The Project Gutenberg eBook of Della guerra nazionale d'insurrezione per bande, applicata all'Italia

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Title: Della guerra nazionale d'insurrezione per bande, applicata all'Italia

Author: Carlo Bianco

Release date: April 1, 2015 [eBook #48624]

Language: Italian

Credits: Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli, Giovanni
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*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK DELLA GUERRA NAZIONALE D'INSURREZIONE PER BANDE, APPLICATA ALL'ITALIA ***

DELLA GUERRA NAZIONALE
d'Insurrezione per Bande.


DELLA

GUERRA NAZIONALE

D'INSURREZIONE

PER BANDE,

APPLICATA ALL'ITALIA.


TRATTATO

Dedicato ai buoni Italiani.

DA

UN AMICO DEL PAESE.

Quousque tandem ignorabitis vires vestras!

Tit. Liv. Dec. 1, lib. 6.

PARTE PRIMA.

*

ITALIA
1830.


INDICE


[v]

Dedicatoria
AGL'ITALIANI.

Da tirannico veleno travagliati, da gotica pestifera infezione ammorbati, le vostre già robuste membra per effetto suo accasciate, dalle gherminelle dello straniero, che nel vedervi patire gioisce, accalappiati; voi nel lordume della servitù, della vergogna, del disonore, fra pene e gemiti, la vita da secoli trascinate.

Eccovi un possente efficace, alessifarmaco frutto d'indefesso pensiero, profonda meditazione, e lunga esperienza, il cui effetto sarà senza dubbio infallibile, [vi] se con ferma risoluzione voi lo inghiottirete, ma per ismaltirlo, una volontà decisa, ed uno stomaco forte si esigono.

Se voi quegl'Italiani siete, cui venne dal nostro sommo Alfieri il Bruto dedicato, di mettere senza indugio questa italica panacea in uso, punto non dubbiarete.

Se poi di stomaco debole, cui l'acutissima sua fragranza ripugni, vi sentite; in quella fogna, quai rettili fangosi, a dibattervi nel loto della torpitudine continuate; e quali or siete, il zimbello de' tiranni, lo scherno degli stranieri, il vitupero delle genti perpetuamente rimanete.

State sani.

L'AUTORE.

[vii]

PROTESTA DELL'AUTORE.

Abbenchè arduo, e spinoso intraprendimento quello venga reputato di dare alla luce un trattato politico-militare, materia già da tanti famosissimi scrittori, sulle cose di guerra, supposta per ogni verso esaurita; ciò non pertanto incitato dalle grandi sciagure cui va, pur troppo, l'amatissima e dolente patria mia soggetta, quell'amabile terra cui come ben dice il nostro Foscolo, nè la barbarie de' Goti, nè le animosità provinciali, nè le devastazioni di tanti eserciti spensero nelle sue aure quel fuoco [viii] immortale che animò gli Etruschi ed i Latini, mi decisi con animo risoluto ad intraprendere un lavoro, di metter mano al quale, scrittore non alcuno aveva peranco in Italia pensato, e che deve al mio parere di grandissima utilità per ammarginar le inasprite sue piaghe, considerarsi, e qual salutifero balsamo servire.

Nè desiderio di lucro, nè odio personale, nè smania di dottrinale rinomanza, nè alcuna particolare veduta pel tempo presente ed avvenire, mi mossero a tale determinazione: ma l'ardentissimo ed inalterabile amore del paese che nel mio cuore di continuo avvampa, e che ogn'altra passione in comparazione sua divenuta volgare, assottiglia ed annienta.

Eccoti, o benevolo lettore, il primo saggio da me dato alle stampe: sarà oggetto di grave censura, di avvelenata critica, di pungenti ed amari sarcasmi, di rabbiose invettive, fors'anche di segreta ed eccedente vendetta, cose tutte che potrebbero far tremar le vene ed i polsi a [ix] chiunque per tutt'altro, che pel puro amor di patria prendesse a scrivere; ma non colui che senz'altre mire ad indicare s'accigne ai suoi compatrioti gl'adeguati mezzi per giungere all'appice della gloria, della prosperità, e della grandezza! Mi sarà da tutte le accademie, dalla loquace congerie di tutti i letterati, e rettori, grammatici, pedanti, gramuffastronzoli, sersaccenti, e salamistri, tanto rispetto alla purità della lingua, alla chiarezza delle idee, alla concisione dello stile, quanto al sugo dei concetti, alla proprietà delle frasi, bandita la croce addosso; mi rimprovereranno, mi calunnieranno, lacereranno il mio nome, perseguiteranno la mia persona e forse avverrà che armato del sanguinolento coltello de' tiranni, sarà un qualche sicario per passarmi il cuore; io non pavento: la coscienza della purità delle mie intenzioni tranquilla il mio cuore; l'amore della mia patria mi rende qualunque maggior rischio disprezzevole; chi tutto è consagrato all'Italia, non allibbisce [x] ai pericoli, ma con dolcissimo piacere pel bene di quella gli affronta; ai pedanti arrabbiati non bado; perchè di essere ammesso nella repubblica letteraria non mai pretesi nè pretendo; non scrissi per quella meta; non composi un opera di letteratura, nè per acquistar fama d'erudito; ma solo dalla perfetta conoscenza, della necessità in che si trova l'afflitta Italia d'un sollecito, ed intiero cambiamento di sistema eccitato, non meno che dalla certezza ch'ella possiede in se tutti gl'opportuni mezzi per riescir vittoriosa convinto, ai precetti dettati dalla mia esperienza, e meditazione accozzai quanto in molti libri e nelle conversazioni con esperimentati duci che luminosi allori nella guerra d'insurrezione per bande riportarono e nella famigliar pratica di profondi statisti potei di vantaggioso al mio sistema rinvenire; e ne feci un breve ma importante manuale di rigenerazione italiana; gracchiate pedanti, gridate al plagio, al sacrilegio, all'empietà! scagliate l'anatema contro [xi] un trattato che deve alla dappocaggine ripugnare, contro un autore che dice delle verità le quali non siete usi a udire, che forse offendono il delicatissimo timpano delle indebolite vostre orecchie? Ululate vilissimi prezzolati scrittori! vi compiango e me ne rido, io non bramo di essere considerato come autore, d'uopo è all'Italia, che la dottorale beretta, la cappa magistrale, in elmi, ed usberghi si cambino, e si riposi la penna per dar luogo al luccicare dei brandi; mi vergognerei di far parte della vostra cicalante brigata; sono le vostre lingue con catenelle d'oro dai tiranni avvinghiate o paralitiche per la paura; dalle vostre penne bagnate nel fango, altro che sozzura non cola; pochissimi di voi osano palesare apertamente la verità, e da quei pochissimi benemeriti, solo una debolissima scintilla, del tutto incapace di accendere quel gran fuoco di che tanto gl'Italiani abbisognano, appena, appena, traluce; io non sono letterato, Dio me ne guardi; abborro i parolaj, ma ho la [xii] fondata pretensione d'essere di tutti quei mercaparole venduti ai tiranni, o contenuti dal timore assai da più; i miei concetti, sì per mancanza di tempo, attesochè gl'avvenimenti politici europei esigono che io al più presto pubblichi questo trattato, e lo dia al torchio senza neppure correggerne lo stile, come per insufficienza di magistero, poco essendo nelle grammatiche e scientifiche discipline ammaestrato, non sono certamente dolci, limati, e conditi con miele, ma un idea Italiana, forte, robusta, ed ardente racchiudono; se una tal essenza in quelli per avventura non risplenderà, nè sarà la mia penna da imputarsi che bastevolmente non seppe i miei pensamenti esprimere o se pure chi lo legge, non possedendo un animo italiano ma pur troppo afforestierato, non sentirà in se generare dalla sua lettura quei violenti stimoli, quei sublimi impulsi, quei forti sentimenti di muovere, i quali è principal mio intendimento non a mia colpa, ma bensì a se stesso dovrà la sua inefficacia in questo [xiii] caso attribuire. Sì lo ripeto: io non pretendo di venir in fama di letterato; (non dev'essere in oggi la gloria della penna sufficiente) ma solo quella, con ragione ambisco, di valoroso cittadino italiano, accerrimo, implacabile, dichiarato nemico dei nemici dell'amatissima mia patria, di ardentissimo suo campione, di vero suo figlio.......... Scrissi contro tutti i nemici d'Italia in qualsivoglia parte del mondo si trovino, se mai parlando in generale, a confondere alcune volte buoni e cattivi la mia penna trascorse, sappiasi che ogniqualvolta io parlai di stranieri, di popoli, di stati, etc., io non intesi di tutte imputare le unità formanti la nazione, ma solo i gabinetti, e le genti che a quelli danno mano, e sostengono; è pur anche questa distinzione ai Tedeschi applicabile contro i quali più degli altri mi scatenai perchè lo meritano, ma che non si deve ai tanti buoni, sopratutto a molti popoli della Magna, che nutrono le stesse nostre opinioni estendere; parlai contro una gran [xiv] parte d'Italiani con proposito determinato di offenderli, sperando di poterli con quel mezzo a luminose imprese stimolare, sarei contentissimo se con isdegnosaggine se l'arrecassero a male, gemerei se come bestie fossero alle punture nella parte più delicata dell'onore loro insensibili...... Offesi i tiranni perchè il mio paese atrocemente offendono; potranno farmi del male, togliermi di vita, ma sarà tardi; non potranno più impedire l'effetto de' miei precetti, ed io spirerò contento per quella patria che adoro, soddisfatto di aver detto agl'Italiani chiaramente la verità, e loro insegnato il modo certo di rendersi uniti, liberi ed independenti. Dante, oppresso dalle sciagure, e disagi dell'esilio, Machiavelli martoriato dai tormenti della tortura, Galileo perseguitato dalla spaventevole inquisizione, Sarpi sotto il ferro degl'assassini papali, e tanti altri grandissimi ingegni del nostro tempo raminghi, e poveri, grandi, ed infelici, mi servono d'illustre modello d'amor di [xv] patria, di gloria del vero, ed accrescono nel mio cuore, per disprezzare i pericoli, la necessaria costanza; e riandando le pagine conservatrici alla nostra memoria delle sublimi e splendide azioni degl'avi, scorgo che nel ritiro, nell'esilio, e con la morte aprironsi quei magnanimi, a vera gloria il cammino, e se avviene che la voce della verità per lo mio mezzo tonante in Italia, un prematuro fine m'apporti, la lusinghiera idea da me voluttuosamente nutrita, che una volta disceso nella fossa, le meste lagrime di ottimi, valorosi, incorrotti, ardenti, e veri amici di quella patria, per cui caddi immolato si mescolino alle mie ceneri, mi conforta e mi alletta; essendo questo il maggior tributo che io dalle mie opere aspetti, e della perdita di mia vita, il più dolce, il più gradevole, il meritato compenso.

L'AUTORE.

[xvii]

DISCORSO PRELIMINARE.

Liberate diuturna cura Italiam.

Extirpate has immanes belluas, quæ hominis

Præter faciem et vocem nihil habent.

Machiavelli. Lettere Familiari, LXVIII.

Non meno disonorevoli che inumane per avventura, ed empie, parecchie massime nel presente trattato contenute, potranno a cert'uni parere; come tali eziandio crediamo, da considerarsi, sarebbero, se nelle guerre tra re e re ben di rado nazionali, o tra nazione e nazione per particolari convenienze, la loro pratica si proponesse; imperciocchè non mettendosi in quelle la libertà, o la politica esistenza di un popolo intero in forse, aver non debbono l'oppressione, o lo sterminio di nessuna delle parti belligeranti per iscopo; ma quando di una insurrezione nazionale si tratta, all'unione [xviii] del paese, alla sua indipendenza e libertà, diretta, per quei sacrosanti oggetti, i più essenziali ed i più cari agli uomini dabbene, intrapresa, quando quegl'inalienabili diritti, dallo straniero e dai tiranni nazionali conculcati, si vogliano fermamente colla forza riprendere; allora ben lungi di doversi con tali sozze denominazioni qualificare, si debbono in conto di giuste non solo ma di sante, dagl'insorti popoli tenere. Deve la santità del motivo rendere di niun valore qualunque considerazione di onore, d'umanità e di religione che ad un fine così sublime, così sacrosanto si opponga.

Nessun Italiano certamente non havvi, che di sufficiente raziocinio e di un cuore sensibile dotato, non s'irriti.....: non frema..... non s'adizzi, ogniqualvolta si faccia ad attentamente considerare la triste, vergognosa e ributtante situazione politica e civile, a che trovasi la sua patria ridotta! di quel paese, che al dir di Giovanni Muller, nella sua storia universale, sembra dalla natura destinato [xix] ad esser la sedia dell'impero del mondo; il quale, per mezzo delle sue spiaggie, così soggiunge, che comode communicazioni con tutte le parti della terra facilitavangli, poteva senza difficoltà la sua preponderanza mantenere; mentrechè il mare e le Alpi servivangli di baluardo; i porti d'Ostia, di Ravenna e di Misène tutte le sue imprese politiche e commerciali agevolavangli, era la varietà del terreno all'agricoltura ed all'educazione degl'armenti vantaggiosissima; la lunga catena degl'Appennini, dava a ciascuna provincia i vantaggi delle montagne ad un tempo, e delle pianure, e numerosi fiumi l'esportazione di tutte le produzioni del paese favorivano. Situata l'Italia quasi in mezzo al mondo civilizzato poteva facilmente tutti i popoli invigilare, e la sua posizione la metteva in caso di poter le provincie lontane dal centro dell'impero prontamente soccorrere; ma che! avremo noi d'uopo di riandare quanto viene da stranieri scritto rispetto al nostro paese? Non è [xx] a noi tutti per avventura ben noto che sopra un suolo dalla natura prediletto viviamo? E che tutte le fraudi, tristizie, e trappolerie dello straniero, e dei tiranni nostrali non pervennero, come ne tengono in cuore il pravo progetto, per anco ad inaridire? In poche parti della terra esiste un clima più temperato, più dolce, e nessun altro in Europa viene da' fisiologi più atto, più favorevole allo sviluppo delle fisiche e morali facoltà dell'uomo per esperienza stimato; oppure, sopra una montuosa superficie di nove mila leghe quadrate, nati sotto l'influenza di quel beato clima, giacciono inerti, e pazienti sotto la verga che li flagella, venti millioni d'uomini, in una perfetta nullità politica all'estero, e ributtante oppressione interna? Null'altro all'Italia manca se non la sua unione in un corpo solo di nazione, indipendenza, e libertà; all'eccezione di quelle tre necessità essenzialissime la mancanza delle quali, quanto d'altro si possede rende di niun valore, ella in se contiene tutte le delizie nel paradiso [xxi] terrestre figurate, in nessuna parte d'Europa la terra è meglio, che in quella coltivata, nè sono le scienze, e le belle arti così estese, e ad un più alto grado di perfezione portate; è la sua spiaggia di bellissimi, capaci e sicurissimi porti di mare abbondevole, incontransi ad ogni passo città magnifiche, campagne deliziose, paesi abbondanti e piacevoli; quantità di maestosi fiumi, e canali navigabili, molte non meno spaziose che comodissime strade cose tutte al ben essere ed alla miglioranza generale del viver civile utilissime; ubertosa terra di prospere granaglie, di delicatissimi erbaggi, e squisitissimi frutti produttrice, di gagliardi e saporitissimi vini, di finissim'oglio il migliore d'Europa, di cocciniglia, zuccaro e tabacco (se un buon governo volesse curare la sua coltivazione) germinatrice feconda; in modo pure, le patate, lino, canape, seta soprabbondano da poterne ancora molti altri stati a dovizia provvedere; boschi e foreste che il miglior legno di costruzione per edifizi e [xxii] bastimenti forniscono; possede cavalli svelti, sani, e robusti, e dopo quelli di Spagna, e d'Inghilterra in bellezza, e forza i primi preziosissimi e rari metalli di moltissime diverse specie, fra le quali oro ed argento, trovansi nel seno delle nostre montagne contenuti; il sal minerale, il sal marino, le curiosissime e doviziosissime zolfatare, potrebbero un estesissimo commercio agevolmente civire, e chi mai da quanto veniam di esporre crederebbe che i posseditori di tanti beni sù cui natura di spargere a mani piene i suoi doni senza intermissione compiacesi, farne un buon uso non sappiano; e quella felicità cui dalla stessa sono destinati, si lascino dagli aggiramenti ed incannate di una mano di rustici ribaldi ladroni, sugl'istessi occhi loro sfacciatamente involare? Eppure così è, percorrasi da una parte all'altra l'Italia, volgasi l'occhio alle principali sue isole, lo stato in generale degli abitanti attentamente s'indaghi, e ben tosto la maggior parte di quelli oppressa dalla [xxiii] miseria scorgerassi, e l'intero numero degl'Italiani vedrassi per le sostenute sciagure avvilito, per mal costume anneghittito, e reso dai perfidi governi, a rea ignoranza, a detestabili vizj ed all'immoralità propenso; divisa la penisola in dieci piccole parti, chiamate stati, una peggio dell'altra dal potere assoluto di un papa, due re, duchi, e principi etc. governate, che in fatti altro se non umilissimi, e paurosissimi, prefetti del sospettoso, e rapace imperatore d'Austria non sono, le cui crudelissime ingiunzioni a puntino e senza replica obbediscono, ed alla lercia pungentissima sferza tedesca per la loro eccessiva codardìa, stanno rispettosamente sottomessi, ma siccome vogliono poi quei tirannelli la regia loro autorità, al solo potere circonscritta di far sfortuna ai loro popoli, in qualche modo esercitare, piombano con malignità e continua rabbia sopra i poveri disgraziati, che il cattivo destino fece nascere loro sudditi, e per la loro insaziabile ingordigia satollare, ad arbitrio [xxiv] di prepotenza bistrattano; le loro ricchezze con tanti sudori e veglie ammassate rapiscono, e di quelle onde con i corpi gli animi loro ammollire astutamente si servono; laonde a corrompere, e viziare l'onestà e buoni costumi tengono la mira, coll'intenzione di snervare in quel modo il loro coraggio; una volta giunti a tale, i vizj diventano bisogni od almeno lo pajono, e quelli a qualunque costo svegliano e fomentano l'idea del loro soddisfacimento; ed ecco dal governo l'ismodato amor di se stesso in ogni cuore per quanto gli fia possibile creato, e vezzeggiato, in modo che trovasi ciascuno allettato a vivere per se non meno che a ricavare il particolar suo utile in danno della massa dei cittadini, quindi l'uomo assueffatto a non curarsi del discapito che può agli altri concittadini ridondarne, in opposizione alle massime dei governi liberi, dove ognuno di contribuire per sua parte al ben pubblico reputasi a gloria, dimentico del suo dovere ad altro non pensa che a servirsi [xxv] degli altri onde a man salva i creduti bisogni profusamente soddisfare. Il lusso, come il più sicuro, ed il più aggradevole mezzo per tenere i sudditi nella servitù è portato dagl'italici despoti in palma di mano; e col danaro dal cittadino annualmente pagato, che senza darne il menomo conto spendono e spandono, la voglia dell'oro in tutti i cuori fan nascere; imperciocchè con quello premiano le azioni che al sostegno del loro potere credono vantaggiose e fanno l'oggetto della publica considerazione tutto nel possedimento di ricchezze consistere; qualunque altro mezzo di ricompensa, perchè potrebbe col tempo idee forti e generose risvegliare che alla lunga metterebbero il trono in rischio di essere rovesciato, paventano; epperciò il perno sul quale tutta la macchina dello stato si aggira, è l'oro; ed i tiranni la migliore e maggior parte della nazione spogliano per la minore la più vile ma ligia al loro potere arricchirne; laonde con un ben stabilito giro di moneta, con le tasse e col fisco [xxvi] fanno sempre una più grande quantità di numerario in cassa rientrare, di quanta stata sia da loro all'immoralità per lo stipendio del vizio e l'avvilimento della virtù prodigata. Quale dunque non dovrà essere il cordoglio di quell'Italiano, che il pagamento di tante pesantissime tasse pel salario de' suoi carnefici seriamente consideri? Tutte ordinate dal solo capriccio del despota, che nè delle fondiarie, nè dalla carta bollata, nè di quelle sui mobili, sulle porte, e finestre, sul vino, sui comestibili di ogni specie etc., nè di mantenere a suo conto, il giuoco della lotteria pel quale migliaia di famiglie si rovinano ed evvi il certo guadagno pel governo, non ancora soddisfatto, vende pur anche per suo esclusivo profitto il tabacco, sale, e polvere da schioppo ne stabilisce il prezzo a sua volontà, e con gravissime pene quel cittadino che ne vendesse, o ne introducesse anche per proprio uso, punisce; senza mai dare al popolo, quello che veramente paga, il minimo ragguaglio sull'entrata, e sulle [xxvii] spese!.......... Massima giustissima, da chiunque un pò di senno racchiuda in capo come necessaria riconosciuta, e solo dai vili che sono dal despota corrotti, o da quei fanatici, che opinano essere un re signore della vita e delle proprietà dei sudditi, rispinta, quella, sì è, da tutti gl'Inglesi e dalla corona pur anche addottata, e bandita cioè: che spetti un diritto inalienabile a qualsivoglia suddito inglese, ossia libero uomo, o franco tenitore, come dicono essi, di non dare la sua roba, se non per proprio consenso; la camera dei comuni sola avere il diritto come rappresentante il popolo inglese, di concedere alla corona la pecunia di esso; essere le tasse liberi doni del popolo, dovere i principi usare l'autorità loro, e la pecunia del comune ad uso solo, e benefizio di questo; quanto sian le massime che dirigono i tiranni d'Italia, da quelle dell'Inghilterra differenti non v'ha certamente chi nol riconosca; e perchè mai dovranno dunque i discendenti dei Romani al godimento [xxviii] di quel diritto rinunziare, per compiacere i stranieri, ed una mano di rabbiosi imbecilli che si valgono dell'ignoranza del medio evo, e del barbarismo di quel tempo per fargli credere che obbedir debbono, e tacere? I loro capricci e latrocinj secondare (imperciocchè come furto dev'essere l'azione di prendere il danaro senza consenso di chi lo possede, e spenderlo senza darne conto, da ognuno considerata); e coi nomi poi di legittimità, di paternità, di eredità etc., titoli il niun valore de' quali è ora mai già in tutto il mondo ed anche dai più scimuniti conosciuto trar vogliono gl'Italiani nell'opinione, che a loro soli, tutti i diritti appartengano, e nessuno al popolo! E perchè mai dovran essere gl'Italiani da meno degl'Inglesi, degl'Americani, dei Francesi, et degl'Olandesi? Sono forse quei popoli d'un altro limo composti, che possano l'esercizio di certi diritti, il vantaggio di certe prerogative, la felicità provegnente da un certo sistema godere, a che noi [xxix] nati nella bella Italia punto non siamo capaci? Saranno per avventura quelle istituzioni così sublimi, così complicate, così intralciate che all'italico genio, non meno a ben conoscerle che a metterle in pratica non sia dato d'arrivare? No certamente; e tutti ben sanno quei che lo vogliono sapere, che gl'Italiani, già illuminati e liberi quando tutte le dette nazioni erano ancora tra folte tenebre di supina ignoranza ravvolte, e nei ceppi della schiavitù contenute, le quali se non molti secoli dopo, quando già stanchi gl'Italiani di dominare il mondo, e di vivere in repubblica a sottrarsi al giogo non pervennero, posseggano quanto e più degli altri l'intelligenza, il genio, l'alacrità, la perspicacia necessaria onde capire la complicazione di un sistema popolare di governo, qualità che non saranno mai a quelle ben formate singolari teste, per essere mancanti. Qual dunque sarà la cagione, che quei citati popoli godono il vantaggio d'un governo migliore di quello degl'Italiani? Quali [xxx] peculiari doti sopra gli altri li distinguono? Quai meriti straordinarj mettono forse in mostra? Eccone a vergogna d'Italia, le cagioni: prima d'ottenere un libero sistema passarono quei popoli per la trafila di molti guai, ebbero grandissimi urti a sostenere, ma li respinsero; ebbero per molti anni a patire, sopportarono miserie, disagi, afflizioni, e fatiche, ma sempre con quello scopo in mira punto non si disconfortarono, vollero fermamente, ed alla fine ottenne la loro costanza il ben meritato guiderdone; mentre in quell'epoche menzionate non ebbero gl'Italiani meno miserie, meno fatiche, meno guai a sofferire, ma senz'animo, e senz'amor di patria, da vituperevole avvilimento soprappresi, piuttosto a piegare, che a cozzare disposti, non sostennero mai, non respinsero gli urti, ed a servire di strumenti d'oppressione allo straniero contro loro stessi, ed i proprj fratelli volonterosamente assoggettaronsi, per quindi la rovina del paese, il disprezzo e vergogna [xxxi] per loro, e per tutta l'italica nazione in funesta ricompensa riceverne.

Per non aver dunque avuto l'unione, l'independenza e la libertà del loro paese per meta, quei conquistatori dell'antico mondo, quegli scopritori del nuovo, che poi a stranieri lo regalarono, quelle fervide menti cui l'uman genere va debitore d'averlo con le scienze, e le belle arti dirozzato, ed illuminato, quel popolo che può tanto impareggiabili antecedenti a giusto titolo vantare, eccolo tenuto dagli stranieri in niun conto, come inetto e vile, come l'ultimo del mondo! Imperciocchè per nulla nella politica europea bilancia è in oggi calcolato, anzi come mancante della prima virtù cioè quella di saper essere libero, ed indipendente, trovasi disprezzato e deriso. Il paese come cloaca di vizj, come culla d'impostori, codardi, raggiratori è riputato, che esser dicono un paradiso abitato da diavoli; e mal non si appongono, perchè sotto la ferrea rugginosa verga di tristi e paurosi [xxxii] tiranni, come inerti machine, come servi oziosi ed effeminati, privi dell'esercizio di qual sisia di quei diritti che possono agli uomini riuniti competere, trascinano gl'Italiani una ignominiosa, disonorata esistenza dai vili che circondano i tiranni viemmaggiormente amareggiata; imperciocchè, siccome al dir di Polibio, al libro secondo, i re per lor natura, non hanno nè amici, nè inimici, e che il solo interesse loro è la misura della loro affezione, o del loro odio: e che la posizione in che si misero dal 1814 in quà, è senza dubbio alla felicità dei sudditi affatto contraria, ne avviene, che i soli per cui si dimostra in quegli stati, considerazione o stima sono gli amici del re i quali altri non sono, che i malvagi, viziosi o deboli, e geme la parte buona della nazione all'insolenza di questi vituperevoli stromenti della tirannia vilmente sottoposta. Ci dice de Comminis al capitolo 12, libro sesto: che Luigi XI aveva paura di tutti gli uomini, e particolarmente di tutti coloro [xxxiii] ch'erano degni di avere qualche autorità: sono i tiranni, che in oggi con le sostanze nostre le loro ingordigia satollano, altrettanti Luigi XI, anzi peggiori cui si potrebbe senza timore di sbaglio il detto di Sallustio con ragione applicare: Regibus boni quam mali suspectiores sunt; semper que his aliena virtus formidolosa est: vale a dire che paventano più i buoni, che i cattivi, e temono una virtù che non posseggono. Sono tanti Tiberj, che come dice Tacito, al libro primo dei suoi annali, non era un odio antico, ma le ricchezze, la destrezza, i talenti eguali alla sua reputazione, che avvelenavano i sospetti di Tiberio contro Arrunzio: sono però in oggi i quattro quinti del popolo italiano tanti Arrunzi, rispetto ai nostri Tiberj, per la qual cosa sempre più cresce l'inasprimento del loro cuore e fassi la loro tirannia progressivamente maggiore: in modo tale trovasi maltrattata la povera Italia che se lo stato d'altri paesi d'Europa potrà per avventura [xxxiv] più, o meno sopportabile parere, quello dei governi della nostra penisola dal tempo in che il malvagio Castelreagh in seggio ripose gli antichi smaniosi tiranni, è tanto derelitto, rovinato, e vile, tutto và così di male in peggio, che l'indispensabile necessità d'un grande cambiamento, di un ordine di cose affatto nuovo, fassi più che altrove sentire; già ben lo scorgono i tiranni, ma vogliono illudersi, la credono ancora bastevolmente lontana, e si lusingano di poter tutta la loro vita in quell'atroce sistema continuare, lasciando poi ai successori la bisogna di porre ai loro imbrogli rimedio; s'addormentarono fin ora sopra un volcano, perdettero favorevoli occasioni di stabilire buoni ordini pel publico vantaggio, abbandonandosi scioccamente al pensiero dal lor pazzo modo di vedere le cose suggerito, che in accordando poi qualche maestrato, più nominale ch'effettivo, quando già i popoli siansi levati a romore, di poterli con simile treccheria [xxxv] in ogni tempo a lor piacimento abbindolare, da tutto il mondo è in oggi quella tattica ben conosciuta, e disprezzata; troppo tardi aspettarono; l'ora fatale del rendimento de' conti, sta lì, lì, per suonare e se gl'Italiani vogliono agir da uomini, e non come abbietti bigi orecchiuti animalon da soma, tutti alla sprovvista li coglie, da non potere schivare il giusto castigo dell'esecrande loro nequizie che nella loro partenza da questo mondo consiste; imperciocchè non debbono gl'Italiani a quei mostri mercede alcuna; e sarebbe pur loro delitto di lasciar quelle cagioni di tanti pianti, di tanti disastri, e di tanta infamia, per quel paese, dall'infezione del mostifero loro alito avvelenato, una vita criminale tranquillamente godere.

La soverchia paura ed il detestabile reo talento di queste belve le mantiene sempre in continua tensione ed attività, e da ciò ch'erano prima della rivoluzione di Francia ben differenti divennero; gemevano è vero in quel tempo [xxxvi] sotto il giogo del poter assoluto i popoli, ma era quello assai mite; andavano i dominanti dietro agli usi antichi, cui erano pure i sudditi da secoli abituati; era la tirannia di quei tempi figlia del momentaneo capriccio ed il quasi patriarcale sistema del governo, con alquante buone azioni, che mitigavano il dispotismo continuamente la interpolava. Ma quella dopo il congresso di Vienna in Italia stabilita, è senza dubbio una vera tirannia sistematica, estratta da quanto vi era di despotico nelle leggi di Napoleone, alla crudele finezza, che distingueva gli italici governi del medio evo per nostro danno congiunta; tutto quanto sì nella rivoluzione francese, e nella repubblica come negli elementi dell'antica monarchia, e dei vecchi rimasugli della gerarchia romana, nel tempo della tirannia degl'imperatori vantaggioso al potere riconobbero, al governo assoluto sfacciatamente appropriaronlo.

La formazione del costosissimo, arcitirannico, [xxxvii] e numeroso corpo de' carabinieri reali in Piemonte, pontificj in Roma, gendarmi in Lombardia, e Napoli, è una fralle tante piaghe dal napoleonico governo ereditate, che non solo molestissima ed oppressiva com'era conservossi, ma con tutta la malizia, e l'astuzia propria dell'inquisizione studiosamente raffinata. Quel corpo il cui solo scopo esser dovrebbe la persecuzione, e l'arresto dei banditi, ed assassini di strada, sparso in tanti separati drappelli a picciola distanza, in modo di potersi al primo segnale in forza rispettabile riunire, è senza dubbio il più tormentoso e funesto alla tranquillità, e felicità degli onesti cittadini; ciascun soldato pieno di boria e con rozzi modi esercita nei villaggi, borghi etc., il potere assoluto alla grossolana sui poveri pacifici ed onesti cittadini; ciascun comandante in quanto al poter di far male un piccolo sovrano; le varie separate suddivisioni del distaccamento danno conto delle loro funestissime operazioni al comandante [xxxviii] che trovasi al centro, questi al colonnello, ed al ministero, egli è incaricato non solo di avere minutissima conoscenza del procedere apparente, od occulto di ogni cittadino, ma bensì perfino negl'interni pensamenti del suo cuore penetrare; deve tener registrate le opere di ciascuno, sì dei tempi scorsi, come del presente, di più le supponibili per l'avvenire; tutto dev'essere chiaramente notato, e ne deve una esatta generale relazione al governo frequentemente rimettere. Può, in via economica, senza sottoporre a regolar giudizio, ammonire, arrestare, carcerare, incatenare, chiunque non sia nobile, militare, o prete; vi esiste finora un solo esempio che una sua disposizione arbitraria stata sia dal governo disapprovata, od annullata. Questo tirannico magistrato, colle armi in dosso, che le tre qualità di accusatore, giudice, ed esecutore in se riunisce, il quale molte volte sul solo sospetto o per capriccio accusa, giudica, e punisce peggiore d'un vil boja, perchè [xxxix] questo non fa ch'eseguire la legge, mentre quello ad un tempo solo è spione, falso accusatore, giudice ingiusto, manigoldo grossolano, e giustiziere infame in continuo esercizio delle sue abbominevoli funzioni da tutti giustamente abborrito, e temuto, esercita sulla privata morale delle famiglie una perniciosissima influenza. Imperciocchè siccome non può dare alle non meno estese che complicate sue incumbenze con mezzi chiari, onesti, ed aperti una immediata esecuzione, trovasi nella continua necessità di adoperarne dei vili, disonesti, e turpi; laonde per sapere gli affari da casa delle famiglie, i pensieri di ognuno di quelle calcolare, gli è necessario di tenere uno stuolo di spie, d'agenti provocatori etc., giornalmente assoldati, per l'aumento di quali spende nella corruzione della gioventù, danaro a larga mano, da coloro stessi che sono l'oggetto della persecuzione, e che di continuo lavorano per soddisfare quelle tasse che servono a ribadire i loro ferri, [xl] annualmente pagato; nulla è da questa vituperevole classe di ribaldi tenuto in riverenza, i sacrosanti legami della famiglia non sono punto da essi rispettati; ed anzi ad indebolirli, ed a forza d'oro ingangrenarli sottilmente si adoperano; perciocchè nessun miglior modo per conoscere i pensieri di tutti potrebbero trovare: il segretaro, il servo, la cameriera, lo staffiere etc., sono comprati a denari contanti, e vien loro il regalo aumentato a misura che più negli affari dei padroni s'internano, e più importanti cose disvelano; dimodo che per ricevere frequenti donativi, quando non hanno che dire, quei servi corrotti s'inventano menzogne, e l'innocente vittima delle loro delazioni, senz'avvedersene, a poco, a poco atrocemente sagrificano. Per mezzo del giuoco, delle donne, e della crapula, seducono i giovinotti e, spesso il figlio, a palesare i segreti del proprio padre e degli altri parenti con doni e larghe promesse dispongono! Ecco quel giovine imprudente, forse l'idolo dei genitori, [xli] la consolazione dei parenti, la speranza della famiglia, da quei furfanti, circondato, allettato, e sedotto! Eccolo divenuto un traditore di quella, e fors'anche l'involontario assassino del proprio padre!........ Usano questi boja-inquisitori al servizio dei tiranni, arti finissime per trascinare la gioventù in gravi pericoli, od imbrogli, dai quali poi, in certo modo salvando i giovani, li mettono verso di loro in debito di gratitudine e di confidenza; inducono un inesperto garzoncello ad ingolfarsi nei debiti, onde quei vizi da loro nel suo tenero cuore innestati soddisfare; teme questo; e di farne una sincera ed aperta confessione ai parenti, che forte lo rampognerebbero, si vergogna; non sà dove dar la testa; ad altri non gli convien di rivolgersi che al seduttore; profitta il birro di questo bel momento, se lo rende grato, e debitore; rinnova parecchie volte il saggio; e quando il giovane gli si affeziona, ed ha tutta confidenza in lui, a costo allora dell'onore, [xlii] del dovere, e della morale, con poca spesa lo compra!...... Non contenti quei mostri di valersi di tanto nocevoli ed infami agguindolamenti per eseguire le nequitose loro incumbenze, non risparmiano neppure le istituzioni sagre, e molte volte fornisce il confessionale abbondante materia, per ordire un'intricata tela di accuse! Non evvi al certo da far le meraviglie se alcuni dei ministri dell'altare abusano qualche volta del loro ministero, poichè i membri di quella corporazione al clero inferiore appartenenti generalmente in Italia molto rispettabili, sono tenuti in uno stato ben vicino all'indigenza, ed i prelati, vescovi, e cardinali tutte le ricchezze della chiesa ingordamente assorbono, quindi non è da stupirsi se abbagliati dall'oro che sono così poco usi a possedere, e gli viene in abbondanza offerto, alcuni di essi a danno di cattolici penitenti trafficano del sagramento in favore della corona!...... In questo modo però la confidenza è bandita! I [xliii] vincoli morali che uniscono un uomo all'altro sono spezzati! Ognuno deve comprimere lo sfogo de' suoi sentimenti, e nel più profondo del suo cuore tenerli nascosti; ognuno si crede isolato in mezzo ad un mondo di nemici coi quali deve usare la simulazione e l'inganno; i membri d'una stessa famiglia l'uno dell'altro diffidano; teme il padre del figlio, il fratello del fratello, l'amico dell'amico, ed il contrito cattolico s'avanza tremante al tribunale della confessione, per timore di essere da quello che siede in quel casotto qual mediatore tra Dio e gli uomini, sotto colore di religione perfidamente tradito! Con questo sistema di reciproca temenza, di generale dislealtà, più non vi esiste contentezza nè calma per nessuno, e la menzogna, l'inganno, la frode, la fellonia, ed infedeltà onde schermirsi dalle trame, insidie, e lacciuoli tesi dalla tirannia sono dalla maggior parte della nazione messe giornalmente in pratica. Questo! questo! è lo stato pacifico, e tranquillo [xliv] degl'Italiani che sono obbligati di vivere sotto quel dolce, beato, paterno dominio dei legittimi re; che per la grazia di Dio assassinano l'Italia....... Ben con ragione hanno gl'Inglesi gelosissimi della conservazione della libertà individuale, la proposta di una tanto perniciosa istituzione con forza rigettata ogniqualvolta i ministri, per aumentare il potere della corona cercarono l'approvazione del parlamento, cui fu sempre dai rappresentanti del popolo con saggio avviso risposto, amar meglio il cittadino Inglese, di correre il rischio nell'uscir fuori de' limiti della città di Londra, d'essere dai rubatori assalito e spogliato, che al despotismo di quei sgherri armati dalla inquisizione politica, un sol giorno assoggettarsi.

Oltre quella forza inquisito-militare, che in tutta Italia può ascendere, a più di ventimila uomini, divisa in cavalleria, e fanti, che i tiranni non credono per vivere tranquilli ancor sufficiente, instituirono al di più una polizia estesissima, [xlv] e rovinosissima pel publico erario, che si vale dei carabinieri o gendarmi per l'esecuzione de' suoi raggiri, e contrammine, usa le stesse arti, accelera la corruzione della morale, mentre l'oppressione del povero cittadino crudelmente raddoppia. Ma ciò che più stupisce, si è di vedere che questi gendarmi, o carabinieri, e queste polizie sieno composte d'italiani, e che la maggior parte degl'impiegati principali di quegl'orribili e schifosi ministerj sieno scelti nella classe dei nobili, e facciano quelli di buona volontà il vile mestiero d'insolenti zaffi contro i loro fratelli, d'infami berrovieri dello straniero, per tenere oppressa, ed avvilita la loro patria, d'insediatori dell'innocenza, di persecutori della virtù!

Non meno funesta, nè meno insopportabile, fra le rimanenti napoleoniche istituzioni devesi certamente la coscrizione annoverare; la massima che ogni cittadino nasca milite della patria, è senza dubbio giustissima, pesa egualmente [xlvi] sopra tutti, ed è affatto republicana; ma quell'eccellente istituzione per un governo libero, se nel governo assoluto viene trasportata, conseguenze affatto differenti ne debbono emergere, le quali anzichè vantaggiose allo stato, perniciosissime saranno per riescire; ogni cittadino nel governo republicano avendo una parte attiva nell'esercizio della sovranità, chiaro ben vede che lo star continuamente pronto, in qualunque situazione particolare o civile si trovi, per lo stato con animo deciso difendere, tanto per suo dovere, quanto per suo vantaggio gli appartiene; ma come puossi una legge di republicana essenza nel differentissimo governo assoluto trasportata, e con severità eseguita pazientemente sopportare! Mette la coscrizione l'intiera massa di tutte le forze attive del popolo nelle mani del governo, nel cui arbitrio sta di muoverla tutta, od in parte a piacer suo, e così nel modo il più pronto, ed il più assoluto, nelle nequitosissime tiranniche opere impiegarla [xlvii] e di manierachè con quella formidabile forza a loro disposizione (della quale non si servono i tiranni d'Italia, che per opprimere i sudditi, poichè per la loro debolezza relativa, e viltà personale atti non sono a muovere una guerra straniera), ne avviene che la parte attiva della nazione, armata, ordinata, e comandata da persone ligie al tiranno, invece di servire alla difesa della patria, per la qual cosa fù la coscrizione istituita, serve in ajuto del tiranno ad angariare, avvilire, calpestare quella nazione che dovrebbe soccorrere, difendere, ed illustrare! Oltracciò, la parte del popolo da quella fornita, viene di quei diritti, e vantaggi, che godeva nel tempo di Napoleone defraudata; i soli pesi essendogli stati dai tiranni lasciati; primieramente sappiamo che sono chiamati secondo le regole di quella tutti i figli degli onesti cittadini a militare, senzachè alcuno esserne possa esente, imperciocchè l'esenzione di uno deve a danno di un [xlviii] altro ricadere; è dunque il più grande rigore nella sua esecuzione dalla giustizia strettamente comandato; mantenevasi nei tempi scorsi nel modo il più severo ma oggidì tutto va per parzialità e capriccio, molti figli di nobili nascono offiziali, e sovente accade che già si trovano di tenenti i più anziani ed ancor sono sotto la sferza del pedagogo, affatto di cosa sia un uomo, un'arma, od una teoria ignari; i nobili che si dedicano al foro, od all'amministrazione, ed i ricchi, comprando un uomo per lo più cattivo, di mala fama, o stupido e presentandolo in cambio delle loro persone facilmente da quel peso si esimono; in modo che tutta la severità della legge piomba sull'onesto cittadino, che o per disgrazie sofferte nel passato, o per afflizioni presenti, o per appartenere ad una numerosa famiglia, o per molte altre simili cagioni non si può in quel momento di due o tre mila lire privare, onde sborsarle a quell'uomo che per rimpiazzarlo si [xlix] vende, epperciò quel povero infelice trovasi a servire, per anni otto o dieci in un reggimento, come semplice soldato malgrado suo costretto; perchè come non nobile, o non figlio di un qualche vecchio servo plebeo, che abbia qualche grande viltà per servizio del padrone antecedentemente commessa, non può neppure sperare avanzamento, poichè lo scopo della carriera militare dell'onesto plebeo, se la sua condotta con la necessaria ipocrisia, ed adulazione viene condita, ed è scevra da qualunque rimprovero, consiste nell'essere poi alla fine sotto tenente, ajutante di piazza, guarda porte, gendarme, carabiniere, o birro! Imperciocchè, sebbene abbia tutto il merito, valore, talento, e capacità immaginabili, nel tirannico sistema della truppa italiana d'oggigiorno inventato per umiliare, disgustare, e spegnere il fuoco, e lo stimolo di grandi talenti, ad altro, che alle pergamene, al raggiro, ed all'opulenza ignorante la via dei gradi superiori non [l] si apre; sono quei dieci anni pel disgraziato coscritto, una serie di patimenti, e disgusti; costretto di star sottomesso a' giovani offiziali che per lo più non impararono ad obbedire, che l'amarezza del pane della servitù non conoscono, che la legge col capriccio confondono, e credono i peggiori modi, essere pel buon servizio del loro padrone, i più utili ed i più addattati, come pure a vecchioni imbecilli, dei doveri, e regole della professione delle armi affatto imperiti, che altro di buono e di bello non veggono, se non quanto è vecchio, e comune, e si approfittano della loro lunga esistenza, non meno per disgustare, che per contenere lo slancio dei genj nascenti, sempre da loro (perchè astrette a riconoscerne la superiorità) odiati e perseguitati; quegli stupidi, per mezzo del raggiro, e delle umiliazioni al comando inalzati, esigono con insolenza da' loro inferiori, quel tributo di viltà, e d'adulazioni ch'essi per giungere, a tale e mantenere [li] la presente loro immeritata fortuna, ai superiori pagarono, e pagano. Si trovano in quei reggimenti il figlio dell'onesto artigiano, e quello del possidente, dell'agricoltore, e del negoziante, accozzati, la maggior parte di quelli educati nella semplicità nell'esercizio di una morale virtuosa, suscettibili di fare rapidi progressi nell'istruzione, ed alla necessaria severità della disciplina militare addattarsi; capaci, se fosse un pò di slancio al loro genio permesso, non solo di eguagliare in tutto e per tutto i migliori uffiziali, ma di gran lunga dietro loro lasciarli. Ma! Per la tristizia del tempo che corre, sono questi robusti ed onesti giovani per la patria del tutto perduti, quand'essere la vera sua speranza ragionevolmente dovrebbero, il loro genio è compresso, il loro desiderio di pervenire all'egualità degl'uffiziali è considerato delitto, e la loro sola prospettiva, l'apice della loro carriera, è un impiego non meno vile, che disprezzato! Poteva questo dannoso sistema di militare [lii] avanzamento, in vigore in quasi tutti gli stati d'Italia, meno ingiusto parere, quando erano i quadri dell'esercito da tutti i discoli, e malviventi dei paesi riempiti, che mediante una modica somma di premio, sotto le bandiere del re, per servirlo male, ed affliggere il pacifico cittadino, tanto in pace che in guerra, volontariamente si arruolavano; egli è ben vero che soldati di tal fatta, non dovevano, d'essere a gradi superiori promossi, non che pretendere, sperare, perciocchè pel fatto solo di entrare al servizio per una data somma convenuta, si obbligavano per quel prezzo, a servire dieci anni come soldati, senza pretensione da una parte, nè promessa d'avanzamento dall'altra, epperciò il re non era riguardo ai gradi verso di loro, in veruna maniera obbligato, e se glie ne accordava dovevasi una speziale grazia giustamente reputare; ottima cosa era senza dubbio che quella genia di mascalzoni fosse per sempre dagl'impieghi principali esclusa; e sarebbe stata imprudenza [liii] massima di mettere la direzione della truppa, la salute del trono, e dello stato nelle mani di gente immorale, scostumata, e priva di qualunque virtù; ma in oggi, che sebbene sott'altro nome, fu la coscrizione, contro la quale dai nemici di Napoleone tanto si gridava, rimessa in vigore (a malgrado di quanto venne da quasi tutti i nostri tiranni quando furono portati dalle bajonette straniere sù quei troni che avevano per eccesso di paura vilmente abbandonati con grande solennità dichiarato, vale a dire, la sua totale abolizione in perpetuo) che per quella istituzione il peso su tutti i cittadini egualmente ricade o dovrebbe ricadere, che di soldati galantuomini, ben nati, civili, e capaci, sono le truppe nella loro totalità composte, perchè privarli di quei vantaggi che solo possano render loro la disciplina ferrea, e capricciosa meno pesante, e far loro le fatiche dell'attuale militar servizio con pazienza sopportare? Ma no; ingiusto sempre il tiranno esser vuol solo a riscuotere [liv] tutto il vantaggio che pel suo potere ne ridonda, epperciò fecela in tutte quelle parti che potevano essere favorevoli al cittadino mutilare, onde non mai gli fia possibile di schivar d'essere sempre al privilegio, raggiro, ignoranza, ed al brutal trattamento sottoposto. Ma che non avremmo da dire, se intendessimo ad una ad una tutte le tirannie speciali a ciascun stato far palesi? Oltre i limiti che ci siam prefissi, trascorreremo, e non sarebbero varj in folio a tal uopo bastevoli. Come si potrebbero le nequizie del malvagio immanissimo Francesco di Napoli rapidamente dimostrare, il quale non contento di considerare il maggior numero de' suoi disgraziati sudditi, come una genìa di furfanti, e come cospiratori, e di continuamente malmenarli, fa ogni giorno in oscurissime, e pestifere carceri, molti e molti distintissimi cittadini trascinare, ove incatenati e tenuti a pane ed acqua, debbono aspettare degli anni, nei soffrimenti, un ingiusto, capriccioso, inappellabile, atroce [lv] giudizio di tribunali militari, che non si dilettano, che nel veder il capestro in azione; più di quanto in un tempo non fossero quegli dei figli di san Domenico in odio di virtù crudelmente accaniti; oltracciò, temendo il lazzaronico tiranno, che possano i Napoletani qualche minimo vantaggio dal commercio ricavare, addottò quell'antico sistema dei Borboni di Francia, ch'ebbe non poca parte a muovere la rivoluzione che mandò al patibolo Luigi XVI, cioè di appaltare le rendite dello stato ad avidi publicani; sistema che sparge il mal contento in tutte le classi de' cittadini, ed è ogni giorno d'irritevolissime e numerose vessazioni permanente cagione. Di più quell'altrettanto sciocco quanto barbaro governo stabilì il suo sistema proibitivo ad imitazione di quello presso gl'Inglesi anticamente in vigore, senza neppure far la necessaria distinzione delle mercanzie limitandosi a gravare, con esorbitanti tasse ciò solo che lo stato sia capace di produrre, ma tutte senza [lvi] distinzione a pagare stupidamente sottopose.

Che non diremmo dello stato di quei poveri disgraziati costretti a sopportare l'odiosissimo insopportabile giogo pretile? A chi non son note le vessazioni dei puzzolenti austriaci nella Lombardia, e stato veneto? Dei tiranni di Modena, di Lucca, di Parma, di Piemonte? E se nel numero di tutti gli altri empj oppressori, non sarebbe cosa giusta il gran Duca di Toscana frammischiare, debbesi però fare attenta osservazione che tutto nel suo personale carattere consiste, non già nelle istituzioni; e non meno lo stato precario di quel ben essere che la necessità di un solido cambiamento in quel paese chiaramente appare; perchè se come vi è tutta probabilità la successione venisse ad estinguersi, quel ducato nelle unghie della rapace Austria inevitabilmente cadrebbe, e lo stato infelice delle parti che gemono sotto la sua barbarie, debbono servire d'esempio per ciò che in quel caso abbiano i Toscani ad aspettarsi.

[lvii] In breve assassinj giudiziarj, frode nella fabbricazione delle monete, dilapidazione del publico danaro, latrocinj dei monti di pietà, e dei banchi, abuso continuo di potere, per parte sì dei civili, che dei militari; revisioni di cause già tempo addietro giudicate quindi affatto in contrario per spirito di partito rigiudicate; spie, polizie, gendarmi, etc., perplessità, e timore in ogni cittadino che sempre stà in paura di violare le leggi che non conosce, nè mai potrà conoscere, perchè nella maggior parte degl'italici stati non sono che la momentanea espressione del capriccio di un qualche ministro, o dell'imbecille tiranno: ecco brevissimamente accennato il triste compartimento degl'infelici Italiani, dalla restaurazione dell'antica tirannia in quà, e quale felicità abbiano per via della pace generale guadagnata!...... rispettivamente poi alla considerazione politica che l'Italia gode all'estero, egli è ad ognuno ben noto, non esser quella, negli affari europei, nè per [lviii] bene, nè per male, nè per frazioni in particolare, nè in massa in un minimo calcolata; non essere l'Italia che come una grassa, ricca e vile appendice dell'infame Austria tenuta in conto; nulla rispetto alle armi, senza libertà, senza energia popolare, passiva nella sua esistenza, e degna di sprezzo, imperciocchè viene ora da tutte quelle nazioni che rozze, e barbare, furono nei secoli antichi per tanto tempo sue schiave, beffeggiata, schernita, e vilipesa mentre i venti millioni d'abitanti che possede, quei pronipoti dei gloriosi romani, oggidì neghittosi, ed abbietti, disuniti, schiavi, abbiosciati, scornati, e di gloria deficienti sono come tanti bamboli dai gabinetti europei, baloccati, aggirati, e delusi.

Ecco lo stato d'abbiezione, di oppressione, di miseria in che si trovano venti millioni d'abitanti, cui tutti i mezzi per godere i pregi d'una buona vita e passarla felice, la natura in abbondanza provvide; ecco lo straordinario fenomeno, [lix] quello cioè di vedere l'ignoranza, rusticità, codardia e sozzura tedesca mettere il genio, valore, entusiasmo, e civilità italiana sotto i lordi suoi piedi...... eppure questo incredibile fenomeno da molti anni pur troppo sussiste, per via della mancanza d'unione, ed energia italiana provegnente dalla continuata serie di calamità alle quali dovette da lungo tempo soggiacere; dall'ignoranza delle sue forze, ad una certa sciocca persuasione che i nemici astutamente cercavano di far nascere, e nella mente dell'italiano alimentavano, cioè quella di non essere da se solo a nulla di buono capace; dalle divisioni fra provincia, e provincia, dai nemici d'Italia a bella posta eccitate, e mantenute; dalle false massime di superiorità provinciale dall'una contro l'altra nutrite; dai vizj, dal troppo amore dei divertimenti, dalle effeminatezze nelle quali erasi la parte pensante della nazione, per mezzo degl'incitamenti con molta finezza messi dai nemici in voga, lasciata trascinare; ecco [lx] da dove proviene tutta la vergogna dell'amatissima nostra patria; noi con fiducia nondimeno speriamo, che sieno in oggi tutte le illusioni, e tali cagioni di servitù svanite e riprovate; ci lusinghiamo che il popolo italiano abbia lo stato infame e vile, a che quelle lo ridussero, finalmente conosciuto, che l'opinione di tutti gl'italiani che posseggono un cuore generoso (e non son pochi) sia tutta non men favorevole che ben disposta per l'unione, la independenza e la libertà della penisola; che ognuno sia persuaso essere quel cambiamento una necessità del paese; che ognuno conosca non potervi essere senza quelle, per chi nasce su quel suolo nessuna durevole felicità; questa buona opinione, con fondamento da noi supposta, è certamente lusinghiera, e può essere di grandissimo vantaggio alla patria, ma non già bastevole; il tempo è giunto in che debba il popolo i suoi robusti pensieri con azioni patrie forti e generose accompagnare; quando le ottime idee [lxi] non sono a fatti accoppiate, inutili divengono, e come se neppure esistessero; egli è pur tempo che dimostri una volta al mondo, non essere gl'Italiani men forti, nè meno sagaci, nè meno virtuosi degli altri popoli che li circondano; che cessi di mormorare in segreto dall'abitudine e dai vizj forte incatenato; che cessi di continuare qual coniglio nella meschinità, e dappocaggine; egli è tempo che conosca la vituperevole mollezza d'animo degl'Italiani dei secoli scorsi, che da quella riconosca la rovina d'Italia, e con odio estremo l'abborisca; egli è tempo infine, che colga la propizia occasione di trarsi dall'aggecchimento, in che si trova, e corra subitamente alle armi con giuramento di quelle non deporre, finchè i nemici stranieri ed interni fino all'ultimo distrutti, non sia pervenuto a stabilire sopra una solida base l'unione, la independenza, e la libertà di quella patria, che fù dalla natura come paradiso del mondo benignamente creata.

[lxii] Potrà per avventura un qualche malvagio, od imbecille, quella ingiuriosa obbjezione opporci, che i nemici d'Italia compiacevansi nei secoli scorsi di trombettare, cioè che non fossero gl'Italiani atti alle armi, perchè troppo essendo dalle loro effeminatezze e vizj spossati, erano resi deboli come donne; dovrebbe la voce dell'Europa intiera testimone del valore italiano quest'ingiuria smentire non di rado ancora dagli stranieri al dì d'oggi rinnovata, e sebbene calunniosa, non dimeno dagl'Italiani ben meritata finattantochè non siansi da quel fango della nullità e del vituperio che gl'imbratta interamente, sbruttati; a quest'obbjezione tuttavolta noi risponderemo che le relazioni, e le storie delle guerre da Napoleone in Italia, Germania, Russia, Prussia, Spagna, etc., sostenute, bastano per provarne la inconsistenza, imperciocchè a tutto il mondo fanno palese che quegl'Italiani i quali sotto la grossolana, e bestiale direzione dell'incomportabile Austria, e de' stupidi [lxiii] e maligni loro tiranni, come pecore davanti i Francesi la davano bruttamente a gambe, furono in quelle guerre parte, integrante, e forte dell'esercito napoleonico, possono a giusto titolo fregiarsi degli allori in abbondanza da quelle legioni mietuti, ed erano in ogni rispetto se non migliori, senza dubbio ai loro conquistatori eguali; ma se ci si dicesse che quei prodi sono al giorno d'oggi o già passati ad altra vita, o vecchi troppo per guerreggiare, noi risponderemmo, che forse non saranno i presenti Italiani come quelli tanto usati alle battaglie, perciocchè loro mancò l'opportunità di acquistare sui campi della gloria la necessaria sperienza, ma che non è il valore qualità esotica in Italia e che ben al contrario ella è peculiare della gioventù attuale atta più di qualunque altra ad intraprendere, e sostenere una guerra leggiera, per bande, nella quale affrontando a bella posta con ardire i pericoli, e rendendosegli famigliari, sarà luminosi trionfi per riportarne: continui e difficili [lxiv] combattimenti nelle montagne dai Greci antichi sostenuti, assaissimo contribuirono a renderli poi nelle battaglie campali alla pianura vittoriosi; vinsero primieramente i Barbari, ed i Sciti nelle gole dei monti e quindi appresso in pianura dense nuvole d'Asiatici dissiparono, sui quali non meno una decisa superiorità, che la certezza morale della vittoria, per quanto fosse il loro numero, avevano in quel modo acquistata. Così faranno pure gl'Italiani attuali, cui se forse manca per ora l'arte, non manca certamente il valore, migliaia d'esempi non meno degli antichi tempi, che dei moderni potrebbersi citare, tutti la bravura italiana comprovanti: non meno gagliardi nell'esecuzione, che abili a comandare, e ben dirigere, figurarono essi brillantemente nelle file francesi, ed al buon successo delle conquiste di Napoleone, pure nostro compatriota, perchè nato italiano, assaissimo cooperarono; e di quanti generali ed uffiziali superiori distintissimi, che le pagine della gloria [lxv] francese illustrarono, quel paese nelle sue produzioni, da più di tutti gli altri, non gli ha per avventura forniti? Non era forse Italiano quel maresciallo Massena, figlio prediletto della vittoria, dopo Napoleone il miglior duce degli eserciti francesi? E i Rusca, i Fresia, i Seras, i La Villa, i Pino, i Lecchi, i Zucchi, i Severoli, Pejri, Eugenio, Mazucchelli, Rossaroli, Russo, etc., e tanti e tanti altri prodi, e valorosi guerrieri, non meno abili, non meno celebri dei migliori generali francesi, che se non sopravvanzarono al certo viddersi, più che del pari all'acquisto della gloria valentemente camminare? Quei sciagurati che per le funeste sconfitte di Rieti e di Novara dovettero all'ingiusta taccia di codardia soggiacere, mentre tutto da mala direzione, e vicendevole invidia dei capi proveniva, non provarono essi tanto in Ispagna, che in Grecia con tratti maravigliosi di uno straordinario valore, non essere di quella nefanda imputazione meritevoli? Pacchiarotti, Brescia, [lxvi] Cepi, Gaddi, Lubrano, Bussi, Arrighi, e trecento altri prodi colleghi che in difesa della libertà di Spagna, carichi di ferite, dando uno stupendo esempio di stoica fortezza sul campo dell'onore combattendo spirarono, non erano essi tutti di quelli che si trovarono in Rieti, od in Novara? E se volgiamo l'occhio alla Grecia, non vediamo noi un Tarella lasciato in abbandono dai Greci al campo di Peta, e per ogni parte dai Turchi furiosamente assalito, far testa con un pugno de' stranieri ad un numero molto maggiore di nemici, non tralasciando la pugna finattantochè non cade sul posto che difende, da mille colpi trafitto? Un Raseri che con mirabile arte la difesa di Missolungi diretta, dopo aver fatto per mezzo di certe mine avvedutamente praticate, saltare parecchie colonne turche in aria, e dopo aver per varie ore il passaggio della breccia contrastato, combattendo da leone, perdè valorosamente la vita! Un Basetti, che mortalmente ferito e dal sangue che scorrendo da [lxvii] molte parti del suo corpo gorgoglia da capo a piedi cosperso, tutta l'energia vitale a se rechiamando, con un incredibile magnanimo sforzo stende ancora prima di spirare, nove Turchi al suolo, compiendo con quell'eroico slancio d'impareggiabile valore, la sua virtuosa e brillante carriera! Un Santa Rosa, che nell'isola di Sfacteria, lasciato solo in fronte ad un numeroso stuolo di nemici, con raro sangue freddo s'arresta, si rivolge ad un suo compagno cui impone di ritirarsi e così soggiunge: Farò in oggi palese al mondo che uno eravi almeno in tutto quest'esercito che non paventava la morte: ciò detto spara un'archibugiata contro il nemico, dal quale viene immediatamente circondato e tagliato a pezzi! Un Pecorara, modello di virtù cittadina, che nello stesso modo abbandonato, combatte solo contro un drappello di nemici che ferisce, e contiene parecchie ore, a cui essendo però alla fine costretto di soggiacere, preferisce alla resa od alla fuga, una gloriosa morte, [lxviii] è la sua testa inviata a Costantinopoli, attesa la pertinacia da lui dimostrata nel combattere ove trovasi qual brillante trofeo, d'indomabile nemico, al serraglio collocata! Un Rittatore che, comandante d'una batteria, da forza maggiore assalito, si lascia tagliar a pezzi sul cannone piuttosto che cederlo, od abbandonarlo? E cento e cento altri che non finiremmo se tutti volessimo enumerarli? Non potranno al certo essere quelli di codardo procedere accagionati, come neppure quei loro colleghi, che pur con onore combatterono, ma che non sappiamo se dobbiam dire per buona o per mala fortuna, loro non toccò la sorte di morire! Non son codardi no quei migliaia di forti rimasti a trascinare nella miseria, ed amarezze di ogni sorta quella vita che alla patria consagrarono, e che pel suo miglioramento ancor sarebbero ben contenti di sagrificare! Chiaro dunque appare che non mancano gl'Italiani d'animo, spirito e capacità guerriera, ma che solo trovasi questa, per la sozza [lxix] schiavitù che gli opprime, come paralitica intirizzita. Se quanto abbiamo di sopra esposto per intieramenle convincere un qualche ostinato non bastasse, noi ci varremmo delle parole del ben noto cavaliere Follard, nella sua storia di Polibio, al tomo quinto, pagina 379, alle quali non potrebbesi, senza taccia di scimunito o di mentitore, dei falli obbjettare: dappertutto, dic'egli dove nascono uomini, nascono soldati, e se questi mancano, quando gli altri abbondano, il torto è del governo, perchè nulla è più facile che formare un'eccellente milizia, ed uffiziali per condurla, e ciò in minor tempo che si crede; se ne vuole forse un bel esempio? Citare Pelopida ed Epaminonda, che di un numero di Borghesi di Tebe, senza nessuna esperienza di guerra, ne fecero dei soldati intrepidi, sarebbe riandare cose troppo lontane; contentiamoci di citare Pietro il Grande, Czar di Moscovia, il più grand'uomo che sia comparso al mondo dopo gli antichi, che col mezzo di un'ammirabile [lxx] disciplina, cambiò i suoi sudditi per lo addietro dispregevoli in intrepidi soldati: portano pure la stessa opinione, i più grandi politici conosciuti; Polibio e Tacito, non meno che un'infinità d'autori antichi e moderni, sono dello stesso parere; non v'ha dubbio dunque sulla capacità degl'Italiani alle armi, e solo sono, e meritano di essere in niun conto per la guerra dell'Europa tenuti, perchè non vollero fin ora, con uno scopo onorevole per la nazione impugnarle; ma presa una volta quella tanto sublime determinazione non molto lontana, e pervenuti a scuotersi, ed infiammarsi, vedransi (noi siam persuasi) gli antichi prodigi di valore dei mai sempre illustri avi nostri ben tosto con somma gloria ripetere.

Altri, educati alla scuola di Buonaparte, o timidi di cuore, o pseudi-filosofi, più stranieri che italiani, non vogliono persuadersi, che la nazione abbia l'energia, e volontà necessaria per digiogarsi da se sola, senza che siale mestieri [lxxi] d'aver all'appoggio straniero, ricorso, la loro mente presenta sempre ai lor occhi l'Italia ai tempi dell'invasione di Carlo VIII di Francia, o di Buonaparte; essi altro non vedono che quegl'Italiani ora dall'uno, ora dall'altro disprezzati, e malmenati, che sopportando a capo chino e ginocchia piegate le ingiurie degli stranieri; la mano del carnefice che gl'immolava, umilissimamente baciavano! Non considerano questi che le circostanze d'allora, erano da quelle d'oggi ben differenti; che il modo di pensare, e di agire degl'Italiani è cambiato, che il loro genio si allontana per adesso dalle scienze e le belle arti per addirizzare le sue brame ad una più solida, e brillante gloria, cioè per quella degl'antenati riacquistare, che qualunque buon italiano respinge con isdegno l'idea di essere stromento, od agente dello straniero; ben compresero per esperienza gl'Italiani essersi giustamente apposta Madama di Staël, quando stabilì per massima che: la libertà non vuol essere data, ma vuol essere [lxxii] presa: l'Italia più che qualunque altro paese ha già provato quanto valga la libertà dagli stranieri accordata, che quando, sotto Napoleone, scesero i Francesi dalle Alpi, le dissero che venivano a trarla dalle sozze mani d'una razza di degenerati dominatori, che come tiranni, non erano della sua stima, nè del suo amore meritevoli; che agl'Italiani come liberatori si presentarono, e dichiararono loro socj, loro uguali, e come loro liberti da schiavitù redenti, cui per diritto il godimento della libertà, ed independenza giustamente spettava! Erano queste parole certamente bellissime, ma non furono che parole, e ben conoscono in oggi gl'Italiani altro che buone parole inutili non doversi dallo straniero aspettare; e per verità quali furono i fatti? Spogliarci, tenerci dipendenti, divisi, schiavi, col nostro sangue, e con le nostre sostanze farci ad ajutare, ed aumentare la loro gloria, contribuire, grande porzione della quale, fu senza dubbio opera nostra, per poi con biasimevole mancanza [lxxiii] di generosità, nelle loro storie e relazioni di quell'epoca, finanche dei meritati encomj che ci sono per giustizia dovuti, del tutto defraudarci! Ecco la libertà regalataci dai Francesi! Che dovremmo noi dire di quella che dagl'Inglesi potrebbe l'Italia sperare? Le promesse e dispromesse di lord Bentink, la tergiversante, cupa, e turtuosa, condotta di quel gabinetto in tutti gli affari d'Europa, quella che tenne ultimamente rispetto al Portogallo avendo egli stesso consigliato ed animato il tiranno Miguel, a rientrare in Lisbona, e tosto le truppe sue, che quella città presidiavano ritirate, alfine di lasciare quella feroce tigre in arbitrio di saziare le sue scellerate brame nel sangue dei poveri Portoghesi, che quantunque tremanti, pel timore della mala fede inglese, avevano però seguito l'impulso costituzionale in certa qual apparenza dato dall'Inghiterra, e furono quindi, a bella posta ed a sangue freddo, al saccheggio, al carcere, al fuoco, all'assassinio, da essa crudelmente [lxxiv] abbandonati! La liberalità, la virtù, l'umanità, di quel ministero già, è a tutto il mondo ben nota e sopra tutto la sua lealtà che dai fatti succitati chiaramente appare; noi non vogliamo supporre vi esista nessun Italiano di senno, che in buona fede speri nell'intervento di quella potenza, onde all'acquisto della sua independenza, e libertà, pervenire. Trattare poi della cooperazione, che a quell'uopo, si possa dall'Austria, Russia, o Prussia sperare, ci parrebbe altrettanto ridicolo, per chi lo trattasse, come sciocco per chi potesse pensarlo; infine consultino con attenzione le storie, e guardino gl'Italiani se v'ha in quelle un solo esempio che le bajonette straniere abbiano mai una divisa nazione unita, o resa forte quando era debole, che le abbiano data l'independenza quando potevano dominarla; e la libertà, quando più forte si potevano da quella come schiava far servire? Sappiano gl'Italiani, che nulla hanno da sperare dall'estero, se non catene o guai; che non saran mai felici, [lxxv] se non si sentono da loro stessi capaci di quella felicità procurarsi, che mai potrà dalle bajonette degli stranieri emergere! Chi non è da per se atto a procacciarsi la felicità, e d'uopo, è ad uno più forte di lui per ottenerla, sommessamente ricorrere, tardi o tosto sempre se ne avrà da pentire, imperciocchè l'umiltà, e l'obbedienza che debbono sempre il ricorso al forte accompagnare, mettono il ricorrente nell'intera dependenza sua, egli se ne approfitta pel solo suo particolare vantaggio, e nulla più si cura delle promesse fatte, di far felice il debole imbecille che in lui aveva tutte le sue speranze, riposte.

Altri vi sono, che ben conoscono, il niun conto, in che si deve un appoggio straniero, tenere, se veramente si ha per iscopo la felicità d'Italia, che riconoscono pure la facilità d'acquistarla, se fermamente la maggior parte degl'Italiani la vuole; ma che, per sciocchezza o per debolezza di spirito, e di cuore, o per educazione assuefatti a veder nero, ciò [lxxvi] che in fatti è bianco, a considerare il giusto per l'ingiusto, e così viceversa, dichiaransi amatori della cosa, ma non dei mezzi da impiegarsi per ottenerla, e così dicendo nulla dicono di vaglia, e coloro dansi per paurosi, colla maschera d'umanità, e diritto, a divedere. Ci sia permesso, all'oggetto di persuadere questi ripugnanti al nome di rebellione, di citare le parole del celebre Wilkes, al parlamento d'Inghilterra, quando trattavasi della questione americana; sappiate dunque, diceva egli, che una resistenza che riesce a suo fine si chiama una rivoluzione, e non una ribellione; che il nome di rebellione, sta scritto sul dorso del sedizioso, che fugge, e quello di rivoluzione brilla in sul petto del guerriero vittorioso: nel vincere dunque sta la sentenza riposta, non nei mezzi adoperati; il male consiste solamente per noi nel mancare di cuore, imperciocchè tutte le ragioni d'insorgere sono dalla nostra parte. Ben lor conviene pure di conoscere, a quest'Italiani di parole, e non [lxxvii] di fatti, i più dannosi alla patria che forse vi esistano, ciò che dice il celebre Locke! Cioè: che ogni governo legittimo deriva dal consentimento del popolo, perchè siccome gli uomini sono naturalmente eguali, nessuno possede il diritto d'ingiuriar gli altri, nella vita, salute, libertà, o proprietà, e nessuno di quanti compongono la società civile, è obbligato di star soggetto al capriccio degli altri, ma solamente a leggi fisse, e conosciute, fatte pel benefizio di tutti: non si debbono stabilire tasse, senza il previo consenso della maggiorità espresso dal popolo stesso, o dai suoi delegati; i re, i principi, i magistrati ed impiegati di ogni classe, non esercitano altra autorità legittima, che quella stata loro delegata dalla nazione, e pertanto quando quest'autorità non s'impiega in prò della communità, allora il popolo ha diritto di riassumerla, in qualunque mani sia essa collocata: saravvi alcuno che osi ancora opporsi al giudizio di questo valente, e rinomatissimo scrittore? [lxxviii] chi si opponesse, non potrebbe esentarsi dalla taccia di scioccone imbecille, o di malvagio inumano; eseguiscono i principi d'Italia, quanto dice Locke, esser loro dovere di eseguire? No; commettono essi quei delitti pei quali, dice il citato autore, aver diritto il popolo di riassumere l'autorità, e spogliare coloro che ne sono rivestiti? Sì, senza dubbio; dunque noi abbiamo tutto il diritto; quando si trova il buon diritto, colla volontà, e la forza congiunto, i mezzi sono tutti buoni, purchè, chi con sfacciataggine lo conculca si rovesci, e compiutamente si distrugga; noi siamo in quel caso e fin da secoli; non può l'esistenza dei nostri nemici essere che passeggiera in Italia, se noi lo vogliamo; perchè siamo assai di loro più forti, e la base, sulla quale poggia il loro potere, altro non essendo che la forza artificiale, al momento che si troverà questa da una maggiore opposta, non potrà evitare di venir del tutto sobissata; non può l'antichità in nessun modo la violazione [lxxix] del diritto confermare, solo rende necessarj, più violenti rimedj, sono quelli dalla giustizia non solo permessi, ma indicati, ed è cosa giusta, e doverosa lo avere al ferro, ed al fuoco, ricorso, per questa inveterata piaga risanare, cioè per esterminare i tiranni e svellere fin dalle sue radici, l'insopportabile tirannia; aggiungasi eziandio quanto pure dal Locke viene in proposito soggiunto: ma se una lunga serie di abusi, prevaricazioni, ed artificj, tutti tendenti ad uno stesso punto, rendono visibile al popolo un disegno, in maniera che tutti risentano il peso, che gli opprime, e vedano il termine, a che sono condotti, non sarà da stupirsi se si solleveranno, e depositeranno il potere in mani, che gli assicurino gli oggetti, pei quali fù istituito il governo: a chi non son noti i raggiri, gli artificj, messi continuamente in opera per tenerci divisi, poveri, senza riputazione ed impotenti, alfine di non dar ombra ai vicini, ed essere all'infame Austria eternamente sottomessi? [lxxx] Chi non lo vede? Chi potrà negarlo? Si veggano i protocolli dei congressi di Vienna, di Parigi, di Lubiana, di Trappavia, e di Verona, ed in quelli non solo un disegno, non solo una tendenza, non solo un vago progetto di rovinare l'Italia per sempre, scorgerassi, ma una condanna inappellabile, definitiva, atroce da quei congressi pronunziata onde impedire che mai più possa nell'avvenire risorgere, ed essere una volta fra le nazioni rispettabili del mondo annoverata! Sono pure notorie le promesse d'uffizio fatte da tutti quei principotti vili, che tiranneggiano l'Italia, al loro padrone il tiranno d'Austria, di non mai accordare nessun cambiamento nel sistema di governo, che possa migliorare la condizione dei loro sudditi!

Che questa promessa esista, nessun lo nega, nessun lo pone in dubbio, e ben si sa essere stata la principale cagione, perchè nel 1821, Vittorio Emmanuele di Savoja abdicò la corona, ad ognuno deve dunque chiaro, e manifesto [lxxxi] apparire non solo il disegno ma la condanna eziandio, della quale già ben se ne risente l'esecuzione! Era la politica dei Persiani rispetto ai Greci quella di indebolirli, e mantenerli divisi; la loro massima fondamentale di non permettere in Grecia l'aumento, e la felicità di nessuno stato, che potesse divenire abbastanza forte, onde a quello fosse poi agevol cosa, gli altri, a riunirsi contro l'Asia, nell'avvenire trascinare; per via del vergognoso trattato d'Antalcida, divenne il gran re, l'arbitro supremo del Peloponneso. La politica dell'Austria, è rispetto all'Italia interamente la stessa e da suoi alleati, che di vedere l'Italia avvilita, e serva sono contentissimi, viene quella funesta politica sfacciatamente approvata, per via dei succitati congressi: l'imperatore d'Austria, che par nato ad infamare la stirpe umana, è pure l'arbitro esecrabile dei nostri malavventurosi destini! Ma come fecero i Greci; che con la guerra posteriore, la vergogna di quel trattato ripararono; [lxxxii] così dovranno pur fare gl'Italiani; per loro non vi dev'essere, del disegno di rovinarli sempre di più, ed interamente, il minor dubbio; egli non è solo visibile per l'avvenire, ma già si risente in giornata, si osservi che per la massima di ristabilire l'Europa nello statu quo addottata nel congresso di Vienna, le due antiche republiche di Venezia e di Genova avrebbero dovuto essere rimesse; ma siccome sebbene tiranne ed aristocratiche nell'interno, mantenevano però all'estero in certo qual modo viva la riputazione Italiana, furono a perpetua estinzione condannate! Quella Venezia che nel medio evo padrona del Mare, contavasi fra le maggiori potenze del mondo! Che possedeva ella sola tante ricchezze quasi come tutte quelle riunite dei sovrani europei di quell'epoca. Quella Genova emola dello splendore di Venezia, che per tanto e tanto tempo si mantenne dalle molte, e forti tempeste che minacciavano la sua rovina, illesa, e godeva pure in Europa grandissimo credito, [lxxxiii] e ricchezza! Se furono invero ambedue da quella meteora distrutte, che uscita di Francia per dare la luce all'Europa, invece d'illuminare abbruciava, e dovette poi alle tenebre ed al pregiudizio, che l'incalzavano, lasciare il luogo, era puranche giusto che fossero queste republiche restaurate, ma siccome cambiando i loro ordini a seconda dei lumi del secolo, avrebbero sebben parzialmente tuttavia potuto in buona riputazione il nome italiano mantenere, furono da quei congressi condannate a mai più risorgere, mentre nel potere tutti quei re, principi, duchi, etc., in varie parti d'Italia ristabilivano! e che diritto avevano quei sozzi tirannucci, piuttosto di quelle republiche per essere dall'Europa in armi nell'antico seggio riposti? Furono le republiche in principio dalla volontà popolare stabilite, ed avrebbero dovuto essere come assai più legittime di questi manigoldi considerate! Imperciocchè questi con la conquista, il raggiro, o l'astuzia, pervennero anticamente [lxxxiv] al trono, e furono dalla forza cacciati, alla quale, poichè tenevano assai più in pregio la vita che l'onore, con massima viltà generalmente soggiacquero; e chi si nascose in una parte, chi si ritirò in un'altra, nessuno volle neppur tentar di mettere la sua vita in rischio, per la difesa di quel trono che abbominevolmente sporcava, volevano scappare, e non combattere, ecco i loro meriti, i loro diritti pei quali furono dagli alleati rimessi, espressamente col fine di tenere l'Italia raumiliata, depressa, ed abbietta! Prima però di abbandonare i loro sudditi nelle mani dello straniero affamato di rapine e di sangue, dall'obbligo del giuramento dato alle loro persone, quei tiranni gli sciolsero, ed esortarono a darne uno nuovo al conquistatore! La qual esortazione d'un re fuggitivo non significa nulla, perciocchè il nemico essendo padrone del territorio, se mai si fosse vacillato, se lo sarebbe fatto prestare per forza, non pertanto fummo legalmente sciolti dal giuramento [lxxxv] dato a loro, ed il nuovo che si fecero dare nel 1814, essendo portati dalle bajonette degl'alleati, non è in nulla più valevole, di quelli prestati ad altri sistemi, ed in altre congiunture; portandosi a guardar più in dietro; vediamo che i nostri avi prestarono il giuramento alla forza, od all'astuzia, raggiro, ed inganno, e noi seguitammo macchinalmente a servare quello da loro fermato; vennero i Francesi, e ci obbligarono a darne un altro, alla libertà Italiana; poscia dovettero i Piemontesi ed alcune altre provincie, unite quindi alla Francia, cambiare nuovamente il loro giuramento, e darlo alla libertà Francese; rovesciato un pò più tardi, il governo republicano in Francia, e con l'imperiale in quel paese e reale in Lombardia, e Napoli, etc., surrogato, dovettero gl'Italiani spergiurare alla libertà, e giurare di essere fedeli all'impero ed al regno; vennero sei cento mila alleati a distruggere l'impero, il regno, etc., ed a mettere la superstizione, l'inganno, [lxxxvi] la viltà, i pregiudizj, e l'ignoranza in trono, ed eccoci di bel nuovo giuramentati ad essere fedeli in eterno, a questi nostri vecchi signori, dall'attual generazione sconosciuti, e dai buoni Italiani abborriti! Or noi diciamo, quale di tutti questi giuramenti dovrà essere per noi il più obbligatorio? Sarà egli il più antico, od il più recente? se ci si dirà essere il più distante, noi risponderemo allora, che sono invalidi tutti quei giuramenti dai nostri avi, agli avi degli attuali tiranni prestati; perchè noi dovremmo in questo caso servare quello prestato alla republica romana, come la più antica e ben conosciuta potenza italiana, che abbia in tutte le parti della Penisola dominato; se poi ci si dice che sia da servarsi il più recente, noi non vediamo perchè debbano gl'Italiani essere legati da un giuramento dato alla coazione straniera, e non abbiano diritto, di darne e servarne uno volontario, e recentissimo, che meriti veramente di essere servato, qual sarebbe quello che [lxxxvii] si prestasse all'unione, independenza, e libertà d'Italia? Ognuno deve da ciò essere persuaso, che nè il giuramento dato da noi o da nostri avi per conto nostro, agli antichi dominatori in Italia, nè quello al conquistatore straniero, nè quello ai restaurati nel 1814, sia obbligatorio, perciocchè non furono da un movimento universale di popoli in loro favore liberamente pronunziati, ma dalle armi straniere colla forza richiesti, che a chiunque si negasse di voler loro prestare il giuramento di fedeltà, e sommissione, avrebbero alla mannaja del carnefice, sottoposto; viene da tutti i giurisperiti riconosciuto, che un giuramento coatto è nullo, e da non servarsi; epperciò i tiranni di Napoli, Ferdinando e Francesco, il tiranno Ferdinando di Spagna, il tiranno Giovanni di Portogallo, sebbene in nessun modo fossero stati a concedere certe moderate costituzioni forzati, se non dalla loro speziale grandissima paura, non dimeno, per dare una idea di giustizia al loro [lxxxviii] procedere, (che in fatti non era che un chiaro, e patente tradimento per rovinare vieppiù i loro popoli), e per coprirlo di un velo ipocrita riconobbero la suddetta massima, dichiarando d'essere stati violentati, e non valere un giuramento dell'uomo, che non è libero; ora noi ripetiamo, siamo forse noi liberi di rifiutare il giuramento ai nostri tiranni quando lo richiedono? No certamente; perchè se uno ardisce di rifiutare, lo mandano all'istante come ribelle alle forche; dunque noi più di loro siamo da qualunque giuramento svincolati, che sia da noi stato in addietro a loro prestato; oltracciò ella è cosa certa, essere delitto servare un giuramento quando si conosce quello essere contrario alla libertà, e dell'esercizio dei diritti del popolo, impeditivo, di pregiudizio al paese, e funesto alla felicità e tranquillità dei compatrioti; e tutte le persone convengono che: Judicio caret juramentum incautum; e che: si vero sit quidem possibile fieri; sed fieri non debeat [lxxxix] vel quia est per se malum vel quia est boni impeditivum, tunc juramento deest justitia, et ideo non est servandum: mettiamo dunque in non cale, anzi con tutto cuore abborriamo quella formalità del giuramento prestato ai tiranni, alla quale fummo nostro malgrado costretti, e che non è, se non per via del tormentoso patibolo obbligatoria; come non sarà per ripugnare, ad un cuore veramente italiano, d'essere da quella costretto a servire i capricci d'un tiranno, ajutarlo nelle rapine; oppure dare la roba, e fino la propria vita, per ingrassare un imbecille dominatore, poltrone, e maligno, in detrimento della massa de' cittadini, e della gloria della sua patria? Diasi dunque, ripetiamo, un nuovo giuramento all'Italia! Sarà quello senza dubbio inviolabile, perciocchè ogni cittadino verrà egli stesso ad eseguirlo, e mantenerlo personalmente, interessato, non meno che a costringere tutti gli altri ad osservarlo, mentre dall'osservanza esatta di quello, saranno il ben essere di tutti, la [xc] felicità, e gloria del suo paese dipendenti!

Ci pare di aver sufficientemente provato che trovasi l'Italia nell'ultimo grado di abbjezione, per essere stata da lungo tempo in qua, negativa, o passiva negli avvenimenti europei; per la sua vile prontezza nel sottomettersi a chiunque più forte di lei, falsamente stimava; e per aver tutti i gabinetti d'Europa piuttosto alla sua prosperità, elevazione, e grandezza contrarj che favorevoli, e soprattutto alla sua unione in un corpo solo di nazione, decisamente opposti; perciocchè se avviene un giorno che questa, sotto le stesse leggi, sotto lo stesso impero si riunisca, che tutta la sua energia attualmente dilatata, separata, e sparsa, ad un solo, e comune centro sia rispondente, sarà in poco tempo, ad un tanto alto grado di potere, di forza, e di grandezza per giungere, che i più potenti gabinetti d'Europa nè possono, nè vogliono tollerarne l'idea, poichè bene scorgono, che se non pel momento presente, [xci] certamente nell'avvenire, questa nazione ardita, ed intraprendente, divenuta florida, e prospera abbaglierebbe col suo splendore quelle che sono attualmente le più resplendenti, la nostra influenza diventerebbe preponderante in Europa, ed ecco il perchè, o apertamente o copertamente, tutti i gabinetti sono, per così dire, di comun accordo congiurati a tenerci avviliti, disprezzati, e di niun conto nella politica generale; abbiamo veduto, come siamo, non solo obbligati a violare quel giuramento dato alla forza, ma bensì a darne uno nuovo all'Italia, e ci pare aver le obbjezioni più delicate che far si possano dai contrari alle insurrezioni, con ogni scrupolo vittoriosamente respinte. Abbiam pure dimostrato che non ci manca nè la forza, nè gli elementi per resistere contro qualunque nemico, se veramente saremo armati di quella ferma volontà, che ad un tal uopo è necessaria; soggiungeremo quindi, per avvertimento degl'amatissimi nostri compatrioti, quanto dall'illustre [xcii] scrittore Raynald viene in proposito di rivoluzione consigliato, cioè: che sollevato un popolo contra i suoi oppressori al momento che questo, schiavo del despotismo spezza le catene, e commette la sua sorte alla decisione del brando, è costretto di esterminare tutti i tiranni, di annichilarne la razza, e la posterità, di cambiare per intiero quella forma di governo, di che fù vittima da secoli: e se non osasse di ciò fare interamente, sarebbe tardi o tosto ben punito di non essere stato coraggioso che a metà, il giogo ricadrebbe con maggior forza, e peso sulla sua testa, e la simulata moderazione de' suoi tiranni, non sarebbe che una nuova insidia, dalla quale verrebbe accalapiato, ed incatenato per sempre: ci è stata questa verità gl'anni scorsi in Napoli, Piemonte, Spagna, Portogallo bastevolmente dimostrata; e da quella persuasi tutti gl'Italiani, che non avranno mai felicità da sperare se non insorgono, e fino all'ultimo, i tiranni che calpestano l'Italia, siano essi [xciii] indigeni o stranieri, non distruggano; che non hanno bisogno di alcun appoggio straniero per divenir felici, nè debbono aver timore degli eserciti nemici, che siano ad invadere il nostro territorio disposti, fosse pur anche il loro numero d'un milione d'uomini, se forti, e decisi metteranno in pratica i precetti da noi in questo trattato minutamente esposti, e con argumenti ed estratti storici, comprovati; dal quale, fatti delle loro forze capaci, potranno trarsi da per se stessi, da quella fetida fogna, in che sono per essere affogati, e faranno sì che la loro patria, occupi quella brillante posizione in mezzo agli stati europei, a che viene dalla natura favorevolmente destinata.

Dice un autore moderno: che ai soli popoli classici, è concesso di riprodursi col loro proprio genio, o per via d'una recondita essenza, propria della terra degli eroi, e del sapere; ben chè lo straniero per sua convenienza gli privi dei loro mezzi, conoscenze, e virtù, ed estenda il vizio, l'ignoranza, e la miseria. [xciv] Si domanda continuamente, che cosa sia la fenice d'Arabia, ella è l'Italia, che sempre rinasce dalle sue ceneri! Sì! e tocca pure oggi a questa fenice di rigenerarsi, svellendo il male dalla sua radice, se vuole la sua intiera rovina prevenire, essa è ben conscia, che da qualche tempo, i suoi tiranni la guardano con maggior avversione, e furore perchè sanno di essere dagl'Italiani abborriti; che la sua rigenerazione non potrà mai essere intiera, se uno solo lascierà in vita di quelli, avvegnacchè alcuno possa imbelle, mansueto, o nullo parere; che nessuna confidenza dovrà riporre in coloro, che la resero l'obbrobrio delle nazioni, e la tengono come loro trastullo; essa ben vede che una volta unita, independente, e libera, diverrà felice, e possente; che il fertile suo territorio darà un triplo prodotto di quello d'oggidì, che i costumi depravati, e molli, per via delle buone instituzioni diverranno migliori; che il vizio sarà precipitato dal trono, ed alla virtù verrà nel cuore di [xcv] ognuno, un altare innalzato; che numeroso, attivo, obbediente alle leggi da lui fatte, o consentite, felice il popolo nell'interno; con la sanità, robustezza, e valore in una guerra laboriosa con le fatiche acquistato, si farà rispettare dagl'esteri, e quelle messi, che non saranno più scialacquate dai tiranni domestici, o dallo straniero divorate, vorrà, e saprà ostinatamente difendere; che venti milioni d'uomini uniti, liberi ed independenti, d'un genio maraviglioso, godranno come nazione, fra le potenze europee quella considerazione, che (quando schiavi deboli e divisi, non eccitavano che la compassione, o il disprezzo di tutti) giustamente gli rifiutavano; che spariranno le miserie, le iniquità, e vizj, per dar luogo al regno dei lumi, della prosperità, dell'abbondanza, e delle virtù; che tutte le parti della Penisola egualmente floride, egualmente contente, avranno fra di loro facile comunicazione, ed utilità comune; dimodocchè al primo cenno tutte le forze nazionali troveransi, [xcvi] laddove sarà il pericolo tosto riunite, per defendere i confini ma non per estendersi; essa già ben conosce i tanti e tanti beni che si dovrà a quell'uopo da una generale insurrezione promettere. Accingiamoci dunque all'opera, Italiani; svelgasi dalle fondamenta la gotica mole, facendola con terribile, inaudito scoppio precipitare; rimangano gli stranieri, ed i tiranni sotto le sue rovine sobissati, si annientino quei rapaci e sanguinosi nemici d'Italia, il cui solo intento è stato, e sarà sempre, di comandare, di sforzare, di uccidere, e di rapire, che mettono la crudeltà, la menzogna, il tradimento, le invidie, le minacce, e lo spavento indistintamente in uso, che producono le false, ed infide amicizie, le paci simulate, e le pestifere, infinte lusinghe! Si celino le loro ossa agli occhi d'ogni vivente, se ne perdano le vestigia, e solo la loro memoria rimanga perpetuamente al cuore di ciascun Italiano, cagione di fremito ed orrore....

Per giungere a quel punto, converrà [xcvii] insorgere contro i nemici, e giurare di fargli una guerra eterna, ed efficace; sguainar con animo deciso la spada e gettarne per sempre via il fodero. Non mai abbattuti da rovesci, risorger sempre finchè non siano compiutamente annichilati; trasportato l'Italiano da santissimo patrio furore, si slancierà con il pugnale alla mano, contro il barbaro Goto, che a bajonetta spianata l'attende, lo affronterà petto a petto, glie lo immergerà, tutto tutto nel cuore, e strapperagli dalle mani quello schioppo, che gli è per ammazzarne degli altri, necessario; abbandonate le pianure, in luoghi scabrosi ed inacessibili raccolti gl'insorti, piomberanno da ogni parte con furia, ed accanimento sull'atroce, sfinito ed affamato avversario; risoluti gl'Italiani di morire piuttosto che al giogo infame degli stranieri, e tiranni interni star sottomessi, assai più la servitù che la fame temendo, disposti a cessare di esistere sulla terra piuttosto che strascinar come schiavi una vita obbrobriosa, [xcviii] lascieranno come dice il citato Raynald, il nemico, e suoi squadroni, battaglioni, armi, vettovaglie, munizione, ospedali, etc., nelle pianure, e nel cuore delle montagne, senza bagaglio, senza tetto, senza provigioni ritireransi. Saprà la natura nutrirli, e difenderli, dimorino in quelle, degli anni, se sarà d'uopo, per aspettare che il clima, il caldo, l'ozio, le dissolutezze abbiano divorati e consumati quei numerosi campi di stranieri, che non avranno più nè da sperare bottino, nè allori da cogliere; scendano coi torrenti dai monti per sorprendere il nemico nelle tende dove riposa, e distruggere le sue linee; disprezzino finalmente gl'ingiuriosi titoli di briganti ed assassini, che gli saranno dati dai nemici: ed in questo modo riporteranno una certa e compiuta vittoria. Questo sistema applicato all'Italia, e sviluppato in tutti i principali particolari, per quanto meglio a noi sia stato possibile, forma l'oggetto del nostro trattato.

Eccovi dunque Italiani il metodo per [ic] guidarvi! La teoria delle vostre operazioni, i precetti della sola guerra che in oggi vi convenga: a voi tocca di mettervi in campo! Sventoli una volta lo stendardo Italiano! Risorga l'europea fenice! Spieghi nuovamente l'aquila del campidoglio le sue ali dal ferro straniero fin oggi a vergogna nostra tarpate! Vendichiamo la nostra bellissima patria da tante sofferte ingiurie, e cada non meno inesorabile, che intiera la nostra vendetta sopra gli autori del suo scorno e delle sue sciagure! che l'impuro sangue dell'abborrito tedesco, a quello della razza degenerata de' nostri tiranni commischiato, ci asterga finalmente dalle contaminazioni, che finora la nostra cara Italia bruttarono! Venga con quest'olocausto dall'oppressione in perpetuo liberata! Col fuoco e col ferro fino all'ultimo de' nostri nemici si distrugga, e facciasi con questa intiera vendetta, qualunque dei gabinetti europei, che avesse intenzione di inturbidare nell'avvenire il nostro riposo, ragionevolmente paventare! I nemici [c] nostri, gli sciocchi e deboli di tutto il mondo, faranno le maraviglie, ci chiameranno ribelli, barbari, assassini, briganti, violatori dei diritti, perchè non verranno da noi tutte le pretese leggi della guerra osservate; noi sorrideremo con disprezzo a queste stolte invettive, e direm loro che barbari, assassini, briganti, e violatori dei diritti erano i sozzi Tedeschi, e tiranni nostrali, che noi abbiamo trucidati o siamo attorno ad esterminare; in fine che il nostro diritto è fondato sulle leggi della natura da loro barbaramente conculcate! Cada, o Italiani, la spada vendicatrice su tutti i delinquenti! Purghisi da quel turpe stuolo d'infami il suolo della nostra bella penisola! Riviva l'antico valore negl'italici petti! Vengano le virtù di Roma nel premiero loro seggio riposte! Si corra tosto armata mano, all'alto, e glorioso acquisto dell'unione, independenza, e libertà della nostra afflitta patria! da che solo ne può essere ingenerato lo splendore, la gloria, e la felicità d'Italia!


[1-1]

DELLA
GUERRA NAZIONALE
D'INSURREZIONE
PER BANDE,
APPLICATA ALL'ITALIA.


CAPITOLO I. IDONEITÀ DELL'ITALIA PENISOLA ALLA GUERRA PER BANDE.

Fra le varie obbiezioni, da coloro che sono alla guerra per bande contrarj, per l'ordinario, ai favorevoli opposte, quando tiensi di quella ragionamento, una delle principali si è che la fisica situazione della penisola, per quel modo di combattere conveniente non sia, perciocchè lunga e stretta l'italica penisolare configurazione facilmente venir potrebbe da' numerosi eserciti stranieri attraversata, i quali le varie insorte parti separando, le potrebbero con vantaggio bloccare, alle loro communicazioni [1-2] togliere la via, la loro azione infievolire, parzialmente combatterle, ed alla fine annientarle, mentrecchè la tonda superficie della Spagna, con la capitale nel centro, e la sua grande estensione di terreno, da essere d'uno all'altro opposto punto del littorale attraversata, opportunamente la guarentiva; epperciò potere quest'ultima, quella guerra non meno cominciare, che sostenere, alla quale non trovasi l'Italia per la differenza della sua superficie addattata, questi salamistri Barbassori, da pigrizia e timore signoreggiati, tale sentenza con autorevol contegno ne deducono. Ma quanto assurde e prive affatto di fondamento sieno tali obbiezioni, provare nel corso di questo capitolo speriamo, e che precisamente anche più della Spagna trovasi a quel modo di guerreggiare, il nostro territorio idoneo, e solo per ora quella ferma volontà, ferocia, attività, e pertinacia mancare, che dal popolo spagnuolo furono nella guerra dell'independenza in grado eroico manifestate, onde trarre degl'immensi vantaggi profitto, che le nostre montagne ci forniscono, intendiamo di fare ad evidenza conoscere. L'Italia, dice un commendevole autore, in forma di umana gamba con la parte più larga di se verso il settentrione; unita all'Alpi, che dalla Francia e [1-3] dalla Germania la disgiungono, e difendono; tutta per lo lungo s'immerge nelle acque, bagnata per tre lati dal mare, cioè dall'Adriatico e dal Ionio a levante: dal Tirreno e dal Ligustico a ponente, e a mezzodì dal Ionio e dal Siculo; nel cui stretto sporge l'estremo del piede formato dalla Calabria. A lei dunque serve di fossa il mare, di mura l'Alpi, e di trincee inespugnabili l'Apennino che da un capo all'altro scorrendole sul dorso, la divide per mezzo, e poi verso il fine in due rami si sparte che vanno l'uno ad Otranto e l'altro verso del Faro; la sua lunghezza, presa dal ducato d'Aosta sino a Reggio di Calabria, è poco meno di mille miglia; la larghezza, dalla bocca del Varo sino all'Arza, è di cinque cento; e nel mezzo, cioè intorno a Roma, di cento e cinquanta. L'esser poi ella situata nel mezzo della Zona temperata, tra il quarto e il settimo clima, le fa godere un'aria temperatissima e salubre sotto un clementissimo cielo: dove una superficie alla guerra per bande più addattata, puossi per avventura rinvenire? Qual riquisito, se non la volontà degli abitanti, a sì favorevole situazione sarà mai per mancare? Come puossi un sito così montuoso, pieno di fiumi, di valli, e di foreste, come disadatto per le bande, avere in conto? Non v'ha dubbio che i numerosissimi [1-4] fiumi da' quali ad ogni passo ed in ogni verso trovasi quella superficie tagliata, e gl'infiniti secondari che nel Tevere, nel Pò, nell'Arno, nell'Adige, nel Ticino, nel Mincio, etc. dai monti scorrono ed a quelli congiungonsi, per quindi le loro acque nel Tirreno ed Adriatico maestosamente sboccare, mille bizzarre sinuosità descrivendo, ed in tante differenti guise rivolgendosi; grande e convenevol agio, tenendosi in mezzo alle operazioni della guerra leggiera, non possano giornalmente arrecare; che per le tante valli, dalle circostanti cordigliere delle Alpi, dalle Marittime, Cozie, Graie, Rezie, Leponzie, Carniche o Giulie, Liguri e Pennine, fino ai monti del Sannio della Lucania, successivamente formate, non meno che pei moltiplici fertili colli di Monferrato, Euganei, Etruschi, etc., le foreste e selve di Piemonte fino a quelle dell'Apuglia, le risaie, paludi, stagni, le maremme sanesi, paludi pontine, etc., e molti laghi esistenti, nessuno sarà per negare non sia una simile superficie per sua topografica situazione, più di qualunque altra, alla guerra per bande veramente idonea, del tutto comprovato; coperta questa da fiumi, laghi, foreste, colli, e monti, gli abitanti dei quali sono i soli che dei turtuosi giri, e coperti andirivieni di quei dirupati [1-5] burroni, di quelle balze alpestri, di greppi inaccessibili in profondissimi precipizi terminanti, delle vaste ed intricate selve, degl'incavati e bassi sentieri da spinosissime macchie coperti, delle incerte traccie onde passare nei profondi, ampi, e neri paduli, chiane, stagni, e lagumi, il segreto posseggono, ed il nemico, che non mai potrà perfettamente conoscerli, saranno sempre capaci di contenere, o distruggere, il quale se da tale intricato laberinto, a molestare le bande colà operanti, segua che puote, si ostina, ne dovrà senza dubbio colla peggio sortire; perciocchè se nell'interno senza ben bene la topografia del paese conoscere, marciando in ordine serrato e compatto s'ingolfa, perirà tanto per la difficoltà del terreno, come per lo pericolo che corre il soldato, se isolatamente si stacca, di trovarsi ad ogni momento dagli abitanti circondato, i quali dalle più erte vette, anche soli massi di pietra precipitandogli addosso, quando sù pei macigni rampicarsi temerariamente si voglia, e coll'urto violento di quelle, di schiacciarlo ai piedi, od alle falde, non mancheranno; ed in secondo luogo quand'anche tutte le difficoltà, con sommo coraggio, perseveranza, ed abilità superando, possa fino ad una sommità per sua buona ventura poggiare, da lungi scorgendolo [1-6] i difensori, e tosto dispergendosi, per andarsi in altro simile e fors'anche più scosceso luogo riunire, l'agio di guizzarli di mano facilmente ne avranno; di niun effetto la sua spedizione diverrà, ed all'inetta truppa che alla lunga non avrà capacità di resistere, sarà gravissimo danno per arrecare. Poichè l'Appennino che per tutta la superficie della penisola si estende, tali e tante convenientissime situazioni ci presenta; non potrà dunque un esercito straniero, collocato in linee traversali, le varie insorte parti d'Italia, in nessun modo dividere, e siccome non puossi con un cordone di truppe, una catena prolungata di monti circondare, nè come abbiam detto, in quelle ingolfarsi senza la certezza di grandi patimenti, ed il pericolo di non venire a capo del tentativo, non gli sarà possibile di giungere al termine d'isolare le insorte parti, ed alle loro communicazioni serrare il passo: può inoltre la forma bislunga ed il tanto esteso littorale della nostra penisola bagnato dal Tirreno ed Adriatico, moltissime facilità alle bande procurare, onde in quei punti dove il nemico si trovi più debole di forze, rapidamente trasportarsi, ed all'improvviso arrivandogli addosso, quello sorprendere, e distruggere; utilissima pur anche esser questa situazione [1-7] potrebbe, onde la fuga di quelle bande che fossero da vicino inseguite, col mezzo dell'imbarco assicurare, e quel sistema di guerra, che di sparire in questo luogo in fronte a forze superiori consiste, per quindi in un altro punto moltiplicarsi, dove si trovino inferiori, può con successo mantenere non meno che agevolare. I numerosi fiumi navigabili, che con le loro sinuosità in ogni direzione il nostro continente attraversano, e le selve che alle sponde di questi, dai monti dove nascono, per le pianure dove corrono, fino alla foce dove congiungonsi col mare, si prolungano, debbono senza dubbio essere, per favorire i movimenti delle bande, convenientissime considerate; come pure, le tanto estese paludi che in molte parti della penisola esistono, nelle quali può un accorto, e destro condottiero, con dimostrazioni e lusinghe il nemico attirare; per quindi dell'immenso vantaggio, di colui che nel proprio paese guerreggia (cioè di tutti ben conoscere i luoghi praticabili di quei lagumi), trarre conveniente profitto; conciossiacchè se da un nemico forestiero che non gli avrà mai veduti od almeno mai praticati, e dei quali non potrà mai esserne perfettamente al fatto, fosse inseguito, se astuto il condottiero lo cosa scaltritamente dirige, dovranno [1-8] le schiere avverse nel fango affogate senza fallo rimanere. Altri molti argomenti avremmo in appoggio di quanto abbiam detto rispettivamente ad essere la situazione topografica d'Italia la più idonea, ed una delle migliori per la guerra d'insurrezione per bande, se in numerosi particolari spiegativi entrare intendessimo, ma i principali accennati, piucchè sufficienti crediamo, a chiunque in dubbio fosse, sulla territoriale positura del paese, appieno persuadere. La seconda obbiezione quella si è: che nell'inverno sarebbero, le bande sulle nostre montagne, del bisognevole per alla lunga sussistere, scarse, o del tutto mancanti. Egli è vero, che le alte vette delle Alpi sono tutto l'anno di neve coperte, e che sino alle falde, in quella stagione se ne vestono; ma noi a tale obbiezione vittoriosamente opporremo, che i Pirenei trovansi pur anche nello stesso caso, e però le bande che per molti anni tanto in estate, quanto in inverno con somma gloria stettero contro i loro invasori, in armi, non per questo si sottomisero; hanno pure le nostre Alpi una principale, e varie secondarie cordigliere, coi loro contrafforti che in colline finiscono e come speroni di quelle considerare, per la qualcosa non potendosi alla cresta della [1-9] principal cordigliera mantenere, non ne avviene però, che continuata dimora, non possa una banda in quelle secondarie non meno, che sulle colline stabilire; l'essere poi le Alpi, e l'Appennino di villaggi fino ad una certa altezza seminati, gli abitanti dei quali tutto l'anno rimanendovi prosperi, sani, e robusti si conservano, dovrà chiunque convincere, che se vivono quelli, pure i volontarj delle bande sussistere potranno, e se monti vi sono che o tutto l'anno, o parte di quello, praticare non possansi, poco danno ancora ne sarà alle bande per ridondare, perciocchè se quelle non possono, meno sarà possibile al nemico di mantenersi, con la differenza, che conoscitori i nostri volontarj, del terreno, ed assueffatti all'asprezza dell'atmosfera di quei scabrosi luoghi, tutto in favor loro influirà contro i maledetti, schifosi Tedeschi; e che più difficile a quelle sia, che al nemico, di mancare dell'indispensabile sussistenza, non havvi il minor dubbio, perchè quel poco nei boschi, o campi raccolto, sarà sempre dagli abitanti dei villaggi, coi loro connazionali, coi loro difensori, con quelli che pel popolo combattono, che con lo stomacoso, e lercio straniero, disprezzevole servo, campione della tirannia, con maggior piacere e soddisfazione [1-10] diviso. Ecco dunque i due problemi che potevano sull'opportunità del sito per condurre la nostra guerra, far titubare, del tutto favorevolmente risoluti.

Ma chè andiamo noi lambiccandoci il cervello pell'idoneità della superficie d'Italia di mostrare, quando la storia ci fa toccar con mano, che già in certe parti di quella, tal sorta di guerra ad un dipresso si sostenne; di fatti non vediamo noi quei Liguri (come intrepidi e feroci dalle antiche cronache non meno, che da Polibio descritti, non mai sommessi ai Tirreni padroni di quasi tutta l'Italia, nè dai Galli tanto bellicosi soggiogati) avere per ottant'anni continui, col metodo da noi indicato, alla formidabile possanza dei Romani, padroni dell'antica Italia, della Sicilia, d'una parte della Spagna, e delle Gallie ostinatamente resistito? E dove mai fecero tal resistenza? dove si trova un tanto idoneo territorio, per favorire coll'asprezza sua un pugno di valenti, contro i gloriosi eserciti vincitori del mondo? Non sarà certamente a rinvenirsi fuori d'Italia; ecco gli Appennini e i ligustici monti, che ancora fanci dell'antica gloria genovese sovvenire, lo stato dei quali tutta quell'estensione di terreno comprendeva, tra il Pò e l'Appennino esistente; i Genovesi sugl'Appennini, nella [1-11] parte denominata Lunigiana, e nella Liguria occidentale, in oggi riviera di ponente, sempre in guerra, quasi alla da noi proposta, eguale, con vigore, e successo mantenevansi: tal popolo, dice Tito Livio, al libro trentanove, capitolo primo, era un nemico lesto, ed attivo, che si trovava a tempo, dovunque, che non lasciava ai Romani, nè riposo, nè sicurezza: e Strabone pure, al libro quinto, osserva, che avevano poca cavalleria, ch'erano buoni soldati armati gravemente, ma sopratutto eccellenti alla leggiera: infatti, quegli ottimi valorosi guerrieri, favoriti dalle loro montagnose situazioni, erano dai più numerosi eserciti tanto temuti, che appena osavano quelli ai loro paesi avvicinarsi; e pervenne pur anche la Lunigiana a liberarsi, nell'undecimo secolo dai Barbari, che nella generale invasione d'Italia avevanla soggiogata; i sanniti, attuali abbruzzesi, che tanto nei tempi antichi diedero che fare ai Romani; i Calabresi che nei moderni per molti anni dell'immensa forza del sorgente impero francese, si fecero beffe, oltre tanti, e tanti altri esempi che ancora citar potremmo, tutti l'idoneità del nostro territorio alla guerra di che teniamo ragionamento, assai chiaro confermano. Quanto poi deve il già detto certamente [1-12] avvalorare, la certezza di fatti, cioè esistenza continua, di tante schiere di banditi che per anni la nostra Italia infestarono, e tuttavia varie parti di quella, ne sono anco in oggi vessate, dimodochè un solo stato in quella, contare non puossi nel quale varie quadriglie di masnadieri, non siansi per lungo tempo mantenute; od attualmente ancor non esistano! Sulle Alpi che dominano il Mondovì, il famoso Michele Mamino per sei o sette anni, contro la gendarmeria, e le numerose colonne mobili francesi spedite a combatterlo si sostenne, aveva egli preso il titolo d'imperatore delle Alpi, e l'autorità sovrana esercitava; facevasi dai villaggi, e fino dalle città circonvicine, puntualmente obbedire; imponeva balzelli, che per paura della sua banda, venivangli a puntino pagati; finchè non cadde per mano d'uno de' suoi compagni da cui fù per tradimento ammazzato. Altra sulle stesse montagne dal ben noto Dragone diretta ebbe pure molti anni di durata, e solo per aver dato alle promesse dei Francesi troppa fede, cessò d'esistere, la non men celebre banda, detta di Narsole: di quanto, grave danno non fù cagione ai francesi che la perseguitavano? E quanti anni non ha essa durato, sebbene altro in realtà non fosse, che una masnada di rubatori [1-13] che correvano le campagne? e quanti francesi nella Frascea vicino a Pozzuolo, tra Marengo e Novi non caddero, per le mani della quadriglia del rinomato Maïno che per cinque o sei anni esistette? E quella sì fattamente inseguita e temuta: che tanti gendarmi, colonne francesi e dopo il ritorno del tiranno, tanti carabinieri piemontesi distrusse, che sotto la direzione dei due fratelli Bosio, situata sul monte Bracco, alle falde del Monviso dominante il paese di Barge, durò più di dieci anni, e non fù mai possibile di annichilare, se non con la morte data per inganno ad ambi i fratelli da loro stessi parenti, al soldo della polizia sarda! In quanto alle altre parti d'Italia, chi non sa, essere quel territorio, sempre, in ogni dove da tali masnade infestato? Nelle pianure, alle rive dei fiumi, sulle colline, e sulle montagne, trovarsene? La Lombardia, la Toscana, lo Stato Papale, e Napoletano rigurgitarne? Parecchi capi delle quali al punto giunsero di essere quai più famosi briganti d'Europa celebrati? Recentemente un Massaroni nello stato papale, ed i fratelli Verdarello, nello stato di Napoli pochi anni fa, tale celebrità s'acquistarono; i luoghi e le operazioni di quest'ultimi, più specialmente accenneremo, potendosi da quanto venne operato da uno, [1-14] più o meno il resto agevolmente dedurre.

Gaetano Verdarello, e due suoi fratelli, nativi della città d'Andria nella Puglia, soldati al servizio di Ferdinando, tiranno di Napoli, quando dalle truppe francesi fuori del regno cacciato, avea in Sicilia la sua dimora stabilita, disertarono, e nel territorio napoletano portatisi, una banda a cavallo, di trenta e sei uomini, quasi tutti disertori, misero tosto in piede: la Puglia Basilicata, gli Abbruzzi, il contado di Molise, e più particolarmente il bosco di Montemelone, la foresta, e valle di Bovino, erano da quella frequentate; contro tutte le colonne mobili di truppa di linea francesi, di guardia nazionale, e di gendarmi, che pel corso di circa sei anni, non cessarono di perseguitarla, senza poterla mai prendere, nè danneggiare, con estraordinaria protervia si mantenne; nel 1815, al ritorno del tiranno in Napoli, dell'indulto generale dato a tutti i fuorusciti, i Verdarello profittarono; ma penetrata dal Gaetano, l'intenzione del governo, che temeva un tanto feroce uomo alla testa d'un certo partito, ed avea deciso di farlo in beffe dell'indulto, trucidare, con i suoi fratelli nella Puglia, ove formò un'altra banda di cinquanta uomini, misesi di bel nuovo in campo; una [1-15] colonna mobile di fanteria e cavalleria di Napoletani e Tedeschi composta fù dal governo, immantinenti ad attaccarlo spedita; avvertito a tempo di questa spedizione posesi Gaetano in imboscata: lasciò la vanguardia tutta di Napoletani liberamente passare; sui Tedeschi quindi, con furore avventossi, quelli alla prima giunta messi in isbaraglio, i Napoletani, che già eransi di troppo allontanati, alle spalle con vigore assalì, ed a precipitosa fuga li costrinse; varie volte furono simili attacchi ripetuti, ed ebber sempre la stessa riuscita; stanco alla fine il governo Napoletano, della continuata esistenza di questa banda colla forza, invincibile, a far pratiche col Verdarello si decise, e mandogli una bellissima capitolazione a proporre, ma vennegli a tutte le vantaggiose promesse negativamente risposto, e solo a negoziare qualora il governo austriaco, la parola del tiranno, ed il trattato mallevasse, mostravasi il capo della quadriglia propenso. Fra le tante sozze male azioni che il regno di Ferdinando disonorarono, sonvene senza dubbio delle crudeli, ed ai cuori onesti sommamente repugnanti, ma una di questa più abbietta vergognosa, e vile non crediamo nel registro delle nequizie di quel tiranno lazzarone trovare si possa; stretto dalla pertinacia del Verdarello, il codardissimo [1-16] governo di Napoli alle sue pretese acconsentì, e fù il comandante Tedesco della piazza di Foggia, certo Tilla, una convenzione in nome del lazzaronico tiranno sotto la guarentigia dell'Austria a distendere, e firmare incaricato; conferiva questa convenzione a Gaetano Verdarello, il grado di colonnello negli eserciti del tiranno; tutti i suoi soldati come uffiziali, riconosceva; ed assegnava una paga corrispondente ai loro gradi con obbligo però di tenere quei cammini sgombri dai ladri. Furono da ambe le parti pel corso di mesi sei le condizioni mantenute, finchè passando un bel giorno Verdarello colla sua banda nel villaggio d'Ururi, diretto verso la Puglia, troppo nel trattato confidente, senza quelle precauzioni, che prima di essere al tirannico servizio solito era di prendere, fù da un'imboscata di militi, tesagli d'ordine del governo dalle finestre d'una casa, a schioppettate ammazzato. Basti questa narrazione per provare, non sola la possibilità, ma ben anche la facilità di ordinare, e mantenere le bande in campo; delle Calabrie, dei famosi fra Diavolo, abate Pronio, e Giuseppe da Furia non parleremo, perchè abbastanza per la loro resistenza, e pei luoghi dov'erano stabiliti, sono a tutti notissimi; noi di proporre questi masnadieri, per esser nel loro scopo imitati [1-17] certamente non intendiamo, ma gli abbiamo ai nostri leggitori, citati, affinchè si vegga, non essere il luogo, nè i mezzi per la riunione, independenza, e libertà d'Italia, ma la sola buona e ferma volontà degl'Italiani, mancante; riflettendo inoltre che se gentaglia simile screditata, e da tutti aborrita, (perchè il solo bene da quella operato, fra i moltissimi mali, consisteva in ammazzare di tanto in tanto qualche straniero occupatore) buona accoglienza in tutti i luoghi villaggi, e città per dove passava, solita era siffatta canaglia di trovare; a cagione solamente del timore che pel presente, o pell'avvenire incuteva, e se per tal modo, esatte informazioni, vettovaglie, ed armi non mai gli mancavano; che facilità, che accoglienza, che soccorso, non dovrà quella banda, composta di veri amanti del paese, promettersi, il cui unico scopo sia lo sterminio dello straniero, la patria dai cattivi purgare, e la libertà, unione, independenza sinceramente bandire? Si verrà quella fuor di dubbio nella capanna del contadino, nel tugurio del pastore, sotto il villesco tetto del bifolco, nell'abituro del villico senza timore ricettata, e con giubilo, anzi con trasporti di gioja, dai semplici, ma sinceri e forti Alpigiani festevolmente accolta; a dovizia pure sarannogli dalle città le bisognevoli grascie con frequenza [1-18] mandate; ed ove del tutto per mezzo del timore, al loro mantenimento tali masnade provvedevano, cui gl'abitanti la richiesta retribuzione, per via di spaventevoli, e villane minaccie porgevano tremanti, le bande rigeneratrici della patria, dalla massa dei contadini, appoggio troveranno, offerte volontarie, provviste, benedizioni ed applauso.

CAPITOLO II. DELLA CAPITALE.

Dall'epoca della rivoluzione di Francia infino al giorno d'oggi, misesi dai guerreggianti capitani, la napoleonica massima di marciare a dirittura sulla Capitale dell'avversario, continuamente in pratica, il possesso della quale metteva un termine alla guerra e faceva la vittoria in favore di chi assaliva, dichiarare; ella è in oggi opinione universalmente ammessa, che una volta la Capitale caduta, debbasi aver la guerra per terminata; e ben si appone, perchè molti, e molti esempi delle ultime [1-19] passate guerre lo comprovano; e noi quando si tratti di una guerra regolare, tra tiranno e tiranno, o tra re e re costituzionale, e che non sia una guerra nazionale d'insurrezione non possiamo, nè vogliamo il contrario asserire; perchè siccome nel primo caso le principali risorse, per fornire l'esercito del bisognevole, magazzeni, depositi di materiali, d'armi, e di munizioni, le casse dello stato, e dei principali possedenti, e ricchi del paese, le più distinte famiglie, e magistrature in quella trovansi raccolte; ne avviene che se il nemico giunge ad impadronirsi di quell'emporio delle risorse dello stato, manca la fonte delle provigioni pell'esercito, cade in isfacelo il trono, e privo il principe degli elementi, pel possesso, di quali pareva agli altri uomini superiore, ed agli occhi degl'imbecilli un certo prestigio conservava, diventa un uomo come gli altri, e sovente meno de' suoi sudditi, perchè assai più inetto di loro, per la sua dappocaggine, paura, e stupidità vituperevole; così lo stato è conquistato, e messo a soqquadro, per la sola caduta della città ordinariamente la più corrotta, e fra tutte le altre la meno energica, gli abitanti della quale sono per lo più dalle dilicatezze d'una vita effeminata, e lussureggiante, che passano spensieratamente nei [1-20] bagordi, e vizj d'ogni specie, ammorbiditi, e snervati; per lo chè diventano gracili di corpo, cagionevoli di salute, raggiratori, paurosi, di sottili e timidi consigli, perchè conscii della loro individuale debolezza; non resi pertanto da quella conoscenza, di esser da meno dei provinciali, persuasi, dannosi sopra quelli, con incomportabile jattanza, il vanto di superiorità, sui quali non hanno diritto alcuno di primeggiare se non nei vizj e nella fiacchezza; e vogliono senza esporre la loro vita alla durezza delle fatiche di una guerra laboriosa, a tutti i loro compatrioti orgogliosamente comandare; si cimenteranno forse con ardore in una zuffa passaggiera, e si comporteranno anco gagliardamente, a ciò, dalle massime d'onore stimolati; ma non avranno mai quella tanto commendevole, e tanto necessaria ostinazione, che col prolungare la contesa, assicura la vittoria, perchè il loro imbozzacchito dilicatissimo corpo non potrebbe i disagj della guerra lungamente sopportare, verrebbe, la loro bellezza dalle intemperie della stagione danneggiata, e del pari la loro eleganza e morbidezza; sarebbe per la recovidità, semplicità, ed energia del guerriero da lunga pezza assueffatto ai campi, ad un continuo smacco soggetta; laonde sono gli abitanti delle capitali, e sempre i più [1-21] disposti saranno, a negoziare col nemico, ed a cedergli la città; eppure secondo il modo di far guerra oggidì, dalla resistenza o caduta della capitale, dipende la salute dello stato! la presa di Vienna, e di Berlino diede varie volte il possesso della Prussia, e dell'Austria a Napoleone; la presa di Parigi nel 1814 diede la Francia, popolata da più di trenta milioni d'abitanti con molte fortezze ben guarnite, e capaci di lunga resistenza, con l'esercito della Loira, con altre molte legioni sparse in varie parti dello stato, che tra tutte potevano a più di duecento mila uomini di truppa sommare, con cinquanta mila guardie nazionali di Parigi, ed il decuplo se tutte quelle delle varie città del paese si contassero, la diede in mano di seicento mila stranieri settentrionali, che i maggiori possibili danni gli cagionarono, ed il maggior insulto fecergli che mai si potesse aspettare, cioè quello di costringerla a tenere sul trono come padrone, uno di quei Borboni, ch'essa, o per isbaglio o per inopportuna moderazione, aveva nel tempo de' suoi rivolgimenti politici alla scure vendicatrice della patria, risparmiati; e migliaja d'altri esempi di tal fatta vengono in appoggio di quanto abbiam detto; ma s'egli è vero che nella guerra regolare in questi tempi, la presa della capitale [1-22] all'aggressore dia la vittoria, ciò però in una guerra nazionale d'insurrezione non accade, quando il popolo è ben deciso di respingere una invasione straniera, quando vuole disfarsi dei nemici interni, perchè allora insorge, e non ha bisogno di avere tutti quei mezzi nella capitale, concentrati, ogni villaggio, ogni città, per quel modo di combattere, gli è capitale. La banda che nel circondario di un villaggio, di una parrocchia prende il campo, in che un numero uguale, o di poco maggiore al suo d'abitanti vi esiste, i quali mangiano, dormono, in somma vivono, e che possono d'alcune armi provvederla, non ha più d'uopo d'altro: non cura la capitale; nè se si sostenga, o sia perduta un micolino gli monta; non pretende da lei nessun soccorso! non essendo la sua esistenza in nulla da quella dipendente; non vede nessun grave detrimento al paese, e di quegl'abitanti si ride che non ebbero nè la forza, nè l'ingegno di respingere i barbari, e colle pive in sacco le spanpanate e millanterie, in tanta viltà, ed umiliazione cambiarono! ed in vece di perdersi di coraggio per ciò, la sua energia del doppio aumenta; così deve succedere quando la guerra è nazionale, e così sempre in quel caso succede; cadde Vienna, Berlino, Parigi, e caddero i loro stati, perchè [1-23] la guerra in quel tempo non era nazionale; ma ridotta in cenere Moscow, non andò in precipizio la Russia, che anzi la guerra prese un carattere più accanito, il popolo non abbandonò le armi, finattantochè non fù l'invasore compiutamente distrutto, od espulso. Cadde Madrid e precisamente dopo la sua caduta, quella guerra per bande cominciò che varj eserciti francesi distrusse e finì dopo sette anni di sudori e rischi, per averne la meglio i nazionali. Perchè mai dunque tanta differenza da quelle altre, nel resultamento? Perchè queste erano guerre nazionali e quelle no; in queste la capitale era di nessuna importanza pel popolo, che per se stesso combatteva; in quelle ai militari moltissimo rilevava, i quali vedevano nella perdita della capitale la fonte degli ordini, degl'impieghi, dei gradi, delle ricchezze, e dei ciondoli, per loro disseccarsi; epperciò un assai maggior comodo ed individuale vantaggio, nel trattare col nemico, e renderla a patti, trovano, sebbene con la crudele certezza della rovina del loro padrone anzicchè fino alla morte, od alla compiuta distruzione dell'avversario, difenderla. Di nessuna importanza per la guerra nazionale d'insurrezione si è certamente l'esistenza di una capitale, può quella far del bene se sussiste, ma non produce se manca alcun male; di niun danno [1-24] dunque dovrà essere all'Italia la mancanza, per adesso, di una capitale centrale; potrà dalle tante che possede, se le sono favorevoli qualche vantaggio ricavarne, se poi le saranno avverse, ciò che non è da supporsi, non avrà il condottiero, per la loro caduta nelle mani del nemico, affatto da temere, perchè alla distanza di poche miglia da quella che soggiacque, ne può un'altra che lo ajuti e sostenga, opportunamente ritrovare, con la probabilità che i popoli del circondario di un altro, punto non s'intimidiscano per la disgrazia da quella sofferta. Tale pur era l'andamento della Spagna, nella guerra dell'independenza, giacchè, come ognun sa, è quella penisola un aggregato di tanti piccoli stati, i quali erano anticamente separati ed independenti come gli stati italiani d'oggidì, quasi sempre fra di loro in aperta guerra; e che le loro leggi costumanze, costumi, rimembranze istoriche, odii provinciali, ed il loro spirito d'isolamento, pervicacemente conservarono. Trovavasi Madrid in mezzo alla Spagna, senza quasi nessuna relazione con le altre città, e la sua influenza non estendevasi al di là dei limiti della provincia di Castiglia; credevasi Napoleone di possedere una gran cosa, di tenere tutta la Spagna nelle mani avendo [1-25] Madrid; ma grande tempo non tardò ad accorgersi del suo falso calcolo, e persuadersi che in nulla il possesso di quella capitale, lo favoriva, perchè sebbene la Navarra, la Biscaglia, le Castiglie, la Gallizia, l'Arragonese, e la Catalogna con molte truppe occupasse; a suo malgrado sù gli occhi stessi di tutti questi eserciti, che avevano il loro gran centro in Madrid, migliaia di bande si misero in campo, e tanto gli molestarono, che disperando Napoleone di poter in sì fatto certame, a che avvezzato per anco non era, luminosi ed immediati risultamenti ottenere, disgustato, lasciò la penisola, dubitoso di perdere, o menomare in quel nuovo modo di combattere, quella gloria ch'erasi fin allora in tante battaglie campali giustamente acquistata, e seguito da poche truppe andossene in Francia. Abbiamo come possa l'Italia, la guerra d'insurrezione per bande sostenere senza una capitale centrale, bastevolmente dimostrato, ma non dimeno se non è questa nel principio della contesa, necessaria, o se anche non è in tutto il corso della guerra per esterminare i nemici, affatto indispensabile, non si può però negare, che sia quella, di una vitale importanza, onde le operazioni generali concentrare non meno, che consolidare ed istabilire l'unione [1-26] delle varie separate provincie in uno stato solo. Percorrendo le relazioni della guerra dell'independenza, così vedesi, essere in Ispagna successo allo stabilimento della giunta centrale, la quale tanto quella guerra promosse, e rese utile, che per la troppa sua dilatazione, e mancanza di centro, già cominciava a decadere. Maggiore n'è l'importanza, pella Italia, dovendo le varie parti in un corpo solo dopo tanti secoli di separazione unire, per la qual cosa fassi una capitale centrale, vieppiù necessaria, per quello stato formare non men, che dirigere. Già pare di vedere tutti gli abitanti delle attuali numerose nostre capitaluccie italiane, inarcar le ciglia, e gli occhi, e le orecchie attentissimamente aprire, ciascuno sperando e pretendendo che quella dov'egli è nato, per essere capitale della nuova Italia, si proponga; sette ed anche più città della penisola concorrerebbero nella pretensione di essere la capitale, ma siccome una sola è necessaria, sei o più dovranno ad essere secondarie inevitabilmente rassegnarsi; massime poi che queste presuntuose, sono fra tutte le città, quelle che nella massa generale degli elementi di regenerazione italiana, solo pochissimi, deboli, e di tenue vantaggio ne presentano; uno stolto generale goto, altrettanto sozzo, quanto [1-27] bugiardo, ed alcuni scrittori, mossi o da malvagità o da sciocchezza, osarono sfacciatamente dichiarare non essere cosa possibile, in un solo stato l'Italia riunire, perchè male se ne potrebbe fissare la capitale! Oh svergognati mentitori! oh scipitissimi pecoroni! tacete, anzicchè simili falsità, simili sciocchezze con la vostra solita impudenza palesare! O voi balordi, che in quel modo bestemmiate, perchè non aprite la storia dei vostri antichi padroni? E se l'avete letta, non dovreste in quell'errore inciampare, perchè ben chiaro si vede che l'Italia è stata la padrona del mondo? E che questa aveva una bellissima, gloriosa, venerabile capitale, che tuttavia esiste, e viene giustamente la città eterna nominata? Che l'Italia non abbia capitale, potrete voi ancora di buona fede asserire, quando quella possede, che fù il centro del mondo, delle virtù, del valore, e della gloria? Tutte le stolte pretensioni delle altre capitali, debbono all'aspetto di Roma sparire, dileguarsi! Dove trovasi nel mondo intero, una città che tante eroiche ricordanze presenti, così necessarie ad esser alla memoria della generazione attuale richiamate? Tanti monumenti dell'antica gloria italiana? Tante preziose reliquie di quei sommi che dobbiamo venerare, e porre ogni pensiero, [1-28] ogni sollecitudine e per degnamente imitare? Qual è quella capitale, che abbia tanto mal fondato, ed impudente orgoglio, per volersi a Roma in un minimo pareggiare? La culla di Bruto, di Cassio, di Catone, di Virgilio, etc., non ha pari, non che in Italia, nel mondo!

Quella fù, e sarà sempre la capitale d'Italia, quando gl'Italiani avranno più in pregio la gloria, che la viltà. Alcuni giustamente ci opporranno, che se quella città merita ad ogni titolo pe' suoi antecedenti, di essere indisputabilmente la capitale, non n'è però degna oggidì, perchè si trova la cloaca massima rigurgitante lordume d'ogni vizio, d'ogni disonestà! e che male per futura capitale dell'Italia unita, independente, e libera, quella si converrebbe, che in realtà, è in oggi la capitale dell'impostura, del raggiro, dell'inganno, fucina delle arti le più prave, e più sottili, per tenere i popoli dalla fisica, morale schiavitù aggiogati, gli abitanti della quale, figli per lo più della depravazione di costumi, cresciuti, e di continuo, alla scuola della viltà, e della servitù educati, non sono, che pei sozzi ed effeminati servigi capaci, e non posseggono le qualità necessarie per essere abitatori della capitale di una guerriera, virtuosa, e forte nazione, [1-29] perlocchè la sola costanza, perseveranza, e valore, in molte e ripetute disgrazie ch'essi non possono avere, non sono ancora nemmeno bastevoli, ma d'uopo evvi pure di un deciso e grande carattere nazionale, di un giusto orgoglio, e di un odio contro la tirannia interna, dallo straniero armato, con profonda radice bene abbarbicata, le quali virtù non sono, proprie dei papalini abitanti di Roma, che neppur per gabbo vogliamo coll'eroico nome di Romani appellare, noi non potremmo senza mancare alla verità, alle surriferite considerazioni valevolmente opporci, e nessuno potrà negare che la maggior parte della popolazione di Roma sia di calcare quella terra, che senza dubbio è polvere d'eroi, affatto indegna, poichè in mezzo alle mura di quell'antica republica, che non contempla con ammirazione, rimansene schiava ed abbietta. E che per la sua viltà sotto la sferza dei preti, non è più capace di sentire gli stimoli della passata gloria, nè di mirar con orrore la presente vergogna, suscettibile; noi conveniamo. La popolazione è inetta, anzi, al nuovo stabilimento, sarebbe nocevole; ma dovremo noi perciò il vantaggio di avere una capitale che ha un tanto forte, e tanto possente prestigio morale sugli animi agl'incitamenti di vera gloria sensibili, [1-30] trasandare? Dovremo noi, perchè quattro sciagurati abitano fra quelle venerabili classiche mura, ad una capitale rinunciare, che tutte le qualità possede per essere florida, e conveniente ad uno stato ben regolato dal filosofo stagirita prescritte? Che non è nè troppo lontana, nè troppo vicina al mare; acciocchè, come dice il succitato Aristotile, per la troppa lontananza non resti priva dei molti commodi che quello suole apportare, e non sia con la troppa vicinanza, ai pericoli d'assalti improvvisi, ed alla corruzione ordinaria delle città, che sono porti di mare, sottoposta; sarebbe il sito sanissimo, e buonissima aria spirerebbesi, quando fosse ben ripopolato, e che fossero gli abitanti attivi ed industriosi; perchè ben si sa che già lo era negli antichi tempi, e si legge in Tito Livio, saluberrimos colles; sito che per mezzo del fiume e delle strade può avere da ogni parte della penisola e dal Mediterraneo abbondanza continua di vettovaglie; difficile ad essere da popoli lontani all'improvviso assalito; e per la sua centrale positura; quasi ad eguale distanza d'ogni provincia, nel caso di facilmente con tutte le più lontane parti della penisola, ad un tempo communicare e per tal modo con energia, e prontezza a tutte egualmente [1-31] sopravegghiare, dirigere e contenere! dove trovasi un'altra simile città in Italia? Il solo intoppo negl'abitanti consiste! Si purghi dunque il Panteon dell'antica gloria italiana dalle sozzure, che lo infettano; si mandino in quella città, robusti, e decisi Romagnuoli nei quali ancora una tinta si scorge dell'eroico carattere romano, si uniscano loro dei Liguri, Piemontesi, abitanti degli Appennini, Bresciani, Abbruzzesi, e Calabresi, Siciliani, Elbani e Sardi, tutti fra gli abitatori dei monti, trascelti; e non crediamo di cadere in isbaglio nel predire, che pel buon regime di governo italiano ben ordinato, e con quella capitale, saranno le maravigliose gesta degli avi nostri, per rinnovellarsi, e come fenice dal suo rogo, la sfolgoreggiante gloria dell'antica Roma eccelsamente risorgere, mentre gli eletti rappresentanti del popolo italiano, per prudenza, energia, saviezza, e dottrina, superiori a chiunque, nell'unico, mirabile, stupendo tempio del Vaticano congregati, faranno restar di maraviglia sospeso il mondo, e sarà per tal modo il più magnifico edifizio in oggi esistente, in ampia, e venerabil Aula del più luminoso parlamento del mondo, gloriosamente trasmutato.

[1-32]

CAPITOLO III. DELL'ONOR MILITARE.

Quel generoso sentimento, che destandosi nel cuor dell'uomo, alle grandi, generose, e laudevoli opere lo sublima, facendo sì che la publica estimazione dall'universale concessa come tributo alla virtù, per lui divenga una vera necessità, esser l'onore, noi opiniamo. Ma pell'ignoranza e per inveterate assuetudini, che spesso la natura delle cose corrompono, e per sciocche, e false opinioni dalla barbarie del medio evo generate, ed in retaggio tramandateci, reputasi in un paese, virtù, ciò, che in un altro, vizio si considera, cosa che punto non avverrebbe se la virtù nel far bene alla patria, primieramente, e quindi agli uomini tutti consistere, fosse dall'umana congerie, universalmente ammesso; e come virtuose quelle azioni non si considerassero, che da un tale scopo si allontanano; e vizio tutto quanto alla patria ed agli uomini nocumento arreca non si appellasse. Però siccome una piccola parte degli uomini vuol vivere nella mollezza, e lusso, e tenersi lieta, e [1-33] contenta nelle corrotte usanze d'un viver guasto e licenzioso, a spese dell'altra maggiore, e non men dominarla, che calpestarla; ne avviene, che chiaramente la vera virtù, non sia mai nè ben deffinita, nè da tutti conosciuta, nè dalla maggior parte praticata se ad utilità non torna; epperciò ne consegue, che il suo proprio significato o a seconda de' tempi e dei luoghi si altera, o si trasforma in modo che un'azione, in America, dove gli uomini sanno di essere uomini e praticano la vera virtù, come virtuosa, e degna di laudi tenuta, sarebbe in Europa, dai tiranni d'Italia vituperata, e fors'anche capitalmente punita; per esempio, l'Americano che, scorgendo gli amministratori della cosa publica, senza darne conto, le rendite dello stato dilapidare, in continue prevaricazioni, e concussioni trascorrere, il giogo scuotere della legge; la giustizia fallare, infine la publica, e privata morale in ogni sua parte corrompere, per tali misfatti in giudizio gli appellasse, e stretto conto della loro viziosa condotta, ne domandasse, sarebbe in concetto d'uomo virtuoso da tutti, colà con ragione tenuto, e per lo contrario, se in Napoli, nello Stato Papale, Lombardia, e Piemonte, dove simili opere nefande sono abituali, ad uno degli schiavi di quei paesi, di solamente palesarle, l'animo [1-34] bastasse, sarebbe quegli come insubordinato, a grave castigo soggetto, e per avventura di sediziose macchinazioni tacciato, appeso anche alle forche. Ed ecco in quegli infelici paesi chiarita infame quell'opera che virtuosa, e degna di grandissima laude, stata sarebbe in America oltremodo stimata.

Da tale varietà di virtù, deve per necessaria conseguenza quella dell'onore conseguire, epperciò saranno in Italia le azioni cavalleresche degne dei tempi di Orlando, oppure le umili, e contemplative di un san Luigi Gonzaga sommamente onorate, quando saranno le virtù di Bruto, e di Catone biasimate, e beffeggiate; ignaro un popolo servo, delle virtù ad un libero vivere civile necessarie non meno, che dei segnalati vantaggi da quello ridondanti; le ricchezze, lo sfoggio, e la sommessione al tiranno avrà in grande onoranza, ed ossequio: mentre vedrassi lo stato povero dispettosamente vilipendere, avere i robusti pensamenti a scherno, e rigettarli; finalmente depressa, e conculcata da quei servi imbecilli la vera virtù, la sola venerazione, ed omaggio verrà alla lussureggiante ricchezza, vilmente retribuito. Posto abbiamo ciò che per onore intender debbasi, e come sia quello nello stato attuale del mondo, da paese [1-35] a paese, da popolo a popolo, da una generazione all'altra, per la falsa maniera di considerar la virtù, e d'interpretarne il significato a mutazione soggetto. Come debbasi l'onore, da un militare, in un regolato esercito e dal cittadino che per la liberazione della patria mettesi in campo, intendere, non meno, che la differenza fra di loro esistente, passeremo ad attentamente disaminare.

Come che, in alcune sue parti, in tempi, e luoghi differenti, sia puranche, l'onor militare mutevole; avendo nondimeno il coraggio, e l'ardimento per base generale, in tutti i tempi, ed in tutte le parti, trovasi pressocchè uguale, qualsivoglia pericolo di arditamente affrontare, vedere la morte in faccia, e non temerla, non aver al numero, nè alla qualità dei combattenti, il pensiero rivolto, ma solamente rintracciarli dove sono, ed anche a disvantaggio corrergli accerrimamente addosso, una morte certa piuttostochè dar le spalle al nemico, per la difesa della bandiera intrepidamente incontrare, un palmo di terreno passo, passo, ed a costo della vita ostinatamente contrastare, in ogni zuffa, in somma, tener la puntaglia; questo sono le nobili qualità essenziali dell'onor militare, da doversi in un regolar esercito sopra ogni altra cosa [1-36] apprezzare, eccellenti pregi, per se soli capaci, in favore di quello fra due combattenti eserciti, che in maggior grado li possede; far la vittoria rivolgere; e la storia ne insegna che molti grandi capitani dell'antichità, i quali dubitavano in fronte al nemico (o non ancora conosciuto, od in maggior forza giudicato), non fosse questo sentimento d'onore per vacillare, hanno cercato di mettere la loro propria truppa nella stretta necessità di combattere in luoghi dove non potesse retrocedere, collocandola, ed all'onore, la disperazione, in quel modo sostituivano. Alessandro, al passaggio del Gronico, posesi secondo la relazione d'Arriano, col fiume alle spalle ed il numerosissimo esercito nemico in fronte; e così ne viene da un suo commentatore la cagione, spiegata: la sua in apparenza troppo avventurata impresa, essere più ragionevole che temeraria coll'evento ei dimostrò, perchè, siccome con un nemico nuovo, maggiore in numero, dovevano i suoi venir alle mani, volle col mezzo della disperazione fortificarli, affinchè essendogli dal fiume il passo alla fuga serrato, in altro che nella sola vittoria, speranza non nutrissero di salute: ma non mettendo la guerra nazionale d'insurrezione per bande, come la guerra regolare, nell'urto la speranza della vittoria, [1-37] deve da sentimenti d'un differente onore essere guidata; l'unica principal mira del cittadino armato, a che debbono essere tutte le sue opere dirette, la liberazione essendo, e la futura felicità della patria: a misura dunque che più o meno, senza badare alla qualità dei mezzi che adopera, in vantaggio di quella s'affatica, il suo onore aumenta, o diminuisce. Fermo il soldato regolare, sul posto impavidamente si sagrifica, ed alla fuga, di essere scannato, preferisce, tornando quella morte, della sua memoria in onore; diversamente da ciò, deve per lo più il volontario della patria operare, punto non si vergogna quegli di dar le spalle al nemico, di correre una dubbia sorte non crede onorevole, ed eziandio in pari forza, ad affrontarlo non s'avventura, fugge alla sua presenza e per maggiormente danneggiarlo, si nasconde; quanti soldati raminghi cadongli nelle mani, a bell'agio, e senza pericolo distrugge, e si schermisce occultandosi dagl'incalzanti drappelli onde poterne un doppio numero all'indomani trucidare; non nel morire combattendo, ma nel salvarsi a tempo, l'onore del volontario della patria consiste e più onorato è quegli, che più nemici della patria distrugge.

Il maresciallo Govione di san Ciro, nelle [1-38] sue memorie sulla guerra di Catalogna, al capitolo quinto, parlando delle disposizioni, che prima della battaglia di Valls, il generale spagnuolo Reding disegnava, così si esprime: aveva il generale Reding passata una parte del giorno 24 in consiglio di guerra per sapere come potrebbe evitando una battaglia, a Tarragona pervenire; ordinò che il generale Martì commandante delle truppe rimaste sotto quella piazza, fosse pure a quel consiglio presente. Membri influenti portavano opinione, si dovesse il combattimento evitare, ma per ciò sarebbe stato d'uopo mandar le artiglierie ed i bagagli a Lerida, e ad uno, ad uno, per la via di Prades, e per uno stretto sentiero che passando per Selva, termina a Costantì le montagne attraversando, per così dire alla sfuggita sfilare; dove si sarebbe, la riunione dell'esercito, dicevano essi, tosto, e senza rischio operata. Aveva Reding quel consiglio rigettato, che poteva ad un comandante di bande convenire, ma che avrebbe un generale alla testa d'un esercito, certamente disonorato, dando a quello del colonnello inglese Doile, ch'era di francamente le due divisioni del settimo corpo attaccare, la preferenza: ecco da questo valoroso Maresciallo, la esistente varianza, fra l'onore militare del soldato regolare, e quello del [1-39] volontario in bande, chiaramente spiegata; fù Reding a Valls compiutamente sconfitto, per aver voluto il suo onore immacolato serbare. Se fosse stato un Claros, un Rovira, od un Empecinado, il partito più sicuro, di sfilare come fuggitivo per quel sentiero, scelto senza dubbio avrebbe, evitando una battaglia che come dall'opinione della maggior parte del consiglio appare, assai maggiori probabilità in favore dei Francesi presentava; e pel vantaggio di recargli nell'avvenire certo danneggiamento, avrebbe la taccia di codardia, in quell'istante, con gusto sopportata. Convenire, che sia ad un condottiero dicevole, per rispetto umano, o per ciò che possa essere dal publico argomentato, oppure pell'ambiziosa speranza d'una vittoria dubbia, di venir a giornata, sarebbe ad una imbecille, o almeno inopportuna vanità, la sorte della nazione sagrificare; quella stolta massima, che per conservar l'onore dello stendardo, debbasi qualunque possa esserne il resultamento, una battaglia arrischiare, dandole anche un'estensione, che noi siamo ben lungi di concedere, può solamente, nelle guerre ordinarie, e di pura ostentazione, in che del sangue dei popoli empiamente si traffica, per altrui utilità, o convenienze molte volte al ben publico nocevoli, od almeno indifferenti, essere [1-40] seguita: ma quando per l'independenza, e libertà nazionale si combatte, un delitto, una sacrilega empietà, quella sarebbe di sconsigliatamente in un dubbio conflitto, avventurarla; e virtù sublime, obbligo sacrosanto, quello di vincere con sicurezza, qualunque siano i mezzi per ciò impiegati, sarà da considerarsi. Chiaro, le relazioni della guerra dell'independenza spagnuola, ci fanno, che i condottieri di bande, del punto d'onore negli eserciti regolari a capitale avuto, valorosi seguaci, tutti con notabile pregiudizio della causa che difendevano, vittime della loro intrepidezza rimasero; mentre per lo contrario molti altri, che dall'opinione publica erano di codardia quasi accagionati, si sostennero e molti ed utilissimi servigj alla patria prestarono. Chiunque per liberare il suo paese dalla schiavitù, a guerreggiare si piglia, dovrà quelle azioni soltanto, che un reale, e manifesto vantaggio gli procacciano, per onorevoli, magnanime, e gloriose considerare; e solo avere per celebri, comecchè maravigliose siano, quelle, che dalla vera utilità della patria, si separano.

Era massima degli Spartani e da loro, negli affari di stato, e della guerra, seguita, di far maggior caso dell'astuzia, e superchieria, che del coraggio e lealtà; e Plutarco alla pagina 238, [1-41] delle istituzioni Lacedemoniche, dice che quando gli Spartani, alla finezza ed industria de' loro generali, la vittoria dovevano, in rendimento di grazie, immolavano un bove, ma quando credevano di doverla solamente al loro coraggio, ed alla forza dalle armi, di sacrificare un gallo si contentavano. Con quest'uso in apparenza bizzarro, volevano gli Spartani, all'impiego dell'astuzia, piuttostochè della forza aperta, i loro generali assuefare: l'oggetto a cui mira il cittadino armato, dovendo sempre essere quello, di tutti i nemici, che opprimono il suo paese, sterminare, sarà l'uso di qualsivoglia cosa indistintamente, purchè a quelli possa nocumento arrecare, per lui onorevole; epperciò d'impiegar l'armi, il raggiro, l'astuzia non meno, che l'uso proprio una volta delle barbare nazioni di avvelenar le freccie, per la maggior quantità possibile di nemici levar di vita, e come conveniente mezzo tutto quanto ad ottenere il suo fine lo porti, quale opera onorevolissima e degna della maggior laude valuterà, l'avvelenamento delle farine, dei pozzi, e delle fontane, non meno, che il destro cogliere d'attaccare individualmente il nemico quando abbandonato a fallace fidanza, può in un tranello cadere, ed alla spicciolata i soldati avversari trucidare, sono modi tutti che [1-42] possono per avventura al militare d'un esercito regolare disdire, ma che commendevoli, e di grande onore debbono pel cittadino liberatore della patria essere riguardati. Il fatto di Muzio Scevola di notte tempo nella tenda di Porsenna, per assassinarlo introdottosi, che, andato per isbaglio il meditato regicidio a vuoto, per mantenere quel re in inganno, e spaventarlo, volle delle menzogna servirsi, tutto per altro in prò di Roma rivolto, non v'ha chi come sublime e maraviglioso tratto di amor di patria e come arduo, ma glorioso esemplare di virtù, non lo citi, e con noi non convenga che se la militare lealtà a questi atti, del tutto non acconsente, sono però per cittadino indispensabilmente doverosi ed onorevoli. Altri non meno sublimi esempj di cittadino eroismo, ci vengono dalle sagre scritture offerti, uno fra i quali si è l'assassinio d'Oloferne, generale di Nabuccodonosorre primo, che colla forza aveva gli Ebrei al giogo straniero assoggettati; giuocando col general babilonico alla civetta, mise la bella Giuditta tutti gl'inganni e femminili seduzioni in atto, e colle attrattive del leggiadro corpo e venustà del suo sembiante nel petto, un fuoco di ferventissimo amore gli accese, e tanto era di lei preso il superbo capitano, che mai ben non sentiva se non quando a se vicina la vedea; [1-43] avveduta l'eroina di Betulia, quella fiamma a bella posta per la liberazione della patria allumata, coll'esca di lusinghevoli carezze nutricava, finchè giunto il buon momento, non riputandosi a vergogna di essere da soldati, quando pel suo paese impiegavasi, d'opere men che oneste accagionata, venutole fatto di trovare il generale addormentato, colla sua stessa scimitarra spiccògli la testa dal collo, e giunse per mezzo di quel tradimento, di quell'assassinio, la independenza de' suoi compatrioti a riscattare. Sisara a tradimento da un'altra donna ipocritamente umana perchè sotto apparenza di zelo del bene di lui, trucidato, è pure in quelle pagine soggetto di speciale commendazione, e Gezabele da suoi vassalli sotto il comando del sommo sacerdote, dai ballattoj del palazzo precipitata, poscia diviso e sbranato il suo corpo dato pasto ai cani delle strade; Matatia e figli, che coll'inganno e la forza, il tiranno Antioco Epifane cacciarono; l'insurrezione delle tribù contro Roboam successore di Salomone, ci presentano tanti esempi, da quelle stesse scritture autorizzati, co' quali la giustizia d'impiegare ogni mezzo, per la patria da qualunque tirannia, straniera, o domestica liberare, viene con publica testimonianza dalle sagre pagine provata, e non esser punto disonorevol cosa, [1-44] con tale sacrosanto disegno il pugnale, il veleno, il tradimento, e la frode adoperare, chiaramente ci dimostrano. Non malagevol cosa sarebbeci molti altri fatti, della storia sacra e profana ancora, tutti una tale asserzione corroboranti, estrarre, da infiniti autori commendati dalla universale opinione per secoli ammirati, ed applauditi: ma piucchè bastevoli saranci al certo i sovra esposti nella sagra scrittura consegnati, di quel popolo che sotto gli ordini immediati di Dio continuamente operava, e furono quei tradimenti ed assassinj dall'altissimo approvati, e benedetti. Saranno dunque, speriamo, sulla necessità di riconoscere, ed approvare quella differenza di virtù e di onore, fra il volontario della patria ed il guerriero che milita secondo il sistema regolare di guerra, anche i più scrupolosi persuasi e convinti.

Avvegnacchè il cittadino per la liberazione del suo paese guerreggiante, debba i dettami di queste massime d'onor patrio scrupolosamente seguire, gli avverrà nondimeno nel corso della guerra, di dover pur anche quelle da noi già dette per essere dal soldato regolare precipuamente praticate, mettere alcune volte in uso, perciocchè, nel caso, per esempio, di trovarsi per malavventura dal nemico sorpreso, e da ogni parte circondato, gli avverrebbe di [1-45] necessità imposto l'obbligo di venire all'urto, respingerlo, e farsi strada col ferro, o sul posto morire, anzicchè arrendersi, e davanti al nemico della sua patria grondante di sangue italiano, vilmente il ginocchio piegare. Ecco dunque spiegato qual debba essere l'onore del volontario della patria, alle massime del quale dovrà i suoi procedimenti addattare, s'egli è veramente, la liberazione del suo paese, di ottenere desideroso.

CAPITOLO IV. ORDINAMENTO SEGRETO PREPARATORIO ALLA GUERRA D'INSURREZIONE PER BANDE.

COSPIRAZIONE.

Il mezzo più efficace, e decisivo, per un tirannico governo cui la pubblica opinione sia contraria, rovinare, quello certamente delle leghe cittadine si è, per via delle quali concordemente operando, gli amici della patria agevolmente, ed in poco tempo possono il loro fine ottenere. La lega cattolica, la setta degli Ugonotti; la lega de' politici, furono quelle, che le guerre civili di Francia sulla fine del [1-46] secolo 1500 suscitarono, e mantennero; la lega degli Svizzeri, quella fù che dall'oppressione austriaca gli liberò, la lega dei Pitocchi, dei Guidoni, di Brilla, quella che nei Paesi Bassi, il primo crollo diede alla potenza spagnuola, finalmente il Tugen-bund, nella Magna nel 1812 fù quello che franse l'impero di Napoleone e mandollo quindi in precipizio. Tutti i popoli dunque, che mossi da sentimenti generosi hanno voluto il despotismo, che gli opprimeva, dalla loro patria stirpare, ebbero a tali leghe ricorso; ma chi alle sette publiche, chi alle congreghe segrete si rivolse; alle publiche coloro i quali sotto un governo vivevano, che sebbene tiranno, le riunioni di cittadini, però non vietava, ed alla facoltà di parlare, e scrivere non metteva grande intoppo; alle segrete, quei popoli ricorsero, cui come agl'Italiani ogni esercizio delle facoltà intellettuali era vietato, ed altro diritto che di una semplice vegetazione fra il timore, e disagi, non godevano; dei primi, furono i presbiteriani inglesi nel tempo di Carlo primo, quando questi spinto, e principalmente diretto dal suo favorito Buckingam introducendo il governo assoluto, ed il cattolicismo favoregiando, di conculcare la magna carta, e la religione riformata sovvertire, tentava, furono le confederazioni in Polonia contro i tre invasori limitrofi, [1-47] i quali posto il diritto delle genti in non cale, a rapirgli la independenza, e la libertà, armata mano si portarono, e ciascuno quindi una conveniente porzione del suo territorio appropriatasi, fecero in tal modo un popolo guerriero ed innocente dal numero delle nazioni europee scancellare; e se a respingere quei ladri, non fecero le confederazioni buona prova, d'altra origine ciò non provenne, se non dall'essere quelle anzicchè popolari, ad all'universalità de' cittadini estese, ai soli nobili circoscritte; e se furono i loro sforzi contro quei tre possenti nemici, infruttuosi, ne fù la lentezza ed inazione dei capi, la precipua cagione; perciocchè dall'opportunità, che già loro erasi affacciata, ed ancora stavano ad aspettare, a tempo, il minimo profitto di trarne non si accinsero; ciò che non ispirò confidenza agli amici, nè timore ai nemici, e fece loro il tempo favorevole per agire, trasandare. I figliuoli della libertà in America, coi loro sforzi, e con la loro attività, abbenchè popolo coloniale, generalmente non creduto atto all'armi, povero, disarmato, e mancante di molte risorse necessarie alla guerra, pure dal giogo di quella che si titolava la madre patria a sottrarsi pervennero, ed a rendersi la nazione più libera del mondo, con somma gloria riescirono. Tutti questi popoli [1-48] agivano publicamente, perchè non era in quelli stati, di riunirsi per ragionare sulla situazione del paese, e sui mezzi più adatti per migliorarla, di trattenersi interdetto.

Dei secondi, che alle congreghe segrete appigliarsi dovettero per un libero civile vivere ed independente, nella loro patria ordinare, furono i Francesi, che sotto la regola di franchi muratori con ben custodito segreto accozzati, quella rivoluzione, pei principj messi in chiaro lume, sublime, energica e tremenda, pei mezzi adoperati, biasimevole nel suo fine, per la facilità con che fù da Bonaparte calpestata, mossero, e diressero. La quale, come che aborto possa denominarsi, non v'ha dubbio, stata non sia di un gran bene dalla nazione attualmente sentito, e goduto, produttrice; minima parte però di quello che avrebbe dovuto sperare, se quella libertà che per un falso amor di gloria e d'un versatile carattere i Francesi sagrificarono all'impero, ed a cadere sotto lo schifoso scettro dei Borboni portaronli, consolidata si fosse. Gli Spagnuoli pure nella guerra della independenza in che la gloria delle operate imprese de' loro antenati, oscurarono, quando l'invasore francese, già padrone di quasi tutte le fortezze, e delle città; e che una forza colossale, dal prestigio della vittoria accompagnata, possedeva, energicamente [1-49] dal loro paese ributtarono, dovettero per giungere a tal fine, alle congreghe segrete aver ricorso, e le tertulias patrioticas, in unione colla setta dei cattolici fanatici partigiani dell'inquisizione, ma nemici dello straniero, possono d'aver il loro paese dal flagello dell'invasione salvato, darsi pienamente il vanto.

Finalmente i Greci, che col mezzo dell'Eteria, quell'ammirabile insurrezione, che da otto anni eroicamente si sostiene, ed è sul punto di essere consolidata, impresero, e guidarono coll'applauso del mondo tutto che alla vittoria di un nano contro un gigante, stupefatto sorride.

Tutti questi essendo stati nella difficile congiuntura, in che ora trovansi gl'Italiani, misero quelle congreghe segrete in essere, e giunsero dell'alto loro intendimento a buon fine. La direzione di un tanto progetto da maneggiarsi con segretissima cautela, sendo mestieri che le ragunate per le case, delle brigate di quei valorosi, che al ben della patria cospirano, in ascoso si facciano, ed alla sfuggiasca, assai più difficile deve riescire, ma quando ad una ferma volontà, la prudenza, e l'energia s'accoppino, esser non impossibil cosa, i summentovati esempi ci provano.

Come chè dell'immenso vantaggio di possedere [1-50] maestrati eletti dal popolo, avessero gl'Americani il godimento; e che la camera dei borghesi di Virginia si fosse la prima contro l'Inghilterra, protestata, non essere ciò bastevole, onde al fine giungere, che proposto si erano, ad avvisarsi non tardarono, ed una lega col titolo dei figliuoli della libertà fermarono, nella quale tutti coloro, che decisi, ed energici, erano a dar l'impulso al gran movimento disposti, volontariamente s'iscrissero; creò questa lega, una commissione, che chiamossi di corrispondenza alla quale diedesi, di scrivere ai principali personaggi del paese il carico, esortandoli a congiungersi con loro in opinione ed in fatto; ciò ch'ebbe, fra non molto, un compiuto effetto, e le varie provincie d'America di mano in mano le une alle altre si collegarono; quindi in tutte le città, e terre delle provincie istituendosi congregazioni di corrispondenza, da una congregazione principale, che sedeva nel capo luogo dipendenti, si era una specie di gerarchìa politica costituita, sei caporioni ciascuno alla testa di una divisione, e capi secondarj alla testa delle molte suddivisioni, il tutto guidavano. Dimodocchè data la mossa da quei primi, ad un tratto essa alle divisioni communicavasi, quindi alle suddivisioni, e così subitamente per tutto il paese si propagava; [1-51] fù da questa lega, la maravigliosa determinazione degli abitanti di rinunziare a tutti quegli oggetti, che importati dall'Inghilterra avrebbero potuto, essendo da essi comprati, dare un qualche guadagno a loro nemici, menata ad effetto, e costantemente sostenuta. «Ognuno, dice il Botta, anche i più ricchi, anche i più pomposi o sfoggiati, allora per general modo si contentavano di portare vestimenta fatte nel paese, o logore, piuttostochè di usare merci Inglesi.» E quella determinazione gli recò, a privarsi financo di bere il tè, al quale fin dalle fasce erano abituati, ed un reale bisogno era per loro divenuto, ed a misura che dall'Europa colà giungeva, in mare lo gettavano. Eroico sforzo al quale tutte le classi de' cittadini indistintamente, e di proprio moto si sottomisero. Ed in tal modo misersi gl'Americani per la loro stupenda rivoluzione inpronto; un numeroso, e forte esercito levarono, e saldi fino al compimento della vittoria seppersi conservare. Tutti i moltissimi necessari maneggi, tutte le disposizioni per infiammare lo spirito publico, e ad un felice risultamento a favore della libertà ed independenza del paese indirizzarlo, potettero come già abbiam detto dagli Americani eseguirsi, e portarsi a buon fine, perchè molte facilità dalla maniera dolce colla quale venivano governati [1-52] erangli porte, e pel godimento di varj dritti che furono sempre dalla madre patria, così detta a quei Coloni conservati, e rispettati. Ma tale non essendo la situazione degli Spagnuoli quando ad intraprendere la guerra per la loro independenza si accinsero, perchè dovettero, contro i Francesi già padroni della Spagna, insorgere; nè quella dei Greci, che fin da secoli d'ogni ombra di libertà spogliati, erano dai Turchi con sfrenato immanissimo despotismo afflitti e malmenati; fù d'uopo dunque, a costoro, per giungere allo scopo stesso degli Americani, di segretamente disporre, quanto venne da loro, senza mistero praticato. Epperciò dalla grande tertulia patriotica della capitale di Spagna, emanavano tertulias principali nelle provincie, le quali per mezzo di juntas secretas in tutte le città, terre, borghi, e villaggi si diramavano; in modocchè potevano così i movimenti generali delle masse, agevolmente addirizzarsi; collegati i patrioti, se non nei mezzi, almeno nel fine, con la numerosa classe di preti, e frati di molto seguito, e potere in quel paese, la quale ordinata in parrocchie e conventi l'intiera superficie copriva della Spagna, a vicenda questi due grandi corpi sacro, e profano in reciproco sostegno appoggiandosi, l'uno cogli scritti, e con tutti i mezzi mondani di che poteva disporre poneva [1-53] studio a persuadere le persone illuminate, ed in prò della patria oppressa le loro menti stimolare, non menocchè di fornire il necessario alle molte bande in campo, per liberarla; e l'altro col potere, ed influenza che lo stato ecclesiastico sopra l'animo dei contadini ignoranti gli somministrava; il confessionale volgeva, come il più segreto, efficace, e sicuro mezzo di cospirazione in prò della patria, contro chi allora nel paese padroneggiava; e tanto conseguirono l'intento loro, che in breve la superficie di quella penisola fecero tutta di ardimentose bande di cittadini armati pullulare, e tutta la popolazione in generale, che poi spiegò un eroismo maraviglioso, ed una pertinacia a tutta prova, a scuotere gagliardamente pervennero. Usarono presso a poco degli stessi modi, i Greci volendo in istato libero costituirsi, e far impeto, contro l'oppressore ottomano; e fino dall'anno 1814, come viene dallo storico signor de Poqueville riferito, cominciò a mettersi in piede la grande lega segreta dell'Eteria, avendo essa pure per centro la synomotia ardente, che sù tutti i punti del continente da essi inteso di liberare, per irradiazione si spargeva; la quale poi alla grande epanastasia, ossia rivoluzione, sì meritamente, pei moderni Greci onorevole, diede avventurosamente origine. Chiaro da tuttocciò [1-54] argomento appare, che le nazioni per affrancarsi dalla tirannide contro i loro iniqui oppressori insorte, tutte alle publiche o private leghe si rivolsero. E che essendo noi nel caso degli Spagnuoli e dei Greci, se non vogliamo del nostro desiderio restar schermiti, c'è forza di avere a quest'ultime ricorso. Quando al sublime progetto di regenerazione della patria, uno si appiglia, non mai potrassi quel saggio proponimento menare ad effetto, avvegnacchè sia generalmente il popolo ben disposto, senza un previo convegno fra cittadini a levarsi i primi in difesa della patria determinati; perciocchè il popolo senza un impulso uniforme, e concorde, di leggieri mettesi in iscompiglio, ed ordinariamente avviene che con pochissima forza, a pacificarlo, o sconfiggerlo, i tiranni pervengono. I tumulti che in varie parti d'Italia, in Genova, in Napoli, etc., le tante volte successero, per particolare convenienza d'alcun cittadino, per fame, per respingere la bolla dell'inquisizione, per ridurre le gabelle sui viveri, quella di Masaniello, etc., essendo solamente commozioni, e non da patrio incitamento prodotte, ne consegue, che in accordando subitamente tutte, o parte delle domande del popolo a rumore levato, o movendo truppe regolari contro lo stormo, diradasi all'istante la [1-55] folla mancante dell'ordine conveniente, e poco dopo tutto è finito, dimodocchè puossi ad un fuoco fatuo paragonare; ma deve il fuoco di una insurrezione nazionale di principj essere ben guidato, lento, sostenuto ed inestinguibile. Per regolare lo slancio generale, e portarlo a buon fine, converrà dunque che i buoni, e decisi Italiani, una lega fermino segretamente frà di loro; nuove non sono queste in Italia; perchè senza riandare nel tempo antico quelle dei Guelfi, e Ghibellini, dei Bianchi, e dei Neri, ed altre che sono lontane, abbiamo recenti esempi, che ci fan fede; esser quelle nel nostro paese ben conosciute, e praticate come sarebbero la carboneria che negli ultimi tempi fece tanto parlare di se, quantunque non sia stata nel suo operato, felice, la lega degli Adelfi, dei Filadelfi, e finalmente dei sublimi maestri perfetti. Tutte queste in varie differenti maniere, le une con vedute più estese, le altre più ristrette, alla liberazione della patria tendevano. Ora a noi pare che tutte dovrebbero pel bene di quella a rinunziare alla loro peculiare esistenza, ed in una sola nuova trasfondersi, ed affine di potere con passo regolare, ed uniforme giungere allo scopo, sotto una sola direzione frà di loro collegarsi; ella è cosa evidente, che ciascuna in corpo separato operando, non potranno [1-56] mai produrre un effetto intiero, e le gravi, e delicate operazioni di una generale insurrezione italiana, ben dirigere. Stabilito quindi un principal centro in una qualunque città della peninsola, questo dovrebbe in centri secondarj dai quali dipenderebbero altri di terza e quarta e quinta classe, per irradiazione diramarsi, onde viemmeglio rimanere capaci del sovraesposto. Supponiamo che i veri amatori della patria un centro, o congrega principale costituiscano; dovrebbe quella, primieramente il quadro geografico statistico della penisola che conta venti milioni d'abitanti, ben osservare, e quindi quella in quattro grandi partimenti eguali dividere ed a ciascuno dare il nome di provincia, ad una congrega provinciale segreta la direzione di quei cinque milioni d'abitanti affidarne, che secondo il calcolo di venti per cento dovrebbe dare un milione di uomini atti a combattere; ogni provincia in cinque cantoni, di un milione d'abitanti ciascuno, dividere, che potrebbero duecento mila uomini mettere in campo; ogni cantone in dieci distretti di cento mila, che venti mila combattenti ciascuno, darebbero; questi distretti si diramerebbero ed in ogni città, borgo, paese, o villaggio piccolo, o grande che fosse, avrebbero una congrega a loro rispondente.

[1-57] La congrega distrettuale corrisponderebbe con le assemblee di cantone, queste con le congreghe provinciali, che dalla congrega principale direttrice di tutto il movimento, dipenderebbero, così tutte le subalterne al centro superiore rispondendo, la massa degli abitanti d'Italia in tal modo divisa, e regolata, il movimento d'una macchina tanto grande agevolerebbe.

Il dovere di queste congreghe, ed assemblee una volta costituite, sarà di far giurare i capitoli della lega a tutti gl'Italiani ben disposti in favor della patria; di fomentare in ogni modo lo spirito publico, e quegli Italiani propensi alla guerra d'insurrezione ammettere alla taglia; dare l'impulso alle masse; far sorgere bande in ogni parte, e provvederle del bisognevole; in somma fare in segreto tutto quanto verrà nel capitolo del governo provvisionale da noi proposto, e sarà possibile nella loro critica posizione, di ben eseguire.

I capitoli della lega, dovranno obbligare al giuramento di combattere fino alla morte, o alla riescita dell'impresa; di non mai negoziare col nemico, ma con una guerra accanita, di giorno, e di notte senza dargli riposo, del tutto esterminarlo; d'impiegare in quella non solo la forza aperta, ma pure il veleno, e la fraude; di far la guerra [1-58] a sue spese, e non mai un soldo regolare pretendere, di non posare le armi fino alla fine della guerra; gli altri capitoli comprenderanno la nuova forma di governo da stabilirsi; la subordinazione ai condottieri, etc. Dovranno questi capitoli nelle parti non ancora liberate davanti una delle congreghe segrete, ed in quelle che di già lo saranno, al cospetto dei primati, essere con solenne giuramento da ogni cittadino accettati, e quindi a puntino eseguiti. Saranno in oltre quelle congreghe in dovere di occuparsi dello stato politico interno, ed estero; tutto sapere; a tutto provvedere; mantenere intelligenze nelle fortezze, e presso i nemici, onde potersi impossessare delle prime, e distruggere i secondi; osservare, che i giuramenti vengano eseguiti, e punir di morte inevitabile tutti gli spergiuri; insinuarsi nelle truppe al soldo in oggi della tirannide, e trar con loro tutti quei cittadini, che caldi di amor patrio, di unirsi alla santa lega sono impazientemente bramosi; in somma, e con iscritti, e con parole, e con fatti venire a capo dell'opera, o morire.

L'esempio degli Spagnuoli che lavorarono a quell'uopo quando il proprio paese, era dalle truppe francesi occupato, e che quando in apparenza umili e tranquilli obbedivano nelle [1-59] città agli ordini loro, numerose bande di tutto punto provvedute, al campo mantenevevano provaci a sufficienza l'agio col quale puossi eziandio in un paese sotto il dominio del nemico, attivamente operare. Il maresciallo Govione di San Ciro, nella sua opera sulla guerra de Francesi in Catalogna, al capitolo sesto, dice che «la città di Barcellona aveva in campo due battaglioni di Micheletti; gl'individui di quei corpi, senza divisa entravano tutti i giorni in città, per ricevere la paga, gli abiti necessarj, e le reclute per tenersi sempre al completo; mai fu possibile al generale Duhesme di farne un solo catturare, tanto era ben mantenuto il segreto». Notisi, che un'astuta, ed attivissima polizia vegliava sù la condutta di tutti i cittadini nell'interno, s'immischiava nei loro più minuti affari, a tutte le ore della notte, con visite domiciliari gli sorprendeva, ed erano da due corpi di truppe rispettabili, l'uno da dentro, e l'altro da fuori della piazza in grande soggezione tenuti; e che qualità de soldati! Quelli che tutti i re d'Europa, e le loro legioni mandarono a sbaraglio! Potrebbe alcuno in leggendo il capitolo delle congiure del sommo nostro Machiavelli, nel quale vengono minutamente descritte le numerose difficoltà che al perdurle al effetto sono d'ostacolo, e quasi persuadono [1-60] essere cosa anzi che difficile, impossibile, di poterle portare a buon fine, lasciarsi per avventura dal timor soprapprendere, ma se poi maturamente questi rifletterà, gli sarà facile di persuadersi la nostra congiura non essere come quella dal segretario fiorentino descrittaci, maneggiata da particolari per loro privata individuale convenienza, ed utilità; ma una di quelle grandi, e generose ispirazioni nella quale tutti i cittadini pensanti, tutti i cuori benfatti, e capaci di emozioni virtuose cospireranno, e che non si possono sperare se non dai popoli che nell'incivilimento progrediscono. Quando la meta di una congiura, il bene di tutti, e non la sola utilità di un qualche cittadino concerne, è sempre assai più probabile, venga ben conservato il segreto, ed una prova ne sia, la cospirazione del Piemonte nel 1821, che contava circa trenta mila federati, i quali tanto bene il segreto mantennero, che nè dal governo, nè dalla polizia mai nulla, se non al momento dello scoppio, si traspirò; al quale inaspettato avvenimento, oltremodo stupefatti ed impauriti rimasero, i rettori dello stato. Come sarà noto ai cospiratori, la lega per tutto il continente italiano esser generalmente accettata, e che se un traditore ad un principe, il segreto, che lo [1-61] concerne, scoprisse, a quella spezial parte, potrebbe danno arrecare, ma non perciò, che il movimento in altre parti seguisse, impedire, difficilmente chicchessia, al guiderdone momentaneo, che può essergli dato dal principe, quello stabile della patria sarà per postergare: trattenuto eziandio dal timore di dover poi un giorno, e non lontano, caramente scontarlo, se in qualch'altra parte della penisola sarà vittoriosa la causa nazionale. Non vogliam però dire con ciò, che debbano i cospiratori tralasciar di prendere tutte quelle precauzioni necessarie, affinchè non possa il loro segreto, non che, la loro esistenza venir palesata, e conveniamo con Trajanno Boccalini, che «nelle congiure bisogna prima essere sicuro col pegno del rischio, di colui al quale si dicono» e che non debbonsi in quella scambievole paura, ch'è il vincolo delle medesime, di continuo mantenere. Ma solo è stata nostra mente di scemare con quelle osservazioni il troppo timore dal quale, animi non abbastanza decisi, e poco riflessivi cervelli, potrebbero lasciarsi invadere, ed impauriti dal nome di congiura, o cospirazione, e dalla lettura dei pericoli, che in quelle si corrono, fors'anche a bella posta dal nostro citato autore, amplificati, ed esagerati, di compiere un obbligo per ogni Italiano sacrosanto, vilmente tralasciare.

[1-62] E quanto finalmente abbiam detto di doversi i cospiratori nelle truppe degli attuali tiranni d'Italia insinuare, ella è cosa più difficile in apparenza che in fatto; a tutti è ben noto, e gli avvenimenti nell'anno 1820, e 21, ce lo confermarono, che forti, e generose idee sono in quelle truppe germoglianti, e che la maggior parte della gioventù ardente di cui sono composte, sarà senza dubbio al primo grido di libertà, in favor della patria, e dell'uman genere, per parteggiare. Ed avvegnacchè i tentativi del 1820 e 21, i primi che da secoli si siano armatamente intrapresi con intenzioni italiane, abbiano avuto un esito infelice e disastroso, e che i capi, e maneggiatori di questi siano stati dai tiranni, che coll'ajuto della perfidia, e dello straniero rimasero vincitori, esiliati, o carcerati, o alle forche appesi; sarebbe un grave errore, perciò conchiudere, siano per essere, attualmente gli eserciti Italiani tutti di persone devote alla tirannia, ed ai persecutori d'Italia, composti, perchè i condannati, e perseguitati, non furono, che una minima parte di quella grande massa d'amatori della italica patria che prima delle succitate rivoluzioni già esisteva, e soprattutto in Piemonte, dove molti per la rapidità degli avvenimenti, che fin dal principio, il nuovo [1-63] stabilimento del governo rovesciarono, neppure il tempo ebbero di manifestarsi, ed inerti od anche nelle file dei tiranni sotto apparenza di nemici astutamente se ne rimasero; di fatto il numero dei scoperti, e condannati dal tiranno ascende in Piemonte a circa tremila, ed in quel paese prima della rivoluzione più di trenta mila federati si contavano e così più o meno negli altri stati italiani accadde; un forte numero dunque di prodi militari, che amano l'Italia, ed odiano i suoi oppressori, ancora in quelle esecrande file si trova. Il quale, a seconda dei progressi dell'opinione in quella penisola, dev'essersi fatto considerevolmente maggiore. Laonde non sarà a quelle congreghe molto disagevol cosa, di mettersi con uno o più uffiziali, per reggimento, in contatto, ed a quei militari accostandosi, che per la rettitudine del loro pensare, la prudenza del loro agire, o l'energia del loro animo essere idonei alla difesa della patria, hanno per certissimo; nella lega dei cittadini italici, prontamente annoverarli.

Abbiamo detto uno, o più uffiziali, siccome siamo persuasi non esser di tanto nei reggimenti insinuarsi, ed allargarsi con molti di quelli in parole, per riescire, necessario; e che anzi crediamo addursi per tal modo troppo in forse, l'indispensabile segreto, e portiamo [1-64] opinione, che uno, o pochi uffiziali scelti con precauzione, e dotati delle qualità convenienti per trar con loro il giorno stabilito, il reggimento intero, o una gran parte di quello, sia quanto si richiede, quand'anche uffiziali superiori non siano, ma solo sagaci, fermi, prudenti, la stima godano dei soldati, ed abbiano in somma, influenza e buon nome.

In prova di questa nostra asserzione, alcuni particolari accenneremo della condotta di un uffiziale piemontese, a quel reggimento appartenente, che il primo in Alessandria per la libertà, ed indipendenza italiana si mosse, e quello fù, che nella mattina del 10 marzo, entrò alla testa del reggimento nella cittadella d'Alessandria. Pel corso di varj anni, il modo di cooperare alla liberazione, ed unione d'Italia, questi seco divisava; altro nella sua positione, non poteva rinvenirne, se non quello di affezionarsi i soldati, onde essere da quelli nel giorno pericoloso del tentativo ajutato, e sostenuto; tre continui anni a tal uopo, il suo tenor di vivere dirizzò; chiaro, sincero, ed animoso, nel trattare con ognuno; ma cupo simulatore in ciò, che poteva al suo proponimento aver relazione, ben lasciava i suoi italici sentimenti, il suo amore alla libertà, ed independenza italiana traspirare, ma con [1-65] avvisamento, e circospezione tale, che pensieri affatto inerti, e solo desiderj, come quasi ineseguibili da lui stesso riputati; ed al dovere di buon servitore di chi reggeva il Piemonte, posposti comparissero; nell'esecuzione del proprio dovere puntuale, ed attivo, contro i negligenti, ed infrattori dei regolamenti di disciplina, severissimo si demostrava; come quello, che il condiscendere al rilasciamento di quella, essere il vero modo di affezionarsi il soldato, non credeva, poichè questi la condiscendenza de' superiori, come una dimostrazione, d'affetto per lui, non interpreta, ma bensì a dappocaggine, e trascuranza del proprio dovere, glielo appone; se ne prevale, epperciò sfrenato, licenzioso, e disonesto, diventa; cessa la subordinazione, ed il dovuto rispetto; nello stesso tempo la stima perde, verso il suo superiore, e quindi l'affetto, che n'è la conseguenza; epperciò chi d'averlo in tal modo reso ligio alla sua volontà s'immagina, trovasi nel giorno del cimento messo dal soldato, in abbandono, perciocchè debole, ed incapace vien reputato; e quel soldato ch'egli credeva guastandolo, far suo, è costretto di vederlo nel momento critico sotto la direzione di un altro severissimo, accorrere, perchè da lui più energico ed attivo considerato. Ma non dimeno, se dall'un canto tutta la severità [1-66] da una buona disciplina comandata, giammai dalla retta giustizia allontanandosi, metteva rigorosamente in uso; da altra parte, per quanto più possibile gli fosse, dei modi i più conducenti, onde a se trarre gli animi degli ufficiali, e soldati, di servirsi non tralasciava. Se uno de' primi alle strette di danaro si trovava, ciò che non di rado succedeva, con la conveniente somma, che a titolo di prestanza gli somministrava, senza mai più in seguito ricercarne il rendimento, a sovvenirlo s'affrettava. Salvò in quel modo l'onore ad alcuni ufficiali, che trovandosi al maneggio di fondi del reggimento, avrebbero, in mancanza quel soccorso, inevitabilmente perduto la spallina; quanto quelli grati gli fossero ed a lui intieramente devoti, ben può ciascuno immaginarsi! per le particolari occorrenze sapere dei sergenti e soldati, pur faceva continuamente diligenza, e se gli veniva a notizia, quegli essere indebitati, valendosi d'un terzo amico loro, con molta precauzione, e segreto, del pagamento incaricato, immantinenti a loro insaputa, il creditore soddisfaceva; due vantaggi in quel modo gli ridondavano; primieramente perchè quando il sergente, o soldato giungeva a sapere, che il suo debito era stato in una maniera delicata, che non offendeva il suo amor proprio, da lui [1-67] pagato, maggiormente se gli affezionava; e secondariamente, perchè confidandolo ad un terzo, egli ben poteva supporre, che all'orecchio d'uno in altro passando, a breve andare, sarebbe il segreto, in contezza di tutti pervenuto, e la fama della sua beneficenza, viemmaggiormente estesa e magnificata. Come quello, che aveva il nome di ben conoscere le imbrogliatissime leggi del paese, era sempre dai soldati sottoposti ai consigli di guerra, scelto per difensore, ed o con la ragione, o con maneggio, o astuzie li salvava, o per mezzo de' molti amici, che aveva nella capitale, ogni qualvolta uno di questi era dal consiglio di guerra condannato, prima che la sentenza si eseguisse, dal Re la sua grazia otteneva.

Incaricato per qualche tempo dell'istruzione delle reclute a cavallo, armato di molta pazienza, con buone maniere, a rendersi da bel principio quei giovani soldati amici, s'adoperava; ogni giorno nelle cucine del quartiere ad assaggiare il pane e la zuppa si portava; se il denaro dell'ordinario era tutto speso, senza che la minima parte per altri oggetti fosse invertita, munitamente prendeva informazione; e nel tempo, che il soldato mangiava, egli porgeva orecchio alle sue lagnanze, lo confortava con buoni consigli, e bonariamente affratellandosi [1-68] con tratti confidenziali, una stretta momentanea dimestichezza fra di loro si stabiliva. Soventi volte, finite le militari incumbenze, una generale distribuzione di vino a sue spese, per lo squadrone ordinava, ed in un coi quasi brilli soldati un bicchiero ne tracannava allegramente, ma tosto dopo, alla consueta disciplinaria rigidità, faceva ritorno.

Nel reggimento, dieci o dodici uffiziali esistevano, che avendo i loro gradi con lo spargimento di sangue, con patimenti, e con merito, e non per via di raggiro, viltà o privilegio acquistati, erano per disprezzo, uffiziali di fortuna denominati, per istituto nei gradi subalterni tenuti, senza speranza di poter mai essere neppure a quello di capitano, promossi; trattati con poco rispetto dai comandanti ed abborriti dal loro colleghi nobili, perchè come materia eterogenea, li consideravano; solo con un umile, e servile procedere potevano questi l'onore d'un benigno saluto di protezione, da quelli ottenere; non sofferendogli l'animo di vedersi di continuo, ingiustamente disprezzati, e di soli dover tutta la severità della disciplina sopportare, avendo d'altronde la coscienza di non aver altro demerito se non quello di esser nati plebei, egli pungeva il loro amor proprio, ed a rintuzzare gl'insulti e minacce degli orgogliosi [1-69] loro compagni, gli stimolava, ogniqualvolta non potevano più contenere la piena del loro cuore contro qualcuno, davano sfogo alla loro collera, per la qual cosa continue risse ne provenivano, l'uffiziale di cui parliamo valevasi dell'amicizia, a lui professata d'ambidue i contendenti per barcheggiare in modo, da potersi nelle frequenti sfide, che di conseguente succedevano in neutralità mantenere, veniva egli per l'ordinario, dai due contrarj separatamente come padrino, o spettatore richiesto, e si serviva del suo ascendente, sempre chè le cose non erano spinte al punto di esigere imperiosamente lo spargimento di sangue, onde mettergli fra di loro in buona pace. Pranzava coi nobili, e quasi ogni sera cenava co' plebei; erasi con somma cura, l'affetto del colonello tirato a se, e così una decisa influenza morale sul corpo intiero degl'uffiziali, tacitamente possedeva. Della quale non menandone vanto, mai fugli da invidioso alcuno contrastata; se avveniva, che dal reggimento, a convito solenne, uffiziali d'altri corpi, o personaggi d'alto affare si onorassero, non potendo i nobili, da quello escludere i plebei, perchè pure erano uffiziali, non permettendo di pagar la loro parte ma invitandoli, come se stati fossero forestieri, li mortificavano, pungentissimo insulto, che coloro [1-70] i quali avrebbero pagato il doppio ben volontieri per non ricevere quella cortesia, ad una apparente gratitudine obbligava. Tenevano i nobili al teatro un palco in comune dal quale erano esclusi i plebei, cui solo rimaneva, se volevano godere dello spettacolo, d'andarsi nella platea col publico a tramischiare; tutte queste ed altre simili cose di poco rilievo per se stesse; ma di continuo stimolanti, in piede permanente, la discordia tenevano. Temendo quell'uffiziale di doversi poi un bel giorno apertamente per una delle parti dichiarare, pensò di porvi convenevol riparo, epperciò di tanto, in tanto ambi i partiti, a casa sua, a festini, gozzoviglie, e divertimenti cortesemente invitava, ove in sul mangiare, ed in sul bere, e nel festeggiare, in lieta, e festevol brigata trovandosi tutti ad una avvinazzati, in precaria unione si mantenevano. Preso, per sè solo, oltre la sua porzione di quello con gli altri uffiziali, un palco in allogagione al teatro, in quello senza distinzione di schiatta, gli uffiziali tutti convitava, ed ogni sera, per maggiormente attirarli, faceva sì, che le più belle e vezzose ballerine, e cantanti andassero colà a visitarlo, e quindi fatta seralmente alla metà dell'opera di squisite vivande, e finissimi beveraggi una lieta cena imbandire, unitamente si banchettava; [1-71] la qualità dei cibi, e la piacevolezza della compagnia, continua, e dilettosa rendeva la concorrenza serale; con questi ed altri tratti di tal fatta, fra i due partiti, senza per un dei due venire a dichiarazione, si regolava. Ma se di mantenere in apparenza l'unione gli conveniva; come quello, che sempre in favor della patria speculava, ei conosceva benissimo, che nel fatto questa sarebbe stata per essere nocevole al suo fine, perciocchè se i plebei si fossero della loro sorte contentati, sarebb'egli per avventura rimasto solo, e non avrebbe potuto all'occorrenza, sopra l'appoggio di alcuno, le sue speranze fondare. Per ciò evitare, e nel suo proponimento progredire, egli sotto pretesto di un qualche affare, come per caso, dal capo armajuolo del reggimento con frequenza si portava, dov'era informato, che quasi tutti gli uffiziali plebei malcontenti, alcuni dei più stimati sorgenti, e vecchi caporali, a pranzo, e a cena frequentemente attendevano; offerivangli quelli da sedere, e partecipare alla mensa; fattosi un pò pregare, egli sempre di sedersi a tavola al fine acconsentiva, ed in mezzo ai bicchieri, ed alle barzellette, senza lasciarsi dalla troppa volontà, a trascorrere in parole men che servili, trasportare, le quali il suo intendimento fuor di tempo palesassero, tutto [1-72] attentamente udiva, ed al racconto dei maltrattamenti a che andavano quegli infelici soggetti, tema continuo della loro conversazione, leggermente sogghignava; dal vino, e dalle parole i commensali, riscaldati, prorompevano quindi in così veementi, e chiare invettive contro il mal governo del paese, e la condotta dei superiori, che una semplice delazione sarebbe stata sufficiente per accusarli, ed anche come convinti di trame sediziose, punirli. Allora vedendo quell'uffiziale, che trasportati dall'ira, avevano i termini del dovere trapassati, e giunti erano al punto di poter essere da una sola parola sua compiutamente rovinati, epperciò stare la loro sorte nelle sue mani, mezzo in ischerzo, e mezzo seriamente, prendeva la parola, ed alla pazienza esortavagli, loro diceva, che sotto un governo interamente assoluto come quello del Piemonte, gli uni, cioè i nobili, che circondano il trono col diritto di opprimere nascevano, e gli altri, per essere oppressi, cioè i plebei, che debbono servir di sgabello alla nobiltà; alla qual dura sentenza della sorte, non potendo l'uomo destinare il luogo dove nascere, e determinare previamente la classe a che vuole appartenere, forza gli era di sottomettersi, che in un stato così ristretto qual era il Piemonte, non si poteva un cambiamento vantaggioso [1-73] al popolo per allora sperare, che per verità, era quegli in generale malcontento. Ma che può fare, diceva egli un solo popolo disordinato, contro tanti ben regolati guerrieri, i cui commandanti, come da quanto avete detto, appare, hanno particolare vantaggio a che il paese nell'oppressione si mantenga? Quindi loro consigliava la prudenza, e a non esporsi così favellando con alcun altro, inutilmente a severo castigo; soggiungendo che deplorava la loro triste condizione, e che della confidenza in lui riposta, facendolo così apertamente dei giusti motivi della loro afflizione partecipe, credevasi degno; i commensali allora lo ringraziavano, e cominciavano ad entrare nella discussione se si potesse, o no scuotere quel giogo, ei lasciavagli in quella internare, e col pegno in mano, di quanto già detto avevano, senza prendere ulterior parte, si alzava, e sortiva; ma sempre avveduto non gli perdeva più d'occhio nell'avvenire e tostocchè, o per istrada in parti remote, od in casa sua, od altrove, in uno di questi s'imbatteva, da solo a solo, sul soggetto della discussione passata, seriamente seco lui ragionava, facevagli toccar con mano, quanti e quali mezzi fossero alla loro disposizione; quanto facile fosse di riescire nella causa popolare, se l'esercito a favore di quella [1-74] si dichiarasse; insinuando la vera gloria di un militare che abbia a schifo d'essere salariato sicario di un despota, nell'impugnar le armi per la patria, consistere, per solo vantaggio di quella, e non pei capricci d'un uomo, per un malinteso onore, o credula brama di conquiste, esser cosa gloriosa di sguainar la spada; e così sui mezzi possibili di muoversi a danno degl'oppressori, si dilungava, e quando l'altro scorgeva a tutto intraprendere, persuaso, e deciso, coglieva il momento opportuno, e con un giuramento terribile, di seguirlo ed obbedirlo in ogni dove, cosa, e momento, se avvenisse un giorno, che la liberazione d'Italia si tentasse, tenevalo legato, e dai suoi cenni dipendente. Per tal modo senza mai correre il pericolo di essere scoperto, continuamente inaspriti, ed a lui devoti manteneva gli uomini cui favellava.

Incaricato un giorno dalla congrega segreta, di far affiggere in tutti gli angoli della città dove si trovava, un proclama, col quale i Piemontesi all'armi in favor d'Italia si chiamavano; giorno precisamente in che trovavasi il re di passaggio andando a Genova, e doveva in città alla mattina di buon ora, fare il suo solenne ingresso, sparse il nostro uffiziale nel corso della notte, una quantità di quei scritti nei quartieri, un'altra sugli angoli principali [1-75] della città, prima delle quattro del mattino ne affisse; trovossi alle cinque, ora della riunione del reggimento, al suo posto, per andare all'incontro del re, e come, nel rendersi al luogo di riunione, passa davanti un angolo, dove uno di quei proclami stava da lui stesso previamente affisso e molti vede a leggerlo, intenti, egli si stacca dalla testa del suo squadrone, dà una occhiata allo scritto, dimostra somma meraviglia, lo strappa e se lo prende. Tosto che sulla piazza d'armi vede il colonnello comparire, spicca il suo cavallo al galoppo e gli presenta il proclama, dicendogli, ch'essere il suo dovere credeva di rimettergli quella carta, affinchè nella sua saviezza, quelle misure, e disposizioni ordinasse le più atte ad impedire, che tali massime sediziose un qualche serio effetto sulla mente del soldato operassero. Trasportato il colonello dalla contentezza di essere stato il primo di ciò, informato, lo colmò d'elogi, ed ebbe sempre una intiera confidenza in lui, della quale mai gli avvenne d'abusare, ma ben gli servì, onde poter con più sicurezza il suo santo progetto, a buon fine incamminare.

Erano tutti gli animi degli uffiziali, compreso quello del colonello, concitati contro il maggiore, uomo pessimo, immorale, raggiratore, senza fede, e pieno di millanterie, dalla [1-76] Regina sommamente protetto, perchè disertore dall'esercito napoleonico, erasi sotto le schifose, puzzolenti bandiere austriache riparato; e di questo mezzo, per mantenersi gli uffiziali amici, pure con profitto si valse; in continua guerra contro di lui, ma con tal politica, con un calcolo così maturato si mantenne, che ad ogni momento facevalo scomparire, e lo rendeva sempre più esecrato, non lasciandogli mai appicco di punirlo, nè di riprenderlo. Fù sempre, in quella lunga, e simulata tenzone vincitore, e l'avrebbe finalmente, a sortire dal reggimento, costretto, se non l'avesse la Regina fortemente spalleggiato. Dal colonnello, una volta, della verificazione dei magazzeni, delle vestimenta, e dei conti di quell'amministrazione incaricato, tanto nella commessagli incumbenza internossi che, potette in una relazione da lui sù quel particolare data al consiglio d'amministrazione del reggimento, essere stato il soldato nei conti defraudato, ed essere gli uffiziali delegati a quell'uffizio in unione con lo stesso maggiore i ladri del suo avere, irrevocabilmente provare. Andò sossopra l'uffizio, il capitano d'abbigliamento fù mandato in semestre, e rimase per via della complicità del maggiore, l'accusa soffocata. Fù posto il nostro uffiziale alla testa di quell'azienda, che solo accettò [1-77] provvisionalmente, non convenendogli per stare cogli artigiani, dagli squadroni separarsi, e tanto quella sua operazione gli valse, che l'affetto di tutti i soldati gli cattò, ed in ogni squadra, in ogni camerata, con somma attenzione, ed applauso la suddetta relazione, si leggeva, e rileggeva. Andava giornalmente ed anche più volte al giorno, all'ospedale del reggimento, e colà senza affettazione, e senza che per dovere apparisse, assiso sulla sponda del letto or di questo, or di quell'altro ammalato, sulla maniera colla quale erano dagli infermieri, ed altri impiegati serviti, affettuosamente gl'interrogava; l'occhio volgeva alle distribuzioni, se di buona qualità erano, e ben regolate; se le medicine efficaci, etc. Quindi nei particolari alla persona cui parlava relativi, s'introduceva; in confidenza offriva, e dava danaro a chi conosceva abbisognarne; s'incaricava di commissioni per la sua famiglia; e sull'esito della malattia, con buone parole il confortava; per lusingare alcun tanto il suo amor proprio, dicevagli l'esistenza del Re sulla salute del soldato riposare, dover quella prima cura degli uffiziali stimarsi, perchè senza soldati non vi sarebbero reggimenti, e senza reggimenti non potrebbe sussistere il governo, epperciò essere il soldato la prima, e la più [1-78] necessaria persona di uno stato; assisteva alla medicatura delle ferite, e sempre ora questo, ed ora quello, in modocchè il malato ben lo intendesse, al dottore specialmente raccomandava; in ultimo possedeva egli tutta la confidenza degl'infermi, profittavano delle sue esibizioni, e per tal modo, l'agente pei loro affari di famiglia, il loro vero amico, il loro esecutore testamentario, era insensibilmente diventato. Quando per avventura di partire col suo squadrone, in distaccamento, gli avveniva, e di dover qualche tempo dal reggimento, separato rimanere, egli allora trovandosi capo, quel sistema di condotta, più opportuno, per affezionarsi il soldato non meno, che per assuefarlo ad essere sempre in ogni ora, o momento senza saperne il perchè, pronto a sortire in armi, e bagaglio, indefessamente, e con somma cura seguiva; alla massa d'economia del reggimento, la stessa somma spedita dagli altri ed anche maggiore rimetteva, il soldato ben pasciuto manteneva, e vestito come gli era passato dal governo; ma il riso, le paste, etc.; egli stesso all'ingrosso, e non al minuto giorno per giorno comprando, e con altre simili operazioni aveva sempre un vistoso fondo nelle mani, che in nessuna parte compariva, e siccome non voleva rubarlo, dava ad ogni soldato per [1-79] tutto il tempo del distaccamento, un convenevole caposoldo, regalava i più diligenti, e nelle domeniche avendo stabiliti giuochi di destrezza a piedi, ed a cavallo, dall'eccitamento de' premj sostenuti, in caserma riuniti li divertiva; amavanlo, e stimavanlo per tal modo i soldati, e quelli de' distaccamenti successivi, non avendo uffiziali, che volessero, o sapessero quei fondi far sorgere, ed all'uopo servirsene, avuta del ben essere goduto dagli antecedenti notizia, si disgustavano, servivano male, e qualche volta ai loro superiori anche si ribellavano, impazientivansi gli uffiziali di dover da meno comparire di quello, ed i soldati d'essere sotto di lui con tutto il cuore bramavano. Onde poter sempre tenere il suo squadrone in pronto, per agire secondo la sua volontà, il nostro uffiziale lo sorprendeva, e di giorno, o di notte, quando meno si pensava, udivasi dal trombetta suonare a cavallo, ed in venti minuti di tempo tutto lo squadrone doveva essere in armi, e bagaglio, dal quartiere partito, senza nessun effetto di corredo dietro di sè in caserma lasciare, il primo dragone a cavallo riceveva un premio, l'ultimo, alla prigione per quattro giorni era inesorabilmente condannato; un quarto di miglio lontano ad una esatta revista del bagaglio d'ogni [1-80] individuo, procedeva, gli effetti dimenticati al quartiere, erano in prò della massa generale dello squadrone invertiti, notati erano i mancanti, ed al ritorno subitamente surrogati, ma veniva al perditore, il gastigo di quattro giorni d'arresto, inflitto, seguiva la rivista, un lungo passeggio militare, il termine del quale era in qualche villaggio dove nel mentre, che i cavalli mangiavano la biada ed il fieno portato da ciascun dragone, all'anello della sella bistorto, ed aggomitolato; un competente asciolvere veniva a spese del comandante ad ogni soldato distribuito, dopodichè ritornavasi lietamente in caserma; insomma ben conosceva quell'uffiziale che il migliore, anzi il solo veicolo, onde cose grandi, e sublimi operare, quello si era di farsi il maggior numero possibile d'amici, che tutto quanto hassi in questa vita, e sopra ogni altra cosa, la riputazione, e la stima, dall'altrui volere dipendono, che l'uomo è di vivere continuamente, o con gli amici o con nemici costretto, che in mezzo a questi ultimi non gli verrà mai fatto di potere con fondata speranza di felice risultamento buone, ed atte cose intraprendere; perchè ogni miglior impresa, verrà sempre a tutta possa da loro impedita, incagliata, ed al popolo con falsi colori dipinta, onde una sublime, magnanima e gloriosa azione, [1-81] far, che un basso raggiro per particolar convenienza praticato, mosso da volgare, o vizioso incentivo, appaja, ed anzicchè la ben meritata approvazione, e la singolar gloria, dalla vera virtù non mai disgiunta, che a buon diritto le spetta, publico biasmo, e disprezzo generi, contro chi con pure intenzioni valorosamente l'imprende. Della peculiare, e delicata situazione di chi difficilissime cose desiderava portar a buon fine, il detto uffiziale facevasi carico. Epperciò bel bello nel cuore di coloro che l'avvicinavano insinuandosi col destato affetto, della lor lingua s'impadroniva; salito in fama, gli si aumentava la stima, e con questa il numero degli amici, notabilmente accresceva; tuttavolta durar dovette non poca fatica onde questa sua brama conseguire; persuaso egli, che la somiglianza di costumi, sia d'amore conciliatrice; ad ogni umore, ad ogni sorta di gente si addattava; scevro di antipatia, e fermo di volere il loro cuore cattare, studiosamente la dominante passione di ciascuno de' suoi compagni investigata, la blandiva, e vezzeggiava; ora parlava da savio, ora da volgare, pensava sempre come il primo, ma per lo più come il secondo, si dimostrava; i giusti encomj rendeva alla virtù trattando co' virtuosi, e ad una qualche opera, non diremo men che onesta, [1-82] ma anzi alla licenza tendente che no, propostagli dagli oziosi, non si negava, senza mai però alla pania del mal vezzo lasciarsi invescare. Per acquistare la buona riputazione ed in essa mantenersi, i suoi propri difetti occultava, senza darsi a vedere degli altri più savio, mai apparentemente negli affari particolari de' suoi colleghi immischiavasi, ma per trar partito dai loro difetti, passioni, abilità, e bisogni tenevasene segretissimamente informato; non parlava mai di sè stesso; diceva cose piacevoli, ed i compagni di tanto in tanto, e separatamente senza affettazione, di prendere all'esca di begli atti, modi, e parole si studiava; mai non mentiva, sebbene sempre tutta l'intiera verità non palesasse; senza boria, nè maldicente, nè riprenditore, il tempo, e le cose per addattarvi le sue azioni, di continuo studiava; di apertamente, e chiaramente manifestarsi, e dare i suoi pensieri a conoscere, avvedutamente sfuggiva, e gl'impegni soprattutto quando appariva dubbia la vittoria, in tal maniera schifava. Con accortezza, cautela, giudizio, ed acume, con simulazione operando, si serviva d'ingegni ausiliarj per deludere l'arte con l'arte, ed essere alle contrarietà superiore; e come quello, che ben conosceva, essere l'arte di saper intraprendere a proposito in affari d'alto rilievo, [1-83] la principale, e decisiva, con calma le occasioni aspettava, e con profondo calcolo le bilanciava, nel mentre, che con somma accuratezza si disponeva, e coll'ingegno, le forze sue prima d'intraprendere, con quelle dell'avversario, ponderatamente misurava. Con sì fatto seguitato, ed invariabile procedere, gradatamente, e tacitamente a quel grado d'influenza necessario portossi, onde poter un giorno di bisogno, dare al reggimento in favor d'Italia la mossa. Infatti il giorno dieci marzo 1821, destinato dalla congrega segreta per agire, alla testa del reggimento dragoni del Re, con soli nove uffiziali subalterni, nella cittadella d'Alessandria portossi; ove in unione con una brigata di fanteria, fù lo stendardo della libertà italiana con gioia universale inalberato. Quando si considera che quel reggimento, da tre quartieri separati, si mosse nel centro d'una città chiusa, e popolata con tutti i posti militari dalla brigata di Savoja creduta contraria ad un movimento italiano, occupati; con una stazione forte di carabinieri a piedi, ed a cavallo, che avevano le loro scuderie contigue a quelle del reggimento in questione, e con un immenso stato maggiore di piazza, un generale governatore, un generale di divisione, colonelli, ajutanti, ed una furia di spie, lasciando in [1-84] oltre a parte, ventisei uffiziali del proprio reggimento, compreso lo stato maggiore, non vi sarà certamente chi non venga da maraviglia compreso, quando facciasi a considerare, che malgrado tanti scogli, tanti impedimenti, fosse il reggimento a cavallo, alle due del mattino, tranquillamente in tre separate porzioni uscito, e sulla piazza del grande ponte del Tanaro riunitosi, sorprendesse il posto d'infanteria di Savoja, che stava a guardia di quello e trattolo seco, senza, che neppur uno di contrarj se ne sia accorto, la divisata operazione a compiere pervenisse. Ecco abbozzata la regola di procedere d'un uffiziale cospiratore, che voglia fermamente il reggimento a che appartiene, in favore della causa della patria portare, sebbene siasi in ristretto esposta, e per l'amor della brevità, molte, e molte delle sue operazioni siano da noi state sotto silenzio passate. Crediamo quei cenni però bastevoli, onde dar a divedere la vera via, che per giungere a tale scopo percorrere si debba; e senza mancare alla verità, e senza raggiri bassi e comuni, colla sola perspicacia, prudenza, ed una volontà ferma, e costante, un felice compimento di magnanimi divisamenti ottenere.

Esposto come debba un militare a quell'uopo le sue azioni dirizzare, il quale in una assai [1-85] più dilicata posizione, di qualunque altra persona si trova; con molta maggior facilità, un impiegato civile, un uomo independente, potrà quella parte delle sopra indicate regole, che gli compete seguire, e ad effetto la grande impresa felicemente perdurre. Sovvengansi però sempre, il cospiratore, le congreghe, le leghe, tutti insomma coloro, che in segreto al fine di preparare lo scoppio generale si adoperano, che la prudenza, l'attività, lo zelo sono alla riuscita necessarie, ma che non bastano se non sono con l'ostinazione unite. La cospirazione perciò dev'essere perpetua, se un tentativo fallisce nel suo effetto; se un ben combinato movimento è scoperto; se una parte dei cospiratori viene arrestata; se altri sono mandati al supplizio; nulla di tutto ciò deve indurre i rimanenti, di cospirare di nuovo a rinunziare, ma cambiando le forme, i segni, coi quali fra di loro si riconoscono, sbagliata, scoperta, distrutta, una cospirazione, deve a quella immantinenti un'altra conseguitare, e sempre maggiore, e più di prima formidabile rinascere; a capital delitto devesi la cessazione delle pratiche, finchè un solo rimanga dei collegati, ascrivere. Uno, due, tre, dieci, venti tentativi abortiranno, ma alla fine il trentesimo riescirà; molte saranno per avventura le [1-86] vittime, e di qualità, egregie persone, uomini sublimi, dalla scure dei tiranni, pel bene della patria, prima di riescire sagrificate; ma non dovrà mai questo pericolo da chi ad una sì grand'opera si consagra essere paventato. Freddo il cospiratore alle disgrazie della lega; o della congrega, mai non si stancherà di operare, abbenchè delle sue opinioni, un solo in Italia rimanesse, supposizione impossibile, perchè sempre in quella, uomini generosi, che veramente le sono affezionati e la gloria ambiscono di cooperare alla sua liberazione, avventurosamente rinverrà.

Non si ristaranno dunque i cospiratori per qualunque accidente loro avvenir possa, dall'avventurarsi pell'esecuzione del gran disegno, ben persuasi, che qualunque sia per essere il loro destino, cadano essi sul campo della patria; o come Confalonieri, nelle oscure prigioni dei tiranni imputridiscano; come Morelli, Silvati, Garelli, Laneri, Andreoli, e Deluca, per le mani del carnefice sul patibolo periscano; od al coltello o veleno degl'assassini, come Rossaroli per mala ventura soggiacciano, oppure onde in pace godere le benedizioni, e le ricompense della lor patria riconoscente sopravvivano, saranno sempre, i loro nomi negli annali d'Italia distinti, e commendati, ed avranno nel cuore dei posteri la condegna, e ben meritata apoteosi.

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CAPITOLO V. DELLA TATTICA. — QUALE SIA LA GUERRA DA ADATTARSI NELLO STATO ATTUALE D'ITALIA.

Quando ad esporre, qual metodo di guerra, venir debba per un paese trascelto, s'intraprende, d'uopo è la sua fisica, morale, e politica situazione non meno, che l'attitudine sua a questa piuttosto, che a quell'altra guerra favorevole, farsi a minutamente investigare. E siccome sopra il miglior metodo di guerreggiare, anzi il più utile, ed efficace da noi divisato, ed il solo atto a promettere agl'Italiani un certo risultamento, è nostra mente di tenere un fondato discorso, non possiamo a meno di non dare della moderna ed antica tattica, un rapido abbozzo; e nè l'una, nè l'altra, di essere agl'Italiani vantaggiosa, col mezzo di chiari, e convincentissimi argomenti e storiche prove, assegnare con evidenza le ragioni; imperciocchè ambe, ciò che un popolo insorto non ha, nè può avere, e che per lo contrario abbondante, valevole e ben regolato trovasi nelle mani del nemico, richiedono; [1-88] converrà dunque alle importanti mancanze riparare, all'arte una differente opporre, ed al tutto supplire con un metodo affatto dissomigliante, ed a rendere inutile quello dell'avversario, conducente; dimostrando che il fine certo, indubitato di tal metodo, sia la vittoria di chi l'imprende; provare la necessità di appigliarsi ad un nuovo metodo, e indicare quale questo per l'Italia debba essere, sarà l'oggetto principale delle nostre disquisizioni nel presente capitolo. Una guerra che devesi dalle regole conosciute della tattica degli eserciti regolari europei allontanare, sarà senza dubbio per riescire in Italia dove mai in sì fatto modo guerreggiossi, del tutto nuova, ed a nessun altro cognita, fuorchè a quei militari i quali in Ispagna, od in quegli altri paesi, dove più o meno quella imitavano, dovettero agli effetti di quel metodo soggiacere; sebbene sia questo nostro sistema sulle operazioni dei summenzionati popoli delineato, si può non dimeno come affatto nuovo considerare, perchè realmente in quei paesi, secondo principj generali prestabiliti, dalle bande non operavasi, ma tutte allo stesso scopo dirette, nei mezzi (perchè non da tutti i condottieri egualmente conosciuti, apprezzati, e concordemente messi in uso), tutta volta differivano; ciò che di molto la buona riescita della [1-89] contesa prolungò, rese ai popoli la guerra più grave, e dannosa, e soventi volte quando si sarebbe una pronta, e certa vittoria ottenuta, dubbia la mantenne.

All'uopo dunque di render più breve, e più forte questa guerra, di minor danno al paese, ed il trionfo della buona causa accelerare, abbiamo noi in questo capitolo e nei seguenti le fisse, ed invariabili regole preso ad indicare, le quali dovranno sempre però essere dalla perspicacia del condottiere, alle occorrenze, ai tempi, ed alle situazioni, convenevolmente applicate.

Consisteva principalmente la tattica dei Romani, in quell'ordine profondo, che tutto col proprio peso arovesciava; ristretta la fronte, gagliardamente dirigevasi contro il centro nemico, e dalla riescita dell'urto, veniva la vittoria decisa; aperte le file sù varie righe disposte, mutuamente si soccorrevano, e quando avveniva, essere le prime dal nemico distrutte, filo filo, le altre a surrogarle avvanzavansi; era il combattimento da presso all'arma bianca, ed ogni individuo in quella poteva tutta la sua forza, e destrezza facilmente dispiegare il vantaggio godendo della superiorità sull'avversario, se meno agile, o coraggioso lo rinveniva; erano perciò in quel tempo la tattica [1-90] e la disciplina, d'un'assai maggiore importanza di quanto adesso non lo siano; in breve, portato dai Romani tutto lo sforzo sul centro là, il tutto si decideva, ed una volta quello rotto, la battaglia era vinta, non erano i loro projettili così efficaci come i nostri, nè avevano come questi un'azione decisiva, potevano solamente convenire per ingaggiare il principio del combattimento, e così un corpo d'esercito in rotta, non avrebbe potuto essere da quelli sufficientemente protetto. Con questo modo di guerreggiare pel quale il vero valore individuale doveva impiegarsi, pervennero quei virtuosi nostri progenitori, a sottomettere quasi tutto il mondo, e nessun popolo d'allora in quà, giunse, la loro virtù peranco a pareggiare. Nell'infausta caduta della potenza romana, fu pure quella dell'arte militare, involta; impossessatisi i barbari dell'Italia, ed introdotto, e piantato il loro perniciosissimo sistema feodale, sulle rovine dell'antico, e glorioso patriziato, siccome il popolo schiavo, povero, senza onore, non poteva più avere attitudine alla guerra, lo tennero a piedi, e per lo più disarmato, mantenendo i pochi di cui si servivano, di pessime armi forniti; e quei barbari che quai ladroni delle terre s'impossessarono (i più forti, i più birbanti [1-91] dei quali, formarono una classe che titolarono di nobiltà, e conti, baroni, etc., si appellarono), essendo i soli ricchi perchè aveano spogliato gl'Italiani, ed i soli che possedessero cavalli, misero in pregio la cavalleria, e si ebbero i fanti nel maggior disprezzo; così nel decimoterzo, e decimoquarto secolo, gli eserciti della maggior parte delle potenze europee, in sola cavalleria consistevano; fù la sublime romana tattica messa in obblìo, si può dire, che più in quel tempo non si guerreggiava, perchè tutte le evoluzioni messe in non cale, altro se non rapide irruzioni nel paese nemico da veri ladroni non facevansi, lo scopo della vittoria alla distruzione, e rubamento della proprietà de' vicini limitavasi, e tutto il vantaggio della celerità delle marcie si ritraeva; i nobili feudatarj per intieri mesi e con enormi spese, a riunire i loro nobili secondarj, s'affaticavano, e quindi la guerra non durava che pochi giorni o settimane, per lo più senza un decisivo risultamento, e tutti i mali di quella, uniti alla capricciosa tirannia de' nobili, senza mai alcun vantaggio ritrarne, il mansueto italico gregge, doveva pazientemente sopportare. Carlo VII, re di Francia, fu il primo che per levarsi la noja, di quelle truppe inutili [1-92] e la soggezione dei feudatarj, che come al mal tolto compartecipi, non volevano dai capricci del re, sottomessi rimanere, cominciò ad assoldare truppe mercenarie, ed in Europa quel rovinoso, immorale, malefico sistema delle truppe regolari permanenti introdusse. Portò l'invenzione della polvere, una rivoluzione, nell'arte della guerra di quei tempi; distrutto dall'artiglieria e moschetteria il prestigio de' cavalli, ricominciarono i fanti ad essere di bel nuovo apprezzati; gli Svizzeri, che per lo passato, a cagione della loro povertà, non avevano mai potuto tenere cavalli, epperciò con somma cura sempre come fanti si esercitarono, erano in quel tempo per la riputazione di superiorità acquistata sopra la cavalleria, da quasi tutti gli stati ricerchi, ed assoldati. Marciando quelli in battaglia serrata colle loro picche, e spadancie, gli squadroni de' cavalli assalivano di fronte, e quasi sempre rompevano; i Francesi, e Tedeschi, all'ordinamento di fanti s'appigliarono, ma gli Svizzeri ad eguagliar non pervennero; gli Spagnuoli solamente divennero a quelli di gran lunga superiori, e tutta l'Europa d'ammirazione, e timore compresero.

Fù dai celebri Gustavo Adolfo di Svezia e Nassau nelle Fiandre, un sistema di guerra [1-93] regolare strategico (cioè guerra di movimenti), inventato, e seguito, più d'ognuno in quel tempo dell'arte della guerra conoscitori, ebbero la vittoria dovunque marciavano; i loro eserciti ben regolati, divisi in geometriche frazioni, furono i primi di quell'epoca, a porre gli alloggiamenti alla campagna, ed attrabaccare non meno, che a venire con un metodo da lunga pezza andato in disuso, ad una regolare giornata; l'uso mantennero delle picche, e persuasi che nella densità dell'ordine, e nell'impulsione, la forza delle fanterie consistesse, ebbero all'ordine profondo, ricorso. Acquistò il nostro Montecucculi che era di questa scuola a fronte del celebre Turenna, col quale a vicenda una guerra menavano di sottigliezze e stratagemmi, grandissima gloria; Guibert, ci dice, quello essere stato il tempo dei grandi generali, che alla testa de' piccoli eserciti, grandi cose facevano; non pochi miglioramenti nella tattica furono da Luigi XIV introdotti, e la sua guerra piuttosto che altro puossi degli assedj appellare, pochissimi soldati, avveniva, che in quel modo guerreggiando, perissero; andavasi nella fredda stagione agl'invernali quartieri, e di combattere si tralasciava, erano talmente rare le battaglie, che molte volte, [1-94] varj interi anni in guerra passavansi senza che neppure a far giornata si portasse il pensiero; tende, magazzeni, impedimenti numerosissimi il materiale formavano d'un esercito, che appena era di muoversi capace, d'enorme spesa all'erario, senza giungere a decisivo risultamento, locchè il più delle volte portava la rovina dello stato, il quale era dalla necessità, senza che i due eserciti avversarj misurati si fossero, a far la pace costretto. Abbenchè un regolar servizio di provianda fossevi stabilito, era quello tanto malamente amministrato, che i viveri distribuiti al soldato pel suo mantenimento, non bastavano, e diveniva un vero flagello dei paesi per dove passava, di altrettanto più danno, e peso, quanto non mai per marcie forzate, ma per regolari alloggiamenti si traslocava. Però fù in quel tempo l'arte dell'attacco delle piazze ad un grado tale di perfezione portato dal celebre Vauban, (che mise in pratica i precetti d'un famoso ingegnere italiano, Francesco Marchè di Bologna), il più lungo, e difficile di tali attacchi, non costava la vita che a pochissimi soldati, e nessuna fortezza secondo quelle regole attaccata poteva di cadere nelle mani dell'aggressore, scansare. Si adottò pure in quel tempo la funesta e rovinosa massima di portare gli eserciti [1-95] e le artiglierie ad un numero esorbitante; non v'era propriamente una tattica, per dare a quelle masse un regolar movimento; era il tutto dal genio e talento del generale, che comandava, mosso e diretto; il nostro principe Eugenio di Savoja, riportò giusti encomj, e fù di luminosi allori fregiato in quel modo di guerreggiare.

Comparì finalmente Federico II, re di Prussia, creatore d'un'arte della guerra affatto nuova; inventò l'ordine di battaglia obbliquo, addattò la sua tattica al cambiamento dei projettili, e l'ordine profondo, e serrato fù da lui con l'ordine sottile e disteso, surrogato; non dovevano più i generali di quella scuola, aver per iscopo di rompere il centro, ma bensì di estendere le loro posizioni per girare uno dei corni dell'esercito nemico; il suo sviluppo prevedere, e facendo delle ingannevoli dimostrazioni da una parte, su quello lasciato incautamente sguernito, con maggior forza cadere, trarre da tutte le combinazioni, che potevano essere al nemico dannose, giudiziosamente profitto, e col mezzo di ben dirette evoluzioni, farlo cadere con avvedutezza, nell'inganno; un corno del suo esercito avviluppare, e prendendolo per tal modo a rovescio, dare di mano, in mano, addosso alle varie separate porzioni de' suoi [1-96] combattenti, e nella confusione dall'essere presi alle spalle cagionata, distruggerle; far valere le artiglierie, in modo collocandole, che unitamente agli schioppi, il loro fuoco dai lati al centro incrociassero in modo che se l'avversario di portarsi all'urto dell'arma bianca divisasse, rimanesse prima d'avvicinarsi, distrutto; e se mai fosse per arrivarvi, malgrado il fuoco, abbastanza felice, giunto al cozzare, troppo maltrattato, e dalle gravi perdite di tanti uomini indebolito, dovesse sotto le bajonette d'un corpo intatto, in isfinimento cadere, che a suoi piedi malgrado l'eroico suo valore lo seppellisse. Dopo l'introduzione delle artiglierie, viene dunque la sorte delle battaglie quasi sempre a quelle rimessa, e ben soventi, più o meno forti si considerano quegli eserciti, che d'una maggiore, o minore quantità di fuochi, possono disporre.

Fù la creazione di quella nuova tattica, di non poco giovamento al gran Federico; le battaglie di Lissa, e di Hohenfriedberg, e molte altre chiaro a divedere cel danno. Carlo Emmanuele terzo re di Sardegna, principe guerriero e filosofo, buon generale, ed amministratore instancabile nella fatica e coraggioso nel pericolo, fù distinto, e celebre maestro in quella guerra; il cui sistema da tutti considerato [1-97] come il migliore, e da non potersi perfezionare, ebbesi fino alla rivoluzione di Francia, in conto. Ma dovette in quel tempo alle masse, la preminenza concedersi; spinte quelle colonne serrate dall'entusiasmo republicano nelle pianure dell'Italia, e della Germania, sui quasi impenetrabili cordoni austriaci ferocemente scagliavansi, gli fugavano, e distruggevano. Erano dai generali della republica le colonne serrate, alle linee distese, preferite, perciocchè maggiori difficoltà, per queste conservare, si rivengono. Attaccavasi in una battaglia, per l'ordinario un punto determinato; una brigata succedeva ad un'altra, e così di mano, in mano, truppe fresche, il luogo delle respinte occupavano, ciò che finalmente a forzare il posto, le abilitava, e l'avversario costringeva a dar sulla loro fronte le spalle; e tenendosi stretti in colonna serrata, e compatta, tutti gli sforzi della cavalleria nemica per romperla, al nulla riducevansi. Il sistema di queste colonne d'attacco, spinte su varj punti scelti a seconda delle circostanze contro le linee contrarie, torna tutto il vantaggio dell'ordine diretto, ed obbliquo della tattica di Federico, a nulla, perchè, mai non potrebbe il nemico sù tutti i punti a riceverle, egualmente, ben preparato trovarsi. Per [1-98] formare di queste colonne tutta una linea di battaglia, un numero enorme di combattenti si esige, ma potrà sempre quella esser certa di rompere in varj luoghi un nemico secondo un altro sistema collocato e talmente scompigliarlo da doverne per necessità la sua generale compiuta rotta seguire. Lo stabilmento d'un corpo composto delle migliori truppe, chiamato di riserva da un abile generale commandato, è pure stata una delle principali e vantaggiose invenzioni di quel tempo; se avviene che sieno due linee battute, la riserva copre la loro ritirata, in molte occasioni, ed alla battaglia di Marengo in particolare fù la vittoria dalla riserva riportata, se poi sono vittoriose le linee, quella il compimento dell'azione ajuta, ed alle truppe leggiere la presa d'un maggior numero di prigionieri, di molto facilita; fece Napoleone il miglior capitano di questi tempi, delle colonne d'attacco, grandissimo uso, senza tralasciare di servirsi pure, non poche volte, di quanto esservi di vantaggioso nella tattica di Federico giudicava; e senza perdere i vantaggi dell'ordine obbliquo, dall'inviluppo, all'antica massima dell'urto, l'arte militare richiamò; ben riconobbe non poter l'urto personale all'arma bianca, a cagione dell'incrociato fuoco dei projettili, [1-99] sempre favorevolmente riescire, e di ottenerlo con l'urto d'una quantità maggiore degli stessi, fermò il suo consiglio; ciò che compiutamente al savio divisamento corrispose, e quindi dove i vecchi generali solamente quattro, sei o dodici cannoni collocavano, e fors'anche in luoghi dove non ne mettevano alcuno, egli quaranta, ottanta, cento, etc., ne situava; questa massa di cannoni, che tutto quanto aveva in fronte, spazzava, contro soldati che con pochi e coi soli schioppi dovevano opporglisi, in suo favore necessariamente pender faceva la vittoria.

Le stesse cagioni da che fù il cambiamento della tattica antica prodotto, dovevano far sì, che dai nemici, quei nuovi modi per mezzo de' quali, furono essi le tante volte sconfitti, e di che in ogni battaglia ne riconoscevano con loro danno l'efficacia, si mettessero pure in pratica; epperciò all'eccezione di quei vecchi generali sempre nell'opporsi ad ogni novità ostinati, tutti allora, essere il cambiamento del sistema tattico necessario, convennero; e chi più presto, e chi più tardi tutti, di mettersi cercarono più o meno del loro nemico all'eguale; di modocchè nella maggior parte delle attuali guerre, gli stati combattenti con linee in colonna serrate, mirano, una maggior [1-100] estensione di terreno dell'avversario, ad occupare, ed in quella maniera minacciarlo di circondargli ambi i fianchi dell'esercito, onde le sue disposizioni sì offensive, che difensive sconcertare. Epperciò ogni stato, che dichiara in oggi ad un altro la guerra, si sforza a quest'uopo, nell'immenso numero di soldati a superarlo, e porta al campo una enorme quantità d'artiglieria di campagna, e volante, acciocchè prima di venirne alle strette, esser possa la battaglia, decisa; così nella battaglia di Jena, già si trovarono sù trecento mila combattenti da circa ottocento pezzi di cannone impiegati, e viemaggiormente in aumento progredendo, si videro in quella della Moscova, o Borodino, tra una parte, e l'altra duecento e sessanta cinque mila soldati, e mille e trecento bocche da fuoco, in non intermessa azione. Colà si prese la mai più veduta e sorprendente disposizione di collocare in un sol punto trecento pezzi d'artiglieria, i quali a scaglia contro le reserve russe in massa del centro assalitrici, tutti assieme continuamente traevano, e dal tremendo lor fuoco furono quelle affatto incenerite. Ciò diede a Napoleone vinta la giornata; questa battaglia nella quale un numero enorme di cannoni non mai per l'addietro neppur pensato, adoperossi, come la più sanguinosa [1-101] contasi, fra tutte quelle dopo l'invenzione della polvere, successe; un tale reciproco sviluppo di forze rende molto più onerosa per lo stato la guerra, di quanto poteva esserlo nei tempi passati. La quantità di truppe non meno, che delle artiglierie, munizioni, bagagli, e treno, che sono al loro seguito di trascinare costrette, esige spese enormi; e per la necessità di stabilire magazzeni, fortezze, etc., ciò che chiamasi base militare, indispensabile nella scala d'operazioni dell'attual sistema di guerra, viene la celerità dei movimenti intralciata, tutta la superiorità della disciplina, e del coraggio, che presso gli antichi decideva della vittoria, al nulla ridotta: ed il generale che maggior numero di combattenti, e maggior quantità de' succitati elementi proprj all'attuale metodo possegga, se a quelli, la capacità di maneggiarli senza confusione aggiunge, può il buon successo della battaglia, come certo contare. Diventò in questo modo, molto più micidiale, la guerra, senza niente più decisiva riescire, poichè, tutti avendo lo stesso sistema abbracciato, questo, generale divenne, epperciò si ottiene ora colla morte di centomila, lo stesso risultamento, che anticamente, quando erano di minor forza ambi gli eserciti, con quella di cinque mila, potevasi ottenere. Sarà [1-102] questo leggiero saggio sulla tattica da noi conchiuso, indicando come Napoleone il segreto dell'arte della guerra intendesse, che si trova dal signore di Segur, nella storia della guerra del 1812, al capitolo VIII, pag. 193, così riferito: «Napoleone chiamò a se l'ajutante di campo, questi lo trovò immerso in profonda riflessione, e quindi sclamò: che cosa è la guerra? Un mestiere da barbari, in cui tutta l'arte consiste nell'essere il più forte sopra un dato punto!» Ecco in poche parole da quel sommo capitano la tattica attuale spiegata.

Ora volendo noi Italiani contro lo straniero che occupa il nostro paese, ed i tiranni domestici, che ci maltrattano, insorgere, potremo noi quel numero enorme di soldati regolari, e di costosissimi materiali possedere, che da quanto abbiam veduto sono, se si vuol vincere nel modo attuale di far la guerra, indispensabili? Dov'è l'erario per le grandi spese, al mantenimento, vestimento ed armamento del soldato, e per la fabbricazione del materiale necessario? Dove il luogo di riunione; onde poter queste masse, con calma, e tranquillità profittevolmente ordinare? Forse che una piazza forte, ed anche molte, o tutte, per dichiararsi in favor della patria, saranno; ma ciò che importa? Mai non potranno in quella fretta, in [1-103] quella confusione, in quella divisione di partiti, per vincere il nemico che non perderà tempo a correrci addosso, il necessario bastevole fornirci; per mettersi in misura di dargli una battaglia, e sperare la vittoria mancaci senza dubbio il tempo non men, che i mezzi. Ma perchè non possiamo ad una regolar battaglia immediatamente il nemico sfidare, dovremo noi dunque, rinunziar ad insorgere? No; un'altra guerra, il cui risultamento non possa esser dubbio, la sola per noi possibile, e conveniente nello stato attuale d'Italia, sarà da noi avventurosamente intrapresa, e sarà questa la guerra d'insurrezione per bande; dalla qual sola l'unione della penisola, l'independenza, e la libertà, potranno gl'Italiani ottenere; onde persuadersi che questa guerra sola sia di produrre quel felice avvenimento, capace, ci converrà al quanto estenderci per dimostrarlo. Ma siccome è cosa necessarissima, che ognuno degl'Italiani se ne persuada ed a combattere in quel modo, ed allo stesso, con altri servigj, a concorrere si disponga, non tralascieremo, per quanto la ristrettezza di nostri lumi lo permetta, di chiaramente dimostrarlo.

Mezzi d'ogni sorta, generali capaci, popolo disposto, combattenti valorosi onde poter combattere, e schiacciare, gli abborriti nemici, non [1-104] sono in Italia certamente mancanti; ma la situazione politica delle varie parti della penisola; le poche truppe regolari capaci di entrar in guerra pe' paesi disseminate, la divisione di quella in tanti stati; sono tutti alla riunione immediata d'un esercito regolare, gravi impedimenti. Dal calcolo approssimativo delle truppe nazionali d'Italia attualmente al servizio de' tiranni, puossi facilmente dedurre, che lasciate le guarnigioni necessarie nei proprj paesi, le rimanenti atte ad uscir per riunirsi ed in un determinato punto, formare un esercito, ad un numero maggiore di cinquanta cinque, o sessanta mila uomini non ascenderebbero; supponendo, che il Piemonte possa mandare trentacinque mila combattenti, quindici mila Napoli, e che tra la Toscana, Parma, Lucca, Modena ed i Papalini, si possano dieci mila uomini riunire; ecco sessanta mila il numero disponibile delle truppe che si potrebbero muovere; ma è pure da osservarsi, esser queste in oggi mal commandate, senza spirito nazionale (parliamo in massa perchè, ben sappiamo che individui sonvi, e molti, i quali rodono in silenzio il ferro che gl'incatena, e gemono in segreto sul vilipeso onore italiano, e sui mali della patria;) tal che nel loro attuale ordinamento lor sarebbe non che difficile, anzi impossibile per [1-105] ispontanea volontà, e simultaneo movimento in un punto determinato la loro riunione operare; senza essere, nella distanza, che avrebbero a percorrere per congiungersi, dallo straniero, o partito tedesco interno impedite, e separatamente battute. Neppure crediamo essere un movimento simultaneo generale da sperarsi, perchè tante sono le difficoltà particolari a ciascheduno stato, città, luogo, dove di fare si tenta una rivoluzione, tanti gli avvenimenti che possono il meglio combinato movimento, non solo ritardare ma ben anche sventare; tante le contrarietà inaspettate fra gli stessi speziali elementi d'azione, facili a sorgere, che uno scoppio simultaneo in uno stato, provincia, o distretto non solo, ma in una stessa città può dirsi difficile, anzi quasi impossibile. E parimenti in uno così esteso spazio come la penisola italiana, in dieci stati differenti divisa, che dieci centri sono di governo, di polizie, di carabinieri, di spie, etc., tutti a render nulli gli sforzi di quegli eroi, che una rivoluzione intraprendessero, intenti, tal cosa non è da sperarsi, e non potrassi mandar ad effetto. Ammirabile, da desiderarsi, e degno in vero di un popolo energico, e di gran mente un vespro italiano, contro i Tedeschi e partigiani loro, certamente [1-106] sarebbe; da quelle macchie, che fanci vergognare ci sbruttarebbe; in un istante avremmo delle grandi ingiurie, finora per la nostra dappocaggine sofferte, giusta, e memorabile vendetta, e per la gloria di tal fatto, verrebbeci aperto il cammino a ben fondata, e durevole felicità. Ma quei grandi avvenimenti degni d'un popolo d'eroi, difficilmente si ripetono, ai quali pure l'estesa superficie del nostro paese si oppone. Quei sessanta mila uomini dunque, che riuniti, ordinati, e ben comandati, e coll'andar del tempo aumentati, sarebbero di battere, vincere, e distruggere i nemici d'Italia, capaci; non potendo per un simultaneo movimento riunirsi, sono in oggi, attesa la loro posizione, di poco, o niun conto in massa, per una guerra regolare, da considerarsi; altro con fondamento a sperar non rimanci, se non che venga da uno, o più stati, la bandiera della patria, inalberata, e che successivamente da un paese ad altro estendendosi, la rivoluzione si renda generale; ma prima di lasciarla a quel felice punto arrivare, i nemici del paese, le loro forze tosto riuniranno, loro agevol cosa sarà di poter di cento mila combattenti disporre, la confusione, e debolezza di tutti i principj dei cambiamenti politici inevitabili, sarà da loro ben calcolata, e messa a profitto, ed acciocchè [1-107] non prenda il nuovo sistema incremento, e non si consolidi, sopra lo stato insorto, con tutte le loro forze piomberanno. Eccolo allora in procinto di soggiacere, dovrà in tutta fretta alla poca truppa ordinata, che mantiene, un numero grande di ardenti cittadini aggregare, amanti cordialissimi della patria certamente, ma non usi alle armi, nè per anco alle veglie, alle fatiche, ed al formidabile aspetto d'una battaglia campale assuefatti, inevitabile, se il nemico la vuole, come la vorrà, e da non potersi nella guerra regolare, a piacimento schermire, senza mettere in pericolo la capitale dello stato, che deve in quell'epoca la base delle operazioni militari, formare; ed ecco l'onor nazionale, e la libertà della patria, con probabilità della vittoria in favore del nemico nelle mani della cieca fortuna commessi, che come ognun sa ben sovente li non degni ad alto leva, a basso lasciando i degnissimi. Ora, perchè al momentaneo, incerto, e probabilmente sfavorevole successo delle armi, quanto di più sacro, di più stimabile, di più caro havvi agli uomini, in battaglia avventurare, quando mettendoci in guerra per bande, il successo non è più dubbio e possiamo con certezza, con minori rischj, sebbene con maggior tempo, soffrimenti, ed attività continua, ottenerlo? Ma non è il tempo, [1-108] quando viene per il bene publico impiegato, punto da valutarsi, le fatiche, le pene, e la stessa morte quando sono per la patria, sofferte, dolcissime al cittadino dabbene riescono; ed è l'attività sommamente agl'Italiani necessaria, per poterli dall'ozio ed effeminatezze in che marciscono snighittire. E siccome altra riputazione, se non quella di buoni pittori, scultori, e di saper ben trillare in una arietta, in Europa non godono; non dobbiamo per un calcolo inconsiderato, per una fretta inopportuna, la somma delle cose avventurare, quando, in altro modo, la certezza abbiamo della vittoria; la independenza, e libertà acquistate con sudori, assai più durevoli riescono, di quella, per favorevol circostanza, senza pena, e senza sangue fondata. Se gli Spartani di combattere soventi con gli stessi vicini, per timore d'insegnar loro la maniera di far la guerra, evitavano, la contraria massima dobbiam noi abbracciare. Una guerra lunga e continua ci converrà muovere, contro i nostri nemici, finattantochè, per trarci dall'abbiezione in che siamo, le virtù degl'avi nostri, abbiaci il lungo combattere, a riacquistare, portati.

La forza reale, regolare italiana, non potrà dunque essere tutta in un momento riunita, perchè anderebbe soggetta, prima di poter [1-109] agire, ad essere dal nemico attaccata, e separatamente distrutta, ed in qualunque altro modo per separate frazioni insorga l'Italia, non le converrà mai d'immediatamente, a campo aperto quei vecchi battaglioni di Goti sfidare; coi quali non è mai permesso di venire a patti, ma debbonsi distruggere. Egli è ben vero, che come sudditi di un despota, di mente opaca, inattivi, e contenuti da irresistibile forza d'inerzia, solo della loro fisica esistenza occupati, (vizio naturale dei servi, i quali altro non hanno, che la cieca obbedienza per legge, e l'oppressione per regola) trovandosi a fronte di combattenti animati dal fuoco della libertà, e dallo stimolo della vendetta di tante vecchie e gravi ingiurie che rende attiva tutta la loro energia, debbono per certo a tali infervorati competitori resi per l'accanimento insuperabili, le mille volte quelle carnose macchine, inferiori trovarsi; epperciò non parrebbe dover dubbiosa riescire la lotta. Eppure, quante volte non abbiam noi veduto popoli insorti, cittadini da purissimo amor di patria stimolati, che, per mancanza di tempo ad ordinarsi o perchè non vollero, o non seppero mettersi a campo in bande, soggiacquero, e l'ordine e freddezza di vilissimi servi, l'entusiasmo, e l'ardore vinsero [1-110] di valorosissimi campioni della patria! Percorrendo l'istoria della rivoluzione di Francia, che tutta unita, con un solo centro, si trovava in una situazione politica assai dalla nostra differente, e che al primo scoppio quando le fù notificato il trattato di Pilnitz, tre milioni di cittadini armati, ed equipaggiati contava, per la difesa della patria iscritti, noi vediamo chiaramente che con mezzi eziandio così formidabili, con un entusiasmo così manifesto, e generale, la prima colonna di truppe sotto gli ordini del generale Biron, uscita contro la colonna tedesca comandata dal generale Beaulieu, quando al campo di Boussie si trovò per la prima volta in faccia al nemico, senza venir alle mani, ma sul semplice dubbio di essere attaccata, si diede ad una precipitosa fuga, perdette tutti i cannoni, lasciò moltissimi prigionieri, ed una parte della truppa non si fermò fino a Valenciennes, e l'altra al campo di Famars alla sfilata si rifuggì. E nello stesso tempo, il maresciallo Teobaldo Dillon, uscito di Lilla con dieci squadroni, sei battaglioni, ed i competenti cannoni, dirigendosi verso Taurnay, sulle alture di Marquin, s'incontrò col generale austriaco d'Happoncourt alla testa di soli tre mila uomini. Dillon in vece di attaccarlo sebbene fosse di [1-111] molto superiore in forza, misesi in ritirata, ma pur non dimeno sorpresa la truppa francese da un subitaneo terror panico si sbandò, e fra urli, e grida, se ne fuggì a Baisien, dove impiccò il colonello del genio Berthois, e mise il maresciallo Dillon con le bajonette in brani, ambedue sospetti di tradimento. Il generale Gouvion, attaccato all'improvviso a Glisuelles dal generale Clairfait, avrebbe avuta la stessa sorte, se non fosse giunto a tempo in suo rinforzo, il generale Lafayette, che ristabilì il combattimento. Chiaro dunque appare, che se una rivoluzione in una delle varie capitali d'Italia succedesse, e fosse quella ad intraprendere una guerra regolare costretta, le truppe di fresco raccolte, ed ordinate, comecchè ben disposte, e coraggiose, correrebbero rischio di venire sbaragliate al primo fuoco di quelle fredde masse di flemma già use, da molti anni a veder le sconfitte più grandi, (quantunque nelle ultime guerre, in fronte agl'Italiani che servivano la Francia, non abbiano mai di avvicinarsegli troppo, avuto l'ardimento e siano soventi volte da quelli state rotte e del tutto dissipate) attesochè proprio è delle truppe vecchie, per cattive che siano, d'agire con maggior freddezza, prudenza, e ben considerata condotta delle nuove, e sono per lo contrario [1-112] l'impazienza, e la precipitazione, le qualità d'una truppa regolare, quantunque formata de' migliori soldati; ai combattimenti non avvezza, ma che per la prima volta trovasi al fuoco. Sono di questi difetti, principali cagioni, primieramente quel bollore particolare, di chi pieno di santo entusiasmo alla difesa di quanto più apprezza al mondo, generosamente si slancia, furore santissimo, germe delle grandi azioni, e sempre che sia ben diretto, produttore degli eroi, ma quasi sempre alle insidie della fredda prudenza soggiacente, secondariamente, quella mancanza di confidenza relativa sì nei superiori, che nei compagni, la quale, se non col lungo guerreggiare assieme, col trovarsi le molte volte nei pericoli reciprocamente a sostenersi obbligati, non s'acquista; la qual mancanza in un esercito nuovo immediatamente al fuoco nemico esposto, genera immancabilmente titubanza, soprattutto poi, quando in un momento di rivoluzione si forma, in che generalmente il sospetto esiste che non sieno tutte le componenti unità guidate da quei puri sentimenti, che per la difesa della patria si esigono. Infine, la poca subordinazione, la trascuranza degli ordini tattici, i soli a render formidabile una moltitudine d'uomini uniti, capaci, il rilassamento della disciplina, e la mancanza di quel freddo [1-113] calcolo, che per la conoscenza del passato, pondera il presente, e l'avvenire prevede; sono generali, e comuni difetti, ma di sì gran momento, che possono in un istante, mandar tutto quanto in rovina, ed al nemico, sebbene inferiore in numero, in entusiasmo, e coraggio, la vittoria assicurare; onde di quanto ci siamo intrattenuti ad esporre, maggiormente convincerci, diasi un'occhiata alla disfatta di Rieti, e di Novara, e si vedranno quei guerrieri, che in Ispagna e Russia tanto si distinsero, ed i Piemontesi soprattutto, dal miglior generale del secolo notoriamente predistinti, da un pugno di pecoroni austriaci del tutto debellati. E sebbene a produrre questa deplorabile disfatta, che ci coprì di vergogna e ci rese agli occhi dell'Europa intiera dispregiabili, abbiano assai più i maneggi interni, e le gherminelle dei nostri compagni che alla testa del governo rivoluzionario si trovavano, contribuito, non è però men vero ch'ebbero i succenati difetti, non poca parte alla generale rovina. Memorabile esempio di quanto danno possano essere dappersesoli cagione, quegl'inevitabili difetti d'una truppa regolare, di fresco ordinata, lo possiamo nella storia di quella tanto maltrattata nazione rinvenire, la quale come chè governata da un'oppressiva aristocrazia, e da uno spirito [1-114] cavalleresco guidata, se non insensato, almeno per la libertà della patria inutile, nondimeno quelle robuste virtù possedeva, che ognuno de' suoi cittadini degno di vivere in uno stato libero qualificavano, vogliam dire, della Polonia, che nel 1794 si levò in massa, e per otto intieri mesi, contro la forza colossale delle tre potenze alleate, Russia, Prussia, ed Austria, che al loro solito conculcando quei dritti, che sempre per loro invocano, e non mai negli altri rispettano, l'avevano invasa, divisa, e con mano ferrea l'opprimevano, fece maravigliosa resistenza. Avrebbe certamente questa opposizione di tutto il popolo concorde, avuta una favorevole riescita, se contentandosi di andar per le lunghe, si fosse in tante bande separate messa in campo, le quali cogliendo tutte le occasioni di danneggiare il nemico al sicuro, ajutate dalla cooperazione degli abitanti della città, avessero i nemici ridotti a non essere padroni che del terreno dalle proprie persone occupato, senza all'esito di una battaglia, la somma delle cose avventurare. Ma per lo contrario, dal mai sempre illustre e celebrato Kosciutzcko capitanati, vollero a Macieiovice, (ove valorosamente con rabbia e furore combatterono), il tutto mettere all'incerta sorte di un combattimento decisivo; [1-115] e compiutamente sconfitti, Kosciutzcko ferito e prigioniero, dovettero per tale imprudente determinazione, piegare il collo a quel triplice giogo, contro il quale, erasi tutta la nazione con mirabile entusiasmo levata in armi; sconfitta, che ancora in oggi amaramente piange la Polonia, e ne prova giornalmente le funeste conseguenze. E se poi alla guerra della independenza spagnuola volgiamo l'occhio, con tanta energia da quel popolo infiammato dall'amore di patria sostenuta, noi vedremo i suoi generali, sebbene vecchi ed esperimentati militari, alla testa di soldati che individualmente già con molto onore, si erano varie volte in guerra trovati, ardenti per la difesa del paese e dell'onore nazionale insultato, aver non dimeno nel corso di sei anni di guerra la disgrazia di essere in dieci battaglie campali sconfitti, le quali rotte avrebbero interamente dato all'invasore il libero possesso della Spagna, se quel popolo generoso, e forte, i mali della sempre vergognosa, e nocevole occupazione straniera, come le inevitabili conseguenze della guerra, avesse vilmente considerati, e si fosse come certe altre nazioni, e con ispezialità alcune parti dell'Italia, a quelle sottomesso; anzicchè, come fece, animato dall'odio, ed irritazione costante, insorgere, e mettersi in campo per bande [1-116] valorosamente decisamente: dopo aver in olocausto alla libertà del paese, molti di quei generali offerto, che o per paura, o per ignoranza, o per tradimento all'orlo del precipizio condotto lo avevano. Per la qualcosa appena fuvvi una grande città in Ispagna nella quale non sia stato un qualche vecchio generale tagliato a pezzi, o strascinato per le contrade dal popolo arrabbiato; un Cevallos in Vagliadolid, un Saavedra in Valenza, etc.; furono fors'anche innocenti, ma necessarie vittime del furor nazionale. Egli è doloroso il dirlo, ma quelle azioni atroci le prime cagioni furono della determinazione del popolo a mettersi in bande, poichè lo misero quelle stesse in una pericolosa posizione, e quel sentimento di rabbiosa pertinacia gl'infusero, che unita all'energia, ed alla simulazione, creò ed alimentò i mezzi onde venire del gran progetto di sottrarsi al vergognoso dominio de' suoi vicini gloriosamente a capo. Finalmente una valevole riprova, di quanto agli eserciti di fresco riuniti, sia difficile, a quelli, che da lungo tempo militano assieme, far testa; deve per noi essere quella famosa battaglia di Waterloo, che in un istante della sorte della Francia decise. Noi in quella vediamo le stesse truppe francesi, comandate dagli stessi valorosi generali, che avevano [1-117] in quasi ogni parte d'Europa a portato il terrore, o si potevano con giustizia, come eccellenti maestri di guerra riputare, in quella tattica da loro perfezionata, sotto il fuoco del nemico profondamente periti, al quale furono sempre superiori, ogniqualvolta con quella sola, senza il soccorso degli elementi, o dei popoli insorti a loro danno, Buonaparte di batterli pretendeva. Noi vediamo dunque siffatte truppe, sotto tale comando, mettersi nondimanco precipitosamente in fuga, quando sorprese da un timor panico, credettero che i quattro battaglioni i quali attaccarono la posizione vicina al villaggio di Mont-S^t-Jean fossero rotti, ciò che per verità ne aveva tutta l'apparenza, atteso il numero considerevole di feriti, che per farsi medicare al retroguardo, le loro file abbandonavano; alla qual vista tutta la truppa sbandatasi, aprì in quel modo le porte della capitale della Francia, allo straniero che essa abborriva, e alla dura legge che a lui piacque dettarle, con estraordinaria quietudine si sottomise. Molti scrittori militari, e politici si perdono in congetture sulle vere cagioni, che possono quel funesto avvenimento aver prodotto, gli uni al tradimento dei generali, altri a sbagli, e mala direzione di Napoleone lo attribuirono; noi ben crediamo, che abbia in qualche [1-118] modo il tradimento influito, ma non però all'intiera dissoluzione dell'esercito; massimamente che il tradimento tuttavia non è interamente provato, poichè in un paese dove la stampa è libera, e dove l'onore militare in prima così puro, e brillante, ebbe una tanta sozza macchia, si sarebbe certamente chi montasse in bigoncia rinvenuto, e la prava condotta di quell'infame, che per una sua vile particolare utilità, sacrificò la nazione, al mondo intero palesasse, onde lo scorno di quella disfatta in tal modo, se non togliere, almeno scemare. Ma nessuno finora, fece quel gran segreto abbastanza chiaramente palese; molti lo lasciano travedere, ma scorgonsi da considerazioni personali trattenuti, epperciò, che il tradimento la principale cagione sia della rotta non puossi in coscienza conchiudere; perciocchè attribuire al tradimento una catastrofe così importante pell'Europa, e quello non bene spiegare, e chiaramente provare, lo stesso sarebbe, come se il destino si calunniasse; male si appongono coloro, che alla cattiva direzione di Napoleone l'attribuiscono, perchè tutti i migliori tattici vanno nell'asserire d'accordo, che meglio di quello che fù non poteva essere stata diretta, e che le male disposizioni erano realmente quelle date dal generale inglese, che fù quindi [1-119] egli stesso abbastanza giusto, per commendare il talento dimostrato dal capitano avversario non meno, che la precisione dei movimenti, e la giustezza delle operazioni, a che dunque dovrassi questa terribile disfatta principalmente attribuire, se non a quel difetto inerente a tutti gli eserciti, quantunque composti di truppe vecchie ed agguerrite, in fretta riunite ed ordinate? A quell'oscillazione propria dei battaglioni, composti di soldati, che ancor bene non si conoscono? a quella mancanza, come già abbiam detto, di reciproca confidenza, frà le unità componenti le masse, e di queste fra di loro, qualità bastevole da se sola per dar la vittoria, e che da altro se non da una lunga abitudine di trovarsi assieme nei pericoli, nelle sofferenze e nei piaceri, non puossi acquistare? Se la Francia avesse seguito quel consiglio datole in un proclama da Napoleone stesso, cioè di seguir l'esempio degli Spagnuoli, che a lei per modello proponeva non meno, che a tutti quei popoli, che dell'independenza, e libertà del loro paese fossero desiderosi, e se si fosse levata in massa, per bande, non avrebbe dovuto al pagamento di quell'esorbitante multa soggiacere, ed all'abborrito dominio de' Borboni, portati sulla punta delle bajonette straniere, che per due volte, a suo [1-120] malgrado, fu costretta di ricevere e quai padroni obbedire, non avrebbe certamente dovuto con pazienza sottomettersi.

A noi pare di aver con sufficiente evidenza provato, non doversi immediatamente dopo l'insurrezione, una battaglia commettere; e che quandanche porre si volessero gli esposti pericoli in non cale, non sarebbe in Italia per la sua situazione politica, di riunire un esercito regolare, per far testa a quello già esistente dei nemici, possibile; ed esser perciò cosa necessaria, che gl'Italiani abbiano a quella guerra leggiera ricorso, che la Spagna dall'invasione francese di già liberò, ed il risultamento della quale non può essere dubbio, quando tutta, o gran parte della nazione sia a quella santissima impresa concorrente, contando venti milioni d'abitanti, sopra un territorio fertile, circondati da mari e monti, e da quest'ultimi pure attraversata; la nazione in generale pensi non solamente bene, ed in favore della guerra, ma sia fermamente, ed ostinatamente, a voler venire ai fatti disposta, (solo modo di lavare le sue onte col sangue di quei vili che da tanto tempo la malmenano), inoltre non cessi di costantemente, con un sistema fisso, ed invariabile operare, ed allora qualsivoglia nemico l'assalisca, mai non potrà essere quella [1-121] nazione superata. Quando per mezzo di quel sistema delle bande, che debbonsi progressivamente estendere, ed aumentare, renderassi generale il fuoco, allora, tutte le nazionali energie si spiegheranno; tutte le opinioni saranno allo stesso scopo dirette; tutte le azioni al gran progetto concorreranno, ed a quell'insensato nemico, che di trionfare si lusingasse, altra sorte non rimarrebbe, che di perir con vergogna.

Dai computi statistici communi ben si sà, che quando una intiera nazione vuole mettersi in campo, può sopra il venti per cento di cittadini abili alla guerra, e capaci di sostenere le fatiche, fondatamente calcolare; dal quale computo si trovano le donne, i vecchi, i fanciulli, gli infermicci, ed i malconformati, dedotti, dai quali tutti, in una guerra come questa, si può una valevole, ed efficace cooperazione benanche sperare. Ben puossi da tal calcolo agevolmente vedere, che dai venti milioni d'Italiani, se ne potrebbero quattro milioni, robusti, forti, ed abili a combattere, con successo, senza grave difficoltà estrarre. Ora noi vogliamo, che la metà e intiera di questa immensa somma si deduca, nella quale sia la porzione d'Italiani, che forse parteggierà pell'avversario compresa, non meno, che gl'indifferenti [1-122] ed egoisti, i lenoni, ed istrioni, tutta gente, in rivoluzione anzi nocevole, che vantaggiosa: numero da noi creduto, anzi esagerato, che no, perchè difficilmente, uno potrà darsi a credere, che due milioni di persone atte a guerreggiare, nate in Italia, sopportino senza risentirsene e cercarne vendetta, lo scorno della patria, ed anzi una parte di loro per tenerla derelitta in servitù dello straniero, si sforzi! Nondimeno essendo una cosa dubbia, crediamo, aumentando le probabilità contrarie e le cose nel loro più brutto aspetto ponendo, poter con più certezza calcolare, ed i leggitori persuadere. Rimangono ciò non pertanto, ancora due milioni di cittadini, che giovani, robusti, ed arditi, sparsi in tante piccole bande sulla superficie della penisola, armati, e decisi, delle gole, dei gioghi, delle forre, colline, serre, e montagne, delle vette, degli stretti, e dei passaggi dei fiumi, destramente s'impadroniranno, e quando più sicuro si crederà il nemico, di tenergli, sempre dalle sue mani guizzando, ora in fianco apparendogli, ora alle spalle, lo atterriranno, abbatteranno, sposseranno, ed alla fine distruggeranno.

E dove si potrà un esercito nemico rinvenire, per battere due milioni di combattenti decisi, quand'anche tutte le potenze europee, [1-123] a danno d'Italia si collegassero? Come muoverebbero, come pagherebbero un formidabile esercito, capace di sconfiggere due milioni di virtuosi che per le loro case, le loro famiglie combattono? Il nostro, per lo contrario, sparso in bande, si muove, si sostiene, e riesce con certezza: il suo mantenimento non costa, perchè il cittadino armato, che nelle vicinanze della sua casa guerreggia, paga, non esige alcuna provisione, ma da se stesso mantiensi, e col bottino fatto sul nemico: ma un esercito straniero, come abbiam detto, numeroso, per battere due milioni di combattenti, non si può muovere, nè pagare. Ci si dirà che alle volte succede, che uno maggiore, viene da un minore battuto, e noi conveniamo in questo; ma il nostro non è un esercito, sono bensì nella guerra migliaja di piccoli eserciti, è un'intiera nazione di venti milioni decisa, di qualunque nemico, che voglia occupare il suo paese respingere, da quello che finora la maltrattò, prendere terribile vendetta; e se quella nazione sarà ben diretta, non v'ha chi possa superarla.

«La guerra, dice il conte di Bonneval, è un'arte delle più difficili, per farla con successo, il coraggio, l'intrepidità non bastano; è d'uopo il metodo, e se questo manca, abbenchè si possono avere delle truppe numerose e valenti, [1-124] è impossibile di vincere. Il loro numero, il loro valore, non servirebbero, che a moltiplicare le perdite.» Persuasi noi dunque della decisione, della forza fisica, e morale, della capacità degl'Italiani, non meno, che del loro coraggio; persuasi che altro loro non manca, se non il grido all'armi per dar ad una generale insurrezione fausto principio, noi proposto ci siamo il vero metodo loro indicare, per giungere alla compiuta vittoria. Tostochè tutti eseguiscano ed in ogni benchè minuta sua parte s'uniformino ai precetti che nei seguenti capitoli, saremo per esporre; con questo metodo gl'inconvenienti, che possano provenire dalla superiorità della tattica del nemico, eviteransi, supplire si potrà alla mancanza di mezzi, e non solo uguale, ma superiore all'avversario diverrassi. Affatto indipendente dalle necessità delle guerre regolari, questo nostro sistema, vince, senza venire all'urto; più in marcie e movimenti consiste, che in attacchi, e difese, non abbisogna di una forte, e fissa base d'operazioni per agire, e l'oggetto a che aspira, può compiutamente, e con somma immortal gloria ottenere.

[1-125]

CAPITOLO VI. INDOLE E QUALITÀ ESSENZIALI DI QUESTA GUERRA.

Una qualsivoglia guerra nella quale pell'onore, o pel vantaggio di tutti, o della maggior parte dei cittadini si combatta, tanto per difendersi da un'ingiusta invasione, quanto, per un nemico assalire, il cui procedere sia stato ingiurioso alla nazione, di nocumento a suoi interessi, o venga da quello la sua esistenza, o la sua tranquillità in pericolo posta, siccome tutti, o la maggior parte degl'individui del paese concerne, sempre esser deve come guerra nazionale, stimata. Può tal guerra, sì bene sotto un tiranno, come in uno stato libero avvenire; ma senza dubbio, quando ha per iscopo di soddisfare i capricci di un despota; appoggiare le disposizioni d'un conquistatore, acciò le ingorde sue brame soddisfaccia; sostenere un usurpatore della roba, e stati altrui, e così via discorrendo, ogniqualvolta si tratta di combattere pel vantaggio d'un solo, separato da quello della nazione, l'oggetto cambia.

La guerra di Agatocle, tiranno di Siracusa contro i Cartaginesi, avvegnacchè fosse la sua [1-126] persona da tutti i sudditi odiatissima, era con tutto ciò, tanto rispettivamente alla difesa interna come all'invasione del territorio di Cartagine, nazionale; poichè tutti i Siracusani assai più l'occupazione straniera, della tirannia d'un paesano per cattivo, perfido, e violento che fosse, temevano, siccome d'assai minore nocumento, obbrobrio, primieramente, perchè meno all'onore nazionale ripugna, che il danno per opera d'uno dello stesso paese, e non per violenza esterna provenga, e cresca. E certamente sempre un gran male la tirannide, qualunquesiasi, ma la straniera seco maggior vergogna apporta, ed è insopportabile il suo peso; secondariamente, perchè, il prodotto delle rapine, sempre sotto il tiranno abbondevoli, se avviene, che sia quegli della stessa nazione, nel proprio stato consumerà, ma se straniero, tutti i tesori, alla sua capitale, vorrà senza dubbio spedire. Di ciò, un recente esempio ci viene in acconcio dall'Italia offerto; quando Buonaparte, alla testa dell'esercito francese, venne a spartitamente, in republica costituirla, e che poscia ad una metà della nazione di credersi francese, e per imperatore riconoscerlo, comandò, ed all'altra permise di essere Italiana, purchè come a suo re di sottoporle si consentisse; a Parigi, l'intero prodotto dei saccheggi, e devastazioni, [1-127] dei tempj di ricchissime suppellettili in grandissima copia doviziosi, spediva; e dallo spoglio dei palazzi, e pubblici musei, i capi d'opera delle belle arti, che attestano il genio italiano, ben futili ma soli monumenti della sua gloria presente, mandava ad ornare le gallerie di quella capitale. In terzo luogo, debbe avvertirsi che un tiranno della propria nazione, circondato da gente del paese, e non come lo straniero da stranieri, esser potrà più agevolmente cacciato dal mondo, perchè sarà cosa assai più probabile, che quei schiavi da lui beneficati, che gli servono di braccio, d'essere oppressori secondarj de loro connazionali vadano un giorno vergognosi, e diano luogo nel loro cuore a sentimenti più giusti e più umani, di quanto si possa da stranieri sperare, che l'amor della loro patria, a far del male alla nostra, di continuo sospigne; epperciò i primi potrebbero un giorno alla nazione contro il tiranno accostarsi, ed in punto lo stato delle cose cambiare; ma gli stranieri mai, perchè difendendo la persona del tiranno, pure la lor propria causa sostengono. Finalmente, almeno gli schiavi beneficati, essendo del proprio paese, il prodotto dei benefizj si spande ai loro parenti, ed amici, e tuttavolta alcun poco, ai buoni toccare ne può; ma per lo contrario, sebbene [1-128] lo straniero alcuni natii, in posti secondarj, impieghi, avrà sempre gran cura, che i principali e la maggior parte sieno da' suoi ligj paesani, occupati. Ed è per questa cagione, che i Siracusani ancorchè cordialmente il tiranno Agatocle avessero in abborrimento, non pertanto contro i Cartaginesi lo seguirono, ed ajutarono. Altri esempi di guerra nazionale sotto il tiranno, offertici dalla storia moderna, quelli sono della Russia, della Prussia e dell'Alamagna contro l'impero francese, che qual colosso sopra loro piombando di annichilarle minacciava; e benchè fosse a tutti ben noto, le leggi, ed il modo illuminato di governare di quell'invasore, essere di gran lunga migliore di quello dei tiranni antichi, pur nondimeno, l'offeso amor proprio nazionale, il timore dell'annichilamento dello stato d'independenza, e dell'insopportabile, e vituperevole dominio straniero, portò tutte le unità isolate, ad unirsi al loro tiranno, per combattere l'aggressore.

Le stravaganti imprese di Alessandro, (detto il grande) le sue spedizioni in Persia, e nelle Indie, la sua pazzia, di attraversare le arenose pianure della Libia, per quindi con grande spesa il titolo di figlio di Giove Ammone portarsi a comprare, ed esporre in quel modo il suo esercito al rischio di perire di sete, e di [1-129] fatica, ed al suo nemico dar tempo di radunare nuove truppe, non furono certamente in nessun modo nazionali, come neppure lo furono le conquiste di Carlo XII, re di Svezia, grande suo imitatore, che per saziare la smisurata sua ambizione, onde rapire i regni altrui, ostinatamente arrabattavasi, senza delle migliori sue provincie, e del vantaggio di suoi sudditi curarsi, che iniquamente tiranneggiò, quando avrebbe potuto con gloria immortale nel godimento di quella libertà rimetterli da Carlo XI conculcata, alla quale, nemmen dopo la famosa giornata di Pultava, nella deserta provincia dell'Ucraina, dove lo Czar Pietro, quel pazzo conquistatore sconfisse, ma dopo la sua morte, alla successione al regno della principessa Ulrica, non fù dato di risorgere. E parlando di quell'epoca per la Svezia, sì avventurosa; saranno sempre da coloro, che hanno in pregio la libertà, con venerazione ed amore, gl'illustri nomi dei Bibing, Horn, Ferfch e Creutz, rammentati, che colsero alla morte di Carlo la favorevole occasione di richiamare in vigore la calpestata libertà del loro paese. Tutte le guerre, che dai governi costituzionali s'imprendano, sono per l'ordinario, od almeno esser dovrebbero giuste, e nazionali, perchè siccome nei rappresentanti del popolo [1-130] la facoltà di accordare, o negare il danaro necessario per intraprenderle, risiede; non pare possibile, a chi da onest'uomo la pensa, che quelli esser possano così sciocchi, vili, o malvagi di poter a sangue freddo la vita, e le sostanze dei loro committenti, ad un mero capriccio, od al solo vantaggio di famiglia del re, che siede in trono, sagrificare. Eppure, come che cosa da non credersi apparir possa, viddimo non dimanco la Francia, nel 1825, muovere una guerra ingiusta; sacrilega, vergognosa, e contraria al ben essere del popolo francese, contro l'infelice Spagna, che nessun motivo le avea dato, di nessun danno la minacciava, e che di potersene stare tranquilla, e quel sistema che doveva renderla un giorno prospera, e fortunata, raffermare si contentava. Pertanto onde sul trono di Francia, la famiglia Borbone assodare, creò in quella guerra, un esercito per sostenerla contro l'odio del popolo, che minaccioso giustamente la detesta. Offensive o difensive le guerre dalle republiche, mosse, sono sempre nazionali, per le stesse ragioni rispetto a governi costituzionali addotte, e non correndosi in quei governi il pericolo, che possa il re col raggiro, e la seduzione, una parte maggiore dei rappresentanti corrompere, ed i fondi necessarj ottenere, onde [1-131] una guerra opposta all'utilità della patria muovere, e sostenere, poca differenza passa fra la guerra per capricci d'un tiranno, e quella per vantaggio della nazione, intrapresa dagli eserciti regolari, nella maniera di menarla, perciocchè solo nella cagione, ma non nei mezzi differisce; salvochè nel secondo caso, ciascun individuo di agire pel proprio vantaggio essendo conscio, spiega una maggior energia, il generale trova più risorse alla sua disposizione, e più facile la vittoria. Avendo cosa s'intenda per guerra nazionale, accennato, e come possa puranche sotto il tiranno accadere; passeremo a quella d'insurrezione che l'oggetto principale forma del nostro trattato.

Gli uomini fino ad un tal punto, solamente sono docili, il quale non puossi, senza rovinare, da chi gli domina trascorrere. Cedono, ma d'essere avviliti non comportano, nè che alla lunga della loro condiscendenza si abusi, consentono; possono bensì i popoli avvolti tra le caligini degli errori, essere per qualche tempo, dalle fraudi dei raggiratori, ingannati, ma non mai potransi del tutto abbacinare; tostocchè del laccio che tengono al collo, pervengono ad accorgersi, se ne sdegnano, desiderano un cambiamento, ed aspettano, che senza scossa, o grave incommodo la fortuna [1-132] glielo porti; ma colma finalmente la misura della loro pazienza, viene, dall'oppressione il cieco furore ingenerato, scoppia in allora ferocemente l'insurrezione, la forza s'oppone alla forza e riceve la tirannica violenza il meritato castigo; abbenchè un popolo insorgente, si trovi al primo tratto della riotta, di stretti, e scarsi mezzi d'aggressione, nulladimeno lo spirito, il cuore, l'anima energica, e pertinace possede, se da nobili sentimenti è infervorato, forza capace, al mondo, di sottometterlo non esiste; non andrà da rovesci parziali esente, ma gli stessi trionfi, e vittorie de' suoi nemici gl'insegneranno la disciplina, e gl'infonderanno un tale spirito cittadino, una tale virtuosa alacrità, che alla perfine il trabocco sarà de' suoi oppressori. Un popolo dalla speranza di formarsi in nazione unita, dall'independenza, e dalla libertà esaltato, che alla ferma volontà di acquistarle, unisca una risoluta costanza nella presa determinazione, è certo della vittoria, egli è invincibile. La difesa della Grecia contro l'invasione di Serse, la salvazione del Campidoglio quasi distrutto dai Galli, la rovina delle possenti arme d'Annibale, ci danno a divedere, che sebbene sia molte volte la vittoria dono della fortuna, tardi o tosto è poi sempre il certo guiderdone della costanza.

[1-133] L'indole di questa guerra, è terribile, perchè ordinariamente in conseguenza della disperazione s'intraprende, a che, o da un occupatore straniero o dalla tirannia domestica, trovasi un popolo duramente astretto. Epperciò debbono tutte le forze individuali in qualunque siasi modo, affine di annichilare il nemico, essere messe vigorosamente in azione, e tutte le così dette leggi della guerra, cessano all'istante, che scoppia l'insurrezione. Ottenere lo scopo, ecco la sola sua legge; tutti sacrosanti saranno i mezzi a ciò adoperati, purchè sieno solamente a quello diretti; e precisamente i procedimenti come barbari, nelle guerre regolari, riprovati, debbono per atterrire, spaventare, distruggere il nemico, e liberare la patria, essere di preferenza messi in uso. Questa guerra fu quella, che l'esercito di Crasso, distrusse; che fece sotto Augusto le romane legioni comandate da Varo, tutte in Germania perire; che anticamente la Spagna liberò dall'occupazione dei Mori; e che nell'invasione di Buonaparte, seppellì, al dir del signor Lemiere de Corvey, otto cento mila Francesi, padroni di quasi tutte le piazze forti, città, e territorio spagnuolo, e di quelle agguerrite legioni vincitrici di poco meno, che dell'intera Europa, la rese vittoriosa! Questa gli Svizzeri [1-134] dal mai sempre odioso, ed insopportabile giogo della casa d'Austria, sottrasse; le Fiandre dal gravoso dominio del possente Filippo secondo, servì a digiogare, e finalmente rese gli Americani dalla schiavitù britannica liberi, ed independenti. Non ebbero per lo più questi popoli a fare che con lo straniero; ma l'Italia nella sua situazione d'oggidì, convien pure che faccia una guerra complicata contro lo straniero, che l'opprime, in parte colla presenza, ed in parte coll'influenza; è d'uopo farla ben anche contro i tiranni, che sotto la sua malefica direzione agiscono, ed altro che satrapi dell'Austria in realtà non sono; e siccome quelli, coi danari, impieghi, ed il prestigio de' titoli, che sebbene di poco valore, non cessano però di agire sulla mente dei deboli, e degli sciocchi, hanno un partito devoto al sostegno della loro tirannia, (ai minimi termini però in Italia ridotto) d'uopo a questa sarà di quale straniero esterminarlo; poichè solo con la intiera, ed immediata distruzione dei Tedeschi, e dei principi che le varie parti separate d'Italia tiranneggiano, e del loro partito, potrà con ragione sperare di stabilmente, l'unione di tutte quelle in un corpo solo operare, ed avere independenza, e libertà.

Guerra complicatissima e piena di pericoli, [1-135] e difficoltà, questa si è certamente; esige per conseguenza da chi l'imprenda, una costanza alla prova, ma da un assai maggiore compenso di gloria, e di stabile felicità, sarà il cittadino vincitore, guiderdonato; epperciò solamente da malvagi, effeminati, ed imbecilli verrà la vergogna, e l'avvilimento, alla gloria, e ben essere che da quella ne ridondano preferito. La massa dunque di quegl'Italiani, che non sono malvagi, nè effeminati, nè imbecilli, che noi portiamo opinione sia la più forte (se non in numero, certamente in qualità energiche, e sublimi), in questa santissima guerra concorrerà, e non solo renderà certa la vittoria, che quando fermamente si voglia, non può mancare, ma di molto ne abbrevierà la durata; poichè dal concorso di tutti, s'aumenta l'energia, e la forza, e quando questa ben diretta, sebbene sparsa, maggiore di quella del nemico diventi, non v'ha dubbio, non sia quegli per essere, ad irrevocabilmente soggiacere, costretto.

L'amor di patria, l'attività, e l'ostinazione, sono qualità essenziali, non meno della guerra d'insurrezione per bande, sostenitrici, che il certo veicolo della vittoria.

Ed infatti, tante sono le difficoltà, e contrarietà, che in questa guerra s'incontrano, [1-136] tanti sono i generi di seduzioni praticati; tanto belle, lusinghiere e vantaggiose sono le segrete proposizioni fatte dal nemico; che se il più ardente, e purissimo amor di patria non n'è il solo, e principale motore, qualunque altro potesse essere, farebbe l'umana fragilità, il cuore de' guerrieri, che combattono, vacillare, e perdere di vista lo scopo. Se l'amor di patria, mancasse, oppure si trovasse debole, caderebbe per necessaria conseguenza, l'attività, che da quello riceve l'impulso, e quindi eziandio la sempre incommoda ostinazione, che un animo forte, ed una mente ferma esige, alle dolcezze offerte, e facilitate dal nemico, calcitrante, per dar la preferenza ai disagi, e patimenti, che senza interruzione si succedono, ma cui dal lungo sopportamento, solo può derivar la vittoria. L'attività, e l'ostinazione sono i due principali mortiferi veleni, che debbono gradatamente l'avversario spossare, il suo corpo colossale, di giorno, in giorno estenuando, in una compiuta astenia portare, onde poterlo, quando indebolito, non possa più far resistenza, facilmente annientare; l'antidoto di questo veleno, sarebbe per parte nostra il riposo, con la pessima aggiunta, che quella morte da noi destinatagli, ci cagionerebbe. L'attività dev'essere [1-137] ben regolata, in modo, che non sia mai inutile, ed in uno sregolato furore non degeneri, perciocchè quegli è il principale agente distruttivo della pertinacia, che a qualsivoglia sinistro, o favorevole avvenimento imperturbabile, al riposo del pari, ed alla disperazione, opposta, alle fraudolenti concessioni del nemico, incontentabile, non ha essa in mira che l'intera, e perfetta distruzione sua, e nè il terrore, nè le lusinghe, nè le sofferenze possono di giungere al fine, che si è proposta, porre impedimento, dal quale nulla è capace, che la sola morte di farla traviare.

Derivazioni delle sopra espresse qualità, non meno necessarie alla guerra d'insurrezione, sono senza dubbio la prudenza, il vigore, e la previdenza, che aprono la via, e nel retto sentiero, il cittadino insorto per la liberazione della sua patria, guidano, e fangli scorta.

La prudenza lo induce al calcolo delle sue forze, di quelle del nemico, del tempo opportuno ad un attacco, e dei mezzi atti ad assicurare la vittoria. Il vigore lo sostiene nell'incalzare il nemico, e tanto molestarlo, che debba la parte avversa per forza cadere, la previdenza gli mette anticipatamente sott'occhio, le operazioni future del nemico istesso, i mezzi di profittarne, o almeno renderle nulle, di mettersi al sicuro, di [1-138] evitare un'azione in che possa esservi il dubbio di non essergli superiore, non meno, che di torcere la felice opportunità, di far temporeggiare l'avversario in suo prò, onde condurlo alla lunga ad un breve e debole combattimento.

Dal complesso di quelle qualità, in grado eminente dal senato romano, e più specialmente ancora dal dittatore Fabio Massimo possedute, fù alla republica di Roma nell'imminente pericolo di esser soggiogata da Annibale, nel più grave della sua esistenza, aperto alla salvezza, lo scampo. Quelle parimenti resero l'immortale Gustavo Vasa, capace di riunire i Dalecarliani a danno del Clero, e dei Danesi, che la sua patria opprimevano, col qual mezzo riportò la vittoria, ambi quegl'acerrimi nemici compiutamente distrusse e la libertà in Isvezia sodamente fermò. Nei monti della Svizzera, al principiare del XIV. Secolo, i cantoni d'Uri, di Schwitz e d'Underwald, i primi che lo stendardo della libertà contro la potenza austriaca spiegarono; non avrebbero riescito, se quelle virtuose qualità fossero in loro state scarse, o mancanti. Lasciati soli per lo spazio di otto intieri anni dagli altri cantoni, da tutti abbandonati, senza altre risorse, che la loro decisione ostinata, non dimeno sempre evitando di venire ad una battaglia, finattantochè [1-139] non si conobbero all'armi bene ammaestrati, contro i loro tiranni si sostennero, e quindi dopo quegli otto anni di continua scuola in scaramuccie, in che avevano a disprezzare il nemico imparato, la tanto memorabile, e gloriosa battaglia di Morgarten presentarongli, nella quale una compiuta vittoria riportarono, e stabilirono la libertà del loro paese. Alla fama di questa gloriosa giornata da pochi montanari male armati, e sofferenti ogni sorta di privazioni, brillantemente affrontata, e vinta contro un nemico in numero eccessivamente superiore, ed un esercito agguerrito, e ben disciplinato, di tutto il bisognevole, provveduto; il mondo intero applaudì, ed immediatamente dopo, a quei tre non mai abbastanza commendati cantoni, quei di Lucerna, e Zurigo, si aggiunsero, e quindi Glaris, Zug, e Berna il loro esempio seguirono. Ecco dunque dall'amor di patria, attività ed ostinazione di tre piccoli cantoni, gli Austriaci con infamia da quel paese, che non era il loro, scacciati, e la libertà e l'independenza di tutta la Svizzera, con fortissime radici, piantate. Furono puranche quelle virtuose qualità compartimento del principe di Oranges, Guglielmo primo, di quell'eroe, che contro il governo del feroce Filippo secondo, rivoltatosi, capitanò con felice successo [1-140] il popolo, all'acquisto, e stabilimento della libertà ne' Paesi Bassi. Delle loro diciesette provincie, solo sette, lo stendardo dell'unione e libertà inalberarono; e non solo, senza il concorso delle altre dieci, ma contro di esse, perchè, sebbene per forza, contro delle sette agivano. Nove anni senza interruzione, sole contro la colossale possanza della Spagna di quei tempi lottarono, finchè poi, il ducato di Gheldria, il contado di Olanda, e di Zelanda, e le signorie di Uttreht, di Frisa, di Over-Issel, e di Groninga, conosciute di poi sotto il nome di Provincie-Unite, il loro trattato di unione, ai 23 gennajo 1579, di commun accordo firmarono.

Per non riandare esempi di molto da nostri tempi, distanti, non abbiamo che a volger l'occhio all'America, e vedremo, queste virtuose qualità nell'immortale Washington, e negli Americani sotto la sua direzione brillantemente risplendere nella lunga lotta sostenuta contro gl'Inglesi, ed alla quale finalmente dovettero il conseguimento della loro independenza, e libertà. Ma che non dovettero quei prodi sofferire, onde a quel felice istante arrivare? Ecco quanto da Carlo Botta viene in proposito riferito, al libro ottavo, pag. 159, della storia di quella guerra: «Non solo si penuriava di vettovaglie, che anzi in tutti gli [1-141] altri servigi della guerra si provava un'estrema scarsezza o piuttosto carestìa di tutte le cose. Mancavano soprattutto le vestimenta tanto necessarie alla sanità, ed alla elevazion d'animo de' soldati, i quali laceri, e nudi creduti gli avresti piuttosto altrettanti paltoni che difenditori di una patria generosa. Pochi avevano una camicia, molti metà di una, la maggior parte, nessuna. Molti, per difetto di calzamento, portavano nudi i piedi sulla gelata terra. Coltri per la notte, poche se ne avevano, o nessuna. Quindi è che molti ammalavano. Altri in buon numero, inabili per freddo, o per la nudità ad alcuna militare fazione, per consentimento de' capitani, se ne astenevano, i quali o gli lasciavano stare, senza che ne uscissero mai, o nelle capanne, o nelle più vicine masserie, gli collocavano. Poco meno di tremila soldati si trovavano in tal modo per l'inclemenza della stagione, e per la miseria del vestito, affatto incapaci a potere il debito loro operare.» Ed alla pag. 161 dello stesso libro: «Nè solo si travagliava per le cose sovradette, ma ancora per la carestìa degli strami. I soldati rotti dalle fatiche, infievoliti dalla fame, aggrezzati dal freddo nelle fazioni loro diurne, e notturne, avevano nelle capanne in vece di letto la nuda ed umida terra.» Ed infine alla pag. 164 susseguente: [1-142] «E certamente nessuna cosa si potrebbe ai disagi, che l'esercito Americano ebbe a provare durante quest'inverno, equiparare, fuori della pazienza e della costanza pressochè sovrumane, colle quali gli sopportarono. Non è però, che molti disertando le insegne, non si conducessero, in questo, spalleggiati dagli amici del re, all'esercito britannico in Filadelfia. Ma erano questi per lo più Europei, i quali si erano posti ai soldi dell'America. I natii con egregio esempio di bontà cittadina, e forse ancora per la venerazione grandissima, ed amore, che al capitano generale portavano, si mantennero perseveranti; ed amarono meglio far dura con gli estremi della fame e del freddo, che mancar in sì pericoloso frangente della data fede alla patria loro. A ciò anche contribuì non poco la costanza dei capi dell'esercito, i quali tollerarono in sè medesimi con allegro animo tutte le fatiche; e tutta la strettezza del vivere in cui erano ridotti.» E di qual ostinazione non ebbe duopo, quel modello degli eroi della libertà, l'immortale Washington, per mantenersi saldo in mezzo a tante contrarietà che minacciavano la sua rovina! Il succitato autore così si spiega alla pag. 174 a questo riguardo: «Ma Washington, al quale tutte le narrate pratiche non [1-143] erano ascose, non solo non se ne sgomentava, ma non se ne alterava; e non che si mettesse in mal umore contro la sua patria, siccome sogliono fare in simili casi gli uomini o deboli di mente, od ambiziosi, nulla rimetteva del suo zelo nel far ciò ch'egli credeva al debito suo appartenersi. Certamente mostrossi in quest'occorrenza molto vincitore di sè medesimo, e diè prova di animo temperato e constante. Si trovava egli in mezzo ad uno esercito perdente, penurioso d'ogni bene, afflitto dalla presente fame. Risplendeva nel medesimo tempo Gates, per la fresca vittoria, e per l'antica fama della militare sperienza, i diarj publici lo laceravano, le lettere anonime lo accusavano, i Pensilvanesi nelle lettere publiche acerbamente il riprendevano, i Mussaciuttessi gli puntavano addosso, il congresso stesso nicchiava e pareva lo volesse digradare. In tanto impeto dell'avversa fortuna conservava egli non solo la stabilità, ma ancora la serenità della mente sua, e pareva, che tuttavia interamente della patria, nè punto di sè stesso, fosse sollecito.»

Furono queste virtuose qualità puranche risplendenti nella condotta di Mina, l'Empecinado, e Palarca, non meno, che in quella dei tanti distinti condottieri di bande, che da maggio dell'anno 1808, fino ad ottobre del 1814, [1-144] senza governo stabilito, con pochi ajuti, e privi quasi affatto di mezzi, non rallentarono mai il corso delle loro energiche operazioni contro gl'invasori della Spagna e con maravigliosa pervicacia pervennero a scacciarli dal territorio, ed una gran parte distruggere.

I popoli dell'America meridionale, guidati dall'illustre Bolivar non meno, che i Greci nella lunga, e sanguinosa lotta contro i loro oppressori, ci provano queste necessarie qualità, essere loro peculiari.

Per lo contrario, la mancanza o debolezza delle indispensabili surriferite qualità, sarebbe per se stessa capace di far andare l'operazione la meglio calcolata a soqquadro, ed in tal modo molti anni di fatiche e ben ponderate combinazioni, in nulla non men, che in danno tornare.

Minuzio maestro de' cavalli di Fabio Massimo, per mancanza di ostinazione a seguire quella guerra lenta, faticosa, e poco brillante, che il dittatore aveva di continuare divisato, come il miglior modo per l'esercito Cartaginese consumare, mise la salute di Roma in forse, ed era sul punto di rendere in un momento, nulli tutti i saggi disegni di quel sommo capitano, se quegli colla previdenza non si fosse per soccorrere al suo imprudente [1-145] generale, con vantaggio, ed a tempo; avvedutamente tenuto in pronto, e non avesse coll'attività, e vigore le truppe d'Annibale, fin allora giudicate invincibili, sbaragliate. Il celebre Cola d'Arenzo, l'amico di Petrarca, uomo di merito tanto superiore a quello de' suoi contemporanei, trascinato da una stolta ambizione, mancò della pertinacia necessaria a chi tali opere sublimi intraprende. Abborriva egli, e non poteva tranquillamente sopportare quella differenza, che fra il glorioso governo degli antichi Romani, avi nostri, esiste, e quello attuale dei Papi tanto vituperevole, ed obbrobrioso, per chi pazientemente lo sopporta, l'animo non soffrivagli di vedere, anzi chè l'antica virtù, e grandezza d'animo, il vizio e la viltà moderna in seggio; dall'umiliazione in che vedeva la sua patria giacere, mosso virtuosamente a sdegno, a quella dirizzare in via di libertà e di valore s'accinse; abbenchè persona privata, mancante d'influenza, siccome non era nè un principe, nè un barone, nè un gran signore, tuttavolta con modi stravaganti in vero, ma savj e prudenti, nel suo intento pervenne a riescire. Ma tribuno della nuova Roma, avrebb'egli dovuto la nobiltà gotica del tutto abolire, e l'antico patriziato mettere in piedi, anzicchè qual distinto [1-146] onore, la sua aggregazione a quel corpo riputare. Ma ben dice il dotto Mably: «La sua ambizione diventò volgare, e per fare il gentiluomo, la qualità di tribuno che lo rendeva alla nobiltà superiore, pregiudicò; disprezzato da quella che lo addottò, e della quale trovavasi l'ultimo, fù dal popolo odiato perchè era dalla sua classe uscito, e così nulli divennero tutti i suoi sforzi per la spirante autorità ravvivare.» Che se per converso, foss'egli stato nel seguire i sentimenti, e principj che lo avevano mosso, pertinace, si sarebbe immortal gloria acquistata, e non avremmo noi a gemere di essere nel fango del vizio, del vituperio dalla tirannide ammorbati.

Quell'isola, della quale il filosofo di Ginevra pronosticava dover un giorno tutta l'Europa stupire, sostenne un'atrocissima guerra pel corso di quarant'anni consecutivi contro i suoi oppressori, e tutte quelle virtù, che rendono un popolo ammirabile, spiegò che a scappar dalle mani dei Genovesi lo agevolarono. Ma non sì tosto conobbe, che Luigi XV, re di Francia, colla perfidia propria dei re assoluti, ora col titolo di protettore, ora con quello di neutrale ammantato, dopo aver più volte le dichiarazioni di non volersi immischiare in veruna maniera negli affari interni di quell'isola rinovate, [1-147] era in un tratto il suo feroce avversario e persecutore divenuto, per mettergli il morso francese, e quell'independenza, frutto di cotanti patimenti, e spargimento di sangue mandare in precipizio; si perdette d'animo, e per mancanza di vigore, ed ostinazione, gli fù in un mese, il guadagno di quarant'anni di combattimenti involato! Trasandando il generale Paoli gli esempi degli antichi Romani, ed il dovere di vincere o morire ch'eragli dal suo giuramento imposto, ritirossi a languire in Londra, per quindi la sua vita con una morte oscura terminare. In vece che se ostinato, imitato avesse il principe di Nassau in Olanda, comecchè da quella comparativamente formidabile potenza assalito, avrebbe per avventura potuto riescir vittorioso. Di fatti se soli pochi anni avesse l'urto francese sostenuto, sarebbesi nell'epoca trovato della morte di Luigi XV, cui successe al trono Luigi XVI, che siccome di regolare da sè la somma delle cose dello stato, incapace, era in tutto guidato dal signor di Vergennes, il quale avendo una politica liberale addottata, si può supporre che progetti più vasti ruminando, avrebbe alla conquista di Corsica rinunziato, se in vece di sottomettersi, avessero i Corsi continuamente resistito. Oltracciò nel 1778 soli [1-148] anni dieci dopo la conquista di quell'Isola, fù tra la Francia, e gli Stati-Uniti d'America, il trattato d'amicizia conchiuso, cagione fortissima di nimistà fra quella, e l'Inghilterra, e portolle per lunga serie d'anni, una contro l'altra ad accanitamente guerreggiare. E se si fossero i Corsi quei dieci anni ancora sostenuti, sarebbero stati senza dubbio dalla Francia lasciati in pace, od avrebbero dall'Inghilterra onde dall'isola loro espellerla, possente soccorso ottenuto; poichè sarebbe stata per le sue faccende utilissima cosa; e finalmente se coll'appoggio di quella potenza, o soli, avessero alcun altro poco durato, sarebbe l'epoca della famosa rivoluzione di Francia sopraggiunta, e per le massime di libertà, ed egualità, che in allora la guidavano, avrebbe quella i diritti della Corsica all'indipendenza, riconosciuti, ed all'istante evacuata, lasciando quei prodi cittadini in libertà colle loro leggi, e maestrati independenti, oppure quell'isola, in caso contrario avrebbe sopra un valevole appoggio, da quasi tutte le potenze principali d'Europa, potuto aver fondata confidenza, perciocchè state ben contente sarebbero di ajutare chi l'armi contro una nazione, che tutti i gabinetti erano a distruggere intenti, moveva. Ma la mancanza di pertinacia per alcuni anni ancora [1-149] la contesa proseguire, la Corsica allo stato di colonia francese ridusse, e tutta la gloria di tante famose gesta, a faccia della presente schiavitù, qual fumo dileguossi.

Gli avvenimenti del 1820 a Napoli, e 21 in Piemonte, furono i primi che abbiano lo spirito d'indipendenza, e libertà italiana, in modo, che avrebbe potuto essere efficace, dai due punti i più distanti della penisola ambidue concordi in massima, apertamente palesato. Quello slancio ammirabile a sublime scopo diretto, all'afflitta, ed avvilita Italia, nuovi giorni di gloria, e di felicità promettere pareva, ma per la funesta sua riescita, di bel nuovo nella primiera afflizione, ed avvilimento fecela vergognosamente impantanare. E di tanto deplorabile disastro fù certamente principal cagione quella, che infelicemente per caso e per ragione della superiorità del grado, sempre nelle rivoluzioni militari ossequiata, furono alla direzione principale degli affari dello stato, tratte persone, in apparenza, a ben dirigere capaci, ed alla magnitudine delle bisogne preminenti, ma che poi in fatto, inette, e da meno delle ponderose incombenze, ch'eransi addossate, si riconobbero; di dubbio amor patrio, e d'attività, vigore, e pertinacia deficienti. Due sole qualità, cioè la prudenza, e la previdenza rimanevangli, [1-150] ma per colmo d'infelicità, in prò della patria non se ne valsero, e da smodato amor di sè stessi solamente guidati, non furono prudenti, e previdenti, che per lo scampo delle loro persone assicurare. Prima che si fossero alle porte di Napoli, i schifosi Tedeschi presentati, il rinomato generale Pepe, già erasi a Castellammare per la Spagna imbarcato; e circa il tempo, che il generale Latour, ed il goto Bertischneider entrarono in Torino, i generali piemontesi Regis, Ansaldi, e Vaudencourt, unitamente al conte di Santa Rosa, ministro della guerra a Genova, pure i tre primi per la Spagna, ed il quarto per la Francia s'imbarcarono. Privi adunque i caporioni di quel tempo della maggior parte delle essenziali qualità per la riescita delle imprese di gran momento richieste, non è gran fatto da stupirsi, se quel sublime progetto essenzialmente italiano, fù dagli stomacosi Goti, in un subito sossopra mandato. L'accorgimento della maggior parte di coloro, che dai capi dipendono, atto non è in rivoluzione, a quelle colorate cagioni penetrare, che ad operare piuttosto in uno, che in altro modo li muovono. Propensa la multitudine a credere calcolo ciò, che non è, che inerzia, moderazione la debolezza, amor di patria temperato, e ragionevole ciò, che in [1-151] fatti non è, che amor proprio mascherato, non può fino alla catastrofe, dello sbaglio in che cadde, rimaner convinto, quando già sobissata, non è più di rimediarvi fattibile. Sorpresi, ed afflitti i veri figli amanti della patria, quando lo stato infelice delle cose contemplano, a che l'imperizia, o malvagità di coloro, ne' quali avevano la loro confidenza riposta, li condusse; stretti da inaspettati avvenimenti funesti, che si succedono, in quel generale sconcerto e non sapendo in chi avere, di non essere ingannato, fidanza; debbono alla forza nemica meglio diretta, per non poter altro, darla vinta; maledicono i loro caporioni, e di andar più guardinghi un'altra volta nella scelta, prendono deliberato proponimento. Ma intanto dispersi, ed erranti non sapendo in tal frangente a chi far capo per averne un buon consiglio, in vece d'appigliarsi al partito migliore, ciascuno individualmente pensa a sè stesso, ed in quel momento, del tutto la patria trascura. Tanto in ambe quelle parti d'Italia per l'incapacità o malignità dei caporali successe. E per verità se i sette, od otto mila Italiani, che in quell'epoca il paese in mani di strania gente, a discrezion di fortuna lasciarono, si fossero in cambio di correre il mondo, ai monti ricoverati, ed in quelli, formati in [1-152] bande, si sarebbero per avventura mantenuti, e potrebbero le cose nostre essere al dì d'oggi, di gran lunga nel buon cammino avviate. Non puossi con giustizia a codardìa l'abbandono della patria imputare, perchè sarebbe tale accusa dalla loro valorosa condotta, in Ispagna ed in Grecia, smentita; ma alla confusione, e diffidenza, dalla malvagità o mancanza delle qualità essenziali della guerra d'insurrezione, nei capi che li dirigevano, prodotte. Avveduto in oggi il popolo italiano, per l'esperienza de' disastri in quel breve, e leggiero movimento sopra esposto accaduti; maravigliosamente lo spirito publico afforzato; e notabilmente fattosi il numero dei veri amatori d'Italia, maggiore, non avverrà, che nell'avvenire in simili perniciosi difetti iteratamente ricada, ma le da noi indicate qualità possedendo, al non cessare dal difendere la patria fino all'estremo, forte si prefiggerà. Saranno alcune bande sconfitte, le nostre città occupate, le nostre fortezze prese; i nostri villaggi abbruciati; ma quella catena di monti, e di luoghi inaccessibili, che per tutta la penisola prolungandosi la circonda, e le provincie tutte l'una coll'altra congiunge, ci rimarrà, onde servire ai Tedeschi di tomba.

Da evidente ragione, forza al mondo non [1-153] esservi per conquistare, e tenere soggetta una popolazione di venti milioni d'abitanti bastevole, tutti gli Italiani convinti; ad acquistare l'unione, l'independenza, e la libertà della loro patria perverranno.

CAPITOLO VII. SISTEMA GENERALE DI QUESTA GUERRA, E QUALI SIENO I NEMICI DA COMBATTERE.

Ogni qualvolta di far la guerra si tratta, il primo pensiero, che alla mente affacciasi di chi deve in quella aver parte, oppur dirigere, di sapere si è, qual sia il nemico da combattere, e quindi la sua forza e qualità con accuratissimo studio, a parte, a parte bilicare, onde con prudente estimazione alla conoscenza di quella più debole de' suoi mezzi personali, materiali, e locali, sicuramente pervenire, e nel corso della medesima il maggior vantaggio riportarne. Ora se noi ci facciamo quali sieno i nemici d'Italia, ad indagare, purtroppo se non tutte, almeno la più [1-154] gran parte delle potenze europee, essere alla felicità di quel paese opposte, verremo da tal esame convinti. Imperciocchè l'esistenza loro politica, ed independente, non meno, che la loro grandezza, e prosperità, l'origine trassero dalla caduta del romano impero, la cui possanza, ed estese conquiste, l'invidia di tutti gli stati, e l'odio generale dei barbari (di tutte le più belle contrade d'Europa conquistatori, e di quello distruggitori) contro gli destarono; quindi da loro, come massima di convenienza europea, fù stabilito di non mai permettere, che quel paese così bello, così fecondo, culla d'uomini tanto grandi, per la sublime ricordanza, tuttora riguardati con sommo rispetto, e venerazione da quelli stessi discendenti dei nemici loro, e come maravigliosi modelli di virtù rara, quasi nell'età presente, inimitabile, all'educazione della gioventù, presentati, retto venisse un tal paese nei futuri tempi da buone istituzioni. Nè mai vollero gli oppressori, che fosse in un corpo solo riunito, ma bensì ognora tenuto in picciole frazioni diviso, le quali stimolate ad essere sempre in guerra le une colle altre, vicendevolmente distruggendosi, ne avvenisse ciò che pur troppo secondo l'intento loro riescì, che deboli, e privi di spirito nazionale, gl'Italiani, [1-155] vili ed abbietti, in uno stato di nullità, da non poter nè agli stati lontani, nè ai vicini dar ombra, neghittosamente si mantenessero. E questa massima tuttora mantenuta, e sempre da tutti i gabinetti gelosamente conserverassi, imperciocchè l'esistenza di bellissimi ponti, strade, terme, acquedotti, estese fortissime muraglie, archi, etc; monumenti eterni della grandezza di quegli ammirabili eroi, che dal viaggiatore incontransi ad ogni passo, richiamano di continuo in ogni parte dell'Europa, in Asia, ed in Africa, alla mente degli statisti europei, sempre la massima di tenere l'Italia divisa, ed oppressa. E siccome la terra, l'aria, la situazione attuale della medesima non ha da quella degl'illustri progenitori nostri producitrice, minimamente cambiato, ma solo quelle precellenti istituzioni atte a formar uomini forti, in pessime, a rendergli deboli, o viziosi mutaronsi; e che richiamando per avventura le antiche in essere, potrebbero altri simiglianti eroi al giorno d'oggi riprodurre, giacchè a tutti è ben noto dalle stesse cagioni, gli stessi effetti generarsi, ne consegue dunque ch'essendo anzi per loro, dannoso, che utile, di permettere l'esistenza d'una nazione, che potrebbe un giorno combatterli forse ed oscurarli, potendo d'altronde serva, ed umile ai [1-156] loro cenni, e dispregj tenerla, saran sempre suoi nemici, nè mai potrà l'Italia da loro, ajuto, e protezione per tal oggetto fondatamente sperare. Ma se tutti i gabinetti, che sia oppressa l'Italia e d'agire da se sola incapace, un certo vantaggio ricavano o trarre presumono, tutti però l'utilità diretta, degna de' loro sforzi e sacrifici, non ne vedono. Sanno benissimo i più distanti, ed esperti, non esservi timore, dando esistenza all'italica nazione, di risvegliar in essa la smania delle conquiste, imperciocchè tanto d'allora in quà, la faccia dell'Europa, ed il modo universale di pensare, cambiò, che ridevol cosa sarebbe, che gl'Italiani, riacquistando l'antica virtù, il riposo delle altre nazioni intorbidare intendessero, dovendo anzi credersi che una volta riuniti, e ben costituiti, essere non vorrebbero conquistatori, e nei limiti stati loro dalla natura fissati, il frutto di buone leggi in unione, pace, e felicità tranquillamente godrebbero; e quei che in sì fatto modo ragionano, possono come indiretti nemici considerarci. Ma i diretti, i più accaniti i perpetui nemici d'Italia, che de' suoi patimenti, e della sua vergognosa umiltà fellonescamente gioiscono, sono senza dubbio i gabinetti d'Austria, di Francia, e d'Inghilterra; la verità di quanto ci facciamo arditi d'asserire, [1-157] chiara vienci dalla storia, dimostrata. Queste tre potenze con false promesse, e con partiti da loro a bella posta suscitati; e quindi abbandonati, a vicenda ingannando l'Italia, immolando sempre quelle persone che si lasciavano dall'illusione dell'appoggio straniero abbindolare, altro, da' secoli, che guai, disastri, ed i maggiori possibili danni, coi loro trattati, e bajonette, a quel disgraziato paese non arrecarono. La lunga estensione del littorale italiano, l'importante sua situazione, il suo eccellente legno per la costruttura delle navi riputato il migliore d'Europa, che in gran copia dai boschi della Romagna in particolare si ricava, la riputazione d'ottimi marinari, di cui godono gli abitanti lungo la costa da Genova fino a Venezia, ed essere stati i Veneziani, e Genovesi, quando fiorivano le loro republiche, padroni del mare, fa sì che l'Inghilterra più d'ogni altro stato, gelosa del suo dominio, ad alleata naturale perpetua dell'Austria da cui nulla teme, è sempre stata, e nè mai d'essere nemica d'Italia sarà per cessare, checchè in qualche momento di crisi abbia, per meglio ingannarla bandito, ed in futuro, a seconda della sua utilità, possa fallacemente promettere. Gli esempi che ci offre la storia dal tempo di Brenno, fino a Napoleone inclusivamente, [1-158] tutti tendono a provarci, essere sempre stati i Francesi nemici d'Italia, ed averla, ogni qualvolta, libertà, ed independenza le promisero, solennemente ingannata con la prava intenzione di appropriarsene il dominio, al primo acconcio momento. Ma il nemico il più dichiarato, come il più pesante, il più funesto ed abbomenevole, si è l'Austria, che coi puzzolenti suoi stipendiati automi, e con la sua virulenta influenza per mezzo benanco di spurj figli d'Italia, quella barbaramente malmena, e con dispregio calpesta. Il nemico quello è, il più accanito, il più ributtante che ci tiene sotto ferreo giogo, all'estirpazione del quale, con la forza e con l'astuzia, trovasi ogni buon italiano, tenuto. Perchè sebbene siano l'Inghilterra, e la Francia naturali nemiche d'Italia, possono alcune volte per la loro posizione politica, (e siccome d'altronde sono più, o meno rette da libere istituzioni, e sulle ministeriali operazioni ha la publica opinione, forte influenza), possono, non diciamo, proteggere, e sostenere, ma soltanto, ad essere, senza immischiarsi del voto nazionale, i loro gabinetti trascinati l'espurgazione della bella Italia dagl'immondi animali, che la infettano, a pazientemente tollerare. L'Austria, che colla forza e cogli inganni, vuole a dispetto [1-159] degl'Italiani tener la nostra penisola schiacciata, oppressa, ed avvilita, devesi per l'attual età, vera, e principale nostra nemica riputare, ed al più presto energicamente combattere.

Persuasi noi dunque, che il nemico nostro immediato, ed attivo sia l'Austria, volendo come dobbiamo, contro di lei insorgere, quanti e quali mezzi ella da opporci possegga, attentamente pesar ci conviene. Il maggior stato militare effettivo dell'Austria, è di seicento mila uomini, sebbene in qualche occasione, alcune migliaia di più ne abbia fatte nominalmente comparire. Or supponendo, che far volesse uno sforzo, ed un grande esercito a combattere l'insurrezione italiana spedire, a quel numero potrebbe quello esser portato? Sarebbe mai per lei prudente, e convenevole di sguarnire le frontiere della Polonia, della Prussia, e della Turchia, per quindi tutte le sue forze contro l'Italia dirizzare? Certamente che no: e duecento mila uomini pochissimi sarebbero per far fronte da tante parti; ed eziandio, l'Alamagna, che altro non aspetta se non l'occasione per isfuggire dalla sua influenza, tenere in soggezione. Rimarrebbero ancora quattrocento mila, e di questi un cento mila, appena sarebbe per le guarnigioni interne del paese, sufficiente. [1-160] Anzi diremo quasi di no; perchè la Boemia, l'Ungheria, l'Illiria, la Galizia, la Lodomiria e la Transilvania che hanno tra tutte una superficie di circa sedeci mila leghe quadrate, male sarebbero con i cento mila rimanenti soldati guarnite. Ma per altro, così alla peggio supposto, ecco a trecento mila combattenti l'esercito nemico ridotto; ora che potrebbero far trecento mila uomini contro venti milioni d'abitanti, a volerli esterminare risoluti! Da quanto abbiamo esposto nel capitolo sesto, la forza disponibile italiana, fatte tutte le più minute, e possibili deduzioni, monterebbe a due milioni di robusti, ed attivi giovani armati per l'unione, l'independenza e libertà del paese, di maniera che si troverebbero sette combattenti italiani per ogni austriaco. La freddezza, e flemma di quei servi dell'imperatore, nessuno certamente ignora. Possono bensì alcune volte con mediocre successo in massa, in colonne serrate, ed in linea nelle pianure venire alle mani, abbenchè poco favorevole anche in questo modo, debbagli la rimembranza delle guerre ch'ebbero contro i Francesi, ed Italiani uniti, riescire. S'è vero che in quelle, per qualche tempo le loro file e righe mediocremente conservavano, non si può però neppure negare che quando dalle truppe [1-161] leggere franco-italiche, a far nascere intente la confusione e lo scoraggiamento, nelle schiere, furono oppresse quelle macchine, tosto si disordinavano, e si sbandavano; tanto è grande il timore dal quale vengono, al rompersi le righe, assaliti que' soldati che qual mandra di pecore in ispavento, chi quà chi là, dandosi confusamente alla fuga, in tal modo si sparpagliano, che impossibile in appresso riesce di poterle di bel nuovo riunire. E siccome sono di quella emulazione, ed ambizione deficienti, delle grandi gesta producitrice, ed altro stimolo, il loro coraggio non ha se non quello del bastone del superiore, ne avviene che appena dal bastonatore separate, diventano ad agir da per se stesso, del tutto inabili, e tosto all'intiera volontà dell'avversario la cervice umilmente sottopongono. Ben al contrario, gl'Italiani, tanto per proprio genio, quanto pella santissima causa che sono per defendere; ogni qualvolta si trovano isolati, nel pericolo, maggior energia previdenza, ed ardimento rinvengono nel loro animo. Atti dunque solamente in massa, saranno quei puzzolenti automi, del tutto a far testa contro di noi in guerra d'insurrezione per bande, incapaci. Posseggono essi alcune truppe leggiere come i cacciatori tirolesi, la cavalleria ungarese, etc., ma in numero [1-162] così ristretto, che neppure a continuare la guerra pochi mesi in una sola provincia, non che in uno stato, basterebbe. Onde la loro inferiorità in questo modo di guerreggiare, ad evidenza conoscere, non si hanno, che le relazioni delle loro guerre, a consultare, dalle quali chiaro si vede, che ogni qual volta questi animali ebbero sui monti a combattere sempre furono vergognosamente colla peggio sconfitti, e quelle poche volte, che all'arciduca Carlo, di fare alcuni lenti ed inconsiderevoli progressi per somma fortuna riescì, fù sempre a costo di uno straordinario spargimento di sangue, che più dannosi, che utili rendevangli. Leggansi le relazioni delle loro guerre del 1795 e 1796 e vedransi per la loro incapacità sulle montagne di Genova, compiutamente disfatti; diasi un'occhiata alle loro operazioni militari nell'anno 1797, nei monti delle provincie da loro chiamate Ereditarie, ma che noi chiamiamo usurpate, perchè gli stati non debbono essere patrimonio di alcuna persona, e patentemente vedrassi, il cattivo risultamento delle loro armi, la nostra asserzione comprovare. Volgasi per un momento l'occhio ai Grigioni, e si vedranno nel 1799 in quei monti a perdite considerevoli soggiacere; e nello stesso anno, in Zurigo, pure da un [1-163] esercito di molto inferiore in numero al loro, scorgeransi, con altissimo disonore, compiutamente debellati. E senza dai monti italiani allontanarci, la sola guerra del 1800 nelle montagne di Nizza, dove una serie d'incredibili disastri, ed una condotta obbrobriosa portarono la vituperevole loro disfatta, per provare le nostre asserzioni basterebbe, ma troppo dovremmo il nostro capitolo estendere, se i fatti d'arme in montagna dov'essi furono ignominiosamente, ed a grandissima infamia loro sbaragliati, rotti, prigioni, ammazzati, e quai vili, brutte, e limacciose bestie, schiacciati, ad estrarre imprendessimo. Bastanci pertanto le succitate guerre, per provare, che i nostri monti sono stati già più e più volte testimonj della inabilità degli Austriaci in quella guerra, che già furono dal loro sangue impuro abbondantemente irrigati, ed altre fiate potranno ancora di quello abbeverarsi. Ed a maggior forza del già detto, aggiugner debbesi, che nelle montagne di Genova, di Lombardia e di Nizza sempre mai soggiacquero contro altri eserciti regolari, abbenchè con molto minor vantaggio delle bande operassero, le quali più agili, svelte, ed accorte, conoscono pure più perfettamente il terreno. Eppure, malgrado ciò, pella sola circostanza delle differenti situazioni, [1-164] misurandosi con un nemico assai di loro più debole, andarono gli Austriaci a tanto scorno soggetti! Con quanta facilità, con quanta certezza, non sarà l'italica nazione per venire, in brevissimo tempo, dello sterminio a capo, di quelle irragionevoli, straniere, ingorde, e sozze bestie feroci?

L'ignavia del nostro principale nemico non meno, che la sua incapacità ad una guerra leggiera ed animosa, dimostrata; il sistema generale di questa, ad esporre passeremo; posto per base che tutti, o la maggior parte degl'Italiani sieno di parere concordi nel voler, che divenga la nostra Italia una, independente, e libera, oppure altro che un immenso deserto non rimanga, dove gli scheletri di Tedeschi e d'Italiani gli un sugli altri, ammonticchiati facciano all'età future, la nostra gloria, e la infamia loro, manifestamente palese. Dato che un tale glorioso, italico proponimento irremovibilmente accada, servirà il presente sistema di norma, onde una pronta, certa e luminosa vittoria, con brevi sforzi ottenere. Consiste questo nel contrariare, e rendere tutti i principj, e le regole della tattica di niun effetto. Hanno per esempio i precetti militari per fine d'impedire la truppa dallo sbandarsi, ed a tutti gli avvenimenti provvedono, [1-165] che potrebbero a questo pericolo portarla. Sarà dunque alle nostre bande d'uopo d'obbligare il nemico a sbandarsi, ed a tanto dal centro strategico alla circonferenza distendersi, che i suoi raggi dalla lontananza indeboliti, di poco o niuna resistenza sieno capaci, e che per l'estensione dilatatissima della periferia, e loro allungamento, possano fuori dalla communicazione col centro, venir da altre bande tagliati e gli Austriaci a tutti i militari, ben noti per quel timore di esser presi in fianco, portato ad un grado ridicolo, o stravagante, saranno in questo modo ben tosto distrutti. Egli è vero che i loro generali impiegano sempre una enorme quantità di truppe in guardie in molti luoghi inutili, ed in ciò ch'essi chiamano la catena di posti, ma non possono quelli se non per la sola speciale sicurezza del campo, certamente distendersi, e non mai ad un raggio strategico d'operazioni, perchè una linea impossibile sarebbe, e qualora poi di molto, quella catena, si dilatasse, cosa molto difficile alle bande circondanti non riescirebbe, il distruggere a poco, a poco quei posti staccati, ed il grosso dell'esercito nell'inazione insensibilmente consumare. E che si possa il nemico, ad estendere di molto i suoi raggi dal centro, costringere, non cade il minor dubbio. Supponiamo, che un [1-166] esercito di trenta o quaranta mila uomini, per sopprimere l'insurrezione, ad un punto determinato si porti. Abbisognerà quello d'artiglierie, treno, munizioni da guerra, bagaglie e grasce, perchè ad un esercito regolare, mantenersi senza questi mezzi, è del tutto impossibile; ed ecco il generale a stabilire costretto una base militare, vogliam dire, un centro come sarebbe una piazza forte od un campo trincerato, od un paese difeso dalla natura stessa del terreno, etc., ed obbligato, le sue operazioni al circolo de' suoi mezzi limitare. Ora, se viene in lontananza circondato, tutto quanto esiste dal suo centro alla periferia dove sono le bande, resta distrutto. E se le masse italiane, saranno da un deserto, dalle fiamme degl'incendiati virgulti, e siepi, dall'innondato piano, dal nemico separate, deve quegli coll'andar del tempo patir notabile carestìa di vettovaglie, di strami, di tutto in somma ciò ch'è necessario ad un esercito regolare; ed allora gli sarà gioco forza di mandare i suoi distaccamenti, e ben numerosi, per mezzo quel lago ardente a battersi con le bande, che al di là di quello tengonlo accerchiato, onde procacciarsi di che sussistere. Ed ecco in qual modo i suoi raggi tanto estesi, e separati dal centro, si possono in breve agevolmente combattere, ed [1-167] annichilare. Oppure s'appiglierà egli al più prudente partito di abbandonar la sua posizione, e così libera quella parte rimarrà dalla funesta sua presenza. Lo scopo oggidì nella guerra regolare non si limita più a respingere il nemico, alla possibile lontananza, ma bensì di occupare i luoghi che gli elementi della sua potenza racchiudono; si vince solamente fino a un punto determinato; si espelle da una posizione, e fino ad un'altra s'insegue, sia dove sia giudicato a proposito di fermarsi, sempre tenendo il pensiero a non consumare tutti i mezzi rivolto, avvegnacchè, quasi più le cose, che gli uomini, sono nella guerra considerate. Ora gl'Italiani conoscendo, che per sottrarsi ai mali da che sono travagliati, nessun altro mezzo, se non una determinazione d'impedire l'avanzamento del nemico, loro rimane; ritireranno ai monti le mandre i frutti, i cereali, e lascieranno il terreno, arido, e devastato, romperanno le strade; ed in quelle scaveranno grandi e profondi fossi trasversali; nei passi, e luoghi angusti dove avranno la certezza, che il nemico debba passare, praticheranno mine sotterranee, dando alla miccia lo scoppio al momento probabile, secondo il calcolo, che il nemico siavi sopra, e quand'anche lo scoppio prima, o dopo avesse luogo e non gli cagionasse [1-168] danno, sarà sempre d'un utilissimo effetto per noi, a cagione che perturberà alla sua truppa la mente, e gl'infonderà panico terrore. Dalle parti laterali dei fiumi, e canali si apriranno dei grandi sfogatoi, affinchè colla diversione delle loro acque allaghino la pianura dove intende l'avversario posarsi, se di rimanere in quei pantani ostinatamente s'incapriccia, ne ricava la maggior molestia, e l'aria mefitica che deve di corto l'allagamento seguire, perniciose malattie, e quindi la morte gli cagioni! Su di tutta la superficie della penisola italiana, questa cosa è ad operarsi facilissima, essendo la stessa ad ogni passo da fiumi, e canali, attraversata. I ponti che potrebbero facilitare al nemico il passaggio delle acque, si faranno saltare in aria, si distruggeranno i molini ed i forni; si avveleneranno i pozzi, e le fontane, tutte le messi non atte al trasporto, le siepi, e gli alberi, le case sparse per la pianura, e finalmente i villaggi stessi saranno incendiati. Per la qual cosa, sprovvisto il nemico di ogni cosa, tutto all'intorno del punto da lui occupato, sarà costretto di far venire convogli dal suo paese, ed intanto, per la necessità delle vettovaglie obbligato di allungare i raggi dal suo centro strategico, le bande alla maggior possibile [1-169] distanza dalla sua base, lo attireranno, onde viemmaggiormente l'angolo obbiettivo, tra quelle e la sua truppa rendere acuto, e per tal modo lo porranno nella svantaggiosa posizione di aver le spalle, ed i fianchi scoperti, ed i convogli non assicurati. Laonde ad una precipitosa fuga troverassi obbligato, se non vuole morire di fame, o vedersi ribellare i soldati, ed anche finir per essere avviluppato ed annichilato: «perchè, la fame, dice il conte di Bonneval, alla pag. 513 delle sue memorie, è il più terribile nemico del soldato; se da quello è tormentato, perde il coraggio, e la docilità. Egli è vecchio proverbio, che ventre affamato, non ha orecchie.» I Barbetti, ossiano gli abitanti dei monti alle frontiere del Piemonte, che dal colle così detto della Croce, e valle di Lucerna, si estendono fino all'Appennino alla parte di levante di Genova, seguivano a un di presso questo sistema; i Calabresi quindi nella lunga, e memorabile difesa che sostennero contro l'invasione francese, lo perfezionarono; essi furono i primi che diedero l'esempio di quanto possa fare una ferma volontà. Ed una provincia ristretta, ed un pugno d'uomini decisi, così per varj anni ad intiere divisioni francesi resistettero, che non colla forza ma cogl'inganni, e colla [1-170] seduzione di una parte di loro, solo a conquistarli pervennero. I Calabresi svelarono agli Spagnuoli il gran segreto, che la vera forza, non tanto nel numero, e qualità degli eserciti regolari consiste, come in quel patrio sentimento, che da sè solo è abbastanza possente, a far sì, che ogni individuo d'una nazione, la causa pubblica, come sua propria, consideri. I Russi, nella guerra del 1812, lo adottarono anche in parte, ed il SigrSegur così si spiega a questo proposito: «Ecco che nobili fuggono internandosi coi loro servi nel paese, come all'avvicinarsi di un gran contagio, e sacrificano ricchezze, abitazioni, e tutto quanto potea trattenerli, o essere a noi vantaggioso. Essi pongono fra loro, e noi la fame, il fuoco, e i deserti, giacchè una risoluzione sì importante prendevasi contro i loro servi, non meno che contro Napoleone; così noi non avevamo più a continuare una guerra di re, ma a sostenere una guerra di classe, di partito, di religione, una guerra nazionale, e tutte le guerre ad una volta.» E così operando, i Russi e gli Spagnuoli sopra gl'invincibili battaglioni di Napoleone, ottennero la vittoria. Ben vidde la giunta di Siviglia fin dal principio della contesa, che la reale forza della Spagna, non consisteva negli eserciti, ma bensì nel [1-171] popolo; conobbe il governo centrale l'importanza di quel modo di guerreggiare irregolare ed universale. Proclamò, questa essere guerra de Moros contra infieles, ed in che maniera gli antichi Spagnuoli avevano un'antica razza d'invasori esterminata. Quella giunta al popolo ramentò tai cose, e bandiva, che ammazzando giornalmente i nemici appunto come si volessero dal flagello delle locuste liberare, salvar dovevasi il paese; che l'opera sarebbe lenta, ma sicura, e ne' suoi progressi avrebbe la nazione all'apice marziale di que' tempi portata, e che uscire in traccia degli Hagarenes, qual piacevole, non men, che glorioso passatempo si considerava, loro indicando le scaramuccie, imboscate, assalti, e stratagemmi, come le più necessarie risorse della guerra domestica. In fatti dovunque gli Spagnuoli non avevano esercito, la contesa assumeva questo carattere, e quando i Francesi erano padroni del campo, e che in qualunque altro paese avrebbero la loro conquista ferma e compita, ragionevolmente creduta, da quel momento una faticosa guerra di distruzione cominciava, contro la quale era di nessun vantaggio la disciplina, e che doveva, col tempo, qualunque militar potenza, per grande che fosse, consumare. Ogni giorno era un qualche posto degl'invasori sorpreso; qualche scorta, [1-172] o convoglio tagliato a pezzi; qualche banda di predatori messa a morte, e ricuperato il bottino; i dispacci intercettati ed in somma soddisfatta, la vendetta, e sparso il sangue reo! In nessuna parte, se non nei loro grandi corpi, o dentro le città fortificate, erano i nemici in salvo; e queste rimanendo isolate, dovevano alla lunga tutte le provvigioni esaurire, e trovarsi nell'estrema circonstanza di arrendersi, o morire di fame. In quasi tutte le provincie della Spagna, e specialmente nella Catalogna, si era dagli abitanti delle campagne l'uso introdotto di nascondere i grani in magazzeni sotterranei, sorta di fosse, ben riparate al didentro, ed ermeticamente chiuse al difuori, in modo, chè benissimo conservavansi, mentre assai difficile agli invasori, di riconoscerle riesciva, e molte volte il nemico, sopra quel prezioso oggetto, che andava con ardore cercando, e per quale usciva dalle fortezze, incontro a pericoli d'ogni genere, ed a quasi certa distruzione sua, senz'avvedersene passava, e ripassava. Ecco in qual modo il generale Govione di san Ciro, al capo terzo del suo giornale si spiega: «Era in quel tempo libero il settimo corpo dalla truppa regolare di linea, ma avea non dimeno sulle braccia la popolazione di tutta la provincia, ben armata, e che si trovava [1-173] dappertutto in forza contro i distaccamenti, che a cercar viveri o foraggi, lontani si mandavano. Quando, dopo d'aver combattuto per respingere gli abitanti armati di un cantone, che si battevano con altrettanto accanimento per la causa della loro independenza, derrate rare ed indispensabili pel loro sostentamento difendevamo, quando poi alla fine sovente con perdite grandi per parte nostra eravamo pervenuti a rispingerli; ci trovavamo ancor obbligati a perdere un tempo prezioso per rintracciare i siti dove essi avevano la poca sussistenza, che lor rimaneva nascosto, sovente un più gran numero di somatenes, appoggiato da micheletti riveniva in forza; e prima della partenza, od in cammino, perveniva a ritogliere i suoi comestibili, ed i distaccamenti spossati dalla fatica, privi di cartocci, e con loro altro che i feriti non portando, se ne rientravano. Erano qualche volta nelle loro incursioni più avventurosi, ma per la mancanza di mezzi di trasporto, venivano, di profittarne impediti. L'uso degli abitanti di conservare in quel paese i loro grani in magazzeni sotterranei impossibili a scorgersi al difuori, invece di tenerli ne' granaj; nella Magna, e nei paesi dove quest'uso non è conosciuto, così facili a rinvenirsi, la difficoltà di procurarsi quell'indispensabile [1-174] comestibile singolarmente aumentava, ed erano nelle città que' magazzeni, visibili, ed ordinariamente vuoti, ma nelle campagne, a grande, e buona fortuna d'incontrarne uno, dopo grandissime ricerche, s'ascriveva.» Tutto il sistema generale di questa guerra, finalmente consiste nel ridurre il nemico a consumarsi da sè stesso. Per giungere a quel fine, egli è dunque necessario, dopo d'avergli levato ogni mezzo di sussistenza che potrebbe esserli dal paese fornito, di sorprenderlo, ed inquietarlo nella sua marcia; profittare delle posizioni vantaggiose, e del terreno favorevole; attirare la guerra ai monti, alle selve, e nelle paludi; costringendolo ad estendersi di molto dalla sua base, presentarsegli in fronte, e quando egli si crede al momento di venire ad un'azione, abbandonarlo, per attaccarlo in fianco, ed alle spalle; inseguirlo; avvilupparlo, ed in ultimo, quando si conosce vicino a soccombere, da tutte le parti assalirlo. Sparse le bande a grandissime distanze, debbono altrettanti differenti generi di operazioni al nemico presentare; dileguandosi esse, e riproducendosi, l'obbligheranno in una parte ad una guerra offensiva, e difensiva in un'altra, a nuove specie d'operazioni lo sforzeranno, che lo affatichino, ed inquietino, e che da [1-175] lui, cure affatto differenti, non meno pericolose delle altre, imperiosamente richieggano. In somma debbono le bande coprirsi da suoi attacchi, ed in ogni modo molestarlo; tirare la guerra in lungo; interrompergli le communicazioni, interdirgli i passi difficili; tendergli ogni specie d'insidie, evitando sempre dì lasciarsi cogliere nelle pianure ed essere senza la certezza della vittoria a combattere costretti; ma di monte in monte, sulle colline e nelle foreste, al passo dei fiumi, e canali, senza posa strettamente inseguendolo, nelle paludi, pantani, risaie, ed acque morte sospignendolo, ora con attacchi, ora con vere o finte ritirate, ora disperdendosi, e quindi ad un tratto riuniti di bel nuovo ricomparendo, in somma ora inquietandolo, ora togliendogli, ed ora rendendogli animo. Circospetto in una tale fisica e morale agitazione, il nemico terrassi, e quando i suoi soldati, sfiniti, indeboliti, e aborrendo la guerra, non saranno più capaci, che di un debole combattimento; furiosamente allora stretto da ogni parte ben da vicino, gli mancherà l'animo, ed in luogo donde non possa fuggire rincantucciato, dagli ardimentosi combattenti italiani verrà inesorabilmente tagliato a pezzi.

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CAPITOLO VIII. DELL'ARMAMENTO E VESTIMENTO.

Nessuno può negare, che il primo oggetto necessario, e senza del quale non puossi la guerra intraprendere, esser debba il possedimento delle armi. Le due principali ed inevitabili necessità per menarla ad effetto, sono senza dubbio il pane ed il ferro; con quelle sole due, e con una pertinace volontà, il nemico, per forte che fosse, debellare potrebbesi; ma la mancanza di una di quelle, ad andare in rovina inevitabilmente costringerebbe. Nulla di meno la più essenziale, e la più efficace necessità, si è quella del ferro, perchè indubitatamente, ed anche in abbondanza trovasi col ferro, il pane. Or dunque supponendo, che la ferma volontà esista, alla nostra mente la difficoltà di provvedere il pane, si affaccia, perciocchè siamo di ferro sprovveduti! Pertanto al progetto di venire coi nemici d'Italia alle mani, ci sarà forza di rinunziare, mentre [1-177] quelli sono in punto di tutt'armi, coperti, ed è il nostro popolo, qual chi si sta sicuro, inerme! Come mai una guerra, ci si dirà, tanto disuguale, potrà ella muoversi, e nutricarsi? Come, nudi, e senz'armi, contro quelli che tanta copia ne hanno, potremo noi per avventura far testa? Difficilmente potrebbesi ad una tale obbiezione vittoriosamente rispondere, se la storia non fosse là per indicarcene i mezzi, e palesarci in qual modo abbiano gli Americani per sottrarsi al giogo degl'Inglesi, le armi conseguite; come le bande spagnuole, per l'oltraggioso orgoglio francese, rintuzzare; come i Greci finalmente, per uscir dal laccio del Musulmano, abbianle rinvenute. Ad ognuno è ben noto, che la rivoluzione d'America, di fatto, in Boston, l'anno 1790, avendo avuto cominciamento, il popolo del tutto d'armi sfornito, un distaccamento di soldati inglesi ben armato ebbe l'animo d'affrontare, e con pallottole di neve, pezzi di ghiaccio, bastoni, pietre, insomma con tutto ciò che gli venne alla mano, con successo assalendolo, a quella diede capo; gli Spagnuoli pure con picche, lancie, forche, etc., la impresero; i Greci in molte parti, con bastoni, pietre, e coltella. E per altri esempi stranieri, nelle storie non razzolare, quello ci basti dato il 5 decembre dell'anno [1-178] 1746, dal popolo di Genova contro gli Austriaci, quando i cittadini, di bastoni, pietre, coltella, e strumenti d'ogni specie armati, dalla loro città venti mila Tedeschi sotto gli ordini del generale Botta, tutti ben armati, e con artiglierie, in un volger d'occhi discacciarono. Or questo ci prova, che se per verità, havvi del ferro, a guerreggiare, gran mestieri, non pertanto un popolo di ferma volontà soprabbondando, e per salvare il suo paese ad ogni pericolo d'andar incontro, deciso, servendosi in principio di altri stromenti, non avrà per procacciarsene, gran fatica a durare. L'uso della frombola, delle freccie, delle lancie, e picche, potrebbe all'appiccarsi della contesa, l'acquisto delle armi da fuoco agevolare. Potrà ad alcuno, alquanto strano parere, che vengano tali armi, per abitudine da tutti considerate come incapaci di alcun vantaggioso effetto, contro quelle in uso oggidì, seriamente proposte. Ben lungi noi siamo dal volerle, come necessarie per tutto il corso della guerra, proporre, ma solo, come di un mezzo, facile a trovarsi, e d'un effetto certo al primo slancio popolare, onde poterci delle armi del nemico impossessare, ne facciamo menzione. Ed a provare quanto possano quelle essere utili, valgaci alla memoria de' nostri leggitori una nota delle [1-179] riflessioni critiche sull'arte della guerra richiamare, del sublime nostro Palmieri, e nell'eccellente trattato sulla scienza della tattica del rinomato generale Rossarol Scorza commendatissima, dove, parlando della frombola, così si esprime: «Nelle armi da presso, il preparare è brevissimo, perchè costa d'una semplice azione; nella frombola, l'azione di preparare, è composta di due azioni; primo prendere la pietra, secondo, adattarla sulla frombola; nell'arco, è composta di quattro, 1º Prendere la freccia; 2º adattarla sull'arco; 3º tenderla; 4º metterla in mira; allo schioppo, secondo i Prussiani, di tutti i più solleciti, dopo che ha sparato fino all'impostarsi, vi abbisognano dieci nove azioni, o tempi, come con voce dall'arte si appellano, etc. Ma supposto (ipotesi molto parziale allo schioppo) che ciascheduna azione componendo l'intiera azione del preparare, esiga in tutte le armi un tempo uguale, l'azione di preparare lo schioppo esigerà quasi cinque volte il tempo di quello dell'arco; quasi dieci volte il tempo di preparare la frombola; e dieci nove volte il tempo del preparare le armi da presso; e per conseguenza queste offenderanno dieci volte, la frombola quasi dieci, e l'arco quasi cinque, nel tempo stesso, che lo schioppo offende una volta.» Posto ciò, si lascia al giudizio di chi può [1-180] ordinare ed armare a suo volere le truppe, il decidere se non sia meglio avere gli armati alla leggiera colla frombola, in vece del fucile. Ma il solo dire al giorno d'oggi, lasciate il fucile, e prendete la frombola colle palle di piombo, in vece dei fucili, è lo stesso di eccitare il riso, e ciò, perchè ancora noi siamo dal lampo, e dal tuono dello schioppo sorpresi per quanto lo furono gli Americani per la prima volta che lo intesero, e lo viddero. Non si dovrebbe però ridere, quando si riflettesse, che Vegezio ci assicura che colla frombola comunemente e sicuramente si feriva alla distanza di 600 piedi, distanza nella quale pochissimi colpiscono con sicurezza col fucile; quando si ponderi che con quella, non vi è il fumo che toglie la punterìa, e la scossa nel projettare, che in molti facendo vacillare l'arma, ne falla il colpo; e finalmente che per quanto testè si è dimostrato, un fromboliere tira dieci colpi, mentre un fuciliere ne tira uno, e che perciò dieci frombolieri nel risultato del trarre, pareggiano il projettare di cento fucilieri. Ed il mai sempre illustre Beniamino Francklin in una lettera da lui scritta in data 11 febbrajo 1706, al maggiore generale Lee, allo stesso modo di pensare s'accorda, e sulla preferenza che agli archi, e freccie sopra [1-181] le armi da fuoco, darsi dovrebbe, così il suo intendimento espone: «Desidero tanto come voi, che i nostri eserciti, di picche ed anche dell'arco, e freccie si servissero. Sono quelle armi buonissime, pazzamente messe in disuso. Egli è d'uopo di servirsi dell'arco, e freccie, 1º perchè un uomo, può tanto aggiustare il suo colpo con un arco, quanto con un fucile; 2º perchè può far partire quattro freccie nell'istesso tempo necessario per tirare un colpo di fucile, e ricaricarlo; 3º perchè l'oggetto a che deve mirare, non gli è coperto dal fumo dalla parte che combatte; 4º perchè il nemico vedendo giungere una nuvola di freccie, s'intimidisce, e si confonde, e ciò l'impedisce d'essere attento a ciò, che fa; 5º perchè una freccia che penetri in qualunque parte d'un uomo, lo mette fuori di stato di poter combattere, finattantochè non gli sia stata svelta; 6º perchè è cosa assai più facile di procurarsi archi, e freccie, che polvere, e piombo. Polidoro Virgilio, parlando d'una battaglia ch'ebbe luogo tra gl'Inglesi, e Francesi, nel tempo che regnava Odoardo III, fà menzione del disordine cagionato all'esercito francese, a cagione d'una nuvola di freccie scagliate dagl'Inglesi, ed alla quale dovettero questi la vittoria. Se dunque le freccie producevano un [1-182] tanto effetto quando gli uomini erano coperti da un'armatura difficile a perforarsi, quanto danno al nemico non apporterebbero quelle, oggidì, che non v'è più l'uso d'andar alla guerra coll'armatura!» La storia della guerra dell'independenza in Ispagna, ci fa vedere, che i condottieri delle bande, prima di aver potuto trovare delle armi, aveano i volontarj con picche, lancie, e forconi, provveduti. Nella guerra del 1812, vediamo che più di venti mila soldati russi erano di picche armati, e che pure in gran parte, i Landwer e Landsturm di varj stati dell'Allemagna, quell'armi usarono con buon risultamento. Il generale Rostopchin in un indirizzo ai Russi di armarsi d'asce, e soprattutto di forconi tridentati, forte loro raccomandava. In fatti i più facili stromenti sono quelli al primo scoppio da rinvenirsi, e possono le picche, e lancie essere in un momento fabbricate, ad ogni passo alberi, e ferrari s'incontrano; e quando in questo modo armata, comincia una banda ad incuter timore, ed impor rispetto, potrà dai cacciatori, e da tutti quelli che posseggono armi, prendere gli schioppi, spade, vecchie sciabole, pistole, cavalli, arnesi, pei medesimi, ed in una parola tutto quanto possa essere stimato utile per la guerra, esigere. Non difficil cosa, a ben considerarle, deve questo [1-183] parere, se si osserva, che quasi tutti i cittadini sparsi sulla superficie della penisola, abitatori delle case isolate, chi due, chi tre, e chi maggior quantità di schioppi per uso proprio posseggano. Inoltre un paese per piccolo, che sia, non havvi, il quale una certa quantità di schioppi per armare la guardia civica in tempo di festa, o di guerra, non tenga nella casa del comune in serbo. Il primo mezzo di armare i volontarj sarà dunque d'improvisamente sopra quelle case, villaggi, o città, ch'essendo sguarnite di truppe non possono opporre una regolar resistenza, piombare, e delle loro armi impossessarsi.

Non sarebbero per avventura queste armi, al bisogno di tutti quanti i volontarj, sufficienti, epperciò ad un altro mezzo non meno possibile, sebbene al quanto più coraggio, ed ardimento esiga, ricorrere converrà. Per l'attuale tirannico ordinamento; un numeroso corpo di birri a cavallo, ed a piedi in piccioli drappelli di quattro, sette o dieci uomini, comandati da un brigadiere, o sergente, suddiviso, in ogni parte d'Italia si mantiene; sono questi drappelli a piccole distanze ed in ogni direzione dello stato a che appartengono, situati, onde i popoli in soggezione, ed obbidienza ai loro manigoldi, per mezzo della paura, contenere. Cambiano [1-184] questi birri in qualche parte denominazione, ma il loro ordinamento, e servizio è lo stesso in tutte. In Napoli, per esempio, si chiamano gendarmi; in Roma, carabinieri pontificj; in Lombardia, gendarmi; in Piemonte, carabinieri reali; ma infatti tutti con eguali nequitosi, modi, mirano allo stesso segno. Rende questo loro ordinamento cosa facilissima alle bande di giungere le armi necessarie a procacciarsi; perchè separatamente questi posti all'improvviso assalendo, o quando tutto unito il drappello, profondamente sono i birri addormentati, o quando a coppia a coppia per le varie parti delle loro corrispondenze si diramano, sorprendere e disarmare si possono, e le bande con le loro armi e spoglie, di tutto punto fornire. Quindi poco a poco si potranno corpi più grandi dal centro dell'esercito nemico staccati assalire, e nella guerra andare avanti. In nessuna parte, meglio, che in Italia, puossi per avventura un maggior numero d'armi rinvenire; perciocchè in tanti piccoli stati, in apparenza indipendenti divisa, ciascun re, principe, o duca regnante fabbrica nel proprio stato schioppi, sciabole, etc.; e sempre un gran numero di quelle armi negli arsenali, o magazzeni a bella posta fabbricate conserva, onde essere un maggior numero di truppe, se lo esigessero i [1-185] tempi, a mettere in armi, apparecchiato. Ora se in una delle città dove quei magazzeni esistono, si facesse un movimento insurrezionale, potrebbesi di subito un gran numero di volontarj provvedere, e quindi delle fabbriche prendendo possesso, mai più le armi sarebbero ai difensori del paese per mancare. Ma se un movimento popolare della stessa città, delle necessarie armi le bande non fornisce, d'uopo sarà che ai sopraccennati modi ricorrano, ed una volta che alcuni già sieno armati, facilmente potranno il rimanente necessario, dalle mani dei nemici cavare. Sorprendendo alcuni piccoli distaccamenti o guardie francesi, armaronsi le bande spagnuole, per la loro indipendenza acquistare, e le armi in quel modo, di fondamento a tanti corpi, servirono, che quindi furono grandemente esiziali allo straniero. A buon taglio vienci, di qui riferire, come il celebre dottor Giovanni Palarca, medico di Villaluenga, ad armare del tutto la sua banda, che tanto terrore nei Francesi infuse, sia maravigliosamente pervenuto. Pieno d'entusiasmo per la salvezza del suo paese che teneramente amava, già da lungo tempo, il progetto di formare una banda di prodi, che fossero decisi a difenderla fino all'estremo, andava il mentovato dottore ruminando, ma sempre dalla difficoltà di poterla armare, era stato trattenuto. [1-186] Un bel giorno, fatto per buona ventura scorto d'aver i Francesi un distaccamento di venti dragoni da Madrid a Parla, paese immediato a quello di sua residenza mandato, onde quel punto guarnire, e cui dovevasi ogni otto giorni dare lo scambio, egli non volle una sì felice opportunità, onde mettere in esecuzione il maturato progetto, trascurare. Epperciò in una sua cantina, di notte tempo sei o sette buoni amici tanto decisi com'esso, riuniti, che tutti di commun accordo convennero dell'intrapresa, e loro capo o condottiero lo chiamarono, a dare s'accinse i convenevoli provvedimenti all'uopo. Armaronsi gli uni con pugnali, e con vecchie lunghissime rugginose spade spagnuole gli altri, e con tali preparativi tutti nel loro ferrajuolo ben bene imbaccuccati, quatton quattone, dalla cantina uscirono, e ciascuno per un punto differente, a Parla, verso il luogo previamente destinato, si diresse. Quindi nella vicinanza dell'albergo riuniti dove tranquillamente, e senza timore se ne stava il distaccamento di dragoni, Palarca, che di sorprendere la sentinella, erasi l'incarco addossato, mentre quella coll'arma al braccio confidentemente davanti la porta sù e giù passeggiava, a poco a poco, in sembianza d'uno, che se ne andasse a sollazzo, [1-187] passo innanzi passo, le andava attorno, e quando vidde a portata, ed il soldato dargli le spalle, getta di brocco il suo mantello a terra, sguaina nello stesso tempo l'irrugginita spada, avventasi furiosamente alla scolta, e ad occhi chiusi, conficcagli nelle reni, l'acciaro, così esclamando: Patria mia infelice, questa prima vittima ti sacrifico! Cade boccone a terra il dragone, entrano a questo segnale i compagni di Palarca, immediatamente nell'albergo le armi del distaccamento vicino alla porta collocate afferrano, e con quelle gli altri Francesi che da forze immensamente superiori essere assaliti si figurano, a darsi in poter loro costringono. Palarca ed i suoi compagni, da quel luogo immediatamente partirono, e con loro i cavalli armi, e vestimento dei dragoni condussero, lasciando perfettamente nudi quei pochi, che non ammazzarono, poichè come novizi in questo genere di guerra, non ebbero cuore di togliere dal mondo nemici che non si difesero. Ma ciò nell'avvenire, avendolo riconosciuto per sommamente dannoso, più non praticarono. La fama di questo avvenimento portò immediatamente molti volontarj a Palarca, ed in questo modo un corpo di cavalleria ad ordinare incominciò, che in meno di tre mesi, giunse a tale, che [1-188] un continuo batticuore ai Francesi cagionava. Moltissimi esempj di tal fatta a noi facile di citare sarebbe, ma siccome non sempre le stesse occasioni si possono presentare, gli omettiamo, e bastaci l'addotto. Ma insisteremo nel dire che delle risorse del paese, tali e quali si trovano, devesi profittare. Nessun paese, per piccolo che sia, sarà affatto senz'armi, e quando un condottiere abbia già sotto di sè alcuni uomini armati, agevol cosa di raccogliere quelle nel paese esistenti, saragli; ma prima di giungere a quel segno usare d'astuzia ed ingegno per procurarsene, converragli; e nel caso che non possa impossessarsene, o che nel paese non esistano mezzi addattati per mettere i suoi volontarj in stato di operare, esser dovranno da lui inventati.

Quando nel 1808 scoppiò l'insurrezione in Ispagna, esistevano pochissime armi, ed ebbero i condottieri a mille specie di stromenti d'ogni genere, ricorso; onde con quelli, all'acquisto delle armi, pervenire. Finalmente diremo doversi per avventura trovare il condottiero, al cominciar dell'insurrezione alquanto intralciato ed essere alla sua perspicacia, e prudenza riserbato di spianare gli ostacoli e difficoltà, che siano al suo gran progetto per opporsi, finattantochè, avendo [1-189] già bastevol forza, si faccia dai paesi dove si presenta, rispettare, e o di buon grado, o con violenza faccia sì, che quanto di utile in quelli si trovi venga subitamente fornito. Dati da noi in succinto i generali precetti, onde provvedersi delle armi alla guerra d'insurrezione per bande, necessarie; trattare di quali armi debba essere il volontario, che alla difesa della patria si dedica, provveduto, ci sarà di mistieri. Le armi dalle varie giunte di Spagna, per usarsi in questa guerra prescritte, non erano che due; lo schioppo ed il cuchillo, ossia coltello lungo di banda, lo schioppo per attaccare i convogli nemici per sorpresa, ed il cuchillo pegli attacchi notturni nelle contrade dei varj paesi; e fù per verità, nella guerra di Spagna ai Francesi il coltello più del cannone, fatale. Noi crediamo dunque, che debba essere il volontario provveduto d'un buon schioppo con bajonetta del calibro d'un'oncia, affinchè le munizioni del nemico possano essere profittevoli e d'un buon coltello di banda ben acuto in punta, e tagliente da una parte, e che sia dall'altra, ben forte ed abbastanza larga la costa, affinchè possa per tagliare piante ed arbusti, eziandio servire; con un cartucciere alla cintura con affibbiamento ristretto portante sessanta [1-190] cartocci, con due taschette laterali dello stesso cuojo, le pietre, e gli ordegni necessari per ismontare lo schioppo, contenenti; ed un buon pugnale al lato sinistro nella parte interna, e coperto dalla fodera del vestito; e solo dalla sommità, al quanto sporgente. Pure a noi, per gli attacchi dei convogli, etc., saranno le due prime per giovare ed il pugnale pur anche nelle contrade, di notte, e nelle case potrà efficacemente valere a quei volontarj, che da semplici contadini saranno vestiti, potendosi nelle case introdurre, maggior facilità incontreranno per altrettanti nemici mandar con Dio.

Il pugnale, arma essenzialmente italiana, ci fù in eredità da nostri progenitori lasciata, onde si vendichi da noi l'oppressa Italia. Puossi qual pugnale della ragione, il pugnale italiano appellare. Salvò quello la libertà di Roma, allorchè forzata Lucrezia, la voce della ragione ascoltò, che di volgerlo diss'egli al suo innocente seno, piuttostocchè come la eccitava lo sdegno, nel petto del violatore immergerlo, e n'ebbe con quel mezzo, grande, e memorabile vendetta, e Roma, libertà! Era Virginio d'una figlia bella, e virtuosa, padre affezionato. Un magistrato, frodando le leggi glie la rapì, e se dirigeva la [1-191] natura il colpo all'oppressore, la ragione, a percuoter la figlia lo indusse. Così fa egli, da morte gloriosa a lei, e libertà alla patria. Cesare, calpestatore delle leggi, amava un cor generoso, e gli prodigava favori. La ragione sulla gratitudine riportò il trionfo, ed il tiranno trafitto da Marco Bruto ch'egli beneficava, dovette al santo pugnale soggiacere. Tanti atti sublimi dal pugnale operati, sempre dinnanzi agli occhi di tutti gli Italiani che amano la loro patria, dovranno rimanere. Tutti del pugnale della ragione s'armeranno, ed il petto dei nemici, non men che quello di loro stessi percuotere, se fia al ben d'Italia conducente, presteranno solenne sacramento. Poichè di tutte le armi nella nostra guerra convenienti abbiamo ragionato, di accennare la terribile artiglieria, che nei tempi attuali, nella guerra regolare, decide quasi sempre la sorte delle battaglie, tralasciar non dobbiamo. Ma di estendersi molto su di tal materia non ci occorrerà, poichè di poco uso in una guerra che si fà alla spicciolata, sui monti, e si continua senza venire a battaglia campale. Puossi considerare però, che se non si possono dalle bande facilmente le artiglierie praticare, di poca utilità saranno pure al nemico. Non dimeno, se per caso, quegli a piantare una batteria, [1-192] che potesse danneggiare un sito forte, occupato da una banda, pervenisse, la cui occupazione fosse di grande vantaggio considerata, non potendo le bande altri cannoni per imboccare i suoi, e smontare le batterie avverse, opporgli, dovranno quelle sagacemente varj corpi staccati ripartendo, con giri, e contro giri, cadere sopra la truppa, che la difende, i cannonieri che le servono, trucidare, ed inchiodare, sotterrare, e distruggere i cannoni, se non hanno modo di trasportarli e servirsene. I Tedeschi, contro de' quali principalmente abbiamo da combattere, le artiglierie come il principal elemento della guerra considerano; e non come dai migliori tattici vien prescritto di tenerle in conto, cioè come valevoli accessorii. Non sono in conseguenza le truppe da quelle ajutate, ma al contrario sono di guardarle, difenderle e piegarsi alle difficoltà dei loro movimenti obbligate, dimodocchè da quanto ci viene dalle storie dimostrato, moltissime volte la fanteria austriaca fu compiutamente per tal cagione, disfatta. Questo loro difetto tattico non potrà ch'essere di gran giovamento per noi, poichè difficilmente potranno le artiglierie nelle montagne trascinare, e senza quelle, l'esercito assueffatto a crederle assolutamente necessarie, [1-193] si perde d'animo, e fugge. Se poi nelle pianure le portano, dovendo a guardarle, un gran numero di truppe impiegare, poche per correre i monti glie ne rimarranno; e se là sopra a portarle pervengono, le colonne a difenderle concentrate in massa, per mancanza del necessario al sostentamento degl'individui, e per la continua molestia dalle bande circondanti arrecata loro, da sè stesse si consumeranno.

Dice il generale san Ciro, che le bande spagnuole usavano certi piccoli cannoni, a quali davano il nome di violentos, e quelle artiglierie con una tale rapidità maneggiavano, da farle sparare almeno dodeci tiri per minuto. Non potevano invero puntarle e non ricevevano da quelle vantaggio, se non quando contro masse poco distanti le adoperavano. Oltracciò, i più agili, e robusti loro cannonieri non potevano più d'un quarto d'ora un esercizio così forzato sostenere. Quando dagli eserciti alleati francesi e prussiani fù nel 1744 invaso il Tirolo, animato il popolo tirolese da quell'amor di patria di che diede quindi nel 1809 maravigliosi esempi, in massa si sollevò; una catena di fuochi lungo le sommità dei monti accesa, il segnale fù dell'insurrezione; le donne nei nascondigli delle loro alpi il bestiame ritirarono; gli uomini presero [1-194] le armi, ed alla mancanza di cannoni, con tronchi d'alberi vuotati al didentro e cerchiati di ferro, supplirono. Nella guerra dell'independenza spagnuola furono messi in varie parti simili cannoni parimenti in uso. Non sono però mai quelli di grandissima utilità, ma possono alcune volte rendere dei buoni servigi. Un'altra invenzione non meno straordinaria, ma di maggior conseguenza, perchè più facile al trasporto, fù dalla banda di Mina, praticata. Tanto i Francesi la superiorità degli Spagnuoli sulle loro truppe in un conflitto personale riconoscevano, che mai contro loro, senza artiglieria, a pugnare portavansi. Nel sistema da questi seguito di guerra irregolare, era per loro, di opporgli armi eguali, impossibile; ma un Josè Suescan Y Garcìa inventò di fissare tre canne di fucile ad un calcio e di spararle col mezzo di un solo acciarino. Portavano queste, palle di due oncie; ed alla prima prova che sen fece in un combattimento da Cruchaga nelle vicinanze di Tafalla sostenuto, perfettamente, riescì quella, ed a grande vantaggio degli Spagnuoli, che in piccolo numero, furono di mille cinquecento fanti e cent'ottanta cavalli nemici, vincitori. Fù nel fatto d'arme di Arlaban questa nuova invenzione messa una seconda volta alla prova, ed [1-195] ebbe un eccellente effetto, e più dì trenta Francesi furono dalla prima scarica ammazzati, ed alla seconda una colonna che si era formata sulla strada, fu interamente dispersa. Qualora la necessità di opporre al nemico alcune artiglierie, forte si vedesse, dovrebbero i condottieri, della summenzionata invenzione servirsi, come pure di spingarde, obici, falconetti, e di quei cannoncini che possonsi sul dorso di muli trasportare; ed oltracciò potrebbero eziandio alcuni cannoni da quattro, sopra barelle traghettarsi, al qual trasporto sarebbero dodici uomini, destinati, da rilevarsi, di quattro, in quattro, ogni quattr'ore di cammino; e potrebbe una centuria di artiglierie, ed un manipolo di treno essere alla banda, aggregata; così potrebbesi in molti casi, eguale ed anche superiore al nemico, per tal modo trovarsi. Conchiuderemo dunque essere da mettersi in questa guerra in uso lo schioppo, la fromba, la balestra, il dardo, il mazzafrusto, la spingarda, il falconetto, l'obice, il cannone, le pistole come arme di getto, la bajonetta, picca lancia, spadancia, spada, sciabola, vangone, falce, falciuola, bicciacuto, ronca, mazza, scure, bidente, tridente, spiedo, stanga di ferro, ed anche pugnale, coltello, squarcina come [1-196] armi da presso; ciascuna delle quali a piedi ed a cavallo come sarà più adattata, e conveniente, dovrà essere con destrezza, maneggiata.

Dopo aver di quali armi si possa far uso in questa guerra, esposto, a parlare sul modo di vestire dei volontarj, passeremo. Le più delle bande in Ispagna, avevano divise a capriccio dei condottieri, oppure delle dame, dei frati o delle monache condizionate; imperciocchè il più delle volte successe, che le signore di Madrid, di Cadice o di qualche altra città, esse stesse pei difensori della patria le assise acconciavano; il panno coi propri fondi procuravano, e colle delicate loro mani lo tagliavano e cucivano. Altre volte erano queste da un convento di frati, o di monache, provvedute, e venivano quei volontarj, secondo il gusto del donatore, vestiti. Altre bande entravano in campo senza divisa, e con quelle dei nemici da loro spogliati, facendole qualche piccola variazione, quindi si vestivano. Finalmente molte le solite vesti contadinesche non mutavano, ed erano molto più delle altre, sicure, perchè in una ritirata precipitosa, in un premeditato scioglimento momentaneo, potevano facilmente le loro armi in qualche siepe, o solco, o ammasso di rovine nascondere, ed in mezzo alle file dei [1-197] nemici senza essere scoperti, ed ammazzati, tranquillamente passare. Era in generale l'amor della patria non solo ardente, ma puro, e l'unica distinzione di che fossero ambiziosi, era quella d'un nastro largo, e rosso con l'iscrizione: Vencer o morir por patria. Propone il sig.rLemiere per assisa delle sue truppe irregolari un camicione di tela con cappello tondo, e largo da potersi rilevare da una parte, o lasciar cadente tutto all'intorno. Non n'è cattiva l'idea, ma solamente in Francia, eseguibile, perchè usano i contadini generalmente di quel camicione; epperciò, nascondendo le armi loro, altro segno che gli faccia scorgere dagli altri, non rimane. Ma in Italia dove non è tal vestire fra il popolo, in uso, con sè gli stessi inconvenienti come se i volontarj avessero una divisa qualunque, porterebbe, ed in questo caso sceglierne una di miglior gusto potrebbero. Noi dunque opiniamo, dovere per la generalità delle piccole bande, sopra tutto nei primi tempi, che si mettono in campo, per evitare i sopra annunciati inconvenienti, una divisa adoprarsi dalle bande di un numero grande di volontarj composte, simile a quella di Mina; o di Hofer, onde, così loro non sia facile di sparpagliarsi per individuo, ma solo siano per drappelli, a sciogliersi costrette. Dovrà questa divisa essere della maggior semplicità, [1-198] senz'oro, nè argento; e in modo ritagliata, che nella minima parte, la sveltezza, ed agilità del volontario non impedisca; di color bruno affinchè nascondendosi nelle siepi e macchie non venga pel colore del vestito dal nemico, scoperto. Le armi pure; sì per le ragioni suddette, come per salvarle dalla ruggine, per quanto si possa, esser dovranno abbronzate. Quelle bande dunque ch'esser cosa buona stimeranno, porsi un'assisa in dosso, dovranno usare d'un farsettino lungo fino quasi alla metà della coscia, e dalla cintura in sù stretto alla persona, senza bottoni, ed al petto da lacci ed alamari dello stesso colore, serrato. Calzoni lunghi sufficientemente grandi, e tagliati diritti, dello stesso colore, scarponi alti fino al collo del piede coperti dal calzone, senza calzetti, un piccolo berretto tondo in testa, una bisaccietta nella quale stia un pane, una camicia ed un pajo di scarponi tutto ben ristretto assieme, ecco la divisa dei volontarj. Gli ufficiali non ne avranno una differente, ma solo potranno avere i cordoni degli alamari in seta. Se tutti debbono tanto gli ufficiali, come i volontarj essere nello stesso modo vestiti, conviene però che vengano i gradi maggiori dagli inferiori con una distinzione, manifestati, affinchè possa quell'obbedienza implicita al grado, e non alla persona [1-199] esistere, che forma la scala gerarchica di comando, e sommessione; e tutte le parti onde concordemente agiscano pel movimento del gran tutto, tiene assieme collegate. Porterà dunque il decurione per distinzione del suo grado, un fiocco di piccola frangia nero sul paramano d'ambo le maniche, il capo truppa un gallone di seta del colore del vestito sui due paramani in punta. Il centurione porterà un cordone di seta nera al collo, al quale saranno legati quattro ramicelli di sarmenta, e due galloni come il capo truppa; il capo mille sarà distinto con tre galloni come i suddetti, ed avrà la sciabola sostenuta da un cordone di seta di colore d'amaranto. Il connestabile sarà distinto con cinque galloni ad ambe le maniche, con una fascia rossa ad armacollo. Porterà il tribuno legionario una medaglia in forma di stella, di ferro ben lisciato, e lucido, sulla quale sarà inciso un sole raggiante, ed in mezzo vi sarà scritto rigenerazione italiana, da un cordone dei colori Italiani appesa al collo; quindi porterà un paloscio sostenuto da un cordone d'amaranto a tracolla, ed una fascia come il connestabile, ma dei tre colori italiani. I consoli porteranno pure una medaglia come quella dei tribuni, ma d'acciaro azzurro con l'istessa iscrizione. Oltracciò avranno una gran fascia [1-200] dei colori nazionali rosso, azzurro, e verde, ad armacollo, il vestito stretto sopra l'anche da una cinturetta d'acciaro, ed in mano il bastone consolare d'avorio. La distinzione di condottiero particolare sarà una penna rossa e bianca, sulla fronte del berretto collocata; quella del condottiero principale di distretto, una penna gialla del color d'amaranto; quella del principale di cantone una penna pavonazza e rossa; e quella del principale di provincia, due penne, una verde, colla punta bianca, ed un'altra di color d'oro colla punta rossa; quella del condottiero supremo sarà di tre penne dei colori nazionali; il gran Celiarca porterà tre penne bianche, e tutti quelli che da lui dipendono saranno con quelle distinti, chi da due, chi da una e chi da un pennacchio dello stesso colore; i Celeri quest'ultimo porteranno, con una piccola fascia bianca, alla parte superiore del braccio sinistro; i Vigilatori un pennachiccolo bianco colla punta rossa, etc.

L'alto censore sarà tutto vestito di panno nero nello stesso modo degli altri, tagliato e porterà tre penne nere; e fascia azzurra in cintura con la stella tribunizia. Il gran questore sarà vestito di colore azzurro e porterà le penne, e fascia in cintura verde. Coll'istessa stella, la nappa dei colori nazionali, sarà collocata in mezzo della fronte sui berretti.

[1-201] Ogni banda iscritta sul registro del condottiero supremo, riceverà un nome, ed un colore che non sia di quelli nazionali, ogni volontario ed uffiziale, incluso il capo mille vestito in divisa, oppure appartenente a quelle bande, che fanno la guerra in abito contadinesco, dovrà portare attorno alla parte superiore del braccio sinistro, una lista di panno del color indicatoli sulla quale sarà scritto il nome della banda, il decurione la porterà bordata con un gallone, di seta rosso: il capo-venti con due galloni, il capo-truppa con tre galloni due rossi, ed un bianco in mezzo; il centurione con una frangia rossa; il capo-mille con frangia dei tre colori. Gli altri uffiziali non saranno tenuti a portarla. In questo modo trovandosi la banda vestita contadinescamente, in pericolo, e dovendo nascondere le distinzioni, sarà facile ad ognuno di sfibbiare quei bracciali, e rimanere senza alcun segno militare.

Usavano gli Spagnuoli, e quasi tutti i popoli che fecero guerra d'insurrezione, per ripararsi dal freddo, dalle intemperie, e per coprirsi la notte alla serena, di portarsi in vece di cappotto una coperta tessuta di lana, che essi chiamavano manta. Noi crediamo che sia pure quell'uso buono per noi, e migliore del cappotto. Quella coperta, quando non sarà per coprirsi, porterassi [1-202] ad armacollo; e sulle spalle e braccia si potrà distendere, in tempo di pioggia, di neve, e di freddo.

I segni di riunione pei manipoli saranno un'asta con una mano in sulla punta, ed al di sotto un manipolo di fieno. Per le coorti saranno una bandiera dei tre colori nazionali, cioè con fondo rosso, bordata all'intorno dai colori verde, ed azzurro intrecciati a volute.

Per le legioni saranno, l'aquila romana, in punta d'un'asta.

Le bandiere, etc., non si useranno, che quando i corpi siano riuniti assieme per lunga permanenza, e non nel tempo, che le masse operano per separate porzioni. Gli strumenti da usarsi saranno, la cornetta, o la tromba; le arie da suonarsi, saranno sette, cioè:

Tutte queste arie, quando saranno per muovere specialmente quella porzione di truppa a che il trombetta o cornetta, è addetto, si suoneranno semplicemente, ma se al loro suono [1-203] si vorrà che tutte le bande di quel circolo d'operazioni, per qualche movimento combinato generale, si muovano; allora si aggiungerà un ritornello, quale indicherà, non essere un comando speziale, ma per tutte le bande, che lo intendano.

La piva, la zampogna, il corno di bue, tutti in somma quegli stromenti rusticani de' quali sogliono i contadini nelle campagne servirsi, possono essere utili onde avvertire del passaggio d'una colonna nemica, e de' suoi movimenti, per dare il signale a tutti i pastori, e contadini di ritirare il bestiame, di nascondersi in luoghi sicuri o di correre alle armi per molestarla. Sarà cosa facilissima ai comarchi, ed ai condottieri principali, di mettersi d'accordo sulla scelta delle arie, che debbono essere da tutti conosciute, onde le operazioni da eseguirsi dai contadini sparsi pe' terreni, soprattutto quando la cooperazione nazionale comincia a dimostrarsi, attivamente indicare. In Ispagna fù quel sistema di grande vantaggio ai condottieri delle bande, ed ai paesi, nel tempo della guerra dell'indipendenza, ed i faziosi apostolici nella guerra ultima della libertà, l'avevano pure con qualche profitto praticato, ma non tanto loro riusciva perchè poco era la nazione in generale, [1-204] a cooperare alla sua vergogna, e schiavitù, disposta. Dice il sigrLemier, che nella guerra dei Chouans quando i contadini vedevano passare le truppe republicane, fingevano di aver cura della loro greggia e suonavano arie, con una specie di piva da essi chiamata Bignoux, in uso in quel paese. Un certo numero di suoni staccati e aggiunti all'aria, avvertivano gl'insorti del numero dei soldati, che il distaccamento componevano. Si potrebbe dunque tal mezzo impiegare, soprattutto, perchè dice il succitato autore, che in una invasione, ognuno deve battersi, se può, e nel caso contrario, deve ajutare coloro che si battono; tutto essendo permesso, e buono, quando si tratta di liberare il paese dal giogo nemico.

Al muoversi dunque delle schiere avverse, udrassi da lungi nella lor direzione, per le italiche campagne, il clangore dei rusticani strumenti, che a vicenda coi ritornelli convenuti rispondendosi, bel bello e successivamente aumentandosi, ai comarchi e condottieri, il numero, e le operazioni dei barbari, paleseranno. Ognuno allora all'esercizio del dovere che per la patria gli concerne, velocemente accorre. Squillano per ogni dove le trombe, corrono i volontarj a cavallo, e chi quà, chi là formansi in drappello, al suono della cornetta riunisconsi a [1-205] prima giunta i fanti; i tocchi a martello della campana maggiore, i contadini nella campagna, del pericolo non meno, che del dovere loro verso la patria, fanno avvertiti; il suono campestre delle pive, e cornamuse, già chiaro viene alle orecchie di tutti. Non è dunque il barbaro, distante! Ordina il comarco le torme, situa ognuno al luogo previamente destinato, sono le bande in positura aspettanti, tutte le campane del luogo suonano a stormo, spuntano i bersaglieri nemici, comincia il fuoco; immote le torme, muovonsi le bande sù de' fianchi dell'avversario. Ecco le barbare colonne in cospetto, i tocchi della campana precipitansi, tutti gli strumenti ad un tempo suonano l'attacco generale, s'appicca la zuffa; da ambe le parti viene questa con accanimento attizzata, seguono i tocchi precipitati, giungono dal vicinato nuove torme in soccorso; il nemico è debole; da ogni classe di persone, da armi di tutte specie attorniato, in mezzo allo strepito delle archibugiate, allo squillo delle trombe e delle cornette, al fragore del campanone, al cigolìo dei cozzanti ferri, agli urli degl'insanguinati morenti ed alle feroci grida d'un popolo in furore, si scompone, e soggiace. Suona a doppio il sacro bronzo ed a festa, ognuno a quel tintinnìo si rallegra, è annichilato [1-206] il nemico, intuonasi l'inno della vittoria, e le liete voci del popolo festeggiante, dall'armonia degli strumenti accompagnate, rendono di sì fausto avvenimento, sincere grazie a Dio.

CAPITOLO IX. DELLE VETTOVAGLIE.

La prima cura necessaria, il primo dovere che in una guerra qualunque, si esige, quello certamente si è di provvedere al sostentamento di chi deve guerreggiare. E come in una guerra irregolare dare a bisogni opportuno compenso, quando una base militare generale, non esiste? Senza magazzeni, senza commissarj che alla testa de' varj dipartimenti sulla regolarità delle distribuzioni sopravvegghino? Senza frumentieri e senza fornitori generali, e particolari dei viveri? Senza un servizio, in somma, di regolare provianda? Debbonsi tutte queste difficoltà, quando sulla condotta, e proseguimento della nostra guerra si ragiona, certamente affacciare. Noi ben sappiamo e nessun [1-207] militare ignora, che gli eserciti moderni non hanno in mezzo di loro le sorgenti della propria conservazione, ma bensì all'intorno, e che da questo cambiamento, prodotto dalla differente qualità dei projettili d'oggidì e dal genere di nutrimento del militare parimenti variato, venne la indispensabile necessità di stabilire sulla linea d'operazione molti successivi depositi, ed al giornaliero consumo, col mezzo di convogli, opportunamente sovvenire. Epperciò carri pieni di quei generi, debbono per quell'oggetto continuamente andar, e venire, come pure fa d'uopo di molta truppa per difendere quella linea, che può facilissimamente venir dalle bande insurrezionali tagliata, ed in conseguenza si presenta l'acconcio di tosto il centro affamare. Egli è un uso generale negli eserciti europei regolari, quello di vivere di pane, e di biscotto; non può il soldato caricarsi di pane per più di quattro giorni, e di biscotto per più di otto, ed anche in casi rarissimi. Quando il maresciallo Massena, dopo la battaglia di Busaco, mise il suo esercito dalla fortissima linea di Torresvedras, in ritirata, caricò ciascun soldato per quindici giorni di viveri, ma ne avvenne quindi, che il soldato dalle fatiche, e lunghe marcie, non meno che da quella soprassoma [1-208] soverchiamente lasso, ne gettò via una gran parte, ed al quinto giorno già pativa di bel nuovo la fame. Non potendosi nel campo, il pane, e biscotto preparare, perchè vi vogliono forni per cuocerlo, e parecchi giorni per quelli construire, è necessario che vengano alle spalle dell'esercito, ed a poca distanza del campo magazzeni di riserba stabiliti, dai quali escano le regolari necessarie distribuzioni di provianda. Oltrecchè, questo modo di guerreggiare non si potrebbe in un'insurrezione nazionale, senza pericolo di grave danno praticare, per la mancanza totale di magazzeni, e di quei regolati dipartimenti, l'esistenza de' quali nel nostro caso, più danno per avventura, che vantaggio, al paese arrecherebbero, la confusione inevitabile in quei primi movimenti aumentando, in vece di toglierla. Imperciocchè hanno quei commessarj, più ad arricchire sè stessi, che al bene comune per l'ordinario la mira; di fatti quelli ch'erano alla provianda dell'esercito republicano francese destinati, un chiaro, e funesto esempio ce ne forniscono, tanto nella prima come nella seconda volta che scesero a divastar l'Italia. Costoro spogliando i popoli, e facendo patire la fame al soldato, si arricchivano, e questi per adempire ai suoi doveri, e sussistere doveva [1-209] sovente volte, al proprio ingegno ricorrere. Rallentando questo complicato sistema i movimenti di un esercito, limita le sue operazioni ad uno stretto, e diterminato circolo, in diretta opposizione all'essenza della guerra per bande, la quale richiede, che tutta l'estensione del paese, eccettuandone la sola parte fisicamente occupata dal nemico, sia da innumerabili piccoli corpi armati, coperta. Conviene dunque che il nostro sistema di provianda sia da quello delle truppe regolari differente, e che le bande portino i mezzi di mantenimento con loro stesse, o gli trovino dappertutto, o limitatamente nel distretto, o cantone, o provincia che armatamente percorrano.

Non vedesi nella storia antica, rimontando fino al tempo di Mosè, che gli Ebrei, Greci e Romani, l'uso avessero di stabilire magazzeni di viveri, depositi di foraggi, etc.; e si rileva dalla sagra scrittura, che quando gli Israeliti sortirono dall'Egitto presero della farina, e quella messa nei loro mantelli, ciascuno la congrua porzione sulle proprie spalle caricossi: i consoli Romani distribuivano frumento, alle loro legioni per quindici o venti giorni, ogni legionario portava la sua provvisione in una tasca, e ciascuno con pietre o con piccoli molini a braccio, il suo grano macinava, e quindi [1-210] fattane una focaccia, non in forni, ma sotto la cenere, o sopra pietre, o foglie di rame la faceva cuocere. In oggi ancora un tal modo praticasi per tutto l'Oriente, ed i selvaggi dell'America, pure ce ne offrono un valevole esempio. Usano essi d'avviluppare la pasta in foglie, che coprono di cenere calda, e quindi la mettono sopra carboni accesi; in Norvegia, e presso molte altre nazioni fassi cuocere la pasta in pietre concave a sufficienza riscaldate; gli Arabi cuocono il pane in mezzo a due pietre ardenti; quello dei Tartari di Cercassia, è di farina di miglio impastata con acqua, e cotta in una forma di terra; e quello della più gran parte de' popoli dell'Africa è pure fatto in quel modo, ed anche peggio. Napoleone in Russia, nell'anno 1812, mise pure per qualche tempo questo metodo parzialmente in pratica, ed il signore Segur, nella storia della guerra di quell'anno, ci dice che «quando il sacco di farina, che portava il soldato era vuoto, si riempiva di qualunque specie di grano si trovava, e si faceva macinare al primo molino che s'incontrava, o pure da molini a braccio che seguivano ogni reggimento, o che si trovavano nei villaggi, giacchè quei popoli non ne conoscono forse altri. Era d'uopo impiegare sedici uomini, e dodici ore per macinare con uno di questi molini il grano [1-211] sufficiente per un giorno a cento e trenta uomini.» Ecco il sistema da seguirsi per le vettovaglie nel corso della nostra guerra. E perchè non introdurremo noi pure l'uso di quei molini a braccio, già stati dal celebre nostro Monteccuculi proposti? Perchè non si assueffaranno i nostri volontarj a portare sulle loro spalle una provvista di vettovaglie per varj giorni? Grano dappertutto, ed in abbondanza puossi rinvenire in Italia; sobrio, e forte il volontario, non gli sarà difficile di provvedere il suo sostentamento. Tranquillo il condottiero della banda per venti giorni di sussistenza, potrà lunghe marcie intraprendere, e per balze, anditi di riscontro, e giravolte, dal retto cammino a deviare, mentre il nemico dovrà del tutto a guardar le strade maestre, per dove debbono passare i suoi carriaggi, e sulle quali sono i suoi magazzini stabiliti, occuparsi, e dagl'innumerevoli ostacoli, che possono dalle bande essere al tragetto delle sue provvisioni e convogli frapposti, difenderli. Non sarà al condottiero malagevole di rinnovarle, potendone trovare ad ogni passo, massimamente se avrà cura d'imitare gli Spagnuoli, che facevano magazzeni sotterranei nelle montagne, invisibili al difuori come abbiam già nel capitolo settimo, riferito. E come dal rinomato scrittor militare [1-212] il sigrCamillo Vacani, alla pag. 171, del tomo 3, della storia delle gesta degl'Italiani in Ispagna, viene pure in appoggio delle nostre asserzioni esposto. «Cosa sommamente malagevole, dic'egli, fù sempre nella guerra di Spagna il procacciare viveri alle armate, poichè o le valli non producono ciò che basti per nudrirle, o vi hanno strade anguste, e facilissime a difendersi, per le quali i trasporti di derrate sopra i ponti i più infecondi dovrebbero aver luogo, o finalmente perchè l'accorto contadino sa nasconderli sotto terra, fra pareti immurate, o dentro scavi naturali dei monti, e si sa pur talvolta far trascorrere ove più il lucro privato il profitto generale, e i bisogni generali lo consigliano. Ed alla pag. 172, soggiunge: siccome d'ordinario ben altrimenti degli antichi Romani i quali dall'uso induriti alle fatiche, oltre le armi ed i bagagli solevano addossarsi per quindici giornate di frugale sussistenza, i soldati moderni non usi a parco vivere, si debbono sovente, e largamente provvedere, così gli ostacoli riuscivano maggiori per tante, e sì frequenti provvigioni in terre o abbandonate o per sè stesse sterili ed incolte. Nè vi avendo agevolezze di trasporti per la penuria di soccorsi del paese e delle strade carreggiabili, nessun sicuro, e ben provvisto [1-213] magazzeno potevasi formare, o colle armate poteva tener dietro addentro i monti, e nell'interno delle valli più elevate, ove la guerra d'ordinario era più calda e continuata.» Così pure i nostri condottieri, facendo, mentre sarà il nemico ad intisichire, e finalmente a perir di fame costretto, potranno benissimo le loro bande mantenere. Sarà forse taluno ai surriferiti precetti per obiettare, che vivendo generalmente i nostri contadini di pane levato, e cotto al forno, il loro stomaco abituato a quel genere di nutrimento, non potrebbe uno differente più grossolano, digerirne: aciò, noi daremo per risposta, non esservi abitudine la quale, quando a lasciarla, l'uomo sia fermamente deciso, non si possa cambiare. Lo stomaco, purchè non sieno repentine ma graduali e regolate le alterazioni, si può come tutte le altre parti del corpo, senz'avvedersene, a ciò assueffarsi. Non v'ha dubbio che la necessità o semplicemente una volontà decisa, possano in brevissimo tempo lo stomaco degl'attuali Italiani eguale ridurre a quello dei Romani, loro illustri progenitori, che con la loro sobrietà e frugalità potevano, molto più facilmente di quello che si usa oggidì, le truppe mantenere, pel qual mezzo all'apice della virtù, della possanza, e della gloria, rapidamente poggiarono. Cosa invero [1-214] dolorosissima non meno, che vergognosissima pell'attuale generazione italiana, quella sarebbe, di dover convenire di una degenerazione di stomaco tale, che infinitamente più debole lo renda di quanto lo fosse quello degli antichi Ebrei, Greci, Romani e dei contemporanei Orientali, Americani e Norvegi, non meno, che dei Francesi e di quegl'Italiani stessi che nel 1812, fecero la guerra in Russia, e le privazioni e fatiche di quella, maravigliosamente sopportarono. Ma per fortuna, non crediamo che siano i nostri Italiani delle provincie e delle montagne alla sopposta vergognosa debolezza di stomaco soggetti. E se attentamente quale sia il loro genere di vita, indaghiamo, lo troveremo affatto dissimile da quello dei signori e di quei giovani effeminati che vivono nelle città, e che ad altro non pensano che ad indebolirsi il corpo, e a perdere la salute, vivendo nelle antezze e profusioni d'ogni genere. La classe degli agricoltori, pastori, massari, ed onesti e frugali abitanti dei borghi, e villaggi e specialmente di quelli situati ai piedi o sui contrafforti dei monti, che formano una considerevole massa d'abitanti, forse la più utile in questa guerra, perchè scevra della maggior parte de' bisogni dei cittadini, per loro giornaliero abitual nutrimento, non si [1-215] servono per lo più, che di polenta in alcune parti; di farro in altre; e gli abitanti delle Alpi Cozie vivono il maggior tempo dell'anno di sole castagne, e latte. Il famoso autore Carlo Denina, nel suo quadro dell'alta Italia, ci dice «essere le castagne per un buon terzo di quella, il principal notrimento di parecchi cantoni del Piemonte, mentrecchè in altri il grano Turco è a moltissimi proficuo.» Ed in tutti, ove più, ove meno, li vedremo vivere di farina cotta in acqua, di castagne e di latte, etc., senza neppur pensare nè al vino, nè al pane. Da questo noi potremo ben anche dedurre, che forse i più atti e disposti alla frugalità e sobrietà necessaria in una guerra d'insurrezione, che può essere lunga, debbonsi gl'Italiani considerare; già in gran parte a nutrirsi di farina stemperata nell'acqua, cotta senza lievito, e senza forni, ed a non sentire il bisogno di pane, fin dalle fasce avvezzati. Epperciò si potranno meglio di qualunque altro con alimenti eventuali, forniti dal caso, nutrire, e non saranno come il nemico, agl'imbarazzi dei magazzeni, e salmerie per le vettovaglie, le bande, soggette.

Supponendo talvolta, che lo spirito pubblico non sia ancora fino a quel punto, che dovrebbe essere, acceso, e che non faccia preferire per poco tempo, il vitto frugalissimo di semplice [1-216] focaccia, alla viltà, ed infamia di un'esistenza un pò più agiata ma di continuo dai tiranni interni ed esteri posta in pericolo, ingiuriata, ed avvilita; noi indicheremo nulla dimeno, quanti altri mezzi vi siano onde procacciarsi le vettovaglie, affinchè per questa sola cagione non vengano gl'Italiani dall'afferrare l'idonea congiuntura di ferocemente insorgere contro gl'iniqui oppressori del loro paese, distolti. Pertanto diremo che saranno le vettovaglie ai difensori della libertà ed independenza dal popolo fornite. I governi provinciali ed i consigli municipali delle parti del paese già liberate dalla presenza dei nemici, e le congreghe segrete degli amici della patria nelle parti da quelli ancora occupate, debbono per mezzo della contribuzione generale, alla sussistenza delle bande esistenti nei loro municipi, distretti, cantoni, provincie, con saggio avvedimento provvedere. Interessato il popolo in una contesa che, per suo proprio vantaggio si sostiene, i frutti della quale tutti debbono in suo prò ridondare, nessuno Italiano sarà verso coloro, che per la patria versano generosamente il loro sangue, nè tanto sconoscente, nè tanto snaturato, ed inumano, che di contribuire per la sua porzione al sostentamento de' suoi liberatori, empiamente si ricusi. Ammirabile fù il procedere [1-217] de' contadini spagnuoli nel tempo della guerra dell'indipendenza. Quanto spesso non si privarono essi del solo pezzo di pane rimanente in casa, per darlo al prode difensore del loro paese, in nutrimento? Quanto spesso non diedero essi il loro ultimo real, con quell'allegra prontezza, che altri nel dar denaro per un buon contratto, manifesta? Ecco in qual maniera il maresciallo Govione di san Ciro si spiega a questo proposito, al capo 3º, pagina 95 del suo giornale: «Si giudichi della situazione del settimo corpo, non ricevendo, nè potendo ricevere alcun soccorso dalla Francia, colla quale non aveva più comunicazione, non avendo altre risorse di quello che può offerire un paese il quale come si è osservato, non produce se non una parte del suo consumo, inoltre già esausto dalla guerra, e dove i pochi viveri, che rimanevano erano offerti dall'amor di patria de' suoi abitanti, alla truppa incaricata di difenderli.» Ed il già citato scrittore delle gesta militari italiane in Ispagna, così parimenti sù questo particolare, alla pagina 173, volume 3º, si spiega «Sobrio com'è il soldato spagnuolo più di quello di qualsivoglia nazione, poichè si pasce delle volte unicamente di focaccia, o di aglio, e si soddisfa a lungo del solo tabacco di cui fuma e fa grand'uso, [1-218] soccorso in ogni punto da suoi propri concittadini e avente soprattutto in Catalogna nelle piazze, e castella da lui possedute, altrettanti magazzeni sicuri dagl'insulti del nemico, procedeva più allegro, e ardimentoso, nelle parti nude del terreno; ivi attraeva il nemico, lo stenuava di privazioni, lo spossava con attacchi, e se non riuscivagli ogni volta, di forzarlo per un modo, o per l'altro a ritirata, gli rendeva oneroso il soggiorno, micidiale il raccogliere onde vivere, e di quasi nessun avvanzamento nell'acquisto delle Spagne i sacrifici d'ogni sorta, cui per amor di gloria, e disciplina, si esponeva.» Qualora poi succedesse, cosa da non supporsi, che in qualche parte della penisola, non fossero gli abitanti ad apportare il necessario pel sostentamento delle bande così solleciti, essendo questa una necessità continua, ed indispensabile, graviterà per forza sul paese. Tutto il talento di un condottiero consiste nell'esigere i viveri con equità, ed evitare che pei paesi che percorre, succedano eccessi nella loro esazione, e non vengano depredati, limitandosi al puramente necessario, e sempre tenendo sopra la loro raccolta, e distribuzione, un occhio severo, e vigilante; si dovrà delle produzioni, tali quali le possede il paese, contentare, [1-219] facendo sì per quanto sia possibile, di farne cadere il peso sopra de' paesi, che o non si sono decisi apertamente in favore della causa della patria, o che sedotti dalle perfide suggestioni di alcuni de' loro principali abitanti, gli sono contrarj, e cercherà, i paesi favorevoli alla santa causa, dai pesi di provvista alleggerire; trarrà dalle mancanze, ed anche dai delitti delle persone ricche e possenti, convenevol partito, quando senza scandalo, nè pericolo, la loro punizione possa sopra i loro beni cadere, e si procurerà in tal modo mezzi per la sussistenza della sua truppa, i paesi amici alleviando da questo aggravio. Ed infine la penuria a che si vedranno incessantemente i suoi volontarj, esposti, se la guerra si prolunga, loro farà con pazienza sopportarla; e li conterrà dagli eccessi, e delitti, che possano tali miserie produrre. Don Isidoro Mir, in Ispagna, condottiero d'una banda, ebbe sempre in questa sorta di maneggi un giudizio fino e politica particolare. Non solo molti paesi, per dove passava, non soffrivano, ma bensì, ed in ispezialità le classi povere degli abitanti, vi guadagnavano. Facevasi egli dai paesi i più lontani, e ritirati dal circolo delle sue operazioni, quasi continuamente le vettovaglie condurre, sempre per tali esazioni quelli preferendo, [1-220] che per la loro prossimità ai punti occupati dal nemico, e per qualche particolare accidente, stavano sotto la sua influenza, od essendo alle sue massime propensi, la guerra che lor si faceva, con orrore, e con disprezzo riguardavano. Un giorno, il caso presentossi, che uno dei magnati di questi ultimi paesi, gli somministrò l'opportunità di provvedere all'alimento della sua truppa, per più di due mesi, calzarla, e quasi del tutto vestirla, senza nulla nè al paese di residenza del reo, nè agli altri che per l'ordinario somministravano il suo mantenimento, addimandare. Un giovane imprudente, allucinato dalla bella mostra marziale dei Francesi, ed inseguito dalla sua famigliare comunicazione con quelli in Talavera, dove spesso frequentava, sedotto, promise al comandante francese di quel punto, di dargli lingua, onde il destro agevolargli di sorprendere Mir; e col pretesto di compartirgli un gran numero di camicie, ed altri effetti per la sua truppa, invitò quel condottiero a trasportarsi al suo paese. Mir, a questo liberale invitamento, come quel che sapeva per varie ricevute relazioni, che quegli molto intimamente coi Francesi di Talavera se la faceva, forte maravigliossi: accettò non dimeno l'invito, e marciò alla volta di quel paese, non tralasciando però di [1-221] prendere tutte quelle precauzioni che dalla prudenza gli vennero dettate. Una di quelle si fù, di far un giorno prima della sua partenza, un piccolo distaccamento cautamente avanzare in osservazione di Talavera. In fatti l'uffiziale che lo comandava, vidde alla mezza notte un uomo giungere ben bene inferrajuolato ch'ei conobbe essere un cameriere di gran confidenza del magnate di cui si tratta. Tosto lo arrestò, e quindi facendolo spogliare, ed attentamente ogni parte delle sue vestimenta esaminare, gli trovò nelle pieghe dell'abito, nascosto un biglietto del suo padrone al comandante francese diretto, dal quale vennero le sue perfide intenzioni, ed iniqui progetti in chiara luce. L'uffiziale, tenendo prigione il portatore, mandò il biglietto a Mir, che prima di arrivare al paese, lo ricevette, ed affrettando subito la marcia, entrò, e subito preso il delinquente, prigione, se ne partì; postolo quindi sotto giudizio in un consiglio di guerra verbale, stava sul punto di essere sentenziato a morte, quando i suoi parenti tra i quali v'erano molti, che godevano della riputazione di eccellenti cittadini, con preghiere, ed allegando l'inconsiderata gioventù del criminale, e soprattutto l'infamia, che credevano dovesse sopra loro pel supplizio di un parente, [1-222] giudicato come traditore della patria, ricadere, cercarono d'impetrare il suo perdono da Mir, che solo poteva con un atto di pietà, da quello stato terribile salvarli, offrendosi di obbligare il reo a fare un sagrifizio de' suoi beni alla gravezza del suo delitto, corrispondente, da che più utilità alla patria che dalla sua esecuzione, sarebbe certamente stato per ridondare. Rifiutò Mir primieramente la grazia, ma poi le surriferite circostanze, con ponderazione riandando, e prestando, alle sollecitazioni di quei parenti, utili, e fedeli cittadini, benigno orecchio, i quali secondo il pregiudizio degl'ignoranti, si credevano per quell'esecuzione disonorati, ed in fine temendo pure gli effetti probabilmente funesti del loro risentimento, si decise ad ammettere le loro offerte, mosso principalmente dalla considerazione che il reo teneva la maggiore, e più disponibile parte de' suoi beni nella città stessa di Talavera, circondario, occupato da una forte guarnigione nemica, ed in conseguenza fuori della sua portata. Fu dunque il colpevole perdonato, e con riconoscenza, ed ancora al di là, tutte le importanti condizioni adempì, ciò che procurò a Mir i mezzi già riferiti, in quell'epoca scarsissimi, la gratitudine di un gran numero di persone possenti volte in suo favore, [1-223] ed il concetto di umano, senzacchè perciò abbia poi tralasciato di continuare verso gli altri il suo sistema di severità, tanto in questa guerra necessario, sebbene il castigo dato a questi, anzicchè moderato, stato sia sufficientemente severo, e di maggior utilità al paese.

Se mai per caso, ad un condottiero avviene di passare in un paese, che di tutto sia deficiente, ma nulladimeno gli abitanti abbiano di che vivere, allora ripartirà i suoi volontarj nelle case, uno o due per famiglia, con ordine agli abitanti di dargli una porzione del loro vitto; se quella, di che mangiare per sè, possede, poco o nessun dissesto le porterà di mantenerli per pochi giorni, e da questo modo potrà il vantaggio ricavarsi, che sempre più affratellandosi i volontarj cogli abitanti, la guerra si renderà viemmaggiormente popolare.

Finalmente perspicace il condottiero, non mancherà di mezzi di sussistenza, perchè abbondante il nostro fertile suolo, di quanto abbisogni, agevolmente lo fornirà; ed essendo i volontarj della patria, quali esser debbono, sobrj, pazienti, e dall'ardor di vendetta stimolati, esiguo nutrimento richiederanno, epperciò loro servirà la nuda terra, per letto; con robusta bevanda di sangue tiranno-tedesco, la lor sete ammorzeranno, e saranno alle durissime [1-224] loro vigilie, di glorioso ristoro, l'unione, l'indipendenza, la libertà della patria.

CAPITOLO X. DELLA PAGA E BOTTINO.

In una guerra pel bene della patria, intrapresa, nella quale tutte le nazionali, energìe vengono dalla propria individuale volontà di ciascun cittadino messe in azione; dove il sentimento sublime, che a quell'opera sacrosanta efficacemente lo stimola, in lui svegliando un fervoroso entusiasmo, lo riempie d'idee grandi, e generose, e non deve lasciargli campo di sentire i bisogni volgari ed apprezzare i piaceri, e le soddisfazioni comuni, pare che non pur favellarsi della paga, ma nemmeno, pensiero di quella, andar per l'animo de' combattenti dovrebbe. L'idea del salario porta con sè quella della servitù, e per dar luogo all'avarizia, ed a pensieri di puro interesse monetario personale, i nobili sentimenti deprime. Ferro, e pane, già abbiam detto, dovrebbero essere le [1-225] sole richieste di chi alla salvezza della patria magnanimamente si consagra; e vile sarebbe colui, che per impugnar le armi onde constituirsi una patria, la paga pretendesse. Alla patria sola, e dopo l'acquisto di una stabilità certa, per ogni ragione, il diritto di rimunerare colui che con tutte sue forze, diede mano a portarla in quello stato, esclusivamente appartiene; e neppure dovrebbe da un vero Italiano, spinto da alti, e sublimi patrii sentimenti, venir tal guiderdone ricercato, perchè, l'essere al felice istante della liberazione della patria, ed allo stabilimento della sua felicità, scopo unico delle sue azioni, colmo de' suoi desiderii, finalmente pervenuto, dovrebb'egli come ampio rimeritamento alle sue fatiche, alle sue veglie, ai suoi patimenti, considerare. Solo ai tiranni conviene di ben pagare i loro sicarj, perchè di quelli si servono, per dare, ai loro pravi progetti esecuzione, e mandar innanzi la ributtante loro tirannia; per estendere le frontiere dei loro stati, per soddisfare ai loro capricci; per sostenersi eguali agli altri tiranni. Debbono perciò in colui che per loro, ad impugnare le armi, ed arrischiare la propria vita si destina, un interesse artificiale, necessariamente creare. Laonde promovono nella truppa, lo sfoggio, la lussuria, il lusso, [1-226] ed ogni spezie in somma di vizj, affinchè per soddisfarli, abbia il soldato bisogno di danaro, dal quale dipenda, e pel quale venda la sua persona. Ed ecco in tal modo per le nequitosissime tiranniche arti, la più onorevole, non men, che utile, la più luminosa professione, in un mestiere disonesto, vile, e quasi ridicolo trasformata. Infatti, chi può senza sentirsi movere al riso, osservare gli attuali militari in moda attillati e con vestiti sì fattamente cincischiati, che tutt'altro pajono, che guerrieri? Ed è ben giusto, perchè altro veramente non sono, che agenti ciechi, disprezzevoli strumenti del tiranno, ed il trastullo dei cortigiani, che fangli, come burattini, sulle piazze ballare; ma ben contrario a questi scherani, essendo colui, che per la patria intraprende a militare, le sue volontà, e le sue opere, non avendo altro fine, che la riuscita del gran progetto, si vergognerebbe quegli di pensare ai vestiti, ai bagordi, ed alle dissolutezze, siccome vizi che lo stabilimento di un libero vivere civile impediscono, ed alla riputazione di chi da loro è dominato, grave arrecano danneggiamento. Epperciò, non avendo tanti bisogni da soddisfare, mai non troverassi nella necessità di uno stipendio.

I soldati Ateniesi sempre gratuitamente servivano, [1-227] finattantocchè Pericle introducendo il lusso, non gettò il primo germe della rovina della repubblica, e di assegnare un salario ai difensori della patria, non fece nocevolissimo divisamento. Prima di quell'epoca, in tutta la Grecia guerreggiavano i militi a loro proprie spese; ma egli è bensì vero, che in quei tempi, guerre che non fossero utili e necessarie, mai non s'intraprendevano. In caso solo d'aggressione, o nella speranza di far bottino, correvasi alle armi; ed agiva ogni milite per sentimento di propria utilità, e gli eserciti pochissimo dal paese da dove erano usciti allontanavansi.

Viene da Tito Livio riferito, che i Romani servivano a loro proprie spese, nè mai pel loro proprio servizio fino all'anno 347; ricevettero alcun salario, e possiamo dal sovra-esposto farci chiaramente capaci, non esser quando si voglia, cosa impossibile far la guerra, senza che sia l'assegnamento della paga, necessario. Anzi, quando quella, pel vantaggio della patria, ch'è il bene commune dei cittadini, s'intraprende, noi crediamo che la pretesa di una mercede in moneta, debbasi a delitto ascrivere.

Ma facendosi poi a ponderatamente lo stato morale delle menti, considerare, si vede che gli uomini d'oggidì credonsi di far la guerra incapaci, se non hanno i sufficienti danari onde [1-228] provvedere a certi bisogni, cui furono dalle finissime arti della tirannìa bel bello assoggettati. In oggi, per verità, dai buoni come nocevoli e proprj dei vili, e schiavi, sono riconosciute e riprovate tali abitudini, e sono essi bensì ad abbandonarle decisi, ma solo gradatamente, a poco, a poco, non potendosi da quelle, senza rischio della salute, tutt'ad un tratto sceverare. Ed osservando noi che le truppe de' nostri nemici ricevono un abbondante soldo regolarmente pagato, e che alcuni degl'Italiani (ad affrontare ogni sorta di patimenti, e disagi pel futuro bene del loro paese, non ancora del tutto fermi e decisi) potrebbero, sedotti dalle offerte dello straniero, e de' tiranni interni, lasciarsi piuttosto ad abbracciare il partito del nemico, che quello della patria trascinare, e massimamente, perchè i nostri avversarj, coll'oro alla mano pronti sempre staranno, il bisogno immediato, reale o supposto di quel milite a soddisfare, che assai più a sè stesso, che a suoi compatrioti uniti porti affezione, per tali considerazioni essere crediamo conveniente, che in qualche modo possa di tanto, in tanto e moderatamente, avere il volontario una piccola somma di danaro alla sua disposizione. Egli è pur troppo non men doloroso che vero, non essere l'amor [1-229] del paese, delle buone leggi, dell'indipendenza, nè il rispetto dovuto a sani principj, l'influenza delle massime virtuose, i sentimenti sublimi (motivi tutti possentissimi per infiammare i cuori onesti) in oggi alle masse, bastevoli eccitamenti; ma essere solamente atti, il sentimento del particolar guadagno a nobilitare, unica molla sufficiente, onde comunicare, a quelle masse la forza necessaria, e l'unico legame, per tenerle solidamente unite. Tutto ciò, quando ad una massa, qual è quella del popolo Italiano al giorno d'oggi, di tanto varj, e tanto complicati elementi composta, volgiamo il pensiero, convienci di seriamente calcolare.

Siccome dunque nello stato attuale del mondo, il personale guadagno di danaro, è, parlando di masse, come il motore diretto, od indiretto di tutte le umane azioni da considerarsi; così sebbene dobbiamo noi credere che i condottieri delle bande, solo da sublimi sentimenti, e da un'ardente amor di patria, sieno animati, e diretti, ci è oltremodo necessario questo nobile, ed esclusivo modo di pensare, in una parte di coloro che accorreranno sotto le bandiere della patria, di francamente non riconoscere. Molti, col fine di profittare delle prese fatte sul nemico, per fondare, od aumentare la loro fortuna, nelle file de' forti s'arroleranno, [1-230] altri per godere della paga, altri per darsi ad una vita di profusione, e di licenza, prenderanno partito. In tutte le insurrezioni nazionali, sopra tutto in quelle, che per la progettata guerra esser debbono di lunga durata; sonosi veduti quegli esseri, ed in abbondanza, che più per l'amor di sè stessi, che per la patria, impugnavano le armi. Disgrazia è questa, quasi inevitabile, perchè prendendo l'apparenza di ardenti campioni della patria, non si possono quei cattivi, dagli altri veri, e desinteressati Italiani, distinguere. Per forza dunque trar dovrassene partito, e per renderli utili alla patria, in parte, a quelle ignobili propensioni generalmente soddisfare. Non avrà dunque il milite della patria un soldo regolare, ma una parte del bottino fatto sul nemico; tostocchè il governo provvisionale di una provincia sarà stabilito, e verrà da quello un competente soldo ai volontarj delle bande accordato, che non dovrà essere pagato, se non alla fine della guerra, dopo la convocazione del Parlamento nazionale, liberamente costituito. Questo metodo messo in varie parti della Spagna, nel tempo della guerra dell'independenza, in pratica, produsse ottimi risultamenti. Imperciocchè, da quanto dice il nostro Pecchio nella relazione degli avvenimenti della Grecia [1-231] nella primavera del 1825: «Ogni individuo nei primi tempi di una rivoluzione, ha un'esuberanza di coraggio e di ardire, ha un desiderio di vendetta compressa, che non è possibile sottoporre ad un freno, nè ad una legge di disciplina. Quindi ogni individuo trova un campo più vasto, e più conforme alle sue passioni nel guerreggiare da volontario, e nel disordine, e nel tumulto delle gueriglie. Ma l'entusiasmo per natura sua è fugace, e dopo alcun tempo di sfogo, si rallenta, s'intrepidisce, la vendetta si sazia anch'essa, e l'amor della gloria langue alla fine come ogni altro amore.» È cosa dunque più che necessaria di mantenere vivo un eccitamento di particolare guadagno, nel cuore di colui, che per la lunghezza del tempo, per la durezza delle circostanze, o per sazietà di vendetta, vacillasse nella sua prima risoluzione, ed in cui l'amor della patria, per avventura languisse. L'essere creditore di quel governo, che non è ancora costituito, e la certezza, che senza lo stabilimento di quello, non mai si possano ricevere gli averi, deve buoni effetti necessariamente produrre, e far sì, che quello il quale sarebbe di abbandonare la causa della patria, di uscire dalla penisola, o di passare nelle file del nemico, tentato; sapendo, che [1-232] in quel modo sagrifica varj mesi o anni di credito della sua paga, continuerà a combattere nelle schiere dei buoni, e farà ogni sforzo per istabilire presto, e bene, quel governo dal quale solamente potrà essere pagato. Non dovrà essere la paga molto vistosa, non convenendosi, che tosto stabilito il nuovo governo, si trovi con un debito enorme. Cinque soldi al giorno almeno, o quindici al più, con un graduale aumento pegli uffiziali; e sott'ufficiali, crediamo sia per essere una giusta paga. Il milite, presentando titoli comprovanti il tempo del suo servizio, sarà in ragione di quello, alla fine della guerra soddisfatto.

Stabilito come si debba rispetto alla paga praticare, ci converrà passare a discorrere dei fondi de' quali dovranno i condottieri servirsi, e del bottino, in generale, ed in particolare. Vediamo dalla storia delle guerre dei tempi antichi, che non esisteva sin'allora l'uso di pagare il militare, il quale per ricompensa delle sue fatiche, e de' suoi servigi non attendeva, se non la parte del bottino toccatagli in sorte. Sarà pure nella nostra guerra di mestieri, che venga quell'uso richiamato in vigore, e che da quello solo s'alimentino le bande. Ogni qual volta nelle città, borghi e villaggi per dove si trovi passare una banda, od a portata [1-233] delle sue incursioni, vi siano fondi, tanto in moneta, quanto in grani, od altri effetti al governo, che si vuol distruggere, appartenenti, debbono i condottieri in preferenza di qualunque altro mezzo, pei bisogni de' loro volontarj servirsene; ed esauriti questi, de' fondi dei corpi, confraternite, ed altre istituzioni, dovranno immediatamente servirsi, che non si trovano al soccorso dell'umanità sofferente destinati, perchè si correrebbe il rischio di lasciarli alla disposizione del nemico, e per altra parte, non possonsi ad altro miglior uso, che alla difesa della libertà nazionale, certamente impiegare.

Quindi ai fondi comuni applicati alla polizia, e spese particolari dei paesi, lasciando sempre il puramente indispensabile pel pagamento del medico, chirurgo, maestro di scuola, ed altri impiegati, le cui incombenze sieno il sollievo, e l'istruzione del povero, si porrà mano; perchè tali fondi, all'eccezione di quanto per tali oggetti viene impiegato, e ch'è ordinariamente di poca entità, sono gli incerti dei raggiratori che hanno quasi sempre l'amministrazione del paese. Finalmente a nessun titolo, se non per l'intiera deficienza di qualunque altro mezzo, si potrà ai beni dei particolari, aver ricorso. Per la qual cosa, dovrà il condottiero aver somma cura, che questa gravosa, ed inevitabile [1-234] tassa, si faccia per equitativa ripartizione, affinchè tutti proporzionatamente colle loro facoltà contribuiscano. S'intende però, ch'ei debba lasciar alle municipalità il diritto di farne la partizione, e solo udire le lagnanze di coloro, che si possano credere ingiustamente aggravati, esaminarle con maturità, e se le trova fondate, mettervi all'istante riparo. Altri fondi esistono pure in molte parti, chiamati pii, cioè, destinati ad opere pie, come al culto di Dio, alla riparazione e lusso delle chiese, a messe, a processioni, ed a mantenere alcuni ministri della Religione. Tutti quei fondi debbono essere nelle mani del condottiero, senza eccezione, versati, per una guerra sostenere nella quale per l'unione, l'independenza e la libertà della nazione, si combatte. Qual culto migliore potrebbesi rendere a Dio che quello di sostenere le sue opere, e collocare le creature nella posizione, per la quale egli stesso creolle? Sarà forse da considerarsi come cosa ragionevole, che si riparino i tempi, quando la patria è in rovina, e che si faccia in quelli, pomposa mostra d'un'insultante lusso, quando il popolo intiero geme nella miseria; e nell'oppressione? Sarà ella cosa giusta, lo spendere in suffragio di morti, capitali che tanto giustamente possonsi in un reale benefizio, pei [1-235] vivi, impiegare? Sarà egli giusto, ed onorevole, spendere i fondi in processioni, l'origine delle quali, non fù altro che una stupida, e superstiziosa vanità, solo atte generalmente, al divertimento, e corruzione degl'ignoranti del popolo, mentre possonsi ad un uso non meno utile che nobile, applicare? E finalmente dovrà ella prudenzial cosa supporsi, che al mantenimento d'alcuni di quelli che si fregiano da per sè stessi, del titolo di mediatori tra Dio e gli uomini, che vivono nell'ozio, ed anche nel vizio (e che forse per essere vili strumenti della tirannia, traviano, con le loro prave macchinazioni e detestabili consigli, il popolo dal retto sentiero) è forse giusto io dico, che s'invertano quei fondi sù de' quali tanto diritto tiene la Patria, quando i suoi difensori mancano del necessario, e si vedono, per ottenerlo, nella dura necessità di metter mano perfino ai beni dei loro concittadini, fra i quali sono compresi gli amici, prossimani, parenti e fino i loro genitori stessi? No; non mai dovranno quei fondi, essere risparmiati, ma bensì del tutto esauriti, prima di cominciare a servirsi degli altri già di sopra menzionati, e specialmente di quelli dei particolari.

Fin dal tempo di Abramo, già eranvi rigorosissime regole per la divisione del bottino [1-236] stabilite; e sono in vero necessarissime per evitare i gravi danni che potrebbero essere dalle querele sopra i lesi interessi, cagionati. Per tanto un'equità incontrastabile non meno, che il disinteresse il più generoso, debbono, presiedere al compartimento sì delle prese fatte sopra del nemico, quanto sù di qualunque altra utilità che possa nelle mani de' patrioti, cadere. Terrà il condottiero, la mente alle seguenti regole indispensabili, continuamente rivolta, e che il primo, eseguirà, tenendo dura la mano alla esattissima loro esecuzione, se vuole avere i volontarj, che sotto i suoi ordini combattono, affezionati alla sua persona, se da quelli vuol esigere uno stoico disprezzo delle fatiche, un coraggio robusto, e continuato, ed in fine se vuole nella gloriosa impresa del gran progetto, riescire.

1º Ogni qual volta si perverrà a far bottino, dovrà questo essere, tutto in un luogo, ammonticchiato, per essere compartito regolarmente.

2º Non si potrà cominciare ad occuparsi del bottino, fino a che il combattimento non sia finito, e compiutamente deciso.

3º Riuniti i volontarj per la ripartizione, dovrà ciascuno individualmente giurare di non aver nascosto, nè deviato nulla della presa, [1-237] ma di aver tutto nella massa comune sinceramente versato, e se mai per caso, uno venisse di falso giuramento, convinto, dovrà immantinenti essere messo a morte.

4º La decima parte del prodotto dovrà essere al condottiero supremo rimessa, pel servizio generale della guerra, e dovranno i condottieri particolari, e principali, esigerne, e conservarne le convenienti ricevute.

5º Si preleveranno dalla massa generale, prima ancora di quella decima di sopra espressa, le indennità ai feriti nel modo seguente. Cioè la perdita fatta in combattere, di un braccio, di una gamba, di un piede, sarà compensata da un regalo non minore di trecento lire italiane; quella di un occhio, d'un dito, d'un orecchio, sarà pagata la metà, ed in questa proporzione, tutti gli altri membri del corpo che possono per via della guerra, venir danneggiati. Oltracciò il ferito dovrà, durante lo spazio di due mesi, ricevere trenta soldi italiani al giorno, per la cura delle sue piaghe; questi obblighi dovranno come sagrosanti, considerarsi, e se il bottino di una volta, non fosse sufficiente, dovrassi aver cura di far entrare il più presto quanto sia stimato necessario, per coprire le spese d'obbligo, e così al dovere soddisfare.

6º Prelevate le suddette somme, si disporrà [1-238] del necessario, per la comune utilità del corpo, avendone il previo consentimento della truppa, e somma cura che i conti d'entrata ed uscita, siano ben chiari ed a tutti i volontari, manifesti. Inperciocchè, in questo modo non comportandosi, il condottiero, sebbene innocente, a rimproveri, mormorazioni, e fors'anche a disgusti, e disgrazie, nelle ulteriori sue operazioni, sarebbe senza dubbio esposto.

7º Il condottiero, e gli uffiziali non avranno diritto ad una parte maggiore degli altri, anzi dovranno essere i più moderati nelle loro pretensioni, e se alle volte la massa generale si trovasse molto ristretta, dovranno in favore dei simplici volontari, alla loro parte rinunziare. Con questo mezzo conserveranno il loro affetto, e li troveranno sempre disposti a volonterosamente, in obbedienza ai loro ordini, sacrificarsi.

8º Chi morrà combattendo, od in conseguenza di un'azione di guerra, sarà come vivo, e presente considerato alla prima ripartizione del bottino, che succede alla sua morte; e sarà la sua parte, mandata alla famiglia, od a chi abbia egli previamente destinato. Qualora il morto si trovi non aver più al mondo parenti conosciuti, e che non abbia della sua parte disposto, quella si darà al volontario, che [1-239] pel suo amico il più intimo, sarà per giudizio generale, dichiarato.

9º Saranno compresi nello scompartimento, coloro, che trovandosi legittimamente separati dal corpo, per oggetto di servizio, non abbiano potuto contribuire alla presa.

10º Non sarà permesso ai volontarj d'impossessarsi d'effetti, che possano imbarazzarli nelle loro marcie, e quanti di questa sorta si trovassero che per la difficoltà del trasporto, non possano essere di profitto, dovranno essere distrutti, per evitare che il nemico non se ne serva, se però non avrassi l'opportunità di darli a paesi vicini, ed amici, in consegna, dove non s'abbia a temere, che vengono di là presi, e trasportati.

11º Nè la parentela, nè anteriori servigi, per grandi ed eroici che sieno stati, nè il favore, nè la predilezione per colleghi e confidenti, dovranno giammai in questo caso alterare l'equità della distribuzione. Una rigorosa, retta, ed inflessibile giustizia, vi dovrà presiedere. Tutte le parti saranno estratte a sorte, nè i vivi, nè i feriti, nè i morti, dovranno in un minimo, essere defraudati, nè in alcuna parte venir queste regole, cambiate, senza incorrere nei più grandi pericoli, ed il resultamento della grande impresa, [1-240] follemente arrischiare. Gravi contestazioni, e doglianze imbarazzanti, disturbi, diserzioni al nemico, ed anche combattimenti accaniti, e sanguinosissimi, tanto degl'individui d'una stessa banda fra di loro, come dell'una contra l'altra delle bande spagnuole, furono dall'inosservanza di queste regole, prodotti.

Siccome questo sarà sempre la indispensabile conseguenza provegnente dalla mancanza di giuste, ed inalterabili regole in questa materia, dovranno per ciò a tal uopo i condottieri sostenere con ogni loro sforzo questa esatta, e severa giustizia nella ripartizione, il rilasciamento della quale, oltre di cagionare la loro infallibile perdita, dolorosissimi, ed irreparabili danni alla causa della patria, immancabilmente produrrebbe.

CAPITOLO XI. DELLA DISCIPLINA. — PUNIZIONI E RICOMPENSE. — SISTEMA GENERALE DI DEPURAZIONE.

Tanto si è già sulla disciplina tenuto ragionamento, tanto si sono i particolari di quella [1-241] da tutti gli scrittori sul buon governo della truppa, sottilmente ponderati, che nulla quasi sù di questo proposito ad espor ci rimane. Credono gli uni che aspramente, e col massimo rigore trattando il soldato, con dure parole, carcere, e puranche col bastone, e le verghe tormentandolo, e quindi qual bestia da soma quasi oltre le forze affaticandolo, da ciò, del tutto, e non altrimenti, ottener si possa obbedienza, attività, e sin anche valore. Sono altri d'avviso di non doversi punire al campo in fronte al nemico, ove il soldato da altro stimolo, se non dall'onore, e dal desiderio della ricompensa esser mosso non deve, ma solo pel tempo di pace, in guarnigione, debba il gastigo, riserbarsi. Epperciò dicono: «le punizioni alla caserma, al campo il guiderdone.» Altri finalmente più savj, più giusti, del pari che più benigni, ragionevolmente stabiliscono dovere in ogni tempo, ed ogni luogo, la punizione ed il premio, come le due gran molle della disciplina, essere considerate, la quale, meno sul timore, la coazione, e l'avvilimento, che sull'onore, l'emulazione, e la gloria, è di mestieri ch'abbia la sua base.

Tutt'i più savj scrittori sopra il militare servizio, convengono che la disciplina tanto ad una truppa regolare, necessaria, mantener debbasi, [1-242] con una giusta distribuzione di pene, e ricompense ponderatamente bilanciate, non meno, che col tenere il soldato di tutto il necessario, fornito, e regolarmente pagato, nutrito e vestito: senza di che, non è a chi comanda permesso di esigere da lui servizio, e subordinazione. E pensano altresì che debba esservi un numero grande di ufficiali, e bassi ufficiali che per mezzo del rigore, sempre ad una determinata distanza dal soldato conservandosi, da quello siano rispettati, ed obbediti. Onde ottenere questo risultamento abbisognano, senza dubbio, impiegati civili, magazzeni, caserme, etc. Sono le bande, come truppe irregolari, di tutto ciò deficienti, i loro uffiziali debbono essere pochi, la cui autorità sia con somma moderazione, esercitata; i loro quartieri, esser le case dei cittadini, e dei villani, le poche volte che non serenano; e la loro propria esistenza per istituzione, incerta ed errante, esclude lo stabilimento di magazzeni, ed impiegati. Ed il loro armamento, vestimento, e viveri, esser debbono il prodotto onninamente delle momentanee disposizioni del condottiero, il quale con la maggior possibile equità, e prudenza, deve la provvista delle sussistenze, e delle altre indispensabili cose pel ben essere de' suoi volontarj, col minor gravame de' paesi [1-243] amici, con sano avviso conciliare. Avvi per l'ordinario, in questo genere di guerra, mancanza d'ogni specie di regolari somministrazioni, e soccorsi, e manca in conseguenza la facoltà di mantenere una severa disciplina. Inoltre quella famigliarità, che fino ad un certo punto, fra il condottiero d'una banda, i suoi uffiziali, ed i volontarj è indispensabile, la necessità di usare d'una calcolata indulgenza in certa specie di mancamenti, il più delle volte da un estremo bisogno cagionati, o da un'imprudente sfogo d'uomini sempre in mezzo a durissimi affanni, e privazioni d'ogni genere, in rischj, e pericoli, di continuo esposti a perire; e finalmente quella quasi assoluta democratica eguaglianza che l'anima dev'essere di questi corpi; tutto ci prova, essere, per le bande, di mestieri, adoprare una disciplina da quella degli eserciti regolari differente, non potendosi usare del rigore che, per mantenerla si esige. Solamente dunque, contro questi le mancanze alla fedeltà dovuta alla Patria, all'abbandono della guardia, sentinella, e di qualunque altro delicato dovere che la comune sicurezza metta in pericolo, al falso giuramento, ed agli atti non provocati contro de' superiori, si dovrà negare indulgenza. E la punizione la più esemplare, e la più rigorosa [1-244] certa, ed inevitabile, deve tosto, dopo della mancanza, inesorabilmente avvenire. La disciplina dunque delle bande non sarà da istituirsi, sul modello di quella degli eserciti regolari, ma converrà al condottiero, senza che il volontario sia conscio della certa indulgenza, alcuni falli con sagace accortezza tollerare; e per ottenere la subordinazione, senza la quale non potrà mai un comandante vantaggiosamente operare, dovrà piuttosto della confidenza che del rigore, valersi. Somma prudenza gli è in questo caso certamente necessaria, ei deve un modo tenere, col quale ispiri confidenza, e senza che i suoi secreti, le sue intenzioni, lo stato delle cose, minimamente discopra; indurre i suoi volontarj a credere, che tutto conoscono, senza mai nulla d'importante, palesar loro. Dovrà pertanto, il carattere d'ogni individuo, le sue passioni, buone qualità, i suoi vizj, e le sue virtù, attentamente studiare, valersi di quelle, che possano essergli utili, lusingare pell'avvenire, quei sentimenti, che potrebbero nel momento un qualche sconcio apportargli, e non gli è dato di potere istantaneamente dissipare; accendere il fuoco, dov'è spento, il troppo vivo, e pericoloso con dolcezza, ed arte, scemare, a certe cose per sè stesse di poco o nessun pregio in altri tempi, dare un'apparente [1-245] grandissima levata, gli animi esacerbati mettere con buone parole in calma anche quando la militar disciplina di pronunziare vigorosamente sul fatto, comanderebbe, andar per le lunghe, discorrere, e trattare, anzicchè decidere; evitare con la persuasione, di essere posto nella circostanza di punire; con le preghiere, con la buona maniera, e coll'amore farsi obbedire senza ordinare; con la commiserazione, con saggi, ed accorti discorsi, e con l'esempio, la truppa indurre a sopportare pazientemente i bisogni, in vece di provvedervi. Finalmente, il condottiero, e gli uffiziali di una banda, debbono far mostra di non vedere quegli eccessi, che non giudicano essere di punir, conveniente. E se mai fossero tali, e così publici, che per la loro posizione non potessero di castigarli, tralasciare, procederanno con una molto indulgente moderazione, con somma equità, con una assai chiara tendenza a risarcire, se fosse possibile, qualunque pregiudizio del terzo, cagionato dal delinquente e a far sì ch'egli stesso, della giustizia, e necessità della pena impostagli, agevolmente si convinca, e giusto quel rigore, che gliela infligge, riconosca. Negare non puossi che il sopra enunciato sistema di disciplina delle bande, altro non sia, che un rilasciamento di quello degli eserciti regolari, [1-246] e che debba da per sè stesso, come un male riputarsi. Nulla dimeno egli è uno di quei mali inevitabili, il remedio proprio de' quali, il principale oggetto delle bande, distruggerebbe, e ben presto sarebbe del loro scioglimento, cagione. Egli è per conseguenza necessario, a quel male inevitabile chinar le spalle, ma per quanto fia possibile, ne' suoi effetti diminuirlo, e trarne ad un tempo quei sommi, e straordinarj vantaggi, che in una guerra d'insurrezione nazionale, atto è a produrre, nella quale dovendo il tutto guadagnarsi, o prendersi, di nessun momento dev'essere un male passeggiero, considerato, che, sebbene tale, tanto direttamente, al fine che quella si propone, contribuisce.

Tutti quei capi di banda, che in Ispagna una disciplina rigida a sostenere s'impegnarono, oltrecchè non ebbero la soddisfazione di conseguire il loro intendimento, dovettero perciò i più crudi travagli, ed anche disastri, sostenere. I di loro volontarj, cui per via de' sopra indicati ostacoli, riesciva cosa impossibile di compiere le condizioni dei loro rispettivi impegni, si prendevano certo licenze, ed a cose sconce trascorrevano, che il carattere assumevano di gravi disordini. Ma quei capi, anzicchè usare d'una certa indulgenza che [1-247] senza stimolare al male procurasse di diminuirlo volevano con estremo rigore castigarne, i delinquenti. E urtati da una tale severità, se non ingiusta, almeno inopportuna, disertavano, i volontarj, e nelle file del nemico ad arrolarsi, per dispetto accorrevano. In Castiglia fù per molto tempo colpevole di una tale imprudenza, il rinomato Empecinado. Non potendosi soffrire la severità del condottiero, uno de' più valorosi uffiziali della sua banda, con gran numero di volontarj, disertò. Quegli lo inseguì; stretto il fuggiasco da vicino, passò alle schiere francesi, e colà ricevuto a braccia aperte, e fornito di quanto poteva renderlo superiore in mezzi al suo antico capo l'opposero. Siccome il disertore esattamente conosceva la tattica, stratagemmi, ed il paese, tanto bene quanto l'Empecinado stesso, avvenne che lo mise molte volte in rotta, ridusse quest'utile capo di banda, a trovarsi nei maggiori conflitti, e quindi, ad abbandonare il teatro delle sue operazioni, finalmente il costrinse. D'una differente natura da quella degli eserciti regolari, esser dovrà dunque la disciplina delle bande. Essa più che dal rigore, sarà dall'arte del condottiero ottenuta, il quale con maestrìa toccando le molle morali, varrassi, per giungere [1-248] al suo fine, dell'eccitamento di quelle nobilissime passioni, che facendo nascere l'entusiasmo nell'uomo, hanno nelle guerre di libertà, ed independenza, grandissimo potere sul suo cuore, e ad operare cose maravigliose, lo dispongono. Sfuggendo quelle all'analisi dello scrittore militare, ed essendo solamente proprie del talento di chi le mette in uso, porger non puossi, sul modo di giovarsene, insegnamento. Non già nel rigore, ma nell'amore, non già nella punizione corporale, ma in quella morale, avrà la disciplina delle bande, la sua base. L'onta d'un rimprovero publico, di una formalità umiliante, assai più sarà dall'uffiziale, dal volontario, temuta, che gli arresti, o la prigione. Laonde dal desiderio piuttosto della ricompensa che dalla paura del castigo, saranno per sentire incitamento. Ed avendo noi sulle punizioni, bastevole discorso tenuto, al guiderdone volgeremo il pensiero.

Dalla maggior parte degl'autori militari, vennero sempre, come essenzial parte della disciplina, le ricompense tenute in conto, e se nel libro primo della Ciropedia, ci dice Senofonte, una politica militare quella essere, di dare ai soldati che più nella guerra si distinguono, publiche, non men che splendide ricompense, e se in tutti gli eserciti attuali, [1-249] son quelle stabilite (abbenchè viziosa sia la loro distribuzione, più dai maneggi degli amici, dalla protezione personale, dal capriccio di chi comanda, dipendente, che dal merito di generose, e nobili azioni; da che ne ridonda essere gli eserciti d'oggidì anzi licenziosi, che disciplinati, alla crapula piuttosto, che alla virtù inchinevoli); altrettanto, e più ancora, in una guerra, nella quale, come di sopra abbiam detto, più dallo stimolo delle grandi passioni, che dal gastigo, è d'uopo ottenere la subordinazione, e l'esattezza al dovere, e ricompense, sono come necessarie, anzi, come indispensabili, da considerarsi. Due classi esistono di ricompense, le une puramente onorifiche, le altre lucrative. In una guerra, l'anima della quale si è l'entusiasmo, debbonsi le prime aver per gran cosa, e segnalatissimi vantaggi originare. Chi sarà mai tanto stolto per negare che le ricompense accordate dai Romani, non siano state della loro gloria possenti cagioni? Quanti tratti di eroico valore nella guerra della republica francese non produsse il dono di un pennacchio, di un pajo di spalline rosse, di una sciabola d'onore, finalmente d'un ciondolo in forma di stella? Non converrà dunque, che uno stimolo alle grandi azioni sì fattamente incitatore, venga [1-250] da noi trascurato, ed opiniamo che la ricompensa delle armi d'onore, sulle quali sia il nome inciso di chi la riceve, ed il perchè gli è stata accordata, specificando l'azione, che di quella lo rese meritevole, sia la più guerriera, la più conveniente in questo genere di guerra e la meno alla corruzione, al raggiro, ed all'ingiustizia nel distribuirla, sottoposta. Ed infatti, difficilmente si avventurerebbe un capo a far incidere una menzogna, che potrebbe ad ogni momento essere smentita, e l'onestà sua negli animi de' suoi compatrioti, d'assai contaminerebbe. Sciabole, spade, pugnali, pistole, schioppi, d'onore, dunque sono le ricompense puramente onorifiche da noi, le più convenienti in questa guerra, giudicate.

Siccome non puossi, trattandosi di masse, pretendere, che le ricompense puramente onorifiche, facciano sù di tutti gl'individui che le compongono, quell'effetto, che producono sugli animi generosi, cui più a cuore sta la salute della patria, che il proprio interesse, e che per molti pur troppo non agiscono con vigore, se non vengono dallo stimolo del guadagno reale in danaro, eccitati; sarà pure l'uso delle ricompense lucrative, conveniente. Compartonsi queste per l'ordinario in danaro od in [1-251] terra; in danaro, come gratificazioni per una volta sola o come pensioni pagabili annualmente per la vita, o trasmissibili ai discendenti, o collaterali; in terra, dandone al meritevole una competente porzione in proprietà, o per la vita, o per sempre. Essendo il sistema di questa guerra, provvisionale, ne avviene che le ricompense in danaro e come gratificazioni, per una sola volta, si possono solamente accordare; lasciando però la speranza ai militi della patria, anzi promettendo loro di fare ogni sforzo presso del governo italiano, che verrà dopo la guerra regolarmente stabilito, affinchè congrue porzioni di terra, per la vita, vengano a coloro distribuite, che la patria alla gloria, e felicità recarono, ed alle vedove dei volontarj, che combattendo per una così santa causa, intrepidamente perirono. Difficil cosa non sarà a quel nuovo governo per essere di, terra sufficiente rinvenire, onde una permanente sussistenza a quei valorosi provvedere, imperciocchè essendovi attualmente in Italia dieci principi regnanti, che tutti estesissime, e doviziosissime terre posseggono, chiamate demaniali o patrimoniali etc., tutte per via della guerra, diverranno beni nazionali, ed a quelle dei principali seguaci dei Goti, o dei tiranni unite, formeranno una [1-252] massa grande, e più che sufficiente, per gli obblighi della nazione verso de' suoi difensori, compiutamente soddisfare. Platone ci dice che una legge degli Ateniesi portava, che quelli i quali rimanevano storpiati alla guerra, erano alle spese dello stato, fino alla loro morte, mantenuti, e che lo stesso accordava ai genitori, ed ai figli di coloro che essendo morti combattendo, una famiglia povera, ed incapace di sussistere, a discrezione de' loro compatrioti abbandonavano. Non potrebbesi tal disposizione, in una guerra, come la nostra, praticare, ma, per quanto sia possibile, cercammo nel capitolo antecedente d'introdurre il modo che più le si possa avvicinare.

Esposto il genere, e la qualità di ricompense, che più addattate al nostro sistema crediamo, solo ci rimane a soggiungere che non dal condottiero solo, ma con la concorrenza del maggior numero dei volontarj della banda, debbono quelle venir determinate, e conferite. Ciò alquanto meno facile renderà il conseguimento, ma il loro pregio, di molto ingrandirà, con maggior gloria, e soddisfazione per chi, degno di quelle, sarà riconosciuto. La maggior solennità, il modo il più imponente, sono, per la loro distribuzione, richiesti. Dice Erodoto, esser stata costumanza degli Ateniesi, [1-253] di riunire l'esercito dopo la battaglia, onde ad alta voce, il premio del valore aggiudicare a colui, che stimavano averlo meritato. E qual effetto, non deve sugli animi avidi di gloria e pieni d'entusiasmo, un tal uso produrre?

Dopo d'aver trattato della disciplina, ci si affaccia, come necessaria conseguenza, alla mente l'idea del generale sistema di depurazione per tutta la penisola, onde allo stabilimento della sua independenza, e libertà, bel bello abilitarla, tutti quegli ostacoli, che le si appongono, gradatamente spianando. Ma qual gravoso dovere non è egli per noi, d'essere dalla natura del nostro lavoro a trattare costretti una materia, così penosa per un cuore sensibile! Così intricata, e difficile! così aspra e cruda, per chi nutre sentimenti delicati! Ma non debbe ella forse, di somma necessità, indispensabile, in una guerra d'insurrezione, considerarsi? Qual penoso sentimento, non viene ingenerato, quando fassi riflessione, di dovere per mezzo di una insurrezione nazionale, l'unione, la libertà, l'indipendenza del paese, colla strage vendicarsi, di dover intraprendere cose che senza porsi, almeno in apparenza, in contraddizione con la stessa libertà, non possonsi legalmente operare; cose da non potersi senza [1-254] quasi conculcare le leggi, eseguire; cose finalmente, che in tempi tranquilli, per necessarie che fossero, all'umanità ripugnerebbero, ma che per la totale distruzione della tirannia, e dello straniero, assolutamente necessarie, ed indispensabili, nel disordine, prima del ristabilimento della calma, debbonsi del tutto eseguire? Ed infatti dopo di tale ristabilimento, non si potrebbero, senza offendere i principj del nuovo sistema, tali cose operare e facendo perdere il buon concetto ai cittadini insorti, grave danno alla causa apporterebbero. La principale di quelle operazioni, si è l'esterminio di tutti quegli uomini, che per la loro natura, circostanze, e pregiudizj, sono al cambiamento decisamente contrarj, la commistione de' quali, coi nuovi principj, impossibile si riconosce, e non sarebbe possibile, in tempo di publico riposo, legalmente liberarsene, perchè delle stesse leggi liberali (della cui protezione privarli, gravissimo scandalo cagionerebbe) farebbonsi scudo. Converrà dunque, che in mezzo alle turbolenze, ed al disordine, si spengano. Un'accurata investigazione delle cagioni dei torbidi successi nella rivoluzione di Francia, che a cambiare il sistema republicano in monarchico assoluto, qual era l'impero di Napoleone, la costrinsero; non men [1-255] che di quella della caduta dei sistemi costituzionali di Spagna, Portogallo, Napoli, e Piemonte, ci ha per troppo convinti, essere cosa sommamente dannosa, e di quel sistema, che si vuol stabilire, precipuamente distruttiva, quella di metterlo in piedi, ed esecuzione, prima di aver il terreno preparato; cioè di aver scacciato fuori della penisola il nemico straniero, e tutt'i nemici interni, levati dal mondo. Altrimenti, quelli come in Francia, e quindi in Italia, e Spagna, serviransi della libertà per rovinare la costituzione, e delle leggi, per abusarne. Le formalità, e le prove, che in un sistema liberale affine di non punire un'innocente si esigono, daranno campo ai traditori, di eludere il giudizio, di evadersi, e salvarsi, per poi di bel nuovo, contro la patria cospirare. Tanto fecero in Francia quei tristi, che riescirono per mezzo di falsificazioni a far perdere il credito alla carta monetata, ed alla moneta; con segrete macchinazioni acquistarono sulle elezioni, che debbono essere fatte colla maggior libertà, una manifesta influenza; e col terrore, e la corruzione, pervenivano a far eleggere coloro che già da essi erano, per rovinare l'edificio costituzionale, comprati; si servivano della libertà della stampa per avvilire, e perdere nell'opinione [1-256] publica, quella costituzione stessa, ed i più caldi suoi partigiani da cui erano cordialmente protetti. In somma, tanto in Francia, come in Ispagna, ed in Italia, lo stabilimento della costituzione immediato al movimento rivoluzionario, andar fecela a soqquadro. Consultinsi attentamente le istorie di quegli avvenimenti; si parli con cittadini di buona fede, che siensi in quei paesi, ed in quei tempi, ritrovati, e con non molta difficoltà, potrà ognuno toccar con mano, essere stata all'ombra della costituzione, dai nemici nell'interno del paese, le fila della contro-rivoluzione ordite. La costituzione protettrice di tutt'i cittadini, di tutti gli amici della libertà publica, alle macchinazioni de' partigiani dei privilegi, dei nemici della libertà, faceva schermo e li favoriva! Converrà dunque, che, con un sistema transitorio, con disposizioni provvisionali, con misure energiche, forti, pronte, e generali, prima di mettersi in vigore la benefica costituzione, che vede tutt'i cittadini eguali, e tutti senza distinzione protegge, dalle virulente immondizie, il paese con diligenza si depuri. Non puossi la durata di questo transitorio sistema previamente determinare, perchè dalle circostanze, e dalla prontezza, ed energia di coloro che sono preposti alla sua esecuzione, del tutto dipende. [1-257] Verrà tale utilissimo servizio ai condottieri affidato, i quali dovranno quest'indispensabile, sebbene arbitraria giustizia, con somma prudenza sommariamente amministrare, e non solo con quelli, ch'essendo rei manifesti, non si possono per le circostanze davanti ai tribunali tradurre, dovran essi esercitarla, ma bensì contro quelli, che all'ombra della loro influenza politica, o religiosa, al popolo, idee contrarie alla causa della patria, e favorevoli alla tirannia, surrettiziamente suggeriscano; con tutti quelli finalmente, che condannati dall'opinione publica ben analizzata, e sicura, pel loro astuto procedere non lasciano mezzo, per convincerli in giudizio, e far la spada vendicatrice della legge, sul loro capo regolarmente cadere. Egli è nei sopra indicati casi, che particolarmente si rende necessario un condottiero d'un cuore duro, ed inaccessibile a qualunque grido di pietà. Debbono i beni de' colpevoli, servire per le spese di una guerra da loro stessi cagionata, e prolongata, e quando vi siano motivi sufficientemente chiari per toglier loro la vita, non debbesi quella in nessun conto risparmiare. Posseggono i condottieri mezzi a dovizia, che non sarebbero leciti a giudici legali, per, la verità, con quasi intiera evidenza, indagare; non meno che per conoscere la condotta [1-258] delle persone sospette, dei quali mezzi, onde esser sicuri della rettitudine dell'altrui procedere, non dovranno giammai l'uso tralasciare.

Questa specie d'amministrazione di giustizia, come già abbiam detto, senza dubbio arbitraria ma di tutta necessità in una insurrezion nazionale, produsse nella guerra dell'indipendenza spagnuola: (ed in tutte quelle di tal genere così segnalati vantaggi produrrà) che senza di essa, i Francesi avrebbero certamente trionfato. Tale amministrazione costrinse tutt'i decisi partigiani dello straniero a concentrarsi o agli eserciti nemici, o alla corte di Giuseppe Buonaparte, e tolse in tal modo l'azione della loro influenza nelle provincie, e fece sì, che coloro i quali erano alle massime del nemico propensi, ma non ancor dichiarati, rimanessero neutrali, e che coi loro beni, onde coprire le loro idee, a sostenere una guerra, che disapprovavano, contribuissero; e fece senza necessità di forme legali, quanti osarono opporsi al desiderio di che tutti cuori erano ripieni, cioè della restaurazione dell'independenza nazionale, inevitabilmente perire; somministrando sufficienti soccorsi in critiche circostanze, che non si sarebbero con altri mezzi, ottenuti, e finalmente un tal terrore infuse anche nei più determinati, che molti traditori si viddero, loro malgrado a seguire l'impulso generale [1-259] trascinati. Non dimenticherà però mai il condottiero quella massima di guerra, e di giustizia da Polibio al libro 5º riferita, cioè che «il diritto di guerra permette il giusto rigore di mandare le città, le case e gli uomini in distruzione, brevemente, di far tutto quanto possa il nemico ridurre nell'impossibilità di nuocere, ma che la sola rabbia, o demenza, possono portare a distruggere senza vantaggio.»

Egli è per altro d'uopo di convenire, che questa specie di giustizia prudenziale, potrà forse alcune volte, mandare qualche innocente al supplizio, o qualche imprudente, od indiscreto, il sagrifizio del quale, quantunque giusto, potrebb'essere risparmiato. Ma questo male riesce di pochissima entità in paragone, di quello, che, se un procedere contrario si tenesse, ridondare potrebbe. In qualunque altro genere di guerra, nel quale l'intiera libertà, e gli imperscrittibili diritti di una nazione non si avventurassero, sarebbe questo sistema, come barbaro, certamente da considerarsi. Ma quando cose tanto importanti, e sacre s'avventurano, cosa molto più barbara sarebbe di arrischiarle, per ostentare una moderazione inopportuna, e dannosa.

Conosciamo, pur troppo, che le passioni degli esecutori di questo sistema, possono viziarlo. [1-260] Ma quale umana istituzione è mai dal pericolo di corruzione, sceverata? In qual faccenda, quelle molle universali delle azioni degli uomini, non sono per avventura intromesse? Per lo contrario; sarebbero forse liberi da quell'influenza, i più legali tribunali, quando loro si presentassero i rei di cui si tratta? L'esperienza ci prova il contrario. Sarebb'egli dunque prudente di lasciar la patria soccombere, per evitare un male, che deve sempre essere di corta durata? Sarebb'egli giusto di mettere le cose, che sono le più sacre, e care agli uomini, il bene generale, la libertà, ed esistenza politica di una nazione, a rischio per liberare qualche innocente, o indiscreto, dall'essere la vittima di un necessario disordine? No: le future generazioni, con ragione un tal procedimento tratterebbero di barbaro, ed ingiusto. Se dunque non puossi il pericolo evitare, se sarà indispensabile, che, nell'orrendo abisso da coloro, che anelano la disgrazia della patria, scavato, alcuni disgraziati innocenti si precipitino, cadano! Saranno altrettanti involontarj Curzi, per la salute di Roma offerti in olocausto.

[1-261]

CAPITOLO XII. DELLA SPIAGIONE.

Perplesso continuamente, e come confuso, nelle operazioni da divisare, ed eseguire, quel condottiero senza dubbio sarebbe, e correrebbe, una banda, ogni giorno, il maggiore, ed il più imminente rischio di essere sorpresa e distrutta, se dell'esatta informazione del paese dove fa la guerra, dei vantaggi, che può trarre dalla sua situazione, e la conoscenza perfetta dell'esercito nemico, quanto della sua stessa truppa, il comandante d'una banda mancasse; al quale neppure debbono i predetti conoscimenti bastare, ma deve altresì, il numero non meno, che la qualità delle truppe contrarie essergli, per certissimi avvisi, totalmente palese, come pure l'indole del generale nemico, e dei principali comandanti; il sito dei quartieri generali, dei parchi, delle riserve; la loro posizione negli alloggiamenti, se concentrati, o divisi; i mezzi per avere strami, vettovaglie, e munizioni, dal nemico praticati. Ei dee conoscere condizione, e provenienza de' suoi trasporti, la giacitura, ed il servizio degli ospedali, [1-262] se in quelli molti ammalati vi siano, e quali le dominanti malattie; lo stato buono, o cattivo del vestimento, e paga della sua truppa; le intenzioni del generale avversario, se offensive o retrograde; il tempo, e qualità de' suoi movimenti; se aspetta rinforzi, di che, quelli si compongono, e da dove debbono venire; insomma deve di tutto quanto, sì nell'interno nell'esercito che gli sta a fronte, di quanto all'interno si passa, si pensa, e si dispone, avere minutissima notizia. Per giungere di cose tanto essenziali, al perfetto conoscimento altro mezzo, che quello della spiagione non havvi; con quella, ben diretta, possonsi tutti gli schiarimenti di che, campeggiando, è grand'uopo, agevolmente ottenere. La bussola quella dev'essere del condottiere, la quale, affinchè per tema di traviare il cammino, fra le molte vie, dubitoso, e sospeso egli non rimanga, per quale di esse sia da mettersi, dovrà fargli scorgere, e per la via della vittoria, con sicurezza addirizzarlo. Da quella insomma bene o male eseguita, la salute, o la rovina della banda, onninamente dipende.

Punto non credevano gli antichi Ebrei, i Greci, ed i Romani nostri progenitori, coll'essere, come spie, in tempo di guerra impiegati, la loro fama contaminare. Dalla moderna nostra [1-263] educazione vienci un certo qual ribrezzo, alla sola idea di spiagione, ispirato. Pure in questo parere, la nostra opinione concorre, quando in tempo di tranquillità, e di pace, (il più delle volte per la ferrea verga dei tiranni contro i suoi fratelli, sostenere) un cittadino, come infame delatore de' suoi compatrioti, s'impiega. Crediamo, allora doversi vilissima, e vituperosissima cosa, reputare. Ma siamo non per tanto da forti argomenti persuasi essere la spiagione anzicchè degna di biasimo, al sommo commendevole e meriti magnifico guiderdone, colui che col fine di liberare l'Italia da' suoi oppressori, e renderla unita, libera, ed independente, a quel dilicatissimo impiego, con deciso animo, metta la sua opera; ed all'avviso dei già citati popoli, che quella come azione, altrettanto gloriosa, quando accompagnata era da più grandi pericoli, aveano in conto, per propria convinzione ci uniformiamo. I più distinti e ragguardevoli personaggi di quei tempi, a portarsi fra i nemici, per la spiagione esercitare, volonterosamente offerivansi, e fede ce ne fanno gli antichi autori. Scorgesi dal libro dei giudici, come sia Gedeone sceso nel campo di Madian nella qualità di spia, ed abbia in sì fatto modo, utilità grande all'esercito cui apparteneva, arrecata. Il decimo libro dell'Iliade, pur ci palesa, come Ulisse e [1-264] Diomede, nel campo de' Trojani furtivamente insinuatisi, abbiano con buon successo alla spiagione atteso, e ci viene dal divino Plutarco, nella vita di Sertorio riferito, che nel principio della sua carriera, quando i Cimbri, e Teutoni avevano invasa la Gallia, di recarsi come spia, nel loro campo, si era quel eroe, di buona voglia offerto; e che di fatti, a ciò destinato, per portare il suo intendimento ad effetto, un abito dei Galli addossato, nei termini i più comuni della loro lingua, ed i più necessarj per un breve e passaggiero discorso, s'addottrinò, e quindi nella turba nemica inoltratosi, coi Barbari si confuse, e dopo d'aver tutto quanto colà si passava, e progettava, veduto, ed inteso, a Mario ritornò che col premio onorollo, a guiderdonare il valore, ed il coraggio, riserbato. Opera quest'era dunque, anzicchè disdicevole, da quei sommi uomini laudevolissima, riputata, e come tale, noi portiamo opinione, da tutti coloro doversi apprezzare, che nella loro patria desiderano di nuovamente in vita, l'antica virtù de' nostri antenati Romani richiamare. Non mancheranno, abbiam ragione di crederlo, ardenti cittadini da patrio fuoco infervorati, che i rischj della loro posizione, in prò d'Italia sprezzando, sotto qualche pretesto, col mezzo di un travestimento, in simulata apparenza, [1-265] onde viemmeglio alla rigenerazione della patria cooperare, saranno nelle file del nemico per introdursi. Con qualunque cittadino, che ad un tal passo si determini, contrarrà pel fatto, il paese, un debito da non mai potersi con danaro soddisfare. Imperciocchè a tali eminenti servigi, maggiori, e più valevoli ricompense si meritano. Ben ci guarderemo dunque, di dare a questi benemeriti, una denominazione che siamo a disprezzare assuefatti, e che per verità, loro non conviene seco l'idea d'una delazione mercenaria portando, e con più appropriato vocabolo, informatori gli appelleremo. Da questi, più che da alcun'altro a quell'uopo impiegato, si potranno le giuste relazioni rispetto al nemico ricevere, quantunque debba il condottiero, a non intieramente delle esagerazioni fidarsi, nelle quali per l'entusiasmo, e la esaltazione di mente, vanno quei fervorosi cittadini, di frequente soggetti, e debba sempre attenzione grandissima portare, perchè sendo la maggior parte di quelli uomini da violente passioni stimolati, potrebbero, diminuendo, od aumentando il pericolo, magnificando, o disprezzando la disciplina, la forza, e la posizione del nemico, a seconda dell'impressione buona o cattiva sù della loro suscettibile immaginazione, prodotta, farlo in gravissimi sbagli irremediabilmente [1-266] cadere, ed essere per avventura, del proprio annichilamento, innocente cagione. Oltre di questi informatori che mai in esteso numero, come il bisogno richiede, potransi rinvenire, perchè sole persone virtuose a quell'uopo convengansi, ed in ogni parte evvi di quelle penuria, converrà dunque al condottiero di trarre a sè, per quell'uffizio, persone d'ogni condizione, di ogni stato, d'ogni sesso. Epperciò adocchiando le passioni di tutti coloro co' quali avrà da fare, (poichè quelle, se in vece di far loro contrasto, si lusingano, l'animo oltre ogni debito termine trasportano e di molto possono chi le mette in atto, ne' suoi desegni ajutare) e di quel conoscimento opportunamente valendosi, coll'esca dell'oro, l'avarizia dell'ecclesiastico, del negoziante, del figlio di famiglia alletterà; la violenta passione della donna innamorata; la disposizione inoltre, di quella portata a galanteggiare, e ad ordire intricati maneggi, non metterà in non cale; e di quegl'impiegati del nemico varrassi, ai quali essendo fondi dello stato affidati, potrà supporre ch'abbiano di goderseli per conto proprio, la decisa intenzione, e quei spiantati non meno, talmente nella publica opinione screditati, che non possono più onestamente vivere al mondo, non dimenticherà, come pure quegli uffiziali del nemico [1-267] che per cattiva condotta, per lusso, e giuoco, sono indebitati, e vicini alla loro rovina, pe' quali, spaventati dal terribile avvenire che loro si para davanti, ha certamente il danaro una straordinaria attrazione, ed in fine di tutte quelle persone dell'esercito nemico suscettibili di venalità, e disposte a servire ai nostri bisogni egli trarrà il miglior profitto, che possa. Questa sorta di passionate, immorali, e disoneste persone mai non sarà, che negli eserciti di qualunque nazione sotto qualsivoglia più severa disciplina tenuti, sia per mancare. La sagacità e penetrazione del condottiero, la sua maniera indagatrice e prudente, non meno, che la opportuna distribuzione più o meno abbondante di danaro, faranno sì, che verrà da loro, tutto quanto saranno in istato di scoprire, communicato. Non possonsi tuttavia col titolo di spie costoro qualificare, perchè non per mestiere, ma solo per circostanza o per passione ad operare son mosse, e solo come agenti salariati debbonsi avere, e neppure sarebbe ad un condottiero, conveniente, ai loro detti intiera fede prestare, imperciocchè, siccome gente immorale, che spesse volte sian costoro de' falsi agenti deve prudentemente figurarsi. Eccoci ora per la gradazione del discorso, alla classe delle spie per mestiere, [1-268] che per lo più, sono servitori di due padroni. E sebbene, come tali, per deficienza di prove, ancor non sieno conosciute, quai doppi spioni però conviene, che prima eziandio di scoprirsi, dal condottiero si suppongano. E se avviene, che come doppie, tali persone si scoprano, debbono essere per le armi, inesorabilmente passate. Converrà dunque al condottiero di tenere ben l'occhio alle pratiche de' suoi agenti salariati, e delle spie, di vedere con chi trattano, e che non vengano i nemici delle sue operazioni e de' suoi veri divisamenti avvertiti, cautamente impedire. La più grande arte, circospezione, e simulazione gli è necessaria. Ei deve molte volte, quel che non è, e non intende di eseguire, far a quella spia ch'egli suppone doppia, credere, e travedere, onde per tal modo venga il nemico sù de' suoi veri progetti, tratto in inganno, quindi baloccarlo, ed a fare movimenti a lui favorevoli, condurlo.

Essere persuaso dovrà, il condottiero e sempre tener fisso in mente, che tutt'i mezzi per deludere il nemico messi in uso, saranno contro di lui eziandio da quello adoperati. Mestieri dunque saragli di andar guardingo, e con somma cura, perspicacia, e cautela prendere a tempo le necessarie misure, acciocchè riescano i suoi efficaci, e vadino quelli dell'avversario a vuoto. Sul [1-269] particolare delle informazioni, d'inoltrarci ommetteremo, essendo cose già da quasi tutti conosciute, e per così dire comuni; ed anche, di entrare nella disquisizione, ed enumerazione dei moltissimi particolari relativi a quanto coi prigionieri, coi mercanti, viaggiatori, stranieri, ed altri, che vengano dalla parte nemica, debba farsi, tralascieremo, tacendo altresì delle corrispondenze da tenersi nel paese occupato dai nemici, degli interrogatorj, dei disertori, tutte cose ben note; e conchiuderemo con dire, che nè agl'informatori, nè agli agenti salariati, nè alle spie, nè ai disertori, nè agli altri, a nessuno infine dovrà intera fede prestarsi, ma dalle disposizioni, e relazioni di molti di quelli separatamente interrogati, ed accuratamente esaminati, quando tutti in una asserzione combinano, il condottiero potrà con dubbiosa credenza, prendere la conveniente norma, finchè poi, da fatti palesi, vengagli il principio dell'indicata operazione manifesto. Altra particolar cura essenzialmente gli appartiene, cioè di antivedere, scoprire, e porre a tempo al grave danno, riparo, che producono, certe persone a bella posta dal nemico fra i suoi volontarj mantenute, le quali con talenti, o ricchezze, od altre simili qualità attraenti, sotto mascherate sembianze di ardenti amatori della patria inorpellati, [1-270] bel bello nella confidenza della maggior parte dei volontarj, ed uffiziali artifiziosamente s'insinuano, e sotto colore d'officiosi amici, pell'utilità dell'avversario, in ascoso s'affaticano. Epperciò a tal nequitoso intendimento, fra gli uniti prodi vanno la zizania seminando; al di cui fine, sotto pretesto di tener le parti di una qualche immaginaria lesione d'ipotetico diritto, a bello studio con varie speziose cagioni colorato, eccitano i malcontenti, e la divisione fra di loro promuovono; e quindi, antichi odii fra provincia, e provincia destando, la gelosia delle une contro le altre, per cagioni secondarie di locale utilità fomentando, e le personali nimistà fra cittadini e cittadini rinvigorendo, accendono per tal modo la discordia, e l'alimentano, mentre sarebbe l'unione delle persone, e dei sentimenti, al buon risultamento dell'intrapresa, un singolare vantaggio. Sovente, doppi agenti, e doppi spioni dai due partiti, salariati, e ad entrambi venduti, in ogni parte, in ogni cuore, un fuoco accendono esiziale, e divoratore, ogni miglior cosa, ogni stabilimento il meglio inteso, ed alla patria proficuo, sforzansi di distruggere, e tutto così guastando, e gettando a terra, viemmaggiormente in ogni possibil modo, a tutte quelle difficoltà dai capi, nell'ordinare, condurre, [1-271] mantenere, ed animare i loro partiti sempre esistenti, notabile portano, e nocevole accrescimento.

CAPITOLO XIII. DEI PRIGIONIERI.

Quanto l'indole della guerra d'insurrezione, differente sia da quella regolare fra tiranno, e tiranno, fra re, e re, e fra republiche di lunga mano esistenti, non v'ha, chi le cose ponderando, non sia per, manifestamente in breve tempo, iscorgere, ed avendo già noi nel capitolo sesto, di ciò lungamente argomentato, d'internarci in più sottili disquisizioni sul particolare non ci occorre. Per altro, quella parte ai prigioni correlativa, brevemente accennare, fà d'uopo. I soldati che nelle attuali guerre regolari, e per altrui utilità impugnano le armi, al campo, uno spirito di particolare vendetta, seco loro non portano, ed i loro animi alla vista del nemico, della violenta passione propria di chi pe' suoi lari combatte, non s'inacerbiscono. Epperciò quella tanta umanità dopo la vittoria, quel buon trattamento [1-272] de' prigioni al giorno d'oggi in quasi tutta Europa messo in pratica, dev'esserne l'immancabile conseguenza. Ma in una guerra d'insurrezione in che ogni cittadino è tenuto di prendere una parte viva, e personale, sarà tutt'il contrario certamente per avvenire. Niuna passione ha in noi tanta forza, nè con sì possente impeto all'oggetto propostole ci trasporta, quanto quella dall'amor patrio generata, e sollecitata. Epperciò seco portando, il volontario armato una particolare animosità, ed ogni giorno nel suo cuore, capitale odio contro i nemici della patria maggiormente avvampando, darà con ragione in rabbiosi trasporti, ed allo sfogo di una precipitosa, crudele, barbara vendetta, del tutto abbandonerassi; la quale quanto sconcia cosa, e di riprension degna in un esercito regolare sarebbe, altrettanto acconcia e di laude meritevole, (poichè da purissimo, e ferocissimo amor di patria prodotta) deve all'occhio dell'uomo dabbene apparire; per la qual cosa, effetti nelle guerre regolari del tutto sconosciuti, ed inattesi, dovranno dalle conseguenze della vittoria, senza dubbio emergere. Vago, ed incerto essendo il metodo d'operare delle bande, perchè debbono in continuo movimento mantenersi, sarà per loro indispensabil cosa, quella d'essere da tutti gl'impedimenti, [1-273] da tutt'i pesi, alleggerite e per tal cagione non potranno, i prigionieri presi nella pugna, seco loro tradurre, essendo chiaro che quelli recando gravissimo imbarazzo, potrebbero la velocità dei movimenti ritardare, essere alle operazioni d'incaglio, se sono molti, ribellarsi, o della facilità, nella guerra leggiera, sempre esistente, per fuggire; (onde poi con maggiore accanimento la guerra contro di loro seguitare) in destro modo prevalersi. Come dovrà dunque un condottiero, quando gli avvenga far prigionieri regolarsi? Dovrà egli per avventura, fatto loro un solenne giuramento di non più servire contro l'Italia, prestare, metterli generosamente in libertà? No certamente; perchè non essendogli possibile nel gran numero di quelli, il nome, e figura dell'uom liberato, sempre risovvenirsi, non potrà dargli il meritato gastigo, se a quello, di spergiurare avverrà. Ed utile ammaestramento puossi dalla storia ricavare, essere quei giuramenti tenuti a vile dai soldati, quando vengono da forza superiore, soprattutto di popoli insorti, a prestarli costretti. Costoro li prendono a ciancia, e quelle armi, in loro mano liberamente rimesse, per castigare quella inconveniente generosità, in nuovo, e maggior danno della patria, e di quello stesso condottiero adoperano, e così deluso, rimansi [1-274] il generoso, col male, e colle beffe. Non è di poca pena al cuore, e porta all'animo dell'uomo sensibile acerbissime trafitture, il dovere a chi in questa guerra si mette, necessariamente palesare, che una insurrezione ne' suoi principj, cattività non comporta, finattantocchè piazze, castelli, e provincie, sieno, di chi per la liberazione della patria è insorto, in sicuro, e quieto possesso.

Nella guerra d'insurrezione per bande, soprattutto nei primi anni e finattantocchè non sia una forma stabile di governo consolidata, sarà a chicchessia negato quartiere, e tosto che cadrà un nemico fra le mani delle bande, verrà senza indugio alcuno trucidato. Dovrà esser questa, una guerra di distruzione, e ne avverrà che non dando quartiere sarà pure quello ai volontarj negato, e metterà in tal modo nella necessità di combattere furiosamente fino alla morte, ed in loro quell'eroico vigore manterrà, che ben sovente alla considerazione di potersi arrendere, ed essere dal nemico ben trattati, vacilla o s'intiepidisce. Certamente il quartiere alle guerre d'insurrezione mal conviene, soprattutto nel primo anno, è un delitto il darlo, una infamia il riceverlo. Quando i Tebani decisi e soli, pella libertà della patria generosamente combattevano, il quartiere dal nemico [1-275] loro pietosamente offerto, con dispetto ricusavano, ed anzi durante il saccheggio della loro città, i Macedoni, a levar loro la vita con pungenti sarcasmi, provocavano! Imperciocchè que' grandi animi, la dominazione straniera assai più crudele stimavano della morte stessa! Converrà nondimeno, secondo la perspicacia, e saviezza del condottiero, per le nozioni, e vantaggi che dalla conservazione di alcuni prigionieri in vita potrebbe a lui ridondare, trarre di quelli un conveniente partito; e quando una cagione, per lo migliore della guerra, militerà, dipenderà sempre dal suo arbitrio, di salvarli o distruggerli. Un riscatto forte, uno svelamento di progetti, e macchinazioni del nemico, appoggiato a prove, e colla cooperazione personale del prigione, onde a tempo, la verità, con vantaggio rinvenire; nozioni, trattative per l'occupazione immediata d'un qualche speziale conveniente punto; e mille altre simili circostanze utili al buon risultamento della causa, possono a ridimandare, cambiare, ed anche ad esentare un prigioniero dalla ben meritata morte, il condottiero, legittimamente indurre. Egli non dovrà mai però in qualsivoglia caso trovar si possa, da un sentimento di pietà, che in menoma parte, sia per essere alla patria, pregiudizievole, lasciarsi commovere; [1-276] nè alla balìa d'un vano sentimento di generosità, che la sua ambizione gonfiando, esser possa alla vera convenienza del paese, contrario, sottomettersi, ma deve in ogni caso, dalla sola idea dell'utilità d'Italia esser sospinto; ed a quel fine soltanto dirizzar le sue opere, ed in ben dovuta oblazione, le sue sostanze, orgoglio, onore, ed esistenza, alla Patria, con giubilo consacrare.

CAPITOLO XIV. DELLA FORMAZIONE ED ORDINAMENTO DELLE BANDE.

Dopo del già detto nel capitolo 5º, dove della tattica trattammo; dopo di una ripetuta e funesta esperienza, acquistata tanto in Ispagna quanto in molte altre parti, deve l'osservatore militare e politico, essere rimasto convinto, che le grandi masse di truppe in tutta fretta riunite (affoltamento ad una insurrezione nazionale, inerente) atte non sono a contendere, senza rovina, con nemici da lunga [1-277] pezza ordinati in battaglioni, squadroni, e reggimenti; stretti da una severa disciplina da ognun di loro temuta, e rispettata, per la lunghezza del tempo, divenuta, come altra natura; epperciò tenuti dall'abito, e dal timore, in freno. Massima follìa sarebbe lo sperare di poter contro questi, in battaglie campali, resistere. Fà dunque di mestieri, se gl'Italiani vogliono fermamente rendersi uniti, indipendenti e liberi, che, come gli Spagnuoli, ed altre nazioni, che pure in tal modo si liberarono, a quella guerra leggiera per bande, abbiano ricorso. E se non potrà, in siffatta guisa, impedirsi al nemico di occupare con un esercito, il paese, si terrà però il potere, di quello nei limiti de' suoi posti militari, tener serrato, ed un esercito tanto grande per contenerlo, quanto per conquistarlo, sarà di mantenere forzato, locchè alla fine dovrà senza dubbio farlo interamente rovinare. Poichè dunque in una insurrezione, nulla sopra eserciti mercenarj puossi con giudizio calcolare, i caldi amatori della patria, cui l'animo più non regge di sofferire con pazienza le tanto lacrimevoli disavventure, cui trovasi oggidì la povera Italia, soggetta, da per sè stessi, quei mezzi giudicati necessarj a scuotere il giogo, che gli opprime, individualmente cercheranno; ed una volta che [1-278] diverrà quest'idea, generale, e che sia la maggior parte degl'Italiani, di ciò persuaso, ne avverrà che ogni provincia, ogni città, ogni uomo, sentirà fortemente, quanto sia necessario di resistere all'avversario, e riboccante di santissimo ardore, si affretterà, senza previo accordo o estraneo impulso, a brandire le armi, e mettersi arditamente in campo. Un numero di decisi Italiani riuniti, armati, e ben determinati a far la guerra, quello, frà di loro, nel quale riconoscano maggiore capacità, condottiero costituiscano! Quest'è la prima formazione delle bande.

Palarca, medico di Villaluenza, raduna in una cantina, trenta de' suoi amici, si mette alla loro testa, portasi a sorprendere un distaccamento di dragoni francesi, ne spoglia i soldati, e prende le loro armi, e cavalli. Ecco la formazione della prima banda spagnuola. La lega degli amici della patria, e le congreghe segrete, di che a lungo abbiam già ragionato, gl'Italiani, a prendere le armi, e mettersi al tempo calcolato più favorevole, in campo, celatamente, stimoleranno; l'aumento delle bande promoveranno, e d'agire con buone informazioni, per mantenersi in vigore, onde conseguasi il buon successo, continuamente non mancheranno. Le bande collettivamente, ed ogni volontario, [1-279] al suo arrolamento in quella, da per sè, dovranno con giuramento solenne, di continuare il servizio fino alla fine della contesa, obbligarsi, come pure di non mai un soldo regolare pretendere, ma di guerreggiare, sin tanto, che le loro facoltà glielo permettano, a proprie spese ed in qualunque punto della penisola italiana, dove, la loro presenza possa essere giudicata necessaria, e di maggior danno al nemico, promettere di volonterosamente trasportarsi; di voler fermamente la liberazione d'Italia; la sua unione in un corpo solo di nazione; la sua perfetta independenza: ed obbligar parimenti la loro fede, onde, cercando tutte le occasioni di rintracciare alla spicciolata i nemici, quanti di loro gli cadano nelle mani, tosto ammazzare. Tutta la banda insieme, prenderà solenne sacramento di, un numero eguale di nemici, a quello de' volontarj di cui è composta, in ogni mese sterminare. Ecco la sostanza del giuramento, al quale aggiunger potrebbesi l'obbligo della subordinazione al condottiero, etc.

Portò il secondo Congresso nazionale americano radunato in Filadelfia, l'anno 1775, l'America, sul punto di rovinare, per non aver la prima parte di questo giuramento stabilito dalla lega, in bastevole considerazione [1-280] avuta, nè con rigore mantenuta; avendo per lo contrario, l'uso di pagare sei talleri al mese al soldato, con un graduale aumento pei sergenti ed uffiziali, col peso insopportabile all'erario, introdotto, e avendo inoltre il gravissimo sbaglio di arrolare i soldati per condotte mensuali, ed annuali, sconsigliatamente commesso. E per non esser quelli, a servire fino alla fine della guerra, obbligati, trovossi l'illustre Washington molte volte in sommo imbarazzo, e pericolo, pell'abbandono de' soldati, che, finito il tempo del loro servizio, alle proprie case restituivansi, locchè produsse, molte volte, insuperabile incaglio alle più belle operazioni militari da quel sommo generale ed egregio campione della patria, disegnate, od intraprese. Ciò, al dire del già citato Botta, fù per anche publicamente biasimato dallo stesso Washington, che nel 1776 assicurava, in una lettera diretta al congresso «ch'egli opinava forte, che sarebbe l'americana libertà in grandissimo pericolo posta, se la difesa sua non si commettesse ad esercito, il quale dovesse durare sino al termine di tutta l'impresa.» Quindi egli finalmente l'ottenne, ed il buon risultamento di quella gloriosa guerra, compiutamente assicurò.

Perciocchè spetta alla seconda parte del giuramento, [1-281] ch'è, di ammazzare quanti nemici le bande, potranno, e cercare di distruggere in un mese un numero eguale a quello di ciascuna di esse, dice il signor Lemiere, questo essere stato il sistema dalle bande spagnuole nella guerra dell'independenza, contro l'invasione francese, addottato e seguito: «Cencinquanta o duecento di queste bande, dic'egli, sparse per la superficie della Spagna, avevano giurato di ammazzare, ciascuna, trenta, o quaranta Francesi al mese, ciò che sommava sei, o otto mila uomini, dalla totalità delle bande mensualmente distrutti.» Ed in seguito: «Siccome vi sono dodici mesi nell'anno, noi perdevamo circa ottanta mila uomini annualmente, senza d'una battaglia. La guerra di Spagna durò sette anni. Ecco dunque più di cinquecento mila uomini ammazzati dalle sole bande. Aggiungansi le battaglie di Salamanca, Talavera, Vittoria, e varie altre dalle truppe francesi, perdute; gli assedj fatti dal maresciallo Suchet, la difesa di Saragozza, l'attacco infruttuoso di Cadice, l'invasione, ed evacuazione del Portogallo, le febbri e varie malattie alle quali andarono i soldati, soggetti, e si potranno, senza pericolo di sbagliare, altri trecento mila soldati nel periodo di sette anni, al numero de' morti aggiungere, locchè porta [1-282] la perdita di ottocento mila uomini, della più bella, ed agguerrita truppa d'Europa, la migliore, che in quel tempo esistesse!» Se dunque dalle bande, questa parte del giuramento, come lo osservarono le bande spagnuole, religiosamente si osservasse, rimane matematicamente provato, che in brevissimo tempo, sarebbe l'Italia dai suoi nemici, affatto liberata. Supponiamo per esempio, che nel primo slancio, a ventimila volontarj ascenda il numero dei combattenti. Potrebbero quelli, nel corso di un anno, un esercito di due cento, e quaranta mila uomini, recare a fine. Figurarci però non dobbiamo, che una popolosa nazione posseditrice di quattro milioni d'uomini atti alle armi, al solo numero di ventimila difensori, debba i suoi calcoli circoscrivere. Noi fermamente opiniamo, che al triplo, eziandio, ed al quadruplo, la sua forza operativa, fin dal primo scoppio, ascenderebbe, ed in sì fatto modo, divenendo la guerra, forte, e breve, sarebbe tra poco tempo, il paese, dalla straniera contaminazione, purgato. Non v'ha il minor dubbio, che se accuratamente vadasi alle opportune congiunture in traccia, non si presenti a ciascun volontario in particolare od alla banda in massa, nello spazio di trenta giorni, l'acconcio di por mano individualmente alla vita di un nemico, [1-283] con la particolarità, che, se gli viene il destro di cacciarne ai primi mesi un maggior numero dal mondo, sarà incontrastabile al certo che loro rimane l'agio di distruggerne un maggior numero, pell'avvenire.

La quantità d'uomini a che debba una banda ascendere, essere non può con precisione stabilito. Dieci soli, fino a cinque mila uomini! Ecco i due numeri estremi, e fra i medesimi, qualunque numero, si trova, per una banda, conveniente, avuto però alla natura dei luoghi, degli abitanti, delle risorse del paese, dove quella si decide di operare, opportuno riguardo. La più numerosa banda, che in Ispagna abbia esistito, quella si fù di Mina, di cinque mila combattenti circa, che il Capo, fino al numero di dieci, o dodici mila, avrebbe con facilità potuto accrescere, se ne avesse avuto il pensiero; ma ben s'apponeva egli, affermando non potere in quel genere di guerra, un condottiero, più di cinque mila volontarj, convenientemente maneggiare. Figlia del tempo, e delle disgrazie, la vecchia esperienza, ci dimostra, dover in generale, quei corpi staccati che noi chiamiamo bande, essere di picciol numero di combattenti, composte. Il solo Mina, per la combinazione di molte avventurose circostanze, che troppo a lungo ci condurrebbe, [1-284] l'enumerare, dalla metà della guerra in poi, comandava un corpo ben grande di volontarj, che piuttosto, come una colonna volante che irregolar banda doveva considerarsi, e combattè con vantaggio e con gloria. Ma moltissimi condottieri delle bande spagnuole fecero portenti, delusero il nemico in tutt'i suoi sforzi, ed anzicchè insoffribili vessazioni alla patria cagionare, furonle di non poca utilità, mentre, solamente un numero men che grande di partigiani, o volontarj, comandarono. Nulla però o ben poco fecero di vaglia, tostocchè coll'aumento delle loro forze, si resero maggiori, e di quello stesso paese, che in buona fede intendevano difendere, in flagello si convertirono. Imperciocchè, atteso il forte numero dei combattenti della banda, inevitabili danni cagionarongli. Meno atti ad occultare le loro operazioni al nemico, che già non li perdeva di vista, e molte volte imbaldanziti i condottieri dal numero della loro truppa, ad imprese temerarie si avventuravano, nelle quali, moltissimi, a grave pregiudizio della causa publica, restarono vittime. Il celebre Francisquete, e Ventura Ximenes nella Mancha, sin che non capitanarono più di quaranta, o cinquanta uomini, giunsero a sì fattamente il nemico intimorire, che più non osava di attaccarli. [1-285] Ma quando a riunirne cinque o seicento, ciascuno d'essi pervenne, entrambi, per mano di quello stesso avversario, che prima gli paventava, sconfitti, con somma vergogna infelicemente perirono. Lo stesso Isidoro Mir, uomo di senno, e di capacità, alla testa di cinquanta, o sessanta volontarj, cose, da far maravigliare, chiunque, avea operato, fra le quali non fù certamente la meno celebre, quella di aspettare al varco il generale, destinato a comandare in capo all'esercito francese della Mancha, con tutt'i suoi ajutanti, e stato maggiore, e di farlo, in un con quelli, suo prigioniero. Ma poichè lo stesso condottiero pervenne al comando di due mila fanti, mille duecento cavalli, e quattro pezzi d'artiglieria, i treni e carri dei quali, non meno che i cannonieri, e tutto il necessario pel servizio della colonna, era stato creato, fabbricato, e come per incantesimo dal convento di Guadalupe, provveduto; fù nell'anno 1811, dal solo reggimento de' dragoni francesi sotto gli ordini del colonnello Laffite in Cuerva, compiutamente battuto; e superar dovette mille difficoltà, e pericoli per salvare la sua persona da una tanto decisiva rotta, che quella divisione, come per magìa, stata dai frati creata, ed ordinata, mandò in irremediabile rovina. Orobio, il Cojo de los Pedroches [1-286] de Cordoba, e Chaleco, ci danno tutti, e tre una convincente riprova di quanto abbiamo asserito. Periti nell'Andalusia i due primi, il terzo, dopo la sua sconfitta, come per miracolo, a salvarsi colla fuga, pervenne. Il Caracol nell'Estremadura, l'Empecinado in Castiglia, ed altri molti in tutte le provincie di Spagna, di cui il tragico fine, e disastrose rotte sono bastantemente noti, punto non lasciano, sull'esattezza di questa osservazione, almeno nella pratica, da dubitare. Vengono pure da una ben ponderata riflessione, onde viemmaggiormente questa dottrina corroborare, valevoli argomenti, somministrati. Per quanto l'abilità d'un condottiero di banda, estesa esser possa, non sarà egli mai, atto a ben maneggiarla, nè potrà quelle cose praticare a che debbono essere tali corpi, esclusivamente dedicati, se si trova la banda molto numerosa. Essa non deve dar battaglie, attaccare grandi masse, nè apertamente assaltare le fortezze. L'unico fine delle bande non debb'essere, che di stancare il nemico, tenendolo in continua agitazione, sforzarlo a star sempre concentrato, ed astrignerlo a che, per la più semplice, per la minima delle operazioni, debba dal suo esercito, grossi distaccamenti separare.

[1-287] Onde possano le bande al debito loro soddisfare, una continua, ed occulta mobilità loro è necessaria. Ora, come potranno queste, se forti in numero, fare nascostamente ciò che loro convenga, quante volte presentando al nemico un oggetto visibile il nemico stesso, forze bastevoli per incagliarle e quindi annichilarle, loro opporrà certamente? Come sarà nascosta la marcia di una truppa, che a ragion del suo numero non si potrà in un bosco, in una casa di campagna, od in una caverna, durante il giorno, alla coperta ricoverare? Come si potrebbe, esistendo un corpo numeroso, al necessario sostentamento del soldato, molte volte due o tre giorni di seguito, in luoghi deserti provvedere? Come potrebbero i suoi movimenti avere quella indispensabile rapidità, se il maggior numero dee per sè stesso, maggiori imbarazzi produrre? Come potrebbe il capo di un corpo numeroso, conoscere fino all'ultimo i suoi volontarj, chiamarli per loro nome, e con loro tenere una franca, ma dignitosa familiarità, nella guerra per bande indispensabile? In nessun modo. Ella è dunque cosa chiara, che se hanno le bande ad essere utili, se debbono i loro movimenti essere pronti, conviene, che vengano da un esiguo numero di volontarj composte.

Stabilito, che il numero de' volontarj componenti [1-288] le bande, debba necessariamente essere ristretto, passeremo all'ordinamento di quelle, che dev'essere semplice. Ogni banda avrà un condottiero, sotto gli ordini del quale, pel corso di tutta la guerra, dovrà rimanere. Sarà questi o una persona d'influenza, che, riuniti varj de' suoi amici, prenda il campo, ed allora ne sarà naturalmente il condottiero; oppure sarà eletto dalla riunione di parecchi amici, che tutti di comune accordo, senza agire per via d'influenza d'alcuno, solamente per salvare la patria, prendano le armi, e verrà all'assoluta maggiorità dei voti, nominato. Le funzioni, e titolo di condottiero non appartengono ad un grado, ma non sono propriamente, che una qualità, per la quale, trovasi a tutta quella gente riunita, superiore, e vale come quella di comandante accidentale che maggiore, o minor grado possiede, secondo il maggiore, o minor numero di combattenti cui comanda. Sebbene sia questa guerra irregolare, non potrebbero però nulla di conseguente in essa i volontarj operare, se fra di loro con regolare ordinamento, legati non fossero, e non da superiori cui prestassero implicita obbedienza, convenientemente diretti. Imperciocchè in contrario, verrebbe il condottiero dalla confusione, e disordine impedito di potere ad effetto, la [1-289] meglio divisata operazione menare. Tutte le nazioni, che una guerra d'insurrezione per bande sostennero, e specialmente l'eroica Spagna nella lotta dell'indipendenza, ebbero militarmente regolate. Ma per uno strano errore, tentò la Giunta di Siviglia, secondo il sistema di regolar milizia, le bande, tanto generalmente, che particolarmente, ordinare; e diede perciò un lungo editto alla luce col quale, la forza popolare in partidas, ossia bande regolari da formarsi di volontarj, ed in isquadriglie da formarsi di contrabbandieri, divideva; ed a tutti accordava regolarmente una congrua paga; ed alle leggi della disciplina militare assoggettavagli. Tuttavolta guari ad avvedersi nell'effetto, dello sbaglio, non tardò, e non essere le bande di una esatta dipendenza suscettibili nelle speziali operazioni loro, per esperienza riconobbe. Laonde con maggior senno, e con lo squillo generale della patria tromba, dal sonno in che giaceva il popolo ignaro ed inerte, con forte istrepito destò, e doversi quella considerare guerra de Moros, e da tosto intraprendersi, solennemente bandì. Non debbono i gradi emanare dal governo provvisionale, che può esistere o no; ma conviene che vengano al più capace, al più caldo amatore della patria, ed al più morale, dal [1-290] condottiero della banda, conferiti col riconoscimento ed approvazione successiva del condottiero supremo, senza che questi abbia diritto d'immischiarsi nei particolari dell'ordinamento speziale della banda, e finattantochè il Parlamento nazionale regolarmente, e liberamente eletto, e costituito, non approvi od abolisca, dovrà il tutto, provvisionalmente rimanere. Ogni qualvolta saranno dieci volontarj per guerreggiare, uniti, dovranno essere comandati da un decurione il quale non dovrà mai venir da una decuria, ad un'altra cambiato, ma sempre con loro convivere ed al loro fianco, il nemico affrontare. Due decurie formeranno un drappello comandato da un capo-venti, due drappelli con un antesignano portante il manipolo di fieno all'asta, ed un suonator di cornetta, formeranno un manipolo comandato da un capo-truppa. Due manipoli formeranno una centuria, ed avrà questa un centurione comandante oltre d'un centurione retroguida che sarà secondo comandante della medesima, ed il numero degl'individui ascenderà a cento, compresi gli uffiziali. Dieci centurie formeranno una coorte comandata da un capo mille, la quale con l'aggiunta del vessillifero, di quattro guarda-bandiera e d'un primo e d'un secondo vigilatore, [1-291] sui quali posa tutto il servizio della coorte, e la perfetta esecuzione degli ordini del capo-mille, ascenderà al numero di mille e sette. Dieci coorti formeranno una legione comandata da un tribuno legionario avente in oltre quattro Celeri per trasmettere i suoi ordini, un aquilifero, otto guard'aquile, ed un Celiarca, capo della direzione topografica, e del materiale della guerra. Cinque legioni formeranno un esercito consolare, il quale potrà pure venir aumentato, secondo i tempi, i mezzi, e le circostanze, e comandato da un console, con un maggior numero di Celeri, e Celiarca. Finalmente un condottiero supremo, con quattro condottieri principali di provincia, venti di cantone, duecento di distretto, sarà il regolatore delle operazioni generali della guerra. Ogni condottiero principale avrà un consiglio di direzione topografica, e materiale di guerra, più o meno grande, secondo l'estensione del suo comando. Il condottiero supremo nominerà, e dirigerà il consiglio d'alta direzione topografica, e materiale di guerra; si comporrà, del

[1-292]

Condottiero supremo. Avranno tutti questi altrettanti consigli particolari sotto i loro ordini non meno, che una sufficiente quantità relativa di celeri, per quanto loro spezialemente concerne.
Gran celiarca.
Maestro delle artiglierie.
Topografo generale.
Tribuno capo di tutt'i fanti.
Maestro di cavalli.
Tutt'i condottieri principali.
Ventiquattro connestabili.
Quattordici celeri.
 
I membri del gran consiglio ambulante di guerra. Coi loro rispettivi consigli.
L'alto censore, direttore di tutto quanto è relativo al buon governo.
Gran questore, per quanto è relativo ai fondi, etc.

Questo generale ordinamento, sarà dal condottiero supremo con esattezza, ma solo rispetto alle operazioni combinate, e sull'universalità delle bande, sparse sulla superficie del territorio, messo in pratica. Non sarà, per esempio, necessario, che quelle bande, il numero delle quali, in una provincia può tre o quattro eserciti consolari formare, sieno riunite, ed agiscano regolarmente come legioni, etc. Ma solo dal capo riconosciute, e per via di ciascun condottiero di distretto, cantone, e provincia, secondo il detto sistema classificate, ed in corrispondenza; potrà quegli, volendo un movimento combinato, e parziale, [1-293] operare, solamente quella tal parte che giudicherà conveniente, avvertire, quella tal legione, sola far muovere che si trova della combinazione a portata, se così stima per lo migliore, e potrà, libere d'agire a loro talento nel circolo speziale, dove fan guerra, per tal modo le altre lasciare. Terrà dunque il condottiero supremo un registro generale delle bande da lui riconosciute, colle quali in corrispondenza manterrassi. Nel sopra espresso modo registrata, sarà, secondo il suo numero d'uomini, ognuna su di quel sistema ordinata. Per esempio, una banda di dieci uomini, che agisca da per sè, non sarà che una decuria, ed il suo condottiero, non sarà più che decurione. Ma se questi l'aumenterà fino a venticinque, diverrà per quel fatto, capo-venti se fino a cinquanta capo-truppa, etc., e così in seguito; semprecchè non venga dal condottiero supremo o principiale del circolo dove si mantiene, avvertita di dover in tale o tal altro modo, a movimenti combinati, cooperare d'accordo, ed in unione con tal altra decuria, o centuria, etc. alla quale nell'ordinamento generale appartenga. Non dipenderà per quelle date speziali operazioni da altri capi, e potrà qualunque particolare impresa, da sè sola portare ad effetto, quando la giudichi, al paese convenire.

[1-294] In ragione dunque della sua forza nel sopra indicato modo, ciascuna banda ordinerassi; ed eccettuando il caso di operazioni combinate, per le quali dovrà obbedire agli ordini del condottiero supremo, dai celeri suoi, o dai condottieri principali di provincia, cantone, o distretto, gerarchicamente trasmessi, godrà ogni banda d'una perfetta indipendenza. Non dovranno mai essere i condottieri da una banda, all'altra, nè dalla loro rispettiva, rimossi o separati, ma sempre dovranno con gli stessi volontarj vivere, mangiare, dormire non meno, che combattere.

Possono essere le bande di soli fanti, di sola cavalleria, o di ambo queste armi, composte, e tanto le une come le altre dovran essere nel modo di già indicato, ordinate, e regolate.

Difficoltà grande per provvedersi di cavalli, quando si parla di formare una banda di cavalleria, pare affacciarsi. E se mai il sovra-esposto esempio del medico Palarca, la facilità di togliere i cavalli al nemico, sorprendendolo, come noi crediamo, ad evidenza non dimostrasse, aggiungeremo primieramente che possonsi avere cavalli, se i volontarj sono d'un paese, dove quelli abbondino, e coi proprj, si presentino, si riuniscano, e [1-295] forminsi gl'individui in una banda di cavalleria. Questo è il più facile modo, e secondariamente, si otterranno, se conoscendo i cittadini la grande necessità di avere alcuna di tali bande; malgrado, che il paese sia scarso di cavalli atti a militare, ed i pochi esistenti deboli, o mal formati, siano ben decisi a toglierli al nemico, pel desiderio di combattere a cavallo, e con quelli posseduti da lui, si montino. Nell'ultima guerra di Spagna contro i Franco-apostolici, ordinati quegl'Italiani proscritti, che colà si trovavano, in un battaglione di granatieri sotto gli ordini del colonello Pacchiarotti, ed in un corpo di lancieri sotto quelli del conte Bianco, in Catalogna, per lungo tempo militarono. Ma siccome non era quella truppa stata d'ordine del governo armata, ed ordinata, perchè las Cortes finattantocchè la rovina del sistema constituzionale agli occhi di tutti certa non fosse creduta, alla formazione di legioni straniere, negarono di rivolgere il pensiero, e quando poi le ordinarono, soli pochissimi giorni d'esistenza in Catalogna aver potettero; la Deputazione provinciale, le armi, e necessarie assise per un battaglione di fanti a conto della provincia, generosamente agl'Italiani fornì. Però, considerandosi essere cosa necessaria, quella di avere anche cavalleria della propria nazione, [1-296] e molti uffiziali, di servire a cavallo desiderando, si decisero benchè privi affatto di mezzi, a formare, ed ordinare un corpo di lancieri italiani uffiziali volontarj; e per giungere al loro scopo, la divisa da granatiere datagli dalla deputazione provinciale, alla foggia di quella dei lancieri della guardia imperiale di Napoleone, ridussero, ed il fucile, etc.; con sciabola, pistola, e lancia permutarono. Contuttocciò un'altra maggior difficoltà loro presentavasi, e quella si era di trovar cavalli, perchè neppur uno dal governo spagnuolo ne potevano sperare. Pochissimi fra loro, siccome proscritti, avevano danari sufficienti per comprare il proprio, anzi molti trovavansi, d'ogni mezzo per montarsi, mancanti. Essi dunque al modo il più difficile, ma il più guerriero, il più ardito, ma il più efficace, ricorsero. A piedi collo schioppo alla mano nelle file del battaglione, la cavalleria apostolica furiosamente assalivano, l'uffiziale, o soldato nemico scavalcavano e sul posto trafiggevano. Quindi del suo cavallo, arnesi, armi, e taglia s'impadronivano; così a poco a poco, a misura che le scaramuccie, ed i combattimenti si succedevano, il corpo formavasi dei lancieri italiani, ed ingrossava. Altri cavalli poscia comprati coi fondi ricavati dal bottino, che tutto intiero a quell'uopo si destinava, agli [1-297] acquistati colle armi aggiugnendo, un corpo sorse d'uffiziali volontarj lancieri maravigliosamente in breve tempo formato, ed ordinato, che fù sempre da quanti Spagnuoli, e nemici stessi lo viddero, per valore, energia, e sveltezza in agili fazioni dimostrata, come per l'elegante assisa, che i volontarj adornava, da tutti sommamente apprezzato, e stimato. Eccone abbastanza, per la formazione delle bande di cavalleria. Presso del condottiero supremo, e di tutt'i condottieri principali, vi sarà un numero di volontarj a cavallo, disarmati, e vestiti alla foggia dei contadini, della provincia, i quali serviranno per portare gli ordini verbali, o scritti in cifra, da una banda all'altra etc. Questi saranno riconosciuti da un segno di convenzione stabilito al cominciamento della guerra.

Alle falde dei monti, nello spazio tra un fiume, e l'altro, nelle boscaglie, lungo quelle, sulle colline, e nelle pianure coperte da siepi, o tagliate da paludi, etc.; che siano dai volontarj perfettamente conosciute, possono ben mantenersi le bande di cavalleria, essendo soggette alla necessità de' foraggi, etc. E possono le bande a cavallo, sì pel trasporto rapido in groppa di fanti da un punto all'altro del paese, come per valicare i fiumi, in questa guerra [1-298] grande vantaggio arrecare, non meno, che per quelle operazioni ardimentose, e spedite, che, il nemico sorprendendo, l'istupidiscono, confondono, e quasi sempre, quando sono ben dirette, un effetto decisivo, e completo producono. Per lo più, in quelle portentose incursioni succede, che un pugno d'uomini decisi e svelti, forti corpi di truppa regolare distruggano, ed alcune volte della liberazione d'una provincia, del possesso, o della caduta d'una piazza, della cooperazione degli abitanti d'un paese, della rovina del nemico, e del trionfo della causa, compiutamente decidano. Debbono i volontarj a cavallo, essere d'un'attività, ed energia sorprendente, a tutta prova, buoni maneggiatori dei cavalli, della sciabola, scure, lancia, e falce a manico rovesciato, etc.; arditi, ed intraprendenti.

Le bande a cavallo, oltre del danno, che possono da sè sole nel circolo speziale delle loro operazioni, al nemico arrecare, sono utili alle bande de' fanti, onde i lati del cammino, boschi, selve, e foreste, perlustrare, servire da corridori, trasportare i fanti in groppa. Non mai in linea, ma sempre in foraggiare, debbe tal cavalleria caricare; ed il loro ordinamento generale, dovrà essere diretto da un maestro de' cavalli, dipendente dal condottiero supremo, e presso di lui, residente.

[1-299] In quanto alle particolari loro operazioni, la condotta di Palarca, e don Julian, dovrà da un condottiero de' cavalli, essere imitata. Quest'ultimo, quando venne informato avere Ciudad Rodrigo un rinforzo di vettovaglie, e soldati ricevuto, formò l'arditissimo progetto di prendere, e portar via tutto il bestiame, ch'era stato nella città introdotto, ed ogni giorno fuori della medesima, sotto la protezione dei cannoni dei forti, al pascolo si conduceva. Ei giunse determinatamente di gran carriera; sbaragliò la truppa che stava di guardia; sprezzò il fuoco dei cannoni, che senza posa contro di lui tiravano a scaglia; prese gran parte del bestiame e se lo portò via. Di più il governatore generale Reynauld, alla vista della piazza e sotto il tiro dei cannoni, credendosi sicuro, e avendo con una piccola scorta passato l'Agueda, fù preso dal condottiero e menato in prigionia. Oltre di ciò si potranno pure dal trattato del sig.rLemiere sui partigiani, molti ed utilissimi ammaestramenti sul modo da tenersi dalle bande a cavallo in questa sorta di guerra, ricavare.

[1-300]

CAPITOLO XV. DEL VOLONTARIO.

Ben differente da quell'essere infelice, a viva forza per servire sotto le bandiere del tiranno dal seno della sua famiglia, trascinato; o da quel vile scioperato, che per una convenuta mercede mette, per un corso determinato di anni, la sua persona ad iniqua usura, e la sua vita vende a basso prezzo, durante il qual tempo, con disonore, ed impudenza, come infame prezzolato sicario del crudele dominatore, alla cieca impiegasi contro de' disgraziati popoli, che per quella cagione sono a gemere in segreto sotto la compressione di uno scettro di ferro, miseramente costretti; ben differente, io dico, quel cittadino debb'essere, che animato da sagrosanto entusiasmo, alla patria i suoi averi, e la sua vita liberamente consagra, e per servirla nella terribile contesa, e per la riescita del gran progetto, impugna intrepidamente le armi.

Timido, impaziente, svogliato, sarà sempre mai quel giovine, che strappato dalle braccia del padre, della madre, delle sorelle, dalle dolcezze in somma, della vita di famiglia, si trova, malgrado [1-301] le sue inclinazioni, in mezzo a compagni ruvidi, e grossolanamente licenziosi, trasportato, e tenuto d'obbedire ad una quantità di superiori aspri, sofistici, e superbi, che un odio acerbo fangli contro del suo stato, concepire in modo, che serve per violenza, e non eseguisce il suo dovere, nè gli dà l'animo d'impararlo.

Dissoluto, immorale, oppressore deve necessariamente essere il sicario prezzolato, onde, colla depravazione de' costumi, con vizii d'ogni sorta, con l'oltraggio de' suoi concittadini, quella ripugnanza, quell'orrore stordire, che fassi nel cuore d'ognuno sentire, ogni qual volta all'esercizio di opere crudeli ed infami, trovasi impiegato.

Ma se le suddette qualità non possono a meno di essere l'inseparabile attributo di chi stà dei nequitosi tiranni all'abominevole soldo, ben contrarie quelle esser debbono del volontario della patria, che non solo dev'esserne scevro, ma dichiarato, e continuo inimico.

Un animo costante, una forte decisione a sacrificarsi per la felicità, e la gloria del suo paese, una pazienza a tutta prova, ed il disprezzo della morte, sono le essenziali qualità, che debbono il volontario distinguere, cui, quella di essere robusto, e buon camminatore, [1-302] personalmente valoroso, e saper con destrezza assestare una schioppettata, deve pure accoppiare. La sobrietà e l'attività debbono essere del pari in esso lui, qualità preponderanti; nè dee ricusare di rimaner sempre all'aria aperta, senza tende, senza letto, e sopra poca paglia, ed anche deve alcune volte sulla nuda terra, interrottamente dormire; non mangiare, che il puro necessario al sostentamento della vita; contentarsi di focaccia in mancanza di pane, ed alle volte, farne pure ammeno, e con castagne, ed altri simili frutti dal caso forniti, supplirvi. Cipolle, formaggio, olive, e ben anche ghiande, un pò di carne, un pò di vino, se possa ottenersi, ma che però non sia, pel volontario, un bisogno indispensabile, ecco ciò che dev'essere il suo miglior nutrimento. Sarà pregio dell'opera di proporre in parte, per esempio, quanto venne dei Romelioti e Sullioti, nella relazione sugli avvenimenti della Grecia nel 1823, dal nostro Pecchio, riferito: «Essi non conoscono nè tenda, nè letto, nè tetto: il loro letto è il cappotto; una pietra n'è il capezzale; il tetto, un cielo sempre sereno. Per tutto il tempo della campagna non si spoliano mai, nè si mutano la camicia; sono quindi orribilmente sucidi. Ma in compenso, le loro armi sono nitide, e splendenti sempre mai. Quando si svegliano, [1-303] il primo loro pensiero è di pulire e mettere, in tutto punto, le loro armi. Sono estremamente vaghi di belle, e ricche armi. Quest'armi, raggianti d'oro, e d'argento, con quella loro annerita, lurida camiscia, fanno uno strano contrasto. Non hanno quindi nè mocciglia nè sacco per riporre alcuna cosa. Ben fatti in tutte le parti del loro corpo, sono forti come leoni, e svelti come caprioli. Ho veduto i bei granatieri di Napoleone; conosco le belle guardie inglesi, ma i Sullioti mi sembrano ancora più belli. Il loro portamento, i loro gesti sono teatrali, essi sogliono combattere sparpagliati, ognuno di loro sceglie il suo posto. Non sono avvezzi a combattere a corpo scoperto; a guisa degli antichi che si coprivano collo scudo, essi si appiattano dietro una pietra che li protegge. Purchè abbiano un pezzo di pietra, essi sono invulnerabili. Talmente sanno essi accosciarsi dietro e caricare supini il loro fucile; per ingannare i loro nemici, quando sono distanti, sogliono mettere in vista il loro berretto rosso discosto dal luogo dove sono nascosti.»

Dalla nobile, e semplice risposta del giovane Scita Anacarsi, nel rifiutare i magnifici regali, che venivangli dal Cartaginese Annone pomposamente offerti, puossi, onde conoscere [1-304] quelle peculiari qualità, che ad un virtuoso volontario si convengono, utile ammaestramento ritrarsi: «Una grossolana pelle, diss'egli, mi serve sola per vestimento, cammino a piedi nudi; dormo sulla dura terra, che per le fatiche del giorno mi pare soffice, e commoda più di un letto; la fame rende i cibi più volgari, e più frugali, saporosissimi, e gustosissimi al mio palato. Conserva dunque i doni pe' tuoi cittadini, io non so che farne!» Scevro da qualunque bisogno al di là dello stretto necessario, quel volontario italiano, che avesse tanta virtù per attenersi a quel genere di vita, con tutte le altre qualità, che furono dalla natura a chi nasce in Italia, a larga mano compartite, unitamente all'ostinazione indispensabile nella nostra guerra, tal volontario diverrebbe senza dubbio, nell'età presente un oltre-maraviglioso eroe, che rigenerando il suo paese, all'apice della gloria giungerebbe.

Persuaso, che l'ozio, ed anche il riposo snervano l'uomo, e diminuiscono il suo coraggio, ei sarà loro acerrimo nemico, e terrassi continuamente in attività. Un carattere fermo, un esercizio continuo, una regolare sobrietà, impediranno, che gli soppraggiungano malattie.

Siccome, nel caso di essere dal nemico stretti, [1-305] o circondati, è mestieri, che ciascuno degli individui della banda, cerchi da per sè stesso individualmente un modo di salvezza, ed alle volte passi per mezzo dei corpi nemici, onde poi andarsi in un punto previamente dal condottiero, stabilito, di bel nuovo a riunire; ne avviene, che la conoscenza esatta, e minuta del paese, sia non meno al volontario, che al comandante, necessaria, dovendo ambi due, dei passaggi meno conosciuti, profittare, nelle selve foreste, rocche, e caverne, momentaneamente nascondersi, all'erta dei monti poggiare, e pe' macigni arrampicandosi, ricomparire all'improvviso, e quindi fuggire.

Sottomesso al condottiero, cui in ogni tempo, e luogo, presta implicita obbedienza, inesorabile coi nemici, moderato ne' suoi bisogni, attento, ardito, e prudente nel disimpegno de' suoi doveri, generoso ne' suoi patrii sentimenti, ecco qual dev'essere il vero, il buon volontario, in cui sta la salvezza, e la futura felicità della patria, onninamente riposta.

[1-306]

CAPITOLO XVI. DEL CONDOTTIERO.

Mal si apporrebbe, chiunque, al nome di condottiero di bande, di cui tratterassi in questo capitolo, la norma di quei condottieri, la cui esistenza nel medio evo tanto afflisse l'Italia, e le fù di vero disonore, ravvisare credesse. Uomini avari, ed immorali, senza patria, senza sentimenti delicati, e senza amore per gli uomini, sempre al miglior offerente vendibili, non men, che al nemico stesso, contro cui combattevano, rovinando molte volte il padrone del momento, per vantaggio dell'avversario da cui loro veniva maggior premio segretamente proferto; uomini di poco valore, di molta tristizia, non saranno mai dal condottiero delle bande armate per l'unione, independenza e libertà della patria, presi per modello, nè in alcuna parte delle loro azioni seguiti. All'opposto, il nostro condottiero, ben lungi dall'agire, come quelli, per proprio personale vantaggio, non avrà, che il bene della patria in mira, non penserà, che all'Italia, non opererà, che pel maggior vantaggio [1-307] di quella, bandirà dalla sua mente ogni considerazione, che possa dalla sublime carriera, che intraprese, discostarlo, oppure, la sua energia, e zelo pel sacrosanto scopo, che si propose, affievolire.

Ella è principale proprietà delle rivoluzioni, di portare il vero merito in alto, e coloro dei lor gradi spogliare, che per raggiro, od impostura, astutamente gli usurparono, o che per sola eredità, quai discendenti d'illustri antenati, di possederli pretendono. Egli è ormai da ognuno, per esperienza riconosciuto, che le rivoluzioni mettono, e sostengono gli uomini a quel posto, gli obblighi del quale, sono di bene disimpegnare capaci, dimodocchè il nome d'un barone, conte, marchese, duca e principe, quale un publico pregiudicio portava alla considerazione d'illustre, e che per l'addietro, attesi solamente i supposti meriti di successione d'avi, forse, nei tempi antichi, virtuosi, sarà stato in dignità costituito, sparirà. E se il titolato, per mezzo d'un singolar cambiamento, non abbraccia con energia e coraggio, il partito della patria, cadrà costui meritamente nel fango, ed al contrario un uomo, per l'addietro, sconosciuto, negletto, e disprezzato, avrà per avventura, al maneggio degli affari dello stato, ed anche al comando degli [1-308] eserciti, a vece sua, innalzato! Da ciò ricavasi, che in rivoluzione, e sopra tutto nella guerra per bande, il nome non è niente; e solamente le qualità personali sono, ed esser debbono, apprezzate. Quelle sole, in quel tempo, aprono alla persona, il cammino a quel grado, o posto, che per propria virtù giustamente gli spetta. Uomini della più bassa origine, divennero in Ispagna capi attivi, ed intraprendenti, un bifolco, un pastore, un pentolajo, fra i principali condottieri di bande, in quella penisola si dimostrarono. Il Manco, ossia il zoppo, il Marchesino, il Medico si resero non men celebri di quelli. Il dottore Rovira, e l'avvocato Uobera, in Catalogna, oltremodo si distinsero; Don Giuliano Sanchez possidente, era nella vecchia Castiglia, e nel regno di Leon, il terrore dei Francesi; il notajo Don Ventura Ximenes, lo era tra Badajoz, e Toledo; il contrabbandiere Longa, in Aragona; e quindi Don Giovanni Martino, detto l'Empecinado, da Massaro divenne il miglior maneggiatore di sciabola, che in Ispagna esistesse. E fù colui che dai monti di Guadalaxara, portò le sue armi in ogni parte della penisola, che rese vani tutti gli sforzi dei Francesi in Madrid, per distruggere la sua banda, e mise in forse la vita dell'intruso re Giuseppe, in una imboscata, [1-309] che gli tese a Cogolludo. Finalmente, oltre tanti, e tanti altri che citar potremo, ma che lasciamo pe' ristretti confini da noi al presente trattato prifissi, fra quelli non meno valorosi, che utili al loro paese, citeremo il Cid, il Lara di quell'epoca, l'attivo, l'intraprendente Espoz y Mina, che per le sue gesta in Navarra, dovrà sempre da chiunque voglia conoscere i doveri, ed il procedere di un vero, ed utile condottiero di bande in favore della patria, essere, qual prototipo, riguardato. Ecco, fra i surriferiti nomi, accanto ad un marchese, e più alto ancora, brillare un pentolajo. E sebbene di egual considerazione meritevoli, vedemmo dottori, e pastori, avvocati, e villani, e sebbene tutti nel servigio della patria distintissimi si mostrassero, nulla di meno, al prode Espoz y Mina inferiori apparvero, che maraviglioso bifolco, lasciò la marra, e la vanga per brandire la spada vendicatrice, ed, in grandissima parte, alla liberazione della patria sua, disinteressatamente contribuire. Che altro era mai il tanto celebrato Hofer, e certamente degno d'encomj, per propria virtù, dal popolo, al comando del Tirolo insorto, destinato? Che altro era quell'illustre vittima dell'amor di patria, e della perfidia austriaca, se non un figlio di un oste? Eppure nell'oste Hofer, [1-310] quella pura virtù riluceva, che, noi crediamo, sarebbesi in principi, duchi, etc., difficilmente rinvenuta. Imperciocchè la maggior parte di quelli, non cercano d'imporne ai popoli, che con soli titoli fastosi; e con ciondoli ridicoli, gli occhi della plebe abbarbagliare. Chiaro da quanto abbiamo detto, appare, nè la famiglia, nè il nome, nè le ricchezze, ma quelle personali qualità, che fondano la loro base sopra l'amor di patria, giudizio retto, volontà di ferro, sostenuta dall'attività, perspicacia e vigore, al condottiero, soltanto abbisognare.

Egli è obbligo sacrosanto di qualunque condottiero, tostocchè per sostenere la libertà, ed indipendenza della patria, nell'agone si slancia, quello di compiere con buon successo la sua impresa, di non mai, dovess'egli pur anche incontrare una morte certa ed oscura, dal proponimento recedere. Le qualità, che vengono da noi, onde venirne gloriosamente a capo, come indispensabili, giudicate, son le seguenti.

1º Un animo intrepido, incapace di cedere a qualunque disgrazia che possa sopravvenirgli.

2º Una cautela, e vigilanza tale, onde l'uomo diffidando di tutti e finanche de' suoi partigiani stessi, dimostri non diffidare di chicchessia.

[1-311] 3º Un cuore severo, ed inaccessibile alle grida della pietà, da qualunque parte possano venire, quando si tratta degl'irreconciliabili nemici della unione, indipendenza, e libertà dell'Italia.

4º Una esatta conoscenza del paese, che scelga, il condottiero, per teatro delle sue operazioni, e di tutte le sue risorse.

5º Un valore sempre prudente, e solo, nell'estrema contingenza, animato, ed impetuoso.

Art. 1º. Un animo intrepido, ed incapace di cedere a qualunque disgrazia che possa sopravvenirgli, debb'essere la prima qualità di un condottiero di bande.

Nulla in una guerra evvi di più comune, o di più probabile, che l'accadimento di certi eventi sinistri, alla più vigilante sagacità, del tutto superiori. Dovendo per lo più essere le bande di piccol numero di volontarj composte, ed isolatamente guerreggiare, loro avverrà di trovasi alcune volte nel corso delle operazioni, contro forze superiori, sprovvedutamente arrischiate, che gravi danni, e rovesci di gran momento loro cagionino e pongano i volontarj nella stretta necessità, per evitare una compiuta rovina, d'individualmente, o per frazioni, sparpagliarsi. Tanto era ciò alle bande spagnuole comune, che una sola non vi esistette, la [1-312] quale non sia stata, le molte volte sconfitta, e dispersa. Ma non per ciò perdevansi d'animo i condottieri e con avveduto consiglio, la maggior cura avevano, di sempre due o tre punti, nel paese dove operavano, ai loro volontarj, previamente determinare. Quanti, superstiti rimanevano dal disastro, immediatamente si riunivano. Ed ammirabile spettacolo, per verità, ad ogn'uomo, quello si era di vedere gl'individui rimanenti d'un corpo, per disastrosa catastrofe sperso, e fuggiasco, sulla cima di ripidissima rupe, od aspro monte raccolti, nudi, non meno che dal lungo digiuno e durissima fatica trafelati, per la perdita de' compagni caduti accanto a loro, estinti, cordialmente afflitti, dimenticarsi di tutt'i loro mali, e patimenti. Ed in un subito rinfrancavansi; e partian di là stesso, per immediatamente portarsi a qualche arditissima impresa di riescita, per l'ordinario, felice. Ed in fatti, tal banda, i nemici in riposo, tranquilli, e nella persuasione, che quella truppa fosse del tutto dissipata, e distrutta, improvvisamente coglieva. Solevano dire i francesi, che il generale dal quale più danno era in tutta la guerra di Spagna stato loro cagionato, chiamavasi il generale no importa. Difatti quell'espressione era comunemente in bocca di tutti gli Spagnuoli dopo di qualunque [1-313] maggior disgrazia, ed a ritornare di bel nuovo alla sanguinosa tenzone, quella gl'innanimiva, e confortava. Dopo la perdita della battaglia d'Almonacid, nella quale involta la banda di dugento uomini comandata da don Isidoro Mir, che si trovava di vanguardia all'esercito sconfitto, e che dovette pure nel generale trambusto a catafascio disperdersi; quell'accorto condottiero riunì di bel nuovo, in un istante una parte de' suoi volontarj, e non più tardi del 12 agosto del 1809, che fù l'indomani della vittoria riportata dai Francesi, sorprese tutti gli equipaggi, e feriti del loro esercito non meno, che un distaccamento da quelli (affine d'inseguire con meno imbarazzi il rimanente del corpo spagnuolo, che si ritirava) lasciato a guardia del conquistato paese Almonacid; entrò nella città; passò a fil di spada quanti Francesi dentro vi erano; e tutti gli abitanti, che seppe essere loro partigiani; s'impadronì di tutto quanto in abbondanza rinvenne. Ma oltre d'un tale segnalato vantaggio, il miglior effetto di quest'ardita operazione, si fù quello di rinvigorire lo spirito publico dalla perdita dell'intiero esercito, notabilmente depresso. Questo medesimo condottiero nel 1810, partecipe della sconfitta sofferta dall'esercito al quale apparteneva, tre soli giorni dopo la rotta, [1-314] varj suoi partigiani, e soldati dispersi, sollecitamente accozzò, e quando i Francesi forzando le linee di Despeñaperros, entrarono nell'Andalusia, cadde inopinatamente sopra d'una forte guarnigione, che prima di tentare quel passo, i Francesi avevano lasciata in presidio a Ciudad Real, la fece prigioniera, e come vidde di non poter più agire colla sua banda, che tutta dovea alla guardia dei vinti rimaner impiegata, de' quali, in tanta vicinanza dell'esercito nemico, non sapeva che fare, quanti prigionieri aveva nelle mani, senza distinzione passò a fil di spada, s'impossessò di una vistosa quantità di equipaggi, e bagagli, dopo d'aver pure tutti gl'impiegati civili, sì spagnuoli, che francesi, messi a morte, perchè aveva avuto lingua, che pel nemico, quei primi parteggiavano. Invigorì, questo avventuroso successo, lo spirito in tutta la provincia della Mancha, che per disastri occorsi all'esercito, era se non cambiato, almeno sommamente avvilito; ed il singolare vantaggio produsse, che dieci o dodeci nuove bande presero nella provincia il campo, da quella impresa, alla gloria stimolate. Finalmente quella stessa insensibilità che anzi magnanimità più giustamente nomar dovrebbesi, si fù, quella che intimorì gli Spagnuoli affetti ai Francesi, obbligandoli, se non altro, a rimanere passivi [1-315] spettatori della contesa; fù quella, che le azioni, e combattimenti intrapresi da' nemici, ed a buon fine colla maggior gloria portati, rese nulli, e molte volte di gravissimo nocumento a loro stessi, si fù quella che convertì la Spagna tutta in un semenzajo inesauribile di prodi guerrieri, che come i soldati di Cadmo, parevano, atti al combattimento, sorgere dalla terra; ed in somma quella si fù, che, in sette anni malgrado continuati patimenti, sagrifizj, e sconfitte, i paesi, nel compimento de' loro doveri verso la patria, indefessamente mantenne. Quella fermezza incapace di cedere agli ostacoli, e rovesci, deve, per assoluta necessità, essere il compartimento di un condottiero, e chiunque, una tale disposizione d'animo vigoroso, in sè stesso esistere, non riconosca, gli è giuoco forza, come inabile, a tal carriera riputarsi, non meno, che, al titolo di forte, ed alla gloria, rinunciare. La qualità della sua truppa, la quasi necessaria indisciplina, il numero ristretto della gente di cui sono per l'ordinario questi corpi, composti, la necessità, in che continuamente dovrà trovarsi, di provvedere da sè solo al vestire, ed alimento della truppa, locchè comunemente presenta non poche difficoltà in paesi dove la stessa insurrezione porta con sè un quasi assoluto disordine; e finalmente le ordinarie [1-316] vicissitudini della guerra, con frequenza, in una situazione tanto critica lo porranno, che una sola decisione a tutta prova, con disprezzo stoico dei pericoli, e difficoltà, che lo circondano, ed in somma un animo intrepido, potranno, con utilità della patria, fargli ottener la palma della difficile impresa.

Art. 2º. Il condottiero d'una banda, deve avere una cautela, e vigilanza tale, che diffidando di tutti, e fino de' suoi stessi partigiani, non dimostri diffidare di chicchessia.

La più difficile qualità da rinvenirsi in un condottiero, si è quella diffidenza generale di tutti quanti lo circondano, senza che nessuno, di quella si accorga, ma anzi di tutto il contrario sia persuaso. Dar regole certe, e sicure sopra d'una tanto importante materia, sarebbe cosa del tutto impossibile. Lo stato della guerra, le disposizioni del paese in generale, le più o meno prospere circostanze, in che s'incontrino i suoi partigiani, il carattere delle persone con le quali si trovi obbligato di trattare, il grado di più, o meno buon concetto, in che l'abbiano, le sue anteriori imprese, collocato, ciò, tutto riunito, deve la regola del suo procedere indicargli, senza però mai obbliare, che la più profonda dissimulazione dev'esserne la base fondamentale, e che d'infinito danno [1-317] potrebbe essergli la confidenza, abbenchè l'abbiano, fondatissimi motivi, potuta originare. Vienci dal colonnello Don Claudio Escalera, nella guerra di Spagna, offerto di tale consumata prudenza un pratico esempio. Ecco questi nell'anno 1812 con cento, e cinquanta cavalli un'incursione a las Pedroches de Cordoba, luogo fatale a quante bande osarono penetrarvi, e che, le une con molte forze, le altre con poche, tutte, in tal luogo, per l'azione combinata di tre o quattro colonne volanti nemiche, ajutate dalla perfidia d'alcuni abitanti postisi d'accordo con esse loro, perirono o furono sbaragliate, e quasi sempre ignominiosamente battute. Il sito di quel territorio, è una valle di sei o sette leghe di diametro, per ogni lato dalla Sierra Morena, circondata, con tre sole strette aperture d'ingresso, locchè ad una truppa la quale addentro s'inoltrasse, pericolosissima la rendeva. Desiderando adunque Escalera di essere utile alla sua patria, ed il riposo di cui là, godeva il nemico, profittevolmente turbare, non meno che togliergli quell'inesauribile emporio di viveri pel suo esercito; all'unico mezzo appigliossi, che unito ad un valore prudente e deciso, poteva all'eseguimento de' suoi disegni abilitarlo. Egli la più cieca confidenza in quelle stesse persone dimostrando, [1-318] ch'erano di connivenza col partito francese, dalla publica opinione ragionevolmente accagionate, entrò nella valle; la paura fece sì, che sebbene alcuni serbassero in cuore l'intenzione di tradirlo, tutti ad offerirgli i loro servigi, con affettata premura s'affrettarono. Escalera tutti cordialmente accolse e lusingò, confidando con sincera apparenza i suoi progetti, che ben lontani dal vero, manifestava. Gli uni si regolarono veramente bene, e gli altri, cogli avvisi, ch'al nemico (relativamente alle loro prave intenzioni) in buona fede mandarono, lo confusero ad un tal punto, che tutti gli sforzi riuniti di quattro combinate, e numerose colonne, non poterono in venzette giorni sterminare la banda, nè dalla valle Escalera cacciare, ch'erasi coll'infanteria, dell'entrate impadronito, nè impedirgli, che con un branco di prodi partigiani, si rendesse d'un ricco convoglio di grano, padrone, del quale dispose quasi alla vista del nemico, e che sorprendesse varii de' suoi distaccamenti, e che, ritornandosene indietro, dieci perfidi confidenti dei Francesi, come prigionieri, seco portasse. Non finiremmo, se descriver vorremmo i particolari di questa spedizione, da per sè sola, di onorare la memoria del condottiero, capace, che tanto avventurosamente ad effetto la perdusse. Ci [1-319] basti dunque pel nostro presente oggetto, il dire, che la confidenza da quegli dimostrata con persone di cui doveva con tanta ragione diffidare, unita ad incessante dissimulazione e vigilanza, fu la principale astuzia, potente a confondere, e traviare le incalzanti forze nemiche, e da lui maestrevolmente praticata. Così trasse dai servigi degli uni, profitto, allucinò gli altri, mantenendoli nell'inerzia, ed ingannò i perfidi decisi, che nello stesso laccio teso da loro a suo danno, fece ingegnosamente cadere. Perlocchè i Francesi, fattisi, per la riconosciuta falsità dei loro avvisi, a credere di essere stati da quelli a bella posta ingannati, ne fecero alcuni, come delinquenti, archibugiare. Gli stessi uffiziali, e soldati d'Escalera, non erano in quei venzette giorni, consapevoli di quanto dovevano all'indomane operare, nè mai essi sapevano, dove si passerebbe la notte, nè dove si sarebbero rinvenute le razioni, ed ignoravano la prossimità del nemico. Escalera, ed il suo secondo in comando, soli erano in tale secreto iniziati, e vi furono delle notti in che, due o tre volte si mutava il campo, collocandosi quasi in mezzo a due corpi nemici, che all'albeggiar del giorno seguente, in direzione interamente opposta, per attaccarlo, avviavansi. La diffidenza perfino de' suoi stessi partigiani, è assolutamente [1-320] indispensabile. Ed in fatti si valsero i Francesi nella guerra dell'indipendenza, di alcuni infami Spagnuoli, che fecero arrolare nelle bande nemiche, tanto per servirsene come spie, quanto per cogliere le favorevoli occasioni, onde i principali condottieri di quelle, proditoriamente assassinare. Per buona ventura, in sì fatta guerra, siccome l'entusiasmo politico, e religioso, camminavano uniti, pochissimi s'incontrarono, che ad un tale infame servigio si prestassero, e quei pochissimi furono per l'ordinario scoperti, come accadde a quelli, che nelle bande di Palarca, dell'Empecinado e di Ventura Ximenes, con tal pravo intendimento s'arrolarono. Egli è però con ragione da temersi, che in una guerra intrapresa solamente contro la tirannìa domestica, e straniera, un maggior numero di questi vili stromenti, in vituperoso servigio di quella, si trovi. Epperciò rendonsi la diffidenza e simulazione, viemaggiormente necessarie.

Art. 3º. Un cuore severo ed inaccessibile alle grida della pietà, da qualunque parte possano venirle, quante volte si tratti degli irreconciliabili nemici dell'unione, independenza, e libertà d'Italia.

Di quanti mali alla causa publica e di quante disgrazie ai campioni della patria, non sarebbe [1-321] cagione, il funesto errore di credere alla possibilità di trar partito da' ciechi, ed interessati stromenti della tirannia? Lungi sia quindi simile perniciosa idea dalla mente di qualunque condottiero di bande, in una insurrezione nazionale. I perversi, che sordi alla voce della rimorditrice loro coscienza, trascinati da ismodato amor di sè stessi, hanno il partito della tirannìa, disonestamente abbracciato, sono mille volte dello stesso tiranno peggiori; sono ancora più insaziabili, più vendicativi, e più irreconciliabili di lui, coi loro avversarj amici della libertà. Epperciò essere indispensabile levargli di terra tutti, esterminandoli senza pietà, è cosa bastevolmente provata, Giunio Bruto mandando al supplizio i soli due figli suoi, perchè contro il nuovo sistema congiuravano, Virginio ammazzando per la salvezza di Roma, la propria unica figlia che teneramente amava, sempre esser debbono alla mente del condottiero presenti, che non dovrà mai dare alle suggestioni dei pietosi amici, favorevole orecchio, ed il di cui cuore, solo ai laceranti gemiti della patria oppressa, deve battere, e violenti emozioni sentire.

Art. 4º. Il condottiero di banda deve avere un'esatta conoscenza del paese, che scelga per le sue operazioni, e di tutte le risorse di quello.

[1-322] Impossibile cosa sarebbe ad una banda, con successo, ed utilità guerreggiare, nè potrebbe dalla certezza di essere ben presto sconfitta, esimersi, se il suo condottiero mancasse della conoscenza pratica del paese, che deve percorrere. Debbono i cammini, viottoli, andirivieni, fiumi, guadi, monti, boschi, selve, caverne, antri, etc., essere il continuo oggetto delle sue osservazioni. Ma siccome non mai, od almeno solo rarissime volte, egli è possibile che un sol'uomo, sia di tutte le suddette particolarità bene istruito, così essenziali in un terreno spazioso, com'egli è indispensabile che sia quello dove puossi una banda ad operare, sarà cosa conveniente, che seco il condottiero tenga due, o tre partigiani onorati, natii, e pratici del paese nel quale egli vuol far la guerra, affinchè possano anche in oscurissima notte, per la buona via dirizzarlo. Debbono questi essere da lui ottimamente trattati, e predistinti; se la cosa è possibile, e se la loro volontà non vi si oppone, debbono far parte della guardia famigliare del condottiero, che sempre li terrà al suo lato, dispensandoli da ogni servizio, che non sia di questa natura, o di quello di guide, nel quale ultimo, saranno più chè non si pensa, occupati, e da essi sarà la salvezza della truppa, [1-323] talvolta, per dipendere. Qualunque sia la conoscenza del suo dovere, e del terreno, che possa avere un condottiero, gli sarà sempre d'uopo di valersi di questi ausiliarj subalterni. Il prode Empecinado che, durante una lunga carriera di coraggiose imprese, alla testa della sua banda, è considerato, d'avere maggior perdita numerica, ai Francesi cagionata, di quella ch'abbiano essi in Talavera, od in qualunque altra battaglia che nella penisola ebbe luogo, sofferta; Empecinado non operava mai, se non aveva molte delle suddette guide volontarie con sè, e col loro mezzo, egli potè, Giuseppe Bonaparte sì fattamente molestare, che per poco della sua reale persona non impadronissi. Imperciocchè, andato quegli col generale Belliard, ed una festevole brigata di dame della corte, in allegro stravizzo all'Alameda, sei miglia distante da Madrid sul cammino di Guadalaxara, tosto ch'erasi coi convitati assiso a tavola, per delicatissimi cibi assaporare, avvertito dell'avvicinarsi dell'Empecinado, dovette alzarsi, ed a briglia sciolta dal suddetto strettamente inseguito, alla protezione del presidio di Madrid, tremante rifuggire. Il condottiero impadronitosi al ritorno, dell'imbandita mensa, alle spalle del monarca invasore allegramente gozzovigliò. Il famoso [1-324] medico Palarca, condottiero, non meno di quello, sagace e valoroso, seco ebbe sempre tre o quattro di quelle guide che come sue ordinanze perpetue, o per meglio dire, come amici, o fratelli, in principio teneva, e quindi in premio della loro fedeltà, ed utilissimi servigj, fece uffiziali. Erasi Palarca proposto di far la guerra nelle vicinanze di Madrid. Epperciò più particolarmente, alla sua banda, l'attenzione del nemico attirata; non si stancava il Francese di perseguitarlo tenacemente con grandi forze, in modo che ben sovente viddesi, fino la guardia reale di Giuseppe, in movimento, per discacciarlo. Ridotto alcune volte ad un ristretto spazio, circondato da una parte dal Tago tanto gonfio allora da non potersi guadare, e dall'altra dal nemico, che già contava sopra un sicuro trionfo, egli col soccorso delle guide, per non calcolati andirivieni, che facilitavano il suo passaggio, in mezzo al nemico, senza essere veduto, a guizzargli di mano perveniva e quindi da lì a poco, burlandosi dell'avversario, alle porte di Madrid tornava baldanzosamente a comparire. Quanti felici successi non dovett'egli, alle sue precauzioni, ed alla conoscenza del paese, che aveano, le guide, ed i confidenti! Senza di ciò, come avrebb'egli potuto ammazzare [1-325] varj uffiziali francesi, e prenderne altri prigionieri nell'istesso Prado, delizioso passeggio dentro la città di Madrid, e mettere varie volte, nella villa reale, la persona, e corteggio di Giuseppe, in confusione, e pericolo?.... In breve, questa pratica conoscenza del paese, che devesi dalle bande in una insurrezione nazionale, necessariamente possedere, postocchè il terreno, dove devesi operare, viene da loro stabilito, e per l'ordinario è sempre quello dove sono nati, e cresciuti gl'individui che le compongono, lor dà un vantaggio capace di far fronte, a quanti mezzi superiori, un nemico, sia paesano, o forestiero, possa con la sua disciplina, e tattica opporre. Siffatta conoscenza presenta alle bande l'occasione di portare danno al nemico senza grande rischio; lor dà una incredibile facilità di evitare i suoi attacchi; mette il condottiero al caso di eleggere le opportunità, di vincere con vantaggio, e sicurezza, e di evitare qualunque incontro non a proposito; e finalmente gl'infallibili mezzi facilita, onde a poco a poco, ed alla spartita, sterminarlo.

I viveri, armamento, vestimento, tutte le sovvenzioni in somma necessarie, dovendo essere per mezzo delle momentanee disposizioni de' condottieri, del tutto rinvenute, si vede [1-326] la necessità di aver un'esatta, e minuta conoscenza delle risorse del paese, unita alla prudenza, ed equità, in questa parte così essenziali.

Art. 5º. Un valore sempre prudente, e solo nell'estreme contingenze, animato, ed impetuoso.

Coloro che solamente alla superficie delle cose si attengono, tacciano il valore prudente, di codardìa, e questa ingiusta censura suole per l'ordinario essere il maggiore ostacolo all'esercizio di tale virtù. Ella è cosa sommamente difficile, che un uomo dotato di uno spirito deciso per la causa che difende, e dapprima in concetto di prode e valoroso, tenuto (riputazione con le luminose sue gesta giustamente acquistata), ad una tanto ingiusta taccia, tranquillamente si sottometta, e la lasci correre con disprezzo, senza cercare con qualche fatto, capace anche di rovinarlo per sempre, di smentirla. Pochi Fabj s'incontrano, che la salute di Roma, alla propria riputazione anteponendo, ed insensibili alle continue mormorazioni dei loro concittadini, il nemico, senza battersi, distruggano.

A nessuno, questa magnanima indifferenza, è più necessaria, che ad un condottiero di bande. Le sue operazioni debbono essere affatto, [1-327] dall'opinione di qual si voglia censore, independenti; nulla dev'egli intraprendere, qual uomo da un falso punto d'onore, trascinato. Il suo scopo non dev'essere la gloria, o per meglio dire, non vi è gloria per lui, che nell'esito felice della lotta, nella quale si è decisamente lanciato! Tutt'i mezzi a tal'uopo, gli sono leciti e gli è vietato di purgare dall'accusa il suo nome, abbenchè, fosse dalla più mal fondata, e nera accusa macchiato, quante volte, per ciò fare, gli convenga, la causa pubblica di minimamente arrischiare. La sua vanità, il suo amor proprio, e per fino la stessa sua riputazione, debbono da lui essere in olocausto, sull'altare della patria, generosamente offerte.

Nel capitolo dell'onor militare, abbiamo già più estesamente parlato sopra di questa materia, ed abbiamo messo per base, che l'istituzione delle bande deve avere per fine, in qualunque siasi modo, lo sterminio dei nemici del paese, sieno essi publici, od occulti; e non di procurare di vincerli con mezzi onorevoli, e regolari. Arrischiar l'esito, per una inopportuna vanità, e ciò ch'è peggio, porre in pericolo la salute della patria, dev'essere in questa guerra, come mancanza all'onore, considerato. Lungi dunque da ogni condottiero, l'idea di qualsivoglia impresa, combattimento, o disposizione [1-328] per quanto chiara, ed onorevole apparir possa, ma che non sia a tal fine, esclusivamente diretta. Nulla deve, un condottiero, a commettere un'imprudenza, che lo ponga in rischio, trascinare. Il suo dovere consiste nel portare colpi sicuri, ed utili, abbenchè siano, dello splendore di una gloria fallace, per essere manchevoli. La sua unica cura, la sola meta delle sue opere, de' suoi pensieri, altro non dev'essere, che lo sterminio dei tiranni, non meno, che dei loro partigiani, difensori e strumenti. Egli, da tal proposito non deviando, la regola infallibile del suo procedere sicuramente incontrerà. Oltre le già espresse circonstanze, che forman l'essenza della guerra per bande, il ristretto numero d'individui, che per l'ordinario le compongono, la mancanza d'istruzione, e disciplina, esigono dal condottiero cautela, e circospezione. Il riflesso, che la sua caduta potrà scoraggiare una provincia, e l'aumento delle forze nemiche, in altro utilissimo punto, agevolare, ed esser cagione dello smarrimento negli amici della libertà del paese disseminati, la cui determinazione per dichiararsi difensori di quella, da' suoi buoni successi per avventura dipende, deve contenerlo. Qualunque sconfitta in Ispagna, quantunque da potentissime, ed inevitabili cagioni prodotta, delle [1-329] quali, fosse il condottiero, innocente al par delle bande sempre fedeli all'onore, nulla dimeno, non mancava di produrre smarrimento, e freddezza nei paesi, e diserzioni nelle bande medesime, come pure un'insultante orgoglio nell'inimico. E sebbene fosse il conseguito vantaggio, disprezzabile, e di niun conto, malgradociò, agli occhi del popolo, era con ben calcolata ostentazione, dai Francesi mostrato. Quando don Isidoro Mir, in Cuerva, ad affrontare il reggimento di dragoni francesi commandato dal colonnello Laffitte, avventurossi, nella superiorità della sua forza confidando, fu a ciò fare sforzato dal forte, e continuo mormorare dei cittadini, che avendo saputa la sua intenzione di ritirarsi (come quello, che ben conosceva la qualità della sua truppa), lo tacciavano di codardia. Non ebbe egli la forza di mettere una sì pungente accusa in non cale; tentò la giornata e fu la sua banda compiutamente distrutta. Nè solo il danno alla dolorosa perdita di una banda, che di tanta utilità era stata alla Spagna, limitossi, ma trascinò dietro di sè, la somma sventura, che, per le stesse cagioni, pochi giorni dopo avvenne, vuol dire la morte, e distruzione di Ventura Ximenes, e un mese dopo, quella di Francisquete. Ed in fatti, liberato il nemico dalla soggezione che la banda di Mir, [1-330] colla sola sua esistenza, gli cagionava, dal momento che quella cessò, e disparve, del tutto all'inseguimento delle già dette, si potè liberamente dedicare. Per lo contrario, Cuesta nell'Estremadura, Camillo Gomez nella Mancha, e Don Giovanni Abril in Castiglia, che quando il nemico li cercava, mai non l'aspettarono, si sostennero tanti anni, quanti durò la guerra, rendendo molti servigi alla nazione, ed essendo stati a pochissimi rovesci, soggiacenti. Dalle ricevute dello stato maggiore dell'esercito, nell'anno 1813, si rilevava, che nel corso di anni quattro, aveva il primo rimesso più di due mila prigionieri al quartier generale, senza contare il numero enorme di Francesi da lui ammazzati, soprattutto nei primi tre anni della guerra ne' quali non diede mai quartiere a chicchessia. E Gomes, oltre di aver presi molti prigionieri negli ultimi anni, ed aver in tutto il corso della guerra, ammazzati tanti nemici, quanti ne rinveniva dalle file separati, che ammontavano certamente a più di sei mila, s'impadronì, di sei, o sette convogli di viveri e munizioni. Abril, per tutto il tempo della guerra, i Francesi costrinse, a tenere sempre impiegati, sei, o sette mila uomini, alla guardia delle strade di Somo Sierra, a Guadarrama, affine di conservare le loro communicazioni con Francia; e, [1-331] ciò malgrado, Abril gl'intercettò molti corrieri, li tenne soventi volte, due o tre mesi, nell'impossibilità di ricevere notizie del loro esercito della parte settentrionale di Spagna. Solo dunque in quei casi estremi, nei quali per salvarsi da un inaspettato, ed involontario accidente, sia cosa indispensabile, il tutto avventurare, stimata, deve un condottiero, essere impetuoso, ed anche temerario. Dev'essere tale, se dal suo quasi certo sacrifizio, potrà un bene tale ridondare, che serva di compenso ai mali dalla sua perdita prodotti; se battendosi fino all'ultimo estremo, potrà ad una piazza, o ad un punto importante, soccorrere, impedire che un'altra già imminente a cadere, riceva ajuto, contenere la marcia d'una colonna nemica, alla sorpresa, diretta d'un'altra amica, da cui, l'esito della guerra, essenzialmente dipenda. In questi, ed altri simili casi, deve qual nuovo Leonida, decisamente perire, e nello stesso tempo i suoi volontarj, per la salute della patria, sacrificare.

Finalmente la prudenza, e l'amor di patria del condottiero, debbono regolare il suo valore; e le occasioni deve scegliere, nelle quali convenga battersi od evitare il combattimento, senza, che le mormorazioni malignamente, o in buona fede propagate dai cittadini, abbiano anche in menoma cosa, nelle sue determinazioni [1-332] da influire; noi ripetiamo, che tutt'i mezzi per ottener la vittoria contro de' tiranni, e l'occupatore straniero, sono giusti, e leciti; e che se il condottiero metterà in uso le arti opportune, rare volte si vedrà per conseguirla, nella necessità di sacrificarsi. L'astuzia, e la vigilanza, gli renderanno facili ed utili oltremodo i trionfi, ch'egli invano potrebbe pel solo valore sperare. Potrebbe questo ultimo avventurare la sorte futura della nazione, e le arti bene usate, senza pericolo, il cammino, per renderla felice, gli spianeranno, togliendo di mezzo gl'ostacoli che potrebbero essergli d'impedimento. La tirannia tiene sempre una forza regolare o propria, o straniera in suo favore, senza la quale non si sosterrebbe. Volerla con isvantaggio urtare, lo stesso sarebbe che voler piombare in rovina. Egli è per tanto necessario, che l'arte alla mancanza supplisca, e che per assicurarne l'esito, gli stimoli dell'amor proprio, del punto d'onore, della generosità, e quelli pure della stessa pietà fino al conseguimento però dell'alto disegno, si contengano.

Ecco, come meglio abbiamo potuto, offerto ai lettori, l'abbozzo delle principali, ed indispensabili qualità, che un condottiero dee possedere. Ben noi conosciamo, che molte altre [1-333] secondarie, pure gli abbisognano. Sebbene, non siano assolutamente necessarie, quest'ultime ancora si troveranno ne' varj capitoli di questo trattato disseminate, che tutti trattando di quella guerra, della quale deve il condottiero esserne il principale agente, direttamente il prendon di mira. Frattanto, noi opportuna cosa esser crediamo, quella di presentare un quadro, nel quale la maggior parte delle qualità, che debbono essere di un buon condottiero il patrimonio, con un solo sguardo si scorgano. Noi a tal'uopo imprendiamo a dare un brevissimo saggio sulle azioni del prode Mina, che, come modello ai nostri leggitori, osiamo di presentare.

Don Francesco Espoz y Mina, figlio come si dice, di un bifolco, era zio e successore di un altro Mina, che da studente in Navarra, all'età di soli anni venti, percorse, alla testa di una banda, stupenda ma breve carriera, perchè ben tosto nelle mani de' Francesi, cadde ferito e prigioniero. Era Espoz y Mina, frà i venti cinque e i trent'anni, allora quando al suo nipote successe. Tutto acquistò egli col suo coraggio, pazienza, ed avvedutezza. Nulla possedeva egli, di quanto, un generale, materialmente, costituisce. Ei non potea protezione offerire, nè ricompense, nè pensioni, nè ritirate [1-334] in caso di sconfitta. Mina non aveva nè piazza, nè fucili, nè un tallero. Tutto in sè stesso, nella sua energia, nella sua perspicacia, copiosamente rinvenne. I Francesi lo denominarono il re di Navarra, perchè, sebbene fossero essi nel possesso di tutte le fortezze, meno erano di lui, dal popolo obbediti. Col mezzo de' suoi informatori, e dello spirito publico, che gli era interamente favorevole, sapeva egli tutto ciò, che nell'esercito nemico avveniva, conosceva i progetti che vi si formavano, ed a quelli dava, prima che si eseguissero, convenevol riparo. In somma, un distaccamento per piccolo che si fosse, non si moveva, non arrivava, non partiva, che d'ogni movimento, non fosse Mina previamente informato. Sotto di varj pretesti, ed in abiti contadineschi, alcuni de' suoi volontarj, nell'esercito nemico, egli sempre manteneva, che lo tenevano appieno istruito di quanto vi si operava. Ragguagliato di ciò, oltre la pratica conoscenza del paese, consultava egli di continuo le migliori carte geografiche, e topografiche, sulla situazione del medesimo, teneva presso di sè molti confidenti, e guide dei luoghi peritissime, di modocchè tutte le montagne della provincia, perfettamente conosceva, i loro ceppi, le loro diramazioni, altezze, [1-335] direzioni, pendio, strade, andirivieni, burroni, selve e foreste non meno, che il sito dei ponti, dei porti, dei fiumi, dei guadi, argini e pescaje, le coste marittime, golfi, baje, cale, porti, promontorj e ponti di terra dalla parte della Biscaglia; le pianure, le macchie, le lande, le valli, i laghi, stagni, paludi, sorgenti e fiumi, la loro direzione, la rapidità del loro corso, la loro larghezza, profondità, ed incasso del letto etc. Quindi ad un'esatta e profonda comparazione passava, fra tutt'i vantaggi presentati dalla natura, con quelli che per arte, ingegno, e lavoro dell'uomo, si potevano, pel sostenimento della guerra ritrarre. Ei conosceva per lo stesso mezzo, la qualità e quantità delle produzioni del paese, materiali esistenti, non meno che il numero delle persone, per età, per sesso, per classe e per proprietà. La sua mente, ed il suo corpo eransi, come le circostanze della sua patria il richiedevano, piegati. Al collo portava legata da un cordoncino di seta, una carafina di cristallo piena di efficacissimo veleno, fermo nella intenzione di usarne a danno del nemico, ogni qual volta s'en presentasse a lui l'acconcio, onde avvelenare quei cibi, che a bella posta nelle sue ritirate gli abbandonava. Ed eziandio nel caso, che ferito, e preso dal nemico, [1-336] non avesse più speranza di salvarsi, per attossicare sè stesso, quel veleno serbava. In quelle poche notti, ch'ei non dormiva alla serena, si coricava vestito, senza mai torsi le pistole dalla cintola, nè lasciare il pugnale che, sotto l'abito, alla parte sinistra del petto, nascostamente portava. Mina chiudeva, ed assicurava sempre ben bene la porta della camera, e della scuderia, dove ad un breve riposo abbandonavasi. Tre ore di sonno erano per lui sufficienti, ed anche molte volte interpolatamente dormiva. Quando la sua camicia era sudicia, egli entrava nella casa la più vicina, e là, con una netta del padrone, cortesemente la cambiava. Onde più facilmente poggiare per l'erta de' monti, e potersi pei ripidi ed angusti andirivieni delle loro sommità, arrampicare; egli ed i suoi volontarj, calzavano certi sandali, alla foggia dei frati, in uso in varie parti di Spagna. Era il suo vitto, frugalissimo. Focaccia, ed acqua, per l'ordinario gli bastavano: ma di tanto in tanto, quando gli ne veniva il destro, alle spalle dei nemici moderatamente banchettava. La polvere da schioppo necessaria per la truppa, in una spaziosa grotta, sita nel centro dei monti, egli stesso fabbricava; e teneva in un villaggio segregato nel mezzo delle montagne, un'ospedale [1-337] a spese dei Francesi di tutto il bisognevole, provveduto. Tentarono quelli varie volte di sorprenderlo, ma sempre indarno, perchè il cuore di tutt'i contadini, era pel valente difensore della loro patria, animosamente propenso. Riceveva egli sempre a tempo, informazione dei movimenti dell'inimico ed al primo sentore di pericolo, i contadini si caricavano gli ammalati, ed i feriti sulle spalle, e portavangli su di rupi scoscese, dentro luoghi inaccessibili, dove in perfetta sicurezza rimanevano, finchè il Francese trovandosi deluso, ed in pericolo, si ritirava. Se gli Alcadi non faceanlo consapevole delle requisizioni, e dei movimenti del nemico, o mancavano a qualche altro loro dovere, andava egli stesso nella notte a sorprenderli, e fattili tosto dal letto balzare, immantinente in camicia li faceva fucilare, od al campanile della chiesa principale, appendere per la gola. Ei permetteva alcune volte che i Navarresi commerciassero coi Francesi, ed aveva stabilita una linea di dogana, alla quale il nemico si era sottomesso, e con questo mezzo, molte provviste pei volontarj agevolmente si procacciava, che altrimente gli sarebbe stato difficile di trovare. Mina esigeva dai ricchi mercanti una somma di danaro pel passaporto, per la facoltà di [1-338] commerciare, etc., e con altre tasse sui ricchi ben pensanti, e la confisca delle proprietà dei malpensati, che tosto presi, faceva archibugiare, egli aveva sempre un fondo in cassa pei bisogni correnti, ed anche di più. Allora quando rinveniva una spia del nemico, le faceva da uno della sua guardia, tagliar l'orecchia destra, e quindi in fronte, con le parole viva la patria, bollare. Durava quel marchio in eterno, e nello stato della generale opinione potevasi, come la più severa di tutte le punizioni, considerare. Quei sciagurati tanto si vergognavano di esporsi agli sguardi de' loro compatrioti, marchiati in tal modo, che molti sulle roccie, ne' luoghi rimoti dei monti, tutti aggrinzati, e con segni di una fine disperata, morti di fame e di freddo, si rinvennero. Mina non permetteva, che i volontarj suoi fossero propensi alle donne, anzi aveva la riputazione di odiarle. Nulla dimeno, solo come seducente cagione dell'indebolimento fisico degli uomini, le temeva. Ei non permetteva il giuoco; e tosto, finito il combattimento, ogni volontario aveva il permesso di appropriarsi quanto seco poteva portare. Ma guai a colui, che avesse di metter mano al bottino, prima, che la vittoria fosse dichiarata e compiuta, il rapace ardimento! Ogni bajonetta portava segni del sangue francese; [1-339] le armi dei volontarj erano rugginose al di fuori, ma esigeva con somma severità che fossero tenute nette al di dentro, e che le rotelle, e le pietre dello schioppo, fossero nel miglior stato.

Sapeva quel condottiero, con accortezza applicare i mezzi alle contingenze, ed in qualunque bisogno, ei nascere faceva le convenienti risorse. Il suo valore si allontanava egualmente da quella prudenza timida, che teme, e tutti gli inconvenienti prevede, che da quell'inconsiderato ardore che tutt'i pericoli cerca e gratuitamente affronta. Le armi, il raggiro, e l'astuzia, erano da lui indifferentemente impiegati. Politico ad un tempo, e guerriero, con la prudenza, ei lentamente preparava ciò, che di poi col suo valore impetuosamente operava. Nuovo Filippo di Macedonia, i suoi progetti da una politica impenetrabile maturati, sempre a proposito, ed all'improvviso, comparivano. Una profonda riflessione e perfetta conoscenza degli uomini, erano di pari grado al suo brillante coraggio, e superiori talenti, in bella unione, accoppiati. Non istimava egli ne' suoi subalterni, che quanto da purissimo amor di patria era originato, e con la forza, l'attività, l'energia, ed un coraggio posto al di là d'ogni calcolo, sceglieva sempre quando [1-340] gli era permesso, il partito di attaccare il nemico, piuttosto che d'aspettarlo; e non solo disegnava egli sublimi, e quasi incredibili imprese sempre all'insaputa, che sorprendean l'avversario, ma ben anco, ciò che quegli progettava, e poteva progettare in avvenire, prevedeva, ed indovinava. Instancabile, ed audace, ma sempre prudente, il prode Mina, ora sù d'un veloce corsiero, ora sù d'un zoppicante ronzino, ora a piedi con lo schioppo alla mano, sempre alla salvezza della patria, solamente diretto, mai non si riposava, nè lasciava i Francesi riposare, e coll'attività, e pertinacia, dopo sette anni di non interrotta guerra, pervenne pe' suoi sforzi, pe' suoi talenti, ed amor di patria, a vedere la Spagna libera dagli stranieri, al di cui scopo, con indefesso zelo, aveva potentemente contribuito. Possano questi precetti, e questi esempj, far sorgere valorosi costanti condottieri italiani, che in sè le virtù, ed i pregi tutti di quello Spagnuolo riunendo, alla liberazione dell'infelice Italia, gloriosamente pervengano!

[1-341]

Invito agl'Italiani. SONETTO.

Egra, gemente, frà gli affanni e l'onte,

Dal Goto edace dilaniata e smunta,

Cui d'empj figli è vil masnada aggiunta,

Che appiana allo straniero, il doppio monte;

Languisce Italia, che già fèo sì conte

Quelle virtù gagliarde, ond'ella assunta

Fù del mondo all'impero, acerba punta

Diede a monarchi e ne calcò la fronte.

Ma tanta madre a voi s'affida, o figli!

A brandir l'armi in suo favor v'invita,

E a riscattarla dai Tedeschi artigli.

L'orme battete che il Dover v'addita!

Faccia belli, il Dover, tutt'i perigli!

Italia è serva! ed amerem la vita?

FINE DELLA PRIMA PARTE.


DELLA

GUERRA NAZIONALE

D'INSURREZIONE

PER BANDE,

APPLICATA ALL'ITALIA.


TRATTATO

Dedicato ai buoni Italiani.

DA

UN AMICO DEL PAESE.

Quousque tandem ignorabitis vires vestras!

Tit. Liv. Dec. 1, lib. 6.

PARTE SECONDA.

*

ITALIA
1830.


[2-1]

DELLA
GUERRA NAZIONALE
D'INSURREZIONE
PER BANDE,
APPLICATA ALL'ITALIA.


CAPITOLO I. PRIME OPERAZIONI E PROGRESSIVO AUMENTO DELLE BANDE.

Se difficile non meno, che pericolosa devesi la situazione di quel condottiero considerare, che primo, spiegando il vessillo della rigenerazione italiana, ed impugnando la spada vendicatrice della patria oppressa, ardimentoso, e forte, tutta la formidabile potenza nemica mettesi in capo a sfidare; non meno grande, però, non meno soddisfacente compenso gliene ridonda, per la sublime riputazione di essere stato il primo branditor dell'acciaro, disceso nel [2-2] pericoloso agone, onde una carriera, che sebbene di pericoli seminata, ha nondimeno per iscopo certo la gloria, impavidamente percorrere. E certamente, sarà la sua memoria, nei cuori dei cittadini plaudenti, cooperanti, e grati, per essere indelebilmente impressa, e venerata.

Preso con una banda di venti o trenta volontarj il campo, dovrà il condottiero portarsi ai boschi, od in mezzo ai dirupi dei monti, e, se in pianure, nelle selve vicine ai fiumi, per istrade remote, e coperte dalle siepi che lungo le medesime si estendono, occuperà posizioni. Impadronendosi delle vie, per dove debbono i corrieri, le diligenze, i procacci necessariamente passare, tutti quanti arresterà; e nè fia che trascuri d'impossessarsi della corrispondenza del governo. E se fra le persone viaggianti, alcuna essere nemica d'Italia, avverrà che riconosca metteralla subitamente a morte. Da una ad altra posizione, come lampo, trasferirassi, sempre tenendo presente, che la sua salvezza, riuscita, ed esistenza, sono dalla sua attività, del tutto dipendenti. Si farà dai possidenti de' territorj, tutto il necessario alla sussistenza dei volontarj somministrare, cadrà improvvisamente, or sopra d'un villaggio, or sopra d'un altro, sopra di borghi, o città che non siano presidiate da truppe dalle [2-3] quali, una qualche resistenza possa essergli opposta, s'impadronirà dei fondi esistenti nelle casse del governo, e con quelli, dopo d'aver stabilite relazioni con alcuni abitanti dei varj paesi del circolo da lui per le sue operazioni destinato, cercherà, in primo luogo, di comprare i capi delle truppe ch'esistono in quelle parti, e se non potrà farlo coi capi, ai subalterni con prudenza si rivolgerà, onde nè danno, nè distruzione gli arrechino, se mai fossero contro la sua banda spediti. Manterrà inoltre col rimanente delle somme, moltissimi informatori, agenti, e spie, in ogni parte dove possa credere che si stia qualche cosa contro di lui, preparando, come pure pagherà molti corrieri per ricevere le relazioni, e tenere vive le intelligenze con gli abitanti dei paesi, e con le truppe, se può; ond'essere della partenza, e forza delle spedizioni dirette contro di lui, a tempo minutamente avvertito, e potere i nemici nelle loro ricerche ingannare, e schivare. Un'altra porzione dei fondi sarà pei bisogni dei volontarj, ed anche in soccorso dei miserabili in quel circolo esistenti, dal condottiero disposta; locchè mettendolo in fama di benefico, gli procaccierà la benevolenza dei contadini, che, siccom'ei difende la causa del popolo, debbono essere in suo favore [2-4] disposti. Epperciò i viveri gli saranno sempre assicurati, gli saranno a tempo, tutt'i moti e divisamenti del nemico, previamente manifestati, sarà molto meno esposta la banda, ed asilo, non meno, che alle sue bisogne provvedimento, saralle volentieri dappertutto offerto, fornito, dimodocchè potrà la guerra con gran vantaggio sostenere, e per lunghissimo spazio di tempo, prolungare. Dovrà la prima banda stare in continuo moto, e non mai essere l'indomani, dove l'oggi si trova, occulterassi un giorno in un bosco, un altro in un'isolata casa nella campagna, in una villa, od in una caverna, e così manterrassi celata, fino al momento di poter nascostamente uscire, ed una qualche vantaggiosa impresa di non dubbia conclusione, operare. Seco non terrà il condottiero più di dodici uomini, ed il rimanente in piccoli drappelli diviso, ciascuno di essi ad una corta distanza opererà, all'appressarsi del momento di fare una qualche rilevante operazione, tutti ad un tratto si riuniranno. E quanti nemici cadranno nelle mani, saranno da essi senza misericordia esterminati. Così nell'anno 1811, vicino ad Abrantes in Portogallo, una banda isolata di pochi volontarj, tagliò nei soli mesi di gennajo e febrajo, non meno di trecento Francesi a [2-5] pezzi. Inoltre la banda non attaccherà mai corpi eguali alla sua forza, ma sempre infinitamente più deboli, e nel modo summentovato, si manterrà in campo.

In due sole differenti maniere, potrà contro di questa prima banda, il governo esistente, regolarsi. Primieramente nella speranza, che manchi col tempo, nei volontarj, l'entusiasmo per esser privo del suo maggior alimento, vuol dire e le persecuzioni, e le ingiurie; farà per avventura sembianza di non curarla, e poscia frà non molto tempo, con apparente moderazione, con aspetto dolce ed umano, con simulata buona fede, proporrà un indulto generale, e completo. Se mai perverranno con queste arti, gli avversarj, a trarre l'insorta banda nel laccio teso, e ad accettare il loro perdono, persuaderla, della confidenza alle loro illusorie promesse prestata, s'approfitteranno, e quell'opportuno momento coglieranno per separare i volontarj, o sopra ognuno di loro alla spartita fermato, l'intiera vendetta del brutale despotismo offeso, fare con iracondo, e spregievole sorriso, rabbiosamente piombare. Animati dal puro, ed ardente fuoco della libertà, ed independenza della patria, i volontarj, ogni lusinga, ogni proposizione, ogni promessa metteranno in non cale, persuasi che con tali [2-6] nemici, non si dovrà mai negoziare e che la guerra non si deve, che dopo la compiuta totale distruzione d'una delle parti, come terminata, considerare. Secondariamente, l'altro partito a che possono i nemici appigliarsi, quello sarà di correre addosso alla banda, ed alla sua distruzione, prima che si aumenti, e diventi più formidabile, ogni lor cura rivolgere; praticando a tal'uopo quanto viene al libro terzo da Polibio raccomandato. Ei pensa che un esercito aggressore debba cominciare con un'azione forte e strepitosa, il primo risultamento di che, si è quello di spaventare il nemico, ed il secondo di staccare, e conquistare i suoi alleati, con aggiunger a ciò una impreveduta diligenza. Tale fu la condotta dei grandi capitani, d'Annibale, Cesare, Emilio, Filippo, etc. E seguendo i precetti del generale Santa Croce, il quale paragona le rivoluzioni alle fontane, che vicino alla loro origine valicare si possono con facilità, ma che lungi, da quella, nemmeno si possono, senza grande pericolo guadare; spediranno i nemici truppe da ogni parte ad assalire vigorosamente la banda. Ma dotato il condottiero di sottile avvedimento, ed a tempo informato, con le sue false dimostrazioni, con la conoscenza del terreno, e co' suoi rapidi, ed improvvisi movimenti, stancherà [2-7] sì fattamente la truppa, che da quella non sarà mai raggiunto. Se per caso poi, come può succedere, venisse dalla necessità costretto a combattere, allora prenderà posizione sopra di qualche inaccessibile sommità dominante il contorno, o qualche burrone, etc., e di quella trarrà partito, onde colla forza della situazione, quella maggiore personale dell'avversario, con vantaggio equilibrare. Il tenente colonnello Grant della legion Lusitan o Inglese al servizio di Portogallo, con soli ottanta militi Portoghesi, all'arrivare del generale Foi, alla testa di tre mila uomini messi da Francia per andarsi ad unire a Massena, prese, vicino al villaggio di Enxabarda, una posizione, che dominava uno stretto, per dov'era il nemico, di passare forzato. Grant fece un continuo terribile fuoco addosso a' Francesi che durò fino a notte inoltrata, e così ben diretto, che nello spazio di quattro leghe si trovarono ducento, e sette cadaveri de' nemici da quella mano di valenti, sul luogo trucidati. Profittando della notte, potrà il condottiero sorprendere alcune volte il nemico, perchè come dice Tito Livio al libro 7º delle Decadi: «La notte, e sopra tutto l'ora della seconda veglia, è alle irruzioni favorevole.» Oltracciò egli dovrà sempre valersi del bujo per mutare di posizione, [2-8] e valersi de' stratagemmi della guerra, onde il nemico, di continuo sbalordire. E se mai gli avvenisse d'accorgersi d'un inaspettato pericolo d'essere con isvantaggio, assalito, allora, e prima che il nemico si trovi a portata di cadergli addosso, il condottiero assegnerà un punto di riunione per un giorno determinato, e a suoi volontarj darà ordine d'immediatamente sparpagliarsi. Ciascuno sen fuggirà per conto proprio, ed al suo particolare ingegno, per la sussistenza, e salvezza, dovrà ricorrere. Quei volontarj, che senza divisa, ma in abito contadinesco campeggiano, potransi molto più facilmente occultare, locchè unito alla perfetta conoscenza del terreno dove guerreggiassi, farà sì, che con sicurezza, e celerità, si possano i volontarj allo stabilito punto condurre. Tutti di bel nuovo riuniti, ben lungi dal figurarsi di avere la loro militare riputazione in un minimo danneggiata; ben lungi di essere dalla precedente dispersione accorati, e pell'avvenire disanimarsi, vedendo anzi con quale facilità, con quale immenso vantaggio per la patria, si possa, guizzando, scappar di mano al nemico, maggior confidenza, ed ardimento saranno di giorno, in giorno per acquistare. Se spossato è l'esercito da fatiche, o dal governo, per altre incombenze, richiamato, come spesso succede, se [2-9] a lungo la banda si sostiene, ed avvisatamente balocca il nemico, se questi si risolve ad abbandonare, per qualche tempo, l'inseguimento di quell'inarrivabile, non combattibile banda, allora questa, prenderà l'offensiva; e sempre sui fianchi, ed alle spalle, in ogni miglior modo tribolandolo, taglierà a pezzi i soldati raminghi, assalirà quelli che vanno al foraggio, o ad altre distribuzioni, tenderà agguati contro degli esigui distaccamenti, sorprenderà le piccole guarnigioni, e di giorno, e di notte continuerà un'accanitissima guerra la più sterminatrice, la più distruttiva, che mai abbia in Europa avuto luogo, senza mai, un solo istante, di molestarlo, tralasciare.

Il pericolo, che molte altre nuove bande corrano alle armi, farà sì, che le truppe nemiche tengano nei varj villaggi, lungo il cammino principale, dei distaccamenti all'oggetto di mantenere libere le communicazioni. Un accorto condottiero, se quelle sono in minor forza, non dovrà di attaccarli, e distruggerli, un momento trascurare, se poi sono eguali, o superiori, dovrà far agire l'arte, e con qualche stratagemma, farli minori diventare. Egli s'appiatterà, per esempio, dietro ad una siepe, o casa diroccata, da quella darà ad un capace, volontario, oppure ad un ben provato [2-10] contadino, l'incarico di portarsi con amichevole apparenza, con dimostrazioni officiose ma prudenti, di appartenere al partito dei barbari, ad avvertire il comandante nemico, che nella stessa direzione, ma in maggior distanza del sito dove si trova la banda, imboscata, è stato da una schiera di masnadieri, un corriere con dispacci assalito, e che la di cui scorta, tuttor combattendo senza probabilità di vantaggio, lo ha nel passar per quella via, incaricato di ricorrere, in suo nome, per ajuto, a qualunque distaccamento gli fosse di rinvenire, possibile, onde con tal soccorso, a certo annichilamento scampare. Dimostrando un sincero e franco aspetto, tal uomo trarrà facilmente l'uffiziale in inganno, il quale, a seconda dei suoi doveri, con una parte della sua truppa uscirà, per accorrere del supposto corriere in soccorso, e lascierà la rimanente parte in presidio del punto ch'è per lui necessario di conservare. Ecco dunque divisa la sua forza, e senza neppur fiatare non che muoversi, lo lascierà il condottiero in avanti trascorrere, ma quando sarà quegli ben lontano, salterà, con tutta la banda, fuori dal nascondiglio, e velocemente alla casa, dove sarà la rimanente porzione del distaccamento acquartierata, s'avvierà. Egli appiccherà tutt'all'intorno il fuoco; e se a star dentro, i soldati [2-11] nemici si decideranno, dovranno abbrustoliti certamente perire. Se poi per opposta, prenderanno il partito di uscire a campo aperto, non potendosi, per la ristrettezza delle porte, in massa contro gli aggressori presentare, ma dovendo ad uno ad uno, alla spicciolata saltar fuori, saranno successivamente dalla banda tagliati a pezzi. Presi, per quanto gli fia dato, le loro armi, e danaro, dovrà il condottiero correre di bel nuovo al macchione, e quando il comandante deluso, colle pive in sacco si ritirerà, cadergli con furia repentinamente addosso, e quel distaccamento con morte inevitabile punire, come giusto castigo del suo delitto d'infettare il suolo italiano.

Mille di questi accidenti e d'altra eziandio differente natura, potranno presentarsi al condottiero, che astuto, ed intraprendente, potrà pure a suo talento, moltissimi farne sorgere, quante volte sia persuaso, quello essere il solo mezzo per sostenersi con onore, e buona rinomanza ottenere, senza di che non potrà mai aumentare la sua banda, farne levare delle altre, nè attirare a sè lo spirito della popolazione, il quale solo può rendere la riuscita della contesa, sicura. Laonde non tralascierà mai il condottiero di agire con vigore, ardimento, ed avvedutezza. Ogni qualvolta in Ispagna, ad [2-12] una banda accadea di riuscire in qualche felice incontro vittoriosa, molte altre nuove prendevano immediatamente il campo, e quella, che col suo esempio le aveva fatte nascere, sforzavansi di superare. Sorpreso il condottiero spagnuolo Mir nel 1809 in Espinoso del Rey, circondato in una casa con soli quindici o venti volontarj, tostocchè si vidde fuori d'ogni speranza di scampo, i compagni esortò a vendere cara la loro vita, montò a cavallo, fece aprir la porta del cortile, e con tanta intrepidezza, in mezzo ai nemici slanciossi, che un forte numero ne ammazzò, ed altri molti ne prese prigionieri. Ei perdè in quel conflitto sei o sette volontarj, ma oltrepassò i nemici, e si salvò. La sola fama di questo avventuroso successo, fece sì che in pochi giorni, più di cento, volontariamente si offersero di servire sotto de' suoi ordini, e di cavallo, armi, munizioni, insomma di tutto il necessario ben provveduti, gli si presentarono, mentre che molte altre bande, nella stessa provincia, si misero subitamente in campo.

Vincitore ne' combattimenti di Estella, di Arcos, e di Nacaz, nei quali fù l'inferiorità del numero, dalla perfetta conoscenza del terreno, dalla sperienza degl'uffiziali, dalla intiera confidenza nel valore, non meno, che dall'amor [2-13] di patria de' suoi seguaci compensata, entrò Mina nell'Arragona. Mentre che una parte delle sue forze, sotto gli ordini di Cruchaga, a Saragozza si avvicinava, egli con tre compagnie, e pochi cavalli, sorprese un distaccamento nemico di centocinquanta due gendarmi, e vent'otto soldati di cavalleria, senza, che un solo abbia potuto sfuggire. Tali successi lo resero in più d'un modo agl'invasori sì formidabile, che Tedeschi, Polacchi, Italiani, e perfino Francesi, per riunirsi a Mina, a stuolo dalle loro bandiere disertavano. Ei nella sua banda ne incorporava alcuni, e la maggior parte di loro in bande separate ordinava, da lui dipendenti, ed alla sua volontà concordemente operanti. Quindici usseri, e quattordici fanti francesi, nel corso di soli cinque giorni, gli si presentarono. Oltracciò, quelli Spagnuoli chiamati juramentados, che servivano sotto delle bandiere francesi, ed erano sempre intenti a cogliere la prima opportuna occasione per unirsi ai loro compatriotti, a torme, sotto di quelle del loro paese, da Mina con brillante valore sostenute, lietamente accorrevano.

Straordinaria cura, somma vigilanza, ed attenta precauzione, rispetto all'aumento della propria banda, ed alla formazione di [2-14] altre, od eguali, o della sua più forti, nelle vicinanze, sarà sempre al condottiero necessaria. Ed in fatti alcune, o molte di quelle, potrebbero, all'oggetto di esterminare la sua persona non meno, che la banda, essere dal nemico stipendiate. Sicarj ed assassini possono, con tale intendimento, essere dall'avversario, ad arrolarsi fra i volontarj, mandati. Epperciò conviene ad un condottiero di starsi sempre in sulle guardie. Gli attuali tiranni, che il comando, e le risorse della nazione posseggono, hanno troppi allettamenti nelle lor mani per attirare tutt'i moltissimi vili al loro partito, i quali o per tiranneggiare, o per vivere di quegli abusi che temono di veder presto finire, o per la speranza di poter trarre dai loro pravi servigi conveniente partito, pel loro ideale vantaggio o grandezza, a commettere qualunque più abominevole iniquità, punto non saranno per iscrupoleggiare. Per la qualcosa, i condottieri principali dei distretti, cantoni, e provincie, dovranno sulle bande, che a campeggiar si porranno, ben bene aprire gli occhi, e se con sufficienti pruove, a scoprire pervengono, che quelle, simulando amor di patria, agiscano pel despotismo, debbono tosto correrle addosso, ed onninamente annichilarle. Ciascun condottiero particolare di [2-15] banda, dovrà pure sempre tenere una prudente cautela, ed i volontarj, che gli si presenteranno, per essere ammessi, con occhio penetrante osservare. Con lusinghiere promesse di grosse somme, di luminosi impieghi, di cariche principali, ben anco i nemici cercheranno, i volontarj, ed il condottiero stesso sedurre, onde trarli a loro partito, od almeno piegarli a deporre le armi. I forti cittadini, quelle offerte, che macchierebbero il loro carattere di veri, e costanti Italiani, come conviensi, sprezzeranno, ma quei deboli, sul cuore de' quali, le attrattive di un bene particolare, avessero maggior possa, che il gran progetto della liberazione della patria, e del bene generale, non tarderebbero, della confidenza nei nemici del paese avuta, certamente a pentirsi, e conoscere, appieno, che quelli non trattano, che per guadagnar tempo, col fine di poterci vincere. E che sarebbe mai la loro umanità, e moderazione, se non se il mortifero veleno dell'aspide, il quale, addormentando, uccide? Epperciò il tutto si ridurrebbe ad un'illusione, perchè mai non sarebbero i nemici per porre confidenza in quelli, e se succederà, che apparente fede gli demostrino, ciò solamente avverrebbe per potergli a più bell'agio annichilare. Tali nemici lodano sempre [2-16] la virtù col labbro, ma nel loro cuore la esecrano, e chiunque in questa guerra, sguainando la spada, non ne getta via il fodero, e pensa a trattati, ed a pace, dovrà irrevocabilmente perire. Alla funesta catastrofe, che pose fine alla vita del prode, e sagace ammiraglio Gaspare de Colignì, ed a quaranta mila Ugonotti ammazzati in uno stesso giorno e nella stessa ora, rivolgasi di grazia il pensiero, e basterà quel solo esempio, per convincere chiunque, che i patti, le transazioni, le convenzioni, tra i popoli insorti, ed i tiranni, ad altro non servono, se non a dare maggior facilità a questi ultimi, per distruggere i primi. Finalmente la condotta dei tiranni d'Italia, e di Spagna etc., negli ultimi avvenimenti, e con ispezialità quella di Ferdinando di Spagna, può ad ognuno, la fallacia delle loro promesse, i nequitosi loro procedimenti, il dispregio, dei sacramenti, ad evidenza dimostrare. Imperciocchè si vede, non essere stata mantenuta alcuna delle promesse, e giuramenti da lui solennemente prestati, ma per lo contrario, quanti furono abbastanza semplici per credere al loro adempimento, e sulla fede del trattato riposare, furono con somma barbarie presi, malmenati, ed inviati al patibolo, per mano del carnefice, a morire. [2-17] Ognuno sarà da ciò, e dalla lettura della storia moderna, bentosto persuaso dell'inutilità, anzi del danno di aprire con simile razza di gente, pratiche, e trattative. Serva quest'avvertimento, per mantenere i condottieri, e le bande nel retto sentiero del loro dovere. Chiunque impugnerà l'armi in favore del paese, non mai ad abbandonarle apprenda, se non dopo della compiuta riescita del gran progetto. Quei vili, e rabbiosi oppressori d'Italia, per la fiacchezza del loro braccio, tutto, nel momento della paura promettono, ma non mai, svanito il pericolo, il dovere di rispettare le convenzioni, riconoscono, e con un'anima nera, empia, e feroce, si fanno della santità del giuramento, sacrilega beffa. Desti nell'anima d'ogni Italiano, aborrimento, la vergognosa idea di negoziare con quelle tigri! Possa dalla mente di ognuno dei valorosi guerrieri difensori della patria, tale idea interamente dissiparsi!

CAPITOLO II. DELLE MARCIE, CONTRO MARCIE, RITIRATE.

Se tutta l'arte di questa guerra, nel comparire consiste, sulla fronte, sui fianchi, ed [2-18] alle spalle del nemico, e quindi scomparire, nel farsi, ora sù d'una vetta, ora sull'altra inaspettatamente vedere, e nel tener sempre l'avversario a bada, molestato e confuso, ne avviene che le continue marcie, contro marcie, e ritirate debbono essere quelle, che finalmente, a quel condottiero daranno la causa vinta, che saprà con accortezza, velocità e prudenza, portarle ad effetto. Per mezzo di queste ben dirette operazioni, mentre gli eserciti Francesi giunsero fino a Gibilterra, le bande Spagnuole nel cuore della Francia penetrarono, ed alle stesse porte di Tolosa imponevano balzelli; e per tal modo a quelle colonne misero paura, che dovevansi per far loro la guerra, in Ispagna introdurre. Pel mezzo indicato, bruciando i villaggi, e devastando le campagne, portarono le bande nel 1810, 11, 12, nei dipartimenti dell'Aude e dell'Arriege, lo scompiglio e spavento, e fecero lo stesso Napoleone, oltremodo sorprendere, tal che, al generale comandante in Catalogna, ordinava di porre in non cale tutte le altre operazioni, per vantaggiose che fossero, onde concertarsi col generale Reille, ed a lui unirsi con tutte le forze, per salvare l'integrità dell'impero, ed alla difesa del medesimo, prontamente accorrere. Per lo mezzo delle già dette operazioni, per ultimo, si mantennero [2-19] le numerose bande, che per la liberazione della Spagna erano in armi, e nel loro intento, con somma lode, riescirono. Dovendo il condottiero stordire, turbare, ed atterrire il nemico, farsi credere forte, per quanto in numero è debole, l'apparenza delle sue forze con le marcie, e contro marcie moltiplicando, dovendo essergli vicino, quando è creduto lontano, e per l'opposto, lontano quando è creduto vicino, fà d'uopo per quest'effetto, che sia in attività continua, e che faccia la sua truppa velocemente camminare. Se il condottiero si trova per esempio nella posizione A, vicino alla posizione B occupata dal nemico, e che voglia quello sorprendere od inquietare, dovrà, con una rapida marcia, portarsi al punto C, che sarà il punto di congiunzione dei due lati di un angolo acuto, e con una contro marcia veloce, al punto B, cadere addosso all'avversario, che tranquillo se ne starà in riposo, credendolo al punto C. Serva questa dimostrazione pel metodo da tenersi, in generale, nelle operazioni di questa guerra.

Siccome le marcie de' volontarj sono un oggetto così essenziale, ci converrà, di passaggio, alcuni particolari a quelle concernenti, per minuto esaminare, sopra tutto, perchè in molti rispetti, dalle regolari differiscono. Osserveremo [2-20] primieramente, che ogni individuo deve portare un fiasco impagliato oppur di cuoio, pieno d'acqua, nella quale sia mescolata una quinta, o sesta parte d'aceto, affinchè possa dissetarsi senza bere acqua delle fonti, che nocevolissima si rende a chi nelle marcie ne beve. Ei non deve aver nulla nel suo equipaggio che possa incommodarlo o farlo nel cammino ritardare; un antiguardo onde perlustrare il paese, ed un retroguardo, per impedire che i volontarj s'arrestino, lascino dei vacui nella colonna, predino nelle case, nei giardini, nelle vigne, etc., sono del tutto necessarii. Può il condottiero stare alla testa, al centro, od alla coda della banda, ciascuno degli uffiziali, alla testa delle rispettive porzioni di truppa da loro comandate. Debbono i fianchi essere da corridori estratti dalla banda cautamente esplorati. Le strade scoscese, ed aspre, saran le prescelte, perchè meno esposte, e meno all'inseguimento del nemico soggette. Puossi bensì nel piano, sù di molte colonne di fronte, marciare, locchè aumenta la rapidità dei movimenti, ma sui monti è necessario che quelle sieno al minor numero possibile ridotte. Le alture, le vette, le sommità, dalle quali si possa scoprire il nemico, senza essere veduto, onde siano coperti i nostri movimenti, [2-21] esser debbono dal condottiero preferite, che dovrà parimenti evitare d'inoltrarsi nei burroni, negli stretti, nelle valli, dove possa essere veduto, e non vedere il nemico. Con aspri, ed inopinati attacchi, si può costringere l'avversario a movimenti circolari, a disposizioni d'attacco, e guadagnare un giorno di marcia, per allontanarsi da lui. Sono questi precetti per la riescita di qualunque marcia, contro marcia o ritirata, essenzialissimi. Ma non potrebbero mai queste, bene eseguirsi, ed avere un favorevole risultato, se i volontarj non si trovano essere ai nemici, che si debbono combattere, di gran lunga, nel camminare, migliori. Che gli italiani siano più agili, svelti e forti camminatori dei barbari, non v'ha certamente chi lo metta in dubbio! Epperciò, esser loro dovranno nelle marcie, infinitamente superiori. Parlando il Botta di una spedizione comandata dal colonnello Tarleton contro degli Americani, che riescì felicemente, così si spiega: «Malgrado della stanchezza degli uomini e dei cavalli, dei quali alcuni, per questa sola cagione, erano morti, e del calore della stagione, raddoppiò i passi, e tanto fù presta la mossa delle sue genti, che venne sopra il nemico in un luogo chiamato Wacsowes, trascorso avendo 105 [2-22] miglia in cinquanta quattr'ore.» Una simile marcia, essendo la truppa, spossata, deve molto rapida, certamente parere, ma se volgiamo l'occhio a quelle dei condottieri delle bande spagnuole, non ci stupiremo. E per non parlare di quelle del tempo della guerra dell'indipendenza, parecchie delle quali furono maravigliose, ci basti accennare fra le molte del generale Milans nell'ultima guerra della libertà in Ispagna, quella operata contro dei faziosi apostolici, l'anno 1822. Incaricato quell'ottimo condottiero di scortare un convoglio fino al castello di Hostalrich, col battaglione, e corpo de' lancieri, ambi composti di proscritti Italiani, che tanto in quella guerra s'illustrarono, e con alcuni distaccamenti spagnuoli; tosto, dopo del suo arrivo in Matarò, fatto consapevole che un numero di faziosi, di molto più forte della sua colonna, lo aspettava nelle vicinanze del suddetto castello, per rapirglielo di mano, egli lascia il convoglio a Matarò; parte con la sua truppa; si porta a San Celoni; viene in dietro per Hostalrich, cade, all'improvviso, addosso ai faziosi in Pineda, prendendogli a rovescio, ne fà un generale macello, e se ne ritorna di volo a prendere il convoglio, che nel castello senza opposizione, introduce. Questa [2-23] contro marcia, in parte, notturna, di circa settanta miglia, per balze, dirupi, e cammini scoscesi, effettuata nel periodo di sole diciott'ore, salvò il convoglio, e sarà sempre, stupenda, e degna di grand'encomio pel generale che la ideò, e per la truppa, che la sostenne, da ognuno considerata. Non meno comandevole anzi di maggiore elogio, meritevole, si è la marcia pure dal generale Milans, alla testa d'un corpo d'Italiani, e Spagnuoli eseguita, che da Matarò, scortando un convoglio di muli carichi, passando per aspri cammini, e dirupi, si portò per marcie circolari, da Matarò fino a Vich, e percorse in vent'otto ore di marcia più di novanta miglia di seguito. Poscia i volontarj, digiuni, assetati, e sfiniti, dovettero, tosto giunti alla distanza di quattro miglia da quel paese, venire alle mani col nemico, ed allora duecento Italiani, e quattro cento Spagnuoli, sconfissero, e misero in piena rotta approssimativamente sei mila faziosi apostolici. Questa marcia straordinaria non meno, che il successivo combattimento, in che tanto risplende il valore Italiano, ci prova la loro attitudine in questo genere di guerra. E che non avremmo noi da aspettare, se tanto fecero in una terra straniera, quando per la patria, pegli amici, pei parenti, per la felicità dei [2-24] loro compatrioti, a combattere intraprendessero? Tosto che le bande comincieranno a prendere incremento, e così dar ombra ai nemici, non v'ha dubbio che questi da Italiani esecrabili, ajutati, (i quali per agevolar loro la conoscenza del paese, infelicemente non mancheranno) formeran tosto il progetto di dar loro la caccia, come agli orsi, ed alle pantere, e disegneranno di rinchiudere tra le montagne, quelle bande che più saranno rinomate. E per ciò conseguire, essi riuniranno forti corpi di truppe, dalla periferia al centro, quel determinato territorio irradiando, onde non possano le bande avere favorevole probabilità di salvarsi dalle loro mani. Ma i condottieri, che conosceranno tanto il terreno, e del pari coloro da cui saranno incalzati, che non perderanno mai speranza, nè mai saranno di risorse dal proprio loro genio create, deficienti, divideranno, ad imitazione del celebre Mina, la loro truppa in piccole colonne mobili. Queste in tante direzioni differenti, marcieranno; ma con istruzioni tali, che, se mai si presentasse una favorevole opportunità, si possa la loro riunione, in un punto stabilito, rapidamente operare. Sparpagliatisi quei drappelli per le montagne, sarà loro cosa facile di guizzar di mano al nemico, che pell'irregolarità del terreno [2-25] per la scabrosità dei siti, non potrà mantenere una catena di correlazione fra un raggio, e l'altro delle truppe attaccanti, e sarà obbligato di tanto lontano, la linea estendere, che la sua forza, per numerosa che trovisi, non sarà, per coprirla, sufficiente, od altrimenti, dovrà tenersi concentrato senza che alcun'oggetto, il richiegga. In questo stato di cose, i nemici non anderanno d'accordo nelle operazioni da eseguirsi, si confonderanno, tituberanno, e prima che si decidano in qual maniera avranno da operare, e dove dovranno, per cercare la banda, che disparve, indirizzarsi, l'avveduto condottiero avrà già la sua truppa in un punto lontano, e fuori della scala delle loro operazioni, di bel nuovo riunita. Essendo Mina nel pese di Cerna nella attuazione sopra descritta, il generale Reille, a Tafalla e Caffarelli, a Monreal, colle loro divisioni, ognuna in talmodo un'ora da lui distante, portossi nel giorno seguente a Sanguesa, e siccome non v'era apparenza, che il nemico disegnasse di muoversi, rimasevi l'intero giorno. Ma prevenuto l'indomani mattina, che Caffarelli si avvicinava a Lumbier, e Reille a Caceda, due punti, due ore da lui, distanti, ci spedì immediatamente la sua cavalleria, lungo il fiume Aragone, per attirare l'attenzione del nemico da [2-26] quella parte, e marciò colla fanteria ai monti di Bigueza. Seguitaronlo le due divisioni nemiche, una sulla destra, l'altra sulla sinistra, e speravano di potere, in tal modo, metterlo in mezzo a due fuochi. Ma buon calcolatore del tempo, ed avveduto, Mina conobbe di aver il vantaggio d'una mezz'ora di cammino sopra di loro, e non mancò di profittarne, onde giungere ad un altro monte, e mettere la sua truppa in ordine per difendere la posizione. La sera però, il nemico, sia scoraggito dall'asprezza del luogo, sia nel pensiero di poterlo quindi con maggior vantaggio attaccare, sia ingannato ne' suoi calcoli, si mosse in direzione opposta, e potendo il condottiero spagnuolo avere, un pò di respiro, si porta al Villaggio di Veguezal. Per fortuna dei nemici, giunsero il giorno appresso dal distretto delle Cinco Villas, numerose truppe francesi di rinforzo, ed i generali, di ciò soddisfatti, risolsero di attaccarlo da tre parti, cioè dal Puerto, Navascues, e Tiermas. Mina, come buon condottiero, n'ebbe sollecita, ed esatta informazione, e tutti gl'ingannò; portandosi rapidamente ad Zruzozqui. Caffarelli non tralasciò di seguitarlo fino ad Artieda, situata ad un'ora e mezza di distanza. Nulla dimeno, malgrado tutta la perspicacia, e la velocità, non potè, il prode condottiero, [2-27] evitare il giorno dieciotto di giugno, sulla strada d'Aoiz, di scontrarsi colla colonna di Caffarelli. Presa immediatamente una buona posizione sopra di alcune vantaggiose sommità, respinse con tanto vigore, l'attacco del nemico, che gli ammazzò più di trecento uomini, ed ebbe, con questa vittoria, un giorno di respiro sù de' suoi persecutori guadagnato. Gli venne il giorno 20 a notizia, che Reille si era di nuovo unito a Caffarelli con lo scopo di venire ad un combattimento decisivo. Allora Mina, come quello, che conosceva di dovere per certo avere il peggio in un combattimento cercato da quei generali, si decise a sparpagliare la sua piccola forza, ed in quel modo le probabilità di guizzargli dalle mani, vieppiù moltiplicare. Mandando Cruchaga con la terza parte delle sue forze, nella direzione di Roncesvalles, egli, cogli altri due terzi, marciò alla volta di Zubiri. Ei seppe, cammin facendo, che i Francesi erano stati in Aoiz al numero di 6000 fanti e 700 cavalli; e che in quel momento erano così disposti, cioè, che 4000 marciavano sopra Zubiri, che altri 2000 con 400 cavalli eran diretti verso la città di Uroz; che Reille con 300 cavalli erasi portato a Pamplona, che inoltre 200 uomini reduci dalla scorta dei feriti, erano pure, con un rinforzo di munizioni, [2-28] avviati verso Zubiri. Abbenchè terribile si fosse questa informazione, mangiò nulla dimeno, la truppa, il necessario suo frugalissimo cibo, e malgrado una dirotta, ed incessante pioggia, tornò indietro a Larrainzar, daddove Mina mandò la metà della forza, che gli rimaneva, a Bustan, ed egli stesso, col rimanente, misesi alla volta del villaggio d'Illarse in cammino. Questa separazione sebbene utile, non fù però, a diminuire il suo pericolo, sufficiente, perchè i Francesi, cosa di molto più importante, il possesso della sua persona sola, che la distruzione della truppa, giustamente stimavano. Epperciò stavangli strettamente alla pesta; da Illarse l'inseguirono fino a Villanueva in Araguil, dove Mina arrivò verso la mezzanotte, e partì alle due del mattino. Non più lungo fù in Echarri-Aranaz, il suo riposo, di là pel Puerto di Tizatraga si indirizzò al puerto di Lezaun, ed in quel luogo eziandio stavagli quasi addosso, il nemico. Giunse finalmente a los Arcos, ed il Francese stanco, e fuor di speranza di poterlo raggiungere, fece alto ad Estella, dodici miglia da lui lontano. Non perse Mina il tempo, richiamò le forze da Roncesvalles, e da altre parti dove le aveva spedite. Queste in pochi giorni riunironsi, ed occupa Estella, stata poc'anzi dai Francesi abbandonata. [2-29] È forza ammirare la continua mobilità di questa banda, la costanza, e perspicacia del condottiero, l'ostinazione, e sobrietà dei volontarj, non meno, che la loro disciplina, la quale faceva sì, che con sollecita diligenza si recassero al tempo, e luogo prefisso, senza neppure, di andarsene alle case loro, far pensiero, dinanzi alle quali molte volte, per lo più, strettamente inseguiti, e per bande separate dispersi, dovevano, trasferendosi al destinato punto, passare. Aborrirono essi l'idea, che il ritirarsi individualmente in quelle, sarebbe stato l'unico scampo cui si poteano appigliare. Tutto ciò, solo ad uomini che per la loro patria, pel bene comune combattono, richiedere poteasi, e dagli eroi potea unicamente operarsi. I patrii, e militari progressi di Mina, l'avevano portato ad un punto, che ogni nuova bella operazione, aumentando la sua celebrità, senza accrescere le sue forze, non serviva, che a metterlo in maggior pericolo. Imperciocchè il nemico, inasprito, faceva maggiori sforzi per giungere alla sua distruzione. Truppe furono mosse dall'Aragon e dalla Navarra, per inseguirlo, e di giorno, di notte, nelle valli, e nei monti, doveano dargli animosamente la caccia. Il generale Harispe, con una divisione di tre mila fanti, e duecento cavalli, occupò i punti di Sanguesa, [2-30] Galipienso, ed altri passi importanti nell'Aragona, ed il generale Panatier con un'altra divisione osservava la Ribera de los arcos, Estella, ed il suo circondario, e tre colonne mobili, per ogni direzione perseguitavanlo, e marciavangli addosso. Il primo pensiero dell'eroe navarrese, quando così davvicino trovossi circondato, si fù di baldanzosamente il nemico attaccare. Ma ben bene la cosa bilicando, troppo debole di forze si riconobbe. Per la qual cosa, dando le spalle al nemico, marciò pel Carrascal sopra Pamplona. Quando là vicino pervenne, due colonne francesi a poca distanza gli si affacciarono, ed egli immediatamente verso Lumbier contrammarciò. Harispe i suoi movimenti previde. Epperciò, Mina in Zrurozqui trovossi l'inimico a fronte. Avevano i volontarj nei tre precedenti giorni fatte rapide non meno, che lunghe marcie. Pur non dimeno, con la loro solita indomita risolutezza, alla battaglia si disposero, e seguinne rabbioso azzuffamento. Cinque volte Harispe sulla posizione spagnuola vigorosamente slanciossi, e n'ebbe sempre il peggio. La metà della cavalleria francese fù, ne' suoi vani tentativi per rompere la banda, interamente distrutta. Però, accortosi Mina d'un'evoluzione fatta dal nemico per tagliargli la ritirata, raccolse, [2-31] con sano consiglio, le truppe, e cominciò in tempo, ed in buon ordine a ritirarsi, mantenendo sempre un ben nutrito fuoco fino a notte oscura continuato. Quando, tutt'ad un tratto, un'improvvisa, e folta nebbia coperse amici, e nemici, ed in quell'oscurità i Francesi e Spagnuoli frammischiati e confusi, facendo l'un l'altro, fuoco sui propri commilitoni, in tal confusione s'ammazzavano. Ma freddo, e presto in tali eventi, il condottiero suppone l'esistenza d'un passo difficile, lo trova, e velocemente se ne impadronisce, situa in favorevole posizione la sua banda, ed il nemico non l'osa inseguire. Mina seriosamente riflette, e vede di non esservi probabilità di poter uscire dalle mani degli avversarj, (che sono in un numero assai maggiore) da cui trovasi per ogni parte circondato, e divide la sua forza per compagnie, e la manda in tante separate direzioni. Egli stesso non si ritiene che soli venti uomini a cavallo, coi quali entra nel territorio francese, e scorre nelle vicinanze di Roncesvalles Viscarret ed Albaceyla, che mette a sacco e fuoco. Pensava egli, con questa misura, di portare il nemico a perderlo di vista, e l'attenzione sua distrarre, separare una parte delle sue truppe, mettere lo sconcerto, e la divisione fra i comandanti, e potere tosto, [2-32] avutane l'opportunità, di bel nuovo i suoi compagni riunire, per quindi, sul nemico, quando meno se lo aspettasse, con tutta la banda piombare. In fatti non tardò molto a verificarsi ciò ch'egli supponeva. La maggior parte dalle truppe spedite contro di lui, dovettero verso Saragozza indirizzarsi, e Mina di ritorno in Navarra, la sparpagliata banda immediatamente riunì. Tanto erano bene istruiti gli uffiziali e volontarj, tant'era l'amor di patria sui loro cuori possente, che in pochissimi giorni, l'intiera banda fù, come per miracolo, in allegria, ed in buonissimo stato, acconciamente riaccozzata. Quanto di Mina si è detto, potrà di utile ammaestramento, tanto ai condottieri, come ai volontarj, servire, che in una guerra d'insurrezione per bande, vogliano militare. Le marcie, contro marcie, e ritirate, in una guerra di questa specie, in che si tratta sempre di marciare, contro marciare e ritirarsi, o per combattere, o per evitare il combattimento, hanno fra di loro pochissima differenza. Le marcie semplici; le contro marcie di evoluzione, alla vista del nemico in pianura, le ritirate sostenute e di fronte per passaggio di linee, etc., non potendo aver luogo in questa guerra, ne avviene, che quasi tutte sono dello stesso tenore. Però [2-33] variano nelle loro parti, all'infinito, e non si possono per quelle, dar regole determinate, essendo alle circostanze, al modo dell'attacco ed agli accidenti del terreno, sottoposte. Una banda che andando pei monti, e colline, s'incontri nell'avversario, potrà senza disperdersi, dall'inseguimento andar salva, quando non sia da quello strettamente circondata. Ed a tale effetto, dovrà il condottiero situarla per decurie, e per iscaglioni, presentando al nemico una fronte obliqua. Ogni scaglione di dieci uomini uniti col dorso in dentro, formante un gruppo rinserrato di figura tonda, farà fuoco alla sua volta. Il primo, dopo d'aver fatto fuoco, si volgerà la fronte addietro, e per la linea perpendicolare, si porterà rapidamente a collocarsi alla coda della colonna. Sarà quello dal fuoco del secondo, sostenuto, che rimarrà, fino a che il primo sia quasi alla metà della colonna. Quindi partirà, e sarà sostenuto dal terzo, e così seguitando, una banda potrà per lunghissimo tratto ritirarsi. Questi scaglioni di vetta, in vetta, di dirupo, in dirupo situati, cosa ben difficile ad un nemico, certamente sarà di poterli non solo distruggere, ma ben anche di loro avvicinarsi, e dovrà, per necessità della loro posizione, e della difficoltà del terreno, andare [2-34] a rilento, e sarà infine dai medesimi bersagliato, e sconfitto, quante volte non lascia l'impresa, ed una prudente ritirata non intraprenda. Servaci, per compimento di questo capitolo, la esposizione della bellissima ritirata del mai sempre commendevole brigadiere Don Gervasio Gasca, nella guerra dell'indipendenza spagnuola, in che operò egli difficilissime marcie, contro marcie, e con somma gloria, finalmente a ritirarsi pervenne.

Nominato dopo la caduta di Tarragona, il generale Don Luigi Lacy, in vece del generale Campo Verde, al comando dell'esercito distrutto, mentr'egli, per riaccozzare gli avanzi, s'adoperava, fù pell'impossibilità in che si trovava, di sostenerlo, e mantenere i cavalli, costretto a mandare un corpo di cavalleria ad unirsi ad un altro esercito. Il brigadiere Don Gervasio Gasca comandava a quella divisione composta di dodici uffiziali subalterni, novecento e ventidue uomini e quattrocento novantanove cavalli, rimanenti dei reggimenti d'Alcantara, dragoni di Numanzia, usseri spagnuoli, cacciatori di Valenza ed usseri di Granata. Dovevano questi passare pell'Aragona, nella parte libera del paese, ed incorporarsi nel primo esercito, che incontrassero. La relazione di quella marcia dimostra benissimo [2-35] la perizia del nemico nel cogliere le posizioni per mantenersi nel dominio militare del paese. Imperciocchè, sebbene fosse Valenza così vicina, non dimeno dovè Gasca fare una marcia di sei settimane e percorrere lo spazio di sette cento quaranta quattro miglia, prima di potersi ad un esercito spagnuolo congiungere. Cominciò egli tale pericolosa ritirata il dì 28 di luglio, coi cavalli, per mancanza d'alimento, nello stato il più miserabile, e senza un soldo di danaro in cassa per pagare il soldato, ed alle altre spese, provvedere. Le provvisioni, ed informazioni, venivangli dal caso, dalla forza e dalla carità, solamente fornite, perchè altro mezzo non aveva per procurarsene.

S'incontrò a Grans, con una piccola banda di nemici, che con parte della sua forza trattenne, mentre il rimanente guadava l'Esera per Barazona. Facendo lunghissime marcie, onde prevenire l'avviso, che avrebbe potuto ricevere il nemico, riuscì a passare i fiumi Luenca, e Gallego, senza opposizione. Ma quando si trovò nel distretto de Las Cinco Villas di Aragona, egli conobbe, che i Francesi da Barbastro, ed Huesca, erano stati in osservazione de' suoi movimenti e riunivansi, per tagliare a pezzi la sua colonna. Allungò [2-36] allora le sue marcie, prese una deviata direzione, in modo che quelle divennero circolari, e non marciò che di notte. Malgrado tutte queste saggie precauzioni, non potè schivare di essere attaccato a mezza notte nelle vicinanze del villaggio di Luesca senza sapere da qual forza. Ma pur egli conobbe che il fuoco veniva dal villaggio e da un'altura che dominava il terreno, per dove la colonna passava. Gasca, d'animo forte, voleva continuare la marcia e ad ogni evento, coll'avversario cozzare; ma la colonna esitò. Essa si confuse, e non fù più possibile al condottiero d'impedirne la fuga, e lo sbandamento. Nulla dimeno, giudizioso e previdente, ei colse prima che quello si effettuasse, un opportuno momento, per indicare un luogo non praticato, dove ciascuno, o per individuo, o per truppa, dovesse nel termine di tre giorni riunirsi. Ciò stabilito, egli pure con soli dodici uomini prese la fuga. La ritirata fù precipitosa, ognuno pensò alla propria salvezza. Nulla dimeno, al terzo giorno, tutti all'indicato punto di riunione, in un luogo circondato da boschi, alle falde di un monte si ritrovarono. Appena che la colonna tornò a marciare, un corpo di mille fanti e trecento cavalli, sotto agli ordini del generale Polacco Clopiski, s'affrettava ad [2-37] impedirgli il passo del Gallego. Ma Gasca, per evitarlo, si gettò rapidamente nella Navarra. E non potendo effettuare il pericoloso passaggio dell'Ebro senza la cooperazione di qualche banda, egli mandò immediatamente messi a Mina, onde richiedergli un indispensabile ajuto. Per tre giorni, rimase in Eybar ad aspettarne la risposta, e tre distaccamenti di cavalleria di quel distinto condottiero, il raggiunsero quindi, per dargli ajuto e servirgli di guida. Fù la loro conoscenza del paese di sommo vantaggio; e con una marcia rapida, ed inaspettata, si portò Gasca ad uno dei guadi del fiume, le acque del quale erano gonfiate; locchè mise la truppa in necessità di passarlo al nuoto. Il passaggio non dimeno ebbe luogo, ed una marcia circolare, che durò dalle quattro pomeridiane fino alle otto della mattina seguente, immediatamente intraprese, onde potersi tener fuori di tiro dalle guarnigioni di Tafalla, Caparroso e Tudella; essendo divenuto allora meno imminente il pericolo, sebbene non meno grande, Gasca faceva marcie più brevi ed a seconda degli avvisi, che si procurava dei movimenti del nemico, ne variava la direzione. In tal modo, dopo del corso di sei settimane di pericoli e disagi ricolme, che pochi popoli potrebbero sostenere, all'eccezione [2-38] di quelli, che pel santo amor di patria imprendono a combattere, per la via convergente di Guadalaxara e Cuenca, coll'esercito di Murcia si congiunsero; gli Spagnuoli avendo in questa marcia perduto quattro uffiziali, cinquanta tre soldati e dugentotredici cavalli, di cui la maggior parte fù, nella marcia notturna, sul cammino di Luesca, smarrita, quando perdè di vista la colonna: una parte dei cavalli, morì per istrada, spossata dalla fatica e dalla fame.

Terrà dunque il condottiero, sempre fisso in mente, che deve sulle marcie e contro marcie, tutta questa guerra posare; si sovverrà, che con quelle, nel tempo della maggior potenza della republica Romana, i Parti dall'esercito di Crasso si liberarono, e resero quindi la gita di Antonio funesta e vergognosa; ei si sovverrà che con quelle, Arminio potè resistere all'esercito di Germanico, e la salute delle legioni di Cecina, sommamente mettere in forse; e che per ultimo, quelle diedero la vittoria a Napoleone, nelle pianure di Marengo, che unite al suo felice ardimento nel valicare il Po a Piacenza, e l'Adda a Lodi, la strada a grandi, ulteriori, decisivi successi, gloriosamente gli aprirono, nel mentre che, allo sbaglio da lui commesso, nell'essersi contro de' precetti dell'arte [2-39] militare, sù di Milano anzicchè sù di Mantova, diretto, poser conveniente riparo. Da tali esempi ammaestrato, entrerà con sicurezza il condottiero, nei non ancora in Italia camminati sentieri di questa guerra, e potrà cogliere pregiatissimi frutti di patrio profitto.

CAPITOLO III. VALICO DI FIUMI.

Dovrà soventi volte al condottiero di una banda, senza dubbio, accadere, sopra tutto in Italia, la superficie della quale si trova in ogni direzione, e ad ogni passo, da fiumi attraversata, di essere dal genere della guerra, costretto or d'impedirne il valico al nemico, ed ora di doverlo per sè stesso effettuare. Oggetto dunque di gran momento, e degno della maggior attenzione, dovrà questo, dal condottiero essere considerato.

In varie maniere, sopra ponti fissi di pietra, o di legno, o sopra ponti di barche, o zattere, o al guado, si possono i fiumi [2-40] valicare. Difficil cosa sarebbe per le bande, il passaggio d'un ponte, a viva forza impedire, quantunque impossibile in varie occasioni, non sia da giudicarsi. Non potendosi però, una eguale, o superiore forza disciplinata opporre a quella, che il valico ne intraprende; non si potendo in ben costruiti trincieramenti in fronte, all'imboccatura del ponte, rimanere; i soli modi per noi possibili, atti per impedire al nemico di passare il fiume in qualunque maniera lo tenti, sia sopra ponte, sia al guado, sono i seguenti. Primieramente il ponte pel quale l'avversario deve passare, non potendosi con regolar metodo difendere, converrà che si faccia saltare in aria, prima, che quegli alla vista del medesimo si presenti. Potransi pure praticar delle mine in modo, che al passar del nemico, quando la truppa si trova dissopra, scoppj, e si spacchi. Ma siccome gli avverrà di frequente, d'essere in penuria di polvere per ciò eseguire, si dovranno allora, se il ponte è di legno, segare le travi, o se si trova essere di mattoni, o di pietra, in altro modo, tanto una parte indebolirne, che non possa il peso della colonna nemica, sostenere, ma che rovini, e repentinamente cadendo, quella malefica razza si sprofondi, e sotto rottami dello sfracellato ponte, pel bene [2-41] d'Italia, nel fiume irremissibilmente si affoghi. Non potendosi avere il tempo di fare i sopra menzionati preparativi, si renderanno inutili i ponti, collo distruggere due, o tre archi di seguito.

Se il ponte sarà di legno, potrassi agevolmente incendiare; ma se il nemico già trovasi in tal vicinanza, che il tempo non sia per far ciò, sufficiente, si riempiranno dei battelli con materie combustibili, e dalla parte superiore del fiume, verso del basso si lancieranno, i quali, tosto giunti a poca distanza del ponte, si dovranno accendere. Se quello sarà di barche, potrassi parimente col fuoco distruggerlo, oppure lanciandogli contro, dei grandi alberi, i quali passando in mezzo alle barche, scompaginandole, ne facciano andare alcune a fondo. Battelli carichi di pietre, e di terra, e mille altre cose di questo genere, possono a quell'uopo servire. Un ponte di barche verrà con poca fatica distrutto, mandandovisi volontarj, che sott'acqua, si portino a segare le corde con che sono quelle, assieme legate, oppure ne perforino alcune che riempendosi d'acqua, vadano a fondo. Quanto si è detto pei ponti di barche, può farsi, in parte, a quei di zattere applicabile. Se l'impossibilità esiste della distruzione dei ponti di pietra, di [2-42] mattoni o di legno, si dovranno con grossi tronchi d'alberi, con grandissimi sassi, con rottami d'ogni più brutta specie, interamente ingombrare; praticar molti trabocchetti; piantar piuoli in terra; i parapetti d'ambe le bande rovinare; in somma far quanto, per impedire, od almeno ritardare o molestare il passaggio, al nemico, sia per essere adatto. Non potendo le bande costruire ridotti, spalleggiamenti, etc., nessuna opera fortificata, essendo loro possibile d'avere, non possedendo sufficienti cannoni, nè una forza bastevole per opporsi al passaggio del nemico, potranno tenersi imboscate nelle selve, e foreste, che quasi sempre si trovano ai lati dei fiumi, e sorprendere i primi distaccamenti, che passano, se pur le bande si trovano in numero superiore alla colonna avversaria. Se poi vi sono inferiori, lascieranno sfilare il nemico, ed i volontarj quatti quatti, aspetteranno di poterlo attaccare alle spalle, e distruggergli il retroguardo. Potranno pure a tal fine, dopo d'aver incagliato il passaggio del ponte, portarsi con tutta velocità a qualche guado dalla parte superiore od inferiore del fiume; o se quello non si trova, passarlo al nuoto, e con un rapido movimento cadere alle spalle del nemico, quando già abbia intrapreso, e [2-43] quasi effettuato il suo passaggio. Se varie combinate bande agiscono assieme, possono le une da una parte e le altre dall'altra, con vantaggio molestarlo. Se il passaggio del ponte si trova essere di somma importanza per la cosa publica, allora il condottiero, anche senza tutt'i mezzi, ma col suo coraggio, e decisione, lo dovrà fino all'estremo, pervicacemente difendere. Nell'anno 1812, un corpo di dugento Spagnuoli, sotto agli ordini di un commendevol capo, per nome Miranda, si pose in una chiesa, situata all'imboccatura del ponte di Alba de Tormes, e per lo spazio di due intieri giorni, tutto l'esercito Francese contenne, che inseguiva lo Spagnuolo, ed Inglese combinato; locchè, si può ben dirlo, ambi quegli eserciti salvò da una rotta, a che, se non guadagnavano quei due giorni di marcia sù de' nemici, stati sarebbero inevitabilmente sottoposti. Non ebbe però luogo il generoso sagrifizio a che quel pugno di valenti erasi dedicato, poichè alla terza notte, calcolando di aver dato all'esercito amico il tempo necessario per allontanarsi, slanciossi Miranda con tutta la truppa, che gli rimaneva, per mezzo al nemico, il quale attonito, e confuso ad una tale inaspettata risoluzione, non fù d'impedire la sua ritirata, [2-44] capace, che con pochissima perdita, regolarmente si eseguì. Quando il generale Cuesta fù da un corpo di dieciottomila Francesi assalito, i suoi soldati regolari, secondo il solito, lo abbandonarono, ma una banda di pressocchè seicento studenti, che al fuoco, per la prima volta, si presentava, il ponte situato sulla strada di Burgos, per varj giorni valorosamente difese, finchè, diretti più dal loro coraggio che dall'arte di questa guerra, soverchiati dal numero de' nemici, furono tutti al fine trucidati. Questa generosa risoluzione diede il tempo ai militari sbandati, di riunirsi, e di recare al nemico, nell'avvenire, gravissimo danno.

Onde impedire, che il nemico passi un guado, si dovrà, in primo luogo, aver cura di far gonfiare il fiume in quel luogo stesso dove si suppone ch'egli lo voglia passare, in modo, che straripino le acque. E se il fiume si trova vicino a qualche palude, si faranno argini, o chiusure al dissotto del guado, affinchè l'acqua, essendo contenuta, si gonfi al luogo destinato. Si possono pure gettare nel fondo, triboli; piantare piuoli, che siano gli uni lunghi, gli altri corti; tavole ripiene di lunghi chiodi, erpici, strascini, scavare dei pozzi, e gettare grossi tronchi d'alberi. Oltracciò puossi colla [2-45] zappa rendere più erta la ripa, che si trova dalla parte, a quella del nemico opposta. Quanto alle operazioni militari della banda, per difendere il passaggio, dovranno quelle essere le stesse di ciò che si è detto rispetto ai ponti.

Avendo brevemente accennato il modo di difendere il passaggio de' fiumi, sù di che poco ci siamo diffusi, quelle nozioni, alla guerra tattica parimenti appartenendo, tratteremo pure in iscorcio del modo, di che debbano le bande usare per tragittarli.

Non dovrà mai un condottiero avventurarsi a passare un ponte o guado dai nemici regolarmente difeso, se a ciò dalla necessità non trovasi costretto, ed allora solo, scagliandosi in mezzo di loro, con impareggiabile ardimento, abbagliandoli colla sua temerità, egli potrà, in un felice successo, fondatamente sperare. Ma dovrà sempre preferire a passarli al nuoto, o con marcie, contro marcie, ingannando il nemico, trovare ponti, o guadi, che non siano da quello calcolati, e difesi. Senofonte, al libro primo delle Spedizioni di Ciro, dice che in quel tempo, i soldati passavano l'Eufrate sù di certe zattere ch'essi medesimi portavano con loro, ed in un momento, all'occasione, costruivano, e nel modo seguente si spiega: «Ogni soldato portava con sè una pelle, che gli serviva [2-46] di coperta. Dovendo passare un fiume, la empiva di fieno, o paglia, o d'altre materie leggiere, quindi ognuno, la sua coperta ripiena, con quella dell'altro compagno, cuciva, e ne aggiungevano assieme tutte quelle che necessarie credevano per formare una zattera, in modo fra loro combaciate, che l'acqua non potesse bagnare il fieno. Sopra queste, essi passavano commodamente i fiumi, e trasportavano i loro viveri.» I Keleck coi quali in oggi ancora si passa l'Eufrate, sono fatti quasi nello stesso modo. La pratica d'un simile uso, quanto non faciliterebbe il valico dei fiumi? Esiste forse alcuna cosa di più portatile d'un otro vuoto? Esiste cosa il di cui peso sia meno considerevole di quello d'un otro gonfiato di paglia, o d'aria? Egli è ben vero, che le schioppettate potrebbero facilmente quella sorta di zattere affondare; ma non cesserebbero di essere sempre utili pel valico dei fiumi a distanza del nemico. Ed inoltre, potrebbero sempre separatamente servire, onde ajutare le bande sì a piedi, che a cavallo, quando per passare i fiumi a nuoto, si dovessero in quelli slanciare.

Il già più volte citato medico Palarca, non si trovò mai nel valico dei fiumi confuso; anzi schernia ad ogn'istante il nemico, del quale, tanto per la perfetta conoscenza del terreno, [2-47] che per la precauzione, da lui costantemente tenuta, in varie parti del Tago alcune barche sommerse, delle quali, all'eccezione di lui, e de' suoi confidenti, nessuno conosceva il luogo, di continuo se ne facea trastullo, ed allorchè si trovava stretto da un qualche corpo, Palarca mandava, alquanto prima, uno de' suoi intimi, con la gente necessaria per trar fuori le barche dal fiume, quindi subito col rimanente de' volontarj seguiva; passava l'acqua; sommergeva di bel nuovo le barche sempre in un punto differente. Con segreto serbato co' suoi stessi volontarj, quel condottiero faceva un gran giro, andava a rintracciar altre barche da lui tenute in diversi luoghi affondate fuori del circolo in che il nemico strettamente lo attorniava, e ritornava sopra di Madrid, prima, che quegli sapesse d'aver egli ripassato il fiume. Col suo ardimento, avvedutezza, e velocità, teneva sempre i Francesi sì fattamente attoniti, confusi, e molestati, che, ancora con sicurezza, poteva difficilissime cose operare. Allora quando il valoroso Mina volle da Navarra, portarsi a Valenza, dovendo valicare l'Ebro, destinò un luogo, dove fece tutto disporre per gettare un ponte sopra di quel fiume. Si radunarono colà materiali in gran copia, ed egli stesso in quella direzione si mosse, ma alla mezza notte tornando [2-48] indietro, s'indirizzò ad un altro punto lungi dodici miglia, entrò il primo nel guado per iscandagliare la profondità dell'acqua, ordinò ad ogni cavaliere di prendere un fante in groppa, e con tutta la sua banda, potè in questo modo, il fiume felicemente valicare, mentre il nemico, in triplicata forza, per assalirlo, dove credeva, che facesse il ponte, fermo lo aspettava. Un altro modo più facile, fù alcune volte nel tempo delle guerre di Napoleone, con felicissima riescita praticato. Consiste questo nel far passare dall'altra parte del fiume, alcuni volontarj al nuoto con funi, ed assicurate queste a forti piuoli fissi sulla ripa da che si parte, e portate fino alla sponda contraria, dovranno pure essere colà ad alberi, o piuoli, che porteranno con essi loro, fortemente legate. Stese quindi, ed assicurate quelle funi da una parte, e dall'altra, posta la banda in battaglia di fronte al luogo dove intende passare il fiume, lo schioppo a traccolla; il cartucciere attorno al collo; sfilerà per uno o per due, secondo la quantità di funi stese, e ciascun individuo, afferrando, con le due mani la corda tesa, e facendola verso del lato dove vorrà portarsi, gradatamente scorrere, arriverà facilmente alla parte opposta, per grosso, e profondo, che sia il fiume. Con questo metodo potrà sempre essere valicato, [2-49] purchè si abbia cura che le funi sieno forti ed i piuoli, adatti, ed alla forza di quei che passano trascinati dall'onde, resistenti, e con ciò porteranno, in qualche circostanza, pur anche il corpo dell'uomo stesso sull'acque, parallelo.

Ecco in breve, come il valico de' fiumi si difenda, e come si operi; molti altri particolari all'uopo avendo noi omesso, perchè alla guerra regolare appartengono, e co' moltissimi trattati sulla medesima, possono coloro istruirsi, che desiderano il modo conoscere, di quelli perfettamente difendere, ed operare.

CAPITOLO IV. DIFESA ED ATTACCHI DI CONVOGLI. — IMBOSCATE.

Una delle più frequenti dilicate operazioni d'un condottiero in questa guerra, quella si è certamente della difesa dei convogli, e loro introduzione nelle piazze, che di già, in favore della patria, si sono dichiarate, non meno che l'attacco di quelli del nemico, questo, il miglior modo essendo, per fargli patir la fame, ed alla ritirata indurlo ed a morire.

[2-50] Un comandante dunque di convoglio, terrà sempre la sua truppa in cinque distinte porzioni divisa, una delle quali sarà di antiguardo, l'altra di retroguardo, la terza di scorta al centro, la quarta di perlustratori, e scorridori, la quinta di riserva, ed ogni frazione, comandata da un uffiziale intelligente ed ardito. Sarà il convoglio, composto di bestie di soma, o di carri, o di ambidue. Nel primo modo, arriverà più leggiero, arriverà più presto, e sarà meno difficile con quello, di schivar il nemico. Il secondo e terzo modo sono più imbarazzanti, meno facili a nascondersi, ma possono i carri servire allo stesso convoglio, di riparo e difesa. Se viene attaccato sulla strada, il distaccamento della parte, dove cominciò l'attacco, si difenderà, e se si scorge, che quello sia reale, e non falso, accorrerà tostamente in ajuto, la riserva, la quale, impavida resisterà al vivissimo fuoco del nemico, che respingerà alla bajonetta, ma non inseguirà, ed in quel mentre dovrà, il convoglio, il suo cammino continuare. Se sarà possibile al convoglio di carri, essendo attaccato, d'entrare in qualche aja circondata da muri, in qualche cortile, od almeno in qualche spazio quadrato, fuori mano dalla strada, si collocheranno i carri in tondo, gli uni, accanto e contro, gli altri, col [2-51] timone in fuori, lasciandosi una sola apertura coperta da un carro situato per traverso nell'interno a cavaliere, e fatta salire sopra de' carri, la truppa del centro, la riserva in battaglia, dentro; l'antiguardo e retroguardo uniti, schierati al difuori, ed i corridori sulla fronte, e sulle ale, aspetteranno e respingeranno l'attacco. Altri molti modi esistono di difesa, e di scorta, la conoscenza de' quali ricavar potrassi dallo studio dei numerosi autori d'arte militari, che di questa materia diffusamente trattarono. E noi ci limiteremo ad accennare la commendevole maniera, colla quale Don Giuliano Sanchez introdusse un convoglio di vettovaglie, e munizioni nella piazza di Ciudad Rodrigo, nell'anno 1811. Presentatosi quel capo alla testa di dugento lancieri nel piano in fronte al nemico, sulle cui linee di molto più forti, con decisione a tutta prova, e senza indugio slanciossi, le pose in confusione, le ruppe, quindi con tutto il convoglio, entro la piazza valorosamente penetrò. E sebbene abbia dovuto, nella sua ritirata da quella, essere a perdite considerevoli soggetto, impedì non dimeno, che la piazza, per fame soccombesse, e preda del nemico divenisse. Il convoglio dal generale O'Donnel stato nella piazza di Gerona introdotto, che ci [2-52] viene con tutt'i particolari, dal nostro Vaccani esposto, merita pure da noi una singolare menzione, e potrà sempre ai condottieri, che quell'opera mediteranno, servire di utile ammaestramento.

Per attaccare un convoglio, sarà pure la forza, in varie porzioni, partita, con una riserva per sostenerle, e corridori per molestarlo da ogni parte. E se le circostanze e il sito lo permetteranno, si dovrà alla fronte, in fianco ed alle spalle, nel punto stesso animosamente assalire, dovranno i scorridori entrare nel centro dei carri, dei muli, etc., e la scorta non meno, che quei carrettieri ad arrendersi renitenti, mettere a morte, e nello stesso mentre, il convoglio spignere nella direzione della riserva generale, alla cui scorta e difesa si dovrà consagrare. Ai ponti, stretti, boschi, cammini in mezzo a' paludi, strade rotte, e piene di pantani, possonsi, con successo, attaccare i convogli, soprattutto, se sono dal corpo principale del nemico, distanti. Sono pure i giorni di pioggia, o di neve, a quel proposito favorevolissimi.

Il modo il più frequente di attaccare i convogli in questa guerra, si è quello dell'imboscata, come più facile e più sicuro. Marciando nel più grande silenzio di notti, per [2-53] lo più oscurissime, senza che un bisbiglio neppure si faccia udire, recherassi il condottiero, con la sua banda, nel luogo, lungo la strada già previamente da lui stabilito. In un folto bosco, o frà macigni, etc., ei prenderà posizione, stando vigile, ed aspettando, che il nemico si presenti. Avvertito da buoni informatori, che fra un quarto d'ora, sarà quegli a tiro, dividerà il condottiero, la sua forza in quattro porzioni, cioè una per attaccare il nemico da un lato della strada, l'altra per lo stess'oggetto, dall'altra parte; collocherà una terza per attaccarlo in fronte. Tutte quante ad un tratto, fuori del bosco, saltando, con orribili grida violentemente lo attaccheranno. La quarta, che sarà la riserva, se scorge pendere, nel combattimento, la probabilità in favore degli aggressori, e non essere il suo ajuto ad una delle tre frazioni, punto necessario, sarà dal condottiero, alle spalle del nemico, a tutta corsa mandata, onde tagliargli la ritirata, compire il fatto d'armi, e di tutto il convoglio impossessarsi. Se verrà quest'attacco ben diretto, e con ardimento e violenza eseguito, non v'ha dubbio che sia, contro d'una truppa regolare, certa la vittoria. Se si avrà cavalleria, potrà, con sommo vantaggio, essere nelle tre frazioni ripartita. Quella, dopo la prima scarica [2-54] dei fanti, cadendo con impeto addosso ai difensori del convoglio, a colpi di sciabola, quanti più possa, ne ammazzerà. Nelle relazioni della guerra, con tanta gloria, dal prode Mina, sostenuta, trovansi ad ogni passo delle imboscate da lui tese al nemico, e per l'ordinario sempre con prese frequenti di convogli, e di ricco bottino, felicemente riescite. Tanto erano i Francesi da quella decisa banda di difensori della patria, molestati, che mettevano per distruggerla, ogni mezzo in opera. Per la qual cosa, fu Mina verso la fine di gennajo 1811, circondato da sette mila uomini. Ma quel leone non era già fatto per potersi tanto facilmente trar nella rete. Epperciò la sua prima disposizione fù quella di sparpagliare, secondo il solito, la banda e determinare a' volontarj un punto di riunione. Con quello spirito, che tanto lo rese agli usurpatori del suo paese, formidabile, stabilì quel punto, sui monti immediati e dominanti. Ed avendo colà tutte le difficoltà, superate che un vigilante, e possente nemico gli fece sorgere, vi riunì, Mina, i suoi valorosi compagni. Ei sempre si trovava da tutte le parti circondato, non vi era un punto ch'egli potesse occupare senza essere subitamente assalito, nè in quello rimanere in posizione e difendersi. Due mila uomini uscirono [2-55] di Pamplona con una cavalleria in proporzione, per discacciarlo da quei monti. Mina, come quello, che conosceva non esservi altro scampo, che nell'assalire, non li attese; mandò all'istante Gorriz al Carascal, verso la sinistra della città, onde da quella parte, l'attenzione del nemico attirare, con ordine di attaccare qualunque convoglio, o scorta, che per quella strada passasse. Riescì tale disposizione perfettamente: le truppe francesi, che si erano avanzate per più d'un miglio, furono tosto, pel terrore cagionato da Gorriz, frettolosamente richiamate; cadde alla cieca il governatore della piazza, nella fossa scavatagli, e credendo che tutta la banda di Mina fosse, dov'era Gorriz, e le altre strade fossero sicure, fece alla volta di Vittoria, un convoglio di sessanta carri, con munizioni e vettovaglie, nel momento partire. Era quello, scortato da duecento uomini, e ad un'ora approssimativamente d'intervallo, era da altri mille, seguito. Trovavasi Mina, quando seppe la partenza di quel convoglio, a tre ore di marcia, distante dalla posizione conveniente per attaccarlo, coi volontarj digiuni. Ei lasciò Cruchaga, il suo secondo in comando, col corpo principale della truppa, e si mise coi cavalli, e due compagnie di fanti, a dirittura in marcia. Ma, [2-56] per quanto sia stata quella, precipitosa, il convoglio aveva già il luogo, dov'egli intendeva di attaccarlo, trapassato. Nondimeno la cavalleria corse a tutta briglia sopra la scorta, e quella, siccome contava sulla forza maggiore, che a corto intervallo la seguiva, e sull'assistenza eziandio della guarnigione di Zurzun ch'era solamente quasi mezz'ora da quel luogo, distante, abbandonò i carri, prese sopra d'una vicina sommità, conveniente posizione, e preparossi alla difesa. Impadronitosi Mina del convoglio, non ebbe tempo di compiutamente distruggere la scorta. Era importante assicurarsi delle munizioni assai più, che l'acquisto d'un ricchissimo bottino, per lui preziose. Ma per ciò conseguire, la facilità non era certo assai grande. Da due parti, l'avvicinava il nemico in forza, e da una terza giungeva la scorta per assalirlo. Sopravvenne la notte, e tutt'i lati erano in fuoco; successe una mischia generale; vennero i combattenti a pugnare a corpo a corpo. Era cosa impossibile, in questo frangente, di salvar tutta la preda. Mina pervenne a raccozzar la sua gente. Sarebbe stato ben contento di poter distruggere le provvigioni, e ritirarsi in sicurezza, ma essendo in un grido generale, di voler piuttosto perire che abbandonare oggetti di tanta utilità, i volontarj prorrotti, gli fù forza aderire al loro [2-57] voto. Caricatisi gl'individui della banda, i cartocci sulle spalle, ne portarono via il numero di sessanta mila, senza badare agli altri affetti, fra i quali, pure oggetti esistevano di gran tentazione. Ma si contentarono di trasportare, per quanto potevano, sole munizioni di guerra; incendiarono i carri della polvere, bruciarono tutte le rimanenti provvigioni, e colla preziosa loro preda, nei monti, da dov'erano partiti, si ritirarono.

Un'altra non men commendevole presa di convoglio, e degna di essere, come valevole esempio, esposta, dallo stesso Mina portata a felice risultamento, si è quella, ch'ebbe luogo nel tempo, che il re Giuseppe partì di Spagna, alla volta di Parigi per portarsi ad assistere al battesimo del figlio di Napoleone. Aveva Mina volontà di molestare quel re nel suo viaggio, ma non gli venne fatto, perchè troppo bene quegli conosceva il pericolo, per non prendere, prima di avventurarsi in viaggio, tutte le possibili, ed immaginabili precauzioni, ed ordinare, che tutt'i luoghi pericolosi della strada, venissero da una forza imponente occupati. Non dimeno Mina, sempre a quella, teneva l'occhio rivolto. In questo frattempo, sei mila Francesi da Pamplona, e Tudela, si disponevano a fare un movimento per discacciarlo da Ostella. Dimostrando [2-58] egli di essere dal loro superior numero, impaurito, abbandonò quella piazza il 22 di marzo, e con tutta la sua banda, fece nella provincia di Alava, un'incursione. Giunse con tre de' suoi quattro battaglioni, e la cavalleria, nel mattino del giorno seguente, ad Orbiza, primo villaggio, che in quella provincia rinvenne. Il quarto battaglione passò per un'altra strada; ebbe Mina in quel villaggio notizia essere Massena, con una scorta di due mila uomini, aspettato in Vittoria, per dove si doveva alla volta di Francia indirizzare. La speranza di poter le forze sue con quelle d'un generale di tanta fama, una volta misurare, lusingava l'amor proprio di Mina, ed i suoi pensieri furono al modo di frastornare la marcia di quel maresciallo, immediatamente rivolti. Giunto la sera del giorno 24 verso le ore cinque, al Puerto di Azazeta, si fermò fino a notte oscura, pel timore, dovendo egli passare per le pianure vicino a Vittoria, di essere in quelle veduto dal nemico, ed assalito. Evitò per la stessa ragione, di entrare in alcun villaggio lungo il cammino; ed il giorno 25, alle quattro del mattino giunse in Artaban, montagna limitrofa tra Alava, e Guipezeva; scelse il terreno; si mise in posizione; collocò un battaglione sulla sinistra della strada nei boschi, due sulla [2-59] destra, e la cavalleria nel piano. Era sua intenzione di situare il quarto, quando arrivasse, in un boschetto, onde sorprendere il retroguardo nemico. Esisteva là vicino, soli sei miglia distante da Vittoria, un piccolo villaggio, tutti gli abitanti del quale senza eccezione de' vecchi, giovani, malati, donne, bambini, furono subito da Mina costretti a ritirarsi in un luogo da lui destinato nei monti, onde nessun di loro potesse dare al nemico, delle sue operazioni ragguaglio. Ei pose una guardia, con ordine di osservarli, e mantenerli quieti, e tranquilli per lo spazio di ore otto, passando per le armi, cioè alla bajonetta, chiunque puntualmente non obbedisse. Date quelle disposizioni, giunse un informatore con la notizia, che Massena era veramente arrivato a Vittoria, e che in vece di seguire il suo cammino, si sarebbe colà fermato, ma che un gran convoglio, con un generale in una carrozza, un colonello, un tenente colonello, e due donne in un'altra, mille e cento prigionieri, ed una scorta di due mila fanti, e due cento cavalli, era sul punto di partire. La speranza di liberare i prigionieri, compensò la non riuscita de' suoi disegni contro Massena. Non confidando implicitamente nell'informatore, per sicurezza contro gl'inganni, ordinò che fosse ad una punta sporgente di roccia, fortemente [2-60] legato, quindi misegli una guardia con ordine di trucidarlo, se mai tentava di fuggire; ma nello stesso tempo gli promise una vistosa ricompensa, se la sua informazione si verificasse. Non si stette guari sospeso. Verso le ore otto comparve l'anti-guardo nemico di cento fanti, e venti cavalli, che passarono senza essere molestati; un secondo distaccamento di trenta fanti, e dodeci cavalli, passò nello stesso modo. Imperciocchè non voleva Mina, coll'attaccare troppo presto, perdere l'oggetto, che si era proposto. Il grosso della truppa coi prigionieri, un numeroso convoglio di carri pieni di bottino, ed una delle carrozze, venne a poc'ora d'intervallo. Il battaglione situato alla sinistra, cominciò il fuoco, gli altri due dalla destra corsero addosso al nemico, e ne fecero una spaventevole generale strage. Gettaronsi, alla prima scarica, i prigionieri bocconi, per terra, evitando in quel modo, di cadere per mano de' loro stessi amici. Mina corse alla carrozza per salvare i passaggieri; i due uffiziali francesi rifiutarono di arrendersi, e colla sciabola valorosamente si difesero. Uno fù ammazzato, l'altro, che si chiamava il colonnello Laffitte, fù ferito, e fatto prigioniero in un con le donne che accompagnava. Comecchè messi in confusione, e terribilmente maltrattati, i Francesi, [2-61] con la celerità d'una truppa ben disciplinata, ed esperimentata, furono in un subito riordinati, seicento fanti, cento cavalli del retroguardo, e l'altra carrozza, furono al primo fuoco mandati in dietro. La carrozza con la cavalleria si ritirò a Vittoria; la fanteria rimase, e si collocò sopra d'un'altura, da dove gli Spagnuoli che davano compimento alla loro vittoria, forte molestava. Dugento uomini della guarnigione francese di Salenas, vennero in soccorso dei loro compagni, ma furono respinti, e fino alle porte di quella fortezza, strettamente inseguiti. Il quarto battaglione di Mina giunse troppo tardi, per essere a parte della zuffa, ed i volontarj digiuni, e reduci da una marcia forzata di quindici ore; non dimeno, ad inseguire il nemico, pure ai commilitoni si unirono. In questo mentre, ebbero i Francesi da Vittoria nuovi rinforzi, la guarnigione di Salenas aumentata da una parte della guarnigione di Mondragon, e da tutt'i punti circostanti delle vicinanze, si dimostrava di bel nuovo in attitudine offensiva. Mina, con gagliardìa sostenne la pugna ed ottenne di vincere la battaglia; durò cinque intere ore, senza intervallo. Non avevano gli Spagnuoli, dalle dieci del mattino del giorno antecedente, nè bevuto, nè mangiato, e pensò il condottiero essere cosa giudiziosa di [2-62] assicurare quanto aveva guadagnato, piuttosto che ad una gloria incerta, quale sarebbe stata quella della loro completa distruzione, correre stoltamente dietro. Per la qual cosa, in un paese chiamato Zalduendo, distante sei ore dal campo di battaglia, col bottino si ritirò. Persero i Francesi l'intiero convoglio, e più di mille uomini, e fra gli uccisi fù rinvenuto un certo Val Buena, per l'addietro ajutante di campo del generale Castannos, il quale, rinnegata la fede alla patria, ed entrato al servizio degl'invasori, erasi per le sue crudeli azioni contro de' suoi compatrioti, acquistata una criminosa celebrità. Fù il bottino, doviziosissimo: mise Mina pel publico servizio, una parte del danaro in serbo, e presero i volontarj quanto fù loro dato trovare, e portare. Molti se ne viddero, tutti curvati sotto il peso di un carico d'oro, frutto della rapacità straniera, e dei saccheggi, che i nemici, d'apportare nella loro patria, s'affrettavano.

Dalla desposizione del modo di procedere di Mina, ai casi e situazioni differenti, adattandola, potrà il condottiero, una giusta idea formarsi, del modo con cui si debbano i convogli attaccare, e delle precauzioni necessarie per la buona riescita degli agguati, od imboscate, per le quali, gran segreto, somma prudenza, [2-63] ed un ben diretto ardore, continuamente in questa guerra si esigono.

CAPITOLO V. DIFESE DI STRETTI E BURRONI. — SORPRESE. — SCARAMUCCIE E STRATAGEMMI.

In una guerra che per lo più, negli alpestri monti, negl'intricati boschi, in asprissimi dirupi, ed interminabili abissi devesi di continuo alimentare, non sarà difficile, che ben sovente il condottiero s'incontri nella necessità di opporre al varco degli stretti, burroni etc., una valevole difesa. Prima di eleggere il luogo dov'egli intenda di contrastare il passaggio al nemico, dovrà ben bene, il sito calcolare, ed accuratamente osservare, se si trova in maniera situato, che l'avversario non possa, girando la sua posizione, al di là, per altre parti, trasportarsi, e rendere, per tal modo, di niun effetto i suoi preparativi, ed inutile la sua permanenza in quel luogo. Qualora sulla stessa [2-64] linea de' monti, uno, o varj passaggi esistano, dovrà il condottiero, se la sua forza non è sufficiente, mettersi con altre bande d'accordo, affinchè vengano quelli, parimenti difesi. Supposto dunque che il nemico, per procedere innanzi, o indietro, a seconda delle militari operazioni da lui divisate, debba necessariamente passare per quello stretto, si porrà il condottiero in misura di opporgli una vigorosa resistenza, respingerlo, ed impedirlo, se potrà, od in caso contrario, fargli la riuscita di quel tentativo, a carissimo prezzo, pagare. Cercherà la banda, per prima essenzial cosa, d'impossessarsi delle sommità dei monti, perchè difficile, anzi impossibile crediamo, che possa da una banda, uno stretto in pianura chiusa da un bosco, paludi, o canali, con molto frutto difendersi, rovinerà il cammino, pel quale dovrà giungere il nemico, onde spossarlo, e ritardargli la marcia. Ed a questo fine, distruggerà i ponti, se ve ne sono, qualora di trovarsi in vicinanza di canali, fiumi, o paludi, gli avvenga, rompendo le sponde, gli argini, etc., le strade compiutamente allagherà, con alberi, tronchi, e travi, piantati nella terra, e rivestiti di rovo, e di quante piante spinose può ritrovare, costruirà delle barricate dell'altezza di varj uomini, davanti le quali, farà un gran [2-65] fosso; a molta distanza dalle barricate farà dei grandi, larghi, e profondi tagli, da un lato all'altro della strada, e della terra, che da quelli estrae, e parimenti, con travi, e carri di molte pietre ricolmi (le ruote de' quali siano seppellite nella terra ed i timoni legati assieme), innalzerà dalla parte opposta del taglio, un'altissima, e ripidissima sponda che il nemico di passare impedisca od almeno gli dia intollerabile molestia.

Prese queste precauzioni, il condottiero guarnirà le alture dei monti, ed i volontarj colà situati, potranno, facendo un fosso circondato di alberi coi rami, con tronchi, terra, etc., se ne hanno il tempo, ripararsi a piè dei monti e ad un'altezza dominante la strada, e spezialmente in quelle parti che ad uno stretto soprastanno, il capo potrà, se gliene viene l'acconcio, far costruire dei ridotti laterali, che non dovranno essere tondi ma quadri, lunghi, o triangolari; al dissopra dei quali, potrà fare dei tagli nel monte da un semplice parapetto coperti, tal che si debba, per entrarvi, dalla sommità, per difficilissima via, calare; non dovendo essere perpendicolari ai ridotti, ma diagonali, onde schivare, che rotolando le pietre dall'alto a basso, l'amico, anzichè l'avversario, distruggano. Saranno in quei tagli, situati dei volontarj, [2-66] che di rottami, e grosse masse di pietre, provvisti, con quelle, e con fuoco de' moschetti, dovranno il nemico senza posa e con suo grave danno, infastidire. Prese tutte queste misure, dividerà il condottiero la sua forza nei luoghi da lui, atti a difesa, riputati, ed avrà sempre una spezial cura, che ciascun distaccamento, non lasciando in servizio, che un terzo alla volta, della truppa, possa i posti confidatigli, delle necessarie guardie, vegghie, scolte, e velette, agevolmente guarnire. Delle ventiquattr'ore del giorno, ne avranno in questo modo i volontarj, otto di servizio, e sedici di riposo, la metà del quale sarà in pattuglie, riconoscenze, etc., impiegato, ed ott'ore per mangiare, e dormire, solamente rimarranno. Si regolerà in questo modo; tutte le volte che avrà una forza sufficiente, per poterlo eseguire, e non sarà stretto dal nemico, perchè in quel caso, non al riposo, ma solo alla gloria, ed alla patria, si deve pensare. L'illustre Hofer nell'ardimentosa sua guerra contro all'impero francese, ci offre varj esempi d'una insurrezione nazionale, potente, gli stretti, burroni, etc., a difendere. Ei mise in fuga una colonna di venti mila nemici, sotto agli ordini del generale Lefebvre, e del principe ereditario di Baviera, che per tre [2-67] volte consecutive, diedero l'assalto alla posizione del romitaggio di Hunterau, dove quel prode aveva la sua forza, riunita, e trasse partito da tutt'i grandi vantaggi offertigli dalla natura del terreno, dov'erasi fortemente trincerato; costrinse quei duci a fuggire colla perdita di dieci mila morti, mille e cinquecento prigionieri, otto cannoni, nella massima confusione; infine a Sterzing Hofer di bel nuovo il generale Lefebvre, sconfisse, nell'inseguirlo fino alle paludi di quelle vicinanze e cagionogli la perdita di mille ottocento uomini morti, di mille cinquecento prigionieri, di molti cavalli e di gran parte del suo equipaggio, pel qual disastro, fù quel generale, costretto a tornare indietro fino ad Inspruck. Dopo di tutte queste preclarissime gesta, Hofer venne informato essere una colonna di dieci mila uomini, per trasferirsi a Prutz, passando per Landek, paese cui non si può giungere, senza entrare in una valle, che per lo spazio di tre leghe, si restringe, qual orrido tortuoso abisso, da inacessibili, asprissimi greppi formato, in mezzo a due altissimi monti d'onde, peramb'i lati del cammino, tali masse di roccie, sì fattamente sporgono all'infuori, che pajono volersi, l'un coll'altro congiungere, dalle quali la sottostante strada, lungo la sponda del fiume [2-68] Inn, che impetuoso e borbogliante scorre nella profondità del burrone, viene signoreggiata. Presa in quelle ineguali sommità sporgenti, convenevol militar posizione, ammucchiò il prode Hofer, per lungo tratto, grandissimo numero di enormi macigni, tronchi d'alberi, ed altre simili cose atte, pel loro peso, l'imprevidente nemico tosto, nella profondità inoltrato, a flagellare. Passò l'anti-guardo di ottocento Sassoni, senza molestia e giunse a Prutz, che a suo grande stupore, trovò da un assai maggior numero di Tirolesi, militarmente occupato, che a posare le armi, senza indugio costrinserlo. Sedotto all'istante un prigioniero, quel capo, indietro inviollo al generale, con la relazione della caduta di Prutz. E di ciò, la colonna nemica, avend'egli persuaso, nel fondo del burrone, con piena confidenza s'intromise; alcune piccole bande di Tirolesi, a bella posta, onde ingannare il nemico sulle vere intenzioni, lungo la valle situate, al suo ingresso, arditamente si opposero. Viddesi fra quei difensori, un canuto cittadino d'oltre ottant'anni con venerabile aspetto, situato con le spalle al monte, che ad ogni archibugiata, un nemico del suo paese trucidava, e seguiva in quel modo, riparato dai nemici. Ma alcuni Bavaresi, s'arrampicarono alla sommità [2-69] della rupe e da sopra, per assalirlo si calarono. Tostocchè quello conobbe non essergli più via di scampo, proruppe in un grido terribile, e con altere parole, i due invasori che si avvicinavano, provocò, quindi coll'ultimo suo tiro di schioppo, il primo di loro stese immediatamente a suoi piedi, ed avventandosi poscia contro al secondo, a metà del corpo strettamente abbracciollo. Valendosi il soldato della libertà delle braccia, forte il percoteva, ma il rispettabile vecchio all'orlo dell'orrido dirupo, invocato il nome di Dio, seco il nemico trascinando, disperatamente nel profondo sbalzossi, e viddersi ambedue giù nell'abisso precipitare. Tostocchè fù l'intiera colonna nello stretto inoltrata, una risonante voce dalla cima d'altissima rupe laterale, pronunziò le seguenti parole: «È opportuno il momento? Debbo io tagliare?» Cui, dalla vetta dell'altro lato fù in tuono imperativo e forte, tostamente risposto: «Sì: subito; periscano gl'infami!» A queste tremende e sconosciute voci, le schiere nemiche a darne immediato avviso al generale spedirono alcuno, ma troppo era tardi! In quello stesso punto, fra le universali grida di tutt'i Tirolesi in quelle scoscese creste collocati, sassi, pietre, tronchi d'alberi, grossi massi staccati di roccia, etc., [2-70] furono, con orrendo principizio, dalle vette, per tutto il lungo delle strette dov'era chiuso il nemico, lasciati cadere, che nel profondo piombando, in modo spaventevole, più di sei mila Bavaresi, Francesi e Sassoni, rimasero da tanto improvvisa, ed orrenda difesa, interamente schiacciati.

Calarono sull'istante i vincitori Tirolesi nel burrone alla corsa, per compire la vittoria, ammazzare i superstiti, ed impossessarsi del bottino, nella quale operazione, vecchi, giovani, donne, ragazzi e fino le bellissime donzelle, pur anche intente a distruggere il nemico del paese, vedevansi, soddisfatte, festevolmente accorrere.

Esposto da noi in succinto, come si possa il passaggio d'uno stretto, difendere, passeremo a trattare delle sorprese delle quali poco in questo capitolo ragioneremo, dovendone in quello delle fortezze, far motto. Non sarà peraltro mai disutile rammentare ad un condottiero, che può, negli avvenimenti della guerra, essere una banda, senz'aver torto, battuta, ma che sarà sempre da considerarsi colpevole, e degna di vituperio quella che si lascierà, in qualsivoglia tempo, sorprendere. Quindi, per quanto grandi, fastidiose, e picciole molte precauzioni parer possano; mai [2-71] non saranno di troppo. E se ad un volontario potrà esser permesso di darsi, per un certo tempo, tranquillamente al sonno, ad un condottiero non sono leciti che brevi riposi, e questi presi con intervallo di tempo, nel giorno, quando il pericolo di essere sorpreso, sarà di molto lontano. Tre ore od al più quattro di sonno, nelle ventiquattro, debbono essere ad un buon condottiero bastevoli, dovendo avvertire, che il suo Secondo non riposi mai nello stesso tempo, ma che uno vegli, se l'altro dorme. Deve il condottiero farsi dappertutto vedere, tutto conoscere, senza che mai non sia la sua ora di riposo, conosciuta. Ordinariamente non si tenta una sorpresa, se non quando si suppone, che l'avversario non prenda le necessarie precauzioni per evitarla. Quando si ha notizia, che il condottiero troppo in sè stesso confidi, o sia conosciuto per essere leggiero di testa, e nelle occasioni difficili, sia soggetto a confondersi; quando la truppa avversaria, debole, o cattiva, sia riputata; quando sia il comandante assente od ammalato; quando gli abitanti siano dei loro difensori, nemici; quando vi sia discordia nella truppa, in fine, quando da quella non si faccia esattamente il servizio; se quindi, le strade, vicine a quel luogo, sono coperte, ed il [2-72] paese, disabitato, se vi sono boschi, burroni, balze, col di cui favore possa, senza essere veduta, appressarsi al nemico, e tutte le altre simili circostanze, o parte di esse concorrano; allora per lo più di notte, ma in certi casi anche di giorno, si tenta, o per stratagemma, od apertamente, la sorpresa.

Le storie di tutt'i tempi e di tutte le guerre, ne insegnano abbastanza, essere la negligenza nelle precauzioni, causa principale di gravi disastri e perdite di battaglie, che ben soventi la somma delle cose rovinano e danno a quello dei combattenti, che secondo tutti i calcoli dovrebb'essere perditore, la compiuta vittoria. Questo difetto, nelle guerre civili di Francia, all'esercito degli Ugonotti, ordinario, lo portò molte volte a gravi pericoli, e soprattutto nella battaglia ch'ebbe luogo nel 1562 tra Spina e Blanvilla, diede all'esercito cattolico vinta la giornata; locchè spinse il prode ammiraglio di Colignì ad esclamare, che, per loro negligenza, era venuto tempo da porre la salute non più ne' piedi, come per lo passato tentavasi fare, ma nelle mani. Checchè dicasi, è certo che non mai sarà la vigilanza, ad un condottiero, troppo raccomandata.

Usavano gli Spagnuoli, oltre moltissime altre precauzioni, di quella di mettere alcune [2-73] vedette sopra le sommità principali dei monti, dove operavano. Eran quelle per l'ordinario, de' contadini stessi alla buona causa devoti, ad una certa distanza, gli uni dalli altri, per lo spazio di due o tre leghe collocati, e formavano una specie di catena di corrispondenza. Il primo che vedeva l'inimico, sparava il suo schioppo, e gli altri a misura, che quello a loro si approssimava, facevano progressivamente lo stesso, in modo che, con difficoltà potevano essere sorpresi, poichè pe' tiri venivano da lungi, avvertiti, per qual direzione il nemico si muovesse. E per indicare, quello esser più forte della banda o bande riunite, sparavano due tiri consecutivi. Sebbene conoscessero i Francesi, essere quello un segnale convenuto, non potevano però impedirlo, perchè udivano in vero, uno o due tiri partire dalle sommità circondanti, ma non potevano dal loro cammino deviare, od isolare soldati per inseguirli. Soprattutto, facilissima cosa era ad uno o due contadini nascosti nei boschi, o nei rami d'un alto e fronzuto albero, schivar le ricerche del nemico, massimamente, che, fatti uno o due tiri, più non dovevano continuare. Gli altri contadini appostati in seguito, avevano cura, prima di sparare, d'attendere l'avvicinamento della colonna; primieramente per [2-74] dare il segnale giusto della sua forza, poichè quella avrebbe potuto in un punto essere maggiore, ed in un altro, partendosi in due o tre frazioni destinate a differenti propositi, divenir minore; in secondo luogo per dare agli amici, segno della sua direzione, e del grado di rapidità della sua marcia; in terzo luogo, per non indicare al nemico, con un fuoco immediatamente successivo in quella data linea, il luogo dove trovavasi la banda, impostata.

In breve poi tutto si riduce a che, un buon condottiero, deve tanto i suoi movimenti, quanto le sue posizioni, le sue marcie e fino le sue idee al nemico nascondere, nel mentre che per lo contrario, deve tutto ciò sapere di lui. In questo modo potrà sorprendere l'avversario, e non correrà il rischio di essere da quello, sorpreso.

Fra la sorpresa e l'imboscata, non havvi altra differenza se non che, nella prima, si marcia sù del nemico, e nella seconda si aspetta in un luogo coperto, e da lui non preveduto, al varco. Il generale Milans, nell'anno 1822, alla testa di una piccola colonna composta la maggior parte di proscritti italiani, ch'erano in Ispagna rifuggiti, per conclusione della contro marcia, di che nel capitolo secondo di questa parte già abbiam [2-75] tenuto discorso, recossi alla sorpresa di Pineda. Giunto un'ora prima dell'alba, nelle vicinanze di quel paese, collocò il battaglione d'Africa sui contrafforti dei monti, che quella terra circondano, onde osservare gli aditi, e la fuga del nemico, per quella parte, impedire. La cavalleria, composta de' lancieri italiani, e d'alcuni tenui drappelli spagnuoli, fù nella pianura delle maremme, schierata. Eransi in quella notte, sette cento apostolici di alloggiamento in Pineda, in grande gozzoviglia e sollazzevole ballo (dato loro dagli abitanti del paese coi quali conveniano nella opinione) con gran tripudio, intrattenuti. Aveane avuto Milans, dai suoi informatori, sollecito avvertimento. Era, sul suo finire, il festino, e già nel santuario, i bacchettoni apostolici alla messa congregavansi, quando Milans credè opportuno di dare alla sanguinosa divisata operazione, energicamente principio. Formati in colonne d'attacco, preceduti dai corridori, entrarono gl'Italiani a bajonetta spianata, e dopo aver tutte l'esterne, ed interne guardie dell'ingresso in un baleno trucidate, giungono al centro del paese. Battono i tamburi, squillano le trombe, invitano alla carica, e stanchi gli apostolici dal ballo, dallo stravizzo della passata notte, scoraggiati, attoniti, ed in chiesa fra loro confusi, chi da [2-76] una parte, chi dall'altra, corrono sonnacchiosi a munirsi delle loro armi. Oppone la guardia principale della piazza, ostinata resistenza agli aggressori, e dà campo ai commilitoni di rinvenir le loro armi. Malgrado ciò, assalita alla bajonetta gagliardamente, soggiace al vigore dell'attacco, e tutta perisce. Affoltansi gli apostolici, nell'uscire armati dalle loro case, nè sanno dove far testa, alcun luogo riparato per riunirsi non trovano; le colonne, ed i corridori colla bajonetta, e colla sciabola, gliene tolgon l'acconcio. Per ultimo dai liberali, ferocemente inseguiti, si riparano tremanti nelle botteghe, e nelle case, e da quelle cominciano, per tutte le parti a sparare. In ogni strada, in piazza, nei viottoli, nei cortili, non odesi, che il fragore dei tiri di continuo, in ogni dove, spesseggianti. Arde il paese, passeggia la morte in una fornace; snicchiano dai loro nascondigli ad uno, ad uno, gli sbandati, sul limitare delle porte, nelle camere, nei balconi, etc., quanti ne incontrano sul posto, trafiggono. Senza più potersi difendere, spaventati all'idea dell'orrenda fine, che lor si para davanti, trasportati dalla disperazione, pervengono i superstiti a riunirsi in un angolo del cimiterio, da dove quell'affoltata torma in iscompiglio, agli aditi dei monti s'addirizza, [2-77] perchè sguarniti di truppe li suppone, e spera potersi a salvamento recare. Ma si trova il battaglione d'Africa in fronte, che con un ben diretto fuoco per drappelli, ne spiana la metà del loro numero, a terra, e mette l'altra in disordinata fuga. Di là corrono, anzi volano i rimanenti apostolici alla sponda del mare, nella speranza di rinvenire sulle onde la loro salvezza, ma colà in vece, inevitabile morte li aspetta. La cavalleria ch'era sull'arenosa piaggia, schierata, spinge al loro appressarsi, una carica a fondo, e con una spaventevole carnificina, mette il colmo al generale sbaraglio. Fra i pochi cui, per momentanea ventura, è dato di destramente i micidiali colpi delle lancie, schivare, neppure a tanto macello bastevoli, alcuni gettansi a mare, ed altri di piccoli battelli abbandonati s'impossessano, sperando la prossima morte, che li minaccia, isfuggire od almeno allontanare. Uno stuolo di valorosi lancieri italiani, scende in un batter d'occhio da cavallo, corre di botto alla ripa, entra in alcuni dimenticati palischermi, e a destra, a sinistra, in fronte, ed alle spalle, colle lancie da ogni parte vibrando ripetute puntate, sprofonda gl'imbarcati fuggiaschi nel mare. Tutti quanti di salvarsi a nuoto presumevano, ma sono dall'inesorabile cuspide trafitti. [2-78] La terra è seminata de' cadaveri. Il mare che prima imbiancava per ripercossi marosi, ora tutto di sangue rosseggia; nessuno dei combattenti apostolici ha schivato la morte; così la sorpresa fù coronata dal più brillante successo.

L'imperterrito, ed avveduto Milans, presente in ogni parte, diresse, da esperto condottiero, una sorpresa di tanto momento, che il possesso del castello di Hostalrich assicurò, pell'introduzione del convoglio di vettovaglie, e munizioni, di che sommo difetto pativa. Stava il generale congratulandosi con gl'Italiani sullo strenuo loro comportamento, ed esatta esecuzione de' suoi ordini, quando venne avvertito, che una decina d'apostolici, fra i quali alcuni capi, eransi nel campanile della chiesa rifuggiti. Vittorioso Milans, al cui cuore umano di proseguire lo spargimento di sangue, forte incresceva, immediatamente sul piazzale della chiesa, e sotto al campanile si trasferisce, ove colla promessa di salvar loro la vita, esorta quei miserabili ad arrendersi. In vece di rispondere a tali generose proposte, sparano coloro una schioppettata per ammazzarlo, ma per buona ventura sbagliano il colpo ed in vece sua, un Italiano, che al suo fianco gli serviva d'uffiziale d'ordinanza, cade morto sul posto. Milans da così ostinata temerità, e dall'attentato contro [2-79] sua vita, quand'egli con parole di pace lor prometteva la salvezza, giustamente irritato, dà ordine, che quegli ostinati vengano colla forza ad evacuare il campanile, costretti. Alto, e chiuso com'era, sarebbe stato un attacco alla bajonetta, impossibile. Si decise dunque il generale, a fargli appiccare il fuoco, e furono in un istante, tutt'i banchi, confessionali, ed oggetti combustibili, in mezzo alla chiesa ammassati. Si chiusero le porte, e si accese la bica; il subitaneo crepitar delle volte dell'edifizio non tardò, l'effetto delle fiamme a palesare. Aperte le mura, e distrutte le finestre, bentosto le stridenti vampe annunziarono l'incendio generale. Ei fece arder le porte, che dal campanile davano adito al santuario, le stesse corde delle campane s'abbruciarono, il fumo era densissimo, nero, ed insopportabile. Sul punto di soffocare, non hanno più i rifuggiti alcuna speranza di scampo; allora si decidono ad implorare la pietà dei vincitori, ma troppo tardi. Già il momento della clemenza è trascorso; deve una giusta vendetta soddisfarsi; merita la morte dell'italiano, d'essere con memorabil castigo caramente pagata. Col mezzo di altre corde, e scale si facilita la loro uscita, ma per essere tutti al piede della torre archibugiati: due colonelli, quattro frati, e due preti erano costoro, [2-80] che espiarono, morendo, i numerosi misfatti da loro, contro la patria, commessi.

Qual capo d'opera delle sorprese, puossi questa giustamente annoverare, nella quale di sette od ottocento apostolici ad un solo, di recarsi a salvamento, non riuscì. Tosto che una solamente di tali operazioni, ad un condottiero italiano riesca, si potranno dir debellate le fetenti macchine tedesche le quali null'altro tanto temono, quanto le sorprese. Colto dal sagace condottiero, il destro d'impadronirsi, e trucidare i loro uffiziali, non troverà resistenza nei soldati, e potrà una compiuta vittoria facilmente riportare. Ci rimarrebbe a dire, come una banda si debba da una sorpresa difendere, ma siccome nel capitolo delle fortezze, come in quello della difesa di un punto circondato da nemici, di ciò a lungo terrem ragionamento, non aggiungeremo altri precetti, e ci contenteremo di avvertire, che il più delle volte succede, che chi va per sorprendere, si trova egli stesso dall'avversario, sorpreso, sopra tutto se l'assalito è vigilante, se scorge gli stratagemmi dell'aggressore, e mette convenevol riparo. Molte volte pure succede, che cadendo con impeto deciso, ed ardito addosso al nemico lo confonde, istupidisce, profitta del momento, [2-81] e si salva. Di ciò in appoggio, può la condotta di Mina in simili circostanze, valevolmente servirci. Avvenne, che un giorno, essendosi Mina alquanto dalla sua banda separato, con soli diciesette volontarj (locchè gli succedeva soventi, secondo il sistema di sparpagliarla, quando troppo strettamente si vedeva inseguito, o circondato), andò ad alloggiare in Sangaren, nella casa di un abitante, dove, quando era di passaggio per quel paese, abitualmente si posava. Avutane contezza i Francesi, ch'erano in Huesca di guarnigione, ivi un distaccamento di dragoni, per sorprenderlo, immediatamente spedirono. Giunse quello al far del giorno, quando Mina, disposto a partire, con una tazza di cioccolato rifocillavasi. Avvertito dell'arrivo dei nemici, egli senz'armi, come si trova, corre alla porta del cortile, con l'idea di chiuderla; ma non appena vi giunge, che da due dragoni arrivati a briglia sciolta sul limitare della medesima, già la trova occupata. Questi alla sua volontà con vigore si oppongono; ed in tal frangente afferra egli una grossa stanga, che per assicurare la porta nella notte, serviva, la maneggia con destrezza, e tanto sulla testa dei due dragoni, come sù quella dei cavalli, vibra colpi terribili. Così perviene a [2-82] talmente confonderli, che sono alla fine, di abbandonare la porta costretti, da lui immediatamente chiusa, ed assicurata. Addossate quindi le armi, monta a cavallo, solo da quattro de' suoi volontarj seguito, perchè gli altri sparsi nelle case del paese, erano gli uni stati presi dal nemico, e gli altri, ciascuno al proprio ingegno ricorrendo, eransi colla fuga salvati. Mina comanda all'esitante padrone di aprir tosto la porta, lancia di carriera il cavallo, cozza con violenza nel distaccamento nemico, ruota da ogni parte la spada, ferisce l'uno, rovescia l'altro, trafigge molti, e finalmente si reca illeso nelle vicinanze di Egea de los caballeros, vi trova riunita la sua banda, ed alla testa di quella, nello stesso momento riparte.

Nell'indomani, e nei successivi giorni, fece Mina, il giro di tutti quei paesi, per dov'erano, i Francesi, passati, onde portarsi a sorprenderlo, i di cui abitanti per malizia, od inavvertenza degli alcaldi, e parrochi, non l'aveano di tal movimento, a tempo, avvertito. Subitocchè in quei paesi del transito nemico, giungeva, sul piazzale della chiesa, a sè chiamava l'alcalde, e parroco delinquenti, e dopo d'aver loro fortemente la mancanza verso la patria, rimproverata, facevagli [2-83] ambedue al campanile della parrocchia, per la gola, impiccare. Avvenne, che uno fra tanti di questi parrochi, si trovò essere stretto parente suo, ma il forte Mina come buon condottiero, che l'amor della patria a qualunque altro sentimento anteponeva, e vedeva essere la sicurezza, e salvazione della sua banda, e persona non meno, che la buona riescita della contesa, posta nel rigore verso di quei due impiegati, al supplizio del campanile, parimenti mandollo.

Gli agguati, come di sopra abbiam, detto, non sono che sorprese di piede fermo, e difficilmente di queste, senza che all'agguato la mente si rivolga, tener puossi ragionamento. Ma siccome in un altro capitolo, già ne abbiamo a lungo trattato, ci contenteremo di esporre un solo esempio, pure da quella celebre guerra dell'independenza, da noi estratto.

Il condottiero Cuesta nella Estramadura, come quello, che conosceva benissimo il terreno di tutt'i monti della provincia, e che di buoni informatori si serviva, seppe, che una divisione di cavalleria, ed altra di fanteria francesi, marciavano da Taraicejo in direzione del Puente dell'Arzobispo. Agguatatosi nei monti di Guadalupe, spiò la favorevole occasione, e come vidde, che il generale Maricy comandante [2-84] di quel corpo d'esercito, marciava co' suoi ajutanti di campo, nell'intervallo delle due divisioni le quali per l'asprezza, ed angustia del cammino si trovavano ad una certa distanza l'una dall'altra; quatto, quatto, nascosto in uno stretto, dietro una siepe lo stette ad aspettare; lasciò sfilare tutta la divisione di cavalleria davanti a lui senza fiatare, nè lasciarsi vedere, e tosto, scoperto il generale, si slanciò ferocemente sopra di lui, ed in un co' suoi ajutanti che lo vollero difendere, lo mise a pezzi, e soddisfatto, nascondendosi di bel nuovo, la disperazione dei comandanti dei corpi d'ambe le divisioni, che non potevano vendicare la morte del loro comandante, Cuesta rimase, con sommo giubilo, ad osservare.

Sono la sorpresa, l'agguato, e lo stratagemma, le più ordinarie operazioni in questa guerra, da praticarsi. Va per lo più quest'ultimo, sempre unito alla sorpresa. E lunga, difficil cosa sarebbe il riandare i possibili stratagemmi, che dal principio della guerra nel mondo, infino ad oggi, sono stati messi da' generali, e condottieri, con profitto, in uso. Possonsi da Pollieno, e Frontino utilissimi ammaestramenti, a quest'oggetto, ricavare, epperciò non esporremo il modo di far credere al nemico di [2-85] aver maggiore forza di quella, che si abbia, facendo suonare le trombe molte, e separate, dove non v'è truppa; di accendere fuochi nella notte, dove precisamente non si serena, e tener la banda all'oscuro; di far montare gli abitanti a cavallo, sebbene vecchi, od infermi, per far credere da lontano al nemico, che si è forte in cavalleria etc., e molte altre dimostrazioni di tal fatta che a quasi tutti d'altronde sono già note, non essendovi scrittor militare, che non le abbia, trattando dei stratagemmi, ripetute. Consiglieremo non dimeno i condottieri a servirsene, perchè quantunque già conosciuti, non mancano quasi mai di produrre un buon effetto mettendole all'improvviso, ed all'insaputa del nemico, in pratica.

Aveva Mina ricevuto un soccorso di munizioni dalla giunta d'Aragona, e pensò di subitamente servirsene, al qual effetto marciò alle porte di Estella in quel tempo dalle truppe francesi presidiata. Prima di giungere alla vista del paese, la maggior parte della sua banda, dietro alle siepi, e boccone, per terra, nei fossi, e nei solchi dei campi ei cautamente nascose. Quindi a portata della piazza, per allettare i nemici ad attaccarlo, con pochi soldati presentossi. Ed in fatti, cent'uomini della guarnigione pieni di jattanza, e con animo di tagliare a pezzi quei [2-86] pochi Spagnuoli, uscirono al loro incontro. S'appiccò incontanente la zuffa, e quando già erano alle mani, fece Mina un segnale; accorse il rimanente della banda di volo, ed in un istante fù quel distaccamento, distrutto. Nuovi Francesi uscirono dal paese per ajutare i compagni, ma troppo tardi: già erano i primi, annichilati, ed i secondi non ebbero miglior sorte, dimodocchè, sotto le stesse mura della piazza senza che un solo abbia potuto fuggire, tutti inesorabilmente perirono.

Don Ramon de Ulzurrum y Eraso, comandante di uno dei battaglioni di Mina, stava in Echarre-Vranaz all'uopo di riunirlo, ed ordinarlo, e non aveva ancora, che un centinajo di volontarj. Mandarono i Francesi un distaccamento di quattro cento, e cinquanta uomini, affinchè, prima di esser compiutamente formato, lo mandassero in rovina. Uscì Ulzurrum dal villaggio, e quella mano di uomini, nascondendone il numero, con tanto avveduto consiglio dispose, e con tanto vantaggio seppe il nemico molestare, che i Francesi non osarono entrare nel paese, e con la perdita del terzo della loro forza, fuggirono.

Per mezzo dei loro giusti calcoli, e dello stratagemma di far l'uno, minore, e l'altro, maggiore forza comparire, riportarono i due [2-87] citati condottieri sui Francesi compiuta vittoria. Ora per l'ordine regolare del nostro trattato, passeremo a parlare delle scaramuccie, ossia badalucchi.

Una zuffa parziale di piccoli corpi, che s'incontrano, costituisce una scaramuccia, per lo più di poca entità nelle guerre regolari, ma da mettersi nella guerra d'insurrezione, continuamente in uso. Mina nel tempo della guerra dell'independenza, scriveva, che risme di carta non gli sarebbero bastate, per notare tutte le scaramuccie in ch'egli, e la sua banda furono le tante volte impegnati, perchè ogni giorno, ed anche due, o tre volte al giorno, di scaramucciare gli succedeva. Per mezzo della scaramuccia, si molesta, si spossa veramente il nemico, e si perviene a tanto infastidirlo, che perde alla fine il coraggio, e la volontà di far la guerra. D'uopo è dunque al condottiero di essere perseverante non men che sollecito nella ricerca delle occasioni, di frequentemente col nemico badaluccare. La perseveranza, dice il generale san Ciro, è il principio, e la causa di tutt'i buoni successi, la sola guarentigia della loro durata, la virtù la più rara, la più necessaria alla guerra la prima istruzione, ed il primo esempio che un capo debba alle truppe, cui comanda. [2-88] Perseverare dunque nel molestare il nemico, a frequenti scaramuccie, obbligandolo, dovrà essere la principale cura di un condottiero. Dall'ostinazione proverrà la riuscita della nostra lotta; sconfitti, e dispersi quest'oggi, saremo dimani di bel nuovo riuniti per iscaramucciare. Dice Polibio al libro nono che: «L'ostinazione spossa il nemico e prepara il buon successo.» Da quella sola, potrà l'Italia la sua rigenerazione sperare. Quel carattere ostinato, che Mina dimostrò nella guerra dell'independenza, quello si fù che gli diede finalmente la vittoria. Nessun condottiero si trovava in una posizione più pericolosa della sua; erano tutte le fortezze in Navarra da truppe Francesi guarnite, che pure tutto il paese, che le circondava, possedevano. Non vi era un punto dal quale Mina potesse ricevere soccorso, o dove gli fosse di ritirarsi, possibile, le sole sue fortezze erano i monti, ed altre risorse non aveva, che quelle dal suo ingegno, dalla sua pertinace volontà, dal coraggio de' suoi compagni, e dall'amore de' suoi compatrioti, fornite. A forza di scaramuccie, sorprese, ed agguati, impedì egli per lungo tempo a Suchet di portarsi contro di Tarragona e Valenza, sempre gli toglieva i convogli, e le sue comunicazioni interrompeva.

[2-89] È massima di guerra, dice Tucidide al libro quinto, che colui il quale attacca, il primo, rovina e spaventa il nemico. Era questa, messa in esecuzione dai principali condottieri spagnuoli, perchè si ritiravano, o dividevano la banda, se non si conoscevano in forza bastevole per far resistenza. Ma se poi sapevano esservi grande probabilità di riescita, allora non aspettavano di essere attaccati, ma primi, assalivano, ed era passato in proverbio che «quien pega primero pega dos veces

Trovavasi Mina in Mondigorria con tre de' suoi battaglioni e la cavalleria, quando il generale Caffarelli, con due divisioni, una per puente de la Reyna, e l'altra per la valle d'Echaurri, marciava contro di lui. Il generale Reille, con una terza si avanzava dal Carrascal; una quarta veniva da Logrogno sopra d'Estella, tutta la forza nemica mossa contro di lui, sommava ad otto mila fanti, e due mila cavalli. Avvertito dei loro movimenti, non volle Mina con ragione aspettare di essere attaccato, ma quantunque fosse di molto inferiore in forza, pur si decise ad attaccare. In fatti, postosi in agguato, vicino al Carrascal, onde assalire il generale Reille, lo attaccò al varco, lo mise in piena rotta, ed a ritirarsi sopra Tafalla, lo astrinse. Ma quando inseguendolo, già [2-90] era giunto fino al villaggio di Barasoain, tosto s'avvide che Caffarelli retroceduto da Puente, era pervenuto a situarsi tra il battaglione comandato da lui, e gli altri due, di maniera che, se Reille si fermava nella sua fuga, e riuniva una parte della sua truppa, la colonna spagnuola si trovava in mezzo a due fuochi, locchè di fatti ebbe luogo. Quattro mila fanti, e settecento cavalli, che avevano un grande vantaggio sì pel numero, come per la posizione, il prode Mina disperatamente attaccarono, ma per opra di quel coraggio proprio a chi difende la patria con un indicibile vigore, con la sola perdita di ventitre morti, quel condottiero, respingendoli, liberossi. Un distaccamento di usseri pervenne, in questo frangente, a circondare la sua persona, ed uno di loro gli vibrò un colpo, che non potè, se non, abbassandosi di lungo sul cavallo, evitare, il quale ad un tratto impennandosi, con uno slancio il fe' balzare di sella. Rimessosi subitamente in piedi con tutta possa la diede a gambe. Per buona fortuna, il cavallo seguì il padrone, che in sella prestamente risaltò, e solo, inoltrandosi nel più folto de' boschi, dagli usseri, che lo inseguirono fino alla notte, si salvò, i quali poi disperando di più rintracciarlo, indietro se ne ritornarono. Così il valente Mina, [2-91] dopo d'avere per tre giorni, senza compagni, errato, di bel nuovo a Cerna ritrovò la smarrita banda. Ripeteremo dunque, che debbono essere le scaramuccie, in questa guerra frequentissime, che al condottiero conviene essere il primo a tentare, ed in quel modo fino alla fine, perseverare.

CAPITOLO VI. DIFESA DI UN PUNTO CIRCONDATO DA NEMICI.

Non rade volte accaderà, nella guerra d'insurrezione per bande, ai condottieri di trovarsi in qualche punto da ogni parte circondato da' nemici. In fatti, siccome nel numero si trovan costoro di molto maggiore alla forza della banda, ed una data porzione del territorio irradiano, per quanto astuto e previdente possa essere il comandante di essa, non gli sarà sempre dato di poter perfettamente conoscere, in tutto il tempo della guerra, quanti piccoli movimenti, quanti giri e contro giri, ognuna di quelle colonne esegua, o sia per eseguire. Egli è certamente di chi ha il [2-92] carico di condurre una banda, principal dovere di averne sempre le più esatte informazioni, ma ben sovente accade, che sono gl'indispensabili mezzi per procurarsene, affatto mancanti. Ed ecco allora, senza colpa di chi dirige, mal sicura la posizione della banda, circondata da ogni parte, e nella situazione di dovere, o con molta avvedutezza, guizzar di mano al nemico, o con un eroico ardimento cimentarsi, ed a traverso le contrarie file, aprirsi, colla forza, un passaggio, o con stoica, ed ammirabile fermezza, ogni sua ultima speranza nel acciaro riponendo, sul luogo stesso assalito, strage orribile degli aggressori facendo, eroicamente morire, col vendere a sanguinolento prezzo quella vita del tutto alla santa causa, consagrata, e che nè ad un condottiero, nè ad un volontario, sarà mai permesso, con ignominiose operazioni, di conservare. Non intendiamo però di esporre ciò che debba adoprarsi, un punto da' nemici occupato, per circondare, potendosi ciò abbastanza dalle molte operazioni, di che già ragionato abbiamo, con chiarezza e minutamente desumere.

Se improvvisamente, da ogni parte, una banda troverassi inseguita, senza speranza di potersi od in pianura, o nei monti a maggior forza incalzante, sottrarre; se si vedrà [2-93] di troppo vicina alle schiere nemiche, onde, sia per individuo, sia per truppa, poter cogliere il destro di sbandare la sua forza ed in quel modo, dalla fronte dell'assalitore sparire; null'altro, per opporre, una convenevole resistenza, oppur salvarsi, le rimarrà, se non la sola risorsa di prendere, in una casa isolata, in qualche antica chiesa, od abbandonato castello, o ben situato villaggio, o sopra torreggiante bicocca nei monti, opportuno ricovero, e quindi o dalle mani del nemico fuggire, o quello con furia respingere, oppure se inevitabile piena le si volge addosso, in un orrendo impasto di spoglie, di membra, e di amico e nemico sangue, l'estremo patrio sospiro stoicamente, fuor dal petto mandare!

Non parleremo di ciò che debba eseguirsi per mettere una casa, un castello in istato di difesa, non indicheremo le finestre da chiudersi, quelle da tenersi aperte, le porte da rinforzarsi con travi, le feritoie, che tutt'all'intorno, e ad ogni piano conviene che sieno praticate, perchè tali oggetti alla fortificazione passeggiera regolare, appartengono. L'uso di tali precauzioni è pure, nella guerra per bande, necessario, ma per le circostanze a che vanno soggette, tutte ben di rado essere potranno adoperate. Nulla dimeno converrà al condottiero [2-94] di acquistare sù di questo, particolare, sufficiente istruzione onde potersene, in tutto od in parte, all'occasione valere. Dovranno, tosto che siasi preso possesso della casa, e sia posta in stato di difesa, collocarsi al di fuori, le necessarie guardie, sentinelle, vegghie, velette, scolte tutt'all'intorno del fosso (se di farlo s'ebbe l'agio) non meno che alla porta della casa, sul tetto, e ad ogni piano di essa. Gli uffiziali saranno ad ogni appartamento ripartiti, ed uno di loro sarà destinato al comando in ciascuno di quelli, la difesa del quale, colla sua vita malleverà. Correndo l'appartamento terreno, maggior pericolo, sarà qual posto d'onore ed al più intelligente, confidato. Saranno i volontarj in egual porzione, ai varj piani, distribuiti. Una riserva sarà sempre pronta a rinforzare i posti attaccati; presteranno i diversi comandanti, per quanto fia loro possibile, soccorso ai piani assaliti, senza però, quello a loro confidato, mettere in pericolo, nè di troppo sguarnire. Due uomini, da ogni finestra impediranno al nemico di avvicinarsi, e colle armi di getto con la bajonetta, spontoni, lancie, ed altre armi bianche, le scale che il nemico avrà per salire ai piani superiori collocate, faranno ributtare. Ciascuna feritoia del piano terreno, sarà sempre [2-95] dalla canna dello schioppo d'uno de' volontarj, riempita, che saranno rilevati a due per volta onde, col loro continuo fuoco, tenere il nemico a convenevol distanza, e per tal modo d'impossessarsi di quel buco, e di sparare dentro le sale, impedirgli. Tutte le feritoie non occupate, dovransi accuratamente turare. Tosto che giungerà il nemico, vicino alla casa, dalle finestre superiori, dal tetto, dai merli, se ve ne sono, da tutti gli appartamenti dominanti, se gli farà cadere un diluvio di cenere infuocata, calce viva bagnata al momento, acqua bollente, sassi, travi con punte di chiodi sporgenti, canestri pieni di pietre etc., violentemente addosso. E se malgrado tutto ciò, e la resistenza fatta alle porte, alle barriere etc., il nemico entrerà nella casa, i volontarj combatteranno nelle camere al piano terreno, e quando non potranno più resistere, unitamente alla riserva, retrocederanno alla porta di un'altra, ove, alla forza che in quella trovano, uniti, al nemico il varco disputeranno, mentre quelli del piano superiore, per moltissimi buchi, nel pavimento formati, scaricheranno sul capo dei nemici, continuo fuoco, faranno piovere per quei fori, piombo fuso, faranno cadere, copia soprabbondevole d'acqua bollente, di cenere infuocata, di carboni accesi, e nello stesso tempo, dalle feritoie [2-96] delle adiacenti camere, pei lati, un ben nutrito fuoco incrocichiando, recheranlo in breve tempo all'esterminio. Ma se malgrado tali sforzi, il nemico rimanesse superiore, la truppa, per mezzo di scale a mano, che avrà nell'ultima camera del piano attaccato, poste a quel di sopra, vi si raccoglierà ed una volta, saliti tutt'i combattenti, tireransi sopra, le scale, onde non se ne possa l'avversario servire, non dovendosi dubitare che prima dell'ingresso dell'assalitore, si sarà posto il pensiero a rendere, rovinandole, le scale della casa, impraticabili. La difesa del presidio situato al primo piano, assumerà, in quel momento, un aspetto ancor più terribile. Piombo, olio, acqua bollente, fuoco, pietre, ferro, razzi etc., che come cataratte infernali, da ogni parte riempiranno la camera; dai boccaporti, per dove si saranno ritirate le scale, grossi sassi, travi, di continuo si scaglieranno e con un'attività raddoppiata, si confonderà l'aggressore, quindi si sterminerà. Con accorte non meno, che sollecite disposizioni, s'impedirà che materie combustibili, per bruciare la casa, siano dal nemico, all'intorno ammassate. Debbono essere i tiri all'uomo giustamente diretti, e non a caso sparati. Se la casa si trova convenevolmente costruita, se gli appartamenti secondano [2-97] le operazioni, si effettueranno dalle camere attaccate, facendo un giro in tondo, passando per le altre camere, onde giungere ad assalire, nella casa stessa, il nemico alle spalle. Potrassi co' modi accennati, la distruzione o la fuga del nemico, facilmente ottenere, purchè siano con esattezza, ed a sangue freddo, praticati. Nel funesto caso poi, che si debba inevitabilmente soggiacere, dovrà la banda morire ma non mai arrendersi. Esempio memorabile di patrio valore, viene dalla storia della rivoluzione di Corsica fornito, nella difesa fatta dal capitano Abatucci, cugino del generale de Paoli, al forte di Vivario. Assalito dai Francesi, quel prode, alla testa di soli trecent'uomini, qual nuovo Leonida alle Termopile, porse all'universo un maraviglioso insegnamento del modo, col quale debbasi la patria difendere. Fecero quei valorosi, un orribile macello dei Francesi, finchè sopraffatti dal numero, fino all'ultimo respiro, ferocemente combattendo, Abatucci e tutt'i suoi ammirabili compagni lasciaronsi, anzicchè cedere, per la loro patria, trucidare. Il caso di potersi arditamente scagliare sul nemico, ed in mezzo alle sue file, aprirsi colle armi, un varco e giungere a salvamento, potrà pure, alcune volte, presentarsi. Ogniqualvolta ne [2-98] scorga, un condottiero, l'opportunità, il dovere gl'impone di sempre eleggere questo partito, prima di fare della sua vita, un generoso sagrifizio alla patria. Imperciocchè, salvandosi, colle armi alla mano, certo egli è, di poterle essere, per l'avvenire, di maggiore vantaggio. Come ciò possa eseguirsi, viene dal cavaliere Follard, nelle osservazioni sulla storia di Polibio, al tomo quinto, pagina 151, colle seguenti parole, chiaramente spiegato: «Ciò che havvi di più raro alla guerra, si è la difesa di una cosa da ogni parte, assalita. Carlo XII fù nella sua, vicino a Bender, nel 1713, da un gran corpo di Tartari, con tutto l'ardore, e la furia immaginabili attaccato; tutto fino il cannone, fù impiegato per isloggiarlo, ma la difese quel principe con un coraggio intrepido. Quando le appiccarono il fuoco, solamente uscì, e al di fuori non meno, che al didentro fù egli, ai nemici terribile in modo che riescì a salvarsi.» Uscendo quel principe di viva forza, e con animo determinato, gli si facilitò il mezzo di aprirsi, passando sui cadaveri, dei Tartari, la via, e lo scampo, mentre tutta la massa, coll'assalitrice truppa sopraffatta da maraviglia, e spaventata, più non osò attaccarlo, e senza molestia, libero di ritirarsi a piacimento, lasciollo. Pochi anni prima di [2-99] quell'avvenimento, nel 1706, il maresciallo di Sassonia, illustre generale, la cui perdita tutt'ora ad ogni militare rincresce, si trovava nella città di Lembourg, aspettando una scorta, onde farsi, fino a Varsavia, città, dove, in quel tempo, risedeva la corte, accompagnare. Siccome egli aveva avuto contezza, che fra i Sassoni, e confederati, era stata una tregua, conchiusa, pensò valersi di quest'intervallo, per intraprendere il suo viaggio, e verso la fine di gennajo, con pochi uffiziali ed alcuni soldati, da quella piazza partì, e come quello, che non sapeva essere stata rotta la tregua, e che i Polacchi della sua partenza informati cercavano d'impossessarsi della sua persona, in un piccolo albergo nel villaggio di Craknitz con intenzione di pernottare, fece tranquillamente sosta; alla qual volta, onde sorprendere in cammino il conte Floming, ch'erasi pure avviato da quella parte, furono dai confederati, ottocento uomini di cavalleria, spediti.

Stava il maresciallo per assidersi a mensa, quando gli venne detto, che un gran numero di soldati a cavallo, era entrato nel villaggio, e pareva, che verso la casa dov'egli si trovava, prendesse la direzione. A tal notizia cominciò egli a dare le necessarie disposizioni per opporre un valevole schermo. Se con sole dieciotto persone [2-100] pensato avesse di difendere tutta la casa, ciò condotto l'avrebbe a troppo, la forza sparpagliare, ed impossibile ne sarebbe divenuta la difesa. Epperciò, il cortile ed il piano terreno abbandonando, alla protezione della parte superiore della casa, solamente appigliossi; pose due o tre soldati per ogni stanza con ordine di traforare il pavimento, in modo che potessero sopra chiunque nelle camere di sotto s'introducesse, dalle innumerevoli buche sparare e coll'intendimento di poter in qualche modo, quelli di dentro la casa, dalla stalla soccorrere, col rimanente della sua forza, in quest'ultimo luogo appiattossi. Non ancora quelle tali disposizioni eran compite, che incominciarono i nemici l'attacco. Le porte del piano terreno furono le prime ad esser atterrate, essendo le stanze tutte basse, i soldati del maresciallo con certezza i loro tiri aggiustavano; e quanti, per entrare affacciavansi, erano immediatamente ammazzati. Supposero i Polacchi quella parte di casa rigurgitante di truppa, e nell'idea che fossero i piani superiori, per essere più facilmente forzati, ad altra parte si volsero, ed al fine di prendere a rovescio, e cadere sulle spalle dei difensori, alle finestre delle camere più alte, diedero la scalata, ed affatto vuote di gente le rinvennero. Mise tale [2-101] disposizione, in grande imbarazzo il maresciallo cui mancava il modo d'impedirla. Ei li lasciò montare, ed in quell'atto, divisando, non esservi altro scampo se non di entrare in quelle camere, con estraordinario ardimento, la spada alla mano, dietro di loro, e con una vigorosa carica, loro correr addosso, confonderli e sbigottirli, locchè spezialmente in un'oscurissima notte, qual erasi quella, mancar non dovea di produrre felicissimi effetti. Ed infatti all'oscuro, venendo dal coraggio, la numerica inferiorità, surrogata, e la notte sempre a credere inducendo che il numero degli assalitori, più grande di quello che in realtà si ritrovi, da sì fatte considerazioni determinato da pochi intrepidi uffiziali, seguito, perseguitò l'inimico. Una palla di moschetto, che lo ferì in una coscia, dall'attacco nol distolse, nella prima stanza, che già trovasi da numerosi nemici occupata, disperatamente si slancia. Mettonsi tutt'i Polacchi nella maggior confusione, corrono alle finestre, ma chiunque da quelle, con isveltezza, tosto non fugge, viene a gambe levate, nella strada precipitato, o cade inesorabilmente al suolo, trafitto. Così dopo pochi minuti un solo inimico vivente più non è possibile in tutta la casa, rinvenire. Tentarono i Polacchi un secondo assalto, che non ebbe un migliore [2-102] successo, e furono di bel nuovo a ritirarsi costretti. Quindi, a tenere la casa fino allo spuntar del giorno in istretto blocco, si determinarono. Guari non tardò il maresciallo a comprendere il loro disegno, e mentre medita sul miglior modo di fuggire, un uffiziale gli si presenta per intimargli la resa, con minaccia di tosto, in caso di rifiuto, la locanda non solo, ma l'intiero villaggio abbruciare. Ordina egli con dignitoso contegno, allo straniero messo, di subitamente ritirarsi, quegli con baldanza rifiuta, il maresciallo ciba la pistola,... la imposta... spara lo coglie al corpo, e cade il parlamentario, sul luogo, ammazzato. Mandano, senza indugio, i Polacchi un frate Domenicano d'una seconda intimazione incaricato, e non appena sta egli per aprir la bocca, che un altro ben aggiustato tiro, esangue al suolo, ad un tratto, lo stende. Riunisce tosto, dopo di ciò, il maresciallo, tutta la sua gente e così prende ad esortarla. Ben voi conoscete, o compagni, che ormai alcuna speranza di aver quartiere, non deve in noi più esistere, sola, per nostra salvezza, la spada rimanci, onde un varco, per mezzo delle file nemiche, alle nostre persone dischiudere. Trovasi la massa delle loro forze a bastevole distanza, profittiamo dell'oscurità, onde i boschi vicini al [2-103] villaggio nel più breve tempo raggiungere. Se nei posti avvanzati dell'inimico ci avverrà d'incontrarci, nel maggior silenzio, tutti a fil di spada gli passeremo. Partiamo dunque! Abbandonarono i difensori, in numero di quattordici, la casa; a poca distanza di là, in una guardia nemica s'imbatterono, ma per loro fortuna, stanchi gli uomini che la componevano dalle fatiche del giorno, e credendosi in perfetta securità, profondamente dormivano. Quatti quatti se ne passarono essi frà gli addormentati guerrieri, e giunsero a salvamento. Chi avrebbe mai supposto, che dieciotto persone, fossero di respingerne ottocento, capaci, e da un violento attacco di notte, in una casa non fortificata, non riparata, in una locanda, perfettamente salvarsi? Ma la freddezza nel disporre, e l'ardimento nell'assalire, furono della riuscita, principali cagioni. Ed è pur anche ben vero, che nulla può mezzi più adatti ad una vigorosa difesa suggerire, quanto la disperazione degli assaliti. Avendo il maresciallo, coll'uccisione dei due parlamentarj polacchi, posto i suoi seguaci nella circostanza di non poter sperare quartiere, li rese gagliardi ad affrontare qualunque pericolo, e disposti a seguirlo dovunque, perchè alla salvezza di colui, che solo [2-104] sapeva dirigerli, e cui la loro propria era collegata, con forte anima, cooperavano. Dovrà pure in quel modo, un condottiero, condursi, se vuole i suoi volontarj, nell'accanimento mantenere. Vogliam dire, ch'ei deve metterli nel caso, che se mai loro avvenga di cadere nelle mani del nemico, corrano gli stessi pericoli, anzi abbiano la certezza di dover tanto, quanto egli soffrirebbe, soffrire.

Quante volte non vi sarà più speranza di poter difendere la casa, chiesa, castello, etc., ed ogni mezzo a quell'uopo sarà stato esaurito, e con valore, la difesa fino all'estremo, prolungata, dovrassi il loco, di notte, dalla banda, quietamente abbandonare. I volontarj dovranno marciare in silenzio, nell'ordine il più serrato che sia possibile, col condottiero alla testa. Si cadrà sulla parte del nemico, che la più debole si consideri e se sarà d'uopo combattere, si dovrà solamente fare uso delle armi bianche, senza arrestare la marcia in avanti, onde non dar, col fragore dei tiri, nè avviso nè tempo agli altri posti di venirsi con quello attaccato, a congiungere e mettere al varco, impedimenti. Tosto superato il punto difficile, e con avvedutezza passato, all'uopo d'ingannare il nemico, che certamente manderà truppa in traccia dei fuggitivi, si dovranno i [2-105] cammini meno conosciuti, e fuori mano, seguire. Se di essere circondato in un villaggio avverrà e se tempo non mancherà al condottiero di fare una fortificazione passaggiera, egli trarrà dagli abitanti profitto se gli sono favorevoli, e se contrarii, li conterrà. Dei mezzi che saremo nel capitolo delle fortezze, per indicare e rispetto ai Comarchi, in quello del governo provisionale, ei trarrà profitto, e se, per mancanza di tempo, non gli sarà possibile di fortificarsi, li metterà, secondo l'esigenza delle circostanze, più o meno in pratica. Solo del modo da eleggersi, quando una banda, saprà, che una eminente positura nei monti, da un nemico superiore in forza, trovasi circondata, ci rimane a trattare. Sarà cosa facilissima per un condottiero, che dalla sommità può l'arrivo del nemico attentamente guardare, mettere da lontano, la sua forza di quello, in ponderato calcolo, e le sue disposizioni osservandone, potere a tempo, la sua truppa in piccole porzioni dividere, o per individui sbandare, e quindi in un villaggio, bicocca, o punto qualunque lontano, fuori delle operazioni del nemico, spiarne i movimenti. Ben soventi di trovarsi in simili circostanze a Mina successe. Posero i generali francesi, varie volte ogni mezzo in opera, per distruggere quelle bande, [2-106] ed in un bel giorno, la loro forza, (il numero di ventimila uomini eccedente, due mila cinque cento de' quali, erano di cavalleria) da tutte le parti circostanti, all'intorno di lui, riunirono. Certo il condottiero di non poter sostenere l'attacco, al loro appressarsi, ma prima, che interamente la vetta, dov'egli si trovava, circondassero, divise in tanti piccoli corpi staccati, la sua banda, che con marcie, contro marcie e stratagemmi, pervennero il nemico a perfettamente schivare. Per giungere a questo scopo, fù loro inevitabile patir la fame e la nudità, non meno, che ogni genere di fatica e privazioni pazientemente sopportare, da quell'indomabile spirito di perseveranza, sostenuti, che dev'essere la caratteristica virtù dei popoli, che vogliano l'indipendenza e libertà del loro paese conquistare, virtù che gli Spagnuoli, in quella guerra, in un grado eminente possedevano. Così quei corpi, rimasero, per l'intiero corso di cinquantatre giorni, frà di loro separati ed a tante pene soggetti. Il divino Plutarco nella vita di Crasso ci narra, come Spartaco, essendo sul monte Vesuvio dai Romani comandati da Clodio, circondato, liberossi co' suoi compagni. Da sopra la vetta d'un monte, per un solo strettissimo, e difficilissimo sentiero guardato da Clodio, e [2-107] sue truppe, scendere solamente potevasi, tutte le altre parti non essendo che ripidi, ed inaccessibili macigni da numerosi ceppi di viti selvaggie coronati. Tagliarono i gladiatori i più forti sarmenti di quelle, ed i più convenienti ai ruminati loro disegni, e scale saldissime ne fabbricarono di tale lunghezza, che dalla cima della rocca in terra, nel sottostante piano, posavano: pel qual ritrovato, tutti quanti senza pericolo, discesero e dall'imminente pericolo scamparono. Un solo ultimo rimase per distribuire le armi a tutti e quindi, come gli altri, salvossi. Questa difficile operazione fatta, senza essere da' Romani scoperta, mise i gladiatori in grado di poterli, senza opposizione avviluppare, ed in fatti repentinamente cadendo loro addosso, tanto con tale subitaneo, ed inaspettato attacco li spaventarono, che i Romani in un momento sconfitti, ed i gladiatori padroni del campo inimico, immediatamente rimasero.

Se poi il condottiero, altro scampo che quello di una ostinata estrema e terribile difesa, non vede avanti di sè, dovrà, se ne avanza il tempo, con ripari passaggieri fortificare. Se una casa, torre, etc., trovasi in quelle alture, la difenderà, come al principio di questo capitolo abbiam detto. Se alcun fabbricato non saravvi, [2-108] e se la sommità non trovasi dalla natura stessa della rupe, difesa, ma solo di terra, allora, se ne ha l'agio, potrà fare un ridotto, il quale in questa circostanza crediamo conveniente dovere formarsi di forma tonda, e non quadra, nè triangolare, etc., per essere atto ad una eguale quantità di fuochi da ogni parte. E se di fare un ridotto con parapetto, banchetta, fosso e spaldo non avrà il destro, potrà i mezzi tenuti da' Greci, in quest'ultima guerra d'insurrezione, praticare, che come Pecchio assicura non usano di far trinceramenti: «Ma quando vogliono combattere insieme e fortificarsi, costruiscono, egli dice, un tamburo, che così chiamano un campo chiuso da un piccolo parapetto di sassi posticci; dietro questo parapetto fanno contro il nemico, un fuoco, che per lo più è micidiale, perchè d'ordinario colgono bene nel segno. Il generale Caratazzo, nel giorno dicianove aprile, postato col suo corpo in uno di questi tamburi, fece mordere la polvere a più centinaja di Egiziani, che si avvisarono di sforzare la sua posizione.» Nel caso di gran fretta e necessità, crediamo che possa un tal modo di fortificazione leggiera, praticarsi, sebbene sia da noi di cortissimo vantaggio pei difensori, creduto. Molto migliore di questo, noi opiniamo che sia, il tamburo conosciuto [2-109] nella fortificazione passeggiera regolare. Se poi malgrado di tutte le più saggie precauzioni, non verrà fatto a quella banda di sostenersi, o salvarsi senza trattare col nemico, con quell'eroica risoluzione, che dev'essere compartimento di chi alla patria si consagra, non cederà, e saprà, in mezzo alle imprecazioni contro agli oppressori d'Italia, ammazzando, morir da gagliarda.

CAPITOLO VII. OPERAZIONI MARITTIME.

Presenta l'Italia un tanto esteso littorale da Nizza fino a Trieste, che impossibil cosa sarebbe, d'una guerra nazionale d'insurrezion per bande, ragionare, senza intrattenersi della parte marittima che, per dare rapidità ai movimenti delle bande medesime, per sottrarle al pericolo di essere dall'incalzante nemico raggiunte, per facilitare il loro trasporto da una parte ad un'altra della costa, onde prendere il nemico, a rovescio, in fianco, ed alle spalle, [2-110] per salvarle dalla prossima loro distruzione: deve di tanto inestimabile vantaggio, riuscire.

L'Italia, prima distruggitrice della formidabile potenza marittima Cartaginese invincibile, in quel tempo, riputata; ne' secoli scorsi, due republiche per forza marittima potentissime, nel suo seno racchiudeva, Venezia, e Genova, a vicenda, il tridente di Nettuno, nel mare Mediterraneo si disputavano. La prima inimica tremenda della Porta Ottomana, signoreggiava sulla maggior parte della Grecia, e con lo smercio delle mercanzie tratte in gran copia dal levante, per mezzo de' suoi numerosissimi legni naviganti in quelle acque, d'agi e di beni, l'Italia, doviziosissimamente forniva; e delle gloriose bandiere di Venezia e di Genova trovavasi il mare, coperto. Ma quella Italia, che inventò la bussola, che diede al mondo un Colombo, un Amerigo Vespucci, un Sebastiano Caboto, un Usumaro, compagno di Vasco di Gama, un Morosini Peloponnesiaco, un Andrea Doria, e finalmente un Carraccioli con tanti, e tanti altri illustri navigatori ed ammiragli famosi, che nessun marittimo duce di altre nazioni europee pervenne ad uguagliare, non che a vincere; quell'Italia, che malgrado le sue divisioni intestine, e le cattivissime instituzioni che la reggevano, [2-111] in sul mare primeggiava, trovasi oggidì povera oltremodo di marina, priva di riputazione, avvilita, e derisa da tutte quelle nazioni marittime, che prima, la forza del suo naviglio, e la bontà de' suoi marinari, meritamente rispettavano, e deve soffrir la vergogna di vedersi dalla lista delle potenze marittime del tutto eliminata. Noi possiam dire, senza pericolo di errare, che per terra o per mare, essa non pesa un solo atomo nella bilancia d'Europa. Volgendo il pensiero a calcolare la forza del naviglio di tutti gli stati italiani, chiaro si vede che la sua marina di guerra non ascende a più di novanta vele tra grandi, e piccole in buono stato. La marina sarda-genovese, che si può denominar la più florida in questi tempi, e che alquanto va crescendo, non oltrepassa il numero di venti sei vele quadre, tutto compreso: la marina napoletana non giunge a dodici, e la veneziana ne conta solamente cinquanta. Ma lo stato Papale, e Toscano, essendone affatto privi, è manifesto che il naviglio di guerra italiano, minutamente annoverato, non giunge alle novanta vele, che abbiam di sopra indicate. Tutto ciò in tre distinte frazioni è diviso, l'una dall'altra differentemente regolate, e la maggior delle quali, all'immondo servizio [2-112] della turpissim'Austria, capitale, perpetua nemica della gloria, e prosperità italiana, trovasi vergognosamente impiegata. Epperciò tal marina, senza spirito d'emulazione, senza energia, è incapace pel piccolo suo numero, e per la sua posizione, di sostenere quell'onore, con tante sofferenze, e con lo spargimento di tanto sangue dagli avi nostri acquistato. Egli è però da supporsi, che al momento di una insurrezione generale in Italia, queste novanta vele da Italiani comandate, e dirette, non vorrebbero, con somma infamia, e vergogna loro, essere del vizio, dello straniero, della tirannide, obbrobrioso sostegno. Vogliamo noi credere, che tutt'i comandanti, ed uomini di mare, abbraccierebbero il partito del loro paese, e quello accanitamente difenderebbero, vantaggio di gran lunga maggiore potendone sì al publico che al privato, ridondare. La marina militare italiana, inalberando la bandiera dell'unione, independenza, e libertà della patria, non rimarrebbero altri nemici da combattere, imperciocchè, sendo l'austriaca marina d'Italiani composta, e seguendo questi la via dal dovere loro indicata, si troverebbe quella potenza affatto priva di naviglio, e non sarebbe più atta ad infestare le nostre coste: anzi quelle novanta vele ci servirebbero a mantenere [2-113] le comunicazioni fra un punto e l'altro del littorale, al trasporto di vettovaglie, armi, e munizioni dall'estero nei nostri porti: o nelle baie, golfi, cale, seni, verrebbero onde il popolo combattente, di quanto gli bisogna, prontamente provvedere, ed altresì per caricare bande di volontarj, ed in quei punti rapidamente trasportarle, dove il nemico, trovandosi assai più debole, si possa facilmente schiacciare: quindi le bande tornando a navigare di bel nuovo, nel luogo, da dove partirono, compariranno, dove forse il nemico più non le aspetta: così, colla velocità dei movimenti, favorita dal trasporto marittimo, la loro forza in mille modi, e differenti apparenze, troverassi moltiplicata, e finalmente nella loro fuga, qualora inseguite dal nemico, saran protette e salvate. Grande addunque sarebbe il vantaggio che la marina militare potrebbe in questo modo nella guerra d'insurrezione, al suo paese arrecare, e non v'ha dubbio, che sia quella disposta, al primo grido d'unione, e libertà d'Italia, ad accorrere sotto agli stendardi di quella patria, che ha d'uopo del maggior numero de' suoi figli, onde spezzare il giogo straniero, ed anche dalla tirannia domestica liberarsi. Ma nello stesso modo, che tutto a credere conduce, essere gli uomini della marina di Sardegna, Napoli, [2-114] Venezia, schivi dal coprirsi dell'infamia, e del vituperio del mondo, e che anzi a difendere, e sostenere la causa della loro patria, con entusiasmo, ed ardimento, imprenderanno; tutta volta la prudenza, quella madre dei felici risultamenti, vuole, che la questione, da ogni lato si esamini, e che ad una supposizione contraria si giunga che al nostro cuore pesa oltre modo, e di che il minimo indizio non abbiamo, ma che pure noi dobbiamo per un momento ideare, onde non resti il nostro trattato, in così essenzial parte, incompleto. Ammesso dunque che nella guerra d'insurrezione, una marina nemica esista, e che questa delle tre squadre, sarda, napolitana e veneta, o di una parte d'esse o d'alcuna di quelle si componga, non avverrà che il felice risultamento della guerra d'insurrezione abbia, per questa disgrazia, ad essere impedito. Il solo danno consisterebbe in un ritardo nel perfetto compimento della vittoria; perchè que' navigli, anzicchè trasportare le nostre truppe da un punto all'altro, ne trasporterebbero le inimiche, ed anzicchè fornir delle vettovaglie, armi e munizioni dall'estero, cercherebbero d'impedirne l'arrivo, e quelle all'avversario apporterebbero. Malgrado ciò, se il popolo italiano vuole veramente divenir libero; possono ben anche tali [2-115] pericoli, se non per intero eludersi, almeno diminuirsi. Allo scoppio della italica rivoluzione, tutt'i capitani mercantili nizzardi, genovesi, toscani, pontificii, napoletani e veneti, (che secondo i calcoli più recenti, posseggono più di ventimila vele quadre, pell'aumento ch'ebbero dalla spedizione di lord Exmouth contro di Algeri, fin'oggi) seguendo il glorioso esempio dato nel 1821 e 22 dai Greci contro ai Turchi; la bandiera nazionale italiana, festosi, nella vista della gran ventura della patria, inalbereranno. Armeranno, costoro e metteranno i loro legni in istato di combattere, quindi a seconda di quanto più sopra indicammo per le navi di guerra, opereranno. Per via della loro picciolezza, saranno que' legni atti vieppiù a condurre ad effetto le loro imprese, e altresì a deludere la vigilanza dell'inimico. Si serviranno pure i capitani delle loro carte e bandiere, ogni qual volta si troveranno sotto alla portata di quello ed esser più forte di essi loro, giudicheranno. Quante volte non potranno opprimerlo colla forza, avranno all'astuzia ricorso. Il sistema di guerra marittima, non differisce, nelle massime generali, da quello di guerra terrestre e solamente nei particolari, speziali alla varietà dell'elemento, dee cangiarsi. Imperciocchè, [2-116] alcune volte sarà più facile al nemico di soverchiarci, se si trova a sopravento, o con un legno più veliero del nostro. Allora ch'esauriti dal portolano dell'italico legno, saranno tutti quei mezzi statigli dall'astuzia, valore, e temerità suggeriti; anzicchè nelle mani del nemico vilmente cadere, dovrà alla salute della patria immolarsi. Giunto all'estremo istante in che vegga, non esservi altro scampo, che la resa; in vece di ammainare la sagrosanta bandiera della patria e darla preda ai barbari, lor farà egli un estremo e terribile saluto, dando fuoco al deposito delle polveri nella Santa Barbara, e quindi a quella unito, ed al bastimento, in onore della nazione, e beffa dei barbari, salterà il prode Italiano, in mille pezzi per l'aria.

In tutt'i paesi, villaggi e borghi, lungo la costa marittima, si metteranno in mare dei mistici, liuti, schifacci, paranze, bovi, etc., armati di cannone, e con sufficiente quantità di gente; si terranno quelli sempre vicino alla costa, per sorprendere le corrispondenze del nemico; trasportare vettovaglie, etc. Oltracciò, da tutti quei paesi littorali, pure si metteranno in mare lancioni alla foggia delle speronare siciliane, contenenti un centinajo di persone armate, le quali staranno di giorno, e di notte [2-117] permanentemente a bordo, e faranno continui sbarchi sulla costa; tirando a terra il loro lancione, ed in quella inoltrandosi. Per tal modo, manterranno tutt'i paesi, e villaggi, che si estendono lungo la spiaggia, in attività continua, rispetto e devozione al partito della patria. La grande cura, la somma precauzione di chi comanda al lancione, sarà di star ben avveduto, e prendere le sue misure, onde non gli venga la ritirata al mare impedita. Epperciò non dovrà mai tanto dentro terra inoltrarsi, che possa dal nemico essere scorto, e tagliato di fuori. Questi lancioni possono in mare portarsi nel tempo di notte sotto ai bastimenti di alta portata e senza essere veduti, incendiarli o farli saltar all'arrembaggio. L'ardita condotta dei filibustieri nei mari d'America è degna di essere da noi nelle marittime operazioni onninamente imitata; non diciamo nello scopo, perchè quelli al solo soddisfacimento di licenziose brame, ad un ismodato desiderio di far preda, anzicchè alla gloria e felicità della patria, miravano. Ma che con ispirito patrio e veramente italiano intrapresa, debba l'imitazione delle loro gesta grande giovamento alla riuscita della contesa cagionare, non vi può esistere il minor dubbio. Il celebre storico Rayual, parlando di questi famosi guerrieri [2-118] marittimi, dice, che formavano tra loro, molte piccole squadriglie di cinquanta, cento, o cencinquanta uomini, che in una barca più o meno grande, consisteva tutto il loro armamento, e là, notte e giorno, all'ingiurie dell'aria esposti, non rimaneva a quegli straordinarj navigatori, che un picciolissimo spazio per coricarsi. Essi non deliberavano mai per attaccare un legno che si presentasse alla loro vista. Il loro sistema era quello di correre all'arrembaggio: la picciolezza de' legni e l'arte di maneggiarli, salvavagli dal pericolo dell'artiglierie della nave nemica; non presentavano mai al suo fuoco altrocchè la prora coronata dagli scoppettieri che dirigevano tutt'i loro tiri, agli sportelli dei cannoni avversarj, così bene aggiustati, che sgomentavano e rendevano i migliori artiglieri mal atti alla difesa. Quand'essi avevano gettato il grappino, era cosa molto rara, che il più grande bastimento, potesse loro sfuggir di mano. Quando s'incontravano con un vascello spagnuolo, non tralasciavano mai di attaccarlo e seguivano le flotte fino allo sbocco del Bahama, nel qual tragitto, se un bastimento si allontanava dagli altri o restava indietro, era certamente preso, ed i vinti, precipitati nel mare. Pietro Le Grand, nativo di Dieppe, che aveva soltanto una [2-119] lancia armata con quattro cannoni e ventotto uomini; malgrado la disparità delle forze, si decise ad attaccare il vice ammiraglio dei galeoni: e dopo d'aver comandato che fosse il suo proprio legno nell'acqua sprofondato, il sorprese e saltò a bordo con tutti gli uomini. Fù talmente dalla sua temerità l'equipaggio spagnuolo, stupito, che nessuno di fargli la minima resistenza ebbe ardimento, ed egli stesso calando alla camera del capitano, il trovò intento al giuoco, gli mise la pistola alla bocca, e l'astrinse ad arrendersi a discrezione.

Che non avremmo da dire, se da noi si volessero le prodezze di tutti, o della maggior parte di questi decisi combattenti marittimi, raccontare? Le gesta sole del capitano Laurent, Montbars sopranominato lo sterminatore, del Basque, dell'Olonese, Morgan, Vandhon, ci bastino per indicarci la condotta, che debba tenere il portolano marittimo, che si consacri al riscatto d'Italia. Egli deve conoscere il pericolo, e non temerlo, tutto risparmiare, e tutto avventurare, difendersi ad un tempo, ed assalire. Il valore, l'artifizio, la temerità, la disperazione stessa debbono in quella specie di guerra, essere, a seconda de' casi, con accortezza del capo adoperate, e dovrà, solo, più della morte, l'ignominia [2-120] di restare la preda del sanguinolento assassino d'Italia, sempre sempre temere.

Situate a distanze determinate nei paesi, e villaggi della costa del continente, e delle isole, fuori dei villaggi, nei seni di mare, alcune squadre di lancioni, di cui favelliamo, che debbono correre nella distanza da una stazione all'altra, ed imitare nella attività, decisione, valore, i citati filibustieri; non vi saranno più certamente, lungo tutto il littorale italiano, pericoli da paventare. I brigantini mercantili, fuste, barbotte, petacchi, mistici, sciabecchi, bovi, e schifacci, si estenderanno eziandio al largo pel Mediterraneo ed anche più lungi, manterranno le provvigioni alle fortezze ed alle bande; e dovendo urtare con bastimenti nemici, seguiranno la condotta pei lancioni di già stabilita. Debbono tutti questi legni essere serviti da marinari, che sentan lo stimolo d'un ardentissimo, inestinguibile amor di patria, e d'un odio accanito contro agli oppressori di quella, che gridi al cuore continuamente, Vendetta! Debbono quelli essere a questa vita laboriosa, e senza riposo indotti, non solo dall'incitamento d'una vita independente, e dalla speranza del bottino, ma bensì da quelle fortissime passioni, che il cuore dell'uomo altamente sublimano, e delle quali sono gl'Italiani [2-121] per divenire altamente capaci, com'è ben noto, pel santo scopo della libertà della patria, tutti questi fratelli nella spiaggia italiana si porgeranno nelle moltiplici e durissime operazioni, reciprocamente la mano, e con quel costante coraggio, e perizia, compartimento degli antichi dominatori del mare, che tanto spiccò negl'Italiani, abbenchè ne abbiano da lungo tempo tralasciata la pratica, otterranno una gloria anche maggiore di quanta ne abbiano i Greci, e gli Americani acquistata nelle sanguinose contese, che per lo spazio di tanti anni in prò della loro patria, intrepidamente sostennero. L'uso dei brulotti non sarà nemmen posto in obblio. Qualunque legno portante bandiera austriaca, od una delle bandiere della tirannia d'Italia, se non verrà conosciuto essere montato da Italiani patrioti e mascherati colla bandiera tirannica, sarà inesorabilmente predato; l'equipaggio, e portolano saranno prontamente svenati, e lo stesso bastimento dai vencitori armato in guerra, aumenterà la marina italiana; il suo carico servirà, come bottino, in sostegno dei combattenti, e per le altre spese di guerra. I capi dovranno eseguire con minuta esattezza quanto al capitolo decimo della prima parte, ove si tratta della paga, e bottino, si è scritto.

Si rispetteranno religiosamente tutt'i bastimenti [2-122] delle altre nazioni, purchè non si trovino carichi di merci, provvigioni, armi, o qualunque siasi altra cosa utile all'inimico. In quel caso, il solo carico sarà predato, e conservato, gli uomini, e bastimento saranno, con inflessibil animo, precipitati a fondo. Non recan vantaggio le mezze misure, allora quando un popolo insorge, anzi, accrescon la forza dell'inimico. Se si lasciano vivere gli uomini dei bastimenti spogliati delle merci, irritati quelli dall'atto giustissimo, ma per essi penoso di torsi gli averi di chi serve all'oppressore, e scordandosi di aver intrapreso un contrabbando contro la nazione guerreggiante, si sparpagliano per tutta l'Europa, e con le loro grida, e coi loro veri o falsi racconti, vanno suscitando una schiera di nemici alla parte belligerante che solamente usò de' suoi diritti, amplificando le cose, con menzogne, e calunnie, straziando la fama di coloro che a ragione operarono. Per lo contrario, se tutti quanti in un coi loro bastimenti, nel mare discendono, loro si toglie l'acconcio di poter danneggiare nell'avvenire, e d'altronde per aver recato soccorso agli oppressori d'Italia, loro s'infligge il ben meritato castigo.

[2-123]

CAPITOLO VIII. DELLE FORTEZZE.

Le fortezze che dagli uni si veggono, come indispensabili, e principal forza d'uno stato, dagli altri come inutili, anzi dannose, riputate; da Machiavelli e Guibert non corrispondenti nell'utile alle spese, ch'esigono, dichiarate, da Paruta, e Bausmard inalzate alle stelle, e di grande vantaggio considerate; nella guerra dei trenta, e dal gran Federico in quella dei sette anni, come oggetto il più degno di attirarsi le cure d'un generale, furono celebrate. Napoleone all'opposito, capitano di mente vasta, e di grandi concepimenti, conoscendo appieno che, dopo l'occupazione di tutto il territorio dello stato, della capitale, del governo, e di tutte le risorse, che alla difesa delle fortezze sono necessarie, quelle dovevano infallibilmente cadere; come oggetti secondarj capaci di contribuire alla occupazione del paese, non meno che ad assicurarne la conquista, solea considerarle. Ma se possano fra i tattici, e politici sull'utilità loro nei sistemi di attacco e difesa di uno stato [2-124] in guerra regolare fra nazione, e nazione, o fra re, e re, tali nocevoli dispareri esistere; è però incontestabile che, se in una guerra d'insurrezione perviene un popolo al principio della contesa, o quindi ad impadronirsene, debbano le fortezze, di sommo vantaggio valutarsi. Imperciocchè ogni castello, rocca, fortezza, o piazza forte, potrebbero, non meno di base d'operazioni, alle bande del circondario, servire, che di deposito per le armi, polvere, vettovaglie, in somma per tutte le munizioni sì da guerra che da bocca, di punto di ritirata, qualora da ogni parte strettamente attaccate ed inseguite; d'ospedale pegli ammalati; di magazzeno pel bottino; di deposito pei cavalli; di arsenale per la fabbrica d'armi, e polvere da scoppio: vantaggi tutti indisputabili, che fortificando l'azione delle bande, possono la riuscita della contesa sommamente agevolare. E conversamente, di piccolo o di nessun nocumento saranno per essere le fortezze, se non si trovano dal popolo acquistate. In fatti il sistema della guerra nazionale d'insurrezione per bande, richiedendo, che tutta la superficie della penisola sia in ogni parte, in ogni direzione da drappelli d'armati coperta, che i villaggi, borghi, paesi, e città tutte all'annichilamento del comune nemico tutte le loro [2-125] forze accoppino; in sì fatta guisa non sarà possibile a quello d'introdurre convogli nelle fortezze onde all'inevitabile mancanza delle munizioni di qualunque specie supplire, ed anche gli si renderan malagevoli, e pressocchè impossibili, od almeno infruttuose, le sortite. Se queste a piccola distanza dalla fortezza saranno spinte, dovendo tutto, secondo questo sistema, essere devastato, o bruciato fino alla periferia dei raggi del centro strategico nemico, nulla gli avverrà di trovare, e se a maggior lontananza si deciderà di mandare i suoi distaccamenti, potranno esser quelli fuori della piazza, facilmente dalle bande tagliati e per tanto i spediti soldati, sempre nel rischio di essere tolti nel cammino, da questo mondo, oppure dalle fatiche spossati, vedendo le loro provvigioni predate, come tapini, al loro centro, malconci, e derelitti ritorneranno. Difficil cosa sarebbe, il dire se nel 1810 fosse in Catalogna il numero delle città spagnuole dai Francesi assediate od occupate, maggiore a quelle dalle bande nazionali, bloccate. Infatti le comunicazioni tra una piazza, e l'altra, erano talmente impedite, che non potevano i Francesi una lettera da Barcellona, fino a Gerona mandare, senza una scorta d'almeno cinquecento uomini per proteggerla, ed ordinariamente [2-126] succedeva, che nè la lettera, nè la scorta potevano giungere al loro destino, ma bensì dovevano al luogo da dov'erano partite far ritorno, tutte le volte, che loro era dato di potere la loro quasi certa distruzione pel cammino, evitare. Oltracciò, tanto grande vantaggio da questo sistema di guerreggiare ne ridondava, che sebbene avessero i Francesi, mercè la loro disciplina e tattica, dieci battaglie campali, nel corso di sei anni, guadagnato, e di quasi tutte le piazze forti avessero il possesso; nulla dimeno, non fù loro, il durevole dominio d'un solo distretto della provincia, possibile ad assicurarsi.

Tanto pell'esistenza nei secoli scorsi del sistema feudale, quanto per la divisione in che fin ad ora in differenti stati separati, fù tenuta, non meno, che per le molte guerre intestine, e forestiere da essa, per lo più a suo danno, ed a vantaggio degli stranieri sostenute; trovasi l'italica penisola, d'antichi castelli gli uni mezzi diroccati, gli altri ancora in buono stato coperta, sù d'eminenti punti, che signoreggian le vie situati, che ai feudatarii nei secoli scorsi appartenevano. Altissime torri, rocche di valevoli baluardi munite, fortezze di doppio muro cinte, vecchie cittadelle sprovvedute ed abbandonate, le une in pianura, le altre [2-127] su rupi, che a profondissimi burroni e stretti sovrastano, sparse, in non picciolo numero in tal contrada rinvengonsi. Ma quantunque, ritrovinsi quei propugnacoli, quasi del tutto negletti, smantellati, ed a discrezione di fortuna in oggi dai possessori, lasciati, non per tanto impossibil cosa, dando principio alla guerra d'insurrezione, sarebbe, ad imitazione degli Spagnuoli, di riattarli, ed alla difesa come fortificazioni passaggiere, con sollecitudine apparecchiarli. Molte fortezze, ci dice il nostro Vacani, furono in quella guerra nella Spagna restaurate, e resero servigi importanti alla difesa generale, tali insomma, da dimostrare sempre più, quanto possa natura all'arte congiunta, nell'avvalorare gli sforzi generosi d'una paziente, e coraggiosa nazione.

Stabilito dunque, che di sommo vantaggio, nella guerra di che trattiamo, sieno le fortezze, il conveniente modo di quelle prendere o difendere che in mano dei nemici o della nazione possano esistere; per quanto meglio ci fia possibile, ad esporre imprendiamo. Siccome non può un condottiero in questa guerra, finattantocchè colonne volanti o legioni di truppa regolare non siensi nelle provincie ordinate, avere a sua disposizione cannoni, nè macchine od utensili necessarj per un assedio, nè le varie [2-128] qualità d'armi riunire, che per la presa delle medesime, debbono l'una dall'altra in ajuto adoperarsi; nè avviene che per stratagemma, o per convenzione segreta con alcuni abitanti o difensori, potranno le bande, con successo, delle fortezze e propugnacoli, generalmente impossessarsi. Ed in fatti, deve degli stromenti necessarii ad un regolare assedio delle fortezze, un condottiero scarseggiare, nè può impedire, che vettovaglie non meno, che munizioni vengano in quelle, introdotte, nè far sì che per insopportabile inopia e rabbiosa fame sieno ad arrendersi costrette. Dovrà pertanto limitarsi di bloccarle, perchè quand'anche abbiano provvigioni a dovizia, desutile mai non sarà di tenerle in blocco e con quello il nemico molestare, ed in continuo servizio ed inquietudine il soldato avversario mantenere. Mina al blocco di Pamplona, con molti differenti modi, ora facendo sembianza d'attaccare, ora di fuggire, etc., i Francesi, travagliava, ed a stare costrignevali sulle loro guardie, di continuo rinchiusi. E se ad uscire baldanzosamente avventuravansi, facevagli col peggio indietro tornare. Così dovrà essere quel condottiero, come eccellente esemplare, da ogni altro condottiero, imitato. Aveva egli con un manifesto, guerra a morte e senza quartiere a qualunque Francese, uffiziale foss'egli, o [2-129] soldato, indistintamente dichiarata: in ogni luogo ed in ogni tempo, con armi, o senza, in servizio o fuori d'azione, chiunque di quelli trovato si fosse; immantinenti esser doveva coll'assisa sua di reggimento, e con una bolletta sul petto portante l'inscrizione d'ordine di Mina, con le gambe in sù, e la testa in giù, ad uno degli alberi, lungo la strada, inesorabilmente appeso. Ogni casa, in che stato fosse un Francese, nascosto, ad essere in cenere ridotta, era condannata, ed a morte i padroni o gli abitanti di quella sentenziati. Se mai l'inimico da qualche abitante d'un villaggio, esservi in quello dei volontarj, avesse relazione, ricevuta, ed il numero di quelli non fosse maggiore di otto; un balzello di cinque cento ducati a quel villaggio che aveva informato, imponeva: e se qualche volontario fosse, per quella cagione, in mano dei nemici caduto, dava espresso comandamento, che a sorte quattro abitanti del villaggio si estraessero, ed in quello stante si archibugiassero. Era Pamplona e tutt'i villaggi, e case circostanti, dentro un raggio d'un miglio comprese, in istato d'assedio chiarita, ed a passare dentro quella linea, la pena di morte s'incorreva. Tenevano i distaccamenti a stazzo in osservazione della linea, l'ordine preciso di [2-130] sparare addosso a chiunque oltre i limiti stabiliti, di scorrere s'avventurasse: e se avveniva, che la persona ferita o no, nelle loro mani giungesse, quella dovevano, senza indugio, all'albero più vicino per la gola impiccare. Aggiungeva inoltre, che qualunque persona con saggio avvedimento desiderasse Pamplona, durante quel tempo, abbandonare, sarebbe stata con l'umanità propria del carattere navarrese ricevuta, ma si doveva per ottenerne il permesso, a Mina personalmente presentare. Erano i militari d'ogni grado, a disertare invitati, con la promessa di lasciare a loro posta la scelta di militare negli eserciti spagnuoli, andare in Inghilterra od al loro paese ritornare. In qualunque di questi due ultimi casi, Mina di condurli salvi ad uno dei porti della costa marittima, loro, sopra sua fede, prometteva. Qualunque persona che avesse un disertore, ucciso, o tradito, o ricovero ed assistenza avessegli negato; dovevasi, tosto presa, da' volontarj, alla forca sospendere: ed a nessuno era dai limiti del rispettivo villaggio, in arbitrio di allontanarsi, senza d'un passaporto dell'alcalde, o Regidor, dal Parroco o da qualche ben conosciuto abitante in vece sua firmato. Chiunque, senza un regolare passaporto, fosse rinvenuto, comandava che fosse [2-131] passato per le armi. I tenitori d'albergo e locande, erano sotto pena di morte, il passaporto a tutt'i loro ospiti, ed avventori, a domandare incaricati: e chiunque valido non l'esibisse, dovevano arrestare, ed alla più vicina banda rimetterlo. Se qualche villaggio sborsasse, od i primati di quello, il pagamento della multa di quaranta pesetas per settimana, imposta dai Francesi, ai parenti ed amici dei volontarj sollecitassero; le proprietà di tutt'i magistrati, preti e persone influenti di quel villaggio, doveano a discrezione confiscarsi, ed una multa ebdomadaria del doppio della somma di quella, ai padri, fratelli e congiunti delle persone dai Francesi in Pamplona impiegate, riceversi. Mina col suo manifesto imponeva, che in tutte le città, valli, etc., di Navarra, esser doveva in ogni quindici giorni, la prima e terza domenica del mese, in tutte le chiese dal prete officiante, letto e pubblicato; ed ogni qual volta ed in qualunque luogo stato fosse questo dovere trascurato od omesso; tutt'i magistrati, preti, notaj o scrivani della municipalità e due dei più influenti abitanti del paese, al supplizio inesorabilmente sentenziava.

Questi furono i principali modi da Mina, durante il blocco di Pamplona praticati, che [2-132] se indubitatamente non si possono come dolci e miti riconoscere; è però giuocoforza il convenire, doversi quelli nel genere di guerra di che trattiamo, come indispensabili, certamente stimare. Imperciocchè quegli esseri malvagi nel di cui core l'amor di patria non ha più forza, e quella, sono ad un vile timore, o personale riguardo, per immolare disposti; togliere si debbono di mezzo; ed al sistema di terrore dal nemico seguito, quello conviensi di altro terrore, con giustizia opporre. Senza volerci nei molti particolari sopra di questi modi, arrestare, perchè pure alla guerra regolare appartengono; diremo non dimeno, che non mai una fortezza piccola o grande attaccare dovrassi, senz'aver prima tentato, con doni, con offerte, con promesse, da chi la comanda o dalla truppa, di difenderla incaricata, d'averne la cessione. Dice Pausania, al libro sesto, capitolo diecisette, «che i primi frà tutt'i popoli furono gli Spartani, che abbiano a forza di danaro, la fedeltà dei generali nemici, di sedurre tentato, ed a maggior gloria la vittoria venale, che quella col coraggio acquistata, s'attribuissero.» Ma se poscia, esauriti tutt'i mezzi di seduzione, duri vogliono i nemici alla difesa rimanere, essendo conveniente il sito, e vantaggiosa l'occupazione d'una data fortezza, giudicata, [2-133] si dovrà da che vuol sorprenderla, con disegni, con modelli, per relazioni e con le proprie riconoscenze, perfettamente conoscere: quindi con una forza di molto superiore a quella del presidio, assalirla. Il più profondo secreto deve da chi comanda, essere mantenuto, ed il suo progetto, di quello in fuori, che a surrogarlo, in caso di morte, già trovisi destinato, e dai capi delle varie suddivisioni della sua truppa, in ciò che specificatamente e particolarmente loro appartenga, a nessuno, senza correre il più grande pericolo, dev'essere manifestato. Allorchè meno possano essere dai difensori prevedute, debbono le sorprese dei propugnacoli, effettuarsi. Le lunghe ed oscure notti d'inverno (dando tempo all'assalitore di giungere inaspettatamente da lontano, e fare i suoi preparativi, onde, due ore prima di giorno, dare la scalata alla piazza,) quelle operazioni notabilmente facilitano. Il vento, il freddo, la pioggia, rendendo pigre, ed intirizzite le vedette e le vegghie dei forti, a chi va per assalire, danno favore. Deve il condottiero dell'ora, in che il presidio le sue guardie rileva e recasi ai baluardi a nuove sentinelle di gente fresca posare; essere diligentemente informato, ed alcune ore prima di quel momento, quando la guardia stanca bada con minore avvedutezza [2-134] alla difesa, con vigore attaccarlo. Varie bande unite sotto al comando d'un solo condottiero capo di quella operazione, potranno facilmente riescire. Sono queste sorprese ai fanti riservate, ma in di loro ajuto, una qualche piccola banda di cavalli, per decidere la zuffa nelle strade e piazze del paese, di molto converrebbe: ed altresì, allora quando da una grandissima distanza, si dovesse a quell'uopo, la truppa trasferire. Perciò nel loco distante due ore dalla piazza che si vuole attaccare, ed ove per prendere alcuna posa e mettersi in ordine pella divisata impresa, si fa il grand'alto, in groppa i fanti trasporteransi. Delle guide, informatori, spie, mercechè tali operazioni si maneggiano e delle necessarie cautele per non venire ingannato, e mancare all'intento, non ragioneremo, avendone in gran parte, nel capitolo 12 della prima parte, dove della spiagione abbiamo trattato, abbastanza discorso. Accenneremo dunque solo di passo, non doversi in quel caso le armi da fuoco mettere in uso, ma nel più profondo silenzio, all'arma bianca, quanti nemici ai posti avanzati s'incontrano, senza dare a nessuno di essi nemici campo a sparare, o fuggire, debbonsi tutti ammazzare: ed aggiungeremo, una volta giunti sulle mura, corpo a corpo e non colle [2-135] armi di getto, essere di combattere, conveniente, ma solamente potersi quelle con vantaggio adoperare, quando già entrati nella piazza si vogliano gli abitanti, e difensori per più prestamente alla resa costringerli, con tiri spaventare. Tutt'i militari non solo, ma tutti gl'individui portanti armi, esser debbono sul posto a dirittura trucidati. Ai soli abitanti amici della patria, tranquilli e non a nostro danno armati, debbesi concedere benignamente quartiere. Diremo in oltre, che per evitare il difetto nelle sorprese assai frequente, vogliam dire, di non essere state le scale ben calcolate, debbonsi quelle di sufficiente lunghezza costruire, affinchè, fino sopra alle mura, giunger possano, e doversi pure quelle a due uomini, preferire, perchè oltre al vantaggio della maggior economia, molto più di coraggio, ed emulazione, deve negli aggressori, che in due alla stessa altezza trovansi a montare, indubitatamente infondere. Buona cosa pur sarà, se fattibile, di portare falconetti e cannoncini sopra dorso di mulo o sopra barelle, onde aprir le porte e le poterne, ed in mancanza dovrà farsi a quell'effetto, valevole uso di petardi, portar fascine, per riempire i fossi, che da una parte, o dall'altra del muro, possano rinvenirsi, portar mazze, ferri, spontoni, etc., [2-136] per rompere le porte di soccorso. Debbonsi dividere le forze in cinque squadre: una pell'attacco reale, un'altra pei falsi attacchi, la terza per far diversione, la quarta per rimanere di riserva, la quinta infine per assicurare la ritirata e guardare le spalle e gli stretti. Ognuna di queste, da un capo abile ed ardito comandata, qualora non riesca l'attacco reale ed alcuno dei drappelli dei falsi attacchi, ad entrare pervenga; alla gran corsa porteransi allora i due terzi di tutte le altre a congiungersi con quella, che già pone piede addentro, e mantenendo i rimanenti terzi un fuoco vivissimo e terribile, sempre più avvicineransi alla piazza, per l'attenzione delle truppe nemiche, sopra di loro attirare, ed impedire che a quelle attaccate, arrecato sia soccorso. Una volta nella fortezza entrate, dovranno le bande in tanti distaccamenti suddividersi; uno alla guardia del luogo per dove si è penetrato, immediatamente destinerassi, un secondo, per sostenere l'attacco, un terzo onde la porta dalla quale deve entrar la riserva, tosto aprire, un quarto per far il giro dei baluardi, un quinto per arrestare il comandante della piazza, tutto lo stato maggiore, e passarlo di botto per le armi, un sesto per assalire il corpo di guardia principale e tutt'i soldati [2-137] che lo compongono, esterminare, un settimo per coprire la porta della cittadella o castello, un ottavo per lo stess'oggetto, recherassi a quella dei quartieri, un nono per impossessarsi degli arsenali e magazzeni, un decimo per occupare le contrade, un undecimo dovrà mettersi in positura sulle piazze, un duodecimo arresterà tutt'i principali militari, civili, abitanti ed impiegati del paese, sotto guardia per custodirli. Avrà il condottiero questa fortezza, sorpresa o per tenerla, o per abbandonarla. Nel primo caso, stabilirà il presidio, e i danni portati dall'attacco, senza più altro aspettare, riparerà: ma nel secondo, tutto quanto gli conviene, e può portar via, non tralascierà di tosto acchiappare. Tutte le fortificazioni, egli farà, in modo da non poter più essere restaurate, rovinare: ed altresì invierà tutto quanto essere suppone al nemico di qualche utilità, in pronta e totale distruzione. Così, la maniera di sorprendere una fortezza, rapidamente accennata, senza degl'infiniti particolari ad un condottiero necessarissimi, nella spiegazione ingolfarci, locchè troppo a lungo ci condurrebbe, noi, coloro che sù di tal materia, istruzione vorrebbero, allo studio di tanti trattati sulla tattica inviamo, che del modo di portare tali sorprese ad effetto, imprendono particolarmente a spiegare. Potrebbersi [2-138] pure questi attacchi, di pieno giorno, intraprendere: ma della decisa superiorità della propria truppa e debolezza dell'avversa che senza pericolo di forte resistenza, si potesse ridurre, sarebbe di averne la certezza, mestieri. Per mezzo dell'astuzia e stratagemmi, puossi vincere la forza. Erodoto, al libro sesto, ci dice che buono, come abbiam ricordato e legittimo, qualunque mezzo potesse farli trionfare, gli Spartani consideravano, nè come cosa sconvenevole, usare della perfidia, nè la fede col nemico violare, per delitto avevano, quando della patria si trattava. Nel caso in che noi ci troviamo e nel sistema della nostra guerra, noi pure aver dobbiamo alle massime degli Spartani ricorso. E per impadronirsi d'un propugnacolo, non solo cercherà il condottiero di distruggere colla forza aperta il nemico, ma ben anche d'armi avvelenate, di carcasse, di razzi alla congreve etc., a tal proposito, maestrevolmente si varrà. Porrà opera inoltre onde materie fetide, sieno nella fortezza introdotte e che dalla morbosa loro infezione, appiccaticcie infermità, e maligna peste conseguano: con cautela i ruscelli, fontane, sorgenti, polle, insomma le acque tutte capaci a dissetare i difensori, dal loro ordinario corso devierà, o se fia che alcune lascii in quella penetrare, [2-139] somma userà deligenza onde sieno previamente attossicate, e dolorosa subitanea morte a chi ne beve, succeda. Con astuzia farà sì, che i soldati stessi del nemico, da promesse, e regali sedotti, tolgano ai più influenti capi, agli uffiziali superiori, ed anche ai subalterni, la persona; ma dovrà sempre stare all'erta di non venire ingannato da chi, egli ingannare intenda. Molti altri sarebbero i stratagemmi, e le astuzie che indicare si potrebbero: solamente però di raccomandare la lettura di Pollieno, e Frontino che a lungo scrissero su di tal oggetto, ci contentiamo.

Del modo di occupare una piazza per accordo particolare con qualche individuo, che apra le porte, ed in quella le bande di soppiatto introduca, a ragionare tuttavia ci rimane. Nella guerra nazionale in cui le più grandi, le più forti passioni dell'uomo trovansi con violenza eccitate, qualche astuto infingitore, che dal manto dell'ipocrisia coperto, serva per qualche tempo al nemico, e quindi un bel giorno, nelle mani della patria quella fortezza consegni, troppo malagevol cosa al certo non sarà di rintracciare, sopra tutto se si trova essere una piazza, in che d'abitanti civili numero competente, vi sia. In caso poi, che nessuno vi esista dalle sublimi [2-140] passioni figlie dell'amor di patria stimolato, dovrà il condottiero a quelle persone appigliarsi, che dall'affetto per l'oro signoreggiate, od incostanti, o di una smisurata ambizione abbondevoli, o da un odio violento, e cieco, o dal desiderio di vendetta, essere trasportate s'avvegga, le quali baloccando, lusingando e vezzeggiando, potrà per loro mezzo, la fortezza ottenere. Somma diffidenza nelle persone, accuratezza nell'esame delle proposizioni, saranno dal condottiero impiegate, ostaggi, deposito dei beni nelle sue mani, da quei che debbono servirlo, come guarantigia della loro buona fede, non mancherà di richiedere, doviziose rimunerazioni in caso di buon successo, minaccia di esemplare castigo, e di morte infame in caso di rovescio, apertamente profferirà.

Potrà il condottiero, per privato concerto co' cittadini, una mano de' suoi volontarj, nella piazza, di celato, introdurre, ed in casa della persona, con la quale tiene trattato, alloggiarli: potrà quella in un bel giorno, una porta, una poterna, un acquedotto, una latrina, per dargli il varco, all'ora, al momento dal condottiero determinato, aprire: mentre dassi la scalata alle mura, nel bollor dell'attacco, incendiando in varie parti la piazza, porgergli [2-141] convenevole ajuto; cospirare con gli abitanti, e per opinione, o per timore, in cooperazione alla resa della piazza portarli, ed a ciò, colle armi e coll'inganno cooperare. Se ferma è co' soldati la posta, potranno le velette, e le scolte, senza sparare o gridare all'armi, lasciarlo davanti le guardie quetamente passare, oppure ad un bel giorno, tutt'i loro superiori benanche avvelenare, finalmente in quelli sta di poter, senza rumore, la fortezza nelle sue mani, amichevolmente rimettere. Ma sarà sempre con quelli più che coi civili, di far le pratiche, pericoloso, ed assai maggiore diffidenza sarà con loro mestieri di usare. Onde la parte, sull'acconcio modo d'impadronirsi delle fortezze per privata consegna, di che preso abbiamo a tener ragionamento, compire; citeremo in esempio la presa di Figueras, fortezza delle più formidabili d'Europa, malagevole da pigliarsi se mai verun'altra ne fù, dalla natura e dall'arte resa fortissima, che comandata dal generale Guillot, al dire del generale San Ciro, alla pagina 272, cadde in potere di una mano di contadini in numero assai inferiore alla guarnigione dal rinomato condottiero, il dottore Rovira, capitanata. Ecco il nostro dotto Vacani, come spiegasi a tal proposito: «Era giustamente [2-142] quell'epoca in cui l'armata di Catalogna veniva indebolita della truppa più attiva, ed in cui l'armata d'Aragona, ricevuto quel rinforzo, meditava maniera di adoperarlo prontamente, trovandosi l'un comandante d'armata a Saragozza, l'altro a Barcellona, Suchet, per radunare i mezzi, onde por mano al nuovo assedio, e Macdonald per aprirsi carriera colle poche sue truppe nell'alta Catalogna e liberare, se possibile, la linea d'operazione colla Francia: quando gli Spagnuoli, riconosciuto il bell'istante e cogliendolo da astuti, consumarono l'ardito loro piano di sorprendere Figueras. Erano in questa piazza due guardamagazzini catalani, di nome Zean, e Palapos, sotto al comando d'un capo commissario francese. Eglino avevano saputo ispirare tal confidenza, ch'eran loro lasciate le chiavi non meno de' magazzini interni che di quelli sotterranei che mettono ne' fossi della fortezza per la piccola poterna praticata sotto al ponte levatojo della porta principale. Il colonnello Rovira, di cui più volte si è parlato, come di uomo feroce, ed intraprendente, sedusse facilmente con pochissimo premio, quei due Spagnuoli, ebbe le chiavi di detta poterna, anzi tanta trovò in que' due l'affezione alla causa nazionale, che offerironsi [2-143] spontanee ad esporre ad ogni azzardo la propria vita per agevolargli il riacquisto della piazza, recandosi eglino stessi la notte che si fosse stabilito, ai magazzini onde aprirne agli aggressori l'accesso per didentro, e con accese faci illuminare ai loro passi il sito, guidargli ai quartieri del presidio, e del generale, e render in un istante solo, nulla la difesa ed intiera la vittoria. Ciò adunque stabilito, si trascelsero da Rovira settecento tra i più arditi micheletti dell'alta Catalogna, perchè affrontassero i primi pericoli ed aprissero ad una più numerosa colonna di truppe regolari, comandate dal generale Martinez, il passo alla conquista che gli sarebbe, in tal modo, agevolata. Tutto era pronto al principiare di aprile, per che si avesse in una notte ad eseguire la sorpresa: Macdonald rimanevasi isolato in Barcellona, Baraguey d'Illers era debole, e diviso tra Gerona, Hostalrich e la costa di Palamos, nè un più favorevole momento offerto si sarebbe per venire al riacquisto di Figueras, senza il timore di esservi di subito investiti. Non altro dunque, sembrava che si aspettasse, se non che la riunione di tutt'i corpi Spagnuoli, e la sortita dalla piazza della parte più attiva del presidio, che propriamente consisteva negl'Italiani sotto gli [2-144] ordini del capo battaglione Mazzoni. Accadde di fatto che nel mattino del dì 9 aprile, il governatore, allo scopo di raccogliere viveri d'intorno, e dissipare alcuni pochi attruppamenti che dicevansi formati nella valle limitrofa di Avinnonet, fece uscire la colonna italiana e porre a guardia dei bastioni e delle porte alcuni di quelli uomini che, pel momento inabili alla guerra, eran pure tenuti a deposito nel forte, perchè già volti a guarnigione e perchè questo era da tutti riputato inaccessibile a sorpresa.» E quindi l'istesso Vacani soggiunge: «Pertanto gli Spagnuoli, avendo maturato il loro piano di sorprenderlo, si tolsero il dì nove aprile, sotto gli ordini del colonello Rovira, dai monti di San Llorens e di Llers ed arrivarono fra il bujo d'una notte oscurissima e piovosa accanto all'acquedotto: di là salirono sullo spalto dell'opera a corno di san Zenone, entrarono dal nove al dieci di aprile non visti, nel cammino coperto, e mentre le guardie e sentinelle mollemente invigilate, riposavano silenziose in profonda quiete, sulla fede che loro era ispirata dall'altezza delle mura, e dallo stesso generale, scesero nel fosso e di soppiatto chini chini, fucile abbasso, le piastre al luccicare ricoperte, pervennero inosservati a toccar meta alla poterna, ove sicuri dell'evento, strepitoso, [2-145] giacevansi ad aspettarli, i due Spagnuoli stipendiati nel forte da' Francesi.» Ed infine così prosegue: «Tutti dunque, e uffiziali e soldati, anco i più attivi, si giacevano inoperosi alla difesa, allorchè gli Spagnuoli penetrarono ne' magazzini sotterranei e di là francamente si volsero a disarmare la guardia napolitana che stavasi tranquilla a ponte alzato e porta chiusa all'ingresso principale: colà scambiaronsi i primi colpi di moschetto, i quali avvertirono non meno il presidio di un pericolo imprevisto, che la riserva spagnuola sullo spalto, di un successo già ottenuto. Accorre adunque subitamente quest'ultima sotto gli ordini del generale Martinez in sostegno di Rovira per lo stesso cammino ch'egli aveva battuto e che nessuno nel presidio, in quelle tenebre profonde, sapeva indovinare, e fù sì lesta nello spandersi nel forte in numero di tre mila combattenti, che in brevissimo tempo l'ebbe tutto occupato e saldamente conquistato, nulla ostante che que' pochi Italiani testè giunti dal difuori, radunandonsi i primi in sull'armi a quell'insolito rumore, siensi fatti di contro agli aggressori ed abbiano con essi impegnata una zuffa che fù breve ma animata, e costò alle due parti un equal numero di combattenti: trenta cinque furono gli uccisi o i feriti di quel [2-146] drappello italiano nella mischia avvenuta nel mezzo della piazza; gli altri soverchiati da una forza assai maggiore, tentarono congiungersi con quelli raccolti tuttavia ne' quartieri o rinchiusi nelle basse scuderie. Ma prevenuti sull'un punto, e sull'altro dalla truppa spagnuola saggiamente divisa dall'avveduto generale Martinez, assecondato sempre da Rovira, da Dorguines, e dai due Palapos, dovettero essi pure soggiacere al disastro generale, e già fatto inevitabile. Il governatore che, sebbene più d'ogni altro, dovesse rispettare quel precetto: Che alla guerra è più a temersi lo stratagemma che la forza, l'ebbe anzi a vile, fù preso nelle stanze sue proprie, e nel tempo stesso furono presi tutti gli altri uffiziali che stavano nel forte.» Trattato avendo dei modi onde impossessarsi delle fortezze, che possono da un ardito ed avveduto condottiero essere con vantaggio in questa guerra impiegati, ci sarà ora necessario il metodo esporre per quelle difendere, quando sieno nelle nostre mani, e vengano dal nemico attaccate. Ma siccome tutta l'arte della difesa, nei precetti pella tattica consiste, e dei particolari, per la nostra guerra, non ve ne sono; perciò quel comandante che alla difesa d'una fortezza sarà dalla nazione destinato, dovrà quelli a puntino conoscere, ed a quelli del tutto uniformarsi: [2-147] fitto sempre tenendo in mente che ogni pratica, ogni consiglio, ogni maneggio, ogni negozio, quando per la patria si combatte, allo scopo della resa coi nemici menato, deve a grave, ed imperdonabile delitto imputarsi. Nè breccie aperte, nè mancanza di viveri, nè malattie, nè peste, nè caduta del governo provisionale, nè mancanza di corrispondenze, nè mine, nè terremoti, debbono, per tener dell'evacuazione trattato, in questa guerra, sufficienti cagioni, considerarsi. A chi viene la difesa d'una fortezza dal popolo affidata, l'obbligo di quella fino all'ultimo sospiro difendere, e non mai col nemico pratiche usare, strettamente appartiene. Nulla dimeno se uno o più dei sopramentovati casi avvenissero, che la piazza in rischio certo ponessero di soggiacere alla forza maggiore; allora una generale e vigorosa sortita, gli sarà di tentare permesso, ed in quella, quanti più nemici cadrangli tra le mani, esterminando, e quindi colla sua truppa e cogli abitanti correre in bande ai monti, oppure con deciso accanimento combattendo, gloriosamente morire. Solo però nell'estremo caso, dovrassi alla generale sortita ricorrere e dopo aver date le disposizioni, affinchè all'entrar del nemico nella fortezza, tutte ad un tempo scoppino le mine, ed allora, allora ne venga [2-148] quella dalle fondamenta distrutta. Non trovando, in tal modo, il nemico nulla che di giovamento esser gli possa, in un ammasso di rovine soltanto consisterà la sua faticosa conquista.

Onde in possesso della nazione insorta, possa una fortezza cadere, converrà che i soldati stessi, dal tiranno, od invasore, alla sua difesa comandati (accortisi la vera gloria nel contribuire alla publica felicità e non all'oppressione consistere) vergognandosi di contro la loro patria adoperarsi, agli oppressori disubbidiscano, e per la buona cosa si dichiarino; che dagli abitanti renitenti, i soldati soverchiati, e compressi, vengano all'arrendimento costretti, e sian le porte ai veri Italiani sbarrate; che i civili e i militari sullo stesso oggetto d'accordo, a gara l'ingresso favoriscano nei modi già indicati o che per ultimo, improvvisamente si occupino, se come inservibili dai tiranni tenute, e nella nostra guerra, di somma utilità considerate, facilmente (non avendo gente alla difesa) sorprese dalle bande esser possano. Quelle fortezze nelle mani della nazione cadranno, o al primo scoppio dell'insurrezione, o dopo d'essersi stabilito il governo provisionale. Se nel primo caso, ai condottieri principali e particolari operanti nella provincia e circondario, la cura di provvedere alla [2-149] loro difesa, senza dubbio appartiene. Se nel secondo, sarà dovere dei consigli, assemblee, consulta etc., coi mezzi forniti dalla provincia, o dall'intero stato, di sostenerle e difenderle.

Se una piazza isolata senz'abitanti, fia che venga della forza nazionale militare, in potere; dovrassi, secondo i principj della guerra regolare, sostenerla, ed ai condottieri dovranno sufficienti difensori presi nella provincia essere aggiunti, che coi militari, secondo il sistema regolare, agiscano ed alla difesa concorrano. Se fosse il presidio numeroso ed aumento non comportasse; una competente parte dell'antica guarnigione, con nuovi giovani dall'entusiasmo guidati, scambiar con destrezza converrebbe, e la parte uscente, per separati drappelli, ad altri propugnacoli inviare in guarnigione, ed in campo, per bande, disseminare. Dovrà pur essere il comandante persona dabbene e devota alla patria, che goda dell'intera confidenza della nazione, ed aver dee guarentigie di antecedenti fatti che sua fedeltà alla causa e capacità militare, pienamente mallevino. Se abitanti nella piazza vi fossero per contrarj alla buona causa conosciuti, ben bene esser dovranno osservati e contenuti. Ma se all'opposito quelli, com'è probabile, [2-150] da generosi sentimenti d'amor di patria animati saranno; allora, quantunque sia le precauzioni sempre cosa buona da considerarsi, nondimeno cesseranno di essere d'assoluta necessità, e quegli abitanti che robusti e ben disposti, saranno di fare tutto il servizio eguale alla truppa di linea capaci, in corpi regolari si arroleranno e gli altri abitanti non arrolati nella linea, verranno eziandio, come stanziali, in decurie e centurie ordinati, ed avranno pure i loro luoghi per la defesa in caso di attacco, assegnati. Quando la truppa fosse stata dagli abitanti a cedere costretta, perchè quelli erano i più forti allora, dovendo i soldati ed uffiziali come nemici della buona causa essere supposti, epperciò ammazzati, si dovrà nella fortezza un competente corpo di truppe introdurre, all'uopo di ordinare gli abitanti alla difesa ed in quella ajutarli e dirigerli. In tutti gli altri suddetti casi, la truppa che occupa le fortezze, difenderalle. Non disagevol cosa sarà al provisionale governo di provvedervi: ma grandi e forti difficoltà, innumerevoli ostacoli, a' condottieri e fortezze frapporranno. Imperciocchè dovranno essi colla scarsità de' mezzi, quasi continuamente combattere. Non dimeno, con perspicacia ed attività, dallo spirito publico assecondati, [2-151] per venirne a capo, insuperabile malagevolezza, non incontreranno. Le bande guerreggianti nel circondario delle fortezze, fino a che non esistano le colonne volanti e le legioni, come gli eserciti d'operazione, si dovranno in sostegno e sollievo della piazza adoperare. Non essendo lo scopo nostro di minutamente, i mezzi di cui si debba far uso per la difesa, indagare ed esporre, perchè alla guerra regolare appartengono, ci contenteremo poche maravigliose cittadine difese ai nostri leggitori citare che durante la guerra di Spagna contro di Napoleone, fecero il mondo intiero stupefatto rimanere: per la qualcosa saranno mai sempre Saragozza e Gerona, come alti esempii di virtù patria, dalla posterità venerate. Così il nostro Vacani spiegasi in proposito della prima: «Finalmente richiesta a grandi sagrifizi per la causa nazionale in questa guerra provocata contro l'imperatore de' Francesi, essa sviluppò nella difesa quell'amore di patria per cui facevano prodigj i Greci, ed i Romani, quello spirito stesso di pietà, e d'orgoglio nei combattimenti onde s'illustrarono gli erranti delle crociate, quell'odio alla tirannia che rese a libertà i Svizzeri, i Batavi, gli Americani.» In fatti quai sforzi inauditi non fece? Ecco come prosegue [2-152] il già citato autore: «Quello che più de' far ammirare il sangue freddo, e la virtù dei cittadini, si è lo aver essi trincerato nell'interno della piazza, tutte le contrade, sbarrate le porte, e le finestre delle case, aperti tutti i muri con troniere, praticati passaggi difensivi dall'un punto all'altro, e trasformata ogni casa in ridotto, ogni convento in cittadella, o piazza d'arme, od arsenale, e fatto per tal modo dell'intiera città una rete di forti inestricabile, essendo sodamente stabilito nella mente dei difensori di non rendersi nè alla perdita del primo recinto, nè a quella del primo, o second'ordine di ostacoli interiori, nè ancor che ristretti in poca parte della città, ma di farsi agli estremi buon riparo di questa, per passare sull'altra riva dell'Ebro nel sobborgo parimenti trincerato, ed ove prolungar non si potesse la difesa, uscire al campo, per quel lato men coperto da nemici, evadersi, e raccogliersi ne' monti a nuova guerra.» Dalla pertinacia di quella difesa non men che da quella di Gerona, puossi toccar con mano quanto sia di sostenersi una fortezza capace, ove i cittadini colla truppa concorrono. Valgaci quanto dal generale San Ciro, rispettivamente a questa seconda piazza, viene alla pagina 285 del suo giornale, esposto, onde [2-153] la nostra asserzione corroborare: «Le più belle difese fatte dalle truppe, non si avvicinano a quelle eseguite dagli abitanti, quando per un fanatismo qualunque, i loro occhi sono stati chiusi a tutt'i pericoli ed il cuore di essi, ad ogni timore. Senza cercar prove fuori di Catalogna, si paragoni la difesa di Rosas con quella di Gerona. Nella prima non vi erano che soldati, nell'altra i soldati erano sostenuti, o per meglio dire dominati dagli abitanti. Prendiamo un esempio ancor più ristretto nell'ultima di queste piazze. Il forte Monjuich non fù difeso che dalla truppa di linea, e fù certamente ben difeso; ma dal momento che vi si fece una breccia praticabile, o che i lavori degli assedianti furono sufficientemente vicini per dargli speranza d'impadronirsene, e che la riescita pareva possibile; fù tosto evacuato dalla guarnigione: mentre chè, malgrado le quattro breccie esistenti nel corpo della piazza di Gerona, breccie, che molti generali ed uffiziali superiori francesi avevano giudicate praticabilissime, poichè trenta piazze nelle ultime guerre s'erano rese in migliore situazione, senza che l'onore delle guarnigioni incaricate della loro difesa sia stato menomato; malgrado quelle quattro breccie, la guarnigione di Gerona, non si perdè d'animo [2-154] nel giorno diciannove settembre, seguente all'attacco vigoroso e simultaneo di quattro colonne che si presentarono in pien giorno per darle la scalata: e ciò perchè si trovava sostenuta ed incoraggita dalla vista dell'intiera popolazione della città, bene o male armata, e senza distinzione di stato e di sesso, che voleva concorrere nel pericolo e guarniva i baluardi. La giberna e lo schioppo si vedevano sulla sottana del frate e del prete, come sull'abito del crociato e del simplice artigiano, la minima agitazione dell'aria faceva sventolare e scoprire i nastri, coi quali si distinguevano le donne della compagnia di santa Barbara, delle quali alcune acquistarono in quel giorno la ricompensa e distinzione dei bravi. Quanti motivi di emulazione per gli uomini che componevano la guarnigione! Potevan essi forse far meno di quelle eroine dell'amor di patria? Potevano essi cedere in valore alle donne? Si osservi presso questo quadro, una difesa alla quale gli abitanti non prendano parte. Essi non pensano che alla loro conservazione, a quella delle loro case ed industria, sollecitano ed anche minacciano il comandante che fa la resistenza prescritta dal suo dovere, ma che gli rovina e porta la distruzione della loro città. Aggiungansi a ciò i loro [2-155] sforzi, i loro maneggi per disanimare il soldato, ammutinarlo, etc. Qual contrasto! Abbiamo noi per tanto ad asserire, che la difesa d'una piazza non può essere intiera, quando non sia fatto dagli abitanti ajutati dalla truppa regolare? Dobbiam noi assicurare che non ve n'esiste, per poco che siano fortificate, le quali non sieno, in quel caso, suscettibili della più lunga difesa? E che una città come Gerona, non sarebbe mai stata presa, se l'esercito destinato per la difesa di Catalogna, ed in conseguenza per soccorrerla, avesse dimostrato un poco più di vigore, e se il suo morale non fosse stato così depresso, com'era e doveva esserlo, dopo la perdita di quattro battaglie seguite da altrettante rotte? I difensori di Gerona hanno spiegata la massima energia e niente omisero di quanto poteva procurar loro il vantaggio. Ritennero nella piazza trecento disertori napolitani e sempre gli opponevano all'esercito francese sulle breccie e nelle sortite, perchè conoscendo essi la sorte che loro aspettava, se quello fosse vincitore, erano sicuri che avrebbero combattuto con l'accanimento della disperazione: profittarono dell'entusiasmo degli abitanti e se ne valsero con grande vantaggio. Finalmente io credo loro non potersi [2-156] contestare che abbiano fatto tutto quanto un militare, od un cittadino bramoso di difendere una piazza fino all'estremo, dovrà sempre fare quando sarà fortunato abbastanza per incontrare tutte, o almeno parte di quelle circostanze, in che si trovò il generale Alvarez, difensore di Gerona nel 1809.»

Puossi ancora un altro caso presentare che, sebbene difficile in una guerra d'insurrezione nazionale; non dimeno è pure possibile, cioè che la truppa d'una fortezza si dichiari per la patria, e che gli abitanti sieno a quella contrarj. Allora dovrà essere spezial cura dei condottieri di aumentare e fortificare la guarnigione, e tutte le misure prendere, onde i danni che dalla sinistra intenzione degli abitanti nascere potrebbono, con profitto evitare. Al qual uopo, avendo il comandante che tutti si siano delle necessarie vettovaglie forniti pel tempo determinato, esattamente provvisto; fuori della piazza gl'inutili spingerà, sotto qualche pretesto tutti gli abitanti disarmerà, facendoli con numerose pattuglie contenere, ond'esse, circolando di continuo per la città, il buon ordine affermino, ed i suoi regolamenti ed ordini facciano eseguire, per mezzo de' quali le riunioni tumultuarie, gridi, domande e richieste collettive, le parole sediziose, e [2-157] tendenti a disanimare i difensori, saranno con severità proibite. Per la qualcosa tutt'i trasgressori de' suoi ordini, (senza emanciparsi il comandante, in detrimento della patria ed in pericolo suo e della piazza, ad essere pietoso) dovranno con capital pena, essere castigati. Farassi insomma da quegli abitanti temere, e per ovviare alla commistione dannosa in tal circostanza dei cittadini colla truppa, tutt'i meccanici del paese tenendo pel servizio della fortezza salariati, in continuo lavoro intratterralli. Altri al servizio dei forni, dei magazzeni e degli ospedali separatamente destinerà; tutti, a recar cibo e bevanda ai soldati che sono alle mura, alle porte, alle poterne, alle guardie avvanzate, previamente scelti, troveransi in continuo movimento. Quanti rimangano degli abitanti, in tante squadre, quanti quartieri vi sono nella città, dovrà ordinare. Resteranno questi continuamente di guardia, ma solo un terzo alla volta d'attivo servizio, onde l'incendio della città, prevenendo, impedire; di molle, crocchi, accette, scale e secchie muniti, le palle roventi dal nemico gettate, raccoglieranno, onde nell'acqua che a quell'uopo, in ogni casa si terrà, tosto s'immergano, i progressi delle fiamme da una casa all'altra (che pure colle pompe cercheranno di [2-158] spegnere) tagliando, rovinando, rompendo, opportunamente si arrestino. Ogni squadra dovrà del suo quartiere occuparsi, e solamente in un caso urgente, e per ordine del comandante, potranno alcune volte, i varii terzi in riposo, essere, in un punto determinato, fuori del loro quartiere, chiamati e riuniti. Con severità quest'ordine mantenuto, ciascun abitante disarmato, al suo quartiere confinato, non potrà i volontarj con artifizii sedurre, e nemmeno, il suo timore, malcontento e cattive intenzioni agli altri concittadini comunicando, portar nocumento alla causa e la difesa impedire.

In qualunque piazza, nella quale vi siano degli abitanti civili, procederà il comandante, a far loro prestar un solenne giuramento, prima d'intraprendere le operazioni. Tutti, di non mai cedere al nemico la piazza qualunque possa essere la sua situazione, giureranno, a che dovranno aggiungere la dichiarazione di doversi ammazzare chiunque sia, la parola, capitolazione, per pronunziare. Oltracciò faranno solenne sacramento di voler piuttosto un ammasso di gloriosi cadaveri sepolti sotto le rovine degli edifizj e delle mura della piazza, addivenire, che di vivere avviliti e coi barbari negoziare, che veri e forti italiani, piuttosto [2-159] che cedere, soffriranno e se d'uopo sarà morranno; tutto meno acerbo della schiavitù, doversi da uomini considerare!....... Se fosse la piazza investita ed attaccata, dovrà il comandante, passo a passo, difenderla, e quando soverchiato dal numero de' nemici, fia che si vegga, e che quelli, nell'interno, nel centro, nella piazza della fortezza, già siano penetrati, e nè di salvarla, nè di uscire, più non vegga speranza, ma solo di aprirsi disperatamente un passaggio nelle linea dell'avversario gli rimanga; allora da sè stesso nella parte principale, e da suoi confidenti nelle altre, alle miccie delle molte mine, che prima dell'avvicinarsi del nemico avrà preparate, e ben visitate, sarà la decisiva fiammella, con decisione, appiccata, e così nemici, abitanti, e truppa tutti ai baluardi, edifici e mura della piazza congiunti, con orrendo, e strepitoso scoppio, in generoso sacrifizio alla patria, di botto in aria sfracellati, salteranno e saranno per tal modo al nemico, le vittorie in Italia funeste!

CAPITOLO IX. DELLE COLONNE VOLANTI E LEGIONI.

Se non havvi sulla certezza del felice risultamento della guerra per bande punto a [2-160] dubitare, certo egli è però che per natura sua, oltre di essere penosa e lunghissima, perchè devono le bande solo in piccoli combattimenti di quasi certo vantaggio, con minor perdita per parte nostra alla distruzione del nemico attendere; deve da tutto questo avvenire, che ben di raro, e fors'anche mai, si presentino quei casi, che con un brillante attacco, con un'operazione anzi temeraria, che ardita, un combattimento decisivo s'impegni, che porti ne' suoi resultamenti la liberazione immediata d'Italia. Le bande non dovendo dipendere dai magistrati locali stabiliti nelle provincie, cantoni, distretti, etc., ma solo dal condottiero supremo per le operazioni combinate; non potranno avere la forza necessaria e continuata per eseguire tante numerosissime incombenze che ancora per accelerare il bene della patria, rimangono. Sono esse in fatti e debbono esserlo, di quella convenevole stabilità, onde far obbedire ai ritrosi ed i malevoli annichilare, deficienti. Sebbene a quest'uopo debbano pur tutte le bande essere intente; ciò non pertanto il sistema generale di questa guerra, che ad una continua mobilità le costringe, impedisce, che possano quelle operazioni effettuare, la di cui riuscita dipende da una lunga permanenza [2-161] in un luogo, e dalla riunione delle varie armi che sostenendosi a vicenda, debbono concordemente operare.

Conobbero gli Spagnoli questa verità nella guerra dell'indipendenza, ma non seppero tosto acconciamente al buon successo indirizzarsi. Per verità, cominciarono a voler porre le bande sotto ad un regolare comando, nominarono una giunta speciale direttiva delle bande, la quale spedì colonelli, stati maggiori, etc., onde quei corpi staccati, secondo il sistema di regolar disciplina ed evoluzioni ordinare. Il colonello don Antonio Claraco y Sans, fù nel paese di Guadalupe, provincia di Estremadura, spedito a prendere il comando delle bande, e regolarle. In fatti più di quattro mila uomini egli accozzò in un corpo, al quale diede il nome di regolare divisione dell'esercito. Ma che quindi gli avvenne? Essendogli venuto a notizia, che un distaccamento francese doveva nella vicinanza passare, gli si fece con la sua colonna incontro. Non oltre passava quello, il numero di ottanta quattro uomini a cavallo, che vedendosi in fronte di quattro mila, rimase, non sapendo a qual partito si dovesse appigliare, alcun tanto irresoluto: ma in quel frattempo accortosi dell'esitazione a muoversi della divisione spagnuola, [2-162] che fluttuante, fortissimo panico timore dimostrava, fece ardita resoluzione di cagionarle con un movimento temerario, grandissimo spavento e profitare della confusione in che sperava di metterla, onde potersi ad opportuno scampo aprire un cammino. Ordinò quindi il comandante francese la carica, e sul centro della divisione impetuosamente scagliossi. Al suo avvicinamento i soldati pseudo-regolari allibbirono; si scompose la schiera, ogni drappello pensò alla propria salvezza, ed in un istante furono i quattro mila uomini da ottanta quattro ussari compiutamente sconfitti, lasciarono settecento morti sul campo di battaglia. Allora il superstite avanzo disgustato di quel modo regolare di guerra, si mise di bel nuovo in bande separate, rimandando gli uffiziali ch'erano stati dal governo senza consentimento de' volontarj al loro comando imposti; ed a poco a poco, trasse di quel oltraggioso scherno tarda ma severa vendetta, facendo soffrire perdite enormi a quei Francesi stessi, ottanta quattro de' quali bastarono per mettere quattro mila Spagnuoli in piena rotta. Persuasi da quell'infausto saggio, i medesimi non doversi, nè potersi le bande in modo, da battersi in linea e far evoluzioni sulla fronte del nemico, regolare; ne rinunziarono l'idea. Ma d'altra parte la necessità conoscendo in [2-163] che trovasi un governo qualunque di avere una certa forza di truppa tattica onde sostenere le molte operazioni che le appartengono; con ben ponderato consiglio fecero essi divisamento d'ordinare varj corpi composti di fanteria, cavalleria ed artiglieria che divisioni, o colonne volanti appellarono, i soldati de' quali erano vestiti e pagati dal governo ed agivano secondo il sistema di guerra regolare per quanto la loro forza e le circostanze, il permetteano. Poi che pegli sforzi delle bande, una sufficiente parte del territorio italiano sarà dal Tedesco lezzo purgata, ed una giunta provinciale già vi esista; un connestabile delegato militare nominato dal condottiero supremo, si occuperà dell'ordinamento di varie di queste colonne, più o meno forti, più o meno numerose, a seconda dei mezzi che si troverà possedere: tenendo fermo, però che ciascuna di esse porti con sè tutt'i mezzi tanto per combattere, come per sussistere, e sia esente dalla necessità di una base stabile. Gli uomini, che compor debbono queste colonne, dovranno avere tutte quelle qualità, che ad un militare tattico si convengono: e difficil cosa certamente non sarà di rinvenire in Italia molti di quei valorosi, che possansi al servizio regolare con immenso patrio vantaggio [2-164] applicare. I duecento mila uomini, che alla gloria ed ai disastri della Francia parteciparono, per anco non sono spenti. Sparsi per tutti gli stati d'Italia, trascinano abbiettamente una miserabile vita. Dai governi attuali, generalmente dispregiati, pochi di essi furono al servizio dei prìncipi che ora tiranneggiano quel paese ammessi, e non pochi di quelli, che nelle pianure della Prussia, della Germania, di Raab, della Russia, e soprattutto sulle ineguali montuosità della Spagna tanto si distinsero, in oggi, vicini ai loro focolari nell'inopia e forzatamente neghittosi, giacciono fremendo e deplorando la dura sorte, cui vedono l'onore italiano, condannato, ed altro non aspettano se non la favorevole occasione, per islanciarsi nel nuovo arringo di più risplendente gloria, e a prò della patria, per ferocemente lottare.

Altri pure havvene non men valorosi, sebbene forse alcun tanto meno esperimentati, per l'età loro giovanile impediti, nel tempo delle ultime guerre, ad essere compagni degl'Italiani alteri degli allori mietuti ne' campi della vittoria, che da quattordici anni in quà la carriera delle armi, sotto agli attuali tiranni seguirono, e che tanto per le conoscenze tattiche, acquistate, quanto pei loro sublimi [2-165] pensieri, potranno in quelle colonne volanti, recare inestimabili servigii. Le operazioni di queste colonne come l'ordinamento loro, piuttosto alla guerra grave, che alla leggiera spettando, e non essendo intendimento nostro di parlare di quella; ci asterremo d'indicare le loro incombenze. Solo conchiuderemo con dire, che dovranno i capi di quella, far in sè stessi ritratto, dell'inclito Sertorio uno dei più grandi capitani che abbiano esistito prima di Cesare, il quale come quello che la guerra leggiera perfettamente conosceva, stancò e spossò il grande Pompeo, del quale come se stato fosse un fanciullo, prendeasi trastullo. Vienci dal divino Plutarco spiegato il metodo da quell'abile e sagace guerriero con invincibile costanza tenuto. Non meno utile insegnamento per quella guerra, potranno i capi, dalla vita ed operazioni militari del prode Scanderbeg ottenere, che immortal gloria, nel secolo 1500, acquistossi facendo la guerra contro ai Turchi, cui erasi ribellato, e che gli elogi del papa, e di tutt'i regnanti di quel tempo in Europa, ad una voce riscosse. Altrettanto degna di essere altamente commendata, e per quanto il conceda la differenza delle circostanze, applicabile da un capo di truppa regolare, in istato d'insurrezione, [2-166] sarà pur anche la condotta del celebre ammiraglio Gasparo di Colignì. Quel grand'uomo comandando agli Ugonotti, perdute quattro battaglie decisive; ad onta della cattiva sorte, seppe col valore e con l'arti sue, vigorosamente risorgere, sempre a' suoi nemici più formidabile presentarsi. Finalmente raccomandiamo ai comandanti delle colonne volanti di studiare attentamente il metodo adottato nella guerra dei sette anni, dal barone di Treuk alla testa dei Panduri, del celebre Hofer nel Tirolo contro alla forza colossale dell'impero francese e finalmente quella del già tante volte citato, e mai sempre celebre Espoz y Mina nei due ultimi anni della guerra dell'indipendenza: e da siffatti insegnamenti potranno tesori di verace utilità guadagnare.

Quante volte poi il connestabile delegato militare della provincia, veda pell'aumento progressivo di queste colonne volanti, non meno che pell'esistenza di mezzi materiali, essere possibile passare ad un ordinamento ancor più regolare; procederà, per ordine del condottiero supremo, alla formazione di tutte quelle legioni che la forza disponibile regolare della provincia, renderà con fornire i mezzi, fattibile: e queste comandate da tribuni legionarj, composte di tutte le armi corrispondenti, cioè di [2-167] fanti, cavalli, ed artiglieria, seco loro portando tutto il necessario al loro sostentamento; saranno la base, il principio dell'esercito regolare italiano, che bel bello ingrossando, compirà con brillanti e decisive operazioni, la grand'opera della riunione, independenza e libertà dell'Italia.

CAPITOLO X. PARTE ATTIVA DELLO SPIRITO PUBLICO. — COOPERAZIONE NAZIONALE.

Nei cuori della maggior parte degl'Italiani quella pura fiamma divampa ch'all'acquisto dell'unione, indipendenza, e libertà della patria sospinge: ma per la tristizia del tempo che trascorre, per confuso intricamento delle circostanze, per la compressione prodotta dalla forza nemica, per la diffidenza reciproca; ogni unità non poco paventa di manifestarsi alla spartita, e di riuscire ai santi interessi del popolo perniciosa, anzicchè profittevole. Pertanto, a buon dritto lo sfogo dei sentimenti comprimesi, e col velo della simulazione, [2-168] il generoso impulso del cuore ardente, debbesi ad arte ricoprire: ma dai primi prosperi successi delle bande, di bocca in bocca divulgati, dall'entusiasmo magnificati e giustamente dal savio esaltati, e benedetti; lo scoppio generale ridonda, che, qual torrente, lungo la sua via rigonfiando, dalle rive trabocca, e tutto seco trascinando, quanto si oppone al rapido e maestoso suo corso, involve, distrugge, annienta. Poscia poi vittorioso si pacifica, e trionfante riposa.

Dal fatto d'arme di Lexington in America e dal combattimento del Bruch in Ispagna, le provincie d'ambi quei stati, all'impiego immediato d'ogni mezzo possibile d'attacco e difesa, si decisero. Gli amici della patria da quel primo successo incoraggiati, ovunque alla guerra più attiva si rinforzarono, nè deposero le armi se non quando il decoro, e l'indipendenza di lei, rimasero assicurati. Così pure dopo il primo felice successo delle bande, sarà in Italia per avvenire. Da ogni lato, da ogni classe di persone, da ogni sorta d'armi, verrà l'inimico sì fattamente assalito, che spaventato e confuso, non troverà in alcuna parte della penisola nè respiro, nè salvezza. Allora quando sopraffatto da maraviglia e dalla massa di contadini amici della patria, che il [2-169] canonico Montanà di Manresa, nelle vicinanze del Bruch, contro la sua colonna raccolse; il generale Chabran preso da grandissima paura, si decise alla ritirata, dice il nostro Vacani che: «Quelli fra i villaggi da lui lasciati in ischiena, che avevangli mostrato al suo passaggio un'accoglienza più amichevole, si fecero pei primi subitamente a sbarrare le strade, troncar fossi, romper ponti, ed a guernire di genti armate di sassi, di lancie, di fucili, i tetti, le porte, e le finestre, onde ebbesi gran pena a ripassarli. L'artiglieria, ed i bagagli andarono perduti; i corpi si disciolsero, e se non che la notte sopraggiunse, e lo spavento ebbe in parte contenuto gli abitanti, in parte messe le ali ai fuggitivi, pochi sarebbero scampati.» Così seguita il citato scrittore: «Pervennero in quel giorno i bellicosi Manresani, e gli abitanti dei vicini monti, e paesi a liberarsi dalla presenza del nemico, avviluppandolo, e assalendolo alla rinfusa in siti ad esso ignoti.» L'intera popolazione italiana essendo dall'ardente, e sacrosanto fuoco dell'amor della patria, d'alto coraggio accalorata; giunto il momento creduto favorevole, tutti gl'individui alla cooperazione del sublime progetto di renderla una, independente e libera, fervorosamente si accingeranno. Vecchi, giovani, donne, [2-170] ragazzi, tutti da quel generoso ardore ponderosamente concitati, cercheranno in qualche modo di rendere alla santa causa, valevole servizio, onde poi con ragione darsene vanto all'avvenire, sclamando: «Io fui pur anco alla grand'opra della patria rigenerazione, non disutile cooperatore!» Nessuno in tal momento neghittoso rimane, un vecchio venerando, sebbene per l'età cadente debole e tremante, si occupa non dimeno con entusiasmo, tutti gl'ingredienti per far la polvere da schioppo, a raccogliere nell'angolo del suo focolare. Altro canuto e decrepito ajutato dai ragazzi, stà liquefacendo piombo per formare le palle, onde distruggere i nemici del suo paese, altro pur vedesi tutt'occupato ad affilare i pugnali pei figli che si preparano a portarsi al campo, e le armi vecchie della casa, gli schioppi, tromboni, sciabole, spade, e coltelli pulisce dalla ruggine, ed in buono stato ripone. Un altro forma lancie, picche, ed a ferrare un grosso e noderuto bastone, onde renderlo atto a servire di massa, è con tutt'i pensieri affaccendato. Tutti anelanti, non temono, che il riposo, e l'inerzia: ognuno ha presto il suo schioppo onde dalle finestre, tetti, e feritoie a bella posta nel muro della casa praticate, a danno dei nemici del paese e a tempo, valersene. [2-171] Tutte intente si mirano la madre, la zia, la nonna a riunire vettovaglie, a fare d'ogni sorta di camangiari copioso ammanimento, a preparar filaccie, bende, e medicamenti pe' feriti, ad abbracciare e benedire i loro figli, che alla difesa della patria s'avviano, cui il sacro dovere impongono di morire se loro non arriderà la fortuna e di poter quai veri Italiani liberi ed independenti, nel seno della famiglia ritornare. I ragazzi, le fanciulle assise per terra a fare giorno e notte cartocci, menano della patria ventura, lieta festa, e mentre le mani sono al dovere impiegate, il cuore volto pure alla patria, le move con soave incitamento al canto, e con dilettosa gioia, da quelle ingenue e vezzose bocche vengono inni pel buon successo della causa italiana articolati, e pateticamente intuonati. Attenta la fedele consorte a riempire la bisaccia del marito, gli promette nello stesso tempo di non restare passiva spettatrice de' suoi pericoli, ma di cogliere pur essa il destro di essere utile al suo paese: la moglie, il marito, le sorelle, i fratelli, le innamorate, gli amanti, le amiche, gli amici, la madre ed il padre, esortano i campioni della patria independenza a valorosamente per essa combattere, a salvargli dalle mani dello straniero e dei tiranni, [2-172] o di gloriosamente morire. Accettano di buon grado i giovani robusti Italiani non inteneriti, ma dalla grandezza del progetto esaltati, le armi loro porte dai padri, le nappe dalle sorelle, le provvigioni dalle madri, e ad incontrar il nemico, cantando, arditamente incamminansi. Ecco tutta l'intera nazione correre spontaneamente alle armi, e seguendo l'esempio della spagnuola nella guerra dell'independenza, con sublime ed eroica determinazione in un subito sollevarsi. Ecco tutte le classi, tutte l'età, tutt'i sessi non avendo che un solo voto contro ai nemici del paese, di comun accordo marciare. Dice il Botta, che in America nel 1774 «non si udiva da ogni parte, che romor d'armi, o suoni di pifferi, o di tamburi; non si vedeva che gente, la quale con grandissima contenzione imparava le mosse e l'uso delle armi: giovani e vecchi, padri, e figliuoli e perfino le donne, in ciò tutti insistevano, chi per apprendere, e chi per dar animo, e conforto: fonder palle, far procaccio di polveri, erano occupazioni comuni diventate.» Tali pur diverranno le occupazioni degl'Italiani, quando saranno di mandar ad effetto il gran disegno, decisi.

Quella più gentile, dolce, leggiadra, ed attraente parte del genere umano, quella dilicata, [2-173] cortese, ed influente metà della nazione, le donne, tutta posseggono la capacità per dare un opportuno e decisivo impulso, all'esito felice della contesa, conducevole. Chi mai sarebbe tanto insensato, che un'assoluta influenza sul cuore dell'uomo, pretendesse a quell'avvenente sesso negare? Pochi sono i cuori, che non sieno stati al suo impero soggetti, ed esenti di novamente ricadervi. Quante non si commisero inaudite e sorprendenti azioni, sì detestabili che laudevoli da uomini trasportati dal furore in essi loro eccitato dalle donne che il misterioso segreto per signoreggiare il cuore, non men che l'intelletto dei viventi, serbano appieno nelle loro mani? Checchè di un qualche raro esempio di certuni che furono delle donne abborritori, si possa dire, non è però non vero, e nessuno potrà non concedere, che nel genere umano, le masse non siano in gran parte dalla forza della loro attrazione, al lor dominio ampiamente assoggettate! Cosa giusta, e convenevole! Quell'integrante parte della nazione, fù per essere compagna, stimata ed amata dall'uomo, fù posta giudiziosamente dalla natura, e può, dev'essere utilissima, quante volte verso il bene generale e la felicità della patria, la sua influenza indirizzi. Che non fecero, che non operarono, le illustri donne [2-174] americane, spagnuole e greche, in quelle stupende rivoluzioni per la patria independenza e libertà intraprese ed a buon fine recate? Ecco quanto ci vien detto dal sopramentovato Botta sulla mirabile fortezza delle donne Caroliniane: «In mezzo a così fiera catastrofe, le donne caroliniane diedero l'esempio di una fortezza più che virile; e tanto amore dimostrarono di quella patria americana, che per me non saprei, se le storie sì antiche, che moderne ci abbiano tramandato la memoria di uguali, non che di maggiori. Non solo non tenevano a male, ma e' si rallegravano e si gloriavano all'essere chiamate col nome di donne ribelli, in vece di andarsene per le adunate publiche, dove si facevano le feste, ed i rallegramenti, concorrevano a bordo delle navi, ed in altri luoghi, in cui erano tenuti prigioni i consorti loro, i figliuoli, e gli amici, e quivi con modi pieni di cortesia gli consolavano, e riconfortavano. Stessero forti, dicevano, non cedessero al furor de' tiranni; doversi anteporre le prigioni all'infamia, la morte alla servitù; risguardar l'America, i suoi diletti campioni; sperare, i mali loro, dover fruttificare, e produrre, e confermare quella inestimabile libertà contro gli attentati dei ladroni d'Inghilterra; martiri essi essere, ma martiri [2-175] di una causa sacra agli uomini, e grata a Dio.» Con tali detti ivano queste valorose donne disasperando i mali dei miseri cattivi. Allorchè i conquistatori nelle festevoli brigate e ne' lieti concerti convenivano, non accadea mai che volessero le Caroliniane intervenirvi, e quelle poche che facevano altrimenti, n'erano presso le altre disgraziate: ma che arrivava prigioniero in Charlestown un uffiziale d'America, tosto il ricercavano e con ogni sorta di più onesta cortesia e con ogni segno di osservanza e di rispetto, il proseguivano. Altre nei luoghi più segreti delle case loro convenivano, e quivi addolorate lamentavano le sventure della patria. Altre i mariti loro incerti e titubanti riconfortavano, sicchè preferiron essi all'interesse ed ai commodi della vita un disagioso esiglio, nè poche furon quelle le quali venute per la costanza loro in odio ai vincitori, furon dalla patria bandite ed ebbero i beni posti al fisco. Queste nel prendere l'ultimo congedo dai padri, dai figliuoli, dai fratelli, e dagli sposi loro non che alcun segno dessero della fralezza; non sò se nel presente caso io mi debba meglio dire maschile o femminile, gli esortavano e scongiuravano, fossero di buono, e saldo proponimento, non cedessero alla fortuna, e non sofferissero, che l'amore, [2-176] che portavano alle famiglie loro, tanto in essi potesse, che dimenticassero quello, di che erano alla patria debitori. Quando poi, siccome accadde poco dopo, furono comprese in un bando dato ai libertini, abbandonate colla medesima costanza le natie terre ed esulando anch'esse, i mariti loro accompagnarono in lontane contrade! ed anche sulle fetide, e schife navi gli seguitarono, che a quelli servivano di prigione. Ivi ridotte in somma povertà nutrendosi di vilissimi cibi, andavano con miserabile spettacolo mendicando il pane; molte ch'erano nate ed allevate in mezzo alle ricchezze, non solo ai soliti agi rinunziarono della passata vita, ed alla speranza della condizione avvenire delle famiglie loro, ma ancora ai più grossi lavori ed ai più umili servigj le disavvezze mani accommodarono. Tutte queste cose facevano non che con fortezza, con allegrezza; l'esempio loro confermò gli altri, e da questa fermezza delle caroliniane donne, stette principalmente, che non venisse spento affatto nelle meridionali provincie il desiderio, ed il nome della libertà. Da questo conobbero anche gl'Inglesi che avevano alle mani un'impresa più dura di quello, che prima si fossero fatti a credere. Imperciocchè il più manifesto segno della generale opinione e dell'ostinazione dei [2-177] popoli in qualche publica faccenda, loro quello sia, che le donne ne siano venute a parte, ed in questa abbiano posta la loro immaginazione, la quale se più debole, e più variabile di quella degli uomini, quando in calma, è bene molto più tenace, e forte, quando è mossa, ed accesa.» E se tanto a giusto titolo, vengono da quell'autore le illustri donne americane, per la forza del loro animo, la fermezza del loro carattere, la loro carità spiegata al ben della patria encomiate; che non dovrassi dire di quelle eroine spagnuole, che nella guerra dell'independenza presero attiva ed efficacissima parte? Nel memorabile assedio di Saragozza, formate in compagnie armate di pugnali, di picche ed alcune anche di tromboni, in mezzo al fuoco micidiale del nemico, sotto una pioggia di palle di moschetto, di cannone, di scaglie, con animo sicuro e tranquillo, le une alla cura dei feriti accudivano, le altre tutta la loro sollecitudine ponevano a recare acqua, vino e provvigioni di ogni genere ai difensori della città. La sempremai rinomata contessa Burita di alta prosapia, giovane dilicata e bellissima, non meno ardimentosa che gentile, aveva instituito un corpo regolare di donne, e sempre in mezzo al fuoco il più tremendo, si vedeva in quelle occupazioni [2-178] ch'erano divenute il suo dovere, serenamente applicata. Nè il corso di due intieri mesi d'imminenti pericoli, chè tanto durò l'assedio, ai quali volontariamente si espose, la minor alterazione sul suo vago aspetto e dilicatezza della persona produsse, nè nulla di contrario o terribile fù mai, dal suo eroico proponimento, capace di farla, non che retrocedere, deviare. Non meno bella, non meno decisa, non meno attiva fù la signora Fitzgerald, comandante le compagnie di donne alla difesa di Gerona. Così si esprime il nostro Vacani parlando di quella difesa: «Persino le donne raccolte in compagnia sotto il comando della Fitzgerald si recarono alle brecce, o si tennero in luoghi convenienti onde compire in modo il più sollecito, ove il bisogno il richiedeva, e col coraggio, che in tutte traspirava, il generoso uffizio di raccogliere i feriti, e recare soccorsi e provvigioni ai defensori.» E parlando dell'assedio di Saragozza: «Nè le dame stesse accostumate agli agi della vita sdegnavano di aggregare i loro uffici più miti, e più pietosi, a quelli più vivaci della difesa. Esse accordavano all'eroismo sventurato il soccorso delle loro mani nel cicatrizzare le ferite di chi alla patria tutto, tutto, apparteneva. V'ebbero quindi all'uopo sotto il comando [2-179] della contessa di Burita alcune compagnie di nobili e plebee destinate a raccogliere i feriti ed averne cura, a munire di provvigioni da bocca, e da guerra, i soldati, e le guardie, ai posti i più avvanzati, ed a concorrere insomma coll'armata in non men gravi operazioni indirizzate alla difesa. E la gara che in esse s'introdusse nell'esercizio di queste loro funzioni fù tanta, che molte armaronsi ben anco e tutti corsero quei pericoli che agli uomini soltanto erano stati fin ad allora riservati. Quindi stabilendo un'efficace emulazione nel coraggio, esse tentarono non solo di eguagliarli, ma di superarli in quel difficile aringo della gloria militare.» Esempio di maravigliosa carità della patria, quello pure si fù che alcune cronache del tempo della guerra dell'independenza spagnuola ci conservano, di una eroina dimorante in Madrid, la quale poichè la funesta catastrofe dei due maggio, ebbe luogo; avendo cinque uffiziali francesi d'alloggio in casa sua, da violento desiderio di vendetta, da fervido e purissimo amor di patria, da incontenibile livore contro agli oppressori della Spagna, esaltata, e spinta, appigliossi alla terribile risoluzione di tor la vita a quei cinque nemici ed unitamente alla sua persona non meno che a quella di una vezzosissima [2-180] sua figlia, in olocausto, sull'altare della patria, con devoto affetto immolare. In fatti confidato il robusto progetto e con mirabile decisione dalla venusta giovine donzella prontamente approvato; misero tutte le loro arti più sottili e scaltrite in giuoco, fecero delle tante femminili lusinghiere attrattive pomposa mostra, usarono delle più affabili e seducenti maniere, onde le loro vittime vezzeggiare, e rinfrancare, per poi quindi ferocemente accopparle. Giovani, caldi, floridi, ed alla licenza, anzi che alla castità propensi, non tardarono quegli uffiziali dell'inusitato e cortese accoglimento a rallegrarsi, e secondo il loro costume della dimestichezza avvantaggiandosi, francamente senza malizia, con elleno a galanteggiare incominciarono. Arrivati a quel punto, perlocchè non durò molta fatica, nè ad impiegar ebbe lungo tempo; fece tosto l'illustre signora un lautissimo pasto imbandire, dei più squisiti, e dilicati cibi, che si potessero nel paese trovare, fornito. Conoscendo inoltre essere quegli uffiziali inclinati a gareggiare a chi più beva ed amatori dei più famosi vini, ne fece di varie qualità e dei migliori provvista. Quindi con una chimica preparazione da lei all'uopo ritrovata, che senza dargli cattivo sapore, nè cambiargli il [2-181] colore, nel vino infondere potevasi, l'avvelenò tutto quanto unita poscia un bel giorno a mensa la giuliva brigata, la madre e la figlia a gara l'un l'altra a gavazzare sforzandosi, varie e varie volte co' stranieri bevettero, ed or con questo, or con quello, or con tutti assieme facendo brindisi, con tali soavi modi, ripetute volte indussero quegli uffiziali l'avvelenato liquore a traccannare. Ma non appena giunti alla metà dello splendido convito, i dolorosi effetti del veleno cominciarono negli uffiziali, che più delle donne avevano bevuto, a farsi con violenza sentire. Il pallore del viso i contorcimenti del corpo, lo stralunamento degli occhi, la lingua balbuziente, la parola, che in ogni atto loro moriva fra i denti, a chiare note indicavano il momento della vendetta essere giunto. Rizzatasi allora in piede la valorosa donna in cui pure gl'indizj della vicina morte manifestavansi, coll'accento di appassionata e spaventevole gioia, in queste voci ruppe che furono, anzi che parole, fulmini sterminatori, agli animi dei confidenti commensali. «Alfine, disse, la vendetta è compiuta: a voi crudi oppressori del mio paese un sol quarto d'ora di vita più non rimane. È misto al dolce vino da noi tutti bevuto, un violentissimo veleno: sono ben serrate le [2-182] porte, affinchè nessuno uscir possa, e da noi, quanti siamo, sarà in questo luogo, l'ultimo sospiro esalato. Noi adempimmo ad un santissimo dover cittadino, voi miserabili pagate il fio di esser entrati in un paese che non vi appartiene: Viva la patria!» Ciò detto, alquanto stette immobile, senz'alcuna cosa più dire, ma scossasi quindi, corse al collo dell'amatissima figlia e sopra un soffice canapè sdrajatesi, stringendosi vicendevolmente al seno amendue, baciandosi avvinchiate, in un coi cinque ospiti stranieri, con santo coraggio serenamente spirarono.

Qual singolar esempio d'animo eroico e ben rara virtù, sarà parimenti la bellissima e forte Tirolese contessa di Sternbach in eterno stimata. Videsi quella sorprendente donna, durante il corso della guerra, nelle file degl'insorti suoi compatrioti, ed in allora commilitoni, collo schioppo a traccolla, nudo l'acciaro balenandole in mano, fare alla testa d'una eletta schiera incredibili prodigj di valore, correre alla carica contro al nemico, disperatamente assalirlo e compiutamente fugarlo, mostrarsi pure di tanto in tanto, ora sopra una vetta ora sull'altra, guidando uno scelto stuolo di donzelle tra di loro in bellezza, virtù, coraggio, ed amor di patria [2-183] gareggianti, e da boschi, cespugli, siepi e macchie fuori della vista del nemico, con tiri ben aggiustati, senza posa molestarlo. E non poche volte di quel modo leggiero di combattere non contente, mosse dalla piena del loro cuore, e dal dolore inasprite, in linea viddersi l'abborrito nemico affrontare; finchè dovettero nell'infausto, ma ognor memorabile combattimento di Brixen, alla superiorità numerica della forza francese malavventuratamente soggiacere, dalla quale fù per mezzo della perfidia Austriaca, il Tirolo da tutte le parti invaso, ed i suoi difensori all'improvviso circondati. Fecesi non pertanto in quel giorno, sforzo, inaudito, ammirabile. Imperciocchè ognuno, essere cosa impossibile di vincere il nemico in battaglia conosceva e non dimeno tutti da furor di vendetta trasportati, maturarono risoluzione di morire, ma sbranando tutta volta, e struggendo, strozzando i barbari ch'eransi per assassinarli, nel Tirolo introdotti. Combatteva la diletta moglie al fianco dell'amante marito, la tenera sorella al gagliardo fratello d'accanto, la modesta figlia al lato del canuto suo padre, e la innamorata in unione del promesso sposo andar vedevasi all'antiguardo generosamente incontro ad una certa morte, poichè non v'era scampo a salute. [2-184] Trecento e venti giovani, ed eroine leggiadre in battaglione regolarmente ordinate, con magnanima risolutezza e valore combattendo, a varie cariche di cavalleria resistettero, ma dovettero infine al numero e qualità della truppa nemica, che sempre si rinnovava, inevitabilmente sottostare. Lor si offerse quartiere, ma fù da quelle maravigliose donne ferocemente ricusato, vennero per conseguenza di tal rifiuto, da una nuova carica di cavalleria sconfitte, tagliate a pezzi e del tutto esterminate. Oh avvenimento sempre mai memorabile negl'annali delle patrie sventure! Giorno di lutto interminabile per tutti gli amici della libertà de' popoli! Eppure quelle da tanto ardor di patria, si viddero animate, che mentre questo crudelissimo scempio perpetravasi, le chiare ed argentine loro voci spiranti sotto il coltello dell'assalitore si udivano con dilettosa e patetica gioia, inni alla patria festosamente intuonare! Dovrà sempre l'infelice sorte de' Tirolesi, come patrio testimonio, mostrare, quanto infame, traditore ed esecrabile, sia il gabinetto austriaco, istigatore e sostenitore di quelli, nella loro insurrezione contro a' Francesi e Bavaresi, e che poi alla vendetta di Bonaparte nel trattato dei 14 ottobre 1809, abbandonò que' patrioti così fedeli e gagliardi. Al [2-185] giogo francese non volendosi sottomettere il prode Hierler comandante dell'Iunthalb superiore, fece ancora un energico tentativo il sette di novembre, onde con un repentino e disperato combattimento, la fortuna della patria ristorare. Epperciò quando già il nemico tutte le città militarmente occupava, presa occasione dell'incendio del villaggio di Zirl, (di chè, sebbene avvenuto fosse per opera dei Tirolesi, furono le truppe bavaresi accagionate) riuniti i suoi compagni, e due battaglioni di ardimentose bellissime donne di tutto punto armate che aprivano la marcia, cadde furiosamente di notte addosso agli sbalorditi invasori ed ebbe ancora un giorno di vittoria e vendetta. Nove mila nemici furono sul campo trucidati, sedici cannoni e due casse furono il bottino dei vincitori. Evento gloriosissimo dallo spirito patrio nazionale prodotto, che mosse il popolo a riunirsi e combattere, quantunque il paese fosse tutto da nemici coperto, e che avrebbe ancora potuto far risorgere la fortuna della patria, ma non fruttò alcun bene, pel gran numero di forze francesi che sopravennero, e più ancora per la mancanza dell'appoggio austriaco sul quale gl'ignoranti montanari, avvezzi erano malavvedutamente a sperare. Epperciò privi della necessaria confidenza [2-186] in sè stessi, soggiacquero. Il fatto d'arme per tanto di Zirl ed il successivo di Brixen da noi già esposto, nei quali le donne del Tirolo più che spartane si dimostrarono e brillarono di chiarissima luce, furono della gloria tirolese l'ultimo ed onorato respiro.

Cuevillas, condottiero d'una banda spagnuola nella Rinja, era sempre da suo figlio di circa dodici anni e dalla sua moglie di ventisei, dappertutto accompagnato, e quella i migliori e più valorosi volontarj, nel combattere sorpassava. In una scaramuccia tolse un giorno colle proprie mani a tre francesi la persona. Quanto non fece in Grecia quella prode Bobolina, alla testa della sua banda? Quanti Turchi non distrusse? Quanti corpi nemici non mise in rotta? A qual genere di vita duro e penoso, non dovett'ella per la liberazione del paese sottomettersi?

Ora se tanti sublimi esempii di virtù patria, di robusto pensare, di carattere virile, ci vengono dalle Americane, dalle Spagnuole, dalle Tirolesi, dalle Greche forniti, dovremmo noi perciò dubitare che possansi quelle virtù riunite nelle donne italiane rinvenire? No, perchè l'indole appassionata, la vivacità della mente, l'ardore generoso, la costanza nei proponimenti, sono peculiari qualità che le nostre donne onorevolmente [2-187] distinguono. Le sole opportune congiunture per lo sviluppo di tante virtù, finora mancarono. Il nome di patria italiana era in disuso, nessuno all'unione, independenza e libertà di quella penisola pensava; o publicamente a ciò pensare, dimostrava. Solo di piangere in segreto sulla triste sua situazione, alcuni si contentavano. I rivoluzionarj motivi dell'anno 1820 e 21 delle due estremità del continente italiano, quei nobili e gagliardi sentimenti, nelle nostre donne a destar cominciarono, ma lo scopo di quelli non era con bastevole chiarezza manifestato e non davano per sè stessi buona fidanza della loro riuscita, e per dar campo allo slancio dei cuori magnanimi, tempo sufficiente non durarono. Eppure già fin d'allora e con tutte le indicate contrarietà, alcune altamente generose italiane, più non potendo il loro entusiasmo, risvegliatore dei purissimi e caldi affetti contenere, avvantaggio della santa causa, efficacemente il manifestarono. Quante immortali commendazioni tributarsi non deggiono alla principessina della Cisterna che ricca di fervido, profondo ed acutissimo ingegno, intenta con tenace costanza agli studii severi, tanto sul volgar uso inalzata schiva, oltremodo riflessiva; agli allettamenti del fasto, della grandezza della corte, l'amor [2-188] dell'umanità, la gloria della liberazione della patria, ad ogni affetto antepose? Tal donna con la efficacia della persuasione che dalla sua bocca forza maggiore acquistava, i suoi amici ad intraprendere quella grand'opera incoraggiva, agl'infelici che alla sconfitta di Novara dovettero per dura fatalità soggiacere, recava soccorsi e illesi rendea dalle persecuzioni tiranniche, ai rimanenti che saggie e nobili opinioni nutrivano, salutare conforto apprestava e loro infondea coraggio, generose speranze: ed eziandio, dopo il trionfo degli oppressori, vivo facea serbare il santo ardore di patria. Dovremo per avventura obbliare la Porta, signorina leggiadra e gentile che, astretto essendo il marito ad allontanarsi per alcun tempo dal Piemonte, onde il primo furore della tirannide restaurata schivare, le fu compagna all'esiglio, con forza veramente virile lo seguì, ed i ghiacci perpetui delle scoscese Alpi che sono il confine di quel paese verso la Francia, a piedi attraversò ramingando? Di quanti elogj non è meritevole la contessa Fracavalli di Milano, che sola di notte da quella capitale si partiva, passando in mezzo al detestato campo alemanno, per recarsi ora in Alessandria, ora in Novara ad esattamente i capi piemontesi, sulle forze, sullo stato del nemico ragguagliare [2-189] e scongiurarli di spingere almeno, almeno una riconoscenza, un distaccamento, fare insomma alcuna piccola dimostrazione in favore dell'Italia sopra Milano che con caldissima brama, nel suo recinto li attendea? Ma que' capi, o non vi posero mente, o al nobile invito opponean resistenza! Non saranno per tanto, in verun modo le italiche donne alle americane, alle spagnuole, alle tirolesi, alle greche nel sacrifizio per la patria, minori. Anzi allor quando le figlie d'Italia, la spada sguainata per la vendetta e per la liberazione d'Italia, vedranno lampeggiare in quelle infelici contrade, a tutte le donne per amor patrio famose, le vedrem sovrastare. Sorgeranno altra volta nella nostra classica terra quei prodigj di virtù de' quali le progenitrici delle nostre donne, le matrone romane diedero a dovizia, spettacolo! Così rivedremo fra noi signoreggiare la gloria intemerata e robusta che facea più bella l'età passata. Così nell'Italia, le Porzie, le Clelie, le Lugrezie, le Cornelie, vedremo mirabilmente rivivere. La natura di guerra nazionale spinge vecchi, fanciulli, donne, tutte le genti, a combattere in campo. Esistea nelle vicinanze di Madrid una banda comandata da un vecchio detto l'Abuelo, ossia l'avolo. Uno dei più intrepidi volontarj della banda, e che trovavasi [2-190] sempre all'antiguardo di Mina, non oltrepassava il quattordicesimo anno.

Non è dato fissare il grado di forza, di superiorità, cui lo spirito, il core dell'uomo, armati d'un saldo e verace proponimento, s'innalzano. Quando l'entusiasmo si fa generale, allora ogni giorno, ogni momento, da qualche impresa stupenda, impossibile ne' tempi di calma, viene certamente segnato. Allora quando i Francesi dominavano in Madrid e la corte di Giuseppe sostenuta da una forte guarnigione colà risiedeva, avvenne che i Mammalucchi della guardia imperiale di Napoleone, distinta e famosa per uomini e per cavalli, a quella capitale pervennero: giuntivi dalla porta di Alcalà, per la grande strada detta la Puerta del Sol, (dove gli abitanti usano d'intrattenersi e sulle notizie del giorno bucinare) tranquillamente sfilavano. Varj gruppi vedevansi di quei cittadini nelle lor cappe brune ravvolti che al mesto ma truce aspetto, di gente coll'animo a cose nuove rivolto, offrian la sembianza. Gli uni a sommessa voce, con numerose imprecazioni, mille mali pregando dal cielo a quella truppa brillante, gli altri sulle miserie dell'oppressione discorrendo, tutti attentamente la rimiravano. Sfilata la colonna alla volta del palazzo, il [2-191] cavallo restio d'uno di quei soldati, ora impennandosi, ora da una banda, ora da un'altra gettandosi, lo deviava dal cammino ed impedivagli di raggiungere i compagni, facendolo ad un bel tratto distante dalla colonna, indietro rimanere. Allora uno Spagnuolo da vero amor di patria sospinto, lascia incontanente i compagni coi quali discorreva, getta via la cappa che gli toglie l'agilità, brandisce un pugnale, che teneva nascosto, corre, spicca un salto, ed eccolo al cavallo del Mammalucco in groppa: quegli sorpreso, vuol dar di piglio alla sciabola, ma il tempo gli manca ed il mezzo. Stringe lo Spagnuolo sì fattamente il corpo del nemico fra le sue braccia, che gl'impedisce il respiro e vieta di muoversi, nel mentre che gli figge il brandito pugnale ripetutamente nel cuore. Si contorce il Mammalucco e dibattendosi, tenta l'estremo pruova: ma tutto è vano. Mortali son le ferite, scorre da quelle con furia il borbogliante sangue: contraffatto e pallido in volto, gli occhi chiudendo, nelle braccia dell'ardito cittadino s'abbandona il nemico. Quindi la testa e le illividite guance inchinando, dopo molti sospiri da singhiozzo accompagnati, tramanda fra penosissimi aneliti l'ultim'aura di vita. Affrettasi lo Spagnuolo a spogliarlo delle sue armi, e più [2-192] preziose suppellettili, che si appropria: con una forte urtata lo scavalca e gettalo strammazzone per terra, afferra le redini del cavallo, volta faccia indietro, ed a briglia sciolta, quasi di volo, fuori la porta di Atocha si addirizza, ove accompagnato dalle acclamazioni ed esultanze del popolo attonito ed approvatore, sen corre ad unirsi alla prima banda che trova presso a Madrid.

Un fabbricatore di merletti nella città di Vagliadolid, sentia con ragione pe' Francesi un odio così mortale, che mai senza averne uno o due tolti dal mondo, lasciava giorno passare. Ogni mattina al primo albeggiare, alla caccia di Francesi regolarmente se ne usciva. Ma siccome da truppe nemiche, con diligenza, le porte custodivansi, così era per lui giuocoforza che nei luoghi dove avea la certezza di non essere veduto, su per le mura s'arrampicasse. Tosto poi dall'altra parte calato, d'uno schioppo che sempre nel sobborgo teneva nascosto, si muniva e dopo di alcune ore d'utile caccia, tutto contento di aver con le proprie mani alcuni Francesi tolti di vita, quietamente al suo domicilio facea ritorno.

Eravi nelle vicinanze di Thomar un contadino dotato di una forza prodigiosa e corrispondente ardire, che costretto di rinunziare [2-193] alle sue pacifiche occupazioni, gli venne dall'amore della sua patria suggerito di ammazzar quanti più poteva Francesi, e delle loro spoglie mantener la sua vita, com'essi di quelle dei Portoghesi, sfoggiatamente vivevano. Quest'ardito difensore del suo paese, uccise più di trenta nemici colle sue proprie mani senz'ajuto di alcuno, e predò più di cinquanta cavalli e muli nel solo mese di febbrajo. Ei recava il suo bottino in Ábrantes, e colà vendevalo. Per tutto il tempo, in cui rimasero i Francesi nel paese, continuò la sua guerra singolare per proprio conto, e tanta, le sue operazioni gli fruttarono celebrità, che i Francesi misero ad un alto prezzo la sua testa senz'averla però mai conseguita. Era l'abituale sua residenza, una caverna nei monti ove i poveri abitanti delle parti adiacenti, nella speranza di trovare come realmente trovavano, una perfetta securità, sotto la sua protezione, in folla rifuggivano.

Un abitante di Ceballa, guatava sempre l'opportunità di poter un qualche nemico trar dal mondo, ed ogni qual volta un distaccamento francese di passaggio in quel paese giungeva, tosto portavasi egli sulla piazza, ed i soldati nemici ad accettare l'offerta della sua casa, senza di più stancarsi nell'attendere il biglietto d'alloggio, affabilmente invitava. Spossati [2-194] quegli uomini d'arme dalle giornaliere fatiche, cotale spontanea esibizione, d'uno da loro, partigiano di Francia riputato, con piacere accettavano. Egli, e la sua famiglia con somma cortesia loro preparavano la cena, e con spiriti, e vini aromatizzati, a poco a poco gl'inebriavano. Quando poi a' pieni di vino, giungeva il sonno profondo, in compagnia del suo figlio, senza che gli altri se n'accorgessero, dalla casa, uno alla volta di straforo estraeva. Quindi spogliatigli, portava i sonnolenti alla sponda del Tago, dove il cominciato sagrifizio sanguinosamente consumava. Toccò una sera tal vicenda ad un Francese affatto ancora non ubriaco siccom'era creduto, e che i suoi sentimenti tuttavia conservava. Avvedendosi quegli alla sponda del fiume del progettato omicidio, nella speranza di potere al nuoto giungere a Malpica, fortezza in fronte dell'altra parte situata e presidiata da guarnigione francese, d'un salto nel Tago si slancia, ma non tralascia l'ardente Spagnuolo il suo ardimentoso progetto. Laonde gettasi, sebbene vestito, nell'impetuoso fiume, e col pugnale alla mano in alto levato, alla malvagia vittima con ismania tien dietro; muove furiosamente le braccia e le gambe, raddoppia di sforzi, onde nel cammino, il soldato superare. Già già trovasi il Francese al punto di prender [2-195] terra, già salvo si crede, ma eccolo dal cittadino raggiunto, che cento volte nella schiena gli conficca il pugnale. Nuota nel proprio sangue, l'assalito ad un tratto; ma eccolo in breve, freddo ed esangue cadavere, supino a galla d'acqua venire. Soddisfatta così la nazionale vendetta, lo Spagnuolo a casa sua fa ritorno, ed abiti, armi e cavalli, alla prima banda che si presenta, rimette, affinchè vengano ai combattenti distribuite.

In Valdepennas, paese che giace al trivio delle strade di Madrid, Andalusia e Francia, epperciò a continuo passaggio di truppa soggetto, viveva un cittadino che in mezzo al cortile di sua casa, aveva un gran pozzo scavato, ove, di notte, tutti quant'i Francesi che in quella trovavansi alloggiati, per forza dentro precipitava. Aperto un giorno da alcuni soldati a caso il coperchio di tal pozzo, dal pestifero lezzo ch'esalava, fecero di ciò che poteva essere, pensiero. Si misero quindi con granchi di ferro a pescare in quella fetida chiavica e membra dei loro compagni d'arme sù ne riportarono. Allora da rabbiosa ira compresi, corrono addosso al padrone di casa, lo afferrano, ed a scavezzacollo in fondo della cloaca il rovesciano. Poscia, per essere maggiormente sicuri della sua morte, gettangli sopra, moltissime [2-196] grosse pietre, onde il ricoprano ed il pozzo riempiano. Partì l'indomani il distaccamento: i parenti, onde estrarre il cadavere e dargli onorevole sepoltura, tutti al fatal pozzo concorsero. Ma quale non fù la loro maraviglia, la loro gioia, quando scoperto dalle pietre che lo ingombravano, in piena vita e sano e salvo, il padrone di casa rinvennero? Scampato da quell'infetto sotterraneo, ricominciò di bel nuovo la sua guerra privata, che fino all'epoca della pace, senza interromperla, continuò: nè manca ragione per credere, ch'oggi ancor viva. Il calcolo già in altri capitoli esposto, fà conoscere appieno che il numero di due milioni di agili e robusti giovani, assai facilmente, dall'Italia alla guerra attiva, si può mettere in campo, e che secondo il più accurato calcolo, sette di loro dovrebber spegnere solamente un Tedesco: locchè senza fallo, renderebbe la guerra di pochissima durata, se fosse immediatamente intrapresa. Ma siccome gli ordini di quelli non meno, che la cooperazione alle loro nequizie, di uno stuolo d'Italiani ribaldi, alquanto potranno la loro completa distruzione ritardare; non saranno per tanto i diciotto milioni che avanzano, per istarsene spettatori passivi, ed una contesa nella quale si combatte pell'universale [2-197] benefizio, con sangue freddo mirare. Non pensiamo però che possa tal disgrazia avvenire. Imperciocchè i due milioni combattenti alle rimanenti famiglie appartengono, ed il padre, fratelli, sorelle, cugini saranno da un particolare stimolo concitati a rendere con la loro cooperazione, più corta la guerra e la vittoria più certa. E se tal motivo spingerà, come ragion vuole che si speri, tutt'i venti milioni d'abitanti d'Italia ad entrare nella patria tenzone; allora ogni trenta cinque o quaranta Italiani, dovrebbero soltanto una di quelle schifose bestie ammazzare. Quanto una guerra siffatta potrebbe per avventura durare? Pochissimi giorni soltanto! Accesi dunque i cittadini tutti, o la maggior parte di essi da quel santo entusiasmo che tanto s'accresce dalla coscienza delle nobili azioni pel publico bene operate; tutti tutti, per individuo e per massa, alla distruzione del nemico si aizzano. Noi abbiam veduto per gli esempi accennati, come un sol uomo di saldo volere possa un numero immenso di nemici distruggere. Gli animi caldissimi di tutti che a quello scopo collimano, con un paziente, perseverante, tenace, inflessibile ed invincibile spirito, alla salvezza della patria diretto, individualmente non men che in massa, guerreggieranno. In ogni paese, in [2-198] ogni villaggio, in ogni città s'eleveranno gli stendardi della patria, all'intorno de' quali gli abitanti del paese stringeranno per combattere. I primati d'ogni paese tenere dovranno i nomi di tutti gli abitanti, segnati e disposti in decurie, centurie e coorti, divise per età, sesso e capacità, tutti di quelle armi provveduti, ch'esser possano dalle circostanze, fornite. Ogni coorte, centuria o decuria avrà, secondo la sua capacità, un luogo previamente assegnato, nel quale al suono della campana, a stormo dovrà immediatamente convenire. Uomini eletti all'uopo staranno di giorno e di notte appostati, onde osservare se si presentano nemici, ed al primo apparire di qualche banda di soldati, corrieri alle terre circonvicine, subitamente spedire. Tale nel tempo della guerra dell'independenza, era in varie parti della Spagna, l'ordinamento dei somatenes, ossiano torme. Il generale san Ciro, alla pagina 21 e 22 del già più volte citato giornale, così parla: «Furono gli sforzi della Catalogna nell'ultima contesa, inauditi: armò ella quasi tutt'i suoi abitanti in istato di portar le armi, sotto il nome di somatenes, specie di milizia particolare a quella provincia: al primo tocco di campana, od a qualunque altro segnale, si provvedevano essi di viveri per varj [2-199] giorni, si portavano alle posizioni riconosciute come le più forti dei loro rispettivi cantoni, ed alla difesa del paese con, ed anche più delle truppe contribuivano. Ordinò quella, quaranta tercios di micheletti, il tercio era un corpo di fanteria leggiera più forte d'un battaglione ordinario, si componeva di dieci compagnie: la sua forza sommava a circa mille uomini; alcuni rimasero sempre al disotto di quel numero, ed altri al dissopra. I micheletti erano scelti tra i più agili dei somatenes senza contare un numero considerevole di reclute che fornì all'esercito regolare: a sue proprie spese, già fin da otto mesi e senza alcuno sborso del tesoro, manteneva il numero di quaranta sei mila uomini. I micheletti campeggiavano con la truppa di linea e partecipavano a tutte le sue operazioni, mentrechè i somatenes guardavano le montagne, le strade, gli stretti, rendevano le communicazioni impraticabili, perlustravano la marcia delle colonne nemiche sulla loro fronte e sui loro fianchi, appoggiavano tutt'i movimenti e proteggevano le ritirate dell'esercito regolare. Gli stessi abitanti delle fortezze e piazze difendevano i baluardi, locchè permettendo di scemare la guarnigione, rendeva disponibile una maggior quantità di soldati. Compagnie di donne, ordinate [2-200] in Gerona, prodigarono nel corso dell'assedio, alla patria stupendi e gloriosi servigi.» Da quanto viene detto da questo rinomato generale, dovranno gl'Italiani ammaestrarsi, e conoscere qual essere debba il modo atto allo scopo da tenersi nella rigenerazione d'Italia, e quale la cooperazione delle masse. Oltre de' sopra indicati, servigi indispensabili di molte altre specie, in questa guerra possono dalla cooperazione nazionale essere a grande vantaggio della patria, impiegati. Non parleremo della sollicitudine per far procaccio di polvere da schioppo, d'ogni sorta d'armi, e di munizioni necessarie, come debbansi quelle anche in ogni paese fabbricare, e con destra maniera in luogo sicuro nelle campagne e siti nascosti in ogni paese, ingannando la vigilanza del nemico, serbare. Indica Botta il modo dagli Americani messo a questo proposito in uso, e ci dice che i cannoni, le palle, ed altri strumenti da guerra, si trasportavano a traverso le poste sulle carrette cariche di letame, la polvere dentro i canestri, e le zane, di quelli, che concorreano al mercato, ed i cartocci erano nascosti dentro le casse piene di candele. Per tal maniera gli Americani, nell'intento loro gloriosamente riuscivano. Il contadino che per seminare, il campo apparecchia: tutto a romper le zolle e coll'aratro [2-201] a solcar la terra occupato, fra le vicine porche, da poca paglia coperto, carico e preparato il suo schioppo conserva: passa un distaccamento nemico, egli nol guarda, oppure umilmente abbassa il cappello, o il berretto. Tosto quello passato, se per accidente, o per istanchezza, o per diporto, alcun soldato è rimasto addietro, o se qualche ramingo per la strada solo, come sovente succede negli eserciti, di passare si fida, catelon, catellone dietro una siepe, o boscaglie, il contadino s'imposta e stassene al macchione, calcola ben bene il suo colpo, mira, spara, ed ecco il nemico a terra disteso: spogliatolo tosto, nasconde il bottino, strascina frà gli sterpi, o cespugli, ed in qualche profondo fosso il cadavere, ricarica lo schioppo, e riprende tranquillamente il suo lavoro. Stavano in Ispagna i contadini alle mosse de' Francesi di continuo attenti: agguatavansi vicino alle strade maestre, sorprendevano i corrieri e le ordinanze, e tanto molestavano i nemici, che gli costringevano ad impiegare numerose scorte, locchè il loro esercito notabilmente indeboliva: e malgrado quelle, tanto era il loro servizio, pericoloso, che nel 1809, sedici corrieri furono un giorno in Bajona imprigionati per avere negato di entrare in Ispagna. Imperciocchè a tutti era noto in quel [2-202] tempo, che appena uno fra sei, al suo destino felicemente giungeva. Cadevano i contadini repentinamente addosso a quei distaccamenti, che stimavano esser loro in forza inferiori, e tutti quei soldati, eziandio gli sviati dall'esercito principale, avevano la certezza di cader vittima d'una giusta vendetta. I posti ed i presidj collocati per la sicurezza delle strade militari, erano continuamente attaccati. I soldati costretti a fortificarsi in vecchi castelli, chiese, o case isolate o nelle pianure, in abitazioni poste all'ingresso di qualche villaggio. Gli Spagnuoli aveano sempre le loro sentinelle ucciso, o portate via, e per ciò impedire, s'introdusse l'uso dei Block Houlles, specie di torre tonda di legno circondata da un fosso e con un cannone montato sopra un perno: si collocavano pure in questi dei distaccamenti, ma, dice il Signor Lemiere, che fù quell'invenzione di poca utilità, perchè gli Spagnuoli giravano quei forti e le truppe obbligate a tener tante guarnigioni, erano dal troppo servizio spossate. Soventi accadeva in Ispagna, che dopo d'un combattimento, soldati nemici sbandati, entravano nei villaggi a cercar nuove dei loro commilitoni. Non tralasciavano i contadini di profittare di queste opportunità, e quei luoghi [2-203] dove sapevano esservi qualche banda, imboscata e dove supponevano dover quelli trovare una morte inevitabile, loro precisamente indicavano: e quando pochi erano i dispersi, sul luogo stesso li trucidavano. Se poi dall'esercito invasore al fine di vendicare la morte dei compagni, nuove truppe si spedivano, altro quelle non trovavano, se non un abbandonato villaggio sul quale, col distruggerlo, la loro vendetta isfogando, non facevano che le loro risorse pell'avvenire, notabilmente menomare. Prenda l'accorto abitante italiano dal soldato che in casa sua s'alloggia, sollecita informazione, per dove siano i suoi compagni diretti: quindi, gli strumenti di campagna in ispalla caricando, se n'esca di casa come se andar volesse a lavorare. Ma tosto fuori del paese, con alcuni amici si congiunga, pongasi a qualche difficil passo del cammino, in agguato, piombi sul distaccamento, che passa, lo distrugga; e quelle provvigioni e quegli articoli, ch'erasi l'altro procurato nel saccheggio del paese, tutto gli tolga ed alla casa riporti. Altri allegri garzoni, in apparenza cortese, i soldati a bere con essi loro all'osteria, come amici, invitino famigliarmente, e quando il bicchiere o boccale accosta il convitato alle labbra, con un gran [2-204] colpo sulla testa, stordiscanlo, e nello stesso tempo, vengagli da un altro, fitto destramente un coltello nel petto. Carri, uomini con barili, con botti di vino ed acquevite si lasciano dal nemico sorprendere e predare. Ogni soldato fatta la presa, vuole con quella ristorarsi; gode del bottino, e dassi per dissetarsi in sul bere, ma la sua morte tracanni, perchè fù quel vino, quel liquore a bella posta intossicato, e lasciato a bella posta dall'ingordo nemico rapire.

Mille mezzi inoltre potremmo atti alla completa distruzione del nemico facilmente proporre, ma ben sappiamo, che una volta, divenuto l'entusiasmo generale, e guidata la nazione da una ferma volontà, gli saprà essa medesima e migliori, ed in maggior quantità rinvenire. Finiremo il capitolo coll'esempio eroico dato dagli abitanti di Urda, paese situato nei monti di Toledo. Volendo pur essi il loro debito verso la patria convenientemente pagare, e non avendone avuto fin allora l'acconcio, simularono timore delle bande spagnuole, ed al generale francese, che comandava in Manzanares, dimandarono in grazia, che loro un battaglione inviasse e che nel paese stanziando, dalle incursioni di quelle, che grande molestia loro arrecavano, gli liberasse. [2-205] Aderì con piacere il generale; giunse il battaglione, e fù con apparente gioia ed affabilità universale ricevuto. Tutti del bisognevole andavano a gara di provvederlo, ogni famiglia si prese un soldato o due per alloggiarli nella propria casa: nessuno al quartiere rimase. Uffiziali e soldati tutti separatamente ripartiti, con grande baldoria fino alla notte gavazzarono, ognuno in quelle stesse case dove aveva banchettato, si pose a riposare. Dormivano tranquillamente i soldati, ma vegliavano gli abitanti, ed alla mezza notte ora previamente convenuta tra di loro, o dall'alcalde stabilita, ogni famiglia inerme, perchè il paese si trovava compiutamente disarmato, si porta passo passo, vicino ai dormienti soldati, s'impadronisce delle loro armi, con quelle, cadendo furiosamente sugli ospiti nel sonno immersi, invocando la patria, con mille ripetuti colpi gli scanna. In un quarto d'ora un solo straniero più non esiste in paese: si riunisce il popolo e sulla publica piazza, il bottino immediatamente divide e formasi colle armi degli ospiti una forte banda che prende tosto il campo e tutti si dispongono ad abbandonare il paese al primo sentore che il nemico da quella parte s'addirizzi. In fatti varie volte in appresso, per vendicare sì acerbo [2-206] insulto, le colonne francesi si presentarono, ma sempre il paese trovarono abbandonato: ma sempre da quelle montagne inseguiti e molestati fuggirono dopo aver molto sofferto. Operandosi in siffatta guisa, e tutta la nazione all'adempimento del gran disegno concorrendo, la guerra sarà forte, breve, decisamente proficua: saranno i nemici ognor frastornati ed impauriti, costretti a superare difficoltà d'ogni genere affatto nuove, nè dal miglior tattico della guerra regolare calcolati, nè calcolabili. Dovranno i nemici contro innumerevoli ostacoli cozzare fatti sorgere da quell'odio, da quella disperazione diventata nazionale, ed a cui la presente oppressione, opera degl'interni tiranni e dell'occupatore straniero, debbe a viva forza stimolar gl'Italiani. Questo popolo così bersagliato dalla sventura, e per cui la vendetta è dovere, se fia che veracemente voglia l'unione, l'independenza, e la libertà della Patria, senza dubbio conseguirà tanto bene. Potrà l'Italiano con atto di sublime vendetta, un glorioso avvenire ch'emendi il passato, prontamente lucrare, se come abbiamo indicato, per giungere ad una compiuta, intera, e permanente vittoria, vorrà i suoi mezzi a tanto scopo drizzare.

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CAPITOLO XI. DEL GOVERNO PROVISIONALE FINO ALLA PERFETTA LIBERAZIONE D'ITALIA.

Liberato dallo straniero, o dal nemico interno, un municipio, distretto, cantone, o provincia; non tarderassi, quella, secondo il sistema provisionale di governo da stabilirsi in tutta la parte libera del paese, a costituire, onde dare all'insurrezione consistenza, la guerra alimentare, delle risorse del paese trar partito, lo spirito dei cittadini animare, sostenere ed allo scopo vantaggioso per la patria, dirizzare, con esatte relazioni e con le necessarie provviste, i condottieri delle bande ajutare, e bande nuove creare. Abbenchè incompleto e nell'ordinamento suo, difettoso; ci diedero pur gli Spagnuoli, del modo di stabilire un provvisionale sistema, un esempio che può con leggi e misure transitorie, al popolo in armi, d'appoggio, ed allo stabilimento del futuro regolare governo, di base fondamentale servire. Il diciamo incompleto e difettoso, perchè il popolo nella sua illimitata confidenza verso le persone che a membri di quelle giunte nominò, [2-208] e dal suo ardente amor di patria abbacinato; non badò a propor restrizioni, nè limiti al loro potere, dimodocchè, una volta di quello in possesso, que' membri nel vizio caddero a che tanto l'ambizione umana è propensa, e solo da buoni ed immediati regolamenti esser può evitato, o contenuto: vogliamo ragionare di quel proposito da essi tenuto di estendere e mantenere, per quanto poteano, l'autorità lor conceduta. Per tanto le giunte provinciali spagnuole, a poco a poco si rilasciarono, e quell'amor di patria, che stato era della loro esistenza cagione, al funesto e sempre pernizioso amore e spirito di corporazione, concentrarono. Epperciò tosto che dopo la battaglia di Baylen, con somma vergogna, l'esercito del generale Dupont fù ad abbassare le armi costretto, e dopo che dovette Giuseppe Buonaparte colle pive in sacco ritirarsi, e Madrid frettolosamente abbandonare; da tanto strepitosi avvenimenti, coloro che componevano le giunte aggirati, la generale espulsione dei Francesi dalla penisola, come cosa certa ed immediata, inconsideratamente considerando, lasciaronsi da un eccesso pregiudizievole di confidenza trascinare, che i mezzi atti per ottenerla, a trascurare li spinse. Del tutto annighittiti, anzicchè fare eroici sforzi per [2-209] la liberazione della loro patria, divennero tali giunte, le une delle altre, gelose e ciascuna, che il bene generale si ottenesse col minor disagio possibile, desiderava. Nulla dimeno, che abbiano quelle giunte provinciali, al primo impeto dell'invasione resistito e con vigore, il nemico, per quanto fù loro dato, respinto; ad ognuno è ben noto. Ed eziandio che non abbiano esse cessato di agire con quell'energia, attività, ed amor di patria, che primieramente le stimolava, e quello, a' riguardi, considerazioni locali, e spirito di corpo, surrogato, non abbiano, se non dopo un lungo possesso dell'illimitato potere, e dopo che nella loro mente si fosse la falsa persuasione infusa dell'impossibilità della conquista per parte dello straniero e la certezza ideale della sua rovina; non v'ha osservatore politico alcuno in Europa, cui manifesto non apparisca. Fù dunque il principale errore commesso dal popolo, nel non limitare il tempo della durata ed estensione del potere delle giunte. Perciò l'idea generale del loro stabilimento, che vantaggiosissimo, la rivoluzione a consolidare, riputiamo, ci converrà d'afferrare, e quelle parti che gli avvenimenti mostrarono essere difettose, sarà di mestieri additare ed indi con giudizio e ben ponderata riflessione correggere. Vorrebbe il SigrLemiere, che la [2-210] giunta centrale, la prima fosse ad essere stabilita, e dal governo antecedente al movimento popolare, nominata, dalla quale tutte le giunte provinciali etc. emanerebbero. Ma siccome quell'autore, per un popolo dalla tirannia interna, e dall'occupazione straniera oppresso, non iscrisse, ma bensì per la Francia, come attualmente si trova, qualora fosse minacciata ed una prossima invasione straniera paventasse; ne consiegue, non essere quanto da lui si propone, per una guerra d'insurrezione nel caso presente d'Italia, punto adottabile. Il suo sistema dei circoli etc., tratti da quello della guerra della Vandea, non molto dal nostro delle provincie, cantoni etc., differisce: ma in quanto all'origine da lui data alle giunte, palesiamo intieramente opposta opinione. Vorrebb'egli, che il re od il governo esistente, alle sue attribuzioni e funzioni rinunziasse e dalla giunta centrale surrogar si facesse. Quale esser possa il suo scopo per cambiare il governo preesistente con uno supplementario e provisionale, all'epoca dell'invasione, scelto e nominato da quello che a lui cede il luogo; non ci è dato comprendere. Chiaro a chi l'uman core conosca, apparirà certamente, dover assai difficile cosa, per non dire impossibile, riuscire, che il prestabilito governo a spogliarsi del potere per investirne [2-211] la giunta centrale, acconsenta: poichè in tal modo, publica confessione farebbe della sua incapacità nel maneggio di guerra, epperciò indegno di comandare ad altri uomini dichiarerebbesi. Imperciocchè da tutti è in oggi essenzialmente riconosciuto, che chi al governo d'uno stato si trova, deve saperlo difendere, e se non perviene dalla straniera invasione a liberarlo, per quello, deve morire. E veramente qual codardo e stolto personaggio non rappresenterebbe quel re che all'approssimarsi del nemico, una Giunta centrale, del potere sovrano investisse, per andarsi fuori del rumor degli schioppi e dei cannoni, a nascondere? E quanta impudenza non dimostrerebbe quel re che nell'atto della difesa d'uno stato, lungi dal pericolo tenuto si fosse e nascosto, col togliere dopo ch'è tornata la calma, il potere sovrano dalle mani di quella giunta, che coi suoi lumi, coraggio e fatiche, avesse la vittoria ottenuto? Stabilirebbe forse il SignrLemiere per massima, che debbano nel tempo di pace gl'ignoranti e codardi dominare, gli uomini forti, retti ed illuminati restare oppressi? Egli suppone per verità, che inaspettate circostanze, le sue forze ad un tempo, e la sua potenza arrestassero: locchè a nostro parere, suppone già invaso il territorio, o già l'esercito [2-212] fuori di quello, battuto, oppure la pusillanime fuga dei principi come quella di Luigi XVIII e del conte d'Artois nel 1815 al tempo dello sbarco di Napoleone, e le fughe nelle passate guerre del tiranno di Napoli in particolare, e di tutti quei picciolissimi re, duchi, e principi, che si occupano con indefesso studio, le sostanze italiane a divorare. In qualunque di queste circostanze, noi portiamo opinione che dovrebbe cessare di esser re, colui che non volesse o più non potesse dirigere la guerra, ma non mai quella giunta nominare: e come mai possa questa e non il re, sostenersi, e tutto il gran movimento, regolare, non comprendiamo. Molte obbiezioni ancor più forti alla mente ci si presentano, ma una troppo lunga digressione, inutile pel nostro soggetto parendo, solo a rispondere alla nota della pagina 112 del trattato suddetto, ci limiteremo, ove dice l'istesso scrittore: «Dovrà senza dubbio quel consiglio centrale, essere stato nominato dal governo e da quello averne ricevuto il potere, altrimenti essere in ogni paese incivilito, un corpo incostituzionale, poichè i suoi membri non avrebbero nessuna legale missione per formare un governo provvisorio.» Secondo l'opinione del citato autore, il solo governo preesistente, render potrebbe l'esistenza di queste giunte [2-213] legale: e noi di nuovo domandiamo perchè quel governo avrà egli d'uopo di nominare una Giunta, quand'egli stesso farne le funzioni potrebbe? Ma volendo supporre che veramente nol possa, passeremo a domandare se altri mezzi egualmente ed anche più legali, per render valide le operazioni di quelle Giunte vi esistano. Secondo il parere del Signor Lemiere, non puossi ad altro giustamente ricorrere, com'egli chiaramente si spiega. Ma noi gli opporremo ciò ch'egli per avventura pensa e dire non osa, cioè che la vera, la pura, la giusta legalità dal popolo emana e dovrà sempre emanare, perchè quegli è che fà la guerra, ed è per lui, che si deve fare, che i re o governi preesistenti non sono legali se il popolo non lo accorda, e che quando questi alla direzione della somma delle cose, incapaci si veggono, tanto per fortuiti accidenti, quanto per qualunque altra cagione; al popolo spetta di nominare coloro che in sì pericolose congiunture debbano sostenerlo e dirigerlo, ed in cui deve una illimitata confidenza, riporre.

Tosto liberata una città, borgo, o villaggio, il condottiero o condottieri, che in quelli entrarono, nella chiesa, o sulla piazza, tutt'i [2-214] capi di famiglia del paese riuniranno: e dopo d'avergli fatto giurare nel modo il più solenne di abbandonare le case, ed anche bruciarle se sarà necessario, di prima morire che all'unione, independenza e libertà italiana rinunziare, ed in ogni possibil modo, le bande in armi sostenere, non meno che di costringere tutti gli abitanti abili a prender le armi, a correre alla difesa della patria in pericolo, sotto pena d'infamia e di morte; deve regolarmente per la nomina di un consiglio municipale fargli votare: quindi proceduto allo scrutinio dei consiglieri ossia primati, uno fra quelli sceglierà che il più idoneo alle circostanze del paese il condottiero riconosca, e lo dichiarerà immantinenti comarco. Poscia quegli individui ed il consiglio, porrà nell'esercizio delle loro rispettive funzioni.

Passando quindi alla liberazione di un distretto, nella città capitale di quello, il consiglio distrettuale convocherassi composto da un deputato di ciaschedun municipio appartenente al distretto e nello stesso modo del consiglio municipale, installato, uno pure frà i deputati verrà dal condottiero principale di distretto, scelto per essere il preside del consiglio distrettuale.

Sarà pure il cantone da un'assemblea cantonale [2-215] presieduta da un prefetto, regolato, e questa nello stesso modo dei distretti nominata, da un condottiero principale di cantone installata.

Finalmente dai deputati di tutt'i cantoni della provincia, verrà nominato un deputato per cantone onde formare la Giunta provinciale, che in conseguenza sarà composta di cinque persone, e sarà nell'istesso modo delle assemblee e dei consigli, installata dal condottiero principale di provincia cui pure un pretore, per dirigerla, spetterà di nominare.

Ai quindici di marzo, dal consiglio distrettuale fino alla Giunta provinciale inclusivamente, dovranno in ogni anno, tutti essere per elezione, nel modo di sovra esposto interamente rinnovati, e ond'evitare che troppo i membri al potere non s'affezionino, e che col tempo, nocevoli, anzicchè vantaggiosi, possano alla patria divenire. Il solo consiglio municipale, avrà la durata di tre anni, come quello, che la mano negli affari più complicati e particolari, aver dovrà delle bande e perciò, tante speziali intricatissime cose conoscere, onde poter tutti gli avvisi e schiarimenti, ai condottieri delle bande necessarj, comunicare con quell'esattezza e prontezza che in circostanze di tanto momento richieggonsi. Sarà inoltre soggetto a dovere il suo paese, [2-216] abbandonare: ed ogni qualvolta non si creda sicuro di essere dal nemico risparmiato, alle bande deve riunirsi. Fà di mestieri che non sia ad una rinnovazione frequentemente sottoposto. Minore vediamo il pericolo, se un consiglio municipale possa o voglia del supremo e perpetuo potere impossessarsi, di quello, che, se in più lunga permanenza si lasciassero gli altri magistrati, si correrebbe. Minore eziandio per le Giunte provinciali, assemblee cantonali e consigli distrettuali, credesi la probabilità, che siano ad abbandonare tanto facilmente il paese, dove riseggono, costrette: essendo del loro governo l'estensione, maggiore, cambiar potranno città, villaggio, etc., per continuarvi le di loro adunanze. Meno ad un nemico agevol cosa riuscirà un territorio alquanto esteso, che una semplice città o villaggio, militarmente occupare.

Dal consiglio municipale assistito, dovrà il Comarco volger l'occhio alla condotta di tutte le persone del paese per iscorgere se alcuno comunicazione mantenga coll'inimico. Se a quello soccorra, ed in qualunque modo assistenza gli arrechi, fia d'uopo arrestarlo ed alla prima banda, che nel vicinato s'appresenti, consegnarlo, dalla quale sarà, come un tant'enorme delitto di traditor della patria [2-217] richiede, giudicato e punito. Esatte notizie d'ogni movimento del nemico piccolo o grande che sia, ripetutamente ai condottieri dovrà spedire, onde se una manchi, l'altra pervenga se per caso passasse il nemico pel paese, e la sua autorità come molte volte in Ispagna accadea, per ottenere qualche requisizione, riconoscesse, dovrà il condottiero della banda più vicina, ed il condottiero principale di distretto immediatamente informarne. Ogni qual volta nel paese o circondario, volontarj ammalati o feriti esistano, dovrà, fino alla loro guarigione, tanto pel vitto, come per la loro infermità, prendere continua e somma cura, e qualora abbandonar debba il paese, fargli sulle montagne negli antri al nemico inaccessibili, trasportare, e per guarigione in quel luogo restare. Insomma unitamente al consiglio municipale, dovrà il comarco e tutti gli abitanti del circondario atti alla guerra, armare, ed in aumento e soccorso delle già esistenti bande, mandarli, oppure, se ancora non ve ne esistano, con quegli crearne. Potrà coll'approvazione del condottiero principale, dei vecchi rimanenti, una guardia di sicurezza, per ajuto nelle sue operazioni, istituire, che, sebbene d'uomini infermicci ed al di là dei cinquant'anni composta, potrà non dimeno, [2-218] per la difesa del luogo, contro a' piccoli distaccamenti nemici, e contro alcuni renitenti abitanti, se ve ne fossero, divenir vantaggiosa: dovrà, per quanto gli sia fattibile, alle bande, vettovaglie e munizioni, onde sostenerle, fornire, non meno che farle di tutte quelle risorse partecipi che nella sua posizione gli verrà fatto di ritrovare, o creare. Un uomo di guardia sulla torre più alta del luogo, sarà continuamente da lui tenuto alla veletta, onde a tempo dell'approssimarsi del nemico, essere avvertito e coi ripetuti tocchi della campana a stormo, tutte le torme degli abitanti radunare, e quindi l'avversario, quando probabilità fondata vi sia di poterlo distruggere, correre ad annichilare. Due altri modi d'agire, in caso contrario gli restano; l'uno d'inculcare agli abitanti di ricevere i barbari sotto apparenza d'indifferenti, ed anzi come loro parteggianti, coperti dalla più grande generale simulazione; l'altro di fuggire, se non v'è miglior scampo, ne' boschi. Sarà sempre il primo caso, possibile, quando per avventura quel villaggio o città ancor non siasi dal nemico, apertamente difeso, e non siasi in armi levata. Potranno i primati avvedutamente persuadere al nemico di aver alla forza più immediata ceduto, ed in varj modi confidenza [2-219] inspirargli. Tale aggiundolamento riuscito; allora, comarco, primati, donne, vecchi e ragazzi, i soli, che in questa guerra debbano a casa rimanere, a stuolo al loro incontro, come se tutto fosse in pace, usciranno, e nella sua permanenza, altro che i rustici canti del popolo, nei differenti domestici lavori occupato, non udrassi. Ma tosto che il villaggio, borgo o città troverassi dal nemico evacuata, le domestiche faccende a che ognuno trovasi addetto, faransi all'istante sospendere. Ciascuno fuori del nascondiglio dove stava celata, l'arma sua immantinenti trarrà, ed a tormentare il nemico ed il suo retroguardo a distruggere, accingerassi. Il secondo modo, quello cioè di fuggire ai boschi, sempre nel primo impulso popolare sarà seguito, quante volte già siasi il nazionale col nemico, battuto, quante volte sia un paese aperto in pianura, e gli abitanti, dei necessarj mezzi di resistenza deficienti. Tutti allora, senza eccezione, le poche indispensabili suppellettili e particolarmente le loro armi e munizioni addossatisi, nelle montagne intaneransi, ed in quelle, a guisa d'una tribù errante, dall'amor del loro paese, dal desiderio di vendetta e dal sentimento del loro dovere stimolati, dal comarco e primati diretti, la resistenza fino all'estremo prolungheranno. [2-220] Ed ogni volta, che loro in acconcio cadrà di tendere insidie e ragne al nemico, non dovranno, queste mai trascurarsi. Dalle bande quindi ajutati, una guerra senza posa di giorno e di notte, con accanimento continueranno ed in valevole compenso dei loro patimenti, quei vantaggi e dolcezze che da altro non possono provenire, se non dall'approvazione del proprio cuore, saranno per godere e delicatamente sentire. Molti villaggi, borghi e città di Spagna nelle sopra espresse circostanze, in tal maniera nella guerra dell'indipendenza, agirono. Generalmente parlando, quelle città solamente agl'invasori si arresero, che sotto all'influenza trovavansi della nobiltà e facoltosi possessori di grandi entrate. Ma fervente la massa del popolo d'amor di patria, dopo esser cadute per tradimento le città, i villaggi ancora difendeva, e quelli non solo, ma da persone d'ogni età, d'ogni classe, d'ogni sesso, erano pur anco le montagne ostinatamente difese. Fra tanti esempi che facilmente potremmo citare, basteranno a nostro avviso, i seguenti. Allora quando all'avvicinarsi di un distaccamento francese verso la metà di febbrajo, conobber gli abitanti di Villadrau in Catalogna, di non poter alla sua forza resistere, nei monti detti di Monsegne si retirarono. Invitati [2-221] dal comandante francese di ritornare alle loro case, risposero essere più contenti di rimanere dalla neve del monte seppelliti, che all'odioso dominio dello straniero sottomettersi. L'Alcalde di Casares nell'Alpujarra di Granata, acceso da quel santo entusiasmo, che solo può venir dalla libertà ed indipendenza della patria generato, sì tosto sepp'egli essere la Spagna da Napoleone invasa, e già i Francesi per porre nel paese da lui amministrato, il piede; sulla pubblica piazza, tutti gli abitanti del villaggio ragunati, ad intraprendere una guerra mortale e continua contro il nemico esortolli. A quel veemente e ardimentoso invito, un grido generale di approvazione levossi, e tutti a seguirlo indistintamente si disposero. Spettacolo maraviglioso! Ed il cuore d'ognuno, per duro che fosse s'inteneria nel vedere migliaia d'abitanti, dal pallido e cadente vegliardo fino al vezzeggiante fanciullo, tutti tutti d'armi, vettovaglie, suppellettili necessarie, intenti a caricarsi. Chi in un angolo le soprabbondanti vestimenta, provvigioni di casa abbruciava, chi nell'altro, mobili, carrozze, carri e letti spezzava: chi le botti degli squisitissimi vini di quelle contrade, rovesciava al suolo sino all'ultima goccia. Infine tutte quelle cose, che incapaci di trasportarsi [2-222] avrebbero potuto servire al nemico, distruggeano. Vecchi, giovani, fanciulli, donne, chi di schioppo, chi con pistole, chi collo spiedo, chi con forcone e chi finalmente altro non avendo, con stanghe, o bastoni, ciascuno sotto il peso della soprassoma, che porta sulle spalle curvato; tutti del loro padre e loro condottiero, l'alcalde, inni cantando dall'amor di patria ispirati, al seguito s'incamminarono. Perspicace l'Alcalde al pari che intrepido, ai monti quella turma condusse: e colà tutti coloro che atti a far una guerra lunga e penosa, per movimenti rapidi ed arditi servir gli potevano, in truppa ordinò: ed i vecchi, in varj appositi inaccessibili siti sovrastanti agli stretti ed a burroni, dietro grandi massi di pietre, con sano consiglio collocò: da dove senza muoversi, e da quelli coperti, potessero con lo schioppo, fuori del pericolo di essere offesi, l'avversario ammazzare. Nè solo alla difesa di quelle scabrose ed inarrivabili positure, contentossi di rimanere, ma le moltissime volte, fino quasi dentro Casares, che sebbene abbandonato e distrutto, dovettero i Francesi per forza occupare, a dar loro molestia scendea. [2-223] Volendosi gl'invasori da quell'inquietudine liberare, d'attaccarlo con vigore e distruggerlo divisarono, e contro a' quei dirupi, che qual base d'operazione all'alcalde servivano, baldanzosamente recaronsi: nè solo furono a combatterlo incapaci, ma neppur di raggiunger l'alcalde, nè la posizione sedentaria della sua tribù, fù loro dato mai di rintracciare: perchè quel patriota perfetto conoscitore del terreno da lui scelto per operare, d'un'opportunità si valeva che dalla natura stessa del luogo venivagli offerta, onde sparire dalla fronte del nemico, senza che fosse a quello fattibile l'orme sue di seguire. Favorivalo l'esistenza d'una spaziosa e lunga caverna, l'apertura della quale da alti ed estesi sassi, posti a cavaliere davanti, veniva in tal modo coperta e ben difesa l'entrata, alla quale, se non per intricatissimi e ripidi andirivieni di giungere non era permesso: perchè le sinuose loro direzioni sviavano il nemico, non abbastanza conoscitore di quelle aspre giravolte, ed a parte affatto opposta il facean pervenire. Prolungavasi questa caverna dentro la rocca per lo spazio di due miglia, e dall'altra parte per le viscere del monte passando, dava adito ad un profondissimo botro. Aveva l'alcalde la sua colonia in quella stabilita, e per mezzo delle [2-224] scorrerie sui nemici, sempre la tenne, a sufficienza di viveri provveduta. Tutti coloro, che le marcie e gli attacchi erano inabili a sostenere, gli ammalati e vecchi decrepiti, le partorienti ed i bambini, nella continua occupazione vivevano di conservare e distribuire le vettovaglie e munizioni, ed altresì di porgere a chi pativa, consolazione, alimento e medicine. Così regolandosi quest'eroico Alcalde, per sette anni continui, cioè fino alla pace, senza essere d'altro, che dal suo ardente amor per la patria, perspicacia e costanza sostenuto, una maravigliosa guerra, non men continua che mortale, a buon fine contro a' Francesi condusse. Quei sublimi esempi di patria virtù, servano d'amara rampogna alle nazioni vilmente inerti, che di servire a qualunque siasi padrone, purchè dai loro abituali comodi e divertimenti non gli distolga; senza vergogna, senza timore del vituperio si appagano. Pertanto i primati d'un paese conosciuto non potersi difendere e compreso nel raggio strategico del nemico, dovranno all'approssimarsi d'un suo distaccamento, ai cittadini, di seguirli ai monti od ai boschi ordinare, sotto pena di essere traditori della patria considerati. Tutte quelle provvigioni d'ogni genere, che incapaci ad essere trasportate, [2-225] potrebbero recare giovamento al nemico, dovransi distruggere, e se tempo bastante rimanga, vino, farine, pane, posti ne' nascondigli facili a rinvenirsi, avvelenare. Finalmente, lasciate le strade piene d'impedimenti e barricate, dal paese deserto ed interamente di ogni cosa servibile a' nemici, spogliato, gli abitanti allontaneransi. E se alimento rimane di che l'avido ad affamato invasore satollisi, la meritata morte da quel pasto riceva! I publici e privati edifizi incendieransi, le fiamme ed il fumo de' quali possano i barbari soffocare, od almeno, spargendo nella sua truppa confusione, stanchezza, spavento, a levarsi a rumore l'inducano. Ogni cosa insomma che al comarco e primati, di opporsi ai nemici del paese, idoneità qualunque sia per fornire, qual giusto mezzo dalla provvidenza nelle loro mani, inviato, onde ottenere la liberazione d'Italia, dovrà riguardarsi.

Il consiglio distrettuale e l'assemblea di cantone, nei limiti della loro giurisdizione, all'adempimento delle già dette disposizioni vigileranno e d'anelli intermediarj serviranno fra i municipj, e la Giunta provinciale: in modo, che fra loro, quella scala gerarchica esista del maggiore e minore, che attivi e [2-226] agevoli le operazioni, e che l'inferior magistrato all'implicita obbedienza del superiore, costringa.

La Giunta provinciale eserciterà provvisionalmente il potere nei limiti della sua provincia, ma non mai al comando e regolamento delle bande si dovrà quello estendere. Imperciocchè non debbono da nessun'altro dipendere se non dal condottiero supremo. I condottieri principali sotto agli ordini del detto condottiero supremo, non dovranno dalle Giunte dipendere. Ma se dal comandar alle bande deve astenersi, non è però, dal dovere di fornir loro le vettovaglie e necessarie munizioni, avvertimenti e consigli che possano abbisognare ai loro condottieri, esonerata, non meno che dall'obbligo d'adoprare ogni mezzo atto a procacciarle la confidenza del popolo della provincia. Dovrà della massa di coloro che nelle cose patrie, nei cantoni, distretti, e municipj esercitano una certa influenza, a poco a poco impadronirsi, tutti gli avvenimenti probabili, tanto felici, quanto avversi che a vantaggio o danno della provincia possano succedere, con avvedutezza prevedere, amministrare pronto rimedio, e metter loro a tempo, se sono della classe nocevole, opportuno impedimento: dovrà tutte le risorse [2-227] necessarie in una guerra lunga e penosa indagare, conoscere, ed eziandio creare, spiare le occasioni, afferrarle, profittarne, farle nascere, le opinioni che divergenti, possano portare una parte dei cittadini ad abbandonare per particolar considerazione, il partito della patria, ed anche, quando si trovasse sotto le bajonette nemiche, a tradirla, dovrà con accortezza conciliare. Imperciocchè gravissimo nocumento da quella divergenza potrebbe ridondare, che ispirando all'invasore baldanza, farebbe sì che s'avanzasse e tutte le vantaggiose circostanze dalla divisione dei ben pensanti cittadini presentategli, con la sua forza mettesse a profitto, e senza nemmeno dar loro il tempo di prendere lena, gli potrebbe tutti esterminare. Affinchè tutti si armino i cittadini atti alla guerra, e che bande si mettano nel maggior numero possibile in campo; dovrà energici indirizzi pubblicare, sostenere con sovvenzioni d'arme e di vettovaglie quegli abitanti che uniti in torme, abbandonato il paese, in massa ai monti od alle selve rifuggono: dovrà invigilare, affinchè i prefetti, presidi-comarchi, ed i loro rispettivi consigli attivamente e con energia cooperino alla liberazione della patria, ed immediatamente ai suoi ordini obbediscano, come pure in ogni miglior modo, lo spirito publico [2-228] animare, coll'annunzio di qualunque piccolo vantaggio dalle bande riportato, e la cosa maneggiare, affinchè venga dalla pubblica voce con esagerazione ripetuto e magnificato, ed in sì fatto modo quelle speranze, a cagione della disfatta di qualche banda, per avventura momentaneamente depresse, in isperanza di miglior fortuna ravvivare. Nè ad inviar soccorsi alle sole bande della provincia dovrà limitarsi, ma ben anche a quelle delle altre, che possono in libera comunicazione con lei trovarsi, ed essere dalla giunta della loro provincia tagliate fuori. Così le Giunte d'Arragona, e di Biscaglia, si regolarono: mandando varie volte soccorsi a Mina, mentre quegli nella Navarra campeggiava. Furono simili disposizioni ed indirizzi messi pur anche da tutte le Giunte provinciali di Spagna, e da quelle spezialmente di Badajoz, e di Siviglia, in uso: le quali dando il grido di guerra, i trionfanti invasori a nuovo certame sfidavano e la nazione spagnuola efficacemente destarono, che la difesa della sua independenza continuò con tanto glorioso vantaggio. La Giunta tutto disporrà onde si difendano i punti minacciati dal nemico e per far, che gli esistenti in mano sua, siano dalla truppa nazionale ripresi, darà le sue cure per [2-229] l'approvvigionamento, delle piazze, rocche e fortezze, di che trovasi la nazione in possesso: ed a tal uopo sarà dal condottiero supremo un connestabile delegato militare, nominato, con un consiglio di direzione, onde corpi regolari di fanti, cavalli ed artiglieria, come colonne volanti, formare per la difesa ed attacco delle piazze, che quindi poi in legioni ordinate, la base saranno del nuovo esercito regolare. Finalmente a tutto il necessario provvederà, affinchè la patria non soccomba, ed in una contesa di sì gran momento, vittoriosa riesca. Dal condottiero supremo dovrà esser riconosciuta ed i suoi non meno, che quelli a lui trasmessi dal condottiero principale di provincia in suo nome inviati, dovrà puntualmente e senza obbiezioni eseguire. Si manterrà in buona armonia ed in continua corrispondenza con le altre giunte: e quando le tre quarte parti di ciascuna delle quattro provincie siano libere, le giunte provinciali, alla nomina della consulta suprema procederanno. Di quanta vitale importanza debba essere all'Italia lo stabilimento di questa, non v'ha chi nol riconosca: sarà da quella, l'eccentrica generale azione della guerra, concentrata, e la prima unica ed essenzial base diverrà dell'unione italiana.

[2-230] Male in Ispagna al suo stabilimento si provvide. Le varie giunte provinciali recalcitranti si dimostrarono a spogliarsi della loro autorità sovrana, per, la giunta suprema, investirne, alcune di obbedire ai suoi editti ricusarono, altre i loro diputati con segrete istruzioni di provinciale dependenza spedirono, in modo che avrebbe dovuto la suprema, rimanere alle volontà di quelle, soggetta. Infine la giunta di Siviglia si eresse per propria volontà, e col voto solo della provincia, in giunta centrale, e fù di seguito riconosciuta da varie potenze d'Europa, ma non mai in tutte le parti della Spagna, fù obbedita. Molte delle provinciali di aver il diritto allegavano, anzi pur quello di formar giunta suprema centrale: le une il diritto di anterior ordinamento affacciando, le altre quello di antico statuto, o di convenienza de' luoghi e di tempi: dimodocchè quello stato di oscillazione nel maneggio del potere, deve grave danno alla patria produrre e la riescita della contesa ritardare. Onde prevenire siffatto inconveniente, noi già abbiamo la frequente rielezione dei membri delle giunte provinciali raccomandato, non meno che la di loro regolare elezione, affatto dal modo praticato dagli Spagnuoli diversa. Per tanto liberate le tre quarte parti del territorio delle quattro [2-231] provincie, calcolata la parte libera sull'estensione generale della penisola e non in ispezialtà alle rispettive; le giunte di queste, ed ogni assemblea di cantone invieranno uno dei cittadini che le compongono, qual deputato alla consulta suprema: locchè porterà il numero di quelli a ventiquattro, o ad un minore, se alcuni cantoni per via della presenza del nemico, non saranno ancora stati constituiti. Deriverà vantaggiosamente da questa elezione, che i deputati misti a quei de' cantoni, non porteranno lo spirito di corpo delle loro giunte, e che la suprema consulta eletta direttamente dalle cantonali assemblee, sarà più popolare e potrà più da vicino, lo stato, le risorse ed i bisogni dei cantoni conoscere. Tutte le volte che le giunte provinciali, cantoni, distretti e consiglio municipale, un deputato, presso del magistrato superiore nomineranno; per regolare elezione debbono surrogargli un altro, traendone uno dall'inferiore nel loro seno, ed il consiglio municipale, scegliendo frà i padri di famiglia.

La consulta suprema sarà formata dal condottiero supremo che nominerà il pretore massimo alla di lei presidenza, nella città di Roma. Ma se per circostanze particolari avverrà che non possa o non convenga pel [2-232] momento alla suprema consulta, di colà stabilirsi; non tralascierà per ciò di congregarsi od in una qualche ben munita piazza, od in una già libera dai nemici, o ben difesa provincia.

La suprema consulta sarà di tutto il potere civile sovrano, tanto rispetto alle provincie Italiane investita, quanto rispetto agli affari d'Italia che han relazioni collo straniero: sarà quel suo potere civile, il più esteso ed independente, che mai dar si possa. Tutt'i magistrati saranno tenuti a darle ragguaglio delle operazioni di essi: ma tal giunta non risponderà delle sue che innanzi al condottiero supremo. Ed in ogni mese li dirigerà una esatta relazione dello stato del paese e delle operazioni, invieralla ad ogni consiglio municipale che ne darà convenevole e circospetta comunicazione ai cittadini. Se i quattro quinti dei consigli municipali, esponessero al condottiero supremo in nome dei loro amministrati, che la suprema consulta operò contro il bene della patria e la dichiarassero priva della confidenza publica; dovrebbe quegli all'elezione di una nuova per intiero, nei modi stabiliti, immediatamente procedere. La suprema consulta si rinnoverà per metà ogni anno. Saranno alla fine del primo, tutt'i nomi dei membri che [2-233] la compongono, posti nell'urna ed a sorte ne verrà estratta la metà che in quel punto cesserà di funzionare, uscirà dall'impiego, e le succederanno nuovi deputati dai cantoni e giunte provinciali sù di cui è caduta la sorte del cambiamento, eletti regolarmente, che all'istante riuniransi ad esercitare l'incarico. Dopo del primo anno, certamente siffatta operazione di scrutinio, non dovrà replicarsi. Ed in fatti usciranno dal corpo quegl'individui che non furono nell'anno prima surrogati: e così d'anno in anno, sarà la consulta, senza che lo stato ne riceva la minima scossa nè indugio, per metà rinnovata. Così la nazione non temerà di trovare il potere nelle mani di pochi perpetuato. Il pretore massimo, eletto dal condottiero supremo, fuori del seno dei deputati, non durerà mai più d'un anno, e da quello sarà sempre rieletto prima del 25 di decembre, in che tutte quante le operazioni per l'elezione della consulta suprema, dovranno essere affatto compite. Dovrà in quel giorno stesso, la parte entrante prender possesso, e le bisogne del suo uffizio regolarmente disimpegnare. Il dovere di questa consulta, i suoi lavori, il suo scopo debbono essere diretti a soccorrere al condottiero supremo, a discacciare il nemico straniero fuori d'Italia, e l'interno estirpare. A [2-234] tal fine, avrà ella un potere civile illimitato fino al conseguimento dello scopo, onde fù stabilita. Ottenutolo, convocherà solenne parlamento nazionale, cui dovrà il suo potere rassegnare, ed immediatamente disciogliersi.

Tutti gli atti, disposizioni, stabilimenti, etc., ordinati e messi in esecuzione dalla consulta suprema, saranno sempre provisionali e di niun valore per l'avvenire, purchè non vengano dal parlamento nazionale approvati.

Tutt'i poteri, e doveri nelle giunte provinciali concentrati, divenendo queste soggette nell'atto della sua elezione, alla suprema consulta, riceveranno da quella un regolare movimento, una direzione stabile, un impulso uniforme e conveniente alla gran macchina dello stato. Tale consulta comunicherà puranco coi gabinetti stranieri. Imperciocchè divenendo l'Italia vittoriosa e forte, senza dubbio dalle potenze vicine e naturali nemiche sue, da quelle stesse che se la vedono debole, non le offriranno mai un soccorso per contribuire a renderla unita, indipendente e libera, anzi sempre il nemico suo sosterranno; riceverà, cangiata la sorte, proposte d'amicizia e di protezione. Nulla di meno, quelle, non mai tralasceranno di suscitare tradimenti, non meno che di appoggiare, e salvare i traditori. Persuase [2-235] quelle potenze, che la forza italiana si possa da sè stessa sostenere, e che tutta la probabilità del buon successo inclini dal canto delle armi rigeneratrici; invieranno agenti publici, o privati: e così varj di quei cittadini conosciuti per essere ancora non affatto scevri dall'infezione dell'antecedente stato di servaggio, al danno dell'Italia assolderanno che per poco, o molto, venduti come strumenti delle prave macchinazioni straniere, avranno principalmente l'incarico di suscitar timori, divulgar false notizie, seminar la diffidenza fra i cittadini, calunniare i migliori ed i preposti al governo, e l'uno contro l'altro, quelli stimolare, sparger la beffa sulle più belle cittadine intraprese di quel condottiero, che vero amatore della patria, guerreggierà, non seguendo le romanzesche leggi de' cavalieri erranti: e ciò per rapire a quel patriota l'opinione che d'aumento notabile della sua banda sarebbe cagione e la via gli spianerebbe a nuove luminose vittorie. Questi agenti avveleneranno con falsa interpretazione i discorsi de' migliori fra i cittadini, e le opere de' principali atleti difensori della patria, onde spargere la diffidenza, confusione, malcontento, terrore e così movere fazioni, e tener sempre gli animi divisi. Tuttocciò tenteran gli stranieri, per essere invitati [2-236] a porgere o per dare officiosamente amichevole consiglio, e per offrire la protezione de' loro gabinetti. Saranno pure incaricati gli stessi agenti pubblici o privati di propagare a suon di tromba pel mondo, che il paese trovasi sull'orlo del precipizio, di gridare all'anarchia, all'assassinio, alla violazione dei diritti e patti, che legano gli uomini d'una stessa nazione fra di loro, abbenchè sappian costoro che non possono in quel tempo i diritti, i patti aver vigore, perchè cessarono, quando furono da coloro contro de' quali l'Italia guerreggia, violati ed atrocemente conculcati, e che appunto per lo stabilimento della unione, ha impugnato le armi. Esaurite poi da quei prezzolati, tutte le invenzioni, i tranelli, i raggiri, le risorse del maltalento, vedendo inutili tutt'i loro sforzi riescire, e loro malgrado rifiorire ed acquistare novella forza l'Italia; gli stranieri allora cangieranno direzione ad un tratto, non già l'aspetto che sarà sempre stato di amici sinceri, ma ragionevoli e moderati, sempre avendo la schietta e cordiale amicizia da' loro governi decantato, sempre di perdoni e d'amnistie favellato. Per tanto prospera addivenendo la fortuna d'Italia, quegli artifiziosi nemici offriranno la di lor mediazione, onde fra le parti belligeranti stabilire un trattato, [2-237] con l'animo rivolto all'infame scopo d'impedire, che la parte avversa all'Italia, venga interamente distrutta. Indebolendo costoro la santa energia degl'Italiani, addormentando colle lusinghe la lor passione per una guerra gloriosa ed infondendo una sicurezza fallace, dirizzeranno le cure a far risorgere il partito de' tiranni e l'ignominia, l'oppressione, la calamità dell'Italia. Per giungere a questo scopo, modificazioni al sistema addottato s'avviseran di proporre, e se nessuno sarà ancor stabilito, uno che contenga il germe della distruzione in sè stesso e che generi col tempo la confusione, progetteranno: affinchè si possa far parere al mondo, che sia il popolo italiano, incontentabile, e non per principj, ma solo per ispirito d'insubordinazione e d'anarchia abbia levato rumore. E se finalmente, malgrado ciò, non potranno nel loro intento riuscire, dopo d'avere dato asilo ai tiranni d'Italia ed ai turpissimi loro seguaci, dopo d'aver loro permesso di cospirare, col provvederli abbenchè inutilmente, di denaro e tutt'altro, cercheranno almeno di potere acquistare l'influenza sopra del nuovo governo, renderlo propenso ai loro futuri disegni europei, e delle loro iniquità cooperatore servile. Ed è pur questa infallibilmente la progressione generale di condotta, [2-238] che saranno i gabinetti stranieri limitrofi per abbracciare, se le circostanze della politica del giorno, loro consiglieranno in ajuto dei barbari e degl'italici tiranni a non intervenire coll'armi. La consulta suprema non si lascierà dai maneggi ingannatori della politica esterna abbindolare, sarà sempre chiara, sincera, leale nelle promesse, ma per poco e soltanto per l'indispensabile, dovrà impegnar la sua fede. Sarà d'uopo alla consulta coll'estero, andar per le lunghe, vezzeggiare tutti coloro cui non potrà resistere, accrescere o scemare le sue pretese, le parole o promesse calcolare a seconda del grado della sua maggior possa o minore. Persuasa, che tutti gli altri gabinetti ad ingannarla concorrono, e che nessuno volontieri e di buona fede, il vantaggio d'Italia di promover desideri, dovrà, bilanciando, da tutti quanti trarre possibil partito, ed a tutti il meno che ceder possa, accordare.

Potrà finalmente la consulta, con molto profitto la sua alleanza collo straniero, ma in nessun tempo, la sua independenza, unione e libertà negoziare, che non mai, la minor diminuzione, ad onta d'ogni, abbenchè grave pericolo, dovran sopportare. Venti millioni d'abitanti decisi potranno conseguire e mantenere un tanto tesoro, se non mai saranno [2-239] l'aggressione dei nemici, abbenchè formidabili, a paventare disposti. Dovransi nel periodo dell'insurrezione, tutti gli ambasciatori stranieri licenziare. Imperciocchè accreditati presso al governo antecedente, trovansi a tutti coloro che necessariamente saranno del nuovo ordine di cose malcontenti, pur troppo d'opinione congiunti e potranno, per contrariare le disposizioni rivoluzionarie, di quei ribaldi valersi. Epperciò dovranno nel minor tempo possibile allontanarsi dal territorio italiano. Esser dovendo, per la circostanza del fatto, le relazioni con le potenze estere, interrotte; nessun maggior danno, rimandando i loro ambasciatori, potrà ridondarne. Un gabinetto cui essere amico d'Italia convenga, non troverà offesa in questa generale disposizione: ma se all'opposto, com'è cosa probabile, non vorrà essere amico per allora, all'insorta nazione; lascierà per alcun tempo, e sotto altri pretesti, il suo ambasciatore, affinchè la rovina della cosa publica, prima di partire, venga efficacemente da lui disposta: e per ultimo ad altro quegli ambasciatori non servirebbero, che a porre ostacoli all'andamento del governo che non fosse legalmente dai rispettivi gabinetti riconosciuto. Pruova di quest'asserzione, facilmente otterremo, purchè la condotta del [2-240] ministero inglese in tutte le rivoluzioni che da trent'anni sul continente successero, attentamente si ponderi. Si vedrà quel gabinetto, durante la rivoluzione di Francia, spedir a Parigi, lord Malmesburg, incaricato di trattare i preliminari di una pace che non aveva intenzione di conchiudere, ed altro non essere l'oggetto reale di questa missione se non quello di ben da vicino lo stato della republica osservare, uno stuolo d'agenti stabilire per rovesciarla, centralizzare le mire dei malcontenti di Francia, ed il partito inglese per la pace propenso, abbonacciare. Ma di ciò, avuta il direttorio sollecitamente contezza, a partire sul punto da Parigi tosto il costrinse. Nelle rivoluzioni del 1820, e 21 in Ispagna, ed Italia, furono gli ambasciatori dell'Inghilterra dai capi di quelle, come amici considerati, e con ogni confidenza trattati. Eppure tutti in generale, ma particolarmente il Signor Williams Acourt, prima in Napoli, poi in Ispagna, altro in fatti non era che un astuto cospiratore contro la causa della libertà, che per l'analogia colle istituzioni del suo paese in certo modo apprezzar dimostrava, mentrechè spendendo a larga mano, comprava i generali che comandavano agli eserciti, i semplici, gli ambiziosi, [2-241] ed i paurosi con parole ingannatrici, con promesse verbali ed inconsistenti di modificazioni, con false lusinghe, con astute invenzioni, sotto colore d'amicizia, sottilmente ingannava. La casa sua, punto di riunione di tutt'i malcontenti, il centro addivenne, d'onde tutte le opere astute dei malevoli, quasi velenosi dardi, partivano, che poi tanto le fondamenta del sistema liberale agitarono che, con pochissimo urto straniero fecerlo rovinare: ed al carcere, alla catena ed al supplizio furono pur anche mandati coloro che alle parole di quel diplomatico prestarono fede.

Nondimeno per essere delle disposizioni dei varj gabinetti d'Europa, informati, converrà che venga un sufficiente numero d'agenti segreti, dalla consulta spedito: i quali oltre all'illuminarla di quanto dai governi europei rispettivamente al paese, si fà, si pensa, si dice; con mezzi segreti, col favore delle molte persone che per l'Italia parteggieranno, perchè ben differenti sono i pensieri dei popoli da quelli lor governanti, possono facilitare l'invio d'armi di munizioni necessarie alla guerra. Saranno alcuni di questi agenti, sotto apparenza di proscritti, dal nuovo governo mandati, i quali come persone di confidenza e d'ingegno e non conosciute per essere al [2-242] partito degl'insorti affette, sotto la figura di malcontenti, con i proscritti arrabbiati e cospiratori si dovranno mischiare, e coi mezzi più acconci, sempre divisi mantenerli ed al governo tutt'i loro fondati progetti, le loro mire, azioni, appoggi e determinazioni raccontare. Dovransi oltracciò inoltrare presso i governi, e la maggior possibile confidenza loro sforzarsi di guadagnare: e da quelli, tutto quanto possa essere utile a sapersi dalla consulta e condottiero supremo, ritrarre. Alcuni altri sotto maschera di negozianti che per sola veduta di commercio, abbiano il domicilio cambiato ma del nuovo governo in apparenza moderati partigiani, maneggiando vistosi fondi, buon credito nel paese, in cui dimorano acquistando, rettificare dovranno nella publica opinione gli errori in che malignamente cercheranno i nemici di farla cadere, difenderanno la sua riputazione, dalle calunnie, con dignità, in mezzo ai varj partiti esistenti, si manterranno, e traendo dalla posizione in che si trovano, il miglior partito per dar vantaggi alla patria; potranno pure servir d'anello di comunicazione fra i due governi, se l'acconcio venisse di trattare in favore d'Italia, ed importanti non meno che utili negoziazioni proporre.

[2-243] Omettiamo di parlare delle alleanze coi popoli che si fossero fin d'allora dalla schiavitù liberati, dei soccorsi che somministrare e ricever si possano, perchè, eccettuando gli Americani e forse i Greci, nessuno rinviensi quest'oggi, politicamente parlando, in tal posizione. E per ultimo non è nostro intento di entrare in tutt'i particolari sù de' quali dovrà il governo provvisionale intrattenersi: ma solo alcuni de' più indispensabili, accennammo per norma, di quei magistrati cui spetta drizzare l'Italia per la via della gloria, onde perpetuare la unione, independenza, e libertà, cui consacriamo le nostre cure.

CAPITOLO XII. OPERAZIONI COMBINATE DI VARIE BANDE. — COMBATTIMENTI.

Abbenchè sia da noi già stato altrove stabilito che una banda, rispettivamente alle speziali sue operazioni, debba della massima independenza godere; nulla di meno avvertire fa d'uopo, che in moltissimi casi, quando [2-244] su di tutta la superficie della penisola, troverassi il numero di quelle aumentato non poco sarà, di mestieri che molte bande, o dello stesso cantone, distretto e provincie od anche delle altre partizioni della penisola, operino concordemente, ed a vicenda sostenendosi in qualche attacco fra di loro combinato, porgansi amichevolmente la mano. Imperciocchè se debbesi costringere il nemico ad allontanare i suoi distaccamenti dalla sua base militare, come sì fatto risultamento potrebbesi da una sola banda ottenere? Ella è dunque indispensabil cosa, che frà loro i condottieri accordandosi, tutti uniti al vantaggio della difesa causa, concorrano. Non perderebbesi per avventura, nel caso contrario la vittoria: ma la contesa, d'assai più lunga durata e più pericolosa addiverrebbe. Per la qual cosa dovranno i condottieri d'un distretto, cantone, o provincia, per quanto il possano, fra di loro comunicare. E quando l'occasione di eseguire combinate operazioni, avverrà che lor si presenti: agir dovranno sotto la direzione di un solo, ch'eleverassi a condottiero in capo del distretto, cantone, o provincia, cui tutte le bande dovranno, per quella data operazione e finattantocchè il medesimo, loro non restituisca la libertà d'operare a loro talento, implicitamente obbedire. Nulla [2-245] di meno quel condottiero principale nel distretto, cantone, o provincia, non dovrà mai riunire queste bande per farle, come truppa regolare e con evoluzioni, agire sulla fronte del nemico, etc.; ma limiterassi ad indicar loro ciò che debbano operare, la via da percorrere, i punti da difendere, la parte insomma che debbano avere nella generale combinazione, al condottiero fuggirà la presunzione di riputarsi tattico generale e di credere ch'ei possa da eguale ad eguale, misurarsi coi comandanti nemici, nè a quei delle colonne volanti e delle legioni, si dovrà pareggiare. Guerreggiare contr'essi come un buon condottiero ed a sole operazioni di banda limitarsi; ecco il partito cui deve appigliarsi: egli pensar deve di esser soltanto un direttore generale strategico di quelle bande, che trovansi nel circolo dov'egli è stabilito, e di esserlo unicamente pel tempo in che grandi operazioni, quando la concorrenza di tutte le bande o di molte di esse potrà servire vantaggiosamente alla patria, si dovran combinare. L'esecuzione de' suoi ordini sarà sempre alle circostanze locali soggetta, in che possa la banda avvertita d'agire, trovarsi: e se quelle mettessero all'obbedienza forte insuperabile impedimento, a tempo faranno il condottiero in capo avvertito, onde a ciò di provvedere [2-246] non tardi. In somma sarà sempre ogni banda, in tutto quanto si riferisca alle sue speziali operazioni, del tutto independente: ma ogni qualvolta si tratti d'operazioni combinate, di movimenti generali, dovrà dal condottiero in capo implicitamente dipendere. Da quanto, per le bande nei distretti, cantoni e provincie, abbiamo già detto, se ne può dedurre ciò, che si debba per l'estensione tutta della penisola, stabilire. Dirigerà un condottiero supremo, i condottieri principali di provincia, cantone, etc., in tutto quanto siano le operazioni generali d'Italia, per richiedere, e comanderà alle bande tutte, quante volte dovranno combinatamente operare. Dovranno il condottiero supremo ed i condottieri principali avere sotto ai loro ordini uno scelto e numeroso consiglio di direzione della guerra, che, non secondo il sistema degli stati maggiori e della tattica dovrà regolarsi, ma secondo quello di guerra leggiera irregolare per bande, di un genere pei militari, da quello a che sono stati usi per lo passato, del tutto diverso, e d'un assai più delicato, grave e faticoso servizio. Epperciò una trascendente perspicacia ed attività, saranno per chi alla direzione della guerra trovasi destinato, qualità necessarie. Il condottiero [2-247] supremo nei distretti, cantoni e provincie, a misura che sorgano bande in quei circondarj, nominerà i condottieri principali di esse.

Indicato avendo la generale direzione da seguirsi nelle combinate imprese, accenneremo che entrando una colonna nemica in una provincia, debbono per molestarla da ogni parte con buon successo, mettersi per le mosse, fra di loro previamente i condottieri d'accordo: e se con un attacco generale e violento, dal doppio della sua forza, potesse con celerità essere tal colonna totalmente distrutta; dovrebbero allora le bande piombandole combinatamente addosso, stritolarla e farla così dall'italica superficie in un punto sparire. Ma per giungere a tale scopo, dovranno senza dubbio le bande essere dal condottiero supremo con maturo calcolo e previdenza dirette. Resterà sempre a quell'uomo fitta nella memoria, quella massima di guerra da tutt'i maestri dell'arte, ripetuta: «Non basta potere con vantaggio il nemico assalire, ma debbesi da un buon capitano eziandio conoscere il modo di mettersi de' suoi attacchi al sicuro.»

Quando volgesi alla tattica il pensiero, è incontrastabile, che venga dai combattimenti la guerra, constituita, e dalla riuscita di quelli [2-248] la sorte degl'imperj dipenda. Non è per altro men vero, che potrebbesi nel sistema della guerra d'insurrezione per bande, senza essere indispensabile di combattere, un uguale risultamento asseguire. Pur non dimeno, sia per un errore di calcolo nelle marcie, o per false informazioni, o per isbaglio, o per fretta di più prontamente la quistione decidere; quante volte nel combattimento un vantaggio reale apparisca, sempre accade che in questa guerra pur anco vi siano affrontate, più rare al certo che nelle altre guerre, ma che scansar non si possono. Dato per tanto non essendo al condottiero d'evitare il combattimento, dovrà in modo regolarsi di non venire a quello, purchè non si conosca forte abbastanza, anzi superiore all'avversario, ne' mezzi. Non mai dal condottiero ardito e prudente sarà temuto, nè disprezzato il nemico! Le varie bande riunite, saranno in corpi divise, onde reciprocamente al tempo della mischia si sostengano. Non mai dimenticando la massima, che fra i due guerreggianti, quegli sarà sempre vincitore, che, l'ultimo, avrà truppe fresche da far entrare nella lotta; terrà sempre il condottiero preparata una valida riserva, pel combattimento, all'uopo, rinforzare. Se l'esito sarà conforme alla brama, egli eseguirà quanto [2-249] insegna Tucidide al libro ottavo: «La miglior arte non è quella che dà la vittoria, ma quella che ne fa bene usare. Se il nemico si spaventa e fugge, inseguitelo.» Non trascurerà parimenti quanto vien dall'insigne Polibio al libro quarto, riferito: «Non basta l'avere spaventato e sorpreso il nemico: fa d'uopo inseguirlo senza posa e non arrestarsi agli assedj.»

Se poi, di quanto abbiam supposto, conversamente accadesse, e che al numero, alla forza delle disposizioni o ad improvvise ed incalcolabili congiunture che non di rado alla guerra si presentano, o nell'amara necessità di cedere si rinvenisse per la sconfitta; il condottiero non dovrebbe per ciò disperare. Fù come abbiamo già detto, il generale no importa quello, che salvò la Spagna: vuo' dire la calma e la costanza dopo i maggiori disastri. Pur ch'abbia il condottiero prima, della zuffa, la savia precauzione usata di dare ai volontarj, a luogo e giorno determinato, la posta ed il sito del ritrovo, prima dello sbandamento, ad ognuno chiaramente indicato; tosto chè siano quelli a siffatta operazione ammaestrati, non dovrà le funeste conseguenze di una rotta, come la truppa regolare, temere. Non prostrerà, nemmeno per un istante, le forze dell'animo, [2-250] anzi, onde, qual nuovo Anteo, maggior di prima rinascere, dovrà l'azione, l'energia raddoppiare. Non dev'essere la nostra guerra, nè rispetto alle fisiche operazioni, nè all'influenza morale, come la regolare, della quale Federico Secondo favellando, disse a ragione: «Essere una battaglia perduta, d'assai meno funesta pel numero degli uomini, che costa, quanto pel cattivo effetto e lo scoraggiamento, che negli animi produce.» Secondo il sistema delle bande, nessun funesto effetto hassi mai da un rovescio, a paventare. Decisi fermamente i volontarj ed i condottieri a volere la guerra fino all'intiero adempimento del gran progetto, prolungare, oppure a intrepidamente morire; senza avvilimento, anzi lieti, al sito del ritrovo, individualmente accorreranno e di bel nuovo con sorprendente attività ed energia, il nemico al più presto ricomincieranno a molestare, traendo profitto dalla trascuranza propria ordinariamente di chi è vittorioso e si crede perfettamente sicuro. Perlocchè sforzeransi di, minacciosi, all'improvviso tosto ricomparire. Non avranno i volontarj della patria da temere i contadini delle campagne, e d'essere nel loro cammino da quelli perseguiti, denunciati, od assassinati, come loro succederebbe, se in paesi stranieri [2-251] regolarmente guerreggiassero e come ai Tedeschi ed ai loro partigiani, dovrà in Italia senza fallo succedere. Imperciocchè lo spirito del popolo, sarà dovunque alla causa della patria favorevole: a pro di coloro che a rivendicare i suoi diritti ed a stabilire la sua felicità si accinsero, che per lui soffrono e per lui combattono, anzicchè per gl'ingordi oppressori del bel paese, mostrerassi infallantemente disposto. Nei sette anni, della guerra dell'independenza, non puossi, neppure con solo esempio citare, che uno Spagnuolo armato, sia stato dai contadini tradito, o per falsa informazione in mano ai Francesi mandato! Nè le promesse, nè le minaccie potevano, a tradire la causa nazionale, l'altiero Castigliano condurre. Nulla gli era più gradito che la vista d'un suo cittadino armato di schioppo, di spiedo, di picca, oppur di scure in cerca dei Francesi: egli, come sagro dovere considerava d'informarlo del luogo dove potrebbe rintracciare i suoi compagni, dove frattanto gli sarebbe facile di rinvenire uno o più Francesi, del sito conveniente per nascondersi, e prendere la mira, onde senza suo proprio rischio, svenarli, e per ischermirsi dal loro inseguimento, il sentiero migliore non meno che il tempo [2-252] al buon successo, favorevole, cortesemente indicargli. In somma, tutte le informazioni atte a distruggere il nemico e la salvezza dei patrii compagni ad assicurare, furono da quelli, esattamente fornite. Quante volte, col più grande pericolo della vita, non hanno i contadini, nelle proprie case nascondendole, intiere bande salvato! Quanti contadini per aver dato asilo a qualche lor fratello; fuggiaschi, le fiamme dal tetto delle loro case sboccanti, non vedevansi da lunge con istoica tranquillità e disprezzo contemplare! E per avventura dovrem supporre differenti dallo Spagnuolo i contadini d'Italia, tosto che intendano che per loro si combatte, che non per causa forestiera ma italiana, impugnarono i loro fratelli le armi? Che pel bene di tutti, e non di pochi, fù l'irruginito brando sguainato? Vorremo insensati, o nemici di loro stessi supporli, col credere che lo straniero, o gli sgherri degl'interni tiranni, e non coloro che la loro persona, proprietà, vita e lumi, al bene di tutti gl'Italiani onninamente consagrarono, fossero i nostri contadini a favoreggiare inchinevoli?

Ma se alle volte, inaspettate congiunture la forza del numero e l'abilità dell'avversario esser non potranno dal condottiero superate, [2-253] ciò, nel caso, che quegli le qualità richieste possegga, per rarissimo devesi riputare. Nulla dimeno, si trovino i volontarj nell'acerba necessità di cercare individualmente lo scampo. Non rade volte avverrà che mossi da quel santo fuoco, nel cuore de' virtuosi, dall'amor patrio destato, maggiori del volgo degli uomini si mostreranno, e di molto, la forza nemica, sebbene di loro in numero assai più forte, con luminosissima gloria sorpasseranno. L'eroico esempio offerto dai volontarj di Mina nel combattimento che avvenne nelle vicinanze di Lleria, può l'assunto da noi, evidentemente provare. Avevano i Francesi di bel nuovo guarnigione in Estella, e quella di Logrogno in considerabile modo aumentata. Occupava Sanatier con tre mila fanti e quattrocento cavalli los Arcos; il generale Brun con due mila fanti, e due cento cavalli santa Cruz, e Reille con una divisione di egual numero, aveva presa posizione a Llegaria. In tal modo situati, un perfetto circolo formavano. Mina era ad Aguilar, e nessun altro mezzo di salvezza se non quello di rompere le linee del nemico, dalla parte dov'era situato Reille, gli rimaneva: tentativo arditissimo, che ad essere il suo retroguardo dalle due altre divisioni nemiche attaccato, oltremodo esponeva. Abbenchè pericolosa [2-254] una tal evoluzione considerasse, pure non vedendo altro scampo; pure all'oggetto di passare il ponte di Murieta che, a men d'un miglio, giaceva da Reille distante, in oscurissima e piovosa notte, la sua marcia intraprese. Trovossi al primo apparir dell'aurora con solo quattro compagnie, avendo le altre, per cagione dell'oscurità e dirottissima pioggia, la strada totalmente smarrita, nè fù a' numerosi stracorridori in lor traccia mandati, fattibile di rinvenirle. Abbattutosi all'improvviso, marciando verso Abarzuza, in un distaccamento di venti usseri che scortavano Salmerie, con soli dodici uomini, alla prima giunta, l'attaccò: vinse il convoglio, fece nove prigionieri, tre dei quali, colle sue stesse mani, quando aveva già il suo cavallo ferito: gli altri undici tutti furono da lui trucidati. In questo atto, i battaglioni comandati da Cruchaga, che avevano per isbaglio dal cammino deviato, trovaronsi sulla strada di Lleria bagnati, stanchi, quasi a piedi nudi, e furono da un forte distaccamento di cavalleria nemica scoperti, che gl'inseguì, ed in luogo assai per loro svantaggioso, li raggiunse. Misersi tosto quelli in atto di combattere, s'appiccò la schermaglia, e seguinne un'accanitissima zuffa. Era il fuoco degli Spagnuoli spaventevole, sforzavasi la cavalleria [2-255] francese, ma inutilmente, a caricare: erano i battaglioni di Mina impenetrabili. Una nube di palle, al retro fronte la costringeva; ma per avventura tristissima, sono le munizioni di quei prodi del tutto esauste! Un solo cartoccio più non posseggono! Dovranno essi dunque al numero più forte degli aggressori sottomettersi? Privi d'armi di getto, come potranno dalla cavalleria difendersi? L'ostinazione, il coraggio e l'amor di patria provvedono a tutto! Se mancano le armi di getto, verrassi all'urto con le armi da presso; messo lo schioppo, a traccolla, o gettatolo a terra, ogni volontario, la bajonetta brandisce. Uno o due nemici da trucidare, in prima cogli occhi trasceglie, furioso quindi, contro quelli si avventa; slanciandosi arrabbiato dentro misura, da sotto, i colpi delle lancie schermisce, cento ripetute volte la bajonetta con mirabile, prestezza nel corpo del cavallo conficca, l'insanguinato palafreno, al suolo col lanciere trabocca: fà questi per isvincolarsi dalle staffe e rialzarsi a difesa, ogni sforzo, ma quel volontario gliene toglie il destro, gli si avventa sopra e con le ginocchia, il petto gli preme, ed il micidiale strumento gli figge e rifigge profondamente nel seno. Se con incredibili sforzi, con le braccia, con le armi avviene al Francese [2-256] di poter tuttavia far difesa, nello Spagnuolo si fà maggior la ferocia, considerazione nessuna è ormai capace di contenerlo, colpi mortali, dall'avversario con rovello vibrati, sopporta anzicchè para: insanguinato dispregia le sue ferite; ma si ramucchia coll'inimico, pungendolo, mordendolo, calpestandolo, e con le mani la bocca squarciandogli, o strozzandolo isfogato nel sangue straniero un odio nobilissimo, al cadavere sottoposto aggomitolato, come leone vicino a morte ruggendo, esala l'ultim'aura di vita. Trecento volontarj in questa disastrosa ma insigne fazione, con bella gloria perirono: ma fù, in poc'ora, la colonna nemica intieramente distrutta. Questo si fù il disastro più grave sofferto da Mina durante tutta la guerra, ma molto minore di quanto dovevasi in lotta così diseguale temere.

Trovavansi poscia il sovra esposto abbattimento, i volontarj da due giorni digiuni, di pioggia, e di sangue fino al collo, bagnati, scalzi e senza munizioni: ma noi diceva il condottiero costante, siamo veri e buoni Spagnuoli, ogni cosa facciamo, tutto con pazienza soffriamo ed anche pene maggiori, per la nostr'amatissima patria siamo preparati a volonterosamente soffrire! E con un generale forte e cordiale viva l'independenza, che per tutta la colonna, [2-257] con dimostrazione di vero giubilo risuona, tutti rispondono all'allocuzione del prode.

Ma perchè andremo le relazioni dei combattimenti degli stranieri quà e là raccogliendo, se a mille gli esempj potremmo noi ricordare di conflitti con somma gloria intrapresi, con fermezza eroica, dagl'Italiani a lunga pruova durati? Sì: da quegli stessi italiani che per funesta fortuna prodotta da una sinistra concatenazione di casi: pell'ignoranza o la malvagità di coloro che al maneggio della somma delle cose inopportunamente trovavansi, in Novara, ed in Rieti, con la vituperevole taccia di codardia, alle armi degli oppressori soggiacquero e furono a rifuggirsi e cercare amarissimo pane in terra straniera, costretti. Divenuti oggetti di stima e di compassione, tapinavano quegli oppressi in Ispagna. Quegl'Italiani, di essere più alle parole che alla guerra, gagliardi, dalla malignità sempre atroce al soccombente, accagionati, sebbene in piccolo numero, nulla dimeno, allora quando in Catalogna, per la difesa della libertà di Spagna guerreggiavano, tanto brillavano nei numerosi e quasi continui combattimenti, che prima contro agli apostolici soli, e poi contro ai Francesi di tal ciurmaglia protettori e collegati, sostennero, che ammirazione di tutti, benedizione dagli amici [2-258] della libertà, puri allori e perenne gloria, nella sventura acquistarono! Vorremmo pur tutti narrare i fatti, che tanto in quella guerra gl'Italiani illustrarono, onde con esatto racconto forse da altri sin oggi non intrapreso, la memoria di quegli esuli, a posteri raccomandare. Ma nostro scopo non essendo ora di narrar quelle pugne, lasciamo ad ingegno migliore del nostro, vasto campo a trascorrere. Onorevole impresa sarebbe pur questa, e della fama lesa a torto d'un branco d'Italiani, onesta vendicatrice. Noi sarem paghi di accennare i luminosi e mai sempre memorabili conflitti di Lladò e Llers, onde con la commemorazione di queste due sanguinose giornate, che tanto il valore degl'Italiani proscritti palesano, il nostro capitolo sù tal soggetto, con patrio elogio compire.

Era Mina in quel tempo, comandante generale della Catalogna, e come quello, che un Montecucculi, un Federico, un Massena già credevasi addivenuto, perchè stato eragli conferito il grado di generale in capo, voleva trinciarla da grande ed in modo tutt'affatto diverso operare da quello che, quando sovrastava ad una banda, trasse tutta Europa in ammirazione, ed avevagli una così abbondante messe d'allori acquistata. Lungo tempo [2-259] però non tardarono gli avvenimenti a persuadergli, che non dal grado ma solamente da lungo studio e meditazioni, la capacità d'un generale proviene. Imperciocchè, quando contro a generali anziani, ammaestrati alla scuola del miglior capitano del secolo, fu astretto a comandare grandi evoluzioni di linea; quantunque di elementi che lo avrebbero reso di molto superiore al nemico, abbondasse, da poco saggio timore sorpreso, al nome solo di francese, allibbiva, di mantenersi al loro cospetto, l'animo non più sentia la forza. Mina le armi nemiche, qual bambino che sogna mostri, paventava, e come dal veleno della torpedine istupidito, di cozzare con la lor possa, più non osava: e quell'antica, pura gloria che degno lo facea di venerazione, in tal epoca, con viltà somma macchiando, rannicchiossi dentro Barcellona, e colà rinchiuso, oppresso dalla paura che la conoscenza della propria incapacità aveva in lui generato, non meno che da una smodata ambizione stimolato, e l'animo suo dai popolari sarcasmi trafitto, a trattare col nemico e a consegnargli la famosa piazza (che gli fù dalla patria confidata, onde fino alla morte la difendesse), dopo una lunga e vituperevole inazione, si spinse. Ma per eseguire il suo dispregevole divisamento; gli era d'uopo, [2-260] da quel paese, tutti coloro che avrebbero a lui resistito coll'armi, per mezzo d'insidiose macchinazioni, allontanare. Era in fatti Barcellona, di viveri provveduta, senza breccie aperte, senza regolare assedio, ma semplicemente con pochissima forza, bloccata, senza peste, senza diserzione, senza insurrezione: anzi presentava il raro fenomeno di una fortezza, gli abitanti della quale, volevano resistere. Ma il Generale puntate le artiglierie della cittadella contro la città, ad arrendersi per forza, sotto pena di essere da lui stesso incendiati, e mandati a soqquadro se altrimenti pensassero, loro imponea. Agevol cosa riescir doveva la difesa di quella piazza, capace per sè sola di sostener lungo tempo la libertà della patria. Pertanto Mina, onde il suo pericolo scemare e liberarsi dalla soggezione e contrasto di tutti coloro, che non fuggirsene, com'egli pensava eseguire col sagrifizio dell'onore, ma la piazza fino, all'ultimo, volean mantenere o morire. Immediatamente formando una colonna composta tutta di animosi guerrieri, frà i quali brillavano gl'Italiani, come al solito in prima linea, ordinò che si mandasse, e sotto il comando del colonello Fernandez, a rinforzare la guarnigione di Figueras, mandolla. Ch'ei volesse pur [2-261] anche far cadere quella piazza in potere del nemico, fece credere a molti. Siccome si trovava quella piazza in penuria di grasce, così un rinforzo di bocche non potea che distruggere le poche residuali vettovaglie ed affrettarne la reddizione. Pertanto la spedizione di mille ottocento uomini si mosse, dal menzionato colonnello comandata, di cui erano integrante parte gl'Italiani sotto gli ordini del prode colonnello Pacchiarotti che alla testa di tutti marciavano, preceduti da una compagnia d'uffiziali col titolo di sacra, che apriva la via: ed in tutto, un battaglione di granatieri, ed un piccolo corpo di lancieri, formavano.

Imbarcatasi nel porto di Barcellona, i militi sù varj piccoli legni disposti, in gran silenzio, per mezzo alle navi francesi che bloccavano il porto, senza essere scoperti felicemente passarono, e giunsero salvi nelle vicinanze di Arenz de Mar dove approdarono. Tosto sbarcata la divisione, immediatamente s'imbattè in otto carri del nemico guidati da soldati del treno, che dal trasporto di vettovaglie retrocedevano: furono gli uomini sugli stessi legni della spedizione, inviati prigionieri a Barcellona, e distrutti quei carri, i cavalli all'uso della colonna, si destinarono. Scelse Fernandez la via dei monti, sempre ad un [2-262] piccolo corpo di truppe più sicura e vantaggiosa, ma non potè però la molestia di varie colonne francesi, evitare, che uscite da Matarò, ed altre piazze, per otto continui giorni, e notti alla sua colonna un solo momento di riposo non lasciarono: tal che per ottenere che un momento la divisione potesse tranquillamente respirare, sempre doveva il comandante ben calcolare il tempo delle fermate del nemico, e di quelle, con avvedutezza, per dar ristoro alla sua truppa, valersi. Ciò non pertanto, abbenchè lassi dal lungo e penoso cammino, dalla fatica e dalla fame appenati, giungono finalmente alla distanza d'un miglio da Lladò, paese in che seimila franco-apostolici comandati dal campione dell'ultracissimo generale Damas, collocati sù di due linee, in favore dei preti e della oppressione, campeggiano. Arresta Fernandez immantinente la divisione, la forma in colonna d'attacco, esegue la sua marcia in avanti. Tosto giunta sopra un ristretto piano, sulla cima d'una vetta in fronte al nemico schierato a poca distanza in battaglia, ma da un profondo burrone frammezzo esistente, separato, ordina il comandante alla truppa di nuovamente arrestarsi. E per contenere le già indicate colonne inimiche, che senza posa lo inseguono, schiera, fronte ad dietro, [2-263] in attitudine offensiva, i lancieri alle spalle, divide in tre colonne d'attacco la truppa, ed al segnale da tutti gli oricalchi ripetuto, scagliasi nel botro la divisione alla carica, l'erta salita della parte opposta, di gran corsa rimonta. Raggiunto il nemico, urtansi le schiere; cozzano con violenza fra loro le avverse bajonette, ed ecco tosto i franco-apostolici dalle due fortissime posizioni scacciati, e per opera de' soldati della costituzione che neppure un colpo spararono, eccoli strettamente inseguiti. Ma non è compiuto il trionfo: incontra l'ala destra una forte resistenza alla terza posizione, dove trovasi Damas, che inviperito, fuori di sè, fa ogni sforzo pel ristabilimento della giornata. Richiama Fernandez la cavalleria, ed in ajuto dell'ala in pericolo, di galoppo la invia. Giunti di volo da presso al luogo dove ferve la mischia, danno i lancieri ai loro cavalli carriera, ed una gagliarda carica spiccano a fondo: spingonsi con furioso impeto addosso, rovesciano; calcano, incalciano ed oltrepassano finalmente la linea. Dieciotto lancieri italiani cadon trafitti, ma la vittoria è pur d'essi. Sbaragliati in tutte le lor positure i Francesi, veggonsi i malcondotti vessilli dell'inquisizione e dei gigli, ambi contro la costituzione [2-264] riuniti, cadere vinti nel sangue ed ecco l'Italo-Ispana colonna, del campo di battaglia meritamente signora. Mille cinquecento uomini del nemico, in quest'azione perirono: il generale Damas si salvò per fortuna. Imperciocchè di cadere fra le mani de' lancieri italiani, che lo stringevano in mezzo, corse non leggiero pericolo, e dovè ad un errore, lo scampo. Due de' suoi ajutanti di campo furono colpiti, uno morì sul posto, e l'altro rimase gravemente ferito, e parimenti un gran numero di uffiziali. La compagnia sagra combattè con maraviglioso ardimento e ferocia. Sempre la prima ad affrontare il nemico senza intrattenersi a rispondere al suo fuoco, impetuosamente alla bajonetta se gli avventava, quei soldati a brani tagliava, e dopo grande rovina, delle lor posizioni s'impossessava. In questo modo, mille ottocento uomini affaticati, e da otto continui giorni di sole radici e poche patate in fretta prese lungo il cammino nei campi, miseramente nutriti, non avendo avuto altro che semplice acqua per bere, male armati ed equipaggiati, misero più di sei mila franco-apostolici di truppe fresche, fornite a profusione di tutto il necessario, in piena rotta, a gran vergogna di essi, e sopra tutto del generale, che per restaurare i roghi di Torquemada, [2-265] ed il tiranno Fernando, con tanta imperizia pugnava. Ottenner la fine dei forti, combattendo, molti uffiziali italiani fra i quali il prode colonnello Pierleoni, ed il capitano Francescoli: spezzata una gamba da una palla di schioppo al capitano ajutante maggiore Ruggeri, questi a togliersi piuttosto da sè stesso la vita determinossi, che lo scorno di cadere nelle mani d'un abborrito nemico, a sopportare. Sciolto ad aperto il suo sacco, ne tolse con maravigliosa serenità un rasojo, poscia gl'infuocati sguardi verso la cara Italia volgendo, colle estreme parole, dicea: «A voi, o Italiani, che in patria rimaneste, e per cui moro, a voi tutti impongo di vendicare la mia morte sui tiranni che me l'han cagionata. Sia così la mia vendetta da voi col sangue compita, e la vostra futura felicità per secoli assicurata!» Ciò proferito, coll'accento di cordoglio e d'intrepidezza, l'arma fatale gli aperse le vene della gola, e col volto, co' pensieri all'Italia rivolti, a poco a poco abbassò gli occhi, che si velavano e perduto ogni senso, lasciò l'ultim'aura di vita. Il capitano Cassano e molti altri furono sul campo gravemente feriti. Ma benchè grande sia stato l'eccidio delle genti libere, fù però a quello degl'invasori, di gran lunga inferiore. [2-266] Congregò Fernandez nella notte i capi di corpo: la sua volontà di marciare sopra Figueras e di penetrarvi, com'eragli stato dal generale ingiunto, fè lor manifesto. Ma si opposero a tal proposta i comandanti, lo stato derelitto della loro truppa, inopportunamente in lor sostegno allegando. Il solo colonnello Pacchiarotti affermativamente rispose, dicendo che il corpo italiano, a marciare il primo, e ad aprire colla forza la via, come quello ch'era sempre ad attaccare ed a ferire disposto, volontieri offerivasi. Ma ben calcolata la cattiva volontà degli altri, pensò Fernandez di rimanere sul luogo, rinunciando al progetto anteriore.

Mossasi all'indomane alle quattro del mattino, la divisione alla volta di Llers, riconobbe al suo arrivo colà, con forte maraviglia, che il nemico trincerato, e da rinforzi ricevuti da Gerona e dalle frontiere della Francia ascendenti a circa dieci mila uomini di truppa fresca, con due nuove batterie d'artiglieria, notabilmente fortificato, sulla difensiva in allunata positura, fermo attendealo. Non potè Fernandez, per la ristrettezza delle sue forze, dal precedente fatto d'arme appiccolate, che una sola colonna d'attacco formare, ed al fine di pervenire ad aprirsi un [2-267] varco, stretta in massa, contro al centro nemico la spinse. Dalla loro linea semicircolare, cominciarono i franco-apostolici un ben nutrito fuoco generale dalle corna al centro. Trovavasi la divisione al punto dell'angolo, dove dalle ale i tiri ad angolo retto, in forma di croce s'intersecavano, ma imperterrita, l'armi in riposo, con truce calma, in avanti seguiva. Giunta la testa alle trincee, vede che quelle superar non si possono, e guadagna uno scampo. Laonde or da un canto, or dall'altro, nell'incertezza di poter rinvenire un passaggio, in obliqua ed incerta direzione si avvia: piovono di continuo da ogni lato le palle, e quella pioggia vieppiù si addensa. Cadono ad ogni passo i morti, e i feriti sulle ammucchiate membra degli estinti compagni superstiti, in un caldo lago di sangue con ribrezzo camminano, e sopra un orrido impasto di terra e di cadaveri, que' guerrieri sdrucciolando, si veggono, ad ogni passo barcollare: spargesi lo scoraggimento in quella picciola truppa, ed impaurita alfine a titubare incomincia... oscilla... finalmente si sbanda: la colonna è sparita! Ma fermi e soli gli Italiani rimangono! Soli! Perchè in piena rotta, sparpagliatisi i loro stranieri compagni, volgono unicamente alla propria salute [2-268] il pensiero e gli sforzi. Gli Italiani proscritti, all'opposito, forti, senza speranza d'appoggio, formano con serena intrepidezza il quadrato, ed al terribile fuoco dell'avversario, con altro uguale rispondono. Invia ben tosto Damas un ajutante di campo ad intimare la resa, e a dar loro di finir la contesa, salutare ed amichevole consiglio. Essi fieramente rispondono di non volere i patti della resa accettare, ma imporre: che il quadrato ben deciso a morire, non cesserà di guerreggiare, finchè accordate non vengano, senza diminuzione, quelle condizioni che siano dal colonnello Pacchiarotti per essere al Damas manifestate. Ritorna con la risposta l'aiutante di campo al quartier generale: nessuno, per attaccare quel branco di valenti a corpo a corpo, bastevole ardimento possiede. Tutti non dimeno da lungi cercano di annientarlo, perchè negli estremi momenti, ancor lo paventano. Ma non peranche Damas, dalla paura del giorno antecedente, ristabilito, ed oltracciò giovando ad esso lui di sciogliere quel gruppo che ultimo, per la difesa della libertà spagnuola, rimanea nella Penisola, e compire la guerra di Catalogna; d'ammettere i patti che gli Italiani vogliono e non implorano, senza indugio consente. Pertanto onorevole capitolazione, [2-269] da quegl'intrepidi, al generale franco-apostolico fu strappata, anzicchè ottenuta per generosità militare. In quel memorabile combattimento, gli uffiziali morti ed i feriti, furono moltissimi: e trà i primi si annoverano il capitano Lubrano, Amati e Bussi; fra gli ultimi i colonnelli Fernandez e Pacchiarotti medesimo. Il primo ristabilissi, ma l'altro colpito in un ginocchio, sì pel difetto degli opportuni servigi che per la violenza del male, frà gli acuti dolori della ferita e fra quelli anche più acuti dell'anima italiana, nell'ospedale di Perpignano, inviando egli pure coll'ultimo respiro, l'estremo pensiero all'Italia, degno di tanta patria morì!

Queste morti generose addivengano seme di fortissimi eroi, che per la liberazione d'Italia, le armi ferocemente brandiscano e ottengano nobil vendetta di coloro che furono, per sola colpa d'amor di patria, dal coltello dei tiranni, in quella sacra terra svenati! Possa fra poco quel leggiadro paese, culla dell'antica gloria romana, patria di anime eccelse e nutrite delle più care ed onorate memorie; nel sangue, nella gloria, nella vendetta, nella maestà delle leggi, per età lunga, rinvenir la salute!

[2-270]

CAPITOLO XIII. CONCLUSIONE.

Abbiam fatto pruova d'indicar quei principii e quei lumi della osservazione e della storia che possano con certezza, dalle fondamenta il gotico edifizio della tirannide abbattere, l'attuale obbrobrioso sistema rovesciare, i barbari che infestan l'Italia, distruggere e ai turpi loro seguaci, recar finalmente la meritata fortuna. Ciò facendo, ad un dovere adempimmo che addita al verace Italiano, la carità della patria: a quello io vuò dire, di porgere, in tributo d'amore, di verità, di giustizia, i frutti di lunghe veglie e della sperienza di cui la sventura suol dotar le sue vittime, ai cittadini futuri. Noi li diciamo futuri, perchè da un canto siamo ben lungi dal volere il nome sacro di cittadino impartire a coloro che schiavi snervati e viziosi, del loro giogo son degni: e dall'altro quei che forti e decisi, stanno l'occasione al varco attendendo, non hanno nella Italia contaminata, una patria che nel magnanimo desiderio del cuore, e comporranno la futura razza italiana. Null'altro, [2-271] se non l'esecuzione del nostro sistema, oggi rimane ad intraprendere: ed a ciò siamo con fervore, personalmente disposti, tostocchè dagl'Italiani, colla presa delle armi e con ferma volontà, ce ne venga il destro, agevolato! Quel momento, come il più bello della nostra vita considereremo, in che a noi pure, al sublime intento, sarà dato di cooperare e per l'Italia soltanto vivere, o per quella, a' suoi difensori, congiunti, esalare combattendo, lo spirito. Agl'Italiani fratelli per tanto, di destar la scintilla fatale ascosa nelle ceneri, oggi appartiene, la quale accendendo ardentissimo foco, i nemici del bel paese, con terribile scoppio, tutti consumi e distrugga.

Nulla rinviensi al mondo, cui l'istante di decisione non sovrasti, dice il cardinale di Retz: ed è il capo d'opera del senno, quello di saper tale momento, conoscere ed afferrare. Che se mai si cade in errore, sopra tutto nelle rivoluzioni degli stati, sorge il pericolo, o di non più scorgerlo, o di non più rinvenirlo. Vienci da mille esempii, tal verità, confermata. Ora facendoci noi a considerare, che nè alla caduta di Napoleone, quando un esercito italiano esisteva, il quale inerte, dal vicerè e da alcuni suoi generali, lasciossi vergognosamente a vil prezzo vendere all'Alemanno; nè alla marcia da Gioacchino, [2-272] re di Napoli, all'uopo, come diceasi, di unire l'Italia in un corpo solo, intrapresa, nè alle astute suggestioni di lord Bentink e di colui che bruttò maggiormente la nostra patria, vuò dire dell'arciduca Giovanni d'Austria, cose tutte che sebbene con sinistra intenzione bandite, potevano pure l'unione e l'armamento degl'Italiani facilitare, nè al grido di libertà levato in Napoli nel 1820, nè a quello d'unione, independenza e libertà dato nel 1821 dai Piemontesi, gl'Italiani in massa e con ferma volontà, si avvisaron di scuotersi dall'ignominioso letargo; potrebbe alcun dubitare, che questi propizii momenti, furono da essi, se non disprezzati, almeno debolmente accolti, e più coi voti che collo slancio della persona, col sagrifizio delle ricchezze, del riposo e della vita, secondati: potrebbe alcun dubitare, noi ripetiamo, che non fosser essi maturi e disposti a risoluzione sublime. Potrebbe sospettarsi, e per avventura stimare, che avendo lasciato scorrer l'Italia il gran momento di risurrezione, quello non sia per tornare, e che il destino abbia decretato per essa, sempiterna ignominia.

Ma lo stato morale d'Italia profondamente osservando, si può un chiaro veggente accertare, che le idee generose, i forti sentimenti, le massime italiane, si sono dopo quell'ultim'epoca [2-273] calamitosa, di molto estese, addensate e rinvigorite. Laonde debbesi ogni dubbio, che non siano gl'Italiani attualmente, per essere a qualunque sagrifizio ed ardita risoluzione disposti, affatto dileguare. Rispetto poi al momento, grazie rendiamo alla provvidenza, che vedendo averlo noi, forse perchè in quel tempo della opportuna attitudine a quel grand'uopo privi eravamo, lasciato le tante volte sfuggir di mano; un altro volle pur non dimeno e più propizio e più alle nostre fortificate opinioni adattato, farci al fin sorgere. In fatti, qual più favorevole momento di questo, potrebbesi all'Italia, pell'esecuzione del gran disegno, offerire, mentre alle porte di Trabisonda e di Costantinopoli, è lo Czar delle Russie al momento d'insignorirsi della calpestata corona dei Comneni e Paleologhi? Quindi, signore del Bosforo, dell'Ellesponto, etc. può mettere l'Austria, l'Inghilterra e la Francia nella tristissima situazione di dover da suoi cenni, pell'avvenire, dipendere. Ma per ora, dovendo colà tutta la sua cura e forze rivolgere, non potrà le masse de' suoi sgherri, in sostegno dei nostri tiranni, dalla Scizia in Italia inviare! Or l'Austria, con ragione, il maggiore ingrandimento di quella potenza sua naturale nemica, dee paventare, perchè confinante, gigantesca rivale: [2-274] e non potrà perciò le sue frontiere della Bosnia e della Servia, che avidamente desidera il Russo d'appropriarsi, sguarnire, per accorrere nel mezzo giorno, contro le nazioni a combattere. E l'Austria pur vede tremando, la Prussia, in segreto al Czar collegata, guatar con avid'occhio, l'occasione di quadrare a spese del vicino, il sito del suo regno così malposto nel core di tre formidabili stati: la Francia, l'Inghilterra, verso la contesa dell'oriente, debbono pure tutta la loro attenzione dirizzare, onde impedire che quell'enorme colosso distrugga l'impero ottomano e dell'Ellenia s'impadronisca. Imperciocchè, una volta signore di quel littorale, potrebbe in brevissimo giro d'anni, un numeroso naviglio d'ottimi marinari fornito, allestire, che farebbe ben tosto le marine inglesi, francesi ed austriache, dal Mediterraneo dileguare. L'Inghilterra più d'ogn'altro governo, vedendo il pericolo della vicina perdita delle sue possessioni delle Indie, che le sovrasta, dovrà guerreggiare, e trascinare seco lei quei nostri principali e più immediati nemici. Tali considerazioni fin d'ora, a tutt'i forti impediscono di cadere addosso repentinamente all'Italia. Or che l'opinione dominante dei Francesi, ed Inglesi molto influente (ma che [2-275] pur non è quella dei loro gabinetti, abbenchè governati con sistemi costituzionali), tutta favorevole alla libertà dei popoli si mostra, e le ostilità dai loro gabinetti contro di noi ideate, potrebbe per avventura impedire, e finalmente or che arde la contesa del Portogallo, e non è lungi la rivoluzione del popolo Spagnuolo, che al rimbombo delle nostre imprese, si slancierà, senza dubbio, al riacquisto de' suoi conculcati diritti, e così a quella contrada, tutta la possibile attenzione di quei due gabinetti concentrerà, essendo gli avvenimenti della penisola Ispana, per Inghilterra e per Francia di più delicata importanza che le sorti di Italia, oggi che un'immediata invasione straniera, tanto poco abbiam ragione di paventare, ora forse che quei naturali nemici nostri verranno fra breve tra di loro a tenzone, e ch'essendo noi venti millioni, se non siamo prodigiosamente codardi, alcuno temere non dobbiamo, ed anche, senza le circostanze già ricordate, potremmo rimaner saldi contro a tutta l'Europa, se per caso improbabile, volesse contro di noi congiurare, oggi, ad onta della fortuna che ci stende la mano, vorremmo torpidi e sonnacchiosi, rimanere in catena? Vorremo noi occasione così bella, così opportuna, così certa occasione, sconsigliatamente tradire? Italiani! [2-276] la voce ascoltate di un amico sincero e verace che vi dice ciò che consultando voi stessi, vi troverete nel core: «Il gran momento è venuto.» Voi afferrarlo dovete, od altrimenti, la miseria, rovina e degradazione, pena di codardia, in ogni parte della penisola tanto invidiata e favorita dal mondo, saranno inevitabili. Ecco allora il perpetuo, il meritato destino di quella patria, cui consacrar vi dovete!

All'armi dunque, all'armi uomini, in cui batte un core italiano, uomini che sentite nel petto quel palpito generoso che creò Scipione e Camillo: l'ora di spiegare il vostro valore e la vostra costanza, è di bel nuovo arrivata, ma l'occasione, chi mai l'ignora? è fugace: l'ultima forse che vi si presenta, o Italiani, propizia. Essa vuol esser presa di volo. Guai a noi se ancora questa lascieremo fuggire! Guai ai nostri figli, se non ci avventiamo in oggi a spezzar le catene che ognor più ci pesano! peserà sù di noi la maledizione de' figli, e meritata maledizione! Piangeranno essi di non possedere quell'occasione, che la nostra codardia ci fè trasandare. Noi saremo derisi ed esecrati dai nepoti nel corso delle generazioni. Italiani, correte senza indugio alla lotta! Leggonsi in questo trattato i mezzi che al successo conducono. Quegl'infingardi [2-277] non ascoltate, che per vivere mollemente nel lusso a prezzo del pianto, del disonore de' popoli, per bagordare senza risparmio, in braccio alla lussuria, in sontuosi banchetti, e gavazzare colle vostre sostanze; l'abbandono de' nostri diritti esser saviezza e la viltà prudenza, a persuadervi s'accingeranno! Fate che quelle serpi della Italiana famiglia, quegli oratori della tirannide, quei giannizzeri che fanno puntello al despotismo che crolla, dalla nostra futura patria spariscano, e cessino di contaminare l'antica culla delle umane grandezze. Tutti, tutti le armi con generoso istinto impugnate! E l'unione, l'indipendenza, la libertà d'Italia, divengan tra poco, il premio sol degno delle virtù risorgenti ne' figli d'una patria sì bella!

FINE DEL SECONDO ED ULTIMO TOMO.

[2-278]

NUOVE IMPRESE
Degl'Italiani. ODE.

Dal vendicato Tarpeo minacciano,

Gli uguali ai padri Quiriti intrepidi:

Si desta Italia e impugna

Il brando a sacra pugna.

Roma risorge, Milan, Pertenope:

L'onte, degli empii nel sangue lavano.

S'alza fatal Bologna,

E nuovo lustro agogna.

Già Etruria, Taranto, Cotron si scuotono,

Turin, Ferrara, la Donna adriaca.

Nè grida all'armi in vano,

L'alta città di Giano.

[2-279]

Schiavi e Tiranni tremando fuggono;

Là s'ardon navi, quà reggie fumano.

Di gloria l'uom si pasce,

La Libertà rinasce.

Bella di spiche, di genti libere

O Italia madre! Vittrice assiditi.

Tra palme, il lauro prendi,

E a nuove glorie attendi!

Per te i costumi modesti e rigidi,

Le pure gioje per te ritornano:

E al tuo poter presiede,

Immaculata fede.


[2-280]

INDICE DEI CAPITOLI.

PARTE PRIMA.
 
Discorso Preliminare Pag. xvii
Cap. I. Idoneità dell'Italia penisola alla guerra d'insurrezione per bande 1
Cap. II. Della capitale 18
Cap. III. Dell'onor militare 32
Cap. IV. Ordinamento segreto preparatorio alla guerra d'insurrezione per bande 45
Cap. V. Della tattica: quale sia la guerra da imprendersi nello stato attuale d'Italia 87
Cap. VI. Indole e qualità essenziali di questa guerra 125
Cap. VII. Sistema generale di questa guerra, quai sieno i nemici da combattere 153
Cap. VIII. Dell'armamento e vestimento 186
Cap. IX. Delle vettovaglie 206
Cap. X. Della paga e Bottino 224
Cap. XI. Della disciplina punizioni e recompense sistema generale di depurazione 240
Cap. XII. Della spiagione 261
Cap. XIII. Dei prigionieri 271
Cap. XIV. Della formazione ed ordinamento delle bande 276
Cap. XV. Del volontario 300
Cap. XVI. Del condottiero 306
 
PARTE SECONDA.
 
Cap. I. Prime operazioni e progressivo aumento delle bande 1
Cap. II. Delle marcie, contro marcie, ritirate 17
Cap. III. Valico de' fiumi 39
Cap. IV. Attacco e difesa de' convogli 49
Cap. V. Difesa e passaggio di stretti, e Burroni, sorprese, scaramuccie, stratagemmi 63
Cap. VI. Difesa di un punto circondato da nemici 91
Cap. VII. Operazioni marittime 109
Cap. VIII. Delle fortezze 123
Cap. IX. Delle Colonne volanti e Legioni 159
Cap. X. Parte attiva dello spirito publico, cooperazione nazionale 167
Cap. XI. Del governo provvisionale fino alla perfetta liberazione d'Italia 207
Cap. XII. Operazioni combinate di varie bande, combattimenti 243
Cap. XIII. Conclusione 270

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le grafie alternative (gerarchia/gerarchìa e simili, nonché numerosi nomi di luoghi, soprattutto spagnoli), correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.

Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.