprimere. Le destre d'ambedue trovarono le cercate forbici, incontrandosi; Guido prese colla sua calda e fremente la fredda mano di lei, che pareva di marmo, e la tenne un poco, e la strinse. Non la più lieve pressione, non il menomo moto gli rispose, nè pure un tentativo per isvincolarsi; ma, sollevando egli le pupille, incontrò quello sguardo vitreo, in cui non c'era rimprovero, nè stupore, nè emozione di sorta, ma la solita freddezza, che gli parve fatta più ingrata da una fugace espressione d'ostilità. Guido abbandonò quella mano, arrossì un poco, e si trasse in là, imbarazzato e indispettito. Maria, prima di ripigliare il suo lavoro, lasciò cascare quasi sbadatamente lo sguardo sui vetri della finestra, e questa volta visibilmente apparve sul suo volto un sentimento che avreste detto di compassione. Lo scultore sorse subito in piedi, e guardò ancor egli in quella direzione; vide a una finestra di prospetto una tendina abbassarsi prestamente sotto la mano d'un uomo che si ritraeva. Fino allora, Guido non avea saputo rendersi un conto chiaro e preciso del sentimento che gl'ispirava sua cugina. La subita gelosia che lo morse al cuore a quel punto, gli aprì gli occhi. Egli amava Maria disperatamente. Egli, che non aveva ancora amato mai, l'amava con tutta la potenza dell'anima sua. L'amava di quell'amore dell'uomo maturo, che ha ancora tutta la foga della prima giovinezza, e ha già la tenacità della forza virile; quell'amore che è l'ultimo che occupi il cuore d'un uomo, perchè vi s'incide profondo e incancellabile. L'amava, così da non avere più bene che con lei e per lei, l'amava da non poterla pensare nelle braccia d'un altro. L'amava ed era ferocemente geloso. A questa scoperta impallidì, provò ad un punto e vergogna di sè stesso e dispetto contro quella creatura cinta di tanta freddezza che pure aveva potuto accendere in lui un tanto ardore; ma poi, tosto, un impeto misto di tenerezza e di gioia lo assalse, perocchè sentì essere un gran fatto, una tremenda ventura nella vita dell'uomo quella che un vero, profondo, appassionato amore ne invada l'anima. Sua madre gli dirigeva giusto in quel punto una domanda. Guido, oppresso dalla sua emozione, non seppe rispondere, balbettò alcune parole, e per celare il suo turbamento, non trovò altro mezzo migliore che quello di uscire dalla stanza. Anna lo seguitò con uno sguardo pieno d'inquietudine materna. “Hai tu osservato?” diss'ella poi a Maria con voce commossa. “Guido ha qualche cosa che lo tormenta, forse un segreto dispiacere.” E Maria levando il suo placido viso e coll'accento della più naturale tranquillità: “Non istate a mettervi in mente di queste cose, Anna, che vi farete male senza una ragione al mondo. Il vostro occhio di madre è sempre pronto a vedere alcun male e farvi impaurire sul conto di Guido; ma vi dico io che l'ho osservato bene eziandio, ch'egli non ha nulla.” E intanto l'artista era corso a chiudersi in camera, e passeggiandovi in lungo e in largo a passi concitati, i pugni chiusi, la faccia contratta, esclamava con impeto che metà era di sdegno, metà di contentezza: “L'amo, l'amo, l'amo come un pazzo.” Si arrestò a mezzo la stanza, sopraccolto a un punto di bel nuovo da quel sospetto che aveva destata così di subito la sua gelosia. Accostossi alla finestra la quale guardava nella stessa strada in cui quella del salotto dove lavorava Maria. Al balcone di prospetto a cui aveva già visto muoversi una tendina, Guido scorse dietro i cristalli la faccia d'un giovane che stava assorto contemplando innanzi a sè. Lo scultore mandò una bestemmia e lasciò cadere un pugno sul davanzale. “Ed essa lo amerebbe?.... Potrebbe amarlo mai?” si domandò cacciandosi le mani nei capelli. “Amarne un altro!... Essere d'un altro!... Lei!.... Oh!” E due calde lagrime gli spuntarono dagli occhi. “Voglio sapere chi è colui.” Nel fugace istante in che gli era apparsa la figura di quel cotale, Guido aveva scorto delle chiome bionde, una faccia pallida e magra, due occhi languidi, un sorriso pieno di mestizia, benchè su labbra di venticinque anni. L'artista si pose di nuovo a passeggiare per la camera parlando a sè stesso nella concitazione della sua mente. “Maria penserebbe a quell'uomo?... E potrebbe giungere ad amarlo?... E lo amerebbe?... No, no; è impossibile.... Forse ella non è neppure capace d'amare. La sorte, facendola di tanta perfezione esteriore non volle che a questa corrispondesse l'interno! Ed è forse meglio così. Sarebbe troppo se pari alla beltà del corpo fosse il valore dello spirito. Non è che una meraviglia di forma cui bisogna contentarsi di vagheggiare senza chieder di più. Ma questo diletto, non vorrei che altri nemmeno lo avesse; non vorrei che occhio d'altri pur potesse mirarla. Al pari di me nessuno nè può, nè sa capire la poesia di linee che l'abbella....” Tornò alla finestra. Il giovane di prospetto più non compariva. Guido appoggiò la sua fronte ardente ai vetri. “Eppure” rispose egli dopo un poco, “è egli possibile che la natura abbia lasciato imperfetto un simile capolavoro e manchi il cuore?.... Forse l'anima in lei non è posta al riparo, dietro tanta freddezza, se non per conservarvi più intatte, più sublimi, più divine tutte le potenze affettive, e felice chi giungerà sino a quell'anima per ridestarvele! Chi sa quanti tesori d'amore si nascondono forse in quel cuore addormentato!... E perchè non potrei essere io quello che?... E perchè non mi amerebbe?... «Amore.... a null'amato amar perdona.» Oh! se mi amasse!...” Corse allo specchio a guardarsi. “Ah! la mia giovinezza è oramai ita!... Oh darei la mia parte di paradiso per essere ancora a venticinque anni.” Si ravviò la chioma, si lisciò la folta barba, e poi sorrise di scherno a quegli atti come vergognandosi di sè stesso. “Chi me l'avesse detto!... Ma torno io forse peggio d'un fanciullo?... Eh via! Non è colle grazie d'un ganimede da _figurino_ che si conquista il cuore d'una donna dabbene. E se Maria fosse tale da pigliarsi con quelle arti e con quei meriti? È così strano, è così piccolo l'animo della maggior parte delle donne! Quello là di faccia è giovane, ed è biondo al pari di lei.... Ella non sa, non può supporre nemmeno qual vulcano d'amore frema nell'anima d'un uomo come son io....” Uscì per prendere informazioni sul giovane che abitava dirimpetto. IX. Era figlio unico di un ricco signore. Amato ciecamente come tutti i figli unici e per essere egli cagionevole di salute, otteneva sempre dal padre tutto quanto gli potesse venire in mente di desiderare. Il sospetto geloso di Guido aveva indovinato il vero. Quel giovane era stato preso della bellezza di Maria, vedendola ogni giorno al lavoro presso alla finestra. La fanciulla, per lungo tempo non s'era neppure accorta di quel volto d'uomo, che stava con tanto d'occhi ardenti a contemplarla; avvistasene poi una volta, senza affettazione, come senza turbamento, aveva tirate le tendine per mettersi al riparo dalla curiosità di quegli sguardi, e per un poco aveva continuato a far così, sempre che vedesse comparire la faccia di quel giovane. Ma un dì, guardandolo ella per caso un po' più attentamente, vide sulla faccia di quello sconosciuto tanto cordoglio e sì modesta e calda preghiera, che la ne sentì una viva pietà, e senza darvi nè importanza, nè pure un pensiero, finse d'allora in poi non avvedersi più della presenza di colui, e lasciò che il giovane la contemplasse a suo bell'agio. Ed egli, forse temendo che tanta ventura gli venisse nuovamente ritolta, se ne abusasse o troppo scopertamente ne usasse, prese il costume di stare nascosto dietro la tenda e non apparire alla scoperta che di tratto in tratto, beatissimo allora quando lo sguardo della ragazza, alzandosi dal lavoro e andando sbadatamente in giro, veniva a cadere su di lui. Un giorno finalmente quel giovane disse a suo padre che se non isposava quella ragazza, sarebbe infelice per tutta la vita. Il padre, sapendo che la fanciulla era povera e di umil nascita, dapprima contrastò e volle tentare ogni possibil mezzo per isviare il figliuolo da tale idea; ma il giovane, che era innamorato assai più che non si credesse, sempre stette fermo al suo proposito, tanto che i suoi, entrati in timore per la salute di lui, decisero finalmente di contentarlo. “Quella ragazza sarà tua sposa;” gli disse il padre. “Sta' di buon animo e Dio te la mandi buona.” Il giovane fu per isvenire dalla contentezza, e buttandosi al collo del genitore, lo ringraziò vivamente più coi baci e con le lacrime che con le parole. Codesto intimo dramma aveva avuto luogo senza che dalla famiglia di Maria nulla se ne sapesse, eccetto la muta contemplazione del giovane, della quale da ultimo erasi accorto Guido. Ed ecco che pochi giorni dopo quell'ora di spasimo e di esaltazione, mercè cui lo scultore aveva conosciuto tutta l'estensione e la profondità dell'amor suo, rientrando in casa il nostro protagonista incontrò un vecchio signore affatto a lui sconosciuto, che usciva: Guido si affrettò ad entrare nel salotto, dove trovò sola sua madre, evidentemente sopra pensiero. “E Maria?” domandò egli. “È nella sua stanza:” rispose la madre. “Ho avuto adess'adesso un colloquio a cui non era conveniente che ella assistesse.” Guido sentì stringersi il cuore da un doloroso presentimento. “Un colloquio?” balbettò egli. “Con chi? E a qual proposito?” “Anzi t'aspettavo con molto desiderio per discorrerne teco,” seguitava la madre. “Non hai visto, entrando, un signore che si partiva di qui?” “Sì, ebbene?” “È il signor X....; ed è venuto a domandarmi per suo figlio, un unico figliuolo, la mano di Maria.” “Ah!” Guido si appoggiò sul marmo del caminetto, e per caso alzò gli occhi allo specchio ond'era sormontato; egli si vide così pallido che non osò più voltarsi, per timore che la madre s'accorgesse del suo turbamento. Dopo un poco, chiese con voce che si sforzò a tutto suo potere di render ferma: “E tu, che cosa gli hai risposto?” “Che avrei consultato Maria, e che noi non avremmo fatto che quanto ella volesse.” “Hai risposto eccellentemente:” sussurrò Guido, a cui pareva mancare la voce; e poi, sedendo presso il camino, si curvò sopra i tizzoni ardenti che si mise a tormentare con le molle. Anna continuava: “A dir vero, le convenienze ci sono tutte. Lo sposo è ricco, giovine, amatissimo da suo padre, e questi me lo affermò innamorato alla follia della nostra Maria....” Le molle caddero dalle mani di Guido. “Innamorato! Innamorato!” diss'egli con voce stizzita, smozzicando le parole fra i denti. “Bel merito! bel merito!... E chi sa che razza d'amore!... Una fiammata che la possessione estingue, non una di quelle passioni....” S'accorse che s'avviava per una strada inopportuna e s'interruppe. Riprese le molle e ricominciò a battere con rabbia sopra i tizzoni. “Ricco!” soggiunse. “La gente quando ha detta questa parola, crede aver detto tutto. Eh!... in un matrimonio, c'è ben altro eziandio a cui badare.” “Hai ragione,” disse Anna, “ma nel nostro caso la famiglia è affatto onorevole, e sul conto del giovane credo che non si possa dire che bene.” “Uhm!” “Come! Avresti udito qualche cosa non buona di lui?” “No, no,” s'affrettò a risponder Guido, che sentì subito una gran vergogna de' fatti suoi. Anna ripigliava: “Del resto ne possiamo discorrere a bell'agio tutti insieme. Se tu credi, sveleremo subito la cosa a Maria.” “Sì, sì, come vuoi:” disse Guido con una nascosta agitazione. “Anzi tu dici bene, è meglio parlargliene al più presto.” Fu mandata a chiamare la ragazza. Ella venne tosto col suo passo leggero e l'andatura graziosamente spigliata in una noncuranza piena di garbo. Anna sedeva sopra una poltrona in faccia alla finestra; Guido su una seggiola bassa, accosto accosto al camino. Guardò egli di sottecchi la fanciulla che s'avanzava, e poi curvandosi, sul focolare si rimise a percuotere con più violenza i tizzoni. “Maria,” disse la madre di Guido, facendole cenno che sedesse, “abbiamo da parlarti di cose importanti che ti riguardano.” “Me?” interrogò la ragazza stupita; e poi tosto, vedendo il mal governo che Guido stava facendo del fuoco, si rivolse a lui con piglio graziosamente autorevole: “Guarda se questo è modo di assettare il fuoco!... Hai mandato la cenere fin qui sul tappeto!” Guido gettò via le molle e appoggiate le gomita sulle ginocchia, con le mani si reggeva la faccia; Maria prese la spazzola del cammino e levò via con tutta cura la cenere sparsa; poi andò a sedersi sopra uno sgabello ai piedi di Anna, pigliò fra le sue e ritenne la mano che questa le tendeva, e guardandola con que' suoi occhi limpidi e sgranati, le disse: “Parlate pure; vi ascolto.” “Si tratta della cosa più importante per una ragazza:” cominciò Anna sorridendo: “d'un matrimonio per te; e noi dobbiamo chiederti la tua volontà a tale riguardo.” Maria non manifestò la menoma commozione; dopo il suo solito glaciale sorriso, metà superbo, metà incredulo disse pacata: “Un matrimonio per me? È un'idea che mi riesce affatto nuova, a cui non ho vòlto mai la mente.... Perchè un matrimonio?... Uscire da questa casa io, per entrare in un'altra del tutto estranea, in mezzo ad estranei?... Voi mi domandate intorno a ciò la mia volontà quale sia? Che cosa posso io volere, io che non conosco nulla della vita e non so nulla del mondo?” Anna le spiegò in breve come realmente fosse nel destino della donna il farsi sposa e madre; le rivelò qual fosse il partito proposto, quali vantaggi avesse, quali fossero le buone qualità del giovane e le felici condizioni del casato, e concluse con le seguenti parole: “Io t'ho posto innanzi tutta la verità delle cose perchè tu ti potessi decidere con piena conoscenza di causa. Certo a noi dorrà grandemente il perderti, mentre, tu lo vedi, t'amiamo come figlia e sorella e sei tanta parte della nostra famigliuola; ma tu non hai da consultare che il tuo interesse e il tuo bene, e quando noi ti vedremo felice saremo lieti, per quanto ci abbia a costare il separarci da te.” Maria aveva ascoltato il discorso della cugina, immobile e indifferente, come se le si parlasse di cose risguardanti tutt'altri che lei. Quando Anna ebbe finito, ella chinò il capo, quasi per raccogliersi in sè, e lasciò andare la mano della cugina che teneva ancora fra le sue. Guido, che fino allora era stato colla faccia chiusa fra le palme, sollevò la testa e volse uno sguardo ansioso verso la ragazza, di cui attendeva la risposta. “E così,” cominciò poi Maria a dire lentamente, “voi mi consigliate ad acconsentire?” Guido diè un balzo e parve voler prorompere con vivaci parole, ma si contenne. “Noi non vogliamo influire sulla tua decisione, nè in un verso, nè nell'altro,” disse Anna, “ma è nostro obbligo il metterti sott'occhio le cose come stanno.” “Bene,” disse Maria; e stata ancora un poco sopra sè, soggiunse poscia con accento d'espansione più che non avesse avuto ancora mai: “Non voglio dividermi da voi, Anna. Io non ho bisogno affatto di nuove affezioni; anzi ne sono schiva.... Quando morì la mia povera nonna.... (vi dirò con tutta schiettezza cosa che non vi ho mai detta, solo perchè non me ne venne l'occasione) quando morì quella santa donna, io non era che una bambina; eppure v'era già qualche cosa in me che, non dirò ragionasse, ma sentiva in un modo tutto suo particolare; ebbene, allora, io mi dissi che non avrei amato più, che non avrei potuto amar più nessuno al mondo come quella povera morta.” Fece pausa un istante. Ella non aveva ancora parlato mai sì a lungo di cosa che la riguardasse; e forse per la prima volta, dacchè Guido la udiva, la voce metallica di lei aveva una vibrazione d'affetto. Maria ripigliava: “Perchè, vedete, io bisogna che ami a tutto mio modo, e sia amata secondo un mio modo.... Quella povera vecchia nonna come sapeva amarmi! Come mi pareva che sapessero amarmi le gole e il vento, i castagni e gli abeti, i fiori selvaggi e i freddi ruscelli delle mie montagne! Come le mie capre vagolanti sui ciglioni dei dirupi ed accorrenti alla mia voce!” Negli occhi suoi s'era acceso uno di quei lampi di sensitiva intelligenza che accennai darle talvolta, quand'essa era bambina, un'espressione ammirabile, lampi che s'erano fatti sempre più radi; le ciglia le tremolavano, come sotto la pressione di lagrime ch'ella si sforzasse di ricacciare indietro. Quanto era bella in quel momento! Guido fu a un punto di gettarsele in ginocchio dinanzi ed esclamare: «Maria, t'amo a mille doppi, io; e saprò amarti più di tutto e di tutti, e per tutta la vita!» Fu la madre di lui che disse con accento di tenera rampogna e di amoroso rimpianto: “Oh che dunque noi non abbiamo saputo amarti, Maria?” La fanciulla aveva già vinto quel po' d'emozione per tornare alla sua calma abituale. “Ah! non dico questo” esclamò, “anzi!... Statemi a sentir con pazienza, e vedrete.” Prese la mano di Anna, la baciò, e poi seguitò tranquillamente il suo discorso. “Dunque alla morte della nonna, io non credeva di poter rivoler bene a qualcuno, e venni a star con voi (come forse ve ne sarete accorti) con la malavoglia di chi soggiace ad una necessità. Non ci voleva che la vostra bontà infinita, Anna, per vincere quella mia permalosa rustichezza. Voi avete addomesticata questa creatura selvaggia, a forza di benevolenza e di generosi riguardi. A mano a mano io mi sono assuefatta a voi; senza volerlo, sorse in me per voi una parte di quell'affetto che nutrivo per quella mia buona vecchierella che dorme laggiù nel cimitero del nostro villaggio: e ora, Anna, vi voglio bene.” Non aveva mai detto cotanto. Benchè la sua voce non fosse punto commossa, pure c'era un non so che, leggiero, leggiero, ma apprensibile, un'aura direi, un profumo di sentimento che Anna ne fu tocca. Prese la testa della ragazza, che le sedeva sempre ai piedi, la strinse a sè, e chinatasele sopra, la baciò, come avrebbe potuto fare una madre. Maria si prestò a quelle carezze con passivo abbandono, senza restituirle, sorridendo a suo modo, e lasciò il suo capo con muta compiacenza riposare in grembo della cugina. Di Guido ella non aveva parlato, nè pur fatto cenno, nè voltogli uno sguardo, nè mostrato pure di ricordarsi che esistesse: eppure l'innamorato artista, a due passi da lei, contemplandola rapito, le mani giunte, sentivasi per quelle parole scorrere un fluido di soave voluttà per tutte le vene. Stata così un poco, Maria raddrizzava compostamente la persona, e continuava: “Ora abbandonarvi e vivere in nuovo ambiente, in nuove condizioni, sarebbe per me una sventura. Ora sono certa che non amerò più altri che voi, mia buona madre e amica e sorella e tutto.... Non mi scacciate dal vostro fianco, e lasciatemi viver qui.” Anna era per rispondere; ma Guido non glie ne lasciò il tempo. “Sì, sì,” proruppe, “tu hai ragione. Non viviamo noi affatto bene insieme? Perchè separarci?... Scacciarti, noi!... Ma tu ci sei necessaria come l'anima della casa!... Ma se tu mancassi di qui, queste pareti diverrebbero tetre, e queste stanze parrebbero un sepolcro....” Si accorse che nelle sue parole v'era troppo calore e nel suo accento troppo impeto. Maria lo guardava con occhio fisso e freddo. Egli tentò correggersi. “Mia madre ha bisogno di te:” soggiunse. “Chi ti togliesse a lei, la priverebbe del suo braccio destro. Resta con noi. Ti si offre la ricchezza! che ne faresti tu così semplice e modesta? Credi a me, che conosco il mondo. È ben altra cosa che i denari quella da cui si può avere la felicità sulla terra. Noi ti ameremo come ti amava la nonna.... di più ancora!... Che tu sii benedetta. Maria, per le parole che hai pronunziate! A te devo in parte la guarigione di mia madre, a te dovrò la contentezza della sua tarda età.... Oh te ne sarò tanto riconoscente, Maria!...” In queste parole, l'amore non osava levarsi la maschera, ma tutto pure si faceva sentire nell'ardenza degli sguardi, nel suono della voce. Anna ebbe per la prima volta sospetto del vero; Maria seguitava a guardar Guido colla sua placida indifferenza. “Or dunque è deciso;” ripigliava lo scultore, “questo matrimonio tu lo rifiuti. Bisogna farglielo saper subito a quel tale.” “Il signor X...,” disse Anna, “ripasserà domani.” “E perchè obbligarlo a venire egli medesimo, quando la risposta ha da essere sfavorevole?... Da' retta, mamma: il meglio è che tu subito, con tutti i possibili riguardi, glie ne scriva.” Anna avvolse il figliuolo, se così posso dire, con uno sguardo scrutatore ed amorevolmente compassionevole insieme, poi disse a Maria: “Ci hai tu pensato abbastanza? È questa una risoluzione definitivamente presa, di cui tu non abbia a ricrederti, a pentirti?” Maria scosse tranquillamente il capo. “No cugina, non me ne pentirò mai.” “Vuoi pensarci ancora?” “È inutile. Dirò domani e doman l'altro e tutti i giorni di seguito quello che ho detto oggi.” “E sia! Quanto io desideri conservarti presso di me, non ho parole per esprimertelo. La tua determinazione, io ne ho ferma fiducia, sarà per il meglio di tutti.” E mandò un'occhiata piena d'espressione verso Guido, il quale nella sua contentezza, s'aggirava pel salotto, canterellando e fregandosi le mani. “Ora vanne un momento nella tua stanza. Maria,” soggiunse Anna, “ho qualche cosa da dire a Guido.” Questi, all'udire tali parole, si fermò su due piedi, come stupito, e guardò con occhio di desiderio e di rincrescimento Maria, la quale si alzava tranquilla tranquilla a suo modo e se ne partiva senza aggiungere una parola. “Guido!” esclamò la madre, quando Maria ebbe richiuso dietro sè il battente dell'uscio: e la voce, con cui questa sola parola fu pronunziata, era impressa d'immenso affetto. L'artista che teneva ancora gli occhi fissi sulla porta per cui la ragazza era uscita, si volse e vide la madre, tutta benevolenza e pietà nel volto, tendergli ambedue le mani, sorridendogli, come solo sa sorridere al figlio una madre. “Mamma!” esclamò egli precipitandosi su quelle mani e coprendole di baci. “Mamma mia!” Anna levò via di sotto alle labbra del figlio la sua destra e passandogliela carezzevolmente sulle chiome, gli disse con voce commossa: “Tu ami Maria!” Guido le cadde in ginocchio dinanzi, e abbandonando il capo nel grembo materno, rispose con tutta l'effusione dell'anima sua: “Sì, l'amo!” “Povero Guido!” disse Anna baciandolo in fronte. “Or qual proposito è il tuo?” “Che so io? Non ne ho nessuno. Quest'amore mi ha preso, senza ch'io volessi, senza che me ne accorgessi. In esso sta ora la felicità della mia vita. Se Maria non avesse da esser mia, non ti dirò che morrei (sono uomo abbastanza per non dir più di queste esagerazioni) ma sarebbe per me un insopportabile dolore.” “Vuoi tu ch'io glie ne parli a Maria?” “No:” esclamò vivacemente Guido, quasi tremando. “Che cerchi almeno di scrutarne il cuore?” “No, no: ho paura. Forse è meglio lasciarla ancora in quell'intorpidimento dell'anima che ignora. Un giorno o l'altro il cuore si desterà pure in lei. Il mio sogno è trovarmi in quel dì al suo fianco e potere colla fiamma dell'amor mio comunicare a lei la scintilla divina.” X. Anna scrisse al signor X... essere determinazione di Maria di rimaner per allora ragazza. A questa risposta fu tanta l'afflizione del giovane innamorato che il padre volle tentare ancora di smuovere la giovinetta dalla presa risoluzione; e il giorno dopo si presentò alla casa di Anna, supplicando lo si lasciasse parlare colla fanciulla. La madre di Guido ben rispose che questo era affatto inutile, nè le pareva di tutta convenienza; ma l'altro insistendo caldamente, perchè non si sospettasse della sincerità della data risposta, Anna finì per acconsentire al domandato colloquio. Quando furono in presenza e soli il signor X... e Maria, il primo cominciò a domandare alla ragazza se proprio secondo il volere di lei era la fattagli risposta, ed essa ciò affermando con fredda dignità. “Ma perchè?” interrogò il signor X... con calore. “Quale ragione può ella avere.... Oh mi dica liberamente tutto! E se io potrò mai far cosa che la possa far cambiare di risoluzione, qualunque ella sia, si accerti che la farò ad ogni costo.” “La ragione,” rispose tranquillamente la fanciulla, “è questa sola: che io sto bene così come mi trovo e non amo cambiare di condizione e di stato.” Questa ragione non era tale da appagare il padre del giovane innamorato, epperò insistette con più forza, soggiungendo che si trattava della vita d'un uomo, che suo figlio era a tale che, privo di lei, non voleva viver più; conservasse per carità, per amor di Dio, l'unico figliuolo ad un padre oramai vecchio; non avrebbe dovuto pentirsene a nissun modo, avrebbe avuto dall'amore del giovane, dalla riconoscenza di lui che la supplicava il più ampio compenso. Il povero padre s'era commosso sino alle lagrime, e ad aggiunger forza alle sue preghiere accennava volersi mettere in ginocchio innanzi alla ragazza; essa ne lo trattenne. “Io sento per suo figlio la maggior compassione; ma non devo tuttavia ingannarlo.... Suo figlio, non l'amo; e non mi pare nè prudente nè onesto dare a chi non s'ama la nostra vita e prendere la sua.” “Lo amerà dipoi....” “E se no? Non conviene giuocare l'esistenza di due individui sull'incerta posta d'un avvenire poco probabile. Pare a lei che suo figlio medesimo avrebbe ad esser felice quando non si sentisse amato come certo desidera, com'è suo diritto, come n'è ben degno?” “Ciò vuol dire ch'ella ama qualchedun altro!” Maria volse al suo interlocutore la fronte sicura e lo sguardo limpidissimo, senza traccia del menomo turbamento. “No,” diss'ella, “nè so pure se amerò mai uomo al mondo. Ma questo è certo che non darò la mia mano se non a chi abbia già saputo acquistarsi tutto il mio cuore.” Fece un inchino per significare che il colloquio aveva da esser finito e nulla più era da dirsi fra loro due. Il signor X... se ne partì disperato: e mentre usciva per una porta, si precipitava da un'altra nel salotto Guido, il quale, colla febbre addosso, aveva udito, origliando, i tenuti discorsi. “Maria!” esclamò egli correndo presso la fanciulla e pigliandole una mano che baciò con passione. “Maria, tu sei un angelo.” Essa tolse via lentamente la mano da quella di Guido, guardando con istupore lo acceso volto di lui. “Perchè mi dici tu codesto?” domandò con accento di gelato riserbo. Guido rimase impacciato, non sapendo più nè che rispondere, nè che si fare. Maria tenne alquanto fissi su di lui gli occhi suoi con una certa curiosità scrutatrice senza aggiunger altro; poi s'avviò lentamente: ma quando fu all'uscio, e già aveva la mano sulla gruccia della serratura, si volse indietro e disse: “Tu hai ascoltato il mio colloquio con quel signore?” “Sì,” rispose Guido, abbassando il capo vergognoso. “Hai fatto molto male:” pronunziò Maria col tono d'un precettore che rampogna un allievo, e sparì, tra i battenti dell'uscio; ma se Guido avesse levato gli occhi a quel punto, avrebbe visto sulle labbra di lei un certo sorrisetto, che non indicava disdegno e che era forse meno indifferente del solito. Pochi giorni dopo, il signor X... partiva con suo figlio per un lungo viaggio, nell'intento di svagare l'addolorato giovane. Guido lo annunziò a Maria, la quale, come al solito, lavorava alla finestra del salotto. “Ah!” fece la fanciulla con tutta tranquillità: “poveretto!” “Tu lo compatisci?” esclamò con gelosia l'artista che teneva fisso lo sguardo sui lineamenti della fanciulla. “Sì; lo vedevo tutti i giorni là davanti con una faccia così sofferente e così mesta che, davvero, a non averne compassione, bisognerebbe esser peggio che insensibili.” “Hai ragione. Anch'io lo compatisco e dimolto. Ma ne sai tu il perchè?” “Perchè?” domandò Maria alzando gli occhi dal lavoro e fissandoli in volto a Guido. Questi aveva il cuore che gli palpitava forte forte, e le labbra che gli tremavano nel rispondere. “Perchè t'ama non riamato....” Si tacque di subito, come se a proseguire gli mancassero la voce e la forza. Maria non disse nulla; riabbassò il suo sguardo, e la mano corse spedita come prima sul suo lavoro. XI. A un tratto Guido fu colto da un nuovo ardore pel lavoro, e per l'arte sua, cui da tempo veniva trascurando. Tutto il giorno oramai se ne stava chiuso nello studio; compariva appena alle ore del desinare; non usciva di casa, non riceveva più nemmeno i suoi amici, di nulla piacendosi che d'esser solo all'opera colla sua ispirazione, innanzi alla massa di creta che veniva plasmando. Colà si provava ad eseguire quella creazione che da un pezzo tentava la sua fantasia; imperocchè essa ora imperiosamente domandava di venire effettuata, ed egli obbediva modellandola in una statua di donna. Come avete indovinato di certo, in quella statua, alla bellezza corporea d'una Venere, l'artista aveva congiunto la leggiadria di volto e l'espressione di superba nobiltà che erano in Maria. A costei Guido non aveva pur fatto cenno di ciò. I lineamenti di lei aveva egli sì bene stampati nella mente, che non gli occorreva vederseli innanzi per ritrarli. Al corpo medesimo aveva dato l'atteggiamento e la mossa dell'adorata fanciulla; nè aveva voluto per esso avere alcun modello, parendogli questa una profanazione; ma tutto veniva facendo col riprodurre nella creta quell'immagine splendida di fisiche perfezioni che stava incessante innanzi alla sua fantasia d'artista. Quando la statua era oramai presso al termine, avvenne che un giorno la serva di casa, avendo da recarsi nello studio di Guido, ci entrasse mentre lo scultore stava lavorando, ed essendo egli in uno de' suoi momenti di più fervore nell'opera, non pensasse a smettere ed a coprire, come di solito, il lavoro col panno. La serva, finito il suo compito, era per ripartirne, quando, per caso, alzò gli occhi sopra la statua, e mandò un'esclamazione di meraviglia. “Madonna santa! Ma quella è la signorina.” Guido si riscosse, saltò giù con impeto dallo sgabello su cui era salito, e si precipitò sulla serva, a cui tappò colla mano la bocca. “Taci!” gridò egli. “Tu non l'hai a dire. Tu non hai visto nulla. Hai capito?” E la meschinella, tutta spaventata: “No, no, stia tranquillo; non parlo.” Ma Guido, calmatosi, guardava con amore l'opera sua. “Ti par'egli adunque che questa statua le rassomigli?” “Eccome! Se la fosse di color carnicino e coi capelli d'oro come la signorina, si direbbe che la è essa medesima, e che vive.” A Guido parve in quel momento che quella femminuccia parlasse meglio d'ogni persona al mondo; volle ringraziarla, pensò darle una mancia, e recò la mano al taschino; ma non ne fece nulla, trattenne anche la parola, e lasciatala partire, tornò con nuova alacrità al lavoro. È facile indovinare come fosse troppo difficil cosa per quella donna il tacere; onde non erano trascorse ventiquattr'ore che, dopo mille preghiere di non tradirla, mille proteste di non voler dire, essa aveva contato a Maria ciò che aveva visto, e ciò che erale intravvenuto nello studio di Guido. La fanciulla, incredula del fatto per un poco, aveva cominciato per sorriderne come d'una piacevolezza qualunque. “Eh via! Davvero?” aveva domandato con meraviglia. “Oh che idea gli è mai venuta? È una strana bizzarria.” Quindi una specie di preoccupazione l'aveva fatta diventar seria; e sul suo volto, allo stupore e all'ilarità era succeduta l'espressione d'una scontentezza, quasi di suscettività offesa. Senza voler più dire una parola alla serva, ella s'era ritirata nella sua camera, e là le si aggiravano per la mente poco men che molesti questi pensieri: “Perchè ha egli voluto riprodurre le mie sembianze?... Ne aveva egli diritto?... E non dirmene nulla!... E ora, ogni momento, egli ha colà sotto gli occhi la mia immagine.... Oh me ne spiace.... E perchè me ne spiace? Che cosa me ne deve importare? A me, alla mia persona, che cosa fa codesto? Ebbene sì, mi fa.... Gli è come se avesse una parte di me....” Un nuovo pensiero sopraggiuntole la fece arrossire. “Conviene adunque ch'egli mi abbia ben bene esaminata, bene studiata per poter così ottimamente ritrarre le mie sembianze a memoria!” Si sentì prendere da una confusione che non aveva mai provata. “Ciò non va bene.... Glielo dirò.... Mentre si sta lì, senza un sospetto al mondo, esserci uno sguardo che vi scruta, vi divisa uno per uno ogni tratto, ogni mossa.... No, no, non mi piace.... E mi piace tanto meno ch'egli si tenga quella statua. Che cosa sono io per lui da voler egli possedere la mia immagine? che glie ne importa?” Ma qui la sua mente fu certo invasa da altre idee, poichè ella chinò il capo, stette riflessiva, e una leggiera fiamma di rossore le salì alle guancie. Rimasta un poco di questa guisa, meditando, levò quindi la testa con risoluzione e disse: “Voglio vederla codesta meraviglia.” Chiamò la serva. “Quando Guido sia uscito,” le disse “venite tosto ad avvisarmene.” Lo studio dello scultore era a pian terreno nel cortile, e dal quartiere dei mezzanini, abitato dalla famiglia, scendevasi in esso per una scala interna a chiocciola. Maria non era entrata in quel vasto stanzone che pochissime volte, e perchè raramente le accadeva di doverci andare, e perchè provava una tal qual ripugnanza a metter piede là dentro. Ora, quando la serva venne a dirle esser Guido partito, la fanciulla si diresse risolutamente verso la scaletta a chiocciola, col suo passo franco e leggiero. La donna accennò di seguirla. “No;” le comandò Maria con accento che non ammetteva replica: “tu sta' qui.” Scese la scala, sollevò la tenda di grosso pannolano che pendeva innanzi all'uscio ed entrò. Cosa strana, e che non capiva ella medesima, e che non le era capitata da un pezzo, il suo cuore palpitava per un'inesplicabile emozione. Nello studio entravano da due alte e larghe finestre splendide cascate di raggi di sole. Alle pareti dipinte di color grigio, si vedevano appese tutto all'intorno braccia, gambe, mani, piedi, torsi, capi modellati in gesso sui capolavori dell'antichità. Una copia, grande come l'originale, del famoso Fauno della villa Albani si contorceva in un angolo; un Mercurio di Gian Bologna si slanciava verso il cielo da un'altra parte; una Venere dei Medici pareva volere scaldar la sua nudità a quel sole, il quale tracciava traverso la stanza due ampie striscie luminose tutte piene di atomi brillanti; mentre un Apollo del Belvedere sorgeva in tutta la sua maestosa bellezza di dio che s'è vendicato. Maria stette là in mezzo, press'a poco come un timido che entri in un'adunanza dove persone ed usi sieno a lui affatto sconosciuti. Le parve una voce intima le dicesse, quello non esser luogo da lei; la sua curiosità essere poco meno che una sconvenienza; dover ella tosto di là allontanarsi. Nel mezzo dello stanzone, là dove meglio batteva la luce, sorgeva una mole sopra uno di quei piedistalli di legno che girano su d'un pernio, dei quali si servono gli scultori per modellare la creta; e codesta mole era accuratamente tutta coperta da una gran tela inumidita. Maria pensò tosto che quella esser doveva la statua colle sembianze di lei, per veder la quale soltanto era essa colà venuta; ma ebbe una certa peritanza, non che a scoprirla, pure ad accostarsele. La guardò un poco, così come ella appariva, sotto quel mistero di pieghe cui le faceva intorno il panno gittatovi su; e poscia ne sviò lentamente gli occhi a mirare, un dopo l'altro, i vari pezzi di scoltura che ornavano lo studio. Ella non aveva ancora mai sentito nè cercato quel diletto che provasi dalle persone di gusto artistico nella contemplazione delle bellezze dell'arte. Ora in presenza della pura leggiadria dell'Apollo antico, dell'eleganza di quel Mercurio che vola, della grazia della Psiche del Canova, del sentimento della Preghiera di Pampaloni, provò ella come una rivelazione, come un subito ammaestramento a un linguaggio sublime, sino allora ignorato. Prima di tutto una specie di turbamento s'impadronì di lei; quella tal voce segreta le sussurrava ancora che di là si partisse, non mirassero gli occhi suoi quegli oggetti; ma la casta bellezza di quelle forme aveva pure un fàscino a cui la non poteva resistere.... Quali pensieri le passassero per la mente, chi li può dire? Non seppe esprimerli mai neppure ella medesima. Certo è che sulle sue sembianze passavano avvicendandosi, e come rincorrendosi, le tracce di mille sentimenti, di mille affetti i quali parevano agitarsi e combatter tra loro nel contendersi l'animo di lei, e poi, cessando tutti a un tratto, lasciarla ripiombare nell'assopimento della sua primiera apatia. Se non che la vista d'un altro oggetto venne a suscitarle nuove sensazioni e nuovi pensieri. In un angolo dello stanzone presso ad una stufa di ghisa che alzava il suo tubo contro la parete, stava spiegato, come per formare un ripostiglio, un paravento, e sopra questo, un abito e uno scialle di donna buttati là a casaccio. Perchè quella vista riscosse la indifferente Maria? Essa tenea su que' panni gli occhi fissi, conturbati, come all'aspetto d'una subita minaccia. A chi apparteneva quella roba? C'era forse una donna nascosta là dietro, la quale l'avesse sino allora osservata, mentre Maria si credeva sola? Quest'idea la fece arrossire. Si alzò con coraggio e camminò risoluta verso quel paravento. Dietro non c'era nessuno; ma palesi e numerose ci si vedevano le traccie di passaggio e dimora di donne. Uno specchio alla parete, con un tavolino dinanzi, pettini, forcine da capelli, spille e spilloni da appuntare i panni, qualche nastrino, un guanto femminile, vasettini di pomata. Era difatti colà dove si ritiravano a spogliarsi e rivestirsi le _modelle_. Che cosa mai passò per la testa alla fanciulla? Il suo volto prese un'espressione di mal talento, di dispetto insieme e d'ironia. I suoi occhi caddero per caso sullo specchio, e vedendovisi colle sopracciglia corrugate e una specie di corruccio in tutta la fisonomia, ebbe sdegno di sè medesima, arrossì, poi sorrise lievemente, come si fa dei capricci d'un bambino, e venne fuori di là. Si trovò dinanzi nuovamente la tela che ricopriva il lavoro di Guido. Sentì più di prima dispiacere che là fossero ritratte le sue sembianze. Andò presso la statua, salì sopra lo sgabello di cui si serviva lo scultore medesimo per lavorarci, e si diede a levar via il panno che ricopriva la creta. Quando la testa le apparve, Maria gettò un grido di meraviglia e di ammirazione. Questa testa era davvero la sua, quei tratti erano i suoi, ma animati dalla dolcezza amorevole d'un sorriso quale Maria non s'era mai visto nell'immagine che glie ne rifletteva lo specchio, quale non si credeva nemmen capace di poter abbozzare colle sue labbra. Lasciando ancora velato il resto del corpo, ella stette lì a contemplare quella testa con tanta grazia modellata, piena di tanta vita, meravigliosa di tanta bellezza. Le pareva che a lei si rivelasse come una sorella, la quale col suo sorriso le manifestasse un intenso amore e le penetrasse nell'anima. Giunse le mani ed esclamò con tutta ingenuità: “Oh cara!... E sono io?” Tacque vergognosa e si guardò intorno, quasi temendo che alcuno l'avesse potuta udire; poi un dubbio gliene venne. “No, no, è impossibile ch'io sia tanto bella!” Saltò giù lesta e corse dietro il paravento a mirarsi nello specchio. Il rossore ne animava le guancie; non era mai sembrata così leggiadra a sè medesima. Si provò a far quel sorriso amoroso che aggiungeva tanta malía al volto del suo ritratto; e dopo due o tre tentativi le parve non se ne discostasse di troppo. Tornò alla contemplazione della statua. “Ma questo è uno stupendo lavoro” diceva a sè medesima. “Io non avrei mai creduto che mano d'uomo fosse capace di tanto.... Ed è Guido?... Egli è dunque un genio?... Ed è a me che s'è rivolto il suo pensiero?... Oh come doveva avermi presente ai suoi occhi!... Ma per ricordare così particolarmente i tratti di qualcheduno, bisogna proprio averli ben impressi nella mente.... e forse anco nel cuore.... vediamo un po'.... se io avessi da ricordarmi i suoi.... di Guido?” Si concentrò un momento. “Eh via! Appena è se mi sono presenti i tratti principali della sua fisonomia.... È una bella figura, franca, aperta, intelligente, con qualche cosa di dolce insieme, lo so; ma poi?... Ah rassomiglia molto a sua madre; e le care sembianze d'Anna le ho sì contemplate frequenti volte con tanta soavità d'emozione!... Come le trovavo leggiadre!... E davvero le son tali!... Eppure se le avessi da riprodurre, da descriver soltanto, io nol saprei.... Bene avrei saputo ciò fare di quelle della povera nonna: sì che le avevo presenti al mio pensiero sempre quelle là!... Ma ancor esse ora si sono un po' sbiadite nella mia memoria; e l'amavo pur tanto la mia nonna; e l'amo!...” Questa parola che cadde quasi inavvertita dalle sue labbra fece su Maria un indicibile effetto quando se la udì suonare all'orecchio. Si riscosse: fu per lei come un lampo che illumini a un tratto l'oscurità in cui alcuno sia avvolto, e gli faccia scorgere dove si trova; fu come una voce estranea, la quale, a chi cerchi la soluzione d'un enigma, ne dica ad un punto il motto. Chinò la testa e stette un poco meditando. Poscia la curiosità la punse di vedere intiera l'opera di Guido. Risalendo sullo sgabello, tolse via del tutto i panni che la coprivano. La figura di donna era rappresentata senza alcun velo.... Maria se ne adontò ed arrossì, come se offeso sentisse il suo pudore. Le tornò subitamente il pensiero di quelle donne che venivano e che forse avevano visto quella statua, e sentì un'ira, un corruccio contro Guido quasi gliene avesse fatto un oltraggio da non perdonarsi. Però la bellezza dell'opera chiamò quasi a forza la sua ammirazione. In quelle linee c'era una purezza, in quella leggiadria c'era per così dire un'onestà, in quella verità c'era un sentimento che io chiamerei di rispetto, che faceva casta quella nudità ideale della forma. . . . . . . . Mentr'essa era più assorta nella contemplazione di quel capo d'arte, agghiacciò tutta, la curiosa fanciulla, nel sentir ad un punto aprire in fretta l'uscio dello studio che dava nel cortile. Di certo era Guido che rientrava. Dalla scala a chiocciola che conduceva al quartiere, Maria era troppo lontana per potervi correre senza essere veduta.... L'uscio era lì lì per girare sui cardini e dar passo a chi veniva. Piuttosto che essere colta in quel luogo, ella avrebbe dato non so che. Non sapeva cosa fare. Corse al paravento ed ebbe appunto tempo di mettervisi dietro, palpitante, che Guido entrava accompagnato da un suo collega. XII. Mentre Guido richiudeva l'uscio d'ingresso, il compagno s'inoltrava nello studio e i suoi occhi cadevano di subito sulla creta in cui era modellata l'immagine di Maria. “Ah!” esclamò, “finalmente ho la ventura di contemplare il tuo misterioso lavoro.” Ma non aveva ancora finito, che Guido, volgendosi e vedendo scoperta la statua, aveva mandato un'esclamazione di stupore e di dispetto, s'era slanciato sul panno che era in terra, poi salito di balzo sullo sgabello, in meno che non si dice, aveva ricoperta così bene l'opera sua che non si poteva più scorger nulla. “Per Dio! Vorrei un po' sapere chi è stato qui mentr'ero fuori ed ha avuto l'audacia di levar via questo panno.” E l'amico un poco punto da questo procedere di Guido: “Sai che ti si può chiamare un originale senza farti torto:” diceva. “Tu tieni nascosto quel tuo lavoro più che non farebbe un Turco geloso della donna dell'amor suo.” “Il paragone è più giusto di quel che credi:” si lasciò scappar detto Guido. “Buono!” soggiunse ridendo quell'altro. “È dunque la statua della tua bella? Ora capisco!... Si dice che non hai voluto nemmeno una _modella_ perchè occhio profano non la mirasse.” “È vero.” “Cospetto! c'è qualche cosa dei tempi antichi in codesto: un profumo di medio evo. Tu mi sembri un artista del quattrocento degno di figurare in un romanzo.” “Io faccio quel che mi piace:” disse Guido seccamente, come chi desidera che il discorso si tronchi. “Fa' un'eccezione per me; lasciami vedere questa che a me parve una bellissima cosa, e ti giuro che non ne fiaterò con anima viva.” E fece un passo verso la statua, come per volerne alzare la tela. Guido se gli pose risoluto dinanzi. “No,” disse. “Per nessuna cosa al mondo consentirò che altr'occhio veda i tratti di questa mia opera prediletta. Guarda! Piuttosto, se non potessi altrimenti difenderla, la infrangerei, te lo giuro!” “Come Rolla nel dramma _Un capolavoro sconosciuto_;” disse l'amico ridendo. Ma Guido lo guardò in un certo modo da non incoraggiare la sua ilarità. “Senti!” disse in tono burbero e secco, “tu sei venuto per prenderti que' certi disegni.” Aprì una larga cartella e li trasse fuori. “Eccoli qui; pigliali e Dio t'accompagni.” “Diavolo! Tu mi metti alla porta in un modo punto gentile.” E Guido, con voce e tono più miti e benevoli: “Lasciami, te ne prego: ho bisogno di lavorare, e più d'esser solo.... Compatiscimi. Io, vedi, sono in una strana fase della mia vita. Non mi riconosco più io stesso. Ah! tu non sai che cosa sia un vero amore alla nostra età, per un'anima d'artista!” E come vide che quell'altro voleva parlare, soggiunse vivacemente: “Ah! non domandarmi nulla, non dir nulla. Soffro, e m'arrabbio;... e m'è caro soffrire. Giudicami pure un pazzo: lo sono; ma abbi tu buon senno e la generosità di non darmi nè consigli, nè conforti, nè di farmi interrogazioni a cui non risponderò.... Addio.” Quell'altro uscì stringendosi nelle spalle, dopo avere stretta la mano all'amico con pietosa sollecitudine. Quando Guido si credette solo, serrò a chiave l'uscio dietro l'amico partitosi, andò lentamente alla statua, e la scoprì con un certo rispetto. Poi le si pose dinanzi e stette a contemplarla, rapito, con tanta passione nello sguardo che era una tenerezza il vederlo. Durante il colloquio dei due artisti, il cuore di Maria aveva con profonda emozione palpitato. Diverse e le più nuove sensazioni si contendevano il suo animo. Temeva d'essere scoperta colà ad ogni momento. Che avrebbe detto, che avrebbe fatto, se mai la trovassero lì appiattata? Dio che vergogna! Quale confusione! Frattanto le parole di Guido, che rivelavano tanto amore, la conturbavano tutta e con una soddisfazione, di cui non avrebbe immaginata l'uguale mai. Trovò lento a partirsi quell'importuno che era venuto con Guido; e poi, quando colui fu uscito, ed ella si seppe sola con lo scultore, una specie di paura, un malessere la invase, che le fece desiderare qualcheduno sopraggiungesse. A questa inquietudine, della quale non sapeva, nè cercava pure di darsi una ragione, ella attribuì il rapido battito del suo cuore, fattosi così forte che fu costretta a porvi su una mano, come per frenarlo. Mai non aveva provate così acute emozioni; se ne stupiva, e un intimo senso, di cui non era padrona, glie le faceva trovare, nella loro violenza, dolcissime. “Ah! ancor io ho un cuore!” si disse ad un punto premendosi più forte il petto con ambe le mani. A traverso una commettitura del paravento, ella poteva scorgere per intiero quello che succedesse nello studio, e l'occhio suo, più vivido e animato dell'ordinario, vi lanciava uno sguardo di cupida curiosità. Guido, le mani giunte, stava in muta adorazione innanzi al simulacro di lei. Le chiome scure, gettate all'indietro, lasciavano scorgere in tutta la sua bellezza, la vasta e intelligente di lui fronte. Gli sguardi lampeggiavano; le labbra semichiuse in una specie di sorriso, che avreste detto estatico, lasciavano passare grave quasi affannoso il respiro. Nella sua figura, nel suo aspetto, nel suo contegno, egli aveva forza insieme e grazia, l'imponenza della virilità congiunta a tutta la tenerezza della passione. Maria lo mirava con involontario, inavvertito commovimento. Il Guido di quell'istante, essa non lo aveva visto mai. Le pareva una rivelazione. Lo scultore sollevò le mani ancora serrate verso la statua, come si fa da un devoto, pregando, e parlò con voce sì dolce, che la fanciulla nascosta se la sentì penetrare nel cuore. “Che occhio umano t'abbia da vedere fuori che il mio, o diletta, no, no, non lo voglio. Tu sei mia — e solamente mia, tu creta da me plasmata sull'immagine di quell'angelo adorato, — tu mi appartieni, e ti possiedo senza contrasto, ignoratamente, e tutta!... Neppur essa mi ti può togliere; neppure la sua ostile freddezza può contenderti a me. Io t'ho formata, più che colle mani, coll'anima mia; tu sei la visione della mia fantasia fatta realtà; tu sei la parte migliore del mio cuore estrinsecata.... T'amo sai, t'amo; e a te lo posso dire, e in te non vi ha come in lei cipiglio severo che mi gela sul labbro le parole, e innanzi a te ho coraggio di tutta effondere la passione che m'arde.” Salì sullo sgabello e vi si acconciò mezzo inginocchiato, mezzo seduto innanzi alla statua. “Oh sorridimi, diletta mia!... Oh guardami Maria!... Abbi tu almeno pietà di me.... Non sai? Ella è più insensibile del marmo in cui vo' tradurre le tue sembianze, ella ha sotto le sue carni meno cuore di quello che abbia tu nel tuo corpo di creta; ella che nulla vide mai del mio turbamento al suo cospetto, che nulla sentì mai di questa febbre d'amore che m'arde per lei!... Sorridimi, sorridimi.... Ah no! non è questo ancora il sorriso che ti vidi ne' miei sogni.” Si drizzò di scatto e fu per portar la mano sul volto della statua; ma si trattenne. “No, no.... ch'io più non ti tocchi.... Non può più oltre l'arte mia.... e desiderio d'uomo, per quanto intenso, non può compire miracoli.” Scese dallo sgabello e si pose a passeggiare per la stanza, la fronte china. A Maria s'accrebbe l'ansia. Dopo un istante, Guido tornò a fermarsi innanzi alla statua. “E dire che a lei non oserò mai parlare come parlo a te! ch'ella ignorerà forse per sempre ciò che accade in quest'anima!... Se lo sapesse, s'io le svelassi la mia fiamma, chi sa ch'ella non avesse da esserne commossa! Se le dicessi come tutto l'esser mio anela verso di lei; come e dì e notte, e veglie e sonno, e cuore e cervello, e pensiero e sensi, tutto in me è pieno di lei, della sua immagine, d'uno spasimante desiderio, d'un incessante delirio per essa! Come ogni suo atto è per me una seduzione, come il vederla è una necessità della mia vita, come degl'impeti di passione m'assalgono nel contemplarne la bellezza da gettarmi in terra a baciar l'orma dei piedi suoi!... “Oh destare quell'anima assopita in tanta avvenenza di forme, suscitarne la potenza d'amore, farla palpitare sotto il mio amplesso e fruirne i primi, i celesti, i casti trasporti, e fare sbocciare dalla fanciulla la donna, fare scoppiare dalla superba indifferenza il palpito espansivo, il voluttuoso abbandono dell'amore! Sarebbe il paradiso sulla terra. Darei per possederlo il mio sangue, tutta la vita che mi rimane.... “Tu non sospetti nemmeno, o Maria, che cuor d'uomo possa accogliere e sopportare tali tremendi spasimi, che sono inesplicabili e potenti come la morte, che sono un nulla e che contengono l'universo. T'amo con tutta la potenza dell'anima. T'amo, come non ho amato mai, neppure il tanto seducente fantasma della gloria. Per me, e gloria e felicità e amore e tutto si comprende in un tuo sorriso.... T'amo, e tu sei più insensibile che questa fredda creta, e tu frapponi fra il mio cuore e il tuo una barriera di ghiaccio.... Oh quanto mi fai soffrire, tu non lo sai!” Cadde in ginocchio innanzi all'opera sua, e un singhiozzo gli ruppe dal petto. “E non ho speranza! Quella tua indifferente venustà mi sembra sì alta, sì olimpica, che mai, mai non potrò giungere sino ad essa.... Questo sorriso ch'io t'ho dato e che qui, solitario, vagheggio è una menzogna con cui m'illudo, lo so bene: tu, Maria, mai non mi amerai, come mai non potrà intendere le mie parole e sentire la mia passione questa grossolana materia in cui ho informato la tua immagine.... Ah! s'io fossi Prometeo e potessi rapire al fuoco del cielo una scintilla, onde animare, non fosse che per un istante, quest'opera mia! Potess'io coll'intensità del mio desiderio compire il miracolo di Pigmalione e dar vita un'ora soltanto alla mia Galatea.... un'ora d'amore, di delirio, e poi morire!” Si strinse con ambe le mani la testa, come chi sente la ragione sfuggirgli, e chinò il volto a terra tutto disfatto, e piangendo inconsciamente silenziose lagrime. A un tratto udì vicino a sè un fruscio di vesti, un passo leggero, un lieve respiro affannoso. Il sangue gli si rimescolò, e in sussulto egli levò il capo e drizzò la persona. Il suo desiderio si era effettuato; il miracolo agognato si era compiuto. In Galatea era entrata l'anima: innanzi a lui stava Maria, la sua statua in carne viva, arrossita, sorridente, le labbra tremanti, una divina fiamma d'amore negli occhi. XIII. Guido mandò un'esclamazione dal profondo dell'anima in un commovimento che non si può spiegare a parole; e senza aver forza di far pure un atto, rimase lì, tremando, a contemplare con occhi innamorati quell'apparizione, come si contemplano da un ascetico le celesti visioni che abbellano i suoi mistici delirii. Maria, animata da una nuova vita che splendeva ne' suoi sguardi, nel suo sorriso, nel rossore delle sue guance, come fiamma accesa entro purissimo alabastro, scossa pur finalmente dal tocco di quella scintilla che lo scultore aveva con tanta intensità di desiderio invocata dal cielo, mossa da una nuova, incognita forza che le padroneggiava e spirito e volontà e cuore; Maria s'accostò all'amante tutto rapito, e con carissimo abbandono curvatasi su di lui, inginocchiato come stava tuttavia, depose un lieve bacio sull'ampia fronte che ardeva. Per lui fu come se a quel punto gli si spalancassero le porte del paradiso. Sentì una dolcezza ineffabile scorrergli per tutte le vene e far capo con acuto diletto al cuore, una nebbia gli passò innanzi agli occhi; gli parve che sotto quella suprema delizia il suo essere avesse a disfarsi ed egli fosse per dolcissimamente morire. “Maria! Maria!” balbettò con voce soffocata, senza poter aggiunger altro. E la fanciulla che in quel nuovissimo tumulto dell'anima non riconosceva più sè stessa e quasi era inconscia de' fatti suoi e parlava ed agiva come sotto un influsso superiore a cui non potesse resistere; la fanciulla, ripetendo quel bacio soave, pronunziava con voce sommessa, che carezzava le orecchie di Guido come una dolce melodia portata sull'ali d'una tepente aura d'aprile: “T'amo, Guido, sì t'amo, ancor io!” Per un istante l'artista non credette a sè stesso; dal suo petto ansante, dalle sue labbra tremule non potè uscire che un grido, ma un supremo grido di gioia; poscia, inginocchiato com'era, afferrò le mani della fanciulla e con un fremito d'emozione ineffabile, disse: “Tu mi ami! Oh ripetimi questa magica parola che mi cambia in un paradiso la miseria della vita! Io ti amo, Maria, sconfinatamente, santamente, eternamente! come non ho amato mai, come non ho creduto mai neppure che uomo potesse amare sulla terra.... “Quante volte ho desiderato gettarmi così, come ora sono, ai piedi tuoi, a quei leggiadri tuoi piedi che sì lievemente ti fanno sorvolar sulla terra, e dirti che t'amo e morire! Quante volte ho sospirato su queste tue esili bianche manine appoggiare un istante il mio volto, premere le mie labbra e lasciar sovr'esse l'ultimo soffio coll'ultimo bacio!... Amami, o Maria. La felicità è un corrisposto amore. Oh dimmelo ancora che tu mi ami! Questa tua parola ha traversato la mia esistenza come un lampo illuminandomi un Eden vagheggiato: deh! non fare che come un baleno pure passi e si dilegui! Ho bisogno di sentirla ancora.... e sempre!... Non si può credere così facilmente a tanta ventura. O cielo! Ma è ella probabile! Ed è per me, proprio per me? Per questo cuore che qui palpita? Dimmelo, dimmelo ancora.... Io l'ho meritata questa gioia dopo tutto quel che ho sofferto; io ben lo merito per l'immenso amore che ti porto.” “Guido!” mormorò dolcemente Maria, ma con infinita tenerezza nell'accento. Ed egli viepiù accalorato da quella voce: “Nessuno t'amerà mai, nessuno ti può amare come io ti amo. Senti questo palpito irrefrenabile che mi rompe il petto; lì c'è la passione di tutta la vita d'un uomo.” E drizzatosi della persona, si levava verso di lei, spasimando, anelando, spirando voluttà ed amore dagli occhi. La fanciulla affascinata, commossa a quell'ardenza che tutta la investiva, a quel palpito di cuore che sentiva corrispondere al suo, a quel suo palpito che mai non aveva ancora provato prima; la fanciulla si chinava da parte sua verso quel capo di sì potente bellezza, raggiante essa pure nel volto di desiderio e di passione. Ma ad un tratto ella si riscosse, mandò un grido, respinse l'amante, si sciolse dalle braccia di lui che l'avevano avvinta. Egli vide a due passi da sè, quale aveva tentato riprodurla coll'opera della sua mano, la vergine leggiadra, la luce dell'intelligenza e dell'affetto nello sguardo, dritta in nobil mossa, cinta di virtuosa dignità, pallida pallida e colle labbra scolorite che le tremavano. Le si rivolse colle mani giunte: “Maria!...” “Non più!” diss'ella con voce tutta ancora commossa. “Non più una parola, ti prego.” Egli sorse e volle avvicinarsele. “Lasciami,” gridò ella vivamente, “lasciami, ho bisogno d'esser sola.” E ratta sparì dietro la tenda che pendeva dall'uscio dove faceva capo la scala del quartiere superiore. Guido rimase là piantato a guardar quella tenda che era ricaduta dietro i passi di Maria, come chi guarda il luogo per cui è sparita una carissima visione, quasi credendo d'aver sognato. Maria corse a rinchiudersi nella sua cameretta. XIV. Maria si sentiva come sbalordita e non vedeva nulla intorno a sè; il cuore le batteva, le batteva; la fronte le abbruciava: non riconosceva più sè stessa. Andò alla finestra con moto macchinale e l'aprì per cercare nell'aria di fuori un refrigerio all'ardore della sua faccia. Correvano i primi giorni della primavera. La brezza era di quelle che ti appaion fresche alla prima impressione, ma pure hanno in sè un tepore, il quale, quasi latente, s'insinua nelle nostre vene e fa scorrere il sangue più rapido e lo spinge con tumulto al cervello e al cuore; quell'auretta di aprile che suscita la vita nelle piante, i canti amorosi negli augelli, il rinnuovamento in tutta la natura. Maria la sentì intorno alle sue tempie, codesta auretta, e un lieve gradito brivido la invase. Essa le ricordava l'anelito appassionato di Guido che erale passato sulla fronte. Innanzi aveva la casa in cui abitava quel giovane che l'aveva chiesta in isposa e che era partito disperato pel rifiuto di lei. Perchè la vista di quell'infelice non le aveva nulla destato nel cuore? Egli aveva pure amorosi e supplichevoli e adoratori gli sguardi! Mostrava pure il suo aspetto quanto sentisse e quanto soffrisse per essa! E perchè non ne aveva ella provato che assai sterile compassione? Quel giovane avrebbe saputo, avrebbe potuto dirle quelle calde parole, con quell'irresistibile accento che l'avevano vinta in bocca di Guido? Oh no, certo! Niuno al mondo le sembrava potesse parlare come Guido le aveva parlato poc'anzi.... Ed ecco penetrare nel suo pensiero con cara violenza l'immagine dello scultore tutto fuoco nello sguardo, tutto passione nell'accento. Ella strinse le mani, e con involontario prorompere esclamò: “Com'era bello!” Poi subito arrossì e si vergognò di sè medesima e un altro pensiero le occupò la mente. “Oh amare e non essere amati: dev'essere un gran tormento!” E il suo sguardo ricadde più pietoso sulle finestre chiuse dell'appartamento di prospetto. Successe allora una confusione nel suo cervello, dal quale parve fuggisse ogni pensiero; sembrò che l'intorpidimento di prima volesse riprendere possesso dell'anima e dell'intelligenza di lei. Nella strada andava, veniva, si agitava la folla dei passeggeri. Poco lontano, dalla parte opposta della strada, era un giardino al di sopra del cui muro sorgevano le cime degli alberi nelle quali cominciava a sorridere il gaio verzigno di qualche fronda. Su quei rami scossi dalla brezza d'aprile, saltellavano, si rincorrevano, cinguettavano, esultavano lieti della vita e dell'ora del tempo in un allegro pispiglio, i passeri linguacciuti e petulanti. Da quel giardino, commisto a quel tepore primaverile dell'auretta, veniva sino alla fronte, alle guancie, alle nari, alle labbra di Maria il profumo dell'erbe e dei fiori novelli. Il cinguettío degli uccelletti, il ronzío della folla nella strada, il fruscío dell'aura negli alberi, tutto s'univa con un'armonia segreta e indefinibile che la fanciulla non comprendeva, ma assorbiva, per così dire, con inesplicabile voglia e desio. A un punto giunse alle orecchie di lei la voce fresca d'una donna che cantava un'affettuosa canzone. Maria sollevò il capo a guardare in alto donde scendevano le allegre note. Era ad una finestra del quarto piano. Una giovinetta, forse dell'età medesima di Maria, vi stava lavorando. L'atteggiamento n'era graziosissimo ed avvenente. Sul volto, chinato al lavoro, vedevasi la floridezza della salute e della gioventù e l'ilarità d'un cuor contento. La canzone ch'ella veniva cantando era d'amore. A un tratto la cantatrice s'interruppe mandando un piccol grido e volgendo bruscamente la testa verso l'interno della stanza, come se qualcheduno vi fosse entrato allor allora. Un vivo rossore si diffuse sulle sue guancie e il lavoro le cadde di mano. Tosto comparì alla finestra accanto a lei la maschia figura d'un giovane operaio. Si pigliarono le mani e se le strinsero: si guardavano come se intorno a loro non esistesse il mondo; si sorridevano, si parlavano vivamente a voce sommessa. Maria era tutta turbata. Levò lo sguardo al cielo; le parve più bello che mai l'azzurro del sereno; il sole che splendeva allegramente le tornò come un sorriso di felicità dell'intera natura: tutto il mondo le apparve sotto un nuovo aspetto. “Sono amata!” mormorò con infinita dolcezza, quasi compiacendosi della dilettosa armonia che sentiva riposta in queste parole. “Sono amata!” Le venne in mente d'improvviso tutto il suo passato. Si vide bambina ancora al villaggio natìo; vide la figura della nonna che la guardava con occhio amoroso; vide le coste erbose della sua montagna, dove godeva sdraiarsi all'ombra delle roccie muscose, mentre intorno le pascolavano le capre. Si ricordò delle ore che passava colà immobile, guardando l'acqua del torrente che scorreva, ascoltando la gran voce della natura, cui non capiva. Era meditazione, era pensiero quel suo allora? No; era un sopore, era un intorpidimento. Ora ella era bene la medesima di quel tempo, ma pure quanto diversa!... Più tardi, per le amorevoli cure della buona cugina, erasi desto dapprima il suo intelletto; aveva capito ed appreso; ma il cuore aveva continuato a sonnecchiare; fino a quel dì non aveva pur sentito, fuorchè leggermente, il bisogno d'una nuova vita, non aveva creduto mai, nè pur pensato, che potrebbe amare. E tanto più amar Guido! Ella si ricordò la prima impressione che in lei aveva fatto quel gran cugino sconosciuto, che le era capitato al villaggio in una giornata così infausta della sua vita. La ne aveva avuto paura dapprima, poi per lungo tempo soggezione. Rammentò quella specie di disdegno che Guido aveva provato in seguito per essa, quando s'era stancato nell'opera di istruirla; e si ricordò come, anche allora, essa ne avesse sentito vergogna e dispetto, che aveva accuratamente nascosti. Le tornavano in mente quegli istanti in cui, per un impulso segreto che non aveva mai cercato di spiegarsi, sin da giovanissima ella rimaneva sovraccolta ad ammirare la bellezza e l'espressione dei lineamenti di Anna, e nel mirarli provava un'intima dolcezza, e si disse ciò che non si era detto mai: chè quella era pure la bellezza di Guido, tanta era la rassomiglianza fra madre e figliuolo! Poscia riandava l'epoca in cui Guido era partito, e tutti le tornavano a mente, parola per parola, i colloqui in cui Anna aveva esaltato il suo figliuolo con tanto calore, e si stupiva, come ora, non avendoci pensato più, pure le ritornassero così presenti alla memoria. Guido poscia era ritornato. Ella rammentò la meraviglia e l'ammirazione con cui egli l'aveva rivista, e sorrise a quel sovvenire. Le tornarono alla mente tutte le occasioni per cui tratto tratto s'era venuto manifestando il nascosto amore di Guido, e s'accorse che senza volerlo li aveva notati e raccolti; a un punto esclamò, attonita, commossa, quasi lieta e atterrita ad un tempo: “Ma, mio Dio! io l'ho sempre dunque amato, senza volerlo, senza saperlo?... L'amore per lui era in me nascosto, inavvertito, e ora la sua parola fu la scintilla che lo ha suscitato.... Oh sì l'amo e ne sono amata.... Saremo felici.” Cadde seduta, le mani, colle dita intrecciate, abbandonate sulle ginocchia, un sorriso di beatitudine sulle labbra, lo sguardo fiso innanzi a sè, come a contemplare una visione celeste. Innanzi alla sua fantasia, difatti, si svolgeva intessuta di seta, trapunta delle più splendide gemme, ricamata d'oro dall'amore, la tela del loro avvenire. Guido, da parte sua, era rimasto là in mezzo al suo studio, dritto, smemorato, guardando la porta per cui erasi partita Maria, non potendo credere a sè stesso, domandandosi se quello era un sogno, temendo esser vittima d'una troppo gradita illusione. “Ella era qui” esclamava, “era qui Maria! E io sentii il suo cuore battere sul mio, il suo alito sulle mie guancie, e la sua voce dirmi che mi ama... O cielo! è possibile?” Passò anch'egli un'ora di dolci e sublimi meditazioni d'amore, poscia salì palpitando la scala a chiocciola, ansioso, determinato di trovar Maria a ogni patto. Aveva assoluto bisogno di rivederla aveva bisogno che essa gli riconfermasse la felicità fattagli apparire. Maria lo udì avvicinarsi e gli mosse incontro serena, un po' pallida per l'emozione, sorridente come la statua da lui plasmata. Porse con atto solenne la destra allo scultore e gli disse con grave accento: “Avevo mestieri di raccogliermi e di pensare. Non ad un subito turbamento e ad un improvviso delirio volevo dovere il nostro destino, ma alla convinzione d'un vero affetto. Ora sono tua per sempre. Vieni, andiamo a gettarci ai piedi di tua madre.” Anna li vide entrare nella sua stanza, tenendosi per mano, come due sposi che camminano verso l'altare. Quando tutto le ebbero narrato, la madre di Guido allargò le braccia e ambedue li strinse al cuore con affetto veramente materno. Guido ha ridotta in marmo la statua di Maria ma l'ha rivestita d'un lungo paludamento. Ora questa stupenda opera dell'amore, nella sua marmorea bellezza, sta, come un idolo nel santuario, nello studio dell'artista, e quando alcuno meravigliato a tanta venustà, ne interroga lo scultore; egli risponde con un caro orgoglio: — Questa è la statua della donna che amo..... la quale ora è mia moglie. — FINE. INDICE. AL LETTORE Pag. v Il cane del cieco 1 Un genio sconosciuto 69 Galatea 185 Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK TRE RACCONTI: IL CANE DEL CIECO - UN GENIO SCONOSCIUTO - GALATEA *** Updated editions will replace the previous one—the old editions will be renamed. Creating the works from print editions not protected by U.S. copyright law means that no one owns a United States copyright in these works, so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the United States without permission and without paying copyright royalties. Special rules, set forth in the General Terms of Use part of this license, apply to copying and distributing Project Gutenberg™ electronic works to protect the PROJECT GUTENBERG™ concept and trademark. 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