The Project Gutenberg eBook of Il codice di Perelà This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook. Title: Il codice di Perelà Author: Aldo Palazzeschi Release date: May 2, 2015 [eBook #48850] Language: Italian Credits: Produced by Carlo Traverso, Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by The Internet Archive) *** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK IL CODICE DI PERELÀ *** Produced by Carlo Traverso, Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by The Internet Archive) ALDO PALAZZESCHI _Il Codice di Perelà_ VALLECCHI EDITORE FIRENZE PROPRIETÀ LETTERARIA Firenze, 1920 — Stabil. Tipog. A. Vallecchi, Via Ricasoli, 8. L'UTERO NERO _Pena! Rete! Lama! Pena! Rete! Lama! Pe... Re.... La...._ — Voi siete un uomo forse? — No, signore, io sono una povera vecchia. — È vero, è vero sì, avete ragione, voi siete una povera vecchia, un uomo sono io. — Voi che cosa siete signore? — Io sono.... io sono.... molto leggero, io sono un uomo molto leggero; e voi siete una povera vecchia: come _Pena_, come _Rete_, come _Lama_, anche loro erano vecchie. Vorreste dirmi se quello che si vede laggiù, in fondo a questa via, è la città? — Sì. — Quella che si vede laggiù.... sarebbe forse la casa del Re? — Quella è la porta della città. La casa del Re è situata nel mezzo, ed è circondata da mura, e guardata dai vigili. Quei cittadini uccidono sempre il loro Re. Ora è Re Torlindao. Voi andate alla città signore? — Sì. — Ci sarete fra poco. Di dove venite? — Di lassù. — Non vi hanno mai veduto in città? — Ci vado per la prima volta. — Guardate guardate quella nuvola di polvere che viene verso di noi, sono i vigili del Re, è la scorta a cavallo, vengono per fare la perlustrazione nelle vicinanze, io vi saluto, addio, addio signore, vedendomi qui con voi potrebbero sospettare, sappiategli rispondere nel caso, voi potete colpire i loro occhi. Addio, buon viaggio. — Hai veduto come lo abbiamo impolverato? Non si capiva più che cosa fosse. — Quando siamo stati vicini mi è sembrato di averlo visto scomparire. — Scomparire? — Sicuro, anche a me. — Ma quello non era un uomo sapete! — Che cos'era sentiamo? — Sembrava una nuvola. — Lo abbiamo ricoperto di polvere, una nuvola sembriamo noi caro mio, su questa porca strada! — No no, l'ho veduto prima che la strada fosse invasa dalla polvere, è un uomo di fumo! — Imbecille! — Va' là, uomo di fumo, sarà un arrosto di asino, hai sbagliato. — Io gli ho visto benissimo le scarpe. — Aveva degli stivaloni lucidi come quelli dei nostri ufficiali. — Ma è un cavaliere antico però. — Fermiamoci un momento. — Perchè non torniamo indietro? — Per far che? — Per vederlo, almeno per interrogarlo. — Per niente io non faccio un passo di più. — Scommettiamo. — Che cosa? — Dite voi. — Un paio di stivali come quelli del tuo asino antico, asino alla moda! _Pena! Rete! Lama! Pena! Rete! Lama! Pe.... Re.... La...._ — Ehi, galantuomo, dove andate? — Alla città. — Ci sapete dire un po' che razza di bestia siete? — Io sono.... molto.... un uomo. — Voi siete poco un uomo, di uomo mi sembra non abbiate che le scarpe. — Di dove venite? — Di lassù. — Bel discorso, ehi galantuomo, lo sapete con chi parlate? — Con la scorta del Re. — Meno male, allora le ciarle sono inutili. — Dimandiamogli di che cos'è. — Domandaglielo te, imbecille. — Di che cosa siete signore? — Io sono.... molto leggero. — Volevo dire: di quale materia è formato il vostro corpo? — Fumo. — L'avevo detto! Ecco! Ecco! È un uomo di fumo. Un uomo di fumo! Fumo! Fumo! Fumo! — Taci marmocchio, se non vuoi andare anche te in fumo. — Ma egli ha ragione! — Perchè ostinarsi poi? — Non si vede bene tutti? — Fumo! Fumo! Fumo! — Taci.... — Ma no che è vero, ha ragione. — A voi sta a cuore la vostra scommessa, ecco. — Come sono belle quelle scarpe! — Tacete.... — Ma è inutile, è vero. — Fumo! Fumo! Fumo! — Lo vediamo tutti. — Andiamo a dirlo al Re? — Andiamo a dirlo al Re. — Sì sì, andiamo. — Può aver piacere di vederlo. — Chi sa che cosa dice! — Un uomo di fumo! — Fumo! Fumo! Fumo! _Pena! Rete! Lama! Pena! Rete! Lama! Pe.... Re.... La...._ — Niente per il dazio signore? Galantuomo non fate da sordo! C'avete niente? Dentro le scarpe? — Io sono.... molto leggero. — Eh caro mio, ci sono delle cose molto leggere che pagano il dazio. Coi vostri stivaloni potreste frodare benissimo il governo. Che tipo buffo! — Hai veduto che strano colore? — Colore della nebbia caro mio. — No! — Che c'è? — Ho capito. — Che cosa? — È di fumo! — Ah! ah! ah! ah! ah! — Sì, è di fumo! — Venite a sentire, ha visto passare un uomo di fumo. — Sicuro. — Ah! ah! ah! ah! ah! — Pazzo! — Quanto gli hai fatto pagare? — Tipo ameno te e lui. — Vi assicuro, non poteva essere altrimenti egli ha detto di essere molto leggero, l'ho visto bene da vicino! — Ah! ah! ah! ah! ah! — Voi siete un uomo, vero? — Naturalmente. — Sapreste dirmi chi è quell'uomo là? È un uomo anche lui? — Ma si capisce, è un soldato. Egli è pronto per la guerra. — La guerra! — Non vedete come è ben guernito di ferro, di piombo e di acciaio? È un soldato, si capisce. — La guerra! Piombo.... ferro.... acciaio.... ma non sono queste cose molto pesanti? — Naturalmente. Non si può mica farsi sul nemico con dei confetti. Ma voi che cosa siete? — Io sono.... un.... molto leggero, sì, un uomo molto leggero. — Che tipo strano! Quante volte ho sentito questo nome: guerra. _Pena, Rete, Lama_, leggevano sempre di guerre, ed io mi figuravo che gli uomini andassero nudi alla guerra, facendosi leggeri; che i loro passi fossero agili, silenziosi, come quelli di un leopardo; lanci furtivi, volute serpentine per insinuarsi, per nascondersi, per sottrarsi; e li vedevo carpire ali ad uccelli da usare quali strumenti. Piombo.... acciaio.... ferro.... E non cadono essi schiacciati sotto il peso dei loro arnesi? Come possono velocemente inseguire il nemico, e inseguiti, come possono velocemente fuggire? Io vedevo dei campi tutti bollati di sangue vermiglio, come se quegli uomini se ne fossero liberati per correre più leggeri a gridare la loro vittoria! Ora vedo la guerra.... un'enorme minestra grigia, scodellata con stridulo crocrolo sciulo frastuono, e rimasta lì.... immangiabile. — Gente! Gente! — Signore! Signore! — Signore! Correte! — Venite! — Anche voi! — Correte presto! — Dateci aiuto! — Aiuto! — Guardate, venite! — Vedete, vedete questo pozzo? Affacciatevi, guardate. Si sono or ora calate laggiù due fanciulle e non è possibile trarle fuori. — A quest'ora saranno morte! — Aiutateci signore! — Dicono che questo pozzo non abbia il fondo! — Quanto erano belle! — I loro occhi sembravano quattro stelle del cielo! — Avevano i riccioli neri più delle ali dei corvi! — Le loro bocche sembravano due cofani di corallo pieni di perle! — Erano nate per salutar l'aurora! — Per amore! Per amore! — Si sono volute uccidere! — Tutte e due erano invaghite di uno stesso uomo! — Fino alla perdizione! — Egli è là che piange e si rotola sulla terra, sua madre lo tiene, altrimenti si sarebbe già calato nel pozzo! — Due fanciulle! — Veneziane! — Erano venute qui ad infilare le perle alle dame della città. — E per amore hanno troncate le loro giornate. — Amavano uno stesso uomo? — Sì, signore. — E perchè si sono gettate nel pozzo? — Bella, perchè erano infelici. Come poteva egli con un cuore solo corrispondere a due cuori così ardenti? — E allora una sola doveva gettarsi nel pozzo. — Tacete, cosa sapete voi? — Chi siete? — Una sola! Che faccia! — Mandatelo via, fatelo andar via! — Non vedete che uomo buffo? — Non dev'essere mica un uomo, sapete. — Che cosa dev'essere? — È un poco di buono, ecco che cos'è! — È un nuvolone venuto basso basso. — Un nuvolone! Ha una cappa di piombo! — Non è un uomo, non è un uomo! — Sì è un uomo, ma è vestito di pelle d'elefante. — Guarda che belle scarpe! — L'ha rubate, l'ha rubate in qualche posto! Amore! Quante volte sentii salire fino a me questa parola: amore. Io ricordo _Pena, Rete, Lama_, quando pronunziavano questa parola: le voci si facevano incerte, tremule, come se la parola dovesse elevarsi, come il muoversi dei piccoli uccelli nel nido, ai primi pruriti vitali, quando ancora inconsci intuiscono le loro ali e i loro voli. Amore. E vedevo due creature dalla chioma d'oro coperte di vesti leggere, rosee, guardarsi con un sorriso candido, e in un'aureola di ali bianche salire salire nell'azzurro portate da una nube di rose.... Laggiù, nel fondo di quel pozzo oscuro.... egli è là che si rotola sulla terra.... Vedo ora una vecchia dalle carni verdi, grinzita, tutta avvolta in uno zendado nero, liso, divenuto turchiniccio col tempo, è inginocchiata, ha in mano un pentolo oblungo di terra rossa, guardinga, torva, si volge, spia, che nessuno la colga mentre versa dell'acqua gialla in una fenditura nera del terreno. — Entrate, entrate signore! — Salite. Il grande cerimoniere della corte vi attende con tutti i gentiluomini. — Signore, in nome del Re, della Regina, e di tutta la corte, io vi saluto ospite della reggia. Il Re è stato informato della vostra presenza in questa città ed ha subito espresso il desiderio di avervi sotto il tetto regale. Le guardie reali non hanno punto esagerato portandoci le vostre notizie, voi siete davvero l'uomo più singolare che si sia mai veduto sotto tutti i regni di questo mondo. Voi venite dunque? — Di lassù. — Dove lassù? — Lassù dove io rimasi sempre prima di scendere alla luce. — Siete stato molto tempo prima di venire alla luce? — Ci sarà stato quanto tutti gli altri, nove mesi. — Forse più di trent'anni. Anzi, certo, trentadue in trentatrè anni. — Ma ci canzona sapete, ci canzona. — Non ha punto aria da canzonare, taci. — Domandagli quando è nato. — Quando siete nato? — Non so. Stamane all'alba io discesi alla luce. — Ma che diavolo vuol dire con questo scendere? — Vuol dire che è venuto alla luce stamani, nascere e venire non è la stessa cosa? — Ma lui dice che è sceso. — E quando uno nasce cosa fa, sale? — Ma nemmeno scende. Ed è nato così grande e grosso? — Ma è di fumo, è di fumo, cosa c'è da stupirsi? — Scusate, siete nato con le scarpe? — No, le trovai appena sceso. — E dagli con questo sceso! — Ma lui dice sceso per nato, cosa c'è da stupirsi? — E avendo vissuto trent'anni e forse più, come voi dite, nel seno materno, dovreste serbare un ricordo, una visione di quel tempo. — Un ricordo, non una visione. Tutto io rammento ora per ora, ma vedere non mi era possibile, intorno a me era tutto nero. — Ma allora vedevate? — Nero. — Voi vedevate nero? — Ma sicuro, ma sicuro, cosa c'è da farla tanto lunga, nel seno materno non si può vedere che nero. Che cosa si deve vedere? — Caro mio, nel seno materno si vede un bel corno! — Si vede che lui ci vedeva, e vedeva nero, un utero nero, ecco tutto! — Utero nero? — Ma naturalmente, cosa c'è di strano? — Diteci un poco, signore, come lasciaste vostra madre? — Quando io discesi esse non c'erano più, ed io discesi appunto perchè non udii più la loro voce. — Esse? Chi? — _Pena! Rete! Lama!_ — Chi sono? — Sono le sue madri. — Ma è pazzo, è pazzo! — Come come come? — Sì. — Sì? Avete tre madri? — È pazzo! — Sicuro, ha tre madri, cosa c'è di strano, è un uomo strano, è strano in tutto, cosa c'è di strano? — _Pena! Rete! Lama! Pena! Rete! Lama! Pe.... Re.... La...._ — Chiamiamolo Perelà! — Chiamiamolo Perelà. — Ma no Perelà, cosa vuol dire Perelà? — Ci fu un re che si chiamava Gola, cosa vuol dire Gola? Si può chiamare lui Perelà. — Ma dunque spiegateci, spiegateci per amor del cielo, che cosa dobbiamo raccontare al Re? — Dove io restai fino a stamane, non era il seno di una qualunque madre, era la sommità di un camino. — Ahaaaaa! — Uhuuuuu! — Ohooooo! — Ecco! — Un camino? — Povero diavolo! — Ardevano sotto a me costantemente alcuni tronchi, un perenne, mite fuocherello, ed una spira di fumo saliva su su per il camino dove io era. Non ricordo quando in me nacque la ragione, ma io incominciai ad esistere, e gradatamente conobbi il mio essere, udii, capii, sentii. Udii in principio una confusa cantilena di voci che mi sembrarono uguali, capii che sotto a me esistevano degli esseri che avevano qualche attinenza con me, sentii che io era una vita. Intesi giorno per giorno meglio le voci, incominciai a distinguere le parole, capirne il significato, e sentii ch'esse rimanevano in me non inerti, ma incominciavano la trama di un loro lavoro. Senza interruzione il fuoco ardeva e la spira calda saliva ad alimentare questa mia vita. Io era oramai un uomo. Sotto a me erano tre vecchie che alternativamente leggevano, alternativamente parlavano. Appresi così quello che gli altri uomini apprendono dai loro insegnanti. _Pena, Rete, Lama_, non tralasciarono di prepararmi a nessuna utile cognizione. Io imparai di guerra, d'amore, di filosofia.... tutto era in quel libro. — Anche la filosofia? — Sì.... una filosofia leggera.... leggera.... era quella che poteva giungere sino a me. — Meno male. — E tutte le cose mi giungevano così. — Le tre vecchie si chiamavano dunque? — _Pena, Rete, Lama._ — Che nomi! — Io ho conosciuto un uomo che si chiamava Dato, che prodezze! — Quelli non erano i loro nomi, erano solamente tre parole che usavano per distinguersi. Oh! Esse dovevano chiamarsi bene altrimenti! — Ma sapevano che voi eravate lassù, alla cima del camino? — Lo sapevano? Io non riuscii a scuoprirlo mai. Esse non dissero mai una parola che riguardasse me. — E voi non parlaste mai? — Solamente stamane mi sono accorto di parlare, quando per la prima volta le ho chiamate. _Pena! Rete! Lama! Pena! Rete! Lama! Pe.... Re.... La...._ — Non piangete più. — Fatevi coraggio. — O bella, erano le sue mamme vè, lasciatelo piangere povero diavolo. — Ma se stavano sempre lì a leggere avranno avuto la loro buona ragione. — Potevano stare al camino per scaldarsi, o bella! — Anche d'estate tenevano il fuoco acceso? — Sempre. — Allora lo sapevano, erano d'intesa di non parlarne. — Ma voi che cosa pensate di voi? — Fui ammassato e composto da quella spira di fumo, cellula per cellula, come le pietre di un edifizio? In maniera che tutto il prodotto di quel fuoco venisse usato per la mia costruzione.... — Ma il fumo non andava fuori dal camino? — Il camino era otturato alla sommità dove io giungeva colla mia testa. — Ah! Ecco! L'utero nero era dunque serrato. — Come tutti gli altri uteri mi sembra, fin qui.... — O fui un giorno introdotto lassù uomo, come sono adesso, ma di carni e con vesti uguali a quelle di tutti gli altri uomini? — Ecco! — Ora sì! Vi ci hanno nascosto! — Quelle tre vecchie avevano il loro segreto. — Ma è lampante, quella di non voler far sapere il loro nome.... — Eppoi di non volerne parlare. — Allora, sotto l'azione del fuoco, io sarei giorno per giorno lentissimamente carbonizzato, trasformato nel lungo volgere degli anni, fino a rimanere intatto ma di compattissimo fumo. Fu questa la più accurata purificazione che il fuoco abbia mai compiuta sopra la carne? — Purificazione! — Purificazione! — Purificazione! — È così, è così. — Ma sì, sì è così. — La purificazione! — Sarà stato un loro amante, di quelle tre vecchie, e loro per lavarlo dal peccato.... — Ma che amante d'Egitto! — Quanti anni avevano le vecchie? — Cento! — Accidenti! — E voi quanto siete rimasto nel vostro utero nero? — L'ha detto, trent'anni circa. — E a settant'anni avevano un amante? — Eppoi, un amante in tre? — Erano tanto vecchie! — State pur certo signor Perelà, lassù vi ci avevano nascosto uomo tale e quale voi siete, a furia di star sul fuoco siete diventato di fumo, la cosa è naturalissima, se bruciamo qualcosa vediamo che si carbonizza e dopo se ne va in fumo. — Ma il fumo ti va per l'aria. — Ma siccome quel camino era otturato alla sommità non poteva andar per l'aria; mi sembra tanto naturale.... Ma vi pare, ammassato, costruito di fumo? Il germe di un uomo ci doveva pure essere alla cima del camino! L'utero, nero o bianco, ha bisogno di un seme per generare. — E il seme per un camino è il fumo! — Ma nossignore che lui è un uomo! State sicuro signor Perelà, ci foste messo tale e quale voi siete, e potete avere appunto trentadue in trentatrè anni, che cosa ne dite? — Sì, sì. — Mi pare ne dimostri di più. — Sì, dimostrerà tutto quello che voi volete, ma non li può avere. — Tanto ha vissuto uomo e tanto gli ci è voluto.... — Per purificarsi. — Infatti! Trentatrè anni di peccato ne vogliono trentatrè di penitenza. — Allora ne ha sessantasei! — Vuoi finirla, mondo ladro? — Voi siete, signor Perelà, un uomo purificato, e questo vi renderà ai nostri occhi un essere di privilegio ed eccezionale. — Chi sa il Re come ne godrà! — Come sarà contenta la Regina! — Due di voi vadano subito da Sua Maestà che attende con ansia, ditegli che l'uomo lo abbiamo visto, toccato e interrogato, è veramente di fumo, è un gran gentiluomo, e non c'è nulla da temere. Che stia pure tranquillo, poi gli daremo ogni utile spiegazione. Il tutto si spiega assai più facilmente e naturalmente di quello che a prima vista possa sembrare. Presto, andate andate. — E dunque eccoci, bravo bravo signor Perelà vi faremo preparare subito l'appartamento, e per tutto quello che potrà occorrervi non avrete che da dimandare. — Certo certo, non può essere altrimenti foste messo lassù, per quale ragione bene non si sa, gli stessi vostri abiti ce lo rivelano. E forse avremo in seguito la rivelazione completa della vostra vera ragione. Certamente. Abbiate la compiacenza di girarvi. Ecco.... probabilmente sarete uno spagnolo. — O un francese. — È un francese. — Ma che francese! — Se fosse francese si sentirebbe. — Sembra un moschettiere. — Ma che moschettiere! — È un cavaliere scappato dalla rivoluzione, si vede dal costume. — Sì sì, è un moschettiere! — È scappato dalla rivoluzione. — E vi sembrano gli stivali della rivoluzione quelli? — Ma quelli gli ha trovati caro mio, gli ha trovati stamani prima di venir via dal suo luogo, lassù.... — Che c'entrano con lui! Non sono già di fumo! — Quelle sue vecchie signore glie li hanno fatti fare ultimamente da un ottimo calzolaio, sono precisi a quelli di tutti i nostri ufficiali. — Al taglio mi sembrano del calzolaio di mio fratello. — Vedete che lo sapevano! Cosa se ne facevano tre vecchie di un paio di stivali? — Signor Perelà finite il racconto, come vi decideste a lasciare il vostro nascondiglio? — Tre giorni or sono io sentii spegnersi sotto a me la cantilena, attesi, non udii più la voce adorata delle mie vecchie, dopo, anche il fuoco si spense là sotto, e tutto attorno a me divenne freddo e silenzioso. Le mie membra perderono gradatamente la loro immobilità, incominciarono ad agitarsi. Attesi trepidante. Dove erano andate _Pena, Rete, Lama_? Perchè mi avevano lasciato solo? Mi avevano abbandonato? Per sempre forse? Io mi agitava, mi attorceva in uno spasimo terribile, quel luogo mi era divenuto insopportabile, e mi svoltolavo da ogni parte come un globo di una materia divenuta estranea in un organo umano. Puntai le mani alle pareti, e poggiandomi colla schiena e puntando le ginocchia, riuscii a scendere giù, dove il camino si allargava, lì incominciavano gli anelli di una catena, a quella mi aggrappai e discesi giù giù fino a terra. Sotto c'era ancora l'ultima cenere e attorno al camino tre poltrone vuote, un grosso libro a terra chiuso. Dove io avevo posato i piedi, accanto, un paio di bellissimi stivali lucidi, questi. Io che mi sentiva così estraneo alla terra e attratto ancora alla sommità del camino, infilai inconsciamente le gambe in quelli stivali, e allora soltanto mi sentii sicuro, dritto, piantato, capace di poterci restare, lasciai la catena e incominciai a camminare. Corsi per tutte le sale della villa, vuote, non un mobile, non una persona, non un segno di vita! Gridai fino a lacerarmi la gola: _Pena! Rete! Lama!_ Nessuno! Urlai come un folle, piansi, mi disperai, e quando credetti che tutto per me fosse finito, che la mia vita fosse finita, mi trovai alla porta della villa. La porta era aperta, si estendeva davanti polverosa la via provinciale che mena a questa città. Sapevo tutto, come il cieco, senza avere mai veduto nulla. Mille storie di uomini, senza sapere preciso come gli uomini fossero, tutti i nomi delle cose, senza sapere quali fossero le cose che a quei nomi corrispondevano, come il cieco cui sia donata per incanto la luce. Io dovevo ora vedere. — La reggia è circondata di popolo, tutti vogliono sapere, vogliono vedere, conoscere Perelà. — Si sa già dovunque il suo nome! — Molti dicono di averlo visto passare, vogliono ad ogni costo vederlo. — Il popolo fa ressa alla porta! — Tutte le dame della capitale hanno telefonato per assumerne informazioni. — Il Re ha ordinato che Perelà sia ospitato con ogni onore come si conviene ad un principe reale. — La Regina annunziò che lo riceverà in udienza particolare. — Il gran cerimoniere di corte prepara intanto l'ordine del giorno. — Alcune personalità cittadine domandano di essere ammesse dinanzi al signor Perelà. Possono essere ammesse? — Signor Perelà, il vostro nome è sulle bocche di tutti, non si sente parlare più che di voi, dell'uomo di fumo! Perelà! Perelà! Perelà di qua, Perelà di là, ce ne vorrebbero dieci di uomini di fumo per contentare tutta questa gente! — Il signor Perelà sia fatto passare in sala di udienze, il gentiluomo di servizio introdurrà i primi venuti. — Il grande scultore nazionale Cesare Augusto Formichini. — Illustrissimo signore, io mi tengo fortemente onorato d'essere ricevuto da voi per il primo e vi esprimo subito la mia matura risoluzione, e insieme il dovere, di assicurare alla patria il vostro monumento. Nel bronzo sacro ai secoli e agli eroi saranno eternate la vostra memoria e la vostra grandezza. — Nel bronzo? — Già, nel bronzo. — Non è egli il bronzo una cosa dimolto pesante? — E che intendete dire con questo? Che con esso non si possono esprimere e riprodurre le cose più leggere? Le chiome fluttuanti di Venere or ora sbocciata dalle onde? I veli di tutte le danzatrici di Ninive? Lo zeffiro che sfiora la guancia vellutata di Narciso? Sapete voi che sia il bronzo? — Sapete voi che sia il fumo? — Il pittore della Regina Crescenzio Pacchetto. — Eccellentissimo signor Perelà, permettetemi di presentarvi insieme ai più devoti ossequî i sentimenti della mia più viva riconoscenza. L'onore che voi mi prodigate facendomi conoscere un uomo.... sì, un uomo come voi, è da me altissimamente considerato. Sono sicuro che risponderete affermativamente all'invito ch'io sono per farvi. Io aspiro ad essere il vostro primo ritrattista. Sarete il modello del mio capolavoro. Nessun ritrattista del mondo troverà mai un modello quanto voi ispiratore, e alla prossima esposizione figurerete al fianco della Regina. Lasciate ora ch'io esponga al vostro inappellabile giudizio l'ultima mia opera, quella che mi valse la celebrità. Venite pure avanti, fermatevi, scuoprite. Ecco, come voi potete bene osservare, signor Perelà, quella è una dama del diciottesimo secolo, il cavaliere che le è a fianco si è di fresco levato di ginocchio, dov'egli era per isporgere la sua dichiarazione di folle amore. E la nobile dama, in piedi, la vedete? accenna vaga coll'indice della sua pallida mano, la finestra, vedete quella rosea porpurea che vi sembra scoppiata per incanto nella notte di attesa? La vedete? Ecco, ella gli dice col gesto, prendetela. E non è come dire: la vostra dichiarazione è coronata dal mio amore? L'attesa è finita? Quel fiore che vi mancava eccolo, prendetelo, conservatelo sul vostro petto? Pegno di un primo bacio? Non vedete com'ella lo guarda? E con quanta grazia indica la bella rosa sul davanzale? Questo quadro si chiama appunto: _il cavaliere senza la rosa._ — Che cosa dice quella signora? — Prendete, quel fiore è vostro. — Io credevo invece ch'ella dicesse: signore, uscite. — Oh! Ma signor Perelà, che cosa dite mai? Non vedete come quegli occhi brillano? Come quelle labbra sono avide di baci e d'amore? — E non si può dire con un sorriso uscite, ad un uomo? — No certamente, e come potrebbe dire così s'ella indica la finestra? — E non si può uscire sorridendo per una finestra? — Ma no, ma no, ma no vi dico, non si può uscire, è come se gli dicesse io vi voglio vedere accoppato. Ella non può assolutamente dire questo, vi pare, non può, il significato del mio quadro ne sarebbe totalmente travolto.... Io vi prego caldamente di non dir ciò con alcuno, voi pregiudichereste a fondo la mia opera.... la vostra interpretazione in questo momento mi sarebbe fatale.... Venite pure avanti, fermatevi, cuoprite, andate. — Alcuni fotografi. — Pianino, pianino, due alla volta, c'è tempo per tutti. — Avreste la compiacenza di voltarvi, signore? — Io approfitterò per il profilo. — Vorreste sedervi? — E leggere un poco questo giornale così? Ecco. — E tenere nella mano questa sigaretta, così? E questo fiammifero, così, in questa? Ecco, benissimo, ottimamente. — Vorreste accavallare le gambe così? — E le braccia così? Con questo dito qui, lì. Ecco, proprio. — Potreste togliervi gli stivali? — No! — Per rimetterveli tosto ben inteso. — No! — Non vuol dire, lasciate pure, sarebbe stato tanto bello per il cinematografo.... — No! — Non vuol dire, lasciate lasciate pure. — Ma vi pare.... — Prego.... — Ecco. — Grazie. — Grazie. — Riverisco. — Illustrissimo. — Eccellentissimo. — Signor Perelà. — Obbligatissimo. — _blgtssm._ — Il banchiere Fortunato Rodella. — Appena venuto a cognizione della vostra presenza nella nostra città, mi sono affrettato a presentarvi i migliori omaggi, e a pregarvi altresì di ascoltare quanto sono per dirvi. Io ho altresì udito che voi siete giunto sprovvisto di tutto, e solo in possesso di un paio di bellissime scarpe. — Eccole. — Benissimo, dunque io vengo per mettere a vostra disposizione i miei capitali, e questo, ben inteso, non per giovare solamente a voi, ma perchè noi possiamo concludere associati ottimi affari. — Io? — Voi, precisamente. — Io sono di fumo. — Lo so, appunto. — E come posso, di sì umile natura essere a voi fonte di ricchezze? — Eh! non vuol dire, col fumo vedete, si possono fare le migliori speculazioni di questo mondo. Basta saper dare il valore alle cose, tutte le cose che ci circondano sono il nostro patrimonio, tutte possono diventare moneta delle nostre tasche se sapremo valercene. Lasciate fare a me. Il sole vedete, che pare la cosa più inaccessibile di tutte, non è che un enorme biglietto di banca che se riuscirete a spicciolare potrete spendere a vostro piacimento. E non vi dico poi la luna. — Il sole? — Precisamente, il sole. — È vero, non può essere che così, perchè se fosse tutto di moneta metallica peserebbe troppo.... — Già, e cadrebbe, ineluttabilmente, anzi sarebbe caduto già. — Invece essendo solamente un biglietto, un pezzo di carta, è leggero.... — E sta su. — E voi lo spicciolate? — Non facciamo altro dalla mattina alla sera. Eccovi il mio indirizzo e alla prima occasione non mancherò di avvertirvi, e per tutto quello che vi possa occorrere subito io sono a vostra completa disposizione. Signor Perelà i miei complimenti. — Il poeta Isidoro Scopino. — Quando ho udito pronunziare il vostro nome, per la via, io passeggiava allora colla mia amante. Il nome che sulle volgarissime labbra della plebe m'aveva lasciato indifferente, su quelle di lei acquistò intero il suo significato. Io le ho fatto ripetere mille volte il vostro nome, come ogni sera, prima di spengere il lume, le faccio ripetere l'eterna parola: _poesia_. Su quelle labbra. _Pe....re....là..._ lo si vede sfuggire rapido, come si vede partire per innalzarsi lieve, delicatamente la parola: _poesia_. Voi sentite il suono di questa maliarda parola? Quelle vocali. _o....e.... i.... a...._ E che cos'è mai una _p_ su quelle labbra! Signor Perelà! È come la forza del soffio che la anima e le da vita; e chi mi soccorrerà a dirvi che sia una s che la spinge, di sotto, e la sostiene.... e la solleva, su, su, su! — E che cos'è la poesia? — La poesia, signor Perelà, è un mondo, è un globo tutto azzurro, ed è il poeta, sul Parnaso, l'alito che lo gonfia, e lo prepara per la sua ascensione celeste. Qual'è l'arte? Saperlo gonfiare, gonfiare fino a renderlo trasparente perchè possa innalzarsi. — E voi salite con lui dopo? — Ma vi pare? Un corpo estraneo? Se mi ci attacco io addio Gesù, quello rimane a terra, quando l'ho gonfiato lo mando via. Io resto sul Parnaso. — Voi dovrete allora sorvegliare mentre lo gonfiate, il vostro globo, che nulla ci vada dentro. — Ma certo, basterebbe un granellino della più semplice cosa e non anderebbe più su. Pare che ci sia dentro chi sa che, e invece non c'è nulla, ottenere il vuoto, qui è tutta l'arte del poeta e la poesia. — Io comporrò per voi un'ode in tredicimila versi endecasillabi e un settenario sdrucciolo, e ve la manderò quanto prima pubblicata sulla migliore rivista del paese. Eccovi il mio ultimo libro di versi: _Ballate.... malate_. — Oh! che peccato poverette. — Non vi prendete pena. — E di che male soffrono? — Nessuno, stanno benissimo. — E allora perchè avete detto che sono malate? — Perchè altrimenti nessuno si occuperebbe della loro salute; così va il mondo signor Perelà. Contate sulla mia amicizia, ed io spero poter contare sulla vostra, siamo in fondo due poeti, e potremmo benissimo scrivere un poema drammatico in collaborazione. Verrà subito dopo di me Costantino del Pesce, il critico, signor Perelà io vi supplico di non ascoltare una parola sola di quello ch'egli sarà per dirvi, il poltrone, è fuori della porta che attende, aspetta ch'io sia uscito per potervi parlare, vi parlerà di me senza dubbio, il parassita. _Monsieur de Perelà j'espère de vous rencontrer dans le monde._ — Costantino Del Pesce critico della letteratura Nazionale ufficiale. — Non vi meravigliate s'io mi presento a voi dopo quel po' po' di fregnone, volle la sorte ch'io dassi a lui la precedenza ma ciò non accadrà per molto tempo ancora che voi vedrete camminare le cose alla rovescia. — Chi? Quello del pallone? — Già proprio lui, può aspettare benissimo a cantare dopo ch'io abbia parlato, non è difficile indovinare le scempiaggini che dirà. — E ve lo fa vedere gonfiato o da gonfiare? — Che cosa? — Il pallone. — Me lo fa vedere gonfiato. — E voi dovete sempre andare lassù dov'ei lo manda, il suo pallone? — Ho il mio cannocchiale. Non conoscete il canocchiale della critica? È il più lungo di tutti e insieme quello che si ripiega meglio. Lo porto nel taschino del gilet, guardate, e me ne avanza. — Il dottore della Corte Agostino Pipper. — Sono il medico della Corte, signor Perelà, voi sapete che cos'è un medico? È una fila di cose. E sono dì e notte perduto a vedere che sia mai questo inquietantissimo corpo umano che pare una faccenda tanto perfetta ed è di una grossolana scandalosa irregolarità, e di una trivialità sconcertante. Se sapeste con quale cautela un uomo della mia elevatura debba maneggiare la propria lingua. Scherzi pure finchè vuole con quella degli altri, ma.... in guardia colla propria! Il segreto è tutto lì, nel dire.... e nel non dire. Gli argomenti saranno sempre buoni e in vostro favore, è il fatto che vi frega. Se voi dite, poniamo: il malato guarirà, in men di due ore il fetente crepa. Se voi dite poniamo: certamente muore, e quello vi guarisce dopo avergli fatto dare l'olio santo. Sono il male e la medicina i due sposi più burberi che mai si sia dato nel tempo, che non fecero al mondo che farsi dispetti senza tregua, solamente in silenzio possono andare d'accordo. Il vostro polso? Buono, buono. La vostra lingua? Ottima. Eccovi la mia carta, per quando possano venirvi utili i miei servigi, sono ai vostri comandi. — Il grande filosofo indipendente Angiolino Pila, detto Pilone. — Non sono mica un filosofo sapete signor Perelà, non date mai ascolto a quello che vi dicono. Quando un uomo ha detto del proprio simile ogni sorta di sconcezze, ecco che è subito un filosofo, e più lo avrà trattato come si meritava e più sarà grande lui, il filosofo. Gli uomini hanno bisogno di sparlare sempre dei proprî simili e non avendo generalmente il coraggio e l'intelligenza per arrivarci a dovere inventano la verità detta da un altro e finiscono per credere che sia proprio quello che avrebbero pensato loro. Vede ognuno così tutti i suoi simili affogare nel pantano e lui se ne sta a guardarli allegramente su dall'alto. Ma voi, ditemi un poco una cosa, cosa siete venuto a fare qui? — Nulla. — Benone, e voi fatene un'altra, ritornatevene là dove siete stato fino ad oggi che sarà meglio per voi, gli uomini li conoscerete un'altra volta, non perderete molto, e non vi auguro che gli abbiate a conoscere proprio questa. Aspirate anche voi a diventare un tarlo come tutti gli altri? Gli uomini rodono gli appartamenti della natura nè più nè meno come i tarli rodono i loro appartamenti. Sapete quale ragione adducono per giustificare questo rosicchiamento? Dicono che la terra li attrae! Li attrae! Sfacciati che non sono altro! Vi si sono spadellati, e vi si rotolano sopra mezzi vivi e mezzi fritti! Oh! La terra li vomiterebbe volentieri tutti all'infinito! Sono la sua pietanza più indigesta, gli ha tutti per la gola e sullo stomaco, nessuno deve esserle passato ancora nell'intestino. C'è però una cosa che gli uomini hanno veramente creato e bisogna riconoscergliene il merito: la polvere! Guardate bene dove essi camminano strofinando senza tregua le loro sbrindellate miserie, guardate le vie che hanno pestate e sulle quali si strascicano con ogni sorta di attrezzi per stropicciare il suolo affinchè ne dia quanto più è capace. Si servono dei macigni più grandi per fabbricare dei pezzi di roba che gli stanno poi nel palmo di una mano. Voi vedete oggi una bella montagna di ròcce che vi sembrano inaccessibili, se gli uomini incominceranno a praticarla, ad introdurvisi, ad operarvi, in poco voi quella montagna non la vedrete più, che se ne saranno fatte tante saliere o calamai. Eccovi un bell'albero ampio e diritto che tiene nobilmente il suo legittimo regno, loro, questi sterpi ambulanti, vi si metteranno alle radici coi loro piccoli strumenti, e dagli a stridere, limare e rosicchiare, col più lungo e vile lavorìo ve lo faranno cadere, e non c'è caso che se lo facciano venire sulla testa, un corno! al momento giusto si fanno indietro. Un giorno vi accorgerete che con quell'albero sono dietro a stuzzicarcisi i denti. Datemi ascolto, non rimanete qui, andate a casa vostra, non vi fidate, se vi fanno tutte queste smorfie, tutte queste moine, non vi ci attaccate, essi godono ad inalzare un uomo a furia di spinte, per potersi poi godere il doppio a lasciarlo andare giù di botto. — Ma io sono di fumo.... — Già è vero, avete ragione, siete di fumo, e allora rimanete pure, ciao, egregio amico! — Sua Eminenza Reverendissima il Cardinale Arcivescovo. — Voi vi chiamate dunque? — Perelà. — Ecco, benissimo.... Pe.... relà, sicuro Perelà. Dunque mio caro signor Perelà io sono certo di potervi contare fra le mie pecorelle più elette e predilette, perchè in fondo voi non siete che un uomo. — Molto leggero. — Ah! No no no no no, caro mio, essere leggeri di corpo non conta nulla, voi più d'ogni altro avete bisogno di aiuto e di protezione, bisogna essere leggeri di anima, e l'anima non si può alleggerire che collo sgravio delle proprie colpe: allora soltanto può salire al cielo. È un atto di umiliazione col quale anche i Re si sentirono sempre innalzati. — Di che cos'è fatta l'anima? — Anima è spirito. — E si vede? — Ma lo spirito non si vede. — Voi dunque non avete mai veduto un uomo salire al cielo? — Tutti gli spiriti eletti vi salgono senza che noi li vediamo. — E gli altri? — Gli altri piombano giù, nell'inferno profondo. — Perchè pesano di più. — Naturalmente, non furono liberati dal peso delle loro colpe. — Ecco. — Io non sono che un umile e fedele servitore della reggia, Alloro, il più vecchio cameriere delle stanze del Re. Ho veduto qui ed amato tanti Re, ho gioito della loro grandezza e del loro splendore, ho pianto per la loro morte. Ma oggi, quando ho sentito parlare di voi, e quando poi vi ho visto, ho avuto la visione di un nuovo Re, più grande e più bello di tutti gli altri. Ma è vero signore che siete proprio di fumo? — Si. — Come poteste rimanere sul fuoco senza bruciarvi? Come poteste giungere a questo? La mia piccola mente si perde a tanto prodigio. Permettetemi signore ch'io vi baci la mano. Consideratemi come il più umile e il più devoto dei vostri servitori, e qualunque cosa possa fare per voi ricordatevi che mi farete felice solo se mi comanderete, se mi dimostrerete la vostra benevolenza e mi farete sentire il vostro dominio. — Il cerimoniere legge l'ordine del giorno, silenzio! — Ordine del giorno. «Domani venerdì a ore cinque, le dame della società e della corte offriranno un _thè_ d'onore al signor Perelà». — Con intervento della Regina? — No, silenzio! «Non saranno ammessi altri uomini che lui. Sua Maestà il Re ha dato speciali disposizioni acciò la festa riesca intima e solenne. Dopodomani sabato, a ore cinque, Sua Maestà la Regina riceverà il signor Perelà in udienza particolare. Domenica sera, ad ore ventuna, il signor Perelà sarà presentato al popolo. Sarà fatto girare per tutte le vie della capitale e sobborghi, nelle vetture reali, accompagnato dai nostri principali gentiluomini della Corte, e dalle principali dame della Corte e della società. Sul colle comunale il sindaco rivolgerà il saluto della cittadinanza. La città sarà tutta illuminata e imbandierata, e nei punti più frequentati suoneranno ben quattordici bande. La stessa sera, a ore ventitrè, gran ballo a Corte con intervento del Re. — Viva il Re! — Inoltre.... silenzio! Inoltre, Sua Maestà il Re nominerà il signor Perelà terzo membro nella gravosa e ponderosa e annosa compilazione del nuovo Codice per il nostro paese». — Viva il Re! IL THÉ — Noi tutte siamo tanto lusingate, non è vero mie care? — Tanto! — Tutte! — Molto! — Infinitamente. — Già! — Sì! — Ma davvero! — E come! — Siamo tanto lusingate di accogliere, signor Perelà... — Un uomo come voi! — Pensate che il Re ci ha invitate a ricevervi con tutto l'onore. — Col massimo onore. — Come da tanto tempo non si era fatto alla corte con alcuno. — Il Re. — Sarete una gloria del suo regno. — La sola. — E ci ha fatto dire che ad ogni vostra richiesta... non potremo rispondere: no. — Perchè glie lo hai detto? Hai fatto male, non si può mai sapere. — Ma voi sarete discreto non è vero? — Oh! Discretissimo vedrai. — Sarà come gli parrà d'essere. — Noi ci rivolgiamo fin d'ora alla vostra delicatezza. — Come potremo ottenere il suo interesse? — Se vi annoieremo ci direte: basta: siamo qui per obbedirvi, non è vero mie care? — Sicuro! — Certo! — Già, sì. — Sì, già. — Già, già. — Sì, sì. — Come possiamo provarvi la nostra devozione? — Noi sappiamo oramai tutto di voi, voi dovete sapere qualche cosa di noi. — Ma è vero signor Perelà che voi detterete il nuovo codice per il nostro paese? — Sicuro, non hai sentito ieri sera? — Non dissero che lo dettava, dissero che avrebbe soccorso il ministro e Torlindao. — No signora, dissero che lo dettava, lo dettava lo dettava. — Meglio, lo dettava lo dettava, cosa me ne importa? — Dici che non lo dettava, lo dettava. — Mie care è una questione inutile, se lo detterà vedremo e sapremo; tacete. Le nostre leggi attuali, signor Perelà, hanno bisogno di modificazioni radicalissime: poco si parla, nel vecchio codice, della donna, e a sproposito, la donna deve entrare in assai più faccende, bisogna, perchè le cose vadano come si deve; i signori uomini non capiscono quasi niente. — Niente affatto. — E fingono di capir bene tutto — Una tazza di _thè_? — Il _thè_. — Il _thè_. — Ecco. — Signor Perelà. — Prendete? — Gradite? — Volete? — Posso? — Guarda come lo beve! — Ne assaggia un sorso da ognuna — Come siete gentile! — Carino! — Ah! — Anche da me n'è vero? — E da me? — E da me proprio nulla? — Io beverò dopo a questa tazza — E tu perchè sei rimasta indietro? — Signor Perelà non prendete il suo _thè_! — Cosa c'ha fatto? — Sentite, sentite come è amaro! Glie lo dava senza zucchero! — Cattiva! — Scompiacente e tignosa! — Dispettosa dispettosa dispettosa! — Vi piace? — Proprio? — Ah! — Prende anche il _thè_! — Ma voi siete un uomo come tutti gli altri allora? — Oh! Migliore degli altri mia cara. — Io non avrei mai creduto di conoscere sul serio un uomo di fumo. — E di offrirgli il _thè_. — E che lui lo bevesse! — Quando ieri vi annunziarono in città non volli crederci. — Io fui delle ultime a crederlo.... ma ora.... eccovi qui.... — Io ho sempre amato il fumo e ciò non m'ha stupito affatto. — Anch'io sono sempre andata in estasi dinanzi al fumo. Sapete, dalla finestra della villa, quando sono ospite di mia suocera, si vede la grande ciminiera di un'officina, ed io ho passato delle ore intiere a seguire l'esodo del fumo. Una volta il fumo usciva come alitato dalle labbra della ciminiera, come se essa parlasse con una persona lontana lontana, e facesse ogni sforzo per farsi intendere: _ha! pha! lha!_ Un'altra volta vidi proprio bene uscire una lunga fila di fanciulle che si tenevano tutte per la mano, ricordate le donne che si fanno col giornale quando siamo piccine?... Tutte attaccate per la mano.... — Le spose di Perelà. — E quando mi dissero che c'era in città un uomo di fumo io non stupii affatto e dissi: eh! Ma ne ho veduti centomila volte, dalla finestra di mia suocera! Permettete signor Perelà che io vi lisci un pochino qui, sopra un braccio. Sentite, sentite mie care, è morbido più del più fino velluto, sentite. — Uh! — Un velluto inverosimile. — Ma è sensazionale! — È incredibile! — Dio mio! — Uhm! — Che morbidezza! — Ma sentite ma sentite! — Sentitelo qui, qui, qui. — Siete tutto così? — Un cigno. — Una nube mansueta. — O uno di quei bei pennacchioni che saltano fuori dalle locomotive.... — Ma sentitelo in questo punto! — Ehi, sfacciata! — Prima che bruciaste, signor Perelà, il vostro vestito doveva essere di un magnifico velluto. — Oh! Rosso rubino! Ardente come.... — Taci sciocchina. — Ed ora così tutto grigio.... — Una piuma sinistra. — Perchè sinistra mia cara? — Avete un aspetto tanto leale.... — E buono. — Gentile poi.... — Io questa notte non mi potei addormentare pensando a voi, ditemi signor Perelà, ditemi, voi pure non dormiste? — Non le rispondete, ella fa per mettervi in imbarazzo. — Non sai che lui non dorme mai? — Già, dopo la sua trasformazione! — Ed io pure non dormirò più. — Stai zitta una buona volta! Vedete, la nostra cara amica, la Marchesa di Bellonda, è una dolce e mite creatura, ma ha un carattere così fantastico e malinconico che se le date retta rimarrete vittima delle sue romanticherie. — Piuttosto incominciamo un racconto. — Ma un racconto leggero leggero.... come piacciono a lui. — Riusciremo a tenervi allegro? — Ditelo se vi annoiamo, e subito finiremo. — Avete bisogno di qualche cosa? — Volete ancora del _thè_? — Un _Sandwich_? — Un _fondant_? — I signori uomini ieri vi avranno molto divertito coi loro svariati argomenti, ma noi.... povere donne, ne abbiamo così pochi.... — Per un uomo come lui. — Che cosa vuol dire? — Vuol dire.... — Taci sciocca, che ne sai? — Ognuna di noi cercherà nel fondo dell'anima, la sua cosa.... più leggera. E se da tutte saprete forse la stessa cosa, perdonateci, siamo così escluse.... I signori uomini possono appostarsi sopra un piedistallo, col loro ingegno, colla loro scaltrezza, col loro denaro, a noi solamente la bellezza può dare un piccolo privilegio. La politica non ammette una sola pennellata del nostro colore sul suo quadro, la religione ci ammette solo per cornice. — Non possiamo celebrare. — La scienza non ci appresta fiducia alcuna.... l'arte.... se non è quella del canto.... I signori uomini ci riserbano che facciamo scienza sì e no d'un po' d'amore, che loro ci richiedono poi come un passatempo.... o peggio ancora. — Zoe dirà per la prima. A lei spetta sempre ogni precedenza. Come vedete, signor Perelà, ella ci supera tutte, e di gran lunga, in bellezza, è giudicata la donna più bella del nostro regno. Avanti Zoe, incomincia. _La Duchessa Zoe Bolo Filzo._ — Essa ha fatto girare la testa a tutti gli uomini sapete. — Gli ha posti tutti in ridicolo. — Si è risa di tutti. — E non si è concessa mai ad alcuno. — Vuol restare fedele a suo marito. — Cinque o sei si uccisero per lei. — Cinque o sei? Almeno dodici mia cara. — Vi basti ch'ella ha fatto suicidare un barone di settant'anni. — Milionario. — Pieno di nipoti. — Uno di quegli uomini, signor Perelà, che dacchè è mondo, appena appena il nostro venerato padre eterno può fare il miracolo di togliere ai vivi. — Ella ha fruttato alle società delle ferrovie assai più che i pellegrini del Santo Padre. — Un giovane avvocato le promise di uccidersi dopo un bacio solamente, essa non volle darglielo e lui.... si uccise lo stesso. — Mia cara quella volta però tu fosti della più infernale cattiveria. — Non concedere all'uomo che muore per noi di potere almeno morire col nostro bacio sulle labbra! — E tu sei di un romanticismo del tutto teorico; l'avvocato dopo il bacio non si sarebbe ucciso più, ed avrebbe preteso qualche altra cosa o sarebbe andato a spacciare per il mondo che i baci della donna più bella hanno in fondo lo stesso sapore di quelli di una donna mediocre. Vedete signor Perelà, tutte queste mie buone amiche nella foga di concedersi non si riserbano un istante per studiare i loro piani, e rimangono quasi sempre avvilite, disgustate, vittime della brutalità degli uomini. Bisogna invece che essi rimangano vittime del nostro capriccio. La loro vita si può esplicare sui più svariati campi d'azione dove possono liberamente esercitare ogni loro attività, noi... ci hanno ristrette in un unico campo, benissimo, li aspetteremo su quello. Perchè andare a forzare le loro porte? Prepariamoci per quando verranno a battere alla nostra. E tutta la nostra scaltrezza impieghiamola a questo uso. Che cosa importa a me che gli uomini che mi vengono dinanzi sieno esperti di politica o di medicina, di commercio o di letteratura o di scienza, quando sono del tutto inesperti nella mia scienza? Essi sono assolutamente impreparati, io li vincerò sempre. Ad un nostro sguardo, un gesto, un atto qualunque di seduzione, essi non sanno che c'è dalla parte loro l'equivalente, il gesto, l'atto capace di neutralizzarlo, niente, lo assorbono a occhi chiusi, essi ci assorbono, vedete, ci bevono, ci buttano giù come un ubriacone vuota un dopo l'altro i bicchieri. Quando sono bene imbevuti di noi, proprio saturi capite, allora scoppiano, e noi si lasciano scoppiare. La nostra abilità è tutta nel fargli bere bere bere, giù giù giù, senza che se ne accorgano. Loro non devono sentirsi che alla fine ubriachi. Io godo tanto a vedermeli ballonzare attorno così accesi! Essi illuminano grottescamente l'oscurità di questa nostra vita sciocca e monotona. Quando ero bambina, la notte, nel giardino di un mio buon avo, facevo cercare tutti i rospi e ad ognuno versavo sulla groppa una buona quantità di spirito o di benzina, poi con un fiammifero li accendevo, e li lasciavo così liberi di correre e di saltare. Le povere bestiole saltavano accese, e si vedevano per tutto il giardino tutte queste fiammelle.... Più il fuoco arrivava la loro pelle e più i salti divenivano giganteschi; io rideva!... rideva!... signor Perelà.... rideva.... Il mio buon avo morì, ed io non andai più in quel giardino, ma tanti bravi giovinotti vollero continuare intorno a me lo spettacolo dei rospi fuori del giardino. Ed ora osservatemi signor Perelà, io poso le mie cinque dita così, sull'anca sinistra morbidamente (siamo ad un ballo o ad un _thè_), ho scorto dietro a me un giovane che non conosco e che da alcuni minuti mi fissa, mi segue senza battere ciglio. I suoi occhi vanno poco a poco ingrossandosi, voi potreste giurare che fra dieci o quindici minuti essi esorbiteranno addirittura. Io continuo a parlare distrattamente con la mia buona amica. Sollevo dall'anca le cinque dita e con tutte e due le braccia mi appoggio alla spalliera di una sedia un po' bassa, così, accavallo morbidamente le gambe, così. La mia veste che sarà.... di un morbidissimo raso nero o di velluto, attillata, mi avrà cinta e seguìta in ogni movimento, come la pelle di una foca. Ma più ancora della veste mi avrà seguita collo sguardo quel bravo giovinotto dietro a me. Dategli un'occhiata, vedrete ch'egli ha preso la più perfetta aria ebete che prender si possa. Ad un certo punto egli si porta una mano alla fronte, tutto rosso, fradicio di sudore. Ci siamo. Io m'alzo repentinamente e vado con tutte e due le mani a raccogliere alcuni capelli che sento sparsi giù sulla nuca e per il collo, così.... così. Il giovine, guardatelo, non può più contenersi. Mi volgo, striscio i miei occhi su di lui rapidissimamente, e vado ad appoggiarli laggiù nel fondo della sala, dove ci sarà senza dubbio un'altra mia carissima amica alla quale sorrido dando alle mie labbra ondulazioni particolari. Nove su dieci, signor Perelà, quell'uomo si farà presentare a me, accerchierà la mia casa, riuscirà ad introdurvisi, mi soffocherà di biglietti, di fiori, farà la sua squilibratissima dichiarazione di folle amore, andrà sull'orlo del solito suicidio, concluderà con un viaggetto a Montecarlo. Io non tradisco mio marito. È forse vero che di tutte le donne del nostro regno sono la più bella? Dunque la più assediata e tormentata dai signori uomini, e notate, con un'aspettativa che è doppia, tripla, quadrupla, di quella ch'essi hanno per tutte le altre. Il giorno che io mi concedessi ad uno, non potendo in fondo dargli che tutto quello che gli hanno dato le altre prima di me, finirei per concedergli una grande delusione; e dopo correrebbe sulle bocche di tutti che le donne belle o brutte alla fine dei conti si assomigliano. Questo sarebbe assai poco piacevole per me, ne convenite signor Perelà? _La Principessa Nadina Giunchi Del Bacchetto._ — Illustre signore e mie povere amiche, io mi rifiuto recisamente, non solo di dire alcunchè della mia vita, ma solo di rivolgere la parola a cotesto essere che voi avete con tanta premura raccolto. Io sono nauseata dalla sua presenza, e assai più dal vostro contegno. — Uh! — Mia cara tu commetti la più immensa villania verso di lui e verso di noi tutte! — E tradisci l'ordine del Re! — Ogni cittadino, per primo il Re, ha deciso di offrire grande ospitalità a questo signore. — Cominciando dal Re! — Peggio per lei, si metterà in rotta colla corte! — Ma di certo. — Qui tu sei la sola che parla in tale maniera, nessuna di noi rifiuta al signor Perelà tutta la sua confidenza. — Lui dovrà dettare il nuovo codice! — Stai fresca cara mia! — Stolte! Insensate! Costui afferma impunemente di essere di fumo non è vero? — Sicuro. — Lo è. — Come, non lo lisciasti or ora? — Di fumo? Ma si può imaginare cosa più stomachevole? Più schifosa? Il fumo! — È una cosa tanto carina invece! — Ma non capite ch'egli finirà per deturpare nella più sconcia maniera le nostre vesti? Ch'egli s'introdurrà per le nostre narici, negli occhi, a darci il più grande tormento? — Ma taci! — Sciocca! — Il signor Perelà non è uomo da far questo. — Oh! Egli è assai bene educato, assai assai più di chi m'intendo io. — È l'uomo più squisito ch'io m'abbia mai conosciuto. — Così malinconico nella sua eccezionale natura! — Io vi dico questo solamente: non rivolgete a me una sola domanda, e continuategli pure tutta la vostra stolida confidenza. Ricordatevi però che non solo quel vezzoso signorino riderà delle vostre ridicole avventure, ma anch'io con lui. — Che villana! — Faremo che questo giunga agli orecchi del Re. — Sarai cacciata dalla corte. — E non potrai più rimetterci il piede. — È vero che voi vi riderete di noi? — No vero? — Non era possibile. — Perdonate signor Perelà il piccolo incidente, quella povera donna non sa quello che dice, voi dovete perdonarle. — Ma il perdono è la sua gioia. — Non è lui fatto per l'unica dolcezza del concedere? — Mia cara Oliva anche tu divieni ogni giorno più insopportabile con tutte queste malinconie. Che cosa ti capita che ti fa star male così? Tu soffri mia cara, è evidente. Non le badate signor Perelà, essa è di un carattere tanto mai afflitto che sovente ci affligge tutte e ci fa passare delle orribili giornate. Donna Gioconda volete dire voi qualche cosa? _Donna Maria Gioconda Di Cartella._ Di tutte queste signore, mio egregio amico, io sono proprio quella che dovrebbe tacere. La mia vita fu solo di rassegnazione e di raccoglimento. Come bene vedete io non sono più giovanissima. Venticinque anni or sono andai sposa al signore Di Cartella, ma egli non riuscì a superare la mia verginità, non vi riuscì allora nè vi riuscì più mai. Io sono ancora quella fanciulla che la mia amata Superiora consegnò un giorno nelle braccia di mia madre. Giovane, ardente, delusa, ferita, fui sul momento capace di meditare una vendetta e cercare altrove quel naturale sfogo alla mia rigogliosa giovinezza, e che alla mia legale unione veniva negato. Poi.... volli dimenticare, volli usare tutta la mia forza per vincere una piccola battaglia su me stessa, e la vinsi. Il mio buon compagno che non poteva avere da me amore, si ebbe la più fedele ed affettuosa compagnia che sorella abbia potuto mai prodigare. — La sua generosità è favolosa. — Era tanto spiccia! — Trovare chi supplisse alla mancanza. — E.... all'occorrenza cambiare. — Ma certo. — Mie buone amiche, voi sapete ch'io portai in dote al signor Di Cartella tutti i debiti di mia madre, e mia madre tutt'ora non cessa ogni mese di scrivergli lettere zeppe di amari rimproveri per sottrargli del denaro. Mi occupai di lavori femminili, fui presidente di tutti gli istituti di beneficenza della capitale, fondai la società per l'emancipazione della donna. Le mie giornate si seguirono piene di lavoro e d'interesse, e la mia esistenza non fu per questo infelice. C'è però, signor Perelà, una cosa che tanto mi turba, e tanto mi fa star male. Il signor Di Cartella, a certi periodi.... quasi direi a scadenza.... sul mutare delle stagioni.... circa ogni due mesi.... egli.... si sente.... crede.... di potere ritentare un'altra volta la dura prova. Sono oramai venticinque anni, io so punto per punto tutto quello che accadrà, ma debbo compiacerlo. Egli si crede.... si illude.... tentando nuovi slanci.... cercando nuove maniere.... si illude ancora.... soffre.... Oh! signor Perelà, che pena.... che pena.... _La Contessa Carmen Ilario Denza._ Io ebbi, signor Perelà, un'adolescenza molto precoce, fino dai dodici anni presi un'imponentissima aria maschia, e la mia figura si delineò in ogni suo dettaglio virile. Poco è in me di quella grazia che avvolge le mie buone amiche. Quando a quindici anni lasciai il monastero sentivo già addosso, pure ignorando ogni informazione su tale proposito, sentivo già un bisogno spingente terribile di avvicinarmi ad un uomo. Il caso mi fu sempre avverso. Mentre in me cresceva questa terribile smania io non avevo ancora trovato un giovane che mi si fosse avvicinato guardandomi con intenzione. Al mio orizzonte non vedeva una promessa, una speranza di finire questo martirio. Non riuscivo più a soffocare in me il male, soffrivo, soffrivo, passavo le intere notti a dibattermi sul pavimento, mi comprimevo, mi pestavo, martirizzavo le mie carni ribelli, mi facevo male, ma nulla, nulla, nulla. La mia faccia si faceva di un orribile colore rosso vinastro e delle chiose vi rimanevano sempre qua e là. Questo faceva sì che gli uomini si occupassero ancora meno di me. Ero pura ed innocente e volevo mantenermi tale, ma erano le vene che non potevano contenere il sangue, ed io me le sentivo accese di dentro, e circolarvi come piombo strutto infuocato, e trasformarvisi in dinamite per scoppiare nel cuore orribilmente in un'enorme pozzanghera di tutta la mia infelice robustezza. Forse, io pensava, cento volte passai per la via dove abitava l'uomo che avrebbe potuto, vedendomi, innamorarsi di me. Bisognava però passare cinque minuti prima, o cinque minuti dopo. Forse noi camminammo nello stesso senso, invece che nel senso inverso, e non ci potemmo incontrare. Nella mia famiglia vi furono in quegli anni tre o quattro lutti strettissimi e così tutta vestita di nero io appariva, più che una fanciulla, una grossa vedova. Avevo oramai venticinque anni e non il primo uomo si era avvicinato a me, ed avrei accettato l'ultimo degli uomini oramai. La mia sensibilità si era talmente acuita ch'io sentiva a distanza l'odore acre del maschio, come una bestia, e seguiva per le vie questi sfilacciamenti di profumi selvaggi, che mi facevano poi delirare e fantasticare atrocemente chiusa nella mia stanza, mi facevano divenir folle, mi davano i più atroci martirii. Una notte fuggii scendendo dalla mia finestra giù sul balcone del giardino, uscii risoluta di stendermi col primo uomo che fosse passato. Andai per le vie deserte, andai là sotto le caserme, dove tanti uomini giacevano. Certo ognuno si sarebbe svegliato felice di avermi fra le braccia, e io intanto morivo di desiderio, e non comprendevo più, e mi sarei perduta per sempre. Dopo, ritrovai un po' la coscienza, e mi sentii avvinta dall'orrore di essere scoperta, portata chi sa dove.... forse dai miei genitori.... Corsi a casa, pensando che avrei potuto trovare ugualmente, avrei fatto salire un uomo dalla finestra, avrei introdotto nella mia stanza un domestico, ma essere sorpresa lì, no no no, Dio! Che orrore! Fuggii, e salii su dal balcone, riuscii a scavalcare la finestra della mia stanza. Pochi giorni dopo, fu da mio padre un amico, egli veniva mandato dal conte Ilario Denza. Non ci eravamo mai veduti, ci incontrammo, e in poche settimane il mio matrimonio fu celebrato. Nei giorni che lo precederono, io notai una certa quiete che incominciava a germogliare nel mio spirito, come una frescura nel sangue, come se vi fossero state iniettate fiale di un balsamo ristoratore. Nel brevissimo tempo del fidanzamento io e il mio fidanzato fummo assai poco insieme, e non fummo mai soli sino al giorno delle nozze. Il conte Ilario Denza fu su di me con quella violenza, credo, di ogni altro uomo sano e robusto. Non intendo fare a lui carico alcuno, ma io.... io, quello che dovei soffrire, a quale prezzo di angoscia e di lagrime ottenni di rimanere inerte e di lasciarlo agire. Io sentivo, per lo spasimo di non poterlo respingere, già le unghie aguzze della follìa rimestarmi dentro nel cervello, per sbriciolarlo, per togliergli ogni sua coesione, ogni sua unità vitale, poi il vuoto dinanzi a me, come se un essere che non era io si fosse atrocemente ribellato in me. All'alba fuggii da mia madre, le dissi che se il conte si fosse fatto su me un'altra volta io mi sarei uccisa in quel momento. Fu pattuita la nostra separazione il giorno stesso. Un'aspettativa bestiale, feroce, di dieci anni, una lacerazione lunga, interminabile, occulta di tutto uno spirito, che si chiuse nell'ultimo grido di dolore alla lacerazione della carne, col disgusto supremo di tutti i sensi. Signor Perelà, io portava in me senza saperlo il mio vero marito e non ammetteva il tradimento. — Ella è almeno sicura di confarsi seco lui nel carattere per tutta la vita, non è vero signor Perelà? _La Contessa Cloe Pizzardini Ba._ Mio caro signor Perelà o voi vi sarete meravigliato al racconto delle mie ottime amiche, o voi vi meraviglierete proprio adesso, al mio. Ditemi francamente, non le trovate un pochino esagerate? Io considero questo fatto semplice e comune, come una quotidiana necessità della nostra vita. Non so concedergli nessun fascino di mistero, e non vale per me più nè meno del mio pranzo o della mia colazione. Io mangio di buonissimo appetito almeno quattro volte al giorno, ed il resto.... mi capite? E come non potrei pensare di rimanere una intera giornata senza prender cibo, non potrei pensare di rimaner senza... voi mi capite. Non volli che un uomo se ne andasse da me col mio rifiuto, e questo badate non fu tutto per mia virtù. I nostri uomini possono rendersi utili, nella maniera che piace a me, sì e no una volta la settimana. Dunque vedete che la mia virtù è in fondo abbastanza relativa. Di tutti non conservo generalmente nessun particolare ricordo per la pochissima importanza ch'io concedo appunto ad un tale fatto. Ma che cosa direste di me, se io vi dicessi che non mi disgustò talora l'odore acre della mia stalla ma anzi... mi appetì.... e che non mi sembrò mai duro nè incomodo giaciglio la paglia o il fieno, l'erba, la terra o il più umile muricciuolo.... E che cosa direste infine se vi confidassi ancora che, se mai, lasciarono piccole tracce nella mia memoria, qualche indomabile stalliere.... qualche semplice giardiniere.... — Signor Perelà, potete farvi avanti, Cloe non rimandò mai nessuno col suo rifiuto. — Vorresti pronunziarti negativamente proprio questa volta? — Niente affatto mia cara, solamente mi permetto esprimere al signor Perelà certe mie riserve.... per certe cose io nutro di voi una fiducia limitatissima, perdonatemi ma mi sembra che il fumo.... non sia proprio quello che ci vuole, ma possiamo sempre vedere del resto, vedremo vedremo. _La Marchesa Oliva Di Bellonda._ Vi è dinanzi la donna che non amò, che non potè amare. Voi sapete che ognuno di noi nascendo porta in sè il cuore di un'altra persona, e una fanciulla ha il cuore di un giovane, e un giovane ha quello di una fanciulla. Noi cerchiamo, cerchiamo il nostro cuore per il mondo, come un mendico cerca il suo pezzo di pane; e girellando così col cuore del quale cerchiamo il possessore crediamo ad un certo momento di esserci incontrati con lui, tutte le apparenze ci ingannano, tutte le speranze ci tradiscono. Quando siamo a porre i nostri cuori bocca a bocca l'uno su l'altro, ci accorgiamo, troppo tardi, che quello che abbiamo trovato non è il nostro, e che non abbiamo esattamente quello del nostro compagno. Io non trovai il mio cuore e custodisco ancora inutilmente quello di colui che non troverò più. Sono legata all'uomo che non aveva il mio, e al quale non potevo dare il suo che non avevo. Ho girato tanto in cerca di colui, dov'è? È egli morto forse? Dove me lo hanno celato? Dove è egli andato a porre il mio povero cuore, come posso io vivere senza di esso? Sono oramai desolata, e già mi vedo raminga di porta in porta col mio fardello d'amore. Troverò colui al quale appartiene per operare il baratto, tramite d'indissolubile amore? Dove cerca egli? Dove cerco io? Perchè non ci possiamo incontrare? Chi ha il mio cuore? Chi me l'ha rubato? Quando ti potrò avere tu che lo conservi? — Povero infelice! — Disgraziato! — Io auguro a quell'innocente che non riesca mai a trovarti. — Tu mia cara hai bisogno di chi abbia tutto il tempo da perdere per ascoltare le tue romanticherie. — Non le date ascolto signor Perelà, ella ha per marito uno dei migliori uomini di questo mondo, sano e robusto. — Bestemmiatrice! Dalla salute di mio marito io non ebbi che la più sconcia brutalità, alla quale desolatamente sottostetti. — Anche questa è un'esagerazione. — Se tuo marito fosse stato malaticcio, mia cara, avresti piagnucolato per averne uno sano. — Insensate! Chi di voi conobbe l'amore? — Basta basta per carità. — Tanto si sa bene dove Oliva andrà a cadere. — È di un romanticismo così ridicolo con quel suo cuore sempre ciondoloni.... — Non vedete che il signor Perelà si annoia? — Parli un'altra. — Un'altra. — Donna Giacomina! — Sì, sì! — Donna Giacomina! _Donna Giacomina Barbero Di Ca' Mucchio._ — Adesso avremo la parabola delle ciambelle! — E l'apoteosi di Carlomignolo! — Re Carlomignolo! Sentirete signor Perelà, è roba da crepare. — Quello che per voi è nuovo mio caro, per noi è così vecchio. — Tacete, questo Carlomignolo è stomachevole, io non posso pensarci senza sentirmi tutta disgustata. — Donna Giacomina ha la parola della scienza. — Meglio assai di Oliva però, Donna Giacomina e il suo Carlomignolo almeno sono molto simpatici. — Insomma, lasciatela parlare. — Silenzio! — I dolcieri che fanno le ciambelle, maneggiano la pasta con grande sveltezza e pongono sopra un asse, l'una presso l'altra, le ciambelle pronte per il forno. Così voi non potete assolutamente giudicare della loro riuscita. La cottura, la maggiore o minore compattezza della pasta, il lievito, faranno che all'uscita dal forno le ciambelle non saranno uguali fra loro. Ve ne sarà taluna con un grosso buco rotondo, taluna oblungo, un po' più piccolo, più ovale, taluna ne uscirà addirittura senza, otturata. Ve ne sarà una infine nella quale il buco sarà rimasto impercettibile, appena si può vederlo se si pone la ciambella contro la luce. Un raggio solo vi può penetrare. La natura, che tutti lodano maestra di perfezione, mio caro signor Perelà, non è meno manuale del dolciere che fa le ciambelle, e gli uomini, per quanto si assomiglino tutti fra loro, portano addosso le più strane diversità. Ebbene, quella ciambella dove appena un raggio poteva penetrare.... sono proprio io, io signor Perelà sono quella ciambella. — Non è vero che è carina? — A me questa storiella fa sempre tanto ridere. — A me dà però allo stomaco la faccenda di Carlomignolo. — Avanti dite, dite, come fu che incontraste Carlomignolo. — È colla parola della scienza che io vi parlo signor Perelà. La mattina dopo le nozze, il mio matrimonio fu sciolto legalmente. Io fui sulle bocche di tutti, e dovei allontanarmi per qualche tempo dal mio paese. La mia buona madre mi portò a viaggiare per distrarmi. Incontrai talvolta alcuno che, per la comune simpatia, e per quel giovanile trasporto di amore mi sembrò quello col quale ritentare la dura prova. Piena di speranza e pur tremante di dubbio andai verso di lui! Ahimè! Voi sapete meglio di me signor Perelà che quando si cerca una tale cosa è proprio allora che ci si incontra nel suo contrario. Colla mia buona madre visitai l'Europa e buona parte dell'Asia, fui nell'India e nel Giappone, e mi accingevo a passare l'oceano, portando così per tutto il mondo la mia infelicità, e per usare anche un poco di quella grande ricchezza che in miglior modo mi era negato impiegare. Noi eravamo in un pittoresco villaggio della montagna a trascorrere il caldo dell'estate quando mia madre intese parlare da una lavandaia di certo Carlomignolo. Mia madre senza punto scorgere nel significato di quel nome, ma solamente attratta dalla curiosità, domandò alla donna chi fosse quel tale e perchè lo chiamassero così. La donna si mostrò subito tanto imbarazzata nel rispondere che mia madre, sempre più incuriosita, incalzò nelle domande. Egli ha.... mia cara signora, una cosa.... una cosa, mia cara signora, diceva la donna ridendo ma arrossita e piena d'imbarazzo, una cosa.... che sembra il dito mignolo di un fanciullo di quattro o cinque anni. Mia madre, che non si aspettava la soluzione dell'enigma, diede un grido, e quasi svenne. E la donna intanto incalzava: è un infelice signora, tutte le donne del villaggio si sono burlate di lui, egli in principio non capiva la propria sciagura.... tutti ormai lo sanno e lo burlano e lui finirà per chiudersi nel chiostro dei capuccini. No! No! No! gridava mia madre correndo avanti e indietro nella più feroce impazienza. Carlomignolo venga dinanzi a me! Mia madre tutto combinò a mia insaputa e ad insaputa di Carlomignolo. Una mattina ella mi condusse in un leggiadro boschetto e mi lasciò sola pregandomi di attenderla lì un poco. Là in fondo, al principio del bosco, si aprirono d'un tratto, come grandi portiere, due bellissimi rami, apparve nel mezzo un giovane alto grosso robusto, biondo, con una bellissima faccia infantile rosea e senza un solo pelo. All'aspetto poteva avere ventidue o ventitrè anni e poteva essere il figliolo di un piccolo commerciante del villaggio o di un qualche fattore. Egli si fece innanzi; e per quanto impacciato e tremante, pure con aria maestosa per la sua bellissima figura. Passandomi vicino mi chiese con un filo di voce: la signora sua madre deve venir qui? Sarà qui a momenti, se vi occorre qualche cosa potete attenderla. E sempre più impacciato venne a sedermi vicino sulla nuda terra. Come era bello! Sdraiato così tra il verde, in una attitudine forte e maschia, quasi da eroe, eppure estremamente infantile. Incominciai a sentirmi un poco impacciata anch'io, e piena di vergogna. Non sapendo cosa dire gli chiesi: come vi chiamate? Carlo.... e s'interruppe. I suoi occhi celesti si cuoprirono di due nubi turchine. Io ero tutta turbata e lui era turbatissimo. Quante volte avevo tremato così vicino ad un uomo! Avevo follemente sperato.... tentato un'altra volta.... e tutto era finito in una risata, nella più ridicola avventura, nel più crudele sgomento. Carlo mi era vicino e tremava, ed io tremavo, ci saremmo slanciati l'uno nella braccia dell'altro ma qualche cosa ci tratteneva, che? Nessuno dei due sapevamo allora che cosa trattenesse l'altro, tremavamo entrambi per la stessa pena. Come vincemmo il nostro terribile dubbio? Non so. Dopo qualche momento, dopo non so quale sopore, mi svegliai felice, non credendo al prodigio. Io avevo conosciuto un uomo, signor Perelà, Carlo aveva trovata la sua donna. La mia buona madre colla sua avvedutezza aveva preparato il miracolo. Il primo desiderio fu di ritornarmene in patria; ma data la inferiore condizione sociale del mio Carlo non potei presentarlo alla società e alla corte; egli è figlio di un piccolissimo albergatore di quella campagna. Sul principio nessuno seppe nulla ed io potei anche passeggiare impunemente col mio adorato consorte, ma siccome tutti fantasticavano sui fatti miei, venne in luce la verità, e i buoni burloni volevano portare in trionfo per la capitale il mio Carlomignolo. Egli vive con me, nel mio palazzo, o in alcuna delle mie ville, lungi dagli sguardi di tutti. — Dicono che sia un bellissimo uomo a vederlo così. — Robusto! — Donna Giacomina ne ha una cura.... — Sfido, dove ne troverebbe un altro? — E pare che mangi per quattro! — Quel po' po' di stallone! — Io vedete, signor Perelà, se non fossi così di buon appetito, il pensiero di cotesto Carlomignolo basterebbe a guastarmi lo stomaco per una settimana. — Oh! Ma tu hai uno stomaco da struzzo! — Peccato che non facciano figlioli! — La razza dei Carlomignoli! — E delle ciambelle.... quasi otturate! _La Contessa Rosa Ramino Liccio._ Io nacqui vestita, signor Perelà. Conoscete la misteriosa malìa di questa parola: pudore? Non vi fa essa pensare a qualche cosa di tanto, di tanto vestito ma che debba rimanervi dipoi nudo davanti? Quando era nel monastero venivo assalita da crisi violentissime di brividi perturbatori che si partivano dalle mie calcagna e mi serpeggiavano dentro tutte le ossa, aggrappandomisi al collo in volute vertiginose solo ch'io immaginassi che un uomo potesse vedere uno dei miei polsi o un po' del mio collo. Non vi dico poi il resto. Oh! Come io nacqui vestita! Usavo nel monastero indossare gli abiti monacali e mi cingevo la faccia di bende fino sopra le palpebre e quasi fino al labbro inferiore, e calavo un velo nero foltissimo sul viso se uno doveva rivolgermi una parola sola. Portavo sempre anche i guanti. Quando mi tolsero dal monastero mi consegnarono quindicenne nelle braccia del mio fidanzato, il tenente Liccio. Quello che io provai durante le pratiche amorose non potrei in alcun modo descrivervi; il mio fidanzato, afferrato il mio temperamento, mi fece salire la scala un gradino alla volta sempre in preda a queste vertigini per il mio eccessivo pudore. Egli doveva violentarlo giorno per giorno cogli atti, colle parole, cogli sguardi, e mano mano che si stendeva l'abitudine sopra un passo già fatto egli provava un passo ancora. Quando fummo sposi egli dovè praticare mesi e mesi per ottenere quello che tutti gli altri mariti ottengono dalla propria moglie il giorno stesso delle nozze. Solamente l'abitudine mitigava questa mia ipersensibilità pudica. Io nacqui rivestita da almeno mille mantelli, leggeri, impalpabili, e all'unico scopo di rimanere alla fine nuda del tutto. Il matrimonio per i primi anni ebbe tanti di quei mantelli da togliermi che le mie ore passarono sempre più nuove, agitatissime, sempre più interessanti e angosciose. Venne un giorno però che fatta già l'abitudine sull'ultimo passo fatto, e io desideravo già l'avvicinarsi del nuovo, mio marito non seppe levare quel giorno di dosso a me un nuovo mantello, ed io di quei mille che vi ho detto sentivo di averne ancora sopra almeno novecento. Fece ogni sforzo, il poverino, ma non riuscì a spingersi oltre. Egli non sapeva fare di più, i suoi mantelli forse finivano lì, era ormai nudo del tutto, ed io, ed io che me ne sentivo addosso ancora tanti! Quelli che prima portavo insensibilmente, leggeri, impalpabili, che mi ero lasciata strappare con tanta dolce sofferenza, ora mi pesavano, oh, mi soffocavano, come centinaia di cappe di piombo. Un giorno, prendevamo il caffè, mentre mio marito mi faceva di quei soliti oramai inutili complimenti, l'attendente era lì per non so quale servizio, io mi lasciavo carezzare le mani e la fronte, fredda, insensibile, ebbi la visione e il gesto risoluto che poteva liberarmi da mi nuovo mantello e forse da molti più! Corsi a chiudere la porta a chiave, e mi adagiai sul sofà trascinando mio marito per una mano, i miei occhi tornarono quelli di qualche tempo prima, egli comprese. Quello che io ho sofferto in quel giorno, quali spasimi crudeli, quali brividi di morte, l'attendente corse all'uscio ma non potè uscire, allora si pose in un cantone con due occhi quasi lagrimosi, e guardò, guardò come un ebete sino alla fine. E io soffrivo, soffrivo tutte quelle brividure terribili che mi scuotevano e mi liberavano, come un serpente dalla veste, ogni istante da un nuovo mantello. Mio marito pregò sempre dipoi l'attendente, il buono ed ingenuo campagnolo si prestò, prima confuso, poi più disinvolto, poi scaltro, i suoi sguardi divenivano sempre più maliziosi, egli incominciava a sorridere, a sottolineare con gesti impercettibili la nostra scena, poi con gesti arguti, osceni, parole oltraggiose, grida infami al mio indirizzo, ed io lo fissavo avida, attratta, occupata solo di lui dal quale attingevo tutta la mia indispensabile vergogna. Ma il buono e semplice giovinotto ebbe anch'esso un termine, ed io incominciai nuovamente a sentire sopra di me il peso di tutti i rimanenti mantelli. Fu poi un amico di mio marito, un giovane tenente. Egli stava alla finestra leggendo il giornale, fumando una sigaretta, volgendosi di tanto in tanto. Quegli occhi! Mi sentivo cadere cadere giù i mantelli divenuti scarlatti di orrore. Poi anche l'amico gentile esaurì le sue possibilità, ed un giorno furono due.... Signor Perelà, io sento che addosso a me ancora tanti ce ne sono di questi orribili indumenti, e penso con terrore alla maniera di liberarmene, il loro peso ogni giorno aumenta, e mi sento schiacciare soffocare sotto il mio insopportabile vestito di pudore. — Mia cara, con questa tua storta teoria di mantelli, io non mi meraviglierei punto di vederti un dì o l'altro nel mezzo della strada senza nessun mantello. — Perchè non inviti il signor Perelà a vedere? — Egli ha l'aria tanto riservata da fartene cascare una dozzina tutti in una volta. _La Baronessa Gelasia Del Prato Solìes._ Per darvi un'idea di quale effetto diverso possa ottenere una stessa causa io vi parlerò, signor Perelà, degli occhi di _Bobì_. La mia illustre famiglia in seguito ad insensate speculazioni per parte del mio avo e per parte anche di mio padre, cadde in istato di quasi assoluta miseria; e fu con somma gioia di tutti che a rialzarne un poco le sorti si ottenne di dare me in isposa al Barone Solìes, uomo straricco, di sessant'anni, famosissimo libertino, paralitico, pieno di acciacchi. Io avevo allora giusti giusti diciotto anni. Il mio marito che fu nei primissimi tempi abbastanza sopportabile, mi condusse a vita solitaria nella sua grande tenuta di Albè. Io viveva rassegnata, noiata, tanto da non essere capace di pensare che il giorno che sarebbe morto il mio vecchio signore, e mi avrebbe lasciata la metà del suo denaro, sarei stata ancora in pieno mattino della mia giovinezza. Egli si ammalò più gravemente, non potè più uscire, più gravemente ancora, e rimase costretto sopra una morbida poltrona sempre più invaso da questa paralisi che lo aveva attaccato molti anni prima. Siccome egli era gelosissimo, non mi permetteva d'allontanarmi da lui che per brevissimi istanti. Io leggeva leggeva leggeva per tenerlo distratto, e ai miei piedi riposava _Bobì_, il cagnolino, il mio vecchio e inseparabile compagno sino da quando ero fanciulla. L'uomo si ammalò sempre di più e dovè chiedere alla fine di vedere il suo nipote tenente, ch'era insieme con me l'erede di tutto il patrimonio. Egli venne lassù e s'intrattenne a ravvivare un po' quel languore di vita. Ci familiarizzammo con lui, ed egli andava e veniva, si tratteneva, tornava via, ritornava ancora.... Si chiamava Silvio, era un bellissimo giovane biondo ed aveva ventisei anni. Io leggeva leggeva leggeva, il vecchio nella sua poltrona sonnecchiava sonnecchiava sonnecchiava, il nipote mi guardava mi guardava mi guardava, _Bobì_, presso alla mia gonnella, si stringeva si stringeva si stringeva. E non nacque che quello che doveva nascere, per quanto io fossi rimbecillita e assente, una corrente di simpatia, una corrente d'amore, una corrente di passione. Ma come lasciare il sospettoso vecchio? Quando uno si allontanava egli trovava sempre la maniera che l'altro rimanesse lì, e quando Silvio non c'era io non potevo muovermi. Nemmeno quando partiva io potevo accompagnarlo, e dovevo sempre mangiare e dormire presso il mio insopportabile consorte. Egli sonnecchiava sempre e non dormiva mai. Dovei ricorrere ad una di quelle piccole astuzie che a noi donne di solito non fanno difetto. Approfittai appunto della sua fatale insonnia per parlarne col medico. Egli mi consigliò certe presine da somministrargli nel _thè_ o nel caffè ogni sera prima di coricarlo, e stese la ricetta. Di queste piccole prese, innocue, io ne somministrai assai abbondantemente al mio caro marito, tanto ch'egli incominciò a schiacciare, anche nel mezzo della giornata, i più deliziosi e beati sonnellini di questo mondo. E con Silvio allora io passeggiava per il giardino, nel parco, nel bosco, e proprio laggiù nel verde intenso dove nessuno ci poteva vedere, ci intrattenevamo. Su quel morbido e fresco tappeto naturale fra tutti quei rami abbracciati, io non vedeva più che i baratri di due occhi che attraevano i miei giù giù, per gli scoscendimenti più vertiginosi dell'oblìo, giù in fondo, in un fondo introvabile, infinito, e tutta la mia bocca era immersa, perduta in una nube soave di fili d'oro. Oh! Questo amore fresco, nuovo, dopo tutte le ore concesse al vecchio paralitico! Io non so, ma un giorno, proprio quando tutto il mio spirito soccombeva, non so come potè la coda del mio occhio avere la forza di distinguere, _Bobì_, il piccolo _Bobì_, che non mi abbandonava un solo istante, era disteso a pochi centimetri dalla mia guancia e mi sbarrava in faccia i suoi occhioni neri, tondi, fermi, come due bottoni di _gé_. Fu una doccia gelata nel momento più caldo della mia vita. Silvio si accorse, chiese, ma io non volli spiegargli. Eppure _Bobì_ era lì vicino, lui non comprese, non lo vide guardare, non ci pensò.... chi sa.... io non volli spiegargli il mio turbamento. Mio marito resistè sull'orlo dell'abisso ancora tre anni, ma da quel giorno non lo tradii più nè con Silvio nè con altri. Dopo ch'egli morì non potei avvicinare nessuno per molto tempo. Sentivo così bene che _Bobì_ mi avrebbe seguita, e non sarei in nessun modo riuscita a liberarmene senza rovinare ogni incantesimo. Tre anni dopo la morte di mio marito, il mio _Bobì_, volle morire anche lui; aveva diciannove anni l'indimenticabile compagno della mia giovinezza. Dopo, io conobbi altri uomini, ma.... in quel momento istesso.... quando tutto il mio spirito soccombe, una cosa rimane, eccolo lì, _Bobì_, _Bobì_, il mio _Bobì_, eccolo lì, a pochi centimetri dalla mia guancia, disteso coi suoi occhioni neri spalancati, fermi, tondi, come due bottoni di _gé_. — Sii sincera Gelasia, tu daresti tutti gli amanti di questo mondo per risuscitare il tuo _Bobì_. — Eh!... Forse. _La Principessa Bianca Delfino Bicco Delle Catene._ Se voi avete bene ascoltato le mie buone amiche, avrete certamente compreso, signor Perelà, come esse facciano dell'amore sempre una questione più o meno essenziale di vita. Io non potei mai riflettere su questo fatto, nè ricordare di me un solo particolare. Per me fu sempre una questione di morte. Io non seppi con un uomo giungere che ad un punto solo, alla morte, poi vissi naturalmente morta, e non ricordai. La morte nel suo più rigoglioso fiorire di petali freddi, con tutto il ghiaccio della sua vita. Quando vicina ad un uomo io rinasceva al mondo, e ricominciavano i miei sensi di nuovo a funzionare, il mio compagno già aveva fumata una sigaretta e ne accendeva una seconda, si arricciava placidamente i baffi, leggeva tranquillamente il suo giornale. Dall'orlo della sepoltura, ancora tutta immersa, bianca, morta ancora per tre buoni quarti, intravedeva la sua faccia calma, serena, il suo aspetto florido, sodisfatto, il suo roseo colorito. Che cosa era accaduto? Quanto ero rimasta sepolta? Io ora gradatamente mi disseppellivo, ma ero davvero morta, avevo sentito la mia temperatura abbassarsi, i brividi insinuarsi per tutte le mie ossa, per tutte le fibre, avevo sentito i muscoli irrigidirsi tutti, e la pelle ritirarsi in una convulsione suprema. Io era entrata nel nulla. L'oltraggiosa indifferenza, la cinica irriverenza colla quale i signori uomini trattarono sempre il mio eccezionale, quasi sacro sentire, mi inasprì a tale segno che decisi di ritirarmi ad una solitudine contemplativa nella mia villa fuori le mura, dove tuttora io vivo. Come avrei potuto sopportare ancora vicino a me la presenza di una così materiale creatura? Io viveva là solitaria, frequentavo raramente alcune amiche e facevo continue visite al vicino cimitero dove ha la sua sepoltura la mia adorata mamma. Aggirandomi così fra i morti pensava sovente al loro momento supremo. Quante volte ero morta come loro! In che consisteva la differenza? Che loro non si erano ancora ridestati. Sulla sera passeggiavo lungo il viale presso la mia villa, e vidi una volta passare un ventenne, una dolce figura esile, un'andatura aristocratica, delle guance bianche, degli occhi nerissimi infossati, e dei capelli scuri ricciuti. Aveva in mano dei fiori gialli. Un adolescente dalla bocca sensuale prematuramente sfiorita, un'aria viziata.... ma triste però, senza il raggio del sorriso nè sulle labbra nè dentro i bellissimi occhi. Lo guardai, egli mi guardò. Anch'io passeggiavo come lui, triste, colla mia aria di bella dissepolta.... La sera dipoi all'ora istessa il giovane passò e passò ancora tante sere, tutte le sere. Sempre più bianco, la bocca sempre di più sfiorita, sensuale. Ci guardavamo come in uno specchio. Una sera io uscii a tarda ora, non so perchè, c'era la luna e fui tentata di uscire.... ero presa da un tormento.... da un'oppressione.... avevo bisogno di prendere aria.... Appena al mio cancello, ecco scorgo l'ombra di uno poggiato sul muricciuolo in attesa. La luna gli si era liquefatta sulla fronte. Rimasi ferma, immobile, e immobile lui: lo specchio! E l'imagine sopra vi si avvicinò, vi si avvicinò, come ad immergersi in uno stagno di mercurio. Filtrava per la mia bocca il liquido gelido, e s'insinuava veloce per tutte le vene. Quando io distaccai le labbra dallo specchio ed aprii gli occhi, egli aveva ancora socchiusi i suoi, gli aprì lesto, scosso, come per avere tardato un istante a riflettere. Quel giovine era venuto ad abitare, con sua madre, una villa a poca distanza dalla mia, e da quella sera, tutte le sere e' incontrammo. Signor Perelà, io avevo finalmente trovato il mio amore! Ma.... ahimè.... il fanciullo che moriva, che sapeva morire con me, ogni sera mi appariva più bianco, gli occhi sempre più neri e che venivano fuori sempre da più in fondo, attorniati da due corone nere che dilagavano ogni dì maggiormente. Una sera egli mi disse: andiamo laggiù.... c'è la luna.... Quale desiderio io non avrei appagato al mio fanciullo? Passammo i campi e riuscimmo proprio sotto il cimitero, là dove il muro è basso, egli m'invitò a scalarlo e scendemmo giù fra i morti. E lui mi spinse, mi spinse fra quelle tombe, scansando le croci, passando fra i piccoli cancelli, i lumi, i pilastri, i cespugli di fiori sopra i morti, e in un punto si fermò, si distese, io lo seguii, e fummo quella sera due morti che il becchino si era dimenticato di seppellire. Tante tante sere ancora ritornammo, e ci indugiammo là sino a notte tarda. Io sentivo, signor Perelà, che una vita si era oramai tutta versata nella mia, e ne contavo i sorsi allibendo al pensiero che ognuno fosse l'ultimo. Una sera il mio fanciullo fu più bianco ancora, più freddo, io morii anche di più, e quando incominciai a ridestarmi, e il calore ritornava a popolare il mio corpo, sentii che lui era ancora immobile. La sua bocca fredda incominciava a farsi sentire come una gomma nella mia che riprendeva la temperatura. Rimasi ferma, egli aveva sempre fatto così, ora la morte lo teneva un poco di più; ancora, ancora, nulla; il mio corpo era tornato vivo caldo, e l'altro era ancora gelido. Mi scossi, forse un malore, lo carezzai, lo palpai, lo strinsi, nulla, nulla, attesi ancora in un'ansia disperata, attesi, nulla! Ma allora.... ma allora.... ma allora era vero.... era veramente.... morto. Mi alzai, la notte.... il luogo.... la ragione tornata perfettamente, mi feci vincere dall'orrore del caso! Avrei dovuto rendere conto della sua morte! Tanti mi vedevano la sera con lui, si sarebbe certo dubitato, eppoi... come sarei fuggita lasciando lì morto il mio fanciullo? No!... No!... No!... Bisognava trovare una via! E il farnetico mi spinse a prenderlo in braccio: lo sollevai... e su.... su... su... scavalcai il muro, e su, via... per i campi, su, su, su, col mio fanciullo, su, su.... radunando tutta la forza del mio corpo esausto, su, su.... per la potenza del mio spirito esaltato, su, su.... riuscii senza esser veduta a trascinarlo a casa, su, su.... per la scala.... su, nella mia stanza, lo adagiai.... su.... sopra il mio letto.... e caddi, giù, sfinita. Le forze mi ritornarono un poco dopo, e il mio cervello si posò un poco. Chiusa lì dentro, io guardava il mio povero fanciullo bianco.... cogli occhi socchiusi, in fondo alle due ghirlande nere, enormi, paurose. Viveva ancora tranquillo l'ultimo istante di ebbrezza che io gli avevo dato. Il mio fanciullo era morto.... per me.... con me.... laggiù. E io che lo avevo portato via dal suo luogo! Perchè lo avevo portato via? Per paura! Per paura di me, che mi trovassero là, che mi prendessero, mi punissero, mi straziassero, che mi facessero morire? Ma chi poteva oramai farmi morire, ora, che il mio amore era morto? E lì, io non dovevo ugualmente rendere conto della sua morte? Come era morto nelle mie braccia? Non dovevo ugualmente sottopormi alle più orribili spiegazioni? E lo avevo strappato dal suo nido, laggiù dove lui era voluto andare quella sera, e dove era sempre voluto tornare, per rimanervi.... E io, io che lo avevo compreso, sola al mondo, lo avevo tolto, non avevo saputo coronare il nostro amore, avevo tutto profanato in un momento di paura! E paura di che? Paura di me! Lo presi ancora addosso, colle braccia abbandonate giù dietro, e colla testa poggiata sulla mia spalla come un fanciullo che dorme, e via, via giù per la scala, attraversai la via, attraversai ancora i campi, non vista, non udita da alcuno lo trascinai sul muro del cimitero, e senza scomporlo, scansando le croci, i cancelli, i cespugli, ritrovai il suo nido, il nostro, e dove la terra era ancora calpestata dai nostri corpi, lo deposi con tutta la devozione, ferma, sicura, senza sentirmi punto stanca, punto affranta, ora che avevo ritrovata la mia anima; dritta dinanzi alla mia via, dritta sul mio fanciullo morto, immobile, aspettai. Incominciava l'alba. — È bella e paurosa la storia di Bianca, non è vero signor Perelà? Si rimane dipoi così silenziosi.... — Ella sempre a questo punto si ferma, come quella mattina. — Oh! Se sapeste, corsero a vederla dai paesi vicini. Ella rimase in piedi, immobile sul suo morto fino alla notte del dì seguente. — E ai primi accorsi gridò: io l'uccisi! Io l'uccisi! Io l'ho ucciso! Col mio amore! — Con quanto fiato aveva in gola. — E tutto raccontò. — Bagascia! Spudorata! Le gridavano tutti. — Trusiana! — Budello! — E peggio ancora, signor Perelà. — _Tu te rappelle mon ange?_ — Ella fu per molti mesi la favola del paese. — Non fu punita perchè era imparentata colla corte, ma c'era chi la voleva punire ad ogni costo. — La madre del suo amante. — Ma se era malato anche di prima! — È vero, egli sarebbe morto ugualmente, la sua vita era oramai spicciolata quando Bianca lo incontrò quella sera sul viale. — Avrebbe solo potuto spenderla in un tempo un po' più lungo. — Ogni notte, signor Perelà, io esco dalla mia casa, mi fermo al cancello, traverso la via, i campi, scavalco quel muro, e là dove è il mio fanciullo io mi distendo per rendergli quell'ultimo istante di vita. È la nostra comunione. Io muoio in quell'istante, ed egli rivive il momento supremo del nostro amore. Non sono più che il ciborio che custodisce quella reliquia. I preti s'illudono di avere nella loro ostia la parte di un Dio che non hanno, ma io ho ancora in me l'ultimo sorso di vita che gli sugai. — Chi è che ancora non ha detto nulla? — Quella dispettosa di Nadina. — Enos, Enos, non ha parlato! _M.lle Enos Copertino._ — Enos Copertino, la più grande violinista del regno! — Signor Perelà è inutile domandare a lei. La grande artista non ha mai aperto a nessun cuore la sua confidenza. Ella non risponderebbe. — Essa vive insieme con la celebre attrice Catulva. — Se ne dicono però, per quanto non le dica lei. — Enos vive in una sua villa misteriosa dove nessuno può entrare: nessun uomo penetra mai. — Le è compagna la Catulva, la grande attrice drammatica. — Si racconta che di notte, nel loro giardino, si vedono due ombre, che sembrano due lunghissime gonne brune, che si rotolano avvinte sulla terra. Ma.... di lei.... nessuno sa.... nessuno può dire.... «DIO» Penso oramai come voi, Perelà, a quelle tre donne, io sono alla sommità di un camino e le sento parlare. Il loro bisbiglio attrae ogni mio senso, io sono incapace di vedere, e di muovere anche poco le mie membra. Esse parlano dell'umano dolore. Quale delle tre parla? È _Pena_? È _Rete_? È _Lama_? Una narra tutta la _pena_ di un cuore; una spiega tutta la _rete_ che lo allacciò, quel cuore; ed una tiene in mano la _lama_ che lo trafiggerà. — _Dio._ — Sì! Le sento, le sento! E non so che mi spinge a distinguere una cosa di loro. Dite, signor Perelà, dite, quale cosa desideraste più vedere di quelle tre donne? Quale fu quella cosa che imaginaste di più, o che vi lusingaste di avere meglio imaginata? — Gli occhi di _Pena_, le mani di _Rete_, il sorriso di _Lama_. — Guardate, guardatemi negli occhi, guardate le mie mani, guardate il mio sorriso. Io mi sento in quest'istante di riassumere tutte quelle membra! — _Dio._ — Dite, voi credevi, dite, che la Regina avesse altri occhi? Altre mani? Altro sorriso? Le dame della società ieri certo v'intrattennero allegramente, ma io.... io sono la Regina.... — _Dio._ — La Regina frugare non può nel suo passato, e s'ella scruta nell'avvenire, ahimè, voi la vedete raccogliere una spada pesante bagnata di sangue, e trascinarsi via con quella, via lontano, via.... scomparire. Ma io vi posso insegnare un giuoco però, un giuoco da Regina, il giuoco che si chiama dello Stato. — _Dio._ — Prendete, ecco le carte, queste sono le dame, tenete, questi i cavalieri, li tengo io, qua le carte di spade. Mescolate le dame voi, io mescolo i cavalieri, mescolate le carte di denari, io le carte di spade. Io alzo un cavaliere, alzate voi la dama, alzate ora una carta di denari; il cavaliere che s'incontra colla carta più alta di denari è il Re, la dama che gli corrisponde è la Regina. Ecco, questo è il Re, questa la sua Regina, il denaro allo Stato. Mescolate il Re colle carte di spade, quando il Re si combina colla carta più alta di spade muore. — E se non si combina? — Finchè non si combina regna. — E dopo? — E dopo ve l'ho detto, muore.... — _Dio._ — Ancora, ancora. Ha un regno molto lungo questo Re. Ecco trovata, il Re è morto, la sua Regina raccoglie quella spada e qua, nel fondo della tavola. — E il denaro? — Il denaro rimane dello stato. Un nuovo Re, una nuova Regina, il denaro allo Stato, si rimescola il Re colle carte di spade finchè non si combina colla carta più alta che rimane, la Regina raccoglie quella spada e qua, nel fondo della tavola. — Questo giuoco finisce? — Questo giuoco non finisce mai. — _Dio._ — Si fanno nuovi Re, nuovi cuori da trapassare, nuove carte di spade, nuovo denaro, nuove regine a cui rimane una spada da trascinare. — _Dio._ — Maestà, per tante volte ho sentito qui dentro pronunziare una parola, mi volsi e non potei vedere.... — Una parola? — Sì: _Dio_. — Oh! Non ci badate, io ci ho fatto tanto l'abitudine che non me ne accorgo quasi più. Venite, guardate, è il mio pappagallo, è qui alla finestra nella stanza vicina, venite. Vedete come è bello? Io non riuscii ad insegnargli una cosa soltanto, nulla volle imparare, ritenne solo questa parola che udì chi sa come.... e la ripete sempre. È strano non è vero? Egli dice una grande parola, e non può capirne il significato, che volete, povera bestiola, che sappia lui che è Dio! — Voi lo sapete invece? — E come? Certamente. Chi non lo sa? Dio! Ma Dio è.... Dio! Tutti bene lo sappiamo noi, ma lui.... Ora mi farete compagnia per la mia passeggiata quotidiana dentro il parco reale. A momenti è per calare il sole, la vettura già attende, è l'ora, venite. — Maestà! Tutte quelle regine che voi ponevate in disparte colla carta di spade.... le regine dei re morti.... nel fondo della tavola.... — Eccole, sono in fondo del parco reale. Guardatele camminare, come pesantemente trascinano il loro manto di lutto! Guardatele come sono tutte velate, dall'involucro nero solo il pallore del volto ne risalta. Nella destra hanno la spada. — E sempre si aggirano qui? — Vivono in questo parco ombroso e umido, cimitero delle viventi, restano sempre fuori vaganti, dentro la cancellata che le chiude. — E non si divorano esse l'una con l'altra? — E perchè? Non sono tutte uguali là dentro? Non furono tutte Regine uguali? Non hanno tutte un manto uguale, un ugual velo? Me sola divorano cogli occhi, e cennano guardandomi l'entrata del cancello. Domani quella porta si aprirà un'altra volta forse.... Ogni sera la Regina le viene a visitare sul tramonto del sole. Ve ne sono là dentro delle giovani e delle vecchie anche. Regina Cleofe c'è da cinquantanni, è la più vecchia. — Odiano o amano? — Odiano la Regina senza spada, amano la loro memoria, trascinano la spada che trafisse il cuore del loro Re. Che cosa vi sembrarono signor Perelà? — Mi sembrarono.... una enorme gabbia piena di grossi merli ai quali sieno state impeciate le ali. IL BALLO — Ma come è stato bello! — Bello, bello, bello! — Che cosa? — Bella, il corteo. — Buona sera mia cara. — Buona sera. — Buona sera Gelasia. — Non ti do un bacio perchè ti lascerei un segno. — _Adieu mon ange._ — Buona sera Nadina. — Tu già qui? — Benvenuta. — C'è Zoe? — Non è ancora arrivata. — Era nella seconda carrozza. — Ma bello! Bello! Bello! — Sapete? Io non sono riuscita a trovar posto nelle vetture, in nessuna, ho dovuto da una vettura di piazza farmi condurre da mia cugina Corilla, per vedere qualche cosa dalle sue finestre, sono passati di sotto due volte, quando è stato proprio sotto a me, ero tanto commossa, non sapendo cosa fare mi sono tolta dal seno due garofani rossi e glie li ho gettati, lui ha sollevato la testa facendomi il più garbato saluto, tutto per me, capite? Mi sono sentita serrare la gola, ho pianto, ho pianto capite? — Io lo avrei abbracciato! — Che festa imponente! — Come l'incoronazione del Re. — Davvero. — Ma la curiosità della gente! — Favolosa! Favolosa! — E lui che contegno! — Che disinvoltura! — Da Re! — Diciamolo qui fra noi, da vero Re. — Io avevo sempre paura di una qualche fucilata. — Ma che! È amato sai, è stimato da tutti! — Lui, in piedi nella sua vettura, salutava con un garbo.... con un garbo.... Dio Dio Dio! — Affascinante! — _Quel charme_! — Ma avete veduto quando le fanciulle gli hanno gettato i fiori? — Che bei sorrisi gli hanno rivolto! — Scarlatti. — E lui col suo sorriso grigio.... — Vero? — Io credevo che gli avessero tirato una qualche sconcerìa. — Ma tu pensi sempre a male mia cara. — Oh! Ricordi Iba? — Iba! che cosa c'entra Iba? Vorresti fare dei confronti fra il signor Perelà e Iba? — Io stimo Iba assai assai di più. — Perchè tu sei una sciocca! — Una cattiva! — Dispettosa! — Insolente! — Eppoi perchè ti sei impuntata a far l'eccezionale, credendo che tutti si occupino di te. Hai sbagliato sai, cara bambina, abbiamo di meglio, molto di meglio da occuparci. — Com'è sconcertante! — Se fossi in Perelà le riempirei tutti i polmoni di fumo per asfissiarla. — Odiosa! — Ma dimmi una cosa, se veramente gli avessero tirato una fucilata.... — Già, era quello che pensavo ancora io, gli avrebbe fatto del danno? — Ma forse no.... perchè essendo di fumo.... — Già.... essendo di fumo, la palla sarebbe uscita fuori.... — Ed avrebbe magari colpito qualche altro. — Probabilmente. — Per carità c'era accanto mio marito. — Ma non pensarci mia cara, lo amano. Io ho udito i crocchi della gente per le vie! Lo adorano! Diciamolo qui fra noi, vorrebbe il Re essere amato così. — Il bello è che oramai tutti ci credono. — Tutti sapete! — Già perchè molti prima dubitavano. — A sentir dire che era di fumo.... — Ma ora che lo hanno veduto.... — Naturale. — Tutti, tutti lo amano, non c'è che quella stupida di Nadina che gli fa la guerra. — Chi sa perchè. — Ma lei lo fa perchè ci si occupi di lei, non lo sapete come è fatta quella donna? — Noi facciamo conto di nulla, vedrete come rimane male. — La sciocchina! — A momenti sarà qui. — Lo portavano sino alle ultime case del borgo sapete? — Anche i contadini hanno illuminato le loro finestre. — Io non potrò mai dimenticare il frontone di porta Calleio, con tutti quei lampioncini celesti, e in mezzo in lampioncini grigi scritto: _Perelà_. — Già perchè lui quando venne in città entrò per porta Calleio. — Ah! Sì? — Sì, non lo sapevi? Entrò per porta Calleio, per questo ci hanno scritto il suo nome. Da oggi non è più porta Calleio, ma porta Perelà. — Sapete che cosa dicono in anticamera? — Che cosa? — Dicono che questa sarà l'ultima volta che lo potremo avere così fra noi. — Perchè? — Perchè? — Perchè? — Perchè deve ritirarsi per meditare il Codice. — Oh! Dio mio, non ci mancava che il Codice! — Ora che abbiamo trovato un uomo tanto carino ce lo toglieranno per una delle loro solite stupidaggini. — Ma è importante sapete, è importante, è il nuovo Codice! — Glie lo hanno affidato definitivamente? — Altro! Il Re e il ministro metteranno le firme sotto quella di Perelà, essi non potranno replicare sopra uno solo degli articoli ch'egli avrà dettato. — E come farà per mettersi al corrente? — Al corrente di che? — Cosa vorrebbe dire? — In certe cose mi sembra tanto ingenuo.... — Non è ingenuo sai, è che non ha ancora preso la pratica della nostra vita. — Ingenuo! La pratica! Non vuole sprecare il suo fiato per voi, ecco che cos'è. — Ed ora si ritira a meditare. Il Codice dovrà cominciarlo dentro l'anno. — Sai che cosa dobbiamo fare? — Che? — Dobbiamo incominciare da stasera a non perderlo un momento di vista. — Per fare? — Ma ti pare? Noi possiamo esercitare una grande influenza su di lui. Se vogliamo andare al parlamento! — E come? — Se egli si innamorasse perdutamente di una di noi? — Ma gli è che non può innamorarsi. — Ma se s'innamorasse? — Sì. — Noi possiamo conciarlo in modo da fargli scrivere tutto quello che vogliamo. — È vero. — Eppoi, non detta? — Già, è vero. — Lo facciamo dettare a noi, dica pure tutto quello che vuole, noi scriviamo quello che vogliamo noi. — È vero. — Capisci? — Naturalmente. — Ma il guaio è che lui non può amare, non sente, non dorme, non mangia, non fa nulla quel benedetto uomo. — È indifferente a tutto. — È di fumo.... — Ma come si fa ad essere così insensibile? — Hanno detto che la Catulva darà una recita in onore di Perelà. — _La signora Dalle Camelie._ — Ed Enos Copertino suonerà negli _entr'actes_. — Ti piace la mia tolettina? — Molto, molto carina. Quelle tre rose lì sono indovinatissime. E il mio abitino è carino? — _Un rêve._ — Molto semplice. — Ma ti fa così carina.... quindici anni! — La metà allora. — Solamente? — _Tu es méchante!_ — Hai veduto Giorgio? — Com'è puntuale eh? — Gli ho imposto di giungere qui dieci minuti prima di me. — Perchè? — Non ti sei accorta quando entra che io già sono nella sala? — Non ci ho mai guardato. — È uno scandalo. — Ci guarderò. — Se ne accorgono tutti. — E con Federico poi come siete? — Non me ne parlare! Mi hanno fatto impazzire sai, morire! — Che mi dici! — Giorgio voleva sfidarlo. — Ebbene? — Non ho voluto. — Perchè? — Ma ti pare! E se mi si ammazzano davvero? Ne ho bisogno ve', di tutte e due. — Hai ragione. — Ma Giorgio è un fanciullo, un ragazzo da schiaffi ecco tutto! — Che cattiva mammina! _Pe.... perepe.... pepepe. Pe.... perepe.... perepe.... pepe!_ — Ah! — Eccoli! Eccoli! — Eccoli! — Giungono! — Arrivano! — La vettura entra nel cortile! — Dio! Dio! — Evviva! Evviva! — Evviva! Perelà! — Perelà! Perelà! — Evviva! — Bello! Bello! — Evviva il grande Perelà! — L'unico Perelà! — Dio! Dio! — Evviva! Evviva! — Bravo! Evviva! — Che emozione! — Evviva! — Silenzio! — Facciano silenzio! — Come è commosso! — Silenzio! — Parla il Ministro! — Dio mio! — Silenzio! «Gentili dame, illustri cavalieri qui adunati, io ho l'altissimo onore di annunziarvi, che dietro proposta del Consiglio, con Reale conferma, ed approvazione dell'eminentissimo nostro Cardinale Arcivescovo, l'opera del nuovo Codice per il nostro amato paese viene affidata totalmente a questa sapiente, a questa superiore, a questa eccezionale sovrumana creatura che è Perelà. Quale uomo di deboli carni e di fragili sensi potrebbe assumere tale opera senza la tema di cadere in quelle inevitabili parzialità che inconsciamente ci vengono dettate dal nostro sangue, dalle nostre opinioni, dal nostro interesse, dal nostro partito? Quale uomo potrebbe assumere questa immensa impresa sicuro di dimenticare di essere anch'egli un uomo e di avere anch'egli da uomo gli stessi interessi di tutti coloro per i quali il Codice viene dettato? Egli non è un uomo, o meglio, è l'uomo su cui il fuoco passò, purificatore supremo a interrompere, ad annientare l'egoistico lavoro di tutti i sensi». — Bravo! — Bene! «Non è egli la sublimazione del corpo e dello spirito umano? Non viene egli quasi a darci la prova di altri destini, di un'altra vita, vita e destini, nei quali gli umani egoismi, gli umani traffici non hanno più la loro parola? Non dobbiamo noi ringraziare la sorte di avercelo fatto capitare in questo momento appunto quando dovevamo imparzialmente pesare la nostra coscienza, per costituire un grado unico atto a pesare e giudicare la coscienza di tutti? E la sorte non ce lo inviò forse perchè noi le dovessimo questo grande, nuovo, immenso, favore? Noi ti ringraziamo, o benefica sorte, che al momento del dubbio volesti giungere in nostro soccorso. Noi ti ringraziamo, e ti giuriamo di saperci meritare il grande favore, di renderci degni del tuo inviato!» — Bravo! — Evviva il ministro! — Bene! «Egli, essere vitale, che della vita conosce i più riposti segreti, egli della vita non sente le comuni necessità, o ben poco le sente. Egli, essere di solo pensiero, di solo spirito, non isdegna ma accetta felicemente, di usare per noi tutto questo pensiero, tutto il nobile lavoro di questo spirito». — Bravo! — Evviva Perelà! — Evviva il ministro! «Da lui non possiamo attendere che opera di purità e di equilibrio, opera di sociale suprema giustizia». — Bene! — Bravo! «Un'apposita commissione sarà nominata per accompagnare il signor Perelà dove egli crederà opportuno. Egli potrà visitare i più riposti cantoni della nostra terra, esplorare, ordinare, interrogare, poi si ritirerà ad un periodo di profonda meditazione ed intraprenderà la sua colossale opera». — Evviva! — Evviva Perelà! — Evviva il ministro! — Evviva il nuovo Codice! — Evviva il Codice di Perelà! — Viva! Viva! — Come siete stato carino! — Io ero nella seconda carrozza, non m'avete veduta? Guardate, alle fanciulle sono avanzate alcune rose, e le hanno gettate a me. Eccole. Non m'avete veduta? — M'avete veduta vero alla finestra di mia cugina? Sì vero? Come m'avete sorriso bene! Sapete che ho pianto, ho pianto dalla grande commozione. Non ne potevo più. — E così.... da domani avrete anche voi da occuparvi dei vostri affari. — Hanno dato un'occupazione anche a lui questi signori uomini occupatissimi. — Hanno fatto per togliercelo. — Era l'unico uomo sul quale si poteva contare.. — E loro.... niente! Porci! — Ma quanta gente! — Dio mio! — Io incomincio a sudare. — Fa un caldo.... — _Quelle chaleur!_ — Io non ho mai veduto la reggia in confusione come stasera. — Sai cosa credo? — Che cosa? — Si devono essere introdotti anche molti non invitati, si vedono certe facce.... — Naturalmente, di queste confusioni c'è sempre chi ne approfitta. — Guardate! Guardate! — Oliva! — Oliva! — La marchesa di Bellonda! — Uh! — In grigio! — In grigio fumo! — Ah! Ha avuto il lampo geniale. — Per l'appunto lei che non risalta mai a nessuna festa. — Come è carina stasera! — Come ha fatto? — Che bella idea! — Io ho la _toilette_ grigia.... — Ma è fiammante la sua, come può aver fatto? — Sapete? Le sarte sono state a casa sua tutta la notte e tutt'oggi per compirla, il salone era ridotto un laboratorio. La _toilette_ è stata ultimata dieci minuti or sono, vedete come è giunta in ritardo? — Come le sta bene! — A momenti può competere con Zoe. — Stasera Zoe sta male con quell'abito rosso. — Ma tu sai com'è fatta quella donna, purchè non si perda un grado delle sue curve sciupa tutte le _toilettes_ del mondo. — Ma Oliva! Oliva! — Io ho un magnifico _boa_ grigio fumo appunto. — Ma non si portano più. — Non vuol dire, stasera era il caso di ritirarlo fuori. — Io ho la _toilette_ grigia ma è tanto _fané_, l'ho portata tutta la stagione l'anno passato. — Sai cosa ho pensato? Mi fo fare un cappello come una ciminiera, e di sopra ci fo uscire tanti sbuffi di penne grige, come se fosse fumo. — Brava. — Io ritiro fuori il mio _boa_. — Per la serata della Catulva voglio avere il cappello assolutamente. — Guarda guarda, va da Perelà. — Come la saluta gentile lui! — L'ha presa a braccio. — La coppia di fumo! — Carini! — Ma davvero! — Come stanno bene insieme! — Lei colla sua facciona rosea sembra una rosa in in una nube. — Ma è truccata sapete, è tutta tinta! — Sì è vero? — Oh! Sfido io, è sempre verde. — Come sono carini! — Ma guarda per l'appunto chi doveva avere l'idea geniale per stasera. — Come sei deliziosa mia cara Oliva. — Si? — Ma davvero, hai anche altri occhi stasera. — Un altro sorriso.... sembri un'altra donna. — Ma che cosa hai fatto? — Che idea squisita hai avuto. — A nessuna era venuto in mente. — Per l'appunto stasera in grigio non ci sei che te. — Colore d'occasione. — Non ho fatto per me sapete, oh! no, ma per rendere a lui questo piccolo omaggio. Io non ho inventato nulla, ho copiato lui, lui.... il suo colore. E se qualcuna vorrà fare altrettanto sarà sicura di non avere imitato me, ma lui, lui.... per rendergli omaggio. — Hai fatto benone! — Brava. — Davvero. — Avete sentito? — Come parlava! Con che estasi! — Ma è ammattita? — Ammattita? È innamorata! — Quel suo cuore.... ch'ella sempre cercava. — È quello di Perelà. — Un cuore di fumo? — Sfido che non lo poteva trovare! — Come stai? — Così. — Hai una faccia trasparente. — È la morfina. — Sciagurata! — Lo so. — Fanne a meno. — Sei punture questa notte. — È una follìa. — Lo so. — Pensa a Perelà. — Perelà.... — Ciao amico. — Vi saluto. — Che cosa fate? — Io? Nulla. E voi? — Sto contando quante sedie ci sono. Alle feste io faccio sempre questo mestiere, conto le sedie. Generalmente ce ne sono tante quanti sono gl'invitati meno uno. Nessuno si siede, vedete? Tutti si credono destinati al posto che manca, e quando tornano a casa dicono che sono stanchi. — Manca una sedia a questo ballo? — Credo di sì. — La mia, io non mi seggo. — Ah! già, è vero avete ragione, non ci avevo pensato. Voi avete perfezionato anche le feste da ballo. — Delicata figura! — Mesto sorriso della natura! — _Mignonne créature._ — Ditemi sinceramente signor Perelà, siete voi davvero come tutti gli altri uomini? — Certamente illustrissima signora. — Ah! Certe cose, di fumo.... come vi disprezzo! — Dorme ritto e non si stanca. — Hai veduto i baffi di Perelà come sono arricciati? — Sembrano un capriccio di sigaretta. — Geniale. — Geniale. — Che cosa sono mai queste nostre carni puzzolenti? — Volevo fare un giro con lui, non balla. — Ti pare? Pensa già al Codice. Quegli stupidi ce lo hanno rovinato! — E incomincierà quanto prima a darsi delle arie anche lui. — È inevitabile. — Tre madri! — E.... quanti padri? — Che uomo insulso! — Il culino degli uccelli. — Sapete che cosa mi ha detto Perelà? — Che? — Che cosa? — Mi ha detto: voi mi sembrate tanto, tanto leggera! Quasi più di me. — Carino! — Io non so che cos'abbia negli occhi quell'uomo, non riesco a guardarlo fisso. — Turba. — È vero, è la parola, la vera parola, turba, turba. — Turba. — Ma è veramente un uomo sapete, un uomo come tutti gli altri. — Un uomo? È l'uomo vorrai dire mia cara, l'uomo. — Quale? Quello che cercava Diogene? — Naturalmente. — Ditemi un poco: quando si era veduto prima di stasera, alle feste della corte intervenire con un paio di stivali da caccia o da cavalcata? — Sono tanto belli! — Gli stanno d'incanto! — Eppoi così lucidi. — Oh! non ci mancherebbe proprio altro che non fossero nemmeno puliti. — Per me lo prenderei colle scarpe ricoperte di fango. — Non dubitate, di fango egli ne trascina ugualmente colle scarpe pulite! Chi è? Di dove viene? Quale nome è il suo? — Sì sì, come vuoi, tutto quello che vuoi purchè tu non ci secchi. — Hai perfettamente ragione, sei padrona di pensare a modo tuo ma lasciaci in pace. — Antipatica! — Io mi sento venire l'istinto di accecarla! — Risolverà? — Certamente si, risolverà. — Già. — Dopo Cristo, è Perelà. — _Olì olì olà._ — Già già. — Vedete tutti questi esseri dai colori delicati? Non vi sembrano tanti piccoli angioli? Così ricoperti di fiori.... di veli.... di gemme.... Ebbene, sappiate, ognuna di quelle gemme ch'esse portano indosso, ognuna, è l'occhio di un delitto! Io dico loro sempre: trappole d'uova umane! Loro pigliano su e insaccano perchè hanno paura che gli dica di peggio. — Signor Perelà voi non dovete stare con quell'individuo, assolutamente, non è l'amico che ci vuole per voi. Stasera è già la seconda volta che vi ci vedo parlare. È un cattivo soggetto sapete! Tutti se ne lagnano, tutti ne riconoscono la perversità, ma nessuno si vuol decidere a cacciarlo dalla società. Lui dice che è un filosofo, non gli date retta, è una linguaccia, è un cattivo soggetto! Dice di noi cose infami che non sono vere, perchè è brutto e schifoso e nessuna di noi lo ha mai degnato di uno sguardo. E noi dobbiamo sopportare tutte le sue sconcezze per paura che ce ne dica delle peggiori. — La legge c'è, gli è che nessuno la rispetta. — Già. — Risolverà? — Olì olì olà. — Ma dite un poco. — Cosa c'è seccatura? — Nessuno si è accorto che quell'uomo obbrobrioso è qui da quasi due ore e non si è levato ancora il cappello? — Nadina mia come sei stata profonda questa volta! — Che cosa? — Che vi ha detto? — Dice che il signor Perelà non si è levato il cappello. — Stupida! — Ma non lo sai che non se lo può levare? Perchè è di fumo anche il cappello? — Ma lasciatela dire, è bene che dica delle stupidaggini, così se ne accorgeranno tutti che donna è. — Il Re! — Il Re! — Sua Maestà! — Viva, viva! — Evviva il Re! — Evviva il nostro Re! — Evviva Torlindao! — La Regina! — La Regina! — Evviva! Evviva! — Evviva la Regina! — Viva! Viva! — La Regina ha sorriso a Perelà. — Come gli ha sorriso bene! — Dolcemente. — Attraverso un velo di mestizia. Perelà non ha veduto il Re. — Ma è vero signor Perelà che voi non avete veduto il Re? — No, illustrissima signora. — Era quello solo in seconda fila. Venivano prima i due gentiluomini di corte, dopo lui, subito dietro mio marito.... — Quello che aveva la fusciacca gialla era vostro marito? — No, era il Re, mio marito aveva la fusciacca verde. Sentite sentite, Perelà ha creduto che il Re fosse mio marito! — Non ha veduto il Re! — Avete però veduto come la Regina vi ha sorriso. — Chi non vi sorride! — _Olì olì olà._ — Già. — Amico, è vero che non avete veduto il Re? — No mio caro. — Non l'ho veduto nemmeno io. Come si fa a vederlo, passa fra tanta gente, entra da una porta e prima che sia possibile esce dall'altra.... Da quale? Non si sa. Da quale porta entra il Re? Da quale esce? Mistero. Oggi è questa, domani è quella là, dopo domani voi credete che cambi ancora, niente affatto, esce ancora per la medesima. — Ma può egli temere qui, nella sua casa? — Nella sua casa! E la chiamate sua, una casa di questo genere? E la chiamate una casa, questa? Mio caro! non si sa mai che una di queste gentili dame non gli faccia annusare qualche mazzolino. Basterebbe che s'intrattenesse pochi momenti al _buffet_. Al pranzo di corte il Re non mangia mai, preferisce intrattenere il gentiluomo di destra o quello di sinistra, e lo manda via colla fame in corpo, così lui ha mangiato prima, l'altro, povero diavolo, va a mangiare dopo, e questo è il pranzo di corte. — Sono aperte le sale del _buffet_. — Perelà! Perelà! — Dov'è Perelà? — Venite a prendere un rinfresco. — Oliva! Oliva! — Tu dai il braccio a Perelà. — Come sono carini! — La coppia di fumo! — Evviva il fumo! — E fumo sia! — Qua, date a me la prima bottiglia! — _Pha!_ — Qua, qua! — _Pha!_ — Alla salute di Perelà! — _Pha!_ _Pha!_ — Viva Perelà! — _Pha!_ — Viva il ministro! — _Pha!_ — Viva Torlindao! — _Pha!_ _Pha!_ — Viva la Regina! — _Pha!_ _Pha!_ _Pha!_ — Viva il nuovo Codice! — _Pha!_ — Evviva il Codice di Perelà — _Pha!_ VISITA A SUOR MARIANNINA FONTE SUOR COLOMBA MEZZERINO... Una vettura attende nel cortile centrale della reggia. Perelà seguito da tre gentiluomini si reca oggi al suo primo giro d'ispezione. _«Perelà, Signore._ _Ispettore generale dello stato, riformatore: degli uomini, delle cose, e delle istituzioni. Con pieni poteri esecutivi, materiali e spirituali... et ultra»._ Così parla la tessera che gli è stata consegnata e che porta la firma di Re Torlindao e del ministro, e della quale se ne vede uscire un pezzettino dalla cima dello stivale della gamba sinistra come il petalo di una rosa. Mentre egli sta per prendere posto nella carrozza gli si avvicina Alloro, il vecchio domestico, e gli consegna, senza esser veduto, una lettera. Perelà e i gentiluomini partono, Alloro rimane fermo, incantato dietro la vettura, col suo sorriso luminoso di ammirazione e di devozione. Egli ripete sempre fra sè queste parole: «_Come ha egli fatto? Come ha potuto fare? Di fumo!_». «Vi ricordate di me signor Perelà? Io sono la marchesa Oliva di Bellonda. Vi ricordate pochi giorni or sono quando vi ho parlato della mia povera anima insieme colle mie amiche? Esse mi interruppero allora e protestarono alle giuste parole di sconforto. Non faccio a loro nessuna colpa badate, non per cattiveria respinsero la mia desolazione, ma perchè esse vivono illuse di amare, o di avere amato. Io sono quella.... che non amò, vi ricordate? Ho cercato allora per voi di adornare le mie parole, e, come le mie buone amiche forse vi ho parlato con troppa ricercatezza. Io vi ho detto: ognuno di noi nascendo porta in sè il cuore di un'altra persona, una fanciulla ha il cuore di un giovane, un giovane ha quello di una fanciulla.... ricordate? Questo forse è anche vero. Pensate allora, pensate all'orribile difficoltà di incontrarla nella nostra fuggevole vita quella persona. Questo è vero, questo cuore oramai inutile noi lo portiamo tutti addosso, questo pezzo di roba molle che diviene nel nostro seno giorno per giorno una spugna carica di lacrime, è forse la tragedia che inconsapevolmente trasciniamo, questo potrà anche essere vero, ma oggi io non vi parlo più a quel modo, oggi io vi parlo in un'altra maniera, e con tutta la mia semplicità vi dico: io non amai perchè fino ad ora non avevo trovato l'uomo da potere amare, eppoi oggi non vi saprei più parlare a quel modo, due giorni fa io era infelice ora non lo sono più: vi amo. Mi hanno detto che voi non mangiate, che voi non bevete, che voi non dormite, che voi non fate nulla, che nulla è lecito sperare da voi, ebbene.... io sono come voi, da venerdì, quando vi ho veduto, non ho fatto più nulla nemmeno io, non ho fatto che pensare a voi. Voi avete trentatrè anni non è vero? Come me, anch'io ho trentatrè anni. Trentatrè anni or sono foste messo lassù, nel vostro camino, appunto quando io nasceva. Se aveste continuato a vivere allora, avreste ora sessantasei anni non è vero? il doppio di me. Sareste.... un vecchio.... un uomo vicino a morire.... forse.... forse sareste.... oh! no, Dio mio, no.... già morto, invece no, no, no! voi siete ancora giovane, e un bel giovane, giovane come me; e come me rinnovato alla vita, nuovo all'amore! Una sola cosa io vi domando in cambio di tutto il mio amore, una parola soltanto, ditemi che la mia non è una follìa, ma voi andaste lassù ad aspettarmi! A metà del cammino vi siete fermato per aspettarmi, per darmi tempo affinchè vi potessi raggiungere; io ero tanto lontana da voi, e correvo.... ansavo.... Dio.... morivo, senza speranza di poter giungere a portarvi tutto quello che di vostro avevo, ma.... voi siete stato tanto buono con me.... mi avete aspettata.... ed io eccomi.... ora.... vi ho raggiunto! L'espressione purissima del vostro viso mi è dinanzi: io sono di fumo essa mi dice, ah! e credete che questa sia la barriera che fermerà il passo alla marchesa Oliva Di Bellonda? Credete che io vi ripeterò alcuna di quelle osservazioni che le mie amiche vi fecero sopra la vostra natura? Ma che cosa me ne importa a me? Voi siete di fumo? Benissimo, anch'io sono di fumo, vi amo, e chi ama nulla ha da dimandare, chi ama deve sempre e solamente dare, dare! Dimandare vuol dire: amarsi, non vuol dire: amare! Ora il mio amore è fiorito! se la pioggia dei suoi petali caldi può riuscirvi gradita sopra la bella fronte, e giù giù per tutta la delicata persona, se proprio non vi dispiaceranno i miei petali amorosi.... se non li ricuserete.... ebbene sappiate che il mio cuore è un mondo per voi, tutto di giardini! Non mi dovete rispondere, non mi dovrete dire mai se mi avrete amata, questo non è quello che io voglio, perchè io vi amerei se mi odiaste, vi amerei se vi fossi indifferente, vi amerei se mi amaste! Vi ho scritto per una sola ragione: quella donna che vi fece udire i suoi lamenti, che vi mostrò la sua faccia addolorata, che vi disse che era infelice, oggi non parla più a quel modo, non si lamenta più, ha un'altra faccia, la sua bocca ha trovato il suo sorriso, il suo cuore la gioia, quella donna è felice, ed è giusto che voi ne sappiate la ragione». — Ecco suor Mariannina Fonte penitente. — Quante volte peccaste suora Fonte? — Un dì tre volte, signor Perelà. — Ed ora voi dimandate sempre perdono del vostro peccato? — Ogni dì tre volte. — Ed ecco suor Colomba Mezzerino. — Penitente? — Peccatrice ella non è, signor Perelà, suor Colomba portò qui il fiore della sua purezza e lo conserva, ella prega per i peccatori. — Vi sono dunque due specie di persone, quelle che dimandano perdono dei propri peccati e quelle che implorano per i peccati altrui? — Ed un'altra specie signor Perelà, quelle persone che peccano solamente. Per quelle suor Colomba eletta prega. Andate andate suor Colomba ad implorare per quelle persone. Io vi conduco per il monastero signor Perelà, passate, passate. ALA — Gli uomini muoiono nel peggior momento della loro vita, o è la morte il peggior momento della loro vita? — La morte è quel momento nel quale gli uomini anelano alla vita di più. Essa non è che la porta della vita, ma alla soglia di essa rimangono abbruciati dal suo calore. — Se uno di questi potesse ridestarsi potrebbe allora dirvi che sia la vita, il suo mistero. E forse domanderebbe a voi che sia la morte. Forse. — Io udii talvolta parlare di uomini ritornati in vita dopo essere morti. — I colpiti dal sonno della sincope. Essi non seppero però che fosse quel supremo momento, furono arrestati a un passo da quella soglia e non ne sentirono che una prima vampata che li lasciò solamente privi di sensi. Quando essi morirono veramente allora poterono sentirne tutta la forza. Vi era un tempo una piccola mondana la quale nel momento supremo dell'amore soccombeva come affogando. Dalla sua gola si partivano degli ingorghi violenti in un _glu glu glu glu_ precisamente come di una gola che si riempe immergendosi nell'acqua. Rimaneva al fondo appoggiata, la piccina, per ben quindici minuti senza più dar segno di vita. Dipoi ella ritornava sempre a galla fresca e gaia come prima. Tutti volevano provarla, e la chiamavano la cocotte palombara. Ed ecco Ala, la portinaia del cimitero. Affondata in una poltrona la vecchia custode non perde mai d'occhio la soglia. La sua faccia avvolta in una pezzuola oscura sembra una noce molto secca dentro il suo mezzo guscio. — Questa donna, vedete, nessuno sa quando sia nata, essa stessa è immemore del tempo. Si crede ch'ella abbia più di trecento anni. — E come ha potuto resistere così? — Voi sapete, signor Perelà, che la morte si serve di una falce per raccogliere le erbe dalla terra e trasportarle nel suo fienile qua dentro, ebbene, quando ella vi giunge carica della sua fascina non un istante riposa, ma colla massima fretta posa, e fugge ancora al lavoro. È tale la sua fretta nell'uscire di qui, che giunta alla soglia fa come un piccolo salto celerissimo e la sua lama non tocca mai la terra per raccogliere questo filo. IL PRATO DELL'AMORE — Signor Perelà, ecco il prato dell'amore. — Si amano tutti costoro? — Uno ama ed uno si lascia amare, di tutte quelle picce di cuori, quello che ama è certo di essere amato, quello che si lascia amare è certo di amare. È il dolce inganno questo. — E se tutti e due si amassero? — Il loro amore non esisterebbe, esisterebbe solo l'amore di ognuno, essi camminerebbero come due linee parallele e non s'incontrerebbero mai. — E se nessuno dei due si amasse? — Non verrebbero qui. — E il loro amore dove li conduce? — In nessun luogo, forse in una camera mobiliata. Si estende là in mezzo alla valle il gran prato rotondo, è circondato da un viale e lo fiancheggiano due magnifici filari di ippocastani accoppiati. Là in mezzo, là sotto, vanno, vengono, s'incontrano, s'incrociano senza guardarsi fra loro, a centinaia le coppie di amanti, vanno, vengono, sostano, stretti l'uno all'altro, annodati, colle teste vicine, sussurrano, sorridono, si sfiorano, si stringono, si guardano, si bevono.... si asciugano. Nessuno pone attenzione a quello che gli succede attorno, ed ogni due occhi non ne sanno vedere che altri due. Fanciulle che torcono fra le mani rami di rose, fanciulle appena in boccio, esse sorridono mentre l'amante parla, e tacciono, ascoltano rapite, e quando si sentono troppo penetrate dagli occhi di lui abbassano i loro, e torturano quel ramo di rose, lo ritorcono. Donne mature, quasi vecchie, passeggiano con un giovane, quasi un fanciullo, esse incalzano le loro parole e spingono i loro occhi a punta di angolo acutissimo verso quel cuore, come un pugnale arabo. Allora è lui che abbassa il guardo, e continua il cammino con un sorriso pensieroso. — Ma ditemi, che cosa si dicono tutti costoro? — Parlano il linguaggio dell'amore. Voi potete supporre che i più brillanti e svariati argomenti siano trattati da quella brava gente. Ebbene, nessun argomento; uno solo, e il loro repertorio può giungere fino a venti o venticinque frasi uguali per tutti, taluno ne ha appena disponibili quattro o cinque, e compone la propria eloquenza di un silenzio rotto qua e là dai più ebeti monosillabi. — L'amore non abbisogna di parole, esso vive come le grandi opere della natura, quelle cose che gli uomini chiamano mute perchè il loro linguaggio non lo capiscono. — Forse. Dal centro del prato in fondo si allunga un viale morbido erboso fiancheggiato di pioppi, i quali col sole riflettono sull'erba del viale, e sembra di cavalcare sulla schiena di una zebra, e le coppie vanno e vengono e s'incrociano sulle ombre dei lunghi pioppi, e sembra allora di cavalcare la schiena di una tigre. E si passa, si va, si viene senza essere osservati nel brulichìo di queste coppie.... — Pensano costoro? — Neanche, la vita dell'uno si riversa in quella dell'altro per modo che nessuno vive più la propria vita ma quella dell'amore. Quando si è giunti al limite del viale e lo si vede lungo steso dinanzi, s'apre in fondo, quasi vi fosse appeso, il grande prato rotondo. E le coppie lentamente si muovono in un dolce ondeggiamento di culla, sembra ora che i pioppi si sieno avvicinati fra loro e si bacino, e anche gl'ippocastani nel fondo camminano due a due torno torno al viale abbracciati, lentamente come in un dolce sopore di vertigine tutto si muove ad un tratto, soave ondeggiamento di culla, in oscillazioni uguali, la lunga asta del viale e il disco del prato là in fondo.... il pendolo! L'immenso pendolo alto sul mondo che segna agli uomini gl'istanti.... — Signor Perelà l'ora è avanzata. — E tutti costoro rimangono? — Dopo il calare del sole voi vedreste le coppie sfilare, una ad una via dal prato, dirigersi alla città e via squagliarsi. Se ritornaste a buio appena fatto, e così a caso v'inoltraste nel prato, potreste udire qua e là dei gemiti lunghi, mal repressi.... — Qualcuno era rimasto? — Sì. Nell'oscurità della notte il pendolo va, va, va, va, nelle sue oscillazioni regolari, senza interruzione. IBA — Iba, signor Perelà. La cella è rischiarata da pochi raggi di luce che vengono su da una grata a terra, una di quelle buche dove alloggiano i piccioni nelle cattedrali. La porta, ermeticamente chiusa, ha un occhio di vetro dal quale si può osservare il prigioniero. Ma bisogna rimanere a lungo fissi, immersi nell'oscurità del tugurio prima di potervi distinguere. Poco a poco si avanzavano, come da una nube che si dilegua, i contorni di un involucro che solamente con molto stento si può riconoscere per un involucro umano. Ecco apparire un enorme naso bitorzoluto come tre grosse sorbe paonazze in un ruffello di lana. La faccia è tutta ricoperta da un vello oscuro, e cadono giù sulla fronte a nasconderla, grandi ciocche di capelli ispidi, si vedono in ultimo due punti neri lucenti immobili; gli occhi, che non si ricuoprono mai di palpebra ma che si restringono e si dilatano nel loro cerchio come sotto la potenza del calore. Moriva dieci anni or sono, non fu bene precisato se di colica naturale o procurata, moriva dunque re Gallo. Saprete che non si approfondiscono mai le indagini sopra la morte di un Re, il Re nuovo interrompe ogni ricerca, e se il colpevole fosse pure indiziato, quell'uomo può stare sicuro sopra ogni altro cittadino di essere il favorito nella grazia sovrana. Allo stato non rimaneva che dichiarare la bancarotta. Era la rovina e la vergogna. La dinastia ne usciva malconcia. Fu deciso allora per risolvere la tragica situazione, un estremo espediente: il cittadino più ricco che intendesse rovesciare fino all'ultima stilla le proprie sostanze nelle sacche vuote dello stato sarebbe stato il Re, chiunque si fosse. Era la mattina del contratto di Stato. I gentiluomini più ricchi del regno, i banchieri più cospicui erano nella sala del trono coll'inventario delle proprie ricchezze. Ognuno salendo lo scalone della reggia colle tasche rigonfie di oro ne scorgeva già in lontano la fusione, e si vedeva già ridiscenderla con una corona sulla fronte. La reggia presentava quel giorno un aspetto imponentissimo e insolito, tutte le guardie d'onore, le scorte in alta uniforme, i domestici nelle livree più smaglianti, facevano siepe all'ingresso e su per lo scalone e ai lati della sala del trono. Quel giorno il silenzio vi regnava pronto per l'unico rumore tintinnante dell'oro, perchè un pezzo soltanto non sfuggisse al conteggio. Chiunque poteva essere il Re, signor Perelà, chiunque volesse donare allo Stato sofferente, il suo oro, per risanarne le piaghe. Ecco avvicinarsi alla soglia della reggia, Iba, l'uomo che voi vedete laggiù nell'angolo oscuro. Iba, l'alcoolizzato, notissimo in città, il più famoso ubriacone, l'uomo a cui l'alcool aveva poco a poco ingrossata la lingua fino a impedirgli di parlare, il lazzo dei monelli nella strada e di tutti gli ubriaconi nelle più immonde bettole, l'uomo che la mattina i vigili raccoglievano per le vie come uno sconcio ammasso di lordure.... Sul momento si vuole impedirgli il passaggio ma l'uomo ha nelle braccia, uno per parte, due grossi sacchi, e quel giorno ogni cittadino godeva uguale diritto di entrata, tutti erano un po' il Re, come tutti i giuocatori sono un po' il vincitore della lotteria prima che i numeri vengano estratti. Iba si avanza barcollante, ma il peso dei sacchi serve quasi a tenerlo in equilibrio sulle gambe, e si regge meglio del solito, ma, come al solito, la sua capigliatura è sconciamente arruffata, lanosa, intrisa di polvere, di fango, di paglia, di tutto ciò ch'egli raccatta nei suoi notturni giacigli, che sono per lo più la via o i fossati. La barba bestiale gli ricuopre la faccia, il naso enorme e fungoso, violaceo, sembra debba spruzzare il sangue di cui è rigonfio, il suo riso sganasciato mostra due soli denti ai lati, e le sue vesti cadono a brandelli di fango e di lordura.... sale, sale su per lo scalone della reggia tra le file dei gallonati, il luccichìo delle decorazioni delle sciabole, i colori fiammanti delle uniformi delle livree, sale, sale fermandosi bene sopra ogni scalino con tutti e due i piedi per stabilirvisi prima di tentare l'ascensione allo scalino superiore. Quando giunge alla sala del trono, i gentiluomini si fanno tutti indietro d'un colpo in un oh!... oh!... oh!... prolungato, interrotto in tutti i toni, un oh!... di disgusto e di meraviglia, e non perchè quell'uomo sia lì, ma perchè lo abbiano lasciato entrare. Al salone del trono si forma una cornice nera di inappuntabili _redingotes_, tutti si sono scansati e si fanno indietro incorniciando di stupore il quadro, sembra un _presentat'arm_ a Iba che nel mezzo barcolla, ride.... guarda senza distinguere.... Quando egli è al centro della sala e lascia cader giù, pesantemente i due sacchi, nessuno rifiata più, torno torno è una fila di occhi che s'ingrossano.... l'uomo si lascia andare in terra disteso e con mosse infantili slega uno dei due sacchi e rovescia sul pavimento. Vengono gli astanti su di lui come attratti dall'esorbitare dei loro occhi, e senza più pensare al ribrezzo di quella lercia persona si stringono attorno all'alcoolizzato. I sacchi sono pieni di oro, di carta moneta, di gemme, denaro, denaro, denaro... pacchi di biglietti di banca, già tutti ben disposti e contati, sacchetti colmi di monete d'oro, di ben scelte fulgidissime gemme, un tesoro! Quello che Iba veniva a gettare ai piedi del trono per potervi salire, superava di molto quello di tutti i gentiluomini e di tutti i banchieri del regno. E l'uomo, carponi in terra, cacciava le mani nel suo tesoro come un fanciullo giuoca colla sabbia sulla spiaggia del mare; e via via che gli veniva tolto per essere contato e inventariato, alzava la testa orrenda, guardava e rideva, rideva il mostro. Nessuno seppe in quel momento trovare una parola. Rideva, rideva il lupo di mare, disteso in mezzo alla sala del trono, mostrando dal suo riso sganasciato i due soli denti bestiali ricoperti di un orribile strato verde. Dove aveva trovato il denaro? Il più vile degli straccioni, il più vilipeso di tutti gli uomini, che aveva rubato spesso qualche soldo per alimentare la sua arsione feroce di alcool, era lì con tutto quel denaro.... era venuto a farne donazione allo stato.... diveniva.... il Re! Era enorme! Dove lo aveva trovato? Rubato? Aveva forse scoperto il tesoro? Fu subito minutamente cercato in città, ma nulla, non fu possibile sul momento rinvenire una traccia. Nessuno era stato derubato, nessuno era stato assassinato.... dunque? E non era possibile rimandarlo, la legge era chiara: _chiunque si fosse_ non si poteva, non c'era via di scampo, quell'uomo diventava il Re. Bisognava incoronarlo. Come di legge, ventiquattro ore dopo Iba fu incoronato Re. La reggia si vuotò di tutti i gentiluomini, di quasi tutti i militi e domestici, rimasero alcuni vigili. La berlina dell'incoronazione era pronta nel cortile, e Iba vi saliva per presentarsi al popolo, al suo popolo, percorrendo le vie principali della città. A mezzogiorno in punto, fra lo scalpitare dei cavalli esce dalla reggia il nuovo Re. Ha nella destra alzata un bicchiere, e ride, il lupo di mare, ride, il suo sorriso estatico che sembra tenuto aperto dai due canini verdi come da due puntelli, e i suoi occhi sfolgorano, e la faccia vellosa immonda non è stata toccata per la circostanza, ha le vesti stracciate ricoperte di fango e d'immondizie, non ha indossato il manto regale, ha cinto la gemmata corona e vi è salito col suo bicchiere. La berlina dell'incoronazione, culla preziosissima di argento con fregi d'oro, è foderata di porpora, vi sono attaccati otto cavalli bardati in oro e con zoccoli d'oro, e la guidano quattro postiglioni in livrea di altissima solennità. Appena fuori, non urla, non fischi, le vie sono deserte, non un solo cittadino saluta il nuovo Re, da una ignota finestra parte intanto una fucilata ma a vuoto, e durante il percorso glie ne furono tirate almeno una ventina senza che nessuna lo potesse cogliere, una palla gli staccò nettamente uno di quei ricci lanosi fischiandogli sopra la testa, e lui impassibile, incolume, alto il braccio col bicchiere, alta la testa bestiale, e avanti ridendo. Ecco che una finestra cautamente si apre e ne viene giù un grosso involucro che va ad infrangersi proprio sulla testa del Re: merda! Allora, da tutte le finestre di tutte le case di tutta la città piovve su lui nelle più svariate maniere la stessa cosa! I postiglioni saltarono via, abbandonarono i cavalli per sottrarsi al getto, i cavalli incominciarono ad andare piano, colla testa bassa, come ad un convoglio funebre, come se lo sfregio li avesse irreparabilmente avviliti, e il convoglio continuò lentamente per le vie deserte, senza nessuna guida, sotto l'oscura bufera. Solamente il Re, impassibile sorrideva, ma il suo sorriso non si vedeva più, la bocca ne era piena, oramai, gli occhi.... tutto ne grondava, e il bicchiere ancora alto ne traboccava continuamente, e i cavalli, la berlina, tutto ne era ricolmo. Signor Perelà, non solo uomini, nè fu affidata una tale impresa ad apposite persone di servizio, ma i migliori gentiluomini della capitale lasciarono andare di propria mano il loro fardello, e si videro piccole mani bianche, delicate, sporgersi dalle finestre e gettare in fretta un loro fagottino ben confezionato di detta cosa. Dai tetti se ne rovesciavano recipienti enormi, non una persona rimase sulla via dell'intera città, il percorso dell'incoronazione del nuovo Re fu in breve un fiume così torbo, così torbo... come nessun fiume fu mai. Quando il convoglio reale rientrò così trionfalmente nella reggia, fino all'ultimo domestico, tutti erano fuggiti esterrefatti. Iba sale al trono e va a sedercisi sopra, le tracce ne furono gli unici testimoni. Le tappezzerie della sala del trono, la porpora della berlina reale che aveva servito a più di cento incoronazioni di re, fu dovuto tutto bruciare, la reggia inondata di acqua, e tutta la città allagata per alcuni giorni onde pulirla dall'incoronazione di questo Re. Nessuno osò aprire le proprie finestre per una settimana per l'esalazione orrenda. Iba fu solo nella reggia. Tutti intanto studiavano la maniera di risolvere la situazione e la maniera fu presto trovata. In una capanna dove Iba, nelle rarissime sere che ritrovava la via, andava a distendersi, in quell'oscuro e immondo cantuccio furono rinvenuti due sacchi di denaro e di gemme uguali a quelli ch'egli aveva portato il giorno del contratto. Il delitto non aveva bisogno nemmeno di processo «_fino all'ultima stilla_» diceva la legge, egli aveva sottratto metà del suo denaro, la condanna era a vita. Iba detronizzato, fu brevissimamente interrogato e rinchiuso: regnò quattro giorni. Il suo favoloso patrimonio rimase proprietà del paese, e con esso fu salvo e si potè dar nuovo corso nella dinastia. Come potè avere somme così enormi? Nel borgo dove agli abitava era morto in quei giorni uno di quei piccoli banchieri oscuri che fanno i loro affari nelle provincie, un vecchio ebreo d'oriente, ritenuto pieno di denaro che non fu trovato, dopo la sua morte, in possesso di un soldo solo. Avrebbe egli consegnato a Iba il denaro? O Iba capitando nella casa del misterioso uomo dopo la sua morte se ne sarebbe impossessato? Forse il vecchio strozzino anelava a divenir lui il Re, e vistosi alla fine volle vendicarsi della sua sorte mettendo la fortuna in quelle mani? O volle così rendere al bene di tutti il denaro che a tutti aveva poco a poco tanto disonestamente carpito? Iba non disse mai una sola parola. Ecco, signor Perelà, l'uomo che fu Re quattro giorni e che salvò la patria dalla rovina. Vedete, egli ha ai piedi un orciuolo colmo di vino. Lo Stato glie ne passa quanto ne può assorbire. E può giungere a cento litri nello spazio di ventiquattro ore. La cella è murata, il vino nell'orciuolo ci va per un condotto. Venite, guardate, questa è la botte che glie lo fornisce, questo vigile in alta uniforme ne è il custode. Il miglior vino delle nostre vigne è per lui, per questo Re prigioniero, è la grazia che il paese gli accorda. Forse egli è felice, affonda la sua pancia oscena nell'immondezza colla quale un giorno venne fatto Re. VILLA ROSA Un re.... assoluto, non si sa bene di dove. La Regina di Saba si veste per recarsi da Salomone, Messalina guarda con disprezzo il gladiatore addormentato, Nerone canticchia senza entusiasmo perchè Roma è già bruciata da un pezzo. Napoleone si accorge troppo tardi che il mondo è troppo grande, osservate com'ei si gratta la testa. Maria Stuarda piange la sua testa caduta e Elisabetta d'Inghilterra s'infuria vedendogliene un'altra. Luigi XIV, Federico Barbarossa, Cristoforo Colombo pone la barchetta nel bicchiere. Vedete quello che trafora quel pezzo di legno? È la testa dello Zar. Questo è un anarchico, costui spiega sempre di un certo suo congegno politico ma non si arriva mai a capirne una parola. — I religiosi, signor Perelà. Tre cardinali in conclave, qua ci dovrebbe essere la messa cantata. Ehi! Ehi! Ehi! Fate silenzio! — E tacciono sempre? — Purchè la voce sia molto robusta. Costei parla con Santa Caterina da Siena. Prendete prendete pure signor Perelà, se volete avere la bontà d'inginocchiarvi.... le ostie gli vengono fornite nuove tutte le mattine ed egli le conserva nel suo ciborio con tanta cura come in pochi altri, credo, vengano conservate. È il più buono, il più squisitamente gentile di tutti i ricoverati. Solamente passando dinanzi a lui non bisogna dimenticare l'atto cristiano. Osservate con quale espressione di dolcezza e di serenità egli vi guarda. Tutto il suo volto è composto al sorriso più candido. Se taluno passando in fretta non si ferma a prendere l'ostia ch'egli porge, il suo viso si fa doloroso, gli occhi affacciano due lagrime del più profondo dolore. Non rivolge mai la parola ad alcuno, e, interrogato, non risponde, la pace è in lui colla follìa, pare felice. La Veronica, essa rasciuga tutti i volti ma non vi accostate perchè il suo fazzoletto è bagnato. Di solito lo mantiene teso per dodici ore consecutive nella più assoluta immobilità. San Francesco d'Assisi fa la predica alla tartaruga, è la sola bestia che gli è rimasta fedele. San Pietro, le chiavi non le ha più perchè una volta ruppe la testa a un inserviente e gli furono tolte. La Maddalena, il Battista, badate badate, quel pentolo è pieno d'acqua, l'esperimento non è molto piacevole, se può arrivare non risparmia. Noi gli mettiamo sotto qualche volta la Maddalena, quando si lamenta troppo. Dio. Quei veli bianchi e neri ch'egli avvolge incessantemente attorno alla sua persona sono le nubi, attraverso a quel giuoco di danza egli guarda, appare, scompare. Quest'uomo si era figurato la divinità un'immensa pergola sopra la testa degli uomini. Da essa, dai suoi grappoli d'oro, scendeva su loro il liquore della divina clemenza. Un giorno egli intese dalla viva voce del suo vescovo dire che Dio era tremendo nella sua giustizia, e la sua mente ne uscì sconvolta, non vide più la beata pergola sopra di sè, ma si vide dinanzi un uomo come gli altri, con le sue ire e le sue passioni. Guardate quali lampi satanici sprigionano i suoi occhi e a quali orribili atteggiamenti ritorce i muscoli del suo viso. E ora passiamo a manìe varie, tutti più o meno furiosi. In questo stabilimento, signor Perelà, è in vigore il sistema di coricare e legare non in piena crisi, ma appena la crisi si accenna. Il malato allacciato in pieno del suo furore sciupa una quantità enorme di energie, ciò si usa generalmente negli stabilimenti o nei reparti dove non si paga, qui, siccome tutti pagano la loro pensione, nulla si fa per abbreviare di un sol giorno la loro esistenza. Questo, vedete, assicura di non essere un uomo e crede che tutti sieno in errore su tale fatto, l'uomo secondo lui sarebbe un'altra cosa, non ha mai saputo dire però che cosa sia. Egli ha, per tutti quelli che gli vengono dinanzi, una smorfia di disprezzo: «ah tu credi di essere un uomo!» egli vuol dire, «no! no! no!». In certe mutazioni di tempo o di stagione egli grida furiosamente il suono «no!» a tutti. Il nemico. Fate osservazione agli occhi dilatati di questo giovinotto. Egli ha in sè il nemico e fissa tutti nella più terribile angoscia di trovarsi da un momento all'altro di fronte ad esso. I suoi occhi non si serrano più, egli non può riposare, solo veglia e guarda. Fuori era ridotto a camminare girando continuamente su se stesso per assicurarsi che il nemico non gli giungesse alle spalle. — Esiste forse quell'uomo, o egli lo imagina? — Può esistere, anzi esisterà certamente, il caso è abbastanza comune, ed è al tempo stesso uno degli stati d'animo più spasmodici. Una signora aveva questa orribile manìa, la faccia odiata esisteva realmente, quella persona per una strana combinazione aveva potuto a caso impossessarsi di un terribile segreto della sua vita, la signora visse nella tema di incontrarla per ben vent'anni, lo stato di tensione tutti i giorni saliva in lei di un grado, ella non poteva più pensare che a questa cosa: «eccola, quella faccia io la vedrò ora dinanzi a me!» Pur non conoscendo quella persona la sua faccia le si era scolpita tanto di dentro da prendere il posto del suo cervello, della sua coscienza, di tutto l'essere suo. Sapete dove ella finalmente incontrò quel viso dopo venti anni? Nel cimitero, in un piccolo ritratto di porcellana incastrato in una di quelle colonnette che si pongono ai defunti per ricordo. La persona temuta, da tanto tempo era morta. La signora ne perdette la ragione e poco dopo morì. La tensione del suo spirito l'aveva tanto inalzata e alimentata ch'ella si sentì d'un tratto lasciare come un corpo nel vuoto, e cadde giù sfasciandosi di scoppio. Manìa suicida, questo è il solo ricoverato guardato notte e giorno, non si può abbandonarlo un istante, è il più furioso di tutti e al tempo stesso può parlarvi con tale ragionevolezza da lasciarvi convinto che non sia pazzo; ha una sua curiosa filosofia che sempre finisce nel suicidio, ha tentato suicidarsi colle sue stesse mani aprendosi il ventre, rovesciando la testa furiosamente sul pavimento, qualche volta si è posto a non volere più respirare per soffocarsi, ci sono voluti quattro uomini per aprirgli la bocca. Non è possibile lasciarlo per due secondi, notte e giorno è guardato, e a passeggio, mentre egli si reca conversando come la più equilibrata e tranquilla persona di questo mondo, viene condotto per mano da due robusti inservienti. — Lasciato solo egli si ucciderebbe subito? — Istantaneamente. Impazzì perchè fu riacchiappato per le gambe mentre si era gettato da una finestra. — Vi saluto, mio caro signore, io leggeva appunto di voi stamane sopra questo giornale, siete l'uomo di fumo non è vero? Mi sono molto in questi giorni interessato di voi, ma perdonatemi, non posso approvarvi che per metà. Voi avete un merito infinito senza dubbio, ma giacchè foste capace di una cosa così grande, dovevate rimanere sul fuoco in maniera da bruciare davvero. Voi siete nelle mie stesse condizioni, quel vile di mio padre mi prese per i piedi quando mi ero già lasciato andare nel vuoto, voi vi siete saputo fermare quando non eravate più che a un metro da terra. Voi amate Dio? — L'uomo che abbiamo visto poco fa? — Ma no, quello è un povero scemo, Dio, non sapete che cos'è Dio? Dio è nulla. È la perfezione inventata dagli uomini, essi hanno voluto dare una parola al nulla, e l'hanno per conseguenza fatto diventare una cosa. Come voi, voi siete ancora uomo, voi siete qualche cosa, fumo non è nulla, è fumo, come Dio che non è nulla non può essere nulla se è Dio. Voi potreste essere benissimo un Dio per gli uomini. Essi hanno bisogno di un nulla che non sia proprio nulla, e che si possa dipingere sopra la tela e scolpire nella pietra. Gli uomini pregano Dio, sapete perchè? Perchè esso li tenga il più possibile lontani da lui, se il diavolo fosse sopra la terra il diavolo sarebbe il loro Dio. Essi non muoiono mai, e considerano la morte come un caso eccezionale. Quando hanno un morto a mano non la finiscono più, fanno vomitare i sassi, li avete veduti? lo girano, lo rigirano, lo portano a spasso a piedi e in carrozza, lo posano, lo ripigliano su, lo posano ancora, è una bellezza credetemi, ne aspirano le fetide esalazioni con tutta la voluttà dei loro sensi, e non si stancano mica di cullarselo sopra le spalle, e non si seccano mai la gola di gridargli attorno. Gli è che sono nati carcassa, caro signor Perelà, e sentono già dalla nascita il fetore del morto venir fuori dal loro corpo, e si ricuoprono di cenci colore del cielo e delle rose, si soffocano di fiori e d'incensi nè più nè meno come si fa nei cimiteri, e il bello è che il puzzo lo sentono di più. Quando poi un d'essi muore, ecco la cuccagna, gli si stringono tutti addosso bene bene, e si assicurano così che il fetore che annebbia l'aria è tutto di quello morto, e gli si accerchiano più che sia possibile, anzi, se lo pigliano in collo addirittura, e via in giro per parteciparne l'esalazione al prossimo, e si gonfiano, si gonfiano in una loro espressione sodisfatta, sentite, essi vi dicono con quella loro faccia beata, sentite questo orribile fetore che noi andiamo spargendo per l'aria? Questo sconcio che attossica tutto? Sentite che riprovevole cosa? Ebbene non siamo mica noi sapete, è costui che abbiamo qua disopra, è lui, è lui solamente! Gli uomini innalzarono a Dio grande quantità di torri per avvicinarsi a lui, e per gabbarlo, mio caro signore, quelle torri non servono che per salvarli dal fulmine, esse dovrebbero invece essere le stazioni dalle quali gli uomini partono per giungere al loro Dio, si dovrebbe dai tetti lasciarsi cadere giù sulle folle ad ogni istante, e uomini imbevuti di dinamite e di alcool dovrebbero fragorosamente scoppiare nei pubblici teatri, nella piena dei più importanti ritrovi.... — Legatelo legatelo, bisogna prevenire, egli può essere attaccato da un crisi. Sentite se sua eccellenza può ricevere il signor Perelà. Vi faremo conoscere il principe Zarlino, il pazzo volontario, ovvero il pazzo dilettante, o meglio ancora il pazzo cosciente, come dice lui, il più pazzo di tutti qua dentro, come diciamo noi. Un cervello appositamente costruito per la follìa che non ha trovato nel suo cammino un appiglio per giustificarla, esso non ha alcuna manìa precisa, è pazzo per essere pazzo, la raffinatezza del morbo. È uno degli uomini più ricchi del regno, ed avrebbe potuto essere il re ai tempi della bancarotta. Egli profonde tutte le sue ricchezze in questo sanatorio dove abita, ha al suo comando venti o venticinque uomini che lo assecondano in tutto, una specie di compagnia per mettere in scena ogni sua nuova creazione. Molti ricoverati sono sussidiati da lui, egli vive fra loro per elezione, è il patrono, e vengono da esso ricoperti di doni; asseconda ogni manìa, si immedesima in tutti i cervelli, non avendo lui una manìa fissa e spiegata può sentirsi pazzo in tutte le diverse forme che gli faccia piacere. — Il Principe attendeva con ansia il signor Perelà. Sia fatto entrare sul momento. — Oh! Caro, caro, caro amico mio, venite pure avanti. Io vi sono tanto grato della vostra visita, e permettetemi prima di tutto che vi osservi attentamente, da alcuni giorni voi esercitate sopra di me un fascino straordinario. Mi sono sempre informato di voi e delle vostre cose e anelavo il momento di potervi conoscere, e di parlarvi. Certo che voi dovete avere destato in tutti una grande meraviglia. Gli uomini che non hanno la fortuna di essere ricoverati in un manicomio sono facilissimi alla meraviglia, una mosca che vola gli fa fare degli oh! eh! uh! ih! ah! non è vero, ve ne siete accorto? voi sentirete sempre ronzare intorno queste vocali. Qua dentro è una cosa ben diversa, non si sciupa il fiato per così poco, e non si spende il proprio cervello se non per occuparsi della cosa che ne vale la spesa. Vi avranno detto che io sono il pazzo volontario.... il pazzo dilettante non è vero?... che io sono il matto più matto di tutti i matti! Non vuol dire mio caro, questo a me non interessa, ciò che si può dire non mi riguarda. Io ho parlato di voi con tutti i ricoverati ed ho cercato di farvi comprendere nel vostro giusto grande significato, nel vostro eccezionale valore. Sono rimasto addolorassimo di non avere trovate certe menti preparate a comprendervi, ma state sicuro vi riuscirò, bisogna cogliere il quarto d'ora dei varî cervelli. Quando accade un fenomeno per il quale fuori tutti sono rimasti a bocca aperta per ore intiere non sapendo trovare per argomenti che quei famosi ah! eh! ih! oh! uh!, di cui vi dissi, lo stesso fatto qua dentro non desta alcuna meraviglia e lo si definisce spesso con l'espressione più semplice, più vera, più giusta un gesto risoluto può bastare a definirlo sicuramente. Tutti quelli che s'introducono qua dentro noi li vediamo passare con un guardo ebete e pietoso, e alla fine li sentiamo con la massima gravità, frutto di tutta la loro ponderatezza, dire una profonda coglioneria. Essi dicono delle cose profonde e finiscono per essere degli imbecilli; ma bisogna invece dire delle cose imbecilli ed essere profondi, mio caro amico. Coloro passano commiserando tutto senza aver capito nulla, e compiangono questi poveri di cervello con una parola che svela subito l'irreparabile miseria che ne hanno essi. Oh! stieno pure tranquilli, essi non impazziranno mai! Per divenir pazzo, Signor Perelà non occorre che una cosa: un grande cervello da gettare magnificamente in un sol pugno al vento, loro non ne hanno tanto da poterlo tirar su con due dita. Qui sono i grandi signori, i miliardari delle teste umane, che spesero per un solo capriccio tutto il loro denaro, essi sono ora paghi e felici, l'oggetto che poterono acquistare colma la loro vita. Signor Perelà, io poteva essere il re, voi saprete della famosa bancarotta? ma sentivo che dopo due giorni io sarei stato quel re che voleva essere tutti fuori che il re. Io vivo qua dentro la mia vita sommamente cerebrale che mi fa essere tutto! Dicono che sono pazzo, benissimo, e che cosa me ne importa, sono venuto ad albergare in un manicomio per questo, dunque.... ma badate però non sono pazzo come vogliono gli altri, sono pazzo come voglio io. Ecco il mio sistema. Il pazzo non annunzia mai quello che farà e io invece annunzio sempre e tutto. Io dico per esempio: ora emetterò ottantotto grida altissime. Un altro pazzo al secondo o terzo grido è già legato. Tutti si preparano rassegnatamente al mio esercizio polmonare. All'ottantottesimo grido in punto mi fermo. All'ottantanovesimo mi avrebbero già legato. È l'istante che loro attendono e che io non gli darò mai. Non meno di una volta la settimana io mi diletto impartire la benedizione papale. Fuori questa operazione mi era quasi impossibile, credetemi era impossibile. Vedeste come tutti sono prostrati a terra, in mezzo a quale devozione io posso brandire il pastorale e cingere la tiara e il piviale. Mi piace di spogliarmi nudo innanzi a tutti, poi sono re, sono fabbro, sono ragno, sono tavola, sono il sole, sono la luna, sono tutto quello che mi pare e piace. Una notte io fui cometa, fra le due torri della villa era appesa la mia coda di tela d'argento illuminata da appositi riflettori elettrici, e rimasi lassù un'intera notte, e mi sentii veramente cometa, io non fui più uomo, nulla, io fui astro. Udii tutto ciò che si disse di sotto, l'osservazione dei ricoverati, degli inservienti, e intanto mi sentivo così lontano dalla terra, su su alto nel cielo.... Raccolsi tanto di sensazioni che sono nella mia mente come un bel poema vissuto che si intitola: La Cometa. Ora ditemi un poco mio caro amico, posso io uscire per le comuni vie con una coda di tela d'argento lunga settantacinque metri? Appena mi scorgono mi prendono, mi legano e mi portano qua dentro come un matto qualsiasi.... DELFO E DORI Questi due piccoli villaggi, signor Perelà, sono i più graziosi dei nostri dintorni. Sulle rive di questo grosso fiume vivono la loro vita fraterna guardandosi amorosamente. Osservate la simmetria del loro assieme, due torri identiche, hanno entrambi una chiesa uguale, con uguale numero di guglie, si può dire che i loro tetti abbiano lo stesso numero di tegole e le case lo stesso numero di finestre. Essi vivono nella pace più serena, ed il fiume vi scorre in mezzo limpido e azzurro. La sera, al chiaro della luna, voi vedreste traghettare dall'una parte e dall'altra, alcuni giovani, s'incontrano e si salutano, si scambiano le parole più cortesi, un saluto cordiale. Vanno cantando e colla gioia nel cuore, si recano a visitare quelle che saranno le loro spose. Si usa che gli uomini di Dori scelgono in Delfo la loro compagna, e quelli di Delfo in Dori. Ma questa bella pace non regnò sempre fra essi, e il fiume che ora s'abbandona nel mare in un ultimo flutto di dolcezza, gli portò un giorno il boccone più amaro che il suo stomaco abbia mai potuto digerire. Questo fiume fu un giorno il campo di una stranissima battaglia. Sappiate intanto che da allora Delfo è abitato da quelli di Dori, e Dori da quelli di Delfo. I due paesi si odiavano dai tempi più remoti. Non era possibile piantare un arbusto soltanto sulla riva di Dori, che non ne venisse piantato uno consimile su quella di Delfo. Non una sola pietra veniva mossa di qua senza ch'essa ricadesse di là come un bolide d'odio e d'ira. Un giorno imperversò un orribile temporale su questi villaggi e ben otto saette caddero insieme sulle piccole case di Dori, senza che nemmeno una vittima si avesse a lagnare. I poveri paesani spaventati, scampati al flagello, vollero innalzare in ringraziamento una torre alla Vergine santissima, e porre in cima a detta torre una statua della Vergine medesima. La torre è quella che voi vedete. Quando fu essa all'altezza dei tetti, e venne osservato dagli occhi scrutatori di Delfo un certo brulicare di uomini prima, e l'alzarsi di un edifizio poi, quei paesani non contennero più la loro rabbia. Che cosa dovevano fare? Alzare anch'essi una torre? Ma sarebbero rimasti indietro ed avrebbero finita l'opera con grande ritardo sugli odiati difaccia. Eppoi non erano cadute saette in Delfo onde ringraziare la Vergine santissima. E ancora: una volta al lavoro chi dei due avrebbe posto l'ultima pietra della torre nel timore che l'altro avesse prolungato ancora di un poco il suo lavoro? Quando avrebbero terminato? Dove sarebbero mai giunte le torri dell'odio? Doveva la terra squilibrarsi colla costruzione di due nuove Babele? No, no, bisognava finirla, ci volevano mezzi molto più spicci. In Dori si lavorava indefessamente alla costruzione di una torre? Benone. In Delfo fu incominciato colla febbre nel cuore il lavoro di ben altra costruzione, barche, barchette, zattere, navicelle, pertiche e remi. Il fiume giallo dell'odio non era stato fino allora solcato, questa era la sua volta. Dori giorno per giorno assumeva un bell'aspetto maschio coll'elevarsi della torre superba, mentre riposta nel ventre di Delfo si agitava una mostruosa creatura: la guerra. Le barche, le zattere, le piccole navi, le pertiche, i remi, tutto in breve fu pronto, la notte designata giunse. Cauti calarono i paesani di Delfo i loro legni nel fiume, muti vi presero posto e a furia di braccia l'intero paese ecco traversa, è in Dori. Dormivano tranquilli, quelli abitanti, il più beato sonno quando sentirono bussare violentemente alle case, atterrarne le porte, sbarrarne le finestre. Fuggirono nudi dai loro giacigli i sorpresi, in preda alla disperazione, incapaci ancora di difendersi colti così alla sprovvista. Tutti fuggivano gridando, e intanto il nemico si installava nelle loro case. Come essi non si attendevano un così mostruoso oltraggio da quel vile paese dirimpetto? Come non avevano provveduto ad una difesa contro sì malvagia gente? Correvano, fuggivano terrorizzati e nella fuga si ritrovarono tutti sulla riva del fiume. Alcuni vi erano corsi per gettarvisi dentro, altri per allontanarsi lungo la riva e mettersi in salvo. Erano tutte le case di Dori ormai in possesso del nemico, e gli abitanti tutti al largo sul fiume. La riva assiepata di legni, di barche, barchette, videro, capirono questi, e ci si rovesciarono presto e a forza di remi furono in poco tutti in Delfo. Là trovarono il paese vuoto, non uno solo vi era rimasto, le case aperte, le credenze ben fornite, i letti comodamente preparati per coricarvisi, un paese uguale in tutto a quello che avevano lasciato, vi si installarono. Quando quelli di fronte venuti al fiume trionfanti per stabilire già il possesso su tutti e due i paesi, (pensavano che quelli fossero ormai lontani le miglia e le miglia e non avrebbero mai più osato tentare il ritorno) giunsero e videro.... Che cosa era successo? Nulla, avevano entrambi conquistato il paese rivale, la guerra non poteva essere più vittoriosa. Rimasero così, e così nessuno potè più insidiare l'altro, le barchette da quel giorno servirono per i buoni rapporti d'interessi e di affetti che fra i due paesi regnarono poi sempre. Domani mattina a ore dieci, sulla Piazza d'Armi, il signor Perelà passerà in rivista le truppe. LA FINE D'ALLORO Al crepuscolo, quando la vettura con Perelà e il suo seguito rientrava nel cortile del palazzo, la reggia era tutta in scompiglio per questo fatto avvenuto, assai strano. Alloro, il decano dei domestici reali, dalla sera avanti non era stato veduto. E siccome era addetto alle stanze del Re la sua assenza venne notata subito la mattina. Si andò a cercarlo nella sua camera, e vi fu trovato tutto in ordine, il letto rifatto, il vecchio non doveva averci dormito. Aveva una figlia che abitava in città, e dalla quale si recava spesso nelle ore libere, si corse da lei, ma essa non sapeva nulla, non lo aveva veduto da due giorni, la povera giovane entrò subito nella più orribile agitazione, disse di avere dei brutti presentimenti, temendo che suo padre avesse commessa qualche grossa sciocchezza. Quando due giorni prima era stato da lei l'ultima volta, si era mostrato di un'allegria così spinta e così insolita ch'ella ne era restata perplessa: sembrava invaso da un pensiero fisso che lo faceva ridere come un folle. Si era anche mostrato impaziente, egli che era solitamente silenzioso e calmo era diventato irrequieto, non poteva rimanere a lungo seduto, si alzava, andava alla finestra guardando distratto, non sentiva più quello che gli si diceva, perdeva il filo del discorso, e incominciava dipoi a stropicciarsi lesto lesto le mani l'una contro l'altra insaccando la testa nelle spalle tutto sorridente di speranza come uno che pensi di vincere un grosso premio della lotteria. Fu cercato dappertutto. Quale ragione poteva farlo celare? All'ora della mensa non si presentò. Che gli fosse colto un malore mentre disimpegnava qualche servizio? Come? Dove? Era oramai settantenne e il caso era molto probabile. Fu rovistato ogni cantuccio, ogni nascondiglio, nulla. Si intraprese la ricerca nei sotterranei, nelle cantine, nei vecchi depositi di armi, per le antiche prigioni. Ed eccoci finalmente all'ultima grande volta, quella che sostiene il torrione angolare della reggia, la volta è chiusa, la porta è serrata per di dentro, ma da alcune impercettibili fessure s'insinuano acutissime, quasi inavvertibili, spire di fumo, e odore acuto di fumo si avverte tutto intorno. Quella porta viene presto con enormi picconi smantellata e cade. Una nube violenta, formidabile di fumo denso si rovescia sugli astanti che retrocedono mezzo accecati. Bisogna attendere che il fumo si scarichi un poco, così è impossibile di entrare, ma non appena esso incomincia a dileguarsi, a espandersi, tutti si precipitano ancora verso la soglia. Sotto l'ampia volta del sotterraneo s'incomincia, fra la nube del fumo che si dilegua, a distinguere. Nel mezzo, in terra, una grande spianata di cenere e di carboni ancora qua e là accesi; al soffitto, dall'anella centrale, scende una catena di ferro, fino a due metri dal suolo, a quella è appeso in fondo.... come un crocicchio di tronchi carbonizzati, che si dondolano in mezzo orizzontalmente. Pareva proprio l'unione di due tronchi d'albero così rudimentalmente congiunti, e non era che un ultimo avanzo umano: Alloro. Fu subito corso ad informarne il Re e tutta la corte; il fatto fece inorridire tutti, la povera Regina che si fece forza a udire il racconto diede alla fine un grido acutissimo e cadde priva di sensi. Dopo pochi minuti tutti si trovavano nella penombra del sotterraneo attorno alla cenere e ai carboni non ancora completamente spenti, e tutti guardavano con aria esterrefatta l'avanzo di quell'uomo appeso che si dondolava girando lentamente su se stesso appena appena come per equilibrarsi nel suo atteggiamento orizzontale. Si trattava di un assassinio? Un assassinio in quelle circostanze? Sotto il tetto regale? Di un suicidio dunque? E perchè quell'uomo aveva voluto finire tanto miseramente i suoi giorni? Quale ragione lo aveva spinto al passo disperato? Nessuno riusciva a trovarla questa ragione. Eppoi, come aveva potuto pensare a togliersi la vita scegliendo una sì atroce maniera di morire? Tutti attorno guardavano assorti, fantasticando nel proprio cervello e comunicando di tratto in tratto agli altri solo il proprio raccapriccio. Uno paffuto piccolo, che pareva un abate, colle mani composte sulla pancia rotondetta, di tanto in tanto dava due scossettine dentro i panni, come sentisse mi grande prurito per la schiena e volesse grattarlo contro di essi. La scena del sotterraneo era impressionante, l'aria calda, l'odore acutissimo del fumo non ancora bene dileguato, la spianata di ceneri bianche, il silenzio rotto dai sussurri. Si faceva sera, non ci si vedeva quasi più là sotto, e furono accese agli angoli della volta, alcune torce. La catena abbastanza grossa pendeva dall'anella del soffitto, ed in fondo l'uomo vi era allacciato con una catena più piccola che lo cingeva al petto sotto le ascelle. Così tutto carbonizzato il peso del cranio equilibrava perfettamente col resto del corpo e lo faceva rimanere orizzontale; le mani, i piedi non c'erano più, le gambe finivano come due tizzi a punta, e delle braccia rimanevano soltanto gli omeri spalancati. Aveva dovuto radunare pazientemente un buon cumolo di legna, dipoi salendoci sopra, o con qualche sgabello, doveva avere allacciata alla catena che pendeva dal soffitto quella che gli cingeva il corpo, in qualche modo acceso il rogo.... e rimasto lì.... penzoloni come un salame.... ad aspettare la morte. Come si può fare un così lungo preparativo di morte senza un pentimento? Come non essersi disciolto al primo lambire della fiamma le sue misere carni? Non fu trovato nè una lettera che giustificasse, che spiegasse.... nulla, il vecchio non lasciava alcuno scritto. Ecco giunge correndo, ansando, una giovine donna scarmigliata, trafelata, non è stato più possibile trattenerla, si è divincolata come un rettile sgusciandosi fra le mani pietose che la tenevano. Giunge cogli occhi sbarrati e al suo apparire alla soglia del sotterraneo spalanca la bocca come se dovesse ingoiare tutta l'aria dell'universo nei suoi polmoni d'un sol fiato perchè il suo grido possa dopo arrivare fino al cielo. — Folle! Folle! Padre mio! Padre mio! Che hai fatto? Che hai fatto? Folle! Folle! E io che non ho imaginato! Credevi di poter divenire come Perelà! — Perelà? Perelà? Perelà? — Tutti esclamano, nessuno aveva ancora saputo scorgere un legame fra Perelà e questo fatto. Ora tutti pensano, deducono, fantasticano, ricostruendo ognuno l'accaduto a modo proprio. — Perelà? Perelà? Perelà? Perelà? — Che hai fatto? Perchè padre mio? Perchè padre mio? Perchè mi lasciasti? Perchè hai voluto troncare tutte e due le nostre vite? — Perelà? Perelà? Perelà? — Tutti esclamano; la donna si contorce fra gli spasimi dei suoi singhiozzi. — Divenire come Perelà? — Ha voluto imitare Perelà? — Non è possibile! — Perchè non è possibile? Possibilissimo, sperava diventare di fumo anche lui. — È diventato di carbone. — Di fumo? Pianino! — Diteci, povera ragazza, come vi venne questo sospetto? — Da quando quell'uomo è qui, mi capite, Perelà, il mio povero padre è diventato pazzo! Egli, una volta, pochi giorni or sono, quasi mi fece intravedere la sua follìa, ma io non avrei mai supposto ch'egli fosse capace di tanto! Era divenuto demente di adorazione per quel mostro che viene qui ad introdurci la disgrazia! — La disgrazia? La disgrazia? — Tutti ripetono sempre più stupiti. — La disgrazia? — Sì la disgrazia! Assassino! Mio padre si è ucciso per lui? Egli ripeteva sempre: «Come potè divenire di fumo? Come fece?» Ed un giorno a me disse: «vorrei anch'io essere come lui!» E rideva di gioia al pensarlo. Oh! io non avrei mai creduto però che avesse osato tanto! Ed io sempre gli rispondeva: «credi tu che se noi bruciassimo rimarremmo come lui? Pazzo! Pazzo!» Io gli dicevo: «se tu bruciassi, tu moriresti, povero uomo, e faresti morire anche me di dolore!» Padre mio! Padre mio! Le supposizioni erano svariatissime, chi non sapeva vedere un solo legame fra Perelà e l'accaduto, chi ce ne vedeva invece molti e strettissimi. Si assicurava che Perelà e Alloro erano stati veduti di sovente in segreto colloquio. Perelà gli affidava le sue commissioni, e il vecchio lo serviva pieno di giubilo, con tanto zelo, quanto non ne aveva avuto mai per nessun Re. Non gli avrebbe Perelà stesso inoculato la fisima nel cervello? — In questo caso egli sbaglierebbe la sua propaganda. — Disse uno con un tono di straordinaria importanza. — E di grosso! — Come come come? Propaganda autoincendiaria? È formidabile! — Ripetè un altro con una pancia enorme ed una grossa faccia violacea. — L'incendiario di se stesso! — Incalzò uno piccolo piccolo con un vocino da beccafico, e due baffettini aghiformi e le lenti sopra un nasino così fino sulla costola da sembrare una lama di coltello. — Folle! Folle! — Che liquidazione! — Interruppe bonariamente un bell'ufficiale. — L'uno farebbe lume all'altro! — Rincalzò il gentiluomo beccafico — come ai tempi di Nerone, come ai tempi di Nerone! — e rideva un suo _ihihih_.... Qualcuno ricostruiva l'operato con Perelà collaboratore di Alloro; Perelà avrebbe legato il vecchio alla catena, e il vecchio fanatico si sarebbe lasciato legare. — Oppure.... chi sa.... — diceva dimenando la testa quadra uno alto secco coi capelli corti corti e grigi che gli nascevano a mezzo centimetro dalle sopracciglia, tipo di criminale — chi sa.... Chi poteva udire quello che succedeva quaggiù stanotte o stamani prima dell'alba? Mentre si facevano tutte queste supposizioni la vettura con Perelà e il suo seguito rientrava nel cortile della reggia. Perelà veniva subito condotto nel sotterraneo.. — Vedi? Vedi che hai fatto? Vecchio rospo affumicato? La donna fu fatta tacere, tutti intorno fissavano Perelà spiando la sua espressione, anelando la sua parola. Egli, guardava serenamente l'uomo ciondoloni e dopo qualche minuto di assoluto silenzio si lasciò sfuggire dalla bocca alitate dolcemente queste tre parole: «voleva divenire leggero». La perfetta calma colla quale furono pronunziate, la dolcezza dell'espressione colla quale Perelà guardava quell'avanzo di suicidio, quel teatro di morte, inasprì e stupì talmente gli astanti che tutti parlarono ad un tempo. L'aiutante del Re si avvicinò a Perelà in tono molto mansueto, untuoso, quasi per condurlo a ragionare, e gli disse piano con molta deferenza: — Divenir leggero.... va bene mio caro.... ma... egli voleva uccidersi mi pare! Divenir leggero.... altro che leggero, si è ucciso.... non è la stessa cosa.... — Capperi! — acutizzò il beccafico. — Bisognerà chiarire questo torbo — borbottò il gentiluomo delinquente. — Qui se non usciamo si crepa! — sbuffò il grassone dalla faccia violacea che era divenuta gonfia come un pallone. — _Ahuff!_ Perelà non disse altro. Poco alla volta non rimasero nel sotterraneo che la figlia di Alloro, mezza stupidita dal dolore e con due lagrime ghiacciate all'argine delle ciglia che non potevano più sgorgare, rimasero alcuni domestici, e i gentiluomini e gli ufficiali e soldati risalirono tutti negli appartamenti della reggia. Furono fatte grandi osservazioni sull'indifferenza di Perelà, egli fu trovato per la prima volta indifferente. Si andò dal Re a riportare il resoconto dell'accaduto. La fine di Alloro e l'indifferenza di Perelà, indifferenza che taluno osò, tra un brivido e l'altro, chiamare timidamente cinismo. Nessuno però volle esprimere chiaramente il proprio parere, e l'uno invocava tacitamente quello dell'altro, ognuno sperando in ognuno come primo lanciatore di un'accusa senza volerlo essere nessuno. Si concluse convocando per la sera stessa il consiglio di Stato. La rivista militare, che doveva aver luogo domattina, è stata rimandata. IL CONSIGLIO DI STATO «Io lo vedo ancora quel piccolo vecchio dalla faccia sorridente, coi dolci occhi azzurri, eccolo là, tranquillo e calmo, giunto ai settant'anni di vita laboriosa, di probità e di obbedienza. Non un'ombra nella sua onesta vita, non una macchia nella sua anima. L'amore del suo Re, ch'egli servì con cuore fedele, l'amore della figlia diletta, l'amore del suo Dio su tutti e su tutto. E l'uomo che visse fino al limitare della sua esistenza in questa serenità dello spirito, in tanto candore di dolcezza, ad un tratto si cambia, si muta; la mente si turba, si sconvolge, i pensieri più soavi più puri e lucenti si oscurano e divengono baratri tenebrosi dove si annida la passione insana, una vertiginosa follìa. E dopo lo spettacolo di amore e di pietà ch'egli ci ha offerto per settant'anni, ci prepara lo spettacolo orrendo del suicidio, del più folle suicidio, e pone davanti ai nostri occhi una scena infernale di fiamme, di ceneri, e di fumo! Ah! miei buoni signori, e figlioli diletti, io vi domando ora come poteva quella coscienza travolgersi ad un tratto, come poteva germogliare d'un colpo la sterile pianta del male se questi semi non vi furono in essa per il passato, come, senza che uno di questi semi fatali sia riuscito a penetrarvi? Come poteva da sola perdersi se taluno approfittando di un istante di debolezza della sua mente di vegliardo non l'avesse sconvolta e guidata sulla via irreparabile della perdizione?». — Voi sapete però eminentissimo signore ch'egli fu sempre un adoratore fanatico di tutti i Re, e forse più per il loro altissimo grado che per la loro persona. — E che cosa volete dire con questo, Pipper? — Chi ci assicura che quell'umile persona non racchiudesse fino ad oggi inespressa una grande, sconfinata ambizione? — Mio caro Pipper, come potete dire questo? Chi servì fedelmente il proprio signore voi lo chiamate ambizioso? Ma via.... — Servì quelli che ai suoi occhi erano grandi e privilegiati, e in quella esaltata ammirazione alimentò un sogno di grandezza che gli cresceva nel seno. Quando si è trattato di potere lui stesso divenire un essere privilegiato, capace ai suoi occhi di attirare la vana ammirazione di tutti non ha pensato nemmeno più alla propria vita. — Ciò che per voialtre pecore è il colmo. — Pilone non incominciate colle vostre solite parolacce. — Pecore! — Pilone state quieto. — C'è tanto bisogno di raccoglimento. — Bisognerebbe assolutamente espellerlo dal consiglio, si riduce tutti i giorni più insopportabile. — Pecore no? Scimmie! Quali sono le bestie più ridicole? Le scimmie, rispondete voi, precisamente, sono quelle che vi somigliano di più. — Pilone, fate il piacere di tacere fino al vostro momento. — Dunque, eminentissimo, la vostra opinione sarebbe?... — La mia opinione dunque... ecco... la mia opinione è molto semplice.... ed è precisamente questa, ecco... da un certo tempo su questa terra non si è fatto che seminare fumo, ora la terra incomincia a fumare, e mi sembra un fatto logico, naturale naturalissimo. Se voi seminate sulla terra frumento raccoglierete spighe di frumento, avete seminato fumo raccogliete messe di fumo, ceneri e fiamme, si capisce, non potete certo raccogliere fascine di legna. Daste un eccessivo valore ad un fatto che non lo meritava, parve non ci fosse al mondo di meglio del fumo, parve che con esso tutte le più gravi questioni si sarebbero risolte, non si vide più che fumo, uomini e donne vestiti di quel colore, feste, balli, banchetti, inni tutto in onore di questa orribile cosa.... — Eminentissimo, voi stesso però, ricordate, accorreste a porgergli omaggio quando egli giunse, siete stato anche voi dunque tratto nell'inganno come noi tutti. — Va bene, è vero, anch'io sono corso, ma.... un momento, io corsi.... prima di tutto per vedere di che bestia si trattava, tutti correvano, pareva che il mondo dovesse divenir suo d'un colpo, capirete, volli assicurarmi coi miei occhi che razza di bestia fosse.... e m'accorsi subito.... che la bestia era molto pericolosa e non avrebbe tardato a nuocere, ecco, ci siamo. — E perchè non lo diceste subito? — E come lo potevo dire? Tutti bravo, bravo, bello, bello! Per poco non l'avete fatto imperatore. Dovei entrar nella corrente, e invece pensai: questo non è il momento di parlare, lasciamoli correre.... e corriamo, quando saranno stanchi si fermeranno. — Che cosa vi disse nell'udienza che aveste con lui, eminentissimo? — Mi disse.... che so.... le sue solite parole sconnesse.... ch'era leggero.... e che pareva non stimasse altra cosa al mondo all'infuori di questa sua leggerezza.... eresie.... affermazioni da miscredente della peggiore specie. — E che cosa proporreste di fare? — Riparare, siete ancora in tempo per riparare. Lo avete innalzato? E voi lo riabbassate. Gli avete affidate opere serie, gravi opere, senza comprendere quali enormi spropositi stavate commettendo, e quelle opere voi glie le togliete presto, subito, e sopra tutto.... allontanatelo dalla società.... fate in modo di farlo scomparire, per il bene di tutti.... escludetelo. — Pilone se avete qualche cosa da dire.... — Oggi è una bellissima giornata, proprio bella, un magnifico e vivido splendore di sole, gli uomini sono tutti fuori senza ombrello, e si gongolano, passeggiando stupidamente come al solito, sculettano come tante oche, dondolandosi fra di loro, strofinandosi, rimescolandosi come le rane in una pozzanghera.... Ad un tratto il cielo si annuvola, in quattro e quattr'otto vien giù un bell'acquazzone; tutti scappano, saltano di qua, saltano di là, guardano in su, ah! eh! ih! oh! uh! i ranocchi, gridano, scivolano, si rintanano le vecchie talpe, e s'annaffiano tutti ch'è un piacere. Ah! Ah! Ah! Ah! — Che uomo sconveniente! — Domani il temporale si è dileguato e non si vedono che passare rapidamente, altissime e leggere le ultime nubi scariche. Tutti quelli che passano hanno sotto il braccio il loro ombrello, e se lo tengono bene stretto, i macacchi e le bertucce, nessuno passa senza. Giunge la sera, non è piovuto. Ah! Ah! Ah! Ah! — Ma che manieraccia di ridere! — Che paradossi santo Iddio! — Ebbene? — Che cosa intendete di concludere col vostro frizzetto? — Che siete una manica d'imbecilli! — E di Perelà che cosa ne pensate? — Quello che penso di voi. — E voi che cosa siete? — Si crede di essere tanto in alto perchè deve pubblicare un libro che non esce mai. — _Il giudizio universale._ — La grandezza è tutta lì. — Caro Pilone, e il vostro prestigio sta tutto nel vostro disprezzo. — Naturalmente. — E credete che questo possa inalzarvi tanto? — Oh! mi basta poco, tanto da potervi sputare in capo. — Che uomo irragionevole! — La sua presenza nel consiglio è perfettamente inutile oramai, si sa benissimo quello che Pilone dirà: «imbecille o imbecilli» a seconda dei casi. — «Ebeti e scimuniti». — Già. — Ma via Pilone, voi passate per l'uomo più dotto della terra, dar del coglione a tutti a questo modo.... — E in consiglio di Stato. — Ma se è mezzo analfabeta! — Insomma che ne dite? — Sbrigatevela. — Che cosa ne dite di Alloro? — Sbrigatevela. — Che cosa ne dite di Perelà? — Sbrigatevela. — Rodella, che ne dite voi? — Parmi che il nostro tempo sia assai male speso. — Ma noi gli abbiamo affidato il codice per Dio! — Bisogna toglierglielo! — E come si fa? — Bene, gli si leva, non gli si fa scrivere. — Ma gli è stato affidato pubblicamente, con reale decreto! — E gli si leva pubblicamente, con reale decreto! — E la tessera? — «_Ispettore generale dello Stato!_» — «_Riformatore!_» — «_Degli uomini delle cose e delle istituzioni!_» — «_Con pieni poteri esecutivi!_» — «_Materiali e spirituali...._» — «_et ultra!_» — Ah! — Ah! — Ah! — Gli si ritira, e si brucia. — Bruciatela per amor di Dio! — E gli si rende di fumo come è lui! — In carattere. — Benissimo pensata. — E l'opinione pubblica? — Al Diavolo! — Ma chi fu quell'idiota che parlò par il primo di codice? — Il Re! — Fu il Re! — Che ne sa lui? Cosa c'entra lui? — Fece per scaricarsi il peso dalle spalle, non l'avete capito? — L'uomo di fumo credeva gli fosse stato mandato apposta chi sa da quale stella! — Egli aspetta tutti i giorni dei messaggi dai mondi di là, si è così immedesimato nella parte.... e non sa poi che pesci si pigliare col mondo di qua. — Ma il Re l'ha fatto per non scriverlo lui il codice, si capisce, ha pensato: chi sa quali baggianate saltano fuori, così io non c'entro, c'entra Perelà, se la rifacciano con lui. — Perelà è di fumo, Perelà bisogna rispettarlo, e io me ne infischio di tutti i codici. — Ha preso la palla al balzo. — Ecco. — E il baggiano è lui. — I baggiani siamo noi! — Eppoi sapete che cos'è? — Che cosa? — Il Re non teme Perelà, è di fumo.... dite quel che volete, il fumo sarà sempre fumo. — Ma dopo la riforma del codice? — Ah! Questo poi..... — Sarebbe a dire, dopo la riforma?... — Vedete a quali passi siamo arrivati? — Non avevate pensato che quell'uomo riformando il codice poteva fare un primo articolo, per esempio, nel quale si dicesse che solamente gli uomini di fumo possono regnare e governare? Non ci avevate pensato a questo? — È enorme! — E farsi Re assoluto? — Che gravità! — Imperatore! — Gesù mio! — Nominarsi Zar! — Bruciarci vivi tutti! — Mamma mia! — Ma perchè fummo così sciocchi? — Perchè? — Perchè? — Perchè? — In certo modo noi abbiamo consegnate nelle sue mani le chiavi del nostro stato, della nostra casa, della nostra vita, tutto! A un uomo di fumo! — Pensateci, senza saper nemmeno se era un uomo o no. — E non lo è. — Dio mio! — Al primo venuto. — Certo, si poteva aspettarne un altro almeno. — Chi sa poi quanti ce ne sono! — Sarà meno raro di quello che si crede. — Dicono che ci sia un paese dove nascono come i funghi! — Chi sa chi è. — È enorme! — Che gravità! — Ma scusate, ma scusate, e quando anche lui avesse scritto tutti gli articoli di questo mondo, noi abbiamo paura di lui? — Il fumo sarà sempre fumo. — E con una buona soffiata lo possiamo mandare a gambe all'aria anche dopo averci scritto diecimila codici. — Fatelo portar via dal vento. — E l'opinione pubblica? — Un corno! — Ma se davvero ci fosse stato mandato? — Mandato? — Da chi? — Di dove? — Non saprei.... — Dall'inferno! — E perchè no? — Dal diavolo volete dire? — E perchè no? — E al diavolo lo rimanderemo! — Se fosse l'ombra del Diavolo? — E perchè no? — Ne ha tutta l'aria. — _Jesus Maria!_ — Il figlio di Satana sulla terra! — E perchè no? — Il figlio di Belzebub! — Uh! — Non mandò Iddio il suo, ora ce lo ha mandato lui si vede. — Poveri noi. — E lo abbiamo ricevuto! — Eccome! — E con quali onori! — Tutti gli onori! — Che vergogna! — Come ci siamo cascati bene! — L'altro, quello del Dio sommo ed eterno, fu perseguitato e crocifisso. — Questo lo abbiamo innalzato sugli altari. — Non se ne indovina mai una. — È una trappola che ci è stata tesa di sicuro. — E noi ci siamo entrati. — Fitto fitto! — È il figlio di Satana! — È il figlio di Satana! — Il figlio di Banzebub! — Il Cristo del Diavolo! — Ma naturalmente, tutto nero a quel modo! Ci voleva tanto poco a capirlo. — Ora capisco! — Di dove volete che venga un uomo tutto nero, se non viene dall'inferno? Ci scommetterei. — E lo dite con tanta indifferenza? — _Jesus Maria!_ — E se fosse mandato da Dio anche questo? — Impossibile! — Non regge! — Egli mandò un'altra volta il suo figliolo. — Non lo rimanda più, statene certi. — Non si può mai sapere. — Ma egli disse pure che sarebbe ritornato. — È impossibile! — Ascoltate.... era di candide carni e pure essere di luce e d'amore, questo è un coso tutto grigio che non sente nulla, è come se fosse di mota, la stessa cosa. — Effettivamente. — Ma dopo tanti anni.... — Può aver cambiato di colore. — Non regge. — È scappato dall'inferno state tranquilli. — Ascoltate, ascoltate, io sono il vostro Arcivescovo, e vi assicuro che il buon Dio lo ha sulle corna quanto me questo vostro uomo di fumo! — È mandato dal demonio! — Dio Dio! — È il figlio del diavolo. — _Brrrrr!..._ — Miseri noi che lo abbiamo raccolto! — Eminentissimo! Benediteci, benediteci, per carità, egli è già entrato forse un poco in tutti noi! — Bisogna cacciarlo! — Come si fa? — Incominciamo a fare gli esorcismi venite via. — _In nomine Patris, et filii, et spiritus sancti, Amen._ — Se se ne andasse da sè sarebbe meglio. — Fatelo portar via dal vento. — È vero, è vero, non è mica tanto prudente sapete mettersi in ruzza anche col diavolo. — Deve essere un certo arnese.... — Per amor di Dio! — Bisogna allontanarlo bonariamente. — Senza farglielo trapelare che ce ne siamo accorti. — No! Ma che! Lasciatevi guidare da me, sono il vostro arcivescovo, coll'aiuto del buon Dio potremo schiacciarlo. — E l'opinione pubblica? — Sveleremo tutto! — Diremo quello che è. — Ha ucciso! — Benissimo! — Diremo che è il figlio di Belzebub e il popolo farà giustizia da sè, lo massacrerà. — No, no, no! Non ci mettiamo tanto in ruzza col diavolo vi dico. — Voi non volete mettervi in ruzza con nessuno! — Ci sono degli uomini di stoppa a questo mondo! — Ha ucciso allora! — Sveleremo! — Ci vuole un processo. — Si farà. — Benone! — Un processo! — Il processo! — Il processo! — Il processo del figlio di Satana. — Io me ne lavo le mani! — No, senza dire che è il figliolo del diavolo, non è necessario, non bisogna dirlo. — È meglio fingere di non averlo capito. — Il processo come a un malfattore qualunque, troveremo il modo. — Ha ucciso! — Voleva bruciarci tutti! — Bene! — Ha fatto fuoco sotto la reggia! — Bravo! — Incendiario! — Omicida! — Vile! — Deve, finire da vile! — Ha ingannata l'opinione pubblica! — Benissimo! — È enorme! — Si è burlato di tutti! — Si è burlato di noi! — Del governo! — Che spavento! — Ha ucciso! — Incendiario! — Assassino! — Morte! — Morte! — Morte! — Imbecilli! — Ma Pilone.... PERCHÈ? Il consiglio ebbe luogo la notte stessa del giorno nel quale Alloro fu trovato carbone. Prima di salire alla reggia l'eminentissimo Cardinale arcivescovo era disceso nel sotterraneo ad impartire, non già come a un suicida, ma in quanto assassinato, l'assoluzione alla misera salma del vecchio. La mattina seguente i poveri avanzi dovevano essere trasportati al cimitero. E vi furono trasportati per tempissimo, quasi segretamente, poche persone vi assisterono, poche persone poterono accorgersene. La figlia di Alloro era stata pietosamente trattenuta alla reggia, anche perchè essa non mettesse sottosopra tutta la città col suo disperato dolore. Non si voleva ancora prendere una decisione precisa sul contegno da adottare dinanzi all'opinione pubblica. Si doveva d'un tratto far cadere l'accusa, risultata dal consiglio di urgenza, come un bolide sopra la città, si doveva dichiarare Perelà in istato di arresto, o era meglio agire con qualche riserbo, spiando prima bene quale dirizzone prendesse l'opinione pubblica? Non era meglio spingervela piano piano con qualche astuzia sul cammino voluto? Una volta che il popolo avesse gridato «morte» tutto era a posto e si poteva uccidere finchè si voleva, ma era bene però quest'ultima parola farla venir fuori dalla viva voce di esso. Intanto Perelà dal momento della scena nel sotterraneo non era più uscito dal suo appartamento. Nessuno si era recato a chiamarlo, nessuno a chiedergli spiegazioni.... nulla. «Perchè?» Fu convocato il consiglio d'urgenza, la seduta ebbe luogo senza che si fossero fatti vivi ad avvertirlo, come tutte le altre volte, ad invitarlo a parteciparvi. «Perchè?» Egli passò la nottata pensando a tutte queste faccende, ricordandosi una ad una le facce dei presenti nel sotterraneo al momento del suo arrivo. Quelle facce erano molto cambiate verso di lui, i gentiluomini lo avevano guardato in una tale maniera che a lui giunse completamente nuova. «Perchè?» Per lo scalone, quando erano risaliti negli appartamenti della reggia, avevano tenuti discorsi a voce bassa, in modo che lui non potesse capire, pure accorgendosi che si parlava di lui appunto. «Perchè?» Che cosa aveva fatto? Non aveva detto la verità? Non si era comportato come sempre? Non aveva egli tenuto il solito contegno? Forse non era stata compresa la sua frase? Come potevano dubitare di lui? Che cosa ne sapeva lui? Quel vecchio non gli aveva mai neanche lontanamente fatto dubitare la sua idea, egli lo avrebbe istantaneamente distolto. Come avrebbe potuto insegnargli il suo segreto, s'egli stesso lo ignorava? Che cosa aveva con lui di comune il vecchio Alloro? Egli spontaneamente gli aveva un giorno rimesso le parole della donna che lo amava, ma lui non aveva fatto che accettare quelle carte senza mai restituirne indietro una sua. Ricordava ancora il sorriso luminoso del vecchio, caldo come i raggi del sole, quella faccia che mentre lo guardava diveniva rossa, rovente, qualcosa che veramente generava luce e calore. Povero vecchio, pensava Perelà, diranno che è la mia vittima ora, voleva divenir leggero, ma sarà vero? Perchè non dirmi una sola parola? Perchè nessuno è venuto qui ierisera, perchè nessuno viene nemmeno stamane? In tutta la mattinata nessuno si fece vivo nell'appartamento di Perelà. Le ore passavano ed egli non sapeva che fare. Doveva uscire e recarsi a dimandare? O doveva attendere pazientemente? Si affacciò alla finestra, guardò lungamente il cielo, quasi immergendovisi. Era una magnifica giornata, il sole splendeva sovrano potente nel suo infinito regno celeste, l'aria era azzurra, e Perelà ad occhi socchiusi si sentiva tutto immerso in quella luce, attratto. Venne mezzogiorno, attese ancora. Erano le due, l'ora nella quale gli altri giorni venivano a chiamarlo per recarsi ai suoi giri d'ispezione. Uscì, scese nel cortile, ma la vettura non c'era ad aspettarlo, non c'erano i gentiluomini che lo accompagnavano, nulla, nessuno. «Perchè?» Il cortile era insolitamente deserto. Sul terrazzo del primo piano passarono due gentiluomini parlando sommessamente fra loro, quando videro Perelà si ritirarono presto, probabilmente si appostarono dietro una finestra per spiare. Egli non sapeva se doveva tornarsene indietro, risalire e rinchiudersi nelle sue stanze, od uscire; rimase lungamente perplesso, poi la luce, il sole, il turchino, lo attraevano tanto da dover fare forza verso la terra per tenercisi sopra. Infilò l'atrio della reggia e fu al portone. Le sentinelle lo guardarono di sbieco e lo lasciarono uscire senza un cenno. Non lo avevano salutato. O se sempre lo salutavano, gli presentavano le armi come ai generali! Che cosa era avvenuto, perchè non lo avevano salutato? Perchè lo lasciavano uscire? Perchè nessuno gli diceva nulla; che almeno egli avesse saputo quello che doveva fare, come doveva contenersi. Uscì. Poche persone erano a quell'ora sulla via ed egli potè giungere alla porta della città quasi senza essere visto. Nella reggia era stato spiato ogni suo movimento, e questa uscita, mentre indispettì alcuni, piacque a molti. Egli si dileguava, partiva per non ritornare mai più, tutto sarebbe stato salvo senza ricorrere a violenze. Ma c'erano quelli che volevano spiegazioni, volevano far giustizia, egli in certo modo la passava troppo liscia a questo modo. Il bravo signorino se la cavava a buon mercato davvero, troppo a buon mercato. Bisognava trattenerlo e punirlo. Chi sa che da lontano non potesse nuocere al paese ugualmente, e magari di più? Dove andava? A fare altre vittime altrove di sicuro. A seminare fumo in altre contrade. A burlarsi di altri uomini. Bisognava fargli subire un processo e dargli la pena che si meritava, così e non altrimenti si doveva fare. Ora egli era libero e si rideva un'ultima volta dei beati minchioni che aveva tanto bene saputo corbellare fino dal primo giorno ch'era comparso. Da un'altra parte si diceva invece che era meglio se ne fosse andato zitto zitto colla coda fra le gambe, egli non avrebbe potuto nuocere più ad alcuno dacchè tutti erano in guardia contro di lui, invece a mettersi in guerra chi sa come poteva andare a finire. Che bestia era mai quella? Da dove era venuto fuori? Non si sapeva con chi si aveva a che fare precisamente era un miracolo del cielo che se ne erano liberati tanto per le spicce. In fondo questo andarsene pacifico dimostrava che se anche Perelà era un diavolo, era un buon diavolo, di quelli che nuociono con una certa discrezione. E per tutta la giornata non si fece che dire «torna torna, state quieti, torna» «non torna, non torna, state quieti, non torna». Ma bisognava incominciare a divulgare la notizia, e furono sparsi per la città i soffioni: domestici della reggia, gentiluomini, soldati, per preparare il popolo. Chi andò dal tabaccaio mentre sceglieva dei sigari si lasciò sfuggire qualche parola, chi si lasciò sfuggire qualche parola mentre si trovava in una trattoria a mangiare, o a bere in caffè, chi andò a porgere ossequi ad una gentildonna, tutti nel proprio grado informarono. Le bocche per la gente della strada e dei negozi, i telefoni per le signore e gli uomini di affari, in un'ora tutti sapevano che Perelà era vivamente sospettato della morte di Alloro, e che prima che il Re comandasse un processo era fuggito per una porta dei sotterranei. Ci fu chi disse che era uscito dalla finestra, chi disse che passando dinanzi al dragone alla porta della reggia il dragone non lo avesse visto accanto a sè, nessuno lo avesse visto, e che quest'uomo in certe circostanze aveva uno strano prestigio di cambiarsi in ombra, e che specialmente alla luce del sole non c'era più modo di scorgerlo, e che taluno vi avrebbe potuto benissimo intoppare per la via senza avvedersene. Quello che fu detto è impossibile qui riportare. Si è presso a poco inteso quali forti impressioni ne riportarono i più eminenti uomini dello stato nel loro consiglio d'urgenza, questo ci faccia lontanamente comprendere che cosa poterono dire, tutte quelle femmine femminelle e comari, già di per sè impressionabilissime, che si radunano agli usci delle case, e quello che fu detto nei varî negozi di tabaccaio o di parrucchiere o di farmacista, nei caffè, nelle trattorie, e presso i portinai. — Però — ripetevano tutti — se alla corte lo si suppone colpevole, perchè lasciarlo andare tranquillo a questo modo? I colpevoli devono essere puniti. Ciò venne subito ripetuto a corte, l'opinione pubblica prendeva nel suo corso questa piega che dispiaceva lassù, e d'altra parte non si voleva neanche confessare che si preferiva cavarsela senza agire direttamente su quel tipo supposto in possesso di poteri ignoti di fronte ai quali la corte, con tutte le sue scorte a piedi e a cavallo, non sapeva come contenersi. Ma per buona fortuna, senza sapere quale fosse la sorgente della buona idea l'opinione pubblica dette ragione alla corte. Sì sì, era meglio lasciarlo andare, non valeva la pena mettersi in urto con lui, era meglio trattarlo alla leggera. Sembra che un famoso cicalone abbia detto di essere venuto a conoscere tutto il segreto per certe sue strette attinenze con persone influentissime alla reggia. Egli raccontava che la mattina all'alba era stato tentato il taglio della testa al colpevole, ma chela lama gli era passata da una parte all'altra del collo senza scomporlo minimamente. Quando gli astanti lo hanno visto alzarsi e camminare colla sua testa intatta sopra il collo sono rimasti così inebetiti.... così inebetiti... che non hanno avuta più la forza di trattenerlo, ed egli uscì liberamente. — Sicuro — avevano risposto tutti — che imbecilli a non capire una cosa tanto semplice, come si può tagliare la testa a un uomo di fumo? Solite beghe di quelli scimuniti di lassù — si era detto. — È meglio, è meglio che se ne sia andato, avrebbero finito per commetterne di quelle grosse come case, i bietoloni, e lui gli ha fatti tagliar corto. Alla reggia invece il dilemma era questo: «tornerà o non tornerà?» — Se non tornerà è bene non farlo passare tanto da colpevole, ma se dovesse ritornare bisogna assolutamente disfarsene, e per disfarsene bisogna avere il vento del popolo in favore. In ogni modo era meglio tenersi al peggio, ora che l'opinione pubblica era pronta si poteva gonfiarla o sgonfiarla a piacimento. Ovunque fosse andato era bene far sapere che qui era stato trattato severamente. — E se dove va fa la fortuna di quel paese, ci daranno degli imbecilli a noi che ce lo siamo lasciato scappare, allora sì che Pilone griderà ai quattro venti la sua fatidica parola — diceva uno. Ma nessuno però aveva più dubbî ottimistici sopra Perelà, e chi ne aveva ancora un rimasuglio gli aveva accompagnati da tali riserve.... Tutti lo odiavano, e bisognava farlo odiare anche dal popolo. E il popolo che nelle sue manifestazioni di massa violenta non conosce mezzi termini, come con una facilità che non ha giustificazioni, che non ha principio, si rovescia sulla via dell'adorazione, così per le stesse piccole cause inafferrabili, si riversa sulla via dell'odio. Il Re ordinò che la figlia di Alloro fosse lasciata libera di tornarsene alla sua casa, il giorno dopo sarebbe andato da lei un amministratore per assegnarle un'equa pensione che le assicurasse una comoda esistenza. E questa ragazza fu, a bella posta, fatta uscire, nel mezzo del giorno, quando tutto il paese era in faccende a discutere di Alloro e Perelà, fu fatta uscire dunque a piedi dalla reggia. Appena fuori pochi passi, è inutile dire, che tutti le furono addosso a dimandare spiegazioni, a piangere e commiserare, pregare e consigliare, e intanto a impinzare bene d'olio la propria lucerna per poter irradiare di informazioni e giudizî il proprio vicinato. La ragazza urlò, pianse allo stesso modo che aveva fatto il giorno innanzi, e Perelà, dopo dieci minuti, fu odiato, così odiato come nessuno fu mai. Alla reggia si diceva: «tornerà o non tornerà?». — Caro, se torna sta fresco! Perelà uscito fuori dalla porta della città, si era diretto su verso le colline, e camminava lungo un ruscello coi suoi pensieri, e si sentiva andare andare come sorretto dallo zeffiro azzurro che tutto alitava intorno e tutto illuminava. Si sentiva tanto leggero come non si era sentito mai, e in certi momenti gli sembrava di avere perduta la terra e già di essere alto sopra di essa. Si guardò addosso e il suo corpo gli apparve, invece che grigio intenso, azzurro, e le scarpe lucenti, due corolle dalle quali usciva il corpo come un fiore dell'aria. Incominciò a salire il colle ammirando ora i begli alberi che gli porgevano i rami robusti e agili tutti adorni di foglie verdi, udiva il filo dell'acqua argenteo gorgogliare ai suoi piedi infantilmente e insinuarsi e fuggire giù per il pendio fra le piante di felci. Era vero, non si era sentito mai tanto leggero, mano mano che saliva elevandosi sulla città anche i suoi pensieri si elevavano, le preoccupazioni della reggia e di tutta quella gente laggiù si allontanavano, si attenuavano, si perdevano quasi oramai dinanzi al suo sguardo. La luce lo vinceva, il calore del sole, la leggerezza del suo corpo, il verde delle foglie, l'infantilità di quel filo d'acqua, il respiro puro, gli fecero sentire per la prima volta che tutto quello che si faceva laggiù fra quell'enorme mucchio di pietre era qualche cosa di grave, di pesante, di sommamente pesante, in una maniera che ora gli cominciava a divenire insopportabile. Le torri, le larghe costruzioni, i tetti, enormi cappelli schiaccianti delle case, e tutto si gravava sulla terra così spietatamente, i gentiluomini, i soldati rivestiti di ferro, le carrozze, tutto tutto era di una gravità insopportabile. Guardò un albero che spaziava su alto espandendosi nell'aria mentre il tronco non occupava che un piccolissimo pezzo del terreno, e guardò ad una casa dove abitava un piccolo uomo appoggiata spietatamente sopra la terra per tante centinaia di metri, guardò le torri della reggia, là nel mezzo la mole oscura del palazzo reale regnava anche sopra tutti gli edifizi della città. Allora si ricordò del primo giorno, quando vi giunse col suo spirito puro, e tutte le cose gli avevano fatta questa medesima impressione, ma dopo, l'abitudine e le preoccupazioni quotidiane della vita l'avevano attutita, e le cose che lo avevano circondato erano finite per divenirgli familiari perdendo un po' della loro gravezza. Eppure, pensò egli allora, io acquisterò laggiù tante belle qualità, ma finirò per perdere la mia qualità migliore, la sola vera qualità mia: la leggerezza, questa leggerezza che ora m'inebria e m'innalza. Pensò a _Pena_ a _Rete_ a _Lama_, guardò intorno tutta la corona delle colline nella speranza di riconoscervi la sua vecchia casa, ma non vi riuscì, tante case lontane gli sembravano quella ma non ne fu sicuro. Era giunto alla cima del colle, la città rimaneva sotto nella vallata forse per trecento metri e la si dominava bene tutta. Prima guardo il cielo, quanto ne potè vedere, quanto il vasto orizzonte glie ne concedeva, poi abbassò ancora gli occhi giù sull'ammasso enorme scomposto di giallastro, rossastro verdastro che formava il panorama della città e si sentì in quel momento di disprezzarla come preso da una nausea naturale, quell'ammasso gli appariva uno sfregio, una vomitatura del padre eterno, dopo un suo pranzo.... da padre eterno. Guardò ancora il cielo e si sentì tutto rianimato, vagava sulla cima del colle quando scorse all'ombra di una quercia una fanciulla seduta a terra, aveva le gomita puntate sulle ginocchia e la faccia posata fra le palme delle mani che le facevano guscio alle guance, un bastone le riposava nel grembo, e alcune pecore dormivano vicino a lei, era fissa incantata sul panorama cittadino. Quando Perelà le fu presso, la bimba starnazzò come una pollastra alzandosi, indietreggiando di alcuni passi lasciando cadere a terra il bastone ma conservando le mani alla faccia scomposte. — Oh! — gridò. — Avete paura? — le disse Perelà sorridendo. — Di che? — Perdonatemi signore, voi mi sembraste dapprima una fantasma.... se voi non mi farete paura io non avrò paura. Perelà la guardò sì dolcemente che la fanciulla gli venne vicino composta e rassicurata. — Dove guardavi? — Guardavo la città. Quando le mie pecore dormono io mi diverto sempre a guardare la città, signore, voi venite di laggiù? — Sì. — Ed io non potei mai andarci. Quando esco sono sempre accompagnata dalle mie pecore, e non debbo lasciarle. Oh! certe volte sento una voglia pazza di abbandonarle tutte e di fuggirmene laggiù.... ma poi, così vestita.... che cosa direbbero di me, forse non mi lascerebbero neppure entrare. La mia cattiva zia non mi concede un solo giorno ed io muoio dalla voglia di vedere la città. Ma voi signore, siete di fumo forse? — Sì. La piccola rimase muta senza avere coraggio di guardare ancora Perelà dopo la sua affermazione, ma poi, come per rompere il silenzio, come se avesse paura a rimanere zitta con quell'uomo, prese a dire a voce alta: — Le quattro torri là in mezzo sono della casa del Re, e tutta quella che si vede intorno è la sua reggia. Quella cupola e il campanile sono della chiesa che si chiama il Duomo. Quello che finisce a punta con le statue bianche sulla fronte è il teatro, dove le grandi dame si recano la sera mezze nude coperte solo di gemme per farsi vedere dai loro amanti. E il luccicare che si vede qua e là sono le carrozze che le portano a passeggiare. Quella grande casa tutta nera senza finestre è il monastero dove si rinchiudono quelle che peccarono troppo, le povere pentite, esse piangono là dentro perchè il Signore dimentichi le loro colpe. In quella casa tutta rossa vengono rinchiusi i poveri matti.... — Dimmi bambina mia, ma tu guardi sempre laggiù per la terra e non levi mai i tuoi occhi su, verso il cielo? — Oh! Io ne vedo tanto del cielo se sapeste, e ne ho visto tanto che non alzerò mai più la testa per guardare, è sempre uguale il cielo, ed è tutto uguale, io voglio invece vedere là dove non ho visto mai. Il cielo si guarda la notte, quando splendono le stelle, ma io vorrei vedere quelle altre stelle della notte, che brillano nelle sale del Re o nel teatro tutte nude per i loro amanti. Il sole volgeva al tramonto e Perelà salutando la fanciulla che guardava la terra e guardando lui un'ultima volta il cielo, prese a discendere rapidamente verso la città. Quando vi giunse il sole era da poco tramontato ed incominciava allora ad imbrunire. Alla porta le guardie del dazio lo squadrarono insolentemente e appena fu passato gli rivolsero parole di disprezzo che non potè bene afferrare, la prima persona che incontrò, una donna, quando gli fu vicina fece ad alta voce «_phue!_» e si scostò da lui come se fosse stato preso da un male contagioso. E tutti incominciavano a farsi alle soglie e alle finestre riempendo il suo passaggio di gesti e parole triviali, di insulti, di grida di sdegno e di disprezzo. Un fanciullo che si trovava nel mezzo della via fattoglisi vicino gli dette una spinta alla quale Perelà barcollò ripetutamente sulle scarpe ed andò a battere contro il muro; il fanciullo, raggiante di incosciente malvagità per il colpo riuscito, gli tornò presso e con un'altra spinta lo gettò dall'altro lato della via, e corse allora un altro fanciullo ad aiutare il compagno nell'opera, e se lo sballottarono dall'uno all'altro, eppoi un altro, e un altro ancora, ne fecero come un giuoco, uno di quei palloni ripieni di gas, che si manipolavano fra loro gridando, ridendo follemente. E in breve furono tanti, un nuvolo, uno più perfido dell'altro, uno più accanito dell'altro nel giuoco. Perelà in mezzo, livido, umiliato, senza difesa contro lo sciame terribile, si sentiva travolgere dai piccoli urti, e le grida, le risa gli ferivano il cuore. Alle finestre, alle porte delle case nessuno inveiva più contro di lui, ma tutti ridevano sconciamente, fino a smascellarsi, e la flotta dei bimbi aumentava, incalzati e punzecchiati dai grandi a non lasciar finire l'indovinato giuoco, e Perelà in mezzo piangente, avvilito nella più atroce maniera, guardava i grandi mentre veniva così ferocemente travolto dai piccoli, e il suo sguardo pietoso pareva dire: «perchè?». Perchè nessuno corre a difendermi? Perchè nessuno viene a liberarmi da queste piccole mani spietate quanto le più grosse del più grande nemico? Ora lo rotolavano a terra, lo rialzavano, e ridevano rumorosamente oscenamente, nessuno s'introduceva, anzi, tutti facevano bene largo nella via perchè l'infantile masnada fosse libera di compiere la sua strage intera. Egli era alla gogna, e quale terribile gogna, la più umiliante che a uomo sia mai toccata! Impotente di difendersi fra un nuvolo di testine ricciute, di squilli argentini di voci e di candide risa. Ce n'era uno, avrà avuto appena tre anni, con un lungo stecco in bocca a guisa di sigaro, rideva, rideva, si avvicinava a dare la sua spinta con una giocondità di espressione angelica, e stringendo sempre fra i dentini lo stecco, rideva.... La scena fu delle più umilianti che a uomo sieno mai potute toccare, le piccole teste inconsce avevano inconsciamente trovata la maniera più orribile, più feroce per umiliare un uomo. E tutti intorno ridevano sconciamente alle porte, alle finestre, senza scomporsi, «bene! bravi!» gridavano quando la ferocia degli insetti raggiungeva il culmine, per aizzarli sempre di più. E l'uomo naufrago, perduto là in mezzo, passava dall'uno all'altro sballottato, avvilito, assolutamente impotente a difendersi per la sua estrema leggerezza contro uno solo dei fanciulli, divenuto il giuoco più ridicolo nel mezzo della via, e l'espressione piangente della sua povera faccia diceva: «perchè? perchè?» L'INDISPOSIZIONE DI PERELÀ Perelà è chiuso nelle sue stanze indisposto. È venuto il medico di corte a visitarlo ma ha detto che non sapeva assolutamente che cosa fare, non è nemmeno riuscito a trovare il cuore ed il polso dell'infermo, ha concluso rifiutandosi ad ogni costo a prodigare le sue cure ad un uomo di fumo, ed ha aggiunto ritenere l'indisposizione una bella fandonia, uscendo dalla stanza ha scosso le spalle in una maniera assai villana senza neanche salutare Perelà. Non è una fandonia, Perelà si sente male davvero, dopo la scena nella via, scampato solo quando i monelli furono stufi del loro giuoco, rientrato nella reggia, ieri sera, si sentiva male, proprio male, tutte le sue fragili membra erano lacerate, non poteva dire preciso dove avesse una pena, ma certo era sofferentissimo, avvilito, umiliato, i begli occhi grigi erano ancora piangenti, si sentiva la testa vuota ed era di tratto in tratto serpeggiato da brividi fortissimi. Gli stivali gli sembravano ora freddi al contatto delle gambe, e tutto l'ambiente gelido.... sentiva un bisogno eccessivo di riscaldarsi, ma data la bella stagione primaverile non ci poteva essere una stufa accesa ed egli non osava domandare. Nessuno è venuto da lui, solamente quel medico per due minuti e che se ne è andato in una maniera tanto villana. Egli pensa: «che cosa accade? Oh! non fossi mai ritornato! Io ero felice ieri lassù, e mi sentivo già tanto vicino al cielo. Perchè sono ritornato? Che cos'ha dunque questa terra che mi ha attratto un'altra volta nel profondo delle sue insenature, nel freddo delle sue valli? Oh! il bel colle, e l'azzurro che io avevo sentito già mio! Che cosa mi faranno? Certo qualche cosa succede, qualche cosa si sta preparando contro di me. Che feci loro? Se almeno ci fosse ancora il vecchio Alloro! Egli è morto, morto.... morto.... diranno che è morto per me, diranno che io sono la causa della sua morte, egli è morto.... ed ora sarebbe forse la sola persona che avrebbe pietà di me, che verrebbe almeno clandestino a dirmi quello che succede, quello che mi si vuol fare, quello che mi si prepara, perchè qualche cosa si sta certo preparando contro di me. Tutto si è rovesciato dinanzi ai miei occhi in un istante....». Mentre Perelà è assorto in questi suoi tristi pensieri, la porta della stanza si apre cautamente e si introduce come una nube nera frusciante di sete e di veli, una donna; la Marchesa Oliva Di Bellonda. — Non mi si voleva lasciare entrare, ho dovuto lottare corpo a corpo col dragone.... ha minacciato di infilarmi nella sua baionetta.... di far fuoco sopra di me.... Ho invocato l'aiuto del Re, nulla, ministri, gentiluomini, nulla nulla nulla, ah vili! vili! Solamente da una donna ho potuto ottenere: la Regina, dalla sua grazia, non so che cosa abbia fatto, ha implorato per me, non so, ha ottenuto di lasciarmi entrare. Sono venuta solamente per dirvi che io vi amo, vi amo ancora, sempre eternamente vi amo. Dopo che ho potuto sapere tutto, dopo che mi hanno raccontata la scena di ieri sera.... sono rimasta per un po' avvilita, schiacciata.... oh! avrei dovuto correre a liberarvi.... ieri sera guardando i miei bambini mi sono sentita una vampa di odio alla testa contro di essi.... ma.... poi ho pensato che i grandi solamente sono i colpevoli, i responsabili, e che vale assai più la pena vendicarsi sopra di essi.... oh! s'io fossi potuta correre, ad aiutarvi, a liberarvi! Dunque, amico mio.... non so quello che sarà di voi.... credo che appunto in questo istante il consiglio di quei miserabili sia riunito per decidere di voi.... chi sa quale decisione verrà presa.... ma.... certo.... certo vorranno una vittima, due tre quanto è possibile... la fame di quei perversi animali è insaziabile, vi vorranno far del male ne sono sicura, io lotterò, farò tutto per salvarvi, tutto tutto, mi renderò lecita ogni cosa Nulla sarà infattibile dinanzi ai miei passi! Pur di giovarvi fino all'ultimo momento, e quando vi avranno bene schiacciato non mi rimarrà che perire con voi, ed allora solamente sarò tranquilla, potrò esser felice! Ma io tremo.... tremo solo per questo, se voi doveste cadere senza di me.... voglio perdermi con voi capite, voglio morire con voi! Questa sola sarà la mia ora di vita.... la mia vittoria! E se me lo impediranno sarò spietata! Mi servirò del fuoco, abbrucerò, mi servirò di lame per trapassare i cuori ridendo, allaccerò con le mie reti anime e corpi, con tutte le viltà con tutte le menzogne che da essi imparai, avvelenerò, distruggerò distruggerò, distruggerò con un solo sorriso del mio odio, finchè non mi lasceranno morire con voi. _Pena!_ _Rete!_ _Lama!_ Date alle mie mani spietate gli arnesi per la mia distruzione, e datemi la forza orrenda di vendicarvi! Non so quello che accadrà.... ma.... ricordatevi.... che io vi sono sempre vicina.... sempre sempre.... addio.... addio.... mio grande amore! Appena scomparsa, come un'ombra, la Marchesa Oliva Di Bellonda, Perelà pensa all'amore di questa donna, al suo sacrificio. Alla sola creatura che l'ha amato. Pensa a lei, e pensa ad Alloro. «Forse anche lei rimarrà schiacciata, abbruciata dal suo amore, come Alloro dalla sua devozione.... e cadrà. Ma allora essi hanno ragione di odiarmi, gli altri, se amarmi vuol dire soccombere, hanno ragione, obbediscono al loro bestiale e naturale istinto di conservazione. Perchè Alloro si è ucciso? Perchè questa donna vuole morire? Eppure io non ho detto loro una parola sola, non ho neanche fatto loro supporre di ricambiare il loro affetto, e il loro amore....». La porta a questo punto si apre ancora, il gentiluomo dalla testa quadra e dagli occhiali d'oro si fa sulla soglia, alle spalle si sporgono due teste che guardano, gonfie di curiosità, nella stanza. — Signor Perelà, voi siete chiamato domattina alle ore dieci dinanzi al ministero della giustizia. Preparate la vostra difesa e i vostri difensori. IL PROCESSO DI PERELÀ L'aula della giustizia è al completo. Perelà è da pochi minuti nella gabbia dei colpevoli, circondata da dodici vigili in grande uniforme. Al suo apparire si sono intrecciate furiosamente alte grida di disprezzo, fischi, lazzi osceni. Solo dopo alcuni minuti è stato possibile ristabilire la calma e il silenzio nell'aula. Egli ha il suo solito aspetto, non è alterato minimamente, mostra di interessarsi poco di quello che gli avviene intorno. Le gallerie sono riboccanti, le eleganti signore e signorine vi sono ammassate, vi si vedono uomini e donne di tutte le età. La balaustrata è assiepata di popolo che gremisce imponentemente l'aula fino dietro alle porte. Già dalle sette del mattino la via e le adiacenze del palazzo della giustizia erano popolatissime. Quando è giunta la vettura con Perelà, le urla, i fischi si sono scatenati in una bufera vertiginosa. Sono le dieci, si attende il ministro della giustizia coi giudici. Tutti gli sguardi sono rivolti all'imputato, dalla marea del popolo, in fondo, si vedono continuamente sobbalzare teste che cercano di poter vedere l'uomo, quell'abbassarsi ed alzarsi dà la sensazione di una grande tempesta in un mare di patate. Si sussurra si sussurra ma nessuna voce si distingue. Si respira già quell'aria vaporosa umida, orribile ricetta di polvere di decrepiti legni, di decrepite tappezzerie, e di fresche esalazioni della giovane e vecchia umanità. Riescono talora ad infilar visi con tutta la loro ironìa alcune spire di fino _Houbigant_ o di _Coty_, somigliantissime a certi maliziosi risolini femminili, così fini come lame di rasoi. Quel miscuglio che si perfeziona col miscuglio stesso della gente, proprio di certi grandi teatri popolari, aule universitarie e politiche, ma che in quelle della giustizia in giorno di grande processo raggiunge la sua perfezione assoluta. Si fa silenzio sepolcrale, entra il ministro della giustizia. Nell'aula, che si sembra d'un tratto vuotata, si ode ora solo il fragoroso tuonare di imponentissime poltrone smosse sulle assi del pavimento. Il ministro della giustizia si fa in piedi, volge intorno gli occhi nella assoluta cristallizzazione dell'ambiente. Solamente Perelà dondola appena appena sul suolo. — Prima che il processo si apra, chi è il difensore dell'imputato? — Silenzio, il ministro fissa Perelà, Perelà dondola ancora impercettibilmente. — Imputato, chi è il vostro difensore? — Silenzio, la compattezza dell'ambiente incomincia a screpolarsi. — Non avete un difensore? Voi avete pure il diritto di essere difeso! — Il corpo incomincia la sua screpolatura con qualche rumore. — Ebbene, chi vuole essere il suo difensore? — Le crepe si allargano rumorosamente. — Nessuno risponde? — Alcune si fanno voragini, incominciano a crollare i primi tocchi con frastuono. — Non c'è uno che voglia difenderlo? — È un rotolamento generale di tocchi che alla loro volta rotolano e si disfanno. — E non basterebbe questa prova per firmare già la vostra condanna? — Tutto si disfà, si sgretola, si disperde, l'ambiente è in frantumi. — Silenzio! — Per l'ultima volta, c'è qui dentro uno che voglia parlare in difesa dell'imputato? — Io. — Una donna! — Oliva! — Oliva! — La Marchesa Di Bellonda! — È pazza! — Le donne non sono ammesse! La nostra legge non lo consente. — Fuori le donne! — Le donne non hanno mai difeso nessuno! Si urla, si grida, si discute, si ride, ci si soffia il naso, si sternutisce, si inveisce, al banco della giustizia si suonano alcuni campanelli, ce n'è uno squarciato, si grida silenzio, quello squarciato è proprio quello del ministro. — Signora, la parola delle donne non ha mai avuto nessun valore sui banchi della giustizia. — Il signor Perelà ha il diritto di essere difeso. — Ma non da una donna. — Siccome la generosità degli uomini non ha una sola parola per lui, sia almeno ascoltata la parola d'una povera donna. — Questo processo prende una bruttissima piega. — Atto di accusa! — Silenzio! — Silenzio! — I campanelli sono tutti a gambe all'aria, quello squarciato sembra una vecchia contessa femminista in battibecco con dei suoi fervidi spasimanti dai quindici ai venti anni. — Atto di accusa. «Imputato, siete accusato di esservi servito di male arti per ingannare la Reale opinione, l'opinione del consiglio dei ministri, l'opinione pubblica! Vi siete fatto credere, per la vostra eccezionale natura, in grado di compiere un'alta opera per il nostro paese, mentre eravate pienamente cosciente della vostra assoluta impotenza di tutta la vostra insipida nullità. E ciò per le vostre illecite mire ormai svelate. Voi avete fino all'ultimo momento mantenuta la missione generosamente offertavi invece di rassegnatamente dimettervi. Siete accusato di esservi servito ancora di dette male arti per indurre un uomo al suicidio. Alloro è la vostra prima vittima, voi avreste continuata una propaganda di strage, incendiaria e omicida, facendo abbruciare uomini e cose per restare padrone terribile e assoluto del campo. Siete imputato di essere penetrato nel nostro paese al solo scopo di nuocere, servendovi del vostro illegale, losco potere. Discolpatevi». Si fa un po' di silenzio, c'è qua e là gente che zittisce, si vuole potere udire la difesa di Perelà. I campanelli hanno le sottane al loro posto. Appena Perelà incomincia a muoversi, a dondolarsi un poco in attitudine di parlare, la sala ritorna nel silenzio più perfetto. — Io sono leggero. — Queste parole egli le dice con voce ferma, tranquilla, alitate con la soavità più assoluta di tutta la sua espressione. — Avanti, discolpatevi! — Io sono leggero. — L'aula rumoreggia, si sentono molte voci d'indignazione. — Ah! Voi intendete con questa sola parola gettarci l'ultimo insulto! Volete ancora una volta giuocarci colla vostra malefica colpevole ironìa, col vostro scellerato cinismo? Voi volete dire che all'uomo più leggero noi avevamo affidata l'opera più grave, non è questo che volete dire? Ma a quell'uomo noi glie l'abbiamo tolta! E gli daremo ora la pena ch'ei si merita. Il misterioso potere della vostra persona è ormai svelato, siete il figlio.... di tre streghe! — No! No! No! _Pena! Rete! Lama!_ guardatemi, voi lo vedete dove sono, venite fuori dalla vostra sepoltura, ditemi, ditemi che non eravate tre streghe! Il momento drammatico indigna molte facce che si vanno raggomitolando, ma qua e là si vedono biancheggiare alcuni fazzoletti. — Signor Perelà, per l'ultima volta, discolpatevi. — Io sono molto leggero, si, si, leg-ge-r-o. — Incomincereste a diventar pesante. — Ma come deve fare a scolparsi, si sente troppo bene colpevole! — Aspetta rassegnato la condanna! — Silenzio! — Non avete altro da dire? Si passi all'interrogatorio dei testimoni. Momento di discussioni vivaci, di piccoli alterchi, saluti, gesti, sorrisi, tutti sono in movimento, solamente una donna in mezzo, poco sotto al banco della giustizia, in piedi, colla testa bassa, aspetta: la Marchesa Oliva Di Bellonda. — Pirlottini Francesco Maria, arcivescovo. — Aveste rapporti con l'imputato? — Brevi ma bastanti. — Che cosa vi sembrò? — Un essere nocivo allo stato e alla chiesa, allo stato della chiesa, alla chiesa dello stato. — Credete ch'egli si sia valso di male arti per ingannare la Reale opinione, l'opinione dei ministri, la pubblica opinione? — Si valse di male teorie. — Lo credete responsabile della morte di Alloro? — Direttamente. — Credete ch'egli avrebbe continuato la sua propaganda omicida e incendiaria? — Indubitatamente. — Che cosa ne fareste? — Guarderei se fosse possibile il taglio della testa, se no il nodo. O taglio, o nodo. — Rodella Fortunato, banchiere. — Aveste rapporti con l'imputato? — Si. — Che cosa vi sembrò? — Una cavaliere.... d'industria. — Credete si sia valso di male arti per ingannare, ecc... — Certo. — Lo credete responsabile della morte di Alloro? — Si. — Credete ch'egli avrebbe continuato la sua propaganda, ecc.?... — Si. — Che cosa ne fareste? — Un'asta pubblica. — Scopino Isidoro, poeta. — Aveste rapporti con l'imputato? — Si. — Che cosa, vi sembrò? — Pedestre.... pedestre.... — Credete si sia valso di male arti, ecc.... — Arti da strapazzo. — Lo credete responsabile della morte di Alloro? — Autore. — Credete avrebbe continuato la sua propaganda, ecc.?... — In collaborazione. — Che cosa ne fareste? — Lo manderei in omaggio a Costantino Del Pesce, per farglielo stroncare. — Del Pesce Costantino, critico. — Aveste rapporti coll'imputato? — Ne ebbi.... e non ne ebbi. — Ne aveste o non ne aveste? — Ne ebbi. — Che cosa vi sembrò? — Mi sembrò.... e non mi sembrò. — Credete si sia valso di male arti, ecc..... — Si valse.... e non si valse. — Lo credete responsabile della morte di Alloro? — Lo credo.... e non lo credo. — Che cosa ne fareste? — Ne farei.... — E non ne farei. — Formichini Cesare Augusto, scultore. — Aveste rapporti coll'imputato? — Si. — Che cosa vi sembrò? — Un vile. — Ma voi gli avevate incominciato il monumento? — Si. — E come mai? — Già io feci agli eroi tutti il monumento. — E ora incominciate a farne ai vili? — Perchè più grande rifulga al confronto lo splendore degli altri. — Credete si sia valso di male arti, ecc.... — Diaboliche. — Lo credete responsabile della morte di Alloro? — Satanicamente. — Credete ch'egli avrebbe continuata la sua propaganda, ecc.?.... — Lucifero! — Che cosa ne fareste? — Prometeo! — Pacchetto Crescenzio, pittore. — Aveste rapporti coll'imputato? — Si. — Che cosa vi sembrò? — Senza colore. — Credete si sia valso di male arti, ecc.?... — Si. — Lo credete responsabile della morte di Alloro? — Si. — Credete ch'egli avrebbe continuata la sua propaganda, ecc.?.... — Si. — Che cosa ne fareste? — Lo vernicerei e poi lo darei a cuocere. — Pipper Agostino, medico. — Aveste rapporti coll'imputato? — Ebbi occasione di visitarlo. — Che cosa vi sembrò? — Affetto da _psicopoloneuropatoschlerosofilia_. — Si attacca? — Oh! Una forma epidemicissima! — E ce lo dite ora? — Purtroppo! — Credete ch'egli si sia valso di male arti, ecc.?... — Contagiose. — E lo ritenete ugualmente responsabile della morte di Alloro? — Per Dio! — Credete ch'egli avrebbe continuata la sua propaganda, ecc.?... — Si. — Che cosa ne fareste? — Lo metterei sotto la calce viva. — Pila Angiolino, detto Pilone filosofo. — Aveste rapporti con l'imputato? — Si. — Che cosa vi sembrò? — Un imbecille. — Credete si sia valso di male arti, ecc.... — Per ingannare gl'imbecilli. — Lo credete responsabile della morte di Alloro? — Erano due imbecilli. — Credete ch'egli avrebbe continuata la sua propaganda, ecc.?... — Sì, ma cogli imbecilli, che non sono pochi. — Che cosa ne fareste? — Imbecille più, imbecille meno.... — Anche te, anche te, filosofo vigliacco, che stai sulla terra per mostrarne i bubboni solamente, liberaci almeno dal tuo ch'è il più sozzo! — Signora Marchesa, non è il vostro momento. — Fatela tacere! — Fatela tacere! — Questo processo mi sembra una _pochade_! — È una farsa, una farsa! — Bolo Filzo Zoe. — Aveste rapporti coll'imputato? — Mi pare. — Che cosa vi sembrò? — Un mostro. — Credete si sia valso di mali arti, ecc.?... — Mostruose. — Lo credete responsabile della morte di Alloro? — Si. — Credete ch'egli avrebbe continuata la sua propaganda ecc.?... — Non v'ha dubbio. — Che cosa ne fareste? — Lo chiuderei nelle urne delle mummie. — Di Cartella Maria Gioconda. — Aveste rapporti coll'imputato? — Si. — Che cosa vi sembrò. — Impotente nel bene potentissimo nel male. — Credete si sia valso di male arti, ecc.?... — Le peggiori. — Lo credete responsabile della morte di Alloro? — Sicuramente. — Credete ch'egli avrebbe continuata la sua propaganda, ecc.?.... — Senza tregua. — Che cosa ne fareste? — Lo impiccherei dopo di averlo unto. — Pizzardini Ba Cloe. — Aveste rapporti coll'imputato? — Qualche cosa. — Che cosa vi sembrò? — Un buono a nulla. — Credete si sia valso di male arti, ecc.?... — Si. — Lo credete responsabile della morte di Alloro? — Si. — Credete ch'egli avrebbe continuata la sua propaganda, ecc.?... — Si. — Che cosa ne fareste? — Uhm.... nulla. — Giunchi del Bacchetto Nadina. — Aveste rapporti coll'imputato? — No. — Allora mia cara signora è inutile continuare l'interrogatorio. — Voi potete però chiedermi che ne vorrei fare. — Che cosa ne fareste? — Lo caccerei negli occhi di tutte le mie buone amiche. — Sguaiata! — Si è voluta distinguere anche in pieno processo! — Con tutta quella gente laggiù. — Se ci pigliano di mira stiamo fresche! — Delfino Bicco delle Catene Bianca. — Aveste rapporti con l'imputato? — Si. — Che cosa vi sembrò? — Un morto dissepolto. — Credete si sia valso di male arti, ecc.?.. — Arti di morte. — Lo credete responsabile della morte di Alloro? — Si. — Credete ch'egli avrebbe continuata la sua propaganda, ecc.?... — Fino alla morte. — Che cosa ne fareste? — Lo seppellirei così. — Copertino Enos. Si avverte il pubblico che pure portando un nome mascolino il teste rimane di sesso femminile. — _Voilà la lésbienne!_ — _Avec sa jupe-culotte!_ — Aveste rapporti coll'imputato? — _Bien peu monsieur._ — Che cosa vi sembrò. — _Une tapètte quelconque._ — _Mon Dieu quelle honte!_ — _C'est le dernier outrage._ — _Tapètte aussi!_ — Credete si sia valso di male arti, ecc.?... — _Certainement._ — Lo credete responsabile della morte di Alloro? — _Il était son tipe!_ — _Ah! La vieille tante!_ — _Quelle orrible créature._ — _Il me degoute._ — Che cosa ne fareste? — _Je m'en fiche._ — Ilario Denza Carmen. — Aveste rapporti coll'imputato? — Si. — Che cosa vi sembrò? — Uno sfruttatore di femmine. — Credete si sia valso di male arti, ecc.?... — Arti da lenone. — Lo credete responsabile della morte di Alloro?... — Assassino. — Credete ch'egli avrebbe continuata la sua propaganda, ecc.?... — Impunemente. — Che cosa ne fareste? — Gli preparerei il rogo colle mie stesse mani. — Ramino Liccio Rosa. — Aveste rapporti con l'imputato? — Si. — Che cosa vi sembrò. — Un uomo senza pudore. — Credete si sia valso di male arti, ecc.?... — Arti da spudorato. — Lo credete responsabile della morte di Alloro? — Si. — Credete ch'egli avrebbe continuata la sua propaganda, ecc.?... — Spudoratamente. — Che cosa ne fareste? — Lo spoglierei sulla pubblica piazza e lo farei frustare. — Del Prato Solìes Gelasia. — Aveste rapporti coll'imputato? — Si. — Che cosa vi sembrò? — Un corruttore di minorenni. — Credete si sia valso di male arti, ecc.?.... — Arti corrotte. — Lo credete responsabile della morte di Alloro? — Corruttore. — Credete ch'egli avrebbe continuato la sua propaganda, ecc.?... — Ci avrebbe corrotti tutti. — Che cosa ne fareste? — Lo impalerei in un campo di canape. — Il teste Barbero Di Ca' Mucchio Giacomina, impossibilitato a rispondere ci fa pervenire il certificato medico. — È vero non me ne ero accorta! — Donna Giacomina! — «Barbero Di Ca' Mucchio Giacomina — silenzio! — da me visitata, trovasi affetta da contusioni gravi ed escoriazioni multiple della vagina, con conseguente infiammagione. Per questo nell'assoluta impossibilità di muoversi e camminare onde rispondere all'appello quale teste in causa penale. In fede di quanto sopra firmato: Pipper». — Carlomignolo! — L'ha rovinata! — Ch'egli segua sì in ritardo il proprio sviluppo naturale? — Ella avrà piuttosto fatto un tentativo con qualche Carlo.... pollice. — Marchesa Oliva di Bellonda, che cosa avete da dire? — Una sola parola, dopo la deposizione dei testimoni io non posso più dire che una parola: io sono leggera.... sì, leggera.... Leva in alto le braccia agitando i veli grigi che l'avvolgono, in atto di volare. Urla e fischi si scatenano da ogni parte, si sentono rumori osceni fatti colla bocca, si sente anche il suono di una piccola tromba. La Marchesa Oliva Di Bellonda ferma, attende. — Serrate anche lei nella gabbia! — Con quel vigliacco del suo amante! — Legateli insieme! — Pazza! — Svergognata! — Sculacciatela sulla piazza con quel porco di Perelà. La marchesa solleva un braccio pure tenendo la testa bassa, si fa un relativo silenzio. — Sì, insultate.... bestemmiate.... è bene.... è bene, perchè voi non imprecate che contro le cose grandi! — Urla, fischi. — Voi, non vi potreste meglio tradire, o meschini! Uomini generati nei viscidi uteri sanguigni, usciti come rettili dalle contorsioni dei muscoli nel delirio della lacerazione della carne, egli è sopra a tutte le stirpi, sopra a tutto il sangue! È il figlio della fertile vecchiezza di tre vergini che lo nutrirono non col nauseante umore del loro seno, ma coll'incanto della loro voce, col calore della fiamma delle belle querci e degli abeti. Voi benediceste ciecamente un giorno la sorte che ve lo aveva mandato, e colla stessa cecità ora la condannate. Uomini vili! che non sapete servirvi che dell'insulto o della menzogna! — Urla, fischi, rumori osceni. — Voi preparate a quest'uomo la stessa pena che date ai ladri e agli omicidi, ma egli è stato nuovo con voi, riuscite almeno ad essere nuovi con lui! — Urla, fischi, trombette, rumori di ogni genere, la Marchesa grida a perdifiato, ma solamente i più vicini la possono udire. — La fine di Alloro non è la prova più grande del suo potere? E quando anche egli avesse fatto tutto e tutti abbruciare col suo incanto non sarebbe egli il più grande, il più infinitamente grande di tutti gli uomini? — È pazza! — Fatela tacere! — È una donna! — È innamorata! — Stupida! I rumori crescono, si raccolgono qua e là alcune invettive, alcuni insulti, al banco del ministro grande _can can_ dei campanelli. — Silenzio! — Uomini dai visi arcigni, verdi per il tossico della vostra invettiva, guardatelo! Egli è là sereno, immutabile, tranquillo! Che cosa ha egli detto per discolparsi? «Io sono leggero». E io pure da questo momento mi sento leggera, come lui, e sfido, sfido le ire di tutti, tutti vi sfido, che siete tutti contro me sola! Ella leva ancora in alto le braccia agitando i veli grigi intorno al corpo in atto di volare. — Fatela tacere! — È una donna! — È innamorata! — Guardatemi, guardatemi in volto! I miei occhi brillano, e le mie labbra sorridono! Io sono felice in mezzo a voi perchè mi avete lasciata sola con lui! — Basta! — Basta! — Siete donna! — Siete innamorata! — È la vostra difesa! — È la vostra condanna! — In mezzo a loro, io mi sento sola con te, come fossimo nel mezzo del deserto soli! Amore! Sì! E posso dirti finalmente: io t'amo! — Puttana! — Basta per Dio! Silenzio! — Si sapeva come doveva finire la difesa di una donna! — Che scandalo! — Io me ne vado ho paura. — No no, rimani per carità. — Ci ha danneggiate tutte! — Voi ci avete tutte pregiudicate! — Silenzio! — Non potremo mai più ritentare l'aula. — Silenzio! — La pena! — La pena! — Il gabbione! — Fra le mummie! — Nella cella di Iba! — Sì! — Sì! — Con Iba! — La Catulva! — La Catulva! — La celebre Catulva! — E venuta al processo! — Chiedete a lei! — Ella conosce tutti i drammi umani! — Signorina dite, parlate. — Parlate! — Dite una parola di accusa o di difesa! — Sì. — Ha detto di sì. — Ha detto di sì. — Sì che? — Continuate! — È colpevole? — È innocente? — Silenzio! — Sì? Che cosa? — Non dice più nulla. — Ma non sa che cosa dire! — Queste attrici fuori dei loro drammi sono delle stupide. — Non sa far che delle smorfie. — Lasciatela. — La pena! — La pena! — Al Calleio! — Al Calleio! — Sì, al Calleio! — Il principe Zarlino! — Il principe Zarlino? — Hanno dato la via ai matti, hanno dato la via ai matti, poveri noi! — Che succederà! — Guarda guarda! — Si abbracciano! — Belli tutti e due! — Si sono abbracciati! Il principe Zarlino è vestito di un magnifico velluto grigio, ed ha impastato bene la faccia con una certa pomata mercuriale. Da vari giorni egli fa da Perelà dentro al suo manicomio. — La pena! — La pena! — Al Calleio! — Al Calleio! — Il messo della Regina! — Lasciatelo parlare! — La Regina è nei suoi appartamenti che passeggia dubitosa, ella va e viene per le sale colle braccia abbandonate, non dice più che una parola sola: «Dio». — Hanno tutti poche parole i grandi personaggi! — Evviva la Regina! — Abbasso la marchesa di Bellonda! — Ella invoca Dio? Ma chi invoca uno che sa più forte di sè, è un debole che ha paura! Fischi acutissimi ricuoprono totalmente la voce della Marchesa. Il ministro si alza, è per leggere la condanna, la sala a stento ritorna nel silenzio più assoluto. — Risultata ad unanime parere la reità dell'imputato e stabilita la dubbia riuscita di pene più decisive, il Ministero della Giustizia lo condanna alla segregazione cellulare a vita. — Vile! Vile! Vile! — Portatela via! — Fuori! Fuori! — Egli non sarà messo nelle comuni prigioni, ma gli verrà fatta una piccola cella sulla cima del monte Calleio, dal quale discese a portare lo scompiglio in mezzo a noi, e vi sarà murato! — Bravo! — Bene! — Noi lo accompagneremo! — Vile! Vile! vile! — Murato! — Bene! — Viva il ministro! — Il Re! Ora solamente il Re può cancellare la condanna. — Il giudizio del Re. — Su in alto, nel mezzo alla loggia dell'aula, si apre un grande drappo porpora a nappe d'oro e dietro un grosso cristallo appare la persona del Re. Tutti i respiri sono in quest'istante rattratti, il quadro in cima all'aula assorbe tutti i sensi. Si ode solamente l'ansito di un petto femminile che si squassa — su, su, su, su — come s'ella volesse colla sua anima sollevare la mano del Re. Se egli solleverà la destra durante i trentatrè secondi che la portiera rimane aperta, la condanna è cancellata, se la destra rimarrà pendente la condanna è approvata irrimediabilmente. Gli attimi si rincorrono spasmodicamente. — s.... u.... s.... u.... s.... u... s.... u... Vile! Vile! Anche te! Vigliacco! — Al Re! — Al Re! — È sua cugina. — Legatela! — Fatela legare! — Vili tutti! Io correrò da tutti i popoli a raccontare come fu condannato un innocente. A tutte le corti, di tutti i regni, come fu consumata questa infamia! E tu, ministro della menzogna, quando ti sarà chiesto ragione della condanna di un innocente, quando ti sarà domandato che ne facesti di quell'uomo, che risponderai? — Egli non era un uomo. — E che risponderai della Marchesa Oliva Di Bellonda? — Da questo momento la Marchesa Oliva di Bellonda non è più responsabile delle proprie azioni! — Ah! Bene! Bravi!.... Oh! mi avete.... mi avete.... schiacciata! Io.... sono vinta, sono perduta, calpestata, e ora da vinta io parlo. Io posso da vinta almeno supplicare. I vincitori concedono una piccola grazia a chi è debole, a chi è caduto giù.... — Parlate. — Egli non vi domanda nella sua prigionìa, cibo, come ogni altro recluso, nemmeno una sedia nella sua cella egli vi chiede, ad Iba stesso fu concesso tanto vino finchè ne voleva, dopo avergli rubato il suo tesoro, ma voi non potete dimenticare ch'egli è il figlio della fiamma, voi non glie lo potete negare questo.... Io supplico la pietà della giustizia, a volere concedere che abbia la sua cella angusta un piccolo camino solamente, il suo camino, dove nacque, e dove sempre visse felice alimentato dal fuoco e dalla voce delle sue nutrici. Voi non dovrete pensare a fornirgli un solo tronco, io, io gli anderò ogni sera col fuoco perchè possa riscaldare le membra irrigidite, ravvivare i poveri occhi nelle gelide notti. Voi mi concederete questa grazia, che io vi domando.... inginocchiata. — Su alzatevi, alzatevi signora Marchesa, la grazia vi è concessa, la cella avrà il camino che voi chiedete e vi sarà praticato un foro dal quale potrete passargli tutta la legna che vi parrà, e dal quale potrete ogni giorno vedere il vostro amante. — Uh! — Che manata di fango! — L'ha ricoperta di fango! — Fango? Mie buone amiche? Il signor Perelà udì un giorno dalla viva voce di voi tutte, pronunciare, con molta indifferenza, la parola amante. — Non è vero! — Bugiarda! — Mentisci! — Nessuna disse allora la parola fango. L'amante che quel giorno io non potei vantare eccolo, oggi lo vanto, siamo compagne. — Sfacciata! — Non è vero! — Menzognera! — La seduta è tolta. — Addio mia cara Gelasia. — Addio Zoe. — _Adieu mon ange._ — Che orrore! — Oliva fino ad ora era quella che aveva meno fatto dire di sè. — Ha voluto mettersi al corrente. — Altro che! — Sembrava tanto mite in quella sua malinconia.... — Così dolce.... — È impazzita mia cara. — Bisogna convenirne. — Bianca Delle Catene nel suo cimitero non fece un tale clamore. — E il povero marito? — Che ha taciuto sempre. — Lo ha coperto di ridicolo come potrà più sollevarsi? — E ora ridurrà la casa il magazzino d'uno spaccalegna. — Le farà spaccare a suo marito. — I fanciulli, quando ella passa in vettura, le gridano dietro, e stamane quando è giunta tutti esclamavano: Madama Perelà. — Che scempiaggine fenomenale ha mai commesso! — Ah! — Tu vieni stasera in casa di Nadina? — Certamente. — Ci vediamo mia cara. — Ci vediamo. — Non mancherà nessuno. — Certamente, ah! sì.... Madama Perelà! — Che peccato! IL CODICE DI PERELÀ Dopo il processo, Perelà è stato ricondotto alla reggia, chiuso nel suo appartamento sorvegliato da quattro vigili, egli vi rimarrà per tutto il tempo necessario alla costruzione della sua tomba lassù sulla cima del monte Calleio. Questo atto spontaneo del Re e del ministro, di riprenderlo sotto il tetto regale dopo la condanna, ha inasprito molto le maggioranze. La delicatezza colla quale si continua a trattarlo cade ora nel ridicolo. — Perchè questa condotta così eccessivamente pietosa da parte del Re? Egli doveva essere trattato come tutti gli altri colpevoli, anzi, più duramente, molto più duramente! Quale colpevole non sa trovare una parola almeno per giustificare o solamente attenuare la propria colpa? Ebbene, questa parola quell'uomo non l'aveva trovata! Che diavolo gli si stava mai preparando lassù sulla cima di quel monte? Un qualche villino forse? Una comoda villeggiatura per l'estate prossima? La giustizia ha mostrato chiaramente fino all'ultimo il suo debole per costui. — Ecco le voci in corso. — I delinquenti si trattano come si deve, da delinquenti, quando mai si erano visti ricevere alla reggia i condannati a vita? E usargli mille premure come fossero dei principi del sangue? E quel povero Re che aveva corso i più grandi pericoli con questo malfattore in casa, ora continuava a tenerselo vicino come una mignatta! Gran baggiano anche lui! La bontà ha le sue barriere come ogni altra cosa, fuori di quelle è stupidaggine, è goffaggine, ridicolezza! Voleva dunque tendergli le braccia fino all'ultimo? Una prigione tutta per lui! O quella non era un'idea torta? Che esagerazione! Cosa diamine erano andati ad inventare? Sarebbe bella che d'ora in avanti per ognuno di questi cialtroni si dovesse fabbricare una villa sopra un luogo ameno a scelta! In poco tutte le nostre colline ne sarebbero seminate, e recandoci alle passeggiate domenicali noi avremmo per mèta questi buoni messeri! Oltre a godere aria buona essi si vedrebbero onorati da continui pellegrinaggi come il Santo Padre di Roma! Era forse la legge del progresso che portava quest'ultima invenzione per punire i tristi? — L'idea non mostrava che un lato apprezzabile: per andare dalla reggia a Porta Calleio, l'antica porta aveva ripreso il suo nome, il condannato doveva traversare la città intera, le vie principali di essa, e doveva traversarla a piedi, giacchè i condannati non si menano in vettura, ogni cittadino avrebbe potuto rivolgergli comodamente l'ultimo insulto, un lazzo ancora, uno sberleffo finale! E farsi giustizia da sè. Si attendeva con trepidazione il momento. Lo stambugio sulla cima del monte in poco più di due giorni fu pronto, e costruito colle pietre stesse del Calleio. Una cella di due metri per due metri, infossata giù nel terreno, alta circa tre sopra di esso, un orribile pozzo tenebroso. In basso, una porta piccolissima, foderata di lamiera, e tutta bardata di enormi chiodi nella parte superiore di essa, uno sportello di venti centimetri per venti tutto incorniciato di ferro, e incrociato da due sbarre, da quello il condannato doveva ricevere la luce e l'aria, e la legna se taluno glie ne avesse portata. Tugurio sì inesorabile non fu mai costruito per nessun colpevole. Guardandoci di fuori, per quello sportello, bisognava fare prima bene gli occhi all'oscurità, e cercare di non cuoprirlo che parzialmente colla propria faccia altrimenti non si vedeva più niente. Il recluso poteva tenerlo aperto o chiuso a piacimento, di dentro eravi infissa una lastra di ferro che scorreva su guide. La parete di fronte era tutta occupata dal camino che veniva in avanti più che a metà cella, sopra, sul tetto era la colonnetta dalla quale sarebbe uscito il fumo se mai quell'uomo avesse avuto legna da bruciare. Il Calleio è la cima più alta delle colline che fanno corona alla città. È alto poco più di cinquecento metri. Le sue falde sono rivestite di belli alberi verdi e su fino a metà gli fanno mantello campi con bella simmetria coltivati. Ma dalla metà alla cima non v'è più nessuna vegetazione, la natura calcarea del suolo, l'aridità per il subitaneo sgrondare delle pioggie, impediscono qualunque coltivazione e non vi crescono che le piante dei terreni aridi, pietrosi, delle sabbie; esso finisce in un cumolo di rovine che scendono giù in torrenziale fuga di pietre e di terra. Dalla via maestra si stacca un bel viale fiancheggiato da cipressi che sale fin dove il Calleio è verdeggiante, dopo, per giungere alla vetta bisogna seguire un sentiero appena tracciato che si avvolge a spire e si ritorce su su come un nastro, tortuosamente. Sopra la piccola spianata della cima è stata costruita la cisterna del condannato. Da lassù si domina bene la città ch'è giù a picco alle falde del monte; e si abbracciano in un solo colpo d'occhio tutti i suoi incantevoli dintorni. Già dal mezzogiorno le vie del percorso sono animatissime, la piazza reale è zeppa fino alla scalinata chiusa dal cordone dei soldati perchè la folla non si inoltri alla porta della reggia. A tutte le finestre ferve grande agitazione. Le case sono ricolme di gente, amici, parenti conoscenze, tutti coloro che abitano fuori del percorso ma che hanno la fortuna di conoscervi qualcuno. Egli deve percorrere quella via del primo giorno quando solo e sconosciuto giunse in città, quella via ch'egli percorse trionfante la sera che il popolo lo acclamò come un sovrano. L'ora stabilita è l'una dopo mezzogiorno, ma essa è già passata senza che si veda ancora niente. Le finestre della reggia sono chiuse. Tutti, al solito, incominciano colle immancabili supposizioni. In queste circostanze si conta moltissimo sulla mezz'ora e magari ora di ritardo del personaggio atteso. Quell'attesa è tutto, è indispensabile per la buona riuscita, costituisce la solennità, l'importanza dell'avvenimento. Un Re sarà acclamato assai più, la gente non si vuole essere stancata per poco ad aspettare, e intanto tutti avranno avuto agio di cicalare, di montarsi, scaldarsi a vicenda per l'occasione. Un Re, un arcivescovo, un ministro, un personaggio qualunque che giungesse o passasse cinque minuti prima dell'ora stabilita sarebbe accolto con una generale freddezza, e tutti se lo vedrebbero sgattaiolare dinanzi come un uomo qualunque, pieno di occupazioni, che ha fretta, che vuol sbrigarsi, che guarda l'orologio lieto di essere qualche minuto in anticipo, senza nessuna solennità. Nel caso nostro l'attesa aumenta, colla curiosità, l'odio per il condannato. Si incomincia a temere che il Re ne abbia fatta una delle sue, lo abbia fatto condurre lassù alla chetichella, di nottetempo, per sottrarlo al giusto sdegno della folla, al santo sdegno del popolo! — Certo, il Re vuol sottrarlo a questo impiccio e noi aspetteremo qui delle ore come tanti citrulli, e rimarremo di poi con due metri di naso! La debolezza del Re per quest'uomo è diventata favolosa! Favolosa! I ministri stessi lo stanno trattando con una dolcezza capace di far sortire dai gangheri i più pacifici! Sono a momenti le due.... _Bdbun.... Bdbun.... Bdbun.... Bdbun bun bun. Bdbun.... Bdbun.... Bdbun bun bun.... Dan.... Dan... Dan.... Dan.... Dan... Dan...._ Le sentinelle al portone della reggia si fanno indietro, escono i due primi tamburi che fanno fila a quattro metri di distanza l'uno dall'altro. Ecco Perelà, dietro altri due tamburi, che si inquadrano coi primi due. Il condannato, in mezzo, si avanza agilissimo, leggero, quasi saltellando ad ogni passo, mentre il corteo s'incammina pesantemente, lento, con cadenza funebre. Dietro vi sono quattro file di soldati col fucile a bilancia, a distanza di quattro passi una dall'altra. Al rullo dei tamburi il corteo scende a passo cadenzato la grande scalinata; solamente Perelà sembra sollevarsi ad ogni scalino, come per spiccare il volo e farne il resto in un salto, tanto sono agili i suoi movimenti. Dalle prigioni, in fondo alla città, la campana fende l'imbottito aereo coi suoi siluri di morte verso il condannato a vita. La piazza della reggia è in un generale clamore, incominciano a partire, come razzi, le prime grida, le prime invettive, i primi fischi. Il corteo ora è in piano e s'incammina per la via principale, i cui marciapiedi, le cui finestre così zeppate di teste sembrano quei grossi mazzi di rape o di barbebietole che gli ortolani tengono ammassate nei loro palchetti col capo in fuori. Alle finestre della reggia si intravedono muovere teste che spiano nascostamente dietro i vetri chiusi. Il corteo è nella via intrecciata da grida, insulti, lazzi, come da stelle filanti, da una finestra viene giù un grosso sputo e cade ai piedi del condannato. Perelà non si volge, ma siccome l'esempio è imitato, i tamburi si fanno da parte sulle righe della folla cercando di allontanarsi tutti dal bersaglio più che sia possibile. Ecco un altro, un altro, un altro ancora, la gente incomincia a fuggire, i soldati si fanno sempre più indietro, Perelà rimane solo nel mezzo, immutabile sotto la grandinata di liquide frecce. — _Ciò cià, sciù, crptù, crplah, crsciù_ — da tutte le parti piovono giù, taluni come fiocchi di neve, altri roteano in aria come piccoli manubri di mercurio lucenti, grigiastri, gialli, enormi che si vanno a squagliare in terra come chiare d'uovo.... tutti hanno smesso di gridare ed esprimono così il loro supremo disgusto. Gli uomini che per tutte le cose della loro vita inventarono macchine e ordigni tanto complicati, quando vogliono esprimere a pieno il loro disprezzo, il loro sdegno, quando vogliono gettare in faccia ad un essere odiato l'insulto più atroce, buttano fuori quello che di più intimo custodisce la loro persona. A Porta Calleio molta gente attende per seguire il gruppo, una vettura è ferma colle tendine calate. Passa Perelà in mezzo ai tamburi ritornati ai loro posti, la tendina di quella vettura si apre un poco, si scorge il bagliore di una faccia bianca. I tamburi col loro rullo, le quattro file dei soldati, e parecchie centinaia di persone, dopo, una vettura nera celata ricoperta di sputi, cammina piano come dietro un corteo funebre. Su su per la strada la massa di popolo si va facendo sempre più esigua, alcuni via via si fermano e tornano indietro. Eccoci al principio del viale fiancheggiato dai cipressi che apre l'ascensione sul Calleio, dietro non ci sono più che un centinaio di persone e la vettura nera. Siamo alla fine del viale dove incomincia il sentiero, la maggior parte della gente si ferma e rimane a guardare dal basso l'ascesa dell'ultimo tratto, la vettura si ferma, ne discende la marchesa Oliva Di Bellonda. Perelà, i soldati, un mannello di venti o trenta persone ancora, i più impenitenti curiosi, i più accaniti ingiuriatori che ora lo guardano lividi in silenzio con ghigno di disprezzo, e dietro la donna trascina il suo mantello nero sull'erta faticosa. Giù si vedono in fila, a naso ritto, quelli che sono rimasti. Perelà è chiuso nella cella irreparabilmente. I soldati, e il carceriere colla chiave fatale, tornano indietro e con loro ridiscende dopo un ultimo sguardo sdegnato, un ultimo tacito insulto, la gente, la donna che è rimasta sola in disparte, si avvicina alla prigione, piano piano la gira attorno per due volte, si ferma allo sportello e vi guarda lungamente. L'uomo è in piedi sotto la cappa del camino, alto, tranquillo — avrà freddo — ella pensa, — domani sera — guarda ancora, egli la guarda senza la forza di scambiare una parola, di aprire la bocca per articolare. I soldati seguìti dalla gente camminano già sulla via, al principio la vettura nera attende. La donna incomincia con passo incerto affranto la discesa. Il sole è al tramonto, il disco sulla montagna difaccia sta come un'ostia infuocata, ostia pura di luce e di calore, e giù, giù per le rovine del Calleio il punto nero discende, dispare, ostia pura d'amore e di dolore. Il sole scompare dietro il monte, la donna sale nella vettura, e i cavalli si muovono al trotto. «Sono sotto questo camino e guardo su, in alto, il piccolo tondo azzurro, è il solo bene che mi è stato dato, esso mi appartiene. Ecco che in questo tramonto, io lascio le mie ultime volontà. I miei piedi sono uniti, e le scarpe posano come quella mattina quando faticosamente discesi fino ad esse, ed io le lascio qui, così.... come le avevano preparate loro. _Pena! Rete! Lama!_ Voi mi daste queste scarpe perchè io camminassi sopra la terra non è vero? Forse io dovevo camminare fino a che non fossero tutte consumate? Se mi avessero sempre portato come oggi io potrei lasciare stasera un vecchio paio di scarpe rotte quaggiù, ma siccome sempre mi fecero camminare in splendide vetture, e vi fu chi si ebbe cura di ripulirle e lucidarle sempre, quasi avesse presentito che in fondo erano il mio solo bene terreno, esse sono ancora in buono stato, sono ancora belle, lucide, e il loro suolo non è punto consumato. È la sola cosa ch'io posseggo e ch'io vi possa lasciare, o uomini, esse mi legarono a voi, e più sarete ora persuasi che non valevo gran che, valevo questo paio di scarpe, eccole. Mi chiamaste coi nomi più belli, mi strisciaste i vostri inchini più profondi, mi adoraste come una reliquia, come un santo, poi vi siete accorti che cosa io valevo e mi avete disprezzato, calpestato come un rettile, ingiuriato, condannato come un assassino o un ladro, e mi voleste per sempre lontano da voi, per dimenticarvi, per sempre di me. Voleste tante cose da me, che io vi dettassi il Codice, eccolo, questo solo può essere il Codice di colui che vi piacque di chiamare Perelà, io ve lo lascio, esso manteneva sopra la terra la mia unica virtù. E in questo bel tramonto una piccola nube grigia in forma di uomo, le nubi hanno tante forme, volerà su su, traverserà lo spazio, l'orizzonte verso il sole, nessuno la scorgerà, forse una povera donna, che avrà per me un ultimo singhiozzo. A lei tutto il mio pensiero in questo istante, a lei che neppure potè capire quello che io ero solamente: leggero leggero leggero leggero». Nell'uscire le gambe dalle scarpe cade a terra un piccolo disco roseo di cartone, la tessera, e l'ultimo sguardo dell'uomo sulla terra si posa sull'ultima sua parola «_et ultra_». — Udite! Tutti! Venite qua! Correte! Qua.... con me! Vili! Vili tutti! Correte.... — La Marchesa Di Bellonda! — La Marchesa di Bellonda! — È impazzata! — Udite! Lassù!... nella cella.... Perelà.... non c'è più! lo sono andata a portargli il fuoco per la notte, non c'è più.... la cella è vuota.... sotto il camino non ci sono più che le sue scarpe!... — È fuggito! — È fuggito! — No! È volato! — Dove? — Come? — Dove? — Al cielo! — Pazza! — Pazza! — Guardatela, impazzisce! — Impazzisce! — È pazza! — Cani! — Prendetela! — Vili! — Ha il delirio! — Vigliacchi! — Pigliatela! — È pazza! — È volato! — È pazza! — Seguitemi.... seguitemi tutti.... via.... andiamo via a uccidere.... a raccontare.... per uccidere.... bisogna uc..... Ah!... — È pazza! — È caduta pazza! — È caduta pazza, pigliatela! — No! Non vi avvicinate!... è caduta morta. Ha voluto troppo correre.... povera donna, le è scoppiato il cuore. SUA LEGGEREZZA PERELÀ — Come è solcato oggi il cielo! sembra un popolo nuovo, di uomini nuovi, non è vero? — Davvero. — Guardate! Guardate! — Guardate che cosa c'è lassù nel cielo! — Fammi volare, amore! — Aquile bianche, candide aquile, come cigni, vanno su, su, vanno coi loro becchi adunchi.... — Vanno a strappare a Dio il velo sopra il suo mistero! — Ma che! — Quelle bandiere lassù, salgono a schiaffeggiare l'azzurro col sangue della loro vittoria! — Ma che! — Come il cielo è solcato! — Fammi volare, amore! — Quegli uomini vanno a consegnare di propria mano a Dio la loro anima! — Ma che! — Dove vanno? — Vanno a cercare Perelà. — Perelà! — Perelà? — Il signor Perelà? _Firenze_, 1908-1910. INDICE L'utero nero Pag. 5 Il thè 41 «Dio» 85 Il ballo 93 Visita a Suor Mariannina Fonte. Suor Colomba Mezzerino 121 Ala 129 Il prato dell'amore 133 Iba 139 Villa Rosa 151 Delfo e Dori 165 La fine d'Alloro 171 Il consiglio di Stato 183 «Perchè?» 199 L'indisposizione di Perelà 217 Il Processo di Perelà 225 Il Codice di Perelà 255 Sua Leggerezza Perelà 269 DI ALDO PALAZZESCHI Vallecchi Editore Firenze. _Il codice di Perelà._ _Il Re bello._ _Due imperi.... mancati._ _Il libro dei ricordi e degli esempi_ (prossimamente). _Il libro dei consigli_ (in preparazione). Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK IL CODICE DI PERELÀ *** Updated editions will replace the previous one—the old editions will be renamed. Creating the works from print editions not protected by U.S. copyright law means that no one owns a United States copyright in these works, so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the United States without permission and without paying copyright royalties. Special rules, set forth in the General Terms of Use part of this license, apply to copying and distributing Project Gutenberg™ electronic works to protect the PROJECT GUTENBERG™ concept and trademark. Project Gutenberg is a registered trademark, and may not be used if you charge for an eBook, except by following the terms of the trademark license, including paying royalties for use of the Project Gutenberg trademark. If you do not charge anything for copies of this eBook, complying with the trademark license is very easy. You may use this eBook for nearly any purpose such as creation of derivative works, reports, performances and research. 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It exists because of the efforts of hundreds of volunteers and donations from people in all walks of life. Volunteers and financial support to provide volunteers with the assistance they need are critical to reaching Project Gutenberg™’s goals and ensuring that the Project Gutenberg™ collection will remain freely available for generations to come. In 2001, the Project Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure and permanent future for Project Gutenberg™ and future generations. To learn more about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation and how your efforts and donations can help, see Sections 3 and 4 and the Foundation information page at www.gutenberg.org. Section 3. Information about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non-profit 501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal Revenue Service. The Foundation’s EIN or federal tax identification number is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by U.S. federal laws and your state’s laws. The Foundation’s business office is located at 809 North 1500 West, Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and up to date contact information can be found at the Foundation’s website and official page at www.gutenberg.org/contact Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation Project Gutenberg™ depends upon and cannot survive without widespread public support and donations to carry out its mission of increasing the number of public domain and licensed works that can be freely distributed in machine-readable form accessible by the widest array of equipment including outdated equipment. 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